Una lunghissima rincorsa di Jacopo Ramonda

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2013



Una lunghissima rincorsa

L’appartamento (cut-up n. 155) Quando ne notava una la estirpava, ma di solito si riformava rapidamente, in un altro punto dell’appartamento. Una lotta impari. Ricrescevano come erbacce. Erano ragnatele sottili e perfette, costruite ad alta quota, agli angoli del soffitto. Vibravano per correnti d’aria quasi impercettibili. Come reti, trattenevano la polvere e alcuni dei pensieri sospinti dal calore verso gli strati più alti e rarefatti dell’atmosfera interna alla casa. Da terra erano visibili soltanto in particolari condizioni di luce, quindi piuttosto difficili da individuare durante le pulizie. Talvolta, prima di rimuoverle, Nina ne ammirava la perfezione. Per ragioni imperscrutabili, le sembravano opere incompiute: l’ossatura trasparente di un progetto più ambizioso.

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Jacopo Ramonda

Convivenza (cut-up n. 143) Nel corso degli anni il loro rapporto si era ridotto a una mutua assistenza, una sorta di cooperativa basata sulla divisione dei compiti. L’insieme che costituivano era qualcosa di più della somma delle sue parti: era il risultato di una faticosa mediazione sulle rispettive esigenze, ridotte al minimo comune denominatore. Da tempo tendevano a portare avanti le mansioni domestiche in completa autonomia, spesso sfruttandole come pretesto per troncare una conversazione: stati cuscinetto utili a contenere l’attrito, prevenendo così le tensioni. Qualcosa di simile alle iniezioni di cortisone con cui, in ospedale, avevano messo a tacere il suo dolore alla schiena, causato dall’assottigliamento dei dischi intervertebrali, deteriorati dall’usura.

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Una lunghissima rincorsa

Senza peso (cut-up n. 154) Dopo quarantacinque minuti spesi inutilmente tentando di addormentarsi, Nina si alza dal letto e si dirige verso il bagno. Appena entrata, prende una sigaretta dal pacchetto che ha lasciato sulla lavatrice e l’accende. Mentre fuma, regola il miscelatore e osserva il livello dell’acqua salire. Controlla un paio di volte la temperatura con la mano libera, poi lascia scivolare il pigiama sulle piastrelle fredde e immerge il suo corpo nella vasca. Con la nuca appoggiata al bordo, socchiude gli occhi, aspettando un segnale di resa. Appena lo sente arrivare, rilassa i muscoli della schiena e si abbassa leggermente, lasciando che l’acqua le sommerga le spalle e il collo. Il calore che l’avvolge contribuisce a ricostruire la condizione d’isolamento fetale di cui ha bisogno. Una simulazione, per certi versi simile alle esercitazioni in assenza di gravità con cui gli astronauti allenano il fisico alla permanenza in orbita, ma in previsione di un viaggio con caratteristiche opposte, fondato sull’immobilità. Il sonno. Nina ha difficoltà a stabilire se il suo recente ingresso nella setta degli insonni sia una conseguenza del suo malessere, o viceversa. Nonostante i suoi stessi moniti, anche oggi ha ceduto alla scattista che c’è in lei. Uno dei tanti effetti collaterali di un’intera giornata vissuta all’insegna della concitazione è la difficoltà che si avverte nel cambiare ritmo. A volte, per rallentare fino a fermarsi, è necessario un lungo spazio di frenata. Quello di cui ha bisogno è uno step intermedio che le permetta un passaggio graduale dalla veglia al sonno: una sorta di camera di decompressione. Il calore ha formato uno strato di condensa sullo specchio. Nina perde la concezione del tempo, mentre il tempo perde la sua influenza su di lei. Il vapore trascina verso l’alto il suo stato d’ansia e le fonti di preoccupazione a cui non riesce nemmeno a risalire, pur avvertendone il peso. Quando torneranno allo stato liquido, precipitando al suolo sotto forma di pioggia, lei sarà già altrove.

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Una lunghissima rincorsa

Una lunghissima rincorsa (cut-up n. 157)

a Stefania

Mentre ti aspetto seduto su una panchina, mi lascio catturare dal modo in cui uno sciame d’api si spinge avanti, contorcendosi e aggrovigliandosi in un intreccio di orbite ellittiche. L’avanzata del sistema è una conseguenza delle derive dei suoi componenti, che sembrano rincorrersi tra loro. Nell’illusione che il numero dei passi sia proporzionale alla distanza coperta, procediamo lungo un percorso a spirale, in cui scopriamo quello che vogliamo dire nell’atto di dirlo, tra errori, dimostrazioni di coraggio e ripensamenti. La capacità di coordinare i movimenti, e avanzare in posizione eretta, è un meccanismo che pare studiato apposta per permetterci di affrontare la lunghissima rincorsa che ci aspetta. Inseguendoci a vicenda, in nome di una particolare forma di contorsionismo che riconosciamo come amore, creiamo un groviglio difficilmente districabile d’interdipendenza, speranze, aspettative disattese o mantenute, e interpretazioni equivoche simili a stelle cadenti. Un’illusione ottica, originata da uno sciame di meteore che si rincorrono invano lungo orbite parallele, sulla traiettoria della Terra, finendo per esserne travolte e sgretolandosi nel contatto con l’atmosfera.

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Jacopo Ramonda

Pendolari (cut-up n. 127) In macchina presto attenzione a qualunque cosa mi passi per la mente, tranne che a guidare. Ascolto musica, parlo al telefono, mi annoto queste frasi; rovistando sul fondo della borsa accasciata al mio fianco, sul sedile del passeggero, trovo la tua lettera. La riconosco al tatto, immediatamente. La mia condizione di pendolare non ammette variazioni di rotta: ogni giorno mi sposto lungo la stessa tratta provinciale, in loop. Attraverso una serie di piccoli comuni di periferia, così vicini l’uno all’altro da contagiarsi a vicenda nello sfregamento continuo di mucose e confini. Respiro a grandi boccate, poco prima di chiudermi ermeticamente nel mio scafandro e calarmi negli abissi delle prossime otto ore di lavoro quotidiano, dove la pressione si farà sempre più opprimente. Ormai i miei pensieri fuoriescono liberi soltanto nel dormiveglia degli spostamenti. Durante questi momenti di evasione, prendo consapevolezza di molte mie opinioni che normalmente non tengo in considerazione – pur sentendole protestare a mezza voce – e scendo a patti con alcune di esse. Il flusso dei miei pensieri è scandito ritmicamente dalla successione di villette a schiera, dai cartelli stradali, dalle vetrine dei negozi che si affacciano sui viali alberati come occhi stanchi, offuscati dalla cataratta. Ho memorizzato i tratti somatici di ognuno di questi punti di riferimento; li riconosco a distanza, mentre mi corrono incontro. Sono scatti di una cremagliera che mi avvicinano al mio posto di lavoro, in un conto alla rovescia muto. Un giorno sbaglierò strada e finirò all’estero, in un altro emisfero, dove le persone comunicano tra loro in una lingua che non conosco, nessun volto corrisponde a un nome, e ogni strada è solo il collegamento tra due posti che non ho mai visto prima. Per ora mi limito, fermo in coda al semaforo, ad inquadrare volti di sconosciuti nello specchietto retrovisore, soffermandomi su alcuni di essi, in genere sui più vicini, in colonna alle mie spalle o nella corsia a fianco. Mi distraggo dai miei pensieri studiando i lineamenti di questo numero potenzialmente infinito di sconosciuti. A volte ho l’impressione di incrociare un’occhiata; ma si tratta di sguardi filtrati, schermati dai vetri 20


Una lunghissima rincorsa

delle auto, da lenti a contatto, dalle poche ore di sonno; sguardi dotati di una gittata limitata, insufficiente a coprire i pochi metri d’asfalto che ci separano gli uni dagli altri.

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