Cooperativa Migros Ticino
G.A.A. 6592 Sant’Antonino
Settimanale di informazione e cultura Anno LXXX 28 agosto 2017
Azione 35 M sh alle p opping agine 37-41 / 5659
Società e Territorio I media in Svizzera: intervista al giornalista Fabio Lo Verso sul progetto «Nouvelle Presse»
Ambiente e Benessere Il Gruppo d’interesse per un ambiente pulito è impegnato da oltre dieci anni nella lotta contro il littering
Politica e Economia Il codice italiano nel mirino delle Ong che operano nel Mediterraneo
Cultura e Spettacoli Simenon è uno scrittore tra i più prolifici ed amati e gode di un successo che non ha confronti
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Stefano Spinelli
Scuola Club rivaluta le sue origini
Dal Marocco alle Ramblas di Peter Schiesser La guerra continua. Qui e là. Si terrorizza e si muore a Barcelona, come a Parigi, a Londra, a Berlino, a Stoccolma..., si muore a Raqqa, in Siria (dove i bombardamenti dell’alleanza occidentale sulla capitale del declinante Stato islamico causano decine di morti fra i civili, di cui in Europa si prende purtroppo scarsamente nota)... Come in ogni guerra, la violenza si abbatte sugli innocenti. E la strage sulle Ramblas di Barcellona ci sconvolge ancora una volta, per la sua brutalità, le spensierate vite spezzate, il terrore che ci penetra di nuovo nell’animo, sfiorandoci da vicino (chi non è mai stato, o non ha uno stretto legame con qualcuno che è già stato sulle Ramblas?). Con la perdita di ampi territori, in particolare la città irachena di Mosul e presto quella siriana di Raqqa, sua capitale, lo Stato islamico si sta disintegrando, anche se si profetizza che l’Isis passi poi ad un’esistenza e a una lotta clandestina. Per noi in Europa, però, questo conterà poco: le migliaia di giovani che sono partiti dal Vecchio continente per la Siria e l’Iraq continueranno a porre una seria minaccia, una volta tornati in patria. Anche perché ogni guerra (com’è stato prima
in Afghanistan negli anni Ottanta e poi in Iraq con l’invasione americana nel 2003) fabbrica una quantità di veterani che formeranno una nuova generazione di giovani jihadisti. E siamo solo noi, ignari stranieri, a sorprenderci che questa volta sia toccato alla Spagna, visto che dal 2004, dagli attentati sui treni a Madrid che provocarono 192 morti e oltre duemila feriti, non era più successo nulla. In realtà, la polizia spagnola (forte dell’esperienza fatta combattendo i terroristi baschi dell’ETA), spesso in collaborazione con quella marocchina, ha sgominato diverse cellule terroristiche islamiste e sventato attentati, in particolare nel 2008 contro la metropolitana di Barcellona. E fra i due milioni di musulmani residenti in Spagna, la gran parte proveniente dal o con radici in Marocco, c’è sufficiente «manovalanza» facilmente reclutabile dagli islamisti, anche a causa del proliferare di predicatori salafisti che si muovono facilmente per le moschee del paese, come anche in Francia, in Belgio e in altri Stati, Svizzera compresa. Per quanto riguarda la Spagna, ma anche la Francia e il Belgio, si aggiunge il fatto che la maggior parte dei terroristi che hanno compiuto stragi a Parigi, a Bruxelles e a Barcellona provengono, o discendo-
no, da una precisa regione del Marocco, quel Rif che storicamente ha visto numerose guerre contro gli spagnoli e contro la monarchia che regge il Marocco. Disprezzandone gli abitanti, molti di essi berberi, re Hassan II non volle mai neppure visitare le sue residenze a Tangeri e Tetuan, situate a pochi passi da questa regione montagnosa del Marocco settentrionale. È una regione depressa, ancora oggi con poche opportunità, sempre molto negletta dal potere centrale marocchino, con il tempo diventata il maggior luogo di produzione di hashish, infestata da bande che si reggono su un codice tribale, su vincoli di solidarietà e di onore. Un buon retroterra dove trovare una gioventù pronta ad immolarsi per una causa più alta pur di sfuggire all’emarginazione, sia in patria, sia nelle nazioni europee in cui sono emigrati, dove si va estendendo il proselitismo. Il dilemma, alla fine si riduce a questo: fino a che ci saranno regioni depresse, con popolazioni vessate, emigranti culturalmente sradicati, i predicatori salafisti troveranno sempre sufficienti giovani da radicalizzare in nome di un ritorno ad un mondo puro e glorioso – l’illusione di ogni fanatico, povero e sprovveduto o meglio situato e acculturato che sia.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 28 agosto 2017 • N. 35
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 28 agosto 2017 • N. 35
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Società e Territorio Casa Santa Elisabetta L’associazione luganese è stata pioniera nell’offrire aiuto e ospitalità a giovani mamme e ai loro bambini. Oggi festeggia i settant’anni pagina 3
Un gioco di fuga 60 minuti chiusi in una stanza, per uscire bisogna usare la logica e collaborare con gli altri giocatori: le escape room sono un intrattenimento di successo in Europa, ora sono arrivate anche in Ticino pagina 5
Una casa che accoglie
Anniversari C ompie 70 anni l’associazione Casa Santa Elisabetta creata da Padre Aurelio Cometta
per aiutare le giovani madri in difficoltà
Stefania Hubmann I bambini, futuro della società, oggi come 70 anni fa al centro delle preoccupazioni di un’associazione pionieristica nell’accoglienza delle ragazze madri. I bambini e queste ultime, per offrire loro la possibilità di assumere quel ruolo genitoriale fondamentale per una crescita sana e armoniosa. Casa Santa Elisabetta, situata nel quartiere di Besso a Lugano in una zona oggi residenziale, è sempre lì, rinnovata nella forma e adeguata ai nuovi bisogni della società, ma saldamente legata ai principi che animavano il Padre Cappuccino Aurelio Pometta, iniziatore di questa missione. Oggi aiutare le giovani madri che per motivi diversi rispetto al passato soggiornano pro tempore nella Casa è diventato più complesso sia dal punto di vista residenziale, sia da quello del progetto di vita che si cerca di aiutarle a costruire. La vivacità dei bimbi che si sente quando ci si avvicina a Casa S. Elisabetta fa però subito capire qual è il fine ultimo di tanto impegno.
La rotta dei giornali
Intervista Il giornalista Fabio Lo Verso
direttore de «La Cité» parla di un nuovo progetto, il Think Thank «Nouvelle Presse»
Natascha Fioretti «Gli editori non hanno futuro, il giornalismo sì», ha detto di recente Hansi Voigt, fondatore del portale di informazione Watson. Sarà per questo che ha appena lanciato Wepublish, portale opensource indipendente per la pluralità dei media. A conferma, dopo il successo della campagna crowdfunding di «Republik» nella Svizzera tedesca e il lancio di «Bon pour la tête» in Svizzera romanda, che il panorama mediatico svizzero è in forte fermento, alla ricerca di nuove identità e ragioni d’essere. E non solo chi fa giornalismo guarda a nuove strade, anche i lettori sempre di più si interessano del futuro del giornalismo di qualità mentre si disamorano delle testate dei grandi gruppi editoriali troppo spesso intenti a tradire il patto di fiducia in nome della velocità, dei tagli o dei raggruppamenti come dimostra la notizia di questi giorni del colosso Tamedia, che ha annunciato che dal 2018 due sole redazioni, una tedesca e una romanda, si occuperanno di scrivere le principali rubriche per tutti i 17 giornali del gruppo. E se per ora non ci sono licenziamenti, c’è comunque da preoccuparsi per la pluralità di pensiero e di visioni vitali per il processo democratico. Ma l’ecosistema mediatico svizzero, come detto, vede affacciarsi alcune novità all’orizzonte, tra queste un nuovo progetto, il Think Thank «Nouvelle Presse», volto a promuovere e a diffondere una stampa di qualità al servizio della democrazia. Di cosa si tratta e del perché nel nostro Paese ci sia bisogno di una nuova stampa, ce lo spiega Fabio Lo Verso, tra i membri del Think Thank, direttore del giornale «La Cité» e membro del Consiglio di Fondazione della qualità dei media di Zurigo. Fabio Lo Verso, del concetto di una nuova stampa si parlava già qualche anno fa, ora però grazie al Think Thank «Nouvelle Presse» ha preso forma. Di cosa si tratta?
Intanto c’è molta prudenza da parte dei grandi professionisti che hanno aderito al progetto, tanto è vero che il sito in calce recita «Fondation Nouvelle Presse (en création)». Il Think Thank di fatto è una realtà, al resto ci stiamo lavorando. L’idea è di creare delle redazioni della «Nouvelle Presse», redazioni che fanno giornalismo di pubblica utilità. In altre parole, l’attuale gruppo di 12 membri,
una volta trasformatosi in fondazione, cercherà dei fondi per creare piccole strutture giornalistiche che lavorano senza pubblicità.
Casa Santa Elisabetta ospita ancora oggi giovani mamme con i loro bambini accompagnandole in un progetto di vita autonoma
Non sarà tutta qui la novità, un giornalismo senza pubblicità?
Le testate come le abbiamo conosciute fino ad oggi spariranno, saranno poche, in futuro, a sopravvivere. Cosa faremo dei qualificatissimi giornalisti che rimarranno senza lavoro (molti lo sono già adesso)? La «Nouvelle Presse» ha questa vocazione: ricostruire una parte del paesaggio mediatico abbandonato dalle strutture industriali. Per una questione di mezzi non arriveremo a rifare i giornali come sono oggi e non punteremo a fare dei giornali per attirare il pubblico o gli inserzionisti.
La discrezione è una delle parole chiave di questa forma di assistenza, per cui la nostra visita si concretizza nell’incontro con la presidente dell’associazione Casa S. Elisabetta, Lisa Ciocco-Cavalleri, e con la direttrice Sandra Castellano. Vicina da molti anni alla Casa la prima, da due anni nella struttura e alla guida dallo scorso gennaio la seconda, le due donne condividono, unitamente all’intero comitato, visione del progetto e approccio professionale di lavoro sociale. L’attuale forma di assistenza, integrata nei servizi cantonali e con una casistica ampliata, non sarebbe la stes-
Quanto detto fin qui ricorda l’esperienza di «ProPublica», è così?
Assolutamente: la grossa differenza è che loro hanno iniziato grazie alla generosità di due miliardari che hanno messo sul piatto dieci milioni di dollari l’anno. Noi vorremmo che questi soldi fossero sostituti da duemila cittadini impegnati a sostenere la pubblica utilità del giornalismo. Per il resto abbiamo la stessa filosofia, «ProPublica» finanzia e produce inchieste di servizio pubblico. È questo il vero scopo del giornalismo e noi lavoriamo in questa ottica, cerchiamo un finanziamento per produrre inchieste, analisi, servizi, reportage di pubblica utilità. Gli abbonati cittadini non hanno mai finanziato la stampa, se si guarda il bilancio dei giornali degli ultimi 40 anni, i proventi legati all’abbonamento sono il 10%. Il resto è tutta pubblicità e derivati. Il successo della campagna crowdfunding di «Republik» dice che qualcosa sta cambiando, non crede?
«Republik» ha un finanziamento misto come lo vorremmo anche noi della «Nouvelle Presse» e come lo abbiamo a «La Cité»: un certo numero di abbonati, il resto sponsor, persone e non marche, che possono versare un massimo di 1000 franchi per evitare capitali dominanti. Quando «Republik» formerà la sua redazione le dimensioni non saranno quelle del «Tages-Anzeiger» o della «Tribune de Genève». Con «Republik», «Nouvelle Presse» e altre realtà, passeremo da uno stadio industriale a una dimensione artigianale. Le redazioni avranno una ventina di giornalisti che però produrranno una qualità pari a quella dei titoli tradizionali.
Il panorama mediatico svizzero è in forte fermento e molti giornalisti riflettono su nuove vie da percorrere. (Keystone) La «Nouvelle Presse» sarà solo in lingua francese?
Il progetto ha una vocazione nazionale. Immaginiamo che ci sia un entusiasmo largo in tutto il Paese per questo tipo di progetto, si faranno anche giornali in tedesco e italiano. Tutto dipende dall’accoglienza che otterremo e dallo spazio. È un progetto di grande utilità pubblica proprio perché il ruolo pubblico dei giornali nel sistema tradizionale si sta indebolendo in maniera preoccupante. Hansi Voigt dice che il giornalismo ha un avvenire, gli editori no. È d’accordo?
L’ecosistema mediatico è in crisi da tempo. L’idea di «Nouvelle Presse» parte dall’analisi fatta qualche anno fa dal Consiglio federale secondo cui il paesaggio della stampa si stava riducendo in maniera drastica. Oggi gli editori preferiscono sviluppare intrattenimento e informazione ma omettono di dare gli strumenti giusti al giornalismo, quelli che consentono ai giornalisti di fare una verifica lenta, un’analisi, di avere una comprensione posata e
radicata delle cose. Vogliamo entrare in questo paesaggio industriale, prendere le parti che sono state abbandonate e installarvi delle piccole redazioni che fanno unicamente giornalismo utile alla democrazia. «La Cité» è un progetto sperimentale che ci ha dato diverse indicazioni importanti su come sviluppare una sorta di area che fa quanto dice Hansi Voigt: scommette sul giornalismo. Come finanzierete la «Nouvelle Presse»?
Sarà uno spazio artigianale in cui gli editori sono i lettori. Poi cercheremo il contributo dei poteri pubblici. Immaginiamo delle piccole redazioni di una decina di persone che non costerebbero molto, un milione e mezzo, due al massimo, all’anno. In questo senso il progetto sperimentale de «La Cité» negli ultimi anni ci ha fatto capire come fare affinché i lettori diventino editori e partecipino attivamente al giornale. È importante coinvolgerli nel processo, far capire loro cosa significa fare un articolo di qualità.
«Republik» partirà a inizio 2018 «Bon pour la tête» è già online. Si tratta di meteore o il paesaggio mediatico muterà sempre più in questa direzione?
Ci sono due forze: quella che riduce il paesaggio industriale e una reattiva che dice no! E qui entrano in gioco i lettori, quelli che hanno sostenuto «Republik», lo hanno fatto perché vogliono un giornalismo diverso, bastioni come il «Tages Anzeiger» o la «NZZ» non gli bastano più. E, diversa mente da quanto ci ha fatto credere il marketing negli ultimi 40 anni, quello del lettore è un concetto importante. Non parlo di clienti, curiosi: il lettore è qualcuno per il quale lo strumento di scrivere, analizzare la realtà, è un’attività fondamentale, vitale per gli assetti democratici. È questa la forza alla quale punta «Nouvelle Presse», la stessa che «Republik» ha colto in maniera magistrale. In futuro ci saranno sempre più iniziative di questo tipo, serviranno dei criteri di analisi per poterne valutare la portata e l’impatto.
sa senza l’operato di Padre Aurelio Pometta, la cui figura è ricordata dalla presidente. «Il Cappuccino, guardiano del Convento di Lugano, iniziò a offrire un tetto sicuro e un ambiente protetto a madri nubili in difficoltà (prima e dopo il parto) già nel 1945. Era un ometto di bassa statura ma con un carattere forte e a volte anche brusco. Agiva sempre con grande senso pratico. Occorrevano lenzuola ed altra biancheria? Andava in un negozio specializzato in centro e chiedeva il necessario. A Casa S. Elisabetta, a quell’epoca praticamente alla periferia della città, veniva ogni giorno e curava anche l’orto. La casa è ancora oggi di proprietà (a seguito di un lascito) dell’Ordine Francescano Secolare della Svizzera Italiana». Le prime ragazze accolte a Besso affrontavano da sole la maternità in quanto rappresentavano un’onta per la comunità e la loro stessa famiglia o perché giunte dall’estero per cercare lavoro. Oggi le undici camere ospitano giovani donne già gravate da altri problemi, riflesso dei disagi della società contemporanea. Spiega la direttrice: «Queste difficoltà impediscono loro di badare a se stesse e quindi a maggior ragione ai loro figli. Numerosi e difficili sono i casi di mamme tossicodipendenti, un po’ come negli anni Settanta. A queste si aggiungono le donne vittime di violenza con i loro bambini. La nostra accoglienza è basata su un progetto che sull’arco di circa due anni dovrebbe condurle ad una vita autonoma. Seguire le tappe di questo percorso raggiungendo l’obiettivo finale non è però sempre possibile e in ogni caso i tempi tendono ad allungarsi». Malgrado il grande lavoro svolto in collaborazione con gli altri servizi presenti sul territorio, ci si scontra con la mancanza di risorse familiari e soprattutto con le reazioni delle dirette interessate. Precisa Sandra Castellano: «Spesso le ragazze tendono a trasformare questo luogo di prima accoglienza nella loro casa, pensano di avere le conoscenze necessarie per occuparsi di un neonato rifiutando i nostri consigli, sono poco umili e nei casi di violenza non riconoscono la gravità della situazione. Risulta quindi più complesso aiutarle a costruire progressivamente la propria indipendenza
Una foto d’epoca dei bambini accolti con le loro madri nella casa di Besso, proprietà dell’Ordine Francescano Secolare della Svizzera italiana.
(professionale e residenziale) e ad assumere il ruolo genitoriale». A questo proposito la presidente Lisa Ciocco-Cavalleri ricorda invece la gratitudine delle ragazze accolte a Casa S. Elisabetta nei primi decenni della sua apertura e anche in seguito. «La maggior parte di loro è riuscita a costruirsi una vita e una famiglia. Incontro di tanto in tanto, ormai a distanza di anni, una madre serena che oggi lavora in città. Un’altra testimonianza preziosa è quella di una ragazza aiutata direttamente da Padre Aurelio quando si accorse di essere incinta poco dopo essere arrivata in Ticino dalla natia Calabria. Oggi non solo è madre, ma pure nonna e bisnonna!» Gratitudine è un altro concetto strettamente legato all’attività di Casa S. Elisabetta, che ha potuto contare sulla dedizione di figure chiave fra le quali lo storico presidente Franco Felder, in carica dalla metà degli anni Cinquanta fino all’anno scorso, e Lucia Bernasconi-Mari, alla direzione per 23 anni. Senza dimenticare i numerosi benefattori che ancora oggi sostengono l’associazione. Sostegni indispensabili per ampliare i servizi di fronte ai crescenti problemi inerenti la maternità e le
competenze genitoriali nella nostra società. Se la Casa è un luogo di prima accoglienza (aperto 365 giorni all’anno 24 ore su 24) volto a garantire sicurezza e stabilità a madre e figli, altre attività sono integrate in questo fulcro. Il fiore all’occhiello – unico nel suo genere a livello cantonale – è il nido di protezione per bambini da 0 a 6 anni aperto anche agli esterni. Casa Primula, composta da quattro appartamenti situati a Chiasso, è un’abitazione semiprotetta per la fase di transizione verso l’autonomia, mentre i Punti d’incontro sono quattro spazi neutri dedicati agli incontri sorvegliati fra genitori non affidatari e figli nell’ottica del recupero della genitorialità. Si trovano a Lugano, Bellinzona, Locarno e Chiasso e sono gestiti da personale qualificato. La direttrice si occupa invece personalmente dello spazio di ascolto per minori confrontati con la separazione dei genitori, ascolto che avviene su segnalazione delle Preture. Complessivamente i collaboratori sono una sessantina, di cui 24 operatrici sociali attive al fronte. Fra i prossimi obiettivi figura l’apertura di alcuni appartamenti protetti a Lugano, in modo da semplificare ulteriormente il passaggio
da Casa S. Elisabetta a una forma di vita più indipendente conciliabile con l’attività professionale. Rispondere all’emergenza, accompagnare nel tempo, innovare nelle forme di risposta con rispetto per quanto promosso in passato. L’associazione Casa S. Elisabetta resta fedele a questo impegno, sottolineando i 70 anni di attività con un opuscolo celebrativo disponibile a breve. Un volume che inserisce la nascita dell’associazione nel contesto storico sarà invece pubblicato dopo il lavoro di catalogazione e analisi dell’archivio che l’associazione ha deposito presso l’Associazione Archivi Riuniti delle Donne Ticino (AARDT). Per molte giovani donne Casa S. Elisabetta ha rappresentato la svolta che determina il corso di una vita. La testimonianza della bisnonna inserita nell’opuscolo celebrativo afferma che lì le sono stati restituiti il sorriso, la speranza e una dose di amore che ancora oggi lei può trasmettere alla sua famiglia. Informazioni
Casa Santa Elisabetta, Tel. 091 966 24 16.
Viale dei ciliegi di Letizia Bolzani Vanna Cercenà, Viaggio verso il sereno, Lapis. Da 10 anni Nel 2015, quando a Vanna Cercenà venne conferito il Premio Andersen come miglior scrittore, la motivazione sottolineava il suo «percorso letterario fatto di pacata continuità» e davvero sono parole che si attagliano alla solida produzione di questa autrice, sempre di qualità e misurata, accurata, non sovraffollata di titoli superflui. La motivazione accennava anche, opportunamente, alla sua «competenza storica e passione civile», e infatti, sia che narri ad esempio dell’anno Mille (Matilde di Canossa e la freccia avvelenata, Lapis), o della caccia alle streghe del secolo XVI (Quando soffia il vento delle streghe, Lapis) oppure del Terzo Millennio con una famiglia di profughi siriani (Una gatta in fuga, Giunti), Vanna Cercenà riesce sempre a immergere perfettamente il lettore nel periodo storico di riferimento, rendendo vivi tutti i dettagli e suscitando una profon-
da adesione civile al tema trattato. Nel caso del suo libro più recente, Viaggio verso il sereno, la narrazione ci porta al 1940, dentro un episodio forse meno conosciuto della storia della Shoah, quello relativo a un gruppo di ebrei che partirono da Bratislava, diretti in Palestina, a bordo di un battello fluviale bulgaro. Il viaggio fu estremamente avventuroso, tra tempeste, ancoraggi forzati, naufragi, imprevisti e pericoli, sia naturali, sia – anche peggio – umani, giacché la follia nazista non si placa come un temporale. Vanna Cercenà ci offre una storia che
innesca i colpi di scena di un viaggio per mare e che disegna personaggi credibili e interessanti, soffermandosi soprattutto sui passeggeri più giovani, quei ragazzini e ragazzine tra i quali si tessono amicizie e legami. Sullo sfondo, le vicende dell’Odissea, che i ragazzi imparano ad amare grazie alle improvvisate e appassionate lezioni di un anziano professore: come sempre, le belle storie aiutano ad avere fiducia nella vita e a sperare nel sereno verso cui dirigere il proprio viaggio. Papik Genovesi, Sandro Natalini, Storie Bestiali, Editoriale Scienza. Da 8 anni L’energica copertina di Sandro Natalini ci porta dritti dentro lo sguardo di una scimmia – quanto siamo simili – e intorno a lei altre creature animali vivificano ulteriormente l’immagine. Oltre al mammifero, appaiono un rettile, un anfibio, degli insetti: il mondo degli animali è vastissimo e multifor-
me, e proprio all’incredibile varietà di forme di vita sulla Terra – e al fatto che ognuna di esse sia importante, appunto nella sua diversità – è dedicato questo volume, Storie Bestiali, che attraverso la competenza zoologica di Papik Genovesi, e quella espressiva di Sandro Natalini, ci svela numerose curiosità del mondo animale. Appartenente al genere non fiction, ossia di divulgazione scientifica (genere in cui Editoriale Scienza è maestra), questo albo di grande formato è diviso in capitoli che prendono in esame vari
ambiti della vita animale: il cibo, la cacca, il sonno, i sensi, la comunicazione, il corteggiamento, le cure parentali, e così via. Con testi brevi, chiari e incisivi, sempre valorizzati dalla grafica e dalle immagini, ci vengono raccontate tante cose interessanti, che non mancheranno di stupire adulti e bambini. Scopriremo per esempio che ci sono modalità molto diverse di alimentarsi e di digerire, che la cacca può avere anche valenze comunicative, che le ore di sonno variano molto a seconda dell’animale (il pipistrello se la dorme anche per 20 ore, mentre la povera giraffa, sempre all’erta, non riesce a schiacciare che qualche pisolino di mezz’oretta al massimo), che non è che i pesci siano proprio... muti, che il corteggiamento di una iena può durare anche dei mesi, che il papà scarafaggio si prodiga in cure, che gorilla e scimpanzé si curano mangiando argilla. Per imparare, meravigliarsi, impegnarsi a vivere in modo responsabile.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 28 agosto 2017 • N. 35
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Società e Territorio Casa Santa Elisabetta L’associazione luganese è stata pioniera nell’offrire aiuto e ospitalità a giovani mamme e ai loro bambini. Oggi festeggia i settant’anni pagina 3
Un gioco di fuga 60 minuti chiusi in una stanza, per uscire bisogna usare la logica e collaborare con gli altri giocatori: le escape room sono un intrattenimento di successo in Europa, ora sono arrivate anche in Ticino pagina 5
Una casa che accoglie
Anniversari C ompie 70 anni l’associazione Casa Santa Elisabetta creata da Padre Aurelio Cometta
per aiutare le giovani madri in difficoltà
Stefania Hubmann I bambini, futuro della società, oggi come 70 anni fa al centro delle preoccupazioni di un’associazione pionieristica nell’accoglienza delle ragazze madri. I bambini e queste ultime, per offrire loro la possibilità di assumere quel ruolo genitoriale fondamentale per una crescita sana e armoniosa. Casa Santa Elisabetta, situata nel quartiere di Besso a Lugano in una zona oggi residenziale, è sempre lì, rinnovata nella forma e adeguata ai nuovi bisogni della società, ma saldamente legata ai principi che animavano il Padre Cappuccino Aurelio Pometta, iniziatore di questa missione. Oggi aiutare le giovani madri che per motivi diversi rispetto al passato soggiornano pro tempore nella Casa è diventato più complesso sia dal punto di vista residenziale, sia da quello del progetto di vita che si cerca di aiutarle a costruire. La vivacità dei bimbi che si sente quando ci si avvicina a Casa S. Elisabetta fa però subito capire qual è il fine ultimo di tanto impegno.
La rotta dei giornali
Intervista Il giornalista Fabio Lo Verso
direttore de «La Cité» parla di un nuovo progetto, il Think Thank «Nouvelle Presse»
Natascha Fioretti «Gli editori non hanno futuro, il giornalismo sì», ha detto di recente Hansi Voigt, fondatore del portale di informazione Watson. Sarà per questo che ha appena lanciato Wepublish, portale opensource indipendente per la pluralità dei media. A conferma, dopo il successo della campagna crowdfunding di «Republik» nella Svizzera tedesca e il lancio di «Bon pour la tête» in Svizzera romanda, che il panorama mediatico svizzero è in forte fermento, alla ricerca di nuove identità e ragioni d’essere. E non solo chi fa giornalismo guarda a nuove strade, anche i lettori sempre di più si interessano del futuro del giornalismo di qualità mentre si disamorano delle testate dei grandi gruppi editoriali troppo spesso intenti a tradire il patto di fiducia in nome della velocità, dei tagli o dei raggruppamenti come dimostra la notizia di questi giorni del colosso Tamedia, che ha annunciato che dal 2018 due sole redazioni, una tedesca e una romanda, si occuperanno di scrivere le principali rubriche per tutti i 17 giornali del gruppo. E se per ora non ci sono licenziamenti, c’è comunque da preoccuparsi per la pluralità di pensiero e di visioni vitali per il processo democratico. Ma l’ecosistema mediatico svizzero, come detto, vede affacciarsi alcune novità all’orizzonte, tra queste un nuovo progetto, il Think Thank «Nouvelle Presse», volto a promuovere e a diffondere una stampa di qualità al servizio della democrazia. Di cosa si tratta e del perché nel nostro Paese ci sia bisogno di una nuova stampa, ce lo spiega Fabio Lo Verso, tra i membri del Think Thank, direttore del giornale «La Cité» e membro del Consiglio di Fondazione della qualità dei media di Zurigo. Fabio Lo Verso, del concetto di una nuova stampa si parlava già qualche anno fa, ora però grazie al Think Thank «Nouvelle Presse» ha preso forma. Di cosa si tratta?
Intanto c’è molta prudenza da parte dei grandi professionisti che hanno aderito al progetto, tanto è vero che il sito in calce recita «Fondation Nouvelle Presse (en création)». Il Think Thank di fatto è una realtà, al resto ci stiamo lavorando. L’idea è di creare delle redazioni della «Nouvelle Presse», redazioni che fanno giornalismo di pubblica utilità. In altre parole, l’attuale gruppo di 12 membri,
una volta trasformatosi in fondazione, cercherà dei fondi per creare piccole strutture giornalistiche che lavorano senza pubblicità.
Casa Santa Elisabetta ospita ancora oggi giovani mamme con i loro bambini accompagnandole in un progetto di vita autonoma
Non sarà tutta qui la novità, un giornalismo senza pubblicità?
Le testate come le abbiamo conosciute fino ad oggi spariranno, saranno poche, in futuro, a sopravvivere. Cosa faremo dei qualificatissimi giornalisti che rimarranno senza lavoro (molti lo sono già adesso)? La «Nouvelle Presse» ha questa vocazione: ricostruire una parte del paesaggio mediatico abbandonato dalle strutture industriali. Per una questione di mezzi non arriveremo a rifare i giornali come sono oggi e non punteremo a fare dei giornali per attirare il pubblico o gli inserzionisti.
La discrezione è una delle parole chiave di questa forma di assistenza, per cui la nostra visita si concretizza nell’incontro con la presidente dell’associazione Casa S. Elisabetta, Lisa Ciocco-Cavalleri, e con la direttrice Sandra Castellano. Vicina da molti anni alla Casa la prima, da due anni nella struttura e alla guida dallo scorso gennaio la seconda, le due donne condividono, unitamente all’intero comitato, visione del progetto e approccio professionale di lavoro sociale. L’attuale forma di assistenza, integrata nei servizi cantonali e con una casistica ampliata, non sarebbe la stes-
Quanto detto fin qui ricorda l’esperienza di «ProPublica», è così?
Assolutamente: la grossa differenza è che loro hanno iniziato grazie alla generosità di due miliardari che hanno messo sul piatto dieci milioni di dollari l’anno. Noi vorremmo che questi soldi fossero sostituti da duemila cittadini impegnati a sostenere la pubblica utilità del giornalismo. Per il resto abbiamo la stessa filosofia, «ProPublica» finanzia e produce inchieste di servizio pubblico. È questo il vero scopo del giornalismo e noi lavoriamo in questa ottica, cerchiamo un finanziamento per produrre inchieste, analisi, servizi, reportage di pubblica utilità. Gli abbonati cittadini non hanno mai finanziato la stampa, se si guarda il bilancio dei giornali degli ultimi 40 anni, i proventi legati all’abbonamento sono il 10%. Il resto è tutta pubblicità e derivati. Il successo della campagna crowdfunding di «Republik» dice che qualcosa sta cambiando, non crede?
«Republik» ha un finanziamento misto come lo vorremmo anche noi della «Nouvelle Presse» e come lo abbiamo a «La Cité»: un certo numero di abbonati, il resto sponsor, persone e non marche, che possono versare un massimo di 1000 franchi per evitare capitali dominanti. Quando «Republik» formerà la sua redazione le dimensioni non saranno quelle del «Tages-Anzeiger» o della «Tribune de Genève». Con «Republik», «Nouvelle Presse» e altre realtà, passeremo da uno stadio industriale a una dimensione artigianale. Le redazioni avranno una ventina di giornalisti che però produrranno una qualità pari a quella dei titoli tradizionali.
Il panorama mediatico svizzero è in forte fermento e molti giornalisti riflettono su nuove vie da percorrere. (Keystone) La «Nouvelle Presse» sarà solo in lingua francese?
Il progetto ha una vocazione nazionale. Immaginiamo che ci sia un entusiasmo largo in tutto il Paese per questo tipo di progetto, si faranno anche giornali in tedesco e italiano. Tutto dipende dall’accoglienza che otterremo e dallo spazio. È un progetto di grande utilità pubblica proprio perché il ruolo pubblico dei giornali nel sistema tradizionale si sta indebolendo in maniera preoccupante. Hansi Voigt dice che il giornalismo ha un avvenire, gli editori no. È d’accordo?
L’ecosistema mediatico è in crisi da tempo. L’idea di «Nouvelle Presse» parte dall’analisi fatta qualche anno fa dal Consiglio federale secondo cui il paesaggio della stampa si stava riducendo in maniera drastica. Oggi gli editori preferiscono sviluppare intrattenimento e informazione ma omettono di dare gli strumenti giusti al giornalismo, quelli che consentono ai giornalisti di fare una verifica lenta, un’analisi, di avere una comprensione posata e
radicata delle cose. Vogliamo entrare in questo paesaggio industriale, prendere le parti che sono state abbandonate e installarvi delle piccole redazioni che fanno unicamente giornalismo utile alla democrazia. «La Cité» è un progetto sperimentale che ci ha dato diverse indicazioni importanti su come sviluppare una sorta di area che fa quanto dice Hansi Voigt: scommette sul giornalismo. Come finanzierete la «Nouvelle Presse»?
Sarà uno spazio artigianale in cui gli editori sono i lettori. Poi cercheremo il contributo dei poteri pubblici. Immaginiamo delle piccole redazioni di una decina di persone che non costerebbero molto, un milione e mezzo, due al massimo, all’anno. In questo senso il progetto sperimentale de «La Cité» negli ultimi anni ci ha fatto capire come fare affinché i lettori diventino editori e partecipino attivamente al giornale. È importante coinvolgerli nel processo, far capire loro cosa significa fare un articolo di qualità.
«Republik» partirà a inizio 2018 «Bon pour la tête» è già online. Si tratta di meteore o il paesaggio mediatico muterà sempre più in questa direzione?
Ci sono due forze: quella che riduce il paesaggio industriale e una reattiva che dice no! E qui entrano in gioco i lettori, quelli che hanno sostenuto «Republik», lo hanno fatto perché vogliono un giornalismo diverso, bastioni come il «Tages Anzeiger» o la «NZZ» non gli bastano più. E, diversa mente da quanto ci ha fatto credere il marketing negli ultimi 40 anni, quello del lettore è un concetto importante. Non parlo di clienti, curiosi: il lettore è qualcuno per il quale lo strumento di scrivere, analizzare la realtà, è un’attività fondamentale, vitale per gli assetti democratici. È questa la forza alla quale punta «Nouvelle Presse», la stessa che «Republik» ha colto in maniera magistrale. In futuro ci saranno sempre più iniziative di questo tipo, serviranno dei criteri di analisi per poterne valutare la portata e l’impatto.
sa senza l’operato di Padre Aurelio Pometta, la cui figura è ricordata dalla presidente. «Il Cappuccino, guardiano del Convento di Lugano, iniziò a offrire un tetto sicuro e un ambiente protetto a madri nubili in difficoltà (prima e dopo il parto) già nel 1945. Era un ometto di bassa statura ma con un carattere forte e a volte anche brusco. Agiva sempre con grande senso pratico. Occorrevano lenzuola ed altra biancheria? Andava in un negozio specializzato in centro e chiedeva il necessario. A Casa S. Elisabetta, a quell’epoca praticamente alla periferia della città, veniva ogni giorno e curava anche l’orto. La casa è ancora oggi di proprietà (a seguito di un lascito) dell’Ordine Francescano Secolare della Svizzera Italiana». Le prime ragazze accolte a Besso affrontavano da sole la maternità in quanto rappresentavano un’onta per la comunità e la loro stessa famiglia o perché giunte dall’estero per cercare lavoro. Oggi le undici camere ospitano giovani donne già gravate da altri problemi, riflesso dei disagi della società contemporanea. Spiega la direttrice: «Queste difficoltà impediscono loro di badare a se stesse e quindi a maggior ragione ai loro figli. Numerosi e difficili sono i casi di mamme tossicodipendenti, un po’ come negli anni Settanta. A queste si aggiungono le donne vittime di violenza con i loro bambini. La nostra accoglienza è basata su un progetto che sull’arco di circa due anni dovrebbe condurle ad una vita autonoma. Seguire le tappe di questo percorso raggiungendo l’obiettivo finale non è però sempre possibile e in ogni caso i tempi tendono ad allungarsi». Malgrado il grande lavoro svolto in collaborazione con gli altri servizi presenti sul territorio, ci si scontra con la mancanza di risorse familiari e soprattutto con le reazioni delle dirette interessate. Precisa Sandra Castellano: «Spesso le ragazze tendono a trasformare questo luogo di prima accoglienza nella loro casa, pensano di avere le conoscenze necessarie per occuparsi di un neonato rifiutando i nostri consigli, sono poco umili e nei casi di violenza non riconoscono la gravità della situazione. Risulta quindi più complesso aiutarle a costruire progressivamente la propria indipendenza
Una foto d’epoca dei bambini accolti con le loro madri nella casa di Besso, proprietà dell’Ordine Francescano Secolare della Svizzera italiana.
(professionale e residenziale) e ad assumere il ruolo genitoriale». A questo proposito la presidente Lisa Ciocco-Cavalleri ricorda invece la gratitudine delle ragazze accolte a Casa S. Elisabetta nei primi decenni della sua apertura e anche in seguito. «La maggior parte di loro è riuscita a costruirsi una vita e una famiglia. Incontro di tanto in tanto, ormai a distanza di anni, una madre serena che oggi lavora in città. Un’altra testimonianza preziosa è quella di una ragazza aiutata direttamente da Padre Aurelio quando si accorse di essere incinta poco dopo essere arrivata in Ticino dalla natia Calabria. Oggi non solo è madre, ma pure nonna e bisnonna!» Gratitudine è un altro concetto strettamente legato all’attività di Casa S. Elisabetta, che ha potuto contare sulla dedizione di figure chiave fra le quali lo storico presidente Franco Felder, in carica dalla metà degli anni Cinquanta fino all’anno scorso, e Lucia Bernasconi-Mari, alla direzione per 23 anni. Senza dimenticare i numerosi benefattori che ancora oggi sostengono l’associazione. Sostegni indispensabili per ampliare i servizi di fronte ai crescenti problemi inerenti la maternità e le
competenze genitoriali nella nostra società. Se la Casa è un luogo di prima accoglienza (aperto 365 giorni all’anno 24 ore su 24) volto a garantire sicurezza e stabilità a madre e figli, altre attività sono integrate in questo fulcro. Il fiore all’occhiello – unico nel suo genere a livello cantonale – è il nido di protezione per bambini da 0 a 6 anni aperto anche agli esterni. Casa Primula, composta da quattro appartamenti situati a Chiasso, è un’abitazione semiprotetta per la fase di transizione verso l’autonomia, mentre i Punti d’incontro sono quattro spazi neutri dedicati agli incontri sorvegliati fra genitori non affidatari e figli nell’ottica del recupero della genitorialità. Si trovano a Lugano, Bellinzona, Locarno e Chiasso e sono gestiti da personale qualificato. La direttrice si occupa invece personalmente dello spazio di ascolto per minori confrontati con la separazione dei genitori, ascolto che avviene su segnalazione delle Preture. Complessivamente i collaboratori sono una sessantina, di cui 24 operatrici sociali attive al fronte. Fra i prossimi obiettivi figura l’apertura di alcuni appartamenti protetti a Lugano, in modo da semplificare ulteriormente il passaggio
da Casa S. Elisabetta a una forma di vita più indipendente conciliabile con l’attività professionale. Rispondere all’emergenza, accompagnare nel tempo, innovare nelle forme di risposta con rispetto per quanto promosso in passato. L’associazione Casa S. Elisabetta resta fedele a questo impegno, sottolineando i 70 anni di attività con un opuscolo celebrativo disponibile a breve. Un volume che inserisce la nascita dell’associazione nel contesto storico sarà invece pubblicato dopo il lavoro di catalogazione e analisi dell’archivio che l’associazione ha deposito presso l’Associazione Archivi Riuniti delle Donne Ticino (AARDT). Per molte giovani donne Casa S. Elisabetta ha rappresentato la svolta che determina il corso di una vita. La testimonianza della bisnonna inserita nell’opuscolo celebrativo afferma che lì le sono stati restituiti il sorriso, la speranza e una dose di amore che ancora oggi lei può trasmettere alla sua famiglia. Informazioni
Casa Santa Elisabetta, Tel. 091 966 24 16.
Viale dei ciliegi di Letizia Bolzani Vanna Cercenà, Viaggio verso il sereno, Lapis. Da 10 anni Nel 2015, quando a Vanna Cercenà venne conferito il Premio Andersen come miglior scrittore, la motivazione sottolineava il suo «percorso letterario fatto di pacata continuità» e davvero sono parole che si attagliano alla solida produzione di questa autrice, sempre di qualità e misurata, accurata, non sovraffollata di titoli superflui. La motivazione accennava anche, opportunamente, alla sua «competenza storica e passione civile», e infatti, sia che narri ad esempio dell’anno Mille (Matilde di Canossa e la freccia avvelenata, Lapis), o della caccia alle streghe del secolo XVI (Quando soffia il vento delle streghe, Lapis) oppure del Terzo Millennio con una famiglia di profughi siriani (Una gatta in fuga, Giunti), Vanna Cercenà riesce sempre a immergere perfettamente il lettore nel periodo storico di riferimento, rendendo vivi tutti i dettagli e suscitando una profon-
da adesione civile al tema trattato. Nel caso del suo libro più recente, Viaggio verso il sereno, la narrazione ci porta al 1940, dentro un episodio forse meno conosciuto della storia della Shoah, quello relativo a un gruppo di ebrei che partirono da Bratislava, diretti in Palestina, a bordo di un battello fluviale bulgaro. Il viaggio fu estremamente avventuroso, tra tempeste, ancoraggi forzati, naufragi, imprevisti e pericoli, sia naturali, sia – anche peggio – umani, giacché la follia nazista non si placa come un temporale. Vanna Cercenà ci offre una storia che
innesca i colpi di scena di un viaggio per mare e che disegna personaggi credibili e interessanti, soffermandosi soprattutto sui passeggeri più giovani, quei ragazzini e ragazzine tra i quali si tessono amicizie e legami. Sullo sfondo, le vicende dell’Odissea, che i ragazzi imparano ad amare grazie alle improvvisate e appassionate lezioni di un anziano professore: come sempre, le belle storie aiutano ad avere fiducia nella vita e a sperare nel sereno verso cui dirigere il proprio viaggio. Papik Genovesi, Sandro Natalini, Storie Bestiali, Editoriale Scienza. Da 8 anni L’energica copertina di Sandro Natalini ci porta dritti dentro lo sguardo di una scimmia – quanto siamo simili – e intorno a lei altre creature animali vivificano ulteriormente l’immagine. Oltre al mammifero, appaiono un rettile, un anfibio, degli insetti: il mondo degli animali è vastissimo e multifor-
me, e proprio all’incredibile varietà di forme di vita sulla Terra – e al fatto che ognuna di esse sia importante, appunto nella sua diversità – è dedicato questo volume, Storie Bestiali, che attraverso la competenza zoologica di Papik Genovesi, e quella espressiva di Sandro Natalini, ci svela numerose curiosità del mondo animale. Appartenente al genere non fiction, ossia di divulgazione scientifica (genere in cui Editoriale Scienza è maestra), questo albo di grande formato è diviso in capitoli che prendono in esame vari
ambiti della vita animale: il cibo, la cacca, il sonno, i sensi, la comunicazione, il corteggiamento, le cure parentali, e così via. Con testi brevi, chiari e incisivi, sempre valorizzati dalla grafica e dalle immagini, ci vengono raccontate tante cose interessanti, che non mancheranno di stupire adulti e bambini. Scopriremo per esempio che ci sono modalità molto diverse di alimentarsi e di digerire, che la cacca può avere anche valenze comunicative, che le ore di sonno variano molto a seconda dell’animale (il pipistrello se la dorme anche per 20 ore, mentre la povera giraffa, sempre all’erta, non riesce a schiacciare che qualche pisolino di mezz’oretta al massimo), che non è che i pesci siano proprio... muti, che il corteggiamento di una iena può durare anche dei mesi, che il papà scarafaggio si prodiga in cure, che gorilla e scimpanzé si curano mangiando argilla. Per imparare, meravigliarsi, impegnarsi a vivere in modo responsabile.
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 28 agosto 2017 • N. 35
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Società e Territorio
60 minuti per la fuga
Giochi C hiusi in una stanza con un enigma da risolvere per poter uscire: le escape room sono un intrattenimento
di successo in tutta Europa e ora sono arrivate anche in Ticino
Alessandra Ostini Sutto Vi trovate all’interno di una stanza senza finestre e la porta è chiusa a chiave. Intorno a voi pezzi d’arredo ed elementi di decoro ricordano una stanza d’albergo degli anni 40. Vi avvicinate ad un cassetto ma serve una chiave per aprirlo. Vi starete chiedendo di che videogioco si tratti. Nessuno, in verità. Perché il joystick non esiste e letto ed armadio sono reali. Stiamo parlando dell’escape room, una forma di gioco «reale» di recente creazione, che sta conoscendo un notevole successo. Le escape room – letteralmente «stanze da cui fuggire» – sono delle camere allestite a tema, dotate di videocamere (per monitorare a distanza la giocata), impianti sonori ed eventualmente effetti speciali, all’interno delle quali i giocatori devono trovare indizi e usare gli oggetti presenti per risolvere una serie di giochi di logica e osservazione con lo scopo di scoprire i retroscena della trama e uscire. Il tutto in un tempo massimo di 60 minuti. A disposizione si ha soltanto il proprio intelletto. «Prima di iniziare a giocare cellulari ed altri oggetti personali che potrebbero facilitare la risoluzione vengono fatti depositare, dal momento che per esplorare il contesto e trovare la via di fuga servono soprattutto intuito, rapidità, fantasia e capacità di osservazione ed interpretazione», commenta Andy Restaino, titolare di BLockaTI, la prima escape room ticinese, aperta lo scorso settembre a Giubiasco.
Il gioco è concepito per piccoli gruppi (fino a 6 persone): il segreto per «vincere» è saper collaborare Il fatto di trovarsi chiusi all’interno di un ambiente sconosciuto allestito secondo un determinato tema ed avere un tempo limitato per risolvere una situazione è sicuramente destabilizzante. Ci sono delle attività da svolgere, bisogna cercare degli oggetti, usarli e creare dei collegamenti, e non è quello a cui siamo abituati, soprattutto in un contesto che si fa sempre più virtuale. Si tratta in questo senso di un gioco anacronistico in una società basata
L’escape room allestita sul tema «Time Machine» di Budapest. (Keystone)
sulla fruizione passiva, che porta spesso a restare effettivamente chiusi, ma nella propria stanza o comunque nella propria abitazione, davanti ad uno schermo. Quella che si vive in un’escape room è quindi un’esperienza unica, che va oltre il gioco e regala l’impressione di vivere l’avventura di un film o di un videogioco. «La prima escape che ho provato è stata a Torino nel 2015. Non ero a conoscenza dell’esistenza di queste forme di intrattenimento e non avevo idea di cosa aspettarmi», commenta Andy Restaino, «questo può giocare un brutto scherzo soprattutto in termini di tempo; un’ora non è infatti molto e la consapevolezza di avere i minuti contati fa produrre adrenalina». Bisogna riuscire a mantenere la mente lucida e ottimizzare ogni istante. In questo viene in aiuto il fatto di non essere da soli ma di partecipare ad un coinvolgente gioco di squadra, in cui partecipano in genere da 2 a 6 persone. Il segreto per il buon esito di questo gioco di fuga dal vivo sta proprio nella collaborazione tra i partecipanti. Ogni elemento del gruppo porta infat-
ti le proprie specificità, che, messe assieme, possono condurre alla vittoria. Questa è una delle chiavi del successo della nuova frontiera di divertimento immersivo, in cui i giocatori sono gli «eroi» della storia e non dei semplici spettatori passivi. Altri elementi che suscitano l’interesse, anche da parte di studiosi, per questa forma di intrattenimento intelligente sono la scelta volontaria di rinunciare a libertà e privacy (nelle stanze si viene chiusi e ripresi dalle videocamere) e lo stress che questa situazione può generare. Queste stanze in cui il gruppo prevale sull’individuo e la fisicità sulla virtualità sono nate una decina di anni fa; le fonti di ispirazione sono diverse e vanno dalle opere di Agatha Christie ai videogiochi sviluppati dal giapponese Takao Kato, passando per film come Cube, Saw – l’enigmista o The Experiment. Nel corso degli anni sono diventate sempre più popolari un po’ in tutto il mondo; dal 2015 il gioco ha preso piede anche in Italia, Paese che può vantare il primato della più grande
escape room d’Europa, il Maniac Palace di Milano. In Svizzera se ne contano decine. Come detto, la prima escape room aperta sul territorio ticinese è stata BLockaTI, a Giubiasco, che tra poco festeggerà il primo anno di attività: «Finora hanno partecipato circa 450 squadre, provenienti da tutto il Ticino, in alcuni casi anche da oltre Gottardo. Considerando che si tratta di un’attività non ancora molto nota alle nostre latitudini non ci aspettavamo un tale successo, per cui non possiamo che ritenerci soddisfatti», commenta il titolare. A Lugano ad aprile ha aperto la seconda escape room ticinese e una terza aprirà alla fine di agosto a Taverne. «L’escape room di Taverne è opera di 4 ragazzi che hanno vissuto la prima esperienza da noi; dopodiché ne hanno provate una quindicina e hanno deciso di aprirne una propria», racconta Restaino. La struttura di Giubiasco ha aperto con una stanza chiamata «The Travel», sostituita a febbraio da «The Great Escape», la cui sfida consiste nel
recuperare un prezioso manufatto egizio dalla sala di un museo. «Dal mese di luglio abbiamo due stanze in contemporanea, dal momento che “Room 608” è venuta ad affiancare “The Great Escape”. Si tratta in questo caso di una storia noir, in cui i partecipanti devono ripercorrere le indagini compiute da un detective riguardo ad un efferato delitto avvenuto in una stanza d’albergo, che noi abbiamo appunto allestito. L’idea è di avere una stanza nuova ogni 6-8 mesi circa». Se oltre frontiera vi sono delle escape room che fanno vivere al concorrente situazioni capaci di procurare stress, paura e ansia, anche per mezzo della comparsa di figuranti, presso la struttura di Giubiasco le stanze sono «soft», e frequentate prevalentemente da persone di età compresa tra i 25 e i 35 anni. «In realtà si prestano molto bene anche a famiglie ed aziende. Non sono infatti pochi gli specialisti delle risorse umane che prendono contatto con noi perché interessati all’attività che proponiamo in un’ottica di team building», conclude uno degli autori delle prime escape room ticinesi.
«Dutti» sempre tra noi News 3 E sce il numero speciale della pubblicazione che la Scuola Club di Migros Ticino, in occasione del 60esimo,
dedica al suo fondatore Gottlieb Duttweiler Ci pare tocchi anche a noi della Scuola Club di Migros Ticino rinnovare il ricordo di uno dei protagonisti più interessanti della storia del nostro Paese. È a lui, infatti, che la grande realtà di Migros e tutto il sistema delle Scuole Club devono la loro esistenza, la loro tempra e vocazione. Chi era «Dutti» è raccontato nella nuova edizione delle NEWS allegate a questo numero di «Azione». Mentre fotografano il presente della scuola, i suoi volti, le sue attività e i suoi progetti, le pagine delle NEWS, nel celebrare i 60 anni della Scuola Club in Ticino, vogliono confermare il legame con una storia importante da cui continuare ad attingere ispirazione. Gottlieb Duttweiler era «un visionario concreto». Così lo descrive nelle pagine delle NEWS Lorenzo Emma, direttore della nostra cooperativa. È stato un grande innovatore e insieme
un abile organizzatore; un imprenditore acuto nel leggere le possibilità di crescita del business per la propria azienda e un promotore convinto di uno sviluppo condiviso e sostenibile; un uomo politico determinato ad incidere positivamente sul suo tempo e un sensibile promotore della cultura. Conobbe il successo ma anche, come spesso accade a coloro che prendono rischi anticipando il futuro, incontrò il fallimento di alcuni progetti. Ma sempre si è rialzato e sempre ha ricominciato, con rinnovata energia e fiducia nel futuro. Raggiunta la ricchezza, cercò formule nuove che consentissero la partecipazione e la corresponsabilità dei collaboratori e diede vita alla Migros. Con grande lungimiranza decise di legare il volume delle risorse destinate allo sviluppo economico, sociale e culturale della sua amata Svizzera alla crescita dell’azienda (Percento Culturale).
Le NEWS raccontano come oggi la Scuola Club sta traducendo il pensiero del suo padre fondatore, un pensiero lungo, capace di guardare al fu-
turo, e largo, destinato a raggiungere tanti e diversi pubblici. Da qui la domanda: «Se Dutti fosse ancora con noi a quali corsi penserebbe?». Certi che la sua prospettiva sarebbe rivolta ai bisogni del nostro tempo, ecco il corso sulle start-up che aspira ad aprire nuove opportunità professionali in un momento non facile del mercato del lavoro; l’investimento nell’integrazione con i percorsi legati al sistema FIDE; la promozione della salute pubblica con proposte accessibili a tutti all’interno della grande iniziativa nazionale iMpuls. E in tutti i settori, con formule nuove e sempre più smart, un’attenzione particolare viene data all’ormai imprescindibile digitale: dalla neonata Online Academy – che con lo slogan «Dove vuoi, quando vuoi!» offre un’opportunità in più di apprendere le lingue – alle moderne piattaforme d’apprendimento online per i percor-
si formativi con diploma; dai moduli per l’apprendimento delle competenze di base informatiche per i non nativi digitali ai tutorial per la cucina di tendenza. La visione di una «formazione per tutti» è quindi ancora ben presente alla Scuola Club di Migros Ticino ed è il parametro per misurare il senso e l’efficacia del suo agire formativo. Certo, i bisogni sono cambiati, ma attorno a noi emergono sempre nuove domande di natura sociale, culturale, professionale a cui dare risposta. «Ma in queste sfide non siamo soli» conclude Mirella Rathlef nel suo intervento sul nuovo numero di «News». «Nella hall della nostra scuola campeggia un grande ritratto di Gottlieb Duttweiler. Il suo sguardo è per noi un incoraggiamento quotidiano a mantenere viva una grande e bella storia». Una storia dalle radici robuste e dalle ali aperte e generose.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 28 agosto 2017 • N. 35
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Società e Territorio Rubriche
L’altropologo di Cesare Poppi Caccia selvaggia No, non ci occuperemo oggi di temi animalambientalisti, ma proseguiremo nell’esplorazione del rapporto sottile ma tenace che esiste fra i fatti della Storia – le sue res gestae – e le elaborazioni della cultura popolare, sulla scia di quanto già risultava due settimane orsono con la Nave dei Folli. Correva dunque l’anno 489 e il giorno preciso era il 28 agosto di 1528 anni fa. Sulle rive del fiume Isonzo, non lontano da Aquileia nell’odierno Friuli-Venezia Giulia si combatté una battaglia destinata a cambiare le sorti dell’Europa intera. Teodorico, Re degli Ostrogoti, sconfisse Odoacre, re degli Eruli, passato alla storia per aver messo fine all’Impero Romano con la deposizione di Romolo Augustolo, l’Imperatore Bambino (476). Odoacre, pur perseguendo politiche prudenti ed accomodanti nei confronti di Zenone, il costantinopolitano Imperato-
re d’Oriente per niente felice di avere per partner occidentale un barbaro, finì per inimicarselo. Zenone allora ebbe un’idea – o forse pensò ahilui che fosse tale. Dal 473 gli Ostrogoti di Pannonia, territorio compreso fra l’attuale Austria orientale, Slovenia e Ungheria Occidentale, avevano un nuovo Re nella persona di Teodorico, figlio di Teodomiro, conosciuto dai latini costantinopolitani e non come Flavius Theodericus. Quest’ultimo nome aveva acquisito quando viveva alla corte di Costantinopoli: dall’età di otto anni fino ai diciotto era stato ostaggio di lusso come garanzia che il padre Teodomiro smettesse il brutto vizio di razziare l’Impero violando i confini della Dalmazia ogni tre per quattro. Alla morte di suo padre, Teodorico riuscì ad unire le sottotribù Ostrogote in un unico corpo mettendo così fine al caos di amici-nemici-
quasiamici-quasinemici-perònonsisabene che costituivano il costante incubo alle frontiere di Costantinopoli. In un eccesso di zelo – o forse costretto dalla Realpolitik – Zenone spalmò Teodorico di titoli altisonanti: lo nominò Patrizio dei Romani (da cui il cognome Flavius), poi Vir Gloriosus e dunque Magister Militum per finire col titolo di Console. Il tutto per cercare di lenire le mire espansionistiche del Nostro, che per tutta riconoscenza continuava ad alzare l’asticella saccheggiando i confini dell’Impero fino a minacciare la stessa Costantinopoli. Il problema fondamentale era trovare uno spazio vitale per i 200-250’000 Ostrogoti giunti dalle steppe dell’Asia Centrale e imbottigliati come tanti in quel cul-de-sac che è sempre stata l’Europa da che il Sole muove da Est verso Ovest e la gente gli va dietro. Nel 488 Zenone credette di aver
quadrato il cerchio: finita la storia d’amore con Odoacre, da lui stesso nominato Patrizio etc… e poi Re d’Italia per poi ritrovarselo serpe in seno, ci riprova con Teodorico. L’offerta che non si può rifiutare: butta fuori Odoacre dall’Italia e porta i tuoi Ostrogoti a Ravenna. La battaglia dell’Isonzo fu solo la prima tappa del trasferimento. A questa seguì una seconda, indecisa battaglia a Verona. Da qui un trattato fra Teodorico ed Odoacre ai fini di governare assieme l’Italia alla faccia dei costantinopolitani – per così dire. Odoacre cadde nella trappola: il 2 febbraio 493, ad un banchetto organizzato per celebrare il patto, Teodorico propose un brindisi – e ficcò la sua spada fra le clavicole di Odoacre mentre questi beveva. Il resto è storia. La cultura popolare non ha perdonato le gesta di Teodorico. Nell’area del
Primiero, nel Trentino Orientale – ovvero nel cuore delle Dolomiti – si racconta ancora la leggenda del Cazza Beatrich: un contadino viene svegliato di notte dal latrato di una muta di cani. Uscito all’aperto vede passare una masnada guidata da un cavaliere dagli occhi di fiamma seguita da una torma di segugi a sei zampe. «Buona caccia!» augura lo sprovveduto – «e se vi avanza qualcosa datelo a me!». Detto e fatto: la mattina dopo il contadino trova membra umane inchiodate alla porta di casa. Il personaggio di Beatrich – o Teatrich in altre versioni – altri non è che la declinazione aggiornata locale di Teodorico, re sanguinario, traditore e assassino, che diventa storicamente il leader della Caccia Selvaggia – un antichissimo mito paneuropeo sul Ritorno dei Morti. Del quale prossimamente il Vostro Altropologo preferito.
Ma nella vita non esiste una ricetta valida per tutti. L’ideale sarebbe poter scegliere la soluzione più adeguata ai propri desideri. E mi sembra che la possibilità di crescere i figli con la massima disponibilità sia stata, nel suo caso, un’ottima soluzione. Molte donne che lavorano riconoscono, con dolore, che il tempo concesso ai figli è insufficiente e vorrebbero vivere come lei. Solo adesso infatti, quando è subentrata la fase del «nido vuoto», sente il bisogno di uscire di casa e di svolgere una occupazione retribuita. Comprendo questa nuova esigenza ma non vorrei che fosse indotta dall’atteggiamento sprezzante di suo marito. Le vere motivazioni nascono dentro di noi, non per reazioni alle accuse altrui. Probabilmente anche suo marito sta affrontando un momento di crisi. Non sentendosi più indispensabile come padre, vorrebbe ottenere un riconoscimento per tutto quello che ha fatto in precedenza per lei e per i vostri figli.
Purtroppo il sesso forte è affettivamente il più debole: non sa accettare la propria fragilità, esprimere i propri desideri, chiedere aiuto e conforto. Ma non credo che suo marito intenda ferirla, le sue recriminazioni esprimono piuttosto un crollo della sua autostima e un bisogno di valorizzazione. Fermatevi un momento a riflettere sulla stagione della vita che state attraversando. Se guardate indietro vedrete gli ottimi risultati raggiunti nel crescere tre ragazzi forti e sereni. Se guardate avanti scoprirete con meraviglia che vi attendono tante possibilità. La libertà che ha raggiunto le offre una seconda giovinezza. Per sentirsi attivi non è necessario un lavoro retribuito. Probabilmente gli impegni familiari l’hanno costretta per molti anni a rimandare viaggi, interessi culturali, sport, incontri con le amiche. Perché non recuperare il tempo perduto, le occasioni accantonate? Tra le varie possibilità di autorealizza-
zione porrei anche il volontariato. Non c’è niente di meglio che aiutare gli altri per aiutare se stessi. Pensi infine che, in futuro, il pensionamento di suo marito vi consentirà di fare molte cose insieme. Vi attendono esperienze avvincenti, da progettare e preparare sin d’ora. Come scrive Oscar Wilde: «se la felicità fosse un palazzo, la stanza più grande sarebbe la sala d’attesa». Una sala in cui proietterei anche i nipoti che verranno. La «nonnità» è una promessa di gioia che non si può pretendere ma che vale la pena di attendere. Se il passato è una narrazione, il futuro è un sogno da svegli. Non manchi questa risorsa.
ai piedi della Jungfrau, la più alta vetta alpina raggiungibile in ferrovia, questa minicittà si è impegnata per allargare e soprattutto aggiornare un potere d’attrazione rivolto a categorie di pubblico, dalle esigenze e dagli sfizi particolari e costosi. D’accordo i bei panorami, ma servono stimoli supplementari, sportivi, con scuole di parapendio e di vela, e consumistici, con negozi, boutiques, ristoranti a iosa. Non qualsiasi, però. Tenendo conto degli umori finanziari e politici del momento, si è puntato verso Oriente: Cina, Giappone, India, Emirati, Arabia Saudita, Indonesia. Queste, visibilmente, le provenienze della stragrande maggioranza degli ospiti che, da mesi, affollano un luogo, per così dire a loro piena disposizione. Dove svolgere il ruolo di compratori, appassionati di marchi, grazie ai consigli di venditori ad hoc, pure loro di origine asiatica. Niente difficoltà, anche a tavola, dove i menu, in caratteri arabi o cinesi, e inglese in coda, propongono una diversificata gamma di specialità orientali. Persino a bordo dei battelli si possono degustare buffet halal. E
disporre, eventualmente, di tappeti da preghiera, con bussola integrata. Come dire, un’ennesima dimostrazione del risaputo perfezionismo elvetico. Ma, qui, si è andati oltre il dovuto accettando di cambiare faccia, per soddisfare nel miglior modo possibile le abitudini e i gusti di clienti redditizi. Con effetti, persino sconcertanti: un’infilata a non finire di orologerie, di gioiellerie, che neppure sulla Bahnhofstrasse e, nel settore alberghiero, la prevalenza dei 4 e 5 stelle. Ciò che crea l’immagine, appunto, di una città fantasma, popolata esclusivamente da privilegiati. Ma è una visione che si presta a osservazioni sorprendenti e confortanti: gruppi di donne islamiche, come si deduce dal foulard colorato, in giro fra loro, senza accompagnatori, allegre, disinibite, indipendenti. L’immagine è apparente o rispecchia una nuova realtà, addirittura la conferma che quell’auspicato islam moderato esiste? A proposito d’immagine, proprio a Interlaken , si assiste a una sostituzione totale, sia pure transitoria, comunque inquietante. Viene naturale chiedersi:
dove sono finiti i cittadini, nativi o adottivi, del posto? In questa lunga estate ’17, diventa difficile trovare gli indizi di quella che dovrebbe pur essere la fisionomia quotidiana di una collettività locale, con attività, abitudini, gusti, linguaggi propri. Un’identità cancellata? Invece no, resiste all’urto dei cambiamenti, ed è sfoggiata persino con orgoglio. Ne offre una testimonianza la mostra che, nelle belle sale del Kunsthaus , ospita le opere di Franz Niklaus König (1765-1832), pittore di paesaggi e di scene di vita alpini, oggi rivalutato. Ed è, per noi, una piacevole sorpresa scoprire che esiste e se la cava bene il trisettimanale «Jungfrau Zeitung», altra espressione di vita regionale. Ma, l’identità popolare si manifesta con il massimo risalto, in questa settimana, con l’«Unspunnenfest», che, con il famoso lancio della pietra, è diventata addirittura un’attrazione internazionale. Una data storica, che nel 1805, segnò la riconciliazione fra città e campagna. Oggi, come sottolineano gli organizzatori, assume un significato simbolico. Insieme pacificamente è possibile.
La stanza del dialogo di Silvia Vegetti Finzi Sentirsi attivi anche senza un lavoro retribuito Non so nemmeno da dove iniziare. Buongiorno cara Silvia. È un buon inizio credo. Ho quasi 50 anni, 20 dei quali passati a fare la mamma di tre incredibili ragazzi. Nonostante i miei innumerevoli errori, sono ora persone che hanno trovato il senso della loro vita e mi stupisco ogni giorno della fortuna che ho avuto. Ma ora sono qui. Un po’ persa. È da molto tempo che osservo questa mia vita che sembra essersi assottigliata, un po’ timorosa di farsi vedere, di uscire a guardare il mondo che vive. Non lavoro da 20 anni. Da 20 anni non porto uno stipendio a casa. Da 20 anni mi porto dentro il senso di colpa. Ieri mi sono sentita dire da mio marito che non mi aiuta nei lavori di casa o in giardino o qualsiasi cosa riguardi la casa perché non lavoro e questo è il mio compito. Lui ha il suo lavoro fuori casa. Io il mio. Ora mi trovo ferita e confusa. Vorrei trovare un lavoro fuori casa pur di non sentirmi più dire queste cose. Ma non è facile. Ho pau-
ra. Mi sento immersa nell’acqua in balía delle onde mentre guardo mio marito che rema tranquillo sulla sua barca. E non so dove sta andando. Un abbraccio. / Serena Cara Serena, suo marito conserva, fuori tempo massimo, una visione del mondo in generale e del matrimonio in particolare che ha funzionato per secoli. Sino agli anni Sessanta la formula: lui lavora fuori casa e mantiene la famiglia, lei sta a casa, cresce i figli e si occupa dell’amministrazione domestica, sembrava il modo migliore di vivere insieme. Ma quasi all’improvviso, nel decennio successivo, quel modello incomincia a presentare delle crepe. Nell’economia post moderna, un solo stipendio inizia a risultare insufficiente e le giovani donne, acculturate come non era mai successo prima, ambiscono a una esistenza più ricca e articolata, capace di rispondere alle loro potenzialità e alle loro aspettative.
Informazioni
Inviate le vostre domande o riflessioni a Silvia Vegetti Finzi, scrivendo a: La Stanza del dialogo, Azione, Via Pretorio 11, 6900 Lugano; oppure a lastanzadeldialogo@azione.ch
Mode e modi di Luciana Caglio L’estate di una città fantasma A scanso di equivoci, stiamo parlando di una località reale, Interlaken, che, negli ultimi mesi ha fatto spesso notizia nei media nazionali, citata come simbolo di un successo turistico meritato, rassicurante e, insomma, da imitare. Ed è proprio un’immagine di seducente vitalità che questo centro, di neppure 10mila abitanti, trasmette al visitatore, al primo impatto. Vi si respira quell’at-
mosfera da piccola metropoli tipica, del resto, di tante borgate e persino villaggi svizzeri, che sembrano sempre più grandi e intraprendenti di quel che sono. Una sorta d’inganno che, sul piano turistico, funziona. Da questo punto di vista, il caso di Interlaken è davvero esemplare. Al di là delle prerogative naturali, fra due laghi incredibilmente turchini e
Interlaken, una delle mete turistiche più famose della Svizzera. (Wikipedia)
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 28 agosto 2017 • N. 35
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Ambiente e Benessere Eco-viaggi anche sui mari Le nuove navi da crociera diventeranno più ecologiche anche grazie ai motori Bmw
Incontri paurosi sul Cammino A distanza di due secoli e mezzo, i racconti sulla presenza della mitica «bestia del Gévaudan» aleggiano ancora sui pellegrini di Compostela
L’invasione delle neofìte Piante che vengono da lontano e si diffondono spontaneamente, minacciando la biodiversità
Che sia sport o che sia cibo Cacciare topi per mangiarli o per gioco è in entrambi i casi un bisogno dei gatti da rispettare pagina 17
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Stop ai rifiuti abbandonati con Clean-Up Ecosistema Il Gruppo d’interesse per
Elia Stampanoni Il littering è il malcostume che vede i rifiuti gettati o abbandonati con noncuranza nelle aree pubbliche. Gli imballaggi di cibo d’asporto e delle bevande, giornali, sacchetti, carte o i mozziconi di sigaretta sono solo alcuni esempi. Un atteggiamento spesso eseguito senza volontà – quasi come un automatismo assimilato – che ha però conseguenze nefaste e dispendiose. Il littering crea infatti costi enormi per la pulizia, provoca danni all’ambiente e riduce la qualità di vita. L’Igsu, il Gruppo d’interesse per un ambiente pulito, s’impegna da oltre dieci anni per combattere questa crescente degenerazione, proponendo attività di sensibilizzazione e di pulizia sul terreno. Più precisamente è il centro svizzero di competenza contro il littering. Dal 2007 si adopera a livello nazionale a favore di una Svizzera pulita. Fra i vari enti responsabili dell’Igsu vi sono anche Migros, la cooperativa Igora per il riciclaggio dell’alluminio, PETRecycling Schweiz e VetroSwiss. Da maggio del 2017 assegna inoltre il marchio No-Littering alle istituzioni che dimostrano un impegno in quest’ambito. Per ora sono una cinquantina i label concessi in Svizzera, tra cui anche ai comuni di Quinto, Caslano, Muralto, al Centro professionale Tecnico Mendrisio, alle Città di Bellinzona e di Lugano e al Consorzio Valle del Cassarate e al golfo di Lugano. Con questa nuova iniziativa l’Igsu intende sostenere ulteriormente le città, i comuni e le scuole, oltre che con offerte per combattere il littering nella vita quotidiana, anche con un riconoscimento ufficiale. «Le istituzioni pubbliche hanno un ruolo fondamentale nella lotta contro il littering: non solo per quanto riguarda la pulizia, bensì anche negli ambiti di sensibilizzazione, prevenzione e repressione», sostiene l’Igsu nella sua campagna promozionale. Per ottenere il marchio No-Littering le istituzioni (pubbliche o private) devono aderire a una lista di requisiti e rilasciare, entro fine febbraio, una promessa di qualità per l’anno in corso. Il richiedente s’impegna quindi a combattere il littering con misure mirate,
scegliendo e pianificando i singoli interventi concreti. «Gli sforzi amministrativi per l’acquisizione e il rinnovo del marchio sono esigui e l’offerta è completamente gratuita per il richiedente», sottolinea l’Igsu. Il marchio si può richiedere sul sito www.no-littering.ch, dove si trovano pure le condizioni per aderire al label. Una delle maggiori attività rimane sempre l’azione di sensibilizzazione diretta sul campo. Gli ambasciatori dell’Igsu anche quest’anno stanno percorrendo tutto il paese informando i passanti e i frequentatori dei parchi sul littering e sul riciclaggio, motivandoli in modo simpatico e garbato a uno smaltimento corretto dei loro rifiuti. I rappresentanti dell’associazione con sede a Zurigo si recano anche nelle scuole per spiegare il corretto comportamento con i rifiuti e i diversi materiali riciclabili, utilizzando pure il materiale didattico interattivo che può essere ordinato gratuitamente sul sito www.igsu.ch. Il team di ambasciatori, composto da circa 70 lavoratori interinali, studenti o persone con interesse per l’ambiente, è passato anche in Ticino. A Lugano, dal 19 al 22 luglio, c’è stata una proficua azione di sensibilizzazione in alcuni dei luoghi più frequentati anche dai turisti, come il lungolago, il Parco Civico e il Lido, dove spesso ci s’imbatte nei rifiuti abbandonati. Prima di Lugano, erano stati a Locarno dal 20 al 24 giugno dove, secondo un sondaggio svolto dallo stesso Gruppo d’interesse, circa l’89 per cento degli abitanti si sente infastidito dal littering. Anche a Bellinzona le temperature più calde significano più immondizia: in estate i rifiuti vengono abbandonati o gettati con maggiore noncuranza, soprattutto nei parchi e nelle vie. In giugno, in luglio e anche tra il 25 e il 26 agosto i delegati Igsu si sono occupati di ripulire Bellinzona, senza tralasciare l’importante compito di sensibilizzare i passanti. Oltre alla sensibilizzazione e al marchio No-Littering, Igsu dispone di un supporto online (www.litteringtoolbox.ch, anche in italiano) che fornisce informazioni ai responsabili e alle persone preposte a risolvere i problemi correlati al littering. Nelle singole ru-
Keystone
un ambiente pulito, dopo l’istituzione del nuovo marchio No-Littering, organizza le giornate di pulizia dell’8-9 settembre
A livello nazionale Migros sponsorizza l’attività di IGSU con i proventi ricavati dalla vendita dei sacchetti di plastica alle casse dei suoi supermercati.
briche vengono indicati utensili e strumenti adatti ai diversi contesti e situazioni: troviamo quindi esempi pratici per capire le cause e cercare di risolvere i problemi di littering nei parcheggi, parchi, stazioni o fermate dei trasporti pubblici, strade, aree picnic, spiagge, piazze o piazzali scolastici. Una prima occasione per mettere in pratica questi consigli è di certo la giornata nazionale Clean-up, che quest’anno avrà luogo l’8 e il 9 settembre. Due giorni in cui si ha la possibilità di dare un contributo in un’operazione di pulizia a livello locale, promossa da Igsu con il sostegno dell’Ufficio federale dell’ambiente (Ufam), dell’organizzazione «Infrastrutture comunali» e della Fondazione Pusch.
Nel 2016 le giornate sono state un grande successo e hanno coinvolto migliaia di persone in più di 350 luoghi di tutta la Svizzera. Comuni, scuole, imprese e associazioni hanno pulito e liberato dai rifiuti strade, piazze, prati e boschi della loro regione. Anche il Ticino ha riposto presente, con più di 50 azioni. A Lugano, per esempio, 75 volontari hanno raccolto i rifiuti prestando servizio sia in riva al lago che sui monti, mentre a Preonzo l’associazione dei genitori, in compagnia dei propri figli, ha ripulito la località. Oppure a Tegna, dove la popolazione delle Terre di Pedemonte ha sistemato le paludi e le zone boschive dai rifiuti. Queste e altre azioni verranno riproposte anche per l’imminente cam-
pagna dell’8 e 9 settembre 2017, la cui lunga lista di eventi si può trovare sul http://www.igsu.ch/it/novit/clean-upday, dove è pure possibile annunciarsi o aggregarsi per una buona azione a favore di un ambiente pulito. Un’ultima idea per sensibilizzare sul littering è il premio Trash Hero of the Year (letteralmente: eroe spazzatura dell’anno). Alcuni rappresentanti dell’Igsu hanno filmato il comportamento delle persone davanti a un cestino pubblico della spazzatura e a coloro che smaltivano correttamente i rifiuti è stato conferito questo premio. Il video visibile www.igsu.ch/it/ trashhero mostra come per alcuni sia un fatto assolutamente normale, per altri non ancora.
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Ambiente e Benessere
Dalle auto alle barche
Motori Le batterie ad alto voltaggio sviluppate per la compatta BMW i3 al servizio di motori elettrici nautici
Mario Alberto Cucchi Il gruppo automobilistico BMW continua a investire in tecnologie volte a una mobilità sostenibile ma non solo a due e quattro ruote. Adesso le batterie ad alto voltaggio sviluppate per la compatta BMW i3 salgono a bordo di una barca. Gli accumulatori agli ioni di litio da 33 kWh sono partiti dallo stabilimento BMW di Dingolfing alla volta di Torqeedo, azienda tedesca specializzata in motori elettrici nautici. Lì le batterie sono state abbinate al propulsore Deep Blue 80i, la più potente soluzione dedicata alla nautica dalla Casa germanica. Per verificare sul campo le prestazioni, il tutto è stato installato su un bel motoscafo Kaiser K-625. La prova in acqua è andata molto bene. Il sistema può essere installato su diversi tipi di barche: yacht a motore, a vela e anche mezzi dedicati al commercio come i taxi nautici. Ad oggi la nautica sta puntando su soluzioni ibride.
Il sistema può essere installato su diversi tipi di barche: yacht a motore, a vela e pure sui taxi nautici commerciali Un esempio? Azimut Magellano 50 Hybrid. Uno grande e lussuoso yacht di quindici metri che può essere equipaggiato anche con una soluzione propulsiva ibrida. Magellano può così navigare
a zero emissioni a 7 nodi per 5-6 miglia grazie a un pacco batterie da 21 kWh. Ma come funziona? Sotto la soglia dei 7 nodi la barca è spinta dai soli motori elettrici alimentati a batteria, quando viene richiesta più potenza il sistema passa da solo alla modalità diesel. Le batterie vengono ricaricate dalle prese di banchina o dai generatori di bordo. Le soluzioni ibride vengono già adottate anche da barche a vela come Vismara V50.02 Hybrid. In questo caso permette di alternare l’utilizzo di un motore elettrico con quello di un propulsore diesel e con le vele. Una svolta tecnologica necessaria. D’altra parte che le navi inquinino si è sempre saputo. Basta andare in un porto e osservare le colonne di fumo nero sopra le lucenti navi da crociera. Adesso grazie a un’inchiesta condotta dal programma di approfondimento Dispatches in onda su channel4. com sappiamo anche quanto inquinano. Sembra che la qualità dell’aria sul ponte di una nave da crociera sia peggiore di quella di una metropoli intasata dal traffico. Il quotidiano inglese «The Guardian» riprendendo l’inchiesta di Channel4 ha titolato: «L’aria a bordo delle navi da crociera è due volte peggiore di quella di Piccadilly Circus». I giornalisti di Dispatches hanno infatti misurato le polveri sottili su una nave da oltre 2000 passeggeri e 889 persone di equipaggio, la Oceana della P&O Cruises e le hanno confrontate con quelle che aleggiano nel centro di Londra su Piccadilly Circus. Sul ponte della nave, vicino alle ciminiere, si regi-
strano 84mila particelle per centimetro cubo di polveri sottili che aumentano fino a 226mila avvicinandosi ancor di più. A Piccadilly Circus all’ora di punta si registrano «solo» 34mila particelle per centimetro cubo. Va detto che la Oceana è lunga ben 261,4 metri ed è stata varata nel 2000 quindi, nonostante gli aggiornamenti a cui è stata sotto-
posta negli anni, non è una delle navi eco-friendly di ultima generazione. Dopo la messa in onda della trasmissione la Cruise Lines International Association (CLIA), che riunisce gli armatori di navi da crociera, ha dichiarato che «la nuova generazione di navi da crociera sarà più Eco-friendly e che 87 navi saranno costruite o aggiorna-
te con differenti alternative propulsive entro il 2026. I membri della CLIA hanno investito oltre un miliardo di dollari in tecnologie dedicate a minimizzare le emissioni». D’altronde ad oggi non esistono leggi che regolamentano le emissioni delle navi, come invece esistono per i veicoli terrestri. Annuncio pubblicitario
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Ambiente e Benessere
La bestia del Gévaudan
Viaggiatori d’Occidente Uno strano incontro nel cammino verso Santiago de Compostela
Fabrizio Ardito, testo e foto Alla fine del IX secolo un pio eremita credette di aver scoperto in Galizia la tomba dell’apostolo Giacomo. La notizia del miracolo si sparse come un vento in tutta Europa e in pochi decenni il pellegrinaggio verso Santiago de Compostela divenne una prova di devozione in tutto il mondo cristiano. Narrano i cronisti che intorno al 950 il vescovo Godescalco di Le Puy-en-Velay, «animato da un’aperta devozione, ha lasciato il suo paese d’Aquitania, accompagnato da un grande corteo, dirigendosi verso l’estremità della Galizia per toccare la misericordia divina». Era un viaggio lungo e spesso pericoloso, ma anche così centinaia di migliaia di pellegrini, superando prima gli altipiani vulcanici della Margeride e dell’Aubrac, poi le vallate del Lot e del Tarn, attraversavano tutta la Francia meridionale e raggiungevano in più di un mese di cammino la collegiata di Roncisvalle; qui il percorso più frequentato per Santiago de Compostela inizia a correre verso ovest attraversando il nord della Spagna. In tutto fanno millecinquecento chilometri. Ho ripercorso a piedi il tratto francese di quel pellegrinaggio, attraversando le scabre pendici del cuore vulcanico della Francia. Altipiani solitari e ventosi, bordati da oscure foreste, in inverno si coprono di neve come veri deserti silenziosi a più di mille metri di quota. I pericoli per i viaggiatori del passato erano molti: briganti senza scrupoli, burroni e nebbie profonde. Sul far della sera le campane delle abbazie e delle chiese suonavano a distesa per indicare la via ai viandanti dispersi. L’incontro con animali selvaggi era all’ordine del giorno – tra montagne dove anche oggi i lupi sono di casa – e il pellegrino non si metteva per via senza aver fatto testamento e aver scelto un nodoso bordone da portare con sé. Ma nel mese di luglio del 1746, nella piccola contrada del Gévaudan, accadde qualcosa di mai visto prima. Un enorme animale iniziò ad attaccare donne e bambini, divorandoli senza pietà. Per molti si trattava di un lupo, mentre alcuni sopravvissuti parlarono agli stupefatti curati e balivi di occhi fiammeggianti e scaglie, di denti giganteschi e di artigli semplicemente diabolici. Per chi cammina oggi lungo il sentiero GR 65 è facile sorridere della leggenda. Ma qualche lieve inquietudine è lecita anche per i moderni peregrinos, quando si sosta per un attimo tra la nebbia vorticante dell’altopiano di Saugues o tra le tondeggianti pietre della Roc des Loups. Nei due anni seguenti alla sua infernale apparizione, l’animale – oramai noto in tutto il regno con il nome di «Bestia del Gévaudan» – seminò il panico nella zona, uccidendo più di centotrenta persone, divorando neonati, cani, vitelli
Azione
Settimanale edito da Migros Ticino Fondato nel 1938 Redazione Peter Schiesser (redattore responsabile), Barbara Manzoni, Manuela Mazzi, Monica Puffi Poma, Simona Sala, Alessandro Zanoli, Ivan Leoni
e pecore. Quando messe e processioni non bastarono, sulle sue tracce si scatenarono i più agguerriti cacciatori di Francia: il 20 settembre 1765 Antoine de Beauterne, il guardacaccia personale di Luigi XV, uccise un lupo enorme dopo giorni d’inseguimenti. Si tirò un sospiro di sollievo, ma durò poco; nella primavera seguente le uccisioni ripresero e un’agguerrita compagnia di oltre cinquanta dragoni venne inviata nell’Aubrac per cercare di porre fine alla mattanza. Tutte le spedizioni furono vane; nelle notti più oscure il ruggito dell’animale continuò a risuonare tra le radure e i viottoli degli altipiani. La tragica storia della Bestia del Gévaudan ebbe una conclusione farsesca. L’abile cacciatore Jean Chastel, dopo aver lungamente studiato mappe, aggressioni e piste, riuscì nel 1767 a uccidere finalmente l’orrida bestia e, sperando nella riconoscenza reale e in una lauta ricompensa, fece imbalsamare frettolosamente il mostro e lo traspor-
tò a Parigi, nella speranza di mostrarlo orgogliosamente al sovrano e di ricevere i dovuti apprezzamenti per il suo coraggio. Ma il re, impegnato nei balli di Versailles e nelle allegre serate con
l’arguta Madame du Barry e le altre colte cortigiane parigine, non volle nemmeno ricevere il poveretto. Il colossale lupo, probabilmente non preparato a dovere per il lungo viaggio, fu gettato
in una cantina e iniziò tristemente a decomporsi e a puzzare, fino a quando i maggiordomi decisero di dare alle fiamme le sue orride spoglie, lasciando a bocca asciutta gli scienziati illumi-
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nisti che avrebbero voluto studiare da vicino il criptide, cioè l’inquietante animale misterioso che aveva terrorizzato il Gévaudan. La Bestia, anche a distanza di due secoli e mezzo, è una presenza che alleggia su questi altipiani: numerosi cartelli indicano che si sta attraversando il suo antico terreno di caccia, i segnavento dei campanili delle chiese sono quasi tutti a forma di lupo, la sua sagoma compare sugli stemmi di casate nobiliari e di comuni grandi e piccoli. A Sagues un museo vecchio stile è dedicato interamente alla bestia, con ululati, sangue e gemiti. Poi, mentre il viaggio verso i lontani Pirenei si lascia alle spalle gli ultimi grandi altipiani, superate Aubrac e Saint-Chély il paesaggio inizia a mutare. Le case e le chiese cambiano colore, passando dallo scuro dell’antica roccia vulcanica alle tonalità rosate dei mattoni, e il calore del sole scaccia il freddo accumulato nelle ossa durante l’attraversamento di pascoli e foreste. La bestia diventa poco alla volta solo un ricordo, da conservare con cura nell’archivio della memoria durante il lungo cammino verso Compostela, ancora ben lontana sulle coste nebbiose dell’Atlantico. Abbonamenti e cambio indirizzi Telefono 091 850 82 31 dalle 9.00 alle 11.00 e dalle 14.00 alle 16.00 dal lunedì al venerdì fax 091 850 83 75 registro.soci@migrosticino.ch Costi di abbonamento annuo Svizzera: Fr. 48.– Estero: a partire da Fr. 70.–
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 28 agosto 2017 • N. 35
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Ambiente e Benessere
Sui banchi della farmacia
Il vino nella storia Nel Seicento si diffuse la necessità di regolamentare la preparazione dei medicamenti:
Davide Comoli La diffusione della stampa all’inizio del Seicento (considerato il grande secolo di transizione) ha portato grandi contributi da parte di autori di enologia dell’epoca, grazie all’impegno di medici e, infine, quale conseguenza dell’istituzione delle Accademie. Le opere di questi sapienti poterono quindi essere divulgate con maggiore facilità. Il Seicento è il secolo in cui vedono la luce molti geni, che hanno contribuito ad appagare la sete di sapere in molti campi, ma non si può dire che in fatto di medicina e di farmaci fossero stati realizzati sostanziali progressi dai tempi della medicina classica. I principi della Scuola Salernitana erano sempre considerati alla base della scienza medica ufficiale. Gli spostamenti continui di truppe impegnate nelle campagne militari – legati alle nefaste vicende della guerra dei trent’anni che sconvolse l’Europa – favorirono lo scoppio di epidemie. Vale per tutte il ricordo della peste descritta dal Manzoni nei Promessi sposi che imperversò nel milanese nel 1630. Non c’è quindi da stupirsi più di tanto se nel vino, in quanto a medicina, siano state poste tanta speranza e fiducia, non solo dal popolo formato da gente semplice e «ignorante», ma anche da grandi medici dell’epoca. Le ragioni di questa nostra affermazione sono molte. Innanzitutto c’è il più volte ricordato senso del sacro riposto nel vino. Se il vino per noi cri-
stiani poteva diventare durante la celebrazione della Santa Messa il sangue di Cristo, voleva dire che era una bevanda prodigiosa, da qui a investirla di poteri taumaturgici il passo fu breve. Se poi pensiamo, in secondo luogo, alla facilità e alla capacità del vino di rendere gli uomini ebbri, quasi folli, vien da sé l’idea che ci sia sotto del divino: se questa sacra bevanda può mutare il carattere di un uomo perché non avrebbe potuto anche trasformare la sua malattia, guarirlo e restituirgli la salute? Dunque la farmacopea era più o meno quella dei secoli precedenti (con il termine farmacopea, s’intende un testo ufficiale che include le preparazioni farmaceutiche e costituisce una sorta di «vangelo per i farmacisti»). Nel passato queste regole erano dettate da altri compendi che venivano chiamati antidotari, ricettari ed elettuari. Il ricettario pubblicato a Firenze alla fine del XV sec., è il primo documento con validità giuridica dettato dalle Autorità dell’epoca e perciò può essere considerato la prima Farmacopea ufficiale. Il nome «farmacopea» apparve per la prima volta nel 1560 e da allora ogni città e ogni Stato adottarono la propria. Si diffuse così in tutti gli Stati la necessità di regolamentare la preparazione dei medicamenti. Numerosi i vini consigliati in questi ricettari in cui sono riportati anche i prezzi di vendita, come il «vino di granati» tariffato a un baiocco all’oncia, o il «vino emetico» venduto a sette baiocchi all’oncia come
Apothecarybottles
tra questi compare anche il nettare di Bacco
riportato nella Lista Rerum Petendarum emanata dalla città di Camerino. Verso la fine del XVII secolo in alcune liste medicinali redatte in Francia, abbiamo trovato il «vino antimonio», utilizzato per molto tempo come emetico e sudorifero, già sperimentato da Paracelso, medico e filosofo svizzero (1493-1541) riformatore della medicina. Nel 1610 anche Londra pubblicò la sua Farmacopea e vi figuravano tra sostanze abbastanza fantastiche anche tre vini medicinali. Il Teatro Farmaceutico Dogmatico e Spagirico di Giuseppe Donzelli (15961670) celebre medico, filosofo e speziale, riporta ben 37 vini medicinali. Tra le pagine della Pharmacopée universel-
le stampata a Parigi nel 1677, abbiamo trovato una preparazione dove compaiono in dosi uguali olio d’oliva e vino rosso, usato per la pulizia delle ferite in modo d’accelerare le cicatrizzazioni, e in caso di stress si consigliava di berlo. Un altro compendio, Universale Teatro Farmaceutico edito a Venezia nel 1682, riporta i vini medicamentosi consigliati dagli antichi medici greci e arabi. Nell’elenco risultano circa 30 preparazioni tra cui il «vino Absintico», il «cefalico», del «Mesuè» e un «vino Hidragogo» ovvero diuretico. Anche in Spagna dove per secoli esercitarono medici arabi, accanto a ebrei e orientali, sono numerosi i trattati farmaceutici che annoverano tra
le ricette quelle con i vini medicinali. La Palestra Pharmaceutica ChimicoGalenica opera stampata a Barcellona alla fine del Seicento, elenca 11 vini e 2 aceti medicinali, tra cui quello «stibiato» o «emetico», il «febbrifugo» contro la Quartana, il «purgativo», quello di «china», di «legno santo o antivenereo», lo «stitico» e lo «stomatico». All’inizio del XVIII sec. il Davini (il cognome sembra un segno), medico e farmacologo modenese, scrisse il De potu vini caldi che è tutto un inno alle virtù terapeutiche del vino. In particolare il Davini loda il vino caldo «per sciogliere la bile», agevolare la digestione dei succhi digestivi e rendere più attivi i «fermenti stomacali». Oggi la conoscenza dei vini medicinali è scarsa, la parola «enolito» è assolutamente in disuso, essa deriva dall’unione di due termini greci eno (vino) e lytos (sciolto). Probabilmente l’impiego di questi vini non va al di là del vin brûlé che degustiamo con gli amici ai vari mercatini natalizi o dopo una giornata passata a sciare e sentiamo che è l’unica vera cura, atta a toglierci l’umidità e la stanchezza fisica prima di un buon sonno ristoratore. Tornare al vino come farmaco miracoloso? Questo no, ma un po’ di vino nelle nostre farmacie, o una buona e accurata ricetta galenica preparata con «arte», chissà, magari non guasterebbe. Concludiamo ricordandovi i versi della Bibbia (Ecclesiastico 31): «Qual vita fa colui che manca di vino? Salute dell’anima e del corpo è il bere sobrio». Annuncio pubblicitario
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 28 agosto 2017 • N. 35
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Ambiente e Benessere
Più porri per tutti I porri li amano tutti. Sono solo penalizzati dal fatto che la cipolla, storicamente di somma importanza, non si può proprio confrontare, e gli scalogni, più fini e delicati, si possano usare in alternativa: anzi sono i porri ad essere l’alternativa a cipolla e scalogni! Comunque conosciamoli meglio.
In genere i porri che sono molto piccoli risultano piuttosto duri: meglio scegliere quelli di grande formato Sono una pianta erbacea della famiglia delle Liliacee, che comprende anche l’aglio e, per l’appunto, la cipolla. È un ortaggio conosciuto e apprezzato da secoli, oggi fa parte della tradizione gastronomica di molti paesi, tra cui il Galles, di cui il porro (cennin in cimrico) è uno degli emblemi. Nel porro, la parte commestibile non è rappresentata dal bulbo vero e proprio, come nel caso della cipolla, ma dalla parte basale delle foglie che, sovrapponendosi tra loro, formano un falso fusto cilindrico. Si trova sul mercato tutto l’anno, ma le stagioni di raccolta sono l’estate e la primavera. Al momento dell’acquisto, bisogna preferire gli ortaggi che non presentano ingiallimenti, con foglie verdi e ben lucide. In genere i porri molto piccoli sono piuttosto duri: meglio scegliere quelli di grande formato. Comunque quelli estivi sono particolarmente teneri. Quelli invernali, di maggiori dimensioni, sono più coriacei ma anche più saporiti. Si prestano alla realizzazione di minestre, zuppe, sformati, gratinati. Entrambe le varietà conferiscono un gusto particolare a tutti i soffritti e possono dare gustosi ripieni. I porri sono buoni sia stufati sia cotti a vapore e conditi in insalata. Si può
consumare anche la parte interna del verde, più tenera e giallina: ben pulita e tritata è ottima nelle minestre. I porri particolarmente teneri e giovani sono buoni anche crudi, in insalata, si mangiano come i cipollotti. Per la pulizia, occorre eliminare la base del porro e asportare le radici; va scartata quasi interamente anche la parte verde, conservando soltanto la parte basale, bianca. Nella varietà invernale meglio scartare anche un paio di tuniche bianche esterne. Ecco tre preparazioni di base, semplici da realizzare, ma molto utili nella cucina di tutti i giorni. Porri al vapore. Possono accompagnare praticamente qualsiasi piatto di carne o di pesce. Mondate un porro a testa, tenendo anche un po’ del verde. Tagliatelo poi a pezzi lunghi circa 6 cm e cuoceteli a vapore per 5’. Conditeli con una salsa di pomodoro densa e serviteli. Porri brasati. Un accompagnamento anche lui universale. Mondate un porro a testa, tenendo anche un po’ del verde. Tagliatelo a pezzi lunghi circa 6 cm, metteteli in una casseruola antiaderente, coprite e cuocete a fuoco vivo per circa 5’, senza alzare il coperchio ma agitando la casseruola per evitare che attacchino troppo. Risulteranno un po’ bruciacchiati ma va bene così. Trito di porri. Una base che serve a insaporire carni e pesci sia da cuocere sia già cotti. Prendete un porro, mondatelo lasciando anche un po’ del verde poi tritatelo finemente. Tritate anche 1 cm o poco più di zenzero e uno spicchio d’aglio sbucciati. Mescolate bene il porro, lo zenzero e l’aglio, poi cospargete la carne o i filetti di pesce con questa mistura e batteteli leggermente con il piatto di un coltello a lama larga, sia per ammorbidirli sia per meglio impregnarli degli aromi. Poi procedete secondo la ricetta prescelta. Insomma: più porri per tutti! Ma senza dimenticare cipolla e scalogni, eh…
CSF (come si fa)
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Allan Bay
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Gastronomia Un ortaggio, quale ottima alternativa a cipolle e scalogni
In Italia è facile trovare ricette con un caratteristico nome: xyz alla paesana; in genere riferito a zuppone ricche. Cosa vuol dire? Assolutamente nulla. Salvo indicare genericamente un piatto genuino e rustico, di origini campagnole, che oggi agli occhi di chi legge è una garanzia di genuinità. Si usa, ma di meno e più correttamente, anche come traduzione del francese paysanne, per indicare un misto di verdure
(patate, carote, rape, cavoli) tagliate a pezzetti di 1 cm di lato o di diametro e utilizzate per minestre, fondi di cottura e guarnizioni. Vediamo come si fanno alcune ricette alla paesana. Riso alla paesana. Ingredienti per 4 persone. Sgusciate 400 g circa di fave fresche. Lavate, spuntate e tagliate a dadini 1 zucchina e 1 patata. Preparate 200 g di dadolata di pomodori. Mettete le verdure in una casseruola con 1 cipolla, 1 gambo di sedano e 1 carota tagliate a dadini e 100 g di pancetta tagliata a cubetti, quindi cuocete a fuoco basso per 20’, unendo poca acqua bollente se necessario. Unite 250 g di pisellini freschi e 300 g di riso da risotti. Portate il riso a cottura aggiungendo acqua bollente o brodo vegetale bollente, 1 mestolo alla volta. Regolate di sale e di pepe e condite il riso con
abbondante grana grattugiato, abbondante prezzemolo e 1 giro di olio, poi servite. Pollo alla paesana. Per 4. Fate soffriggere in un tegame 1 cipolla tritata con 2 cucchiai di olio. Aggiungete 4 patate medie a dadi e 2 rape sempre a dadi e, quando sono ben colorite, 400 g di pomodori sbollentati, sbucciati e tagliuzzati e 2 zucchine tagliate a dadini. Rimestate e aggiungete 1 kg di pollo tagliato a pezzi, mescolando di nuovo. Portate a bollore, abbassate la fiamma e coprite il tegame. Fate cuocere per 1 ora circa. Alla fine profumate con 1 cucchiaino di origano secco e colorate con abbondante prezzemolo tritato, regolate di sale e di pepe e servite. Varianti: potete farlo con straccetti di qualsiasi tipo di carne, riducendo i tempi di cottura.
Ballando coi gusti Oggi, due semplicissime ricette, ideali per aprire un pasto leggero. La prima è a base di finocchi, la seconda, di peperoni.
Tartellette di peperoni e scalogni
Insalata di radicchio con ananas e finocchio
Ingredienti per 4 persone: 8 tartellette · 4 scalogni · aglio · 3 dl di latte · 40 g di farina · 40 g di grana grattugiato · 2 tuorli · burro · sale e pepe.
Ingredienti per 4 persone: 250 g di radicchio · 1 finocchio · 3 fette di ananas · aceto balsamico · olio di oliva · sale e pepe.
Mondate e affettate gli scalogni e fateli appassire in una noce di burro per 12 minuti con 1 spicchio di aglio, mescolando. Mondate i peperoni e tagliateli a listarelle. Aggiungete agli scalogni i peperoni, fateli ammorbidire, eliminate l’aglio e regolate di sale e di pepe. Scaldate il latte, unitevi 1 noce di burro, la farina setacciata, il grana, i tuorli sbattuti, sale e pepe. Mescolando, fate addensare, quindi versate la crema sui peperoni. Lasciate riposare il composto coperto per qualche minuto, poi distribuitelo nelle tartellette e servite.
Tagliate a cubetti l’ananas, fateli riposare in una ciotola per 30 minuti. Mondate il radicchio, spezzettatelo e mettetelo in un’insalatiera. Mondate e affettate finissimo il finocchio e aggiungetelo all’insalata, unendo anche l’ananas. Condite con una vinaigrette ottenuta emulsionando l’olio con l’aceto, un pizzico di sale e uno di pepe. Mescolate e servite subito. Se volete, mettete un po’ di senape nella vinaigrette e arricchite con uova sode a spicchi.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 28 agosto 2017 • N. 35
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Ambiente e Benessere
Alle «erbacce» serve il nostro aiuto Biodiversità A minacciare le piante autoctone sono le neofíte, piante esotiche che ben si adattano
un po’ ovunque, ma a discapito di ciò che c’era prima Marco Martucci «Lo sai che i papaveri…» è il ritornello di una canzonetta di grande successo, cantata da Nilla Pizzi al Festival di Sanremo del 1952 e che cominciava così: «Su un campo di grano che dirvi non so». E chi non conosceva i papaveri? Negli anni Cinquanta e anche dopo, non c’era campo di frumento senza il rosso brillante delle corolle dei papaveri. Il papavero o rosolaccio, Papaver rhoeas, fa parte di quella flora che si chiama avventizia, che nasce fra le piante coltivate senza che nessuno l’abbia seminata o, anche, segetale, perché accompagna le messi, in latino seges. Ma il papavero aveva un problema: entrava in concorrenza col frumento, compromettendo il raccolto. Era, insomma, una pianta infestante, un’erbaccia. Così, attraverso una sorta di genocidio botanico, migliorando la selezione dei semi e magari ricorrendo a qualche diserbante selettivo, fu scacciato con successo dai campi, relegato ai margini e fatto poi sparire anche da là. Il campo di grano «che dirvi non so», perché era uno fra i tanti, non si seppe più dire: sparì del tutto. Il papavero poté sopravvivere fra gl’incolti, lungo strade e sentieri: divenne pianta ruderale. Da qualche anno, qualcuno lo sta cacciando anche da quest’ultimo rifugio. Al punto che, se vogliamo di nuovo veder fiorire i papaveri e, con essi, magari anche fiordalisi e camomilla selvatica, tutte piante quasi scomparse, dobbiamo seminarli. Le stesse piante che consideravamo «erbacce» richiedono – è quasi un controsenso – il nostro aiuto. Chi sta facendo sparire le nostre antiche piante selvatiche sono piante nuove, estranee all’ambiente che, a uno sguardo attento e allenato, suonano come tante note stonate. Mentre il papavero era giunto da noi con le prime coltivazioni millenni or sono e divenne parte della nostra flora, inserendosi negli ecosistemi naturali, queste nuove piante sono arrivi molto più recenti e non fanno solo sparire papaveri e fiordalisi ma ne combinano di peggio: la
L’invasione delle piante alloctone minaccia la biodiversità.
presenza di alcune di loro può arrecare gravi danni. Questo nuovo pericolo, una minaccia non esclusiva del nostro territorio ma che si estende a tutta la Terra, sono le neofíte, con l’accento sulla «i», dal greco «piante nuove». Le neofíte sono piante esotiche, allóctone per distinguerle da quelle autóctone presenti da lunghissimo tempo, introdotte intenzionalmente o accidentalmente dall’uomo dopo il 1492, data dello sbarco in America di Cristoforo Colombo, inizio di vasti trasporti di piante e animali da e per ogni angolo del mondo. Una neofíta è in grado, una volta liberata in natura, di sopravvivere e riprodursi senza l’intervento dell’uomo. Così, per esempio, patate, mais e pomodori, pur essendo un apporto del Nuovo Mondo, non sono neofíte: non sfuggono dalle coltivazioni e, se non vengono seminate dall’uomo, non si diffondono in natura. La ben nota palma del nostro paesaggio turistico, invece, un’esotica giunta a noi dalla Cina a metà Ottocento, Trachycarpus fortunei, è una neofíta e per di più è invasiva. Sfuggita, complici gli uccelli che ne diffondono i semi, da
parchi e giardini, si sta sempre più inoltrando nei nostri boschi. Invasiva è una pianta che si riproduce e si diffonde in natura con rapidità e in modo massiccio, mettendo in pericolo la biodiversità perché fa scomparire specie autoctone già presenti, altera la percezione del paesaggio, può causare danni all’agricoltura, all’economia o alla salute. Ci sono anche specie invasive nostrane, autoctone, come il rovo. Ma le neofíte invasive sono estranee all’ambiente naturale, sono numerose, rapidamente colonizzano molti ambienti. Non tutte le neofíte si rivelano invasive: secondo la regola pratica del 10, di 1000 specie alloctone giunte in Svizzera, 100 riescono a sopravvivere e, di queste, solo 10 s’insediano in natura e una è potenzialmente invasiva. Fra le non poche neofite invasive, ecco tre esempi. Il Poligono del Giappone, Reynoutria japonica, è in grado di ricoprire completamente le rive dei corsi d’acqua. Il suo fitto fogliame provoca la scomparsa della vegetazione e degli animali, impoverendo la biodiversità e destabilizzando le sponde, maggiormente esposte all’erosione. La Panace di Man-
tegazzi, Heracleum mantegazzianum, a contatto con la pelle esposta al sole, è causa di serie ustioni. Il polline dell’ambrosia, Ambrosia artemisiifolia, infine, è fortemente allergenico. Confederazione, cantoni e comuni hanno perciò stabilito norme di comportamento e promulgato leggi allo scopo di eliminare le neofite invasive o almeno di contenerne l’espansione. Nel 2009 il nostro Consiglio di Stato ha istituito il Gruppo Lavoro organismi alloctoni invasivi, brevemente Gruppo Lavoro Neobiota. I Neobiota comprendono sia le piante, le Neofite, sia gli animali, i Neozoi. Fra questi sono tristemente noti il cinipide del castagno Dryocosmus kuriphilus e la zanzara tigre Aedes albopictus. Nell’ambito della lotta alle neofíte invasive è stato condotto durante il biennio 2015-2016 un interessante progetto cantonale pilota. Grazie alla collaborazione interdipartimentale tra il Dipartimento del territorio, il Dipartimento della Sanità e della socialità e il Dipartimento delle finanze ed economia, sono state create due squadre d’intervento, operative dal 2017. Le squadre sono state composte
da persone disoccupate a beneficio di assistenza sociale, nell’ambito dei programmi d’inserimento socio-professionale, che hanno ricevuto una formazione specifica teorica e pratica da parte di esperti e professionisti del Gruppo Lavoro Neobiota. Compiti delle squadre sono la valutazione dell’entità dell’invasione, l’allestimento di un programma d’intervento mirato, l’estirpo e il corretto smaltimento delle piante. Ciascuna formata da un caposquadra e da 6-7 collaboratori, le squadre vengono attivate su richiesta, generalmente da uffici cantonali o enti pubblici. Nei due anni del progetto, come spiega Mauro Togni, coordinatore del Gruppo Lavoro Neobiota, le squadre sono intervenute in una trentina di comuni su altrettanti siti. Nel 2017 gli interventi si sono moltiplicati. Un esempio importante è quello della Valle di Blenio, dove gli interventi sistematici e costanti degli ultimi tre anni hanno portato a una riduzione dei focolai, soprattutto di Poligono del Giappone, di oltre il 70 per cento. La situazione rimane in generale molto seria, ma si notano miglioramenti in quelle neofite per cui gli interventi si protraggono durante parecchi anni. La lotta all’Ambrosia effettuata dal servizio fitosanitario negli ultimi dieci anni ha permesso di eliminare questo pericoloso infestante da circa l’80 per cento dei focolai monitorati. La situazione invece sta peggiorando – prosegue Mauro Togni – o comunque non migliora, per quelle specie la cui presenza è già molto diffusa, in primo luogo il Poligono del Giappone, e la cui diffusione viene favorita da un certo modo di gestire il territorio (taglio con decespugliatore a filo, diffusione dei frammenti tagliati nei corsi d’acqua e altro). Pur se lentamente, la sensibilità della popolazione e degli enti pubblici sta crescendo: aumentano le segnalazioni e le richieste di momenti informativi per la popolazione. Informazioni
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Monwara Begum (40 anni) è fuggita dal cambiamento climatico
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 28 agosto 2017 • N. 35
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Giochi per “Azione” - Agosto 2017 Ambiente e Benessere Stefania Sargentini
(N. 33 - Se intopo, pericolo attacca anche inon leoni) Gatto caccia ma solo 1
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Mondoanimale La caccia al topo da parte del gatto è un paradigma che prescinde
dalle pure esigenze alimentari dei felini
È un essere misterioso e indipendente, pigro e sfuggente, elettrico e carezzevole. Parliamo del gatto. Fonte inesauribile di ispirazione per parecchi poeti, il gatto è protagonista di libri, favole e storie di ogni epoca e si guadagna a giusta ragione la medaglia di figura animale più presente nella letteratura. Lo scrittore inglese Oliver Herford lo definì: «Un leone pigmeo che ama i topi, odia i cani e tratta con condiscendenza gli esseri umani». Appunto: ama i topi a tal punto che uno dei suoi passatempi preferiti è quello di cacciarli. Ce lo conferma Alessandra Arrigoni che di gatti ne ha due: Pittu, un magnifico micio rosso tigrato dallo sguardo ammaliatore, e Shagrath, il suo compagno bianco a macchie nere, molto sornione: «Shagrath caccia prevalentemente uccelli, mentre Pittu predilige i roditori di vario tipo come i ghiri e, naturalmente, i topolini». Scopriamo che Pittu i ghiri se li mangia, le talpe le caccia ma non le mangia, mentre ai topi predati riserva di volta in volta trattamenti diversi: «L’istinto è prevalentemente quello del cacciatore; ovviamente, se ha abbastanza cibo non caccia con l’obiettivo di cibarsene, bensì per soddisfare l’aspetto ludico proprio del gatto che gioca col topo». Alessandra ci racconta che quando Pittu gioca con le sue prede, per lo più roditori di diverso genere, glieli porta e li «molla» sotto il tavolo di cucina dove la famiglia si ritrova per i pasti: «Io ci scherzo su, pensando ai fabbricanti di cibo per gatti che ancora non hanno inventato la scatoletta al
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gusto di topolino tanto gradito ai gatti, Pittu compreso». 11 12 Il riscontro sulla natura predatoria dei gatti nei confronti dei roditori che 13 14 15 16 17 abbiamo avuto parlando con la proprietaria di Shagrath e Pittu ci è confermato 18 dall’Ufficio federale della sicurezza ali-19 mentare e veterinaria (Usav) che, in una nota così 20su questi magnifici felini, 21 22 esor23 disce: «Si tratta di animali indipendenti che possono diventare molto docili se 24 a vivere con 25 l’uomo fin26 27 abituati da cuccioli. Sono curiosi e necessitano opportunità 28 di svago, posti di osservazione, 29 arrampicatoi…». E dopo la conferma dell’istinto predatorio che necessitano di soddisfare, l’Usav sancisce anche le loro preferenze alimentari: «Il cibo preferito dei gatti sono i topi e altre piccole prede, perché questi felini hanno un elevato fabbisogno di proteine animali», rendendo attenti i proprietari sul fatto che: «Una 1 2 3 a base di carne è 4 5 6 7 8 nutrizione monotona per loro tanto nociva quanto un’alimentazione 9 vegetariana o vegana». 10 11 L’invito è quello di nutrire i gatti sulla base delle loro esigenze; dunque: 12 13 14 se cacciano i topi e se li mangiano, questo fa parte dei loro bisogni così come 16 va rispettato il loro 15 istinto quando cacciano i roditori e le piccole prede a scopo ludico. 17 Quel 18 che si chiede l’Usav è se 19 i topi sono veramente un alimento suf- re non dà da mangiare al suo gatto, nei ficiente al gatto, giungendo alla seguen- periodi di magra questo sarà presto 20 te conclusione: «Contrariamente all’o- 21 denutrito, e inoltre, anche se viene alipinione comune, i topi e gli altri piccoli mentato, il gatto non smette di cacciare: animali il suo istinto di cacciatore prevale e, ben 22 (uccelli e rettili) catturati 23 dai gatti di fattoria non costituiscono un’a- nutrito, caccia meglio di un animale limentazione sufficiente». 25 indebolito». È dunque sfatato anche il 24 La ragione è data dal fatto che la pensiero che induce a credere che i gatdensità di topi varia sia durante l’anno, ti di fattoria se la cavino benissimo da 26 all’altro: «Se il detentosia da un anno soli e che la vita di campagna si addica
M A G R O
A R I E L
T C O E
(N. 34 - “Allora svelto dammi i miei soldi!”)
Giochi Cruciverba Forse non tutti sanno che l’ugola… Termina la frase leggendo, a soluzione ultimata, le lettere evidenziate. (Frase: 8, 6, 3, 5, 4, 6)
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E R I N P R I T R E A Odipendente I da sé,Aviene considerato L T il suo detentore e ne è quindi responsaI bile». Questo A principio S siSapplica Oanche ai gatti randagi che per mangiare si uniscono talvolta ai gatti di casa o della P E C O S fattoria. «Poiché ai gatti la sola caccia ai topi non basta, si deve provvedere a T dareIloro altro R ciboAa sufficienza», N spiega l’Usav, invitando anche a prestare R attenzione R Aallo stato L di saluteHdegli animali: «In caso di sospetta malattia, i gatti che vanno e vengono dall’abitaI zioneEdevono Ressere controllati L e,Ose necessario, portati dal veterinario». La legislazione Oesplicita E Nè d’altronde I Tmolto a questo proposito: «Il deten-
tore di animali deve adottare i provvedimenti del caso per evitare che essi si riproducano in modo incontrollato». Alessandra conferma che i suoi gatti hanno accesso all’esterno, dove sono capaci di appostarsi per ore davanti a tane di topi, pronti a sferrare l’attacco nel momento decisivo. Dal canto suo, l’Ufficio federale della sicurezza alimentare e veterinaria invita proprio per questo motivo i proprietari dei gatti che hanno accesso all’esterno a prendere le misure neces4 sarie per evitare una riproduzione indesiderata. Inoltre: «Essi dovrebbero esse8 6 re vaccinati contro le malattie infettive feline più frequenti, quali la panleuco6 2 penia, l’influenza e la leucemia». Tutte queste raccomandazioni 9 sono utili perché la caccia ai topolini dei nostri beniamini felini resti un loro momento5di svago e non 8 comporti spiacevolissime conseguenze dovute all’incontro di altri gatti, magari3 randagi, durante le loro scorribande esterne e nelle battute di caccia.
A L L A O R A N. 29 FACILE S I A A V Schema O N E A R1 I V I T R O5 D 2 I R perfettamente T R allaAloro proverbiale M A 4inL I dipendenza. Il modo di vivere libero e naturale I anche U neiTgatti 2A 8 Pittu eM I presente come Shagrat che vanno e vengono tra casa C solleva I inArealtà interrogativi R E D e bosco, addirittura in materia di protezione degli Ianimali N e di saluteSanimale. 4 O9O L I almeno è quanto afferma l’Usav: «Chi dà da mangiare a un gatto, rendendolo I N 5 E D3 I 4 A Alessandra Arrigoni
Maria Grazia Buletti
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S E C C T A A C O P O S
N G O SUDOKU N S L O T A M I C I A
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2 6 con 7 il cruciverba 3 5 Vinci una delle 3 carte regalo da 50 franchi e unadai delle 2 carte 8 il sudoku 5 3 (N. 35 - Posside canali quali esceregalo saliva)da 50 franchi7 con 1
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P O S A N. 30 S MEDIO I Soluzione: 5 T 6E 1N 3 Scoprire i3 E N D numeri corretti 5 7 da inserire nelle R colorate. C S A 9N T caselle 2 5 Giochi per “Azione” - Agosto 2017 E R A L D O Stefania Sargentini 14 15 16 17 6 4 A V I N A D I A (N. 33 - Se in pericolo attacca anche i leoni) I 20 21 9 4 N7 P S E R I T O R I O A I Q U E R I T R E A 8 1 24 C O I A L T A L I E S T E R D C I A S S 1O 27 28 M CA TA T A EP E LC OSS A O L I 9 7 30 A R C A T 6I R3 A N I AH A M B 1O GA I V C A O RR 2R A7 L 4
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ORIZZONTALI 1. Precipitato chimico 4. Si pronuncia in due 6. La fine degli inglesi 7. Un ufficiale abbreviato 8. Le iniziali dello stilista Cavalli 9. Davanti ad Antonio sul calendario 10. Nome maschile 13. I nonni di una volta 14. Nome femminile 18. Elementi della mandria 20. Vocali di vocali 21. Una consonante 22. Ai piedi di Mercurio 23. Un libro dell’Antico Testamento 25. Simbolo chimico del calcio 26. L’impugnava D’Artagnan
27. Possono essere essenziali... 29. Guasto meccanico 30. Tutti e due VERTICALI 1. Produce 1 2prodotti 3 vari...4 2. Misure per guantoni da box 3. Le iniziali del pittore Dalì 11 4. Inviare in Inghilterra 5. Musicalmente accordata 13 7. Siffatti 9. Dotati di buon senso 11. Inconsueti 16 12. L’isola di Nessuno 15. I cortili delle fattorie 16. 18 Due di cinque 17. Trasmissione sonora... 19. 21 Padre del re di Norvegia 22
Regolamento per i concorsi a premi pubblicati su «Azione» e sul sito web www.azione.ch
I premi, cinque carte regalo Migros 24 del valore di 50 franchi, saranno sor1 teggiati tra i partecipanti che avranno fatto26pervenire la soluzione corretta6 27 entro il venerdì seguente la pubblica-8 zione del gioco.
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29 20. Deve farsele il pivello O L E O S O E N I T 23. Un sommo sacerdote ebreo Soluzione della settimana precedente 24. Gitani Un ladro ad un passante: «Svelto dammiPER i tuoiAZIONE soldi!» – «Guardi che io2017 sono un SUDOKU - AGOSTO N. 29 FACILE (N. 26. 34 -Le“Allora dammi i miei soldi!”)politico!» inizialisvelto di Ramazzotti Risposta del ladro: «ALLORA SVELTO DAMMI I MIEI SOLDI!». Schema Soluzione 28. 6Interprete nonno Libero 7 del famoso 8 9 10 1 2 3 4 5 6 7 8 4O R A N G O (iniz.) 6 1 7 5 3 4 9 2 A 1L L A 9 10 11 9 5 2 8 7 1 3 4 S 5 I 2A 8 A V O N 6 N S 12 12 13 14 8 3 4 6 2 9 7 1 E A 4 6R 2I V I L O T 15 16 2 8 5 3 4 7 1 6 14 15 2T 8 R O D I R 9A M I 17 18 19 Vincitori del concorso Cruciverba 3 6 1 2 9 5 4 8 T R A M A 5 L 8I C I A su «Azione 33»,21del 14.8.2017 20 17 3 7 4 9 1 6 8 2 5 I 4U 9T A M I A. Peduzzi, M. Tamò, G. Tarilli 22 23 5 3 4 8 2 5 9 3 4 1 6 8 7 C I A R E D Vincitori del concorso Sudoku 24 25 su «Azione 33», del 14.8.2017 20 1 4 2 6 7 8 3 5 9 I 2N 6 7S O 3L 5I
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(N. 36 - Parla poco ascolta assai e giammai non fallirai) N. 31 DIFFICILE
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S P A R 8I 2 A M A T I vincitori O R A R I L E R O 1 A R 5E S S. Arigoni, L. Schenker 7 I 8N E 5D I A 3 23 N. 30 NMEDIO E G I online: inserire luzione, corredata da nome, cognome, (N.Partecipazione 35 - Posside canali dai quali escelasaliva) 5 6 email 1 del partecipante 3 deve 25 soluzione del cruciverba o del sudoku indirizzo, 1 2 D M A G nell’apposito formulario pubblicato P essere spedita a «Redazione Azione, O S9 A S5 I7 sulla pagina del sito. Concorsi, C.P. 6315, 6901 Lugano». 28 E N D 2 T E N Partecipazione postale: la lettera o Non si intratterrà corrispondenza 8 R5 suiN A D O R C S A N T escluse. 6 4 la cartolina postale che riporti la so- concorsi. Le vie legali sono Non 26
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L A P 4 S 8U 6 O 7 C 3R A 5S 9 S 8C O R 27 I A 2T 6E N A 32 1 A A 7C1 7E 8 3S 9 5 2 6 3 4 A R A M T è possibile un pagamento in contanti 5 2 I vincitori 6 1 8saranno 7 4 avvertiti 9 3 dei premi. 6 4 7 Riscritto. I N E per Il nome dei vincitori 4 1 9 6 3 5 7 8 sarà 2O pubblicato su «Azione». Partecipazione 7 8 3 2 4 9 1 6 5 riservata esclusivamente O F Aa 1lettori L 3cheL 1 5in Svizzera. 8 3 6 2 9 4 7 risiedono 1
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 28 agosto 2017 • N. 35
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Politica e Economia Il mondo che verrà. 6. parte I risultati elettorali in Usa, GB e Francia sono le nuove frontiere interne che separano le società
La Lunga Marcia di Xi In modo sempre più deciso si consolida la campagna anti-corruzione del leader cinese in attesa di essere riconfermato numero uno ai vertici del partito e del Paese per almeno altri cinque anni
Cina e India ai ferri corti Da anni Pechino conduce una politica aggressiva nei confronti di New Delhi: l’ultimo esempio è la strada di Doklam
La Svizzera come modello 24 personalità elvetiche e straniere si interrogano sul nostro paese e sul suo futuro pagina 26
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La Iuventa ormeggiata nel porto di Trapani. (AFP)
Ong nel mirino
Immigrazione Finisce al centro delle polemiche il codice di comportamento approvato dall’Italia
per le organizzazioni umanitarie che operano nel Mediterraneo. Da Msf e da altri arriva un secco no
Alfredo Venturi La nave si chiama Iuventa, è un vecchio peschereccio ristrutturato, batte bandiera olandese e fa capo a Jugend Rettet, un’organizzazione giovanile con sede a Berlino. Incrociava nel tratto di mare compreso fra Libia e Sicilia per portare in sicurezza i migranti che sulle loro precarie imbarcazioni lasciano la costa africana alla ricerca di un futuro in Europa. Ma il video circolato nei giorni scorsi offre l’immagine non di un salvataggio ma di un semplice trasbordo: i profughi fatti salire in coperta, i gommoni restituiti agli scafisti, i saluti di questi ultimi mentre si allontanano. E così alla nobile etichetta dell’impegno umanitario viene sovrapposta quella impresentabile del favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, peggio, della collusione con i trafficanti di esseri umani. Ma le cose stanno veramente così? Quelle norme internazionali che vengono sinteticamente chiamate legge del mare impongono il soccorso in caso di vite in pericolo: un incendio a bordo, un’imbarcazione alla deriva, una nave in procinto di affondare, naufraghi fra
le onde. Di fronte a simili emergenze qualsiasi natante deve accorrere e soccorrere. Secondo un’interpretazione flessibile, del tutto in sintonia con la percezione della gente di mare, il semplice fatto di accalcarsi su una barca sovraffollata e priva di sistemi di sicurezza configura la condizione di pericolo di fronte alla quale bisogna intervenire. L’equipaggio della Iuventa ha dunque fatto nient’altro che il suo dovere, anche se poteva risparmiarsi di restituire ai trafficanti quei barconi destinati a determinare nuove situazioni di emergenza. Cosa che ovviamente non fa la marina italiana né il Frontex, l’agenzia europea per il pattugliamento delle frontiere esterne. Così le Ong finiscono nel mirino, in Italia le procure avviano procedimenti giudiziari mentre il ministro dell’Interno Marco Minniti elabora, d’intesa con le istituzioni dell’Unione Europea, un «Codice di condotta per le Organizzazioni non governative impegnate nelle operazioni di salvataggio dei migranti in mare». Le organizzazioni in questione sono nove, e negli ultimi mesi hanno mobilitato nel Canale di Sicilia fino a tredici natanti di varie
dimensioni e tonnellaggio. Il Codice prescrive fra l’altro di prendere a bordo agenti di polizia che indagano sulla tratta di esseri umani, vieta lo sconfinamento nelle acque libiche, richiede trasparenza sui finanziamenti, obbliga a trattenere le imbarcazioni usate dagli scafisti e impone di far sempre capo al centro Mrcc di Roma, che coordina i soccorsi in quel tratto di mare. Alcune Ong, come Medici senza frontiere e Jugend Rettet, rifiutano di firmare il Codice, dichiarando che ospitare a bordo uomini armati contraddice la loro pacifica visione del mondo e assicurando che non per questo cesseranno l’attività. Altre, come Save the children, accettano la regolamentazione. Più tardi a Tripoli il governo di Fayez al-Serraj annuncia che oltre le dodici miglia marine delimitanti le acque territoriali viene creata una zona di ricerca e soccorso nella quale si potrà entrare solo negoziando un’autorizzazione. I guardacoste libici non esitano, in un paio di casi, ad aprire il fuoco per fare allontanare alcune imbarcazioni umanitarie. A questo punto Medici senza frontiere, Save the children e numerose altre Ong dichia-
rano che sono venute meno le condizioni di sicurezza per gli equipaggi e dunque sospendono ogni attività di soccorso avvertendo che inevitabilmente ci saranno più naufragi e più vittime. Intanto la polemica infuria. Si accusano l’Europa e l’Italia di volere scoraggiare le navi umanitarie per togliere di mezzo gli scomodi testimoni di uno scandalo, l’intesa con la Libia per limitare il più possibile le partenze dei migranti. È sicuramente vero che questa limitazione è un obiettivo prioritario: in particolare il governo italiano, da anni alle prese con flussi crescenti di profughi e sotto la pressione di un’opinione pubblica esasperata, intende agire proprio per fare argine contro un’ondata umana ormai travolgente. In questo senso le recenti misure hanno funzionato, infatti negli ultimi giorni gli arrivi nei porti italiani si sono ridotti. Il problema è che in attesa di una soluzione radicale, cioè il blocco delle partenze dai paesi subsahariani di origine, respingere i migranti verso i luoghi di raccolta in Libia che hanno appena lasciato significa esporli a una condizione disumana, nell’assenza to-
tale dei diritti individuali, in ambienti dove le privazioni, le violenze, gli stupri sono all’ordine del giorno. Sospetti e pesanti accuse investono il ruolo della Guardia costiera libica. Secondo Claus-Peter Reisch della Ong tedesca Sea-Eye, è proprio questo reparto navale legato al governo al-Serraj e attrezzato con materiali forniti dall’Italia ad agire d’intesa con i trafficanti. Si parla di un tariffario, tangenti di 50 o 60 mila euro per ogni gommone messo in salvo, e chi non è d’accordo viene invitato ad andarsene. Sul tragico mare che nonostante la flotta dei soccorritori inghiotte ogni anno migliaia di migranti si proiettano le ombre delle lotte di potere in corso nel Paese nordafricano. Di fronte all’attivismo della Guardia costiera il generale Khalifa Haftar, che dalle sue roccheforti in Cirenaica sfida il governo di Tripoli, propone una soluzione drastica ma piuttosto costosa. È ispirata all’intesa fra Unione Europea e Turchia con cui fu prosciugata la rotta balcanica. Datemi venti miliardi di euro, dice Haftar, e bloccherò i flussi migratori fra la Libia e l’Europa. Il generale non precisa se la cifra sia negoziabile.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 28 agosto 2017 • N. 35
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Politica e Economia
Condannati ad essere separati in casa? Il mondo che verrà – 6. parte Nella geopolitica delle elezioni
Federico Rampini L’America che non lo ha votato l’8 novembre 2016 (cioè la maggioranza, con tre milioni di voti in più a favore di Hillary Clinton a livello nazionale) decreta il fallimento precoce di una presidenza inaudita, grottesca, distruttiva. Lui tira avanti come nulla fosse, allergico ai fatti, continua a vantare una «realtà alternativa». Si muove come fosse sempre in campagna elettorale, da comiziante e showman più che da statista. Forse perché la memoria della campagna lo rassicura: anche allora sondaggi e media lo davano per spacciato. A salvarlo dalla sconfitta, l’8 novembre 2016 ci fu – la metafora della teoria del caos – un battito d’ala di farfalla, che amplificandosi a dismisura si trasformò in uragano su scala nazionale e mondiale. Il battito quasi impercettibile fu lo spostamento di poche centinaia di migliaia di elettori (su 136 milioni di votanti!). Per lo più operai bianchi, e le loro mogli. Alcuni di loro avevano votato Obama una o due volte ma nel 2016 hanno scelto l’outsider, il magnate che prometteva sfracelli contro l’establishment. Quel minuscolo spostamento ha precipitato l’America e
il mondo in una storia senza precedenti. È a quegli operai che Trump dedicò il 20 gennaio 2017 il suo Inauguration Day a Washington: il discorso più «dark» di tutte le inaugurazioni presidenziali, una visione tragica dello stato del paese, la promessa di una rivincita improntata al nazionalismo. È da loro che bisogna ripartire anche per tracciare la linea rossa che separa le due Americhe: sovranisti contro globalisti, ceti popolari contro élite, provincia profonda contro zone costiere cosmopolite. Gli operai a cui guardo per questa lezione di geografia del voto vivono nell’America di mezzo, quella che con un termine spregiativo viene definita come «fly-over country» perché le élite delle due coste preferiscono sorvolarla senza atterrare, osservarla distrattamente dall’altro senza mischiarsi nei suoi pensieri. Solo ogni quattro anni almeno noi giornalisti siamo finalmente obbligati a immergerci lì dentro, per le primarie presidenziali: e ne vediamo di tutti i colori. Bisogna arrendersi all’evidenza, la geografia è diventata scienza politica. In alcune delle più antiche e solide liberaldemocrazie occidentali, «dove tu abiti» è diventato quasi un sinonimo
di «come tu voti». È come se la popolazione di intere nazioni tendesse ad aggregarsi localmente seguendo logiche valoriali: in America o in Inghilterra o in Francia tendiamo a vivere vicino a quelli che la pensano come noi. Le mappe elettorali che hanno sancito le vittorie di Trump, Brexit, Macron, seguono una logica topografica, hanno agglomerazioni omogenee, confini precisi. La geografia s’intreccia con la condizione socio-economica, la professione e il reddito, il livello d’istruzione; si traduce in scelte di campo sull’immigrazione, la globalizzazione. Come quelle degli operai di Detroit. Sia chiaro, alcuni di loro col passare del tempo avranno pure cambiato parere su Trump, delusi dalle troppe promesse mancate; resta però una linea rossa che separa le élite progressiste dai ceti popolari, l’abisso valoriale che si è scavato tra loro. All’impoverimento economico si è aggiunta una marginalizzazione che forse pesa perfino di più: quella culturale, valoriale, razziale, da parte della sinistra. Tutto ciò che appartiene al mondo dei «redneck» (termine offensivo con cui vengono definiti i lavoratori manuali, «colli rossi» perché abbronzati dal lavoro all’aperto) è diventato spre-
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i risultati usciti in dalle urne americane, inglesi e francesi sono le nuove frontiere interne che attraversano le nostre società, divise fra identitari e globalisti
gevole per un’élite globalista, multietnica, laicista. Lo stesso Obama fu colto in flagrante snobismo quando in una riunione a porte chiuse con dei ricchi finanziatori di San Francisco confidò questa sua descrizione degli operai del Midwest: «Diventano amari, si aggrappano alle loro armi, alla loro birra, alla loro Bibbia, all’ostilità verso gli immigrati o il libero commercio». Un quadretto abbastanza realistico ma anche sprezzante. E un linguaggio così esplicito, così duro, non verrebbe usato dalla sinistra verso altre categorie di elettori. Lo stesso Obama avrebbe osato ironizzare su quelli che si aggrappano al loro Corano? Sicuramente no. Gli imam vanno rispettati anche se predicano regole più oscurantiste e retrograde degli evangelici di destra; no, criticare i mussulmani non è politically correct. Con la campagna elettorale di Hillary nel 2016 divenne ancora più marcato l’appello ai diritti di tutte le minoranze: gay lesbiche transgender, neri ispanici islamici, più ovviamente le donne che avrebbero finalmente polverizzato il metaforico soffitto di vetro, la barriera invisibile all’emancipazione femminile. Tutti avevano qualcosa da guadagnare se vinceva lei, tutti eccetto «loro». È un fenomeno sul quale ha riflettuto lo storico Walter Russell Mead. «Molti americani bianchi – sostiene Mead – si trovano in una società che parla costantemente dell’importanza delle identità, che valorizza l’autenticità etnica, che offre aiuti economici e sostegni sociali sulla base dell’identità – per tutti fuorché per loro. Nel corso della campagna elettorale del 2016, tutto quel parlare di un’emergente maggioranza democratica basata sul declino secolare dei bianchi venne percepito come un progetto deliberato per trasformare la composizione dell’America. Hanno visto l’immigrazione come parte di un tentativo determinato e consapevole per marginalizzarli nel loro stesso paese». Secondo un’indagine del «Washington Post» e della Kaiser Foundation, tra coloro che appoggiano Trump il 46% mette al primo posto tra le preoccupazioni il fatto che i bianchi stanno «perdendo». Un best-seller del 2017 s’intitola proprio Strangers In Their Own Land: estranei nel loro stesso paese. Con una forzatura linguistica si potrebbe anche tradurre con: stranieri nella propria patria. L’autrice, la sociologa Arlie Russell Hochschild, esplora la frustrazione, il risentimento, il rancore che covano nell’elettorato popolare. Nelle interviste della Hochschild ricorre un’immagine metaforica. La condizione in cui versa il Paese viene rappresentata come una fila sempre più lunga di masse che aspirano ad accedere all’American Dream. Traguardo ambito ma un tempo accessibile: un modesto benessere per tutti, la proprietà della casa, sicurezza economica, opportunità per i figli. E mentre la fila d’ingresso al Sogno Americano s’ingrossa, e avanza sempre più lentamente o sta quasi immobile, ci sono categorie appena arrivate che passano davanti a tutti, si avvalgono di aiuti per le minoranze, sorpassano nella fila i bianchi poveri a cui nessuno presta attenzione. Donne, neri, ispanici, profughi, ciascuno ha diritto a «quote», agevolazioni, «affirmative action» per promuoverne l’ascesa. Per indovinare a priori il voto di un americano, dunque, la geografia è maestra. Se l’elettrice o l’elettore abitano a
poca distanza dalla riva di un oceano, Atlantico o Pacifico, se quindi sono in prima linea sulla frontiera invisibile della globalizzazione, in quelle metropoli dove c’è più scambio culturale con il resto del mondo, e dove ci sono più immigrati, è molto probabile che voti a sinistra (democratico). Se invece abitano in un’America «più americana», più introversa, continentale, la fede repubblicana gli è congeniale. È paradossale che ci sia più paura degli immigrati in quegli Stati Usa dove ce ne sono relativamente meno, rispetto a New York e alla California. Ma questa è una contraddizione solo apparente, la fly-over country pensa: «Difendiamoci finché siamo in tempo, finché siamo ancora maggioranza in casa nostra». Ritroveremo la stessa situazione in tante elezioni europee: chi vota contro gli immigrati di solito vuole preservare proprio lo stile di vita che ha, alzare barriere «prima che sia troppo tardi». La geografia del voto americano deve incrociare le mappe cartografiche con l’atlante della storia nazionale. Da una parte, semplificando, gli Stati Uniti sarebbero un «monocolore di sinistra» se vincessero le fasce costiere. Negli Stati di New York e della California, nel 2016 Hillary aveva vinto tra i due terzi e il 70% del voto; visti da lì oggi i repubblicani sembrano quasi una razza in via di estinzione. Le zone costiere sono sottili ma popolose; il sistema elettorale impregnato di federalismo però impedisce che gli iper-Stati con più concentrazione demografica dettino legge. Le maggioranze perfino eccessive che Hillary aveva conquistato sulle due coste non le sono bastate perché in troppi Stati di mezzo ha prevalso Trump, sia pure di stretta misura. Però alla contrapposizione netta fra le coste e la massa terrestre centrocontinentale si aggiunge un’altra dicotomia che è quella fra Nord e Sud. Qui non è solo la mappa terrestre a guidarci, la topografia va arricchita con il ricordo di un evento di oltre 150 anni fa, mai completamente superato: la guerra civile. Quegli Stati Usa che allora praticavano e legalizzavano lo schiavismo, che tentarono la secessione armata pur di conservarlo, oggi sono per lo più roccaforti repubblicane. I Confederate States of America furono formati all’inizio da un nucleo fondatore di sette (South Carolina, Mississippi, Florida, Alabama, Georgia, Louisiana, Texas), la cui economia era prevalentemente agricola, basata su piantagioni con ampio uso di manodopera in stato di schiavitù, deportata dall’Africa. I sette si auto-proclamarono come una nazione indipendente, dopo l’elezione alla presidenza degli Stati Uniti del repubblicano Abraham Lincoln nel novembre 1860. Nel 1861 i Confederati scesero in guerra per uscire dall’Unione di cui facevano parte, quando fu chiaro che Lincoln intendeva mantenere la promessa su cui era stato eletto: abolire lo schiavismo, metterlo fuori legge. A guerra iniziata, si aggiunsero ai Confederati altri quattro Stati: Virginia, Arkansas, Tennessee, North Carolina. La linea rossa del voto per Trump include tutti gli Stati ex-schiavisti della Confederazione con l’unica eccezione della Virginia. Peraltro, quattro anni prima gli stessi Stati (meno la Florida) avevano votato per il repubblicano Mitt Romney contro Obama. Il Profondo Sud sconfitto nella guerra civile, è diventato un affidabile serbatoio di voti per la destra.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 28 agosto 2017 • N. 35
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Politica e Economia
Xi Jinping in marcia verso il potere assoluto
Cina Dopo 5 anni al vertice e in attesa di essere riconfermato numero uno, il leader cinese
è riuscito a eliminare i suoi avversari e a piazzare i suoi fedelissimi nei posti chiave
Il presidente cinese Xi ha presenziato il 30 giugno scorso in Mongolia a una parata dell’esercito. (Keystone)
Beniamino Natale Il segretario del Partito Comunista Cinese Xi Jinping, che ricopre anche le cariche di presidente della Commissione Militare Centrale e di presidente della Repubblica Popolare Cinese, ha messo a segno in luglio e agosto una serie di importanti colpi nella sua Lunga Marcia verso il potere assoluto. Dopo cinque anni al vertice e in attesa di essere confermato «numero uno» per altri cinque – e forse più –, il 64enne Xi è riuscito ad eliminare, o almeno a tenere in scacco, i suoi avversari più pericolosi e a sistemare nelle posizioni che contano i suoi fedeli alleati.
Secondo Xi una riforma anti-corruzione è una questione di «vita o di morte» per il governo del Partito comunista cinese Sul piano internazionale, ha lanciato con grande dispiego di mezzi di propaganda la sua Nuova Via della Seta, un mastodontico progetto di investimenti all’estero, in Asia e in Europa, che secondo alcuni osservatori ha come obiettivo la creazione di un blocco euro-asiatico antagonista e concorrente degli Usa. In questo processo non mancano i rischi: la Cina di Xi Jinping è sull’orlo di uno scontro militare con l’India – reparti militari dei due paesi si fronteggiano da un mese nel piccolo reame himalayano del Bhutan – e la sua aggressività nel Mar della Cina Meridionale potrebbe portare a scontri con alcuni paesi del su-
dest asiatico, in particolare il Vietnam. Le epurazioni condotte dalla Commissione Centrale per la Discilplina, diretta dal suo alleato Wang Qishan sotto la bandiera della lotta alla corruzione, hanno portato alla caduta di tutti i suoi avversari più pericolosi: dal «mastino» della sicurezza Zhou Yongkang e tutti, o quasi, gli esponenti delle generazioni più giovani (Xi ha 64 anni) legati a gruppi di potere concorrenti. L’ultima vittima di queste epurazioni è Sun Zhengcai, membro del potente Politburo e segretario del PCC nella metropoli di Chongqing – una carica che non porta fortuna, dato che l’ha ricoperta anche un altro illustre epurato di lusso, Bo Xilai, condannato nel 2012 all’ergastolo per corruzione e abuso di potere. Ma le purghe di Xi non si sono fermate solo ai dirigenti del Partito e negli ultimi mesi hanno investito sempre più direttamente alcune delle conglomerate che negli anni passati sono state i fiori all’occhiello del regime e che portano nomi ben conosciuti come l’Anbang (nota per essere proprietaria del Waldorf Astoria di New York e per i suoi recenti contatti con la famiglia del presidente americano Donald Trump), la Wanda Dalian, la HNA, la Ping An, ecc. Tutte compagnie che fanno capo a famiglie della «borghesia rossa» cinese, come quelle dell’ex-leader Deng Xiaoping e dell’ex-premier Wen Jiabao. Almeno uno dei dirigenti di quelle imprese, il mitico fondatore della Anbang (e marito di una nipote dell’ex-numero uno Deng Xiaoping), Wu Xiaohui, è stato arrestato. L’attacco ha conciso con la contrazione delle riserve cinesi di valuta pregiata, che sono scese nettamente al di sotto del livello di guardia di tre tri-
lioni di dollari Usa. Lucy Hornby, sul «Financial Times», ha spiegato che «la questione apparentemente tecnica della contrazione delle riserve di valuta è diventata un’arma politica nel momento in cui il presidente Xi Jinping cerca di assicurarsi un potere sufficiente per guidare il processo di successione…». La giornalista aggiunge che «al cuore della battaglia ci sono i rapporti di Xi con Wang Qishan…». Lo scontro interno al massimo livello dell’élite cinese, quello nel quale sono in gioco sia le posizioni di potere politico che le enormi ricchezze materiali, ha raggiunto il suo apice con il rapimento da parte dei servizi segreti cinesi del faccendiere Xiao Jinhua. Il rapimento è avvenuto in gennaio, quando il faccendiere alloggiava nel Four Seasons, un albergo a sette stelle che si affaccia sulla baia di Hong Kong. Xiao è uno dei cosiddetti «guanti bianchi» che aiutano le potenti famiglie cinesi a portare i capitali all’estero. Dopo la sparizione di Xiao è comparso negli Usa Guo Wengui, un imprenditore in esilio che sostiene di avere le prove della corruzione di alcuni dirigenti cinesi tra cui Wang Qishan. La lotta tra le fazioni prosegue ma tutto indica che Xi Jinping arriverà al 19esimo Congresso del Partito – che si terrà in una data da precisarsi ma comunque prima della fine dell’anno – da una posizione di forza. Il commentatore e professore all’Università della California Minxin Pei, ha scritto sulla rivista «Nikkei» che «a dispetto delle teorie che illustrano il successo del PCC nell’istituzionalizzarsi nell’era post-maoista, l’esperienza storica e i recenti sviluppi nella politica cinese mostrano che il partito non ha davve-
ro risolto il problema della successione – noto come il tallone d’Achille di tutti i regimi autocratici». La caduta di Sun Zhengcai, secondo Minxing Pei, dimostra che «sia i funzionari in servizio che quelli in pensione non hanno alcuna protezione di fronte alle lotte di potere all’interno del partito… dato che nessuna regola o legge può assicurare la loro posizione personale nel mondo hobbesiano dell’élite politica di Pechino, possono proteggere se stessi solo tenendo il potere nelle loro mani…». In Cina le lotte di potere sono state spesso risolte dall’intervento dell’esercito, la People’s Liberation Army (PLA): ricordiamo la crisi che si concluse con la morte del generale Lin Biao nel 1971, l’eliminazione della cosiddetta Banda dei Quattro dopo la morte di Mao Zedong nel 1976 , e l’occupazione di piazza Tiananmen da parte di studenti democratici appoggiati dall’ala riformista del partito nel 1989. Xi non ha perso tempo nell’assicurarsi il controllo della PLA, dalla quale sono stati eliminati i generali di non provata fedeltà. In luglio – a pochi giorni distanza dal siluramento di Sun – Xi ha presenziato ad una sfilata dell’esercito nella Mongolia Interna. Nel suo discorso, il leader cinese ha ribadito la sua nuova linea dura ricordando che Pechino non «permetterà mai» a «nessun popolo, organizzazione o partito politico di dividere qualsiasi parte del territorio cinese in qualsiasi momento e in qualsiasi forma». Per completare la sua opera, Xi ha messo in posizioni di responsabilità alcuni dei suoi più fedeli alleati almeno due dei quali – Chen Min’er e Cai Qi, nominati capi del partito rispettivamente a Chongqing e a Pechino – sembrano destinati a ulteriori promozioni.
Fra i libri di Paolo A. Dossena Mario José Cereghino e Giovanni Fasanella, Il golpe inglese, Chiarelettere, 5.edizione, 2017 È il 1967 quando Charles De Gaulle dice per la seconda volta «non» all’ingresso del Regno Unito nella CEE (oggi UE). Alcuni europeisti approvano: credono che Londra voglia entrare nel mercato comune per minarlo dall’interno. Con Il golpe inglese l’Italia si aggiunge alla lista di quelli che credevano nella teoria cospirativa descrivendo un complotto britannico di lunga gestazione, che comincia due secoli fa e prosegue fino a oggi. Già la nascita dell’Italia è in qualche modo il prodotto delle ambizioni di Londra. Dietro la decisione britannica di appoggiare il movimento violentemente rivoluzionario per l’unificazione italiana ci sono tre scopi. Nel 1854-1856, alla vigilia delle campagne per l’unificazione italiana, i francesi hanno cominciato a impegnarsi per scavare il canale di Suez. I lavori cominciano nel 1859. Londra intuisce le potenzialità di quella striscia d’acqua che consentirà di raggiungere in breve tempo i propri possedimenti in Oriente senza doppiare il capo di Buona Speranza. Capisce altresì l’importanza geografica dell’Italia, collocata nel bel mezzo del Mediterraneo, e quindi delle linee di comunicazione Nord-Sud e Est-Ovest. Se controllata con sapienza, in un futuro non lontano la penisola consentirà il dominio di una delle aree più strategiche del mondo. Quindi l’idea dell’unità italiana, che si realizza per lo più nel triennio 1859-1861, prende corpo soprattutto negli ambienti politico-diplomatici, militari e finanziari britannici. Gli altri due motivi per appoggiare l’unità italiana sono la presenza economica degli inglesi «in Sicilia, con forti interessi nell’industria dello zolfo e nella produzione del vino. Ora però accarezzano progetti ben più ambiziosi, e non solo appoggiano senza riserve i disegni di Giuseppe Mazzini e di Camillo Benso di Cavour, ma creano addirittura le condizioni per lo sbarco dei Mille a Marsala, guidato dal massone Giuseppe Garibaldi, che da sempre mantiene assidue frequentazioni con l’Inghilterra». Occorre formare in Italia «uno Stato robusto al punto da riuscire a contenere l’espansionismo nell’Europa meridionale e nel Mediterraneo dei nemici storici degli inglesi: Austria, Francia e Russia zarista. Ma non tanto da potersi sottrarre alla tutela del governo di Sua Maestà britannica, minacciandone gli interessi». All’inizio del Novecento, quando l’era del carbone è al tramonto, appare una nuova risorsa energetica: il petrolio. L’«oro nero» diventa imprescindibile per lo sviluppo dell’industria, dei commerci e della macchina bellica. Tutti i conflitti finiscono così per scaricarsi nel Vicino Oriente, e la posizione geografica dell’Italia diventa, agli occhi degli interessi britannici, ancora più evidente. Occorre controllarne e indirizzarne la vita politica. Gli autori spiegano in questo contesto tre omicidi eccellenti: quelli di Giacomo Matteotti (1924) di Enrico Mattei (1962) e di Aldo Moro (1978). Sono tre delitti legati al petrolio. Quindi i divieti britannici condizioneranno l’Italia liberale, quella fascista (salvo la parentesi dell’Asse) e quella democratica, arrivando fino a oggi. La conclusione del libro è: «Chiunque, nel ceto politico o industriale italiano, osi disubbidire alle regole segrete della dottrina Churchill, si chiami Enrico Mattei o Aldo Moro, è considerato dagli inglesi alla stregua di un nemico mortale».
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 28 agosto 2017 • N. 35
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Politica e Economia
Guerra di confine sull’Himalaya Fra India e Cina La questione della strada
di Doklam, nell’ambito di una disputa territoriale con il Bhutan, è solo l’ultimo episodio dell’aggressività di Pechino
Francesca Marino «Da settimane ormai la Cina minaccia l’India di terribili conseguenze per ciò che definisce “l’intrusione nel plateau di Doklam”. E sono in parecchi in India a essere sinceramente preoccupati dall’aggressività cinese, parte di un disegno intimidatorio che va avanti da molti anni. Un disegno che ha portato, tra le altre cose, i giapponesi ad allertare i propri militari più spesso che durante la Guerra Fredda e a spedire il Vietnam dritto fra le braccia degli ex arcinemici americani»: Praveen Swami, rispettato analista militare indiano, commenta così l’empasse diplomatica tra India, Cina e Bhutan che da quasi due mesi mantiene con il fiato sospeso tutta la regione. I fatti, anzitutto. Il 16 giugno scorso la Cina ha cominciato a costruire una strada nell’area himalayana di Doklam, in una striscia di territorio che confina con l’India e che è oggetto di una annosa disputa territoriale tra la Cina e il Bhutan. Due giorni dopo, su richiesta del Bhutan che considera proprio quel territorio, i soldati indiani sono intervenuti per fermare la costruzione della strada. Da allora, circa trecento soldati indiani e cinesi si fronteggiano a Doklam giocando a tirarsi sassi e facendo sfoggio di metaforici muscoli. Secondo la Cina, l’India ha violato un confine internazionale e ha occupato un pezzo di territorio cinese. Secondo New Delhi, le truppe indiane si trovano in territorio bhutanese
e Thimpu ha espressamente richiesto l’aiuto indiano per fermare i cinesi che cercavano di costruire una strada occupando quel pezzo di terra. In realtà il triplice confine tra India, Cina e Bhutan in quella particolare zona è oggetto di disputa da lungo tempo e la questione non è mai stata risolta. Esiste però un trattato «privato» del 2012 tra Cina e India secondo il quale Pechino si sarebbe impegnata a non effettuare azione alcuna in quella zona senza prima discutere la faccenda con New Delhi visto che spostare il confine a sud di Doklam renderebbe vulnerabile il cosiddetto Siliguri Corridor che connette il resto dell’India ai travagliati Stati del nordest indiano. Il confronto tra le due superpotenze nucleari, il più lungo e il più aspro dalla guerra combattuta nel 1962, non accenna a scemare: i cinesi vogliono che l’India ritiri immediatamente le sue truppe, New Delhi chiede invece un ritiro simultaneo prima di sedersi a un eventuale tavolo delle trattative. Intanto, Pechino minaccia di terribili ritorsioni e i generali indiani lucidano armi e divise. A complicare il tutto, la Cina accusa gli Stati Uniti di voler provocare una guerra indocinese visto il supporto più o meno aperto della Casa Bianca alle posizioni indiane. In realtà, come sostiene ancora Praveen Swami, «la faccenda di Doklam non riguarda soltanto una strada». È soltanto l’ultimo episodio di una guerra più o meno fredda tra New Delhi e Pechino in atto da almeno due
Un soldato cinese e uno indiano al confine di Nathu La fra India a Cina. (AFP)
anni. Ci sono state altre scaramucce territoriali, una nel 2013 e l’altra nel 2014. Qualche mese fa, tanto per distendere l’atmosfera, la Cina aveva rinominato una serie di aree della regione indiana dell’Arunachal Pradesh che per Pechino è il South Tibet. Dimenticando che il «North Tibet» è stato occupato con la forza e che storicamente non è mai stato parte della Cina. Al G20 Narendra Modi e Xi Jinping non si sono degnati di uno sguardo. Ma soprattutto, la Cina supporta ormai apertamente il Pakistan, legato economicamente mani e piedi a Pechino: il CPEC, il China-Pakistan Economic Corridor che attraversa territori disputati, è stato vissuto da New Delhi come un vero e proprio attentato alla sovranità territo-
riale e l’Obor, la cosiddetta «Nuova Via della Seta» viene considerato dall’India soltanto un mezzo per occupare anche militarmente i territori coinvolti. Altra materia del contendere tra i due avversari, la politica aggressiva della Cina nel South Cina Sea: che non è vista di buon occhio non soltanto da New Delhi ma viene osteggiata sia da Tokyo che da Washington. Il tentativo di avere controllo e accesso privilegiato all’Oceano Indiano, al Pacifico o al mare Arabico pone non pochi problemi di ordine politico e geopolitico alle parti coinvolte e rischia di stravolgere alleanze e giochi di potere. La posta in gioco è alta, molto più alta di un semplice pezzetto di terra sperduto tra le montagne o dell’importanza strategica
Fugge la pm chavista nemica di Maduro Paso doble Il presidente venezuelano ha annunciato un mandato di cattura internazionale
contro l’ex procuratrice generale, Luisa Ortega Diaz, fuggita in Colombia
Un motoscafo l’ha portata in gran fretta lontano dalla costa venezuelana, da lì un volo privato l’ha presa e depositata in Colombia. Prima che Maduro ne ordinasse l’arresto per chissà quale accusa penale, prima che qualcuno le sparasse sotto casa. La destituita procuratrice della repubblica venezuelana Luisa Ortega (nella foto), è scappata da Caracas con il marito, ex guerrigliero ed anche lui ex chavista. Si è data alla fuga la ex donna di ferro del regime, la dirigente chavista che più autorevolmente ha per anni coperto di un manto di formale rispettabilità giuridica le più basse vendet-
te della cupola chavista verso i suoi oppositori. Prima seguace fedele di Hugo Chávez. Poi, senza batter ciglio, pedina obbediente di Maduro. Fino al voltafaccia in mondovisione del 31 marzo scorso, fino alla denuncia pubblica degli strappi alla Costituzione e alla sua nuova vita da bandiera della resistenza civile al regime. Quel giorno annullò a sorpresa le due sentenze del Tribunale supremo (in mano a Maduro) che esautoravano il Parlamento. Il Tribunale non si aspettava questa mossa, fino a quel giorno aveva contato sulla copertura della procuratrice, un ruolo delicato nella impalcatura istituzionale chavista: allo stesso tempo capo
Keystone
Angela Nocioni
dei pm e dei giudici, ma anche espressione del Parlamento che infatti l’aveva eletta in quel ruolo ai tempi in cui era ancora a maggioranza chavista. Il procuratore generale in Venezuela non fa parte né del potere esecutivo né del potere giudiziario, ma rappresenta un autonomo «potere cittadino». In quanto garante dei diritti dei cittadini, chi è eletto a quel ruolo è inamovibile per sette anni. Per cacciarla Maduro ha dovuto infatti compiere un ennesimo strappo alla legalità. Vistosi bloccata la strada per esautorare il Parlamento, il successore di Chávez si è convinto a convocare elezioni per un’assemblea costituente (senza passare per il referendum popolare come prevede la Costituzione) per conseguire lo stesso obiettivo: mettere a tacere il parlamento in mano all’opposizione. Da quel giorno la nuova identità da antichavista della Ortega è andata avanti a passo deciso. Non si è più fermata. Prima ha dichiarato incostituzionale la convocazione della Costituente. Poi ha ordinato la scarcerazione dei manifestanti detenuti, costringendo Maduro a deferirli ai tribunali militari. Dopo ancora, quando il Tribunale supremo di giustizia le ha risposto che il suo ricorso era inammissibile, ha dichiarato nulla
la votazione con cui nel 2015 erano stati insediati i 13 magistrati titolari e i 20 supplenti nell’intervallo tra la vittoria dell’opposizione alle politiche e l’insediamento della nuova Assemblea Nazionale, dichiarandoli decaduti. Ma chi è davvero la temeraria ex procuratrice della repubblica del Venezuela? La bandiera della resistenza civile al regime è un personaggio tanto interessante quanto misteriose sono le sue intenzioni. La sua evoluzione nella politica venezuelana è da romanzo giallo. Ex pupilla di Diosdado Cabello, numero due del regime, capo di una delle bande militari che si contendono la guida del governo, fu lei a far condannare con prove false Leopoldo López, leader antichavista e molto popolare nelle frange di estrema destra dell’opposizione, a 14 anni di carcere. Il pubblico ministero di quel processo ebbe una crisi di coscienza. Scappò dal Venezuela prima della sentenza, disse che le accuse erano tutte campate in aria, le prove tutte costruite e i testimoni pagati. La Ortega, impassibile, spedì con quelle accuse false Leopoldo Lopez in cella. Un lavoro rozzo, oltre che sporco. Perché non c’era bisogno di fabbricare prove false contro di lui. C’erano molte accuse provabili a danno di Lopez, che per anni si è mosso
dell’alleanza con il piccolo Bhutan, che con la Cina non ha rapporti diplomatici, che si appoggia a New Delhi in tutto e per tutto e che in tutto ciò rischia di continuo di fare la classica fine del vaso di coccio. Tanto alta che l’idea di un conflitto armato spaventa tutti ma non viene davvero esclusa da nessuno nonostante le conseguenze potenzialmente devastanti. In ballo c’è la famosa leadership globale, che i cinesi intendono strappare agli americani, e c’è il controllo delle aree strategiche di una vasta porzione di mondo. In ballo c’è il controllo delle principali vie del commercio mondiale. Dalle rotte asiatiche dipenderà gran parte della geopolitica del futuro e del controllo delle strategie globali. nella melma più violenta dell’antichavismo militante, quello che non disdegna le esecuzioni a freddo e le sparatorie degli incappucciati in strada. Eppure Lopez fu spedito da lei in cella in quel processo farsa in quanto leader dell’opposizione da silenziare con la forza, non per altro. La Ortega, oggi quasi sessantenne, da ragazza militava nella sinistra rivoluzionaria, si occupava di difendere da avvocata i detenuti politici. Nel dicembre del 2007 Chávez la volle capo della Procura generale, il giorno del funerale del Comandante (come anche lei lo chiamava) era in prima fila tra i papaveri del regime. Nel 2014 Maduro la fece confermare. Lei non aprì bocca quando la prima ondata di grossa repressione spedì in galera senza prove centinaia di persone. «In Venezuela non ci sono prigionieri politici!», rispondeva a chi le chiedeva conto di quegli arresti arbitrari. Perché questa giravolta all’improvviso? Non è credibile – considerato il suo ruolo di potere che la portava a necessaria conoscenza di quante nefandezze si commettono nel dietro le quinte del regime – che si sia accorta solo a fine marzo dei diritti calpestati in nome di una rivoluzione ormai defunta. Non è improbabile che l’abile e coraggiosa Ortega abbia valutato le poche possibilità che ha il chavismo di resistere in sella, abbia soppesato lo scarso appeal politico dei singoli leader dell’opposizione sempre in guerra l’uno contro l’altro e stia quindi preparando un suo debutto da candidata presidente per le future elezioni in un Venezuela postchavista. Una scommessa ardua, forse cinica, ma non sciocca.
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Politica e Economia
Globalizzazione e «posto fisso»: quale futuro?
Mondo del lavoro Se è vero che l’individuo ricerca da sempre stabilità, fino a che punto e in quali termini
lo può (ancora) fare a livello professionale?
Edoardo Beretta Il concetto di «posto fisso» − inteso comunemente quale «occupazione a tempo pieno» e soprattutto «indeterminato» − ha sempre costituito un’aspirazione trasversale e, in special modo, in quei Paesi caratterizzantisi per minore propensione alla mobilità lavorativa. Non c’è dubbio che, da un punto di vista sociale e familiare, esso sia persino stato «mitizzato» ed identificato quale vero e proprio «traguardo». Al progredire di tempo e richiesta di flessibilità lavorativa (così come oggigiorno proposta, cioè costituita da precarietà ed iper-mobilismo) il «posto fisso» è assurto in paesi non lontane a mantra da raggiungere sempre ed in ogni caso. Sin da subito, per evitare
fraintendimenti è opportuno che si sottolinei l’immutata importanza di stabilità sia nella vita lavorativa sia familiare − spesso conditio sine qua non per decisioni individuali a lungo termine oltre che l’arricchimento nelle sue forme (materiali e non) più svariate. Disporre di un grado di occupazione che fornisca tali certezze, può sicuramente essere di ausilio per sentirsi «sicuri» nel proprio percorso di avanzamento personale. Nel contempo, ogni analisi riduzionistica del problema (che talvolta si è operata nelle società europee maggiormente colpite dalla recente crisi occupazionale) non aiuta: per quanto la realtà economica ci abbia tristemente insegnato negli ultimi anni fatti di statistiche con segno negativo, è certamente poco ambizioso
Protezione lavorativa (da 1 a 6) – Lavoro Tasso di licenziamenti per contratti * % disoccupazione Regolari Temporanei Full Part % time time Australia 1985 1,17 0,88 – – 8,3 2013 1,67 0,88 75,1 24,9 5,7 Francia 1985 2,59 3,06 88,3 11,7 10,4 2013 2,38 3,63 86,0 14,0 10,3 Germania 1985 2,58 5,00 89,0 11,0 – 2013 2,68 1,13 77,4 22,6 5,2 1985 2,76 5,25 92,1 7,9 8,1 Italia 2013 2,68 2,00 81,5 18,5 12,1 Regno Unito 1985 1,10 0,25 80,3 19,7 11,2 2013 1,10 0,38 75,4 24,6 7,6 Svizzera 1985 1,60 1,13 – – – 2013 1,60 1,13 73,6 26,4 4,4 USA 1985 0,26 0,25 – – 7,2 2013 0,26 0,25 – – 7,4 * Elaborazione propria sulla base di: http://stats.oecd.org/Index.aspx?DataSetCode=JOBQ#
immaginare nel 2017 che la società sia prioritariamente interessata alla durata del contratto e al grado di impiego. L’individuo, infatti, rimane alla ricerca di quella «soddisfazione lavorativa», che dipende a doppio filo dall’ambiente in cui ci si estrinseca per buona parte della propria vita. Ogni contratto rinnovabile in contesti favorevoli di lavoro non dovrebbe essere percepito quale meno «sicuro» (o, persino, quale countdown del tempo che scorre) di un altro senza scadenze temporali connessevi, ma in ambienti meno stimolanti (o, persino, di contrasto). Nel contempo, l’indeterminatezza della durata contrattuale non deve essere intesa dal datore di lavoro − sia esso pubblico sia privato − quale vincolo indissolubile, e dal lavoratore stesso alla stregua di diritto acquisito (e, quindi, garantito a tutti i costi). Il perseguimento del «posto fisso» dovrebbe forse orientarsi in un senso più attuale, in cui soddisfazione personale e conciliabilità di tempo libero e lavoro (work-life balance) siano la «stella polare». Che ci sia molto da fare in tal ambito di rinnovamento di mentalità è testimoniato anche dalle rilevazioni statistiche, che − sebbene si siano certo evolute in termini di voci «alternative» − possono ancora essere lette in chiave di contrapposizione fra lavoro full-time e part-time. In altri termini, le osservazioni sul lavoro a tempo parziale (laddove frutto di scelta consapevole e non di impossibilità a trovare impieghi a tempo pieno, alias «sotto-occupazione») devono essere necessariamente contestualizzate. Nemmeno la durata della permanenza presso lo stesso datore di lavoro deve essere, perciò, sinonimo di scarsa flessibilità del mercato del
«Smart work initiative» presso un ufficio Swisscom, per lanciare forme di lavoro più flessibili. (Keystone)
lavoro locale in quanto potrebbe essere interpretata «positivamente», cioè quale prova del forte legame nei confronti del proprio datore di lavoro. Alla luce di quanto sopra, è da privilegiarsi il perseguimento del «posto fisso» o di una flessibilità maggiore? Ancora una volta, non ci può essere una risposta aut-aut, ma solo et-et in base a contesto, esigenze ed ambiente dei lavoratori medesimi. Probabile è, però, che ci si debba «affrancare» da tutti quei costrutti mentali che ancora troppo spesso orientano parte della società alla difesa di totem ormai solo parzialmente giusti e non necessariamente correlati − come risulta evidente − a migliore soddisfazione, qualità lavorativa e benessere individuale oltre che familiare. Il contrasto sociale deve focalizzarsi, piuttosto,
− senza muoversi dal «posto fisso» alla flessibilizzazione estrema − nei confronti di disoccupazione (o sotto-occupazione) oltre che precarietà lavorativa per mera ricerca del profitto. Il taglio della protezione lavorativa (perlopiù, su una sola parte dell’economia) verificatosi negli ultimi anni nei principali Paesi del mondo, certamente, non agevola la pax sociale. Per avere successo il cambiamento deve avanzare su una strada bottom-up («dal basso verso l’alto») anziché top-down («dall’alto verso il basso»), che fornisca al legislatore di turno dal più profondo della società indicazioni precise di operare in tal senso. Perché soddisfazione reciproca − sia del lavoratore sia del datore di lavoro − è l’unica formula di successo anche in un’economia post-industriale.
Vecchia e fuori mano la casa a prezzo abbordabile in Svizzera Mercato immobiliare In alternativa a quelle nuove, molto costose, le vecchie case lontane dai centri
godono di una domanda crescente. Complessivamente, però, i prezzi nel nostro paese sono sempre molto alti Ignazio Bonoli A qualche pensionato sarà capitato in questi mesi estivi di seguire un programma televisivo, realizzato in Gran Bretagna, ma diffuso su alcuni canali europei, compresa la Svizzera italiana, in cui si presenta una coppia di cittadini britannici in cerca di un’abitazione in Europa, per trascorrervi la loro terza età. A parte l’effetto pubblicitario degli abili venditori, sarà certamente capitato al nostro telespettatore di sorprendersi dei prezzi praticati in Europa, soprattutto in rapporto all’immobile in vendita. Con 250-300’000 euro ci si può procurare una casa piuttosto ampia, spesso con giardino e anche terreno annesso in zone di campagna, o anche turistiche al sud. Se la stessa coppia prevedesse di installarsi in Svizzera, il bilancio di cui dispone non basterebbe probabilmente nemmeno per la metà del terreno dove sorge la casa. I prezzi in Svizzera nel settore immobiliare sono sicuramente fuori dalla portata di qualsiasi famiglia del ceto medio in Europa. Tuttavia, anche da noi assistiamo a un fenomeno nuovo: quello del fiorire di un mercato di case costruite qualche anno fa con una domanda piuttosto sostenuta. L’oggetto del desiderio è più o
meno identico a quelli ricercati dai britannici in Europa: una casa spaziosa, con un piccolo locale – ufficio, possibilmente con giardino. Magari è il sogno della famiglia media di quattro persone, alla quale si pensa da anni e a cui sono destinati i risparmi realizzati. Sogno che però difficilmente potrà realizzarsi a causa dei costi elevati e delle condizioni per ottenere il necessario finanziamento. Può però accadere che una vecchia abitazione, che necessita
di molti lavori di ripristino possa essere trovata a prezzi abbordabili anche nei dintorni delle grandi città. Per la coppia disposta a metterci parecchio lavoro personale e che ottiene qualche aiuto, può essere l’occasione d’oro per realizzare il sogno di una casa propria. Anche il gruppo di ricerche immobiliari del Credit Suisse, che segue regolarmente l’evoluzione del mercato, osserva che ormai, in praticamente tutte le regioni svizzere, l’acquisizione
Lungo il Giura si trovano ancora immobili a costi ragionevoli. (Swiss-Image)
di un’abitazione propria, come casa unifamiliare, è praticamente impossibile per una famiglia del ceto medio. Una casa nuova di medie dimensioni esigerebbe l’impiego di non meno del 39% del reddito della famiglia. Quindi ampiamente oltre quella che viene considerata la «regola d’oro» del finanziamento proprio, che non deve superare al massimo un terzo del reddito su cui può contare la famiglia. Regola che viene utilizzata, spesso talvolta in senso più restrittivo, anche dalle banche per la concessione di crediti ipotecari. Le stesse banche prevedono i costi sulla base di un tasso ipotecario calcolatorio del 4,5-5%, con l’aggiunta di un 1% per spese di manutenzione e dell’ammortamento. Del resto, uno studio recente di «Moneypark» limita a poche categorie le famiglie del ceto medio che possono permettersi queste operazioni: tra di esse gli impiegati ben pagati, i bancari, i docenti di scuole superiori. La sopportabilità calcolatoria per case nuove e appartamenti in condominio in tutte le regioni è stata valutata, e presentata in una recente pubblicazione, dagli esperti del Credit Suisse. Il risultato è che in soltanto poche regioni un simile investimento è possibile: per esempio lungo il Giura, in parte dell’altopiano e nelle zone di montagna non turistiche.
Le cose migliorano leggermente se ci si limita all’acquisto di appartamenti in condominio non nuovi. Ma anche in questo caso, tra gli oggetti offerti negli ultimi anni, solo la metà sarebbe finanziariamente sopportabile. Una carta della Svizzera che descrive questa situazione indica chiaramente che i grandi agglomerati, ma anche le zone turistiche, sono inavvicinabili. Peggio ancora per le case monofamiliari. Lo Swiss Real Estate Institute ha calcolato il prezzo medio per regioni di queste case nelle zone suburbane, constatando i prezzi più alti nella regione di Ginevra (1,6 milioni) e di Zurigo (1,4 milioni). Sopra il milione si trovano i cantoni di Vaud e Vallese, nonché il Nord-Est della Svizzera. A 900’000 franchi si possono trovare case nel Ticino e a 850’000 nella Svizzera Orientale e Centrale. Ma a questi prezzi la domanda è molto forte e gli oggetti sono subito venduti. La domanda più frequente si situa comunque tra il milione e il milione e mezzo. Spesso però le case necessitano di forti spese di rinnovamento. In ogni caso siamo ben lontani dai prezzi ottenibili all’estero per oggetti analoghi. È però evidente che l’acquisto di una casa all’estero per andarci a vivere comporta non pochi problemi, e non soltanto di ordine finanziario.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 28 agosto 2017 • N. 35
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Politica e Economia
Svizzera, modello vincente?
Dibattiti I n un libro edito da NZZ Libro, 24 personalità elvetiche e straniere si interrogano sulla Svizzera
e sulle possibilità che possa avere successo anche in futuro Marzio Rigonalli In un mondo globalizzato, dove le grandi potenze e le unioni di Stati sembrano destinate ad essere sempre più dominanti, un piccolo paese come la Svizzera ha ancora un futuro? La questione è al centro del libro Kleinstaat Schweiz – Auslauf – oder Erfolgsmodell? («Il piccolo stato Svizzera, un modello vincente o superato?» L’opera, edita da Konrad Hummler e Franz Jaeger, nella serie NZZ Libro, comprende i contributi di ben 24 autori, svizzeri e stranieri, provenienti da università e settori diversi. Accanto all’ex consigliera federale Micheline Calmy-Rey, troviamo Carl Baudenbacher, presidente della Corte di giustizia dell’Associazione europea di libero scambio, Gerhard Schwarz, ex direttore di Avenir Suisse, Hans-Werner Sinn, ex presidente dell’istituto di ricerche economiche Ifo di Monaco di Baviera, e una lunga lista di professori emeriti, ancora attivi in numerose università. Nel suo romanzo 1984, George Orwell pronosticò la scomparsa di tutti i piccoli Stati. La previsione si rivelò errata. Dopo la fine della guerra fredda, numerosi sono i piccoli Stati che in Europa sono nati dalle ceneri dell’impero sovietico, o da guerre regionali. Il vecchio continente conta oggi una cinquantina di paesi e la maggioranza comprende piccoli Stati. Accanto alla Svizzera si possono citare, il Belgio, la Danimarca, il Lussemburgo, gli Stati
baltici, l’Austria, l’Irlanda, la Slovacchia, la Repubblica ceca, la Slovenia, Malta e tanti altri. E il loro numero potrebbe aumentare se alcuni movimenti indipendentisti, attivi soprattutto in Spagna, nel Belgio e nel Regno Unito, dovessero riuscire a raggiungere il loro obiettivo. Due ulteriori elementi dell’attrazione che esercitano i piccoli Stati sono: da una parte il fascino che la Svizzera esercita sulle regioni confinanti appartenenti ai paesi vicini, soprattutto nell’Italia settentrionale e nel Voralberg, e dall’altra i sondaggi realizzati all’interno dell’opinione pubblica europea. Queste inchieste dimostrano che la maggioranza dell’opinione pubblica auspica un ritorno agli Stati nazionali di una parte delle competenze accordate all’Unione europea e si schiera contro un’eventuale ulteriore centralizzazione. Molti piccoli Stati sono in buona salute. Lo dimostrano le classifiche internazionali riguardanti la competitività, la ricerca, l’innovazione o la formazione. Nella maggior parte dei casi, i piccoli paesi, come la Svizzera e gli Stati nordici, occupano le prime posizioni, mentre i grandi paesi, ad eccezione degli Stati Uniti ed in pochi casi anche della Germania, si ritrovano dopo la decima posizione. Una situazione che è agevolata dai vantaggi che derivano dalla piccola dimensione dello Stato, in particolare dalla rapidità con la quale possono venir applicate le decisioni politiche ed amministrative, da un
18 giugno 2017, i cittadini di Moutier votano a favore dell’adesione al canton Giura: i diritti popolari sono uno dei punti di forza del modello elvetico. (Keystone)
apparato burocratico poco invadente, nonché dalla distanza ridotta che separa le varie élite, politiche, economiche e culturali del paese tra di loro e con la società tutta intera. In questo contesto, gli autori definiscono la Svizzera un piccolo Stato ideale ed elencano i principali elementi che contribuiscono a raggiungere questa ambita situazione di primo della classe. Un PIL (Prodotto interno lordo) per abitante tra i più alti al mondo; un debito pubblico contenuto; la democrazia diretta, che coinvolge la popola-
zione in molte decisioni ed impedisce il sorgere di un ampio fossato tra la politica e la società civile; il federalismo, che consente di rispettare e di valorizzare le diversità storiche, etniche, linguistiche e religiose del paese; un sistema educativo riconosciuto valido anche sul piano internazionale; una sanità che costa molto allo Stato ed ai cittadini, ma che è di alta qualità. La situazione attuale, ovviamente, non è acquisita per sempre. Per conservarla occorrerà intraprendere nuove riforme. Gli autori, immersi nella tra-
dizione liberale, o vicini ad essa, propongono, per esempio, una riforma radicale delle assicurazioni sociali, uno snellimento dello Stato e nuove misure per garantirsi l’immigrazione di forze qualificate. Nelle loro prese di posizione, emerge una risposta positiva, anche se non in termini molto chiari, alla domanda che costituisce il titolo del libro. Sì, il modello svizzero è un modello vincente e potrà rimanerlo, soprattutto se gli svizzeri lo vorranno e se sapranno difenderlo. La maggiore incertezza proviene dall’Unione europea. La Svizzera indipendente è un piccolo paese al centro del vecchio continente. La sua relazione con l’Unione europea è bloccata dalla trattativa su un accordo istituzionale, che è in corso da oltre tre anni e che Berna non vuole sottoscrivere, perché Bruxelles, nei fatti, le chiede di rinunciare ad una parte della sua sovranità. Che cosa conviene fare allora nell’attuale situazione politica europea per difendere al meglio i propri interessi nazionali? Una risposta viene dall’ex responsabile della diplomazia elvetica. Conviene attendere, scrive Micheline Calmy-Rey, per poter vedere come evolveranno i rapporti tra la Gran Bretagna e l’Unione europea con la Brexit e come verranno chiariti i futuri sviluppi istituzionali in seno all’UE. È un’attesa che dovrebbe consentire di preparare nel migliore dei modi le decisioni che un giorno bisognerà pur prendere.
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 28 agosto 2017 • N. 35
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Politica e Economia Rubriche
Il Mercato e la Piazza di Angelo Rossi È arrivata l’ora dell’automobile elettrica? Durante l’estate, di solito, la politica riposa. Quest’anno, però, l’estate è stata una stagione speciale perché maturava la campagna elettorale per il rinnovo del parlamento tedesco, perché continuavano le discussioni sul Brexit inglese e anche perché due governi, quello francese e quello inglese hanno reso pubblica la loro intenzione di vietare, a partire dal 2040 e per ridurre l’inquinamento, l’acquisto di automobili che consumano benzina o gasolio. La notizia del bando è stata accolta, tutto sommato, molto favorevolmente anche perché, si pensa, era stata preceduta dalla dichiarazione della Volvo (e chi dice Volvo dice Ford) stando alla quale, la ditta svedese, a partire dal 2019, non produrrà più che automobili ibride o elettriche. Le pagine specializzate sono poi piene di commenti positivi sulla Tesla americana che,
praticamente ogni mese, rende noto di aver aumentato il fatturato e di star preparando nuovi progetti di espansione della sua produzione di automobili elettriche. In Svizzera si punta invece sul mercato, magari rifluidificato da qualche sussidio o da qualche regolamento statale. Stando alle previsioni, infatti, da noi, nel 2035, la quota delle automobili elettriche nelle vendite di nuove automobili potrebbe variare tra il 30 e il 60% a seconda delle misure di incoraggiamento che lo Stato potrebbe o non potrebbe prendere. Insomma l’automobile elettrica non è più un’utopia. Tra qualche anno la quota delle automobili a benzina e a gasolio nell’effettivo di automobili in circolazione potrebbe cominciare a diminuire. La diminuzione non si farà da un giorno all’altro e non si farà senza ostacoli. Nel caso della Svizzera è pen-
sabile che la transizione dalle automobili che inquinano a quelle elettriche venga facilitata dall’introduzione di un sistema di tassazione discriminante che favorisca l’automobile elettrica. Già oggi abbiamo, in diversi Cantoni, tasse di circolazione diverse a seconda del possibile pericolo di inquinamento costituito dal veicolo. È possibile che in futuro le automobili elettriche debbano pagare tasse di circolazione ancora più basse. È anche probabile che la tassazione diretta della circolazione (per esempio con tasse di accesso alle zone urbane di maggiore densità) che, finora, è stata sempre rifiutata, venga introdotta in questa o quella grande città per le automobili con motore a combustione interna. Oppure potranno essere aumentate le tasse sulla benzina e il gasolio. È comunque auspicabile che il mercato continui a
regolare questa evoluzione perché il passaggio dall’automobile a benzina e a gasolio all’automobile elettrica non si farà senza problemi. Il primo, che deve essere risolto rapidamente è quello delle stazioni di ricarica delle batterie. Non ce ne sono abbastanza e sono difficili da identificare nonostante che, già oggi, vi sia un’App che consente di localizzarle. Vi sono poi aspetti tecnici e altri relativi al modo di pagamento che, per il momento, complicano l’accesso a una stazione di ricarica. Una volta che il problema della ricarica sarà risolto niente si opporrà all’espansione delle automobili elettriche. Ancora per lungo tempo, però, continueranno a circolare automobili ibride e automobili con motore a combustione interna. Gli esperti affermano che l’acquisto del tipo di veicolo dipenderà in futuro dall’uso che l’automobilista
intende farne. Se l’automobile dovesse servire solo per circolare all’interno degli agglomerati urbani, su corte distanze, è abbastanza probabile che l’automobilista si orienterà verso un’ automobile elettrica. Sulle lunghe distanze, invece, saranno le automobili tradizionali a benzina o a gasolio e le ibride a farla da padrone. È anche possibile che l’automobile elettrica diventi la seconda automobile della famiglia. Ovviamente i produttori di automobili conoscono questi possibili sviluppi della domanda e li prenderanno in considerazione al momento di riorientare la loro produzione. Quel che è certo, però, è che già tra dieci anni, anche in Svizzera, e senza tanti divieti, l’automobile elettrica non sarà più un’eccezione, ma una componente ben visibile del traffico stradale, soprattutto nei centri urbani.
colto nel segno. Perché forse Hillary sta davvero bene, ma noi – loro, i democratici sconfitti, gli antitrumpiani – non tanto. La Clinton e il suo partito non soltanto hanno sbagliato strategia, ma hanno anche perso un elettorato che, soltanto otto anni fa, aveva votato Barack Obama. La celebre Rust Belt, la pancia dell’America, ha preferito Trump a Hillary anche perché il messaggio «speranza e cambiamento» di Obama si è rivelato fallace. Ed è da questa consapevolezza che i democratici vogliono ripartire, per costruire una proposta politica in vista delle midterm del novembre del prossimo anno. Più che chiudere la ferita di Hillary, si tratta di capire come sarà la sinistra americana, che come molte altre sinistre occidentali è divisa a metà, con i più radicali capitanati dall’indomito Bernie Sanders. Sarà il suo messaggio più protezionista, più votato all’eguaglianza, più «sociale» a dominare il carattere del Partito democratico? Il manifesto
lanciato alla fine di luglio lascia spazio alle interpretazioni, a partire dal suo slogan: «A Better Deal: Better Jobs, Better Wages, Better Future». Il fatto che ci sia la parola «deal» fa pensare a un semi-trollaggio dello stesso Trump, che come si sa va molto fiero della sua arte di negoziare, cui ha dedicato anche un libro. L’obiettivo è quello di parlare alla variegata – e vincente – «Obama coalition», che garantiva ai democratici il voto dell’élite come quello della working class. Il problema semmai è tenere insieme tutte la anime di questa coalizione, che ha aspettative anche contrastanti, che vanno dalla necessità di protezione a un istinto storicamente liberale e aperturista. Il rischio è l’indecisione, o peggio ancora la tentazione di rifugiarsi in un antitrumpismo banale, che può portare risultati nel breve periodo ma non risponde alla domanda principale: cosa è successo sì, ma soprattutto come si ritorna a essere primo partito degli Stati Uniti d’America?
tiene in vita l’aeroporto luganese, cioè la tratta Swiss con lo scalo zurighese. Francamente non ho mai capito l’agire dei due fronti opposti: da una parte ci si preoccupa e ci si attrezza per salvare il proprio aeroporto regionale, dall’altra (a Berna, ma non solo) si agisce come se chiusura e funerale fossero non solo sicuri ma anche imminenti. Forse è giunto il momento, alla luce anche di realtà e tempi dettati dall’imminente completamento dell’Alp Transit, di chiarire quanto queste differenziate (o incompatibili?) scelte politiche stiano condizionando la continuità di esercizio per l’aeroporto di Agno e nuocendo al ruolo del canton Ticino e della città di Lugano. Sul tavolo della mia sosta arriva volteggiando una piccola piuma. Non sono Forrest Gump, non mi metterò a correre, ma quella vista mi suggerisce una domanda: Agno in futuro avrà voli come quelli delle piume oppure come quelle delle rondini? Le prime vanno dove le portano i venti, le altre sfruttano i venti per volare verso direzioni sicure. Questo mi ricorda un giudizio di Sergio Mantegazza, abile imprenditore tici-
nese che con gli aerei ha costruito un impero (la Monarch, una delle più sicure e moderne compagnie nel mercato low cost). All’epoca della scomparsa della Crossair se non erro, intervistato sul futuro dell’aeroporto luganese Mantegazza rilasciò un sincero quanto scomodo parere: «Manca il volume di passeggeri, sperare in una crescita dell’aeroporto di Agno è utopia». Io non sono un esperto di aviazione, non posso giudicare. Al massimo riesco a spacciarmi come nostalgico passeggero Crossair che ricorda con affetto i Suter, gli Ostini, i Generali e uno stuolo di bravissimi operatori «crossairiani». Ma non basta per essere abilitato a dare consigli o soluzioni. Tanto più che, estintasi la Darwin/Etihad (sino all’ultimo sorretta da Maurizio Merlo che si candida a direttore dello scalo), ora deve debuttare l’Adria Airways. Azzardo solo un auspicio: che gli sloveni riescano a far volare i ticinesi come le rondini, cercando di non lasciarli in balia dei venti (inteso come aria smossa, non come numero dei milioni chiesti per il nuovo rilancio...), oscillanti e incerti come le piume.
Affari Esteri di Paola Peduzzi Hillary ha elaborato il lutto, e la sinistra? Hillary Clinton ha deciso di «abbassare la guardia», mossa inaudita per lei, che si è sempre sentita come se stesse camminando «su un filo senza rete» e ha impostato la sua carriera politica sul suo mostrarsi sempre sentinella in pattuglia. Ma quel che è accaduto nel 2016, la sconfitta «devastante» inflitta da Donald Trump, sulla carta il meno impegnativo degli sfidanti presidenziali possibile, ha convinto la Clinton a togliersi l’elmetto e a raccontare, a raccontarsi. Con questo spirito nasce il suo prossimo libro, What happened, che sarà pubblicato negli Stati Uniti il 12 settembre e che con tutta probabilità manterrà aperta una ferita che ancora non si è rimarginata, per la Clinton certamente, ma anche per mezza America e mezzo mondo: come ha fatto Hillary a perdere la corsa elettorale per la Casa Bianca contro Trump? Dalla comprensione di quel che è accaduto dipende anche la ristrutturazione in corso del Partito democratico, alle prese con
una opposizione all’Amministrazione Trump che, ancora una volta, sembra semplice – il presidente americano produce elementi di controversia a un ritmo impressionante – ma in realtà non lo è. Perché essere semplicemente «anti Trump» non è una strategia politica efficace. Secondo quanto fatto sapere dall’editore, Simon & Schuster, la Clinton vuole spiegare com’è la vita di una «donna forte» candidata alla presidenza, la prima della storia americana, cosa significa doversi giustificare per il proprio taglio di capelli, la tonalità della risata o i tradimenti del marito, che è un po’ quello che Hillary fa da tutta la vita. Il suo libro più di successo, Living History, pubblicato da ex first lady, affrontava proprio questo tema della donna e moglie alle prese con «un doppio standard» applicato alle signore: con la campagna elettorale del 2016 la questione si è inevitabilmente amplificata, perché in ballo c’era la
presidenza degli Stati Uniti e perché a vent’anni dall’elezione del marito Bill il clintonismo si portava addosso tutti i fardelli ideologici del Paese. Quel che è successo, quindi, è che una donna presidente non piaceva poi così tanto agli americani, e poi si sono aggiunti fattori esterni, l’Fbi e la sua inchiesta aperta e chiusa a uso e consumo degli anticlintoniani e soprattutto la Russia, il cui ruolo è ancora oggetto di un’inchiesta che sta paralizzando una già caotica Amministrazione Trump. La Clinton cerca di rimettere ordine in una sconfitta clamorosa: dopo essere scomparsa per un po’ dalla scena ha rilasciato interviste e tenuto discorsi in cui voleva dimostrare di essersi ripresa dallo shock e dal dolore e stabilire le cause esterne che avevano determinato la vittoria di Trump. «Io sto bene, e voi?» è il titolo di una copertina del magazine «New York» di qualche mese fa, il primo della restaurazione clintoniana: il tono divertito in realtà ha
Zig-Zag di Ovidio Biffi Voleremo come rondini o come piume? Sono tornato dopo qualche mese a passeggiare lungo il Vedeggio, nel tratto di sentiero che sull’argine sinistro corre parallelo alla pista dell’aeroporto di Agno. Ho così scoperto che in vicinanza del ponte in località Mulini qualcuno, forse con l’intento di abbellire i luoghi, o magari di offrire un «plus» ai passanti, ha costruito un robusto tavolo, con due panche, a mo’ di invito per una sosta. La tentazione è debole, anche per il continuo rumore delle auto che sfrecciano sulla A2. Ma, visto che il sole doveva ancora superare il crinale del monte sopra Sorengo e Breganzona, ho pensato che una pausa poteva starci e magari avrebbe favorito o suggerito qualche riflessione sul futuro del vicino aeroporto luganese. L’avvio è macchinoso: la mente è quasi irretita dal cupo rumorìo dell’autostrada. Fastidioso, ma alla fine torna utile: mi ricorda la cacofonia mediatica dei pareri che da settimane politici, amministratori, sindacalisti, ingegneri, avvocati, imprenditori, passeggeri e altri ancora continuano a produrre dopo la partenza del direttore dello scalo e la vendita di Darwin. Naturalmente chi
pro e chi contro l’aeroporto, quindi in schieramenti opposti e (per fortuna) separati, proprio come i veicoli sui due sensi delle corsie dell’A2. Intanto il mio sguardo rivolto a sud segue il placido nastro del Vedeggio che in quel punto scorre ultimando la sua via verso il lago. A stento si percepisce il rumore dello scorrere dell’acqua del fiume. Ma basta per suggerire un altro input: queste acque, dopo aver costeggiato la pista dell’aeroporto luganese, entreranno nel lago spingendosi verso sud, con il
I Mulini di Bioggio. (Wikipedia)
Tresa poi potranno scendere nel bacino del Verbano e infine uscendone, sia pure a livello di molecole, arriveranno a sfiorare anche le piste dell’aeroporto di Malpensa (oltretutto con il nome Ticino). Non è forse la natura stessa a indicare che un collegamento con il grande scalo lombardo dovrebbe avere se non la prevalenza, perlomeno una considerazione maggiore nei futuri progetti ticinesi? Invece, e nonostante i problemi che affiorano in continuità, città e cantone continuano a ignorare sforzi e impegni di chi da parecchio tempo lavora per agevolare i collegamenti del Ticino verso lo scalo internazionale lombardo. Eppure le tragicomiche vicende per il tratto ferroviario Mendrisio-Gallarate e il già deciso annullamento della concessione di un collegamento con autobus sono segnali evidenti che qualcuno – rendendo sempre più concreta l’offerta di un collegamento aereo alternativo con Kloten dalla Malpensa (che tecnicamente esiste già da anni ed è operato da Swiss, sovente con voli che costano meno rispetto alle partenze da Agno) – sta brigando per staccare la flebo che
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Cultura e Spettacoli I linguaggi dell’amore A Roma una doppia mostra celebra la nascita della rappresentazione pittorica delle emozioni pagina 30
La narrazione di Lawrence Carroll Quello che ci propone l’artista australiano al Museo Vela di Ligornetto, è una sorta di affascinante viaggio autobiografico
Viva la musica popolare! Il festival Alpentöne di Altdorf ha mostrato ancora una volta la vitalità di questo genere
Simenon forever Non smettono di appassionare i «romanzi duri» di uno dei maestri della letteratura
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Processione a Gannariente, Val Bavona, 1931; in prima fila, secondo da sinistra, Plinio Martini bambino.
La verità in fondo al sacco Recensioni La prima edizione commentata del romanzo di Martini
Pietro Montorfani Si potrebbe discorrere a lungo, senza sperare di arrivarne a una (come accadde a Italo Calvino), su quale sia la vera essenza di un classico della letteratura. Per tagliare la testa al toro, e partendo invece dalla fine, si potrebbe dire che un classico si manifesta come tale nel momento in cui al folto pubblico dei semplici lettori iniziano ad affiancarsi lettori di secondo grado: critici, curatori, filologi. Anche nel ristretto ambito della letteratura svizzera di lingua italiana, cioè la più estrema delle letterature regionali d’Italia, si sono andati individuando nel corso del Novecento alcuni nomi solidi che ben si meriterebbero la qualifica di classici. In poesia, naturalmente, Giorgio Orelli, almeno quello di L’ora del tempo (1962) e Sinopie (1977); in prosa il Signore dei poveri morti di Felice Filippini (1943), L’anno della valanga di Giovanni Orelli (1965), L’albero genealogico di Piero Bianconi (1969), Il fondo del sacco di Plinio Martini (1970). A poca distanza, anche cronologica, le opere di Sandro e Remo Beretta, di Federico Hindermann, Grytzko Mascioni, Alberto Nessi, su su fino a Gilberto Isella e Fa-
bio Pusterla. Chi vuole, se gli va, può ripescare anche Valerio Abbondio, Giuseppe Zoppi o Francesco Chiesa, per costruirsi il pantheon che più gli piace (altra caratteristica dei classici: l’adattabilità). La progressiva scomparsa, precoce nel caso di Martini, dei protagonisti di quella stagione letteraria ha favorito un interesse critico e filologico (i lettori di secondo grado) di cui già abbiamo iniziato a vedere i frutti negli ultimi anni e che, è da credere, continuerà a produrne nell’immediato futuro. Degli Orelli si parla ormai nelle aule universitarie, si danno tesi di laurea e dottorato su libri scritti negli anni Sessanta e Settanta, si annunciano all’orizzonte edizioni critiche, insomma sembra giunta l’ora in cui anche gli strumenti più avanzati della «scienza» letteraria si sentono autorizzati a chinarsi sui classici di casa nostra. Fatte le debite tare, è senz’altro un buon segnale. L’ultimo in ordine di tempo, giustamente proposto da Casagrande, sua sede storica, è proprio Il fondo del sacco di Plinio Martini, commentato e curato da due giovani studiosi ticinesi cresciuti all’Università di Friburgo ‒ nei paraggi dunque del figlio dell’autore, il filologo Alessandro. Matteo Ferrari
per la parte letteraria e Mattia Pini per quella linguistica, lavorando gomito a gomito, hanno continuato un lavoro in parte iniziato da altri, se è vero che già esisteva un’edizione commentata del secondo romanzo di Martini, Requiem per zia Domenica (1976), apparsa nel 2004 da Dadò per le cure di Ilario Domenighetti. È importante ricordare quel Requiem, i cui criteri di edizione e commento tutto sommato anticipano quelli di questo nuovo Fondo. Spiegare Martini a un vasto pubblico è cosa ardua, tanto i suoi libri sono radicati in una realtà di valle scomparsa da tempo e da lui letta in termini assoluti di amore-odio, come accade soltanto a chi abbia avuto un’esperienza forte, sincera, viscerale. Tradurre la passione di Martini, il bene e il male del suo racconto della Bavona, in termini comprensibili a lettori nati nel terzo millennio impone perciò, in sede di commento, scelte drastiche: con coraggio i curatori hanno individuato i loro lettori ideali tra i più lontani dal contenuto del libro, giovani studenti che non conoscano il significato di «telegramma», di «giorno dei morti», di «réclame». A prima vista tanta abbondanza di spiegazione lessicale potrebbe forse far sorridere, ma il sorriso subito
si spegne assieme al dubbio che siano note davvero necessarie per molti lettori di oggi. L’apparato di commento proposto da Pini e Ferrari rimane, nonostante questa premura, di misure contenute, non interferisce con la lettura del libro e anzi la facilita e la illumina in molti punti, soprattutto laddove si richiamino i debiti letterari di Martini (con Fenoglio, Pavese, Verga, ma anche Dante e Manzoni) o il continuo emergere della patina linguistica dialettale sotto l’italiano mescidato del libro. A livello di strutture narrative prendono nuova evidenza gli snodi della storia: la descrizione impietosa della vita di valle, la sofferta partenza per l’America, la vicenda d’amore tra Gori e Maddalena, la polemica contro le centrali idroelettriche. Il merito di Martini è stato quello di essere riuscito a fondere in un romanzo equilibrato, godibile, anche temi forti, realistici, al limite politici, che sarebbero stati forse più adatti a un reportage giornalistico. Forse anche per questa ragione, il cuore stesso del libro è strettamente legato a un titolo a cui l’autore è approdato tardi e con fatica: l’immagine del sacco che si vuota fino in fondo, dando libero spazio alla propria necessità di
sfogarsi (è la lettura proposta dai curatori). Aggiungerei però, in un’ottica meno psicologica, che il cul-de-sac richiama implicitamente la strada senza uscita della vita di valle, che costringe all’emigrazione; ma soprattutto mi pare che il titolo di Martini alluda al desiderio di dire la verità, di raccontarla tutta e senza filtri, anche per rispondere polemicamente al Libro dell’alpe di Zoppi (1922), in cui si raccontava una verità diversa, magari parziale, eppure non meno vera nel suo fugace ottimismo. Tra l’idillio di Zoppi e il crudo reportage di Martini si distende il grande tema della verità in letteratura, il suo essere posta al centro del discorso, il suo non essere mai completa e definitiva. È più «vero» il Seicento di Manzoni o quello della Chimera di Vassalli? L’unica verità che conti, alla fine, è quella dell’incontro tra autore e lettore: in questo, Martini è stato maestro e il nuovo commento evidenzia tutti i suoi meriti. Bibliografia
Plinio Martini, Il fondo del sacco. Edizione commentata a cura di M. Ferrari e M. Pini. Casagrande 2017. 275 pagine.
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Cultura e Spettacoli
Amori sottintesi
Mostre In una doppia mostra nella capitale italiana si celebra
la rivoluzione artistica avviata da Giorgione Blanche Greco Riccamente vestito in nero e oro, lo sguardo velato di malinconia, il «Gentiluomo» del dipinto pare abbia le labbra serrate su un quesito, un dilemma, forse un amore che lo fa soffrire. La mano destra appoggiata sul petto, stringe l’elsa di una spada che indica il centro del labirinto ricamato in oro, che gli campeggia sul giubbone e sul cuore. Così, si fece immortalare questo ignoto cavaliere dal pittore Bartolomeo Veneto, intorno al 1515, in un ritratto enigmatico e struggente che, forse, doveva rivelare alla persona amata l’intricato labirinto di sentimenti in cui si era smarrito per causa sua; oppure il labirinto esistenziale nel quale egli languiva. Era una richiesta d’aiuto? Una dichiarazione d’amore? Un melancolico e cortese rifiuto, o solamente l’adesione a una moda, la quale, a quell’epoca, esigeva che il ritratto, oltre alle fattezze della persona e al suo status sociale, «fotografasse» anche un po’ della sua anima? Questo dipinto che proviene da una collezione inglese è una delle rarità che si possono ammirare nella mostra Labirinti del cuore. Giorgione e le stagioni del sentimento tra Venezia e Roma, a Roma, curata da Enrico Maria Dal Pozzolo, uno dei massimi specialisti di pittura veneta tra rinascimento e barocco. La mostra intesse con finezza un curioso discorso su una selezione di ritratti, eseguiti da pittori diversi tra l’inizio e la fine del 1500 in area italiana, che descrivono le varie stagioni dell’amore. Il dipinto da cui inizia questa inso-
lita rassegna è I due amici di Giorgione, dove il pittore immortala due giovani, uno dei quali è palesemente innamorato «cotto», come suggeriscono la testa appoggiata a una mano, lo sguardo sognante e anche il «melangolo», l’arancia selvatica tanto profumata, ma dal gusto amaro, che tiene nell’altra mano, simbolo perfetto delle promesse e delle pene dell’amore; l’amico alle spalle intanto lo osserva pensoso e ironico. Il quadro, uno dei capolavori ascritti al maestro di Castelfranco, fa parte della collezione di Palazzo Venezia ed è stato lo spunto per il particolare allestimento della Mostra, che si divide tra questo storico edificio (voluto dal cardinale veneziano Pietro Barbo, poi Papa Paolo II, e divenuto un pezzo della Repubblica di Venezia a Roma), e le sale di Castel Sant’Angelo. La mostra fa parte di una rassegna che nella sezione di Palazzo Venezia racconta, anche con ritratti che di poco precedono I due Amici, la portata epocale dell’innovazione giorgionesca, legata anche ai modelli letterari dell’epoca e che aprì in Italia, come spiega Dal Pozzolo: «un versante della ritrattistica riservato ai ritratti affettivi in cui l’intento, di artisti e committenti, non è più solo la verosimiglianza e lo status sociale, ma è quello di fermare l’attimo densissimo di una parola, di un gesto, di un abbraccio, appunto di uno stato d’animo». Non è un caso che il «petrarchino», la prima edizione tascabile delle Rime del Petrarca, stampata a Venezia in quegli anni, incontrò un tale favore tra
la gioventù «dorata», da far parte degli oggetti di moda, che era d’uopo avere sempre su di sé. Così il filo della ricerca pittorica e sentimentale della mostra presenta trentasei libri a stampa e manoscritti, ventisette sculture e quarantacinque dipinti che introducono ai differenti modi della rappresentazione dei sentimenti nell’Italia cinquecentesca. La comunicazione amorosa nei quadri che fanno parte delle sei sezioni che illustrano le «stagioni» dell’amore avviene attraverso modalità differenti: dalla gestualità, al simbolo, alle partiture musicali, alla presenza di libri, oppure di evidenti elementi di seduzione, come nella sala che raccoglie i dipinti di signore che si stanno svestendo sotto i nostri occhi, tra le quali ci sono due dame immortalate da Domenico Tintoretto, seducenti, ma in maniera assolutamente virtuosa, come ci confermano gli sguardi, i leggeri rossori e i libri dell’epoca dai quali pare abbiano mutuato vesti e posture. La mostra in cui è possibile ammirare opere provenienti da importanti musei di tutto il mondo di grandi artisti del Cinquecento, tra cui Tiziano, Tintoretto, Romanino, Moretto, Ludovico Carracci, Bronzino, Barocci e Bernardino Licinio, è costruita sul filo di una narrazione ideale che parte dal momento in cui affiora la passione nell’animo di colui che viene colpito dalla freccia di Cupido, alle varie fasi dell’esperienza amorosa, e continua con il matrimonio e poi con la dimensione della memoria, quando chi si è amato non c’è più, ma i pittori sono
Vincenzo Tamagni (San Gimignano, 1492-1530 c.), Coppia in un giardino 1525-30 c. (Holkham Hall, Norfolk, collezione Coke)
stati chiamati a rappresentare le sue fattezze, o il dolore di chi è rimasto. In certi casi ci colpisce di più lo sguardo intenso dei protagonisti di un ritratto, dell’ostentazione di un fazzoletto bianco, di un fiore, di un guanto, o di una lettera, che invece scopriamo essere simboli importanti, come ci raccontano le didascalie, poiché all’epoca erano altrettante dichiarazioni di onestà; o di disponibilità al connubio; se non vere e proprie promesse ufficiali di fidanzamento. Poco a poco, si viene irretiti dal gioco dei sentimenti immortalati dai dipinti e dalle storie che narrano, che non sono solo «frammenti di un universale discorso amoroso», quanto vicende che in alcuni casi hanno avuto anche risvolti storici e politici. È il caso dei tre dipinti che coinvolgono France-
sco I de’ Medici e la sua amante Bianca Cappello, poi divenuta sua sposa, che morì misteriosamente a un solo giorno dalla scomparsa dall’amato. O come il ritratto dell’Imperatrice Isabella del Portogallo, realizzato postumo nel 1548 da Tiziano, per volere del marito, Carlo V, che pare non si desse pace perché il piccolo ritratto che portava sempre con sé, non le rendeva giustizia. Così, grazie all’arte del famoso pittore, ritrovò la donna bella e intelligente che non aveva mai smesso di amare. Dove e quando
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 28 agosto 2017 • N. 35
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Cultura e Spettacoli
Elogio dell’imperfezione
Mostre Al Museo Vela di Ligornetto la prima mostra monografica in Svizzera di Lawrence Carroll
Alessia Brughera È concepita come un viaggio autobiografico la mostra di Lawrence Carroll al Museo Vela di Ligornetto. Una sessantina di lavori raccontano la vicenda artistica del maestro di origini australiane dagli esordi fino ai giorni nostri, creando un intreccio narrativo fatto di continui rimandi tra i vari momenti che hanno scandito un cammino all’insegna della tenacia. Momenti sempre molto vicini tra loro, anche se lontani cronologicamente. Perché quello di Carroll è un percorso fatto di variazioni sottili e di scarti minimi, di temi ricorrenti e di riflessioni reiterate. C’è sicuramente una consequenzialità nell’operato dell’artista, ci sono traguardi, snodi e nuovi inizi, ma ciò che meglio lo caratterizza è la costante frequentazione di pochi concetti e la rielaborazione di un linguaggio che procede per lievi, quasi impercettibili, mutazioni. «Quando riguardo il mio lavoro», confessa lo stesso Carroll, «vi scopro tracce di lavori precedenti: fili che si collegano a idee pregresse, fili che muovono verso una storia che deve ancora svelarsi». Sospese le coordinate temporali, l’itinerario espositivo di Ligornetto palesa così le ripetute evocazioni e i persistenti ritorni nella poetica dell’artista, lasciando al visitatore la possibilità di scoprirne le suggestioni e i richiami, la sensibilità e la profondità. Complici le grandi sale luminose di quella che fu la dimora e insieme l’atelier e il museo di Vincenzo Vela, le opere di Carroll predispongono immediatamente alla contemplazione, alla graduale individuazione proprio dei «fili» e delle «tracce» che le legano tra loro facendone un unico, ampio, quadro espressivo. È sicuramente la lentezza uno degli elementi chiave dei lavori di Carroll. Una lentezza duplice, che si manifesta nella fruizione del dipinto, affinché esso possa rivelare anche ciò che non è immediatamente visibile, e, ancora prima, nel processo creativo, per il quale l’artista ha bisogno di «tempo per lasciare sedimentare le cose», per aspettare e guardare con occhi nuovi ciò che
è stato fatto. Non stupisce, allora, che alcuni pezzi esposti siano stati realizzati nell’arco di parecchi anni, a dimostrazione di quanto importante sia per Carroll la trasformazione incessante dell’opera per ritenerla terminata solo quando è diventata estrinsecazione compiuta del suo pensiero. Emblematico in questo senso è Stacked Painting, iniziato nel 1992 e concluso nel 2017, costituito da diversi pannelli di tela modificati molte volte. Lo stesso sovrapporsi di strati di colore e di oggetti che caratterizza i suoi lavori suggerisce l’elaborazione cauta e meditativa dell’artista, secondo un approccio che privilegia il silenzio e che vuole preservare l’atto della creazione dal caotico mondo esterno. Attraverso pigmenti, polveri e materiali Carroll dà origine a opere dall’accentuata tridimensionalità che, sebbene rimangano essenzialmente dipinti, aprono alla dimensione scultorea e all’installazione, in una commistione di espressioni formali che fornisce all’artista maggiori possibilità di esplorare le potenzialità stesse della pittura. La tela viene considerata da Carroll un luogo di sperimentazione a cominciare dal colore, che tende ad accostarsi il più possibile alla tonalità e alla porosità del supporto come una sorta di seconda pelle. La tavolozza cromatica dell’artista tocca le tante sfumature del bianco – dal crema al beige, dal perla al polvere – e si spinge verso i grigi chiari, i gialli flebili, i verdi pallidi e i rosa tenui. Gradazioni «morandiane» che contribuiscono a generare un’atmosfera diafana e nostalgica. Proprio Giorgio Morandi è una delle figure fondamentali per Carroll. Da lui apprende la modulazione del colore, l’importanza della luce e soprattutto l’intimità del gesto che si fa incarnazione della memoria. Accanto al pittore bolognese altri sono i maestri che influenzano la ricerca dell’artista: da Henri Matisse impara «l’aria», da Piet Mondrian come spingersi ai bordi dell’area pittorica, da Jasper Johns il fascino dell’accumulo, da Donald Judd il modo in cui l’opera può prendere possesso dello spazio.
Lawrence Carroll, Senza titolo, 2014-17, Collezione dell’artista. (© Lawrence Carroll, photo Antonio Maniscalco)
Carroll realizza le sue tele con pezzi cuciti insieme in maniera rudimentale, rivestendo il legno grezzo con fili, graffe e chiodi lasciati sempre bene in evidenza. Queste tele difettose diventano poi territorio di manipolazioni ulteriori: l’artista le impila, le accorpa, le
buca, le tronca, le ricopre di cera. E ne fa superfici su cui appoggiare oggetti per fagocitarli nella materia pittorica e accrescerne il valore metaforico. È così che i suoi dipinti acquistano un’inaspettata fisicità, facendosi corpi quasi architettonici che ci appaiono nel
loro poetico contrasto di imponenza e leggerezza. Bisogna scrutarli con attenzione per scorgerne tutte le peculiarità. Bisogna esplorarne ogni parte, guardare tra le fessure e i depositi di materia, senza tralasciare bordi e margini, che l’artista tratta al pari delle porzioni più visibili. In questo lento manifestarsi, l’opera mostra tutte le sue imperfezioni, irregolarità volute da Carroll per rendere percepibile l’intera storia del dipinto. L’artista comprende quanto l’imperfezione sia fondamentale per la sua pittura osservando le statue greche e romane al Metropolitan Museum of Art di New York: corpi spezzati, privi di braccia, di dita o di parti del volto che però riescono a restituire un modello di integrità. In questo consiste la loro bellezza. Allontanarsi dalla completezza e dalla condizione definita significa per Carroll dare vita a una pittura che non vuole essere «eroica» ma che al contrario tende alla vulnerabilità. I rattoppi, le cuciture, i materiali usati (dalle stoffe ai giornali, dalle rose alle scarpe), i perimetri smussati e le forme mutevoli sono gli strumenti della sua ricerca di una dimensione viva, umana. In Figment, datato 1985, uno dei pezzi più rappresentativi esposti nella rassegna di Ligornetto, Carroll ritaglia al centro della tela una piccola finestra per poi ricollocarla in maniera imperfetta. Un’opera questa, che si è tradotta in un lavoro potente proprio per quell’idea di incompletezza diventata poi segno distintivo della pittura dell’artista. Appassionati e rarefatti, fragili e malinconici, i dipinti di Carroll sono narrazioni intrise di ricordi, di silenzi e di una ieratica umanità che pochi altri artisti sono riusciti a esprimere. Dove e quando
Lawrence Carroll. I Have Longed to Move Away. Opere 1985-2017. Museo Vincenzo Vela, Ligornetto. Fino al 15 ottobre 2017. Orari: da giugno a settembre: ma-sa 10.00-18.00; ottobre: ma-sa 10.00-17.00; do: 10.00-18.00; lu chiuso. www.museo-vela.ch
Astri e disastri Editoria Da settembre disponibile anche la versione italiana dello straordinario Libro dei miracoli edito da Taschen Emanuela Burgazzoli Comete dalle code infuocate, meteore, draghi a più teste e un mostro del Tevere, un ibrido un po’ rettile un po’ mammifero come tutte le creature diaboliche, una pioggia di sangue e un cielo invaso dalle cavallette Sono alcune delle illustrazioni di eventi eccezionali, se non apocalittici, quelle che si susseguono nei 169 fogli del sorprendente Libro dei miracoli, un manoscritto risalente al 1552, compilato per un misterioso mecenate, ritrovato nel 2008 nella città di Augsburg, in Baviera, prima di finire all’asta a Londra e infine «sparire» nelle mani di un collezioni-
sta americano. Il manoscritto illustrato più bello del Rinascimento tedesco è un catalogo di «miracoli» nel senso etimologico del termine, una raccolta di fenomeni inspiegabili, segni prodigiosi attribuiti alla divinità. La lista segue un ordine cronologico: la prima parte include i miracoli dell’Antico testamento che cominciano con il Diluvio universale, per poi passare ai prodigi dell’antichità rifacendosi a testi di Plinio il Vecchio e Tito Livio. L’arte divinatoria risale infatti alla notte dei tempi: alle civiltà mesopotamiche passando per gli àuguri e gli aruspici romani e gli oracoli greci. L’intento era sempre lo stesso:
L’illustrazione 158: spiga di grano gigante, uva barbuta e Margaretha Weiss, digiuna per due anni.
individuare e interpretare i presagi, segni della potenza (e della collera) divina. Il libro si sofferma sui «miracoli» medievali e si chiude con le visioni tratte dall’Apocalisse di Giovanni. Episodi biblici – Mosé che divide le acque del Mar Rosso – e dei Vangeli sono integrati con le testimonianze dei segni profetici più recenti o contemporanei, come un grappolo d’uva barbuto, una spiga di grano gigante e una ragazza di tredici anni, Margaretha Weiss, ancora viva dopo un digiuno assoluto di oltre due anni; è documentata anche una scossa di terremoto che nel 1531 a Lisbona uccise un migliaio di persone, mentre una balena, colpita da una pioggia di sangue, volava in cielo. Lo sguardo vaga fra queste pagine come fossero le pareti di una Wunderkammer, scoprendo le riproduzioni di catastrofi naturali, ma anche le nitide e dettagliate immagini di bizzarri fenomeni meterologici, botanici, zoologici o astronomici come le tre lune legate da una croce rossa avvistate in Germania nel 1174 o i tre soli sorti il 5 gennaio del 1520 sopra Vienna riprodotti dall’artista (o dagli artisti, fra i quali si ipotizza Hans Burgkmair il Giovane) seguendo i vividi ricordi dei testimoni oculari.
Sul piano storico nulla di sorprendente, spiegano i curatori, perché questi compendi di miracoli e portenti all’epoca avevano conosciuto un vero e proprio boom; siamo nella Germania luterana, e se per i protestanti il culto delle reliquie e l’uso di icone e indulgenze non erano giustificati, Martin Lutero credeva però a quei prodigi che indicavano quanto la fine del mondo fosse vicina: una forma di ammonimento per i vivi a vivere una vita virtuosa e di pentimento. Altri fanno notare che nella Zurigo di Zwingli, l’uomo di chiesa Johann Jakob Wick aveva già compilato ventiquattro album in cui aveva elencato tali eventi straordinari. Insomma l’attenzione e la lettura diretta della Bibbia promosse dalla Riforma, avevano riportato in auge l’interesse per gli episodi che testimoniavano gli interventi divini e le paure ad essi legati. I testi che accompagnano le immagini rendono il manoscritto di Augsburg un’opera unica che unisce intento teologico e curiosità scientifica, lasciando trasparire il desiderio quasi illuminista di fornire una spiegazione a questi fenomeni, descritti quasi fosse un trattato di astronomia. L’autore dei testi è invece molto più reticente ri-
guardo all’interpretazione: un’assenza di informazioni frustrante per il lettore che può però oggi affidarsi ai commenti competenti dei curatori, Joshua P. Waterman e Till-Holger Borchert. Il libro dei miracoli è considerato straordinario anche per la qualità artistica delle immagini, gouache e acquarelli che colpiscono per l’uso sapiente dei colori e il senso della composizione. Fra le fonti visive individuate dagli storici dell’arte anche Dürer, Holbein e Cranach. Un’opera di pregio accessibile ora al grande pubblico grazie alla nuova edizione pubblicata dalla tedesca Taschen, più economica rispetto al cofanetto di lusso del 2013 e disponibile anche nella versione trilingue inglese-spagnolo-italiano. Il manoscritto di Augsburg ci ricorda che ogni epoca ha avuto – e ha – i suoi presagi di Apocalisse: in un’ipotetica edizione del 2017 ci troveremmo magari lo scioglimento dei ghiacci polari, la spettacolare eruzione dell’Eyjafjallajökull o la catastrofe di Fukushima. Quel che è certo è che questo compendio di prodigi e miracoli, analogamente al Libro dei dannati (1919) di Charles Fort – amato dai Surrealisti – e al più recente Codex Seraphinianus è destinato ad arricchire il nostro immaginario.
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Cultura e Spettacoli La brava Erika Stucky. (© Alpentöne 2017)
Paura di evolvere
Musica Il ritorno degli Imagine Dragons
non riesce a nascondere gli effetti negativi di un successo troppo rapido
Benedicta Froelich
Dalla Svizzera più profonda al futuro Festival È andata in scena ad Altdorf la decima edizione
di Alpentöne, che ha registrato il tutto esaurito Giorgio Thoeni A partire dalla metà del secolo scorso la musica popolare ha smesso di essere chiusa in se stessa iniziando un processo di sviluppo e trasformazione. Chi voleva aver successo nella musica di intrattenimento e da ballo, all’estero e in patria, doveva infatti sprovincializzarsi dialogando con nuove realtà. Iniziava così un importante processo di apertura e contaminazione che ha coinvolto l’area europea e alpina confermando il prezioso patrimonio culturale collettivo costituito dalla musica popolare senza alterarne le radici territoriali ma collegandole ad altre regioni in vitali relazioni. Il fenomeno
Non è escluso che in futuro Alpentöne crei un ponte reale tra Altdorf e Bellinzona ha particolarmente interessato anche la nostra musica popolare diventando una piattaforma sperimentale per l’incontro fra la tradizione e il moderno. Dal 1999 Altdorf ha colto quei segnali
Concorso Vinci i biglietti per il concerto di Langhorne Slim and The Law allo Studio Foce di Lugano, gio 7 settembre Per partecipare all’estrazione di 5x2 biglietti in palio, basta inviare una email a giochi@azione.ch indicando il proprio nome, cognome, indirizzo postale e la parola chiave «Slim» nell’oggetto. Il concorso termina mercoledì 30 agosto a mezzanotte (24.00). Maggiori informazioni sulla nostra pagina: www.azione.ch/concorsi I vincitori saranno estratti a sorte tra tutti i partecipanti e riceveranno conferma via mail. Buona fortuna!
come decisivi per svecchiare l’immagine della città, decidendo di mettere in campo un’operazione di marketing artistico, ospitando nel cuore del mito elvetico di Guglielmo Tell una manifestazione che mette a fuoco aspetti di una molteplice trasformazione che raggiunge importanti livelli di popolarità e successo. Nasce così Alpentöne, festival che lo scorso fine settimana nella sua proposta biennale ha felicemente superato la sua decima edizione registrando un record di affluenza che ha messo pacificamente alle strette la città del delta della Reuss, permettendo alle centinaia di appassionati di seguire 50 concerti distribuiti su tre intense giornate (e circa mezzo milione di franchi come budget). Per rendere l’idea di una spesso sorprendente contaminazione musicale facciamo la carrellata su alcune proposte. A cominciare dall’ultimo progetto di Erika Stucky sul palco del Theater (uri) affiancata dal controtenore Andreas Scholl e accompagnata dall’orchestra barocca La Cetra di Basilea: un’appassionante visione musicale fra cinema, teatro e tradizione musicale in una sorta di «punk-barocco-revue» in cui si rincorrono pagine di Cole Porter, Billie Holiday, Randy Newman attraverso carezze settecentesche. Ma anche elfi, streghe e angeli evocati dall’originale incontro culturale di antiche cantate con le voci di Outi Pulkkinen (Finlandia), Nadja Räss (Svizzera) e Mariana Sadovska (Ucraina). Poi la scoperta del progetto sudtirolese del brillante polistrumentista Herbert Pixner (fisarmonica, tromba, flicorno e clarinetto) con il suo gruppo con arpa, chitarra rock dalle venature hendrixiane e contrabbasso. Oppure il Duo Bottasso, fisarmonica bitonale e violino per due vulcanici fratelli piemontesi di Cuneo. Ma anche il significativo concerto diretto da Heinz Holliger, il grande oboista e compositore svizzero. Fu lui che negli anni 90 ha davvero impresso la svolta verso una «neue Musik», imprimendo un’accelerazione al processo di trasformazione della musica popolare svizzera, offrendole un profilo più rigoroso e indicando la via verso l’innovazione della «Volksmusik», prima intoccabile. Suggestiva anche la presenza nella chiesa di San Martino del concerto del grande percussionista neocastellano Pierre Favre, con il sax di Gianluigi Trovesi e il maestoso organo a canne suonato
da Fabio Piazzalunga. Non possiamo dimenticare lo strepitoso concerto di fisarmoniche proposto del gruppo Samurai che ha riunito cinque eccellenze: dall’Italia Riccardo Tesi con Simone Bottasso, il basco Kepa Junkera, il finlandese Markku Lepistö e l’irlandese David Munnelly. Per loro c’è stata una standing ovation irrefrenabile. Entusiasmo e attenzione (quasi religiosa) per il «tutto esaurito» del festival che da qualche anno fa riflettere i suoi organizzatori. In particolare il direttore artistico Johannes Rühl, artefice delle ultime cinque edizioni e testimone di una crescita che, sulla spinta di Alptransit, vorrebbe trovare soluzioni per rimettere in gioco la manifestazione. Guardando a sud, quasi per riscoprire Altdorf come testa di ponte dell’antica «Via delle Genti» in cui la capitale ticinese appare l’approdo ideale. «L’idea nasce effettivamente da Alptransit», conferma Rühl. «Bellinzona e Altdorf avrebbero bisogno di una fermata alle loro stazioni. L’avevo già scritto in un articolo per “La Regione” in merito ai nostri rispettivi teatri. Entrambi hanno qualcosa di stupendo. Sebbene di dimensioni e epoche diverse, le facciate neoclassiche si assomigliano e… si guardano: è una metafora che ho utilizzato nell’articolo. Se ci fosse un treno diretto, in 30 minuti sei a Bellinzona. Sia chiaro, nessuno vuole portare Alpentöne a Bellinzona ma è indispensabile poter avere un partner puntando sulle differenze. Non si vuole creare un doppione, bensì sviluppare qualcosa in quella direzione con idee nuove. Non è facile. Le strutture sono differenti, occorre pensare a nuove sovvenzioni e impostare rapporti fra i Comuni… Ma ho l’impressione che anche a Bellinzona farebbe bene». Un balcone che guarda verso il sud o un festival negli stessi giorni con i gruppi che si alternano sulle due piazze? Chissà. Alcuni segnali sono arrivati alla serata inaugurale che ha ospitato Marco Solari. Il presidente di Locarno Festival, di madre bernese e padre luganese, incarna il felice rapporto fra nord e sud: un dialogo che deve mantenere la sua diversità a salvaguardia del patrimonio culturale che ci accomuna. E fra gli invitati c’erano anche il sindaco di Bellinzona Branda e il direttore artistico del Teatro Sociale Helbling: nuova musica per il futuro?
In tempi dai ritmi frenetici e dissennati quali i nostri, anche l’industria discografica ha imparato ad eleggere e detronizzare i propri eroi con inquietante rapidità, al punto che, nel mondo della musica più commerciale, quella della cosiddetta «gavetta» sembra essere un’esperienza ormai praticamente estinta. Ne è un perfetto esempio la trionfale parabola della band statunitense degli Imagine Dragons, il cui esordio Night Visions (contenente, tra le altre, la hit On Top of the World), è datato appena 2012; e sebbene il nuovo CD Evolve costituisca soltanto la terza prova discografica del gruppo capitanato dal trentenne Dan Reynolds, l’immenso e immediato successo della formazione l’ha resa una realtà ormai consolidata nel panorama del rock targato USA – seppure in una nicchia palesemente riservata a un target molto giovane e dai gusti legati all’odierna cultura popolare di largo consumo, caratterizzata dalla dipendenza assoluta da smartphone, profili Facebook e sessioni di chat dai ritmi martellanti. Una cultura, quindi, dal carattere spesso «usa e getta», in cui gli idoli del momento vengono facilmente e rapidamente soppiantati da nuovi, effimeri modelli, e in cui band come quella degli Imagine Dragons devono muoversi cautamente, sforzandosi di mantenere il favore di un pubblico volubile. Purtroppo, però, l’impressione generale all’ascolto di questo Evolve è che stavolta gli sforzi siano stati in parte vani, poiché, in verità, a latitare è proprio quella stessa «evoluzione» a cui il titolo accenna: infatti, se è vero che la musica degli Imagine Dragons è sempre stata di stampo dichiaratamente mainstream, indirizzata soprattutto al pubblico adolescenziale amante del pop-rock più easy listening e ballabile, è altrettanto vero che finora le canzoni della band sono comunque state ammantate di una certa introspezione e profondità, tali da innalzarle sopra il solito, casuale sound radiofonico per virare su versanti più meritevoli, sia dal punto di vista lirico che musicale. Tuttavia, il nuovo album non sembra riuscire a dirigere tali aneliti cantautorali in nessuna particolare direzione: nonostante gli interessanti esperimenti introspettivi che avevano pervaso buona parte del precedente Smoke + Mirrors (2015), Evolve sembra sospeso in una sorta di limbo creativo, incapace non solo di proseguire lungo il percorso intrapreso, ma anche di ricatturare la freschezza giovanile dell’esordio. Certo, l’eccessiva e subitanea popolarità è raramente foriera
di capolavori: come diceva un grande scrittore e condottiero, «il successo fa sempre perire la speranza, per saturazione»; e purtroppo, questo è ciò che sembra essere accaduto a Reynolds e compagni. E sì che Thunder, secondo singolo estratto dal CD, è un esempio da manuale di autentica efficacia radiofonica, nonché un successo garantito nella più pura tradizione e stile degli Imagine Dragons: e se si sorvola sull’altissimo quoziente di cafonaggine toccato dall’orripilante videoclip promozionale, non si può negare che il brano sia non soltanto orecchiabilissimo, ma anche sufficientemente elementare, in struttura e sonorità, da risultare irresistibile per qualunque teenager discotecaro che si rispetti. Lo stesso si può dire del grintoso Believer, sorta di inno rock dallo spirito inequivocabilmente urbano – e, in misura minore, dell’accattivante Whatever It Takes, dal classico sound dance a metà strada tra musica disco ed elettropop. Forse meno riuscito risulta invece Walking the Wire, il quale, sfortunatamente, si potrebbe definire quasi un autoplagio, dato che suona come il perfetto connubio tra due canzoni presenti in Night Visions (una che richiama da vicino l’inciso, e l’altra che ne replica il ritornello). Una sensazione di déjà vu che, del resto, si ritrova anche in un brano piuttosto innocuo e banale come Rise Up – il quale, per un gruppo giunto ormai al terzo album, appare, per molti versi, francamente risibile; anche se, da parte sua, nemmeno il blando I Don’t Know Why riesce a risollevare granché la situazione. Va meglio con Yesterday, il cui sound «à la Red Hot Chili Peppers» costituisce un gradevole diversivo, sebbene la forza di un ritornello semplice ma efficace non basti a farne un pezzo memorabile. In sostanza, la sensazione è che la band stia scivolando sempre più sul risaputo, lavorando secondo parametri che probabilmente non convincono più del tutto neanche gli stessi membri del gruppo; come se uno strisciante, non dichiarato timore verso l’innovazione stilistica (da sempre la peggior paura che possa cogliere un musicista) stesse trattenendo gli Imagine Dragons dall’intraprendere nuovi percorsi, imprigionandoli in un cliché che inizia ormai a mostrare la corda. A questo punto, si può solo sperare che le pile di denaro finora accumulato smettano di obnubilare il senso compositivo di Reynolds e dei suoi per risvegliarne le coscienze davanti ai doveri che performer del loro livello hanno nei confronti del pubblico – e, soprattutto, della propria stessa arte.
Dan Reynolds degli Imagine Dragons durante una performance a New York nello scorso mese di luglio. (Keystone)
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Cultura e Spettacoli
Cantare antiche santità
La civiltà di Fawcett
nel trentesimo anniversario
da New York alla giungla
Rassegne Giovanni Conti racconta le novità dell’appuntamento con la musica antica
Filmselezione G ray,
Enrico Parola Cantar di Pietre glorifica i suoi trent’anni di vita celebrando i santi. Sancti titola infatti l’edizione 2017 della bella rassegna di musica antica; dieci appuntamenti fino al 21 ottobre che faranno risuonare 1500 anni di storia musicale nelle antiche chiese disseminate tra paesini, valli e monti del Ticino. «La santità è a tema già a Gerusalemme nei primissimi anni dell’era cristiana, cui seguirono dal III secolo le persecuzioni da parte dell’impero romano; già qui si sviluppò una prima scrittura agiografica, presto corredata da musica rituale che ricordasse e al tempo stesso glorificasse il martirio» illustra il direttore artistico Giovanni Conti. La «prima età» dei martiri si chiuse con Costantino nel 313 e poi con Teodosio, che dichiarò quella cristiana «religione di stato». «Un secondo periodo si ebbe nel IX secolo con i Musulmani di Spagna: anche qui nacquero nuovi testi letterari e paraliturgici nonché nuove musiche rituali. E ogniqualvolta i cristiani cercarono di evangelizzare nuove terre emersero nuove forme di santità: non solo martiri, anche uomini e donne che non trovarono la morte ma testimoniarono la propria fede in parole e opere» prosegue Conti. All’inizio del secondo millennio i papi iniziarono a chiedere testimonianze sicure per procedere alla confermazione ufficiale dello status di «santo»: «Ciò portò a una più ampia presenza dei santi nella liturgia e quindi anche a una più massiccia produzione di musica, soprattutto vocale, cui si aggiunsero le laudi e i canti dal sapore popolaresco con cui gli ordini mendicanti, Francescani e Domenicani in primis, arricchivano la loro predicazione itinerante». Una storia d’uomini e di note ripercorsa dai dieci appuntamenti di Cantar di Pietre: «Per la produzione più antica ho voluto focalizzarmi sui nostri territori, segnati non solo a livello politico ma anche religioso e musicale da Milano. La liturgia e la ritualità
Fabio Fumagalli ***(*) Civiltà perduta (The Lost City of Z), di James Gray, con Robert Pattin-
son, Sienna Miller, Charlie Hunnan (Stati Uniti 2016)
L’ensemble La Pifarescha sarà il 2 settembre a Semione.
che nacquero sotto sant’Ambrogio furono espressione di una cultura locale talmente radicata da resistere ai tentativi di assimilazione alle consuetudini romane, dilatandosi piuttosto in Ticino: arrivò a Tesserete e in Valle Capriasca, influenzò il Malcantone, salì a Biasca e si diramò nelle Tre Valli per raggiungere il Verbano e da lì la sponda piemontese del lago». In particolare sono due i programmi dedicati al canto ambrosiano. Il 10 nella chiesa di santo Stefano a Tesserete l’ensemble francese Organum ne illustrerà la varietà di forme e stili: «Rispetto alla maggiore varietà e “modernità” linguistica del gregoriano, il canto ambrosiano predilige un discorso musicale di tipo arcaico e mediterraneo, caratterizzato ad esempio da vocalizzi ondeggianti e ripetitivi» spiega Conti «Milano ha accolto testi, melodie e forme rituali da una grande varietà di luoghi – Gallia, penisola iberica, Mediterraneo, Gerusalemme, Oriente greco e siriaco, la stessa Roma – rimodellandole secondo il proprio stile; questo ha fatto sì che il repertorio musicale milanese conservi pezzi estremamente arcaici, risalenti ai
primi secoli del culto cristiano: pagine che possiamo annoverare fra le più antiche d’Europa oggi documentate». Il 23 a Cademario sarà proprio Conti col suo More Antiquo a intonare i Vespri della Natività di Maria: «I Vespri sono uno dei momenti rituali più caratteristici della liturgia milanese; iniziano col rito della luce di ascendenza ebraica, quindi ci sono i salmi e il cantico del Magnificat, infine la processione al battistero e la benedizione eucaristica accompagnata dai tradizionali inni Tantum ergo e O salutaris hostia». A questi due appuntamenti va aggiunta la Missa infra Vesperas celebrata il 9 a Biasca dal vescovo di Lugano, monsignor Valerio Lazzeri, e accompagnata col repertorio ambrosiano dall’ensemble Antiqua Laus. Cammeo protestante il 16 a Mesocco, col gruppo tedesco Corde sonore a intonare Alles, was Heilig ist – I Santi nella musica luterana: «Contrariamente a quanto si pensa, la Riforma non disdegnò il concetto di santità, ma ne ridisegnò solamente il profilo: qui i santi non esercitano le funzioni di intermediari tra credenti e Dio e in
generale, come avveniva tra i primi cristiani, i santi sono i membri l’ecclesia sancta, cioè la comunità cristiana». Da due complessi spagnoli giungono le lodi mariane: il 30 a Bellinzona il Tasto Solo antologizzerà Dam de toutes dammes – Canti di devozione mariana nel Quattrocento, in particolare attingendo alle oltre 250 composizioni, per lo più anonime, conservate nel manoscritto Buxheim, mentre il 14 ottobre a Muralto La Colombina – Schola Antiqua intonerà i canti mariani composti dal grande De Victoria durante l suo soggiorno romano. Gran finale il 21 ottobre a Bellinzona, quando uno dei più autorevoli complessi a livello internazionale, La Reverdie, offrirà un’ampia silloge di laudi tramandate dai laudari di Cortona e Firenze, tra cui quella che dà il titolo al concerto e sintetizza l’intero cartellone: Facciam laude a tutti i santi. Dove e quando
Un cineasta si colloca fra i grandi perché, lungi dal tradire le proprie preoccupazioni, riesce ad esprimerle in un modo sempre diverso e innovativo. Un itinerario, a prima vista estetico, che lo conduce a un approfondimento artistico, ma pure psicologico e morale. Autore ai vertici del cinema americano contemporaneo, James Gray ha colpito dapprima per la dura e spettacolare successione di tre splendidi polizieschi, Little Odessa (1994), The Yards (2000) e We Own the Night (2007). Ma, già con il quasi esilarante Two Lovers (2008), e definitivamente grazie al dolente The Immigrant (C’era una volta a New York), (2013) si è compreso quanto quelle etichette gli andassero strette. Quali fossero, assai più dei virtuosismi eccitanti nella rappresentazione della violenza fisica, altri aspetti marcanti della sua opera: le problematiche rivolte all’interno dei personaggi, il confronto fra l’individuo e la società, l’ambiguità degli affetti, i conflitti nel nucleo familiare. Ecco perché, prima di ogni altra cosa, Civiltà perduta sorprende per il coraggio di rimettersi in questione da parte di un artista tanto affermato. La vicenda, storica, è quella di Percival Harrison Fawcett, uno dei grandi esploratori del ventesimo secolo. Che accetta l’incarico della Royal Geographical Society di partire in Amazzonia per cartografare le frontiere allora inesplorate fra il Brasile e la Bolivia. Spinto non più di tanto dalle ambizioni e illusioni di un’epoca, una cultura e una classe socia-
Cantar di pietre, Sancti, dal 2 settembre al 21 ottobre 2017. Per informazioni: www.cantardipietre.ch
Un passato sempre attuale Editoria Escono da Dadò le Lettere iperboliche di Francesco Chiesa, in un’edizione
curata da Orazio Martinetti Alessandro Zanoli La storia di questo libro è ben strana: in primo luogo, Chiesa non avrebbe mai pensato che potesse essere pubblicato come tale. Si tratta infatti di una raccolta di articoli umoristici usciti tra il 1899 e il 1900 sulla «Piccola Rivista Ticinese», un settimanale culturale che lo scrittore di Sagno aveva messo in cantiere il 1. gennaio 1899 e condotto per poco più di due anni. Il periodico morì di morte naturale il 7 febbraio del 1901, per mancanza d’energia e di collaboratori all’altezza della missione che si era dato («il Cantone Ticino non è terra molto feconda di letterati. (...) In altre parole la Piccola Rivista cessa, perché, secondo la nostra esperienza, il Cantone Ticino non si trova ancora in grado di dare una produzione letteraria, artistica e scientifica sufficiente e nutrire una rivista, fosse pure di piccola mole»). I venti articoli che compongono le Lettere iperboliche sono stati radunati in volume in un primo tempo nel 1976, da Pierre Codiroli, studioso attentissimo di cose chiesiane. L’idea era sicuramente interessante, anche se la forma della loro presentazione e l’approccio editoriale non erano state approvati da alcuni intellettuali ticinesi (Bianconi,
Agliati) per certo qual «eccesso di modernità» nell’impostazione critica del curatore. Quel che è abbastanza sicuro è che Chiesa non avrebbe accettato una simile pubblicazione. Gli succedeva spesso di giudicare in modo critico i suoi testi giovanili, di operarvi persino delle censure. Ma in questo caso avrebbe avuto forse torto. Infatti, nonostante l’origine spuria, episodica, le lettere sono collegate tra loro con un fil rouge molto ben mantenuto, e costituiscono un insieme organico, bel al di là della
Lo scrittore ticinese in una foto del 1929. (Wikipedia)
loro forma occasionale e giornalistica. Dalla loro prima pubblicazione è passato molto tempo, è vero. Come chiarisce il curatore della nuova edizione, Orazio Martinetti, testi così lontani rischiano di perdere la loro efficacia, soprattutto poi quando la loro vocazione caricaturale è così importante. Senza conoscere o, meglio, riconoscere i personaggi su cui Chiesa ironizzava, una parte del senso va certamente smarrito (anche se le note a piè di pagina dello stesso Martinetti contribuiscono a fare chiarezza). Eppure... gli atteggiamenti descritti, i tic, i vizi e le debolezze sono così ben ritratti da risultare riconoscibili, e persino adattabili ai tempi odierni. «Il Ministero ha eletto fra i moltissimi aspiranti un giovane laureato in matematiche, stimatissimo dai competenti, straniero però. – Straniero? Ebbene che importa? – chiederete voi. Oh ignari! Ma non sapete cosa voglia dire straniero in terra iperbolica? Vuol dire qualche cosa come una macchia ignobile e irrimediabile che tutto avvolge e imbeve, corpo e spirito; vuol dire qualche cosa che del più dotto tra i concorrenti fa il più misero ed il meno accettabile»: quanto a dire che a «Prima i nostri» si pensava già più di un secolo fa. Insomma, una volta superato lo
scoglio nella lettura dato dallo stile decisamente antico (e forse anche leggermente arcaicizzato per gioco dal suo autore) le Lettere iperboliche possono offrire un divertente esercizio di raffronto tra presente e passato. Ciò che probabilmente incuriosirebbe lo stesso Chiesa. Il quale nelle sue cronache inventate non aveva esitato persino a dipingere un proprio ironico autoritratto «iperbolico»: «E vi dirò oggi, tanto per cominciare d’un personaggio che da questi ottimi repubblicani è tenuto in conto di stranissimo; anzi alcuni lo stimano pazzo addirittura, altri un perfido soggetto. (...) È un giovane sulla trentina, né grande né piccolo, né bello né brutto, con cert’occhi da sognatore e da osservatore ad un tempo, un poco attoniti talvolta, un poco insistenti tal’altra. Studiò, credo, legge in non so quale università lontana; e gliene provenne un’odio implacabile contro gli avvocati e l’avvocatura. Ignoro a quale altra scuola abbia appreso il tranquillo ma intimo scetticismo dei suoi giudizi, cui bizzarramente s’accompagna una grande prontezza di passione; così che nulla giovagli o nuocegli in pratica la freddezza del raziocinio, poiché sempre in lui, buono o gramo, prevale il sentimento».
La locandina di Civiltà perduta di James Gray.
le, ma, per la frustrazione di una carriera militare mancata; a causa di una discendenza ritenuta non all’altezza delle esigenze vittoriane ed edoardiane. Abbandonati moglie e figli, quasi in una sorta di crescente distacco, Fawcett affronterà ben otto volte quel viaggio così rischioso. Solo in parte sedotto dai misteri infidi dell’ignoto, dalla vertigine nella giungla inesplorata con i suoi «selvaggi» da civilizzare, il fiume da risalire nel delirio di raggiungere le sorgenti del Mito. Ma ossessionato da un’idea fissa: quella di aver scoperto, oltre la giungla, una civiltà scomparsa, la città di Z del titolo originale. Allontanandosi per la prima volta dalla New York dei suoi capolavori, James Gray segue così nel suo film un delirante andirivieni: poiché The Lost City of Z non è, contrariamente a quanto possa apparire a prima vista, Aguirre di Werner Herzog, o Apocalypse Now di Francis Coppola. Piuttosto, una riflessione in immagini di come si possa evolvere dalla fisicità della materia, per evolvere nella spiritualità della ragione e del sogno.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 28 agosto 2017 • N. 35
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Cultura e Spettacoli
Georges Simenon ritrovato
Letteratura Il grande scrittore belga sta vivendo un vero e duraturo revival grazie alla riscoperta
e alla ristampa in molte lingue dei suoi «romanzi duri»
Luciana Caglio Un mattino di novembre del 1982, Roberto Calasso, responsabile di una nuova e ambiziosa casa editrice milanese, l’Adelphi, arriva a Losanna per incontrare Georges Simenon, giallista di successo. A prima vista, poteva sembrare un’operazione commerciale. Per certi versi, lo era. Il rapporto che, da decenni, legava lo scrittore alla Mondadori, si stava infatti deteriorando, logorato da crescenti incomprensioni. Per il colosso editoriale milanese, Simenon continuava a essere soltanto l’inventore di Maigret, le cui vicende garantivano, a priori, tirature da primato. Mentre rifiutava i romanzi-romanzi, «les romans durs», così li definiva l’autore, in cui veniva alla luce un Simenon insolito, che superava i limiti di un genere popolare, il poliziesco appunto, per collocarsi a pieno titolo nell’ambito della letteratura tout court. Del resto, se n’erano già resi conto, in Francia, Gide e Cocteau, in America Henry Miller, in Italia Goffredo Parise. Ma per i lettori italiani, Simenon voleva dire Maigret, e basta. Destinato, quindi, alle «edizioni da chiosco di stazione», piuttosto che alle librerie, come Calasso aveva detto accortamente all’autore, costretto, con ciò, a rimanere «un incompreso di successo». Parole che colpirono nel segno. Simenon, prossimo all’ottantina, provato dal recente suicidio della figlia Marie-Jo, era in preda a sconcertanti ripensamenti. Nel 1972 aveva addirittura deciso d’interrompere il ritmo di una scrittura torrenziale, fino a 80 pagine al giorno, buttate giù a mano con dozzine di matite appuntite, per passare al dettato su registratore, e tornare però alla pagina scritta. In pari tempo, maturava l’introspezione, dedicandosi all’autobiografia e alla memoria della figlia. Fatto sta che la proposta di Roberto Calasso lo stuzzicò. Infine, ascoltando anche i consigli dell’amico Fellini, nel 1985, firmò il contratto con Adelphi. Per la casa milanese è l’inizio di una fortunata stagione editoriale: 157 titoli in catalogo, quasi 7 milioni di copie vendute. Il successo concerne sia i tradizionali Maigret sia, imprevedibilmente, i romanzi duri, che diventano non soltanto «best sellers», ma «long
Georges Simenon nella sua casa losannese in un’immagine del 1982. (Keystone)
sellers», pubblicazioni, cioè, in grado di sfidare il tempo, grazie a un’incessante attualità. È il privilegio dei grandi autori, con cui si riesce a rimanere sempre in sintonia. Si apriva così un’esperienza vissuta, negli ultimi anni, anche dai lettori di lingua italiana, ticinesi compresi, coinvolti, persino contagiati, in questa scoperta di un Simenon diverso. Certo, nelle sue pagine, si ritrova sempre il filo conduttore della narrazione, che si dipana verso un finale a sorpresa: ma non si esaurisce qui. Anzi diventa un pretesto, per andare oltre, descrivendo, persino denunciando, la realtà cupa di situazioni umane, dove s’intrecciano meschinità individuali, intrighi familiari, crudeltà collettive. Ne emerge, soprattutto, l’insofferenza nei confronti dell’ultimo arrivato, l’intruso, l’eterno straniero, che non otterrà mai un diritto di cittadinanza nell’ambiente quotidiano che lo circonda. Ed è un ambiente
che diventa complice delle vicende. I paesaggi, umidi e nebbiosi, le città di provincia, persino certi quartieri di Parigi alimentano disagio, solitudine e sospetto. Sentimenti e comportamenti che lo scrittore traduce, nelle sue pagine, senza forzature letterarie, da testimone diretto. Georges Simenon li ha vissuti, nel corso di un’esistenza densa di contraddizioni, eccessi e sofferenze. Attraverso la scrittura, come confesserà, compie un’operazione liberatoria. L’autore ha alle spalle «una vita sopra le righe», per dirla con il suo biografo, Pierre Assouline. Il troppo, in ogni ambito. Non trova terra ferma: 22 traslochi, lungo le tappe di «un nomadismo di lusso», che dalla nativa Liegi lo porterà in Francia, negli Stati Uniti, e, nel 1953, in Svizzera, a Epalinges (Vaud) in una villa bunker, suo ultimo rifugio, dove muore il 4 settembre dell’89. Fu, insomma, un continuo muoversi maniacale fra luoghi e passioni: grandi
alberghi, auto, barche, relazioni sessuali con prostitute (sarebbero state oltre 10’000, stando alle sue dichiarazioni). Un’instabilità che l’accompagna insidiosamente sul piano delle scelte politiche. Se, nel 1933, sembra vederci chiaro, e denuncia l’oppressione staliniana, durante la guerra, nella Francia occupata, si espone al sospetto di collaborazionismo, anche in seguito all’arresto di un fratello filonazista, che si arruola nella Legione straniera. A quest’irrequietezza si contrappone, invece, la fedeltà alla scrittura, con cui coltiva un talento innato, e straordinario. Lo rivela, ancora adolescente, nelle cronache per la «Gazzette de Liège», firmate Sim, lo pseudonimo dei suoi esordi come romanziere. E lo confermerà attraverso una produzione sovrabbondante: più di 400 romanzi, tanti, anzi troppi, per non sconcertare la critica. Che finirà tardivamente per accorgersi di lui. Nel 2003, è la consa-
crazione ufficiale con un volume della «Pléiade» che riunisce il meglio della sua opera. Mentre l’Académie française lo colloca fra i grandi, accanto a Balzac. Ormai, Simenon ha cessato di essere una sorta di fenomeno statistico: secondo i dati dell’Unesco, il sedicesimo autore più tradotto, da sempre e fra i più letti al mondo, e riproposto in continuazione. La nuova casa editrice zurighese Kampa ne ha annunciato la ristampa, nei prossimi mesi. Per soddisfare le insistenti richieste del pubblico di lingua tedesca. Lo sdoganamento critico ha avuto un effetto in un certo senso rinfrancante e consolatorio per il comune lettore, che ha saputo percepire spontaneamente, nelle pagine della Casa dei Krull o nella Scala di ferro, e via dicendo (l’elenco sarebbe interminabile) il valore più autentico dell’invenzione letteraria: quando ci fa capire la nostra stessa realtà.
Mettersi a tavola
Pubblicazioni Spie sociolinguistiche nel lessico che definisce e denomina i pasti in uno studio breve
ma documentatissimo dello storico Alessandro Barbero Stefano Vassere «Se il souper non esiste più è perché a Parigi si serve il dîner ormai nel tardo pomeriggio, e quindi non si cena più. Farlo, a meno che non si tratti di un souper in piena notte dopo il ballo, sarebbe un’improprietà, una cosa plebea: “Quant a ce dernier repas, il paraît proscrit par la bonne société” osserva un dizionario del 1827». Nelle città meta di turismo massiccio, quelle grandi e quelle piccole, capita in questa stagione di sedere vicino a famigliole variamente combinate che agli orari meno ortodossi tagliano spicchi di pizza, accolgono festanti cotolette impanate alla milanese o intingono patatine in laghetti di ketchup, spesso con evidente quanto per noi inspiegabile voracità. Tutto ciò può disorientarci, durante quella scarsa decina di secondi, perché al disordine della pratica tentiamo di rispondere ricollocandone i tempi: sarà un pranzo tardivo o una cena precoce? Come chiameremo quel pasto? Pranzo? Cena? Merenda?
Del nome dato ai vari pasti nella storia degli ultimi due secoli e mezzo circa si occupa un appetitoso libretto dello storico medievale Alessandro Barbero dal titolo A che ora si mangia?, appena pubblicato in una collana di saggi brevi ma intensi dell’editore marchigiano Quodlibet. Si sa che le lingue portano spesso i fossili lessicali di fenomeni storici e culturali in movimento, e che anche quando questi ultimi siano in un qualche modo riassorbiti le parole resistono con ostinazione tra i parlanti; i quali, a dire il vero, nemmeno troppo si preoccupano di talune incongruenze. Come in italiano: c’è chi senza eccessivo danno chiama pranzo quello che altri chiamano cena o invita a colazione intendendo l’invito a pranzo; pensandoci un po’ non sarà peraltro difficile attribuire questa o quella denominazione a questa o quella abitudine, a questo o quel milieu sociale. Racconta bene e con molti esempi Barbero che il bel mondo dell’Europa che contava fu motore, tra il diciottesimo e il diciannovesimo secolo, di
uno spostamento in avanti degli orari dei pasti (soprattutto il pasto di mezzogiorno), il quale a livello pratico finì insomma per far coincidere il pranzo originario con la cena ma lasciò però
sul campo tutta la terminologia relativa, mutandone drasticamente il sistema. A Londra, i notabili della fine del Settecento erano invitati a pranzo per le cinque del pomeriggio; già «nel 1815 John Quincy Adams, ambasciatore presso la corte di Londra, è convocato per le sei e trenta o le sette meno un quarto, ma nessuno arriva prima delle sette». Il «movimento», piuttosto repentino, è un fenomeno di moda e di tendenza e all’inizio tutto concentrato a distinguere le classi privilegiate, tanto da essere notato e chiacchierato in molta letteratura o addirittura oggetto di satira e scherno; finirà (ma la cosa non sorprende) per essere imitato dal resto della comunità, forse invidiosa di quel costume. O sarebbe meglio dire «delle comunità»: perché dall’Inghilterra e dalla Francia l’abitudine tenderà a migrare anche in Germania, in Italia, in Russia e negli Stati Uniti. Ne risente il sistema linguistico e lessicale, che è notoriamente conservativo; le parole per definire il pasto serale restano come schiacciate
dall’avanzare temporale del pranzo; nella campagna di Russia, ma anche a Sant’Elena, Napoleone prendeva il pranzo (il dîner) alle sette e si dette la necessità di introdurre un déjeuner, «innovazione resa indispensabile dal ritardo del pranzo». Anche questo però si sposterà verso la metà del giorno, tanto da richiedere un’alimentazione precoce, appena alzati, poi chiamata petit déjeuner. Nel concreto, alla fine, tutto riprende più o meno l’ordine precedente: un pasto appena alzati, uno a mezzogiorno, uno a sera. Resta la consuetudine di usare quegli antichi nomi, oggi più che altro per marcare le differenze sociali: distingue e fa chic invitare qualcuno a colazione quando quello sa che verrà con voi a consumare un pasto che i più chiamano inevitabilmente pranzo. I più, appunto. Bibliografia
Alessandro Barbero, A che ora si mangia? Approssimazioni storico-linguistiche all’orario dei pasti, Macerata, Quodlibet, 2017.
Incredibilmente buono: l’Amazing Mix di You.
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PUNTI
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Idee e acquisti per la settimana
shopping La polenta taragna pronta da gustare Attualità La tradizionale specialità molto diffusa alle nostre latitudini
Flavia Leuenberger
è disponibile nella variante solo da scaldare
In quanto a gusto e genuinità, la polenta taragna già pronta potrebbe competere con quella fatta in casa. Se avete dei dubbi, vi invitiamo ad assaggiarla, anche in occasione dei giorni di degustazione previsti da giovedì a sabato prossimi nei maggiori supermercati Migros. Questo classico piatto a base di farina da polenta, burro e formaggio è preparato nel Mendrisiotto seguendo una ricetta tradizionale perfezionata negli anni. Sia la farina di granoturco che quella di grano saraceno sono ottenute partendo da materie prime coltivate in Ticino nel rispetto della natura. Il saporito formaggio grasso a pasta semi-dura utilizzato proviene dall’alta Leventina ed è prodotto con l’impiego di latte vaccino crudo di montagna. L’invitante pietanza si prepara in pochissimi minuti: basta semplicemente rimuovere la pellicola protettiva e cuocere in forno classico preriscaldato a 180 gradi per circa 10 minuti oppure nel forno a microonde (la vaschetta è adatta al microonde) impostando la potenza massima per circa 3 minuti. La polenta taragna si può servire come piatto unico oppure accompagnata da insalata di stagione o luganighetta grigliata. Scegliendo questa e le altre specialità firmate Nostrani del Ticino porterete in tavola prodotti sicuri, freschi, preparati con cura e passione che contribuiscono a sostenere l’economia ticinese. Le origini della polenta taragna
La polenta taragna è un piatto tradizionale della Valtellina, che si è successivamente diffuso quasi «naturalmente» anche nel nostro cantone. La specialità è originaria della località di Teglio, ridente paesino montano dove in passato esisteva una fiorente attività agricola incentrata sulla produzione di grano saraceno, ingrediente principe nella preparazione delle ricche pietanze locali quali, oltre alla polenta taragna, pizzoccheri, sciatt e chisciol. I tipici formaggi valtellinesi usati nella preparazione della polenta taragna sono «Bitto» o «Casera». La parola «taragna» deriva dal dialetto «tarel», ossia il bastone di legno usato per girare la polenta.
Nostrani del Ticino in degustazione
Polenta Taragna nostrana 300 g Fr. 6.10 In vendita al reparto refrigerati delle maggiori filiali Migros
Ancora fino al 16 settembre, ogni giovedì, venerdì e sabato, vi aspettano golose degustazioni di prodotti dei Nostrani del Ticino per tutti i gusti, nelle filiali di Agno, Locarno, Serfontana, Grancia, S. Antonino e Lugano. Non perdetevi questo appuntamento con la bontà.
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Idee e acquisti per la settimana
Il Mega Grill al Centro S. Antonino sabato 2 settembre
Imperdibile evento! Per tutti gli amanti della carne di pollo alla griglia, questo sabato all’esterno del Centro S. Antonino si terrà una mega grigliata. Dalle 10.00 alle 15.00 sarà infatti in funzione uno dei grill più grandi della Svizzera: un apparecchio in grado di arrostire contemporaneamente circa 200 polli. Il pollo cotto a puntino dagli specialisti della Optigal si potrà successivamente acquistare sul posto ad un prezzo molto vantaggioso. Tutti i polli serviti ai visitatori sono di origine svizzera e possono vantare il marchio Optigal. Gli animali sono allevati nel rispetto della specie: hanno la possibilità di uscire liberamente all’aria aperta, dispongono di ampio spazio per muoversi e di una zona di riposo. Inoltre hanno costantemente accesso ad acqua fresca e a mangime unicamente vegetale. Tutte le fasi di produzione, dall’allevamento alla vendita, avvengono in Svizzera e la tracciabilità a ritroso degli animali è garantita in qualsiasi momento. Infine, ricordiamo che in caso di cattivo tempo, l’evento sarà annullato.
Farro che bontà!
Novità Tre nuovi prodotti a base di questo cereale arricchiscono l’assortimento
Farro Crunchy con castagne Bio 250 g Fr. 3.50
Farro Fette Biscottate 120 g g Fr. 2.90
Farro Farina Bio 500 g Fr. 3.– In vendita nelle maggiori filiali Migros
Il marchio italiano Poggio del Farro, già presente sugli scaffali di Migros Ticino con alcuni prodotti molto apprezzati, propone tre novità a base di farro che conquisteranno anche i palati più esigenti. Il farro è un cereale tra i più antichi, già coltivato agli albori dell’agricoltura. Rispetto ad altri tipi di cereali, contiene una minor quantità di glutine, ha un basso indice glicemico e assicura un buon apporto di fibre, proteine e sali minerali. La coltivazione naturale di questo cereale trova condizioni climatiche e ambientali favorevoli nell’Appennino toscano, zona conosciuta per il lavoro a stretto contatto con la terra e i suoi frutti. Proprio qui nascono i genuini prodotti firmati Poggio del Farro. I cereali Crunchy con castagne e le Fette Biscottate con farina integrale di farro sono un’idea sana, ricca e gustosa per la colazione. Chi ama cimentarsi in cucina con ricette originali, troverà nella Farina di farro un’alternativa sfiziosa per preparare dolci, pasta fatta in casa, pane e pizza.
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Idee e acquisti per la settimana
Divertimento garantito! Novità Sono arrivate le trottole Beyblade Burst
Beyblade Burst Fr. 49.80 In vendita nelle maggiori filiali Migros
Il gioco più avvincente e divertente del momento si chiama Beyblade Burst. Queste trottole super dinamiche sono state sviluppate ispirandosi al tradizionale gioco giapponese «Bei-Goma». Esistono 4 tipi di trottole – attacco, resistenza, difesa ed equilibrio – le cui parti si possono assemblare, in centinaia di combinazioni individuali, per renderle uniche e originali. L’obiettivo del gioco
è quello di sfidare gli avversari facendo girare la propria trottola nell’arena il più a lungo possibile. Vince l’ultima trottola rimasta in gioco. Oltre al gioco «reale», Beyblade Burst permette anche di divertirsi virtualmente con un’app che consente di configurare la trottola nel proprio smart device in modo personalizzato per un esperienza di gioco a tuttotondo. Annuncio pubblicitario
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Idee e acquisti per la settimana
Frey Risoletto Classic Minis UTZ, 210 g Fr. 4.20
All’interno della cabossa, il frutto del cacao, si trovano da 20 a 30 fave disposte longitudinalmente in cinque file.
Produzione sostenibile di cacao
Adrian Basler è Responsabile acquisti per i settori dolci, colazione e prodotti da forno presso la Federazione delle cooperative Migros.
«Migros offre sicurezza agli agricoltori»
1
Coltivazione: le piante di cacao crescono nelle zone tropicali a nord e a sud dell‘equatore. I contadini della Cooperativa Necaayo, nel sud-ovest della Costa d’Avorio, coltivano cacao certificato «UTZ» per Chocolat Frey, industria di produzione Migros. Due volte l’anno i frutti maturi del cacao vengono raccolti a mano. Durante le formazioni previste nell’ambito dalla certificazione «UTZ», i contadini apprendono come praticare un’agricoltura sostenibile, per esempio qual è il momento idoneo per procedere al raccolto, oppure come intervenire nel caso di malattie della pianta.
2
Raccolta e apertura: gli agricoltori aprono le cabosse di cacao utilizzando dei bastoni in legno. I frutti contengono da 20 a 30 fave bianche di cacao, che vengono staccate dal guscio. Queste fave dall’aspetto poco appariscente costituiscono la parte fondamentale di gustosissime e fragranti varietà di cioccolato. Grazie a una formazione mirata, negli ultimi anni gli agricoltori hanno potuto aumentare in modo significativo la resa e la qualità delle fave di cacao.
Da quasi quatto anni tutto il cioccolato a marchio Frey è certificato «UTZ». L’esempio della Cooperativa Necaayo, in Costa d’Avorio, permette di illustrare come i coltivatori del luogo traggono profitto dalla partecipazione al programma.
Frey Classic Branches UTZ, 10 pezzi Fr. 4.95
Frey Suprème Noir Authentique UTZ, 100 g Fr. 2.70
Testo Angela Obrist
UTZ è sinonimo di coltivazione sostenibile per caffè, cacao, tè e nocciole. Offre nel contempo migliori opportunità agli agricoltori e alle loro famiglie, così come al nostro pianeta. Parte di
L’impegno Migros a favore della sostenibilità è da generazioni in anticipo sui tempi.
Per Migros la sostenibilità rappresenta un tema di fondamentale importanza già dalla sua fondazione. Dal 2012 vende cioccolato certificato «UTZ» e dalla fine del 2013 tutte le varietà di cioccolato a marchio Frey sono certificate «UTZ». Con il suo sigillo «UTZ» l’organizzazione no-profit promuove migliori condizioni di lavoro e la coltivazione ecologica delle materie prime. Adrian Basler, Responsabile acquisti dolci, spiega nell’intervista come è strutturato l’impegno Migros.
i produttori di cacao. A titolo di esempio Chocolat Frey fa capo ai 520 agricoltori della Cooperativa Necaayo, nella Costa d’Avorio, per rifornirsi di circa 1500 tonnellate di fave di cacao certificate. I clienti possono far affidamento sul fatto che per il cioccolato a marchio Frey viene utilizzato unicamente cacao proveniente da fonti socialmente ed ecologicamente sostenibili.
Per quale ragione Migros si è impegnata a favore di cioccolato certificato «UTZ»?
Per gli agricoltori Migros rappresenta un partner affidabile, che offre loro sicurezza sul lungo termine. Grazie alla certificazione «UTZ» il cacao viene coltivato secondo criteri ecologici. Inoltre i contadini ricevono sostegno per migliorare i loro metodi di coltivazione, di conseguenza aumentare resa e qualità del raccolto. Tra le altre cose, essi seguo-
Migros ritiene debba essere possibile commercializzare cacao coltivato con migliori condizioni di lavoro e con un utilizzo responsabile delle risorse. Per questo motivo è andata accrescendo la sua collaborazione diretta e sul posto con
Quali sono i benefici per i coltivatori di cacao?
no corsi di formazione sulle pratiche agricole sostenibili. Con la vendita di cacao certificato «UTZ» le cooperative ricevono inoltre dei premi supplementari in denaro. Come viene utilizzato questo premio dalle cooperative?
Chocolat Frey paga la metà del premio supplementare direttamente ai produttori di cacao. Un’altra parte è destinata a progetti di sviluppo nei villaggi, di cui beneficia l’intera comunità. Nel 2016 alla Cooperativa Necaayo è stato versato un premio in denaro del valore di 275 000 euro. Con tale importo è stato tra l’altro possibile installare delle pompe d’acqua per diversi villaggi e costruire una mensa per la scuola della regione. Per i circa 3000 abitanti è inoltre stato realizzato un dispensario, con un reparto maternità.
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Fermentazione ed essiccazione: le fave di cacao vengono fatte fermentare per diversi giorni. Per dare avvio al processo, i lavoratori le accumulano in mucchi e poi le coprono. Nel corso della fermentazione le fave perdono la loro facoltà germinativa e sviluppano parte dei loro aromi. Al termine le fave vengono messe a essiccare. Nell’ambito della cooperazione, Chocolat Frey ha introdotto l’uso di speciali tavoli d’essiccazione, che permettono un veloce disseccamento con l’esposizione all’aria e al sole.
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Imballaggio e spedizione: le fave secche vengono riposte nei sacchi e poi trasportate per nave. Via Amsterdam giungono a Buchs, nel Canton Argovia, agli impianti di produzione della Chocolat Frey, dove vengono elaborate numerose specialità a base di cioccolato. Per il loro cacao certificato, gli agricoltori della Cooperativa Necaayo ricevono un premio supplementare basato sul risultato, incrementando il loro guadagno individuale, così come quello della Cooperativa, che destina l’importo a progetti di sviluppo utili per l’intera comunità.
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 28 agosto 2017 • N. 35
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 28 agosto 2017 • N. 35
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Idee e acquisti per la settimana
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All’interno della cabossa, il frutto del cacao, si trovano da 20 a 30 fave disposte longitudinalmente in cinque file.
Produzione sostenibile di cacao
Adrian Basler è Responsabile acquisti per i settori dolci, colazione e prodotti da forno presso la Federazione delle cooperative Migros.
«Migros offre sicurezza agli agricoltori»
1
Coltivazione: le piante di cacao crescono nelle zone tropicali a nord e a sud dell‘equatore. I contadini della Cooperativa Necaayo, nel sud-ovest della Costa d’Avorio, coltivano cacao certificato «UTZ» per Chocolat Frey, industria di produzione Migros. Due volte l’anno i frutti maturi del cacao vengono raccolti a mano. Durante le formazioni previste nell’ambito dalla certificazione «UTZ», i contadini apprendono come praticare un’agricoltura sostenibile, per esempio qual è il momento idoneo per procedere al raccolto, oppure come intervenire nel caso di malattie della pianta.
2
Raccolta e apertura: gli agricoltori aprono le cabosse di cacao utilizzando dei bastoni in legno. I frutti contengono da 20 a 30 fave bianche di cacao, che vengono staccate dal guscio. Queste fave dall’aspetto poco appariscente costituiscono la parte fondamentale di gustosissime e fragranti varietà di cioccolato. Grazie a una formazione mirata, negli ultimi anni gli agricoltori hanno potuto aumentare in modo significativo la resa e la qualità delle fave di cacao.
Da quasi quatto anni tutto il cioccolato a marchio Frey è certificato «UTZ». L’esempio della Cooperativa Necaayo, in Costa d’Avorio, permette di illustrare come i coltivatori del luogo traggono profitto dalla partecipazione al programma.
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Testo Angela Obrist
UTZ è sinonimo di coltivazione sostenibile per caffè, cacao, tè e nocciole. Offre nel contempo migliori opportunità agli agricoltori e alle loro famiglie, così come al nostro pianeta. Parte di
L’impegno Migros a favore della sostenibilità è da generazioni in anticipo sui tempi.
Per Migros la sostenibilità rappresenta un tema di fondamentale importanza già dalla sua fondazione. Dal 2012 vende cioccolato certificato «UTZ» e dalla fine del 2013 tutte le varietà di cioccolato a marchio Frey sono certificate «UTZ». Con il suo sigillo «UTZ» l’organizzazione no-profit promuove migliori condizioni di lavoro e la coltivazione ecologica delle materie prime. Adrian Basler, Responsabile acquisti dolci, spiega nell’intervista come è strutturato l’impegno Migros.
i produttori di cacao. A titolo di esempio Chocolat Frey fa capo ai 520 agricoltori della Cooperativa Necaayo, nella Costa d’Avorio, per rifornirsi di circa 1500 tonnellate di fave di cacao certificate. I clienti possono far affidamento sul fatto che per il cioccolato a marchio Frey viene utilizzato unicamente cacao proveniente da fonti socialmente ed ecologicamente sostenibili.
Per quale ragione Migros si è impegnata a favore di cioccolato certificato «UTZ»?
Per gli agricoltori Migros rappresenta un partner affidabile, che offre loro sicurezza sul lungo termine. Grazie alla certificazione «UTZ» il cacao viene coltivato secondo criteri ecologici. Inoltre i contadini ricevono sostegno per migliorare i loro metodi di coltivazione, di conseguenza aumentare resa e qualità del raccolto. Tra le altre cose, essi seguo-
Migros ritiene debba essere possibile commercializzare cacao coltivato con migliori condizioni di lavoro e con un utilizzo responsabile delle risorse. Per questo motivo è andata accrescendo la sua collaborazione diretta e sul posto con
Quali sono i benefici per i coltivatori di cacao?
no corsi di formazione sulle pratiche agricole sostenibili. Con la vendita di cacao certificato «UTZ» le cooperative ricevono inoltre dei premi supplementari in denaro. Come viene utilizzato questo premio dalle cooperative?
Chocolat Frey paga la metà del premio supplementare direttamente ai produttori di cacao. Un’altra parte è destinata a progetti di sviluppo nei villaggi, di cui beneficia l’intera comunità. Nel 2016 alla Cooperativa Necaayo è stato versato un premio in denaro del valore di 275 000 euro. Con tale importo è stato tra l’altro possibile installare delle pompe d’acqua per diversi villaggi e costruire una mensa per la scuola della regione. Per i circa 3000 abitanti è inoltre stato realizzato un dispensario, con un reparto maternità.
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Fermentazione ed essiccazione: le fave di cacao vengono fatte fermentare per diversi giorni. Per dare avvio al processo, i lavoratori le accumulano in mucchi e poi le coprono. Nel corso della fermentazione le fave perdono la loro facoltà germinativa e sviluppano parte dei loro aromi. Al termine le fave vengono messe a essiccare. Nell’ambito della cooperazione, Chocolat Frey ha introdotto l’uso di speciali tavoli d’essiccazione, che permettono un veloce disseccamento con l’esposizione all’aria e al sole.
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Imballaggio e spedizione: le fave secche vengono riposte nei sacchi e poi trasportate per nave. Via Amsterdam giungono a Buchs, nel Canton Argovia, agli impianti di produzione della Chocolat Frey, dove vengono elaborate numerose specialità a base di cioccolato. Per il loro cacao certificato, gli agricoltori della Cooperativa Necaayo ricevono un premio supplementare basato sul risultato, incrementando il loro guadagno individuale, così come quello della Cooperativa, che destina l’importo a progetti di sviluppo utili per l’intera comunità.
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 28 agosto 2017 • N. 35
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 28 agosto 2017 • N. 35
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Idee e acquisti per la settimana
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su tutta la biancheria intima da donna e sui reggiseno (escl. Mey) dal 29.8 all’11.9
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Ellen Amber
Un tocco esotico
La viscosa di bambù è vellutata. Ecco perché è il materiale ideale per la biancheria intima. Offre infatti una confortevole vestibilità, è facile da trattare e non si sgualcisce. Il bambù è una materia prima naturale che possiede diverse caratteristiche vantaggiose come la rapida crescita della pianta e la necessità di poca acqua
La biancheria intima di Ellen Amber di viscosa di bambù ed Elastan si caratterizza per comodità e vestibilità. Il materiale è morbido e delicato sulla pelle. Tutti i prodotti sono prodotti in Europa e sono certificati «eco».
Ellen Amber Canottiera bianco, grigio o nero, Gr. S-XL* Fr. 15.80 invece di 19.80
Informazioni sul bambù Per 1,5 miliardi abitanti dell’Asia il bambù ha un alto significato ecologico, economico e culturale.
48 m
· Il bambù è un’erba gigante legnosa. · A livello mondiale esistono all’incirca 1500 varietà di bambù. · Il bambù è la pianta che cresce più velocemente: fino a un metro in 24 ore. · Il bambù richiede poche attenzioni, è robusto e necessita di poca acqua. 9 dei 37 milioni 6 dei 37 milioni di ettari coltivati di ettari coltivati mondialmente sono mondialmente situati in India. si trovano in Cina.
Il più alto bambù al mondo si trova in Cina. È alto 48 metri e il suo tronco ha un diametro di 36 centimetri.
Ellen Amber Slip Midi bianco, grigio o nero, Gr. S-XL* Fr. 11.80 invece di 14.80
· Il bambù è antibatterico e nelle coltivazioni non ha bisogno di pesticidi. · Il bambù sviluppa un sistema di radici molto complesso che può raggiungere i 200 km e cresce da solo. · Il bambù è utilizzato come alimento, materia prima, combustibile e materiale da costruzione. · Il bambù è pure utilizzato per produrre mobili, utensili da cucina, tessili, carta, orologi, occhiali, cosmetici, alcolici e tastiere.
9x Il programma eco della Migros garantisce una produzione dei tessili ecologica, socialmente sostenibile e tracciabile in ogni fase di produzione.
A livello mondiale il bambù copre una superficie di ca. 37 milioni di ettari. Questa superficie è grande quasi nove volte quella della Svizzera.
I panda si nutrono di bambù e il loro fabbisogno giornaliero è di quasi 40 kg.
Ellen Amber Panty, bianco, grigio e nero, Gr. S-L* Fr. 11.80 invece di 14.80 *Nelle maggiori filiali Migros
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Idee e acquisti per la settimana
Concorso fotografico Total
Ecco i finalisti!
I lettori dei settimanali Migros hanno selezionato le otto fotografie finaliste tra quelle inviate dai partecipanti al concorso Total. Vincono come minimo una carta regalo del valore di 500 franchi. Entro l’8 settembre una giuria sceglierà tra loro due vincitori, che nel corso del 2018 si confronteranno in differenti gare di lavaggio. Azione ne riporterà svolgimento ed esito
ch ZH agenbu acob, H J valli, e c D 5 a e3 a Famigli rte anch ro
no pa ella lo iglia fan cchio d m re a fa p a ll o e n uovere le rah, d conta ito di rim nimali. obs rac figlia Sa p c a a m ll J o a e c e D il ei li a osì genitori li abiti d ura deg zie, ha c Oltre ai gatti. G opo la c elle puli d ro d i tt it a a b g u a a q li ie am sug due can rah è un e resta nità. Sa i quel ch d e a quotidia rb ci di e più tena macchie
Concorso
La giuria
Famiglia D ürst, E
ggenwil AG Mamma, due volte nonna e guida turis tica per le F FS, la donna è sp esso in viag gio. Trova però se mpre il temp o di occuparsi del bucato.
G entfelden A ood, Unter pre m se Famiglia G è o i bucat
ni giorno d ta stessa og Dai Good il rso della sera co el io N ad ì. d m di lune one nell’ar la famiglia rip membro del ato. b i freschi d uc i propri panni
Sonja Markwalder, responsabile acquisti prodotti per bucato e pulizia e carta per uso domestico, Federazione delle cooperative Migros; Marina Frei, capo progetto gestione marche proprie, Federazione delle cooperative Migros; Heidi Bacchilega-Schätti, capo progetto, Migros-Magazin (da sinistra) Entro l’8 settembre la giuria selezionerà due vincitori tra gli otto finalisti. Entrambi i vincitori riceveranno una carta regalo del valore di 5000 franchi. Per ognuno dei classificati dalla terza all’ottava posizione è invece prevista una carta regalo del valore di 500 franchi. La sfida: nel corso del 2018 i due vincitori si confronteranno nel corso di quattro selezioni, ognuna delle quali è una differente gara di bucato. In palio per ogni competizione il fabbisogno annuale di detersivi per il bucato e una carta regalo del valore di 500 franchi. Ulteriori informazioni sul funzionamento del concorso e sulle condizioni di partecipazione su www.migros.ch/total (selezione della lingua sul banner a fondo pagina)
Famiglia Hanhart, Rümlang ZH
Anche se il figlio è ormai cresciuto, gli Hanhart trascorrono molto tempo insieme. E desiderano mantenere questa consuetudine, poiché per loro la famiglia rappresenta un valore da coltivare durante la vita intera. I panni sporchi ci sono soprattutto dopo le partite di calcio e le escursioni in montagna.
Famiglia B runold
urger, Famiglia B
, Coira GR
La lavatrice di questa famiglia com posta da qua ttro persone lavo ra a pieno regime. Leo n (7 mesi) si nasconde spesso sott o le montagne d i panni da la vare o sotto la ce sta.
BE Steffisburg
a che vive in un Una famiglia spesso è itativa e che comunità ab tempo il o che quand fuori casa, an h et ab ma Elis è brutto. Mam può in lavatrice si e ch ta è convin amente tutto mettere pratic . teme l’acqua ciò che non
Famiglia Sta
lder, Big Figlio, pa enthal B E pà e cug ino sono manca pe stati fotog rò chi si o rafati dav ccupa de occupata anti allo s lla lavand a fare il p tendibian eria, vale ossibile p cheria. N rispettiva a dire la m er rimuov ella foto mente di amma, ch ere lo spo meccanic e è appu rco più o i d’auto e nto s ti nato dai v di giardin estiti, ieri.
Famiglia Lanzrain, Aa rbon TG
I Lanzrain abitano sul lag o di Costanza e sono de gli appassionati velisti e di motoscafi. Si sono ing piloti aggiati nei lavori di restau ro della nave d’epoca MS un bene culturale di Arb Mars, on.
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Concorso fotografico Total
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La giuria
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Sonja Markwalder, responsabile acquisti prodotti per bucato e pulizia e carta per uso domestico, Federazione delle cooperative Migros; Marina Frei, capo progetto gestione marche proprie, Federazione delle cooperative Migros; Heidi Bacchilega-Schätti, capo progetto, Migros-Magazin (da sinistra) Entro l’8 settembre la giuria selezionerà due vincitori tra gli otto finalisti. Entrambi i vincitori riceveranno una carta regalo del valore di 5000 franchi. Per ognuno dei classificati dalla terza all’ottava posizione è invece prevista una carta regalo del valore di 500 franchi. La sfida: nel corso del 2018 i due vincitori si confronteranno nel corso di quattro selezioni, ognuna delle quali è una differente gara di bucato. In palio per ogni competizione il fabbisogno annuale di detersivi per il bucato e una carta regalo del valore di 500 franchi. Ulteriori informazioni sul funzionamento del concorso e sulle condizioni di partecipazione su www.migros.ch/total (selezione della lingua sul banner a fondo pagina)
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Anche se il figlio è ormai cresciuto, gli Hanhart trascorrono molto tempo insieme. E desiderano mantenere questa consuetudine, poiché per loro la famiglia rappresenta un valore da coltivare durante la vita intera. I panni sporchi ci sono soprattutto dopo le partite di calcio e le escursioni in montagna.
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