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L’Apocalisse dei siriani e il cinismo di Assad
Il punto ◆ Guerra civile e tensioni interne rallentano l’arrivo degli aiuti nelle zone di confine colpite dal terremoto mentre Damasco cerca di riacquistare credito internazionale e riguadagnare territori sfuggiti al suo controllo
Francesca Mannocchi
La notte tra il 5 e il 6 febbraio il terremoto di magnitudo 7,8 non ha scosso solo la Turchia e la Siria, uccidendo diverse decine di migliaia di persone, devastando intere città, accartocciando migliaia di edifici, ma ha scosso anche molti equilibri geopolitici che rischiano di rimodellare le alleanze dei Paesi che finora sono stati protagonisti in quella sofferente area del mondo. E ha avuto l’effetto secondario di riportare agli onori delle cronache una guerra dimenticata e una tra le popolazioni più vulnerabili al mondo: i siriani.
Oggi circa il 90 per cento dei 4,6 milioni di persone nel nord-ovest della Siria fa affidamento sull’assistenza umanitaria
«Non ci sono parole per descrivere la vista di famiglie – la maggior parte delle quali sfollate più di una volta –che hanno dovuto lasciare le loro case al freddo, al gelo, per rifugiarsi in strade pericolose nel cuore della notte», ha detto Fabrizio Carboni, direttore regionale del CICR (Comitato della Croce Rossa Internazionale) per il Vicino e Medio Oriente dopo essere accorso nelle aree colpite, nelle ore immediatamente successive alla tragedia. Il dramma nel dramma è che non esiste un’unica Siria ma almeno tre: quella controllata dal regime di Bashar al Assad, quella sotto il controllo dei ribelli e del gruppo islamista di Hay’at Tahrir al Sham e le regioni semi-autonome controllate dai curdi. Circa la metà dei siriani colpiti dal terremoto vive nell’ultimo grande baluardo di opposizione del Paese, al confine con la Turchia e quindi non sotto il controllo di Damasco, e questo ha riproposto alla comunità internazionale un problema irrisolto da anni.
Sebbene l’accesso alla Turchia non sia un problema, i gruppi umanitari e le Nazioni occidentali sono alle prese con la complicata logistica dell’invio di aiuti di emergenza in Siria, in particolare nelle aree ribelli al di fuori del controllo del Governo. «La Siria è ancora una zona grigia dal punto di vista legale e diplomatico», ha affermato Marc Schakal, responsabile delle operazioni in Siria per l’ente di beneficenza francese Medici Senza Frontiere (MSF). Infatti, per accerchiare le zone controllate dai ribelli, il regime di Damasco – supportato prima dalla sola Russia poi anche dalla Cina, che al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite hanno fatto valere il loro diritto di veto – ha inizialmente lasciato aperto uno solo dei quattro valichi di frontiera da cui possono accedere gli aiuti umanitari. La fetta di territorio è piccolissima, il 4% circa dell’intero territorio siriano, eppure ci vivono – bisognosi di tutto, dal cibo all’acqua ai ripari – circa quattro milioni di persone.
Nelle ore successive al sisma la strada che collegava la Turchia al valico aperto di Bab al Hawa è stata danneggiata e ci sono voluti quasi quattro giorni alla comunità internazionale per inviare i primi aiuti, tra i quali però figuravano medicine e coperte ma non, per esempio, scavatrici per verificare se ci fossero ancora sopravvissuti sotto le macerie. Omar al Bam, fotografo di Idlib, tra i testimoni e i sopravvissuti del sisma, da noi raggiunto al telefono, descrive uno scenario da Apocalisse e rimprovera l’Occidente. «Ci siamo svegliati sapendo di essere di fronte all’ennesimo incubo – ha detto – ma non pensavamo di tale portata. Il terremoto ha riaperto in noi ferite mai sanate. L’Occidente ci ha dimenticato una volta ancora; l’aveva già fatto quando ha deciso che il nostro destino non meritasse un intervento, e poi ancora quando non ha fatto nulla di fronte alla chiusura dei valichi. Ci avete lasciato vivere accerchiati per anni e ora ne stiamo raccogliendo i frutti. Qui sono innumerevoli i bambini orfani: non sanno se i genitori sono sotto macerie che non possiamo spostare. Continua a scorrere il tempo e continuiamo a non sapere come estrarre i corpi dai detriti. Siamo arrivati al paradosso di pensare che almeno chi vive nelle tende da dieci anni è fortunato: è scampato alla morte».
«Siamo arrivati al paradosso di pensare che almeno chi vive nelle tende da dieci anni è fortunato: è scampato alla morte»
A complicare le cose il fatto che il terremoto ha colpito una regione già martoriata da 12 anni di conflitto, aggravando la crisi umanitaria che era già presente. Oggi circa il 90 per cento dei 4,6 milioni di persone nel nord-ovest della Siria fa affidamento sull’assistenza umanitaria. Anche prima che lo sciame sismico colpisse, più della metà delle strutture sanitarie era stata distrutta, mentre il conflitto in Siria ha reso beni essenziali come cibo, medicine e carburante, inaccessibili per molti. Recentemente un’epidemia mortale di colera ha infettato più di 85mila persone che non hanno accesso alle cure o ai servizi essenziali. L’approvvigionamento idrico del Paese è stato ridotto tra il 30 e il 40 per cento. Il giorno dopo il terremoto l’inviato del regime siriano alle Nazioni Unite, Bassam Sabbagh, sembrava escludere la riapertura di qualsiasi altro valico di frontiera nelle aree controllate dai ribelli, insistendo sul fatto che tutti gli aiuti dovrebbero invece transitare dall’interno della Siria. «Se qualcuno vuole aiutare la Siria può coordinarsi con il Governo», aveva detto, lasciando intendere che non sarebbe entrato un solo pacco di aiuti se non attraverso le autorità, che però già in passato sono state accusate di lucrare sugli aiuti umanitari, favorire le popolazioni leali a Bashar al Assad, punire le altre e tenere per loro parte di quel materiale diventato così un ennesimo bottino di guerra. Poi qualcosa è cambiato e lunedì scorso, a sorpresa, Bashar al Assad ha dichiarato che avrebbe lasciato aprire altri due valichi. Difficile pensare che sia improvvisa generosità, più facile che sia un cinico calcolo politico volto ad allentare le sanzioni che gravano da dieci anni sulle spalle del regime. Le Nazioni occidentali, infatti, hanno ritirato i loro diplomatici da Damasco e imposto durissime sanzioni al regime di Assad dopo che aveva lanciato una brutale repressione delle proteste antigovernative nel 2011. Anche la Lega araba aveva sospeso l’adesione del Paese. Poi negli ultimi anni gli Emirati Arabi Uniti hanno cercato di alleviare l’isolamento del regime siriano, riaprendo la loro ambasciata di Damasco nel 2018 e accogliendo Assad ad Abu Dhabi lo scorso anno. Anche l’Arabia Saudita ha inviato aerei di aiuti nella Aleppo controllata da Assad, un gesto importante da parte di uno stato del Golfo ancora in disaccordo con il presidente siriano e che finora aveva inviato aiuti solo alle aree ribelli. Assad ha anche avuto un colloquio telefonico con il presidente egiziano Abdul Fattah al Sisi, il primo tra i due leader da quando al Sisi è salito al potere nel 2014. Un passo importante su cui ricostruire legami, hanno detto due funzionari arabi che hanno incontrato Assad. Permettendo agli aiuti di entrare nella Siria nord-occidentale controllata dai ribelli attraverso più valichi di frontiera dalla Turchia, il presidente Bashar al Assad ha ceduto il passo a una richiesta dei suoi avversari stranieri. La domanda ora, dicono gli analisti, è cosa potrebbe volere in cambio. Sono questi i movimenti secondari del sisma, gli effetti di riposizionamento, a cui hanno reagito, comprensibilmente molto male, i gruppi di soccorso della Siria nord orientale. Il gruppo di soccorso volontario Syria Civil Defence, noto anche come The White Helmets, gli Elmetti bianchi, dopo che le Nazioni Unite hanno accolto con favore la mossa di Assad di aprire nuovi valichi per consentire gli aiuti dalla Turchia hanno espresso un giudizio crudo. «È un fatto scioccante e non capiamo per l’ennesima volta la condotta delle Nazioni Unite», ha detto settimana scorsa all’agenzia di stampa Reuters il capo del gruppo di salvataggio gestito dall’opposizione,
Raed al Saleh. Gli Emetti bianchi da anni assistono le vittime della guerra civile siriana, gli sfollati a causa del combattimento. Al Saleh è stato durissimo e in una lettera aperta pubblicata dalla CNN ha scritto: «Non possiamo perdonare le Nazioni Unite per aver voltato ancora una volta le spalle ai civili siriani nel momento del bisogno. Mentre cercavamo tra le macerie di migliaia di edifici, sono state le comunità locali colpite ad aiutarci: prestando le loro auto e mezzi pesanti, aiutando a scavare e donando carburante che avrebbero potuto usare per riscaldarsi. I siriani hanno bisogno e meritano più sostegno. Le nostre organizzazioni locali e la risposta locale meritano riconoscimento e finanziamenti. Non c’è più tempo da perdere. Il segretario generale delle Nazioni Unite deve avere la visione e la leadership per mettersi dalla parte giusta della storia. Il Consiglio di sicurezza e il regime non dovrebbero essere utilizzati per limitare l’accesso agli aiuti umanitari in futuro. Guterres dovrebbe garantire immediatamente che le Nazioni Unite e le agenzie umanitarie internazionali abbiano un accesso al Paese senza ostacoli per garantire che non si perdano più vite umane».
È chiaro che il sistema delle Nazioni Unite non si è dimostrato all’altezza di gestire nell’immediato la crisi
Gli scenari che abbiamo di fronte lasciano aperto un grande dilemma: allentare a questo punto le sanzioni contro il regime di Assad e sollevare il maggior numero di persone possibile dalla crisi economica per far fronte all’ennesima tragedia, o ripensare il sistema di aiuti da capo? È chiaro, e purtroppo non è la prima volta, che il sistema dell’ONU non si è dimostrato all’altezza di gestire nell’immediato la crisi, così come non era riuscito a gestire il potere di veto del grande alleato siriano nel Consiglio di sicurezza, la Russia. La cosa ancora più tragica è che proprio un mese fa, a gennaio, l’Organisation for the Prohibition of Chemical Weapons (OPCW), l’Organizzazione per la proibizione delle armi chimiche, aveva affermato dopo anni di ricerche, di prove e studi, che vi erano «ragionevoli motivi» per ritenere che siano state proprio le forze governative siriane ad aver usato armi chimiche vietate contro le forze di opposizione nel 2018, nella città di Douma.
Sostenere le mosse di Assad oggi, e non capirne il cinismo, significa rinnovare la cecità che l’Occidente per dodici anni ha avuto rispetto alle politiche di un regime che ha dimostrato di non avere scrupoli e che, forse, sta usando i valichi della salvezza, di nuovo, con questo solo scopo: riacquistare credito all’esterno del Paese e riguadagnare territori che erano finora sfuggiti al controllo di Damasco, controllando gli aiuti umanitari in entrata. Per donazioni Terremoto in Turchia e Siria Catena della Solidarietà