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Sabotaggio di Nord Stream: chi ci guadagna
L’analisi ◆ Dal punto di vista americano la Germania resta un partner da tenere sotto controllo, specialmente a causa delle relazioni speciali intrattenute con la Russia
Lucio Caracciolo
La clamorosa inchiesta del giornalista investigativo americano Seymour Hersh, che attribuisce agli Stati Uniti la responsabilità del sabotaggio del gasdotto sottomarino Nord Stream, ha suscitato reazioni contrastanti. C’è chi ricorda la qualità delle inchieste di Hersh, ormai 85enne specialista in scoop di prima grandezza, c’è chi dubita del valore di queste rivelazioni e ci sono naturalmente le smentite ufficiose da parte degli interessati. Siccome comunque la si pensi l’inchiesta di Hersh apre uno scenario di straordinario rilievo geopolitico, questa vicenda merita alcune considerazioni.
Se il giornalista investigativo Seymour Hersh ha ragione si tratterebbe di un attacco degli Stati Uniti a un Paese formalmente alleato
In primo luogo, se Hersh ha ragione si tratterebbe di un attacco degli Stati Uniti a un Paese formalmente alleato. Perché mai Washington dovrebbe colpire Berlino? Come sappiamo, gli interventi a gamba tesa degli USA nei confronti della Repubblica Federale di Germania sono stati diversi e ripetuti anche negli ultimi anni – si pensi solo al Dieselgate o alle intercettazioni del telefonino della cancelliera Merkel. Fatto è che dal punto di vista americano la Germania resta un partner da tenere sotto controllo, specie quando si tratta delle sue speciali relazioni con la Russia.
Il gasdotto Nord Stream 1, prima del sabotaggio appena raddoppiato con Nord Stream 2, è il simbolo massimo di queste relazioni giacché lega direttamente il fornitore di gas russo al consumatore tedesco (ed europeo).
I polacchi hanno infatti fin da subito battezzato questa conduttura come «gasdotto Molotov-Ribbentrop». E l’ex ministro degli Esteri Radosław
Sikorski ha festeggiato il sabotaggio del Nord Stream con un tweet molto esplicito: «Thank you USA!».
In secondo luogo, l’amministrazione Biden era stata molto esplicita nel denunciare come nefasta la scelta russa e tedesca di raddoppiare il gasdotto. E aveva fatto pressione sul Governo tedesco affinché rinunciasse al progetto, voluto da Merkel e difeso poi da Scholz. Il 7 febbraio del 2022, ricevendo Scholz alla Casa Bianca, Biden era stato secco: «Se la Russia invade l’Ucraina, non ci sarà più un gasdotto Nord Stream 2, la faremo finita…». E la vice segretaria di Stato Victoria Nuland, neocon di punta nel dossier ucraino, aveva annunciato venti giorni prima la stessa decisione americana, avvertendo che nel momento in cui Putin avesse attaccato Kiev «in un modo o in un altro NS 2 non andrà avanti».
Da queste premesse, si trae la conclusione che chiunque sia stato a far saltare i tubi (tre su quattro) ha servito l’interesse americano e colpito, insieme a quello russo, l’interesse dell’alleato tedesco. Quindi la ricostruzione di Hersh ha una sua logica. Ma questo non prova che sia veritiera. La regola del cui prodest (a chi giova?) è un falso amico dell’analista. Spesso un osservatore esterno non può arrivare a comprendere il modo di ragionare e di agire dell’attore geopolitico osservato. Premesso che molto probabilmente la verità sul sabotaggio non potrà mai essere accertata, colpisce comunque il basso profilo della reazione di Berlino. Scholz ha rimandato la questione alle indagini della magistratura. Prudenza? Certamente, ma non solo. La posta in gioco è infatti altissima. La fine (provvisoria?) del gasdotto che congiungeva direttamente russi e tedeschi scavalcando polacchi, ucraini e altri Paesi intermedi è il più importante successo americano nella guerra sempre meno indiretta contro la Russia che Washington sta condu- cendo dopo il 24 febbraio. Il principio primo della geopolitica americana è da oltre un secolo impedire la congiunzione fra energia russa e industria tedesca – tout court : fra potenza russa e potenza tedesca. La fine del Nord Stream è il più grave colpo che si potesse infliggere a chi, sia a Mosca che a Berlino, pensava o pensa di poter continuare lungo il percorso inaugurato negli anni Settanta dal cancelliere Brandt e dal leader sovietico Brežnev, proseguito fino all’aggressione russa all’Ucraina.
Questo significa che d’ora in avanti i margini di manovra per chi in
Germania conta ancora di tenere in vita il rapporto speciale con la Russia tendono allo zero. Oppure implicano rappresaglie americane sempre più robuste. In chiaro: il grado di sovranità della Bundesrepublik resta limitato, specie in tempo di guerra.
A oggi, la Germania è il Paese europeo che dopo l’Ucraina ha subìto i danni più pesanti dalla guerra in corso. In un colpo solo Berlino ha perso la vitale interdipendenza energetica stabilita cinquant’anni fa con la Russia; dubita della protezione strategica americana né può disporre di un deterrente nucleare proprio, co- me invece la Francia (ciò che potrebbe indurre Berlino a dotarsene, nel caso provocando pesantissime rappresaglie americane); vede a rischio quote rilevanti di mercato cinese, su cui dalla fine del secolo scorso aveva puntato a occhi chiusi, addirittura immaginando che attraverso il commercio si sarebbe potuto mutare il carattere autocratico del regime cinese («Wandel durch Handel»). Comunque questa guerra vada a finire, la Germania non ne uscirà più forte. Non una buona notizia per chi ha a cuore la stabilità e la prosperità del nostro Continente.