Babele – anno 2021 – n. 2 (vol. 80)

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DALLA CRONACA ALLA STAMPA 31 cambiamento principale avvenuto nel corso degli anni», sottolinea Muratori, aprendo la terza giornata del convegno che celebra mezzo secolo dell’Istituto di Ortofonologia (IdO). È un excursus storico il suo, che parte dalle origini dell’autismo per arrivare fino ai giorni nostri. Il neuropsichiatra evidenzia come il cambiamento di prospettiva avvenuto negli anni abbia oggi «una sua manifestazione nel cambiamento radicale dell’epidemiologia di questo disturbo. Uno studio di prevalenza condotto in Italia individua 1 bambino autistico ogni 87, ciò vuol dire che non è una forma rara, ma è un qualcosa che può riguardare l’essere umano e in alcuni bambini può diventare un problema, perché si ritrovano in un mondo che non è costruito attorno alle loro modalità speciali di funzionamento». Da qui la metafora del migrante cara al neuropsichiatra. «Chi si è cimentato con i bambini autistici si è spesso confrontato con l’idea che non abbiano interesse sociale, però questa è una modalità che va superata, spiega Muratori. Bisogna, invece, andare a vedere quelle che sono le particolari modalità con cui il bambino cerca di stabilire una relazione sociale. In questo senso il programma europeo EU-AIMS (Autism Research for Europe) ha l’obiettivo di cambiare la visione dell’autismo all’interno della società, considerandolo un modo diverso di stare al mondo e di stabilire relazioni sociali. Il programma mira a far rispettare e umanizzare gli interventi che mettiamo in atto con i bambini autistici», sottolinea il neuropsichiatra. Tre i punti che Muratori mette in evidenza nel corso del suo intervento: contatto affettivo, eterogeneità dell’autismo e motricità. «Sono tre punti strettamente collegati tra di loro, spiega. Il contatto affettivo presuppone una motricità fluida attraverso cui le parole possono arrivare agli altri. Ognuno di noi ha una propria modalità affettiva, una modalità motoria di relazionarsi con il mondo esterno. Questa diversità viene definita eterogeneità, per cui l’autismo non è una condizione unitaria, ma molto diversa, così come molto diversi sono tutti gli umani tra di loro». Muratori spiega che quando pensiamo alle basi dell’autismo «non possiamo pensare a una causa, ci sono fattori genetici e fattori ambientali. Almeno un 50% è dato dall’ambiente e un 50% dal patrimonio genetico. Siamo di fronte a un disturbo molto complesso – precisa il neuropsichiatra – che inizia fin dai primi periodi della vita fetale. Un disturbo che si organizza nel tempo attraverso tutta una serie di periodi critici e che dà luogo a quello che è la base dell’autismo: un disturbo della connettività cerebrale». In particolare per quanto riguarda la motricità, Muratori sottolinea l’importanza di approfondire lo studio di questo aspetto come indicatore di rischio per lo sviluppo dell’autismo. «Il movimento nei bambini autistici è spesso ridotto, poco variabile, poco usato in modo intenzionale e poco usato in modo comunicativo. È anche importante – evidenzia il neuropsichiatra – che le persone che vengono chiamate neurotipiche, cioè noi, diventino maggiormente capaci di comprendere la modalità particolare di uso della motricità del bambino autistico. Non è detto, infatti, che questi bambini debbano acquisire il nostro modo di muoverci, noi dobbiamo capire il loro». Muratori ci tiene poi a sottolineare che «se nei bambini piccolissimi, tra 6 e 12 mesi, si vanno a cercare solo gli aspetti

sociali evoluti, non si riesce a individuare veramente un rischio di autismo. Si devono andare a cercare anche gli aspetti motori che vanno concepiti come la base della costruzione della relazione con il mondo». Inoltre, il neuropsichiatra spiega che «questa povertà di movimento lascia spazio, nel primo semestre di vita, ai movimenti ripetitivi delle mani e delle dita. Ma se nei bambini “tipici” questi movimenti scompaiono nel secondo semestre di vita, perché le mani e le dita si avviano a essere usati per tutto quello che è l’aspetto del contatto affettivo, nei bambini “atipici” rimangono. Questi movimenti ripetitivi vanno a interferire con quello che è lo sviluppo della mano come strumento gestuale». Da qui Muratori sottolinea come lavorare con i genitori sia «assolutamente centrale dal punto di vista della diagnosi precoce, che non si può fare senza il loro supporto e senza osservare l’interazione che hanno con il bambino. Infine – conclude – lavorare con la famiglia è importante per supportarla nel compito di vivere con un bambino diverso da come era stato previsto».

Scuola. Dad, Cinque (Lumsa): Il 95% degli studenti chiude webcam Da attiva a costruttiva, ecco le soluzioni per innovare la didattica «Nella prima ondata pandemica, gli studenti che avevano seguito dei corsi in classe erano più disposti a tenere le webcam accese e a interagire nella didattica on-line. Su 100 studenti possiamo dire che in 90 avevano la webcam accesa. Oggi, invece, è il contrario: 95 hanno la webcam spenta e solo 5 la tengono accesa. Per questo è necessario progettare attività, magari in piccoli gruppi, in cui i ragazzi siano costretti a confrontarsi». Lo spiega Maria Cinque, professoressa associata di Pedagogia e didattica speciale presso l’Università Lumsa di Roma, che è intervenuta nella prima delle quattro giornate di lavori, dedicata proprio alla scuola oggi e ai nuovi studenti, del convegno «50 anni Ido. Dall’esperienza alle proposte», promosso dall’Istituto di Ortofonologia. Allargando lo sguardo oltre confine, Cinque analizza quanto spazio di partecipazione attiva hanno, per esempio, gli studenti in base ai sistemi didattici dei diversi Paesi europei. «Una ricerca fatta in Finlandia ha calcolato quanto tempo riesce a parlare uno studente durante la didattica normale ed è emerso che proprio in Finlandia, dove il sistema d’istruzione è abbastanza all’avanguardia in Europa, sembra che i bambini abbiano almeno 7 minuti al giorno per esprimersi in classe. Sette minuti di spazio per esprimersi in classe sono tantissimi – precisa l’esperta – In alcuni casi, se pensiamo ai bambini con qualche difficoltà, a 7 minuti non arrivano neanche nel corso dell’intero anno scolastico. Questo deve darci la misura di quanto, effettivamente, la didattica possa e debba cambiare». Da qui la necessità di riflettere sui metodi didattici innovativi.


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