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mi ha salvato dopo l’orrore degli attentati di Parigi»

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Parole e immagini

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La famiglia, gli amici e la sua nuova professione sono diventati la rete di protezione dell’ex rugbista, sopravvissuto agli attacchi

«Non ha alcun senso rivangare il male, quello che è successo rimarrà nella nostra memoria e nessuno di noi lo dimenticherà mai, ma bisogna guardare avanti. Per questo ho deciso di non rimanere in contatto con gli altri sopravvissuti agli attentati, che ho incontrato durante il processo per il 13 novembre. La mia salvezza sono stati gli amici, la mia famiglia. Mi hanno esortato a superare quello che era accaduto».

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Aristide Barraud parla lentamente. Qualcosa del rugbista è rimasto: il fisico asciutto e scattante, l’occhio sveglio, pronto a cogliere ogni movimento dell’interlocutore, o dell’avversario. In lui c’è però anche molto della persona che ha deciso di diventare, dell’artista. Il tono pacato e l’attenzione nella scelta delle parole lasciano intendere molto di una persona che ha scelto di fare della cultura il proprio mestiere.

Prima di diventare Aristide l’artista era Aristide il giocatore, il numero 10 sul campo da gioco del Marchiol Mogliano, una delle maggiori squadre di rugby italiane, dove crescono quasi tutti i componenti della nazionale. Si era formato sportivamente in Francia e poi era venuto ad allenarsi in Italia, dove la sua carriera stava per decollare.

di Beatrice Offidani

«Nella mia esistenza non c’è solo un prima e un dopo la violenza, quello sarebbe scontato da dire. È cambiato tutto, la mia professione, i miei amici, il luogo dove vivo e, di conseguenza, il mio modo di approcciarmi alla realtà».

Il 13 novembre del 2015, mentre trascorreva alcuni giorni nella banlieue parigina dove è nato, era uscito a bere qualcosa con sua sorella al Petit Cambodge, il bar dove alcuni attentatori del commando del Bataclan spararono sulla folla che si trovava seduta ai tavolini del dehors. Alice Barraud, atleta circense, è rimasta ferita e Aristide ha rischiato di morire dopo aver usato il proprio corpo per fare da scudo a sua sorella. Il rugbista ha passato giorni in terapia intensiva, in bilico tra la vita e la morte. Poi, fuori dall’ospedale, la riabilitazione e i dolori fortissimi, il tentativo di riprendere a gareggiare e poi l’ultima dolorosissima decisione. «Dopo essere uscito per un po’ ho provato a riprendere ad allenarmi, volevo tornare a giocare il prima possibile. A un certo punto è diventato troppo rischioso, soffrivo di dolori terribili e quindi ho dovuto smettere». A quel punto Aristide si è trovato nel secondo buco nero della sua vita. «Non riuscivo più a tenere in mano una palla ovale, o ad avvicinarmi a una tv accesa dove trasmettevano un match di rugby, faceva troppo male». Poi, d’un tratto, l’incontro con l’arte lo ha tirato fuori dall’abisso in cui stava precipitando di nuovo.

Con amarezza sorride mentre si guarda indietro. «Ho passato tutta la mia vita in squadra, circondato dai compagni e dal loro affetto. Nel periodo subito dopo il 13 novembre, invece, ero molto solo. In quel momento la rete di sicurezza sono stati i miei amici, la mia famiglia, che mi hanno convinto a dare una nuova possibilità alla vita. Grazie a loro ho superato il lutto e il vuoto lasciato dallo sport».

Per questo oggi Aristide va nelle scuole e ha persino scritto un libro «Non mi interessa ripercorrere quei giorni, ma far capire alle nuove generazioni cos’è che mi ha portato ad andare avanti. Ciascuno di noi è l’artefice del proprio destino, potrebbe sembrare un concetto banale, ma in realtà non lo è. È importante superare la tendenza del mondo moderno che ci porta a lamentarci sempre, ad atteggiarci come delle vittime. Ho guardato il disastro in faccia, non sono scappato, ma poi sono andato avanti. Ciò non significa schivare il dolore, ma costruire dopo il male. È importante dirlo ai giovani, che vivono in un mondo sempre più complesso. Bisogna ricordarsi che c’è sempre un modo di trasformare».

L’arte, con il collettivo dell’artista JR, lo ha salvato. «A un certo punto ho iniziato a sentire il bisogno di scrivere tutto quello che sentivo, anche sui muri. Ho iniziato a riempire di scritte i tetti, le fotografie e i collage che facevo. Questo lavoro, iniziato dopo la scrittura del mio libro, è stato notato da JR, che mi ha accolto nel suo team, per me è stato un onore enorme».

«L’arte è una valvola di sfogo, quasi come lo era il rugby un tempo. Le due attività hanno qualcosa in comune, anche se rimangono due mondi molto diversi. Ci sono aspetti simili come il fatto che bisogna lavorare tantissimo, oppure la necessità di saper comunicare col gruppo. Con l’energia, la disciplina e la capacità di lavorare sotto pressione che avevo sviluppato durante la mia carriera di agonista sono riuscito a creare cose bellissime». Aristide è rimasto a vivere in Italia, a Venezia, anche se non vede quasi più i suoi vecchi compagni di squadra. «Non è stata una decisione unilaterale, non volevo tagliare i ponti dal nulla. Semplicemente è successo, ci siamo allontanati. Oggi la mia rete si è trasformata e frequento persone molto diverse dai miei vecchi colleghi. In 8 anni il mio mondo e la mia vita sono totalmente cambiati, ma mi piacciono molto». A giugno inaugurerà la sua prima grande installazione, nella piazza davanti al Centre Georges Pompidou a Parigi. «Sarà un grande murales, un’installazione dove chiunque potrà entrare, passeggiare, scrivere e partecipare con il proprio corpo. Oggi la mia ricerca si concentra soprattutto sul potere trasformativo dell’arte. Per trasformazione faccio riferimento alla capacità di saper cambiare il mondo che ci circonda, ma anche noi stessi».

Sua sorella Alice continua a fare la trapezista. Mentre prima «faceva sognare la gente con le sue braccia», oggi ha dovuto reinventare il suo modo di esibirsi e ora i suoi ricevitori la recuperano tenendola per i piedi, dopo che si è lanciata nel vuoto. Entrambi hanno partecipato al processo per gli attentati, che si è svolto a Parigi e si è concluso solo la scorsa estate. «Per me era importante andare al processo e portare la mia testimonianza, perchè credo nella giustizia e nella capacità della mia nazione di reagire davanti all’orrore. Ma non voglio leggere nulla di più dentro la mia partecipazione. Sono andato, ho raccontato la mia storia e sono uscito. Non ho più nessun contatto con gli altri sopravvissuti, anche se ne ho incontrato qualcuno. La vita è troppo grande, troppo bella, per sprecare anche solo uno dei 365 giorni che ci sono in un anno per pensare a un fatto terribile che ha certamente unito tutte le nostre esistenze, cambiandole per sempre, ma che non ha più nulla da insegnarci. Ora tutto è nelle nostre mani, nella nostra capacità di reagire». Nel libro in cui lo scrittore francese Emmanuel Carrère racconta il processo del 13 novembre, «V13», Aristide e sua sorella sono i protagonisti di un capitolo dedicato alle testimonianze delle parti civili. L’autore scrive di aver pensato «che Aristide e Alice ci parlino è già giustizia». Nella coscienza di Aristide giustizia è già stata fatta, lo sguardo e la fronte sono sereni, rilassati. «Quello che sto vivendo è molto più bello e appagante di ogni sogno che avevo, più bello di un mondiale o di un’olimpiade, perché ho saputo trasformare, ricostruire da zero». Che Aristide riesca a dire questo è già giustizia. ■

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