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Da Wimbledon al fronte «Combatto finché non vinciamo»

Sergiy Stakhovsky, passato dalla racchetta al fucile, racconta il suo anno da soldato e chiede di allontanare russi e bielorussi dallo sport: «Guadagnano milioni e le loro tasse le investono nella guerra» l’età, un po’ è per lo stress, spiega. Anche i suoi compiti sono cambiati. Aveva iniziato facendo giri di ricognizione senza sapere come impugnare un fucile, «oggi partecipo a scambi di prigionieri, continue esercitazioni con mortai, operazioni militari in piena regola. Sono stato a Bucha poco dopo il ritiro dei russi, adesso sono appena tornato da Bakhmut».

Il cielo di Kiev si muove veloce fuori dai finestrini della macchina. Dall’altro lato dello schermo in divisa militare, Sergiy Stakhovsky corre via dal centro per evitare l’ennesimo bombardamento di quest’anno di invasione. «Sta volta sono stato davvero vicino a non rispondere alla tua chiamata», racconta alla guida. «Ti parlo di una frazione di secondo. Hanno mancato il nostro van per un metro proprio poco fa. Io sto cercando di minimizzare i rischi, ma in guerra è impossibile».

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Quando la Russia ha invaso l’Ucraina, il 24 febbraio 2022, il nativo di Kiev Sergiy Stakhovsky aveva appena dato per conclusa un’ottima carriera da tennista. Ha detto basta a 36 anni, con a suo nome quattro titoli, un 31º posto nella classifica mondiale, addirittura una vittoria a Wimbledon contro Federer. «Non voglio avere la nazionalità di un Paese che non esiste più», ci diceva nel 2022 interrogato sul perché avesse scambiato la racchetta con il fucile e la polo sintetica per la mimetica, appena scoppiato il conflitto.

di Antonio Cefalù

«Vediamo un po’…», riflette con faccia rassegnata. «Rispetto a quando mi sono arruolato ho perso peso, anche i capelli. Guarda, ora sono tutti grigi». Un po’ è per

«Paura?», sbuffa disinteressato. «No, non come a marzo o aprile. O meglio, quando sei in un conflitto armato sì, perché il rischio lo vedi lì davanti a te, ma il più delle volte non c’è tempo per aver paura. Se senti una bomba arrivare può essere una questione di istanti prima che cada vicino a te, come mi è successo poco fa. Se non la senti probabilmente sei già morto». Quando parla di routine il tono cambia, si fa apatico. Più che temerario, sembra anestetizzato da tanta violenza. Non è stato sempre così. In estate gli era stata offerta l’opportunità di riconsegnare le armi e l’aveva accettata. «Sentivo di essermi spinto troppo in là, di star giocando con la mia fortuna. In quel momento, poi, volevo provare ancora a dividermi fra la vita militare e quella privata». Dopo qualche mese in giro fra eventi di sensibilizzazione e match di beneficenza, ha deciso di non provarci più: ora vuole essere solo un soldato. «Era diventato più difficile stare lontano che dentro il combattimento. Stavo con la mia famiglia, ma non smettevo di informarmi della situazione al fronte, come si muovevano le nostre linee, dove atterravano i missili. È vero, mi vedono poco. Ma i miei figli sono al sicuro e mi sembrava così ingiusto restare lì mentre milioni di altri non possono vedere i genitori perché combattono. Ho deciso che non farò più un passo indietro finché non vinceremo questa guerra». Ma vincere non sarà facile né sbrigativo, lo sa: «Oggi serve urlare un po’ di realtà», irrompe. «Qui c’è quasi un clima di vittoria, perché tanto a Kiev le vite sono tornate alla normalità, o quasi. È vero, siamo a 700 chilometri dal conflitto, ma questa sensazione diffusa che in Ucraina sia finita la guerra mi infastidisce. Qui è… è davvero morte tutti i giorni. Sul fronte orientale siamo vicini al collasso. Se guardi la mappa, ci stanno lentamente spingendo via in tutta la regione del Donetsk. Abbiamo bisogno di più armi anche solo per tenerli lì dove sono».

È facile dimenticarsi che sotto il giubbotto mimetico e il maglione a collo alto ci sia uno sportivo. Un anno fa Stakhovsky non si era fatto troppi amici chiedendo di bandire gli atleti russi da ogni competizione. «Oggi la mia linea è ancora più dura, perché in tutto questo tempo i russi hanno deliberatamente preso di mira e distrutto centinaia di impianti sportivi in Ucraina», spiega. «Non sarà mai uno scontro alla pari fra un ucraino e un russo. Se loro verranno in Ucraina per allenarsi, allora forse lo sarà. Ma loro si preparano a casa in perfette condizioni, con la sicurezza, con l'elettricità, con il cibo, con tutto. Gli ucraini non hanno più spazi per prepararsi, non possono tornare a casa. I nostri giovani non saranno neanche più nostri: li stanno accogliendo altri Paesi,che gli offriranno la loro nazionalità e non gareggeranno mai sotto la bandiera ucraina».

Nel mondo del tennis, solo Wimbledon e la federazione britannica hanno deciso di proibire ai russi e i bielorussi di competere. Una decisione impopolare, «ma spero che Wimbledon non cambi idea», interviene il soldato. «Lo spero vivamente perché sembra che siano gli unici che hanno le palle per fare qualcosa. Non tutti saranno d'accordo con me, ma per me è bizzarro che, per esempio, la Francia sostenga l’Ucraina ma permetta ai russi di competere per guadagnare milioni di euro, sui quali pagheranno le tasse in Russia e che verranno poi investite nella guerra».

Stakhovsky crede nel potere che i cittadini russi hanno in questa guerra. Durante l’intervista li esorta a intervenire protestando. Ma chiede anche delle guide, personaggi pubblici coraggiosi che possano trascinarli in massa con le proprie prese di posizione. Quali atleti russi lo sono stati? «Per il tennis posso fare solo un nome, Daria Kasatkina», che ha definito la guerra di Putin «un incubo in piena regola». Peraltro, dichiarandosi omosessuale, un tema di cui è anche solo vietato parlare in Russia per colpa della legge sulla «Propaganda gay» in forza dal 2013. «L’ammiro», continua l’ex collega. «Ha palle più grandi di tutti i tennisti russi messi insieme. Il che è triste». Sembra ingiusto non inserire nella lista anche il moscovita Andrey Rublev. Lui, subito dopo l’invasione ha scritto su una telecamera a bordo campo «No war please». «Quel messaggio fu d’ispirazione all’inizio della guerra perché nessun altro russo fece lo stesso», spiega. «Ma oggi la posizione “no war” non ha più alcun significato. Con Andrey ho parlato tanto e lui vorrebbe dire qualcosa, ma non riesce. Hai visto la sua conferenza stampa in Serbia? Un disastro totale. Totale. “Non sono un politico, non so abbastanza”. Non sai che uccidere è male? Che invadere un altro Paese è male?». Non tutti sono disposti a rischiare l’incolumità propria e della famiglia, notiamo. «Capisco, ma un giorno i figli, leggendo i libri di storia, gli chiederanno: “Cosa hai fatto quando i russi invasero l’Ucraina?”. Lui che dirà?». Non c’è una risposta giusta, ma detto da un uomo che pochi minuti prima stava per morire fa un certo effetto. ■

La Guida di Zeta

a cura di Silvia Stellacci

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