Azione 14 del 3 aprile 2018

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Cooperativa Migros Ticino

G.A.A. 6592 Sant’Antonino

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXI 3 aprile 2018

Azione 14 -67 ping M shop ne 45-50 / 63 i alle pag

Società e Territorio Come si ripara un cuore spezzato? Intervista allo psicologo Guy Winch

Ambiente e Benessere Il dottor Andrea Saporito viceprimario di anestesia all’ORBV spiega le caratteristiche di questa specialità medica che ha attraversato un’evoluzione enorme

Politica e Economia Due libri rilanciano il grande dibattito fra pessimismo e ottimismo

Cultura e Spettacoli A Losanna un’indagine artistica sul corpo e un omaggio a Ernst Kolb

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Guerra commerciale o svolta pragmatica?

La mano della donna sulla pietra

di Peter Schiesser

di Roberta Nicolò

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Annick Romanski

Come interpretare le prime schermaglie di una guerra commerciale degli Stati Uniti contro i paesi che vantano verso di loro un surplus commerciale, a cominciare dalla Cina? Sarà una vera guerra, con un crescendo di azioni e ritorsioni di stampo protezionistico, oppure prevarrà un razionale pragmatismo da ambo le parti? Poiché oggi Stati Uniti e Cina rappresentano entità completamente diverse rispetto a 30 anni fa, consideriamo prima di tutto gli «attori» in campo. Sul fronte occidentale abbiamo la nazione che ha definito gli assetti economici e commerciali mondiali attraverso una rete di scambi e di istituzioni internazionali, ha impresso un’impronta liberista alla globalizzazione, è stata garante di una pax che ha costituito fino a ieri la certezza di una qualche forma di stabilità mondiale, ha un enorme impatto culturale ed emotivo sull’immaginario collettivo di tutti i popoli del mondo, oltre ad essere comunque anche l’esempio della democrazia occidentale per eccellenza. Oggi questa nazione ha come presidente una persona che non si identifica in nessuno di questi principi, con una limitata visione dell’economia, che crede di poter concludere l’affare migliore a tu per tu con il suo interlocutore, minacciando guerre, muri, dazi e limiti alle importazioni. Tuttavia, Donald Trump viene spesso frenato dalle istituzioni americane, che aggiustano il tiro fino a far rispettare il diritto superiore. Abbiamo quindi un presidente frustrato che vuole dimostrare ai suoi elettori di saper mettere in riga i nemici esterni dell’America, quelli che le negano la sua grandezza. Sul fronte orientale abbiamo un presidente reduce dall’incoronazione definitiva, e come tale a vita: una personalità lucida, carismatica, decisa, intelligente, con una visione precisa del futuro della Cina, di cui si conosce la forte volontà di controllo assoluto sullo Stato, sul Partito comunista e sui cittadini. Deng Xiao Ping, il grande riformatore dell’economia cinese della fine degli anni Novanta, aveva ottenuto che il presidente e il primo ministro non potessero governare per più di dieci anni: aver ottenuto la cancellazione di questa clausola dimostra l’enorme potere di Xi Jinping. Allo stesso tempo, in particolare per le questioni economiche, il presidente cinese si attornia di persone altamente qualificate, formatesi in Occidente. Consapevole del fatto che la Cina è tuttora un paese in via di trasformazione da un ordinamento economico e finanziario comunista a uno capitalista, Xi ha designato quale suo consigliere economico Liu He, uno dei più quotati economisti della Cina, con studi e lunghi soggiorni anche negli Stati Uniti, e a governatore della banca centrale Yi Gang, pupillo del governatore attuale, che porta con sé, oltre a numerose esperienze in Cina, anche le conoscenze acquisite durante gli studi e i soggiorni negli Stati Uniti. Spetterà a Yi Gang l’enorme sfida di incrementare una politica monetaria e creditizia che si basi sulle regole del mercato e non delle necessità clientelari che oggi legano le banche ai funzionari del partito e alle imprese pubbliche (sovraindebitate). Allo stesso tempo, la Cina vuole tornare ad essere la potenza leader del mondo e per raggiungere i suoi scopi, attraverso faraonici progetti come la nuova Via della Seta («One belt one road»), non si fa scrupolo di usare la forza del suo peso economico, per rafforzare quello politico. Il presidente americano non ha torto a lamentarsi della Cina, almeno laddove si riferisce alle pratiche scorrette adottate dai cinesi, che vanno dal furto di diritti d’autore, agli ostacoli posti alle società straniere nel fare affari in Cina, all’obbligo per le aziende occidentali di cedere il know how tecnologico. Tuttavia, annunciando unilateralmente delle misure protezionistiche, Trump non può che scatenare una reazione altrettanto vigorosa da parte di Xi Jinping. Inoltre, decidendo di non far ricorso alla World Trade Organization, adottando al contrario una strategia di negoziati bilaterali, il presidente discredita quell’organizzazione mondiale che gli Stati Uniti avevano fortemente voluto e attraverso la quale si intendeva ancorare la Cina alle regole del commercio e del capitalismo mondiale. Le condizioni per una guerra commerciale su larga scala – che, come l’esperienza ha fin qui dimostrato, vedrebbe alla fine tutti perdenti – sono quindi presenti e acuite da una confusione politica e ideologica del tutto nuova. Su entrambi i fronti ci sono però ancora numerose forze che si oppongono a una visione schematica e che non credono nell’utilità di uno scontro fra titani. In fondo la Cina dipende dal resto del mondo tanto quanto gli Stati Uniti. Correggere gli squilibri deve essere possibile anche senza passare per la distruzione degli equilibri. La Cina degli ultimi due secoli non ha molta esperienza in questo, l’Occidente può eventualmente essere d’aiuto nello stimolare le forze riformiste, ma solo con un’autorità morale, politica e istituzionale, non con l’arroganza del più forte.

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 3 aprile 2018 • N. 14

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Attualità Migros

M «Migros è in movimento»

Intervista Fabrice Zumbrunnen, presidente della Direzione generale della Federazione delle cooperative Migros

(FCM), spiega perché il pensiero e l’azione sociale ed ecologica sono parte di Migros e cosa significa la digitalizzazione per il più grande dettagliante svizzero Un settore da lei creato alla Migros è quello della salute. Quanto è soddisfatto del suo sviluppo?

Hans Schneeberger Fabrice Zumbrunnen, è in carica da tre mesi. Come va Migros?

Sono molto contento. Anche se siamo solo all’inizio, constatiamo che la domanda di prestazioni a buon prezzo nel settore della salute è molto alta. Offriamo tutto, dalla prevenzione all’assistenza medica e fino alla riabilitazione. Solo lo scorso anno si sono aggiunte 29 sedi, con strutture per il fitness e centri sanitari Medbase. Si sta sviluppando bene anche la nostra piattaforma per la salute, iMpuls, con la quale supportiamo i nostri clienti nel loro cammino verso uno stile di vita più sano.

Va bene. È sana. Lo scorso anno la gente ha acquistato dal Gruppo Migros come mai prima d’ora. Migros ha guadagnato parti di mercato. E con piattaforme come Digitec Galaxus o LeShop.ch, Migros è la preferita anche nel commercio online.

Sembra la situazione di partenza perfetta per il nuovo presidente Migros.

La situazione di partenza in effetti è buona. Tuttavia non sono euforico. Non possiamo dormire sugli allori nemmeno per un secondo: al contrario ogni mattina dobbiamo chiederci di nuovo come possiamo ulteriormente migliorare. E qual è la sua risposta?

La danno i nostri clienti. Che, sempre e a ragione, ci chiedono il miglior rapporto qualità-prezzo. Indipendentemente da dove e come si mettono in contatto con Migros. Solo qualche anno fa non avremmo potuto immaginare che gli acquisti, soprattutto nel settore non alimentare, si sarebbero spostati così velocemente dai negozi locali a Internet. Migros si è svegliata troppo tardi con il trend della digitalizzazione?

Malgrado la veloce crescita del commercio online, il 90 percento degli acquisti viene effettuato nei negozi. Abbiamo riconosciuto presto l’importanza del commercio online. Con Digitec Galaxus e LeShop.ch che sono leader del mercato svizzero e appartengono al Gruppo Migros. Questo vantaggio non deve tuttavia indurci all’inattività. In futuro investiremo ancora di più nello sviluppo e nell’ampliamento delle nostre attività online.

Ciò significa per converso che non ci saranno più nuove filiali Migros?

Anche lo scorso anno sono state aperte nuove filiali, che sono ora oltre 700. La vicinanza con la gente è per noi molto importante ed è parte del nostro buon servizio alla clientela.

Fabrice Zumbrunnen: «Ci assumiamo la nostra responsabilità sociale e guardiamo avanti». (Veronique Hoegger) Come è possibile, se si acquista sempre più spesso su Internet?

Vogliamo servire bene il cliente, ovunque. Indipendentemente da dove e come vuole fare i suoi acquisti. Grazie a PickMup, già oggi i nostri clienti possono ritirare in oltre 750 punti i prodotti ordinati da diversi shop online. Non solo alla Migros ma anche, per esempio, in un centro Fitness, presso mway o Migrolino. Leghiamo il commercio digitale a quello al dettaglio, così da offrire ai nostri clienti un’esperienza di acquisto il più piacevole possibile. Questi sviluppi hanno sicuramente un impatto anche sui collaboratori.

È così, la digitalizzazione interessa tutti gli ambiti della vita. Le modalità con cui lavoriamo, così come i settori professionali in cui oggi siamo attivi. Non ci dobbiamo fare illusioni. Alcuni lavori non saranno più necessari. Nel contempo si creeranno nuove occupazioni, come nel settore e-commerce, dove Migros deve rimanere attenta e in movimento.

Anche quello degli operatori di cassa è un lavoro destinato a scompari-

re, dal momento che scansioniamo noi stessi le nostre merci?

Per molti clienti il contatto umano alla cassa ha ancora oggi un grande valore. Certo, i compiti dei nostri specialisti della vendita cambiano. Già oggi consigliano i clienti, per esempio alle casse Subito, o prestano assistenza al servizio clienti. Ciò comporta cambiamenti nella quotidianità. Quale datore di lavoro, è una nostra responsabilità accompagnare i collaboratori nel cambiamento e prepararli ai compiti del futuro. Ciò che mi sta a cuore anche a titolo personale. Parla sulla base dell’esperienza maturata tempo fa come responsabile del personale di Migros?

Forse sì, ma la vedo così anche oggi. L’essere umano è centrale. Ciò significa che prendiamo seriamente la nostra responsabilità sociale di fronte ai cambiamenti attuali e nel contempo guardiamo avanti. Per questo motivo investiamo molto nell’istruzione e nella formazione continua. Al momento formiamo 3860 apprendisti in 50 professioni e lo scorso anno abbiamo creato 85 nuove posizioni di apprendistato.

Al centro della nuova campagna ci sono i proprietari di Migros. È un caso che sia stata lanciata proprio al momento della sua entrata in carica?

(ride) Certo, l’impressione ci può stare. Sostengo pienamente questa campagna. Migros non appartiene ad azionisti orientati al guadagno: trattandosi di una struttura nella forma di cooperativa appartiene ai suoi clienti. Nei loro confronti siamo tenuti a dare piena e adeguata soddisfazione alle loro esigenze. Proprio per questo i clienti possono contribuire attivamente a dare forma a Migros. Per esempio contribuendo tramite migipedia.ch a rendere i nostri prodotti ancora migliori. Questo dialogo è importante per noi. E prima che lei mi faccia la domanda: sono convinto che come cooperativa si possa essere abbastanza agili per poter avere successo in un mondo che sta cambiando rapidamente. A proposito del mondo: i proprietari di Migros sono in Svizzera, nel frattempo la M-Industria vende i suoi prodotti anche in Cina. C’è coerenza tra i due aspetti?

Migros ha le sue radici in Svizzera, le nostre attività principali sono e restano in Svizzera. Per le aziende di produzione Migros l’esportazione è andata sviluppandosi in modo importante. Ciò assicura d’altra parte posti di lavoro nelle

Cifra d’affari in crescita ma utile in calo Rapporto d’esercizio FCM Lo scorso anno il fatturato del Gruppo Migros ha raggiunto

i 28,1 miliardi di franchi, con una crescita dell’1,2%. Anche il fatturato del commercio al dettaglio è aumentato dello 1,0% raggiungendo 23,5 miliardi Nel 2017 il fatturato del Gruppo Migros è stato influenzato principalmente dal passaggio dal commercio tradizionale a quello digitale, ma anche dagli effetti negativi della valuta, che si sono ripercossi soprattutto sul settore dei viaggi. A questo va aggiunto il rincaro negativo dell’assortimento Migros e l’incessante turismo degli acquisti nei paesi confinanti, i cui volumi si stima siano pari a circa 11 miliardi di franchi. Nonostante le difficili condizioni quadro, il Gruppo Migros nel 2017 ha registrato un solido sviluppo. In totale il fatturato è salito di 333 milioni (+1,2%) raggiungendo 28,1 miliardi. Ciò dimostra come Migros abbia saputo rispondere adeguatamente alle nuove abitudini dei consumatori. Grazie alla sua ampia offerta online è riuscita a consolidare l’indiscussa posizione di leader del mercato dell’e-commerce. Il risultato ante oneri finanziari e imposte (EBIT) del Gruppo Migros nell’esercizio in esame si è attestato a 333 milioni, facendo registrare quindi un calo del 33,8% rispetto all’anno precedente (2016: 911 milioni). Gli investimenti hanno mantenuto un livello elevato, pari a 1,476 miliardi (2016: 1,663 miliardi). La cifra d’affari del commercio al

dettaglio in Svizzera e all’estero (senza IVA) è aumentata fino a raggiungere 23,5 miliardi (2016: 23,3 miliardi), facendo segnare quindi una crescita dello 1,0%. I rincari applicati da Migros sono stati mediamente pari a –0,3%. Il fatturato netto delle cooperative, incluse quelle estere, è sceso di 77 milioni a 15,6 miliardi (–0,5%). All’estero le cooperative hanno conseguito un giro d’affari di 1,2 miliardi, con una crescita del 2,6%, pari a 31 milioni. I prodotti regionali e sostenibili hanno continuato a crescere. Il giro d’affari generato dai prodotti dell’assortimento «Dalla regione. Per la regione»/«I Nostrani del Ticino» è stato di 960 milioni (+2,0%). Per adempiere al mandato sancito negli statuti di Migros che prevede l’impegno del Gruppo a favore di uno stile di vita sano della popolazione, nel 2017 è stata ulteriormente ampliata l’offerta in ambito sanitario. La gamma completa di servizi medici e terapeutici di Medbase ha garantito una crescita del fatturato del 6.0%, raggiungendo complessivamente 139 milioni. La piattaforma digitale iMpuls, lanciata di recente, grazie ai suoi consigli e suggerimenti, promuove l’adozione di uno stile di vita sano. Con l’espansione dei suoi format

per il fitness e l’acquisizione di Silhouette Wellness SA, Migros ha ulteriormente consolidato la sua posizione di leader sul mercato del fitness, chiudendo il 2017 con 226’600 iscritti (+19,3%). La quota di mercato detenuta da Migros in Svizzera è quindi di circa il 25%. M-Industria ha rafforzato la propria posizione sul mercato svizzero ed estero. Ha raggiunto un fatturato di 6.5 miliardi (contro i 6,4 miliardi dell’esercizio precedente), che corrisponde a una crescita del 2,1%. Tale successo è stato favorito dall’aumento delle esportazioni (+10%) e dall’apertura di nuovi negozi. Per quello che riguarda l’impegno sociale, il Percento culturale Migros ha rinnovato l’investimento di 122 milioni provenienti dal fatturato della vendita al dettaglio affidata alle cooperative nei settori della cultura, della società, della formazione, del tempo libero e dell’economia, in attività quali ad esempio i concerti Migros-Percento-culturale-Classic, il Museo Migros d’arte contemporanea o nella promozione delle giovani leve. Il Percento culturale, che affonda le sue radici nelle idee di Gottlieb Duttweiler ed è ancorato negli statuti di Migros fin dal 1957, si basa su un concetto di impegno volontario unico nel suo genere. A integrazione dell’attività del Percento cultu-

rale Migros, nel 2012 è stato creato il fondo di sostegno Engagement Migros. Sempre forte l’impegno aziendale in termini di responsabilità sociale: alla fine del 2017 Migros impiegava 105’456 collaboratori (+2,5%), di cui 89’516 in Svizzera, facendo segnare un aumento del 2,4% (2016: 87’414). Migros si conferma il maggiore datore di lavoro privato della Svizzera. Con servizi sociali sopra la media e un clima lavorativo improntato al riconoscimento del merito, Migros si assume e valorizza la propria responsabilità nei confronti dei collaboratori. Prospettive future: l’impresa continuerà sistematicamente a trasferire sia gli incrementi di efficienza sia i minori costi di approvvigionamento alla propria clientela sotto forma di prezzi più convenienti. Anche in futuro Migros intende continuare a offrire il miglior rapporto qualità-prezzo, rafforzare il suo ruolo di leader sul mercato dell’e-commerce e ampliare la sua offerta per la salute. Il commercio al dettaglio si trova ad affrontare due grandi sfide: il passaggio dal commercio tradizionale a quello digitale e il turismo degli acquisti, sia online che nei negozi dei paesi confinanti. Anche in futuro quindi sarà necessario compiere scelte coraggiose per adeguare l’azienda a questi cambiamenti.

nostre aziende di produzione in Svizzera. Constatiamo che i nostri prodotti e i nostri marchi propri sono apprezzati non solo qui, bensì in diverse nazioni, dove la qualità svizzera è molto quotata. Negli ultimi anni Migros ha investito molto sulla sostenibilità. Darà continuità a questo impegno?

Assolutamente. Pensare e agire socialmente ed ecologicamente appartiene al DNA Migros. Sono inclusi i supermercati e i negozi specializzati, che grazie all’utilizzo di tecnologie e modalità di costruzione all’avanguardia producono più energia di quanta ne utilizzano. Sono compresi nel discorso anche i nostri sforzi per le condizioni di lavoro, per esempio nelle piantagioni di banane in Colombia. I prodotti della regione e con un’origine sostenibile sono molto apprezzati dai nostri clienti. Ci sono tuttavia clienti i quali pensano che, per rispetto dell’ambiente, Migros non dovrebbe più vendere determinati prodotti.

Anche se capisco, è per me importante dire che è il cliente ad avere sempre l’ultima parola. Se un prodotto non si vende, logicamente non trova più spazio nel nostro assortimento. Nei confronti dell’ambiente ci si muove su un terreno minato nel trovare equilibrio tra i bisogni del cliente, la scelta di prodotti e le misure per una perfetta sostenibilità. Gettiamo infine uno sguardo al futuro. Dove vede Migros tra dieci anni?

Ho in mente una Migros in ottima salute, che anche tra dieci anni godrà della fiducia dei suoi proprietari, vale a dire i suoi clienti. Migros è sinonimo di prezzi equi e di un buon servizio. Non importa dove e come la gente acquisterà da noi in futuro. Nel contempo Migros continuerà a rispettare l’ambiente. Anche in un mondo frenetico si manterrà agile e flessibile nel fare commercio e malgrado i cambiamenti resterà un faro svizzero per quanto riguarda la responsabilità. Mi assumo questo impegno.

Roelof Joosten nel CdA FCM I delegati

approvano la scelta del dirigente olandese In occasione dell’Assemblea dei delegati della Federazione delle Cooperative Migros del 24 marzo, è stato eletto nell’Amministrazione della FCM il manager olandese Roelof Joosten, in sostituzione di Heinz Winzeler che lascia la carica dopo 15 anni di attività. Si tratta del primo cittadino straniero ad entrare nel Consiglio d’Amministrazione della FCM. Già direttore generale della olandese FrieslandCampina, azienda produttrice di latticini, «Roelof Joosten è un profondo conoscitore del settore dei generi alimentari a livello internazionale. È stato CEO di una cooperativa strutturata e concepita in maniera analoga a Migros. Di sicuro l’Amministrazione FCM trarrà notevole beneficio dal suo enorme bagaglio di competenze tecniche e della sua esperienza», ha commentato il presidente di Migros, Andrea Broggini. Il 24 marzo, i delegati hanno pure approvato il rapporto d’esercizio e i conti annuali 2017, riconfermando PricewaterhouseCoopers quale società di revisione per un altro bienno.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 3 aprile 2018 • N. 14

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Società e Territorio Donna e scalpellino Cristina Di Pietro ci racconta come è nata la sua passione per la pietra

La frecia degli sposi Una tradizione delle nostre valli prevedeva un ostacolo che lo sposo doveva superare per raggiungere l’amata pagina 7

Lugano e il suo centro Dopo l’ampliamento avvenuto a seguito delle aggregazioni ora la sfida è trasformare il centro città pagina 8

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Come riparare un cuore spezzato Psicologia Guy Winch nel suo ultimo libro

sostiene che dobbiamo ripensare il modo in cui gestiamo il dolore causato da situazioni che per il senso comune possono sembrare facili da affrontare

Guy Winch è uno psicologo di New York, conosciuto al grande pubblico per un Ted Talk con oltre cinque milioni di visualizzazioni e per i suoi saggi tradotti in ventitrè lingue. Nel suo ultimo libro, intitolato How to Fix a Broken Heart (Come riparare un cuore spezzato), appena pubblicato negli Stati Uniti, sostiene che dobbiamo ripensare il modo in cui gestiamo il dolore causato ad esempio dalla perdita di un animale domestico oppure dalla fine di una relazione breve, magari anche solo da un primo appuntamento amoroso che finisce male. Infatti, anche situazioni che al senso comune possono sembrare facili da affrontare, riescono a gettare alcune persone nello sconforto più totale, rendendole incapaci di reagire, e lasciandole con il cuore spezzato. «Azione» ha raggiunto Guy Winch al telefono. Guy Winch, come si fa capire quando si ha il cuore spezzato?

Il primo elemento per capirlo è rendersi conto dell’intensità del dolore che si prova. Quando si ha il cuore spezzato ci si sente travolti dal malessere, si percepisce una sofferenza reale, un senso di perdita di qualcosa che avevamo, che faceva parte della nostra vita e che non c’è più. La sensazione di mancanza diventa totalizzante: il pensiero dell’assenza è ossessivo e ha un impatto su tutto quello che facciamo. Ad alcune persone può capitare di avere il cuore spezzato in seguito alla perdita di un animale domestico oppure dopo la fine di una relazione che magari è durata poco o anche dopo un primo appuntamento. Ciò che conta sono l’intensità e le aspettative rispetto alla relazione. Dall’esterno, se non si conoscono la situazione nel suo complesso e la storia personale, non si può giudicare la reazione.

Di fronte al lutto di un parente stretto oppure davanti a un divorzio, i capi e i colleghi, così come gli amici e i conoscenti, sono in genere comprensivi. Non sempre si riceve lo stesso supporto se si perde un animale oppure se una relazione breve, alla quale si teneva molto, finisce. A cosa è dovuta questa differenza di atteggiamenti?

Abbiamo una gerarchia di bisogni, in cima c’è il sentirsi sicuri. Poi vengono il cibo, l’acqua e così via. Fino a cent’anni fa c’erano molti problemi ai quali pensare per sopravvivere, si era occupati, non c’era tempo per altro. Lo stesso vale ancora oggi per chi vive in aree del mondo dove mancano i beni primari oppure dove c’è la guerra. In Occidente e in altre zone del mondo dove la qualità della vita è migliorata in modo sostanziale negli ultimi cinquant’anni, abbiamo cominciato a preoccuparci del nostro benessere e di questioni come la felicità e la soddisfazione personale. Abbiamo iniziato a occuparci di chi soffre, ai supporti che ci possono essere se una persona cara soffre per un lutto oppure per un divorzio. Non rientrano ancora appieno nelle nostre categorie di dolore, la perdita di un animale caro e la fine di una relazione breve. Nel suo libro scrive che ci sono conseguenze anche fisiche per chi si trova con il cuore spezzato.

Sì, ci sono delle ripercussioni sulla nostra salute perché ci sentiamo depressi e stressati. Si attiva il cortisolo, l’ormone dello stress, e non per un tempo breve, ma per giorni, settimane anche mesi, rendendo il nostro sistema immunitario meno efficiente. Per questo ci si ammala più facilmente. Inoltre, lo stress cronico può avere effetti negativi sulle funzioni del nostro sistema cardiovascolare e digestivo. Ci possono essere anche conseguenze più serie come la «sindrome del cuore spezzato», che causa un significativo dolore al pet-

Marka

Stefania Prandi

to, spasmi e un innalzamento elevato (trenta volte il normale) dei livelli di norepinefrina e epinefrina, ormoni associati allo stress. La «sindrome del cuore spezzato» non è un semplice attacco di panico. Anche se non provoca danni cardiaci, si finisce in ospedale e per riprendersi ci vuole un certo periodo di tempo. In un articolo recente pubblicato sul «The New England Journal of Medicine», viene citato il caso di una donna sessantenne che ha sofferto di questa sindrome per la morte del suo cane. Si tratta di un evento molto raro, a me da quando faccio lo psicologo non è mai capitato di seguire un paziente che ne soffrisse, ma la cito proprio a dimostrazione delle conseguenze che certe situazioni possono portare. Lei spiega che quando ci fissiamo intensamente su chi ci ha spezzato il cuore, ci comportiamo come se fossimo dipendenti da sostanze

stupefacenti. Quali sono i meccanismi e le ragioni che danno origine a questo comportamento?

Esami realizzati con la tecnica della risonanza magnetica hanno dimostrato che l’astinenza dall’amore attiva gli stessi meccanismi dell’astinenza da sostanze stupefacenti. In entrambi i casi si diventa ossessivi, si pensa ininterrottamente a chi se n’è andato e ha lasciato un vuoto. La differenza è che chi ha una dipendenza ne è consapevole, mentre una persona che ha il cuore spezzato non se ne rende conto e crede di impazzire. Il pensiero di stare entrando nel territorio della follia, aumenta i livelli di stress. Quali sono i suoi suggerimenti per riprendersi?

Il cuore spezzato è una forma di perdita e di lutto. Ci sono delle cose da fare per guarire e altre che invece vanno assolutamente evitate. Bisogna interrom-

pere ogni contatto con la persona che ha deciso di andarsene, magari dopo pochi mesi o settimane di relazione. È difficile comportarsi così: significa non scrivere messaggi, non cercare informazioni, foto e video sui social network. All’inizio si penserà a chi ci ha spezzato il cuore ventiquattro ore al giorno, ma poi piano piano il tempo diventerà sempre meno. Tra le cose da fare, invece, innanzitutto bisogna lavorare sull’autostima. Inoltre, ci saranno molti vuoti nella nostra vita, come accade anche in seguito alla perdita di un animale caro, che dobbiamo cercare di riempire, magari riscoprendo vecchie abitudini e passatempi, trovando un senso nuovo. Non è semplice, ma si può riuscire. L’intervista è stata tradotta e in alcuni passaggi adattata dalla giornalista


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Società e Territorio

La magia della pietra Incontri Cristina Di Pietro è una delle poche donne scalpellino da laboratorio del Ticino. Ci racconta

la sua esperienza in un settore, quello della lavorazione della pietra, che è ancora molto maschile Roberta Nicolò I luoghi comuni sono difficili da sradicare e, soprattutto in campo professionale, esistono ancora tanti pregiudizi e disparità di trattamento. Secondo il sociologo americano Michael Kimmel, soprattutto nel mondo del lavoro, la parità tra i generi, sebbene auspicata, è lontana dall’essere realtà: «le nostre vite sono decisamente cambiate, ma le nozioni che abbiamo sui due generi sono culturalmente radicate nella nostra mente, e sono le stesse che si tramandano da generazioni». Facile immaginare, quindi, che anche in Ticino ci siano mestieri che sono ancora ritenuti appannaggio maschile, ambienti nei quali una donna rischia di essere discriminata. La lavorazione della pietra è un’attività importante dell’economia ticinese. Sono però pochissime le ditte che offrono la formazione di scultore o scultrice su pietra. È un mestiere che, alle nostre latitudini, non garantisce un reddito sufficiente e che pone quindi gli artigiani davanti a una grande sfida, ovvero quella di ritagliarsi una nicchia di mercato. Se sei donna le possibilità sembrano essere ancora meno. Cristina Di Pietro è scalpellino da laboratorio (marmista), lavora la pietra nel suo laboratorio a Giubiasco, un materiale che nel pensiero comune sembra appartenere per natura all’uomo. Ha scelto questo mestiere perché crede fermamente che scolpire in maniera artigianale il sasso abbia a che fare più con la passione, l’arte e la conoscenza tecnica che con l’appartenenza di genere. «Fin da bambina amavo lavorare il legno, trasformare il materiale in oggetti. Avevamo una casa in montagna e durante le estati passavo il mio tempo dipingendo e costruendo manufatti lignei. Alcuni di quei lavori li ho ancora. Avrei desiderato fare la scuola di scultura su legno, finite le medie, ma in

Cristina Di Pietro nel suo atelier di Giubiasco. (Annick Romanski)

Ticino non era possibile e l’alternativa sarebbe stata quella di fare l’apprendista falegname. Ma io volevo diventare scultrice. Questo era il mio sogno. Mi sono informata e ho scoperto l’apprendistato di scultura su pietra. L’idea mi ha conquistata. Ho fatto la formazione a Rancate lavorando con entusiasmo e passione. Mi sono diplomata in quella stessa ditta come miglior marmista vincendo due borse di studio per il proseguimento degli studi all’estero. Ho ricevuto il premio Rotary come miglior studente e due riconoscimenti cantonali come miglior apprendista del mio anno. Finito l’apprendistato mi sono trasferita a Verona dove mi sono diplomata nel settore artistico scultoreo, come copiatore di opere d’arti, mosaico e restauro. I buoni risultati mi hanno confermato che non conta se sei uomo o donna, ma che questo è un mestiere nel quale sono importanti passione e impegno. Nei miei

anni in Italia ho incontrato altre donne che come me hanno scelto di scolpire la pietra e che lavorano con soddisfazione in questo settore. Sono tornata in Ticino piena di entusiasmo e pronta a mettere la mia competenza a servizio del territorio. Ma la mia preparazione non è bastata. In Ticino vige un’ottica molto maschile. Non ci sono donne e, soprattutto nel settore legato all’industria e sui cantieri edili, diventa molto difficile farsi ascoltare dai colleghi ed essere riconosciuta nel ruolo. Nonostante abbia ben quattro diplomi a Lugano mi volevano assumere con un contratto di stage». Un mestiere, quello dell’artigiano della pietra, che rischia di scomparire. L’utilizzo di macchinari sempre più sofisticati, negli anni, ha contribuito a differenziare la produzione industriale da quella artigiana, ma il pregiudizio di genere resta immutato in entrambi gli ambienti.

«C’è poca conoscenza di questo mestiere e soprattutto vige ancora forte il pregiudizio per il quale per scolpire a mano occorre essere fisicamente forti. La pietra è vista come un materiale duro, difficile. In verità è una materia duttile come le altre e quello che occorre sono i giusti attrezzi e la corretta manualità. Ecco perché lo studio è importante. Si tratta di usare bene mani e polsi, di avere la postura giusta. Ci vogliono precisione, pazienza e creatività. Queste doti non dipendono dal genere, non importa se sei uomo o donna. Oggi poi ci sono anche i macchinari computerizzati che aiutano le industrie a realizzare alcuni prodotti. Ho un diploma anche come programmatore a controllo numerico, ma io prediligo sempre il lavoro artigianale. Nel mio laboratorio tutto viene rigorosamente scolpito a mano, non ho macchine. Il mio è un atelier nel quale il valore ag-

giunto è dato proprio dalla padronanza della manualità e dall’approccio artistico. Credo che la discriminazione, il pregiudizio, nascano soprattutto dall’ignoranza, intesa come non conoscenza. Per esempio, nella Svizzera interna, dove ho lavorato per un periodo, su dieci marmisti quattro sono donne. Non ci sono disparità di trattamento e quello che conta è fare bene il proprio lavoro. La conoscenza del mestiere è maggiore anche tra la gente comune che non si stupisce nel vedere una donna che lavora la pietra. Sul nostro territorio manca addirittura il confronto tra colleghi, tra chi fa lo stesso mestiere. Anche sul versante artistico. Non c’è scambio e questo non aiuta a superare i pregiudizi». Una corretta educazione, fin da bambini, può aiutare ad aprire la mente e a comprendere un mestiere come questo. Una convinzione condivisa anche da Cristina Di Pietro: «negli ultimi anni mi sto dedicando all’insegnamento, sia nelle scuole con i più piccoli, sia in ambito privato con gli adulti. Penso che occorra far conoscere alle persone la magia della pietra e la sua lavorazione. Che sia indispensabile rompere questa visione maschilista. Niente è più efficace dell’esperienza diretta. I bambini si pongono in maniera naturale nei confronti della scultura, non si chiedono se sia un’attività da maschio o da femmina. Lo affrontano con la curiosità tipica dei più piccoli e scoprono quanto sia divertente lavorare un “sasso”. L’adulto, invece, è più difficile da avvicinare. Teme molto il materiale. Probabilmente lo immagina quasi ostile. Ha paura che lo metta di fronte a dei limiti. Basta semplicemente trovare il coraggio di superare lo scoglio psicologico iniziale e allora, proprio attraverso il fare, si riescono a superare anche gli stereotipi che vogliono che la pietra sia prerogativa maschile».

Gli adolescenti amano i muser

Il caffè delle mamme Cantare in playback e mimare un brano musicale: il successo di Musical.ly tra i giovanissimi Simona Ravizza Le nuove amiche virtuali delle teenager sono le 15enni Elisa Maino e Iris Ferrari. Con loro le pre-adolescenti trascorrono parecchio tempo e, anche a Il caffè delle mamme, bisogna farsene una ragione. Le due giovanissime sono star di Musical.ly, un social network che entra all’improvviso nelle case con figli intorno ai 10 anni: fino a quel momento di solito mamme e papà ne ignorano l’esistenza. È una app, inventata nel 2014 dai due giovani imprenditori cinesi Alex Zhu e Luyu Yang, che permette di scegliere un brano musicale, cantarlo in playback e soprattutto mimarlo, infine postare il video di 15 secondi. Così muovere le labbra a ritmo di musica e ballare gesticolando, per poi condivide-

re la mini esibizione con gli amici è diventata una mania. Ma ancora di più la moda è seguire e condividere i mini clip musicali dei più famosi muser, il nome con cui vengono definiti gli utilizzatori della app. Oggi Musical.ly vanta oltre 200 milioni di follower. Con 2 milioni e 870mila fan Elisa Maino è al primo posto nella classifica italiana. La 15 enne è nata a Rovereto e oggi vive a Riva del Garda (Trentino Alto Adige). Capelli lunghi neri, alta, magra, occhi scuri, truccata alla perfezione, elegante con i suoi pantaloni neri, anfibi, camicia beige a piccole righe bordeaux e pizzo bianco, Elisa frequenta il liceo classico con il sogno di laurearsi in Medicina. In uno degli ultimi video la muser più seguita d’Italia mima con un gran muovere di mani e dita la canzone

L’app è stata inventata nel 2014 da Alex Zhu e Luyu Yang.

Sciroppo del rapper italiano Sfera Ebbasta. Il mini clip ha quasi 80mila cuori, che vuole dire Mi piace: li hanno messi, con ogni probabilità, anche molte delle nostre figlie (e anche figli). Racconta ad «Azione», dopo un sabato pomeriggio che l’ha vista impegnata su set fotografici e registrazioni video: «Scelgo le canzoni dalla library di Musical.ly, seguendo le novità e i trend, ma soprattutto quelle che mi piacciono. Per i testi in inglese, se non capisco tutte le parole, studio la traduzione. Poi le imparo a memoria. Quindi ballo improvvisando i gesti: dopo anni di scuola di danza, è proprio la coreografia l’aspetto che mi diverte di più. Ma, se la registrazione non mi piace, la rifaccio finché non mi convince: sono una perfezionista. Tutto è iniziato quando due anni fa ho visto per caso un mini clip di LisaandLena (due gemelle tedesche, star di Musical. ly con 28 milioni di fan). Da lì mi sono ispirata e ho iniziato per gioco. L’ultima novità sono i video comedy in cui si ironizza su battute cinematografiche». Per capire Musical.ly bisogna conoscere anche il gergo proprio dell’app. La parola chiave è lip sync che vuole dire «recitare o cantare in sintonia labiale». È l’essenza dell’uso di questo social network, che permette anche di utilizzare effetti speciali come scegliere la velocità di riproduzione del video musicale e apparire con travestimenti di vario tipo (cappelli, parrucche, occhiali, baffi e chi più ne ha più ne metta).

L’altra star indiscussa è Iris Ferrari, nata a Milano il 15 febbraio 2003 dalla giornalista tv Roberta Ferrari, figlia di genitori italiani emigrati in Svizzera francese e l’infanzia trascorsa a Losanna. A 15 anni appena compiuti Iris è al 5° posto nella classifica Musical.ly con 1 milione e mezzo di followers ed è l’autrice di Una come voi (Mondadori Electa), in libreria dallo scorso 20 febbraio: Iris racconta la sua vita da adolescente prima e dopo essere diventata una star del web, definendosi «una ragazza come voi, con tanti sogni e tanta passione che mette in tutto ciò che fa». A poco più di una settimana dall’uscita, il libro è primo in assoluto nella classifica generale delle vendite con 11mila copie vendute (fonte Gfk) e 4 ristampe, battendo recordman di vendite come Alan Friedman e Fred Vargas. Dall’11 febbraio, il giorno in cui Iris condivide il video dell’annuncio dei preorder con i fan, Una come voi è primo anche negli ordini su Amazon. E il 24 febbraio al megastore Mondadori in piazza del Duomo a Milano ci sono 1.800 teenager in fila per farsi firmare una copia dall’autrice. Scrive Iris: «Fin da piccola prendevo il mano il microfono e mi scatenavo, a squarciagola. È sempre stata una mia passione. Lo facevo davanti ai miei nonni, a mia mamma e a mia zia, le uniche persone di cui non mi vergognassi. Adoravo Amore, la sigla di un programma di Raffaella Carrà. Avrò avuto due anni e intrattenevo tutta la famiglia,

mimando le sue mosse. Poi ho coltivato questa passione negli anni, prendendo lezioni private, ma non amo esibirmi in pubblico. Il mio vero “talento” è la recitazione». Oggi in uno dei video postati su Musical.ly Iris mima tra cuori, mani alla testa e dita che indicano lo scatto di una fotografia e il telefono Ti scatterò una foto di Tiziano Ferro. Sbagliato giudicare, ancora di più pensare che in casa propria tutto ciò non entrerà mai. A tutte le mamme che storcono il naso di fronte a questi nuovi fenomeni in cui vita reale e vita virtuale si accavallano – mode sicuramente da governare, ma impossibili da ignorare – forse possono fornire un motivo di riflessione i ringraziamenti di Iris alla fine del libro: «Ringrazio innanzitutto mia mamma per avermi sempre dato fiducia, per avermi aiutata e assecondata, anche quando non era d’accordo; per avermi cresciuta sempre col sorriso, anche nei momenti in cui era difficile trovarne uno. La ringrazio per aver fatto di tutto per farmi felice e non farmi mancare mai niente, e per avermi sempre messa al primo posto. Grazie per avermi fatto da mamma e da papà, perché non è facile crescere una figlia da sola, e perché è solo grazie a lei se ora sono come sono. La ringrazio per essermi stata vicina in tutto il mio cammino ma, nel momento in cui sono caduta, per non avermi rialzata, e per avermi insegnato a farlo da sola. Grazie per la fantastica mamma che sei!».


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 3 aprile 2018 • N. 14

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Società e Territorio

Prima scavalco e poi ti sposo

Tradizioni I l rito dello sbarramento che lo sposo doveva attraversare per prendersi la sua amata

Sara Rossi Guidicelli I riti arrivano da lontano nel tempo, molto lontano. Parliamo qui di un rituale legato al matrimonio, che si trova nelle nostre valli, ma non solo: anche nel nord Italia, nelle Marche, in Abruzzo, a Venezia, in Francia, in Inghilterra, nel Galles, in Russia, nei Balcani... forse ovunque in area europea. Si tratta di una linea simbolica da oltrepassare prima di sposarsi. Riguarda un passaggio importante, da ragazzo a uomo sposato, ma in particolar modo è rimasto attaccato a chi, il giorno delle sue nozze, «porta via» da un villaggio una ragazza. Cioè riguarda soprattutto il forestiero che si sposa nel paese di lei e poi la conduce in un altro posto. Qualche mese fa Nello Leonardi di Bedretto mi ha mandato questa foto, la cui origine non ricorda, con la dicitura scritta a mano dietro: La frecia degli sposi. Ho interrogato il Centro di Dialettologia della Svizzera italiana, Ottavio Lurati, i Documenti orali della Svizzera italiana e il volume Fidanzamento e Matrimonio de Il Ciclo della Vita di Marcello Canclini. Ho scoperto prima di tutto che questa linea, questo sbarramento, ha vari nomi, oltre a frecia (Bellinzona, Leontica, Leventina, Cavergno, Sopraporta,); si chiama anche di ròsta (Valmaggia, Caviano, Gerra Gambarogno, circolo di Tesserete, Sonvico), sbarada (Personico, Corticiasca, Valcolla), sciópa (Losone) e sèra (Val Poschiavo), barra (Venezia). Poi, secondo le attestazioni raccolte nella Svizzera italiana, lo sbarramento poteva essere costituito semplicemente da un nastro o da una ghirlanda tirata fra due sostegni, oppure da impedimenti più consistenti, come un tavolo, una pianta tagliata, fascine con sopra una zucca e assi ai lati, e altri oggetti. In Valle Bedretto, dove si svolge ancora tale rituale, negli ultimi anni si è assistito allo sbarramento costruito con un cumulo di neve. Infine, gli studiosi dicono che talvolta era una prova di forza e quindi bastava l’abilità per superarla, più spesso invece per oltrepassare l’ostacolo bisognava pagare un pedaggio alla società giovanile del luogo: si trattava quindi di una sorta di dazio in cambio della sposa che veniva sottratta al suo villaggio natio. A far parte del rito c’erano anche discorsi predefiniti, satirici, spesso in rima e un ruolo principale lo svolgevano i gruppi di giovani. La Juventus, o abbazia del pazzi, come venivano chiamate le associazioni giovanili, nasce in Europa tra il 1200 e il 1500. Questi gruppi organizzavano i festeggiamenti per il Carnevale, il Calendimaggio, le feste primaverili, la festa patronale, partecipavano alle processioni e non di

Bedretto, 1956: la frecia degli sposi.

rado tenevano sacre rappresentazioni in chiesa. Esercitavano anche un potere disciplinare e di polizia per assicurare l’ordine delle manifestazioni. Erano rappresentate da un capitano o da un presidente, un vice-capitano, un segretario, uno o più cassieri e altri che rivestivano cariche meno importanti, tutti celibi e di solito tra i 15 e il 45 anni; le loro entrate principali provenivano dalla barriera degli sposi. Il primo atto del rito della frecia si svolgeva generalmente qualche giorno prima del matrimonio. La Gioventù piombava dunque a casa della sposa, una sera che il promesso sposo era presente, e chiedeva con prepotenza di fare i conti con lui. I giovanotti gli facevano capire che la ragazza sarebbe stata «per natura» destinata a uno di loro, ma se lui se la voleva portare via, allora doveva pagare. Il secondo atto del rito era poi per il giorno del matrimonio: sul sagrato della chiesa, prima della cerimonia, arrivavano i giovani, vestiti come rappresentanti della legge, ma vieppiù, negli anni, travestiti in modo buffo e con qualche arma per ricordare che avevano il compito di far rispettare una legge. A volte accompagnavano già il corteo che si recava in chiesa, davanti alla quale veniva letto un discorso satirico

umoristico; poi lo sposo consegnava la busta con i soldi pattuiti, e loro tagliavano il nastro rappresentante la barriera agli sposi, spesso sparando sarasette o gioiose schioppettate in aria. Poi veniva offerto dalla Gioventù un piccolo rinfresco, più o meno ricco a seconda dell’ammontare del dazio, e tutti accompagnavano la sposa all’altare (altre volte invece i ragazzi se ne andavano e tornavano, se invitati, per i festeggiamenti che seguivano). Il nastro restava spesso sulle spalle della sposa come ornamento. Scrive lo studioso di folklore Marcello Canclini che a Bormio alla fine del secolo scorso il «costo» di una sposa da portarsi via si aggirava intorno alle 300mila lire. In caso di mancato pagamento, la minaccia era quella di creare disordine e disturbare il corteo nuziale col suono delle zampogne o altri disturbi. Dalle nostre parti, secondo due testimonianze orali raccolte in Leventina nel secolo scorso, sentiamo parlare più modestamente di «qualcosa che ci basti per bere un bicchiere di vino» quella sera. Alcuni testimoni parlano di varie tariffe a seconda della bellezza della sposa (una ragazza con i capelli rossi valeva meno di tutte, perché c’era chi pensava che avrebbe avuto il latte amaro) e talvolta si faceva uno

scherzo allo sposo; è capitato per esempio che gli si chiedesse di arrampicarsi sul campanile della chiesa (con le scarpe lisce eleganti) a prendere la pergamena con il discorso mentre i manigoldi suonavano a tutto volume le sirene dei pompieri. Tutti questi racconti fanno pensare più a un patto commerciale che a un rito propiziatorio, e così anche gli statuti di Vallemaggia e Capriasca, nel XIV e XV secolo, in cui si vieta esplicitamente sia di erigere sbarramenti a coloro che conducevano giovani spose sia di richiedere un pedaggio; eppure in alcuni posti (come a Fontana, frazione di Airolo e in Capriasca, a Vaglio e Lopagno) si parla di «frasche», «di abeti» e a Venezia addirittura di una «ghirlanda di fiori». Ecco che allora affiora un altro rito antico, quello del ramo d’oro, della potenza magica delle piante che si trasmettono all’uomo donandogli fertilità e ricchezza. La bacchetta magica, infatti, è un’evoluzione fiabesca di quel contatto con la pianta che dona potere a chi viene toccato da lei. E cosa ne è oggi della frecia? Abbiamo potuto ascoltare in questi giorni i ricordi di una madre e di una figlia che a Villa Bedretto, nell’aprile scorso, hanno assistito a un rito dello sbarra-

disposti ad accogliere e al tempo stesso a rielaborare e trasformare, a fare nostre le cose dette impregnandole del nostro vissuto, del nostro pensare e sentire. Mi è venuto in mente Erling Kagge e la sua ricerca del silenzio, lontano dalle distrazioni e dai costanti rumori della nostra società, per arrivare a conoscere meglio se stesso e dare un senso più profondo e autentico alla sua esistenza. Ma ho anche pensato al tedesco Bernhard Pörksen, studioso dei media, secondo il quale in tempi di chiasso permanente l’ascolto autentico è diventato un evento raro e spirituale «il luogo per eccellenza della nostalgia». E non vi è nulla di più gratificante dell’essere ascoltati perché implica una completa accettazione da parte dell’altro, al quale permettiamo di avvicinarsi in tutta la sua estraneità e la sua diversità.

Un ascolto di questo tipo, diversamente da quello del parlare, è un atto di libertà e nel suo significato più profondo diventa un dono. Peccato, come dice il prof. di filosofia all’Università di Basilea, Gunnar Hindrichs, che viviamo nell’età dell’invidia e dell’egoismo, in cui siamo divisi su tutto, uniti solo dalla paura e dal timore degli altri e sempre incollati agli schermi dei nostri telefonini e computer. Eppure Erich Fromm, nel suo seminario svizzero del 1973, tra quei presupposti necessari per una cultura e una società che mirano al benessere umano, annoverò l’ascolto. Mentre risuona più che mai attuale il discorso di duemila anni fa di Plutarco, rivolto ad un giovane interessato alla filosofia «stipulata una tregua tra voglia di ascoltare e tentazioni esibizionistiche, dobbiamo disporci all’ascolto

mento. Lo sposo non era di lì e dopo il matrimonio sarebbe andato a vivere da un’altra parte con la ragazza. «Gli hanno eretto un muro di neve, perché sebbene fosse già primavera inoltrata aveva nevicato ancora; non sappiamo chi esattamente l’ha fatto, pensiamo i ragazzi del posto, gli amici della sposa. Il fidanzato ha dovuto spalare per crearsi un varco e da lì sono passati tutti gli invitati. Ognuno dava qualcosa». Ottavio Lurati, a lungo insegnante all’Università di Basilea di italianistica e grande studioso di etimologia della lingua regionale della Svizzera italiana, commenta così: «La frecia, come si pronuncia in Leventina la parola fracia, viene dal latino fracta via, strada interrotta. Anche Stefano Franscini si chiama così perché la sua famiglia abitava presso una frecia, cioè un vallone, un avvallamento». A Villa Bedretto, per esempio, si chiama frecia anche la zona all’inizio e alla fine del paese dove ci sono i muraglioni dei ripari valangari. «Ma per tornare alla tradizione degli sposi – conclude il professore – mi stupisce sempre, e allo stesso tempo mi dà conferma della natura umana, vedere come le usanze siano vischiose e si spengano solo adagio adagio, mutando spesso un po’ alla volta, di generazione in generazione».

La società connessa di Natascha Fioretti L’arte perduta dell’ascolto Penserete, e avete ragione, cari lettori, che il titolo non è particolarmente originale, tutt’altro, è piuttosto ripetitivo visto che oggi, di arti, mi pare ne stiamo perdendo parecchie. L’arte dell’attesa, per dirne una, della quale abbiamo parlato tempo fa con Andrea Köhler. Per questo non ho pensato a un’alternativa, volevo sottolineare con maggiore enfasi un altro pezzo importante che se ne va. La riflessione sulla perdita della capacità di ascoltare, in verità, non mi è venuta pensando a Plutarco o a Erich Fromm, a loro arrivo in un secondo momento, ma riflettendo su alcune delle esperienze di vita personale. Sarà un caso, sarà una iettatura, fatto sta che di questi tempi, sempre più spesso mi ritrovo seduta ad un tavolo, nel migliore dei casi davanti ad un latte macchiato, ad ascoltare per-

sone che sembrano dei fiumi in piena, tutte impegnate a raccontare i loro ultimi successi, programmi, viaggi... E la mia più grande disdetta è che ascolto tutto, ogni parola, mentre in segreto sogno di darmi alla fuga appena ne ho l’occasione. Scampata da un incontro del genere, mi riprometto di non ricascarci ma puntualmente il copione si ripete. In tanti ambiti, sia professionali sia privati, l’ascolto è rimasto una prerogativa di pochi. Personalmente mi è sempre piaciuto ascoltare le storie degli altri, sempre che non siano a puntate e di tre ore ciascuna, l’ascolto non solo mi mette in comunicazione, in sintonia con la persona che ho di fronte ma diventa anche una fonte di ispirazione, una finestra che si affaccia su pensieri e ragioni differenti. Ascoltare per me significa aprirsi, essere

con animo disponibile e pacato, come fossimo invitati a un banchetto sacro o alle cerimonie preliminari di un sacrificio», ricordando quali sono i doveri di chi ascolta: «è chiamato a cooperare con chi parla. Quando si gioca a palla le mosse di chi riceve devono essere in sintonia con quelle di chi lancia: così in un discorso c’è sintonia tra chi parla e chi ascolta se entrambi sono attenti ai loro doveri». Senza dimenticare la necessità di uno spirito critico: «bisogna essere generosi nell’elogiare chi parla ma cauti nel prestare fede alle sue parole; si deve essere spettatori bendisposti ma critici attenti e severi dell’utilità e veridicità di ciò che dice». Quali parole più pertinenti nell’era di fake news e post-verità? Ma, consigli a parte, pensandoci, voi cosa siete: buoni parlatori o ascoltatori?


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Società e Territorio

Ripensare il centro città

Lugano Molino Nuovo, Campo Marzio, area della stazione: sono alcuni esempi di zone

dove un progetto urbanistico forte potrebbe essere l’occasione di creare nuove parti di città dense e vitali

Alberto Caruso Le aggregazioni comunali hanno trasformato Lugano dalla cittadina di 30’000 abitanti agli attuali 60’000, una dimensione che si avvicina a quella delle piccole città – come Lucerna o Winterthur – che nel sistema urbano svizzero hanno un rilievo appena inferiore a quello delle città più importanti. L’improvviso ingrandimento demografico di Lugano è stato provocato da decisioni «politiche» e non da una trasformazione economica e sociale più o meno lenta, come è sempre avvenuto nella storia delle città. Ma, oggi la «Grande Lugano» può definirsi città? Il suo «centro» possiede la dimensione e i caratteri di densità e di scala del paesaggio costruito, di concentrazione e di accessibilità dell’offerta di servizi pubblici e privati, che distinguono i centri delle città europee e che li fanno riconoscere come tali dalla generalità degli abitanti della regione? È chiaro che Lugano deve dotarsi di un nuovo Piano Regolatore che non si limiti ad assemblare i diversi Piani elaborati dai Comuni prima dell’aggregazione, e che interpreti invece la visione di un’unica città complessa e policentrica. Ed è altrettanto chiaro che la visione di una Grande Lugano deve prevedere anche la trasformazione del centro della città, che sia adeguato per dimensione e per attrattività al suo nuovo ruolo territoriale. Lugano e gli altri centri ticinesi non hanno vissuto la storia di industrializzazione e di grandi migrazioni che nel ’900 hanno formato la corona compatta di isolati intorno al nucleo antico in molte città del continente. E lo sviluppo economico dagli anni 60 in poi ha provocato la diffusione degli abitati nelle campagne e non il rafforzamento dei centri. Non ha avuto modo di formarsi una «cultura urbana», con la sua letteratura e tradizione critica, con le sue storie e i suoi miti. Non si è sviluppato quell’universo di forme associative tipicamente urbane, come i movimenti cooperativi.

Oggi si presenta un’occasione storica, un appuntamento da cogliere per imprimere una svolta ai meccanismi di costruzione della città, della sua forma. Il cuore geografico del tema – la strutturazione delle aree centrali – è la vasta area urbana di Molino Nuovo, il quadrangolo compreso tra il nucleo storico ed il cimitero, caratterizzato dalla minuta rete stradale ortogonale, nel quale l’urbanità del nucleo cede progressivamente spazio ad un’edificazione povera di relazioni e di spazi pubblici. Ogni isolato ospita più palazzine di uffici o di residenze, distanziate tra loro e dalle strade come previsto dalle norme, al centro di sedimi recintati e usati come posteggi, con i piani terra per lo più privi di attività accessibili al pubblico. Una sequenza di oggetti muti, il cui insieme non provoca nessuno degli effetti che «fanno città». Molte gru segnalano in quest’area una pluralità di interventi limitati alla sostituzione dei singoli edifici esistenti, ognuno dei quali diventa più grande e più alto, ma privo di relazioni spaziali con l’intorno, come lo era l’edificio preesistente. Le strade, povere di qualità, rimangono le medesime: la cosiddetta mobilità sostenibile (i pedoni e le biciclette) non hanno conquistato un metro quadro in più alle proprietà private.

L’ampliamento di Lugano con le aggregazioni è stato frutto di decisioni «politiche», ora la sfida è trasformare il centro per adeguarlo in dimensioni e attrattività al suo nuovo ruolo territoriale Questa «densificazione» in corso è la dimostrazione che il concetto di densificare tout court è sbagliato e può produrre effetti opposti a quelli voluti, valorizzan-

do la rendita fondiaria senza vantaggi per la collettività. La densificazione deve essere «progettata» da chi governa il territorio, non deve essere un regalo che ogni singola proprietà gestisce a piacere. A Zurigo, a Ginevra, nei migliori esempi delle città europee, il Comune interviene nella costruzione e ricostruzione della città e condiziona la progettazione con forme diverse di incentivi e disincentivi, imponendo partecipazione e concorsi di architettura, con obiettivi coerenti con un programma fondato su un’idea forte di città e di uso del suolo, un’idea discussa e condivisa. Non si tratta di limitare i diritti di proprietà e dell’iniziativa privata, ma di coniugarli con un disegno di interesse generale. La proprietà è molto frazionata e ciò costituisce un ostacolo alla progettazione di interventi coordinati: bisogna che le singole proprietà rinuncino al proprio orto e progettino insieme, ridistribuendo i loro diritti a prescindere dai limiti catastali, e che siano autorevolmente invitate a farlo, attraverso gli strumenti – resi obbligatori – che l’urbanistica più aggiornata ha già sperimentato con successo. Bisogna che l’autorità comunale governi il suolo della città e non lo abbandoni ai privati. Recatevi a Lugano Cassarate, ai piedi della collina di Viganello, in via Pico, e attraversate il giardino dell’edificio recentemente costruito al civico 29, che mette in comunicazione via Pico con via Vicari. Non potete fare a meno di osservare come l’atteggiamento civile di questa proprietà e la cultura dei suoi progettisti (il brasiliano Angelo Bucci, con il supporto locale di Baserga e Mozzetti), se fosse adottato in modo generalizzato, potrebbe cambiare il volto complessivo della città. Non ci sono recinzioni e l’area scoperta è attrezzata per una piacevole passeggiata pubblica. È un esempio piccolissimo, ma che indica con chiarezza una cultura e un modo di pensare all’uso aperto e ibrido del suolo urbano alternativo a quello chiuso e antiurbano, più diffuso e dominante. E pensate al destino delle aree an-

cora disponibili per i progetti importanti, come il Campo Marzio, che potrebbero contribuire in modo decisivo, con un grande progetto finalizzato a «fare città», alla costruzione di una città competitiva, che attiri investimenti. Perché, per esempio, l’area della stazione – che è stata oggetto, nella porzione nord, dell’interessante progetto della nuova sede SUPSI, e che è oggi oggetto di una gara di progettazione per l’edificazione di quella sud – non diventa il tema di un grande progetto urbanistico, che comprenda anche i sedimi privati e pubblici situati a monte della ferrovia, a Besso, e che dimostri, attraverso l’organizzazione di un vasto confronto pubblico, la consapevolezza del suo valore strategico? La questione è culturale e attiene, prima di tutto, alla cultura politica. Attiene alla capacità di criticare la situazione esistente e di utilizzare le vivaci risorse culturali che esistono nella società per elaborare con il loro supporto un’idea alternativa di città. È necessario guardare agli esempi e alle esperienze di quelle città che hanno rimesso in discussione i modi della loro crescita, che hanno invertito la tendenza dell’abbandono dei residenti, realizzando condizioni ambientali nuove. A Zurigo, il ritorno in città è in atto, le aree industriali dismesse sono state l’occasione per costruire nuovi parti di città dense e vitali, con abitazioni accessibili alla domanda delle nuove famiglie. E anche il patrimonio esistente, spesso sottoutilizzato e invecchiato, viene rinnovato cercando di coniugare l’esigenza della privatezza con le opportunità della socialità. Certamente si tratta di un processo difficile e lento, e non ci sono modelli a cui riferirsi con certezza, ma le energie intellettuali ci sono e non trovano sbocchi operativi. Bisogna che la politica non si chiuda nelle segrete stanze, bisogna inventare luoghi nuovi di partecipazione. Perché la città, quando è pensata come luogo delle relazioni sociali più intense, è il modo più evoluto di abitare.

Nelle città contemporanee la densificazione deve essere «progettata» e deve saper coniugare le esigenze dei privati con un disegno di interesse generale. (Ti-Press)

Tornano le Storie controvento Festival

Dal 18 aprile un ricco calendario di appuntamenti dedicati alla letteratura per ragazzi

«Sopporta, mistero dell’esistenza, se strappo fili dal tuo strascico». È questa citazione tratta da Sotto una piccola stella di Wislawa Symborska che i membri dell’Associazione culturale Albatros hanno voluto come madrina della quinta edizione del Festival Storie controvento, che si terrà dal 18 al 21 aprile. «Come ogni autore, la poetessa polacca Nobel per la letteratura, sottrae a quel mistero fili di significato che ridà al lettore. Un mistero che ogni adolescente vorrebbe capire, ma affinché lo cerchi anche nei libri bisogna che abbia piacere a leggere. E i ragazzi ce l’hanno, più di quel che si potrebbe supporre. A leggere di più, secondo un recente rilevamento italiano, sono proprio i ragazzini dagli 11 ai 14 anni. E poi? E poi in molti lasciano perdere il libri e la letteratura», scrivono gli organizzatori. È proprio per «non lasciar perdere i libri» e per promuovere la lettura tra i ragazzi che l’Associazione culturale Albatros si impegna da anni nell’organizzazione del festival bellinzonese, che coinvolge i ragazzi delle scuole medie messi a tu per tu con gli autori invitati. Quest’anno si sono iscritte 42 classi delle scuole medie, ossia 860 alunni che, tra il 18 e il 21 aprile prossimi, andranno a Bellinzona, alla Biblioteca cantonale e a Palazzo civico, a conoscere il «proprio» autore. Autori che quest’anno sono sei, tutti pluripremiati. Il Festival, sostenuto anche dal Percento culturale Migros Ticino, prevede anche degli incontri aperti al pubblico. Mercoledì 18 alle 18 alla Biblioteca saranno i ragazzi delle medie a intervistare Davide Morosinotto; giovedì 19 alle 18.15, lo psicoterapeuta Marco Noi sarà a colloquio con Dana Lukasinska e, dopo un aperitivo offerto (alle 19.15), toccherà allo scrittore Davide Morosinotto parlare con Anne Bondoux. Il venerdì sera cena (su iscrizione) e musica per tutti alla Birreria Bavarese. Sabato mattina alla libreria Casagrande Paolo Buletti parlerà con Guus Kuijer alle 10.15, mentre i bambini dai 7 agli 11 anni potranno seguire un laboratorio grafico condotto da Ursula Bucher; alle 11.30 Nicola Galli Laforest sarà a colloquio con Tuono Pettinato e Alice Milani, due fumettisti autori di altrettante biografie, di Kurt Cobain (dei Nevermind) il primo, di Wislawa Szymborska la seconda. Il programma completo del festival, corredato dalle biografie dei sei autori e da altrettante recensioni dei libri proposti quest’anno a docenti e alunni, si trova sul sito www.storiecontrovento.ch.


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Società e Territorio Rubriche

Lo specchio dei tempi di Franco Zambelloni La vita in pillole Tra i problemi che proiettano ombre tetre sul prossimo futuro ce n’è uno, in particolare, per il quale non vedo soluzioni: è l’aumento vertiginoso e costante dei costi per la salute. Puntualmente, a intervalli di tempo sempre più ravvicinati, vengono lanciati segnali d’allarme: di anno in anno i premi assicurativi aumentano almeno del 4%; il Cantone spende milioni per pagare i costi degli assicurati insolventi; entro il 2030 i premi delle casse malati raddoppieranno… Da un lato, dunque, la protezione della salute è sempre più costosa; dall’altro, però, gli interventi sanitari sono sempre più richiesti. Sono le due facce della medaglia: come sempre, non si possono avere vantaggi senza pagarne lo scotto. Si considerino ad esempio le campagne di prevenzione: indubbiamente sono utili nella misura in cui permettono di evitare certe patologie o di intervenire per tempo prima che

il male prevalga. D’altra parte, è ovvio che il rullo continuo dei tamburi d’allarme accresce nel pubblico l’ansia e il timore di ammalarsi: di conseguenza, la richiesta di analisi cliniche e di controlli sanitari non può che aumentare. Come ha scritto lo psichiatra Vittorino Andreoli, la tendenza a richiedere sempre nuovi accertamenti diviene «un vero e proprio imperativo a dedicarsi alla salute del corpo che può sconfinare nell’ossessione o degenerare al punto di indurre malattie legate alla paura di ammalarsi»: così l’intervento sanitario si alimenta da sé di continuo. Nel suo capolavoro L’uomo senza qualità, Robert Musil faceva dire a uno dei suoi personaggi che se l’uomo moderno viene al mondo in una clinica e muore in una clinica, allora, di conseguenza, deve anche vivere in una clinica. Musil scriveva questo ironico commento sul mondo moderno negli anni Trenta del secolo scorso, quando ancora parti e

decessi avvenivano per lo più in casa. Oggi, quando l’inizio e la fine della vita avvengono di regola in un ospedale, il suo commento suona ancora più realistico. Ed è dunque altrettanto realistico pensare che la tendenza alla medicalizzazione dell’esistenza non sia affatto destinata a retrocedere. La medicina fa progressi e funziona: l’aumento della speranza di vita ne è una prova evidente. E però ogni progresso clinico, farmacologico o chirurgico, comporta un aumento dei costi; e la fiducia che oggi accordiamo alla scienza (e che un tempo era affidata alla preghiera) fa sì che ci si aspetti sempre di più e dunque si chieda sempre di più. Per chi si diletta a vagabondare nella storia passata, una delle letture più interessanti può senz’altro essere la storia della medicina. Ci sono antichi precetti medici – a parte le bizzarre farmacopee – che oggi fanno per lo meno sorridere: come la credenza,

diffusa nel Medioevo, che il malato che si lava morirà entro tre giorni. Ma soprattutto quel che colpisce è la maldicenza nei confronti dei medici, che si può definire una costante per tutta la storia dell’Occidente. Secondo Platone la medicina serviva a cronicizzare le malattie, distogliendo il paziente dall’impegno pubblico e inducendolo a ripiegarsi sulla cura di sé. Nel Vangelo di Marco si parla di una donna, curata da medici per dodici anni con dolorosi trattamenti e con peggioramento costante. Montaigne s’inorgogliva d’essere vissuto sano per 47 anni senza ricorrere ai medici, e ricordava che i suoi antenati avevano in odio la medicina. Molière ridicolizzava due medici – Olezzo e Purgone – nel Malato immaginario. Rousseau fu forse il più spietato di tutti i critici scrivendo che «bisogna bilanciare il vantaggio di una guarigione operata dal medico con la morte di cento malati uccisi da

lui». Le citazioni non finirebbero più; ancora recentemente il filosofo Paul Watzlawick menzionava il bon mot dei medici: operazione perfettamente riuscita, paziente deceduto. Oggi, ovviamente, la medicina non merita più il discredito di cui ha goduto nei secoli andati: i medici fondano il loro lavoro su valide conoscenze. Oggi non sono i medici a dover incutere timore, bensì la folla sempre più numerosa degli aspiranti pazienti. Se la salute diventa un’ossessione largamente diffusa, i costi delle casse malati diventeranno insopportabili e una fascia sempre più vasta della popolazione dovrà farsi ricoverare, almeno per ricevere in ospedale un pasto decente. Ma, soprattutto, la qualità della vita ne sarà radicalmente compromessa: a furia di astensioni, prevenzioni, discipline corporee, molte persone si ridurranno a condurre una vita da malati per poter morire sani.

calcetto e si organizza un mercato delle pulci. Graffiti dappertutto, tranne che sull’intelaiatura di legno della zona a graticcio. È forse questo elemento spaesante ad attrarmi di più. Sulla facciata centrale, dove il tetto spiove come nelle fattorie dell’Oberland bernese, forma una stella. Altrove le travi sono cerchi, rombi quadrati. Entro passando sotto un portale con sopra un tetto a gradoni: mattoni rossi, e sempre in arenaria, lo stemma cittadino dell’orso. In questo corridoio-galleria si trova il ristorantebar Sous le pont. Oggi serata vegetariana, ma è ancora presto per pensare alla cena. Sono venuto in enorme anticipo al concerto, così da perlustrare con calma. Nel cortile mattoni chiari, piante rampicanti, l’entrata del cinema e del Tojo Theater. Ci dovrebbe essere anche una Frauenraum, ritrovo di un gruppo di femministe. Ma di femminismo, sinistra, destra, non vorrei occuparmi più di tanto, va almeno detto però che questa primavera il popolo bernese deve votare per la sesta volta in merito

alla Reitschule. L’UDC locale ha lanciato un referendum contro la concessione di un credito di tre milioni di franchi per lavori di ristrutturazione. In cinque occasioni, i bernesi hanno sempre votato in favore dell’ex maneggio che sembra quasi un castello. Ritorno sui miei passi; nel piazzale davanti, vicinissimo al viadotto dove passano i treni, va data notizia di un orologio matto. Un orologio delle stazioni ferroviarie riprogrammato per farne di tutti i colori. Dei blocchi di pietra attorno a un alberello, a guardarli bene, mostrano dei volti grotteschi. Opera di un certo Odermatt, come si legge scolpito. Vado sulla Schützenmattstrasse e faccio il giro attorno al colorato castello contestatario. Sulla Neubrückstrasse, sorprendono dei delicati fiori di Taraxacum officinale dipinti su in cima alla facciata. Ricordano lo stile degli affreschi nelle trombe delle scale a La Chaux-de-Fonds. Ecco, scovare queste minuzie impreviste, per me vale oro. Nel buio della sera, guardo passare i treni con i finestrini

illuminati. Controcampo che ci ha messo una vita a realizzarsi. Di colpo riconosco le prime note di Catch the breeze provenire dietro l’angolo. Corro quasi. La sala da concerti Dachstock ha un’entrata sulla Neubrückstrasse, a pochi metri dai denti di leone dipinti. Lacrime agli occhi, per un attimo. Vedo in fondo alla mansarda equestre con enormi travi in legno, attraverso un esile spiraglio, Rachel Goswell cantare in una luce azzurrognola: è l’inatteso soundcheck. Salgo le scale, mi metto sulla soglia. In giro ci sono solo i giovani francesi dei Dead Sea, gruppo spalla di questa tournée degli Slowdive. Entro e mi siedo discretamente in un angolo. Chitarre corrosive e sognanti si sovrappongono all’improvviso alla voce angelica. Emozioni al galoppo. Più di vent’anni dopo quelle lunghe passeggiate malinconiche al lago d’Origlio o al parco Ciani con gli Slowdive nelle orecchie e nell’anima, li sento ora dal vivo, provare il concerto di stasera. Solo per un giorno, un tuffo lento.

po’ d’ironia, si potrebbe chiamare di dama di compagnia, di consolatrice, di badante alle prese con un pubblico, cui, appartengo: prevalentemente maturo, o anziano, abitudinario, casalingo, e fedele al rito di appuntamenti previsti. Compreso quello con «L’eredità» di Frizzi, pausa serena, prima del notiziario che riconduce, di colpo, alla realtà. Certo è che, malgrado i consensi, ottenuti in Svizzera sull’iniziativa No- Billag, la televisione istituzionale ha perso la centralità che, per decenni, aveva occupato sul piano politico, culturale, educativo. Quando, insomma, faceva opinione, appassionava, preoccupava. Era stata la «cattiva maestra», di cui Karl Popper, nel 1994, aveva denunciato la pericolosità, tanto da chiedere, ai governi un controllo in nome dello «stato di diritto basato sulla non violenza». Il filosofo fu, poi, costretto a ricredersi. Come avrebbe fatto, a sua volta, Umberto Eco, con la famosa Fenomenologia di Mike Buongiorno (1961):

corresse, poi pubblicamente, il tiro. Sarà pur stato banale il vecchio Mike, ma dopo di lui, arrivò la volgarità di Bonolis e compagni. Per non parlare delle chiassate di Sgarbi, che fece scuola. D’altro canto, la televisione ha trovato anche qualificati difensori. Nel 2007, Aldo Grasso, di sicuro il più competente specialista in materia, pubblicò il saggio Buona maestra: dedicato, appunto, a un mezzo spesso demonizzato: proprio perché frainteso. A cominciare dai «deprecati» telefilm americani che, al contrario, diffondono esempi di buon cinema. Questione di sensibilità, di attenzione, persino di affetto verso una forma d’informazione e intrattenimento che appartiene al passato, sia pure prossimo. Davanti al piccolo schermo, nuovo focolare domestico nell’ultimo mezzo secolo, non siedono più i giovani, i giovanissimi, i bambini. Si sono trovati un nuovo perditempo: smanettare sulle tastiere, scambiarsi messaggi e immagini.

A due passi di Oliver Scharpf La Reitschule di Berna Da sempre, appena prima di arrivare alla stazione di Berna, occhi incollati al finestrino. Sulla destra, per tre quattro secondi, ogni volta rimango a bocca aperta per via di quel singolare contrasto tra graffiti e la struttura a traliccio, i tetti spioventi, persino torrette. La Reitschule, nota anche come Reithalle, è stata costruita nel 1897 su disegno dell’architetto Albert Gerster (1864-1935) e occupata in pianta stabile dall’ottobre 1987. L’ex scuola di equitazione o maneggio che dir si voglia, oggi è un centro sociale autogestito in piena regola. C’è un teatro, un cinema, un bar, un bar-ristorante, e una sala concerti. Stasera suonano gli Slowdive: gruppo shoegaze inglese il cui album d’esordio intitolato Just for a day (1991) amavo ascoltare fino alla noia negli anni novanta con il walkman in tasca; che tempi. E così, quale migliore occasione per incamminarsi di buon passo verso la Reitschule di Berna (556 m)? Benché riceva in parte delle sovvenzioni dalla città, non è vista di

buon occhio da tutti. «Amata e odiata» titolava un articolo di Luca Beti del 29 gennaio scorso su queste stesse pagine di «Azione». Del resto, a differenza forse della sorella maggiore Rote Fabrik – ex fabbrica di seta del 1892 in riva al lago di Zurigo occupata dopo la calda estate di scontri del 1980 iniziati quella primavera davanti all’Opera – non ha perso del tutto la sua carica eversiva. Infatti, in una specie di autoritratto trovato sul sito, si legge: «La Reithalle è l’incarnazione delle persone scomode, degli anarchici, dei parassiti, dei riformatori del mondo, dei sognatori e degli eterni solidali, in breve: i turbolenti degli anni 80 e 90, ma anche dei coraggiosi e degli esuberanti che non hanno accettato e che non accetteranno niente tanto facilmente». Una testa di cavallo in arenaria grigia troneggia sul portale a tutto sesto della stessa pietra. Sopra, si decifra a malapena una scritta in stampatello: Städtreitschule. È l’entrata di una grande sala, non gestita dai reitschuleriani, dove a volte si gioca a

Mode e modi di Luciana Caglio Tv: da discussa maestra a consolatrice Molto, forse troppo, è già stato detto, scritto, fotografato, a proposito della morte di Fabrizio Frizzi. Il tema, però, non si esaurisce nella stretta attualità di un fatto di cronaca, di per sé non eccezionale. Invece, la qualità del cordoglio, espresso sia dalla folla, che gli ha recato l’ultimo saluto, sia dai necrologi, comparsi su quotidiani e giornali d’ogni tipo e tendenza, ne doveva fare un caso particolare, rivelatore. Si sono visti comportamenti insoliti, improntati a uno spontaneo riserbo, e, soprattutto, si sono ascoltate e lette parole, insolite nel linguaggio corrente come in quello giornalistico. A Frizzi sono andate definizioni persino démodé. Da quella prevalente di gentiluomo, di belle maniere, a quella di uomo comune, dotato di una modestia, rara nel mondo dello spettacolo. Tanto da diventare un esempio di «aurea mediocrità», come ha scritto, sul «Corriere della sera», Aldo Cazzullo. Ridimensionando, giustamente, i meriti professionali di uno showman, che non era un fuoriclasse, ma sapeva

«entrare in casa senza invadenza». E, in pari tempo, attribuendo a mediocrità connotati virtuosi. Ora, quest’ondata di simpatia nei confronti di una figura, in fondo secondaria, ha fatto affiorare motivazioni, intuibili anche se inconfessate.

Altri tempi: televisore a transistor. (Wikimedia)

Si tratta, in definitiva, della diffusa nostalgia per modi di fare e di dire sotto tono, di un condiviso allarme per la minaccia delle parolacce, delle sfuriate pretestuose, dei talenti gonfiati. Diamoci, insomma, una regolata e godiamoci le pause rilassanti, animate da personaggi, appunto come Frizzi, consapevole dei suoi limiti d’intrattenitore, capace, però, di gestire i nostri «happy hours» domestici. Tenendoci compagnia. Ed ecco che, proprio con queste parole si tocca il punto centrale del discorso: domestico e compagnia sembrano proprio qualificare il ruolo che spetta ormai alla televisione. Dopo l’avvento di smartphone, tablet, social eccetera, cioè in un’altra era tecnologica, mediatica e comportamentale, il piccolo schermo ha subito gli effetti di una concorrenza inesorabile. A cui era giocoforza adeguarsi. Riuscendo, tuttavia, a ricrearsi un proprio spazio, persino una propria insostituibilità. Si è trovata a svolgere, magari involontariamente, una funzione che, con un


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 3 aprile 2018 • N. 14

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 3 aprile 2018 • N. 14

13

Ambiente e Benessere Il sapore delle vacanze Un codino di vitello alle capesante in brodetto profumato allo zafferano

Il sogno americano in moto Hotelplan propone ai lettori di «Azione» un viaggio tra Nevada, Arizona e Utah a bordo di una mitica Harley Davidson

Il paradosso del viaggiatore Creare il mondo globale riunendo i popoli, ma solo se esistono confini da valicare

pagina 16

Il giardino giapponese Un microcosmo che ripropone al visitatore le leggi che governano il mondo pagina 21

L’animale vertebrato più vecchio che si conosca Mondo sommerso Reportage ai confini del mondo per incontrare lo squalo della Groenlandia

pagina 14

pagina 19

Chi ha paura del medico anestesista? Medicina Premura verso il paziente

ed evoluzione rendono l’anestesia una pratica molto sicura

Maria Grazia Buletti «Anesthesia is terribly simple but sometimes can be simply terrible» (L’anestesia è «terribilmente semplice», ma può essere «semplicemente terribile»). Un gioco di parole di uno dei tanti siti online dedicato alle pratiche mediche, per portare alla luce – anche in modo ironico – i più disparati timori delle persone che si devono sottoporre a un intervento chirurgico che necessita un’anestesia. Considerata a buona ragione una delle più importanti scoperte del secolo scorso, nell’immaginario comune l’anestesia ha avuto sempre un fascino controverso dovuto per lo più al timore della perdita del controllo di sé. Per meglio comprendere i meandri di questa specialità medica, incontriamo il viceprimario di anestesia dell’Ospedale Regionale Bellinzona e Valli (ORBV) Andrea Saporito, nel Blocco operatorio di cui egli è responsabile: «Potremmo definirla come una pratica medica complessa che permette al paziente di vivere in modo più umano possibile un’esperienza che di per sé potrebbe essere alienante». Egli ci accompagna attraverso la scoperta di quella che definisce «una presa a carico peri-operatoria del paziente (dunque a tutto tondo), volta a fargli superare nel modo più umano e confortevole possibile l’esperienza dell’intervento chirurgico. Una pratica medica sicura, che inizia con la presa a carico del paziente settimane prima della sala operatoria, quando lo si incontra per una visita preliminare». Questo colloquio dimostra sempre quanto visita e conoscenza reciproca «abbiano più effetto sull’ansia di certi farmaci». L’anestesia è di fatto una delle specialità mediche che ha attraversato un’evoluzione enorme, pure dal punto di vista farmacologico: «Oggi disponiamo di farmaci la cui caratteristica e i cui vantaggi sono essenzialmente legati a una maggior sicurezza e flessibilità sulle diverse situazioni; ciò permette di dosare un’anestesia personalizzata e maggiormente accurata nella tempistica, di praticare un’anestesia loco-regionale laddove l’intervento chirurgico lo consenta (oggi più della metà di tutte le anestesie praticate in

Europa contempla anche una tecnica di anestesia loco regionale). I pazienti si sveglieranno subito dopo l’intervento e potranno tornare in brevissimo tempo in piedi, favorendo una migliore e più rapida ripresa e convalescenza post operatorie». Sottoporsi all’anestesia, oggi più di ieri, non dovrebbe fare così paura: il dottor Saporito porta ad esempio l’esimio «National Institute of Medicine» americano che ritiene l’anestesia l’unica specialità medica ad aver ridotto in modo significativo la mortalità dei pazienti nel corso degli ultimi anni. «Non dimentichiamo che la percezione del rischio di qualunque cosa è soggettiva: le persone percepiscono come maggiori i rischi che hanno connotazioni emotive, sottovalutando quelli che non associano a particolari connotazioni negative», afferma il medico, confermando come psicologicamente si sottostima il rischio di qualcosa quando si ha l’illusione di averne il controllo. «Vorrei ricordare che il medico anestesista è formato in primis (dunque ancor prima di considerare il suo bagaglio tecnico-medico) per preservare e garantire la sicurezza del paziente», afferma Saporito al quale chiediamo quali sono i timori comuni dei pazienti: «Vi sono due categorie: quelli che temono la perdita di controllo, e quelli che invece vogliono perderlo, non vedere e sentire assolutamente niente». L’anestesista deve dunque essere anche molto psicologo, oltre che competente nei più svariati generi di anestesia, secondo le necessità del chirurgo, lo stato del paziente e le sue esigenze: «Non si addormenta solo il paziente o i suoi nervi, ma si coprono molti aspetti di quello spazio di tempo dedicato non solo all’intervento chirurgico, ma pure al prima e al dopo. Per quanto attiene all’intervento, parlo dell’abolizione della coscienza, della protezione dal dolore, del mantenere la muscolatura del paziente rilassata durante l’intervento, affinché il chirurgo possa operare nel migliore dei modi». Malgrado un’era di super specializzazione medica, emerge l’esigenza di un approccio olistico al paziente: «A prescindere dai timori comuni legati all’anestesia, non dimentichiamo che

Il viceprimario di anestesia dell’Ospedale Regionale Bellinzona e Valli (ORBV) Andrea Saporito. (Vincenzo Cammarata)

oggi l’aumento dell’aspettativa di vita ci porta pazienti che sempre più spesso presentano patologie multiple che si curano e a volte cronicizzano, causando conseguenze a catena: siamo dunque confrontati con pazienti complessi che necessitano un approccio multidisciplinare, oltre a una personalizzazione sempre maggiore della sua presa a carico». L’anestesista diventa dunque il fulcro su cui si concentra tutto ciò che ruota attorno all’intervento chirurgico: «Infatti, in sala operatoria ciascun paziente avrà il suo chirurgo, ma l’anestesista è colui che si occupa della gestione clinica di tutti i pazienti, come pure dell’intero processo peri operatorio: visita pre operatoria, organizzazione dell’intero processo e del dopo, premedicazione, posto letto nei reparti super specialistici all’occorrenza (come le cure intensive), quando chiamare ogni paziente in sala e via dicendo». In concreto, per ogni paziente: «Sulla

base di una visita pre operatoria obiettiva, in cui si effettua un’anamnesi e si esamina la terapia, l’anestesista elabora una strategia anestesiologica ideale che contempla sia la tecnica anestesiologica sia l’ottimizzazione del rischio clinico. Il paziente giunge in sala operatoria nel migliore dei modi, anche grazie alla scelta dell’anestesia (loco-regionale, combinata o generale) che più si conforma alle sue esigenze». Trapianti multiorgano, interventi complessi di neurochirurgia e operazioni che richiedono molte ore non sarebbero possibili, oggi, se accanto alle tecniche chirurgiche non si fossero evolute anche quelle anestesiologiche. Molti dei timori legati alla perdita di controllo del sé possono essere ridimensionati e il dottor Saporito ci porta infine un esempio su cui riflettere, a conferma delle paure ingiustificate dettate dall’emotività e dall’errata valutazione del rischio: «Subito dopo l’attentato alle Torri Gemelle del 2001

si stima che più di un milione e mezzo di persone non ha preso l’aereo per le proprie vacanze negli USA. Questo ha prodotto, purtroppo, mille morti in più sulle strade americane». Inoltre, la paura dell’anestesia, oggi, è molto smorzata da un «farmaco» di cui si servono gli anestesisti in fase di visita pre operatoria che si chiama «empatia».

L’osservazione e il monitoraggio di specie marine nel loro ecosistema è solitamente una sfida anche nelle migliori condizioni ambientali. Alcuni anni orsono andai ad Arctic Bay, nell’Artico canadese, per realizzare un reportage «ai confini del mondo», considerato che il campo base, costituito da tende di diverse dimensioni, era eretto sul floe-edge: cioè laddove la banchisa ghiacciata termina e ci si trova al cospetto del largo canale che si dirige verso il Mare Glaciale Artico. I soggetti principali del mio viaggio fotografico erano gli spettacolari panorami che si possono ammirare in una rara luce cristallina, i gruppi di beluga e di narvali che sono veramente difficili da avvicinare poiché timidissimi e sospettosi. In quel viaggio si presentò inaspettatamente l’occasione per fotografare lo squalo della Groenlandia, un animale talmente raro e raramente studiato che se ne conosceva solamente l’esistenza, sino agli studi pubblicati nel 2016 dal biologo Julius Nielsen, dell’università di Copenhagen. È particolarmente difficile studiare animali che vivono a profondità considerevoli, in acque con visibilità praticamente inesistente e in ambienti che sono coperti da una spessa coltre di ghiaccio e neve per alcuni mesi l’anno. La loro elusività rende evidente quanto poco ancora oggi si conosca degli ecosistemi marini artici. Lo squalo della Groenlandia (Somniosus microcephalus) è risultato essere l’animale vertebrato più vecchio che si conosca. Tuttavia, per quanto possano sembrare tantissimi i 400 anni attribuiti ad alcuni esemplari, sono nulla se confrontati alla longevità della Idra (o polipo d’acqua dolce), un invertebrato che continua incessantemente a rigenerare le proprie cellule e che, in condizioni favorevoli, si ritiene sia in grado di vivere e replicarsi all’infinito. O alle barriere coralline, alcune delle quali hanno un’età stimata di 4mila anni. Documentare l’età dello squalo è stata una vera sfida scientifica. I ricercatori solitamente analizzano la struttura delle ossa, e gli squali – essendo pesci cartilaginei – in generale ne hanno pochissime. Alcune specie di squalo presentano poche vertebre calcificate che mostrano i cerchi di accrescimento, simili agli anelli con-

Franco Banfi

Franco Banfi

centrici dei tronchi degli alberi, i quali possono essere utilizzati per calcolare l’età. Tuttavia lo squalo della Groenlandia è totalmente privo di strutture rigide, ha un corpo soffice, più simile a un grande pesce gatto e molto diverso dagli squali più noti, massicci e possenti come lo squalo bianco o eleganti e agili come lo squalo blu. Lo squalo della Groenlandia, al contrario, ha un corpo molle, grasso, ed è estremamente lento, paragonabile a un bradipo sulla terraferma, tanto da essere considerato uno squalo letargico che si muove con un minimo consumo energetico. Il biologo Julius Nielsen ha determinato l’età di alcuni esemplari pescati accidentalmente datando il carbonio presente nella parte più interna del cristallino, con il sistema del decadimento del Carbonio 14. Il cristallino si forma prima della nascita, durante la vita uterina, quindi la sua età corri-

sponde all’età dell’animale. Con questa metodologia è stato appurato che il più vecchio degli animali esaminati aveva ben 392 anni e non era morto di vecchiaia, essendo stato pescato accidentalmente. La maggior parte degli esemplari viventi ha grandi problemi di vista, colpa di un parassita, un copepode (Ommatokoita elongata), che vive attaccandosi a uno dei due occhi e danneggia permanentemente la cornea. Tuttavia nell’ambiente in cui vivono, la vista è un elemento trascurabile, data la scarsa visibilità in acque superficiali e la mancanza di luce a elevate profondità. Per cercare cibo e sfamarsi essi si affidano soprattutto all’olfatto. Questo squalo è un vero spazzino del mare e si nutre prevalentemente di carcasse (spesso in decomposizione) e di foche, che lo squalo attacca mentre dormono in acqua, per sottrarsi alla cattura da parte degli orsi polari.

È stato calcolato che il tasso di crescita dello squalo della Groenlandia sia di circa un centimetro all’anno, e proprio questa lentezza potrebbe essere il segreto della sua longevità. Elemento che, tuttavia, lo espone a un altro poco auspicabile primato. Da un recentissimo studio condotto dal Norwegian Polar Institute e dalla Windsor University canadese, sembra infatti che lo squalo della Groenlandia sia l’animale più contaminato al mondo. E l’accumulo di sostanze tossiche, principalmente il PCB (policlorobifenile) un composto organico utilizzato in passato come isolante e in disuso da moltissimi anni, è strettamente correlato alla longevità degli esemplari. La carne fresca dello squalo non è commestibile a causa dell’alta concentrazione di acido urico (gli squali non hanno i reni per espellere l’urina). Un tempo, se non c’era altro, gli esquimesi la davano in pasto ai cani, che prende-

vano la cosiddetta «sbornia da squalo», restando ubriachi per giorni sotto gli effetti allucinogeni dell’ossido di trimetilammina. Può essere consumata solo dopo un processo di fermentazione ed essiccazione, in cui sono specialisti gli islandesi che preparano tradizionalmente la carne di squalo fermentata (kæstur hákarl in islandese). Gli squali della Groenlandia sono stati oggetto di pesca intensiva sino alla metà del 1900. I popoli nordici cacciavano in abbondanza questi pesci per estrarne olio di fegato utilizzato come combustibile per lampade e come lubrificante industriale. Oggi le popolazioni degli squali della Groenlandia sono fortunatamente stabili. Considerata l’importanza dei grandi predatori nel controllare le dinamiche degli ecosistemi, il ruolo dello squalo della Groenlandia rappresenta un anello essenziale della catena alimentare delle regioni artiche.

Video intervista Sul canale Youtube di «Azione» e su www.azione.ch la videointervista l’anestesista dr. Andrea Saporito.

Campo base della spedizione fotografica e subacquea allestito sullo stretto di Lancaster, tra l’isola di Devon e l’isola di Baffin, nell’artico canadese; qui la guida inuit di Arctic Bay. (Franco Banfi)


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Ambiente e Benessere Il sapore delle vacanze Un codino di vitello alle capesante in brodetto profumato allo zafferano

Il sogno americano in moto Hotelplan propone ai lettori di «Azione» un viaggio tra Nevada, Arizona e Utah a bordo di una mitica Harley Davidson

Il paradosso del viaggiatore Creare il mondo globale riunendo i popoli, ma solo se esistono confini da valicare

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Il giardino giapponese Un microcosmo che ripropone al visitatore le leggi che governano il mondo pagina 21

L’animale vertebrato più vecchio che si conosca Mondo sommerso Reportage ai confini del mondo per incontrare lo squalo della Groenlandia

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Chi ha paura del medico anestesista? Medicina Premura verso il paziente

ed evoluzione rendono l’anestesia una pratica molto sicura

Maria Grazia Buletti «Anesthesia is terribly simple but sometimes can be simply terrible» (L’anestesia è «terribilmente semplice», ma può essere «semplicemente terribile»). Un gioco di parole di uno dei tanti siti online dedicato alle pratiche mediche, per portare alla luce – anche in modo ironico – i più disparati timori delle persone che si devono sottoporre a un intervento chirurgico che necessita un’anestesia. Considerata a buona ragione una delle più importanti scoperte del secolo scorso, nell’immaginario comune l’anestesia ha avuto sempre un fascino controverso dovuto per lo più al timore della perdita del controllo di sé. Per meglio comprendere i meandri di questa specialità medica, incontriamo il viceprimario di anestesia dell’Ospedale Regionale Bellinzona e Valli (ORBV) Andrea Saporito, nel Blocco operatorio di cui egli è responsabile: «Potremmo definirla come una pratica medica complessa che permette al paziente di vivere in modo più umano possibile un’esperienza che di per sé potrebbe essere alienante». Egli ci accompagna attraverso la scoperta di quella che definisce «una presa a carico peri-operatoria del paziente (dunque a tutto tondo), volta a fargli superare nel modo più umano e confortevole possibile l’esperienza dell’intervento chirurgico. Una pratica medica sicura, che inizia con la presa a carico del paziente settimane prima della sala operatoria, quando lo si incontra per una visita preliminare». Questo colloquio dimostra sempre quanto visita e conoscenza reciproca «abbiano più effetto sull’ansia di certi farmaci». L’anestesia è di fatto una delle specialità mediche che ha attraversato un’evoluzione enorme, pure dal punto di vista farmacologico: «Oggi disponiamo di farmaci la cui caratteristica e i cui vantaggi sono essenzialmente legati a una maggior sicurezza e flessibilità sulle diverse situazioni; ciò permette di dosare un’anestesia personalizzata e maggiormente accurata nella tempistica, di praticare un’anestesia loco-regionale laddove l’intervento chirurgico lo consenta (oggi più della metà di tutte le anestesie praticate in

Europa contempla anche una tecnica di anestesia loco regionale). I pazienti si sveglieranno subito dopo l’intervento e potranno tornare in brevissimo tempo in piedi, favorendo una migliore e più rapida ripresa e convalescenza post operatorie». Sottoporsi all’anestesia, oggi più di ieri, non dovrebbe fare così paura: il dottor Saporito porta ad esempio l’esimio «National Institute of Medicine» americano che ritiene l’anestesia l’unica specialità medica ad aver ridotto in modo significativo la mortalità dei pazienti nel corso degli ultimi anni. «Non dimentichiamo che la percezione del rischio di qualunque cosa è soggettiva: le persone percepiscono come maggiori i rischi che hanno connotazioni emotive, sottovalutando quelli che non associano a particolari connotazioni negative», afferma il medico, confermando come psicologicamente si sottostima il rischio di qualcosa quando si ha l’illusione di averne il controllo. «Vorrei ricordare che il medico anestesista è formato in primis (dunque ancor prima di considerare il suo bagaglio tecnico-medico) per preservare e garantire la sicurezza del paziente», afferma Saporito al quale chiediamo quali sono i timori comuni dei pazienti: «Vi sono due categorie: quelli che temono la perdita di controllo, e quelli che invece vogliono perderlo, non vedere e sentire assolutamente niente». L’anestesista deve dunque essere anche molto psicologo, oltre che competente nei più svariati generi di anestesia, secondo le necessità del chirurgo, lo stato del paziente e le sue esigenze: «Non si addormenta solo il paziente o i suoi nervi, ma si coprono molti aspetti di quello spazio di tempo dedicato non solo all’intervento chirurgico, ma pure al prima e al dopo. Per quanto attiene all’intervento, parlo dell’abolizione della coscienza, della protezione dal dolore, del mantenere la muscolatura del paziente rilassata durante l’intervento, affinché il chirurgo possa operare nel migliore dei modi». Malgrado un’era di super specializzazione medica, emerge l’esigenza di un approccio olistico al paziente: «A prescindere dai timori comuni legati all’anestesia, non dimentichiamo che

Il viceprimario di anestesia dell’Ospedale Regionale Bellinzona e Valli (ORBV) Andrea Saporito. (Vincenzo Cammarata)

oggi l’aumento dell’aspettativa di vita ci porta pazienti che sempre più spesso presentano patologie multiple che si curano e a volte cronicizzano, causando conseguenze a catena: siamo dunque confrontati con pazienti complessi che necessitano un approccio multidisciplinare, oltre a una personalizzazione sempre maggiore della sua presa a carico». L’anestesista diventa dunque il fulcro su cui si concentra tutto ciò che ruota attorno all’intervento chirurgico: «Infatti, in sala operatoria ciascun paziente avrà il suo chirurgo, ma l’anestesista è colui che si occupa della gestione clinica di tutti i pazienti, come pure dell’intero processo peri operatorio: visita pre operatoria, organizzazione dell’intero processo e del dopo, premedicazione, posto letto nei reparti super specialistici all’occorrenza (come le cure intensive), quando chiamare ogni paziente in sala e via dicendo». In concreto, per ogni paziente: «Sulla

base di una visita pre operatoria obiettiva, in cui si effettua un’anamnesi e si esamina la terapia, l’anestesista elabora una strategia anestesiologica ideale che contempla sia la tecnica anestesiologica sia l’ottimizzazione del rischio clinico. Il paziente giunge in sala operatoria nel migliore dei modi, anche grazie alla scelta dell’anestesia (loco-regionale, combinata o generale) che più si conforma alle sue esigenze». Trapianti multiorgano, interventi complessi di neurochirurgia e operazioni che richiedono molte ore non sarebbero possibili, oggi, se accanto alle tecniche chirurgiche non si fossero evolute anche quelle anestesiologiche. Molti dei timori legati alla perdita di controllo del sé possono essere ridimensionati e il dottor Saporito ci porta infine un esempio su cui riflettere, a conferma delle paure ingiustificate dettate dall’emotività e dall’errata valutazione del rischio: «Subito dopo l’attentato alle Torri Gemelle del 2001

si stima che più di un milione e mezzo di persone non ha preso l’aereo per le proprie vacanze negli USA. Questo ha prodotto, purtroppo, mille morti in più sulle strade americane». Inoltre, la paura dell’anestesia, oggi, è molto smorzata da un «farmaco» di cui si servono gli anestesisti in fase di visita pre operatoria che si chiama «empatia».

L’osservazione e il monitoraggio di specie marine nel loro ecosistema è solitamente una sfida anche nelle migliori condizioni ambientali. Alcuni anni orsono andai ad Arctic Bay, nell’Artico canadese, per realizzare un reportage «ai confini del mondo», considerato che il campo base, costituito da tende di diverse dimensioni, era eretto sul floe-edge: cioè laddove la banchisa ghiacciata termina e ci si trova al cospetto del largo canale che si dirige verso il Mare Glaciale Artico. I soggetti principali del mio viaggio fotografico erano gli spettacolari panorami che si possono ammirare in una rara luce cristallina, i gruppi di beluga e di narvali che sono veramente difficili da avvicinare poiché timidissimi e sospettosi. In quel viaggio si presentò inaspettatamente l’occasione per fotografare lo squalo della Groenlandia, un animale talmente raro e raramente studiato che se ne conosceva solamente l’esistenza, sino agli studi pubblicati nel 2016 dal biologo Julius Nielsen, dell’università di Copenhagen. È particolarmente difficile studiare animali che vivono a profondità considerevoli, in acque con visibilità praticamente inesistente e in ambienti che sono coperti da una spessa coltre di ghiaccio e neve per alcuni mesi l’anno. La loro elusività rende evidente quanto poco ancora oggi si conosca degli ecosistemi marini artici. Lo squalo della Groenlandia (Somniosus microcephalus) è risultato essere l’animale vertebrato più vecchio che si conosca. Tuttavia, per quanto possano sembrare tantissimi i 400 anni attribuiti ad alcuni esemplari, sono nulla se confrontati alla longevità della Idra (o polipo d’acqua dolce), un invertebrato che continua incessantemente a rigenerare le proprie cellule e che, in condizioni favorevoli, si ritiene sia in grado di vivere e replicarsi all’infinito. O alle barriere coralline, alcune delle quali hanno un’età stimata di 4mila anni. Documentare l’età dello squalo è stata una vera sfida scientifica. I ricercatori solitamente analizzano la struttura delle ossa, e gli squali – essendo pesci cartilaginei – in generale ne hanno pochissime. Alcune specie di squalo presentano poche vertebre calcificate che mostrano i cerchi di accrescimento, simili agli anelli con-

Franco Banfi

Franco Banfi

centrici dei tronchi degli alberi, i quali possono essere utilizzati per calcolare l’età. Tuttavia lo squalo della Groenlandia è totalmente privo di strutture rigide, ha un corpo soffice, più simile a un grande pesce gatto e molto diverso dagli squali più noti, massicci e possenti come lo squalo bianco o eleganti e agili come lo squalo blu. Lo squalo della Groenlandia, al contrario, ha un corpo molle, grasso, ed è estremamente lento, paragonabile a un bradipo sulla terraferma, tanto da essere considerato uno squalo letargico che si muove con un minimo consumo energetico. Il biologo Julius Nielsen ha determinato l’età di alcuni esemplari pescati accidentalmente datando il carbonio presente nella parte più interna del cristallino, con il sistema del decadimento del Carbonio 14. Il cristallino si forma prima della nascita, durante la vita uterina, quindi la sua età corri-

sponde all’età dell’animale. Con questa metodologia è stato appurato che il più vecchio degli animali esaminati aveva ben 392 anni e non era morto di vecchiaia, essendo stato pescato accidentalmente. La maggior parte degli esemplari viventi ha grandi problemi di vista, colpa di un parassita, un copepode (Ommatokoita elongata), che vive attaccandosi a uno dei due occhi e danneggia permanentemente la cornea. Tuttavia nell’ambiente in cui vivono, la vista è un elemento trascurabile, data la scarsa visibilità in acque superficiali e la mancanza di luce a elevate profondità. Per cercare cibo e sfamarsi essi si affidano soprattutto all’olfatto. Questo squalo è un vero spazzino del mare e si nutre prevalentemente di carcasse (spesso in decomposizione) e di foche, che lo squalo attacca mentre dormono in acqua, per sottrarsi alla cattura da parte degli orsi polari.

È stato calcolato che il tasso di crescita dello squalo della Groenlandia sia di circa un centimetro all’anno, e proprio questa lentezza potrebbe essere il segreto della sua longevità. Elemento che, tuttavia, lo espone a un altro poco auspicabile primato. Da un recentissimo studio condotto dal Norwegian Polar Institute e dalla Windsor University canadese, sembra infatti che lo squalo della Groenlandia sia l’animale più contaminato al mondo. E l’accumulo di sostanze tossiche, principalmente il PCB (policlorobifenile) un composto organico utilizzato in passato come isolante e in disuso da moltissimi anni, è strettamente correlato alla longevità degli esemplari. La carne fresca dello squalo non è commestibile a causa dell’alta concentrazione di acido urico (gli squali non hanno i reni per espellere l’urina). Un tempo, se non c’era altro, gli esquimesi la davano in pasto ai cani, che prende-

vano la cosiddetta «sbornia da squalo», restando ubriachi per giorni sotto gli effetti allucinogeni dell’ossido di trimetilammina. Può essere consumata solo dopo un processo di fermentazione ed essiccazione, in cui sono specialisti gli islandesi che preparano tradizionalmente la carne di squalo fermentata (kæstur hákarl in islandese). Gli squali della Groenlandia sono stati oggetto di pesca intensiva sino alla metà del 1900. I popoli nordici cacciavano in abbondanza questi pesci per estrarne olio di fegato utilizzato come combustibile per lampade e come lubrificante industriale. Oggi le popolazioni degli squali della Groenlandia sono fortunatamente stabili. Considerata l’importanza dei grandi predatori nel controllare le dinamiche degli ecosistemi, il ruolo dello squalo della Groenlandia rappresenta un anello essenziale della catena alimentare delle regioni artiche.

Video intervista Sul canale Youtube di «Azione» e su www.azione.ch la videointervista l’anestesista dr. Andrea Saporito.

Campo base della spedizione fotografica e subacquea allestito sullo stretto di Lancaster, tra l’isola di Devon e l’isola di Baffin, nell’artico canadese; qui la guida inuit di Arctic Bay. (Franco Banfi)


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 3 aprile 2018 • N. 14

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Ambiente e Benessere

Codino di vitello e capesante in brodetto allo zafferano

Migusto La ricetta della settimana

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Ingredienti per 4 persone: 2 scalogni · 200 g di funghi · 2 spicchi d’aglio · 400 g di codini di vitello · 8 capesante, di ca. 35 g ciascuna · sale · pepe · 4 cucchiai d’olio d’oliva · 2 dl di fumetto di pesce · 2 dl di fondo bruno · 1 scatola di stimmi di zafferano da 350 mg · 1 dl di panna semigrassa · ½ mazzetto di prezzemolo. 1. Tritate gli scalogni. Tagliate i funghi a bocconi, l’aglio a fettine sottili, la carne a dadini di circa 2 cm. Condite la carne e le capesante con sale e pepe. Scaldate l’olio in una padella capiente. Rosolate i dadini di carne e le capesante per circa 1 minuto, togliete il tutto dalla padella e mettete da parte in un piatto. 2. Nella stessa padella fate soffriggere i funghi, gli scalogni e l’aglio per circa 2 minuti. Aggiungete il fumetto, il fondo bruno e lo zafferano e lasciate sobbollire per circa 5 minuti. 3. Regolate di sale e pepe. Unite al brodetto la panna, la carne e i molluschi e lasciate scaldare per 2 minuti senza far bollire il sughetto. Tritate grossolanamente il prezzemolo e distribuitelo sulla pietanza. Accompagnate con del riso. Preparazione: circa 40 minuti. Per persona: circa 35 g di proteine, 20 g di grassi, 8 g di carboidrati, 360

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 3 aprile 2018 • N. 14

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Ambiente e Benessere

Piccolo, anzi minuscolo, bello e utile I progetti del futuro Novità nel settore delle nanotecnologie per ripulire l’ambiente, e in particolare le acque

sotterranee, da sostanze cancerogene

Amanda Ronzoni Si sente parlare spesso di falde idriche inquinate, sversamenti di sostanze tossiche nel terreno, presenza nel sottosuolo di composti velenosi per l’ambiente e l’uomo. In troppi pensano ancora di poter far sparire rifiuti nocivi e sgraditi seppellendoli, come se il terreno fosse un tappeto sotto cui nascondere le magagne. Le statistiche sulle malattie «ambientali» sono però una condanna senza appello: secondo l’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) il 24 per cento di tutte le malattie nel mondo è dovuto all’esposizione a fattori ambientali, e gli inquinanti sono tra questi.

Le acque sotterranee rappresentano una delle risorse idriche più importanti, per qualità e abbondanza Ecco spiegata l’importanza dei risultati conseguiti dal team di ricercatori del Politecnico di Torino, composto da Carlo Bianco, Janis Patiño, Tiziana Tosco e Alberto Tiraferri, coordinati dal professor Rajandrea Sethi, da anni impegnati in ricerca di frontiera nell’ambito delle nanotecnologie applicate alla bonifica di falde inquinate, la cosiddetta Nanoremediation. La ricerca, svolta nell’ambito del progetto europeo Reground (Programma quadro Horizon 2020), è stata pubblicata in questi giorni su «Scientific Reports», rivista del gruppo Nature.

Uno dei membri del team di ricercatori del Politecnico di Torino durante la preparazione di una sospensione di nanoparticelle di ferro.

Il risultato raggiunto dal gruppo di ricerca di Ingegneria degli Acquiferi del Politecnico di Torino (Dipartimento di Ingegneria dell’Ambiente, del Territorio e delle Infrastrutture – DIATI), guidato dal professor Sethi, è stato di riuscire a rimuovere alcuni contaminanti cancerogeni dalle acque sotterranee mediante l’iniezione controllata di nanoparticelle di ferro in falda. Va premesso che le acque sotterranee rappresentano una delle risorse idriche più importanti, per qualità e abbondanza: costituiscono circa il 30 per cento delle acque dolci sfruttabili dall’uomo, mentre il restante 6 si trova accumulato

sotto forma di ghiaccio e meno del 2 per cento è disponibile nei corpi idrici superficiali. La bonifica e il ripristino ambientale dei sistemi acquiferi contaminati rappresenta quindi un tema di grande interesse e attualità. Lo sviluppo delle nanotecnologie negli ultimi anni ha compiuto progressi notevoli, e in diversi campi dalla medicina all’energia, dall’elettronica all’ambiente. I nanomateriali, grazie alle loro dimensioni estremamente ridotte, presentano spesso delle proprietà peculiari che li rendono più efficaci rispetto a materiali e soluzioni tecnologiche più convenzionali. I più utilizzati in ambito di

bonifica dei siti contaminati sono a base di ferro zero valente. Il ferro zero valente, in forma però millimetrica, quindi non iniettabile, è già stata utilizzato con successo come materiale di riempimento di barriere reattive permeabili, predisposte per rimuovere inquinanti organici (principalmente idrocarburi clorurati) e inorganici (soprattutto metalli pesanti) dalle falde idriche. La Nanoremediation è una tecnologia di bonifica basata sull’iniezione nel sottosuolo di nanomateriali reattivi per la degradazione dei contaminanti in loco. Si sta dimostrando uno degli

«The Canyon loop»

Tagliando di prenotazione

aprile 2018 5 1 il o tr n e i n zio M Per prenota 00.– a camera 1 sconto di CHF

Desidero iscrivermi al tour americano, dal 30 maggio all’8 giugno Nome

Moto experience Un tour per le strade

americane in sella alle Harley Davidson, con guida privata nerario che permette agli appassionati di motocicletta o semplicemente amanti di panorami suggestivi, di godersi i più bei paesaggi degli Stati Uniti. Il Grand Canyon, la Monument Valley, il Bryce Canyon e la scintillante Las Vegas, con i suoi casinò, sono solo alcune delle tappe di questo indimenticabile tour.

Il programma di viaggio Mercoledì, 30 maggio 2018 Milano-Las Vegas, il volo. Giovedì, 31 maggio 2018 Las Vegas: ritiro moto. Giornata libera. Venerdì, 1. giugno 2018 Las Vegas-Prescott Sabato, 2 giugno 2018 Prescott-Grand Canyon Domenica, 3 giugno 2018 Grand Canyon-Kayenta

Lunedì, 4 giugno 2018 Kayenta-Bryce Canyon Martedì, 5 giugno 2018 Bryce Canyon-Kanab Mercoledì, 6 giugno 2018 Kanab-Zion NP-Las Vegas Giovedì, 7 giugno 2018 Las Vegas. Giornata libera per le ultime visite ed eventuali acquisti Venerdì, 8 giugno 2018 Las Vegas-Milano

Cognome Via NAP Pxhere

Un viaggio tra Nevada, Arizona e Utah per assaporare l’Ovest degli Stati Uniti. È quanto offre Hotelplan ai lettori di «Azione» per questa primavera. Il tour avrà luogo da mercoledì 30 maggio a venerdì 8 giugno. A bordo di una mitica Harley Davidson e accompagnati da una guida privata, si percorrerà un iti-

approcci più innovativi, estremamente efficace e promettente in studi di laboratorio, con un ostacolo da superare: l’applicabilità alla scala di campo era limitata da alcune problematiche tecniche e tecnologiche relative alla stabilità e all’iniettabilità delle nano-sospensioni, al costo del materiale reattivo e alla sua efficiente distribuzione nel sottosuolo. In molti casi non era possibile controllare in modo efficace che le nanoparticelle si depositassero in corrispondenza della zona contaminata. Lo studio pubblicato su «Scientific Reports» dal team di Torino presenta una strategia di iniezione innovativa capace di superare questi limiti, consentendo pertanto di migliorare notevolmente il processo di Nanoremediation. «L’approccio che proponiamo – spiega Carlo Bianco – sfrutta l’iniezione sequenziale e modulata di una sospensione stabile di nanoparticelle e di un agente destabilizzante, che induce una migrazione ottimale delle nanoparticelle in falda e successivamente una deposizione controllata nella zona desiderata». Un modello matematico, sviluppato dai ricercatori, supporta la progettazione delle fasi di iniezione, consentendo di adattare la procedura all’applicazione specifica. L’approccio è stato applicato con successo a scala di laboratorio per controllare la distribuzione spaziale in mezzi porosi di nanoparticelle di ossido di ferro, sviluppato nell’ambito del progetto europeo Reground per la bonifica di acquiferi contaminati da metalli pesanti. Attualmente sono in corso sperimentazioni sul campo in siti inquinati in Portogallo e in Spagna.

Il vero viaggio in moto inizierà la seconda mattina, quando si salirà in sella per raggiungere Prescott passando per la famosa diga di Hoover, Kingman, l’Huckberry gas station, una delle zone storiche della Route 66 (400 km, ca.). Il giorno seguente sarà la volta del Grand Canyon dove ci si prepara a uno dei migliori spettacoli che la natura abbia mai realizzato, un tramonto da brividi, uno scenario mozzafiato e indimenticabile (200 km, ca.). Il terzo giorno di viaggio, si partirà in direzione Kayenta, famosa per essere ricordata come la terra dei Navajo (250 km, ca.). Il 4 giugno si attraverserà Mexican Hat e la Valle degli Dei (410 km, ca.). E dopo aver messo le ossa a riposare, si visiterà Bryce Canyon per poi andare verso Kanab, località conosciuta come la «piccola Hollywood» in quanto nel tempo

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è stata luogo di riprese per diversi film western (130 km, ca.). Come ultima tappa, si tornerà a Las Vegas, ma questa volta lungo percorsi affascinanti, attraverso lo Zion (330 km, circa). Durante l’intera vacanza si percorreranno circa 1150 km in sella a una Harley Davidson.

Località Telefono e-mail Sarò accompagnato da … adulti.

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gamma più recente, guida privata in italiano, veicolo d’appoggio che segue il gruppo per trasporto bagagli e bevande, assistenza in caso di guasto, benzina, casco. Le quote non comprendono Spese dossier CHF 70.–, pasti e bevande, visto turistico ESTA, assicurazione viaggio, incremento delle tasse aeroportuali, mance, facchinaggio negli aeroporti e in hotel. Equipaggiamento moto. Tutto quanto non previsto dalla voce «le quote comprendono».


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Foto: Alexandra Wey

Pubbliredazionale Manca di tutto. Nelle stanze ci sono solo alcuni materassi, per il resto sono vuote. Il freddo entra da ogni buco e da ogni fessura. «Per dormire ci mettiamo stretti l’uno all’altra nella stanza al pianterreno» racconta Noura, la nuora di Amal. «È l’unico modo per tenerci caldo.» Fino ad oggi nel quartiere manca la corrente elettrica. La famiglia ha appena finito il gas per il riscaldamento. Amal non ha i soldi per comprarne altro. Da quando c’è la guerra, i prezzi sono lievitati. Amal lavora come domestica da una famiglia che conosce da molto tempo. Saltuariamente riesce a guada-

te online su: n e m a tt e ir d Donare nazionesiria caritas.ch /do

Il marito di Amal Mahmoud è stato ucciso da un missile, uno dei suoi fratelli è stato ammazzato in guerra, un altro risulta disperso.

Amal (43 anni): continuare a vivere tra le macerie di Aleppo Ad Amal Mahmoud* (43 anni) la guerra ha tolto tutto: suo marito, la casa sicura, una vita dignitosa. Adesso lotta per la sopravvivenza della sua famiglia tra le macerie di Aleppo. Ma le forze vengono meno. Le donazioni che riceve dalla Svizzera mediante Caritas riescono ad alleggerire un po’ il peso della sopravvivenza.

gnare qualcosa in più pulendo le scale di un grande edificio. Non possiede nessun titolo di studio. Con il suo stipendio deve sfamare l’intera famiglia. Sono in otto. Così Amal lotta instancabilmente per la sopravvivenza della sua famiglia. Da Caritas riceve regolarmente aiuti come vestiti o pacchi alimentari di cui è molto grata. «Ho dolori ovunque. Sono esausta e contenta che Caritas mi tolga un po’ di fatica.» Conto donazioni: 60-7000-4 Per donazioni online: caritas.ch/donazionesiria

Siria: aiuto immediato nei momenti di grande bisogno Dopo sette anni di guerra, molte persone in Siria vivono una condizione di enorme dolore e sofferenza. Lottano per sopravvivere tra le macerie o come profughi lontano da casa. Solo in Siria, 6,5 milioni di persone non hanno da mangiare a sufficienza, 5,3 milioni vivono in alloggi poco sicuri e inadeguati che mettono in pericolo la loro salute. Altri 5,5 milioni sono fuggiti dal Paese e vivono in condizioni simili senza speranza di tornare presto. Con il sostegno delle sue donatrici e dei suoi donatori, Caritas aiuta le persone in Siria e nei Paesi confinanti come il Libano e la Giordania ad assicurarsi la sopravvivenza: finanzia beni semplici e irrinunciabili dell’uso quotidiano, come un pasto caldo, acqua, vestiti, cure mediche, coperte, sapone e pannolini, un alloggio sicuro. Assicura la frequenza scolastica ai bambini profughi e un lavoro alle persone che si trovano in fuga per migliorare il loro reddito.

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«Hanno sparato alla mia casa» racconta Amal Mahmoud. Stanca guarda verso una delle tante finestre della sua casa inchiodate in modo provvisorio nel quartiere Ard al-Hamra ad Aleppo Est. Qualche anno fa viveva qui con suo marito e i suoi figli in modo semplice, ma dignitoso. Adesso, invece, a volte non riconosce più la propria vita.

Una sofferenza indicibile Nel quartiere di Ard al-Hamra gli scontri furono intensi. La zona era esposta ai bombardamenti e all’assedio. Gli abitanti che sono rimasti hanno sofferto in maniera inimmaginabile. «Ogni giorno morivano persone intorno a noi. Ci siamo nascosti dietro al bagno e sotto le scale» racconta la vicina di Amal.

Cinque anni fa la guerra ha costretto Amal e la sua famiglia a fuggire. Un missile si era abbattuto vicino casa loro. «Ha rotto tutti i vetri delle finestre della casa» dice Amal. «In quel momento abbiamo capito che dovevamo andarcene».

Amal e la sua famiglia si sistemarono provvisoriamente in un altro quartiere della città. Nella fuga dovettero lasciare quasi tutto. Un giorno, suo marito tornò nella casa. «Voleva prendere alcune cose. Fu colpito da un missile» dice Amal. Quando racconta l’episodio, le viene da piangere.

Dopo la morte del marito, si trasferirono sulla costa siriana dove i fratelli di Amal la aiutarono a mantenere la famiglia. Ma anche i fratelli rimasero vittime della guerra: uno fu ammazzato, l’altro risulta disperso. Da allora, le donne – Amal, le sue tre figlie, sua nuora e la nipotina – devono arrangiarsi da sole. Con loro vivono anche i genitori di Amal. E quasi tutto grava sulle spalle di Amal: le faccende domestiche, la cura dei bambini e il lavoro. «Devo fare da madre e da padre allo stesso tempo» dice con tono deciso della voce. E ogni giorno la tormenta la preoccupazione che anche suo figlio Yassin possa morire in guerra e che non conoscerà mai il suo primogenito che sta per nascere. Amal lotta instancabilmente per la sua famiglia Quando, dopo la morte del fratello di Amal, la famiglia torna nel quartiere di Ard al-Hamra, si ritrova davanti le macerie della vecchia vita. Gran parte degli edifici del quartiere è gravemente danneggiata, di alcune case è rimasto solo un cumulo di macerie. I missili hanno raso al suolo diversi isolati, le reti di distribuzione idrica e di energia elettrica sono saltate completamente. La gente ha perso tutto. Ogni giorno si trova davanti alla sfida di dovere procurare cibo a sufficienza per la famiglia. Anche nei muri della casa di Amal ci sono grossi buchi e il tetto è seriamente danneggiato.

Per maggiori informazioni su Amal Mahmoud e la sua famiglia: farelacosagiusta.caritas.ch

* Nome e cognome sono stati cambiati per tutelare la persona.

Aiuti oggi con una donazione


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 3 aprile 2018 • N. 14

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Ambiente e Benessere

Elogio della frontiera

Tra linee e spazi

Viaggiatori d’Occidente Molti moderni esploratori difendono i confini tra gli Stati

Bussole I nviti a

Claudio Visentin

«Che cos’è una frontiera? Un limite geografico – linea o spazio – il cui tracciato riflette le relazioni tra due gruppi umani: rapporti di forza militari o diplomatici, ma anche tradizioni o rapporti di buon vicinato. È una specie di storia inscritta nella geografia…»

A scuola abbiamo studiato la Grande muraglia, il Vallo di Adriano, il Muro di Berlino: ancora oggi tre formidabili attrazioni turistiche. La Grande muraglia si è sviluppata in più fasi, a partire dal III secolo a.C., per difendere la Cina dalle popolazioni nomadi del nord. Nel Duecento tuttavia non poté impedire l’invasione dei Mongoli di Kublai Khan, poi assimilati nella dinastia Yuan (1279-1368). Nel Quattrocento verrà costruita la Grande muraglia dei Ming, lunga 6500 km, quella visibile ancora oggi, anche se la sua capacità di resistenza è messa a dura prova non dai nemici, ma dal turismo di massa. Il Vallo di Adriano fu costruito nel II secolo d.C. nel nord dell’Inghilterra, per tenere a distanza di sicurezza i temibili Pitti. E poi naturalmente c’è il Muro più famoso, quello di Berlino, lungo oltre 100 km e sorvegliato a suo tempo da 14mila guardie e 6mila cani. Il Muro di Berlino fu costruito rapidamente nel 1961 e per quasi trent’anni svolse il compito che gli era stato affidato: scoraggiare la fuga dei propri cittadini verso l’Occidente. Dopo il 1989 è stato in larga parte distrutto, quasi con sollievo, anche se ora prevale la tendenza a proteggerne i pochi resti. Negli ultimi anni nuove minacce – terrorismo, traffico di droga, immigrazione illegale – hanno fatto tornare di moda i muri. Se ne costruiscono ovunque: i più noti sono al confine tra Stati Uniti e Messico o in Israele, ma altri sorgono in Africa australe o nell’Asia centrale e meridionale. Il più vecchio muro esistente divide in due la penisola coreana, ma potremmo ricordare anche la frontiera tra Israele e Libano, la recinzione tra Kuwait e Iraq, il muro di Cipro, quello ungherese al confine con la Serbia ecc. Quanti sanno poi che uno dei più lunghi muri di difesa del mondo (oltre 2mila km) è stato costruito dal Marocco nel Sahara occidentale? Questa barriera di sabbia e di pietre, presidiata da due terzi dell’esercito marocchino (circa 100mila soldati), serve oggi soprattutto per arginare l’immigrazione clandestina. Se tutti i progetti in corso verranno completati, presto avremo più

Uno scorcio del Vallo di Adriano a Whin Sill. (Adam Cuerden)

di sessanta muri, con un volume d’affari per costruirli di venti miliardi di dollari l’anno. I muri presidiano dal 3 per cento (7500 km) al 18 per cento (41mila km) delle frontiere terrestri, a seconda del metodo di calcolo utilizzato. Si parla anche di muri virtuali quando una sorveglianza molto avanzata è garantita da sensori, droni, satelliti, senza barriere fisiche, come nel caso del Brasile. Molti politici – Donald Trump, l’ungherese Orbán, l’israeliano Netanyahu tra gli altri – credono nell’efficacia dei muri, anche se l’ex Segretaria alla sicurezza interna degli Stati Uniti, Janet Napolitano, sosteneva con spirito: «Datemi un muro di dieci metri e io vi mostrerò una scala di undici». Ma è davvero così? I muri sono inefficaci? Probabilmente qualche risultato lo ottengono, rallentando e regolando i movimenti di merci e persone, anche se a volte cambiano i termini del problema. Consideriamo per esempio il caso del muro tra Stati Uniti e Messico, la frontiera più attraversata al mondo, con oltre 200mila persone al giorno al solo posto di frontiera di Tijuana. L’idea di un muro integrale nasce con il Secure Fence Act nel 2006. Gli oltre mille chilometri di muro sin qui costruiti hanno reso più difficile i traffici di droga e l’immigrazione illegale; al tempo stesso però hanno spinto i migranti a cercare

altre vie, spesso più pericolose, o a sostituire l’emigrazione definitiva a quella stagionale. Gli intellettuali attaccano i muri senza riserve: «Esprimono l’incomprensione, la separazione, la segregazione. Chi costruisce muri avvelena l’umanità» sostiene per esempio il filosofo francese Thierry Paquot. I muri sono accusati di aggravare il problema che dovrebbero risolvere, generando nuove forme di xenofobia e di ripiegamento su se stessi. E tuttavia, se vogliamo arrestare il proliferare dei muri, dovremmo forse ripensare le frontiere. Una generazione ha sognato di cancellare queste divisioni tra Stati: «Chi se n’importa delle frontiere!» era uno slogan del maggio francese, mezzo secolo fa, nel 1968. Più realisticamente il controverso filosofo e giornalista francese Régis Debray (si è molto discusso del suo ruolo nella cattura di Che Guevara) ha scritto un Elogio delle frontiere: «Il muro impedisce il passaggio, la frontiera lo regola. Dire di una frontiera che è un colabrodo è renderle merito: è lì per fare da filtro». Debray denuncia l’illusione di un mondo senza frontiere: «La frontiera è fondamentale per riconoscere l’altro e considerarne la pari dignità, favorisce la ricerca dell’equilibrio attraverso il negoziato e la mediazione». Forse per questo dopo la caduta del Muro di Berlino le frontiere europee

sono raddoppiate, anche se l’Accordo di Schengen (1985) ne ha poi, con intelligenza, attenuato gli effetti. Molti viaggiatori sottoscriverebbero queste riflessioni. Qualche settimana fa per esempio Paolo Rumiz mi ha raccontato: «A scatenare il mio desiderio di viaggiare è stata senza dubbio la vicinanza della frontiera, con un Paese così diverso dal nostro per lingua e assetto politico come la Jugoslavia. Ai miei genitori, che avevano visto la guerra, faceva paura. A me sembrava un’occasione formidabile, da non perdere. Io amo la frontiera, anche se questa mia predilezione va contro molta retorica corrente. Il confine è importante perché mi divide da chi è diverso da me, è un luogo di separazione ma anche una linea d’incontro, ci si affaccia dalle due parti e si va in cerca dell’altro. Io ho bisogno di questa linea da valicare, è un invito al viaggio. Non sono mai sorti così tanti muri da quando abbiamo cominciato a sopprimere le frontiere!». È il paradosso dei viaggiatori. Da un lato hanno contribuito a creare il mondo globale, valicando i confini e mettendo in collegamento i popoli. Dall’altro vorrebbero mantenere il più possibile la diversità di culture, religioni, modi di vivere, altrimenti i viaggi perderebbero molto del loro significato e si ridurrebbero a un frenetico girovagare senza senso. Abbasso i muri, viva le frontiere?

letture per viaggiare

I dati dell’articolo di questa settimana sono tratti dall’«Atlante delle frontiere». Nel nostro pianeta esistono 323 frontiere terrestri su circa 250mila km. Aggiungendo le frontiere marittime, si arriva a un totale di circa 750 frontiere tra Stati. Alcune si attraversano facilmente, altre sono invalicabili; alcune sono visibili, altre invisibili (aeree, astronomiche). Ma esistono anche frontiere immaginarie o arbitrarie: politiche, economiche, culturali (lingua, religione, civiltà) che quasi mai coincidono con le frontiere internazionali. Dall’apparente certezza delle frontiere nascono in realtà mille domande: quali sono le frontiere dell’Europa? Come si determinano le frontiere aeree? Ci sono ancora zone che non appartengono a nessuno? Molte le curiosità: la frontiera più antica è quella del 1278 tra Andorra e Spagna; la più recente, quella del 2011 tra Sudan e Sudan del sud. La frontiera più lunga (8991 km) separa Canada e Stati Uniti; la più corta (solo 80 metri!) corre tra Spagna e Marocco. E ancora, la suite 212 del Claridge’s Hotel, a Londra, venne ceduta alla Jugoslavia per un giorno, il 17 luglio 1945, affinché si potesse dire che il principe Alessandro II era nato sul suolo jugoslavo. La vicinanza di Campione d’Italia ci ha poi mostrato cosa sia un’enclave, ovvero un territorio completamente circondato da un altro Stato. Ma questo è nulla in confronto al caso del comune di BaerleDuc: dal 1579 il Belgio possiede ventidue piccoli territori in Olanda, all’interno dei quali però si trovano otto contro-enclave olandesi. L’intreccio è tale che l’appartenenza territoriale di una casa può dipendere dall’ubicazione della porta di ingresso… Bibliografia

Bruno Tertrais e Delphine Papin, Atlante delle frontiere. Muri, conflitti, migrazioni, ADD, 2018, pp.151, € 25. Annuncio pubblicitario

Con 60 franchi lei consente a un bambino profugo siriano nel Libano di prendere lezioni di ripetizione per un mese. Con 80 franchi lei paga un pacco alimentare per un mese a una famiglia in Siria. Con 120 franchi lei aiuta una famiglia in Giordania a pagare l’affitto per un mese.

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Ambiente e Benessere

Cornioli di primavera da mangiare o ammirare

Mondoverde Ne esistono di diverse specie, sia da frutto sia ornamentali, come il bel Cornus florida

Anita Negretti Nel cortile di casa mia ci sono due cornioli da frutto, reminescenza di un passato contadino non troppo lontano, e loro, i due cornioli (Cornus mas) – piantati dal nonno – ogni anno a fine febbraio si riempiono di piccoli fiori giallo-oro sui rami ancora spogli. In estate, quando sono carichi di foglie ovate e verde scuro, compaiono moltissimi frutticini commestibili: di color rosso corallo su una pianta (simili a ciliegie oblunghe) e giallo sole sull’altra varietà. Ammetto di non aver mai assaggiato le drupe: a detta di molti sono buone, dal sapore leggermente acidulo. Tuttavia, pur apprezzando queste piante, preferisco i più ornamentali Cornus da fiore. La famiglia delle Cornacee comprende circa 40 specie, che includono erbacee perenni, arbusti e piccoli alberi, quasi tutti a foglia caduca. In primavera tra aprile e le prime settimane di maggio, Cornus florida, un arbusto americano che può raggiungere i sei metri sia in altezza sia in diametro, si riempie di fiori piccoli, verdi e insignificanti, che vengono però circondati ognuno da 4 brattee (foglie modificate) color bianco latte, molto simili a petali, dalla forma di cuore e lunghe fino a sei centimetri. Questa strategia, utilizzata per attrarre gli insetti impollinatori, ci regala

un meraviglioso spettacolo legato alla fioritura di questo arbusto, soprattutto se l’esemplare di Cornus florida viene coltivato solitario in un angolo del giardino o accanto alle sue varietà, come ad esempio Cornus florida «Rubra», con brattee rosa e striate di bianco, «Rainbow» dalle brattee color panna e foglie variegate di verde chiaro e verde scuro o «Junior Miss» con brattee rosso intenso. I Cornus florida presentano una crescita lenta e una chioma tondeggiante, molto ramificata, colma di foglie, che prima di cadere in autunno diventano rosse o rosa acceso per lunghe settimane. Amano posizioni a mezz’ombra o in pieno sole, anche se in quest’ultimo caso possono soffrire durante le estati più calde. Rustiche e resistenti ai freddi invernali, necessitano di un terreno con pH neutro o leggermente acido (in un suolo calcareo manifesta clorosi fogliare), ben lavorato, non compatto e ricco di sostanza organica. Non necessitano potature, se non in caso di rami danneggiati o con crescita irregolare. Se desiderate riprodurlo, il metodo più facile è sicuramente la propaggine: basterà piegare un ramo basso verso il suolo facendogli prendere la forma di un arco; scortecciatelo per qualche centimetro nel punto della piegatura per stimolare l’emissione di nuove radichette; interrate la parte scortecciata per qualche centimetro sotto al terric-

I frutticini di un Cornus mas. (Abdossamad Talebpour)

cio e ancoratelo con un filo di ferro a «U». La parte terminale dovrà essere legata a un tutore, per poter crescere in posizione eretta e quando dopo qualche mese le radichette saranno ben formate, potrete recidere il ramo ancora collegato alla pianta madre, ottenendo così una nuova pianta.

Se avete a disposizione un terreno ampio, vi consiglio di coltivare anche un Cornus kousa, molto simile a C. florida per quanto riguarda le esigenze di terreno e di esposizione, ma originario della Cina e della Corea (viene chiamato corniolo cinese) e dalla crescita più rapida specie nei primi anni. Ha dimen-

sioni leggermente più ampie del cugino americano, un portamento molto elegante e brattee bianco-verdastre in maggio-giugno. Seguono dei magnifici frutti in autunno: simili a grosse fragole rosse, con un lungo picciolo verde, sono sia decorativi sia commestibili, ottimi a crudo o per marmellate. Annuncio pubblicitario

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 3 aprile 2018 • N. 14

Il giardino taoista una via per il benessere (N. 9 - ... arabo senza deserto è il Libano)

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A R A L D O B O S E Il seme nel cassetto N el ricco volume di recente pubblicazione intitolato Giardino giapponese, N I N O Z A R P D Sophie Walker riflette sulle nostre lacune culturali 13 14 15 T E S A I E P O I 16 17 18 R I R T O lo scultore S appassionato U R di zen F il cui Laura Di Corcia intervento è ospitato nel libro. «Sola 19 20 Una rubrica sul verde che non affronrisposta è la contemplazione. Nessuna ` ` O R A L E C E R T I tasse il tema dei giardini giapponesi ririsposta. Siediti e aspetta. Ancora nes21 sulterebbe monca: per fortuna ci viene suna risposta». L I Il senso, T inEfondo, è daCrinveniin soccorso il ricco volume di Sophie Walker, pubblicato dalla casa editrice re nella plasticità del vuoto, un vuoto 22 23 L’ippocampo, una pubblicazione imricco di tensioni, L I pregno, N O B carico. A «Nel ponente e supportata da una serie di giardino giapponese – scrive ancora 24 25 26 immagini utili a farci fare un viaggio – la tensione sta nella distanA S Kapoor S Pgli oggetti. O TEssi non in un mondo lontano dal nostro, eppuza temporale fra re così importante per noi, per riflettesi limitano a definire lo spazio: caso27 re sulle nostre lacune culturali e tentaampliarsi S O mai R è loIspazioAa crearsi N eO re di colmarle. fra essi. Questi eventi non sono posti 9

Sfogliando le pagine del Giardino giapponese e addentrandoci nella lettura dei testi scritti dall’autrice, ai quali si affiancano contributi di scrittori, artisti e architetti, scopriamo che le differenze fra i nostri giardini occidentali e quelli orientali si basano su una diversa concezione dell’essere umano e del suo rapporto con il mondo circostante. Il giardino giapponese, più affine all’hortus conclusus dei monaci medievali che a quelli magnificenti che circondano ville e residenze aristocratiche in città come Roma, Parigi e Firenze (e sulla cui bellezza non abbiamo nulla da dire), appare come un microcosmo che vuole riproporre al visitatore le leggi che governano il mondo, gli opposti che fondano il pensiero taoista e la via per il benessere, ovvero la piena accettazione del fluire dell’esistenza e la pratica della non azione. Tutti concetti lontani dal nostro modo di pensare la vita e di reagire ai

Giochi Cruciverba Forse non tutti sanno che Manhattan… Trova il resto della frase leggendo a soluzione ultimata le lettere evidenziate (Frase: 9, 5, 5, 7)

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a intervalli nello spazio ma piuttosto generano uno spazio fra di essi – in altre parole è il Vuoto, l’intervallo, a fare lo spazio e questo spazio per qualità il silenzio. Il Vuoto non è uno svuotamento, anzi crea attivamente lo spazio e contiene in potenza la forma e il significato. Il giardino vuoto crea lo spazio e in tal modo dilata il tempo e il silenzio». Il giardino giapponese, fatto di 2 4 mancanze, di oggetti che si potrebbero vedere e che spesso sono nascosti, pre5 di opposti, di luna e sole, di erba e gno sabbia, vuole suggerirci l’arte dell’abbandono,9la capacità di lasciarci 2 6trasportare dalla corrente. Dalla natura si impara tutto questo, basta 1 mettersi nella giusta predisposizione.

(N. 10 - ... anemoni di mare dai tentacoli urticanti)

Un ciliegio in fiore di 1 al giardino 2 3 rocce del tempio di Ryōan-ji a 7 Kyoto, Giappone. (Didier Moïse)

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suoi contrasti, seppure, va detto, anche in Occidente c’è una zona d’ombra, un11contropensiero che12 si avvicina alla cultura orientale (la pratica monastica, appena citata, va 13in questa direzione). Per il buddismo il giardino è quasi un piccolo trattato di filosofia, un luogo 18 19 che permette lo srotolarsi della via, la pratica della felicità e della spersona21 22 lizzazione. Entrare in un giardino significa lasciare da parte il proprio ego24e capire 23 che tutto è connesso, che quelle piante, quelle pietre, i cespugli che troviamo

siamo noi: il sentiero da percorrere a piedi è la strada per conoscere e capire, i portoni segnano il passaggio a un livello superiore di conoscenza, il ponte sta a significare che tutto 14 15 16 è legato 17 da un filo invisibile, che le cose rispondono alla Legge dell’uno. 20 Ovviamente non tutti i giardini sono uguali, anche in Giappone: ci sono quelli puntellati di verde e di fiori e quelli più geometrici, i cosiddetti paesaggi secchi composti 25di sola sabbia e pietra. Qui la verticalizzazione raggiunge vette più alte e il giardino di-

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SUDOKU PER AZ

A N E M N.I 9 CFACILE O N I D I A M Schema venta T piùEconcettuale, O ponendo R A 5 A anche alcune piccole sfide al visitatore: come il Ryōan-ji di Kyoto, concepito come E kōan,Tun indovinello U paradossale D I7 R un che aiuta nella meditazione. La disposizione stata infatti R delle pietre A èN D proE4 M I T E gettata in modo che, stando seduti sulla veranda, da qualsiasi punto si2 guardi8 I si possano C OvedereNtutte eAquindici T A L C O non contemporaneamente. 3 Bibliografia 8 O 5 2 9L UnaT composizione astratta, questo O R I L I N il senso del Ryōan-ji, che come tutti i Sophie Walker, Giardino giapponese, 4 Run ral82017,O 304 pp. giardini giapponesi «impone R U – Tlo rileva Anish I L’ippocampo T9 I Edizioni,C lentamento» Kapoor, 8 3 6 9 E A N T R O 4 A I

Vinci una delle 3 carte regalo da 50 franchi 3 con2 il cruciverba 4 e una delle 2 carte regalo da 50 franchi con il sudoku (N. 11 - ... signi ca isola delle colline) 8 7 1 1

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S F I NN. 10 G MEDIO E N O I Soluzione: 11 Scoprire 5 F iI3 L E T C 7A 3 R I numeri corretti 13 da inserire nelle R colorate. A D I 6 S O D E2 caselle 16 4 5 3 Giochi per “Azione” - Marzo 2018 OStefania L Sargentini A D E L I L 1 9 8 4 7 N E C O L O R A R (N. 9 - ... arabo senza deserto è il Libano) 2 TA R A L TD OO B TO SEE M 8 N I N O Z A R P D AT E VS OA I LE IP O I B 9 23 R I R T O S U R F TO R IA L NE` O5C E R TNI 1I ` 7 L I T E C 4 BMA A 3 E C OL I N8N OO

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A S S P O T SUDOKU PER 16. Le iniziali dell’attrice Ranieri Soluzione della settimana S O R precedente I AZIONE A N O- MARZO 2018 18. Parte dell’intestino MUTUO AIUTO – Alcuni granchi ospitano, sulle loro chele degli… Resto della frase: N. 9 FACILE 19.10 Lo-alza l’irascibile ANEMONI DI MARE DAI TENTACOLI URTICANTI (N. ... anemoni di mare dai tentacoli … urticanti) Schema Soluzione 5 21. Abbreviazione 6 7 8 di vicario

(N. 12 - Nessuna strada è lunga in buona compagnia) N. 11 DIFFICILE

ORIZZONTALI 1. Protegge la piramide 6. È auspicabile ammazzarla 10. Tipo di ricamo 11. Si curano a bocca aperta 12. Non frequenti 13. Compatte, dure 14. Onda all’asciutto 15. Mezzo delicato... 16. Quelle in fondo 17. Particella negativa 18. Un gioco da bambini... 19. L’idolo di Toro Seduto 20. Nonni, antenati 22. Alloggia in cantina 23. Tredicesima lettera

dell’alfabeto greco 24. Parsimoniosa

Regolamento per i concorsi a premi pubblicati su «Azione» e sul sito web www.azione.ch

I premi, cinque carte regalo Migros del28valore di 50 franchi, saranno sor29 teggiati tra i partecipanti che avranno fatto pervenire la soluzione corretta 31 32 entro il venerdì seguente la pubblicazione del gioco.

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1 2 3 4 VERTICALI 1. Sfacciate, impudenti 9 10 11 2. Contenitori per medicinali 3. Nome femminile 4. Preposizione articolata 13 14 5. Le iniziali dell’attore Tirabassi 6. Opposto allo16 Zenit 7. Sono piccole a notte alta 8. Elisabetta regnante 18 9. Le vie dell’apparato respiratorio 11. La sua capitale è Bogotà 22 13.21Fiume della Campania 15. Elargite dalla natura 24

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 3 aprile 2018 • N. 14

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Politica e Economia L’eredità di M. L. King Un viaggio ad Atalanta per scoprire cosa è rimasto del sogno nero-americano

Scene da Far West a Rio Il passaggio di mano dalla politica ai militari nella gestione di Rio de Janeiro dà i suoi risultati: mano libera alla polizia militare che fa volare giù dai burroni gente delle favelas, mentre l’attivista che denuncia il fatto è uccisa in un agguato

Voltare le spalle alla Ue? Se Fratelli d’Italia andrà al Governo potrebbe iniziare un nuovo rapporto con Visegrad

Un partito in bilico Il Partito borghese democratico è in perdita di consensi, prossime elezioni cantonali decreteranno se la formazione potrà avere un futuro e quale pagina 28

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Voltaire o Rousseau? Tempi moderni Due libri appena usciti,

uno in America e Inghilterra, l’altro in Italia, sono i manifesti del grande dibattito intellettuale e politico che in questa fase divide le società occidentali

Christian Rocca Eravamo ottimisti e ora siamo pessimisti. Due libri appena usciti, uno in America e l’altro in Italia, ci aiutano a riflettere sul momento globale che stiano vivendo, su che cosa sta succedendo nel mondo, su che cosa sarà di noi. La sintesi è proprio questa: eravamo ottimisti e ora siamo pessimisti, avevamo una fede pseudo religiosa nel progresso e invece ora il futuro ci fa paura, ci mette ansia, ci minaccia. I due libri sono Enlightenment Now (Viking) di Steven Pinker e L’età della rabbia (Mondadori) di Pankaj Mishra. Sono due saggi a tesi opposta, il primo incorreggibilmente fiducioso e il secondo irriducibilmente catastrofista, entrambi dogmatici, entrambi esercizi di maestria intellettuale da far girare la testa. Uno spiega che in realtà le cose vanno benissimo, l’altro si concentra sulle contraddizioni del progresso. Letti insieme i due libri funzionano bene perché fanno vacillare le convinzioni sia degli ottimisti sia dei pessimisti; sono come quegli smartphone di ultima generazione che grazie alla doppia fotocamera mettono meglio a fuoco il ritratto del nostro tempo. Pinker fa risalire la fede nel progresso all’Illuminismo, Mishra ricorda che anche allora c’era chi metteva in guardia sui costi del progresso. Gli eroi intellettuali dei due saggisti non possono essere ideologicamente più distanti: per Pinker è Voltaire, per Mishra è Rousseau. Enlightenment Now è un manifesto della ragione, della scienza e dell’umanesimo, mentre per L’età della rabbia la promessa illuminista di un avvenire di giustizia, uguaglianza e prosperità è soltanto un’illusione, se non un inganno. Senza andare molto indietro nel tempo, siamo diventati ottimisti nel 1989 e pessimisti nel 2001. E ci stiamo accorgendo del conflitto tra i due orientamenti soltanto da un paio d’anni. In realtà gli ottimisti sono negazionisti: non credono di aver perso la battaglia per lo spirito del tempo e salvo qualche rara eccezione escono con le ossa rotte da tutte le tornate elettorali. Nel 1989 cade il Muro di Berlino, crolla il comunismo sovietico, centinaia di milioni di persone si liberano dal

giogo totalitario, la democrazia si diffonde a Est, la Cina e l’India aprono le loro economie e in parte le loro società, la povertà globale inizia ad arretrare, nascono nuovi Stati liberi in Africa e in Asia, la difesa dei diritti umani plasma la politica internazionale, gli investimenti cambiano la geopolitica mondiale, scoppia la pace in Irlanda del Nord, finisce l’apartheid e Nelson Mandela esce dal carcere. Non è stato tutto rose e fiori, ovviamente, a cominciare dalla strage di Tienanmen in Cina, ma il 1989 è l’anno in cui si è iniziato a pensare che il capitalismo liberale e i sistemi democratici potessero trionfare in modo universale e irreversibile. «There is no alternative», non c’è alternativa, al sistema politico ed economico liberale, secondo la celebre formula riscoperta da Margaret Thatcher. Francis Fukuyama aveva dichiarato La Fine della Storia e i successivi decenni di progresso universale hanno confermato la tesi del politologo americano, grazie anche a una rivoluzione tecnologica che ha reso il mondo più colto, più connesso, più ricco. Nasce nel 1989, insomma, il culto internazionalista liberale del progresso, la certezza dell’ineluttabile vittoria della ragione sulla tradizione, la conta del numero esponenziale di persone che escono dalla povertà. Politicamente è l’era della Terza Via tra liberalismo e socialismo, con Bill Clinton e Tony Blair sacerdoti dell’idea di una crescita perpetua sia della produzione sia del consumo, e di conseguenza dell’allargamento dei diritti e del benessere per tutti. È anche il momento della despiritualizzazione della società, sempre in nome della ragione e della fede nel progresso. L’11 settembre 2001, però, il mondo si è accorto che la storia non era affatto finita. Il vuoto è stato colmato dal nichilismo, da un ritorno preponderante di Dio o da una combinazione delle due cose. Lo scoppio della bolla digitale, appena precedente, e la successiva crisi finanziaria del 2008 hanno fatto il resto e scatenato una serie di eventi che ci ha portato all’età della rabbia di cui scrive Pankaj Mishra. Secondo Mishra, gli ultimi trent’anni sono stati un’illusione, l’esito obbligato dell’ideologia neoliberale e la causa primaria delle rivolte populiste

Voltaire and Rousseau in un quadro di un artista anonimo, 1794 circa. (datadeluge.com)

e anti liberali (l’elenco del rancore anti sistema si aggiorna di mese in mese: Brexit, Trump, No alle riforme italiane, diffusione di sovranismi ed estremismi di ogni tipo). Innovazione e creatività hanno migliorato il mondo: un operaio di oggi sta molto meglio di un super ricco di due secoli fa. L’«Economist» si era chiesto se fosse meglio essere un monarca medievale o un umile impiegato in un ufficio moderno. Il Re, ha ricordato il settimanale britannico, aveva un esercito di schiavi, vestiva le sete più pregiate e mangiava il cibo più buono, ma non aveva rimedi contro il mal di denti, impiegava settimane per muoversi da un palazzo all’altro, poteva morire a causa di una banale infezione e non ne poteva più di sentire sempre gli stessi buffoni di corte. La vita dell’impiegato moderno improvvisamente appare straordinaria se si pensa a dentisti, antibiotici, aerei, smartphone e YouTube. La globalizzazione non è un’ingiustizia, è un’ingiustizia essere esclusi dalla globalizzazione, aggiungo io.

Ma non si può negare, come ricorda Mishra, che l’automazione abbia ridotto i posti di lavoro e aumentato l’insicurezza globale. Le diseguaglianze sono, o appaiono, maggiori di prima; le informazioni circolano più liberamente e penetrano la società fino a raggiungere sacche ignorate dai canali tradizionali dell’opinione pubblica; il progresso tecnologico disintermedia, cioè indebolisce le organizzazioni politiche e sociali (i partiti, i sindacati, i giornali e le famiglie) che facevano da filtro e garantivano la mediazione tra le istituzioni e il paese reale. Ecco spiegata la rivolta degli esclusi contro gli inclusi, dei non protetti contro i garantiti, dei molti contro le élite. Lo sconfinato ottimismo di Pinker ha il difetto di essere fideistico e per certi versi ridicolo. Lo dico pensando che il professore di Harvard in realtà non abbia torto, perché i progressi compiuti dall’umanità sono formidabili, perché non si può tornare indietro e perché è molto probabile che le cose continueranno a migliorare. Ma allo

stesso tempo non è razionale sostenere, come si legge in Enlightment Now, che le ingiustizie della società contemporanea si risolveranno da sole, semplicemente continuando ad avere fiducia nella ragione e nel progresso. David Cameron, Hillary Clinton e Matteo Renzi potrebbero testimoniare che non è così. Non credo però che il quadro pessimista fornito da Mishra nell’Età della rabbia sia quello corretto, anche se oggi è certamente maggioritario. La sua analisi è molto realistica, un colpo dritto al cuore di chi crede nella ragione e nel progresso, ma non offre un’alternativa al sistema democratico, liberale e capitalista, probabilmente perché un’alternativa seria non c’è o, nei casi in cui c’è, moltiplica le contraddizioni come vediamo in Venezuela, Corea del Nord, Cina, Russia e nei paesi che si affidano alla sharia. Ed eccolo il punto cruciale della nostra epoca: sbiadito il vecchio ottimismo occidentale, non sappiamo ancora dove ci condurrà questo nuovo pessimismo antioccidentale.


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Politica e Economia

Una questione sempre aperta Diritti civili USA L e manifestazioni degli ultimi giorni esprimono un desiderio di cambiamento

che riporta alle battaglie e all’eredità di pensiero di Martin Luther King, a 50 anni dal suo assassinio

Marcia di protesta a Washington lo scorso 14 marzo: i giovani in piazza, come nel 1968. (Keystone)

Federico Rampini Il vecchio deputato afroamericano John Lewis, figura leggendaria delle battaglie per i diritti civili e amico personale di Martin Luther King, traccia un parallelo tra le manifestazioni dei giovani americani contro la follia delle armi e il Sessantotto. Senza voler cadere in euforie premature (anche perché il vero Sessantotto americano ebbe poi esiti non tutti desiderabili, dalla spirale di violenze all’elezione di Richard Nixon) un dato di quest’epoca è la rinascita dei movimenti. Nel giro di pochi anni abbiamo visto BlackLivesMatter contro gli abusi della polizia sui neri, poi #MeToo contro le molestie sessuali alle donne, infine questo #NeverAgain per limitare le armi. E vanno ricordati un «antenato», influente anche se di breve durata, che fu Occupy Wall Street (senza il quale non avremmo avuto una candidatura di Bernie Sanders); nonché le manifestazioni pacifiste contro l’invasione dell’Iraq nel 2003. Il riferimento all’eredità di Martin Luther King Junior è obbligato: nessun altro seppe organizzare le masse per una protesta così ampia. È il 4 aprile di cinquant’anni fa che morì assassinato il leader del movimento dei diritti civili. Il Gandhi o il Nelson Mandela dei neri americani. King, un gigante della storia a cui oggi è intitolata una festa nazionale e monumenti in tutta l’America, da vivo era stato schedato e spiato dall’Fbi. Il giorno della morte aveva solo 39 anni. L’omicida, James Earl Ray, era un suo coetaneo bianco e razzista, seguace del repubblicano di estrema destra George Wallace. Colpì King sparando con un fucile Remington, mentre il pastore afroamericano era affacciato sul terrazzo del Lorraine Motel a Memphis nel Tennessee, uno Stato del profondo Sud dove erano state in vigore le leggi segregazioniste. Quell’attentato mortale inaugurava il sanguinoso Sessantotto degli americani, molto più violento di quello europeo. L’assassinio di King avveniva sullo sfondo dell’offensiva del Tet, una delle fasi più terribili della guerra del Vietnam. Subito dopo la sua

uccisione scoppiarono rivolte sanguinose nei ghetti neri delle città americane. Il paese sembrava scivolare verso una guerra civile. Tre mesi dopo veniva ucciso Bob Kennedy. E d’estate la convention democratica di agosto a Chicago fu assediata dalla guerriglia urbana.

L’America del dopo Obama sembra voler recuperare temi sociali trascurati dall’attuale amministrazione Oggi le celebrazioni per il cinquantesimo della scomparsa di King, il bilancio storico della sua figura e della sua opera, risentono inevitabilmente dell’atmosfera presente. Nell’America di Donald Trump, che ha un seguito di suprematisti bianchi e ha sdoganato il Ku Klux Klan, la comunità afroamericana e la sinistra hanno l’impressione di vivere un pauroso balzo all’indietro. Gli anni di Barack Obama appaiono come una parentesi anomala, la breve illusione di avere superato la questione razziale. Peraltro già durante la presidenza Obama era nato il movimento BlackLivesMatter per opporsi alle violenze della polizia contro i neri. E non è chiaro se gli abusi delle forze dell’ordine siano addirittura aumentati, o se oggi è più viva l’attenzione e quindi la denuncia. In questo pessimismo c’è il pericolo di perdere il senso della storia, di non valutare il progresso reale che c’è stato. In cerca della prospettiva giusta sono andato ad Atlanta in Georgia. Qui King era nato, aveva studiato e predicato in chiesa, la sua famiglia continua a viverci oggi. Ho visitato la casa dov’era cresciuto; il King Center che custodisce la sua eredità politica e ideale; l’università dove si laureò; la chiesa di cui era pastore. Atlanta è un osservatorio importante per tante ragioni. Una delle capitali storiche del Sud, è una metropoli ricca, sede di multinazionali come Coca Cola, la compagnia aerea Delta, la tv Cnn. Di questa prosperità è partecipe anche un

pezzo della comunità afroamericana: esiste una borghesia nera medio-alta, benestante e di successo, politicamente potente, non diversa dall’ambiente sociale dei «nordici» Obama a Chicago. È proprio da lì che comincio la visita, quando incontro Andrew Young, 85 anni, che fu uno dei più fedeli amici e compagni di lotte di King. Ex sindaco di Atlanta, Young fu il primo nero nominato ambasciatore degli Stati Uniti all’Onu (da Jimmy Carter, nel 1977). Un pioniere, spianò la strada all’ascesa politica di personaggi come Colin Powell, Condolezza Rice, o gli Obama. A lui faccio subito la domanda scomoda: perché Trump ha potuto «cancellare» Obama? E quel che accade oggi svaluta anche l’eredità del movimento per i diritti civili? «Obama – mi risponde Young – ha potuto conquistare la Casa Bianca capitalizzando sulla figura di King, le cui conquiste storiche non si cancellano. Ma al tempo stesso Obama ha spaventato una parte dei bianchi. C’è un pezzo d’America che si è sentito insicuro di fronte allo spettacolo di un nero troppo bravo, troppo competente. La vendita di armi in questo paese ha toccato un massimo storico proprio durante la presidenza Obama». A non perdere di vista il cammino percorso, e l’importanza di King, mi aiuta un suo omonimo che ne seguiva le prediche nella chiesa di Atlanta, un ex soldato della U.S. Army (oggi ultranovantenne) che fece in tempo a servire la patria nell’ultimo scorcio della seconda guerra mondiale. «Sì, porto un cognome identico ma non sono un parente – mi dice Howard O. King – e io ad Atlanta ci arrivai adulto, ero nato in Florida. Quello che il reverendo riuscì a fare fu rivoluzionario. Ancora negli anni Sessanta in una parte degli Stati Uniti la discriminazione contro di noi era legale. Quel giovane sacerdote nero fu capo di un movimento che cambiò le leggi della nostra terra. Ha influenzato tutta la mia vita. Ero un reduce di guerra, ero stato di stanza nel Pacifico, a un’epoca in cui noi eravamo esseri umani di serie B anche sotto le armi. Ci avevano mandato a combattere per la difesa di valori,

diritti umani, libertà, che a casa nostra non ci erano concessi. Quando mi trasferii a vivere ad Atlanta nel 1965 c’erano ancora delle barriere, fisiche e legali, che c’impedivano l’accesso a certi luoghi pubblici. Tutto questo appartiene al passato, e il suo ruolo è stato essenziale per voltare pagina». La tappa seguente è il Morehouse College, l’università dove King si era laureato. Un’istituzione speciale, della categoria che viene definita Historically Black University: ateneo per neri. Fondato nel 1867 a un’epoca in cui Harvard, Yale e quasi tutte le università a loro erano sbarrate. Alla direttrice della Biblioteca King custodita nel college, Vicki Crawford, chiedo qual è secondo lei l’eredità più importante che ci ha lasciato. «Il suo discorso più attuale – risponde la Crawford – è quello sui tre grandi mali da debellare: guerra, razzismo, povertà. Lui non si occupò solo dei neri d’America, ma di ingiustizie planetarie. Guidò la protesta contro la guerra del Vietnam». La fine delle leggi razziali, la de-segregazione, è un passaggio di civiltà, certo. Lo firma il presidente Lyndon Johnson col Civil Rights Act del 1964. Ma obietto: a Manhattan dove io vivo, in una città che si definisce progressista e ha votato al 70% contro Trump, i figli dei ricchi frequentano costosissime scuole private dove sono quasi tutti bianchi, mentre certe scuole pubbliche sono «di fatto» per i bambini di colore. «La sua battaglia – mi dice la Crawford – non è mai conclusa, tanti dei problemi che denunciava King rimangono, la segregazione ha una dimensione economica. Assistiamo anche a tentativi di indebolire il diritto di voto, soprattutto al Sud, moltiplicando gli ostacoli per i neri. E poi c’è la crociata contro gli immigrati. Ma io che ho compiuto 59 anni, quando parlo coi giovani cerco di non perdere di vista il cammino percorso. Atlanta oggi è una città molto più multietnica di quando ero bambina. La violenza degli anni Sessanta era tremenda, e non solo in America. Ricordo che quando andò a ricevere il Nobel per la pace nel 1964, King fece tappa a Londra per una

manifestazione contro l’apartheid in Sudafrica, una delle vergogne di quel tempo». Cinquant’anni dopo abbiamo un’immagine troppo edulcorata di King. Uno studente del Morehouse College, Ryan Russell, ne è convinto: «Ormai la sua storia viene insegnata anche al liceo. Ma è la versione annacquata, del santino che va bene a tutti. Ci siamo dimenticati che alla vigilia dell’assassinio il reverendo per le sue campagne contro la guerra del Vietnam e contro la povertà era l’uomo più odiato d’America. In quanto ai miei coetanei, agli afroamericani della mia generazione, mi chiedo se sarebbero pronti a riscoprire i messaggi più scomodi di King. Come la sua battaglia contro il consumismo, contro il materialismo». Il successo delle manifestazioni contro le armi, ottocento in tutte le città americane, è merito dei giovani. È la prima volta che loro prendono la testa di questa battaglia, e il risultato è impressionante. La scia delle sparatorie e delle stragi è antica, il primo massacro «scolastico» a entrare negli annali fu Columbine, ormai quasi vent’anni fa. Tentativi di reagire sul fronte legislativo ce ne sono stati tanti, regolarmente sventati dalla resistenza della lobby delle armi. Alla fine era proprio la temibile National Rifle Association a prevalere per tenacia e perseveranza: passata l’emozione, il lutto e il dolore, ogni volta i veti degli armaioli avevano la meglio. Il segreto della lobby armata è quello che sembrano aver capito finalmente i giovani: bisogna durare, e bisogna pesare alle urne. Nei volti e nei discorsi degli adolescenti che hanno preso la parola il 24 marzo in tutte le piazze degli Stati Uniti, c’era la convinzione che questo deve essere un movimento politico, e un riferimento costante alle elezioni legislative di mid-term a novembre. Noi non votiamo ancora – hanno ripetuto molti di questi giovani – ma vigileremo sul voto degli adulti intorno a noi. Il libro di King che ci interpella tuttora ha questo titolo: «Dove andiamo da qui: il Caos o la Comunità?»


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Politica e Economia

Rio Far West

Brasile Dalla politica che trasferisce la gestione dell’ordine pubblico alla polizia militare che semina morti

nel corso dei suoi blitz, all’omicidio della nota attivista Marielle Franco. Scene che non si vedevano dai tempi della dittatura

Angela Nocioni La notizia è la reazione della gente. Un’ondata insolita di riprovazione in un Paese apparentemente narcotizzato. Cinquantamila persone hanno occupato le strade del centro di Rio de Janeiro, altrettante sono scese a protestare a San Paolo, Recife, Porto Alegre, Brasilia, Salvador, Belo Horizonte, Recife, Natal, Fortaleza, Belem, Curitiba. E nuove mobilitazioni sono state convocate per i prossimi giorni. Qualcosa, nell’omicidio di Marielle Franco, ha passato il limite dell’abitudine collettiva alla violenza se il popolo brasiliano ha reagito con rabbia all’omicidio di questa donna nera, trentottenne, femminista, bisessuale, giustiziata con una scarica di colpi alla testa sparati da un’auto al semaforo in una strada trafficata di Rio de Janeiro poco dopo le nove di sera, durante la partita di calcio del Flamengo per la coppa Libertadores. Era molto conosciuta e molto amata Marielle Franco. Nota a tutti per l’impegno, coraggioso, contro la violenza della polizia nei confronti della gente delle favelas. Aveva preso 46.000 preferenze due anni fa come consigliera comunale candidata dal Psol, un partitino alla sinistra del Partito dei lavoratori. Stava denunciando, con molto ascolto in rete, la violenza aumentata e il terrore cresciuto dopo la militarizzazione di Rio, voluta del presidente della repubblica Michel Temer. Rio è da un mese anche formalmente ormai in mano ai militari. Con una decisione inedita Temer ha spedito un militare a commissariare il governo dello Stato di Rio (il Brasile ha una struttura federale) dandogli il comando di tutte le polizie e completa libertà di spesa. Dalla fine della dittatura non era mai successo che l’ordine pubblico fosse interamente messo in mano ai militari. Marielle è stata tolta di mezzo da qualcuno che l’ha seguita dopo l’uscita da un dibattito pubblico nel centro di Rio, quartiere Lapa, su un argomento a lei molto caro: la violenza contro le donne nelle zone socialmente più esposte. L’hanno pedinata, sapevano che dentro quell’auto dai finestrini oscurati c’era lei, nel sedile posteriore, seduta accanto alla sua consigliera, rimasta miracolosamente illesa. Ucciso anche l’autista, Anderson Pedro Gomes. Sospettata d’essere coinvolta nell’omicidio è la polizia militare (pm). Tanto che non c’erano agenti della pm per strada a sorvegliare le manifestazioni a Rio, per evitare la provocazione. Marielle aveva più volte accusato il quaratunesimo battaglione della polizia militare di Rio de Janeiro di operare come squadrone della morte nelle favelas carioca. Il giorno prima di essere uccisa, riferendosi all’omicidio di un ragazzo, Matheus Melo, aveva scritto sul suo profilo Twitter: «Ancora un omicidio che potrebbe entrare nel conto di quelli compiuti dalla polizia militare. Matheus Melo stava uscendo dalla chiesa. Quanti altri devono morire prima che finisca questa guerra?». Sono stati trovati nove bossoli vicino al suo cadavere. I proiettili usati proverrebbero da un lotto venduto dall’azienda CBC alla polizia federale

Azione

Settimanale edito da Migros Ticino Fondato nel 1938 Redazione Peter Schiesser (redattore responsabile), Barbara Manzoni, Manuela Mazzi, Monica Puffi Poma, Simona Sala, Alessandro Zanoli, Ivan Leoni

Reparti della polizia militare nelle strade della favela Vila Kennedy di Rio. (AFP)

di Brasilia nel 2006. Lo rivela una fonte della polizia di Rio, citata dalla Tv Globo. La fonte rivela anche che la targa di almeno uno dei veicoli usati dai killer è clonata.

Gli abitanti delle favelas denunciano di subire dalle Upp le stesse violenze esercitate per decenni dai vecchi militari Nei giorni prima di essere uccisa, Marielle Franco aveva denunciato oltre all’assassinio di Matheus Melo Castro, 23 anni, ammazzato il 12 marzo, quelli di Eduardo Ferreira, 39 anni, e Reginaldo Santos i cui cadaveri sono stati buttati tra la vegetazione ai confini della favela Acari. Aveva scritto Marielle in Facebook: «È necessario gridare perché tutti sappiano cosa sta succedendo ad Acari. Questa settimana due giovani sono stati uccisi e i loro corpi gettati in un burrone. Oggi la polizia è andata nelle strada a spaventare gli abitanti lì intorno. Succede sempre e con l’intervento dei militari a Rio a situazione è ancora peggiore. Condividi quest’immagine!». Molti amici di Marielle sostengono che quel messaggio sia stato la sua condanna a morte. «Quei proiettili sono una vendetta contro di lei e una Sede Via Pretorio 11 CH-6900 Lugano (TI) Tel 091 922 77 40 fax 091 923 18 89 info@azione.ch www.azione.ch La corrispondenza va indirizzata impersonalmente a «Azione» CP 6315, CH-6901 Lugano oppure alle singole redazioni

minaccia precisa a tutti, vogliono dire: non toccate la polizia» dicono i suoi amici. La morte di Marielle potrebbe segnare l’ora della rivolta dei «favelados». Successe anni fa al Pavonzinho, la favela più piccola del centro di Rio. Panoramicissima baraccopoli con vista sulla baia di Copacabana, il Pavonzinho era considerata la vetrina della Unità di pacificazione di polizia, il piano del governo del partito dei lavoratori in vigore dal 2008 per portare polizia con formazione specifica a lavorare nelle favelas. La ragionevole missione delle Upp non è eliminare il traffico di droga, ma sottrarre il controllo del territorio ai narcos. Nella logica del progetto la presenza stabile in favela della polizia pacificatrice, fatta di agenti giovani della polizia militare con una preparazione non solo militare, dovrebbe rappresentare la presenza dello Stato. In un secondo momento, sempre in teoria, agli agenti dovrebbero essere affiancati medici, infermieri, insegnanti, assistenti sociali. Si tratta della fase due, celebrata forse con troppo anticipo in Brasile e all’estero, della tanto sbandierata «Upp social» che dovrebbe recuperare allo Stato le favelas portandoci dentro ospedali, scuole, campi sportivi. E che è rimasta però una sigla misteriosa nella maggior parte delle baraccopoli occupate. Tanto sembrava funzionare bene invece al Pavonzinho il piano di pacificazione, che ormai capitava spesso di vedere anche turisti inerpicarsi su per

le strade della favela «pacificata» per una birra. La morte di Douglas Rafael da Silva Pereira, 26 anni, molto conosciuto nella comunità, scatenò invece anni fa la rivolta che arrivò a lambire il lungomare dei grandi alberghi sull’Avenida Atlantica. La famiglia del ragazzo ucciso e testimoni assicuravano fosse stato ammazzato, dopo essere stato torturato, dalla polizia militare, che avrebbe tentato goffamente di disfarsi del cadavere. Difficile da sostenere la tesi della «pallottola vagante», difesa dalla polizia, visti i fori dei proiettili sparati a bruciapelo e i segni evidenti di violenze sul corpo del ragazzo. Quella volta il clima da pre-insurrezione durò meno di una settimana. Stavolta la situazione è ancora più tesa. Il coinvolgimento della polizia militare è dato per scontato da troppa gente perché non ci sia il rischio di una reazione. La politica di sicurezza di Rio è in scacco. Il piano per occupare le favelas controllate dai narcos con la presenza stabile delle Upp ha rivelato fragilità inattese. Gli abitanti delle favelas, che sembravano inizialmente aver accolto con favore la presenza della nuova polizia, denunciano di subire dalle Upp le stesse violenze esercitate per decenni dai vecchi militari. Questa è l’aria che si respira anche al Complesso della Maré, un territorio conteso da tre gruppi di narcotrafficanti in guerra tra loro, dal quale Marielle Franco viene. Quella è la sua gente. Lì lei è cresciuta e ha sempre lavorato. Il

sobborgo, un tempo culla del Comando Vermelho, la più vecchia organizzazione di narcos carioca, occupa lo spazio stretto tra le due principali arterie che collegano Rio all’aeroporto internazionale Galeao: la Avenida Brasil e la Linea Vermelha. È impossibile nascondere la Maré. Chiunque arrivi a Rio dall’aeroporto deve passarle a fianco. Vede i muri scrostati della favela prima di scorgere la statua del Cristo redentore, prima di arrivare al mare. Alla Maré l’ex presidente Dilma Rousseff, di appartenenze politiche opposte a quelle dell’attuale presidente Temer (che è stato suo vice ed è riuscito a scalzarla dal potere con un abile stratagemma culminato in un impeachment) ha spedito prima dei Mondiali di calcio le truppe federali. Prima ancora dell’esercito alla Maré è entrato il Bope, il Battaglione delle operazioni speciali della polizia militare, realisticamente raccontato dal film Tropa d’elite che nel 2007 vinse l’Orso d’oro a Berlino. Non ci vanno leggeri quelli del Bope, appena entrati in una sola giornata di intervento alla Maré hanno lasciato a terra dieci cadaveri. Nessuno si è mai dato la pena di verificare se gli uccisi fossero davvero dieci pericolosi trafficanti. In questi giorni, subito dopo l’omicidio di Marielle e Anderson, le sparatorie sono aumentate. Non solo in favela, anche nell’affollatissimo centro cittadino. Solo il 19 marzo, ci sono stati otto morti in ventiquattro ore.

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 3 aprile 2018 • N. 14

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Politica e Economia

La deriva di Roma verso Visegrad

Azione

Italia Il V4 potrebbe diventare un V5

raddoppiando il suo peso e opponendosi all’asse franco tedesco, attuale motore dell’Ue

Evocato dalla scelta degli elettori italiani, un nuovo spettro s’aggira per l’Europa. Un eventuale governo formato dai due vincitori, il grillino Luigi Di Maio e il leghista Matteo Salvini, potrebbe imprimere una brusca accelerazione alla contro-Europa sovranista, oscillante fra i decisionismi contrapposti del russo Vladimir Putin e dell’americano Donald Trump, animatrice del modello di un’Unione Europea rinchiusa in se stessa, che sbarra le frontiere ai flussi migratori, che punta alla revisione dei trattati e all’allentamento delle normative e dei vincoli di bilancio. Si verifica una delle tante bizzarrie della storia: proprio il Paese che vide nascere fra gli esuli antifascisti di Ventotene il sogno degli Stati Uniti d’Europa volterebbe le spalle al progetto federalista ripiegando su un’Unione di basso profilo, ridotta a semplice concerto di governi gelosi delle antiche prerogative, non più disposti a cedere sovranità alle istituzioni comuni. Il Gruppo di Visegrad, oggi denominato con la sigla V4, diventerebbe un V5 e raddoppiando il suo peso demografico opporrebbe all’asse franco-tedesco, attuale motore dell’Unione, un blocco di 125 milioni di europei. D’ora in avanti Roma, dichiara Giorgia Meloni alleata della Lega con i suoi Fratelli d’Italia, guiderà il fronte sovranista. Non a caso nei giorni della campagna elettorale andò in devoto pellegrinaggio a Budapest (nella foto), dove il governo di Viktor Orban ha collocato l’Ungheria in primissima fila nell’avversione alle politiche di Bruxelles, a cominciare dall’accoglienza e dalla ricollocazione dei migranti. Posizione condivisa dagli altri componenti del V4, Polonia, Cechia e Slovacchia: ed è abbastanza paradossale che a questo gruppo si avvicini l’Italia, visto che proprio in Italia si trova la maggior parte dei migranti che si dovrebbero ridistribuire negli altri paesi dell’Unione, e dunque se non si ridistribuiscono restano dove sono. Salvini ha promesso che una volta insediato al governo ne espellerà seicentomila e bloccherà gli sbarchi: ma è molto più facile dirlo che farlo. La deriva di Roma verso Visegrad distaccherebbe il terzo grande dal nucleo trainante dell’Unione. Ancora qualche settimana fa uno scontro diplomatico ha opposto il governo Gentiloni e il V4. Il gruppo aveva offerto un contributo di 35 milioni di euro per contenere le migrazioni, ma al tempo stesso aveva ribadito la sua posizione: l’Italia chiuda i suoi porti all’«invasione» e quanto alle ricollocazioni non se ne parla nemmeno. In pratica si chiede che l’Italia e gli altri paesi di primo approdo, come la Spagna e la Grecia, se la sbrighino con l’aiuto finanziario europeo ma senza condividere il carico della massa di migranti presente sui loro territori. Gentiloni aveva risposto che non accettava lezioni da Visegrad, una replica definita «arrogante» nelle quattro capitali. Ora il governo scaturito dal voto del 4 marzo potrebbe annullare la di-

stanza fra Roma da una parte, Varsavia, Budapest, Praga e Bratislava dall’altra. Parallelamente il cambio della guardia a Palazzo Chigi potrebbe scavare un fossato fra Roma e Bruxelles, fra Roma e l’asse Berlino-Parigi. Se si farà un governo Cinquestelle-Centrodestra, o Cinquestelle-Lega come vorrebbero i grillini che escludono la partecipazione della berlusconiana Forza Italia e vogliono trattare solo con Salvini, potrebbero verificarsi altri squilibri nell’approccio dell’Unione ai temi internazionali. Nei giorni scorsi il governo italiano ha partecipato all’iniziativa dei paesi occidentali contro la Russia in seguito al caso della spia avvelenata in Gran Bretagna dai servizi segreti del Cremlino. Ma l’espulsione di due diplomatici russi decisa dal governo di Roma è stata immediatamente condannata dal capo della Lega. Salvini ha rivolto a Gentiloni una doppia critica: la misura è sbagliata, e in ogni caso un governo dimissionario e prossimo alla scadenza non aveva l’autorità per adottarla. Il primo rilievo attiene alla visione di politica estera, vicina alle posizioni di Putin e dunque avversa a sanzioni e rappresaglie anti-russe, mentre il secondo s’innesta sulle schermaglie post-elettorali in vista della formazione del nuovo esecutivo. In questo caso il putinismo latente nelle forze anti-sistema d’Europa ha avuto la meglio sull’altra pulsione tipica di questi movimenti: quella che vede nel presidente Trump un campione del contrasto alla sfida migratoria e della difesa degli interessi nazionali. Anche qui si sfiora la contraddizione, visto che questa difesa si esercita attraverso politiche protezionistiche che danneggiano tutti i partner commerciali. È un dato di fatto: chi alza barriere finisce inevitabilmente con l’isolarsi anche da chi gli è ideologicamente vicino, mentre chi sfida la globalizzazione rischia di regredire sconfitto dal mercato. La pratica gestione della cosa pubblica costringe spesso a ridimensionare le pretese che hanno favorito la scalata al potere: per esempio i vincitori delle elezioni italiane sembrano avere accantonato il proposito di sottoporre a referendum la permanenza nella zona euro. Gli slogan urlati in campagna elettorale devono fare i conti non solo con la limitata disponibilità di risorse ma anche, quando nessuno ha la maggioranza, con la necessità di concordare programmi diversi. Uniti dal furore anti-europeo, leghisti e grillini hanno propositi difficilmente cumulabili in materia di politica fiscale e sociale. Mentre i primi accarezzano, con il resto del Centrodestra, l’idea di una flat tax a quota unificata per dare slancio all’economia imprenditoriale, i secondi propongono il reddito di cittadinanza, una retribuzione minima indipendente dall’occupazione. Evidenti le radici geografiche di queste scelte: i leghisti pensano al Nord produttivo, i grillini al Sud della disoccupazione di massa. È quanto meno problematico appaiare i due costosissimi provvedimenti, sia pure violando i vincoli di bilancio concordati in sede di Unione europea. Intanto Di Maio e Salvini rischiano di far saltare il tavolo bisticciando sul veto grillino a Berlusconi e su chi di loro sarà presidente del consiglio: se non superano queste divergenze sarà necessario, stante l’indisponibilità della terza forza, il Partito democratico che dopo la sconfitta ha scelto l’opposizione, richiamare gli italiani al voto. I due vincitori devono farsene una ragione: gli elettori li hanno premiati ma senza consegnare lo scettro a uno dei due. Cercheranno di mettersi d’accordo e non sarà affatto facile, mentre l’Europa è in ansiosa attesa degli eventi.

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Politica e Economia

Anno decisivo per il PBD Barometro elettorale Mai del tutto uscito dall’ombra di Eveline Widmer-Schlump, il Partito borghese democratico

è in calo di consensi. Il risultato di Berna lascia ben sperare, ma il banco di prova saranno le elezioni grigionesi

Marzio Rigonalli Dieci anni or sono, a Glarona, nella biblioteca cantonale, venne creato il Partito Borghese Democratico (PBD). Il nuovo partito sorse dalle peripezie interne dell’UDC, dopo la mancata rielezione in Consiglio federale di Christoph Blocher, la nomina al suo posto di Eveline Widmer-Schlumpf, e l’esclusione dal partito della sezione grigionese. La nuova formazione fu subito vista come la versione moderata e ragionevole dell’UDC. Ottenne un’accoglienza favorevole in una parte significativa dell’opinione pubblica, un po’ per la novità che costituiva, un po’ per la forte personalità della nuova consigliera federale, e alle elezioni federali del 2011 ottenne un risultato più che incoraggiante. La primavera del nuovo partito non durò, però, molto tempo. La prima grossa delusione arrivò già nel 2014, alle elezioni cantonali bernesi. Il PBD perse ben 11 seggi in Gran consiglio, scendendo da 25 a 14 deputati, e lasciò sul campo il 5% dei voti che aveva ottenuto quattro anni prima. La delusione venne accentuata dal fatto che il canton Berna era ed è uno dei pochi cantoni dove il PBD può vantare una buona presenza. Nel 2015, alle elezioni federali, i borghesi democratici vissero una seconda delusione. Scesero dal 5,4% al 4,1% e persero 2 dei 10 mandati parlamentari che detenevano. Infine, nelle quindici elezioni cantonali che si svolsero fra le ultime elezioni federali ed oggi, il PBD è rimasto alle prese con una tendenza negativa, per lo meno a livello legislativo. Nei 15 parlamenti cantonali interessati ha perso in tutto 9 seggi e la sua percentuale di voti è scesa dell’1,2%. La lenta e progressiva erosione di consensi pone vari interrogativi sul futuro di questo partito ed eventualmente sulle strategie che converrebbe applicare per garantirne la sopravvi-

venza. In questa disamina, si rivelano importanti i risultati degli appuntamenti elettorali che quest’anno caratterizzano tre cantoni: Glarona, Berna e Grigioni. Sono i cantoni dove il PBD è presente sia nel potere esecutivo che in quello legislativo. Da questi tre cantoni provengono 51 dei 66 seggi che i borghesi democratici detengono nei Gran consigli, i 4 loro rappresentanti eletti nei governi cantonali e 6 degli 8 mandati che il partito ha conquistato alle Camere federali alle ultime elezioni. Nel canton Glarona, l’elezione del nuovo governo è già avvenuta lo scorso 4 marzo. Il PBD è riuscito a difendere il seggio che occupava nell’esecutivo ed a far eleggere il suo rappresentante Kaspar Becker, al posto del dimissionario Robert Marti. I borghesi democratici hanno così respinto il tentativo del partito socialista di conquistare il seggio vacante per poter far parte di nuovo del governo. La vittoria è equivalsa ad un grande sollievo per i dirigenti del partito, ma dovrà ancora essere confermata il prossimo 10 giugno, quando gli elettori del canton Glarona eleggeranno il loro Gran consiglio. Un sollievo analogo i dirigenti del PBD l’hanno vissuto lo scorso 25 marzo, quando sono stati resi noti i risultati delle elezioni nel canton Berna. La loro rappresentante, Beatrice Simon, responsabile delle finanze, è stata confermata in governo ed ha anche ottenuto il miglior risultato fra i 7 eletti nell’esecutivo. Nel Gran Consiglio, il partito non ha guadagnato nessun seggio, ma è riuscito a difendere la sua posizione, con 13 eletti su 160, nonché a garantirsi un ruolo importante nella futura formazione delle maggioranze. Senza i suoi voti, la destra formata dall’UDC, che è il primo partito con 46 eletti, e dal PLR, non riuscirà a far approvare i suoi progetti ed i suoi disegni di legge.

Il PBD ha superato la prova elettorale di Berna: Beatrice Simon, terza da destra fra gli altri consiglieri di Stato, è stata rieletta in Governo. (Keystone)

Nel canton Grigioni, infine, l’elezione del governo e del parlamento avverrà il 10 giugno. La prova da superare nel cantone trilingue s’annuncia difficile per almeno due ragioni. Innanzitutto, perché il PBD detiene due seggi nell’esecutivo, uno dei quali dovrà essere riconquistato con un nuovo candidato. La signora Barbara Janom Steiner, responsabile delle finanze e dei comuni, eletta nel 2008 al posto di Eveline Widmer-Schlumpf, non può sollecitare un nuovo mandato perché la rielezione è consentita soltanto due volte. Il suo seggio è vacante, stimola molte ambizioni e sarà molto combattuto. In secondo luogo, perché l’UDC cantonale, uscita male dalla guerra fratricida del 2008, negli ultimi anni ha riconquistato numerosi consensi ed i pronostici le attribuiscono un buon risultato elettorale. A breve termine, l’esito elettorale nei tre cantoni citati è dunque fondamentale per il PBD. Un risultato com-

plessivo soddisfacente potrebbe far tacere i campanelli d’allarme, almeno fino alla prossima tornata elettorale. Un risultato con perdite significative nei due appuntamenti di Glarona e Grigioni del 10 giugno, potrebbe avere ulteriori conseguenze destabilizzanti. A medio e lungo termine, però, il PBD non può sottrarsi ai grossi problemi che lo caratterizzano e che sono essenzialmente tre. In primo luogo l’assenza di forti personalità al suo interno. Nei suoi primi anni di vita, il PBD è stato trainato dalla consigliera federale Widmer-Schlumpf. La sua presenza offriva al partito spazio, simpatie ed attenzione. Il vuoto che ha lasciato dopo la sua partenza dal Consiglio federale non è stato colmato da nessuno, neanche in parte. In secondo luogo, l’incapacità di essere presente su tutto il territorio nazionale. I ripetuti tentativi di espandersi ovunque non hanno avuto successo, in particolare in Romandia, dove l’assenza

è completa e dove il partito non può contare neanche su un unico eletto. Di conseguenza, la mancata copertura nazionale costringe il PBD a svolgere un ruolo di secondo piano. Infine, la mancanza di un profilo facilmente riconoscibile, che consenta agli elettori di identificarlo con determinati temi e problemi importanti. Il PBD sostiene di essere una forza progressista di centro, ma è ben difficile individuare un tema sul quale lo si ritrova particolarmente attivo ed incisivo. Queste caratteristiche lasciano la porta aperta ad alcuni possibili sbocchi, ma che non saranno immediati. Il PBD potrebbe scomparire. È già successo ad altre formazioni politiche, come per esempio all’«Anello degli indipendenti» (AdI), il movimento creato dal fondatore della Migros, Gottlieb Duttweiler. Questo movimento, diventato poi partito, fu molto attivo nella seconda metà del secolo scorso, ma dopo oltre mezzo secolo di vita abdicò e nel 1999 si sciolse. La determinazione a battersi che i dirigenti del PBD dimostrano non sembra, però, favorire questo sbocco. Un’altra ipotesi potrebbe essere la fusione con un altro partito, per esempio con i Verdi liberali, che difendono posizioni molto simili, o con il PPD, che continua a perdere terreno un po’ ovunque e che si ritrova molto indebolito. Un tentativo in questa direzione è già stato fatto alcuni anni or sono, proprio con il PPD, ma non ebbe alcun successo. Resta l’ipotesi di una sopravvivenza con le forze attuali, ad un livello inferiore, un po’ come avviene con il Partito evangelico svizzero (PEV). Fondato nel 1917, il PEV ha oggi due seggi in Consiglio nazionale e negli ultimi decenni, alle elezioni federali, ha sempre ottenuto una percentuale tra il 2 ed il 3 per cento. Quest’ultima ipotesi, se non arriveranno una nuova primavera o altre importanti novità, rimane forse la più probabile.

L’amletico dubbio: imposte dirette o indirette? Analisi Cambiano le epoche, ma il dibattito sulla tipologia più «giusta» di tassazione rimane attuale.

E altrettanto controverso Edoardo Beretta Non c’è dubbio che il ruolo degli Stati, da intendersi nella loro accezione più ampia di «amministrazione pubblica», sia notevolmente cresciuto, mutando rispetto alle forme più remote. Si pensi soltanto a quanto lontano possa ormai

apparire un modello statale secondo il principio di «L’État, c’est moi!», dove era il sovrano (in questo caso, Luigi XIV) il fulcro del fabbisogno regolare, se non crescente, di finanziamento. Oltre a competenze nuove e dimensioni inimmaginabili, il settore pubblico è divenuto in tutte le Nazioni sempre più

Ricavi da tassazione (in % sul PIL)

PR: Proprietà / RI: Reddito individuale / PS: Profitti societari / BS: Beni/servizi Elaborazione propria sulla base di: https://data.oecd.org/ (Edoardo Beretta)

articolato fra i livelli di Governo territoriale. L’iperinterventismo statale, a cui la Grande Recessione e prima ancora la crisi economico-finanziaria globale ci hanno abituati, non è però frutto delle teorie economiche keynesiane (scomodate solo selettivamente): esso è piuttosto il risultato del carattere tentacolare (conseguenza dell’ampliamento dei sistemi di welfare) ormai presente in tutte le società post-moderne. La garanzia di molti beni e servizi, ritenuti imprescindibili per i propri abitanti, ha da un lato attribuito all’ambito pubblico un rilievo inusitato, dall’altro lo ha inevitabilmente sovraesposto finanziariamente. Con ciò non si intende propugnare che lo Stato debba ritirarsi dalla tutela del bene comune e/o non compartecipare più alla fornitura di prestazioni essenziali (difficilmente compatibili con limitate risorse individuali) quali cure sanitarie, previdenza, istruzione o investimenti infrastrutturali. È altrettanto vero, però, che troppe mansioni nuociono al settore pubblico, che è divenuto in certe regioni d’Europa «datore di lavoro di ultima istanza» (employer of last resort), cioè fornitore sostitutivo d’impiego laddove l’economia locale sia difficile da vitalizzare. La pressione continua, a cui i Governi sono notoriamente sottoposti a fronte di scadenze elettorali, costituisce poi un

incentivo (da non sottovalutarsi) per attribuire all’una o altra categoria sociale incentivi che saranno poi le generazioni successive a sopportare fattivamente per costi e sostenibilità. Uno sguardo ai dati statistici è sufficiente: ad esempio, la tassazione della proprietà è divenuta strumento assai rilevante in Nazioni legate «al mattone» quali l’Italia, con effetti nefasti, se combinati ad un mercato immobiliare provato dalla crisi. Anche l’imposizione del reddito individuale ha subito incrementi «trasversali» fra Paesi (minori nel caso di beni e servizi) che si pongono in forte contrasto con la stazionarietà, se non la diminuzione, del gettito relativo ai profitti societari. Si potrebbe a questo punto pensare che deregolamentazione e/o liberalizzazione di molti servizi sia la «chiave di volta» per ovviare a uno strapotere statale e al deterioramento delle finanze pubbliche. In realtà, è ironia della sorte che l’assenza di diffusi controlli (oltreché efficaci) prima della crisi abbia poi comportato spese ancor più elevate per i Governi chiamati a salvare attori economici considerati «sistemici»: si pensi, ad esempio, al caso dell’Irlanda, dove nel 2004 il rapporto debito pubblico versus PIL era pari al 28,2% e nel 2013 (fra salvataggi bancari vari) era salito al 119,5% per poi ritornare nel 2015 a «quota» 78,6%.

Quale soluzione perseguire, pertanto, per evitare che − una volta «davvero» esaurite le risorse disponibili − i successivi tagli alle prestazioni da erogarsi divengano «lineari», cioè coinvolgano tutti indiscriminatamente? Gli Stati dovrebbero comprendere che non tutti gli interventi sono necessari, ancor meno quelli legati a scelte autonome e libere degli attori economici. La direzione di massima, con tutte le doverose eccezioni del caso), dovrebbe essere che «chi sceglie paga». Allo stesso modo, i sussidi (seppur, talvolta, necessari) non possono essere considerati una soluzione durevole e soddisfacente in quanto si limitano a trasferire risorse e non a crearne. Se è lapalissiano che quest’ultimo obiettivo sia spesso di difficile realizzazione, è la stessa sostenibilità delle finanze pubbliche ad imporci di ridimensionare la logica del «palliativo» (se non «placebo»), che per ragioni elettorali appare ancora attrattiva, per imboccarne una più a lungo termine − benché consapevoli della nonimmediatezza dei risultati. La smania di riconferma elettorale vi pone, però, un ostacolo significativo, sebbene resti da sperare che si possa trovare un Cincinnato «moderno», che dopo avere prestato la sua opera al Paese si ritiri a vita privata.


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Politica e Economia

Non c’è da preoccuparsi, nonostante l’aumento dei tassi La consulenza della Banca Migros

Irina Martìn

L’aumento dei tassi a lungo termine I rendimenti dei titoli di stato svizzeri (in base alla scadenza) e il Libor a tre mesi* L’aumento dei tassi a lungo termine I rendimenti dei titoli di stato svizzeri (in base alla scadenza) e il Libor a tre mesi*

3%

2%

0%

30 anni

no anche nei prossimi mesi, in quanto la politica monetaria mondiale diventerà più restrittiva e le attese di inflazione continueranno a salire. Una crescita dei tassi è dunque prevedibile. Per il momento gli investitori non se ne devono comunque preoccu-

10 anni

5 anni

2018

2017

2016

2015

2014

2013

2012

2011

-1 %

*3 mesi

pare dato che risulterà moderata. Per non minare la stabilità finanziaria, le banche centrali eviteranno di procedere al rialzo troppo rapidamente. La buona notizia: in attesa di un aumento dei tassi a lunga scadenza, le ipoteche fisse permettono di assicu-

Fonte: Thomson Reuters Datastream

1%

2010

Irina Martìn è economista presso la Banca Migros

Nella sua ultima valutazione della politica monetaria (15 marzo 2018), la Banca nazionale svizzera (BNS) ha mantenuto il tasso di riferimento invariato. Ciò significa che in Svizzera i tassi d’interesse a breve termine rimarranno a livelli bassi. La BNS può definire solo i tassi a breve termine (il Libor). Quelli di lunga durata vengono invece determinati dalla domanda e dall’offerta sui mercati finanziari. Questi sono nettamente aumentati dall’inizio dell’anno: i rendimenti dei titoli di stato svizzeri con scadenza a dieci anni si attestano attualmente intorno allo 0,11%. Dopo diversi anni in territorio negativo, da metà gennaio i rendimenti delle obbligazioni elvetiche decennali si mantengono sopra la soglia dello zero. Anche nell’eurozona e negli Stati Uniti i tassi hanno subito un incremento, tra l’altro grazie alla situazione congiunturale positiva e alla crescita delle attese inflazionistiche. Sulla base di queste premesse, in Svizzera si è recentemente registrato anche un cospicuo aumento dei tassi per le ipoteche fisse. Questo è dovuto al fatto che l’incremento dei tassi a lungo termine comporta tendenzialmente un maggiore costo dei crediti per le banche commerciali. Prevediamo che queste tendenze perdureran-

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Politica e Economia

Ambiente e diritti umani: quanta responsabilità spetta alle aziende? Iniziativa popolare In Svizzera si sta preparando una legge molto più severa di quelle di altri paesi, che metterebbe

in difficoltà le piccole e medie aziende. Intanto, agli Stati è nata la proposta di un compromesso Ignazio Bonoli L’iniziativa popolare «Per imprese responsabili – a tutela dell’essere umano e dell’ambiente», che ha raccolto oltre 120’000 firme, è passata davanti alle commissioni dei due consigli. Quella del Consiglio degli Stati propone un controprogetto indiretto, ma quella del Consiglio Nazionale ha respinto la proposta, seguendo il suggerimento di «economiesuisse» e degli ambienti economici, che preferiscono andare in votazione popolare solo con la proposta di respingerla. Come il lettore ricorderà (vedi «Azione» del 5.12.2016), l’iniziativa è proposta da un gruppo di 80 organizzazioni della società civile e chiede di chiamare le società multinazionali con sede in Svizzera a rispondere delle attività delle loro filiali e partecipate all’estero (in rapporto con i diritti umani e l’ambiente), non solo all’estero, ma anche nel paese di domicilio. L’idea di non opporre un controprogetto all’iniziativa è condivisa da parecchi deputati della destra economica. Già il voto contrario in sede di commissione del Nazionale è stato determinato dai voti UDC e liberali radicali. Ora però il PPD ha avanzato una proposta conciliativa che potrebbe indurre al ritiro dell’iniziativa da parte

Il 10 ottobre del 2016 a Berna vengono consegnate oltre 120 mila firme. (Keystone)

dei suoi promotori. La strategia del «tutto o niente» potrebbe, infatti, portare a risultati sorprendenti, come successo in passato con qualche iniziativa. Come quella sui salari degli alti dirigenti dell’economia, anche questa iniziativa gode di parecchie simpatie tra il popolo, trattandosi di un tema carico di emotività. L’esigenza di un comportamento responsabile delle imprese svizzere di fronte a problemi come quello dello sfruttamento del lavoro dei bambini o

di danni irreparabili all’ambiente, anche all’estero, è molto sentita. Personalità come il vescovo di Basilea o il sindaco della città di Berna hanno firmato l’iniziativa, mentre l’ex-consigliere agli Stati ticinese Dick Marty è co-presidente del comitato d’iniziativa. Come spesso avviene, accanto agli argomenti ideali, bisogna però tener conto di molti altri fattori. Per esempio che in Svizzera un’impresa potrebbe essere chiamata in giudizio se uno dei suoi

fornitori all’estero ha violato dei diritti umani. La responsabilità prevista va molto oltre gli standard internazionali in questo campo. In futuro, una multinazionale svizzera dovrebbe poter essere giudicata in base al diritto svizzero. E questo concerne non solo le grandi multinazionali, con un enorme reparto di servizi giuridici, ma anche piccole e medie aziende svizzere. L’iniziativa chiede invero che i tribunali svizzeri tengano conto delle necessità delle piccole e medie aziende, ma questo significa che anche a loro vengono imputate le stesse responsabilità. Considerati gli aspetti umanitari, ma anche eventuali pericoli per l’economia svizzera, su proposta del deputato di Obvaldo Karl Vögler e dello specialista di diritto societario Hans-Ueli Vogt (UDC) è stata preparata una bozza di controprogetto indiretto. Circa le responsabilità, il testo precisa che la responsabilità dell’impresa svizzera vale solo per le filiali della stessa e non per qualsiasi fornitore all’estero. Questo anche per evitare una legislazione speciale in materia. Il controprogetto verrebbe ancorato nel diritto obbligazionario. La proposta ha suscitato pareri contrastanti, ma grandi aziende come l’Ikea o la stessa Migros, o anche il gruppo romando delle imprese multinazionali, la sostengono. Tra i cam-

biamenti importanti, il controprogetto propone anche che la responsabilità si applichi a delitti gravi, contro le persone, la vita o la proprietà. Prevede inoltre l’esclusione delle imprese più piccole. Con queste regole, interessate dal provvedimento sarebbero circa 12’000 imprese in Svizzera. Se il citato gruppo romando, con 92 imprese internazionali e 35’000 dipendenti, è d’accordo con il controprogetto, nella Svizzera tedesca i pareri divergono. Per «economiesuisse», il controprogetto non è necessario e quello presentato non risolve il problema delle responsabilità. La Svizzera, con questa iniziativa, rischia ancora una volta di andare oltre gli standard internazionali. La Francia – molto vicina al tema delle responsabilità – le limita ad aziende con oltre 5’000 dipendenti. Altri paesi applicano le regole in modo molto limitato o non ne hanno. La Germania non applica sanzioni dirette, la Gran Bretagna solo al commercio di esseri umani, l’Olanda persegue il lavoro minorile, l’UE e gli Stati Uniti hanno regole particolari per prodotti minerari in regioni con conflitti. In Svizzera la legislazione in merito è già più estesa, ma è molto tecnica e a volte soggetta a finezze giuridiche di interpretazione. Il voto popolare su un simile argomento è invece molto legato ai sentimenti. Annuncio pubblicitario

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Politica e Economia Rubriche

Il Mercato e la Piazza di Angelo Rossi I patriarchi della nostra economia È certamente raro che un libro che si occupi di problemi, o persone, legati all’economia scali le classifiche dei bestseller. In queste settimane, però, nella Svizzera tedesca, è avvenuto

Lo scrittore svizzero Alex Capus.

proprio questo con il nuovo libro che lo scrittore Alex Capus ha dedicato ai patriarchi dell’economia svizzera. Alex Capus è un cinquantenne che divide il suo tempo tra Olten e Parigi. La sua specialità si può dire sia la biografia letteraria. Lo ha dimostrato in uno dei suoi primi romanzi Munzinger Pascha, che è la storia di uno svizzero che raggiunse, nell’Egitto della seconda metà dell’Ottocento, posti molto importanti nell’amministrazione di quel regno. Anche in opere successive Capus ha fatto della biografia di vari personaggi il centro dei suoi interessi letterari. In questo nuovo libro riprende la sua formula per disegnare i ritratti biografici di 11 pionieri dell’industria e della banca svizzere. Sono, nell’ordine con cui le loro storie sono presentate nel libro, Rudolf Lindt, Carl Franz Bally, Julius Maggi, Antoine le Coultre, Henri Nestlé, Johann-Jacob Leu, Fritz Hoffmann-La Roche, Charles Brown und Walter Boveri, Walter Gerber e Emil Bührle. Con il suo cioccolato fondente, Lindt rivoluzionò la pro-

duzione della cioccolata; Bally mise in piedi la maggior fabbrica di scarpe del mondo; Maggi inventò il dado che cambiò il modo di cucinare, non solo degli svizzeri. A Le Coultre si deve la precisione della nostra orologeria; Nestlé, con il suo latte in polvere, fondò un’azienda che, oggi, è probabilmente la maggiore multinazionale del mondo nel campo dell’alimentazione; Brown e Boveri (con il fattivo sostegno – questo lo aggiungiamo noi – di Agostino Nizzola) crearono l’azienda svizzera più importante nel settore dell’elettrotecnica. Anche gli ultimi due patriarchi sono stati all’origine di aziende importanti: Gerber nel ramo del formaggio e Bührle in quello dell’industria degli armamenti. Nella presentazione del suo libro Capus precisa che queste dieci storie (Brown e Boveri sono trattati assieme, come si deve) di pionieri dell’economia elvetica non sono per niente rappresentative. Al posto degli industriali e del banchiere, che figurano nel suo libro, avrebbe potuto scegliere dieci altre biografie

di rappresentanti del periodo in cui è nata e ha cominciato a svilupparsi la nostra economia, vale a dire gli anni tra il 1830 e il 1930. Come dire che in quel periodo, nella nascente economia svizzera, i patriarchi non mancavano. Quando poi si indaga sulle caratteristiche di questa popolazione, ci si accorge che, di fatto, i membri della stessa hanno quattro caratteristiche in comune. La prima è il sesso: sono tutti, senza distinzione, uomini. La seconda è il carattere: tutti questi pionieri sono veri e propri patriarchi. Nella loro azienda la fanno da padrone e non tollerano di essere contraddetti. Qualche volta la loro testardaggine li porta addirittura a mettere in pericolo il loro progetto. La terza è un’esperienza migratoria. Molti di questi capitani dell’economia sono immigrati o figli di immigrati. La quarta caratteristica che è loro comune è che sono stati in grado di spendere una vita nel perseguimento di un unico progetto, non sempre solo per scopi di guadagno. C’è chi, come Nestlé, pensava,

con il latte in polvere, di mettere a disposizione dei bambini gracili un nutrimento rinforzante o chi, come Lindt, voleva assolutamente trovare una nuova formula di fabbricazione per offrire ai consumatori un cioccolato migliore di quello che si trovava allora sul mercato. Che poi la ricerca si sia conclusa felicemente lo si deve, in molti casi, non solo alla perizia e al lavoro applicato del pioniere, ma anche… al caso. Uno aveva dimenticato di arrestare l’impastatrice durante il fine-settimana trovando così, il lunedì mattina il cioccolato fondente già fatto; l’altro voleva portare da Parigi a sua moglie un paio di stivaletti, ma, non sapendo il suo numero di scarpe, decideva di acquistarne dodici paia, il che gli accese una lampadina: perché non fabbricare scarpe nel Canton Argovia? Più di una volta, la storia delle grandi iniziative imprenditoriali è più incredibile di quella che lo scrittore potrebbe raccontare attingendo unicamente alla sua inventiva. Forse è anche per questo che il libro di Capus sta in cima alle classifiche.

simo a Trump, continua anche a far intendere di avere delle prove decisive, del materiale fotografico o video si presume, che spazzerebbe via dal nostro immaginario la cura con cui si è custodito, tanti tanti anni fa, un vestito con le prove dei rapporti sessuali presidenziali. Non si sa se queste prove esistano davvero, Avenatti fa molto il bullo sul tema (non sfidatemi), ma intanto procede come un bulldozer sulla via legale: ha chiesto presso un tribunale californiano che Trump e il suo avvocato, Michael Cohen, il più esposto su questo versante, testimonino sotto giuramento sulla relazione con Stormy Daniels, che al momento Trump nega. Trump non entra nel merito delle confessioni di Stormy per una serie di ragioni abbastanza chiare: ha una moglie, Melania, ce l’aveva anche quando i fatti sono accaduti, questi e altri che continuano a emergere, e la tensione in

casa non dev’essere poca (ci ritroviamo a controllare quante volte la first lady si fa vedere, che cosa dice, se stringe la mano al presidente, se lo ignora: dei matrimoni si capisce sempre poco, figurarsi quando ci si deve accontentare della finzione pubblica). Poi ci sono gli aspetti legali, che sono complicati ma che si stanno intrecciando, tutti insieme, nell’ultima stagione del Trump Show, che riguarda il team di avvocati della Casa Bianca. L’avvicendamento di questi giorni di avvocati più o meno credibili, simpatici, competenti non rientra soltanto nell’ormai consolidata volubilità di Trump, che cambia collaboratori come noi cambiamo la canottiera, ma anche nella questione più grande: i guai giudiziari del presidente. Finanziamenti, Russiagate, conflitti di interesse, rapporti extramatrimoniali: ci sarebbe da dar lavoro a centinaia di persone. Poi ci sono le donne, o meglio: il

rapporto di Trump con le donne. La sensibilità su questo tema è molto alta: è acuita dal #metoo e dalle sue evoluzioni (c’è chi le chiama isterie) ma era grande anche prima. Poiché la candidata rivale del presidente nel 2016 era una donna, la prima donna ad ambire alla Casa Bianca della storia americana, il «femminismo» di Trump è già stato scandagliato, e scandito da quegli episodi celebri sulle chiacchiere da spogliatoio e dall’ossessione perversa che lui ha per sua figlia Ivanka (non c’è complimento migliore per una donna, secondo Trump, della somiglianza con sua figlia, si moltiplicano le dichiarazioni: «Mi ha detto che sono come Ivanka!»). L’immagine che ne esce non è particolarmente rassicurante, come è ovvio, ma ancora una volta stiamo parlando del presidente degli Stati Uniti: ci sono le debolezze umane, ma contano soltanto quelle che hanno una rilevanza legale comprovata.

la tessitura di una rete di relazioni, mentali più che materiali. Ma diamo la parola ai promotori, una commissione di studio istituita dalle dieci municipalità: «L’Expo del futuro non è destinata a diventare un parco tematico di consumo, né un laboratorio scientifico per esperti della società. La mission di NEXPO è avviare un movimento culturale che si concentri sul futuro della Svizzera. Mira ad incoraggiare la partecipazione, promuovere interazioni visionarie tra persone e territorio, presentare idee innovative e trasmetterle in modo popolare e accattivante». Anche qui sono tre i princìpi-guida: «innovazione, partecipazione e spazio vitale». L’idea di ripensare e riprogettare la Confederazione a partire dal reticolo urbano, agendo dal basso e non calando dall’alto contenitori già pronti all’uso, non è nuovissima. L’avevano formulata negli scorsi decenni l’asso-

ciazione «Metropoli Svizzera» e ancor prima il gruppo ticinese che aveva proposto l’expo «Le nuove frontiere», da tenersi nel 1998 sui tre laghi Lemano, Bodano e Verbano nonché sul grigionese Piz Lunghin. I temi-chiave erano allora la Vita, il Sapere, la Pace e la Libertà. Non se ne fece nulla, ma intanto il gruppo aveva indicato una via e un metodo. Adesso tocca alle città, ovvero alla Svizzera urbana. Sono quegli agglomerati che negli ultimi decenni hanno attirato e metabolizzato la famiglia dei nuovi saperi e le attività del terziario, dal settore finanziario ai centri di ricerca, dalle alte scuole all’industria culturale in tutte le sue numerose articolazioni. È qui che, nel corso dei decenni, è confluita l’energia creativa della società post-industriale, favorendo la gemmazione di lavori e servizi legati alle tecnologie dell’informazione, della robotica e delle scienze

biomediche. La città come concentrato «smart», laboratorio intelligente nel campo dell’ambiente, della mobilità, dell’energia, dell’amministrazione amica dei cittadini. Rimarrà comunque da definire la relazione tra i centri urbani e le periferie, in particolare con le regioni di montagna, dato che non è scontato che la prosperità dei primi ricada automaticamente sulle seconde. Anzi, storicamente si è piuttosto avvenuto al contrario: spopolamento, spoliazione delle risorse naturali, abbandono. Inoltre, nei documenti che abbiamo consultato, non appare mai la parola «Europa». Come se tutto si esaurisse in un circuito chiuso, senza aperture verso i paesi confinanti. Ma siamo ancora allo stadio embrionale (l’avvio è previsto nel 2023); diamo tempo ai volenterosi sindaci e anche fiducia. Un paese che smettesse di riflettere cesserebbe di vivere.

Affari Esteri di Paola Peduzzi Debolezze umane comprovate Da quando c’è Stormy, Donald Trump è diventato un pochino più taciturno, non prende il megafono di Twitter per urlarci dentro qualche denuncia della caccia alle streghe che lo ossessiona, commenta ma senza andare troppo nel merito. Stormy Daniels è una attrice, regista, sceneggiatrice di film porno, bionda e prosperosa, che ha avuto un rapporto sessuale con l’allora tycoon Trump, nel 2006, e che poi avrebbe preso dei soldi per tacere sull’accaduto. Il «Wall Street Journal» ha rivelato qualche mese fa l’esistenza di questo assegno da 130 mila dollari, e da quel momento Stormy ha deciso di parlare e spiegare e definire bene i dettagli – ha anche restituito i soldi presi, dice, perché in quell’accordo c’era un errore formale (mancava la firma del diretto interessato: Trump), e perché evidentemente non sta affatto tacendo sull’accaduto. Anzi, Stormy ha fatto un’intervista lunga alla Cbs,

la settimana scorsa, in cui ha ripetuto cose che già aveva detto, i dettagli del suo incontro con Trump, appunto: lo sculacciamento con un magazine in cui in copertina c’erano i Trump, il sesso non protetto e nemmeno molto entusiasmante (ma non imposto), il futuro presidente in pigiama che guarda una trasmissione sugli squali (che lui odia e vorrebbe far scomparire dai mari di tutto il globo), le promesse di fare televisione, le telefonate successive all’unico incontro, i complimenti. Stormy ha però aggiunto un particolare che legalmente ha un rilievo decisivo: si è sentita minacciata, assieme alla figlia che allora era piccina, ha preso i soldi (pochi rispetto a quelli che avrebbe potuto negoziare o incassare vendendo la propria storia ai media) e si è molto spaventata. Il suo avvocato, Michael Avenatti, che è un animale televisivo di quelli che, paradosso assoluto, piacciono tantis-

Cantoni e spigoli di Orazio Martinetti Next Stop: NEXPO Si sa, i mega-eventi non hanno vita facile. Esposizioni nazionali, campionati mondiali, olimpiadi macinano milioni, senza che emerga una chiara contropartita, ovvero il rilancio economico della regione organizzatrice. È quindi comprensibile che la popolazione si mostri guardinga: il santo vale la candela? Alla fine chi tapperà la voragine che fatalmente si aprirà nei conti pubblici? Gli esempi, interni ed esteri, per non dire gli scandali, non mancano. Nell’opinione pubblica brucia ancora il ricordo di Expo.02, il laborioso avvicinamento, il rinvio, gli strascichi polemici, i buchi nel bilancio. Molti, al termine di quel tortuoso cammino, dissero «mai più». Mai più un simile inutile dinosauro nell’orizzonte elvetico. Eppure di tanto in tanto il sogno rinasce. Dopo Expo.02 si sono fatti avanti i cantoni nord-occidentali, con epicentro Argovia. Il progetto –

intitolato «Svizra27» – si proponeva di allestire per il 2027 una serie di manifestazioni incentrate sulla triade «uomo-lavoro-coesione». All’ideazione e al finanziamento avrebbero dovuto partecipare altri cantoni della fascia, come San Gallo, Turgovia, i due Basilea. L’iniziativa è stata tuttavia affossata già dopo i primi passi in due consultazioni popolari. Ora ci riprovano le città, i dieci comuni urbani più popolosi: Basilea, Berna, Bienne, Ginevra, Losanna, Lugano, Lucerna, San Gallo, Winterthur e Zurigo. La nuova Expo in fase di elaborazione si chiama NEXPO e assicura di non voler ripetere gli errori del passato. Promette di configurarsi dal basso e in modo decentrato, attraverso la partecipazione attiva degli abitanti, e soprattutto di mobilitare i giovani, i cittadini della Svizzera di domani. Nessun gigantismo, nessuna infrastruttura fine a se stessa, ma


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 3 aprile 2018 • N. 14

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Cultura e Spettacoli Pagare oppure no Nel suo ultimo libro Walter Siti parla del suo e del nostro rapporto con i soldi in contanti pagina 35

L’alterità va in scena Grande successo per la Compagnia Theater Hora con uno spettacolo su Bob Dylan

Primavera e fotografia Peter Keller a Lugano e Jean-Marc Yersin a Chiasso sondano modi diversi di vivere il presente

In tour con i Peter Kernel Tutto quello che avreste voluto sapere sulla band ticinese, ma non avreste mai osato chiedere

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La guerra dei corpi Mostre Mentre a fine aprile è prevista la

chiusura di Corps, La Collection de l’Art Brut presenta l’opera di Ernst Kolb

Daniele Bernardi Sordomuto, infermo e analfabeta, il figlio di una famiglia di falegnami si dedica con ostinazione al disegno. Dapprima si impegna nella rappresentazione della vita di paese – bestie, attrezzi e macchine sono i suoi soggetti –, successivamente, in seguito alla scoperta di un libro di nudi maschili, a quella di una lacerata visione della figura umana che ancora lo ossessiona: il suo nome è Josef Hofer e oggi vive presso un foyer nel comune di Ried im Innkreis, in Austria. Dopo varie vicissitudini, tra il 1936 e il 1963 Morton Bartlett, responsabile di una agenzia grafica di Boston, si impegna nella segreta costruzione di quindici bambole: per farlo si ispira ad opere di anatomia femminile e di storia del costume, impara a cucire e a modellare la creta. Ma non è tutto: assieme a vestiti e parrucche forgia più teste e arti in atteggiamenti diversi, affinché ogni fantoccio abbia differenti possibilità espressive. Frutto di molte ore di lavoro, le inquietanti bambole saranno scovate alla morte dell’artista nel suo domicilio. Internato in un ospedale psichiatrico a ventisette anni, nel 1930 Sylvain Fusco cessa di parlare; alle spalle ha un crimine passionale e l’esperienza del carcere. Dopo diverso tempo prende a tracciare graffiti sui muri del dormitorio. Inizialmente disegna enormi sessi femminili, oscuri dettagli fisici. Poi, con l’aiuto di un medico che gli procura carta e pastelli, Fusco plasma infinite masse di corpi botticelliani finché, nel 1940, muore di stenti a causa della penuria dovuta alla mobilitazione. Questi sono solo tre degli stra-

ordinari artisti che La Collection de l’Art Brut di Losanna propone fino al 29 aprile in Corps, la sua terza biennale dedicata ora, dopo Véhicules (2013) e Architectures (2015), al conturbante tema del corpo. L’esposizione, il cui allestimento è stato affidato all’attore, danzatore e regista Gustavo Giacosa, indaga molteplici aspetti dell’argomento attraverso una serie di nuclei tematici: squartamenti e ricomposizioni, corpi macchine, connessioni, metamorfosi, specchi, morte, cerchi magici e tatuaggi. L’impressionante insieme delle opere appartiene, naturalmente, agli archivi del museo che, in questa occasione, ha attinto pure alla Collection Neuve Invention. Quindi, accanto ai nomi noti dell’Art Brut (Aloïs, Carlo, Henry J. Darger, August Walla, etc.) e ad altri meno conosciuti, si possono scoprire le affascinanti creature di Marguerite Burnat-Provins, i volti diafani della misteriosa Madame Favre, le sagome tratteggiate da Rosemarie Koczÿ o i contorsionismi dei personaggi di Friedrich Schröder-Sonnenstern. E, come sempre avviene nelle sale del Château de Beaulieu, è un assedio di occhi, colori e tratti precisi ad assalire il visitatore destinato a perdersi dentro al vortice di una sconvolgente energia. Per questi artisti – che, per lo più, non si definiscono né si pensano tali – il corpo non possiede certo la docilità di cui scrisse Foucault nel suo Sorvegliare e punire. E anche quando questo, talvolta, è vissuto come un carcere, una guerra o un labirinto, la sua rappresentazione ha comunque l’evidenza di una protesta dirompente, di un grido lacerante. Opere come quelle di Robert Gie., di Katharina e di Dwight Mackintosh confermano quanto il

Giovanni Galli, Angela custode (2005), biro e matita su carta. (photo: Claudine Garcia, [AN] Collection de l’Art Brut, Lausanne)

mito borghese della cultura si riveli inconsistente di fronte alle necessità di un dire che, al di là del proprio bisogno espressivo, non conosce padroni. Contemporaneamente a Corps, dal 9 febbraio al 17 giugno La Collection de l’Art Brut presenta inoltre un allestimento monografico dedicato all’opera di Ernst Kolb (Mannheim, 1927-1993). Soprannominato «il cittadino Kolb» o «l’uomo dei sacchi plastica», dopo una formazione da panettiere e all’emergere di una grave forma diabetica, si consacra al disegno a partire dai cinquant’anni. La sua personalissima tecnica si avvale di strumenti semplici: una penna biro e i pieghevoli raccolti agli eventi culturali che frequenta con regolarità. I soggetti di Kolb sono figure an-

tropomorfe, pupazzi, personaggi bidimensionali saturi di linee e ghirigori. Sovente occupano uno spazio insufficiente alla loro stazza e sono costretti a piegarsi tra i limiti del foglio (la maggior parte delle opere è infatti di piccolo formato). Alcuni incarnano delle identità-simbolo, come il poliziotto; altri, invece, sembrano più misteriosi: li si vede sporgersi su un grande vaso o assumere atteggiamenti di non ovvia interpretazione; spesso, oggetti e strane bestiole li affiancano. Stando a quanto si legge nella pubblicazione che accompagna l’evento, nonostante l’impegno di un discreto numero di persone interessate alla conservazione dell’opera di Kolb, la città di Mannheim non ha mai dimostrato alcun interesse nei

confronti della sua produzione. Con questa mostra è la prima volta che un’istituzione museale accoglie il suo lavoro. Mentre il mondo dell’arte contemporanea, prigioniero di vecchi equivoci, pare rincorrere le logiche isteriche del mercato, ancora una volta La Collection de l’Art Brut si distingue invece col rigore delle proprie posizioni etiche ed estetiche. Dove e quando

Collection de l’Art Brut, Losanna (11, av. des Bergières). 3ème Biennale de l’Art Brut: Corps, fino al 29 aprile 2018; Ernst Kolb, fino al 17 giugno 2018. Orari del museo: ma-do 11.0018.00; lu chiuso. Info: art.brutATlausanne.ch


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Cultura e Spettacoli

Il dilemma ora è: pagare o no?

Dr Dre e Iovine: i due visionari

della carta di credito, il professor Walter Siti si occupa della gratuità

Documentari Netflix

Pubblicazioni In un’era in cui la mazzetta di soldi desta molti più sospetti

propone The Defiant Ones, sulla storia di rock e hip hop

Mariarosa Mancuso Per una cifra modica mensile, Netflix offre agli abbonati più film e più serie e più documentari di quanti lo spettatore non professionista (leggi: non pagato per farlo, né obbligato alla corvée per aggiornamento professionale) riuscirà a vederne in una vita. Per una modica cifra mensile (o anche gratis, se non vi urta la pubblicità), Spotify mette a disposizione tutta la musica che c’è – più di quanta ne possiate ascoltare, anche mentre sbrigate altre faccende. Stando così le cose, e con l’offerta di notizie che troviamo su internet, non ti sembra che il prezzo di un quotidiano – da comprare tutti i giorni, perdipiù – risulti fuori mercato? L’osservazione viene da un amico, stavamo chiacchierando di giornalismo (lettore seriale di libri e giornali, ma estraneo al mestiere). Il punto di vista aiuta a non dare le cose per scontate. Per esempio, a non valutare le offerte per quel che costano – e il giornalismo ben fatto costa assai – ma mettendosi dalla parte di chi deve spendere i suoi soldi e cerca di spenderli al meglio.

Dovrebbe essere ovvio che un’eccessiva gratuità dei servizi prima o poi chieda pegno (vedi Facebook) A questo punto scatta in automatico l’obiezione: nei giornali c’è il valore aggiunto, ci sono le fonti verificate, c’è da mettere in conto l’occhio dell’esperto. Sicuro, ma per far fronte alla confusione da troppa offerta sia Netflix che Spotify hanno già provveduto, uno con le raccomandazioni (dopo attenta profilazione degli abbonati) e l’altro con le playlist (dopo altrettanto attenta profilazione di chi usa il servizio, gratis o a pagamento). Resta la differenza di prezzo. Ma al contrario di quel che abbiamo

Simona Sala

In contanti o con la carta? (Keystone)

sperimentato finora, per la generazione cresciuta con internet il prezzo di un servizio non è garanzia di qualità. Per dire: se un’automobile usata costa poco o niente, sospettiamo l’imbroglio. Su internet no, salvo poi scandalizzarsi se Facebook vende i nostri dati. O se li lascia sfuggire, in modo che altri possano farne commercio. Capita a proposito un piccolo libro scritto da Walter Siti, appena uscito da Nottetempo. Si intitola Pagare o non pagare – così, senza il punto di domanda. Inizia con un po’ di autobiografia del professore universitario (sua la curatela dei Meridiani Mondadori dedicati all’opera completa di Pier Paolo Pasolini) diventato scrittore nel 1994 con Scuola di nudo. Un «body building roman», nella definizione dell’autore medesimo, che continuerà a parlare di soldi – e di corpi, e dei soldi che servono per comprarli – anche nei romanzi successivi. L’autobiografia del giovane professore (Walter Siti è nato nel 1947) registra il piacere di pagare, una sorta

di scalata sociale per chi proveniva da una famiglia di operai. Aveva potuto studiare, era stato ammesso alla Scuola Normale di Pisa, era salito in cattedra prima dei 40 anni – in pieno «edonismo reaganiano», ovvero gli anni Ottanta che tante nostalgie suscitano, vedere per credere l’ultimo film diretto da Steven Spielberg Ready Player One. Invece di farsi accreditare lo stipendio sul conto corrente, il neo-professore preferiva il mazzetto di banconote contate dall’impiegato allo sportello dell’università. Per poi fieramente comprarsi qualcosa che aveva adocchiato nei giorni precedenti. Ora la mazzetta di banconote desterebbe subito sospetti. Come accade negli Stati Uniti quando si paga in contanti invece di esibire il denaro di plastica. Anche i truffatori si sono organizzati di conseguenza, come dimostrano le molte email che finiscono d’ufficio nello spam. Alcune chiedono dati bancari o codici segreti, pena la chiusura del conto (magari su una banca che mai abbiamo frequentato).

Altri ripropongono su internet classici imbrogli, per esempio la grossa somma di denaro senza eredi da sbloccare. Siccome continuano ad arrivare, supponiamo che qualcuno ancora abbocca all’amico oppure all’amica che sostengono di essere rimasti senza soldi e documenti, e invocano un aiuto subito (intanto hanno disimparato l’uso delle maiuscole e dell’italiano, sarà lo choc del furto). Siamo entrati nell’economia dello scambio e del low cost – da airbnb alle linee aeree agli sconti sui libri di Amazon (per non parlare della comodità di riceverli rapidamente, e del kindle benedetto). Ma esistono i costi nascosti, come segnala il documentario di Andrea Morgan The True Cost. E qui comincia la schizofrenia: lo sappiamo, ma facciamo finta di niente. Non serve un’intelligenza superiore per capire che se paghiamo un volo quanto una cena al ristorante il personale non sarà certo strapagato. Vale lo stesso per Facebook: «Quando qualcosa è gratis, il prodotto sei tu».

I rumori degli antichi Pubblicazioni La fonosfera contemporanea e quella degli antichi. Suoni, rumori, versi e canti

degli animali nel «libro perfetto» del filologo classico Maurizio Bettini Stefano Vassere «Allora la sua voce, più potente d’ogni filtro nell’evocare gli dèi inferi, emise dapprima suoni confusi discordi e molto dissonanti dalla lingua degli uomini: vi si udivano latrati di cani e gemiti di lupi, e il lamento che emettono il trepido gufo e il notturno barbagianni, strida e ululati di fiere, sibili di serpenti». C’è un universo sonoro, una fonosfera, in cui siamo immersi ogni giorno: sono i rumori della nostra quotidianità, dei quali, ad averne la determinazione, potremmo allestire un repertorio: motori di auto, strisciare di pneumatici sul bagnato, foni e fonemi umani, rumore di telefoni e di stampanti, molto e molto altro. Manca, in questo inventario, una serie di rumori che doveva risultare molto differente dalla nostra, quella che accompagnava gli antichi: i rumori naturali cui l’uomo concedeva sicuramente maggiori dimestichezza e confidenza e le sonorità perdute dell’artigianato preindustriale: che rumore facevano un mulino, un maglio, l’officina di un maniscalco? È un libro semplicemente molto bello, questo Voci. Antropologia sonora del mondo antico di Maurizio Bettini. Ridotto a pochi e forse non abbastanza generosi termini, il punto di partenza

consiste nel rileggere i classici latini e greci e le loro descrizioni dell’universo sonoro, su tutti i canti e i versi degli animali. Le emissioni del genere animale sono, in lungo e in largo, spunti per tante strade che tengono conto di e ci immergono in una serie mirabolante di prospettive scientifiche, di citazioni, di rinvii. C’è tra l’altro una zoosemiotica, che studia e ci spiega la modulazione delle vocalità degli uccelli, che sono trasmesse per genetica e istinto ma

solo in parte: si dice che abbiano, certi uccelli, dei veri e propri dialetti, a seconda dei tempi e dei luoghi. Ma è tutto semiotico anche lo studio dei nomi stessi dei versi. L’imperatore Antonino Geta estenuava i grammatici di corte con domande sul loro nome: «le colombe minurriunt, gli orsi saeviunt, i leoni rugiunt, gli elefanti barriunt, le rane coaxant». Bettini ci fa notare che solo gli uccelli cantano e sono così avvicinabili agli uomini in questa attività «più bella che necessaria»; gli altri fanno versi e ci sono lontani (ma le balene, con il loro canto?). Apre a grazie indicibili per il lettore la lunga e attrezzata analisi della costruzione dei verbi che descrivono le emissioni animali e di come si fa a formare parole come belare, muggire, cuculare, titiare ecc. La prima idea è ovviamente l’onomatopea, con le r che ricorrono di più per alcune specie e le s per altre; ma ulteriori formazioni discendono da più complesse icone sonore, altri nomi di versi richiamano altro materiale, «come l’orso che “incrudelisce”, saevit». Ci sono nomi che raccontano storie: la civetta fa tuttomio tuttomio, è egoista e vuole tutto per sé; il merlo siciliano fa le coccole ai suoi piccoli con il suo picciridduzzu. Altri uccelli vanno gridando in giro il proprio

stesso nome; il corvo, che la mitologia ha condannato ad avere sete, riproduce lo stillicidio dell’acqua; il raglio che si leva dall’asino è sgradevole, potente e misterioso. Questo è un libro-mondo; basti dire che il testo finisce dopo duecento pagine ma poi ce ne sono altre cento di note e apparati, che rendono testimonianza di un metodo e di un travaglio tanto immani quanto ben nascosti sotto uno stile scientifico esemplare e leggero. Se si vuole si va a vedere quali sono le fonti che ci dicono che il merlo romano «balbettava» o si cerca di leggere la versione in greco della prima lettera ai Corinzi di San Paolo con la glossolalia dei primi cristiani. Se non si vuole ci si ferma, appunto, alla pace testuale di un libro che non dimenticheremo. «Nei luoghi selvaggi i merli balbettano la loro cantilena infantile, nelle arcane solitudini gli usignoli lanciano a piena voce il canto dell’adolescenza, presso fiumi reconditi i cigni ripetono l’inno della vecchiaia». Bibliografia

Maurizio Bettini, Voci. Antropologia sonora del mondo antico, Roma, Carocci editore, 2018.

East Coast, 1953. A Brooklin nasce James Iovine, figlio di uno scaricatore di porto di origini ischitane. Sua sorella racconta di come la famiglia, da buon italiano, sia sempre stata al primo posto nel cuore del fratello. West Coast, 1965. Nei projects (famigerate residenze popolari) di Compton la sedicenne Verna Young dà alla luce Andre Romelle Young. Verna racconta dello stupore rapito che si disegnava sul volto del figlioletto ogni volta che l’aria si riempiva di musica. Da grande Andre Romelle Young diventerà Dr Dre, membro degli N.W.A., genio indiscusso di tutto quanto abbia a che fare con il suono, testimone dei Los Angeles riots, protagonista di episodi di violenza che ancora oggi lo imbarazzano e cofondatore dell’etichetta Death Row. James Iovine invece diventa Jimmy, un fascio di nervi con gli occhi cerchiati per la mancanza di sonno; a 22 anni è in studio con John Lennon. Poi con Bruce Springsteen. E Patti Smith. E Bono. E Lady Gaga. Si dà il caso che abbia fondato l’etichetta Interscope. Era inevitabile che i due geni finissero per incontrarsi, ma quello che poteva semplicemente restare un fertile sodalizio (Iovine credette nell’hip hop nonostante i disordini di LA, nonostante il linguaggio di certi testi, nonostante la posta in gioco fosse ormai politica...) che tra gli altri ha «creato» Eminem e Kendrick Lamar, è diventato una potenza tale da reclamare un ruolo di primo piano nella storia mondiale della musica e del marketing. A un certo punto Iovine capì che la musica aveva ormai i giorni contati: internet si sarebbe divorato il mercato stravolgendone le regole. Con l’entusiasmo allucinato che lo contraddistingue, Iovine convince Dre a gettarsi nel business del sound, e così nascono le cuffie Beats, che in pochi mesi si trasformano in un oggetto del desiderio globale, arrivando infine a stuzzicare Apple. Nel 2014 il deal storico: Apple compra Beats per 3,5 miliardi di dollari. The Defiant Ones (I ribelli), documentario della HBO ora su Netflix, in oltre quattro ore di testimonianze, film d’archivio e canzoni, ripercorre l’evoluzione della musica soprattutto degli Anni novanta, in quella che veniva affrontata come una continua ricerca della perfezione artistica ma anche del successo commerciale. E i mostri sacri si inchinano, da Snoop Dogg a 2Pac Shakur, passando per Gwen Stephani e Will.i.am, senza tralasciare l’arringa di un preoccupato Bill Clinton che si scaglia contro il linguaggio del rap (e ciò 20 anni prima che arrivasse in Ticino!).


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 3 aprile 2018 • N. 14

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Cultura e Spettacoli

I sogni di Bob Dylan in una visione teatrale aperta

Il grande Jackpot dei formaggi

Teatro Dall’universo del menestrello

all’importanza del coro nella tragedia greca La compagnia Theater Hora ha entusiasmato il pubblico. (teatro. sociale)

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La compagnia Theater Hora di Zurigo è l’unico gruppo professionale in Svizzera composto da disabili mentali. Il loro è un progetto a lungo termine, la Freie Republik HORA: esiste da 25 anni e consiste in un laboratorio costante di creazione collettiva e autogestita a più livelli, dalla regia alle coreografie alle performance. Il risultato artistico si ascrive nel cosiddetto teatro inclusive ed è una proposta consolidata, valida e originale sotto ogni aspetto. Accanto alla produzione di spettacoli, Theater Hora dal 2009 gestisce un programma di formazione professionale per attori disabili. Il tutto per una realtà creativa importante, non a caso nel 2016 ha vinto il Gran Premio svizzero del Teatro/Anello Hans Reinhard attribuito dall’Ufficio federale della Cultura.

La pièce-omaggio dedicata a Bob Dylan è andata in scena al Teatro Sociale di Bellinzona Per festeggiare il primo quarto di secolo di esistenza della compagnia anche nella Svizzera italiana, il pubblico del Teatro Sociale di Bellinzona ha potuto apprezzare Bob Dylan’s 115ter Traum, la loro ultima produzione. Parafrasando il titolo di Bob Dylan’s Dream, un brano composto nel 1963, lo spettacolo non si limita alla figura e alle canzoni del menestrello di Duluth ma si muove lungo un tracciato di spunti tematici in cui gli attori presentano un carosello di personaggi sui quali predomina il bianco, nel trucco, nella maschera e nel costume. Personaggi a partire dai quali si ritagliano figure anonime e struggenti, fantasmi di antieroi usciti dall’universo di Dylan. Una visione sociale suggestiva e a tinte forti che gli attori del Theater Hora mettono in scena recitando e cantando con l’accompagnamento della loro band in un intreccio di melodie che avvolgono la loro teatralità in una colonna sonora minimalista, come per un documentario cinematografico di Herzog. Il sogno dylaniano degli attori di Hora è attraversato dalla metafora omerica dell’Odissea, dal viaggio di ritorno verso casa, in un’America alimentata da fotogrammi immersi nell’intimità, in una grande distesa dove all’orizzonte trova posto una fattoria creativa da cui spuntano Lou

Reed, Kerouak, Ginsberg, la Beat Generation, in uno sguardo proteso verso il miraggio americano come una sfilata di cartoline d’epoca, come il testo di Dylan sfogliato nella versione video del suo Subterranean Homesick Blues. Il caos creativo del collettivo di Theater Hora era già piaciuto a Milo Rau per le sue pasoliniane 120 giornate di Sodoma, ora è entrato a pieno diritto anche nell’immaginario collettivo della platea del Sociale in cui un indovino cieco, moderno Tiresia, richiama il talking blues alla St. James Infirmary di Blind Willie Mc Tell. O dove una straordinaria poetessa di strada evoca in scena melanconiche e solitarie atmosfere con la sua voce distaccata e una forte presenza teatrale. Creatore di questo progetto e sulla scena alla consolle, anche Michael Ebner, fondatore e animatore della compagnia, che alla fine del 2018 lascerà ad altri il compito di continuare questa appassionante avventura teatrale. Soddisfazione dunque per uno spettacolo che il pubblico di Bellinzona ha applaudito a lungo, sia a scena aperta sia al termine di un sogno conquistato nel segno della poetica di un’avventura teatrale.

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Coreuti e corifei al LAC

La stagione di LuganoInScena ha riservato un appuntamento speciale ospitando la Compagnia A.M.R. Teatrodanza con Choròs, il luogo dove si danza, un progetto coreografico di Alessio Maria Romano creato per 16 giovani attori usciti dalla Scuola di Teatro Luca Ronconi diretta da Carmelo Rifici. Nato da un’esigenza legata alla ricerca pedagogica, lo spettacolo propone un disegno coreografico d’assieme in cui emerge l’importante ruolo del coro nella tragedia greca declinato nella forza del collettivo e nel magnetismo di corpi che si attraggono, si respingono, si cercano, si amano e si rifiutano senza soluzione di continuità, in una corsa estenuante dove la fisicità, la resistenza e l’intensità dei sentimenti si intrecciano in una rete di suggestioni in cui riconoscere la gioia, la sofferenza, la lontananza, il conflitto, la vita e la morte. Coreuti e corifei, moltitudine confuse e in movimento, ora gang metropolitana ora struggente melodia urlata, i ragazzi della compagnia offrono uno spettacolo forte, senza esitazioni o barocchismi, in una cornice che lascia intendere i meravigliosi sogni custoditi nella tasca di giovani che hanno deciso di costruirsi un futuro teatrale.

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Cultura e Spettacoli

C’era una volta Chicago

Fotografia / 1 La Galleria ConsArc di Chiasso ospita l’impressionante lavoro

di Jean-Marc Yersin sulle rovine industriali della grande città statunitense

Marinella Polli

Chicago, Cermac Road Bridge. (JMYersin)

semplicemente trasferite altrove, dove spesso il rispetto per le condizioni di lavoro e l’attenzione all’ambiente sono poco considerati. Sono le zone in cui crescono e si sviluppano le «fabbriche del mondo», ovvero Cina e India, in feroce competizione tra di loro. Curiosamente si tratta di paesi lontani che sono stati ben raccontati, sulle stesse pareti, da altri fotografi svizzeri come Georg Aerni e Andreas Siebert. Va sottolineato quanto, sul piano formale, Yersin abbia pianificato con cura le riprese, attraverso uno studio in più momenti. Inizialmente con una prima ricognizione e alcuni studi propedeutici e schizzi a matita, quasi a voler meditare più lentamente sulla porzione della realtà da ritagliare. In seguito, dopo la fase di ripresa, con attenta stampa, in formato quadrato, in un bianco e nero molto intenso e profondo. Tale approccio costruttivo viene sottolineato dall’allestimento: brevi

sequenze di fotografie oppure quattro immagini che compongono a loro volta un quadrato più ampio, con continui riferimenti e rimandi di linee e forme. Fotografo professionista per molti anni a capo del Musée de l’Appareil photographique di Vevey e co-fondatore del famoso fotofestival Images, negli scorsi decenni Jean Marc Yersin ha frequentato largamente il continente nordamericano: luogo mitico per generazioni, affascinante per movimenti culturali e artistici, esso è stato sin da inizio anni Ottanta il suo territorio d’elezione, come nel progetto Downtown del 1981. Scalzata – nonostante i proclami che affermano il contrario – dalla sua posizione di primato economico mondiale, l’America di Yersin conserva tuttavia la sua potenza visiva e il suo fascino. E tutto questo senza cadere nel catastrofismo di un suo futuro declino. Faccio qui riferimento al fortunatissimo libro di Yves Marchand e Romain

Meffre, The Ruins of Detroit – ricco di riprese scenograficamente apocalittiche della città – accostabile, ma solo per tema, al lavoro presente a Chiasso. Più contenuto e ragionato nei risultati, Yersin sembra avere ancora fiducia nelle possibilità visive, e quindi narrative, del mezzo e del prodotto fotografico. Ciò costituisce un punto di partenza e insieme d’arrivo. Un appiglio da cui ripartire e sul quale ricostruire qualcosa di nuovo. Con la forza dell’immaginazione, certo, ma anche con una dose di fiduciosa progettualità. Perché peggio della crisi, c’è solo la crisi delle idee. Dove e quando

Jean-Marc Yersin. Crises. Chiasso, Galleria ConsArc (Via Grütli 1). Orari: ma-ve 9.00-12.00 / 14.00-18.30; sa 9.00-12.00; chiuso do, lu e festivi. Fino al 28 aprile 2018.

L’ultimo ritratto della perla del Ceresio Fotografia / 2 Al Canvetto Luganese l’atto d’amore di Peter Keller verso la città

Peter Keller

Giovanni Medolago È indubbio che il rosso sia il colore preferito da Peter Keller: sono davvero poche le sue immagini – tra quelle ora in mostra al Canvetto Luganese e il centinaio comprese nel volume Vivere Lugano, edito per l’occasione – dove non appaia questo colore, declinato in tutte le sue tonalità. Da quello ben vivo del nostro simbolo identitario per eccellenza, la bandiera rossocrociata, all’amaranto della scatoletta che attira lo sguardo curioso d’un gatto; dal rosso fiamma dei pedalò a quello un po’ più tenue di un palazzo di Piazza Rezzonico, sino a quello scelto da un pittore per uno squarcio della sua veduta del lungolago, che diventa altresì un bel punctum di barthesiana memoria. Vivere Lugano è un progetto sul quale Keller ha lavorato ben due anni e che in fondo rappresentata una sfida. «Lugano sta vivendo un periodo di forti cambiamenti – spiega – dovuti al mutamento dei tempi. Molti si lamentano: la forza del franco riduce l’afflusso di turisti, la perdita del segreto bancario rende la piazza finanziaria meno attrattiva e i mutamenti delle abitudini d’acquisto creano difficoltà al commercio. Gli affitti sempre più elevati starebbero spopolando la città, la qua-

In scena Allo

Schiffbau di Zurigo una pièce di Horváth

Gian Franco Ragno La chiamano, oggi, la «nuova Detroit». Facendo riferimento al triste destino dell’ex-capitale mondiale dell’auto, così efficacemente raccontata da Michael Moore nel suo primo documentario, Roger and Me. Parliamo di Chicago, una delle città maggiormente colpite dalla recente crisi economica. È anche la città della ex-first lady, Michelle Obama, passata dalle periferie di South Side alla Casa Bianca. Tuttavia, per una buona fetta di afroamericani della periferia, il destino segnato sembra essere quello della disoccupazione. Alla recessione economica sono seguite tensioni razziali e scontri su vasta scala – innescati, nell’ottobre del 2014, dall’ennesimo omicidio arbitrario da parte della polizia di un diciassettenne afroamericano, peraltro disarmato. Non solo: la città si trova in uno stato di bancarotta finanziaria e deve fare i conti con un rilevante esodo di residenti benestanti – impauriti dal crescente clima di terrore. A quei difficili giorni fanno riferimento le immagini del 2016 di JeanMarc Yersin che vediamo alla Galleria ConsArc di Chiasso. Non si tratta di un reportage, non nel senso stretto del termine. Bensì di un’indagine sui luoghi e sulle dimensioni della crisi economica della metropoli sulle rive del Lago Michigan. Una sorta di archeologia dell’immediato presente, dello stato di abbandono che conquista velocemente immense superfici industriali. Fabbriche, edifici, ponti, zone ferroviarie e binari senza vita. Insomma, tutto ciò che rimane delle vestigia industriali della terza città degli Stati Uniti e che, come titola il progetto, entra in «crisi» profonda e necessita di un ripensamento. In una dimensione di metafisico silenzio, i luoghi rappresentati dal fotografo romando raccontano anche, in trasparenza, un numero indefinito – ma comunque rilevante – di destini interrotti, di posti di lavoro che sono scomparsi e che difficilmente potranno essere riconquistati. Occupazioni del settore secondario che sono state

Retaggi borghesi d’antan

le al di fuori delle ore di punta sarebbe sempre più deserta. Ma – si è chiesto – è poi vero tutto questo?» Per rispondere all’interrogativo, armato dell’apparecchiatura necessaria e del suo occhio/spirito critico, Keller ha dapprima escluso quelle immagini da cartolina che, almeno sino a qualche tempo fa, hanno reso Lugano celebre nel mondo; poi si è messo pazientemente a osservare lo spettacolo del teatro della vita, puntando sulla «street photography», genere quasi coetaneo della fotografia

stessa (si pensi a Eugène Atget, 18471927) che ha l’ambizione di assurgere a documento sociale pur partendo dal ritratto di una singola scena, anche banale. «Peter ha camminato in lungo e in largo per la città – scrive Marcello Foa nella prefazione del già citato volume – confondendosi con essa e senza scattare una sola foto in posa, rifiutando qualunque episodio costruito: la sua è una narrazione che vuol essere innanzitutto realista». Dunque, poca attenzione nella scelta dell’inquadra-

tura (al Parco Ciani due passanti sono bellamente coperti – impallati, direbbe un critico teatrale – dal sostegno che regge le fronde di un albero) per puntare piuttosto sul tempismo, spesso sull’improvvisazione. Davvero curiosa, ad esempio, l’immagine del giovane che tenta di baciare la sua compagna, ma tra i due spunta un inaspettatissimo setaccio! Un atto d’amore verso la sua città d’adozione, che Peter Keller (classe 1950 e da alcuni anni fotografo indipendente le cui immagini appaiono regolarmente su diverse pubblicazioni nazionali) ha voluto offrire al pubblico proprio al Canvetto Luganese, uno dei pochi punti d’aggregazione storici rimasti in quella che si definiva «la perla del Ceresio». Ma Keller, pur cosciente della grande trasformazione urbanistica subita dalla città e forte dell’esperienza vissuta a contatto con strade, vie, piazze e abitanti di Lugano, resta fiducioso: «Forte della sua storia, la città sta costruendo il proprio futuro».

Nel grigio squallore dell’albergo in rovina «Zur schönen Aussicht» dove, nonostante tutti continuino a stappare bottiglie, tappezzeria e tovaglie sono sudicie e le lenzuola strappate, alloggia da tempo la non più giovane Ada von Stetten, la quale consuma le giornate concedendosi ai più diversi amanti. La baronessa è un’alcolizzata, ma è anche l’unica ospite pagante, e come tale oramai declinata secondo istinti di potere su ogni maschio del «Belvedere», compreso Strasser, il direttore. Agli ospiti si aggiungono in un secondo tempo un commesso viaggiatore, il fratello di Ada che ha perso tutto al gioco e la giovane Christine, innamoratissima e incinta di Strasser, che di lei non ne vuole sapere, e contro la quale, con l’aiuto degli altri ospiti, arriverà a montare una sciagurata, comoda calunnia. Il gioco perverso continuerà tuttavia solo fino a quando non si scoprirà che Christine è diventata una ricca ereditiera. L’azione di Zur schönen Aussicht (Hotel Belvedere) di Ödön von Horváth si svolge in un’ambientazione tesa fortemente a disegnare le specifiche caratteristiche della nobiltà decaduta e della borghesia mitteleuropea ancora perduta nelle paludi dell’Impero Austro-Ungarico. Siamo al cospetto di una commedia ironica, grottesca, amara, «en noir» come tutti i lavori di Horváth e, a quasi cent’anni di distanza, con non poche risonanze con l’Europa di oggi e gli egoisti schiamazzi piccolo-borghesi dell’odierno dilagante populismo. Horváth parla un linguaggio asciutto, essenziale, crudo, ma denso di allusioni inattese che l’intensa interpretazione degli attori rende ancora più spietatamente attuali. Un’ottima produzione, questa presentemente in cartellone allo Schiffbau, ovvero negli spazi fuori le mura della Schauspielhaus di Zurigo, e con una regia meditata, all’insegna della fedeltà al testo analizzato nelle sue pieghe più profonde. Barbara Frey rende appieno, grazie anche alle scene di Bettina Meyer (costumi di Bettina Walter) e al light design di Rainer Küng, l’atmosfera di decadenza di un hotel a due stelle e, soprattutto, dell’epoca in questione, chiaro presagio di inenarrabili orrori. Ferma e coerente la guida delle dramatis personae, del protagonista Strasser, un insuperabile Michael Maertens, e degli altri personaggi comprimari, tutti interpretati in maniera eccellente: Friederike Wagner nei panni dell’allucinante e allucinata baronessa, Carolin Conrad in quelli dell’ingenua, ma dignitosa Christine, Hans Kremer nella parte del barone von Stetten, Markus Scheumann in quella di Müller, Nicolas Rosat nel ruolo di Karl ed Edmund Telgenkemper in quello di Max. Applausi calorosi e interminabili all’indirizzo di tutti i partecipanti in occasione della première. Repliche fino a metà aprile.

Dove e quando

Vivere Lugano. Fotografie di Peter Keller. Lugano, Canvetto Luganese (Via R. Simen 14b). Orari ma-sa 10.00-22.00. Fino al 21 aprile 2018.

La locandina della pièce.


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Cultura e Spettacoli

David Byrne, ancora sai stupire

Un brindisi americano per Franco Ambrosetti

CD Uscito di recente Cheers, album del trombettista ticinese, che ha

festeggiato il proprio 75esimo compleanno con una incisione di classe

Musica Il ritorno dell’ex leader

Benedicta Froelich Per chi, come la sottoscritta, ha avuto la fortuna di trascorrere la propria infanzia accanto a una madre la cui autoradio consumava incessantemente audiocassette di tutte le più grandi rockstar inglesi e americane, il nome di David Byrne suona, ancor oggi, familiare quanto quello di Topolino – e, del resto, non vi sono dubbi sul fatto che l’ex cantante e frontman degli originalissimi Talking Heads rimanga tuttora una delle figure più carismatiche e geniali della scena musicale degli ultimi quarant’anni: un artista che, un po’ come David Bowie prima di lui, ha deciso di scavalcare a piè pari gli illusori confini tra arte visiva, forma canzone e performance multimediale per imbarcarsi in sperimentazioni e contaminazioni stilistiche a dir poco eclatanti. Fin dai tempi del rivoluzionario e ispirato live movie Stop Making Sense (1984), Byrne ha infatti sempre infuso le proprie esibizioni dal vivo di sfumature non solo altamente teatrali, ma anche improntate alla valorizzazione di un gusto estetico e performativo perlopiù assente dal rock contemporaneo: una tendenza che ha ora riscoperto, con più forza che mai, nella tournée di lancio di questo nuovo American Utopia, primo disco solista da quattordici anni a questa parte (escludendo le recenti collaborazioni con Brian Eno, Norman Cook e St. Vincent). Un album che, in effetti, ci mostra un Byrne più in forma che mai, in linea con molti dei suoi irresistibili exploit degli anni 90, e che sembra concepito al preciso scopo di deliziare i fan di vecchia data dell’artista scozzese, offrendo svariati esempi di quella riuscitissima contaminazione tra generi a cui il buon David li ha da sempre abituati. Ecco quindi che, fin dal primo singolo estratto dal CD – l’accattivante Everybody’s Coming to My House – si può riscontrare una perfetta comunione tra l’inconfondibile stile tipico di Byrne (le sonorità e il cantato di brani storici come Once in a Lifetime non sono mai lontani) e un elemento nuovo, ovvero la tensione verso lo stile musicale di eredi moderni del Maestro quali, ad esempio, gli LCD Soundsystem. Ciò dà vita a intriganti esperimenti di contaminazione elettronica, che vanno da una sorta di revival «robotico» in stile Kraftwerk (si veda I Dance Like This) ai toni epici di Doing the Right Thing – il quale, grazie al raffinato accompagna-

mento a base di archi, conserva tutta la solenne magniloquenza da sempre tipica del Byrne solista. Così, accanto a ballate dal sound rarefatto e lo spirito inequivocabilmente «on the road» quali Gasoline and Dirty Sheets ritroviamo, anche in American Utopia, l’abituale sguardo graffiante e beffardo di David sul mondo occidentale, e, ancora una volta, sul consumismo e l’avidità da cui la nostra società è pervasa – come accade nel cinico It’s Not Dark Up Here o nell’irresistibilmente surreale Every Day is a Miracle, entrambi i quali mostrano un ritorno alle atmosfere irriverenti di Uh-oh (1992) e Feelings (1997). Ma, in puro stile «à la Byrne», i brani più sorprendenti rimangono quelli che non ci si aspetterebbe dall’artista, ovvero piccole gemme lente e meditate, dal gusto agrodolce e malinconico, come i riflessivi e strazianti This is That e Here, o perfino l’alienante Bullet, che descrive con tagliente ironia la spietata traiettoria di un proiettile (immagine reale o metaforica?) attraverso il corpo di un uomo. Del resto, i testi visionari e assurdamente irriverenti di Byrne sono sempre stati parte integrante del fascino della sua peculiare cifra stilistica, nonché l’aspetto senz’altro più attraente dell’arte dei Talking Heads; e American Utopia non fa eccezione, come dimostrato dalle finezze liriche di brani del calibro del tragicomico Dog’s Mind («se un cane non può immaginare cosa significhi guidare un’auto / anche noi, da parte nostra, siamo limitati proprio da ciò che siamo; siamo cani nel nostro stesso paradiso, intrappolati in un parco a tema di nostra creazione»). È quindi chiaro che, ancora una volta, David ha centrato in pieno il bersaglio: la sua natura di musicista dallo stile personalissimo e inconfondibile, nonché dalle tensioni artistiche non solo molteplici, ma anche più che poliedriche, trova piena espressione in quest’album, in cui la capacità di uniformarsi agli attuali gusti del pubblico «colto» non pregiudica in alcun modo la particolare visione musicale. E dire che, dall’alto della fama e dell’età ormai raggiunte, un artista di questo livello non avrebbe davvero bisogno di cimentarsi in ulteriori innovazioni, o azzardate sperimentazioni: eppure, Byrne continua a mettersi alla prova, senza mai disertare quell’affabilità e professionalità, unite a pura disinvoltura e sapienza, che ogni suo sforzo ancora trasuda.

Alessandro Zanoli Quasi ognuno dei brani di questo disco suscita un ricordo «live»: immaginando il duetto con Uri Caine, ad esempio, torna alla mente lo splendido concerto che si era tenuto al Teatro di Chiasso nel 2007. I brani suonati con Scofield, invece, l’indimenticabile concerto nella «Tenda» di Botta per il 700esimo della Confederazione. Il duo con Dado Moroni al pianoforte sollecita il ricordo di un piacevolissimo, piccolo ma gremitissimo, concerto nella sala della Meridiana di Balerna, all’inizio degli anni 80. Le occasioni di ascoltare Ambrosetti con Antonio Faraò, poi, sono state innumerevoli, per non parlare dei numerosi incroci di trombe sul palco luganese di Estival con Randy Brecker. E con il figlio Gianluca? Tra tutte le molte esibizioni verrebbe da ricordare quella al Teatro Cittadella di Lugano, nel 2011: era la band dei 70 anni (ma nella memoria recente si stagliano anche le belle serate con Gianluca a Jazz in Bess). Insomma, se Franco Ambrosetti è volato a New York per registrare il suo ultimo album, una splendida jam session con un manipolo di partners americani, a noi ticinesi il disco suona come fosse «fatto in casa», tanta è la famigliarità di Ambrosetti con i suoi partner. Resta il fatto che questo bellissimo Cheers, registrato per la Enja nel gennaio dello scorso anno e pubblicato qualche mese fa, è pro-

gettualmente un regalo che Ambrosetti si è voluto fare per festeggiare i propri 75 anni, ma essenzialmente ci sembra un regalo che il trombettista ha fatto a noi. Dal punto di vista musicale le nove tracce sono costituite in maggioranza da standards. Soltanto quattro infatti i brani originali, di cui due (No Silia, no Party e Drums Corrida) a firma di Ambrosetti. Questa classicità del repertorio non deve far pensare però a un disco rilassato e di maniera. Gli arrangiamenti sono vivaci e spigolosi. Basti prestare orecchio in apertura d’album alla versione di Autumn Leaves, con Uri Caine al pianoforte, Buster Williams al contrabbasso e Jack DeJohnette alla batteria. I numerosi sparring partners coinvolti danno, insomma, filo da torcere allo stesso Ambrosetti, proponendosi al meglio della loro forma. Un esempio per tutti è Drums Corrida, un brano che Ambrosetti aveva composto per la ses-

sion. «Terri Lyne Carrington si è trovata per la prima volta nello stesso studio con DeJohnette, suo maestro e mentore» ci ha raccontato Ambrosetti. «Immediatamente mi ha chiesto se non potevamo trasformare il brano in un duetto tra loro due, che non avevano mai avuto l’occasione di suonare insieme. Ne è nata una vera sfida...». C’è spazio anche per un ricordo di George Gruntz, pianista e direttore d’orchestra che per tanti anni ha coinvolto Ambrosetti nei suoi progetti musicali. The Smart Went Crazy è uno dei brani più articolati, grazie all’intrigante e geometrica melodia e all’arrangiamento davvero gruntziano: Scofield vi torna ad essere per un momento un «vero» chitarrista jazz, accompagnato e sostenuto dal piano di Dado Moroni, in un accostamento tra i due, questo sì, davvero molto raro. Se in Ticino il compleanno di Ambrosetti sembra essere passato forse un po’ inosservato (non così nella Svizzera tedesca, dove il «Tages Anzeiger» gli ha dedicato una bellissima intervista il 17 dicembre scorso) questo nuovo disco si presta per ricordare a tutti gli appassionati di Ambrosetti che la vena jazzistica di famiglia è ancora ben presente e smagliante. Ci auguriamo di poterne ascoltare i frutti anche per numerosi prossimi anniversari... Siamo pronti per altri regali, insomma. Annuncio pubblicitario

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Cultura e Spettacoli

Peter Kernel: quant’è grande la vostra notte? Incontri Reportage semiserio dal tour europeo della band ticinese

È uscito solo da qualche settimana il loro sesto disco – The Size of the Night – e i Peter Kernel sono nel pieno di un tour promozionale che, per il solo trimestre primaverile 2018, già li vede impegnati in 24 date attraverso sei diverse nazioni europee. Stiamo parlando della più importante band di rock indipendente della Svizzera italiana: attiva da più di un decennio, ormai prossima al traguardo dei 700 concerti realizzati, sempre più gratificata dalle istituzioni culturali nazionali ed europee. Ma le loro lodi le hanno già opportunamente tessute altri, e del merito musicale del nuovo disco già si è diffusamente occupata la stampa specializzata di tutta Europa. Cogliamo quindi la non frequentissima occasione per chiedere a Barbara Lehnhoff e Aris Bassetti – le due anime del gruppo – di farci respirare un po’ l’aria della vita da tour. Rispondendo ad alcune domande – invero piuttosto sciocche – che restituiscano le sensazioni intime e quotidiane dell’essere in giro a suonare per l’Europa. Barbara Dove ti trovi in questo momento?

Nella stanza 426 del Bloom Hotel a Bruxelles, sul letto. Ci sono però troppi cuscini e sarò costretta a buttarne almeno la metà per terra. Stasera abbiamo suonato a La Rotonde del Botanique, una delle mie sale preferite di tutta Europa: un antico giardino botanico dal pubblico molto caloroso. Una sala da concerto in una serra?

Una serra con stile! La sala è rotonda e tutta in vetro, il pubblico circonda il palco in un semicerchio di gradini e il palco ha un impianto audio-luci tra i migliori d’Europa. Il Botanique è nel centro di Bruxelles, con un parco bellissimo all’esterno e una vegetazione fantastica all’interno con acquari, pesci rossi e piante d’acqua. A cosa pensi?

Non vedo l’ora della colazione, abbiamo suonato diverse volte qui e siamo sempre stati in questo hotel: nella sala-colazione c’è un furgoncino VW che produce deliziosi waffle freschi! Oggi invece cos’hai mangiato?

Cucina vietnamita in un posto ormai abituale, quando veniamo a Bruxelles. E anche nel menu siamo abbastanza abitudinari: involtini primavera e BoBun con Nem.

Ieri notte invece dove hai dormito?

Ieri era lunedì e – come spesso accade in tour – il lunedì è un day off. Siamo andati a Liège, a casa della nostra fonica Julie: pomeriggio di terme, con sauna aromatica ai gusti diversi, tra cui banana... non male! Quanto hai dormito?

Almeno sette ore, per me tantissimo. Ma dopo la sauna ero esausta, e avevo diverso sonno da recuperare dalla scorsa settimana. Dove devi andare domani?

Domani – cioè oggi, perché è passata la mezzanotte – andiamo a, a, a… non lo so, dovrei guardare le email. Ma ci troviamo per colazione alle 11, quindi non andiamo molto lontani. Quale pezzo di Peter Kernel ti sta piacendo di più, nei concerti? Perché?

Men of the Women, perché rappresenta bene quello che stiamo vivendo. Siccome è uscito un video del pezzo, il pubblico lo conosce bene e in concerto si genera immediatamente una reazione di empatia.

Barbara e Aris, alias Peter Kernel, stanno girando l’Europa in tour.

Aris Dove ti trovi in questo momento?

Sono sul furgone. Non so esattamente dove, ma credo già in Olanda. Cos’hai mangiato oggi?

Finora ho fatto solo colazione. Dormivamo tutti nella stessa stanza e per non svegliare gli altri ho mangiato quello che già c’era sul tavolo: salsa piccante, paté di olive e Coca Cola.

erano divertenti; mi piace come usava la voce, meno i suoni e gli arrangiamenti.

Quale pezzo di Peter Kernel ti sta piacendo di più, nei concerti?

Terrible Luck, una canzone libera-

toria e divertente da suonare. E poi nella parte centrale interagiamo con il pubblico ed è stupendo. Annuncio pubblicitario

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Dove hai dormito ieri notte?

In una bellissima stanza dell’appartamento per artisti del locale lussemburghese De Gudde Welle. Quanto hai dormito?

Circa quattro ore e mezza: nella norma. Dove devi andare oggi?

Oggi suoniamo ad Amsterdam. In un bellissimo locale che si chiama Sugar Factory. Qual è la cosa più strana che ti è capitata negli ultimi giorni?

Partiti presto per andare a Bruxelles, dopo qualche minuto di viaggio mi sono accorto che avevamo lasciato il portellone del furgone completamente spalancato. Se avessimo fatto una salita o preso una buca avremmo perso tutti gli strumenti. Cos’è invece andato esattamente come te l’aspettavi?

L’affetto del nostro pubblico. Siamo fortunati. Ci sono alcuni sostenitori che ci seguono a tutte le date del tour con treni, aerei e auto. Ogni volta ci emozioniamo a vederli. Qual è la persona più curiosa o particolare che hai incontrato nell’ultima settimana?

33%

Il nostro fan/amico Eric. Un uomo sulla cinquantina che vive nel sud della Francia e che con la moglie ci segue ovunque in Europa. Quando lo vediamo ai concerti ci sentiamo sempre un po’ a casa.

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Dove ti piacerebbe essere, in questo momento, se tu non fossi dove effettivamente sei?

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Mi piacerebbe essere in studio a registrare nuove idee, a La Sauna con il mio compianto amico Andrea Cajelli. Che musiche hai ascoltato in questi giorni?

Non so perché, ma i vecchi dischi di Vasco Rossi. Mi sono piaciuti, chi l’avrebbe mai detto! Le prime canzoni

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 3 aprile 2018 • N. 14

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Cultura e Spettacoli Rubriche

In fin della fiera di Bruno Gambarotta Indovina chi viene a pranzo? A proposito di Libri, di Saloni e di Feste. Sono arrivate da ogni parte troupe televisive per documentare un fenomeno unico al mondo, quello di due saloni fotocopia replicati a distanza di due mesi in due città distanti un’ora scarsa di treno, Milano e Torino, in un’Italia in fondo alla classifica dei lettori. È la sagra del bollito misto al congresso dei vegani. È una bella festa, non del libro ma al libro. Lo slogan «Un libro è per sempre» rimanda oramai un suono sinistro. Nella nostra vita quotidiana, tutto è progettato per avere un’ obsolescenza programmata, frigoriferi, lavatrici, telefoni, amori, famiglie, impieghi, partiti politici. Non fosse così l’economia moderna si bloccherebbe. Con un’unica eccezione, il libro di carta che si accumula nelle nostre case. Nel passaggio delle generazioni nessuno vuole più ereditare i libri eterni dei nonni e dei genitori, non sapendo dove metterli. Ecco la soluzione di questa anomalia che blocca il mercato, possibile tema per i prossimi saloni: un concorso per inventare il libro a obsolescenza programmata,

il libro che, trascorso un anno dalla pubblicazione, si dissolve in un mucchietto di polvere. Nell’attesa giochiamo con i libri eterni (per ora). Lo facciamo seguendo il suggerimento ai lettori di un supplemento letterario: invitate a pranzo il protagonista di un romanzo. Ho fatto una prima prova con il commissario Maigret. Ecco il risultato. Sono ospite di un amico che ha avuto il coraggio di aprire un ristorante di cucina piemontese a Parigi, 11esimo arrondissement, boulevard Richard-Lenoir, di fronte al 130, dove, al quarto piano, si trova l’appartamento abitato dal commissario Maigret e dalla moglie, signora Louise, ottima cuoca. Lo sorprendo mentre, incuriosito dalla novità, legge il menù appeso in vetrina; mi presento come amico di Camilleri e riesco a invitarlo a pranzo. Quest’uomo massiccio, calmo e placido, a tavola è un riccio che vuol mangiare sempre le stesse cose o una volpe sempre in cerca di nuove esperienze? Decido che è una volpe che crede di essere un riccio, perciò mi affretto a spiegargli che il ristorante

è in grado di proporre piatti che lui predilige, come la quiche lorraine, la terrina di cassoulet o il fricandeau à l’oseille. Però mi piacerebbe proporgli l’assaggio delle specialità del mio Piemonte. Lui accetta, iniziamo dalla carne all’albese, spiegandogli che non è «hachée», tritata, ma tagliata al coltello. Promossa. Altrettanto succede per gli agnolotti ai tre arrosti e per il bollito misto servito con il carrello. Il mio ospite non apprezza tutto ciò che è «sucreries», perciò niente dessert. Quanto al vino, poiché il commissario è abituato a quelli della Loira, gli propongo il nostro Rouché. Apprezzato. Anche a tavola, Maigret applica il suo metodo di indagine: senza idee preconcette si lascia «impregnare» dal contesto. È uno spettacolo assistere al lavoro delle sue mandibole. Un ultimo tocco lo commuove, l’acquavite al lampone, come quella dei parenti alsaziani di sua moglie. È soddisfatto e senza che glielo chieda ammette: «Simenon si è sempre preoccupato di farmi mangiare bene e di questo gli sono grato. Mi ha persino insegnato a fare la

bouillabaisse. Quanto a lui, scrivendo un romanzo in sei giorni si dimentica persino di mangiare. Non è affamato di cibo ma di donne...». Insoddisfatto del risultato, ho tentato una prova d’appello, con Il Gattopardo di Tomasi di Lampedusa. Il principe Tancredi Falconeri accetta senza esitare il mio invito a pranzo quando gli dico che lo chef del ristorante palermitano dove andremo afferma che il suo timballo di maccheroni ricorda quello fatto servire dal principe di Salina, ad apertura del pranzo a Donnafugata, quando Tancredi vide per la prima volta Angelica e se ne innamorò. Seduti a tavola, parliamo dell’intenzione del giovane di candidarsi alle prossime elezioni e, conoscendo la sua indole, lo invito a riflettere sul fatto che quella del politico è una vita piena di impegni faticosi. Arriva il timballo e una volta rotto «l’oro brunito dell’involucro, esce un vapore carico di aromi». Tancredi se ne inebria e ne approfitto per lanciare la mia esca: «Ci sarebbe un modo semplice e onesto di guadagnare senza muovere un dito». Ab-

bocca: «E sarebbe?». «Vincolare al diritto d’autore la frase famosa, quella che voi dite allo “zione”, quando gli annunciate la vostra intenzione di unirvi ai garibaldini “Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi”. È una massima che nei prossimi anni sarà scritta e pronunciata decine di migliaia di volte, da tutti, opinionisti, commentatori, politici, professori. Lo faranno per dimostrare che loro sanno come vanno le cose del mondo e per poter continuare ad usarla saranno disposti a corrispondervi il compenso dovuto». Tancredi parla a bocca piena: «Mi piace l’idea, cosa devo fare?». «Niente, solo firmarmi una delega, vi faccio da agente». Sapevo che avrebbe accettato, ho il foglio pronto. Mentre firma sparo la seconda proposta: don Ciccio Tumeo parlando di Angelica afferma «Le sue lenzuola devono avere il profumo di paradiso». Una ditta vorrebbe lanciare una linea di lenzuola di lusso con il marchio Angelica e con quello slogan. Sempre a bocca piena, Tancredi fa segno di sì con la testa.

del poter perdere tempo, probabilmente proprio in zona Navigli, tardo pomeriggio. Annunciata da un terribile odore, si avvicina un’anziana infagottata in abiti malconci e sovrapposti. Non vuole soldi, lo dice subito. Si siede al nostro tavolo e desidera leggere il mio futuro. Non la si può mandare via, ha uno sguardo pungente, sul volto trascurato, i capelli in disordine, i baffetti sporgenti come capita a quell’età (ma anche ad altre, se non si sta attente). Prevede cose strampalate, parla di massimi sistemi, non accetta nemmeno un caffè. Colpita dalla somiglianza, in quel farraginare di parole, le chiedo all’improvviso se conosce quella poetessa a cui somiglia così tanto. La vecchina si interrompe, comincia a inveire: quella schifosa! Non voglio sentirne parlare, tutti dicono che le somiglio ma non desidero essere accomunata a lei, questo in sintesi, e depurato, il discorso. Ci veniva quindi a dire che la nota poetessa Alda Merini le rubava la scena, le rovinava la vita. Io tendo a credere sempre,

per ingenuità o per comodità, a quello che mi dice una persona di cui non ho motivi per non fidarmi. Quindi penso ohibò che combinazione, questa povera barbona somiglia alla Merini ed è stufa di avere attenzioni solo a causa di questa somiglianza. Forse nessuno le ha mai chiesto da dove viene, che vita ha avuto. Piena di zelo incomincio a farle qualche domanda, ma niente da fare. Ormai la signora si è offesa, raccoglie le sue sporte (esiste un barbone senza sporte piene di oggetti misteriosi?), se ne va. Non mi era più tornato in mente questo episodio, nemmeno quando Alda Merini è morta, avevo obbedito alla sua maledizione. Ma in questi giorni, risentendo le sue poesie per ricordare una donna uccisa o resa invalida dal suo uomo, ho sentito insieme alla nota dolente della vittima anche il sorriso, anzi forse il riso, di chi si presenta come «nata il ventuno a primavera»: «folle», e forse anche per questo capace di non perdere mai di vista la felicità del risveglio della natura.

«Nessun problema, già cancellata… Solo un’ultima cosa, signore». «Cosa vuoi?!». «Il suo passaporto è scaduto». C’è un’entità superiore che conosce ogni dettaglio della nostra vita, dei nostri gusti, della nostra salute, delle nostre abitudini. I giganti del web, come Facebook, hanno incamerato i nostri dati guadagnandoci una fortuna immensa: questi dati sono stati ceduti ai politici, che li hanno utilizzati per orientare il voto dei cittadini e cambiare l’esito delle elezioni (almeno quelle americane e quelle britanniche). Come ha scritto giustamente Beppe Severgnini, «siamo noi che, in cambio di comodità, offriamo la nostra intimità». E non salvaguardando la nostra intimità, la nostra identità, la nostra personalità, affidandoci al buon cuore dei padroni del web, alla loro furbizia o alla loro avidità, lasciamo (allegramente) che la democrazia vada a fondo mentre i bilanci dei colossi digitali si impennano. Nella gratuità estasiante dei social, che concedono a chiunque di inviare giorno

e notte il suo mi-piace o non-mi-piace su ogni cretinata, l’unica cosa non social è il patrimonio dei padroni, ha scritto Michele Serra. In un’intervista alla Cnn, il fondatore di Facebook Mark Zuckerberg (70 miliardi di dollari di patrimonio in buona parte detassato, ma voto 2 alla sua giovane faccia tosta) ha dichiarato candidamente: «Abbiamo fatto degli errori». Lacrime di coccodrillo. Dopo le presidenziali americane aveva definito «folle» l’ipotesi che la diffusione di «fake news» attraverso il suo social network avesse inciso sul risultato. Ora gli autorevoli difensori delle magnifiche sorti e progressive della Rete come nuovo verbo della globalizzazione si precipitano a pontificare sui pericoli della Rete per la democrazia. Prima degli scandali che ora si moltiplicano, se qualcuno consigliava prudenza su tanta eccitazione entusiastica per la tecnologia digitale era accusato di essere un apocalittico passatista. La «psicopolizia» del Grande Fratello ha funzionato.

Postille filosofiche di Maria Bettetini Una donna, nata il ventuno a primavera Si parla tanto di donne vittime e ribelli, di donne nei luoghi di potere, di donne colte e scienziate. Si rispolverano canzoni, si leggono poesie, soprattutto di Alda Merini, la poetessa milanese incompresa, che trascorse anni in manicomio e visse povera, pur attingendo a vette poetiche che ci si domanda come abbiano potuto rimanere nascoste ai più per decenni, prima della sua morte, il primo novembre del 2009. Certo, morire il giorno dei Santi che precede quello dei morti. Ed essere nata il primo giorno di primavera, il 21 marzo del 1931. Lo si legge anche nelle sue poesie: «Sono nata il ventuno a primavera / ma non sapevo che nascere folle, / aprire le zolle / potesse scatenar tempesta». Alda nasce in via Papiniano, dove oggi due volte la settimana un mercato riunisce cinesi e maghrebini per vendere lenzuola e golfini di cashmere, a nemmeno un chilometro dai Navigli. Il padre è dipendente delle assicurazioni «La Vecchia Mutua Grandine ed Eguaglianza il Duomo»,

nome oggi bizzarro che dice della piccolezza dell’ente e della sua rapida fine. Tutto sa di fatica di vivere, ma Alda ha già un rifugio, la poesia che attraverso un professore delle scuole medie arriva al critico letterario Giacinto Spagnoletti. Apprezzata da grandi letterati, a sedici anni si presenta quel disturbo bipolare che la porterà a un primo breve soggiorno a Villa Turro, e poi a successivi ricoveri in manicomio. In quel luogo che somigliava più a un campo di concentramento che a un ospedale, la Merini arriva non sempre per profonde ragioni mediche, come quando a spedircela è il marito, padre delle quattro figlie, dopo un litigio dovuto agli eccessi alcolici di lui. Non le è mai mancato però l’appoggio dei grandi intellettuali dell’epoca, soprattutto se socialmente borderline, per esempio Davide Maria Turoldo o Giorgio Manganelli, con il quale aveva avuto giovanissima una fugace e tempestosa relazione. Nonostante le traversie psichiatriche, dal 1950 le poesie di Alda

vengono pubblicate con l’unica interruzione di pochi anni durante i quali la cura delle figlie assorbe ogni energia. La città di Milano non le toglie mai l’affetto e l’appoggio di artisti e intellettuali, ma soprattutto la lascia libera di vivere nello stile che meglio le si addice. Ossia lasciando liberi entrambi i volti della poetessa: la vecchina amica degli animi nobili, rifugiata in due stanzette sui Navigli, e la signora anziana arrabbiata col mondo, asociale, burbera, nomade. Non c’era bisogno di manicomi, bastava lasciarla essere quello che preferiva, magari controllando che non si facesse del male, come prevedeva nella seconda parte della poesia che abbiamo letto sopra: «Così Proserpina lieve / vede piovere sulle erbe, / sui grossi frumenti gentili / e piange sempre la sera. / Forse è la sua preghiera». Dico queste cose, perché alla mente, pensando ad Alda Merini in questi giorni, è tornato un episodio dell’inizio degli anni Duemila. Ero a bere qualcosa con un amico, tempi andati

Voti d’aria di Paolo Di Stefano La psicopolizia al tempo dei social Il Grande Fratello che lo scrittore inglese George Orwell immaginò settant’anni fa si è pressoché realizzato. Nel famoso romanzo 1984 (il voto è 6+), Orwell prefigurò un’entità superiore, onnipotente e onnipresente, che controllava la vita di tutti i cittadini incarnando insieme il totalitarismo sovietico di Stalin e quello nazista di Hitler. Il Potere del paese in cui si svolge l’azione, Oceania, era detenuto da un partito unico dotato di tanti occhitelecamere il cui braccio operativo era una «psicopolizia» che aveva la missione di intervenire nei casi di trasgressione: ogni riservatezza veniva bandita in modo da punire il minimo tentativo di dissenso rispetto al cosiddetto Bispensiero, una sorta di pensiero unico che non ammetteva eccezioni. Ebbene, in una forma morbida e apparentemente indolore (la punizione fisica non è ancora prevista), il dominio del Grande Fratello si è realizzato, anche se facciamo finta di non saperlo o non siamo in grado di percepirlo: si è realizzato con

il nostro pieno consenso, anzi con la nostra massima allegria. Questo neanche Orwell poteva prevederlo. Andare incontro felicemente al suicidio della propria identità. Circola in Rete un simpatico videofumetto (5+). Il Signor X telefona in pizzeria: «Pronto?». Dall’altro capo del telefono: «Pizzeria Google. Desidera?». «Non è la Pizzeria La Perla?». «Sissignore, ma Google ha comperato la pizzeria e ora il servizio è più completo». «Vabbè, posso ordinare?». «Certo signor Rossi, vuole la solita pizza?». «La solita pizza? Ma come fa a sapere il mio nome?». «Controllando il suo numero di telefono, le ultime 37 volte ha ordinato una quattro formaggi». «Uhau, sì voglio proprio una quattro formaggi». «Signore, posso darle un consiglio? Mi permetterei di suggerirle una pizza di ricotta e rucola». «No no no, io odio quelle cose lì». «Ma è per la sua salute, il suo colesterolo non va così bene». «Scusi?». «Eh sì, abbiamo le sue analisi, incrociando il suo numero e

il suo nome possiamo vedere il livello del suo colesterolo». «No, guardi, io prendo le medicine per il colesterolo e posso mangiare quel che voglio». «Signore, guardi, mi dispiace ma lei ultimamente non ha preso le medicine». «Ma come fa a saperlo?». «Noi abbiamo l’accesso ai dati di tutte le farmacie della città e l’ultima volta che lei ha comperato la medicina fu tre mesi fa e la scatola contiene solo 30 compresse». «Mmhh?». «Attraverso la sua carta di credito noi sappiamo che lei compera le medicine sempre nella stessa farmacia Brambilla»… Insomma, nel data base di Google ci sono tutte le informazioni sul conto del signor X: quanto guadagna, quanto paga per la colf, quanto spende in farmacia e al supermercato, quanti contributi… «Basta», urla il Signor X, «mi sono stufato di essere controllato, spendo tutto quel che ho, compero un biglietto aereo e me ne vado il più lontano possibile, dove non posso essere raggiunto da internet. Puoi cancellare la mia pizza?».


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shopping Bon appétit!

Attualità La Lingua Francese è il pane primaverile che accontenta tutti i gusti! Aspetto

Il pane bianco è molto presente nella cucina mediterranea. In Italia a farla da padrona è la ciabatta, in Grecia sulla tavola non manca mai la pita, mentre in Francia ovviamente, la più amata è la Baguette, il caratteristico filone di pane bianco che si porta «sottobraccio». È proprio da quest’ultimo che vuole ispirarsi la Lingua Francese, anche se «la sua forma è più piatta e meno allungata rispetto al classico pane francese», spiega Lorenzo Stornetta, assistente di produzione presso il panificio Jowa di S. Antonino. «La lingua Francese possiede un taglio longitudinale, leggermente obliquo, con strappo ben marcato. La superficie risulta lievemente infarinata, con una colorazione dall’oro al marrone chiaro, con sfondo più scuro ma mai bruciato». Altre caratteristiche essenziali di questo pane di frumento chiaro sono la crosta croccante e la mollica soffice e ben sviluppata, la cui «alveolatura è il risultato di una lievitazione lenta e di una lavorazione dell’impasto molto delicata che solo un abile panettiere è in grado di eseguire», puntualizza con una punta di orgoglio Lorenzo Stornetta. Inoltre, grazie alla lunga lievitazione a cui è sottoposta, la Lingua Francese si conserva senza problemi anche fino al giorno successivo. Sapore

Il sapore, come anche il profumo della Lingua Francese, è quello tipico dei pani bianchi di frumento, con l’aroma del malto e del lievito in evidenza. La mollica possiede un gusto dolce, con un retrogusto leggermente acidulo che si sviluppa e permane in bocca. Abbinamenti

Lorenzo Stornetta, assistente di produzione alla Jowa di S. Antonino.

Flavia Leuenberger Ceppi

La Lingua Francese è ottima per preparare panini semplici ma gustosi da mangiare all’aperto o in ufficio, è un ottimo accompagnamento a fresche insalate primaverili o a pietanze più variegate della cucina quotidiana e deliziosa spalmata di burro e marmellata fatta in casa per una colazione gustosa e energetica. Si presta molto bene anche come aperitivo o spuntino sotto forma di crostini leggermente tostati, farciti con salmone, formaggio fresco, petali di Tête de Moine o spalmati di paté di fegato.


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Un sapore inimitabile

Novità L’Angolo del Buongustaio Migros vi invita ad assaggiare il prosciutto cotto nostrano

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I mastri salumieri della Salumi del Pin di Mendrisio sanno bene come trasformare le migliori cosce di suino in una saporita e caratteristica prelibatezza: il prosciutto cotto nostrano. Gli animali sono allevati in Ticino, nel rispetto della specie, e le cosce fresche selezionate vengono dapprima disossate con il cosiddetto metodo a «coscia chiusa» per ridurre al minimo la possibilità di rottura della coscia stessa. Le fasi successive sono, per prima la salagione, procedimento in cui le cosce sono addizionate di sale, aromi e spezie naturali. In questa fase la lenta massaggiatura favorisce il perfetto assorbimento di tutti gli inconfondibili aromi. Si passa quindi allo stampaggio, per conferire al prodotto la sua forma finale, per poi arrivare alla delicata e lenta fase di cottura che avviene in forni a vapore saturo fino al raggiungimento di una temperatura al cuore del prosciutto di almeno 69°C. A cottura terminata i prosciutti vengono lasciati raffreddare in apposite celle frigorifero, confezionati sottovuoto, pastorizzati e, infine, forniti a Migros Ticino. Ricordiamo che i nostri supermercati propongono a libero servizio altre bontà di salumeria firmate dalla Salumi del Pin, nella fattispecie salame, salametti, coppa, pancetta e prosciutto crudo. Prosciutto cotto nostrano 100 g Fr. 5.20 In vendita al banco salumeria delle maggiori filiali Migros

L’aromatico aglio orsino fresco

Con l’arrivo della primavera e il risveglio della natura, ecco che ritorna anche l’aglio orsino, la profumata pianta selvatica tipica del sottobosco che cresce spontaneamente nei terreni umidi e fertili. Grazie al suo delicato sapore di aglio è ideale per aggiungere una nota inconfondibile a moltissime ricette stagionali. Questa pianta di colore verde brillante si caratterizza inoltre per il suo tenore di vitamine, potassio, ferro e calcio, infatti un mazzetto da 100 g di aglio orsino copre il fabbisogno giornaliero di vitamina C. Tutte le parti della pianta sono commestibili: l’aglio orsino sprigiona al massimo sapore e fragranza se gustato fresco, ma può essere anche congelato per alcuni mesi senza comprometterne troppo l’aroma. È un’erba aromatica particolar-

mente indicata per la preparazione di pesti, salse e zuppe, tagliata finemente su insalate, paste, risotti, frittate, oppure può essere usata per insaporire il burro e trasforma in una una vera prelibatezza i ripieni più svariati. Sotto forma di verdura o condimento l’aglio orsino è conosciuto e apprezzato da millenni. Gli antichi popoli ritenevano che chi lo consumava diventasse «forte come un orso». Secondo un’altra credenza il suo nome deriva dal fatto che gli orsi ne facessero una gran scorpacciata al risveglio dal letargo: un modo gustoso per riacquistare le forze dopo il lungo inverno. Aglio orsino 20 g Fr. 1.90 In vendita in tutte le filiali Migros


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Pane del mese

Un pane che mira in alto Con la Torre vitale bio le panetterie della casa puntano su un pane del mese con farina integrale, semi e crusca. Il pane ideale per l’inizio della primavera e per le giornate attive Testo Claudia Schmidt; Fotogradie Veronika Studer, Gaëtan Bally

Nel suo stampo di carta, la Torre vitale bio ha un aspetto rustico. Sennonché è un pane moderno, che soddisfa molte esigenze. Piace per il suo aroma speziato e di nocciole. La sua ricetta comprende farina integrale di grano, fiocchi di grano, farina di grano, semi di girasole, semi di lino, semi di sesamo e crusca: lo strato esterno dei chicchi è ricco di fibre alimentari. Per questo motivo il pane dà un buon senso di

sazietà. «Lo apprezzo in particolare prima di fare sport», dice la panettiera Bettina De Bona della panetteria della casa Migros di Rheinfelden. Accompagnato da cottage cheese, ravanelli e germogli freschi permette di preparare rapidamente un pasto completo. Alla panettiera piace anche la forma rotonda, grazie alla quale è possibile preparare dei panini invitanti anche dal punto di vista estetico.

Maggiori informazioni sul tema pane: www.migros.ch/ pane

Serie Specialità dalle panetterie Migros Attualmente: Torre vitale Bio

Bettina De Bona (27) è panettiera presso la filiale Migros di Rheinfelden e una dei circa 900 nelle 130 panetterie della casa.

Bettina De Bona

«Quando ho le mani nell’impasto, so a occhi chiusi che tipo di impasto è» Nella panetteria della casa il turno inizia alle quattro del mattino. Come garantite che alla sera ci sia ancora pane fresco sulle scansie?

Lavoriamo su tre turni. Il primo inizia alle quattro, il secondo alle sei, il terzo alle nove. Quindi il terzo turno inforna il pane fresco fino alla sera. Nelle panetterie della casa gran parte della lavorazione è ancora manuale. Come fa a sapere se l’impasto è pronto per la cottura?

Si sviluppa un sesto senso. Quando ho le mani nell’impasto, so a occhi chiusi che tipo di impasto è e se ha riposato abbastanza.

Torre vitale Bio 420 g Fr. 3.90

Gli agricoltori bio lavorano in armonia con la natura. Si prendono cura di animali, piante, terreno e acqua.

Torre vitale bio è il pane del mese. Quale è la sua particolarità?

Analogamente al pane alle castagne, anche il pane Torre vitale è cotto in uno stampo nel quale viene anche venduto.

Oltre a ciò il pane è fatto con farina integrale, ciò che lo rende sostanzioso. Cosa la affascina del pane?

È uno degli alimenti più importanti e si prepara semplicemente con acqua, farina, lievito e sale. E quale pane prepara più volentieri?

Preparo volentieri la treccia. Già durante l’apprendistato la facevo con particolare piacere e con il tempo si riesce molto più velocemente. Qual è il segreto di una treccia uniforme?

Bisogna riuscire a preparare bene i filoncini di impasto. Dovrebbero essere leggermente più sottili nella parte finale. Se però è troppo sottile si corre il rischio che la treccia brunisca in modo non uniforme. Come panettiere ci si allena molto spesso, talvolta durante un turno si fanno oltre cento trecce.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 3 aprile 2018 • N. 14

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 3 aprile 2018 • N. 14

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Idee e acquisti per la settimana

Pane del mese

Un pane che mira in alto Con la Torre vitale bio le panetterie della casa puntano su un pane del mese con farina integrale, semi e crusca. Il pane ideale per l’inizio della primavera e per le giornate attive Testo Claudia Schmidt; Fotogradie Veronika Studer, Gaëtan Bally

Nel suo stampo di carta, la Torre vitale bio ha un aspetto rustico. Sennonché è un pane moderno, che soddisfa molte esigenze. Piace per il suo aroma speziato e di nocciole. La sua ricetta comprende farina integrale di grano, fiocchi di grano, farina di grano, semi di girasole, semi di lino, semi di sesamo e crusca: lo strato esterno dei chicchi è ricco di fibre alimentari. Per questo motivo il pane dà un buon senso di

sazietà. «Lo apprezzo in particolare prima di fare sport», dice la panettiera Bettina De Bona della panetteria della casa Migros di Rheinfelden. Accompagnato da cottage cheese, ravanelli e germogli freschi permette di preparare rapidamente un pasto completo. Alla panettiera piace anche la forma rotonda, grazie alla quale è possibile preparare dei panini invitanti anche dal punto di vista estetico.

Maggiori informazioni sul tema pane: www.migros.ch/ pane

Serie Specialità dalle panetterie Migros Attualmente: Torre vitale Bio

Bettina De Bona (27) è panettiera presso la filiale Migros di Rheinfelden e una dei circa 900 nelle 130 panetterie della casa.

Bettina De Bona

«Quando ho le mani nell’impasto, so a occhi chiusi che tipo di impasto è» Nella panetteria della casa il turno inizia alle quattro del mattino. Come garantite che alla sera ci sia ancora pane fresco sulle scansie?

Lavoriamo su tre turni. Il primo inizia alle quattro, il secondo alle sei, il terzo alle nove. Quindi il terzo turno inforna il pane fresco fino alla sera. Nelle panetterie della casa gran parte della lavorazione è ancora manuale. Come fa a sapere se l’impasto è pronto per la cottura?

Si sviluppa un sesto senso. Quando ho le mani nell’impasto, so a occhi chiusi che tipo di impasto è e se ha riposato abbastanza.

Torre vitale Bio 420 g Fr. 3.90

Gli agricoltori bio lavorano in armonia con la natura. Si prendono cura di animali, piante, terreno e acqua.

Torre vitale bio è il pane del mese. Quale è la sua particolarità?

Analogamente al pane alle castagne, anche il pane Torre vitale è cotto in uno stampo nel quale viene anche venduto.

Oltre a ciò il pane è fatto con farina integrale, ciò che lo rende sostanzioso. Cosa la affascina del pane?

È uno degli alimenti più importanti e si prepara semplicemente con acqua, farina, lievito e sale. E quale pane prepara più volentieri?

Preparo volentieri la treccia. Già durante l’apprendistato la facevo con particolare piacere e con il tempo si riesce molto più velocemente. Qual è il segreto di una treccia uniforme?

Bisogna riuscire a preparare bene i filoncini di impasto. Dovrebbero essere leggermente più sottili nella parte finale. Se però è troppo sottile si corre il rischio che la treccia brunisca in modo non uniforme. Come panettiere ci si allena molto spesso, talvolta durante un turno si fanno oltre cento trecce.


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Idee e acquisti per la settimana

Farmer

Il preferito con meno zucchero Come provvista nel marsupio o nello zaino da escursione, dagli anni Ottanta le barrette Farmer sono apprezzate da grandi e piccini. Per tutte le persone attente a un’alimentazione a basso contenuto di zucchero, ora c’è la barretta Farmer Soft alla mela, con il 33 percento in meno di zucchero. La versione a basso contenuto di zucchero non sostituisce tuttavia la classica barretta, al contrario è una proposta supplementare disponibile sugli scaffali.

Azione 20X Punti Cumulus sulle barrette Farmer Soft Mela -33% di zucchero dal 27.03 al 09.04

Farmer Soft Mela -33% di zucchero 12 barrette Fr. 4.70


Azione 25%

1.35 invece di 1.85 Costine di maiale Svizzera, imballate, per 100 g

30% Tutti i tipi di olio e di aceto M-Classic per es. olio di girasole, 1 l, 2.70 invece di 3.90

20%

2.90 invece di 3.65 Mini filetti di pollo Optigal in conf. speciale Svizzera, per 100 g

30%

2.70 invece di 3.90 Prosciutto speziato M-Classic in conf. speciale Svizzera, per 100 g

25%

4.95 invece di 6.90 Lamponi extra Spagna, in conf. da 250 g

20% 33%

7.80 invece di 11.70 Tutti i tipi di Coca-Cola in conf. da 6, 6 x 1,5 l per es. classic

20x PUNTI

Tutto l’assortimento Alnatura e Alnavit per es. olio di cocco vergine Alnatura, 220 g, 5.20, offerta valida fino al 16.4.2018

Migros Ticino Da tutte le offerte sono esclusi gli articoli M-Budget e quelli già ridotti. OFFERTE VALIDE SOLO DAL 3.4 AL 9.4.2018, FINO A ESAURIMENTO DELLO STOCK

Tutto l’assortimento di reggiseni, biancheria intima e per la notte da donna per es. canottiera da donna Ellen Amber, bianca, tg. S, Bio Cotton, il pezzo, 11.80 invece di 14.80, offerta valida fino al 16.4.2018


. o z z re p o im tt o , a z z e h Massima fresc 30%

2.40 invece di 3.50 Filetto di merluzzo MSC pesca, Atlantico nordorientale, per 100 g

30%

25%

15.80 invece di 23.10

2.65 invece di 3.60

Salmone affumicato bio in conf. speciale d’allevamento, Norvegia, 260 g

Salametti a pasta grossa prodotti in Ticino, in conf. da 2 pezzi, per 100 g

30%

9.40 invece di 13.50 Galletto Svizzera, in conf. da 2 pezzi, al kg

20%

5.95 invece di 7.60 Fettine fesa di vitello TerraSuisse imballate, per 100 g

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2.– invece di 2.50 Ali di pollo speziate bio Svizzera, in conf. da 4/5 pezzi, per 100 g, disponibile nelle maggiori filiali

30%

4.75 invece di 6.80 Prosciutto crudo nostrano prodotto in Ticino, affettato in vaschetta, per 100 g

50%

9.75 invece di 19.50 Carne macinata di manzo Svizzera/Germania, in conf. da 2 x 500 g / 1 kg

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3.20 invece di 4.05 Wienerli bio Svizzera, 2 x 2 pezzi, 200 g

HIT DELLA SETTIMANA PER IL GRILL.

20%

6.– invece di 7.50 Tutto il formaggio fuso a fette da 600 g per es. Emmentaler

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5.40 invece di 7.25 Mini Babybel retina, 15 x 22 g

Migros Ticino OFFERTE VALIDE SOLO DAL 3.4 AL 9.4.2018, FINO A ESAURIMENTO DELLO STOCK

15%

8.75 invece di 10.30 Filetto di manzo Black Angus Irlanda/Svizzera, al banco a servizio, per 100 g, dal 4.4

50%

2.– invece di 4.–

Bistecca di lonza di maiale marinata Grill mi in conf. speciale, TerraSuisse per 100 g


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20%

3.60 invece di 4.60 Finocchi Italia, sciolti, al kg

1.–

di riduzione Tutte le torte, 2 pezzi per es. Foresta nera, 2 x 122 g, 4.40 invece di 5.40

15% Meraviglia di tulipani, mazzo da 20 disponibile in diversi colori, il mazzo, per es. bianco-pink/rosso, 11.45 invece di 13.50

20%

3.60 invece di 4.50 Carciofi cuore Italia, imballati, 400 g

Hit

12.90

Bouquet Mélody il mazzo

Vitamine a solo 1 franco.

20%

1.90 invece di 2.40 Avocado Spagna, il pezzo

20%

5.10 invece di 6.40 Tutti i Drink Bifidus per es. alla fragola, 8 x 100 ml

1.– Fragole Spagna, vaschetta da 500 g

Migros Ticino OFFERTE VALIDE SOLO DAL 3.4 AL 9.4.2018, FINO A ESAURIMENTO DELLO STOCK

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1.80 invece di 2.40 Formaggella Blenio «Ra Crénga dra Vâll da Brégn» prodotta in Ticino, in self-service, per 100 g

20% Tutti i tipi di crème fraîche per es. Valflora al naturale, 200 g , 2.05 invece di 2.60

1.– Pomodorini ciliegia bio Spagna/Italia/Svizzera, vaschetta da 250 g

20%

2.40 invece di 3.05 San Gottardo Prealpi prodotto in Ticino, in self-service, per 100 g

20%

1.60 invece di 2.– Grana Padano in self-service, per 100 g

1.– Lattuga iceberg Spagna, il pezzo


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I nostri superprezzi. Hit

8.90

Pasta refrigerata Garofalo, busta da 500 g per es. al prosciutto crudo

conf. da 2

conf. da 2

20%

20%

Cornatur o Kale burger bio in conf. da 2 per es. polpette di verdure Cornatur, 2 x 200 g, 7.80 invece di 9.80

Chips Zweifel in conf. da 2 per es. Corn Chips original, 2 x 125 g, 3.80 invece di 4.80

TIPP CONSIGLIO

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Chi ha detto che il panino al burro si aufpassen: Mit dem Brötchen sich accompagna solo alla classicalässt barretta auch ein herzhafter Portobello-Burger di cioccolato? È invece perfetto anche mit und Parmesan perMayo preparare un ghiottozubereiten. Portobello Das Rezept dafür finden Sie auf burger con maionese e parmigiano. migusto.ch /tipps Trovate la ricetta su migusto.ch / consigli

33%

–.40 invece di –.65 Panini al burro 65 g

conf. da 4

20%

4.15 invece di 5.20 Creme Dessert Tradition in conf. da 4 per es. vaniglia, 4 x 175 g

conf. da 3

Hit

7.50

Fruit Mix Mini Mentos in conf. speciale 525 g

conf. da 2

– .4 0

di riduzione

2.20 invece di 2.60 Pane delle Alpi TerraSuisse 380 g

20% Succhi freschi bio, refrigerati per es. arance, 750 ml, 2.70 invece di 3.40

OFFERTE VALIDE SOLO DAL 3.4 AL 9.4.2018, FINO A ESAURIMENTO DELLO STOCK

20% Tutti gli yogurt bio (yogurt di latte di pecora esclusi), per es. alla fragola, 180 g, –.60 invece di –.80

30%

3.15 invece di 4.50 Magdalenas al limone e marmorizzate M-Classic in conf. da 2 2 x 225 g, per es. al limone

33% Gallette al granoturco Lilibiggs, gallette di riso allo yogurt e gallette di riso al cioccolato in conf. da 3 per es. gallette al granoturco Lilibiggs, 3 x 130 g, 3.30 invece di 4.95

conf. da 12

50%

Tavolette di cioccolato Frey da 100 g in conf. da 12, UTZ al latte e alle nocciole o al latte finissimo, per es. al latte e alle nocciole, 11.10 invece di 22.20

20% Tutte le bevande dolci, gli ice tea, gli sciroppi e le bibite Biotta bio non refrigerati (Alnatura esclusi), per es. tè freddo alle erbe delle Alpi svizzere, 1 l, 1.25 invece di 1.60


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conf. da 2 conf. da 4

40% Caffè Boncampo, in chicchi e macinato, in conf. da 4, UTZ 4 x 500 g, per es. in chicchi, 11.50 invece di 19.20

30%

15.40 invece di 22.– Cafino Classic in conf. da 2, UTZ in bustina, 2 x 550 g

a par tire da 2 pe z zi

20%

Tutti i prodotti surgelati bio (Alnatura esclusi), a partire da 2 pezzi, 20% di riduzione, offerta valida fino al 16.4.2018

50%

8.60 invece di 17.20 Crispy di pollo impanati Don Pollo in conf. speciale surgelati, 1.4 kg

conf. da 3

30%

4.30 invece di 6.15 Passata di pomodoro Longobardi in conf. da 3 3 x 700 g

conf. da 3

Hit

3.80

Salse Knorr in conf. da 3 per es. salsa al curry, 3 x 33 g

conf. da 3

33% Cialde finissime o biscotti Taragona M-Classic in conf. da 3 per es. cialde finissime, 3 x 150 g, 3.30 invece di 4.95

conf. da 6

20%

7.20 invece di 9.– Fleischkäse Malbuner in conf. da 6 disponibile in diverse varietà, 6 x 115 g, per es. Delikatess

conf. da 24

conf. da 2

20% Tutti i tipi di aceto e olio bio per es. olio d’oliva italiano, 500 ml, 7.80 invece di 9.80

50%

Pizza al prosciutto crudo Deliziosa o piadina Deliziosa in conf. da 2 surgelata, per es. piadina, 2 x 280 g, 5.40 invece di 10.80

OFFERTE VALIDE SOLO DAL 3.4 AL 9.4.2018, FINO A ESAURIMENTO DELLO STOCK

20%

20% Tutti i cereali in chicchi, i legumi, la quinoa e il couscous bio per es. quinoa bianca Fairtrade, aha!, 400 g, 3.95 invece di 4.95

50%

7.20 invece di 14.40 Aproz Classic e Cristal in conf. da 24, 24 x 50 cl per es. Classic

Tutti i tipi di riso bio da 1 kg (Alnatura esclusi), per es. Mister Rice Basmati, 4.30 invece di 5.40

conf. da 3

20% Latte di cocco Thai Kitchen in confezioni multiple 3 x 250 ml e 2 x 500 ml, per es. 3 x 250 ml, 5.90 invece di 7.50


conf. da 2 conf. da 4

40% Caffè Boncampo, in chicchi e macinato, in conf. da 4, UTZ 4 x 500 g, per es. in chicchi, 11.50 invece di 19.20

30%

15.40 invece di 22.– Cafino Classic in conf. da 2, UTZ in bustina, 2 x 550 g

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 3 aprile 2018 • N. 14

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Idee e acquisti per la settimana

Migros Bio

Naturalmente greco Negli scaffali degli yogurt della Migros sta succedendo qualcosa: l’assortimento viene ampliato con una linea di yogurt greci biologici. Nei gusti nature, lampone e mandorle-miele sarebbero stati certamente assaporati anche da Era, Zeus e Co. Come per tutti i prodotti Migros Bio, le materie prime provengono da agricoltura biologica certificata. Dal 6 al 14 aprile, ogni venerdì e sabato è possibile degustare i nuovi yogurt bio nelle maggiori filiali Migros.

Yogurt Migros Bio alla greca Nature 150 g Fr. –.85

Azione 20% su tutti gli Yogurt Bio (yogurt al latte di pecora esclusi) dal 3 al 9 aprile Yogurt Migros Bio alla greca Mandorla-miele 150 g* Fr. –.95

Yogurt Migros Bio alla greca Lampone 150 g* Fr. –.95

*Nelle maggiori filiali Da tutte le offerte sono esclusi gli articoli M-Budget e quelli già ridotti.

Gli yogurt greci biologici sono dolci, cremosi e naturali.

Gli agricoltori bio lavorano in armonia con la natura. Si prendono cura di animali, piante, terreno e acqua.

Parte di

Con il suo impegno per la sostenibilità Migros è da generazioni in anticipo sui tempi.


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 3 aprile 2018 • N. 14

Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 3 aprile 2018 • N. 14

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Idee e acquisti per la settimana

M-Industria

Delica: da qui proviene la rinomata frutta secca Sun Queen

Noi firmiamo. Noi garantiamo.

Lavori creativi

Da decenni la creazione di gioielli è la passione di Karin Bergersen Stadlers. Per questo talvolta porta il suo banco da lavoro in camera da letto. Rinuncia però malvolentieri al brainfood Migros Testo Thomas Tobler; Fotografie Raffael Waldner

Un totale di 560 persone, tra cui 14 apprendisti, provvede presso l’impresa di produzione Migros Delica affinché sugli scaffali Migros sia sempre disponibile un variegato assortimento di frutta secca, anche a guscio, nonché di caffè. Delica si trova a Birsfelden, BL, direttamente sul Reno. Oltre 9 milioni di confezioni di frutta secca, frutta a guscio e miscele Sun Queen escono annualmente da Delica. Le varietà di frutta secca più apprezzate sono datteri, mirtilli, fichi, albicocche e mango. Da 6 a 8 persone in media sono impegnate durante l’anno nei controlli di qualità e nel confezionamento della frutta secca. Su una superficie di 1500 metri quadrati Delica produce frutta secca e frutta a guscio a marchio Sun Queen; di questi, 600 metri quadrati sono destinati esclusivamente alla frutta secca.

U

n tempo Karin Bergersen Stadlers teneva il banco da lavoro in camera da letto. Assieme agli utensili necessari per la produzione di gioielli, anche le bombole di gas e di ossigeno. Fino a quando suo marito non ha posto il suo veto e l’abile orefice ha spostato l’atelier in un locale vicino. «In ogni caso il banco da lavoro è parte della mia vita, da quando ho iniziato la mia formazione da orafa a Zurigo», dice la 54enne. Nel frattempo vive a Ginevra con la famiglia e il banco da lavoro, mentre la sua formazione è diventata una professione. Bergersen Stadlers produce gioielli. Per sé stessa, in una gioielleria e come insegnante, anche per un corso della Scuola Club Migros. «I miei genitori mi hanno trasmesso la passione per l’arte». Il padre lavorava l’argento ed era smaltatore, la madre smaltatrice.

Star del mese

Un aiuto agrodolce per la mente Le albicocche secche Sun Queen sono perfette durante ogni escursione. Le albicocche sono particolarmente apprezzate per il loro aroma agrodolce, la consistenza morbida e la lunga durata di conservazione, di quasi sei mesi. Tra il 18 e il 30 percento il contenuto residuo di acqua di un’albicocca secca, che viene privata della rimanente umidità durante il procedimento di essicazione.

Frutta sul banco da lavoro

A 29 anni si trasferì dalla città di Zwingli in quella di Calvino. I suoi nonni vivevano a Ginevra, così lei è cresciuta bilingue, con amici in entrambe le città, «per questo non era un mondo completamente nuovo». Con sé Karin Bergersen Stadlers ha portato lo stimolo a «lavorare i gioielli», come lei dice. Anche i cibi golosi fanno parte della sua attività nell’atelier. «Ho bisogno di un po’ di brainfood. In tal senso le albicocche secche della Migros sono perfette e ne ho spesso sul mio banco da lavoro». I materiali preferiti da Karin Bergersen Stadler sono l’argento 925, le pietre dure e le perle. Un materiale versatile è l’«art clay», una sorta di impasto di argento puro, che viene modellato e poi dissecato nel forno. Per la presentazione e vendita delle sue opere Karin Bergersen Stadlers ricorre prevalentemente a esposizioni. «Vivere unicamente delle mie creazioni sarebbe difficile. Il mio impiego come orafa, da dipendente, mi dà la sicurezza finanziaria per poter vivere appieno la mia creatività».

Annualmente vengono prodotti circa 110’000 chilogrammi di albicocche secche. Concorso

1

Quanto è grande la superficie di produzione dove avviene la lavorazione della sola frutta secca Sun Queen? Rispondi alla domanda e vinci una carta regalo Migros. Vengono sorteggiate carte regalo Migros per un valore totale di 500 franchi. Partecipazione su: noifirmiamo-noigarantiamo.ch

Controlli regolari presso agricoltori e produttori nei paesi di origine delle materie prime, assicurano che qualità e modalità di produzione rispettino le severe direttive Migros. 2

Sun Queen albicocche secche 200 g Fr. 4.10

1 Bellissimi e originali: le delicate pietre di luna sono incastonate su argento 925. 2 L’atelier di un artista, come dovrebbe apparire, con le pinze di tutte le dimensioni meticolosamente allineate. 3 Qui è richiesto lavoro manuale: punzonatura e pressatura come ai tempi dei nonni.

3

M-Industria crea numerosi prodotti Migros, tra cui anche le albicocche secche Sun Queen.


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Idee e acquisti per la settimana

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Da decenni la creazione di gioielli è la passione di Karin Bergersen Stadlers. Per questo talvolta porta il suo banco da lavoro in camera da letto. Rinuncia però malvolentieri al brainfood Migros Testo Thomas Tobler; Fotografie Raffael Waldner

Un totale di 560 persone, tra cui 14 apprendisti, provvede presso l’impresa di produzione Migros Delica affinché sugli scaffali Migros sia sempre disponibile un variegato assortimento di frutta secca, anche a guscio, nonché di caffè. Delica si trova a Birsfelden, BL, direttamente sul Reno. Oltre 9 milioni di confezioni di frutta secca, frutta a guscio e miscele Sun Queen escono annualmente da Delica. Le varietà di frutta secca più apprezzate sono datteri, mirtilli, fichi, albicocche e mango. Da 6 a 8 persone in media sono impegnate durante l’anno nei controlli di qualità e nel confezionamento della frutta secca. Su una superficie di 1500 metri quadrati Delica produce frutta secca e frutta a guscio a marchio Sun Queen; di questi, 600 metri quadrati sono destinati esclusivamente alla frutta secca.

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n tempo Karin Bergersen Stadlers teneva il banco da lavoro in camera da letto. Assieme agli utensili necessari per la produzione di gioielli, anche le bombole di gas e di ossigeno. Fino a quando suo marito non ha posto il suo veto e l’abile orefice ha spostato l’atelier in un locale vicino. «In ogni caso il banco da lavoro è parte della mia vita, da quando ho iniziato la mia formazione da orafa a Zurigo», dice la 54enne. Nel frattempo vive a Ginevra con la famiglia e il banco da lavoro, mentre la sua formazione è diventata una professione. Bergersen Stadlers produce gioielli. Per sé stessa, in una gioielleria e come insegnante, anche per un corso della Scuola Club Migros. «I miei genitori mi hanno trasmesso la passione per l’arte». Il padre lavorava l’argento ed era smaltatore, la madre smaltatrice.

Star del mese

Un aiuto agrodolce per la mente Le albicocche secche Sun Queen sono perfette durante ogni escursione. Le albicocche sono particolarmente apprezzate per il loro aroma agrodolce, la consistenza morbida e la lunga durata di conservazione, di quasi sei mesi. Tra il 18 e il 30 percento il contenuto residuo di acqua di un’albicocca secca, che viene privata della rimanente umidità durante il procedimento di essicazione.

Frutta sul banco da lavoro

A 29 anni si trasferì dalla città di Zwingli in quella di Calvino. I suoi nonni vivevano a Ginevra, così lei è cresciuta bilingue, con amici in entrambe le città, «per questo non era un mondo completamente nuovo». Con sé Karin Bergersen Stadlers ha portato lo stimolo a «lavorare i gioielli», come lei dice. Anche i cibi golosi fanno parte della sua attività nell’atelier. «Ho bisogno di un po’ di brainfood. In tal senso le albicocche secche della Migros sono perfette e ne ho spesso sul mio banco da lavoro». I materiali preferiti da Karin Bergersen Stadler sono l’argento 925, le pietre dure e le perle. Un materiale versatile è l’«art clay», una sorta di impasto di argento puro, che viene modellato e poi dissecato nel forno. Per la presentazione e vendita delle sue opere Karin Bergersen Stadlers ricorre prevalentemente a esposizioni. «Vivere unicamente delle mie creazioni sarebbe difficile. Il mio impiego come orafa, da dipendente, mi dà la sicurezza finanziaria per poter vivere appieno la mia creatività».

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 3 aprile 2018 • N. 14

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Idee e acquisti per la settimana

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Sassolini, sabbia e altri tipi di sporco ruvido agiscono come la carta vetrata e possono danneggiare i pavimenti delicati. Assicuratevi che i pavimenti ne siano privi, prima di pulirli con lo strofinaccio bagnato.

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