La maestrina degli operai di Edmondo De Amicis

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Classici sommersi 6



La maestrina degli operai

EDMONDO DE AMICIS


Bel-Ami Edizioni s.r.l. Via Alessandro Codivilla, 10 – Roma 00152 E-mail: info@baedizioni.it – Sito: www.baedizioni.it Prima edizione Bel-Ami Edizioni: ottobre 2015 ISBN: 978-88-96289-69-3 Editing: Armando Rotondi Impaginazione: Bel-Ami Edizioni Grafica di copertina: Bel-Ami Edizioni


La maestrina degli operai: scuola, amore e socialismo nella Torino umbertina

L’aspetto che forse colpisce di più il lettore moderno nello scorrere questo agile romanzo breve di Edmondo De Amicis, La maestrina degli operai, è la convinzione in esso implicita, anzi presupposta, quasi che qualsiasi discussione in merito fosse superflua, dell’importanza fondamentale della scuola pubblica per l’elevazione culturale, morale e civile di un popolo, e per i destini di una nazione. Per chi come lo scrivente è passato nel corso degli anni attraverso varie esperienze in campo educativo, compresa quella della scuola superiore (e pubblica) italiana, tale convinzione è qualcosa che commuove. Chi ha insegnato sa di cosa parlo: incertezza permanente, quasi esistenziale, su quale ruolo si debba ricoprire, su cosa gli studenti, i loro genitori, la società (tralascio i Governi per motivi che credo appariranno evidenti ai più) si aspettino dagli insegnanti, quale sia il ruolo della scuola pubblica nella nazione italiana del XXI secolo. Niente di tutto ciò ne La maestrina degli operai. La giovane maestra Enrica Varetti, e il piccolo gruppo di insegnanti con i quali essa lavora e convive alla periferia di Torino, non hanno dubbi su quale sia il loro ruolo: essi costituiscono un avamposto nelle terre selvagge, un piccolo esercito volenteroso, benché sottopagato (allora come ora), cui l’autorità pubblica ha affidato il compito di redimere il popolo dall’ignoranza, istruirlo, e far degli zotici, e potenziali rivoluzionari, dei buoni cittadini rispettosi dell’ordine costituito. E anche se l’aristocratica e delicata Varetti del popolo ha timore, e quasi orrore, nondimeno si dedica anima e corpo alla storica missione che gli è stata affidata. Forse ciò esiste, mutatis mutandis, ancora. Forse ancora la scuola 5


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è avamposto di frontiera in certe zone del paese, e certo ci sono nuove frontiere educative che si possono ancora conquistare, avendone lo scopo e gli strumenti. Ma quello che manca è l’appassionato, diligente, e persino un po’ ingenuo cantore di questa scuola eroica. Edmondo De Amicis fu appunto questo, o meglio fu anche questo. Lo fu in questo romanzo e più famosamente – ma non necessariamente in misura maggiore – nell’opera letteraria per cui soprattutto e conosciuto in Italia e nel mondo: Cuore (1886). La scuola, intesa in senso lato, è il fil rouge dell’opera deamicisiana. Già il suo primo lavoro, La vita militare (1868), aveva scopi educativi, o piuttosto di indottrinamento. In quel caso la scuola, di vita, era il Regio Esercito, di cui De Amicis aveva fatto parte per diversi anni, partecipando anche come sottotenente alla battaglia di Custoza (1866).1 La vita militare e i valori militareschi come fattore educativo dunque, la stessa educazione che aveva ricevuto De Amicis, quando sedicenne era stato ammesso al collegio militare di Torino. Poi la scuola di Cuore, scuola elementare, “interclassisticamente perfetta (e perciò falsa)” per citare Sebastiano Timpanaro.2 Ne La maestrina degli operai c’è invece la scuola serale, quella degli operai, “la scuola del popolo”, come la definisce il burbero e autorevole ispettore, giunto con perfetto tempismo a rimettere ordine in una classe che la povera Varetti non riesce più a gestire.3 Edmondo De Amicis, si sa, ha una posizione singolare nella storia della letteratura italiana. Autore popolarissimo, è stato, ancora in vita, oggetto di attacchi ferocissimi da parte dei colleghi e della critica letteraria. Lo si accusava di facile sentimentalismo – è ben 1 La battaglia di Custoza deve essere stata, come si può facilmente immaginare, un evento decisivo della vita di Edmondo De Amicis. Riferimenti a questa battaglia si possono trovare in varie sue opere. Famoso è, per esempio, l’episodio del Tamburino sardo, incluso in Cuore, e presentato come episodio minore di quello sfortunato scontro con le truppe austriache. Anche il padre della maestra Varetti è caduto a Custoza, lasciando in eredità alla figlia una buona dose di orgoglio militaresco, qualche nobile ricordo, e la necessità di trovare un impiego per mantenersi. 2 Sebastiano Timpanaro, Il socialismo di Edmondo De Amicis. Lettura del “Primo Maggio”, Bertani Editore, Verona, 1983, p. 65. 3 La scuola fa da ambientazione ad altre opere di De Amicis: Il Romanzo di un maestro (1890), Amore e Ginnastica (1892), Fra scuola e casa. Bozzetti e racconti (1892). 6


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noto l’impietoso nomignolo che gli affibbiò Carducci: “Edmondo dei languori” – e si sottolineava come alla facilità di penna non corrispondesse né spessore ideologico e politico né capacità di approfondimento dei personaggi. Sulla questione dell’impegno politico di De Amicis torneremo più avanti. In quanto alla sua capacità o meno di tratteggiare il profilo psicologico dei suoi personaggi, è indubbio che non ci troviamo davanti ad un Dostojevski. Tuttavia La maestrina degli operai non è, da questo punto di vista, assolutamente debole come quanto può apparire, invece, Cuore. La capacità di De Amicis di descrivere le personalità con pochi e precisi tratti ci regala, in questo romanzo, alcune gustose rappresentazioni di popolani e piccoli borghesi della Torino umbertina, con i loro pregi e le loro miserie: l’ipocondriaca maestra Latti, la maestra Baroffi frustrata nelle sue ambizioni letterarie, il pavido bidello che non si trova mai quando ci sono i guai e riappare quando la burrasca è passata, il discolo Maggia, che è il Franti della situazione, e il Garrone cresciuto Perotti, che compensa la scarsa propensione allo studio con la sua mulesca testardaggine. Certo, questa è proprio quella tendenza al bozzettismo che spesso la critica ha rinfacciato al Nostro. Tuttavia qui funziona. D’altro canto si tratta di un romanzo breve, dove i personaggi sono necessariamente ridotti in una certa misura a dei tipi umani la cui interazione serve allo scopo di dimostrare la premessa morale dell’autore, la sua tesi: sentimenti gentili albergano in ogni essere umano, indipendentemente dalla sua estrazione sociale, e una superiore e manifesta gentilezza d’animo può risvegliarli in chiunque, con effetti catartici. Questo può suonare stucchevole e quasi insopportabilmente accondiscendente al lettore moderno, ma non era così nell’Italia del tempo. Per le tematiche che affrontava e per la simpatia che mostrava verso gli operai in questa e in altre opere De Amicis non era forse etichettabile in prima battuta come radicale, ma come democratico certamente sì. Le profonde divisioni sociali descritte nel romanzo esistevano davvero, così com’era reale la quasi incomunicabilità tra la classe operaia, caratterizzata da un misto di abbrutimento e di ribellismo anarcoide, e la borghesia, che di lì a poco avrebbe in buona misura appoggiato senza troppi patemi d’animo il tentativo di svolta autoritaria di fine secolo, le leggi eccezionali 7


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del Pelloux e le cannonate di Bava Beccaris, pur di scongiurare il pericolo di cambiamenti dell’ordine sociale. L’incomunicabilità tra le classi cominciava dalla lingua italiana, conosciuta poco e male dal popolo e sempre mischiata all’onnipresente dialetto.4 Queste sono tutte cose di cui De Amicis ci parla ne La maestrina degli operai, anche se lo fa con una leggerezza che può essere presa per superficialità. Io credo che qui De Amicis rifiuti di proposito la trattazione politica per privilegiare il suggerimento, la battuta che rivela, la frase che allude, preferendo istintivamente la commedia delle interazioni umane all’analisi sociologica. Possono esserci anche motivazioni commerciali dietro al suo stile misurato, alla sua ironia fin troppo facile e leggera. De Amicis, lo abbiamo detto, aveva un gran successo commerciale (e questo, sia detto per inciso, era forse uno dei motivi per cui la sua opera subì aspri attacchi, che in Italia il successo commerciale di un libro è quasi sinonimo di scarsa qualità letteraria, a meno che l’autore non sia straniero, si intende) e il suo pubblico era in maggioranza formato da piccoli borghesi, non dissimili dai maestri raccontati nel presente romanzo. Non era saggio turbarli offrendogli più di quanto potessero digerire in termini di analisi sociale. È presumibile che il suo editore Treves lo avrebbe sconsigliato in tal senso, come infatti fece per il suo ultimo romanzo, Primo maggio, più apertamente critico della borghesia e decisamente socialisticheggiante, che non fu mai completato ed è rimasto inedito fino al 1980.5 Meglio essere prudenti, assumere l’atteggiamento paternalistico proprio di certa borghesia pur sensibile ai problemi sociali, e limitarsi a tratteggiare il popolo come fondamentalmente buono. È questo nel romanzo il compito affidato alla maestra 4 Anche al problema della lingua e dell’educazione linguistica dei giovani italiani Edmondo De Amicis dedicò alcuni testi della sua multiforme produzione letteraria, si veda in particolare, L’idioma gentile (1905), un testo dedicato appunto ai giovani per incoraggiarli a coltivare un uso corretto della “lingua della patria”. In quello scritto De Amicis scoraggia fortemente tanto l’uso di espressioni dialettali (nel capitolo A ciascuno il suo) quanto il ricorso a termini stranieri (Le parole nuove), pur accettando quei termini stranieri per i quali i corrispondenti italiani suonerebbero ridicoli o affettati. 5 Edmondo De Amicis, Primo Maggio, a cura di G. Bertone e P. Poerio, Milano Garzanti, 1980. 8


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Mazzara, filantropa iperattiva, sempre di corsa tra una visita a una collega ammalata, un comitato di beneficenza, e la redazione dell’”Unione degli insegnanti”. Cercando di tranquillizzare la tremante Varetti alla vigilia della sua prima lezione con la classe serale ella dice “il popolo, gli operai specialmente, son gente di buona pasta, di cui si fa quello che si vuole, basta saperli prendere pel loro verso; e chi ne sparla, non li conosce”. De Amicis come campione del filantropismo borghese dunque, o a limite fautore di una versione addomesticata e rassicurante del socialismo di fine Ottocento? Non proprio. L’adesione al socialismo di De Amicis fu vera e, soprattutto, fu pubblica, contemporanea alla pubblicazione de La maestrina degli operai, che uscì per la prima volta su “Nuova Antologia” nel 1891.6 I riflessi di tale scelta politica sono evidenti nel romanzo. Per esempio, la maestra Varetti riflette sul fatto che la miseria fa da incubatrice alla delinquenza, mostrando perciò un istintivo distacco dalle teorie lombrosiane che andavano per la maggiore tra la borghesia di quegli anni, e che attribuivano piuttosto a caratteristiche anatomiche, e quindi genetiche, l’insorgere di tendenze criminali.7 Né si può dimenticare la figura dello studente Lamagna, il socialista, per il quale la Varetti ha il rispetto che si riserva ad un pari grado, e De Amicis una malcelata simpatia. Biondo, con i capelli lunghi, Lamagna gode dell’ammirazione dei compagni, che gli riservano una silenziosa attenzione ogni volta che apre bocca. Essi infatti gli riconoscono una certa superiorità intellettuale, nonché una preparazione culturale fuori dal comune rispetto all’ambiente operaio in cui vive. Lamagna è un ingegnoso artificio retorico che permette a De Amicis di far inghiottire ai suoi lettori alcune pillole di socialismo, e si tratta di pillole difficili da mandar giù, e non solo per quei tempi, come si può vedere nel seguente passaggio: 6 Il racconto fu in seguito pubblicato come libro, vedi E. De Amicis, La maestrina degli operai, Milano, Fratelli Treves Editori, 1895. Cfr. anche Sebastiano Timpanaro, Il socialismo di Edmondo De Amicis… cit., p.12. 7 Sui rapporti tra De Amicis e Cesare Lombroso, che aderì anch’esso al socialismo in una fase della sua vita, o piuttosto sviluppò una sua personale versione di socialismo conservatore, vedi Sebastiano Timpanaro, Il socialismo di Edmondo De Amicis… cit., p. 165. 9


Gianluca Fantoni [la Varetti] fu molto maravigliata di un’idea espressa da lui in un componimento sul lavoro ricompensato dalla coscienza: a modo suo, egli aveva voluto dire che nella società, secondo giustizia, chi ha più ingegno d’un altro non dovrebbe per questo guadagnar di più, anzi dovrebbe di meno, perché l’ingegno agevola il lavoro ed è ricompensa a se stesso.

Il passaggio dimostra come De Amicis stesse probabilmente riflettendo su alcuni dei problemi teorici più dibattuti all’interno del movimento socialista del tempo, nel caso specifico il problema dell’uguaglianza nella futura società socialista. Questo era stato, per esempio, discusso da Pierre-Joseph Proudhon in Che cos’è la proprietà?.8 Vale la pena sottolineare che la posizione ultra anti-meritocratica espressa da Lamagna non era approvata da Proudhon, ne sarebbe stata accolta da nessuna di quelle società che in seguito si sono dette socialiste. Più di trent’anni orsono, in occasione della pubblicazione postuma di Primo Maggio, si accese una polemica piuttosto animata tra Giorgio Bertone, uno dei curatori del testo, e Sebastiano Timpanaro in merito al socialismo di De Amicis.9 Mentre il primo si faceva interprete di una visione più tradizionale che leggeva il socialismo deamicisiano come estremamente moderato e debole ideologicamente, il secondo ne rivalutava la carica ideale e cercava di dimostrare che c’era in esso più spessore teorico di quanto a prima vista non si scorgesse. Non era estranea al dibattito una polemica di natura prettamente politica che aveva per oggetto il socialismo di allora, quello craxiano, e la mutazione ideologica che il Partito Socialista Italiano aveva intrapreso in quegli anni, specialmente a seguito della pubblicazione del famoso “Vangelo socialista”, nel 1978.10 Nell’epoca post-ideologica nella quale stiamo vivendo 8 Pierre-Joseph Proudhon, Che cos’è la proprietà?, a cura di U. Cerroni, Bari, Laterza, 1967, p. 139. 9 Mi riferisco specialmente al libro di Sebastiano Timpanaro. Il socialismo di Edmondo De Amicis… cit., scritto allo scopo di ribattere punto su punto alle tesi di Giorgio Bertone contenute nella prefazione del Primo maggio e in altri scritti. 10 Sulla pubblicazione del cosiddetto “Vangelo Socialista” firmato da Bettino Craxi ma scritto da Luciano Pellicani e pubblicato su L’Espresso, si veda Luigi Musella Craxi (Roma, 2007), 155-166. 10


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possiamo tranquillamente prescindere da tutto ciò. Non avrebbe più senso infatti, a quasi trent’anni dalla fine delle ideologie, dibattere sui “limiti ideologici” o sugli “scivolamenti nell’interclassismo” del socialismo di De Amicis, o addirittura ipotizzare un De Amicis che agiva di concerto con Filippo Turati per promuovere un socialismo devirilizzato e perbenista.11 Suggerirei di limitarsi a leggere l’opera per quella che è: un romanzo che oggi ha quasi un valore etnografico, caratterizzato da venature socialisteggianti, uno spaccato di vita torinese in epoca umbertina, e prima testimonianza della conversione al socialismo del suo autore. Tuttavia, per completare l’analisi di questo aspetto dell’opera, cioè il suo carattere socialista, alcune considerazioni sono necessarie, e si ispireranno più al lavoro di Timpanaro che non a quello di Bertone. In primo luogo è bene sottolineare che l’adesione di De Amicis non fu una scelta isolata nel panorama letterario di quegli anni. Altri autori infatti, tra i quali Giovanni Pascoli, Arturo Graf, Ada Negri, Gustavo Balsamo-Crivelli, aderirono nello stesso periodo a quello che si potrebbe definire un socialismo dei sentimenti, mossi da un anelito di giustizia sociale. Però De Amicis è, rispetto a questi, forse il più socialista, nel senso che egli più vivamente avverte la necessità di un miglioramento sociale, crede nella sua fattibilità, e soprattutto mette la sua letteratura al servizio di questa causa.12 E ancora si deve dire che tra gli autori borghesi convertitesi o prestati al socialismo in quello scorcio di secolo il De Amicis è forse quello che cerca di dare una più compiuta veste teorica e scientifica al suo socialismo, attraverso lo studio assiduo dei testi marxisti.13 E, infine, egli diverrà autore socialista a tutto tondo nel successivo Primo Maggio, opera nella quale egli 11 Giorgio Bertone “Parlare ai borghesi”: De Amicis, il “Primo Maggio” e la propaganda socialista, in Cultura e editoria socialista, “Movimento operaio e socialista”, III, 2-3, apr-sett. 1980, pp.155-74. 12 Numerosi gli scritti e i pamphlet di Edmondo De Amicis a sostegno della causa socialista, per lo più scritti nel biennio 1896-97: Il 1º Maggio. Discorso tenuto all’Associazione generale degli operai la sera del 1º maggio 1896; Ai nemici del socialismo; Collaboratori del socialismo; Nel campo nemico. Lettera a un giovane operaio socialista; Pensieri e sentimenti di un socialista; Socialismo e patria; Il Socialismo e l’eguaglianza; e altri. 13 Sebastiano Timpanaro, Il socialismo di Edmondo De Amicis… cit., pp. 4648. 11


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si libera dei residui di morale borghese, o almeno rifiuta di farsene ulteriormente propugnatore. La conversione al socialismo del protagonista di Primo maggio, il maestro Alberto Bianchini, è in fondo la sua, dello scrittore più pedagogo, più “maestro” della letteratura italiana. Se tale interpretazione è esatta, allora La maestrina degli operai è il romanzo che accompagna la conversione pubblica e puramente sentimentale al socialismo e precede quella definitiva e propriamente ideologica, e in questo modo va letto. Così dovette leggerlo anche Vladimir Majakovskij, che trasse dal libro l’unico film sopravvissuto della sua produzione cinematografica, La Signorina e il Teppista (Baryshnya i khuligan), nel 1918. Nel film è lo stesso poeta e rivoluzionario russo ad interpretare la parte di colui che è, nel romanzo, il co-protagonista, il Muroni, detto anche saltafinestra, giovane violento, piccolo delinquente, che prima si invaghisce e poi si innamora della bella e delicata maestrina aristocratica. Nel film il teppista/Majakovskij è l’archetipo del giovane sottoproletario arrabbiato e disperato, non ancora plasmato da un’ideologia che dia senso e direzione al suo istintivo ribellismo. Per tornare a De Amicis, indipendentemente da come si voglia giudicare la sua preparazione ideologica, ciò che più conta è che la motivazione politica non offusca ciò che è, come abbiamo già accennato, il vero punto di forza del nostro: la spontanea abilità nel leggere i tipi umani, e soprattutto nel descrivere le dinamiche di gruppo, in questo caso il gruppo-classe. Sono queste le pagine del romanzo che hanno resistito meglio al tempo. Si devono citare in particolar modo quelle parti in cui De Amicis descrive con garbo e delicatezza tutta ottocentesca la tensione erotica provocata dalla presenza di una giovane insegnante in una classe tutta maschile, composta da adolescenti, giovani uomini e uomini maturi, e le multiformi strategie messe in campo dagli allievi per avere una qualsiasi sorta di contatto privilegiato con lei: “Osservò in alcuni grandi il manifesto proposito di entrarle in grazia fingendo di prestarle una profonda attenzione, acconsentendo col capo alle sue parole, facendo i lavori con grande diligenza; parecchi venivano a chiederle spiegazioni al tavolino, senza sapere bene quello che si volessero; molti, che l’avevano guardata da principio con tutta in12


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differenza, la guardavano ora da capo a piedi, arrestando l’occhio su tutte le parti della sua persona, come per prenderle la misura d’un vestito; altri, dei più maturi, assumevano con lei un fare di protezione benigna, disapprovando ostentatamente i disturbatori, ed ella vedeva passare come un chiarore sul loro viso a certe inflessioni dolci della sua voce, e indovinava, più che non vedesse in loro, qualche cosa d’insolito, un movimento, quasi la scossa d’un pensiero improvviso, quando s’avvicinava al banco per veder la scrittura”. Si deve infine accennare al luogo dove la storia è ambientata, elemento che ci racconta qualcosa in più della mentalità dello scrittore: il quartiere operaio di Sant’Antonio, piccolo sobborgo situato ad un miglio dalle mura di Torino. De Amicis, occorre dirlo, fu scrittore eminentemente “settentrionale”; nei suoi scritti i meridionali compaiono poco. Certo non si può scordare il ragazzo calabrese di Cuore, ed è pur vero che Pasquale Villari lodò una delle cronache di viaggio per le quali De Amicis era noto al grande pubblico, Sull’oceano (1889), il resoconto di una traversata atlantica a bordo di uno dei piroscafi che portavano gli emigranti italiani verso il Sud America, considerandola un lodevole esempio di denuncia delle sofferenze dei popoli meridionali.14 Tuttavia, la figura di De Amicis è difficilmente scindibile dalla sua Torino, la città nella quale crebbe e alla quale, anni prima della pubblicazione de La maestrina degli operai, aveva dedicato un’opera abbastanza rivelatrice: Torino 1880.15 L’opera era in pratica una sorta di guida ufficiale per il visitatore che si recasse nella ormai ex-capitale del Regno d’Italia. Nel libro, Torino è descritta secondo i canoni della città ideale, razionale e ordinata, una città pensata, costruita e abitata da quella borghesia che celebrava 14 Lorenzo Gigli Edmondo De Amicis, Torino, UTET, 1962, pagina 369. In qualità di corrispondente de La Nazione di Firenze, De Amicis ebbe occasione di compiere numerosi viaggi all’estero. Da tali esperienze scaturì una fortunata serie di racconti di viaggio, tra il turistico e l’etnografico, che si vendevano bene tra la piccola borghesia affascinata dall’esotico ma con scarse possibilità di viaggiare. Si possono ricordare, tra gli altri, Marocco (1876), Costantinopoli (1882) e Ricordi di Parigi (1886). 15 Per un’interessante analisi di Torino 1880 si veda Cristina Della Coletta, Exposition Narratives and the Italian Bourgeoisie: Edomondo De Amicis’s Torino 1880, in Stefania Lucamante (ed.), Italy and the Bourgeoisie. The Re-Thinking of a Class, Madison, Fairleigh Dickinson University Press, pp. 32-52. 13


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allora i suoi trionfi industriali nelle varie esposizioni nazionali e universali. Una borghesia sicura di sé, nutrita di positivismo, sorretta da una incrollabile fede nel progresso, e non ancora turbata da visioni di masse operaie avanzanti dalla tenebre dei secoli. Anche ne La maestrina degli operai questi aspetti non sono assenti, e anzi si trovano in apertura del romanzo, quando De Amicis parla, quasi en passant, delle nuove scuole costruite per il popolo nei sobborghi della città, segno tangibile di una borghesia illuminata al potere. Esse son tutte nuove e di bell’aspetto, includono appartamenti per gli insegnanti e, pare quasi di vederle, sono una delle poche delizie per gli occhi in una panorama altrimenti caratterizzato da ciminiere fumose e grigi opifici. I valori tipicamente borghesi che Torino ai suoi occhi incarnava, razionalità, misura, efficienza, progresso, continuavano dunque ad essergli cari anche quando egli si avviava volenteroso lungo i sentieri del socialismo. In questo senso De Amicis non fu solo scrittore settentrionale, ma anche eminentemente urbano, e l’edifizio in cui è ospitata la scuola, piccolo e grazioso, una villetta borghese insomma, rappresentava probabilmente il suo ideale architettonico. Un ideale dunque borghese, anche piccolo borghese se si vuole, ma ancora una volta sincero, come sincero fu sempre il suo amore per la scuola, l’educazione, la patria, il popolo e, infine, il socialismo.

Gianluca Fantoni, laureato in Storia all’Università di Firenze, insegna come Lecturer lingua e cultura italiana alla Nottingham Trent University. Ha lavorato in precedenza alla University of Strathclyde (Glasgow) dove ha anche conseguito un Master by Research e un dottorato (PhD) con una tesi riguardante la produzione cinematografica del Partito Comunista Italiano (PCI). Si occupa di sinistra italiana, della interazione tra politica, cultura e letteratura, e dell’uso del cinema nella ricerca storica. Ha pubblicato in riviste del mondo anglosassone (Modern Italy, Journal of Contemporary History) e ha contribuito a raccolte di saggi. È communications officer dell’ASMI (Association for the Study of Modern Italy). 14


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Una delle più belle scuole suburbane di Torino, che son tutte nuove e di bell’aspetto, è quella del piccolo sobborgo di Sant’Antonio, posto un miglio fuor di porta e abitato in gran parte da contadini e da operai di due grandi fabbriche di ferramenti e di acido solforico, che lo riempion di rumore e lo copron di fumo. Il sobborgo è formato da una sola strada diritta, fiancheggiata di piccole case e d’orticelli, dalla quale si spicca un largo viale, che corre nella campagna aperta: in fondo a questo v’è la chiesa, solitaria, e dall’un dei lati, sul confine d’un campo, la scuola. L’edifizio, piccolo e grazioso, ha cinque stanzoni al pian terreno, per le cinque classi elementari, e due camerette per il cantoniere e sua moglie che servon da bidelli, e al pian di sopra, i quartierini per le quattro maestre e un maestro, che hanno ciascuno due camerette e una cucina. Agli insegnanti appartengono cinque orti minuscoli, chiusi nel muro di cinta del cortile, e coltivati dal bidello, che tien per sé i legumi e dà al primo piano le fragole e i fiori. Questa piccola famiglia scolastica, non visitata che rare volte dall’ispettore di Torino, se ne vive là come in una villetta, tranquilla e libera; senonché le delizie della villeggiatura le sono molto scemate da quattro mesi di freddo e di nebbia, durante i quali il luogo è uggioso e la solitudine triste. Era appunto una giornata grigia e cruda della fin di novembre, e la giovine maestra Varetti stava guardando con maggior tristezza del solito, dalla finestra della sua cameretta, i tetti bassi del sobborgo, al di sopra dei quali fumavano i camini altissimi delle officine, e la vasta pianura coperta di neve, chiusa lontano dalle Alpi bianche, velate dalla nebbia. L’uggia della stagione e del luogo le era accresciuta dal pensiero molesto di dover incominciare 17


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il giorno dopo la scuola serale degli adulti a cui l’aveva destinata la Direzione delle scuole di Torino, essendosi fatta dispensare da quell’ufficio, dopo un mese e mezzo di lezioni, la moglie del maestro Garallo, per indebolimento improvviso della vista. Ella non sarebbe stata così inquieta se avesse dovuto far quella scuola in un altro villaggio qualsiasi; ma le davan pensiero quei contadini del suburbio; guasti dalla vicinanza della città, dove andavano a passar la domenica, e donde ogni giorno di festa veniva là uno sciame di barabba a giocare e a straviziar nelle osterie, triplicate di numero dopo che v’era il tranvai; la intimidivano anche di più gli operai, meno rispettosi dei contadini e meno maneggevoli, fra i quali si diceva che ci fossero dei socialisti; e più ancora che gli uomini fatti, tutti quei ragazzi tra i dieci e i sedici anni, ch’essa vedeva uscire a frotte dalle fabbriche, maneschi, sboccati, insolenti e, a quel che le dicevano, più sfrontatamente corrotti e viziosi dei grandi. Ma la sua inquietudine derivava pure da ragioni particolari della sua natura e della sua vita. Figliuola d’un maggiore di fanteria, di famiglia nobile, morto alla battaglia di Custoza, vissuta fino di diciott’anni in un collegio severo di provincia, timida e gentile di natura, aveva avuto fin da bambina una specie di terrore fantastico della plebe, effetto d’una malattia grave, che le era nata da una violenta commozione di spavento, per aver visto dalla finestra di casa sua una rissa sanguinosa d’operai minatori. Essa credeva assai più numerosa, e anche più malvagia che non sia, quella parte infima del popolo che vive in uno stato di ribellione perpetua a tutte le leggi sociali, e che dà la maggior folla alle carceri e alle galere: questa, nella sua immaginazione, era quasi la plebe intera; e il pensiero di quel vasto sotterraneo tenebroso, ch’ella si figurava aperto sotto i suoi piedi, nel quale correvano rigagnoli di vino e di sangue e lampeggiavan coltelli e sonavan grida d’assassinati e bestemmie orrende e canti osceni di malfattori e di donnacce, l’affannava quasi di continuo come una visione orribile, da cui non si poteva liberare. Quando qualcuno le passava accanto, che le paresse di quella gente, le correva un brivido per le vene; a una frase del loro gergo, che le venisse per caso all’orecchio, le si accapponava la pelle; e al solo veder per la strada un principio di rissa, impallidiva come 18


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una morta, si sentiva fuggire le forze, rientrava in casa tremante da capo a piedi, sconfortata dell’umanità e della vita. Sentiva non di meno per quegli esseri una curiosità viva ed inquieta, che la forzava a guardarli; quando poteva, di nascosto, a meditar le loro frasi colte a volo, come manifestazioni parziali del loro animo, a rintracciar particolari della vita e della natura loro nelle cronache dei giornali, dov’eran raccontate le loro gesta. E questo terrore morboso cercava in ogni modo di vincerlo, poiché, buona e religiosa com’era, sentiva che derivava da fonte impura, da una insufficiente comprensione, da un sentimento non abbastanza profondo dell’ingiustizia sociale, della miseria, dell’ignoranza e del malo esempio, cagioni prime dell’abbrutimento e del delitto. E quand’era chiusa nelle sue meditazioni, capiva e sentiva tutto ciò vivamente, s’impietosiva per coloro che l’atterrivano, li amava d’amor cristiano, sognava anzi un’opera redentrice, una legione di signore missionarie di bontà e di gentilezza tra la plebe, immaginava se stessa dedicata a quell’opera, entrava col pensiero nei luoghi più abbietti a tentar d’aprire e di ammollire i cuori, e le pareva che ci sarebbe riuscita, e si eccitava in questa immaginazione fino a piangerne di tenerezza, e s’illudeva d’aver acquistato, come per un miracolo, il coraggio, tanto da fermar nell’animo di mettersi alla prova, alla prima occasione. Ma un’ora dopo, se le accadeva di passar davanti a una delle fabbriche del sobborgo mentre n’usciva l’onda nera e tumultuosa degli operai, la riprendeva con tutta la sua forza il sentimento consueto, e ogni sforzo ch’ella facesse per resistervi, era vano. Quando la sera della domenica, stando alla finestra, vedeva in fondo al viale la lanterna rossa e l’uscio illuminato dell’osteria della Gallina, al primo suono delle voci sformate e minacciose che annunziavano una baruffa, all’immagine esecrata, che le si presentava subito, dei coltelli branditi e d’un cadavere steso sulla via, le pigliava una debolezza mortale dalla nuca alle reni, un senso inesprimibile d’impotenza, come una paralisi improvvisa del corpo e dell’anima, che le lasciava appena la forza di chiudere le imposte. E non potendo far altro cercava di fortificarsi l’animo prendendo familiarità coi suoi piccoli alunni della seconda classe, pensando che molti di essi, fatti grandi, sarebbero pur stati come quegli uomini che le 19


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mettevan tanto terrore, bevitori, rissosi, pronti al coltello, feroci. E con questo pensiero li osservava curiosamente, li interrogava, s’ingegnava, di scoprire in loro i germi delle passioni violente e brutali che li avrebbero agitati più tardi. Ma i suoi studi le giovavan poco. La più parte erano apatici a segno che non si cacciavan neppure le mosche dal naso e dagli occhi mentre leggevano, e quanto al penetrar nel loro cuore, l’impresa era così difficile, che in un anno e più da che si trovava a Sant’Antonio, essa non era ancora riuscita a farne piangere un solo. La classe sociale che le turbava l’anima rimaneva sempre davanti alla sua immaginazione misteriosa e terribile come prima.

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