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Tra creazione e distruzione
INDIA
Il volto diventa maschera. Nel Bharata Natyam la danzatrice trascende il tempo e tocca il divino di Federica De Lillis
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Quando l’attore-danzatore compie i suoi movimenti si fa interprete di un suono primordiale. Nella tradizione indiana, «la danza, insieme alla musica strumentale e al canto, rientra in un’espressione artistica che si estingue nell’istante, a differenza delle arti visive come la scrittura, la pittura o l’architettura». Marialuisa Sales, danzatrice e ricercatrice, spiega come queste forme d’arte si articolino su un principio riassunto nel termine sanscrito “sangeet”. «Nella concezione indiana la danza è di origine divina. Brahma, il dio creatore, ha trasmesso agli uomini il quinto Veda, che riguarda le arti sceniche, affinché apprendessero un modo meno astratto di raggiungere la realizzazione».
Secondo il mito, è questa divinità ad aver dato origine al mondo popolato di uomini che vivevano in armonia sotto la guida degli dèi. Impulsi distruttivi, però, si sono presto impossessati degli esseri umani. A quel punto, Brahma ha trasmes- so loro un’opera basata sui quattro sacri Veda per guidare l’umanità verso la salvezza, rispettivamente dedicati alla recitazione, al canto, alla gestualità teatrale e al sentimento. Dalla mescolanza di questi nacque il quinto Veda, il Natyaveda, grazie al quale gli uomini avrebbero appreso il linguaggio sacro della danza, ritrovando sé stessi. Secondo la tradizione, è stato un antico saggio, sulla base di quest’ultimo dono di Brahma, a scrivere il più antico trattato di danza esistente al mondo intitolato Natya Shastra.
«Gli indiani lo datano intorno al VI secolo a.C. ma l’edizione definitiva che leggiamo oggi è collocata tra il II secolo a.C e il II d.C. Lo possiamo considerare un compendio della concezione delle arti, in cui si parla anche di teatro e di musica». Il testo ha trasmesso importanti precetti circa il modo di praticare queste discipline, ma la danza classica indiana conosciuta oggi come Bharata Natyam è una ricostruzione in chiave moderna delle danze antiche praticate nei templi.
«Tra il XIV e il XVIII secolo la danza era associata alla prostituzione sacraspiega Sales - e il suo nome antico era Dasi Attam ‘danza delle sacerdotesse del tempio’, o Sadir ossia ‘offerta’». Si credeva che i fedeli, unendosi alle Devadasi, le donne consacrate alla divinità, riuscissero a entrare in contatto con gli dèi. Questa pratica venne abolita sotto la dominazione inglese ma le tracce delle danze templari sono state raccolte e reinterpretate negli anni ‘20 del Novecento condensandosi nello stile Bharata Natyam, praticato anche da Marialuisa.
Nelle sue esibizioni la danzatrice si muove agile su una sola linea melodica, tratto distintivo della musica classica indiana. Le braccia si allargano, si incrociano seguendo il movimento fluido delle mani, mentre la ballerina flette la gamba destra appoggiando tutto il peso del corpo dall’altra parte. Il busto resta rigido, lo sguardo fisso e imperturbabile trasporta in una dimensione trascendente. Gli arti sono i protagonisti di questo ballo, decorati con una tinta rossa che, spiega Sales, si trova «sulle prime falangi delle dita delle mani e dei piedi a replicare il colore naturale dei fiori dell’albero di Ashoka», un albero sacro per tutto il continente indiano, i cui fiori diventano rossi poco prima di appassire.
La bellezza espressa attraverso i movimenti del corpo è «un’eco del divino», mentre danza, la ballerina mette in atto un’arte che «nasce, si manifesta e si estingue nell’attimo». ■
Una ruota bianca nel buio della sala. La stoffa ruota, si dimena e man mano si colora. Rossa, verde, azzurra, arancione. Forsennata e liberatoria, la danzatrice sulla scena viene illuminata e mostrata al pubblico nel suo movimento inedito, unico.
È il 1896, Loie Fuller si sta esibendo sul palco del Folies-Bergère di Parigi. La sua arte è controcorrente, il suo corpo disomogeneo rispetto agli standard della danza di ieri e di oggi. Siamo, però, nella Parigi della Belle Époque, nella città che si avvia verso l’inaugurazione dell’esposizione universale del 1900, tutta dedicata alla luce. Fuller si inserisce alla perfezione nell’ambiente artistico della capitale francese, in cui ciò che non è conforme, è elevato dalla propria emarginazione e viene riconosciuto nella sua bellezza. Musa del pittore Toulouse Lautrec, che le dedica diverse opere, amica dello scultore Rodin, Loie intesse rapporti anche con i più brillanti scienziati del tempo. Segue le tendenze culturali, legge di psicoanalisi. Le sue danze luminose si ispirano agli studi di Jean-Martin Charcot, medico del Salpêtrière che riteneva che i corpi isterici fossero governati da un’aura interna che fuoriusciva dagli occhi, dalle dita e dalla bocca sotto forma di fasci di luci.
Quella sera del 1896 brillava dentro un abito impregnato dei sali fosforescenti di cui aveva scoperto l’esistenza sei anni prima, nello studio in New Jersey di Thomas Edison. Lo scienziato, che stava sperimentando il suo fluoroscopio, una primissima versione di quella che sarà la macchina a raggi X, prese la mano della ballerina e la mise nella scatola impregnata di sali fosforescenti: insieme la guardarono diventare traslucida fino a svanire nell’immagine delle ossa. «Edison mi spiegò che le scatole erano ricoperte di sali fosforescenti. Ho subito pensato che se avessi potuto avere un vestito impregnato con quella sostanza, sarebbe stato meraviglioso». Fuller appunta i ricordi di quello e altri incontri in alcuni scritti ancora consultabili tramite l’archivio della New York Public Library.
Loie applica un metodo scientifico allo sviluppo artistico, non si accontenta. I sali rendevano le vesti rigide e pesanti, non poteva immergerle completamente, le puntellava di luci simili a costellazioni. Ma la loro luminosità si esauriva troppo velocemente.
Nella sua continua ricerca di miglioramento si interessò al radio, la cui scoperta era stata annunciata dai coniugi Curie che conobbe nel 1902. A loro la legarono affet-