La narrativa della corporeità ::: The narrative of ‘corporeality’

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La narrativa della ‘corporeità’ The narrative of ‘corporeality’

La trattazione di seguito fa parte di un saggio più ampio - La Letteratura Italiana

Contemporanea:

tendenze,

evoluzioni-involuzioni,

contraddizioni – elaborato per un progetto di scambio interculturale tra Italia e Irlanda, svoltosi nel Settembre 2011 a Dublino. Tuttavia i “corpi nella letteratura italiana contemporanea” sono stati oggetto di studio e analisi come progetto indipendente a partire dal 2009 e la specifica trattazione di seguito è stata tratta proprio da quel lavoro. L’intero saggio - La Letteratura Italiana Contemporanea: tendenze, evoluzioniinvoluzioni, contraddizioni – così come tutti gli approfondimenti e i singoli articoli sono stati originariamente pubblicati da AgoraVox Italia senza il cui appoggio il mio lavoro di indagine, confronto, riflessione e analisi non sarebbe stato diffuso. Grazie a Francesco Raiola. Le immagini nel presente documento sono autoscatti dell’estate 2012, parti di un progetto fotografico. A seguire la traduzione, possibile grazie al progetto interculturale e il lavoro di (in ordine alfabetico di cognome) Anna Anzani, Francesca Capelli, Michele Curatolo e Federica Sgaggio con revisione alla traduzione di A.Anzani e M.Curatolo. Infine la sezione ‘appendici’, dove ho ripreso alcuni articoli e approfondimenti scritti, rispetto agli autori e le opere citate.


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Il corpo totale è fuori del linguaggio, alla scrittura arrivano solo pezzetti di corpo. (Roland Barthes) Narrare con e attraverso il corpo non è una caratteristica della contemporaneità. Già nel novecento la Letteratura Italiana ha visto la diffusione di scritture e opere che, nelle proprie trame, tra lingue e stili, hanno evidenziato evidenti evoluzioni nell’inserimento di corpi, sangue e gesti carnali non più come meri elementi di sfondo, quando proprio come scelte precise, rotture per taluni, urgenze per altri, ma anche sperimentazioni a proiettare la lingua oltre i retaggi dei Maestri.

Scrive Marco Antonio Bazzocchi, professore ordinario di Letteratura Italiana Contemporanea presso l’Università di Bologna, nel saggio ‘Corpi che parlano’ (2005, arrivato alla sesta ristampa): “Il Novecento oscilla continuamente entro questi poli: la necessità di tornare al corpo nudo per ridare legittimità all’individuo, per ‘liberarlo’, e, all’opposto, il bisogno di rivestire di simboli densi il corpo per farlo parlare. O invertendo i termini, l’esigenza di spogliare il corpo per tornare al suo linguaggio (spesso

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identificato con la sessualità) e invece di coprirlo per alludere, fra intravvedere, stimolare la curiosità”. Questo ‘tornare’ al corpo nudo, legittima l’individuo entro un tessuto sociale, politico e culturale preciso a imporsi negli scritti degli autori che in quel tempo respiravano precise ‘battaglie’ di carne, poi divenute anche di parole o di parole carnali. Viene a maturazione in questi anni un discorso sulla funzione e sull’importanza del corpo che si innesta nella situazione storico-politica e la interpreta con profonde implicazioni, forse mai più raggiunte dopo (dopo rispetto agli anni Sessanta e Sessanta in Italia). Difficile affermare con certezza se Oggi si

tratta

di

involuzione o ulteriore

evoluzione. Di certo la Letteratura Contemporanea in Italia si sta ‘muovendo’ nell’ultimo decennio, con accelerazioni drastiche negli ultimi quattro-cinque anni, verso un uso narrativo del corpo a recuperare dimensioni di carne, pelle, sangue quanto

un

impregnato concreta,

narrare

fortemente

sull’espressione oggettiva

e

più

indiscutibile

dell’identità individuale: il corpo. L’impressione

rispetto

alla

contemporaneità, però, è che l’attuale ripresa sia per alcuni autori italiani un recupero del corpo del singolo che si

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tende al collettivo, un tentativo di ritrovare una carnalità che negli anni (soprattutto dopo Pier Paolo Pasolini, dagli anni ottanta in poi) si è sfocata, annebbiata, ridotta nelle percezioni stesse dei corpi (o parti di). Ciò che si cerca di riafferrare, Oggi, sebbene inquadrato in un preciso momento storico, sociale, politico e religioso, sembra tendersi maggiormente verso l’intimo dell’individuo. I corpi di alcuni libri di autori italiani, negli ultimi anni, sono corpi che registrano e assorbono onde sociali (anomale per lo più) ma lo fanno ricercando disperatamente una riappropriazione carnale intima, propria, individuale. Una riappropriazione che accomuna, non ombelicale (non solo del personaggio, non solo della storia narrata, non solo di quell’autore).

Il linguaggio dei corpi, insomma, in alcuni autori italiani contemporanei narra di usi, svelamenti, attenzioni crescenti per analizzare tale linguaggio, stratificando, scatenando agganci. Non c’è - sostanzialmente - una diretta matrice politica.

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Storica certamente, che si protende a recuperare – a volte – brandelli del recente passato italiano, ma resta pressante, prepotente, la componente d’intimità,

di

rimescolamento

disomogeneo

tra

affezioni-disaffezioni,

sentimenti, legami (e negazione di legami), appartenenze (o meno) che sono dell’Italia di oggi, attingono al sudore, le fatiche, l’irrequietezza, le mancanze, le insoddisfazioni, i dolori. Alcuni esempi: Giorgio Falco in ‘L’ubicazione del bene’, 2009, e Giorgio Vasta in ‘Il tempo materiale’, 2008, collocano le storie in precisi contesti storici, Falco con particolare attenzione al ‘senso del vivere’ attraverso i gesti e le carni; Vasta focalizzato a recuperare un preciso periodo (fine anni settanta) e un preciso contesto geografico (Palermo). Restano però snodi che comunque si tendono poi all’individuo, allo scavo che il corpo fa di sé. Il corpo guardandosi, scoprendosi, si riconosce.

In alcuni libri recenti, dunque, i corpi non hanno bisogno di essere ‘nudi’ perché non c’è più un ‘prima’ come per il Novecento (fatto di restrizioni, moralismi rigidi, etiche cieche, religiosità venerate dai più e rispetto generale di tali condizioni), da cui tentare un salto verso un ‘dopo’ di abbattimento. Barbara Gozzi Mob +39 392 8055828 -­‐ barbara.gozzi@gmail.com

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Oggi il ‘prima’ contiene ogni possibile nudità, sperimentazione carnale, ogni possibile rottura di quei tabù che nel Novecento erano inviolabili e che oggi, nel XXI secolo, sono stati del tutto decostruiti. Ma quando nella LIC i corpi si spogliano, la nudità è scarnificante, potente, dura. Nella contemporaneità non si rintraccia il dilemma corpo-nudo o corpo-vestito. Piuttosto un dilemma sottile, velato, combattuto tra maglie narrative, snodi e livelli tra ‘corpo come elemento narrativo’ rispetto a ‘corpo come mero ingrediente della trama’. Il corpo, dunque, non è più semplice parte dei personaggi. Ha dismesso gli abiti della comparsa per diventare elemento narrativo in tutto e per tutto. Per alcuni autori è proprio il corpo (e le sue parti) a compiere azioni, ‘dire’, ascoltare (e non per diretta ammissione

del

personaggio).

Come per Gabriele Dadati, ad esempio, ne ‘Il libro nero del mondo’, 2009, dove le nudità non hanno

valenze

piuttosto

le

personaggi,

parti fanno,

simboliche, carnali

dei

dicono,

esprimono. Dunque colli, mani, labbra, braccia, ecc. Per altri autori intere scene, sequenze, parti narrative si concentrano interamente su dettagli dei corpi, sullo svelare atmosfere, sensi, umori, intenti, attraverso movimenti e singole inquadrature carnali, come fa Marco Mancassola in ‘La vita erotica dei superuomini’, 2008.

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I corpi sono l’espressione cruda dell’essere, di chi siamo. Sono la prima manifestazione, prima per sentire, percepire, assorbire. I corpi parlano attraverso gesti, sguardi, linguaggi. Si avvalgono di sensi che dalla carne diramano, espandono. E quest’onda recente di corpi che investono storie e romanzi, sembrano essere una ‘rimanenza’. Nonostante le perdite che la società italiana si trascina, quanto quelle individuali; i corpi comunque restano. Ed è proprio ai corpi che alcuni scrittori si rivolgono. Cercano. Danno voci, sensibilità, ossessioni, messaggi. È a loro che chiedono pur sapendo che sono appigli instabili, variabili, deformanti, che mutano mentre vengono toccati.

“La mattina, verso le sei, quando ancora il letto grande è occupato da altri corpi e dai rumori della notte, io poggio i piedi a terra e le mani sulle gambe, proprio come farebbe ogni madre; e, mentre le vene dei polsi si gonfiano per un'altra Barbara Gozzi Mob +39 392 8055828 -­‐ barbara.gozzi@gmail.com

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giornata di sforzi e di lavori, alzo la testa ancora rimpicciolita dagli occhi mezzo spenti, e provo a guardarmi allo specchio, per vedere come sono cambiata” (stralcio da ‘Non dire madre’ di Dora Albanese, 2009). Scrive Paola Borgna, professore associato presso l’Università di Torino, nel suo saggio ‘Sociologia del corpo’, 2005: “[...] la riflessione sul ruolo del corpo nella definizione di sé e dell'identità di sé dell'individuo contemporaneo va guadagnando spazi crescenti. In questa prospettiva, l'apertura della vita sociale, la pluralizzazione dei contesti di azione e delle fonti di autorità della tarda modernità - quella in cui conduciamo le nostre esistenze - avrebbero reso problematica l'identità del sé e l'avrebbero trasformata nel progetto riflessivo che prende forma da narrazioni biografiche coerenti continuamente rivisitate.”

Evidentemente i corpi non hanno sempre le stesse finalità. In alcune scritture diventano strumenti per esprimere l’eterno conflitto tra ‘Bene-Male’ e ‘PiacereDolore’. Come per Lello Voce: “Infila piano, se la spingerai dentro di colpo perderai tutto il piacere. Il piacere doloroso che viene prima del piacere, quello di sentire l’ago che ti apre la pelle, che la squarcia con un piccolo taglio netto, che scava nella tua carne [...]” (Estratto da ‘Il corpo nudo dell’eroina’ di Lello Voce)

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E ancora molti altri esempi potrebbero essere qui riproposti a proseguire le riflessioni in proposito anche con angolazioni differenti (Laura Pugno, Giulio Mozzi, Rosella Postorino, Andrea Di Consoli, Silvia Nirigua, Federica Sgaggio, Francesco Forlani, Demetrio Paolin, Emanuele Tonon, ecc.). Aggiungo

che

anche

nel

recentissimo

'La

notte

dei

petali

bianchi'

di Gianfranco Di Fiore (esordio del 21 ottobre scorso) la componente carnale, l'approccio verso un narrare che affonda spesso tra corpi, gesti, muscoli e ossa: tutto questo è parte della storia stessa, a rafforzare l'impressione che in diverse 'voci' italiane - indipendentemente dai trascorsi letterari o meno l'interesse, la cura e l'ascolto dei corpi sono entrati nei processi creativi del raccontare, processi in divenire ma indubbiamente concreti, sfaccettati quato resistenti, che persistono negli ultimi anni con evidenze palpabili (aggiunta del 1 novembre 2011 - n.d.a.). In ogni caso, la ‘narrativa della corporeità’ appare Oggi come uno dei pochi spiragli abbastanza consapevoli tra le mani degli scrittori italiani contemporanei. Ciò che ne faranno, ciò che effettivamente resterà, costruirà o distruggerà, ciò che porterà in termini letterari quanto di visioni e storie, non è possibile nemmeno ipotizzarlo.

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The narrative of ‘corporeality’ Translation by A. Anzani, F. Capelli, M. Curatolo and F. Sgaggio. Revision of translation by Anna Anzani e Michele Curatolo.

The total body is out of the language, only bits of the body reach writings. (Roland Barthes) Narrating with and through the body is not a contemporary prerogative. In the twelfth century, Italian Literature already assisted to the diffusion of writings that, in their plots, between languages and styles, showed clearevolutions in the inclusion of bodies, blood, and carnal gestures. They were no more background elements but found their origin in precise choices, in some cases ruptures, in some other urgencies, also experimentations, in order to throw the language beyond the inheritance of the Masters. Marco Antonio Bazzocchi, Ordinary Professor of Italian Contemporary Literature at Bologna University, in the essay ‘Corpi che parlano’ (‘Speaking bodies’ 2005, now at its sixth reprint) writes: “The twentieth century continuously swings back and forth between these poles: the need of going back to the naked body to legitimate and ‘free’ the individual and, on the opposite, the need of dressing the body of dense symbols to let it speak. Or, inverting the terms, the need of stripping the body to go back to its language (often identified with sexuality) and, on the contrary, the need of covering it, to allude, to hint, to stimulate curiosity”. This ‘going back’ to the naked body legitimates the individual within a precise social, political and cultural framework to impose itself in the writings of authors who, in that time, were breathing precise physical ‘struggles’, which later became also words, or carnal words struggles.

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In these years, the topic of the function and the importance of the body has been fully developed and connected to the historical-political situation, interpreting it with deep implications, never more reached in the following years (after the Sixties and Seventies in Italy). It is difficult to say whether today we are in front of an involution or of a further evolution. Certainly, the Italian Contemporary Literature has been ‘moving’ in the last ten years, with dramatic accelerations in the last four-five years, towards a narrative use of the body, recuperating the dimension of flesh, skin, blood as much as a kind of narration strongly impregnated with the mostly concrete, objective, unquestionable expression of the individual identity: the body. However, the impression is that for some Italian contemporary authors the retrieval of the body is intended as a tension toward the community, an attempt to find again a carnality that over the years (especially after Pier Paolo Pasolini, and after the Eighties) has blurred, clouded, reduced in the perception of the bodies (or parts of the bodies). What today is tried to be grasped again, even though framed in a precise historical, social, political and religious moment, seems to tend more towards the individual intimate. In the last few years, the bodies of some books of some Italian authors record and absorb social waves (mainly anomalous ones), but they do it desperately searching an individual, intimate, carnal self re-appropriation. A non-umbilical joining re-appropriation (not only of the character, not only of the narrated story, not only of the author). In some Italian contemporary authors, body language refers to uses, unveilings, captures increasing attentions to be analyzed, stratifying and rising links. There is – substantially – no direct politic matrix. There is certainly a historic one, which sometimes tends to recuperate shreds of Barbara Gozzi Mob +39 392 8055828 -­‐ barbara.gozzi@gmail.com

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the recent Italian past, but the intimate component remains strong, overbearing, a component of a non-homogeneous mix of affection-disaffection, feelings, bonds (and their negation), belongings (or not) which are peculiar to present Italy, and refer to the sweat, the fatigues, the anxiety, the lack, the dissatisfactions, the pains. Some examples: Giorgio Falco in ‘L’ubicazione del bene’, 2009, and Giorgio Vasta in ‘Il tempo materiale’, 2008, set their stories in precise historical contexts. Falco pays some attention to the ‘sense of living’ through gestures and fleshes; Vasta focuses on a precise period (the end of the Seventies) and a precise geographical context (Palermo, Sicily). Nevertheless, these remain junctions that ultimately tend to the individual, to the digging that the body does on itself. Looking at itself, uncovering itself, the body recognizes itself. Therefore, in some recent books bodies do not need to be ‘naked’ since there is no more a ‘before’, (made of restrictions, rigid moralism, blind ethics, religiosities venerated by the majority and general respect of such conditions) like in the twentieth century from which a jump should be attempted toward an ‘after’ of breakdown. Today, the ‘before’ includes every possible nudity, carnal experimentation, possible rupture of those taboos that in the twentieth century were inviolable and that today, in the twenty-first century, have been completely deconstructed. But in the ICL, when the bodies strip, nudity is scarifying, potent, harsh. There is no trace of the ‘naked/dressed body’ dilemma in contemporary writers. Perhaps we can well find a subtler, more latent conflict, spread through their literary works, between ‘bodies as essential elements of the fiction’ and ‘bodies as mere parts of the plot’. Actually, some authors see bodies not only as appearances of the characters. Rather than being simple denotations, in their works bodies play a real role. For these authors, bodies (and their parts) really can act, talk, and listen, even beyond the will of their own masters, the characters. For instance, in ‘Il libro Barbara Gozzi Mob +39 392 8055828 -­‐ barbara.gozzi@gmail.com

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nero del mondo’, 2009, by author Gabriele Dadati, naked bodies carry no carnal values: they and their parts (that is, necks, hands, lips, and limbs) just perform fictional roles, as they do, make, talk, and express themselves. In other authors’ books, entire sequences are concentrated on the details of the bodies, in order to unveil their tones and senses, their moods and intentions through a closer presentation of their physical movements. This is clearly expressed in ‘La vita erotica dei superuomini’, 2008, a novel by Marco Mancassola. Being the first and raw appearance of human beings, and the only means by which humans can feel and perceive, bodies are seen as the most sincere portrait of the human nature. Bodies, not people, talk in their consistency. Bodies, not people, express themselves through a number of gestures, looks, languages that come directly from their flesh and blood. It can be said that a huge wave of bodies is spreading through the territories of the Italian contemporary narrative. They are depicted as the symbols of the last precious remains of our society. They are what it remains. Actually, everything has been flooded away in these years in Italy; everything but the bodies. Many contemporary Italian writers are learning the body language. They are trying to use bodies as emitting sources of sensations, obsessions, messages. They keep on asking bodies the basic questions, even though they know their instability, their mutability, and their tendency to decaying. This is an excerpt from ‘Non dire madre’, 2009, by Dora Albanese: In the morning, at about six, when the double bed is still filled with other bodies and the sounds of the night, I lay down my feet on the floor and my hands on my legs, as every mother is supposed to do; and, while the veins of my wrist swell for another hard working day, I lift my shrunken head with half-dull eyes, and try to look at myself in the mirror, just to see how changed I am.

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Paola Borgna, associate professor at Turin University, writes in her essay ‘Sociologia del corpo’, 2005: […] the reflection on the influence of bodies on the self-definition and selfidentity of contemporary individual is steadily gaining ground. In this perspective, we can say that, in this late modernity era, the growth of social opportunities, and the dramatic increase of fields of action have made the definition of self-identity extremely difficult. In literary terms, this results in a number of works of reflection which develop into projects of constantly revised biographical narrations. It is easy to see that not all bodies have the same function. In some texts, they are used as instruments to express the eternal struggle between Good and Evil, and Pleasure and Sorrow. As in “Il corpo nudo dell’eroina” by Lello Voce: Insert it gently, if you put it inside all of a sudden all the pleasure will be lost. The painful pleasure coming before the real pleasure, the pleasure of feeling the needle that pierces your skin, and tears it apart with a small, sharp cut, digging into your flesh […] Many more examples from other Italian authors (Laura Pugno, Giulio Mozzi, Rosella Postorino, Andrea Di Consoli, Silvia Nirigua, Federica Sgaggio, Francesco Forlani, Demetrio Paolin, Emanuele Tonon, etc.) could be put forward, in order to show the wide variety of the artistic use of the “Narrative of corporeality”. Also because it has been deliberately chosen by a significant number of authors, the “Narrative of corporeality” is undoubtedly one of the freshest novelties of ICL. Anyway, what these writers will be able to build (or to destroy) with it, or what results it will enable them to obtain in terms of future novels or stories, is at present absolutely beyond hypothesis.

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Appendici

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Introduzione del progetto: 'I corpi nella letteratura italiana contemporanea' pubblicazione del 16 novembre 2009 Parlare e scrivere di letteratura sono attività frequentemente assorbite come ’individuazione di ciò che ci sopravvive’. Di una dimensione da ’residuo duraturo’. Un qualcosa destinato a essere insegnato, magari tra i banchi, o comunque ricordato entro allocazioni preziose, luccicanti. Entro un tramandare per non dimenticare. Per non lasciar morire. Ma ciò che tra venti, quaranta, sessanta e più anni sarà considerato ’il peso di una scrittura necessaria, rappresentativa di questa società’; questo peso muterà forme, sostanze, opinioni, analisi per altri venti, quaranta, sessanta e più anni. Leggere, studiare, analizzare, rapportarsi lucidamente, passionalmente e visceralmente con gli autori italiani contemporanei, le scritture, le storie e le voci; tutto questo non sottintende un altro rispetto ai significati delle parole stesse: lettura, studio, ascolto, riflessione, confronto. Il tempo, le analisi che entro maglie spazio temporali affonderanno nelle scritture di oggi (oggi come lasso ristretto, decenni, grumo di anni tra grumi di contesti nazionali), stabiliranno o tenteranno di individuare ciò che per le future generazioni sarà il peso letterario di un passato più o meno a loro vicino. E accadrà, io credo, senza costrizioni o sforzi imposti. Senza classifiche di vendita, statistiche da esposizione in vetrina. Ragionare

oggi

dell’oggi

o

dell’oggi

di

ieri

e

dell’oggi

di

domani

(ieri e domani come declinazioni di vicinanze materiali tangibili, annualità accostate all’oggi per somme brevi, semplici) è ’sentire’ ciò che - pare - ritornare entro maglie mutevoli e larghe di scritture. E’ afferrare vicinanze o lontananze tra identità che con le parole plasmano forme, saggiano carni pulsanti che dal vero del reale si trasferiscono al vero delle parole. Vero in quanto sentito, voluto entro sensi e urgenze espressive quanto comunicative. Barbara Gozzi Mob +39 392 8055828 -­‐ barbara.gozzi@gmail.com

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I libri, gli autori, le storie che le future generazioni sceglieranno di leggere, ascoltare, considerare non possono emergere oggi nell’oggi. E questo progetto lo dimostra. E’ tangibile. Che non si cercano ’vincitori’. Che gli scritti oggetto di scavi, interrogazioni, riflessioni, connessioni sono qui ripresi per essere ascoltati. Per offrirsi a comprensioni, collegamenti. Parlare e scrivere di letteratura, possono non essere sterile ventriloquismo da classifiche di vendita, da constatazione cedevole, fragile, che i pesi e le misure sono solo numeri, mercati, apparizioni pubbliche, premi. Può se si interrompe la corsa. E si recupera il moto dell’ascolto, un moto lento, ma accogliente, che non chiede ’titoli’ o tesseramenti ma dalle parole prende a sentire. Questo è l’approccio, questo è il corpo del progetto. Partire dagli scritti. Dalle parole. Dalla carne nelle parole. Allungarsi, ove possibile, alle voci, gli autori, gli intenti. Digerire sensi, percezioni. Spingendo tutto verso comprensioni, verso eventuali fili che passando uniscono. La letteratura di oggi nell’oggi. Le identità che attraverso le parole sono forme forse riconoscibili. Gli strumenti che dalla lingua, saltano pagine e supporti bidimensionali, per conficcarsi. Da qualche parte. E questi sforzi, di comprensioni, pensieri, confronti, identità, riunirli in uno scritto (una forma aggregativa di contenuti, riflessioni, spunti, analisi, stralci) e diffonderli attraverso contatti. Contatti aperti a tutti entro eventi, iniziative ’concrete’, piccole e grande, lunghe o corte, vicine e lontane, quello che si potrà a partire dal 2010. ********************

Marco Antonio Bazzocchi conclude il saggio ’Corpi che parlano’, Bruno Barbara Gozzi Mob +39 392 8055828 -­‐ barbara.gozzi@gmail.com

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Mondadori, 2005, così: Il corpo di oggi non esibisce più i propri traumi sessuali, non è più il luogo di lotte tra le pulsioni e il loro dominio La rappresentazione della sessualità come nucleo dell’individuo sembra essere ormai fuori moda, così come sembra esserlo l’immagine di un corpo che drammaticamente si libera delle convenzioni sociali. Nelle teorie dominano immagini leggere, interscambiabili, soft: simulacri, pellicole, travestimenti, giochi e scambi. Un carnevalesco tutto patinato, privo di sostanza corporea. E un erotismo bidimensionale, che non va al di sotto dello spessore della pagina o dello schermo del video. Né il modello rappresentativo né quello liberatorio sembrano più funzionare. In un mondo

grigio

dominato

dall’uniformità,

gli

unici

corpi

che

continuano a parlare sono i corpi tragici della sofferenza, quelli che si susseguono di giorno in giorno nei notiziari sulle guerre e sulle carestie, sulla povertà e sul dolore. [ In Anthropologize du corps et modernité (Puf, Paris, 1990), David Le Breton nota che la società occidentale moderna ha

cancellato

le

manifestazioni

concrete

del

corpo,

privilegiando la strategia della messa a distanza del corpo, e quindi il senso dello sguardo, a scapito dell’olfato e del tatto]. [...] Le immagini del corpo estetizzato che ci circondano sembrano solo un involucro fragile che deve nascondere i corpi rovinati dalla tragedia. [...] Non siamo forse tutti entrati a far parte del gruppo eletto dei violenti Signori pasoliniani, torturatori sì, ma di corpi inesistenti? Mi chiedo se sia questo l’ultimo esito a cui deve approdare, fra molti dubbi, un discorso sul corpo, sulla sessualità e sul desiderio: ci sono tanti corpi, non c’è più nessun corpo. Ora, a fine 2009, guardando imperfettamente, tra parzialità e affondi ancora in divenire; ho l’impressione che questa ’messa a distanza del corpo’ enunciata da Le Breton nel 1990, sia fatto tangibile anche nelle modalità in cui si vive, respira, segue la letteratura oggi, in Italia. Pare quasi non esserci più l’esigenza. L’esigenza carnale di ascoltare un autore, una storia, attraverso una vicinanza materiale da accostare alla lettura, all’appropriarsi di una storia scritta, lasciata. Barbara Gozzi Mob +39 392 8055828 -­‐ barbara.gozzi@gmail.com

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Inoltre, questo cancellare le ’manifestazioni concrete del corpo’, questa scelta non è ben chiaro dove ci stia portando come società, dove stia veicolando la cultura. Pare perché i dibattiti, gli scritti, non ’parlano la stessa lingua’, non si appoggiano gli uni agli altri assecondandosi. Ci sono, io credo, dei ’dissidenti’ che l’identità e le direzioni, di queste scelte, mettono in discussione. Che tentano di lasciare il perduto, per ritendersi verso la sostanza della carne, dell’essere che c’è nella carne, nelle parole di carne. Per ora, a fine 2009, tra scavi imperfetti, parziali, in divenire e lenta digestione mi chiedo: ancora ’ci sono tanti corpi, non c’è più nessun corpo’ nella letteratura italiana contemporanea? Qualcosa sta virando, è la ’sfida’ di questo progetto. E’ il tentativo di affondare i denti in una percezione crescente, frammentata, spezzata eppure insistente, rumore che dal fondo entro libri diversi, è ’qualcosa’, secondo me. ’Qualcosa’ che merita ascolti.

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Giorgio Falco: 'L'ubicazione del bene' pezzo del 27 agosto 2009 L’ubicazione del bene sconquassa. Non mi vengono in mente altri termini così ‘centrati’. Delle polemiche, il vociare insistente su questa o quella mancanza a proposito delle ellissi dentro o attorno il libro, preferisco non entrare, non aggiungerei nulla e le sottrazioni non conoscono scadenze né prescrizioni. Ne ho letti pochi, in effetti, di pareri altrui, su Falco e questa sua ‘ubicazione’, c’è sempre tempo per lasciarsi sfiorare dalle opinioni non proprie. E’ una raccolta di racconti, e mi sembrano interessanti alcune considerazioni in proposito. Punto primo non è facile capirlo, che sono racconti riuniti qui con un preciso intento (o più d’uno direi). Punto secondo una casa editrice tra le grandi che pubblica racconti in una delle sue collane più note, diffuse e prestigiose (Einaudi, Stile libero big) sta lanciando – forse – un messaggio, o almeno è sembrato a me. Infine, punto terzo: non ho realizzato che sono racconti fino alla fine del secondo, inizio terzo, quando il valzer tra i personaggi, le trame che entrano poi cedono, mutano e spariscono, sono un dato di fatto. E non l’ho capito non soltanto per l’assenza di indicazioni inequivocabili nell’oggetto-libro, piuttosto perché ci sono sottili fili di sensi, che serpeggiano con e attraverso i racconti che nelle diversità realizzano un mosaico (im)perfetto eppure nitido, fatto di tracce e collegamenti. E’ impossibile non porsi alcune domande, partendo già dal titolo. L’ubicazione del bene. Cosa significa localizzarlo, il bene? Poi, quale bene? Quello assoluto, generico e adattabile a tutto e tutti? O uno in particolare? Poi ‘ubicazione’, un termine ‘tecnico’, che ha un significato preciso: posizione di una costruzione in un complesso urbanistico. Dunque pare che Falco stia cercando o svelando o tratteggiando dov’è il bene tra le maglie rigide e catalogate del vivere da intendersi come declinazione materiale, fatta di elementi tangibili, che hanno dimensioni sottintendenti sensi. Ed è vero. Che la scrittura di Falco passa attraverso una componente forte, pulsante, che è materia, masse. Barbara Gozzi Mob +39 392 8055828 -­‐ barbara.gozzi@gmail.com

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Ne ‘l’ubicazione del bene’ c’è un’attenzione particolare, quasi ossessiva, verso il non umano da intendersi in senso ampio. Falco descrive oggetti di ogni tipo ma anche ambienti, dettagli di azioni fino a fissare inquadrature sugli animali, sulle creature non umane insomma capaci di trattenere sottolivelli e sentimenti. Per gli uomini e le donne c’è poco spazio, ci sono e fanno parte del tessuto narrativo per ciò che sono, dicono, compiono, per le scelte ma soprattutto le non scelte. Ci sono insomma gli umani, ma spesso restano comparse i cui significati sono evidenti da subito. Sono loro che decidono attraverso azioni, non azioni, parole, silenzi, nel viversi. Eppure gli oggetti, gli animali, i singoli gesti, l’inquadrare ambienti e nello specifico le percezioni scatenate dagli stessi; tutto questo fa la differenza. Un altro elemento che partendo dal titolo dirama nei racconti è il senso inverso, contrario eppure coincidente, racchiuso ne ‘l’ubicazione del bene’. Se sto posizionando il bene, di fatto, vedo, sento, riconosco, sfioro, ‘il male’. Sapendo dov’è, il bene, non si può ignorare che ovunque non è, c’è il male. E di male in questi racconti ce n’è davvero molto, secondo me. Male declinato, (ri)flesso, esposto, sussurrato e stretto. Ha molte forme, questo male, e parole che lo annunciano senza pronunciarlo direttamente. E’ un male che entra tra muscoli, investe sguardi, guida pensieri e si scarica all’improvviso, senza particolari fragori o bagliori. Non è il solito male, insomma. Non lo si riconosce dalle prime righe, striscia, allunga lingue tra non gesti e fallimenti. Attraverso delusioni, paure mai scollate dal corpo, attese inutili, non scelte e scelte destinate a crollare rovinosamente. Eppure lui, il male, non impone nulla, non strepita né urla, non si manifesta avvalendosi dei consueti simboli, non ha una faccia precisa, ogni personaggio umano se lo porta con sé. E lo respira tra sviluppi e immobilità. Questo male che Falco volutamente non sottolinea,

evita

inequivocabili.

fari

accecanti,

Eppure,

questo

tanto

meno

male

è.

odori

Esiste. Tra

o

sapori stonature

insopportabili, frammenti di un vivere pregno di insoddisfazioni, cadute che sono perdite, rinunce affannose, affettività costellate di buchi, carenze, mancanze, apparenze o semplicemente imperfezioni oltre le solite favole per Barbara Gozzi Mob +39 392 8055828 -­‐ barbara.gozzi@gmail.com

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adulti. Così i figli non sono ‘doni’ destinati ad arrivare. E lavorare anche sodo, con passione e dedizione non significa guadagnare proporzionatamente. Sposarsi, e avere figli, non dà una casa propria. Acquistare non è avere. Pagare non è garanzia. Scambiarsi confidenze sulla famiglia non è essere amici. Andare allo zoo non è essere una famiglia. Sentir urlare ‘papà’ e ‘mamma’ non implica che ci sia un bambino nei paraggi, nascosto chissà dove. Non volere figli non è volere altro, animali ad esempio. Avere una casa, anche di proprietà, non è sentirsi (al) sicuro. Essere ‘due’ non è ‘non essere uno’. Sognare non è realizzare. E così via. Localizzare il bene è acquisire consapevolezza, accettare il male nell’altrove che non si cerca eppure è, resiste e non si scompone. Per tutte queste logiche, mi sembra che il libro sia perfettamente inquadrabile in un preciso percorso seguito da alcuni autori contemporanei italiani, che nelcon-verso-dentro-oltre il male (si)cercano, scavano, affondano, riconoscono, oppure semplicemente restituiscono una realtà nuda, spoglia. Falco è narratore di dettagli, di un sentire paziente, sottilmente acuto, dove non c’è giudizio. Forse anche per questo, il male non è definito tale. Si sta ‘male’, tra le maglie di storie comuni, agonizzanti spesso, che si accettano nel non essere. Lo si sente, il ‘male’ tra la pelle quando i vecchi modelli generazionali si mostrano per quello che sono: nullità inconsistenti, incapaci anche di apparire ormai, sfaceli durissimi, fallimenti piccoli e grandi, perdite. Ubicare il bene forse è mera perdita dei sogni. Laddove il bene si ferma, attorno l’uomo si arena, non ce la fa a raggiungerlo, a volte preferisce definire come ‘bene’ qualcosa che non lo è, ma ne simula alcuni elementi come l’apparenza. O i giochi linguistici. L’usare termini invertendo sensi e convincersi che l’inversione è definizione. Mentre resta mera accettazione di una mediocrità imbarazzante, spesso inutile, che non sfoga passioni, interessi, volontà, voglie e capacità. Perché sembrano morti,

evaporati,

latitanti. Le passioni, gliinteressi, le volontà, le voglie

e le capacità. Tutto pare mediamente accettabile. Tutto è accettabile. Perché tutto è negazione, un ‘non’ essere o ‘non’ avere o ‘non’ raggiungere o ‘non’ scegliere, ‘non’ capire, ‘non’ provare, ‘non’ cercare.

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Per le opinioni su altri (e gli stessi) aspetti di questo libro: Giuseppe Genna, Demetrio Paolin, Franco Foschi, Ivano Porpora che in questo passaggio esprime benissimo l’equazione orrore-(bene)-male: Così Falco, allo stesso modo, tratta in modo quasi asettico, con l’asepsi propria dell’habitué, l’Orrore del Quotidiano, quell’Orrore Infrastrutturale (chiamiamolo così) che tanto fa paura perché è un Orrore cui ancora la nostra società non è abituata. O cui, forse, la Società si è tragicamente abituata e da cui, ora che ne è infestata, non riesce a liberarsi. Gli idioti che si fingono intellettuali, i matrimoni da preparare con un anno e mezzo di anticipo, gli slogan e i nomi di prodotto che finiscono con una ì o una ò o un oso, il mutuo che succhia metà dello stipendio, le crociere con la cena al tavolo del capitano, le agenzie immobiliari che si fingono privati per acquisire informazioni su case in vendita, le visite obbligatorie dei parenti o dai parenti, i ponti da passare fuori città, il traffico delle sei della sera, i colleghi da fregare per non esserne fregato: Falco conosce questo male (male nelle sue forme più radicate, male di pensiero, parola, opera e soprattutto omissione) e non vi punta il dito contro ma ci si immerge dentro. Falco non vuole essere, a mio parere, né causa né effetto né redenzione di questo male ma vuole, passatemi il gioco, ubicare il bene, situarlo, isolarlo, studiarlo, dove bene – parliamoci chiaro – non c’è o è difficile da situare. Perché solo accorgendoci che il male c’è lo si può combattere; capendo che non ha divisa e che, se ce l’ha, questa è la nostra propria veste. (estratto da qui) Ma ancora: Leandro Piantini su Carmilla, Loredana Lipperini, e qui mi fermo. Navigando tra i motori di ricerca si ritrova anche altro, senza che tra ciò che si scrive di un libro, una storia, un autore debba necessariamente esserci o bene o male, e averla, un’ubicazione.

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Gabriele Dadati: 'Sorvegliato dai fantasmi' articolo del 20 agosto 2009 Siamo in pieno agosto, tempo di vacanze per qualcuno, per altri solo afa, caldo e città semi deserte. Tempo di sospensioni, lunghe o brevi che siano. Comunque. Già da luglio, in alcuni casi giugno, sono iniziati i ‘proclami’ da letture ’estive’. Come se le stagioni imponessero per tutti gli stessi ritmi, le stesse dinamiche di fatica e riposo, presenza e assenza, tempo o non. Allora in questo giovedì post ferragosto propongo una lettura che non ha nulla a che fare con l’essere sotto l’ombrellone o in coda davanti al semaforo. Un libro che non è best seller internazionale tanto meno novità dell’ultim’ora. Sorvegliato dai fantasmi di Gabriele Dadati. Quando questo libro è arrivato per la prima volta in libreria era il 14 febbraio 2006: avevo ventitré anni. L’avevo consegnato all’editore verso la fine del 2004, e scritto nei due anni precedenti… (pag.205) Nella ‘nota alla nuova dizione’ Dadati dice tutto quello che il lettore non sa ma dovrebbe. E lo fa con intelligenza, semplicità. Lo fa, forse senza la piena consapevolezza, preparando il lettore a ‘un’ Dadati che nel 2008, anno della nuova pubblicazione per Barbera, non solo compie ventisei anni ma procede attraverso un percorso narrativo, strutturale ed esplorativo cbe, fra qualche settimana, si evolverà con l’uscita di un nuovo romanzo. A rileggermi e a ripensare a quel Gabriele mi viene un naturale senso di tenerezza. (pag.205) E bisogna aspettare il nuovo libro per capirne a pieno il senso. Bisogna spostare piani temporali. ‘Sorvegliato dai fantasmi’ è stato scritto da un poco più che Barbara Gozzi Mob +39 392 8055828 -­‐ barbara.gozzi@gmail.com

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ventenne con diverse idee in testa, storie, strumenti narrativi da testare, sperimentare, affinare. E’ stato scritto per essere tante cose in uno, nell’insieme che è poi diventato già dalla prima pubblicazione. Si tratta di una raccolta di racconti. Ma non ho intenzione qui di riprende l’ormai raggrinzita diatriba tra ‘romanzo si, racconti no’. Diatriba peraltro irrisolta, seppure le meravigliose statistiche di gradimento e vendita delle case editrici non lasciano spazio a logiche. Il mercato, in generale, non ha poi tutta questa voglia di teorizzare, gli basta instupidire, il più delle volte. Questi racconti però, che hanno avuto precisi riscontri già dalla prima pubblicazione (qui una sorta di rassegna stampa di PeQuod, primo editore), sono piccole tessiture imperfette che racchiudono generi, sensi e storie mai prevedibili, mai uguali tra loro, mai scontate o banali. “Se un romanzo costruisce un universo, un racconto crea un mondo. Gabriele Dadati, i suoi mondi, li costruisce con cura e abilità’ scrive Gianluca Morozzi nell’edizione per Barbera. E credo renda perfettamente l’idea che resta dopo la lettura.

I racconti scorrono in autonomia, sono indipendenti quanto variabili. In un certo senso si può affermare che accontentano anche ‘gusti diversi’. Il Dadati ventenne ha padronanza della penna, conosce la lingua, in parte se la flette a piacimento, ma soprattutto si mette alla prova con strumenti che sono tecniche e

strutture

della

narrativa

oltre

la

linearità

e

le

trattazioni

convenzionali. Dunque sapori, odori e intenti differenti. Ci sono gli sposi alla ricerca della felicità condivisa, i genitori che hanno perso l’ ‘io’ per un figlio amatissimo ma che in qualche sottile finestra scura, risveglia anche altro. Poi le indagini con annessi colpi di scena, scambio di identità e malattie. Perfino Max Pezzali, c’è, assieme all’ex compagno Mauro Repetto e ai sogni realizzati poi infranti. Ci sono lettere da prigioni, e prigioni tessute. C’è un’apocalisse annunciata a gran voce, vissuta oltre la fine poi disattesa, e portaceneri che sono schegge di ricordi e volti familiari persi.

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“E’ il nascondimento di uno scrittore’ spiega la voce dello stesso Dadati in questo video-presentazione per Booksweb.tv, “ I fantasmi del titolo sono degli io narranti diversi dall’ io biologico dello scrittore che vengono ad esigere che la loro storia sia raccontata”. E sono “storie di prove affrontate” conclude l’autore, storie – aggiungo io – di tappe, evoluzioni, scelte e conseguenze. Ed è sorprendente, l’ho pensato sin dal primo racconto, come un ventenne possa entrare in sentimenti così diversi, angoli che si, sono comuni ma a chi li vive o li ha vissuti come l’essere genitori, ma anche l’amare nell’impossibilità di stare insieme, o ancora rincorrere un amore, attendere una fine annunciata accudendo, ricercare e assecondare verità scomode, insomma tanti spigoli che Dadati coglie con una certa precisa onestà. Rara direi, molto rara. Per età, crescita, e approfondimenti. Altrettanto stupefacente è la capacità di ogni storia di ‘riempire’. Non che i sospesi manchino, anzi. Nulla si esaurisce, non soltanto per la lunghezza della narrazione ma anche per una sorta di visione d’insieme che riconosce le numerose variabili nelle storie e si sofferma solo su alcune. Questo fa il narratore, i fantasmi che (rac)colgono e sussurrano a personaggi addormentati quanto al lettore, chiunque esso sia, ovunque. Una particolarità, elemento ‘curioso’ forse, anomalo di questa edizione per Barbera, è la necessità dell’autore di farsi presente, oltre i fantasmi e le storie in sé. ‘Necessità’ l’ho definita io, perché è così che mi è arrivata leggendo. C’è la già citata ‘nota alla nuova edizione’ ma anche uno scritto, l’ultimo non credo a caso, intitolato ‘Dovuto alla madre. Una lettera di dedica’. Tra queste pagine, in pratica le ultime otto su duecentosei, mi sembra siano diretta espressionedel Dadati autore contemporaneo alla nuova edizione, scrittore ma anche essere che si espone, lascia parole che sono le sue, parlano di ciò che è oggi, che era, di ciò che è diventato o dove si tende mentre scrive, tra ricordi e volontà. Non conosco personalmente Dadati, eppure tra le righe qualcosa, piccola nervatura guizzante, sembra lasciarsi sfiorare.

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Decidendo di scriverti invece mi costruisco lo spazio per chiarire i motivi per cui questo libro è tuo, e il primo motivo è questo: il libro che hai tra le mani è una restituzione. Queste storie pagano quelle che hai speso per me, su di me, quando ero piccolo. (pag.201 – Dovuto alla madre) E non c’è nessun bisogno che sia io a far notare come queste pagine diventano anche incursioni in una sorta di privato dell’autore, lo dicono le parole, il periodare, l’intimità che quasi pare violarsi nel momento stesso in cui viene letta. Eppure è anch’essa parte del libro, ne è elemento aggiunto forse, valore che si affianca alla pura narrazione, alle storie nate da digitazioni ed elaborazioni, scritture e riscritture, sebbene. Anche questa è una storia, un’altra. I racconti sono strutture adattabili. Dunque vanno bene tra creme abbronzanti e bagni, quanto entro pause caffè o pranzi in piedi al bar. Di notte, sotto le coperte con la stanchezza che già pulsa sulla fronte o la mattina presto col caffè bollente tra labbra indolenzite. Questi racconti impastati da Gabriele Dadati chiedono, però, qualche attenzione in più, rispetto alle storie che generalmente si decantano in questo periodo, d’estate intendo, in vacanza possibilmente (ammesso che in agosto si possa davvero non lavorare, tutti insieme appassionatamente). Richiedono un pizzico di attenzione perché celano spunti, dettagli e intenti. Non ancora così stratificati quanto, credo, nei prossimi scritti ma abbastanza da essere. Compiuti e intensi. Tecnicamente la scrittura di Dadati ha già in questi racconti tratti caratteristici. Accenni in alcuni casi. Eppure importanti per ciò che era e forse sarà, virando o potenziando. Le ripetizioni o meglio, l’abile uso di parole che si ripetono ravvicinatamente acutizzando percezioni e sensi. Poi, durante il dicembre scorso, ha scoperto come muoversi nel buio e dove potesse portarlo il muoversi nel buio perché le porte della sua camera e della Barbara Gozzi Mob +39 392 8055828 -­‐ barbara.gozzi@gmail.com

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nostra camera si fronteggiano ed entrambe restano aperte la notte. Così, visto che c’era un calore speciale tra il corpo di Roberto e il mio, ha deciso di abitare quel calore, di tornare in possesso di quel calore che, si può dire certamente adesso che mi viene in mente, è proprio il calore da cui è nato. Quel calore, questo calore, perché parte esattamente da qui, … (pag.10 – Vittorio si è scavato una nicchia) Anche le parole, alcune in particolare, tendono all’emersione, si tendono nel tentativo – forse - di farsi notare più di altre. Credo che la più prepotente, tra le diverse storie sia ‘corpo’(e le sue declinazioni), prepotente e quasi onnipresente. Una partenza che è eredità. Un’altra che fa capolino, ancora acerba è ‘male’, ma anche ‘l’uomo’, ‘tempo’, ‘pioggia’, ‘idea’, ‘morto’, ‘calore’. Dadati ha lavorato molto, con le parole, si sente la ricerca, l’accuratezza. Non mancano i simbolismi, tra le storie, alcuni più evidenti e forti di altri. Dadati si avvale di azioni, situazioni, gesti e personaggi, per lasciare ogni tanto altri messaggi, sensi che non solo finalizzati al racconto in sé. Una cosa che mi fa impressione è aspettare su una banchina lungo un binario, stando al di là della linea gialla. Poi passa velocemente il treno in transito e se rimango fermo ho di fronte al volto un mentre di grande moto in cui se mi buttassi contro il fianco del treno verrei rimbalzato, a terra, rotto. Invece un attimo dopo il treno è passato, tutto è nuovamente fermo. Il fatto che non ci sia una gradualità del passaggio tra i due stati, il moto e l’immobile, è quello che mi riesce a impressionare. (pag.59 - Portacenere)

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Gabriele Dadati: 'Il libro nero del mondo' articolo del 10 settembre 2009 ‘Il libro nero del mondo’ si trascina echi, aspettative precise. Tangibili. E’ un titolo pesante sotto molti punti di vista, richiama altre produzioni letterarie, altri ‘libri neri’ che negli anni si sono insinuati lasciando o meno tracce. Ma ‘il libro nero del mondo’ è un romanzo, non ha pretese documentaristiche, non ‘saggia’ realtà, piuttosto le flette, ne impasta schegge ‘vere-verosimili’ con altre oniriche che sono invettiva quanto carne. Il primo elemento che colpisce è un nome. Gabriele. Non tanto per gli echi biblici, non solo. Piuttosto per il duplice ruolo in esso racchiuso: autore e protagonista. Non è il primo libro di recente pubblicazione che ‘lavora coi nomi’, forse ha un senso, forse no. Scegliere il proprio nome, proprio dell’autore, per il protagonista di una storia è una volontà precisa io credo. Necessità forse, di mantenere attraverso tempo e scritture, un contatto, di insistersi. Volontà che già un altro autore italiano contemporaneo ha espresso in un’uscita di quest’anno. Gabriele Lazzari è un regista alle prese con un lungometraggio impegnativo, dai sensi sfuggenti. Giovane, ma pieno di idee, ossessionato dalle immagini, dagli incastri tra dinamiche e percezioni, lavora sodo a una storia difficile sui moderni cannibali. Ma Gabriele è atteso per un altro ruolo, qualcosa di inaspettato, imposto. L’attore (in passato amico) protagonista del lungometraggio sparisce, ed è proprio per ritrovarlo che Gabriele finisce risucchiato da una spirale dominata da un ‘uomo’ che sente chiamate divine nella testa, e per assolverle, per fermare il male, uccide. Gabriele ne diventa l’osservatore, è trattenuto per tramandare, per registrare intenti, gesti. E da questo neo ruolo imposto, da ‘arcangelo metropolitano’ come lo ha definito Marcello Fois, fuggirà portando con sé altri sensi, ricostruzioni di realtà impastate da Dadati i cui ingredienti sono cronaca e vissuto. Mi soffermo sull’annotazione chiedendo direttamente all’autore: Barbara Gozzi Mob +39 392 8055828 -­‐ barbara.gozzi@gmail.com

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Gabriele è nome proprio che ne ‘Il libro nero del mondo’ acquista un peso specifico. Perché questa scelta? Da dove arriva l’esigenza di ‘collegare’ te in quanto autore con il protagonista (se di questo si tratta, di collegare)? Dov’è il confine tra ilGabriele che scrive e quello che dentro una storia, respira e vive? “Gabriele Lazzari, il protagonista de Il libro nero del mondo, ha un nome necessario: Gabriele è infatti il nome dell’arcangelo che annuncia a Maria la futura nascita del Cristo e il mio romanzo è, a modo suo, un romanzo mariano. Dal punto di vista del profilo biologico e professionale non condividiamo quasi nulla. Lui ha infatti una quindicina d’anni più di me, fa un mestiere che non è il mio, è sposato come invece io non sono e così via. Per divaricarlo il più possibile da me ho tra l’altro scritto il grosso del romanzo in terza persona. C’è invece, nell’ultima parte, un personaggio di cui non conosciamo il nome che prende la parola in prima persona e che condivide con me una serie di cose (ma anche questo personaggio è sposato ed è pure padre, cosa che io non sono). Questo personaggio si fa portatore di una serie di istanze che io sottoscriverei, ma resta senza nome anche perché possa essere “riempito” dalla personalità di ogni lettore, che forse potrà sentirselo così vicino. – È vero però che in Gabriele Lazzari ho disseminato qualcosa di mio: ad esempio, per dirne solo una, Lazzari è uno che si veste un po’ come gli capita, il che è quello che faccio sempre anch’io.” La lingua di questa nuova creatura è per Dadati espressione di una crescita importante, e se il termine ‘crescita’ pare svalutato, scontato, resta ‘evoluzione’. E’una lingua che gioca, con se stessa e il lettore. Che si avvale di tecniche miscelate con sapienza, che usa le parentesi per narrare sequenze su piani temporali diversi rispetto alla narrazione principale. Che fonde strutture, dove le scene hanno echi cinematografici oltre la mera spettacolarizzazione creativa. Dove ci sono parole che ricorrono, parole con un peso specifiche sotto i significati superficiali e che riaffiorano rosicchiando il lettore con pacata insistenza. Poi ci sono i sogni, il piano onirico dove si mescolano messaggi, codici e proiezioni di realtà, visioni trascinanti. Fino ai fantasmi, l’ultra-terreno Barbara Gozzi Mob +39 392 8055828 -­‐ barbara.gozzi@gmail.com

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che è comunque carne, acquista materia svelandosi, accettando un contatto con il protagonista ma soprattutto col lettore che sbircia, attende, afferra. L’intera narrazione è una sequenza materiale e im-materiale. Gesti che sono un ‘esterno’ espressione (anche) dell’interno. Corpi che si muovono. Azioni semplici poi assemblate. E attra-verso, tra, con la carne, emergono poco alla volta quei sensi che sono intenti ma anche sentimenti, scelte, bisogni. Male. E proprio su quest’ultimo – sul male – chiedo a Dadati: Mi parli di questo ‘male’, delle sue sfumature, dei livelli? E’ un ‘male’ che avevi addosso, programmato tra le righe, oppure alla fine la storia te ne ha riconsegnato sfilacciature inaspettate? Ma anche: il libro nero del mondo restituisce, tratteggia, il ‘male di tutti’ o lo deforma amplificandolo attraverso, con, dentro il male stesso? “Il male di cui parla Il libro nero del mondo è una categoria che mi pare di aver intravvisto esistere nel mondo e non è qualcosa di metafisico o inspiegabile: è costituito dalla somma del contributo che i singoli uomini, consapevoli o inconsapevoli, portano al male attraverso le azioni che compiono. Ma questo non è un problema, perché anche per il bene può essere lo stesso, anche il bene può esistere nel mondo come la somma del contributo che i singoli uomini portano tramite le loro azioni ed equilibrare così il male, magari addirittura superarlo. Il libro nero del mondo però è stato scritto pensando che siamo arrivati a un punto in cui si fa molto più male che bene. La soluzione, se una soluzione c’è, è stata collocata fuori dalla comunità degli uomini: la soluzione, non il problema, è metafisica e viene affidata a un lato femminile salvifico. A patto naturalmente che si scelga di affidarsi a questo lato metafisico femminile, che è poi Maria, nata nel mondo ma assunta in Cielo, e per questo interlocutore del nostro stare nel mondo. Io ho pensato di scrivere questo libro perché sentivo quest’onda mugghiante che cresceva e mi veniva incontro. L’ho fatto perché sono uno scrittore, ma forse avrei potuto farlo in diversa forma se fossi stato un filosofo o un teologo.” La lettura, dunque, richiede ascolti trasversali. Le storie si incastrano, scivolano tra strumenti apparentemente diversi per poi fondersi. C’è la storia dei Barbara Gozzi Mob +39 392 8055828 -­‐ barbara.gozzi@gmail.com

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cannibali, storia che attinge direttamente dalla cronaca, ad oggi (agosto, settembre 2009) basta digitare ‘cannibali’ su un motore di ricerca per rintracciare notizie come questa o questa, e questa. Poi c’è la storia di un uomo ‘qualunque’ che di mestiere vorrebbe fare il regista per il cinema e ci sta provando, sposato con una donna che ama in modo non convenzionale, una donna amante dei raduni new age e che Gabriele cerca con la fisicità della passione che è carne e altro. Ma anche la storia di un fantasma, che appare nel giardino del protagonista, fugaci visioni spiazzanti prima di svanire, ogni tanto piange questo fantasma, fino ad assumere precise sembianze, necessarie. E naturalmente la storia di un ‘uomo’ che si sente addosso una chiamata divina, che

sente,

vede,

assorbe

e

rifiuta Il

Male che

sta

contaminando

irrimediabilmente il mondo, rendendo tutto blasfemo, inutile, insopportabile. Proprio per combattere questa insopportabilità, l’uomo asseconda la chiamata, e chiede aiuto all’unica persona che gli sembra capace di ascoltare, che spera possa capire, questa lotta disperata che è male nel male, che lo cerca, il male, fino alla trasumanazione finale, la morte. Tante storie insomma, volti diversi che ruotano concentrici. E personaggi che racchiudono piccoli universi parti del messaggio. Alice, la segretaria di edizione, Ruggero, l’aiuto regista, Nicole, la moglie, Marco Sernesi, l’ex amico attore, Maria che è figlia e altro. Il romanzo è diviso in tre parti, richiami danteschi a Purgatorio, Inferno e Paradiso. Richiami a gironi che si perdono negli sviluppi, tra inquadrature e cambi di scene, come già in passato fece (con modalità e sviluppi diversi) un altro giovane autore italiano contemporaneo. Ma, se ‘Purgatorio’ e ‘Inferno’ hanno legami diretti tra loro, negli sviluppi, tra tentacoli che affondano nelle voci; ‘Paradiso’ rotola spostando drasticamente inquadratura, pur non virando completamente impone al lettore un radicale cambio di visuale, il punto di vista di ‘un’ altro personaggio-essere-autore (autore del ‘libro nero del mondo’, non di qualcos’altro, proprio di questo stesso romanzo) che qui narra in prima persona scalzando il narratore esterno già, in realtà, parzialmente detronizzato dalle mail del Gabriele-regista che dall’Inferno tenta in ogni modo di non perdersi completamente. ‘Paradiso’ è, in effetti, uno stacco che spezza, urta. Racchiude una (non) conclusione, prende per mano il Barbara Gozzi Mob +39 392 8055828 -­‐ barbara.gozzi@gmail.com

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lettore in una passeggiata-scoperta di una tranquilla dolcezza disarmante. Dolcezza che non è assoluzione, non forza eccessi né cerca risoluzioni scontante. Tutt’altro. “Gli angeli si addormentano nella schiena del tempo” (pag.195) lo dimostra. “Il momento storico brutalizzato” di cui parla il narratorepersonaggio ormai in chiusura di scena, non è ‘fine’, o arrivo. E’. Esiste. Resta. Si aggrappa. Deve perché è questo, forse, uno dei sensi più forti del romanzo: il riconoscimento della deformata realtà in essere, oltre pagine e tessiture di parole. L’apocalisse riveste un ruolo preciso, in questa romanzo. Apocalisse che probabilmente è tematica ricorrente per Dadati, ossessione (forse) o ricerca, avendone già scritto in un racconto contenuto nella raccolta ‘Sorvegliato dai fantasmi’ pubblicata in ultimo da Barbera, seppure di altra ‘attesa’ si tratta, di una non fine che smaschera, nel racconto, piuttosto che annunciare. Nel romanzo invece, che di rivelazione si tratti è indubbio, la si preannuncia velatamente già nel ‘Purgatorio’. Quando tutta questa storia sarà finita, e cioè quando inizieranno a piovere rane, Gabriele… (pag.73) E le rane arrivano, tra Inferno e Paradiso, non si fanno solo annunciare. Fino all’atto finale, finché ‘tutto’ entra in una Chiesa, avvolto (questo ‘tutto’) dalle parole di un santo che echeggiano tra morti, fede, male, e sangue. Sensi che forse confondono, forse no, si aggrappano all’“inesauribile superficie delle cose”, scavano.

Parole chiave, ripetizioni pressanti che acquistano peso e sensi procedendo negli sviluppi. Male e corpo (corpi) più di tutti. Male che ossessivamente torna, si insinua, entra nella lingua quanto tra inquadrature. Barbara Gozzi Mob +39 392 8055828 -­‐ barbara.gozzi@gmail.com

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Poi corpi, materia pulsante, viva nel suo essere tangibile, carne anche animalesca. Perché questo

male,

che

nel

romanzo

emerge

gradualmente,

ha

anche sfumature erotiche, dove la carne si cerca, anela piacere e mescola percezioni. C’è un preciso erotismo, tra alcune piaghe della storia, che non mira ai riflettori, ‘è’ in quanto sfumatura, venatura dello stesso frutto acidoamarognolo che ha spigoli teneri, succosi, eccitanti in modo animalesco. Ma la differenza probabilmente sta proprio nella scrittura, nel modo scelto da Dadati per raccontare, un modo che leggendo ho pensato femminile, nelle delicate eppur puntuali, forti spennellate che ricreano atmosfere senza scadere nel crudo fine e se stesso (e in questo approccio, mi sembra ci sia una vicinanza rilevante, importante per le comprensioni, con altri autori italiani contemporanei come Marco Mancassola di cui tratterò qui prossimamente ‘La vita erotica dei superuomini’). Il corpo della ragazza è proiettato in avanti, tiene le braccia allacciate dietro la nuca di Gabriele e si alza quasi in punta di piedi. La sua bellezza cresce momento dopo momento mentre si baciano, la pelle si illumina e i lineamenti sono definitivamente lisci. Hanno entrambi gli occhi chiusi e le sensazioni liquide aprono i loro corpi a partire dalla bocca. La luce entra. Il bacio che si danno discende all’interno, convoca ogni organo: che partecipa. Una marea di sangue monta fino alle tempie, i genitali sono irrorati, la meccanica dei tessuti obbedisce a un desiderio condiviso. La luce artificiale mostra lembi di pelle sempre nuovi mano a mano che vengono scoperti. Si confondono il dentro e il fuori di ognuno dei due corpi. Il collo della ragazza si allarga fino a comprendere le spalle e si allunga fino a scoprire il seno. Gabriele lo bacia e poi lo morde. (pag.46-47) Da notare, nel breve stralcio sopra, l’uso della parola ‘corpo/i’. E le ripetizioni, qui appena accennate, in altri passi decisive. I termini che ritornano, in questo romanzo sono precise voci, sottolineano con modalità più o meno insistenti, parole che sono sensi, sotto-livelli, incastri. E’una scelta rischiosa, che però nel Barbara Gozzi Mob +39 392 8055828 -­‐ barbara.gozzi@gmail.com

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linguaggio scelto da Dadati calza, sta. Ripetere, insistere, per dare forma a un ritmo, una cadenza oltre lo stile, le strutture, per svelare una sostanza. Altre key abbastanza evidenti: morte, libro, uomo, sogno, fantasma, sangue. Che l’ultima parte, ‘Paradiso’ sia diversa dalle precedenti, l’ho già chiarito. Ma c’è un altro fattore, parallelo al narrare, che contribuisce in modo prepotente alla diversità. L’inserimento di immagini che sono fotografie bambine, scatti rubati alla (de)crescita e inseriti tra parole che si assottigliano, si tendono fino alla trasparenza, restituiscono livelli. L’effetto è quanto meno di amplificazione, destabilizzazione di ciò che il lettore può aver assorbito o tentato di capire in precedenza. Il connubio tra storie scritte e fotografie (o comunque immagini) non è novità eppure nella narrativa contemporanea tende alla svalutazione, diventa quasi eccesso inutile, stravaganza che svilisce le parole o il contrario, scatti mortificati da un contesto dove l’immaginazione domina e ruba attenzione e scena. Eppure, in questo come in altri libri (mi viene in mente ancora Marco Mancassola ne ‘Il ventisettesimo anno’, Minimum Fax) il valore aggiunto, ciò che trasmette l’unione, mi pare sorprendente. Sono miscelazioni certo, che attendono interpretazioni. Eppure leggendo e osservando, osservando e leggendo è come se ‘Paradiso’ si elevasse suo malgrado. E’ come se si respirasse un’aria diversa, sin dalla prima riga che non svela nulla, non porta certezze. Sono altre, le certezze che il lettore acquisisce via, via. Mi confronto allora, con l’autore: Nel grande e variegato mercato editoriale, raramente sono state ‘perdonate’ le miscelazioni. La narrativa dev’essere parole e periodare.Per le immagini e altre forme più o meno creative, ci sono pubblicazioni specializzate. Puoi spiegarmi le ragioni che hanno portato alcune foto, precise e mirate secondo me, a ‘contaminare’ l’ultima parte del romanzo, Paradiso? “Le sei fotografie che sono state inserite nell’ultima parte ritraggono un bambino – lo stesso bambino – che ha dapprima quattro anni e mezzo, poi quattro, poi tre e così via fino ad avere, nell’ultimo scatto, pochi mesi. Questo perché volevo suggerire, senza usare le parole, che l’ultima parte è anche una Barbara Gozzi Mob +39 392 8055828 -­‐ barbara.gozzi@gmail.com

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regressione all’infanzia: per questo il bambino “decresce” invece che crescere. L’ultima fotografia di questo bimbo, che potenzialmente è ognuno di noi, cade nella terzultima pagina, dove si racconta di una messa di Natale in cui viene esposto il bambin Gesù (una statua in legno del bambin Gesù) perché i fedeli possano adorarlo. Il messaggio è allora che c’è la speranza del ritorno all’innocenza, che questo ritorno non è precluso. Non so se questa miscelazione sia imperdonabile. Forse però non è del tutto accessibile il messaggio che porta con sé, e questo potrebbe anche essere un problema.” Ho un’ultima curiosità-confronto, in parte già accennata in precedenza: Il corpo, i corpi e le loro porzioni, sono secondo me personaggio-sottolivello, in questo romanzo. Son un ‘attraverso’ ma anche un ‘essere’. Me ne vuoi parlare? Quanto sono importanti e cosa tentano di ‘lasciare’, trasmettere, tra le maglie di una storia che spinge, preme sulle emozioni? “Se devo dire in cosa credo, be’, io credo in molte cose. Ma se devo dire di cosa ho certezza, la cosa è una sola ed è proprio il corpo, con le sue parti e i suoi gesti. I corpi stanno nel mondo e sono veri: tutto il resto (l’anima come l’intelletto come i pensieri come i sentimenti e così via) noi non lo vediamo e non abbiamo certezza che stia nel mondo. Tra gli ultimi paragrafi de Il libro nero del mondo c’è anche questo: “Se scavassimo con le mani per cinque secoli di seguito troveremmo la più grande grotta di cristalli che si possa immaginare. Ma il corrispondente punto della crosta terrestre dove è iniziato lo scavo alla fine sarebbe devastato. Solo in quel momento capiremmo che lì stava il senso. Nell’inesauribile superficie delle cose”. In questo paragrafo sto parlando anche del corpo: il corpo va valorizzato nella sua bellezza, nella sua sensualità, nella sua forza, perché noi siamo il nostro corpo. È un errore accordare un privilegio assoluto all’interiorità trascurando e mortificando il corpo. Dice un sintagma di Ferdinando Cogni: “siamo anima e corpo in una volta sola”. Credo avesse ragione.” Barbara Gozzi Mob +39 392 8055828 -­‐ barbara.gozzi@gmail.com

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Ringrazio Gabriele Dadati.

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Gabriele Dadati: 'Piccolo testamento' articolo del 25 agosto 2011 Esce il 2 settembre 2011, il nuovo romanzo di Gabriele Dadati,‘Piccolo testamento’, per Laurana, nella collana Rimmel (pagine 128 a euro 12). Basta l’incipit, a spiegare cos’è questo libro e quali intenzioni ha l’autore: “È la prima volta che sogno Vittorio da quando non c’è più. In genere è raro che al risveglio ricordi i sogni, ancora più raro che abbiano a che fare con qualcuno che amo e se proprio succede non è mai uno dei miei morti. A parte questo s’è trattato di un sogno che non valeva niente, completamente privo di azioni: c’eravamo solo noi due, io seduto e Vittorio in piedi. Lui indossava un completo sportivo e la cravatta scura, io non so. Mi piacerebbe dire che aveva un’aria particolare, che nel suo sguardo c’era un grado di consapevolezza che non ho mai misurato nello sguardo di nessuno, ma non è così. Lo sguardo di Vittorio era consapevole quando era vivo, mentre nel mio sogno era solo sconsolato. In più non siamo riusciti a scambiare nemmeno una parola e anche questo non mi pare sia granché”.

‘Piccolo testamento’ è la storia d’un lungo monologo, una voce prende per mano il lettore e lo accompagna in un viaggio che sembra breve per lunghezza del libro (sono centodiciassette le pagine effettive del narrare) ma anche breve rispetto all’arco temporale in cui si svolge la narrazione principale un’afosa notte di giugno, è questo il contesto in cui il protagonista-narratore preso dall’insonnia, ricorda, incastra pensieri, consapevolezze, a portare a galla la morte di Vittorio (peraltro già presente nell’incipit) e la separazione da Marta. Due nodi centrali, insomma, (la perdita dell’amico che è stato anche la guida, l’interlocutore preferenziale, ma anche l’amore impossibile da trattenere sostituito coi molti corpi nei quali cercare il piacere estermporaneo) nella vita di Barbara Gozzi Mob +39 392 8055828 -­‐ barbara.gozzi@gmail.com

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questa voce che narra alternando piano temporali, mescolando flussi interiori a macro tematiche del vivere. Si tratta di una storia, quella del protagonista, eppure dentro si rintracciano facilmente aderenze che esulano dalla mera intimità del singolo. Malattia, morte, affezioni, legami fragili eppure profondamente durevoli, crescita personale quanto intellettuale, necessità di dire, dialogare, ascoltarsi e ascoltare: tutto questo e molto altro si contorce in questo libro che espone, nel suo processo creativo, alcune accomunanze col vivere dell’autore stesso. “Alla base del libro c’è un lutto reale” - scrive Dadati nelle note finali - “che è stato per me particolarmente doloroso. Avrei preferito non doverlo affrontare, e non mi illudo che scrivere un romanzo possa costituire una forma di risarcimento.” Inoltre, il narratore è un giovane non ancora trentenne che lavora nelle

larghe

maglie

dell’editoria e

Dadati,

classe

1982,

rientra

evidentemente nella categoria sebbene ritengo che questo romanzo non sia parte delle recenti dinamiche italiane attribuite alle c.d. ‘autofiction ombelicali’. Tra l’altro per Dadati non è il primo romanzo in cui innesca dinamiche di vicinanza tra se stesso e il proprio personaggio. In ‘Il libro nero del mondo’ il regista protagonista si chiamava per l’appunto Gabriele. E ci sono, in quest’ultimo libro, evidenti nodi che l’autore ha assorbido direttamente, la morte di Vittorio è narrata con un’intensità, un trasporto e una maturazione che difficilmente possono essere attribuiti al mero meccanismo di immedesimazione o trasposizione a cui può ricorrere l’autore laddove non c’è vissuto diretto a cui attingere. Anche senza la nota finale, ritengo sia pulsante nel narrare che il dolore, lo spaesamento, la mancanza, la ricerca di chi non c’è eppure è; tutto questo innesca meccanismi ‘forti e chiari’, inequivocamente figli di grovigli di emozioni e accadimenti che, in primis, hanno coinvolto l’autore e che poi sono entrati nel narrare diventando ‘altro’, esattamente come nelle contemporanee dinamiche innescate da talune autofiction, più esattamente a Barbara Gozzi Mob +39 392 8055828 -­‐ barbara.gozzi@gmail.com

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mio avviso entro una necessità - un’urgenza - che nella letteratura italiana contemporanea si manifesta con intensità crescente negli ultimi anni in alcune scritture e in alcuni romanzi. Evidentemente anche gli svolgimenti di questo romanzo, a unire in un legame indefinibile il narratore e il personaggio di Vittorio, intellettuale cinquantenne, hanno radici profonde nel vivere di Dadati, quali che siano, queste radici, poco importa a chi si ritrova questo libro tra le mani. Importa, invece, che il patto di finzione di questo romanzo possa - possa - colpire duro anche per la sua matrice concreta, figlia o nipote o cugina di schegge direttamente prelevate dal vivere dell’autore, in un’operazione molto più complessa di quanto possa apparire, da ‘piccolo

chirurgo’

consapevole

che

rielabora,

decodifica

e

vomita.

___ “Non lo so. Posso avere delle idee, ma non lo so”, mi aveva detto. “Mi piacerebbe fare una prova, vedere se fare una mappatura di questi testi serve a qualcosa. Le descrizioni in un romanzo sono antieconomiche, non fanno progredire la storia e rallentano la naturale caduta del lettore nel precipizio della trama. Mi sembra commovente che qualcuno cerchi di riesumarle e lo faccia soprattutto descrivendo il corpo, che è forse il dato superstite a cui ci si può ancora aggrappare quando tutto il resto è andato a rotoli”. Il suo, di corpo, avrebbe cominciato a farsi macerie non troppi mesi dopo, in aperta contraddizione con l’idea che, quando il resto va a rotoli, proprio al corpo ci si può aggrappare con successo. (pag.22) ___ Non sono vere e proprie sottotracce, queste percezioni ‘collettive’ infilate nel narrare, e non lo sono, a mio avviso, perché in diversi momenti Dadati espone con una certa trasparenza logiche, ragionamenti e contesti che - sebbene messi in bocca ai personaggi o al narratore - restano in un evidente stato di esclusione dalla trama in sé, dalle dinamiche specifiche della storia specifica. E c’è, in Barbara Gozzi Mob +39 392 8055828 -­‐ barbara.gozzi@gmail.com

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questa scrittura, l’aroma della consapevolezza, come era evidente in altri romanzi e scritti di Dadati, la consapevolezza di chi tenta di avvalersi della lingua per lavorare coi contenuti, per esporre ‘noccioli’. Delle corporeità nella narrativa italiana contemporanea, Dadati si era già occupato nel già citato ‘Il libro nero del mondo’, nella misura in cui la sua scrittura resta ancorata a corpi e carni. In quest’ultimo libro s’avverto lo scarto, il passo successivo, ovvero l’esposizione delle consapevolezze, degli ascolti verso percezioni che accomunano diversi autori italiani in questo Oggi contradditorio e artisticamente convulso, in un’Italia che è somma di tante differenze quanto negazione di creatività e capacità critiche. Dunque corpi che dicono ma anche corpi che s’ammalano, corpi che essendo ciò che sono delineano i confini di un’esistenza, corpi usati per il soddisfacimento di piaceri e pulsioni quanto corpi esposti nelle piaghe più urticanti e scomode, corpi a ricordare ciò che resta oltre ogni possibile perdita ma anche ciò che più si può perdere. ___ Adesso che sono in piedi da un po’ il caldo soffocante di quando ero a letto s’è fatto più leggero. I piedi nudi stanno sulle piastrelle chiare. Appoggio i gomiti al bancone e con le mani sfoglio la piletta di bozze ancora da correggere. (pag.35) Spengo il neon della cucina. Attraverso la sala, vado alla portafinestra e finisco nel piccolo balcone che dà sulla strada. Oltre alla sigaretta e all’accendino ho di nuovo in mano il bicchiere recuperato dalla vasca più grande del lavello. L’ho riempito un’altra volta d’acqua. Fumare mi aumenta la salivazione e subito dopo arriva la voglia di bere per sciacquare la bocca. Appoggio il bicchiere sul motore esterno del condizionatore, metto la Marlboro in bocca e la accendo. Mi appoggio con gli avambracci sulla ringhiera di metallo coperta di vernice marrone ormai scortecciata. (pag.56) ___ Barbara Gozzi Mob +39 392 8055828 -­‐ barbara.gozzi@gmail.com

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Un romanzo che dice e contraddice, che espone e ricuce, una voce che narrando s’insinua in angoli non sempre comodi, più spesso alla ricerca di quell’unico granello di polvere fuori posto o nel posto sbagliato. ___ È stato tumulato nel quarto campo del cimitero cittadino, in un forno della cappella di famiglia, al terzo livello. Non un granché, com’era giusto aspettarsi, poiché Vittorio aveva origini umili. Il giorno della sepoltura, che nel mio ricordo è un giorno caldo di metà maggio, con una luce smaltata che descrive i dettagli di ogni cosa e un generale senso di attesa nell’aria, il loculo è stato chiuso con uno sportello in plastica più piccolo del dovuto, in attesa che il marmo fosse pronto. La presenza del corpo di Vittorio là dentro era segnalata solo da un foglio A4 che riportava la foto del suo volto in bianco e nero e sotto il suo nome, le sue due date e la sua città, città dove è nato, vissuto e infine morto. Immagino che ora quella plastica non ci sia più, che il marmo sia stato collocato correttamente e che lui possa sorridere dal suo ovale mentre s’è ormai dimenticato di questa terra. Lo immagino ma non posso saperlo, perché non ho più messo piede al cimitero da quel giorno, non lo desidero e neanche credo che lo farò tanto presto. Non c’è più niente di Vittorio lì, non c’è niente di nessuno, e non è un luogo del ricordo, non è niente. (pag.82-83) ___ Innegabile anche in questo come nel precedente, le aderenze tra le percezioni e le esposizioni del corpo con la dimensione della sessualità, dell’eros anche fine a se stesso quanto la visione del proprio corpo entro le necessità pratiche proposte come legittime (non contaminate da etiche o morali riconoscibili nella scrittura), considerate parti del vivere stesso. ___ A questo punto penso che potrei masturbarmi e vedere se per caso mi rilasso abbastanza da riprendere sonno, anche se si tratta di una possibilità in cui ho smesso di credere. Tuttavia queste pubblicità attraggono la mia attenzione, così Barbara Gozzi Mob +39 392 8055828 -­‐ barbara.gozzi@gmail.com

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le guardo con curiosità e quasi con divertimento senza trovarci dentro niente di eccitante. Sarebbe meglio andare di là, da Camilla, levarle il lenzuolo di dosso e scoparla

il

più

in

fretta

possibile.

Immagino

che

le

farebbe

pia-

cere. Allargarla con le dita, leccarla e andarle dentro subito. Ma poi sarebbe sveglia anche lei, dovremmo scambiare almeno qualche parola, forse tenterebbe addirittura di baciarmi e questo sarebbe insopportabile. Così l’idea di tornare in camera da Camilla è senz’altro da scartare. (pag.89) ___ E c’è spazio, c’è sempre stato spazio fin ora nelle scritture di Dadati, per l’amore che non si chiama in nessun altro modo, lo si sente da subito devastante, nel bene quanto nel male. ___ Il primo ricordo che ho del rapporto con Marta è la mia gamba che struscia contro la sua, coscia contro coscia, poi le caviglie che si toccano, prima di tornare al loro posto. [...] Esistono delle cose belle nella vita, delle cose che tutti conosciamo, e i primi momenti di un innamoramento sono una di queste. Non vale la pena di aggiungere altro. Poi vengono i ricordi di tutto il resto, che alla rinfusa riempiono quattro anni. [...] Esistono inoltre delle cose brutte nella vita, delle cose che tutti conociamo, e gli ultimi momenti di un innamoramento sono una di queste. Per noi sono venuti un sabato sera. [stralci da pag.113-114) ___ Una scrittura a tratti disarmante nella sua semplice esposizione delle cose, ma anche lucida e coerente con le percezioni di un proprio Sé quanto un Io in bilico tra memorie e inquietudini presenti, volontà e mancanze, perdite che lo hanno inginocchiato e la precisa percezione che piegandosi e flettendosi le gambe possono ancora rialzare il busto e spostare tutto il corpo altrove.

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Marco Mancassola: 'La vita segreta dei superuomini' articolo del 1 ottobre 2009 In ’La vita erotica dei superuomini’, Mancassola impasta polvere fantastica con scaglie di unghie, filamenti di vene, croste, pulsioni. Sono storie che oscillano entro quel confine dolceamaro che unisce e separa l’immaginario fantastico attorno ai ’superuomini-supereroi’ e la carne, i corpi, le percezioni dell’essere e dover-voleressere seguendo il sottile filo delle aspettative altrui, l’invecchiamento, la resistenza ai cambiamenti, le affettività violente, scarnificanti e naturalmente il sesso. Eppure l’erotismo in questo romanzo che è più romanzi in uno in effetti, non è per nulla scontato, tutt’altro. E’ un eros fatto di atmosfere, carne e corpi a cui non importano poteri e se ci sono e si manifestano entrano nell’atto con naturalezza, trasformano l’eccezionale in normale (nella declinazione di ‘comune’, possibile e vivibile da chiunque). Sono storie, in fondo, che parlano dell’essere ’umano’, del vivere combattendo, mediando forse anche rinunciando a etichette, fuggendo dalle pretese altrui, dal passato da ’eroe’ poi crollato sotto il peso del tempo. E sono fughe che serpeggiano, nascondigli bui ma anche abiti di scena nuovi, confezionati su misura per celare il cuore che pulsa e sanguina e gesti che mutano i poteri/talenti in business show a uso e consumo dell’ossessiva curiosità della gente, del bisogno di stra-ordinario che infetta il mondo. Eppure i super-eroi nel 2006 non sono più ’super’ ovvero oltre, più, ecce-zionali men che meno ’eroi’, non salvano più, non compiono gesta eclatanti, non combattono il male. Il titolo suggerisce, secondo me, la principale virata della narrazione, la direzione dello scavo: la vita erotica dei superuomini. Che è anche un gioco linguistico, concettuale, simbolico. ’La vita erotica’, dunque storie pregne di eros e sesso, tutti elementi che in effetti ci sono pur non sconfinando nella Barbara Gozzi Mob +39 392 8055828 -­‐ barbara.gozzi@gmail.com

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condizione stantia, ristagnante, di essere fini a se stessi, l’abilità di Mancassola è sottile eppure sostanziale: evitare l’obbligo-ossessione di eccitare il lettore primariamente ( ormai smascherabile facilmente), evitare che la sensuale sessualità sia esposta, ostentata senza poi rimanere, ma anche sottolineare livelli, sensi, umori oltre la mera eccitazione veloce, usa e getta. Mancassola si concentra su corpi, gesti, percezioni, incastri, vibrazioni. Atmosfere. E mi sembra che lo esprima chiaramente Bruce Wayne: “Dicono che la seduzione inizia con la luce”, dichiarò compiaciuto dalla profondità della propria voce. “Un corpo brilla nella giusta luce. I corpi sono come pianeti, sanno brillare nel buio profondo”. (pag.271) Fermo qui l’analisi, allora, per il primo confronto con Marco Mancassola che al telefono, disponibile e paziente, risponde alla mie domande: Il sesso è evidentemente un ‘ingrediente’. Ma lo è in un certo modo pur non risparmiando termini o scene. Vuoi spiegare le ragioni di questa scelta, che è stata anche rischio rispetto alle potenziali aspettative da parte del lettore? Questo erotismo che scatena contatti, collegamenti tra i corpi, quanto è funzionale alla storia e quanto ai sensi? “L’idea iniziale era proprio sulla vita sessuale, erotica. Dal momento che le storie dei supereroi sono sempre state performance fisiche molto sterilizzate, asettiche, allusive ma in modo vago. A me interessava zumare sull’aspetto fisico, e l’erotismo è il sintomo più evidente della fisicità. Sul titolo del romanzo, in realtà, si è discusso molto con l’editore. Io non ero convinto, e tutt’ora non lo sono del tutto. Però c’è stata un mediazione. Ho insistito che nel titolo ci fosse il termine ‘erotica’ e non ‘sessuale’, perché l’erotismo per me è qualcosa di più ampio del sesso. L’eros è sottile, è una percezione che riguarda il desiderio, l’attrazione - in generale - tra corpi. E’ altro, oltre, il mero atto sessuale. Le Barbara Gozzi Mob +39 392 8055828 -­‐ barbara.gozzi@gmail.com

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scene sessuali hanno senso quando la storia lo premette, quando ne beneficia, quando il personaggio avanza in quella scena, il godimento generale della storia ne guadagna. Una scena sessuale sollecita di per sé, indubbiamente, ma a volte non aggiunge nulla. È importante invece quando ci si arriva davvero attraverso una tensione accumulata nel corso della narrazione, assieme al personaggio. C’è un parallelismo importante, tra il ritmo e la consistenza della narrativa e il ritmo e la consistenza del corpo. Io mi immedesimo nel corpo del personaggio, ci entro, e solo quando sento che ne ha bisogno, c’è il giusto climax, sviluppo scene di questo tipo.“ Concludendo le annotazioni sul titolo, resta ’dei superuomini’. Non supereroi, e la scelta non è casuale secondo me. I super-uomini possono essere anche eroi, in effetti, eppure la collocazione ’umana’ in questo modo è più evidente, forte, carnale. Oltre tutto, il gioco linguistico qui è netto, trattandosi in realtà di storie su-attraverso ’ex’ superuomini, eroi che nel 2006 (entro cui si svolge la narrazione principale) hanno ormai vite ’moderne’, il tempo li ha invecchiati, il ’mito’ o l’idea di, è decaduto, crollato assieme alle tecnologie e l’avvento del nuovo mondo, quello in cui vive anche il lettore oltre tutto, dunque un tempo in cui non c’è spazio per credere a Batman o Mister Fantastic e gli altri. Non c’è spazio per credere. Allora i superuomini che nell’invenzione letteraria sono sopravvissuti alle battaglie contro il Male (in maiuscolo in quanto creatura, entità qui astratta, senza volti o altre inquadrature materiali), resistono a modo loro, si ritagliano vite diverse, solitarie o esposte, dignitose o ridicole, tra chirurgia estetica e vecchie tute attillate, in bilico tra professioni comunque ’alte’ (che restituiscono una minuscola scheggia delle passate glorie) o comparsate in tv-circo. Ma i superuomini non sono solo nomi noti come il già citato cavaliere nero o l’universale superman. In una delle storie che fa da collante a quelle individuali degli ex eroi tradizionali, Mancassola dà vita a un personaggio normale ed eccezionale, con una famiglia e un passato altrettanto normali ed eccezionali. Anzi due personaggi, fratelli all’apparenza slegati tra loro, eppure poco alla volta, il ripetere dei nomi, questo loro ’tornare’ anche negli episodi degli ex eroi: Barbara Gozzi Mob +39 392 8055828 -­‐ barbara.gozzi@gmail.com

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li rende fondamentali per gli sviluppi e i sensi, collanti che si insinuano in quel confine tutt’ora invisibile tra l’essere e l’essere-di-più. A conferma di quello che mi sembra un intento in espansione nella narrativa italiana contemporanea, la parola più usata è c-o-r-p-o, eventualmente declinato al plurale e sfumato frequentemente in ’carne’ o singole parti di esso (mani, collo, braccia, piedi...). E’ un libro sui corpi. Su cosa sono. Su cosa diventano. Sui sensi che custodiscono. Su quanto possono esprimere, del dentro che la carne custodisce, assorbe, irradia e deforma. I corpi sono ossessione, scavo fondissimo, nocciolo duro e morbido, manifestazione del ’super’ che è nell’umano, nelle (in)finite possibilità dell’essere che è anche spingersi verso limiti

carnali

esprimendo

quelli

interiori,

volontà,

desideri,

bisogni,

disperazioni. Mancassola li usa, i corpi, senza giudicare. Sono loro, sempre i corpi, che compiono gesti, azioni, muovono scenari, procurano affezioni o disaffezioni. I corpi hanno poteri, tutti i corpi. E questo romanzo senza forzature o eccessi, vi avvicina sempre di più il volto del lettore. Crea connessioni. Sapeva che lei stava sorridendo. Pur non potendo vederla del tutto, e allora mosse una mano, e gli sembrò bellissimo, quasi commovente, che tra desiderio e azione potesse esserci un legame così semplice. Così immediato. Le sfiorò un seno. Seguì la curva della carne con meraviglia, con timidezza, e infine strinse, sempre più forte. Quando lei gli cercò il pene anche lui si sentì solido tra le sue mani, come non gli capitava da anni. All’improvviso si sentiva così vero, così definitivo, eccomi, ecco il mio corpo, non ho bisogno di allungarmi, non ho bisogno di deformarmi. Ecco il mio sesso tra le tue mani… (pag.16) Da notare i termini e le associazioni. Stava sorridendo. Mosse una mano. Desiderio e azione. Seno. Curva della carne. Strinse. Cercò il pene. Si sentì solido tra le sue mani. Il mio corpo. Il mio sesso tra le tue mani. Lei era Mystique. La donna sopravvissuta a sedici anni di prigionia. Aveva fame di corpi, non solo quelli in cui poteva trasformarsi, ma capiva che il problema Barbara Gozzi Mob +39 392 8055828 -­‐ barbara.gozzi@gmail.com

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non consisteva nei corpi degli altri. Era il suo corpo a essere ormai troppo distante, pressoché irraggiungibile. Il suo corpo mutevole. Il suo corpo solitario, orgoglioso, il corpo che non accettava di mischiarsi agli altri corpi, preferendo trasformarsi in essi, conoscerli senza toccarli. (pag.460-461) Non a caso insomma, tutti gli ex super-eroi scelti da Mancassola per animare questo romanzo hanno un rapporto preciso con la propria carne: Mister Fantastic ha un corpo di gomma, Batman ha sempre fatto del corpo una diretta espressione

delle

proprie

inquietudini,

ostentandolo,

coltivandolo,

mantenendolo tonico e desiderabile; infine Mistique lo può mutare, il corpo, per farlo diventare chiunque voglia. C’è perfino un personaggio, tra i non super-eroi, che ne ha due di corpi. Chiedo quindi all’autore: Mi parli del ‘corpo’, centro di molti nodi in questo romanzo? Cosa rappresenta per te? E cosa esprime la scelta di inquadrare con insistenza la carne, lasciandogli il compito di esprimere, dettare ritmi e percezioni? Pensi ci sia un’attenzione più viva e marcata, sui corpi, da parte della letteratura? “In questo libro come in altri, l’approccio ai corpi, è stato uno di quegli aspetti iniziati senza una precisa consapevolezza, poi me ne sono reso conto. Dopo, è diventato poetica. Anche in passato è stato così. Quando scrivo ci arrivo senza una precisa premeditazione, dopo però mi concentro sul corpo, lo faccio consapevole. Ora c’è indubbiamente più studio. Mi interessa che i corpi abbiano una dimensione cinematografica. Quasi come scene nei film, cerco di farli parlare

coi

gesti.

Normalmente

narrando

tendo

a

restare addosso al

personaggio, in modo da fargli poi raccontare le proprie percezioni. E la percezione è interna quanto esterna, dunque la voce che narra è dentro e fuori, emotiva e fisiologica. Molte delle reazione che hanno i personaggi sono fisiche per queste ragioni.

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Il corpo è uno strumento di narrazione, per me, come lo sono evidentemente i dialoghi o altro. Credo ne valga la pena. Concentrarsi sulla dimensione fisica significa anche, a volte, rivelare cose che il personaggio ancora non sa. In questo senso il corpo diventa un’altra presenza nella storia, che aggiunge. Nella coscienza di massa sta diventando un nodo centrale. Ammesso che non lo sia mai stato, che si sia perso. È una delle nostre espressioni. Capirne le implicazioni, letterarie e metaforiche significa anche esserne consapevoli. Tra l’altro è sempre più attuale, oggi, in Italia considerando le implicazioni politiche ad esempio, di gestione di corpi (femminili o meno). Tutto questo scatena osservazioni, ci si interroga sempre di più. E’ una forte ossessione, che la letteratura o altre forme artistiche non fa altro che cogliere, evidenziare probabilmente. Nella letteratura in generale, comunque, mi sembra che ci siano stimoli in proposito, forti interessi. Viviamo in una dimensione di performance totale, dove il corpo è praticamente tutto. Ed è strano come questa dimensione fisica - che è apparire quanto cura di sé - sia diventata estrema. Tecnica di sopravvivenza necessaria. Ne Il corpo delle donne (documentario di Lorella Zanardo – n.d.r.), ad esempio, emerge, è evidente, come i trattamenti chirurgici per talune donne sono effettivamente tecniche di sopravvivenza. Senza, non sono. Ed è anche ambiguo questo costante confronto estremo col corpo, verso i suoi limiti, diventa un processo di estraniazione. Il corpo diventa straneo perché oggettivo, perché i canoni da raggiungere lo sono, oggettivi. E la letteratura tutto questo lo sta assorbendo.”

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Un altro termine che ricorre, si sente pulsare nel corso degli sviluppi è ‘dolore’. Un dolore comunque mischiato alla carne, che dalla carne proviene e dirama, si alimenta, cresce, nutre, sfalda fino a distrugge. Un dolore che frantuma l’ipotetica perfezione super-umana e restituisce im-perfezione fragile, instabile. Dolore prolungamento del corpo, oltre i suoi limiti. Prevenire il dolore? Il dolore sbucava dal nulla, ti veniva incontro come una macchina dalla nebbia. Difficile riuscire a scansarlo. In realtà, bisognava ammetterlo, lo stato d’animo di quel periodo lontano sembrava svanire rispetto a come si sentiva attualmente. Il dolore fresco faceva sbiadire quello vecchio […] Qualcosa si stava risvegliando in lui. Una massa di dolore gelido, sinistro, un dolore tale da poter essere soltanto intuito, per ora, appena accennato. Lui non aveva smesso. Aveva proseguito, tremando, ridendo, singhiozzando, sbavando per lo sforzo, ansimando per l’eccitazione, il pene duro, i muscoli tesi, le mani a modellare quel corpo gemello. (pag.140 e 142) Ho ritrovato, stilisticamente, la gestione consapevole, matura, di alcune strutture già presenti e riconoscibili (ad esempio) nei racconti pubblicati da Minimum Fax nel 2005 ovvero ’il ventisettesimo anno’: L’uso sapiente e amplificante delle parole ripetute ravvicinatamente, il ritmo costante che cadenza e accompagna, i ’come’ qui più sfumati e meno pressanti rispetto alla precedente scrittura. Poi l’aggettivazione precisa, le descrizioni puntuali, che scivolano senza appesantire. Fu un giorno bagnato. Una pioggia costante aveva battuto la città, là fuori, senza variare per ore. Pioggia sui palazzi, pioggia sulle strade. Pioggia sui tetti dei taxi e sulle schiene degli autobus. Pioggia sugli ombrelli dei passanti frettolosi, dei turisti impacciati con le loro guide in mano. Pioggia sulle vetrate degli Starbucks, dove chi aveva momentaneamente rinunciato a conoscere la città, o anche solo ad attraversarla, sedeva con un bicchiere di costoso caffè, a contemplare l’esterno o il proprio riflesso sul vetro. Pioggia. (pag.67) Barbara Gozzi Mob +39 392 8055828 -­‐ barbara.gozzi@gmail.com

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E’ senza dubbio una scrittura scorrevole, può diventare impegnativa la lunghezza seppure credo sia difficile abbandonare la trama una volta trovati gli accessi, gli espedienti narrativi scatenano sospensioni, aloni misteriosi attorno alle morti di questi ex eroi. C’è senza dubbio una consapevolezza importante nell’uso non solo degli strumenti narrativi ma anche delle tecniche di gestione delle trame, nel solleticare interesse e attenzione per legami, dinamiche sentimentali, psicologie che non giocano sulle analisi inconsistenti, piuttosto si insinuano partendo proprio dalla carne. Perché il lettore lo sa, che la tensione, l’attesa non è solo (anzi, lo è in minima parte) per la scoperta del ‘colpevole’, piuttosto è il serpeggiare dietro, dentro i superuomini che paralizza, cattura. Questi personaggi, dei quali il lettore in larga misura conosce già qualcosa, li ha visti (gli ex eroi intendo) nei film, in televisione e forse ne ha anche letto, tra le pagine dei fumetti. Dunque è un po’ come ritrovare vecchie conoscenze dimenticate, che parevano perse nel groviglio di fili della vita e ora tornano, si spogliano ed espongono membra e poteri che non lo sono più, ‘poteri’, piuttosto illusioni di un’ immortalità che si frantuma al suolo. In alcuni snodi Mancassola si avvale dell’anticipazione velata, quasi una minaccia che il lettore assorbe senza comprenderla a pieno ma che insinua dubbi, prepara il terreno per futuri sradicamenti. Quel silenzio. Quell’attimo. Se solo fosse durato per sempre. Se solo lui non avesse emesso un sospiro, a quel punto, e non avesse iniziato a schiacciare febbrile la tastiera. Se solo non lo avesse fatto. In seguito, molte volte si sarebbe chiesto se quello fosse stato il punto di non ritorno, la svolta senza rimedio. Si sarebbe interrogato su quale fosse il confine esatto, il momento oltre il quale la sua vita aveva smesso di essere sua, e lui aveva fatto ingresso in un altro piano della realtà… (pag.35)

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Il finale non è finale in senso canonico, anche perché ogni parte del libro ne ha uno, di finale, seppure aleggi sempre, fino alle ultime pagine, il dubbio a proposito di ’chi li sta uccidendo e perché’. L’epilogo chiude cerchi rimasti in stand-by in precedenza, non rassicura, non tenta di impastare una felicità di plastica e ologrammi. Si resta storditi, con un sapore amaro in bocca anche fastidioso. Non sono mai stata particolarmente attirata dai fumetti, men che meno gli eroi poi diventati anche cinematografici. Eppure sono uscita dalla lettura spiazzata. Forse di eroi, in fondo, c’è ancora bisogno. Ogni tanto. Appena un pò. Oppure è esattamente il contrario che scatena una sorta di irrisolto: il "non cadere" pronunciato

proprio

nelle

ultime

righe

che

arriva

al

lettore

dopo

cinquecentosettanta pagine sembra quasi la prima favola della storia, arrivata tardi, o addirittura ’fuori controllo’, quasi a contraddire il resto del libro. ’Non cadere’ che può avere molti sensi, rispetto a chi legge quanto alle storie di queste libro. Eppure è - a me è sembrato - un alieno, un’aspettativa che addirittura stride in bocca al personaggio in questione, già ampiamente conosciuto in precedenza. Non cadere è quello che vorremmo tutti e qui, leggendolo a chiare lettere, diventa impossibile ignorare la vocetta interiore che ride e piange allo stesso tempo. Poi, mi sono chiesta: è possibile che ci siano nuovi superuomini oggi? E’davvero tempo di virare, recuperando valori, fatiche, sacrifici e speranze per non lasciarli inutilizzati, questi poteri che sono poi piccoli o grandi talenti di tutti? Nell’ultima parte un Superman trasfigurato dall’anzianità ma detentore di una ‘pace’, una tranquillità che quasi rassicura, propone al lettore questo scenario, simbolo evidente di altro. Del credere, nonostante tutto, oltre i crolli, le perdite di riferimenti, certezze e aspirazioni; del credere che si può, ancora, ritentare.

Lo chiedo a Mancassola: Uno dei punti, a mio avviso, più aperti alle interpretazioni è il finale. Dove si chiudono incastri, appare uno degli eroi più amati e noti, Superman, e aleggiano miscugli di sensi, forse anche contraddizioni. Barbara Gozzi Mob +39 392 8055828 -­‐ barbara.gozzi@gmail.com

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C’è dunque, l’intento di lasciare uno spiraglio alla speranza di recuperare ‘eroi’ in senso ampio, trasversale? Poi questo “Non cadere” (senza svelare nulla della trama) pronunciato ripetutamente da un personaggio e che diventa il sostituto del celeberrimo “The end”, ci restituisce la favola inversa rispetto alla disillusione che si respira in tutto il romanzo? Ci stai dicendo che ‘non crediamo più a niente’ ma vorremmo, credere ancora e possiamo, forse, entro certi confini? “Innanzi tutto è un epilogo, è quasi un parte a sé. Per il lettore la storia potrebbe concludersi anche con la parte di Mystique. Il senso dell’epilogo è proprio quello di chiudere e riaprire, in un certo senso. Il senso è quello che dici tu. Dopo una serie di chiusure, alcuni protagonisti muoiono, si arriva a una dichiarazione di fine di un’epoca che era un valore, dunque la fine di immaginazioni, sogni, romanticismi. Dopo questa disfatta. C’è spazio per ricominciare con qualcosa di nuovo, con altro in questo epilogo. E sono stato abbastanza esplicito, quasi didascalico. Il vecchio supereroe, Superman, che ha conservato una sua dignità, pur invecchiato, stanco, tenta di proporre un inizio ma con una nuova consapevolezza. E lo fa a modo sua, attraverso questa specie di scuola strana, dove non è ben chiaro cosa, chi e come. Tutto resta sfuggente, è in linea coi tempi narrati. Non volevo delineare uno scenario preciso, spiegare se funzionerà o meno. Tanto più che un personaggio dimostra scetticismo palese, insiste nell’incertezza. Però resta una possibilità accennata, proposta. Infine, proprio nelle ultime pagine, un personaggio parte della storia di Mister Fantastic, svela un proprio percorso importante. Percorso che non è stato narrato. Nato come oggetto del desiderio sfuggente, perché tutto viene narrato dal punto di vista di Reed, invece alla fine questo personaggio sposto l’angolazione. All’oscuro del lettore ha fatto un viaggio notevole, e ora sta rientrando. È andata realmente e letteralmente fuori dal pianeta, ora torna e Barbara Gozzi Mob +39 392 8055828 -­‐ barbara.gozzi@gmail.com

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vede che c’è qualcosa che ha ancora una sua bellezza, dunque invoca che ’non cada’. Quest’immagine finale, che è anche immagine di riapertura, speranza, volevo ci fosse. E’ un’invocazione, la sua, come preghiera, consapevole che adesso tocca a lei, essere diversa, ma c’è – resta comunque - qualcosa che sfugge. Il destino, questo ‘mondo in bilico’ non è nelle sue mani, in quelle di questo personaggio, ma neanche in quelle dei supereroi.”

Non tutte le storie ci sono ’vicine’, è uno dei motivi per cui molte volte si acquista un libro solo dopo aver sbirciato la quarta, alla ricerca di un riassunto, elementi di trama che possano far capire se il libro sarà interessante per chi lo compra. Ebbene, in questo romanzo ci sono diversi sviluppi capaci di cattura l’attenzione, che si avvicinano al vissuto quanto meno potenziale, di chiunque. La storia d’amore di Mister Fantastic ha punti sublimi, intensi, carnali e veri. Nell’ossessione si celano piaghe e confini che non hanno nulla di eroico bensì diventa sforzo e bisogno estremo di un corpo che è presenza - appiglio costante capace di restituisce aria e sicurezze, che colora il grigio pressante del mondo. Ma anche il tratteggio psicologico e carnale di Batman, lo scavo nel passato, tra le piaghe di un altro corpo-simbolo, quello di Robin. Poi Bruce De Villa, personaggio che il lettore per la prima volta non conosce, dunque non ha precise aspettative o informazioni a cui aggrapparsi per cercare decodifiche. Bruce De Villa è l’incognita. L’umano forse umano e basta ma anche no, l’umano proteso verso il ’super’. Nuovi confini, linee d’ombra, sfumature. La vita erotica dei superuomini probabilmente avvalla una convinzione in parte non nuova: nell’essere ’super’, ’oltre’ l’umano (o nel credere di esserlo) non c’è alcuna precisa e univoca ragione del ’Bene’, non significa rispettare le regole del mondo, non in senso assoluto, non da assoluzione ultraterrena. Non evita manie, fissazioni, debolezze, dolori, perdite, voglie, affanni e fragilità. Non rende ’migliori’. Non si è migliori neppure possedendo un qualunque potere, piccolo o

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grande che sia. Si resta comunque ciò che si è, nell’imperfezione, nell’errore, nella solitudine, entro le maglie di corpi, carne, dolori. Un

dibattito,

discussione

interessante

sull’open

blog

di

Massimo

Maugeri, Letteratitudine.

Segnalo infine questo articolo di Marco Mancassola, apparso su Il Manifesto il 4 settembre scorso: Un corpo politico imbarazzante.

Ringrazio Marco Mancassola.

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Marco Mancassola: 'Non seremo confusi per sempre' articolo del 29 aprile 2011 Il finale era stato cambiato. Persino gli attori sembravano stupiti. (pag. 18) *** In ‘Non saremo confusi per sempre’ (Einaudi, I coralli, 146 pagine) pubblicato il 19 aprile, Marco Mancassola è un danzatore sulle punte. Con un piede affabula, s’ingegna ad attirare il lettore-spettatore in piroette immaginative, finzioni sceniche garbate e gradevoli. E le linee sono pulite, nitide. L’altro piede, invece, lo immerge lentamente nel complesso magma della cronaca recente italiana, tra fatti reali, corpi e contesti che negli ultimi decenni sono stati oggetto di vociare, dibattere confuso, mass medialità e complessità. Scrive Mancassola nella Nota dell’autore breve (e minuscola anche per caratteri di stampa scelti) che precede la narrazione: "Questo libro prende le mosse da storie reali. […] Nella scrittura di ogni storia ho ricostruito i suoi punti salienti, ma soprattutto l’ho rielaborata con lo strumento dell’immaginazione letteraria. Il libro, quindi, in ultima analisi, va considerato opera di letteratura". Non c’è, in effetti, alcun intento di modificare precisicontesti storici, a volte nomi, luoghi nonché – come specifica lo stesso autore – i fatti sono esattamente quelli storicamente accaduti. Nel narrare di queste “storie reali” è però intervenuta l’ “immaginazione letteraria”. In un certo senso in questo libro le storie sono altro e sono le stesse, rispetto alla cronaca, al reale per preciso contesto storico. Ed è questo – a mio avviso – il punto debole del libro. Riepilogando brevemente i fatti di cronaca da cui è partito l’autore: Il 10 giugno 1981 Alfredo Rampi precipita nel pozzo artesiano di Vermicino, partono i soccorsi ma all´alba del 13 giugno Alfredo Rampi muore. Il 25 Barbara Gozzi Mob +39 392 8055828 -­‐ barbara.gozzi@gmail.com

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settembre 2005 Federico Aldrovandi viene picchiato a morte, a Ferrara, da quattro agenti di polizia. Il 18 gennaio 1992 Eluana Englaro ha un incidente stradale alle porte di Lecco e permane in stato vegetativo per diciassette anni, fino alla morte, il 9 febbraio del 2009. E ancora: il 23 novembre 1993, il sequestro di Giuseppe Di Matteo, figlio di Santino, collaboratore di giustizia, e la sua uccisione, l´11 gennaio 1996, e infine l´omicidio di Dirk Hamer, il giovane tedesco colpito da una pallottola sparata da Vittorio Emanuele di Savoia a Cavallo, Corsica, la notte tra il 17 e il 18 agosto 1978. Si sente fortemente la necessità per Mancassola di ‘dire’ di questi fatti che hanno scatenato vociare, fiumi di parole, strilla, e teorie; fatti che hanno alimentato ragionamenti oltre il mero ombelico di chi li ha vissuti direttamente e che nell’arco di una trentina d’anni poco più hanno dato all’Italia l’occasione per riflettere su tematiche sociali, etiche, morali nonché individuali in primis. Mancassola ha elaborato queste storie, ne ha assorbito umori , pareri, scontri, contraddizioni, sottili sfasature, nonché angolazioni differenti e inconciliabili. E ha scelto con questo libro di dirne attraverso l’impasto narrativo, ne ha scritto raccontando altre storie generate dal mix variabile e delicato tra finzione e precise realtà d’una società, quella italiana nel complesso, incline a dimenticare in fretta, a polemizzare dalla superficie nonché a lasciare spesso che diffusioni di massa e dinamiche spettacolari diventino il ventriloquo di pensieri e dichiarazioni anche individuali. Una scelta, insomma, che trovo importante, una sorta di dichiarazione d’appartenenza per uno scrittore che dice attraverso il suo impastare storie. Avrebbe potuto scegliere - ad esempio - una trattazione saggistica o approcci simili, pezzi per testate nazionali (non solo italiane considerando la conoscibilità di Mancassola fuori i confini nazionali), avrebbe potuto avvalersi di una scrittura concentrata a dibaterne tra tematiche, e magari comparazioni tra dichiarazioni e posizioni in parte, lo ho anche fatto con articoli ad esempio pubblicati su Il Manifeso negli ultimi anni, ma non solo). Mi sembra, però, che in questo libro ci sia l’intento di impastare storie che miscelano realtà a Barbara Gozzi Mob +39 392 8055828 -­‐ barbara.gozzi@gmail.com

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immaginazioni lasciando al lettore interpretazioni, riconoscimenti di contesti storici reali nonché riflessioni o bozzoli di ragionamenti. Può apparire scontato o retorico, ma un romanziere (uno scrittore di romanzi e racconti) che per ragionare su fatti reali di cronaca ne scrive raccontando storie di finzione, mi sembra quanto di più onesto e schietto ci si possa aspettare in un tempo e in un luogo (l’Italia nella post rivoluzione web, del marketing selvaggio, degli intontimenti mediatici, tra tuttologismi professionali) che confonde ruoli, approcci e significati. Ciò nonostante questo libro non mi convince, non del tutto. Il Mancassola con un piede ‘affabulatore’ e l’altro ad attingere da fatti di cronaca riconoscibili (e volutamente resi tali), in un qualche modo mischia ulteriormente le carte su cronache tutt’ora irrisolte da molti punti di vista. Mi domando se in Italia oggi, nel 2011, sia l’approccio più costruttivo verso fatti di cronaca che già hanno scatenato confusioni, giochi di parole, scontri tra politiche, fedi e morali. Certo, è vero anche il contrario: purché se ne parli. Indubbiamente sommersi da inondazioni di news quotidiane, lo scegliere cinque precisi fatti li fa tornare, quanto meno per il tempo della lettura. Li fa emergere dalla mischia e dalle smemoratezze collettive. Ed altrettanto è vero che da un libro non ci si deve aspettare un approccio (men che meno per forza costruttivo) verso la cronaca reale eppure le premesse, l'impianto narrativo quanto l'impatto divulgativo di questo libro non li escludono, anzi. Il mix agrodolce di questo libro mi ha lasciato un certo amaro nel palato. Forse taluni fatti di cronaca sono ancora troppo recenti, pungenti (per chi li ha seguiti), forse questo ha portato la mia mente in altre direzioni, leggendo. Forse per “una fiaba contemporanea”, come recita la quarta di copertina, sono ancora troppo - troppo - sporgenti gli spigoli dei “fatti nudi”. Sempre dalla quarta di copertina: "Ma sono anche attimi che la cronaca ha reso per sempre immobili, e Barbara Gozzi Mob +39 392 8055828 -­‐ barbara.gozzi@gmail.com

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la letteratura può invece ripensare, rianimare, riattivare", forse allora si tratta di capire per chi questi fatti di cronaca sono immobili e per chi invece no. Poi, certo, ci sono anche quei lettori che dei fatti nudi di cronaca italiana non sanno niente o non hanno particolare interesse a ricordare, approfondire o semplicemente a recuperarli, a loro questo libro racconta cinque movimenti in mondi che a tratti appaiono crudelmente realistici e a tratti ricordano alcune delle avventure di Alice in un altro paese. *** L'anno era il 1981 e se provassimo a pensarci, chissà quante incredibili faccende ricorderemmo di quel periodo in Italia. Logge segrete con progetti eversivi, un Papa quasi ammazzatoda un attentatore, gente rapita da gruppi terroristici e perfino un terremoto che sette mesi prima aveva scosso una regione del paese, uccidendo migliaia di persone. Era l'Italia, insomma. Scegli un punto qualunque della storia di questo paese e dimmi se non ci trovi incredibili sventure. (pag.19) *** Era successo, dunque. Lo stupore lo lasciò paralizato. Dopo tanta solitudine aveva incontrato qualcuno come lui, era lì, accanto a lui, mentre intorono la gente ignara continuava ad attaccarsi nello spiazzo. L'altro fantasma si presentò come Gustav e la sua voce era quella di un uomo adulto, una voce profonda, quasi baritonale, dotata di una buffa solennità. L'accento suonava tedesco. A quanto pareva due fantasmi riuscivano a udirsi a vicenda, ma non per questo a vedersi. Gustav era invisibile quanto lui. In compenso, vista la sicurezza con cui si era rivolto al ragazzo, doveva essere in grado di percepirlo in qualche modo. (pag. 127-128) ***

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La scrittura di Mancassola conferma quanto già evidenziato in altre pubblicazioni

(ad

AgoraVox qui e qui;

esempio La o

Il

vita

erotica

ventisettesimo

dei

superuomini,

anno qui e qui):

su

scorrevole,

immediata, la prima persona favorisce l’empatia del lettore mentre il narratore in terza, quasi la voce fuoricampo in un documentario, indirizza il lettore con pazienza e ritmo mai eccessivo (senza accelerare, e senza scivolare nella lentezza affaticante). Singoli gesti, dettagli raccontati con semplice precisione rendono ogni inquadratura facilmente immaginabile, al punto che a tratti ci si sente ‘risucchiati'. Le parti del libro sono tutte intitolate sottolineandone le generiche specificità, a rafforzare l'impressione di entrare in mondi che racchiudono simboli ma che prendono forma con pazienza, senza l'intenzione di stare nei gradini più alti d'una classifica di priorità o spettacolarità o altro. Mancassola in questo è molto abile, sottile. Un principe azzurro. Un bambino al centro della terra. Una bella addormentata. Un cavaliere bianco. Un ragazzo fantasma.

Segnalo il prezzo del volume parte - secondo me - d’una dinamica che favorisce ed autoalimenta la realtà, tra vetrine e centri commerciali, che possedere l’oggetto-libro non sempre è per tutti: sedici euro.

*** Il sogno iniziò quasi subito. Il mio inverno si fuse con quello di diciassette anni prima. Il cuore gelido del mio inverno e il cuore gelido del suo. Ero nella macchina con lei, o forse in un certo modo, nel modo strano dei sogni, ero lei. Sognai che il mondo si metteva a girare mentre la macchina faceva il testacoda nell'asfalto. Sognai che mi aggrappavo al volante, con sorpresa, e che il testacoda durava per ore, per giorni e forse in eterno, mentre il mondo intorno continuava a girare, girare come il vortice di una nebulosa. (pag.41-42)

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Gianfranco Di Fiore: 'La notte dei petali bianchi' articolo del 20 ottobre 2011 “Vieni con me”, disse, mi prese per mano e mi portò nella stanza in fondo al corridoio. C’erano delle luci colorate che uscivano fuori dalla porta insieme ai soliti rumori elettronici; luci verdi e gialle, luci rosse e blu. “Lascia stare Alice, ti prego”. “Non è come credi”. “Dammi un altro goccio almeno”, le dissi. “Qui dentro c’è tutta la mia vita”, sussurrò aprendo di più la porta. La testa mi girava a causa dell’alcol ma i miei occhi riuscivano a vedere. Fu come entrare in un incubo. Il lettino era posizionato al centro della stanza, lungo i bordi correvano delle ringhiere in ferro che impedivano al corpo di cadere. Due enormi macchinari erano posizionati sul lato destro della camera; i rumori più forti venivano fuori da una specie di mantice che soffiava in una colonna di plastica trasparente. “Che te ne pare?”, chiese Alice. “È così assurdo! Non mi sembra vero”. “Ci vuole tempo Dante, ci vuole tempo!” La piantana della flebo era agghindata con luci natalizie e palline dai fili dorati. Sulla punta Alice aveva sistemato un cappello di Babbo Natale con una striscia di capelli d’angelo argentati che scendevano fino alle piastrelle. Al lato del letto – sopra il respiratore – c’erano i pastorelli in attesa della nascita di Gesù, un pozzo di pietra finta e più in alto, in una mangiatoia ricavata da un cartone di scarpe, il bue e l’asinello. Mancava la Madonna, nei pressi del giaciglio c’era solo San Giuseppe. Anche nella scatola di scarpe erano state messe delle luci colorate, alcune arrivavano fino alle sbarre del letto dove Alice le aveva bloccate con del nastro adesivo. Aspettava che io parlassi; se ne stava in silenzio con le lacrime agli occhi, beveva Four Roses e batteva i piedi senza alcun motivo. Dentro di me si addensavano sensazioni contrastanti. Non ero in grado di capire, forse non avevo sofferto abbastanza per avvicinarmi a quel mondo fatto di malattia e di speranza vana, di fede e di bestemmie taciute. Ero certo di non aver vissuto così intensamente da poter accettare una tale disperazione. Barbara Gozzi Mob +39 392 8055828 -­‐ barbara.gozzi@gmail.com

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Sembrava che Alice avesse costruito dentro di sé un altro sistema di esistenze, un’altra vita che si allargava nella mente quando rientrava a casa dopo il lavoro. C’era qualcosa di prodigioso nei suoi occhi, magari potevo mettere lei al posto della Madonna. Chissà che non avrebbe potuto fare dei miracoli con un altro po’ di whisky. “Buffo no?” “Non lo so Alice, non pensavo che esistessero cose così”. “Così come?” “Così disperate. Pensi che ci stia sentendo?” “Sono rari i momenti in cui riesce a essere lucido. Di solito si lamenta per via del dolore, apre un solo occhio e muove appena le mani. È pieno di morfina fin dentro le caviglie. Vieni, ti mostro una cosa”, disse avvicinandosi al letto. La nausea aumentava e sentivo le gambe cedere da un momento all’altro. Mi fermai a guardare fuori dalla finestra che affacciava sulla strada: c’erano famiglie che sbucavano dalle auto con buste e cesti pieni di regali, sui balconi le luci intermittenti brillavano davanti alle persiane chiuse. Oltre i tetti, verso il raccordo autostradale, le ciminiere delle fabbriche spurgavano fumo che il cielo invernale colorava di un blu elettrico. “Girati Dante, voglio sapere cosa ne pensi”, mi disse alzando le coperte. Le luci colorate ora ardevano su di un corpo glabro e sottile, scheletrico e pieno di bruciature. Il marito di Alice sembrava un enorme verme, le sue vene erano di un viola scuro e non aveva peli; il suo sesso fra le gambe si era ritirato in una piccola bolla di carne. Sembrava una creatura degli abissi, un pesce immerso in un acquario luccicante, una forma di vita primitiva ancora non perfettamente sviluppata. Il cranio era la parte più deforme di quello strano corpo. Le ossa degli zigomi erano appuntite e le clavicole spingevano verso l’alto come guglie nane. Non aveva più unghie ed era liscio come un delfino, Alice lo guardava senza dire una parola. La testa mi girava, bevevo per non pensare e più mi avvicinavo alla verità più avevo paura. Mi sentivo quasi graziato, un uomo contento, forse ero persino in debito con Alice. “Siamo due ubriaconi maledetti”, sussurrò ruttando. Barbara Gozzi Mob +39 392 8055828 -­‐ barbara.gozzi@gmail.com

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“Non dire così, ti prego”. “Stai zitto Dante. Facciamolo un’unica volta”. Alice sollevò la gonna e si chinò verso il letto poggiando le mani sulle gambe magre del marito. Era nuda, aveva dei graffi intorno all’inguine e un paio di macchie scure sulla schiena. Raccolse da sotto al letto un enorme vibratore di gomma e mi chiese di penetrarla. Allargò disperata le sue natiche e con gli occhi chiusi urlò rabbiosa fino a quando non decisi di fermarmi. “Ne voglio ancora!” “Non posso Alice. Mi sento male, ti prego andiamo via!” “Non mi lasciare così Dante. Almeno beviamo un altro goccio”. (pag.135-137, per gentile concessione dell’editore).

Inizio con questo stralcio perché ‘La notte dei petali bianchi’ di Gianfranco Di Fiore (in uscita domani, 21 ottobre – Laurana collana rimmel, pag. 248 a euro 16,50) è un romanzo che va saggiato in silenzio per alcuni minuti. In realtà si tratta di un libro che richiede molte pause, in lettura. Una storia d’una nuda crudità imbarazzante, dai risvolti devastanti nell’irrazionalità delle cose che nascono nel dolore, nella fatica e che nella ricerca della vicinanza e dell’amore falliscono. Di Fiore impasta una trama tutto sommato semplice, che si muove in continuazione tra realtà destabilizzanti, dove non esiste alcuna ‘normalità’ né di morali né di etiche perché tutto poggia su violenze (subite e procurate), stupri fisici e dell’anima, dolori profondi che non si riescono quasi a nominare. Ci sono raggi di sole anche se più spesso è notte e i personaggi si muovono come entro i confini labili di un palco pieno di spine, ogni passo è faticoso, ogni scelta è dolorosa, ogni cambio d’inquadratura riempie la gola di acido, preme sul petto.

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Indubbiamente non è originale l'intreccio iniziale a proporre un legame tormentato tra una mussulmana e un italiano, anzi, probabilmente inizia già nella narrativa italiana degli ultimi anni - a diventare abusato come plot sebbene in questo romanzo sono tutti gli altri elementi che ne arricchiscono, complicano e graffiano la trama. Narrato in prima persona, attraverso il corpo e il cuore di Dante, un quasi cinquantenne a cui piacciono solo le ragazzine, e infatti s’innamora di Samira, una mussulmana di quindici anni schiava d’un padre che la minaccia di morte se la vede con un infedele. Ma Dante è anche un bambino abusato, violato da un padre avvezzo all’alcool e ai piaceri presi con la forza, un bambino rimasto nel corpo d’un uomo che convive giorno dopo giorno con una madre persa in un mondo parallelo, tra cosmetici e computer, una madre che va con gli uomini all’occasione, che va a trovare il Vecchio per natale, quel padre ormai benedetto dalla lucida inconsapevolezza che il tempo scorre. Samira invece esegue ordini, ha un corpo che comanda con interruttori rotti, mutilata nei genitali non prova piacere ma cerca la vicinanza, i sogni esistono di notte, quando Dante la va a prendere e vanno nel camper circondato dalle nebbie del cimitero. Dante, che fa la guardia giurata, ha deciso che la ama, che la vuole sposare. Ma il matrimonio non ci sarà. Accadranno altre cose, in una contorsione a tratti allucinata ma anche dolorosissima dove non c’è spazio per la speranza, dalla prima pagina se ne percepisce l’assenza (al punto che perfino le iniziali promesse di matrimonio suonano stonate, inconsistenti). Ho scelto di proporre uno stralcio centrale, di questa storia, perché il gusto che sin dall’inizio arriva merita almeno di stringerne le pagine tra le mani. L’inizio è potente, prende il lettore e lo immerge in acqua densa, scurissima e senza possibilità di fraintendere alcunché: tutto è visibile, gesti, oggetti, corpi e contesti. Dall'assaggio sopra proposto, inoltre, è possibile cogliere alcune delle caratteristiche della scrittura dell'autore (atmosfera, dialoghi innestati, parti descrittive dominate dal narratore, visività e intensità). Barbara Gozzi Mob +39 392 8055828 -­‐ barbara.gozzi@gmail.com

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Certo, è una lunga storia di amori, questo libro. Ma nella misura in cui l’amore non salva, non protegge, non cura. Addirittura si leggerà a un certo punto che probabilmente dall’amore ci si deve curare. Questo è l’approccio di Di Fiore. Nessun personaggio ha effettive chance di salvezza né di speranza come già anticipato. Ed è forse questo estremo, profondo e insopportabile colpo che dalle pagine emerge: è forse questo l’aspetto che più turba. Ci ho sentito, leggendo, un certo 'rumore di fondo': l’autore è del’78 che non è una mera annotazione biografica, secondo me porta con sé alcune connessioni più generali, ancora da mettere a fuoco del tutto (non necessariamente legate alle questioni ormai abusate sulle generazioni, almeno non rispetto esclusivamente a quelle più recenti che contrappongono 'fazioni'). In ogni caso, se un trentatrenne racconta di vite senza speranza che si trascinano ogni minuto (ma proprio ogni minuto) pesi gravosissimi in parte acquisiti vivendo come per Alice o per la madre di Dante ma anche, nel caso dei due 'innamorati' iniziali, da 'dietro' ovvero dalle radici; se narra di crudeltà affrontate come fossero tutto sommato talmente comuni che 'lamentarsene' o tentare di allontanarsene è inutile oltre che impossibile: qualche riflessione in più andrà fatta. Di Fiore narra con una certa compattezza d’insieme, un linguaggio visivo, sensoriale, descrittivo con qualche zampata in eccesso. I movimenti nella parte centrale della storia tendono a rallentare, probabilmente non aiutati dall’impressione che resta appiccicata addosso da subito ovvero l’impossibilità che ci sia alcunché per qualcuno. E infatti le decisioni che scatenano cambiamenti sono centellinate, frutto d’un percorso di caduta, ammissione di debolezze,

ossessioni

e

demoni

ma

sono

anche

l’esatto

scarto

tra

l’essere coi buchi e le ferite, e lo stare sui buchi e le ferite. Altro personaggio centrale, in questa narrazione (presente nello stralcio iniziale qui riproposto) è Alice, l’amica-compagna di ferite che Dante conosce in una clinica per il recupero. Barbara Gozzi Mob +39 392 8055828 -­‐ barbara.gozzi@gmail.com

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Alice porta nella trama il fattore ‘malattia’ (non sua, ma del marito, con ogni possibile diramazione rispetto all’amore provato, ai sentimenti che mutano nonché all’oppressione d’una cura che non può guarire ma solo assistere alla lenta deformazione del corpo malato). Ma Alice è anche l’ennesimo elemento imprevedibile, donna spezzata da un vivere insopportabile che si regge su espedienti fortuiti, fugaci balsami che durano troppo poco per interrompere l’infezione sulle ferite della sua anima. Dante e Anna si somigliano ma non possono stare insieme, i loro cuori e i loro corpi cercano cose differenti. Di Fiore alterna i piani temporali, il narratore resta saldo al timone di immagini, inquadrature e voci, ma il tempo incrocia presente in divenire con diversi passati a recuperare frammenti del protagonista quanto di contesti spennellati con maniacale precisione. Impossibile non focalizzare questi mondi, impossibile non avvertirne la puzza, l’oscurità e i sussurri dei demoni che entrano ed escono dai personaggi. Forse nel finale, proprio nell’ultima pagina si potrebbero rintracciare spiragli di speranza. Scrivo ‘forse’ perché personalmente non sono riuscita ad acciuffarli: ci sono “questi fogli di carta” che contengono il destino del narratore-protagonista, o uno degli ipotetici destini. C’è un’attesa consumata “sul divano di pelle marrone, in un angolo del corridoio che affaccia sulla campagna desolata”. Esattamente: “desolata” dice tutto, secondo me. Un libro che incrina le bontà, i luccichii, le famiglie Mulino Bianco e Calzedonia. Il sole scalda meno anche quando scotta. L’amore, ovunque sia, urla per tutto il tempo. Urla di dolore anche nei gesti più affettuosi. E ogni azioni, tra angolazioni e punti di vista, è destinata a cadere. Non c'è altro (un orizzonte, uno scarto, una luce che possa anche solo apparire meno dolorosa, una possibilità, qualcosa che non sia fatica, dolore, sofferenza e cicatrici in perenne vomito di sé) in questo mondo che Di Fiore ha cullato dentro di sé (o non avrebbe potuto scriverne con tanta vivida intensità, a mio parare).

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Francesco Forlani: 'Chiunque cerca chiunque' pezzo del 7 luglio 2011 [Segnalo che nel frattempo la pubblicazione web è terminata, il romanzo è prima approdato a una versione cartacea curata dall’autore, una ‘limited edition’ numerata e personalizzata; e attualmente un libro edito da Laterza, collana ‘Contromano’, 2013, con il titolo “Parigi, senza passare dal via” – n.d.a.] “Per ordinare da bere si chiama il cameriere da un telefono aggrappato al muro. Un apparecchio degli anni cinquanta, terribilmente nero. Les étages, è un bar che è fatto di piani. Al primo c'è una giovane coppia. L'ho scorta salendo le scale. Al secondo c'è un'intera classe di liceo, in libera uscita, annegati nella musica che pervade il tutto. Al terzo ci sono io. Mi guardo intorno perché intorno ci sono un sacco di cose da vedere: sembra un marché aux puces della Porte de Clignancourt, vecchie poltrone in pelle sfibrate, improbabili abat-jour e una culla. Una culla dei primi del '900 che qualcosa vorrà pur dire. Guy è davanti a me. Non l'ho visto arrivare ma i muri sono i suoi così mi pare normale che ci passi attraverso senza fare rumore né chiedere il permesso. Il terzo piano poi è di libero accesso solo a quelli della famiglia. La mia famiglia è questa anche in nome dell'altra distante più di mille chilometri e lunga quanto il train bleu che in una giornata di Giugno mi ha portato via. - Allora il tuo rendez vous non si è ancora visto? - Manca ancora un quarto d'ora all'appuntamento, mi sono preso un po' d'anticipo, non mi capita spesso. Succede ogni volta che c'è in ballo qualcosa d'importante. Anzi Guy siediti un attimo e dimmi che ne pensi. Questa è la plaquette della rivista, piccolo formato, e il titolo è la Bête étrangère… - Bel titolo, sei tu che lo hai trovato? - No, Ioanna, l'ha trovato e mi è piaciuto da subito. Visto che siamo creature temporanee, c'è scritto così sul permesso di soggiorno, quale migliore risposta alla enfasi letteraria della Belle étrangère, sai la collana di Gallimard dedicata alle letterature straniere. Barbara Gozzi Mob +39 392 8055828 -­‐ barbara.gozzi@gmail.com

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- Pas Bête! Guy è ebreo, parla dodici lingue, il suo italiano è perfetto e così spesso lo presento agli amici dicendo: bene lui è Guido. Les étages, era un albergo ad ore, nel cuore del Marais, comprato e ristrutturato qualche minuto prima della rinascita del quartiere”.

Inizia così ‘Chiunque cerca chiunque’ un romanzo scritto da Francesco Forlani

e

attualmente

reperibile

on

line.

L’iniziativa

è

in

corso

su Facebook dove l’autore pubblica periodicamente capitoli nuovi, ma è possibile rintracciarne due anche su Nazione Indiana (l’11 giugno il terzo capitolo e il 27 giugno il quinto). Sostanzialmente si tratta di una pubblicazione interamente gestita attraverso un evento pubblico sul popolare social network, chiunque voglia seguirla potrà iscriversi come nelle ormai usuali prassi facebookiane. Non ci sono grandi ‘chiacchiere’ a presentare questo romanzo, Forlani lo propone senza troppi giri di parole, lo rende disponibile azzerando ogni possibile costo (salvo l’evidente connessione alla rete e l’iscrizione peraltro gratuita al social network). Una scelta non del tutto nuova, il web ha già favorito divulgazioni in ambito letterario e culturale, eppure non è ancora così comune in Italia una scelta di questo tipo che va a mescolare l'approccio 'a puntate' di talune riviste cartacee (approccio molto popolare negli anni ottanta e novanta specie per taluna narrativa di genere dal target 'più femminile') con le potenzialità della rete e dello strumento poliforme che è uno dei social network più popolari Rivolgo a Forlani alcune domande. 1. Iniziamo con una doverosa contestualizzazione: Francesco Forlani non è un esordiente, opera tra editoria e arte da un tempo ragionevole per potersi Barbara Gozzi Mob +39 392 8055828 -­‐ barbara.gozzi@gmail.com

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considerare parte di questo mondo variegato e multiforme in diverse declinazioni e sfaccettature. Facebook non è però considerato uno strumento editoriale in senso stretto pur avendo in parte cambiato le modalità di contatto e diffusione. Perché questa scelta? "Perché nel mio quasi trentennale bilancio letterario sono arrivato alla conclusione che un destino artistico si giochi tra due campi: quello della carriera o della vocazione. Un progetto totalmente incentrato sulla vocazione non si arresta di fronte ai silenzi, agli scacchi, alle incomprensioni, perfino ai successi che un’opera, un’installazione, un’azione artistica potranno provocare. Quando sei nella vocazione non godi certamente dei privilegi della carriera, essere nel giro, avere un’agente, essere richiesto da un editore e via dicendo, però non devi nessun conto a nessuno. La creazione letteraria o più generalmente artistica è una necessità. Senti che quella storia è necessario raccontarla come che a raccontarla sia tu, e nessun altro. Facebook, e più generalmente i social network sono come gli atelier portes ouvertes; dispositivi creativi, meccanismi di produzione, attrezzi, palette, sono sotto gli occhi di tutti. Il processo partecipa della conclusione". 2. L’iniziativa prevede la pubblicazione periodica dell’intero romanzo ‘Chiunque cerca chiunque’, pubblicazione che terminerà stando alle previsioni a settembre. Perché hai fatto questa scelta che, in un qualche modo, rivela l’intero contenuto della storia? "Il work in progress permette di condividere con i lettori-autori dei percorsi, delle possibilità che non possono che accrescere il valore dell’opera. È una dimensione libertina se vogliamo del rapporto fra autore e lettore, lo scardinamento di ogni tipo di monogamia com’è il caso in letteratura fra editor e autore". 3.

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Facebook è considerato uno strumento dalle diverse potenzialità e che permette anche diverse forme d’interazione. ‘Chiunque cerca chiunque’ pur essendo diffuso, quanto meno in questa prima fase, su Facebook, resta un romanzo in senso ‘tradizionale’, o sono previste modalità d’interazione con chi legge volta per volta i capitoli? "Come provocazione avevo lanciato un’idea del genere. A una lettrice che chiedeva come fare per partecipare avevo risposto: si può partecipare scegliendo dei personaggi, facendo osservazioni tipo, "a me piace assai Massimo, o Thérèse, vorrei saperne di più, oppure a me piacerebbe che si trovassero a cena e mangiassero tutte cose preparate da me e dunque consigliando un menù o di mettere una canzone in una scena, fare una dedica come alla radio... oppure semplicemente, leggendo. Era una boutade, naturalmente, però poi mi sono detto: perché no? In fondo anche i romanzi d’appendice, ovvero i grandi romanzi venivano pubblicati a puntate prima ancora di essere conclusi, spesso in tempo reale. Magari non proprio gratis però anche pagati peggio che gratis." 4. In che modo pensi che si possa conciliare quest’iniziativa con un’eventuale pubblicazione futura di tipo cartaceo? Ritieni che pubblicare online (in questo caso l’intero manoscritto, in altri contesti si rintracciano racconti o stralci di storie) sia pregiudizievole rispetto all’eventuale interesse di un editore tradizionale in Italia? "Se l’editore ha le palle, non credo, anzi. E di editori con le palle ce ne sono in Italia a decine, centinaia, che non si conoscono. A me piacerebbe incontrarne un paio, per esempio". _______________ Già dal primo capitolo s’avverte nella narrazione un certo ritmo, un cipiglio tra sensorialità e abbozzi: “cavolo quelli lì scopano! ci guardiamo stupiti e ci viene Barbara Gozzi Mob +39 392 8055828 -­‐ barbara.gozzi@gmail.com

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da ridere poi scendiamo il resto delle scale di corsa perché in fondo Parigi è anche questo. La culla e la colla che smozzica con gli acidi i volti”. È un continuo andirivieni di personaggi, scene, voci, inquadrature, pensieri. Ci sono cantanti, scrittori, luoghi, numeri. In un qualche modo ogni capitolo è un pezzetto da collegare al resto, dove e in che maniera dipende molto anche dal lettore, dalla capacità di percepire connessioni, sguardi, intrecci, corpi. E ci sono, non possono proprio sfuggire nemmeno a una lettura virtuale frettolosa, continui rimandi a contesti, sapori, circostanze e situazioni nitide, precise. “Il marché des enfants rouges è in Rue de Bretagne. Con Patrick ed Esteban abbiamo appuntamento proprio lì, che poi si va da Simon, chez Omar. La Rue de Bretagne è una prima fila lunghissima che guarda davanti a sé quello che succede sull'altra parte della strada. e per quanto non succeda mai nulla, si rimane per delle ore, seduto a sorseggiare una chiara, convinti che qualcosa prima o poi capiterà. Ti arriva l'eco dei Grands Boulevards e l'alchemica sorte dei tessuti di Sentier. Esteban insegna spagnolo nella stessa scuola in cui io e Massimo diamo corsi d' italiano. L'altra sera ho ascoltato la sua intervista registrata a Erich Priebke. Dopo la guerra insieme ad altri nazisti s'era rifugiato nella sua città d'origine, Bariloche, una sorta di Sud Tirolo del continente americano, e così ho ascoltato la voce di un nazista che non è una voce di nazista, ma di un vecchio nazista e allora non riesci a fare la differenza fra la voce di un vecchio nazista e un vecchio proprietario di appartamento come il nostro di Rue Vieille du Temple. Esteban ha una sorella che quando ci vediamo mi canta sempre "scalinatella" poi gioca bene a pallone e infatti quando è estate che si va tutti, quelli della Bête étrangère,a giocare sulla Marne, lui segna sempre, ola!, tra le Guinguettes con i loro tavoli e le tovaglie di carta a quadri lungo il fiume. Esteban abita in Rue de la Roquette, undicesimo arrondissement, Patrick Chevaleyre, alla rue de Recollets, Gare de l'Est, decimo arrondissement, la stazione è indicata sul Monopoli. Da Omar ci aspetta Simon che ha un gessato e una cravatta rosa. Ordiniamo un cous cous sahariano e da bere, tanto, da subito, troppo subito dopo. Simon ci darà per la rivista un suo Barbara Gozzi Mob +39 392 8055828 -­‐ barbara.gozzi@gmail.com

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reportage scritto a bordo della sua Jeep dove aveva vissuto per qualche giorno di abbandono del tetto coniugale”. (Estratto dal settimo capitolo) La lingua di Forlani cerca l’immediatezza, il narratore trascina il lettore tra volti, carni, umidità, territori, gesti e sguardi lontani. Ed è un trascinamento lento e veloce, in un ritmo sostenuto ma controllato, per certi versi contaminato (nei riferimenti, gli strati, le arti) ma ugualmente tenuto su un piano stabile di freschezza e lucidità. Tutto scorre con l’intenzione di colpire gradualmente tra significati, percezioni e ragionamenti. Non si tratta di una scrittura articolata, tutt’altro. Le ‘articolazioni’ stanno altrove, tra le pieghe di storie che entrano ed escono dal sipario senza fretta, ognuno col proprio ritmo e approfondimento. Si sente l’intento di proporre personaggi verosimili inseriti in contesti realistici, quelli della contemporaneità tra disagi, difficoltà economiche, assenze di riconoscimenti specialmente in ambito artistico (in ogni possibile declinazione) quanto nelle relazioni sempre più flessibili e nei transiti dei corpi tra luoghi differenti, alla ricerca di qualcosa che – forse – non ha ancora un nome, non lo si può chiamare ma lo si sta cercando, ci si muove per non rimanere bloccati, per non finire chiusi da qualche parte dimenticando che c’è ancora – sempre – qualcuno da cercare. “Per campare faccio corsi d'italiano. L'altra cosa che potrei fare è il cameriere. Un cameriere guadagna il doppio, però vuoi mettere, una cosa è dire faccio il professore, per campare, e un'altra servo ai tavoli e mi faccio mandare affanculo dai colleghi e dal padrone. Per campare faccio il professore d'italiano nelle società francesi, formation continue, ed è un culo mica da ridere che sia continuo perché altrimenti come cazzo farei a campare. La mattina vado a Mantes la Jolie, nelle Yvelines, dipartimento 78, che sul Monopoli francese lo trovi agli angoli, c'è scritto Prison. La bella amante, dico a Massimo quando torno, perché quando vado, alle sei di mattina, che è notte fonda fino alla fermata Hotel de Ville, con Notre Dame che sovrasta la Senna in lontananza, lui dorme. Massimo per campare fa il coordinatore nella scuola Barbara Gozzi Mob +39 392 8055828 -­‐ barbara.gozzi@gmail.com

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di lingue dove ci siamo conosciuti e c'era pure Esteban,e nel tempo che gli rimane si può dedicare al concorso per ricercatore. Mantes la Jolie è una delle più toste Banlieues di Francia. Le quartier des écrivains, ci fu un periodo in cui la gente si sparava a bruciapelo da balcone a balcone. Dalla Rue Camus stamattina è partita una raffica dal balcone di un pensionato contro i zonards che vendevano hascisc davanti al portone di casa, dicevano alla radio. La racaille, così dice il ministro, la chiavica umana, abita a Mantes la Jolie, cioè non proprio a Mantes ma in Val Fourré. La mattina sono alle Ciments Français appena comprata da Italcementi, Uno dei direttori mi ha raccontato che non sapevano nemmeno che esistesse quella società e che gli avevano detto, - però non so ti dire sinseramente se si tratta di legianda metropolitana ou c'est la verité, ma paresse che l'ingenieur Pezenti si è presentato al bureau con l'argent in contanti, tu vois? Il pomeriggio faccio corsi nelle case di moda, Ungaro, Kenzo, Marongiu, e così se la mattinata la passo nel buco de culo del mondo, seppure a uno sputo da Giverny, l'atelier giardino in cui Monet coltivava le sue Ninfee, dal dopo pranzo fino a sera sono in Avenue Montaigne con le Ninfee in carne ed ossa. Per campare faccio dei corsi al telefono di venti minuti. Per fare corsi al telefono bisogna avere un telefono. Due sono le possibilità, casa o le cabine telefoniche. Una volta ho fatto un corso a una direttrice di Boutique Kenzo di una bellezza spropositata davanti al supermercato dei fratelli Tong, tredicesimo arrondissement, e quando ho finito fuori avevo una fila di cinesi incazzati neri. Per campare mi faccio un culo della madonna però che soddisfazione! Ottomila duecentocinque franchi, nella prima busta paga, a ventitré anni e mamma che al telefono mi fa - mi raccomando mettine sempre un po' da parte, sticazzi!! Per non parlare dei grandi alberghi. E già, perché facciamo corsi a portieri, cameriere, centraliniste, direttori commerciali e capi sala”. (Estratto dal capitolo ottavo) Non lo definirei, insomma, un romanzo d’amore non nel significato più banale e commerciale attribuito all’etichetta. Non mi pare che a Forlani interessi assecondare i già ampiamente nutriti immaginari comuni. Non per questo mancano sviluppi affettivi, innamoramenti, disamori, sesso, corpi esposti, riti Barbara Gozzi Mob +39 392 8055828 -­‐ barbara.gozzi@gmail.com

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carnali, legami fragili e instabili e così via. Non mancano ma restano narrati entro un’esposizione cruda, appena un filo di olio e limone a piacere (ogni tanto qualche pizzico di spezie). “O ancora quella dell'anno prima. Che si abitava con Massimo da poco e ci si era divisi per la grande soirée. Io a Joiinville a casa di Remie e lui da Kundera. Che c'era anche lei. Lei che un mese prima si era stati tutti in una foresta vicino St Germain. Lei che aveva le sue due creature e si era separata da poco. E che ammiccava scherzava allungando i piedi nudi sull'erba per darmi calci di nascosto all'ora del déjeuner. E aveva dei calzoncini attillati un sorriso ingigantito dalle fossette e una voce gutturale e sensuale. Che mi dice dai andiamo a fare una passeggiata con gli altri. Che dopo manco dieci minuti ci perdiamo gli altri e in una radura da cui però arrivano le ombre di altri camminatori mi bacia la bacio, mi spoglia la spoglio. E mi fa " buffo no?" Si era rasa completamente i peli del pube, così bianco che sembrava una bambola. Ora. sarà stato quello, " c'est fou, on dirait une bambina! " aveva aggiunto mostrandomi la fessa, forse il fatto che fossimo alla mercé di ogni sguardo, o più semplicemente perché era la prima volta ma l'erezione fu una vera Pompei e per il resto della serata, insieme al ricordo delle fronde degli alberi che mi sovrastavano, tra cui si insinuavano insolenti raggi di sole, il tutto mentre lei a cavalcioni su di me tentava di trarne un piacere degno di questa nome, avrei cercato di annegare nell'alcol quella che malgrado ogni scusante era stata una vera défaillance sentimentale. Ed ecco che a Joinville le Pont, a pochi metri dalla Marne in una allegra e festosa brigata c'è anche lei, sulle prime fredda e distante e poco dopo in grazia di concessione di una seconda chance. Me l'ha sussurrato in un orecchio durante un ballo. E già mi domina il suo profumo, il sudore, la lingua e il resto fino a che non mi chiama Remie per passarmi la telefonata di Massimo. - Che c'è Massimo? - Sono in un gran casino - Dimmi” (Estratto dal decimo capitolo)

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In ogni caso, il romanzo è ancora in corso, in attesa di essere 'scoperto'.

Ringrazio Francesco Forlani.

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Le disgregazioni dei corpi (tra piacere - dolore, male - bene): annotazioni pubblicazione del 3 febbraio 2010

Ci sono collegamenti importanti, resi tabù per il ‘peso’ e i ‘sensi’ che possono avere

su

ognuno

di

noi,

per

i

‘tocchi’. Questi

collegamenti

legano corpi a disgregazioni in un primo nocciolo duro, pulsante, attorno al quale se ne forma un altro, cerchio in espansione soggettivo e imperfetto, mutevole quanto potente composto dai sentire di pelle– piacere e dolore – e i sentire di etica – male e bene . Il termine ‘tabù ‘deriva dal polinesiano ‘tapul’ ovvero proibito. Sostanzialmente “si riferisce a persone, oggetti o luoghi sui quali vige un’interdizione morale, religiosa o sociale la cui violazione comporta severe sanzioni o la punizione divina. Il tabù può riguardare la sfera del sacro e avere lo scopo di preservare l’uomo dalla potenza del divino o la sfera sessuale per preservare dall’impurità.” (da enciclopedia.studenti.it, link tra le fonti – n.d.r.). Dei tabù si è detto e scritto molto. Anche riferendoli direttamente ai corpi. Eppure c’è un nervo rimasto scoperto, collegamenti che restano esposti e lo sono da sempre ma – forse – senza una precisa visione d’insieme. In passato i tabù conclamati sono stati numerosi: sesso, morte, pornografia, omosessualità, Aids, cancro, sterilità e molti altri con declinazioni dipendenti da periodo storico, società, territorialità, religioni, politiche e costumi. E’ ancora così, in realtà. Sebbene – in apparenza – tutto è ormai stato ‘sdoganato’, tutto si può dire e fare. Nella nuda sostanza, però, ciò che resta sono icorpi. E, nella fattispecie, le disgregazioni dei corpi che ancora sono in grado di scatenare proibizioni, rifiuti, negazioni, ricerca di spazi isolati e tempi dove consumarsi.

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Etimologicamente ‘disgregare’ significa dividere, separare, scomporre in parti. Disgregare un corpo diventa espressione che allude a ogni possibile ‘accesso’ naturale o forzato tra le carni. Tutto ciò che ne interrompe l’ ‘integrità’ (disintegrare ovvero ridurre qualcosa in frammenti, anche in senso figurato non esprime appieno i sensi legati ai corpi che interessano queste annotazioni). Al di là delle terminologie scelte (disgregazioni, bucare, generare accessi più o meno forzati, lesionare, ect.), sostanzialmente ciò che scatena negazioni, cancellazioni e divieti non sono tanto i corpi in sé, non sono le nudità, bensì precisi comportamenti sui corpi atti a spezzarne l’integrità attraverso pratiche quanto processi naturali. Scrive David Le Breton nel suo saggio ‘La pelle e la traccia. Le ferite del sé’ : “Negli Stati Uniti il tema (le lesioni corporali – n.d.r.) viene affrontato senza moralismo, e suscita meno terrore e repulsione di quanto accada nelle nostre società europee, dove il rispetto dell’integrità del corpo continua a essere un valore fondamentale.” Le Breton lo definisce ‘un marchio intollerabile di trasgressione’. Di fatto, i corpi possono perdere la propria integrità per molte ragioni e in molti modi. Una delle prime cause naturali che mi vengono in mente per taluni corpi femminili è il parto (naturale o indotto che sia). Un’altra causa naturale, che non risente di generi o altre limitazioni (a parte volontà individuali e limiti fisici) è evidentemente la pratica sessuale intendendo ogni possibile azione dei e tra i corpi atta a procurare piacere. La penetrazione stessa, l’accesso di un corpo in un altro può intaccarne l’integrità.

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Ma gli interventi sui corpi che procurano lesioni, tagli, abrasioni, punture, nuovi accessi tra le carni; le ‘violazioni’ sostanzialmente di natura forzata, hanno connessioni strettissime con le percezioni del dolore e del piacere nonché con i riconoscimenti etici di bene e male. “Le ferite inflitte al corpo (incisioni, scorticature, scarnificazioni, bruciature, escoriazioni, lacerazioni, ecc.) sono un mezzo estremo di lotta contro la sofferenza” scrive sempre Le Breton, sono “una particolare forma di lotta contro il male di vivere” In pratica, intervenire sul proprio corpo è atto che si inserisce in quella soglia di ‘piacere-dolore’ imperfetto ed estremamente intimo, una dimensione piena di diramazioni ma capace di procurare effetti potenti, destabilizzanti sulle menti attraverso la carne. Quando i corpi perdono la naturale integrità qualcosa comunque accade. Ed è proprio quel qualcosa a fare la differenza, a scatenare ritorsioni e condanne etiche, a delimitare i labili confini tra il male che procura piacere, il bene nel male capace di scacciare altri mali, il potere del piacere

procurato

intervenendo

volontariamente

sul

proprio

corpo,controllandolo, decidendo per e su di lui. Non si tratta insomma, di avvicinarsi alla ‘distruzione’ tutt’altro. Si tratta di scacciare paure, sofferenze, mali di vivere, la morte stessa, attraverso disgregazioni carnali (da intendersi non necessariamente o solo attraverso tagli, graffi, rotture, accessi forzati insomma, piuttosto in senso ampio, la stessa penetrazione sessuale come già accennato in precedenza interrompe l’integrità dei corpi). Nel numero 1 della rivista trimestrale ‘Il Reportage’, il lavoro di Lello Voce (con foto di Jessica Dimmock) dal titolo ‘Il corpo nudo dell’eroina’ è, rispetto ai ragionamenti precedenti, illuminante. “…è il dolore del buco […] il primo discriminante, caratterizzante gradino per ciò che poi diviene […] una pace dove la vita finalmente sparisce, senza Barbara Gozzi Mob +39 392 8055828 -­‐ barbara.gozzi@gmail.com

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diventare morte, lasciando solo il corpo abbandonato, in bilico, a un passo dal baratro della fine, travolto da un piacere che è, prima di tutto, desiderio soddisfatto”. Così scrive Lello Voce iniziando un percorso di scavo nei collegamenti materiali, carnali, tra ‘il bucare’ il corpo per iniettare l’eroina e i successivi effetti della droga stessa dentro il corpo. Ciò che l’assunzione di eroina e morfina impongono, rispetto alle altre droghe, e che Voce radiografa lucidamente è “la violazione corporea estrema”, la necessità di creare un ‘nuovo accesso’ dentro le carni per permettere l’ingresso della sostanza annullante. C’è “ un aspetto fisico, assolutamente corporeo, dell’atto dell’iniezione, del ‘buco’, degli ematomi sulla pelle, delle croste sulle braccia…” continua Voce. Eccoli dunque i collegamenti. Una delle soglie ‘dolore-piacere’, ‘male-bene’. “Infila piano, se la spingerai dentro di colpo perderai tutto il piacere. Il piacere doloroso che viene prima del piacere, quello di sentire l’ago che ti apre la pelle, che la squarcia con un piccolo taglio netto, che scava nella tua carne…” (Estratto da ‘Il corpo nudo dell’eroina’ di Lello Voce- testo integrale tra i link n.d.r.) Bibliografia - ‘La pelle e la traccia. Le ferite del sé’ di David Le Breton (Meltemi, 2005. Traduzione di Antonio Perri. Edizione originale: ‘La peau et la Trace. Sur les blessures de soi’, 2003) - ‘Il Reportage’, rivista trimestrale di scrittura, giornalismo e fotografia. Sito web. Link Tabù su enciclopedia.studenti.it. ’Il corpo nudo dell’eroina’, versione integrale on line dal sito di Lello Voce.

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«Toccami» (Annotazioni brevi tra sociologie, filosofie, psicologie, e routine contemporanee italiane) pubblicazione Febbraio 2010 Toccami. E sentirai chi sei - chi sono. Toccami. E capiremo. «Toccami» è una delle richieste che più vengono negate. Negate nelle esternazioni quanto nelle elaborazioni interiori. Negate dalle dimensioni sociali, tra fedi, credi individuali ed etiche moderne. «Toccami» è l’ammissione di un bisogno tutt’altro che preciso o scontato. A determinarne l’effettivo significato intervengono variabili complesse come il contesto, toni, parole, aspettative e corpi. C’è una scena, nel film ‘Parlami d’amore’ di Silvio Muccino dove Sasha (Muccino per l’appunto) dice a Benedetta (Carolina Crescentini): “Toccami”. Che è richiesta travestita da ordine. “Toccami!” diventa sfida, un modo per dimostrare che lui non prova più niente. Non (la) sente. Ma «Toccami» è arma potentissima. Facilmente associabile a circostanze e situazioni erotiche, sessuali, seduttive. Può tuttavia inserirsi in contesti diversi. Tra bisogni della carne ma non necessariamente vincolati al solo piacere. «Toccami» dice Sasha, sottintendendo ‘senti che non ti sento’. Ma può essere anche il contrario. Dire «Toccami» per chiedere di essere percepito, per ‘costringere’ l’altro a riconoscerne la presenza, l’esserci tra aderenze e diversità.

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«Toccami» può diventare anche la semplice richiesta d’un appiglio, unendo le pelli ci si aggrappa l’uno all’altro o unilateralmente. Allora il dirlo sottintende: ‘lasciami restare vicino a te’, non farmi sentire solo. Della potenza, dell’importanza di pelle e tocchi si sono occupate menti illustri come Anzieu, Deleuze, Derrida, Freud, Le Breton, Nancy. Toccare, si crede, è, toccando ciò che si tocca, lasciarsi toccare dal toccato, dal tatto della cosa, oggettiva o no, o dalla «carne» che si tocca e che diventa allora toccante tanto quanto toccata[…] Il toccare, si crede, equivalere al lasciarsi toccare da ciò che si tocca. Significa dunque toccare, con pertinenza, il toccare, il modo simultaneamente toccante e toccato. […] (Jacques Derrida – Toccare, Jean-Luc Nancy, 2000) Ma non è soltanto la pelle e le sue innumerevoli capacità, non è il toccare come azione più o meno intima, dimensione del privato quanto del pubblico. È la richiesta. È dirlo, che fa la differenza. Che sposta traiettorie, angolazioni, percezioni. Dirlo a qualcuno. Dirlo ad alta voce. Dirlo con le consapevolezze piene del Sé, mentre l’Io si ribella, imbavagliato da morali, etiche, fedi e credi. Dirlo è atto identitario. Tradizionalmente si associa alla nudità, al mostrare il corpo senza barriere, poi all’intimità fisica, l’apertura o – almeno – una delle aperture maggiori, una delle più fonde e intense manifestazioni di ciò che si è, di un ‘Io’ disposto a mettersi in gioco (ma non per questo esentato da potenziali mascheramenti, costruzioni del personaggio o necessità di inspessirne alcuni tratti).

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Dire «Toccami» però, può essere ben più identitario di spogliarsi o fare l’amore. Ogni atto sessuale prevede contatti, evidentemente le due dimensioni si mescolano. Ma chiederlo, chiederlo senza necessariamente alludere ad altri gesti, altre aspettative oltre l’ ‘ascolto’ e il ‘percepire’ pelle-contro-pelle; chiederlo è già manifesta apertura-nuda. Si può partecipare a un rapporto sessuale (uno qualunque) e non provare alcunché o qualcosa in particolare. Evidentemente si può anche toccare e restare intrappolati in negazioni di sensi e affezioni. Eppure, come ogni richiesta, lo sforzo di manifestarla, l’attesa della risposta, rendono quell’unica parola meno casuale, meno superficiale, meno insipida di altre. Se poi dalla parola si passa al gesto, al tocco; la pelle che è organo complesso, diramato, poliedrico e meno vincolato a disaffezioni e volontà di negar(si)e a telecomando; la pelle difficilmente cela, costruisce, scherma ciò che è. Solo la pelle può essere nuda. Il corpo nudo non è aperto: né ferito, né operato, né dissezionato. Non dà l’accesso a nient’altro che a sé. Non invita a frugare alla ricerca di energie segrete o di fonti nascoste. È esso stesso segreto e nascosto, ostentatamente nascosto e misteriosamente sottratto allo sguardo stesso al quale si offre nudo. (Jean-Luc Nancy, Indizi sul corpo, 2009) Rispondere

negativamente

a

un «Toccami»

è

comunicazione

pesante, trasmette messaggi potenti. Nelle relazioni sociali, in ogni tipo di relazione, l’assenza di tocco è urlo assordante. Non abbracciare, non sfiorare, non carezzare, evitare sfregamenti, contatti di ogni tipo è messaggio che si fatica a fraintendere. La pelle destinata a rimanere in attesa, destinata a non sentire altro che sé e gli stimoli esterni ma non un’altra pelle, resta mancante di ‘qualcosa’. E di quel ‘qualcosa’ il corpo si

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nutre facilmente, quel ‘qualcosa mancante’ entra nelle capacità di (non) provare affezioni, tra comportamenti e dinamiche di menti e carni. Gli spazi, esteriori e interiori, non fanno che esprimere il ‘pelle a pelle’ dello scambio tra madre e figlio, o al contrario i maltrattamenti, gli oblii, i rifiuti. (Papetti, Tisseron, 1996) La psicosomatica della pelle – o meglio, la fisiosemantica – dimostra che le affezioni cutanee sono malattie causate dall’assenza di contatto, e l’insorgere dell’eczema infantile colma le lacune del contatto tra pelle e pelle. Il bambino si fa carico da sé del proprio rivestimento cutaneo, ma manifesta al tempo stesso – in modo ambiguo – la propria incapacità di essere e la capacità di sopperire agli stimoli di cui viene privato. (Le Breton, 1990-2003) Le barriere di contatto hanno una tripla funzione di separazione tra conscio e inconscio, tra memoria e percezione, tra quantità e qualità. La loro topografia è quella di un involucro a due facce dissimmetrico con una faccia rivolta agli stimoli del mondo esterno, trasmessi dai neuroni e che sta al riparo di uno scudo para-quantità; l’altra interna, rivolta verso la periferia interna del corpo. (Didier Anzieu, L’Io-pelle, 1985) < Non toccarmi> è una frase che tocca, che non può non toccare, anche quando isolata dal ogni contesto. Essa enuncia qualcosa intorno al toccare in generale, o tocca il punto sensibile del toccare: quel punto sensibile che il toccare costruisce per eccellenza (è <il> punto insomma, del sensibile) e che forma in esso il punto sensibile. Questo punto è precisamente il punto in cui il toccare non tocca, non deve toccare per esercitare il suo tocco (la sua arte, il suo tatto, la sua grazia): il punto o lo spazio privo di dimensioni che separa ciò che il toccare accosta, la linea che divide il toccare dal toccato e dunque il tocco da se stesso. (Jean-Luc Nancy, Noli me tangere, 2005)

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Una delle dinamiche sociali più diffuse è legata all’individuazione della potenziale ‘risoluzione’. Per ogni evento imprevisto, accadimento avverso; sforzi, sguardi e intenti sono rivolti all’individuazione della risoluzione possibilmente immediata, definitiva e facile da attuare. Tra mercati, pubblicità e talk show, spesso è comprando qualcosa che la si individua (questa soluzione). Ma coi corpi non sempre tali dinamiche sociali si rivelavano effettivamente, internamente, risolutive. Uno degli esempi più evidenti e comuni riguarda i ‘corpi malati’. Si fa di tutto per curare nella declinazione di scacciare la malattia, o almeno ridurne gli effetti negativi sulle carni. Si fa di tutto per preservare il corpo, limitare i danni del tempo, degli sforzi, dell’invecchiamento cellulare, nonché per impedirne l’esposizione ad agente esterni capaci di modificarne funzionamenti, sanità e benessere in generale. L’equazione è estremamente elementare: corpo sano > malattia > soluzione > cura. A volte la fase ‘cura’ non riporta il corpo all’iniziale stato, non guarisce insomma ma tende a migliorarne la condizione malata. Tende. Cos’ha a che vedere tutto questo con «Toccami»? Di fronte a un corpo malato è la cura intesa come soluzione, che attira attenzioni, impegni e sentimenti. Attraverso ‘la cura’ si manifesta l’interesse, l’affezione, la profondità di un legame. Ma curare troppo spesso presuppone – solo - azioni esterne. Azioni come cercare e consultare specialisti, prenotare esami e visite, accompagnare, fare ricerche, procurare farmaci, organizzare spostamenti e degenze, fornire oggetti atti a ridurre fastidi e isolamenti (giocattoli per bambini in ospedale, letture o musica per malati costretti a terapie periodiche…). Barbara Gozzi Mob +39 392 8055828 -­‐ barbara.gozzi@gmail.com

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Toccare, invece, è azione interna. È collegamento diretto tra corpi. Collegamento che, come già enunciato in precedenza, si dirama tra sensi e percezioni. Specialmente se non ci sono altre soluzioni a cui aggrapparsi, da cercare, afferrare, tentare. «Toccami» è richiesta che difficilmente un malato esprime. La condizione nonsana del corpo potenzia, espande, spezza quei sensi che perfino lo stato-sano sfoca tendendosi alla negazione. Eppure - in talune circostanze - è proprio di quel «Toccami» che si ha bisogno. Oltre (accanto) le cure esterne, chimiche o meno, tra parole ed esami. Oltre. Nel tocco restano intense altre soglie di cura, affezione, possibilità di accompagnare il corpo malato nel percorso incerto, instabile, faticoso che è la ‘non sanità’, l’estrema fragilità delle carni, tra paure, ragionamenti, ipotesi e capovolgimenti. La pelle è tangibile, sente, trasmette, contiene, scatena. La pelle può restituire la dimensione materiale, che le paure risucchiano. La pelle può placare il vuoto attorno, l’assenza del sentire. Confessando che vorrebbe toccare quel corpo o che vorrebbe esserne toccata, là qualcosa di inerme sopraggiunge a quella scrittura. È un’inermità della carezza, un cedimento dei corpi, in cui ogni criterio di possesso viene meno. Il toccare diviene così il luogo in cui ogni proprietà, ogni diritto e ogni pretesa non possono che cedere, rivelandosi nel loro essere insostenibili. Disabitato dalla sua finalità, questo toccare non è più dove sarebbe voluto giungere. È invece tutto avvinto nel suo compimento. Rispetto a ogni volontà di possesso, qualcosa s’intromette e ci abbandona in quel corpo apertamente inerme. […] Il toccare, ben prima di un gesto intenzionale, sarà stato proprio questo: il punto in cui il corpo non si tiene. Ecco perché viene e a te e perché nulla l’avrà mai trattenuto. Là i corpi scoprono la loro prossimità nel fatto di non essere altro che il tocco di questo tatto. Sono tutto sensibilità, sono i nervi scoperti di questo sentire. (Là, una lunghissima deviazione di R.Panattoni e G.Solla, postfazione a ‘Toccare, Jean-Luc Nancy di J.Derrida) Barbara Gozzi Mob +39 392 8055828 -­‐ barbara.gozzi@gmail.com

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Concludendo, «Toccami» nella sostanza oltre che tra apparenze diffuse, galleggiamenti superficiali di comodo, è una delle più evidenti, trascurate e silenziose politiche sui corpi. ‘Politiche sui corpi’ da intendersi nel senso enunciato da Paola Borgna in ‘Sociologia del corpo’ (2005): "[…] comportamenti, morfologia e persino fisiologia dei corpi sono l’esito di un insieme di processi attraverso i quali ciascuna società agisce sui corpi (per tal via

costruendoli,

letteralmente).

Detti

processi

sono

in-formati

da

rappresentazioni (o modelli) sociali del corpo, di suoi aspetti o di sue funzioni: rappresentazioni quasi sempre implicite, condivise nei tratti fondamentali dai membri di una società, parte delle quali costruite e diffuse da attori sociali specializzati, che esercitano una funzione normalizzatrice. I medesimi processi sono all’opera nella vita quotidiana sotto forma di pratiche più o meno routinarie relative al corpo, e sono politici nel senso più puro del termine per il loro essere volti al controllo della varietà sociale; in ciò riflettendo e rinforzando (o cambiando) la distribuzione del potere tra gli individui." Ciò che in alcuni contesti individuali quanto collettivi diventa pratica diffusa: difficoltà a chiedere (il tocco altrui), barriere tra volontà, istinti e bisogni che zittiscono la pelle (propria e non), le anaffettività dilaganti, l’impossibilità (più o meno temporanea) di ascoltare quel ‘sentire’ che dai tocchi dirama; tutte queste pratiche sociali sono – oggi, in Italia – volte anche al controllo nonché il potere tra-sui corpi (pensiamo all’enorme potere dell’assenza di tocchi tra una madre e il figlio, pensiamo alle potenziali conseguenze presenti e future, pensiamo alla forza di questo potere imposto e subito. Ma anche: pensiamo alle dinamiche di controllo in un legame affettivo dove i sentimenti in ‘gioco’ hanno differenti pesi per i corpi coinvolti, pensiamo ai sottili ricatti che i tocchi-non-tocchi possono scatenare). Tutte politiche non solo italiane, non solo contemporanee, probabilmente non collegabili direttamente a un’identità nazionale consapevole. Barbara Gozzi Mob +39 392 8055828 -­‐ barbara.gozzi@gmail.com

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Eppure basta poco. Un piccolo riscontro individuale che chiunque può tentare: quante volte avete detto o vi è stato detto«Toccami»? Non tra le pagine di un romanzo, non attraverso schermi o fiction entro i reality che le vite di tutti sono costretti a subire: quante volte nel vostro intimo avete registrato l’espressione «Toccami»? Annotazione a margine di questa trattazione ma pertinente: anche nel morire si sta assistendo a veri e propri mutamenti nelle gestioni dei corpi e dei tocchi. Scrive Carlo Alberto Defanti in ‘Soglie. Medicina e fine della vita’: "Un altro aspetto della morte negata è la sua dislocazione: essa avviene nell’8o per cento dei casi in un ambiente medicalizzato, sia ospedale o casa di riposo. Si muore fuori casa, a contatto con personale di assistenza che ha sue regole e che richiede tacitamente al morente di mantenere quello che gli anglosassoni chiamano ‘acceptable style of facing death’ (stile accettabile di affrontare la morte), ossia un contegno emotivo dignitoso. […] Scrive Ariès nel 1975: « La morte all’ospedale non è più l’occasione di una cerimonia rituale.. […] La morte è stata scomposta, spezzettata in una serie di piccole tappe di cui, in definitiva, non si sa qual è la morte vera, quella in cui si è perduta la coscienza oppure quella in cui si è perduto il soffio… Tutte queste piccole morti silenziose hanno sostituito e cancellato la grande azione drammatica della morte e più nessuno ha la forza o la pazienza di attendere un momento che ha perso una parte del suo senso»." Senza alcuna pretesa di comprensione generale men che meno accusare o condannare qualcuno o qualcosa in particolare: quante volte avete chiesto o vi è stato chiesto di toccare un morente? (Attenzione: non un ‘morto’, ma qualcuno che ‘sta’ morendo).

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Bibliografia Jacques Derrida – Toccare, Jean-Luc Nancy, 2000, edizione Marietti del 2007. Jean-Luc Nancy, Indizi sul corpo, 2009, Ananke. Jean-Luc Nancy, Noli me tangere, 2003, prima edizione Bollati Boringhieri del 2005. David Le Breton, La pelle e la traccia, 2003, edizione Meltemi del 2005. Didier Anzieu, L’Io-pelle, 1985, edizione Borla del 2005. Paola Borgna, Sociologia del corpo, Laterza, 2005. Carlo Alberto Defanti, Soglie – Medicina e fine della vita, Bollati Boringhieri, 2007.

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