Pasqua è tenerezza.
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da s .2018. 24.2 migros.ch/pasqua
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Pittura un uovo di Pasqua gigante Partecipa con i tuoi piccoli artisti al grande evento dedicato alla pittura! Presso le filiali selezionate, dal 9.3 al 24.3 2018, di venerdì e sabato ha luogo un grande evento dedicato alla pittura. Abbiamo in serbo tante fantastiche attività per i tuoi bambini, ad esempio pittureremo tutti insieme un uovo di Pasqua gigante. Maggiori informazioni, date e luoghi degli eventi sono disponibili su famigros.ch/eventi-pasquali
Cooperativa Migros Ticino
Società e Territorio Intervista a Franco Lurà, direttore del Centro di dialettologia e di etnografia, che a fine marzo va in pensione
Ambiente e Benessere Mercoledì 21 febbraio all’Usi si parlerà di protesi delle articolazioni di spalla, ginocchio e anca; il dottor Christian Candrian e il dottor Paolo Gaffurini anticipano alcune considerazioni sul tema
G.A.A. 6592 Sant’Antonino
Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXI 19 febbraio 2018
Azione 08 Politica e Economia L’«apripista» del disgelo olimpico di Pyeongchang è la sorella di Kim Jong-un
Cultura e Spettacoli All’Antikenmuseum di Basilea la travagliata storia della tomba del faraone egizio Seti I
pagina 9
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pagina 23
pagina 33
di Didier Ruef pagine 12-13
Didier Ruef
Rega, sangue freddo e pazienza
Siria, focolaio di nuove guerre di Peter Schiesser Sette anni, 350-500mila morti, milioni di profughi in patria e all’estero più tardi, in Siria è sempre ancora guerra. Non una ma più guerre. Quella del dittatore Assad contro l’opposizione interna, quella dell’Occidente e della Russia contro l’Isis, quella dei russi per una presenza strategica nel Medio Oriente, quella dei turchi contro i curdi, ma anche quella dell’Iran contro Israele e per un’egemonia nelle regioni sciite, senza dimenticare quella dei vari fondamentalisti islamici per la supremazia nel campo dell’opposizione interna – per citare solo le più evidenti. E non basta la dissoluzione dello Stato islamico avvenuta negli ultimi mesi a rendere meno esplosiva la situazione, in un contesto in cui in Siria si danno battaglia più potenze regionali e mondiali. Alcuni episodi avvenuti recentemente illustrano bene la pericolosità di questo persistente conflitto. I raid aerei israeliani dello scorso 10 febbraio contro basi iraniane in Siria in risposta al lancio di un drone da parte dei militari iraniani nei cieli israeliani, costati la perdita di un aereo da combattimento israeliano (il primo dal 1982), può sembrare un episodio fra i tanti,
visto che in questi anni Israele ha condotto un centinaio di attacchi e bombardamenti in Siria per contrastare l’invio di armi agli hezbollah libanesi, che in Siria combattono a fianco di iraniani e soldati di Assad. Invece, secondo le analisi pubblicate nei giorni seguenti da persone con contatti altolocati, sembra che ci siamo trovati molto vicini ad uno scontro a tutto campo fra Israele e Iran. Scrive sul «New York Times» l’analista israeliano Ronen Bergman che solo una furibonda telefonata del presidente russo Putin, irritato dalla prossimità degli attacchi israeliani alle posizioni russe in Siria, al primo ministro israeliano Netanyahu ha costretto l’esercito con la stella di Davide a rinunciare ad una vasta offensiva militare in Siria, i cui piani sono da tempo nel cassetto. Putin si impone direttamente su Netanyahu? Se così fosse, sarebbe un segno evidente della latitanza degli Stati Uniti in Medio Oriente. Secondo Bergman, infatti, negli ultimi mesi gli israeliani non sono riusciti a convincere Washington della necessità di un’azione militare contro gli iraniani in Siria, seriamente intenzionati a crearvi delle basi militari permanenti. Gli americani sono infatti concentrati ad annientare ciò che resta dell’Isis (consapevoli però che migliaia di
combattenti stanno fuggendo all’estero e che il gruppo ricomincia ad applicare tattiche di guerriglia in Siria e in Iraq) e a difendere le regioni ad est dell’Eufrate, verso l’Iraq. Tuttavia, anche in quella regione c’è più di un rischio di internazionalizzare ulteriormente il conflitto: dopo aver lanciato un’offensiva militare contro i curdi che controllano Afrin, a nord di Aleppo, il primo ministro turco Erdogan ha intimato agli Stati Uniti di non intromettersi nella lotta contro i «terroristi» curdi, in particolare quando verrà il momento di lanciare più a est un’offensiva contro Manbij, ultima città ancora a ovest dell’Eufrate controllata dai curdi. Washington è intenzionata a difendere gli alleati curdi, che molto hanno contribuito nella lotta contro l’Isis, ma deve evitare uno scontro diretto con un alleato della NATO. Contemporaneamente, gli Stati Uniti devono fronteggiare un più baldanzoso esercito siriano, adesso che grazie a russi e iraniani sta prevalendo sull’opposizione: due settimane fa gli americani hanno bombardato pesantemente le truppe siriane dopo che queste avevano lanciato un’offensiva contro Deir al-Zor e i suoi pozzi, causando numerose vittime, compresi molti mercenari russi. Anche qui, il rischio di uno scontro fra potenze regionali o mondiali è presente.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 19 febbraio 2018 • N. 08
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 19 febbraio 2018 • N. 08
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Società e Territorio Il Teatro e l’Accademia L’Accademia di Mendrisio ha vent’anni ed è in una fase di crescita arricchita dal nuovo Teatro dell’Architettura progettato da Mario Botta, un luogo pensato per le esposizioni, gli incontri e il confronto pubblico pagina 6
A due passi Con la sua consueta passeggiata Oliver Scharpf ci accompagna tra St. Moritz e Celerina dove, in un magnifico bosco di pini cembri, si snoda la pista di bob più famosa e prestigiosa del mondo pagina 7
Parlare dialetto è sempre un vantaggio
Intervista Dopo quasi 37 anni di attività, Franco Lurà, direttore del Centro di dialettologia
e di etnografia della Svizzera italiana, a fine marzo va in pensione
Il nostro futuro e le macchine intelligenti
Fabio Dozio Una vita dedicata al dialetto. Una passione per la lingua, per i suoni, per le parole, per le storie, per la gente che lo parla. Occhi azzurri, capelli brizzolati ed eloquio torrenziale: è Franco Lurà, Direttore del Centro di dialettologia e di etnografia, a fine marzo pensionato. Ha lavorato quasi 37 anni in questo ufficio, uno degli Istituti eccellenti del Cantone, anzi della Svizzera italiana. Infatti, si tratta della prima realtà che ha contribuito a far crescere il concetto di Svizzera italiana, caro a Stefano Franscini, unendo le valli del Ticino con quelle italofone del Canton Grigioni. L’avventura di chi ha creduto nella bontà di far nascere il Vocabolario del dialetto della Svizzera italiana, un’opera enciclopedica monumentale di cui questo Paese può essere orgoglioso, è infatti iniziata nel 1907, grazie al linguista Carlo Salvioni. «Affronto la pensione con la massima serenità – ci dice Lurà – perché è una decisione che ho già preso tempo fa. C’è un po’ di rincrescimento per un lavoro che mi piaceva molto e che mi ha dato molte soddisfazioni e in cui mi sono molto impegnato. Zücch e melún ala sua stagiún, quindi è giunto il momento di smettere e di cominciare altre cose».
Tecnologia Nel libro Life 3.0 lo scienziato
Max Tegmark pensa alle conseguenze dello sviluppo dei computer in grado di svolgere funzioni e ragionamenti tipici della mente umana. Il parere di Luca Maria Gambardella, direttore dell’Istituto Dalle Molle
Stefania Prandi L’intelligenza artificiale, cioè la capacità dei computer di svolgere funzioni e ragionamenti tipici della mente umana (per usare una delle definizioni possibili), sarà probabilmente il più importante cambiamento del ventunesimo secolo: trasformerà la nostra economia, la cultura, le politiche, i corpi e le menti in modi che molti possono immaginare a fatica. In Life 3.0 Max Tegmark, fisico teorico e comunicatore scientifico di origine svedese ma americano d’adozione, professore del Mit di Boston, membro dell’American Physical Society, analizza gli scenari futuri, i benefici e i rischi dell’intelligenza artificiale a breve e a lungo termine. Il suo saggio, che sarà pubblicato in italiano ad aprile e, nel corso del 2018, tradotto in una ventina di lingue, sta facendo discutere. Il testo è per certi versi visionario. Raccoglie ipotesi non per forza condivise dall’autore, che vanno dall’estinzione dell’umanità alla convivenza tra umani-cyborg e super intelligenze, con un grande fratello che sorveglia, per finire con l’immagine di un futuro remoto con reti neuronali intergalattiche di intelligenze artificiali disincarnate. Come ha scritto il settimanale «Time», i libri di fantascienza impallidiscono di fronte a certe sue descrizioni, mentre personalità eminenti del mondo scientifico, da Stephen Hawking ad Elon Musk, hanno espresso il loro apprezzamento al contenuto. Per capire i piani del discorso, bisogna considerare che l’intelligenza artificiale che sperimentiamo nella vita di tutti i giorni è ancora limitata, perché abbiamo a che fare con computer che eseguono funzioni specifiche come suggerire domande di ricerca oppure individuare le facce nelle fotografie. Ci sono sviluppi che conoscono soprattutto gli addetti del settore e che stanno trovando impiego nelle aziende, come quello elaborato da DeepMind, sezione londinese di Google, che ha costruito un sistema che impara da solo (senza alcun tipo di indicazione) a giocare ai videogiochi. Oppure c’è Deep blue, la macchina sviluppata da IBM, che
ha sconfitto il campione del mondo di scacchi Garry Kasparov. Che cosa accadrebbe se un giorno l’intelligenza artificiale «uscisse dalla scatola», diventando una forma di vita superiore, capace di pensare meglio di noi e di manovrarci? Questa possibilità potrebbe non essere così improbabile secondo Tegmark, che crede che dobbiamo essere in grado di controllare la tecnologia, dandole una direzione. «Possiamo creare un futuro stimolante attraverso la tecnologia se vinciamo la gara tra il suo sviluppo crescente e la saggezza con la quale la gestiamo», ha spiegato di recente a una conferenza con un gruppo di programmatori di Google, nella Silicon Valley. «Quando gli esseri umani hanno inventato il fuoco, poi hanno trovato il modo di spegnerlo; per le auto sono state create le cinture di sicurezza, i semafori, le regole stradali. Non possiamo pensare di potere imparare dagli errori con tecnologie come le armi nucleari, la biologia sintetica, l’intelligenza artificiale superumana. Dobbiamo fare un cambiamento, passare dall’essere attivi all’essere proattivi», il che significa intervenire in anticipo per prevenire problemi futuri. A proposito delle conseguenze dell’impiego dell’intelligenza artificiale, in Life 3.0 viene fatto l’esempio di quanto avvenne nel 1962 durante la Crisi dei missili di Cuba, a bordo del sottomarino militare russo Soviet B-59. In seguito all’attacco di bombe da parte di un gruppo di navi statunitensi, il capitano del sottomarino russo prese la decisione di lanciare il siluro nucleare. Vasili Arkhipov, vicecomandante, si oppose a quell’ordine e scongiurò così conseguenze disastrose. Ma che cosa sarebbe successo se al posto di una decisione umana ci fossero stati dei robot guidati da intelligenza artificiale? Sarebbe scoppiata una guerra mondiale? La visione di Tegmark interroga il mondo scientifico, anche se non tutti la vedono esattamente come lui. Luca Maria Gambardella, scienziato informatico, direttore dell’Istituto Dalle Molle di Studi sull’Intelligenza Artificiale (Idsia) che in collaborazione con
Quando e come è nata la passione per il dialetto?
L’amore per il dialetto è nato all’Università di Zurigo grazie a un professore molto particolare: Heinrich Schmidt, che è colui che ha inventato il rumantsch grischun, la lingua romancia unitaria, era molto stravagante, originale e bravo. Viveva di notte, faceva le sue lezioni la sera e arrivava ai corsi di dialettologia con plichi di dischi sottobraccio e, a dipendenza della regione che si stava studiando, si ascoltavano canzoni, a volte si cantava assieme, poi si analizzavano i testi. Portava calendari in dialetto, opuscoli, testi. Si partiva dal lato pratico per poi capire le regole della lingua. Mi sono perfino messo a studiare il rumeno, e lì c’era un mondo che si apriva perché il rumeno è un po’ il congelatore delle lingue neolatine e quindi si trovano degli esiti particolari che precedono lo sviluppo delle lingue romanze. Ha rimpianti, qualcosa che non è riuscito a realizzare? L’intelligenza artificiale ha le potenzialità per trasformare il nostro futuro come nessun’altra tecnologia. (Marka)
la Facoltà di scienze informatiche di Lugano ha avviato, lo scorso settembre, il primo master in intelligenza artificiale in Svizzera, pur apprezzando l’intento divulgativo di Life 3.0, crede che sia difficile fare previsioni a lungo termine. «È vero che c’è un’intelligenza artificiale bodiless, cioè che non ha come supporto un corpo fisico, che si sta sviluppando a ritmo velocissimo. Anche noi a Lugano creiamo algoritmi in questo senso, sia per la ricerca di base sia per le aziende. Si tratta di applicazioni verticali, cioè viene detto alla macchina cosa fare e quella esegue. L’idea che un giorno ci sarà un’intelligenza nuova che farà tutto, come e meglio degli umani, non so se sia davvero realista. Io, come altri miei colleghi, riesco
solo a pensare, nel concreto, a quel che accadrà tra uno o due anni. Chi si spinge più in là si avventura in speculazioni difficili da dimostrare». Secondo Gambardella – su questo in linea con l’approccio di Tegmark – quando pensiamo all’intelligenza artificiale dobbiamo liberarci dall’immaginario distorto dei film di fantascienza con robot killer alla Terminator oppure in versione femminile come Ava di Ex Machina. «Mi immagino un futuro dove, metaforicamente, avremo l’intelligente artificiale sulla spalla, al quale chiederemo consigli. Sarà un sistema ibrido, le macchine ci daranno dei pareri, come fanno gli amici, ma decideremo con la nostra testa. Questo sistema avrà applicazioni nel mondo
del lavoro, in diversi ambiti, da quello finanziario, alla ricerca scientifica, alla scrittura di testi». Comunque la si voglia interpretare, l’intelligenza artificiale rappresenta una rivoluzione che avrà un impatto sulle vite di tutti. Per prenderne parte non sarà necessario essere degli esperti, ma potrebbe essere utile capire il fenomeno. «Un buon modo per prepararsi a quello che sta succedendo è leggere testi divulgativi e sviluppare il pensiero computazionale, il ragionare in maniera logica, in modo algoritmico e a livelli multipli di astrazione. Ci sono molti corsi, qui in Ticino, con vari gradi di approfondimento, che offrono possibilità per i più giovani ma non solo», conclude Gambardella.
Ho lasciato incompiuto Il dialetto comune della Svizzera italiana, una sorta di sfida controcorrente. Di regola il dialettologo va a cercare le cose particolari, antiche e rare. Lavoro che abbiamo fatto per tanti anni con il Vocabolario, con il Lessico e con altre iniziative. Con questa opera si voleva fare il vocabolario del dialetto comune, delle cose quotidiane, da Airolo a Chiasso e da Campo Vallemaggia a Poschiavo. Una
Azione
Settimanale edito da Migros Ticino Fondato nel 1938 Redazione Peter Schiesser (redattore responsabile), Barbara Manzoni, Manuela Mazzi, Monica Puffi Poma, Simona Sala, Alessandro Zanoli, Ivan Leoni
sorta di basic dialect. Eravamo a buon punto, ma verso la fine c’era ancora un lavoro di revisione che andava al di là del mio mandato ed è quindi giusto che queste decisioni le prenda il mio successore. È rimasto incompiuto, ma spero che vada in porto.
Com’è cambiato il dialetto in questi 37 anni?
C’è un livellamento, un po’ come avviene in tutte le cose della nostra società globalizzata. Il dialetto è cambiato perché sono state smussate tante particolarità locali, si sono perse tante parole che si riferivano a realtà locali del mondo contadino o altre scalzate dagli equivalenti italiani. Oggi quasi più nessuno parla di giüstrell, giüstron o negrisöö, ma tutti dicono mirtilli. Salta giò dal mirtillo, si dice. Il dialetto è cambiato dal punto di vista della ricchezza lessicale, si è semplificato in certe strutture grammaticali o morfosintattiche ed è diventato una lingua più livellata. Anche l’uso è in netto calo, le statistiche ci dicono che attualmente meno di un terzo della popolazione ticinese dichiara di parlare anche dialetto a casa. È l’effetto della società multilingue che avanza. Secondo lei ha senso insegnarlo a scuola?
Qualche tempo fa c’era stato un tentativo con la Scuola Club di Migros Ticino, i corsi erano frequentati soprattutto da svizzero tedeschi, che hanno un altro modo di intendere il dialetto. Io credo che abbia senso e sia importante mantenere o inserire nella scuola un’attenzione sulla realtà dialettale, ma non necessariamente dal profilo dell’insegnamento. La cosa migliore per tramandare il dialetto è parlarlo in famiglia o con gli amici. Bisogna attirare l’attenzione sulla realtà dialettale attraverso lo studio delle usanze e delle tradizioni. Ciò può permettere di avere un aggancio più diretto con il proprio paese. Sarebbero utili e interessanti corsi in ambito scolastico che pongano l’attenzione sulla realtà locale in tutte le sue sfumature e quindi anche sul dialetto. I genitori che conoscono il dialetto dovrebbero parlarlo con i figli?
C’è stato un momento in cui il mondo della scuola ha fatto pressioni, per sconsigliare ai genitori di parlare dialetto con i figli accampando presunte difficoltà scolastiche. In realtà la situazione è molto diversa: studi non molto recenti dimostrano che la crescita di un bambino plurilingue permette una maggior elasticità mentale e assicura una protezione contro le malattie degenerative in età avanzata. Inoltre il dialetto apre le strade della conoscenza del proprio paese. Capire cosa vuol dire un toponimo, cosa dicono i nonni o poter leggere testi in dialetto sono cose arricchenti. La letteratura dialettale ha dato risultati altissimi anche nel nostro piccolo TiciSede Via Pretorio 11 CH-6900 Lugano (TI) Tel 091 922 77 40 fax 091 923 18 89 info@azione.ch www.azione.ch La corrispondenza va indirizzata impersonalmente a «Azione» CP 6315, CH-6901 Lugano oppure alle singole redazioni
«Il lavoro fatto in questi anni ha contribuito a togliere al dialetto quella nomea di lingua negativa, provinciale, di veicolo che limita la possibilità di riuscita sociale». (Ti-Press)
no. In Lombardia, certe pagine di Carlo Porta hanno una un valore letterario europeo. Io ho avuto un’esperienza come soccorritore alla Croce verde di Mendrisio per 17 anni. Con le persone anziane, se parlavi dialetto, il contatto era facilitato e ho percepito in più di un’occasione una sorta di luce positiva, di sollievo e conforto che ha facilitato l’interazione. Parlare dialetto è sempre un vantaggio!
Lo scrittore Alberto Nessi ha definito il dialetto «la lingua degli affetti».
È vero che se la famiglia lo parla, il dialetto diventa la lingua degli affetti. Abbiamo un bellissimo esempio in questo senso. Recentemente, forse all’Epifania, papa Francesco ha detto esplicitamente che la lingua della fede è il dialetto, la fede si trasmette in dialetto poi ci penseranno i catechisti a perfezionare la teoria, ma lo slancio iniziale è il dialetto della famiglia, delle madri e dei genitori. C’è un altro bell’esempio a proposito di affetti: come si fa a dire ti amo in dialetto? Ta vöri ben ha una pregnanza che l’italiano non può eguagliare. Ti amo è ormai banalizzato da mille usi, è una frase slavata. Ta vöri ben è anche meglio di ti voglio bene.
Che valore ha la letteratura in dialetto della nostra regione?
Bisogna distinguere: oggi si tende a chiamare poesia un po’ tutto, basta mettere due parole in rima... le poesie scritte per compleanni o feste degli amici possono essere argute e divertenti, ma finisce lì. Ci sono poi delle prove letterarie di autori che hanno saputo trasfondere nel dialetto e nella scrittura dialettale un’alta dose di arte e di poeticità: Alina Borioli, Giovanni Orelli, Giancarlo Bullo, Gabriele Quadri, Pino Bernasconi, persona coltissima che ha scritto in dialetto ma parlava spessissiEditore e amministrazione Cooperativa Migros Ticino CP, 6592 S. Antonino Telefono 091 850 81 11 Stampa Centro Stampa Ticino SA Via Industria 6933 Muzzano Telefono 091 960 31 31
mo in italiano dotto. Non vorrei far torto dimenticando qualcuno ma ci sono penne notevoli anche a casa nostra.
A volte, ultimamente, il dialetto viene ripescato come strumento per sottolineare la nostra identità. Una specie di «prima i nostri» della lingua.
L’uso di una lingua come strumento di chiusura verso l’altro è un’assurdità nei termini, perché la lingua è fatta per esprimere e comunicare. Se si pretende che questa comunicazione rimanga solo all’interno di una cerchia chiusa vuol dire essere miopi e non capire qual è la vera funzione del linguaggio. Credo che sia sbagliato ergere delle barriere di qualsiasi genere, ma anche e soprattutto linguistiche perché non è lo scopo per cui siamo stati dotati di questo stupendo strumento che è la parola. Lei è il padre del Lessico dialettale della Svizzera italiana, pubblicato nel 2004...
Sono fiero del Lessico ma non è solo merito mio, è il frutto di una redazione che ha lavorato molto bene. Ho avuto l’idea, la costanza e il merito di insistere affinché si realizzasse. Mi sentivo un po’ stretto dalla lentezza del Vocabolario, opera indubbiamente enciclopedica e fondamentale per la conoscenza del paese. Dopo anni d’insistenze è partito il progetto del Lessico grazie all’intuizione di Dino Jauch, che ha voluto collegare l’opera con i festeggiamenti per il duecentesimo della nascita dei cantoni Ticino e Grigioni. È stato un lavoro entusiasmante con collaboratori bravissimi e molto attivi. Siamo riusciti a portare a termine un’impresa corposa e importante in un tempo contenuto. Il Vocabolario della Svizzera italiana è un’opera che suscita critiche Tiratura 101’766 copie Inserzioni: Migros Ticino Reparto pubblicità CH-6592 S. Antonino Tel 091 850 82 91 fax 091 850 84 00 pubblicita@migrosticino.ch
per la lentezza dell’avanzamento. A che punto siamo?
Siamo alla lettera D. Il Vocabolario viene spesso citato, ma in realtà è poco conosciuto. È un’opera fondamentale per la conoscenza del nostro territorio. Ha il difetto di essere nato con questo indirizzo alfabetico. Se invece del Vocabolario in ordine alfabetico, il Centro producesse delle monografie nessuno avrebbe da ridire perché non ci sarebbe l’asticella del traguardo. Sono particolarmente orgoglioso di aver potuto diversificare l’attività del Centro che all’inizio si occupava solo del Vocabolario, realizzando molte altre proposte divulgative. Il lavoro fatto dal Centro in questi anni ha contribuito a togliere al dialetto quella nomea di lingua negativa, provinciale, di espressione volgare, di veicolo che limita la possibilità di riuscita sociale. Ora siamo arrivati alla valorizzazione e all’apprezzamento. Speriamo che ciò contribuisca ad arrestare l’erosione che si è manifestata negli ultimi decenni. Il Centro da lei diretto si occupa anche dei Musei etnografici del cantone.
Abbiamo raggruppato i due settori, Vocabolario e Musei, e questa è un’altra mia soddisfazione. Ciò ha permesso una sinergia di azioni e d’intenti molto fruttuosa. Il settore dei musei etnografici, grazie alle persone che ci lavorano, anche ai volontari, è una realtà molto viva e propositiva che sta facendo parecchio sia per organizzare nei posti più periferici delle manifestazioni culturali, sia per valorizzare la realtà di queste aree. Sarà importante anche in futuro mettere a confronto dal punto di vista antropologico ed etnografico le diverse realtà che compongono la nostra società. Abbonamenti e cambio indirizzi Telefono 091 850 82 31 dalle 9.00 alle 11.00 e dalle 14.00 alle 16.00 dal lunedì al venerdì fax 091 850 83 75 registro.soci@migrosticino.ch Costi di abbonamento annuo Svizzera: Fr. 48.– Estero: a partire da Fr. 70.–
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 19 febbraio 2018 • N. 08
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Società e Territorio Il Teatro e l’Accademia L’Accademia di Mendrisio ha vent’anni ed è in una fase di crescita arricchita dal nuovo Teatro dell’Architettura progettato da Mario Botta, un luogo pensato per le esposizioni, gli incontri e il confronto pubblico pagina 6
A due passi Con la sua consueta passeggiata Oliver Scharpf ci accompagna tra St. Moritz e Celerina dove, in un magnifico bosco di pini cembri, si snoda la pista di bob più famosa e prestigiosa del mondo pagina 7
Parlare dialetto è sempre un vantaggio
Intervista Dopo quasi 37 anni di attività, Franco Lurà, direttore del Centro di dialettologia
e di etnografia della Svizzera italiana, a fine marzo va in pensione
Il nostro futuro e le macchine intelligenti
Fabio Dozio Una vita dedicata al dialetto. Una passione per la lingua, per i suoni, per le parole, per le storie, per la gente che lo parla. Occhi azzurri, capelli brizzolati ed eloquio torrenziale: è Franco Lurà, Direttore del Centro di dialettologia e di etnografia, a fine marzo pensionato. Ha lavorato quasi 37 anni in questo ufficio, uno degli Istituti eccellenti del Cantone, anzi della Svizzera italiana. Infatti, si tratta della prima realtà che ha contribuito a far crescere il concetto di Svizzera italiana, caro a Stefano Franscini, unendo le valli del Ticino con quelle italofone del Canton Grigioni. L’avventura di chi ha creduto nella bontà di far nascere il Vocabolario del dialetto della Svizzera italiana, un’opera enciclopedica monumentale di cui questo Paese può essere orgoglioso, è infatti iniziata nel 1907, grazie al linguista Carlo Salvioni. «Affronto la pensione con la massima serenità – ci dice Lurà – perché è una decisione che ho già preso tempo fa. C’è un po’ di rincrescimento per un lavoro che mi piaceva molto e che mi ha dato molte soddisfazioni e in cui mi sono molto impegnato. Zücch e melún ala sua stagiún, quindi è giunto il momento di smettere e di cominciare altre cose».
Tecnologia Nel libro Life 3.0 lo scienziato
Max Tegmark pensa alle conseguenze dello sviluppo dei computer in grado di svolgere funzioni e ragionamenti tipici della mente umana. Il parere di Luca Maria Gambardella, direttore dell’Istituto Dalle Molle
Stefania Prandi L’intelligenza artificiale, cioè la capacità dei computer di svolgere funzioni e ragionamenti tipici della mente umana (per usare una delle definizioni possibili), sarà probabilmente il più importante cambiamento del ventunesimo secolo: trasformerà la nostra economia, la cultura, le politiche, i corpi e le menti in modi che molti possono immaginare a fatica. In Life 3.0 Max Tegmark, fisico teorico e comunicatore scientifico di origine svedese ma americano d’adozione, professore del Mit di Boston, membro dell’American Physical Society, analizza gli scenari futuri, i benefici e i rischi dell’intelligenza artificiale a breve e a lungo termine. Il suo saggio, che sarà pubblicato in italiano ad aprile e, nel corso del 2018, tradotto in una ventina di lingue, sta facendo discutere. Il testo è per certi versi visionario. Raccoglie ipotesi non per forza condivise dall’autore, che vanno dall’estinzione dell’umanità alla convivenza tra umani-cyborg e super intelligenze, con un grande fratello che sorveglia, per finire con l’immagine di un futuro remoto con reti neuronali intergalattiche di intelligenze artificiali disincarnate. Come ha scritto il settimanale «Time», i libri di fantascienza impallidiscono di fronte a certe sue descrizioni, mentre personalità eminenti del mondo scientifico, da Stephen Hawking ad Elon Musk, hanno espresso il loro apprezzamento al contenuto. Per capire i piani del discorso, bisogna considerare che l’intelligenza artificiale che sperimentiamo nella vita di tutti i giorni è ancora limitata, perché abbiamo a che fare con computer che eseguono funzioni specifiche come suggerire domande di ricerca oppure individuare le facce nelle fotografie. Ci sono sviluppi che conoscono soprattutto gli addetti del settore e che stanno trovando impiego nelle aziende, come quello elaborato da DeepMind, sezione londinese di Google, che ha costruito un sistema che impara da solo (senza alcun tipo di indicazione) a giocare ai videogiochi. Oppure c’è Deep blue, la macchina sviluppata da IBM, che
ha sconfitto il campione del mondo di scacchi Garry Kasparov. Che cosa accadrebbe se un giorno l’intelligenza artificiale «uscisse dalla scatola», diventando una forma di vita superiore, capace di pensare meglio di noi e di manovrarci? Questa possibilità potrebbe non essere così improbabile secondo Tegmark, che crede che dobbiamo essere in grado di controllare la tecnologia, dandole una direzione. «Possiamo creare un futuro stimolante attraverso la tecnologia se vinciamo la gara tra il suo sviluppo crescente e la saggezza con la quale la gestiamo», ha spiegato di recente a una conferenza con un gruppo di programmatori di Google, nella Silicon Valley. «Quando gli esseri umani hanno inventato il fuoco, poi hanno trovato il modo di spegnerlo; per le auto sono state create le cinture di sicurezza, i semafori, le regole stradali. Non possiamo pensare di potere imparare dagli errori con tecnologie come le armi nucleari, la biologia sintetica, l’intelligenza artificiale superumana. Dobbiamo fare un cambiamento, passare dall’essere attivi all’essere proattivi», il che significa intervenire in anticipo per prevenire problemi futuri. A proposito delle conseguenze dell’impiego dell’intelligenza artificiale, in Life 3.0 viene fatto l’esempio di quanto avvenne nel 1962 durante la Crisi dei missili di Cuba, a bordo del sottomarino militare russo Soviet B-59. In seguito all’attacco di bombe da parte di un gruppo di navi statunitensi, il capitano del sottomarino russo prese la decisione di lanciare il siluro nucleare. Vasili Arkhipov, vicecomandante, si oppose a quell’ordine e scongiurò così conseguenze disastrose. Ma che cosa sarebbe successo se al posto di una decisione umana ci fossero stati dei robot guidati da intelligenza artificiale? Sarebbe scoppiata una guerra mondiale? La visione di Tegmark interroga il mondo scientifico, anche se non tutti la vedono esattamente come lui. Luca Maria Gambardella, scienziato informatico, direttore dell’Istituto Dalle Molle di Studi sull’Intelligenza Artificiale (Idsia) che in collaborazione con
Quando e come è nata la passione per il dialetto?
L’amore per il dialetto è nato all’Università di Zurigo grazie a un professore molto particolare: Heinrich Schmidt, che è colui che ha inventato il rumantsch grischun, la lingua romancia unitaria, era molto stravagante, originale e bravo. Viveva di notte, faceva le sue lezioni la sera e arrivava ai corsi di dialettologia con plichi di dischi sottobraccio e, a dipendenza della regione che si stava studiando, si ascoltavano canzoni, a volte si cantava assieme, poi si analizzavano i testi. Portava calendari in dialetto, opuscoli, testi. Si partiva dal lato pratico per poi capire le regole della lingua. Mi sono perfino messo a studiare il rumeno, e lì c’era un mondo che si apriva perché il rumeno è un po’ il congelatore delle lingue neolatine e quindi si trovano degli esiti particolari che precedono lo sviluppo delle lingue romanze. Ha rimpianti, qualcosa che non è riuscito a realizzare? L’intelligenza artificiale ha le potenzialità per trasformare il nostro futuro come nessun’altra tecnologia. (Marka)
la Facoltà di scienze informatiche di Lugano ha avviato, lo scorso settembre, il primo master in intelligenza artificiale in Svizzera, pur apprezzando l’intento divulgativo di Life 3.0, crede che sia difficile fare previsioni a lungo termine. «È vero che c’è un’intelligenza artificiale bodiless, cioè che non ha come supporto un corpo fisico, che si sta sviluppando a ritmo velocissimo. Anche noi a Lugano creiamo algoritmi in questo senso, sia per la ricerca di base sia per le aziende. Si tratta di applicazioni verticali, cioè viene detto alla macchina cosa fare e quella esegue. L’idea che un giorno ci sarà un’intelligenza nuova che farà tutto, come e meglio degli umani, non so se sia davvero realista. Io, come altri miei colleghi, riesco
solo a pensare, nel concreto, a quel che accadrà tra uno o due anni. Chi si spinge più in là si avventura in speculazioni difficili da dimostrare». Secondo Gambardella – su questo in linea con l’approccio di Tegmark – quando pensiamo all’intelligenza artificiale dobbiamo liberarci dall’immaginario distorto dei film di fantascienza con robot killer alla Terminator oppure in versione femminile come Ava di Ex Machina. «Mi immagino un futuro dove, metaforicamente, avremo l’intelligente artificiale sulla spalla, al quale chiederemo consigli. Sarà un sistema ibrido, le macchine ci daranno dei pareri, come fanno gli amici, ma decideremo con la nostra testa. Questo sistema avrà applicazioni nel mondo
del lavoro, in diversi ambiti, da quello finanziario, alla ricerca scientifica, alla scrittura di testi». Comunque la si voglia interpretare, l’intelligenza artificiale rappresenta una rivoluzione che avrà un impatto sulle vite di tutti. Per prenderne parte non sarà necessario essere degli esperti, ma potrebbe essere utile capire il fenomeno. «Un buon modo per prepararsi a quello che sta succedendo è leggere testi divulgativi e sviluppare il pensiero computazionale, il ragionare in maniera logica, in modo algoritmico e a livelli multipli di astrazione. Ci sono molti corsi, qui in Ticino, con vari gradi di approfondimento, che offrono possibilità per i più giovani ma non solo», conclude Gambardella.
Ho lasciato incompiuto Il dialetto comune della Svizzera italiana, una sorta di sfida controcorrente. Di regola il dialettologo va a cercare le cose particolari, antiche e rare. Lavoro che abbiamo fatto per tanti anni con il Vocabolario, con il Lessico e con altre iniziative. Con questa opera si voleva fare il vocabolario del dialetto comune, delle cose quotidiane, da Airolo a Chiasso e da Campo Vallemaggia a Poschiavo. Una
Azione
Settimanale edito da Migros Ticino Fondato nel 1938 Redazione Peter Schiesser (redattore responsabile), Barbara Manzoni, Manuela Mazzi, Monica Puffi Poma, Simona Sala, Alessandro Zanoli, Ivan Leoni
sorta di basic dialect. Eravamo a buon punto, ma verso la fine c’era ancora un lavoro di revisione che andava al di là del mio mandato ed è quindi giusto che queste decisioni le prenda il mio successore. È rimasto incompiuto, ma spero che vada in porto.
Com’è cambiato il dialetto in questi 37 anni?
C’è un livellamento, un po’ come avviene in tutte le cose della nostra società globalizzata. Il dialetto è cambiato perché sono state smussate tante particolarità locali, si sono perse tante parole che si riferivano a realtà locali del mondo contadino o altre scalzate dagli equivalenti italiani. Oggi quasi più nessuno parla di giüstrell, giüstron o negrisöö, ma tutti dicono mirtilli. Salta giò dal mirtillo, si dice. Il dialetto è cambiato dal punto di vista della ricchezza lessicale, si è semplificato in certe strutture grammaticali o morfosintattiche ed è diventato una lingua più livellata. Anche l’uso è in netto calo, le statistiche ci dicono che attualmente meno di un terzo della popolazione ticinese dichiara di parlare anche dialetto a casa. È l’effetto della società multilingue che avanza. Secondo lei ha senso insegnarlo a scuola?
Qualche tempo fa c’era stato un tentativo con la Scuola Club di Migros Ticino, i corsi erano frequentati soprattutto da svizzero tedeschi, che hanno un altro modo di intendere il dialetto. Io credo che abbia senso e sia importante mantenere o inserire nella scuola un’attenzione sulla realtà dialettale, ma non necessariamente dal profilo dell’insegnamento. La cosa migliore per tramandare il dialetto è parlarlo in famiglia o con gli amici. Bisogna attirare l’attenzione sulla realtà dialettale attraverso lo studio delle usanze e delle tradizioni. Ciò può permettere di avere un aggancio più diretto con il proprio paese. Sarebbero utili e interessanti corsi in ambito scolastico che pongano l’attenzione sulla realtà locale in tutte le sue sfumature e quindi anche sul dialetto. I genitori che conoscono il dialetto dovrebbero parlarlo con i figli?
C’è stato un momento in cui il mondo della scuola ha fatto pressioni, per sconsigliare ai genitori di parlare dialetto con i figli accampando presunte difficoltà scolastiche. In realtà la situazione è molto diversa: studi non molto recenti dimostrano che la crescita di un bambino plurilingue permette una maggior elasticità mentale e assicura una protezione contro le malattie degenerative in età avanzata. Inoltre il dialetto apre le strade della conoscenza del proprio paese. Capire cosa vuol dire un toponimo, cosa dicono i nonni o poter leggere testi in dialetto sono cose arricchenti. La letteratura dialettale ha dato risultati altissimi anche nel nostro piccolo TiciSede Via Pretorio 11 CH-6900 Lugano (TI) Tel 091 922 77 40 fax 091 923 18 89 info@azione.ch www.azione.ch La corrispondenza va indirizzata impersonalmente a «Azione» CP 6315, CH-6901 Lugano oppure alle singole redazioni
«Il lavoro fatto in questi anni ha contribuito a togliere al dialetto quella nomea di lingua negativa, provinciale, di veicolo che limita la possibilità di riuscita sociale». (Ti-Press)
no. In Lombardia, certe pagine di Carlo Porta hanno una un valore letterario europeo. Io ho avuto un’esperienza come soccorritore alla Croce verde di Mendrisio per 17 anni. Con le persone anziane, se parlavi dialetto, il contatto era facilitato e ho percepito in più di un’occasione una sorta di luce positiva, di sollievo e conforto che ha facilitato l’interazione. Parlare dialetto è sempre un vantaggio!
Lo scrittore Alberto Nessi ha definito il dialetto «la lingua degli affetti».
È vero che se la famiglia lo parla, il dialetto diventa la lingua degli affetti. Abbiamo un bellissimo esempio in questo senso. Recentemente, forse all’Epifania, papa Francesco ha detto esplicitamente che la lingua della fede è il dialetto, la fede si trasmette in dialetto poi ci penseranno i catechisti a perfezionare la teoria, ma lo slancio iniziale è il dialetto della famiglia, delle madri e dei genitori. C’è un altro bell’esempio a proposito di affetti: come si fa a dire ti amo in dialetto? Ta vöri ben ha una pregnanza che l’italiano non può eguagliare. Ti amo è ormai banalizzato da mille usi, è una frase slavata. Ta vöri ben è anche meglio di ti voglio bene.
Che valore ha la letteratura in dialetto della nostra regione?
Bisogna distinguere: oggi si tende a chiamare poesia un po’ tutto, basta mettere due parole in rima... le poesie scritte per compleanni o feste degli amici possono essere argute e divertenti, ma finisce lì. Ci sono poi delle prove letterarie di autori che hanno saputo trasfondere nel dialetto e nella scrittura dialettale un’alta dose di arte e di poeticità: Alina Borioli, Giovanni Orelli, Giancarlo Bullo, Gabriele Quadri, Pino Bernasconi, persona coltissima che ha scritto in dialetto ma parlava spessissiEditore e amministrazione Cooperativa Migros Ticino CP, 6592 S. Antonino Telefono 091 850 81 11 Stampa Centro Stampa Ticino SA Via Industria 6933 Muzzano Telefono 091 960 31 31
mo in italiano dotto. Non vorrei far torto dimenticando qualcuno ma ci sono penne notevoli anche a casa nostra.
A volte, ultimamente, il dialetto viene ripescato come strumento per sottolineare la nostra identità. Una specie di «prima i nostri» della lingua.
L’uso di una lingua come strumento di chiusura verso l’altro è un’assurdità nei termini, perché la lingua è fatta per esprimere e comunicare. Se si pretende che questa comunicazione rimanga solo all’interno di una cerchia chiusa vuol dire essere miopi e non capire qual è la vera funzione del linguaggio. Credo che sia sbagliato ergere delle barriere di qualsiasi genere, ma anche e soprattutto linguistiche perché non è lo scopo per cui siamo stati dotati di questo stupendo strumento che è la parola. Lei è il padre del Lessico dialettale della Svizzera italiana, pubblicato nel 2004...
Sono fiero del Lessico ma non è solo merito mio, è il frutto di una redazione che ha lavorato molto bene. Ho avuto l’idea, la costanza e il merito di insistere affinché si realizzasse. Mi sentivo un po’ stretto dalla lentezza del Vocabolario, opera indubbiamente enciclopedica e fondamentale per la conoscenza del paese. Dopo anni d’insistenze è partito il progetto del Lessico grazie all’intuizione di Dino Jauch, che ha voluto collegare l’opera con i festeggiamenti per il duecentesimo della nascita dei cantoni Ticino e Grigioni. È stato un lavoro entusiasmante con collaboratori bravissimi e molto attivi. Siamo riusciti a portare a termine un’impresa corposa e importante in un tempo contenuto. Il Vocabolario della Svizzera italiana è un’opera che suscita critiche Tiratura 101’766 copie Inserzioni: Migros Ticino Reparto pubblicità CH-6592 S. Antonino Tel 091 850 82 91 fax 091 850 84 00 pubblicita@migrosticino.ch
per la lentezza dell’avanzamento. A che punto siamo?
Siamo alla lettera D. Il Vocabolario viene spesso citato, ma in realtà è poco conosciuto. È un’opera fondamentale per la conoscenza del nostro territorio. Ha il difetto di essere nato con questo indirizzo alfabetico. Se invece del Vocabolario in ordine alfabetico, il Centro producesse delle monografie nessuno avrebbe da ridire perché non ci sarebbe l’asticella del traguardo. Sono particolarmente orgoglioso di aver potuto diversificare l’attività del Centro che all’inizio si occupava solo del Vocabolario, realizzando molte altre proposte divulgative. Il lavoro fatto dal Centro in questi anni ha contribuito a togliere al dialetto quella nomea di lingua negativa, provinciale, di espressione volgare, di veicolo che limita la possibilità di riuscita sociale. Ora siamo arrivati alla valorizzazione e all’apprezzamento. Speriamo che ciò contribuisca ad arrestare l’erosione che si è manifestata negli ultimi decenni. Il Centro da lei diretto si occupa anche dei Musei etnografici del cantone.
Abbiamo raggruppato i due settori, Vocabolario e Musei, e questa è un’altra mia soddisfazione. Ciò ha permesso una sinergia di azioni e d’intenti molto fruttuosa. Il settore dei musei etnografici, grazie alle persone che ci lavorano, anche ai volontari, è una realtà molto viva e propositiva che sta facendo parecchio sia per organizzare nei posti più periferici delle manifestazioni culturali, sia per valorizzare la realtà di queste aree. Sarà importante anche in futuro mettere a confronto dal punto di vista antropologico ed etnografico le diverse realtà che compongono la nostra società. Abbonamenti e cambio indirizzi Telefono 091 850 82 31 dalle 9.00 alle 11.00 e dalle 14.00 alle 16.00 dal lunedì al venerdì fax 091 850 83 75 registro.soci@migrosticino.ch Costi di abbonamento annuo Svizzera: Fr. 48.– Estero: a partire da Fr. 70.–
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 19 febbraio 2018 • N. 08
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Società e Territorio
Il Teatro e il futuro dell’Accademia
Architettura Il Teatro dell’Architettura progettato da Mario Botta e recentemente inaugurato è stato pensato
come luogo delle esposizioni, degli incontri e del confronto pubblico Alberto Caruso Un quadrato inscritto in un cerchio. Le opere di Mario Botta si sono sempre misurate con la geometria. In quest’ultimo lavoro – il Teatro dell’Architettura di Mendrisio – la sfida con la geometria è stata alta. Un grande cilindro, che ospita uno spazio quadrato a tutt’altezza. La sfida consiste, innanzitutto, nell’adozione della figura cilindrica, una figura non orientata e perfetta, che è molto difficile interrompere, bucare, per formare l’ingresso. E poi consiste nell’inserimento nel cerchio di uno spazio quadrato, che provoca dei ritagli dalla forma irregolare, spazi formati dalla sovrapposizione delle due figure, che è altrettanto difficile utilizzare razionalmente.
L’Accademia ha solo vent’anni, è una scuola giovane, ed è inevitabile che il suo percorso non sia lineare In quest’opera, Botta ha lavorato per «riduzione» del linguaggio, anche rinunciando ad alcuni dettagli che spesso distinguono la sua architettura, conferendole riconoscibilità. L’essenzialità raggiunta nel Teatro è una lezione per gli studenti dell’Accademia, su come un lungo impegno di affinamento formale può produrre spazi ai quali non si può togliere né aggiungere aggettivi architettonici, senza comprometterne il valore d’uso. Il volume del tamburo è stato aperto con pochi tagli sapienti, che orientano la sua figura rispetto al contesto, e il grande spazio interno è delimitato da superfici perimetrali colorate di bianco collocate in posizione alternata, che gli conferiscono un’atmosfera dinamica. L’ispirazione originaria del lavoro di Botta all’opera di Louis Kahn, che soprattutto nelle prime opere era dichiarata esplicitamente, qui viene rinnovata con una freschezza senza mediazioni. L’insegnamento del maestro americano torna come riferimento forte e chiaro, necessario in una fase di disorientamento e confusione dei linguaggi, che ha pervaso anche l’adiacente scuola di architettura. Il Teatro è uno spazio per la scuola che Botta ha creato vent’anni fa, e che oggi ha bisogno di riscoprire e rinnovare le sue ragioni. L’architettura elementare ed eloquente del Teatro, comprensibile a tutti e connessa così fortemente
L’edificio cilindrico ospita uno spazio quadrato. (CdT - Zocchetti)
al luogo, è stata concepita per parlare alla scuola, per indicare – con la solidità dell’impianto sia concettuale che murario destinato a resistere al tempo e alle mode – che il compito alto dell’insegnamento dell’architettura è di formare la coscienza della responsabilità sociale del mestiere. Nei vent’anni trascorsi dalla sua fondazione, l’Accademia di Mendrisio ha indubbiamente costruito un prestigio da scuola di eccellenza dell’architettura svizzera, insieme ai Politecnici di Zurigo e di Losanna. La sua configurazione edilizia si è oggi arricchita del Teatro dell’Architettura e tra breve saranno iniziati i lavori del nuovo edificio per la didattica. La nuova sede del Dipartimento Ambiente Costruzioni e Design della SUPSI – presso la stazione FFS di Mendrisio – è già in cantiere e aprirà interessanti prospettive di confronto e collaborazione tra percorsi didattici e figure professionali diverse della cultura della costruzione. In questa fase di crescita della scuola, il tema del profilo dell’architetto diplomato all’Accademia, del carattere della sua formazione rispetto al destino
professionale, si pone come centrale, perché indubbiamente gli obiettivi originariamente dettati da Mario Botta e da Aurelio Galfetti hanno subìto una fase di progressivo appannamento. L’Accademia è stata fermamente voluta in Ticino per trasformare la straordinaria carica innovativa dell’architettura ticinese – che, tra gli anni 60 e gli anni 80 del secolo scorso, ha fatto conoscere nel mondo questa terra e suoi architetti costruttori – in ricerca ed elaborazione culturale da trasmettere alle nuove generazioni. L’«architetto del territorio» era la formula efficacemente espressiva di un architetto dalla formazione «generalista», interdisciplinare, non specializzata, e con una forte inclinazione culturale umanista. Una inclinazione che, secondo i fondatori, mancava alla scuola zurighese che aveva formato la maggior parte degli architetti ticinesi. Il legame con la realtà territoriale, lo studio e la conoscenza della sua storia e della sua geografia fisica e sociale conferivano a questa formazione la capacità di criticare la condizione esistente per migliorarla e, quindi, la consapevolezza del ruolo civile dell’architettura.
La storia dell’Accademia si è arricchita, fin dall’inizio, del contributo di docenti provenienti dal resto della Svizzera e dal mondo intero, costruendo una scuola in grado di offrire percorsi didattici ricchi di suggestioni e diversità, evitando sempre una possibile deriva provinciale. Nel tempo, la presenza di docenti ticinesi di ruolo si è molto assottigliata, anche se negli ultimi anni la direzione ha invitato a insegnare molti tra i migliori giovani architetti del Cantone. Di fatto, l’«architetto del territorio» ha ancora un peso nella formazione accademica, ma esso non appare come prevalente. La mostra dei progetti di diploma, organizzata alla fine di ogni anno accademico, consente di registrare come diversi studenti concludano il loro ciclo di studi con progetti di dimensione impegnativa e dalle immagini spesso attrattive e visionarie, che tuttavia propongono temi «altri» rispetto alla complessità delle questioni reali con le quali dovranno poi criticamente confrontarsi e per affrontare le quali devono essere intellettualmente
quest’anno ha semplificato in «Qual è la vostra ultima domanda?». Come ha riportato la «Neue Zürcher Zeitung» qualche tempo fa, César Hidalgo, del Media Lab del Massachusetts Institute of Technology, si chiede quando i governi saranno sostituiti dagli algoritmi, J. Craig Venter, studioso di genomi, si domanda se la creazione di una classe di super uomini, grazie alla manipolazione genetica, porterà al crollo della civilizzazione, mentre Martin Rees, professore emerito di cosmologia e astrofisica a Cambridge si chiede se le forme di esistenza post umane saranno organiche o elettroniche. Jennifer Jacquet, ricercatrice ambientale alla New York University si interroga sui fattori che porteranno al collasso della civiltà occidentale, mentre Lisa Randall, fisica alla Harvard University, vuole sapere quanto ancora pos-
siamo spingerci oltre i limiti umani per meglio comprendere l’essenza del mondo. Chi ha una risposta batta un colpo. Intanto proseguo nel raccontarvi l’idea alla base di tutto che ci rimanda al concetto di third culture e all’omonimo libro pubblicato da Brockman nel 1995, uscito in italiano per Garzanti, dal titolo La terza cultura. Per chi fosse interessato c’è anche una più recente pubblicazione uscita per Il Saggiatore, Terza cultura di Vittorio Lingiardi e Nicla Vassallo. Di cosa si tratta? In primo luogo, in parte si è già detto, la «terza cultura» è una comunità internazionale di artisti, filosofi, scienziati e scrittori impegnati in un dialogo creativo costruttivo, che mira a promuovere nuove teorie e pratiche umane. Promozione che passa dal riconoscimento dei valori della ricerca
attrezzati. Il tema più attuale e importante che anima i dibattiti in corso nelle città europee, la «rigenerazione urbana» – cioè le strategie di riscatto dalle condizioni di degrado di tante parti delle città e del territorio attraverso la cultura del progetto – sembra assente in diversi progetti. In questo scenario, il Teatro dell’Architettura di Mario Botta indica la necessità di imboccare una direzione didattica e di ricerca che recuperi, aggiornandola alle elaborazioni culturali più recenti e registrando le condizioni territoriali più attuali, la tensione ed il realismo critico che distinguevano i programmi originari. L’Accademia ha solo vent’anni, è una scuola giovane, ed è inevitabile che il suo percorso non sia lineare. Il Teatro, gestito da un’apposita Fondazione autonoma presieduta da Botta, è pensato come il luogo delle esposizioni, degli incontri e del confronto pubblico, aperto alle altre istanze esistenti sul territorio. Un luogo capace di favorire e ospitare relazioni tra la cultura architettonica e le questioni che animano una società che continua a trasformarsi.
La società connessa di Natascha Fioretti Il salotto cyber di John Brockman C’erano una volta i salotti letterari e i caffè filosofici, oggi c’é Starbucks, scrissi qualche tempo fa su queste pagine. Ma non mi ero ancora accorta, allora, che da qualche parte nel mondo si stava riunendo un salotto cyber di menti geniali della nostra epoca. Dal 1981, infatti, a New York c’é un club di moderni intellettuali, acrobati del pensiero, avventurieri in bilico tra il mondo delle scienze umane e delle scienze naturali che si riuniscono per condividere idee, progetti, domande volti a poter meglio comprendere l’evoluzione e la trasformazione che stiamo vivendo. A riunire, a far incontrare scienziati, ingegneri, liberi pensatori in questi ultimi vent’anni ci ha pensato John Brockman, agente letterario e autore di testi letterari scientifi-
ci che una mattina si è alzato e ha deciso di dare concretezza e visione al suo motto «Per compiere lo straordinario devi cercare persone straordinarie». Detto, fatto: grazie al suo impulso, menti geniali hanno iniziato a riunirsi in loft di artisti, musei, ristoranti cinesi, uffici di società bancarie, salotti privati, per condividere il proprio sapere e arrivare al limite della conoscenza del mondo. Questa community cresciuta nel tempo oggi si chiama The Reality Club ed è accessibile a tutti sul sito www.edge.org. All’età di 76 anni e dopo vent’anni al timone, il fondatore John Brockman ha deciso di prendersi una pausa ma non senza prima rivolgere la solita domanda annuale a tutti i membri del suo salotto cyber. Se l’anno scorso chiedeva «Qual è il termine scientifico o il concetto che dovrebbe essere più largamente conosciuto?»,
in ogni ambito, quali risorse essenziali della società democratica moderna. In particolare però travalica quel confine netto che Kant nella sua Critica della ragion pura aveva tracciato tra sapere e speculazione, confine oggi messo in discussione dalle bioscienze, dalle teorie dell’informazione, dalla genetica, dalla neurofisiologia, dalla tecnologia digitale ecc. Dunque il salotto cyber di Brockman mira al superamento della tradizionale contrapposizione tra cultura umanistica e cultura scientifica, definendo una nuova sintesi, la terza cultura in grado di indagare i significati più profondi delle nostre vite ridefinendo chi e che cosa siamo. E per farlo, alla luce delle nuove evoluzioni e di quelle che verranno, dobbiamo trovare un nuovo modo di porre le domande, intendere la cultura e vedere il mondo.
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Società e Territorio Rubriche
Lo specchio dei tempi di Franco Zambelloni Il trionfo di Pinocchio Il linguaggio, ha detto qualcuno, è stato inventato per mentire; benché questa affermazione sia senz’altro esagerata, contiene anche molto di vero: molti animali sanno fingere e simulare, ma la menzogna vera e propria è possibile solo col discorso. Basta scambiare una parola per un’altra, o creare un velo di ambiguità che faciliti l’equivoco, e il gioco è fatto. Come scriveva Paolo ai Corinti, «se non pronunziate parole chiare con la lingua, come si potrà comprendere ciò che andate dicendo? Parlerete al vento!». In questi ultimi tempi, ad esempio, è circolata nel Ticino e nei Grigioni la notizia di un sedicente Istituto universitario che «universitario» non era, ma che, arrogandosi il titolo, ha truffato non pochi studenti convinti di accedere a un curriculum sfociante in un diploma di laurea. Il fatto mi richiama alla memoria un divertente racconto di Achille Campa-
nile: un tale si presenta in un albergo e porge il suo biglietto da visita: «S.E. Prof. Ing. Avv. Comm. Pasini». Impressionato da tanta dovizia di titoli, il portiere si affretta a chiamare il direttore, che subito accorre a salutare «Sua Eccellenza». Ma l’ospite precisa che non è affatto un’Eccellenza: S.E. sta per «Silvio Enea». Il direttore allora lo chiama Professore, ma quello chiarisce che «Prof.» sta per «Profugo». E così via: Ing. è l’abbreviazione di «ingegnoso», «Avv.» di «avventizio», «Comm.», di «commissionario». Sì, con le parole si possono fare molti scherzi. È propria del linguaggio la facoltà di schiudere orizzonti di ambiguità, dilatando il senso al di là del valore semantico. L’uso di un linguaggio figurato e delle metafore, in particolare, è il modo ottimale per introdurre affermazioni ambigue – che possono essere vere, ma anche false. Mi diverto con qualche esempio, riflettendo su
comunissimi modi di dire: un uomo che dice di essere «stanco morto» mente senza dubbio, se si prescinde dalla metafora; al massimo può essere «stanco moribondo». L’espressione «Ti do volentieri una mano», se intesa alla lettera, può essere detta solo da un autolesionista bramoso di amputazioni. La moglie che dice al marito «Sei un tesoro» dice senz’altro il vero se l’uomo è molto ricco; altrimenti, la metafora può anche esprimere una dichiarazione d’affetto della cui verità è possibile dubitare. Il politico che dice di amare l’Elvezia forse ha un’amante con questo nome. E così via. Ora poi che siamo nell’era della comunicazione ininterrotta, dove i discorsi e le notizie ci sommergono, è realistico pensare che la realtà diventi sempre più vaga e camuffata. Lasciamo perdere le fake news, le bufale, le smaccate invenzioni che circolano in Rete. Basta considerare la pubblicità:
quando una voce dolce e suadente mi sussurra dal televisore che un alimento inscatolato è stato «fatto con amore», faccio fatica a credere che un oggetto di consumo prodotto in migliaia e migliaia di esemplari sia nato da un affetto altruistico. Ma è soprattutto la politica che spesso costituisce il luogo delle mezze-verità, delle mezze-bugie o delle menzogne tutte intere. Non è certo una novità: nel Seicento il cardinale Giulio Mazzarino, reggente di Francia, scrivendo il Breviario dei politici, come primo imperativo per l’uomo di Stato poneva questo: «Simula e dissimula»; fingere e occultare i fatti costituivano dunque gli strumenti del potere. Nel Settecento Jonathan Swift, nell’Arte della menzogna politica, delineava la figura del «bugiardo politico», al quale basta essere creduto per un’ora: chi gli ha dato retta può poi anche ricredersi, ma ormai è troppo tardi. Tutta la storia passata mostra una strategia della
menzogna come strumento di potere che si prolunga per millenni, fino al presente: come la falsa Donazione di Costantino, i falsi Protocolli dei Savi di Sion, le interminabili bugie di Hitler, ma anche quelle di Tony Blair e di Bush sulle armi di distruzione di massa irachene. Oggi tutti parlano di amore, pace, libertà, eguaglianza: ma se poi si va a vedere cosa segue alle parole, non sempre si ha un’impressione di coerenza. Come diceva Bergson, «non ascoltate ciò che dicono, guardate ciò che fanno»: ma anche guardare è ormai diventato più difficile, oggi che le immagini possono essere costruite, selezionate e contraffatte per qualunque scopo. Un tempo, uno degli elogi migliori che si potessero fare di un individuo era dirlo «uomo di parola»: «Ein Mann, ein Wort», al modo dei tedeschi. Si può ancora dirlo? Forse resta vero solo il codicillo: «Eine Frau, ein Wörterbuch».
libera» dice ora. E poco dopo ecco, in corrispondenza del tratto chiamato Snake corner, l’inconfondibile suono del bob che scivola nel canalone di neve. Riemergono ricordi mattinali sepolti, in particolare i colori alle tele del bob svizzero. Quelli svaniti dell’ex Società di Banca Svizzera: verde pavone, blu notte, un tocco di bianco per il logo delle chiavi, un’idea di arancio. Sono al Sunny corner. Prima del ponte, un binocolo mostra com’è in estate. Ogni anno, a fine novembre, s’incomincia proprio qui dal Sunny corner a costruire a regola d’arte quella che un reporter della «Frankfurter Allgemeine» in una parola chiama «Natureiskunstwerk»: scultura di ghiaccio naturale. Cinquemila metri cubi di neve tramutati in un serpentone alpino lungo millesettecentoventidue metri. Per tre generazioni ci ha pensato la famiglia Angelini, adesso da quasi trent’anni il compito è affidato a Christian Brantschen che dirige una squadra di quindici tutti di Naturns, Sudtirolo. Ora il sentiero esce per un
pezzo sulla strada, si rientra a bordo pista proprio a ridosso della sua curva più celebre, la Horse shoe. La parete che si piega a ferro di cavallo è abbastanza impressionante. Arriva un bob a non meno di centotrenta all’ora, in curva è spinto su in alto fino a sfrecciare via in verticale. La forza centrifuga ispira qualche versetto da luna park. Va da sé, la Horse shoe è il posto migliore per godersi una delle gare di ogni tipo che si svolgono da dicembre a marzo. Il lavoro di uno consiste nell’essere qui tutto il giorno a perfezionare la curva, adesso gratta via un po’ di ghiaccio con un aggeggio apposta. Invece di questa vana musichetta peccato non mettere su Bob Marley a balla. Al Bridge corner un triste monobob sballotta un po’. Da un paese all’altro, eccoci a Celerina. Il traguardo è in ombra. Pare impossibile un nesso, eppure il Dracula di Bram Stoker è del 1897: lo stesso anno di nascita del club di bob. In fondo niente è impossibile, non dimenticatevi mai del bob giamaicano alle olimpiadi.
Si riferisce a comportamenti rappresentativi, nella quotidianità americana: cresce, nelle sale da bowling, il numero dei frequentatori per conto proprio, cala quello degli iscritti a una squadra. In altre parole, va scomparendo l’associazionismo, un aspetto che fu tipico della convivenza negli USA. Ed è una tendenza, da ascrivere ai grandi mutamenti epocali irreversibili, in cui il cittadino disorientato chiama in causa lo Stato, che dovrebbe aiutarlo a risolvere anche un effetto collaterale della tecnologia e dell’informatizzazione, qual è appunto la solitudine, condizione un tempo strettamente privata. Non è forse illusorio chiedere la soluzione al ministero di Tracey Crouch? L’interrogativo ci concerne tutti quanti, e persino nella nostra minuscola realtà ticinese, che, per sua natura, facilita i rapporti umani. Sui quali, però, l’avvento di compter e smartphone, hanno influito inesorabilmente. Sono scomparse, dal nostro orizzonte quotidiano, figure ormai irrecuperabili: il
benzinaio, il tipografo, il fotografo, il bancario dietro lo sportello, il bigliettaio, la sartina, il portinaio, e via enumerando prestatori d’opera, negli ambiti più svariati e sempre personalizzati. E, conseguentemente, si vive una nuova forma di solitudine involontaria. Nei cui confronti c’è, anche da noi, chi invoca l’intervento delle autorità che, dal canto loro, si danno da fare organizzando eventi a gogò. I cosiddetti momenti d’aggregazione. Si assiste, tuttavia, a un vistoso paradosso. Cala, da parte dei cittadini, la fiducia per la politica, ma aumenta il ricorso alla delega. In altre parole, se le cose non vanno per il giusto verso, e per citare l’esempio più attuale a Lugano, i negozi che chiudono, ci si rivolge alle autorità. Alle quali, in definitiva, si chiedono miracoli. Non soltanto di rianimare la via Nassa, salotto ormai dimenticato dai luganesi, ma persino di rimediare alla solitudine. Che, tra altro, potrebbe essere anche una scelta volontaria, a suo modo godibile.
A due passi di Oliver Scharpf La pista olimpica di bob St. Moritz-Celerina Dracula club: così si chiama il leggendario ritrovo notturno nato nel 1974 accanto alla partenza della pista olimpica di bob. Idea di Gunter Sachs (1932-2011): dinastia Opel, playboy, campione europeo juniores di bob a due, terzo marito di Brigitte Bardot, a tempo perso fotografo e studioso di statistica astrologica, presidente – dal 1969 alla morte – del Saint Moritz Bobsleigh club. Primo club di bob al mondo risalente al 1897 la cui sede è proprio attaccata al Dracula club, dal quale si deve per forza passare via per arrivare alla partenza della storica pista tra St. Moritz (1861 m) e Celerina (1732 m). Nata nel 1904 su spinta di alcuni bobbisti inglesi, in mezzo a un bosco di pini cembri, è la più antica e prestigiosa del mondo. I mondiali non si contano, due le olimpiadi. E l’unica rimasta a essere realizzata con neve ghiacciata naturalmente. La tocco passandoci su il palmo della mano. C’è parecchia gente alla partenza. Dopo mezzogiorno, per duecentocinquanta franchi, chiunque
può avere la sua dose di adrenalina pura. Il posto, come all’epoca, è parte del parco del Kulm Hotel, dove Johannes Badrutt (1819-1889) scommettendo con quattro ospiti inglesi, nel 1864 inventa, come amano raccontare qui, le vacanze invernali. Introduce poi in alta Engadina il curling scozzese, gli scomparsi camerieri sui pattini, ma soprattutto si appassiona alla creazione della Cresta run (1885). Pista altrettanto storica per spericolati toboganisti a pancia in giù, dieci minuti neanche da qui, dall’altra parte della strada. E che meriterebbe di certo un pezzo a parte, al pari del Sunny bar dentro il Kulm dove ancora oggi si ritrovano, al bancone intarsiato, gli impavidi adepti del St. Moritz Tobogganing club (1887). Una voce chiama i nomi degli «ospiti». È pronto un bob a quattro rosso fiammante della Omega. Due alla volta, si accovacciano in mezzo, tra i due bobbisti esperti. Una leggera spinta e via. Nella scelta odierna del punto di vista non esito un attimo, nessun colpo di testa all’ultimo minuto.
Ci vuole la giusta distanza, un coinvolgimento eccessivo offuscherebbe lo sguardo, del resto in settantacinque secondi fai in tempo solo a dire uau o amen. Dal bar del bob esce un gruppo ringalluzzito dalle birrette. Tutti, come minimo, si fanno coraggio con il Cüpli compreso nel prezzo. È la Gunter Sachs Lodge come si legge intagliato in caratteri gotici; un regalo autocelebrativo del 1977. Caschi neri in testa, stretti come sardine, testa giù: altri due partono. La spinta non è quella assatanata vista alla tele, qualcuno dei presenti però scimmiotta gli incoraggiamenti del pubblico da gara vera. M’incammino così a metà febbraio lungo il sentiero di neve che si snoda a fianco del glorioso percorso e in certi punti, s’intreccia. Piano piano perché si scivola. Che meraviglia i vecchi cembri odorosi. Abbondantemente sotto zero, il sole fa capolino ogni tanto. Dagli altoparlanti invisibili si sente lo speaker complimentarsi con quelli appena arrivati al traguardo. Musichetta, pubblicità. «La pista è
Mode e modi di Luciana Caglio Anche alla solitudine ci pensi lo Stato Secondo dati statistici, per altro contrastanti, sarebbero 2 o addirittura 9 milioni, i cittadini del Regno Unito alle prese con la solitudine, disagio ormai considerato alla stregua di un allarmante fenomeno nazionale. Tanto da mobilitare il governo della signora May a intervenire prestando gli aiuti del caso. Da qui, la decisione, d’istituire un vero e proprio ministero per la solitu-
Tracey Crouch. (Wikimedia)
dine, entrato in funzione il 17 gennaio e affidato a Tracey Crouch, intraprendente quarantenne, che in precedenza si era occupata del dicastero sport e società, ambito di ordinaria amministrazione. Adesso, invece, alla testa di un organismo governativo, che è una primizia, ha dovuto precisare, a scanso di equivoci, che la solitudine rappresenta una reale emergenza per la collettività, anche dal profilo finanziario. Come emerge dal lavoro d’indagine, compiuto dalla commissione Jo Cox (dal nome della deputata uccisa da un estremista di destra, durante la campagna Brexit) che denunciava l’evoluzione di un male individuale, spesso nascosto, cresciuto a epidemia sociale, sempre più evidente. La figura stessa del solitario tipo sta cambiando. Se, nel passato, era principalmente associata a povertà, malattia, ignoranza, oggi si presenta anche sotto mentite spoglie. Concerne una categoria ben più ampia di persone vittime, più o meno consapevoli, del progresso tecnologico, e affascinati dalle prospet-
tive di un individualismo assoluto. In questo nuovo clima, si sono costruite un’autonomia che esclude ogni forma di dipendenza e collaborazione con gli altri, e quindi elimina ogni contatto diretto. Sono in grado di fare più cose, per conto proprio, grazie a congegni che sostituiscono le persone, familiari, amici, colleghi, ormai superflui. Con effetti registrati dalla demografia e dalla sociologia: non ci si sposa, si limitano o si evitano le nascite, ci si concentra sul proprio io. Questo contagio non conosce confini. Gli americani, che consideravano la solitudine una malattia prettamente inglese, dovuta a una tradizione di signorile riservatezza, a loro volta si trovano ad affrontare una nuova generazione di solitari. In proposito, il sociologo Robert Putnam, già nel 2000, aveva dedicato al fenomeno il saggio Bowling alone, un titolo che fece epoca, diventando addirittura «una metafora», (mi approprio di una definizione letta sul «Foglio» di domenica scorsa!).
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Ambiente e Benessere Il problema neve Analizzare il «caso» per meglio conoscere e capire la portata di un fenomeno importante pagina 10
Il soccorso che arriva volando Una giornata insieme all’équipe della Rega, squadra specializzata negli interventi d’emergenza
Turisti o moralisti? L’ospitalità dei paesi «cattivi» mal si combina con la visione politica degli Stati in conflitto
La natura che aiuta le ossa Uno studio ha dimostrato che l’equiseto migliora la vita agli affetti da osteoporosi
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L’evoluzione delle protesi Medicina L’intervento di sostituzione
articolare al centro di una conferenza pubblica dei chirurghi ortopedici EOC all’Usi il 21 febbraio
Maria Grazia Buletti «Le domande più frequenti sulle protesi della spalla, dell’anca e del ginocchio» è il tema della conferenza pubblica proposta dall’Unità di chirurgia ortopedica e traumatologica dell’Ospedale Regionale di Lugano (Orl) nell’ambito del ciclo di incontri informativi promossi dagli specialisti ortopedici che l’anno scorso avevano illustrato le patologie cartilaginee del ginocchio («Azione» no. 18/2017, Se il ginocchio fa male). Questo secondo incontro con la popolazione (entrata libera) avrà luogo mercoledì 21 febbraio, nell’Aula Magna dell’Università della Svizzera italiana (Usi), alle 18. Si parlerà di protesica delle articolazioni di spalla, ginocchio e anca. «Siamo sempre più persuasi dell’importanza di metterci a disposizione della gente per quanto attiene a tutte le informazioni, l’evoluzione medica e le indicazioni circa le patologie ortopediche», esordisce il dottor Christian Candrian, responsabile dell’Unità di Traumatologia e Ortopedia Orl. Sottolineando anch’egli l’importanza di incontrare personalmente gli interessati, gli fa ecco il suo omologo dottor Paolo Gaffurini: «Offriamo alle persone l’opportunità di conoscere meglio le problematiche legate alle articolazioni, unitamente all’approccio terapeutico adeguato e individualizzato che oggi il chirurgo ortopedico propone ai suoi pazienti». Questo nuovo appuntamento informativo approfondirà la cosiddetta tecnica protesica articolare, concetto così riassunto dal dottor Gaffurini: «In ortopedia, possiamo definire la protesi come una componente atta a sostituire in parte o completamente un’articolazione, con l’intento di recuperare la sua funzionalità, togliere il dolore e/o ridare la stabilità». È dunque un impianto articolare tecnicamente ideato dall’uomo. Il dottor Candrian spiega che: «Per diverse cause, la natura può renderci invalida un’articolazione e l’uomo ha creato una sorta di nuova articolazione con una superficie articolare artificiale a sostituzione di quella malata». Potrebbe sembrare la soluzione ideale per tutti i mali articolari, ma non è così come spiega Gaffurini: «Una protesi articolare è solo una panacea che va a colmare un insuccesso della natura, ma non saprà mai davvero eguagliar-
la». Resta innegabile che l’intervento di sostituzione articolare è uno dei più grandi progressi della medicina del nostro tempo. «Queste procedure chirurgiche hanno migliorato la qualità della vita dei pazienti, alleviando il dolore, migliorando la capacità di movimento e aumentando i livelli di attività quotidiana. Inoltre, la popolazione va verso una speranza di vita maggiore rispetto a un tempo, ragion per cui la protesica articolare migliora sensibilmente anche la qualità della vita di persone nella terza età» riassume Gaffurini. Ci illustra invece una sintesi della storia evolutiva protesica, Candrian: «Dai primi tentativi del 1910, per giungere a quella che è la protesi moderna dell’anca, dobbiamo arrivare al 1963 e all’inglese Sir John Charnley che, dopo le protesi di acciaio inossidabile degli anni Cinquanta, inventò quella «cementata» con un cemento acrilico che era un buon collante per fissare le protesi in acciaio all’osso che le ospita». Questo perché gli impianti cementati risultavano stabili, duraturi e rispondevano alle caratteristiche indispensabili al loro successo: «Dall’inizio, nel XIX secolo, è stato subito chiaro che il materiale scelto doveva mimare al meglio le caratteristiche del corpo umano e al tempo stesso doveva essere biocompatibile (ndr: per essere accettato dal corpo)». Oggi ricerca scientifica e miglioramento delle tecniche di fabbricazione hanno prodotto soluzioni sempre più performanti e durature nel tempo: un elemento non trascurabile. Gaffurini: «Poiché un numero maggiore di pazienti giovani si sottopone a questa chirurgia, e gli anziani continuano a vivere più a lungo, un segmento crescente di portatori di protesi articolari vivrà più del proprio impianto protesico e non si renderà necessaria una sostituzione». Dati alla mano: «30 anni fa una protesi durava circa 10 anni; oggi il 94% delle protesi ha durata di 25 anni». Per questo, data l’indicazione all’intervento, anche una persona giovane può sottoporvisi più tranquillamente. «L’indicazione deve essere chiara e segue un approfondito esame clinico, un’attenta valutazione del dolore e della sofferenza soggettiva, dello stile di vita del paziente e del suo deterioramento insieme a un bilancio delle sue aspettative, in un iter dove l’esame diagnostico
Il dottor Christian Candrian e il dottor Paolo Gaffurini. (Vincenzo Cammarata)
seguirà, a conferma di quello clinico». I nostri interlocutori sono perentori: «Si opera sempre il paziente, non la sua radiografia, e solo con un’indicazione assolutamente pertinente». Abbiamo di fronte chirurghi senza il bisturi facile, assolutamente disponibili a una valutazione individuale e alla focalizzazione delle esigenze del paziente dettate da tutta una serie di fattori imprescindibili. «Sono le premesse essenziali per andare incontro a un risultato ottimale e soddisfacente, senza dimenticare l’importanza di rendere attenti i pazienti sul fatto che un intervento di protesi all’anca su 20 può non avere il successo desiderato», afferma Gaffurini. Le protesi al ginocchio hanno una buona riuscita nell’80% dei casi: «Si tratta di due articolazioni sostanzialmente molto diverse: rispetto al ginocchio, l’anca è molto semplice perché non possiede ligamenti così complessi
che devono assicurare il movimento di scivolamento rotatorio combinato», spiega Candrian che racconta come per la spalla la situazione è a sé stante: «Ciò è dovuto al fatto che la spalla è l’articolazione più mobile di tutto il corpo, la cui stabilità è dovuta a strutture circostanti (muscolatura, ligamenti, complesso bicipite – labbro articolare e cuffia dei rotatori)». Egli si dice sollevato del fatto che la casistica sia minore e che non tutte le patologie alla spalla richiedano un intervento di protesi. Non entriamo nel merito dei dettagli di ciascuna articolazione che saranno ampiamente illustrati nel corso della conferenza pubblica all’Usi (21.02.2018, ore 18.00 Aula Magna), ma chiediamo quali siano le principali preoccupazioni dei pazienti: «Si chiedono se dopo l’intervento di protesi staranno meglio di prima e questo giustifica la pertinenza e l’essenzia-
lità dell’indicazione: se non ho un’indicazione chirurgica, ripeto, non opero e se intervengo è perché posso migliorare nettamente la qualità di vita del paziente operato, che di norma poi si chiede perché ha aspettato tanto e non si è fatto operare prima».
Video intervista Sul canale Youtube di «Azione» e su www.azione.ch la videointervista ai dottori Candrian e Gaffurini.
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Ambiente e Benessere
La neve alpina
Climatologia Un problema che diviene sempre più acuto – Prima parte
Alessandro Focarile Alle 12.15 (ora solare) del 24 ottobre scorso sono stati misurati sul Monte Creya (Cogne, Valle d’Aosta, 3015 metri slm) ben 6 gradi positivi a 10 centimetri di profondità – livello delle radici della sparsa vegetazione erbacea d’altitudine – testimoniando il nuovo record termico del mese di ottobre 2017: 3 gradi sopra la media pluridecennale. Una conferma che verrà anche da Luca Mercalli («La Stampa», 26 ottobre 2017): «L’alta pressione che da oggi determina temperature da fine estate sui rilievi, con 20°C a 1500 metri...». E dopo pochi giorni la prima spolverata di neve della stagione era ricevuta da un suolo caldo, seguita dal föhn (favonio), che dava poco a sperare per la sua tenuta al suolo. Un ulteriore evento nuovo, in quanto conferma l’attuarsi di una tendenza climatica che inizia a caratterizzare, con una certa regolarità, l’andamento del regime nivometrico nelle Alpi centro-occidentali sul loro versante interno, cioè quello padano. La neve è un importante componente del clima in tutta l’area della Terra oltre una certa latitudine e altitudine. Essa è fra i più complessi e leggeri materiali esistenti e, come tale, può essere dislocata dal vento e intercettata dalla vegetazione arborea. È il risultato di un complicato e aleatorio matrimonio tra masse di aria tiepida e marittima, e correnti di aria fredda e asciutta di origine continentale. Per quanto riguarda l’emisfero settentrionale, la neve può cadere su territori che comprendono intere aree continentali a settentrione del 45° parallelo nord: il parallelo di Torino, di Belgrado, della Crimea e della Mongolia. Durante diversi mesi dell’anno copre milioni di chilometri quadrati del Nord America e dell’Eurasia. Gli oceani Atlantico e Pacifico, imponenti serbatoi di energia, originano la sua formazione e quantificano la sua più o meno lunga persistenza al suolo tra ottobre e maggio.
Dalla geografia della neve sulle Alpi al perché e al quando nevica, sono dati utili per capire il cambiamento climatico in atto Il tipo di copertura nevosa è molto differenziato a seconda delle regioni continentali prese in considerazione. E gli abitanti di tali regioni possono avere molte sorprese scoprendo un paesaggio con la neve, oppure privo di essa a seconda dei casi. Per gli stessi abitanti della zona climaticamente temperata, la neve è associata alla sensazione di freddo. Ma le più abbondanti nevicate derivano da freddi molto poco accentuati: soltanto qualche grado centigrado intorno allo zero. E le regioni più fredde della Terra boreale non sono le più nevose. Per esempio in Russia e nell’Asia temperata le basse temperature ivi persistenti durante l’inverno, sono all’ordine di un modesto strato di neve farinosa: appena 20-30 centimetri quale risultato di qualche isolata nevicata di cristalli di ghiaccio. Ma dove nevica e perché? L’innevamento di una località e la sua durata al suolo sono condizionati innanzitutto dalla posizione geografica. La disposizione delle maggiori vallate alpine crea i presupposti per una «canalizzazione» delle correnti atmosferiche che sono orientate secondo precise e permanenti traiettorie. Tipico è il caso della Valle d’Aosta e della Valle
Bosco Gurin gode anche dell’apporto delle residue correnti atlantiche risalenti dal Vallese (Valle del Rodano) che tracimano verso est. (Franco Pecchio)
Bedretto in Ticino. Nelle Alpi del versante meridionale si configurano tre grandi sub-regioni ai fini della nostra trattazione: 1) Le Alpi occidentali si trovano sotto il dominio delle correnti atlantiche umide e tiepide (carta), che si scaricano principalmente sul versante francese, secondariamente su quelli piemontese e valdostano. 2) Le Alpi centrali sono alimentate da correnti altrettanto umide e tiepide, che si irradiano (dopo aver scavalcato l’ostacolo orografico dell’Appennino) dal Mare Tirreno (golfo di Genova). Verso nord fino al Cantone Ticino, al Lago di Garda, e al Trentino-Alto Adige. 3) Infine, le Alpi orientali sono alimentate dal mare Adriatico, che genera copiose nevicate sul Veneto, Friuli-Venezia Giulia, la Slovenia e la Stiria-Carinzia. Modificate, per le caratteristiche della neve, grazie all’apporto dei venti freddi orientali: Russia, Balcani. Per quanto riguarda più in particolare il Cantone Ticino, i primi rilievi a ridosso della Padania (Generoso, Lema, Tamaro, Pizzo Camoghé, Caval Drossa) ricevono negli ultimi decenni nevicate sempre più scarse e aleatorie da un anno all’altro, poiché non è assicurato l’equilibrio favorevole per la formazione della neve, tra apporti di aria umida e tiepida da Sud, e aria fredda e asciutta da Nord. È stato sintomatico, a questo proposito, il mutamento di orientamento turistico della stazione del Monte Tamaro: da località concepita per gli sport invernali si è convertita a quella estiva. Più verso nord (Pizzo di Vogorno, Cardada-Cimetta, Cima dell’Uomo sopra Bellinzona) sono tutti versanti alimentati dall’apporto di aria umida dal Lago Maggiore, (permanente serbatoio) che risale verso Nord da una parte fino all’alta Valle Maggia e Verzasca e all’Ossola, dall’altra verso la Mesolcina, la Riviera e la Leventina. Ancora più verso settentrione è collocata la privilegiata località di Bosco Gurin, che gode anche dell’apporto delle residue
correnti atlantiche risalenti dal Vallese (Valle del Rodano), e che tracimano verso est. Se prendiamo in esame la situazione nivometrica delle località della media Leventina (Carì, Dalpe, Prato) e della Valle di Blenio (Nara, Campra, Campo Blenio), notiamo che queste località si trovano in una posizione climaticamente marginale e svantaggiata in quanto esse sono situate in un territorio che ospita le code, già meno intense, delle correnti atlantiche da Ovest (Vallese), e di quelle mediterranee risalenti da Sud (Lago Maggiore, Piana di Bellinzona, Riviera). Per ultime sono da esaminare le località dell’alta Leventina (Airolo, Bedretto), che sono collocate sulla traiettoria delle prevalenti correnti atlantiche da ovest (Vallese, Passo della Novena). Tutti territori montani che conoscono considerevoli accumuli di neve, dando origine al drammatico fenomeno di frequenti valanghe, e ricordando il funesto episodio del gennaio 1951, narrato da Giovanni Orelli in L’anno della valanga. Importante è anche considerare il regime delle nevicate. I climatologi definiscono «regime» di un elemento climatico (temperatura, precipitazioni solide e liquide, vento, insolazione, pressione barometrica) le variazioni normali di ciascun elemento. Nel nostro caso: quando nevica. Il regime alpino delle nevicate è definito da Péguy (1952) per la sua forte irregolarità da un inverno all’altro. Un regime nivometrico che, negli ultimi anni, vede spostarsi i massimi dal periodo invernale a quello tardo-invernale e primaverile. La valanga di Mogno in Valle Verzasca è caduta il 15-16 aprile 1986. E negli stessi giorni la cabina della teleferica che sale a Robiei (regione del Basodino) strisciava su una coltre di sei metri di neve fresca! In quota, oltre i 2500 metri, il massimo delle nevicate è in aprile al Breuil-Cervinia (Valle d’Aosta). Sul Monte Bianco, oltre i 4000 metri,
il massimo (20-30 metri, Péguy 1952) è in giugno, il mese più piovoso dell’anno a Charmonix (Francia) ai piedi del gigante. L’afflusso di aria settentrionale e orientale (asciutta e fredda) che si insedia in una regione alpina, incontra masse d’aria atlantica e mediterranea (umida e tiepida): le condizioni fisiche favorevoli che permettono le nevicate. Il fenomeno si concretizza entro lo scarto, molto limitato dal punto di vista termico, di qualche grado °C: sotto zero è neve, sopra lo zero è nevischio o pioggia. A tal fine è molto importante conoscere (quando è strumentalmente possibile) la temperatura dello strato di aria ove ha origine la formazione dei cristalli di neve. Cadendo al suolo la neve può incontrare temperature più basse oppure più elevate, e questo cruciale fattore fisico è all’origine di una differente struttura della neve, oppure di formazione della pioggia. Dai dati disponibili (CIPRA 2009), apprendiamo che dalle Alpi francesi fino alla Slovenia sono attrezzati per gli sport invernali 933 chilometri quadrati del territorio alpino, dei quali 234 con impianti di innevamento artificiale. Per l’esercizio di questi ultimi si consumano 25mila chilowattora per ettaro, con una spesa annua di 3 miliardi di Euro per la sola energia elettrica. Vasti settori della catena alpina sono avviluppati in una fitta ragnatela di cavi, tralicci, strutture portanti, tubature per l’adduzione dell’acqua dai bacini di accumulo ai cannoni da neve. L’innevamento artificiale ha anche degli aspetti negativi. Consuma acqua (che comincia a scarseggiare), energia elettrica, ambiente. Modifica la qualità dei suoli e quindi della vegetazione, rendendo potenzialmente improduttivi i pascoli. Con l’ausilio di additivi chimici è possibile ottenere quattro differenti tipi di neve, da quella leggera e farinosa a quella granulosa. Il tutto è costipato con potenti macchinari («gatti delle nevi») attivi giorno e
notte per la gioia degli sciatori. Con il risultato di ottenere superfici perfettamente levigate e prive di ostacoli, soggette al gelo notturno, che aumenta la velocità di discesa lungo i pendii, e favorisce un incremento degli infortuni: 60mila incidenti a vari livelli di gravità (SUVA 2011). Sarebbe opportuno riflettere sul fatto che tutto questo si basa sulla possibilità attuale di produrre neve artificiale. Per ottenere quest’ultima occorrono almeno 4°C sotto zero, e l’acqua impiegata non deve superare i +2°C. Questo significa che, a causa degli attuali cambiamenti climatici (particolarmente accentuati nella regione alpina), la produzione deve essere spostata a quote sempre più elevate. A ogni aumento di 1°C corrisponde un innalzamento di 150 metri dello zero termico. E stazioni poste sotto i 1600-1800 metri vanno incontro a un prossimo futuro molto incerto. Nel frattempo, il Consiglio di Stato ticinese ha proposto lo stanziamento di 2’400’000 di franchi per il periodo 20172021 quale contributo per la gestione ordinaria dei principali impianti di risalita del Cantone. A giustificazione, è stato considerato che gli sport invernali costituiscono un settore turistico ed economico strategico per il Ticino. Secondo i dati statistici elaborati «...le stazioni sciistiche ticinesi generano 19,6 milioni di franchi di produzione lorda e un valore aggiunto di 8,7 milioni, oltre a garantire più di 100 posti di lavoro a tempo pieno.» (Roveda, «TuttoTicino», no. 45, 2017). Blibliografia
Renato Cresta. Neve. Compedio di nivologia. Editore Mulatero (Cuorgné, TO), 2014, 206 pp. H.G. Jones et al. Snow Ecology. An Interdisciplinary Examination of Snow – Covered Ecosystem. Cambridge University Press (Cambridge, UK), 2001, 378 pp.
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 19 febbraio 2018 • N. 08
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 19 febbraio 2018 • N. 08
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Ambiente e Benessere
Ambiente e Benessere
Rega 6 in volo sulle valli del Ticino.
Il soccorso tempestivo e la determinazione della gravità sono cruciali per il salvataggio di una vita.
Il soccorso dal cielo
Reportage Chi sono gli uomini della Rega? Come si preparano alle missioni di salvataggio? Uno sguardo al lavoro
della base operativa «Rega 6», situata all’aeroporto di Locarno-Magadino Didier Ruef, testo e foto Sono le 7 del mattino quando Paolo Menghetti posteggia l’auto davanti all’edificio della Guardia aerea svizzera di soccorso, la Rega, all’aeroporto di Locarno-Magadino. È il capo di «Rega 6», la base ticinese, un codice che riecheggia di continuo nei contatti radio con la centrale basata all’aeroporto di Zurigo e durante gli scambi con le torri di controllo. Meccanico di elicotteri e paramedico, dal 1991 lavora per questa istituzione tanto cara agli Svizzeri. Si occupa della gestione operativa della base, del personale e delle relazioni con le autorità locali, oltre a svolgere i regolari turni di guardia come operatore soccorritore professionale. Dal canto loro il pilota e il medico di guardia arrivano verso le 7 e un quarto. S’infilano l’uniforme rossa e gli scarponcini da montagna e verificano che i caschi e gli indumenti pesanti siano a bordo: giacca termica,
guanti e berretto. In seguito il pilota fa un giro attorno all’elicottero - un Agusta AW109 SP Grand «Da Vinci» – per ispezionarne le condizioni. L’equipaggio degli elicotteri Rega è formato da un trio: al pilota e al dottore specializzato in medicina d’urgenza si aggiunge un paramedico, che assiste il pilota nelle comunicazioni radio, nella navigazione e nella segnalazione di oggetti pericolosi. Sul luogo dell’intervento svolge assieme al medico il suo ruolo di soccorritore professionale. Il pilota controlla il meteo e le previsioni per la giornata. S’informa del piano di lavoro, di eventuali esercitazioni militari in corso, zone d’esclusione di volo e di ogni altro evento eccezionale. Per tutto il giorno avrà a portata di mano su un iPad questi dati e migliaia di altre informazioni. All’incirca la metà dei piloti della Rega proviene dall’esercito, l’altra metà dall’aviazione civile. Ognuno porta le sue peculiarità e le sue competenze,
Messe a punto e controlli giornalieri sono indispensabili.
ma i requisiti per essere scelti sono gli stessi per tutti. Devono dimostrare esperienza di volo in situazioni estreme, padroneggiare il trasporto aereo in montagna, aver volato tra le Alpi e co-
noscere le valli del Ticino. Nel caso non l’abbiano già fatto, una volta assunti devono seguire una formazione di volo strumentale e volo notturno. Il medico verifica il contenuto de-
Tra una missione e l’altra, si svolgono numerose attività amministrative.
Equipaggiamento personale sempre impeccabile per essere pronti a partire.
gli zaini di soccorso da portare in missione. Si accerta che tutti i farmaci corrispondano allo standard prefissato. Anni d’esperienza hanno permesso di sviluppare degli zaini d’emergenza che garantiscono rapidità e praticità d’uso. Il medico, infatti, dopo essere stato calato dall’elicottero con il verricello, si ritrova solo con il paziente, di cui deve dapprima preservare le funzioni vitali durante le fasi del salvataggio e poi procedere al trasferimento all’ospedale più vicino e adatto alla gravità delle lesioni riportate. Nel frattempo, il paramedico ispeziona le condizioni generali dell’elicottero. Si assicura che tutto sia al posto giusto in cabina. Sostituisce le batterie degli strumenti medici e verifica il funzionamento del verricello, un dispositivo indispensabile per le operazioni di salvataggio. Tra le altre verifiche, scruta attentamente il suolo sotto l’elicottero, alla ricerca di eventuali tracce d’olio, che potrebbero segnalare un possibile problema meccanico. Una pulizia del suolo tipicamente svizzera contribuisce a segnalare eventuali anomalie che potrebbero mettere a repentaglio l’incolumità dell’equipaggio. In Ticino, Rega 6 impiega quattro piloti e tre soccorritori a tempo pieno, tutti professionisti motivati che ogni anno seguono dei corsi di formazione continua. Nove medici anestesisti lavorano a tempo parziale, assicurando i turni di guardia secondo un programma stabilito molto tempo prima e in accordo con gli ospedali dove lavorano di solito. Alle 7 e 45, pilota, medico e paramedico si ritrovano a colazione nell’angolo cucina della base. Questo quarto d’ora di riunione conviviale è importan-
Il verricello, uno strumento essenziale per il recupero e il salvataggio.
All’arrivo in ospedale la squadra di salvataggio viene assistita da una équipe medica.
te per valutare la forma di ciascuno, fare il punto della situazione e iniziare il turno con un caffè e un pezzo di torta. Adesso la squadra è pronta per una nuova giornata di lavoro, ma soprattutto d’attesa. Una delle virtù fondamentali per lavorare alla Rega è la pazienza, un’altra è la gestione dello stress, ma anche la facoltà di unire le proprie forze a quelle degli altri per formare una squadra affiatata, all’interno della quale ogni singolo ha delle precise responsabilità da cui dipende il successo degli interventi. Comincia così la giornata di lavoro, durante la quale l’allarme può risuonare da un momento all’altro o anche mai. Per reagire rapidamente a tutte le richieste d’aiuto, la Rega è raggiungibile 24 ore su 24 tramite il numero d’emergenza 1414 e via radio sul canale E 161.300 MHz, la frequenza riservata alle chiamate di soccorso in Svizzera. La centrale Rega gestisce anche interventi in collaborazione con gli altri partner del soccorso terrestre (ambulanze, polizia, pompieri e colonne del CAS). La Guardia aerea ripartisce poi gli interventi per area geografica. Il «mestiere» della Rega è il soccorso aereo. Sul territorio nazionale, dopo aver ricevuto una richiesta d’aiuto, la centrale invia un’eliambulanza medicalizzata con a bordo una squadra di soccorritori che si occupa del trasporto dal luogo dell’incidente all’ospedale. In caso di urgenze all’estero, la Rega organizza, se necessario, un rimpatrio con uno dei suoi tre aerei-ambulanza o con voli di linea. Ogni trasporto è preceduto da una diagnosi effettuata da un medico consulente della Rega. Nel 2016 ha
vi, unendo l’amore per la montagna alla rapidità e alla precisione d’esecuzione. Avventura, però, non significa approssimazione né rischi sconsiderati. Un sapiente cocktail di preparazione, verifiche e competenze per salvare il prossimo, unito al sangue freddo, sono la regola base dei professionisti della Rega. Queste doti diventano essenziali quando, per esempio, c’è da portare soccorso agli operai forestali cui è volato addosso un tronco staccatosi da un trasporto aereo nei boschi della Val di Blenio, oppure agli escursionisti tedeschi che si sono persi sull’altipiano della Greina durante una bufera di neve, o ancora all’anziano signore in preda a una crisi cardiaca a Novaggio, agli austriaci appassionati di canyoning sorpresi dai flutti in Val Cresciano, alla ragazza che si è lussata una caviglia mentre passeggiava in Val Chironico,
effettuato in questo modo 15’093 missioni, per un totale di 11’055 interventi sanitari in elicottero e 1249 in aereo, oltre a 2’789 missioni di vario tipo, come ad esempio interventi d’aiuto ai contadini riguardanti il bestiame. In Ticino, gli ultimi anni hanno visto una media di 600 interventi, effettuati unicamente in elicottero.
Gusto per il rischio calcolato, sangue freddo, pazienza, responsabilità e affiatamento fanno della squadra una macchina di salvataggio In caso d’allarme diurno l’elicottero deve decollare entro cinque minuti, mentre di notte entro mezz’ora. Le missioni diurne e notturne sono simili, l’unica differenza riguarda il rischio, notevolmente più accresciuto di notte. Quale ambizione spinge uomini, e anche qualche donna, a lavorare per la Rega? Quella del soccorritore è una vocazione che non sempre si spiega. È però certo che i membri della Rega 6 danno prova di empatia e condividono una visione solidale dell’umanità, oltre a una passione per l’ignoto. Non sapere mai come andrà la giornata, né se si sarà chiamati e per che tipo d’intervento, fa parte del gioco che attira questi moderni avventurieri. E poi c’è anche il piacere di sfrecciare in elicottero da una vallata all’altra, scavalcando passi e cime, sfiorando rocce e terreni imper-
o al cacciatore con la spalla rotta vicino al lago di Marmorea sul passo dello Julier. Le persone soccorse dalla Rega inviano spesso i disegni dei loro bambini e regali di ringraziamento per l’intervento salvavita: torte fatte in casa, cioccolato, olio d’oliva, marmellata e biscotti. Paolo Menghetti racconta con ironia che durante il periodo di Natale i regali sono così tanti che gli equipaggi tendono ad ingrassare e non entrano più nelle loro divise. Un fattore in più di cui tener conto al momento di calcolare il carico massimo consentito sull’Agusta AW109 SP Grand «Da Vinci». La Rega è nata il 27 aprile 1952, su impulso della Società svizzera di soccorso, all’Hotel Bären di Twann (Douanne in francese) sulle sponde del Lago di Bienne. Il suo primo direttore fu il Dr. Rudolf Bucher. Nel 1957, gra-
Medico e Paramedico forniscono aiuto e informazioni sul paziente allo staff ospedaliero.
zie alle donazioni, la Rega compra il primo elicottero, un Bell-47 J, che sarà messo a disposizione del celebre Hermann Geiger, un pioniere del salvataggio in montagna, soprannominato «il San Bernardo volante». Oggi la flotta della Rega conta 18 elicotteri e tre jetambulanza a lunga percorrenza del tipo Challenger CL-604. Nel 1960 la Rega si dissocia dalla Società svizzera di salvataggio e Fritz Bühler diventa il suo direttore tecnico. Nel 1966 crea il sistema di affiliazione attuale, al quale rispondono più di 25’000 donatori. Da allora il numero di donatori non ha cessato di aumentare. La Rega, che per statuto è una fondazione privata senza scopo di lucro, possiede un sistema di finanziamento unico, in cui i costi sono coperti al 60% da donatori, mentre il restante 40% viene recuperato da assicurazioni e privati. Nel 2016 i donatori ammontavano a 3’376’000. Grazie a loro, l’organizzazione resta indipendente e può dedicarsi completamente al benessere dei pazienti. Il sostegno dei donatori le permette infatti l’indipendenza finanziaria, una disponibilità sull’arco delle 24 ore, l’assunzione dei professionisti migliori, la manutenzione di una flotta aerea tra le più moderne al mondo, il mantenimento di tredici basi e i corsi di formazione degli equipaggi. Come ringraziamento per il loro contributo, la Rega condona ai suoi donatori i costi di un’eventuale missione di soccorso, qualora non fossero rimborsati in modo totale o parziale dalle assicurazioni o altri enti. Un patto in cui tutti guadagnano e che ha ancora un grande avvenire davanti a sé.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 19 febbraio 2018 • N. 08
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Ambiente e Benessere
Ambiente e Benessere
Rega 6 in volo sulle valli del Ticino.
Il soccorso tempestivo e la determinazione della gravità sono cruciali per il salvataggio di una vita.
Il soccorso dal cielo
Reportage Chi sono gli uomini della Rega? Come si preparano alle missioni di salvataggio? Uno sguardo al lavoro
della base operativa «Rega 6», situata all’aeroporto di Locarno-Magadino Didier Ruef, testo e foto Sono le 7 del mattino quando Paolo Menghetti posteggia l’auto davanti all’edificio della Guardia aerea svizzera di soccorso, la Rega, all’aeroporto di Locarno-Magadino. È il capo di «Rega 6», la base ticinese, un codice che riecheggia di continuo nei contatti radio con la centrale basata all’aeroporto di Zurigo e durante gli scambi con le torri di controllo. Meccanico di elicotteri e paramedico, dal 1991 lavora per questa istituzione tanto cara agli Svizzeri. Si occupa della gestione operativa della base, del personale e delle relazioni con le autorità locali, oltre a svolgere i regolari turni di guardia come operatore soccorritore professionale. Dal canto loro il pilota e il medico di guardia arrivano verso le 7 e un quarto. S’infilano l’uniforme rossa e gli scarponcini da montagna e verificano che i caschi e gli indumenti pesanti siano a bordo: giacca termica,
guanti e berretto. In seguito il pilota fa un giro attorno all’elicottero - un Agusta AW109 SP Grand «Da Vinci» – per ispezionarne le condizioni. L’equipaggio degli elicotteri Rega è formato da un trio: al pilota e al dottore specializzato in medicina d’urgenza si aggiunge un paramedico, che assiste il pilota nelle comunicazioni radio, nella navigazione e nella segnalazione di oggetti pericolosi. Sul luogo dell’intervento svolge assieme al medico il suo ruolo di soccorritore professionale. Il pilota controlla il meteo e le previsioni per la giornata. S’informa del piano di lavoro, di eventuali esercitazioni militari in corso, zone d’esclusione di volo e di ogni altro evento eccezionale. Per tutto il giorno avrà a portata di mano su un iPad questi dati e migliaia di altre informazioni. All’incirca la metà dei piloti della Rega proviene dall’esercito, l’altra metà dall’aviazione civile. Ognuno porta le sue peculiarità e le sue competenze,
Messe a punto e controlli giornalieri sono indispensabili.
ma i requisiti per essere scelti sono gli stessi per tutti. Devono dimostrare esperienza di volo in situazioni estreme, padroneggiare il trasporto aereo in montagna, aver volato tra le Alpi e co-
noscere le valli del Ticino. Nel caso non l’abbiano già fatto, una volta assunti devono seguire una formazione di volo strumentale e volo notturno. Il medico verifica il contenuto de-
Tra una missione e l’altra, si svolgono numerose attività amministrative.
Equipaggiamento personale sempre impeccabile per essere pronti a partire.
gli zaini di soccorso da portare in missione. Si accerta che tutti i farmaci corrispondano allo standard prefissato. Anni d’esperienza hanno permesso di sviluppare degli zaini d’emergenza che garantiscono rapidità e praticità d’uso. Il medico, infatti, dopo essere stato calato dall’elicottero con il verricello, si ritrova solo con il paziente, di cui deve dapprima preservare le funzioni vitali durante le fasi del salvataggio e poi procedere al trasferimento all’ospedale più vicino e adatto alla gravità delle lesioni riportate. Nel frattempo, il paramedico ispeziona le condizioni generali dell’elicottero. Si assicura che tutto sia al posto giusto in cabina. Sostituisce le batterie degli strumenti medici e verifica il funzionamento del verricello, un dispositivo indispensabile per le operazioni di salvataggio. Tra le altre verifiche, scruta attentamente il suolo sotto l’elicottero, alla ricerca di eventuali tracce d’olio, che potrebbero segnalare un possibile problema meccanico. Una pulizia del suolo tipicamente svizzera contribuisce a segnalare eventuali anomalie che potrebbero mettere a repentaglio l’incolumità dell’equipaggio. In Ticino, Rega 6 impiega quattro piloti e tre soccorritori a tempo pieno, tutti professionisti motivati che ogni anno seguono dei corsi di formazione continua. Nove medici anestesisti lavorano a tempo parziale, assicurando i turni di guardia secondo un programma stabilito molto tempo prima e in accordo con gli ospedali dove lavorano di solito. Alle 7 e 45, pilota, medico e paramedico si ritrovano a colazione nell’angolo cucina della base. Questo quarto d’ora di riunione conviviale è importan-
Il verricello, uno strumento essenziale per il recupero e il salvataggio.
All’arrivo in ospedale la squadra di salvataggio viene assistita da una équipe medica.
te per valutare la forma di ciascuno, fare il punto della situazione e iniziare il turno con un caffè e un pezzo di torta. Adesso la squadra è pronta per una nuova giornata di lavoro, ma soprattutto d’attesa. Una delle virtù fondamentali per lavorare alla Rega è la pazienza, un’altra è la gestione dello stress, ma anche la facoltà di unire le proprie forze a quelle degli altri per formare una squadra affiatata, all’interno della quale ogni singolo ha delle precise responsabilità da cui dipende il successo degli interventi. Comincia così la giornata di lavoro, durante la quale l’allarme può risuonare da un momento all’altro o anche mai. Per reagire rapidamente a tutte le richieste d’aiuto, la Rega è raggiungibile 24 ore su 24 tramite il numero d’emergenza 1414 e via radio sul canale E 161.300 MHz, la frequenza riservata alle chiamate di soccorso in Svizzera. La centrale Rega gestisce anche interventi in collaborazione con gli altri partner del soccorso terrestre (ambulanze, polizia, pompieri e colonne del CAS). La Guardia aerea ripartisce poi gli interventi per area geografica. Il «mestiere» della Rega è il soccorso aereo. Sul territorio nazionale, dopo aver ricevuto una richiesta d’aiuto, la centrale invia un’eliambulanza medicalizzata con a bordo una squadra di soccorritori che si occupa del trasporto dal luogo dell’incidente all’ospedale. In caso di urgenze all’estero, la Rega organizza, se necessario, un rimpatrio con uno dei suoi tre aerei-ambulanza o con voli di linea. Ogni trasporto è preceduto da una diagnosi effettuata da un medico consulente della Rega. Nel 2016 ha
vi, unendo l’amore per la montagna alla rapidità e alla precisione d’esecuzione. Avventura, però, non significa approssimazione né rischi sconsiderati. Un sapiente cocktail di preparazione, verifiche e competenze per salvare il prossimo, unito al sangue freddo, sono la regola base dei professionisti della Rega. Queste doti diventano essenziali quando, per esempio, c’è da portare soccorso agli operai forestali cui è volato addosso un tronco staccatosi da un trasporto aereo nei boschi della Val di Blenio, oppure agli escursionisti tedeschi che si sono persi sull’altipiano della Greina durante una bufera di neve, o ancora all’anziano signore in preda a una crisi cardiaca a Novaggio, agli austriaci appassionati di canyoning sorpresi dai flutti in Val Cresciano, alla ragazza che si è lussata una caviglia mentre passeggiava in Val Chironico,
effettuato in questo modo 15’093 missioni, per un totale di 11’055 interventi sanitari in elicottero e 1249 in aereo, oltre a 2’789 missioni di vario tipo, come ad esempio interventi d’aiuto ai contadini riguardanti il bestiame. In Ticino, gli ultimi anni hanno visto una media di 600 interventi, effettuati unicamente in elicottero.
Gusto per il rischio calcolato, sangue freddo, pazienza, responsabilità e affiatamento fanno della squadra una macchina di salvataggio In caso d’allarme diurno l’elicottero deve decollare entro cinque minuti, mentre di notte entro mezz’ora. Le missioni diurne e notturne sono simili, l’unica differenza riguarda il rischio, notevolmente più accresciuto di notte. Quale ambizione spinge uomini, e anche qualche donna, a lavorare per la Rega? Quella del soccorritore è una vocazione che non sempre si spiega. È però certo che i membri della Rega 6 danno prova di empatia e condividono una visione solidale dell’umanità, oltre a una passione per l’ignoto. Non sapere mai come andrà la giornata, né se si sarà chiamati e per che tipo d’intervento, fa parte del gioco che attira questi moderni avventurieri. E poi c’è anche il piacere di sfrecciare in elicottero da una vallata all’altra, scavalcando passi e cime, sfiorando rocce e terreni imper-
o al cacciatore con la spalla rotta vicino al lago di Marmorea sul passo dello Julier. Le persone soccorse dalla Rega inviano spesso i disegni dei loro bambini e regali di ringraziamento per l’intervento salvavita: torte fatte in casa, cioccolato, olio d’oliva, marmellata e biscotti. Paolo Menghetti racconta con ironia che durante il periodo di Natale i regali sono così tanti che gli equipaggi tendono ad ingrassare e non entrano più nelle loro divise. Un fattore in più di cui tener conto al momento di calcolare il carico massimo consentito sull’Agusta AW109 SP Grand «Da Vinci». La Rega è nata il 27 aprile 1952, su impulso della Società svizzera di soccorso, all’Hotel Bären di Twann (Douanne in francese) sulle sponde del Lago di Bienne. Il suo primo direttore fu il Dr. Rudolf Bucher. Nel 1957, gra-
Medico e Paramedico forniscono aiuto e informazioni sul paziente allo staff ospedaliero.
zie alle donazioni, la Rega compra il primo elicottero, un Bell-47 J, che sarà messo a disposizione del celebre Hermann Geiger, un pioniere del salvataggio in montagna, soprannominato «il San Bernardo volante». Oggi la flotta della Rega conta 18 elicotteri e tre jetambulanza a lunga percorrenza del tipo Challenger CL-604. Nel 1960 la Rega si dissocia dalla Società svizzera di salvataggio e Fritz Bühler diventa il suo direttore tecnico. Nel 1966 crea il sistema di affiliazione attuale, al quale rispondono più di 25’000 donatori. Da allora il numero di donatori non ha cessato di aumentare. La Rega, che per statuto è una fondazione privata senza scopo di lucro, possiede un sistema di finanziamento unico, in cui i costi sono coperti al 60% da donatori, mentre il restante 40% viene recuperato da assicurazioni e privati. Nel 2016 i donatori ammontavano a 3’376’000. Grazie a loro, l’organizzazione resta indipendente e può dedicarsi completamente al benessere dei pazienti. Il sostegno dei donatori le permette infatti l’indipendenza finanziaria, una disponibilità sull’arco delle 24 ore, l’assunzione dei professionisti migliori, la manutenzione di una flotta aerea tra le più moderne al mondo, il mantenimento di tredici basi e i corsi di formazione degli equipaggi. Come ringraziamento per il loro contributo, la Rega condona ai suoi donatori i costi di un’eventuale missione di soccorso, qualora non fossero rimborsati in modo totale o parziale dalle assicurazioni o altri enti. Un patto in cui tutti guadagnano e che ha ancora un grande avvenire davanti a sé.
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Ambiente e Benessere
«The Canyon loop»
Tagliando di prenotazione
il 30.03.2018 o tr n e i n io z ta M Per preno 00.– a camera 1 sconto di CHF
Desidero iscrivermi al tour americano, dal 30 maggio all’8 giugno Nome
Moto experience Un tour per le strade
americane in sella alle Harley Davidson, con guida privata nerario che permette agli appassionati di motocicletta o semplicemente amanti di panorami suggestivi, di godersi i più bei paesaggi degli Stati Uniti. Il Grand Canyon, la Monument Valley, il Bryce Canyon e la scintillante Las Vegas, con i suoi casinò, sono solo alcune delle tappe di questo indimenticabile tour.
Il programma di viaggio Mercoledì, 30 maggio 2018 Milano-Las Vegas, il volo. Giovedì, 31 maggio 2018 Las Vegas: ritiro moto. Giornata libera. Venerdì, 1. giugno 2018 Las Vegas-Prescott Sabato, 2 giugno 2018 Prescott-Grand Canyon Domenica, 3 giugno 2018 Grand Canyon-Kayenta
Lunedì, 4 giugno 2018 Kayenta-Bryce Canyon Martedì, 5 giugno 2018 Bryce Canyon-Kanab Mercoledì, 6 giugno 2018 Kanab-Zion NP-Las Vegas Giovedì, 7 giugno 2018 Las Vegas. Giornata libera per le ultime visite ed eventuali acquisti Venerdì, 8 giugno 2018 Las Vegas-Milano
Via NAP Pxhere
Un viaggio tra Nevada, Arizona e Utah per assaporare l’Ovest degli Stati Uniti. È quanto offre Hotelplan ai lettori di «Azione» per questa primavera. Il tour avrà luogo da mercoledì 30 maggio a venerdì 8 giugno. A bordo di una mitica Harley Davidson e accompagnati da una guida privata, si percorrerà un iti-
Cognome
Il vero viaggio in moto inizierà la seconda mattina, quando si salirà in sella per raggiungere Prescott passando per la famosa diga di Hoover, Kingman, l’Huckberry gas station, una delle zone storiche della Route 66 (400 km, ca.). Il giorno seguente sarà la volta del Grand Canyon dove ci si prepara a uno dei migliori spettacoli che la natura abbia mai realizzato, un tramonto da brividi, uno scenario mozzafiato e indimenticabile (200 km, ca.). Il terzo giorno di viaggio, si partirà in direzione Kayenta, famosa per essere ricordata come la terra dei Navajo (250 km, ca.). Il 4 giugno si attraverserà Mexican Hat e la Valle degli Dei (410 km, ca.). E dopo aver messo le ossa a riposare, si visiterà Bryce Canyon per poi andare verso Kanab, località conosciuta come la «piccola Hollywood» in quanto nel tempo
Bellinzona
Lugano
Lugano
Viale Stazione 8a 6500 – Bellinzona T +41 91 820 25 25 bellinzona@hotelplan.ch
Via Pietro Peri 6 6900 – Lugano T +41 91 910 47 27 lugano@hotelplan.ch
Via Emilio Bossi 1 6900 – Lugano T +41 91 913 84 80 lugano-viabossi@hotelplan.ch
Sul sito web zione.ch/concorsi w.a ww » continua il «Quiz Hotelplan gio In palio buoni viag da 100.– franchi. Buona fortuna!
è stata luogo di riprese per diversi film western (130 km, ca.). Come ultima tappa, si tornerà a Las Vegas, ma questa volta lungo percorsi affascinanti, attraverso lo Zion (330 km, circa). Durante l’intera vacanza si percorreranno circa 1150 km in sella a una Harley Davidson.
Località Telefono e-mail Sarò accompagnato da … adulti.
Prezzi Prezzo per persona in camera doppia e moto condivisa: CHF 4620.– Prezzo per persona in camera doppia e moto individuale: CHF 6250.– Prezzo per persona in camera singola e moto individuale: CHF 7100.–. Le quote comprendono Volo di linea in classe economica da Milano Malpensa (con scalo) per Las Vegas e ritorno, tasse aeroportuali, tutti i trasferimenti in loco, sistemazione in hotel di categoria standard in camera con servizi privati, noleggio di una moto Harley-Davidson «Electra Glide» della
gamma più recente, guida privata in italiano, veicolo d’appoggio che segue il gruppo per trasporto bagagli e bevande, assistenza in caso di guasto, benzina, casco. Le quote non comprendono Spese dossier CHF 70.–, pasti e bevande, visto turistico ESTA, assicurazione viaggio, incremento delle tasse aeroportuali, mance, facchinaggio negli aeroporti e in hotel. Equipaggiamento moto. Tutto quanto non previsto dalla voce «le quote comprendono». Annuncio pubblicitario
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Ambiente e Benessere
La guerra degli asciugamani
L’amica polvere di strada
Viaggiatori d’Occidente Dietro la leggerezza del turismo fa capolino
la politica internazionale
Bussole I nviti
a letture per viaggiare
Claudio Visentin Venti di guerra soffiano nel turismo. Complice forse qualche film di troppo sulla Seconda guerra mondiale – dopo Dunkirk tocca ora a L’ora più buia – inglesi e tedeschi sono nuovamente in lotta tra loro... per le sdraio. Da tempo la questione è discussa in tutti i villaggi vacanza. Per cominciare i tedeschi sono più efficienti: avete visto i loro castelli di sabbia? Sono costruiti con tanta cura da far sospettare un possibile futuro impiego militare. Inoltre sono puntuali e soprattutto si svegliano presto. Per questo conquistano tutte le sdraio migliori, occupandole con un lancio sicuro dei loro asciugamani prima di entrare nella sala della colazione. Il Tour Operator inglese Thomas Cook ha deciso di mettere fine a questo imperialismo strisciante dando ai turisti britannici la possibilità di prenotare in anticipo in rete le loro sdraio per la prossima estate. Una mappa interattiva mostrerà le sdraio disponibili e le ore del giorno nelle quali restano in ombra. E così, oltre a sconfiggere i tedeschi, sarà più facile restare vicini ai propri amici o familiari.
«Visita quel cesso dello Zambia! Le sole stelle e strisce che vedrai saranno in cielo e sul mantello delle zebre» I tedeschi non l’hanno presa bene: «Questo significa guerra» ha scritto semiserio il direttore del popolare quotidiano «Bild», dove si può leggere un articolo intitolato L’arma segreta degli inglesi nella guerra degli asciugamani. La tensione è diminuita solo quando i tedeschi hanno scoperto che anch’essi possono prenotare online la loro sdraio (e certo lo faranno in maniera più puntuale ed efficiente degli inglesi). La «guerra degli asciugamani» ha seguito di poco le provocatorie dichiarazioni del presidente Trump: durante un incontro nello Studio ovale con alcuni membri del Congresso, discuten-
«Se le mie parole fossero grandi come continenti, racconterebbero del mondo, dal picco più alto al mare più profondo. Direbbero di viaggi e di cammini. E poi di vita, di storie, di luoghi e di radici. Se le mie parole fossero di sogno, allora vorrei prenderle per mano e non lasciarle più. Partire, poi, che l’andanza è occasione di vita densa, da respirare a fondo. Puoi portarci quel che vuoi. Vederci quel che sei. Cogliendo sguardi, annusando cibi, ascoltando i suoni di bocche antiche e di esseri fantastici per i miei occhi di un Occidente quasi dimentico d’incanto, le mie parole parlerebbero forse di gioia, e di stupore. Oppure di rabbia...».
Il nuovo posto di frontiera tra Haiti e la Repubblica Dominicana a Jimaní, dislocamento causato dall’alto livello dell’acqua del Lago Étang Saumâtre. (Jos1950)
do di immigrazione, Trump ha definito «cessi di Paesi» («Shithole Countries») Haiti, El Salvador e l’Africa nel suo insieme (per non sbagliare). L’Unione africana, l’organizzazione che rappresenta gli Stati del continente, ha subito chiesto scuse formali. Ma con più spirito, un’agenzia turistica dello Zambia ha fatto circolare un manifesto pubblicitario con un incantevole safari al tramonto e la scritta: «Visita quel cesso dello Zambia! Le sole stelle e strisce che vedrai saranno in cielo e sul mantello delle zebre». Già nel 2002, del resto, un altro presidente degli Stati Uniti, George W. Bush, se l’era presa con Corea del Nord, Iran e Iraq, proponendoli come esempi di un più ampio «Asse del male» favorevole al terrorismo internazionale e allo sviluppo di armi di distruzione di massa. Subito Tony Wheeler, il fondatore delle guide Lonely Planet, decise che avrebbe fatto un viaggio visitando proprio tutti gli «Stati canaglia» del pianeta; trovate il racconto di quell’esperienza in Bad Lands. Un turista sull’Asse del male (EDT). Curiosamente in un documentario della BBC l’ex ambasciatore statunitense Barbara Bodine
rivelò che l’esercito statunitense aveva utilizzato una vecchia copia di una guida Lonely Planet per pianificare l’invasione dell’Iraq nel 2003... Ma quando un Paese è veramente «cattivo»? Certo anche Tony Wheeler aveva dovuto riconoscere che la Corea del Nord non risponde ai requisiti della comunità internazionale (lo definì «un gulag gestito dai Monty Python»). Ma in altri casi si cerca di far passare per nemici dell’umanità i propri avversari politici: è il caso dell’Iran, assai ospitale coi turisti internazionali quanto sgradito all’amministrazione americana. E che dire poi dell’Arabia saudita? Un Paese assai rispettato ma con diverse zone d’ombra. Potrebbe essere simile il caso delle Maldive. L’arcipelago delle mille isole nell’Oceano indiano ha un’ottima reputazione ed è considerato un paradiso turistico con le spiagge infinite, le lagune di acqua blu e le lunghe barriere coralline. Ma i disordini e le tensioni dei giorni scorsi hanno rivelato anche un volto nascosto: scarsa democrazia, violazione dei diritti umani, intimidazione degli avversari politici e il ricorso troppo frequente all’esercito, oltre al pericolo di radicalizzazione islamica.
Questa situazione tuttavia è raramente percepita dai turisti, perché questi arrivano nell’aeroporto internazionale su un’isola separata dalla capitale Malé e da lì sono subito trasportati nei resort delle isole loro riservate, dove i locali possono accedere solo per lavorare al servizio degli ospiti. Nel 2017 le Maldive hanno registrato 1,34 milioni di arrivi internazionali (erano solo 800mila nel 2010). Il Paese ricava dal turismo oltre il quaranta per cento del suo prodotto interno lordo. Proprio per questo qualcuno ha proposto anche un boicottaggio turistico, per togliere al governo la maggior parte delle sue risorse e spingerlo verso comportamenti più democratici, ma l’appello sembra essere caduto nel vuoto. Del resto se indubbiamente il governo delle Maldive non rispetta gli standard occidentali è tuttavia in buona compagnia e non è certo il peggiore in circolazione. La discussione potrebbe continuare a lungo. Del resto il turismo è così: dietro quella sua aria disimpegnata, futile, leggera, nasconde problemi reali, tutte le opportunità e i pericoli del mondo postmoderno: il nostro mondo.
Leggendo questi brevi racconti di viaggio, ciascuno concluso nel giro di poche pagine, ciascuno legato agli altri come l’anello di una catena, riconoscerete talvolta un reportage apparso proprio sulle pagine di questo giornale, del quale Paolo Brovelli è da diversi anni un collaboratore abituale. Riconoscerete quello stile quasi barocco, eppure regolarmente unito alla precisione di un riferimento storico e geografico: perché dietro l’emozione che il viaggio regala c’è sempre la voglia di capire terre e culture diverse nella loro storia e geografia, c’è sempre la sorpresa di un incontro, dal quale può prendere avvio una riflessione sulla propria condizione di viaggiatore (o di turista). Gli orizzonti sono vasti: la prediletta America centrale, specie il Brasile, le distese dell’Asia centrale e ultimamente, sempre più spesso, scorci d’Africa. Ogni viaggio, anche nelle terre più remote, sembra facile, alla portata di tutti, perché la passione per il viaggio, immutata da decenni, fa dimenticare la fatica; e la polvere della strada è amica. Bibliografia
Paolo Brovelli, Parole e polvere. Taccuini di strada: Eurasia, America e Africa, Cierre Edizioni, 2018, pp. 168, € 12,50. Annuncio pubblicitario
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Ambiente e Benessere
La pianta più antica del mondo Fitoterapia L’aiuto che ci dona l’equiseto (Coda Cavallina) giunge dalla notte dei tempi
Eliana Bernasconi Trecento milioni di anni or sono, nell’era carbonifera era un albero di 30 metri di l’altezza. Tracce della sua tipica struttura sono state rinvenute nei resti fossili. Oggi, pur essendo la pianta più antica del mondo, non ha di certo un aspetto imponente: è una pianticella di poche decine di centimetri, sottile e fortissima, quasi secca al tatto. Cresce sui terreni umidi delle zone campestri, lungo i fossati, nei boschi, ai lati delle strade. Non ha subìto altre mutazioni: la sua struttura, come quella delle felci, è identica a milioni di anni or sono. Gli studiosi ritengono che la maggior parte della vegetazione che a quei tempi popolava la terra fosse costituita proprio da piante di questo tipo. Della famiglia delle Equisetaceae, (nome volgare: «Coda cavallina») Equisetum arvense L. deve il suo nome al latino equus (cavallo) e seta (setola, crine), per i sottili rami che ricordano il crine di un cavallo, arvense deriva invece dal latino arvum (campo), con riferimento al suo habitat di crescita. Inconfondibile la geometria perfetta della sua struttura, i fusti cavi scanalati longitudinalmente, dello spessore di 1-5 mm sono suddivisi in segmenti con nodi e internodi avvolti in guaine fogliari scagliose, in corrispondenza delle quali escono delle tipiche punte lanceolate a quattro coste. Non ha fiori ma spore: sporifica da ottobre a maggio. Dal punto di vista filogenetico, l’equiseto è una pianta ancor più primitiva delle angiosperme, che non hanno organi sessuali. L’azione terapeutica di tutte le
Un campo di Equisetum arvense L. (Kenraiz)
piante utilizzate in fitoterapia è data dalla presenza di sostanze chimiche dette principi attivi che agiscono in modo più o meno incisivo sui processi biochimici del nostro organismo. L’equiseto, pianta interessante dal punto di vista etnofarmacologico, ne è molto ricco: racchiude in primis il silicio e poi molto altro, come ad esempio calcio, magnesio, potassio, sali minerali e tannini che agiscono sulla rimineralizzazione del sistema osseoarticolare e sui tessuti come unghie e capelli; questa pianta è preziosa quindi per curare unghie fragili, perdita dei capelli, osteoporosi, postumi da fratture, artrosi e tendiniti (una favola racconta di gnomi del bosco dalla lunghissima vita che lo
impiegavano contro il deterioramento di denti e unghie), e per rinforzare lo scheletro degli adolescenti: agisce sulla cartilagine articolare, sul tessuto osseo e sull’elasticità dei tendini. Uno studio italiano del 1995 ha dimostrato che l’assunzione di equiseto in estratto secco con estratto fluido di luppolo ha prodotto una riduzione del dolore e un contemporaneo incremento di attività in pazienti affetti da osteoporosi postmenopausa. Ma la sua fama è anche di essere una pianta di potente azione diuretica, che guarisce le affezioni della vescica e dei reni. Pare che i Sumeri, 5000 anni or sono, lo usassero per gli edemi e le ferite in battaglia. È usato invece come diuretico e nelle af-
fezioni urinarie in Chiapas, Messico; in Brasile è assunto nei casi di anemia; in Cina, dove si chiama mi zèi, l’infuso della pianta intera è usato come astringente nella dissenteria ed esternamente contro varie affezioni oculari che provocano gonfiore, annebbiamento della vista o lacrimazione eccessiva. Secondo alcuni autori avrebbe anche proprietà leggermente allucinogene. La pianta ha potere abrasivo dovuto al silicio presente nei fusti e nelle foglie: le donne lo utilizzavano per lucidare i metalli e lo stagno, mentre in agricoltura lo si impiega in preparati naturali utili a nutrire e difendere le piante da malattie fungine e dai parassiti. Troviamo in tutto il mondo 35
specie di Equisetum, qualcuna anche tossica; non è facile distinguerle perché molto simili fra loro, e quindi non è superfluo ricordare il consueto avvertimento: non usare mai incautamente le piante senza le dovute indicazioni di personale specializzato. Si assume l’equiseto come Tintura madre (che come sempre possiede maggiori quantità di principi attivi e maggiore efficacia delle preparazioni a base di pianta secca), in forma di polvere, come decotto, come estratto fluido e in infuso anche in associazione con altre erbe, l’infuso mostra azione diuretica molto forte e un minore effetto rimineralizzante, mentre il decotto ha azione più rimineralizzante che diuretica. Castore Durante, medico e cittadino romano nel 1684 così ne prescriveva l’uso: «L’acqua applicata con pezzetta tepida sana l’erisipele, le pustole rosse, l’infiammagioni del sedere e de li altri luoghi occulti, e applicata al ventre conferisce alla dissenteria». Ed ecco un decotto per le unghie fragili: mettere 25 g di equiseto (la parte aerea) a bagno in un litro d’acqua a temperatura naturale per 4 ore, a fuoco lento bollire 20 minuti e lasciare in infusione un paio d’ore; basteranno tre tazze al giorno per invidiabili artigli. Bigliografia
Gabriele Peroni, Trattato di Fitoterapia Driope, Nuova Ipsa editrice. Bernard Erio e Nard Ezia, Il quaderno delle tisane di una volta. Decotti e infusi per star bene, Kellerman editore.
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 19 febbraio 2018 • N. 08
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Ambiente e Benessere
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Migusto La ricetta della settimana
Piatto unico
migusto.migros.ch/it/ricette Per diventare membro di Migusto non ci sono tasse d’iscrizione. Chiunque può farne parte, a condizione che un membro della sua famiglia possieda una Carta Cumulus.
Ingredienti per 4 persone: 10 g di spugnole secche · 300 g di carne macinata di pollo · 1 tuorlo d’uovo· 1 c di parmigiano grattugiato · 3 c di pangrattato · sale · pepe · d’olio per cuocere · 200 g di patate resistenti alla cottura · 200 g di porri · 1 spicchio d’aglio · 1 c d’olio d’oliva · 1,4 l di brodo di verdura · 200 g di spinaci novelli · parmigiano a piacere.
1. Ammollate le spugnole in abbondante acqua fredda per circa 15 minuti. In una scodella impastate la carne con il tuorlo d’uovo, il parmigiano e il pangrattato. Condite con sale e pepe e formate delle polpettine di circa 1,5 cm di diametro. Rosolatele tutt’intorno nell’olio per circa 3 minuti e mettetele da parte. 2. Tagliate le patate a dadini, i porri a striscioline. Tritate l’aglio. Scaldate l’olio d’oliva e soffriggetevi le verdure. Bagnate con il brodo e lasciate sobbollire per circa 10 minuti. 3. Scolate le spugnole e sciacquatele. Aggiungete le polpettine di pollo e le spugnole al minestrone e continuate la cottura per altri 5 minuti. 4. Aggiungete gli spinaci. Regolate di sale e pepe. A piacere condite con parmigiano grattugiato e servite. Preparazione: circa 25 minuti. Per persona: circa 25 g di proteine, 19 g di grassi, 20 g di carboidrati, 350 kcal/1500 kJ.
La Nutrizionista Rubrica online Solo nell’edizione online, www. azione.ch, la rubrica mensile dedicata all’alimentazione. La cura Laura Botticelli, dietista ASDD, che risponderà alle domande dei lettori.
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 19 febbraio 2018 • N. 08
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3ch, entro due7giorni6dalla conclusione 2
dell’evento. È possibile iscriversi al Famigros Ski Day di Airolo fino a giovedì 1. maronline su7www.fami6zo: inscrizioni 9 gros-ski-day.ch. Attenzione: di parteci7 il numero 8 panti è limitato. L’iscrizione sarà possianche sul posto, a condizione che vi 3bile siano posti liberi. In questo caso verrà riscossa una tassa d’iscrizione tardiva 2di fr. 10.–. 7
N. 2 MEDIO 1
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3 www.famigros-ski-day.ch (in francese)
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2 1 Programma 5e Concorso 4
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L’importante è partecipare... (Alphafoto)
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Airolo, domenica 4 marzo 2018
viene cronometrato, iniziando dal momento della partenza del primo membro della famiglia e fino al momento in cui l’ultimo taglia il traguardo. Tra i premi in palio una Carta regalo Migros del valore di fr. 100.– per la famiglia vincitrice e una Carta regalo SportXX del valore di fr. 50.– per la famiglia seconda e terza classificata. Oltre allo spazio dedicato alla competizione vera e propria (una gara in verità che come si è visto punta al coinvolgimento e al divertimento della famiglia più che al risultato sportivo in sé) la giornata prevede molti svaghi e divertimenti sulle piste. Sarà orga-
Dalle 8.00 alle 09.15 – Consegna dei N. 3 DIFFICILE pettorali alla partenza della Funivia,
nizzato infatti come ogni anno uno Ski stato di preparazione dei concorrenti. Day Village di Famigros: si troverà alla Previsto anche un «Villaggio1per non stazione intermedia della funivia, a Pe- fumatori»: Famigros Ski Day sostiene il sciüm. Nel Village sarà presente il ten- programma Swiss Olympic 3 «cool and done Famigros, mentre il gioco dei Li- clean». libiggs permetterà di vincere divertenti Novità: per rendere veramente premi immediati ma anche di sedersi e indimenticabile questa6giornata sulla riposare. neve con tutta la famiglia, nelle località Giochi a premi saranno organizdove si svolgeranno gli Ski Day FamiGiochi per “Azione” Gennaio 2018 zati anche da Swiss-Ski. Chi vorrà po- Stefania gros le gare saranno filmate e sarà mesSargentini trà far eseguire un controllo gratuito so a disposizione di ciascuna9 famiglia (Gioco nella di Capodanno inviato nel le dei giochi festivi) last minute di sci e snowboard un video esclusivo della propria gara. stazione di servizio SportXX nel vilCosì il Famigros Ski Day sarà per sem(N. 1 - In Canada - Millenovecento trenta) 4 laggio o alla partenza. Nello stand del- pre un ricordo di famiglia. I video e le I S A N Agare I saranno F la Suva invece è proposto un test perI laN Cmigliori foto delle dispo6 forma fisica che permetterà di capire D loI Anibili N Aonline, M sul I sito E famigros-ski-day. L 8E
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zona Cassa.
9Ore 10.30 – Partenza 7 in cima al piat-
tello a Pesciüm. La classifica sarà disponibile onli8 ne la sera del 4 marzo 2018 a partire dalle 18.00 su www.famigros.ch
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«Azione» mette i palio 3 iscrizioni 9 per 6una omaggio (ciascuna valida famiglia composta da 3-5 persone) al Famigros Ski Day di Airolo. 5 3 1 Per aggiudicarsi i buoni del valore di 110 franchi consultare le istruzioni 7 contenute nella pagina web www. azione.ch/concorsi. Buona Fortuna!
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4 Giochi per “Azione” - Febbraio 201 I O L E N O V O L 3 1 4 L B A P E C E N P Stefania Vinci una delle 3 carte regalo da 50 franchi conSargentini il cruciverba
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Giochi
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L E T A R C O N T E I N O T A I SUDOKU PER AZIONE - GENNAIO 2018 A G I R E O C EN. T1 FACILE N S Soluzione I N T E R N Schema A
6 e una delle 2 carte regalo da 50 franchi con il sudoku 19
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(N. 5 - ... cavalieri sulle sta e in battaglia) 20
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37. A forma di cuneo 38. Il suo simbolo chimico è «au» VERTICALI 1. Si dice di persona indeterminata 2. Suppellettili al caldo 4. L’attore Preziosi (iniz.) 5. Mie a Monte-Carlo 6. Fastidiose sensazioni cutanee 8. Nome dell’autore de’ Il visconte dimezzato 11. Poco oltre 14. Lette senza consonanti 17. Mi seguono in miseria 18. Un’educatrice 12 replicativo 13 14 19. Prefisso 20. Nome maschile 21. Marsina 16 23. Luce splendente in poesia
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(N. 3 -30 ... sessanta euro 31 a seduta) 1
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Regolamento per i concorsi a premi pubblicati su «Azione» e sul sito web www.azione.ch
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ORIZZONTALI 1. Fanno le arcate con arte 3. Donna fatale 7. Le avevano Mercurio e Pegaso 9. Produce prodotti vari... 10. Contrapposto al dittongo 12. Si ripete rincuorando 13. Relativo alla bocca 15. Quarantanove romani 16. Indugiare 22. «Di» per gli inglesi 24. Settima lettera dell’alfabeto greco 25. La domenica... su Rai uno 26. Le iniziali del ballerino Bolle 28. Le iniziali della Tatangelo 30. Andate alla latina 32. Attivo, operoso 35. Resta... di preposizione
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Sponsoring Domenica 4 marzo Airolo ospiterà il Famigros Ski Day
Cruciverba Ma il tacco non fu inventato da Caterina De’ Medici per sembrare più alta? Pare di no... L’uso del tacco appare in Persia nel secondo secolo d.C. per dare maggior stabilità ai... Trova il resto della frase leggendo, a soluzione ultimata, le lettere evidenziate. (Frase: 9, 5, 6, 2, 9)
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2 5 4 Ambiente e Benessere 8 5 9 3 2
M Tutta la famiglia sulla neve Per le famiglie della Svizzera italiana amanti dello sci, l’unica tappa ticinese del Famigros Ski Day è certamente un’occasione da non perdere. La manifestazione, iniziata lo scorso 14 dicembre, si concluderà il prossimo 24 marzo, dopo aver proposto 15 giornate in località sciistiche di tutta la Svizzera. L’appuntamento ticinese con lo Ski Day è per domenica 4 marzo ad Airolo. Le recenti ed abbondanti nevicate hanno reso il paesaggio della stazione leventinese ancor più tipico e affascinante. La simpatica manifestazione sciistica è organizzata da Swiss-Ski (www. swiss-ski.ch) e sostenuta da Famigros, il Club per le famiglie di Migros, in qualità di sponsor principale, e dai cosponsor SportXX Migros e Rivella. L’obiettivo è quello di rendere possibile a migliaia di nuclei famigliari, composti da 3 a 5 persone e provenienti da tutta la Svizzera, di trascorrere una divertente giornata sugli sci. Il prezzo, fissato a 85.– franchi per membri di Famigros e Swiss-Ski, a 110.– franchi per tutti gli altri, comprende: carta giornaliera, pranzo con bevanda Rivella, iscrizione alla gara amatoriale per ogni membro della «squadra famigliare», medaglia per tutti i bambini e regalo a sorpresa. I possessori della Ski Card Leventina potranno partecipare a un prezzo di soli fr. 55.– a famiglia. La gara amatoriale si svilupperà su un tracciato che permetterà anche a sciatori non esperti di cimentarsi nel percorso; si tratterà semplicemente di affrontare con tutta la famiglia un semplice slalom gigante con divertenti ostacoli (attenzione: il casco da sci è consigliato). Il tempo di percorrenza
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3 Scoprire B iR34 O 3K E R 5 numeri corretti R A D A O P 2nelle 5 4 da inserire A M I A D 4 A caselle8colorate. 5 9 3 2
A L I P E I A T O S N E G U A I L E C C 3 IO G R O G A N7 A L E A G I O C E 1D 4 U O 20 T A O L A S E R S 5 E1 S 4 6 I 9 L 5 I D C O S T I M E 7 2 I N 9E T T3 O O L6 I F O F E N. 2 MEDIO 1 4 6 9 R MBU7 S 8A 7 A T 7 S E2 R T O A S I A L O N T R A 7 3 L A A C R9 E R O I C E N E R E D S U 3R 2I S I A L 7 6A T C U A I5 U T O O C AN A E6
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N. 4VGENI A M P1
A G E D O E M U 4 D O P E N 8T A T I A 2N 1A Soluzione della settimana precedente
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R5 8 7 4 3 U9 1 6 2 7 4 7 8 5 9 R2 15 3 1 34 6 2 5 8 1 I 3 T42 6A2 7 8 9 1 3 5 T6 A9 3 1 43 6 9 I T E 2 9 5 1 4 6 8A 74 3G2 8 4 3 2 6 3 O 5 2 9 4O7 1
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27. C’è anche quello «elettrico» 4 3 1 7 8 2 6 9 5 29. Sta in mezzo 7 5 8 9 3 6 2 1 4 31. Prima persona latina 9 6 dai 2 propri 5 1 errori 4 se 7 non 3 8 9 UNA 6 GRANDE 5 4 33. Un anno a Parigi VERITÀ – Molte persone imparerebbero 34. Le iniziali del matematico Torricelli fossero così... Resto della frase: ...IMPEGNATE A NEGARE DI AVERLI COMMESSI. (N. 4 - ... impegnate a negare di averli commessi) N. 3 DIFFICILE 2 4 5 6 36. Le 3iniziali dell’attrice Ranieri 24
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(N. 6 - Gatto orsino - A quello del pop corn) 1
G A 5T 1 T8 9 O4 7N6 2 I 3 8 3 2 4 1 5 6 9 7 8 3 O R O S I C I vincitori 6 7 9 3 2 8 5 1 4 6 10 5 7 8 4 2 9 6 L A 1 3N A N O Vincitori del concorso Cruciverba 2 9 7 6 3 1 8 4 5 11 su «Azione 06», del 05.02.2018 4 8 A 6 2N 9 5O1 3N7 4 7 A M H. Ehrsam, M. Causarano, M. Albisetti R 8 6 2 4 7 9 3 5 1 8 15Vincitori del concorso Sudoku su «Azione 06», del 05.02.2018 Q U I Z L 7E 5 O 3 8N 1 2 4 6E 9 S T. Chang, A. Poretti 18 9 4 1 5 6 3 7 8 2 2 U N D U B A R M A N 21 22 4 GENIcorredata da nome, cognome, è possibile un pagamento in contanti Partecipazione online: inserire la N.luzione, Oemail Odel partecipante L deve A Ndei premi. C I O 9L 1 soluzione del cruciverba o del sudoku indirizzo, 3 7 3I vincitori 8 2 4saranno 6 5 avvertiti 24 nell’apposito formulario pubblicato essere spedita a «Redazione Azione, per iscritto. Il nome dei vincitori sarà 4Concorsi, C.P. 6315, 6901 Lugano». 4 1 su 5«Azione». 3 9 Partecipazione sulla pagina del sito. T C O R Dpubblicato E L 8 I 2 6A 7 Partecipazione Non si intratterrà sui riservata 1 corrispondenza 3 8 9 2esclusivamente 6 5 1 7a lettori 3 8 che 4 26 postale: la lettera o la cartolina postale che riporti la so- concorsi. Le vie legali sono escluse. Non risiedono in Svizzera. 5 1E 1 7O 8 2R6 4N 9 P 2 O 4 P9 E A 3 5 C 1
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20 I premi, 19 cinque carte regalo Migros del valore di 50 franchi, saranno sor23 che avranno teggiati tra i partecipanti fatto pervenire la soluzione corretta entro il venerdì seguente la pubblica25 zione del gioco.
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 19 febbraio 2018 • N. 08
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Politica e Economia Suffragio femminile Storia della conquista lenta e travagliata del diritto di voto rosa
I testimoni di Geova in Russia Perseguitati da Hitler e Stalin non per motivi razziali ma per le loro idee religiose considerate inaccettabili, oggi affrontano ogni genere di umiliazione e discriminazione nel silenzio dei media pagina 25
La spada di Damocle L’iniziativa popolare denominata «No Billag» ha infiammato gli animi in tutto il paese, ma anche favorito un dibattito sul servizio pubblico
10 anni di indipendenza Nel 2008 il Kosovo si staccò dalla Serbia e la Svizzera fu uno dei primi paesi a riconoscere il nuovo Stato balcanico
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Kim Yo-jong, sorella del leader nordcoreano, partecipa alla cerimonia di apertura dei Giochi di Pyeongchang. (AFP)
Nordcoreani superstar
I Giochi della (dis)tensione Molti a Seul criticano la disponibilità del governo a pagare per avere la Corea del Nord
fra gli ospiti. Facendo così dimenticare le atrocità del regime di Pyongyang Giulia Pompili Lo storico viaggio in Corea del Sud di una delegazione nordcoreana di altissimo livello per celebrare le Olimpiadi invernali in corso a Pyeongchang è considerato da molti il capolavoro diplomatico di Moon Jae-in, presidente sudcoreano eletto lo scorso anno dopo una turbolenta stagione politica. Ma a più di una settimana dalla cerimonia d’apertura dei Giochi olimpici, e da quella prima stretta di mano tra la sorella minore del dittatore Kim Jong-un e il presidente Moon, tra la gente, soprattutto tra i coreani del Sud, permane un po’ di scetticismo. La musica, la squadra di cheerleader, i sorrisi delle donne nordcoreane che hanno catalizzato l’attenzione dei media internazionali basteranno per mettere da parte la brutalità di un regime che da anni terrorizza il mondo con il suo arsenale nucleare? Il leader nordcoreano, con la prima lettera della storia indirizzata direttamente al presidente sudcoreano, ha invitato Moon Jae-in a Pyongyang, per parlare degli ulteriori passi da compiere verso la pacificazione delle Coree. Ma Moon non ha ancora accettato l’invito. Sin dal 2007, l’anno dell’ultimo viaggio di Stato di un presidente sudcoreano nella capitale del Nord, molte cose
sono cambiate nella penisola: l’arsenale missilistico e nucleare di Kim Jongun è cresciuto esponenzialmente, e da quando è stato eletto presidente americano, Donald Trump ha più volte detto di essere pronto a usare la forza contro il regime. Moon sta trattando la pace da solo, ed è accusato da Washington di ingenuità, perché la Corea del Nord ci ha spesso illusi firmando accordi che poi non ha rispettato. Quel che è certo è che nessun membro della dinastia dei Kim era mai andato in visita ufficiale in Corea del Sud sin dal 1953, l’anno dell’armistizio tra le due Coree. Così, quando Kim Jong-un ha deciso di aggiungere ai nomi dei rappresentanti ufficiali quello di sua sorella, Kim Yo-jong, la delegazione nordcoreana ha assunto un ruolo diverso dalla semplice rappresentanza. Secondo le testimonianze di chi l’ha incontrata durante i suoi due giorni in Corea del Sud, la giovane Kim è sempre stata a suo agio, ha sorriso molto, e ha dato l’idea di essere una donna con una forte personalità, elegante anche con un semplice completo scuro e senza trucco. Il problema, hanno scritto diverse testate internazionali tra cui il «Guardian» e il «Washington Post», è piuttosto ciò che non sappiamo di lei, e di quello che decide in uno dei regimi più brutali del mondo.
Perfino sulla sua età ci sono discussioni tra esperti: dovrebbe avere più o meno una trentina d’anni, e come il fratello maggiore avrebbe studiato per qualche anno a Berna, in Svizzera, sotto falso nome. È l’ultima dei cinque figli del leader Kim Jong-il, morto nel dicembre del 2011, la sua «principessa», secondo quanto raccontato dal cuoco personale di Kim, Kenji Fujimoto. Non è un caso se la prima apparizione ufficiale della giovane Kim sia stata durante il funerale di Kim Jong-il: da allora il suo ruolo politico accanto al fratello maggiore è cresciuto, e negli ultimi mesi Kim Yo-jong ha assunto ruoli sempre più importanti all’interno della burocratica amministrazione dello Stato nordcoreano. È vicedirettrice del Dipartimento della propaganda, e alla fine dello scorso anno è stata nominata membro non permanente del Politburo. Il mistero che accompagna i membri della famiglia Kim serve a umanizzarli il meno possibile: sin dal suo arrivo alla guida del regime, nel 1948, Kim Il-sung ha costruito attorno alla sua immagine un culto della personalità che lo ha reso, nei decenni, simile a un dio, e così tutti i membri della famiglia. La dinastia dei Kim è quindi la linea di sangue del Monte Paektu, per definizione intoccabile, infallibile.
Il presidente Moon Jae-in ha accolto sorridente, venerdì scorso, la delegazione nordcoreana guidata dal novantenne Kim Yong-nam, che da vent’anni è il presidente del praesidium dell’Assemblea popolare suprema. Nonostante l’omonimia, Kim Yong-nam non è parente dei leader di Pyongyang, ed ha un ruolo di rappresentanza. È per questo che al loro arrivo all’aeroporto di Incheon, in Corea del sud, con un aereo privato, tutte le attenzioni si sono concentrate sulla giovane Kim Yo-jong, e su quella prima stretta di mano che si sono scambiati Moon e una rappresentante della linea di sangue dei Kim sul palco vip dello stadio olimpico, prima della cerimonia d’apertura. Il giorno dopo Kim Yong-nam e Kim Yo-jong hanno partecipato a uno storico pranzo presso la Casa Blu di Seul, il corrispettivo sudcoreano della Casa Bianca, a cui hanno preso parte esclusivamente i rappresentanti delle due Coree. Hanno firmato il libro degli ospiti, e per la prima volta gli analisti hanno potuto osservare la calligrafia di Kim Yo-jong, estremamente simile a quella del fratello maggiore. Durante i due giorni di permanenza al Sud, la Corea del Nord ha mostrato al mondo il suo lato più amichevole, e non solo per via dei sorrisi della giova-
ne Kim. C’è la squadra di hockey femminile, l’unica composta di atlete sia sudcoreane sia nordcoreane, che forse sarà proposta per il premio Nobel per la Pace dal Comitato olimpico internazionale. E si sono già tenuti alcuni dei concerti della Samjiyon band nordcoreana, l’orchestra di 137 elementi che fa parte dello strategico charme offensive di Kim Jong-un. La star della musica pop sudcoreana Seohyun si è unita alle cantanti del Nord, qualche sera fa, cantando Siamo una sola Corea. Le più fotografate sono però le cheerleader nordcoreane, che seguono i – pochi – atleti del Nord durante le performance a Pyeongchang. «È il loro modo di comunicare con la comunità internazionale», ha detto il ministro dell’Unificazione di Seul. Ma in molti hanno criticato la disponibilità del governo sudcoreano a pagare per avere la Corea del Nord tra gli ospiti: se il Comitato olimpico si occuperà degli atleti, infatti, 2,6 milioni di dollari dei contribuenti sudcoreani saranno usati per alloggiare il resto della delegazione, quasi cinquecento persone tra artisti, membri della sicurezza, interpreti e giornalisti. E forse è il prezzo che Seul deve pagare per riaprire il dialogo con Pyongyang e lasciarsi, almeno per qualche settimana, la guerra alle spalle.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 19 febbraio 2018 • N. 08
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Politica e Economia
Largo alle donne!
Suffragio femminile Storia della conquista lenta e travagliata
del diritto di voto rosa Alfredo Venturi Settantatré voti a favore, centonovantasei contro, dunque le donne restino a casa, niente partecipazione elettorale per loro. È l’estate del 1867, evidentemente i tempi non sono ancora maturi perché il Regno Unito possa sbarazzarsi di quello che John Stuart Mill, filosofo, economista e deputato liberale di Westminster alla Camera dei Comuni, definisce «un relitto del passato». E così il suo emendamento alla legge di riforma del sistema parlamentare, con cui intendeva eliminare quel relitto allargando alle donne il diritto di voto, viene impietosamente bocciato. Prevale dunque la tradizione, la politica connotata come maschile. Dovrà passare ancora mezzo secolo denso di manifestazioni, di marce, di suffragette scatenate contro le istituzioni misogine, perché finalmente sia riconosciuto quel diritto: traguardo raggiunto esattamente un secolo fa. E ancora non proprio del tutto: infatti la legge del 1918 riconosce come elettrici soltanto le donne che hanno almeno trent’anni. La lacuna sarà colmata nel 1928, completando la parità con l’elettorato maschile.
Universale del tutto non lo è. Ci sono ancora parti del mondo in cui quel diritto è negato alle donne Del resto la Gran Bretagna, dove pure il movimento delle suffragette nato nel 1872 è particolarmente visibile con le sue spettacolari manifestazioni di piazza, non è il primo Paese a riconoscere il voto alle donne. L’hanno preceduta le democrazie scandinave: prima la Finlandia nel 1907, quindi la Svezia, la Norvegia, la Danimarca. Ancor prima la partecipazione femminile all’esercizio del voto era stata affermata in alcuni effimeri contesti rivoluzionari, come la Repubblica Romana del 1849 o la Comune di Parigi del 1871. La novità era stata introdotta anche in territori autonomi ma non sovrani: come la Nuova Zelanda che riconobbe il voto alle donne fin dal 1893, quando era parte dell’Impero britannico. In altri dominions di Sua Maestà l’evoluzione procede in parallelo con la madrepatria: per esempio il Canada approva il suffragio femminile nel 1918, con la sola eccezione del Québec: nella provincia francofona le donne dovranno aspettare il 1940 per poter andare a votare.
Anche negli Stati Uniti l’evoluzione verso il suffragio femminile è lenta e travagliata, fino all’approvazione nel 1920 del diciannovesimo emendamento alla costituzione. L’emendamento equipara uomini e donne affermando che l’esercizio del diritto di voto «non potrà essere negato o limitato dagli Stati Uniti o da qualsiasi stato in ragione del sesso». Prima di questa regolamentazione federale già alcuni stati avevano preceduto l’evoluzione: il primato spetta al Wyoming, che concesse il diritto elettorale alle donne fin dal 1868. In California il voto femminile fu autorizzato nel 1911. Tutti precedenti che incoraggiarono il movimento della NAWSA (Associazione nazionale americana per il suffragio femminile), nata nel 1890 dalla fusione di gruppi precedenti, che ispirandosi alle militanti britanniche condusse un’azione altrettanto vivace, vanamente contrastata dalla vecchia America rurale e conservatrice, gelosa custode dei valori del passato, avversa come sempre alle innovazioni proposte dagli spregiudicati abitanti delle metropoli costiere. La battaglia per il suffragio femminile ha radici antiche. Nel 1791 viene pubblicato a Parigi un saggio che fa molto parlare di sé, la Dichiarazione dei diritti della donna e della cittadina, autrice la drammaturga Olympe des Gouges. Evidente fin dal titolo l’ironico riferimento alla «Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino», che due anni prima è stata varata a Versailles dall’assemblea costituente. Siamo alle prime fasi della rivoluzione francese, che ha già abolito i diritti feudali e ora con questo documento, a sua volta ispirato alla dichiarazione d’indipendenza degli Stati Uniti d’America, indica all’Europa e al mondo intero la via della modernità. Ma con un neo, che alla visione contemporanea non appariva così vistoso come appare oggi a noi, ma che la sferzante Olympe seppe cogliere con disinvolta sicurezza: i diritti civili solennemente rivendicati dall’assemblea di Versailles erano riservati in via esclusiva alla parte maschile della società. L’aggiornamento del modello rivoluzionario francese, sul punto specifico dei diritti della donna, impegna molti intellettuali europei. Nel 1792 viene pubblicato a Londra un libro di Mary Wollstonecraft, animatrice del femminismo liberale. S’intitola Una rivendicazione dei diritti della donna, e vi si spiega che la cosiddetta inferiorità femminile, su cui si basa la discriminazione, è esclusivamente legata alle minori opportunità educative offerte
Dimostrazione di suffragette a Londra nel 1913. (AFP)
alle donne. Il suo libro integra quello comparso l’anno prima, Una rivendicazione dei diritti dell’uomo, che Mary ha scritto come polemica risposta alle Riflessioni sulla rivoluzione francese di Edmund Burke. Se quest’ultimo ha opposto alle novità annunciate a Parigi il peso dell’aristocratica tradizione britannica, la Wollstonecraft manifesta, difendendo le posizioni di Parigi, l’idea di un progresso che necessariamente dovrà allargare i diritti personali e civili. Per poi colmare con il secondo saggio la lacuna relativa al ruolo della donna. Sempre nel 1792 Theodor von Hippel, funzionario dello stato prussiano, borgomastro di Königsberg, filosofo illuminista e critico sociale, pubblica a Berlino un saggio, Sulla promozione civile delle donne, che lo propone fra gli antesignani dei movimenti per l’emancipazione femminile. Sostiene che l’emarginazione della donna è una delle cause del malessere sociale, soltanto eliminando questo squilibrio, estendendo all’universo femminile i diritti fin qui riservati agli uomini, sarà possibile migliorare la convivenza umana. Qualche anno prima Von Hippel ha dato alle stampe il saggio Sul matrimonio, che assieme al libro sulla promozione civile diventa un manifesto del femminismo europeo, al quale attingeranno a piene mani le suffragette del secolo successivo. Il superamento dell’emarginazione della donna si afferma come uno dei cardini del progresso civile e sociale, fino a sfociare nel ventesimo secolo in un suffragio femminile quasi universale. Non proprio universale del tutto, perché ancora oggi ci sono parti del mondo in cui quel diritto è negato alle donne. Non più in Arabia Saudita, dove peraltro il voto femminile, già sperimentato nelle elezioni amministrative del 2015, è di difficile esercizio a causa dei molti condizionamenti che continuano a marginalizzare le donne. Nel Libano le elettrici possono votare, ma solo se dimostrano di possedere un’educazione primaria, requisito non richiesto agli uomini. Fa storia a sé la situazione nel sultanato asiatico del Brunei, dove vige un sistema del quale tutto si può dire, ma non che discrimina le donne. È vero che sono escluse dal voto, ma poiché lo sono anche gli uomini il principio della parità è salvo. Il consiglio legislativo, in realtà un organo puramente consultivo, è infatti nominato per decreto: non importa che i cittadini si scomodino per andare alle urne, a sbrigare la faccenda ci pensa il sultano in persona.
Bonino-Meloni: zia e sorella d’Italia Le vestali L a prima combatte per le cause
giuste la seconda per far rigare dritto Alfio Caruso
Emma Bonino è la zia delle cause giuste, Giorgia Meloni (nelle foto da sinistra) è la sorella d’Italia impegnata a far rigare dritto, lei così minuta, i rissosi fratelloni. Senza la Bonino, e il suo mentore Pannella, avremmo tanta inciviltà in più e tanti diritti in meno. Peccato, che la rispettino, la riempiano di elogi, a volte l’abbiano persino nominata ministro, ma non la votino. La Meloni è l’enfant prodige con il terrore che il trascorrere del tempo cancelli il prodige e lasci l’enfant, dunque eccola impegnata in prove muscolari, che non le appartengono, delle quali è la prima a pentirsi. L’ultimo esempio lo fornisce la rabbrividente polemica con Christian Greco, direttore del Museo Egizio di Torino, responsabile, agli occhi della Meloni e dei settori para razzisti, di aver inserito fra le agevolazioni l’ingresso gratuito per le coppie arabe. Greco è stato, addirittura, incolpato di discriminare gl’italiani: dall’entourage della Meloni è giunto l’avvertimento, alquanto mafiosetto o, se volete, ducesco, che in caso di vittoria della brancaleonesca aggregazione di centrodestra sarebbe stato cacciato. Un po’ eccessivo nell’Europa attuale, in un sistema parlamentare dove tutti fanno ossequio tre volte al giorno, prima e dopo i pasti, ai dettami della democrazia, del merito, della tolleranza. E Greco si è aggiudicato non per raccomandazione o nomina dall’alto, bensì per qualità di curriculum, dopo un regolare bando, il posto in questo Museo, per altro gestito da una fondazione privata e quindi non sottoposto alla tagliola dello spoil system, la scusa con quale hanno poi cercato di rimediare in Fratelli d’Italia. Settantenne senza remore o posticci abbellimenti, sopravvissuta a un cancro, la voce arrochita dalle sigarette sue e da quelle che Pannella le fumava addosso, la Bonino è lo specchio cui la politica cerca disperatamente di sottrarsi. Incarna il rispetto delle regole e del buon senso; lei e ogni suo atto profumano di bucato; è così trasparente da far risplendere le opacità altrui; la rimpiangeremo il giorno in cui non ci sarà più, come sta succedendo con Pannella. Non a caso il suo partito, che già dal nome è un proclama, + Europa, difficilmente supererà la barriera del 3% per entrare in Parlamento. Unica italiana a essere inserita nel 2011 da «Newsweek» tra le centocinquanta donne che muovono il mondo, è molto più conosciuta e apprezzata al di là delle Alpi che al di qua. E fa persino tenerezza vederla girare per i mercatini nello sconsiderato tentativo di far prevalere le ragioni della convivenza su quelle dell’esclusione, della caccia al presunto diverso. Provenendo dall’esperienza radicale, non fa sconti, non promette 1500 euro a chi vorrà restarsene a casa alla stregua di un Di Maio qualsiasi, non annuncia
improponibili tagli di tasse alla Berlusconi. Di conseguenza gl’italiani, che avrebbero votato l’immediata sfiducia al Churchill di lacrime e sangue, l’ascoltano, l’apprezzano e si rivolgono al primo imbonitore di passaggio. La Meloni è il trionfo della coerenza. Aveva 15 anni quando si schierò con l’Italia della nostalgia, del buon tempo antico, della famiglia tradizionale, di Mussolini personaggio complesso da storicizzare, del no a tutto quanto le pareva in contrasto con il periodo della belle époque e non ha cambiato idea, benché viviamo nel 2018. La sua forza sono l’assoluto perbenismo e l’onestà intellettuale, che l’hanno spinta a seguire l’istinto prima ancora della ragione com’è capitato con la fondazione di Fratelli d’Italia. Nel 2011, incenerita Alleanza nazionale, rifiutò di accodarsi al neo movimento di Fini o alla confluenza nell’area berlusconiana. Puntò sulle viscere fasciste del Paese, naturalmente adattate alla bisogna dei tempi attuali, e ha vinto la scommessa: i sondaggi le attribuiscono il 5% e la quota potrebbe salire senza il fastidio degli urlatori di estrema destra annidati in Casa Pound. La Bonino combatte con determinazione l’ennesima battaglia inutile in una Nazione, dove la presunta società civile procura l’orticaria – basta partecipare a un’assemblea di condominio –, il rancore domina e i presunti fautori del cambiamento hanno scoperto il brivido del salto nel vuoto con il M5S alle strette dipendenze del controverso proprietario di una piattaforma sul web. Lei ci mette la faccia, in cui ogni ruga racconta un impegno e più ancora una sconfitta, e l’anima di chi non vuole tradire il proprio passato. Alla fine, se le andrà bene, avrà salvato se stessa, molto più complicato che possa salvare la scombinata alleanza di centrosinistra, alla quale si è legata. Se dipendesse dalla Meloni li rincorrerebbe con un mestolo, invece le tenaglie della legge elettorale la obbligano a sorridere e concordare con Berlusconi e Salvini, l’esatto contrario del suo mondo di valori. Le intemperanze verbali dei due l’hanno trasformata in una saggia mamma, da diciotto mesi c’è Ginevra, dispensatrice di buoni consigli, il cui accattivante sorriso è in grado di stemperare qualsiasi urticante giudizio. Su immigrati, sicurezza, biotestamento, unioni civili mostra la più profonda intransigenza, al contempo ha dichiarato: «Difenderemo i valori sui quali si fonda la Costituzione e che sono propri anche di chi ha combattuto il fascismo». Berlusconi, che usa molto più fard di lei, e Salvini hanno accolto con un sorriso la sua proposta di fare il premier di un governo moderato. L’esperienza, invece, insegna che Giorgia, metà sarda, metà siciliana con l’infanzia segnata dall’abbandono del padre, se inquadra un obiettivo prima o poi lo raggiunge.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 19 febbraio 2018 • N. 08
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Politica e Economia
Russia: un «culto terrorista»
Testimoni di Geova Perseguitati da Hitler e Stalin non per motivi razziali ma per le loro idee religiose considerate
inaccettabili, oggi affrontano ogni genere di umiliazione e discriminazione nel silenzio dei media Anna Zafesova Per pregare si nascondono nelle case, allestendo tavole imbandite e tenendo pronte bottiglie di vodka da bere nel caso arrivi la polizia, fingendo che sia in corso una festicciola. Leggono i loro testi sacri sul telefonino perché la loro pubblicazione e importazione in forma cartacea è proibita. Alcuni di loro sono già finiti in carcere, e decine di altri hanno chiesto asilo politico in Finlandia e in Germania, ma 175 mila testimoni di Geova in Russia restano di fatto fuorilegge, nonostante le proteste di organizzazioni internazionali di difesa dei diritti umani, di numerose cancellerie occidentali e dell’Unione Europea. Nel luglio del 2017 la Corte Suprema russa ha confermato il bando del culto di origine americana come «estremista», e proclamato fuorilegge i raduni dei suoi membri. Ai credenti è vietato anche fare le loro caratteristiche visite missionarie porta a porta e pregare in pubblico, e non possono più avvalersi del diritto al servizio civile per obiezione di coscienza, in quanto la loro religione non viene più riconosciuta come tale in Russia.
Molti aderenti al culto di origine americana riportano di essere stati aggrediti da poliziotti e da cittadini comuni, con l’accusa di essere agenti della Cia La campagna del governo russo contro i testimoni di Geova è iniziata ormai da diversi anni, e a livello delle varie regioni russe casi di arresti dei credenti, incendi dolosi delle sale di preghiera e divieti locali di professare il culto sono ormai diverse decine. Nell’aprile del 2017 si è arrivati al bando federale, con la messa fuorilegge del Centro amministrativo dei testimoni di Geova in Russia e delle sue 395 succursali in tutto il Paese, e tre mesi dopo la Corte Suprema ha confermato la sentenza. L’organizzazione è stata proclamata «estremista», un’etichetta nata per combattere i gruppi xenofobi una decina di anni fa, ma rapidamente estesa a qualunque attività sgradita alle autorità. Nella lista delle associazioni «estremiste» i testimoni di Geova affiancano organizzazioni terroristiche come l’Isis o altri gruppi jihadisti. Il motivo dell’«estremismo», secondo gli esperti russi, è la minaccia rappresentata dal divieto sulle trasfusioni di sangue degli aderenti al culto – che ha suscitato controversie legali anche in diversi paesi democratici – e l’«istigazione all’odio religioso» motivato dalla «predica della superiorità del proprio credo su tutti gli altri». Una sentenza separata ha messo fuorilegge i testi religiosi prodotti dalla
In Russia ai testimoni di Geova è vietato pregare in pubblico. (Marka)
setta, tra cui la traduzione della Bibbia della setta, in una perizia definita «incompetente e assurda» dal direttore del centro di monitoraggio dell’estremismo SOVA, Alexandr Verkhovsky: «È una traduzione della Bibbia diversa dalle altre, soprattutto nel linguaggio, ma senza divergenze fondamentali». Il tribunale di Vyborg, nel Nord della Russia, ha però stabilito che il testo «non è una Bibbia», e in quanto tale non è soggetto al decreto di Vladimir Putin che esenta la Bibbia, il Corano e gli altri testi sacri delle diverse confessioni, dalle accuse di «estremismo». Il risultato è una persecuzione religiosa che ricorda quella dell’epoca sovietica: nel 1951 Stalin firmò l’ordine per lanciare l’operazione Sever («Nord»), che in due giorni deportò in Siberia migliaia di famiglie di testimoni di Geova, soprattutto dall’Ucraina e dalla Moldova. Ebbero il permesso di tornare a casa (senza risarcimento) nel 1965, ma fino al 1990 il culto rimase illegale, e i suoi esponenti venivano regolarmente incarcerati nei Gulag. Con la fine del comunismo e l’avvento della libertà di culto i testimoni di Geova sono diventati più numerosi, convertendo adepti tra ex atei, ortodossi, musulmani di tutte le numerose etnie dell’ex Urss. Ma la tregua è durata poco. I precetti dei testimoni – non riconoscere i governi terreni, non offrire lealtà ad altri che a dio, rifiutare il servizio militare e predicare il pacifismo
– hanno in vari tempi portato i membri del culto a scontrarsi con le autorità governative in diversi paesi, ma nella Russia putiniana, dove la componente nazionalista e militarista negli ultimi anni è diventata la corrente politica dominante, non trovano più uno spazio. Inoltre, la setta è una diramazione diretta di entità giuridiche americane, e quindi ricade nella definizione di «agente straniero» introdotta da un’altra controversa legge russa del 2014. Molti aderenti al culto riportano di essere stati aggrediti da poliziotti e da cittadini comuni, con l’accusa di essere «agenti della Cia», «spie americane» e «non russi in quanto non ortodossi». Un fedele danese residente in Russia, Dennis Cristinsen, è stato arrestato a Oriol e viene detenuto con l’accusa di «attività estremista» in una prigione priva di riscaldamento e acqua calda, denunciano le Ong internazionali. Il Patriarcato di Mosca da anni fa pressioni sul Cremlino per reprimere i culti alternativi all’ortodossia tradizionale, che ha assunto parametri da religione di Stato. Diversi attivisti e gerarchi ortodossi hanno partecipato alla campagna contro i testimoni di Geova, anche se il principale protagonista della guerra ai culti alternativi, il vicepresidente del Consiglio di periti sulla religione presso il ministero della Giustizia, Alexandr Dvorkin, si è espresso contro il bando dei testi sacri dei testimoni di Geova. Dvorkin, considerato
dagli esponenti dei gruppi religiosi come il principale istigatore della repressione di Stato, ha però più volte richiamato l’attenzione sulle «violazioni dei diritti umani» perpetrate dai testimoni di Geova contro i loro affiliati, oltre a scatenare campagne contro altri esponenti religiosi, come il Guru Ji, un indiano che vive da anni in Russia predicando e insegnando yoga e meditazione. I metodi di intimidazione utilizzati nei confronti della sua famiglia e dei suoi seguaci sono stati gli stessi dei testimoni di Geova: perquisizioni, interrogatori, svariati divieti amministrativi e campagne di intolleranza apparentemente originate spontaneamente nell’opinione pubblica. Nel caso dei testimoni di Geova lo Stato ha avuto anche un incentivo materiale: tutti i beni dell’organizzazione, intestati alle associazioni americane, sono state sequestrate a favore della Russia. A Pietroburgo, il capo della procura Sergey Litvinenko ha elencato tra i maggiori successi della magistratura la confisca di 55 immobili per il valore complessivo di 2,1 miliardi di rubli, circa 30 milioni di euro, che «andranno tutti a disposizione delle autorità del potere russo». Il ricorso dei testimoni di Geova contro il sequestro è stato respinto dal tribunale. Un’altra situazione gravissima è quella nella quale si sono venuti a trovare i credenti in età di leva: fino a luglio erano esentati dal servizio militare con diritto
all’obiezione di coscienza per motivi religiosi. Non essendo più la loro religione riconosciuta in Russia, vengono coscritti e devono scegliere tra il tradire il loro credo o finire in carcere. In Crimea, i commissariati militari hanno inoltre richiesto alle reclute provenienti dalla setta una dichiarazione scritta di abiura del loro credo. E molti credenti scoprono di non poter più trovare un lavoro, perché i loro nomi sono stati inseriti nella lista dei terroristi e degli estremisti del governo, come è successo ad Andrey Sivak, predicatore di Serghiev Posad, vicino a Mosca, nonostante fosse stato prosciolto dall’accusa dal tribunale. L’unica speranza dei credenti resta la Corte Europea per i diritti umani, che in passato aveva già dato ragione ai membri del culto perseguitati in Russia. Ma non è detto che, in caso di verdetto positivo, Mosca presti ascolto a Strasburgo, come è già accaduto per altri casi clamorosi, come le denunce delle violazioni dei diritti umani in Cecenia o la condanna di Alexey Navalny, considerata dall’Europa ingiusta e riconfermata dai tribunali russi senza cambiare una virgola. I testimoni di Geova russi intanto continuano i loro raduni clandestini e si fanno coraggio ricordando di essere stati rinchiusi nei campi di concentramento di Hitler e in quelli di Stalin: «Quelli che ci perseguitano, sono loro che devono preoccuparsi». Annuncio pubblicitario
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 19 febbraio 2018 • N. 08
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Politica e Economia
No al canone per punire la SSR? Votazioni federali del 4 marzo Dibattito infuocato in Svizzera attorno all’iniziativa popolare denominata
«No Billag» – Dopo essere stata data per vincente a lungo nei sondaggi, ora sembra che i sostenitori di una radiotelevisione pubblica abbiano ripreso il sopravvento, ma la SSR è comunque condannata a cambiare Alessandro Carli Raramente si è assistito a una così veemente alzata di scudi come in occasione della campagna in vista della votazione del 4 marzo prossimo sull’iniziativa federale «Sì all’abolizione del canone radiotelevisivo», detta anche «No Billag». Infatti, il settore mediatico svizzero, SSR in primis, unitamente ai politici che avevano snobbato inavvertitamente l’iniziativa, hanno ampiamente recepito il pericolo di questo progetto e si sono mobilitati a tutela della garanzia del servizio pubblico, delle minoranze, della coesione nazionale, ma anche dei loro stessi interessi, tanto da capovolgere i primi pronostici, che davano l’iniziativa in vantaggio. Ora, gli ultimi sondaggi dicono che l’iniziativa verrebbe nettamente respinta, con il 60% dei suffragi (65% in Ticino). Comunque, l’allarmismo rimane palpabile, tanto che – come ha affermato il direttore della RSI Maurizio Canetta – «se l’iniziativa passa, chiudiamo». Per il Consiglio di Stato ticinese, la sua approvazione segnerebbe la fine del servizio pubblico. L’abolizione del canone significa dover rinunciare a entrate per 1,37 miliardi di franchi (dato del 2016), di cui 1,24 attribuiti alla SSR e 61 milioni a 21 radio locali e a 13 televisioni regionali. Attualmente, il canone radiotelevisivo ammonta a 451 franchi all’anno per ogni economia domestica. Il 15 giugno 2015, il popolo svizzero decise con una maggioranza ridottissima (50,08% di sì, meno di 4000 schede di differenza) di cambiare il sistema di riscossione del canone radiotelevisivo. L’approvata modifica della legge sulla radiotelevisione prevede il passaggio a un prelievo generalizzato del canone per tutte le economie domestiche che, dal 2019, scenderà a 365 franchi all’anno, come si è recentemente affrettata a ricordare la consigliera federale Doris Leuthard. Le imprese verseranno un canone calcolato in funzione della cifra d’affari (gratis se è inferiore al mezzo milione), che potrebbe raggiungere alcune decine di migliaia di franchi. Per i fautori dell’iniziativa si tratta, di fatto, di un’«imposta sul fatturato». Inoltre, con questo sistema, il titolare di un’azienda pagherà il canone due volte: privatamente e per la sua ditta. Il Ticino, con gran parte della Svizzera tedesca, si pronunciò contro questo cambiamento, che vede il canone trasformarsi in una tassa generalizza-
ta, pagata pure da chi non ha la TV o la radio, soprattutto quando la digitalizzazione sta cambiando le abitudini dei consumatori, con un innegabile calo dell’utenza giovanile che, nell’era degli smartphone e dei tablet, sarà sempre meno incollata al piccolo schermo. Ma è proprio il diffondersi di questi strumenti – secondo il Consiglio federale – a giustificare l’introduzione di un canone generalizzato. Ancorché risicata, l’approvazione di quest’ultimo (che ha provocato un disagio sicuramente sottovalutato), è rimasta particolarmente indigesta all’Associazione «No Billag». Quest’ultima, sostenuta dai giovani liberaliradicali svizzeri, dai giovani dell’UDC svizzera e da altri simpatizzanti, nel dicembre del 2015 ha inoltrato l’iniziativa per l’abolizione del canone radio-tv, depositando 112’191 firme valide. Un’impresa non facile, visto che per la loro raccolta i promotori del progetto non hanno beneficiato del sostegno di partiti o di altre organizzazioni nazionali. Un gruppo di giovani è dunque riuscito a mettere a soqquadro il paesaggio mediatico elvetico e i potenti interessi che lo sorreggono?
L’iniziativa «No Billag» ha comunque il merito di aver aperto un dibattito sul concetto di servizio pubblico Oltre all’abolizione del canone, l’iniziativa chiede che in futuro venga stralciato anche qualsiasi sussidio diretto a beneficio delle emittenti radiotv. Affermando che la SSR gode di una posizione privilegiata che ostacola le emittenti private, i suoi promotori mirano a un cambiamento di sistema che permetta una concorrenza leale tra i media. Sostengono che il mercato mediatico svizzero dev’essere libero, senza un attore con un ruolo monopolista. Per i fautori dell’iniziativa, il cittadino «non può essere costretto a finanziare, attraverso il canone più caro del mondo (abolito in numerosi paesi europei), gli stipendi esagerati di dipendenti che operano per un servizio pubblico più che discutibile». Secondo loro, l’obbligo generale di pagare il canone è una «violazione delle libertà fondamentali». Essi sono convinti che l’abolizione del canone Billag (dal nome della ditta
Dopo aver lasciato a lungo il campo agli avversari, da gennaio i contrari all’iniziativa «No Billag» hanno moltiplicato gli sforzi in difesa della SSR (nella foto la manifestazione a Bellinzona del 27 gennaio). (Keystone)
che lo ha finora incassato) sgraverebbe in particolare famiglie e persone con redditi modesti. Il testo in votazione – che in caso di approvazione entrerebbe in vigore il primo gennaio prossimo – annulla, entro il 31 dicembre 2018, tutte le concessioni radio-tv esistenti e prevede di metterle periodicamente all’asta. Secondo il Consiglio federale, invece, l’iniziativa avrebbe profonde ripercussioni sul paesaggio mediatico svizzero, indebolendolo sensibilmente. Migliaia di posti di lavoro sarebbero a rischio. Il servizio pubblico non sarebbe più garantito e, tanto meno, in quattro lingue, mentre la funzione di coesione in Svizzera, tanto decantata dalla SSR, andrebbe a ramengo. Il Governo raccomanda dunque, così come le Camere, di respingere il testo. Non ha voluto opporgli un controprogetto. L’approvazione dell’iniziativa – sottolinea ancora il Governo – ridurrebbe anche fortemente la pluralità di opinioni e di offerta dei media elettronici. A pagarne le conseguenze più gravi sarebbero in particolare la Svizzera romanda, italiana e romancia. Durante l’esame parlamentare, quale alternativa all’iniziativa, una minoranza di destra aveva proposto inutilmente di ridurre il canone da 451 a 200 franchi annui per economia domestica e di esentarne le aziende. Bocciando questa proposta, è stata sicuramente gettata alle ortiche un’occa-
Una proroga indispensabile Sebbene nessuno ne parli, in termini di moneta sonante, la posta in gioco del secondo oggetto in votazione il 4 marzo, ossia il nuovo ordinamento finanziario 2021 (NOF), è ben più elevata: 43,5 miliardi di franchi, pari ai 2/3 delle entrate complessive della Confederazione. A questo tema è data meno importanza, visto che si tratta «semplicemente» di prorogare fino al 2035, con una modifica costituzionale, le due più importanti fonti d’entrata della Confederazione: l’imposta federale diretta (IFD) e quella sul valore aggiunto (IVA), indispensabili. Il Consiglio federale e le Camere all’unanimità raccomandano di accettare il NOF 2021. L’ultima proroga del diritto di riscossione dell’IFD e dell’IVA è stata approvata da popolo e cantoni nel 2004 ed è entrata in vigore nel 2007, con scadenza alla fine del 2020. Oltre alla proroga, il progetto in votazione prevede anche l’abrogazione dal
testo costituzionale di una disposizione transitoria concernente l’imposta sulla birra. Tale disposizione è infatti superflua, dal momento che la legge sull’imposizione della birra è entrata in vigore il 1° luglio 2007. Come ha sottolineato il consigliere federale Ueli Maurer, la proroga dell’attuale ordinamento finanziario non comporta un aumento delle imposte. In questo modo, Berna riceverà i mezzi necessari per continuare a far fronte ai propri compiti. In caso contrario, dal 2021 la Confederazione si vedrebbe costretta a ridurre le uscite di oltre il 60%, con conseguenze inimmaginabili. Va ricordato che il gettito dell’IFD è importante anche per i cantoni, visto che ne ricevono una parte pari al 17%. Una minoranza del parlamento ha proposto di rinunciare al limite temporale, ribadendo che entrambe le imposte sono importanti per le finanze federali e che la loro riscossione è in-
discussa. Tanto vale, dunque, concedere allo Stato il diritto di incassarle in modo permanente. Alla fine, le Camere hanno però optato per un periodo limitato di 15 anni, convinte che sia un mezzo per esaminare, a intervalli regolari, l’ordinamento finanziario della Confederazione. Sebbene incontestato in parlamento, il NOF è comunque respinto dal partito «up!schweiz», che ha fondato un comitato contrario, in collaborazione con membri dell’UDC, il Partito pirata e i Giovani liberali radicali. In Ticino vi si oppone il Partito comunista, per il quale l’IVA è un’«imposta iniqua». Dal canto suo, il comitato contrario ritiene importante dibattere sull’aumento costante del carico fiscale, anche perché attualmente i cittadini non possono scegliere e l’unica alternativa è l’abolizione delle imposte per la fine del 2020. Ma le speranze di riuscita degli oppositori sono effimere. /AC
sione che avrebbe aperto le porte a un compromesso e forse indotto i fautori dell’iniziativa a ritirarla, con un risparmio per tutti. Ora, ci si affanna a turare le falle. Rimangono le paure, oltre tutto alimentate da una sorta di infelici minacce da parte degli avversari del tipo «se passa l’iniziativa, la SSR chiude o, al massimo, continuerà a sopravvivere una TV svizzero tedesca», «non esiste un piano B», «è la fine del servizio pubblico e della difesa delle minoranze». Queste minacce potrebbero intimorire il cittadino per convincerlo a bocciare l’iniziativa, ma anche indurlo a votare sì per mera protesta. Infatti, la propaganda della potente macchina mediatica SSR è martellante a tal punto da risvegliare più di un sospetto, proprio perché la radio-tv è parte in causa. Se l’iniziativa sarà bocciata, il canone verrà ridotto nel 2019 a 365 franchi, pari a 1 franco al giorno per economia domestica. Inoltre, dall’anno prossimo il canone sarà incassato da una nuova società, la Serafe, con sede nel canton Zurigo, che dispone di un «migliore rapporto qualità-prezzo», rispetto ai 54 milioni di franchi annui percepiti dalla Billag, che ha sede a Friburgo e impiega quasi 250 collaboratori. In ogni caso, con o senza l’iniziativa, la Billag uscirà di scena. È forse azzardato accusare quest’ultima d’aver contribuito a sbiadire l’immagine della SSR/SRG. Sicuramente non l’ha migliorata. A ogni modo, l’ente radiotelevisivo nazionale si sente minacciato: basti pensare che la nota trasmissione politica della televisione svizzero tedesca «ARENA» ha già dedicato ben tre serate all’iniziativa «No Billag». Lo stesso dicasi per la Svizzera italiana (con dibattiti «moderati in maniera non sempre equidistante», secondo i fautori del sì), il che la dice lunga sui timori che gravano sull’ente radiotelevisivo nazionale, sottoposto anche al fuoco di fila delle critiche. Se ne stigmatizza il ruolo. Molti affermano che certi programmi sono intrisi di «arroganza, tendenziosità e faziosità» e quindi non è giusto pagarli. Dunque, abolire il canone per punire la SSR? Il comitato ticinese dei sostenitori dell’iniziativa è convinto che la SSR, anche senza canone, continuerà a esistere e che il mercato mediatico svizzero conoscerà una reale concorrenza tra gli attori, compresa la SSR, sia a livello pubblicitario che di contenuti. La futura SSR «non sarebbe più il dinosauro mediatico che oggi conosciamo: dispendioso, sovradimensionato, politicamente sbilanciato e refrattario alle critiche, ma opererebbe in modo economico, efficiente e orientata al pubbli-
co». A ogni modo, «non ci sarà nessuno che spegnerà la luce di colpo». Per i fautori del sì, «il catastrofismo dei contrari è fuorviante». Di ben altro avviso sono i difensori del canone. Senza il gettito di quest’ultimo, si accetta l’eventualità che si produca solo ciò che garantisce guadagni. Così facendo – ha ricordato Doris Leuthard, responsabile del Dipartimento federale delle comunicazioni (DATEC) – si nuoce alla pluralità dei media e al processo di formazione delle opinioni e si consente a finanziatori privati e gruppi imprenditoriali esteri di aumentare la propria sfera d’influenza. Senza i proventi del canone, che rappresentano circa il 75% del bilancio della SSR e una fetta cospicua di quello delle radio locali e TV regionali, ci sarebbe una riduzione dell’offerta in tutti i settori. Una situazione particolarmente difficile, soprattutto per le regioni periferiche e le minoranze. Un danno se si pensa che i media – come sottolinea il Governo – hanno un «ruolo centrale per la Svizzera, le sue diverse lingue e culture, nonché per la sua democrazia diretta». Di fronte agli scenari «apocalittici» degli oppositori e al probabile fallimento del progetto, i sostenitori di «No Billag» hanno recentemente presentato un piano «B», riconoscendo che, senza canone, per la SSR «sarebbe dura». Tra l’altro, propongono che le emissioni SSR facciano parte dell’offerta di base degli operatori via cavo (Swisscom, Sunrise, UPC). I clienti potrebbero scegliere (o rinunciarvi del tutto) tra i singoli prodotti dell’emittente pubblica. I fautori non escludono nemmeno un finanziamento pubblico in favore della coesione del Paese, sebbene in contraddizione con la loro proposta di modifica costituzionale. Con il gettito del canone, la RSI incassa 45 milioni e, grazie a una chiave di solidarietà interregionale, ne riceve 220, raggiungendo i 265 milioni (il 22%, contro il 43% per la SRG, il 33% per la RTS e il 2% per la RTR). Inoltre, i 1100 posti di lavoro della RSI sono proporzionalmente di gran lunga più numerosi di quelli della Svizzera tedesca o romanda. Si tratta di differenze che dovranno essere messe sulla bilancia e ridimensionate anche in caso di bocciatura dell’iniziativa, proprio per tener conto del mandato di servizio pubblico che l’ente radiotelevisivo nazionale è chiamato a rispettare. Mandato che l’iniziativa, seppur con un dibattito dai toni non sempre pacati, ha ora permesso di sviscerare. Con o senza canone, la SSR di domani non sarà più quella di oggi.
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 19 febbraio 2018 • N. 08
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Politica e Economia
Kosovo, un’indipendenza condizionata
Anniversari 10 anni fa il parlamento di Pristina proclamò il distacco dalla Serbia – La Svizzera fu uno dei primi paesi
a riconoscere il nuovo Stato e ancora oggi partecipa con il contingente Swisscoy al mantenimento della pace Marzio Rigonalli Dieci anni or sono, il 17 febbraio 2008, il parlamento riunito a Pristina proclamò l’indipendenza del Kosovo. L’ex provincia serba diventò così un nuovo Stato sovrano, l’ultimo in data sorto in seno alla comunità internazionale. La decisione delle autorità kosovare venne approvata dagli Stati Uniti e dalla maggior parte dei paesi europei, ma incontrò l’immediata opposizione di Belgrado, che per una serie di ragioni storiche, politiche ed economiche, non intendeva separarsi dalla sua provincia meridionale. E la Serbia trovò subito l’appoggio della Russia, suo fedele alleato. Dieci giorni dopo la decisione del parlamento kosovaro, il 27 febbraio 2008, la Svizzera riconobbe l’indipendenza del Kosovo. In chiaro contrasto con la sua tradizionale prudenza, il governo elvetico agì rapidamente e fu uno dei primi governi al mondo a sostenere il nuovo Stato. La sua attenzione nei confronti di un territorio corrispondente ad un quarto circa della superficie della Confederazione, e sul quale vivevano poco meno di due milioni di abitanti, non sorse all’improvviso. Risaliva alla seconda metà del secolo scorso, in particolare agli anni Novanta, quando la politica del pugno di ferro seguita da Slobodan Milosevic costrinse decine di migliaia di kosovari a fuggire ed a trovare rifugio all’estero. Molti scelsero la Germania, altri optarono per la Svizzera. Oggi, nella Confederazione, vivono circa 170’000 kosovari, corrispondenti al 10% della popolazione del Kosovo. Tra i kosovari accolti in Svizzera negli anni Novanta c’erano anche molti futuri leader politici, che avrebbero avuto un importante ruolo nella guerra contro la Serbia e nell’avvento della indipendenza del Kosovo. L’attuale presidente del Kosovo, Hashim Thaci, si rifugiò in Svizzera nel 1993 e vi rimase 3 anni, durante i quali avrebbe partecipato alla creazione dell’UCK, l’«Esercito di liberazione nazionale» dei guerriglieri kosovari. Insieme a lui, altri futuri leader dell’UCK trovarono pure rifugio in Svizzera.
Preparativi a Pristina per le celebrazioni dell’anniversario dell’indipendenza. (Keystone)
Dal 1999, dalla fine di tre anni di repressioni e di guerra, la Svizzera è presente in Kosovo con la Swisscoy («Swiss Company»), un contingente dell’esercito di poco più di 200 soldati. La Swisscoy partecipa alla Forza multinazionale per il mantenimento della pace in Kosovo, la «Mission Kosovo Force» (Kfor). Il contingente elvetico è stato deciso dal Consiglio federale sulla base di una risoluzione dell’ONU e, nonostante l’opposizione di forze politiche come l’UDC, la sua presenza in Kosovo è sempre stata rinnovata dal parlamento federale. L’ultima volta nel giugno del 2017. Il mandato è stato prolungato fino alla fine del 2020. Il parlamento ha però chiesto di procedere ad una graduale riduzione del numero dei militari coinvolti. La Svizzera ha fornito e fornisce molti aiuti al Kosovo. È uno dei principali paesi donatori. Partecipa alla ricostruzione e allo sviluppo del paese con programmi mirati, che tendono a rafforzare le istituzioni democratiche ed a promuovere il dialogo politico, e che si estendono anche a settori come i trasporti, la formazione e la ricerca. La
Confederazione è anche uno dei principali paesi investitori, attivo soprattutto nel settore delle medie e piccole imprese. Le difficoltà tutt’ora presenti, come l’insufficienza delle infrastrutture kosovare, la diffusa povertà, l’alto tasso di disoccupazione, la dilagante corruzione e l’incertezza giuridica non offrono, però, molte possibilità di intensificare la collaborazione bilaterale. Nel 2016, la Svizzera esportò in Kosovo merci per un valore di 30 milioni di franchi e dal piccolo Stato balcanico importò beni per soltanto 12 milioni di franchi. Gli aiuti ricevuti in passato dalle autorità elvetiche e quelli che continuano ad arrivare dalla cooperazione allo sviluppo, senza dimenticare le rimesse della comunità kosovara residente nella Confederazione, permettono comunque alle autorità di Pristina di vedere nella Svizzera un paese amico e protettore. Una situazione che ha consentito il presidente Hashim Thaci, in un’intervista rilasciata al «Blick» l’estate scorsa, di definire «eccellenti» i rapporti del suo paese con la Svizzera. Il governo kosovaro vorrebbe sviluppare ulteriormente i rapporti bi-
laterali, ma per questo deve prima far fronte a due grosse ipoteche che gravano sul suo futuro: la prima riguarda la posizione internazionale del Kosovo; la seconda la punizione degli autori dei crimini contro l’umanità commessi nell’allora provincia serba durante la guerra e nel periodo immediatamente successivo. Il Kosovo è lungi dall’essere accettato da tutta la comunità internazionale. Soltanto 112 dei 193 Stati membri delle Nazioni Unite l’hanno riconosciuto. Tra i paesi che non hanno approvato la nascita del nuovo Stato vi sono la Cina e la Russia, membri permanenti del Consiglio di sicurezza dell’ONU, ed anche cinque Stati dell’Unione europea, ossia la Spagna, la Romania, la Slovacchia, la Grecia e Cipro. I motivi invocati sono diversi, ma quello dominante è la paura di veder sorgere un precedente che potrebbe venir invocato dalle minoranze che vivono all’interno delle proprie frontiere nazionali. Per esempio, dai catalani in Spagna e dalle minoranze ungheresi in Romania e in Slovacchia. Per di più, il Kosovo non è ancora riuscito a nor-
malizzare i suoi rapporti con la Serbia. L’applicazione dell’accordo concluso tra i due paesi nel 2013 incontra ancora grosse difficoltà, soprattutto a causa della minoranza serba che vive nel nord del paese e che non accetta di essere integrata nel Kosovo. La normalizzazione delle relazioni tra Pristina e Belgrado viene richiesta dalla comunità internazionale e Bruxelles ne fa una condizione sine qua non per poter far parte della comunità europea. L’altro grande ostacolo concerne i crimini che sono stati commessi dai membri dell’UCK. Carla Del Ponte, ex procuratore capo del Tribunale internazionale per i crimini nell’ex Jugoslavia, ne parlò nel suo libro La caccia. Io e i criminali di Guerra uscito nel 2008. All’inizio del 2011, su incarico del Consiglio d’Europa, l’ex consigliere agli Stati Dick Marty presentò un rapporto in cui venivano denunciati i sequestri, le esecuzioni sommarie e il traffico di organi prelevati sui prigionieri serbi e rom, avvenuti nel Kosovo. Il rapporto coinvolgeva direttamente anche l’ex leader dell’UCK e oggi presidente Hashim Thaci. Provocò vive reazioni, ma non ebbe conseguenze concrete immediate. Soltanto nel 2015, grazie alla pressioni internazionali, il parlamento kosovaro accettò di istituire un tribunale speciale, con sede all’Aja e con la missione di chiarire i crimini denunciati, nonché di individuarne i colpevoli. Il tribunale ha avviato il suo lavoro, muovendosi tra molti ostacoli. L’ultimo in data, il fallito tentativo intrapreso dal parlamento kosovaro, lo scorso mese di dicembre, di sopprimere la nuova istituzione giudiziaria. Nelle prossime settimane dovrebbero apparire le sue prime conclusioni. La piena accettazione come Stato sovrano da parte della comunità internazionale e l’esame approfondito del suo recente passato, rimangono due condizioni imprescindibili, senza le quali il Kosovo non riuscirà né a completare il suo processo d’indipendenza, né ad intensificare i rapporti con i paesi che già lo accettano, né a stabilire nuove relazioni con gli Stati che oggi non lo riconoscono.
Mini-amnistia, grande successo Fiscalità La prospettiva dell’entrata in vigore dello scambio automatico di dati bancari ha fatto sì
che negli ultimi sette anni in Svizzera riemergessero 31,7 miliardi di franchi di capitali, di cui 6 in Ticino, in gran parte rientrati dall’estero Ignazio Bonoli Grazie all’autodenuncia esente da pena varata nel 2010, sono venuti alla luce almeno 31,7 miliardi di franchi. Sono oltre 90’000 i contribuenti che hanno voluto mettersi in regola con il fisco entro il 2017. Questa dichiarazione spontanea, che permette di evitare le multe per sottrazione d’imposta, si è particolarmente intensificata lo scorso anno, a causa dell’avvicinarsi della data dell’entrata in vigore dello scambio au-
tomatico di informazioni tra la Svizzera e molti altri paesi, nell’ambito degli accordi conclusi bilateralmente, ma a partire dalle regole fissate dall’OCSE. È sintomatico che gran parte di questo denaro provenga da conti o depositi nel Liechtenstein, paese che è pure compreso negli accordi sullo scambio automatico di dati bancari. Sono perlopiù contribuenti residenti in Svizzera che hanno rimpatriato i loro capitali, in gran parte da alcuni paradisi fiscali, che non lo saranno più, ma che fino a
Le denunce spontanee più consistenti provengono da Zurigo, Ticino, Ginevra e Basilea. (Keystone)
quest’anno garantivano un segreto bancario per lo più esente da tasse. Le nuove situazioni fiscali hanno consigliato un rimpatrio in Svizzera, paese in cui il fisco è ancora moderato e che ha favorito il rientro proprio grazie alla mini-amnistia. I cantoni che hanno registrato il numero e i volumi maggiori di rientri sono quelli delle piazze finanziarie: Zurigo, Ginevra e Ticino. Secondo una prima valutazione – sulla base dei dati cantonali – sarebbero rientrati in Svizzera ben 7,5 miliardi di franchi di capitali soltanto nel 2017, il che porta la somma dei rientri negli ultimi cinque anni ad almeno 31,7 miliardi di franchi. Le denunce spontanee più consistenti provengono dai cantoni Zurigo (6,9 miliardi di franchi), Ticino (6 miliardi), Ginevra (4,4 miliardi), Basilea-Città (3,1 miliardi) e San Gallo (2 miliardi). In Ticino si è notata una crescita regolare dei capitali denunciati, che sono passati da 112 milioni nel 2010, a 780 milioni nel 2014, a 1,802 miliardi nel 2017, per un totale, come detto, di circa 6 miliardi di franchi. In tutti i casi si tratta di capitali riemersi per il fisco, ma non necessariamente investiti
in altri paesi. Tuttavia la sorprendente concomitanza con l’entrata in vigore dell’accordo sullo scambio automatico di dati bancari e il progressivo aumento di denunce può permettere di concludere che, nella maggior parte dei casi, si tratta proprio di rientri. I dati sono provvisori anche perché il termine ultimo per l’autodenuncia scade il 30 settembre di quest’anno. Per il fisco di alcuni cantoni si tratta di entrate di notevole portata, poiché gli interessati dovranno pagare le imposte sottratte per i 10 anni previsti e i relativi interessi. Condonata viene infatti soltanto la multa prevista in questi casi. Anche per l’economia in generale, si tratta di un aspetto positivo, in quanto questi capitali potranno rientrare nel normale circuito economico. Le cifre citate sono impressionanti, tanto più se si considera che sono oltre 90’000 i contribuenti che si sono autodenunciati. Una precedente amnistia aveva generato 11,5 miliardi e anche i fautori di quella attuale non si attendevano molto di più. Comunque i 31,7 miliardi venuti alla luce sono soltanto una parte della sostanza che viene tassa-
ta ogni anno in Svizzera. Nel 2014, per esempio, questo dato era di 1’756 miliardi di franchi. Alla luce di questi totali la consistenza dell’autodenuncia viene un po’ ridimensionata, tenuto anche conto che in alcuni casi si tratta di beni immobili posseduti all’estero, spesso da immigrati in Svizzera. Se da un lato questi ultimi dati non intaccano seriamente la fama di contribuente onesto degli Svizzeri, dall’altro si vorrebbe conoscere meglio il fenomeno e vedere se sia necessario adottare provvedimenti specifici. Dal canto loro, i responsabili delle finanze cantonali vorrebbero, in casi specifici e ben documentati, poter esaminare i conti bancari di alcuni contribuenti. Un sistema che funziona già in molti altri Stati, per cui la Svizzera potrebbe rimanere uno dei pochi che garantiscono sempre il segreto bancario ai residenti. È probabilmente anche questo tipo di riflessione che ha favorito l’eccezionale aumento di autodenunce. Il Parlamento è però stato chiaro, in occasione del dibattito sulla protezione della sfera privata: il segreto bancario all’interno della Svizzera non si tocca.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 19 febbraio 2018 • N. 08
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Politica e Economia
Pianificazione della pensione a 60 anni: come riscuotere la rendita? La consulenza della Banca Migros
Risparmio fiscale in assoluto per comune 25’000 20’000 15’000 10’000 5’000 0
1. Accertare la modalità del prelevamento
A 60 anni verificate qual è il modo migliore di prelevare le vostre rendite e che cosa deve permettervi il vostro capitale. Questo aspetto è molto importante nella pianificazione della pensione, perché la progressione fiscale può avere un impatto significativo. Progressione fiscale significa che l’aliquota fiscale applicata sale con l’aumento del reddito. In alcuni cantoni, ad esempio, si pagano più tasse prelevando 200’000 franchi in un anno che 100’000 franchi alla volta in due anni diversi. A 60 anni vale la pena di strutturare i prelevamenti in modo tale da spalmarli su diversi anni e non raggiungere redditi annui troppo elevati.
coniugati 2. Assicurare la sopportabilità della propria abitazione
In Svizzera le abitazioni a uso proprio possono essere finanziate con capitale di terzi fino all’80% del valore. Una volta raggiunta l’età della pensione, le banche chiedono la riduzione dei prestiti ipotecari dall’80% al 66%. Se intendete tenere la vostra casa, al più tardi a 60 anni dovete garantire finanziariamente la possibilità di esaudire il vostro desiderio.
non coniugati
3. Ottimizzare per i tempi che verranno
A 60 anni compiuti organizzate le finanze in modo che tutti gli elementi della vostra pensione si armonizzino ottimamente. Vi rientra, ad esempio, una pianificazione a tappe dei vostri investimenti. L’obiettivo è garantire la liquidità e, nel contempo, ottimizzare la struttura del patrimonio. Questi tre aspetti sono essenziali per
Fonte: Banca Migros
Jeannette Schaller è responsabile della pianificazione finanziaria alla Banca Migros
Una volta compiuti i 60 anni, è probabile che abbiate deciso quando andare in pensione. Ai fini della pianificazione della pensione si tratta ora soprattutto di decidere le modalità di prelevamento del capitale, la sopportabilità della vostra abitazione in proprietà e il finanziamento ottimale della pensione.
(Suddivisione del prelevamento del capitale di CHF 500’000 in 2xCHF 250’000)
Aarau Altdorf Appenzello Basilea Bellinzona Berna Coira Delsberg Frauenfeld Friburgo Ginevra Glarona Herisau Losanna Liestal Lucerna Neuchâtel Sarnen Sciaffusa Svitto Sion Soletta San Gallo Stans Zugo Zurigo
Jeannette Schaller
molte persone che hanno circa 60 anni. Quali altre decisioni debbano essere prese è molto spesso un fatto individuale. Un’analisi professionale della situazione è utile in proposito. Informazioni
Per saperne di più sull’argomento e fare il test online sulla pensione: blog.bancamigros.ch Annuncio pubblicitario
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 19 febbraio 2018 • N. 08
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Politica e Economia Rubriche
Il Mercato e la Piazza di Angelo Rossi L’aeroporto di Agno al bivio Secondo me, l’era degli aeroporti regionali è terminata. E terminata è anche l’era della politica aerea regionale. Penso che è un bene che sia così. Quando i ticinesi, come tanti Icari, pensavano con grande ingenuità, alle opportunità che poteva loro offrire il volo, il Ticino contava cinque aeroporti. Tre di loro – Magadino, Ambrì e Lodrino – erano aeroporti militari. Gli altri due – Agno e Ascona – erano aeroporti regionali a destinazione turistica o sportiva. Oggi tre di questi aeroporti o sono chiusi, o hanno un numero minimo di movimenti. Per gli altri due si pone la questione se continuare o no con l’attività aerea. Ricordo che la febbre del volo si sviluppò dopo la seconda guerra mondiale e, in particolare, a partire dalla metà degli anni Settanta quando incominciò il boom dei voli charter. Allora ci si accorse che il Ticino, con la sua offerta turistica, era molto periferico rispetto a centri di attività come
Zurigo, Berna, Basilea e Ginevra, per non parlare delle città europee. Allora non esistevano ancora né la galleria autostradale del San Gottardo, né la galleria di base ferroviaria. Gli operatori del settore scoprirono inoltre che potevano orientarsi verso il turismo congressuale, ma che, per fare questo, avevano bisogno di un collegamento aereo con la piattaforma aerea nazionale, vale a dire l’aeroporto di Zurigo. Con lo sviluppo delle attività finanziarie, poi, il Ticino economico imparò ad usare l’aeroplano anche per voli interni alla Svizzera. Vennero così gli anni delle grandi speranze e degli investimenti nell’aeroporto di Agno. Ma il volume dei trasporti aerei di quell’aeroporto non riuscì mai a decollare. Il numero dei passeggeri trasportati dalla linee che, nel corso degli ultimi decenni, lo hanno servito per qualche tempo oscilla, oggi, sulle poche centinaia di migliaia. Come per l’aeroporto di Belp/Berna e per
quello di Altenrhein/San Gallo, i cui flussi di passeggeri pure si aggirano sulle 200’000 unità annuali, la questione della continuità della gestione si ripropone anche per Agno ad ogni fine esercizio. E non basta ricordare che l’aeroporto occupa un’ottantina di persone e genera un indotto per l’economia regionale pari a 260 milioni di franchi per giustificarne la permanenza. Nel frattempo, infatti, la domanda di voli da parte dei ticinesi è diminuita per diverse ragioni. Dapprima perché la piazza finanziaria sta ridimensionandosi e molte funzioni direttive delle banche con filiali in Ticino sono state spostate oltre San Gottardo. Poi perché dal Ticino, oggi, si può abbastanza rapidamente raggiungere l’aeroporto internazionale di Malpensa che, tra l’altro, offre voli per destinazioni turistiche internazionali più a buon mercato che Zurigo. In terzo luogo, perché, da più di un anno, funziona
l’Alptransit, che consente al ticinese di raggiungere il centro di Zurigo, partendo da Lugano più velocemente che facendo il viaggio in aereo. Nello stesso tempo la domanda di voli per Lugano, partendo da altre città svizzere o dall’estero, non è aumentata. Purtroppo bisogna arrendersi all’evidenza: la tendenza è alla diminuzione dei passeggeri in tutti gli aeroporti regionali. Perché passeggeri e voli aumentino sembra che non ci sia che un rimedio: incentivare i collegamenti con Lugano da parte di compagnie aeree che si occupano del traffico aereo a buon mercato, su breve e media distanza. Gli aerei di queste compagnie atterrano negli aeroporti regionali di Austria, Germania, Francia, Spagna e Italia, per non parlare di Olanda, Gran Bretagna, dei paesi scandinavi e dei Balcani. Ma, nel medio e lungo termine Agno, o il Ticino, non sembrano essere attrattivi per queste compagnie. Ci si può quindi
chiedere se vale la pena di continuare a gestire l’aeroporto di Agno come un micro-aeroporto internazionale (con tanto di controllo doganale) e, soprattutto, se agli enti pubblici convenga investirvi, di nuovo, qualche decina di milioni di franchi per adeguare le strutture a una domanda di voli che non esiste più. Che la città di Lugano lo voglia fare, per ragioni di prestigio soprattutto, è comprensibile, anche se oggi non dispone più di liquidità in esubero. Che lo debba fare il Cantone è molto più discutibile. Visto come stanno andando le cose, è forse venuto il momento di pensare a un nuovo concetto di gestione per questo aeroporto, un concetto che consenta di coprire i costi che genera, anno per anno, senza dover ricorrere periodicamente a importanti iniezioni di fondi da parte dell’ente pubblico. Purtroppo per quel che riguarda il mercato dei voli aerei non è l’offerta che genera la domanda!
sono i valori dell’America, l’impegno, il post razzismo, la famiglia. Nella Casa Bianca di adesso, invece? È fin troppo facile, in questa stagione della nostalgia, vivere il rito del ritratto con una serie ininterrotta di sospiri. Con Barack Obama è sempre stato così: con i simboli, le parole appropriate, il sorriso al momento giusto non ha mai avuto rivali. Con i Trump poi, non ne parliamo. Questa Amministrazione è il regno del caos e dei battibecchi e degli scandali. L’ultimo sembra congeniato apposta per far saltare i nervi un po’ a tutti: lo staff secretary di Trump, Rob Porter, si è dimesso dopo che è stato accusato dalle sue due ex mogli di violenza domestica. Porter smentisce la versione delle due donne, ma ha comunque deciso di lasciare il suo lavoro per non condizionare troppo la Casa Bianca. La quale però è già sufficientemente condizionata: la capa della comunicazione di Trump, Hope Hicks, ha una relazione con Porter e ha scritto,
assieme al chief of staff di Trump, John Kelly, il primo atto di difesa di Porter: è «un uomo di vera integrità». Mentre circolano le foto dell’occhio nero di una delle due ex mogli e le testimonianze dirette, fortissime, delle due che dicono: credete a quello che volete, ma una violenza subita lascia questi traumi, non ci si può sbagliare, Trump dice che chissà, questi racconti forse non sono veri, la fiducia nella Hicks e anche in Porter resta solida. Kelly, che già ha avuto qualche contraddittorio di troppo con il presidente, potrebbe cadere sotto i colpi di questo ennesimo scandalo, ma intanto l’indignazione cresce: che rapporto ha Trump con le donne e con la sua famiglia? Poco prima di questo Portergate poi si era fatta viva una escort che avrebbe ricevuto dei soldi per non parlare della sua relazione con il presidente, molti anni fa, quando la Casa Bianca non era neppure immaginabile, ma Melania era già la moglie di Trump – si racconta
di una first lady invero furibonda. Laddove gli Obama ci sbattono in faccia il loro matrimonio imperturbabile, e l’ex presidente racconta a David Letterman aneddoti di vita familiare, le figlie che crescono e le mosse «da vecchio» mentre balla, Trump offre caos sentimentali, relazioni burrascose, strappi personali ininterrotti. Non si può certo dire che per Trump la famiglia non sia importante, anzi, basti pensare al rapporto che ha con Ivanka o alla difesa perentoria del figlio Donald jr. all’interno dell’inchiesta del Russiagate, ma quel che si percepisce da fuori è una continua, incontenibile intemperanza. La storia dell’America registrerà anche questo momento, anche questo ritratto, ma chissà se riuscirà a rispondere alla domanda di fondo, quella a cui cerchiamo di rispondere dal 2016, da quando il Paese ha deciso di eleggere Trump: con chi ci si immedesima di più, negli Stati Uniti d’oggi?
pulso volitivo, sulla volontà di formare una nazione unita oltre le differenze. Volontà che si nutre di libertà, autonomia delle singole parti rispetto al tutto, collaborazione nei momenti difficili, difesa comune, adesione ai riti del patriottismo (feste, manifestazioni sportive, inni). La laboriosità fa la sua parte, ma non basta: per fare una nazione occorre un corredo di simboli, una memoria collettiva coltivata dalla comunità, una cornice di princìpi spirituali condivisi. Qual è l’elemento di maggior peso, il materialismo o l’idealismo? Sono entrambi vitali e indispensabili, rispondeva nel 1961 il professor Herbert Lüthy (storico di cui quest’anno ricorre il centenario della nascita), autore di un saggio che allora suscitò un certo clamore: Die Schweiz als Antithese [La Svizzera come antitesi]. Materia (l’economia) e spirito (l’anima del popolo) non erano da considerarsi come elementi separati;
al contrario, l’evoluzione storica dimostrava che materia e spirito si erano sempre variamente combinati e mutualmente rafforzati nell’esercizio della democrazia diretta, nell’architettura federalistica e nella valorizzazione delle autonomie cantonali. Lüthy portava a sostegno della sua tesi la ragnatela delle strade ferrate: «l’esempio più semplice è dato dalla rete ferroviaria, la più fitta del mondo, che – anche a prezzo di gravosi oneri e di alti costi d’esercizio – si è piegata alle rivendicazioni espresse dai più piccoli comuni e dalle più remote valli, anche quando urtava contro le leggi della redditività. [...]. Si paragoni questa rete con quella francese, dove tutto parte e finisce a Parigi con ammirevole geometrica regolarità e dove i buoni collegamenti con la capitale decretano la prosperità o il declino, la vita o la morte di intere regioni. Qui sta la differenza tra uno Stato centralistico e uno federalistico. E poi sovrapponiamo la
carta ferroviaria a quella delle attività economiche e dei movimenti della popolazione. Questa disseminazione delle industrie su tutto il territorio fin nelle zone discoste, l’insediamento di aziende di rilevanza internazionale in cittadine rurali (sulle quali poggia la solidità e l’equilibrio dell’edificio sociale di questo paese, risparmiandogli le orrende concentrazioni industriali dell’Ottocento con i loro quartieri miserandi e il loro proletariato sradicato) stanno in stretto rapporto con il regime politico, con questa forza della democrazia locale, permettendo ai comuni e alle regioni di contrapporsi al disumano principio della razionalità economica». Questa la diagnosi di Herbert Lüthy, formulata quasi sessant’anni or sono. Al lettore il compito di giudicare se in questo frangente storico stia prevalendo nel nostro paese l’elemento «materia» o l’elemento «spirito» nelle scelte politiche nazionali.
Affari Esteri di Paola Peduzzi Michelle-Obama o Melania-Trump? La politica americana è scandita dai riti, che oggi ci sembrano ancora più importanti perché, nel caos che regna alla Casa Bianca, ci ricordano che le istituzioni, nelle democrazie, sono più forti e più longeve degli stessi leader che le dirigono. I martedì di novembre in cui si vota, i caucuses in Iowa che aprono le primarie, il discorso sullo Stato dell’Unione a fine gennaio: la politica, negli Stati Uniti, ha una sua liturgia precisa. La scorsa settimana c’è stato il momento dei ritratti, quel particolare rito in cui gli ex presidenti entrano nella storia del Paese prendendo posto nella galleria nazionale dello Smithsonian Museum. Il progetto è nato negli anni Sessanta e raccoglie i ritratti degli uomini e delle donne che hanno dato un «contributo significativo» alla storia degli Stati Uniti, in particolare i presidenti, quando sono usciti dalla Casa Bianca. Nell’eredità di una presidenza c’è anche questo ritratto, che resta come simbolo di
una trasformazione del Paese: con gli Obama, che hanno appena presentato i loro dipinti, il rito si è riempito di ogni significato possibile. Eccola l’America che ha eletto il suo primo presidente nero, che si è fatto ritrarre in un mondo tutto verde, di rispetto della natura e dell’ambiente, grande battaglia obamiana e progressista. La first lady invece appare come una principessa pensosa e vigile, che è un po’ il messaggio che Michelle ha sempre voluto dare durante gli otto anni alla Casa Bianca: la guardiana dell’obamismo. Soprattutto, nella presentazione dei dipinti, gli Obama – più Barack che Michelle – hanno voluto trasmettere quel senso forte di famiglia e di comunità, quella solidità innamorata che Obama ha colorato di passione quando ha detto che nel ritratto di sua moglie l’artista ha lasciato intatta la «hotness» di Michelle. Una dichiarazione d’amore, l’ennesima, in mondovisione, una prova di forza con il presente: qui ci
Cantoni e spigoli di Orazio Martinetti La materia e lo spirito Quali fattori cementano la coesione nazionale? In parole più semplici, che cosa tiene assieme un paese come la Confederazione elvetica, questo vetro policromo di lingue, religioni, culture, mentalità? L’interrogativo è affiorato spesso nella discussione sulla «no Billag». Quasi tutti gli interlocutori hanno riconosciuto che la Società svizzera di radiotelevisione (Ssr) partecipa in modo massiccio, attraverso vari canali, ad irrobustire il senso di appartenenza, quell’«idée suisse» che la stessa Ssr aveva posto alcuni anni fa al centro della sua ragione d’essere. Forse si esagera nell’attribuire alla radiotelevisione questo compito, questa missione salvifica. Ma è pure vero che i collanti che in passato con i loro lacci e gancetti contribuivano a stringere il corsetto di mamma Elvezia mostrano segni di stanchezza, e pure di usura: i partiti, le associazioni di vertice («Spitzenverbände»), le società studentesche, l’esercito...
Perfino due pilastri come la posta e la ferrovia stanno scendendo nella scala dei valori: non sono più considerate aziende sulla cui base alimentare l’orgoglio patrio. Che cosa resta, allora? Agli occhi dei materialisti il coagulante principale rimane il benessere, una ricchezza che non rimane tutta nelle mani di pochi cantoni opulenti e sordi alle esigenze degli altri, ma che sgocciola anche nelle regioni povere attraverso un raffinato congegno ridistributivo. Zugo e Zurigo aiutano Uri e Ticino sulla base di un federalismo cooperativo o solidale. Tale trasferimento di risorse non si traduce tuttavia in assistenzialismo o in donazione: chi riceve deve dimostrare che i fondi vadano a buon fine (vale quindi il principio di responsabilità). Finché reggerà questo meccanismo – sostengono i materialisti – la Confederazione rimarrà in piedi, superando screzi e dissapori. Gli idealisti insistono invece sull’im-
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 19 febbraio 2018 • N. 08
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Cultura e Spettacoli Fenomeni paranormali Allo Stadttheater di Berna va in scena The Medium di Gian Carlo Melotti
Tucci meets Alberto Giacometti Con Final Portrait Stanley Tucci ha realizzato un film che ha per protagonista il grande artista svizzero interpretato da Geoffrey Rush
Meravigliosa Mrs Maisel Amazon propone una serie la cui protagonista è una donna esilarante... e molto bella
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L’arte contro il freddo Anche quest’anno il festival ginevrino Antigel ha saputo distinguersi per ricerca e anticonvenzionalità
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Seti I davanti alle divinità Harsiesi, Hathor e Osiride, anticamera I destra. Disegno di Belzoni H4447.a. (© Bristol Culture: Bristol Museums & Art Gallery)
Tutti i segreti della tomba del faraone Mostre Una originale mostra all’Antikenmuseum tra l’antichità egizia e la moderna tecnologia Marco Horat Se andando a Basilea pensate che vi apprestate a visitare la «solita» mostra sull’antico Egitto, vi sbagliate. Niente o quasi sarcofagi dipinti (l’unico è una copia in alabastro) mummie, ushabti e oggetti di culto, busti e teste di faraoni, gioielli d’oro e statuette. Quella che viene messa in scena nelle sale dell’Antikenmuseum è la storia millenaria della più grande e più bella tomba faraonica mai scoperta nella Valle dei Re: quella di Seti I, sovrano della XIX dinastia, vissuto nel II millennio a.C., padre del grande Ramses II. Duecento anni or sono il padovano Giovanni Battista Belzoni, incaricato dal British Museum di portare in Inghilterra reperti egizi allora molto in voga, la scopriva e vi entrava quale primo europeo della storia; come aveva già fatto per la Piramide di Cheope e per il Tempio di Abu Simbel. Un percorso in discesa di 137 metri scavato nella roccia, lungo due corridoi interamente affrescati fin sul soffitto, pozzi che un tempo erano attraversabili mediante passerelle di legno con fun-
zione antifurto, e due sale sorrette da pilastri e ricche di decorazioni di pregevole fattura, la sala del sarcofago, un adiacente locale denominato Apis per la presenza di resti di un toro sacrificato alla grandezza del sovrano sepolto e infine un ulteriore cunicolo di 150 metri che si perdeva nella falda freatica, luogo delle acque primordiali che sono all’origine della vita. La tomba era stata saccheggiata fin dalla lontana antichità ma le meravigliose pitture parietali e quelle che decoravano i soffitti erano rimaste intatte nei secoli. Belzoni le descriverà con tutto lo stupore immaginabile, ma soprattutto le copierà, da bravo acquarellista quale era, fin nei minimi dettagli, lasciando al museo londinese una documentazione storica di grande interesse archeologico, ora esposta tra l’altro a Basilea. Tra parentesi a Piccadilly Circus il nostro esploratore organizzerà nel 1821 la prima mostra di egittologia al mondo, con la ricostruzione sommaria in gesso di alcuni ambienti della tomba, allo scopo di vendere a ricchi collezionisti londinesi reperti del suo
viaggio. Pratica oggi ritenuta scandalosa ma allora corrente. E proprio qui sta il problema e lo scopo della mostra all’Antikenmuseum. Dopo la sua scoperta la tomba di Seti I fu infatti frequentata da archeologi (Champollion, Lepsius, Rosselli) e avventurieri di tutto il mondo, incaricati spesso dai maggiori musei europei – il Louvre di Parigi, il Museo di Berlino, il Museo egizio di Toscana e altri ancora – che in due secoli, facendo calchi con metodi altamente invasivi che utilizzavano gesso, cera e carta, o peggio asportando intere figure in rilievo e cartigli delle pareti, riuscirono a distruggere quel patrimonio artistico che Belzoni aveva ammirato ancora intatto. Il resto lo ha fatto il turismo di massa del XX secolo. Una situazione di degrado che andava in qualche modo affrontata e risanata. La Fondazione Factum di Madrid in collaborazione con l’Università e il Museo delle Antichità di Basilea hanno pensato così di documentare la vicenda della tomba di Seti I e, probabilmente entro il 2020, di ricostruire
la stessa nella Valle dei Re, all’esterno dell’originale oggi chiusa al pubblico, così come è stato fatto per la tomba di Tutankhamon. L’Università di Basilea lavora da oltre quarant’anni nella Valle dei Re. Iniziatore dell’avventura egiziana è stato Eric Hornung, professore dal 1967 al 1998, che tra l’altro ha tradotto tutti i testi della tomba di Seti I; lavori che continuano oggi sotto la direzione di Susanne Bickel, che ha raccolto circa 7000 frammenti provenienti dalla stessa tomba, depositati non si sa quando in un riparo adiacente. Per il momento è stata realizzata la scansione dei due ambienti più significativi: la Sala delle Bellezze e quella detta dei Pilastri che si trova accanto alla sepoltura vera e propria: le più ricche e significative anche dal profilo archeologico. Per esempio: della prima, a Basilea, si può vedere la ricostruzione realizzata con sofisticati metodi di scansione tridimensionale e fotocamere multispettro (ben documentati in mostra), sia dell’originale visto da Belzoni nel 1817 sia della tomba come si presenta allo stato attuale, così da poter fare un paragone im-
mediato e rendersi conto del degrado occorso in soli due secoli a causa della presenza umana e del fattore ambientale. Vi si ammirano una serie infinita di rappresentazioni della figura del sovrano di fronte alle varie divinità del pantheon egizio Ptah, Anubi, Hathor..., che dovevano propiziare e accompagnare Seti I nel suo viaggio nell’aldilà fino al momento della rinascita; come avviene per il viaggio del disco solare che tramonta per poi risorgere incessantemente. Niente imprese belliche o gesta eroiche quindi, come se le imprese umane fossero meno importanti del rapporto con la divinità e con la speranza di rinascita; un concetto estraneo alle culture greca e romana, poi tornato con il Cristianesimo e altre religioni monoteistiche. Dove e quando
Basel, Antikenmuseum und Sammlung Ludwig. Scanning Sethos, die Wiedergeburt eines Pharaonengrabes. www.antikenmuseumbasel.ch. Fino al 6 maggio 2018.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 19 febbraio 2018 • N. 08
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Cultura e Spettacoli
Esperienze paranormali
Teatro L’opera da camera The Medium di Gian Carlo Menotti – in cartellone allo Stadttheater di Berna
fino a fine mese – propone un’affascinante riflessione sul pericoloso fascino della magia
Marinella Polli Toby, lo zingaro trovatello muto, e Monica si divertono insieme quando la madre di questa, la sensitiva Madame Flora detta Baba, ordina loro di prepararsi per la consueta seduta spiritica. Sono infatti sempre i due giovani ad agire dietro le quinte, mentre lei finge di cadere in trance e di evocare gli spiriti. Entrano i clienti, dapprima i Gobineau, che hanno perso in un tragico infortunio il figlioletto, e Mrs. Nolan la cui figlia adolescente è morta tempo addietro. Mentre durante la seduta si sentono le voci degli scomparsi rivolgersi ai genitori in preda a intensa emozione, Baba ha improvvisamente la sensazione di una mano che le tocca la gola, ne è sconvolta e decide di interrompere la seduta. Ormai ubriaca, chiede a Toby se sia stato lui a toccarla, dapprima fingendo calma e gentilezza, poi minacciandolo e picchiandolo. In seguito, sempre più angosciata e agitata, finisce addirittura per restituire i soldi e confessare i suoi imbrogli ai clienti, i quali però inesorabilmente rifiutano di credere all’amara realtà. Continuando a bere, a delirare e ad invocare Dio e la Vergine, Baba accusa di nuovo Toby e spara al ragazzo che spaventato si era nascosto dietro la tenda. Lo uccide, con grande disperazione di Monica accorsa agli spari. Questa la trama scottante di The Medium, opera da camera in due atti di Gian Carlo Menotti, su libretto del
Gli attori Claude Eichenberger e Davidson Farias. (Philipp Zinniker)
compositore in lingua inglese: una coinvolgente riflessione sul fascino pericoloso di magia e paranormale esercitato sull’uomo lungo i secoli e in ogni classe sociale. Pare che Menotti abbia scelto l’argomento dell’opera nel 1936, dopo aver assistito a una seduta spiritica che lo aveva alquanto colpito. Un’e-
sperienza che dieci anni dopo, grazie a una commissione della Columbia University di New York, avrebbe appunto fissato in The Medium. Successivamente avrebbe ampliato la composizione in una versione presentata l’anno dopo a Broadway, cui fecero seguito un adattamento ci-
nematografico nel 1951, e numerose rappresentazioni in tutti i teatri del mondo. The Medium è dal 2 febbraio in cartellone allo Stadttheater di Berna, senza orchestra ma con un vigoroso e quanto mai efficace accompagnamento pianistico che rende del tutto merito
alla scrittura orchestrale rovente, oppressiva ma comunque di dimensioni cameristiche e, peraltro, come soleva dire Menotti, dal «valore determinante, e non di solo commento». Agevolmente ravvisabile, in quest’opera, il linguaggio musicale largamente debitore della tradizione verista, con qualche risonanza popolare come in O Black Swan, quasi una ninna-nanna slava, e passaggi spesso declamati dalla protagonista. Calorosissimi gli applausi del pubblico presenti alla première nella Mansarde del teatro, all’indirizzo di Claude Eichenberger, bravissima scenicamente e vocalmente nell’ingrato ruolo in titolo, di Elissa Huber, convincente in quello di Monica, di Davidson Farias, sensibile nella parte muta di Toby, di Lilian Farahani in quella di Mrs. Gobineau, di Carl Rumstadt nei panni di Mr. Gobineau e di Boriana Angelova in quelli di Mrs. Nolan. Inoltre per la pianista Anne Hinrichsen, cui è affidata la direzione musicale, e per il regista Alexander Kreuselberg che propone un allestimento misurato ma eloquente (scenografia di Kim Zumstein, costumi di Maya Dester). Le repliche si protrarranno solo sino al 25 febbraio. Dove e quando
The Medium di Gian Carlo Menotti, Berna, Stadttheater, fino al 25 febbraio 2018. www.konzerttheaterbern.ch Annuncio pubblicitario
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Cultura e Spettacoli
Il ritratto infinito di Giacometti
Incontri Il regista e attore statunitense Stanley Tucci ha recentemente presentato a Roma Final Portrait,
film che vede protagonista il grande pittore e scultore Blanche Greco «Adoro i film dei Fratelli Marx. Come attore sono diventato talmente impaziente che mi trovo bene solo quando posso stare dietro alla macchina da presa, infatti come regista sono sempre in movimento e nei miei film c’è sempre azione! Fare l’attore mi consente di dar da mangiare ai miei cinque figli e di coltivare le mie passioni, l’arte e la cucina, che mantengo grazie all’attività di regista». Ha esordito così, con l’ironia che gli è congeniale l’attore americano Stanley Tucci, dalla filmografia sconfinata, incontrato a Roma per la presentazione di Final Portrait. L’arte di essere amici di cui è regista.
La passione di Stanley Tucci per Alberto Giacometti affonda le proprie radici lontano nel tempo «Alberto Giacometti è un artista che mi ha profondamente toccato, lo amo da quando ero ragazzo, e fare un film su di lui è un progetto che ho portato avanti con tenacia, contro tutte le difficoltà. Un vero film, non una biografia, che diventa sempre una noiosa enumerazione di fatti, di luoghi e di personaggi; volevo realizzare qualcosa di vivace, che ne evocasse lo spirito, oltre alle qualità artistiche, l’umanità e la bizzarria, oltre al grande talento. Per questo mi sono concentrato sull’episodio che James Lord narra nel suo libro: A Giacometti Portrait, quando, a Parigi, lusingato dalla richiesta dell’artista di posare per lui per un ritratto, ne divenne, suo malgrado, prigioniero per diciotto giorni». È il 1964 quando James Lord, giovane scrittore e critico d’arte americano in procinto di lasciare Parigi, dove ha vissuto per un
certo periodo, accetta di fare il modello per Alberto Giacometti, in quegli anni all’apice della fama e con il quale ha stabilito un rapporto di reciproca simpatia e amicizia. Lord è preoccupato perché fra tre giorni ha il volo con il quale rientra definitivamente a New York, ma Giacometti invitandolo nel suo studio, è categorico, sarà questione di poche ore. Ma quando il mattino dopo James, spinge il cancello del caotico atelier-casa dei Giacometti, Alberto sembra dedicarglisi quasi controvoglia, mentre fanno la loro apparizione i vari personaggi della sua vita quotidiana: il fratello Diego, anche lui artista e suo angelo custode discreto; la moglie Annette, elemento fondamentale della sua vita e l’amante Caroline, una ragazza di vita, per la quale l’artista nutre una passione ossessiva, che gli è necessaria come l’aria che respira. Le pose vengono interrotte dalle passeggiate, dagli intervalli al ristorante e dai momenti di riflessione, ma non bastano a tenere a bada i dubbi dell’artista, il suo perfezionismo, la delusione, l’incertezza. Così il ritratto si forma sulla tela e via via si precisa e si distorce, in un duello continuo dove Giacometti è impegnato con i suoi pennelli, in un corpo a corpo con la forma e l’idea, sempre indeciso tra ciò che vede lui e la realtà, incapace di dare il tocco finale all’opera e riluttante a lasciare andare il suo modello, tanto che preferisce ogni volta cancellare e ricominciare tutto daccapo. James Lord, quando non è con Giacometti, è al telefono, sempre più in difficoltà a spiegare a chi lo attende in America la situazione che lo trattiene a Parigi, e che sembra non avere una via d’uscita. Ormai non è più questione di un quadro, ma di amicizia. «Quello che mi ha conquistato nel libro e in questo episodio», ci rivela Stanley Tucci, «è il gusto di un’epoca; lo spaccato del carattere di Giacometti, il suo modo di essere famoso, di vivere e d’intendere il suc-
Stanley Tucci davanti alle locandine del suo film: il ruolo di Giacometti è di Geoffrey Rush. (Keystone)
cesso e l’arte. Ci fornisce tutta una serie di dettagli che ci permettono di entrare in profonda sintonia con il personaggio e la sua umanità, che lo rendono così speciale e allo stesso tempo universale, ma riescono anche a far emergere il groviglio di sentimenti in cui rimane “impigliato” James Lord, suo malgrado, prigioniero, affascinato e riluttante di Giacometti». Ironico, a tratti buffo, ma anche drammatico, Final Portrait. L’arte di essere amici è un film equilibrato, spiritoso, ma soprattutto pieno di spunti sul tormento dell’artista, ma anche di tenerezza, grazie alla sapiente interpretazione di Geoffrey Rush, così somi-
gliante a Giacometti (con l’aiuto di lunghe sessioni di maquillage), e di Armie Hammer, che è più bello del vero James Lord, ma come sottolinea Stanley Tucci: «Molto eloquente nei progressivi cambiamenti di umore: disperato per i giorni che si trascinano inutilmente, sino a quando ormai nel panico, ha la geniale trovata finale. È stato faticoso, ma sono felice di essere riuscito a rendere la sincerità di questo rapporto, che alla fine si rovescia ed è il “modello” ad osservare l’artista e, a modo suo, a salvare quello che sarà il suo ultimo ritratto». Nel film e nel personaggio di Giacometti c’è molta ricerca, ma anche un
po’ del passato di Stanley Tucci: «Nel mio Giacometti non c’è solo il pittore e lo scultore che ha realizzato opere senza tempo, che secondo me più di ogni altro artista contemporaneo ha saputo esprimere nelle sue raffigurazioni la condizione umana, ma ci sono anche i ricordi che ho di mio padre, un artistaartigiano molto conosciuto e anche un insegnante di storia dell’arte. Con lui ho visitato tutta l’Italia, abbiamo vissuto un anno a Firenze e da lui ho imparato molto. Mi piaceva guardarlo lavorare e l’ho spiato per ore e ore. Dal lui ho ereditato il talento e come lui, avrei voluto fare il pittore e lo faccio anche, ma questa è ancora un’altra storia».
L’arte di Alberto e la fatica di Clint
Cinema Se da una parte convince il lavoro sull’artista svizzero, dall’altra Clint Eastwood
ha realizzato per la prima volta un’opera addirittura imbarazzante Fabio Fumagalli **(*) Final Portrait, – L’arte di essere amici, di Stanley Tucci, con Geoffrey
Rush, Armie Hammer, Tony Shalhoub (Gran Bretagna 2017) Legato ad Alberto Giacometti da lunga amicizia, il critico d’arte americano James Lord accetta negli Anni Sessanta di posare. Due personalità forti: così il confronto rischia, ad ogni istante, più che di esplodere di protrarsi all’infinito. Semiserio ma
rispettoso, uno sguardo sul grande scultore-pittore svizzero; l’arte, per lui, consisteva nel fatto di rappresentare un atto inadempibile. Basato sul diario annotato da Lord durante i diciotto giorni del suo soggiorno nell’atelier parigino, Final Portrait sorprende. Costretto nel claustrofobico labirinto mentale, non cade nei tranelli della situazione. Gioca, quasi si diverte; cresce, scommettendo su quella impossibilità del concludere avanzando. Stracciare e ricominciare, Geof-
Geoffrey Rush e Armie Hammer in una scena di Final Portrait. (youtube)
frey Rush è bravissimo in quell’aspetto del processo creativo; ingobbito, la sigaretta che gli penzola dalle labbra, la pettinatura arruffata, l’andatura trascinata. Non cade mai nella ripetitività, pur sottolineando gli sguardi furtivi, i minimi riflessi. Tutte le esitazioni che traducono mirabilmente e con emozione il tema eterno, notoriamente irrisolto, dell’inaccessibilità dell’oggetto artistico. * Ore 15.17 – Attacco al treno (The 15.17 to Paris), di Clint Eastwood con
Anthony Sadler, Alek Skarlatos, Spencer Stone, Jenna Fischer (Stati Uniti 2017) La vicenda è nota. Sul Thalys, il treno ad alta velocità Amsterdam-Parigi, il 21 agosto 2015 si sfiorò la tragedia. Tre giovani americani riuscirono coraggiosamente a evitare una strage, neutralizzando un terrorista belga-marocchino carico di armi e munizioni. Clint Eastwood, il grande vecchio ottantasettenne del cinema americano, desiderava concludere la sua trilogia sull’eroismo iniziata nel 2014 con American Sniper, il cecchino che protesse in Iraq l’avanzata dei marines uccidendo più di 200 persone; e proseguita due anni dopo con Sully, dove
Anthony Sadler e Spencer Stone interpretano loro stessi. (Keystone)
Tom Hanks portava in salvo, planando sull’Hudson, i 155 passeggeri dell’Airbus. L’azione in Attacco al treno dura un quarto d’ora: troppo poco per un lungometraggio. Eastwood ha tentato di ovviare, concentrandosi sui veri protagonisti, risalendo alle loro motivazioni, a un’adolescenza da allievi mediocri e da appassionati di giochi bellici. La sceneggiatura li ritroverà alla vigilia del viaggio in Europa che finirà dove sappiamo. Ma attraverso un itinerario
d’incomprensibile sciattezza; a colpi di selfie, Roma e il Colosseo, la terrazza del Gritti sul Canal Grande, le bionde di Amsterdam in discoteca. Clint rimane l’erede di tutto un cinema; Attacco al treno un film imbarazzante. Annuncio pubblicitario
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 19 febbraio 2018 • N. 08
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Cultura e Spettacoli
Simple Minds elettronici
Musica Il ritorno sulle scene dei tuttora amatissimi Simple Minds mostra una rock band
Nel bosco dell’alterità umana
attraversata da nuova energia e linfa vitale, evidenti nelle riuscite contaminazioni elettroniche Teatro Storie intrecciate nel buio Summer, la quale tradisce un lato ancor della notte Benedicta Froelich È un dibattito datato, quello che vede i fan di vecchia data dell’ormai stagionata rock band scozzese dei Simple Minds affermare con veemenza come la loro formazione del cuore non abbia mai, agli occhi del grande pubblico, ricevuto l’apprezzamento critico che avrebbe meritato – apprezzamento andato invece a coetanei dall’appeal popolare maggiore quali U2, Bruce Springsteen e affini. Nonostante ciò, il gruppo capeggiato dal cantante Jim Kerr ha sempre potuto contare su uno «zoccolo duro» di ammiratori caratterizzato da grande fedeltà e costanza; e sebbene i dischi più recenti della formazione non siano forse intrisi del medesimo vigore creativo che ne aveva caratterizzato gli sforzi giovanili, fa sempre piacere poter inserire nel lettore CD un nuovo lavoro a firma Simple Minds.
Nell’ultima fatica di Kerr & Co. il sound elettronico ha indubbiamente un ruolo di spicco Anche perché questo nuovo Walk Between Worlds offre una formazione che, in barba agli ormai quarant’anni di carriera sulle spalle, suona di colpo ringiovanita e nuovamente mossa da genuina voglia di fare rock, seppur adattando il proprio peculiare stile musicale alle tendenze odierne: ed è una fortuna, poiché molti fan erano stati scoraggiati dal singolo apripista del Cd, Magic, esempio a dire il vero piuttosto scialbo di pop elettronico nella sua accezione più commerciale, a base di autotune e distorsioni vocali. Invece, ciò che l’album in sé offre all’ascoltatore è una vera e propria esplosione di energia, evidente fin dalla prima traccia, la trascinante
più vigoroso e «arrabbiato» del songwriting dei Minds; un po’ come accade con In Dreams, che esemplifica alla perfezione la fusione tra il sound rock più puro, arricchito dalle tipiche inflessioni stilistiche di Jim e compagni, e le nuove sfumature elettroniche dal gusto vagamente vintage. Da parte sua, Silent Kiss appare come un brano giunto direttamente da una playlist anni 80, ma rimaneggiato e «aggiornato» tramite l’uso di campionamenti dance che gli conferiscono un gusto da discoclub, pur senza nulla della faciloneria commerciale che ciò potrebbe comportare. Così, sebbene non ci sia nulla di nuovo sotto il sole, la band mostra comunque di essere ancora in gran forma: a sottolinearlo basta un pezzo come l’ispirato Barrowland Star – il quale, pur mantenendo una struttura ritmica (e un ritornello dai toni epici) in stile inconfondibilmente «à la Simple Minds», di primo acchito potrebbe sembrare firmato da David Bowie, visto che perfino il cantato di Kerr ricalca da vicino lo stile vocale del Duca Bianco; il che, complici finezze quali le potenti chitarre elettriche e l’elegante coda strumentale a base di archi, dà vita a una combinazione vincente, facendo di questa canzone una delle migliori del CD. Del resto, il sound elettronico tanto amato da Kerr & Co. – e da loro già ampiamente esplorato fin dai tempi di Néapolis (1998) – raggiunge qui il suo picco, come si può vedere in brani quali Utopia (quasi una versione «aggiornata» di classici del calibro di Ghost Dancing) e The Signal and the Noise: e se nel caso di queste due tracce ci troviamo davanti a pezzi riusciti, ma dalla linea melodica purtroppo un po’ risaputa, ecco che la title track Walk Between Worlds rappresenta invece un’esplosione di «electronica» nel più puro stile del pop-rock angloamericano di inizio millennio, ma con in più tutta l’inconfondibile grinta e allusività dei Simple Minds – i quali, infatti, completano il tutto con un grande
Giorgio Thoeni
La copertina della recente fatica dei Simple Minds.
tocco di classe: la perfetta quanto improbabile fusione tra la sezione ad archi (che offre anche una splendida «intro» e «outro» al brano) e gli eccellenti assoli di chitarra, perfetta conclusione a una melodia estremamente coinvolgente. Si cambia invece parzialmente registro con Angel Underneath My Skin e Sense of Discovery, ballatone dal carattere di «tormentoni» garantiti, che costituiscono quasi un’autocitazione dei primi Simple Minds e nulla hanno da invidiare a classici del passato quali See the Lights o Let There Be Love. Certo, c’è da dire che, sebbene ogni singolo pezzo della tracklist di Walk Between Worlds suoni a dir poco impeccabile dal punto di vista formale – sound, arrangiamenti e vocals sono di ottima fattura, così come l’eccellente
produzione firmata Wright & Goldberg – è tuttavia difficile negare come, in linea generale, a mancare sia quella struggente intensità riscontrabile nel repertorio anni 80-90 della band. Tuttavia, non si può che ammirare la capacità dei Simple Minds di rinnovarsi, rimanendo fedeli a loro stessi ma riuscendo comunque ad aggiornarsi e a fondere le caratteristiche principali dello stile che li ha resi celebri (per intenderci, quella particolare forma di raffinato pop-rock datato Eighties riscontrabile in dischi come New Gold Dream e Street Fighting Years) con sonorità non solo attuali, ma anche estremamente fresche e gradevoli. In tal senso, i fan possono certo essere soddisfatti di questo ritorno sulle scene, e attendersi nuovi, futuri sforzi di ottima fattura da parte del loro gruppo preferito.
Facci ridere, Signora Maisel!
Serie TV Amazon trasmette l’imperdibile La fantastica signora Maisel, serie piena di humour
(ebraico) ambientata nel ruggente mondo del cabaret statunitense degli anni Cinquanta Mariarosa Mancuso Delizioso vedere come una coppia borghese dell’Upper West Side si travestiva per una serata al Greenwich Village, fine anni 50. Lei si leva le scarpe con il tacco (andavano coordinate alla borsetta e ai guanti), l’abito a palloncino che riprende il new look di Dior, il cappotto in tinta, il cappellino. Si infila i pantaloni a sigaretta, le ballerine e un maglioncino colorato. Lui smette il completo da ufficio con camicia e cravatta, per un pullover nero esistenzialista a collo alto. Stanno per andare al Gaslight Café – il locale che vediamo sullo sfondo di A proposito di Davis, il film dei fratelli Coen che racconta le sventure di un cantante folk, nel momento in cui Bob Dylan si sta affacciando alla ribalta (i titoli di testa arrivano dopo l’armonica a bocca e il rantolo). «Guarda quello, sembra Allen Ginsberg». «Qui tutti sembrano Allen Ginsberg», spiega un cliente con più uso di mondo. E più uso di cabaret, per gli americani «stand up comedy»: la forma di spettacolo più crudele che esista. Sei lì da solo, con un microfono in mano, per tentare di far ridere spettatori che vogliono solo vederti inciampare. È dura per i professionisti, figuriamoci per i dilettanti che partecipano alle serate «open mic»: chiunque può salire
Rachel Brosnahan ha recentemente vinto un Golden Globe per The Marvelous Mrs Maisel. (Keystone)
sul palco per tentare la sorte e sfidare le pernacchie. Ecco il motivo della discesa verso il Village: la perfetta casalinga Miriam Maisel detta «Midge» accompagna il marito (nonché padre dei suoi due figli) che intende cimentarsi con la difficile arte. Pur essendo negato. Ma lei, da buona moglie, non ha il coraggio di dirgli «fai pena» (annota invece su un taccuino rosa le scarse risate). Anzi, cucina e porta in dono al padrone del locale ghiottonerie della cucina ebraica, per spuntare orari meno sfigati. Da tanto non si vedeva una serie così divertente, curata in tutti i detta-
gli, innamorata della comicità e del milieu ebraico che l’ha nutrita e coltivata (Woody Allen non nasce a caso, ha una gigantesca tradizione alle spalle). Intitolata La fantastica signora Maisel, è prodotta da Amazon Studios e va in streaming su Amazon Video. Avete presente Amazon Prime, l’abbonamento mensile a prezzo modico che offre la spedizioni gratis? Lo stesso abbonamento dà diritto a una serie curiosa come American Gods (dal romanzo di Neil Gaiman) e l’altrettanto interessante I Love Dick (da un romanzo firmato Chris Kraus che fu di culto femminista, in italiano lo pubblica Neri Pozza). E forse a molte altre, se solo riuscissimo a moltiplicare le ore del giorno. Succede che il marito aspirante comico abbia un’amante (la segretaria, e chi sennò?). Succede che una sera, di punto in bianco, dica a Miriam detta Midge «Ti lascio». Succede che Midge, sconvolta e un po’ bevuta, prenda la strada del Greenwich Village. Senza cambiarsi, stavolta, vale a dire in camicia da notte, vestaglia e pantofole (con il tacchetto). Succede che Midge finisca sul palcoscenico del Gaslight Café, ancora con la bottiglia in mano, e attacchi a raccontare la sua storia. (Niente paura, è solo la prima puntata). Applausi, ancora applausi, e gran finale. «Chi non vorrebbe tornare a casa ogni sera da queste tette?», chiede Mid-
ge alla platea facendo seguire i fatti alle parole. Boato. Entrano i poliziotti, viene arrestata per atti osceni in luogo pubblico. Alla stazione di polizia incontra un tale che si chiama Lenny Bruce (non potendo mostrare le tette, lui dice parolacce e puntualmente lo arrestano). Un genio che oggi non potrebbe dire neanche una battuta, visto il tasso di suscettibilità personale e categoriale. La fantastica signora Maisel è scritta da Amy Sherman-Palladino, che ha fatto il suo apprendistato con Pappa e ciccia (Roseanne il titolo originale) e con Una mamma per amica. Ha chiamato la sua casa di produzione «Dorothy Parker Drank Here» (Dorothy Parker ha bevuto qui, omaggio alla scrittrice di Tanto vale vivere). È figlia del comico Don Sherman, preziosa fonte per scoprire cosa davvero succedeva nei locali anni Cinquanta. La presenza delle donne non è una licenza poetica: erano molte a tentare la via del palcoscenico (e avevano vita molto più dura, quanto a insulti). Le battute partono a raffica. La ricostruzione d’epoca è perfetta, arricchita da due diversi modelli di mamma ebraica, ansiosa e maniaca del controllo (a Woody Allen appare in cielo, per dire come possono essere opprimenti). L’attrice che fa Miriam – Rachel Brosnahan – incanta per bellezza e bravura. Chi ha detto che per far ridere bisogna essere brutte?
Un’intrigante componente subliminale percorre Animali notturni, il testo di Juan Mayorga che la regia di Luca Spadaro e Massimo Zampetti ha recentemente diretto per il Teatro d’Emergenza al suo debutto sul palco del Teatro Foce di Lugano per la rassegna Home. Attraverso la storia di due coppie vicine di casa e dalle vite intrecciate, si inanellano incontri al limite del paradossale in cui scorre il dramma dell’emigrazione, dello spaesamento in terra straniera, in balia di leggi che possono cambiare e sconvolgere le sorti. Due dimensioni dunque per entrare in quella «lotteria della storia» a cui stiamo assistendo e che appartiene a decine di migliaia di esseri umani lungo un esodo senza fine. Ma è anche il gran tema che l’autore madrileno inquadra nella fragilità dell’essere umano da cui lo spettatore esce più ricco di esperienza, in un contesto dove il teatro può rendere visibile la contraddizione (...) e può far pensare a ciò per cui ancora non ci sono parole. Mayorga, matematico, filosofo e traduttore madrileno, è uno dei drammaturghi spagnoli più rappresentati. Animali notturni è un testo del 2003, ma di «strisciante» attualità e con una struttura modernissima. Grande ispiratore filosofico della sua drammaturgia, avrebbe confessato l’autore, è Walter Benjamin, in particolare nelle meditazioni sulla violenza come segno di fallimento. Come ci racconta la pièce che la coppia Spadaro-Zampetti ha allestito sfruttando una «gabbia» scenografica azzeccata, fatta di pareti e spazi creati per raccontare ambienti asettici e impersonali (Eugenia Tartarelli) uniti a suoni registrati (Carlo Moretti) di oggetti invisibili manipolati dagli attori (trovata originale e suggestiva): una piattaforma in cui tutto è affidato alla parola e all’interpretazione di attori diretti con piglio sicuro. L’ideale per ottenere quell’effetto a cui si accennava in apertura, dove l’elemento «subliminale» è dato dall’acuta ironia e dalla dimensione paradossale di paure condivise e di diversa natura, in relazione alla condizione dello straniero senza «ius soli» e che può improvvisamente virare al peggio. Una realtà che compromette la vita sociale e affettiva di due coppie dietro alle quali, non dimentichiamolo, palpitano le individualità sofferte di quattro distinte persone che, come animali notturni, sono protette solo dal buio di uno stato apparentemente legale. La regia ha affidato a Marco Bellocchio, Matteo Ippolito, Vanessa Korn e Margherita Saltamacchia il compito di accompagnare il pubblico nel bosco dell’alterità contemporanea con parole e gesti misurati per una recitazione efficace, ritmata e coinvolgente. Uno spettacolo impegnato e ben riuscito che ha riempito con successo la platea del Foce.
Un momento dello spettacolo andato in scena al Foce di Lugano.
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Cultura e Spettacoli
Antigel, elogio dell’anticonformismo Rassegne Anche quest’anno il fortunato e atteso festival romando si è contraddistinto per la varietà
e la ricchezza di un’offerta che è riuscita nuovamente a sfuggire alle insidie del mainstream
Muriel Del Don Cosa rende il festival Antigel unico nel suo genere? Rispondere è difficile vista la ricchezza della programmazione: danza contemporanea, teatro, musica, performance ma anche clubbing ed esperienze inedite che risvegliano i sensi – l’Antigel non indietreggia di fronte a nulla. Grazie al tocco geniale del suo creatore Eric Linder, affiancato dalla sua partner in crime Thuy-San Dinh, il festival ginevrino propone ogni anno una selezione accurata ed elegante (con un giusto tocco di provocazione) di spettacoli in luoghi spesso inediti, improbabili e sorprendenti. Antigel spinge gli artisti a mettersi in gioco, uscendo dalla propria zona di comfort per sorprendere e scombussolare. Le varie prestazioni acquistano un’inaspettata misticità, svelando quel piccolo «difetto» che l’artista, in modo volontario o meno, tende a cancellare. Da questo punto di vista il concerto di Michael Gira, incredibile e intenso performer degli Swans è stato uno dei gioielli di questa ultima edizione. Conosciuto per le sue prestazioni sceniche intense, al limite del rituale, Mr. Gira si è presentato sul palco del Casinò della Rue de Carouge come un sacerdote nel suo tempio. Accompagnato unicamente dalla chitarra, con le sue canzoni ha toccato il pubblico nel profondo, in una ricerca costante di quel contatto umano che tendiamo troppo spesso a dimenticare. Incredibile e inatteso (è stato programmato all’ultimo secondo) anche il concerto di Charlot-
te Gainsbourg nella suggestiva Salle du Lignon (nell’imponente complesso urbanistico Le Lignon). Un corpo gracile ed etereo e una voce che sembra sempre sul punto di spezzarsi, ecco cosa rende la mitica interprete di Lemon Incest unica nel suo genere. Malgrado una carriera ricca e ineccepibile, Charlotte Gainsbourg riesce sempre a spingersi «oltre», alla ricerca dell’autenticità. La musica è la sublime protagonista dell’Antigel, a cominciare dai maestosi caposaldi del rock industriale Einstürzende Neubauten, passando per il folk hipster di Iron&Wine, sfiorando l’eleganza di Jane Birkin per finire fra le braccia dei leggendari rocker svizzeri The Young Gods. Ad accogliere il QG del festival è stato ancora l’immenso Grand Central, ex magazzino delle CFF nel quartiere industriale della Praille (Pont-rouge). Quest’enorme tempio industriale ha accolto, in concomitanza con il collettivo Motel Campo, il fior fiore della scena musicale elettronica facendo dimenare i festivalieri fino all’alba. Attraverso il suo roller skate party, le sue serate dedicate al voguing, l’immersione in sonorità venute dal Sudafrica (Dj Lag Dirty Paraffin Manthe Ribane&Kami Awori,...) o la scossa sismica data dalla techno minimal del mitico collettivo berlinese Ostgut (Ostgut ton nacht), l’Antigel mostra quanto sia potente e prolifica la scena elettronica attuale. La danza contemporanea è stata un’altra delle grandi dive di questa edizione grazie alla presenza di personaggi
Antigel è anche Street Art, come dimostra questo lavoro di Aya Tarek su un edificio ginevrino. (Keystone)
carismatici come gli svizzeri Cindy Van Acker & Christian Lutz che hanno saputo amalgamare con grazia e potenza fotografia e movimento (Knusa/Insert Coins), come David Mambouche & Marion Leclercq e il loro Nuaj Live Tribut, ricerca sulle trasformazioni sensibili del nostro essere profondo, o come il francese Pierre Rigal e la sua potente e folle riflessione sull’identità e l’alterità (Même), senza dimenticare la sciamanica Nina Santes, che per il suo nuovo spettacolo Hymen Hymne ha onorato la figura della strega, una strega moderna, anticonvenzionale e volutamente marginale. Le streghe si sono impos-
sessate anche dell’elegante e intima sala dell’Alhambra grazie alla performance intensa di Virginie Despentes, accompagnata da Beatrice Dalle e dai loro compagni d’avventure del collettivo musicale Zëro. Pasolini, il titolo del loro lavoro, è già tutto un programma, inno e omaggio a un artista controverso e visionario che ha sfidato con coraggio e grazia il perbenismo della sua epoca. Nel suo spettacolo l’autrice di King Kong Theory e Apocalypse Bébé continua la sua ricerca sulle «letture musicali», esperienze estreme che trasformano la parola in musica. Il pubblico ha accolto il risultato in uno stato quasi estatico,
consapevole prigioniero di un momento artistico unico. Un’altra performer che ha catturato l’attenzione del pubblico è stata Maëlle Gross con il suo pellegrinaggio urbano Going Where We Come From. Muniti di auricolari, gli spettatori sono stati invitati a deambulare nel quartiere di Pâquis per un sorprendente incontro con i suoi abitanti. Tra arte contemporanea e umanità l’artista svizzera ha voluto dare la parola a chi troppo spesso rimane nell’ombra, estrapolandone le storie e parlando di temi importanti come identità e memoria. Molto apprezzati anche gli immancabili Made in Antigel che hanno trasformato alcuni dei luoghi emblematici della città di Calvino in vere e proprie opere d’arte. Archi trip di Paul Waltenspühl ha permesso al pubblico di deambulare in un edificio scolastico in modo decisamente innovativo, Botanica ha trasformato invece la serra del Giardino botanico del Quartier des Nations in supporto per un’esperienza visiva e sonora dai toni onirici (Fabrice Melquiot è la mente del progetto), senza dimenticare Les foudres du Salève, alla Carrière du Salève, per l’occasione trasformatasi in palcoscenico a cielo aperto. Anche quest’anno Antigel non ha deluso le aspettative imponendosi come uno degli avvenimenti faro della musica attuale e delle arti sceniche. Un bell’esempio d’innovazione nel panorama troppo spesso standardizzato dei festival multidisciplinari. Aspettiamo con ansia la prossima edizione. Annuncio pubblicitario
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Cultura e Spettacoli Rubriche
In fin della fiera di Bruno Gambarotta Don Giovanni cosmopolita In una antologia di strabiliante e godibile erudizione, pubblicata dall’editore Aragno, Guido Davico Bonino ci conduce Sulle orme di don Giovanni, passando in rassegna 49 interpretazioni del grande seduttore, dal 1625 al 1936. Inizia con lo spagnolo Tirso de Molina, (L’ingannatore di Siviglia) e termina con lo scrittore magiaro Ödön von Horváth (Don Giovanni ritorna dalla guerra). L’autore non può spingersi oltre a causa della legge sui diritti d’autore che diventano di pubblico dominio solo 70 anni dopo la morte dello scrittore. Sono rappresentati, in libretti d’opera, commedie, drammi, poemi, racconti, canovacci, dei don Giovanni francesi, fiorentini, napoletani, romani, inglesi, veneziani, tedeschi, russi. Siamo certi, conoscendolo da decenni, che Guido Davico Bonino li ha scovati tutti: ebbene, manca alla conta un don Giovanni torinese. Non c’è. Come mai? Si tratta di un profilo lontano dallo stile di vita dei torinesi, discreti, riservati, sempre
paurosi di disturbare, ma la spiegazione non è del tutto soddisfacente, tanto più che nel dialetto esistono almeno un paio di vocaboli per designarlo, «Sfojor», che il dizionario di Sant’Albino traduce con «ganzo, damo, cicisbeo, amante», e «viveur», derivato dal francese, nel significato di «vitaiolo, gaudente». Per andare a fondo e sciogliere l’enigma ho dovuto intervistare l’unico che conosco, anche se da molti anni non esercita più l’arte della seduzione a causa dell’età, 83 anni portati benissimo. È stato il mio primo capo reparto quando a vent’anni lavoravo in una tipografia. Lo ricordavo come un gran ballerino che inanellava una conquista dopo l’altra. Ha accettato di ricevermi a condizione di restare anonimo, non vuole riaprire ferite nel cuore di antiche fiamme, nel caso qualcuna sia ancora in vita. Lo chiamerò Filippo. Vive da solo in un appartamento ordinatissimo, dopo che 20 anni fa la moglie ha chiesto la separazione. L’abito mentale del vecchio tipografo, allergico ai
refusi, non l’ha abbandonato. Mi riceve in salotto e, dopo avermi costretto a bere con lui un vermut, si alza, canterellando l’aria dall’opera di Mozart Madamina il catalogo è questo va nello studio e ne torna portando diversi registri di grande formato. «Non ho mai avuto un Leporello, ho fatto tutto da solo», aggiunge. Apre un registro: «Ecco qui le mie conquiste, in ordine di apparizione». Accanto a ogni nome, un fitto reticolo di appunti. «Sono le tue considerazioni?». «No. Accanto a ogni nome mettevo la provenienza, mai corteggiare di seguito due signore abitanti nel medesimo quartiere, per evitare che parlando scoprano di frequentare lo stesso cavaliere. Fatta la conoscenza con una candidata per prima cosa redigevo uno studio di fattibilità. Se stimavo che la conquista avrebbe impegnato troppo tempo o troppo denaro lasciavo perdere. Qui ci sono solo quelle che hanno superato l’esame, accanto al nome ho incollato gli scontrini delle spese affrontate, regali, fiori e soprattutto
cene, per evitare di tornare nello stesso ristorante con una compagna diversa e subire l’ammicco complice dello chef. Scrivevo anche il mio profilo, cambiato ogni volta. Non ho mai detto la verità, che facevo il tipografo, ma sempre lavori che giustificassero le mie momentanee assenze, dal rappresentante di commercio, all’investigatore privato, al perito del tribunale». «Il don Giovanni di Mozart è perseguitato dalle amanti sedotte e abbandonate. Tu come facevi per congedare una fiamma?» Filippo sorride: «Ho letto che i giovani adesso si lasciano con un sms. Noi avevamo solo i telefoni fissi, con il vantaggio di non dover essere sempre reperibili. E due grandi fortune, sale da ballo in ogni quartiere e la mancanza della legge sul divorzio. Le nostre prede erano le signore malmaritate in cerca di una distrazione momentanea che desse loro la forza di sopportare un marito noioso e tirare avanti. Ho sempre seguito l’esempio del nostro grande Vittorio Alfieri che per tutta la vita prima di
corteggiare una donna si accertava che fosse sposata». «Non hai risposto alla mia domanda sulla tecnica del congedo». «È semplice. Facevo una proposta choc: molliamo tutto e scappiamo. Non è mai successo che una mi dicesse di sì e scoprisse il mio bluff. Le mie conquiste torinesi amavano l’avventura purché fosse a dosi omeopatiche. Si lamentavano dello squallore della vita che erano costrette a condurre, ma non avevano il coraggio di sottrarsi al mesto trantran quotidiano» «La tua arma di seduzione?» «Una sola: starle ad ascoltare. Voi credete che per sedurre una donna sia necessario inondarla di parole, fare la ruota, esibire i trofei. Al contrario, dato il la con una frase iniziale è sufficiente lasciare che si sfoghi. Tutto qui». Ecco il motivo per cui il dongiovanni in versione subalpina non ha mai ispirato scrittori o drammaturghi. Adesso che ci penso: dalla raccolta manca un don Giovanni svizzero. Qualcuno sa spiegarne il motivo?
fatto credere di aver posto rimedio con una certa lastra che avrebbe dovuto zittire il rumore. Non ci sono cascata. E non riesco a farci l’abitudine, a non avvertire il rumore. Però, riflettendo, forse gli antichi non erano così ingenui: infatti il suono delle sfere era continuo, il borbottio della caldaia ha ogni pochi minuti quell’attimo di pace, che mi fa percepire la differenza col silenzio. Che debba chiedere di incrementare il rumore fino a evitare le pause? Ci penserò, anche se non credo che oserò, già mi guardano male, i condomini, perché dal mio terzo piano come oso lamentarmi di un rumore che viene dai sotterranei? Cose da principessa sul pisello. Accantono, per ora, e mi pongo in ascolto. Corrono passi concitati sulla mia testa, come ogni giorno al mattino e alla sera, nei festivi si ritarda solo l’orario della sera. Sono passetti, bambini che corrono, sembrerebbero. Eppure, sopra di me abita un’insegnante solitaria, di cui posso solo dire che è maniaca del pulito, perché ogni giorno la centrifuga della lavatrice sembra sventrare
i suoi pavimenti e i miei soffitti. Mi ha sempre inquietato questa lavatrice, forse l’insegnante è una serial killer, mi sono domandata più volte, che deve pulire con energia ogni giorno gli effetti dell’efferato suo agire. Come altrimenti spiegare tale dispendio di energia elettrica e detersivo? Il dubbio per ora permane. I passetti sulla mia testa? Mah, amici – testimoni – dicono essere le corse dei bambini del piano di sotto, che rimbombano e sembrano quindi provenire dall’alto. Passiamo ad altro: uno sferragliare. Ma questo è rumore gradito, i tram, soprattutto quelli vecchi, soprattutto se non proprio attaccati all’orecchio, come nel mio caso, fanno rumori amati, antichi. Dleng dleng, invece di un clacson, swop swop quando passano, clang clang sempre. Come una diligenza, come un vaporino di altri tempi, non si possono non amare. Poi, ribadisco, sono lontani, attutiti dalla presenza almeno di un fabbricato e una corte. Drin, il telefono, direte voi. No, drin per tre volte, è la portinaia che mi avvisa: sono io, porto pacchi e lettere, se
poi mi fa sapere anche che cosa contengono mi sentirò ripagata (non lo dice, ma lo sappiamo entrambe). Il telefono invece bercia, il fisso, e ogni volta mi domando chi, che cosa è, poi afferro la cornetta e per fortuna da qualche (poco) tempo ho capito, controllo il numero. Prima dicevo «pronto» anche quando appariva la scritta «Anonymous», che un po’ avrebbe dovuto impensierirmi, e infatti regolarmente rispondeva, quando rispondeva, un improbabile Giovanni o Giuseppe dall’accento slavo che invitava a cambiare compagnia telefonica se non elettrica. Il cellulare? È un suono più aggraziato, ma chi lo sente mai? Ormai non si telefona più, si messaggia e si whatsappa, si mandano foto con Instagram, si chiedono e inviano «like». Alla tastiera del computer permetto poi di fare rumori, giusto per tranquillizzarmi sull’effettiva partenza di una email, l’avvenuta correzione di un refuso. E anche per risvegliare l’attenzione, nell’assordante silenzio dovuto all’assenza di animali e di carri, e – per fortuna – di fruste.
un prestigioso studio a Siracusa, amava il teatro classico ma leggeva anche la letteratura contemporanea, parlava con pacatezza e ironia, scriveva saggi di deontologia forense, su cui si dilettava anche a imbastire romanzi gialli. L’incontro con Randazzo fu una fortuna insperata: rilesse le bozze del mio libro da storico della giustizia italiana e riuscì a scovare alcune imprecisioni che mi precipitai a correggere in extremis. Niente di meglio, per uno scrittore, che poter contare sulle verifiche severe di un amico. Il libro uscì e nel luglio 2013 Ettore lo presentò nel giardino comunale di Avola facendone una lettura da critico letterario e soffermandosi sulle strutture e sullo stile del romanzo. In un viaggio in autostrada verso Catania mi confidò della malattia con cui combatteva senza paura e senza alcuna intenzione di cedere, e in questo febbraio 2018 vorrei ricordarlo a un anno dalla morte per cogliere un tratto
piuttosto insolito della sua indiscutibile, malinconica sicilianità. Alberto Moravia scrisse, nel commemorare l’autore de Il giorno della civetta e de La scomparsa di Majorana, che Leonardo Sciascia era un illuminista paradossale, perché il suo illuminismo pessimista procedeva in senso opposto rispetto agli illuministi storici che si muovevano dall’oscurità alla razionalità. Infatti quanto più Sciascia andava a fondo nelle sue implacabili e lucidissime analisi, tanto più la realtà gli appariva oscura, ambigua, inafferrabile. Certamente Sciascia avrebbe apprezzato lo stile classico dei libri di Randazzo: L’avvocato e la verità (Sellerio 2003) e soprattutto La giustizia nonostante (Sellerio 2006). Sono saggi-racconti consigliabili agli ignari di cose giudiziarie che vogliano capire qualcosa di un apparato quasi per definizione kafkiano (5½). Affrontando i misteri della difesa (in chiave non solo italiana ma direi universale) e mettendosi nei panni
del «presunto innocente», Randazzo opera con un’attitudine letteraria: quella che si chiama empatia. Nell’abbandonare provvisoriamente le sue impeccabili nozioni tecniche, si sforza di guardare al sistema giudiziario con l’occhio ingenuo del suo cliente, attraversandone le oscurità, le distorsioni, le «ingiustizie» (con e senza virgolette) proprio come farebbe uno scrittore. Ma diversamente dal pessimista Sciascia, da quell’oscurità disorientante Randazzo ci aiuta a uscire, accompagnandoci quasi per mano. Così che da illuminista paradossale torna a essere illuminista fiducioso. Ecco, è rarissimo imbattersi in un siciliano che sia un illuminista fiducioso, cioè che non abbia, come Sciascia, una sottile o profonda, autoironica o tragica diffidenza verso l’umanità e anche verso se stessi. «Estendere un dubbio è già un fare», scrisse Sciascia. Si direbbe che per il siciliano atipico Randazzo estendere un dubbio è già un fare, ma uscirne è un fare meglio.
Postille filosofiche di Maria Bettetini Antichi rumori Mi è capitato tra le mani di recente un libro sulla «fonosfera» degli antichi, sui suoni che accompagnavano le loro giornate. Non avendo registrazioni, si deve partire dai testi scritti e dalle pochissime tracce di vita rappresentata in pittura o scultura, per dire quali fossero i suoni della quotidianità antica. Pensate a silenzi e cinguettii, atmosfera da idillio, zufoli di pastorelli? Sbagliato: città e campagne erano infestate da rumori diversi e sgradevoli. Animali, carri, macchinari da lavoro, schioccar di fruste (ebbene sì, la schiavitù è anche rumorosa), alterchi, improperi. E nemmeno una parete insonorizzata. Certo, qualcuno si sarà potuto isolare, avrà potuto porre tra sé e la strada giardini e muri, ma i più soffrivano già dell’inquinamento acustico delle civiltà che lavorano. Lasciando ora l’antico al documentato libro di Maurizio Bettini (Voci. Antropologia sonora del mondo antico, Carocci), ho pensato di fare un esperimento, e di analizzare la nostra fonosfera. Per esempio, mi piacerebbe sapere se esistono suoni che ormai non
ci accorgiamo nemmeno di sentire. Gli antichi – sempre loro – ritenevano per esempio che noi non percepissimo più i bellissimi suoni delle sfere che costituiscono l’universo intorno alla terra, perché abituati fin dal primo istante a sentirli come rumore di fondo. Come racconterebbe la leggenda sugli abitanti degli insediamenti intorno alle Cascate del Niagara. Il tema è pitagorico, ripreso nel frammento della Repubblica di Cicerone intitolato il Sogno di Scipione. Proviamo dunque l’esperimento: per una giornata presterò particolare attenzione ai suoni che mi circondano, alla mia fonosfera. Il primo smentisce subito Pitagora e Cicerone. Dalle cantine proviene un fastidioso rumore, è la caldaia (non tace nemmeno in estate, per via dell’acqua calda!) che borbotta sgradevolmente, come una sorta di onda a cui poi segue un breve istante di silenzio, e poi riparte. Le finestre sono chiuse, ma io percepisco ugualmente questo «basso continuo». Non è così per tutti, mi dicono da anni alle assemblee di condominio, dove mi hanno anche
Voti d’aria di Paolo Di Stefano Un siciliano illuminista fiducioso Ho conosciuto, nel 2011, mentre lavoravo a un libro sul mio paese, Giallo d’Avola, un grande avvocato penalista di Siracusa, Ettore Randazzo. Aveva saputo che lavoravo su una vicenda giudiziaria penosa che cominciò nel 1954 e si chiuse nel 1961, per riaprirsi clamorosamente dopo la scoperta di un macroscopico errore: la condanna all’ergastolo di Salvatore Gallo per l’omicidio del fratello Paolo, che dopo sette anni fu trovato vivo (e non troppo vegeto) in una cittadina del Ragusano, dove si era stabilito da diversi mesi. Mentre il fratello era finito in tribunale e poi in carcere a Ventotene, Paolo aveva vagabondato in incognito per le campagne e i paesi delle provincie orientali dandosi per morto. Randazzo volle conoscermi per offrirmi il suo aiuto, con discrezione, collaborando a cercare le carte, per darmi qualche ragguaglio tecnico sulla dinamica dei processi anni 50, per raccontarmi quel che ricordava di quei fatti lontani, per
descrivermi il carattere e le abitudini degli avvocati siracusani che difesero l’imputato e con i quali aveva avuto familiarità come giovane praticante: Pier Luigi Romano e Piero Fillioley. Mi accompagnò conversando in lunghe passeggiate per le strade di Ortigia e mi fece conoscere qualche ottima trattoria nei vicoli più riposti della città barocca. Più parlavo con lui e più sentivo quanto gli premesse che nel ricostruire quella storia intricata si arrivasse almeno vicini alla verità, pur riconoscendo che alcune zone del rapporto tra i due fratelli erano destinate a rimanere oscure e che nell’attraversare quell’oscurità la letteratura sarebbe stata lo strumento migliore. Sapevo che Randazzo era stato presidente delle camere penali italiane ma non conoscevo la sua cultura e la sua generosità. Aveva allora 61 anni, era un uomo alto, elegante con i suoi capelli bianchissimi ben pettinati, era un difensore formidabile che gestiva
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 19 febbraio 2018 • N. 08
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Idee e acquisti per la settimana
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shopping 16 mesi di stagionatura
Novità L’Alpe Piora DOP a lunga stagionatura è il risultato di un insieme di fattori
d’eccellenza
La storia del formaggio Alpe Piora 16 mesi inizia sull’omonimo alpeggio leventinese, a 1960 metri s.m., dove da giugno a settembre abili mani artigiane trasformano il prezioso latte vaccino munto in alta quota in un caratteristico prodotto conosciuto e apprezzato non solo entro i confini cantonali. Con una superficie di 3500 ettari, di cui oltre 1000 di pascolo fino ai 2300 metri, è l’alpeggio più esteso del Ticino e la produzione annua di formaggio si aggira sulle 3000 forme. Le pregiate e aromatiche erbe foraggiere di montagna di cui si cibano le mucche – tra cui la piantaggine alpina, l’erba mutarina, il trepide dorato e vari tipi di trifoglio alpino – determinano la qualità del latte crudo utilizzato per produrre il
Piora. Un formaggio grasso, extraduro, che seduce il palato grazie al suo tipico sapore genuino, delicatamente dolce, che acquisisce aromi ancora più complessi e seducenti col passare dei tempi di maturazione. Le Cantine di Mendrisio
Dopo un affinamento sull’alpe di almeno 60 giorni – tempo necessario per potersi fregiare della prestigiosa DOP (Denominazione di Origine Protetta) – una selezione di forme Piora viene portata nelle cantine di Mendrisio per il proseguimento della stagionatura. Si ha notizia di questi luoghi fin dal Settecento, quando originariamente venivano utilizzati per la conservazione del buon vino,
e successivamente anche di altri cibi come formaggi, insaccati e carni. Sapientemente costruite a ridosso della montagna, le grotte si caratterizzano per il loro sistema di ventilazione particolarmente efficiente che convoglia nei locali le correnti d’aria naturale generate dalla montagna stessa. Ciò permette di mantenere un’umidità e una temperatura costanti durante tutto l’anno. Le forme di formaggio qui giacciono per oltre un anno, amorevolmente girate e spazzolate, prima di giungere sulle nostre tavole. Formaggio Alpe Piora 16 mesi 100 g Fr. 6.30 In vendita presso i banchi formaggio delle maggiori filiali Migros
L’Alpe Piora stagiona almeno 16 mesi nelle Cantine di Mendrisio.
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Idee e acquisti per la settimana
La raclette ticinese si chiama «Raklettello»
Tanto sapore
Azione 30% Raklettello Prodotto in Ticino al banco, al kg Fr. 19.40 invece di 27.80 Dal 20 al 26.2.2018
Non solo in Vallese, ma anche in Ticino! Il formaggio da fondere, insieme alla fondue, è l’emblema per eccellenza della gastronomia svizzera nel mondo. Da alcuni anni viene prodotto con competenza artigianale anche in Ticino. L’intraprendenza e la sapienza di Severino Rigozzi, contadino-casaro di montagna in Valle di Blenio e titolare del Caseificio del Sole di Aquila, permette di portare sulle nostre tavole «Raklettello». Questo prodotto viene realizzato con l’utilizzo esclusivo di latte crudo proveniente dalle sue 80 mucche, foraggiate con fieno prodotto dall’azienda stessa. Al termine di un accurato processo di caseificazione, il formaggio viene posto a stagionare in appositi locali a temperatura e umidità controllate per non meno di 2 mesi prima di essere commercializzato. Il «Raklettello» è un formaggio a pasta semidura che, grazie al suo sapore marcato e tipico, non ha nulla da invidiare a quello dei cugini vallesani in quanto a bontà e cremosità. Ricordiamo che Severino Rigozzi, oltre a rifornire Migros di «Raklettello», l’approvvigiona anche di altri due apprezzatissimi e genuini formaggi: la formaggella Crénga e il formaggio d’alpe Camadra DOP. Quest’ultimo prodotto d’estate sull’omonimo alpeggio sopra Olivone a 2000 metri d’altezza e fatto stagionare in quota per almeno 60 giorni.
In una stretta lingua di terra tra Pachino, Portopalo e Marzamemi, nel sud della Sicilia, in Provincia di Siracusa, viene coltivato quello che è considerato uno dei pomodori più saporiti in assoluto: il Merinda. Questa varietà di media grandezza si caratterizza per il suo bell’aspetto costoluto, il colore rosso-verde brillante e per la sua particolare croccantezza. L’aroma intenso e al contempo delicato ne fanno un pomodoro perfetto sia per essere consumato da solo, anche senza alcun condimento, sia per arricchire qualsiasi insalata con quel tocco di appetitosità in più che non guasta mai. Le favorevoli condizioni climatiche e il terreno vulcanico fertile e salino di questa regione siciliana, contribuiscono in modo determinante a rendere il pomodoro Merinda una vera prelibatezza per intenditori.
Pomodori Merinda 350 g Fr. 4.90 In vendita nelle maggiori filiali Migros
Flavia Leuenberger Ceppi
Voglia di giocare Concorso aiutaci a decorare l’albero di Natale a minigolf?
Durante tutto il mese di dicembre, nei Ristoranti Migros del cantone, si è tenuto un concorso in cui i bambini sono stati invitati a creare delle decorazioni per l’albero di Natale lasciando libero sfogo alla propria fantasia. Il concorso, a cui hanno partecipato moltissimi fanciulli, metteva in palio diversi favolosi premi: 5 entrate per lo Splash & Spa, 4
entrate per Gardaland, 2 feste di compleanno Lilibiggs e 50 x 2 buoni menu Lilibiggs. La premiazione è avvenuta al Ristorante Migros di Grancia il 7 febbraio scorso, dove per l’occasione è stata offerta a tutti i piccoli vincitori - Zoe, Alessio, Ambra, Daniele, Fabio, Janick, Ismaila, Sirikwhan, Gaia, Naelle, e Ilir - e ai loro parenti una super merenda
in compagnia. Nella foto: la festa di premiazione con, in primo piano, a sinistra, Simona Gerosa, Assistente Marketing Ristorazione e Franco Sticca, gerente del Ristorante. Ringraziamo tutti i piccoli artisti per averci aiutati a decorare i Ristoranti Migros e a presto con tantissimi giochi e attività, in vista anche della Pasqua e non solo.
Dal 19 febbraio al 3 marzo il Centro Migros S. Antonino ospita un’imperdibile attività gratuita rivolta a grandi e piccoli visitatori del centro commerciale: un divertentissimo percorso di minigolf composto da ben 15 buche. Il materiale da gioco verrà messo a di-
sposizione dei partecipanti direttamente sul posto, rivolgendosi al banco accoglienza clienti, durante gli orari di apertura del Centro. Forse non tutti sanno che il minigolf come tale è un’invenzione tutta ticinese. Il primo percorso fu infatti inaugurato ad Ascona negli anni 50, grazie all’inventiva dell’architetto paesaggista Paul Bongni. Vi aspettiamo numerosissimi!
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Idee e acquisti per la settimana
Alnatura
Dolcezza naturale Alnatura sciroppo d’agave* Gusto: molto dolce, con un caratteristico aroma delicato e note fruttate. Ideale per macedonie, dessert e bevande 250 ml Fr. 3.30
Leggero, fruttato o caramellato: i dolcificanti vegetali di Alnatura sono un’alternativa naturale allo zucchero tradizionale. Permettono di addolcire e conferire un gusto delicato a bevande e pietanze
Smoothie bowl alle bacche Preparate la base con nocciole anziché mandorle. Aggiungete 200 g di bacche congelate e frullate. Versate lo smoothie nella scodella e guarnite con bacche, nocciole tritate grossolanamente e semi di chia. A piacere dolcificate con lo sciroppo di datteri. La sua nota fruttata e di malto si abbina molto bene alle bacche e alle nocciole.
Testo Melanie Michael; Foto Veronika Studer; Ricetta Andrea Pistorius
Prodotti certificati
Alta qualità garantita Bio come principio Tutti gli ingredienti agricoli dei prodotti Alnatura provengono da colture biologiche, non solo il minimo del 95 percento prescritto dalla legge. Molti prodotti Alnatura riportano anche il sigillo di una delle associazioni biologiche Bioland, Demeter o Naturland. Queste associazioni sono considerate custodi dell’agricoltura biologica, le cui linee guida sono più ampie e severe rispetto ai requisiti legali. Quale pioniere del settore bio, Alnatura attinge a 30 anni di esperienza nella lavorazione di prodotti bio.
Alnatura sciroppo d’acero* Gusto: dolcezza delicata con una leggera nota di caramello. Ideale per frittelle, cialde, condimenti e salse 250 ml Fr. 6.30
Controlli regolari Gli agricoltori e i produttori bio, così come Alnatura stessa, vengono regolarmente sottoposti a controlli, che comprendono analisi continue per la ricerca di tracce di pesticidi, metalli pesanti e altre sostanze nocive.
Alnatura sciroppo di fiori di noce di cocco* Gusto: molto dolce con una sottile nota caramellata. Ideale per dessert e dolci da forno 250 ml Fr. 7.40
Smoothie bowl al kiwi e agli spinaci Preparate la base con una bevanda alle mandorle. Aggiungete 2 kiwi a pezzetti congelati, una manciata piena di spinaci e frullate. Versate lo smoothie nella scodella e guarnite con fette di kiwi, mandorle a scaglie tostate e foglie di spinaci. A piacere dolcificate con lo sciroppo d’agave. Il suo gusto piuttosto neutro si abbina particolarmente bene con gli smoothies che contengono verdura.
Ricetta
Base per lo smoothie bowl Per una ciotola da ca. 3 dl
Alnatura sciroppo di datteri* Gusto: molto dolce con una nota di malto. Ideale per pietanze piccanti e barrette di müsli fatte in casa 250 ml Fr. 3.50 Dal 21 febbraio solo nelle maggiori filiali
*Nelle maggiori filiali
Ingredienti 1 banana 1,5 dl di bevanda alle mandorle (o un altro latte vegetale) 1 cucchiaio di fiocchi d’avena fini 1 cucchiaio di mandorle o altra frutta a guscio, dolcificante naturale a scelta in forma liquida, ad es. sciroppo d’agave, di fiori di noce di cocco, di datteri
Preparazione Il giorno precedente, sbucciate la banana e, a piacere, altri frutti, poi tagliateli a pezzetti e surgelateli. Il giorno successivo, frullate la frutta congelata con il resto degli ingredienti in un frullatore o in uno smoothie maker. Versate lo smoothie nella scodella e, a piacere, guarnite con bacche, pezzetti di frutta, mandorle, altra frutta a guscio e semi. Aromatizzate e dolcificate a piacimento con un dolcificante naturale liquido.
Smoothie bowl al cocco e mango Preparate la base con scaglie di cocco anziché mandorle. Aggiungete 1 mango a pezzetti congelati e frullate. Versate lo smoothie nella scodella e guarnite con pezzetti di mango, fette di banana e scaglie di cocco. A piacere dolcificate con lo sciroppo di fiori di fiori di cocco. La sua nota leggermente acidula e di malto si abbina al sapore esotico di questo smoothie. al nat ura.ch
Alnatura è il marchio bio per uno stile di vita responsabile al passo con i tempi. Vengono utilizzati solo ingredienti di alta qualità e davvero indispensabili. Parte di
L’impegno Migros a favore della sostenibilità è da generazioni in anticipo sui tempi.
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Alnatura
Dolcezza naturale Alnatura sciroppo d’agave* Gusto: molto dolce, con un caratteristico aroma delicato e note fruttate. Ideale per macedonie, dessert e bevande 250 ml Fr. 3.30
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Smoothie bowl alle bacche Preparate la base con nocciole anziché mandorle. Aggiungete 200 g di bacche congelate e frullate. Versate lo smoothie nella scodella e guarnite con bacche, nocciole tritate grossolanamente e semi di chia. A piacere dolcificate con lo sciroppo di datteri. La sua nota fruttata e di malto si abbina molto bene alle bacche e alle nocciole.
Testo Melanie Michael; Foto Veronika Studer; Ricetta Andrea Pistorius
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Alnatura sciroppo d’acero* Gusto: dolcezza delicata con una leggera nota di caramello. Ideale per frittelle, cialde, condimenti e salse 250 ml Fr. 6.30
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Smoothie bowl al kiwi e agli spinaci Preparate la base con una bevanda alle mandorle. Aggiungete 2 kiwi a pezzetti congelati, una manciata piena di spinaci e frullate. Versate lo smoothie nella scodella e guarnite con fette di kiwi, mandorle a scaglie tostate e foglie di spinaci. A piacere dolcificate con lo sciroppo d’agave. Il suo gusto piuttosto neutro si abbina particolarmente bene con gli smoothies che contengono verdura.
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Base per lo smoothie bowl Per una ciotola da ca. 3 dl
Alnatura sciroppo di datteri* Gusto: molto dolce con una nota di malto. Ideale per pietanze piccanti e barrette di müsli fatte in casa 250 ml Fr. 3.50 Dal 21 febbraio solo nelle maggiori filiali
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Ingredienti 1 banana 1,5 dl di bevanda alle mandorle (o un altro latte vegetale) 1 cucchiaio di fiocchi d’avena fini 1 cucchiaio di mandorle o altra frutta a guscio, dolcificante naturale a scelta in forma liquida, ad es. sciroppo d’agave, di fiori di noce di cocco, di datteri
Preparazione Il giorno precedente, sbucciate la banana e, a piacere, altri frutti, poi tagliateli a pezzetti e surgelateli. Il giorno successivo, frullate la frutta congelata con il resto degli ingredienti in un frullatore o in uno smoothie maker. Versate lo smoothie nella scodella e, a piacere, guarnite con bacche, pezzetti di frutta, mandorle, altra frutta a guscio e semi. Aromatizzate e dolcificate a piacimento con un dolcificante naturale liquido.
Smoothie bowl al cocco e mango Preparate la base con scaglie di cocco anziché mandorle. Aggiungete 1 mango a pezzetti congelati e frullate. Versate lo smoothie nella scodella e guarnite con pezzetti di mango, fette di banana e scaglie di cocco. A piacere dolcificate con lo sciroppo di fiori di fiori di cocco. La sua nota leggermente acidula e di malto si abbina al sapore esotico di questo smoothie. al nat ura.ch
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Near Food/Non Food
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Red Bull in conf. da 12, 12 x 250 ml, standard o sugarfree, per es. standard, 13.95 invece di 20.40 30%
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 19 febbraio 2018 • N. 08
59
Idee e acquisti per la settimana
I nomi dei prodotti «You» sono molto intuitivi e chi sceglie gli yogurt «100 Cal» può esser certo che ogni vasetto contenga al massimo 100 calorie. Infatti, il nuovo yogurt «You» alla vaniglia ha il 30 percento in meno di zuccheri rispetto agli yogurt convenzionali. La marca Migros «You» permette, con il suo ampio assortimento, un’alimentazione variata e gustosa grazie a ingredienti genuini. Ognuno dei prodotti «You» si caratterizza per una sua qualità particolare. Per esempio: il croccante müesli «Low Carb», come dice già il nome, contiene meno carboidrati. Al posto dei cereali è arricchito con noci tostate che assicurano una colazione «croccantosa». Il müesli è inoltre addolcito con miele. Chi pensa che uno snack gustoso non possa avere meno grassi si sbaglia: le chips alla quinoa contengono un terzo in meno di grassi rispetto alle classiche patatine. Provare per credere!
You
Quando il meno è di più
Concedersi qualche spuntino in spensieratezza: gli yogurt «100 Cal», i müesli «Low Carb» e le chips alla quinoa di «You» dimostrano che ci si può nutrire con meno zuccheri, carboidrati e grassi
You 100 Cal Mango-Frutto della passione 150 g Fr. –.85
Nuovo You 100 Cal Vaniglia 150 g* Fr. –.85 Azione 20X Punti Cumulus dal 20.02 al 05.03
You Low Carb Crunchy 400 g* Fr. 11.90
You Chips Quinoa 90 g* Fr. 3.20 Nelle maggiori filiali
impuls-consiglio di lettura
Foto shutterstock
Vivere con meno zuccheri I dolci, che spesso contengono molto zucchero, sono una bomba di calorie. Ecco perché molti vorrebbero limitarne il consumo. Di più sul tema: migros-impuls.ch
iMpuls è l’iniziativa della Migros in favore della salute.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 19 febbraio 2018 • N. 08
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 19 febbraio 2018 • N. 08
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Idee e acquisti per la settimana
Vegano
Va bene anche senza Dalle gustose alternative al latte, passando dalla morbida crema da spalmare e fino alla pasta alle verdure: questi prodotti Migros sono privi di ingredienti di origine animale. Sono adatti per una dieta vegana senza rinunce Testo Melanie Michael; Foto Yves Roth
Pasta alle verdure? Sì, esiste eccome! I fusilli «You» sono interamente a base di piselli verdi e sono quindi non solo vegani, bensì anche ricchi di proteine. I piselli conferiscono alla pasta un caratteristico gusto leggermente dolce, così che l’abbinamento a un sugo risulta quasi superfluo. You fusilli ai piselli verdi 250 * Fr. 3.90
Alternativa al latte a base di anacardi Il sostituto vegetale del latte a base di anacardi conferisce a porridge, smoothie e müsli un dolce sapore di noce. Può però anche essere gustato liscio. Alnatura cashew drink 1 l* Fr. 3.20
Per saperne di più
Varietà vegana Riconoscibile a colpo d’occhio: alla Migros il marchio giallo-verde V-Label contrassegna sia i prodotti vegani sia quelli vegetariani. Il marchio V-Label è assegnato a due categorie così contraddistinte: vegetariano (alimenti con latte, uova o miele) o vegano (alimenti senza alcun ingrediente di origine animale).
Lunga conservazione Il pane alle proteine non ha solamente un alto contenuto proteico, è infatti anche ricco di fibre alimentari. Dal momento che può essere conservato a lungo, è perfetto come scorta.
Multitalento cremoso Per preparare dolci o da spalmare sul pane; la purea di mandorle può essere utilizzata in molteplici modi. È quindi un ottimo ingrediente per aromatizzare dolci e salse chiare.
You pane alle proteine 320 g* Fr. 3.–
Alnatura purea di mandorle bianche 250 g Fr. 11.40
Certificato da Swissveg: Swissveg è la maggiore organizzazione che rappresenta gli interesse delle persone vegetariane e vegane che vivono in Svizzera. Dal 1996 è lei ad attribuire il marchio europeo V-Label. Sempre più articoli: l’assortimento Migros comprende attualmente circa 160 prodotti vegetariani a marchio V-Label e 270 prodotti vegani, sempre a marchio V-Label. Imparare a cucinare vegano alla Scuola Club Migros con i corsi «cucina vegana».
Novità agli spinaci Per fare questi falafel, ai ceci sono stati aggiunti spinaci: una miscela gustosa! Serviti con un’insalata croccante sono un delizioso pasto che si ispira alla cucina orientale.
Una certa sensazione di vacanza Il nuovo yogurt vegano a base di cocco è tanto cremoso quanto uno yogurt usuale. Non contiene zuccheri aggiunti. aha! Kokos Coyog Nature senza lattosio, senza latte,120 g Fr. 1.80
Cornatur falafel agli spinaci 10 x 20 g* Fr. 4.90
iMpuls – suggerimento di lettura
Cucinare vegano: è così facile Alternative vegane e semplici ricette su: www.migros-impuls.ch/vegano
Ospiti inaspettati per cena? Preparare i ravioli farciti con spinaci e semi di girasole, come da indicazioni: tritare finemente i pomodori secchi, cospargere con olio d’oliva e servire. Migros Bio Anna’s Best Vegi Raviolone Spinat 250 g* Fr. 5.90
Ecco l’hamburger «superfood»! L’hamburger vegano con cavolo riccio (kale in inglese), semi di colza e tofu è gustoso sia con un pane per hamburger così come nature con un contorno di insalata. Migros Bio hamburger di kale con semi di colza 2 x 90 g* Fr. 4.50
* Nelle maggiori filiali
iMpuls è l’iniziativa in favore della salute della Migros.
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Idee e acquisti per la settimana
Vegano
Va bene anche senza Dalle gustose alternative al latte, passando dalla morbida crema da spalmare e fino alla pasta alle verdure: questi prodotti Migros sono privi di ingredienti di origine animale. Sono adatti per una dieta vegana senza rinunce Testo Melanie Michael; Foto Yves Roth
Pasta alle verdure? Sì, esiste eccome! I fusilli «You» sono interamente a base di piselli verdi e sono quindi non solo vegani, bensì anche ricchi di proteine. I piselli conferiscono alla pasta un caratteristico gusto leggermente dolce, così che l’abbinamento a un sugo risulta quasi superfluo. You fusilli ai piselli verdi 250 * Fr. 3.90
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Varietà vegana Riconoscibile a colpo d’occhio: alla Migros il marchio giallo-verde V-Label contrassegna sia i prodotti vegani sia quelli vegetariani. Il marchio V-Label è assegnato a due categorie così contraddistinte: vegetariano (alimenti con latte, uova o miele) o vegano (alimenti senza alcun ingrediente di origine animale).
Lunga conservazione Il pane alle proteine non ha solamente un alto contenuto proteico, è infatti anche ricco di fibre alimentari. Dal momento che può essere conservato a lungo, è perfetto come scorta.
Multitalento cremoso Per preparare dolci o da spalmare sul pane; la purea di mandorle può essere utilizzata in molteplici modi. È quindi un ottimo ingrediente per aromatizzare dolci e salse chiare.
You pane alle proteine 320 g* Fr. 3.–
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Certificato da Swissveg: Swissveg è la maggiore organizzazione che rappresenta gli interesse delle persone vegetariane e vegane che vivono in Svizzera. Dal 1996 è lei ad attribuire il marchio europeo V-Label. Sempre più articoli: l’assortimento Migros comprende attualmente circa 160 prodotti vegetariani a marchio V-Label e 270 prodotti vegani, sempre a marchio V-Label. Imparare a cucinare vegano alla Scuola Club Migros con i corsi «cucina vegana».
Novità agli spinaci Per fare questi falafel, ai ceci sono stati aggiunti spinaci: una miscela gustosa! Serviti con un’insalata croccante sono un delizioso pasto che si ispira alla cucina orientale.
Una certa sensazione di vacanza Il nuovo yogurt vegano a base di cocco è tanto cremoso quanto uno yogurt usuale. Non contiene zuccheri aggiunti. aha! Kokos Coyog Nature senza lattosio, senza latte,120 g Fr. 1.80
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Cucinare vegano: è così facile Alternative vegane e semplici ricette su: www.migros-impuls.ch/vegano
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Raccogli i bollini e porta a a casa i cuccioli di peluche! per ia n i rtol dispon a c La lta è ntro o c c e la ra ile al c ivista. b ta r s e u di q
Ecco come fare:
Dal 24 febbraio al 29 marzo 2018 ogni fr. 20.– spesi ricevi 1 bollino alla cassa di tutti i supermercati Migros.
Raccogli 20 bollini e incollali negli appositi campi.
Al successivo acquisto scambia la cartolina completa di tutti i bollini con un cucciolo di peluche gratuito.
Dal 24.2 al 29.3.2018, ogni fr. 20.– di spesa alle casse di qualsiasi supermercato Migros o su LeShop ricevi un bollino (al massimo 15 bollini per acquisto, fino a esaurimento dello stock; acquisto di buoni e carte regalo escluso). Consegna entro il 3.4.2018 la cartolina completa di tutti i bollini e ricevi gratuitamente uno dei tre cuccioli di peluche. Offerta valida solo fino a esaurimento dello stock. Maggiori informazioni su: migros.ch/cucciolidipeluche
Il bonus. s o r g i m Fa
Mostrando la carta Famigros o la carta Cumulus i membri Famigros ricevono
1 bollino supplementare.*
*Per ogni acquisto a partire da fr. 20.– effettuato dal 24.2 al 29.3.2018 i membri Famigros riceveranno un bollino supplementare. Fino a esaurimento dello stock. Tutti i dettagli su famigros.ch/collezionare. Diventa ora membro su famigros.ch/iscrizione
Che tenerezza: arrivano i cuccioli di peluche ... ... luminosi.
I cuccioli di peluche non sono solo coccolosi, ma illuminano anche: premendo delicatamente la M sulla zampina, il cuoricino, la stella o il quadrifoglio si illumina.