Traduzione Michele Foschini Lettering e impaginazione Vanessa Nascimbene con Officine Bolzoni Supervisione Leonardo Favia Proofreading Francesco Savino e Andrea Petronio
Via Leopardi 8 – 20123 Milano chiedi@baopublishing.it – www.baopublishing.it Il logo di BAO Publishing è stato creato da Cliff Chiang. Titolo originale dell’opera: A.D.: After Death © 2017 Scott Snyder & 171 Studios, Inc. All rights reserved. Per l’edizione italiana: © 2017 BAO Publishing. Tutti i diritti riservati. ISBN: 978-88-6543-930-2 PRIMA EDIZIONE Stampato nell’ottobre 2017 presso Grafostil, Kragujevac (Serbia) su carta Gardamatt Art da 115 grammi per gli interni, Gardamatt Art da 130 grammi per la copertina e MONDI IQ Print da 140 grammi per i risguardi.
a.d.
h t a e d after r e d y n S t t o c S a d o t it r sc e ir m e L f f e J a d o t a r t s illu ands
lettering originale di Steve W ht ig r W n a d n e r B i d le a in ig r o e n io is v super ringraziamento a Jeanine Schaefer con un
t Snyder & Jeff ot Sc da to ea cr o at st è h at De r te A.D. Af
Lemire
Qualcuno una volta mi ha detto che tutti gli indizi inerenti alla tua vita si trovano nel tuo primo ricordo.
Le tue paure, i punti di forza. Con cosa ti troverai a lottare...
... questo è il mio.
È il gennaio del 1982.
Ho sei anni e siedo davanti nella Datsun di mio padre, che guida lungo la costa della Florida. Fa freddo, il cielo è coperto, mio padre impreca tra sé. Continua a cercare con lo sguardo una crepa nel grigiume, ma il cielo è immobile, un rugginoso ricovero di navi fatte di nuvole. Mia madre siede dietro. È preoccupata perché io sono davanti. Sono troppo piccolo per stare sul sedile del passeggero, ma mio padre insiste. “Si è guadagnato qualche emozione, Kathy” dice.
Io chiudo gli occhi e chiedo che succeda qualcosa di buffo. Non solo per me, anche per mio padre, per mia madre sul sedile posteriore. Penso alla parola “buffo”. È una delle prime che ho imparato a scrivere, ne visualizzo le lettere; ci immagino che le scaliamo, aggrappandoci alla pancia della b, per poi lasciarci cadere nell’incavo della u e usare le aste della f come scalini... Apro gli occhi ma, ovviamente, non è successo nulla.
Mio padre è ancora ingobbito sul volante. Il cielo è ancora un sopracciglio corrucciato. Mia madre è ancora nervosa e seccata e guarda la strada al posto nostro. Gli alberi, lungo questo nastro di Florida, sono dritti e spogli. Attorno al motel c’erano le palme, ma questi sembrano gli alberi che abbiamo a casa. Sono neri, nodosi, mi fanno pensare a nervi morti dei denti, come nelle foto che ho visto dal dentista.
Mia madre sospira. Sta per dire che non ne può più – lo percepiamo tutti – ma di colpo vedo qualcosa cadere dal cielo grigio. Un oggetto che luccica ammiccando.
Schiaccio il viso contro il finestrino. Che cos’è?
È piccolo, lampeggia di verde, cade verso di noi. “Mamma” dico. “Papà. Guardate!”
Mio padre ci aveva portati in Florida d’impulso. Un venerdì pomeriggio era tornato a casa dopo aver tenuto le sue lezioni, si era materializzato sulla porta della mia cameretta e mi aveva detto di fare i bagagli. “Ci prendiamo una vacanza” aveva detto. “Cioè, adesso. Insomma, oggi, subito.” Avevamo tutti bisogno di staccare, aveva detto. E aveva ragione... era proprio così. Era stato un anno difficile. Alla scuola dove lavorava mio padre avevano tagliato i fondi ed erano mesi che temeva di perdere il lavoro. Era un attivista: insegnava fisica al liceo, ma la sua passione era il corso facoltativo che teneva sulle proteste politiche del ventesimo secolo. In quel periodo, aveva la sensazione che ci fosse sempre meno posto, al mondo, per le cose che amava. Mia madre faceva l’ottico e aveva un piccolo negozio in un agglomerato commerciale non lontano da casa nostra. A volte le facevo compagnia dopo le lezioni e facevamo quelle che lei amava chiamare “sfilate di alta moda per bulbi oculari”, durante le quali si provava lenti a contatto di vari colori. A quei tempi le lenti colorate erano ancora una novità e lei emergeva dal retrobottega con gli occhi chiusi e poi – sorpresa! - li apriva ed erano viola, o grigi, o addirittura gialli, e ci inventavamo storie sulla sua identità di quel giorno. C’era un cartone animato, in TV, Cryos, su un tempo futuro in cui tutti quelli che si erano fatti congelare criogenicamente in ogni epoca venivano svegliati nello stesso momento, ma scoprivano di trovarsi in un mondo senza umani e pieno, invece, di dinosauri e alieni e pericoli di ogni tipo. Mia madre lo adorava quasi quanto me, per quell’assurdo senso di avventura che trasmetteva, e le nostre sfilate per bulbi oculari rispecchiavano quella passione comune. Bastava aprire gli occhi per rinascere! Il suo negozio, però, era sempre vuoto. Come se non bastasse, i miei genitori avevano provato ad avere altri bambini, ma erano incorsi in diversi aborti spontanei. Ovviamente io non ne ero al corrente, ma capivo nel modo in cui i bambini capiscono tutto, guardando il colore di qualcosa di cui non comprendono la forma. Quindi, la Florida. Poi però non era andata come speravamo. Il tempo era stranamente freddo, per la stagione, e avevamo passato la maggior parte della vacanza nella stanza del motel, a guardare la televisione e a giocare a carte. C’era una specie di porticato, sul retro, dove io avevo passato il tempo seppellendo i miei pupazzetti nel fango, nascondendoli e poi riportandoli alla luce con un cucchiaio di plastica. Ricordo che uno era ricomparso con un verme drappeggiato attorno alla vita. La penultima mattina, mio padre non ce la faceva più a sopportare la delusione della Florida e di tutto il resto, così avevamo fatto i bagagli, decisi a tornare a casa. Solo che prima di imboccare l’autostrada verso nord papà aveva insistito perché facessimo un ultimo giro della zona, casomai ci fossimo persi qualcosa, un ultimo ricordo divertente.
L’oggetto nel cielo adesso è più vicino. Chiamo di nuovo mio padre. Gli dico di guardare. Lassù, vedi? Finalmente lui alza lo sguardo. “Kath, esame della vista?” dice. È una vecchia battuta di famiglia. Ogni volta che qualcosa ci fa dubitare dei nostri occhi, chiediamo consiglio a mia madre, l’ottico. “Uh. Dieci decimi” risponde lei, come a dire: sì, lo stai vedendo davvero. Mentre l’oggetto si abbassa, capiamo tutti che è un pallone, ma un pallone con una specie di luce lampeggiante all’interno. C’è un nastro con un biglietto, un piccolo rettangolo bianco con parole rosse scritte sopra. Da dove ci troviamo non riusciamo a leggere le parole, ma sono tutte in maiuscolo, con tanti punti esclamativi – sembra molto urgente – e quella strana visione ci affascina. Immediatamente, quel pallone diventa il gioco che abbiamo aspettato di fare tutti insieme durante quel lunghissimo fine settimana – è PROPRIO ciò che volevamo – e ne seguiamo la discesa dall’auto, mentre volteggia e ruota verso il suolo. “Riesci a leggerlo?” chiede mio padre, sterzando. “Famiglia! Occhi sul bersaglio!” “Non riesco ancora a leggerlo, ma è vicino! Stagli addosso, Daniel, dai!” esclama mia madre, ridendo, con il viso schiacciato contro il finestrino. Ha gli occhi che brillano di una nuova luce. Penso alle nostre sfilate: “E... blu. E... bianco!” Il pallone è a portata di mano, ormai! “Avviciniamoci!” grido. “Dai, papà!” Mio padre lascia l’autostrada per l’interstatale, per seguire quel pallone. Ormai scende velocissimo, lungo una traiettoria indecisa, a zig zag, sospinto dalle correnti ascensionali che lo costringono a disegnare archi improbabili, e noi cominciamo a calcolare dove si poserà a terra. Dietro la lavanderia a gettone! Nonono, ora va dall’altra parte... cadrà dietro al negozio di articoli militari! Finalmente sparisce dietro a un asilo – mentre mia madre e io gridiamo e indichiamo il punto esatto – e papà taglia quattro corsie deserte per non perderlo.
Ci mettiamo un minuto buono, ma poi ritroviamo il pallone in un lotto abbandonato di fronte all’asilo. Il nastro è impigliato in una rete metallica, si dibatte nella brezza e noi usciamo dall’auto e cominciamo a correre senza nemmeno chiudere le portiere, neanche fosse un cucciolo intrappolato tra i rovi. Mio padre lo libera e prende il biglietto, per farcelo vedere.
Se trovate questo pallone, chiamate il numero qui sotto e riceverete un premio! Sotto al messaggio c’è un numero di telefono. Ci guardiamo. È anche meglio di quanto avessimo sperato, siamo felicissimi. Un premio. Mia madre mi abbraccia... “E sei stato tu a vederlo, Jonah!” Che ci sia, a pochi metri da noi, un telefono pubblico ha del miracoloso, e mio padre lo raggiunge. Sta succedendo qualcosa di giusto, qualcosa che ci meritiamo dopo il weekend gelido, dopo la Florida, dopo tutto quello che è successo nell’ultimo anno. Dopo tutto.
Papà compone il numero. Mentre aspetta una risposta, si passa una mano tra i capelli, come se stesse per fare un colloquio di lavoro. Poi guarda verso mia madre e me e ammicca. Quando rispondono, mio padre, pieno di entusiasmo, spiega che abbiamo trovato il pallone del premio, che ce l’ha la nostra famiglia, qui – si guarda intorno – da qualche parte vicino alla Route 4. Nella sua mano il pallone pulsa nervosamente, come un messaggio morse da terre lontanissime. Un sacchetto di plastica svolazza rasoterra. Mio padre ripete ciò che ha detto, più lentamente, a voce più alta. Passano diversi minuti di confusione, che ricordo meno, se ci ripenso, ma durante i quali capiamo che il pallone faceva parte del concorso voluto da una scuola elementare di New York. Alcuni bambini hanno lasciato volare via i palloni dal cortile della scuola. A ciascuno era attaccato un biglietto identico al nostro, con il numero da chiamare. Lo scopo era vedere quale pallone arrivava più lontano. Una donna che lavora per la scuola dice tutto questo a mio padre. Lui ride, guardando il pallone, con il nastro in pugno. “Direi che ha vinto questo pallone. Avrà fatto millecinquecento chilometri. Incredibile che sia ancora integro.” Lui insegna scienze, ma stenta a crederci. È qualcosa che sfida le leggi della fisica. “Ci credete, famiglia Cooke?” ci chiede, coprendo la cornetta senza alcun motivo. Mia madre e io stiamo ridendo. No, non ci crediamo. Penso al premio. Spero che siano soldi. Non per me, ma per mio padre. Per mia madre. Ancora non capisco del tutto i soldi, ma rendono le cose più leggere. Ecco la parola che mi torna sempre in mente, che ho tenuto con me tutto l’anno. “Leggerezza.” Poi il volto di mio padre muta. “Cosa dice, Daniel?” chiede mia madre. Nel giro di istanti apprendiamo che sì, il nostro pallone ha fatto un viaggio incredibile, ma il concorso è terminato da settimane. Quello vincente è arrivato nel New Jersey, a Trenton. Molto più lontano di qualunque altro. “Trenton” ripete mio padre. “Noi siamo in Florida.” La donna spiega che capisce, ma che il concorso è terminato. Il premio – una consolle portatile per videogame – è già stato consegnato. Vedo mio padre innervosirsi, i muscoli della schiena che si contraggono. “Ma noi siamo in Florida” dice. Lei risponde qualcosa come per scusarsi, ma... “Siamo in Florida” ripete lui. Lei cerca di ribattere, ma lui la interrompe, gridando. “Siamo venuti fin nella cazzo di Florida.”
Lei continua a parlargli, cerca di spiegare, ma lui strilla, dice che quel videogame spetta a noi. Che andrà in New Jersey e lo dimostrerà, che ce lo siamo meritato. Ed è in quel momento che mia madre comincia a tremare. Cade a terra come qualcosa che si è spento di colpo, senza attutire la caduta con le mani, senza emettere un suono. Si affloscia. Semplicemente cade. La testa colpisce il suolo per prima. Io grido a papà, ma lui non mi sente. Sta sbraitando al telefono. Ha in mano un pallone che ha volato per millecinquecento chilometri, compiendo un viaggio misterioso, come qualcosa che esiste al di fuori e al di sopra di tutti noi. Pulsa di luce verde. Mia madre comincia a scuotere la testa, sbattendola sul cemento. Io grido e mio padre grida.
Questo è il mio primo ricordo. Ci penso spesso, ma non so che cosa significhi. Mi domando cosa dica della mia vita. E mi domando quale sarà il mio ultimo...
{huff} {huff} Dai, muoviti!
muoviti prima che ti--
{zzzt} cooke... jonah cooke, sei {zzzt} tu?
sĂŹ! sĂŹ, ci sono! Mi sentite?! sto scendendo! Rispondete, dannazione! Non sono solo! Mi sentite?! E credo che mi stiano segu--
agh!
cristo... cosa diavolo...
no, non ancora...
non ancora, avete sentito?!
non-Jonah!
jonah, guardati alle spalle!
torna da noi, jonah...
ti sbagli!
ti sbagli su tutto. E devi tornare indietro subito.
no! no, stai mentendo! Lasciami in pace! io so chi sono! So chi--