Azione 33 del 13 agosto 2018

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Cooperativa Migros Ticino

G.A.A. 6592 Sant’Antonino

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXI 13 agosto 2018

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Società e Territorio L’importanza della resilienza per affrontare le difficoltà della vita

Ambiente e Benessere Sherpa invita a dare il buon esempio: aiutiamo le capanne di montagna a liberarsi dei rifiuti e ad abbattere i costi ambientali

Politica e Economia Nervi scoperti nelle cerchie del potere venezuelano dopo l’attacco al presidente Maduro

Cultura e Spettacoli Le opere di Max Liebermann in mostra al Castello di Ascona

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Verzasca: non solo turismo

di Fabio Dozio pagina 4

Keystone

La forma scambiata per sostanza di Peter Schiesser Verrebbe voglia di credere che si tratti soltanto di un deprecabile malinteso: come spiegare altrimenti l’eclatante decisione dell’Unione sindacale svizzera e di Travailsuisse di non partecipare ai colloqui che il capo del Dipartimento federale dell’economia pubblica aveva indetto per il 9 agosto con le cerchie economiche, sindacali e i Cantoni? Johann Schneider-Ammann aveva il compito, da parte del Consiglio federale, di valutare assieme a questi partner altre forme di protezione salariale dei lavoratori in Svizzera, più digeribili per l’Unione Europea rispetto a quelle definite nelle misure fiancheggiatrici che regolano la libera circolazione delle persone, fermo restando il principio della protezione dei salari. L’esito dei colloqui era incerto fin dall’inizio. Prima di tutto perché erano nati sotto una cattiva stella: l’esternazione del consigliere federale Cassis secondo cui se non si era disposti a fare compromessi da ambo le parti, in Svizzera sul fronte delle misure fiancheggiatrici, non sarebbe stato possibile concludere l’annoso negoziato su un accordo istituzionale fra la Svizzera e l’UE che cementi i rapporti

bilaterali, aveva immediatamente spinto i sindacati di sinistra sulle barricate. Tuttavia, né Cassis né il Consiglio federale intendono modificare la sostanza (cioè indebolire la protezione dei salari) bensì la forma (trovando altri meccanismi) e così la pensano anche le associazioni economiche. Ma l’Unione sindacale svizzera e Travailsuisse non ci credono e accusano Cassis e Schneider-Ammann di violare la linea rossa tracciata dal Consiglio federale stesso. Quali sono i punti della discordia? Bruxelles critica (da 10 anni) che le imprese dell’UE debbano comunicare con 8 giorni d’anticipo l’invio di dipendenti «distaccati» in Svizzera e che le aziende dell’UE debbano versare una cauzione per coprire eventuali abusi finanziari verso i lavoratori. I sindacati di sinistra non intendono cedere su questi due aspetti, tantomeno vogliono che le misure fiancheggiatrici diventino parte dell’accordo quadro istituzionale con l’UE, perché secondo loro ciò aprirebbe la porta ad un indebolimento delle stesse. Evidentemente, non danno credito alla nuova filosofia (e legge, da maggio) europea che sancisce per i lavoratori distaccati il principio «stesso salario per stesso lavoro», né si fidano del Consiglio federale e dei partner economici. Al punto tale da non

volersi nemmeno presentare ai colloqui, quindi di rifiutare qualsiasi dialogo, senza neppure sapere a quali conclusioni avrebbero portato. Allora, si tratta di un grosso malinteso o piuttosto di una rigidità ideologica, come di solito si trova solo fra gli anti-europeisti a destra? Senz’altro, sconcerta vedere i sindacati di sinistra e con essi il Partito socialista svizzero, europeisti per eccellenza fino a simpatizzare per un’adesione, chiudersi in questo modo quando tocca a loro dover fare delle concessioni. Il fatto è che questa rigidità mette a repentaglio la conclusione dell’accordo istituzionale in tempi brevi e crea il rischio di contromisure da parte europea, ciò che porterebbe ad un progressivo peggioramento delle relazioni bilaterali. Abbiamo forse già dimenticato che l’anno scorso la Commissione europea aveva riconosciuto l’equivalenza della Borsa svizzera solo per quest’anno, in attesa di progressi sostanziali verso un accordo istituzionale? Qualcuno ce lo sta già ricordando da Bruxelles, per cui: vogliamo davvero mettere a rischio questo settore della finanza svizzera e in seguito anche la solidità dei rapporti globali – economici, sociali, nella ricerca, nella formazione... – in nome di una forma scambiata per sostanza?


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 13 agosto 2018 • N. 33

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Attualità Migros

M Un’ambasciatrice dei valori Migros

I nuovi gerenti delle filiali Migros Ticino

Commiato L’ex-Presidente della direzione generale della FCM ricorda Charlotte

Hug-Burnod, che è stata caporedattrice di «Construire» e responsabile della stampa Migros

Jules Kyburz Sentiamo il dovere di prendere commiato da una persona eccezionale, che è stata vicina al progetto istituzionale di Gottlieb Duttweiler come nessun’altra. Charlotte Hug-Burnod è stata responsabile della testata «Construire», e anche Direttore dei Media Migros, oltre che membro della Fondazione Gottlieb e Adele Duttweiler fino alla fine del 2017. È deceduta inaspettatamente lo scorso 15 luglio. Charlotte Hug si è dedicata anima e corpo al suo lavoro editoriale ed è

stata completamente fedele agli ideali di Migros. Una piccola donna ma con un grande carattere, con un feeling creativo verso l’impegno culturale e sociale, e che ha combattuto con grande energia per i principi dell’azienda. Lo stesso Duttweiler, con tutte le due qualità e doti, con la sua straordinaria capacità di entusiasmare chi gli era vicino, con la sua anima da combattente, e le sue personali idee e convinzioni, era riuscito ad affascinare l’allora giovane giornalista. Per lui, lei era sempre pronta a entrare in azione. Inviamo al marito e ai figli le nostre più sentite condoglianze.

Renato Mazzoletti

Luogo di lavoro: Filiale di Taverne Data di nascita: 13.09.1963 Stato civile: coniugato Figli: una figlia Hobby: calcio e pesca Tre aggettivi per descriversi: carismatico, solare, coach Obiettivi nel suo lavoro: far sentire a casa propria il cliente

Una gavetta dentro la Migros Jules Kyburz ha iniziato la sua carriera da Migros all’età di 20 anni. Assunto come magazziniere ha salito tutti i gradini della gerarchia fino a diventare gerente di filiale, responsabile degli acquisti e direttore di Migros

Berna. Nel 1984 è diventato direttore della Federazione della cooperative Migros, e poi dal ’92 al 2000 presidente del CdA della FCM. Nel contempo dal ’93 è stato presidente della Fondazione G.&.A. Duttweiler, fino al 2012.

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Società e Territorio Un Masterplan per la Verzasca Spopolamento, perdita di posti di lavoro, riduzione dei servizi: una prospettiva che la Valle cerca di scongiurare con un piano di sviluppo. Ne abbiamo parlato con Alessandro Speziali

Anziani, il Centro diurno di Manno La Sezione del Sottoceneri della Croce Rossa Svizzera ha aperto un nuovo Centro diurno terapeutico per anziani a Manno pagina 5

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Come avere un piano B nella vita

Psicologia L’importanza della resilienza

nell’affrontare e superare le difficoltà e i dolori dell’esistenza

Alessandra Ostini-Sutto «Non credo nel destino. Ma lo so affrontare. Il dolore, la paura, la guerra, la mafia, il terremoto, la malattia, la morte: esistono. Non serve a nulla guardare dall’altra parte, fingere di non vedere. Ma si può usare un altro punto di vista, che ha il potere di cambiare tutto. Io l’ho imparato, l’ho capito, l’ho vissuto. Si può sorridere, ad esempio. E anche ridere. Si può stringersi gli uni con gli altri. Si può parlare, scrivere. C’è una parola per questo, difficile e importante (…). Resistere agli urti della vita senza spezzarsi. Andare avanti a testa alta, sempre avanti. In ogni caso. Questa parola è resilienza». Si leggono queste parole nella prima pagina del sito dell’associazione Wondy Sono Io, impegnata nella diffusione della cultura della resilienza. Wondy – da Wonder Woman – sta per Francesca Del Rosso, blogger e scrittrice, morta nel 2016 dopo una lunga battaglia contro il cancro. Wondy – ovvero come diventare supereroi per guarire dal cancro è anche il titolo del libro in cui Francesca ripercorre la sua storia. Perché per affrontare le operazioni, la chemioterapia, le recidive serve essere forti, ottimisti, se possibile solari. In una parola: resilienti. «Francesca era una donna vulcanica e combattiva, che vedeva il bicchiere mezzo pieno, “possibilmente di Mojito” avrebbe detto lei. Le ripetevo che, se fosse capitato a me, non avrei avuto il suo coraggio. Rispondeva che nessuno sa di averlo, finché non è costretto a tirarlo fuori», scrive Alessandro Milan (classe 1970), che conduce programmi di approfondimento su Radio 24. A sua moglie Francesca ha dedicato Mi vivi dentro (2018), un libro diventato subito un grande successo editoriale. Oggi, Milan cerca di mettere l’eredità in termini di forza e positività lasciata dalla moglie in tutto quello che fa. Anche per questo ha creato l’associazione Wondy Sono Io, che propone iniziative per sensibilizzare sulla capacità di trasformare le difficoltà in opportunità, come il Premio Wondy per la letteratura resiliente ed eventi che puntano alla diffusione della lettura (una delle passioni di Francesca) come

strumento per comprendere la realtà ed esplorare punti di vista inconsueti. Un altro inno alla resilienza è il libro Option B (2017) scritto da Sheryl Sandberg, direttore operativo di Facebook, nonché autrice di Facciamoci avanti. Le donne, il lavoro e la voglia di riuscire e fondatrice di Leanln. Org, associazione che aiuta le donne a raggiungere i propri obiettivi. Dopo l’improvvisa morte del marito, Sheryl Sandberg era certa che lei e i suoi figli non avrebbero più provato gioia. «Ero come sospesa nel vuoto – scrive – un immenso buco nero che ti riempie il cuore e i polmoni, che limita la tua capacità di pensare e ti impedisce persino di respirare». Poi il suo amico Adam Grant (psicologo, docente alla Wharton Business School dell’Università della Pennsylvania, nonché editorialista del «New York Times» e autore di bestseller) le disse che esistono azioni concrete da intraprendere per riprendersi dalle esperienze più devastanti. Assieme hanno scritto Option B, che coniuga il vissuto di Sandberg con le ricerche di Grant e riporta esperienze di persone che hanno saputo superare difficoltà significative come malattie, aggressioni sessuali o disastri naturali. Ne è nata un’efficace guida per chi cerca di sviluppare la resilienza nella propria vita, comunità o azienda. OptionB è pure un’associazione no-profit che aiuta le persone a far nascere e potenziare la resilienza. Negli ultimi anni il concetto di resilienza si è conquistato popolarità nel linguaggio comune. «Il termine, in realtà, era già presente nel vocabolario italiano, anche se il suo uso e il suo significato – prettamente tecnici – si celavano ai non specialisti», scrive Simona Cresti dell’Accademia della Crusca nell’articolo L’elasticità di resilienza (2014). «In fisica resilienza è la capacità di un materiale di assorbire energia se sottoposto a deformazione elastica; l’esempio più semplice è quello delle corde della racchetta da tennis che si deformano sotto l’urto della pallina, accumulando una quantità di energia che restituiscono subito nel colpo di rimando(…). Resilienza non è quindi un sinonimo di resistenza: il materiale resiliente non contrasta l’urto finché non

Piegarsi e deformarsi al vento: la resilienza permette di ammortizzare l’urto e riprendere la propria struttura dopo la tempesta.

si spezza, ma lo ammortizza, in virtù delle proprietà elastiche della propria struttura», continua Cresti: «Da qui, una relativa stabilizzazione del significato e il proliferare delle estensioni: in ecologia, resiliente è una comunità capace di tornare velocemente al suo stato iniziale, dopo essere stata sottoposta a una perturbazione; nell’ambito della produzione dei tessili, resiliente indica un tessuto capace di riprendere la forma originale dopo una deformazione, senza strapparsi; in psicologia, la capacità di recuperare l’equilibrio psicologico a seguito di un trauma, l’adattabilità». Ed è quest’ultimo senso quello che viene maggiormente usato nel linguaggio comune. Anche negli eventi traumatici che la vita ci può riservare, la resilienza non va confusa con la resistenza. Chi resi-

ste davanti alle difficoltà prima o poi rischia di spezzarsi. La resilienza, invece, permette di riprendere il cammino, spesso lungo un altro sentiero. Prima però è giusto concedersi del tempo, quello dei ricordi o dell’accettazione. Per il tempo della «riabilitazione» è importante il sostegno di chi ci sta intorno, che può aiutare a tirare fuori questa dote che ognuno possiede in sé. Ovviamente anche la psicoterapia può rivelarsi di aiuto, soprattutto individuando «i luoghi dell’anima» in cui esistono delle risorse psichiche che possono aumentare la vitalità del paziente e contribuire alla costruzione di nuove storie positive. Essere resilienti significa infatti proprio riuscire a trarre forza positiva dagli eventi negativi. Come scrive la numero 2 di Facebook in Option B: «Ho imparato che, se la vita ti

trascina verso il fondo, puoi sfruttare quel fondo per darti una spinta verso l’alto, risalire in superficie e tornare a respirare». L’imprenditrice aggiunge che spesso sono proprio gli eventi negativi a fornire il clic per evolvere, scoprire risorse che non pensavamo di avere e trovare un significato più profondo alla propria vita. La resilienza può poi essere d’aiuto in un’epoca come quella attuale, segnata da instabilità economica e terrorismo. Affinché ciò avvenga, questa risorsa della mente va allenata nel quotidiano. Come? Cercando un’altra visione della situazione quando ci capita qualcosa di stressante. La messa in atto di questo modo di procedere – assicurano gli esperti – porta ad una visione più ottimistica della vita. E automaticamente ad essere più felici.


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Società e Territorio

Il cuore verde del Ticino

Valle Verzasca Il 10 giugno scorso i cittadini hanno accettato il progetto di aggregazione, un obiettivo politico

significativo ma non ancora sufficiente per rilanciare una valle confrontata con un importante calo demografico

Fabio Dozio È la valle di Bond, James Bond. Sulla diga di Contra, all’imbocco della Verzasca, venne girata la memorabile scena del film Goldeneye, in cui l’agente 007 si lanciava nel vuoto per 220 metri. Il bungee jumping rimane una delle attrazioni in Valle, ma non provoca un’invasione di turisti. La forza e l’identità della Val Verzasca rimane il territorio e in particolare il fiume con le sue acque verde smeraldo, una caratteristica unica in Ticino. Lo scorso 10 giugno la Valle ha compiuto un passo politico importante. I cittadini hanno accettato, a grande maggioranza in votazione, con l’85% di consensi, il progetto di aggregazione che permetterà di far nascere il nuovo comune di Verzasca, frutto della fusione fra Brione, Corippo, Frasco, Sonogno, Vogorno e i territori vallerani di Cugnasco-Gerra e Lavertezzo. Il processo aggregativo dovrà passare in Gran Consiglio e sarà definitivo, verosimilmente, con le elezioni comunali del 2020. Verrà così sancita anche formalmente la separazione tra la Valle e il Piano. Una volta i due territori erano legati e gli abitanti transumavano dal piano alla valle. Oggi i destini si separano. Gli abitanti della Valle sono circa 850, con una diminuzione del 5% negli ultimi dieci anni, mentre il Piano, nello stesso periodo, ha visto un aumento dei residenti del 13. La Verzasca deve guardare al futuro con fantasia, immaginazione e determinazione per evitare il cinico destino comune alle periferie di montagna, fatto di spopolamento, riduzione dei servizi, perdita di posti di lavoro. Per contrastare questa prospettiva, lo scorso anno è stato presentato un documento rilevante: Il Masterplan Verzasca 2030, il Piano di sviluppo che ha l’obiettivo di migliorare la qualità di vita della popo-

lazione locale, aumentare l’attrattività della Valle per nuovi residenti e creare nuovi posti di lavoro. Obiettivi che vanno coniugati con un’altra sfida: il rilancio del turismo. Alessandro Speziali è il nuovo coordinatore dei progetti, entrato in carica lo scorso primo giugno. Il Masterplan lo definisce una «persona d’azione in valle», fresco di nomina e motivato del suo nuovo ruolo: quando gli dico che si tratta di un programma ambizioso, forse non facile, lui risponde «quando ho letto il Masterplan, mi son detto: che figata!» Entusiasmo e passione sono due ingredienti preziosi per affrontare questo impegnativo lavoro. Che fare per arginare l’esodo dei vallerani verso il Piano? «È possibile – ci dice – contenere la tendenza, con l’obiettivo finale di invertirla, se in Valle saranno rafforzati i servizi e le infrastrutture che rispondono ai bisogni quotidiani: gli sportelli, i negozi, la scuola, una farmacia, eccetera. L’altra condizione fondamentale è la creazione di posti di lavoro, elemento essenziale per arrestare il calo demografico. Infatti, una delle aree d’intervento del Masterplan è il vivere e lavorare in valle, che ispira molti dei progetti previsti. Essere complementari ai centri urbani significa assumere uno stile di vita diverso, più comunitario e meglio inserito nel proprio contesto naturale e storico, senza tuttavia dover rinunciare ad aspetti ormai irrinunciabili dell’evoluzione dei tempi». In Valle sono presenti diverse associazioni che tengono vivo il tessuto sociale, ma i luoghi di incontro sono pochi. Le abitazioni secondarie superano il 60% del totale, con punte di 80/90% a Corippo e a Frasco. Lo stato delle infrastrutture pubbliche, strade, edifici comunali, ecc. è relativamente buono, ma negli ultimi anni si assiste a una riduzione dei servizi di base, uffici postali, sportelli bancari, negozi. Annuncio pubblicitario

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Il coordinatore dei progetti Alessandro Speziali auspica un equilibrio tra le esigenze del turismo e la vita in valle. (Keystone)

I posti di lavoro in Valle sono poco più di 200, principalmente nel settore dell’alloggio e della ristorazione, il 27% nell’agricoltura e il 22% nell’artigianato. La mobilità è caratterizzata dall’uso dell’auto privata, in estate sono circa 3500 in media ogni giorno i veicoli che attraversano la Valle, 1500 in inverno. Unico mezzo pubblico è l’Autopostale, che non offre però un servizio che possa sostituirsi ai veicoli privati: l’ultima corsa verso il Piano è alle 18.30. Il Masterplan offre uno spaccato piuttosto desolante dello stato della Valle, ma presenta un ricco catalogo di bisogni e misure operative per far fronte alla situazione attuale. Vere e proprie «Rivendicazioni verzaschesi», stilate anche grazie al contributo della popolazione, interpellata in proposito. In particolare si sottolinea l’importanza di potenziare i negozi in Valle, di creare nuovi servizi, spazi per gli anziani e per i giovani, farmacia, edicola. Si progetta di sostenere e promuovere eventi e tradizioni che mantengano vivi i villaggi nel corso dell’intero anno. Altra scommessa impegnativa, si pensa di creare residenze primarie per attrarre nuovi abitanti. «Dal punto di vista generale, – sostiene Alessandro Speziali – si tratta di trasmettere un’immagine positiva dell’abitare in valle, che sappia distinguersi dalle dinamiche tipicamente urbane senza tuttavia dover rinunciare a funzionalità, comodità e vitalità. Nel concreto, si tratta per esempio di offrire terreni a un prezzo molto competitivo, attirando giovani e famiglie che altrimenti faticherebbero ad accedere a un’abitazione propria. Queste opportunità andranno promosse capillarmente, trovando la propria nicchia nel mercato immobiliare regionale. Si tratta di un vero e proprio marketing territoriale, capace di sorprendere e convincere». Il turismo, nelle nostre valli, e non solo in Verzasca, rappresenta un dilemma: essere o non essere… regione turistica? Da una parte le zone periferiche, dalla Val Bedretto all’Onsernone, dalla Val Calanca alla Verzasca, vogliono incrementare il flusso di turisti, dall’altra temono che troppi visitatori rovinino e disturbino la quiete e la qualità di vita dei residenti. In Verzasca questo dilemma è apparso in modo esplicito lo scor-

so anno, quando un giovane milanese ha decantato su Youtube le bellezze delle «Maldive di Milano», ovvero le acque turchesi del fiume a Lavertezzo. C’è chi ha apprezzato l’arrivo di molti giovani dalla vicina Italia e chi si è lamentato perché «vengono, sporcano, non consumano e se ne vanno». L’obiettivo del coordinatore è di trovare un equilibrio fra le esigenze del turismo e la vita in valle. Il gioiello assoluto dell’offerta turistica è il fiume, con le sue acque verde smeraldo, che ricordano lande esotiche, e la natura incontaminata, che può essere apprezzata utilizzando la vasta rete di sentieri. I nuclei protetti, le case di granito che si confondono con la montagna, rimangono un’attrazione per chi viene da fuori. I muri a secco e le costruzioni in sasso stupiscono ancora, come sbalordivano, a fine Settecento, il bernese von Bonstetten: «Queste case altro non sono che cumuli di pietra, senza calce, piccole, miserabili e sporche, costruite in modo tale ch’è pericoloso sostare in ogni loro angolo». Ma intanto rimangono in piedi da secoli e la loro bellezza rustica rimane immutata. L’agricoltura e i prodotti locali, con la vendita diretta di prodotti tipici, possono diventare un richiamo turistico. Le attività sportive, la gastronomia e l’alloggio sono gli altri settori su cui puntare. Attualmente, le strutture turistiche non sono molte: 9 alberghi o pensioni per complessivi 186 posti letto, 12 capanne con 212 letti e tre strutture per gruppi; 18 sono le strutture gastronomiche, ristoranti, osterie e grotti. Il mercato turistico è rappresentato dai ticinesi (30%) dai confederati (30%) da tedeschi e italiani, 10% ciascuno. La maggioranza dei pernottamenti avviene nelle case di vacanza (91% del totale). Gli alberghi hanno registrato 7800 pernottamenti nel 2014, tremila in meno rispetto a sei anni prima. Invertire questa tendenza non sarà facile, ma il Piano di sviluppo è ambizioso e prevede un incremento dei pernottamenti del 95%, vale a dire un raddoppio quasi netto entro il 2030. Il villaggio di Corippo sta facendo da apripista con la realizzazione dell’albergo diffuso, camere distribuite nei piccoli rustici rimasti disabitati. «La cornice paesaggistica della

Verzasca – dice il coordinatore – non può non essere la prima immagine al risveglio di un turista che esige un’esperienza autentica. L’incremento dei pernottamenti, con strutture ospitali e di qualità, è un obiettivo realistico che tratterrà i visitatori in valle. Questo genera un circolo virtuoso fatto di vitalità e indotto per gli attori attivi sul territorio e consente un turismo un po’ più slow, disincentivando quel mordi-efuggi che crea qualche innegabile disagio. Il progetto di campeggio a Brione, l’albergo diffuso a Corippo, il Centro sportivo a Sonogno e la rete di rustici e pensioni presenti in valle costituiscono un potenziale concreto da sfruttare. Dopodiché … ogni nuova iniziativa di qualità è la benvenuta, come sempre!» Ora la Verzasca punta sullo sviluppo. Il segno più marcato e anche violento di modernità è stato la diga, inaugurata nel 1965. Molti, nella regione, l’hanno subìta come un’opera invasiva, fra questi anche alcuni scrittori, come Piero Bianconi e Anna Gnesa, che scriveva: «E oggi, noi che vediamo sempre più arretrare la natura e con essa la vita, noi che abbiamo perduto il silenzio, pensiamo con rapace nostalgia a che cosa doveva essere la valle quando era intatta da cima a fondo, e la gente e le cose sue facevano parte di quella natura». «Ogni progetto – conclude Alessando Speziali – ha senso e avrà un futuro se mette radici anche nella convinzione e nella partecipazione attiva di coloro che il territorio lo abitano. L’attaccamento locale è molto sentito, e il Masterplan è stato un vero e proprio laboratorio condiviso di idee, spunti e critiche costruttive: sintomo che c’è voglia di contribuire al rilancio della Valle. Sono le cittadine e i cittadini verzaschesi al centro del Masterplan, il quale vuole poi integrare un turismo sostenibile nel pieno rispetto del paesaggio, sia naturale sia umanizzato. La sfida è di costruire un equilibrio fra autenticità e digitalizzazione, fra le esigenze di chi abita e di chi visita. Il Masterplan potrebbe anche essere letto come una cerniera che unisce il passato e il futuro della Valle, dai sentieri etnografici di una volta ai canali di YouTube che portano il cuore verde del Ticino in ogni angolo del mondo».


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 13 agosto 2018 • N. 33

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Società e Territorio

Un centro diurno flessibile

Anziani La nuova struttura della Croce Rossa Svizzera, sezione del Sottoceneri, è stata aperta a Manno

all’inizio dell’anno, la sua organizzazione si ispira al metodo Montessori

Stefania Hubmann «Portare fuori e portare dentro». È questo il motto che anima il nuovo Centro diurno terapeutico della Croce Rossa Svizzera (CRS), sezione del Sottoceneri, attivo da inizio anno a Manno. Gli anziani sono spesso accompagnati in gite che permettono loro di mantenere un legame con il territorio e la vita sociale che vi si svolge, mentre famiglie, volontari e popolazione, grazie anche alla possibilità di sfruttare una sala modulabile, sono invitati a scoprire questo spazio creato ad hoc per la presa a carico di persone anziane con ridotta autonomia residenti al domicilio. Il carattere innovativo del Centro, rappresentato sia dalla dimensione, sia dalla gestione, è oggetto di un progetto pilota cantonale che valuterà i diversi aspetti sull’arco di tre anni. Un salone luminoso, un locale con comode poltrone per il relax, una cucina professionale ed un’altra ad uso degli ospiti, due verande di cui una aperta sul giardino ci accolgono al nostro arrivo al Centro, invitati dalla responsabile Daniela Saredo-Parodi a condividere con ospiti e team curante un momento conviviale. Ed è proprio il benvenuto di personale, volontari e utenti a colpirci. Gioviali e aperti, sono a loro agio nelle rispettive funzioni con un senso del gruppo che accomuna tutti, dal direttore della sezione del Sottoceneri Fabrizio Comandini ai nuovi arrivati. Fulcro di ogni attenzione la persona anziana nella sua individualità e specificità, come spiega la responsabile. «Abbiamo seguito una formazione alla casa dei ciechi STAC per applicare le teorie educative di Maria Montessori alle persone anziane. Siamo stati accompagnati da Fabrizio Greco, direttore della STAC, e Hurija Lukavica, pionieri in Ticino nell’introduzione del metodo Montessori per la cura degli anziani. Conoscere ed osservare la persona, rispettare la sua biografia e autobiografia, promuovere un programma individualizzato, sono i principi di questo approccio che interessa anche l’ambiente e le attività destinati agli utenti». Il funzionamento del centro di Manno è ancora in fase di perfezionamento con gli ospiti che partecipano attivamente all’ambientazione degli spazi: dalla scelta delle tovaglie all’arredamento della sala relax, all’organizzazione della cucina terapeutica. Particolare attenzione merita il giardino,

Uno dei punti di forza del Centro diurno terapeutico è il giardino con orto realizzato in postazioni rialzate.

con una fontana, un orto realizzato in due postazioni rialzate, un lungo corrimano e persino la discreta presenza di una tartaruga. Gli ambienti arricchiti sono una caratteristica dell’approccio Montessori che mira a permettere agli anziani, in particolare a quelli colpiti da malattie cognitive, di essere coinvolti in attività della vita quotidiana, aiutandoli a svolgere alcuni compiti da soli per favorirne l’indipendenza e l’autostima. Le attività sono il terzo aspetto centrale del metodo. Daniela Saredo Parodi: «Si cerca di utilizzare materiali e creare rituali che favoriscono i punti di forza e gli interessi della persona. Insieme stiamo realizzando alcune scatole con l’occorrente per lavoretti o passatempi che ognuno può svolgere per conto proprio. Alcuni si assumono poi piccoli compiti, dal bagnare le piante all’apparecchiare la tavola». Direttore e responsabile ci tengono a sottolineare come il progetto sia stato costruito sulla base di quanto sviluppato da Lilly Camponovo nel Centro diurno che l’allora sezione CRS Luganese aveva inaugurato all’inizio del nuovo Millennio nella sede di via alla Campagna in centro città. «Aperto con pochi ospiti come luogo di ritrovo

a scopo ricreativo – ricorda Fabrizio Comandini – negli anni seguenti si è velocemente trasformato in centro socio-assistenziale con personale di accompagnamento e stimolo, prima di assumere l’attuale forma terapeutica (con presenza di operatori sanitari) in modo da rispondere ai crescenti bisogni dell’utenza». Da Lugano a Manno il Centro diurno terapeutico si è ampliato e rinnovato diventando di particolare interesse per il Cantone, perché potrebbe fungere da caso esemplare per gli sviluppi della presa a carico delle persone anziane su tutto il territorio ticinese. Oltre che dall’applicazione del metodo Montessori, è caratterizzato da un maggiore numero di ospiti, venticinque, seguiti complessivamente da una quindicina di professionisti a tempo parziale e da circa cinque volontari al giorno. Altro test importante è quello degli orari. Il primo turno, con servizio di trasporto da e per il domicilio, copre la fascia dalle 8.30 alle 16.30 dal lunedì al venerdì (feriali). Un secondo turno dalle 14 alle 20 è attivo per 8 utenti che non richiedono trasporto. Sono inoltre previste aperture prolungate (sempre per 8 utenti senza tra-

sporto) due giovedì al mese fino alle 22 e un sabato dalle 10 alle 16. Per ora l’interesse per l’estensione degli orari è limitato, ma si attende in particolare la fine dell’estate per valutare eventuali cambiamenti nelle abitudini degli ospiti e delle loro famiglie. Da rilevare, che il Centro è situato in una posizione con vista sul nucleo di Manno, vicino a un parco giochi e a un parcheggio. Precisa Fabrizio Comandini: «L’edificio è stato costruito da una fondazione privata. Ai piani superiori ospita uno studio di fisioterapia, due studi medici, una società di cure a domicilio oltre a piccoli appartamenti. Sono attività indipendenti dal servizio della CRS, ma con le quali è possibile creare sinergie. Il pianterreno è tutto occupato in locazione dal Centro diurno terapeutico progettato sulla base delle nostre esigenze. Il salone centrale affacciato sul giardino e i locali che lo circondano assicurano grande funzionalità pur conservando un carattere familiare». Gli ospiti apprezzano questa prerogativa, come pure la possibilità di uscire nel verde. Lo testimoniano i racconti di Anita e Silvano, al cui tavolo abbiamo concluso il pranzo, voluta-

mente consumato con calma sull’arco di quasi due ore. «Vengo tutti i giorni da Savosa – ci racconta la cordiale signora di 93 anni – e mi piace la compagnia, così come le tante cose che facciamo». «È bello ridere insieme», aggiunge Silvano, il quale frequenta il Centro solo temporaneamente. La struttura permette infatti di alleviare i famigliari curanti e di ovviare alle loro assenze, motivi che hanno spinto a sperimentare le aperture prolungate. Alcuni servizi, come il controllo mensile della glicemia e della pressione, sono inoltre aperti alla popolazione. Anche oltre i 90 anni, con gli inevitabili acciacchi dell’età, si può quindi continuare a trascorrere giornate il più complete possibili in un ambiente familiare e cordiale che ha il suo punto fermo nel Centro diurno, ma che può trasferirsi al Lido di Lugano piuttosto che sul Monte Brè. Infondere protezione e sicurezza rispettando le scelte personali è l’obiettivo di chi guida il servizio, i cui cambiamenti sono sempre introdotti gradualmente coinvolgendo gli utenti. L’intera organizzazione è all’insegna della flessibilità per essere meglio preparata a gestire le richieste di cambiamento della società.

Viale dei ciliegi di Letizia Bolzani Allegra Agliardi, Di tutti i colori, TerrediMezzo, da 3 anni Il tema dei colori è molto esplorato nei libri per l’infanzia, eppure questo, di Allegra Agliardi, si staglia con originalità e accuratezza formale nel panorama di titoli sull’argomento. Ha un formato da libro grande, più che da albo illustrato, ma le pagine sono robuste, a prova di sfogliamenti. E se ne prevedono tanti, in queste belle pagine, da girare, avanti e indietro, scoprendo colori e forme sempre nuove, perché una sì e una no hanno dei ritagli in mezzo, che creano oggetti diversi a seconda del colore che assume il “buco” appoggiandosi sulla pagina contigua, e a seconda dei particolari disegnati attorno al ritaglio. È un invito ad esplorare i colori, formulato al piccolo lettore da un bambino che appare nella prima pagina; un invito che condurrà in una passeggiata tra la natura e gli oggetti domestici e familiari, apprezzando il colore di ogni cosa. E i colori non vengono presentati

in tono generico (il blu, il verde, il rosso e così via), ma di ognuno si evidenziano varie declinazioni tonali (il verde turchese, il verde smeraldo, il verde del gelato al pistacchio, il verde dell’erbetta appena nata... il blu del cielo di giorno, il blu notturno dello spazio infinito, il blu delle onde....). C’è un ritmo visivo, che conduce per mano il bambino dentro le molte possibilità di un colore, ne prende congedo, e passa a un altro colore; e c’è un ritmo sonoro, perché il testo è in rima, e procede al passo delle immagini. Un libro che sarà prezioso in occasione della Notte del Racconto

2018 (il cui titolo è proprio Di tutti i colori!) e che invita – anche i grandi - a continuare a meravigliarsi dei colori che ci circondano: «celeste, indaco, giallo limone, rosso amaranto, verde bottiglia:/non ti fermare, continua a esplorare, ogni colore ha la sua meraviglia!». Kim Dwinell, Le ragazze del surf. I misteri di Danger Point, Il Castoro, da 9 anni Nella linea editoriale de Il Castoro c’è uno spazio riservato al graphic novel di qualità, che da tempo offre ai giovani lettori la possibilità di apprezzare storie create dai migliori autori contemporanei, come Raina Telgemeier, punto di riferimento del fumetto «middle grade», ossia più o meno per la fascia 9-14. I suoi Smile, Sorelle, Fantasmi, e il più recente, In scena! (in uscita a settembre) sono libri bellissimi. Entra ora nello spazio graphic novel di qualità anche questo libro, di una nuova autrice che come la Telgemeier

racconta storie di ragazzine, attingendo anche lei (come aveva fatto la Telgemeier in una sua storia) al tema «fantasmi». Lei è Kim Dwinell, surfista appassionata, una carriera nel film d’animazione e ora insegnante di animazione all’Università della California: con questo fumetto, ambientato in una località balneare californiana, debutta come autrice a tutto tondo raccontando una storia di spiagge e di oceano. Ci sono due ragazzine, tra infanzia e adolescenza, Samantha e Jade: il papà di Samantha gestisce il chiosco di hamburger e noleggio

kajak e surf, il papà di Jade è medico in ospedale. Sono amiche del cuore nonostante qualche screzio dovuto al fatto che Jade è nella fase risatine-egridolini quando ci sono maschi nei paraggi («diventi davvero ridicola» la ammonisce Samantha). Eppure questa sarà anche la storia di un primo, delicato amore di Samantha: una storia romantica, perché «lui» è il fantasma di un giovane pirata, Robert, perito in un naufragio molti anni prima. Un fantasma gentiluomo, che le dà del lei e la chiama «Signorina», perché così si usava alla sua epoca. Samantha riesce a vederlo, tra altri fantasmi, sulla sua spiaggia preferita, che sta per essere rovinata dalla costruzione di un villaggio vacanze. Starà a lei, con il generoso aiuto della sua amica Jade, scoprire i malfattori che lucrano su quel territorio e sventare l’operazione. Mistero, avventura, surf, immersioni, oceano, romanticismo: ingredienti ben dosati in una storia estiva che di certo conquisterà le ragazzine.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 13 agosto 2018 • N. 33

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Società e Territorio Rubriche

L’altropologo di Cesare Poppi Vodu e rivoluzione Il 14 agosto 1792, ad un mese esatto dalla presa della Bastiglia, mentre a Parigi il caos regnava sovrano nelle giornate convulse che portarono alla definitiva vittoria delle forze rivoluzionarie, dall’altra parte dell’Atlantico maturava un’Altra Rivoluzione, altrettanto importante per la storia globale del mondo e tantopiù paradossalmente glissata dalla storiografia dominante. Siamo a Boïs Cayman, una località remota della colonia francese di Saint-Domingue, nell’isola di Hispaniola, la stessa terra fatale sulla quale Colombo aveva piantato la croce il 5 dicembre di tre secoli prima. Un gruppo di schiavi sotto la guida della Mambo Cécile Fatiman e dello Houngan Boukman Dutty – rispettivamente sacerdotessa e sacerdote del culto vodu, celebravano una liturgia che avrebbe dato il la alla prima rivoluzione antischiavista ed alla costituzione della Repubblica di Haiti nel 1803. In stato di trance, l’Houngan profetizzò che gli schiavi Jean François, Biassou e Jeannot sarebbero divenuti i leader di un movimento di resistenza contro gli oppres-

sori bianchi per la liberazione di tutti gli schiavi di Saint-Domingue. Il sangue di un animale sacrificato venne bevuto da tutti i partecipanti in giuramento per quello che commentatori cristiani ed oppositori della rivoluzione stigmatizzarono da allora in poi come Patto col Diavolo. Una settimana più tardi 1’800 piantagioni erano state distrutte e mille padroni di schiavi uccisi. Quello di Boukman e Fatiman era almeno il terzo tentativo di organizzare una rivolta nella colonia: Padrejean nel 1676 e François Mackandal nel 1757 già avevano provato – fallendo – di cambiare le atroci condizioni di vita degli schiavi in quella che, paradossalmente, si era guadagnata il nome di Perla della Antille. Il segretario personale di Henri Cristophe, un ex-schiavo di origine maliane che fu dal 1807 il primo presidente della Repubblica di Haiti prima di dichiararsi Re col nome di Enrico I, scriveva nelle sue memorie della schiavitù: «(I padroni bianchi) non hanno forse impiccato i loro schiavi a testa in giù? Non li hanno fatti annegare chiusi? Non li hanno crocifissi

o sepolti vivi o schiacciati nei mortai? Non li hanno costretti a mangiare feci? Oppure, dopo averli frustati a sangue, non li hanno lasciati alla mercè di vermi e formiche? Non li hanno legati nelle paludi ad essere divorati dalle zanzare? Non li hanno ancora gettati nei calderoni di melassa bollente? Non hanno messo uomini e donne dentro barili foderati di chiodi per poi buttarli lungo i dirupi? Non hanno forse scatenato contro questi miserabili cani feroci che li hanno sbranati vivi fino a quando, saziatisi i cani con carne umana, venivano finiti dai guardiani con mazze e pugnali?». Già nel 1685 Luigi XIV aveva provato a mitigare le condizioni di vita nelle ricche piantagioni di canna da zucchero: il Code Noir regolamentava le punizioni corporali e tentava di rendere meno disumane le condizioni della forza-lavoro, ma con ben poco profitto. Nel 1751 era stato un altro Houngan del vodu, il già citato Mackandal, schiavo fuggiasco della Guinea monco di un braccio e determinato a non farsi mai più angariare dai bianchi, ad avviare le prime forme di

resistenza organizzata. Aveva pertanto coalizzato le varie comunità di Maroons, schiavi fuggiaschi che vivevano nel folto delle foreste nelle montagne di Saint-Domingue, e condotto raid contro i bianchi nell’isola predicandone il completo sterminio. Si stima che fra il 1751 e il 1758 le bande di Mackandal abbiano ucciso più di seimila coloni bianchi, fino a quando, fallito un tentativo di avvelenare i pozzi di acqua potabile dei coloni bianchi, fu catturato dai francesi e bruciato vivo nella piazza centrale di Cap-Français. La rivolta di Mambo Fatiman e Houngan Boukman fu più fortunata. Per qualche anno le Rivoluzioni nella colonia di Saint-Domingue e nella madrepatria parigina marciarono a braccetto, impegnate in uno dei più strani pas de deux che la storia ricordi. L’uno con l’altro armati Parigi e quella che sarebbe diventata Haiti lottavano per gli stessi valori senza peraltro trovare un’intesa sul come uscire da un impasse che guadagnava agli Altri la libertà ma faceva perdere agli Uni una delle perle della corona, peraltro ormai

decollata. Con l’abolizione della schiavitù da parte del parlamento francese nel 1793, si instaurò un regime di precario equilibrio laddove il ruolo sovversivo era ora giocato dalle classi di proprietari di piantagioni che erano contrarie all’abolizione. Una serie di riforme fondiarie portò poi all’ascesa di una potente classe di proprietari creoli che, con la sete di affermarsi come forza sociale egemonica, aveva forse ancor meno remore riguardo al trattamento della forza-lavoro della controparte bianca d’antan. Una nuova rivolta – quella guidata da Toussaint L’Ouverture, poi portata a compimento da Jean-Jacques Dessalines – portò prima alla ritirata delle truppe francesi nella parte orientale di Hispaniola in quella che sarebbe diventata poi la Repubblica di Santo Domingo e dunque alla fondazione della Repubblica di Haiti nella metà Occidentale. Il resto è Storia. Storia ovvero di uno dei Paesi più poveri del mondo che - peraltro – fu attore protagonista – per quanto a sorpresa - della lotta per quella che oggi chiamiamo la Libertà dei Moderni.

cambiare e di diventare, oltre che protagonisti, anche autori dell’autobiografia aprendo un nuovo capitolo della nostra storia. Certo ci vuole creatività per progettare un futuro desiderabile e coraggio per realizzarlo, ma vale la pena di tentare piuttosto che sopravvivere o rassegnarsi a morire a piccole dosi. Nella lettera precedente Alice raccontava di aver superato il dolore per la morte del marito vivendo per dieci anni da eremita, occupandosi dei suoi cani e dei suoi gatti. In quell’isolamento volontario non è rimasta però inattiva: grazie alla meditazione ha metabolizzato le scorie del lutto sino a uscirne trasformata, sino a diventare una persona nuova, capace di comprendere e accettare senza pregiudizi se stessa e gli altri. Al contrario I. si è tuffata nel dramma degli immigrati in fuga dalla guerra sciogliendo il suo dolore nel loro, declinando l’io in noi. Due modi opposti di reagire ma entram-

bi dimostrano che la vita ci può salvare. In un caso con la saggezza, nell’altro con l’amore. Chi segue da tempo questa rubrica sa con quanta convinzione sia solita affermare che, paradossalmente, nell’amore dare e ricevere, attivo e passivo si confondono e alla fine, come afferma con forza I.: si va per aiutare e alla fine ci si trova aiutati. P.S. La lettera rivolta a Maria Novella è più lunga di quella che ho riportato e, se l’interessata ci invia il suo indirizzo, possiamo spedirgliela per intero. Buona estate a chi partecipa, leggendo e scrivendo, a una «Stanza del dialogo» sempre più interattiva.

queste giornate di grande esodo, sembra scontata. Abbiamo sotto gli occhi le code in autostrada, le spiagge strapiene, per non parlare dei beceri che si tuffano nelle fontane di Roma o urinano nei canali di Venezia, o lasciano lattine e plastiche anche nei nostri parchi. Sono immagini che rispecchiano proprio l’uso distorto e gli eccessi di una libertà che, comunque, ci spetta di diritto. Appartiene alle conquiste di un’epoca che permette di muoverci, a nostro rischio e pericolo, mettendoci alla prova come viaggiatori e vacanzieri. È un esame che non tutti riescono a superare. Con ciò, non va precluso a nessuno. Anche in nome del turismo di qualità che, intanto, sta conquistando terreno, a suo modo, marginalmente, alla stregua di un hobby per spiriti intraprendenti. Sia chiaro, non è una questione di tipo finanziario, uno sfizio da ricconi. Piuttosto, un modo per distinguersi, appunto dalla massa, scegliendo itinerari insoliti. «Deserto cercasi», s’intitolava, su

«Vanity Fair», un commento dedicato al fenomeno delle vacanze «Senza nessuno attorno», in cui si elencavano luoghi ancora poco frequentati: la Moldavia, le isole Salomone, gli atolli di Kiribati e Tuvalu. Senza contare, ovviamente, mete sconsigliabili per motivi di sicurezza, dalla Somalia alla Repubblica Centrafricana, al Medio Oriente. In fin dei conti, la folla è un indizio di successo di luoghi gradevoli e accoglienti. Esposti, addirittura, al rischio dell’«Overtourism»: fenomeno che, stando agli ultimi dati statistici, ha risparmiato proprio il Ticino, in controtendenza rispetto alle città e alle montagne d’oltre Gottardo. Non è stata, però, una sorpresa. Anzi, conferma il pessimismo dei nostri albergatori e ristoratori che, già a Pasqua (una Pasqua bassa e tanta neve nelle località sportive), avevano presagito il malandazzo. Che, tuttavia, potrebbe avere risvolti positivi: turisti, meno numerosi, ma di qualità. Che cosa, poi, si debba intendere per qualità rimane una questione aperta.

La stanza del dialogo di Silvia Vegetti Finzi La vita ci salva Cara Silvia, mi ha molto colpita la lettera di Maria Novella e mi è venuto spontaneo, non potendola abbracciare, almeno di scriverle. La capisco e posso immaginare come si sente. So che ognuno soffre per il proprio dolore e volevo dirle quello che sto vivendo io. Dopo un matrimonio estremamente felice, pochi giorni prima del quarantesimo anniversario, mio marito mi ha detto che si era innamorato di una giovane e che a lei non voleva rinunciare. …Abbiamo due figli (due li abbiamo persi) e abbiamo passato insieme molte peripezie. Per me è crollato il mondo, lui era l’unica certezza in tanti anni passati insieme. Ho vissuto a lungo, notte e giorno, con la sensazione di vivere con un coltello conficcato nel cuore. Ora ho 75 anni e mi ritrovo sola. Le figlie sono lontane. In questo tempo però ho imparato molte cose e la più importante è di non chiedere

«perché è successo questo?» ma «a qual fine?» e nel frattempo cerco una risposta. Ho avuto la grazia di fare quello che avevo sognato sin da giovane e che non avevo mai avuto il coraggio di osare. Non ho una formazione particolare, sono una donna comune, mamma e nonna, ma da sola, con la valigia, in pieno inverno sono partita per Lesbos, là dove arrivano barconi stracolmi di siriani in fuga dalla guerra. Mi sono ritrovata con gente meravigliosa, volontari di tutto il mondo che condividevano i miei ideali, con i quali ho ancora legami di amicizia. Le persone in fuga erano così riconoscenti! Ti facevano sentire «qualcuno» solo per il fatto che eri lì e, anche se non facevi niente di speciale eri lì con loro! Nel frattempo sono tornata sei volte in Grecia e ora sono appena tornata. Anche adesso aiuto i profughi che sono qui da noi partecipando a diversi gruppi. Ripeto sempre che «ero andata per aiutare e invece sono stata aiutata»

Ho ricevuto molto più di quanto avessi dato io. …Le auguro di trovare qualcosa che le riscaldi il cuore. Coraggio Maria Novella! Le sono vicina! / I. Grazie I. di questa testimonianza che, seppur diretta a una persona in particolare, può aiutare tutti perché è probabile che, nella vita, si debbano affrontare momenti di sconforto e di rimpianto e gli esempi altrui ci aprono prospettive inaspettate. La scelta più negativa è chiudersi in se stessi incrementando i sentimenti negativi, quelli che intossicano la mente e il cuore in un continuo rimuginare i torti subiti dal destino e dagli altri. La sua lettera insegna che la vita può costituire un veleno ma anche un farmaco nella misura in cui si riesce a trovare la propria strada e a percorrerla con coraggio e determinazione. Purtroppo non ci sono ricette valide per tutti ma ciò che conta è credere nella possibilità di

Informazioni

Inviate le vostre domande o riflessioni a Silvia Vegetti Finzi, scrivendo a: La Stanza del dialogo, Azione, Via Pretorio 11, 6900 Lugano; oppure a lastanzadeldialogo@azione.ch

Mode e modi di Luciana Caglio Il successo turistico, nuova sofferenza L’ultima vittima di questo male di stagione, che si chiama «Overtourism», ci concerne da vicino. Dopo Venezia, Barcellona, Amsterdam, è la volta di Lucerna, la prima città svizzera a denunciare, ufficialmente, i disagi provocati dai visitatori, diventati troppi. Secondo le statistiche, 9,4 milioni all’anno, numero ragguardevole che, tuttavia, non dovrebbe imbarazzare una delle più attrezzate località elvetiche, considerata addirittura l’antesignana del turismo di lago e anche di montagna, grazie al Rigi-Kulm, che attirò ospiti illustri e persino inventati: nel 1885 il Tartarin sur les Alpes di Daudet. Si sta parlando di una lunga tradizione di alto profilo che, alle bellezze del paesaggio, ha saputo abbinare il valore aggiunto di una cultura ad ampio raggio: le mostre d’avanguardia, favorite dalla presenza di Hans Erni, il Museo dei trasporti, e soprattutto la musica. Nel 1938, Arturo Toscanini, in esilio dall’Italia fascista, inaugurò un festival

di richiamo mondiale. Il prossimo 17 agosto, la stagione si riapre con Riccardo Chailly, nell’impareggiabile sede, firmata da Jean Nouvel. Ed è, verosimilmente, questo passato di prestigio, culturale e mondano, ad accentuare il contrasto con il turismo attuale, ormai contagiato dal mordi e fuggi. Lucerna si trova alle prese con i

visitatori di giornata, che arrivano in gruppi, scaricati da torpedoni per poi, tutti insieme, seguire itinerari prestabiliti, che sfociano nel piccolo centro storico, creando ressa e disordine: inconvenienti deplorati dai residenti. Le proteste di questi lucernesi, spaesati nella loro quotidianità, non sono rimaste lettera morta: hanno animato un movimento d’opinione che si è fatto sentire sul piano politico, al di là delle divergenze partitiche. Si delinea una vera e propria emergenza che allarma tutti, indistintamente. Secondo gli addetti ai lavori, gli ospiti di giornata, adesso 1,4 milioni, in gran parte cinesi, giapponesi, indiani, russi, si moltiplicheranno a vista d’occhio, nei prossimi anni. Sarà un’invasione pacifica, inarrestabile e non del tutto innocua. A questo punto, anche a Lucerna, si torna a proporre un rimedio, risaputo e in pari tempo inapplicabile: puntare sul turismo di qualità e limitare quello di massa. Si tratta di una scelta che, in


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Ambiente e Benessere Reportage dalle Eolie Sull’isola di Filicudi è in funzione un centro che si occupa di tartarughe e delfini

Audi potenzia la sede ungherese Aumentando gli orari di lavoro, si potrà agilmente arrivare a costruire quotidianamente oltre mille motori elettrici per le auto del futuro

Il vino della Rioja moderna La parte alta della regione spagnola ospita i terroir di vitigni leggendari pagina 14

I gatti amano viaggiare? L’esperienza di Morphi fa crollare del tutto i pregiudizi sui felini e sul loro essere stazionari

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Senza rifiuti in montagna con Sherpa Iniziative Il progetto Montagne Pulite

sensibilizza escursionisti e gestori delle capanne e dei rifugi in merito allo smaltimento corretto degli scarti amplia il raggio d’azione della nuova iniziativa

Elia Stampanoni Una gita in montagna significa aria aperta, natura e ambienti incontaminati. Per godere appieno di giornate spensierate, un buon pranzo al sacco o in capanna sono l’ideale. Una situazione che può però avere degli strascichi poco piacevoli per chi si occupa di gestire le capanne alpine, a volte sommerse dai rifiuti lasciati sul posto dagli avventori. Rifiuti che sono in continuo aumento, sia per il numero di persone che frequentano le montagne, sia per le mutate abitudini del consumatore, sempre più abituato a imballaggi e prodotti confezionati o altri generi di consumo che creano scarti. A questo si aggiunge poi anche il littering, malcostume che vede la spazzatura lasciata con noncuranza nell’ambiente e che non ha limiti. Non solo su marciapiedi, strade o piazze: purtroppo il littering arriva anche nei parchi, nei prati, sui laghi e, appunto, in montagna. L’abbandono e l’accumulo di rifiuti in montagna è un problema crescente che nel 2015 ha portato all’ideazione del progetto Montagne Pulite, promosso dal Dipartimento del territorio del Canton Ticino con il sostegno dell’Azienda cantonale dei rifiuti, Banca Stato e Associazione svizzera non fumatori. Marcello Martinoni, geografo e coordinatore del progetto, ci spiega il concetto di questa iniziativa: «Montagne pulite nasce per favorire la gestione efficace e sostenibile delle capanne alpine sul territorio ticinese e in particolare dei rifiuti. Il modo migliore di smaltirli è di riportarli a valle, anche perché molte capanne o rifugi alpini non sono raggiungibili con veicoli e quindi il problema diventa ancora più importante e le soluzioni più costose». Il progetto mira in particolare a sensibilizzare gli utenti della montagna nel produrre meno rifiuti e nel gestirli meglio, ma prevede pure la messa in rete dei gestori delle capanne e dei rifugi per permettere e incentivare uno scambio di esperienze, anche oltre i

confini cantonali, così da trovare le strategie migliori da applicare. Il motto dell’iniziativa, che ha già raccolto l’adesione di una ventina di capanne e rifugi, è semplice ed esplicito: «Dai un valido contributo se porti a casa i tuoi rifiuti». Gestire i rifiuti in alta montagna non è semplice, dato che devono essere stoccati per molto tempo in attesa del trasporto a valle. Inoltre, per le capanne, smaltire correttamente i rifiuti significa creare ulteriori spese per i trasporti, siano essi con mezzi motorizzati oppure, sovente, tramite ancor più costosi e invadenti voli in elicottero a fine o metà stagione. Per incentivare questa piccola ma facile abitudine è quindi stato integrato nel programma di Montagne Pulite il progetto Sherpa, che si rifà all’idea delle guide e dei portatori di alta quota ingaggiati per le spedizioni himalayane. Qui non si tratta però di trasportare pesanti attrezzature e viveri, ma semplicemente di riportare a valle i rifiuti prodotti in montagna. Le capanne e i rifugi aderenti sono muniti di un espositore con una breve spiegazione del progetto, dove gli escursionisti possono trovare dei sacchetti contenenti spazzature da portare «a casa» per poi eliminarli in modo corretto. Mentre il gestore può impegnarsi a produrre meno rifiuti, l’escursionista può contribuire portando a casa i propri (e quelli degli altri ospiti) per mantenere la montagna pulita. «È un piccolo gesto – commenta Martinoni – ma noi crediamo che proprio dal piccolo nasca la meraviglia. In questo modo, oltre a dare il buon esempio, si può dare un concreto aiuto alle capanne nel non accumulare troppi rifiuti, diminuendo i costi ambientali e finanziari di voli in elicottero e partecipando nel contempo a mantenere un ambiente bello, pulito e sano». Come incoraggiamento è pure stato abbinato un concorso a cui partecipano tutti i piccoli sherpa che compilano il libro degli ospiti in capanna. «I partecipanti possono inoltre conservare il sacchetto, una borsa di stoffa

Uno dei partecipanti al progetto Sherpa nei pressi della Capanna del Monte Tamaro. (Montagne Pulite)

comoda per portare con sé lo spuntino la prossima volta che si andrà in montagna, senza lasciare rifiuti», aggiunge Alice Guglielmetti, collaboratrice di Montagne Pulite. Nel 2017 oltre un centinaio di persone hanno partecipato al progetto Sherpa presso la Capanna Tamaro, mentre con la nuova stagione hanno aderito anche la capanna UTOE dell’Adula e la capanna Bovarina: «È l’occasione per dare un sostegno concreto alle capanne e alla natura. E magari, chi lo sa, è pure l’occasione per vincere i premi in palio», conclude Alice Guglielmetti. Il progetto Montagne Pulite si focalizza anche sulla gestione delle acque luride e, come detto, sul littering, come ci conferma Marcello Martinoni: «I rifiuti abbandonati rovinano il paesaggio, inquinano e possono rappresentare un serio pericolo per gli animali. Cartelli, sottopiatti e documenti di sensibi-

lizzazione sono stati pertanto ideati nel contesto del progetto e sono a disposizione di chi gestisce le strutture ricettive in montagna. Per le scuole è invece stata ideata una scheda con consigli utili per preparare la classe alla gita in montagna e alla visita in capanna; un’uscita che, oltre all’attività fisica, offre numerosi spunti educativi e didattici». Educare e coinvolgere tutte le persone che beneficiano delle bellezze delle nostre montagne può avere un grande effetto positivo sull’ambiente, considerando che un rifiuto abbandonato nella natura impiega troppo tempo per decomporsi: un semplice mozzicone di sigaretta impiega da 1 a 5 anni, una lattina da 20 a 100 anni, ma anche una buccia di banana, benché biodegradabile, impiega due mesi a decomporsi. «La gestione responsabile dei rifiuti in montagna è questione di buon senso e tutti noi possiamo dare un contributo», conclude Martinoni.

Delicata anche la questione delle acque, bene prezioso. Da un lato s’invita a farne un uso parsimonioso nelle docce e nei servizi igienici, dall’altra si ricorda l’utenza che dalle capanne non partono tubi della fognatura che arrivano al depuratore, ma ci sono fosse settiche che hanno i loro limiti. Nel suo anno di lancio le capanne e i rifugi aderenti al progetto Montagne pulite erano sei, che nel 2018 sono passati a 19: Adula CAS, Adula UTOE, Albagno, Monte Bar, Bovarina, Alpe di Brusino, Campo Tencia, Cava, Cristallina, Curzútt, Monti di Lego, Patriziato di Lodrino, Rifugio Alpe Masnee, Michela-Motterascio, Capanna Pairolo, Pian d’Alpe UTOE, Soveltra, Monte Tamaro, Tremorgio. Informazioni

www.montagnepulite.ch, info@montagnepulite.ch


God appetitt o buen apetito? ENTRAMBI

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GIOVEDÌ 16.8

VENERDÌ 17.8

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Manzo alla Stroganoff

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Per una buona sensazione di pancia.


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Ambiente e Benessere

Ciaone è femmina

Reportage Alla ricerca di un mare sostenibile fra tartarughe, delfini, pescatori e turisti a Filicudi

Vincenzo Cammarata, testo e foto «Sehhh, ciaone!». Questa fu l’esclamazione sbalordita e arresa di Monica, alla vista di una Caretta Caretta, una femmina di tartaruga marina di 90 chili. A caricarla sulla barca non ci provò nemmeno, ma riuscì a installare sopra il suo carapace un trasmettitore gps, potendo in seguito presentarla alla comunità scientifica e al sistema internazionale di tracking (www.seaturtle.org/tracking) col nome di «Ciaone», per l’appunto. Ciaone in un paio di mesi aveva già fatto un giretto nel basso Mar Tirreno e al momento della stesura dell’articolo si stava godendo, come molti turisti, il mare di San Vito Lo Capo, Trapani. Tracciate e seguite come lo è lei per ora ci sono: Thor, maschio adulto di 80 chili – sempre battezzato da Monica – e poi Leila, Prince, Freddy, Musica, Valeriana… i nomi sono evidentemente ispirati dalle passioni di chi per primo li ha dotati di gps. Nel suo ufficio-laboratorio di Pecorini, sull’isola di Filicudi, nei giorni della nostra visita si sono succeduti due esemplari soccorsi in mare da pescatori e turisti, che hanno tratto in salvo Luna Scroza e Palla, quest’ultima ribattezzata «Bea» da una delle numerose bambine che nei mesi estivi frequentano il Filicudi Wildlife Conservation di cui Monica è presidente. Romana di nascita e filicudara di cuore e di adozione, Monica Blasi è una dei tanti abitanti dell’Isola Eoliana, nipoti dei primi pionieri, che arrivarono intorno agli anni Settanta dando vita a una certa forma di turismo residenziale stagionale, ancora in voga nell’Arcipelago. Vanta una laurea in fisica, il dottorato in biofisica e il Master of Science a La Sapienza di Roma in Conservazione della Biodiversità animale: aree protette e reti ecologiche, lavoro con cui ha approfondito l’interazione fra delfini e pescatori, argomento quanto mai attuale. «Non è difficile trovare i delfini – afferma Monica – a volte, basta recarsi alle boe che indicano le calate dai pescatori, segnalate da un sacchetto di plastica nero a mo’ di bandierina, e avere un po’ di fortuna». Andare a «caccia» di delfini così come di tartarughe, rientra nei compiti del Centro. Monica, aiutata da cinque anni da Giusy e Chiara (per tutti qui Chiaretta Chiaretta), fotografa le pinne che emergono fra le onde: questo è l’unico modo per censire e quindi riconoscere la popolazione locale dell’elegante stenella striata e del tursiupis truncatus, entrambi appartenenti alla famiglia

Giusy, una delle collaboratrici del Centro, durante una delle numerose attività di didattica si rivolge a un gruppo di turisti attirati da Palla, una delle tartarughe appena soccorse. (Su www.azione. ch, una galleria fotografica più ampia).

dei delfini. Ad ogni pinna, ogni striatura, o macchia di colore, corrisponde un nome: Pino, Triolo, Marzia, Filippa, Salva e Bartolo. Questi, non per caso, sono anche i nomi dei pescatori con cui si contendono, a volte crudelmente, il pesce catturato nelle reti: una vera e propria guerra fra «affamati». Ma non di quei pochi pescatori rimasti a Filicudi, no, perché questi praticano una pesca artigianale che per la portata minima e la cura che richiede risulta essere ancora sostenibile. Ad avere continui «scontri» con i delfini sono, di fatto, i pescatori dell’Isola maggiore, da cui Filicudi dipende amministrativamente: Lipari. Il problema in realtà è anche più complesso. Qualche pescatore, accogliendo le indicazioni comunitarie in merito, sta collaborando con Monica e il suo Centro, sperimentando dei dissuasori acustici, i pinger, che, posti sulle imbarcazioni, ma soprattutto in prossimità delle reti, dovrebbero allontanare i cetacei. Ma la maggioranza degli armatori guarda con scettica diffidenza questa soluzione pacifica e preferisce protestare chiedendo risarcimenti alla Regione Siciliana e all’Unione Europea. La primavera dell’anno scorso i pescato-

ri organizzarono degli scioperi, lamentando la perdita del 60-70% del pescato dovuta, secondo quanto dicono, all’eccessivo aumento della popolazione dei delfini nelle loro acque. Monica, dopo tredici anni di monitoraggio, smentisce fermamente quest’aumento, riportando, dati alla mano, una popolazione invariata per la stenella e addirittura un concreto rischio d’estinzione per i tursiopi. Una verità pare essere evidente: i pesci iniziano a scarseggiare per tutti. «Alle Eolie», precisa Monica, «non esiste, in nessuna delle sette isole, alcuna riserva marina protetta. Ciò significa non essersi mai preoccupati della ripopolazione delle acque: invece di puntare a una pesca intensiva, non più sostenibile, si potrebbe, anzi, si dovrebbe, puntare alla vocazione turistica delle isole, non solo per quanto riguarda le terre emerse, ma anche e soprattutto per il loro patrimonio sommerso.» Il Filicudi Wildlife Conservation è anche uno dei principali operatori turistici presenti sull’Isola che organizza tour in barca ed escursioni naturalistiche: fonte di reddito con cui sostenere le attività del Centro, ma anche un modo

Vista della costa meridionale di Filicudi.

per «evangelizzare» e trasmettere al turista rispetto e amore per la natura, in estrema sintesi per responsabilizzarlo. Durante i tour si indossano maschera e boccaglio e ci si ritrova nel blu. Tuttavia alla suggestione della luce e dei colori che si possono ammirare facendo snorkeling si contrappone l’ormai scarsa presenza di pesci sempre più evidente

e causa di una perdita di interesse: «Qui nessuno ha mai aperto un centro diving: a Ustica, riserva marina dal 1986, ce ne sono invece quasi venti e il mare sottocosta offre una biodiversità fra le più variegate e colorate del mondo!» si sfoga Monica. Ogni mattina Monica, Giusy e Chiara, escono in barca per fare il loro dovere: raccogliere campioni e fotografare gli esemplari di passaggio al largo. Soccorrono tartarughe che non riescono a immergersi e a nuotare perché ostruite da plastica scambiata per meduse o ferite da lunghi ami da pesca ingoiati nutrendosi. Una volta rientrate, accolgono i tanti turisti incuriositi dalle tartarughe ripulite dalle alghe e tenute in osservazione dentro grandi bacinelle azzurre o bianche, avendo cura che sia Ciro, il loro cane, sia i bambini non le disturbino. Soprattutto spiegano ad adulti e bambini perché è importante avere cura del mare. Quello stesso mare che li ha portati fino a Filicudi. Informazioni

Faccia a faccia, fra Ciro, il cane del Centro e Palla appena salvata.

Una tartaruga di peluche fa la guardia al Centro.

Azione

Editore e amministrazione Cooperativa Migros Ticino CP, 6592 S. Antonino Telefono 091 850 81 11

Settimanale edito da Migros Ticino Fondato nel 1938 Redazione Peter Schiesser (redattore responsabile), Barbara Manzoni, Manuela Mazzi, Monica Puffi Poma, Simona Sala, Alessandro Zanoli, Ivan Leoni

Sede Via Pretorio 11 CH-6900 Lugano (TI) Tel 091 922 77 40 fax 091 923 18 89 info@azione.ch www.azione.ch La corrispondenza va indirizzata impersonalmente a «Azione» CP 6315, CH-6901 Lugano oppure alle singole redazioni

Stampa Centro Stampa Ticino SA Via Industria 6933 Muzzano Telefono 091 960 31 31

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Ambiente e Benessere

Il futuro elettrico di Audi

Motori La principale produzione in serie dei motori delle nuove auto del costruttore tedesco avverrà in Ungheria

Mario Alberto Cucchi Ungheria: qui nasce il futuro elettrico del costruttore tedesco Audi. Proprio in questi giorni è stata inaugurata nello stabilimento ungherese di Győr la produzione in serie di motori elettrici che andranno a equipaggiare i nuovi modelli della Casa di Ingolstadt. Győr non sarà l’unica fabbrica al mondo dedicata alla produzione di propulsori Audi a emissioni zero. Sarà però quella principale, con i suoi 8500 mq dedicati all’assemblaggio modulare. Uno stabilimento avveniristico in cui veicoli da trasporto senza conducente, controllati da un sistema computerizzato, riforniscono le stazioni di lavoro dei componenti necessari. Ad oggi la capacità produttiva è di circa 400 motori al giorno con gli addetti che lavorano su un solo turno.

Aumentando gli orari di lavoro, si potrà agilmente arrivare a costruire quotidianamente oltre mille propulsori. «Győr assume un ruolo pioneristico nella produzione di motori elettrici» ha affermato Achim Heinfling, amministratore delegato di Audi Ungheria. Non si tratta di un nuovo stabilimento, ma di una naturale implementazione del lavoro fatto sino a oggi. Va infatti ricordato che nel 2017, Audi Ungheria ha realizzato 1’965’165 motori, diventando una delle realtà più importanti al mondo per la produzione di propulsori. Circa 6mila lavoratori costruiscono 9mila motori al giorno destinati a 32 stabilimenti del Gruppo Volkswagen. Numeri davvero impressionanti. D’altra parte il solo Gruppo Audi nel 2017 ha consegnato ai clienti di tutto il mondo circa 1,878 milioni di automobili. Tornando a parlare dei motori a emissioni zero, va detto che le prime unità prodotte da Audi Ungheria sono destinate alla nuova Audi e-Tron, l’inedita vettura totalmente elettrica di Audi che verrà assemblata nello stabilimento di Bruxelles. Manca ancora qualche mese prima di scoprire tutte le specifiche del nuovo SUV elettrico il cui debutto ufficiale è previsto per settembre. Intanto in questi giorni alla Royal Danish Playhouse di Copenaghen sono stati svelati gli interni. Una buona abitabilità si abbina a un abitacolo minimal nel design, ma ipertecnologi-

co. Basti pensare che si tratta della prima vettura di serie a essere dotata di specchietti retrovisori esterni virtuali. Come funzionano? I supporti piatti integrano una piccola telecamera, la cui immagine viene elaborata digitalmente e visualizzata mediante i display OLED da 7 pollici ad alto contrasto inseriti tra pannello porta e plancia all’interno dell’abitacolo.

A bordo lo spazio abbonda. In virtù del passo di 2928 millimetri, Audi e-Tron ospita comodamente cinque persone, oltre ai relativi bagagli. Grazie a un’aerodinamica studiata nella galleria del vento e alla mancanza del tradizionale motore termico, la rumorosità all’interno è ridotta al minimo. Ecco allora che l’abitacolo della nuova Audi e-Tron diventa uno dei posti migliori

per ascoltare della buona musica con un’acustica unica. Gli ingegneri tedeschi si sono sbizzarriti con un impianto hi-fi da primato: il Sound System 3D Premium di Bang & Olufsen. Grazie a 16 altoparlanti e a un amplificatore da 705 Watt, la musica si diffonde allo stato naturale, priva di effetti artificiali. Audi e-Tron: un’auto che si sa trasformare in una vera sala concerti. Annuncio pubblicitario

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Ambiente e Benessere

La vite lungo l’Ebro

Scelto per voi

Bacco giramondo Nel corso del XX secolo la Rioja fu la regione spagnola

di maggior pregio, oggi tiene alto l’onore Davide Comoli Quando le legioni di Roma arrivarono nella regione dell’odierna Rioja (più di 2000 anni or sono), nella zona alta del fiume Ebro, scoprirono che gli abitanti chiamati Celtiberi, già coltivavano la vite e producevano del vino. Come era uso all’epoca, da buoni conquistatori, i Romani fecero conoscere il loro sapere in fatto di produzione di vino e, per soddisfare la sete delle legioni, insegnarono agli indigeni le tecniche di vinificazione e imposero la loro pax vinicola. La storia della Rioja moderna incomincia comunque solo intorno al 1860, quando Camilo Hurtado de Amézaga marchese di Riscal de Alegre, dopo un soggiorno a Bordeaux, ritorna in patria armato di nuove idee, di nuovi vitigni, ma soprattutto, ed è la più importante, di barriques di legno di quercia francese nuove. Queste sue innovazioni vengono subito condivise da un suo pari, il marchese di Murrieta. Entrambi incominciarono a creare dei vigneti con ceppi di Merlot e di Cabernet Sauvignon, nel tentativo di produrre vini ispirandosi al modello bordolese. Ingaggiarono anche un noto enologo bordolese, Jean Pineau,

al fine di migliorare i vini dei piccoli produttori della zona. Per riuscirici li aiutarono anche economicamente nell’acquisto dei due vitigni sopraccitati, considerati miglioratori della produzione locale. Grazie a questo aiuto, i piccoli vignerons scoprirono con sorpresa che, con i nuovi metodi di coltivazione e vinificazione, anche l’autoctono Tempranillo dava eccellenti vini, con o senza l’ausilio dei due vitigni francesi. Fu così che i vini prodotti nella Rioja raggiunsero dei prezzi di vendita che nessuno avrebbe mai immaginato. Fu in quel periodo che dall’altro lato dei Pirenei, prima l’oidio e poi la filossera distrussero il vigneto francese. Negozianti provenienti dall’Aquitania, ma anche da più lontano, affluirono allora nella Rioja per acquistare quel tipo di vino che da loro non si poteva più trovare: i vini della Rioja da quel momento spiccarono il volo. Nel corso del XX sec. la Rioja (60mila ettari) fu la regione spagnola di maggior pregio, è stata la prima a fregiarsi della DOCa (Denominación de Origen Calificada), equivalente della DOCG italiana, a conferma degli ottimi standard qualitativi dei suoi vini. È a Logrogno, la capitale della Rioja che troviamo la

sede della DOCa, questa regione presenta tre zone viticole piuttosto differenti tra loro, la Rioja Alta e l’Alavesa (le migliori), la Rioja Baja, la più estesa. La Rioja Alavesa è situata a nord del fiume Ebro, nella provincia d’Alava (Paesi Baschi). Il 94 % della sua superficie viticola è vitata a Tempranillo, i vigneti sono dislocati sui fianchi dei monti Cantabrici, orientati verso sud, dove il suolo calcareo offre condizioni ideali per questo vitigno a bacca rossa. Le migliori vigne si trovano a metà strada tra le rive brumose ed esposte al gelo dell’Ebro e le montagne. I vini prodotti in questa zona sono di corpo e buona freschezza, le uve vengono coltivate su piccole parcelle. La Rioja Alta è situata sulla riva opposta dell’Ebro, raggruppa le più grandi e antiche bodegas, assolutamente da visitare l’avveniristica e spettacolare struttura del Marqués de Riscal, il terreno è un po’ meno calcareo e le parcelle vitate più vaste. Queste pittoresche zone un po’ vallonate, sono i «terroir» di vigneti leggendari che danno vini di grande qualità, dotati di una incredibile vellutata morbidezza e con un notevole potenziale d’invecchiamento. I vigneti sono situati tra i 400 e 500 m d’altitudine e godono quindi di temperature leggermente più fresche, il clima è influenzato dalle correnti dell’Atlantico e le primavere sono normalmente precoci, estati lunghe e calde, con autunni dolci e rinfrescanti dalle brezze notturne, un vero angolo di paradiso per i produttori locali. La Rioja Baja si trova a sud di Logrogno e comprende anche otto comuni viticoli della Navarra, il clima è di tipo mediterraneo, più caldo e più secco, i vigneti si trovano a circa 300 m d’altitudine. Il periodo d’insoleggiamento è più lungo e le uve maturano molto precocemente. I vini di questa zona mancano spesso di vivacità e rischiano di essere un po’ troppo flosci, ricchi di alcol e struttura, per essere sinceri, un po’ troppo grossolani e non

In aggiunta alle oltre 400 etichette In aggiunta alle oltre 400 etichette In aggiunta alle oltre 400 etichette

Le cantine Ysios, nella Rioja Alta, progettate da Santiago Calatrava. (Wikipedia)

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2017, Western Cape, Stuzzichini pesce d’acqua Sudafrica,da 6 xaperitivo, 75 cl salata, verdure, formaggio a pasta dura, Ratingcibi della clientela: orientali

2017, Costières de Nîmes AOC, Insaccati, Francia, antipasti, 6 x 75 cl tapas, formaggio a pasta dura Rating della clientela:

Zonneberg Sauvignon Blanc

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Viña Real 2013

La Rioja è la regione spagnola che da sempre è quella con maggior tradizione e peso a livello mondiale in materia di vino. È questa la regione dove impera il Tempranillo, vitigno molto vigoroso con acini dotati di una buccia spessa e ricca di polifenoli, è un vitigno che è molto resistente al freddo e qui nella Rioja partecipa in modo importante a dare carattere ai vini della regione. Il «Viña Real», che le nostre Enoteche propongono, è un vino prodotto con tipiche uve di Spagna: Tempranillo, Garnacha e Mazuelo, provenienti da Laguardia (Rioja Alavesa), che dopo essere state vinificate separatamente vengono assemblate ed elevate in barriques di legno francese e americano per almeno un anno. Il «Viña Real» è un vino dai profumi speziati, confettura di ciliegie, con cenni di fiori appassiti, ha una buona struttura, con dei tannini muscolosi, ma molto morbidi. È il classico vino per le vostre grigliate estive, dove le costine e le altre parti di quel nobile animale che è il maiale allieteranno le vostre giornate. / DC

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reggono al confronto coi vini delle altre due zone. Le alte temperature impongono vendemmie anticipate e l’uso della Garnacha, vitigno che sopporta il caldo meglio di altri, del Graciano che dà un po’ di profumi e acidità, del Mazuelo, chiamato anche Cariñena (Carignan in Francia) che dà colore e tannini nell’assemblaggio. Oggi nella Rioja, convivono due scuole di pensiero su come vinificare. La scuola più tradizionale preferisce macerazioni brevi che danno vini più fini ed eleganti, meno colorati, tannini più sofisticati e fini, con una bella acidità, in modo da essere sottoposti in botti grandi a un’evoluzione che dura negli anni. La scuola più moderna è invece orientata su macerazioni molto lunghe, che danno vini dalle colorazioni più intense, note boisée, speziati, frutta matura. Sono vini che piacciono molto sui mercati internazionali, spesso ottenuti con passaggi di 12 mesi in barriques nuove francesi o americane. A proposito di quercia americana, si deve sapere che questo tipo di legno dà un’ossidazione più rapida e dà ai vini un gusto più forte e dolciastro. L’uso di questo legno con vini delicati avrebbe conseguenze fatali. Quindi queste botti vengono usate per vini pieni e robusti, pronti da bere più rapidamente. La Rioja produce anche vini molto simili ai Novelli, fruttati, da pronta beva, ottenuti in parte con macerazione carbonica; una volta erano prodotti in vasche scavate nella pietra (i lagar), oggi quasi tutte le bodegas usano vasche in acciaio. La Rioja produce anche ottimi vini bianchi da lungo invecchiamento, prodotti con il Macabeo con piccole percentuali di Malvasia dalle note speziate, fiori di camomilla e ginestre, morbidi e di ottima struttura. In un nostro viaggio a Santiago di Compostela lo provammo con il Picos de Europa, un blu di latte vaccino prodotto in zona… che matrimonio!

2017, Costières de Nîmes AOC, Francia, 6 x 75 cl

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Ambiente e Benessere

La tavola dell’Emilia

Gastronomia Un tuffo tra tortellini, ravioli, anolini ma anche mortadelle, culatelli, lasagne, tagliatelle,

La gastronomia emiliano-romagnola è tra le più ricche d’Italia e tra le più note al mondo. La pasta fresca all’uovo, ripiena e non, è l’orgoglio di questa regione e uno dei cardini della sua cucina opulenta; ogni provincia la declina in un modo diverso dando vita a una sfilata di specialità: anolini e cappelletti, tortelli, tortellini e tortelloni, corzetti e garganelli, passatelli e maltagliati… Tutte quante «coronate», spesso se non sempre, da una bella grattugiata di Parmigiano Reggiano. Non meno celebrati sono altri suoi prodotti tipici – salumi e formaggi, cui in Romagna fa da «supporto» la piadina e in Emilia lo gnocco fritto – e molti sostanziosi piatti della sua cucina: tutti insieme danno vita a una varietà gastronomica davvero straordinaria, che è illusorio pensare di esaurire in una breve panoramica.

Ogni città ha poi le proprie specialità, ad esempio Reggio ha l’aceto balsamico e il parmigiano reggiano Oggi parliamo di Emilia – poi parleremo della Romagna. Bologna è la patria dei tortellini, altrove detti cappelletti – che comprendono anche la mortadella nella farcia –, tradizionalmente serviti in brodo, ma anche conditi con il ricco ragù alla bolognese; altro vessillo della città è un salume popolarissimo come «Bologna» tout court: si tratta della mortadella, insaccato cotto, lardellato con grasso di gola e di schiena. A Bologna compaiono in tavola anche le lasagne, le tagliatelle condite con prosciutto crudo soffritto con burro e cipolla e il fritto misto (polpettine a base di cervella, prosciutto, carne di vitello, parmigiano).

Tra i dolci si ricordano il semplice pandolce, con pinoli e cedro candito, il più ricco Pane di Natale, ricoperto di cioccolato e la nota zuppa inglese, per altro di origine toscana, preparata in tutta la regione con qualche variante e con il nome di torta in cantina. Modena, la patria dell’aceto balsamico, propone i ravioli quadrati, maltagliati con i fagioli, zuppa di spinaci e calzagatti (polenta con fagioli); tra le carni il ruolo di primo piano spetta al bollito misto e agli arcinoti cotechino, zampone e cappello del prete; vanto di Modena è anche lo squisito nocino. Nel piacentino si gustano le tagliatelle con salsa di noci o alla duchessa (con fegatini, tuorli, burro e parmigiano), i pisarei e fasö (gnocchetti con un sugo di fagioli e pomodoro), e il gambon (salume cotto ottenuto da spalla o coscia di maialetto disossato). Il ferrarese vanta la salama da sugo, stagionata a lungo e altrettanto a lungo bollita, le anguille di Comacchio e una qualità di pane noto con il nome di coppia (o ferrarese), dalla caratteristica forma a quattro bracci. Il parmense si distingue per gli anolini, specie di piccoli tortellini ripieni con una farcia a base di stracotto stufato per almeno otto ore; tra i salumi emergono il prosciutto crudo di Parma, la spalla di San Secondo e il saporitissimo culatello. La provincia di Reggio, famosa per la produzione di aceto balsamico e di parmigiano reggiano, offre poi piatti come l’erbazzone, i tortelli di zucca o il polpettone di tacchino; i dolci sono rappresentati soprattutto dalla spongata, un involucro di pasta frolla contenente una farcia a base di miele, frutta secca, pane raffermo, olio di oliva e pepe; altre specialità tipiche sono la torta di riso – una sorta di sformato realizzato con il riso cotto nel latte, mandorle, zucchero e albumi montati a neve – e il biscione, dalla caratteristica forma a serpente, meringato sul dorso.

CSF (come si fa)

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Allan Bay

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frittura mista, pandolce e torte in cantina…

Vediamo come si fanno due straclassiche ricette di tagliolini, che sono delle tagliatelle sottilissime, 1 mm, e strette, 2-3 mm. Di tradizione piemontese, non emiliana come lo sono le tagliatelle. Tagliolini al sugo di arrosto. Ingredienti per 4. Steccate 1 kg di noce di vitello con qualche rametto di rosmarino e 2 spicchi di aglio tagliati a pezzetti, quindi legatelo. Fate rosolare

30 grammi di pancetta tritata in una casseruola con una noce di burro, adagiatevi la carne e rosolatela a fuoco vivo. Unite poi un cucchiaino di concentrato di pomodoro stemperato in un mestolo di acqua bollente. Coprite e cuocete a fuoco basso per circa 1 ora e 30’. Scolate la carne (che potete servire come secondo), filtrate il sugo e versate il fondo di cottura in una casseruola; unite 4 cucchiaiate di soffritto di cipolle e scaldatelo a fiamma bassa, regolate di sale e di pepe. Cuocete 400 g di taglierini per pochi minuti, scolateli al dente e saltateli per 2’ nel sugo d’arrosto, aggiungendo una noce di burro e un mestolo dell’acqua di cottura. Cospargete i taglierini con una grattugiata di grana e servite. Varianti. Al sugo di arrosto potete aggiungere, a piacere, 4 cucchiai di

panna e 80 g di uova di lompo o di altro pesce (anche il prezioso caviale, se volete). Tagliolini con rigaglie di pollo. Per 4. Pulite 320 g di duroni di pollo eliminando la pellicina bianca, quindi tagliateli a fettine e rosolateli in poco olio per 2’. Aggiungete 100 g di cuori di pollo affettati e continuate a rosolare per 2’, poi unite 100 g di fegatini di pollo tagliati a listerelle e proseguite la cottura per 1’. Infine, dopo aver versato 4 cucchiaiate di soffritto di scalogno e continuato la cottura per 1’, regolate di sale e di pepe e profumate con salvia e noce moscata. Cuocete 400 g di tagliolini in abbondante acqua salata al bollore; scolatela al dente, saltatela nel sugo per 2’, unendo un poco di acqua di cottura; servite con grana grattugiato.

Ballando coi gusti Oggi due semplici ricette «cugine strette»: la prima è a base di baccalà, ovvero merluzzo sotto sale, la seconda a base di merluzzo fresco.

Baccalà fritto

Merluzzo ai cipollotti

Ingredienti per 4 persone: 800 g di baccalà già bagnato · farina · olio per friggere

Ingredienti per 4 persone: 800 g di filetti di merluzzo · 2 cipollotti · capperi dissalati · prezzemolo · vino bianco secco · olio di oliva · sale e pepe

Sciacquate il baccalà, mondatelo privandolo delle lische ma non della pelle, saporitissima, e tagliatelo a pezzi a piacer vostro. Preparate una pastella amalgamando acqua e farina setacciata in proporzioni tali da ottenere un composto fluido ma denso. È inutile salarlo: il baccalà anche se bagnato resta comunque salato. Immergetevi i pezzi di baccalà e friggeteli, pochi per volta, in una padella con abbondante olio ben caldo. Scolate con il mestolo forato e trasferiteli su carta assorbente da cucina perché perdano l’unto in eccesso. Serviteli ben caldi, spruzzati con poco succo di limone.

Tagliate a fette i cipollotti, solo la parte bianca, metteteli in un tegame con l’olio e fateli appassire a fuoco basso, poi aggiungete i capperi. Unite i filetti di merluzzo, irrorate con 1 bicchierino di vino bianco sobbollito per 3 minuti, spolverizzate con prezzemolo tritato. Fate cuocere per 5 minuti a fuoco basso, girando una volta delicatamente i filetti e eventualmente aggiungendo pochi cucchiai di acqua se necessario. Regolate di sale e di pepe. Lasciate riposare il merluzzo per qualche istante prima di servirlo.

· limone


oekom Rating 2018 La Migros: il commerciante al dettaglio più sostenibile del mondo.

Voglio vedere soltanto uova da allevamento all’aperto. Liv W., futura proprietaria della Migros

La Migros è della gente. Per questo si impegna come nessun altro a favore del benessere degli animali. Anche per le uova: in futuro la Migros venderà esclusivamente uova provenienti da galline ovaiole a cui sia consentita l’uscita al pascolo. Inoltre diminuisce i prezzi delle uova da allevamento all’aperto. generazione-m.ch


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 13 agosto 2018 • N. 33

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Ambiente e Benessere

In vacanza con Morphi

Mondoanimale Portare con sé il gatto in ferie non significa necessariamente proiettare su di lui

sentimenti e pregiudizi troppo umani

Maria Grazia Buletti «Il viaggio nel mondo della felinità esorta a distaccarci dalla roccaforte delle nostre certezze», scrive l’etologo, zooantropologo e filosofo Roberto Marchesini nel suo libro L’identità del gatto (Apeiron edizioni, 2017). Morpheus, detto Morphi, è un gatto di 12 anni. È «il» gatto che, sempre parafrasando Marchesini, ha messo in discussione il nostro sé centripeto, «in cui le alterità sono ridotte a mere orbitali», facendo sì che ci scontrassimo «con i pregiudizi che hanno formato il rapporto tra l’uomo e i felini: il gatto autarchico, il gatto seduttore, il gatto egoista…». E ha fatto vacillare l’idea del micio che resta a casa durante le ferie dei proprietari, perché il gatto non è un cane, perché il gatto non li segue in vacanza, perché il gatto rimane a casa. Chi scrive è sempre vissuta in un mondo «cinofilo», strizzando solo da lontano e per professione l’occhiolino ai felini, da sempre diffusori di un fascino del tutto misterioso e inafferrabile. Fino a quando Matilde, la proprietaria di Morphi, ci ha raccontato quanto riferiamo, facendo crollare del tutto i pregiudizi sui gatti e sul loro essere stazionari: «Morphi fece il suo primo viaggio con noi nel 2007, in Grecia. Un viaggio praticamente obbligato, perché arrivò in casa nostra proprio a marzo di quell’anno e non ce la sentimmo, mio marito e io, di lasciare quel cucciolotto solo a casa (o in qualche pensioncina)». La storia di un gatto, non un cane, per parlare di vacanze con i proprietari! Un gatto che li segue ovunque, anche durante le ferie. Un gatto in vacanza, e

non solo una volta, ma oramai di conlinità?». Questione alla quale abbiamo sueto, era una notizia da riportare. Una chiesto di dare risposta allo zooantrostoria da raccontare, che ci permettesse pologo Roberto Marchesini: «I gatti pure di risolvere tutte quelle domande sono animali con una forte personalità e che sorgono quando si parla di gatti, non con tratti individuali molto marcati, per di cani, in viaggio insieme ai loro umani. cui quello che per un soggetto può esseNon neghiamo l’entusiasmo, mire problematico, per un altro va benissisto a incredulità, nel sentirci raccontare mo». Marchesini afferma perciò che se i dettagli: «Nel residence dove andala relazione è forte e quel gatto ha fatto vamo non ospitavano animali, ma noi proprio quel particolare stile di vita, alstrappammo un consenso in nome dei lora forse il viaggiare è diventato la sua molti anni di frequentazione. Come consuetudine: «La felinità sta infatti nel contropartita, ci impegnammo a chiupotersi avvolgere in una dimensione di dere il balcone con la speciale tenda vita fatta di certezze e familiarità». a rete per i gatti e anziché con due vaPartire in vacanza con il proprio lige ci ritrovammo con tre». Da allora, gatto fa bene certamente a noi, e forse la terza è detta «la borsa di Morphi», il anche al gatto. Ne abbiamo chiesto concui contenuto è: «Lettiera, sabbia ad ferma all’esperto: «Come ho detto, il hoc (evitare di pensare che un gatto abigatto vive di abitudini e di oggetti verso tuato in un modo si abitui, immediacui è affezionato; per lui la casa siamo tamente, ad un altro); cibi (nelle isole anche noi stessi. Occorre ovviamente ormai greche, 1dieci anni fa, il cibo avere una relazione molto stringente 2 3 per felini 4 5 Il gatto 6 Morphi, 7 un viaggiatore 8 9 esperto. era un esotismo se non un prodotto per con il proprio gatto, un sodalizio all’ineccentrici); snackkerini; paletta; gio- visita dal veterinario nei tempi indica- tutti i viaggi insieme ai suoi proprietari: segna del bon ton felino e non tutti sono 10 11 12 13 chini; medicinali base (soprattutto di- ti: «In alcuni paesi come le Canarie, ad «Ci segue dappertutto: è stato in Italia capaci di questo perché o sono troppo sinfettanti: i gatti greci non sono “mici esempio, la vaccinazione deve essere ef- (Liguria e Toscana), in Slovenia, in Por- assenti o mancano di discrezione e mi14 15 17 da salotto”)». fettuata al più tardi16la settimana prima togallo e in Grecia, in Francia e a Lan- sura nell’interazione». Matilde, suo marito e Morphi dell’arrivo e deve essere accompagnata zarote». Col passare degli anni sono auQuando, viceversa, il gatto è abituahanno 18 poi affrontato il problema del da una lettera mentati alberghi e case che accolgono i to a vivere con più autonomia all’inter19 20del veterinario che la certrasporto aereo: «Solo due compagnie tifichi, garantendo pure il perfetto stato gatti e Morphi pare ne abbia preso atto: no della propria abitazione e quando, garantivano il trasporto di animali in di salute del micio». «Quando si accorge che prepariamo le come talvolta accade, esso vive la casa 21 22 cabina: la Swiss e l’Aegean Airlines». Matilde ribadisce l’importanza di nostre due valige, Morphi siPER piazza sul- come un tempio SUDOKU AZIONE - LUGLIO 2018di cui lui è l’officiante Quest’ultima in ragione del fatto che in orientarsi per tempo sulle regole di en- la sua “borsa” e ne presiede la prepara- o una fortezza da presidiare, allora se23 molto più numerosi 24 25trata e uscita dai Paesi di destinazione: Grecia pare siano condo lo zooantropologo «andrebbero N. zione». 25 FACILE che in Svizzera coloro i quali viaggiano «In Gran Bretagna è vietato l’ingresso ai La morale è evidente: «Chi ha det- considerate alternative ad esso più afSchema Soluzione con un 26 gatto. Le condizioni,27delle quali 28gatti, mentre in Marocco è loro permes- to che ai gatti non piace viaggiare?». fini piuttosto che portarlo in viaggio». 1 6 abbiamo5 chiesto 2 3 8 1conclude 6 4 ricordandoci 7 5 2 9che ricordiamo bisogna tenere conto per so, ma al rientro è previsto un periodo di Ma quando a Matilde Marchesini 9 di raccontare questa 1 9 vive 5 4di emozioni 2 8 1ed 3 6 7 tempo, 29 sono: «Trasportino ad hoc 30 (che quarantena». loro storia come il gatto è necessario negli anni ha cambiato dimensioni e Morpheus ha sempre affrontato bell’esempio da condividere, la sua doporsi in modo corretto sulle sue 6 9 1 8 2 7 6 5 3 9 1 8 corde. 4 struttura su richiesta delle compagnie bene questo tipo di viaggio, dormendo manda è stata consapevolmente rifles- Premio? La sintonia, come quella rac2 3«Ma siamo8esempi4 positivi? 5 1 2 3 7 9e per 8 Morphi 6 4 le5vaaeree) e31 le vaccinazioni (Fiv / Felv e32 anti sereno, senza l’ausilio di sedativi, con 1 siva: Non contata da Matilde, 5 a Morphi 3 8 in6famiglia. 9 4 2 5 7 3 1 rabbia)». Bisogna perciò prevedere la la conseguenza di essersi guadagnato 8 è6che abbiamo tolto la sua fe- canze

Giochi per “Azione” - Agosto 2018 Stefania Sargentini

(N. 29 - Duemila trecento trentotto)

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4 3 2 8 7 9 5 2 8 1 6 Vinci una delle 3 carte regalo5da 50 franchi con 4il 3cruciverba SUDOKU AZ 3 5 2 6 9 8 1 7 3 4 PER 5 2 e una delle 2 carte regalo da 50 franchi con il sudoku 7 5 1 2 8 6 4 9 7 3 (N. 30 - ... lo spagnolo a causa della carnagione scura)

Cruciverba Forse non tutti sanno che Beethoven da giovane veniva chiamato… Termina la frase leggendo, a cruciverba ultimato, le lettere evidenziate. (Frase: 2, 8, 1, 5, 5, 10, 5)

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3 4 Soluzione: i3 1 Scoprire 5

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ORIZZONTALI 1. Il mondo vegetale 5. Si dà... incoraggiando l’altro a parlare 10. Si paga per un uso temporaneo 12. Aspro in latino 13. Simbolo chimico dell’oro 15. Si occupa di ricerca aerospaziale (Sigla) 17. La fine degli inglesi 18. È una vera macchietta... 20. Fu in contrasto con Meucci 22. Due romani 23. Attrezzo da taglio 24. Tirare senza… altari 26. Le iniziali dell’attore Accorsi 28. Nome femminile 30. Si alzano litigando 32. Il trasteverino... Regolamento per i concorsi a premi pubblicati su «Azione» e sul sito web www.azione.ch

33. Un risotto senza numero 34. Preposizione articolata 35. Dove in francese 36. Un’agile saltatrice 2

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VERTICALI 1. Smottamento 7 8 2. Sul pulsante dell’accensione 3. Canta «Almeno pensami» 10 11 4. Una roccia traslucida 6. Il regista Avati (iniz.) 7. Servizio 13 vincente a tennis 8. Particelle cromosomiche 9. Una cosa consueta 11. Audace 15 14. Tre in questo... 16. Precede 21 il «Chi va là» 22 23 19. La lingua dei trovatori

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26 27 28 I premi, cinque carte regalo Migros del valore di 50 franchi, saranno sorteggiati31 tra i partecipanti che avranno fatto pervenire la soluzione corretta entro il venerdì seguente la pubblica35 zione del gioco.

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4 1 8 5 2 9 C E3 R 5 7 9 2 3 7 6 8 4 4 7 6 5 8 9 1 9 2 E N D 2 3 4 1 7 5 8 7 9 82 I 2 4I 6 3 1 5 9 6 2 3 7 18 2 4 N 3R 1 9 8 5 5 1 7 3 8 4 6 3I N 1 A 32 2 6E 1 R 9 5 8 1 4 7 9 3 2 6 43 O I 1 67 9C 5 8 4 5 8 9 3 1 7 4 8 1 3 7A 6 N 2 4 A 5 8 3 6

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21. Rispettosi, precisi 4 5 2 1 7 6 9 4 5 8 3 2 Giochi per “Azione” - Agosto 2018 25. Fanno rima con ma... 3 Stefania Sargentini 1 3 5 4 7 8 2 6 9 1 27. Le sorelle di «e» Soluzione della settimana precedente 9 GRANDE 1 7 –4Nella vita di Ghandi i giorni 8 9di prigionia 2 1 3scontati 6 7furono: 4 5 29. Un tipo di illuminazione UN UOMO 5 31. 6 Un Savino della tv DUEMILA TRECENTO TRENTOTTO (N. 29 - Duemila trecento trentotto)N. 28 GENI 9 3 34. Le iniziali dell’attore Amendola 1 2 3 4 5 6 7 8 9 D 6 U E M I R O 1 7 L A 6 8 9 6 2 5 1 4 3 87 10 11 12 13 I N 4T A R E N5 A C 7 3 2 4 9 6 8 1 5 14 15 16 17 E N C O M I O T R I 2 4 5 18 3 7 8 2 6 59 12 2 18 19 20 S M S1 H O O D C 7I 8 6 8 7 9 4 3 1 5 2 21 22 Vincitori del concorso Cruciverba I 5 S O U T O N N O 6 7 3 4 9 2 5 1 6 7 7 3 4 8 23 25 su «Azione 31»,24del 30.07.2018 R E T R E 4 2 5 3 1 4 8 2 5 9 7 6 C. Berguglia, E. Calignano 26 27 C. Rusca, 28 2 2 77 91 6 9 17 Vincitori del 18concorso Sudoku 19 20 O 2 N A T O 3 5 D 3 4 5 8 1 29 30 su «Azione 31», del 30.07.2018 T R O S I A R 4 9 1 9 6 2 3 31 32 4 5 4 8 7 2 3 24 M. Hefti, G. Martignoli 25 M I O T A O 1 2 7 9 1 6 3 5 8 2 7 9 4

N. 30 MEDIO

(N. 31 - Nel millenovecento a Parigi)

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7 3 R N 6O L9 O8 A4 1 5 numeri corretti 9 2 daA inserire 7 U3 nelle N A S A6 3 18 4 7 5 8 9 6 caselle colorate. 1 N E O B4 E L 5 L91 4 5 6 8 4 6 A S8 2 C I A 9 T 6 I7 2 3 2 9 4 S A G6 N. 27 DIFFICILE 4 2 T6 O N8 7 5I 4 5 8 7 3 6 5 8 R I S7 6 32 8 2 5 3 2 6 67 O U 7 6 2 8 9 R1

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N. 29 FACILE Sudoku Schema F L6 O R7 A S 4 P2 8A6 5G 9 O 3 7

N. 26 MEDIO

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N I N O

E L U M I L A L E S I vincitori E R O L T V V I E A E I C E N S U R A T C O 1 E T A P T 6 29 30 Partecipazione online: inserire luzione, corredata da nome, cognome, è possibile un pagamento in contanti (N. 30 - ... lo spagnolo a causa dellalacarnagione E Rscura) S5 A deve R I vincitori soluzione del cruciverba o del sudoku indirizzo, emailO del partecipante 6 deiE premi. 4A sarannoRavvertiti 2 F L spedita O R aA«Redazione S P Azione, A G O per iscritto. Il nome dei vincitori sarà essere 32nell’apposito 33 formulario34 pubblicato sulla pagina del sito. Concorsi, 6315, 6901AN Lugano». su «Azione». A G LPartecipazione I RS N C.P. O L L OO C E I R pubblicato 7 8Aesclusivamente Partecipazione postale: la lettera o Non si intratterrà corrispondenza sui riservata a1 lettori che 36 A U N A S A E N D la cartolina postale che riporti la so- concorsi. Le vie legali sono escluse. Non risiedono in Svizzera. S AB EN.LL 31 I M O NE E O L ADIFFICILE IR I E 1

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 13 agosto 2018 • N. 33

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Politica e Economia La guerra dell’oppio Il secondo articolo dedicato alle date che hanno fatto la storia tratta del conflitto anglo-cinese

Il muro come soluzione Le strategie di contenimento dell’ondata di immigrati verso l’Europa sembrano sempre più improntate alla creazione di barriere fisiche

L’Italia e lo Spread Il differenziale di rendimento tra i Bond tedeschi e quelli italiani è ormai un indicatore politico pagina 25

Il protezionismo è di moda Sui mercati internazionali pende la minaccia di nuovi dazi: cosa significa questo per la Svizzera?

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L’autunno di una dittatura

Il presidente Nicolas Maduro viene schermato dalle sue guardie del corpo durante l’attacco con i droni. (Keystone)

Venezuela Il fallito attacco contro Maduro durante una parata militare a Caracas ha scatenato una serie di arresti

ma ha anche messo a nudo il nervosismo che serpeggia nelle cerchie del potere Angela Nocioni Retate alla cieca e centinaia di arresti di oppositori al regime o presunti tali. La polizia politica irrompe a casa delle persone segnalate come sospette e si porta via loro e chi trova con loro. Sono giorni drammatici in Venezuela. L’esplosione di due droni telecomandati vicino al palco della centralissima avenida Bolivar da cui stava parlando sabato 4 agosto il presidente Nicolas Maduro, maldestro attentato fallito o tentativo di autogolpe riuscito che fosse, ha dato il via a una grande ondata di arresti. Dopo l’annuncio da parte del ministro degli interni Néstor Reverol dell’arresto di sei persone da lui definite «pericolosi terroristi» e la solita accusa alla vicina Colombia di essere la culla dei mandanti del tentato assassinio del presidente, sono stati arrestati anche il deputato Juan Requeses, del partito oppositore Primero Justicia, e sua sorella Rafaela Requesens, dirigente del movimento studentesco. Il deputato arrestato è il terzo parlamentare d’opposizione, teoricamente protetto dall’immunità prevista dalla Costituzione, attualmente in carcere in Venezuela, dove il parlamento è stato da

tempo esautorato e al suo posto legifera una assemblea che è l’eco del regime. Gli apparati di sicurezza sono inferociti ora dal timore che l’appoggio dei militari a Maduro si stia sfaldando, che grosse crepe si stiano aprendo nella lealtà delle forze armate. Nessuno si fida più di nessuno, molti sono pronti al salto della quaglia, ma sbagliare i tempi e i modi può essere un errore letale e quindi tra alti gradi militari, anche nella cerchia ristretta del presidente, ci si studia e si temporeggia. La tensione è alle stelle. Tutto ciò avviene mentre l’esodo di gente comune verso i paesi vicini continua, al punto che il Brasile la settimana scorsa ha chiuso la frontiera con il Venezuela perché non vuole più emigrati disperati al confine. Fedele a Maduro resta al momento solo la Guardia nazionale, da cui vengono gli addetti alla difesa del palazzo presidenziale. Si tratta del corpo più corrotto, quello al quale vanno i benefici economici maggiori delle tante ruberie del governo. Nervosissimi sembrano in queste ore anche i generali legati a Diosdado Cabello, il numero due del regime che sempre più potere ha accumulato dopo la morte dell’ex presidente Hugo Chàvez. Ai generalissimi

di Cabello sono state sostanzialmente regalate le immense ricchezze dell’Arco dell’Orinoco, il sottosuolo più ricco di shale gas e petrolio d’America. Sempre più diserzioni e ritiri volontari si registrano invece tra ufficiali e nelle truppe. Molti soldati abbandonano per ragioni di pura miseria: non ci sono più i soldi per i rifornimenti di cibo, non hanno da mangiare e per questo se ne vanno. Maduro ha recitato baldanzoso a reti unificate il solito copione della sfilza di accuse alla Colombia, che ospita molti rifugiati politici dell’opposizione, ma appare sempre più solo, sprovvisto di quadri medi e bassi delle forze armate disposti a proteggerlo. Alcune ore dopo l’esplosione dei droni che non sono riusciti nemmeno ad arrivare al palco presidenziale (la versione governativa è che i disturbatori di segnali della protezione presidenziale avrebbero fatto fallire l’attacco) è stata data notizia della rivendicazione di un misterioso «Movimento nazionale di soldati in camicia». In una dichiarazione recapitata alla giornalista venezuelana vicina all’opposizione Patricia Poleo, che vive negli Stati Uniti, si legge: «È contro l’onore militare tenere al governo coloro che non solo hanno dimenticato la Costituzione ma che

hanno trasformato le cariche pubbliche in un osceno modo per arricchirsi». Nel comunicato, letto da Patricia Poleo sul suo canale YouTube, Maduro viene accusato di impoverire il Venezuela: «Se lo scopo di un governo è raggiungere la maggior felicità possibile, non possiamo tollerare che la popolazione soffra la fame, che i malati non abbiano medicine, che la moneta non abbia valore, e che il sistema dell’istruzione non istruisca, ma solo indottrini al comunismo». La rivendicazione si conclude con un appello alla rivolta: «Popolo del Venezuela, per concludere con successo questa lotta di emancipazione dobbiamo scendere in piazza senza arretrare». Si tratterebbe di un gruppo «di patrioti militari e civili, leali al popolo venezuelano che cerca di salvare la democrazia in una nazione sotto dittatura». Il ministro dell’Interno non fa parola delle retate in corso, ha detto solo di aver fatto arrestare sei persone e le ha definite «terroristi». «Sono state realizzate varie perquisizioni in hotel della capitale dove si sono potute raccogliere prove importantissime di rilevanza criminale» ha detto. Il regime sta presentando l’esplosione dei droni come il secondo capito-

lo dell’assalto (fallito) al forte militare Paramacay, nello Stato di Carabobo avvenuto l’anno scorso. L’operazione, compiuta da una ventina di militari, aveva lo scopo di impadronirsi di un deposito pieno di armi. Il regime reagì con una violenza inaudita allora, perché la notizia del tentato assalto al forte fu accompagnata dall’insurrezione di buona parte della città di Valencia. Il fatto che un gruppo di militari anti-Maduro avesse tentato di prendere il potere e fosse stato seguito da una sollevazione di civili fu letta dal regime come la prova della infedeltà delle Forze armate. A Maduro questo rischio è stato spiegato ed è per tale ragione che in strada a reprimere le manifestazioni contro di lui manda sempre la polizia militare, mai l’esercito di cui non si fida. Non a caso l’opposizione – che non ha una guida politica unitaria e nonostante sia formalmente raccolta in un unico tavolo resta un condominio litigioso in cui ogni dirigente parla per sé senza riuscire a rappresentare una maggioranza interna – ogni volta che riesce a stendere un comunicato, ogni volta che esorta alla resistenza, rivolge un appello alle forze armate, e non alla polizia militare, affinché si schierino apertamente contro il regime.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 13 agosto 2018 • N. 33

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Politica e Economia

La guerra dell’oppio

Le date che hanno cambiato la storia - 2. Il tentativo dell’imperatore cinese di fermare lo smercio di oppio in

Cina da parte di mercanti inglesi sfocia in un conflitto con la Gran Bretagna che segnerà la fine dell’Impero Celeste

Federico Rampini Nel Settecento il commercio inglese con la Cina fu affidato a due monopoli di Stato, la British East India Company per Londra e la Co-hong con sede a Canton sul versante cinese. Pur senza considerarsi seriamente minacciati, per antica diffidenza e per un riflesso xenofobico gli imperatori celesti avevano imposto severe restrizioni ai mercanti europei. A lungo limitarono l’accesso alla sola città di Canton (quella che oggi si chiama Guangzhou). Perfino lì a Canton gli stranieri dovevano circolare solo nei pochi quartieri a loro riservati, potevano rimanere per il tempo strettamente necessario ai loro affari, poi erano tenuti a tornarsene in fretta a Macao (colonia portoghese) o nell’India britannica. Nonostante queste restrizioni il commercio continuava a crescere, ma in modo quasi unidirezionale. Erano soprattutto gli europei a desiderare la seta e le porcellane dell’Estremo Oriente. A metà del Settecento esplose sul Vecchio continente e nelle sue colonie americane la moda del tè. Indiano e cinese. La coltivazione e produzione di tè indiano avveniva dentro il perimetro dell’Impero britannico, quella cinese no. La Cambridge History riporta queste cifre: l’importazione di tè cinese in Gran Bretagna era già di 400’000 libbre nel 1720. Nel 1800 era aumentata cinquanta volte: fino a 23 milioni di libbre annue. Per pagare tutto quel tè, dall’Inghilterra scorreva verso la Cina un fiume di argento, che a quell’epoca era il metallo prezioso più usato come mezzo di pagamento internazionale per saldare le transazioni con l’estero. Oltre sedici milioni di once d’argento all’anno, erano il tributo che Londra pagava ai cinesi sulla soglia del XIX secolo. Era un problema per la bilancia dei pagamenti, tutto quel metallo prezioso che usciva dalle casse britanniche e finiva nell’Impero celeste. Per riequilibrare i conti bilaterali, gli inglesi le provarono tutte. Chiesero che la Cina riducesse le sue tasse sul tè, che aprisse nuovi porti al commercio estero, che allentasse tutte le regole per consentire la penetrazione di prodotti inglesi. È divertente il parallelismo con le pressioni di Donald Trump su Xi Jinping, perché il mercato cinese di oggi si apra e compri più prodotti made in Usa. Niente da fare, quelle pressioni britanniche nel Settecento non ebbero alcun esito. Cito dalla Cambridge History of China: «L’ascesa della Gran Bretagna come una grande potenza navale e un’economia dipendente dalle esportazioni, rese probabilmente inevitabile un conflitto con la Cina, visto che la Cina non aveva alcuna intenzione di organizzare il suo commercio secondo il modello europeo, e la Gran Bretagna aveva la forza per costringerla ad accettare le sue condizioni. Le specifiche circostanze del conflitto, tuttavia, si intrecciarono con il traffico dell’oppio». L’uso dell’oppio estratto dai papaveri aveva tradizioni antiche in Oriente. In Cina da tempo immemorabile era stato usato come una medicina, per esempio contro la diarrea da colera. Solo nel Seicento, però, dal sud-est asiatico arrivò in Cina la nuova abitudine che consisteva nel fumare oppio mescolato a tabacco. Nel Settecento cominciò l’uso della pipa per fumare oppio puro. La funzione era inizialmente quella di un narcotico analgesico: contro dolori fisici e stress, per alleviare lavori pesanti. Dava dipen-

Un dipinto che ritrae la battaglia fra le navi da guerra della East India Company e le giunche cinesi il 7 gennaio 1841 davanti a Canton, durante la prima guerra dell’oppio, battaglia che dimostrò la superiorità militare e tecnica degli inglesi. (Granger Collection, New York)

denza e ben presto si scoprirono tutti gli effetti collaterali delle crisi di astinenza per chi cercava di interromperne il consumo: nausea, febbri, crampi e spasmi muscolari. Gli inglesi dopo la conquista dell’India investirono massicciamente nella coltivazione di papaveri da oppio, nella produzione e distribuzione della droga. Presto si accorsero che esportare oppio dall’India alla Cina poteva essere una scorciatoia utile per compensare lo squilibrio della bilancia dei pagamenti. Non riuscendo a vendere in abbondanza sul mercato cinese i prodotti delle manifatture britanniche, cominciarono a darsi al narcotraffico. A capo di questo business c’era una società semi-governativa, comunque strettamente legata alle politiche dell’Impero britannico, la East India Company: le venne assegnato un monopolio sull’oppio indiano. La Cambridge History traccia la curva esponenziale del narcotraffico di Stato: le vendite inglesi in Cina sono 200 casse nel 1729, mille casse nel 1767, arrivano a 4500 nell’anno 1800. Segue una vera e propria esplosione: diecimila casse esportate nel 1825, quarantamila nel 1838. Le fredde cifre dell’export sono la spia di un flagello sociale, indicano quanto la dipendenza dal consumo di oppio stia diventando una malattia di massa. Nell’anno 1800 l’Impero Qing tenta di correre ai ripari, vieta sia le importazioni che la produzione nazionale di oppio. Nel 1813 il proibizionismo si estende al consumo, un editto imperiale infligge cento frustate a chi viene colto in flagrante, più la condanna a indossare in pubblico una sorta di gogna in legno o collare della vergogna per un mese. I mercanti inglesi trovano il modo di aggirare il proibizionismo e di continuare a far prosperare il business dell’oppio: le loro navi gettano l’ancora al largo della costa del

Guangdong nella Cina meridionale, a poca distanza dal porto di Canton, da dove partono piccole imbarcazioni di contrabbandieri cinesi che provvedono alla distribuzione della droga sulla terraferma. Seguendo un copione tristemente noto fino ai nostri tempi, il narcotraffico genera tali ricchezze che i mercanti della morte possono facilmente corrompere le polizie locali. Anticipando vicende dei nostri tempi, già allora in Cina si apre un dibattito sull’opportunità di legalizzare l’oppio per sottrarne il controllo alla criminalità organizzata (e agli inglesi che di quella criminalità erano i veri registi e mandanti). Vince il partito proibizionista.

Per la classe dirigente cinese, le disfatte nelle due guerre dell’oppio segnano la fine traumatica di un mondo, il crollo di una visione sino-centrica, l’abbandono di ogni senso di superiorità L’oppio gestito dagli inglesi si rivela essere un autentico toccasana per le finanze del loro impero. I rapporti economici tra Londra e Pechino si ribaltano. L’argento scorre sempre a fiumi, per saldare il conto dell’importexport, ma adesso il deflusso è nella direzione opposta: dall’Impero Celeste a quello della Regina Vittoria. È la Cina a soffrire un pesante deficit commerciale e un’emorragia di metallo prezioso per pagare la fattura del vizio. Nel 1839 il funzionario imperiale Lin Zexu viene nominato (per usare un

termine in voga oggi) «alto commissario anti-droga», e inviato da Pechino a Canton, il porto meridionale che è la piattaforma dei narcotrafficanti. Usa il pugno duro, scatena la polizia nei rastrellamenti delle fumerie e nella distruzione di partite d’oppio, chiude magazzini clandestini, fa arrestare 1600 cinesi coinvolti nel traffico. I capi della società Co-hong, l’interfaccia cantonese della East India Company, sono minacciati di condanna a morte. Ma il problema sono gli stranieri, con i quali è azzardato usare metodi così duri. Lin Zexu cerca di comprarli: offre ai mercanti inglesi di oppio di ricomprargli le scorte di droga e i magazzini pagandoli con una merce pregiata di quel tempo, il tè cinese. Tutto inutile. È a questo punto che, per disperazione, Lin Zexu scrive un appello accorato alla Regina Vittoria: sua maestà si metta una mano sulla coscienza e provi a immaginare la situazione inversa, in cui una potenza straniera viene a distruggere la salute degli inglesi spacciando droghe in gran quantità sul suo territorio. Ma la «Regina del Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda», come recita il suo titolo ufficiale all’incoronazione del 1837, a cui aggiungerà nel 1876 quello di «Imperatrice d’India», dietro la facciata moralista, perbenista, rigorista, ha come obiettivo primario il mantenimento della supremazia inglese nel mondo. Dunque la lettera del funzionario cinese Lin nel 1839 non ha l’effetto sperato sulla sovrana. Il primo corpo di spedizione britannico salpa dall’India nel 1840 con sedici navi militari e trentuno navi di supporto. È l’inizio della prima guerra dell’oppio. Quando le forze inglesi assediano l’ex-capitale di Nanchino, la dinastia Qing accetta la resa. Il Trattato di Nanchino (1842), oltre a versare un risarcimento di 21 milioni di once

d’argento alla Regina Vittoria, taglia i dazi doganali al 5%,impone la cessione dell’isola di Hong Kong e apre agli inglesi ben cinque porti (oltre a Canton ora si aggiungono Xiamen, Fuzhou, Ningbo e Shanghai). Una seconda guerra dell’oppio si svolge dal 1856 al 1860. Questa viene condotta da un corpo di spedizione anglo-francese. L’episodio che è rimasto più impresso nella memoria storica dei cinesi, potreste ricordarlo anche voi: se avete visitato Pechino e siete stati in uno dei suoi monumenti storici più celebri, il Palazzo d’Estate dell’imperatore, la guida turistica vi avrà certamente raccontato come fu saccheggiato e bruciato nel 1860 dalle truppe anglo-francesi che volevano dare così una dimostrazione brutale della loro superiorità. Per i letterati cinesi – il nerbo della classe dirigente e dell’amministrazione pubblica – le disfatte nelle guerre dell’oppio, segnano la fine traumatica di un mondo, il crollo di una visione sino-centrica, l’abbandono di ogni senso di superiorità. Dopo di allora la parte più moderna della società cinese ha un’ossessione dominante: capire l’Occidente, imitarci, adeguarsi a noi. Con l’avvento al potere di Xi Jinping, il nuovo Imperatore Celeste che ha fatto iscrivere il suo nome nella Costituzione e ha tolto ogni limite di durata al suo mandato, si fondono due processi. Il «secolo delle umiliazioni» che iniziò con le guerre dell’oppio è cancellato. La Cina orgogliosa della sua potenza si offre esplicitamente come un modello alternativo all’America, figlia di quell’Impero britannico che usò il narcotraffico per corrompere la civiltà più antica della terra. E il leader supremo di Pechino può trarre da questa rivincita una nuova forma di legittimità: non lo ha eletto il suo popolo, ma la Storia.


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Politica e Economia

Muri, dove mancano risposte

Fenomeni migratori – Parte quarta Per affrontare alla radice il fenomeno della migrazione, che coinvolge oggi 260

milioni di persone nel mondo, occorrerebbe una convinta ed efficace cooperazione internazionale che elimini le condizioni che portano alla fuga e crei dei meccanismi per un ordinato trasferimento delle persone Alfredo Venturi Secondo l’Organizzazione internazionale della migrazione, l’ente che dalla sua sede di Ginevra osserva e studia i trasferimenti di popolazione nel mondo, le persone che vivono in un paese diverso da quello natio sono quasi 260 milioni (il dato si riferisce al 2017). Dunque poco meno del tre e mezzo per cento dell’intera umanità, che ha ormai superato i sette miliardi e mezzo di uomini e donne. Il fenomeno ha conosciuto negli ultimi due decenni un’impetuosa accelerazione: nel 1990 la cifra degli espatriati era di poco superiore ai centocinquanta milioni. Se poi si considerano anche le migrazioni interne ai singoli paesi, si supera il miliardo di persone, un settimo della popolazione mondiale. Evidentemente si tratta di situazioni variamente assortite: ai poli estremi vediamo da una parte chi fugge dalla guerra, dalla miseria e dalla fame, dall’altra quei professionisti e ricercatori che inseguono migliori condizioni lavorative o accademiche. È vero che quest’ultimo aspetto del fenomeno, la cosiddetta fuga dei cervelli, inquieta molti paesi, ma è soprattutto l’altro capitolo migratorio, quello di chi è in cerca della pura e semplice sopravvivenza, a turbare le opinioni pubbliche soprattutto in Europa e negli Stati Uniti. Anche perché in questi ultimi anni ha assunto un carattere caotico, del tutto privo di assetti organizzativi che non siano quelli criminali di chi gestisce i traffici.

I trafficanti di persone sono i moderni negrieri: si impadroniscono delle persone e ne dispongono a piacimento Che si tratti di materia scottante lo conferma una constatazione sconvolgente: quando vediamo quei barconi gremiti di una umanità disperata, che pur di lasciare le terre di origine affronta i rischi e le umiliazioni dei soggiorni in infernali centri di raccolta e della doppia traversata del deserto e del mare, mettendo consapevolmente in gioco la vita, pensiamo di trovarci di fronte agli ultimissimi della terra. Si tratta, invece, di privilegiati. Proprio così, privilegiati nel loro tragico contesto, gente che disponeva del denaro con cui ha potuto pagare i trafficanti per mettersi in viaggio, lasciandosi alle spalle i veri derelitti, quelli che non possono permettersi nemmeno di sognarla, la fuga verso l’Europa opulenta. E dunque devono rassegnarsi a un destino di miseria e di morte, in paesi sconvolti dalla guerra o abbruttiti dalla fame, dal Medio Oriente in fiamme fino all’Africa sahariana e subsahariana afflitta da contrapposizioni religiose, carestie, mancanza

Agenti spagnoli tengono a bada decine di immigrati che sono riusciti a scavalcare la cinta spinata che isola Ceuta, enclave spagnola in Marocco. (Keystone)

di lavoro e di prospettive. Li condanna alla rinuncia il fatto di non poter pagare le esose tariffe richieste da passatori e scafisti che praticano prezzi da usura, al punto che paradossalmente converrebbe andare a raccogliere i migranti con aerei charter. Oltre tutto in questo modo si sconfiggerebbe l’immonda mafia dei nuovi negrieri. Bisogna d’altra parte considerare che se tutti coloro che lo desiderano potessero e dovessero mettersi in viaggio, il fenomeno assumerebbe rapidamente dimensioni davvero incontrollabili. Dunque soltanto quelli che possono permettersi di pagare partono, affidandosi a trafficanti che lucrano sulla loro disperazione. Cercano la vita e il futuro, la libertà e la pace. L’esuberante demografia nell’Africa povera, accentuata dalle molte irresponsabili opposizioni al controllo delle nascite, è in evidente antitesi con il problema europeo delle culle sempre più vuote, che a sua volta determina soprattutto in prospettiva popolazioni in calo e carenze di manodopera. Ciononostante, anche a causa della modalità che il fenomeno migratorio ha assunto nella fase attuale con caratteri che appaiono di vera e propria emergenza, questa gente alla ricerca di un domani decente si trova di fronte muri, nient’altro che muri. Per esempio la grande muraglia destinata a difendere gli Stati Uniti dalla pressione latino-americana, o le più modeste barriere spagnole di Ceuta e Melilla, arcaici residui coloniali in terra d’Africa, o infine i muri metaforici ma non meno paralizzanti di chi in Europa imposta le

sue politiche sulla paura dell’invasione e sulla difesa della compattezza etnica e religiosa. Di fronte a una situazione che richiede di essere affrontata con lucidità e sangue freddo non si esita a sovradimensionare il fenomeno, perché si vuole creare il mostro a fini elettorali. Per esempio in Italia, dopo che già gli sbarchi erano diminuiti di oltre il settanta per cento grazie alla gestione energica quanto controversa del ministro dell’interno Marco Minniti, il nuovo governo giallo-verde ha riproposto l’allarme, negando ripetutamente l’approdo alle navi delle organizzazioni non governative cariche di profughi. Fa parte del problema il fatto che queste politiche restrittive e questi accenti apocalittici rendono assai in termini di popolarità. Lo dimostra in negativo il destino della cancelliera tedesca Angela Merkel, che paga con un brusco calo di consensi le generose aperture verso i migranti provenienti dalla Siria in guerra, frutto di una visione da statista che considera la storia al di sopra delle immediate contingenze elettorali. Lo dimostra anche la fortuna di politici oltranzisti come l’ungherese Viktor Orban o l’italiano Matteo Salvini, che più le sparano grosse sugli immigrati più speditamente scalano i sondaggi. Si coltiva la paura e nella società cominciano a serpeggiare sentimenti razzisti. Un altro politico europeo, il primo ministro della Repubblica ceca Andrej Babis, indica la soluzione a suo parere perfetta: è il modello australiano. L’Australia, altro pezzo d’Occidente visto come un miraggio e dunque preso

di mira da fuggiaschi somali, afghani, siriani, iracheni, birmani, ha optato per la formula più spiccia. Le imbarcazioni con i migranti non possono nemmeno avvicinarsi alle sue coste: vengono intercettate e costrette a depositare il loro carico umano in luoghi sperduti. Come Christmas Island, in pieno Oceano Indiano, o Nauru, un minuscolo Stato insulare in Micronesia, o infine Manus, in Papua-Nuova Guinea, prima che quel governo chiudesse il centro di raccolta. Tutti luoghi in cui le condizioni di vita, secondo le ripetute denunce di Amnesty International, sono a dir poco disumane. Dopo avere passato in rassegna i precedenti storici delle migrazioni, ci si chiede in che cosa i movimenti attuali differiscano da quelli tradizionali. È più facile vedere i punti di contatto: per esempio anche l’attualità ci parla di esodi forzati. Non si tratta tanto di persone cacciate con la violenza dal proprio paese, quanto di gente che deve ugualmente abbandonarlo perché rimanervi significa non avere scampo. Un’altra analogia è l’abominio della tratta: il fatto che i migranti pagano il loro salatissimo biglietto di viaggio non esclude che siano alla mercé di trafficanti senza scrupoli, che s’impadroniscono delle loro persone disponendone a piacimento. Non è certo un’esagerazione il fatto che questa situazione venga spesso descritta ricorrendo alla categoria dello schiavismo. Infine si può parlare di nuove diaspore, nel senso che si formano nel mondo comunità di espatriati tagliate fuori dal loro contesto originario,

esattamente come a suo tempo gli ebrei o gli armeni. La differenza principale fra le migrazioni di una volta e le attuali consiste nella maggior quantità di informazioni oggi disponibile. Nel villaggio globale dominato dalla rete non ci sono più misteri, anche nella località più sperduta si è consapevoli dell’abisso che separa dalle condizioni locali il modello di vita europeo o americano. È uno stimolo potente per questo urbanesimo di nuovo tipo, che nell’Occidente colloca la città, il rifugio, la salvezza. Siamo dunque di fronte alla versione moderna di un fenomeno antico, che andrebbe contrastata attraverso una convinta cooperazione internazionale, capace sia di contribuire a monte al miglioramento delle condizioni che oggi inducono alla fuga, sia di distruggere a valle l’attività criminale dei trafficanti di esseri umani. Avviando così il fenomeno nei binari accettabili di un ordinato trasferimento di persone. Utopia? Si direbbe proprio di sì, considerando gli egoismi nazionali e regionali, le ristrettezze di vedute che da un capo all’altro del mondo sviluppato non trovano di meglio che elevare muri materiali o mentali. Proprio questo atteggiamento ansiogeno e in realtà impotente contribuisce nella percezione comune a rivestire ciò che sta accadendo dei panni dell’emergenza. Eppure una gestione coordinata del fenomeno migratorio è chiaramente imposta dalle circostanze, perché come diceva Seneca ducunt fata volentem, nolentem trahunt: il destino accompagna chi lo asseconda, trascina chi gli si oppone. Annuncio pubblicitario

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Politica e Economia

I giorni dello spread – stavolta, nel 2018

Finanza e politica Analisi degli avvenimenti economico-politici italiani e dei tassi d’interesse sui BTP

Edoardo Beretta

Lo spread nei giorni della crisi politica italiana (2018)

Da economisti si è stati, negli anni recenti, confrontati con alcune tematiche ricorrenti a tal punto da poterle a ragione considerare «tormentoni»: nel caso svizzero, probabilmente, è l’evoluzione del tasso di cambio CHF/EUR ad esserlo stato, in quello europeo la crisi del debito, mentre nella casistica specifica italiana il concetto di spread.

Lo spread aumenta anche perché la classe politica non è ritenuta in grado di gestire una situazione economica pubblica delicata come quella italiana Quest’ultimo – più propriamente, si dovrebbe parlare di «differenziale di rendimento» (fra titoli di Stato decennali italiani e tedeschi) – ha monopolizzato le pagine economiche del 2011, quando molti Paesi dell’Eurozona (in particolar modo Italia, Grecia, Portogallo e Spagna) registrarono un ampliamento più che allarmante dei tassi d’interesse sui titoli pubblici di nuova emissione rispetto a quanto richiesto dai mercati finanziari internazionali al Governo tedesco per rifinanziarsi. In altri termini, se il rendimento corrisposto sui bond germanici è considerato il top standard – non a caso, essi godono del rating massimo di «tripla A» (AAA) –, quello degli altri Paesi europei è determinato appunto da quello tedesco con l’aggiunta di un «di più», cioè dello spread. Sebbene le forze politiche abbiano allora (come oggi) «etichettato» i rialzi subiti come una nuova modalità per provocare cambi ai vertici di Governo e – la «teoria della congiura» risuona sempre accattivante – ciò possa forse essere stato anche il caso, c’è poco da

Le variazioni del differenziale di rendimento fra i titoli di Stato tedeschi e quelli italiani sono il termometro della crisi. (Edoardo Beretta)

Data

Punti base2

Eventi3

5 marzo

136,1

Un giorno dalle elezioni politiche

5 aprile

125,5

Un mese dall'esito delle elezioni politiche

10 aprile

127,8

Consultazioni del Presidente della Repubblica

20 aprile

118,8

Consultazioni del Presidente del Senato

23–26 aprile

116,3 113,6 114,6 115,5

Consultazioni del Presidente della Camera con esito apparentemente positivo di coalizione M5S-PD

7 maggio

122,4

Consultazioni del Presidente della Repubblica con annuncio di un Governo «di servizio» che porti alle urne dopo essere rimasto in carica fino al 31 dicembre 2018 a meno che non venga sfiduciato prima

9 maggio

131,9

M5S e Lega chiedono altre 24 ore di trattativa

15 maggio

130,8

Leak di bozza di contratto di Governo (poi dichiarata «superata»), in cui si scrive di Comitato di riconciliazione, ridiscussione di Trattati dell’UE (con menzione di procedure per l’uscita dall’Area Euro) e richiesta alla BCE di cancellazione di 250 miliardi di Euro di bond italiani

21–23 maggio

186,5 177,4 191,4

Giuseppe Conte è Premier incaricato, dibattito mediatico ed accettazione con riserva dell’incarico

25 maggio

206,3

«Incaglio» sul nome del Ministro dell’Economia e delle Finanze

27–29 maggio

235 303,4

Giuseppe Conte rimette l’incarico e crisi istituzionale fra partiti vincitori e la Presidenza della Repubblica con richiesta del M5S di ripartire

29 giugno

237,7

Tre mesi dall'esito delle elezioni politiche

filosofeggiare sugli attori esattamente coinvolti, poiché rimane pur sempre un fatto economico incontrovertibile: lo spread aumenta non solo perché un Governo è inviso agli investitori istituzionali internazionali, ma anche per via del fatto che la classe politica non viene ritenuta in grado di gestire una situazione economica pubblica delicata quanto quella italiana (2.311,70 mld. Euro di debito pubblico ad aprile 20181). Per capirci: l’assenza di un Governo in Germania dal 24 settembre 2017 al 23 febbraio 2018 – fatto, che potrebbe dire già molto sull’establishment politico – non ne ha «smosso» i rendimenti sui bond. I meccanismi vigenti in tal ambito economico poco differiscono da quelli legati a concetti quali «reputazione», «af-

fidabilità» e «credibilità». Ecco, quindi, che non si sarebbe ora voluto alimentare nuovamente la tematica dello spread, se non fosse che essa sia tornata alla ribalta nell’anno corrente. L’instabilità politica italiana (dal 4 marzo al 1. giugno 2018) insieme a quella spagnola – in un macrocontesto fatto di Presidenza BCE a termine di mandato, Governo «Merkel IV» che accusa colpi di stanchezza ed incertezze geopolitiche generalizzate – ha, quindi, determinato un rialzo da 136,1 (5.3.2018) a 227,8 (15.7.2018) con «picchi» di 304,4 (29.5.2018), ma anche «valli» di 125,5 (5.4.2018) punti base. La verità è che lo spread – in una Nazione il cui apparato statale dovrà nel biennio 2018-2019 collocare titoli del Tesoro per circa 380 mld. Euro l’an-

no4 – si dimostra ancora una volta sensibile a dichiarazioni incaute, rumors e boutade. E ci si «metta il cuore in pace» che con variazioni dello stesso si dovrà convivere: infatti, essendo la «valvola di sfogo» dei tassi di cambio stata bloccata a livelli nominali paritari (1 € «italiano» = 1 € «tedesco» = 1 € «francese» etc.), come un fiume (alias le differenze macroeconomiche fra Paesi sotto il «tetto» della moneta comune) che cambi il suo letto, sono le condizioni di rifinanziamento degli Stati meno «sani» a farne ora le spese. Inutile dire che ciò sia, forse, più pericoloso dell’instabilità valutaria che l’unione monetaria ha eliminato fra Paesi membri. Nel contempo, non tiene alla prova dei fatti nemmeno l’argomentazione politica dei nemici

dello spread, cioè che allora non si possa cambiare lo status quo e che il voto non abbia una grande incidenza rispetto alla «volontà dei mercati». Non è l’eventuale desidero di cambiamento a spaventare – i mercati sono pur costituiti da individui – quanto le modalità con cui viene evocato: l’assenza di proposte di riforma (anche importanti) ragionate e la formulazione di dichiarazioni contrastanti sono, da sempre, «veleno» per la credibilità, come già ricordava l’ex Presidente BCE Jean-Claude Trichet parlando dell’assenza anche a livello comunitario di verbal discipline. Nell’iniziare una trattativa o nell’avanzare le proprie alternative è sì fondamentale la fermezza, ma anche chiarezza ed autorevolezza – in altri termini, se possibile, l’attore politico «portavoce» di essa dovrebbe essere trasversalmente rispettato ed «inattaccabile» per rigore e capacità. Trattasi dell’ABC (valido anche per quei Paesi presi a modello) della comunicazione economico-politica, cioè 1) del «chi-dice-cosa-quando-e-comea-chi?» e 2) del fatto che prima di esternare (in particolar modo, nell’epoca dei social media dove le notizie divengono «virali» se non già fake news in partenza) le affermazioni dovrebbero essere sempre «blindate» da un punto di vista logico-contenutistico. Nota

1. http://www.bancaditalia.it/pubblicazioni/finanza-pubblica/2018-finanzapubblica/statistiche_FPI_20180615.pdf 2. (foto) http://finanza-mercati.ilsole24ore.com/spread. php?QUOTE=spread-btp&refresh_ce 3. (foto) http://www.ilfoglio.it/politica/2018/05/28/video/governo-cosa-esuccesso--da-4-marzo-a-oggi-mattarella-cottarelli-lega-m5s-197210/ 4. http://www.infodata.ilsole24ore. com/2018/06/12/sta-nostro-debitopubblico-lanalisi-dei-titoli-principaliindicatori/?refresh_ce= Annuncio pubblicitario

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Politica e Economia

Alla Svizzera serve un mercato il più libero possibile

Commercio estero Nell’attuale intensificarsi di protezioni doganali e relative contromisure, il capo-economista della

SECO spezza una lancia a favore di un mercato dei capitali libero da ostacoli e favorevole a investimenti dall’estero

Ignazio Bonoli Da un lato una certa aggressività economica da parte di paesi come la Cina nell’acquisire partecipazioni importanti in paesi industrializzati, dall’altra importanti riflessi di difesa da parte dei maggiori interessati evocano crescenti ostacoli al commercio internazionale. Tanto più che si aggiungono a denunce di accordi e a difese doganali che rischiano di avere un pericoloso effetto domino. Come è messa la Svizzera in questo contesto internazionale, in particolare a riguardo delle partecipazioni internazionali al capitale di importanti aziende residenti? Una lucida risposta a questo interrogativo è data dal capoeconomista del SECO Eric Scheidegger in un interessante articolo nella «Neue Zürcher Zeitung», nel quale ammonisce contro soluzioni semplicistiche che consistono nell’erigere barriere di protezione doganali. Sull’esempio di Stati Uniti e Germania, anche in Svizzera alcuni politici vorrebbero proteggere le imprese interne, contrariamente comunque a parecchi paesi dell’OCSE, che cercano invece di attirare capitali dall’estero. In Svizzera circa 1 miliardo di franchi dei capitali delle aziende sono frutto di investimenti diretti dall’estero. Non solo,

ma oggi circa l’80% delle azioni delle 30 maggiori aziende svizzere sono in mano estere. Infine, quasi mezzo milione di posti di lavoro sono creati in Svizzera da filiali di gruppi esteri. Questi pochi dati potrebbero lasciar credere che investire in Svizzera dall’estero, oltre che molto attrattivo, possa essere anche molto facile. Ma non è così. Contrariamente a quanto vorrebbero alcuni atti parlamentari – che temono svendite di aziende all’estero – la Svizzera non ha un controllo sistematico sugli investimenti esteri, ma non mancano alcuni limiti per gli investitori. Per esempio, tramite la legge sui cartelli si ha un controllo sulle fusioni, per evitare ostacoli alla concorrenza in casi di acquisto di aziende. L’acquisto di partecipazioni in aziende quotate in borsa è regolato dal diritto in modo che le intenzioni siano chiare. Infine, dove vigono partecipazioni dello Stato il limite alle partecipazioni estere è regolato in modo assoluto. Gli esempi classici sono la Posta, le Ferrovie, Swisscom, Ruag o Skyguide. Ma anche la Strade nazionali, che devono essere di proprietà della Confederazione, o l’infrastruttura ferroviaria che necessita di una concessione da parte della Confederazione. Dal canto suo, Swissgrid, la rete di distribuzione della corrente elettrica, deve appartenere in

Ci sono aziende strategiche, come Swisscom, che comunque non possono, per legge, finire in mani straniere. (Keystone)

maggioranza a Cantoni e Comuni. Alcune critiche al sistema attuale riguardano soprattutto le partecipazioni di Stati o partecipate estere, che potrebbero provocare, indirettamente, una statalizzazione all’estero di imprese private svizzere. I timori maggiori sono per l’interesse pubblico, che però in Svizzera sembra ben garantito dalle proprietà o dalle partecipazioni statali. Altri rimproverano a Stati esteri di acquistare partecipazioni in Svizzera,

ma di non concedere diritti analoghi al loro interno. Se però – come visto – il capitale estero è benvenuto in Svizzera, la Svizzera può concedere un accesso unilaterale ai capitali aziendali dei suoi partner commerciali. Infine, da qualche parte si teme che capitali esteri possano entrare in aziende svizzere con l’intenzione di poi trasferire nel paese di provenienza tecnologie e parti di produzioni acquisite in Svizzera. Esempi all’estero, anche in

partecipate statali, mostrano che eventi simili non si sono mai verificati: grandi esempi significativi possono essere visti in aziende come Land Rover, Jaguar o Volvo. In realtà il successo di un’impresa non è dato soltanto dalla tecnologia utilizzata, ma anche dal capitale umano dei suoi collaboratori, nonché dalla dinamica dei suoi processi di lavorazione, che potrebbero essere compromessi dall’eventuale perdita di «know-how». Cosa poco probabile, poiché l’impresa interessata dispone dei mezzi e dei tempi per mantenere i propri obiettivi di economicità. L’autore dello scritto conclude la sua analisi dicendo che i controlli statali in questo campo sono ingannevoli, poiché perseguono obiettivi preconcetti. Essi creano soprattutto insicurezza presso gli investitori e spingono lo Stato a perseguire unicamente il proprio interesse politico e il protezionismo. Si ergono così barriere, e non solo alla libera circolazione dei capitali, motivandole con il fatto che anche altri paesi lo fanno. Al contrario, una politica protezionistica non ben ponderata e una regolamentazione invasiva nascondono il pericolo che il modello svizzero di successo, dipendente anche da un mercato dei capitali aperto, possa essere compromesso. Annuncio pubblicitario

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 13 agosto 2018 • N. 33

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Politica e Economia Rubriche

Il Mercato e la Piazza di Angelo Rossi Flussi turistici e galleria di base Sono usciti la settimana scorsa i risultati del turismo alberghiero ticinese per il mese di giugno di quest’anno. Vengono a confermare la tendenza che è purtroppo chiara dall’inizio del 2018 e cioè che la galleria ferroviaria di base del San Gottardo ha terminato di esercitare i suoi effetti positivi sugli arrivi di ospiti negli alberghi ticinesi. Anche per questo manufatto si è ripetuto quanto era successo, all’inizio degli anni Ottanta dello scorso secolo, per la galleria autostradale. L’apertura del nuovo collegamento ha così avuto un impatto positivo immediato sul numero degli arrivi in albergo che è andato poi spegnendosi nel giro di dodici mesi. Questo spegnersi dell’effetto galleria rispetto all’evoluzione del numero di arrivi di ospiti negli alberghi ticinesi non significa che, per quel che riguarda le sorti del nostro turismo, la galleria di base sia stata costruita per niente. Chi, come il sottoscritto, ha occasione

di prendere frequentemente il treno da Zurigo a Lugano, ha certo notato come i treni sono sempre pieni e come sia molto più difficile di quel che era invece prima dell’apertura del traforo di base ottenere un posto a sedere in seconda classe, specie nei viaggi da Oltre San Gottardo verso il Ticino. E allora come si spiega che se ci sono più viaggiatori verso il Ticino il numero degli arrivi in albergo non cresca? Questo mancato effetto lo si deve essenzialmente all’aumento dei flussi di turisti di giornata, che non soggiornano, neanche per una notte, nel nostro cantone. L’apertura dell’Alptransit ha di fatto gonfiato i flussi di arrivi di turisti di giornata e, dopo un primo impatto positivo importante, nel 2017, non ha avuto più che una magra influenza sullo sviluppo dei flussi di turisti che soggiornano nei nostri alberghi. I dati per la prima metà del 2018 ci dicono che da gennaio a giugno sono arrivati negli alberghi

del cantone Ticino 460’843 turisti. Rispetto alla prima metà del 2017 vi è stata quindi una diminuzione del 6.1% degli arrivi in albergo. In termini di pernottamenti la perdita, rispetto al primo semestre dell’anno scorso è stata leggermente superiore: 6.9%. Rispetto però all’andamento del turismo alberghiero nella prima metà del 2016, ossia prima che si aprisse la galleria ferroviaria di base, gli arrivi della prima metà del 2018 rappresentano un aumento pari al 2%. Per i pernottamenti, invece, l’aumento, rispetto al primo semestre del 2016, è stato solamente dell’1.4%. Non sembra che, durante la prima metà della stagione turistica, di quest’anno e dei due anni precedenti, vi siano stati eventi eccezionali, che avrebbero potuto fare aumentare in modo significativo il numero degli arrivi di turisti, fatta eccezione dell’apertura della galleria di base del San Gottardo, nel dicembre del 2016. Di

conseguenza l’aumento del numero degli arrivi durante il primo semestre del 2017, pari all’8.6%, e quello ottenuto quest’anno, pari al 2% (rispetto sempre al primo semestre 2016), possono venir considerati come una rappresentazione dell’impatto positivo netto sul numero degli arrivi dovuto all’apertura del traforo di base. Un impatto che, come si è già detto, sta spegnendosi dopo aver influenzato in modo positivo il numero degli arrivi più o meno per il medesimo numero di mesi durante il quale si era manifestato l’impatto positivo dell’apertura della galleria autostradale. Il dato degli arrivi di ospiti del mese di giugno ci consente anche di stimare con una certa sicurezza il risultato finale dell’annata turistica alberghiera. Ricordiamo che nel 2016 il numero degli arrivi di ospiti in Ticino fu di 1’090’114 e, nel 2017, di 1’174138. Quest’anno il numero di arrivi negli alberghi ticinesi sarà di circa 1’107’000 unità

con una diminuzione rispetto al 2017 e un leggerissimo aumento rispetto al 2016. Per l’albergheria ticinese, quindi, l’Alptransit non sembra aver portato un grande miglioramento permanente in termini di afflussi di ospiti in albergo. Per l’insieme delle attività turistiche del Ticino, invece, l’apertura della galleria ha avuto una grande influenza, inserendo praticamente la maggioranza delle destinazioni turistiche del nostro cantone, in particolare le città, nelle zone del turismo di prossimità degli agglomerati urbani di Zurigo e di Basilea. La mostra a Lugano, il mercato di Bellinzona, il giro sul lago, la visita al grotto, o, al limite, il bagno nel lago, possono oggi essere fatti, partendo da queste città e rientrando, con il treno, nella medesima giornata. Che cosa porta all’economia del Ticino questo turismo di giornata? Questa è la domanda alla quale nessuno finora ha pensato di dover rispondere.

no spara a un nero in Italia, la cosa non ci riguarda? Considero sbagliato strumentalizzare questi fatti, sia che lo facciano i soliti promotori di se stessi, sia che lo facciano i politici. Il razzismo va condannato, e basta; non può essere negato. Non c’è contraddizione tra arrestare gli immigrati che commettono reati, e stigmatizzare i gesti di razzismo. Matteo Salvini ormai è un leader nazionale. Nei sondaggi supera il 30 per cento dei voti. Non ha più bisogno di ammiccare alla destra estrema, come continua a fare oggi con un tweet, ieri con una maglietta. Se vuol essere capo di un centrodestra di stampo europeo, non deve aver timore di prendere le distanze in modo netto e inequivocabile da chi spara o aggredisce o insulta una persona per il colore della sua pelle. Questo potrebbe costargli qualche like in rete; ma lo renderebbe molto più credibile per il futuro. Oltretutto Salvini non può occuparsi solo di migranti. È un capo politico,

oltre che ministro degli Interni. Ormai ha preso il posto di Berlusconi alla guida della destra italiana. E la bandiera storica – purtroppo quasi sempre ammainata senza risultati – della destra italiana è il taglio delle tasse. Se Salvini riuscirà davvero a diminuire la pressione fiscale, la sua scelta di andare al governo con i 5 Stelle si rivelerà vincente. Se non ci riuscirà, il fallimento non potrà non avere ripercussioni anche su di lui. Strappare margini di flessibilità all’Europa non sarà impossibile, visti il tramonto della Merkel e la fine della dimenticabile gestione di Juncker a Bruxelles. Il problema è come usare le risorse che si libereranno. È evidente che non si faranno né la flat tax né il reddito di cittadinanza, almeno non nella versione da paradiso fiscale e assistenziale promessa in campagna elettorale da Lega e 5 Stelle. Ma se non dovrebbe essere difficile introdurre una misura di sostegno per i disoccupati, mettendo ordine nella selva dei sussidi,

tagliare le tasse è più complicato. Salvini dovrebbe rendersi conto che la flat tax, come proposta dagli apprendisti stregoni che chiama economisti, è irrealizzabile e pure incostituzionale. Non è giusto che chi guadagna molto paghi la stessa aliquota di chi guadagna poco. La priorità è tassare meno il lavoro, bene sempre più prezioso in quanto sempre più scarso. Qualcosa in passato aveva fatto Tremonti, detassando gli utili reinvestiti. Si dovrebbe lavorare in questa direzione, dando una mano anche ai salariati; ad esempio azzerando le tasse sugli aumenti di stipendio (oggi per dare 500 euro in più in busta paga al lavoratore meritevole l’azienda ne versa il triplo). Sarebbe molto più serio che non promettere tutto a tutti senza dare nulla. Anche i temuti mercati apprezzerebbero. In tal caso, Salvini sarà più forte anche per condurre la sua battaglia contro la legalità. Evitando di alimentare la psicosi sui migranti, che di fatto rappresenta l’avvisaglia di un nuovo razzismo impossibile da negare.

di valori e certezze legate all’uomo. Non è certo per caso che durante tutto il mondiale si continuava a sentir dire che «l’ultimo giudizio spetta sempre all’arbitro». Si cercava di esorcizzare le concessioni alla tecnologia e, soprattutto, il condizionamento dei poteri di quello che in campo da sempre era l’uomo-giudice (Flaiano scripsit: «L’italiano ha un solo vero nemico: l’arbitro di calcio, perché emette un giudizio»). Ora il calcio ha una corte suprema, un tribunale elettronico che a distanza consente al team arbitrale (il numero di arbitri, tra campo e VAR, supera quello dei giocatori di una squadra...) una vivisezione digitale di quanto accade sul campo. VAR infallibile? Forse. Solo mi chiedo: che valore avrà il giudizio di un VAR, positivo per una squadra che reclamava un rigore, ma reso pubblico qualche secondo dopo che la squadra da punire col rigore VAR, su rilancio di un difensore (metti: come Mihailovic per il Lugano a Sion), avrà a sua volta segnato

una fulminea e regolare rete? La seconda vicenda è quella della doppia nazionalità. In una scoppiettante disamina dei mondiali, pubblicata su un blog de «il Post», Pietro Trellini ricorda che «complice una guerra, la fame, il caso o la volontà, non basta più la nascita a segnare indelebilmente la nostra appartenenza. E in una identità spesso incastrata tra il passato dei padri e il futuro dei figli viene difficile capire di chi si è». Con questo dilemma ha dovuto confrontarsi anche la squadra rossocrociata. Lo ha fatto non dopo le esternazioni dei rossocrociati Xhaka e Shaqiri contro la Serbia, ma solo dopo l’eliminazione e, tanto per rispecchiare il «cliché» svizzero, con finto stupore contrassegnato dalle non richieste piroette di qualche funzionario. Era però inevitabile che in un mondo impegnato da decenni a frantumare o a rendere aleatori i confini e che negli ultimi tempi ha innestato una poco dignitosa retromarcia, venisse posta in discussione la nazionalità

acquisita per accoglienza. È la globalizzazione, bellezza! Sorprende però che, dopo essere state cucinate dai media con la solita... delicatezza (cioè con facili riferimenti a «ismi» e diversità), le doppie nazionalità si siano palesate nella finalissima con un formidabile paradosso: la Francia, che annoverava 18 dei suoi giocatori diventati nazionali per accoglienza, ha incontrato (e superato) la Croazia, squadra composta invece da giocatori che, pur con passaporti di altri paesi, hanno preferito onorare l’etimo del termine «nazionale» (proviene dal sostantivo latino natio, derivato dal verbo nasci: «nascere»). Comunque, allegri: i mondiali hanno conosciuto anche vicende che rispecchiavano il meglio della vita. La più ammirevole? Forse il cartello con la scritta «Grazie», in russo, lasciato negli spogliatoi puliti da cima a fondo dai giocatori del Giappone. Uno specchio di civiltà, imitato sugli spalti dai loro tifosi e da quelli del Senegal. Globalizzazione anche qui.

In&outlet di Aldo Cazzullo L’ombra del razzismo A tirare un uovo nell’occhio sinistro della discobola di colore Daisy Osakue (nella foto) non è stato un razzista, ma il figlio di un consigliere comunale del Pd di Vinovo, in provincia di Torino. E un altro violento che ha preso di mira un nero in quanto nero ha un tatuaggio di Che Guevara. Basta questo a dire che in Italia non c’è allarme razzismo? No. Non basta. E non solo perché il figlio di un esponente locale del Pd può benissimo essere razzista (quanto a Che Guevara, è diventato un’icona come Marylin e la Coca-Cola, o al più un generico simbolo di ribellione spesso apprezzato anche a destra). Purtroppo le antiche categorie ideologiche imperversano, e non aiutano a capire. Non capisco perché denunciare il razzismo debba essere “di sinistra”. Non capisco perché per essere di destra si debba negare che in Italia il razzismo esista. Penso che si possa essere di destra e denunciare il razzismo; come ha fatto ad esempio il presidente del Veneto Luca Zaia.

Se uno spara dal balcone a una bimba rom di tredici mesi, è difficile negare che abbia commesso un gesto di razzismo, e diciamo pure di odiosa vigliaccheria. Se spara a un operaio nero che lavora su un’impalcatura, anche. Trovo un po’ provinciale chi obietta che l’uomo che ha sparato è un sudamericano; forse che il razzismo è un’esclusiva dell’Europa, e i sudamericani ne sono immuni? Forse che, se un sudamerica-

Zig-Zag di Ovidio Biffi Il calcio e la globalizzazione È trascorso solo un mese dalla fine dei mondiali di calcio in Russia. E che cosa rimane nelle nostre menti, di comuni mortali, come ricordo di quell’orgia televisiva? Anche se vi sforzate: poco. E di quel poco molte vicende non riguardano nemmeno il gioco più diffuso del mondo. Personalmente mi porto dietro alcune immagini iconiche, come quella del presidente della Fifa Gianni Infantino (copia vivente dei Fridolin che salutavano un tempo chi entrava nei ristoranti svizzero-tedeschi) che dopo le reti complimenta o compatisce i capi di Stato presenti in tribune blindatissime. O come quella di un po’ più calcistica dell’arbitro che interrompe gioco e mima il ricorso allo schermo rettangolare del VAR, il Video Assistant Referee. O, ancor più impegnata, di articoli, scene e discussioni collegate a identità e nazionalità. Mi soffermo su queste due vicende, prendendo slancio da un giudizio tecnico trovato su «Eurosport» online: «Che sia stato

un mondiale tatticamente irrilevante si ha dall’incredibile incidenza dei calci piazzati. In Russia, sono stati segnati 71 gol su situazioni da fermo su 169 gol totali, ovvero il 42% del totale. Inserite in questo contesto anche il nuovo primato di autogol (12 contro i 6 del 1998) e avrete qualche dettaglio in più di una competizione nella quale a farla da padrona non sono state le grandi idee tattiche, ma le situazioni e, soprattutto, gli arbitri». Ecco: gli arbitri protagonisti, non tanto per aver fischiato 1732 falli e 605 calci d’angolo, ma per le situazioni in cui si è fatto ricorso al VAR, novità tecnologica di cui ha già detto tutto, e magnificamente, sull’«Azione» di fine luglio l’«altropologo» Cesare Poppi. Sorta di «Grande Fratello sportivo», già attivo in altre discipline, la sua introduzione / imposizione anche nel calcio in fondo rispecchia quel che capita nella vita quotidiana, con milioni di persone obbligate /indotte ad accordare cieca fiducia alle nuove tecnologie a scapito


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 13 agosto 2018 • N. 33

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Cultura e Spettacoli Un Brasile da (non) capire Al PAC di Milano sono esposte opere contemporanee provenienti dal Brasile – con risultati alterni

Dumont, tra riso e pianto Fra gli ospiti di Locarno anche il regista francese Dumont, scettico sul cinema attuale

pagina 31

Struggente Florence L’artista britannica Florence Welch ritorna con un nuovo album dall’atmosfera rarefatta pagina 35

pagina 33

Max Liebermann. Merlettaie del Brabante – Studio con quattro figure, 1881 (Collezione privata, Svizzera)

Le origini dell’impressionismo tedesco Mostre Al Castello di San Materno di Ascona si rende omaggio al pittore Max Liebermann

Alessia Brughera Max Liebermann è stato una figura di rilievo nella reazione alla pittura accademica in Germania a cavallo tra Ottocento e Novecento. Insieme a Max Slevogt e Lovis Corinth ha fatto parte di quel «triumvirato dell’impressionismo tedesco» (la definizione è stata coniata dal collezionista Paul Cassirer, in quegli anni grande promotore delle frange artistiche più innovative) che, grazie ai contatti con le correnti francesi, ha portato nel panorama teutonico una vivacità cromatica e un’immediatezza comunicativa fino ad allora inedite. A questo protagonista dell’arte moderna tedesca è dedicata una rassegna allestita negli spazi del Museo Castello San Materno di Ascona che documenta il percorso di Liebermann attraverso l’intera raccolta di sue opere appartenenti alla Fondazione per la cultura Kurt e Barbara Alten, a cui è stata poi affiancata una selezione di lavori che provengono da istituzioni pubbliche e da collezioni private in Svizzera e in Germania. Nato a Berlino nel 1847, Liebermann approda all’impressionismo per gradi, dando di questa tendenza una

sua personale interpretazione, da una parte vicina alle suggestioni pittoriche degli esponenti francesi, dall’altra fermamente legata al sostrato dell’arte germanica. Sebbene osteggiato dalla sua facoltosa famiglia ebrea nel desiderio di intraprendere la carriera di pittore, Liebermann si forma alla Scuola d’arte di Weimar e frequenta, a Düsseldorf, l’ungherese Mihály Munkácsy, prolifico e acclamato artista dedito ai generi più disparati. L’incontro con Parigi, negli anni Settanta, costituisce per Liebermann una fonte inesauribile di stimoli. Non sono però gli impressionisti a catalizzare fin da subito la sua attenzione, bensì i maestri della Scuola di Barbizon, in particolare Jean-François Millet che con i suoi quadri conferisce alla vita agreste una dimensione solenne ed eroica, e i pittori realisti, Gustave Courbet su tutti, ammirato da Liebermann per l’uso spontaneo del colore e per la sua capacità di restituire la realtà senza filtri. Il realismo che in Germania aveva conosciuto la sua grande stagione nella scuola di Düsseldorf viene rivisitato da Liebermann secondo la lezione di questi due grandi artisti francesi:

nascono così numerose opere dedicate al mondo contadino e proletario, spaccati di vita delle classi lavoratrici privi di sentimentalismo e dalla forte connotazione sociale, motivi per cui vengono poco apprezzate dalla critica del tempo. Sono soprattutto i soggiorni nei Paesi Bassi, che iniziano proprio in questi anni per proseguire ininterrottamente fino al 1913, a fornire a Liebermann temi sempre nuovi. Il fascino della gente e dei paesaggi olandesi risiede secondo l’artista nella loro intima autenticità, aspetto, questo, che il pittore cerca di riconsegnare nelle sue tele, come accade ad esempio nel dipinto esposto ad Ascona Merlettaie del Brabante, datato 1881, opera in cui vengono delineate con pennellate sicure quattro donne intente a compiere dignitosamente il loro mestiere. È all’inizio dell’ultimo decennio dell’Ottocento, dopo essere tornato a Berlino da qualche anno, che Liebermann si avvicina all’impressionismo francese. I nuovi maestri da cui trarre ispirazione sono adesso Édouard Manet e Edgar Degas, pittori che gli insegnano la sfumatura dei toni e l’eleganza del tratto. Ecco che, forse anche

per spogliarsi degli aspri giudizi del passato, i soggetti dell’artista si fanno più spensierati e conformi ai gusti della borghesia: gli svaghi del ceto medio, tra spiagge, parchi e locali, diventano i motivi prediletti da Liebermann, resi con una tavolozza dalle tinte chiare e con una tecnica sfilacciata e fluttuante. La luminosità e la ricerca del dinamismo mutuate dai colleghi francesi si sposano nei lavori del pittore all’estrema attenzione per il dato naturalistico tipica della cultura figurativa tedesca. Questi sono anche gli anni in cui Liebermann è tra i promotori della Secessione berlinese, tappa fondamentale per l’evoluzione artistica in Germania al volgere del secolo. Quando la Große Berliner Kunstausstellung respinge nel 1898 un quadro di Walter Leistikow, è ormai sotto gli occhi di tutti il grande divario creatosi tra i movimenti avanguardistici e le posizioni conservatrici istituzionali di Berlino: Liebermann e compagni cercano così una strada alternativa per portare avanti il rinnovamento delle arti in contrapposizione al conservatorismo imperante. Con lo scoppio del primo conflitto mondiale il pittore decide di ritirarsi nella sua elegante dimora sul Wann-

see il cui ampio e lussureggiante giardino diviene il tema più rappresentato nelle sue tele. Ne sono testimonianza, nella mostra asconese, alcune opere che catturano particolari naturalistici del parco della villa così come alcuni scorci dei dintorni. Il grande lungolago a Wannsee con passeggiatori, datato 1920, è un dipinto in cui la spontaneità della pennellata e la vitalità dei colori creano una composizione fresca e luminosa. È con l’avvento del nazismo che l’attività di artista di Liebermann e il suo impegno culturale subiscono un arresto, all’età di ottantasei anni il pittore si allontana dalla vita pubblica per poi spegnersi nel 1935 nella sua amata Berlino, dopo che la follia hitleriana lo aveva annoverato tra i grandi maestri «degenerati» della modernità. Dove e quando

Max Liebermann. Il pioniere dell’impressionismo tedesco, Museo Castello San Materno, Ascona. Fino al 30 settembre 2018. Orari: gio-sa 10.00-12.00/14.00-17.00; do e festivi 14.00-16.00; lu-me chiuso. www.museoascona.ch


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Cultura e Spettacoli

Brasil Brasil!

Mostre Forse l’intento primario dell’esposizione in corso al Padiglione d’arte contemporanea di Milano

non è quello di offrirci una lettura dell’affascinante paese sudamericano Matteo Campagnoli Nonostante le delusioni calcistiche, il Brasile resta protagonista dell’estate grazie a varie iniziative culturali che confermano l’interesse per questo paese di grandi conflitti e profonde contraddizioni. Nel panorama delle mostre d’arte milanesi, spicca Brasile. Il coltello nella carne, al PAC fino al 9 settembre, che riunisce trenta artisti di diverse generazioni, attivi dagli anni Settanta in poi, con oltre cinquanta opere tra installazioni, dipinti, fotografie, video e performance. Il titolo della collettiva, curata da Jacopo Crivelli Visconti e Diego Sileo, è tratto da una pièce dello scrittore Plínio Marcos, Navalha na carne, che fin dalla prima messa in scena nel 1967 fu bersaglio di diversi tipi di censura. Trattandosi di una nazione storicamente segnata dalla violenza coloniale e dalla dittatura, e ancora oggi da corruzione, discriminazione razziale e miseria, non stupisce che il rapporto tra arte e politica sia al centro dell’attenzione. L’incidenza dell’arte sulla società, purtroppo, è però poca o nulla. Come ha avuto modo di dire la grande scrittrice brasiliana Clarice Lispector: «Scrivo senza speranza che ciò che scrivo possa cambiare le cose». È una triste verità, della quale è però meglio prendere atto, perché la forza di un artista viene anche dalla consapevolezza che l’atto creativo è fondamentalmente gratuito e che le opere d’arte sono inutili, cioè non utilizzabili. In un mondo nel quale tutto viene fatto in funzione di uno scopo e deve dare risultati tangibili, misurabili, non riesco a immaginare niente di più sovversivo. Le opere esposte al PAC tendono verso la militanza, ma Crivelli Visconti nel saggio che apre il catalogo invita a spingersi oltre, convinto «che il visitatore sia in grado di cogliere le relazioni più sofisticate e non solo quelle immediate e superficiali». Da qui anche la

scelta di evitare i pannelli esplicativi, sebbene all’entrata venga consegnato un opuscolo che dedica mezza pagina a ciascun artista e all’opera esposta. Tenerselo a portata di mano non guasta, perché anche i lavori più autonomi se contestualizzati ci guadagnano. Le fotografie tratte dalla serie Empossamento (Insediamento, 2003) di Mauro Restiffe, che occupano l’intera parete all’entrata della mostra, con il loro bianco e nero sgranato sono di grande impatto visivo: una squadriglia di aerei militari in parata sorvola una piazza ordinata, che negli scatti successivi è via via invasa da una folla sempre più incontrollabile, finché il contrasto tra la confusione, i rifiuti lasciati a terra e l’asettica architettura modernista degli edifici si fa stridente. Sapere che si tratta di Brasilia nel giorno dell’insediamento di Lula dà la possibilità di coglierne maggiormente la portata. Lo stesso può dirsi della delicata serie di disegni This is not an apricot (Questa non è un albicocca, 2008) di Maria Thereza Alves: un’infilata di frutti esotici identificati con il loro nome latino che, si scopre, nasce da un’esperienza vissuta in un mercato di Manaus, in Amazzonia: l’artista si imbatte in una bancarella di frutti con dimensioni simili ma profumo, sensazione al tatto, consistenza e sapori diversi. Il venditore le dice che sono tutti albicocche. In realtà ognuno aveva il proprio nome indigeno che nemmeno lui conosceva, andato perso, come nelle Americhe è accaduto ai nomi di villaggi, fiumi e monti, per effetto della colonizzazione. Che il titolo della serie sia in inglese, non è certo un caso. Dal buio di una delle sale riservate alle proiezioni si viene trasportati, con inquadrature fatte di riflessi e scorci, in una villa lussuosa nella foresta, dove la giovane e bianca padrona di casa fa un bagno in piscina e si prepara per una festa, scivolando come un fantasma tra la servitù di colore. La villa si

Educação para adultos (2010) del giovane Jonathas de Andrade.

riempie di ospiti altolocati e letterati; tra un cocktail e un ballo, i dialoghi toccano vari aspetti della recente storia brasiliana e rendono con sagace ironia il distacco dell’intellighenzia locale dai veri problemi del paese. La ragazza entra in un bagno a ritoccarsi il trucco, esce, prende un bicchiere di champagne dal vassoio che le porge un cameriere e tutto ricomincia in un movimento circolare che sembra non offrire scampo. È il cortometraggio Canoas (2010) di Tamar Guimarães, l’opera visivamente più raffinata e convincente della mostra. Raffinata in modo più popolare, o pop, è anche la serie Educação para Adultos (Educazione per adulti, 2010) del giovane Jonathas de Andrade, che parte da venti poster pedagogici degli anni Settanta, fondati su un metodo di apprendimento per associazione tra

una parola e un’immagine, e a questi ne mescola altri creati da lui, mantenendo la stessa estetica: il risultato è spiazzante e solo a poco a poco si comincia a distinguere gli uni dagli altri. A tratti si sorride, ma nel processo lo sguardo si acuisce e si focalizza. I lavori di sicuro interesse sono più di quanti ne possa citare – tra questi il video Capitano della foresta di Regina Parra – ma non ne mancano altri più deboli che, opuscolo o non opuscolo, rimangono essenzialmente muti. Non è però un problema specifico di questa mostra, riguarda l’arte contemporanea in generale, che con la sua enfasi sul concetto e sull’intenzione, piuttosto che sull’esecuzione artistica, corre costantemente il rischio di non riuscire a veicolare né l’uno né l’altra. Col risultato che qualsiasi significato venga attribuito alle opere risulta quasi irri-

tante tanto appare forzato, se non addirittura posticcio. L’iniziativa del PAC di esplorare la produzione artistica contemporanea internazionale, dedicandosi ogni anno a una diversa realtà territoriale, è davvero pregevole, benché al giorno d’oggi non sia per nulla facile restituire l’immagine di un paese attraverso la sua arte: sotto il profilo estetico, diverse opere esposte potrebbero essere state prodotte ovunque. È l’effetto di quella nuova forma di colonizzazione, a volte auto-inflitta, che si chiama globalizzazione. Dove e quando

Brasile. Il coltello nella carne. Milano, PAC (Via Palestro 14). Orari: me-vesa-do 9.30-19.30; ma-gio 9.30-22.30; lu chiuso. Fino al 9 settembre 2018. www.pacmilano.it

Qualcosa di nuovo sull’italiano

Pubblicazioni Un omaggio documentato e autorevole del presidente dell’Accademia della Crusca alla nostra lingua

italiana, dagli aspetti storici alla sfida delle lingue del nuovo imperialismo Stefano Vassere «Il livello più basso è rappresentato da quella che chiamerò, senza nascondermi dietro eufemismi di cortesia, l’anglicizzazione stupida, di cui sono vittima coloro che l’inglese magari manco lo sanno parlicchiare e probabilmente non dovranno mai usarlo nella vita per fare cose serie e per raggiungere risultati importanti». L’editoria italiana vive da anni una ormai riconosciuta vague di omaggi in forma di libro per questa o per quell’altra lingua (di regola lingue classiche, su tutte il latino e il greco, ma anche l’italiano), delle quali si rinfrescano valori estetici ma anche storici e financo sociali dati ormai per precari. Può quindi colpire il titolo di questo L’italiano è meraviglioso. Come e perché dobbiamo salvare la nostra lingua di Claudio Marazzini che, in quanto presidente dell’italiana Accademia della Crusca, dei tutori della nostra lingua non solo è tra i maggiori ma addirittura formalmente il capo. Il nome dell’autore ce lo fa pretendere estraneo ai pamphlet che fanno bella mostra di sé negli autogrill vicino a rotocalchi e accessori per i telefonini; d’altro canto e visto il titolo leggerino la lettura delle primissime pagine è tutta intenta alla ricerca del

Il libro di Marazzini contiene alcune interessanti novità.

fondamento scientifico e delle novità di sostanza che legittimamente il lettore da questa fonte si aspetta. Novità che non tardano a venire, soprattutto in due ambiti «principi»:

i fondamenti storici dell’italiano e la battaglia (guerra?) che lo vede da un po’ impegnato in compagnia di gran parte delle lingue storicamente egemoni di questo mondo a fronte di un

inglese sempre più impertinente. Non è per nulla scontato, per esempio che fino a tutto il Quattrocento tutti quelli che «tentavano di usare l’italiano» non avevano nessuna norma a disposizione, nessuno aveva deciso che le parole e le strutture della nostra lingua dovessero essere usate in un certo modo piuttosto che in un altro modo. Poi, la grandezza delle altre grandi lingue europee (siano esse l’inglese, il francese e lo spagnolo, meno il tedesco), la loro diffusione, il loro potere, forse lo stesso valore di scambio che queste lingue hanno nei secoli acquisito, si devono a eserciti e guerre, imperi e colonie; tanto che «non è l’esame di una storia pacifica, anzi si può dire che il successo internazionale di queste grandi lingue gronda violenza». Non così per l’italiano, per contro, il cui successo è legato a valori morbidi, superiori e disincantati come «l’interesse per la nostra cultura». Si potrebbe dire che affidarsi a rendite di posizione che hanno avuto dinamiche anche feroci è forse scelta precaria e comunque molto più esposta alle bizze della politica internazionale rispetto a quella che viene da valori più universali e meno misurabili come le arti, il bel vivere, la promozione spirituale. All’inglese, come non si potrebbe,

questo libro dedica decine di pagine, anche qui con qualche novità che converrà andarsi a leggere bene. Su tutte il fatto che il processo di promozione dell’inglese e di marginalizzazione dell’italiano in alcuni settori determinanti della nostra vita anche minuta e quotidiana (la sanità per esempio) viene un po’ dal basso, dagli inutili e talvolta ridicoli anglicismi che a tutti noi, chi più chi meno, capita pure di usare, ma viene anche e molto più pericolosamente dall’alto: da ambienti del mondo della ricerca e dell’università che vorrebbero imporre l’inglese a tutti, dalle istituzioni e dai poteri politici cui capita di sottoscrivere scelte scellerate in questo campo, dall’imperante e totalizzante mondo dei social media. «Ormai il problema è un altro: cioè quello della scarsa fiducia che molti italiani hanno nella loro lingua, spesso questi italiani privi di fiducia sono proprio quelli che hanno più responsabilità della conduzione della vita sociale». Bibliografia

Claudio Marazzini, L’italiano è meraviglioso. Come e perché dobbiamo salvare la nostra lingua, Milano, Rizzoli, 2018.


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 13 agosto 2018 • N. 33

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Cultura e Spettacoli

Guardare per riflettere

Festival di Locarno / 1 Le proposte più interessanti del Festival sembrano provenire anche quest’anno

da Stati Uniti e Oriente

Nicola Falcinella La più grande kermesse cinematografica del nostro Paese, manifestazione attesa dagli amanti del genere, negli ultimi anni ha vissuto una forte trasformazione e la 71esima edizione, chiusasi sabato sera, ha segnato una fase di passaggio, grazie all’annunciata partenza di Carlo Chatrian alla volta di Berlino. Lo storico festival dovrà quindi prossimamente ridefinire la propria identità per essere in grado di affrontare le nuove sfide senza perdere la propria peculiarità di luogo privilegiato dove scoprire e riscoprire i film. Il rischio è che, anche a Locarno, l’happening e il contorno finiscano per prevalere sul cinema e sulle opere presentate. A volte si ha l’impressione che non bastino singoli lavori di alto profilo per contrastare l’effetto di eventi che vivono solamente in funzione di sé stessi e della bolla che si creano intorno. Se il cinema sta cambiando velocemente, i festival devono stare al passo, ma non per forza adeguarsi. Anche stavolta le pellicole più interessanti sono arrivate dall’Oriente e dall’America. Il coreano Hong SangSoo, già Pardo d’oro nel 2015 con Right Now, Wrong Then, è tornato al festival con Hotel by the River un’altra riflessione sulla vita, l’amore e l’arte, che stavolta prevede anche la morte. Sembrano spunti da nulla, eppure il cineasta asiatico riesce a trarre da episodi quotidiani apologhi deliziosi, divertenti e toccanti. Un poeta è ospite in un albergo sul fiume Han, dove lo raggiungono i due figli, uno dei quali fa il regista. Nella stessa struttura ci sono anche due giovani amiche. Si incontrano, si riconoscono, parlano di arte, sentimenti e famiglia. Per certi versi è un addio, per altri un’apertura. Un film essenziale, in bianco e nero, minimalista nel concentrarsi sui dialoghi e le relazioni, con una dose di autoironia: Hong parla a tutti, è un autore che, più di nuovi premi, avrebbe bisogno di passare in Piazza Grande per farsi

conoscere e apprezzare da un pubblico più ampio. Proviene da Singapore A Land Imagined, secondo film di Yeo Siew Hua. Una sorta di Chinatown di Polanski girato alla Lynch con sequenze che ricordano Wong Kar-Wai. Ci sono molte altre suggestioni, ma il film non è una scopiazzatura, bensì un modo originale e intrigante per raccontare una terra immaginaria strappata al mare, il senso di smarrimento per la trasformazione dei luoghi, la solitudine e le difficili condizioni di lavoro e vita degli immigrati. Un operaio con la passione del gioco scompare e un ispettore indaga su di lui, in una storia visionaria e allucinata nella quale si sogna da insonni.

Nonostante la varietà dell’offerta, il numero degli spettatori in Piazza Grande sembra diminuito Uno dei film più discussi del festival è stato naturalmente La flor dell’argentino Mariano Llinas, e non solo per le 14 ore di durata. L’opera omaggia la storia del cinema alternando i generi, e nell’arco del suo sviluppo cresce diventando sempre più libera; rappresenta anche una grande prova per le quattro attrici – Elisa Carricajo, Pilar Gamboa, Valeria Correa e Laura Paredes – che interpretano tutti e sei gli episodi in ruoli differenti. Tra le belle sorprese in concorso segnaliamo Genèse del canadese Philippe Lesage, una storia di primi amori tra esuberanza, musica e delusioni, e il generoso Diane di Kent Jones, commedia un po’ surreale e carica di umanità che ruota intorno al personaggio del titolo. Diane è una donna di mezz’età che ha fatto parecchi errori nella vita, ma ogni giorno percorre le strade intorno

Ethan Hawke oltre a ricevere un premio alla carriera, ha presentato il film Blaze. (Keystone)

al paese per aiutare le persone comuni, come se dovesse rimettere le cose a posto e superare incomprensioni e tradimenti del passato. Americano anche il meglio della Piazza Grande, dalla scoppiettante commedia grottesca che prende in giro i razzisti BlacKkKlansman di Spike Lee, all’azione di The Equalizer 2 di Antoine Fuqua. Il secondo ha fatto registrare il picco di spettatori dell’annata, con 6900 presenze nel primo sabato sera, un dato che può essere letto anche come un campanello d’allarme per un’arena capace in passato di ospitare anche ottomila persone in occasione degli eventi più attesi. Denzel Washington si mette in gioco come attore e come regista cercando di essere un esempio per i

giovani afroamericani. Alla stessa stregua del suo giustiziere proustiano McCall (che si confronta con un giovane aspirante disegnatore) l’attore offre opportunità di riflessione, convinto che si possa sfuggire a un destino di violenza anche quando sembra già scritto. Ethan Hawke, che ha ricevuto l’Excellence Award per una carriera eclettica e intelligente (da L’attimo fuggente ai film di Richard Linklater, da Training Day dello stesso Fuqua a Gattaca, senza dimenticare il recente First Reformed) ha portato il suo terzo lavoro da regista, Blaze. Un film biografico fuori dagli schemi che ritrae il semi-sconosciuto cantante «country western» Blaze Foley, ucciso negli anni ’90. Una storia di autodistruzione, di musica e d’amore, molto texana e un

po’ nostalgica, un film forse troppo lungo ma empatico con i personaggi. Coproduzione italo-ticinese è L’ospite di Duccio Chiarini, già noto per Short Skin, una commedia generazionale, piccola e sincera, divertente e delicata. Guido e Chiara sono due trentenni che convivono e cercano di reggere alla precarietà lavorativa. All’improvviso la loro coppia va in crisi e anche i loro amici e genitori sembrano faticare nel far durare nel tempo i sentimenti. Quanto ai ritratti di giovani, va segnalato il documentario L’époque di Matthieu Bareyre nei Cineasti del presente. Ventenni parigini di oggi, dopo gli attentati del 2015 e 2016, tra divertimento e impegno politico, tra aperitivi e scontri nelle banlieues, intervistati e mostrati in modo mai scontato.

Gli spettatori? Devono risvegliarsi grazie al cinema Festival di Locarno / 2 A colloquio con il regista francese Bruno Dumont, che si è lamentato delle condizioni di

certo cinema contemporaneo, invocando un maggiore ricorso alla comicità Nicola Mazzi Per meglio capire Bruno Dumont – il regista francese pluripremiato a Cannes e autore di pellicole importanti come L’Umanità e P’tit Quinquin – occorre fare un passo indietro e ritornare alla sua tesi universitaria, in cui sviluppava un tema indicativo su chi fosse all’epoca e sarebbe diventato poi; titolo del lavoro: Filosofia ed estetica nel cinema underground. Già allora si intuivano alcune delle linee direttive che prenderà il suo cinema. Il suo lavoro è infatti

da sempre caratterizzato da produzioni dove il «cosa» è in funzione del «come», dove il contenuto dipende dalla forma. Dumont ha sempre cercato di fissare il suo sguardo sul mondo, facendolo in modo serio e drammatico all’inizio e con ironia e divertimento negli anni seguenti. Lo abbiamo incontrato a Locarno, dove è venuto a ritirare il Pardo d’onore. Nelle risposte ci è parso diretto e schietto. Discorsi, i suoi, dove la filosofia si mischia all’esperienza di questi anni e all’aver capito come vi sia una

Il regista Bruno Dumont a Locarno. (Mazzi)

stretta relazione tra gli opposti. Tra la commedia e il dramma, tra la vita e la morte, tra la realtà e la finzione cinematografica. È proprio da lì che partiamo con la nostra chiacchierata. «Nel tempo ho compreso che il comico girava attorno al drammatico ed è importante la loro coesistenza per riuscire a veicolare al maggior numero di persone contenuti di sostanza. Inoltre ho preso atto che più si abbassa il tono drammatico più si alza quello comico e viceversa: in questo senso credo esista un legame stretto tra gli opposti. Quando per esempio con Juliette Binoche ho girato Ma Loute, che trattava di un soggetto drammatico, c’erano dei momenti in cui esageravamo e allora il tutto diventava ridicolo e quindi divertente». Ma anche un altro fatto, più recente, lo ha divertito. «La seconda serie de le P’tit Quinquin mi è stata chiesta da Arte. Sulle prime risposi che io faccio del cinema e non delle serie, poiché le considero un’idiozia. Poi però mi hanno convinto e l’ho scritta, prendendola come un fatto divertente. È stato strano per me, perché mi è stato chiesto di fare una serie prima ancora di avere il materiale a disposizione. Ho quindi provato a fare della comicità partendo dalla mia piccola tragedia personale di autore. Ho esplorato il mio universo personale –

un contesto drammatico – per costruire le scene, poi ho chiesto agli attori di rendere il tutto volutamente stravagante e mi sono accorto che il contrasto suscitava divertimento, così ho continuato in quella direzione». Interessante anche quello che il regista francese ci ha detto sulla durata della serie. «Ho scritto il soggetto senza inizialmente sapere quanti episodi volesse Arte. Se me ne avessero chiesti quattro glieli avrei fatti, se ne avessero chiesti dodici, ne avrei fatti dodici. Nella storia non sarebbe cambiato nulla perché sono in grado di sviluppare i personaggi, di inserire delle digressioni». Aneddoti questi, che riguardano il suo modo di lavorare, ma con Dumont il discorso va sempre a finire sul filosofico e sulla funzione che deve avere il cinema. «Personalmente sono dell’idea che l’arte non sia solo divertimento ma anche educazione. Ognuno di noi deve liberarsi della cattiveria che naturalmente ci si porta appresso, ma come fare? Attraverso l’arte. È necessario dare alla società i mezzi per risollevarsi attraverso uno sport spirituale oltre che a quello fisico, e cioè con la rappresentazione artistica. Le bombe dobbiamo metterle nei film, non nella vita. Se qualcuno mette delle bombe nella vita sta facendo uno sbaglio cinematografi-

co» afferma Dumont ridendo, e conclude con queste parole: «C’è una violenza sociale di cui tutti noi dobbiamo farci carico e credo che in questo senso l’arte possa aiutarci». Operare in questo modo non è semplice perché il cinema, negli ultimi anni, sta andando, secondo il regista francese, in una direzione sbagliata. «Viviamo in un momento storico nel quale è stata data al cinema una funzione puramente ludica. Lo considero una catastrofe perché, così facendo, le persone peggiorano, mentre grazie ai film dovrebbero elevarsi, crescere. Purtroppo l’industria cinematografica ha messo una sorte di velo sul cinema e lo ha fatto per sfruttare il pubblico, renderlo passivo di fronte alle immagini. Personalmente non mi vergogno nell’affermare che il cinema commerciale dei giorni nostri è davvero stupido. E la conseguenza è che oggi la gente non vuole più vedere un film di Bergman, ma solo produzioni senza senso. Un fatto molto grave e io lotto affinché vi sia un risveglio da questo stato quasi comatoso». La lotta di Dumont continua con un occhio di riguardo alle vicende umane: piene di fatti drammatici, ma anche di molte risate. Emozioni che ritroviamo in ogni suo film.


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Cultura e Spettacoli Ute Lemper in una sensuale immagine che rievoca Marlene Dietrich. (Keystone)

Il potere dell’autobiografia

Musica Il nuovo lavoro di Florence + The

Machine offre uno sguardo struggente sulla storia della frontwoman Florence Welch Benedicta Froelich

Ute Lemper omaggia Marlene

Incontri A colloquio con una grande femme fatale della musica

Enrico Parola Angelo e femme fatale, voce candida prestata alle eroine Disney Ariel (ne La Sirenetta) ed Esmeralda (Il Gobbo di Notre Dame) e timbro torbido per gli intrighi di musical come Chicago, attrice (Prêt-à-Porter di Altman, L’ultima tempesta di Greenaway) e autrice lei stessa, Ute Lemper è da trent’anni protagonista della scena musicale mondiale: il 21 luglio 1990 era protagonista di The Wall – Live in Berlin in Potsdamer Platz per festeggiare il primo anno dalla caduta del Muro di Berlino, una delle sue città assieme a New York, Parigi e Buenos Aires. L’artista tedesca non si è limitata a festeggiare i 55 anni compiuti il 4 luglio, ma lavora anche su una telefonata di trent’anni fa a Parigi con Marlene Dietrich, sua musa e idolo: il risultato sarà un nuovo spettacolo che porterà in tutto il mondo il prossimo anno. Che cosa ricorda di quella telefonata?

Tutto, porto impressa ogni parola che Marlene mi confidò al telefono. Fu una chiacchierata lunga, più di tre ore, in cui mi aprì il suo cuore. Mi raccontò della gloria che aveva ottenuto con la sua carriera, ma anche dei dubbi che la assalivano nonostante fosse idolatrata; il suo profondo amore per le poesie di Rainer Maria Rilke e il dolore per la sua relazione interrotta con i tedeschi: ringraziava Dio per essere nata in Germania, ma odiava i nazisti, si era ripetutamente e categoricamente rifiutata di divenire uno dei volti pubblici del Nazismo nonostante le insistenti profferte di Hitler e Goebbels. Mi parlò anche della relazione con sua figlia Maria e il dolore per la difficoltà del rapporto con lei. Che spettacolo sarà?

Si intitolerà Rendez-vous with Marlene, parlerò con la sua voce e racconterò la sua vita; lo sto ultimando e l’anno prossimo lo porterò in tutto il mondo: è il mio personale omaggio a questa grande donna. In generale, al di là dell’omaggio a Dietrich, a che punto della sua carriera pensa di essere giunta?

Non mi sembra mai di aver raggiunto un punto o un traguardo, ma mi sento sempre nel mezzo; sono sempre curiosa e aperta a quel che può arrivare, ho il desiderio di creare qualcosa di nuovo, cerco continuamente nuove sfide. Ho così tanti spettacoli programmati in contemporanea… Le musiche che ho scritto per Neruda, Bukowski, Coelho, il mio concerto Songs for Eternity dedicato ai Ghetti ebraici e ancora altri. Continuo a cercare e creare, e sono davvero felice di poter portare la mia musica in tutto il mondo. Come è cambiata la sua voce in questi trent’anni?

È cresciuta, oggi ha tonalità molto più scure rispetto a dieci, vent’anni fa. È un timbro che mi sembra più autentico e mi fa sentire più a mio agio perché lo sento più adeguato alla mia anima; mentre mi esibisco mi sembra che la voce non sia un filtro che modifica ma un qualcosa di più sottile dove le vibrazioni della mia anima raggiungono il pubblico in modo più diretto e veritiero. Lei sottolinea la sincerità e la verità della sua musica; ma da dove nasce questa musica, che cosa la ispira?

Da giovane molte mie scelte artistiche furono segnate da uno spirito di ribellione e di rabbia; mi sentivo inclinata alla disobbedienza e all’individualità: non per forza sono elementi positivi, ma nel mio caso credo che mi abbiano dato e mi diano tuttora il coraggio di difendere la mia completa libertà artistica. Altri «motori» della mia arte sono l’amore infinito che ho nel cuore per la vita e per i bambini, la mia indignazione per lo squilibrio e l’ingiustizia in questo mondo, la mia disperazione per la sofferenza di così tante persone intorno a noi… La vista di tanti fatti che non vorremmo vedere accadere mi dà la spinta per vivere ed esibirmi. Quindi per lei che caratteristiche deve avere una musica vera?

Deve riflettere la vita, deve saper dare un’espressione e direi anche una valutazione poetica della perdita, della solitudine, della nostalgia, della disperazione, della ribellione, dell’opposizione, della confusione e dell’amore.

Alcuni di questi elementi sembrano riecheggiare nelle canzoni d’oggi, ma come in astratto, ridotti a giochi di parole: infatti è sempre più raro ascoltare canzoni che raccontano storie, che parlano di un’umanità all’opera: concorda?

Sì, purtroppo la musica sta diventando sempre più un elemento decorativo, una suppellettile o al massimo un buon mobilio; la musica classica non fa più parte della cultura commerciale e contemporanea e questo vale in generale per una musica «impegnata», di una tale qualità da richiedere concentrazione e determinazione per poter essere capita e apprezzata veramente. Oggi si è più frettolosi e superficiali, vedo ad esempio come i miei figli non abbiano la pazienza di ascoltare ciò che trovo bello. Naturalmente ci sono delle eccezioni, ma la situazione generale non è rosea. Lei ha sempre guardato a grandi autori: Brel e Trenet.

Brel era molto più ribelle di quanto lo fosse Trenet. Trenet offre meravigliose melodie, Brel offre la disperazione. Piazzolla e Brecht.

Entrambi uniscono teatro e poesia, anche se ognuno a proprio modo, visto che Piazzolla è un compositore e Brecht è uno scrittore. Sarebbe stato interessante l’incontro fra i due personaggi e vedere le parole di Brecht sulla musica di Piazzolla. Brecht è sempre stato affascinato dal tango e lo ha usato in molti dei suoi pezzi, scritti in questo caso da Kurt Weill.

Per quanto la scena internazionale degli ultimi anni non abbia certo lesinato interpreti femminili di spessore, molti aficionados del «classic rock» sono a lungo stati inclini ad affermare che fosse difficile ritrovare, sui palchi odierni, moderne «vestali del rock» in grado di competere con i grandi nomi degli anni 60-70; ovvero, personaggi dal carisma così dirompente da influenzare, oltre alla musica, anche le arti visive, e perfino lo stile performativo, della loro intera generazione. Eppure, sarebbe difficile negare questo ragguardevole ruolo alla 32enne britannica Florence Welch, leader della formazione che porta il suo nome – Florence + the Machine, per l’appunto – e dotata di una personalità artistica ben più inafferrabile (nonché difficile da classificare) di quella delle sue contemporanee. Ottima vocalist e intrigante compositrice, la diafana e malinconica londinese sembra infatti essersi materializzata direttamente da un romanzo di Mary Shelley o un quadro di Dante Gabriel Rossetti, come i lunghi capelli ramati, gli abiti alla Emily Dickinson e l’acuminata magrezza suggeriscono; caratteristiche valorizzate dai surreali e ipnotici esperimenti cinematografici che da sempre distinguono i videoclip di Florence + the Machine – e che costituiscono parte integrante della promozione anche per questo nuovo disco, il quarto lavoro della formazione, dallo speranzoso titolo di High As Hope. E come dimostrano già i primi due singoli estratti dall’album – i destabilizzanti e laceranti Sky Full of Song e Hunger, a metà strada tra autobiografia e aneliti psicoanalitici – la «video art» di Florence brilla qui con rinnovato splendore, ammantandosi anche di velleità coreografiche: si veda la performance di danza concepita per Big God, ballata struggente e disperata sulla frustrante sensazione di «slittamento» esistenziale che chiunque abbia mai sperimentato il dolore psichico conosce bene: «a volte penso che le cose stiano migliorando / e poi invece vanno ancora peggio… fa tutto parte dell’evoluzione?». Sullo stesso piano anche le strazianti liriche del già citato Sky Full of Song, in cui la cantante sembra davvero urlare al mondo tutta la propria passata ansia e sofferenza tramite le frasi a dir poco lapidarie a cui ci ha da tempo abituati: «ti desidero così tanto, ma potresti essere chiunque». Un disincanto e una sottile disperazione che riverberano anche in altri pezzi eccellenti quali No Choir e, soprattutto,

Il tango appunto.

Il tango è una grande espressione della società decadente, della cultura notturna, della seduzione e anche dell’opposizione. Per questo mi piace dire che la Repubblica di Weimar ha in sé molto tango, lo stesso ritmo e lo stesso spirito che Piazzolla esprime nei suoi Tanghi quando evoca le notti di Buenos Aires. Mi colpisce molto constatare come a Berlino e Buenos Aires la musica evochi le stesse scene: ad esempio gli emarginati e le donne trascurate che trascorrono l’intera notte nei bar alla disperata ricerca di soddisfazione e di un luogo dove trascorrere il tempo dal tramonto all’alba, per fuggire dalla luce del giorno e dalla realtà.

Eterea e tormentata: l’artista inglese Florence Welch sulla cover del suo nuovo album.

The End of Love, in cui la Welch traccia un inquietante parallelo tra la propria esperienza e il suicidio della nonna (di cui lei stessa, da adolescente, fu testimone). Eppure, simili sentimenti convivono con le struggenti speranze espresse in 100 Years e June, sorta di elegie del potere sovversivo e rinvigorente dell’amore e dell’arcano mistero che qualsiasi impulso affettivo rappresenta; il che dimostra, una volta di più, la versatilità stilistica e tematica di Florence e la sua ammirevole capacità di cambiare registro con efficacia costante quanto sorprendente. Del resto, il carattere palesemente autobiografico dell’intero album è rivelato in modo lampante in ogni traccia – anche in brani apparentemente più «leggeri» quali South London Forever, in cui la Welch celebra le proprie radici londinesi impiegando arrangiamenti e vocals che ricordano una figura di culto dell’art rock al femminile come Kate Bush; cosa che si può dire anche di Grace, ballata nostalgica e piena di rimpianto incentrata sul legame spezzato con la sorella, alla quale l’artista rivolge scuse sincere quanto dolenti per gli errori del passato e il conseguente distacco. Questo spirito riflessivo e carico di sentimento si ritrova, a maggior ragione, in Patricia, omaggio poetico e viscerale alla musa ispiratrice di una vita, l’iconica sacerdotessa del rock Patti Smith: un brano dal testo assai interessante, dal momento che lo stile narrativo di Florence si fa qui volutamente ibrido, in un richiamo non troppo velato al songwriting del suo idolo. E in effetti, parecchi brani della tracklist presentano liriche di stile più introspettivo del solito – e, soprattutto, di stampo intimamente personale, al punto da ricordare quasi una Tori Amos scarna e rivelatrice; anche perché questo High As Hope è caratterizzato da uno spirito maggiormente cantautorale rispetto alle recenti tendenze di Florence. In tal senso, si tratta senz’altro di un album più intenso e sentito del precedente How Big, How Blue, How Beautiful (2015), il quale aveva mostrato apparenti concessioni a una forma di rock più radiofonico, deludendo parecchi dei fan di vecchia data. La nuova svolta «intimista» e autobiografica oggi inaugurata da High As Hope si rivela così una carta vincente, che permette ai Florence + the Machine di commuovere e coinvolgere l’ascoltatore con ancor maggiore forza e vigore rispetto al passato; facendo ben sperare per il futuro di un gruppo che rappresenta senz’altro una delle stelle più sfolgoranti nell’odierno firmamento dell’indie rock inglese.


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 13 agosto 2018 • N. 33

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Idee e acquisti per la settimana

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Insalata alla ticinese

Attualità Pomodori e aceto balsamico

dei Nostrani del Ticino: un piatto semplice esaltato dall’eccellente qualità degli ingredienti del nostro territorio Roberto Mozzini, Giubiasco

«Sono veramente tante le varietà di pomodori che coltiviamo nella nostra azienda agricola secondo i criteri della produzione integrata (IP-Suisse): dai datterini ramati ai cherry ramati, dai datterini arancio e gialli ai pomodori carnosi fino a quelli ramati, e questi solo per citarne alcuni. Una particolarità dei nostri prodotti è sicuramente la continua ricerca del gusto migliore, che cerchiamo di sviluppare costantemente in collaborazione con i vari fornitori di sementi. Adoro tutti i pomodori che coltiviamo, ma ho un vero debole per i croccanti cherry che sono una delizia gustati come aperitivo o spuntino.»

Azione 20% sull’ Aceto Balsamico Nostrano dal 14 al 20 agosto

Floriano Locarnini, Sementina

«È da molti anni, precisamente dal 1995, che la mia attenzione è rivolta esclusivamente verso il biologico. Nelle coltivazioni non si utilizzano insetticidi o pesticidi di nessun genere, dando la priorità a sistemi di lotta naturali contro i parassiti e le malattie. Quest’anno, fiore all’occhiello dell’azienda, sono i gustosi e polposi pomodori cuore di bue, definiti cosi per la loro forma, adatti per varie insalate rigeneranti e benefiche. Inoltre proponiamo anche altre sei qualità di pomodori molto apprezzate dai consumatori: cherry, cherry a grappoli, datterini, peretti, ramati e tondi.»

Angelo Delea, Losone

Foto Flavia Leuenberger Ceppi

Pomodori e Aceto Nostrano in degustazione Da giovedì 16 a sabato 18 agosto nelle maggiori filiali Migros potrete assaggiare alcune varietà di pomodori abbinate all’aceto balsamico. Inoltre il sabato avrete la possibilità di incontrare i produttori di queste delizie presso i supermercati di S. Antonino (Floriano Locarnini), Locarno (Roberto Mozzini) e Agno (Azienda Delea).

«La nostra linea di aceti viene preparata con della materia prima indigena (presentata da vino nostrano e mosto cotto) lasciata stagionare a lungo nella nostra acetaia in botti e botticelle di legno pregiato. L’aceto di vino è deciso e pungente, ideale per condire piatti ed insalate o per la marinatura di verdure e pesce (come la trota in carpione ad esempio). L’aceto balsamico, dal sapore più aromatico e concentrato, è invece più versatile e si adatta a condire verdure grigliate e formaggi oppure per preparare salse per carni e per condire risotti, paste e dolci come ad esempio un gelato alla vaniglia con le fragole. Quest’ultimo aceto viene prodotto con mosto cotto di uva americana e viene invecchiato in batterie di piccole botticelle (di differenti tipologie di legno pregiato), per almeno tre anni prima di essere imbottigliato.»


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 13 agosto 2018 • N. 33

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Idee e acquisti per la settimana

Pomodori peretti nostrani per salsa Attualità Gustate l’estate tutto l’anno grazie alla salsa di pomodori ticinesi fatta in casa

Azione Hit Pomodori peretti per salsa Ticino, imballati, 2,5 kg Fr. 2.90 dal 14 al 20 agosto

Lo Zincarlin Fresco

Lo Zincarlin Fresco è una specialità casearia che si rifà alla ricetta tipica della suggestiva Valle di Muggio, la vallata più a sud della Svizzera. Questo formaggio fresco viene prodotto partendo dal latte vaccino termizzato raccolto presso alcuni allevatori del cantone. Nella successiva fase di lavorazione, il cacio viene aromatizzato sapientemente con pepe nero, sale, aglio ed erba cipollina. La produzione totalmente artigianale ne fa un’autentica prelibatezza per tutti gli amanti dei sapori esclusivi del nostro territo-

rio. La pratica porzione da 80 grammi è un’idea deliziosa da portare in tavola per arricchire un piatto di formaggi o un buffet estivo. Grazie alla sua freschezza e al sapore vivace, lo Zincarlin Fresco è gustosissimo spalmato su del pane ticinese croccante o dei crostini, oppure da solo condito con un filo d’olio e accompagnato da una ricca insalata. Si consiglia di togliere il formaggio dal frigo almeno 15 minuti prima di consumarlo affinché possa sprigionare tutti i suoi caratteristici aromi e profumi.

Zincarlin Fresco al pezzo da 80 g Fr. 4.95 In vendita solo ai banchi del formaggio Migros

Dolci, aromatici, polposi, con pochi semi e poca acqua: i peretti sono i pomodori per eccellenza nella preparazione di salse e conserve, dato che tutto il loro aroma si sprigiona al meglio proprio durante una cottura lunga. Chi ama preparare in casa la salsa di pomodoro, questa settimana nel proprio supermercato Migros trova i peretti per salsa maturi al punto giusto ad un prezzo vantaggioso. Coltivati a km zero e baciati dal sole del Ticino, sono venduti imballati in una confezione speciale da 2.5 kg. Le ricette casalinghe per la preparazione della salsa di pomodoro sono molte, noi ve ne proponiamo una «di base» che potrà servire per condire molti piatti se arricchita con i vostri ingredienti preferiti. Per 1 litro di sugo servono ca. 2 kg di pomodori peretti ben maturi con la buccia. Stufare i pomodori tagliati a piccoli dadini con qualche cucchiaio di olio di oliva, due spicchi d’aglio tritati e lasciarli sobbollire a fuoco lento per 1 ora e mezza/2 ore, fino a quando la salsa risulta bella densa e omogenea. Aggiungere eventualmente un pochino d’acqua per evitare che il sugo bruci sul fondo. Condire la salsa così ottenuta con poco sale marino e distribuirla ancora caldissima in vasetti di vetro sciacquati con acqua bollente riempiendoli fino al bordo. Chiudere subito e lasciare raffreddare. Il sugo preparato in questo modo può essere conservato fino a 6 mesi, tenendolo in un luogo fresco e asciutto.


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3.90 invece di 4.90 Prugne Svizzera, imballate, 1 kg

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2.50 invece di 3.90 Pesche piatte Spagna/Italia, al kg

20% Minirose, mazzo da 20 disponibili in diversi colori, lunghezza dello stelo 40 cm, per es. arancione, 9.90 invece di 12.90

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1.90 invece di 2.95 Zucchine Svizzera, al kg

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Pomodori Peretti per salsa Ticino, imballati, 2,5 kg

2.90 invece di 3.90 Peperoni bio Spagna, imballati, 400 g

Migros Ticino OFFERTE VALIDE SOLO DAL 14.8 AL 20.8.2018, FINO A ESAURIMENTO DELLO STOCK

Prosciutto crudo di Parma e bresaola della Valtellina IGP Beretta in conf. speciale per es. prosciutto crudo di Parma, Italia, 118 g, 6.95 invece di 8.70

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Insalata mista Anna’s Best 260 g

33%

2.50 invece di 3.80 Patate resistenti alla cottura Svizzera, busta da 2,5 kg

20% Tutti i panini confezionati M-Classic per es. panini per sandwich TerraSuisse, 4 x 65 g, 1.60 invece di 2.–

30%

1.65 invece di 2.40 Blenio Caseificio prodotto in Ticino, in self-service, per 100 g

20%

1.65 invece di 2.10 Formaggella Ticinese 1/2 grassa prodotta in Ticino, in self-service, per 100 g

– .4 0

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2.10 invece di 2.50 Baguette cotta su pietra TerraSuisse 260 g

30% Tutto l’assortimento Galbani per es. mozzarella, in conf. da 150 g, 1.35 invece di 1.95

20% Tutti i formaggini freschi Nostrani aha! prodotti in Ticino, per es. Formagín ticinés (formaggini ticinesi), in self-service, per 100 g, 1.55 invece di 2.–


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30% Tortelloni e gnocchi M-Classic in confezioni multiple, prodotto refrigerato per es. tortelloni pomodoro e mozzarella in conf. da 3, 3 x 250 g, 8.10 invece di 11.70

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20% Focaccia all’alsaziana Tradition in conf. da 2 per es. focaccia all’alsaziana originale, 2 x 350 g, 7.80 invece di 9.80

10.– invece di 12.– Tutte le capsule Café Royal in conf. da 33, UTZ disponibili in diverse fragranze, per es. Espresso

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Tutti i berliner e i cornetti alla crema in conf. da 4 per es. cornetti, 4 x 70 g, 4.30 invece di 5.40

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2. –

Filetto di merluzzo d'Alaska Pelican e filetto dorsale di merluzzo bianco Pelican, MSC surgelati, 1 kg, per es. filetto dorsale di merluzzo bianco, 15.60 invece di 26.–

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20% Tutti gli yogurt Excellence per es. ai truffes, 150 g, –.75 invece di –.95

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4.80 invece di 7.20 Pasta per pizza spianata Anna’s Best in conf. da 3 3 x 260 g

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20% Tutti i tipi di olio d’oliva e di aceto Monini per es. olio d’oliva Classico extra vergine, 1 l, 10.85 invece di 13.60

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10.20 invece di 14.60 Tortine al formaggio M-Classic in conf. da 2 surgelate, 2 x 12 pezzi, 2 x 840 g


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 13 agosto 2018 • N. 33

54

Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 13 agosto 2018 • N. 33

55

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Da agricoltura biologica I campi sui quali cresce il cotone bio vengono coltivati con metodi naturali. In tal modo le persone si mantengono in salute, le falde acquifere e l’ambiente puliti.

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I prodotti Bio Cotton della Migros sono sostenibili sotto molti aspetti. Lo illustra il sigillo M-Check. Ogni fase della produzione viene documentata: dalla filatura, passando per tessitura, lavorazione a maglia, tintura e stampa fino al confezionamento. Per la lavorazione compatibile con l’ambiente dei tessili Migros Bio Cotton valgono le severe direttive Eco della Migros. I produttori vengono regolarmente controllati da istanze indipendenti. Prodotto senza sostanze nocive Nella produzione di tessili vengono utilizzati coloranti, inchiostri per la stampa e altre sostanze accessorie. Tutti i prodotti chimici utilizzati in ogni fase della lavorazione vengono registrati e analizzati per quanto ne riguarda l’assenza di pericolo.

Controllato interamente fin dalla coltivazione Ogni fase di lavorazione dei prodotti in cotone bio deve avvenire separatamente da quella delle merci non certificate. Ogni processo di produzione è documentato e l’intero percorso del prodotto è rintracciabile, risalendo fino alla coltivazione.

Parte di

L’impegno Migros a favore della sostenibilità è da generazioni in anticipo sui tempi.


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