Babele – anno 2021 – n. 2 (vol. 80)

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CINEMA E LETTERATURA, UNA PSICODINAMICA LUOGHI DILETTURA CURA 47

Rincorrere il padre negli spazi infiniti Lettura psicologica del film Ad Astra di James Gray (2019) GIANLUCA SAMBUCHI Psicologo, allievo del I anno della Scuola di specializzazione in Psicoterapia psicodinamica dell’età evolutiva IdO-MITE – Roma

Sono calmo, stabile. Ho dormito bene, otto ore virgola due. Nessun incubo. Sono pronto a partire, a fare il mio lavoro al meglio delle mie capacità. Sono concentrato solo sull’essenziale a discapito di tutto il resto. Prenderò solo decisioni pragmatiche. Non mi lascerò distrarre da nulla. Non lascerò che la mia mente indugi su cose poco importanti. Non dipenderò da qualcuno o qualcosa. Non sarò vulnerabile ad errori. Battito a riposo: quarantasette. Inoltra.

L’odissea di Roy McBride inizia così. Come un sottomarino invisibile ai radar, è silenzioso e perfettamente efficiente, si muove sinuoso e fluido nell’ambiente marino, in quel luogo che non gli appartiene. Un elemento innaturale perfettamente adattato. Un capolavoro di ingegneria e di compartimentazione. Questo è Roy McBride, questa è la sua psiche. Il viaggio del nostro protagonista è un viaggio cosmico all’interno della sua solitudine, meravigliosamente rappresentata dallo sconfinato paesaggio galattico. L’universo di Ad Astra è, per usare un gioco di parole, un’astrazione, una metafora del panorama psichico. La rappresentazione dell’oscillazione fra il cadere per sempre (Ogden, 2016, p. 59) e la discesa nei propri complessi, alla ricerca del proprio Sé o del proprio anti-Sé. È questa la dicotomia del film, lo scontro catastrofico fra materia e antimateria, identificazione ed individuazione, ragione e sentimento. Ma partiamo con ordine e soprattutto, dagli albori. La fascinazione che lo spazio cosmico ha esercitato sugli uomini è cosa nota. Abbiamo cominciato con i miti cosmogonici e siamo arrivati a costruire delle sonde spaziali che ora sono in grado di espandere la nostra vista oltre orizzonti finora esplorati. Credo sia questo uno dei leitmotiv del film: trovare un equilibrio tra dentro e fuori, vicino e lontano, visibile e invisibile. Queste polarità sono vive più che mai in Roy. Suo padre è dentro di lui e al tempo stesso lì fuori, da qualche parte. È vicino, nei racconti di coloro che lo conoscono personalmente o di fama, e lontano, perché di lui se ne ricava solo un quadro ambivalente fatto di immagini idolatranti o dissacranti – infine visibile e invisibile – è ovunque Clifford McBride e contemporaneamente da nessuna parte. Come mettere ordine in tutto questo caos? Come si possono

organizzare simili contraddizioni all’interno di una mente così (apparentemente) compartimentata come quella di Roy? In questo passaggio è emblematica la scena del soccorso alla stazione spaziale norvegese di ricerca biomedica e la successiva valutazione psicologica. Qui Roy e il capitano Tanner vengono aggrediti da un feroce babbuino cavia. Una volta rientrato, Roy si sottopone alla valutazione psicologica con il computer e dice: Sono diretto a Marte, abbiamo risposto a una richiesta di mayday ed è finita in tragedia, abbiamo perso il capitano. Beh, è tutto. Noi lavoriamo, eseguiamo i nostri compiti, e poi finisce. Ci siamo e poi non ci siamo più. L’aggressione… c’era tanta rabbia. Conosco quella rabbia. Ho visto quella rabbia in mio padre e ho visto quella rabbia in me. Perché sono arrabbiato che se ne sia andato. Ci ha abbandonati. Ma quando io... quando guardo quella rabbia… se io la metto da parte, se la metto via, tutto, tutto quello che vedo è angoscia. Vedo solo sofferenza e credo che mi tenga isolato. Isolato da rapporti e dall’aprirmi… insomma dal prendermi cura di qualcuno. E non so come superarla questa cosa, non so come evitarla e mi preoccupa e vorrei essere diverso. Non voglio essere mio padre.

In questo momento l’essersi rispecchiato nella furia cieca di quella scimmia che ha ucciso il capitano, la scimmia interpretabile anche come una versione arcaica di noi, non maturata, non evoluta, lo mette di fronte alla sua condizione esistenziale e per un momento c’è un contatto con la sua storia. Un contatto emotivo con il passato. Grazie alla scimmia Roy regredisce, ma senza disancorarsi dal suo Io adulto, un’azione fondamentale che gli permette di poter leggere e significare il senso di quella regressione attribuendole un scopo che lo orienterà nelle sue decisioni future. È stato compiuto un passo cruciale dall’identificazione paterna verso la propria individuazione. Roy ha compreso che non vuole essere come suo padre. Si riparte da qui. Ma chi è Clifford McBride? Perché non voler essere come l’uomo più acclamato e invidiato al mondo? L’eroe! Furio Jesi, nel suo libro Mito (1973, p. 48), citando Creuzer dichiara: «L’uomo primordiale avrebbe sperimentato davanti alle manifestazioni della natura, emozioni tali da diventare matrici di immagini divine». Ecco, cosa succede quando cerchiamo di recuperare quelle


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