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L’energia del vulcano diventa arte

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Parole e immagini

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A Stromboli i volti scolpiti nella pietra lavica da Salvatore Russo: ogni opera ha un’anima e una storia e custodisce il forte attaccamento dell’artista alla propria terra

«Stromboli è la mia casa, la mia fonte di ispirazione, il mio mondo. Se vado via, dopo una settimana devo tornare perché mi manca questo posto, la sua energia, il richiamo del vulcano». C’è un legame profondo tra Salvatore Russo e Stromboli, isola e vulcano. È nato a Lipari, nell’arcipelago delle Eolie, nel 1964, ma vive da sempre all’ombra di “Iddu”, il vulcano costantemente attivo.

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«Io lo guardo continuamente: c’è un senso di ammirazione. Il vulcano è energia pura». Dal suo laboratorio lo osserva: «Quando lavoro alzo gli occhi per vedere se fa fumo e per capire se c’è la lava». Le colate scendono velocemente dalla montagna per poi spegnersi nel mare e si solidificano lasciando dietro di sé tante pietre di un colore tra il grigio e il nero. Sassi che nelle mani di Salvatore prendono vita, trasformandosi in volti.

Ma Salvatore non ha sempre fatto lo scultore: aveva un’impresa edile e, insieme al padre, lavorava come maestro muratore. Nei ritagli di tempo fotografava la sua Stromboli: i fiori, i tramonti, le albe, i paesaggi. «Ero appassionato di foto ma poi ho mollato perché il lavoro era tanto e non avevo più tempo per nulla». La passione per la scultura nasce per caso grazie all’incontro con l’artista.

Lorenzo Reina, autore del Teatro di Andromeda di Santo Stefano Quisquina in provincia di Agrigento si era recato a Stromboli proprio per realizzare una scultura con la pietra lavica. «Quando abbiamo conosciuto questa persona non sapevamo cosa fosse la scultura. Abbiamo collaborato con lui e poi da lì papà ha iniziato a scolpire qualcosa. Io provavo, provavo, ma non riuscivo mai a fare nulla. Poi, nel 2009, ero a Milazzo con la famiglia e, a un certo punto, ho detto: devo andare a Stromboli, devo andare a scolpire una pietra. Ho avuto proprio un richiamo. Sono venuto qua, ho fatto delle piccole sculture ma per me era già un grande successo riuscire a fare qualcosa. Da lì non mi sono più fermato». Tutto inizia quasi per gioco: Salvatore raccoglie le pietre laviche adagiate sulla spiaggia, le porta a casa e le scolpisce donandogli un volto e un’anima.

«Scolpivo di più la domenica o la sera quando smettevo di lavorare. Nel 2014 ho cominciato a fare un po’ di mostre in giro. Il tempo era sempre meno. Sono arrivato a un punto in cui la muratura, con l’impresa e i suoi impegni, mi prendeva tanto tempo. E contemporaneamente c’era l’arte. Vuoi scolpire ma non hai tempo perché devi andare in cantiere, devi lavo - rare: così quella forza, quell’energia non la puoi sfruttare, ti rimane dentro. A un certo punto ho detto: devo prendere una decisione, perché rischiavo di fare tutte e due le cose male». La scelta ha premiato la sua passione: «ho mollato il lavoro e ho continuato con le mie sculture, il mio hobby, perché alla fine penso che si viva anche per questo, non solo per il lavoro».

Ogni volto scolpito nella pietra ha la sua storia anche se, come racconta Salvatore: «non c’è mai un’idea iniziale, non so mai cosa fare perché non so disegnare. Io non mi ritengo uno scultore, sono uno che scarabocchia sulla pietra».

Ogni volto rappresenta uno stato d’animo: c’è la sofferenza, ma anche la malinconia. «Nel 2018 sono stato operato all’ernia del disco, ho avuto un intervento serio: neanche io lo avevo capito e avevo preso tutto con leggerezza, cominciando a lavorare prima (del tempo necessario per una buona riabilitazione, ndr). A marzo ho cominciato a scolpire questa pietra: ne è uscito un volto molto sofferente. L’ho chiamato La sofferenza.

Ho riprodotto un po’ il mio stato d’animo». C’è un volto scolpito nella pietra vulcanica a cui Salvatore è particolarmente legato ed è quello dedicato al suo amico pittore, ora venuto a mancare: Mario Cusolito. «Quello è un volto mio, non lo cederò mai». Tante le mostre collettive a cui Salvatore ha preso parte nel corso degli anni tra cui la seconda edizione della Biennale Internazionale d'Arte di Palermo e la Bienal de arte Barcelona del 2015. Il suo sogno è ora quello di realizzare, nella sua isola, un posto speciale dedicato all’arte.

«Da anni le mie pietre vanno in giro, la gente viene a Stromboli e vuole vederle. Ho sistemato il giardino e vedo che le persone quando arrivano qui sono entusiaste e rimangono meravigliate. È per questo che volevo dedicare un giardino all’arte in cui invitare anche chi vuole esporre». ■

Stefano

Stefano fa il grafico, ha 60 anni e insegna all’istituto europeo di design a Roma. Trent’anni fa disegnava “biglietti per le discoteche”. Non tutti i suoi studenti lo sanno, ma fu lui a organizzare in Italia il primo rave party, insieme a qualche amico del tempo e ad alcuni deejay arrivati dalla Gran Bretagna, dove queste grandi feste erano nate spontaneamente per poi essere messe “fuori legge” dalla Premier Margaret Thatcher, che impose la chiusura di Pub e discoteche alle due del mattino. Aprilia, primo giugno 1990, Roma è lontana 50 km.

Chi c’era lo ricorda come «il giorno in cui l’ira di Dio scese in terra». «Roma in quegli anni si era da poco liberata dalle leggi antiterrorismo e pian piano si stava liberando anche della new wave e della musica di quegli anni». Nella città sconvolta dagli anni di piombo erano attive pochissime discoteche e pochi bar erano aperti dopo la mezzanotte. «Tre amici tornati da New York avevano aperto un locale che si chiamava Devotion, portandosi dagli Stati Uniti la house music». In breve tempo quel locale divenne uno dei più frequentati della capitale. «Organizzavamo feste in stile Devotion negli spazi aperti della città. Piantavamo un tendone, preso in affitto dal circo Orfei, mettevamo una console al centro e iniziavamo a ballare. Pensammo allora che fosse bello spostare quella scena in una grande discoteca di campagna, e andammo a vedere il Doing, un locale gigantesco ricavato all’interno di una fabbrica di pellami e situato nel nulla, poco distante da Aprilia.

Ricordo che c’era una grande piramide al centro, e cento metri quadri di pavimento intorno. Credemmo che fosse ideale ad accogliere un migliaio persone». Ne arrivarono 7.000. In macchina. Da tutta Italia. «Enza e Marco, due amici di Napoli, avevano tappezzato la città di inviti, aiutati da un’organizzazione di feste in stile rave conosciuta come “I ragazzi terribili”. Lo stesso era accaduto a Firenze, Bologna e Milano».

E così ai piedi della piramide erano arrivati da tutta Italia. «Ballammo fino all’alba, e non appena venne spenta la musica la gente continuò a ballare, accendendo gli stereo delle centinaia di macchine parcheggiate fuori dal Doing. Andammo avanti per ore. Dovevamo lasciarci alle spalle gli anni ’70-’80, quelli dell’attivismo politico, della lotta armata. Volevamo rilassarci». L’ecstasy, anche nota come MDMA, la nuova droga sintetica che, proprio come i rave, oltrepassava il confine per la prima volta, era stata dichiarata “fuori legge” nella seconda metà degli anni ’80.

«Le droghe all’epoca venivano spesso associate al tipo di esperienza musicale che sceglievi, fosse essa un concerto rock, pop o punk. La droga legata ai rave era l’ecstasy, che nasceva come una droga per fare sesso e per socializzare. Che poi era ciò che voleva il popolo dei rave».

Ciò che oggi, a quelle condizioni, è proibito. Il “decreto anti-rave”, voluto dal Governo Meloni e approvato nelle ultime ore del 2022, ha introdotto infatti una nuova norma che punisce con il carcere chi organizza mega-raduni musicali su terreni non suoi, in cui si faccia anche uso di droghe. Oggi Stefano rischierebbe dai tre ai sei anni di prigione. ■

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