Azione 15 del 9 aprile 2018

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Cooperativa Migros Ticino

G.A.A. 6592 Sant’Antonino

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXI 9 aprile 2018

Azione 15 M sh alle p opping agine 33-4 1/

Società e Territorio Le epigrafi dei Leponti scoperte in Ticino rappresentano un patrimonio archeologico unico

Ambiente e Benessere Un approfondimento sul mercurio, metallo oggetto della Convenzione di Minamata, siglata di recente dalle Nazioni Unite con la partecipazione della Svizzera

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Politica e Economia I prossimi sei mesi saranno cruciali per la sopravvivenza politica di Macron

Cultura e Spettacoli Intervista a Enrica Bonaccorti attrice, presentatrice e scrittrice italiana di successo

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di Gianluigi Bellei pagina 25

Keystone

Il Lac ospita Pablo Picasso

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L’isola che non c’è di Peter Schiesser Trent’anni fa non c’era la strada, dal porto a quelle sperdute piantagioni di cocco laggiù nel sud dell’isola, mi racconta mentre dal traghetto osserviamo la costa l’amica che mi ospita nel sud dell’isola. Ci andavi con una barca di pescatori, o ti facevi quei 6-7 chilometri a piedi lungo la spiaggia, ma solo con la bassa marea. Non c’era luce, in quelle poche casupole, e neppure acqua – quella andavi a prenderla in barca sull’isola maggiore. Ora, al posto delle palme da cocco, alle spalle della spiaggia principale, quella con la sabbia bianca e il fondale basso per centinaia di metri, si affacciano a questo orizzonte tropicale alberghi e ristoranti di ogni genere (di al massimo un piano oltre a quello terreno). Dietro, si accatastano altri negozi e ristoranti di una banale architettura e con un arredamento spesso sciatto, espressione di uno sviluppo rapido e caotico. Eppure qualcosa di fascinoso resiste. Sarà il silenzio (rotto solo dalle motorette, onnipresenti e indispensabili su un’isola che non conosce mezzi pubblici al di fuori dei taxi)? Neppure nei ristoranti e nei negozi si è disturbati da musiche di sottofondo, i thai, poi,

sono silenziosi e di pochi gesti, i turisti di giorno sono in spiaggia, in giro per l’isola, o si riprendono dai postumi dei frequenti party notturni organizzati qua e là sulle spiagge dell’isola (il più famoso, e il più sconsigliato, è quello in occasione della luna piena). Sarà la bellezza, la maestosità, la placidità del paesaggio? O semplicemente lo spirito vacanziero? Il fatto è che questo luogo è una calamita che attrae e poi riporta qui anno dopo anno un gran numero di persone. C’è chi resta un mese, chi due, chi tre, ogni anno, alcuni da vent’anni. Affittano un bungalow e si cibano per pochi soldi ai ristorantini thai, non sai bene che cosa facciano in questa e nell’altra vita (regola prima: non fare troppe domande). Ma si danno appuntamento qui, al di là dei confini del mondo. Accanto a loro, c’è di tutto, ma predominano i giovani in fuga. Da una realtà che li opprime o che non offre loro grandi opportunità. E prevale il tipo rasato e supertatuato. Questi pochi chilometri quadrati di terra, una lingua schiacciata fra il massiccio dell’isola e il promontorio che ne decreta la fine, impreziosita da spiagge graziose e incastonata in un mare turchese, sono per tanti di loro un rifugio sicuro da un mondo difficile.

Gli si può dar torto? Vedi frotte di giovani israeliani, gli uni – scattanti e muscolosi – vengono a sfogare la voglia di vivere dopo i tre anni di militare (due per le donne), gli altri vogliono sfuggire alla follia di una quotidianità condizionata da guerre e minacce. Vedi russi ed europei dell’est che si barcamenano sfruttando una fugace notorietà su Instagram per vivere senza spese negli alberghetti. Ma questo luogo, dal nome che contiene il suono di un trillo che fa pensare a Peter Pan, è soprattutto un’oasi di tolleranza. Così la sera, alla jogurteria di Massimiliano, ecco due siriani in vacanza dalla loro stressantissima vita a Dubai in tranquilla conversazione con un israeliano (terapeuta di medicina cinese), un libanese che fa il filo ad una stangona israeliana con le ciglia finte, Simon ebreo americano del Texas abbracciato a Zahar, giovane danzatrice del fuoco iraniana che solo qui può disfarsi del velo e ostentare i suoi (delicati) tatuaggi, il suo corpo giovane, i gioielli con cui esprimere frivolezza e libertà...: «Sono i nostri governi a volere la guerra, non noi» insistono a dirmi questi arabi e israeliani. Per loro questa è una moderna «isola che non c’è». La trovi dopo la seconda stella a destra, lontano dalle follie e dagli orrori del mondo.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 9 aprile 2018 • N. 15

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Attualità Migros

M Con la formazione nessuno è escluso

Migros ha la reputazione migliore

Scuola Club Migros Ticino All’insegna di Gottlieb Duttweiler e della sua visione sulla

centralità dell’apprendimento, l’anno di festeggiamenti per il 60esimo continua a dare frutti

Concorso

Il «ritorno alle sue radici», che nel 2017 è stato scelto quale filo conduttore per sottolineare i sei decenni di attività, ha reso la mission della Scuola Club ancor più chiara: facilitare a tutti l’accesso a una formazione di qualità, arricchente, piacevole e spendibile nella vita personale e professionale, che diventa garanzia di vita piena, sana, attiva. Perché è questo il punto, come Dutti aveva ben compreso: senza formazione non c’è inclusione e senza inclusione non c’è coesione. L’importanza del legame tra formazione e inclusione si vede molto bene nel lavoro: oggi chi non sta al passo del cambiamento e smette di formarsi rischia l’esclusione dai circuiti professionali. Allo scopo di rendere più incisiva la sua azione formativa e sociale, la Scuola Club si è mossa in questi ultimi due anni con sempre maggiore determinazione nella costruzione di network con altri soggetti territoriali ugualmente orientati al sociale. Ne è un esempio la collaborazione con la Società Svizzera Sclerosi Multipla che ha portato alla realizzazione di un progetto che, mentre va a potenziare le competenze cognitive, espressive e motorie di persone con sclerosi multipla, ne rafforza la partecipazione alla vita di relazione. Avviato come pilota presso la sede della Scuola Club di Lugano, la proposta è già stata replicata anche nelle sedi di Bellinzona e Locarno con un numero di partecipanti raddoppiato.

Al centro di una rete di relazioni.

Nella stessa direzione si muove anche la partnership con la Federazione Svizzera dei Sordi con la quale è stato ideato e realizzato il modulo FFA1 del percorso di formazione per formatori per un gruppo misto di partecipanti, udenti e non udenti, che ha portato all’elaborazione di un nuovo protocollo didattico. L’attenzione al sociale passa anche dal supporto ai familiari care giver: in collaborazione con l’istituto di formazione Careum, la Scuola Club lancia per il prossimo autunno un nuovo corso di base per familiari curanti che darà poi accesso a un corso di base per assistenti a domicilio Spitex. Oltre alle proposte d’aula, organizzando il ciclo di eventi aperti al pubbli-

LuganoInScena Rassegna teatrale LAC, Lugano Domenica 15 aprile, ore 14.00 Nettles Percorso individuale, entrata ogni 20 minuti. Creazione Trickster-p Concetto e realizzazione Cristina Galbiati e Ilija Luginbühl. LuganoInScena Rassegna teatrale LAC, Lugano Domenica 22 aprile, ore 16.00 Slava’s Snowshow Creazione e messa in scena Slava Polunin. Regia Viktor Kramer, Slava Polunin. www.luganoinscena.ch

www.azione.ch/concorsi Regolamento Migros Ticino offre ai lettori biglietti gratuiti per le manifestazioni sopra menzionate. Massimo due biglietti per economia domestica. La partecipazione è riservata a chi non ha beneficiato di vincite in occasione di analoghe promozioni nel corso degli scorsi mesi.

Per aggiudicarsi i biglietti basta seguire le istruzioni contenute nel sito web www.azione.ch/concorsi. Buona fortuna!

Biglietti in palio per gli eventi sostenuti dal Percento culturale di Migros Ticino

Azione

Settimanale edito da Migros Ticino Fondato nel 1938 Redazione Peter Schiesser (redattore responsabile), Barbara Manzoni, Manuela Mazzi, Monica Puffi Poma, Simona Sala, Alessandro Zanoli, Ivan Leoni

Sede Via Pretorio 11 CH-6900 Lugano (TI) Tel 091 922 77 40 fax 091 923 18 89 info@azione.ch www.azione.ch La corrispondenza va indirizzata impersonalmente a «Azione» CP 6315, CH-6901 Lugano oppure alle singole redazioni

co «Living the Room», quest’anno alla terza edizione, la Scuola Club desidera promuovere l’incontro e il dialogo attorno a temi che le stanno particolarmente a cuore: la salute e l’alimentazione sana, la cura delle relazioni, l’imprenditività sociale, le competenze genitoriali. Da questi incontri sono nate significative collaborazioni con lo Chef stellato Pietro Leemann; con l’International Academy for Play Therapy per la diffusione del gioco come spazio di benessere e relazione con i bambini per educatori, insegnanti e genitori; con l’innovatrice sociale Selene Biffi sul tema delle start-up; con il gruppo promotore dell’iniziativa cantonale «Il franco in tasca» sul fronte dell’educa-

zione finanziaria dei giovani. In questo modo la Scuola Club di Migros Ticino non solo sta sperimentando con successo risposte inedite a precisi bisogni sociali, ma continua ad alimentare, attraverso ogni sua azione, una «cultura della cura» dai benefici a largo raggio, per l’intero territorio, e nel lungo periodo, per le prossime generazioni. Rinnovando il suo impegno sociale, grazie ad un team multidisciplinare di esperti, la Scuola Club di Migros Ticino si propone oggi non solo come centro di competenze, ma anche incubatore di innovazione e interlocutore privilegiato per sempre nuove alleanze generative di un futuro possibilmente migliore per tutti.

Premi Lo dice il GfK

Business Reflector

Il sondaggio rappresentativo GfK Business Reflector dimostra che Migros è l’azienda che gode della migliore reputazione in Svizzera. In particolare è molto apprezzato il suo impegno a favore della sostenibilità. In collaborazione con il Forschungsinstitut für Öffentlichkeit und Gesellschaft (fög) dell’Università di Zurigo, il GfK Business Reflector conduce ogni anno un sondaggio rappresentativo per misurare la reputazione di 50 aziende leader svizzere e 15 organizzazioni no profit leader. Per la classifica del 2018 sono state intervistate oltre 3500 persone in tutta la Svizzera. Il sondaggio analizza fattori come immagine, qualità, sostenibilità, originalità e identificazione con l’impresa nonché simpatia nei confronti dell’azienda. Commentando il risultato, Cornelia Diethelm, Responsabile della Direzione Sostenibilità e Issue Management presso la Federazione delle Cooperative Migros ha detto: «Siamo molto contenti e naturalmente faremo tutto il possibile affinché i proprietari di Migros continuino ad essere orgogliosi della loro azienda anche in futuro». È già la quinta volta consecutiva che Migros arriva prima nel GfK Business Reflector.

Trickster-p approda al LAC Teatro La nuova proposta della compagnia ticinese

invita ad esplorare in modo originale la dimensione scenica Con Nettles, Trickster-p invita lo spettatore a immergersi in un’esperienza dalle molteplici sfaccettature, che esplora in maniera dialettica i due estremi del nostro viaggio umano: l’infanzia e la morte. L’infanzia di Nettles non si riferisce tuttavia ad un semplice momento anagrafico quanto ad un contenitore di ben più ampie dimensioni che accompagna simbolicamente e metaforicamente tutta la nostra vita adulta, mentre la morte non è solo l’inevitabile arrestarsi del battito vitale, ma una ben più forte dimensione archetipica che ci connette a dimensioni ignote e inquietanti. Come è ormai tratto comune della sua peculiare poetica, Trickster-p lavora in assenza di performer e colloca lo spettatore al centro dell’evento drammaturgico. Guidato attraverso un percorso con l’ausilio di cuffie, questi viene lasciato libero di elaborare in totale solitudine la relazione con l’esperienza di cui è nel contempo testimone ed attore, e di vivere in prima persona il susseguirsi di atmosfere basate essenzialmente sul potere trasformativo dell’immaginazione. La voce che lo accompagna nel viaggio crea connessioni, stupori, misteri, dati di fatto, momenti di vita vissuta che esploEditore e amministrazione Cooperativa Migros Ticino CP, 6592 S. Antonino Telefono 091 850 81 11 Stampa Centro Stampa Ticino SA Via Industria 6933 Muzzano Telefono 091 960 31 31

La locandina dello spettacolo.

rano la sottile linea di confine tra sogno e realtà, memoria e riflessione, inquietudini dell’infanzia e immanenza della morte. Nettles è l’ascolto di un io che si fa carico di rivelare i propri pensieri, e che lascia schegge autobiografiche e momenti di grande intimità irrompere nella crudezza dei temi e nell’inevitabile radicalità del confronto con la fine. Se la vulnerabilità dell’essere umano si manifesta nel doppio piano della fragilità del corpo e della vita onirica e misteriosa del nostro io più profondo, la primordialità dell’infanzia si concretizza nella ferocia dei ricordi e nelle ossessioni della memoria.

Immerso in un’ambientazione sonora e visiva che amplifica ed espande i livelli di lettura, il viaggio fra le stanze è un percorso fisico che è metafora di un movimento intimo e mentale, oltre che di un’esperienza profondamente emotiva e umanamente coinvolgente.

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Abbonamenti e cambio indirizzi Telefono 091 850 82 31 dalle 9.00 alle 11.00 e dalle 14.00 alle 16.00 dal lunedì al venerdì fax 091 850 83 75 registro.soci@migrosticino.ch

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 9 aprile 2018 • N. 15

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Società e Territorio La forza di continuare a sognare Dopo un gravissimo incidente e una grave menomazione Zuleika Tipisman non si è data per vinta e affronta il mondo con la spinta dei suoi desideri pagina 5

Un alfabeto preistorico a Lugano Ai Leponti, popolazione che viveva nel Ticino preromano, spetta il merito di aver inventato una scrittura che rimane tra le più importanti testimonianze linguistiche del passato pagina 6

L’invisibile antimondo di «Google Earth» Geografia sul web La storia di Saroo

Brierley e la cartografia del virtuale

Lorenzo De Carli In un film del 2016 intitolato Lion -La strada verso casa, l’attore Dev Patel è Saroo Brierley, l’uomo ormai venticinquenne che, nel febbraio del 2012, usando Google Earth, ritrovò la strada di casa. La vicenda si svolge alla fine degli anni Ottanta. Secondogenito di una famiglia indiana molto povera, Saroo – che all’inizio del film di Garth Davis ha quattro anni – chiede di seguire il fratello maggiore Guddu al lavoro. In una stazione non distante dal loro villaggio natale, il ragazzino si addormenta su una panchina. Al risveglio, non ritrovando il fratello, Saroo sale su un treno senza passeggeri, che lo conduce direttamente a Calcutta, città lontana 1600 chilometri. Non parlando il Bengali, Saroo è uno dei bambini abbandonati che vagano per la città, e presto finisce in orfanotrofio. Ne esce nel 1987, quando una coppia di australiani lo adotta. Studente universitario a Melbourne, il giovane passa le sue serate su Google Earth alla disperata ricerca del suo villaggio natale, basandosi sui pochi ricordi, nella flebile speranza di ritrovare la madre e i fratelli. Il regista è molto abile nel mostrarci il rapporto ossessivo di Saroo con Google Earth, facendoci identificare nello sforzo che il giovane compie per mettere a fuoco ricordi sbiaditi di una realtà sicuramente mutata nel tempo, cercandone la coincidenza nelle immagini dell’applicazione. Saroo dispone di pochi elementi: nomi di paesi che non sa neppure bene se conosce con precisione, ricordi di edifici accanto alla stazione dove non ritrovò più il fratello, paesaggi visti dal treno in corsa, e via elencando tutta una serie di ricordi che potrebbero anche essere invenzioni. Nel frattempo, ogni sera, Google Earth gli mostra così tanti dettagli dell’India che lasciò bambino, da farlo disperare di non riuscire mai più a ritrovare la strada di casa – tanto meno in una mappa, Google Earth, che è davvero una mappa 1:1 del territorio. Docente di studi rinascimentali alla Queen Mary University di Londra, Jerry Brotton ha scritto un’affascinante Storia del mondo in dodici mappe.

La prima è la Geografia di Tolomeo, che risale, circa, al 150 d.C., l’ultima è, appunto, Google Earth, l’applicazione geospaziale più utilizzata al mondo, quella in cui s’immerse una notte dopo l’altra Saroo Brierley. Storico al quale si deve anche l’opera intitolata La grandi mappe, Jerry Brotton ha osservato che, contrariamente a chi pensa esse siano neutre rispetto all’oggetto rappresentato, «le mappe sono una proposta di mondo, più che un semplice riflesso del mondo, e ogni proposta emerge dagli assunti e dalle preoccupazioni prevalenti di una particolare cultura». In questa prospettiva, Brotton, ricostruendo la storia recente delle applicazioni geospaziali rese possibili dalla «rivoluzione informazionale» descritta dal sociologo Manuel Castells, scrive: «a differenza della proiezione di Arno Peters del 1973, che era una reazione diretta alla crisi economica e alle disuguaglianze politiche degli anni Settanta, la generazione successiva di applicazioni geospaziali emergente dai primi anni Ottanta è derivata dalle politiche economiche del reaganismo e del thatcherismo». Il modello economico messo a punto da Google ha fatto convergere due ambiti che, senza Internet, sarebbero stati distinti: le tradizionali mappe territoriali da un canto, e le informazioni sul pianeta dall’altro. Affiancando Google Earth e Google Maps, Google ha creato le condizioni per rendere l’informazione navigabile con criteri geografici e la geografia navigabile con criteri informazionali, a tal segno che, oggi, ogni informazione che ci viene fornita da Google è georeferenziata, ovverossia sempre riferibile ad un luogo del nostro pianeta – e quando Brotton scrive che, per Google, «il pianeta stesso è il browser», viene proprio in mente Saroo Brierley, che cerca la strada di casa scavando tra strati d’informazione, mentre esplora virtualmente tutta l’India. L’immagine di partenza di Google Earth è il nostro pianeta, rappresentato come un oggetto tridimensionale proiettato sulla superficie piana dello schermo del nostro computer. È la proiezione denominata «General Perspective Projection», esattamente la stessa

La schermata introduttiva del programma, con il globo digitale sospeso nello spazio. (earth.google.com)

descritta da Tolomeo nella sua Geografia quasi duemila anni fa. Il problema, osserva Brotton, è che «per la prima volta nella storia documentata, viene costruita una visione del mondo in base a informazioni che non sono disponibili pubblicamente e liberamente»; infatti, Google, pur offrendo la possibilità d’interfacciare le sue mappe (che in tal modo si arricchiscono), non rende disponibile il suo codice: «la storia delle carte geografiche non aveva mai visto in precedenza la possibilità di un monopolio di informazioni geografiche preziose da parte di una sola azienda». Il geografo Franco Farinelli, che come Brotton fa riferimento a Manuel Castells per descrivere l’odierna società in rete, nelle pagine di La crisi della ragione cartografica diceva che «la rete non è la mappa, è il globo». Si compren-

de meglio questa sua affermazione, facendo riferimento al suo libro precedente: L’invenzione della Terra. Nell’ultimo scorcio del Seicento – egli dice, quando ormai, grazie alla riscoperta della proiezione di Tolomeo, il globo terracqueo poté essere ridotto a superficie piana, emerse in contrapposizione una viva attenzione per il paesaggio. Rispetto alla mappa, dove il mondo di cui facciamo esperienza è ridotto a segni convenzionali e ogni punto e simile a qualunque altro perché identificabile con delle coordinate, il paesaggio è la riscoperta del mondo che viviamo, dove ogni luogo è unico e ricco di vita – non un segno. Se osserviamo Saroo Brierley da questo punto di vista suggerito da Franco Farinelli, ci rendiamo conto che il fascino di Google Earth sta nella sua

capacità d’immergerci in un paesaggio che è la duplicazione virtuale del mondo così come lo conosciamo e che, nello stesso tempo, ci permette anche di sfogliare strati d’informazione di una ricchezza irraggiungibile con le mappe tradizionali. Ma non solo; siccome sul globo terracqueo possiamo spostarci tenendo in mano un dispositivo mobile collegato a Google Earth, il passaggio dal «paesaggio» all’«informazione» è tanto immediato, da farci venire quella vertigine che s’insinua quando non riusciamo più a comprendere ciò che reale e ciò che è virtuale. Cosicché, mentre le mappe, come Swissmap, ci dicono che c’è ancora un mondo di cui fare esperienza, Google Earth c’induce invece a cercare nel mondo ciò che già esiste nell’«invisibile antimondo» (Farinelli) del virtuale.


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Società e Territorio

La vita aveva altri piani per me

Incontri La lunga, quotidiana lotta per condurre una vita normale ed essere visti e considerati al di là della propria

disabilità: l’esperienza di un’ex studentessa statunitense, rimasta in Ticino dopo l’incidente che l’ha menomata

Natascha Fioretti Zuleika Tipismana è una donna dall’eleganza innata con un sorriso e due occhi che vanno dritto al cuore. Originaria del Queens, New York, nata in una famiglia ispanica, i suoi tratti caldi e i suoi capelli corvini non mentono, vive a Lugano, lavora alla scuola americana TASIS, dove si occupa della sezione Alumni, e cura un sito di viaggio, ZTravel. Quando ci incontriamo nel suo appartamento a Paradiso è da poco di ritorno da Pune, in India. «Questo viaggio per me è stato come raggiungere il culmine di un percorso iniziato quindici anni fa. È stata un’esperienza incredibile della quale sentivo la necessità per provare a me stessa di potercela fare da sola. Non sarei mai stata in grado prima, è stato il mio percorso di guarigione a portarmi sin qui, a darmi il coraggio di uscire dal mio ambiente confortevole e ad essere indipendente». Conoscere una cultura diversa, fare yoga, meditazione le ha dato una grande energia, ma all’inizio non è stato facile: «Da quelle parti non sono abituati a vedere una persona con disabilità e quando arrivi in carrozzina li senti subito dire: oh poverina questa ragazza! E mi sono ricordata di come era all’inizio qui in Ticino. Ma ho imparato come comportarmi: devo fare in modo che le persone intorno a me sappiano chi sono, dare loro la possibilità di andare oltre ciò che vedono, oltre i limiti, oltre la disabilità. Così quando incontro delle persone che mi guardano in modo strano non mi tiro

indietro ma gli vado incontro, le saluto, gli sorrido. Ho fatto lo stesso in India e dopo qualche giorno tutti erano gentili e disponibili. Come dice Gandhi, nella vita dobbiamo essere il cambiamento che vogliamo vedere nel mondo». Zuleika Tipismana ha 35 anni ed è arrivata a Lugano che ne aveva 21. Il suo progetto era quello di fare quattro mesi di studio all’estero come previsto dal suo corso di laurea in Scienze della comunicazione. Ma un giorno la sua vita prende una piega inaspettata. In stazione a Lugano, con un gruppo di amici, aspetta il treno diretto ad Amsterdam. Il treno è in ritardo e Zuleika per un attimo si allontana dal binario. Quando torna il treno non solo è arrivato ma sta anche ripartendo così corre per non perderlo, ma inciampa e cade. Al suo risveglio in ospedale, tre giorni dopo, le mancano il braccio e la gamba destra. «Sono venuta qui al Franklyn College per studiare qualche mese e alla fine sono rimasta quindici anni. Non lo avrei mai detto, allora tutta la mia vita e i miei progetti erano a New York. Sognavo di lavorare in televisione o in radio, ma la vita aveva altri piani per me. È stata dura accettare la realtà, realizzare che devi ricominciare da zero, che i tuoi piani non esistono più, che non potrai mai più camminare senza un bastone». A questo punto faccio a Zuleika la classica domanda che ingenuamente le fanno tutti, così mi dice lei ridendo, quella domanda che solo chi non ci è passato può fare: qual è stato il mo-

Zuleika Tipismana oggi lavora alla scuola americana TASIS. (Stefano Spinelli)

mento in cui tutto è cambiato? «Non c’è stato un momento, non c’è un punto specifico nella vita in cui tutto, all’improvviso, cambia. C’è invece una sequenza di piccoli attimi di felicità che sommati, poco alla volta, ti portano più in là, oltre l’esperienza dolorosa e ti dici: mi merito più di questo». A darle una spinta sono stati i suoi amici, i suoi colleghi di studio. Zuleika li vedeva andare avanti, laurearsi, iniziare a lavorare e si chiedeva «E io cosa faccio qui?». Anche lei aveva la voglia e il diritto di laurearsi, viaggiare, vivere: «ero così giovane, avevo solo 21 anni». Così dopo i lunghi mesi in ospedale, i periodi di depressione e di smarrimento, si è fatta forza e, grazie anche ad una serie di casi fortuiti, è riuscita a

ricostruirsi una nuova vita. Una donna in particolare, conosciuta in ospedale grazie ad un’amicizia in comune, le ha dato un grande sostegno proponendole di andare a vivere con lei nella sua casa a Carona per qualche tempo. Unica condizione: finire gli studi. All’inizio era difficile persino uscire a fare la spesa al supermercato, poi una sfida alla volta, Zuleika si è resa conto di potercela fare. Si laurea e poco dopo un’amica dell’associazione American Woman Ticino le dice che la Scuola americana a Lugano offre un posto di lavoro. Zuleika si propone e tre colloqui dopo il posto è suo. Oggi Zuleika lavora alla TASIS e ha tanti progetti per la testa. Curare il suo blog Z-Travel raccontando i suoi viaggi di persona con disabilità, ma

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anche la sua quotidianità, i suoi alti e bassi. Vuole prendere la patente, per ora si affida al servizio TI trasporto che l’accompagna e va a prendere al lavoro. A settembre andrà in Grecia per imparare a fare immersioni. Ma l’apparenza non deve ingannare chi le braccia e le gambe le ha: «credo che le persone non riescano a comprendere l’impegno, lo sforzo che ogni giorno facciamo per prenderci cura di noi, vestirci, uscire, fare le cose più semplici. La mattina quando mi sveglio senza le protesi per prima cosa salto sulla mia carrozzina, vado in bagno, grazie a delle maniglie mi sollevo e mi siedo su una sedia nella doccia. Non sono gesti comodi e prendono tanto tempo, ma impari a farci l’abitudine e alla fine diventa naturale come respirare». Tra i tanti sentieri che Zuleika ha percorso, uno è quello di accettazione: «Ci sono momenti in cui vorrei camminare o ballare sulla sabbia, alzarmi e correre via, ma so che non posso. Dicono che perdere un arto sia come perdere un bambino. Non riesci mai a superare la perdita e c’è una parte di te che, di quando in quando, vuole piangere e portare il lutto. Così permetto a me stessa di farlo e non combatto questi sentimenti ma li accolgo». E alla fine anche l’India le ha lasciato qualcosa, le ha ricordato l’importanza «di abbracciare l’unicità che c’è in ciascuno di noi, dobbiamo fare di tutto per risplendere e distinguerci per ciò che siamo. Ed è ciò che ho in mente di fare». Annuncio pubblicitario

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 9 aprile 2018 • N. 15

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Società e Territorio

L’alfabeto di Lugano

Le epigrafi dei Leponti L ’esempio di una preziosissima fonte archeologia e di un (maltrattato) patrimonio storico

Jonas Marti Una è addirittura rimasta per due millenni sotto gli ignari occhi di tutti. Era a Ponte Capriasca, in un vigneto vicino alla chiesa di San Rocco, utilizzata come appiglio a cui fissare il filo di ferro di un filare. Altre invece sono rimaste sepolte per secoli sotto le strade, negli scantinati, tra i rovi dei boschi. Basta uno scavo, una ristrutturazione, l’erosione di un terrazzamento per farle tornare alla luce. Pietre sepolcrali ed epigrafi funerarie che hanno taciuto per millenni e che ora sussurrano nomi dimenticati. Come Slania figlia di Verkos, che visse e morì duemilacinquecento anni fa nelle valli sopra Lugano, emersa accidentalmente nel 1813 sotto i grappoli d’uva di un vigneto di Davesco. Come Valauna figlio di Ranienos, ritrovato nel 1820 a Mesocco durante la costruzione della strada del passo del San Bernardino. O come Kuimitros, che fino al 1998 giaceva in un prato di Bioggio, accanto alla chiesa di San Maurizio.

Le epigrafi sono redatte nel più antico sistema di scrittura attestato in Svizzera, derivato da un alfabeto nord-etrusco Decine e decine di iscrizioni puntellano la Svizzera italiana, e gran parte dell’area tra i laghi Maggiore, Ceresio e Lario. Un preziosissimo tesoro che conosciamo poco e male, ma che archeologi e linguisti di tutto il mondo ci invidiano. Le epigrafi sono infatti redatte nel più antico sistema di scrittura attestato in Svizzera. Alfabeto etrusco, o meglio un adattamento dell’alfabeto nord-etrusco, utilizzato a partire dal 600 a.C. dalla popolazione celtica che abitava la nostra regione, i Leponti. E che – piccolo motivo di orgoglio nostrano – prende il nome dall’area dove nell’Ottocento sono avvenuti i primi significativi ritrovamenti: l’alfabeto di Lugano. A studiarne ogni solco, da oltre trenta anni, ci pensa Patrizia Solinas, professoressa associata all’Università Ca’ Foscari di Venezia, considerata la massima esperta mondiale nel campo. «Le testimonianze nell’alfabeto di Lugano hanno un valore inestimabile perché ci hanno permesso di rivoluzionare lo studio delle lingue celtiche. Ne sono la più antica attestazione nel mondo intero: prima i nostri studi si basavano sulle testimonianze prove-

nienti dalle isole britanniche, che però risalgono al Medioevo. I ritrovamenti di iscrizioni nell’alfabeto di Lugano ci hanno invece permesso di arrivare a oltre mille anni prima, al VII secolo avanti Cristo, e di addentrarci in aspetti inediti». Tanto che negli ultimi anni gli studiosi che si erano sempre occupati del celtico insulare hanno cominciato a tuffarsi a pesce tra gli incavi delle iscrizioni lepontiche, un ambito di ricerca più stimolante perché più fecondo di nuove scoperte. È stato il linguista ed etruscologo tedesco Carl Eugen Pauli, nel 1883, a battezzare l’alfabeto con il nome di Lugano. Pauli stava cercando di inquadrare gli alfabeti etruschi della pianura padana, ed era incappato nelle iscrizioni della Svizzera italiana. Prima di lui ad abbozzare una prima partizione era stato il famoso classicista Theodor Mommsen, che tra le otto varietà individuate negli alfabeti nordetruschi, una l’aveva chiamata «alfabeto della Svizzera». Carl Pauli andò invece oltre e decise di omaggiare Lugano, epicentro delle prime significative scoperte. Alla città sul Ceresio si affezionò poi così tanto da cominciare, dieci anni più tardi, a insegnare greco e latino al Liceo Cantonale. Ma dopo il primo scossone dato agli studi da Pauli, per quasi tutto il Novecento poco si muove. Fino alla svolta degli anni ’90 del secolo scorso, innescata da nuove scoperte, che stravolge ogni prospettiva. E costringe gli studiosi a buttare via quasi tutto quello che era stato scritto fino ad allora. Un esempio? «La datazione delle iscrizioni ci ha permesso di affermare che i Celti abitavano l’Italia settentrionale e la Svizzera italiana ben prima di quanto ci hanno tramandato gli scrittori classici», spiega Patrizia Solinas. Oppure ancora: «Oggi sappiamo che nell’area il processo di romanizzazione fu molto lento, perché ancora nel secondo secolo dopo Cristo troviamo steli scritte in alfabeto di Lugano. Per queste popolazioni avere una propria grafia era un fattore identitario di grande importanza. Erano popolazioni divise, e ogni gruppo viveva per i fatti suoi, con mille nomi e mille consuetudini. Ma con un solo alfabeto». Ma il fatto che una popolazione celtica abbia cominciato a scrivere utilizzando un alfabeto etrusco è anche la dimostrazione di come la Svizzera italiana, prima dell’arrivo dei Romani, fosse un vero e proprio melting pot. Ne è convinta Eva Carlevaro, archeologa al Museo Nazionale Svizzero di Zurigo e caporedattrice della rivista di Archeologia Svizzera. «La nostra regione

era il fulcro degli scambi tra il nord e il sud dell’Europa. Gli Etruschi utilizzavano i nostri passi per commerciare con le popolazioni celtiche del nord, e i Leponti facevano da tramite. Negli scavi archeologici abbiamo trovato vasi di bronzo di fattura mediterranea e collane di ambra provenienti dal Mar Baltico: l’intera Europa in pochi chilometri». Una rivoluzione dall’enorme valore storico e linguistico quella prodotta dall’alfabeto di Lugano. Che però, come spesso accade in archeologia, può contare solo su piccolissimi frammenti. I testi delle iscrizioni sono molto corti. Si va da una parola, generalmente un nome, alle sette dell’iscrizione più lunga, scoperta nel 1966 a Prestino fuori Como, durante i lavori di costruzione del tratto autostradale tra Grandate e Chiasso: uvamokozis plialethu uvltiauiopos ariuonepos sites tetu, che letto da destra a sinistra significa qualcosa come «un certo Uvamokozis Plialetu ha eretto la stele in onore della famiglia degli Uvltiauio Ariuone». Pochi frammenti, ma preziosi, perché l’archeologia non è quello che si trova, ma quello che si scopre. Una mattina di marzo del 1984 a Mezzovico la pala di un escavatore urtò contro un blocco di gneiss lungo 2 metri e 70. Il proprietario del terreno stava scavando per ampliare il proprio ristorante, e si rese subito conto che il masso non era un semplice blocco di roccia. Per riportarlo alla luce impiegò una giornata e mezza, e una volta ripulito dalla terra ebbe conferma del suo presentimento: per tutta la lunghezza c’era inciso un epitaffio in alfabeto di Lugano, che gli archeologi attribuirono a un monumento funebre del quinto secolo prima di Cristo. Per concessione del Cantone la stele rimase esposta per anni all’entrata del ristorante, e nel 2000 fu trasferita al Castello Visconteo di Locarno per una mostra dedicata ai Leponti. E poi? Poi niente: da allora fino ad oggi è rimasta in un deposito comunale in attesa di una degna sistemazione, che dopo 18 anni non è ancora stata trovata. Un caso di scarsa attenzione per il nostro patrimonio collettivo. Ma la stele di Mezzovico, la più grande mai scoperta in Ticino, è solo la punta dell’iceberg. Alcune steli, come quelle trovate a Sorengo e Viganello, sono andate perse. Altre, come quelle di Banco di Bedigliora e di Ponte Capriasca sono relegate negli scantinati dell’Ufficio cantonale dei beni culturali. Altre ancora sono invece visibili al pubblico, custodite nei musei locali, senza però essere contestualizzate.

La stele di Davesco, conservata al Museo Retico di Coira. (© Rätisches Museum Chur)

Una delle più belle, quella di Davesco, che oltre all’iscrizione presenta anche la figura di una pernice e di un lupo, è finita addirittura fuori dal Canton Ticino e oggi si trova al Museo Retico di Coira. «Il Canton Ticino è stato tra i primi ad introdurre una legge sulla conservazione dei beni culturali nel 1909. Ma non ha mai avuto un museo storico e archeologico cantonale, e questo purtroppo dà meno visibilità alle nuove scoperte», spiega Eva Carlevaro. Insomma: senza il tanto agognato Museo del territorio, accantonato dal Canton Ticino per questioni finanziarie, la maggior parte dei ritrovamenti

rimane conservata nei depositi. Oppure è nei musei oltre San Gottardo. «All’epoca era in Svizzera interna che avevano sede musei o associazioni ben organizzate, per promuovere scavi e conservare reperti. E questo è anche un fatto positivo: se i reperti non fossero arrivati al Museo Retico di Coira o al Museo Nazionale di Zurigo, oggi sarebbero probabilmente perduti». Chi ha abitato le nostre terre duemilacinquecento anni fa, Slania figlia di Verkos Kuimitros, Valauna figlio Ranienos, insieme a tanti altri loro contemporanei, hanno parlato. Tocca ora a noi prestare loro l’attenzione che meritano.

Viale dei ciliegi di Letizia Bolzani Giovanna Zoboli – Simona Mulazzani, Gatto Felice, Topipittori. Da 4 anni Non smetteresti di guardarle, quelle illustrazioni illuminate dalla tenerezza e dall’espressività dell’arte di Simona Mulazzani; e si presta ad essere fatto vivere dalla lettura a voce alta il bel testo, molto accurato nella sua semplicità a misura di bambino, di Giovanna Zoboli. Così dovrebbero essere gli albi illustrati di qualità: una storia in cui accade qualcosa, un testo che sia «letterario», dove le parole risplendano, senza sciatterie; illustrazioni calde, per nulla piatte ma capaci di entrare in relazione anche con i lettori più piccoli, con intelligente leggerezza; humour, poesia, e profondità sondabili a più livelli, a seconda dell’età del lettore. Piacerà molto ai bambini (e ai loro adulti) la storia di Gatto Felice, simpatico gattone grigio

di città che vediamo dormire sul suo cuscino mentre al contempo «parte come partono i gatti quando vogliono fare il giro del mondo. In silenzio, da una porticina che c’è nel buio». E qui comincia il viaggio di Gatto Felice, che visita tutti i continenti andando a trovare i suoi parenti felini. Cominciando dall’India, dove la Signora Tigre sta cucinando, il Signor Tigre stende il bucato, e i tigrotti lo subissano di domande (dove abiti? Sei sposato? Perché sei così piccolo?) zit-

titi perentoriamente dalla mamma: «Smettetela di fare domande, maleducati. E finite di mangiare». Poi andrà in Cina, a trovare i cugini leopardi delle nevi, poi nella steppa russa dal Signor Lince; sulle Montagne Rocciose dal Signor Puma; in Brasile dalla Pantera Nera e per finire nella savana africana, dove dormirà con una famiglia di Leoni. Arriverà il momento di tornare a casa, di guardare la sua città che si sta svegliando, di ricordare quei meravigliosi incontri. Meravigliosi anche per il piccolo lettore, che vedrà sfilare sotto i suoi occhi tanti paesi del mondo (caratterizzati anche dal sapiente uso cromatico delle immagini di Simona Mulazzani) e che seguirà il ritmo di ogni saluto, accompagnato dal dono di un fiore di quel paese. Fino alla splendida ultima pagina, che rappresenta quella «porticina che c’è nel buio».

Nandana Sen, La scimmietta che voleva volare, Feltrinelli Kids. Da 5 anni «Non dobbiamo mai desiderare di essere qualcun altro. Perché ognuno di noi ha un dono che lo rende molto, molto speciale». Su questo tema, già tanto frequentato nella letteratura per l’infanzia (sin dal classico di Leo Lionni Un pesce è un pesce) si snoda vivacemente il racconto della scrittrice (e attrice e attivista per i diritti dei bambini) Nandana Sen, figlia dell’economista e filosofo indiano Amartya Sen.

La scimmietta Mambi, mite, un po’ timida e dal grande sorriso, viveva su un albero di mango nel cuore della foresta. Suoi amici erano Coco la cornacchia («Non ti piacerebbe poter volare come me, Mambi?») e Tonga la tartaruga («Perché non ti fai un tuffetto con me, Mambella?»): come le sarebbe piaciuto poterlo fare! I suoi tentativi di essere come loro sono inevitabilmente goffi, ma non sarà goffo per nulla, anzi sarà provvidenziale, ciò che Mambi riuscirà a fare, con il suo coraggio e le sue proprie abilità, per salvare gli animali in pericolo. La storia corre agile, proprio come la scimmietta, gli animali interagiscono e dialogano, ognuno con le proprie caratteristiche (anche di linguaggio) ben delineate, non manca l’avventura, e ricordare ai bambini che ognuno di noi, a suo modo, è speciale, è un messaggio che non cessa di essere giovevole.


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 9 aprile 2018 • N. 15

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Società e Territorio Rubriche

L’altropologo di Cesare Poppi Così moderno: ovvero antico L’epoca contemporanea ci ha messo in guardia (o no?!) da quell’errore che è insieme morale, storico, sociologico – e nondimeno altropologico – che è l’etnocentrismo. Diciamolo pure: non che questo sia successo sempre con… successo, ma insomma vi è oggi perlomeno una resistenza o foss’anche soltanto un tantinino di scrupolo al considerare ogni forma di alterità – etnica, religiosa, sociale – come automaticamente ed intrinsecamente «inferiore» e degna di biasimo e riforma. O forse, visto come vanno adesso le cose, è meglio dire che il legato storico del cosiddetto «liberalismo democratico occidentale» ha equiparato la Modernità con la messa in opera a livello globale (ai tempi si diceva ancora «Universale») dei tre Principi della Rivoluzione Francese (poi globalizzata nella vicenda Americana/Statunitense) «Liberté, Egalité, Fraternité». Espurgata la Trinità della democrazia moderna da qualsiasi implicita od esplicita garanzia teologico-confessionale, si è pensato che la laïcité neutrale

della Modernità à-la-Parisienne potesse candidarsi a modello globale. Oggi sappiamo che non è così, punto. E se ci interroghiamo sulle cause di questo fraintendimento storico (chiamiamolo così) certo dovremo rivedere un altra grave presunzione del pensiero cosiddetto occidentale. Quello che possiamo chiamare «Cronocentrismo» precede ed informa di sé in maniera sottile e quasi invisibile l’Etnocentrismo di cui sopra. Si tratta del concetto secondo il quale il «Moderno» è comunque e sempre «più bello». Ciò che «viene dopo» è sempre e comunque meglio di ciò che «viene prima», proprio come per il pregiudizio etnocentrico. In sostanza: «chi viaggia in automobile è migliore di chi si sposta a piedi». Il problema è che il Cronocentrismo, così come l’Etnocentrismo che ne è figlio, non regge alla prova dei fatti. Il 9 aprile 1388 – cade oggi il 630mo Anniversario – 400, all’incirca, Confederati della prima Confederazione Svizzera – Cantoni Glarona, Uri e

Svitto, si trovarono faccia a faccia con 6500 soldati dell’Arciduca d’Austria. La località era Näfels, Canton Glarona. L’ironia della Storia storieggiata omette sui testi i nomi dei leader comandanti i montanari armati di archi e balestre, ma riporta i nomi altisonanti dei Comandanti le forze Asburgiche: Graf (Conte) Donat von Tonnenburg e il Cavaliere Peter von Thorberg a capo del grosso dell’esercito con 5000 uomini ed il Graf Hans von WerdenbergSargans a capo di una colonna di supporto di 1500 soldati. Lo scenario storico era il conflitto con la nascente Confederazione, decisa a difendere le libertà democratiche e plebiscitarie sancite dagli stessi patti federali dalle mire espansionistiche degli Asburgo. Il conflitto che si protrasse per la maggior parte del XIV secolo ebbe diverse fortune. Questa la sequenza dei fatti: poche settimane dopo la battaglia di Sempach (9 luglio 1386), i Confederati mettono sotto assedio il villaggio asburgico di Weesen, sullo Weesensee. L’anno successivo Glarona insorge

contro gli Asburgo e distrugge Burg Windegg: l’11 marzo il Consiglio di Glarona si dichiara libero dal controllo Asburgico. Notte del 21-22 febbraio 1388 le forze Asburgiche attaccano Weesen. I Confederati devono fuggire abbandonando la città. In seguito a questo successo la forze Asburgiche prendono coraggio e decidono di usare Weesen come base per attaccare Glarona: tagliata fuori Glarona dal resto della Confederazione la via verso Occidente sarà libera. E quella spina nel fianco – Libera, Democratica e Fraterna (e tanto rompiscatole in un quadro generale europeo ancora feudale) – che era la Confederazione sarà finalmente schegge di Storia. Ma così la cronaca: la mattina del 9 aprile gli austriaci attaccano Näfels. In inferiorità numerica i 400 difensori di Glarona, Svitto e Uri sono costretti a evacuare la città. Sicure del successo le truppe Asburgiche si danno al saccheggio tanto in città quanto nel contado. Ed ecco che i Confederati, fino ad allora nascosti

nei boschi, emergono dalla neve e dalla nebbia. Ora o mai più. Gli austriaci intenti ad altre faccende sono presi di sorpresa e fuggono cercando di nuovo riparo a Weesen. Il ponte sul fiume Maag collassa e molti soldati trovano lì la fine della loro disgraziata vicenda. Risultato delle perdite alla maniera calcistica ma viceversa: Confederati 54 – Asburgo 1700. Morti, s’intenda. Il che vuol dire che 400 uomini motivati alla libertà ebbero la meglio su 6500 soldati interessati al saccheggio. Morale della storia? Quelli che oggi pensiamo caratterizzare i valori fondanti la Modernità non sono affatto esclusivi del periodo storico che – certo – vede la Rivoluzione Parigina in qualche modo protagonista. Ma la vicenda libertaria, egalitaria e fraternitaria che – altrettanto – caratterizza la marcia del cosiddetto Occidente, ha radici molto più profonde. Forse in Montagna, dove maturarono esperienze e aspettative, decise a farla finita quando Altrove si pagavano tributi. Ma questa è – ancora – un’altra Storia.

Nella tua concezione l’amore coincide con la felicità, ma le cose non sono così facili. Nessuno è felice da solo e l’altro è sempre un «altro», una persona con desideri propri che non necessariamente coincidono con i nostri, che possiede un nucleo di segreto e di mistero destinato a restare tale. Come possiamo esaurire la conoscenza degli altri quando una parte di noi rimane estranea e ignota a noi stessi? «Nessuno è padrone in casa propria» afferma Freud presentando all’umanità i suoi limiti. La felicità dipende solo in parte dalle nostre azioni. La sapienza antica sapeva benissimo che il destino di ognuno è innanzitutto nelle mani degli dei. Solo i moderni si sono illusi di essere signori e padroni di se stessi. La sentenza «volere è potere» è, non solo sbagliata, ma ingannevole. «L’erba voglio non cresce neanche nel giardino del re» dicevano gli adulti ai bambini sino a qualche generazione fa. Al tempo stesso però li spronavano all’impegno, alla rinuncia, all’attesa. Un’attesa non

passiva come la tua, ma attiva, attenta, laboriosa, disposta ad affrontare il rischio, a riconoscere l’errore e a riprovare nonostante il timore di sbagliare. Se l’amore non lo si può pretendere si può tuttavia propiziare. Quello che vorrei dirti, caro Arturo, e non è facile, è di conservare i tuoi desideri – sono il motore della vita – ma di declinarli sotto il segno della responsabilità. Quando sarai capace di riconoscere le impossibilità che contraddistinguono la tua biografia, come quella di tutti, ti troverai finalmente capace di giocarti le possibilità, forse poche ma in grado di mettere in moto una narrazione che ti riconsegni il bandolo della tua esistenza smarrita.

parola patria?» E patria nella versione «Heimat», vissuta direttamente nell’esperienza quotidiana, che si contrappone a quella patria «Vaterland», distante, persino astratta. I dati raccolti, sottoposti alla valutazione neutrale dell’Istituto di ricerca psicologica di Monaco di Baviera, oltre a esternazioni prevedibili, del tipo «in città si è più aperti al cambiamento e agli stranieri che in campagna», offre sorprese. E, proprio sul tema nostalgia, che ha suscitato sentimenti inattesi. Se, da un lato, si registra sempre l’«Heimweh», che accompagna chi è lontano da persone e luoghi familiari, insomma dalla consuetudine, dall’altro, in ugual misura si fa sentire il «Fernweh». Che sigla il desiderio dell’altrove, per uscire da una realtà, dove ci si sente alle strette e da cui è facile scappare. Viaggiare sembra, ormai, un bisogno primario, più avvertito

dalle donne che dagli uomini, e che accomuna giovani e vecchi. Il pensionato con la valigia è persino una figura rappresentativa dell’epoca. A volte, intraprende un viaggio verso destinazioni stabili, trasferendosi in Portogallo in Croazia o Thailandia. Mentre i cittadini svizzeri se ne vanno, scegliendo un esilio esotico, gli immigrati di vecchia data prendono una decisione di segno opposto. Rimangono in quella che, per loro, è diventata una seconda, anzi una vera patria. Sono scelte di vita, che non comportano complessi colpevolizzanti, di tradimento delle proprie origini. Semplicemente, si approfitta di nuove aperture burocratiche e mentali, che consentono di avere passaporti diversi e si sentirsi a casa propria in tanti luoghi. La consultazione di Lenzburg ha visto cadere vecchie tradizioni. Compresa quella del «Röstigraden»: oggi divide di più lo «Sushigraben».

La stanza del dialogo di Silvia Vegetti Finzi L’amore non lo si può pretendere Cara Silvia, per me l’amore è la cosa più importante, l’unica per cui vale la pena di vivere. Ma, come capirai, non l’ho ancora incontrato. Vorrei un amore che meriti di essere all’altezza delle mie aspettative ma non so ancora se sia più importante amare o essere amato e, magari, tutte e due le cose. Una donna che mi faccia sentire compreso, accettato, valorizzato, accolto. Una donna cui poter dire tutto e che non mi nasconda nulla. Vorrei un amore travolgente, che mi faccia dimenticare le miserie quotidiane, gli insuccessi, le frustrazioni, le rinunce perché a chi ama non manca niente. Vorrei un amore che non finisca mai, che sia «per sempre». Sono disposto a offrire tutto me stesso, peccato che nessuno colga il mio messaggio. E resto solo nel silenzio assordante che mi circonda. / Arturo Caro Arturo, il tuo desiderio, i tuoi sogni, le tue aspettative sono totali, assoluti, incondizionati e, come tali, appartengono

più alla fantasia che alla realtà, più all’inconscio che alla coscienza, più alla follia che alla ragione. Anche se esaltano, eccitano e ravvivano alla fine non appagano. Quando si affollano termini quali «tutto, nulla, sempre, mai» significa che ci troviamo nella regione dell’inconscio, nell’ambito della sua economia onnipotente e, proprio per questo impotente in quanto, se non si riconoscono i limiti, non si va da nessuna parte. Solo i neonati pretendono una mamma che li appaghi completamente ma ben presto si rendono conto che nessuno sarà mai all’altezza di questo compito e poco per volta si rassegnano ad attendere, rinunciare, ridimensionare le loro aspettative, insomma a fare i conti con la realtà. Poiché evidentemente non sei né un bambino piccolo né un adolescente che sta sperimentando l’ebbrezza di una seconda infanzia, il tentativo di racchiuderti in un cerchio magico è destinato a fallire. Certo che nessuno ascolta il tuo appello

in quanto l’altro non c’è, sei solo, chiuso in una corazza narcisistica per paura di uscire all’aperto, di inoltrarti nel mondo. Amare davvero comporta di affrontare i rischi dell’incomprensione, del tradimento, della delusione e del rimorso, di fare i conti con emozioni negative che ti fanno conoscere chi sei e non solo chi credi di essere. L’amore-passione che travolge, che fa volare alto, che ti fa sentire superiore a tutto e a tutti lo incontriamo nell’arte, basta pensare agli amanti di Chagall che volano abbracciati nella notte. E, senza giungere a tanto, lo ritroviamo ogni giorno nei film, nelle canzoni, nei messaggi pubblicitari. In ogni caso per realizzarlo, anche solo parzialmente, occorre abbandonare l’astronave e scendere a terra. Esistono, è vero, dei momenti in cui ci è dato trascendere noi stessi, provare l’ebbrezza dell’assoluto, ma sono squarci sulla prospettiva ideale che orienta la nostra vita ma che, come l’orizzonte, non raggiungeremo mai.

Informazioni

Inviate le vostre domande o riflessioni a Silvia Vegetti Finzi, scrivendo a: La Stanza del dialogo, Azione, Via Pretorio 11, 6900 Lugano; oppure a lastanzadeldialogo@azione.ch

Mode e modi di Luciana Caglio Svizzeri: fra nostalgia di casa e di altrove A proposito di nostalgia, gli svizzeri ne possono legittimamente rivendicare la paternità. La parola fu, infatti, inventata nel 1698, da Johannes Hofer, studente di medicina all’università di Basilea, per definire, nella tesi di laurea, lo strano malessere che colpiva i mercenari svizzeri, reduci da guerre in paesi lontani. Anticipando la psichiatria, aveva individuato la causa nel sofferto desiderio di tornare a casa e, ricorrendo al greco, l’aveva chiamato nostalgia, da «nostos», ritorno e «algios» dolore. Era la versione colta di «Heimweh» e «Mal du pays», parole che Hofer, di origini alsaziane, aveva sentito pronunciare, nell’ambiente quotidiano. Più tardi, sull’onda della dilagante anglofonia, sarebbe arrivato, anche da noi, «Homesickness». In idiomi diversi, il comune denominatore rimane pur sempre la casa, nell’intraducibile accezione di «Heim»

e «Home», cioè di paesaggio umano, che racchiude persone, luoghi, abitudini. E staccarsene comporta uno strappo doloroso, che provoca nostalgia. Anche la nostalgia, però, non è più quello che era. Non soltanto come vocabolo, ormai inflazionato dalla moda del rimpianto per un presunto bel tempo che fu. Ma pure come punto di riferimento. Dapprima, associato sul piano culturale, al romanticismo. In seguito, con la nascita degli statinazione, associato al patriottismo, sentimento emergente. E, quindi, il desiderio di tornare al paese, dove si è nati e cresciuti, era un indizio di attaccamento alle origini, qualcosa che, appunto, si chiama patriottismo. O nazionalismo. O amor patrio. La nostalgia, quale legame con le radici doveva subire gli influssi di un clima politico, ideologico, persino morale, sempre più mutevole. Diventando

virtù o vizio, a seconda degli umori del momento. Certo è che il concetto di patria, ridimensionato dal ’68 e, tornato attuale, come strumento di difesa identitaria, si manifesta in forme ben diverse: più sfumate e possibiliste, rispetto al rigore tradizionale. Ed è un cambiamento ormai visibile, che ci concerne da vicino, in una Svizzera solo in apparenza statica, chiusa, conservatrice. Ora, al di là delle percezioni, che possono sembrare vaghe, questa nuova realtà ha trovato una conferma statistica e scientifica importante. Si tratta dei risultati di un sondaggio di opinioni e reazioni, abbinato alla mostra, allestita in un luogo simbolo dell’elvetismo, lo «Stapferhaus» di Lenzburg. È stata visitata, fra 15 marzo 2017 e il 25 marzo 2018, da oltre 90’000 cittadini, disposti, volontariamente, a rispondere alla domanda: «Per te cosa significa la


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Dalla tragedia di Minamata Nazioni Unite Un nuovo trattato voluto

per proteggere l’ambiente e la salute dalle emissioni antropogeniche di mercurio

Marco Martucci È entrato in vigore di recente un nuovo trattato internazionale delle Nazioni Unite: è la Convenzione di Minamata sul mercurio, che si prefigge di proteggere l’ambiente e la salute dalle emissioni antropogeniche di mercurio, riducendo sia l’estrazione sia l’uso del pericoloso liquido metallo a livello mondiale. Nella lunga genesi di questo trattato, la Svizzera ha avuto una parte importante e la sede del segretariato della Convenzione si trova a Ginevra. Minamata è una città del Giappone meridionale, sull’isola di Kyushu. Nel 1956, diversi abitanti di questa città cominciarono ad accusare strani malesseri. Fra questi: diminuzione di vista e udito, disturbi della sensibilità, dolori, difficoltà nel parlare, nei movimenti, formicolii e intorpidimento di braccia, gambe, labbra e lingua, tremore, perdita dell’equilibrio, turbe mentali e disturbi cognitivi, segni tipici di danni al sistema nervoso, fino al coma e alla morte. Era quella che sarebbe stata chiamata sindrome o malattia di Minamata. Da pochi casi isolati, il numero delle persone colpite non fece che crescere e, alla fine, dai dati ufficiali emersero oltre 2200 casi, dei quali 1784 mortali, ma si può supporre che la cifra reale fosse superiore. A Minamata era attiva da ancor prima della Seconda guerra mondiale una grande industria chimica, la Chisso, che dava lavoro a tanti abitanti della zona ed era dunque importante per l’economia di tutta una regione e per la crescita del Giappone. In nome di questa crescita non si andava troppo per il sottile e tutti i rifiuti industriali della Chisso venivano sconsideratamente scaricati in mare, nella Baia di Minamata. Fra questi scarti c’era anche un composto del mercurio, il metilmercurio, che ha la caratteristica, condivisa almeno in parte con altri metalli pesanti come il piombo, del bioaccumulo e della biomagnificazione. Il che, in parole semplici, vuol dire che il veleno si accumula dentro gli organismi viventi e aumenta lungo le catene alimentari. Così, durante tutti gli anni nei quali la Chisso scaricava in mare i suoi rifiuti, il metilmercurio veniva assorbito dal plancton, poi dalle alghe, dagli animali più piccoli lungo la catena trofica fino

ai crostacei e ai pesci più grandi, come tonni e pesci spada, in concentrazione sempre crescente. Fu il disastro. Gli abitanti di Minamata, fra i quali tanti pescatori, si nutrivano principalmente di pesce, in questo caso un pesce saturo di mercurio. Ci vollero anni per chiarire le responsabilità e alla fine la Chisso dovette procedere a risarcimenti per le vite perse e per i malati incurabili, alcuni sopravvissuti fino ad oggi. Furono colpiti indistintamente animali ed esseri umani, vecchi e giovani, anziani e bambini e feti ancora nel ventre della madre. Minamata, purtroppo, non fu l’unica tragedia del mercurio in Giappone. Nove anni più tardi, un disastro simile colpì la zona di Niigata, molto più a nord. Oggi si sa quanto pericoloso sia il mercurio, specialmente nei suoi composti come il metilmercurio, e si conoscono i danni, principalmente al sistema nervoso ma anche ai reni; altre ricerche sono ancora in corso: il mercurio potrebbe ridurre la capacità di apprendimento nei bambini, diminuire il quoziente intellettivo e avere altre gravi conseguenze. Pur temibile per i suoi effetti su ambiente e salute, il mercurio non è privo di fascino. Unico metallo liquido a temperatura ambiente, era chiamato in greco hydrárgyros, letteralmente «acqua argentea», da cui il simbolo chimico dell’elemento Hg, in latino hydrargyrum e argentum vivum. L’intossicazione da mercurio è nota anche come «idrargirismo». Il nome «mercurio» deriva, ovviamente, dal dio romano dei commerci e dei viaggi, per la sua mobilità. «Argento vivo» è sinonimo di irrequieto. In inglese è mercury ma anche quicksilver, «argento veloce», in tedesco è Quecksilber. Il mercurio forma grandi gocce perché tenuto insieme da notevoli forze di coesione che gli impediscono di bagnare il vetro, su cui scorre senza lasciar traccia. Ha densità elevatissima: un litro di mercurio pesa quasi quattordici chili. È buon conduttore di elettricità. Alla temperatura di 38,8 gradi sotto zero solidifica, diventando come un pezzo d’argento. Scaldato, il mercurio bolle a circa 357 gradi, temperatura bassa per un metallo, ed evapora a temperatura ambiente. Sua fonte naturale è il minerale ci-

In alto, il cinabro e, in primo piano, due gocce di mercurio metallico; sotto, a sinistra, Cinabro (solfuro di mercurio), il minerale del mercurio, dai famosi giacimenti del Monte Amiata, in Toscana; a destra, gocce di mercurio. (Marco Martucci)

nabro, il suo solfuro, dal tipico colore rossastro, sul quale non è raro vedere minuscole goccioline di mercurio. Immissioni antropogeniche provengono dall’attività estrattiva e industriale, dalla combustione del carbone, da uso scorretto e negligenza. Varie sono le applicazioni del mercurio, molte delle quali oggi vietate e abbandonate. Qualche esempio: strumenti di misura come barometri e termometri, apparecchiature elettriche, pompe, lampade, batterie, disinfettanti, fungicidi, catalizzatore per reazioni chimiche. Si stima che, nelle case svizzere, vi siano oltre mille chili di mercurio dentro vecchi termometri, la cui vendita è vietata da ormai molti anni: un potenziale pericolo in caso di smaltimento non corretto. Un curioso uso del mercurio sono gli amalgami, leghe di mercurio e altri metalli, specialmente oro e argento, preparate a freddo. Un tempo largamente adoperati per le otturazioni

dentarie, questo loro uso, sebbene in Svizzera non vietato, è oggi marginale. Come ribadito anche recentemente dalla SSO, Società Svizzera Odontoiatri, la presenza di mercurio nel cavo orale sarebbe «di per sé non pericolosa». Molto rischioso è per contro il suo uso nell’estrazione artigianale dell’oro, come avviene ancor oggi in Sudamerica, che immette nell’atmosfera i tossici vapori di mercurio. Curioso e quasi aneddotico è l’avvelenamento cronico da mercurio che colpiva i fabbricanti di cappelli che usavano nitrato di mercurio nella preparazione del feltro e che forse ispirò Lewis Carroll, l’autore di Alice nel Paese delle Meraviglie nella creazione del personaggio del «cappellaio matto», the Mad Hatmaker o Mad Hatter. Ancor oggi in inglese s’usa dire mad as a hatter, un po’ come il nostro «matto come un cavallo» ma l’origine di tale modo di dire non è del tutto chiara.

Chiaro per contro è il fatto che il mercurio diventa pericoloso quando, respirato come vapore, penetrato attraverso la pelle o ingerito come composto, soprattutto il metilmercurio nel pesce contaminato, raggiunge l’interno del corpo, dove può accumularsi fino a critiche concentrazioni. Attraverso i movimenti dell’aria e delle acque il mercurio può raggiungere ogni parte del mondo: un problema globale. Eccessivi allarmismi sono decisamente fuori luogo ed è improbabile che, almeno da noi, possa ripetersi una catastrofe di Minamata. La prudenza è comunque d’obbligo. Triste a dirsi, è proprio grazie a quel dramma umano e ambientale che noi oggi siamo coscienti dei pericoli del mercurio e prendiamo provvedimenti per evitarli. Informazioni

www.mercuryconvention.org


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Ambiente e Benessere

La Toyota RAV4 sfila sulla passerella di New York Motori Sull’isola di Manhattan dal 30 marzo all’8 aprile il Jacob Javits Convention Center

ha ospitato il salone americano

Mario Alberto Cucchi Il New York International Auto Show è un salone dell’automobile che si tiene in America con cadenza annuale. È tra le tre più importanti kermesse motoristiche degli Stati Uniti assieme al Salone di Detroit e a quello di Los Angeles. Sull’isola di Manhattan le porte del Jacob Javits Convention Center quest’anno sono state aperte per gli appassionati di automobili dal 30 marzo al 8 aprile. New York è stata scelta dai giapponesi di Toyota come passerella per presentare in anteprima mondiale l’attesa quinta generazione di RAV4. Un mezzo che per l’ennesima volta cambia marcia rispetto ai modelli che l’hanno preceduto. La Toyota RAV4 (acronimo di Recreational Active Vehicle 4-wheel drive) di quinta generazione ha in comune il nome e poco più con la prima generazione che era nata nel 1994 sul pianale della Corolla. Una vettura che all’epoca era commercializzata esclusivamente con un propulsore alimentato a benzina da 129 cavalli. Negli anni, modello dopo modello, è arrivato anche il diesel, che dovrebbe sparire dai listini proprio con questa quinta generazione. Toyota ha dichiarato di voler abbandonare gradualmente tale tipo di motorizzazione continuando invece a investire sull’ibrido benzina e rilanciando contestualmente il sogno dell’idrogeno sul mercato giapponese. Tornando alla quinta generazione di RAV4 presentata a New York in

questi giorni, va detto che stravolge l’estetica del modello uscente. Con i pratici passaruota in plastica neri strizza l’occhio alle auto fuoristrada anche se ormai da tempo, come per la maggior parte dei suv, è stata abolita la ruota di scorta esterna che caratterizza i mezzi più specialistici. Cresciuta nelle dimensioni, ma di solo mezzo centimetro in lunghezza, misura oggi dal paraurti anteriore a quello posteriore 4,59 metri. La larghezza è invece pari a 185 cm mentre il passo è aumentato di 3 cm per un totale

di 2,69 metri. Ecco: tradotto in parole povere, si ha più spazio per i passeggeri e per i bagagli. Insomma le proporzioni sono rimaste simili anche se il design è decisamente più moderno. La nuova RAV4 è infatti caratterizzata da linee tese e tagli netti. Non si può dire che manchi di personalità. Due i propulsori disponibili sotto il cofano. Il più potente è il motore benzina da 2.5 cc che è abbinato a un inedito cambio a 8 rapporti. Si tratta dello stesso propulsore che farà da base alla Toyota RAV4 Hybrid a trazione integrale,

in quest’ultima, il motore a benzina sarà affiancato da due motori elettrici. Inoltre in Europa sarà disponibile un propulsore più piccolo e meno potente da 2.0 cc che verrà offerto sia in abbinamento al cambio manuale sia a quello automatico. A bordo non manca tanta tecnologia dedicata al confort e alla sicurezza di marcia. Il nuovo Toyota Safety Sense (TSS) comprende il sistema anti-collisione con il rilevamento dei pedoni, il cruise control attivo con la funzione di radar, l’assistente per mantenere la carreggia-

ta. Presente inoltre per la prima volta un’elettronica che consente di leggere i segnali stradali per poi avvisare il guidatore in caso di superamento dei limiti di velocità. L’abitacolo è caratterizzato da un grande monitor multimediale centrale che sormonta una corta leva del cambio. Sul tunnel centrale si trova anche il selettore della modalità di guida che permette di ottimizzare il rendimento del motore e del cambio in base alla strada da affrontare. L’arrivo nelle concessionarie europee è previsto per il 2019. Annuncio pubblicitario

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Ambiente e Benessere

Sandakan!

Viaggiatori d’Occidente In Malesia sulle tracce di Salgari Marco Moretti Pelabuhan Sandakan – nello Stato di Sabah, nel nord del Borneo malese – è una baia lunga quindici miglia, frastagliata da isole e insenature, in cui si gettano sette fiumi. Un approdo sicuro, dove per secoli i velieri si sono riparati dalle tempeste. Ma anche la base ideale per i pirati agli occhi di Emilio Salgari che, dopo un’attenta osservazione della mappa (il grande scrittore d’avventura non visitò mai di persona quei luoghi), trovò qui ispirazione e nome per il suo più famoso personaggio, Sandokan, protagonista di undici romanzi. Oggi nel porto di Sandakan, la città affacciata sull’omonima baia, non entrano navi bucaniere ma mercantili e soprattutto pescherecci che scaricano tonni e barracuda in un mercato che sembra una rotonda sul mare, non fosse per il puzzo di pesce e il ritmo delle mannaie che affettano. Per il resto Sandakan è una griglia di strade bordate di negozi e ristoranti di cinesi, malesi e discendenti delle tribù originarie. Musulmani, cristiani e buddisti convivono e commerciano tra le sue vie. C’è una moschea in riva al mare, chiese sparse per la città e un tempio buddista che domina la baia da una collina. La parte più esotica è la più miserabile: il Sim Sim Water Village formato da cinquecento case in legno a palafitta colorate, dove vive chi non può permettersi un’abitazione sulla terra ferma. Dei colonialisti inglesi che Sandokan – figlio dell’ultimo re del Borneo – combatteva

in Le Tigri di Mompracem, resta solo una leziosa English Tea House. Anche se non ci sono pirati né kriss malesi, Sabah è ancora oggi una terra avventurosa, grazie però a interpreti molto diversi dall’eroe salgariano divulgato da otto film e da una fortunata serie televisiva. A due ore da Sandakan si risalgono in barca le acque limacciose del Kinabatangan, il maggiore fiume di Sabah, per incontri ravvicinati con un bestiario degno del più selvaggio immaginario del Borneo: oranghi che vivono appollaiati su alberi torreggianti; buffe scimmie della proboscide, con un lunghissimo naso, che abitano tra paludi salmastre e foreste di mangrovie; dispettosi macachi dalla lunga coda; orsi di sun, la più piccola varietà di urside; e ancora enormi varani, serpenti giganti, elefanti indiani, stormi di buceri e tanti coccodrilli. Anche chi visita Sabah però sembra preferire l’avventura narrata rispetto alla natura selvaggia. Infatti pochissimi raggiungono il Maliau Basin Conservation, una delle ultime foreste integre dove nel 2016 è stato scoperto l’albero più alto del mondo: una Shorea faguetiana di 89,5 metri. E gran parte dei turisti rinuncia alle escursioni sul fiume Kinabatangan verso l’interno a favore della Sepilok Rain Forest, una riserva di 4300 ettari a mezz’ora da Sandakan che ospita l’Orangutan Rehabilitation Center, il Bornean Sun Bear Conservation Centre e l’omonimo elegante resort. Perché qui, oltre alla comodità, si ha la certezza di vedere gli

Trekking nella giungla, sul monte Kinabalu. (Marco Moretti)

animali, anche se in un contesto artificiale: gli oranghi sono attirati dalla distribuzione di cibo e gli orsetti si muovono in uno spazio recintato. La pigrizia dei turisti tuttavia non toglie nulla al valore delle due istituzioni. L’Orangutan Rehabilitation Center fu aperto nel 1964 per la cura degli orfani di questa specie dall’inglese Barbara Harrison, pioniera della difesa ambientale del Borneo. Ed è ancora più importante oggi quando nel resto del Borneo l’orango è a rischio di estinzione: centomila esemplari sono stati abbattuti dal 2000 da agricoltori e coltivatori di palma da olio con la scusa che lo scimmione antropomorfo (condivide il 96,4% del DNA umano) saccheggia le piantagioni per nutrirsi. Con un terzo del territorio protetto e l’istituzione di corridoi per i loro spostamenti, Sabah è la regione che dà più speranze per la sopravvivenza degli oranghi. Qui la coltivazione delle più redditizie piantagioni di palma da olio è stata limitata al 30 per cento del territorio anche grazie al progetto di riforestazione della Nestlé (700mila alberi), il principale coltivatore del Borneo. Dopo il documentario del 2011 di David Attenborough, molti vip hanno visitato e finanziato l’Orangutan Rehabilitation Center: sono venuti Leonardo di Caprio e il principe William, non s’è visto invece Kabir Bedi, l’interprete televisivo di Sandokan. Gli abitanti di Sabah sono meno esotici di quelli narrati da Salgari. I Sungai dei fiumi pescano con barche a motore. I Dusun, cristianizzati, continuano a coltivare il riso. I Suluk si sono convertiti all’Islam, come i Bajau, nomadi del mare qui sedentarizzati. Sono conversioni sincretiche che conservano spesso riti tribali, come quello di fecondare la semina col sangue d’un pollo, sacrificato per l’occasione. Sono scomparse solo la nudità e le cerbottane con cui cacciavano sputando frecce. A Kota Kinabalu, capitale di Sabah, lo stile di vita è più occidentalizzato rispetto a quello dei malesi della penisola: tra grattacieli, centri commerciali, alberghi a cinque stelle e un vivace lungomare con pub e ristoranti, è evidente la ricchezza frutto delle piattaforme petrolifere offshore. La città prende il nome dal vicino monte Kinabalu, il più alto del Borneo (4095 m s/lm), scalato ogni anno da ventimila alpinisti. La maggior parte dei duecentomila

Escursione sul Kinabatangan river. Sul sito www.azione.ch una galleria fotografia più ampia. (Marco Moretti)

I piccoli Orsi bruni di Sabah. (Marco Moretti)

Scimmia con la proboscide, nasica (Nasalis larvatus). (Marco Moretti)

visitatori dell’omonimo parco, patrimonio dell’umanità Unesco, si danno invece al birdwatching e percorrono la rete di sentieri nella foresta pluviale tra felci arboree, liane, orchidee, piante carnivore, farfalle giganti e oltre trecento specie di colorati uccelli. Sulla costa nord c’è l’isola di Labuan, che ispirò a Salgari la Perla di Labuan, Lady Marianna Guillonk, l’amata di Sandokan. Al confine col Brunei, Labuan non ha però nulla di romantico: è un pragmatico porto franco. L’arrembaggio tanto caro a Salgari negli anni scorsi è comunque tornato in voga

nel Mare di Sulu, a nord di Sandakan: in quel caso però non erano pirati ma militanti di Abu Sayyaf, un gruppo jihadista filippino che ha rapito decine di turisti cinesi. L’esercito lo ha neutralizzato e oggi la situazione è tranquilla, anche se per sicurezza si scortano i visitatori nelle isole al largo di Sandakan, dove depongono le uova le tartarughe marine. Nella spartana Selingan (in un parco marino condiviso con le Filippine), come nella lussuosa Lankayan, si soggiorna per vedere le tartarughe deporre le uova sulla spiaggia e i loro piccoli prendere il mare nella notte…


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Il Porto, oro liquido del Portogallo Vino nella storia La storia della nascita del vino dell’Abate di Lamego

Davide Comoli «Ti senti come fuoco liquido nello stomaco… Ti brucia come la polvere da sparo infiammata, ha il profumo di spezie dell’India, scuro come l’inchiostro e la dolcezza dello zucchero del Brasile» Questa è una parte di lettera scritta nel 1754 dagli agenti inglesi dell’Associazione del Commercio del Porto, durante una loro visita lungo la valle del Duero. Verso il 1620 i mercanti inglesi che dirigevano le spedizioni dello zucchero e che si erano stabiliti a Oporto, subirono un grande tracollo finanziario quando l’Inghilterra incominciò a importare lo zucchero a prezzi più bassi dalla Giamaica e dalle isole Barbados, colonie britanniche. Disperatamente si ingegnarono a cercare un prodotto da esportare per salvaguardare i loro interessi. L’occasione arrivò nel 1667 quando scoppiò la guerra tra Francia e Inghilterra, che fece scattare una serie di dazi doganali e tariffe molto alte, da far cadere il commercio dei vini provenienti dalle zone del Bordeaux, molto amati dai nobili anglosassoni. Il Portogallo viticolo del XVII secolo era diviso in due zone distinte: una comprendeva Lisbona e il sud del Paese, l’altra il nord con il distretto di Monçao e il centro di Viana do Castelo, da dove venivano vini simili agli odierni Vinhos verdes. La recrudescenza della guerra del 1689 con la Francia e il conseguente aumento delle imposte doganali, fecero sì che le importazioni dei vini portoghesi

aumentassero davvero. Gran parte di questo vino proveniva dall’isola atlantica di Madera e dall’Algarve, ed era un vino «pare» un po’ più resistente ai viaggi per mare. Tra il 1670 e il 1680, alcuni intraprendenti mercanti inglesi si spinsero all’interno del Paese alla ricerca di vini più strutturati. Tra questi vi erano i figli di uno spedizioniere dello Yorkshire, mandati dal padre a far pratica di commercio di vini. Vuole la storia che i due arrivati nell’alta Valle del Duero, si fermassero in un monastero nei pressi di Lamego. Bevuto del vino di Pinhão, offerto dall’Abate del convento, rimasero impressionati dalla morbidezza, dolcezza e struttura dello stesso, gli domandarono che cosa lo rendesse così diverso rispetto agli altri vini che avevano assaggiato durante il loro viaggio. L’Abate spiegò loro che era consuetudine in quel luogo introdurre dell’acquavite durante la fermentazione, per accentuare il corpo e dare più morbidezza al vino, i due inglesi rimasero talmente deliziati che comprarono l’intera riserva del pio luogo e la portarono in patria. Fu comunque solo dopo il trattato di Methuen (1703) che sanciva l’entrata del Portogallo nella Santa Alleanza con l’Inghilterra contro Francia e Spagna, che il «Porto» iniziò la sua scalata grazie alle tasse agevolate applicate dagli inglesi. Da documenti, siamo certi, che le prime tipologie di Porto introdotte in Gran Bretagna, non incontrarono di certo i favori degli aristocratici abituati ai vini di Bordeaux, ma essendo questi

Barcos Rabelos a Vila Nova de Gaia sul Rio Duero. (Waxilexlilarose)

ultimi molto cari e introvabili restava l’amletico dubbio: «bere Porto o restare astemi»; lascio a voi la risposta. Quando il trattato di Methuen stabilì per i vini portoghesi esportati in Inghilterra delle imposte di favore, a Porto erano già sorte molte aziende inglesi, ma anche tedesche, olandesi e francesi, benché fossero gli inglesi a monopolizzare il commercio, spesso abusando del proprio potere. Nel 1755 il Ministero del Commercio restrinse i privilegi di cui avevano goduto i mercanti britannici, confiscò molti loro beni e fece espellere dal Portogallo, dal Brasile e dalle Indie Occidentali, l’Ordine dei Gesuiti accusati di complicità con gli inglesi. Istituì inoltre la Companhia Gene-

ral de Agricultura dos Vinhos de Alto Duero, investendola di quei poteri che gli inglesi si erano ormai abituati ad esercitare. Nonostante le infuriate proteste inglesi, continuarono le riforme giuste, anche se impopolari, tra le quali il restringimento delle aree di produzione nella Valle del Duero ai migliori vigneti. Questo fece sì che la zona dell’Alto Duero diventasse la prima area vitivinicola geograficamente demarcata al mondo. Per delimitare questo territorio si piantarono lungo i suoi confini 201 termini di granito. Nel 1761 i termini diventarono 335. Queste colonne di pietra portano ancora il nome di «pombalinos» in onore al Marchese di Pombal, principale fautore delle riforme.

Proibì l’uso delle bacche di sambuco per dar colore ai vini e mise al bando l’uso dei concimi. La produzione del vino di Porto non era ancora stata perfezionata, nonostante fossero passati 50 anni dall’incontro con l’Abate di Lamego, la pratica di correggere il Porto con il brandy, non era ancora chiara, come non erano chiari i tempi di correzione e le quantità del distillato. Paradossalmente il vino dell’Abate era di qualità migliore, perché il distillato veniva aggiunto durante e non dopo la fermentazione, interrompendo così, o attenuando, il processo con una dolcezza naturale, che tanto aveva affascinato i due inglesi. La Companhia, che aveva pure il potere di controllare tutte le esportazioni, in cambio riceveva l’equivalente in oro. Il lungimirante marchese aveva fatto dividere i vini del Porto in due tipologie: il Ramo per l’uso interno e il Feitoria, per l’esportazione (da notare che esistono ben 48 varietà di uve impiegate per la produzione di questo vino, ciò che spiega anche perché ai giorni nostri le grandi variazioni di qualità e di carattere in una stessa tipologia). Verso la fine del XVII secolo, i mercanti inglesi incominciarono a far maturare i vini a Vila Nova de Gaia alla foce del Duero. I vini erano portati a valle a bordo di rozze imbarcazioni chiamate: barcos rabelos che sfidavano scogli e rapide lungo circa 75 km di percorso, per maturare poi nelle grandi pipe da 550 litri. Annuncio pubblicitario

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Ambiente e Benessere

I dodici comandamenti del cuoco Allan Bay Con l’amico Enzo Vizzari, profondissimo conoscitore del mondo della ristorazione, abbiamo tempo fa scritto un decalogo sul mestiere del cuoco oggi. In corso l’opera si è allungato e quindi è diventato un dodecalogo... Che oggi presento a voi. Attenzione, a inizio del 2014 vi avevo dato un mio dodecalogo ma pensato per noi che cuciniamo in casa tutti i giorni: questo riguarda invece i cuochi professionisti.

Sono consigli pensati per cuochi che operano in Italia, ma sono validi anche per svizzeri e per europei 1. Non dimenticare mai che un cuoco chef è un artigiano che alla fine dell’anno deve aver pagato tutti i collaboratori e garantito un dignitoso stipendio a se stesso. Non dimenticare mai che la cucina è un mestiere durissimo: più della miniera, oggi. 2. Studia, studia, studia, studia. Sui libri, anche sul web. E soprattutto visitando colleghi. 3. Ambiente e sala sono altrettanto importanti della cucina. Anzi, di più. 4. Non dimenticare mai com’è il pubblico che hai deciso di conquistare o che il destino ti ha dato. Devi essere più avanti di loro, ma di un passo: non di più, e soprattutto non di meno. 5. Compra sul mercato, ovvero i prodotti che i distributori ti offrono dove operi. Se vengono da pochi metri, ottimo. Se vengono dagli altri paesi del mondo, altrettanto ottimo. E prima di andare a dormire fa una piccola preghiera per i distributori: senza la loro competenza sarebbe molto più dura per te. 6. Non esistono prodotti nobili e prodotti plebei, la distinzione è fra prodotti dal giusto rapporto qualità/prezzo e gli altri.

7. Vini sì, ma dedica una grande attenzione alle altre bevande come birre, cocktail, tisane, anche acque. 8. Studia tutte le tecniche di cottura, con una positiva attenzione per quelle più nuove. Poi decidi, in funzione dei tuoi parametri, quale utilizzare. Nessuna tecnica è buona a prescindere, nessuna è cattiva. 9. Poni estrema attenzione alla sanificazione dei prodotti che usi: proporre pesce non sanificato tramite abbattimento o azoto è da banditi. Ed estrema attenzione alla pulizia di cucina e ambiente. 10. Conosci e rispetta gli ingredienti e le cucine degli altri: avrai badilate di spunti per arricchire i tuoi piatti. E non esitare mai a ibridare ingredienti e tecniche: mal che vada i clienti non li ordinano e dopo un po’ li togli dal menù. 11. Saper fare bene la linea, porta molta fortuna. Saper fare bene basi, fondi e salse, porta molta fortuna. 12. Ultimo e sommo: et sourtout pas trop de zèle. In italiano suona: e soprattutto mai troppo zelo, ma l’ha detto per primo un grande francese. Che ne pensate voi ticinesi? Il dodecalogo è stato pensato per il mondo della ristorazione italiano, ma credo che abbia valenza anche in Svizzera e anche altrove in Europa – mentre l’Estremo Oriente gioca in un altro campionato, là sono più avanti di noi: non mi fa piacere ammetterlo, ma così è. Il punto chiave per me è il 6. Una volta l’alta cucina utilizzava ingredienti cosiddetti nobili: astici, ostriche, filetti, fegato grasso e simili, mentre la cucina chiamiamola così «commerciale» si basava su ingredienti poco costosi. Oggi questa distinzione è saltata, anche grazie al fatto che bravi e grandi cuochi hanno incominciato a proporre piatti senza dubbio complessi, sempre alta cucina è, ma con ingredienti «umili» come patate, cipolle, acciughe e simili. Certo, comprando i migliori di questi umili, quindi un po’ più cari dei confratelli di tutti i giorni, ma sempre a buon prezzo.

Marka

Gastronomia Le regole fondamentali che servono ai professionisti per orientare il loro lavoro

CSF (come si fa)

Di Mastro Martino vi ho parlato più volte. Martino da Como, come viene erroneamente chiamato in Italia, invece è ticinese, di origine della valle di Blenio. È l’autore del più antico manoscritto scritto in italiano a noi pervenuto, il Libro de arte coquinaria. Il manoscritto data del 1460 circa. In grande sintesi, ha inventato la cucina italiana moderna, valida del tutto almeno fino all’Unità, ma anche dopo.

Vediamo come si fanno due semplici minestre: lo ho «tradotte» in italiano di oggi e attualizzate, ma poco. Minestra d’herbette, così la chiama, una specie di ribollita. Per 4 persone: 500 g di erbette, 250 g di spinaci, 1 mazzetto di prezzemolo, 1 mazzetto di menta, 200 g di pane raffermo, 1 cipolla, 1,5 litri di brodo vegetale, olio di oliva, sale e pepe. Sbollentate le erbe pochi istanti e passatele in acqua e ghiaccio. Scolatele e tritatele finemente con il prezzemolo mondato e tritato. Portate il brodo al bollore, gettate le erbe tritate e fate riprendere il bollore, poi spegnete. Il giorno dopo riportate al bollore la zuppa, unite il pane raffermo a pezzi e mescolate. Regolate di sale e di pepe. A fine cottura, aggiungete la menta tritata. Al momento di servire ricoprite la

superficie con anelli di cipolla e irrorate con 1 filo d’olio. Minestra di finocchi («finochi» li chiama). Per 4 persone: 800 g di finocchi, 100 g di pancetta dolce a cubetti, 1 mazzetto di prezzemolo, 1 grossa cipolla, 1,5 litri di brodo di carne, olio di oliva, sale e pepe. Lavate e mondate i finocchi, poi tagliateli a fettine sottili. Portate al bollore il brodo, gettate i finocchi e cuoceteli fino quasi a sfaldarsi. Regolate infine di sale. Nel frattempo, scaldate 4 cucchiai d’olio in un padellino e rosolate la pancetta con la cipolla tagliata ad anelli. Quando sono cotte aggiungete il prezzemolo tritato e regolate di sale e di pepe. Al momento di servire, distribuire sopra la zuppa di finocchi la pancetta con la cipolla e il loro fondo di cottura.

Ballando coi gusti Oggi due super semplici insalate basate su un ingrediente che da piccolo odiavo e che oggi amo: il cavolfiore.

Insalata di cavolfiore e olive

Insalata di cavolfiore e mandorle

Ingredienti per 4 persone: cavolfiore g 500 · olive nere denocciolate g 100 · 3 peperoncini dolci sottaceto · cetriolini sottaceto g 50 · 4 acciughe sott’olio · 1 cucchiaio di capperi sott’aceto · aceto · olio di oliva · sale e pepe.

Ingredienti per 4 persone: cavolfiore g 400 · mandorle a lamelle g 40 · aceto bal-

Mondate e riducete a cimette il cavolfiore, cuocetelo al vapore per 5’ o poco più, scolatelo e fatelo raffreddare. Private dei semi e del picciolo i peperoncini e tagliateli a piacere. Affettate i cetriolini. Scolate bene le acciughe dall’olio di governo. Sciacquate i capperi. In un’insalatiera mettete le cimette di cavolfiore e aggiungete le olive, i peperoncini, i cetriolini, le acciughe spezzettate e i capperi. Condite con olio e aceto, salate, pepate, mescolate e lasciate riposare l’insalata per 1 ora a temperatura ambiente prima di servirla.

samico · olio di oliva · sale e pepe.

Mondate il cavolfiore, ricavate le cimette, lavatele sotto l’acqua corrente, asciugatele bene e tagliatele a fettine. Fate saltare in un tegame antiaderente le lamelle di mandorle, per pochi minuti, a fuoco alto, mescolando. Mettete le cimette di cavolfiore in un’insalatiera, conditele con un’emulsione di aceto balsamico, sale, pepe e olio. Cospargete con le mandorle, mescolate, unite ancora aceto balsamico a gocce e servite.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 9 aprile 2018 • N. 15

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Ambiente e Benessere

Ginestre giallo oro

Mondoverde Ispiratrice di poeti, questa pianticella vanta svariati generi

Anita Negretti Con il nome generico di ginestra non si indica un solo genere di piante, bensì una tribù che comprende svariati generi, di cui i più noti sono quelli dei Cytisus e delle Geniste. Amante di terreni aridi, Genista lydia è un arbusto che arriva fino all’altezza di un metro. Ha rami arcuati con piccole foglioline verdi decidue ed è una piccola pianta originaria di Grecia, Turchia e Jugoslavia, dove cresce spontanea sulle rive sassose, assolate e spesso sferzate dal vento. Al momento della fioritura, che avviene tra aprile e maggio la Genista lydia si ammanta di fiorellini giallo intenso, che colpiscono immediatamente lo sguardo se piantata all’interno di aiuole o alla base di siepi miste. Molto apprezzata dalle api, non richiede cure particolari, se non una potatura decisa dopo la fioritura. Durante la quale si interviene tagliando con forbici ben affilate i rami fino a un quarto della loro lunghezza per evitare che diventino legnosi, assumendo poi un aspetto disordinato e poco fiorito. Dal portamento più compatto, Genista tinctoria «Royal Gold» raggiunge i 60 cm di altezza e il metro in larghezza. Le foglie verde scuro e caduche accompagnano i fiori gialli che si aprono ininterrottamente da aprile fino a metà agosto. Chiamata anche ginestra dei tintori, deve il suo nome al fatto che veniva utilizzata nel passato per creare delle tinte gialle da utilizzare sui tessuti e nei dipinti. Molto utilizzata in giardini rocciosi o per creare macchie di contrasti se abbinata ad altre essenze come lavanda o mirto, si adatta bene anche alla coltivazione in vaso. Tra le tante ginestre una delle più rustiche e semplici da coltivare è Cytisus scoparius o ginestra dei carbonai; messa a dimora in piena terra nel mese di marzo, predilige terreni calcarei e ben drenati per attecchire con

Vesuvio: Ginestre nella Valle dell’inferno. (Giuseppe Vernieri)

estrema facilità. Deve il suo nome sia all’uso fatto in passato dei suoi rami lunghi e resistenti, i quali uniti in fasci diventavano utili scope, sia all’estrema capacità di colonizzare le piazzole che i carbonai preparavano per accatastare il frutto del loro lavoro. Il fusto angoloso è color verde e cresce diritto, tendendo a divenire legnoso se non potato, le foglie piccole sono di un bel verde prato e i fiori gialli risplendono alla luce primaverile. In autunno i lun-

ghi legumi prodotti da questa ginestra si aprono con forza lanciando nell’aria i suoi semi. Le ginestre autoctone vengono da un punto di vista botanico classificate come piante pioniere, ovvero in grado di esplorare e preparare i terreni che hanno subito delle mutazioni, come incendi o frane, sminuzzando e ricostruendo il suolo per poi far spazio ad altre piante come i biancospini selvatici, i frassini o le querce.

Se desiderate una vera esplosione di colore, orientatevi sull’acquisto di Cytisus x praecox, un ibrido dalla fioritura spettacolare tutta concentrata nel mese di maggio, dove il metro e mezzo di altezza della pianta viene completamente ricoperto dai fiori. Accostate esemplari dai colori differenti, come Cytisus albidus dai fiori bianchi o leggermente rosati, mentre se volete dare una nota di cultura ai vostri vasi o al giardino ospi-

tate un esemplare di Spartium junceum, la ginestra comune, che con la sua semplicità unita allo splendore e alla forza della fioritura ha ammaliato molti amanti del giardino e poeti, divenendo la protagonista dell’opera leopardiana La Ginestra, composta nella primavera del 1836 durante una vacanza presso le pendici del Vesuvio, dove la terra nera del vulcano risplendeva del giallo oro di questa ginestra. Annuncio pubblicitario

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Così simili, così diversi

(N. 10 - ... anemoni di mare dai tentacoli urticanti)

Mondoanimale I serpenti hanno singole peculiarità secondo il genere, ma presentano anche alcune somiglianze 1

Maria Grazia Buletti Lo scorso anno, più o meno in questo periodo, faceva il giro della rete un video che ritraeva la cattura di una trota da parte di un serpente nei pressi del fiume Maggia. Le immagini mostravano il rettile mentre immobilizzava la sua preda e la trascinava a riva. Non era però evidente di quale rettile si trattasse e i media sottolineavano: «Non è chiaro se sia una natrice (ndr: biscia d’acqua) o una vipera». Una differenza sostanziale, visto che anche il profano dovrebbe sapere che la natrice è assolutamente innocua, mentre il morso della vipera è velenoso. Ma il profano non si lasci trarre in inganno dai luoghi comuni che indicano differenze e analogie nei serpenti: non è tutt’oro ciò che luccica, recita l’adagio, e spesso si può venir depistati da nozioni sì corrette, ma difficili da riconoscere e applicare alla vista di un serpente. Vipera o biscia d’acqua, dunque? «L’interpretazione non è sempre così evidente e, comunque, dobbiamo premettere una cosa molto importante: i serpenti sono una specie protetta ed è dunque proibito toccarli o molestarli. Quando ne avvistiamo uno la cosa migliore da fare sarebbe lasciarlo andare in pace per la sua strada, anche perché un serpente non attacca mai, anzi! Ci teme e perciò non si avvicina né ci minaccia in alcun modo. Si tratta di animali di un centinaio di grammi o poco più, che ci stanno alla larga proprio perché ci vivono come potenziali predatori. Se sono in acqua per spostarsi o cacciare, possono passarci accanto ma solo per raggiungere ad esempio la riva opposta». Così esordisce l’esperto e appassionato di rettili Grégoire Me-

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Cruciverba Risolvi il cruciverba e troverai il proverbio nascosto, leggendo nelle caselle evidenziate (Frase: 7, 6, 1, 5, 2, 5, 9)

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Regolamento per i concorsi a premi pubblicati su «Azione» e sul sito web www.azione.ch

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21 scura Una vipera con l’occhio scuro.23 (Grégoire Meier)

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ier al quale ci siamo rivolti per meglio Maggia hanno creato scompiglio percomprendere la faccenda di cronaca e ché mostravano proprio la vita delle soprattutto per imparare a differenzia- bisce d’acqua così come l’esperto ha re le vipere dai colubri. descritto: «In Valle Maggia nuotano «Quella che si vede nel video che lo nelle pozze dove si procurano il pesce scorso anno girava su internet è una na- che portano a riva per poterlo mangiatrice: 1una biscia re tranquillamente». 2 d’acqua 3 che4non è vele5 6 7Ma niente 8 panico 9 nosa». Con questa premessa, Meier ci e niente paura, ribadisce Meier: «Esse introduce nel mondo di questi serpen- non sono assolutamente pericolose o 11 per l’uomo, e in più la biscia ti: «La10natrice tassellata e la biscia dal velenose collare cacciano entrambe sia anfibi sia d’acqua è un serpente che non morsica, pesci,12 mentre la vipera non si comporta 13 nemmeno se dovesse essere molestato». così: se alcune vipere trovano una rana Il nostro interlocutore differenzia la napotrebbero mangiarla, ma non pescano trice dallo scorzon (in italiano: biacco): 14 attivo come fa la biscia d’ac15 in modo «Se lo si afferra, lo scorzon16 si difende qua». Quest’ultima si trova facilmen- morsicando in modo anche abbastanza te in Ticino, dalle rive del 18 Ceresio alle vigoroso, pur non essendo velenoso. Al 17 Bolle di Magadino, a Locarno e lungo contrario, ripeto: se calpestata, la natrii fiumi larghi come il fiume Ticino, da ce non morsica, e per difendersi mette 19 Biasca in direzione Bellinzona: «Le na- in atto un vero e proprio teatro in cui trici, tassellata o dal collare, possono prima si dibatte picchiando la testa viscaldarsi gorosamente contro la gamba, se non 20 al sole 21 sulle rive dei nostri laghi dove dormono, digeriscono il pasto funziona finge di essere morta. E allora e poi pescano tuffandosi per cercare il apre la bocca, fa tutta una mimica, met23 pesce22 e gli anfibi di cui si alimentano». te la pancia all’aria e riesce a volte addiI filmati amatoriali girati in Valle rittura a farsi scoppiare alcune venette

morte». Ribadendo il concetto di specie protetta, Meier consiglia di stare a distanza debita per non disturbare il 3 Valle serpente in caso di incontro: «In Maggia si sono avvistate anche alcune vipere in riva al fiume:8in ogni caso i serpenti non si conoscono perfettamente e le differenze note spesso possono trarre in inganno i meno intenditori: il consiglio è sempre quello di non toccarli assolutamente». Fra le 5 differenze che possono trarre in inganno, ci viene spiegato il cliché della testa 6 triangolare della vipera: «Innanzitutto non è la sola ad avere una testa triangolare: la natrice tassellata ne ha una di simile forma, anche se un occhio allenato ne 1Per questo è sa cogliere le differenze». facile confonderle e restare nel dubbio. 2 «Dobbiamo dire che quando si sentono minacciati dalla nostra presenza, molti serpenti si gonfiano per apparire più grossi, cercano di appiattirsi e allo-

(N. 11 - ... signi ca isola delle colline)

Ad ogni modo: «La vipera aspis è lunga circa 50-70 cm e l’occhio è gran4 8 3 6 9 de circa 4 mm. Dunque, se arriviamo a valutarlo significa che siamo già troppo 2 al serpente e questo 4 va contro 7 la vicini protezione di queste specie come pure 1 sicurezza». contro la loro7e la nostra Anche il colore del manto può dare adito a malintesi: «La gente vede la vipera grigia o marroncina, con disegni neri. Anche la natrice tassellata ha i tasselli neri e un 7colore 3 molto simile alla vipera e, infine, quella dal collare, se non si vede la testa col tipico 2 collarino, ha disegni e colorazione pure simili sempre alla nostra vipera». 4 Nel5dubbio: bisogna 3lasciarle in pace e mai toccarle perché comunque 8 4 Non 7 mettiamai ci 9 attaccherebbero! moci a fare gli erpetologi e lasciamo andare il serpente per la sua strada: «Esso non attacca assolutamente e siamo noi ad aggredirlo avvicinandoci troppo e 8 disturbandolo».

S F I N G E N O I F I L N. E 10TMEDIOC A R I R A D I S O D E O L A D E L I L N E C O L O R A R T T O T E M A V O L I B T I N O N I 9 C Giochi E per “Azione” -O Marzo N 2018 O M A Vinci una delle 3 carte regalo da 50 franchi con il cruciverba

1 7 Stefania Sargentini 5 e una delle 2 carte regalo da 50 franchi con il sudoku (N. 12 - Nessuna strada è lunga in buona compagnia)8 4 (N. 9 - ... arabo senza deserto è il Libano)

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ORIZZONTALI 1. Legame logico 5. Sepolcro in poesia 9. È andato ... fuori uso 10. Rivela ostacoli invisibili 12. Le iniziali di Torricelli 13. Le iniziali dell’attore Argentero 14. Persona responsabile 15. La tredicesima ora 16. Confina col Ciad 17. Nobilitano lo spirito 18. È tutto... per il depresso 19. Il suo simbolo è «ha» 21. Villano, grossolano 23. Fiume europeo 24. Ingredienti di molti dolci 25. Un attributo di Dio 28. Col 18 orizzontale... è petrolio 29. Addolcisce la prima luna... 30. Due in posa 31. Simbolo chimico del sodio 32. Situato lungo le autostrade 33. È fortemente alcolico 34. Tranquillo, pacifico 35. Lo sono molti visi VERTICALI 1. Venerato dagli antichi egiziani 2. L’avanzata dei vecchietti... 3. Le iniziali dell’attore Orlando

A N E M I C ra O anche i colubri che hanno una testa SUDOKU PERpiùAZ rotondeggiante la fanno apparire N I D I A triangolare M di come sono in realtà». Vigono anche altre regole che, N. 9 FACILE dopo le spiegazioni dell’esperto, risulT E O A R tanoAessere discutibili e per nulla gaSchema ranti di quanto crediamo: «La vipera E T U D I ha R una pupilla verticale (come i gatti), 5 4che non sono velenosi, mentre i2 colubri, ce l’hanno più siccome R A N D E M rotonda. I TPerò, E nel serpente la pupilla si dilata al buio 7 5 e si stringe alla luce proprio come noi, I C O N A TviperaAin piena L ombra C potrebbe O 4 una 9 2 6 presentare una pupilla meno verticale O T R I 2 8L e viceversa». I NSe poi Ocerchiamo Lcapire di 1 serpente che forma ha la pupilla di un la cosa complica, R U T R 3I con Tl’occhio I scuro, Csi9muta Odove 8 nel 5 2della così come periodo in bocca in modo che la fuoriuscita del l’occhio si opacizza e la pupilla non è E renda piùAverosimile N A8 I sangue visibile. 4 laT fintaR più9O

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Sudoku ANR AE L S D O SN. BO O SDIFFICILE E U R N A 11 N I N O Soluzione: T E iS3 Scoprire numeri corretti R I R da inserire nelle O R A L caselle colorate.

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I premi, cinque carte regalo Migros del valore di 50 franchi, saranno sorteggiati tra i partecipanti che avranno fatto pervenire la soluzione corretta entro il venerdì seguente la pubblicazione del gioco.

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4. Stato degli USA 5. Verbo derivante da un senso... 6. Atollo delle Maldive... nella rata 7. Due in centro 8. Antica unità di misura per cereali 11. Custodite dalle Vestali 12. Prima della fine di... 14. Stato dell’Asia Occidentale 15. Pianeta del sistema solare 16. C’è anche quello ottico 17. Capitale europea 18. Una parente 20. Il suono del campanello 21. Mite, accondiscendente 22. Infiammazione auricolare 26. Le colpisce la legge 27. Esistono anche gelati...

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I T O R5 L A S9 E6 O N I G N E R O B U R I N U O V A3 A N E2 M4 I C O N7OI5 DR I O A M M T4 E O9 A R 2A 6 E8NT AU D I M 1R O 1 R3 A8 N5 D 2 E 9 M I O M IT ATL I C O N A 9

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Z A R P D 12 13 14 15 A I E P O I 16 17 18 15 T O S U R F 19 20 ` E` C E R T I 17 21 L I T E C 22 23 L I N O B A 19 20 24 25 26 A S S P O T 27 SUDOKU PER AZIONE - MARZO 2018 S O R I A N O 23 N. 9 FACILE (N. 10 - ... anemoni di mare dai tentacoli urticanti) Schema Soluzione 26 27 1

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D A6 R E` I A U N R2 A4R T E T T A R O R E 7N O 3 T R 5 I 98 N O C 6 8 2 24 7 6 3 91 7 5 3 6P 9 O 4 8 I E 2 L1 E 1 3 8 4 7 9 1 5 2 6 T E 9 L2 8 4 G7 3I 6 N1 5 5 8 4 6 T E 1 7 3 6 8 5 2 9 4 E O V A L I C O A R4 E1

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O T R4 I 8 3 L 6 I 9N O L 7 5 2 1 4 8 3 6 9 23 24 25 29. Parola francese R U T R I T I C O 2 4 7 precedente 6 3 1 2 5 9 4 8 7 26 27 30. Valore di beni e servizi prodotti da un 3 Soluzione della settimana E A N T R O A I 8 7 DI1PIÙ – Manhattan… Resto della 8 frase: 4 9 3 6 7 1 5 2 Paese (sigla) PER SAPERNE 32. Pronome personale …SIGNIFICA ISOLA DELLE COLLINE. (N. 11 - ... signi ca isola delle colline) N. 10 MEDIO 33. Le iniziali del politico Alemanno 1 2 3 4 5 6 7 8 9 5 S F 7 4 5 8 2 7 3 1 6 9 I N3 G E N O I A

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I vincitori 15

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Vincitori 18 del concorso Cruciverba su «Azione 13», del 26.03.2018 19

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A.21Fontana, F. Reverdito, D. Vallarino

Vincitori del concorso Sudoku 23 su «Azione 13», del 26.03.2018 S. Gangemi, P. Peccoz

F R O 2 N T A T 4 E 6

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I L E 4 D 5 I A L A9 8 E C T O V O L9 1 I N O7 C O N

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A R I E S3 O D E R 3 D4 E7 L I L E O L O R4A R E T8 E M I B7 N I 1 O3 M A1

N. 11 compagnia) DIFFICILE (N. 12 - Nessuna strada è lunga in buona luzione, corredata da nome, cognome, 1 2 3 4 5 6 7 8 N E S 6email S O del partecipante U R N A deve S soluzione del cruciverba o del sudoku 5 indirizzo,

Partecipazione online: inserire la

9 10 11 12 nell’apposito formulario pubblicato `9 6 13 14 del sito. 15 sulla pagina 16 Partecipazione postale:17la lettera o la cartolina postale19che20 riporti la so18

4 essere I T spedita O R a A«Redazione D 2A R 9Azione, E` T Concorsi, C.P. 6315, 6901 Lugano». L1 A2 S 4E R I A U N A Non intratterrà O si N I G E corrispondenza R 3 7A R T suiI concorsi. Le vie legali sono escluse. Non N E R O 7

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è possibile un pagamento in contanti 2 5 8 1 6 9 7 3 4 dei premi. I vincitori saranno avvertiti 9 16 Il 4 nome 8 6 7 3 4 5 2sarà1 per iscritto. dei vincitori pubblicato su «Azione». Partecipazione 7 3 1 2 5 4 6 9 8 riservata a lettori che 5 5 2esclusivamente 6 3 9 1 4 8 7 risiedono in Svizzera. 4

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Solo le mamme sanno cosa significa partorire. Fatta eccezione per i maschi di cavalluccio marino. Le femmine depongono infatti le uova in un apposito marsupio dei maschi che provvedono a fecondarle, nutrirle e covarle. Dopo circa dodici giorni, sono loro che danno alla luce i piccoli, passando attraverso le doglie del parto. Per altre meraviglie: mari.wwf.ch

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 9 aprile 2018 • N. 15

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Politica e Economia Guerra Usa-Cina Che cosa c’è dietro le misure punitive annunciate da Trump nei confronti di Pechino e che ruolo ha l’Europa, in particolare la Germania? pagina 18

Morti nel giorno della protesta La prima tappa della Grande Marcia del Ritorno indetta dai palestinesi per rivendicare il diritto dei rifugiati a rientrare nelle case di famiglia perse dal 1948 si chiude con un bagno di sangue lungo il confine di Gaza

Concorrenza fiscale sì o no L’uso della leva fiscale può portare vantaggi, ma si può anche abusarne

I Cantoni sorridono Complessivamente nel 2017 i conti cantonali sono andati meglio del previsto

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Il destino di Macron si giocherà in casa nei prossimi sei mesi. (AFP)

Ce la farà Macron?

Francia in rivolta Il presidente dovrà prossimamente fare delle scelte che lo porteranno a rompere l’equilibrio

fra protezione sociale e rilancio delle imprese attraverso un alleggerimento fiscale, fra neoliberismo e neostatalismo Lucio Caracciolo Nei prossimi sei mesi Emmanuel Macron si gioca tutto. Entrando all’Eliseo sull’onda di una vittoria fulminante ma limitata nel consenso – solo un votante su quattro si era espresso per lui al primo turno delle presidenziali, mentre l’impresentabilità della sua avversaria Marine Le Pen rendeva scontato il trionfo al ballottaggio – il giovane ex banchiere d’affari ha promesso una «rivoluzione». Titolo del suo libro, uscito nel 2016, con il quale si presentava a un pubblico che in grandissima maggioranza non aveva idea di chi fosse quell’ambizioso giovanotto. Emblema della tecnocrazia con una verniciatura di sinistra liberale, ma con la vocazione a collocarsi al di sopra delle parti. D’altronde, Macron ama paragonarsi a Giove. E adora i simbolismi della carica, che fanno del presidente della Repubblica francese un re di fatto, con l’unica clausola di non disporre, per ora, di legittimazione dinastica. I suoi primi passi sulla scena internazionale sono stati al pari di tanta autoconsiderazione. Così ha accolto

Putin alla reggia di Versailles, infliggendogli una lezione sui diritti di libertà non troppo gradita. Ha voluto Trump accanto a sé il 14 luglio, mentre le sue truppe sfilavano giù per i Campi Elisi, impressionando l’ospite americano al punto da spingerlo a ordinare per il prossimo 4 luglio, festa nazionale americana, un’analoga parata sul Mall di Washington (pare che i militari e il Congresso vi si oppongano, considerandola un-American). Infine ha subito spiegato alla cancelliera Merkel che è sua intenzione «rifondare l’Europa», anche se non è ben chiaro come – la signora non è parsa entusiasta, vista anche la pressione interna della CSU bavarese e quella esterna di Alternativa per la Germania e Linke, non proprio euroentusiaste. Non contento, Macron si è concesso in questi primi mesi vertici con tutti gli altri leader mondiali, dal cinese Xi Jinping (non un successo) all’indiano Modi (piuttosto caloroso e fattivo). Ma il destino di Macron si gioca in casa. Questo presidente ha vinto perché ha messo fuori gioco la vecchia classe politica, ha sbaragliato e scompaginato i partiti classici, ha aperto le porte della

politica a una giovane o meno giovane pletora di «uomini nuovi», alcuni privi di esperienza ma mai di ambizione, accorsi sulle barricate della sua «rivoluzione». Ha introdotto una retorica fiammeggiante e altisonante, con il bemolle dei ricorrenti «allo stesso tempo», quasi un intercalare istintivo con il quale ama soppesare e bilanciare le sue affermazioni, caso mai qualcuno tentasse di schiacciarlo troppo a destra o a sinistra. Ha fatto fuori in un batter di ciglia il capo di Stato maggiore delle Forze armate, generale Pierre de Villiers, ovvero il rappresentante più autorevole di un’istituzione amatissima dai francesi – oltre che uno dei capi della franco-massoneria, potere piuttosto pervasivo nei dintorni della Senna. E ha come d’abitudine caricato sulle spalle del primo ministro Edouard Philippe il compito di esporsi nelle battaglie di riforma che sta cominciando ad avviare. E su cui si gioca il futuro, compresa la sua eventuale rielezione per un secondo quinquennato. Battezzato dai suoi avversari «presidente dei ricchi», Macron sta dando un’impronta neoliberista, e allo stesso

tempo neostatalista, a tali riforme. Del primo approccio è buon esempio lo scontro con i ferrovieri, categoria potente e fortemente sindacalizzata, che potrebbe sfociare in una privatizzazione o quanto meno nel ridimensionamento del ruolo politico e sociale dei sindacati, accusati di restare affezionati a vecchi schemi che frenano l’efficienza e la produttività del lavoro. La mobilitazione degli cheminots è stata immediata e rabbiosa. Ma il governo non sembra lasciarsi intimidire. È solo un caso, fra molti, di quella che sarà una primaveraestate molto calda, con lavoratori e classi sociali svantaggiate mobilitate contro il liberismo vero o presunto di Macron. Sul fronte statalista, due casi spiccano sugli altri. Macron vuole accelerare il processo di riaccentramento dei poteri pubblici, già avviato dai suoi due predecessori dopo la stagione dei regionalismi e dei localismi. Con ciò attirandosi le antipatie di presidenti di regione e sindaci, lobby piuttosto influente e combattiva. Insieme, il governo sta preparando provvedimenti restrittivi per proteggere i campioni nazionali dell’industria e dei servizi contro even-

tuali o effettivi assalti stranieri. È il caso di L’Oréal, sul quale non è chiaro quale sia l’atteggiamento di Nestlé, il gruppo svizzero che potrebbe mettere in vendita, non si sa bene a chi, il suo pacchetto azionario del 23%. Simile il caso di Danone, nel mirino di Pepsi e Coca-Cola. Più strategici gli esempi che riguardano le telecomunicazioni, le nanotecnologie, l’industria militare, i cantieri, l’acqua, l’energia e le banche. Il governo sta preparando una lista delle imprese intoccabili, in quanto strutturali per la sicurezza e il benessere nazionale. Soprattutto, su questi diversi fronti la retorica di «allo stesso tempo» non può reggere all’infinito. Macron dovrà scegliere dove far cadere l’accento, rompendo l’equilibrio fra protezione sociale – è il caso degli alloggi per i ceti meno agiati – e rilancio delle imprese attraverso un alleggerimento del regime fiscale. Il tutto restando nel quadro, peraltro lasco, dei vincoli europei. E sotto lo sguardo vigile della Germania e dei suoi alleati del Nord, Paesi Bassi in testa, fondamentalmente diffidenti e comunque indisponibili a pagare per un paese sovraindebitato come «Krankreich».


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 9 aprile 2018 • N. 15

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Politica e Economia

Dazi e controdazi

Fra i libri di Paolo A. Dossena

Guerra Usa-Cina Xi vuole mobilitare tutte le resistenze e i dissensi interni agli Usa e colpire

il partito repubblicano nelle sue constituency, mentre Trump vuole concessioni dai cinesi Federico Rampini Il presidente degli Stati Uniti è tentato dal raddoppio nella partita dei dazi, o almeno così vuol far credere ai cinesi. Il mondo scivola verso una guerra commerciale vera e propria, con le due superpotenze che si sferrano colpo su colpo e due leader impegnati in un braccio di ferro impressionante. In un colpo solo Trump la sera del 5 aprile ha annunciato altre tasse punitive, due volte più ampie di quelle messe a punto solo una settimana prima. Xi Jinping fa un calcolo razionale, in apparenza ineccepibile: negli Stati Uniti si avvicinano le elezioni legislative di mid-term, a novembre i repubblicani rischiano di perdere la maggioranza almeno in uno dei due rami del Congresso (più probabile la Camera), di conseguenza le voci che all’interno degli Stati Uniti si oppongono al protezionismo potrebbero piegare la Casa Bianca. Ma in questo duello politico, Trump può riuscire a sorprendere i cinesi proprio per la sua mancanza di razionalità. Il presidente è un outsider, un alieno con una storia tutta extra-politica, il partito repubblicano lo ha subito, non lo ha espresso. In un certo senso Trump è più simile a Xi Jinping di quanto il leader cinese possa immaginare. L’ego, la necessità di non perdere la faccia, tipica degli autocrati, guida Trump più dell’aritmetica dei sondaggi nelle circoscrizioni elettorali. Dunque in quest’ultima mossa è Trump che rovescia il tavolo da gioco, pur di andare a vedere il bluff cinese. Perché una cosa gli è chiara: la Cina ha più da perdere degli Stati Uniti. Tutto era cominciato con delle punture di spillo (così appaiono in retrospettiva i primi dazi decisi all’inizio dell’anno sui pannelli solari e l’acciaio) ora siamo alle cannonate. Con l’ultimo annuncio della Casa Bianca che riguarda altri dazi su 100 miliardi di importazioni, per ora solo una minaccia, la portata complessiva delle misure punitive annunciate da Trump andrebbe a colpire un totale di 150 miliardi di dollari che equivale a quasi un terzo di tutte le importazioni dalla Cina (505 miliardi il totale nel 2017).

Trump potrebbe dimostrare che questa Cina è una tigre di carta, vulnerabile se improvvisamente le si chiudono gli sbocchi sui mercati esteri È incomprensibile l’assenza dell’Unione europea da una partita in cui si gioca il futuro della globalizzazione. Va ricordato che nel merito Trump ha sacrosante ragioni: sia quando denuncia la mancanza di reciprocità (resa evidente dai giganteschi attivi commerciali accumulati dalla Cina, ma anche dai dazi cinesi che erano in partenza ben più alti di quelli americani o europei), sia quando accusa Pechino di furto sistematico di proprietà intellettuale. Sul metodo adottato da Trump si può opinare, ma è evidente che anche su questo terreno lui si muove come un attore non tradizionale, imprevedibile, antipolitico. Usa il bluff e la provocazione, ma può arrivare a dimostrare che questa Cina è una tigre di carta, vulnerabile se improvvisamente le si chiudono gli sbocchi sui mercati esteri. Il fronte della guerra commerciale è alla terza ondata di misure protezioniste dall’inizio dell’anno. La prima colpì la Cina coi dazi sui pannelli solari, la seconda fu mirata contro le esporta-

Davanti a un supermarket cinese che vende prodotti esteri a Qingdao, provincia di Shandong. (AFP)

zioni di acciaio e alluminio, la terza colpirà con una tassa doganale pari al 25% un ampio ventaglio di settori del made in China per un valore di oltre 50 miliardi di importazioni all’anno. Nel mirino ci sono 1.300 categorie di prodotti cinesi, molti dei quali hi-tech in settori come i semi-conduttori, le telecom, l’aerospaziale. L’America studia con allarme crescente il cosiddetto «obiettivo 2025», un piano con cui Xi Jinping aspira alla leadership mondiale in molte tecnologie avanzate. Nel frattempo la Cina reagisce colpo su colpo. E questo ha già mobilitato un ampio fronte di lobby americane, contrarie al protezionismo del presidente: dagli agricoltori alle multinazionali come General Electric e Boeing, alla finanza di Wall Street. Se si eccettuano gli agricoltori (categoria compatta nel volere frontiere aperte), il protezionismo scava un fossato sociale tra due constituency: da una parte c’è la classe operaia dell’industria tradizionale dove Trump ha uno zoccolo duro di elettori che vogliono essere difesi dalla concorrenza cinese; dall’altra c’è un establishment capitalistico che si è accodato tardivamente a questo presidente (avrebbe preferito Hillary Clinton) e si era illuso di condizionarlo. La posizione degli agricoltori è più complicata: molti di loro hanno votato Trump, ma l’agricoltura è sempre vulnerabile alle ritorsioni perché è uno dei pochi settori dove gli Stati Uniti sono eternamente in attivo, esportano molto più di quanto importano. Proprio come la Cina nel manifatturiero. Anche il mondo industriale ha qualche contraddizione al suo interno. Apple fa assemblare gran parte dei suoi prodotti in Cina e in quel Paese riesce anche a vendere bene: quindi teme di essere due volte vittima se continua e si estende la guerra commerciale, può finire con l’essere colpita sia sui prodotti che fabbrica a Shenzhen e reimporta negli Stati Uniti, e forse anche su ciò che vende in Cina. Ma nella stessa Silicon Valley, due giganti digitali come Google e Facebook sono invece tagliati fuori dal mercato cinese, due esempi tipici del trattamento discriminatorio che Pechino infligge agli occidentali. La prossima interferenza in una campagna elettorale americana non sarà di Vladimir Putin ma di Xi Jinping. E il presidente cinese non agirà di nascosto, appoggiandosi su hacker, manipolando fake-news su Facebook, o avvalendosi di complici come Wiki-

Leaks. Da Pechino le ingerenze sono già annunciate ufficialmente e avvengono alla luce del sole. I dazi cinesi sono mirati con precisione chirurgica, per colpire il partito di Trump alle prossime elezioni legislative di mid-term (novembre), circoscrizione per circoscrizione. À la guerre comme à la guerre. Nel gioco delle rappresaglie i cinesi hanno molto da perdere e Trump lo sa. La loro fragilità è racchiusa in uno squilibrio cinque a uno: tanto è il rapporto tra le esportazioni cinesi in America e il loro reciproco. In una situazione così sbilanciata, e con i dazi cinesi che già partono da livelli molto più alti (anche il decuplo: un’auto americana è tassata al 25% in Cina, un’auto cinese al 2,5% in America), la capacità di rappresaglia è limitata. Il 2 aprile era stata Washington ad aprire il fuoco pubblicando la lista completa dei 1.300 prodotti made in China su cui verranno applicati (ma non si sa quando) i nuovi dazi del 25%. Quello che è interessante della lista è la sua ampiezza, nonché il fatto che vi abbondano prodotti ad alto valore aggiunto, tecnologicamente avanzati: è lì che si gioca la nuova sfida, non sui settori maturi come tessile-abbigliamento o calzature. Trump però vuole usare questo annuncio per indurre Xi a fargli delle concessioni, non a caso resta vaga la data di applicazione, e il 15 maggio la Casa Bianca vuole consultare diversi settori dell’economia americana (tra cui saranno ben rappresentati coloro che si oppongono al protezionismo). C’è tanta agricoltura tra i bersagli della rappresaglia cinese. Da un lato è un’ovvietà perché il settore agricolo americano è uno dei principali esportatori in Cina (soia, cereali, carne suina, ortofrutta), d’altro lato colpirlo è anche un modo per infliggere il massimo danno politico al partito repubblicano. Dall’Iowa all’Indiana i repubblicani hanno fatto il pieno di voti nel 2016 e a novembre di quest’anno potrebbero essere penalizzati. Trump reagisce con un’alzata di spalle. «Guerra commerciale? Quella è avvenuta anni fa e l’ha vinta la Cina. Noi non abbiamo più nulla da perdere!» In una situazione così asimmetrica il protezionismo non è affatto quella «guerra dove perdono tutti»: uno dei due ha molto più da perdere. Né vale il mito ricorrente sulla possibile ritorsione cinese sul fronte finanziario, cioè uno stop agli acquisti

di Buoni del Tesoro americani. Questo tema che affascina la fantasia popolare – e riempie di commenti dei lettori il mio blog – è in realtà privo di ogni fondamento. Un paese che accumula avanzi commerciali stratosferici come la Cina non ha scelta: è costretto a riciclarli investendo in titoli esteri, e i Treasury Bond sono i più sicuri, i più liquidi. Non comprarli farebbe più male alla Cina che agli Stati Uniti (i quali peraltro sono meno dipendenti di quanto voglia la leggenda: il primo investitore in Treasury Bond è la Federal Reserve, il secondo è il Giappone). Dove semmai la Cina ha un suo vantaggio nei rapporti di forze è nell’altra asimmetria che riguarda i sistemi politici. In una liberaldemocrazia come gli Stati Uniti, le voci contrarie al protezionismo pesano nel dibattito politico, possono influenzare il Congresso e in parte anche la Casa Bianca. Un regime autoritario come quello cinese può sopportare danni economici in silenzio, senza che i danneggiati abbiano facoltà di intervenire. Inoltre nella logica di un autocrate come Xi è sempre complicato perdere la faccia. C’è una debolezza «culturale» dell’Amministrazione Usa, già evidente nella prima versione dei dazi sull’acciaio: l’incapacità di progettare una strategia delle alleanze. La Cina bara al gioco e le sue vittime non sono solo in America. Logica vorrebbe che a imporre un patto più equo sia un asse Usa-Ue. Washington non sta facendo quasi nulla per evidenziare la convergenza d’interessi e costruire questo genere di fronte unito. Questo chiama in causa gli europei, però. Anch’essi prigionieri di ambiguità e contraddizioni interne. La madre di tutte le contraddizioni si chiama Germania: la Cina d’Occidente. La Germania da decenni ha un comportamento mercantilista molto simile a quello cinese. Accumula attivi commerciali e così facendo deprime la crescita altrui. Certo non lo fa barando al gioco come la Cina, però si trova in una posizione delicata e non a caso molto spesso ha scelto una linea filo-cinese negli scontri sul commercio globale. L’assenza dell’Europa da questa partita è colpa in parte di Trump, in parte degli europei stessi. Che pagheranno le conseguenze, se le regole del gioco globali non vengono rinegoziate in modo più equo e più reciproco, limitando i privilegi anacronistici che vennero offerti alla Cina quando entrò nel Wto 17 anni fa.

SERGIO ROMANO Trump e la fine dell’American Dream, Longanesi, 2017 Sintesi, concetti chiave e previsioni di politica internazionale che regolarmente si verificano. Ecco cosa aspettarsi da Sergio Romano: un’analisi fredda e lucida del fenomeno Trump, che potrebbe concludersi non con un impeachment, bensì con «la possibilità di una guerra civile». Donald Trump fa parte della «famiglia americana», che è storicamente divisa in due anime: «Esistono due Americhe, di cui una liberale, aperta ai nuovi diritti, internazionalista, ambiziosa e imperiale; e l’altra sovranista, protezionista, tendenzialmente isolazionista. Queste due Americhe sono sempre esistite. Ma l’elezione di Trump ha allargato il fossato che le separa e creato nuove animosità». Una guerra civile incruenta fra destra e sinistra si combatte negli Stati Uniti ormai da qualche decennio, quindi una vittoria della impopolare, se non detestata (anche in campo liberale) Hillary Clinton avrebbe potuto avere le stesse potenziali conseguenze del divisivo narcisista Donald Trump. Il fatto è che «il Paese è alla fine di una fase quasi trentennale durante la quale è stato la maggior potenza mondiale; e di questo status ha fatto un uso alquanto discutibile... Prevalse la tesi di un gruppo di “neoconservatori”, molto influenti nella cerchia di George W. Bush, che voleva “rifare” il Medio Oriente a vantaggio di Israele e inaugurare una fase storica in cui gli Stati Uniti avrebbero dominato la scena internazionale senza concorrenti e contrappesi». Il successore di George W. Bush, Barack Obama, fece del suo meglio per riportare a casa le truppe da Iraq e Afghanistan, dove la precedente amministrazione aveva impantanato una generazione di americani in conflitti insolubili. Così «fu sempre più evidente che l’America non era più in grado di fare fronte alle responsabilità di una potenza imperiale». Obama è sconfitto dall’isolazionista Trump, «destinato a proseguire questa tendenza al disimpegno che è un altro aspetto di tutti i declini imperiali. Ma sarà un disimpegno interrotto da atti di forza ogni qualvolta Trump penserà che l’uso del “grosso bastone” possa dimostrare agli americani che il suo stile è il contrario di quello di Obama». Che conclusioni trarre da tutto questo? La domanda di Sergio Romano è per noi europei: «È ancora utile affidare la propria sicurezza a un consorzio militare in cui il principale socio è, dallo scorso novembre, un personaggio contraddittorio, stravagante e imprevedibile?». La risposta è che la Nato è superata se non pericolosa: «Qual è oggi la funzione strategica dell’Alleanza? Qual è il suo nemico se non lo Stato che l’America decide di considerare tale per meglio coltivare i propri interessi? Qual è la sua missione se non quella che Trump considera in quel momento necessaria per dare significato alla sua presidenza? Con la Nato l’Europa sarebbe inevitabilmente infeudata agli Stati Uniti. Senza la Nato sarebbe libera di organizzare la propria difesa con le forze di cui dispone e con criteri conformi ai suoi interessi». Occorre inoltre guardarsi da ciò che Dwight D. Eisenhower (presidente Usa dal 1953) definì con preoccupazione un «complesso militareindustriale, una concentrazione di interessi che ha un’influenza determinante sulla politica americana». Un’analisi condivisibile, che troverebbe il plauso di Angela Merkel, che ha detto: «È tempo che gli europei prendano in mano il loro destino».


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Politica e Economia

È guerra fra Israele e Gaza

Medio Oriente La 1. tappa della Marcia del ritorno, indetta dai palestinesi per rivendicare il diritto dei discendenti

dei rifugiati a rientrare nelle case di famiglia perdute dal 1948 ad oggi, si chiude con un bilancio di sangue

Marcella Emiliani Non finirà presto e non finirà bene. I palestinesi l’hanno chiamata la Grande Marcia del Ritorno, ma rischia di trasformarsi nell’ennesimo bagno di sangue a loro danno. Se ne è già avuta una tragica anteprima il 30 marzo scorso, il «venerdì nero» quando l’esercito israeliano ha lasciato sul terreno 16 morti e più di 1400 feriti sparando proiettili di gomma e munizioni vere. Da allora le vittime sono salite a 18 e il loro numero è destinato ad aumentare. D’altronde le autorità israeliane avevano avvisato le organizzazioni palestinesi di tenere i manifestanti lontani dai confini tra Israele e i Territori occupati e di non consentire loro di superare i 300 metri fatidici di profondità che portano ai reticolati o ai fossati di divisione. Parole al vento. Anche se hanno usato solo bottiglie molotov, sassi e fionde di biblica memoria, i giovani palestinesi hanno comunque preso di mira i militari di Israele in cinque punti diversi del confine tra la Striscia di Gaza e Israele e le Idf (le Forze di difesa israeliane) hanno risposto aprendo il fuoco, come promesso . Gli scambi più violenti si sono verificati ad est di Gaza City, di Bei Hanoun, dei campi profughi di Bureij e Khan Younis e di Rafah, il punto di transito verso l’Egitto. Sebbene con intensità minore scontri sono avvenuti anche in Cisgiordania, a Ramallah e a Hebron, e sia a Gaza che in Cisgiordania l’esercito israeliano ha fatto uso per la prima volta di droni lancia-lacrimogeni che hanno fatto letteralmente piovere sui manifestanti liquidi irritanti. L’aviazione vera e propria, invece, è scesa in campo, sempre il 30 marzo, nella Striscia di Gaza colpendo tre «postazioni armate» di Hamas mentre l’esercito ha ucciso gli unici due palestinesi che, ancora a Gaza, hanno sparato verso i militari; militari che, da allora, non hanno ancora restituito i corpi dei defunti ai famigliari. Di fronte ad un clima tanto conflittuale va notato che il presidente dell’Autorità nazionale palestinese (Anp) Abu Mazen non ha fatto commenti e si è limitato a proclamare il 31 marzo giorno di lutto nazionale. Dal canto loro l’Onu e l’Unione europea hanno provato a chiedere la creazione di una commissione d’inchiesta indipendente che facesse luce sull’accaduto, ma il ministro della Difesa israeliano Avigdor Lieberman ha rifiutato in maniera piuttosto seccata, chiarendo che la Striscia di Gaza, epicentro delle manifestazioni di protesta, dal 2005 è praticamente indipendente essendo stata restituita unilateralmente da Israele ai palestinesi e quanto vi si sta organizzando si prefigura come un tentativo di invasione di Israele da parte di una folla ostile di 30’000 manifestanti. Non bastasse, Lieberman ha anche sottolineato che Hamas sta strumentalizzando la popolazione della Striscia mandandola coscientemente al macello.

Dopo la dichiarazione del principe saudita bin Salman, la solidarietà dei «fratelli arabi» con i palestinesi appare sempre più affievolita e fra gli stessi palestinesi non corre buon sangue Chi ha torto, chi ha ragione? Arrivati a questo punto, la domanda è solo retorica. Come ormai sappiamo da 70 anni a questa parte, tra israeliani e palestinesi si combatte una guerra totalmen-

I manifestanti palestinesi lanciano pietre e bombe Molotov e danno fuoco a pneumatici lungo il confine di Gaza. (AFP)

te asimmetrica che le armi fino a oggi non sono riuscite a risolvere. Servirebbe la politica, quella di alto profilo, che purtroppo attualmente scarseggia a livello planetario e soprattutto in Medio Oriente. Riesaminiamo allora le ragioni degli uni e degli altri, partendo da un interrogativo meno ontologico, ovvero: perché la Grande Marcia del Ritorno è stata organizzata proprio ora e quali fini si prefigge di raggiungere? La Higher National Commission for the March of Return and Breaking the Siege, che ha concepito e orchestrato la Marcia del Ritorno, è composta da Hamas, Jihad islamico, Fronte popolare di liberazione della Palestina, forti soprattutto nella Striscia di Gaza da cui fanno regolarmente partire razzi contro Israele, ma anche da al-Fatah, principale formazione politica dell’Autorità nazionale palestinese (Anp) in Cisgiordania nonché partito del presidente dell’Anp, Abu Mazen. A queste vanno aggiunte rappresentanze degli arabi israeliani (ovvero dei palestinesi con cittadinanza israeliana) e organizzazioni palestinesi della diaspora. Scopo della Marcia infatti sarebbe di estendere la protesta anche in Libano, Siria e Giordania, cioè nei paesi arabi che ospitano i campi profughi più affollati. Il culmine delle manifestazioni dovrebbe essere raggiunto il 15 maggio, settantesimo anniversario della Dichiarazione di indipendenza dello Stato di Israele nonché della nakba ovvero la catastrofe. I palestinesi chiamano così la sconfitta subìta dagli Stati arabi e dai palestinesi stessi nella guerra del 1948-’49 che fece seguito

immediato alla dichiarazione di indipendenza di Israele nella notte tra il 14 e il 15 maggio 1948 quando gli eserciti arabi invasero quella che allora come oggi definiscono «l’entità sionista». Dal 1948 molti dei palestinesi fuggiti di fronte al conflitto non hanno più potuto far ritorno alle proprie case e – di guerra in guerra – a ben poco è contata la risoluzione n. 194 dell’Onu il cui articolo 11, già nel 1948, sanciva il diritto al ritorno in patria dei profughi palestinesi. La Grande Marcia del Ritorno, dunque, fa appello a loro e ai loro discendenti perché continuino ad ammassarsi sui confini tra Israele, Gaza e la Cisgiordania fino al 15 maggio, in specie ogni venerdì, per far sì che «il diritto al ritorno non rimanga solo uno slogan» come ha affermato il lider maximo di Hamas Ismail Haniyeh in prima fila tra i manifestanti. Il tutto dovrebbe svolgersi pacificamente ma, come ha fatto notare il ministro della Difesa israeliano Lieberman all’indomani del 30 marzo, delle 16 vittime palestinesi del venerdì nero almeno 10 erano membri del braccio armato di Hamas, le Brigate Ezzedine al-Qassam e del Jihad islamico, di cui tutto si può dire meno che siano «pacifici». Entrambe le formazioni, infatti, non solo non hanno mai riconosciuto il diritto all’esistenza dello Stato di Israele, come ha invece fatto al-Fatah, ma nel loro Statuto – nero su bianco – sostengono ancora che lo Stato sionista vada distrutto. Torniamo a chiederci, allora, perché la Grande Marcia del Ritorno è stata organizzata proprio ora e quali fini si prefigge veramente di raggiungere?

È improbabile, come afferma Lieberman, che i palestinesi vogliano davvero e tantomeno riescano ad «invadere» Israele, «per riprendersi ogni centimetro della loro terra» come sostiene invece Haniyeh. È più verosimile, invece, che stiano disperatamente tentando di uscire dal cul-de-sac in cui sono finiti dal dicembre 2017 cioè da quando il presidente Trump ha annunciato ufficialmente di voler trasferire l’ambasciata americana in Israele da Tel Aviv a Gerusalemme. Cosa che peraltro avverrà proprio il 15 maggio prossimo quando Israele festeggerà il settantesimo anniversario della propria Dichiarazione di indipendenza. Nell’ottica palestinese – sia di alFatah che di Hamas – il trasferimento dell’ambasciata significa sostanzialmente due cose ugualmente gravi: innanzitutto che Gerusalemme non entrerà mai più in un eventuale pacchetto negoziale di un altrettanto eventuale piano di pace che preveda ancora una soluzione al conflitto israelo-palestinese basato su due Stati (uno israeliano e uno palestinese). In secondo luogo, vista l’intesa fra Trump e il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, gli Stati Uniti non possono più considerarsi degli honest brokers, dei mediatori onesti, tra israeliani e palestinesi. E se non sono gli Stati Uniti, chi li potrà mai sostituire nella difficile impresa? In fondo i palestinesi chiedono alla comunità internazionale o a chi per essa di farsi carico della causa palestinese rimasta «orfana». Dal venerdì nero, cioè dal 30 marzo, a livello regionale e internazionale quello che ha colpito di più invece è

stato il silenzio che ha accompagnato gli avvenimenti della Striscia di Gaza. L’Onu e l’Unione europea, come abbiamo visto sono stati rattamente zittiti, e l’unico capo di Stato mediorientale che abbia alzato la voce contro Israele tacciandolo di essere uno «Stato terrorista» è stato l’immarcescibile Erdoğan, reduce dall’invasione della Siria e dall’occupazione di Afrin a danno dei curdi. Più interessante invece la presa di posizione dell’erede al trono saudita, Mohammed bin Salman che in viaggio negli Stati Uniti ha rilasciato il 1. maggio un’intervista a «The Atlantic» in cui ha riconosciuto apertamente il diritto di Israele ad avere una propria terra. Se non è stato un aperto riconoscimento del diritto di Israele ad esistere, ci è andato molto vicino. È toccato poi a suo padre, re Salman, correre a ricordare il giorno dopo che anche i palestinesi hanno i loro diritti, primo fra i quali quello ad uno Stato. In altre parole, sono lontani i tempi in cui l’Arabia Saudita, all’indomani della guerra dello Yom Kippur del 1973, puniva l’Occidente per aver aiutato Israele contro l’Egitto e la Siria con un bell’embargo petrolifero. Oggi la solidarietà dei «fratelli arabi» coi palestinesi si è alquanto affievolita e tra gli stessi palestinesi non corre buon sangue. La Grande Marcia del Ritorno, infatti, potrebbe essere vista anche come l’ultimo tentativo di rinsaldare l’unione tra al-Fatah e Hamas che ufficialmente è stata celebrata il 12 ottobre dell’anno scorso al Cairo, ma in realtà non si è mai realizzata, a tutto danno della causa palestinese stessa.


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Politica e Economia

Concorrenza fiscale: quando è utile e legittima

Analisi La competizione è auspicata in (quasi) tutti gli ambiti economici, ma meno in quello tributario

Edoardo Beretta

L’uso della leva fiscale è legittimo, ma va ponderato e dev’essere parte di una visione economica lungimirante Dal punto di vista fiscale-tributario, invece, la questione cambia non poco, se si considera che alcuni Paesi tendono a «mettere all’indice» altri caratterizzati da livelli di tassazione più favorevoli (e, quindi, potenzialmente da trattarsi con «attenzione» in caso di operazioni economiche reciproche). Senza addentrarsi nel «ginepraio» giuridico, è sufficiente soffermarsi sulla differente percezione di «concorrenza» a seconda che si sia in ambito commerciale ‒ dove è perlopiù caldeggiata ‒ o nella sfera tributaria ‒ dove è, invece, «tabuizzata» o persino talvolta esposta ad inversioni dell’onere della prova applicando un principio «capovolto» definibile con In dubio contra reum (cioè «Nel dubbio,

Vista sulla città di Zugo, conosciuta, assieme ad altri Cantoni della Svizzera centrale, per il basso tasso di imposizione fiscale. (Keystone)

contro l’imputato») anziché il principio garantista In dubio pro reo (cioè «Nel dubbio, in favore dell’imputato»). Con tutte le eccezioni e distinzioni del caso, si può affermare che la concorrenza fiscale sia perlopiù temuta, poi osteggiata e ‒ laddove possibile ‒ prevenuta anche solo indirettamente tramite l’applicazione di standard regolamentativi comuni che ne riducano il margine d’attuazione. Inutile dire che da un punto di vista meramente economico tale disparità non sia giustificabile: se concorrenza vi deve essere (in quanto, appunto, le si ascrivono molti meriti dell’odierno post-capitalismo), che concorrenza sia in tutti i campi. Da un punto di vista fiscale, quindi, perché mai una tassazione più favorevole operata da un determinato Stato (o ente locale) dovrebbe essere vista in modo pregiudizievole, cioè di disturbo per quei competitor che applichino invece un’imposizione maggiore? E perché mai non dovrebbero essere questi ultimi ad essere visti quali «sfavorevoli» in termini tributari, quindi meno competitivi e performanti (così da spingerli verso un progressivo adeguamento delle proprie aliquote fiscali nel rispetto della sostenibilità di bilancio)? Ogni obiezione in termini di equità terrebbe poco, poiché la si dovrebbe in tal caso avanzare anche in campo commerciale: in quest’ultimo, infatti, ben poco rilevano quelle obiezioni che manifestano le grandi difficoltà di «stare al passo» da parte dei player minori rispetto ai colossi presenti sul mercato (caratterizzati, peraltro, da margini di profitti elevati, delocalizzazioni produttive ed influenza lobbyistica). Beninteso: la concorrenza fiscale già esiste ‒ basti pensare a livello can-

Gettito fiscale rispetto al PIL (in %), 1965-20161 1965 1975 1985 1995 2005 2016 Australia 20,62 25,36 27,72 28,18 29,92 – Francia 33,64 34,90 41,89 41,90 42,78 45,3 Germania 31,60 34,31 36,08 36,23 33,87 37,6 Grecia 17,13 18,70 24,56 27,79 31,21 38,6 Italia 24,66 24,52 32,52 38,58 39,15 42,9 Media OCSE 24,82 28,56 31,51 33,26 33,49 34,3 Portogallo 15,67 18,85 24,12 29,28 30,81 34,4 Regno Unito 30,10 34,17 35,07 29,83 32,89 33,2 Spagna 14,29 17,95 26,84 31,28 35,14 33,5 Stati Uniti d’America 23,50 24,59 24,61 26,46 25,93 26,0 Svizzera 16,55 22,54 23,88 25,41 26,54 27,8 Nota: 1. Elaborazione di Edoardo Beretta sulla base di: https://data.oecd.org/tax/tax-revenue.htm#indicator-chart

tonale, europeo oltre che Oltreoceano ‒, ma è pur sempre percepita con maggiore «disturbo» rispetto ad altre forme competitive. Nel contempo, si è lontani dall’affermare con quanto qui scritto che i margini di ribasso fiscali possano e debbano essere applicati «senza quar-

tiere», cioè da qualsiasi economia senza rispetto di servizi erogati, geografia economica e fabbisogno finanziario del momento. Il «nocciolo» è, infatti, un altro: se insieme a «concorrenza» si associa il concetto positivo di «stare meglio» (tutto da verificare, peraltro),

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Chiunque «mastichi» alcuni principi fondamentali delle teorie economiche difficilmente potrà astenersi dal conoscere uno dei «cardini» di esse, cioè l’incontro fra domanda ed offerta da cui deriva fra l’altro la determinazione del prezzo. Alla base del funzionamento di tali forze vi sono, perlopiù, condizioni di competitività ‒ si prescinda da quella cosiddetta «perfetta», che certi libri di testo ancora introducono per semplicità ‒, che consentono appunto il libero movimento fra richiedenti ed offerenti. Da un punto di vista commerciale la concorrenza non è mai stata messa in discussione in tempi recenti, ma è stata anzi vista alla stregua di un vero e proprio volano dello sviluppo economico interregionale. Naturalmente, se è vero che certe dinamiche particolarmente frequenti quali quelle del dumping (cioè dell’esportazione di beni/servizi a prezzi notevolmente inferiori rispetto a quelli operati sul mercato interno) abbiano comportato una certa regolamentazione tramite misure in qualche modo definibili «protezionistiche», quali (minimi) dazi o quote, esse non intaccano in alcun modo il principio di «concorrenza». Quest’ultimo viene, infatti, difficilmente messo in discussione: basti pensare alle politiche antitrust predisposte dai principali Paesi per evitare l’accentramento di quote di mercato (con conseguenti rischi di riduzione dell’offerta ed innalzamento del livello dei prezzi) o anche solo alla tendenza generalizzata di permettere fluttuazioni dei propri tassi di cambio. Per la serie: concorrenza commerciale e valutaria, fatte!

tale principio deve essere proiettato evidentemente in ogni ambito della sfera economica. Se ciò fosse reputato giusto, sarebbe anche vero che ogni misura politica che si conceda al banale e solo utilizzo della leva fiscale senza abbracciare una visione più lungimirante, ridurrebbe potenzialmente l’appeal del Paese in termini di investimenti e consumi (interni/esterni). Fatto tipico per la materia economica (che è costituita da cicli ricorrenti, meccanismi di trasmissione delle politiche sul modello «causa-effetto» e pareggio necessario derivante dalla contabilità a partita doppia), è nel contempo inevitabile che quanto sopra crei le premesse per un «circolo vizioso» di aumenti di imposte (con conseguente perdita di benessere), il che, a sua volta, esercita una spinta sui nuclei familiari ad optare per prodotti della concorrenza estera (se più convenienti) e disincentiva le imprese dall’investire nel territorio (o persino dal rimanervi). Il tema «a cavallo» fra globalizzazione e localismo da un lato, competizione internazionale e tutela della realtà territoriale dall’altro è particolarmente complesso ed aperto ‒ fatto com’è da «pesi» e «contrappesi». Ciascun mix di politiche economiche (indipendentemente dalla sfera decisionale) dovrà saperlo ponderare opportunamente.

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Politica e Economia

Bilanci positivi anche per i Cantoni

Finanze pubbliche I primi dati sui consuntivi cantonali 2017 indicano un chiaro miglioramento delle finanze

rispetto a preventivi molto prudenti. Determinante l’influsso di fattori esterni Ignazio Bonoli Come poteva facilmente lasciar prevedere l’eccezionale saldo attivo nei bilanci 2017 della Confederazione, anche i consuntivi dei Cantoni chiudono con risultati migliori rispetto alle previsioni. Stando a un’analisi dei primi risultati provvisori dei Cantoni che hanno già presentato i loro bilanci, l’avanzo d’esercizio globalmente dovrebbe superare il miliardo di franchi, contro una previsione negativa per oltre 200 milioni. L’influsso determinante per questo consuntivo globale è quello di Zurigo, che chiude i propri conti con un avanzo di 367 milioni, contro una perdita preventivata in 14 milioni di franchi. Ma quasi tutti i Cantoni sono stati molto prudenti nelle loro previsioni, per cui le differenze con il consuntivo risultano importanti. In realtà i soli Cantoni che chiudono i conti 2017 con un’eccedenza di spese sono pochissimi: Giura (–5,4 milioni), Lucerna (–37,7), Nidvaldo (–13,7) e Obvaldo (–21,2). Oltre a Zurigo, risultati brillanti sono stati ottenuti da Basilea-Città (+250,7), da Argovia (+119), da San Gallo (+75,6), da Svitto (+89,3) e anche da Ginevra (+69 milioni). Il Ticino – al momento in cui scriviamo – non ha ancora pubblicato i risultati definitivi. Tuttavia, la tendenza che si è delineata negli ultimi mesi dell’anno è chiara: il preconsuntivo indicava già un evidente miglioramento (+29,6 milioni), net-

tamente in contrasto con il preventivo (allestito – ricordiamo – con i dati noti a fine agosto 2016) che indicava un probabile disavanzo di 34,8 milioni. Come per tutti i Cantoni, il miglioramento della congiuntura ha avuto influssi positivi sui gettiti fiscali e altri fattori, come l’utile della Banca Nazionale (in Ticino anche quello della Banca dello Stato) e la partecipazione maggiorata sia all’imposta federale diretta, sia all’imposta preventiva, hanno fatto chiaramente aumentare le entrate. I direttori cantonali delle finanze sono ovviamente soddisfatti di questi risultati, ammettono l’influsso determinante delle maggiori entrate dovute a fattori esterni, ma ribadiscono anche gli sforzi prodotti in vari settori per il contenimento delle spese. Importante anche la distribuzione degli utili da parte della Banca nazionale: per Zurigo si tratta di ben 86 milioni, mentre al Ticino giungono 20 milioni di franchi. In generale, vista la precarietà della situazione nel 2016, quasi tutti i Cantoni non hanno calcolato nei preventivi la distribuzione degli utili della Banca Nazionale. In una dichiarazione all’ATS, il professor Schaltegger dell’Università di Lucerna afferma che spesso i Cantoni tendono a sottostimare fattori quale la crescita economica, il buon andamento dei mercati finanziari e perfino l’aumento della popolazione. Obiettivamente non era però né facile, né prudente prevedere il forte aumento delle

Con un avanzo di 367 milioni, Zurigo è il Cantone che ha chiuso meglio il 2017. (Keystone)

entrate che si è in realtà verificato. Lo stesso professor Schaltegger ammette che non si tratta di trucchi finanziari, ma di errori di calcolo, poiché non vi è

nessun incentivo a sottostimare le entrate o a sovrastimarle. In questo ultimo caso, se i risultati dovessero peggiorare rispetto ai preventivi, la situazione

sarebbe ben più grave e richiederebbe drastici interventi di correzione. La prudenza permette invece di guardare alla realtà non solo con soddisfazione, ma anche con la possibilità di programmare con minore assillo le future attività dello Stato. Inoltre – come la Confederazione – anche molti Cantoni si sono dotati di strumenti come il freno all’indebitamento, che impone la prudenza anche sul medio e lungo periodo. Di regola, gli utili di esercizio non programmati in questo contesto devono servire a ridurre il debito pubblico. La regola viene applicata in modo differenziato a seconda dei Cantoni. Quasi tutti sono però alle prese con un debito pubblico elevato. In qualche caso – come in Ticino negli anni passati – perfino con un capitale proprio negativo. I dati statistici presi in considerazione in questa analisi sono parziali. Mancano, infatti, ancora i dati definitivi di sei Cantoni. La tendenza è tuttavia chiara. Anche le finanze dei Cantoni – come quelle della Confederazione – subiscono un netto miglioramento. Qualche Cantone è però ancora alle prese con un disavanzo. Altri invece possono contare su tempi migliori, se si considerano anche le prospettive congiunturali per questo e per il prossimo anno. Un’occasione quindi per risanare certe situazioni debitorie, affrontare nuovi compiti, senza perdere di vista l’obiettivo di mantenere l’evoluzione delle finanze su un binario di sicurezza per il prossimo futuro. Annuncio pubblicitario

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Politica e Economia Rubriche

Il Mercato e la Piazza di Angelo Rossi Il Cantone e le aziende parastatali Sarà un caso oppure sarà il confluire di coincidenze dovute al fatto che i diversi problemi stanno venendo parallelamente a maturazione: qualunque sia la ragione, il 2018 si è aperto in Ticino con la discussione sul futuro di tre aziende parastatali, per assicurare il quale si fa appello all’aiuto finanziario del Cantone. Si tratta delle Officine delle FFS di Bellinzona, della società che gestisce l’aeroporto di Agno e del Cardiocentro di Lugano. Tre realtà imprenditoriali molto diverse che hanno però in comune di chiedere al Cantone diverse decine di milioni per poter assicurare la loro sopravvivenza. Il caso più semplice è quello del Cardiocentro. In effetti l’Ente ospedaliero cantonale ha già confermato la sua disponibilità a sostenere questa iniziativa. Il suo consiglio di amministrazione si è fatto

garante della qualità delle prestazioni e della continuità dei rapporti di impiego con il personale. Per realizzare questi due obiettivi bisognerà spendere milioni. L’unico interrogativo in sospeso – se così si può dire – riguarda l’autonomia futura del Cardiocentro. Sono state fatte proposte riferendosi a modelli già sperimentati con altri istituti che fanno parte dell’EOC. Queste proposte non sembrano però raccogliere il consenso del Consiglio di Fondazione del Cardiocentro che vorrebbe ora far pressione politica appellandosi al Consiglio di Stato. Difficile anticipare come la questione sarà finalmente regolata. Da queste colonne possiamo solo auspicare che il Consiglio di Stato non smentisca l’EOC, che continua ad essere un ente parastatale. Un po’ più complicato è il caso dell’a-

eroporto di Agno e questo perché gli interessati, fino ad oggi, non hanno mostrato trasparenza sulla reale situazione finanziaria. Si discute e si cavilla interpretando fughe di notizie e voci di corridoio. A quanto pare, alla fine del 2017, i debiti in bilancio sarebbero più o meno il doppio dei crediti. Dato questo rapporto, la situazione potrebbe essere del tutto, o per niente, preoccupante, a seconda di cosa potrebbe figurare tra i debiti e tra i crediti. Finché non si avrà in mano il bilancio per il 2017 è però impossibile sceverare il problema. E quindi si va avanti tra frecciatine polemiche e dichiarazioni di buona volontà che, purtroppo, non toccano mai la sostanza del problema. La quale, per essere chiari, è che un aeroporto senza destinazioni di volo regolari fa parte di una categoria

che dovrebbe costare molto meno di quanto costa oggi lo scalo di Agno. Data la situazione, il Cantone farà bene a rimandare a Filippi ogni decisione su possibili domande di sostegno finanziario in favore dello scalo stesso. E veniamo alle Officine che, dei tre, rappresenta il caso più complicato. Qui oramai i buoi sono fuori dalla stalla, nel senso che Consiglio di Stato e Gran consiglio si sono obbligati più volte a sostenere anche finanziariamente ogni progetto che potrebbe assicurare il futuro di questa azienda. Detto in termini crudi, il problema è che alle FFS le Officine in fondo non interessano. Sull’esempio di quanto è già stato fatto in altre localizzazioni (il dramma maggiore lo si è avuto in relazione alla chiusura delle Officine di Bienne) le FFS vogliono una sola cosa: tagliare i

costi. Confrontate con la reazione della popolazione e della politica, le FFS – altra azienda parastatale – temporeggiano. In questo sono aiutate anche dalla contesa che è nata tra diversi comuni del Cantone per appropriarsi della localizzazione delle nuove Officine. Forse i responsabili politici del Cantone che hanno firmato l’accordo con le FFS sul futuro delle Officine avrebbero dovuto risolvere la questione della nuova localizzazione prima di mettere la loro firma. Se sono in buona fede dovrebbero comunque adoperarsi per risolvere, nel modo più rapido possibile, questa questione. E magari fare un pensierino su cosa si potrebbe chiedere alle FFS se si dovesse cambiare la destinazione urbanistica del sedime che verrà abbandonato.

come la religione possa influire sulla vita privata e pubblica. È un tema che riguarda anche l’Europa, che si pensa cristiana ma in cui i praticanti sono una maggioranza sempre più esigua; in particolare l’Italia, reduce da elezioni che hanno quasi azzerato la presenza organizzata dei cristiani in politica, egemone per mezzo secolo e influente ancora nei vent’anni successivi. In un discorso pubblico dominato dagli scandali o comunque dal potere, non sempre ci si accorge di quanto la fede e i sentimenti cristiani siano vivi non solo nella dimensione intima ma anche in quella sociale. Eppure ogni giorno la cronaca, a saperla leggere, ci offre decine di storie legate alla dimensione della cura, del dono di sé, financo del sacrificio. Vicende che rivelano anche una grande resistenza al destino, allorché da un incidente, dalla malattia, dal pericolo emergono una reazione, un riscatto, una capacità di adattamento e di crescita spirituale insospettabili in un mondo all’apparenza di cattivo umore come quello di oggi. Durante la Seconda guerra mondiale ci furono molti casi Beltrame. Penso

al sacrificio di Salvo D’Acquisto, che si fa uccidere per evitare la rappresaglia nazista, autoaccusandosi di un attentato che non ha commesso. Meno conosciuta è la scelta di Vittorio Marandola, Fulvio Sbarretti e Alberto La Rocca, i tre carabinieri di Fiesole che vanno a farsi fucilare, in una domenica di agosto piena di sole, per salvare dieci ostaggi che non hanno mai conosciuto. Quasi nessuno ricorda don Ferrante Bagiardi, che offre invano la sua vita in cambio di 73 parrocchiani e alla fine sceglie di morire con loro, dicendo: «Vi accompagno io davanti al Signore». C’è un filo, intessuto dall’altruismo, dal senso del dovere, spesso dalla fede, che lega le storie di poliziotti, magistrati, persone che lottano contro le mafie e il terrorismo (e il pensiero va a Nicola Calipari che in Iraq fa scudo con il suo corpo alla prigioniera che ha liberato). Ricordare il loro esempio e aprire gli occhi sui tanti segni di rinascita e di fermezza di fronte al male è il miglior modo per affrontare la vita pubblica in mesi che si annunciano non facili. Vale per la Francia, paralizzata dal primo grande sciopero contro la politica

di tagli di Macron, il quale può però annunciare che per la prima volta da dieci anni il rapporto tra il deficit e il Pil è sceso sotto il 3 per cento, come prevedono le regole europee (il debito pubblico francese è arrivato però a sfiorare il totale del prodotto interno lordo). Vale per la Spagna, ancora alle prese con la questione catalana, che il governo di minoranza di Rajoy fatica a gestire. Vale per il Regno Unito, che forse comincia a pentirsi di aver scelto la Brexit. Vale pure per la Germania, che tampona la crescita dell’estrema destra rifugiandosi nello schema della grande coalizione. E vale a maggior ragione per l’Italia, impegnata nel difficile tentativo di formare un governo, con i due vincitori – Lega e Cinque Stelle – che propongono uno di fatto l’abolizione delle tasse, l’altro di dare mille euro al mese a tutti in cambio di nulla; ma il debito pubblico italiano veleggia oltre il 130%, e il Paese non ha né la stabilità né il peso politico della Francia. Ogni tanto poi spunta un Beltrame a ricordarci la responsabilità e l’orgoglio di essere europei; ma anche la necessità di combattere un terrorismo islamico colpito ma non domato.

errato «vedere» questa iniziativa solo come puro marketing elettorale e non come segnale di avvicinamento del pianeta RSI alla stampa scritta. Se chi legge ha un’età che gli consente di ricordare il panorama editoriale cantonale perlomeno sino a inizio anni Sessanta, non faticherà a risalire nei fatti sino al ricordo di una RSI che ogni settimana stampava un suo organo ufficiale. Era il «Radioprogramma», che sin dagli albori si premurava di informare i radioascoltatori su quanto avveniva alla RSI, soprattutto nell’ambito dei programmi culturali e popolari. Infatti non solo presentava i programmi, ma anche interessanti segnalazioni e trascrizioni di alcuni dei temi proposti nelle trasmissioni radiofoniche. Con l’arrivo della televisione e l’aumento dei canali radiofonici subentrò «Radiotivù», rivista settimanale che concluse la sua esistenza quando gli editori dei principali quotidiani ticinesi decisero di offrire ai propri lettori i programmi della RTSI gratuitamente. Da

allora l’ente radiotelevisivo, nonostante un bilancio lievitato oltre i 200 milioni di franchi, nonostante battaglioni di esperti di comunicazione alle sue dipendenze, non ha più avuto e nemmeno ha mostrato di sentire la necessità di avere un piede (figuriamoci il cuore) nella stampa scritta. Oggi un paradosso mostra che l’operazione centrata sulla rivista di Rete Due è un’iniziativa che ricollega il mensile culturale «Club» con l’antico «Radioprogramma»: proprio come Mark Zuckerberg che non esita a comprare pagine pubblicitarie sulla stampa scritta per difendere il suo impero digitale, anche la RSI – pur avendo in casa tutte le più moderne tecnologie mediatiche, dai microfoni alle telecamere, dal podcast allo streaming e ai social –, di fronte alla necessità di mobilitarsi, ha affidato a una delle sue più piccole risorse, la rivista «Cult», un importante ruolo al cospetto di «uno spettro, qualche paura e mille speranze» (sono parole che, come detto, Sandra Sain ha inserito nel suo messaggio,

facendo riecheggiare l’antico «verba volant, scripta manent»). Per finire, spiego il movente del mio intervento. Come detto in apertura il trend in atto, sostenuto dai dirigenti SSR e dalla maggioranza delle forze parlamentari, è quello di puntare a riforme che diano nuova linfa al servizio pubblico radiotelevisivo. Purtroppo sinora la via più praticata sembra quella dei tagli, scelta che accontenta i critici, ma fa aumentare i rischi che si penalizzino fortemente le «cose piccole». E visto che in Ticino e per la RSI esistono progetti che prospettano la rinuncia a Rete Due, è possibile che anche la rivista «Cult» possa essere minacciata di chiusura. Ecco: la rievocazione di questo episodio «minore» della vicenda No Billag è essenzialmente volta a stigmatizzare questo pericolo. Anche perché, lo confesso, a me non spiace l’idea che «Cult» possa diventare un giorno il periodico «ufficiale» di una moderna RSI o del servizio pubblico di tutti i media ticinesi.

In&outlet di Aldo Cazzullo Arnaud contro lo spirito del tempo Ci sono gesti destinati a restare oltre il tempo, a volte contro lo spirito del tempo. «Prendi me al suo posto». Di questi primi tre mesi dell’anno, segnati dai massacri in Siria, dalle tensioni con la Russia, dalla pervicacia del terrorismo islamico, ci restano le parole di Arnaud Beltrame, il poliziotto che offre e dà la propria vita per salvare una donna che non ha mai conosciuto. Un gesto che ci scuote, in un’epoca dominata dall’individualismo spesso degenerato nel narcisismo. E non soltanto la Francia si interroga su quale possa essere il sentimento, l’ideale, il principio da cui quel gesto è nato.

La patria, è la prima risposta. «Comunione repubblicana» titola a tutta pagina «Libération», giornale di sinistra spesso irriverente, con un’unica grande foto del tricolore sulla bara. «Sono i valori della polizia» rivendicano i generali. «E della massoneria» aggiunge la Gran Loggia di Francia, cui Beltrame si affiliò nel 2008. Ma la persona che lo conosceva meglio, sua moglie Marielle, ama ricordare la sua fede: «È stato il gesto di un poliziotto, e di un cristiano. Dettato dall’amor di patria e dall’amore per il prossimo. Due ispirazioni impossibili da separare». E così, nella settimana santa, il Paese più laico d’Europa si è trovato a discutere su

La foto dell’agente eroe su uno dei tanti mazzi di fiori.

Zig-Zag di Ovidio Biffi Quel che «Cult» riesce a fare Nel commento al voto sull’iniziativa No Billag, partendo dalla consapevolezza che la SSR «non sarà più la stessa cosa», sostenevo che l’ente radiotelevisivo dovrà comunque riformarsi sino a mutare pelle, se non natura. Le avvisaglie di questo cambiamento ci sono già, anche se tutte da accertare, e lasciano intendere che in futuro il concetto di servizio pubblico dovrà essere esteso a tutti i media, compresa la stampa scritta. A livello nazionale questo ampliamento si è avviato con l’accordo fra SSR, Swisscom e l’editore Ringier per una piattaforma in comune riguardante la raccolta pubblicitaria, guarda caso la principale entrata per i media che non beneficiano del canone radiotelevisivo. Torno su questo tema per evidenziare quella che mi sembra una prova, certamente minore ma non per questo trascurabile, di come anche nella Svizzera italiana la stampa scritta risulti importante per radio e televisione. I fatti, dapprima. Proprio alla vigilia

del voto sulla iniziativa No Billag la rivista «Cult», curata dalla RSI e riservata ai soci del benemerito Club Rete Due, è stata distribuita a tutti i fuochi (sta scritto «della regione», ma v’è da credere che abbia raggiunto tutta la Svizzera italiana) oltre a tutti i luoghi legati alla cultura e, ovviamente, ai soci. Le migliaia di copie non sono state elargite per celebrare un anniversario che nessuno festeggerebbe (4 anni) e nemmeno per un bilancio sul lavoro svolto (con ammirevole dedizione e bravura, va detto di transenna) da chi la redige. Lo ammette con schiettezza nel suo commento anche la redattrice responsabile Sandra Sain: la distribuzione capillare era essenzialmente legata al fatto che «questo marzo 2018 per noi della Rete Due, come per tutta la RSI e la SSR-SRG, ha un valore particolare e rappresenta una data che porta con sé uno spettro, qualche paura e mille speranze». Nessuno può dire se l’operazione sia stata elemento decisivo del No ticinese. Di sicuro sarebbe però


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Cultura e Spettacoli Torna Steps: si balla! Ritorna la kermesse nazionale di danza del Percento culturale Migros, tema: il coraggio

La Leica di Gerda La scrittrice Helena Janeczek ha dedicato un libro alla grande fotografa Gerda Taro

Tobia Bezzola e il suo MASI Il nuovo direttore del Museo d’arte della Svizzera italiana parla delle sue visioni e dei suoi progetti per il futuro della scena ticinese

Enrica si racconta A colloquio con l’attrice, giornalista e presentatrice, italiana Enrica Bonaccorti pagina 31

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Pablo Picasso, La capra, Vallauris, 1950. (MP340 © Succession Picasso / 2018, ProLitteris, Zurich Photo RMN-Grand Palais (Musée national PicassoParis)/ Béatrice Hatala)

Picasso, Picasso, Picasso Mostre Opere su carta provenienti da Parigi Gianluigi Bellei Parlare o scrivere di Picasso può sembrare un tantino ridicolo. Su di lui, sulla sua opera, esiste una bibliografia sterminata, anche di autori di alto valore culturale. Le mostre su un singolo aspetto del suo lavoro o sull’intero percorso sono tantissime, sempre. Le sue opere valevano, e valgono oltre ogni immaginazione. Anche perché, grazie agli eredi, il suo nome è diventato una sorta di brand, come la Coca Cola o la Nike. A Parigi c’è la Picasso Administration, curata dal figlio Claudio, che ne gestisce l’eredità e l’immagine. Anche per «controllare le ricostruzioni e gli adattamenti televisivi e cinematografici non graditi, perché irrispettosi», come scrive Vincenzo Trione nel recente volume Contro le mostre. Ma il desiderio di denaro è una costante. Picasso è l’unico artista che dà il nome a una macchina. La Picasso Administration nel 1999 stipula, appunto, un contratto con la Citroën per la nuova Xara. Immaginate, immaginate solo, il giro di soldi. Perché l’arte, checché ne dicano gli intellettuali pagati per spiegarne il senso, non è altro che un gigantesco giro di denaro. Basti solo pensare a chi la colleziona: avvocati, industriali, banchieri, principi sauditi... non certo gli spazzini.

Ma, andiamo per ordine. Non vogliamo parlare della sua vita né della sua opera perché sarebbe, se non altro, pleonastico. Solo un accenno. Forse si tratta del più grande genio del secolo scorso, sicuramente un «cannibale»: assorbe tutto e lo trasforma in qualcos’altro. Si crede un dio e usa le persone a proprio piacimento. Soprattutto le donne. Chissà se fosse vissuto oggi al tempo del MeToo. Per vedere le sue opere si può andare in uno dei tanti musei a lui dedicati. Il maggiore è sicuramente il Musée national Picasso di Parigi, ubicato nel seicentesco hôtel Salé. L’artista muore nel 1973 e gli eredi devono pagare le tasse di successione. Dal 1968 in Francia esiste una legge che consente di pagare queste tasse non con denaro ma tramite opere d’arte. In termini legali si chiama dazione. Dopo la sua dipartita si scopre che nel suo studio conservava un’infinita quantità di opere. La scelta per la dazione è stata fatta da Dominique Bozo, conservatore dei musei nazionali, che l’ha sottoposta all’amico dell’artista Jean Leymarie il quale, nel 1966, ha organizzato una retrospettiva intitolata Hommage à Picasso. Nel 1979, con il materiale selezionato, si crea il nuovo museo. 230 dipinti, 158 sculture, 29 quadri a rilievo, 88 ceramiche e 1500 disegni. «Opere di tutti i periodi e di tutte

le tecniche – citiamo dal catalogo ufficiale del museo redatto dall’allora conservatore capo Hélène Seckel – dai pezzi da museo di grande fama alle raccolte importanti di studi, alle opere di ricerca di tipo sperimentale e intimo». La moglie Jacqueline scompare nel 1986 e la figlia propone un’altra dazione. Recentemente il museo è stato ristrutturato e ora appare più luminoso e razionale di prima. Durante il periodo di chiusura, e quale finanziamento ai lavori, una retrospettiva, curata dall’allora discussa direttrice Anne Baldessari, ha viaggiato attraverso 15 sedi diverse fra le quali Palazzo Reale di Milano (vedi «Azione», 10 dicembre 2012). Periodicamente vi si tengono anche esposizioni specifiche. Il Museo d’arte della Svizzera italiana di Lugano sta cambiando pelle. Dopo il pensionamento di Marco Franciolli è subentrato Tobia Bezzola – competente ed esperto, già allievo di Harald Szeemann – che speriamo riesca a far decollare il museo con mostre di qualità. Sinora l’enfant du pays – come aveva denominato Marco Züblin l’allora direttore in pectore nel lontano 1987 su Imago – non è andato oltre il suo ruolo di funzionario, trasportando dall’Italia concetti di esposizioni come quelli sui vari dialoghi fra collezioni, opere, eccetera: rapporti soggettivi fra materiale vario. Anche perché, come

constatava Umberto Eco, «tutto ha misteriose analogie con tutto». L’ultima esposizione, ancora pensata da Franciolli, è dedicata a Picasso. Curata da Carmen Giménez, che fa parte del consiglio di Fondazione del museo di Lugano, la mostra presenta 105 opere su carta e 15 sculture provenienti interamente dal materiale conservato nel Musée national Picasso di Parigi e lì esposto a rotazione. La curatrice nei suoi brevi testi (quattro pagine di ringraziamenti e quasi quattro di presentazione, due delle quali autobiografiche) spiega che la mostra intende entrare nello spazio intimo di Picasso (vedi catalogo del Musée national Picasso); uscire dai canoni ufficiali delle altre esposizioni; proporre una nuova prospettiva critica e infine illuminare quello che è nascosto. Opzioni suggestive. Dopo le montagne di carte dedicate all’artista, finalmente una rilettura nuova, inedita, di «scavo». Peccato che non venga esplicitata. Non aiuta nemmeno il successivo testo di Francisco Calvo Serraller, che scrive di retrospettiva «piuttosto completa», realizzata con uno sguardo obliquo, trasversale. Restano, come monito, le ultime righe nelle quali sostiene che l’opera di Picasso «richiederà di essere sondata ancora a lungo nell’indefinito tempo a venire».

Insomma, se volete vederla dovrete scoprire da soli quale sia lo sguardo differente, nuovo, misterioso e intimo. Alla fine una mostra piacevolissima, strutturata cronologicamente, che presenta alcuni interessanti studi realizzati per importanti dipinti come Les Demoiselles d’Avignon del 1907 o Étude de main: la main gauche de l’artiste del 1920 confrontato con Main de Picasso, calco in gesso del 1937. Poi una bella serie di Baigneuses del 1942, la Tête de mort del 1943 e uno spaventoso teschio dalle orbite vuote e dal naso corroso, specchio dei tempi passati e presenti. Da scoprire, soprattutto, la relazione tra il segno grafico e la scultura attraverso la volontà di scavare le varie superfici per indagarne l’essenza, sia nel togliere delle incisioni che nell’aggiungere delle opere tridimensionali. Volontà, questa, intimamente legata alla polifonia della sua ricerca. Buona l’illuminazione, catalogo puramente didascalico senza nessuna analisi specifica e documentata delle opere. Dove e quando

Picasso. Uno sguardo differente. A cura di Carmen Giménez. Museo d’arte della Svizzera italiana, Lugano. Fino al 17 giugno. Catalogo: edizioni Casagrande, I/E, fr. 65.–.


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 9 aprile 2018 • N. 15

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Cultura e Spettacoli

Le figure di Pompei raccontano Mostre A Chiasso reperti e immagini da due dei siti archeologici più famosi al mondo

Alessandro Zanoli Consiglio propedeutico alla vista di questa bella mostra: rileggere le pagine introduttive di Civiltà Sepolte scritte da C. W. Ceram. Ricostruiscono la storia della scoperta di Ercolano e Pompei con semplicità e in modo avvincente. Forniscono un quadro dell’epoca e, soprattutto, restituiscono il modo con cui quella scoperta andava a solleticare l’interesse dei regnanti napoletani, in particolare di Maria Amalia Cristina, moglie di Carlo di Borbone. Nelle pagine di Ceram appare anche e necessariamente la figura di Winkelmann, e ciò le ricollega ancora di più alla recente vocazione «archeologica» del m.a.x. museo. Grazie all’importante sinergia con il Museo Archeologico Nazionale di Napoli, esso si trova oggi nella possibilità di offrire al pubblico proposte di grande originalità e interesse.

La mostra al m.a.x museo illustra i modi con cui si è divulgata nel mondo la bellezza di Pompei ed Ercolano Va sottolineato come l’intento dell’esposizione sia in qualche modo «visivomediatica» (e in questo senso in linea con la vocazione di un museo dedicato al design e alla grafica): Ercolano e Pompei. Visioni di una scoperta vorrebbe far riflettere, cioè, sulle modalità di comunicazione utilizzate per diffondere nel mondo il valore e le bellezze dei ritrovamenti che dalla fine del 700 venivano alla luce con gli scavi. Al centro del percorso espositivo non ci sono dunque solo i reperti veri e propri, ma soprattutto immagini di come venivano ritratti e i «veicoli comunicativi» con cui si pubblicizzava il loro pregio. La scelta degli oggetti presentati va letta quindi in questa dinamica comunicazionale: si tratta di libri, incisioni,

mappe e diari personali, che avevano l’obiettivo di diffondere la «visione» delle due città miracolosamente scoperte. In realtà, il visitatore che si immerge nel percorso espositivo perde quasi subito la prospettiva «mediatica» e finisce semplicemente per godere della magnificenza rappresentata. Dopo un momento, insomma, la mostra diventa una visita, selezionata e preziosa, attraverso Ercolano, Pompei e le loro bellezze. Spicca su tutto quanto esposto, occorre dirlo, la presenza di alcuni volumi della monumentale opera Le antichità di Ercolano, di Tommaso Piroli. Si tratta di un catalogo sistematico dei ritrovamenti, elaborato a partire dal 1789. Una fatica editoriale che avrebbe dovuto occupare decine di grandi libri. La pubblicazione si interruppe in realtà al sesto volume, ma la fortuna di poter osservare alcune meravigliose pagine ci permette di comprendere l’ambiziosa forza del progetto. Da considerare, inoltre, che in mostra a Chiasso, grazie alla collaborazione con il Museo di Napoli, sono presentate alcune incisioni su rame inedite, che dovevano andare a decorarne i volumi poi non realizzati. Lungo il percorso che si dipana nelle sale, oltre alle numerose pubblicazioni a stampa e manoscritte che «parlano» di Pompei ed Ercolano, gli oggetti esposti fanno parte di tre categorie: reperti archeologici veri e propri, tra cui splendidi frammenti di affreschi murali, oggetti in bronzo, gioielli e frammenti di sculture. Poi incisioni che riproducono oggetti ritrovati durante gli scavi (e di cui diverse sono esposte vicino ai propri modelli). Infine, molte vedute e planimetrie delle due città, realizzate con varie tecniche e in varie epoche. Queste ultime sono naturalmente prevalenti nella mostra. Bozzetti pittorici, visioni architettoniche o fotografie, testimoniano del comprensibile desiderio dei visitatori di ricostruire «virtualmente» la magnificenza delle cittadine romane. Lo stesso Re Carlo II di Borbone, del resto, amava «vedere» i risultati del lavoro e chiedeva di essere informa-

Frammento di intonaco dipinto da Ercolano, I sec. d.C. (U. Wolf)

to quotidianamente sull’avanzamento degli scavi. La scoperta nel suo regno di un agglomerato antico di tale valore stava a dimostrare quanto nobile e ricca fosse l’eredità storica dei suoi possedimenti. La ricchezza del passato gettava nuova luce sul presente e forse anche presagi di futura fortuna. Nell’esposizione possiamo osservare il cammeo romano che il Re si era fatto incastonare in un anello d’oro. Diventò uno dei suoi gioielli preferiti, a dimostrazione della sua predilezione e vicinanza affettiva con Ercolano e Pompei. Le vedute esposte al m.a.x museo sono affascinanti e significative: acquarelli, schizzi a matita di artisti ed architetti cercavano di fissare la meravigliosa bellezza delle strade e delle case. Spiccano naturalmente le grandi tavole incise da Piranesi, ma altrettanto interessanti sono per noi gli appunti dei numerosi architetti ticinesi che in vari momenti hanno visitato gli scavi. In particolare

colpisce scoprire che uno di loro, Pietro Bianchi, aveva diretto i lavori per un certo periodo. Sempre in questo contesto colpisce anche il taccuino tenuto da Gaspare Fossati nel 1830, contenente oltre a scritti e schizzi, anche un diario. Il viaggiatore si era concentrato in particolare sui ritrovamenti alla Casa del Fauno, il 26 ottobre di quell’anno. Pompei del resto faceva parte delle mete predilette dai viaggiatori che intraprendevano il Grand Tour romantico attraverso l’Italia. La ricchezza dei materiali icononografici presentati comunque arriva fino al 900 e dimostra l’interesse degli specialisti, di pittori ed architetti. In questa oasi archeologica hanno potuto ritrovare un’insperata concentrazione di elementi dell’antichità, in perfetto stato di conservazione. Altro particolare curioso, l’esposizione fornisce un ricco campionario di cartoline e depliant fotografici vintage. Nel momento in cui Pompei ed Ercola-

no diventano mete del turismo moderno chi le visita vuole portare con sé le immagini più suggestive, magari in un formato microscopico. La Pompei tascabile in bianco e nero, ultima frontiera del consumismo anni 60, è un po’ il punto di arrivo della mostra chiassese. A chi visita spetta il compito di completare il percorso, magari con un viaggio «reale» nei due siti archeologici campani. A Napoli, la mostra ci andrà davvero a partire dal prossimo 29 giugno. Un segno dell’importante collaborazione tra istituzioni, che ci offrirà anche in futuro nuovi motivi di sorpresa e scoperta. Dove e quando

Ercolano e Pompei: visioni di una scoperta. m.a.x. Museo, 6830 Chiasso. Orari: ma-do 10.00-12.00, 14.0018.00. Lu chiuso. Fino al 6 maggio 2018. info@maxmuseo.ch.

Il coraggio di ballare per i trent’anni di Steps Danza Il consueto appuntamento biennale del Percento culturale Migros farà tappa in Ticino con tre spettacoli Valentina Janner Il festival della danza Steps è giunto alla sua 16esima edizione: sull’arco di trent’anni, circa 1200 rappresentazioni hanno portato la danza al pubblico in tutta la Svizzera. Il suo fondatore e primo direttore artistico (dal 1988 al 1998), Walter Boris Fischer, ha infatti spiegato che il nome Steps non è ri-

ferito solo ai passi di danza, ma anche ai passi effettuati per portare la danza sull’uscio di casa degli svizzeri, proprio come i camion della Migros portavano la spesa nei paesini più discosti. La dimensione geografica è affiancata da quella pedagogica: da sempre Steps si dedica alla mediazione della danza contemporanea, ancora sconosciuta e incompresa nel 1988 pure dai pro-

Speechless Voices di Cindy van Acker. (© Louise Roy)

grammatori dei diversi teatri, che avevano prevalentemente una formazione teatrale o musicale. Questo festival è nato con l’obiettivo di mostrare produzioni internazionali e di raggiungere un vasto pubblico grazie all’impatto garantito dal suo format, unico nel suo genere, visto che ogni compagnia invitata effettua una tournée che le permette di instaurare un vero e proprio rapporto con il nostro Paese e con il suo pubblico. Steps ha inoltre giocato un ruolo decisivo nello sviluppo della scena della danza svizzera, incentivando i rapporti tra compagnie di danza istituzionali e ensemble della scena indipendente tramite il finanziamento di cooperazioni inconsuete. Ha unito così due mondi a sé stanti. Alle compagnie svizzere viene data la possibilità di esibirsi, ma non solo. Anche lo scambio con i gruppi internazionali viene favorito grazie a workshop per professionisti. Questa manifestazione è sempre stata contraddistinta da una vena innovativa. L’aspetto inedito non manca nemmeno nell’edizione 2018: sarà quello di coinvolgere gli studenti del bachelor in danza contemporanea della Zürcher Hochschule der Künste di Zurigo e della Manufacture di Losanna, che assieme interpreteranno lo

spettacolo Take Off!, creato su misura per loro e prodotto dal Percento culturale Migros. Il tema principale su cui verte quest’edizione di Steps, come ha illustrato la direttrice artistica Isabella Spirig, è il coraggio. Innanzitutto, il coraggio inteso come la forza che permette di sfondare porte, di superare barriere e di lanciare messaggi politici in un’era segnata dalla paura dell’altro e da un profondo senso di insicurezza. Il coraggio serve inoltre agli artisti per rimettersi continuamente in gioco con una nuova creazione, assumendo il rischio di un potenziale fallimento, o per esporre le proprie idee e visioni al giudizio del pubblico. Infine, il coraggio contraddistingue anche il team di Steps, che cofinanzia la metà delle produzioni in programma e che seleziona diversi spettacoli ancora inesistenti al momento della programmazione. In Ticino aprirà le danze, il 24 aprile, l’ensemble tedesco Gauthier Dance presso il Cinema Teatro di Chiasso con Stream, un programma di sei pezzi, tra cui una coreografia dello stesso Eric Gauthier, direttore artistico della compagnia di Stoccarda. Un vero e proprio fuoco d’artificio attende il pubblico, che verrà coinvolto dalle diverse espressioni dell’arte coreutica: poetica, grottesca, a tratti persino sfer-

zante, e caratterizzata da un umorismo intermittente. Pure il Ticino ospiterà la prima svizzera di uno spettacolo di Steps. Questo privilegio toccherà a tre danzatoricoreografi africani, vincitori del concorso Simply The Best West Africa, che presenteranno i loro assoli. Questo concorso, indetto dal coreografo della compagnia Faso Danse Théâtre, Serge Aimé Coulibaly, è stato ideato con lo scopo di offrire una piattaforma di lancio ad artisti di danza contemporanea dell’Africa dell’Ovest. Coulibaly ha selezionato per Steps tre assoli: Spirit di Adonis Nebié, incentrato sulla connessione tra corpo e anima, Kobéndé di Florent Nikiema che tratta della ricerca della pace interiore e, da ultimo, Fatou t’as tout fait di Fatoumata Bagayogo, il racconto autobiografico di un destino spietato, segnato dall’esperienza dell’infibulazione. Sarà la compagnia ginevrina di Cindy van Acker, Cie Greffe, a chiudere il programma ticinese di Steps al LAC di Lugano il 1. maggio con lo spettacolo Speechless Voices, una serie di tableaux ritualistici sulle note di una complessa composizione di musica elettronica di Mika Vainio. Informazioni

www.steps.ch


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Cultura e Spettacoli

Gerda Taro, la ragazza con la Leica

Personaggi La brava ma sfortunata fotografa che diede il nome d’arte a Robert Capa, morì proprio a causa di quella

guerra civile spagnola contro cui si era schierata – ora la sua storia è narrata in un libro di Helena Janeczec Giovanni Medolago Nelle scienze, è andata decisamente meglio per il gentil sesso. A Madame Curie, ad esempio, fu assegnato due volte il Premio Nobel (nel 1903 per la fisica e nel 1911 per la chimica). Nelle arti, viceversa, le cose sono andate ben diversamente: Tina Modotti, pur coraggiosa e caparbia friulana, rimase a lungo all’ombra del suo mentore Edward Weston, prima di vedersi riconosciuta con quest’ultimo tra i migliori fotografi d’inizio 900. Altrettanto sfortunata la sua amica Frida Kahlo, costretta a fare i conti col marito-padrone Diego Rivera. Adèle Hugo, già maltrattata da cotanto padre, aspirante scultrice, non trovò certo sostegno in Auguste Rodin, almeno stando al biopic che le dedicò François Truffaut, il quale però distorse un po’ la realtà in cerca dell’amato melodramma. L’ultima ad aggiungersi a questo elenco di protagoniste sfortunate è ancora una fotografa, Gerda Taro, musa e amante di Robert Capa, la cui riscoperta – iniziata già qualche tempo fa – prosegue adesso grazie a La ragazza con la Leica (Premio Bagutta 2018), ultimo e recente libro di Helena Janeczec. Come Gerda, anche la Janeczec è tedesca di origini polacche e, come lei, da giovane scelse volontariamente l’esilio. Gerda (nata a Stoccarda nel 1910) finì a Parigi, Helena da Monaco è sbarcata a Roma, dove vive da decenni, tanto da scegliere l’italiano come sua lingua di scrittura.

Gerda Taro e Robert Capa insieme a Parigi nel 1936. (Keystone)

Chi conosce il libro che la Janeczec ha dedicato ai suoi genitori, miracolosamente sopravvissuti alla Shoah (Lezioni di tenebra), o il suo racconto romanzato della battaglia di Montecassino (Le rondini di Montecassino, libro potentissimo secondo Roberto Saviano), sa che Helena ama incrociare la storia con la maiuscola con le storie dei suoi protagonisti. Accade lo stesso con il suo nuovo exploit, dove talvolta il lettore avrà qualche difficoltà nell’orientarsi, messo di fronte ai ricordi, non si sa fino a che punto attendibili, di chi Gerda l’ha conosciuta da vicino; e altresì sballottato senza tanti complimenti da analessi e prolessi. Una biografia romanzata che

diventa il romanzo corale di una generazione, «una gioventù precocemente europea, colta, indipendente, cosmopolita, idealista, libera nelle passioni e nei comportamenti, costretta dalla storia a ingoiare un destino di oppressioni, guerra e morte» (M. Smargiassi). Sono tre le «fonti» della Janeczec: due più o meno fortunati spasimanti della giovane Gerda oltre all’amica del cuore Ruth Cerf, che con lei condivise l’adolescenza, gli spensierati anni del liceo e l’emozione dei primi amori. Tutti e tre i testimoni sono concordi nell’affermare che Gerda «era la gioia di vivere. Qualcosa che esisteva, si rinnovava, accadeva ovunque». Una personalità

dirompente, che incrociò anche Willy Brandt nei circoli della sinistra, dove si capì immediatamente quale pericolo rappresentasse Hitler, non solo per la Germania. Civettuola e sicura del suo fascino, Gerda fu arrestata per un volantinaggio antiregime, ma gli sgherri che la portarono in prigione col suo abito da sera e le scarpette rosse non credettero che quella bella biondina potesse rappresentare un pericolo per il Reich e la rilasciarono. Decisivo fu poi per lei l’incontro parigino con l’esule ungherese Endre Friedmann, non bello ma fascinoso, un po’ guascone e molto spericolato, il fotografo squattrinato che seppe conquistarla. Fu lei (che già ave-

va abbandonato il suo vero cognome, Pohorylle) a trovargli lo pseudonimo Robert Capa, grazie al quale Friedmann si liberò di un nome che sapeva troppo d’ebreo e cominciò a procurarsi qualche ingaggio. In cambio Capa le insegnò a fotografare, e naturalmente Gerda si buttò col suo contagioso entusiasmo su rullini e obiettivi. Giovani, innamorati e spensierati, ma amanti soprattutto della libertà, per loro fu immediata la scelta di schierarsi dalla parte dei Repubblicani quando Francisco Franco, rifiutando il responso delle urne, cominciò a mettere a ferro e fuoco la Spagna repubblicana. La ragazza con la Leica, elegante anche con una pistola alla cintola, ebbe solo il tempo di documentare le condizioni di vita delle operaie iberiche e quel poco che vide sul fronte. Nel luglio del 1937, durante la battaglia di Brunete, si trovò sotto le bombe. Cercò riparo a bordo di una jeep ed ebbe appena il tempo di gridare al collega Ted Allen «Ci vediamo stasera a Madrid, ho dello champagne!», poi cadde dal veicolo e un tank repubblicano – feroce ironia del destino – la schiacciò coi suoi cingoli. Proprio il giorno del suo 27esimo compleanno, il primo agosto 1937, il viaggio di Gerda si concluse a Parigi, al Père Lachaise. La prima reporter di guerra morta sul fronte fu accompagnata da Pablo Neruda e commemorata da Louis Aragon, prima di trovare riposo in una tomba disegnata per lei da Alberto Giacometti. Annuncio pubblicitario

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Cultura e Spettacoli

Il MASI, una realtà in divenire Incontri A colloquio con il nuovo direttore del Museo d’arte

della Svizzera italiana Tobia Bezzola Ada Cattaneo Tobia Bezzola da gennaio 2018 è il nuovo direttore del Museo d’arte della Svizzera italiana. Prima di lui, Marco Franciolli ha saputo predisporre le condizioni perché finalmente la città di Lugano e, con essa, l’intero Cantone avessero un museo degno della scena nazionale ed internazionale. Al suo successore spetta un incarico arduo, ma di indubbio interesse, considerato che si tratta di determinare la natura e i futuri sviluppi di questa giovane realtà. Bezzola ha operato a lungo come curatore di arte contemporanea: si è formato con Harald Szeemann, di cui fu assistente, per lavorare poi presso il Kunsthaus di Zurigo dal 1995 al 2012. Nella regione della Ruhr, al museo Folkwang di Essen, matura la sua prima esperienza come direttore dove ha saputo gestire l’istituzione puntando non solo su mostre temporanee, ma anzi accentuando il valore fondante della collezione permanente. Ha volentieri acconsentito a un’intervista per raccontare ai lettori di «Azione» le sue prime impressioni su ciò che lo ha accolto, il suo bagaglio di esperienze professionali e i progetti futuri che saranno proposti alla città e al pubblico. Direttore, quali sono state le sue impressioni arrivando al MASI e le prospettive per l’immediato futuro?

Quando sono arrivato sapevo già che per i primi tempi ci sarebbe stato molto da fare. Il nostro museo è giovanissimo e non è ancora pienamente in funzione. La sede di Palazzo Reali (già Museo Cantonale, ndr) è temporaneamente chiusa. A maggio prenderà il via un progetto di restauro, che durerà all’incirca un anno. La riapertura sarà nell’estate del 2019 e solo allora avremo il museo completo, comprendente le sale presso il LAC, sui tre piani, e Palazzo Reali. Il processo di transizione ci occupa moltissimo: è un impegno notevole, soprattutto dal punto di vista logistico. Al contempo continueremo a lavorare nelle sale del LAC. Ci sono mostre in corso e prossimamente aprirà la mostra di Balthasar Burkhard, un importante fotografo svizzero contemporaneo, mancato pochi anni fa, attivo fra gli anni Sessanta e gli anni Novanta. Invece, in autunno, avremo una mostra su René Magritte.

Si è parlato delle due sedi del MASI. Dobbiamo immaginarci una destinazione, un’anima diversa per esse oppure saranno due spazi complementari, ma con un’unica finalità?

Proveremo ad approfittare della flessibilità che possono offrire questi due spazi. È evidente che gli spazi al LAC hanno una presenza importante, necessaria per le grandi mostre. Le mostre importanti si terranno lì. Questo è chiaro. Ma d’altra parte non credo che il concetto possa essere quello di avere le esposizioni temporanee solo in quella sede e le collezioni a Palazzo Reali. In questo secondo spazio, quindi, avremo ugualmente delle mostre, forse di formati più contenuti, soprattutto con fotografia e arte contemporanea. Ma, viceversa, anche al LAC ci saranno presentazioni di opere della collezione, così che il pubblico che viene da fuori capisca che non si tratta solo di uno spazio espositivo per mostre temporanee, ma di un museo che custodisce una raccolta di opere d’arte. Abbiamo delle collezioni importanti, sia comunali che cantonali, oltre a quella giovanissima del MASI. Il museo è una struttura più ampia rispetto a un semplice luogo per eventi: pubblica documenti, fa ricerca e mediazione culturale, oltre a molto altro ancora, come restauro e conservazione. Le grandi mostre, come sempre, sono importanti per fare conoscere l’istituzione, per raggiungere il grande pubblico, ma allo stesso tempo bisogna continuare a rafforzare il nostro lavoro museale di base. Le collezioni del MASI sono raccolte di dimensioni molto più ridotte rispetto a quelle con cui ha avuto a che fare in precedenza.

Bisogna considerarle nel contesto svizzero: in questo senso sono importanti e particolari. Rappresentano la tradizione regionale luganese, molto diversa da quella della Svizzera tedesca e romanda.

Non crede, però, che il primo passo sia appassionare la comunità locale e la cittadinanza a queste collezioni e al museo stesso?

Certo, questo è vero. E allo stesso modo è necessario continuare a incoraggiare la produzione di arte: anche questo è un nostro compito. Non possiamo dedicarci unicamente a nomi internazionali. La nostra visione comprende anche il rafforzamento della scena locale.

Può illustrarci le linee guida che caratterizzeranno la vostra futura programmazione?

Sarà necessario avere regolarmente una mostra di forte richiamo in termini di pubblico. Questo avverrà all’incirca una volta all’anno. Ma ci saranno altre mostre e, anche se di minor richiamo, esse non saranno di minore importanza. Si possono realizzare esposizioni importanti sul piano internazionale, che però non attirano un pubblico numeroso. Possiamo vedere la programmazione espositiva come una serie di cerchi concentrici: si parte dal livello locale e regionale, si va a quello nazionale per poi arrivare al livello internazionale. La programmazione nel corso dell’anno attraversa tutti questi ambiti. Un aspetto interessante sarà anche quello di dedicare dei momenti all’arte del passato. In questo senso il Ticino può contare su un forte vantaggio, che è il rapporto con la tradizione italiana. Questo non esiste altrove in Svizzera. Ma in generale l’accento sarà senza dubbio posto sul Novecento e sul periodo contemporaneo. Per quanto riguarda l’arte svizzera, credo che sia importante inserire maggiormente il Ticino nel contesto nazionale e l’anno prossimo avremo due mostre dedicate proprio a questo obiettivo. Una sarà in collaborazione con il Museo nazionale di Zurigo. L’esposizione si svolgerà in contemporanea a Lugano e al Landesmuseum e sarà dedicata alla collezione della Gottfried Keller Stiftung, la grande raccolta nazionale gestita dall’Ufficio federale della cultura che ormai da 150 anni acquisisce opere d’arte, affidandole poi in deposito ai musei svizzeri. È dal 1966 che non viene organizzata una grande retrospettiva per presentare questa collezione ed essa rappresenterà una storia dell’arte svizzera in nuce. Cominceremo con Füssli, proseguendo con l’Ottocento: Zünd, Koller, Calame, Böcklin, Hodler, Segantini e altri. Arriveremo fino al presente, con capolavori che attualmente sono in deposito a Berna, Ginevra, Basilea, Zurigo. Poi, in collaborazione con il Kunsthaus di Aarau, realizzeremo una grande retrospettiva sul Surrealismo svizzero. Spiegheremo come alcuni artisti svizzeri ebbero un ruolo importante nel contesto di questo movimento. In Ticino si conosce la

Tobia Bezzola è il nuovo direttore del MASI. (Keystone)

vicenda di Serge Brignoni, ma ci furono in realtà almeno una decina di autori che, dalla Svizzera, presero parte alle vicende surrealiste. Anche questo è un bellissimo progetto e credo servirà a rafforzare la presenza del Ticino nel discorso artistico nazionale.

Passando invece alla situazione del LAC, ci sono delle opportunità per lavorare a più stretto contatto con LuganoMusica e LuganoInScena?

Ho iniziato da subito a lavorare con i responsabili delle altre discipline con l’obiettivo di integrare e valorizzare il centro con una vera trasversalità. Come Museo, abbiamo meno flessibilità, rispetto alle altre programmazioni, ma mi auguro davvero che troveremo delle possibilità di approfittare di questa vicinanza e di questa situazione particolare, quasi unica, insieme a Carmelo Rifici e a Etienne Reymond. La mediazione culturale sembra una questione che lei reputa molto importante.

Sì, estremamente importante. Credo comunque che ci sia ancora molto da fare in Svizzera: per tradizione non è un settore molto sviluppato. Viene affrontato con molta più considerazione in Germania, negli Stati Uniti o in Inghilterra. Anche nella Svizzera tedesca sta lentamente prendendo maggiore spazio solo negli ultimi tempi. Sul piano internazionale vediamo come sia oggi possibile una scelta molto più ampia di attività che coinvolgono ogni tipo di pubblico. A Lugano comunque partiamo da una buona situazione e restano ancora occasioni di crescita.

Per quanto concerne la sua personale esperienza, riguardo alla curatela di mostre, come intende portare

il suo contributo in Ticino?

Credo che avverrà soprattutto tramite i contatti e i rapporti che si possono creare nel corso di una carriera. Una mostra oggi non è più realizzata come in passato, quando si andava nello studio di un artista a fare una selezione di opere da esporre. Si tratta piuttosto della scelta del museo di produrre il progetto artistico: è per questo che l’anno prossimo abbiamo deciso di lavorare con Julian Charrière, uno degli artisti svizzeri più interessanti anche a livello internazionale, che sta ora avendo un forte successo. Lo stiamo già seguendo con il suo progetto, che si svolge prevalentemente in Islanda. La mostra si terrà l’anno prossimo allo Sprengel Museum di Hannover e da noi a Lugano. Anche per questo genere di cose ci vuole sia tempo e pianificazione: molte delle iniziative del 2018 erano già in programma prima del mio arrivo, ma dall’anno prossimo porterò a pieno il mio contributo anche a livello curatoriale, perché voglio seguire da vicino ogni passaggio della vita del museo, da quelli più tecnici e logistici, a quelli di conservazione e di uso degli spazi. È una questione importante per me, in termini di esperienza personale, per capire dove si può fare meglio. Da ultimo, c’è qualcosa che vorrebbe condividere con i lettori?

Sì, per me è stato un grande piacere trovare qui, in tutta la Città, in tutto il Cantone, un forte sostegno al MASI. C’è consapevolezza di quanto questo progetto sia importante e che tutti possano trarne beneficio. Un atteggiamento positivo oggi non è così scontato e mi fa ben sperare, dato che ne avremo molto bisogno in futuro.

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 9 aprile 2018 • N. 15

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Cultura e Spettacoli

L’altro Kerouac

Mostre Al MAGA di Gallarate l’opera pittorica

del padre della Beat Generation

Alessia Brughera Alla fine degli anni Quaranta i valori della società puritana statunitense vengono scossi dal movimento culturale più eversivo del Novecento: la Beat Generation. Innamorati della libertà e mossi da un totale rifiuto delle regole imposte dal perbenismo, i giovani Beat sfidano le vecchie forme sociali all’insegna di «un’esuberanza senza requie» (per usare le emblematiche parole del poeta John Clellon Holmes nell’articolo apparso nel 1952 sul «New York Times») che li porta a diffondere una nuova etica a carattere spontaneista dominata da una profonda ricerca intima. Una ricerca che passa attraverso l’uso smodato dell’alcol, la sperimentazione delle droghe, la sessualità libera e l’interesse per le religioni orientali, mezzi con cui esplicitano il bisogno di contestare gli schemi spersonalizzanti della collettività per far emergere la loro spiritualità prorompente. Insieme a William Burroughs, Allen Ginsberg, Lucien Carr, Gregory Corso, Neal Cassady, Lawrence Ferlinghetti, Norman Mailer e Gary Snyder, a segnare la storia, non solo letteraria, degli Stati Uniti figura Jack Kerouac, considerato il padre di questa generazione di assetati di sogni e speranze. Il suo romanzo di culto On The Road, scritto di getto su un rotolo di carta lungo più di trenta metri, descrive alla

perfezione l’esistenza della gioventù Beat e la loro visione del mondo indocile e spregiudicata. Pubblicato nel 1957, il libro racconta di epici viaggi in automobile per tutto il continente americano mescolando visioni di paesaggi desolati e la passione per una vita irrequieta e brutalmente romantica. Se con i suoi lavori narrativi Kerouac ha segnato un’intera epoca guadagnandosi con essi imperitura notorietà, pochi sanno che è stato anche un grande amante dell’arte. Non ha nemmeno dieci anni quando realizza il suo primo autoritratto e non fa mistero dell’ardente desiderio di diventare un artista. Quando muore, nel 1969, lascia un’enorme quantità di quadri, disegni e schizzi. «Dipingo solo belle cose» dichiara Kerouac. «Uso vernici da pareti e colla, uso il pennello e le punte delle dita. In pochi anni potrei diventare un pittore di primo piano. Se lo voglio. E quando potrò vendere i miei dipinti potrò comperarmi un pianoforte e comporre musica. Perché la vita è una noia». Persino per On The Road la parte artistica ha avuto una sorta di sopravvento, almeno temporale, su quella letteraria, con la copertina disegnata ancor prima della fine della stesura del testo. Lo stile immediato che contraddistingue i libri di Kerouac si ritrova anche nelle sue opere pittoriche, come se penna e pennello si muovessero all’unisono a fissare, l’una sulla pa-

gina bianca, l’altro sulla tela, spazi di vita vissuta capaci di consegnarci un senso di libertà infinito. Quel «flusso di coscienza» reinventato da Kerouac per i suoi romanzi sembra così riflettersi anche nell’arte, con un linguaggio istintivo e potente debitore soprattutto della pittura informale e dei maestri della scuola di New York, che negli anni Cinquanta aprono la strada a un impiego rivoluzionario del segno, del gesto e del colore. Lo testimonia bene la mostra allestita negli spazi del MAGA di Gallarate. Pur essendo suddivisa in sezioni tematiche, la rassegna è una sorta di viaggio nell’universo intricato e fecondo di Kerouac, concepita per far emergere come questo grande scrittore/ artista sia riuscito a far confluire in un’unica corrente creativa i molteplici ambiti da lui esplorati. In Kerouac vita e poetica si fondono senza limiti e confini, avida l’una dell’altra. Il nucleo della mostra è costituito da un’ottantina di dipinti e disegni realizzati tra la fine degli anni Cinquanta e i primi anni Sessanta, sinora presentati al pubblico solo da pochi musei al mondo. Da Lowell, in Massachusetts, dove sono rimaste per decenni, queste opere ci aiutano a comprendere meglio la labirintica mente di Kerouac, ampliando la percezione del lavoro di un autore troppo spesso costretto nel ruolo di scrittore di On The Road.

Jack Kerouac, Sacred Heart, olio su carta.

I ritratti degli amici e dei personaggi celebri che Kerouac incontra realmente o che conosce attraverso la lettura di riviste dell’epoca sono raccolti in una delle sezioni più interessanti della rassegna: qui sfilano come in un album i volti di attori e letterati, come quello di Truman Capote, uno dei più incalliti detrattori della Beat Generation, ma anche di personalità più insolite per Kerouac, come quella del Cardinale Montini, scoperta tra le pagine del giornale «Life» e resa protagonista di un dipinto dai colori vivacissimi e dai tratti materici e inquieti. Particolarmente rappresentativa della ricerca interiore mai sopita di Kerouac è la sezione intitolata Visioni di Jack, dove sono esposti lavori dal soggetto religioso. Un tema molto caro all’autore perché forte è il suo bisogno di dare corpo al trascendente. Ritornano con insistenza, nelle tele e nelle opere grafiche, la figura di Cristo così come quella di Buddha, in una commistione di che dimostra come per Kerouac il

concetto di divinità sia da intendere in un’accezione molto ampia e assolutamente non in contrasto con il suo estremo desiderio di libertà. Belle, inoltre, le tappe del percorso che arricchiscono ulteriormente la conoscenza di Kerouac: la serie di fotografie di Ettore Sottsass scattate nel 1966 in occasione del viaggio in Italia dello scrittore, ad esempio, e soprattutto la proiezione del cortometraggio Pull My Daisy, sceneggiato e doppiato dallo stesso Kerouac. Esplorare l’enigmaticità dell’esistenza era la sola attività che Kerouac riteneva degna di sforzi ed è quello che, anche attraverso la pittura, egli ha fatto per tutta la sua breve, temeraria e disperata vicenda umana. Dove e quando

Kerouac. Beat Painting. Museo MAGA, Gallarate. Fino al 22 aprile 2018. Orari: da ma a ve 10.0013.00/14.30-18.30, sa e do 11.00-19.00, lu chiuso. www.museomaga.it Annuncio pubblicitario

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Cultura e Spettacoli

Un cuore consapevole

Spielberg, brillante, non perfetto

testimone dei cambiamenti televisivi che hanno contrassegnato gli ultimi decenni

Cinema Il cinema è

Incontri A colloquio con Enrica Bonaccorti, attrice, giornalista e comunicatrice, ma anche

ormai un videogioco?

Simona Sala Probabilmente i più se la ricordano dagli Anni ottanta, quando accoglieva il pubblico in uno dei primi salotti televisivi, con Italia Sera, format di Rai 1, oppure quando chiacchierava e giocava con gli spettatori sul mezzogiorno di Pronto, chi gioca?, diretta da Gianni Boncompagni. Ma forse è solamente oggi che Enrica Bonaccorti riesce ad essere sé stessa fino in fondo, dando seguito alla propria vocazione di comunicatrice preparata, colta e soprattutto molto curiosa verso la vita. Lo dimostra anche durante le numerose presentazioni di libri cui si dedica con verve ed entusiasmo, discettando e bisticciando scherzosamente con i colleghi di turno. La incontriamo al termine della presentazione, fatta insieme alla brava Barbara Alberti, in una libreria romana, di Primo venne Caino (Salani) di Mariano Sabatini. Alla parola «Svizzera» Enrica Bonaccorti si illumina, e inarrestabile comincia a navigare in un fiume di ricordi, tutti accomunati dall’affetto per i personaggi incontrati durante una carriera che non si è mai arrestata, e che l’ha vista dietro ai microfoni della radio, davanti alle telecamere della tv, sotto i riflettori di un palcoscenico, tra le pagine di un libro.

Fabio Fumagalli ** Ready Player One, di Steven Spielberg, con Tye Sheridan, Mark Rylance, Olivia Cooke, Ben Mendelsohn (USA)

Se si cerca in Internet, alla voce Enrica Bonaccorti, si trova «conduttrice, paroliera, attrice, modella, opinionista, scrittrice...». Lei come si definirebbe in questa fase della sua vita e a quale espressione artistica si sente più vicina?

Definirmi? Diciamo che nei miei lavori c’è sempre stata al centro la parola, la comunicazione, il rapporto col pubblico. Può avvenire in teatro, con un libro, in televisione, in una canzone, alla radio... In Italia si ha la pigra abitudine di mettere un’etichetta sul personaggio, di stupirsi se un attore sa presentare o se un presentatore sa scrivere, chi fa televisione non va bene per il cinema e così via. Io di partenza sono un’attrice di prosa, questo volevo fare e ho fatto nei primi anni di lavoro, continuando a scrivere però. A un certo punto è la vita che sceglie per te... avendo il dono dello scilinguagnolo e molta attenzione nei confronti di temi di natura sociale, ho virato verso la conduzione e il giornalismo. Eppure, sebbene l’ultima volta in teatro risalga ormai a 15 anni or sono al Festival di Taormina, non riesco a rinunciare a niente. Sergio Zavoli, consegnandomi il suo «Guidarello» che premia solo quattro giornalisti ogni anno, mi presentò così: «Enrica Bonaccorti è una giornalista prestata allo spettacolo». È stata una delle mie più grandi soddisfazioni. E pensare che quando ricevetti la telefonata dall’organizzazione del premio, pensai fosse per presentarlo, non per riceverlo!

Le donne non si devono fare mettere i piedi in testa, devono mostrare grazia e non dire «grazie» In un certo modo lei è cresciuta con e dentro la televisione, assistendo a evoluzioni socioculturali importanti, come l’inarrestabile crescita di Mediaset. Qual era la consapevolezza di chi era all’interno della TV a quei tempi? È rimasto qualcosa dello spirito e del modo di allora di fare televisione?

Ho iniziato a fare televisione nel 1971 (!) ed erano già due anni che recitavo

Diretta, irriverente, scherzosa e colta, i molti volti di Enrica Bonaccorti.

in teatro. Allora si cercavano gli attori fra... gli attori. Feci un provino per uno sceneggiato, venni scelta, e continuai per tutti gli Anni settanta a recitare sia in teatro che in varie commedie e sceneggiati tv. La differenza è già tutta nella scelta dei testi: i nostri erano i grandi classici, da I Promessi Sposi alla Baronessa di Carini, che il pubblico imparava automaticamente acculturandosi e divertendosi allo stesso tempo. Io ho avuto la fortuna di interpretare grandi autori accanto a grandi attori. Contemporaneamente avevo iniziato a fare radio come conduttrice, dopo un provino a cui ero andata pensando fosse per un ruolo d’attrice! Migliaia di ore alla radio mi hanno sicuramente preparato alla televisione, che avevo già tanto frequentato come attrice e in cui ora entravo come padrona di casa di programmi importanti. Anche questo avvenne per una serie di casualità e occasioni, che bisogna cogliere al volo però, mettendoci tutta l’attenzione e il talento possibili. E così mi è capitato di dare il via al primo programma quotidiano condotto in coppia da un uomo e una donna, lui giornalista e lei no, che ha cambiato i pomeriggi televisivi del Paese. La mia Italia Sera (ho l’orgoglio di aver inventato il titolo) è la madre di tutte le Vite in diretta, Pomeriggi e Mattine 5 e così via. Ma nonostante il format sia uguale, i contenuti sono decisamente cambiati, così come è avvenuto per gli ospiti e il tono degli interventi in tanti programmi. Non so se oggi sarei ancora adatta a questo genere di trasmissione: ci sono state occasioni in cui ho pensato che io, al posto della conduttrice, forse non mi sarei trattenuta dal cacciare dallo studio certi ospiti troppo maleducati...

La sua attenzione verso il mondo della TV è sempre molto alta. Quali sono scelte o format condivide?

Quello che per me è importante non è il format in quanto tale, ma il modo in cui affronta i contenuti... insomma non la cornice ma il quadro! Anche il format più «basso» può dare spunti di riflessione «alti», se le luci sono giuste.

Enrica, in qualche modo lei è legata anche alla Svizzera, ha interpretato perfino Dürrenmatt.

Io sono molto legata a Lugano perché ho avuto la fortuna di interpretare alcune commedie per la televisione svizzera sotto la direzione di Vittorio Barino. Ho tanti ricordi e tutti belli! Ricordo ad esempio quando recitai il ruolo di una turista italiana isolata per la tempesta in un rifugio e attorniata da valligiani che recitavano solo in Schwyzerdütsch! Non fu facile... Ancora più speciale fu la mia partecipazione a La Meteora di Friedrich Dürrenmatt. Con l’approvazione del grande drammaturgo in persona, fui scelta per il ruolo della moglie del pittore, il quale all’inizio della commedia dipingeva sua moglie... nuda! Era il 1976, fu il primo nudo televisivo: uno scandalo! Ma il testo era bellissimo e gli attori bravissimi: da Renato De Carmine a Giancarlo Zanetti e Didi Perego... Forse non tutti sanno che ha scritto anche le parole della celebre La lontananza di modugnana memoria. Come nacque la collaborazione?

Lavoravo con Domenico Modugno in teatro. L’amministratore della sua compagnia mi aveva notata a Tindari nella mia prima esperienza teatrale. Avevo 19 anni, iscritta al primo anno di Lettere e Filosofia, la mia poteva restare una parentesi estiva, ma a settembre fui convocata per un provino e fui scelta per un piccolissimo ruolo nella commedia Mi è caduta una ragazza nel piatto. 209 repliche, otto mesi e mezzo di tournée e Biglietto d’oro! Dopo appena due mesi, da un giorno all’altro si dovette sostituire la seconda

attrice, e dal momento che ero l’unica a sapere tutta la parte poiché stavo sempre in quinta, non ancora ventenne debuttai al Manzoni di Milano in un ruolo importante! Ma la cosa ancora più importante è che durante quella tournée nacque La Lontananza. Avevo confidato a Mimmo che scrivevo poesie, raccontini, ballate... e lui mi faceva sentire le musiche facendomi provare la metrica. Se la vita è l’arte dell’incontro, quello con lui è stato un capolavoro. Poeta attore artista ancor prima che cantante. Una fonte di energia perenne.

A contraddistinguerla da altre figure del mondo dello spettacolo è sempre stata anche la sua grande attenzione per le minoranze, il suo spirito ogni tanto polemico e un approccio diretto ai suoi interlocutori...

Sì, ma non lo faccio apposta! È che sono trasparente, incapace di fingere, a meno che non stia recitando su un palcoscenico. Nella vita ho le mie idee e fatico a nasconderle. Io polemica? Pensi che mi trattengo! Diretta sì, ma questa è un’epoca in cui è sparito il confronto, va più di moda l’affronto. Oppure si attenuano i concetti o addirittura si divaga perché non conviene. Ma se sparisce il dubbio e la possibilità di esprimerlo senza ricevere offese o essere esclusi, è peggio per tutti.

Da sempre, esistono due Steven Spielberg. Nel primo lungometraggio del 1971, Duel, i suoi due aspetti convivevano. Quella storia di una banale, pacifica utilitaria che tentava inutilmente di sorpassare un camion diceva già molto del futuro grande cineasta. Gli elementi quotidiani, più «normali» del film mutavano progressivamente; per terminare nell’irrazionalità più totale. Vieppiù minaccioso, l’autocarro diveniva qualcosa di astratto e la realtà si trasformava in fantasia. Oggi l’artista settantaduenne firma il contemporaneo The Post, seguito a poche settimane dal futurista Ready Player One. Ma allo stesso modo, dalla metà degli Anni settanta, il regista aveva accostato Lo squalo ad Incontri ravvicinati del terzo tipo; poi, al I predatori dell’arca perduta il grande E.T. Nel 1993, La lista di Schindler usciva con Jurassic Park; mentre dieci anni più tardi Munich veniva accostato a La guerra dei mondi, gli alieni inventati da H.G. Wells già alla fine dell’Ottocento. Alla stessa logica sembra rispondere questo debordante blockbuster, Ready Player One, tratto dal romanzo di Ernest Cline e supercult per ogni addetto ai videogiochi; un’opera ambiziosa, agli antipodi di un film come The Post, incollato all’intimità dei personaggi. Nell’Ohio del 2045 la popolazione immiserisce, assieme ai detriti della natura. Per sopravvivere, la gente si dedica all’uso costante dei visori di realtà virtuale creati da James Halliday. Un inventore a metà tra Steve Jobs e Steven Spielberg, che ha creato l’Oasis, un gioco destinato ad ammansire il popolo. Prima di morire, però, Halliday lancia un’ultima sfida: chi risolverà un enigma erediterà la sua sterminata fortuna. Oltre che, in pratica, il controllo della miserabile umanità negletta. Halliday (Mark Rylance) ricorda forse lo Spielberg di oggi, confrontato alle proprie responsabilità industriali e artistiche. Mentre Wade (Tye Sheridan) è l’adolescente che, assieme al proprio avatar, si cimenterà nella competizione, rinviando così all’innocenza dello Spielberg degli Anni settanta. Poiché Wade deve vincere rispetto ai perfidi concorrenti e non conosce che la cultura pop degli Anni ottanta, Ready Player One non può allora che strabordare nelle citazioni. Virtuose, certo, ma asfissianti, magistralmente assemblate, però assillanti. A Spielberg riesce l’immersione iconoclasta nei mitici ambienti di Shining; ma quando dilaga in una serie di citazioni e difficilmente identificabili riferimenti, il gioco si farà sterile e pesante.

Che cosa consiglierebbe a una giovane donna di oggi?

Di non farsi mettere i piedi in testa da nessuno, di leggere molto, di non imitare stereotipi, di non farsi «intruppare» in nessun gregge, di tirar fuori la propria personalità, con tanta grazia ma senza tanti grazie. Sorridente e a testa alta, ma solo se è una testa piena di libri, di informazioni, di attenzione al mondo, di poesia... perché la felicità del tuo cuore dipende dalla consapevolezza della tua mente, è lei che ti rende libera. Questo le direi.

Un fotogramma del film.


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tris grigliato di peperoni, zucchine e carote fino alle verdure singole grigliate come carciofi, cipolline, zucchine e peperoni per un piacere culinario senza limiti. Comun denominatore di tutte le specialità è la semplicità di utilizzo: è sufficiente riscaldarle al microonde oppure, a piacimento, al forno, sulla piastra o, semplicemente, si possono mangiare così come sono. La pratica vaschetta trasparente, nella quale sono imballate le verdure, è di facile apertura.

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Idee e acquisti per la settimana

Consulenza fitosanitaria

Attualità Sabato 14 aprile, dalle ore 10.00 alle 16.00, è prevista una giornata informativa con un esperto di piante

presso il nuovo Do it + Garden Migros Grancia

Come svegliare i tappeti erbosi e l’orto dopo l’inverno; come effettuare una corretta concimazione primaverile; cosa fare contro i muschi formatisi in inverno nel prato; quali trattamenti servono per eliminare e prevenire le malattie fungine e come avviare correttamente gli impianti di irrigazione. Questi sono solo alcuni dei temi che verranno trattati il prossimo sabato presso il Do it + Garden Migros Grancia a Montagnola. Un esperto di piante sarà a disposizione della clientela per aiutarla con consigli mirati su cura delle piante, del giardino e dei fiori. Materia di sicuro interesse sarà quella relativa ai primi trattamenti alle piante da frutta e alle bacche, in particolar modo albicocchi, peschi e fragole; nonché le giuste misure da attuare contro i parassiti che si annidano sulle piante che sono state fatte svernare in luoghi riparati. Non mancate all’appuntamento! Do it + Garden Blog

Lo sapevate che nel nostro blog trovate tantissime fonti di ispirazione per realizzare fantastici progetti insieme ad amici e famigliari? Grazie a questo utile strumento desideriamo aiutarvi nei lavori creativi casalinghi in modo che possiate trarre il massimo dalla vostra passione per il fai da te. Nel blog vengono pubblicate istruzioni dettagliate, come pure le esperienze dei blogger per darvi una mano con consigli e trucchetti personalizzati. Tutto il materiale utilizzato proviene dal nostro ricco assortimento. Buon divertimento! blog.doitgarden.ch

Alimentazione sana per bebè

I due prestigiosi marchi inglesi di alimenti per neonati Ella’s Kitchen e Organix sono disponibili ora per un breve periodo presso le filiali Migros di Lugano e Agno con una variegata selezione di prodotti, sia dolci che salati, composta da omogeneizzati, smoothie e snack nei gusti più invitanti e originali. Ella’s Kitchen si caratterizza per le sue ricette

originali, bio e prive di additivi (vegane). Organix, dal canto suo, offre prodotti genuini biologici, vegetariani e dal sapore autentico, e risponde anch’essa alle norme più rigorose per garantire la sicurezza alimentare dei più piccoli. Entrambi i marchi sono facilmente riconoscibili grazie alle loro confezioni dal design moderno, divertente e colorato.

Sanitari Grohe da OBI a S. Antonino

Da venerdì 13 a mercoledì 18 aprile lo speciale autocarro del noto marchio Grohe farà tappa di fronte all’OBI del Centro S. Antonino. Al suo interno i visitatori potranno scoprire tutte le ultime novità dell’azienda tedesca leader nel settore degli impianti sanitari,

nonché porre domande al personale specializzato e testare alcuni prodotti di ultima generazione. Da sempre Grohe si distingue per la qualità e la sostenibilità della sua produzione, grazie a impianti dal design moderno realizzati con tecnologie all’avanguardia che possono contribuire in modo determinante a ridurre il consumo domestico d’acqua. Infine, per l’occasione è previsto il 10% di sconto su tutto l’assortimento Grohe.


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Idee e acquisti per la settimana

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Ma cosa significa effettivamente Bio? Nella coltivazione dei prodotti bio sono vietati i fertilizzanti artificiali e le sostanze sintetiche. Al loro posto, i contadini bio utilizzano metodi naturali, come per esempio coccinelle e altri insetti antagonisti, per contrastare malattie e parassiti. Tutto questo preserva il suolo. Il rispetto delle direttive bio viene regolarmente verificato tramite controlli indipendenti.

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Idee e acquisti per la settimana

Michael Sandmeier

«Ottimizzato per il gusto svizzero»

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I nuovi Royals

Dal 2012 Café Royal offre diverse capsule di caffè compatibili con il sistema Nespresso. Per gli apparecchi Nescafé Dolce Gusto e Twin ci sono ora diversi nuovi caffè in capsula dell’apprezzata impresa di torrefazione Migros. Le capsule della marca Twin usciranno dall’assortimento Migros con l’introduzione delle nuove capsule Testo Melanie Michael; Fotografie Yves Roth

Per gli apparecchi Nespresso

Le capsule di caffè per il sistema Nespresso, che da anni godono di un’ottima reputazione, sono ancora disponibili nelle filiali Migros nella consueta qualità. Tra le capsule compatibili con il sistema Nespresso, a livello svizzero Café Royal è la marca più apprezzata.

Michael Sandmeier è responsabile Business Unit Café Royal alla Delica SA.

Perché le capsule Twin vengono sostituite con capsule Café Royal? Negli ultimi anni Café Royal è divenuto un marchio forte. Siamo uno dei principali fornitori di capsule compatibili con gli apparecchi Nespresso, per questo motivo abbiamo deciso di includere nella famiglia Café Royal anche le capsule per gli apparecchi Nescafé Dolce Gusto e Twin. Già commercializziamo le capsule all’estero, con grande successo. A breve ci saranno macchine da caffè Café Royal? No, ci concentriamo completamente sul caffè. Le nuove capsule hanno esattamente la stessa forma di quella delle capsule Twin e possono essere utilizzate sia con le macchine Twin che con quelle Nescafé Dolce Gusto. Quali i vantaggi per i clienti da questo cambiamento? Il nuovo assortimento è stato appositamente ottimizzato per il gusto svizzero. Abbiamo introdotto tre nuove varietà: il fruttato Single Origin Brasil, il Caffè Grande per gli amanti del caffè con la crema e infine il Decaffeinato. Altra novità è il prezzo più basso.

Per gli apparecchi Nescafé Dolce Gusto e Twin

A parità di qualità, come mai il prezzo di Fr. 4.95, più a buon mercato di prima? Negli anni passati Café Royal è fortemente cresciuto sul mercato internazionale grazie alle capsule compatibili con Nescafé Dolce Gusto. L’effetto di questi volumi porta a vantaggi di prezzo, di cui facciamo beneficiare i nostri clienti.

Le nuove capsule Café Royal sono disponibili in dieci varietà. Tra queste sono incluse anche bevande a base di latte, come il Cappuccino e il Latte Macchiato, ognuna delle quali comprende due singole capsule: una per il latte e l’altra per il caffè. Con Kids Chocolate il sistema a capsule permette di preparare in un attimo una bevanda calda anche per i più piccoli. Il caffè di tutte le capsule Café Royal è tostato, macinato e confezionato in Svizzera.

Foto zVg

Il caffè delle nuove capsule Café Royal ha lo stesso sapore di quello delle capsule Twin, che hanno sostituito? Sì. Per quanto riguarda ricette, funzionalità delle capsule e gusto non c’è stato alcun cambiamento.

Nescafé® Dolce Gusto® e Nespresso® sono marchi appartenenti a terzi e non hanno legami di alcun tipo con il Gruppo Migros. Café Royal Caffé Lungo 16 capsule Fr. 4.95

Café Royal Decaffeinato 16 capsule* Fr. 4.95

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*Nelle maggiori filiali

Cosa contraddistingue le capsule Café Royal? Il cliente Café Royal vuole un caffè dal gusto convincente e una capsula che funziona sempre, ciò che garantiamo grazie a una scrupolosa selezione dei caffè e all’accurata tecnologia svizzera. Perché Café Royal non offre ai clienti tutti i prodotti Twin da loro preferiti? Alcune varietà hanno ottenuto uno scarso consenso e per questo non sono più disponibili alla Migros. I loro estimatori possono comunque ordinarli online: www.cafe-royal.com.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 9 aprile 2018 • N. 15

40

Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 9 aprile 2018 • N. 15

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Idee e acquisti per la settimana

Michael Sandmeier

«Ottimizzato per il gusto svizzero»

Café Royal

I nuovi Royals

Dal 2012 Café Royal offre diverse capsule di caffè compatibili con il sistema Nespresso. Per gli apparecchi Nescafé Dolce Gusto e Twin ci sono ora diversi nuovi caffè in capsula dell’apprezzata impresa di torrefazione Migros. Le capsule della marca Twin usciranno dall’assortimento Migros con l’introduzione delle nuove capsule Testo Melanie Michael; Fotografie Yves Roth

Per gli apparecchi Nespresso

Le capsule di caffè per il sistema Nespresso, che da anni godono di un’ottima reputazione, sono ancora disponibili nelle filiali Migros nella consueta qualità. Tra le capsule compatibili con il sistema Nespresso, a livello svizzero Café Royal è la marca più apprezzata.

Michael Sandmeier è responsabile Business Unit Café Royal alla Delica SA.

Perché le capsule Twin vengono sostituite con capsule Café Royal? Negli ultimi anni Café Royal è divenuto un marchio forte. Siamo uno dei principali fornitori di capsule compatibili con gli apparecchi Nespresso, per questo motivo abbiamo deciso di includere nella famiglia Café Royal anche le capsule per gli apparecchi Nescafé Dolce Gusto e Twin. Già commercializziamo le capsule all’estero, con grande successo. A breve ci saranno macchine da caffè Café Royal? No, ci concentriamo completamente sul caffè. Le nuove capsule hanno esattamente la stessa forma di quella delle capsule Twin e possono essere utilizzate sia con le macchine Twin che con quelle Nescafé Dolce Gusto. Quali i vantaggi per i clienti da questo cambiamento? Il nuovo assortimento è stato appositamente ottimizzato per il gusto svizzero. Abbiamo introdotto tre nuove varietà: il fruttato Single Origin Brasil, il Caffè Grande per gli amanti del caffè con la crema e infine il Decaffeinato. Altra novità è il prezzo più basso.

Per gli apparecchi Nescafé Dolce Gusto e Twin

A parità di qualità, come mai il prezzo di Fr. 4.95, più a buon mercato di prima? Negli anni passati Café Royal è fortemente cresciuto sul mercato internazionale grazie alle capsule compatibili con Nescafé Dolce Gusto. L’effetto di questi volumi porta a vantaggi di prezzo, di cui facciamo beneficiare i nostri clienti.

Le nuove capsule Café Royal sono disponibili in dieci varietà. Tra queste sono incluse anche bevande a base di latte, come il Cappuccino e il Latte Macchiato, ognuna delle quali comprende due singole capsule: una per il latte e l’altra per il caffè. Con Kids Chocolate il sistema a capsule permette di preparare in un attimo una bevanda calda anche per i più piccoli. Il caffè di tutte le capsule Café Royal è tostato, macinato e confezionato in Svizzera.

Foto zVg

Il caffè delle nuove capsule Café Royal ha lo stesso sapore di quello delle capsule Twin, che hanno sostituito? Sì. Per quanto riguarda ricette, funzionalità delle capsule e gusto non c’è stato alcun cambiamento.

Nescafé® Dolce Gusto® e Nespresso® sono marchi appartenenti a terzi e non hanno legami di alcun tipo con il Gruppo Migros. Café Royal Caffé Lungo 16 capsule Fr. 4.95

Café Royal Decaffeinato 16 capsule* Fr. 4.95

Café Royal Caffé Grande 16 capsule* Fr. 4.95

Café Royal Espresso Forte 16 capsule* Fr. 4.95

Café Royal Brasil Single Origin 16 capsule* Fr. 4.95

Café Royal Kids Chocolate 16 capsule Fr. 4.95

Café Royal Latte Macchiato 16 capsule Fr. 4.95

Café Royal Cappuccino 16 capsule Fr. 4.95

*Nelle maggiori filiali

Cosa contraddistingue le capsule Café Royal? Il cliente Café Royal vuole un caffè dal gusto convincente e una capsula che funziona sempre, ciò che garantiamo grazie a una scrupolosa selezione dei caffè e all’accurata tecnologia svizzera. Perché Café Royal non offre ai clienti tutti i prodotti Twin da loro preferiti? Alcune varietà hanno ottenuto uno scarso consenso e per questo non sono più disponibili alla Migros. I loro estimatori possono comunque ordinarli online: www.cafe-royal.com.


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HIT DELLA SETTIMANA PER IL GRILL.

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3.45 invece di 4.35 Mozzarella Alfredo in conf. da 3 3 x 150 g

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20%

1.70 invece di 2.15 Formaggella Cremosa prodotta in Ticino, in self-service, per 100 g

20%

1.80 invece di 2.30 Le Gruyère semistagionato bio per 100 g

25%

1.10 invece di 1.50 Asiago pressato DOP in self-service, per 100 g

20%

1.75 invece di 2.20 Caseificio Gottardo prodotto in Ticino, in self-service, per 100 g

20%

1.20 invece di 1.55 Emmentaler dolce in self-service, per 100 g

Vitamine a solo 1 franco.

20%

4.20 invece di 5.25 Camembert Suisse crémeux 300 g

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3.90 invece di 4.90 Fragole bio Spagna, in conf. da 400 g

1.– Arance bionde Spagna, rete da 1 kg

Migros Ticino OFFERTE VALIDE SOLO DAL 10.4 AL 16.4.2018, FINO A ESAURIMENTO DELLO STOCK

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5.85 invece di 6.90 Tutti i tulipani M-Classic, mazzo da 10 disponibili in diversi colori, il mazzo, per es. rossi

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2.20 Mango Perù, il pezzo

1.– Peperoni misti Spagna, 500 g

30%

13.90 invece di 19.90 Bouquet di rose Fairtrade, mazzo da 30 disponibili in diversi colori, lunghezza dello stelo 40 cm, per es. bianco-arancione-rosa

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2.80 invece di 3.50 Patate novelle Egitto, imballate, 1,5 kg

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! à it c li p m e s a tt tu in Risparmiare 3er-Pack conf. da 3

33% Pasta bio in conf. da 3 per es. agnolotti all’arrabbiata, 3 x 250 g, 9.80 invece di 14.70

20% Tutto l’assortimento di composte e succhi freschi Andros per es. composta al naturale, 0% di zucchero aggiunto, 4 x 97 g, 2.80 invece di 3.60

50%

4.40 statt 8.85

XL Original Rösti im 3er-Pack 3 x 750 g

conf. da 4

40%

– .5 0

di riduzione

Pizze M-Classic in conf. da 4 per es. pizza del padrone, 4 x 400 g, 12.90 invece di 21.60

Tutti i tipi di pane fresco bio per es. Twister cotto su pietra chiaro, 360 g, 2.80 invece di 3.30

20% Tutto l’assortimento You per es. pane proteico, 400 g, 2.80 invece di 3.50, offerta valida fino al 23.4.2018

conf. da 2

40%

19.90 invece di 33.80 Phalaenopsis, 2 steli, in conf. da 2, vaso, Ø 12 cm disponibile in diversi colori

Hit

2.90

Biscotti prussiani 360 g + 40% di contenuto in più, 504 g

Migros Ticino OFFERTE VALIDE SOLO DAL 10.4 AL 16.4.2018, FINO A ESAURIMENTO DELLO STOCK

– .2 0

di riduzione Tutti gli snack al latte o le fette al latte Kinder refrigerati per es. fetta al latte, 5 x 28 g, 1.60 invece di 1.80

a par tire da 2 pe z zi

20%

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20% Tutto l’assortimento Mister Rice per es. Wild Rice Mix, 1 kg, 3.60 invece di 4.50

conf. da 2

20%

5.60 invece di 7.–

Farina per treccia e farina bianca TerraSuisse (prodotti «Dalla regione.» esclusi), 1 kg, a partire da Salse liquide Thomy in conf. da 2 per es. besciamella, 2 x 250 ml 2 pezzi, 20% di riduzione

30%

Tutte le verdure miste Farmer’s Best prodotti surgelati, a partire da 2 pezzi, 30% di riduzione

conf. da 4

20% Ravioli alla napoletana o alla bolognese M-Classic in conf. da 4 per es. alla napoletana, 4 x 870 g, 9.20 invece di 11.60


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conf. da 50

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Tutti i birchermüesli, i müesli croccanti e i fiocchi Farmer per es. müesli croccante ai frutti di bosco Croc, 500 g, 4.– invece di 5.–

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40% Agnesi in confezioni multiple spaghetti, penne o tortiglioni, per es. spaghetti in conf. da 3, 3 x 500 g, 3.65 invece di 6.15

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3.95 invece di 6.80 Lasagne alla bolognese o cannelloni alla fiorentina Buon Gusto in conf. da 2 surgelate, per es. cannelloni alla fiorentina, 2 x 360 g

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20% Jumpy’s alla paprica e Flips M-Classic in conf. da 2 per es. Jumpy’s alla paprica, 2 x 100 g, 3.65 invece di 4.60

a par tire da 2 pe z zi

–.60

di riduzione Tutti i biscotti Tradition a partire da 2 pezzi, –.60 di riduzione l'uno, per es. cuoricini al limone, 200 g, 2.60 invece di 3.20

Branches Classic Frey in conf. da 50, UTZ 50 x 27 g, in vendita solo nelle maggiori filiali

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Tutte le capsule Café Royal in conf. da 10 Carta per uso domestico M-Classic in conf. da 2 o da 33, UTZ a partire da 2 pezzi, 20% di riduzione offerta valida fino al 23.4.2018

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 9 aprile 2018 • N. 15

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 9 aprile 2018 • N. 15

57

Idee e acquisti per la settimana

Suggerimenti

Cosa fa bene nella vecchiaia

Sani nella vecchiaia

Piccoli aiuti quotidiani

Non è mai troppo tardi per iniziare a muoversi – e da subito beneficiare degli effetti positivi.

Sono spesso le piccole cose che rendono più facile la vita durante la vecchiaia. Disponibili alla Migros prodotti che nella quotidianità danno un senso di sicurezza e di indipendenza

Incontrare regolarmente gli amici e la famiglia – ciò dà stabilità al proprio inserimento sociale e allo scambio intergenerazionale.

Sedere in sicurezza nella vasca Facile da usare: la robusta struttura in alluminio è dotata di cuscinetti antiscivolo e fori speciali per un facile drenaggio dell’acqua.

Testo Gerda Portner; Foto Yves Roth; Styling Miriam Vieli-Goll

Una volta l’anno verificare con il proprio medico i valori più importanti – glicemia, pressione sanguigna, colesterolo.

Sedile per vasca da bagno 73,8 cm x 22,2 cm Fr. 24.80 Disponibile fino al 23 aprile nelle maggiori filiali

Grande sicurezza Una piacevole sensazione di asciutto grazie alla forte capacità assorbente del nucleo, che assimila rapidamente liquidi e odori.

Illuminare con precisione La luce led integrata può essere diretta con facilità nella posizione desiderata grazie all’apposita biglia rossa.

Secure Light Plus inserti igienici protettivi 24 pezzi Fr. 4.55 invece di 5.70

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Decompressione Il nucleo della struttura, con le sue protuberanze, si adatta perfettamente alla zona della nuca – la testa e il collo si rilassano.

Azione!

Il cuscino chiama Il miglio aiuta in molte situazioni. I suoi grani, per esempio, in questo cuscino si adattano perfettamente alla forma della testa e aiutano quindi a trovare una confortevole posizione di riposo.

Cuscino di supporto per la nuca Pedro con fodera, 30 x 50 cm Fr. 49.80 Disponibile fino al 23 aprile nelle maggiori filiali

Pensare positivo e mantenere la calma – l’esperienza mostra in ogni caso che la maggior parte delle volte le cose vanno diversamente da come ci si aspetta. Uscire ogni giorno all’aria aperta – si prende il sole, si immagazzina vitamina D e ci si rinfresca con l’ossigeno. La sensazione di essere utili e impegnati attivamente dà slancio e sostiene l’autostima. Farsi spiegare il funzionamento del nuovo automatico per i biglietti – per mantenere le funzioni cerebrali in costante attività.

Cuscino in miglio per il collo Hirsa 15 x 40 cm Fr. 39.80 Disponibile fino al 23 aprile nelle maggiori filiali

Dal bastone da passeggio all’apparecchio per la misurazione della pressione Fino al 23 aprile molti utili supporti per la quotidianità sono in azione nelle maggiori filiali Migros. Fino a esaurimento dello stock

Mantenere la visione d’insieme Il piccolo contenitore per pillole è sufficiente per una razione quotidiana, in alternativa anche per quattro giorni. Sta comodamente in borsetta. Contenitore piccolo per pastiglie 12 x 7 x 3 cm Fr. 4.90 Disponibile fino al 23 aprile nelle maggiori filiali

Entrambi calmano Il freddo aiuta in caso di lesioni, il caldo in caso di dolori e rigidità. La compressa di gel caldo-freddo dà sollievo in tutti questi casi.

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Muovere il corpo è importante anche con l’avanzare dell’età. Si può leggere il perché su www.migros-impuls.ch/geriatria

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Da tutte le offerte sono esclusi gli articoli M-Budget e quelli già ridotti.

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Testo Gerda Portner; Foto Yves Roth; Styling Miriam Vieli-Goll

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Idee e acquisti per la settimana

Belherbal

Nobile argento Il grigio è di tendenza, anche per i capelli. Affinché il colore appaia fresco ed elegante, è importante curare i capelli nel modo giusto. Per tale scopo ora c’è il nuovo balsamo riflessi argento della linea Belherbal. Così come l’omonimo shampoo, grazie all’estratto di fiordaliso e ai pigmenti colorati conferisce una naturale lucentezza ai capelli bianchi, grigi e decolorati, contrastando l’ingiallimento. Tutti gli shampoo e i balsami Belherbal sono prodotti in Svizzera, partendo da ingredienti ed estratti naturali di alta qualità.

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Foto: Getty Images, zVg

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Idee e acquisti per la settimana

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John Adams Short Seamless taglie S-XL, nero, bianco, marine, mélange* Fr. 8.85** invece di 14.80

Chiunque la conosce, apprezza il modo discreto in cui si presenta. Perché la biancheria intima della linea Seamless di John Adams non ha cuciture laterali. L’intera linea è stata rielaborata nel look, nei colori e nella lavorazione e veste perfettamente, anche sotto la sottile forma di un look da ufficio. La biancheria senza cuciture propone slip e short con shirt abbinata: in colori freschi, tinta unita o mélange, con inserti di tendenza

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John Adams Slip Seamless taglie S-XL, nero, bianco, marine, mélange* Fr. 7.65** invece di 12.80

Intimo perfetto per uomini attivi: short e shirt senza cuciture laterali.

Foto Christian Dietrich; Styling Mirjam Käser; Hair & Make-up Arlette Kobler

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John Adams Shirt Seamless 100% Poliammide taglie S-XL, nero, bianco, marine* Fr. 11.85** invece di 19.80

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Idee e acquisti per la settimana

L’Oréal Paris

Zucchero per la pelle I nuovi esfolianti Sugar Scrub contengono tre cristalli di zucchero. Il loro effetto curativo per la pelle è esclusivo, intensivo e delicato. Lo zucchero bianco elimina la pelle squamata, quello di canna idrata. Lo zucchero grezzo è ricco di minerali. I semi di kiwi aiutano contro i punti neri e provvedono a mantenere la pelle elastica. L’olio di semi di uva rende radiosa la carnagione e il burro di cacao aiuta nel caso di pelle secca. Tutti i principi attivi sono naturali e sono idonei per la cura del viso e delle labbra.

L’Oréal Paris Sugar Scrubs Esfoliante purificante 50 ml* Fr. 13.80

L’Oréal Paris Sugar Scrubs Esfoliante nutriente 50 ml* Fr. 13.80

In nuovi Sugar Scrub con principi attivi naturali curano la pelle in modo individuale.

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