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Farsi del bene ad esempio facendo il pane
Incontri ◆ A colloquio con Amanzio Marelli, da alcuni anni volontario oncologico per l’Associazione Triangolo
Simona Sala
Fare il pane è spesso molto più della preparazione di un impasto, della sua cottura, del taglio della pagnotta, in quanto, forse proprio in virtù del suo essere un rito antico, può trasformarsi in un momento di assoluta… normalità. Soprattutto per chi la normalità se l’è vista temporaneamente sfilata da sotto i piedi a causa di una malattia che richiede delle cure impegnative e una pausa forzata dalla propria quotidianità.
Della nostra necessità di potere vivere la normalità ci ha raccontato il luganese Amanzio Marelli, pensionato e reduce da un fortunato corso di panificazione organizzato nell’ambito delle attività dell’Associazione Triangolo, in cui da alcuni anni è attivo come volontario. Amanzio Marelli aveva già messo in campo il suo spirito di iniziativa nell’organizzazione della Colazione in piazza del Triangolo, andata in scena nel centro storico di Lugano a giugno dello scorso anno con il sostegno di Migros Ticino.
Quella del pane è dunque solo l’ultima nata di una serie di occasioni di incontro organizzate regolarmente dall’Associazione Triangolo, cappello sotto il quale professionisti sanitari (oncologi, infermieri e assistenti sociali) lavorano a braccetto con i volontari, animati dal comune intento di creare una rete di presa a carico del paziente che sia il più possibile solida e trasversale.
Amanzio Marelli si è avvicinato al volontariato al termine della propria carriera professionale, che lo ha visto attivo come panettiere per 45 anni, durante i quali è stato per quattro anni presidente dei panettieri ticinesi e per dieci responsabile della formazione professionale per panettieri e pasticceri. Oltre all’organizzazione di momenti di incontro come la colazione o il corso di panificazione, da cinque anni si occupa di accompagnare i pazienti alle visite mediche o nei centri di cura e, come ci racconta, nel tempo questa attività è riuscita a cambiarlo. In meglio, come afferma con un sorriso.
Amanzio Marelli, come si è avvicinato al volontariato oncologico?
Nel settembre del 2018, mentre ero alla clinica Sant’Anna per una visita, incontrai un’amica intenta a organizzare un aperitivo per l’Associazione Triangolo. Fu lei a spiegarmi in cosa consistesse l’attività di volontariato, ossia soprattutto nell’accompagnamento delle persone alle cure o allo studio medico o, in alcuni casi, in posta o a fare la spesa.
Si tratta di un’attività che le richiede molto tempo?
Dipende, in alcuni periodi dell’anno si è più sollecitati, in altri meno, ma non è un impegno fisso, e gli appuntamenti vengono organizzati in base alla disponibilità di ogni singolo volontario.
Oltre ad avere un impatto sul tempo a disposizione, questa attività si riverbera anche su altri ambiti: possiamo immaginare che sia facile diventare una persona di riferimento per chi ha bisogno, come si trova dunque un equilibrio nei rapporti con i pazienti?
Per me è molto bello quando si crea un rapporto personale, quando nasce la confidenza, e sono sempre stupito davanti a certe espressioni di gratitudine. In questi legami interpersonali vi è un solo rischio, ed è rappresentato dall’incognita della malattia: anche a noi volontari capita di legarci a taluni pazienti, e quando un percorso si interrompe, può essere difficile. Vi sono però anche altre situazioni molto belle, come quando ad esempio incontro delle meravigliose coppie di persone anziane: la moglie accompagna il marito di sotto, dove io lo aspetto, gli dà un bel bacio e lo rincuora, facendogli forza per l’imminente visita di controllo. O come ieri, quando ho chiamato una paziente per accordarci sull’orario in cui sarei passato a prenderla, e mi ha risposto il marito, dicendomi che sarebbe venuto anche lui, aggiungendo in dialetto, «mi la mòli mia». In quei momenti penso sempre che la malattia sia come un vento che spazza via le nuvole e ci permette di vedere solo l’essenziale.
Le viene richiesto anche un sostegno che vada oltre l’accompagnamento di un paziente da un luogo all’altro?
Certo, può succedere: magari accompagno dal medico una persona dalla disposizione particolarmente speranzosa, quasi euforica, e poi, dopo la visita, me la ritrovo giù di corda, e devo riaccompagnarla a casa. A quel punto mi lascio portare dal momento; a volte già conosco la persona che sto accompagnando, per cui esiste un rapporto, un dialogo e un racconto iniziato. Mi sforzo dunque di percepire lo stato d’animo, e capendo che la sofferenza può portare al silenzio, sto zitto anche io. A volte è proprio meglio non dire niente. Attraverso questo lavoro ho imparato quanto sia importante riflettere e soprattutto cercare di capire prima di parlare.
Il periodo per me più difficile è stato quello in cui vigeva l’obbligo della mascherina. Essa mi costringeva a guardare le persone negli occhi per capirle. Se ci si guarda in faccia, in qualche modo si riesce a mentire, o a edulcorare, magari sorridendo, o con una smorfia, ma gli occhi non mentono… gli occhi sono diretti e sinceri, e con la mascherina diventano la parte principale del volto, e capita allora di vedervi delle cose, di leggervi dei pensieri… Il protocollo Covid inoltre prevedeva che il paziente si accomodasse sui sedili posteriori, e ricordo bene quegli sguardi eloquenti attraverso lo specchietto retrovisore. Guardarsi con la mascherina è stato per me imbarazzante, perché paradossalmente ti fa sentire nudo.
Tutto questo non rischia mai di diventare troppo?
Ci sono stati dei momenti in cui ho fatto fatica, ma la condivisione dei miei pensieri durante le riunioni dell’Associazione Triangolo mi ha sempre aiutato a superarli. Con il tempo ho capito che quando faccio una cosa, non devo pesarla sulla mia pelle, ma sulla pelle delle persone per cui la sto facendo.
Per diventare volontari
È vero che un’attività di questo tipo può portare a un cambiamento interiore?
Credo che sia importante capire come i sani e gli ammalati non siano due diverse categorie di persone. All’inizio del volontariato ero convinto che, guardandomi, i pazienti pensassero fossi una persona fortunata, ma in realtà non è così. Ero io che mi sentivo un privilegiato, così come mi sentivo fuori posto nella sala d’aspetto di qualsiasi medico ogni volta che vi accompagnavo un paziente. Ciò che osservo spesso nelle persone che accompagno alle visite è il modo in cui guardano all’essenza delle cose: la settimana scorsa, ad esempio, un paziente mi ha raccon- tato con gioia di una serata trascorsa con la figlia, come se fosse un evento speciale. Quando sento questi racconti di essenzialità, quando vedo il desiderio di certi pazienti di fare pulizia nella propria vita, cerco di fare miei questi concetti, di vivere anche io con maggiore consapevolezza, ma poi finisco immancabilmente per scivolare di nuovo nel mio tran tran. E forse è giusto così.
La consapevolezza però è già un primo passo, non crede? Sì, e spesso mi chiedo perché sia necessaria la malattia per la comprensione della vita. D’altro canto questa attività, attraverso dei piccoli momenti formativi che ci vengono offerti dagli oncologi, ci permette anche di capire cosa sta succedendo nel campo della ricerca e dei nuovi farmaci, dandoci così prospettive nuove e in qualche modo rinvigorendo la speranza verso i nostri pazienti, aspetto per me estremamente interessante.
Spesso penso che se dovessi ammalarmi non avrei mai la forza dei miei pazienti, ma in realtà non è vero, perché mi accorgo che ognuno di noi ha da qualche parte una riserva di forza che può attivare in determinate situazioni. Credo si tratti di una forza comune a tutto il genere umano, visibile nella malattia e anche in altre situazioni difficili. Questo è un aspetto che mi piace moltissimo: sono profondamente affascinato da quella forza, che spesso vedo affiorare nei momenti più inaspettati.
«Volontariato», alla luce di queste affermazioni, diventa quasi un termine riduttivo… Credo che fare il volontario non voglia dire mettere a disposizione qualcosa di cui si dispone in sovrappiù, bensì significhi rinunciare a qualcosa. Quando parlo di rinuncia però non penso a un sacrificio, ma semplicemente a una scelta: lasciare perdere qualcosa a favore di un’altra. Non so se a causa della mia attività di volontario o dell’età che inesorabile avanza, ho imparato a non rimandare più… In questo senso la vita stessa mi ha dato un paio di lezioni quando sono mancati cari amici cui mi accomunavano ancora molti progetti. Alla mia età potrei girare il mondo e passare il tempo viaggiando, ma poi so che prima o poi dovrò ritornare, perché la mia vita è qui, e quindi devo cercare di viverla bene. Grazie al volontariato rifletto molto di più e mi sono reso conto di come la vita sia un ciclo. Questo mi ha reso una persona più equilibrata e serena.
Per diventare volontari sono fondamentali uno spiccato senso civico e un grande senso di solidarietà e responsabilità sociale. Il volontario può sostenere l’attività dell’Associazione Triangolo in vari modi: stando accanto al malato, dedicandosi ai trasporti o collaborando nelle mansioni amministrative e associative. Ogni volontario definisce i tempi del suo impegno e i congedi con la coordinatrice di riferimento per un massimo di quattro ore alla settimana.
L’attività di volontariato prevede una formazione specifica con un percorso iniziale di formazione/accompagnamento per acquisire competenze di base necessarie a fornire un aiuto qualificato e una supervisione e for- mazione continua orientata al sapere e al saper fare e al saper essere «volontario». Il servizio di volontariato è attivo su tutto il territorio del Ticino e del Moesano tramite i due gruppi del Sopraceneri e del Sottoceneri. Il prossimo corso di preparazione al volontariato dell’Associazione Triangolo inizierà nel mese di marzo.
Per informazioni ci si può rivolgere alle coordinatrici dei volontari o compilare il modulo online:
Sezione Sopraceneri
+ 41 91 7518241 sopraceneri@triangolo.ch
Sezione Sottoceneri
+ 41 76 5432449 sottoceneri@triangolo.ch
Dalle riflessioni al pane il passo sembra breve… Da qualche tempo nell’ambito del volontariato lei propone anche un corso di panificazione. Come è nato?
Credo sia fondamentale riuscire a realizzare qualcosa, e soprattutto farlo tutti insieme. Abbiamo formato un bellissimo gruppo di circa dodici persone preparando di tutto, dalle pizze alle focacce, passando per le stelle di Natale, gli stollen, le trecce, le brioche e gli stuzzichini da aperitivo. Mentre lavoriamo sui nostri impasti sento che le persone parlano, entrano in confidenza, si raccontano dei propri percorsi, ma alla fine dell’incontro a prevalere è sempre l’entusiasmo per quanto realizzato. Fare le cose con le mani, vederle, stare insieme, sono cose concrete che fanno stare bene.
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