N°38/ANNO 4 - FEBBRAIO 2022
L'EDITORIALE DI GIANFRANCO LO CASCIO
Le istruzioni dettagliate per una
POLPETTA TUTTA CARNE NICE TO MEAT YOU
Guida ai tagli da macinare
Ma che FREDDO FA
Scaldiamoci con Pulled pork al limone, Ossobuco, Guancia di manzo alla sambuca, Top Blade in salsa verde, Cotoletta di Wagyu, Cassoeula
Piovono POLPETTE Polpette al sugo, in umido, con gamberi lime e zenzero, di merluzzo e pesto di cavolo nero, di pulled pork, di zucca, di funghi porcini
LA RICETTA SCIENTIFICA
Gnocchi di patate
Direttore Editoriale Rossella Neiadin
Redattore Capo Michela Bongiorni
Redazione
Enio Berton Virgilio Brunetti Tommaso Buccafurri Nunzia Clemente Roberto Dal Bosco Salvatore Di Mento Luca Gallozza Marco Gerometta Mariangela Ibba Gianfranco Lo Cascio Riccardo Meniconi Giovanni Minelli Emiliano Nencioni Elena Ninotti Andrea Spaggiari Alessandro Trezzi Carlo Trono Paolo Tucci Alex Vasile Caterina Vianello Alberto Zonghetti
Realizzazione Grafica
Impaginazione Carlo Trono Illustrazioni di Eleonora Castagna e Ozzy Bellesi Fotografie di Rossella Neiadin, Luca Gallozza, Tommaso Buccafurri, Elisa Giuli, Emiliano Nencioni
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IN DI Rubriche
Editoriale - Se non hanno pane, che mangino polpette
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Portfolio gastronomico - Polpettopoli, il regno del gusto e dei ricordi
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Nice to meat you - Macinare la carne, i tagli ideali
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Le ricette
Citrus Pulled Pork in cocotte
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Ossobuco affumicato alla birra con nduja, nocciole e pastinaca
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Guancia di manzo al sambuco con terrina di patate
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Top blade in salsa verde
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Cotoletta di wagyu
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Cassoeula con pork ribs, cotechino, pancetta e salsiccia
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Piovono polpette... al ragù napoletano
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Polpette in umido con patate e piselli
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Polpette di gamberi rossi di Mazara, lime e zenzero
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Polpette di merluzzo col pesto di cavolo nero
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Polpette di pulled pork, taleggio e cipolle borettane
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Polpette di zucca
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Polpette ai funghi porcini
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Approfondimenti
Arte Bianca - Pane da scarpetta
64
Across the pond - Spaghetti and Meatballs
70
Il quinto quarto - Trippa e altri stomaci
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From Zero to Hero - La cottura su ghisa
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La Ricetta Scientifica - Gnocchi di patate
86
Seguo - Lo stress rende la gente stupida
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polpette Editoriale di Gianfranco Lo Cascio
SE NON HANNO PANE, CHE MANGINO
Istruzioni dettagliate per una polpetta tutta carne
«Ma, quindi: si mette il pane nelle polpette?»
Continuo a divertirmi, meno spesso di prima devo ammettere, a tirare nel mucchio un messaggio provocatorio ogni tanto per leggere le risposte dei fondamentalisti che da sempre e per sempre difenderanno le ricette “originali". Quell'ingrediente "ci va", quell'altro "non ci va" e se ce lo metti cambia nome. Questo è il flusso mentale che mediamente si diffonde tra le persone. Se avete visto il film "Don't look up", al di là di chi lo trova geniale o stupido, il messaggio che ci arriva è uno solo: le cose andranno come devono andare e il nostro punto di vista su di esse non conta assolutamente niente per quanto impegno ci si possa mettere.
«Si, ma: alla fine questo pane nelle polpette "ci va o non ci va”?» Ciò che invece un cultore del cibo, un gourmand quindi, dovrebbe fare, è cercare di attribuire sempre un significato alle "cose di cibo". Contestualizzare, crearci un compendio di conoscenza intorno, di logica, di sfumature, di pertinenze. Se guardate una semplice polpetta dal punto di vista di un gastronomo vi sembrerà misteriosa quanto l'universo. Perché di fatto non esiste "la ricetta delle polpette" ma la ricetta di "quella specifica polpetta". Per cui no alla genetica universale, sì alla specifica. Insomma, dire che il pane "si mette o non si mette" vuol dire tutto o niente. Iniziate a stuzzicare la vostra curiosità gastronomica, usate la vostra mente (qui, vi faccio uno spoiler grande quanto una casa: Gastronomica-Mente) per aprire un pochino il vaso di Pandora.
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La risposta è, come sempre, dipende. Su una cosa, abbamo pochi dubbi: anticamente di carne non ne girava moltissima e in famiglia si era in tantissimi. Non è inusuale ragionare sul fatto di "allungare" la massa con del pane duro magari ripreso con un po' d'acqua e un po' di latte. Perché avrebbe permesso di sfamare più bocche, ha molto senso, no? Non c'è nemmeno dubbio che, semplicemente, possa piacere: mi piace, ce lo metto. Con buona pace di chi dice "che non ci va". Oppure lo metto perché mi hanno detto che si fa così, la nonna lo metteva, la mamma lo metteva quindi io lo metto. Ecco, questo ha meno senso perché non è che se mia figlia sente freddo io metto un maglione in più.
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Le polpette le possiamo inquadrare, collocare: • Storicamente • Tecnicamente • Gastronomicamente Esistono delle ricette? Sì, migliaia probabilmente, ognuna con una propria storia. Ne prendiamo una e la rifacciamo così come quell'altro l'ha scritta: pallotte, mondeghili, granatine, possiamo andare avanti all'infinito. Ci sono, sono lì, ne prendiamo una e la rifacciamo per accostarci a quei sapori. Facile. E tecnicamente parlando? Esiste una materia prima di base da ridurre in purea per poi farne delle pallette? Sì. Esiste qualcosa che permetta di tenerle insieme senza farle sfaldare? Sì, molte cose. Si possono cuocere? Sì, in molti modi. Ecco che tecnicamente si possono creare miliardi di varianti di una tipica cosa e che è appunto una variante. E che non può più essere paragonata a quella originale perché è semplicemente una sua derivazione. Quindi non è che se voglio fare le polpette e non ci metto il pane sto sbagliando. Così come se ce lo metto.
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E ragionando gastronomicamente? Che cosa volete ottenere? Non vi piace il gusto di carne troppo intenso e quindi mettete il pane? Forse in passato avete usato un taglio di carne sbagliato. O forse una ratio grasso/magro non ideale. Oppure la carne trita era già in fase di irrancidimento? Ci possono essere migliaia di motivi per cui il gusto era troppo intenso. E mettere il pane non è la soluzione a nessuno di questi problemi.
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Ribadisco: un conto è "mi piace, ce lo metto”, ma un altro conto è "lo metto perché quella cosa lì non funziona". Volete più umidità all'interno e per questo mettete il pane? E perché ammollato nel latte? Il latte aggiunge un altro sapore, siete certi di averne bisogno? Esistono tantissime alternative che vi permettono di gelificare le fasi liquide e intrappolarle nella massa, e il pane è l'ultima cosa che userei. Sapevate che basta un cucchiaio di amido di mais in 500 grammi di carne e non vi serve nemmeno l'uovo per legare l'impasto? Sapevate invece che usando la fecola di patate ottenete una crosta più croccante ma l'interno fondente? Insomma, le criticità potrebbero essere davvero infinite. Il punto è trovare quella dimensione perfetta per il vostro palato e che non passi per forza di
cose dal sentito dire. Il mondo delle polpette può sembrare banale ma credetemi, non lo è. Affatto. Vi racconto questa mia esperienza per cercare di passarvi lo stesso messaggio. Molte volte mi è capitato di ordinare un Negroni (il famoso cocktail rosso) da qualche parte. A volte mi hanno chiesto se avevo preferenze sul gin. La maggior parte delle volte no. Ma solo una volta mi hanno chiesto se avevo preferenze anche su bitter e vermouth, ed è stato proprio quello il giorno in cui ho pagato il Negroni più caro della storia, ma anche il più buono della mia vita. Non c'era Campari. Non c'era Cinzano Rosso. E questo cosa vorrebbe dire? Che non era un Negroni e forse il migliore che io abbia mai bevuto? Pensateci. Ma tornando alla domanda, ha senso mettere il pane ammollato nel latte nella carne macinata? Qualcuno dice "Sì, perché le rende più morbide." Ma questa affermazione tanto banale apre le porte dell’inferno: siamo nel bel mezzo del problema XY. Ne avete mai sentito parlare? Vi faccio un esempio. ”Ho seguito per filo e per segno la ricetta delle Beef Ribs, ho aggiunto 30 g di sale al rub ma alla fine sono venute molto asciutte anche se la sapidità era perfetta. Siccome sicuramente è il sale che tira fuori liquidi dalla carne, quanto sale in meno dovrei mettere per non farle venire asciutte ma comunque della giusta sapidità?” Ecco, questo è un tipico problema XY. La persona sta dando per scontato che le ribs siano asciutte perché c'è troppo sale. Quindi bisogna metterne meno. Ma se ne mette meno rischia di farle venire scialbe. E si chiede: come la risolvo? Quanto sale in meno posso mettere? Il nostro avventore vuole risolvere il problema X usando la sua soluzione Y. Ma la vera natura del problema non è nel sale. La natura del problema è che non ha rispettato tempi e temperature, il collagene non si è sciolto e la carne, che era di certo povera di grasso, ha strizzato fuori tutta l'acqua prima che il collagene si sciogliesse. Non è un problema di sale. È un problema di tecnica di cottura. Torniamo alle polpette.
Le polpette vi vengono dure? Sì. Col pane ammollato invece vi vengono morbide? Sì. E allora il problema è che usate una carne troppo magra che cuocete troppo a lungo. Grasso non ce n'è, la carne si contrae e strizza l'acqua. La scaldate per troppo tempo e quindi la tira fuori tutta. Il pane ammollato non è la soluzione al problema della carne dura. Il pane ammollato aggiunge una consistenza diversa. Sentite il pane nell'amalgama e sentite necessariamente la nota dolce del lattosio. La minima quantità di grasso (panna) e l'acqua ulteriore previene la disidratazione totale. Ma indovinate un po'? Aggiungendo il pane molle, la massa è troppo liquida e un uovo per legare l'impasto non vi basta più. Ne servono due, tre o anche 4 a seconda di quanta mappazza di pane ci mettete. Non prendo in considerazione il pangrattato perché anche un bambino capirebbe che essendo avido di acqua, appena la carne ne tira fuori un po' questo si gonfia a dismisura. E no, non vi lascia le polpette morbide, sa di segatura, non sa di carne. Ora, alla frase "Io ci metto il pane perché a me piace" smetto di discutere. Sul gusto personale c'è poco da battagliare.
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Per non far sfaldare le polpette vi servono o proteine che coagulano o amidi che gelatinizzano, o un misto dei due. Per farle venire morbide attenetevi semplicemente alle buone regole della cottura: tempi e temperature. Usate tagli ricchi di collagene per ricavare la carne trita. Anche per tempi brevi e temperature non altissime, i pezzi di collagene sminuzzati si sciolgono in tempi brevi. Dovete dosare la quantità di carne magra e grasso. Solo magro non va bene. Non ha senso mettere carne magra e poi annegarla di latte e uova. Sempre grasso è, ma il sapore cambia. Tenetevi tranquillamente su un 18% di grasso sulla massa per stare tranquilli, ma potete spingervi al 20% e anche al 22%.
Facciamo un esempio? Carne tritata fatta con punta di petto e noce. Un uovo ogni 500 grammi di carne è più che sufficiente. Coagula, fa da colla ma potenzia il sapore. Un cucchiaio di maizena o di fecola di patate. Assorbe l'acqua e gelatinizza già intorno ai 78°C. Quella piccola quantità è più che sufficiente per tenere
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Ma se invece volete sentire al morso una polpetta morbida e succosa senza nemmeno pensare al pane
ammollato nel latte o al pangrattato, beh, sto per darvi la soluzione ai vostri problemi.
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LA RICETTA DELLA POLPETTA PERFETTA
No, non è vero, cercavo solo la vostra attenzione. Non esiste la polpetta perfetta. Però esistono concetti importanti che possono portarvi alla vostra ricetta perfetta. Perfetta per voi. E ve li dico subito.
insieme la polpetta e, credetemi, non si sfalda nemmeno se la tirate nel muro. Se vi piace la polpetta ibrida manzo, vitello, maiale, latte, pane secco e chissà che altro, bene, buon per voi, non lo discuto. Se volete virare alla polpetta solo manzo, quella che - vi assicuro - vi manda gli occhi fuori dalle orbite, seguite questi piccoli consigli. • •
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Legante: proteine e amidi. Coagula e gelatinizza le masse. Cuocete con attenzione: fermatevi agli 80°C al massimo. Oltre vuol dire strizzare sapore. Ciò che strizzate fuori, mancherà dentro. Scommettete su un sapore. Pollo e allora pollo. Maiale e allora maiale. Manzo? E manzo sia e che però sia manzo vero. I minestroni solidi sanno di tante cose; cioè di tutto e di niente.
Siamo d’accordo?
TIPO, RAZZA E TAGLIO DI CARNE Io sto dando per scontato che vogliate usare il manzo. Su altri tipi di polpette torneremo in seguito. La razza certamente influisce sul sapore finale, non c'è dubbio, ma vi stupirebbe sapere che anche il taglio giusto di un bovino generico e poco frollato può dare grandi soddisfazioni in termini di resa di sapore. La chiave, nel caso della polpetta, è doppia: quantità di collagene e grasso. Ed è per questo che i tagli troppo magri non vanno bene. Ricorderete certamente le polpette che a volte avete mangiato da bambini, secche e asciutte come sabbione al sole. Le nonne o le mamme pensavano di far bene chiedendo al macellaio il taglio magro, ma in realtà si e ci sottoponevano a delle torture senza alcun beneficio reale. Voi, invece, che siete gastrofighettini, sapete che è importante usare tagli ricchi di tessuto connettivo. Questo, una volta tritato, è facile da ridurre in gelatina durante la cottura, anche a temperature relativamente basse. Il grasso, ovviamente, aggiunge sapore. Si, ma: quanto collagene, quanto grasso? Per avere un punto di partenza ed essere certi di non sbagliare si può sempre partire dall'anteriore. Tutti i sotto-tagli del petto vanno benissimo. Il collo va benissimo. La spalla va benissimo. Il reale va benissimo. Anche nel posteriore si trovano ottime scelte: geretto, cappello del prete, scamone. Ma vediamo di non aggiungere variabili e invece toglierle: biancostato o reale, così almeno si parte da qualcosa e si va diretti. Per quanto riguarda il grasso, anche lì, dipende molto dal gusto personale. Un riferimento sufficientemente centrato può attestarsi su una percentuale che va
dal 15%-18% e che non supera il 23%-25%. Il mio numero magico personale è 20%. Si ma come facciamo? Facile. Chiedete al macellaio di pesarvi magro e grasso a parte. Fate tritare prima il grasso e poi il magro e mettete 200 grammi del primo e 800 grammi del secondo. Poi li mischiate insieme. Niente di complicato, solo qualche colpo di coltello in più. Avete già la base della polpetta ben bilanciata e credetemi, avete già portato a casa l'80% del risultato finale. IL SALE Adesso bisogna condire il mix di carne trita, soprattutto mettere la quantità di sale perfetta: né troppo, né troppo poco. Quanto sale mettiamo, quindi?
Quanto aglio? La quantità che vi piace. Non c'è giusto o sbagliato. Potrei dirvi uno spicchio, due, tre, cinque o dieci. Dipende da te. Dipende dall'aglio. Dipende dalla dimensione dello spicchio, dalla forza sulfurea. Prendete l'aglio che avete in casa e verificate la quantità che fa al caso vostro. Io sono sempre del parere che se metto un ingrediente voglio sentirlo. Se metto l'aglio voglio sentire l'aglio. Se metto il pepe e non pizzica è come non metterlo. Così la penso io, voi fate ciò che vi resta nelle corde. Quanto prezzemolo? Come sopra. Quanto ve ne piace. Il mio consiglio è di non togliere assolutamente gli steli. Il gambo del prezzemolo contiene 25 volte l'aroma che contengono le foglie. È un sacrilegio buttarlo via. Tritate molto finemente al coltello, gambi e foglie. Il prezzemolo unito all'aroma dell'aglio rende le polpette indimenticabili.
Torniamo sempre lì: dipende. Dal gusto personale ed eventualmente da altri ingredienti che aggiungerete. Un buon riferimento, se non avete intenzione di inserire altri alimenti sapidi come potrebbero essere Parmigiano Reggiano, Pecorino, salsa di soia, Tabasco o capperi è l'1,8% di sale sulla massa totale. Quindi, per 1kg di massa dovete usare 18 grammi di sale. Ripeto, è un'indicazione di massima. Una volta che avete condito assaggiate e valutate se ne serve ancora un po’. AROMATIZZAZIONE Come condiamo la massa? Da qui si entra un tunnel da cui non si vede la luce. Non esiste un solo modo, o due o tre. Ne esistono un numero indefinito e ognuno porta una firma diversa. Ma siccome bisogna cominciare da qualche parte vi offro alcuni consigli molto interessanti anche se di base.
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Aglio e prezzemolo. La polpetta per antonomasia. L'aglio potete pestarlo al mortaio e renderlo in purea oppure tritarlo al coltello oppure grattugiarlo. Dipende da voi, dalla grana che volete ottenere.
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Alternative all'aglio e prezzemolo? Cipolla. Avete un miliardo di tipologie: rossa, bianca, ramata, scalogno, cipollotto, erba cipollina, porro. Sono tutte varianti dello stessa tema "cipolloso". Come sopra, tritate finemente. Le erbe perfette da abbinare alla cipolla sono il timo e il rosmarino. Ma va benissimo il prezzemolo e va benissimo la cipolla. Se non amate il riverbero sulfureo della cipolla all'interno della carne potete soffriggerla preventivamente in pochissimo olio extravergine e quando appassisce la unite all'impasto. Il tutto virerà immediatamente sullo spettro dolciastro. PANE SÌ O NO? Ma sto benedetto pane ammollato si mette o non si mette? Lo potete mettere e potete non metterlo. In questo caso trattiamo la polpetta "nuda e cruda" ma non con un piglio "fondamentalista". Semplicemente andiamo a ricercare il sapore del manzo in purezza.
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L’UOVO Ma l'uovo si mette o non si mette? L'uovo ha fondamentalmente due funzioni: aggiunge
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sapore, materia grassa e aiuta a mantenere compatta l'amalgama in cottura. Le proteine dell'albume, se ricordate la carbonara scientifica, sono la conalbumina e l'ovoalbumina. Ricordiamoci un attimo le temperature di coagulazione dei principali elementi. La conalbumina costituisce solo il 12% del tuorlo e coagula a 65°C. L'ovoalbumina invece a 85°C. Il tuorlo, costituito principalmente da lipoproteine inizia ad aumentare la sua viscosità a 62°C e diventa solido a 70°C. Fissiamole bene queste cose perché se usiamo l'uovo nell'impasto la consistenza cambia in modo significativo in base alla temperatura di cottura finale. Vi dico in verità che se usiamo il taglio giusto l'uovo non è necessario a legare. La quantità di connettivo presente, una volta gelatinizzato, sarà sufficiente a mantenere insieme la massa. Possiamo metterlo o non metterlo. Se lo mettiamo dobbiamo necessariamente tenere in considerazione il comportamento durante la cottura.
esprime al meglio. Fermo restando che è possibile spingersi anche un filo più avanti. E se invece abbiamo usato l'uovo? A che temperatura dovremmo arrivare? La migliore soluzione, nel caso in cui si usi uovo nell'impasto, è arrivare allo stadio completo di coagulazione della conalbumina lasciando inalterate le lipoproteine del tuorlo e dell’ovoalbumina. Mi spiego meglio.
LA COTTURA Come si cuociono le polpette? Fritte in bagno d'olio, brasate in padella o al forno. Nel primo caso, si ottiene una reazione di Maillard sostanzialmente perfetta. Nel secondo è meno uniforme ma con la manina buona si ottiene un delizioso aroma di arrosto. Nel terzo caso si rischia di strizzare troppo la carne se la temperatura non è sufficientemente alta.
“Ma se le friggo si inzuppano d'olio, al forno sono più leggere!” Non è così, non è mai stato così. La carne, sottoposta a calore si contrae. L'olio non penetra perché la carne è completamente contratta. Si deposita in superficie e basta rotolarle su della carta assorbente e l'eccesso di olio sparirà. Il segreto di un'ottima cottura al forno è il preriscaldamento a temperatura feroce e il posizionamento della teglia a ridosso del grill. Bisogna creare la crosta nel modo più veloce possibile per evitare di tirar fuori gli umori della carne.
Facciamo un recap della polpetta "solo manzo" nuda e cruda. • Biancostato o reale. • 80% di magro, 20% di grasso. • 1,8% di sale. • Aglio e prezzemolo o cipolla e timo/rosmarino. • Uovo non necessario per cottura al sangue/ medio. • Uovo sì se voglio aggiungere sapore/umidità ma a cottura media. • Uovo no se voglio una polpetta ben cotta Direi che questo è più che un ottimo punto di partenza per iniziare a giocare con le polpette. Provateci e fatemi sapere com'è andata.
Gianfranco Lo Cascio
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A CHE TEMPERATURA DEVO CUOCERE LE POLPETTE? Stiamo parlando di polpette di solo manzo e senza uovo? Come una bistecca al sangue/media: 52°C/58°C. È manzo. È la temperatura in cui si
La conalbumina coagula a 65°C. Il tuorlo assume una consistenza viscosa a 62°C e solidifica a 70°C. A questo punto, cuocendo la polpetta ad un massimo di 65°C otterremo la coagulazione completa dell'ovotransferrina (altro nome della conalbumina), l'aumento di viscosità delle lipoproteine e lasceremo inalterata l'ovalbumina che, a quella temperatura resterà semiliquida dando morbidezza all’interno. Se invece non ci piace l'idea dell'uovo mezzo crudo dentro l'impasto bisognerà necessariamente arrivare a 85°C. Temperatura alla quale avremo già devastato tutto ciò che di buono e di umido poteva esserci nella carne. Da qui cosa ne deriva? Che se voglio una Polpetta "ben cotta" ma che sia anche "cotta bene" e senza odore di pollaio non devo usare l'uovo e devo fermare la cottura ai 75°C, soglia in cui la mioglobina della carne si disattiva e cambia colore da rosso a grigio/marrone. Tutto chiaro, no?
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POLPETTOPOLI IL REGNO DEL GUSTO E DEI RICORDI Venite tutti, Siore e Siori, a Polpettopoli! La città di Sua Maestà la Polpetta! Troverete un ambiente familiare, tradizionale, piacevole. Non mancherà la vostra nonna, con il grembiule e quadretti bianco e rosso, gli occhialoni, i capelli bianchi raccolti. Cibo eccellente e succulento senza mai stancarvi: polpette fritte, al sugo, spadellate, grigliate, al forno; con carne, verdure, pesce, formaggi, legumi! Cotte su dispositivi giganti e mia visti finora! Vi farete inebriare dai colori, dalle sfumature, dai profumi, dagli incontri! E i prezzi? Alla portata di tutti, senza distinzione, per un’esperienza appagante e rassicurante! Portfolio gastronomico a cura di Alberto Zonghetti Al centro della città domina la grande Fontana Rubra, una struttura formata da un gruppo scultoreo di figure umane in bronzo (che sembrano in effetti le nostre nonne) nell’atto di reclinare un tegame, dal quale scende copiosamente del denso sugo al pomodoro, raccolto in una grande vasca, affiancata da cataste di pane dalle svariate forme e tipologie. Non è difficile capire a cosa serva: è’ il Sacro Rito della Scarpetta, a cui sono obbligati tutti i visitatori, pena l’espulsione dalla città. In effetti l’assembramento concitato lungo i bordi è indice di altro gradimento da parte dei novelli catecumeni. Disposti secondo i punti cardinali intorno alla maestosa fontana, troviamo a Settentrione la Sferofriggitrice, un dispositivo colossale sospeso su un enorme fornello e affiancato da complesse tubature attraverso le quali passano le nostre gustose polpette, che vanno a tuffarsi nell’olio
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POLPETTOPOLI, L’ARRIVO Polpettopoli non è difficile da trovare. Bisogna innanzitutto trovarsi nella giusta disposizione d’animo, nonché percepire un certo languorino allao stomaco per imboccare la Dimensione del Sogno e vagare brevemente senza meta. Poi, d’improvviso, si gira verso la Strada dei Ricordi, da percorrere con leggerezza, fino a giungere nella Valle della Tradizione. Troverete là Polpettopoli, adagiata come un gigantesco parco giochi tematico, brulicante di colori vivaci e smaltati, edifici tondeggianti, musiche popolari. I neon multicolori all’ingresso ci accolgono recitando il motto “La polpetta rende felici”. Inservienti in livrea rosso-dorata e rigonfia, come a conferire una forma sferica al loro torso, ci salutano con modi affettati e ci porgono dei portavivande in acciaio cromato dotati di comodi manici.
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bollente. Assistenti in tuta da lavoro controllano ai bordi della struttura la corretta cottura ed estraggono le nostre amate “sfere” con cestelli metallici dai lunghissimi manici. A Occidente giganteggia il Grigliaforno, una sorta di Kettle rosso fiammeggiante; è alto almeno venti piedi ed è governato da persone con tute ignifughe simili a pompieri che, in andirivieni su instabili impalcature metalliche, armeggiano con complessi aggeggi: pinze, siringhe, aghi e sonde. Ai lati, fiamminghe di acciaio lunghe almeno due braccia accolgono il cibo pronto e dispenser trasparenti grandi quanto un uomo elargiscono con generosità salse di ogni colore: verde ramarro, giallo intenso, viola alieno, bianco denso, rosso cupo. Disposta ad Oriente sfrigola la Padellastra, un tegame di ferro dalla forma circolare (a giudicare dalle dimensioni potrebbe accogliere al suo interno almeno due paia di bovini interi); sembra avere almeno un secolo, a giudicare dalla forma e dal colore nerastro dell’esterno. Ricorda in effetti quelli dei nostri bisnonni in campagna, ma pare svolgere alla grande il suo lavoro, a giudicare dalla faccia soddisfatta del Padelmastro che ne controlla la doratura perfetta coordinando le operazioni con una nutrita equipe.
A Meridione, l’Osservatorio semisferico con la sua cupola quasi trasparente mostra il vero cuore della nostra città: il Polpettoscopio cosmico, un gigantesco dispositivo - Galileo Galilei ne sarebbe fiero! - capace di vedere, con le sue lenti speciali, le polpette in tutto il mondo, di rilevarne le varianti, le novità, le eccellenze. Qui, il padrone assoluto, il Borgomastro, cataloga le preziose conoscenze acquisite. Nulla può sfuggire a questa meraviglia della tecnica e dell’immaginazione! LE POLPETTE NEL MONDO Dal libro “Una polpetta ci salverà”, di Anna Scafuri, Giancarlo Roversi, Giunti, 2013 (con il contributo del Polpettoscopio Cosmico!) Una cosa è certa: le polpette si fanno ovunque, in Italia e nel mondo. Perché rappresentano un’icona capace di dimostrare la diversità culturale e geografica, conservando caratteristiche di low cost e poche calorie. Tutto ciò ha consentito la loro diffusione, divenendo il cibo da consumare in ogni evento ed evenienza attraverso l’;uso di ingredienti già disponibili, per il quale si è coniato il termine di “cucina del non superfluo”. Negli Stati Uniti, le meatballs (“palle di carne”)
vengono accostate a piatti di origine italoamericana. Un’insolita variante è la porcupine meatball (“polpetta porcospino”), che prevede l’utilizzo di riso in fase preparativa. Nel Regno Unito si cucinano le faggot, piccole polpette speziate a base di carne di maiale, cuore, fegato e pancetta, aggiunte a erbe aromatizzate e pangrattato. In Portogallo, come in Brasile, le polpette sono chiamate almondegas: fritte, si servono insieme al riso. In Spagna, come in America Latina, le polpette prendono il nome di albondigas (dall’arabo “oggetto rotondo”), Infatti hanno avuto origine come piatto arabo e berbero, importato nel paese iberico durante il periodo della colonizzazione musulmana. Vengono abitualmente servite accompagnate da salsa di pomodoro, come antipasto o portata principale. In Austria le polpette si chiamano fleischlaberl e presentano attitudini speziate. In Germania esistono molteplici nomi per definire le polpette, ma tra le varianti più conosciute ci sono le kònigsberger klopse, che vengono preparate con acciughe o aringhe saltate e servite con salsa di capperi. In Ungheria, a seconda della zona di produzione, le polpette prendono il nome difasirt o fasirozott, entrambe di provenienza austro-germanica. Una variante preparata con il fegato, la majgomboc, si consuma in zuppa. In Polonia si preparano le pulpetj (o klopsj) e le pulpeciki (“piccole pulpetj”), cotte e servite con una varietà di salse (come quella di pomodoro) e di funghi, accanto a patate, riso o a un porridge locale, il kasha. L’impasto prevede l’utilizzo di carne magra aromatizzata accanto a cipolle, uova e pangrattato, bagnato nel latte o nell’acqua. La cottura è solitamente al forno; la variante fritta prende il nome di mielonj e viene preparata per essere venduta industrialmente nei supermercati.
In Belgio, le polpette sono indicate come ballekes e vengono abitualmente preparate con una mistura di carne di manzo e di maiale, unite a cipolle affettate, verdure e pangrattato per legare, In Danimarca le polpette più note, chiamate frikadeller, si fanno con carne di maiale, vitello, uova, cipolle e, una volta schiacciate, si friggono in olio caldo. In Norvegia prendono il nome di kjottkaker (letteralmente “torta di carne”); alquanto simili alle frikadeller danesi, la preparazione prevede solo la parte magra della carne di manzo macinata, e si servono accanto a patate bollite, marmellata di mirtillo rosso, salsa gravy e cipolle caramellate, In Finlandia il loro nome è lihapullat e sono il frutto dell’unione fra carne di manzo, maiale e renna mescolata a pangrattato, intriso nel latte, e cipolle finemente tritate: servite accanto a patate bollite e a marmellata di mirtillo rosso, vengono aromatizzate con sale, pepe bianco e cetrioli sott’aceto. Per la Svezia le polpette rappresentano il piatto nazionale e sono chiamate kottbullar. Sono l’impasto di un misto di carne di maiale, manzo e talvolta vitello, pangrattato inumidito nel latte, cipolle fritte finemente tritate, brodo di carne e a volte panna da cucina. Si servono, come in Finlandia, con salsa gravy, patate bollite, cetrioli sott’aceto e marmellata di mirtillo rosso. In Albania le polpette, che prendono il nome di qofte te ferguara, vengono servite fritte e nel loro impasto hanno la feta. In Grecia, col nome di keftedes, le polpette contemplano carne macinata di diversa tipologia, cipolle e foglie di menta. La variante al forno, chiamata yuvarlakia, prevede la presenza di riso. In Afghanistan, le polpette vengono consumate come piatto tradizionale accanto a diverse zuppe casalinghe. Preferibilmente grigliate, presentano una valenza gustativa piccante e fortemente aromatica. In Iran esistono molteplici tipi di polpette. Se cucinate al forno prendono il nome di kufteh, se fritte si chiamano kal-e gonjeshki (“testa di passero”): in entrambi i casi vengono aromatizzate con erbe
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In Romania le polpette sono solitamente fritte per immersione e preparate con carne di maiale o pollame, aglio e pangrattato inumidito, Il loro nome è chiftele. Una chiftele più rozza si prepara per una
tipica zuppa acida locale: la ciorba de perisoare.
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e spezie e prevedono uova o frutta nell’impasto con la carne. In Cina, specie nella cucina tradizionale di Shanghai, sono solitamente preparate con carne di maiale cotta al vapore o bollita, con l’aggiunta di salsa di soia. Vengono denominate “testa di leone”per la loro particolare grossezza, che varia dai cinque ai dieci centimetri. Nelle zuppe si utilizzano varianti più piccole, chiamate “palle di maiale”, mentre nella cucina cantonese vengono realizzate con carne di manzo cotta al vapore e servite con parte della cucina dim sum. Esiste inoltre una variante a base di pesce, precedentemente seccato e poi ridotto in polvere. In Vietnam, le polpette sono chiamate thjt vien e vengono utilizzate come ingrediente per il pho, una zuppa di manzo con spaghetti di riso, pomodoro e lime. La loro cottura avviene con salsa di pomodoro, cipolle finemente tritate e peperoni. Nel bun cha, specialità a base di noodles di riso, le polpette vengono grigliate e aggiunte ai noodles per essere poi intinte in una salsa di pesce aromatizzata con aceto, zucchero, aglio e peperoncino. In Indonesia vengono chiamate bakso e si servono nelle zuppe insieme a noodles, beancurd (un tipo di formaggio di soia), uova, siomaj (carne di manzo e di pollo cotta a vapore) e wonton croccanti. Ogni città presenta una sua variante, le più note e diffuse sono le bakso Solo e le bakso Malang. In Giappone, preparati con carne di manzo, si possono gustare gli hanbagu, sorta di polpetta/ hamburger dove alla carne si aggiunge il pangrattato (panko) bagnato nel latte e un trito di cipolle sauté. Vengono accompagnate con ketchup e salsa Worchester.
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Nelle Filippine. le polpette si chiamano almondigas o boIa-boIa e vengono servite in una zuppa di riso e vermicelli (misua) accanto ad aglio tostato e ciccioli di maiale.
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POLPETTOPOLI, LA DISPENSA Un grande casolare di campagna posto a margine del grande parco; sereno e rassicurante, con il comignolo fumante, il tetto inclinato, il portone in legno socchiuso dal quale baluginano le fiamme arancioni del caminetto.
E’ qui, dunque, che le nostre nonne, mamme, zie, coadiuvate da una nutrita schiera di devoti aiutanti, si dedicano alla lavorazione del nostro cibo preferito. E’ qui che, secondo le dicerie, sono tenuti prigionieri “loro”. Si, certo, proprio “loro”. Come chi? Ma gli “untori”, quelli che in passato hanno infangato la nobile storia della polpetta con temibili fake news. E ci sono anche quelli di oggi: chef stellati che straparlano e litigano davanti ai monitor invece di cucinare; critici gastronomici che si gloriano nel denigrare qualunque piatto si presenti davanti a loro (ma ogni tanto avranno fame?); gastrofighetti/e ed influencer più interessati a scattare narcisistici selfie in ristoranti trendy o a postare foto di piatti che mai mangeranno… Per loro, il nostro amato Borgomastro di Polpettopoli ha disposto una procedura efficace e giusta, una legge del contrappasso proporzionata al nulla cosmico che rappresentavano durante le loro esistenze; un destino tramandato da un inciso divenuto ormai famoso in tutti i mondi conosciuti:
Una polpetta per scovarli, una polpetta per domarli, una polpetta per stupirli e in dispensa incatenarli! CACCIA AGLI UNTORI Dal libro “Una polpetta ci salverà”, di Anna Scafuri, Giancarlo Roversi, Giunti, 2013. "Centri occulti di condizionamento delle masse addestrarono un nugolo di agenti segreti, inviandoli fra la gente a spargere nefandezze sul conto delle polpette. Come gli untori di terrificante memoria, costoro seminarono una infamia peggiore della peste, insinuando con parole subdole e menzognere la voce che queste gioiose e deliziose creature, inventate per la delizia del palato, venivano preparate nei ristoranti con i residui della cucina. E fin qui poco male. Veniva a cadere un mito, ma restavano ugualmente una ghiottoneria. Purtroppo la perfidia umana, specie quando orchestrata per loschi fini, non trova mai un limite. Così una seconda ondata di nuovi e più astuti impostori propagò la calunnia più vile e ignominiosa: i ristoratori le facevano non con i resti di cucina (magari!), bensì con i rimasugli carnei dei piatti dei clienti. Fu un colpo letale. Nessuno fra i frequentatori dei ristoranti volle più saperne, quasi come oscuro presagio di future, più angoscianti presenze di carni di mucche pazze ...
Soltanto i più irriducibili appassionati, per non cadere in crisi da astinenza, si rifugiarono in quelle affidabili preparate fra le mura domestiche, che, come tutti i cibi dell’infanzia, offrivano in più una piacevole sensazione rassicurante perché legate alla mamma e alla famiglia. Ma la consolazione durò poco. Uomini di scienza, in camice bianco, portatori del Verbo della ricerca, dietologi e nutrizionisti, mostrarono il pollice verso, sentenziando che non si dovevano mangiare perché troppo incompatibili con i canoni della sana alimentazione. Cacciate dai ristoranti, sull’onda di una bieca campagna denigratoria, e ripudiate nelle cucine domestiche a causa dei diktat dei dietisti - ma anche per l’aumento del tenore di vita che aveva reso superflua l’atavica consuetudine di reimpiegare gli avanzi della mensa - hanno rischiato l’estinzione. Sarebbe stata una perdita culinaria di enorme gravità, con ripercussioni a catena su tutti i piatti di alta cucina che ne hanno sempre preteso la presenza. Per fortuna il loro uso alimentare è rimasto vivo in angoli reconditi delle campagne, in qualche casa appartata - asilo sicuro dei riti conviviali di sparuti cenacoli di adoratori dei cibi della tradizione - e in alcuni benemeriti ristoranti un
po’ rétro, additati al pubblico disprezzo da igienisti, profeti della nouvelle cuisine e adepti dei regimi macrobiotici. Adesso - dopo avere finalmente smascherato che la vergognosa accusa lanciata contro i ristoratori era soltanto una diffamazione, messa in giro da oscuri mandanti, e dopo avere assistito alla caduta e alla rettifica di tanti dogmi nutrizionali - è giunto il momento della piena riabilitazione. In tutte le loro molteplici versioni, ricche o povere non importa, dovranno tornare alla ribalta nei nostri ristoranti e sulle mense domestiche per consentire a chi ama la buona tavola di riprovare quelle sottili e suadenti sensazioni gustative che solo esse sono in grado di offrire." POLPETTOPOLI: A ZONZO TRA I PADIGLIONI Mi aggiro tra i vari tendoni colorati disposti intorno alla Fontana Rubra e ai diversi dispositivi di cottura per cercare i protagonisti che hanno segnato la storia della nostra sferica protagonista. Il primo obiettivo è Maestro Martino da Como, la prima firma importante della cucina italiana, autore del celeberrimo “Libro de arte Coquinaria”, scritto a Roma intorno al 1465. Lo intravedo vicino al
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Grigliaforno intento ad infilare polpette in uno spiedo più simile ad uno spada. Il nostro dialogo è stato complicato, soprattutto per via della lingua e delle diverse imprecisioni con il quale ho imprudentemente iniziato il discorso. Ve lo riassumo in breve di seguito.
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GENESI ED ETIMOLOGIA DELLA POLPETTA In principio fu Maestro Martino, nel Quattrocento, a creare la polpetta… No, questa informazione è scorretta. Non protestate dicendo che lo afferma anche Cracco in uno dei suoi innumerevoli libri…Se vi attenete alla definizione della Enciclopedia Treccani, ovvero: “Vivanda di carne tritata, condita e impastata con varî ingredienti, compressa a forma di pallottola schiacciata, fritta oppure cotta in tegame nel sugo”, noterete che qualcosa non torna. Infatti la descrizione che troviamo negli scritti del cuoco quattrocentesco parla di “polpita, pulpeta, pulpa vitulina”, raccontati più come bocconcini costituiti da una fettina di carne lunga e sottile, variamente condita, arrotolata e arrostita. Una specie di involtino, per intenderci. Significa che la polpetta non è mai esistita?
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Andiamo indietro nel tempo; secondo molti, la procedura che prevedeva carne tritata e poi pestata al mortaio è nata nell’antica Persia e da qui si sarebbe diffusa in Medio Oriente e poi in Europa. Ma è il gastronomo latino Marco Gavio Apicio, che nell’oramai celeberrimo “De re coquinaria”, con il termine “isicia” indica proprio qualcosa di molto simile alla nostra polpetta. La versione oggi più comune e proposta dai moderni Archeocuochi è l’esicia omentata: carne tritata (di maiale o altro) mescolata con la mollica bagnata nel vino, con il garum, le bacche di mirto, il pepe e i pinoli. Con il composto si formavano dei bocconcini che venivano avvolti nell’omento (frattaglia di maiale) e infine cotti in un vino simile al nostro Marsala. Ma nel testo si parla anche di molte altre varianti: polpettine marine con pesce, calamari, gamberi; oppure di pollo, fagiano o altre carni (anche testicoli di cappone e ghiandole di lattonzoli…). Tramontato l’Impero romano, la polpetta sembra “ufficialmente” mancare nei ricettari medievali fino ad arrivare, appunto a Maestro Martino. Qui si apre un dilemma: l’inventore della polpetta è allora Apicio, che non la denomina come la conosciamo oggi ma, di fatto, ne elabora un procedimento che è l’antenato di ciò che intendiamo oggi?
O è al contrario il nostro cuoco quattrocentesco, che ne introduce la denominazione corrente ma, in sostanza, realizza una preparazione è differente da quella contemporanea? La risposta non c’è, forse una riflessione sull’origine del vocabolo potrebbe aiutarci. Da dove nasca il nome di Sua Maestà non è ancora del tutto chiaro. Secondo alcuni deriva dal francese paupière, che significa palpebre. Si dice infatti che mentre si preparano si faccia un movimento con le mani come quello delle palpebre che si chiudono per proteggere gli occhi. A essere onesti mi sembra poco credibile, ve l’ho detto per dovere di cronaca. Secondo un’altra teoria, più accreditata, le polpette derivano da “piccola polpa” perché anticamente si preparavano con carne di vitello. Lo dice la parola stessa, che deriva dal latino pulpa e ha a che fare con il gesto del toccare, del palpare, ma anche del palpitare. Se ci pensiamo, “piccola polpa” può essere riferito sia a fettine che a carne macinata, così come il gesto del “pulpare” lo possiamo immaginare svolto sia da Apicio che da Maestro Martino. Direi che non abbiamo risolto il dilemma, siamo al punto di partenza, ci vorrà qualche secolo per avere le idee più chiare. DA MAESTRO MARTINO A PELLEGRINO ARTUSI Nei secoli successivi al Rinascimento, tanti cuochi e ricettari parlano della “polpetta”, ma si tratta ancora di ricette che riprendono con diverse varianti quella di Maestro Martino, più simile ad un involtino. Alla metà del Seicento Vincenzo Tanara non lavora più la carne a fette, ma viene tritata minutamente, dando origine a impasti simili ai nostri polpettoni. Tale procedura si diffonde tanto che la carne trita (cruda o cotta, risultante da carni lessate e/o arrostite) sembra diventata ormai, alla fine del Settecento, elemento imprescindibile della nostra cucina. Va però sottolineato che l’ambito “sociale” della polpetta rimane sempre legato alla cucina nobiliare; e il gusto, grazie alle forti speziature rimanda ancora al mondo rinascimentale. L’Ottocento è il secolo nel quale la nostra gastronomia recupera polpette e polpettoni dando loro un’improntapiù moderna, più austera. Si rinuncia alle spezie e agli aromi più invasivi, perché ora ci si indirizza alle tavole della media borghesia e ai ceti più umili, variando la composizione, fino ad arrivare
alle polpette come un piatto popolare, abbondante e saporito, ma sempre apprezzato dalle classi più abbienti. Sembra addirittura che agli inizi del XIX secolo Milano ne fosse diventata la capitale : polpettine e polpettone si incontrano sovente nei ricettari del capoluogo lombardo (e si confondono con i mondeghili, ma questa è un’altra storia…). È Pellegrino Artusi, padre della moderna gastronomia italiana, che nel testo “La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene”, ci dice qualcosa di molto importante. Siamo a fine ‘800, circa 400 anni dopo Mastro Martino, leggiamo questo passaggio che non ha bisogno di commenti per via della sua limpida chiarezza: “Non crediate che io abbia la pretensione d’insegnarvi a far le polpette. Questo è un piatto che tutti lo sanno fare cominciando dal ciuco, il quale fu forse il primo a darne il modello al genere umano. Intendo soltanto dirvi come esse si preparino da qualcuno con carne lessa avanzata; se poi le voleste fare più semplici o di carne cruda, non è necessario tanto condimento. Tritate il lesso colla lunetta e tritate a parte una fetta di prosciutto grasso e magro per unirla al medesimo. Condite con parmigiano, sale, pepe, odore di spezie, uva passolina, pinoli, alcune cucchiaiate di pappa, fatta con una midolla di pane cotta nel brodo o nel latte, legando il composto con un uovo o due a seconda della quantità. Formate tante pallottole del volume di un uovo, schiacciate ai poli come il globo terrestre, panatele e friggetele nell’olio o nel lardo. Poi con un soffrittino d’aglio e prezzemolo e l’unto rimasto nella padella passatele in una teglia, ornandole con una salsa d’uova e agro di limone”.
Da cibo popolare delle osterie seicentesche, la nostra polpetta diventa emblema di avanguardie creative agli inizi del ‘900: Luigi Colombo, in arte Fillìa, pittore e poeta futurista, creò il Carneplastico: “un’invenzione di complessi plastici saporiti, la cui armonia originale di forma e colore nutra gli occhi ed ecciti la fantasia prima di tentare le labbra”. E’ composto di una grande polpetta cilindrica di carne di vitello arrostita ripiena di undici qualità diverse di verdure cotte. Questo cilindro disposto verticalmente nel centro del piatto, è coronato da uno spessore di miele e sostenuto alla base da un anello di salsiccia che poggia su tre sfere dorate di carne di pollo. Il significato? Un’interpretazione sintetica degli orti, dei giardini, e dei pascoli d’Italia. E’ buona? Questo non lo so, fatevi ispirare dai numerosi video sulla rete e fateci sapere! ELOGIO DELLA POLPETTA Arriviamo finalmente alla domanda fatidica. Perché le polpette sono tanto amate? Per diversi motivi, ma il primo è sicuramente per le note di gioia ed allegria che portavano con sé quando giungevano in tavola. Morbide, sugose, profumate, a volte un po’ croccanti, altre volte delle sfumature tradivano le loro intimità, svelando al palato più fine i preziosi ingredienti dell'amalgama: il battuto di manzo o di vitello, il petto di pollo o di tacchino, il lombo di maiale, la polpa di agnello, il formaggio, specie il Grana col suo gusto inconfondibile e determinante, le uova, il prezzemolo, la noce moscata, il prosciutto, la mortadella e, talora, la ricotta o il formaggio molle, che davano all’impasto una straordinaria sofficità. Non è che tutti questi componenti fossero sempre presenti e in egual misura. Al contrario. Il segreto stava proprio nell’abbinare quelli preferiti a seconda dei gusti o dell’occasione conviviale cui erano destinate. Così le polpette prendevano mille sapori e profumi diversi e mille forme: piccolissime come palline, usate soprattutto per guarnire finanziere, savarin e altri piatti di classe, oppure piccole, medie o più grandi in relazione alle abitudini di casa o del ristorante e ai dettami delle ricette utilizzate. Potevano assumere i più svariati “travestimenti”: presentarsi in tavola fritte e croccanti per stuzzicanti
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LETTERATI E ARTISTI Ora che abbiamo capito meglio le vicende storiche di Sua Maestà, vorrei raccontarvi un paio di incontri avvenuti tra i padiglioni di Polpettopoli. Ho incrociato diverse persone che hanno brillato all’interno della storia culturale italiana, ma un paio mi hanno colpito particolarmente, ecco il brevissimo resoconto. Alessandro Manzoni, celebrato autore dei Promessi Sposi (testo così detestato da molti alla scuole superiori ma spesso riabilitato in età universitaria o matura), al capitolo VII del suo celebre capolavoro, fa mangiare a Renzo, Tonio e Gervaso, andati all’osteria poco prima del «matrimonio a sorpresa», un gran piatto di polpette. Si dice che la madre di Don Lisander (questo era il soprannome meneghino del celebre scrittore), Giulia Beccaria, leggendo questo episodio, gli avesse domandato il perché di tale scelta. Rispose
il nostro: «Cara mamma, mi avete fatto mangiare fin da bambino tante di quelle polpette, che ho ritenuto giusto farle assaggiare anche ai personaggi del mio romanzo”.
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antipasti, oppure più grandi e con il cuore tenero come ghiotta pietanza, o affogate in deliziose e saporose salse a base di pomodoro o in altri inebrianti intingoli che richiedevano un lussurioso accoppiamento col pane, tanto pane.
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[…]“La polpetta appartiene alle “lunghe durate”. alle costanti della storia sociale perché al di là delle parole con cui si chiama, affonda le sue radici nella fisiologia del gusto popolare. È figlia dei macchi, delle schiacciate, delle poltiglie con cui, da che mondo è mondo, le cucine dei poveri,
strette tra la penuria e il desiderio, combattono una battaglia quotidiana con la fame. Senza peraltro sacrificare le ragioni del gusto a quelle della sopravvivenza. Tentando di far quadrare il cerchio del nutrimento e del godimento. Fare di necessità virtù, ma al tempo stesso dare scacco alla sorte. È la ricetta che trasforma l’indigenza in eccellenza. Così la fantasia popolare si prende la rivincita sul destino avaro in nome del principio di piacere. E la polpetta, nata come riutilizzo degli avanzi, come placebo gastronomico del Quarto Stato, come consolazione degli afflitti,
differenzia di casa in casa. Le polpette si possono trovare in quasi ogni tradizione gastronomica: al forno, fritte, stufate, in padella. Non hanno patria né bandiera, se non l’indelebile marchio della ricetta tramandata e serenamente modificata di generazione in generazione. Si possono adattare in base alla propria ispirazione, ai propri gusti e soprattutto agli ingredienti che abbiamo a portata di mano. E qui troviamo una riflessione molto interessante: sono un piatto tradizionale votato al tradimento della tradizione stessa: infatti le ricette delle polpette sono fatte per essere modificate, per essere contemporanee delle nostre case, delle nostre tavole, delle nostre esperienze. Sono l’espressione delle nostre dispense ( ma anche della nostra personalità); l’importante sono sempre la qualità degli ingredienti e il rispetto del cibo: mai buttare, mai sprecare. POLPETTOPOLI, LA PARTENZA Siamo giunti alla fine, sazi e soddisfatti. Per uscire dalla nostra città/parco non poteva che esserci un ponte, anzi l’Arcoponte: sostenuto da struttura metallica a maglie, forma un arco semicircolare, è molto simile ad un moderno viadotto dato che attraversa una profonda e ripida vallata. La sponda opposta è nebulosa, immersa in una densa foschia, ma sappiamo già che usciremo felici ed appagati. Sua Maestà la Polpetta è essa stessa un ponte che supera ostacoli a volte insormontabili: collegamento tra la grande cucina nobiliare e quella delle popolazioni locali, tra palati semplici ed esigenti, tra tradizione ed avanguardia. È come un ponte di incontro che unisce i ricordi con il nostro presente. E lo slogan che ci accompagna verso l’uscita recita: “Lunga vita alla polpetta!”
conquista i piani alti della tavola. E diventa un’icona planetaria del gusto, una polp star. Buona in tutte le salse e in grado di soddisfare i palati più diversi grazie alla sua camaleontica capacità di trasformazione” (Dal libro “Una polpetta ci salverà”)
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Le polpette sono un esempio di un piatto di recupero degli ingredienti: così sono nate, con radici ben salde nella cucina povera. Simbolo della cucina di riuso sono diventate anche il piatto rappresentativo di una cucina domestica dove ogni ricetta si
P. S. La genesi di questo itinerario così sgangherato e bizzarro è dovuta fondamentalmente ai postumi dei banchetti natalizi e festivi. L’adagiarsi mollemente sul divano dopo pasti appaganti e memorabili, con la leggerezza di vedere il rientro al lavoro lontano diversi giorni (ma con l’impegno di scrivere questo articolo) ha stimolato oltremodo l’immaginazione del mio subconscio. Spero vivamente - a beneficio della vostra sanità mentale - che non andrete a realizzare concretamente i dispositivi di cottura di Polpettopoli. Ma, nel caso vorreste realmente ricreare qualcosa di ciò che avete letto nelle pagine precedenti, scrivete pure alla Redazione, sapranno fornirvi una professionale consulenza (o un ottimo psichiatra).
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MACINARE LA CARNE i tagli ideali NICE TO MEAT YOU
In questo speciale del Magazine dedicato al mondo delle polpette, non possiamo negare che la protagonista principale sia proprio lei: la carne tritata, macinata, oppure ancora più semplicemente il macinato. Sicuramente, il nostro approccio con essa risale alla nostra infanzia: quante volte ci avranno rifilato una triste pasta bianca, condita con questi filamenti non meglio identificati? Oppure ancora, gli stessi filamenti che assomigliavano alla temuta Trichinella (intendiamo quei vermi lunghissimi e cilindrici…) appena saltati in padella con aglio, olio e prezzemolo? Sì, sì: la smettiamo ora, ma è giusto per darvi l’idea che ciò che abbiamo mangiato finora – e come lo abbiamo mangiato – era quasi sempre molto lontano dall’ideale giusto di carne macinata. Che, ovviamente, può esistere fatta bene, gustosa, ingrediente portante e saporito delle nostre preparazioni. In Italia, solitamente, abbiamo a che fare con carne macinata di manzo oppure di maiale. Nel resto del mondo, si ottengono carni macinate di agnello, capra o montone. Qui, vi parleremo della carne macinata ottenuta dai tagli del manzo. La stragrande maggioranza delle volte ci ritroviamo a che fare con confezioni di carne tritata, proveniente da vari ritagli provenienti da tutta la carcassa dell’animale, esposta nei banchi frigo del supermercato: il colore rosso marcato – e talvolta ci ritroviamo anche le mani rosse! – dipende dal colorante E128, un colorante ad uso alimentare consentito nell’utilizzo dei preparati per hamburger e similari, per renderli visivamente più appetibili. Con la carne macinata, c’è bisogno di avere qualche attenzione in più del solito riguardo la cottura: appurato che tutte le carni proposte in vendita in Italia sono sottoposte a rigido controllo del Ministero della Salute, bisogna tener conto che durante la macellazione/pressatura/ confezionamento della carne potrebbero non essere state rispettate alla lettera le norme igieniche.
Prima di affrontare il grande tema dei tagli perfetti da macinare, vediamo un attimo le composizioni delle carni macinate, in modo tale da diventare dei clienti super-pignoli e poter riportare a casa le stesse indicazioni, magari per macinare noi stessi la carne. Il macchinario in dotazione presso i reparti macelleria e negozi appositi ha dei fori dove la carne, opportunamente schiacciata attraverso i dispositivi di macinatura, passa e così si ottiene un "impasto" uniforme, adatto alle vostre preparazioni, che siano essi hamburger oppure polpette. La composizione della carne macinata solitamente è questa: • carne macinata magra: 85% di carne e 15% di grasso. • carne macinata extra magra: 90% di carne e 10% di grasso. • carne macinata grassa: 80% di carne e 20% di grasso. Queste percentuali vanno bene e sono valide per tutti? Come sempre, dipende. Dipende da che tipo di consumatore sei e dipende dal tipo di utilizzo che devi fare del tuo macinato. Queste sono misure di massima, sei libero di adattarle alle tue esigenze e con i tagli di carne che hai a disposizione.
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L'altro grande problema che ci ritroviamo a fronteggiare con il macinato, oltre la carne addizionata con i coloranti, è la percentuale grasso:magro. Quest'ultima ci è spesso ignota e la dobbiamo calcolare "ad occhio", cosa che davvero ci piace poco. La carne macinata, soprattutto quella già confezionata, prevede una percentuale davvero molto alta di carne magra e pochissimo grasso. Tra le altre cose, spesso grasso di poca qualità. Nella migliore delle ipotesi, quando si ha tempo, si può andare
dal proprio macellaio di fiducia e selezionare un minimo i tagli da farsi poi macinare in presenza, scegliendo anche (sempre ad occhio) la percentuale di grasso.
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QUALI SONO I TIPI DI CARNE IDEALE PER IL MACINATO?
Parecchia gente pensa che non ci sia bisogno di spendere troppo per avere della carne macinata, per fare delle polpette e degli hamburger. Bisogna tenere a mente pochi punti fondamentali, prima di operare le proprie scelte: • Cosa devo cucinare? Che sia un hamburger, una polpetta, un polpettone: perché dovrei accontentarmi della prima confezione di macinato che ritrovo nel congelatore o al banco del supermercato? La nostra polpettina non merita pari dignità di una bistecca? Provate • Di che percentuale magro:grasso ho bisogno nella mia preparazione? Le percentuali possono tranquillamente cambiare tutta la posta in gioco e, di conseguenza, il risultato della vostra preparazione. Di seguito, vi forniamo un po' di indicazioni utili sui tagli migliori e percentuali magro:grasso per ottenere un ottimo macinato con cui preparare hamburger e polpette. Diamo per appurato che sceglierete il manzo. •
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Flank Steak con rapporto magro-grasso di 90:10. Il Flank Steak, conosciuto in Italia come bavetta, si presta benissimo ad essere macinata. Particolarmente fibroso, si trova facilmente in giro e presenta anche costi contenuti. Chuck Eye Steak con rapporto magro-grasso di 80:20. Il Chuck Eye Steak proviene dalla parte superiore della spalla del nostro bovino. Si tratta di un taglio ricchissimo di connettivo e grasso, abbastanza pregiato. Ribeye, altrimenti detta Rib Roast senza osso, con rapporto magro-grasso di 75:25. La nostra Ribeye può essere tranquillamente macinata per ottenere un preparato di grande pregio. Boneless Chuck Short Rib con rapporto magro-grasso di 70:30. Si tratta della prima parte delle costole del bovino, molto pregiate. Brisket Primal, alias "Packer Brisket" con rapporto magro-grasso di 65:35. La famosa “punta di petto” è il nostro taglio preferito quando si tratta di fare preparazioni con il macinato.
IL BRISKET: PERFETTO PER TUTTE LE POLPETTE
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La punta di petto, il nostro amatissimo Brisket, è solitamente disponibile ovunque. Il costo relativamente contenuto lo rende ancora più appetibile, perché si presta a decine di preparazioni: molti tra voi, anche chi si è appena avvicinato alla nobile scienza del bbq, avrà sicuramente assaggiato il Corned Beef, cioè il brisket affumicato o ancora il pastrami. Si tratta di un taglio meraviglioso e ricco di gusto: poi, ci possiamo fare anche il macinato, cosa chiedere di più?
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Sicuramente, questo taglio ricco di connettivo necessiterebbe di cotture prolungate affinché il connettivo presente possa sciogliersi a dovere. Ma, quando usate il tritacarne per ottenerne brisket macinato, questo “problema” dovrebbe ridursi notevolmente. È consigliabile ottenere carne macinata da un brisket intero (appunto, Packer Brisket), in modo tale da sfruttare le dovute proporzioni magro:grasso. Sicuramente, il costo rispetto alla carne pre-macinata e confezionata sarà maggiore, ma siamo sicuri che non tornerete più indietro.
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CITRUS PORK SHOULDER
IN COCOTTE
Il pulled pork è il banco di prova del barbecue americano: quello, insomma, in cui un vero pit master si esibisce e prova a far rotolare dal godimento i suoi ospiti. Una volta assaggiato lo sfilacciato di carne fatto a dovere, messo nel bun insieme a coleslow e salsa bbq, difficilmente potrete farne a meno. Sappiamo benissimo, però, che quello che spaventa tantissimi tra voi è la quantità di tempo da impiegare in questa preparazione, così come la mancanza di dispositivi adatti, di spazi… o ancora, la mancata formazione. Se volete conoscere tutto, ma davvero tutto, su barbecue e grilling (e quindi, essere pronti per fare un perfetto pulled pork), dovreste dare un occhio alla nostra Masterclass: un lavoro imponente, che racchiude tutta la conoscenza della BBQ4All University messa a disposizione per voi. Nel frattempo che vi decidiate o meno se affidarci la vostra sete di conoscenza, provvediamo a fornirvi un modo più semplice per godere della vostra spalla di maiale: vi proponiamo il nostro Boston Butt del Megastore al sentore di agrumi, cotto lentamente in cocotte di ghisa. Per quanto riguarda la carne, in questo caso, il nostro Megastore è la scelta migliore: troverete il taglio, appunto, sotto il nome di Boston Butt.
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Passiamo al dispositivo primario che andrete ad usare, cioè la cocotte: una pesante pentola con coperchio interamente realizzata in ghisa, ad esempio la cocotte gourmet della weber. Un’altra opportunità potrebbe essere la Ductch Oven. In ogni caso, dovrete affidarvi a dispositivi che garantiscono lunga tenuta del calore e una distribuzione dello stesso uniforme. Questo tipo di pentole, all’interno del coperchio, presentano molteplici protuberanze che garantiscono la distribuzione uniforme dell’umidità che si andrà a creare all’interno. Queste pentole possono essere con il fondo piatto (adatte anche ad uso su piastre ad induzione), oppure dotate di piedini e parte esterna del coperchio adatto a metterci sopra dei pezzi di brace incandescente.
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Si utilizzano, in ogni caso, particolarmente per fare stufati e similari. Si utilizzano in tutti i dispositivi dotati della griglia gourmet Weber, con anello centrale asportabile, ma nulla ci vieta di usare i fornelli di casa, un forno, oppure un braciere improvvisato. La nostra spalla di maiale agrumata in cocotte è adatta ad essere servita assieme ad un cremoso purè, ad un panino caldo, oppure da sola, in accompagnamento ad una delle salse del Megastore. A tal proposito, vi consigliamo la Honey Mustard, Barbecue Sauce, Burger sauce o Smoke & Fire Sauce di BBQ4All... in ogni caso, non ve ne pentirete.
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Ingredienti per 4 persone: 1 Boston Butt del Megastore (circa 4 kg) / 4 cipolle
rosse medie / 4 arance dalla buccia edibile / 1 limone dalla buccia edibile / Senape di Digione q.b. / Rub #18 (oppure sale, pepe, aglio, cipolla, cumino, origano, peperoncino). / Rub Spog Per il basting: 3 spicchi di aglio / 3 cucchiai di paprika affumicata / 2 cucchiai di zucchero di canna / timo q.b. / sale q.b. / pepe q.b. / olio extravergine d’oliva q.b. Salsa di accompagnamento: 4 cucchiai di maionese / 1 cucchiaio di miele / 2 cucchiai di Chipotle Sauce / 1 cucchiaio di senape di Digione sale q.b. / pepe q.b. PREPARAZIONE 1.
Prendete la spalla di maiale e, con un coltello adatto, andate ad eliminare il grasso in eccesso e i brandelli.
2.
(se non avete un dispositivo, saltate direttamente al punto 4) Settate il vostro dispositivo sui 150°C. Spalmate leggermente un po’ di senape sulla carne e cospargete con un leggero strato di rub.
3.
Una volta raggiunta la temperatura, ponete sulla griglia la spalla di maiale e fatela affumicare con legno di melo o ciliegio per circa un’ora.
4.
Per chi non ha un dispositivo, preparate il basting. Iniziate triturando l’aglio, poi mettete il composto in una boule e aggiungete la paprika affumicata, lo zucchero di canna, il timo, sale e il pepe. Aggiungete a filo l’olio extravergine d’oliva, mescolando, fino ad ottenere un composto spalmabile.
5.
Se non avete il dispositivo per affumicatura: cospargete la spalla di maiale con il preparato e avvolgetela in pellicola per alimenti e lasciatela insaporire per un paio di giorni in frigorifero. Se disponete di affumicatore, togliete dalla griglia la carne che a questo punto avrà una colorazione brunastra e mentre mettete a scaldare sul braciere la pentola in ghisa, cospargete la carne con il basting preparato, tenendo la carne al caldo coperta da un foglio di alluminio.
6.
Una volta che la ghisa sarà a temperatura, andate a ungere il fondo con dell’olio.
7.
Tagliate grossolanamente le cipolle, adagiatele sul fondo della pentola e appoggiate letteralmente sopra il pezzo di carne. Dopodiché, andate a cospargere una generosa ulteriore passata di olio.
8.
Tagliate in due il limone e le arance, spremete con il pugno i succhi sopra la spalla e le restanti bucce ponetele ai bordi della pentola. Ponete il sondino della temperatura e ponete il coperchio in ghisa della cocotte, per poi chiudete il coperchio del dispositivo (oppure del forno, se non ce l’avete!).
9.
Quando il termometro vi dirà che la vostra spalla avrà raggiunto i 98°C al cuore, spegnete i dispositivi e lasciate che la vostra carne raggiunga temperture più basse. Il Rest, cioè quel punto in cui la temperatura non si abbassa né si alza, dovrebbe giungere intorno ai 70°C/75°C. BBQ4All Magazine
10. Giunti a quella temperatura, potrete pullare con soddisfazione la vostra spalla, assieme ai succhi agrumati nella cocotte, oppure su un tagliere ottenere delle fette estremamente tenere e succose, da accompagnare con una salsina piccante.
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Quanto è buono
L'OSSOBUCO
AFFUMICATO ALLA BIRRA CON 'NDUJA, NOCCIOLE E PASTINACA
Se vi diciamo ossobuco, la prima cosa che vi viene in mente è sicuramente un classico della cucina lombarda: quel delizioso pezzo di carne che si scioglie in bocca, accompagnato da un risotto giallo e dalla fresca gremolata. Fa parte di quei comfort food robusti, sazianti e goduriosi.
L'ossobuco si ricava dal geretto o stinco, un taglio che corrisponde all'ultimo muscolo della gamba bovina, prima del piede. Può essere sia anteriore, molto ricco di tessuto connettivo, sia posteriore, più pregiato perché più tenero, di forma rotonda e con più midollo. Il midollo osseo degli animali è stato spesso utilizzato dagli esseri umani come alimento. Sebbene il midollo alimentare più comune sia quello giallo, ricavato dalle ossa lunghe, viene anche cucinato il midollo rosso, che contiene una maggiore quantità di sostanze nutritive.
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Molte culture hanno utilizzato il midollo osseo come alimento nel corso della storia. Alcuni antropologi ritengono che i primi uomini ricavassero nutrimento raccogliendo le risorse dagli animali morti piuttosto che attraverso la caccia in diverse regioni del mondo. Il midollo sarebbe stata una fonte di cibo utile (in a causa soprattutto del suo contenuto di grassi e proteine) per gli ominidi che, utilizzando alcuni rudimentali strumenti, erano in grado di aprire le ossa delle carcasse lasciate dai predatori. Durante il XVIII secolo, gli europei usavano spesso un cucchiaio in argento accoppiato a una scodella per estrarre il midollo dalle ossa che venivano loro servite.
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Nella cucina tradizionale questo alimento è piuttosto apprezzato, tipicamente consumato nel bollito misto di carne, tipico nella cucina piemontese, ma anche come ingrediente di ripieni insieme al cervello come nella Cima alla genovese, ed diverse
altre preparazioni. Come dicevamo all’inizio, viene utilizzato anche nella ricetta originale del risotto alla milanese. In Vietnam, l'osso di bue viene utilizzato come base di zuppa per il piatto nazionale, il pho, mentre nelle Filippine, il bulalo è una zuppa composta principalmente da brodo di carne e ossa con midollo, condito con verdure e carne bollita. In Indonesia, il midollo osseo si chiama sumsum ed è spesso cucinato come zuppa. In India e Pakistan, cotto a fuoco lento, il midollo è l'ingrediente base del piatto Nihari Nalli. In Ungheria, la tibia è un ingrediente principale del brodo di manzo, l'osso è tagliato corto (pezzi di 10-15 cm) e le estremità sono ricoperte di sale per evitare la fuoriuscita del midollo durante la cottura. Servito nel bollito, è di solito spalmato sul pane tostato. Nella cucina iraniana, gli stinchi di solito sono rotti prima della cottura per permettere ai commensali di succhiare e mangiare il midollo quando il piatto è servito. Alcuni nativi dell'Alaska invece mangiano il midollo osseo di caribù e alci. Il midollo osseo è una fonte di proteine ed è molto ricco di grassi monoinsaturi. Si sa che questi grassi abbassano i livelli di colesterolo LDL con conseguente riduzione del rischio di malattie cardiovascolari. L’affumicatura, in questo caso a base di quercia rossa, dev’essere appena accentuata e, come diciamo sempre, deve essere solo uno degli ingredienti. Il midollo sciogliendosi in cottura darà un overboost di sapore alla preparazione da far saltare dalla sedia, garantito! L’accostamento alla pastinaca, dal naturale gusto acidulo è perfetto per equilibrare le note grasse e opulente di questo taglio. Le nocciole daranno rotondità e quella componente tostata e croccante che rende il boccone perfetto e la 'nduja, leggermente piccantina, completerà la sinfonia.
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Ingredienti per 4 persone: 2 kg di ossobuco Emerald
Green GLC Top Selection / 1 l di birra amber ale o Belgian ale / 1 l brodo vegetale / sale q.b. / pepe nero a piacere / 50 g di cipolla dorata / 20 g di bacche di ginepro / una stecca di cannella / un cucchiaio di pimento / un mazzetto di timo limone / un mazzetto di rosmarino / un mazzetto di salvia / un limone / amido di mais q.b. / 40 g di 'nduja Per la purea di pastinaca : 1 kg di pastinaca / 300 g burro / sale q.b. Per le nocciole: 30 g nocciole / 100 g burro
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PREPARAZIONE
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1.
La sera prima mettete a marinare l’ossobuco per almeno 12 ore coperto con la birra in frigorifero.
2.
Il giorno dopo scolatelo, asciugatelo ed eliminate la marinatura. Stabilizzate il vostro dispositivo a 140°C/160°C e affumicate l’ossobuco condito con sale e pepe fino ai 60°C/65°C al cuore, comunque ottenendo una brunitura superficiale soddisfacente.
3.
In un grande tegame unite l’ossobuco, la cipolla tagliata in pezzi grossolani, il rosmarino, la cannella, il ginepro, il pimento e la salvia e coprite con il brodo caldo. Portate a cottura a fuoco bassissimo fino alla temperatura interna di 95°C. A quel punto trasferite l’ossobuco in abbattitore, se lo possedete, o comunque fatelo raffreddare il più velocemente possibile.
4.
Fate restringere il fondo alla birra di almeno 2/3, aggiustate di sale e pepe e stemperate il sapore e sciogliendo un po’ di maizena in acqua fredda. Portate a bollore e filtratelo con un colino per eliminare le erbe e le bacche. Solo a questo punto inserite la scorza del limone, il succo di mezzo e il timo sfogliato.
5.
Per la purea, pelate la pastinaca e cuocetela in abbondante acqua salata finché non risulta tenera e ben cotta. Scolate ed emulsionate in un mixer aggiungendo il burro freddo tagliato a cubetti.
6.
Per le nocciole, sciogliete il burro in un pentolino e fatelo diventare color nocciola. Inserite le nocciole che avrete fatto tostare a 150°C per 20/25 minuti. Lasciate in infusione fino al momento del servizio.
7.
Al momento di servire fate rinvenire l’ossobuco nel suo fondo allungato con un goccio di brodo finché non avrà ripreso la consistenza burrosa. Stendete la purea nel piatto pronta ad abbracciare l’ossobuco e guarnite con il suo fondo di cottura, le nocciole e qualche goccia di nduja leggermente sciolta in microonde.
Porgi l'altra
GUANCIA
AL SAMBUCO CON TERRINA DI PATATE!
Esiste un taglio del manzo venduto davvero al prezzo delle patate, che se cotto e trattato a dovere vi darà più soddisfazioni del miglior filetto che potete trovare in circolazione. Stiamo parlando di lei: la cheek meat, regina indiscussa di tutti i brasati e tremendamente goduriosa. È il muscolo della guancia, altamente utilizzato durante la masticazione che, per questo, ospita un'abbondanza di tessuto connettivo, quello che conoscete benissimo come collagene. Questo taglio risponde bene ai metodi di cottura prolungati umidi e lenti. Quando il collagene si trasforma, attraverso la lenta cottura, produce un risultato tenero e saporito. La guancia è la protagonista di questo secondo di carne robusto, caldo e goloso. Fa parte di quelle ricette spesso dimenticate ed anche un po' snobbate, vuoi per la lunga cottura, vuoi per fare spazio a tagli più “pregiati”. In realtà è una preparazione davvero interessante che non richiede un grande impegno, a parte un po’ di pazienza. La marinatura e la lenta cottura trasformeranno la consistenza coriacea della guancia letteralmente in un budino di carne che si scioglierà in bocca. A prova di cucchiaio. Riuscire a lavorare con i tagli poveri degli animali è qualcosa di estremamente appagante e soddisfacente: rende giustizia al lavoro dell’allevatore e al sacrificio dell’animale. Se poi a questo si aggiunge la bontà che questi tagli, sapientemente trasformati, sanno regalare, il gioco è fatto. L’abbinamento della guancia con le bacche di sambuco funziona spaventosamente bene. Balsamiche, dolciastre e carnose, sono perfette per fare da spalla ad un taglio così opulento e ricco di collagene. A sostenere il tutto ci sarà una terrina di patate, piatto all’apparenza un po’ complesso ma che in realtà richiede solamente un minimo di applicazione e di pazienza nella cottura. BBQ4All Magazine
Nel caso fosse comunque per voi poco agevole, la preparazione delle normalissime patate al forno o un bel purè sostituiranno egregiamente la terrina in questo compitino un po’ ambizioso.
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Ingredienti per 4 persone: 2 kg Cheek meat Emerald Green GLC Top Selection / 1 bottiglia di Teroldego Rotaliano DOC / sale q.b. / un cucchiaino di olio di semi / pepe nero a piacere / 100 g di bacche di sambuco / 50 g di zucchero / 40 g di scalogno / 20 g di bacche di ginepro / un mazzetto di timo / amido di mais q.b. / cetriolini pickled a piacere / erbe aromatiche a piacere Per la terrina di patate : 1 kg patate / 100 g burro / sale q.b. / pepe nero q.b. / abbondante olio di semi PREPARAZIONE 1.
La sera prima pulite e rimuovete dalla guancia ogni traccia di tessuto connettivo superficiale e di silverskin. Lasciate la guancia a marinare per almeno 12 ore coperta con il Teroldego in frigorifero.
2.
Il giorno dopo scolatela ed eliminate la marinatura. In una padella molto calda ed unta con un filo di olio di semi, fate rosolare la guancia condita con sale e pepe su tutti i lati in maniera veramente accurata, prendetevi tutto il tempo che vi serve per ottenere una reazione di Maillard soddisfacente.
3.
In una padella caramellate le bacche di sambuco unendole a freddo con lo zucchero e un cucchiaio d’acqua fino ad ottenere una sorta di marmellatina. Ci vorranno circa 10 minuti.
4.
In un tegame molto grande unite l’80% delle bacche caramellate e il loro liquido, le guance, il timo, il ginepro, lo scalogno e coprite con acqua calda o brodo di manzo.
5.
Portate a cottura a fuoco bassissimo fino alla temperatura interna di 95°C. A quel punto trasferite la guancia in abbattitore, se lo possedete, o comunque fatela raffreddare il più velocemente possibile.
6.
Fate restringere il fondo al sambuco di almeno 2/3, aggiustate di sale e pepe, e stemperate il sapore sciogliendo un po’ di maizena in acqua fredda. Portate a bollore e filtratelo con un colino per eliminare le erbe e le bacche.
7.
Per la terrina, tagliate le patate con una mandolina in sfoglie di circa 1mm. Intervallatele a strati, in una teglia foderata con cartaforno, con burro fuso, sale e altre patate e proseguite fino a fare almeno 8 strati.
8.
Coprite con un altro strato di carta forno, pressate bene con un’altra teglia e un batticarne che lascerete in cottura. Cuocete a 150°C per circa 2 ore. La terrina nel centro dovrà risultare fondente.
9.
Raffreddate velocemente la terrina, poi sformatela e ottenete dei rettangoli da friggere in olio di semi abbondante a 170° per circa 3/4 minuti o comunque fino a doratura.
10. In un tegame con doppio fondo inserite la guancia tagliata a fette spesse, le bacche di sambuco rimanenti e abbondante salsa. Scaldate a fiamma bassa fino a quando la consistenza della guancia non tornerà fondente e siete pronti per impiattare. BBQ4All Magazine
11. Impiattate la terrina con la guancia a fianco nappando con abbondante salsa e le bacche. Per dare un tocco di acidità e freschezza usate dei cetrioli pickled (meglio se fatti in casa) e delle erbette come dragoncello, cerfoglio e finocchietto.
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TOP BLADE IN
SALSA VERDE
La salsa verde è un condimento ideale per accompagnare piatti di carni; all’estero, viene facilmente indicata come uno degli intingoli della tradizione italiana tutta ma, per la precisione, viene utilizzata soprattutto in Piemonte, dove accompagna egregiamente piatti come il gran bollito. Una preparazione che, con il freddo subalpino, va decisamente a braccetto. Il ruolo di questa salsa era, in passato, molto semplice: doveva accompagnare appunto questi pantagruelici pasti a base di bollito, che spesso risultava stopposo e poco masticabile, data la natura poco nobile dei piatti. In realtà la diffusione della salsa verde è mondiale e, certamente, vede la sua nascita tra Francia ed Italia, due Paesi accomunati dalla grande passione e diffusione, appunto, delle salse. Come tutti i piatti “della tradizione”, non esiste una ricetta univoca, anzi: a scavare bene troveremmo innumerevoli varianti, la più famosa è il bagnet vert: così simile che alcuni la assimilano praticamente alla salsa verde. La salsa verde è tipicamente composta da capperi, aceto e acciughe sott’olio, tritati, ed aggiunti ad abbondante prezzemolo, che dona il caratteristico colore verde da cui prende il nome. Questi sono gli elementi portanti, a cui possono essere aggiunti pane raffermo e tuorli d’uovo (che, secondo alcune scuole di pensiero, sono imprescindibili). Tra le varianti più diffuse, vediamo la salsa verde con cetriolini, cipolla o ancora salsa verde con peperoni.
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Le sue origini sono tra Italia e Francia, certo: ma alzi la mano chi non ha pensato almeno lontanamente al chimichurri argentino, la salsa verde agliosa con cui i sudamericani accompagnano i loro asado? O ancora, per i più navigati, non vi ricorda la pique verte boricua, salsa verde tipica del Portorico, a base di peperoncino verde piccante Caballero?
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La nostra salsa verde, in questa preparazione, non avrà il compito di “nobilitare” tagli poco appetibili, ma di amplificarne il gusto senza prevaricare la nostra materia prima portante, che è la carne. Abbiamo scelto come taglio il Top Blade Crimson Crest, presente sul nostro Megastore, possibile da prendere sia intero che già porzionato. Questo taglio si presta perfettamente a brasati e cotture prolungate, in umido, finalizzate allo scioglimento dell’importante tessuto connettivo presente.
Ingredienti per 4 persone: 1 Top Blade Crimson Crest del nostro Megastore
Per la salsa verde: 100 g di prezzemolo fresco / 1 aglio intero / 2 tuorli di uovo già sodi / 3 filetti di acciughe in olio extravergine d’oliva / 30 g di capperi salati / 70 g di mollica di pane / aceto di vino q.b. / olio extravergine d’oliva q.b. / sale q.b. / pepe di Timut q.b. PREPARAZIONE 1.
Iniziamo con la preparazione della salsa verde. Prendete i tuorli d’uovo già sodi e setacciateli. Dopodiché, prendete la mollica di pane, tagliatela a pezzi grossolani e immergete i tocchetti in una ciotola dove avrete messo l’aceto di vino. Lasciate in ammollo per circa dieci minuti a temperatura ambiente.
2.
Nel frattempo, prendete l’aglio. Eliminate l’anima centrale, pelate gli spicchi. Dissalate i capperi con cura, sotto l’acqua corrente.
3.
Passati i 10 minuti, strizzate bene la mollica di pane e separatela dall’aceto. Unitela ai tuorli d’uovo.
4.
Tritate finemente i capperi dissalati, l’aglio sbucciato e privato dell’anima e le acciughe. Fate in modo da tritare con cura, così da ottenere un composto quanto più omogeneo possibile. Notare bene che potete utilizzare il mixer, per minor sbattimento e maggiore omogeneità.
5.
Si giunge quindi al momento dell’elemento portante della salsa, cioè il prezzemolo. Privatelo dei gambi più duri e malandati, lavatelo per bene e tritatelo.
6.
Aggiungete il trito di prezzemolo ai precedenti ingredienti già tritati in ciotola, aggiustando di sale e pepe di Timut secondo piacere.
7.
Aggiungete abbondante olio extravergine d’oliva, dopodiché coprire la salsa con un panno e lasciare riposare per almeno due ore frigo, per permettere a tutti gli ingredienti di amalgamarsi per bene.
8.
Passiamo alla preparazione del nostro Top Blade, mentre la nostra salsa si assesta. Predisponete il vostro dispositivo per una cottura diretta, avendo cura di creare anche una zona per trasferire successivamente la carne e terminare la cottura in indiretta.
9.
Asciugate bene il vostro Top Blade. A griglia ben calda, mettete su il vostro Top Blade.
10. Quando la temperatura della carne sarà di 52°C al cuore, trasferite il Top Blade nella zona a cottura indiretta fino a raggiungere la temperatura interna desiderata ma comunque superiore ai 52°C al cuore. 11. Quindici minuti prima del servizio, tirate fuori la salsa verde dal frigo. BBQ4All Magazine
12. Su un piatto da portata, sporzionate il Top Blade. Servire la salsa verde in accompagnamento, fornendo a ciascun commensale la propria ciotolina cui attingere. A piacere, potete approfittare del dispositivo acceso per grigliare qualche fetta di pane ed approfittare anche in questo modo dell’intingolo verde.
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Cotoletta alla milanese?
WAGYŪ
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CON DOPPIA PANATURA E AL BBQ
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Zitta zitta, Milano ha un sacco di “piatti tipici” da annoverare nella sua schiera: oltre polenta, panettone e il risotto omonimo, un posto se lo conquista sicuramente la cotoletta (o costoletta) alla milanese. Un piatto dai fasti molto antichi e conosciuti: prime testimonianze ne abbiamo dall’economista Pietro Verri, che ne parla tra i piatti ammessi durante i pasti dei canonici di Sant’Ambrogio.
Esistono due versioni, entrambe apprezzate dai puristi, della cotoletta alla milanese: una versione dove la carne è ben attaccata all’osso e non subisce manipolazioni prima, chiamata “alta”; l’altra versione, prevede la battitura della carne fino a stenderla in modalità oreggia d’elefant, cioè la famigerata orecchia d’elefante, con la carne che trasborda spesso oltre il piatto.
Il Comune di Milano sente così propria la cotoletta che, nel 2008, ha insignito il piatto del riconoscimento De.Co., cioè di prodotto a Denominazione Comunale, una sorta di riconoscimento per “proteggerlo”. C’è da dire che la cotoletta alla milanese assomiglia un bel po’ – ma davvero, un bel po’ – alla Wiener Schnitzel, la cotoletta viennese. Quale sia nata prima, non si sa. Ma, come vi ripetiamo spesso, i piatti viaggiano in fretta tanto quanto le persone, gli usi e i costumi… quindi, difficile trovare la vera collocazione originaria. Molto più credibile, invece, pensare che sia nata in seno all’intero impero austro-ungarico e da qui diffusasi in tutto il territorio di quella competenza.
Una cotoletta alla milanese “fatta bene” dovrebbe avere una panatura super-croccante e l’interno ancora rosato e morbido. Inutile dire che, in giro tra trattorie blasonate o meno e tra le mura domestiche, di cotolette alla milanese fatte bene se ne vedono e mangiano davvero poche. Un vero peccato, viene da pensare, perché in questo piatto, tutto urla dietavade-retro! Ma se peccato dev’essere, che sia fatto davvero bene. Siamo di questa opinione e voi, cari lettori, lo sapete bene.
Com’è fatta la cotoletta alla milanese? Solitamente, questo piatto è costituito da una fetta di lombata di vitello provvista di osso; questa fetta viene dapprima panata, poi fritta nel burro. Le versioni più puriste e dietetiche della cotoletta alla milanese tendono, oggigiorno, ad evitare il burro a favore della frittura con olio. Il piatto viene successivamente servito ai commensali corredato da fettine di limone; i più tradizionalisti, ancora, versano sopra del burro fuso.
Per questo motivo, tra le pagine del Magazine di questo mese, vi proponiamo una esclusiva e laida cotoletta alla milanese, fatta con Wagyū che del nostro Megastore e con una specialissima doppia panatura, croccante e da salivazione perpetua. Dovrete seguire, essenzialmente, 3 passaggi che renderemo di una facilità imbarazzante. 1. Carne cotta alla perfezione, niente di stopposo, succosa e morbida. 2. Una panatura, grazie ai consigli dello Zio, che non si staccherà nemmeno per sogno, che non si riempirà d’olio. 3. La cottura al bbq.
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QUALE CARNE SCEGLIAMO? Beh, ve l’abbiamo anticipato: la nostra sarà una cotoletta di Wagyū alla milanese. Dal nostro Megastore, abbiamo selezionato del Wagyu Kyoto Myabi, che potrete trovare dello spessore giusto per le vostre cotolette. Non stiamo qui a spiegarvi la marezzatura e le qualità stratosferiche di questa carne: se siete lettori del Magazine, conoscerete tutte queste caratteristiche davvero a menadito.
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SPIEGHIAMO LA FACCENDA DELLA DOPPIA PANATURA? Una volta conosciuta, non lascerai mai più andate la doppia panatura: la utilizzerai per tutte le preparazioni che richiederanno una copertura scrocchiarella. La gente comune si limita, il più delle volte, a passare la cotoletta nel pangrattato. SBAGLIATO! Il glutine, nel nostro caso, serve a poco. Per questo andremo ad immergere le nostre cotolette prima in una soluzione colloidale, fatta di farina e amido di riso e soltanto successivamente faremo il passaggio nel pane panko. Una pastella fatta di solo glutine andrebbe a formare, in cottura e con la presenza di acqua, gliadine e glutenine, che darebbero soltanto fastidio con la presenza dell’olio.
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LA COTOLETTA AL BBQ Cuoceremo la cotoletta di Wagyu alla milanese sul nostro dispositivo di riferimento, utilizzando la cottura indiretta. Per una buona riuscita della nostra cotoletta, dovrete dotarvi di un vaporizzatore, oggetto spesso sottovalutato ma che, vi assicuriamo, cambierà radicalmente il risultato della vostra cotoletta, donandovi croccantezza senza untuosità.
Ingredienti per 1 bistecca: 4 cotolette di Wagyu Kyoto
Myabi / 250 ml di olio extravergine d’oliva / 1 vaporizzatore per la pastella e doppia panatura: 250 g di pane panko / 120 g di farina di riso / 90 g di amido di riso / 6 g di sale / 500 ml di acqua (dose indicativa PREPARAZIONE 1.
In una boule, formate una pastella fatta dalla farina di riso, dall’amido di riso, il sale e dall’acqua. Mescolate fino a farla diventare della giusta consistenza, né collosa ma nemmeno liquida.
2.
Prendete le fette di Wagyu e portatele a temperatura ambiente.
3.
Immergete la carne nella pastella, poi subito dopo tuffatela nel pane panko.
4.
Dopo aver effettuato questo primo passaggio, lasciate riposare la carne in frigorifero a 4°C per almeno 15 minuti. Questo passaggio sarà necessario per far aderire bene la pastella alla carne.
5.
Nel frattempo, prendete una terrina e aprite al suo interno 4 uova intere. Sbattete le uova.
6.
Tirate fuori le fette già panate (con la prima panatura). Passatele prima nell’uovo e poi nel panko.
7.
Preparate un vassoio abbastanza capiente da contenere le cotolette. Adagiate queste ultime con cura e trasferite l’intero vassoio in congelatore per venti minuti. In questo modo, la panatura aderirà completamente alla carne.
8.
Tirate fuori le cotolette dal congelatore e riportate a temperatura ambiente la carne.
9.
Riempite il vaporizzatore con l’olio extravergine d’oliva. Spruzzate con cura l’olio su entrambe le superfici delle nostre cotolette, immediatamente prima di andare in cottura.
10. Nel frattempo, settate il vostro dispositivo per una cottura indiretta molto vivace, con una temperatura circa di 150°C. 11. Disponete la vostra cotoletta sulla griglia, dalla parte dove non sono presenti le braci e cuocete a coperchio chiuso. 12. Con l’aiuto del termometro, misurate la temperatura al cuore. L’ideale è toglierle dalla brace quando al cuore la temperatura è 55°C; se preferite una cottura media, andate sui 65°C al cuore. 13. Servite le cotolette di Wagyu alla milanese cotte al bbq molto calde, magari accompagnate da una salsina. Ideale sarebbe il wasabi, ma un’altra ottima idea potrebbe essere: senape, coriandolo, olio extravergine d’oliva e succo di limone.
Usiamo la cocotte per la
CASSŒULA!
All’apparenza sembrerebbe impronunciabile dal Rubicone in giù, ma vi assicuriamo la apprezzano tutti: stiamo parlando della cassoeula, il piatto che vede protagonista carne di maiale e verdure, una specie di minestra maritata napoletana, però in salsa lombarda e post-natalizia. Molto probabilmente, la cassoeula è proprio una preparazione sorella della minestra maritata: attraverso le influenze iberiche, dapprima a Napoli e successivamente per il resto dello stivale, il piatto si è adattato alle vicende, usi e costumi del posto in cui veniva consumato. Ad oggi, la cassoeula è tipicamente associata alla Lombardia. Storicamente, la preparazione della cassoeula è legata alla festa di San Antonio Abate (17 gennaio): questo è il periodo delle verze e della macellazione del maiale. In particolare, il 17 gennaio la Chiesa benedice gli animali, in particolar modo il maiale, raffigurato nell’iconografia classica sempre al fianco del santo, vestito da pastore e protettore degli agricoltori. Nel Medioevo, i monaci erano soliti ricavare dal maiale creme emollienti per curare i malati dal “fuoco di Sant’Antonio”, e i monaci Antoniani furono tra i primi a ripristinare l’allevamento di maiali, in barba al tabù che voleva l’animale simbolo di Belzebù. Nella cassoeula, ci finiva di tutto, del maiale: dalle cotenne ai piedini, alle orecchie, alle parti del muso.
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E per quanto riguarda questo nome impronunciabile, invece? Anche qui, abbiamo diverse teorie: c’è chi ritiene che derivi da cassoeu, parola dialettale diffusa nella Pianura Padana con cui si indica il mestolo, mentre molti sostengono che si riferisca alla casseruola in cui viene cotta la carne. Un’ipotesi molto papabile e molto semplice è che cassoeula derivi in realtà da cazzuola, cioè l’attrezzo usato dai muratori per rimestare la calce e simili; preparando la cassoeula, vi ritroverete spesso a girare col mestolo! Si tratta di un piatto che prevede infinite varianti: quindi, noi del BBQ4All Magazine, vi proponiamo questo mese la nostra cassoeula, con le ribs del Megastore, le nostre Smoky Chipotle Brats e l’utilizzo della cocotte in ghisa: vedrete, non avrete altra cassoeula al di fuori di questa!
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Ingredienti per 4 persone: 6oo g di Baby Back Pork Ribs Greedy's
Hog DUROC del Megastore / 1 cotechino fresco / 200 g di pancetta di maiale con cotica / 1 Smoky Chipotle Brats (oppure salsiccia piccante) / 500 g di verza / 400 ml di passata di pomodoro / 100 g di burro morbido / 1 cipolla media / 3 carote / 1 costa di sedano / 1 spicchio di aglio / 1 bicchiere di vino bianco / ½ bicchiere da caffè di grappa bianca / olio extravergine di oliva q.b. / 1 litro di acqua calda oppure brodo di verdure / salvia q.b. / alloro q.b. / sale q.b. / pepe q.b. PREPARAZIONE 1.
Per prima cosa settate il dispositivo sui 130°C\140°C.
2.
Una volta raggiunta la temperatura, affumicate in indiretta con legno di ciliegio e melo il cotechino e la salsiccia, avendo cura di raggiungere i 70°C al cuore.
3.
Dopo aver raggiunto i 70°C, togliete la salsiccia avvolgendola in alluminio e mettetela da parte. Per il cotechino, proseguite la cottura in foil fino ai 94°C.
4.
Una volta pronti gli insaccati, ripristinate le braci alzando la temperatura su 150°C e ponete a riscaldare la nostra cocotte in ghisa.
5.
Preparate un soffritto con la cipolla, le carote e il sedano. Successivamente, passate alla porzionatura delle costine di maiale.
6.
Tritate l’aglio che andrete a imbiondire con l’olio extravergine d’oliva direttamente nella pentola. Stessa cosa farete per il soffritto.
7.
A questo punto, aggiungete i pezzi di pancetta di maiale con la cotenna, successivamente le Baby Back Ribs assieme al burro e fate rosolare tutto per bene. Abbiate cura di girare e rigirare il tutto più volte.
8.
Sfumate con il bicchiere di vino bianco e aggiungete anche la Smoky Chipotle Brats tagliata a pezzetti.
9.
Aggiustate di sale e pepe, aggiungete le foglioline di salvia e alloro.
10. Aggiungete la passata di pomodoro, poi l’acqua calda o il brodo di verdure. Chiudete il coperchio lasciando bollire per circa un’oretta. 11. Nel frattempo, tagliate la verza a listarelle e tagliate il cotechino, raccogliendo i suoi succhi e andate ad unire il tutto nella cocotte, eventualmente aggiungendo altra acqua calda (o brodo di verdure a seconda della vostra scelta 12. Andate di mestolate potenti con la cassoeula, lasciando sobbollire pian piano per ancora un’altra oretta; Il piatto sarà pronto quando la cassoeula risulterà magra e densa, con sugo un po' appiccicoso per le proprietà gelatinose delle cotenne e del cotechino. 13. Alla fine della preparazione, aggiungete il mezzo bicchierino di grappa bianca che avevate da parte, mescolando energicamente. Nessuno vi giudicherà se puccerete un tozzo di pane come aperitivo.
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Accompagnate la vostra cassoeula con una polenta bella morbida. Per quanto riguarda l’abbinamento vini, essendo un piatto così ricco, abbiamo davvero l’imbarazzo della scelta: potreste azzardare un Oltrepò Pavese DOC, un Lambrusco Grasparossa oppure un Rosso Conero.
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o n o v Pio te t e p pol al sugo! 044
P
er quanto possa essere romantico, le polpette non le ha inventate vostra nonna. Però, di sicuro, ne avrete dei ricordi bellissimi, indelebili: chiudete gli occhi e già vi ritrovate in una cucina di qualche anno fa, a pescare dalla ciotola delle sfere più o meno croccanti e calde calde, per non dire fumanti. A rischio di scottarvi le dita. Dita che, puntualmente, vi scottavate, così come pure la lingua. E qualche parola di impropero dalla nonna pure arrivava: troppo calde, così ti viene mal di pancia, aspetta ora di pranzo… e giù di lì, spesso dette nel dialetto locale. Così come locali erano le polpette, figlie di centomila declinazioni ed usanze diverse. Perché sarebbe pretestuoso incasellare le polpette in una sola tradizione locale, per di più italiana. Le nostre palline fatte fritte, in un umido, al sugo, vantano origini ben più antiche. Ora che vi abbiamo sbloccato il ricordo, vediamo un po’ cosa ci dice la storia, prima di fornirvi il procedimento per preparare il più classico dei comfort food, le polpette immerse nel sugo di pomodoro. UN PO’ DI STORIA Per chi vuole la versione lunga riguardo la storia della polpetta, il nostro Alberto Zonghetti ha scritto probabilmente uno dei più bei compendi storici sulla polpetta. In questa ricettuncola, ci limitiamo a riportare qualche passaggio e qualche curiosità, per chi è saltato direttamente alla parte "pratica" saltando la parte "teorica" del Magazine (ahi ahi, mannaggia a voi che non sapete cosa vi perdete!). Kofta. Dal persiano kofteh, carne pestata. Così sembra che si chiamassero, in antichità, le polpette. Da questa parola, possiamo desumere due informazioni molto importanti: che le polpette erano assai diffuse nell’antica Persia e che, principalmente, erano fatte di carne. Quale tipologia? Agnello, pecora, montoni, selvaggina. Facili da trasportare, da mettere nella bisaccia e andarsene in giro
Anche nell’antica Roma erano presenti delle preparazioni assimilabili alle odierne sfere goderecce, chiamate in questo caso esicia omentata e descritte dall’Apicio come un miscuglio di garum, frutti rossi e vino avvolti nell’omento, cioè nel budello di maiale. Ma il termine “polpetta” entra nel dizionario della gastronomia con l’intervento di Mastro Martino, che le menziona esplicitamente ne “Libro de arte coquinaria”, facendone una versione con lardo, carne magra e una serie di erbe aromatiche. Pellegrino Artusi, invece, dà per scontato che tutti sappiano fare le polpette durante la sua epoca: dice, infatti “Non crediate che io abbia la pretensione d’insegnarvi a far le polpette. Questo è un piatto che tutti lo sanno fare cominciando dal ciuco, il quale fu forse il primo a darne il modello al genere umano”. Ad oggi, le polpette sono davvero diffuse ad ogni latitutine del globo terracqueo, in ogni preparazione: polpette di carne varia, di pesce, di sole verdure, fatte sobbollire in sughi, fritte, grigliate (slurp!). Possiamo dire che grossomodo ogni Paese del mondo ha una sua personale polpetta. Ve ne menzioniamo qualcuna, prima di passare alla nostra polpetta, quella di BBQ4All Magazine. Faggots. Polpette fatte con cuore di suino, il suo fegato e grasso. Tipiche della Scozia, per veri Braveheart. Kofte. Tipiche della Turchia, queste polpette sono fatte con agnello o manzo, oppure un misto tra le due carni. Servite tipicamente con una salsa a base di pomodoro e taaaantissimo aglio. Bitterballen. Polpettine tipiche olandesi e dei Paesi Baschi, servite come spuntino. Sono di carne (bovina o suina), panate e fritte. Tsukune. Polpettine giapponesi a base di pollo e zenzero, molto diffuse in tutto il Sol Levante. Kotbullar. Questo è il nome tecnico delle polpettine-della-famosa-catena-svedese. Le abbiamo mangiate tutti, almeno una volta. Sono fatte con un mix irresistibile di carni di manzo, maiale e vitello, molta cipolla, pane, successivamente cotte nel burro. Pulpetj. Tipiche della tradizione polacca, si ottengono friggendo carne molto magra e solitamente di scarto
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Dalla fiorente Persia ai conquistatori arabi, le polpette iniziarono a viaggiare: le al-bonâdiq furono le polpette arabe, trasformate poi in Spagna come albondigas, famose ancora oggi con lo stesso nome, le iberiche polpette con carne di maiale e vitello. Le bonâdiq arabe, secondo Massimo Montanari, storico della gastronomia, sono composte con "una mistura di carne grassa pestata e di frumento ammollato e spezzato, lungamente cotta a calore moderato. Molto spesso si fa bollire la carne in una pentola con sale, cipolla, aromi e spezie. Si
aggiungono poi altri ingredienti vari, e le verdure sono aggiunte in momenti diversi, secondo la qualità e l’effetto desiderato. Frequentemente si aggiunge un pugno di ceci ammollati e sbucciati, a volte lenticchie oppure fave”. (Tratto da “Storia dell’alimentazione, edizioni Laterza, 1996).
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con cipolle e uova. Eventualmente, possono anche essere fatte al forno. Youvarklaria. Polpette greche a base di carne di manzo macinata, cipolla e riso, cotte lentamente in un pentolone. Thjt vien. Queste polpette vietnamite sono parte integrante della pietanza nazionale, cioè il pho, una mega-zuppa di manzo bollente. Meatballs. Le classiche polpette di stampo anglofono, quelle alla Lilli e il Vagabondo per intenderci, scambiate per italiane e servite con gli spaghetti al pomodoro. LE POLPETTE AL SUGO DI POMODORO DEL BBQ4ALL MAGAZINE Sgombriamo il campo dagli indugi: ben poche polpette sono fatte bene. Anzi: proprio nessuna, a meno che non si siano seguite le indicazioni che stiamo per darvi per ottenere delle polpette da salivazione perpetua. Le polpette che vi proponiamo sono di carne di manzo, accuratamente selezionato secondo i parametri che vi spiegheremo, successivamente formate con ingredienti non banali e tuffate in un sugo di pomodoro bello corposo. Sugo di pomodoro che, potremmo azzardare, potrebbe anche essere un corposo ragù napoletano, come quello che vi abbiamo presentato nel numero del BBQ4All Magazine di Dicembre 2021. Ci siete? Iniziamo pure.
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Partiamo dalla carne, ovviamente, ingrediente portante della nostra polpettina. Non tutta la carne va bene per le nostre polpette. Tradizione vuole (mannaggia alla tradizione!) che per le polpette vengano usati ritagli di carne spesso poco pregiate, senza una vera proporzione magro:grasso. Come abbiamo modo di spiegare in questo numero del Magazine, quando si parla di carne macinata il calcolo della proporzione
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magro:grasso è fondamentale per la buona riuscita del nostro piatto. Nel caso della polpetta, poi, la difficoltà si raddoppia: dobbiamo centrare non solo la giusta quantità di grasso nella nostra carne macinata, ma anche la quantità giusta di collagene. Il collagene, che si scioglierà grazie alla cottura prolungata, eviterà di farvi mangiare polpette asciutte e stoppose. Insieme a questi elementi, ovviamente, è fondamentale la scelta del taglio: noi vi consigliamo di fare ricorso al biancostato o reale: questi tagli presentano le giuste proporzioni di grasso, collagene e parte magra. Dovrete farvi preparare un macinato composto da 80% di parte magra e 20% di parte grassa. Chiarita la questione fondamentale della carne, passiamo all’altra vexata quaestio: il pane, nelle polpette, ci va o non ci va? Come abbiamo potuto vedere anche nelle varie polpette del mondo, è d’abitudine riciclare il pane raffermo facendone polpette. Non esiste una risposta univoca: va da sé che, aggiungendo ingredienti su ingredienti, i sapori si stratificheranno e potrebbe essere davvero molto complicato riuscire a distinguere. Ecco spiegati i motivi delle varie aggiunte: si aggiunge pane per amplificare sapori troppo piatti, spesso lo si bagna nel latte per legare, così come si aggiunge l’uovo, sempre per legare. Abbiamo bisogno di tutte queste cose, o vogliamo una polpetta che sappia veramente di polpetta di carne? Per questo motivo, la nostra sarà una polpetta di puro manzo, con alcuni selezionati aromi – anche perché, ricordate? Le andremo a tuffare in un grande ragù napoletano. E saranno polpette fritte: basterà asciugarle bene prima di far fare loro il “bagnetto” nel ragù.
Ingredienti per 4 persone: Ragù napoletano precedentemente preparato secondo le indicazioni del BBQ4All Magazine di Dicembre 2021 / 1 kg di carne macinata (biancostato o reale) con rapporto magro:grasso 80:20 / 25 g di Parmigiano Reggiano DOP / 25 g di Pecorino Romano DOP / 2 spicchi di aglio / 2 gambi di prezzemolo / pepe nero macinato q.b. PREPARAZIONE 1.
In una boule molto capiente, andiamo ad inserire la nostra carne macinata. Avremo bisogno di molto spazio per lavorare, perché la carne andrà condita.
2.
Mischiamo i 25 g di Parmigiano Reggiano DOP e i 25 g di Pecorino Romano DOP.
3.
Prendete l’aglio, sciacquatelo e pulitelo per bene. Eliminate eventuale buccia ed anima rimaste.
4.
Prendete anche il prezzemolo, sciacquatelo bene sotto l’acqua corrente.
5.
Sminuzzate con cura aglio e prezzemolo, fino a formare un trito uniforme. Per quanto riguarda il prezzemolo, non abbiate paura di tritare anche il gambo: esso contiene circa il 25% delle sostanze odorose che ci piacciono tanto del prezzemolo.
6.
Nella boule con la carne macinata, versate prima il mix di formaggi e successivamente il trito di aglio e prezzemolo.
7.
È arrivato il momento di mescolare energicamente il composto. Abbiate cura di formare un composto uniforme, una palla liscia, omogenea e profumata.
8.
Ora arriva la parte divertente: creare le polpette. Non esiste una dimensione adatta, c’è chi fa sfere lisce che entrano nel palmo di una mano e chi le fa piccole-piccole. Diciamo che una via di mezzo non guasta: delle polpette di “buone” dimensioni potrebbero essere quelle che entrano comodamente al centro del palmo della mano.
9.
Nel frattempo che preparate le polpette, mettete su fuoco una padella con abbondante olio a riscaldare.
10. Misurate col termometro l’olio nella padella: quando sarà a 180°C, sarà pronto per accogliere le nostre creature. 11. Tuffate con cura (e con cautela!) le polpette nell’olio bollente: non abbiate paura, ché se avrete rispettato le proporzioni di magro:grasso , la carne si contrarrà al tal punto da respingere l’olio ed avrete una perfetta Reazione di Maillard, ottenendo polpette croccanti. 12. In corso d’opera, tirate fuori il ragù napoletano già preparato con il metodo indicato sul BBQ4All Magazine di Dicembre 2021. Una volta a temperatura ambiente, versatelo in una pentola e riscaldatelo, dando qualche mestolata di tanto in tanto. 13. Una volta terminata la frittura delle polpette, lasciatele asciugare su carta assorbente da cucina per una ventina di minuti.
15. Servire le polpette al ragù napoletano ben calde.
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14. Quando il ragù avrà raggiunto la temperatura di 65°C, tuffate le polpette nella pentola. Lasciate riposare per qualche minuto, avendo cura di lasciare la temperatura stabile.
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I PISELLI E LE PATATE SI AMANO MOLTISSIMO!
Evitate facili battute, parliamo di
POLPETTE
IN UMIDO
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Va bene, lo ammettiamo: ogni tanto lo facciamo apposta ad essere allusivi, con grande disappunto del coach e Community Manager Emiliano Nencioni. Ma siamo qui anche per divertirci, non solo per imparare. O no? Oggi parliamo in particolare di piselli, perché abbiamo già parlato di patate in diversi vecchi numeri del Magazine e non ci piace essere ridondanti.
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I piselli sono probabilmente i legumi che l’uomo consuma da più tempo. Pare che fossero conosciuti fin dal 6000 a.C. in Asia Minore e certamente erano un alimento importante per Greci e Romani. Simbolo di prosperità e fortuna, per centinaia d’anni non sono stati consumati freschi, ma solo essiccati. Fanno la loro comparsa per la prima volta, secchi in una specie di purè, nella letteratura gastronomica nel trattato di cucina Le Viander, redatto in forma poetica probabilmente nel 1380 da Guillaume Tirel, soprannominato Taillevent, che in epoca medioevale fu il Maestro di una copiosa schiera di cuochi. In Francia i piselli cominciarono dunque ad avere un gran successo sulle tavole dei reali. A fine Seicento, alla corte di Luigi XIV, pare che i nobili acquistassero piselli verdi per somme enormi. Perlomeno, così afferma il biografo di Colbert nel 1695. In nobili e viziati francesi raccoglievano i piselli verdissimi, tenerissimi, appena prima della maturazione; facevano dunque l’esatto contrario dei contadini, che non potevano certo permettersi di rinunciare al volume e alla capacità nutriente dei piselli ben maturi. Preferivano farli crescere bene, poi farli seccare e infine ridurli in farina
da mescolare a quella dei cereali o di altri legumi. Probabilmente la moda dei piselli era arrivata dall’Italia, dove le verdure avevano un discreto successo, già nel Medioevo, sulle tavole dei signori che amavano riproporre e rivisitare i piatti della tradizione contadina. Diversi sono i libri di cucina italiana che, già dal Medioevo, presentano ricette con le piccole perle verdi insieme alla carne: dal Libro de arte coquinaria di Mastro Martino da Como, che li propone con strisce di carne salata (un piatto che potrenno definire l’antenato del nostro classico e conosciutissimo piselli e prosciutto). al Liber de coquina (ricettario anonimo redatto a Napoli alla corte di Carlo II d’Angiò) che li presenta in una specie di purè rustico insieme al lardo. Esistono moltissime varietà di piselli, e tutt’oggi in Italia vengono consumati moltissimo, sia freschi che surgelati. Come tutti i legumi, sono ricchi di nutrienti, vitamine, sali minerali e proteine. Non piacciono a tutti, ma vi sfidiamo: provateli in questa ricetta che li vede stufati insieme alle polpette, alle patate e – proprio perché non ci facciamo mancare nulla- alla nostra salsiccia di suino leggermente affumicata e speziata, solo lievemente piccante, ideata per poter piacere proprio a tutti. In questo caso le polpette saranno di solo manzo, com e Zio comanda, e il suino sarà presente sotto forma di salsiccia, appunto: uno stufato sostanzioso, ideale per questi mesi ancora freschetti.
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Ingredienti per 4 persone: 500 g di macinato di
reale di bovino (100 g di parte grassa e 400 g di parte magra) / una cofezione da tre salsicce di Thai Piment D'Espellette Brats Greedy's Hog del Megastore / 4 spicchi di aglio / prezzemolo a piacere / un cucchiaio di parmigiano grattugiato Riserva Speciale GLC 50 mesi / sale e pepe q.b. / olio extravergine di oliva q.b. / 500 g di piselli finissimi / mezzo cucchiaio di concentrato di pomodoro / 5 patate grosse PREPARAZIONE 1. Diciamolo subito: negli ingredienti non c’è un errore. In queste polpette l’uovo non ci va. Come avrete letto nell'editoriale di Gianfranco Lo Cascio, utilizzando il taglio con il giusto contenuto di tessuto connettivo non è necessario aggiungere l’uovo come legante. Prendete dunque il macinato (la parte grassa e la parte magra), conditelo con circa 10 g di sale, il parmigiano, due spicchi d’aglio tritati e il prezzemolo a piacere. Aggiungete una generosa macinata di pepe e amalgamate bene l’impasto. Assaggiate l ‘impasto e se necessario aggiungete sale. Formate quindi le polpette che dovranno essere poco più grandi di una noce.
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Nel frattempo fate rinvenire le salsicce immergendole in acqua fredda e portandole al bollore.
A questo punto sono pronte. 3.
Predisponete il vostro dispositivo per una cottura diretta con l’utilizzo della cocotte in ghisa: versate l’olio extravergine di oliva in quantità sufficiente per soffriggere le polpette: fatele ben imbiondire, poi toglietele dal tegame. Aggiungete nell’olio rimasto due spicchi d’aglio schiacciati e poi i piselli, aggiustate di sale, aggiungete il concentrato di pomodoro, mezzo bicchiere d’acqua, poi coprite la cocotte col suo coperchio e lasciate andare per una decina di minuti.
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Sbucciate le patate e sbollentatele per qualche minuto in acqua bollente salata.
5.
Toglietele e tagliatele a tocchetti. Tenetele da parte.
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Aggiungete le polpette ai piselli, lasciate insaporire il tutto per qualche minuto, poi aggiungete le patate. Aggiustate eventualmente di sale (facendo attenzione a non esagerare) e poi coprite di nuovo la cocotte e lasciate andare lo stufato finché le patate non saranno cotte; negli ultimi dieci minuti, piastrate le salsicce e poi aggiungetele allo stufato tagliandole a fettine. Spolverizzate con prezzemolo e pepe, poi servite.
Lime e zenzero per le
POLPETTE
DI GAMBERI DEFINITIVE!
Dobbiamo ammetterlo: siamo di parte. Da quando lo Zio ci ha fatto conoscere i preziosi, burrosi, spettacolari gamberi rossi di Mazara del Vallo, in moltissimi numeri del Magazine abbiamo presentato ricette ne prevedono il loro utilizzo (anche se, ricordiamolo sempre, danno il meglio da crudi). Non fa eccezione questo numero dedicato alle polpette: potevano mancare quelle di Gambero rosso? Ma assolutamente no! Se sapete di cosa parliamo, non potete che darci ragione. Per anticipare un po’ l’estate e la voglia di mare, abbiamo scelto di abbinarle a sapori che fanno venire subito alla mente le fresche bibite consumate sulle spiaggia, quando si muore di sete e si cerca qualcosa che sia al tempo stesso dissetante e gustoso: lime e zenzero.
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Lo zenzero è una spezia dal sapore non facile e abbastanza pungente che però, dosata a dovere, riesce a migliorare quasi qualsiasi piatto e ad abbinarsi a tantissime preparazioni: dai primi ai secondi di carne o pesce, dai drink ai dolci. Importato dall’ Asia - pare- da Alessandro Magno lo zenzero arrivò in Europa dall’antica Grecia. Grazie al suo sapore piccante, è sempre stato considerato un afrodisiaco, ma anche un rimedio capace di schiarire la mente e di curare i disturbi dello stomaco. Ai tempi di Enrico VIII si arrivò addirittura a considere lo zenzero un modo per scongiurare le peste. Nel Medioevo in Europa era una spezia molto ricercata, molto costosa e usatissima in cucina, seconda solo al pepe. Ovviamente, tenendo ben presente appunto il suo sapore tanto particolare, venivano
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attribuite allo zenzero anche propietà magiche: era usato per pozioni d’amore, per riti magici in cui si evocavano forze dell’aldilà, per realizzare amuleti che favorissero una protezione dalla malattie e per tenere lontana la sfortuna, per proteggere dai brutti sogni, per evitare le punture di insetti e zanzare. Oggi sappiamo che, in effetti, lo zenzero ha moltissime proprietà benefiche. Lo utilizziamo in cucina fresco o essiccato e poi ridotto in polvere, e come detto prima riesce a dare un boost di sapore a numerose preparazioni, ma in effetti questa spezia tanto particolare ha notevoli proprietà: calma lo stomaco prevenendo la formazione di gas, aiuta il sistema immunitario, è utile in caso di raffreddore e mal di gola, allevia la nausea. Ed è perfetto, come vedremo tra poco, nelle polpette di gamberi insieme al lime! Il lime è in assoluto l’agrume più utilizzato in cucina se si vuole dare ai piatti un tocco esotico. Nato da un incrocio del limone col cedro, questo agrume piccolo, tondo e dal colore verde cresce nei climi tropicali e viene coltivato principalmente in America Latina, in Messico e nel sud-est asiatico. Succoso, privo di semi e molto profumato, è meno acidulo del limone e ha un gusto più amarognolo. Ovviamente si abbina benissimo ai nostri gamberi rossi di Mazara.
Mazara del Megastore / un cucchiaino di zenzero in polvere / due lime / sale q.b. / 2 fette di pane in cassetta / uno spicchio d’aglio / 200 g di farina / 200 ml di acqua frizzante / 500 g di panko / Sal’s Seasoning Lime Pepper a piacere / olio di semi per friggere per la maionese al lime: 2 tuorli a temperatura ambiente / un cucchiaino di aceto di mele / sale q.b. / 250 ml di olio di semi di girasole / 30 ml di succo di lime
PREPARAZIONE 1.
Sgusciate i gamberi, privateli dell’intestino e poi lasciatene qualcuno intero: la maggior parte, invece, tagliatela grossolanamente e poi mettetela nel mixer insieme al pancarrè, allo zenzero, alla buccia dei lime grattugiata, all’aglio e al sale.
2.
Prendete il composto di gamberi e mettetelo a riposare in frigo per un’ora. Dopodiché tglietelo dal frigo e formate le polpette.
3.
Formate una pastella con farina, acqua gassata e un po’ di sale.
4.
Passate le polpette nella pastella e poi nel panko; fate la stessa cosa coi gamberi interi.
5.
Scaldate l’olio di semi e friggete le polpette, poi friggete i gamberi; passate polpette e gamberi sulla carta assorbente e servite tutto caldissimo.
6.
Per preparare la maionese al lime: versate i tuorli in una ciotola, aggiungete l’aceto di mele e il sale, iniziate a lavorare con le fruste elettriche. Versate l’olio a filo e qunado la maionese inizia a diventare cremosa aggiungete sempre lentamente il succo del lime. Continuate a lavorare finché il composto non sarà cremosissimo. Tenete la maionese in frigo fino al momento di servirla coi gamberi e le polpette fritte. BBQ4All Magazine
Non ci resta buttarci a capofitto nella ricetta e preparare queste strepitose polpette fritte.
Ingredienti per 4 persone: 1 kg di Gamberi rossi di
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L'antipasto perfetto
POLPETTE DI MERLUZZO COL PESTO DI CAVOLO NERO
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Sfida: trovate un antipasto adatto ai mesi invernali, che vi consenta di utilizzare l’amato kettle, che sia sfizioso, che piaccia a grandi e piccoli e che non sia troppo pesante per non sciupare il resto del pranzo o della cena. Difficile? Niente affatto. Seguite bene questa ricetta e vedrete come è semplice! Le polpette, si sa, hanno sempre un gran successo. Basta portarle in tavola e i commensali si animano subito, specie se hanno la crosticina croccante e il profumino invitante di robina sfiziosa. Però noi griller imperterriti vogliamo sempre preparare qualcosa che ci dia una scusa per accendere un po’ di carbone. Quindi, come unire la bontà delle polpette fritte alla nostra passione per le griglie? Con queste polpettine di merluzzo panate e poi cotte nel nostro dispositivo in indiretta, accompagnate da un pesto di cavolo nero.
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Il merluzzo, pesce delicato dalle carni bianche e magre, è sicuramente uno dei più consumato al mondo, diffuso in tantissime tradizioni gastronomiche. Il merluzzo bianco (Gadus morhua, Atlantic cod in inglese) è molto diffuso nell’Oceano Atlantico settentrionale ma è assente nel Mediterraneo; è la specie più importante su scala globale, qualla insomma più cercata e consumata. La Norvegia, il Canada e l’Islanda sono le nazioni dove le attività legate a questo prodotto sono più importanti. Il merluzzo viene pescato principalmente a strascico, ma anche con reti da posta e da circuizione, e purtroppo non è esente dai rischi dovuti a una pesca intensiva e talora illegale. Per quest’ultimo motivo, dai primi anni Novanta, la presenza del merluzzo nelle acque atlantiche è nettamente calata; nel mare del Nord e nel mar Baltico le riserve di questo pesce sono molto vicine all’esaurimento, al punto che il merluzzo è entrato nella lista delle specie più vulnerabili redatta dall’Unione internazionale
per la conservazione della natura. Esistono però pesci molto simili al merluzzo, la cui denominazione generica è usata per riferirsi appunto ad altre specie: fra queste, il nasello e il merluzzo imperiale appartengono alla stessa famiglia e sono diffuse anche nel Mediterraneo. Dal punto di vista nutrizionale, questo pesce ha un alto contenuto di proteine e un bassissimo contenuto di grassi; è ricco di vitamine del gruppo B e di minerali come fosforo, potassio, ferro, iodio e calcio. L’altro ingrediente protagonista di questa ricetta è il cavolo nero, conosciuto anche come cavolo toscano: come si può dunque ben intuire è molto diffuso in Toscana dove è presente in diverse preparazioni (la zuppa di cavolo nero e la ribollita, di cui vi abbiamo dato anche una nostra versione chiamandola “rigrigliata” in un vecchio numero del BBQ4All Magazine, sono le più famose). E’ una specie di cavolo molto rustica, perenne e vigorosa; si differenzia dagli altri cavoli per la sua incapacità di produrre la testa e l’infiorescenza: sono dunque le numerose foglie, oblunghe, strette, bollose e increspate, di color verde scurissimo- quasi nero appunto- a essere utilizzate in cucina. Il meglio della raccolta si ha nei mesi invernali, dopo le prime gelate, quando le foglie risultano più gustose (come spesso si sente dire dai contadini toscani “devon’ave’ sentito ‘r freddo”). Prima di consumare il cavolo nero bisogna pulire per bene le foglie dagli steli, che sono più duri e molto meno gradevoli di sapore. Il modo più facile e veloce di prepararlo è quello di farlo bollire e pi condirlo con semplice olio extravergine d’oliva (quello “bòno”!), sale e limone; ma come detto prima si presta a numerose altre ricette. Oggi, ad esempio, lo trasformeremo in un delizioso pesto che accompagni delle sfiziosissime polpettine di merluzzo cotte nel kettle, per il nostro antipasto perfetto.
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Ingredienti per 4 persone: 500 g di merluzzo o
di nasello / 100 g di mollica di pane / un uovo / pangrattato q.b. / due cucchiai di rub Sal’s Seasoning Smoky Chipotle Chili / sale e pepe q.b. / un mazzetto di prezzemolo fresco / 2 cucchiai di parmigiano reggiano grattugiato / olio extravergine di oliva q.b. per il pesto di cavolo nero: cinque o sei foglie di cavolo nero / 50 g di mandorle pelate / due spicchi d’aglio / un bicchiere d’olio extravergine d’oliva / 50 g di Parmigiano Reggiano DOP grattugiato / sale e pepe q.b. / pane da tostare q.b. PREPARAZIONE 1. Cuocete a vapore il merluzzo o il nasello per una quindicina di minuti; nel frattempo ammollate il pane in un poco da’acqua e strizzatelo bene.
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2.
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Se necessario, spinate il pesce (a meno che non abbiate comprato dei filetti già puliti) poi triatelo bene e mettetelo in una ciotola: aggiungete il pane, l’uovo, il prezzemolo, il parmigiano, il sale e il pepe.
3.
Formate delle palline e passatele nel pangrattato a cui avrete aggiunto il rub. Appoggiatele in una teglia di alluminio o in un altro recipiente che possa essere messo dentro al dispositivo.
4.
Predisponete il dispositivo per una cottura indiretta a circa 180°C e mettete a cuocere le polpettine finche non saranno dorate (giratele ogni tanto).
5.
Nel frattempo preparate il pesto: pulite bene le foglie di cavolo nero, poi mettetele in padella con olio extravergine d’oliva, i due spicchi d’aglio, sale e pepe. Quando saranno appassite, mettetele nel mixer insieme all’aglio, aggiungete le mandorle, il parmigiano e l’olio. Frullate il tutto, aggiungendo se necessario un po’ d’acqua se il composto dovesse risulatre asciutto.
6.
Tostate il pane e conditelo col pesto di cavolo nero; servite i crostini insieme alle polpette di merluzzo ancora calde
Il pulled pork, però dal cuore fondente
LE POLPETTE DEI VIZIOSI In un numero del Magazine di qualche anno fa (che bello poterlo dire, vi rendete conto ch abbiamo appena iniziato il nostro quarto anno?), coloro che hanno una buona memoria lo ricordanno bene, abbiamo presentato delle gustose polpette fatte di pulled pork. Lo Zio, in quell’occasione, ci suggerì come migliorare la ricetta. D’altra parte, lo fa sempre. Ci disse che le polpette giù strepitose sarebbero diventate inarrivabili se avessimo aggiunto al loro interno un pezzetto di formaggio filante. Detto, fatto. Ci siamo quindi procurato il pulled pork, quello già pronto e pullato del nostro Megastore, adattissimo ad occasioni come queste e abbiamo seguito la stessa ricetta di tanti Magazine fa, aggiungendo però un cuore filante di taleggio e un contornino che fosse all’altezza e che ci permettesse di accebdere u po’ di brace: le cipolline borettane arrosto in agrodolce. Il Taleggio è un formaggio dalla crosta sottile e dalla consistenza morbida, di origini molto antiche (pare anteriori al X secolo d.C.). E’ nato in Val Taleggio (da cui deriva il nome) in provincia di Bergamo ma poi, data la richiesta elevata, la produzione nel tempo si è estesa a tutta la pianura Padana. Sulla
crosta sono presenti muffe dal caratteristiche colore grigio e verde chiaro, la pasta interna è compatta, morbida sotto la crosta e leggermente più friabile al centro della forma. Il sapore è dolce, con leggera vena acidula; il formaggio è leggermente aromatico, alle volte con retrogusto tartufato. E’ perfetto per essere gustato in purezza, ma adattissimo anche come ingrediente di ricette che prevedano un formaggio che si sciolga in cottura (ad esempio, come ripieno nei ravioli) ma che mantenga una certa consistenza e un sapore inconfondibile. Le cipolle borettane prendono il loro nome da Boretto, un comune in provincia di Reggio Emilia dove la loro coltivazione è un’antica tradizione. Ha origini antichissime: era coltivata nei territori dell’antico Egitto; da qui poi si è diffusa rapidamente arrivando anche da noi: ci sono numerosi documenti storici che testimoniano come esistessero nel XV secolo estese coltivazioni di questa piccola e deliziosa cipollina. E’ piccola, di colore paglierino, col bulbo dalla forma appiattita ma a dispetto delle sue dimensioni ha un sapore forte e intenso e al tempo stesso molto dolce. Oggi sarà il controno perfetto per le nostre polpette.
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Ingredienti per 4 persone
per le polpette: 500 g di pulled pork del nostro Megastore / 40 g di green jalapeno sott'aceto / 3 cucchiai di salsa bbq / 150 g di Taleggio / pangrattato q.b. / 2 uova / farina q.b. / olio per friggere q.b. / sale q.b. per le cipolle borettane: 400 g di cipolle borettane / olio extravergine di oliva q.b. / mezzo cucchiaino di sale / pepe a piacere / 20 ml di aceto balsamico / 25 g di zucchero PREPARAZIONE 1.
Tritate al coltello in modo grossolano il pulled pork e poi impastatelo con la salsa bbq.
2.
Tritate finemente i peperoncini e aggiungeteli all'impasto.
3.
Dopo aver ottenuto un impasto compatto, dividetelo in tante polpette e inserite al loro interno un pezzettino di taleggio, poi chiudetele bene.
4.
Sbattete le uova con l'aggiunta di un pizzico di sale.
5.
Passate le polpette prima della farina, poi nell'uovo e infine nel pangrattato.
6.
Scaldate bene l'olio in una padella larga e friggete le polpette: quando saranno dorate, saranno pronte. Lasciatele scolare su un foglio di carta assorbente.
7.
Potete preparare le cipolline anche il giorno precedente, facendo così: sbucciate le cipolline e poi sciacquatele bene sotto l’acqua.
8.
Asciugatele bene con l'aiuto di un canovaccio e ne frattempo preparate il vostro dispositivo per una cottura diretta, scaldando bene le griglie o se preferite una piastra.
9.
Ungete bene le griglie e anche le cipolline che griglierete qualche minuto per lato. Toglietele e tenetele da parte.
10. Mettete la cocotte in griglia in corrispondenza delle braci, versate un po’ d’olio, fatelo scaldare e poi aggiungete le cipolle grigliate. A questo punto unite il sale, il pepe e un bicchiere d’acqua. Coprite la cocotte e lasciate cuocere le cipolle per una decina di minuti. Trascorso il tempo, aggiungete lo zucchero e l’aceto balsamico: fate caramellare le cipolle e fate ritirare il sughetto. BBQ4All Magazine
11. Conditele con olio extravergine di oliva e tenetele in frigo per una notte: il giorno dopo servitele (anche a temperatura ambiente) insieme alle polpette ben calde.
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Ancora una volta, la
ZUCCA
POLPETTE DELIZIOSE E COLORATE Le polpette di zucca sono un colorato finger food cui è difficile resistere; ancor meno se al loro interno custodiscono un voluttuoso cuore filante, da mangiare in un sol boccone. Queste polpette quasi del tutto vegetali sono perfette, oltre come finger food, come sostanzioso piatto unico in una fredda serata invernale, in cui si ha voglia di dedicare la cena ad un vegetale che la fa da padrone per gran parte dell’anno. Infatti, la zucca è presente per tutto l’autunno e l’inverno e si presta ad una miriade di preparazioni: sbagliatissimo, quindi, prenderla in considerazione per il solo periodo di Halloween. Tra gli ingredienti delle nostre polpette arancioni, vi abbiamo indicato due tipologie di zucca: la zucca violina e la zucca delica. Brevemente, andiamo a conoscerle, tenendo ben presente che tutte le varietà di zucca presenti sul suolo italiano sono papabili per essere ingredienti della nostra polpetta. Queste due varietà presentano una grande compattezza della polpa, un ottimo profumo molto persistente ed una decisa dolcezza, che può piacere o meno, dipende dai palati. Queste caratteristiche le rendono perfette per essere preparate ed inserite in un impasto come quello delle polpette.
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Zucca violina: riconoscibilissima, ha la forma allungata e ricorda davvero un violino. Questa zucca ha la buccia giallo-arancio, che al tatto risulta rugosa. Contiene calcio, magnesio, fosforo e vitamina E in ottime quantità, inoltre ha proprietà diuretiche e di ri-equilibrio della flora intestinale. Al gusto, si presenta particolarmente dolce, forse è la varietà più dolce tra le zucche.
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Zucca delica: questa varietà di zucca è presente sul suolo italiano da un po’ di anni, ma è particolarmente diffusa all’estero. Complice della sua diffusione, sicuramente, il suo essere molto precoce: infatti la si può trovare nei reparti ortofrutta già sul finire dell’estate, in ottime
condizioni. La sua forma è tondeggiante, con la buccia verde scuro e la polpa arancione sgargiante. Come la zucca violina presenta fosforo, magnesio e vitamina E in abbondanza, proprietà diuretiche e di ri-equilibrio della flora intestinale. Anche qui, ci ritroviamo di fronte ad una varietà di zucca molto zuccherina. Inoltre, bisogna ricordare che delle zucche non si butta via nulla: un po’ come il maiale. Noi utilizzeremo la zucca per delle polpette, ma nulla vi vieta di utilizzare altre parti per piatti molto comuni, con un’aggiunta di personalità. Fiori e germogli di zucca sono perfetti per insaporire sughi e minestre; le bucce sono ottime per insaporire le zuppe, ma anche per ottenere delle confetture di zucca; i semi possono essere trasformati in snack naturalmente ipocalorici ma gustosi, appena saltati in padella con un filo d’olio. Come tutte le nostre preparazioni, andremo a personalizzare anche delle semplici polpette di zucca. Saranno polpette arricchite con scamorza affumicata, che daranno quell’immancabile tocco che ci piace tanto, anche in assenza di barbecue. La nota sapida sarà data principalmente dalla presenza del Parmigiano Reggiano DOP, che abbiamo indicato in quantità abbondante: secondo i nostri gusti, non ci sarebbe bisogno di salare ulteriormente, visto che la quantità di formaggio indicata va a coprire la quota sapida necessaria per queste polpette, anche per contrastare la dolcezza della zucca, soprattutto se la vostra scelta andrà a ricadere sulla zucca violina, particolarmente dolce. Inoltre, siccome saranno delle polpette di zucca griffate BBQ4All Magazine, non potrà mancare un tocco di maiale: le nostre sfere avranno, infatti, anche della pancetta affumicata, giusto per non farci mancare quel tocco di barbecue che ci è tanto caro e che vogliamo praticamente… ovunque
Ingredienti per 16 polpette: 500 g di zucca violina /
100 g di pangrattato / 100 g di Parmigiano Reggiano DOP / 50 g di scamorza affumicata / 1 uovo intero / 80 g di pancetta affumicata / salvia q.b. / olio extravergine di oliva q.b. / sale fino q.b. / pepe bero q.b. / Sal’s Rub Montreal q.b. / olio di semi di arachidi q.b. PREPARAZIONE 1. Per prima cosa occupatevi della zucca. Va benissimo la violina come indicato tra gli ingredienti, ma andranno bene anche le altre qualità, come la delica: dividetela a metà e rimuovete la buccia, poi tagliatela a fette di mezzo cm di spessore. Dovrete ottenere circa 500 g di polpa di zucca pulita da utilizzare. Ricordatevi che buccia e semi possono essere utilizzati in altre preparazioni o per altre parti di questa, come vedremo dopo. Sistemate le fette su una leccarda foderata con carta forno, condite con un filo di olio extravergine di oliva, sale e una spruzzata di Sal’s Rub Montreal.
3.
Settate il dispositivo sui 200°C. Una volta raggiunta la temperatura, cuocete per 30 minuti, se possibile affumicate con le bucce di zucca scartate.
4.
Nel frattempo, tritate finemente le foglie di salvia e riducete a cubetti la scamorza affumicata.
5.
Tagliate a fettine la pancetta e poi a fiammiferi e mettetela in un pentolino a fuoco medio,
6.
Quando la zucca sarà cotta, trasferitela in una ciotola. Schiacciate la zucca con la forchetta, poi aggiungete il pangrattato e il Parmigiano Reggiano che avrete provveduto a grattugiare. Unite anche l’uovo, la salvia tritata e la pancetta, impastate il composto con le mani per amalgamare bene tutti gli ingredienti, poi pepate a piacere.
7.
Col composto ottenuto (se avrete seguito tutti i passaggi, sarà una bella palla liscia e profumata di zucca dolce!) formate delle palline di circa 40 g l’una (dovrebbero stare comodamente al centro del palmo di una mano di dimensioni medie), inserendo al centro qualche cubetto di scamorza affumicata. Richiudete la polpetta in modo da sigillare il formaggio all’interno e lavoratela con le mani per darle una forma tonda. Proseguite allo stesso modo con tutte le altre, poi passatele nel pangrattato.
8.
A questo punto portate l’olio per la frittura a una temperatura di 170°C e immergetele nell’olio per un paio di minuti, fino a doratura. In alternativa, potete cuocere le polpette in forno statico preriscaldato a 180°C per circa 25 minuti.
9.
Servite le polpette di zucca ai vostri commensali molto calde, magari accompagnate da una salsina. Da non disdegnare, una buona maionese fatta al volo.
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2.
mescolando, fino a rendere le striscioline ben croccanti. Una volta pronte, ponetele su un foglio di carta assorbente.
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POLPETTE? SÌ, MA CON I
FUNGHI PORCINI
Dici fungo (da mangiare!) e le persone irrimediabilmente pensano a lui: al fungo porcino, che domande! Dal costo sicuramente importante, non facilissimo da trovare, è un ingrediente che – quando aggiunto nelle giuste modalità – può cambiare le sorti di un piatto, rendendo una preparazione da “così così” a desiderata ed ambita. T i p o : immaginate le umilissime polpette, però con l’aggiunta dei funghi porcini. Da salivazione perpetua, vero? Tranquilli: ve le proponiamo noi del Magazine, in questo speciale dedicato alle polpette. Ma andiamo con ordine e cerchiamo di conoscere meglio l’ingrediente caratterizzante di questa preparazione, cioè il fungo porcino.
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I funghi porcini si trovano nei boschi da maggio/giugno e poi a seguire tutta l’estate e tutto l’autunno, con un picco a settembre. Esistono diverse varietà di funghi porcini: dipende dai boschi dove crescono (se di faggi, di querce, o altri) e dal periodo in cui si trovano.
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Come sempre quando si tratta di funghi, c’è bisogno di un bel po’ di dimestichezza quando li si cerca, li si raccoglie e li si pulisce: se vi sentite abbastanza esperti (oppure possedete patentino adatto), avventuratevi pure alla ricerca dei funghi porcini per le vostre polpette. Dopo averli puliti e surgelati, n o n buttate via il sughetto ottenuto, vedrete poi il perché. Se, invece, volete restare nella comfort zone (e ve lo consigliamo, qualora non siate particolarmente esperti!), trovate i funghi porcini già surgelati nei reparti appositi dei supermercati o ancora in bustine, essiccati. Le nostre polpette con i funghi porcini sono particolarmente gustose. Inoltre, la cottura in umido grazie al sughetto dei funghi, contribuirà a lasciarle morbidissime. Dato il costo importante di alcuni ingredienti come i funghi, magari non le preparerete tutti i giorni, anche se ne avrete la tentazione!
Ingredienti per 4 persone: 250 g di carne macinata di manzo / 250 g di carne macinata di maiale / 30 g di funghi porcini secchi (oppure surgelati, secondo disponibilità) / 300 g di funghi misti surgelati / sale q.b. / pepe q.b. / olio extravergine d’oliva q.b. PREPARAZIONE 1.
Mettete a bagno in acqua tiepida i funghi porcini surgelati o secchi per almeno 30 minuti, nel frattempo sminuzzate i funghi misti dopo averli portati a temperatura ambiente.
2.
Filtrate tutti i liquidi ottenuti dai funghi e mettete da parte.
3.
Create un battuto con lo spicchio d’aglio, mettete a fuoco medio una padella e aggiungete cinque cucchiai di olio extravergine d’oliva, aggiungete l’aglio e fatelo imbiondire.
4.
Aggiungete i funghi, aggiustate di sale e pepe e tenete a fiamma bassa per un paio di minuti. Dopodiché aggiungete il vino bianco e dopo aver alzato la fiamma fatelo evaporare.
5.
A questo punto, aggiungete un po’ di liquidi filtrati e lasciate cuocere al minimo con il coperchio chiuso.
6.
Nel frattempo preparate le polpette: prendete il macinato e mischiatelo assieme al Parmigiano Reggiano DOP, la ricotta, l’uovo, il prezzemolo (non privatelo dello stelo, che aggiunge l’aroma desiderato dal prezzemolo in quantità molto maggiori!) aggiustate un minimo di sale e pepe se lo ritenete necessario (il formaggio vi avrà donato già la sapidità necessaria alle polpette) e impastate per bene.
7.
Ottenuta la palla liscia ed omogenea, passate alla formazione delle polpettine.
8.
Una volta ottenute le polpettine, passatele leggermente nella farina e mettete nella padella assieme ai funghi, che a questo punto saranno al punto giusto.
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Alzate la fiamma e aggiungete altri liquidi e lasciate cuocere per altri 2/3 minuti rigirando le polpette, aiutandovi con due cucchiai.
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10. Se sono rimasti altri liquidi dai funghi, aggiungeteli. Aggiungete anche la menta e cuocere a fiamma media con il coperchio chiuso per altri 7/8 minuti. Dopo questo tempo, sollevato il coperchio, dovreste intravedere le vostre polpette immerse in una cremina. Non vi resta che servire assieme ad una bella fetta di pane nero tostato.
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L'Arte Bianca a cura di Alessandro Trezzi
e n pa
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V
i invito a dare forma a questa scena nella vostra mente: siete da vostra madre per uno di quei pranzi infiniti, con la tavola piena
di cibo. La fine del mondo? Il pranzo del ringraziamento? Natale? Un matrimonio?
Ma no, è una domenica come tante, la vostra cara mamma ha solo il terrore di di ritrovarvi sciupati dopo una settimana di studio o lavoro e ha cucinato per un esercito, come al solito. Al centro di quella tavola imbandita c’è uno scrigno magico, fumante e nostalgico, che contiene una montagna di polpette al sugo, la ricetta segreta di quella donna piena di risorse, alla cui sola vista cominciate a partorire una salivazione incontrollata e senza freno. Ne divorate una, due, cinque, dieci, venti, e alla fine vi ritrovate sazi e soddisfatti, ma con il piatto grondante di sugo; lasciarlo alla lavastoviglie o ad una spugna sarebbe un destino troppo triste ed immeritato, per cui arraffate la pagnotta a fianco, ne strappate un pezzo con voracità e cominciate a scavare nel piatto tirando su tutto quel ben di Dio come se la vostra mano fosse una ruspa inferocita. Siete ancor più sazi, ancor più soddisfatti e con il piatto che brilla di luce propria. Per l'italico popolo,, il pane da scarpetta è una cosa seria; siamo un popolo da sugo, da fondo bruno, da intingoli goliardici della domenica. Perciò bando alle ciance, vi insegnerò a realizzare l’alleato perfetto di ogni pranzo che si rispetti.
Il pane da scarpetta
Daniele, di fatto, usa lo stesso panetto delle sue pizze napoletane, infarinato, allungato con le mani e leggermente pressato, cotto nel forno a legna per pochi minuti a 280°C -320°C; il risultato è molto simile ai tanti pani realizzati nelle pizzerie con l’impasto avanzato, e che poco si discosta dal classico filone napoletano (da alcuni denominato “la pizzicata”), allungato, morbido e con una leggera e sottile crosta. Un prodotto della nostra tradizione, molto economico, comodo e anti-spreco, che all’occorrenza può essere aperto di lato ed utilizzato come contenitore per qualsiasi ricetta povera, dalle polpette al pollo alla cacciatora, dalla trippa alla coda alla vaccinara. Il difetto a parer mio è uno solo: tipicamente gli impasti da pizzeria napoletana sono sempre stati troppo salati, per compensare quella struttura mancante dovuta a farine non proprio tecniche. E se la percezione già esiste in dischi stesi sottili, figuriamoci in un filoncino di qualche centimetro di spessore, che deve accompagnare preparazione già piene di gusto. Oggi tuttavia abbiamo a disposizione farine di qualsiasi tipologia, un mercato florido, che ci apre ad un ventaglio di scelta pressoché illimitato permettendoci di adattare le vecchie ricette, rendendole più equilibrate e decisamente più ragionate. Vogliamo vedere insieme come si fa?
Il processo Per realizzare il nostro pane da scarpetta perfetto, ci troveremo a scavare nelle radici povere dei nostri fornai, mettendoci un po’ di testa per creare un prodotto unico e facilissimo da replicare in casa. Anzitutto, la scelta della farina dovrà rispettare uno degli obiettivi principali della missione: una mollica morbida, eterea, dal
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Dimenticatevi le forme da chilo alveolate o le michette vuote, per fare un buon pane da scarpetta serve solo una cosa: una mollica soffice e candida, che vi aiuti a raccogliere il sugo dal piatto. Parliamo di un filoncino di un dorato chiaro,
dalla croccantezza quasi del tutto assente, ed un interno dall’alveoli fine e uniforme. Se vi è capitato di vedere The Chef Show di Jon Favreau e Roy Choi su Netflix, ne avete una chiara rappresentazione nella seconda puntata della seconda stagione, svoltasi al Pizzana di Daniele Uditi a Los Angeles.
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gusto neutro e dall’alveolatura fine e uniforme. L’alternativa migliore è una 00 o 0 di grano tenero di forza 240-260W, sufficienti per rispettare le circa 18-24 ore di processo, non eccessivamente alta al fine da rendere la maglia glutinica equilibrata sia in tenacità che estensibilità, permettendo lo sviluppo di una sezione uniforme e non eterogenea. Non c’è necessità di virare verso farine con una percentuale più alta di crusca, in quanto del pane da scarpetta non ci interessa particolarmente il sapore bensì la consistenza; in ogni caso, anche una buona tipo 1 con gli stessi parametri di forza può servire allo scopo. Lavoreremo in questo caso con un impasto molto semplice, un diretto con lievito di birra, rispettando le fasi canoniche per un impasto con una lunga puntata in massa ed una fase minore per la lievitazione dei panetti. Come per la pizza napoletana, il quantitativo di lievito sarà molto basso, al fine da garantire una crescita lenta e controllata ed un’alveolatura più distribuita possibile. Dopo l’appretto, la stesura dovrà essere molto delicata, e realizzata allungando tra le mani le punte dei panetti in modo da ovalizzarli leggermente, mantenendo però tutta l’aria presente all’interno.
La cottura Per cuocere i vostri filoncini avete un ventaglio di possibilità molto alte. In caso di forni a cupola (a legna o gas) o elettrici professionali, le vostre pagnotte cuoceranno direttamente sul biscotto refrattario, e dovranno essere girati spesso in caso di sorgente di calore localizzata, al fine di uniformare il più possibile la cottura. La temperatura sarà di circa 260°C-280°C, al fine di asciugare correttamente l’interno della pagnotta mantenendo tuttavia l’esterno morbido e colorato.
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In caso invece di normale forno domestico, se disponete di una pietra refrattaria potete utilizzarla scaldandola insieme alla camera al centro del forno, per poi scaricare sopra i panetti con l’aiuto di una pala.
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In sua assenza, potete utilizzare una teglia rovesciata (scaldata preventivamente), o cuocere direttamente sulla vostra pirofila con della carta forno. In questo caso, se anche il forno dovesse raggiungere superiori vi consiglio di non superare i 250°C e di cuocere in modalità statica, girando le pagnotte a metà cottura.
INGREDIENTI
per 6 filoni da 275 grammi 1 kg di farina di grano tenero di tipo 00 o 0 da 240-260 W; 620 g di acqua; 25 g di sale fino; 3 g di lievito di birra fresco
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IMPASTAMENTO In una ciotola o nella vasca della vostra planetaria/ impastatrice, versate tutta la farina, sbriciolate il lievito e unite circa 550 g di acqua; cominciate a mescolare fino a che l’impasto non avrà cominciato a prendere forma. A questo punto aggiungete il sale e a filo l’acqua rimanente, poco alla volta, solo quando la precedente sarà stata completamente assorbita. N.B. La quantità di acqua finale presente tra gli ingredienti è indicativa, e dipende fortemente dalle caratteristiche reologiche della farina che state utilizzando; per essere sicuri, aggiungete prima fino a 600 g di acqua, e solo se l’impasto vi sembra molto asciutto mettete i 20 grammi rimanenti. Il risultato dovrà essere una palla liscia, uniforme e ad una temperatura di almeno 24°C-25°C. A questo punto, oliate un contenitore di almeno 5-6 litri di volume, posizionate l’impasto al suo interno, oliatene la superficie superiore e chiudete ermeticamente.
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PUNTATA Attendete circa 3-4 ore a temperatura ambiente, in modo da far partire la lievitazione, dopodiché mettete in frigorifero a 6°C (il ripiano più in alto
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generalmente è la scelta migliore per impasti con poco lievito) e lasciate riposare per 18-24 ore. In questo periodo il vostro impasto raggiungerà il doppio del suo volume, ma non triplicherà. STAGLIO E FORMATURA Circa 5-6 ore prima di cuocere, tirate fuori l’impasto, rovesciatelo sul piano e formate 6 pagnotte di egual peso (circa 270 g / 275 g con le dosi indicate). Chiudete bene i panetti arrotolandoli sul piano da lavoro, senza lasciare nessuno spazio aperto, e posizionateli in una cassetta da lievitazione o in una teglia 30x40 con carta forno, ben distanziati. Solo nel secondo caso (se siete sprovvisti di cassetta) infarinate leggermente la carta forno e la superficie dei panetti, in quando dovrete poi coprirli con della pellicola trasparente. In alternativa potete utilizzare dei contenitori tondi leggermente oliati. APPRETTO Lasciate riposare i panetti per 5-6 ore a temperatura ambiente, fino a che non avranno triplicato il loro volume. Se specialmente d’inverno la crescita vi sembrerà lenta, potete terminare la lievitazione nel forno spento con la luce accesa, velocizzando un po’ i tempi; l’importante è che non vi fermiate allo scadere
della sesta ora, ma che valutiate unicamente la lievitazione dei vostri impasti. STESURA Infarinate leggermente il piano da lavoro con della semola rimacinata di grano duro, e rovesciate il primo panetto; ribaltatelo nella semola in modo da asciugare entrambe le estremità, e con i palmi schiacciatene i lati verso il centro in modo da attribuirgli una forma allungata. A questo punto portate il panetto sul palmo della vostra mano sinistra, e con la destra tirate con delicatezza la punta superiore in modo da allungarlo, senza però schiacciare per non far uscire l’aria.
COTTURA Scegliete il metodo di cottura che più vi aggrada
Cuocete per 5-6 minuti in un forno professionale a 280°C, 9-10 minuti in un forno a incasso a 250°C. A metà cottura ribaltate la pagnotta a testa in giù, in quanto si sarà gonfiata come un palloncino, e sarà vostro dovere uniformarne al meglio la doratura. Valutate, in base al vostro forno, se e quando girare i panetti da qualsiasi lato in modo che il colore sia il più possibile omogeneo su tutta la superficie. Al solito, i tempi sono indicativi: terminate la cottura solo quando le pagnotte saranno ben dorate e l’interno avrà raggiunto almeno i 95°C. Sfornate e lasciate raffreddare su griglia rialzata. Per godervi al meglio quest’opera goliardica, i filoni dovranno essere ben caldi; a meno che non li vogliate farcire, evitate di tagliarli, e scaldateli in forno a 180 °C per qualche minuto, per poi portarli a tavola interi e lasciare che siano i vostri commensali a strapparne voracemente qualche pezzo per scarpettare qualsiasi ben di Dio.
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Ribaltate il panetto sulla mano e fate la stessa cosa con l’altra punta; continuate girando il panetto e allungando fino a quando non avrete un filoncino di circa 20-25 cm di lunghezza (a vostro gusto e piacimento). Portate l’impasto sul banco, in una zona leggermente cosparsa di semola, date una leggera pressione al centro con la mano aperta per uniformare lo spessore, e stendete i panetti successivi.
tra quelli descritti, e posizionate i vostri panetti sulla pietra o sulla teglia. In un’area di cottura da 30x40 cm, potrete infornare 3 filoni disposti perpendicolarmente al lato lungo, dato che saranno grandi circa 12x25 cm.
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Spaghetti & meatballs la cucina poco italo e molto americana Across the Pond a cura di Elena Ninotti
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na delle scene più famose dei cartoni animati Disney vede due cagnolini, molto famosi e innamorati seduti nel retro di un ristorante italiano in America, intenti a dividersi un sontuoso piatto di spaghetti con delle grosse polpette di carne, fino a che uno spaghetto non li avvicina in un tenero bacio. Credo che per molti di noi quello sia stato il primo contatto con la cucina italo-americana. Ok, gli spaghetti (magari un po’ più al dente, ma non andiamo troppo per il sottile). Ok, le polpette al sugo. Ma l’unione di questi due elementi non è una cosa tipica della tradizione italiana. Nella gastronomia italica, infatti, si trovano le polpette come condimento dei primi piatti, soprattutto in Abruzzo, ma di solito sono piccole polpettine, non certo pallotte grosse come una palla da golf (se non da tennis).
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Negli ultimi anni, Internet e i social ci hanno fatto conoscere tutta una serie di piatti che gli americani attribuiscono alla cucina italiana ma, di fatto, sconosciuti nel Bel Paese. Eppure, per un americano è normale andare al ristorante italiano più famoso della zona e trovare in menù piatti come pasta con salsa Alfredo, spaghetti and meatballs, piccata di pollo, scaloppina al marsala e
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parmigiana di varie carni. Sono piatti completamente ignoti a noi. O per meglio dire, spesso sono pietanze che partono da una cucina casalinga che poi, negli anni, sono state rivisitate a migliaia di km dal nostro territorio e che hanno preso una deriva completamente differente. Uno dei piatti più legati alla nostra cucina, ad esempio, è la pasta alla vodka. Chi ha passato gli anni ’80 si ricorderà che, al pari della pasta al salmone, era presenza fissa nel menu dei pub e bistrot dell’epoca. Caduta poi nell’oblio, è rinata come una fenice in terra americana dove è considerato uno dei condimenti italiani più classici. Tutto il resto della cucina italo americana, invece, è arrivata con l’ondata migratoria del 1880-1920. Gli immigrati arrivavano a Ellis Island con la loro valigia di cartone, le loro speranze e la loro fame. Molti scappavano dalla povertà (come gli italiani), dalle carestie (gli irlandesi, a causa della malattia delle patate), alle persecuzioni (gli ebrei dell’est Europa). In America trovarono rifugio, possibilità e cibo in abbondanza, soprattutto la carne. Per quanto riguarda la pasta, invece, c’era poca scelta. Si trovavano solo gli spaghetti.
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E i pomodori? Invece dei meravigliosi pomodori del sud, si trovavano canned tomatoes, cioè pomodori in lattina. Da queste basi nacque la pasta con le polpette. Non è solo un luogo comune che in USA le cose siano più grandi, ma è davvero un dato di
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fatto. Ed ecco che le polpette diventano grosse, enormi. Di solito una bella porzione include tre polpette, 120 /130g di pasta, una mestolata di sugo alla marinara (cioè pomodoro, origano e tanto aglio) e una abbondante spolverata di parmigiano. Da questi immigrati si sviluppò la cultura alimentare americana, in parallelo a quella della madrepatria. A voler analizzare i piatti, si trova sempre una radice tradizionale. La pizza pepperoni non si discosta dalla nostra diavola, col salamino piccante. Solo che, per noi, i pep(p)eroni sono una verdura, per loro è una derivazione dal termine pepper sausage, cioè salsiccia col peperoncino, da cui il nome della pizza.
La pasta Alfredo, invece, deriva dagli anni ‘20 del Novecento. In quegli anni, Douglas Fairbanks e Mary Pickford, due famosissimi divi di Hollywood, gustarono la pasta mantecata con burro e formaggio presso un celebre locale romano, Alfredo alla Scrofa e al loro ritorno in patria le fecero molta pubblicità. Ogni collega che passava per la Capitale italiana andava a provare il piatto, che in breve divenne davvero famoso negli States. Solo che, per supplire alla scarsa qualità del formaggio utilizzato oltreoceano, la ricetta fu modificata con una salsa bianca a base di formaggio, formaggio cremoso, addensanti, burro e altri ingredienti che davvero poco avevano a che fare con la ricetta originale. Scaloppine al marsala, piccata di pollo (scaloppina di pollo con limone e capperi) o lasagne chef Steve Martorano con la ricotta sono invece figlie di una
cucina circoscritta a determinate aree italiane e magari sconosciute ai più, ma a Little Italy trovarono il terreno spacciandosi come ricette italiane tradizionale. Poiché la grande maggioranza degli immigrati veniva dal sud Italia, non stupisce che la cucina italo americana fondi le sue origini proprio nei sapori tipici del meridione, come olio di oliva, aglio, origano, mozzarella e limone. Oggi con Internet, i viaggi low cost, gli expat (personale di alto profilo mandato dalle aziende a curare le sedi all’estero) ma, soprattutto, con i giovani che investono in attività di ristorazione, il livello dell’offerta relativa alla cucina italiana in USA è sensibilmente migliorato. Non ovunque, ma nelle grandi città come NY, Miami, San Diego e Los Angeles è facile trovare ristoranti che offrono una cucina regionale italiana di livello. A Miami, ad esempio, troviamo pasta ripiena emiliana, focaccia di Recco ligure, maialino sardo e pizze napoletane che non hanno molto da invidiare a quelle della madrepatria. Ma per arrivare ad educare il palato americano a questi sapori “autentici” la strada è ancora lunga: sarà per quello che un paio di giorni fa mi hanno mandato una foto del banco della pizzeria a taglio di un famoso pizzaiolo italiano... che proponeva la chicken parm pizza. Vabbè, bisogna pur pagare l’affitto!
AND MEATBALLS
DI LILLI E IL VAGABONDO
Ingredienti per 4 persone: 600 g di spaghetti / 250 g di macinato di maiale / 250 g di macinato di vitella / 250 g di macinato di manzo / 450 g di panini all’olio raffermi / 3 cucchiai di prezzemolo tritato / 15 g di sale / 15 g di pepe nero tritato al mulinello / 20 g di aglio in polvere / 1 uovo grosso / 60 g di Parmigiano Reggiano DOP riserva GLC Top Selection / 60 g di pangrattato / 750 ml di olio per friggere Per la salsa Marinara: una cipolla gialla tritata / 2 spicchi di aglio tritati / 400 g di piedini di maiale o 200 g di prosciutto crudo o pancetta non affumicata tritati / 1,5 kg di pelati San Marzano tritati / 120 ml di olio di oliva / 8 foglie di basilico / sale e pepe q.b. / mezzo cucchiaino di aglio granulare PREPARAZIONE: 1. Riducete il pane a pezzi di circa 1-2 cm l’uno e bagnateli con acqua. Lavorateli con le mani in modo che tutta l’acqua sia incorporata per 6-7 minuti e l’impasto raggiunga una la consistenza omogenea. 2.
Aggiungete la carne e le spezie, e mescolate accuratamente.
3.
Aggiungete l’uovo, il prezzemolo e il parmigiano e mescolate fino a che non avrete un impasto.omogeneo. Solo a questo punto aggiungete il pane grattugiato e impastate di nuovo.
4.
Dividete l’impasto in 18 porzioni grosse all’incirca come una grossa pallina da golf.
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Mettete l’olio a scaldare in una padella da circa 35 cm. Quando l’olio è a circa 160°C mettete dentro le polpette e friggetele fino a che non sono belle dorate e la temperatura interna non raggiunge i 65°C. Toglietele e tenetele da parte.
6.
In una dutch oven, rosolate in olio il maiale, aggiungete cipolla e aglio e fate prendere colore. Abbassate la temperatura e unite i pelati spezzettati. Lasciate cuocere 2 ore, parzialmente coperto Trascorso questo tempo aggiungete il parmigiano e il basilico spezzettato. Cuocete ulteriori 15 minuti e regolate di sale, pepe e aglio in polvere.
7.
Mettete le polpette nella salsa preparata e cuocetele nel sugo a bollore leggero per 30 minuti Nel frattempo, mettete su l’acqua per la pasta e cuocete 600 g di spaghetti.
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Condite la pasta scolata col sugo, coprite di abbondante Parmigiano Reggiano e, se volete, aggiungete una noce di ricotta lavorata a crema. BBQ4All Magazine
Per restare nel tema del mese, vi propongo la ricetta originale di un famoso ristorante italo americano che ha sede qui in Florida. Ogni anno, in città, due ristoranti di alto livello si sfidano nella gara delle polpette, i cui proventi vengono donati a un ospedale pediatrico locale. Quella che vi metto è la ricetta delle polpette che è stata finalista l’anno scorso, proposta dallo chef Steve Martorano, un italoamericano di Philadelphia che, grazie al suo ristorante di Fort Lauderdale, è stato incoronato più volte “the King of Meatball”
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Il quinto quarto a cura di Virgilio Brunetti
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a p rTe ailptri stomaci
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ella storia, la trippa ha sempre rappresentato un alimento molto apprezzato; gli storici riportano che già nell’antica Grecia si consumava alla brace, mentre gli antichi romani preparavano delle salcicce di trippa. Nel medioevo queste frattaglie venivano lungamente stufate in un denso brodo sapido che solo i ricchi potevano gustare, nobilitando l’intingolo con le costose spezie di origine esotica. Nel Liber de Coquina, un ricettario scritto in latino tra il XIII e il XIV secolo, troviamo la preparazione del calcatum o calcadum. Vengono riportate altre versioni di questo piatto in fonti scritte nel periodo successivo, infatti nell’Anonimo Toscano si legge di uno stufato di trippe detto caldume. L’autore suggerisce di usare trippa di vacca, di maiale o di montone. Oggi esiste un sito italiano costruito proprio per celebrare la Trippa; dopo la pubblicazione del libro Troppa Trippa (Indro Neri, Neri Editore, Firenze 1998), gli autori non si sono mai più fermati: sul sito troviamo infatti una serie impressionante di proposte editoriali che la trattano molto seriamente. Ne sono testimonianza i libri dedicati alle preparazioni declinate secondo la cultura gastronomica regionale italiana, europea, asiatica, americana e africana; molte ancora sono in fase di preparazione e pubblicazione.
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Nonostante la trippa sia detestata anche da molti carnivori, nel mondo, questo alimento ha milioni di estimatori. La trippa costituisce, tra le frattaglie bianche, quella di più largo consumo in tutte le culture gastronomiche del pianeta che utilizzano come fonte di proteine i bovini ed altri erbivori ruminanti. Questo perché l’apparato digerite di un ruminante, e in particolare quello dei bovini, è molto grande, strutturato, quindi per forza di cose costituisce una fonte di proteine non trascurabile, anche se nella nostra nuova veloce società ha dovuto comunque evolversi trasformandosi in un alimento molto diverso da quello utilizzato nel dal recente passato. Alcuni di noi ricordano sicuramente che, tempo fa, era improbabile reperire la trippa già pulita pronta il consumo, in quanto tutto dipendeva dal macellaio che con antica maestria provvedeva, manualmente, alle operazioni di pulizia e sgrassatura; chi conosce questo prodotto “antico” conosce benissimo la differenza con i prodotti trattai industrialmente e presenti nella GDO. Oggi, le stesse operazioni fatte un tempo dal macellaio e dal trippaio vengono svolte da operai e da aziende specializzate. Il risultato è rappresentato da una gamma di prodotti che vengono forniti cotti, sia a pezzatura intera che già tagliati, da sottoporre ad ulteriore cottura o pronti per il consumo. Commercialmente si possono trovare sfusi, confezionati sottovuoto oppure in atmosfera protettiva. Se amate la trippa vi consiglio vivamente di trovare una macelleria artigiana che vi prepari la trippa come la comprava vostra nonna.
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MA COSA È LA TRIPPA? La trippa non è altro che l’apparato digerente dei bovini macellati, che si divide in quattro parti: tre prestomaci (rumine, reticolo e omaso) e lo stomaco vero e proprio (abomaso). Sarebbe decisamente più opportuno, quindi, parlare di trippe, perché i vari tagli si riferiscono alle diverse parti dell’apparato digerente. Il rumine (dal latino rumen, gola) è il primo dei tre prestomaci, e il più grande: rappresenta circa l’80% di tutto l’apparato digerente. Da qui si ricava la trippa più grassa. Il reticolo (dal latino reticulum, reticella) è il prestomaco più piccolo, e si presenta spugnoso, con una forma che ricorda la cuffia. L’omaso (dal latino omasum, trippa di bue) è la parte più magra della trippa, e si presenta a struttura lamellare. L’abomaso, infine (letteralmente, dopo l’omaso) è lo stomaco vero e proprio, dove agiscono i succhi gastrici. Il colore della trippa è più scuro. È dall’abomaso (di vitelli, agnelli, capretti) che si produce il caglio per la caseificazione. Il lampredotto tipico di Firenze si fa con l’abomaso. E i fiorentini dividono l’abomaso in due parti: gala è la parte scura e arricciata, spannocchia la parte chiara, più grassa e liscia.
Dal punto di vista tissutale lo stomaco dei mammiferi, anche quello dei bovini, è costituito da numerosi strati diversificati dal punto di vista anatomico e fisiologico. Vi basti pensare che dal lume (la cavità) dello stomaco verso l’esterno si alternano strati di tessuti differenti, quali epitelio ghiandolare, muscolare liscio e connettivo. Il tessuto connettivo, formato da una complessa matrice di collagene ed elastina, proprio per il notevole volume tipico degli stomaci degli erbivori, ha il compito di garantire la tenuta meccanica di uno stomaco enorme a pieno carico, con un volume di circa sessanta litri. Un bovino, soprattutto una mucca da latte, può dare l’impressione di un tenero animale “puccioso” ma in realtà è un enorme bestia piuttosto atletica, capace sì di trasformare erba in latte e carne, ma anche di scalciare, correre e saltare; avete presente un bovino da rodeo? Ecco, pensate quanto resistente ed elastico deve essere lo stomaco di questi quadrupedi! L’apparato digerente del bovino, inoltre, non è solo un sacco che contiene erba masticata e inzuppata di saliva bovina ma un enorme laboratorio biochimico dove le fibre vegetali, compresa la cellulosa, grazie anche ad una variegata schiera di batteri simbionti, vengono trasformate in energia. Questo processo di trasformazione non è efficiente per cui l’erbivoro deve
ingurgitare quantità impressionanti di vegetali che restituiscono poca energia ed una grande quantità di scarti produttivi solidi e gassosi. Gli stomaci del ruminante sono sporchi ed impregnati di una terrificante brodaglia fermentante che in qualche modo deve essere rimossa per rendere edibile la trippa. COME VIENE TRASFORMATA LA TRIPPA? Dopo l’eviscerazione del bovino, gli stomaci vengono svuotati, lavati, sgrassati, raffreddati in acqua corrente e conservati in celle frigorifere a 0°C; successivamente vengono consegnati ai laboratori di cottura e preparazione finale, dove subiscono le seguenti operazioni: bagno in acqua fredda per una notte, scolatura, cottura in acqua bollente per 2-3 ore, raffreddamento rapido in acqua corrente e conservazione in celle frigorifere. Sembra un’operazione asettica ma se cercate on line trovare filmetti eloquenti su quanto faticose complesse e delicate siano le operazioni di pulizia di uno stomaco bovino, che contiene anche grandi quantità di vegetali parzialmente digeriti ed in fermentazione. L’aggiunta di sale ha una duplice azione: riduce la quantità di acqua e insaporisce e riduce la moltiplicazione batterica agendo sulla attività dell’acqua (uno dei fattori limi tanti la crescita microbica). La cottura riduce la contaminazione batterica delle
carni dovuta alle lavorazioni o alle contaminazioni primarie. Nitrati e Nitriti inibiscono lo sviluppo dei microrganismi (in particolare quella del pericoloso Clostridium botulinum), forniscono alla mioglobina una colorazione rosata e migliorano la sapidità del prodotto evitando che questo assuma un gusto amaro. Ricordate che i clostridi, tra i quali gli agenti eziologici del botulismo e del tetano, fanno parte della normale flora batterica dell’apparato digerente degli erbivori! PROPRIETÀ NUTRIZIONALI Dal punto nutrizionale la trippa è una fonte di proteine di elevato valore biologico. Un etto di trippa di bovino fornisce mediamente solo 108 Kcalorie mentre, a parità di peso, la carne bovina ne dà 214 e quella di pollo 130. Sempre la stessa quantità di trippa contiene invece 15,77 grammi di proteine, niente zuccheri e soltanto 1,43 grammi di grassi. Differentemente dalle altre frattaglie la trippa ha un contenuto di purine; ricordate? Per buona parte la trippa è tessuto connettivo con basso frequenza di cellule e una grande quantità di matrice extracellulare costituita da collagene ed elastina: viene quindi consigliata in moderazione anche alle persone che soffrono di iperuricemia e gotta. Affinché queste frattaglie diventino realmente
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commestibili e masticabili, l’abbondante collagene dei tessuti connettivi delle trippe deve essere trasformato in gelatina mediante a lenta cottura umida: il collagene deve essere idrolizzato. Ecco, è proprio per questa ragione che in quasi in tutto il pianeta la trippa viene cotta in umido o comunque, prima di essere fritta o arrostita, deve essere lungamente precotta perché assuma una texture adeguata.
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LE TRIPPE IN ITALIA Per prima cosa vediamo come vengono chiamati i vari stomaci del bovino nelle varie regioni, (scusate se non riesco ad elencarli tutti): • Rumine: chiappa, croce, crocetta, doppione, larga (piemontese), pancia, panzone, trippa. • Reticolo: beretta, bonetto, ciapa (milanese), cuffia, nido d’ape; • Omaso: centopelli, centupezzi (calabrese), centu pillonis (sardo), foglietto, fojet (piemontese), foiolo, fojoeu (milanese), libretto, millefogli, millepieghe; • Abomaso: francese, franciata, frasame, frazeisa
(milanese), frezza (piemontese), gala (fiorentino), lampredeta (veneto), lampredotto (fiorentino), quaglietto (piemontese), quaglio (romano), riccia, riccioletta, spannocchia (fiorentino). Si potrebbe dire “regione che vai trippa che trovi”, ma c’è una sola città dove le ricette di trippa sono tante: Napoli; qui la trippa e i trippaioli sono argomenti molto seri e sarebbe oltre modo scorretto parlare di “trippa alla napoletana” come si fa in molti siti di ricette. A Napoli c’è una zuppa di trippa con il pomodoro come in molti altri posti d’Italia e poi c’è o O’ Père e O’ Musso dove la le trippe bovine lesse accompagnano muselli, intestini, mammelle e piedini tagliati in pezzetti e serviti freddi con limone e sale, insieme ad una manciata di olive e lupini in salamoia. Le ricette della tradizione regionale italiana hanno tante variazioni grazie proprio alla enorme varietà di prodotti tipici locali, verdure formaggi soprattutto. Prima di partire con la nostra trippa tour non possiamo non ricordare le versioni più famose:
la trippa alla milanese (la busecca); la trippa alla romana e la trippa alla fiorentina. Tra le meno conosciute esiste la variazione pisana, che aggiunge del macinato di maiale oppure della salsiccia di maiale per insaporire il piatto, oppure quella alla vicentina con l’aggiunta in cottura di riso Vialone Nano. Proseguendo il viaggio e passando in Piemonte troviamo la versione piemontese in insalata, condita con olio, sale, pepe e prezzemolo e con l’aggiunta di striscioline di peperoni rossi e gialli; anche in Toscana, esiste una trippa fredda in insalata con cipolla, olive, prezzemolo, olio, sale e pepe. Esiste poi la trippa alla trentina, in bianco ma con grana e pangrattato, mentre in Sardegna ovviamente trippa rigorosamente con formaggio pecorino, strutto e menta fresca. Nel mio Salento la trippa si prepara nelle pignate di terracotta con sponzali, pomodori, pecorino e con l’aggiunta delle patate; spesso la trippa viene arrotolata in piccoli involtini che diventano goduriosi bocconcini gelatinosi (ma occhio agli stecchini e allo spago!). Nel prossimo articolo vedremo nel dettaglio alcune ricette tradizionali e la loro storia inoltre le trippe e gli stomaci di altri animali di interesse gastronomico.
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Vi anticipo solo una preparazione del mio amico calabrese e stimato gastronomo Antonio Fazio ovvero il famoso Morzeddhu alla Catanzarisi, una delle preparazioni tradizionali di trippa che si servono con un panino. Eccolo brevemente: sbollentate la trippa e il cento
pelli in acqua fino a dar loro una mezza cottura; scolate, lasciate raffreddare e tagliate a pezzettini. Mettete in acqua con sale, origano, peperoncino e doppio concentrato, e lasciate cucinare a fuoco basso per almeno due ore. Usate un mazzetto di origano secco per girare ogni tanto la trippa mentre cuoce. Servite nella tipica pitta catanzarese. Si può fare di solo trippa come da tradizione, oppure con aggiunta di frattaglie, cuore, polmone, milza a piacere. Questo panino è uno dei più buoni che la mente umana abbia mai concepito, ma attenzione: se avete occasione di mangiarlo occhio a non sbrodolarvi!
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BBQ4All: FROM ZERO TO HERO
Dal rombo dei cannoni allo sfrigolìo della cucina:
a cura di Emiliano Nencioni
ACCESSORI IN
GHISA
L
a ghisa è una lega di ferro e carbonio che ha avuto diversi utilizzi nel corso della storia: in Europa verso il 1450 veniva usata per forgiare i cannoni, con l’età industriale (1760-1840) entrò nell’architettura per la costruzione di ponti e grandi strutture (ancora oggi per la sua resistenza alle intemperie è utilizzata nell’arredo urbano sotto forma di lampioni, fontanelle, fioriere, pattumiere, panchine ecc.), infine verso il 1920 in Francia è entrata in cucina sotto forma di tegami, griglie e padelle. Ovviamente, quest’ultimo ambito è quello che ci interessa di più. Quali sono le caratteristiche che rendono attraente l’uso della ghisa in ambito culinario?
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Possiamo definire le pentole in ghisa quasi eterne, perché grazie alla resistenza ad altissime temperature per lungo tempo non si deformano e non si deteriorano. Semmai è proprio la cattiva manutenzione tra una cottura e l’altra a decretarne la fine. Per questa qualità, i tegami in ghisa possono essere utilizzati indistintamente su un fuoco a gas, su un piano ad induzione, in forno e direttamente sulle braci senza subire danni.
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La ghisa, a differenza dell’acciaio, non è un buon conduttore di calore - infatti le pentole realizzate con questo materiale si scaldano lentamente - ma una volta accumulato riescono a trattenerlo per molto tempo determinando anche una stabilità di temperatura durante la cottura. Il calore, diffondendosi in modo eterogeneo su tutta la superficie, irraggia di conseguenza il cibo in modo omogeneo. Tutto ciò è determinato dallo spessore che è tre-quattro volte superiore a una comune pentola. Quindi la ghisa si presta sia alle cotture lente a bassa temperatura (stufati, zuppe, ragù, brasati ecc.), sia alle cotture più rapide e violente con temperature altissime su piastra o su griglia (bistecca, burger, pesce, crostacei, verdure ecc.).
Un aspetto negativo di questa lega è la sua porosità: ovvero la sua capacità di assorbire sia l’umidità (causando la formazione di ruggine sul rivestimento), che gli odori degli alimenti cucinati. Per esempio se usate lo stesso tegame per stufare prima il musetto del maiale e poi lo usate per cucinare la paella, se non l’avrete lavato bene il vostro riso, oltre al sapore esotico, porterà con sé un insistente e fastidioso aroma di selvatico (ogni riferimento a fatti realmente accaduti è puramente casuale). La manutenzione delle pentole in ghisa non è difficile, ci vuole solo molta pazienza e olio di gomito: non può essere lavata in lavastoviglie, è preferibile pulirla con poca acqua, prodotti naturali come il bicarbonato e l’aceto, al massimo può essere usata una piccolissima quantità di detersivo ecologico; per eliminare lo sporco più ostico è assolutamente vietato usare qualsiasi utensile o spugnetta abrasiva che possa graffiarne la superficie; va asciugata alla perfezione per evitare la formazione di ruggine e poi deve essere ricondizionata con olio vegetale per la successiva preparazione. In più dobbiamo tener conto della fatica nel sollevare e rigirare un oggetto dal peso considerevole. Ormai avrete dedotto che un accessorio in ghisa più è grande, più sarà pesante. Grazie alla sua grande versatilità in cucina, sono state create in ghisa diverse tipologie di accessori. 1. LA COCOTTE Come suggerisce il nome stesso, la cocotte nasce in Francia alla fine del 1700. Può avere una forma ovale o rotonda (ne esistono di diverse misure), è munita di coperchio, manici laterali e bordo alto. Esistono anche versioni smaltate in diversi colori. Può essere posta in forno, sul fornello di casa o direttamente sulle braci. Un esempio di questa sua perfetta adattabilità a diverse tipologie di cotture è la ricetta della Bourguignonne (spezzatino
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di vitello): la cottura parte sul gas per concludersi a coperchio chiuso nel forno. Sicuramente, la cocotte è adatta a tutte quelle preparazioni che richiedono cotture lunghe a fuoco medio-basso (ragù, spezzatini, minestroni, zuppe ecc.), però niente vieta di utilizzarla senza coperchio per cucinare un risotto.
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Essendo destinata a cotture lunghe può risultare un po’ostica da pulire, in particolare il bordo dove il cibo si incrosta per l’effetto del calore prolungato. E’ assolutamente vietato l’uso di qualsiasi tipo di spugnetta abrasiva che potrebbe rovinarne il rivestimento. Una soluzione è quella di far bollire dell’acqua per qualche minuto e poi eliminare lo sporco con un panno morbido. Nel caso non fosse sufficiente si può ricorrere a una spatola o un raschietto di silicone (non di acciaio) o a uno spazzolino di fibre naturali (scrub brush) . Prima di procedere a questa operazione l’acqua bollente va eliminata.
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zionamento. Con una piccola quantità di olio di oliva lucidate tutta la superficie usando della carta da cucina e poi ripassate la pentola con un panno in cotone asciutto per togliere l’eccesso. Infine mettetela in forno pre-riscaldato a 150°C per un’ora circa. Un’altra accortezza importante è quella di riporla senza chiuderla con il coperchio. Per le versioni in ghisa smaltate, lo sporco va sempre tolto con delicatezza con un panno o con carta da cucina, ma il vantaggio è che può essere lavata anche in lavastoviglie, in quanto lo smalto fa da scudo all’umidità.
Per sgrassare ed eliminare gli odori si consiglia l’uso del bicarbonato e/o dell’aceto, anche se è possibile usare un detergente per stoviglie. Una volta pulita, va asciugata bene con un canovaccio in cotone.
2. IL DUTCH OVEN Letteralmente forno olandese, come per la cocotte il nome stesso ci indica le sue origini. Nasce come cucina da campo per cotture sul fuoco o sulle braci. Ad oggi è la pentola ideale per il campeggio. Dai bordi molto alti, il dutch oven ha una forma circolare con una base convessa con tre piedini perché mantenga la stabilità anche poggiata direttamente sul fuoco. Il coperchio è convesso, dai bordi alti, perché se capovolto si trasforma in padella oppure se riposto sulla pentola con le braci al di sopra crea una doppia fonte di calore rendendo stabile la temperatura.
Siamo arrivati all’ultimo passaggio: il pre-condi-
Visto il suo peso il forno è munito di tre manici: due laterali e uno centrale che permette di ag-
ganciarlo a una struttura per aumentare la distanza dal fuoco. Le versioni moderne hanno la base piatta e sono prive dei piedini per utilizzarlo comodamente anche nel forno di casa. E’ ideale per preparazioni lente a bassa temperatura (stufati, zuppe ecc.), o che hanno bisogno di una temperatura stabile durante la cottura (il pane). E’ un must dei film Western al pari del Kettle in ogni giardino americano. In queste pellicole è difficile vedere un bivacco di cow-boy senza il forno olandese sul fuoco. Per la pulizia si consigliano gli stessi accorgimenti appena descritti per la cocotte. Togliere lo sporco con la carta assorbente, sciacquarla con l’aiuto di una spugnetta morbida e di un detergente naturale utilizzando poco acqua. Asciugare bene e pre-condizionare con olio d’oliva, dopodiché in forno per un paio d’ore a 150° gradi. Anche il forno olandese non va mai riposto chiuso con il coperchio in modo che respiri, questo accorgimento eviterà di trovare brutte sorprese come la muffa. 3. IL WOK È una padella tipica della cucina orientale, già presente 2000 anni fa sotto la dinastia degli Han (dal 206 a.C. al 220 d.C.); è una pentola circolare (il diametro può variare dai 28 ai 32 cm). Può avere un solo unico manico lungo, due laterali oppure uno
lungo accompagnato da uno piccolo. Solitamente nelle versioni in ghisa il manici sono 2 e dello stesso materiale per sostenere il peso della padella. Cosa rende particolare il wok? Una caratteristica che vediamo ad occhi nudi, cioè la base semisferica. Questa caratteristica fa sì che il calore si concentri sulla parte finale, per poi diffondersi in maniera omogenea su tutta la superficie caratteristica esaltata nelle versioni in ghisa. Tutto ciò permette di cucinare grandi o piccole quantità di cibo e attuare diversi tipi di cottura: rosolatura, stufatura e anche frittura. Le accortezze per la pulizia e il pre-condizionamento rimangono sempre le medesime. Visto che può essere usata per cotture più veloci, qualcuno potrebbe pensare di buttarla direttamente sotto l’acqua fredda per accelerare i tempi di pulizia. Comportamento da evitare assolutamente. Lo sbalzo termico repentino può causare delle fratture sulla superficie rovinandone il rivestimento.
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4. PADELLE IN GHISA (SKILLET) Ne esistono di diverse misure, dalla più piccola adatta alla cottura di un solo hamburger, alla più grande con un diametro di 30 cm. I modelli più diffusi hanno
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un solo manico lungo, oppure due impugnature (una piccola e una lunga) con due scoli laterali per agevolare l’eliminazione dei grassi.Si presta bene alle cotture più rapide a temperature medio-elevate tipiche di questo tegame: bacon croccante, burger, bistecche, salsicce ecc. Infatti, proprio per la sua capacità di rilasciare il calore in modo omogeneo sulla pietanza crea una piacevole crosticina dorata (Reazione di Maillard). Prima della cottura la padella va unta con un velo di olio e scaldata sul fuoco per una decina di minuti. I residui di cibo possono essere eliminati con la carta da cucina per poi procedere al lavaggio e al trattamento descritto precedentemente. Viste le sue dimensioni qualcuno per lavarla più comodamente sarà tentato di metterla a bagno nel lavello. Comportamento da evitare assolutamente se si vuole evitare la formazione della ruggine. Infatti la ghisa tra i suoi difetti ha la porosità per questo si consiglia di sciacquarla con poca acqua. 5. GRIGLIE E PIASTRE IN GHISA Siamo arrivati agli accessori nati principalmente per le cottura rapide e violente sul fuoco. Prima di procedere si consiglia di ungerle con velo di olio e di riscaldarle fino al raggiungimento di temperature infernali. La scelta della griglia o della piastra dipende dal risultato che si vuole ottenere: una crosticina omogenea su tutta la superficie dell’alimento o le grill marks (i tipici segni della griglia sulla bistecca)?
Entrambe diffondono il calore su tutta la superficie in modo omogeneo per cui sono ideali per la cottura di bistecche, burger, pesce, crostacei. Per gli indecisi esistono anche accessori barbecue che propongono questi due elementi insieme Per la pulizia si consiglia in special modo per la griglia di intervenire subito con un spazzolino apposito affinché lo sporco non si incrosti, mentre per la piastra basterà passare della carta da cucina e procedere con la solita manutenzione. Esistono anche griglie in ghisa smaltate: anche queste vanno pulite quando ancora sono calde e poi grazie allo smalto possono essere inserite in lavastoviglie. Se quando andate a prendere un oggetto in ghisa vi risulta appiccicoso tra le mani avete sbagliato il pre-condizionamento. Ovvero, avete usato troppo olio. Per evitare che questa patina si stacchi in cottura e diventi un ingrediente dei vostri piatti dovete procedere nuovamente con il lavaggio.
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La ricetta scientifica a cura di Gianfranco Lo Cascio
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LA RICETTA SCIENTIFICA
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i siete mai chiesti qual è la spiegazione che si cela dietro l’espressione “giovedì gnocchi”? Il detto per intero da cui deriva questa costruzione è "Giovedì gnocchi, venerdì pesce e sabato trippa" ed ha certificate origini laziali; per essere ancor più precisi, ha origini romane. Ripetendo a mente la frase, non possiamo fare a meno di ricordare, con malcelata malinconia, il grande Vittorio Gassman che legge il menu, col suo vocione stentoreo e inconfondibile. L'adagio risale all'immediato secondo dopoguerra, parliamo di anni in cui per riempire i piatti di tutta la famiglia serviva un certo ingegno e la settimana gastronomica degli italiani veniva scandita da qualche piccola quanto preziosa regola che aiutava a ottimizzare le risorse limitate.
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Gli gnocchi del giovedì, preparati con patate, farina e uova (se disponibili) e conditi con sugo di pomodoro fatto in casa, erano il piatto sostanzioso e calorico necessario per affrontare il menù del giorno successivo, che era parecchio più scarso. Per seguire i precetti religiosi, infatti, il venerdì era proibito cucinare la carne e si poteva mangiare solo pesce e legumi, come il baccalà con i ceci. Un piatto che tante osterie romane hanno ancora in carta proprio nel quinto giorno della settimana, così come gli gnocchi nel quarto. Il sabato era invece il giorno della trippa. Nel fine settimana i macellai si dedicavano alla macellazione di manzi e vitelli per accontentare chi poteva permettersi un pranzo della domenica un po’ più ricco. Ai contadini, quindi, non restava che mettere in pentola i tagli meno pregiati come le frattaglie dello stomaco e la trippa.
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GNOCCHI: CHE COSA SONO Il nome deriverebbe dal longobardo knohha che significa nocca, nodo. Gli gnocchi primigenei, parecchio brutti a vedersi, si impastavano mescolando farine di vario tipo con poca acqua e sale, da cuocere in acqua bollente. Nel medioevo e nel rinascimento li chiamavano zanzarelli. Con l'arrivo della patata dalle Americhe, i cuochi italiani trasformarono i “cavati” o “cavatelli” in pallette incurvate dalla consistenza insolitamente leggera. La polpa amidacea della patata divenne l'ingrediente principale, mentre veniva aggiunta farina a sufficienza per assorbire l'umidità e apportare glutine per tenere insieme il tutto in un impasto modellabile. Talvolta venivano aggiunte anche le uova, per fornire un ulteriore legante e una particolare ricchezza, che in alcuni casi rendeva la pasta troppo elastica e gommosa. Generalmente si prediligono le patate vecchie, farinose piuttosto che cerose, per il loro basso contenuto di acqua e di amido. Utilizzando questa specifica tipologia di tubero occorrerà meno farina per fare l’impasto, e lo gnocco risulterà molto più soffice data la scarsità di glutine. Le patate vengono tradizionalmente cotte, sbucciate e schiacciate immediatamente per far evaporare quanta più umidità possibile; poi vengono lavorate in un impasto con la quantità di farina necessaria, di solito meno di 120 grammi per 500 grammi di patate. La pasta viene arrotolata in una corda sottile e tagliata in piccoli pezzi, che vengono incavati con i polpastrelli, talvolta rigati sull’attrezzino apposito in legno, e poi bolliti in acqua, finché non affiorano in cima alla pentola. Gli gnocchi possono anche essere fatti sostituendo la patata con altre verdure amidacee (zucca, castagne) o con la ricotta. Con il termine gnocco si indica infatti una famiglia allargata di paste, con più precisione: • • • • • •
gnocchi a base di farina e patate gnocchi a base di farina, patate e uova gnocchi a base di amidi vari gnocchi a base di semolino gnocchi a base di pane una delle preparazione precedenti con l’aggiunta di verdure o formaggio.
Quello che vogliamo fare stavolta, però, è stravolgere i tradizionali gnocchi di patate e farina con l’aiuto della scienza.
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GLI INGREDIENTI Gli ingredienti tradizionali degli gnocchi sono: •
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Patate A cosa servono: apportano principalmente amido e acqua Farina A cosa serve: aggiunge amido e proteine Uova (facoltative) A cosa servono: donano proteine e grassi se si utilizzano solo i tuorli, anche acqua se si utilizzano le uova intere Altri ingredienti, tipo vegetali ricchi di amido o formaggi stagionati
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In sostanza gli gnocchi sono fatti principalmente da amido. Quando li facciamo bollire, i granuli di amido assorbono l’acqua e si rigonfiano fino al punto di scoppiare o gelatinizzare. Più acqua assorbono più bassa è la temperatura di gelatinizzazione. Il gel è contenuto all’interno delle cellule e se le pareti si rompono, ad esempio per-
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ché schiacciamo le patate, questo viene fuori e forma un blob appiccicosa e poco gradevole da masticare. COS’È L’AMIDO? L’amido è un polisaccaride sintetizzato dalle piante attraverso la fotosintesi e depositato in piccoli granuli microscopici circondati da una parete formata da pectina (la stessa sostanza che usiamo per addensare la marmellata). È formato da lunghe catene di glucosio che possono essere di due tipologie: l’amilopectina e l’amilosio. L’amilopectina ha una catena ramificata che agisce principalmente come addensante, mentre l’amilosio ha una catena lineare che forma il gel. L’amilopectina, data la sua struttura, si aggrega in zone disordinate (amorfe), mentre l’amilosio si organizza in zone ordinate (cristalline). La misura, la forma, il rapporto tra amilosio e amilopectina e la qualità dell’amido variano da specie a specie vegetale.
Specie
T di gelatinizzazione (°C)
Amilosio (%)
Amilopectina (%)
Max densità
Stabilità alla cottura
Aspetto
Sapore
Grano
52-85
26
74
+
Buona
Opaco
Forte
Mais
62-80
28
72
++
Moderata
Opaco
Forte
Patata
58-65
21
79
+++++
Scarsa
Chiaro
Moderato
Tapioca
52-65
17
83
+++
Scarsa
Chiaro
Neutro
Fecola di maranta
60-86
+++
Buona
Chiaro
Neutro
I tuberi e le radici hanno un contenuto più alto di amilopectina rispetto ai cereali e ai grani. L’alta concentrazione di questa sostanza è responsabile della texture appiccicosa. Possiamo immaginare la struttura molecolare di un granulo di amido come quella di un tronco che tagliato trasversalmente ha tanti anelli concentrici. L’amilopectina forma una sorta di “lattice” che tiene insieme i granuli di amido nella forma di anelli, mentre l’amilosio si trova negli spazi tra gli anelli.
Se riscaldiamo troppo la miscela di acqua e amido, le pareti cellulari si dissolvono, l’amilopectina viene rilasciata e forma una massa troppo elastica. Questo disgregamento può avvenire anche per sollecitazioni meccaniche, ed è per questo non bisogna mai utilizzare il frullatore ad immersione per ottenere un buon purè di patate. Dopo la gelatinizzazione e la gelificazione, quando la temperatura si abbassa, l’amido subisce un processo di retrogradazione caratterizzato dalla recristallizzazione dell’amilosio e, molto più lentamente, dell’amilopectina. Quindi per ottenere una buona purea di patate dobbiamo avere sotto controllo le tre fasi: gelatinizzazione, retrogradazione e dissolvimento della parete del granulo di amido. Per preparare lo gnocco perfetto cuociamo le patate a 65°C per il tempo necessario alla gelatinizzazione dell’amido, raffreddiamo il gel per fissarne la struttura e poi scaldiamo ulteriormente ad una temperatura più alta di 85°C per distruggere la parete cellulare di pectina e quindi eliminare eventuali “grumi”. Senza l’amilosio, che imprigiona il liquido circostante, non si rischia di preparare gnocchi di gomma da masticare.
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Le molecole di amido in acqua fredda assorbono poca acqua, ma se la temperatura aumenta, c’è energia sufficiente per distruggere le zone cristalline, che così possono assorbire una grande quantità di acqua e gonfiarsi. In un certo intervallo di temperatura, che varia a seconda del tipo di amido, le molecole perdono il loro stato ordinato e assorbono acqua; questo è l’intervallo di gelatinizzazione. Quando il fenomeno della gelatinizzazione avviene, la sospensione di granuli d’amido in acqua, da opaca diventa traslucida. I granuli perdono la loro struttura e rilasciano l’amilosio e l’amilopectina che assorbono l’acqua circostante e il gel raggiunge la sua massima densità, poiché le lunghe catene di amilosio si interconnettono e imprigionano le molecole di acqua in un reticolo (gelificazione). Se continuiamo a riscaldare e me-
scolare, nel gel si creano più legami tra le catene di amilosio, ma la rete formatasi diventa sempre più fitta e la miscela meno viscosa.
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LA TERMODINAMICA DEGLI GNOCCHI Mia mamma preparava gli gnocchi con la fossetta, perché aveva imparato così da mia nonna. Oggi lo fanno in pochi: sovente, ci ritroviamo gnocchi belli grossi, quasi rotondi, o al più rigati, in modo da catturare più sugo. La foggia giusta da dare allo gnocco invece, è una pura e semplice questione di cottura. La forma sferica in cucina, con qualche eccezione, non funziona. La sfera è l’oggetto con più volume a parità di superficie, giusto? Prendiamo uno gnocco tondo, liscio o rigato che sia. Immerso in acqua bollente, e dovendo cuocere solo pochi istanti, si trova subito in grande difficoltà: la parte esterna si bagna immediatamente, assorbe l’acqua e cuoce, mentre il centro è molto “lontano” dall’acqua che bolle. Prendiamo invece uno gnocco incavato: essendo schiacciato la sua superficie, a parità di volume che aveva prima di essere schiacciato, è molto maggiore. In particolare, la distanza tra superficie e centro è molto più piccola rispetto a quella dello gnocco ciccione. Lo gnocco scavato, immerso in acqua, va quasi subito in equilibrio termico con il bollore a 100 °C, cuoce molto più in fretta, ma soprattutto in modo molto più uniforme. Insomma, è più buono. In più, raccoglie anche più sugo, ma questo è un dettaglio, perché il sugo lo potete sempre raccogliere voi con la forchetta o il cucchiaio. Del resto, per tantissime ricette si prediligono le forme sottili, dalle crêpes alle focacce, alle piadine alle torte salate. Cosa si cucina a forma di palla? poche cose, e non è per niente un caso.
UNO GNOCCO PER OGNI REGIONE PIEMONTE VALLE D’AOSTA
Gnocchi alla bava: il nome non è invitante, lo so. Tuttavia vi sfido chia storcere il naso di fronte a un piatto in cui una miscela di farina bianca e di grano saraceno trasformata in gnocchi viene condita con fontina o toma piemontese, che diventano filanti con il calore.
PIEMONTE
I Dunderet, detti anche strangoiapreve, sono un impasto di farina, uova e latte: lavorato in un grilet, una terrina, si prende a cucchiaiate e si getta nell’acqua bollente. La forma è allungata e irregolare. In passato erano il piatto della domenica. Famose anche le ravioles della Valvaraita: nonostante il nome, si tratta di gnocchi di patate e tomini, bolliti e serviti con burro e formaggio grattugiato.
LOMBARDIA
Si parte con gli gnoc de la cua, letteralmente gnocchi della coda: un impasto di spinaci o erbette, pane raffermo, uova e talvolta una piccola quantità di patate bollite. Modellati con il cucchiaio e cotti in acqua bollente, vengono conditi con formaggio Silter grattugiato. Si prosegue con i malfatti, fratelli di sangue dei precedenti: all’impasto di spinaci, uova e pane grattugiato si aggiunge anche del formaggio grattato. I puristi suggeriscono di farli riposare una notte prima della cottura. Vengono tradizionalmente conditi con burro e Parmigiano a pioggia.
Spinaci e farina cedono il testimone al pane negli gnocchi de ‘pa: il pane raffermo va am-
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A Lario si preparano invece gli gnocchi alla lariana. L’impasto prevede farina, uova, latte e aromi. Dopo aver amalgamato tutto, la pasta finisce a cucchiaiate in acqua bollente. Una volta saliti a galla, si condiscono con formaggio fresco (gli originali vogliono la robiola), salsa di pomodoro o ragù.
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mollato in acqua o latte. Si aggiunge un po’ di farina prima di formarli con il cucchiaio. Non ci dimentichiamo poi dei pizzoccheri della Val Chiavenna (da non confondere con i cugini di Teglio in Valtellina): mollica di pane e uova o farina e latte più un condimento di Casera. Nel mantovano, gloria locale di origine contadina sono i capunsei: piccoli e dalla forma affusolata, si preparano con pane raffermo grattugiato, formaggio grana, noce moscata, uno spicchio di aglio schiacciato, un po’ di burro fuso e uova. Cotti in brodo bollente, vengono serviti asciutti, con vari condimenti: burro e salvia, pomodoro, salamella mantovana ben rosolata o con le erbe. Finito? Neanche per sogno. Continuiamo la carrellata con gli gnocarei. Si preparano sia con gli avanzi di polenta impastati con farina e uova, che vengono tagliati e cotti in brodo, sia con una miscela di farina gialla e farina di grano saraceno, impastata con acqua e latte da cuocere al cucchiaio.
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Se amate le castagne, potete assaggiare gli gnòc de schelt. Se non abitate in Val Camonica e non capite il dialetto, non importa: vi basti sapere che si preparano con farina di castagne, bianca e di grano saraceno.
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E dato che in Val Camonica pare che la sappiano lunga, provate anche gli gnòc de rìh. Sono gnocchi di riso: cotto in brodo, impastato con uova,
farina, pangrattato e formaggio, viene modellato a pallina. Terminiamo la lista con gli gnocchi di zucca, burro e parmigiano.
degli spätzle: ottenuti da uno strumento simile ad una grattugia posto direttamente sulla pentola dove bolle l’acqua. Gli gnocchetti cadono e cuociono in pochi minuti.
TRENTINO ALTO ADIGE
FRIULI-VENEZIA GIULIA
L’elenco inizia con i canederli, Italianizzazione degli Knodel di origine austro-tedesca, una presenza costante in ogni rifugio di montagna che si rispetti. Sfere goduriose di pane raffermo, uova, latte, cipolla, prezzemolo e erba cipollina, possono essere arricchiti anche da speck e formaggio. In genere sono serviti in brodo di carne, ma il burro fuso e il formaggio grattugiato vincono sul brodo. Fanno da accompagnamento, come “contorno” al gulasch. Esiste anche una versione dolce: i marillenknödel (canederli d’albicocche) o e gli zwetschgenknödel (di prugne). L’impasto racchiude un’albicocca o una prugna. Una volta lessato viene fatto rotolare nel pane grattugiato abbrustolito assieme a burro, zucchero e cannella, finché lo zucchero non caramella. Piccoli, irregolari e di solito tagliati a mano: il mondo tedesco ci regala anche gli spätzle. Il loro impasto può essere realizzato con farina di frumento o integrale, acqua, uova e con aggiunta di spinaci, erbette e ricotta. In quest’ultima versione sono accompagnati di solito con speck, formaggio fuso o panna. Sono serviti sia come primo che come contorno. I knöpfle sono una variante
A Trieste va forte il semolino: gli gnocchetti de gries friulani, che prevedono un impasto di semolino e uovo, si servono in brodo o con il burro fuso. Ma vista l’influenza austroungarica trovate anche gli gnochi de pan: asciutti, accompagnano gulasch o il sugo d’arrosto. Non solo a Trieste, ma in tutta la regione si cucinano poi gli gnocchi de susini fatti con un impasto di patate che avvolge mezza susina (o una prugna secca). Non è un dessert ma un primo.
VENETO
Se nella zona delle Dolomiti potete abbuffarvi di canederli e formaggio di malga, nel veronese gli gnocchi tornano ad essere serviti nella versione originale. Le patate si sposano con la pastissada, lo spezzatino di cavallo tipico della città. Lo gnocco ha anche una maschera tipica nel periodo del Carnevale: si chiama Papà del Gnoco, una specie di Babbo Natale vestito di broccato nocciola e mantello, con una tuba rossa con dei sonagli attaccati. Come scettro ha una grande forchetta dorata, su cui è infilzato uno gnocco. Mentre tutti sono impegnati a rendere omaggio alla maschera durante la sfilata in città, voi approfittatene per prendere un posto in prima fila in uno
dei banchetti che li servono bollenti. Se passate per Recoaro, mentre tutti vanno alle terme, voi cercate una trattoria che prepari gli gnochi con la fioreta: una ricotta semiliquida impastata con farina. Gli gnocchi vengono cotti in acqua e poi serviti con burro fuso e formaggio stravecchio grattugiato.
EMILIA ROMAGNA
Piatto che pare essere originario dell’epoca Medievale sono i pisarei e faśö. Sono gnocchetti di farina e pangrattato, arrotolati a formare dei lunghi cilindri, tagliati a tocchetti delle dimensioni di un fagiolo e infine schiacciati col pollice, e leggermente avvolti su se stessi. Il sugo? Una cosa leggerina: fagioli, lardo, cipolla e pomodoro. Solo i contadini riescono mangiarli senza avere le allucinazioni. Più leggeri i malfatti di Borgotaro, preparati con ricotta ed erbette (o spinaci).
LIGURIA
Per andare in Toscana facciamo il giro largo passando per Liguria, dove troviamo ancora i malfatti.
TOSCANA
MARCHE
Farina di mais anche nelle Marche per gli gnocchi di Apecchio, impastati con farina bianca e acqua.
UMBRIA
La leggerezza è di casa anche negli gnocchetti alla collescipolana: farina e pangrattato sono impastati e tagliati a tocchetti: il sugo rivaleggia con quello dei pisarei e faśö: salsiccia sbriciolata, pomodoro e fagioli.
LAZIO
Il semolino, umile farina adatta a bimbi e anziani, diventa un capolavoro sotto forma di gnocchi alla romana. Medaglioni dorati conditi con burro, Parmigiano e salvia, con la crosticina fuori e l’interno morbido. Di origine contadina sono invece gli gnocchi de lu contadinu, della Sabina, preparati con farina e acqua salata. Nell’amatriciano si preparano poi gli gnocchi ricci (farina, uova e acqua calda). Schiacciati tra pollice e indice assumono una tipica arricciatura. Si condiscono con sugo di spezzatino di castrato di pecora e pecorino.
CAMPANIA
Forse gli gnocchi più imitati al mondo: accompagnati da un suono di fanfare, in un tripudio di pomodori e mozzarella, con il forno che se potesse non li farebbe uscire, gli gnocchi alla sorrentina. Sanno di Italia, di pizza e mandolino, di tovaglie a quadretti nei ristoranti italiani all’estero. Farebbero commuovere perfino il più irriducibile padano espatriato nella grigia Inghilterra.
PUGLIA
Triddhi in dialetto leccese o pizzua in barese. Pezzettini irregolari di impasto fatto con uova, semola di grano duro e prezzemolo cotti in brodo. Si mangiano a Natale e Pasqua. Non sono proprio gnocchi, somigliano più ai passatelli romagnoli.
SICILIA
Se non fosse per il mare, sembrerebbe di stare in Trentino. Ecco le ganeffe, che sono in sostanza delle pallottoline di riso. Modo intelligente di riciclare gli avanzi del riso che vengono amalgamati con burro, tuorlo d’uovo, grana e zafferano. La cottura è doppia: prima sono infarinate e fritte, poi servite in brodo.
SARDEGNA
Terra dei malloreddus: un ibrido tra gnocco e pasta. Panciuti e a forma di conchiglia, si preparano impastando semola e acqua. Il condimento prevede salsiccia sarda, pomodoro, zafferano e tutto il pecorino che riuscite a procurarvi. BBQ4All Magazine
Vanto della Toscana in particolare della zona di Siena e di Grosseto sono gli gnudi: il nome rimanda al fatto che non hanno nulla che ne ricopra il ripieno, fatto di ricotta e spinaci. Di origine contadina, la ricetta viene tramandata di famiglia in famiglia. È raro trovarli in vendita, quindi fatevi invitare da un grossetano doc.
Nelle zone dei castagneti, le patate vengono mescolate alle castagne. Pure in Toscana si usa la farina di mais (insieme alla farina di frumento) per preparare gli gnocchi del cicolano e i matuffi, che in realtà sono un modo di servire la polenta a forma di gnocco, alternata a strati di sugo di carne o di funghi e Parmigiano.
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GLI GNOCCHI DI PATATE "PERFETTI" Vediamo adesso come possiamo applicare ciò che abbiamo imparato pocanzi sugli amidi per ottenere degli gnocchi perfetti. #01. Per prima cosa cuociamo le patate per 2 ore sottovuoto in un bagno termostatico a 65°C, perché in questa fase vogliamo idratare e gelatinizzare l’amido. #02. Raffreddiamo le patate in acqua e ghiaccio in modo da fare avvenire il processo di retrogradazione, che permette di isolare l’amido impedendo la fuoriuscita dell’amilosio. #03. Preriscaldiamo il forno a 175°C, buchiamo le patate con un coltello per creare un foro di ventilazione e ripassiamole per un’ora in forno in un letto di sale grosso, in modo da “cuocere” la pectina, che è la parte più dura delle cellule delle patate
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#04. Tagliamo le patate a metà e facciamo uscire il vapore. Passiamole nello schiaccia patate senza pelarle, la buccia rimarrà intrappolata all’interno dell’arnese e non ci scotteremo le dita.
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#05. Per 500 g di patate aggiungiamo un tuorlo e amalgamiamolo con le patate; le proteine dell’uovo danno struttura alla massa. Aggiungiamo 100 g di farina e impastiamo gentilmente. Le proteine della farina, gliadina e glutenina, assorbono parte dell’acqua dell’impasto e formano il glutine. Useremo una farina “debole” cioè con un basso contenuto di glutine e in quantità strettamente necessaria per ottenere un impasto morbido, setoso e asciutto; inoltre l’impasto deve essere
lavorato poco altrimenti il glutine prende forza e gli gnocchi diventano gommosi. #06. La cottura avviene in acqua calda per alcuni minuti. È comune pensare che gli gnocchi sono cotti quando vengono a galla, ma questo non è del tutto corretto. Gli gnocchi vengono a galla perché man mano che la temperatura dell’acqua aumenta si forma del vapore che si fissa sulla superficie ruvida degli gnocchi. Se prendiamo uno gnocco che è venuto a galla e lo facciamo scorrere su una spianatoia per eliminare le bollicine e poi lo immergiamo di nuovo, affonderà e ritornerà a galla solo quando la sua superficie si sarà caricata di nuovo di bollicine di vapore. La cottura effettiva è identificabile con la coagulazione delle proteine dell’uovo e con la completa gelatinizzazione dell’amido della farina. Entrambi i fenomeni avvengono a temperature superiori ai 70°C, quindi lo gnocco sarà cotto quando la sua parte interna raggiunge questa temperatura. È chiaro che uno gnocco di mezzo centimetro raggiungerà la temperatura interna desiderata molto prima di uno gnocco di 10 cm, che potrebbe galleggiare grazie alle bollicine di vapore senza però aver completato la coagulazione delle proteine dell’uovo e la gelatinizzazione. La reazione chimica che si compie quando gli gnocchi salgono a galla è dovuta alle sostanze di cui sono fatti, cioè la farina e le patate. Entrambe le componenti sono costituite da amidi, ovvero lunghe catene composte da molecole di glucosio, uno zucchero semplice.
Le catene possono essere lineari o ramificate. Quando sono lineari si chiamano “amilosio”, quando sono ramificate si chiamano “amilopectina”. Le proprietà dei legami influenzano le caratteristiche delle sostanze e le catene non hanno tutte la stessa lunghezza; queste qualità dipendono , come già detto, dal vegetale di provenienza. Se cerchiamo di sciogliere un pizzico di farina in un bicchiere d'acqua fredda, noteremo che non si riesce, perché gli amidi sono insolubili in acqua: si può vedere la farina girare nell’acqua e poi depositarsi sul fondo. Non appena si mettono gli gnocchi in acqua, infatti, questi precipitano sul fondo, perché il loro peso specifico è superiore a quello dell’acqua. Dopo poco, però, avviene una reazione. Infatti, se utilizziamo acqua calda (sopra 60°C), le catene degli amidi, sotto l'azione del calore, assorbono acqua e si srotolano, fino a legarsi le une con le altre, formando la trama di un tessuto che ha conferito all’impasto una struttura solida e soffice, catturando fra le sue maglie le molecole d'acqua. Così gli gnocchi aumentano di volume e diventano più leggeri, poiché si è formato un gel di amidi (le temperature del calore dipendono ancora una volta dal tipo di amido usato). Così cominciano ad affiorare, segnale che sono cotti. Attenzione però a toglierli subito dall’acqua bollente, perché le molecole di acqua tendono ad evaporare e gli gnocchi tornano pesanti e affondano. LO SAPEVATE CHE… Gli amidi non si sciolgono in acqua fredda, ma lo fanno invece in bocca perché la saliva, oltre all'acqua, contiene la ptialina in grado di rompere i legami delle catene, fino a liberare le molecole di zucchero.
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LA COTTURA IN MICROONDE Avete mai provato a usare il microonde per cuocere le patate? Nella ricetta classica degli gnocchi le patate vengono bollite, schiacciate e poi unite alla farina. Per ottenere gnocchi morbidi si deve far incorporare poca polvere e quindi, per rendere l’impasto lavorabile, è necessario usare la minor quantità di acqua possibile nella cottura delle patate. Se si utilizza una pentola a pressione si può usare una quantità ridotta di acqua, ma utilizzando un forno a microonde, non se ne usa proprio, e gli gnocchi vengono morbidissimi. Le microonde mettono in agitazione termica le molecole di acqua contenute naturalmente nella patata e, quindi, non c’è bisogno di acqua aggiuntiva per cuocere l’amido. Cuocetele con la buccia, al massimo della potenza per 10-15 minuti, rigorosamente coperte.
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LA RICETTA SCIENTIFICA INGREDIENTI BASE
Per gli gnocchi: 1 kg di patate rosse o a pasta bianca / 200 g di farina debole / 50 g di fecola di patate Facoltativi: 36 g di tuorlo d’uovo (2) / noce moscata / 50 g di Parmigiano Reggiano DOP Variante fusion: aggiungete all’impasto 3 cucchiaini di tè verde matcha
INGREDIENTI PER GNOCCHI ALLA SORRENTINA
(Dose per 4-6 persone) 1 kg di gnocchi di patate / 1 kg di pomodori pelati tipo San Marzano o di passata già pronta / 300 g di fiordilatte / 60 g di formaggio grattugiato (caciottina canestrata o Parmigiano Reggiano) / 2 spicchi d’aglio / basilico fresco q.b. / olio extravergine di oliva
PROCEDIMENTO
Avete due strade per cuocere le patate: Quella più lunga, che avviene in 4 fasi: 1. Cuocere le patate per 2 ore sottovuoto in un bagno termostatico a 65°C 2. Abbatterle immergendo il sacchetto in acqua e ghiaccio 3. Preriscaldare il forno a 175°C, bucare le patate con un coltello per creare un foro di ventilazione e ripassarle per un’ora in forno su un letto di sale grosso 4. Tagliare le patate a metà, far fuoriuscire il vapore e passarle nello schiaccia patate senza pelarle Quella più breve, cuocendole alla massima potenza, con la buccia, per 10-15 minuti e schiacciandole come sopra.
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Una volta ottenuta la purea di patate, spolverate leggermente il piano di lavoro con una piccola parte della farina setacciata con la fecola che avete in dose e versate le patate schiacciate ancora calde (con il calore gli amidi reagiscono al meglio). Cominciate ad impastare aggiungendo gradualmente il mix di polveri fino ad ottenere un panetto omogeneo, morbido ma asciutto.
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N.b. Ogni impasto è una storia a sé, potrebbe non essere necessaria tutta la dose di farina, e va lavorato poco. Formate un cilindro e dividete in più parti con la raschietta, ricavate dei salamini di 1,5cm di diametro e tagliate a tocchetti piuttosto piccoli (1,5 cm circa) . Se vi piacciono gli gnocchi rigati, recuperate l’attrezzino apposito o una forchetta, appoggiate ogni tocchetto, schiacciate al centro in modo da ricavare una fossetta e strisciate esercitando una leggera pressione. Disponete gli gnocchi su un vassoio infarinato per evitare che si incollino formando un tutt’uno con il cartone. Preparate il più classico dei sughi con due spicchi d’aglio ed i pomodori San Marzano, in barattolo data la stagione, ripassati nel passaverdura. Aggiustate di sale e portate a cottura, la salsa deve essere abbastanza densa. Nel frattempo cuocete gli gnocchi in abbondante acqua salata per 2-3 minuti circa (potreste misurare la temperatura al cuore di uno gnocco, che dovrebbe essere intorno ai 75°C - 85°C) assaggiate per assicurarvi che siano cotti, e scolateli con delicatezza. Il fatto che vengano a galla non vuol dire nulla, lo abbiamo imparato. Lasciate quindi raffreddare per qualche minuto. Recuperate i tegamini di terracotta e condite a parte gli gnocchi con il sugo di pomodoro e le foglie di basilico strappate con le mani. Versate gli gnocchi conditi e aggiungete il fior di latte scolato e tagliato a cubetti, e una generosa spolverata di formaggio grattugiato. Fate gratinare in forno a 200°C fino a formare una crosticina piuttosto spessa e preparatevi a godere. Perché “c'è un clima affettuoso, antico, cordiale: si parla da tavolo a tavolo, degli gnocchi e di tutto, si ride come bambini, perché la vita a volte è bella, se mamma (o papà) ha fatto gli gnocchi.”
Gianfranco Lo Cascio
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gnocchi al tè verde matcha
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Lo stress rende la gente stupida
Seguo.
a cura di Emiliano Nencioni
Su una strada piuttosto trafficata avevo messo la freccia a destra, allargandomi preventivamente verso sinistra per poter entrare nell’ingresso un po’ stretto della corte interna che porta a casa mia: una manovra che spesso confonde gli altri automobilisti un po’ distratti che mi seguono, disorientati dallo spostamento del mio veicolo verso l’interno della carreggiata e complice la moda attuale di rendere la luce delle frecce molto più simile a una lucciola in una sera di maggio che a un importante segnale visivo. Conscio di questo, ogni sera mi soffermo, metto la freccia con largo anticipo, guardo nel retrovisore cercando il contatto visivo con il guidatore che mi tallona, assumo preventivamente un’espressione giudicante e minacciosa, e solo dopo essermi assicurato della comprensione del gesto procedo alla svolta in tutta sicurezza...
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Quella sera però c’erano tutti i prodromi della catastrofe: l’auto che mi segue, un modello che di solito associo a persone sbruffoncelle e di scarso gusto (giudizio completamente infondato ma che riporto per completezza), è guidata da un tizio con una geometria facciale che non mi piace, con le sopracciglia che mi irritano e un taglio di capelli che mi indispone, fatalmente distratto nel raccontare qualcosa di coinvolgente alla passeggera parimenti agghindata. Non ha capito la mia intenzione di svolta a destra, è palese: invece di sfilarsi via sulla sinistra, tenta di ficcarsi tra il mio mezzo e il marciapiede, speronandomi inevitabilmente. Blocco il mezzo, colpetto di clacson: il guidatore fisiognomicamente inaccettabile si rinviene dal suo stato di castelli in aria, si spaventa, inchioda e invia ad offendermi. Non volendo mai tirarmi indietro di fronte ad una buona polemica, per quanto inutile, abbassando un cristallo prorompo in un signorile: - “Pensi anche di avere ragione? Ho la freccia.” Qui comincia una rapidissima escalation di terrore. -“Non hai la frecc… L’hai messa adesso!” -“Bugiardo!”
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Bugiardo? Son risposte da dare in mezzo alla strada (ricordo, molto trafficata)? Il guidatore, con le sopracciglia ormai deformate dal furore, gesticola e urla.Avrei voluto solo spiegare che la freccia era presente da tempo, che ero conscio della possibilità di fraintendere il gesto, che avevo giustappunto segnalato in largo anticipo, e che tenevo soltanto all’incolumità dei veicoli coinvolti. Ma il traffico, la fretta, le urla mi impedivano di spiegarmi, portando ai massimi livelli la mia frustrazione. -“Scendi un attimo che ti spiego meglio” In un attimo la mia circuitazione fuggi o combatti si è settata totalmente su combatti, ho sentito le pulsazioni salire, il fiato corto, tutti i muscoli tendersi e ogni singola strategia di quando facevo kumite (alle elementari!) tornarmi alla mente. Ero pronto allo scontro. Il guidatore dalla frenologia svantaggiata è andato via sgommando, infastidito a sua volta a li-
velli inaccettabili dalla passeggera berciante alla sua destra. Ho avuto bisogno di diversi minuti per smaltire l’aggressività. Quello, ve lo assicuro, non ero io. Sono abituato a risolvere le controversie, per lo più, con un sarcasmo tossico, con un ragionamento inferenziale seccante, o semplicemente annoiando a morte l’interlocutore con una serie interminabile di obiezioni, sofismi e, mi dicono, una dose inaffrontabile di ostatività. Ma pure voi, dai! In quanti, in media, sono abituati a fare risse, a combattere, a riportare pace e ordine tramite l’uso della forza? Quanti lettori sono cresciuti nella più rigida Educazione Siberiana? Eppure succede, nella vita “di ciccia” così come nei social media e nel loro complessissimo tessuto di relazioni metasociali. Basta niente, basta un commento scemo su quanto il vino scelto non sia comparabile alla complessità della portata fotografata, una citazione di qualche filosofo tedesco non riconosciuta e tragicamente fraintesa, o banalmente qualche raccomandazione sanitaria di troppo, ed ecco che scatta la rissa. Inutile, immotivata, ma travolgente e spesso deleteria per ogni futuro rapporto sociale o di lavoro tra le persone in questione. A questo si aggiunga una maestosa brutta figura presso gli astanti.
Febbraio 2022
Si tratta di un vero e proprio sequestro emozionale. Non l’ho inventato io, si dice così.
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E non è colpa di nessuno, siamo fatti così, siamo programmati così. C’è una struttura nel nostro cervello, poco più grande di una mandorla, responsabile dei più grandi disastri emotivi della storia dell’uomo. Pensata originariamente per asservire ad uno scopo utilissimo e vitale, l’amigdala ci regala giornalmente ansia, panico, reazioni irrazionali e una robusta quantità di pentimenti.
Polpettina di nuclei nervosi situata nella parte più interna dei lobi temporali del cervello, questa struttura ha un ruolo altamente specializzato: memorizza i ricordi associati ad eventi emotivi ed elabora le reazioni istintuali più basilari; nell’amigdala si fissano i ricordi legati al dolore, agli shock traumatici, ed è chiamata a valutare il da farsi in caso di situazioni di emergenza, legate alla sopravvivenza, alle aggressioni e ad altre decisioni non strettamente legate a possibili traumi. La fregatura sta proprio nella velocità: vuoi la rapidità per una reazione che possa salvarti la vita? Devi rinunciare alla razionalità. Non possiamo tirare in ballo l’etica, la ragione, l’eleganza del gesto se devi togliere la mano da una fiamma. É l’amigdala a innescare i bivi decisionali combatti o fuggi, alzando il battito cardiaco e il ritmo della respirazione, esattamente come dicevo all’inizio dell’articolo. Le stesse reazioni fisiologiche che ohimè si avvertono quando l’amigdala si incasina, si confonde con traumi precedenti e scatena immotivati attacchi di panico. Questa insensata rapidità (leggi: rapidità senza ponderata razionalità) ci porta al cuore del nostro discorso: dovremmo smettere di intraprendere battaglie contro le amigdale altrui. Nel “Fight or Flee” online non avviene niente di troppo diverso da quello che succedeva durante lo stato ferino dell’uomo. Reazioni rapide legate a traumi del passato o alla sensazione di essere minacciati in pubblico (non nell’incolumità ma probabilmente nell’onore o in quello che percepiamo dover essere la rappresentazione di noi presso gli altri), dove la razionalità e il raziocinio vengono fisiologicamente e incolpevolmente bypassati.
Un po’ come quando si litiga per sciocchezze con un parente o una persona cara, e in una spirale di ferocia si tirano in ballo amicizie, abitudini, quella volta che hai fatto tardi, i difetti di pronuncia, l’igiene personale, fino ad arrivare a rotture tremende e dichiarazioni scioccanti; salvo poi ritrovarsi a pensare “ma chi me l’ha fatto fare”, e cercare modi più o meno efficaci di scusarsi e far passare tutto in cavalleria. Non ha senso accapigliarsi con una persona che non è temporaneamente in grado di ragionare: il sequestro emotivo è proprio questo, una parentesi di follia autoconservativa e decisamente non lungimirante, dove sia il corpo sia anni e anni di
BBQ4All Magazine
Dovremmo cercare di ricordare che non ha molto senso mettersi a battibeccare con le reazioni istintive di una persona spaventata. Difficile non
cedere alla tentazione di mettersi sullo stesso piano e urlare, reagire scompostamente, rendersi ridicoli e detestabili.
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relazioni sociali e affettive sono messe sotto scacco e governate da una piccola struttura nervosa inizialmente deputata a ruoli molto più terra terra per quanto essenziali. Guai a cercare di far ragionare, guai a tentare di relazionarsi: sicuramente mai, ma proprio mai, mettersi a fare la guerra di commenti con un tizio completamente dirottato dalla sua amigdala. Avete presente quando dopo un commento cattivo sotto un insulto inaccettabile vi siete messi a ricaricare le notifiche in continuazione, per vedere quante volte l’avversario osasse controbattere? Avete notato quanto il diverbio si faccia sempre più paradossale, meno sensato, più surreale, fino alla totale coprolalìa o all’emergere di argomentazioni da seconda elementare (sei brutto / sei scemo / la tua mamma fa questo o quello)? Ecco, in quei momenti state lottando contro le reazioni fisiologiche di una persona chimicamente in difficoltà. Ha lo stesso senso strategico di dire: - “Non avere mal di pancia!” - “Piantala con quegli attacchi di panico, sei ridicolo!” - “Dovresti smettere di essere triste!” Non lo direste mai, vero? Perché sarebbe una cosa cretina. Vero?
Febbraio 2022
Oh, non fate scherzi. Facciamo finta che non l’abbiate mai fatto.
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Ora, lungi da me il voler cadere nel tormentone di “bisogna saper disinnescare”, dico solo che una strategia attendista, rimandando di una mezzoretta buona la tenzone dialettica e la catena dei commenti, potrebbe portare a dei risultati ben diversi, ritrovandosi a dialogare non con una persona col cervello in Modalità Provvisoria, ma con qualcuno di quantomeno - si spera - raziocinante.
Oltre a questo, il più delle volte non conosciamo la persona in oggetto, e non abbiamo idea della giornata che può aver passato. Può essere una persona non in grado di esprimersi bene, e - lo ammetto - per quanto io mi innervosisca nel veder maltrattata la lingua italiana, c’è chi può non aver avuto la possibilità di migliorarsi. O chi più di quello non può dare. Può essere una persona che ha avuto una giornata orribile, o un anno orribile. Può essere una persona con qualche temporaneo problema di gestione delle bevande a propria disposizione. Lo sappiamo, è diventato cool “blastare la gente”: rispondere in maniera ficcante e tranchant, umiliando il bulletto o il complottista o l’idiotino di turno. Bene. E se facessimo marcia indietro? Ho sempre consigliato (con poco seguito, ma pazienza) di rispondere “Smetti.” ai personaggini seccanti, o petulanti, o eccessivamente verbosi: e se a questo aggiungessimo qualche frase conciliante? -“Sei brutto ti odio e il tuo brisket ha un pessimo bark” -“Buona giornata. Non temere, probabilmente domani andrà meglio.” o anche: -“Sei disgustoso e il tuo modo di cuocere la bistecca non è abbastanza virile e per questo ed altri motivi ti odio e parlo male di te in varie chat segrete” -“Ti auguro più serenità. E non preoccuparti, non sei solo come sembra: attorno a te c’è qualcuno pronto ad ascoltarti.” Scommetto che avrebbe un effetto dirompente. Chi ha il coraggio di provare?
Emiliano Nencioni
CLUB
Direttam e n t e dalla commu n i ty d i ma e s t r i di barbecue pi ù grande d’Itali a, nas ce i l pres ti gi o s o club ch e t i offre la po s s i bi li tà di avere: acc e s s o p r io r ita r io a l m ega s to re, dove p ot ra i fa re ra zzi e mentre tutti gli altri “ s o no i n coda” ; u na p rogra m ma z i o n e int elligent e dei tuoi acquis t i gra zi e a l cre d i to me ns i le prepagato (s cegli tu quanto ); u n coac h pr ivato che t i guiderà n e l fa r t i vi ve re l’e s peri enza
pi ù ecci tante di s empre
co n la p re paraz i o ne dei tuoi pi atti ; e molto a lt ro a nco ra. . . Av ra i tu tto qu es to s o lo s e t i i s cr i vi s u bito al M EG ASTORE CLUB , l’uni co luogo ri s ervato a una ce rc h ia r is t re tta d i a s p i ra n t i gr i ll ma s t e r c he des i derano apprendere pi ù velocemente e nel modo p i ù accurato po s s i bi le, la s u bli me arte del gri ll . Pu oi d i s i s cri verti quando vuoi e i l tu o c re d i to s a rà s empre dis po nibile.
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H T T PS : / / C LU B M E G ASTO R E . B BQ 4 A L L. I T e ch i e d i i n fo rmaz i o ni pi ù dettagli ate, p r i ma ch e i coach fi ni s cano e le i s cri z i o ni chi udano .
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LA PAROLA AI NOSTRI STUDENTI
Adriano Bergamini
L’unico dubbio che ho avuto è stato sul costo del corso: si è dissipato in meno di un secondo quando ho letto dell'imperdibile offerta lancio! Dopo le prime cinque lezioni, ho già potuto godermi gli approfondimenti scientifici su argomenti fino ad ora letti in modo sbrigativo. Ho apprezzato veramente tutto ciò che ho visto e imparato. Nella Masterclass i concetti vengono spiegati in maniera meticolosa e capillare. Sono certo mi servirà in futuro il confronto coi coach attraverso i commenti sotto ai video. Consiglierei la Masterclass a tutti, perché noi italiani di cotture barbecue NON sappiamo proprio nulla!
Francesco D’Effremo
Visita: masterclass.bbq4all.it
L’unico dubbio che mi frenava dall’acquistare la Masterlcass è stato di tipo economico ma, grazie al consiglio dei coach, ho messo da parte tutte le remore che avevo e ho pensato che questa fosse un’occasione da cogliere al volo, coronando e completando tutto il percorso che ho fatto insieme a BBQ4All, cominciato nel 2019. Le prime lezioni mi stanno già aiutando a riordinare tutte le informazioni che avevo in testa e che, tuttavia, erano un po’ confuse.cI coach spiegano tutto in maniera molto meticolosa e rendono i concetti chiari e concisi. Il clima generale è molto rilassato ma molto coinolgente.
Sergio Stefanizzi
Avevo due dubbi: economico, ma ero sicuro che il percorso valesse tutti i soldi spesi e da ciò che ho visto fino ad ora è proprio così! Poi i contenuti ma, nonostante avessi già studiato molto, ho trovato molte nuove informazioni. Le prime lezioni sono teoriche e dettagliate, quindi, non vedo l’ora di passare alla parte più pratica. Non ho ancora interagito con i coach sotto i video ma ho visto altri utenti che lo hanno fatto, un plus che aiuta a togliere il più piccolo dubbio. Perchè raccomanderei questa Masterclass? Ddubito che ci sia qualcosa in giro che possa essere paragonato a questo percorso!
Emanuele Turchi
Non ho avuto nessun dubbio nell’acquistare la Masterclass perché da tempo volevo frequentare uno dei corsi BBQ4All, ma l’incompatibilità con gli impegni di lavoro me lo aveva sempre impedito, fino ad ora. Il beneficio principale che ho già riscontrato dopo la visione delle prime lezioni è quello di poterne usufruire su più piattaforme, differenziando in base alle esigenze. Tutte le parti si sono rivelate ben strutturate, di qualità ed essenziali per un approccio fondamentale anche per chi è alle prime armi. Ritengo la Masterclass un prodotto professionale di gran livello, pensato per tutti.
Giuseppe Ricci
Registrazione presso il Tribunale di Terni n°774
Ero in dubbio se acquistare la Masterclass perché temevo una ripetizione: grazie al Magazine ho già imparato tantissime cose; poi però ho voluto acquistarla ugualmente perché tutti i prodotti dello Zio e di BBQ4All sono sempre molto curati. Mi piace molto la chiarezza nell’esposizione dei coach: l’approccio a tutti i dispositivi di cottura è chiaro ed esaustivo. Non ho ancora interagito coi coach attraverso i commenti sotto ai video, però la ritengo una cosa utile, che può far la differenza rispetto ad altri corsi simili. Se vuoi avere la risposta a tutte le tue domande sul bbq la Masterclass è ciò di cui hai bisogno!