A te che c’eri e sempre ci sarai
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L’essenza delle cose di Barbara Gozzi
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1. Passato remoto. La macchina si ferma davanti a un cancello basso, ne scende un uomo distinto, infagottato in una sciarpa grigia enorme annodata in modo impeccabile. L’uomo apre il cancello, risale. La macchina si spegne nel piccolo cortile davanti alla casa. C’è buio, non si sentono rumori particolari. Scendendo di nuovo dalla macchina, l’uomo sembra scusarsi: «Non è l’orario migliore per venire, la casa non è più abitata da qualche mese e i proprietari hanno staccato l’illuminazione esterna, come vede». Dal lato del passeggero sbuca un secondo uomo, alto, slanciato, indossa un giubbotto di jeans da cui spunta un maglione di lana rossa, cuffia blu a coprire testa e orecchie, barba rada e naso aquilino. S’allontana dalla macchina, gli occhi seri e concentrati a fissare il giardino, poi la facciata della casa. L’odore dell’aria è umidità mischiata a qualcosa di intenso, il secondo uomo è certo che siano abeti rossi le sagome delle piante oltre la proprietà. Originariamente c’erano solo pascoli, poi nel secondo dopoguerra vennero piantati abeti e pini. In questa zona, il secondo uomo è certo che siano abeti rossi. Anni fa acquistava un’essenza di trementina che trovava solo in via Pietralata, ci puliva i pennelli. S’imparano molte cose quando non le si cerca, il secondo uomo non ha dubbi. «Le dicevo prima, che il centro di Monzuno è a meno di un chilometro. Qua dietro, come ha visto, c’è l’imbocco dell’autostrada». Parla a voce alta, chiude la macchina e si trascina una cartella stretta sul fianco sinistro. Trasale quando si ritrova il secondo uomo proprio davanti, gli viene il sospetto che sia pelato con quell’enorme cuffia di lana sagomata perfettamente per il suo cranio. Il buio ha la densità della gelatina. «Ci sono quattro camere al primo piano, un ingresso». Indica il portone principale: «Quello, si accede direttamente alla cucina arredata. Accanto c’è un ampio salotto con camino, sala da pranzo, studio. Un bagno al piano terra e due al primo, non di grandi metrature ma funzionali». «La prendo». «I proprietari, sa com’è, han due figli da sistemare, cercano di monetizzare in fretta per essere schietto, il prezzo è quello che le dicevo anche per questo, poi ci sarebbero alcuni interventi da fare prima di». «La prendo. Non si preoccupi dei soldi, rispetterò i tempi. Al resto penseremo dopo».
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L’uomo s’incurva: «Non mi fraintenda, è che non ha idea di cosa mi tocca vedere ogni giorno». Le parole se le ingoia il buio, il secondo uomo sta già aspettando accanto alla macchina. L’agente immobiliare sbircia il cielo scuro, appena un puntino brillante in un angolo. Raggiunge l’auto. Le suole delle sue scarpe producono un fastidioso rumore sull’erba bagnata. Rientra. Il cliente è serio, si è tolto la cuffia blu, si sistema alcune ciocche nere finite davanti agli occhi prima di allacciarsi la cintura di sicurezza. Il giovane agente ingrana la retromarcia e, mentre guida fuori dal cortile, suda. Il passeggero tiene in mano la cuffia, si è slacciato i primi bottoni del giubbotto, il rossa intenso del maglione sembra un catalizzatore tra il candore ghiacciato dell’abitacolo. Il giovane agente scende, richiude il cancello, controlla di averlo fatto correttamente, risale. Fissa il cliente che sbircia fuori dal finestrino. La macchina s’allontana lentamente. Non ha niente da dire, il giovane agente. Si limita a guidare. In agenzia gli hanno spiegato che il cliente ha fretta di trovare un’abitazione, è morta da poco la sua compagna, l’appartamento in cui stavano assieme è già stato venduto. L’immediata periferia bolognese è un mercato mai stanco. Gli hanno detto di lasciarlo stare, assecondarlo. Il giovane agente tace. Si concentra sulla coda di rospo al forno, che fra un’ora ordinerà in via D’Azeglio.
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2. Presente, Venezia. Quando Donato si sveglia la prima cosa che sente è un dolore diffuso, indistinto, e irradiante. Gli basta un’occhiata per mettere a fuoco, è la terza volta in un mese o poco più, ormai si è abituato. Si trova nel tipico stanzone da sei posti letto, soffitto bianco, due finestre, un tavolino verso il centro. Accanto a lui russa un uomo seppellito da strati di coperte. Fortunatamente alla sua destra c’è il muro beige, scrostato, e più oltre una delle due finestre. Fortunatamente per Donato perché potrà mettersi sul fianco destro e non vedere gente. Ci prova, a mettersi sul fianco, fa leva sul materasso, si sforza. Niente. La gamba sinistra è trattenuta, realizza che è ingessata e in trazione. Anche il braccio è fasciato, sempre il sinistro, ma non ingessato. «Eccolo qui, il nostro paziente a sorpresa si è svegliato». Il dottore è giovane, sembra un ragazzino. Ha occhiali dalla montatura leggera su un viso liscio, un dolcevita azzurro che sbuca dal camice, un mezzo sorriso. Si ferma davanti a lui, i suoi occhi passano dalla cartella appesa davanti al letto, ad altri documenti che ha in mano. «Allora, gli esami ci fanno ben sperare». La voce del dottore è squillante. «Sperare cosa?», il volto di Donato si contrae, concentrato e sofferente. «Che la si possa sbattere fuori di qui in tempi record». Il volto del paziente non reagisce. «A patto che ci dica cos’è successo ieri notte». Il dottore afferra una sedia, rivolta verso l’uomo che russa, la gira e si siede: «Ancora niente?» Ci pensa, Donato. Si prende tempo per ricostruire. Ieri notte. Dov’era? A casa. Si è messo a letto dopo mezzanotte o poco prima. Poi? Poi. Corruga la fronte, ci riprova. Dov’era. A casa. Chi c’era? Nessuno. Sono mesi che vive solo nel monolocale, da quando se n’è andata Vera. Il dottore lo sta fissando. Donato non demorde. Ancora: dov’era? A casa, ha dormito nel suo letto, è lì che l’hanno trovato i paramedici che l’hanno soccorso, nel suo sangue. «Ho capito». Il dottore si alza, inspira abbassando lo sguardo: «Signor Balazin, non so ancora cosa pensare», inspira ancora. «La sua cartella segnala altri episodi del genere».
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Torna a guardarlo: «Non la posso dimettere, stavolta, senza sapere cosa le è successo ieri notte. L’hanno trovata per terra, in casa era solo, l’ho letto nel referto. Ma qualcun altro ci doveva essere, signor Balazin, qualcosa deve essere successo per ridurla così, non le pare?». Donato tace. Ha ancora la fronte corrugata, lo sguardo concentrato. Cos’è successo? Chi c’era? Gli occhi di Donato si volgono alla gamba ingessata, il braccio fasciato. La mente riporta a galla il rosso del sangue. È il sangue di ieri notte, lui lo sa, il suo sangue che non vuole rispondere. Sono le diciotto e dieci quando portano la cena. Un bambino, dieci anni al massimo, si ferma davanti al letto di Donato. Ha il volto abbronzato, i capelli cortissimi pieni di gel: «Se l’aiuto, mi racconta chi è stato? Ho scommesso con mia sorella una settimana di Play tre».
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3. Passato prossimo, Venezia. «Glielo devi dire tu». «Stai scherzando». L’uomo è mingherlino, un metro e sessanta appena, s’intravvedono i muscoli dalla maglia di cotone a maniche lunghe, pantaloni in stile militare deformati e sporchi dal ginocchio in giù, scarponi con suola a carro armato d’un colore indistinguibile tra macchie e fango secco. «Tu-stai-scherzando». La voce è secca, appena più alta del normale, spezzata. Donato lo guarda stando seduto sulla sedia di plastica, accanto il tavolino di metallo ricoperto da grumi di fogli, oggetti d’ogni tipo, pezzi di legno, campionari, raccoglitori. «Tutto questo è assurdo», l’uomo è il socio di Donato, Almir. I genitori di Almir, originari di Burrel, capoluogo del distretto di Mat nell’Albania centrale, si trasferirono in Italia negli anni Sessanta, Almir nacque a Chioggia. «Assurdo, assurdo», Almir tiene la testa bassa, gli occhi chiusi, le dita strette sul collo, i palmi verso le spalle come a volerli trattenere, come se collo e spalle potessero sganciarsi dal resto del corpo da un momento all’altro. Donato s’asciuga sudore e lacrime. Si alza. «Ho tentato di tutto, lo sai», gli sfiora la schiena, «È finita». «Ma come? Come?» Almir s’allontana, si sposta nel piccolo ufficio ricavato dal capannone in prefabbricato. Cammina e gesticola, ogni muscolo si tende, contrae, gonfia, tira, piega. «Come Donato, come? Abbiamo richieste, commesse, solo la settimana scorsa ho fatto due sopraluoghi, e i preventivi? Eh? I preventivi non contano?». «Almir», Donato fissa il pavimento sudicio. «Comunque hai ragione: sono il capocantiere per il progetto di via Mazzarenti. Glielo devo dire io». La voce resta ferma stavolta, dura: «L’ultimo progetto», Donato si sente osservato, Almir ha lo sguardo rivolto verso di lui ma non guarda lui. «Ho tentato di tutto, lo sai, le banche non ci concedono più linee di credito, i fornitori non sono più disposti a farci altre dilazioni, poi ci sono gli arretrati, gli stipendi, le rate
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del furgone, e». Donato s’interrompe. Almir non lo sta ascoltando, esattamente come non lo vede. Donato sa di avercela messa tutta, sono mesi che lotta contro il demone del fallimento, mesi che ci rimette, ha prosciugato ogni conto, perfino i suoi risparmi personali, ha chiesto prestiti, tentato tagli, cambiato materiali e fornitori, limato preventivi per ottenere più commesse, concordato l’eliminazione degli straordinari e degli extra coi dipendenti. Ma il fallimento è arrivato. Ora bisogna dirlo agli altri. E Donato non ci dorme da una settimana. Ha affrontato di tutto nella sua vita, ma dirlo agli altri è tutt’altra faccenda. Donato sa che non può, questa volta non può. Almir, invece, il socio lavoratore, l’esperto di fondamenta, calcestruzzi, pitture e cartongessi. Almir, il mago dei materiali, che sa rendere su misura ogni angolo, ogni spazio e mobilio a disposizione. Almir deve licenziare gli undici dipendenti. «Mi fidavo di te, non è una novità che con le scartoffie non ci capisco niente, non sono portato per la burocrazia italiana». «Per quella albanese, sì?» La risposta acida gli scappa svelta. Donato vede gli occhi di Almir addensarsi, vede il corpo che s’irrigidisce, diventa un palo. Donato non prova alcun rimorso. «Sei un fottuto bastardo», la mascella di Almir si muove appena. «Non-dare-la-colpa-a-me». A Donato inizia a scaldarsi la testa, o così gli sembra, «Hai presente i cinesi che hai visto dai Silvestrin? E dai Domenichini? E alla villa di Mestre?» Almir annuisce, un palo con appena alcune onde. «Quelli si sono presi almeno il venti per cento del nostro giro abituale. Se poi ci aggiungi che i clienti pagano meno, fanno più fatica a rispettare le scadenze, e gli aumenti nelle materie prime che già sai, la riduzione negli appalti… devo continuare?» Almir non si muove. Respira piano. «Siamo tutti nella merda, cosa credi?» Donato sente il nodo stringersi, il cerchio alla testa si fa di cemento, il dolore pulsa e s’allarga. «Ma non dare la colpa a me, non più di quanta ne abbiamo tutti». Almir afferra la giacca lasciata sul gancio interno della porta. «Le colpe saranno anche di tutti, ma sei tu quello che da un giorno all’altro ci lascia col
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culo per terra, sei tu lo stronzo che vuol fare il capo ma non ha le palle per licenziare». La porta chiudendosi scatena un cigolio basso. La Edil-sé smette di respirare. Donato resta in ufficio. Non mangia. Non dorme. Non si muove. Resta seduto in quello che era il suo ufficio dentro quello che era il capannone della Edil-sé finché sente bussare attraverso la porta in metallo. È ora di liberare la salma, di lasciarla andare.
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4. Presente, Venezia. L’aria è gelida. La nebbia nasconde muri, ponti, calli. La notte copre tutto. C’è un gruppo di ragazzi che cantano ad alta voce, ubriachi, attraversano il Ponte di Rialto, le sagome se le ingoia l’atmosfera, i rumori s’affievoliscono pian piano. «Pensavo peggio». Donato alza la faccia dal tavolino, in piedi davanti a lui Vera tiene le mani in tasca, i lunghi capelli mori sciolti e selvaggi sul giubbotto lucido. «Sono passata da casa tua», il volto di Vera è piatto. Donato tenta di raddrizzarsi ma la gamba ingessata fa resistenza. Lei continua a guardarlo dall’alto del suo metro e ottantadue. Gli occhi verdi luminosi. «Si può sapere che stai combinando?». Donato sospira. Butta giù l’ultimo sorso della birra media che ha davanti, la terza da quando si è seduto fuori dal solito bar. «Non vedi come sei conciato?». «E a te cosa ne viene?», lui poggia il bicchiere sul tavolino in ferro umido. Vera d’improvviso gli si siede davanti. «Che c’è?», Donato tenta di reggere il suo sguardo. «Le mie scuse sono state accettate?». Le incurva la schiena, posa le braccia sulle cosce, le mani a penzoloni: «No». Si fissano in silenzio. «Almir ha visto l’ambulanza sotto casa tua, due settimane fa». Donato storce la bocca, si massaggia una tempia coi polpastrelli. Almir, ovviamente. Almir il cugino di Vera. Vera, la sua ex compagna. «Si può sapere in che razza di casini sei, stavolta? Una di queste volte ti rompi il collo, te ne rendi conto?» Ha alzato la voce, resta piegata verso di lui, tra lui e la gamba ingessata. «Dò? Ma che cazzo fai? Stai ancora pieno di debiti? Dò?». Altro sospiro lungo, lui posa le mani sui braccioli stilizzati della sedia, gli occhi stretti, seri: «Cosa vuoi, Vera?». La donna apre la bocca, la richiude. Piega la testa verso il basso, la rialza: «Chi è che ti riduce così?».
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«Non lo so», attraverso la porta aperta del bar, Donato fa un cenno al barista, Luca, che gli risponde riempiendo un altro bicchiere con birra alla spina. «Cos’è che non sai? Dò, ma ti senti?». Luca li raggiunge con passo svelto, quasi saltellando. Posa il bicchiere pieno, recupera quello vuoto, un rapido sorriso a Vera ed è di nuovo dietro il bancone. Ci sono solo altri due avventori dentro. Lui afferra il bicchiere pieno: «Non-lo-so». «Ma per favore!», la voce di Vera s’incrina. Donato finisce la birra quasi in un unico sorso. Facendo leva sui braccioli della sedia si alza barcollando, afferra la stampella prima che lei possa allungargliela. Anche la donna s’è alzata, nel frattempo. «Non ho altro da dire». La guarda un paio di secondi, mezzo minuto, il tempo scorre a modo suo. Vera deglutisce, resta immobile finché lui annuisce con una smorfia, poi s’allontana entrando nel bar, al banco paga, esce continuando a guardarla, la stampella rigida davanti a sé. La fissa fino all’ultimo secondo, finché svolta a destra e s’allontana con passo deciso. Gli occhi prendono a lacrimargli. Ha ancora in bocca il sapore del sangue di quella sera, della maledetta sera in cui colpì la mentre litigavano, con gli occhi accecati dal fallimento, i debiti a premergli sulla testa, e lei che si difendeva, lo accusava di questo e quello che ora Donato non ricorda. Ma il colpo sì, quello lo ricorda fin troppo bene. E gli strattoni sulle braccia sottili, il pugno a raggiungerle una spalla, la carne di lei tra le nocche, poi lo schiaffo. È stato allora che il sangue gli ha raggiunto la bocca. La stampella lo rallenta, la gamba lancia scosse intermittenti. Donato non si ferma, accelera.
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5. Presente, Venezia. Una bottiglia ruzzola sotto il letto. L’etichetta sul corpo della bottiglia recita Havana Club, la pelle di vetro non contiene niente, l’aria fresca entra dal collo. Donato ha gli occhi aperti. Il letto è un ammasso di molle, coperte maleodoranti, cuscini piatti e unti. Gli scuri accostati aiutano la semioscurità, smussano spigoli. Donato non si muove, tiene gli occhi aperti ma non sempre vede qualcosa. Li tiene aperti per non dormire. Ci è riuscito la notte appena passata. Crede di poter restare così anche la notte che arriverà. Altre bottiglie sul divano, sul tavolino in compensato con una gamba traballante, tra il water chiazzato d’escrementi e il bidè, dentro il forno incrostato. Un numero imprecisato dentro una serie di sporte appese alle maniglie dei ripiani in cucina. Donato non le vede, le bottiglie non esistono finché non le vede e lui non vede, resta a letto, sdraiato comodo, gli antidolorifici per terra, distanti l’estensione del braccio sinistro. Il riscaldamento è spento, non per un guasto o una dimenticanza, le bollette non vengono pagate da oltre sei mesi. Sulla sedia all’ingresso s’ammassano buste e fogli scomposti. Il piumone vinaccia, comprato con Vera l’ultimo Natale assieme, lo copre fino alle ascelle. Donato non dorme perché è stanco di svegliarsi insanguinato, livido, con qualcosa di rotto o incrinato, la pelle scorticata, i muscoli indolenziti, la testa pesante e senza ricordi. Donato non dorme perché è sicuro solo di se stesso, qualunque cosa gli succeda aspetta che lui non sia vigile, aspetta che i sensi l’abbandonino, aspetta che la mente non registri. E quel qualcosa sta peggiorando, gli riduce il corpo in poltiglia sempre più spesso, neanche aspetta che le cicatrici si rimarginino. Quel qualcosa ha intenzione di divorarselo lentamente, ormai Donato non ha più dubbi. Di motivi ce ne sarebbero tanti, Donato è un animale randagio inferocito che vorrebbe non ricordare, vorrebbe non sentire quel miscuglio di cose che lo stendono ogni volta, faccia a terra nella merda. Invece succede, ricorda. La base del collo irradia scosse verso il basso, verso le spalle e la schiena, poi verso l’alto, dentro la testa fino a contaminare fronte e tempie.
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La stanza è grigia, gli occhi aperti, l’aria fresca. Il grigio è figlio degli scuri accostati e del bianco che da fuori battaglia per entrare attraverso gli spiragli lasciati dal legno degli infissi. Fuori il cielo è bianco. Nevica.
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6. Passato remoto, Mestre La signora Lucia non parla. In sala, Sonia sonnecchia sul divano, il brusio del televisore e la luce spenta. Sono le quattro, il palazzo tace. Dal letto, le pupille della signora Lucia si muovono lente, da destra a sinistra, tra ombre, e aloni. I reni non le funzionano più. La sacca dell’urina è piena per appena una sottile striscia. Il liquido opaco, d’un giallo chiaro e grumoso assomiglia a un dito messo in orizzontale. La sacca è stata cambiata dall’infermiera del diurno verso le sei della mattina precedente, Sonia ha chiesto chiarimenti al dottore a domicilio che è venuto verso mezzogiorno, ma lui di risposte non ne aveva. Non urina. Punto. Le terapie son state tentate tutte. Punto. Di darla in pasto a chirurgia neanche a parlarne. Punto. Davanti agli occhi della signora Lucia sono appena apparsi tante smorfie, e colori. I suoi ragazzi. Non ricorda per quanti anni ha insegnato, ma ne vede sempre tanti. Stanotte però qualcosa di diverso le ha occupato il palcoscenico. Donato li ha mandati via tutti. È rimasto solo lui, serio, spelacchiato. Sono passati tre minuti, la signora Lucia ha capito. Il buio c’è già, il silenzio pure. Quando Sonia si sveglierà – forse fra un’ora o un’ora e mezza – il suo corpo sarà già fresco, non ci sarà bisogno di fare un gran baccano, alla signora Lucia non sono mai piaciuti gli schiamazzi. Quattro minuti dopo le quattro. È ora. Il fiato della signora Lucia - che nelle ultime settimane è stato prima faticoso poi affannato - ora, semplicemente, sparisce. Le mani e i piedi, da alcuni giorni sempre più gonfi e violacei, si rilassano. C’è però un’ultima cosa che la mente di Lucia registra, una cosa che sembra strozzarla, le resta incastrata in gola. Non andrà bene. Lei ci ha provato. Era il’78 quando Giovanni, il padre di Donato, se ne andò. Non se ne seppe più nulla, sparì. Donato aveva undici anni, era vivace, intelligente. Lei però sentiva che qualcosa, in lui, brillava. Avrebbe costruito grattacieli e ponti, la signora Lucia ne è stata certa finché ha saputo del fallimento dell’impresa. Era così disperata
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che ne ha parlato perfino con un ex studente, il buon Pierfrancesco, quando ancora Sonia la portava fuori in carrozzina. Pierfrancesco che ormai è un uomo ben piantato, anche lui un insegnante dal sorriso enorme e i corti capelli scuri, da artista misterioso. È ora. E la mente della signora Lucia non riesce a scacciare quella cosa, incastrata. Non andrà bene. Povero Donato. Che si può fare? Cinque minuti dopo le quattro. Sonia si gratta il mento, c’è una mosca fastidiosa in casa. Ha i capelli mossi sparpagliati sul bracciolo del vecchio divano rivestito d’un verde pisello ruvido. Ormai si è abituata, è la seconda anziana che assiste a tempo pieno. Meglio che finire in un call center o in fabbrica per quattro mesi qui e sei mesi là. La mosca le si ferma su una ciocca chiara alla base della nuca.
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7. Presente, Venezia. L’appuntamento è per l’una in punto. Donato arriva con un’ora d’anticipo. La giornata è molto umida ma il sole sembra essersi deciso a uscire dopo un’intera settimana di bianco e qualche spruzzata di neve. È arrivato imprecando contro la stampella, il ghiaccio a terra, i turisti cinesi che sbucano ovunque e con quelli tedeschi che fanno sempre un gran casino per niente. Lungo i Giardini Ex Reali, Donato s’impossessa d’una panchina, la occupa col suo corpo, con la stampella e il piccolo zaino che ha portato con sé. Rabbrividisce appena. La donna che gli si avvicina non è alta, infagottata in un cappotto verde che deve aver visto giorni migliori, gli si siede accanto mentre lui sposta la stampella incastrandola dritta tra le assi della panchina. Si presentano. Lei si sbottona la parte alta del cappotto, dalla borsa a tracolla recupera una sciarpa in pile, se l’arrotola attorno al collo rimasto scoperto. Donato la osserva con attenzione: «Mi dica tutto». Al telefono gli ha accennato d’una proposta di lavoro in una casa nel bolognese, ma è stata molto vaga, ha insistito perché s’incontrassero lì, nella sua città. “Sarò comunque a Venezia nei prossimi giorni” – gli ha detto. Ed eccoli lì. Seduti. Davanti a loro, oltre il parapetto, oltre il cemento e la vegetazione attorno: l’acqua. «Si tratta di un lavoro semplice», esordisce accavallando le gambe. «La casa si trova nelle colline bolognesi, vicino al Parco di Monte Sole, prima di Sasso Marconi, non so se ha presente la zona», Donato fa segno di no con la testa. «Ad ogni modo, se accetterà, potrà restare in casa tutto il tempo necessario a sistemarla». «Sistemarla in che senso?» C’è sempre una fregatura, Donato ne sente la puzza. Lei tira fuori una piantina in scala e gliel’allunga: «La situazione la vedrà andandoci, è inutile ora spiegarle stanza per stanza. Il proprietario non se ne cura da quasi due anni, ha bisogno di essere sistemata, ci sono parti da stuccare, aloni di muffa al piano terra, poi naturalmente un’imbiancata generale, alcune piastrelle del bagno al primo piano sono da sostituire, il pavimento di legno delle stanze sempre al primo piano è da lucidare ma prima forse sarebbe il caso di trattare il legno, comunque deciderà lei dopo aver valutato la situazione. Io non me ne intendo granché di queste cose».
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Mentre Donato si soffia il naso la donna gli allunga una busta di medie dimensioni, chiusa: «Ho fatto preparare il mandato per i lavori, nel caso accettasse le basterà firmarlo e inviare la seconda copia all’indirizzo che trova qui sul retro, vede?» Donato annuisce. È uno studio privato di consulenze legali. «Mi faccia capire», Donato si raddrizza sulla panchina scomoda, la schiena inizia a farsi sentire. «Mi sta dicendo che mi paghereste per sistemare la casa da solo?». Lei incrocia il suo sguardo: «Gliel’ho detto, il proprietario non la usa da tempo, non c’è fretta. Verrà pagato regolarmene ogni mese, trova tutto scritto. Non appena avrà firmato, riceverà un anticipo per le spese iniziali, i materiali e tutto il resto». Fa una pausa. Si riabbottona il cappotto verde: «Al proprietario non interessa come la sistemerà… colori, finiture e così via. Basta che sia fatto bene». «Insomma ho carta bianca o qualcosa del genere». «Qualcosa del genere, sì». La donna si alza: «Valuti pure con calma, potrebbe iniziare già dal mese prossimo se le sue condizioni glielo permettono», lancia un’occhiata alla stampella. «Non ci saranno problemi», a Donato sale un vago disagio: «Scusi, ma lei chi è? E perché io?» Lei muove i primi passi: «Conosco il proprietario. Perché no?». Gli volta le spalle e se ne va.
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8. Passato prossimo, Venezia. Se n’è appena andata. Una serie di occhiate, un paio di bicchieri, le prime leccate per strada. Non ha gradito molto il posto, impossibile darle torto. Donato s’aggira per casa. Non s’è preso il disturbo di vestirsi. Il freddo lo sente ma non gli dispiace. S’è appena fatto una doccia bollente, l’odore dolciastro gli era rimasto addosso, un profumo martellante, fastidioso. Non è andata male. Lui ha eiaculato, lei gli ha morso una spalla, hanno sudato, si sono concessi qualche giochetto. È andata come doveva. Dopo la doccia, a Donato viene fame. Si scalda due pezzi di pizza nel tostapane. La pizza la compra nel locale di Azibo che ha preso in affitto due stanzette abitate per anni dal negozio di souvenir e bigiotteria artigianale della signora Isis. Alla Sacca della Misericordia quella donna alta e magra – i capelli rossastri sempre trattenuti da mollette scintillanti, il corpo coperto da strati e strati di tessuti colorati – è sembrata l’ennesima immigrata dalle origini lontane e la vita pellegrina. Donato ci ha sempre riso su. Isis viene da molto vicino, dalla Borgogna. Ha aperto il negozio di bigiotteria artigianale e souvenir veneziani dopo la morte del compagno. Trent’anni di vita comune, poi lui è morto. E Isis ha deciso di lasciare tutto, casa, radici, contatti, per ricostruire altro in Italia, lì a Venezia. Donato l’ha aspettata fuori dal negozio il giorno della chiusura. Ha aspettato senza farsi vedere finché lei è uscita, ore venti e dieci. Isis nascosta da strati di colori ha chiuso la saracinesca, gli occhi puntati sui gesti meccanici, due borse per terra, i resti di quel mondo veneziano. Donato si è avvicinato nel buio, ha raccolto una borsa, lei si è voltata con uno scatto, si è calmata subito. Si sono guardati annuendo. Non c’era molto da dire. Isis ha l’Alzheimer. Torna in Borgogna, sua sorella si è offerta di aiutarla. È molto stanca, Isis, ha una gran paura che stavolta senza mente non se la caverà. C’è riuscita senza lavoro negli anni settanta, senza la madre dall‘83, poi è stata fortunata finché ha perso il compagno e ancora se l’è cavata, anche in un paese straniero, anche vendendo piccole magie delle mani e sogni sempre più svalutati. Stavolta le sembra impossibile, senza mente chi può farcela? Donato è rimasto zitto. Non sapeva cosa rispondere. L’ha accompagnata a casa, l’ha abbracciata. Isis gli ha lasciato un braccialetto fatto di pietre e perline luccicanti. Per quando ritorni, gli ha detto seria.
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Donato avrebbe voluto abbracciarla ancora ma lei già s’affaccendava per salire la piccola scala scivolosa nell’atrio del palazzo. Poi sono arrivati Azibo e i suoi tre fratelli. Hanno lavorato per un mese nei due locali finché la scritta Kebab & Pizza s’è illuminata. A Donato non piace granché la pizza di Azibo. Gli è comodo andarci, spende qualche euro e si sfama per giorni, è la soluzione perfetta per lui. Ogni tanto Azibo gli fa lo sconto. “Stessa barca, bello” - gli dice con quel sorriso che a Donato ricorda il sole. Non tornerà. Donato mastica l’ultimo pezzo di pizza, l’unto gli cola sul mento, se lo toglie strofinandoci il braccio. L’unto si spalma tra pelle nuda e peli. Non ha fatto storie per i lividi lungo la schiena, glieli ha leccati lentamente. Né per il gesso nel mignolo della mano destra. Gli animali non fanno storie, a Donato non sembra poi così strano che alla Sacca della Misericordia, forse in tutta Venezia, siano rimasti gli animali. Gli umani vanno e vengono, gli animali restano, quelli più feroci, con l’istinto di conservazione a mantenerli respiranti, pronti a cacciare, accoppiarsi e dormire. Gli animali riconoscono i terremoti. E le essenze delle cose. Donato però disconosce il branco. A lui non interessa ciò che accade nel quartiere, in città, in Italia o nel mondo. Non gli interessa nemmeno ciò che accade a se stesso. Il braccialetto di Isis è finito sulla mensola sopra il piccolo tavolo in cucina.
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9. Presente, colline bolognesi. Almir lo accompagna in macchina. Ha una vecchia Ford tenuta assemblata più dalle preghiere che dalla meccanica. Donato lo ha lasciato fare. Negli ultimi mesi Almir ha lavorato per un architetto fresco di laurea: piccole ristrutturazioni, interventi col cartongesso, ripristino dei servizi igienici. Almir non si lamenta, l’unica volta che Donato l’ha visto seriamente incazzato è stato quando hanno chiuso la Edil-sé. È andata avanti per oltre sei mesi, poi gli è passata. Almir non ha nemmeno la faccia dell’incazzato. Non sa però cos’è successo con sua sorella. Vera non l‘ha detto a nessuno, della volta che l’ha picchiata. Picchiata in effetti è una parola molto grossa, Donato se la tiene tra la punta della lingua. Si è trattato di un paio di strattoni e di un pugno sulla spalla. Il livido però si è formato subito. Il colpo c’è stato. L’intenzione di farle del male anche. Nella sostanza il risultato finale per Donato è che l’ha picchiata, lui sa e lo ricorda. Vera anche. Forse sarebbe stato meglio dirlo, Donato ancora se lo chiede. Almir non lo avrebbe mai più perdonato. Non come Vera, Donato gliel’ha letto negli occhi quella notte che si sono visti fuori dal bar. Vera non è il tipo da tornare indietro, si rialza senza piagnucolare. Non lo rivuole, ma l’ha perdonato. Potrebbe ancora dirlo, ma ogni volta che Donato vede Almir le parole spariscono, non esistono. S’innesca un meccanismo che si autoalimenta. Ogni volta che ci pensa, a Donato sembra di aver perso troppo e troppo in fretta, in una manciata di minuti: la fiducia e il rispetto di Vera, la dignità e la sua donna. Ha perso il controllo. Ha perso la capacità di perdonarsi. Almir lo accompagna fin davanti il cancello del casolare. La Ford tossicchia in alcune salite. Da Mestre a lì il tragitto è stato più lungo del previsto, tre ore abbondanti. Almir è diventato molto prudente alla guida, non può rischiare problemi con la patente o non saprebbe come continuare i lavori per l’architetto. Almir ogni tanto sorride. Scendendo dalla macchina Donato lo ringrazia, ormai ha imparato a muoversi da solo con agilità, la stampella se l’è portata solo per precauzione. Almir lo guarda attraverso il finestrino abbassato, il volto corrucciato. Donato afferra il borsone, se lo issa sulla spalla destra per bilanciare il peso del gesso a sinistra. «Vedi di passeggiare poco, che non sei ancora un supereroe». Il volto di Almir tradisce
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la preoccupazione. Lasciarlo solo in quel posto desolato, così lontano da Venezia, così lontano da tutto e per di più con una gamba fuori uso e un braccio malandato, non gli va giù. È pur sempre un lavoro, questo sì. È pur sempre un modo per non doversi preoccupare della prossima stronzata di cui sarà regista e attore principale. La Ford riparte, è un benzina e consuma in modo scandaloso ma in quanto a partenze è peggio d’un diesel, un somaro che rincorre una carota. Donato aspetta che il rumore si sia allontanato. Apre la zip di una delle tasche sei pantaloni sportivi. Le chiavi tintinnano. Le cime di un gruppo di alberi si muovono, le chiome coniche e strette assecondano i movimenti del vento. Le cortecce bruno-grigiastre sono ricoperte di placche. Gli aghi, colpiti dalle folate improvvise, s’incurvano appena. Il fruscio è appena percettibile.
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10. Passato remoto, Mestre L’appartamento è sempre lo stesso. Donato ci entra di fretta e non ha bisogno di guardarsi in giro. Ogni cosa è come la ricordava. Il cucinotto bianco e nero, il divano d’un verde stomachevole, il bagno coi tappetini sfrangiati color pesca. Nella camera di sua madre, invece, il leggero disordine non gli è famigliare. Non ci è entrato neppure quando il suo corpo era ancora sul letto. Si è accordato con quelli delle pompe funebri, col fioraio, e il funzionario del comune per scegliere il loculo e sbrigare le pratiche. Ma in casa, in quella stanza, non c’è entrato. Lui e le cose morte non possono occupare lo stesso spazio, Donato l’ha capito presto. Sonia tossicchia per attirare la sua attenzione. È una ragazza discreta, fianchi larghi e capelli chiari in perenne battaglia con la gravità, ma carina. A lei, Donato non è mai piaciuto. Si sono incontrati quando l’ha assunta per sua madre. Poi qualche telefonata. Le allunga la busta con la liquidazione e i conteggi dei contribuiti. Lei annuisce. Quando lui alza gli occhi dallo scatolone che sta impacchettando ai piedi del letto, però, lei è ancora lì. «C’è qualcos’altro?». Il tono brusco è involontario, non ha tempo per i drammi né per le richieste. Entro due giorni l’appartamento deve essere liberato o gli toccherà pagare un altro mese di affitto, che non può permettersi. «Ci sono delle cose, nell’armadio, che la signora voleva fossero conservate, cose di famiglia». Sonia è incazzata, per apparire calma e controllata si sta martoriando le unghie contro la cucitura interna delle tasche dei jeans. Quell’uomo è uno stronzo, pieno solo dei suoi problemi. L’ha chiamato così tante volte, gli ultimi giorni prima che la signora Lucia morisse, da ricordarne a memoria il numero. E Sonia è una smemorata cronica. Donato inarca una sopracciglia: «Saranno i soliti album con le fotografie. Lasci stare. Ci penserò più tardi». Sonia si schiarisce la gola di nuovo. Donato chiude lo scatolone con il nastro, si rialza e prende a fissarla con le braccia incrociate al petto. Il ticchettio dell’orologio a muro in sala si fa più forte.
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«Mi diceva spesso, ultimamente, che non valeva la pena di pensare male di suo padre. Diceva che a lei non è dispiaciuto. E glielo voleva dire. Se lei fosse venuto». «Si da il caso che magari a me può essere dispiaciuto, invece – a Donato pulsa il collo, s’impone di controllare ogni centimetro del suo corpo – Ma non sono affari suoi». «L’aspettava ogni giorno». Donato le dà le spalle e prende a lavorare per riempire un altro scatolone: «Non intendo discuterne con lei. Le ho saldato tutto, e la ringrazio per il suo lavoro. Ora però, come vede, ho da fare». Sonia ha già infilato la busta nella borsa da cui ha tirato fuori le chiavi della macchina. «Non c’è bisogno che si sforzi, l’educazione non è mai stato il suo forte. Non ha bisogno che qualcuno le dica che razza di personcina a modo è, lo fa molto bene da solo». Quando Donato mette a fuoco la porta aperta, lei non c’è già più. È stanco. Quel posto lo affatica. Non ha voglia di tirare fuori le cose di Lucia, di impacchettare vestiti e fazzoletti, tovaglie e portafoto con la sua faccia a dodici anni, lui sulla bici rossa, lui col cappotto enorme regalato dai vicini e un berretto improbabile di chissà chi. Non ha voglia di vedere niente. Di sentire nessuno di quegli odori agrodolci, quel misto di essenza di rosa che Lucia si spruzzava sul collo ogni mattina e che ormai s’è mischiata all’odore della pelle vecchia secca come quando si scottano sulla fiamma viva le zampe delle galline. E ora è anche arrabbiato. Molto arrabbiato. In pochi si sono presi la briga di considerare cos’è stata la loro vita, la vita di Lucia e Donato con lei sballottata tra una cattedra qui e una là, e lui a disegnare ponti. In fondo se la cavavano, a sentire tutti, lei gli voleva bene, stravedeva per l’unico figlio, e lui, il bimbetto sveglio, avrebbe fatto grandi cose. Esattamente. Avrebbe. Di suo padre non glien’è mai fregato nulla. Non è mai esistito. Donato non ne ricorda nemmeno il volto, il corpo. Niente. Se fosse tornato lo avrebbe cacciato a calci. Ha covato il risentimento per molti anni. Ha calciato cuscini. Gettato nei cassonetti del rusco ogni oggetto che glielo ricordava. Uno alla volta, li ha buttati tutti. Non è rimasto niente. E a un certo punto, non ha provato più niente. A ognuno la sua vita. E le sue miserie.
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11. Presente, nei pressi di Monzuno. Nell’osservarlo gli sembra di provare qualcosa che potrebbe definire tenerezza, ma è appena un attimo, la stanchezza della giornata, la fatica di andare in quella casa, gli hanno fatto confondere la pietà per qualcos’altro. Gianni Falconi è uscito di casa vestito sportivo, sua moglie l’ha squadrato sorpresa ma non ha commentato, non le andava di scatenare malumori la mattina presto, specialmente perché poi a lei il malumore resta incastrato nel sotto gola tutto il giorno. Gianni Falconi ha passato oltre un’ora in macchina, ha guidato piano, uscendo dall’autostrada ha sbagliato laterale, il navigatore è corso in suo soccorso. Appena possibile fare inversione. Gianni Falconi è stato al casolare alla periferia di Monzuno il mese dopo l’ultimo ricovero di Pierfrancesco. Non c’era bisogno che ci andasse, l’amico aveva disposto ogni cosa a proposito della sua morte e della vendita. Era già tutto scritto, nero su bianco. Ma l’avvocato non se l’è sentita di archiviare la pratica e aspettare. Non se l’è sentita di fingersi solo l’avvocato. Così ha preso il mazzo di chiavi lasciatogli da Pierfrancesco, e ha chiuso lo studio. Il pomeriggio era fiacco, pioveva. Giorgia – l’assistente – era in malattia per qualche linea di febbre, Federico – il suo socio – era in tribunale. Gianni Falconi è andato al casolare solo quella volta, le chiavi sono finite nel terzo cassetto della sua scrivania, non ci è tornato più. Fino a oggi. Nell’osservare Donato, Gianni Falconi si chiede se davvero Pierfrancesco si rendesse conto di chi è, in che mani stava lasciando la sua casa. E tutto perché una vecchia rinsecchita - che nel secolo precedente insegnava italiano - un bel giorno ha pensato bene di raccontare all’ex allievo - ex pupillo, ex figlio mancato - del vero figlio, quello che la Natura gli ha dato e che ha collezionato il fallimento di una piccola impresa edile. Gianni Falconi se lo studia con calma, ha collezionato anche una serie impressionante di malanni, il suo corpo è come accartocciato, gli sembra di sentirlo scricchiolare anche mentre se ne sta perfettamente immobile e lo ascolta parlare. Ascolta l’avvocato che gli spiega dell’offerta, che gli spiega delle ultime disposizioni del proprietario. Ultime perché Pierfrancesco è morto la settimana scorsa. Gianni ha lasciato passare quattro giorni dal funerale poi non ce l’ha fatta più. Doveva sbrigare quell’ultima formalità, tornare in quel posto, vedere quell’uomo misero, convincerlo a firmare e lasciare quello
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schifo, dimenticare il volto dell’amico divenuto suo cliente per risucchiarlo in quel casino. Doveva sbrigare quell’ultima formalità per lasciar andare il suo amico. Hasta la vista. Sayonara. Bye-bye. L’ometto che ha davanti indossa vecchie bermuda di jeans, logore, una canotta macchiata di vernice e di chissà cos’altro, scarpe da tennis sfasciate. Gianni gli vede i muscoli delle braccia, muscoli formati dal lavoro, dallo sforzo di sopperire alla gamba traballante. Gianni gli spiega i termini del contratto seduto su una poltrona ricoperta dal cellophane protettivo. Donato ha finito di stuccare da poco, ha in mano un barattolo. «Era tra le vecchie cose di pittura», dice quasi per giustificarsi. «Rischiava di seccarsi del tutto. E io avevo finito l’acquaragia. Lo sto usando per lucidare i mobili». Gianni ha alzato le sopracciglia, non può permettersi di ricordare gli oggetti di Pierfrancesco, i suoi pennelli, i tubetti sporchi e chiusi male, l’odore delle tempere sugli stracci. Ha annuito, poi si è fatto accompagnare in ogni stanza del casolare. Ha controllato angoli, ispezionato muri, mobili, rivestimenti. Il lavoro di quell’ometto è di buona qualità, non può proprio dire diversamente. In un qualche modo bizzarro a Gianni sembra di sentire la voce dell’amico: “Vedi che te l’avevo detto? Non è poi così male il figlio della proffé Lucia”. La chiamavano tutti così in classe, proffé Lucia. Come no, pensa Gianni Falconi, a parte qualche bottiglia di troppo avvistata in giro. Quante stronzate per un happy end del cazzo. Donato non ha reagito subito. Ha aperto la porta con in mano uno straccio e il barattolo con l’essenza di trementina scovata per caso in uno scatolone. Il sudore gli colava dal collo. Ha anche provato a spiegare all’avvocato che non l’aveva rubato, il barattolo, ma gli è sembrato interessato. Quel tipo di trementina si ricava dagli abeti rossi, come quelli che puntellano i dintorni. A Donato piace avere un po’ di montagne dentro casa, immergendo le dita nell’essenza ormai densa. Si è affrettato a spiegare lo stato avanzamento dei lavori facendogli strada da un piano all’altro. Si è mostrato stupito quando ha capito che c’era dell’altro, che il proprietario ha lasciato una proposta di vendita molto vantaggiosa. Donato si è alzato dal divano quando Gianni gli ha detto che Pierfrancesco è morto. «Mi prendo un bicchiere d’acqua, vuole qualcosa?», ha chiesto. A Gianni è scappato un sorriso storto. Acqua di vodka, certo. Ma non l’ha detto a voce alta. Si è limitato a rifiutare e lo ha aspettato seduto. Pierfrancesco non voleva lasciare
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la casa ai suoi genitori, non voleva che se ne dovessero occupare. E non aveva nessuno a cui venderla, nessuno che potesse permettersi di comprarla per l’esattezza. Oltre tutto, ma questa è una cosa che Gianni ha tenuto per sé, Pierfrancesco non se ne voleva separare prima di avere la certezza che non ci sarebbe più tornato. Prima di morire insomma. Ragione per cui è tempo di chiudere l’intera faccenda per sempre. Nell’osservarlo mentre gli stringe la mano sulla soglia dell’ingresso, nel modo in cui appare smarrito, confuso, nel suo sguardo stralunato, nella rigidezza della stretta con cui si congeda: Gianni è sicuro che accetterà. Esce dal casolare e raggiunge la Mercedes, s’infila nell’abitacolo riponendo la valigetta sul sedile del passeggero. Quell’ometto misero accetterà, non ci sono dubbi. Come troverà i soldi, comunque pochi rispetto al valore dell’immobile, a Gianni Falconi non interessa. Cosa farà in quella zona di collina semi sperduta, anche. Ora l’importante è allontanarsi da lì. Allontanarsi. Cancellare. Sparire.
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12. Il giorno dopo. Donato compone il numero a occhi chiusi. Non sa se risponderà, se sta ancora dormendo, di solito è mattiniera. Sono le sei. Non sa se lo sentirà squillare o il Nokia vibrerà, magari ne ha uno nuovo. Lei risponde. «Sono io», e già mentre lo dice gli viene l’affanno. «Stai male? È successo qualcosa?», la voce di Vera è pronta, squillante. Donato prende fiato, la rassicura. Il cuore s’è svegliato d’improvviso. «Volevo dirti che non torno, resto qui. A viverci». Ecco, l’ha detto. Non era poi così difficile. La sente respirare. Vera appoggia la schiena contro la testata del letto. Il libro che leggeva abbandonato nella parte vuota del matrimoniale. Aspetta. «Resto nella casa dove ho fatto i lavori. È morto il proprietario e pare che abbia lasciato disposizioni per venderlo a un prezzo stracciato. Ieri è venuto l’avvocato. Devo ancora capire dov’è il trucco. Nel frattempo resto qui». Lei corruga la fronte: «Non mi devo preoccupare, insomma». «Infatti». «Ma quelli che ti hanno ridotto». Donato la interrompe con fermezza: «Ho chiarito tutto, Vera. Davvero». Non le va di lasciar perdere, qualcosa ancora non le torna, la rabbia inizia a salirle attraverso lo stomaco: «Me lo vuoi dire una buona volta chi ti riduceva come un mollusco? E non fare il furbo con me che non attacca, voglio la verità». La testa di Donato pulsa. Da quando l’avvocato se n’è andato non ha dormito, non ha mangiato, ha fissato le bottiglie vuote, ha rivisto decine e decine di volte nella sua testa ogni singola scena, ogni volta che si è fatto del male, ogni volta che da solo si è colpito e ferito, dopo aver bevuto. «Vera per favore, non ce la faccio a litigare». «Chissà perché me l’aspettavo». Si massaggia le tempie, combatte contro il desiderio improvviso di mettere giù, staccare il cellulare, staccare tutto e fermare quel continuo terremoto dentro di lui: «Siamo di nuovo alla fase delle scuse?». «No», Vera cerca di calmarsi, neanche lei ha voglia di litigare dopo tutto. «Vorrei solo
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capire, Dò, tutto qui». «Sto bene, ti assicuro che è così. E l’altra storia è a posto, se mi romperò ancora una gamba sarà perché son caduto dalle scale. Non sto scherzando, Vera». Gli scappa un sorriso che nessuno può vederlo. «Sei sicuro che». «Vera». «Se quelli ti trovano». «Vera». «Ma se quelli». «Vera basta». Lei piange, Donato non può sentirla, ha coperto il microfono del cellulare col palmo della mano. Piange perché non s’immaginava che lui scomparisse così. Perché ha capito dalla prima frase che è un addio, che è definitivo stavolta. «Cerca di stare bene». Lei trattiene il fiato: «Anche tu». Tututututututututu. Il rumore della linea interrotta le resta nelle orecchie. Tututututututututu. Donato raggiunge il frigorifero in cucina, si versa del liquido chiaro in un bicchiere sporco rintracciato sul lavello. La bottiglia di vetro torna nel ripiano basso del frigo. Il liquido sparisce dal bicchiere. Donato s’asciuga la bocca con la manica della maglia. Ha iniziato a ricordare la prima notte passata tra le montagne. Qualche frammento confuso prima di partire, poca roba comunque. In quel posto, invece, in tutto quel silenzio devastante, circondato da abeti, tra stanze buie, attrezzature da spostare, cavalletti, solventi, tele immacolate, tra libri e coperte sparse ovunque: Donato s’è ricordato della prima volta che si è graffiato l’addome fino a scorticarselo. Ha rivisto la ferocia con cui ha aggredito se stesso, il suo corpo. Il modo di farlo, ubriaco certo ma non sempre – ora Donato ne è abbastanza sicuro – non sempre così ubriaco da farsi del male e dimenticarsi di tutto. Qualcosa gliel’ha fatto fare. Qualcosa che non viene da fuori, non ci sono creditori che lo cercano, delinquenti a caccia di favori, vecchi amici che lo aspettano per questo o quell’affarucolo. È stata lei, la sua mente. Lei ha deciso di scaricare sul corpo la rabbia cieca, l’assurda follia che ha dentro da quando si è sentito un perdente la prima volta, quel giorno che ha aspettato suo padre sulle scale. Quel giorno che non ha mai smesso di ripetersi: ora arriva, ora torna, arriva,
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torna, torna, arriva. Mentre la proffé era a scuola e dopo, mentre dava ripetizioni, Donato è rimasto immobile sull’ultimo gradino. Ad aspettare. E ha perso. Il male del corpo è sempre meglio di quello dell’anima. Fissa il bicchiere vuoto. Se lo riempie ripetendo il rito. Non è poi tanto sicuro che riuscirà a restare in quel posto, che riuscirà a pagare quello che c’è da pagare, che potrà lavorare. Non è poi tanto sicuro che Venezia non gli mancherà. Per ora, per oggi, basta così. Domani magari la richiama. O magari no.
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13. Futuro C’è qualcosa che non va. È ancora buio, però. Donato ha la bocca impastata, gli sale un vago bruciore alla gola, lo stomaco non gli da tregua da settimane. Qualcosa non va, gli è solo difficile capire cosa. È un caldo disarmante, per essere passata da poco la metà di maggio è troppo afoso, troppo appiccicoso, troppo perfino in piena notte. Perfino a poco più di seicento metri sopra il livello del mare. Sono le quattro di mattina, lo dice la piccola sveglia in plastica bianca che ancora funziona nonostante all’Ikea di Casalecchio praticamente la tirassero dietro a chi si fermava alla cassa. Era la vigilia di Natale, una piccola sveglia da cinque euro poteva permettersela. Cerca di raddrizzarsi sul materasso a terra. Quattro-zero-quattro dice la sveglia. Donato sbadiglia ma gli esce un sibilo rauco. Quel qualcosa che non va, c’è ancora. Il buio si muove. Gli arriva addosso l’impressione che il petto gli venga compresso, dal buio o da chissà. Inizia a sentirsi informicolare, il buio si muove sempre più in fretta, anche se lui sta su un materasso al piano terra, anche se non c’è la struttura del letto, solo il nudo materasso con sopra un lenzuolo mai lavato. Anche Donato è nudo, ha fatto la doccia e si è messo sul materasso con i capelli bagnati e nient’altro. I vestiti gli danno fastidio. Colpa dell’aria. E degli ematomi che s’assorbono coi loro tempi, pazienti. La nausea inizia a rosicchiargli l’esofago, trattiene un conato acido alla base della gola. Posa un palmo sul pavimento freddo in cotto. Non è il buio, che si muove, è proprio la terra. Al suo cuore non piace per niente quel pensiero, ma nel tempo in cui inizia a metterlo a fuoco i movimento s’interrompono. Si alza, barcolla appena. I terremoti sono una seccatura. Traballa già abbastanza senza che ci si aggiunga quella cosa invisibile a scuotere tutto. Tanto la casa la deve lasciare entro luglio. Vera si doveva sposare il prossimo ottobre, il quattordici, in pieno autunno, gli aveva detto a inizio anno, perché a lei piace il fresco e il grigio. Poi ha cambiato idea, o così ha capito
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da Almir, che gli ha telefonato. Nessuno è mai venuto in quella casa, qualche squillo, tanto basta. Gli avrebbero anche concesso una proroga, coi tempi che corrono – lo dicono tutti, a Donato s’accentua il mal di stomaco a pensarci, “coi tempi che corrono” – ma lui ha pensato bene di rompersi i legamenti esterni del ginocchio destro e quelli del cantiere erano così incazzati che non gli è riuscito di aprire bocca: fuori in meno di mezz’ora, era marzo. Ha un arretrato stratosferico, la casa non gliela possono lasciare, ormai. E a lui, ormai, quel posto piace. Gli spazi aperti, silenziosi, tra gli abeti e i pochi pascoli rimasti. Ha imparato i sussurri dei rami, l’odore delle foglie, la consistenza del terriccio. Le strade strette, d’un cemento che diventa quasi blu quando i raggi filtrano attraverso la vegetazione e il cielo si fa cristallo. Tra un paese e l’altro ci sono tanti casolari abbandonati, pericolanti perfino, il problema è sempre lo stesso: i soldi. Si risiede sul materasso. A inizio anno, non è uscito da lì per una decina di giorni. Tanta neve tutta assieme non l’aveva mai vista, a memoria sua. Gli era sembrato uno di quegli scenari surreali, da film francese alla Lemming. La passione per il cinema non gli è passata, pensa sempre di comprarsi un televisore, uno qualunque, piccolo e scassato andrebbe benissimo ma ancora non gli è riuscito di trovarlo. Al prezzo che può permettersi. A lui Lemming era piaciuto, l’aveva visto da solo, era il 2006 o il 2007, Vera non sopportava i thriller psicologici francesi. Non le piace niente che fosse marchiato a righe blu, bianche e rosse. Il buio è tornato se stesso, immobile. Donato si chiede dove ci si nasconde col terremoto, strizza gli occhi e già ne sente il bisogno. Di solito bastano quattro bicchieri, mezza bottiglia se preferisce godersela bevendo a collo. Abbandona il materasso per il granito in cucina. Gli si sta riscaldando la pancia. Poi i polmoni. Ora la testa. Gli viene da pensare che forse la domanda giusta è: dove ci si nasconde dal terremoto. Ma gli passa subito. È al terzo bicchiere. Gli viene in mente che ha visto una specie di bastone sotto il lavello. Quando lo trova è ancora buio, Donato non accende mai la luce, si orienta come un gatto selvatico e se sbaglia direzione guadagna una nuova tacca tra muscoli e pelle. Il bastone è un vecchio mattarello, un souvenir del precedente proprietario, di quel
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briccone di Pierfrancesco che si è dimenticato di salutarlo lasciandogli quel bel regalo che non può permettersi. A Donato gliel’ha detto l’assessore alla cultura di Monzuno, un tipetto occhialuto che gestisce un’edicola in paese, proprio in faccia alla piazza. Il primo colpo non si sente, né nell’aria né sui nervi. Il mattarello è liscio e sottile, a Donato viene il sospetto di avere usato poca forza. Riprova. Dal basso, il dolore s’irradia. Il suo piede sinistro non gli è mai piaciuto, troppo ossuto, troppo sporgente. Col terzo colpo è certo di esserci vicino, sente i tessuti che si gonfiano, gli occhi gli lacrimano, gli avambracci iniziano a tremargli leggermente. Prende la mira un’ultima volta e sente le ossa che cedono. Crolla a terra. L’ultima cosa che ricorda è l’impressione di essere equilibrato, ora. Ginocchio destro, piede sinistro. Stare storto non gli dispiace, se è per brevi periodi, c’è solo il fatto che di solito una certa porzione del suo corpo non sente lo stesso dolore dell’altra e questo va meno bene perché quella parte può concentrarsi sul resto, e rosicchiargli il cervello, se non sta attento. Donato è stato molto attento, da quanto ha lasciato Venezia. Attento ad ascoltare meno che ha potuto. Il male del corpo è sempre meglio di quello dell’anima. L’ultima cosa che vede è il suo braccio sinistro accasciato sul pavimento, che smette di muoversi. Ha la punta delle dita sporche. Prima di addormentarsi ha raschiato il fondo del barattolo, quello trovato tra le cose di Pierfrancesco. Il barattolo con l’essenza di trementina. La mente di Donato trasforma la vista delle dita appiccicaticce in immagini di abeti rossi (forse sono quelli che ha visto spesso, da quando abita lì, forse sono fotografie scovate nella memoria). Donato si sente toccare i tronchi ruvidi, lo investe l’odore fresco degli aghi. Ora i rami si muovono leggermente, dev’esserci un po’di vento, da qualche parte. L’essenza delle cose dice sempre tutto. È tutto.
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Mentre bussa alla vecchia porta del casolare in collina, Vera pensa che fa troppo caldo, pensa che ha dei pizzicotti sulle gambe che le prudono, e si perderà le gare centrali delle Olimpiadi iniziate da qualche giorno a Londra. Ha raccolto i capelli scuri dietro la nuca. Certo, non gliel’ha ordinato il dottore di andare a controllare il suo ex. Non l’ha detto a nessuno, non aveva voglia di sentire le solite ramanzine che è un delinquentello incasinato, un coglione fallito, che non gliene frega di nessuno e blablabla. Voleva solo vedere come se la passa, ora è lì. Solo che lui non risponde. Bussa, lo chiama al cellulare. Continua a bussare. Niente. Non risponde. Vera richiama il taxi e se ne va, un’ora è un tempo sufficiente per mandarlo affanculo definitivamente. Lui e le sue complicazioni, mai una volta che qualcosa vada per il verso giusto con Donato. Vera ha già la testa alla stazione di Bologna, le toccherà fare una fila infinita allo sportello per farsi cambiare il biglietto. Il cadavere di Donato viene trovato a metà Agosto. L’autopsia accerta l’emorragia interna mortale. Il medico legale si prende un giorno in più del solito, poi scrive sul referto “ipotesi auto inflitta”. Nonostante tutto, a volte basta una lesione di troppo. Un mattarello rintracciato sotto una sedia in cucina, finisce in uno dei tanti sacchi per l’immondizia. L’impresa che si occupa della ripulitura della casa butta via di tutto, nessuno ha reclamato gli effetti personali dell’ultimo inquilino, e a nessuno interessa perderci tempo. Se ci avesse pensato bene, a Donato quel mattarello sarebbe apparso per ciò che era.
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Note L’immagine iniziale è stata scattata nei pressi di Monzuno nell’ottobre 2012. Originariamente questa storia faceva parte di una narrazione corale iniziata nella primavera 2011. Nel settembre 2012 ne ho perfezionato l’identità autonoma anche grazie agli spunti di Antonio Paolacci.
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