Azione 39 del 26 settembre 2016

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Cooperativa Migros Ticino

G.A.A. 6592 Sant’Antonino

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXIX 26 settembre 2016

Azione 39 M sh alle p opping agin e 49 -58

Società e Territorio Da settant’anni la vendita del tallero d’oro di cioccolato permette di sostenere i progetti di Heimatschutz e Pro Natura

Ambiente e Benessere Un viaggio in moto su una vecchia Royal Enfield nel sud dell’India, tra immancabili disavventure

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Politica e Economia Vittoria schiacciante di Vladimir Putin alla Duma

Cultura e Spettacoli Yvonne Pesenti Salazar: 18 anni al servizio della Scuola Club e del Percento culturale

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di Enrico Parola pagina 39

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Una vita su due tastiere

La Costituzione minata dall’ambiguità di Peter Schiesser Nessuna sorpresa: la maggioranza del Consiglio nazionale ha sposato le indicazioni della sua commissione per le istituzioni politiche. La sua risposta all’iniziativa popolare del 9 febbraio 2014 contro l’immigrazione di massa si traduce in una legge che prevede una «preferenza indigena light» e nulla più che possa impensierire Bruxelles (vedi Marzio Rigonalli a pagina 31). Il timore di danneggiare gli accordi bilaterali e quindi i non semplici rapporti con l’Unione europea ha portato la maggioranza dei deputati a rifiutare qualsiasi limitazione formale alla libera circolazione, dai tetti massimi ai contingenti, ad un «prima i nostri» senza se né ma. Alcuni deputati hanno dovuto ammettere che il dettato costituzionale non viene concretizzato pienamente. Un eufemismo, secondo l’UDC, grande vincitrice del 9 febbraio, che considera la decisione del Nazionale una violazione della Costituzione federale e «un’eclatante inosservanza del volere popolare» (così il capogruppo Adrian Amstutz). E questi sono due argomenti che peseranno molto in una futura votazione sull’Europa (che in una forma o l’altra pare inevitabile). Poiché con il volere

popolare e con la Costituzione non si scherza, se si vuole ancora aver fiducia nelle leggi fondamentali che sorreggono la politica svizzera. Tuttavia, quando si discute di che cosa sia anti-costituzionale si rischia di cadere in una semplificazione eccessiva. Il discorso si limita all’assioma: «in votazione popolare è stato deciso di inserire nella Costituzione delle novità, una legge che non ne tiene conto è anticostituzionale». Ma che cosa succede se una nuova norma costituzionale ne contraddice una precedente? Quale ha la precedenza? La più «fresca», adottata in votazione popolare, o quella che ha fatto parte per decenni dell’ordinamento giuridico, quindi anche politico (e di politica estera nel caso specifico)? Il Tribunale federale, nella sua sentenza del 26 novembre 2015, ha commentato che in una causa specifica darebbe la precedenza al rispetto degli accordi bilaterali con l’Unione europea su una legge svizzera che li contraddice, in osservanza dell’accordo internazionale di Vienna sul diritto contrattuale. I giudici di Losanna affermano che nessuna parte firmataria ha il diritto di non osservare un trattato internazionale. Un fatto di cui il Nazionale ha certamente tenuto conto nella sua decisione di mercoledì scorso. Come uscire da questo pasticcio politico, istituzionale e giuridico?

Casomai bisogna prima denunciare il trattato in questione. Toglierlo dunque dalla Costituzione. Ma per risolvere alla radice la contraddizione tra un nuovo dettato costituzionale e uno vecchio ci vuole ancora dell’altro. Una soluzione la suggerisce l’ex giudice federale Giusep Nay sul giornale online «Journal 21» (sintetizziamo la sua riflessione): l’articolo costituzionale 139 capoverso 3 stabilisce le regole sulla irricevibilità delle iniziative popolari, basterebbe che il Parlamento federale le applicasse, decidendo di non sottoporre a votazione quelle manifestamente anti-costituzionali, ossia che contraddicono altri dettami costituzionali. Nel caso specifico, scrive l’ex giudice federale, l’iniziativa contro l’immigrazione di massa non doveva essere sottoposta a votazione popolare perché viola un principio cardine di un trattato internazionale. Alla radice di questa ambigua situazione – i fautori del 9 febbraio fingono che non siano in pericolo gli accordi bilaterali con l’Unione europea, i contrari (maggioritari alle Camere federali ) fingono di osservare la Costituzione – sta dunque un’assenza di coerenza politica da parte del parlamento federale. Questo non è il primo caso. Ma aiuterebbe a non creare altra confusione politica se fosse l’ultimo.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 26 settembre 2016 • N. 39

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Attualità Migros

M Migros privilegia i sacchetti riutilizzabili

Olio di palma responsabile Ambiente Migros

Ecologia Dal 1° novembre 2016 si troveranno presso le casse e le postazioni self-checkout –

i sacchetti monouso saranno in vendita al prezzo di 5 centesimi Migros è il primo dettagliante che attua di propria iniziativa e a livello nazionale l’accordo raggiunto dagli operatori del settore. Una misura destinata a divenire regola, dal momento che politici e aziende del commercio al dettaglio hanno congiuntamente deciso di non offrire più sacchetti gratuiti alle casse. Tale accordo ha infatti ottenuto il beneplacito del Parlamento nel corso della sessione autunnale del 2016 e pone termine a un dibattito che si protrae dalla fine del 2012, quando le Camere approvarono il divieto di distribuzione dei sacchetti in plastica.

Migliore giudizio in assoluto per Migros nel «rating» legato all’uso di olio di palma, formulato dal WWF svizzero. L’organizzazione ambientale ha pubblicato il rapporto legato all’uso dell’olio di palma da parte delle industrie manifatturiere. Nello studio ha posto sotto osservazione ed ha analizzato i processi produttivi di 137 imprese attive a livello mondiale, osservando gli obiettivi ecologici e socialmente sostenibili che si sono poste per la realizzazione di prodotti a base questo tipo di grasso vegetale. Allo stesso tempo ha verificato a che punto sia il raggiungimento di tali obiettivi. In questo contesto Migros si colloca in una posizione predominante, perché il suo assortimento di prodotti a base di olio di palma è certificato al 100 per cento da RSPO (Roundtable on Sustainable Palm Oil) un’organizzazione internazionale che stabilisce i criteri minimi per i produttori di olio di palma. Ciò sottintende ad esempio che non si pratichi la deforestazione tramite incendi, che si garantisca la sicurezza dei lavoratori e che si rispettino i diritti di proprietà territoriale delle popolazioni locali.

Si tratta di contenitori realizzati al 100 per cento con materiale riciclato: la misura è intesa a ridurre il volume della plastica immessa sul mercato L’efficacia della misura è dimostrata. Già dal 2013 presso la Cooperativa Migros Vaud i sacchetti monouso sono infatti in vendita al costo di 5 centesimi. Un prezzo contenuto, la cui finalità è stata capita dalla clientela, al punto che da allora la richiesta di sacchetti monouso è andata diminuendo fino al 90 per cento. Migros non trae guadagno dall’introduzione di questa decisione. Il ricavo che risulta dalla vendita dei sacchetti viene infatti utilizzato per promuovere progetti esterni a sostegno dell’ambiente. I nuovi sacchetti hanno un bassissimo impatto ambientale. Sono infatti prodotti al 100 per cento con materiale riciclato. La materia prima è costituita dalla plastica utilizzata per stabilizzare i carichi sulle palette durante il trasporto, che viene raccolta nel centro di

prima della classe nella ricerca specifica compiuta dal WWF

Il ricavo che si ottiene dalla vendita viene utilizzato per finanziare progetti in favore dell’ambiente.

distribuzione Migros di Neuendorf. Un ciclo chiuso particolarmente utile per l’impiego efficiente delle risorse. La plastica riciclata è la soluzione che presenta il miglior bilancio ambientale. Se monouso, le borse compostabili, la bioplastica, la carta e la stoffa si dimostrano meno ecologiche. I sacchi in carta e in stoffa hanno un miglior impatto ambientale solo se vengono utilizzati più volte. Migros ritiene che il divieto assoluto dei sacchetti in plastica non sia ragionevole: vuole comunque offrire ai

clienti un articolo monouso e nel contempo promuove l’uso di borse riutilizzabili in plastica, carta o cotone. Rimangono gratuiti i sacchetti disponibili nei reparti frutta e verdura, che fungono da imballaggio protettivo. Lo stesso vale per i sacchetti per gli articoli del settore tessili e per i giocattoli forniti alle casse e quelli dei negozi specializzati, per i quali non sono previsti cambiamenti. La decisione si inserisce in una politica da sempre promossa da Migros per ridurre il volume dei rifiuti, per

esempio con la costante ricerca di nuovi imballaggi più leggeri. Migros è inoltre l’azienda del commercio al dettaglio che gestisce il più ampio sistema di recupero e riciclaggio di imballaggi e di apparecchi usati. L’introduzione dei sacchetti a pagamento rientra in questa logica e vuole incoraggiare l’utilizzo di sacchetti della spesa riutilizzabili, così da ridurre ulteriormente i rifiuti. Una scelta che Migros ritiene efficace e che di conseguenza vuole introdurre al più presto.

Nuovo mangime, più ecologia, stesso sapore Migros Ticino Nei negozi sono ora in vendita uova bio provenienti da galline il cui foraggio è privo di soia.

Gli ingredienti provengono dall’Europa e sono prodotti derivati dalla lavorazione alimentare Le galline necessitano di proteine in abbondanza per rimanere sane e deporre uova. Per assicurare tale apporto viene normalmente aggiunta soia al loro mangime. L’insufficiente disponibilità in Europa fa però sì che la soia bio venga importata da oltreoceano. Un trasporto che si ripercuote sul bilancio di CO2. Per questo motivo Migros si impegna a ridurne e per quanto possibile a escluderne l’utilizzo. In collaborazione con Biofutter AG di Arnegg (SG), azienda specializzata nella produzione di mangimi bio per animali, Migros ha così dato avvio allo sviluppo di un nuovo prodotto per le ovaiole. Nel loro mangime la soia è stata sostituita da uno speciale panello di girasole, la parte residua dei

semi dopo la spremitura dell’olio. Oltre a quello di girasole, il nuovo mangime contiene altri ingredienti ricchi di proteine, come il panello di colza e di lino. Ciò lo rende particolarmente idoneo per l’alimentazione delle galline. Gli ingredienti sono infatti sottoprodotti della lavorazione alimentare e non creano quindi concorrenza con le coltivazioni destinate all’alimentazione umana. Inoltre, le materie prime sono bio e provengono da Svizzera ed Europa. Inizialmente il nuovo foraggio è stato testato in alcuni allevamenti della Svizzera orientale. Le galline hanno dimostrato di gradirlo e la qualità del guscio delle uova e la capacità di deporre sono rimaste invariate. Quanto

Azione

Sede Via Pretorio 11 CH-6900 Lugano (TI) Tel 091 922 77 40 fax 091 923 18 89 info@azione.ch www.azione.ch

Settimanale edito da Migros Ticino Fondato nel 1938 Redazione Peter Schiesser (redattore responsabile), Barbara Manzoni, Manuela Mazzi, Monica Puffi Poma, Simona Sala, Alessandro Zanoli, Ivan Leoni

La corrispondenza va indirizzata impersonalmente a «Azione» CP 6315, CH-6901 Lugano oppure alle singole redazioni

al gusto, per i clienti non cambia nulla, perché le uova bio mantengono il loro il buon sapore. In futuro Migros intende proporre solo uova bio provenienti da galline nutrite con foraggio privo di soia. Il progetto pionieristico riguarda oltre 100 allevatori fornitori di Migros. La conversione è prevista in modo graduale. Dopo la Svizzera orientale è ora la volta delle cooperative Ticino e Neuchâtel-Fribourg. Entro fine 2017 la novità riguarderà tutte le cooperative regionali. Siccome l’acquisto dei panelli di girasole è più caro di quello della soia, il prezzo di vendita della confezione da 6 uova aumenta di 10 centesimi e passa da 4.75 a 4.85. Editore e amministrazione Cooperativa Migros Ticino CP, 6592 S. Antonino Telefono 091 850 81 11 Stampa Centro Stampa Ticino SA Via Industria 6933 Muzzano Telefono 091 960 31 31

Tiratura 101’035 copie Inserzioni: Migros Ticino Reparto pubblicità CH-6592 S. Antonino Tel 091 850 82 91 fax 091 850 84 00 pubblicita@migrosticino.ch

Abbonamenti e cambio indirizzi Telefono 091 850 82 31 dalle 9.00 alle 11.00 e dalle 14.00 alle 16.00 dal lunedì al venerdì fax 091 850 83 75 registro.soci@migrosticino.ch Costi di abbonamento annuo Svizzera: Fr. 48.– Estero: a partire da Fr. 70.–


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 26 settembre 2016 • N. 39

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Società e Territorio Fondazione Amilcare Compie dieci anni il progetto Adoc: abbiamo incontrato Zaira che ci racconta la sua esperienza pagina 5

I giardini urbani Riappropriarsi dei cicli stagionali dell’agricoltura senza abbandonare i centri cittadini: è la rivoluzione dell’urban farming

Videogiochi Con No Man’s Sky si viaggia alla scoperta di nuovi pianeti e forme di vita aliene: un universo senza fine e senza colpi di scena

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Sono circa 30mila gli allievi svizzeri coinvolti annualmente nella vendita del tallero d’oro a sostegno di Heimatschutz e Pro Natura. (tallero.ch)

Le isole salvate dal tallero

Anniversari Da settant’anni la vendita del tallero d’oro di cioccolato permette di sostenere

progetti di salvaguardia dell’ambiente naturale e costruito

Stefania Hubmann Bambini che suonano alla porta o si avvicinano per strada agli adulti offrendo in vendita un tallero d’oro di cioccolato al prezzo di cinque franchi. Durante il mese di settembre il rituale si ripete in tutto il Paese da ben 70 anni. Oggi molti genitori e nonni che acquistano i talleri sono stati a loro volta piccoli venditori di un tipico prodotto svizzero di qualità per una buona causa: la protezione dell’ambiente naturale e costruito. L’iniziativa è opera delle associazioni Heimatschutz Svizzera e Pro Natura. Entrambe sono state costituite all’inizio del secolo scorso e rappresentano rispettivamente la principale organizzazione nazionale attiva a favore del patrimonio costruito e l’ente faro in materia di protezione della fauna e della flora indigene. Il tallero d’oro è il simbolo di una tradizione di protezione che parte dalla realtà. La singolare iniziativa, che resiste alla crescente concorrenza e all’avvento del mondo virtuale, è iniziata per fronteggiare una minaccia concreta. Nel 1946 il lago di Sils nell’Alta Engadina rischiava di essere sommerso da un lago artificiale. La relativa centrale idroelettrica avrebbe deturpato per sempre il magnifico paesaggio. Le due associazioni pensarono quindi alla vendita dei talleri in modo da procurarsi i fondi per

indennizzare i Comuni del mancato incasso dei canoni d’acqua. La proposta poté essere attuata grazie al sostegno del consigliere federale Walter Stampfli che liberò 25 tonnellate di cioccolato, allora ancora razionato a causa della guerra. La vendita del tallero rappresenta ancora oggi una fonte di entrate irrinunciabile per le due associazioni. Ogni anno frutta circa un milione di franchi, di cui il 30% è destinato a un progetto specifico, mentre il resto serve a finanziare le altre numerose attività dei due enti e della Fondazione svizzera per il paesaggio. Ed è proprio sul paesaggio che si concentra l’azione del settantesimo. Con «Giardini e Parchi» quest’anno Heimatschutz Svizzera e Pro Natura si impegnano per la salvaguardia delle aree verdi esistenti e la realizzazione di nuove, in città come in campagna. «Ogni giorno – affermano in un comunicato – giardini e parchi spariscono, seppelliti da nuovi posteggi, edifici o strade. La vendita del tallero 2016 vuole contribuire a salvarli e a crearne di nuovi. Si tratta di luoghi di scambio fondamentali per il nostro benessere». In particolare si sosterrà il salvataggio del quartiere Elsässli di Derendingen nel canton Soletta, un complesso architettonico degli anni Settanta, testimone della storia industriale della regione, il cui suolo è contaminato da sostanze tossiche.

La sensibilizzazione è un altro aspetto essenziale dell’azione Tallero d’oro. «Le scuole rappresentano il nostro partner principale», spiega la direttrice delle vendite Eveline Engeli, precisando che «contribuiscono nella misura dell’88% all’incasso totale, di cui il 10% è assicurato dalle vendite negli uffici postali (iniziate nel 2003) e il restante 2% da quelle private. Altrettanto importante è però l’aspetto educativo. Le classi partecipanti, stimolate dal poter trattenere il 10% del ricavato, ricevono un dossier didattico (a disposizione in tedesco, francese e italiano) per approfondire in modo pratico l’argomento dell’anno. Il materiale permette pure di spiegare agli scolari la necessità di curare e proteggere l’ambiente nel quale vivono, sia esso naturale o costruito. Partecipare alla vendita del tallero significa anche assumersi delle responsabilità, confrontarsi con successi e insuccessi e impegnarsi per un’azione di pubblica utilità, aspetti di indubbio valore dal punto di vista pedagogico». In Ticino e nel Grigioni italiano quest’anno si sono annunciate una cinquantina di classi, quasi tutte delle scuole elementari, ordinando poco più di 8000 talleri. Ursel Breitenbach, ex insegnante di tedesco residente nel Locarnese, segue da oltre dieci anni la vendita del tallero d’oro nella Svizzera italiana constatando come l’azione

riscuota sempre un buon successo, anche se in leggero calo rispetto all’inizio della sua attività. Da un incasso che raggiungeva i 50mila franchi, nelle ultime edizioni ci si è assestati a quota 40mila. La lieve flessione è confermata anche sul piano nazionale da Eveline Engeli. Come incentivo, oltre alla percentuale sull’incasso, ogni anno viene organizzato un concorso per gli scolari. In palio nel 2016 cento casette per gli uccelli. Se l’impegno di circa 30mila allievi nella vendita del tallero d’oro è ora terminato, quest’ultimo è ancora acquistabile fino a metà ottobre negli uffici postali. Da rilevare, che in settant’anni ne sono stati venduti ben 44 milioni. Settant’anni di storia significano soprattutto altrettanti progetti mirati e su vasta scala a favore della natura e del patrimonio culturale. Fra questi, quattro riguardano il Ticino: l’acquisto delle isole di Brissago (1950), Morcote (1961), le Bolle di Magadino (1976) e i progetti di Parco nazionale del Locarnese e Parc Adula (2009: 100 anni di Pro Natura). Il primo rappresenta una delle dodici storie di successo inserite nella pubblicazione Les belles histoires de l’Ecu d’or, edita in francese e tedesco per sottolineare la ricorrenza. All’acquisto delle isole di Brissago nel 1949 da parte del Cantone Ticino e dei Comuni di Ascona, Brissago e Ronco, parteciparono infatti anche le due as-

sociazioni nazionali che l’anno scorso hanno offerto le rispettive quote ai tre Comuni. Altrettanto di successo le storie legate ad esempio alla reintroduzione del castoro in Svizzera, alla ristrutturazione del monastero di Müstair nei Grigioni, iscritto nel 1983 nella lista del Patrimonio mondiale dell’UNESCO, o ancora al restauro della Villa Patumbah («casa aperta» in lingua malese) a Zurigo, trasformata in sede di Heimatschutz Svizzera e di una nuova offerta di formazione: il Centro per la cultura architettonica. Si scoprono così storie curiose, come appunto quella di Villa Patumbah o la cosiddetta «pulizia» del Rigi (1951), culla del turismo svizzero, la cui cresta venne liberata da due alberghi considerati troppo invadenti. Negli ultimi anni l’azione del Tallero d’oro si è concentrata soprattutto su progetti inerenti le testimonianze del passato (vedi i mezzi di trasporto storici e gli interni storici) e le zone di svago. Le piazze e i prati fioriti, i temi delle scorse due edizioni, come i parchi e i giardini, costituiscono preziose oasi di verde e importanti punti di incontro minacciati dall’avanzare del cemento. Informazioni

www.tallero.ch – www.heimatschutz. ch – www.pronatura.ch


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Società e Territorio

Voglia di casa

Fondazione Amilcare C ompie dieci anni il progetto educativo giovanile Adoc che offre agli adolescenti

la possibilità di vivere autonomamente in appartamenti Fabio Dozio Viola e arancione: sono i due colori che caratterizzano Zaira, una ragazza che ha partecipato al progetto Adoc. Adesso, a 23 anni, è fuori, indipendente, ma vive ancora nell’appartamento che ha scelto quando ha iniziato il percorso in Adoc. Molino Nuovo, Lugano. Una casa che sembra destinata alla prossima demolizione. Le vecchie scale di granito, i contatori della luce appesi al muro. Ci riceve con l’asciugamano in testa, che fa molto film americano. E anche questo scorcio del vecchio Molino Nuovo fa America, più della linda piazza Riforma o dello spigoloso Lac. Dal lungo corridoio spuntano due gatti paffuti e un cagnolino piccolo e gracile. Zaira si siede sulla poltrona di pelle nel salotto strapieno di oggetti. Su una mensola, una sfilza di accendini multicolori. «Non riesco a separarmi dalle cose, tengo tutto, accumulo» dice. Dopo una vita in istituto è approdata alla Fondazione Amilcare, che le ha offerto la possibilità di vivere da sola in appartamento. «Mi hanno permesso di pensare a un futuro, fino a 19 anni non pensavo di avere un futuro: poi ho cominciato ad immaginare una prospettiva, sono riuscita ad avere una visione del mio futuro». Si passa un velo di fondotinta, srotola l’asciugamano e lascia sciogliere i capelli . «Ho i capelli viola e il salotto dipinto di arancione. Questa è la mia casa e qui ci sto bene». Chi sono i giovani come Zaira che si affidano alla Fondazione Amilcare? «Sono ragazzi – sottolinea Raffaele Mattei, direttore della Fondazione – che non hanno avuto una figura di adulto stabile durante la loro infanzia, anzi, sono stati confrontati con una miriade di adulti che sono tutti scomparsi. Sono giovani che hanno imparato a non fidarsi più degli adulti, che non appartengono più a niente e a nessuno, non appartengono a un nucleo famigliare, non appartengono a un luogo perché hanno cambiato spesso domicilio, non appartengono a un gruppo di pari poiché hanno cambiato spesso sede scolastica». In occasione del decimo anniversario di Adoc, una recente giornata di studio ha permesso di fare il punto sulla storia di questo progetto. I foyer nascono negli anni Ottanta, fondati ancora su un modello più o meno coercitivo. Ospitano giovani che provengono da famiglie disgregate, con genitori sofferenti, alcolisti, tossicodipendenti, confrontati con problemi psichici. Oppure genitori assenti. Il fo-

Zaira ha 23 anni, vive sola e sta concludendo l’apprendistato: «Adoc mi ha dato la possibilità di crescere per quello che ero io». (Stefano Spinelli)

yer cerca di sostituire la famiglia e di offrire un ambiente protettivo ai giovani, ma sono sempre concepiti da adulti che pensano che cosa sia meglio per i ragazzi. Passando gli anni ci si accorge che le regole e le sanzioni non bastano per garantire tranquillità ai foyer. I ragazzi fuggono, vanno e vengono, non rispettano le norme. Gli educatori faticano a gestire gli istituti, si è di fronte a una crisi della rete sociale di protezione. Le strutture funzionano, ma le relazioni con i ragazzi sono lacunose. Alla fine degli anni Novanta questo modello va in crisi e si pensa a un capovolgimento del paradigma di protezione. Non bisogna imporre ai ragazzi modalità concepite dall’alto, ma coinvolgere i giovani e chiedere loro che cosa desiderano. «Bisogna sviluppare – afferma Mattei – un’attitudine accogliente e incondizionata. Accogliere e basta, senza giudicare. È la relazione che contiene e che garantisce la protezione e non i muri e le strutture». Da questa riflessione, nell’ambito della Fondazione nel 2006 nasce Adoc: adolescenti in connessione. Alcuni giovani cominciano a vivere autonomamente in piccoli appartamenti dove si gestiscono da soli, con la supervisione di una coppia di educatori che li incontrano 8 ore alla settimana e che si mantengono in costante contatto, 24 ore su 24, grazie ai telefoni cellulari. In che misura questo cambio di paradigma si riflette anche sui foyer? «Possiamo dire che chiedere ai ra-

gazzi che cosa vogliono ha modificato in parte anche la gestione dei foyer. – precisa Raffaele Mattei – Pedagogicamente, chiedere ai ragazzi cosa preferiscono permette di migliorare la qualità del foyer. Inoltre abbiamo introdotto la possibilità di utilizzare appartamenti da parte di giovani che stanno in istituto, ma lasciando la libertà di andare e di tornare». L’appartamento permette al giovane di diventare responsabile. «Adoc – dice Zaira – mi ha dato la possibilità di crescere per quello che ero io. La mia prima spesa, per esempio, sono stati cento franchi di Kinder… in istituto, giustamente, gli zuccheri sono limitati, poi mi hanno spiegato che, per quanto fossero buoni, non bisognava esagerare. Quando sono entrata in Adoc volevo la libertà. Non la libertà nel senso faccio tutto quello che mi pare, ma se voglio fare una cosa devo essere in grado di farla. In istituto, per quanto possa essere buono il metodo, è tutto organizzato e pianificato: sveglia colazione bagno scuola orari precisi pranzo (e il menu era quello e basta) pausa scuola cena e via dicendo. Ho vissuto così per tredici anni della mia vita, in istituto. Sono entrata a circa tre anni, perché mia madre è alcolizzata, prima a Casa Elisabetta poi a casa Primavera. Io sono proprio nata con le istituzioni, e infatti sono ancora qua. Ho però imparato a fidarmi delle persone; fino a cinque anni fa non mi fidavo degli adulti». Attualmente sono una ventina i

giovani che vivono negli appartamenti gestiti dalla Fondazione Amilcare. Nel corso di questi dieci anni sono quasi ottanta coloro che hanno imboccato questo percorso che, salvo un paio di eccezioni, ha dato risultati positivi. I giovani possono entrare in appartamento a 16 anni, ma a venti devono diventare indipendenti. Gli educatori di Adoc, se necessario, li seguono anche dopo i venti anni.

La procedura per decidere se un giovane deve andare in foyer o in Adoc inizia a livello istituzionale, con una verifica da parte dell’Ufficio cantonale aiuto e protezione e quindi delle istanze che coinvolgono i genitori e la rete sociale. «Ci sono ragazzi che preferiscono Adoc al foyer – annota Mattei – e sono in genere coloro che sono entrati presto in istituto e che dopo anni sono stufi. Ma se un adolescente arriva da casa, a volte preferisce essere accolto in istituto, dove la protezione è maggiore e non si sente solo». Tutti questi giovani hanno soprattutto una necessità: ottenere la fiducia degli adulti, che hanno perso nel corso della loro infanzia e adolescenza. Agli educatori che li seguono chiedono pazienza, ma anche sincerità, trasparenza, e una relazione priva di pregiudizi. Zaira ha scelto di formarsi come meccanico, una delle prime donne in Svizzera, ma poi ha deciso di cambiare. Ora sta concludendo l’apprendistato di operatrice di edifici e infrastrutture in una casa per anziani. È responsabile della manutenzione, un lavoro polivalente che la soddisfa perché non le piacciono le cose ripetitive. In prospettiva pensa di trasformarsi in «custode sociale», una funzione che esiste a Zurigo ma non ancora in Ticino. «Adoc – dice – è la mia famiglia. A volte mi chiedo cosa sarei diventata se non avessi intrapreso questo percorso. Ora sono una persona buona».

La Fondazione in breve La Fondazione Amilcare – si legge sul sito www.amilcare.ch – è un’organizzazione non profit che si occupa della promozione e della tutela dei diritti fondamentali degli adolescenti. La sua missione è la reintegrazione nel tessuto sociale di adolescenti che, per ragioni diverse, si trovano in un momento di difficoltà. Nel 1982 nasce in Ticino la Fondazione Foyer Pro Juventute, su iniziativa del dottor Amilcare Tonella, pediatra di Bellinzona, e della signora Franca Bernasconi Armati. La Fondazione gestisce quattro foyer già attivi: la Pigna a Pregassona, Rondinella a Viglio, Calprino a Paradiso e Verbanella a Locarno. Dopo qualche anno alcuni istituti chiudono e rimangono in attività tre foyer: Calprino a Massagno, Verbanella

a Locarno e Vignola a Lugano. Nel 2002 apre a Besso il centro di accoglienza diurna per adolescenti Spazio Ado. Nel 2003, in accordo con Pro Juventute, il Consiglio di Fondazione decide di darsi il nome di Fondazione Amilcare, in onore e in memoria del suo fondatore, il dottor Tonella, scomparso nel febbraio di quell’anno. Nel 2006 si crea l’équipe Adoc, che si rivolge a quei giovani minorenni che non vivono più in famiglia ma nemmeno in strutture residenziali adibite all’accoglienza dei minori. Nel 2013 parte il progetto Occupazione, denominato AdoMani, che offre la possibilità ai giovani della Fondazione di confrontarsi con esperienze lavorative. Due anni fa si lancia il progetto Famiglie, con due consulenti familiari attivi al 50%.

Viale dei ciliegi di Letizia Bolzani Juan Villoro, Il libro selvaggio, Salani. Da 10 anni È stato ripubblicato, sempre da Salani, nella collana degli Istrici e godrà certamente di un rinnovato successo, Il libro selvaggio, romanzo dedicato ai ragazzi ma molto letto anche dagli adulti, anzi romanzo di culto per tutti coloro che amano i libri. E che amano i libri che parlano di libri. Per i grandi lettori, insomma. Che non importa quanti anni abbiano o quanti libri leggano, perché, come dice lo zio Tito al nipote Juan, il lettore migliore «non è chi legge più libri, ma chi trova più cose in quello che legge». Il giovane protagonista, il quattordicenne Juan, ospite dello stravagante zio, bibliofilo appassionato, si chiama Juan proprio come l’autore, lo scrittore, giornalista e drammaturgo messicano Juan Villoro, che è stato apprezzato ospite al recente Festivaletteratura di Mantova. Ai lettori di lingua italiana, Villoro è noto soprattutto

appunto per il Libro Selvaggio, racconto di mistero condotto con humour e spirito filosofico, in cui si narra delle peripezie del giovane Juan per scovare il fantomatico libro selvaggio, che appare e scompare nella labirintica biblioteca dello zio, e che nessuno è mai riuscito a leggere, perché sembra che aspetti di essere trovato dal suo lettore. Nella storia c’è un’indagine, c’è umorismo, si parla di crescita, di amicizia e forse anche un po’ di amore. E naturalmente si parla di libri, del fatto che i libri «sono specchi indiscreti e temerari: ti fanno uscire le idee più originali, stimola-

no pensieri che non sapevi di avere», quindi ti aiutano a capire te stesso. E al contempo ti aiutano anche a capire gli altri, perché «uno specchio magico è anche una finestra: ci vedi le tue idee ma anche altre cose, conosci idee altrui e viaggi in mondi diversi». Specchi magici per guardarti dentro, finestre spalancate per guardare fuori: non è poco, ne converrete. Nikolai Popov, Kro & Kra, uguali ma diversi, Minedition. Da 3 anni Va senz’altro segnalato questo nuovo libro dell’artista russo Nikolai Popov (di cui in italiano abbiamo soltanto un’altra opera, l’albo pacifista Perché?). Stavolta Popov scrive e illustra una storia più leggera e briosa, che vede protagonisti Kro e Kra, due ranocchi dai caratteri opposti, sottolineati anche dal rosso energetico della tutina a righe di Kro, a cui fa da contraltare il più malinconico blu scuro della tutina di Kra. Unico

scenario il fiume, nel cangiare dei toni verdeacqua del paesaggio, chiaro o scuro a seconda delle ore del giorno e delle variazioni meteorologiche, con la luce del sole che filtra dai rami, o il grigio plumbeo dell’acquazzone. Ottimista, frizzante, temerario Kro; meditabondo, pessimista, cauto Kra. Come non pensare alle atmosfere del grande Kenneth Grahame, del Vento tra i salici, dominato dal fiume su cui scorrazzano l’intraprendente Topo e il prudente Talpa; o anche alla coppia Rana e Rospo (con la tenera goffaggine di Rospo a risaltare, in confronto alla

tranquilla scioltezza di Rana) di Arnold Lobel? Qui Popov costruisce però una storia minima e ancor più semplice, tutta giocata sul contrasto «vedo positivo/vedo negativo», adatta anche a lettori più piccoli, che si divertiranno a seguire le avventure dei due amici, in barca sul fiume. La barca è fatta con una foglia, e due cannette per remi; poi si rompe un remo, Kra si dispera, ma Kro lo incoraggia «Non preoccuparti, amico mio! C’è sempre una soluzione!», e la barca diviene una canoa, e quando anche la canoa perderà qualche pezzo, la si trasformerà in barca a vela. Persino un bagno imprevisto può essere divertente se lo si prende per il verso giusto, apprezzando il dolce tepore del focherello che poi riscalda e asciuga, e davvero non c’è guaio a cui non si possa trovare una soluzione, come dice il saggio Kro, e come amiamo sentirci ripetere, noi piccoli e grandi lettori a cui capita di avere a volte lo sguardo un po’ spaurito di Kra.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 26 settembre 2016 • N. 39

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Società e Territorio

La rivoluzione dei giardini urbani

Tendenze L ’alimentazione sana e consapevole dei cicli naturali trasforma aree cittadine da Shanghai a Singapore.

Le prime esperienze in Svizzera di agricoltura urbana si trovano a Zurigo Natascha Fioretti Ricordo quando ragazzina mia nonna mi portava da McDonald’s a bere giganteschi Milkshake e mangiare patatine fritte. Lei, invece, dopo una vita passata dietro i fornelli, amava comprarsi la busta di pasta o riso liofilizzati. Ma sapeva ben distinguere un cibo fresco da un cibo conservato e, soprattutto, era cresciuta mangiando le verdure del proprio orto e le uova delle sue galline. Una realtà e un contatto con la terra e i suoi cicli vitali che alla mia e alle generazioni successive è mancato, abbiamo sempre goduto di una illimitata offerta e, fino ad un certo punto, ci siamo cullati nell’illusione che qualsiasi cibo industriale si nascondesse dietro imballaggi accattivanti, soprattutto se di marca, fosse di qualità. Poi, complici i vari scandali alimentari su scala internazionale, ci siamo trasformati in consumatori consapevoli ed esigenti, abbiamo imparato a leggere le etichette e a preferire i prodotti bio, locali e stagionali. Risucchiati da una vita frenetica consumata tra sterili blocchi di cemento e mattoni, abbiamo sentito la necessità di ristabilire un rapporto primordiale con la natura, il cibo e i tempi legati ad esso. Se per i nostri nonni era naturale coltivare pomodori, per noi oggi è un’ardua impresa: non sappiamo riconoscere i terreni adatti, il periodo per piantare, a quale distanza disporre le piantine o quale esposizione prediligono. Ma ci sono evidenti margini di miglioramento, infatti, nelle città di tutto il mondo molte persone iniziano a coltivare la propria frutta e verdura nel giardino e balcone di casa o, se nessuna di queste opzioni è possibile, si guardano intorno in cerca di un orto condiviso. Avete mai sentito parlare di urban farming? L’agricoltura urbana è la nuova tendenza e consiste nel coltivare, trasformare e distribuire il cibo all’interno del contesto cittadino sfruttando spazi verdi esistenti e abbandonati. Qui la comunità può dedicarsi a un’attività condivisa della quale possono beneficiare tutti nel rispetto di una alimentazione sana e consapevole, etica

Esempio di agricoltura urbana a Chicago. (Wikipedia)

e a stretto contatto con la natura. Una tendenza, che stando allo studio European Food Trends Report del Gottlieb Duttweiler Institut, si conferma anche da noi: gli svizzeri sempre di più hanno a cuore la loro alimentazione curandola a casa, al ristorante e quando sono in viaggio. Mirjam Hauser, autrice dello studio, parla di una piccola rivoluzione che vede i consumatori emanciparsi dall’offerta di cibi industriali e acquisire consapevolezza e conoscenza in merito a dove e cosa comprare. Non solo, sembra che l’approfondita conoscenza della provenienza dei cibi che si cucinano e si mettono in tavola contribuisca a conferire una visibilità e un valore aggiunto all’interno della società. E, nel considerare l’offerta, non contano solo i cibi freschi ma anche la varietà in grado di soddisfare le diverse esigenze e le diverse diete. In particolare a sposare un’alimentazione sana e consapevole sono le donne. Secondo uno studio condotto nella città di Zurigo l’81% delle donne è attenta a che cosa mangia rispetto al 73% degli uomini. E proprio a Zurigo, negli ultimi anni sono sorte diverse realtà interessanti che coniugano ri-

storazione e agricoltura urbana. Una è il Frau Gerolds Garten, il Giardino della Signora Gerold, nel cuore della nuova zona di tendenza zurighese, l’altra è The Artisan, cucina e giardino urbano fondata dallo chef di cucina Mark Thommen e da Gian Luca Tribò il quale ci ha raccontato la loro idea. «Questo locale è il sogno mio e di Mark Thommen diventato realtà dopo diverse esperienze all’estero in città asiatiche come Shanghai dove in fatto di ristoranti come il nostro c’è un’ampia scelta». A Singapore per esempio c’è l’Open farm community, un ristorante che fa parte di un grosso progetto di urban gardening promosso da un’azienda privata volta a promuovere l’agricoltura locale allo scopo di ristabilire la connessione tra uomo e natura attraverso attività collettive. Su un’area verde di immense proporzioni, uniti dallo stesso spirito, collaborano contadini locali, chef creativi per dare vita ad un nuovo concetto di alimentazione e di momento culinario. «La nostra visione è dare vita ad un progetto di agricoltura urbano che possa avere un grosso impatto su Singapore rinforzando la compren-

sione e il rispetto per il cibo e le sue origini. I nostri bambini per troppo tempo sono stati segregati dalla natura. Per questo promuoviamo anche workshop e incontri per le famiglie e i bimbi non solo per avvicinarli alla natura e alla coltivazione ma anche per offrire loro del tempo qualitativo da trascorrere favorendo uno scambio intergenerazionale». Tornando a Zurigo, The Artisan sta per artigianale: «volevamo dare vita ad un locale semplice e accogliente in cui le persone possono trascorrere del tempo di qualità. Sin dal principio la nostra ricetta è stata quella di proporre una cucina autentica, sincera e strettamente legata alla natura. In cucina si lavora molto a mano, i prodotti e gli ingredienti sono tutti freschi, preferibilmente stagionali e a km 0. Tutto viene cucinato al momento. In un primo tempo ci siamo chiesti se proporre esclusivamente prodotti bio ma dati i prezzi molto elevati, il 70% in più, per ora abbiamo preferito rimandare, la nostra clientela non è pronta a spendere 30 franchi per una pizza». Naturalmente non manca un giardino urbano, che prende forma su una

grande terrazza condivisa con l’associazione cittadina Garte über de Gleis che porta avanti un progetto collettivo nella zona di Wipkingen, un giardino nel quale rilassarsi, passare del tempo e dar vita a relazioni e scambi sociali. «Sulla terrazza coltiviamo le nostre erbette, le verdure, i fiori e le nostre bacche. Nei nostri menù cerchiamo sempre di offrire prodotti di stagione. In ogni caso è importante stabilire una relazione ottica tra ciò che proponiamo nel piatto e ciò che cresce qui da noi». È interessante apprendere chi sono i clienti di The Artisan: «dal punto di vista dell’età abbiamo una clientela mista, ma posso dire che a mangiare da noi sono soprattutto le donne, direi che rappresentano il 60% del nostro pubblico. Mangiare è un atto molto intimo ed emozionale e, anche se spesso non ce ne rendiamo conto, noi siamo quello che mangiamo. Le donne ne sono più consapevoli e fanno maggiore attenzione in questo senso». In armonia con questa visione si recuperano e si reimparano oggi metodi di coltivazione tradizionali che non prevedono tecnologie invasive e pesticidi: «durante il mio soggiorno a Shanghai sono venuto a conoscenza della storia di Masanobu Fukuoka, pioniere dell’agricoltura naturale vissuto nel XIX secolo che alla natura e alle sue coltivazioni lasciava seguire il loro ciclo spontaneo e i raccolti erano ottimi». E se la ri-connessione con la natura rappresenta un aspetto fondamentale, l’altro è la trasparenza in fatto di provenienza del cibo. Negli Stati Uniti il movimento sociale From Farm to Table promuove la diffusione di cibi locali nei ristoranti e nelle mense scolastiche attraverso una vendita diretta. Il senso di comunità e il rapporto diretto produttore-consumatore, spesso racchiuso nella stessa persona, diviene così uno snodo cruciale nei grandi centri urbani in cui l’uomo digitale contemporaneo in cerca di un significato etico, umano e collettivo, tra una email e un messaggio whatsapp precursori di un futuro smart, si riappropria di una dimensione e di una essenza primordiale per lungo tempo dimenticate. Annuncio pubblicitario

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 26 settembre 2016 • N. 39

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Società e Territorio

Da un pianeta all’altro verso l’infinito Videogiochi I n No Man’s Sky si viaggia attraverso 15 quintilioni di mondi misteriosi creati da un algoritmo

matematico: un universo senza fine ma con poche distrazioni Davide Canavesi Quindici quintilioni. Un 15 seguito da 30 zeri. Tanti sono i mondi misteriosi che attendono la nostra visita in No Man’s Sky. Un gioco con l’ambizione di far scattare la curiosità, la voglia di esplorare e di vagabondare nell’infinito «fino ad arrivare là dove nessuno è mai giunto prima», per citare il Capitano Kirk della serie classica di Star Trek. La voglia di scoprire, la curiosità di spingersi oltre è insita nel genere umano. I grandi esploratori del passato rischiarono la vita per oltrepassare i confini delle mappe e per arrivare in nuovi territori sconosciuti. Oramai sul pianeta Terra non c’è più nulla da scoprire: grazie ai satelliti e Google Maps possiamo vederne ogni dettaglio semplicemente con un click del mouse. L’unica soluzione è rivolgere allora la nostra curiosità verso le stelle. Sfortunatamente la tecnologia ancora non permette all’Enterprise di imbarcarsi in missioni quinquennali, scoprendo civiltà aliene umanoidi perfettamente in grado di parlare l’inglese e quindi siamo costretti a volare con la fantasia. Oppure, come nel caso di No Man’s Sky, con un PC o una PlayStation 4. Prima di addentrarci nelle meccaniche di questo gioco però soffermiamoci sul numero esorbitante di pianeti proposti. È ovviamente impossibile creare a mano 15 quintilioni di pianeti per un gioco, il tempo necessario per disegnarli e decorarli tutti sarebbe

troppo anche se tutta l’umanità lavorasse solo con questo scopo. Ecco che Hallo Games, lo studio di sviluppatori dietro No Man’s Sky, si è inventato un sistema di generazione procedurale dei mondi del gioco. In parole povere si tratta di un algoritmo matematico che si è occupato di disegnare tutto l’universo, dai pianeti ai suoi abitanti, siano essi animali o vegetali. Hallo Games ha creato una «formula matematica» che si occupa di definire ogni singola componente di ciascuno dei mondi del gioco: morfologia, condizioni climatiche, gravità, fauna e flora. Tutto ciò che il giocatore incontra durante le sue esplorazioni è il risultato di questo caos regolamentato. Un risultato davvero impressionante per un team che conta nel suo organico meno di 20 persone. Ma come funziona, No Man’s Sky? Iniziamo la nostra avventura su un pianeta abbandonato, con una navicella spaziale in avaria e sistemi di supporto vitale a malapena funzionanti. Il nostro scopo primario è dunque occuparci dei nostri mezzi tecnologici, vagando sulla superficie del corpo celeste per raccogliere le materie prime necessarie alle riparazioni. Una volta che ci siamo occupati di queste incombenze, l’universo è letteralmente di fronte a noi. C’è però anche una missione da portare a termine: raggiungere il centro dell’universo. Come farlo però sta al giocatore. È possibile provarci volando dritti verso

Un gioco quasi introspettivo alla scoperta di nuovi pianeti e forme di vita aliene. (Hallo Games/No Man’s Sky)

il centro, anche se sospettiamo che le vastità dell’universo siano troppe per andarci in questo modo. Possiamo seguire la Via dell’Atlante, una sorta di traccia da seguire che ci viene rivelata da misteriose entità. Oppure possiamo usare il motore a velocità della luce per andare da una galassia all’altra o per tuffarci in un buco nero. Nel frattempo però possiamo improvvisarci dei Cristoforo Colombo o dei Charles Darwin per scoprire nuovi pianeti, analizzarne le forme di vita e ovvia-

mente dare un nome ad ogni nostra scoperta. Tutti i giocatori di No Man’s Sky collaborano per scoprirne i segreti. L’universo del gioco è condiviso via internet e quindi può capitare, anche se è incredibilmente poco probabile, di incontrare un altro essere umano che, come noi, vaga da solo di pianeta in pianeta. Non che questo gioco sia un gioco da condividere con altri (il cosiddetto «multiplayer») perché la sensazione primaria è la solitudine.

Il viaggio di No Man’s Sky diventa infatti quasi introspettivo, ci invita a riflettere sul nostro posto nell’universo (quello reale) mentre ci addentriamo sempre di più in quello virtuale. No Man’s Sky è allora un gioco di nicchia, un gioco per animi solitari che anelano alla libertà assoluta. Peccato che diventi ben presto un po’ troppo noioso. L’iniziale stupore dello scoprire nuovi ecosistemi si tramuta, dopo qualche ora, in un senso perenne di déjà-vu. I mondi sono diversi ma non offrono molte cose da fare. Le razze aliene che incontriamo sono sempre le solite tre e non interagiscono in modo molto significativo con il giocatore. Aggiungiamo a questo mix anche la necessità di una gestione fastidiosa delle risorse del giocatore (energia, pezzi di ricambio e materiali preziosi) e qualche scontro a fuoco davvero piatto per smorzare i nostri entusiasmi. Visivamente il gioco è riuscito, con panorami mozzafiato e transizioni senza scossoni tra lo spazio e le superfici planetarie che vogliamo visitare. Tecnicamente siamo di fronte ad un ottimo lavoro. No Man’s Sky ha una grande ambizione che riesce a raggiungere solo per metà, offrendo sì un universo senza fine ma con poche distrazioni. La noia rimpiazza fin troppo velocemente la curiosità, spegnendo la nostra voglia di scoprire il prossimo pianeta. La nostra ricerca dell’ultima frontiera insomma è destinata a continuare. Annuncio pubblicitario

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Società e Territorio Rubriche

L’altropologo di Cesare Poppi Il frate, l’imperatore e la missione impossibile Se si dovesse mai scrivere un elogio dell’antropologia, un capitolo centrale dovrebbe essere dedicato alla sua capacità di essere disciplina dei margini. Con questo si deve intendere la vocazione a cercare la specificità dell’esperienza umana non tanto nella fenomenologia dell’esistente che oggi chiameremmo mainstream – quella ovvero appariscente e spesso scontata – ma, invece, in quegli aspetti dell’esistenza per così dire «laterali», inusuali, apparentemente meno significativi eppure, una volta che abbiano passato il vaglio antropologico – per così dire –, capaci di rivelare aspetti e problemi della condizione che tutti ci accomuna e dunque tanto più rivelatori. Prendete un fine settimana dedicato ad un caro amico che ha scelto di sposarsi e, come spesso succede oggi, invece di farlo a cospetto di una comunità «locale» di riferimento che, come per molti trapiantati altrove, non esiste più, decide di radunare la vasta diaspora di amici e conoscenti in un piacevole sito ai margini della bella pianura friulana. E così

succede che l’Altropologo, consumato credente e praticante della «disciplina dei margini» comincia ad esplorare al di là ed oltre la fama del luogo in questione (una base aerea statunitense, residuato della Guerra Fredda; un importante centro di cura dei tumori) e scopre che Carlo Domenico Cristofori, nome secolare di chi diventerà Marco d’Aviano, nacque a Villotta d’Aviano il 17 novembre 1631 da una famiglia di buona condizione con legami di parentela con la piccola locale nobiltà. Con gli auspici di uno zio prete frequenterà il prestigioso Collegium Gesuita di Gorizia fra il 1643 ed il 1647. Allora come oggi Gorizia era città di frontiera, cerniera fra Oriente ed Occidente dove, nello specifico del tempo, le problematiche relative al rapporto con l’Impero Ottomano eccitavano la sensibilità delle giovani generazioni. Erano gli anni dell’interminabile assedio di Candia (1647-1649), contesa fra Ottomani e Veneziani per il possesso di Creta. Il martirio per la fede preoccupava forse più i giovani militanti

cristiani, orfani di un potere globale in grado di contrastare l’espansione dell’Islam nel quadro di una cristianità divisa e litigiosa, di quanto non facesse nei ranghi della controparte, solidamente inquadrati in un esercito istituzionale professionale. La caduta di Candia data al 5 settembre del 1669: il 21 novembre dello stesso anno Carlo Domenico Cristofori prese i voti nel convento dei Cappuccini di Capodistria col nome di Marco d’Aviano. Ottenuta la patente di predicatore nel 1664, nel 1676, in occasione di una sua predica a Padova, gli viene attribuita la guarigione di una monaca inferma da anni. Episodi simili gli vengono attribuiti a Venezia, e di lì la sua fama di taumaturgo passa le Alpi. Guarisce da una lunga malattia il duca Carlo V di Lorena, comandante in capo dell’esercito dell’Imperatore del Sacro Romano Impero, e così l’imperatore stesso Leopoldo I chiede di incontrarlo a Linz: era il 1680. Il resto, si direbbe oggi, è storia: fra il Frate e l’Imperatore nacque un rapporto simbiotico inscindibile.

Divenuto confessore e consigliere imperiale, Marco supplisce col suo carattere fermo e deciso alla timidezza e ai dubbi dell’imperatore Leopoldo il quale, ben presto, non potrà farne a meno. Negli anni 80 del ’600 i Turchi stavano facendo passi da gigante nel cuore dell’Europa: nel 1683 conquistavano Belgrado mettendo ancor più in allarme il Papa come unico in grado di coalizzare i principi cristiani per la salvezza dell’Occidente. O così recitava l’ortodossia del tempo. Papa Innocenzo XI allora ordina a Marco di adoperarsi per mettere in accordo i principi d’Europa per una nuova Santa Alleanza contro gli Ottomani: un ordine che molti storici hanno descritto come «missione impossibile». Fatto sta che le strenue manovre diplomatiche del frate di Aviano per dribblare le antipatie reciproche dei grandi d’Europa risultarono nella grande vittoria riportata dalla coalizione europea contro gli Ottomani all’assedio di Vienna nella battaglia del Monte Calvo, la collina sovrastante Vienna, dell’11 e 12 settembre 1683. La

sera prima Marco condusse la liturgia avendo al suo fianco Giovanni III di Polonia, comandante della coalizione, e Carlo di Lorena, il suo beneficiato. Famoso rimane il sermone che il frate pronunciò di fronte alle truppe riunite in un misto di italiano, tedesco e latino che infiammò i cuori. Ai festeggiamenti che seguirono, Marco fu la figura centrale. Fama chiama fama: attorno alla sua figura si moltiplicarono racconti di miracoli e prodigi. Vista la causa e la materia in questione, la beatificazione di Marco d’Aviano (morto nel 1699 assistito personalmente dall’Imperatore Leopoldo e dalla moglie e oggi sepolto nella Cripta Imperiale della Chiesa dei Cappuccini di Vienna) ha avuto percorso difficile e tortuoso. Ma forse non è un caso – antropologicamente parlando – che sia finalmente approdata a buon fine quando, il 27 aprile 2003, Giovanni Paolo II, il Papa polacco che (si dice) abbia dato altro sostanziale contributo contro gli infedeli – con buona pace del politically correct – lo proclamò Beato.

bra dell’aggressività. In un contesto così ambivalente possono insorgere atti di bullismo, favoriti dalla tempesta ormonale che caratterizza l’adolescenza. Atti destinati a rimanere nascosti finché un adulto non interviene a stabilire la verità e rendere giustizia ai perseguitati. Il bullo, che non ha caratteristiche particolari, cerca di proiettare fuori di sé un disagio interiore che non sa dominare. Acutissimo nell’individuare la vittima e nel cogliere i punti di vulnerabilità, la aggredisce sino a minare la sua autostima e a indurla a tacere per evitare lo scandalo e la vergogna. Per appagare la sua sete di dominio ha però bisogno di spettatori che lo approvino e lo ammirino. E, a questo scopo, le nuove tecnologie informatiche gli mettono a disposizione una platea tendenzialmente infinita. Il problema più difficile da affrontare non è tanto il bullo, che va individuato, rieducato e curato, quanto l’omertà che lo circonda. I ragazzi che non denunciano attacchi aggressivi nei confronti dei coetanei, sanno bene che si tratta di comportamenti immorali e illegali, ma

tacciono pensando: «meno male che è toccato a un altro/a e non a me». Quanto alla vittima, finisce spesso per convincersi di essere veramente inferiore e di meritare la pena che le viene inflitta. Per aiutarla occorre, come lei sta facendo, cogliere i segnali di disagio che indirettamente ci invia. Repentini cambiamenti di umore, disturbi organici quali cefalea, inappetenza, isolamento e dipendenza da Internet, devono metterci in sospetto. Poiché la maggior parte degli atti di bullismo accadono nella scuola, credo che la cosa migliore sia parlarne con gli insegnanti, ormai sensibilizzati su un problema divenuto epocale. Da sempre attenti alle comunicazioni verticali, che intercorrono tra cattedra e banchi, negli ultimi anni i docenti hanno esteso il loro controllo anche alle relazioni orizzontali, quelle che passano tra i banchi, meno evidenti ma più coinvolgenti per i ragazzi. Senza evocare il bullismo estremo che, come quello accaduto a Monaco di Baviera lo scorso luglio, giunge a gesti clamorosi di omicidio e suicidio, invito gli educatori a non sottovalutare gli

effetti negativi di una persecuzione, metodica e prolungata, sull’equilibrio e l’evoluzione dei bambini e dei ragazzi. Dobbiamo evitare, come spesso accade, che la vittima finisca per sottrarsi alla frustrazione rinunciando alla competizione, che si rifugi nel mondo virtuale, dove tutto è possibile, per non affrontare quello reale, molto più conflittuale. Ma è tra noi che Maria Grazia deve essere richiamata offrendole nuove frequentazioni, interessi e impegni validi e significativi, come lo sport, l’arte, la partecipazione a progetti sociali, il volontariato. Chi, durante l’adolescenza, ha superato ostacoli, ha sofferto e gioito, è caduto e si è rialzato, sarà una persona migliore rispetto a chi ha preferito sopravvivere piuttosto che vivere.

Con conseguenze paradossali. In un caso, s’interviene per salvare delle vite. Nell’altro, ci si esercita mettendo deliberatamente in pericolo la propria. Le cronache continuano a registrare questi strani incidenti di ragazzi che si cimentato balzando da tetti a terrazze, scavalcando muri e cancellate, volando da cornicioni per atterrare, schiantandosi su piazzali di cemento. Vittime alle quali spetta, poi, quella terribile sentenza: «Sono andati a cercarsela». Che non esprime cinismo, traduce piuttosto l’incapacità di capire imprese, prive apparentemente di qualsiasi scopo e giustificazione. Viene, quindi, spontaneo chiedersi cosa glielo fa fare a questi ragazzi. Si tocca, a questo punto, un fenomeno più ampio, che ci concerne tutti quanti. Stiamo assistendo, sconcertati, al successo di mode, costruite, non tanto sul

reale valore e l’utilità di un oggetto o di un’attività, quanto sulla loro rielaborazione promozionale e persino culturale, cioè grazie a un plusvalore fittizio. Proprio così un semplice percorso a piedi, addirittura una bravata rischiosa cambia connotati, diventa l’indizio di un nuovo stile di vita, di una filosofia. Basta consultare Internet per rendersi conto di quali e quanti significati siano attribuiti a Parkour. Le definizioni si sprecano: una scuola che insegna a non arrendersi mai di fronte a nessun problema, un esercizio che sviluppa la consapevolezza per l’ambiente, un canale che convoglia ribellioni, ma, in pari tempo, una disciplina di autodifesa, un addestramento di tipo militare. Infine, il PK è anche una sfida. Figurarsi se poteva mancare questa parola d’ordine, ormai un ingrediente multiuso. Se ne servono, a iosa, i politici,

sempre pronti a sfidare grandi problemi, per altro mai risolti. Ma la sfida figura, anche fra gli obiettivi dei privati cittadini che la lanciano a se stessi: per mettersi alla prova, come sono soliti dichiarare, spiegando le loro scelte. Si tratta, ecco il guaio, di imprese sportive e di viaggi che, spesso, superano le loro capacità fisiche e soprattutto la loro ragionevolezza. Le cronache ne registrano in continuazione le conseguenze tragiche. E dai risvolti, persino, grotteschi. Come nel caso dei gitanti che affrontano ghiacciai del Monte Rosa in maglietta e scarpe da ginnastica, finendo in un crepaccio o il turista tedesco che, sul Machu Picchu, si mette in posa, per farsi ritrarre, sull’orlo di un precipizio. Sono, questa volta, persone adulte, che, al pari dei ragazzi Parkour, si espongono a pericoli scontati, e inutili. È una sfida al nulla.

La stanza del dialogo di Silvia Vegetti Finzi Non sottovalutiamo il bullismo Cara Silvia, sono molto preoccupata per mia figlia Maria Grazia, di 15 anni. È una ragazzina brava a scuola, simpatica e allegra, o meglio lo era perché questa estate man mano che l’inizio delle lezioni si avvicinava diventava sempre più tesa e solitaria. Passa la maggior parte del tempo in camera sua digitando il cellulare o navigando in Internet. Cerco di interrogarla, di farla parlare, la prego di confidarsi con me, in fondo ha sempre avuto fiducia nella sua famiglia. L’unica cosa che mi ha detto è che nella scuola ci sono dei bulli che si divertono a prendere in giro le compagne. Tra queste non ci sarà anche lei? È molto carina ma un po’ in sovrappeso e si sa che, di questi tempi, può essere una caratteristica umiliante. Vorrei aiutarla ma non so cosa fare, potrebbe consigliarmi lei? Grazie. / Una mamma in pena Cara mamma, mi congratulo con lei per l’attenzione con cui segue sua figlia in un’età della vita particolarmente delicata e fragile. Intorno ai quindici anni s’introduce,

nei rapporti tra maschi e femmine, prima amichevoli e camerateschi, l’obiettivo della seduzione. Sedurre significa letteralmente «condurre a sé», conquistare il partner o la partner migliore. I ragazzi cominciano a guardare le coetanee con occhi diversi, a confrontarle e valutarle per decidere chi è la più bella. E le ragazze a vestirsi, pettinarsi e truccarsi per rendersi più amabili e attraenti. Questo incontro-scontro è vecchio come il mondo tanto che lo troviamo nel mito di Paride, che sta alle radici della nostra civiltà. Paride, il più bello dei mortali, viene incaricato da Zeus di scegliere chi sia la più bella fra tre dee in competizione tra di loro: Era, Atena e Afrodite. Paride sceglie quest’ultima che, per compensarlo, lo aiuterà a rapire Elena, la donna più bella del mondo, moglie di Menelao, re di Sparta. Un rapimento che sarà la causa scatenante della guerra di Troia. Come vede vi è già, agli albori della nostra storia, la consapevolezza che bellezza e competizione procedano insieme e che la luce dell’amore può essere oscurata dall’om-

Informazioni

Inviate le vostre domande o riflessioni a Silvia Vegetti Finzi, scrivendo a: La Stanza del dialogo, Azione, Via Pretorio 11, 6901 Lugano; oppure a lastanzadeldialogo@azione.ch

Mode e modi di Luciana Caglio Quando si sfida il nulla Al primo momento, avevo pensato a un abbaglio. Invece, era la visione di un fatto reale, che stava accadendo, a Lugano, un sabato mattina di fine estate. In bilico sul cornicione, sopra l’imbocco sud del tunnel di Besso, si muovevano, effettivamente, quattro persone, che, saltando da un punto all’altro della muraglia, sembravano impegnate in una gara di equilibrismo. Una scena da brivido. Loro, i protagonisti, lassù, a rischio di tonfo nel vuoto, e noi, spettatori, quaggiù, nelle nostre auto, ferme al semaforo, e in preda all’incredulità: ma quelli, che diavolo stanno facendo? La mia compagna di viaggio, per questione di età meglio aggiornata sulle mode del momento, non pare troppo sorpresa: «Si allenano nel Parkour, in gergo PK, un cosiddetto sport metropolitano, tipo skateboard, e che adesso si diffonde anche da noi. Nelle scuole, se ne vedono

già le conseguenze: caviglie slogate, polsi fratturati, ammaccature varie». Insomma, una moda in più, che viene ad aggiungersi all’armamentario degli svaghi giovanili, magari balordi ma innocui, a cui è giocoforza arrendersi. In realtà, del tutto innocuo questo Parkour non è. Sconfessando gli intenti del suo inventore: il francese David Belle, figlio di un pompiere, che, agli inizi dei 90, l’aveva proposto come un’attività sportiva da abbinare a un servizio di utilità pubblica. Voleva insegnare a muoversi correttamente nello spazio urbano, superando «il maggior numero e ogni genere di ostacoli». Ma, qui, il discorso diventa ambiguo. Perché non si tratta di ostacoli imprevedibili, da affrontare come capita appunto ai pompieri, bensì di ostacoli scelti di proposito, per esercitare «l’arte dello spostamento», o «Free Running».


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 26 settembre 2016 • N. 39

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Ambiente e Benessere Motociclette vintage Una vacanza originale per appassionati: in giro nel sud dell’India alla guida delle mitiche (ma fragili) Royal Enfield

Sfilata di supercar a Parigi Il Mondiale dell’Automobile di Parigi è uno dei saloni più prestigiosi e le grandi marche vi si presentano con i loro modelli di punta

Nordici in cucina Anche Norvegia, Finlandia, Svezia, Danimarca e Islanda possono vantare dei manicaretti

Un mondo in miniatura Ancora per poche settimane una bella mostra a Olivone ci presenta questi incredibili insetti

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Il Kuru si è diffuso nella regione degli altipiani occidentali della Nuova Guinea. (easternhighlands. com.pg)

La strana malattia che fa ridere

Fra scienza e rito La collaborazione di antropologi e medici ha permesso di scoprire gli effetti misteriosi

di un virus in grado di attivarsi a distanza di anni dal momento del contagio Roberta Nicolò Tra le popolazioni Foré, sugli altopiani della Nuova Guinea, in alcuni piccoli gruppi, ripartiti in circa 160 villaggi sparsi su un territorio di quasi 250 miglia quadrate, si diffuse negli anni 60 una nuova malattia che fu denominata Kuru, che in lingua indigena significa brivido. Si diceva che le vittime di questo nuovissimo morbo morissero letteralmente per il troppo ridere. I giornalisti dell’epoca la definirono, infatti, la malattia della risata. Questa malattia mortale faceva perdere progressivamente il controllo del sistema nervoso centrale, compresi i nervi dei muscoli facciali, che contorcevano il volto in smorfie simili ad un sorriso stampato. Il morbo uccideva nel giro di un anno o al massimo due dall’insorgere dei primi sintomi e colpiva in media una persona su cento. Alcuni di ricercatori, diretti dal medico Daniel Carleton Gajdusek, scoprirono che la maggior parte delle vittime erano donne e ragazze e solo in rarissimi casi giovani uomini. Una malattia insomma che colpiva solo il genere femminile e che sembrava non

seguire le normali vie di contagio fino ad allora conosciute, come quella aerea o la via sessuale. Infatti nessuno nei villaggi vicini aveva contratto la malattia e neppure gli occidentali che vivevano a stretto contatto con i Foré. Una delle prime ipotesi dei ricercatori fu che la malattia fosse genetica e venisse trasmessa per via ereditaria da una generazione all’altra. Tuttavia la genetica non riusciva a spiegare la preponderanza di vittime femminili. Gajdusek, che oltre ad essere un medico era anche un virologo, iniziò a formulare l’ipotesi che si potesse trattare di un virus latente. A partire dal 1963, lo scienziato iniziò a sperimentare la sua teoria inoculando degli estratti di cervello infetti in alcuni scimpanzé. Le scimmie contagiate, dopo un lungo periodo di incubazione, che poteva durare addirittura decine d’anni, sviluppavano i sintomi della malattia di Kuru. Con questo esperimento Gajdusesk dimostrò per la prima volta che l’uomo ha la capacità di ospitare dei virus latenti, studio che gli valse il Premio Nobel per la medicina nel 1976. A tal proposito Claude LéviStrauss scrive «Era la prima volta che

si constatava nell’uomo l’effetto di una malattia degenerativa causata da un virus lento; tuttavia alcune malattie degli animali, come la malattia del trotto della pecora e la malattia della mucca pazza che ha recentemente devastato la Gran Bretagna, le assomigliano molto». La scoperta dell’esistenza dei virus latenti non spiegava però le modalità di trasmissione del virus del Kuru tra i Foré. La malattia aveva avuto anche importanti conseguenze sociologiche come il calo della poligamia, l’aumento di uomini scapoli e di vedovi capifamiglia, una maggiore libertà delle donne nella scelta di un coniuge. Per analizzare questi mutamenti sociali e per trovare una spiegazione alla causa del diffondersi di questo malanno, gli antropologi Robert Glasse e Shirley Lindenbaum furono incaricati di continuare le ricerche per scoprire le cause del contagio dell’epidemia. Si cercò invano sul versante dell’alimentazione e dell’insalubrità delle capanne dove vivevano le donne e i bambini, separatamente dai loro mariti o padri, i quali abitavano tutti insieme in una casa collettiva. Ma proprio per la

particolare diffusione del virus queste piste risultarono lontane dal poter offrire una spiegazione sostenibile. Alcuni anni prima che la pandemia Kuru comparisse nel villaggio dei Foré, era iniziata una nuova pratica del culto dei morti. Le donne imparentate con il defunto, incaricate di occuparsi della preparazione della salma per i riti funebri, si cibavano del cervello e di altre parti del morto, che venivano cucinate e distribuite. Un rito cannibale che non è nuovo tra le popolazioni indigene. Cibarsi di una parte del defunto può assumere significati diversi, come la trasmissione di virtù dal morto ai vivi o l’esorcizzazione dello suo spirito. Essendo solo le donne a praticare il rito cannibale, erano principalmente loro a venire infettate dal virus latente presente nei cadaveri. Restava da comprendere come mai alcuni giovani maschi della tribù si fossero infettati a loro volta. Come spesso accade, prima della pubertà, la distinzione tra i ruoli non è così nettamente delineata, può capitare dunque che un giovane maschio spartisse del cibo destinato alle donne. Di conseguenza alcuni anni dopo un uomo poteva morire di Kuru

insieme ad un gran numero di donne. Nessuno degli antropologi che hanno svolto la ricerca ha mai effettivamente assistito al rito cannibale, e si potrebbe quindi pensare che il contagio potesse essere avvenuto anche solo per contatto diretto con il cadavere. Ma le stesse donne Foré hanno raccontato di essere state coinvolte in attività cannibalesche durante i riti funerari, e la loro testimonianza avvalla l’ipotesi che sia stato proprio questo particolare comportamento culturale la fonte del diffondersi del virus presso questa popolazione. A comprova di questa ipotesi, va detto che oggi il cannibalismo rituale non è più parte del corredo funerario dei Foré e il Kuru è ormai quasi completamente debellato. Antropologia e medicina a braccetto per far luce su una malattia misteriosa. Il caso del Kuru ha gettato le basi per comprendere malattie diffuse anche alle nostre latitudini, come la malattia di Creutzfeldt-Jacob o il morbo della mucca pazza, entrambe causate, così come nel caso del Kuru, da un agente infettivo detto prione, di cui oggi si sa molto di più di quanto non si sapesse nella metà del secolo scorso.


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Ambiente e Benessere

Rotta per l’India

Viaggiatori d’Occidente Un elegante viaggio su moto d’epoca inizia con meccanici e riparazioni

Guido Bosticco Quando senti la frase «Forse è la pompa della benzina» e sei in moto nel Kerala, puoi cominciare a preoccuparti; o a divertirti, perché in India il confine è labile. Ma andiamo con ordine. Affittare una moto indiana in India è già un azzardo. Il fascino delle vecchie Royal Enfield è innegabile: un tempo importate e usate dall’esercito inglese, oggi sono prodotte a Chennai esattamente come allora, interamente a mano e nemmeno un pezzo in plastica, con pregi e difetti di un mezzo degli anni Trenta. Non una bomba, certo, però almeno facili da riparare, pensi; purtroppo la manutenzione non è il punto forte di chi le affitta.

Le Royal Enfield sono un’eredità coloniale oggi ancora prodotte rispettando tecnologie d’epoca: qui il problema Partiamo. Da Trivandrum (estremo Sud) a Goa sono millecinquecento chilometri, ma dopo i primi duecento il motore non dà più segni di vita, naturalmente nel paesino più sperduto. Subito si avvicinano in due, con le domande di prassi: «C’è benzina?»; «Hai messo quella giusta?» (domanda non stravagante in India, poiché esistono le moto diesel); «La batteria?» e via dicendo. Poi qualcuno prova a riavviarla col pedale. Niente. Per fortuna laggiù a bordo strada c’è un meccanico. «Eureka!», pensi (la prima volta). I meccanici indiani si dividono in due categorie: quelli che sanno e possono mettere le mani su una Royal Enfield e quelli che non possono. Sono caste. Lui ci prova, mentre un gruppo di ragazzi con il pallone si avvicina: «Da dove venite?»; «Da quanto siete in India?»; «Facciamo un selfie?». Arriva anche un gentile signore baffuto, l’unico che parla inglese, e si offre di tradurre il verdetto: il meccanico non sa dove mettere le mani, ma a dieci chilometri c’è uno che sa e può. Carichiamo la moto a braccia su un Ape Piaggio e la portiamo dal nuovo meccanico, detto «Johnson Enfield», a Cochin. È ormai buio. Johnson e il suo giovane collaboratore, che ausculta il motore come un sensitivo, ci mettono un secondo a sentenziare: «Forse è la pompa della benzina». E bisogna farla arrivare dalla casa madre. È il momento di chiamare Vicky, il proprietario della moto, a Chennai. Dice di provare a ripararla l’indomani ma di non comprare il pezzo nuovo, perché costa troppo. La mattina presto da Johnson il monocilindro Enfield torna a rombare. In qualche modo è fatta. Subito in sella verso le colline di Munnar e Kannan Devan. Al pomeriggio una prima so-

Seconda sosta forzata per la moto, questa volta a Valakom. (Sara Pellicoro)

sta. E la moto non riparte. Fermiamo un motociclista, che chiama un amico meccanico. Un’altra visita. La moto parte, non parte, va a singhiozzo. È davvero la pompa. Lo dicono anche i tre vecchietti che nel frattempo sono venuti a dare il loro parere in lingua malayalam. Di nuovo Vicky da Chennai dice sicuro al telefono: «Lasciala lì e vai con il pullman a Munnar; domattina ti recapito una moto sostitutiva, la spedisco subito in treno con i miei meccanici». In mezzora siamo sul bus di linea per Munnar, quattro ore di tornanti. I bus di linea in India sono in cima alla catena alimentare, per mole e aggressività: mangiano i camion, che mangiano le auto, che mangiano le moto, che mangiano le bici. Pedoni e scimmie non sono contemplati e le vacche sono esterne all’ecosistema. Sveglia col diluvio e a mezzogiorno arrivano Dinesh e Laxmipathy, i due meccanici. La nuova moto è verde, più vecchia della prima, ed è a carburatore, significa che non ha la pompa della benzina: meglio. Si parte grintosi lungo gli spettacolari terrazzamenti del tè, dove i bimbi tornano da scuola in divisa, fra cascine, chiese, templi indù e bandiere con falce e martello. Chissà se i due hanno raggiunto e riparato la prima moto. Lo scopriremo presto, perché al secondo giorno anche la nuova moto si ferma, dopo aver lasciato il tempio di Sri Shangameshwara a Bhavani, sotto gli auspici di Hanuman, il dio scimmia; proprio davanti a una scuola da cui escono tre

Davanti al tempio di Sante Bennur. (Sara Pellicoro)

Il cruscotto della Royal Enfield è essenziale. (Sara Pellicoro)

I due meccanici recapitano la moto sostitutiva sotto il diluvio a Munnar. (Sara Pellicoro)

A Sathyamangalam ritorna la prima moto. (Sara Pellicoro)

Un gruppo di scimmie incuriosite dalla Royal Enfield lungo la strada che attraversa il Sathyamangalam Wildlife Sancturay. (Sara Pellicoro)

professori (tutti sulla stessa moto) e un gruppo di studenti. È subito crocchio. Gli studenti maneggiano il motore, i professori abbozzano teorie, un paio di osservatori tacciono. C’è perfino una donna. Arriva un meccanico, che però rinuncia, e poi altri due. Tutti concordano: carichiamola sull’Ape Piaggio e portiamola da Balù, guru delle Royal Enfield. In un silenzio irreale, fra pezzi di moto d’epoca e le cipolle che vende la moglie, Balù si muove cerimonioso. Cambia qualche contatto, sistema due fili e la moto riparte. Serafici, si va di nuovo per templi a Bannari, cercando la benedizione anche della dea Amman. Ma a nulla serve: la sera, fuori da Sathyamangalam, i fari si affievoliscono e il motore tossisce. Accendi, spegni, ma si sente un forte odore di bruciato. Una bottiglia d’acqua seda l’incendio dietro la fanaleria e una mano dal buio strappa con fare sicuro il filo rosso più grosso. È Duraisamy, venuto a prendere il figlio Vignesh all’uscita di scuola. Lui chiama un amico meccanico, il figlio un taxi e un hotel. I cavi sono vecchi e spelati, è sabato sera, non se ne parla fino a lunedì. Altra sconsolata telefonata a Vicky, ma arriva il colpo di scena indiano: «Dove siete? Perfetto! I meccanici con la prima moto riparata si trovano solo a cinquanta chilometri da voi. Domattina ve la recapitano e ripartite». Click! Nelle tre settimane successive nemmeno un guasto. La risalita fino a Goa liscia come l’olio. Che noia, nulla da dichiarare.


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Ambiente e Benessere

A Parigi si svela l’Opel ecologica

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Motori Il salone francese vedrà molte novità

tra cui la nuova elettrica Ampera

in seguito a carenza di biotina.

Dal primo al sedici di ottobre gli appassionati di quattroruote si danno appuntamento a Parigi in occasione del «Mondial de l’automobile» (www.mondial-automobile.com). La prima edizione, fondata dal pioniere automobilistico Albert de Dion, ha data 1898. È la più antica del mondo: la manifestazione si è chiamata «Salon de l’Automobile» fino al 1986 mentre l’attuale denominazione, «Mondial de l’Automobile», è del 1988. L’esposizione francese si tiene ogni due anni in alternanza con quella tedesca di Francoforte. Tantissime le novità di prodotto attese. Dalle supercar, come Ferrari 458 Speciale A e Lamborghini Asterion, sino alla compatta Opel Karl Roks passando per la grande Land Rover Discovery. Una cosa è già certa: al Parco delle esposizioni di Parigi i riflettori saranno puntati sulle auto ecologiche. Dalla Porsche Panamera 4 E-Hybrid alla Lexus UX. Dalla aggiornata BMW I3 alla nuova Toyota Prius Plug-in.

Campionessa di autonomia nella sua classe, la batteria ha un’autonomia di 400 km e raggiunge i 150 all’ora Opel questa volta ha bruciato i concorrenti in partenza, prima ancora del salone, fornendo informazioni molto complete sulla nuova Ampera-e a cui verranno tolti i veli nella capitale francese. Sembra che Ampera-e sia destinata a rivoluzionare il settore delle auto elettriche. Ampera-e alza infatti l’asticella dell’autonomia. Diventa la migliore della sua classe grazie agli oltre 400 chilometri che si possono percorrere con un pieno di elettricità. Circa il 25% di autonomia in più.

Tutti sappiamo che uno dei problemi più grossi legati alla diffusione delle auto elettriche è proprio quello legato alla ridotta autonomia ed Ampera-e fa meglio ad esempio di BMW i3, Nissan Leaf, Renault Zoe e Volkswagen e-Golf. Ma che dimensioni ha la nuova Opel ecologica? Ampera-e è lunga 4,17 metri, ospita comodamente cinque passeggeri a bordo e garantisce una capacità del bagagliaio di 381 litri, sfruttando l’integrazione intelligente dei dieci moduli della batteria, il cui pacco è interamente collocato nella parte inferiore del telaio con forma che segue il profilo del veicolo. La batteria, formata da 288 celle agli ioni di litio e con capacità pari a 60 kWh, è stata sviluppata in collaborazione con la coreana LG Chem. E le prestazioni? Ampera-e sembra quasi un automobile sportiva. La spinta del motore elettrico da 204 cavalli e 360 Newtonmetro di coppia consente infatti all’elettrica di accelerare da 0 a 50 orari in soli 3,2 secondi e una ripresa da 80 a 120 km/h ai medi regimi di appena 4,5 secondi. La velocità massima è limitata elettronicamente a 150 chilometri orari. Non si conoscono ancora i tempi di ricarica delle batterie di Ampera-e ma si sa che sarà possibile ricaricarle anche in movimento grazie alla modalità «drive» che consente di recuperare energia dal motore durante le frenate. L’elettrica Opel sarà commercializzata nei principali mercati europei dalla primavera del prossimo anno. Attenzione però perché il responsabile del reparto sviluppo elettrico di Volkswagen, Volkmar Tanneberger, ha anticipato che il Gruppo tedesco incrementerà del 48 per cento a 35,8 kWh la capacità della batteria che equipaggia l’elettrica e-Golf. La versione aggiornata della vettura sarà commercializzata entro la fine dell’anno e l’autonomia complessiva raggiungerà i 300 km. L’inseguimento di Ampera-e è iniziato.

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Ambiente e Benessere

Carlomagno lo preferiva bianco

Il vino nella storia Il Re dei Franchi dimostrò durante tutta la vita un grande interesse per la viticultura

Davide Comoli Amministratore e conquistatore, Carlomagno (747-748 – 814) fu il motore di uno dei molti rinnovamenti che punteggiarono il Medioevo. La sua incoronazione ad Imperatore, avvenuta la mattina di Natale dell’anno 800 a Roma per opera del papa Leone III, fa di lui non solo il restauratore dell’Impero Romano d’Occidente, ma getta le basi per la fondazione dell’Europa. Grazie a Eginardo (770-840), il primo biografo medievale che non scrive di vite di santi, oggi noi possiamo entrare nella vita privata di colui che aveva a cuore di risollevare in Europa occidentale l’impero, divenendo l’uomo forte di un mondo che s’avvicinava a grandi passi all’anno 1000. Molto alto di statura (1,92 m) con una salute di ferro, Carlomagno amava gli esercizi violenti, l’equitazione, la caccia (che è un allenamento alla guerra). Eccelleva nel nuoto, aveva un grande appetito e amava soprattutto i grandi spiedi arrostiti. Ebbe 4 legittime mogli e ufficialmente sette concubine; dalle unioni legittime ebbe tre maschi e cinque femmine e almeno tre maschi e tre femmine nati dalle concubine. È forse per farsi perdonare questi peccatucci che sotto il regno di Re Carlo, furono costruiti 232 monasteri con tanto di vigna per la produzione del vino per la celebrazione della S.S. Messa e 7 cattedrali. Eginardo nella sua biografia, ci dice che Carlomagno studiò molto, visto che l’istruzione gli era stata negata dal padre (Pipino il Breve),

apprese il latino, sapeva leggere, ma non scrivere, studiava di notte e s’esercitava a tracciare le lettere dell’alfabeto, ma Eginardo ci dice «si è impegnato troppo tardi, con risultati mediocri». Forse per questo Carlomagno decise di far rinascere la scuola, ma l’istruzione all’inizio concerneva solo futuri chierici e monaci. Nella Vita di Carlomagno scritta a metà dell’820, Eginardo ci racconta come l’Imperatore amasse circondarsi di sapienti provenienti dall’Italia, dalla Spagna e dalla Britannia, la sua corte divenne una sorta di «Accademia Palatina». Tra questi c’era quello che (secondo Eginardo) era «l’uomo più sapiente della sua epoca», Alcuino di York (730), astronomo, retorico, letterato, fu per Carlo non solo un maestro, ma una sorta di ministro della Cultura, molto ascoltato. Grazie alla collaborazione con questi uomini, il Re farà tutto ciò che era in suo potere per stimolare la forza delle attività produttive, ispirato all’ideale dell’ordine e dell’armonia che non cessa di promuovere. Un esempio di tutto questo ci è dato dal famoso capitolare De villis vel curtis imperii edito alla fine del VIII sec. (l’unico manoscritto è conservato nel monastero di Reichenau, un’isola sul lago di Costanza). In esso si parla di fisco, gestione delle proprietà, del miglioramento dei terreni e dell’organizzazione dei lavori agricoli, ed è questo punto che a noi interessa, perché detta alcune regole inerenti alla viticoltura. Il fondatore della dinastia Carolingia è infatti un formidabile promotore della viticoltura francese ed europea. Per dare buon

esempio, egli non esita a consumare quotidianamente del vino, esige dai suoi reggenti l’applicazione di tecniche e metodi innovativi (come l’uso dei torchi), sia nella vigna che in cantina, per avere una viticoltura di qualità. L’evocare il nome di Carlomagno, sconvolge le nostre papille gustative e il nostro pensiero vola in direzione di Corton (Côte de Beaune), terra di un celebre crú bianco (Chardonnay). Qui, si dice, l’Imperatore fece impiantare dell’uva bianca per poter produrre un vino chiaro, al fine di evitare di macchiare la sua imperiale barba prima della comunione. Anche se divertente, questo aneddoto è però privo di prove certe. In realtà la produzione di vini bianchi ha origini politiche. Molto apprezzati sia dagli Inglesi che dai Germanici, i vini bianchi di Borgogna, giocano un ruolo importante per la diplomazia Imperiale, permettendo di siglare dei contratti commerciali con le monarchie vicine. Il vitigno più coltivato sulle colline di Corton era il Fromentau, l’antenato del Pinot Grigio. Come sempre dopo le guerre arriva il momento di fare affari, e Carlomagno nel 775 regala le sue vigne di Corton all’abate di Saulieu, pur continuando a mostrare un grande interesse per i suoi vigneti di Toul in prossimità del palazzo che si era fatto costruire a Aix-la-Chapelle, così pure per le vigne e i vini prodotti in Alsazia a Kintzhaim e quelli della regione del Rheingau in Germania. Se il secolo di Carlomagno è quello delle invasioni barbariche è però anche

Fu incoronato imperatore del Sacro Romano Impero nell’800.

quello che chiameremo dell’«hand-made wine»: l’obiettivo non è più quello di spingere le vendite, ma rispondere alle aspettative dei mercati con nuovi metodi di produzione. In questo contesto i cellieri delle abbazie portano a conoscenza le nozioni inerenti al clima e ai terroir. Di conseguenza il successo commerciale è immediato e i vini prodotti sono molto ricercati. Per quanto riguarda i gusti dell’Imperatore in fatto di vino, ciascuna regione poteva vantarsi d’aver avuto una sua preferenza. La spiegazione era semplice: in effetti Carlomagno passava la vita a visitare le sue 300 contee! Quando nel 769 fece costruire una fortezza a Fronsac (Bordeaux) per proteggersi dai Saraceni e dai Vichinghi, nel suo accampamento giravano già dei flaconi contenenti il vermiglio vino di quei luoghi. La stessa cosa succede quando rende visita al fedele ministro Alcoino,

abate di Sant-Martin-de-Tours, dove l’Imperatore beve i vini della Turaine e di Saumur. Poco prima di morire Carlomagno detta al fedele Eginardo alcune direttive in fatto di vini: «Che i nostri intendenti si prendano a carico le vigne che devono essere curate, il vino dovrà essere posto in botti sane e pulite, affinché possano invecchiare senza difetti. Se per caso dovessero acquistare vini fuori dai nostri territori per l’approvvigionamento delle cantine reali, e alle nostre orecchie giungesse che sia stato comprato del vino in quantità superiore al bisogno, faremo loro sapere cosa ne pensiamo in modo esplicito. Essi devono farsi inviare per i nostri bisogni solo i prodotti dei ceppi delle nostre vigne. Devono pure inviare ai nostri cantinieri il censimento delle vigne e del vino prodotto nei nostri possedimenti». Questo documento fu scritto più di 1200 anni fa. Annuncio pubblicitario

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Ambiente e Benessere

Il paese dello smørrebrød Gastronomia Non ci sono solo salmone e aringhe nella cucina delle terre nordiche

Allan Bay Per parlare della cucina scandinava, bisogna definirla: riguarda in ordine alfabetico, Danimarca, Finlandia, Islanda, Norvegia e Svezia. Sarebbe più corretto chiamarla cucina dei Paesi Nordici, ma va bene anche scandinava.

Il buffet freddo è il tipo di pasto più apprezzato, con tavolate imbandite di carni, pesci, verdure, pani imburrati e salse di ogni genere Il loro cavallo di battaglia è il buffet, freddo ma non solo, che, con qualche variante nel nome (smørrebrød in Danimarca, dove sembra sia nato, smorbord in Norvegia ecc.), è diffuso in tutta l’area. È una contrazione di «burro e pane» «smor og brod», quindi di pasto. È un sontuoso «piatto unico» di fette di pane assortite e variopinte, preparate aggiungendo al pane imburrato formaggio, carne arrosto, paté di fegato, anguilla affumicata, aringa, salmone, caviale, filetti di trota, gamberetti, pollame freddo ecc.; ogni tartina è impreziosita da verdure (fette di pomodoro, anelli di cipolla, foglie d’insalata, capperi sott’olio, ravanelli), o da salse. Ci si siede attorno a un grande tavolo e poi è un continuo via vai di piatti contenenti le singole preparazioni, ognuno ne prende una o più o nessuna se quella non piace e poi la passa al vicino. A volte ci sono piatti colmi delle sole guarnizioni, senza pane quindi. Pesce (merluzzo, salmone, aringhe), stufati di maiale, montone o manzo ma anche alce o renna e frutta di bosco sono onnipresenti. È soprattutto la Finlandia, ovviamente, a preferire la carne di renna, usata come base per uno spezzatino con manzo,

aringhe salate, aglio e cipolle. Altri stufati diffusi sono per esempio quelli di cavolo con montone o maiale, tipici in particolare della Norvegia. La carne viene gradita anche sotto forma di polpettine, come nelle frikadellen danesi o nelle köttbullar svedesi, la cui variante a base di pesce prende il nome di fiskbullar. Il salmone è amatissimo; in Svezia si prepara marinato con aneto, sale, pepe e zucchero, oppure in gelatina. Una specialità norvegese, per altro diffusa un po’ in tutta la penisola scandinava, sono i rollmops, i rotolini di aringhe salate. Queste vengono dapprima marinate nel latte, quindi servite con cipolle, senape e salse varie. Alla categoria delle zuppe appartengono la nesselsoppa, minestra svedese di ortiche fresche, l’ärtsoppa, una preparazione sempre svedese con piselli secchi, e l’ølerbrød, una zuppa danese di pane di segale e birra. La Norvegia propone invece l’insolita rømmergrøt, una vellutata di panna acida, latte, burro, cannella e succo di ribes. I frutti di bosco entrano nella preparazione di varie ricette: trasformati in salsa, accompagnano le polpette di carne; interi, decorano torte. Sono anche i principali ingredienti di un delicato pudding danese, il rødgrød, preparato mescolando frutta e farina gialla; il dolce, cotto in forno, viene servito con panna. Ottima e variegata la pasticceria, soprattutto in Danimarca. Fra i dolci proposti, l’Æblekage (un dolce con panna e mele) e il fløderand, un dolce a forma d’anello, ripieno di frutta cotta. Ottimo anche il finlandese pannukakku, a base di latticello, farina, lievito, zucchero: si serve con marmellata di lamponi o mirtilli, oppure con frutti di bosco freschi e panna montata. L’Islanda condivide molto con i confratelli. Ovviamente prevale il pesce, fra le carni domina l’agnello. Il piatto tipico della domenica è il sunnudags-lambasteik, coscia d’agnello cotta in forno e servita con il fondo di cottura arricchito con panna.

CSF (come si fa)

Il fondo bruno è un «aiutacuoco» formidabile. Lo so, richiede tanto tempo per essere preparato, da una decina di ore a 4 giorni. Per questo motivo vi racconto come fare qualcosa di molto simile nell’aspetto e nel sapore al fondo bruno classico. Si prepara con la pentola a pressione. Le caratteristiche fisiche di questa pentola in genere per-

mettono di ridurre di un terzo i normali tempi di cottura, in questo caso però si riducono molto di più: bastano solo poco più di 30’ per avere una salsa densa e color caramello da usare proprio come un fondo. Beh quasi, quello fatto in 4 giorni è un’altra cosa… Ecco come si fanno circa 4 dl di fondo. Legate assieme 6 gambi di prezzemolo con 1 rametto di timo e 1 foglia di alloro in modo da ottenere un mazzetto guarnito. Mondate e tritate grossolanamente 2 carote e 1 gambo di sedano. Mettete in una pentola 250 g di polpa di manzo e 250 g di garretto di vitello, trinciati grossolanamente. Aggiungete 100 g di cotenne ben raschiate, sbollentate e tagliate a listarelle 80 g di ossa di bue con midollo tagliate a rondellone. Rosolate il tutto con lardo per 10’. Unite le carote, il

sedano, 1 spicchio di aglio e 1 cipolla picchiettata con 2 chiodi di garofano e proseguite a rosolare per alcuni minuti. Sfumate con 1 bicchiere di vino rosso sobbollito per 3’ e deglassate le crosticine che si sono formate sul fondo con una spatola. Unite il mazzetto aromatico, 1 pizzico di sale e qualche grano di pepe. Bagnate con 7,5 dl di brodo bollente e chiudete con il coperchio. Al sibilo riducete la fiamma al minimo, cuocete per 20’ poi spegnete. Sollevate la valvola per far uscire il vapore e in breve non ne uscirà più alcun getto. Aprite la pentola e filtrate: avrete circa 4 dl di fondo. Potete usarlo così, come un brodo super ricco, oppure farlo ridurre a fuoco dolce fino alla consistenza desiderata, unendo 1 bicchiere di vino dolce. Chiamatelo «fondo bruno sprint».

Ballando coi gusti Oggi due insalate di mare: sono veramente i piatti più semplici che vi ho dato in questi anni. Potete anche utilizzare gamberetti e moscardini decongelati. Insalata di gamberetti

Insalata di moscardini e olive

Ingredienti per 4 persone: code di gamberetti g 600 · insalata belga g 200 · coste di sedano bianco g 200 · aglio · limoni · olio di oliva · sale e pepe.

Ingredienti per 4 persone: moscardini piccoli g 600 · olive nere denocciolate g 80 · 2 foglie di alloro · prezzemolo · aglio · limone · olio di oliva · sale e pepe.

Sciacquate le code di gamberetti in acqua corrente, scolatele e tamponatele con carta assorbente da cucina. Poi saltatele in una padella con 1 filo di olio e 1 spicchio di aglio per 1 minuto, levatele e fatela intiepidire. Mondate l’insalata belga e tagliatela a strisce. Mondate il sedano e tagliatelo a fette, sbollentatele per 30 secondi. Mescolate in una ciotola i gamberetti con le verdure e condite con un’emulsione di sale, tanto pepe, succo di limone e olio.

Portate a bollore una pentola di acqua salata con 2 foglie di alloro. Versate i moscardini e cuoceteli per 10 minuti, quindi scolateli. Poi saltateli in una padella con 1 filo di olio e 1 spicchio di aglio per 1 minuto, levateli e fateli intiepidire. Metteteli in una ciotola e unite le olive e il prezzemolo finemente tritato. Condite con un’emulsione di sale, tanto pepe, succo di limone e olio.


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Ambiente e Benessere

Sulle tracce delle formiche

Mondoanimale Un viaggio all’interno di un formicaio per scoprire l’affascinante mondo

di questi insetti dalla grande socialità Maria Grazia Buletti All’albergo San Martino di Olivone rimane ancora qualche giorno per visitare un’interessante presentazione dedicata alle formiche e alla loro proverbiale operosità. Promossa dal Centro Pro Natura Lucomagno e sostenuta dal Parc Adula e dall’Organizzazione Regionale Bellinzonese e Alto Ticino, la mostra «Formiche: l’unione fa la forza» ha preso avvio a fine maggio e chiuderà i battenti il 2 ottobre. «Lo sapevate che in un grande formicaio di formiche dei boschi possono vivere mezzo milione di formiche? Che in Svizzera non ci sono solo la formica rossa e quella nera, ma circa 140 specie differenti? E che il peso totale delle formiche è maggiore di quello di tutti gli esseri umani sulla Terra?», queste sono solo alcune delle curiosità, suggerite dalla responsabile comunicazione e progetti del sodalizio promotore Martina Spinelli, che la mostra permetterà di scoprire ai visitatori, anche in modo interattivo, attraverso una serie di attività promosse lungo l’arco delle settimane di apertura. «Da soli o in compagnia della vostra classe scolastica – prosegue Spinelli – vale la pena di visitare la mostra, partecipare alle attività e scoprire come, non solo nelle formiche, l’unione fa la forza!». Dal canto suo, il biologo Christian Bernasconi, responsabile del Centro Pro Natura e studioso di formiche, ne sottolinea il fascino: «Studio le formiche da diversi anni e la loro vita mi affascina a tal punto che esse continuano ad essere l’oggetto delle mie ricerche e del mio lavoro. In questi anni di studi e letture, ho imparato soprattutto che la tenacia e la collaborazione sono per chiunque, proprio come per le formiche, elementi chiave per raggiungere gli obiettivi personali che ognuno di noi si prefigge». Un mondo, quello di questi

è data dalla consapevolezza che le formiche fanno parte, insieme alle api, dei gruppi dei più noti insetti sociali, la cui vita implica ruoli e suddivisione del lavoro molto precisi: in questo microcosmo matriarcale ogni individuo ha il proprio posto e un compito individuale in funzione del benessere della collettività». I promotori di questo viaggio nel mondo delle formiche invitano inoltre tutti a mettersi sulle tracce delle formiche dei boschi: «Andate voi stessi alla scoperta di questi fantastici e intriganti insetti, seguendo un percorso pedestre facile ma ricco di sorprese naturalistiche, in un ambiente alpino stupendo». Si tratta di partire dal Centro Pro Natura Lucomagno di Acquacalda e incamminarsi in direzione dell’Alpe Pozzetta: «Nel prato a monte del Centro s’incontrano subito numerosi formicai simili a Operaie quelli delle formiche rosse dei boschi, formiche dei che tuttavia appartengono al sottogeboschi. (Christian nere Coptoformica…». La gita segue Bernasconi) sentieri segnalati ed è adatta a tutti: «Richiede circa un paio d’ore, ma può insetti famosi per la loro proverbiale chiudere i battenti). Per nulla banali sterili, cercano il cibo, costruiscono e essere allungata rientrando al Centro operosità, che possiamo osservare e dal come potremmo pensare, delle for- difendono il nido, e nutrono i giovani, da Casaccia o su altri sentieri». quale trarre parecchi insegnamenti da miche sono state descritte ben 14’067 occupandosi praticamente di tutto». E Christian Bernasconi e i suoi coltraslare nel nostro quotidiano. specie. «Il loro numero è destinato a arriviamo ai maschi: «La loro vita non leghi restano a disposizione per ogni «Piccole, comuni e apparente- crescere: nel 1990 erano 9000 e da allo- supera le tre – quattro settimane e il ragguaglio e ricordano che per quest’emente simili fra loro, le formiche non ra, grazie all’ispezione di nuovi habitat loro compito consiste unicamente nel scursione alla scoperta delle formiche solo sono cosmopolite e adattate a ogni e alle analisi sempre più minuziose, fecondare le regine durante il volo nu- del bosco è adatto il periodo settemtipo di ambiente del globo, ma danno ne viene scoperta in media una nuova ziale». Bernasconi passa inoltre in ras- brino. Inoltre, si possono organizzare prova di una sorprendente maestria ogni tre giorni», afferma il nostro inter- segna le «formiche nomadi», le «colti- visite guidate o attività didattiche per nell’esercizio dei più disparati mestieri locutore che ci ricorda come in EuropaGiochi vatrici funghi», i cosiddetti «serbatoi gruppi o scuole. per di “Azione” come l’agricoltura, la tessitura e la cac- vivano circa 430 specie di cui quasi 140 viventi» (specie in cui2016 alcune operaie Sulle tracce delle formiche si poStefania Sargentini - Settembre cia organizzata», sempre parlando di in Svizzera e una novantina nel nostro immagazzinano nel loro stomaco una tranno scoprire ancora molte cose, ol- SETTEMBRE 2016 fa la forformiche è questo, in sintesi, lo «sguar- cantone («anche se recenti studi indica- grande quantità di SUDOKU cibo liquido PER che le AZIONE fa tre alla conferma che «l’unione ... governato a lungo do sull’arte biodiversa di arrangiarsi in(N. 33 no-che potrebberopiù essere moltedi ditutti) più»). sembrare come delle damigiane: riser- za». Ma l’insegnamento più grande che ogni situazione» espresso da Christian La loro vita sociale è alquanto ve che servono per sfamare la colonia questi insetti sapranno trasmetterci ri3 4 6 FACILE Bernasconi. Fra la marea di informa-1 2complessa e 5ottimamente organizzadiNcarestia), eSchema ancora: le «tes- guarda il fatto che,Soluzione fra loro, la divisione G OinVtempo EN.R33 O zioni sulle formiche, ne abbiamo scelte7 ta: «Tutte 8 conducono vita sociale e si sitrici di seta», le «schiaviste», fino del lavoro e la 6collaborazione fatA T I E O S1 9 alle 5 8 3 1 7 4sono 2 i9 10 alcune delle più interessanti e sorpren-9 spartiscono in genere il lavoro secondoI O«climatizzatrici» e via dicendo. tori determinanti e indispensabili per 4 P A T E6 5 4 2 3 8 6 9 1 5 7 denti, in un gioco di apprendimento ruoli Ce n’è di che restare sempre più far funzionare la società».Concetto sul 11 precisi: la regina, femmina feconO V9 I L 7 T 2 A 8 an9 1 l’essere 7 2 umano 5 4 si6dovrebbe 3 8 che invoglia sempre più a recarsi a visi- 12da, depone la contiaffascinati da queste rivelazioni, quale anche , , le uova e13 assicura 14 15 16 C A U4laTsensazione E M preponderante I D A 6 tare la mostra (che, come detto, sta per17 nuità della colonia; le operaie, femmine che se ci talvolta interrogare. 1 1 4 8 5 2 3 9 7 6 18 19 21

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17. Porzione di torta 19.- Se nutre può accecare (N. 35 Unsicucchiaino di aceto) 21. Fanno parte della cooperativa 1 2 3 4 5 6 23. Le iniziali dell’attore Abatantuono F 7 25. Preposizione E 8 9 26. L’attore Gibson C 10 11 le carte da gioco 27. Nota tra O 28. Miracolo economico 12 13 14 15 L 29.16Vezzo infantile

(N. 37 - ... utilizzate come moneta di scambio) 1

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R U T F A T M O VERTICALI 1. La memoria del PC M I profitto S E R 2. Vantaggio, 3. Per a Londra 4. Balena inL testa E A (N. 36 - Vizio rinato, vizio peggiorato) 5. Articolo 6. Un giardino custodito F E olioT T A 7. Contenevano 9. Carne inglese 10. Possono essere pieni di gelato S 12. Si anima girando... 13. Antico popolo iranico 16. Caffè pregiato T 18. Lo sono Betelgeuse e Aldebaràn 20. Famoso quello di Pericle ad Atene R 22. Misure di tempo 24. L’anima del poeta 26. Pronome personale francese I 28. Un Carlo scrittore 17

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N. 34 MEDIO Cruciverba Sudoku Livello facile Schema ORIZZONTALI A L 3 L A R M N. E 637 FACILE 7 5 1 3 2 4 9 5 Il Quetzal è la moneta del Guatemala, prende 1. Nome di donna M O I R A V 3 8 2 6 5 9 1 9 3. Intrecciati nel tessuto Scopo del gioco il nome dall’omonimo uccello venerato da Maya E R A D I A 72 6 914 65 8 7 1 25 6. Centro della Svizzera Completare 6 lo 7 5 N O B I O S ed Atzechi, le cui piume erano considerate talmente 8. Le iniziali della Tatangelo schema classico 2 3 8 7 9 5 6 8 7 C H(81Ecaselle, L E N U O T O 9. Usanze che variano nel tempo 2 4 687 5 4 1 8 92 preziose da essere … Troverai il resto della fraseGiochi a per “Azione” Ottobre 2016 6 7 4 Preposizione articolata R E 9 blocchi, T E 9 righe C O R S A cruciverba ultimato, leggendo le lettere nelle caselle 10. 4 1 9 2 6 3 8 9 11. Scarse, insufficienti per 9 colonne) O R I A R inN I 3A1 É4 ´ 5 Stefania Sargentini modo che ogni 13. Il Franz de I masnadieri evidenziate. 1 6 3 5 8 7 4 4D C M C A M I O N 14. Prima moglie di Giacobbe colonna, ogni riga e 3 6 7 (Frase: 10, 4, 6, 2, 7) E M I8 L I 4 A 9 O T 7T 1O5 1 8 2 4 9 7 ogni blocco conten15. Così sia 1

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 26 settembre 2016 • N. 39

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Politica e Economia Caos violento Le bombe di New York e le proteste degli afroamericani irrompono nella campagna elettorale americana

Brexit Sta tenendo tutti con il fiato sospeso il divorzio non ancora consumato fra Londra e Bruxelles. In gioco il futuro di Londra e il suo appeal per gli investitori stranieri

Il sogno di Wukan Svaniscono sotto i colpi della repressione le speranze della democrazia in Cina pagina 30

«Prima i nostri» light Sull’immigrazione, il Nazionale opta per una soluzione che non cozza con gli Accordi bilaterali

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AFP

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Putin compie il miracolo

Rinnovo della Duma Le proteste degli ultimi mesi non hanno inciso sul risultato elettorale favorevole al presidente Anna Zafesova Una vittoria schiacciante di Vladimir Putin, scrivono molti giornali occidentali. I media russi hanno toni più sommessi, trattando il voto del 18 settembre per la Duma – così come prima la campagna elettorale – come qualcosa di ordinario e normale in un Paese perfettamente stabile, nonostante «la vita della gente sia dura e difficile», come ha commentato lo stesso presidente russo il risultato del suo partito Russia Unita. Rispetto alle elezioni di cinque anni fa, quando la formazione putiniana era andata per la prima volta sotto il 50% dei voti, e i massicci brogli elettorali avevano spinto a scendere in piazza migliaia di moscoviti, le elezioni della camera bassa del parlamento russo del 2016 sono state un modello di governabilità. Russia Unita ha ottenuto il 55% dei voti per le liste proporzionali, e ha conquistato la quasi totalità dei 225 seggi assegnati nelle circoscrizioni uninominali, aumentando la sua rappresentanza nella Duma di 105 voti (sul totale di 450) e conquistando la maggioranza costituzionale con 343 seggi. Nel parlamento non ci sarà nessuna voce di dissenso: le «opposizioni sistemiche» dei comunisti e dei nazio-

nalisti di Vladimir Zhirinovsky (13,6% e 13,4%) e della Russia Giusta (una sorta di Russia Unita più attenta al sociale, 6,3%) restano gli unici altri tre partiti parlamentari dal 2003, ma vedono ridursi la rappresentanza numerica, mentre le altre 10 liste non superano il 2%, e gli oppositori che avevano cercato di conquistare una circoscrizione maggioritaria sono stati tutti sconfitti con largo distacco dai candidati del partito al potere. Un trionfo totale, considerando che la Russia vive da più di due anni una crisi nei rapporti con l’Occidente accompagnata da sanzioni per l’annessione della Crimea, conduce due guerre (in Ucraina e in Siria) ed è in recessione in seguito al crollo dei prezzi del petrolio. La campagna elettorale del governo si può riassumere nella frase pronunciata dal premier Dmitry Medvedev ai pensionati crimeani: «I soldi non ci sono ma dovete tenere duro». Ma nonostante i continui tagli della spesa pubblica – come l’abolizione dell’indicizzazione delle pensioni, sostituite da un rimborso una tantum di circa 70 euro) – e le proposte della presidente del Senato Valentina Matvienko di abolire la sanità gratuita per i disoccupati e del capo della Duma Serghey Naryshkin di cancellare la flat tax sui redditi del 13%,

il disagio sociale sembra non essersi rispecchiato nelle urne. Le decine di proteste degli ultimi mesi – di insegnanti, medici, detentori di mutui mandati in bancarotta dalla svalutazione del rublo, operai senza salari da mesi, malati senza medicine gratuite, camionisti e tassisti – non hanno inciso sul risultato elettorale, che non ha premiato i politici che portavano avanti discorsi di giustizia sociale o denunciavano la corruzione. Un miracolo politico, che i brogli non bastano a spiegare. La nuova presidente della Commissione elettorale centrale Ella Pamfilova ha gestito una campagna molto meno «sporca» di quella del 2011, anche se le denunce di irregolarità sono comunque state decine, e in 9 circoscrizioni le elezioni sono già state invalidate. Gli exit poll avevano assegnato a Russia Unita ben 10 punti in meno, e i giornalisti della Reuters che erano andati a votare ed assistere allo scrutinio in diverse zone della provincia russa hanno certificato seggi dove il risultato era stato falsato del 30%, con metodi classici come elettori che votano più volte, schede di «anime morte» ed eliminazione di voti per gli oppositori. Ma probabilmente questi trucchi non hanno inciso troppo sul risultato finale, segnalando più che altro

lo zelo dei governatori locali – come in Cecenia, dove Ramzan Kadyrov ha fatto vincere il partito presidenziale con il 96% – che un’operazione ordinata dal Cremlino. Il 18 settembre ha portato alla perfezione il suo sistema di governo, dove le voci di dissenso non hanno spazio in parlamento, nei media e ormai nemmeno in piazza e su Internet, dopo le prime condanne per post sui social network critici verso il presidente e l’annessione della Crimea. Il segnale che arriva dal voto è infatti molto chiaro: al contrario delle aspettative di alcuni liberali, il sistema non ha intenzione di fare aperture, e le indiscrezioni sulla riunificazione dei vari servizi segreti in un elefantiaco ministero della Sicurezza con la sinistra sigla MGB, insieme a una serie di nomine recenti che segnala un avvicendamento generazionale a favore delle nuove leve di putiniani, fa capire che il Cremlino si prepara più a resistere che a riformarsi. Il controllo sulla Russia appare totale, anche se il dato dell’affluenza ha lasciato scontento Putin: alle urne si è presentato meno del 48% dei russi, a Mosca e Pietroburgo hanno votato un elettore su tre, perfino in Crimea lo slancio nazionalista di due anni fa si è spento in una partecipazione di appena

metà degli aventi diritto. Per un contesto politico dove l’onnipotenza del leader veniva legittimata da un consenso plebiscitario non è un segnale molto positivo, anche perché i dati dell’affluenza e dei risultati elettorali confermano il trend della Duma precedente: il governo viene appoggiato dalle campagne, le città piccole, i più anziani e i meno istruiti, mentre i ceti urbani più colti e dinamici stavolta hanno votato con i piedi. Questo non significa che gli assenteisti sognino una rivoluzione liberale: in molte regioni comunisti e nazionalisti hanno conquistato percentuali del 25-30%, e la rimonta di Zhirinovsky segnala semmai la domanda di politiche ancora più aggressive e autoritarie. I consensi al presidente nei sondaggi restano molto più alti di quelli del suo partito (nel quale peraltro Putin non si è mai iscritto), e l’appuntamento delle presidenziali del 2018 a questo punto viene reso problematico solo dalla crisi economica – Fitch ha appena rivisto le stime di recessione russa in negativo, al 3,8%, e la Scuola superiore di Economia di Mosca teme che le riserve dello Stato accumulate negli anni del boom petrolifero possano finire nel 2017 – ma non certo da un’opposizione liberale litigiosa ed elitaria.


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 26 settembre 2016 • N. 39

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Politica e Economia

Trump-Clinton, candidati odiati Casa Bianca 2016 La più antica liberal-democrazia del mondo non dimostra di godere di buona salute

quando si appresta a eleggere il proprio presidente turandosi il naso e in odio alla parte avversa

Federico Rampini Una bomba a Chelsea, trenta feriti, un terrorista islamico già segnalato all’Fbi ma capace di costruirsi ordigni nel cortile di casa. Altre bombe disseminate dallo stesso individuo di origine afgana, tra Manhattan e il New Jersey, fortunatamente inesplose. Un somalo, anche lui simpatizzante per l’Isis, che accoltella dieci persone in uno shopping mall del Minnesota, prima di essere ucciso. Infine, le proteste violente degli afroamericani a Charlotte, dopo l’ennesima uccisione di uno dei loro da parte della polizia. E un episodio analogo a Tulsa in Oklahoma. È questo caos violento a irrompere nella campagna elettorale americana, quando ormai manca un mese e mezzo al voto. Con quali effetti? Donald Trump può rilanciare la sua narrazione preferita sull’America di oggi: un Paese allo sbando, lacerato al suo interno, indebolito all’esterno sotto la presidenza di Barack Obama, incapace di difendersi dai tanti nemici. Un Paese che ha bisogno di un leader tough, un duro come lui. Hillary cos’ha da promettere di nuovo? Il suo avversario ha buon gioco nell’addebitarle tutto ciò che storto: lei è democratica come il presidente uscente, ha l’appoggio convinto di Obama, ne è stata pure segretario di Stato. Lei rappresenta la continuità con il passato, lui la novità. Che questa campagna elettorale fosse esposta all’irruzione di uno shock esterno, era un rischio paventato da tempo. Anche quando ancora Hillary aveva un solido vantaggio nei sondaggi, tutte le analisi si concludevano con un monito, quasi scaramantico: le cose potrebbero cambiare, per esempio in caso di strage terroristica… A Chelsea la strage non c’è stata, ma la paura è tornata nel cuore di New York 15 anni dopo l’attacco alle Torri Gemelle. Charlotte ha riproposto immagini da un Paese tormentato, dove gli abusi mortali della polizia si susseguono, ma nelle reazioni protesta si scatenano anche dei violenti che ne approfittano per saccheggiare negozi. Nel frattempo, prima ancora che si verificassero questi shock esterni, il solido vantaggio di Hillary si era già assottigliato fino a sfiorare la parità. Come può cambiare la dinamica elettorale in questi ultimi giorni, se il terrorismo e la questione razziale tornano in cima alle preoccupazioni degli americani? Qual è il candidato più forte su questo terreno? La logica convenzionale dice che Hillary ha le migliori credenziali nella sicurezza nazionale. Nel suo curriculum vitae c’è la famosa foto che la ritrae insieme a Barack Obama e ai vertici del Pentagono, negli attimi decisivi per lanciare il raid contro Osama Bin Laden. Quattro anni alla guida del Dipartimento di Stato, e prima ancora il suo lavoro da senatrice dello Stato di New

Le bombe dei terroristi islamici e le proteste degli afroamericani hanno fatto irruzione nella campagna elettorale. (AFP)

York proprio nell’era post-11 settembre. Il tycoon immobiliare è un dilettante che per sua stessa ammissione si è fatto delle idee sulla politica estera «ascoltando i talkshow». In passato Trump non ebbe fortuna quando cercò di sfruttare a proprio vantaggio un attentato: dopo la strage di Orlando sembrò che lui si rallegrasse perché le sue previsioni si erano confermate, un’uscita di pessimo gusto. Ma la saggezza convenzionale non soddisfa tutta l’America. Anzi, una parte della nazione ha ormai una crisi di rigetto verso la competenza dei cosiddetti esperti, la perizia dei politici di professione, l’affidabilità dell’establishment. Quest’altra America condivide la rappresentazione «rovesciata» che fa Trump degli otto anni di Amministrazione Obama: un’accelerazione del declino, un impoverimento economico, e un’incapacità di reagire a tutti quei nemici che rendono l’America più debole nel mondo. Alla fine la sfida elettorale si gioca – probabilmente per pochi punti percentuali, stando ai sondaggi – su quale delle due rappresentazioni prevarrà. Obama gira il Paese per aiutare Hillary e fa campagna sui suoi dati positivi: per esempio il fatto che il 2015 è stato il primo anno (dopo sette anni di ripresa) in cui i benefici della crescita si sono finalmente distribuiti sulla maggioranza della popolazione, la middle class ha avuto un aumento del reddito del 5 per cento. Con eccezioni allarmanti

come l’ecatombe di omicidi a Chicago, nell’insieme degli Stati Uniti la criminalità è in declino e la diminuzione dei reati ha coinciso con migrazioni che hanno reso l’America sempre più multietnica. Ma le statistiche non hanno mai curato le paure più profonde. Dentro il «popolo di Trump» ci sono delle fasce sociali realmente impoverite, ed anche tanti bianchi che economicamente stanno bene ma si sentono minacciati nella loro identità, e con delle aspettative di declassamento proiettate sul futuro dei figli. Sul terrorismo, gli argomenti di Trump non possono essere ignorati. La bomba di Chelsea è un altro fiasco dell’intelligence americana, l’ennesimo. Ahmad Rahami non è affatto un lupo solitario venuto dal nulla. Emergono dal suo passato elementi che dovevano far scattare forme di sorveglianza: gli agenti della dogana lo segnalarono al ritorno da uno dei suoi viaggi in Pakistan. Cinque mesi dopo, fu il padre a descriverlo come un terrorista. L’Fbi ed altre agenzie lasciarono cadere, dopo un breve esame del caso nell’agosto 2014. Altro particolare sconcertante: Rahami ordinò gli elementi per fabbricare le bombe su EBay, e fece le prime prove all’aperto nel cortile di casa. Un po’ più problematico è il caso del pugnalatore di Saint Cloud nel Minnesota. «Un tipico ragazzo americano»:

così i conoscenti descrivono il ventenne Dahir Adan di origine somala ma cresciuto negli Usa. «Perfettamente assimilato, bravo studente a scuola, sportivo», nelle testimonianze raccolte dopo l’attacco su cui l’Isis ha messo immediatamente il cappello. Il suo caso rientra nella tipologia dei lupi solitari che si auto-indottrinano, più difficili da individuare. Togliere i diritti costituzionali al terrorista arrestato (Rahami) è una delle proposte di Trump. Radicale ma non del tutto inedita. Altri leader repubblicani lo avevano chiesto prima di lui, incluso l’autorevole senatore Lindsay Graham che propone di trattarli come «combattenti nemici in guerra contro di noi» (che significa per esempio negare il diritto a un avvocato difensore). Trump contesta anche il fatto che Rahami sia curato in un ospedale a spese del contribuente. «Gli offriranno pure il room service», è la battuta del candidato repubblicano. Il quale rilancia la sua proposta di fare controlli duri alle frontiere su chiunque arrivi da paesi di religione musulmana. Anti-costituzionale, probabilmente. Di certo contraria allo spirito di un’America i cui padri fondatori fuggivano dalle persecuzioni religiose europee, e mettevano la tolleranza religiosa al primo posto tra le qualità della democrazia fondata nel Nuovo Mondo. Per Hillary, l’islamofobia non è solo sbagliata in linea di principio, è anche controproducente: «Trump – dice lei – è un sergente reclu-

tatore per conto dell’Isis. Quelli vogliono spingerci a dichiarare guerra all’Islam, la retorica che lui usa fa il loro gioco. L’Isis fa il tifo per la sua vittoria». Lui ribatte: «Hillary è debole contro il terrorismo. Questi attentati sono stati possibili a causa della nostra politica dell’immigrazione troppo aperta. La sicurezza nell’immigrazione è sicurezza nazionale». Ma chiudere le frontiere all’immigrrazione non avrebbe impedito i gesti di Rahami a Chelsea o di Adan nel Minnesota: tutti e due cittadini americani. È un problema simile a quello conosciuto da Francia, Germania, Belgio, dove gli attentati sono stati spesso compiuti da immigrati di seconda generazione, nati in Europa, con cittadinanza dei paesi in cui vivono. Quelli dell’Isis, come Vladimir Putin, hanno un loro candidato favorito alla Casa Bianca? Si può obiettare che Trump sul terrorismo islamista ha solo degli slogan e non ha mai formulato una proposta concreta. Ma in questa campagna elettorale le proposte concrete ricevono un’attenzione modesta. Sembra più importante un altro aspetto: se prevale tra gli americani l’insoddisfazione per la situazione attuale, la paura, la voglia di voltar pagina rispetto all’Amministrazione democratica. L’allarme terrorismo di certo non appare come un punto in favore di ObamaClinton. Infine, la questione razziale. Anche in questo caso Trump cavalca le divisioni mentre Hillary cerca di ricucirle. Trump ha detto che le proteste violente dei giovani neri «sono dovute al fatto che circola troppa droga». Coglie un elemento di verità, del resto se la polizia continua a discriminare i neri la sua risposta alle accuse è la stessa: perché tra loro ci sono più delinquenti. Ma con questa logica continua il muro contro muro; mentre Hillary cerca di lavorare per superare ostilità e divisioni, costruire un clima di fiducia che consenta alle forze dell’ordine di fare il loro lavoro nel rispetto dei diritti umani. Un ultimo dato va ricordato su questa elezione anomala. Vincerà, probabilmente, chi riuscirà ad essere odiato un po’ meno dell’avversario. È l’elezione più «negativa» della storia. Il 43% dei repubblicani oggi pensa che Trump non fosse il miglior candidato da selezionare per il loro partito; e il 41% dei democratici pensa la stessa cosa di Hillary. Inoltre, ecco il dato più allarmante: più di un terzo dei sostenitori della Clinton dichiarano che la voteranno per impedire che vinca Trump; e il 44% dei sostenitori di Trump dichiara che lo voterà pur di non (ri)vedere Hillary alla Casa Bianca. Non si ricorda un solo precedente nella storia degli Stati Uniti di un’elezione così pesantemente segnata dall’antipatia, dalla sfiducia, dall’ostilità. È ovvio che la più antica liberal-democrazia del mondo non gode di buona salute, quando si appresta a eleggere il proprio presidente turandosi il naso e in odio alla parte avversa. Annuncio pubblicitario

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 26 settembre 2016 • N. 39

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Politica e Economia L’articolo 50 del trattato di Lisbona definisce la procedura per lasciare volontariamente l’Unione. (AFP)

Lula da Silva come la Spectre Brasile Il pubblico ministero Deltan

Dallagnol, capo dell’inchiesta «Lava Jato» sui fondi neri di Petrobras, accusa formalmente l’ex presidente

Brexit vuol dire Brexit? Regno Unito Fino ad ora fra Londra e Brexit c’è stata una situazione

di stallo ma ora è tempo di scelte, anche se le idee scarseggiano Cristina Marconi Fino ad ora, tra Regno Unito e Brexit, c’è stata una sorta di luna di miele. L’estate è stata calda, lunga e soleggiata, con la sterlina bassa a promuovere esportazioni e turismo e dati economici positivi che hanno messo in imbarazzo tutti coloro che avevano predetto catastrofi inenarrabili fin da subito dopo il voto. Una situazione di stallo ideale, alla quale però deve seguire inevitabilmente il tempo delle scelte, come ben sa la premier Theresa May, che ha per ora nascosto dietro la formula vaga ma decisionista «Brexit vuol dire Brexit» la mancanza di idee chiare su come procedere. L’unica cosa certa è che la nuova inquilina di Downing Street, che in tre mesi ha radicalmente smantellato l’operato del suo predecessore David Cameron, ha scelto la linea dura di chi intende rispettare il parere delle urne e non, come pure sarebbe costituzionalmente autorizzata a fare, quello anti-Brexit del Parlamento. Tutto il resto è ancora avvolto nella nebbia: l’articolo 50 per avviare i due anni di negoziato ufficiale con Bruxelles non dovrebbe essere invocato prima del 2017, contrariamente a quando chiesto da un’Unione europea che, ovviamente, sta facendo di tutto per mostrare il suo volto più duro nei confronti del suo ex partner molto riluttante. Sui termini del divorzio, poi, continuano a circolare ipotesi disparate, che da una parte contribuiscono a prolungare l’atmosfera da luna di miele ma dall’altra non forniscono chiarezza a chi vuole fare programmi a lungo termine nel Paese, investitori in primis. May si sta sforzando, almeno a parole, di smentire l’immagine di un Paese in rotta con il mondo esterno. «Quando i britannici hanno deciso di votare per uscire dalla Ue, non hanno votato per ripiegarsi in sé stessi o per voltare le spalle a uno qualunque dei nostri partner nel mondo», ha spiegato nel suo primo discorso alle Nazioni Unite, osservando come i britannici, «davanti a sfide come le migrazioni, ad un desiderio di avere un maggiore controllo del loro Paese e ad un senso crescente che la globalizzazione sta lasciando i lavoratori indietro, hanno chiesto politiche che siano più in linea con le loro preoccupazioni, e azioni coraggiose per affrontarle». Se da una parte c’è un’élite euroscettica che voleva effettivamente liberarsi dalla burocrazia di Bruxelles, per la stragrande maggioranza degli elettori l’idea di avere un maggior controllo dell’immigrazione è stata la ragione principale per voler uscire dall’Unione europea. Ma dicendo di no alla libera circolazione dei lavoratori, la posizione negoziale della May a Bruxelles diventa subito difficile, soprattutto per quanto riguarda l’accesso al mercato unico, poiché i due aspetti sono strettamen-

te legati. Per questo quando Downing Street si è affrettata a bollare come opinioni personali le dichiarazioni del ministro per la Brexit David Davis, che aveva definito «molto improbabile» il mantenimento della libera circolazione a queste condizioni, in molti ci hanno visto una smentita formale, ma non sostanziale, da parte della May, oltranzista in materia di immigrazione già dai tempi in cui guidava il ministero degli Interni. Chiudere le porte ai lavoratori stranieri, per il Regno Unito, comporta una serie di rischi, perché sono molti i settori dell’economia britannica che negli anni sono fioriti grazie all’arrivo di forza lavoro europea qualificata e meno propensa a chiedere benefit pubblici di quanto i tabloid amino raccontare. Questo punto non è stato sufficientemente messo in luce durante la campagna referendaria forse perché, come notato dallo scrittore John Lanchester, «la realtà di immigrati giovani, in salute, ambiziosi, lavoratori e di successo non avrebbe aiutato la causa del Remain», ma avrebbe invece «toccato un tasto dolente» presso quella fetta consistente di elettorato che si sente lasciata indietro e che non riesce a capire perché il Regno Unito sia tanto attraente per gli stranieri se poi molti dei suoi cittadini sono disoccupati. Il problema è che quegli immigrati servono, a tutti i livelli, da quello sanitario alla cura degli anziani fino al mondo della finanza e che, a furia di annunci minacciosi, il governo sta sottovalutando il rischio che molti di quei lavoratori vadano a spendere altrove le loro energie. Non è raro, in queste settimane, imbattersi in cittadini europei che stanno facendo piani a breve o medio termine di spostarsi fuori dal Regno Unito, un po’ perché le prospettive incerte non piacciono a nessuno, un po’ perché l’atmosfera, nel Paese, è piuttosto compromessa da un aumento degli episodi, anche gravi, di razzismo, a cui l’opinione pubblica non sta dando il giusto peso. Il tedesco Martin Roth, direttore del Victoria&Albert Museum dal 2011, ha annunciato le sue dimissioni spiegando che il Regno Unito «non è più lo stesso Paese che mi ha assunto» e che d’ora in poi sarà più difficile portare avanti una cooperazione con gli altri musei europei. Quando la settimana scorsa il presidente della Commissione europea Jean-Claude Juncker ha detto che «noi europei non potremmo mai accettare che i lavoratori polacchi vengano picchiati, aggrediti o anche uccisi nelle strade dell’Essex», la reazione dei tabloid è stata piccata: il «Daily Mail» ha pubblicato una lista di crimini e omicidi compiuti da cittadini europei nel Regno Unito negli ultimi anni, ma anche l’«Evening Standard», quotidiano distribuito gratuitamente la sera a Londra, ha parlato di «rabbia» per le

parole offensive di Juncker sull’uccisione di un trentanovenne polacco da parte di alcuni minorenni a Harlow. «La Brexit non è un evento ma un processo di disintegrazione», secondo John Springford del Centre for European Reform, che osserva come «senza un dolore economico acuto che sia chiaramente attribuibile alla Brexit, ai politici britannici risulterà impossibile contrastare la richiesta dell’elettorato di “riprendere il controllo”, quale che sia il danno cronico all’economia». Il segnale netto, in tre mesi, non c’è stato. Negli ultimi giorni anche l’ufficio nazionale di statistica ha detto che «il risultato del referendum, per ora, non sembra aver avuto grandi ripercussioni» sull’economia, mentre l’Ocse ha deciso di rivedere al rialzo le previsioni per il 2016, affermando che il rallentamento dell’attività economica avverrà non prima del 2017. L’organizzazione parigina ha elogiato sia la scelta del cancelliere Philip Hammond di aumentare la spesa pubblica, sia le misure di sostegno della Banca d’Inghilterra, che ad agosto ha tagliato i tassi e presentato un pacchetto di stimolo monetario, annunciando che il Pil britannico dovrebbe crescere dell’1,8% quest’anno e dell’1% l’anno prossimo. La Banca d’Inghilterra, che si è attirata pesanti critiche per i suoi interventi pro-Ue durante la campagna, ha reso noto «un calo degli investimenti dal referendum» e ha parlato di uno scenario «piatto» per l’anno prossimo. Hammond ha ammesso che «ci aspettano tempi duri», ma si è detto «fiducioso che abbiamo gli strumenti necessari per sostenere l’economia». Nella City di Londra, seconda piazza finanziaria più grande del mondo, c’è un aspetto del negoziato con Bruxelles che tiene tutti con il fiato sospeso ed è quello sul passporting, ossia la possibilità per le istituzioni finanziarie di operare in tutta l’Unione europea con una sola licenza. Secondo il governo, la Ue farebbe un clamoroso autogol se impedisse alla City di continuare a prosperare, ma è tutt’altro che scontato che le piazze finanziarie continentali accettino di lasciare un tale vantaggio alla capitale britannica. Il cencelliere Hammond ha detto che i banchieri e i lavoratori europei altamente qualificati avranno un trattamento preferenziale per vivere e lavorare nel Regno Unito. Lo stesso è stato detto del personale medico e sanitario di cui il Regno Unito ha disperato bisogno. Ma con davanti alcuni anni di inevitabile incertezza regolatoria e il rischio che l’appeal di Londra come capitale accogliente nella quale andare ad investire il proprio talento e i propri soldi svanisca, non si può escludere che «Brexit significa Brexit» finisca anche col significare l’inizio della fine della megalopoli come la si conosce.

Intervento a gamba tesa della magistratura brasiliana contro la candidatura dell’ex presidente Lula da Silva (foto) alle elezioni presidenziali del 2018. «È lui il comandante massimo del sistema di corruzione della Operazione Lava Jato» ha detto in diretta televisiva l’investigatore Deltan Dallagnol. «È Lula il maestro dell’orchestra della corruzione» ha gridato per annunciare l’incriminazione del presidente più popolare di tutta la storia del Brasile (oltre l’80% alla fine del suo 2. mandato nel 2010).

Un processo vero non ha ancora avuto inizio ma la gogna politica è stata avviata così come il processo mediatico Lava Jato è il nome – un marchio ormai, un logo – della maxi inchiesta sul sistema di sovrapprezzi pagati dalle imprese dell’indotto dell’azienda statale Petrobras che avrebbe finanziato, secondo alcuni rei confessi, le campagne elettorale di politici di molti partiti, incluso quelle del Partito dos Trabalhadores (Pt) di cui Lula è stato fondatore ed è tuttora capo indiscusso. Il sistema di sovrapprezzi secondo i magistrati esisterebbe già almeno dal 1987, soltanto che la legge brasiliana consente di investigare solo gli ultimi dodici anni. E il caso ha voluto che il Pt sia andato al potere per la prima volta nel 2003 e da allora abbia governato ininterrottamente il Brasile fino all’impeachment di Dilma Rousseff, deposta il mese scorso. Deltan Dallagnol è uno dei volti immagine dell’accusa. Si alterna con il giudice Sergio Moro davanti alle telecamere nelle conferenze stampa sulle tappe dell’inchiesta. Niente di male, non fosse che sull’accusa nei confronti di Lula, presentato come un pericoloso criminale, nemmeno fosse Pablo Escobar, nessun tribunale ha ancora esaminato l’ombra di una prova. Volendo credere ciecamente alle capacità investigative del pool che lavora alacremente da anni sul caso, volendo dare per scontato che i pm abbiano ragione su tutto e che Lula sia davvero corrotto, c’è comunque da notare che non solo non è ancora stato condannato, ma che non è stata finora celebrata nemmeno un’udienza di un processo a suo carico. La difesa, per dirne una, non ha ancora visto le carte. Nessun dibattimento s’è svolto. Le tappe formali e sostanziali del normale svolgimento di un processo, non hanno ancora avuto inizio. Però la gogna politica è ampiamente avviata e il processo mediatico già abbondantemente cele-

brato. Fatto sta che dopo undici anni dall’inizio delle inchieste attorno ai finanziamenti del Pt (la prima sui fondi neri del partito risale al 2005) il giudice Sergio Moro è riuscito ad incriminare il leader supremo del Pt. Non c’era riuscito nessuno finora. Tutte le inchieste hanno finora lambito Lula, sono arrivate a un passo da lui senza però sfiorarlo. L’intera dirigenza del partito, i suoi più stretti collaboratori, addirittura il suo creatore politico, il sopraffino José Dirceu, sono stati condannati a numerosi anni di galera in vari processi per aver usato fondi neri per finanziare il partito e in parte sé stessi. Mai però gli investigatori erano riusciti ad arrivare a Lula, sempre protetto, secondo l’accusa, dal silenzio complice dei compagni che magari si immolavano, ma non lo tradivano. «La vera ragione di ciò è che non ha mai rubato un centesimo» sostengono i suoi legali. Sergio Moro invece ce l’ha fatta. L’accusa formulata dall’investigatore Dallagnol davanti alle telecamere di mezzo mondo è che «senza il potere decisionale di Lula realizzare lo schema di corruzione sarebbe stato impossibile». «Dopo aver assunto l’incarico di presidente – ha detto l’investigatore, Lula ha ordinato la formazione di uno schema criminale di sottrazione di fondi pubblici destinati a arricchirlo illecitamente, perpetuarlo in forma criminale al potere, comprare appoggio parlamentare e finanziare carissime campagne elettorali». Mentre pronunciava queste parole, l’investigatore indicava alle tv una grande lavagna luminosa con la scritta a caratteri cubitali LULA al centro di tante frecce, ognuna diretta a un rivolo di inchiesta diverso. Lula come la Spectre, il diavolo, il mammasantissima di tutti i mali del Brasile. Nel ramo di inchiesta che, a giudicare dalle apparenze, pare la più insidiosa a suo carico (ce n’è un’altra per ostruzione della giustizia nel caso Lava Jato e un’altra ancora per riciclaggio in cui è coinvolta anche sua moglie Maria Leticia), Lula è accusato di aver ricevuto dall’impresa Oas del suo carissimo amico Leo Pinheiro un milione di dollari. Quei soldi non sarebbero mai transitati per le sue mani, ma l’impresa, secondo l’accusa, gli avrebbe comprato un appartamento del valore di 330mila dollari a Guaruja, lungo il litorale di San Paolo, gliel’avrebbe ristrutturato gratuitamente per un valore pari a 278mila dollari e gli avrebbe arredato sempre gratuitamente la cucina per un valore equivalente a 105mila dollari. Lula nega di essere proprietario dell’appartamento. «Mi presentino una prova, una sola prova, che mostri che io sono corrotto e vado a piedi a consegnarmi al commissariato» ha detto.

AFP

Angela Nocioni


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 26 settembre 2016 • N. 39

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Politica e Economia

Wukan, l’ex laboratorio democratico

Disputa sui diritti per le terre N el villaggio cinese svanisce sotto i colpi della repressione il sogno della democrazia Beniamino Natale Cinque anni fa il villaggio di Wukan, nella provincia meridionale del Guandong, aveva rappresentato una speranza concreta di un futuro democratico per la Cina. Oggi quella speranza è svanita sotto i colpi della repressione statale. Tre delle sette persone che hanno guidato la rivolta di questo piccolo paese di pescatori, contadini e commercianti contro la vendita delle «loro» terre sono in prigione. Altri cinque abitanti del villaggio sono stati arrestati per aver partecipato alle proteste contro la condanna inflitta al più noto dei tre, il 70/enne imprenditore Lin Zuluan. La polizia è intervenuta più volte in forze, accolta da gragnuole di sassi dai residenti. A due settimane dall’annuncio della condanna di Lin – tre anni per «corruzione» – le strade del paesino (13 mila abitanti) sono ancora pattugliate dalla polizia, secondo il quotidiano «Ming Pao» di Hong Kong. Lo stesso «Ming Pao» e il giornale in lingua inglese dell’ex-colonia britannica, il «South China Morning Post», hanno denunciato che i loro reporter sono stati fermati e minacciati, circostanza che la polizia del Guandong smentisce. I media di Hong Kong hanno sostenuto anche che almeno una persona, una donna della vicina metropoli di Shenzhen, è stata arrestata per aver diffuso attraverso WeChat notizie sugli avvenimenti di Wukan. La vicenda che ha portato questo paese sulle prime pagine dei giornali occidentali è iniziata nel 2011, con una di quelle che sembrava solo una delle migliaia di proteste che ogni anno si verificano in Cina per dispute sulla terra. La vendita a privati della terra è uno dei motori dello sviluppo economico degli ultimi decenni e la principale fonte di ricchezza per le amministrazioni locali. In Cina la proprietà della terra è pubblica ed è di fatto gestita dai Comitati di Villaggio – che sono scelti con

elezioni controllate e che di solito sono i dirigenti locali del Partito Comunista. I soldi – spesso cifre da capogiro – che i costruttori versano al villaggio per l’acquisto delle terre finiscono su conti bancari intestati a tutti i membri del Comitato. Per muoverli, occorrono tutte le firme degli intestatari del conto. Vengono proposti indennizzi e promesse opere di pubblica utilità che spesso rimangono sulla carta. Il Comitato di Wukan nel 2011 decide di vendere gran parte delle terre dei residenti ad un’impresa edile di Hong. La popolazione scende in piazza per reclamare indennizzi più consistenti di quelli promessi dal Comitato e accusa i suoi membri di essersi «venduti» all’impresa. Potrebbe essere una delle innumerevoli lotte per la terra che si concludono con una contrattazione, spesso individuale, tra espropriati, amministrazioni e acquirenti. Ma succede qualcosa di grave: Xue Jinbo, uno dei leader della protesta, viene fermato dalla polizia e muore in custodia in circostanze poco chiare. Il movimento popolare si estende e si radicalizza. Ne prendono la testa i più giovani e intransigenti. I protestatari cacciano i membri del Comitato accusandoli di corruzione e barricano le strade di accesso al villaggio per impedire l’arrivo dei reparti speciali antisommossa, che nel frattempo sono stati mobilitati dal governo della provincia. I ribelli di Wukan assediati ricorrono a Internet per pubblicizzare la loro situazione e presto la storia finisce sulla stampa cinese e internazionale. Il villaggio è circondato, la temperatura altissima. I media seguono la vicenda passo passo grazie ai «tweet» dei giovani ribelli. A sbloccare la situazione interviene Wang Yang, allora segretario del PC del Guandong e astro nascente della politica nazionale (purtroppo per lui, Wang appartiene alla fazione perdente nella lotta di potere che negli anni seguenti si scatena all’interno del Partito e la sua ascesa appare oggi bloccata). Wang si

Lo svolgimento delle votazioni nel marzo del 2012 con le cabine elettorali sistemate nel cortile della scuola. (Keystone)

schiera dalla parte dei ribelli ed elabora un compromesso con Lin Zuluan, un militante del Partito da alcuni decenni che ha partecipato alla rivolta ed è molto popolare nel Paese. Solo la figlia del «martire» Xue Jinbo, una popolare ragazza di poco più di 20 anni, ammonisce gli entusiasti dell’accordo che, sostiene, nasconde «una trappola». I dubbi vengono superati e si organizzano nuove elezioni, che Lin e i giovani che lo hanno affiancato vincono a man bassa, nella primavera del 2012. Le elezioni si svolgono in una domenica di sole: si vota per tutta una giornata nelle cabine sistemate nel cortile della scuola media del paese. I residenti partecipano con allegria e con entusiasmo. È dalla metà degli anni Ottanta che in Cina i Comitati di Villaggio e altre istituzioni locali sono elettive. Votano tutti i cittadini che hanno raggiunto 18 anni di età. Si tengono dibattiti che a volte vengono riportati dai media locali, ci sono spesso contestazioni, i media cinesi denunciano numerosi casi di brogli. Le elezioni vengono controllate

dalle istanze superiori delle istituzioni, cioè dai dirigenti del PC. Una democrazia sotto tutela ma meglio di niente. Alcune organizzazioni umanitarie internazionali, tra cui il Carter Centre fondato dall’ex-presidente americano Jimmy, si sforzano di dare una mano e le elezioni di villaggio che sono la principale – se non l’unica – indicazione che la Cina si muove seppur gradualmente e con tutte le precauzioni verso un sistema democratico. La vicenda di Wukan, nella quale un leader locale – Wang Yang – favorisce l’espressione della volontà popolare con il consenso del potere centrale (allora il presidente e segretario del Partito era Hu Jintao, in seguito sostituito ed emarginato dal suo successore Xi Jinping) fa nascere una speranza. Da Wukan, si augurano in molti, l’«esperimento» verrà allargato ad altre zone del Paese. La cosa ha senso perché il problema della terra è uno quelli che creano forti grattacapi al governo di Pechino e la soluzione di Wukan sembra accontentare tutti, meno gli amministratori corrotti.

Le cose, purtroppo, non vanno nel modo migliore. Un anno dopo l’elezione del «Comitato dei ribelli», Lin Zuluan e i suoi collaboratori sono disperati: non si trovano i documenti che hanno sancito la distribuzione delle terre tra i vari abitanti del vilaggio e la restituzione delle stesse terre avviene al rallentatore. Cominciano le contestazioni e il potere centrale prende l’occasione al volo: due dei «ribelli» più in vista, Yang Semano e Hongrui Chao, vengono arrestati per «corruzione» – l’imputazione che viene mossa a tutti gli avversari politici del gruppo dirigente di Pechino. Si beccano uno due anni e mezzo, l’altro due anni – dopo i soliti processi-lampo che si svolgono a porte chiuse. Passa qualche mese e tocca a Lin Zuluan, la «testa pensante» del Comitato dei ribelli, che viene condannato a tre anni per aver accettato delle «mazzette». Il sogno di Wukan, e di tutti coloro che avevano pensato che la democrazia potesse affermarsi in Cina a partire dai comitati elettivi dei villaggi, si è dissolto nel nulla.

Fuga dalla solitudine grazie a un videogioco Giappone Secondo il ministro delle finanze di Tokyo Taro Aso i Pokemon potrebbero aiutare

a contrastare l’hikikomori, una dipendenza da tecnologia che porta i giovani all’isolamento e al suicidio

Taro Aso, vice primo ministro e a capo del ministero delle finanze del governo giapponese di Shinzo Abe, è universalmente considerato un gaffeur. Soprattutto dalla stampa straniera in Giappone, che interpretando alcune delle sue esternazioni spesso finisce per etichettarlo come il più politicamente scorretto dei ministri di Abe. A metà giugno scorso, per esempio, durante un comizio elettorale in Hokkaido, nel nord del Giappone, Aso ha detto: «Recentemente ho visto un novantenne, in televisione, che si diceva preoccupato per il suo futuro. E ho pensato: “Quanto altro pensa di poter vivere?”». Far quadrare i conti con l’enorme peso della spesa pensionistica, per un ministro delle finanze giapponese, è effettivamente il nodo del lavoro, ma nel Paese con l’aspettativa di vita tra le più alte del mondo e l’invecchiamento della popolazione in costante aumento, la frase di Taro Aso è stata interpretata come un affronto, una provocazione. E il vicepremier non è nuovo a questo tipo di gaffe. Anche nel 2013 aveva inserito una frase – «i pensionati si sbrighino a morire» – all’interno di un discorso sull’assistenza sanitaria che aveva comprensibilmente suscitato polemiche non soltanto all’interno della politica nipponica. Poi, nelle

ultime settimane, Aso se l’è presa con i broker e le società di intermediazione, colpevoli di essere disonesti e, in sostanza, di essere la causa della profonda sfiducia dei giapponesi negli investimenti. Se tra la maggioranza dei pensionati il dandy ministro di Shinzo Abe non gode di ottima fama, Aso è riconosciuto da sempre come un grande amante dei fumetti (lo chiamano «Rozen Aso», per via della sua passione per i personaggi del manga «Rozen Maiden») e ultimamente è riuscito a conquistare pure gli appassionati di Pokemon Go, il giochino per

AFP

Giulia Pompili

smartphone che sfruttando la realtà aumentata ha come scopo la cattura dei Pokemon, appunto. Parlando con i giornalisti prima di imbarcarsi su un aereo all’aeroporto di Narita, il giorno stesso del lancio del gioco in Giappone, Aso ha detto: «Guardate cosa sta succedendo nel mondo grazie a Pokemon Go, ci sono ragazzi e otaku (parola che definisce i ragazzi ossessionati dai fumetti, dai videogame e dai manga, ndr) che escono fuori per le strade a giocare, vuol dire che il gioco sta riuscendo dove gli psichiatri hanno fallito». Questa volta, eccezionalmente, il discorso di Taro Aso è stato preso in seria considerazione dalla stampa giapponese. Perché quando Taro Aso ha elogiato la capacità del gioco per smartphone di far uscire i ragazzi di casa, si riferiva in realtà a una delle più grandi tragedie del Giappone contemporaneo, riconosciuta solo qualche anno fa dal governo di Tokyo come una reale emergenza. È l’hikikomori, una sindrome rilevata per primi dagli psichiatri giapponesi intorno agli anni Ottanta, ma che oggi si studia in tutto il mondo. Una patologia mentale che colpisce chi decide di vivere isolato dal resto del mondo, chiudendo ogni rapporto con l’esterno, arrivando a morire abbandonato, di fame, di freddo. Gli hikikomori sono spesso dipendenti dai giochi tecnologici, ed è per questo

che, secondo Taro Aso, molti di loro saranno usciti per la prima volta poche settimane fa, soltanto per catturare un Pokemon. Ancora oggi, in Giappone, si fa fatica a parlare di certi temi, per via dello stigma delle malattie mentali, e per l’importanza conferita dai giapponesi alla reputazione sociale: le parole di Taro Aso hanno toccato i giapponesi nel vivo di una ferita aperta. Oggi gli psichiatri diagnosticano ufficialmente lo stato di hikikomori quando una persona ha trascorso almeno sei mesi in una condizione di isolamento, di ritiro dalle attività scolastiche e lavorative, ma l’hikikomori, in realtà, si manifesta in molti modi. Secondo la psichiatria classica, la patologia sarebbe una conseguenza della società patriarcale del Giappone, soffocata da regole e convenzioni, che fa maturare una specie di fobia sociale nei giovani Millennial nipponici, non a caso definiti ormai «la generazione perduta». Alcuni dati ufficiali sostengono che almeno l’1 per cento dell’intera popolazione giapponese sarebbe affetta da questo disturbo. Il governo di Tokyo ha già provato diversi approcci per sensibilizzare la popolazione a riconoscere i sintomi e a cercare una cura, ma spesso la soluzione di forza – come quella andata in onda in aprile sulla tv Asahi, con un hikikomori

costretto dal padre a uscire e curarsi – rischia di peggiorare e addirittura a indurre i giovani al suicidio. E dove non è riuscito un governo, può riuscire un gioco ispirato a un fumetto? A ridosso dell’uscita di Pokemon Go in Giappone – non a caso la patria dei Pokemon creati nel 1996 da Satoshi Tajiri – non si parlava d’altro. Erano iniziati a circolare reportage e puntute analisi sui nuovi «rabdomanti»: giovani muniti di applicazione che vagano giorno e notte per le strade a caccia di Pokemon. Grazie a una sofisticata tecnologia, infatti, i «mostri tascabili» (Pokemon significa letteralmente «poket monster») appaiono sullo schermo del cellulare in qualsiasi ambiente reale – scrivanie, negozi, uffici, supermercati, parcheggi – e costringono il cacciatore ad alzarsi dalla sedia e andare a cercarli. Secondo un’analisi del quotidiano «Sankei», con la sua frase Taro Aso avrebbe contribuito a togliere l’etichetta demonizzante al gioco ispirato ai Pokemon, che come tutte le novità «disruptive» in campo tecnologico, infatti, era stato accolto come una specie di sconvolgimento dello status quo, un rito a cui tutti vogliono partecipare, l’ennesimo esempio di una cultura di massa da evitare. Per gli hikikomori, magari, i Pokemon saranno un mezzo per uscire di casa, e sarebbe già una grande conquista.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 26 settembre 2016 • N. 39

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Politica e Economia

Preferenza light per lavoratori indigeni 9 febbraio Il Nazionale opta per una legge di applicazione

dell’iniziativa contro l’immigrazione di massa che non contravvenga agli accordi con l’UE sulla libera circolazione Marzio Rigonalli La settimana scorsa, il complesso dossier dei rapporti tra la Svizzera e l’Unione europea ha vissuto due momenti intensi ed ha registrato alcuni piccoli progressi in vista di una soluzione per l’applicazione dell’iniziativa popolare sull’immigrazione di massa, approvata il 9 febbraio 2014. Lunedì scorso, a Zurigo, il presidente della Confederazione, Johann Schneider-Ammann, si è incontrato con il presidente della Commissione europea, Jean-Claude Juncker. I due si erano già visti il 16 luglio, nella capitale della Mongolia, Ulan Bator, al margine del vertice dell’Europa-Asia Meeting (ASEM). Dall’incontro di Zurigo non è scaturito nessun risultato concreto. Si sono pronunciate tante belle parole ed è stata espressa la volontà di continuare il dialogo. Schneider-Ammann ha avuto la possibilità di esporre l’attuale posizione della Svizzera, in particolare di illustrare il percorso che sta affrontando il Parlamento federale con la scelta della preferenza indigena light per applicare l’articolo 121 a della Costituzione federale senza violare il principio della libera circolazione delle persone, nonché di affermare la ferma volontà elvetica di tener separati il dossier sulla libera circolazione e quello che dovrebbe portare ad un accordo istituzionale. Dal canto suo, Juncker non ha chiuso la porta alla soluzione della preferenza indigena light, ma ha lasciato intendere che l’Unione europea vorrà dire la sua sulle modalità di applicazione di questa soluzione. I due hanno comunque concordato di rivedersi alla fine di ottobre. Mercoledì scorso, il Consiglio nazionale ha approvato il progetto della preferenza indigena light, elaborato

dalla sua Commissione delle istituzioni politiche. Il progetto prevede tre tipi di intervento da adottare tenendo conto dell’evoluzione dell’immigrazione: un migliore sfruttamento del potenziale indigeno sul mercato del lavoro, l’obbligo per le aziende di annunciare i posti liberi agli uffici di collocamento, e nei casi più gravi, misure più drastiche da concordare con l’Unione europea. La decisione del Nazionale è scaturita dopo intense ore di dibattito, durante le quali non sono mancate le accuse reciproche ed in certi casi anche gli insulti. L’UDC ed il PPD hanno cercato di rendere il progetto più severo, di conferire al Consiglio federale maggiore autonomia nella gestione dell’immigrazione, senza dover tener conto della posizione dell’Unione europea, ma le loro proposte non hanno convinto la maggioranza dei consiglieri nazionali. I due eventi mostrano che una soluzione concordata tra le due parti rimane ancora lontana, nonostante le numerose dichiarazioni ottimistiche che i responsabili della diplomazia elvetica hanno rilasciato sin dall’inizio dell’anno. Tra queste dichiarazioni spiccano quelle del responsabile degli affari esteri, Didier Burkhalter. Berna e Bruxelles sono ancora lontane sul dossier della libera circolazione e la lontananza è innanzitutto il risultato di due posizioni negoziali fortemente contrapposte. La Svizzera deve applicare l’articolo 121 a della Costituzione federale, che chiede alle autorità federali di gestire autonomamente l’immigrazione degli stranieri, ricorrendo a tetti massimi e contingenti annuali. L’articolo è in contraddizione con uno dei principi basilari dell’Unione europea, quello della libera circolazione delle persone. Una violazione di questo principio potrebbe

portare alla fine di una parte consistente degli accordi bilaterali conclusi tra la Svizzera e l’Unione europea. Berna non vuol però rinunciare a questi accordi, che consentono un buon accesso al mercato unico e che sono importanti per l’economia nazionale. La Svizzera deve quindi trovare una sintesi tra l’obbligo di applicare una disposizione costituzionale e la volontà di salvare gli accordi bilaterali. Una sintesi difficile, alla quale si sta lavorando da oltre due anni e che adesso va definita entro poco tempo, per due ragioni. Primo, perché l’articolo 121 a della Costituzione federale va applicato entro il 9 febbraio 2017. Secondo, perché la sintesi consentirà di firmare l’estensione della libera circolazione alla Croazia, garantendo così alla Svizzera l’accesso ad Horizon 2020, il programma europeo di ricerca e di innovazione, che i ricercatori elvetici ritengono molto importante. La firma del relativo protocollo è stata posta come condizione da Bruxelles e deve avvenire entro la fine del 2016. La posizione svizzera è dunque confrontata con l’obbligo di trovare un compromesso tra due realtà contraddittorie e con la necessità di agire in tempi brevi. L’Unione europea, invece, non ha nessuna fretta. Un po’ perché è alle prese con problemi ben più gravi, che richiedono molto tempo e tante energie, come la crisi economica tutt’ora presente in molti suoi Stati membri, la minaccia del terrorismo, la difficile gestione dell’immigrazione e la perdita di consensi nelle varie opinioni pubbliche nazionali. Un po’ perché, dopo il Brexit, l’UE deve affrontare un negoziato con Londra, al centro del quale ci saranno la libera circolazione dei cittadini europei in Gran Bretagna e l’accesso di Londra al mercato unico europeo.

Schneider-Ammann e Juncker: rapporti cordiali, ma nessuna intesa. (Keystone)

Il negoziato non è ancora iniziato, ma si può prevedere che sarà lungo e che potrà essere influenzato anche da decisioni che Bruxelles potrebbe prendere nei confronti di altri Stati. Ogni concessione fatta alla Svizzera sulla libera circolazione delle persone potrebbe, quindi, essere invocata dalla Gran Bretagna e, in fin dei conti, anche da quei governi che non vedono di buon occhio l’afflusso di cittadini stranieri sul loro territorio. Per di più, l’UE vuole legare la libera circolazione ad un accordo istituzionale che agevoli i rapporti e che consenta di risolvere giuridicamente eventuali problemi di interpretazione e di applicazione degli accordi bilaterali. La Svizzera non è contraria all’accordo istituzionale, ma rifiuta di accettare possibili decisioni della Corte europea di giustizia, ossia sentenze di giudici stranieri, come vorrebbe Bruxelles, e vuol tenere separati i due dossier. Che cosa succederà ora? In ottobre, la Commissione delle istituzioni politiche del Consiglio degli stati discuterà il progetto approvato dal Consiglio nazionale e preparerà il rapporto che verrà approvato dalla Camera dei cantoni in dicembre, durante l’ultima sessione delle Camere del 2016. Se ci saranno divergenze con il Nazionale, le due Ca-

mere dovranno superarle entro la fine della sessione. Accanto alla certezza di questo percorso parlamentare vi sono però alcune incognite, che lasciano aperti vari possibili sbocchi. In primo luogo, non si sa se la trattativa in corso con Bruxelles farà progressi nei prossimi mesi. Passi concreti verso una soluzione condivisa potrebbero influenzare la decisione finale delle Camere. In secondo luogo, sussistono tutt’ora interrogativi sul modo in cui l’UDC reagirà di fronte alla soluzione che uscirà dai lavori delle Camere. Accetterà il verdetto, opterà per il referendum, oppure deciderà di lanciare un’iniziativa popolare per chiedere la revoca della libera circolazione delle persone? Infine, nei prossimi mesi verrà affrontata anche l’iniziativa RASA, che chiede l’abolizione dell’articolo 121 a della Costituzione federale. È possibile che il Consiglio federale e le Camere scelgano di opporle un controprogetto, per offrire al popolo la libertà di decidere tra la libera circolazione delle persone e gli accordi bilaterali con l’UE. Le incognite non mancano, dunque, e rendono in gran parte imprevedibili gli sviluppi che caratterizzeranno i rapporti tra la Svizzera e l’Unione europea nei prossimi mesi.

Trasporti ed efficienza economica Costi del traffico Se la globalizzazione induce a perseguire una migliore performance, la «chiave di volta»

è la mobilità di individui e merci Edoardo Beretta I trasporti nel Ventunesimo Secolo sono divenuti strumento essenziale per affrontare le sfide delle prossime decadi. È la globalizzazione a portare sempre più tale termine in contatto con un altro, cioè «efficienza». Emblematiche sono alcune immagini di recenti nevicate − nel caso specifico, scattate da grattacieli americani −, che mettevano in risalto (servendosi della neve quale mezzo di contrasto) il sovrappiù territoriale utilizzato nella pianificazione stradale. In altri termini, le parti di vie rimaste candide (non poche, peraltro, e ribattezzate subito sneckdown dalla crasi fra snowy,

«nevoso», e neckdown, «isola salvagente») simboleggiavano una gestione del bene «viabilità» non sempre confacente alle esigenze automobilistiche. La ricerca di «efficienza», da intendersi quale combinazione fra «economicità», «rapidità di gestione», «minor impatto ambientale», diventa già ora pressante, come dimostrano mezzi di trasporto – indipendentemente dagli oggetti (o dai soggetti) da veicolare – sempre più rivoluzionari quali droni o vetture dotate di autopilota. La dualità della tematica «trasporti» è particolarmente evidente: da un lato, l’individuo è orientato alla fruizione veloce e comoda di luoghi quali posto di lavoro,

località di vacanze o residenza, mentre dall’altro la strategicità di tale branca per il settore produttivo stesso è essenziale. In comune hanno, però, entrambe l’obiettivo di pervenire a soluzioni efficienti nel suo più ampio senso. Mai come ora, infatti, la risorsa «tempo» è percepita come «scarsa», cioè da farne uso oculato. Ad esempio, l’interconnessione rende necessari ricerca e sviluppi di risposte sempre più dinamiche per ridurre variabili quali le consegne, associandovi anche un risparmio in termini di costi: infatti, soluzioni di trasporto efficienti comportano un (potenzialmente) più rapido turnover degli ordini in ingresso. Apparentemente

Le città più trafficate in Europa Top ten delle città europee più trafficate1 1. Londra (zona pendolari) 2. Stoccarda 3. Anversa 4. Colonia 5. Bruxelles 6. Mosca 7. Karlsruhe 8. Monaco di Baviera 9. Utrecht 10. Milano

Numero medio di ore perse nel traffico (pro capite all’anno), 20152 101 73 71 71 70 57 54 53 53 52

PIL pro ora lavorata Forza-lavoro ($, prezzi correnti, (in milioni), 20154 3 PPA corrente), 2015 51,9 (Regno Unito) 32,95 (Regno Unito) 65,2 (Germania) 42,16 (Germania) 68,7 (Belgio)5 4,97 (Belgio) 65,2 (Germania) 42,16 (Germania) 68,7 (Belgio) 4,97 (Belgio) – 76,59 (Russia) 65,2 (Germania) 42,16 (Germania) 65,2 (Germania) 42,16 (Germania) 65,6 (Paesi Bassi) 8,93 (Paesi Bassi) 51,7 (Italia) 25,50 (Italia)

in modo banale ma assai concreto (e spesso irrisolto), il cittadino medio è piuttosto interessato alla riduzione dei tempi di percorrenza fra casa e lavoro. Se quest’ultimo argomento non rappresenta certo una novità, la «posta in gioco» è oggi forse più pesante: in società in cui l’individuo è sempre più «pressato» da svariati obblighi (familiari e lavorativi, ma anche sociali e ricreativi) ogni frazione di tempo eccedente la durata «x» potenzialmente sufficiente può ingenerare effetti a catena quali stress, ritardi lavorativi o rinuncia volontaria ad opportunità di acquisto. Se a ciò si accostano i dati su quanto PIL le principali nazioni europee generino ogni ora lavorativa − ma si pensi anche solo alle opportunità extra-lavorative sprecate −, è evidente che il traffico sia ben più del «solito» problema. Sono le economie post-industriali ad averci insegnato la dipendenza dal settore terziario – sia per consumi, sia per attività produttiva –, rendendo la crescita economica sempre più legata «a doppio filo» alla variabile «efficienza». Quanto è colpevole il poco uso di «telelavoro» e desk sharing, che comporterebbero migliore efficienza e work-life balance oltre che minore traffico e manutenzione dell’infrastruttura viaria, altrettanto lo sono le (troppo) poche sinergie create con il macro-tema della tutela ambientale. Quanti di noi hanno il loro impianto semaforico «preferito»,

dinanzi a cui sostano preziosi minuti e che li induce a pensare quanto salvifica sarebbe una banale «onda verde»? E non terrebbe neanche l’eventuale obiezione, per cui quel «rosso» abbia funzioni educatrici e disincentivanti: infatti, all’utente la mano pubblica dovrebbe offrire alternative di trasporto più che valide, che implicherebbero però un elevato grado di complessità gestionale e spesa collettiva. E, non ultimo, di quante ore dovrebbe constare la giornata per essere un «buon» cittadino? In ambito aziendale, invece, sono cruciali le tempistiche di consegna – sia business-to-consumer (B2C) sia business-to-business (B2B) – in quanto foriere di migliore rotazione del magazzino e crescente efficienza interaziendale. Se proiettato in ambito internazionale (da cui ciascuna economia dipende ormai sempre più), il problema evidentemente si complica ulteriormente e le occasioni di (in)efficienza si replicano. Molta «strada» è ancora da percorrere e competerà ai policymaker scoprire al più presto la «ricetta» ideale. Note

1. http://inrix.com/scorecard/ 2. ibidem 3. http://stats.oecd.org/Index. aspx?DataSetCode=PDB_LV# 4. https://data.oecd.org/emp/labourforce.htm 5. Dato del 2014


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 26 settembre 2016 • N. 39

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Politica e Economia

Le scappatoie delle banche per sfuggire ai tassi negativi

Politica monetaria Le banche cantonali possono essere un’alternativa ai depositi presso la Banca Nazionale:

vi si investono depositi che non raggiungono i limiti soggetti agli interessi minori negativi

Ignazio Bonoli Sembrano avvicinarsi sempre più le possibilità che le banche svizzere comincino a ribaltare sui loro clienti gli interessi negativi che devono pagare per i loro depositi presso la Banca Nazionale. Per il momento, in Svizzera, lo stanno già facendo piccole banche, come Swissquote o Banca Alternativa. In Germania, un istituto di grosse dimensioni come il gruppo Raiffeisen lo sta già facendo. Ma anche in Svizzera, grandi banche come UBS o anche Banca Migros sembrano intenzionati ad allargare la pratica. Ma – secondo una recente indagine della «Handelszeitung» – alcune banche in Svizzera stanno approfittando della situazione per trarne qualche beneficio. Infatti, non tutti gli istituti hanno raggiunto il limite che le esenta dal pagare interessi negativi alla BNS, oltre il quale devono pagare lo 0,75% di interessi negativi. Il settimanale cita in proposito il caso della Banca cantonale di San Gallo che finora ha utilizzato solo circa 2,7 miliardi dei 3,4 miliardi del limite esente da tassi negativi. Questo spazio viene sicuramente utilizzato per gli affari ordinari della banca, ma può anche essere investito per altri scopi. Per esempio per depositi a breve di investitori esteri. Ovviamente il tasso di interesse in questo caso

deve essere inferiore allo 0,75% richiesto dalla Banca Nazionale. L’operazione contribuisce comunque al miglioramento degli utili della banca. Questa specie di arbitrato viene praticato anche da altri istituti. Il gruppo di banche regionali Clientis dispone per esempio di un margine di un miliardo di franchi. Margine che ha praticamente utilizzato tutto nel primo semestre, migliorando il rendimento dei tassi di interesse di circa 350’000 franchi. Anche la bernese Valiant ha potuto migliorare il rendimento grazie ai 2,8 miliardi di franchi di margine di cui dispone. Tuttavia, questo utile non è bastato per coprire le perdite derivanti dalla politica dei «tassi negativi». Questo può anche essere interpretato come un buon risultato della politica della BNS per combattere una troppo forte rivalutazione del franco svizzero. Ma è proprio il meccanismo di applicazione di questa politica che permette a molte banche – anche cantonali – di migliorare i loro utili. Il limite non soggetto a interessi negativi corrisponde a 20 volte l’ammontare delle riserve minime che le banche devono depositare presso la Banca Nazionale. Limite che viene a sua volta calcolato in base agli impegni a breve presso clienti depositanti e altre banche. Le banche cantonali e molte banche commerciali

La sede della banca cantonale di San Gallo, uno degli istituti che trae beneficio dalla politica dei tassi d’interesse negativi della BNS. (Keystone)

basano una buona parte dei loro utili sul differenziale fra i tassi di interesse su grandi depositi a risparmio, per i quali devono detenere riserve minime elevate presso la Banca Nazionale. Questo ammontare produce anche un ammontare relativamente elevato di margine di manovra. Cosa che non si verifica presso le banche private che gestiscono patrimoni privati e necessitano di riserve minime obbligatorie minori. Il loro margine è quindi minimo

e preferiscono depositare le liquidità presso altre banche. L’indagine della «Handelszeitung» ha rilevato un sensibile aumento degli impegni presso «altre banche», che in certi casi hanno raggiunto cifre elevate. Per esempio la Banca cantonale di Svitto ha avuto un aumento del 1481% tra il 2014 e il 2016, la Banca cantonale grigionese del 244% e la Banca Baloise dell’86%. Il gruppo Raiffeisen, con forti depositi a risparmio, ha visto un aumen-

to del 43%. I dirigenti giustificano questi aumenti con un lapidario «gestione attiva delle liquidità», che per la Banca cantonale di Svitto ha significato un aumento da 51 a 808 milioni di franchi. In totale, presso le banche cantonali, gli «impegni presso banche» sono aumentati di 11 miliardi di franchi, cioè del 22% tra il 2014 e il 2015. In sostanza, una conferma che il mondo bancario considera il deposito presso le banche cantonali una buona alternativa agli interessi negativi da pagare alla Banca Nazionale. Ma la BNS non è sorpresa da questo fenomeno. Già in occasione dell’introduzione degli interessi negativi, il suo vice-direttore aveva previsto un certo trasferimento di soldi tra banche, che considera una conseguenza naturale del fatto che alcune banche sono soggette al pagamento di forti interessi negativi. Comunque, presso la BNS, vi sono già 170 miliardi di franchi soggetti a interessi negativi. In realtà, questo trasferimento completa la politica della Banca Nazionale che – globalmente – raggiunge l’obiettivo di un limite all’investimento in franchi svizzeri. Inoltre permette ad alcune banche – per esempio le banche private con rischi minori – di non versare somme elevate alla Banca Nazionale, che, a riguardo della politica di freno alla rivalutazione del franco, non sarebbero giustificati. Annuncio pubblicitario

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 26 settembre 2016 • N. 39

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Politica e Economia Rubriche

Il Mercato e la Piazza di Angelo Rossi La bolla si sta sgonfiando È già da un po’ di tempo che non si sente più parlare della bolla dell’edilizia. UBS continua a pubblicare le sue previsioni poco tranquillizzanti, ma la realtà del mercato della casa, in Svizzera, oggi è quella di un mercato nel quale la domanda è in fase di ristagno. La bolla che si temeva potesse scoppiare da un trimestre all’altro si sta sgonfiando adagio, adagio, senza apparentemente provocare troppi danni. Le fasi di una bolla speculativa sono di solito tre. La prima vede i prezzi del bene sul quale si specula aumentare rapidamente, molto più rapidamente di quanto aumenti la domanda. In una seconda fase la domanda comincia a diminuire ma i prezzi continuano ad aumentare anche se a tassi più contenuti. Questa è la fase più pericolosa perché fintanto che i prezzi aumentano lo speculatore investe creando così un eccesso di offerta sul mercato.

Infine quando la bolla scoppia, domanda e prezzi scendono in parallelo. Le riduzioni di prezzo possono essere ingenti. Nella fase di diminuzione della bolla dell’edilizia, nei primi anni Novanta dello scorso secolo, si ebbero riduzioni dell’ordine del 20-30%. Ovviamente quando la bolla si sgonfia chi ha investito solo a titolo speculativo rischia di dover servire un debito che è molto più grande di quanto riuscirà a conseguire vendendo l’immobile che ha realizzato sul mercato. Per lo speculatore è quindi molto importante poter seguire l’evoluzione della domanda. Da circa 4 anni la domanda di abitazioni in Svizzera ristagna. Anzi, per essere più precisi, diminuisce. Lo confermano i dati della statistica sulle abitazioni vuote. I dati della stessa vengono rilevati una volta all’anno, il primo di giugno, e pubblicati a inizio settembre. I risultati del rilievo più

recente (1. giugno 2016) dicono che il tasso delle abitazioni vuote ha raggiunto in Svizzera l’1,3% del patrimonio abitativo, un valore che non aveva più toccato dal 2000. La tendenza è, da più di 4 anni, all’aumento. Ci sono dunque sempre più alloggi vuoti. Intendiamoci, un tasso di alloggi vuoti pari all’1,3% non significa ancora che nelle città svizzere siano frequenti i cartelli «si vende» o «si affitta». Trovare un appartamento, in particolare un appartamento a prezzi contenuti, continua ad essere un problema di difficile soluzione. È però indubbio che per gli inquilini in cerca di un appartamento, la situazione odierna è molto migliore di quella che prevaleva ancora nel 2011. Per lo speculatore, invece, è suonato il campanello di allarme. Molte costruzioni nuove sono vuote. Ovviamente la situazione sul mercato della casa varia da regione a regione.

Per il momento il Ticino sembra essere il cantone maggiormente colpito dalla diminuzione della domanda, perché, tra il giugno del 2015 e il giugno di quest’anno, il numero delle abitazioni vuote in Ticino è aumentato del 22,4%. In nessun’altra regione del paese si è registrato un balzo in avanti delle abitazioni vuote di questa portata. I dati disponibili ci dicono che probabilmente sono due le ragioni che spiegano il perché di questo colpo di freno nell’evoluzione della domanda di abitazioni. La prima è demografica. Nel periodo di formazione della bolla dell’edilizia, cioè a partire dal 2011 e fino al 2014, il Ticino ha conosciuto una tasso di aumento della popolazione superiore all’1% annuale. Ogni anno, in questo periodo, la popolazione del cantone è aumentata di più di 5000 abitanti che hanno dovuto essere alloggiati costruendo nuove abitazio-

ni. Nel 2015 l’aumento di popolazione si è ridotto allo 0,4%. Di conseguenza la domanda di abitazioni, proveniente dall’aumento di popolazione, si è ridotta al disotto delle 1000 unità. Demograficamente parlando, il 2016 sarà uguale al 2015. L’altra ragione è il prezzo elevato dell’abitazione. La statistica, appena pubblicata, ci dice anche che a restare vuoti sono probabilmente gli oggetti più cari. Constatiamo infatti che il tasso di aumento delle abitazioni vuote è stato pari al 50,2% nella categoria «nuove abitazioni» e addirittura del 3400% nella categoria delle «abitazioni da vendere». Osserviamo infine che sull’evoluzione delle vendite di abitazioni hanno probabilmente agito in modo negativo anche i provvedimenti presi dalla BNS per contenere la crescita del mercato ipotecario. Pssssssssssssst, il pallone si sta sgonfiando!

nazionale esistesse già, sia pure latente. Non andava inculcato, ma risvegliato. E «patria» non era una parolaccia, né «l’ultimo rifugio delle canaglie», espressione che lo mandava in bestia, come quell’altro sui sigari e sulle onorificenze che in Italia non si negherebbero a nessuno. Era infatti uomo dalle furie improvvise, severo innanzitutto con se stesso, ma di animo profondamente buono. L’Italia gli deve molto. Eppure la sua morte ha fatto emergere uno scarto impressionante tra l’«Italia ufficiale» e l’opinione pubblica. Certo, molti italiani erano affezionati al presidente e l’hanno salutato con stima e commozione. Ma i commenti che ho ricevuto per mail o ascoltato di persona erano quasi tutti negativi. Molti lettori hanno ricordato i miliardi bruciati nella difesa della lira nel 1992. È possibile che all’epoca Ciampi abbia commesso errori; del resto la lira, oggi molto rimpianta, era la moneta più debole d’Europa, e questo consentiva alle aziende italiane di esportare ma ha ritardato l’innovazione e appesantito la competitività, con le

conseguenze che oggi sono sotto gli occhi di tutti. In verità, chiunque abbia seguito Ciampi all’estero ha potuto vedere il rispetto e la considerazione che lo circondavano, com’è accaduto a pochissimi politici italiani dai tempi di De Gasperi. L’idea nichilista, sospinta dalla rete, per cui i politici sono tutti uguali, tutti rubano allo stesso modo, è tutto un magnamagna e il più pulito c’ha la rogna, è un’idea sbagliata e dannosissima. Non è vero che sono tutti uguali. Ci sono i ladri e le persone oneste. Ci sono i corrotti e gli integri. Ci sono i servi e i liberi. Ci sono gli improvvisatori e i competenti. Basta con questa confusione becera per cui sono tutti colpevoli; perché altrimenti nessuno diventa davvero colpevole. Per quel che mi riguarda, saluto Carlo Azeglio Ciampi come una persona che mi ha insegnato molte cose, nei quattro anni in cui ho seguito i suoi viaggi per «La Stampa»; e non solo perché non ero mai stato a Helsinki e a Isernia, a Buenos Aires e a Susegana, a El Alamein e a Cefalonia. L’idea della Resistenza ampia l’ho trovata in lui. Ciampi non era un uomo di sini-

stra. Era un cattolico liberale. In Germania sarebbe stato cristianodemocratico. In Francia si sarebbe riconosciuto nell’ala riformatrice e sociale dei neogollisti. Le parole con cui è stato liquidato in Italia – da Salvini e non solo – confermano che la destra italiana è la peggiore al mondo. Una bella lezione è venuta al funerale dalla signora Franca. «Mi fa allegra la vita» diceva Ciampi di sua moglie. È stato così sino all’ultimo. Lui ha vissuto 95 anni molto intensi, ma alla fine segnati dalla malattia. Lei è apparsa piegata dal dolore, ma animata da una forza fisica e morale straordinaria. Senza Franca Pilla, Ciampi avrebbe fatto il professore di latino e greco al liceo di Livorno: la vita che aveva già cominciato. Fu la moglie, figlia di un dirigente della Banca d’Italia, a indurlo a dare il concorso per entrare in via Nazionale. La prima sede fu laterale: Macerata. Poi l’ufficio studi. Quindi il mestiere di governatore, nella difesa – a volte vana – della lira. Con la certezza di trovare a casa una donna sempre pronta a spronarlo e nello stesso tempo a «fargli allegra la vita».

il Rodano nei punti in cui era meno profondo. Respinti dalle fortificazioni e dall’intervento dei soldati romani, rinunciarono ai loro tentativi». Le cronache di allora riportano anche che, aggirato il muro ginevrino, gli Elvezi arrivarono dapprima allo scontro con i romani, poi alla sconfitta di Bibracte, nell’odierna Borgogna, e infine al forzato ritorno ai territori abbandonati, come intimato da Cesare. Quella è storia antica, obietterà chi oggi si preoccupa dei muri e del filo spinato che populismi e xenofobia impiegano contro i migranti. Certo: storia antica, ma non è che cause e soggetti proposti dall’attualità siano molto dissimili. Una prima conferma è giunta lo scorso 31 agosto dai resoconti sulla visita a Città del Messico che il già citato Donald Trump ha reso al presidente Enrique Pena Nieto. Rispettati obblighi di cortesia e toni diplomatici mentre era su suolo messicano, appena tornato in patria Trump ha ripreso a tuonare contro l’immi-

grazione di clandestini, confermando i suoi progetti e aggiungendo che «I messicani ancora non lo sanno, ma pagheranno loro il muro, al 100%». Pochi giorni ed ecco la vecchia Europa: ai tanti che già annovera ora aggiunge un muro anche a Calais, finanziato dal governo inglese, come ha spiegato con involontario «humour» la ministra degli Interni britannica Amber Rudd, per «permettere ai francesi di aumentare la sicurezza». Prevede una muraglia di circa un chilometro per proteggere i passaggi attraverso il tunnel della Manica dai migranti, accampati in condizioni al limite della vivibilità nei pressi del porto francese nella speranza di riuscire a salire su automezzi e treni in partenza per la Gran Bretagna. L’iniziativa anglo-francese è però un chiaro segno di resa al cospetto dell’epidemia europea di populismi e xenofobia. I confini orientali già toccati sono quelli fra Bulgaria e Turchia e fra Macedonia e Grecia. Più a nord,

un secondo fronte protegge invece le frontiere dell’Ungheria con Serbia, Croazia e Romania, come pure quella in comune fra Slovenia e Croazia. Nel variegato mosaico – specchio della crescita delle paure, prima ancora che dell’incarognirsi delle politiche di polizia e dei controlli ai confini – va inserito anche il rafforzamento programmato dall’Estonia entro il 2018: interessa la frontiera con la Russia e quindi, oltre che una sfida a Putin, anche questo è un chiaro segno di come questa corsa stia raggirando le emergenze e punti a «chiusure» ancor più pericolose. V’è solo da sperare, come scriveva l’«Economist» a inizio estate, che «i costruttori di muri» non dividano l’Europa in tanti pezzetti in lotta fra loro. Perché se è vero che la storia si ripete e induce gli uomini a inciampare sempre nei medesimi errori, altrettanto vero è che questo capita quando non c’è più nessuno in grado di esortarli o di guidarli, soprattutto se occorre andare controcorrente.

In&outlet di Aldo Cazzullo Ciampi, l’orgoglio nazionale La morte di Carlo Azeglio Ciampi ha costretto gli italiani a una riflessione su se stessi. L’ex presidente della Repubblica ha avuto il merito di ricostruire un po’ di orgoglio nazionale. La rassegna del 2 giugno, aperta ai corpi in missione di pace nel mondo. La riscoperta del tricolore e dell’inno di Mameli, «da ascoltare seri e sull’attenti», come precisò dopo che Schumacher ne aveva riso su un podio di Formula 1. Il recupero del Vittoriano: la «macchina per scrivere», la «torta nuziale» fu restituita alla dignità di simbolo nazionale, a cominciare dalle scritte sui due frontoni: «patriae unitati», all’unità della patria, e «civium libertati», alla libertà del cittadino; a ricordare che il Risorgimento aveva segnato non solo l’unificazione, ma anche l’avvio del progresso delle libertà civili, l’abolizione dei ghetti, della forca e dei privilegi del clero, l’istruzione gratuita e obbligatoria, l’esordio della democrazia rappresentativa. Più in generale, Ciampi ha riconciliato gli italiani con la loro stessa storia, tradizionalmente rappresentata come

una sequela ininterrotta di sciagure: la Controriforma senza riforma, il Risorgimento incompiuto, la vittoria mutilata, la Resistenza tradita, i proletari senza rivoluzione. Da presidente della Repubblica andò a El Alamein, a rendere omaggio al valore sfortunato della Folgore, a dire che non ci si doveva vergognare di aver combattuto la Seconda guerra mondiale. E andò a Cefalonia, a ricordare che la Resistenza non fu fatta solo dai partigiani comunisti, ma anche dai militari – quale era lui stesso –, dai civili, dalle donne, dagli ebrei, e dagli oltre 600 mila internati in Germania, di cui all’epoca si parlava se possibile meno ancora di adesso. Non sempre fu il primo; da Einaudi a Cossiga altri capi dello Stato avevano avuto gesti e sensibilità analoghi; ma fu Ciampi a elaborare un disegno, un progetto, un’idea dell’Italia, da condividere con il più vasto numero possibile di cittadini, forte del fatto di essere stato eletto al Quirinale anche con i voti del centrodestra. Era convinto che gli italiani fossero più legati all’Italia di quanto non fossero disposti a riconoscere. E che il sentimento

Zig-Zag di Ovidio Biffi Muri di cemento e filo spinato Fine estate segnata dalla corsa a rafforzare confini e a erigere nuovi muri, come se non bastassero quelli che, dimenticati, durano da decenni. Ad esempio quello di Cipro, fra parte turca e parte ellenica; oppure quello fra le due Coree, ancora più vetusto… Non dimenticheremo mai invece (nemmeno il suo nome ufficiale: «Antifaschistischer Schutzwall») l’unico muro visto crollare sotto i picconi della gente, quel muro di Berlino che per quasi 30 anni ha consentito all’ideologia marxista di dividere tutto e tutti, non solo la Germania, dalla cultura sino allo sport. Più difficile, visto il tempo trascorso, ricordare che anche in Svizzera abbiamo avuto un muro. Non un baluardo naturale, come le Alpi, un vero muro, abbastanza simile (soltanto più corto) a quello che il candidato repubblicano alla presidenza degli Stati Uniti Donald Trump prevede lungo i confini con il Messico. E duemila anni fa i messicani alle prese con un muro eravamo

noi! Infatti il De Bello Gallico, il libro di Giulio Cesare, documenta che gli Elvezi, decisi ad abbandonare le loro terre, dopo aver distrutto città e villaggi, erano in marcia guidati da Orgetorige per spingersi a occidente, verso Gallia e Provenza. L’esodo elvetico non incontra però il «placet» di Giulio Cesare che raggiunge Ginevra dove, «impiegando la legione al suo seguito e i soldati giunti dalla provincia, scava un fossato ed erige un muro lungo diciannove miglia e alto sedici piedi, dal lago Lemano, che sbocca nel Rodano, fino al monte Giura, che divide i territori dei Sequani dagli Elvezi. Ultimata l’opera, dispone presidi e costruisce ridotte per respingere con maggior facilità gli Elvezi, se avessero tentato di passare suo malgrado». Dice ancora il mio più bel libro di storia: «Gli Elvezi cercarono di aprirsi un varco sia di giorno, sia, più spesso, di notte, o per mezzo di barche legate insieme e di zattere, che avevano costruito in gran numero, o guadando


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 26 settembre 2016 • N. 39

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Cultura e Spettacoli Una visione per la cultura A colloquio con Yvonne PesentiSalazar, instancabile promotrice del Percento culturale Migros

Due anime per il pianoforte Le sorelle Katia e Marielle Labèque hanno saputo dare un nuovo slancio all’universo della musica

L’arte di architettare Alla Biennale di Architettura di Venezia la Svizzera è presente con Incidental Space di Kerez

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Gonzato e lo spirito Aurelio Gonzato, fratello minore di Guido, in mostra a Bioggio pagina 45

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Cambiamenti epocali Letteratura Joshua Singer e Stefan Zweig

non furono solamente grandi narratori, ma anche testimoni di profondi mutamenti storici

Luigi Forte Diceva Goethe che i viaggi migliori sono quelli che si fanno col pensiero, che permette spostamenti repentini e fughe in spazi sconfinati. Ma sarebbe stato difficile anche per lui, proiettato nel futuro, immaginarsi la Russia postrivoluzionaria stando seduto in una comoda poltrona della sua amata Weimar. Bisognava esserci in quel caos, quando l’armata rossa si faceva strada a fatica e carestia ed epidemie erano all’ordine del giorno. Ne seppe qualcosa il romanziere yiddish Joshua Singer, fratello maggiore del premio Nobel, che dalla natia Varsavia si era trasferito proprio in quegli anni in Ucraina partecipando al Gruppo di Kiev legato al simbolismo e all’avanguardia. La sua scrittura non badava agli esperimenti formali ma alla sostanza delle cose. Nel volume di racconti Sulle rive del Mar Nero proposto da Passigli Editori nella vivace traduzione di Sofia Dilaghi e Luca Merlini, Singer, a cui dobbiamo capolavori come La famiglia Karnowski e I fratelli Ashkenazi, entra nel clamore rivoluzionario quasi dalla periferia seguendo con affetto i suoi correligionari ed evocando l’atmosfera del tempo fra Odessa e i piccoli villaggi ebrei dell’Europa centrale con curiosi e imprevedibili personaggi. Come sempre la sua pagina trabocca di tensioni e sofferenze appena attenuate da una buona dose di humour ebraico. Impossibile non lasciarsi coinvolgere dal destino del diciottenne Pinhas Pradkin figlio di un umile rabbino della regione del Cherson, il cui sogno era di imbarcarsi per la Palestina su una delle molte navi che sostavano nel porto di Odessa. Quel nostalgico liceale, grassottello e dalle guance rosse, che ama la poesia di Rabbi Yehuda Ha-Levi e conosce a menadito la Bibbia, era solito dire: Io sono in Occidente, ma il mio cuore è in Oriente. E chissà che un giorno non riesca ad arrivare fin laggiù nonostante la vita lo avvolga in una spirale insensata di lotte e violenze. La distruzione del suo villaggio, la morte di parenti e amici lo trasformano in un combattente coraggioso e deciso, un po’ come quei soldati ebrei – nel racconto Alla stazione di Bachmač – che ripor-

tano l’ordine su un convoglio ferroviario dove marinai insolenti e aggressivi hanno accumulato di nascosto merci di contrabbando. Anche Pinhas passa alla rivoluzione diventando comandante di un «reggimento internazionale», che annovera soldati di ogni genere: ebrei, cinesi, tartari e russi. In questo lungo racconto che dà il titolo al volume, Singer scrive pagine di epica bellezza in cui, fra mille dettagli, mai si disperde il senso ultimo dell’antica vocazione. «Non riusciranno a cambiarmi», dice alla fine il giovane al compagno commissario. Il richiamo della Palestina è ancora nel suo cuore e sopravvive a ogni tempesta. È il senso della coerenza verso se stessi, pur nella metamorfosi storica, ciò che tiene desto – nel surreale racconto Lucas – anche un bel levriero russo dal muso aguzzo e dalla coda folta. Il suo padrone, un generale dei corpi della riserva, viene degradato; lui stesso, tentando di difenderlo, ci rimette la coda. Povera bestia, costretta a seguire il destino di quell’uomo dal volto glabro color mattone. Ma la rivoluzione – sembra suggerire Singer dal suo ironico osservatorio – ha un premio per ogni creatura pronta all’insubordinazione e ostile alla vecchia classe zarista. E non importa se, in questo caso, il motivo non è dei più nobili: l’impossibile amore per una cagna dal pelo ispido e il timore di essere castrato. Basta un balzo e la libertà è a portata di zampe: il levriero Lucas verrà adottato e sfamato da giovani militanti rivoluzionari. Insomma, i tempi nuovi segnati dalla guerra civile e dal disorientamento generale, lasciano un filo di speranza a tutti coloro – uomini o bestie – che cercano di sottrarsi alla schiavitù della vecchia classe dirigente. Nel ritmo assillante e caotico della vita che percorre le pagine di Singer non è difficile percepire l’entusiasmo per i tempi nuovi. A distanza di anni lo ritroviamo, elargito pur con generosità, in forme di pacata riflessione intellettuale nei brevi reportage dell’ebreo viennese Stefan Zweig raccolti nel volumetto Viaggio in Russia, che lo stesso Passigli pubblica ora nell’ottima traduzione di Vittoria Schweizer. Sono articoli scritti nel 1928 durante il

Un artigiano ebreo della regione della Galizia, ritratto intorno al 1920. (Keystone)

soggiorno di due settimane a Mosca, Leningrado e a Jasnaja Poljana, dove lo scrittore austriaco visitò la tomba di Tolstoj, sul quale tenne anche un discorso in occasione delle celebrazioni del centenario della nascita. Nel ruolo di testimone e non di giudice politico, a dieci anni dalla rivoluzione d’Ottobre, egli esalta il popolo russo avvezzo alla sofferenza che ha dimostrato, in misura straordinaria, volontà e pazienza capaci di sopravvivere ad ogni epoca, di sconfiggere Napoleone e l’autorità zarista, di progettare un nuovo futuro dando vita ad un esperimento sociale in cui la cultura – università, buone scuole, musei, arte – ha un ruolo fondamentale. Non secondarie sono, in questo caso, la disponibilità e l’abnegazione di molti intellettuali pronti a collaborare a quello storico progetto. Ne incontra egli stesso alcuni, come il regista Ejzenštein confinato in un’unica stan-

za, dove vive e lavora, dopo aver rifiutato gli allettamenti di Hollywood e Gor’kij – di cui offre un intenso ritratto –, che pur afflitto da gravi problemi di salute, ha voluto tornare in patria dal suo terapeutico soggiorno italiano per collaborare alla rinascita culturale del paese. Figure che Zweig coglie in felice sintesi con la realtà circostante, fra l’immagine di Mosca che gli appare come «un’immensa sinfonia atonale» e lo scenario artistico di Leningrado in cui traspare fortuna e decadenza dello zarismo, una città senza vita, «involucro muto, riecheggiante solo il passato, grandioso per la Storia, tragico per il presente». Curiosando fra la Piazza Rossa, il Cremlino, i musei della capitale, così come tra i dipinti o nella camera del tesoro dell’Ermitage, Zweig si sofferma sulle grandi contraddizioni di quel paese, la grandezza e ricchezza smisurate e la povertà e l’infernale miseria

di gran parte della popolazione. Ma il suo sguardo analitico non ha i tremori di Singer: i gesti della vita sembrano ormai racchiusi, pur nel loro divenire, in una sorta di intelligente e commosso Baedeker. Certo in quella dimensione e a quelle latitudini tutto è diverso, perfino la percezione del tempo e dello spazio. Quel paese rimane senza paragoni, non ancora contaminato come le capitali europee da inarrestabili processi di assimilazione, che Zweig aveva già intravisto qualche anno prima nella tendenza a un generale livellamento di ogni secolare identità. Ma anche lui dovette ricredersi di fronte allo stalinismo e alla dittatura, che denunciò nel suo grande libro Il mondo di ieri. Eppure in queste sapienti e vivaci pagine la stagione della speranza sembra non aver mai fine, ancorata purtroppo a un mondo che travolgerà anche lo scrittore nel suo triste e drammatico esilio.


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Cultura e Spettacoli

Al servizio di scuola e cultura Intervista A colloquio con Yvonne Pesenti Salazar sulla sua attività di Responsabile del Percento culturale

e della Scuola Club di Migros Ticino, alla vigilia del suo pensionamento

verso la lunga collaborazione l’Ala Est del Museo Cantonale d’Arte. Per i suoi 70 anni Migros Ticino ha istituito il Premio Migros Ticino per la creazione artistica, al fine di promuovere anche fuori cantone il lavoro degli artisti della regione. Nel contempo sono nati alcuni progetti nel campo delle tradizioni e della cultura popolari – in primis grazie all’intensa collaborazione con il Centro di dialettologia ed etnografia. La collaborazione, nata nel 1999 con l’intento di diffondere e far conoscere meglio il patrimonio culturale legato al dialetto, si è ampliata negli ultimi tre anni ad una collaborazione con Rete Tre e i suoi Frontaliers, ed ha infine portato, nel 2015, al progetto «italiando», che ha l’obiettivo di promuovere la lingua italiana tra i giovani di tutta la Svizzera. Oltre Gottardo questo progetto ha riscosso un successo di gran lunga superiore alle nostre aspettative.

Peter Schiesser Con la pubblicazione del programma della 57.esima stagione del Percento culturale di Migros Ticino, il 15 settembre scorso, la Responsabile del Percento culturale e della Scuola Club Yvonne Pesenti Salazar conclude la sua attività a Migros Ticino. Un’occasione per un bilancio approfondito dei suoi quasi 18 anni di lavoro al servizio della Cooperativa. Yvonne Pesenti, lei conclude una lunga carriera, tutta in ambito culturale. Ma una persona come lei può davvero andare in pensione?

Ho avuto la fortuna di fare di una passione, che ho da una vita, un lavoro, e non credo che da una passione si possa andare in pensione. Idealmente e a titolo personale continuerò a seguire ciò che finora seguivo per motivi professionali. Il mio lavoro mi ha permesso di intrecciare i miei interessi personali con la professione. Prima di lavorare a Migros sono stata per anni a Pro Helvetia, quindi da quasi trent’anni mi occupo di cultura. Quale responsabile del Dizionario storico della Svizzera, in precedenza ho lavorato a lungo anche come storica. Ora vorrei ritornare alla storia, per concludere un’ampia ricerca iniziata anni fa e pubblicare un grande archivio relativo alle vicende di numerose ragazzine ticinesi emigrate nella Svizzera tedesca dalla fine dell’Ottocento alla fine degli anni Trenta. Ci sono anche dei progetti culturali ai quali vorrei dedicare le mie energie. Ne cito uno: il Monte Verità.

Erano ovviamente qualcosa di molto diverso, sia la Scuola Club che il Percento culturale. La scuola era diversa anche dalle Scuole Club delle altre regioni svizzere. Ben frequentata, ma in sostanza una scuola di lingue e in gran parte però anche, come la si definiva, una «scuola dell’uncinetto». Una scuola popolare, che però non faceva rete con altre realtà presenti sul territorio. Per il Percento culturale si può dire che aveva una lunga tradizione, ma lavorava in modo più circoscritto e senza focus precisi. Che visioni, quali obiettivi si era posta, all’inizio?

Avendo abitato a lungo a Zurigo, conoscevo bene la Scuola Club e il Percento culturale di quel cantone, per cui avevo dei termini di paragone. È stato così più facile sviluppare una visione e darsi degli obiettivi. Per me era chiaro che occorreva ringiovanire la scuola e il suo pubblico di riferimento, ma in primo luogo essa andava allineata agli standard nazionali. Per il Percento culturale avevo in mente, oltre a vari nuovi progetti, di definire criteri di sostegno e d’intervento che tenessero conto dell’evoluzione in atto e delle nuove modalità di fruizione che andavano delineandosi. Mi è servita l’esperienza fatta in seno a Pro Helvetia, che attuava una promozione culturale mirata, in base a linee strategiche precise. Però la prima cosa che ho fatto, un mese dopo aver assunto la funzione, è stato cambiare il «marchio», introducendo la denominazione «Percento culturale» – quando sono arrivata a Migros Ticino si parlava infatti di «Sezione culturale e sociale». Durante questi quasi 18 anni, uno dei miei obiettivi principali è stato impegnarmi per mettere in luce questo marchio, sia per valorizzarne lo straordinario potenziale e i contenuti, che per evidenziarne il valore ideale. Con quanta autonomia ha potuto agire, considerato che sia la Scuola

Stefano Spinelli

Ci dica, che cos’erano la Scuola Club e il Percento culturale quando è arrivata a Migros Ticino, alla fine degli anni Novanta?

Ci ricordi quale filosofia sta alla base del Percento culturale.

Club sia il Percento culturale hanno una cornice, per così dire, nazionale?

Migros Ticino mi ha lasciato un’autonomia pressoché totale. Il direttore Ulrico Hochstrasser, che mi ha assunto, mi ha dato chiari obiettivi: e carta bianca per raggiungerli! E così è stato anche in seguito, con Lorenzo Emma, per tutto il corso della mia attività a Migros Ticino. Per quanto riguarda l’ambito nazionale è stato importante ritrovare una maggiore sintonia con quanto si faceva e si fa, in entrambi i campi, nel resto della Svizzera. La cornice nazionale è stata una fonte di ispirazione, uno stimolo a guardare oltre la realtà locale e i suoi stereotipi, ma anche e soprattutto la possibilità di avviare un gran numero di belle e proficue collaborazioni. È soddisfatta degli obiettivi raggiunti? Prendiamo la Scuola Club, per cominciare.

Sì, credo di poter dire che la Scuola Club è diventata un’istituzione di formazione moderna, che si avvale di docenti qualificati e molto ben formati. Ha un pubblico assai più giovane, la cifra d’affari è passata in 15 anni da 2,7 milioni a quasi 5 milioni di franchi. Quindi alcuni risultati ci sono. È una scuola che risponde pienamente alle esigenze attuali della formazione continua, per cui tra le altre cose collabora con tantissime aziende. C’è stato un cambiamento di paradigma: da una scuola del tempo libero è passata a essere una scuola che propone prevalentemente corsi di lingue, informatica e di formazione professionale. Anche i corsi di ginnastica di un tempo, hanno lasciato spazio a un’attività di promozione a tutto tondo della salute e del benessere – un aspetto che Migros ha posto tra le sue priorità, anche nelle sue attività commerciali.

Oggi ci sono sicuramente più corsi e sono maggiormente frequentati...

Non ci sono più corsi, direi anzi che ce

ne sono di meno. La parte dedicata agli hobby, ai lavori manuali e creativi, che occupava paginate nel programma di allora, si è ridotta a una decina di proposte. Il numero dei partecipanti è rimasto abbastanza costante, ma l’offerta formativa è radicalmente cambiata. La Scuola Club propone ora un numero sempre maggiore di corsi di diploma, di percorsi formativi professionalizzanti, molto richiesti da un’utenza che fa formazione per acquisire competenze spendibili anche in ambito professionale.

E nel Percento culturale? Si può affermare che oggi resta un importante strumento di politica culturale?

Lo credo anch’io. È molto chiaro che non è un’istituzione che si occupa di sponsoring nel senso che si dà comunemente a questo termine. Il Percento culturale è molto di più: è aperto a tutte le discipline artistiche, ed è riconoscibile per il suo modo di operare. Lavora con criteri di assoluta trasparenza, è in contatto con l’utenza, e col tempo divenuto è anche un centro di competenza al quale gli operatori si rivolgono per avere dei consigli. Una delle sue cifre caratteristiche è quella di incoraggiare l’innovazione. Ad esempio abbiamo lanciato in Ticino progetti sociali molto innovativi – come Innovage, AvaEva, ConTAKT – e ce ne saranno sicuramente altri. Un modo di operare molto apprezzato dagli operatori e dal pubblico, ma anche una modalità di finanziamento unica nel suo genere. Ancorando il Percento culturale negli statuti aziendali già nel lontano 1957, la Migros ha dato vita a una particolare forma di mecenatismo di impresa, anche questo unico nel suo genere. Quanto denaro viene messo a disposizione all’anno, per la Scuola Club e per le attività sociali e culturali?

Da anni la cifra che la Cooperativa Migros Ticino mette a disposizione per attività culturali e di formazione è

abbastanza stabile, e si aggira attorno ai 2,5 milioni di franchi l’anno. Grosso modo 1,7-1,8 milioni servono per coprire il deficit della Scuola Club, il resto viene dedicato alla cultura, ai progetti sociali e alle spese amministrative.

C’è qualcosa di cui va particolarmente orgogliosa?

Credo di essere riuscita a riposizionare la Scuola Club, senza tuttavia farne una scuola, come dire, più «elitaria». È diventata una scuola più moderna, che offre una formazione di ottima qualità, ma nel contempo è rimasta una scuola popolare. Questo è un aspetto che a me personalmente piace molto, perché è «molto Migros». Anche se lavora nelle aziende, con utenti che vogliono conseguire un diploma, la Scuola Club è la scuola di tutti, quale è sempre stata. Qui in Ticino esisteva il modo di dire (esiste ancora, credo): «ma te l’è imparàa a la Migros?», e un tempo lo si diceva evidentemente con un filo di disprezzo. A me piacerebbe che si continuasse a dire «te l’è imparàa a la Migros», ma a significare che per la formazione continua la Scuola Club è ancora la «scuola per antonomasia», la scuola dei ticinesi, certo con contenuti e qualità di alto livello, ma una scuola davvero popolare. Per quanto riguarda la cultura, credo si possa dire che gli interventi di sostegno, pur rimanendo sempre molto vicini alle esigenze di un pubblico molto ampio, non elitario, si basino ora su criteri più in linea con gli sviluppi degli ultimi anni, che non sono più quelli tradizionali, mutuati dal concetto di cultura borghese di stampo novecentesco. Da oltre un decennio, ad esempio, il Percento culturale si è aperto a progetti digitali e alle culture giovanili. In campo musicale ha dato spazio alla musica rock, con Palco ai Giovani, e alla musica contemporanea, con il progetto 900/Presente. Ma è aumentata anche l’attenzione per l’arte contemporanea, tra l’altro anche attra-

Il Percento culturale deve essere innovativo, deve saper coniugare tradizione e innovazione, e deve promuovere progetti di qualità. Deve applicare criteri per un sostegno ad ampio raggio, aperti a molti generi artistici e alle molte diverse declinazioni del concetto di cultura, perché occorre tener conto non esiste «il» pubblico, ma pubblici eterogenei, con gusti e modalità di fruizione molto diversi. I progetti devono essere di qualità. Il Percento culturale deve permettere ai progetti di avere una continuità, quindi deve lavorare con gli operatori sulla progettualità. La politica di promozione dev’essere equilibrata, non deve privilegiare né particolari generi artistici, né alcune regioni a scapito di altre. Questi a grandi linee i criteri operativi, che sottendono alla volontà, espressa nelle linee guida di Migros Ticino, di rendere accessibili a un gran numero di persone delle prestazioni culturali di alta qualità. Quale responsabile di un Dipartimento, ha fatto parte della direzione di Migros Ticino: come ha vissuto la «tensione» che può sorgere fra i suoi obiettivi di politica culturale e di sostegno alla formazione e gli obiettivi commerciali dell’azienda?

Cultura ed economia, è noto, sono due entità per loro natura sono antitetiche. Ma che tuttavia coltivano un singolare rapporto di attrazione reciproca. Mi spiego: la cultura ha, da sempre, bisogno dell’economia e dei suoi mezzi finanziari, ma da sempre teme che l’economia intervenga a limitare la sua indipendenza, creativa e di pensiero. Da parte sua l’economia tende a considerare la cultura «poco produttiva», ma vede nel contempo nella cultura la promessa di quello di cui ha bisogno: ossia la creatività, la libertà di innovare, la visione del futuro. Inoltre intuisce che la cultura può diventare il ponte che la ricongiunge alla società. Credo sia un po’ così in tutte le aziende che sostengono la cultura, e a volte può essere così anche all’interno di Migros Ticino. Più che tensione direi che c’è una sorte di strana attrazione, una dicotomia. Con una differenza: Migros la cultura ce l’ha nel DNA da oltre 50 anni, da quando, nel 1957, Gottlieb Duttweiler ha ancorato negli statuti dell’azienda la promozione della cultura – formalizzando del resto un’attività che Migros già stava espletando da decenni. Questo fatto, cioè che il sostegno alla cultura sia diventato un obiettivo aziendale, fa la differenza. Per cui da questo punto di vista non ci sono mai state tensioni di sorta: in quest’ottica devo dire che il mio lavoro non è stato solo facile, ma anche molto stimolante ed estremamente arricchente.


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Cultura e Spettacoli

Amare la musica per capirla

Incontri Katia e Marielle Labèque, che insieme formano il duo pianistico più celebre del mondo, raccontano

gli esordi della propria carriera, l’importanza della produzione contemporanea e l’amore per la musica Enrico Parola Madonna le ha definite «le migliori pianiste del mondo». La classica non è certo il regno di miss Ciccone e quindi il suo giudizio non vale una laurea, però certifica una fama andata ben oltre i confini in cui abitualmente si muovono orchestre e pianisti, Mozart e Beethoven. Facile, verrebbe da dire, quando si è due sorelle brave e belle, felici e sorridenti, aiutate dal talento e da personaggi di spicco del panorama musicale. Ma non si arriva a creare un’etichetta discografica propria, una fondazione benefica, neppure si riesce ad acquistare un appartamento nel centro di Roma appartenuto alla dinastia Borgia dove custodire alcuni dei 17 pianoforti di famiglia, se nella vita non succede qualcosa di speciale. Come è accaduto a Katia e Marielle Labèque, oggi il duo pianistico più famoso, glorioso e fascinoso al mondo. «Stavamo suonando in Conservatorio, a Parigi, le Visions de l’Amen di Messiaen, brano difficilissimo, quando sentiamo bussare alla porta dell’aula ed entra Messiaen stesso! Era contento di come stavamo suonando il suo brano, ci propose di inciderlo e poi iniziò a presentarci a vari personaggi del mondo musicale. Eravamo giovani ma la strada era già spianata». Il classico colpo di fortuna, col musicista più influente del tempo che passa proprio in quel momento; per colpirlo però bisognava suonare bene e per le sorelle Labèque anche l’essere lì a Parigi non era affatto scontato. Nate a Bayonne,

Pirenei atlantici, Katia l’11 marzo 1950 e Marielle il 6 dello stesso mese ma del 52, crebbero a pane e musica: «Nostra madre aveva studiato pianoforte con Marguerite Long, grande amica di Ravel: fu lei a tenere a battesimo il Concerto in sol, di cui era dedicataria; ovvio quindi che Ravel impazzava in casa, tra una crostata e una cioccolata mamma ci suonava Ma mère l’Oye. Ancora oggi è uno dei brani che suoniamo più spesso: c’è dentro la purità della fanciullezza, lo sguardo del bambino che sogna e al tempo stesso sa vedere il reale; uno sguardo fantasioso e un cuore aperto che io e Marielle ci siamo sempre sforzate di mantenere». Se davanti a una tastiera le loro quattro mani cercavano di fondersi, i loro caratteri ben presto si differenziarono: «Io sono quella chiacchierona, Marielle più silenziosa e meditativa; io vesto moderno, lei più elegante e classica; lei guarda indietro, al Barocco, io guardo avanti: ascolto pop e jazz, adoro i Radiohead e ho suonato con Sting, Chick Corea e Herbie Hancock. Lei si è sposata con un grande direttore, Semyon Bychkov, io vivo con David Chalmin, chitarrista e produttore. Istintivamente saremmo diverse anche nel modo di suonare: lei ha un suono più potente, soprattutto nei bassi o nelle parti più virtuosistiche; una differenza che aiuta in brani come la Sagra della primavera, un altro dei nostri brani più frequentati». Ravel, Stravinskij, Poulenc e poi tanti autori contemporanei con cui hanno collaborato direttamente, da Boulez a Berio e Ligety: «È l’esito quasi inevitabile dell’incontro

Le sorelle Labèque agli inizi della carriera, nel 1968. (Keystone)

con Messiaen: fu lui a farci incontrare questi i suoi colleghi, cioè i maggiori compositori di quegli anni; poi siamo andate avanti da sole, ma sempre su quella via». Per procedere più spedite hanno fondato anche una loro casa discografica, la KML Records: «Un modo per gestire meglio il tempo: così possiamo decidere noi quando, come e dove incidere, ottimizziamo i tempi e soprattutto non dobbiamo sottostare ai diktat di manager e discografici, siamo completamente libere nelle scelte artistiche». Katia guarda, anzi scappa avanti anche quando ricorda il passato; si torna indietro di mezzo secolo, ai loro caratteri: «Vuole sapere se Marielle era la figlia più tranquilla e io quella ribelle? Sinceramente non c’è stato tempo

e neppure l’occasione per capirlo. Io avevo 13 anni e Marielle 11 quando decidemmo di andare a Parigi a studiare; mamma sapeva che era un passo necessario per perfezionarci ed entrare nel mondo della musica, ci spinse anche se per lei era un sacrificio venirci a trovare: amava la costa basca, la città non era il suo habitat». Le Labèque entrarono nella massima istituzione musicale della capitale con due obiettivi ben chiari: perfezionarsi e suonare assieme. Il duo non è stato dunque pianificato a tavolino da qualche manager discografico o da un esperto di immagine: «No, avevamo sempre suonato assieme e volevamo continuare a farlo; infatti una delle prime cose che cercammo di scoprire era quale fosse il repertorio per due pianoforti. Fu lì che un professore

ci consigliò le Visions, noi iniziammo a studiarle e un pomeriggio…». Con l’ingresso di Messiaen si chiude il cerchio e la narrativa lascia il posto alla riflessione; in particolare Katia riprende il tema della musica contemporanea: «Penso che il pubblico generalmente la guardi con paura perché non la si ascolta quasi mai: quanta contemporanea viene fatta passare in radio – della tv non parlo neanche? Se c’è è spesso confinata in concerti monografici dove vanno solo gli appassionati, viene percepita e vissuta come una nicchia, per pochi da coltivare e per tutti gli altri da tenere a debita distanza. Sa qual è il problema maggiore? È che spesso si ascolta qualche brano contemporaneo quando ormai si è adulti, un’età in cui ci si sente in dovere di aggiungere sovrastrutture intellettuali, concettuali, storiche. Invece se un bambino sente per la prima volta Ravel o la Sagra si diverte, perché reagisce alla musica e basta». È dunque per un approccio naif? «No di certo, conoscere l’autore e la sua epoca aiuta sia l’interprete sia il pubblico; ma la prima cosa per capire la musica è amarla, non saperla analizzare». Da qui trae la sua concezione di libertà: «Non significa suonare come si vuole, ma amare a tal punto un autore da immedesimarsi con lui: quando suoni Mozart o Ravel e hai l’impressione che il brano sta nascendo in quel momento, quando ti viene da suonare una certa nota perché la senti logica ed è proprio quella scritta dall’autore, in quel momento stai suonando libera». Annuncio pubblicitario

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Cultura e Spettacoli

Giovani e un po’ sdolcinati

Animali che parlano

Musica Allegro ma non troppo: la colonna sonora dell’attesissimo

film Io Prima di Te si rivela una buona occasione per apprezzare diversi nuovi nomi della scena alternativa angloamericana

Benedicta Froelich Non capita spesso, nell’ambito delle nuove uscite discografiche, di imbattersi in una colonna sonora cinematografica dallo spirito particolarmente fresco e coinvolgente, che riesca nella non facile impresa di risultare godibile anche per l’ascoltatore medio, indipendentemente dal progetto cinematografico che rappresenta. È questo il caso della soundtrack dell’attesissimo film romantico Io Prima Di Te (Me Before You, tratto dall’omonimo romanzo bestseller di Jojo Moyes), a tutti gli effetti uno degli eventi cinematografici di quest’anno. Un CD che si concentra su brani di respiro languido e appassionato, in linea con i sentimenti evocati dalla delicata storia d’amore tra il giovane tetraplegico Will e la gentile e ingenua Louisa: sentimenti che peraltro contrastano piacevolmente con lo scenario dell’ultima storia d’amore letteraria approdata sui nostri schermi – l’improbabile saga softporno di Cinquanta sfumature di grigio, innegabilmente una delle peggiori calamità editoriali degli ultimi anni. Per fortuna, qui affrontiamo invece un’agrodolce vicenda romantica, che finisce per virare inaspettatamente sulla tragedia, affrontando con coraggio la controversa questione dell’eutanasia per sottoporla al pubblico perlopiù giovanile al quale il film sembra rivolto. Forse anche per questo, la colonna sonora diviene l’occasione per permettere a una serie di nuovi talenti della scena «alternativa» inglese e americana di proporsi al grande pubblico: tanto che il CD costituisce un ottimo showcase dell’attività di tutti gli artisti coinvolti, poiché la maggior parte delle tracce provengono dal loro personale repertorio, e ben pochi dei brani qui presenti sono stati composti appositamente per questo progetto. Non a caso, una delle gemme dell’album è Unsteady, eccellente rivisitazione per voce e orchestra di una già iconica ballata della indie band statunitense degli X Ambassadors: la nuova versione, denominata Erich Lee Gravity Remix, si distingue per una dote quantomeno rara, ovvero quella di non temere confronti con il brano originale, trattandosi di un riarrangiamento di ottima qualità, fortemente fedele allo spirito del pezzo – una sorta di accorato grido di aiuto rivolto alla persona amata. E in termini di nuove scoperte, un’altra graditissima sorpresa offerta dal CD è

L’immagine della locandina nonché della colonna sonora di Io prima di te.

costituita dalla presenza di Cloves, giovanissima cantante australiana dalla voce ipnotica: il suo Don’t Forget About Me è un brano la cui melodia sembra pensata su misura per valorizzare l’interpretazione tormentata della vocalist, senz’altro destinata a una carriera interessante. Lo stesso spirito di intrigante sperimentalismo lo si ritrova anche in uno dei pezzi migliori della tracklist, Surprise Yourself – esperimento firmato dal 24enne cantautore britannico Jack Garratt, che qui fonde sonorità elettroniche e cori simil-gospel in un cocktail irresistibile. Del resto, le atmosfere gospel sono presenti già nella traccia di apertura dell’album, l’intrigante Numb, cantata dal promettente debuttante statunitense Max Jury; mentre le sonorità soul fanno una breve apparizione grazie al romantico Till The End, a opera della vocalist Jessie Ware. Ma Io Prima di Te si rivela generoso anche per quel che riguarda gli exploit di artisti già rinomati, come nel caso del quartetto americano degli Imagine Dragons, particolarmente amato dagli adolescenti di mezzo mondo. In quest’occasione, Dan Reynolds e i suoi hanno tentato un esperimento per loro inusuale, cimentandosi nella realizzazione di una classica ballata romantica, condita di qualche accento esistenzialista: il risultato, Not Today, colpisce per la perfetta sintesi tra toni sentimentali

e atmosfere di struggente rimpianto, che ne fa uno dei brani più riusciti della band. Forse meno efficace, in verità, il contributo del celebre performer inglese Ed Sheeran, la cui già nota ballata Photograph resta un brano più che gradevole, ma non proprio esaltante in termini di originalità compositiva. In effetti, forse a causa dell’argomento del film, la dimensione puramente pop non sembra adattarsi granché allo spirito di questa colonna sonora, che rischia di scivolare nella banalità soltanto in due casi, con brani dalle sonorità esageratamente commerciali e radiofoniche: l’esuberante (ma tutto sommato divertente) Happy With Me, del giovane duo indie pop statunitense degli HOLYCHILD, e The Sound, firmato dai The 1975, gruppo inglese recentemente salito alla ribalta. Tuttavia, a parte simili scivoloni, la colonna sonora di Io Prima di Te ha il merito di aver saputo coniugare le emozioni e sentimenti espressi dal film con le esigenze di un prodotto di consumo dagli evidenti risvolti commerciali: soprattutto, la scelta di concentrarsi su performer giovani, molti dei quali non hanno ancora raggiunto la fama mondiale, si rivela vincente. Spingendoci a confidare che i nomi più promettenti presenti nel CD possano avviarsi verso futuri riscontri internazionali, magari anche grazie alla visibilità garantita da quest’album.

Pubblicazioni Un volume sulle origini

biologiche e antropologiche del linguaggio Stefano Vassere «L’utilizzo di regole di natura grammaticale da parte di alcune specie di uccelli canori coinvolge anche la dimensione della comprensione. In un importante articolo del 2011, Abe e Watanabe hanno mostrato che il passero del Giappone è in grado di discriminare sequenze di sillabe sulla base di principi sintattici». Che i passeri del Giappone siano in grado di distinguere stringhe sintattiche, o meglio che quei petulanti uccellini si mostrino attentissimi a sequenze di stringhe sillabiche compatibili con quelle da loro stessi emesse anche se diverse, mentre voltino le spalline del tutto non curanti di fronte agli stessi vocalizzi disposti in sequenza diversa, è scoperta sorprendente, almeno nella prospettiva di un linguista. Perché un conto è far dire «Lorétto» e «Forza Ambrì» a un pappagallino in cambio di qualche facile nocciolina e un conto è scoprire che un passero maneggia regole del nucleo magico di ogni sistema linguistico, governando le norme di base della sintassi. Inizia con la seduzione di immagini così questo Il linguaggio: origine ed evoluzione di Ines Adornetti, che è professore a contratto di evoluzione del linguaggio e pragmatica cognitiva nell’Università di Roma Tre e nell’Università dell’Aquila. Scoprire da dove viene la capacità umana di parlare significa dovere affrontare e forse anche padroneggiare diverse prospettive di approccio, che riguardano l’eventuale linguaggio degli animali appunto, l’etologia, le teorie evoluzionistiche e la paleoantropologia, l’anatomia dell’apparato fonatorio e respiratorio, fino alle frontiere più à la page delle neuroscien-

ze, la linguistica cognitiva, la psicolinguistica, le avanguardie della semiotica e della teoria dei linguaggi. Il metodo è tripartito, almeno allo stato attuale delle ricerche. Dapprima si cerca di vedere se e come parlano gli animali: un po’ come per dire «Guardate come parlano male o addirittura non parlano questi qui, e invece noi…», in un ragionamento per difetto (loro) e per pregio (nostro). Poi si tenta di capire come siamo fatti noi del genere umano, nel senso anatomico: come abbiamo la bocca e la laringe, quanto può muoversi la lingua, le dimensioni del nostro cervello e in generale la fabbrica del nostro linguaggio naturale; di questa direzione di ricerca fa parte anche quella che va a concretamente riesumare cadaveri di nostri predecessori diretti (Ötzi del Similaun e simili) e valuta varie cose: come nel nostro caso il loro apparato linguistico, ma anche la capacità di maneggiare oggetti, le abilità manuali e gestuali, molte altre cose. La terza direzione di indagine studia gli aspetti che i linguisti chiamano «pragmatici», vale a dire quelli che per esempio impediscono la decodificazione solo letterale di frasi del tipo «Ha da accendere?» (qui, una persona normale prende l’accendino e accende la sigaretta del suo interlocutore, un pc o un pappagallo si limitano tutt’al più a rispondere «Certo, ho con me un accendino»). Insomma, si capirà quanto interessante e precario sia un «fascio» di direzioni di ricerca come questo, nel quale lo studio del linguaggio animale, seppure in un qualche modo ancillare alle esigenze principali del ricercatore, finisca per diventare uno spunto di interesse in sé. Lo spazio dedicato ai cercopitechi dell’Africa orientale che avvisano i membri del branco quando arriva un qualche predatore, ai canti di diamanti mandarini, ai vocalizzi di passeri corona bianca rende questo libro un molto piacevole passatempo. «Nel corso del tempo l’ipotesi di Lieberman è stata messa in discussione da diversi autori. In particolare, l’idea che il Neanderthal avesse un tratto vocale simile a quello dei moderni scimpanzé è oggi del tutto accantonata. A ciò ha contribuito l’analisi dell’osso ioide di un esemplare di Neanderthal rinvenuto a Kebala, Israele». Bibliografia

Ines Adornetti, Il linguaggio: origine ed evoluzione, Roma, Carocci editore, 2016.

Parliamone di Simona Sala Comuni mortali

Pitt e Jolie sul set di By the Sea, film del 2015 scritto e diretto dalla stessa Jolie, fallimento di critica e botteghino. (Keystone)

Alzi la mano chi in questi dodici anni per un motivo o per l’altro non li ha invidiati. Fosse per la bellezza quasi impossibile di lei, fosse per quella quasi sfrontata di lui, fosse per quella multietnica dei sei figli, esperimento live di melting pot. Per anni li abbiamo visti transitare in banda per gli aeroporti di mezzo mondo, stravolti ma apparentemente soddisfatti, raccogliere informazioni nei campi profughi, acquistare castelli in Francia, dedicarsi alla viticoltura, calcare i red carpet, recitare in film più o meno fortunati, dirigere pellicole, sedersi al tavolo di organizzazioni internazionali come l’ONU. E tutto questo mantenendo eleganza e aplomb, coniugando il glamour con

l’impegno sociale e politico. Angelina Jolie e Brad Pitt erano una cosa sola, un’unica anima in due splendidi involucri, al punto da diventare semplicemente Brangelina, una sorta di DOP umano. Perfino a Madame Tussauds li avevano esposti vicini, per poi separarli seduta stante dopo la notizia che Angelina Jolie (lei che ancora pochi mesi fa parlava del marito come del miglior padre del mondo) avrebbe assoldato la divorzista numero 1 di Hollywood, Laura Wasser. I motivi? Brad Pitt sarebbe un uomo normale, con gli stessi vizi di molti comuni mortali: sbraita, beve, fuma erba. Ma allora, ci chiediamo, se è normale lui, che sia normale anche lei?


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Cultura e Spettacoli

Petrarca, inesauribile fonte d’ispirazione Poesia e musica Il grande maestro dell’umanesimo europeo Francesco Petrarca ha ispirato

ininterrottamente i più grandi musicisti

Timoteo Morresi «E vo’ gridando pace! E vo’ gridando amor!». Nel rifacimento cui Verdi sottopose lo sfortunato giovanile Simon Boccanegra, il grido che erompe dal Doge di Genova è sulla bocca di tutti gli amatori del genere operistico. Meno si sa che l’originale è di Francesco Petrarca («Italia mia, benché il parlar sia indarno…») e che la scena prende spunto da due lettere indirizzate la prima al Doge di Genova e la seconda al Doge di Venezia, in cui il poeta laureato condanna le lotte fratricide italiane. Troppo famoso, insomma, il riferimento, perché sfuggisse ai compositori. Ma Petrarca è la fonte di ispirazione di centinaia, forse di migliaia di brani musicali. Occorre premettere che l’argomento è di una tale ampiezza che qui se ne vuole presentare solo una rapida panoramica; del poeta aretino si prende inoltre in considerazione la produzione in volgare, omettendo quella in latino, che equivale a più del 90 per cento della sua opera totale. Fino alla fine del Quattrocento Petrarca era infatti considerato soprattutto come il padre dell’umanesimo letterario, che aveva come obiettivo la riscoperta della prosa e della poesia dell’antichità classica. Del XV secolo celebre è l’intonazione musicale Vergine bella di Guillaume Dufay, il cui organico e genere (musica sacra?) rimangono ancor oggi un mistero. È lecito tuttavia supporre che prima del XVI secolo fossero numerosi gli adattamenti musicali di

testi petrarcheschi nel frattempo andati persi poiché non erano in forma scritta. Il Cinquecento segna l’entrata ufficiale del Petrarca, prima nel repertorio della frottola, un genere di canzone popolare italiana molto in voga, ma è nel 1507, con la pubblicazione del settimo libro dell’editore musicale Petrucci, che ha inizio la sua fortuna tra i musici. Da subito le edizioni a stampa diventano veicolo privilegiato per le versioni musicali sui suoi componimenti. La loro diffusione, soprattutto attraverso il madrigale, proviene dal successo editoriale delle Prose nelle quali si ragiona della volgar lingua di Pietro Bembo (edite per la prima volta nel 1525), trattato che eleva il Canzoniere petrarchesco a modello normativo in ambito linguistico, retorico-stilistico e poetologico per gran parte della lirica cinquecentesca futura. Gli specialisti, a proposito della fortuna cinquecentesca del Canzoniere, parlano di fenomeno unico nella storia universale del rapporto tra poesia e musica: nessun’altra raccolta lirica pura è stata oggetto di una devozione così intensa e prolungata da parte di tanti compositori. Il fiammingo Filippo di Monte è quello che ha lasciato il maggior numero di madrigali sulle rime del Petrarca: tra il 1554 e il 1597, 64 testi per un totale di 163 composizioni; seguono Orlando di Lasso, Cipriano de Rore, Giaches de Wert e Adrian Willaert, «insidiati» dagli italiani Girolamo Scotto e Stefano Rossetti. Con il subentrare nel primo Sei-

Petrarca in un quadro della Galleria dei ritratti del Castello di Ambras, Austria. (Keystone)

cento di una nuova tipologia di scelte, rivolte a testi di più marcata spiritualità, il numero delle rime di Petrarca musicate cala vistosamente. Dopo il 1620 solo casi isolati caratterizzano il ricorrere al poeta toscano sia nei testi polifonici sia in quelli monodici. Nel repertorio vocale del Settecento non sono note intonazioni di Petrarca, ad eccezione di quella di Solo e pensoso i più deserti campi (n. 35) per soprano e orchestra di Joseph Haydn (1798). È con il Romanticismo che Petrarca, insieme a Dante e Boccaccio, ritorna ad affermarsi come il caposcuola della poesia classica d’Europa. In Germa-

nia viene tradotto da August Wilhelm von Schlegel e Johann Dietrich Gries. Schubert tra il 1818 e il 1819 musica tre sonetti: Apollo, lebet noch dein hold Verlangen (n. 34), D 628; Allein, nachdenklich wie gelähmt (n. 35), D 629; Nunmehr, da Himmel, Erde schweigt (n. 164), D 630. Franz Liszt adatta in musica anch’egli tre sonetti (n. 104, 47 e 123 corrispondenti ai n. 134, 61 e 156 dell’edizione completa) per tenore e pianoforte: Pace non trovo, e non ho da far guerra; Benedetto sia ’l giorno, e ’l mese, e ’l anno; I’vidi in terra angelici costumi; subito dopo ne cura una versione per solo pianoforte che conflui-

sce nel secondo volume delle Années de Pèlerinage (1858). Nel Novecento Arnold Schönberg tra il 1904 e il 1905 utilizza tre sonetti per la raccolta Sechs Lieder für Gesang und Orchester op. 8: Io non fu’ d’amar voi lassato unquanco (n. 82); Pien di quella ineffabile dolcezza (n. 116); Se lamentar augelli, o verdi fronde (n. 279); inoltre nel 1922 nel quarto movimento della Serenade op. 24 inserisce Far potess’io vendetta di colei (n. 256). In Italia Ildebrando Pizzetti pubblica nel 1922 Tre Sonetti del Petrarca (La vita fugge e non s’arresta un’ora, n. 272; Quel rosignuol che sì soave piagne, n. 311; Levommi il mio penser, n. 302). Negli anni Trenta, di Mario Castelnuovo-Tedesco sono i Due sonetti (Zefiro torna, e ’l bel tempo rimena, n. 310 e Benedetto sia ’l giorno, e ’l mese, e l’anno) e di Nino Rota Ballata e Sonetto del Petrarca (1933). Nel Secondo Novecento le parole di Petrarca risuoneranno in Luciano Berio, Niccolò Castiglioni, Salvatore Sciarrino. Per i 700 anni dalla nascita nel 2004 sono stati numerosi gli omaggi di Arcà, Dallongaro, D’Amico, Panni e Vlad, a dimostrazione di come il sommo poeta a distanza di secoli non abbia ancora smesso di stimolare la creatività dei compositori. Fonte

Petrarca in musica, Atti del Convegno Internazionale di Studi, Arezzo 18-20 marzo 2004, a cura di Andrea Chegai e Cecilia Luzzi, Lucca, Libreria musicale italiana, 2005.

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Cultura e Spettacoli

Pensare e progettare con impulsi nuovi Architettura La Biennale di Venezia offre numerosi spunti

per una riflessione più articolata su territorio e materiali Ada Cattaneo Arrivando ai Giardini della Biennale la prima sensazione è sempre quella di entrare in un luogo fuori dal tempo. Non fa eccezione il Padiglione Svizzero, fra i primi ad accogliere il visitatore appena arrivato. L’intervento di Christian Kerez, scelto per rappresentare la Svizzera all’edizione 2016 della Mostra Internazionale di Architettura, amplifica quest’impressione. La proposta che Kerez, docente del Politecnico di Zurigo, ha sviluppato insieme ai suoi studenti era quella di creare un oggetto autosufficiente, che non rappresentasse un altrove, sfruttando l’opportunità data dall’esposizione internazionale di «giocare» al di fuori delle regole fisse dettate dall’architettura dell’abitare e del lavoro. Il padiglione veneziano, progettato da Bruno Giacometti nei primi anni Cinquanta, è in gran parte abitato da una nuvola bianca, costituita da sottilissime pareti di cemento: il visitatore può entrare in questo spazio sospeso, sperimentando la sensazione di un ambiente allo stesso tempo naturale ed artificiale. Spazio accidentale, questo è il titolo del progetto, creato avvalendosi di realtà virtuale, stampa tridimensionale e calchi di sabbia e zucchero fatti con il gesso. Kerez riesce a superare le barriere tra realizzazioni convenzionali e creazioni 3D,

quasi a spiegarci che tecniche tradizionali e ritrovati attuali sono e saranno del tutto interdipendenti. Con la Svizzera, sono 37 le partecipazioni nazionali per questa Biennale, a cui si aggiunge la mostra Reporting from the Front: un unico percorso espositivo, che si snoda fra Padiglione Centrale, ai Giardini, e Arsenale per raccogliere le notizie da tutti quei fronti sui quali l’architettura viene chiamata oggi a dare delle risposte. Non si tratta più soltanto di arte e cultura – spiega il curatore Alejandro Aravena –, aspetti ormai inclusi a pieno titolo nella pratica architettonica. Ma sono le sfide imposte da ecologia ed economia, da società e politica ad essere attuali. Sono stati perciò scelti ottanta partecipanti, fra grandi maestri come Chipperfield, Ando, Aires e Mateus, Piano, insieme ad architetti meno celebrati (anche sollecitando e accettando candidature spontanee, diversamente da quanto avviene di solito) per riferire dalle loro proposte più valide alle emergenze della contemporaneità. L’allestimento stesso voluto per la mostra da Aravena parte da una scelta di coerenza riguardo al tema: le sale introduttive sono state preparate riciclando materiali usati nelle precedenti edizioni dell’esposizione, dal metallo al cartongesso. Fra tutte le numerose suggestioni proposte al visitatore, alcuni impul-

si emergono con persistenza. Uno di questi è la convinzione che l’edificio vada radicato nel territorio in cui viene costruito tramite l’utilizzo di materiali disponibili in situ e avvalendosi delle tecniche tradizionali, in cui la manodopera locale saprà eccellere. In questo senso, il caso dell’architetto Anupama Kundoo, indiana ma con base a Madrid, è esemplare per l’attento studio delle tecnologie costruttive diffuse localmente che presuppone ad ogni realizzazione. Emerge anche il caso del colombiano Simón Véléz che si batte contro leggi obsolete e influenti lobby per l’utilizzo a fini strutturali del bambù che egli definisce «acciaio vegetale», fino ad arrivare al giapponese Kengo Kuma (partecipò, nel 2013, al concorso per l’ampliamento della sede SUPSI di Mendrisio) che ha dimostrato come si possa sovvertire il consueto uso dei materiali. Le molte esperienze improntate alla sostenibilità convincono nel dimostrare che le scelte etiche non debbano andare in nessun modo a discapito dell’estetica, come testimonia lo stesso Aravena. Il 2016 è stato per lui un anno di particolari soddisfazioni considerato che, oltre all’incarico come curatore della Biennale, ha visto riconoscere la sua produzione con il Pritzker Prize, principale premio nell’ambito dell’architettura internazionale. Il prestigio-

L’architetto Christian Kerez alla Biennale di Venezia, nel suo «Incidental Space» al Padiglione svizzero. (Keystone)

so riconoscimento gli è stato tributato proprio per la valenza sociale del suo lavoro e la capacità di coniugarlo, con originalità, alle necessità socioeconomiche del presente. La maggior parte dei suoi progetti sono stati realizzati in Sudamerica, ma nel Canton Vaud è possibile vedere lo «studiolo» che ha creato per gli scrittori in residenza presso la Fondazione Michalski. Da ultimo è da segnalare il grande rilievo dedicato ad un caso ticinese. Il lavoro di Luigi Snozzi – in particolare, la riqualificazione urbanistica ed architettonica di Monte Carasso – viene celebrato per la fermezza dimostrata nel volere rivitalizzare un centro storico senza decentrare i luoghi dell’attività quotidiana, né musealizzare

l’abitato. Il suo piano regolatore, con grande spirito di sintesi, si riduce a sette regole fondamentali. Prima fra tutte: tenere conto del luogo. Un episodio di grande attualità qui ed altrove, anche a quasi quarant’anni di distanza, se si considerano i progetti presenti in Biennale che ambiscono a salvare i villaggi tradizionali cinesi dalla tabula rasa a cui è soggetto il patrimonio architettonico del paese asiatico negli anni recenti. Dove e quando

Reporting from the Front. 15esima Biennale di Architettura. Venezia, Giardini e Arsenale. Fino al 27 novembre 2016. www.labiennale.org Annuncio pubblicitario

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THOMY e le galline felici Da dove viene l’espressione «galline felici»? THOMY si è dedicata intensamente a questo tema e a partire dal 1o maggio 2016 ha adattato l’intera produzione di salse in maniera tale da non utilizzare più uova da allevamento a terra, bensì uova da allevamento all’aperto.

Le galline felici e le loro uova: tre dati di fatto 1.

Qual è la differenza? Per evidenziare al meglio la differenza tra i due tipi di allevamento vi è un trucco molto semplice: cercate su Google prima «allevamento a terra» e poi «allevamento all’aperto». Riconoscerete subito che la differenza sta nel benessere degli animali. Il passaggio da uova da allevamento a terra a uova da allevamento all’aperto per THOMY rappresenta un’importante pietra miliare e una chiara dichiarazione a favore del benessere degli animali e della sostenibilità.

Il colore delle uova (bianco o marrone) né influisce sulla qualità né è legato al colore delle piume, bensì dipende dalla razza delle galline: se hanno il «lobo auricolare» rosso depongono uova marroni, se invece è bianco anche le uova lo sono.

2. Allevamento a terra o all’aperto? Il timbro indica da dove proviene l’uovo: la prima cifra ci svela come è stata allevata la gallina che ha deposto l’uovo: 0 sta per uova bio, 1 per allevamento all’aperto, 2 per allevamento a terra e 3 per allevamento in gabbia. 3. L’uovo ci fornisce sostanze nutritive: esso contiene soprattutto pregiate e vitali unità costitutive delle proteine. Un singolo uovo copre circa il 10% del fabbisogno giornaliero di proteine e vitamina D e più del 20% del fabbisogno giornaliero di vitamina A di un adulto.

L

’allevamento all’aperto in grande stile non ha ancora preso piede. THOMY, ad esempio, ogni anno per la sua produzione complessiva necessita di 34 milioni di uova, che vengono deposte da 140’000 galline circa. Per l’allevamento all’aperto di queste galline è necessaria una superficie inerbita pari a circa 56 campi di calcio. THOMY innanzitutto ha dovuto cercare dei fornitori che adempissero questi standard.

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DA PROVARE! Gli svizzeri adorano le uova Ogni anno gli svizzeri consumano in media 170 uova a testa (International Egg Commission, 2015) per un totale di 1,4 miliardi di uova circa. Queste vengono cotte, fritte e integrate in vari altri prodotti alimentari come ad esempio nei prodotti THOMY, di cui ogni economia domestica svizzera in media ne consuma nove all’anno. Ne fanno parte maionese, vari condimenti per insalate e altre salse fredde, che vengono particolarmente apprezzate per accompagnare grigliate o fondue chinoise oppure sotto forma di dip.

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Cultura e Spettacoli

Lo spirituale nell’arte

Mostre Al Palazzo Comunale di Bioggio una mostra dedicata ai dipinti di Aurelio Gonzato

Alessia Brughera È stata una vita interamente dedicata all’arte quella di Aurelio Gonzato: novantanove anni vissuti con coerenza, con generosità e con «la libertà di rielaborare l’esperienza del mondo in visioni infime e sconfinate», come amava sottolineare lui stesso. Uomo mite, riservato e silenzioso, Gonzato è passato attraverso le correnti artistiche più significative che si sono avvicendate nell’arco di un secolo. Con sguardo acuto e partecipe ha colto ciò che di questi movimenti sentiva più vicino al suo modo di esprimersi, mantenendo fino alla fine quel fiero distacco che gli ha permesso di non offuscare la sua attitudine alla creazione personale. Con la modestia che lo ha sempre contraddistinto, a chi negli ultimi anni gli chiedeva di parlare della sua arte rispondeva che stava ancora imparando a disegnare. Perché Gonzato considerava il lavoro di artista come un cammino continuo, che non ammette pause, che vive della fatica quotidiana, della dedizione e dell’esercizio assiduo. A rafforzare questa costanza erano per lui l’amore per la famiglia, una profonda fede religiosa e l’attaccamento ai valori genuini che scaturiscono dall’onestà e dall’integrità morale, quegli ideali che nella loro semplicità sanno portare l’uomo verso grandi conquiste. All’artista, nato a Chiasso nel 1914 e scomparso nella primavera del 2014, a poca distanza dal traguardo centenario, è dedicata una mostra allestita presso il Palazzo Comunale di Bioggio, che vuole omaggiare questa figura rappresentativa del panorama ticinese con

un nutrito gruppo di opere pittoriche, a testimonianza del suo lungo e fecondo percorso creativo. È stato il fratello Guido, protagonista dell’arte della prima metà del Novecento, a condurlo verso la pratica artistica. Di molto più anziano di lui (era presente alla Biennale di Venezia quando Aurelio aveva solo dieci anni), era il suo mentore, la guida che sapeva insegnargli il mestiere e dargli preziosi consigli. Ma Gonzato ha saputo anche guardare ai grandi maestri del passato: Giotto, sopra tutti, per la sua capacità di dipingere prospettive moderate, che non eccedevano nella lontananza, e Piero della Francesca per le sue composizioni nitide ed equilibrate. E poi ci sono stati gli studi all’Accademia di San Luca a Roma, utili per completare la sua formazione sul nudo e sul paesaggio, e la frequentazione a Venezia della Scuola San Marco per il mosaico. Ci sono stati i confronti con le grandi opere musive di Ravenna e i tanti viaggi per arricchire il suo bagaglio di conoscenze, con un atteggiamento curioso e ricettivo sia verso le eredità del passato sia verso gli esiti artistici a lui contemporanei. «Se da un lato mi sono dedicato a opere di mosaico e affreschi sacri su commissione, dall’altro ho sviluppato una ricerca intima che passa dalle forme metafisiche»: mosaico e pittura sono i due ambiti in cui si è mosso Gonzato, due mondi che si sono compenetrati e completati, in cui l’artista ha sperimentato e coltivato la sua inventiva guidato attraverso entrambi dalla «parte astratta», ossia la sensibilità, il sentimento, senza cui la sola tecnica non sarebbe potuta bastare.

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Aurelio Gonzato, Danza, 2005.

Il mosaico è stato lo strumento con cui l’artista è riuscito a sintetizzare linee e volumi per arrivare a condensare al meglio quelli che definiva «i tratti del nostro tempo». Ne sono dimostrazione le più di centocinquanta opere musive disseminate nel nostro cantone e nel resto della Svizzera, in cui Gonzato è riuscito a dar vita a composizioni salde ed essenziali, dove le superfici sminuzzate fatte di marmi, smalti e graniti sanno regalare note cromatiche univoche e assolute. Ma se il mosaico, per sua natura, gli ha posto qualche limite, è stato nella pittura che l’artista ha potuto muoversi in totale libertà, dando sfogo a quella trepidazione spirituale e a quella fascinazione per l’immateriale che lo hanno sempre accompagnato. Nei lavori in mostra a Bioggio risalenti agli anni Trenta ben si coglie il suo 16:50

rivolgersi alle avanguardie, una scelta sicuramente audace, questa, se si pensa che in quel periodo in Ticino la scena artistica era ancora fortemente legata ai modelli ottocenteschi. Gonzato si è avvicinato dapprima alle esperienze futuriste – di cui sono testimonianza i colorati collage dal dinamico intersecarsi di piani e linee o la descrizione del progetto chiamato «Futuristmetal», un originale sistema compositivo brevettato dall’artista nel 1936 – per poi accostarsi alle ricerche astratte della Scuola di Como, con la personalità di Mario Radice a ispirare le sue nuove indagini sulla forma e sullo spazio. Negli anni a seguire il suo linguaggio è stato un continuo dialogo tra astrazione e figurativismo fatto di ripetuti ritorni a tematiche e stili già trattati, per approfondirli e rielaborarli ulteriormen-

te. Per questo la pittura di Gonzato può essere difficilmente suddivisa in periodi o cicli: il suo è un lungo percorso di osservazioni, esperimenti, approdi e ripartenze in cui il fine ultimo è il raggiungimento di una «concreta spiritualità». Ecco allora le nature morte, in cui la luce si fa morbida e la materia si fa leggera, gli autoritratti e i ritratti (come quello dell’artista e amico Giovanni Genucchi, ad esempio), in cui l’emozione si mescola alla spinta razionale a definire compatte strutture minimaliste, o ancora i paesaggi in cui la pennellata sciolta e il cromatismo vivace delineano sereni scorci agresti. E poi ecco la figura umana: corpi in contrapposizione, in tensione o in equilibrio, accoppiati, raggruppati o isolati, riconoscibili, appena accennati o ridotti a segni evocativi. In queste opere Gonzato crea i volumi nell’intreccio di ritmo e colore, in una sintesi degli elementi che racchiude il confronto tra l’individuo e la realtà. «La ricerca della bellezza formale non era sufficiente», diceva l’artista, «e con i miei studi ricercavo un sentimento completo, totale e ultraterreno». Nei suoi cento anni in cui arte e vita si sono fuse tra loro, Gonzato ha raggiunto quel sentimento, sospinto da un’irrinunciabile tensione verso la libertà. Dove e quando

Aurelio Gonzato. Cento anni per l’arte. Palazzo Comunale di Bioggio. Fino al 9 ottobre 2016. Orari: lu 16.00-19.00, gio 11.00-14.00, ma, me e ve 9.45-11.45. Per altre visite 091 61110 50 oppure 076 616 91 31. Annuncio pubblicitario


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 26 settembre 2016 • N. 39

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Cultura e Spettacoli

Un ragazzo del Festival di Lugano Jazz Giorgio Bassi è stato per due decenni sulle pagine di «Azione» un apprezzato critico musicale

e ha contribuito al consolidarsi di una passione, vissuta in tutta la nostra regione Erano tempi in cui la sezione della Scuola Club Migros Ticino di Lugano organizzava «un ciclo di sei conferenze sulla storia del jazz la cui nobiltà artistica non si discute più» invitando il critico e saggista italiano Franco Fayenz. A conclusione di quella serie di conferenze si era tenuto, tra l’altro, un concerto al Teatro Cittadella, di cui era stato protagonista Giorgio Gaslini. Erano i primi anni 70, un momento magico per gli amanti della musica jazz. In sintonia con il fermento culturale che animava le altre arti, la musica neroamericana si apriva a modelli si sperimentazione e contaminazione forieri di grandi risultati. Il free jazz era in piena espansione, Miles Davis stava iniziando la grande svolta elettrica. Nello stesso momento però erano ancora attive le grandi orchestre storiche. Duke Ellington, 75 anni e non li dimostra intitolava a pagina 11 «Azione» del 9 maggio 1974, lanciando un bellissimo ritratto del compositore americano. La firma dell’articolo era quella di GioBa, cioè Giorgio Bassi. Rovistando nel nostro archivio scopriamo che «il Dodo», così come lo chiamavamo tutti, aveva iniziato la sua collaborazione al nostro settimanale proprio con un pezzo sul jazz, pubblicato il 4 novembre del 1971. Un articolo che oggi tutti i «notisti di jazz» (come direbbe Aldo Sandmeier) avrebbero voluto scrivere, solo per dire di aver vissuto in prima persona la vivacità di quel dibattito musicale. L’articolo Dizzy ha superato Miles analizzava infatti i risul-

tati di un «pool» della rivista «Downbeat» e poi dava conto della situazione di allora nel mondo jazzistico internazionale e italiano in particolare («In Italia è uscito il primo “free” in casa. È del trio di Mario Schiano al contralto, accompagnato da Bruno Tommasso al contrabbasso e da Franco Pecori ai ritmi»). Erano tempi potremmo dire eroici. Il fatto di leggere resoconti di questo tipo contribuiva ad alimentare la passione in una generazione che vedeva nel jazz la musica della modernità, del rinnovamento sociale. In questo senso «il Dodo» è stato per noi un punto di riferimento. Il suo impegno a fianco di Flavio Ambrosetti per l’organizzazione del davvero mitico Festival Jazz di Lugano, negli anni 60, gli conferiva una sorta di grado nobiliare. Lui e i suoi coetanei e amici, membri di una generazione che stava crescendo nel pieno boom postbellico, avevano vissuto con entusiasmo e coinvolgimento questa rivoluzione artistica e sociale. Ne avevamo parlato in una lunga intervista, qualche anno fa. Lui, insieme ad altri, si occupava con enorme dispendio di energie della cronaca del Festival: «Fabio Fumagalli faceva le presentazioni che andavano un po’ su tutti i giornali; sul CdT le recensioni le faceva Giovanni Trog, che era un sonorizzatore della radio. Quando lui ha smesso, ho cominciato io: c’era il vantaggio che il CdT aveva due edizioni, quella della sera e quella del mattino, che andava in stampa alle 6. Io facevo il pezzo dopo il concerto e alle 2 di

Uno dei suoi racconti preferiti: quella volta che Bill Evans suonò alla Piccionaia di Lugano...

notte lo infilavo nella casella della posta. Il Maestrini lo metteva in pagina e poi usciva il giorno dopo. Su “Libera Stampa”, lo faceva il Benzi, che era un appassionato di cinema e di jazz, arrivato poi alla TV. Poi c’era il “Giornale del popolo” e c’era Flavio Zanetti che scriveva per “Il Dovere”». La penna di Dodo, formata da questi «tour de force» era rimasta vivace, competente e, se del caso, anche graffiante. Il suo stile si era formato su quello di Panassié, di Leonard Feather, di Arrigo Polillo e

Franco Fayenz, le voci migliori della critica jazzistica che dagli anni 50 agli anni 70 hanno contribuito ad allenare il senso critico di chi amava questo genere musicale. In più Dodo si concedeva a volte delle digressioni gustose, molto personali, impensabili nel giornalismo telegrafico-denaturato di oggi. Rilette ora fanno sorridere e ci rendono davvero il polso di un’epoca in cui musica e società vibravano di una diversa sintonia: «Al suono trascinante delle batterie di Elvin Jones e Louie

Bellson, per chi scrive, si è concluso Estival Jazz 1991. Se Dio vuole ne avevo abbastanza di spintoni e pestate di piedi tra l’entusiasmo dei giovani appassionati, molto più indaffarati a trangugiare panini, leccare gelati e tracannare birre. Rientrando ho visto un sacco di vetture con la multa sotto il tergicristallo. Pensavo che non si può portare diecimila persone in piazza e poi multarle. Si vede che tra cultura e polizia il principio dei vasi comunicanti non è ancora applicato». Grazie, Dodo. /AZ Annuncio pubblicitario

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 26 settembre 2016 • N. 39

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Idee e acquisti per la settimana

shopping Dal produttore al consumatore in 36 ore Attualità La Mozzarella di Bufala Campana DOP giunge il giovedì mattina nei supermercati di Migros Ticino

direttamente dalla Provincia di Foggia

Nel 2003, il Consorzio per la tutela della Mozzarella di Bufala Campana DOP ha ampliato a dodici comuni della Provincia di Foggia il territorio di origine protetta. Uno di questi è San Giovanni Rotondo dove, all’interno dell’incantevole territorio del Parco Nazionale del Gargano, è ubicata l’azienda famigliare «Il Parco». Questa dinamica azienda agricola dalla metà degli anni novanta è specializzata nell’allevamento di bufale e nella relativa trasformazione del loro latte in prodotti d’eccellenza. «I nostri animali di razza mediterranea italiana sono allevati nel rispetto delle loro esigenze secondo il sistema a stabulazione semilibera», spiega Nicola Grifa, direttore vendite dell’azienda foggiana. «L’alimentazione è costituita da fieno, mangimi e materie prime accuratamente selezionate». La lavorazione del latte avviene secondo standard igienicosanitari elevati. «Il pregiato latte di bufala» spiega Grifa, «è arricchito con un elemento tipicizzante, il siero innesto naturale, che si ricava della lavorazione del giorno precedente, ricco di fermenti lattici naturali, autoctoni di questa zona, e viene poi fatto coagulare con l’aggiunta di caglio naturale di vitello. Si procede quindi alla rottura della cagliata fino ad una grandezza di poco più di una noce. Trascorso il tempo necessario di maturazione, il mastro casaro effettua il “saggio di filatura” per giudicare se la pasta è pronta per la successiva fase. La cagliata viene tagliata a listarelle e con l’aggiunta di acqua bollente è pronta per la filatura. Una volta reso l’impasto omogeneo è pronto per la mozzatura finale, ossia l’operazione manuale con cui si ottiene la formatura della mozzarella. La Mozzarella di Bufala Campana DOP cosi ottenuta viene lasciata rassodare in acqua fredda, e successivamente posta nella “salamoia”, una soluzione salina che conferisce al prodotto il giusto grado di salinità». La Mozzarella di Bufala Campana DOP «Il Parco» è un latticino prodotto esclusivamente con latte fresco intero di bufala, di esclusiva provenienza della provincia di Foggia. È un formaggio fresco a pasta filata, facilmente digeribile con un tenore ridotto di lattosio, colesterolo e zuccheri; pertanto è adatto a tutti, dai bambini agli adulti. Priva di crosta, possiede una superficie liscia e un tipico colore bianco porcellanato. Ha una consistenza morbida ed elastica, con sapore caratteristico, delicatamente acidulo e leggermente dolce. Nicola Grifa: «la mozzarella deve

Prodotti d’eccellenza: la Mozzarella di Bufala Campana DOP e la Ricotta di Bufala.

essere conservata nel proprio liquido di governo e consumata al più presto una volta acquistata. Inconfondibile caratteristica di freschezza del prodotto è la sua elasticità. Inoltre è importante toglierla dal frigorifero almeno 20 minuti prima del consumo affinché possa sviluppare tutti i suoi delicati aromi e comunque va consumata a circa 25 °C». Infine, oltre alla mozzarella, disponibile in due formati, l’azienda agricola «Il

Parco» rifornisce Migros Ticino anche di Ricotta di Bufala. È realizzata con il siero di latte derivante dalla lavorazione della mozzarella. Ha un sapore delicatamente dolce, una consistenza soffice, ed è ideale per le più svariate preparazioni: al naturale come antipasto, per primi e secondi, oppure per molte ricette dolci. La Mozzarella di Bufala Campana DOP «Il Parco» è l’unica DOP fatta in Puglia con latte pugliese.

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 26 settembre 2016 • N. 39

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Idee e acquisti per la settimana

La torta di pane nostrana

Attualità Il dolce ticinese per eccellenza è prodotto con grande perizia dalla Jowa di S. Antonino

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Flavia Leuenberger

Ci vuole molta pazienza per produrre quello che è forse uno dei dolci più apprezzati e conosciuti della nostra tradizione. Gli abili pasticceri della Jowa oggi preparano la specialità ispirandosi alla ricetta originale dello chef Lorenzo Albrici, titolare della nota e stellata Locanda Orico di Bellinzona. Il pane utilizzato è prodotto appositamente per questa preparazione, in modo che si possa contare sempre su una qualità costante del prodotto finito. Il pane è tagliato a fette e messo a bagno nel latte per una notte intera affinché si inzuppi per bene. La lavorazione successiva rimane perlopiù artigianale, soprattutto per quanto attiene la miscelazione dei vari ingredienti– uova, zucchero, cacao, grappa, uvette, canditi, amaretti, aroma di vaniglia, scorza di limone - e alla decorazione finale con pinoli. L’impasto così ottenuto viene versato nelle apposite teglie e lasciato cuocere lentamente nel forno a temperatura moderata per almeno due ore. Oltre alla classica torta nella forma rotonda già conosciuta e apprezzata da tempo dalla clientela Migros, da qualche settimana la torta di pane esiste anche sotto forma di due trancetti, perfetti per soddisfare le piccole golosità quotidiane o per le economie domestiche di dimensioni ridotte. Essendo un prodotto che si caratterizza per il suo impasto relativamente umido, va conservato in frigorifero e consumato entro una decina di giorni. Qualche curiosità: la torta di pane è anche nota come la «torta dei poveri», dal momento che un tempo non si sprecava nulla e per realizzarla si utilizzavano i resti di pane raffermo. Una volta si usava prepararla soprattutto durante le occasioni speciali, le feste o le sagre di paese. Non esiste una ricetta specifica per la sua preparazione: quasi ogni famiglia, paese o regione della Svizzera italiana possiede la propria ricetta personalizzata che custodisce gelosamente. È una torta sostanziosa, pertanto è ideale da servire durante le stagioni più fredde per una nutriente merenda oppure come dopo pasto ricco di gusto e genuinità accompagnata da un caffè o un vino da dessert.

Grady’Rose: gustate la vita in rosa Novità Una nuova varietà di mela coltivata in Svizzera approda sugli scaffali di Migros Ticino

Coltivata con successo nella regione del lago Lemano e in Vallese, la nuova mela Grady’Rose spicca per le sue qualità organolettiche. La polpa croccante, delicata e succosa; il gusto equilibrato, al contempo zuccherino e leggermente acidulo, nonché il bel colore rosa su fondo giallo della buccia sono le sue carte vincenti. La Grady’Rose è originaria del Sud della Francia, e da qualche anno è stata introdotta in Svizzera dove in Romandia ha trovato le condizioni clima-

tiche ottimali per la sua coltivazione. È il risultato di un incrocio tra la tradizionale Golden Delicious e la già nota Pink Lady. La raccolta avviene a partire dall’inizio del mese di settembre. Una volta acquistata, è una mela che conserva bene la sua freschezza per diverse settimane. È una delizia non solo gustata da sola: grazie alla sua polpa soda che tiene bene alla cottura è particolarmente indicata per la preparazione di tante appetitose ricette, sia dolci che salate.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 26 settembre 2016 • N. 39

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Idee e acquisti per la settimana

Congratulazioni!

Concorso Premiata la vincitrice del concorso «50° compleanno Migros Bellinzona» Domenica 4 settembre, si sono svolti i festeggiamenti per l’importante anniversario di questo storico negozio di Migros Ticino. L’apertura straordinaria e il ricco programma di animazioni ha attirato un folto pubblico. Fra le migliaia di visitatori che hanno partecipato al concorso con premio unico una carta regalo Migros del valore di 5000 franchi, la «dea bendata» ha premiato la signora Angela Cecini residente a Bellinzona. Negli scorsi giorni Renato Mazzoletti, in qualità di gerente del supermercato Migros di Bellinzona, ha consegnato l’ambito premio alla fortunata vincitrice. Novità: casse Self-Checkout

La filiale Migros di Bellinzona può ora contare sulle casse veloci SelfCheckout. Dopo S. Antonino e Agno, anche presso il punto vendita della capitale è stato istallato questo pratico sistema di pagamento che permette di velocizzare il passaggio alle casse in caso di piccoli acquisti. Con il SelfCheckout si può effettuare autonomamente la scansione degli articoli acquistati e pagare comodamente per mezzo della propria carta di pagamento abituale o con una carta regalo Migros. L’area Self-Checkout è situata presso

l’uscita ed è costituita da tre casse. Il funzionamento è semplice: gli articoli acquistati vanno fatti passare con il codice a barre rivolto verso lo scanner. Per gli articoli voluminosi, è disponibile uno scanner manuale. Una volta scansionati tutti gli articoli, effettuare la scannerizzazione della propria carta Cumulus o Famigros, così da incrementare il «saldo punti», e dei buoni sconto personali . A questo punto è sufficiente seguire le istruzioni sul pagamento visualizzate sullo schermo. Con questa implementazione tecnologica, Migros Bellinzona dimostra di essere una cinquantenne in piena forma e al passo coi tempi.

Renato Mazzoletti (gerente Migros Bellinzona) con la vincitrice del concorso Angela Cecini davanti alle nuove casse Self-Checkout. Annuncio pubblicitario

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 26 settembre 2016 • N. 39

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Idee e acquisti per la settimana

Valflora

Solo latte svizzero

La Società Svizzera di Nutrizione consiglia tre porzioni* giornaliere di latte o latticini. Scegliendo i prodotti dell’assortimento Valflora, optate per prodotti creati esclusivamente con latte di mucche svizzere Testo Sonja Leissing; Foto Yves Roth

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*Una porzione corrisponde a 2 dl di latte, 180 g di yogurt o 30 g di formaggio.

1 Latte e derivati come yogurt, ricotta o formaggio forniscono proteine di alta qualità come pure l’importante minerale calcio. Il latte è disponibile in differenti tenori di grasso.

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2 Il latte Valflora proviene al 100 per cento da mucche svizzere. Viene elaborato dalla ELSA SA di Estavayer-le-Lac FR, l’azienda di trasformazione del latte del gruppo Migros.

5 In Svizzera una persona su cinque soffre di intolleranza al lattosio. Ciò significa che l’organismo non produce, o lo fa insufficientemente, l’enzima digestivo lattasi.

4 Quale latte consumare è una questione di gusti. Valflora propone latte intero e latte scremato, pastorizzato o uperizzato (UHT). In aggiunta Migros offre anche prodotti senza lattosio aha! per coloro che vogliono o devono rinunciare a questa sostanza.

3 In Svizzera produzione sostenibile e benessere degli animali sono tenuti in alta considerazione. Per questa ragione si può consumare ogni giorno latte svizzero con la coscienza tranquilla.

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Idee e acquisti per la settimana

Settimane del risparmio

Ben preparati grazie a una buona spesa

Chi esce regolarmente a pranzo spende molto. Grazie alle confezioni multiple e alle promozioni è possibile risparmiare il doppio e, se si prepara abbastanza a casa, ci si può portare poi una porzione di buone cose in ufficio o a scuola. Un buon modo per suscitare le occhiate invidiose dei colleghi Testo: Claudia Schmidt Foto: Heiko Hoffmann, Claudia Linsi (Food), Simon Ianelli (ritratto) Ricette: Katrin Klaus

Insalata di bulgur con formaggio e uva Piatto principale per 4 persone

Maggiori informazioni

Ingredienti 180 g di bulgur 4 dl d’acqua 100 g di pinoli 300 g di formaggio, ad es. emmentaler 300 g di uva scura, ad es. Lavallée 2 gambi di menta 1 mazzetto di prezzemolo 1 limone ca. 6 cucchiai d’olio d’oliva sale, pepe

Azione 40% M-Classic Tortelloni Ricotta e Spinaci nel Duopack 2 x 500 g Fr. 6.90

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Preparazione 1. Lessate il bulgur nell’acqua e fatelo sobbollire per ca. 8 minuti, finché il liquido è stato completamente assorbito.

Azione 20% Emmentaler dolce per 100 g Fr. 1.20 invece di 1.55

Trasferite il bulgur in una scodella e lasciate raffreddare. 2. Tostate i pinoli in una padella senza grassi. Tagliate il formaggio a dadini. Dimezzate gli acini d’uva. Sminuzzate la menta e il prezzemolo. Spremete il limone e mescolatelo con l’olio. Mescolate tutto con il bulgur e condite con sale e pepe. Lasciate riposare l’insalata per 20 minuti prima di servirla. Tempo di preparazione ca. 20 minuti + riposo 20 minuti. Per persona ca. 35 g di proteine, 76 g di grassi, 45 g di carboidrati, 4250 kJ/1000 kcal.

Azione 20% Anna’s Best lattuga rossa 150 g e formentino 120 g nel Duopack Fr. 5.40 invece di 6.80

Hamburger con salsa al curry Piatto principale per 4 persone

Azione 25% Uva Lavallée, Francia per kg Fr. 3.60 invece di 4.80

Azione 50% M-Classic Hamburger 12 x 90 g, surgelato Fr. 7.80 invece di 15.60

Azione 20% Thomy Mayonnaise, Thomynaise e Senape mild nel Duopack, ad. es. Thomy Mayo Franc 2 x 265 g Fr. 4.–

Ingredienti 3 cucchiai di maionese 2 cucchiai di salsa Sweet Chili 1 cucchiaino di curry piccante, ad es. Madras sale, pepe 4 hamburger di manzo surgelati, 90 g ciascuno 2 cucchiai d’olio di colza HOLL 4 hamburger bun o altri panini insalata per guarnire, ad es. lattuga rossa 4 carote ½ cetriolo 1 mazzetto di ravanelli Preparazione 1. Per la salsa al curry, mescolate la maionese con la salsa Sweet Chili e il curry. Condite con sale e pepe.

2. Rosolate gli hamburger surgelati in una padella unta d’olio ca. 4 minuti per lato, estraeteli dalla padella e lasciateli raffreddare. Tagliate i panini a metà, spalmateli con la salsa al curry e farciteli con le foglie d’insalata e gli hamburger. Copriteli con l’altra metà del panino. A piacere sminuzzate le carote, il cetriolo e i ravanelli e serviteli con gli hamburger. Suggerimento Rosolate degli anelli di cipolla con gli hamburger e usateli per farcire i panini. Tempo di preparazione ca. 20 minuti. Per persona ca. 21 g di proteine, 26 g di grassi, 38 g di carboidrati, 1950 kJ/470 kcal.


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Idee e acquisti per la settimana

Settimane del risparmio

Ben preparati grazie a una buona spesa

Chi esce regolarmente a pranzo spende molto. Grazie alle confezioni multiple e alle promozioni è possibile risparmiare il doppio e, se si prepara abbastanza a casa, ci si può portare poi una porzione di buone cose in ufficio o a scuola. Un buon modo per suscitare le occhiate invidiose dei colleghi Testo: Claudia Schmidt Foto: Heiko Hoffmann, Claudia Linsi (Food), Simon Ianelli (ritratto) Ricette: Katrin Klaus

Insalata di bulgur con formaggio e uva Piatto principale per 4 persone

Maggiori informazioni

Ingredienti 180 g di bulgur 4 dl d’acqua 100 g di pinoli 300 g di formaggio, ad es. emmentaler 300 g di uva scura, ad es. Lavallée 2 gambi di menta 1 mazzetto di prezzemolo 1 limone ca. 6 cucchiai d’olio d’oliva sale, pepe

Azione 40% M-Classic Tortelloni Ricotta e Spinaci nel Duopack 2 x 500 g Fr. 6.90

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Preparazione 1. Lessate il bulgur nell’acqua e fatelo sobbollire per ca. 8 minuti, finché il liquido è stato completamente assorbito.

Azione 20% Emmentaler dolce per 100 g Fr. 1.20 invece di 1.55

Trasferite il bulgur in una scodella e lasciate raffreddare. 2. Tostate i pinoli in una padella senza grassi. Tagliate il formaggio a dadini. Dimezzate gli acini d’uva. Sminuzzate la menta e il prezzemolo. Spremete il limone e mescolatelo con l’olio. Mescolate tutto con il bulgur e condite con sale e pepe. Lasciate riposare l’insalata per 20 minuti prima di servirla. Tempo di preparazione ca. 20 minuti + riposo 20 minuti. Per persona ca. 35 g di proteine, 76 g di grassi, 45 g di carboidrati, 4250 kJ/1000 kcal.

Azione 20% Anna’s Best lattuga rossa 150 g e formentino 120 g nel Duopack Fr. 5.40 invece di 6.80

Hamburger con salsa al curry Piatto principale per 4 persone

Azione 25% Uva Lavallée, Francia per kg Fr. 3.60 invece di 4.80

Azione 50% M-Classic Hamburger 12 x 90 g, surgelato Fr. 7.80 invece di 15.60

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Ingredienti 3 cucchiai di maionese 2 cucchiai di salsa Sweet Chili 1 cucchiaino di curry piccante, ad es. Madras sale, pepe 4 hamburger di manzo surgelati, 90 g ciascuno 2 cucchiai d’olio di colza HOLL 4 hamburger bun o altri panini insalata per guarnire, ad es. lattuga rossa 4 carote ½ cetriolo 1 mazzetto di ravanelli Preparazione 1. Per la salsa al curry, mescolate la maionese con la salsa Sweet Chili e il curry. Condite con sale e pepe.

2. Rosolate gli hamburger surgelati in una padella unta d’olio ca. 4 minuti per lato, estraeteli dalla padella e lasciateli raffreddare. Tagliate i panini a metà, spalmateli con la salsa al curry e farciteli con le foglie d’insalata e gli hamburger. Copriteli con l’altra metà del panino. A piacere sminuzzate le carote, il cetriolo e i ravanelli e serviteli con gli hamburger. Suggerimento Rosolate degli anelli di cipolla con gli hamburger e usateli per farcire i panini. Tempo di preparazione ca. 20 minuti. Per persona ca. 21 g di proteine, 26 g di grassi, 38 g di carboidrati, 1950 kJ/470 kcal.


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Idee e acquisti per la settimana

Shanaja’s box Ingredienti per 1 porzione 2-3 carote piccole 80 g di cetriolo 60 g di formaggio, ad es. emmentaler 20 g di noci di acagiù 50 g di cracker integrali 3-4 prugne piccole Preparazione Tagliate a piacere le carote e il cetriolo. Affettate il formaggio e mettetelo nel tupper insieme con gli altri ingredienti.

Per Shanaja, 5 anni le piccole porzioni permettono di piluccare con le dita.

Panino al prosciutto e alla pera di Nele

Insalata di pasta di Mika

Tempo di preparazione ca. 10 minuti.

A Mika, 3 anni piace che tutto sia tagliato a pezzetti piccoli e condito con salsa saporita.

Per persona 1 porzione ca. 30 g di proteine, 39 g di grassi, 45 g di carboidrati, 2750 kJ/650 kcal.

Consigli per escursioni e altre ricette:

www.famigros.ch/propostedi-gite

Ingredienti per 2 porzioni 160 g di pasta integrale sale 3 cucchiai d’olio di colza ½ mela 200 g di verdure miste, ad es. carota, cetriolo, peperone 20 g di nocciole 2 cucchiai di yogurt 1 cucchiaio d’aceto di mele pepe ½ mazzetto di erbe miste, ad es. basilico, prezzemolo, erba cipollina Preparazione 1. Lessate al dente la pasta in acqua salata. Scolate, passate sotto l’acqua fredda e lasciate sgocciolare bene. Mescolate con 1 cucchiaio d’olio. 2. Tagliate la mela e le verdure a dadini e mescolateli con la pasta. Tostate le nocciole in una padella senza grassi, poi tritatele grossolanamente. Per la salsa, mescolate lo yogurt con l’aceto e l’olio rimasto. Condite con sale e pepe e mescolate bene il tutto. Tritate le erbe e spargetele sull’insalata di pasta.

Ingredienti per 1 porzione 4 fette sottili di pane integrale 30 g di formaggio fresco, ad es. al naturale 1 pomodoro piccolo 50 g di cetriolo 4 fette sottili di prosciutto 1 pera piccola

A Nele, 7 anni da gran signora, piace che i piatti abbiano un buon contorno.

Preparazione Spalmate il formaggio sulle fette di pane. Tagliate il pomodoro e il cetriolo a fette. Farcite il pane con le verdure e il prosciutto. Affettate la pera e infilate le fette nei panini oppure mettete la pera intera nel tupper. Tempo di preparazione ca. 10 minuti. Per persona 1 porzione ca. 21 g di proteine, 14 g di grassi, 46 g di carboidrati, 1600 kJ/400 kcal.

Suggerimento Preparate l’insalata con 300 g di pasta cotta avanzata. Tempo di preparazione ca. 20 minuti. Per persona 1 porzione ca. 14 g di proteine,18 g di grassi, 60 g di carboidrati, 1950 kJ/450 kcal.

Una ricetta di:


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 26 settembre 2016 • N. 39

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 26 settembre 2016 • N. 39

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Idee e acquisti per la settimana

Shanaja’s box Ingredienti per 1 porzione 2-3 carote piccole 80 g di cetriolo 60 g di formaggio, ad es. emmentaler 20 g di noci di acagiù 50 g di cracker integrali 3-4 prugne piccole Preparazione Tagliate a piacere le carote e il cetriolo. Affettate il formaggio e mettetelo nel tupper insieme con gli altri ingredienti.

Per Shanaja, 5 anni le piccole porzioni permettono di piluccare con le dita.

Panino al prosciutto e alla pera di Nele

Insalata di pasta di Mika

Tempo di preparazione ca. 10 minuti.

A Mika, 3 anni piace che tutto sia tagliato a pezzetti piccoli e condito con salsa saporita.

Per persona 1 porzione ca. 30 g di proteine, 39 g di grassi, 45 g di carboidrati, 2750 kJ/650 kcal.

Consigli per escursioni e altre ricette:

www.famigros.ch/propostedi-gite

Ingredienti per 2 porzioni 160 g di pasta integrale sale 3 cucchiai d’olio di colza ½ mela 200 g di verdure miste, ad es. carota, cetriolo, peperone 20 g di nocciole 2 cucchiai di yogurt 1 cucchiaio d’aceto di mele pepe ½ mazzetto di erbe miste, ad es. basilico, prezzemolo, erba cipollina Preparazione 1. Lessate al dente la pasta in acqua salata. Scolate, passate sotto l’acqua fredda e lasciate sgocciolare bene. Mescolate con 1 cucchiaio d’olio. 2. Tagliate la mela e le verdure a dadini e mescolateli con la pasta. Tostate le nocciole in una padella senza grassi, poi tritatele grossolanamente. Per la salsa, mescolate lo yogurt con l’aceto e l’olio rimasto. Condite con sale e pepe e mescolate bene il tutto. Tritate le erbe e spargetele sull’insalata di pasta.

Ingredienti per 1 porzione 4 fette sottili di pane integrale 30 g di formaggio fresco, ad es. al naturale 1 pomodoro piccolo 50 g di cetriolo 4 fette sottili di prosciutto 1 pera piccola

A Nele, 7 anni da gran signora, piace che i piatti abbiano un buon contorno.

Preparazione Spalmate il formaggio sulle fette di pane. Tagliate il pomodoro e il cetriolo a fette. Farcite il pane con le verdure e il prosciutto. Affettate la pera e infilate le fette nei panini oppure mettete la pera intera nel tupper. Tempo di preparazione ca. 10 minuti. Per persona 1 porzione ca. 21 g di proteine, 14 g di grassi, 46 g di carboidrati, 1600 kJ/400 kcal.

Suggerimento Preparate l’insalata con 300 g di pasta cotta avanzata. Tempo di preparazione ca. 20 minuti. Per persona 1 porzione ca. 14 g di proteine,18 g di grassi, 60 g di carboidrati, 1950 kJ/450 kcal.

Una ricetta di:


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 26 settembre 2016 • N. 39

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Idee e acquisti per la settimana

Aquella

Dissetante fruttato Con «Taste» (tradotto: gusto) l’assortimento di acque minerali Aquella si completa con due aromatiche novità: le fruttate e ipocaloriche bevande lamponi-mirtilli rossi e limone-limetta contengono solamente aromi naturali e sono del tutto prive di zucchero. L’acqua svizzera Aquella è particolarmente ricca di calcio e magnesio e assicura momenti di rinfrescante piacere, specialmente se gustata ben fredda.

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Aquella Taste lamponi-mirtilli rossi 1,5 l Fr. 1.60 Nelle maggiori filiali

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M-Industria crea numerosi prodotti Migros, tra cui anche le acque minerali Aquella.


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1.30 invece di 2.65 Gnocchi freschi Di Lella prodotti in Ticino, in conf. da 500 g

Ananas Costa Rica/Ecuador, il pezzo

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4.90 invece di 7.50 Carne secca prodotta in Svizzera con carne dalla Germania, affettata in vaschetta, per 100 g

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1.20 invece di 1.55 Emmentaler dolce per 100 g

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Tutte le tavolette di cioccolato di marca Frey da 100 g, UTZ (M-Classic, Suprême, Eimalzin e confezioni multiple escluse), a partire da 3 pezzi, 20% di riduzione, offerta valida fino al 10.10.2016

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M consiglia

Costolette di maiale Svizzera, in conf. da 8 pezzi, per 100 g

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1.55 invece di 2.65 Cordon bleu di maiale TerraSuisse, 4 pezzi per 100 g

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SEMPLICEMENTE SQUISITO Hai voglia di un hamburger un po’ speciale? Farcisci il panino per hamburger con anelli di cipolla, fette di cetriolini sott’aceto, foglie d’insalata, la polpetta di manzo, una cucchiaiata di salsa piccante e una fetta di formaggio Fol Epi. Trovi la ricetta su www.saison. ch/it/consigliamo e tutti gli ingredienti freschi alla tua Migros.

conf. da 3

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4.20 invece di 7.05 Cervelas TerraSuisse in conf. da 3 3 x 2 pezzi, 600 g

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6.95 invece di 9.95 Prosciutto crudo dei Grigioni affettato finemente in conf. da 2 Svizzera, 2 x 99 g

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3.90 invece di 5.60 Petto di pollo M-Classic affettato finemente Brasile, 187 g

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4.20 invece di 5.60 Filetto di tonno (pinne gialle) Oceano Pacifico, per 100 g, fino all’1.10

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3.35 invece di 4.50 Medaglioni di cervo con pancetta Nuova Zelanda, imballati, per 100 g

25%

3.15 invece di 4.20 Bistecca di scamone di cavallo Canada, imballata, per 100 g

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4.50 invece di 5.40 Uova svizzere, da allevamento all’aperto 9 x 53 g+


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conf. da 2

40%

25%

2.90 invece di 4.90

3.95 invece di 5.30

Susine rosse extra Italia, al kg

Pomodori Cherry ramati Ticino, in conf. da 500 g

30%

5.75 invece di 8.25 Mini Babybel in retina da 18 x 22 g

20%

3.90 invece di 4.90 Emmentaler e Le Gruyère grattugiati in conf. da 2 2 x 120 g

conf. da 2

20%

5.40 invece di 6.80 Lattuga rossa e formentino Anna’s Best in conf. da 2 lattuga, 150 g, formentino, 120 g

25%

2.90 invece di 3.90 Fichi Turchia, vaschetta, 500 g

33%

1.20 invece di 1.80 Lattuga iceberg Svizzera, il pezzo

30%

2.80 invece di 4.– Treccia di mozzarella in conf. da 200 g

20%

1.55 invece di 1.95 Formaggella ticinese 1/4 grassa prodotta in Ticino, a libero servizio, per 100 g

conf. da 12

35%

2.50 invece di 3.95 Patate resistenti alla cottura Svizzera, busta da 2,5 kg Migros Ticino OFFERTE VALIDE SOLO DAL 27.9 AL 3.10.2016, FINO A ESAURIMENTO DELLO STOCK

25%

4.90 invece di 6.70 Zucca a cubetti Francia, imballata, al kg

25%

3.95 invece di 5.30 Uva Pizzutella Italia, al kg

20% Tutti gli yogurt Passion per es. stracciatella, 180 g, –.70 invece di –.90

20%

12.– invece di 15.– Latte M-Drink Valflora UHT in conf. da 12 12 x 1 l


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I nostri superprezzi. conf. da 2

20%

M consiglia

Cake alla tirolese, alla finanziera e all’albicocca per es. cake alla tirolese, 340 g, 2.85 invece di 3.60

33% Biscotti freschi nidi alle nocciole, biscottini alle nocciole e discoletti in conf. da 2 per es. biscottini alle nocciole, 2 x 207 g, 4.40 invece di 6.60

a partire da 2 confezioni

–.80

di riduzione l’una Tutti i biscotti in rotoli (Alnatura esclusi), a partire da 2 confezioni, –.80 di riduzione l’una, per es. biscotti margherita, 210 g, 1.10 invece di 1.90

20% Zampe d’orso da 760 g, bastoncini alle nocciole da 1 kg e sablé al burro da 560 g per es. zampe d’orso, 760 g, 4.70 invece di 5.90

DELICATO ANTIPASTO Prepara lo stomaco alla voglia di pizza con una cremosa vellutata di zucca. Condisci la vellutata con una spruzzata di succo di limetta e miele d’acacia. Guarniscila con una cucchiaiata di crème fraîche e origano fritto croccante. Trovi la ricetta su www.saison.ch/ it/consigliamo e tutti gli ingredienti freschi alla tua Migros.

conf. da 3

33% Pizza Margherita e ovale al prosciutto Anna’s Best in confezioni multiple per es. ovale al prosciutto in conf. da 3, 3 x 205 g, 9.80 invece di 14.70

a partire da 2 confezioni

20% Tutti i dessert ai vermicelles per es. tortine ai vermicelles, 2 pezzi, 240 g, 4.30 invece di 5.40

20% Tutto l’assortimento Kellogg’s per es. Special K Classic, 500 g, 3.80 invece di 4.75

– .4 0

di riduzione l’una Tutte le tisane Klostergarten in bustina a partire da 2 confezioni, –.40 di riduzione l’una, per es. tisana ai semi di finocchio Migros Bio, 20 bustine, 1.15 invece di 1.55

conf. da 2

20% Tutto l’assortimento di antipasti Anna’s Best e Migros Bio per es. hummus al naturale Anna’s Best, 175 g, 2.70 invece di 3.40

40%

6.90 invece di 11.60 Tortelloni M-Classic in conf. da 2 per es. ricotta e spinaci, 2 x 500 g

OFFERTE VALIDE SOLO DAL 27.9 AL 3.10.2016, FINO A ESAURIMENTO DELLO STOCK

20% Tutti i panini M-Classic per es. mini sandwich TerraSuisse, 300 g, 1.80 invece di 2.30

50% Tutti i tipi di Orangina in conf. da 6, 6 x 1,5 l regular e zero, per es. regular, 6.15 invece di 12.30

20% Tutti i tipi di Aquella in conf. da 6, 6 x 1,5 l per es. verde, 2.60 invece di 3.30


I nostri superprezzi. conf. da 2

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DELICATO ANTIPASTO Prepara lo stomaco alla voglia di pizza con una cremosa vellutata di zucca. Condisci la vellutata con una spruzzata di succo di limetta e miele d’acacia. Guarniscila con una cucchiaiata di crème fraîche e origano fritto croccante. Trovi la ricetta su www.saison.ch/ it/consigliamo e tutti gli ingredienti freschi alla tua Migros.

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33% Pizza Margherita e ovale al prosciutto Anna’s Best in confezioni multiple per es. ovale al prosciutto in conf. da 3, 3 x 205 g, 9.80 invece di 14.70

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di riduzione l’una Tutte le tisane Klostergarten in bustina a partire da 2 confezioni, –.40 di riduzione l’una, per es. tisana ai semi di finocchio Migros Bio, 20 bustine, 1.15 invece di 1.55

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conf. da 3

20% Tutte le Chips Original da 170 g, 280 g e 300 g e le Kezz da 110 g Zweifel per es. Original alla paprica, 280 g, 4.55 invece di 5.70

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Jumpy’s alla paprica, Pom Bär alla paprica e Original in conf. da 2 per es. Jumpy’s alla paprica, 2 x 100 g, 3.65 invece di 4.60

7.80 invece di 15.60 Hamburger M-Classic, surgelati 12 x 90 g

a partire da 2 confezioni

20% Tutto l’assortimento Mifloc per es. purea di patate, 4 x 95 g, 3.60 invece di 4.55

– .3 0

di riduzione l’una Tutta la pasta M-Classic a partire da 2 confezioni, –.30 di riduzione l’una, per es. pipe, 500 g, 1.20 invece di 1.50

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Prodotti per la doccia e deodoranti Nivea in confezioni multiple per es. docciacrema Sensitive in conf. da 3, 3 x 250 ml, 5.75 invece di 7.20, offerta valida fino al 10.10.2016

Verdura mista svizzera e piselli dell’orto Farmer’s Best surgelati, 1 kg, per es. piselli dell’orto, 3.60 invece di 5.15

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20% Tutti i sofficini M-Classic, surgelati per es. sofficini agli spinaci, 10 x 60 g, 5.75 invece di 7.20

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20% Maionese, Thomynaise e senape dolce Thomy in conf. da 2 per es. maionese à la française, 2 x 265 g, 4.– invece di 5.–

30% Tutti gli alimenti per animali Asco, Selina, Max, M-Classic e gli accessori Best Friend per es. alimento per gatti Selina Adult Soft & Crispy con manzo e pollame, 1,5 kg, 2.70 invece di 3.90, offerta valida fino al 10.10.2016

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20% Head & Shoulders in conf. da 2 per es. shampoo Classic Clean, 2 x 300 ml, 8.15 invece di 10.20, offerta valida fino al 10.10.2016

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 26 settembre 2016 • N. 39

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Idee e acquisti per la settimana

Cucina & Tavola

Torna in auge il filtro a mano

Il filtro per caffè di acciaio a maglie fini non necessita di un cono di carta supplementare.

Da qualche tempo è tornato in auge un po’ in tutte le fasce di età fare il caffè col filtro a mano. Con la caffettiera di vetro di Cucina e Tavola, fare il caffè col filtro è questione di un attimo. Per gustarlo al meglio si versa un litro di acqua bollente su 60 grammi di polvere di caffè; si comincia versando dapprima poca acqua, aggiungendo il resto dopo mezzo minuto. Tre minuti più tardi il caffè è pronto.

Cucina e Tavola Caffettiera di vetro 1 l* Fr. 34.80

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Idee e acquisti per la settimana

Concorso

Frey

Una scelta che addolcisce la vita

Quale cioccolato ci piace di più? Su www.frey-promo.ch potrete scoprire qual è il cioccolato che si gusta volentieri insieme. Da vincere vi sono dei fine settimana wellness, cesti regalo Frey e entrate per la famiglia al centro visitatori della Frey di Buchs AG.

Con 76 varianti nei quattro colori di cioccolato scuro, latte, bianco e blond, Frey propone il più grande assortimento di tavolette della Svizzera. Con una simile scelta è praticamente impossibile non trovare il proprio cioccolato preferito. Particolarmente pregiate sono le dieci creazioni di cioccolato ripieno Les Adorables e le otto della linea Les Délices, le quali spiccano per i ripieni fatti di pezzettini di biscotto, croccante e crema. Impossibile resistere a queste raffinatissime tentazioni.

Frey Les Délices Japonais 100 g Fr. 2.20

Frey Les Adorables Cremetta 100 g Fr. 2.20

Croccante alle nocciole, pistacchio o biscotto japonais: questi e molti altri ingredienti arricchiscono i cioccolati speciali della Frey. Frey Les Adorables Pistache 100 g Fr. 2.20

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Azione 20% a partire da tre tavolette da 100 grammi* dal 27.09 al 10.10 *Ad eccezione del cioccolato delle marche M-Classic, Sélection, Suprême e M-Budget, come pure le confezioni multiple.

M-Industria crea numerosi prodotti Migros, tra cui anche le tavolette di cioccolato Frey.


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Idee e acquisti per la settimana

Cartoleria

Conservare i momenti più belli Selfie, istantanee o panorami mozzafiato: nell’era delle fotocamere digitali e degli smartphones le fotografie non ci mancano di certo. Ma più grande è l’archivio, più consigliabile è fissare le foto preferite in un album. Così il bel viaggio, la festa di famiglia e l’avventura dell’ultimo weekend resteranno sempre a portata di mano. Completandoli con dei testi e qualche trouvaille si può creare un collage che vi farà sempre rivivere quel viaggio o quel momento.

Azione*

Dal 27.9 al 10.10.16 diversi articoli di cartoleria sono in azione.

Penne a sfera 10 pezzi Fr. 4.90

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Azione 30% Linguette adesive per foto conf. da 3, 3 x 500 pezzi Fr. 5.85 invece di 8.40

Ora è il momento di riunire in un album le foto più belle dell’anno. Azione 30% nastro adesivo universale 30 mm x 50 m conf. da 3 Fr. 5.– invece di 7.20


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Idee e acquisti per la settimana

Farmmania

Fattoria, che passione!

L’azione Farmmania della Migros sta entusiasmando grandi e piccini. I lettori caricano su internet foto e video delle loro personali avventure in fattoria. Le immagini viste fanno venir voglia di partecipare

Farmmania

Secondo jolly della settimana: cuccioli

Questo mercoledì ogni cliente che fa acquisti per almeno 60 franchi riceve i cuccioli Farmmania*. I cuccioli non possono mancare in una fattoria, perché cosa sarebbe la vita in campagna senza di loro?

Brigitte W. ha fotografato questo grazioso contadino in erba sul grande trattore. Le sue gambette non arrivano ancora al pedale del gas.

Ladina R. condivide il suo squisito formaggino addirittura con il topo domestico di Farmmania. Per fortuna il piccolo roditore si attacca al formaggio solo nella fantasia.

Concorso foto e video Ancora fino al 17.10 su www.farmmania.ch

*Cuccioli, grandezza 14 mm. Per ogni acquisto di 60.- franchi un sacchetto jolly. Al massimo 3 per acquisto. Disponibili in tutte le filiali Migros, Do it + Garden Migros, Melectronics, Micasa, SportXX incl. Outdoor, Obi, Ristoranti Migros & Take away, LeShop.ch, fino a esaurimento. Concorso foto e video Fino al 17 ottobre, ogni utente registrato su www.farmmania.ch può caricare foto e film, nonché votare per i migliori video e le foto più belle. Ogni foto/video nella galleria può essere sostenuto per sette giorni settimanali con dei cuoricini, ogni utente annunciato può assegnare un cuoricino al giorno. Utilizzando il codice stampato sul retro degli autocollanti Farmmania si può attribuire un ulteriore cuoricino. Tutte le info e le condizioni di partecipazione: www.farmmania.ch

Pedro A. lascia che il cavallo Freiberger e il coniglio Schweizer Schecke rosicchino con grande piacere i rametti di prezzemolo.

Manuela K. ha fotografato un inconsueto idillio in fattoria: la contadina in erba schiaccia un pisolino sul prato insieme alla capretta.


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Idee e acquisti per la settimana

Handymatic

Brillanti prestazioni nella lavastoviglie Handymatic assicura risultati brillanti con ogni programma di lavaggio, sia che si usi la polvere, i tabs o il gel. I nuovi Mini Tabs Express sono stati elaborati specialmente per i programmi brevi e si sciolgono particolarmente in fretta. Contrariamente ai prodotti della linea Classic, i prodotti Supreme contengono già sia brillantante sia sale rigenerante. Tutti i detersivi di Handymatic sono generalmente privi di fosfati e ben biodegradabili.

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 26 settembre 2016 • N. 39

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Idee e acquisti per la settimana

M-Classic

La frutta che ti accompagna

Foto: Christine Benz; Styling: Vera Guala

Ideale per le mani dei bambini: nel flacone floscio col tappo a vite, la purea di frutta di M-Classic è confezionata in modo molto pratico.

Con le varietà mela-mango e melabanana, M-Classic introduce nell’assortimento due nuovi tipi di purea di frutta. Contenuti in sacchetti flosci con tappo a vite, pieni di rinfrescante purea di frutta, sono particolarmente pratici da utilizzare quando si è fuori casa. La purea si caratterizza per un’alta percentuale di frutta e non contiene zuccheri aggiunti. La frutta utilizzata è certificata Fairtrade e proviene da coltivazioni sostenibili, anche dal punto di vista sociale.

M-Classic Fairtrade Max Havelaar Purea di mela-mango 4 x 100 g Fr. 4.30

M-Classic Fairtrade Max Havelaar Purea di mela-banana 4 x 100 g Fr. 4.30

Faitrade Max Havelaar è simbolo di prodotti commercializzati in modo equo e coltivati in modo sostenibile.

Parte di


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Idee e acquisti per la settimana

Micasa

Mobili di produzione svizzera I mobili modulari come il sistema a mensole Linus sono moderni e pratici. Si compongono di singoli box quadrati o rettangolari, che possono essere combinati ed espandibili individualmente secondo i colori e i materiali. Dalla raccolta di libri fino al vaso ogni cosa vi trova il suo posto. «Linus» appartiene al marchio proprio Micasa Produit Suisse ed è un prodotto della migliore qualità realizzato da artigiani svizzeri.

Produit Suisse – la migliore qualità dalla Svizzera Mobili, tessili e accessori con il marchio Produit Suisse provengono da aziende tradizionali svizzere di medie dimensioni. Micasa sostiene i produttori indigeni assicurando oltre 650 posti di lavoro.

Modulabile individualmente secondo gli elementi, sei colori e tre differenti piedi: combinazioni di mensole LINUS Fr. 1055.– Da Micasa

I seguenti articoli dell’assortimento Micasa recano il marchio Produit Suisse: armadietti per il lavabo, armadi da bagno, armadi multiuso, come pure circa la metà dei piumini e cuscini e oltre il 70 percento di tutti i materassi. Anche il sistema a ripiani Linus e il sistema modulare Tell sono prodotti secondo i criteri del marchio.


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Idee Idee ee acquisti acquisti per per la la settimana settimana

Yvette

Quando il nero resta nero Yvette Black 2 l Fr. 9.80

I colori scuri, in particolar modo il nero, lavaggio dopo lavaggio possono sbiadire velocemente perdendo la loro luminosità. Questo non avviene con il detersivo per capi delicati Yvette Black: i tessuti mantengono più a lungo la loro forma e il nero rimane a lungo lucente. I detersivi Yvette, grazie alla loro formulazione dolce, sono particolarmente delicati sulle fibre e sono pure indicati per il lavaggio a mano.

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