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In mezzo alle genti scorre il fiume

Reportage ◆ Un viaggio nella storia della Colombia lungo i millecinquecento chilometri del Rio Magdalena

«Ya van, ya van, ya llegan, / Corazón mío, mira las naves, / Las naves por el Magdalena, / Las naves de Gonzalo Jiménez / Ya llegan, ya llegan las naves». («Eccole, ecco che arrivano / Oh cuore mio, guarda le navi / Le navi sul Rio Magdalena / Le navi di Gonzalo Jiménez / Eccole lì, che arrivan le navi»). Così Pablo Neruda cantava la spedizione del conquistador spagnolo Gonzalo Jiménez de Quesada, che nel 1536 per primo riuscì a risalire il Rio grande de la Magdalena, asse fondativo dell’odierna Colombia. Nei versi di Neruda quell’impresa fu rovina perpetua delle genti che abitavan le sue rive; per gli spagnoli invece fu l’inizio d’una grande avventura.

Le navi eran brigantini e risalivano il fiume in parallelo con la missione terrestre, molto più dura, tra foreste, fiere e sciami d’insetti voraci. In tre anni Quesada scoprì miniere d’oro, smeraldi e sale. Perlustrò l’altopiano Cundiboyacense – terra della fiorente civiltà muisca, dove si originò la leggenda del mitico Eldorado – e vi fondò Santa Fé de Bogotà, l’odierna capitale colombiana.

Un bel navigar su acque calme, tra canneti e alberi, sciabordando accanto alle canoe di pescatori solitari nella luce del tramonto

Con i suoi oltre millecinquecento chilometri dalle Ande al Caribe, il Rio Magdalena è sempre stato la grande via di comunicazione tra il mare, i monti e gli altipiani dell’interno. Dal Massiccio colombiano, nel Sud, su fino a Barranquilla, porto caribeño che s’abbevera alla sua foce, lungo le sue acque ora placide, ora insidiose per mulinelli e secche, interi popoli son diventati migranti e poi coloni, nell’infinito andirivieni di mercanzie, idee e persone. Per questo, le ceramiche, gli ori, i gioielli delle genti che hanno abitato la sua valle s’assomigliano tutti.

San Agustín è la mia prima tappa, vicino alla sorgente. Qui tra il IV e il IX sec. d.C. una misteriosa civiltà ha lasciato dietro di sé centinaia di monumenti megalitici, tombe e statue simboliche, cui gli storici cercano da tempo di dare un senso. La zona archeologica è sparsa su colline distese per decine di chilometri intorno; per visitarla ci vuole un’auto e una buona guida, come Oscar, che non perde occasione per citare il nonno, buonanima, che a suo dire avrebbe partecipato ad alcuni importanti rinvenimenti (e ovviamente lui conserva qualche souvenir). Entusiasta del mio interesse per il fiume, Oscar ci tiene ad accompagnarmi ad ammirare lo spettacolo della strettoia (estrecho) del Magdalena. Ha ragione da vendere: la valle è drammatica, angusta. Dopo solo qualche decina di chilometri il Magdalena è già impetuoso, dilava pietroni e assorda la boscaglia intorno.

L’alto corso del Magdalena rimane impervio ancora per duecento chilometri, fino a Neiva, poi è navigabile per trecento, fino alle rapide di Honda, dove Bogotà stabilì il suo porto. Appollaiata sull’altipiano a duemilaseicento metri, solo grazie al fiume la città poteva essere la capitale efficiente del Vicereame della Nuova Granada, come si chiamava allora la Colombia. Ma bisognava percorrere i centosessanta chilometri lastricati del Camino Real (XVI sec.) per raggiungere il porto. Da lì schiavi neri vogavano sui sampan per quaranta giorni e novecento chilometri prima di arrivare a Cartagena. All’inizio dell’Ottocento i battelli a vapore ci mettevano già meno di due settimane, poi con ferrovie e auto la vecchia via fu dimenticata, ma ora, grazie al turismo, si cerca di recuperarne il significato. Benché i battelli passeggeri non navighino più da sessant’anni, sull’acqua c’è ancora un certo traffico di merci, soprattutto idrocarburi, e si pensa di aumentarlo. Del resto la valle del Rio Magdalena, tra le cordigliere orientale e centrale, ospita quasi l’80% della popolazione e produce l’85% del PIL nazionale.

A Mompox, pur amalgamata al fiume, s’arriva solo via terra. Madida delle sue acque, che un po’ più in là si perdono in acquitrini, detti ciénagas, è una città bianca, d’ovatta, piena di chiese, con una piazza porticata che si stempera nell’acqua e i marciapiedi alti mezzo metro, memori d’antiche alluvioni. Protetto dall’UNESCO, l’abitato sembra affiorato dalle brume calde del fiume, o da un racconto magico. Ma voglio approfittare anch’io di questo mondo anfibio. Così sul lungofiume fiacco affitto la lancia di Rodrigo e mi faccio portare, avido di brezza, a esplorar la ciénaga vicina, quella di Pijiño, un labirinto di meandri che forse mi farà sentire cosa provavano i naviganti d’un tempo, e mi farà vedere quel che resta della natura selvaggia che descrisse Alexander von Humboldt. E in effetti è un bel navigar su queste acque calme, tra canneti e alberi, e il gracchiare d’aironi e cormorani, sciabordando accanto alle canoe di pescatori solitari che gettano le reti nella luce rossa del sole al tramonto.

Lungo la rotta del Canal del Dique, biforcazione artificiale del fiume a collegar Bogotà con Cartagena, decido di far sosta a San Basilio de Palenque. Palenques, nell’America ispanica, erano i villaggi creati dai cimarrones, gli schiavi neri fuggiaschi. Ce n’erano centinaia, ma in pochi è rimasta come qui la popolazione delle origini e quasi nessuno ha creato, come San Basilio, una lingua creola, mista d’idiomi africani e di spagnolo. In paese le strade son deserte, evapo- rate sotto il caldo tropicale; solo qualche cane stravaccato all’ombra, tra le casette basse. Carlos fuma sotto la veranda, dapprima sembra burbero, ma poi ci vuol poco per lasciarsi andare, ed è una miniera. Mi racconta dei turisti che da qualche tempo passano di lì, di come i locali organizzano loro una danza africana coi tamburi preparando qualche pietanza afro-caribeña, un pesce en cabrito (in forno con verdure), un riso con cocco. si trova una più ampia galleria fotografica.

Mompox vista dal fiume; al centro a sin. la ciénaga di Pijiño; a des. pescatori nella ciénaga di Pijiño; in basso, nel quartiere degli artisti Getsemani, a Cartagena.

La tappa finale del mio viaggio è Cartagena de las Indias, una cartolina di magioni coloniali, porticati e patios, chiese barocche e santi, fiori, viuzze e carrozze; e poi mura e fortezze e mare, mare, mare, il Caribe e gli yacht e i velieri e le navi che vanno e vengono, e i grattacieli che orlano la città moderna, e gli hotel, i ristoranti, i bar, e le bancarelle d’artigianato sul far del tramonto. La notte ci si diverte, almeno dentro le mura vecchie, perché là fuori c’è sempre la solita, vecchia Colombia, con i suoi cent’anni di guerre civili, i milioni di profughi, interni e stranieri, e più della metà degli abitanti sulla soglia della povertà.

E in mezzo scorre il fiume.

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