ALMANACCO 2020 VOLUME I
Direttore Editoriale Rossella Neiadin
Redattore Capo Michela Bongiorni
Redazione
Enio Berton Virgilio Brunetti Tommaso Buccafurri Nunzia Clemente Roberto Dal Bosco Tommaso Di Gregorio Salvatore Di Mento Luca Gallozza Mariangela Ibba Gianfranco Lo Cascio Riccardo Meniconi Giovanni Minelli Emiliano Nencioni Stefania Pompele Andrea Spaggiari Alessandro Trezzi Carlo Trono Alberto Zonghetti
Realizzazione Grafica
Impaginazione Carlo Trono Illustrazioni di Eleonora Castagna e Ozzy Bellesi Fotografie di Rossella Neiadin, Tommaso Buccafurri, Luca Gallozza, Elisa Giuli, Emiliano Nencioni
I
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IN DI
L’Editoriale di Gianfranco Lo Cascio Carne sostenibile: l'hamburger vegetale non toglie i peccati del mondo
3
vol. I
Perché ho smesso di trimmare il Brisket
95
vol. I
La Santa Inquisizione del ragù
185
vol. I
Tapas, una cena sotto copertura
285
vol. I
Ho un attacco di pane: merende adolescenziali
392
vol. I
La bistecca scientifica: i falsi miti della cottura sottovuoto
490
vol. I
La bistecca scientifica: Revit e Sous Vide a confronto
4
vol.II
Prima regola del GLC Club: mai bucare le salsicce
105
vol.II
A Beethoven e Sinatra preferisco l’insalata
200
vol.II
Una ricetta perfetta per l’autunno: la Shepherd’s Pie migliore del mondo
299
vol.II
A scuola di Tacos - parte 1
403
vol.II
A scuola di Tacos - parte 2
498
vol.II
Formaggi affumicati: dalla A alla... Provola
22
vol.I
Tempura: l'arte di friggere
124
vol.I
Sushi fatto in casa
128
vol.I
Ramen
135
vol.I
Jiaozi: i ravioli della fortuna
222
vol.I
Noodles
226
vol.I
Maialino sardo
302
vol.I
Asado de tira
317
vol.I
Beer Can Chicken (Il pollo sull'anfora di cervogia)
330
vol.I
Lo spiedo
462
vol.I
Fiorentina perfetta
514
vol.I
Tacchino ripieno nel barbecue
18
vol.II
Ribs: bbq vs. forno
423
vol.II
Porchetta perfetta al forno
441
vol.II
Pulled pork: bbq vs. forno
514
vol.II
Olive “briskolane”
37
vol.I
Wagyu e polenta
44
vol.I
Polpettine di Wagyu
146
vol.I
Involtini primavera
218
vol.I
Black Label Chicken Wings
234
vol.I
Crispy Fried Chicken Wings
236
vol.I
Nuggets di pollo (con pane panko)
238
vol.I
Gnocco fritto
502
vol.I
Cheese&Bacon roll
128
vol.II
Pica pollo
135
vol.II
Tecniche
Ricette
I - BBQ4All Magazine
Antipasti
Cocktail di gamberi
229
vol.II
Crostino al salmone in due versioni
233
vol.II
Insalata di razza e finocchi
326
vol.II
Insalata di polpo e patate
329
vol.II
Caldarroste al rhum e speck
429
vol.II
Uova ripiene
522
vol.II
Fonduta
542
vol.II
Ravioli affumicati con ricotta e cheddar al whiskey
26
vol.I
Ramen
140
vol.I
Gyudon: beef bowl
142
vol.I
Spaghetti saltati con verdure
212
vol.I
Ossobuco affumicato con risotto giallo
507
vol.I
Fregula con le vongole
511
vol.I
La genovese
522
vol.I
Gumbo
33
vol.II
Riso pilaf con sugo di lepre e riccio di mare
236
vol.II
Tortello fritto panna e prosciutto
241
vol.II
Crespelle ai funghi
252
vol.II
Sugo di moscardini
330
vol.II
Cous-cous al pesto di basilico
332
vol.II
Lasagne al pesce spada
334
vol.II
Paella di Mazara
336
vol.II
Zuppa di cipolle grigliate
433
vol.II
Pasta e ceci
524
vol.II
Pasta e fagioli
526
vol.II
Gyoza al pulled pork alla piastra
519
vol.II
Gulash: la zuppa del griller
40
vol.I
Falsomagro
42
vol.I
Involtini di spada, melanzane e provola affumicata
48
vol.I
Pollo marinato con verdure
213
vol.I
Pancia di maiale brasata
229
vol.I
Il galletto al bbq
242
vol.I
Churrasco di Picanha (con arroz blanco)
314
vol.I
Flank in flip&brush
322
vol.I
Abbacchio a scottadito
529
vol.I
Cotoletta alla milanese
532
vol.I
Saltimbocca alla romana
535
vol.I
Fegato alla veneziana
537
vol.I
Burgoo
37
vol.II
Memphis style pork ribs
39
vol.II
Kitoza con riso al cocco e salsa satay
137
vol.II
Primi piatti
II - Almanacco 2020
Secondi Piatti
Boku-boku
139
vol.II
Tarna’ara’a
141
vol.II
Feijoada
145
vol.II
Tataki di tonno
150
vol.II
Tonno vitellato
244
vol.II
Tagliata rucola e grana perfetta
247
vol.II
Scaloppine al limone
256
vol.II
Non filetto al pepe verde
259
vol.II
Parmigiana di spada
340
vol.II
Polpette e involtini di cavallo catanesi
344
vol.II
Cotoletta alla palermitana
354
vol.II
Filetto di maiale con castagne
435
vol.II
Filetto di maiale con fichi e menta
438
vol.II
Salsicce e purè
528
vol.II
Polenta, funghi e salsicce
530
vol.II
Cima a modo nostro
534
vol.II
Cappone ripieno affumicato
539
vol.II
Carciofi arrostiti
336
vol.I
Patate arrosto
338
vol.I
Melanzane alla parmigiana
504
vol.I
Cobb salad
26
vol.II
Pomodori verdi fritti
43
vol.II
Caponata di pesce spada
342
vol.II
Insalata di rinforzo
536
vol.II
Denver Steak Club Sandwich
34
vol.I
Hamburger di Wagyu con cavolo cinese e maionese al rafano
144
vol.I
Panino con il lampredotto e trippa alla fiorentina
424
vol.I
Pane e panelle
429
vol.I
Panino con la porchetta
432
vol.I
Philly Cheesesteak
436
vol.I
Lamb kebab
438
vol.I
Burrito
442
vol.I
Le Croque-Monsieur
445
vol.I
Po’Boy
448
vol.I
Pan di Ramerino
557
vol.I
Chimichanga
45
vol.II
Sloppy Joe
50
vol.II
Juicy Lucy
55
vol.II
French Dip
59
vol.II
Chiko roll
131
vol.II
Pata Asada
146
vol.II
Verdure e contorni
III - BBQ4All Magazine
Panini
Pani ca Meusa
350
vol.II
Panino Salsiccia, robiola e porri fritti
462
vol.II
Maionese al rafano
144
vol.I
Bagnèt verd
341
vol.I
Chutney di mango
344
vol.I
Salsa verde
424
vol.I
Salsa agrodolce
435
vol.I
Chimichurri
444
vol.I
Maionese al lime
449
vol.I
Salsa piccante ai peperoni in ember
449
vol.I
Salsa mop
42
vol.II
Salsa Satay
138
vol.II
La panna acida
246
vol.II
La salsa bbq #zerosbatti
281
vol.II
Salame al cioccolato
50
vol.I
Chiacchiere
152
vol.I
Castagnole
154
vol.I
Sas origliettas
156
vol.I
Frati e bomboloni
159
vol.I
Cheesecake
246
vol.I
Torta senza i bischeri
346
vol.I
Crostatina alle nocciole e Grand Marnier
452
vol.I
TiramisĂš
540
vol.I
Pancake
69
vol.II
Gelo di mellone
152
vol.II
Profiterole
264
vol.II
Iris alla ricotta con scaglie di cioccolato
358
vol.II
Mont Blanc
448
vol.II
Il panino perfetto da sandwich
30
vol.I
Pane al vapore
214
vol.I
Pizza in teglia alla romana
288
vol.I
Focaccia barese
408
vol.I
Piadina romagnola
414
vol.I
Focaccia genovese
496
vol.I
Deep Dish Chicago Pizza
28
vol.II
Baguette
62
vol.II
Sfincione palermitano
155
vol.II
Panino da buffet
267
vol.II
Mafalda siciliana
368
vol.II
Salse
Dolci
IV - Almanacco 2020
Lievitati
Panino da salsiccia
452
vol.II
Panettone
546
vol.II
Cheddar
544
vol.I
Monterey Jack
72
vol.II
Squacquerone
162
vol.II
Mascarpone
274
vol.II
Ricotta
376
vol.II
Robiola
458
vol.II
La stagionatura
556
vol.II
Lesa maestà: Peter Luger criticato sul NYT
10
vol.I
La cucina giapponese
100
vol.I
Paese che vai buone maniere che trovi: 10 regole nel Paese del Sol Levante
116
vol.I
Glossario dei piatti giapponesi
122
vol.I
La cucina cinese
189
vol.I
A cena in Cina: il galateo a tavola
204
vol.I
Il giro del mondo in cinque grigliate
294
vol.I
La banalità del pane
398
vol.I
La globalizzazione ai tempi di Colombo
10
vol.II
Viaggio intorno alla cucina
116
vol.II
Nostalgia canaglia: i piatti anni '80
220
vol.II
Cosa resterà di questi anni ’80
226
vol.II
Introduzione alla gastronomia siciliana
318
vol.II
l maiale nell’antichità
410
vol.II
Il comfort food
504
vol.II
Cerdo ibérico
14
vol.I
Rubia Gallega
459
vol.I
L'agnello
171
vol.II
I tagli del maiale
420
vol.II
I tagli: ribs
422
vol.II
I tagli: pulled pork
510
vol.II
Offset barbecue: tutto ciò che c'è da sapere
18
vol.I
La griglia giapponese: oltre il sushi c'è di più
112
vol.I
Il wok
209
vol.I
Barbecue a pellet: Weber SmokeFire
312
vol.II
Termometro Meater+
560
vol.II
Formaggi fatti in casa
Portfolio
Le razze e i tagli
V - BBQ4All Magazine
Dispositivi e accessori
Approfondimenti e interviste PerchĂŠ non siamo vegetariani
54
vol.I
Vegetariani e malvagi
56
vol.I
Speciale dolci di Carnevale
148
vol.I
La bistecca sintetica
260
vol.I
La grigliata per due
325
vol.I
Sono vegano!
360
vol.I
Morfologia della carne vegetale
366
vol.I
Il male vegetariano spiegato alle ragazze
455
vol.I
Allevamenti e gas serra
180
vol.II
Arancino o arancina?
362
vol.II
Chef’s table bbq - Recensione
380
vol.II
La porchetta umbra
444
vol.II
Intervista: Coach Sal di Mento
79
vol.I
Intervista: Chef Francesco Preite del Moi Omakase
105
vol.I
Intervista: Le Zhang del Bon Wei di Milano
197
vol.I
Intervista: Chef Max Mariola
419
vol.I
Introduzione
22
vol.II
L'olfatto
110
vol.II
Il gusto
212
vol.II
Il tatto
306
vol.II
Il peperoncino
60
vol.I
Le cinque spezie cinesi
250
vol.I
Il mirto
310
vol.I
Il rosmarino
550
vol.I
Guida ai Sal's Seasonings
464
vol.II
Salse cap.I
66
vol.I
Salse cap.II
162
vol.I
Salse cinesi e anatra alla pechinese
255
vol.I
Addensare una salsa-parte I
350
vol.I
Addensare una salsa-parte II
466
vol.I
Addensare una salsa-parte III
560
vol.I
Gli idrocolloidi-parte I
82
vol.II
Gli idrocolloidi delle alghe e la sferificazione
175
vol.II
Le gomme
278
vol.II
Diventare assaggiatore
Erbe e spezie
VI - Almanacco 2020
The Chemical Griller
La ricetta scientifica di Gianfranco Lo Cascio Il Club Sandwich
70
vol.I
Il katsu sando
166
vol.I
Il ragù
266
vol.I
Le croquetas de jamon
372
vol.I
Il cuban sandwich
470
vol.I
Il pesto di basilico
564
vol.I
Le braciole di maiale con patate arrosto
86
vol.II
La salsa guacamole
180
vol.II
Il ketchup
282
vol.II
Le arancine
385
vol.II
La pasta con la genovese
474
vol.II
Il cotechino con lenticchie e purè
566
vol.II
Ossessioni in griglia
86
vol.I
L’utente è deiezione
178
vol.I
Mauro esige rispetto
278
vol.I
Seguo, ma ad un metro di distanza
387
vol.I
Amigdala: la materia grigia che rende il tuo nome grigio
486
vol.I
La felicità è una cottura a fuoco lento
578
vol.I
Non fare quella faccia
96
vol.II
Tormentoni
196
vol.II
Panopticon
292
vol.II
I pedanti vetrinizzati
396
vol.II
Un bel tacer non fu mai postato
492
vol.II
Se una notte, d’inverno, un redattore
594
vol.II
Seguo
Vini abbinati pag. 583
vol.I
pag. 598
vol.II
Birre consigliate pag. 591
vol.I
pag. 603
vol.II
pag. 595
vol.I
pag. 605
vol.II
VII - BBQ4All Magazine
Cocktail
N°13/ANNO 2 - GENNAIO 2020
LA RICETTA SCIENTIFICA di GIANFRANCO LO CASCIO
IL
CLUB
SANDWICH
E LA SUA MAIONESE
il menu per dimagrire dopo le feste?
MA NON SCHERZIAMO!
gulash, falsomagro, wagyu e polenta
PER INIZIARE
come si affumicano i formaggi TEMPERATURE AL CUORE
la tabella della cottura dei cibi GUIDA AI DISPOSITIVI
off-set: il dispositivo che non conosci
MAGAZINE
002 - Almanacco 2020
“Non comprendo questa mania di prendere le piante e trasformarle in qualcosa che sa di carne. Ma scusate, le mucche non lo fanno da sempre questo mestiere? E mi sembra ci riescano meglio".
Editoriale di Gianfranco Lo Cascio
CARNE SOSTENIBILE da piccoli cambiamenti derivano
grandi cambiamenti Complice la polpetta di verdura che sembra proprio carne e il movimento che soffia dal Nord Europa per lo sviluppo sostenibile, ci sentiamo ripetere, sui social come al bar, che per trionfare nella lotta contro il cambiamento climatico dobbiamo smettere di mangiare bistecche. E se da un lato la sensibilizzazione al tema e le idee per mettere ordine al caos climatico sono cosa buona e giusta, eliminare dalla dieta le proteine animali non solo non salva il pianeta, ma porta con sé un messaggio fuorviante, per una serie di motivi. Il più lampante, se teniamo conto dei dati sulle emissioni di gas serra, è che la produzione di carne, che comprende ovviamente la coltivazione del foraggio, l’allevamento e la trasformazione, è responsabile del 15-18% delle esalazioni, così come potete verificare dalle statistiche pubblicate regolarmente dalla FAO (www.
fao.org/livestock-environment/en/). Di questa percentuale, il 65% è rappresentata dagli allevamenti di bovini, sia per la carne che per il latte. Seguono a ruota con il 9% gli allevamenti di suini, con l’8% i bufali, con l’8% polli e galline, e con il 6% altri animali da latte e carne come pecore e capre. Per la maggior parte, dato importante da considerare, le emissioni legate all’allevamento sono causate dalla produzione di mangimi e dalla loro digestione, per il 45% e il 39% rispettivamente. Non si può pensare di risolvere il problema gettando la bistecca dalla finestra e ignorare l’elefante nella stanza, ovvero il settore dei trasporti e dell’energia, responsabili del restante 65-70% delle emissioni. E a dirlo non è uno che con la carne ci lavora, come il sottoscritto, ma il Professor Michael E. Mann, climatologo e professore universitario della Penn State University e uno
degli autori del Climate Change Report dell’IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change), lo studio che fa il punto sui cambiamenti climatici in corso meglio di qualunque altra pubblicazione. Citando il curioso provvedimento della multinazionale americana WeWork (immobiliare specializzata nel co-working) di bandire la carne tra i propri dipendenti, Mann sottolinea quanto sia oggettivamente folle pensare di alleviare il problema dell’inquinamento in questo modo. WeWork, o per meglio dire il suo co-fondatore e CCO Miguel McKelvey, non solo ha obbligato i propri dipendenti ad accettare la disposizione e mangiare le verdure, scelta che appare più ideologica che ecosostenibile, ma ha anche dichiarato che il cambio di menù è molto più utile e determinante che guidare un’auto ibrida. Lascio a voi le dovute considerazioni.
003 - BBQ4All Magazine
l ' h a m b urg er ve g eta le n o n to glie i p e ccati del mo n do
“I carburanti fossili vengono puntualmente lasciati fuori dalla discussione. Accettando implicitamente l'idea che le soluzioni al problema clima siano misure volontarie", spiega Mann all' NBC News: “È davvero frustrante per me sentirli predicare di mangiare meno carne". Secondo il professor Mann, che recentemente ha scritto "The Madhouse Effect", libro illustrato dal Premio Pulitzer Tom Toles contro il negazionismo dei climatologi, è molto più importante ridurre la nostra dipendenza dai combustibili fossili piuttosto che diventare vegetariani, soprattutto se ci si concentra solo sull’eliminazione di carne e salumi senza invece spazzare via quei cibi che hanno lo stesso impatto sull'ambiente, ad esempio uova e formaggi, che presumono un allevamento a monte proprio come i prodotti a base di carne. "È incredibilmente irresponsabile affermare che le auto ibride non rappresentino un passo importante nella lotta contro gli emettitori di carbonio. Altrettanto scriteriato è consigliare agli individui di non mangiare più carne, aggiungo, trascurando i danni che questo può causare alla salute, soprattutto in alcune fasce di età. Tutto questo facendo credere che la lotta al cambiamento climatico possa essere esente da precise scelte politiche ed economiche. Un messaggio deleterio anche perché chi lo promuove: probabilmente non conosce affatto il settore agricolo e zootecnico e quindi non sa che esistono in realtà modi ecologici e responsabili per produrre carne. Se le aziende agricole di tutto il mondo adottassero i giusti provvedimenti, la percentuale di carbonio emessa "dall'azienda agricola alla toilette" potrebbe essere ridotta dal 18% al solo 10%".
ENERGIA ELETTRICA E RISCALDAMENTO
25%
EDILIZIA
6,4%
ALTRE FONTI
ALLEVAMENTO
ENERGETICHE
15-18%
9,6%
AGRICOLTURA
E USO DEL SUOLO
24%
14% 004 - Almanacco 2020
TRASPORTI
INDUSTRIA
21%
PRODUZIONI
VEGETALI
6-9%
Non abbastanza, se si vuole salvare l’umanità bisogna pensare al restante 82%, causato dalla produzione di elettricità e calore, dalla combustione di carbone, gas naturali o petrolio, dall’industria, dai trasporti, dal consumo di combustibili fossili per uso residenziale e commerciale. Far passare la scelta vegetale come più sostenibile sul piano ambientale, ma dimenticarsi del contributo del settore zootecnico nella conservazione di paesaggi, territori, tradizioni e culture, è uno dei messaggi più superficiali, imprecisi e irresponsabili del nostro tempo, che sembra aver fatto breccia, però, nell'immaginario comune. È quindi piacevole e rassicurante vedere come anche gli scienziati che si occupano seriamente della difesa del clima prendano finalmente una posizione contro questa ossessione anti-carne insensata del mondo occidentale. La carne è sempre stata parte della nostra dieta, sin dalla comparsa dell’uomo sul pianeta Terra. L’Homo habilis era un cacciatore, mangiava carne oltre a vegetali e frutti che crescevano qua e là spontaneamente. Con l’evoluzione, il progressivo abbandono della caccia e della raccolta di bacche ed erbe a favore delle pratiche agricole ha gettato le basi per la nascita dell’agricoltura. Con questa metamorfosi l’uomo ha modificato sia il suo stile di vita, trasformandosi da nomade a stanziale, sia le sua dieta e il suo rapporto con l’ambiente circostante . Ha iniziato a coltivare e contem-
Ed è andata così fino al XX° secolo. In Italia, è solo a partire dagli anni ’60 (con il boom economico) che il consumo di carne aumenta e diventa il
simbolo della liberazione da miseria e stenti. Con l’aumento della popolazione e del consumo alimentare si dà inizio ad una intenzionale diversificazione della produzione della carne: l’industria alimentare si struttura per far fronte all’aumento della domanda, l’efficienza produttiva diventa la parola d’ordine in tutte le aziende agricole. Dagli anni ’80 a questa parte il consumo di carne si è stabilizzato, la sicurezza alimentare è diventata la base della produzione e i consumatori sono sempre più attenti alla qualità del prodotto finito, esternando una certa sensibilità su tematiche come benessere animale e impatto ambientale degli allevamenti, sia nazionali che internazionali. Il consumo attuale di carne su scala mondiale deve essere analizzato e valutato tenendo conto sia di fattori globali che di dati relativi alle diverse abitudini alimentari nei vari Paesi. La popolazione mondiale attuale conta 7,5 miliardi di individui, nel 1960 contava 3 miliardi di persone, nel 2050 saremo oltre 9 miliardi. Più siamo, più aumenta la domanda di cibo ed in particolare di proteine animali, che si aggirerà attorno ad un 60% in più. Nell’analiz-
005 - BBQ4All Magazine
poraneamente ad allevare alcune specie di animali, selezionati e curati per rendere meno faticoso il lavoro nei campi e per le caratteristiche intrinseche delle carni, della lana e del cuoio. L’alimentazione diventa sempre più varia, un mix di cereali, frutta, verdura carne e pesce. Con il trascorrere dei secoli, prima con le influenze romano-barbariche e poi con il Medioevo, si rafforza l’idea che la carne sia un alimento essenziale per un’alimentazione corretta. Le proteine animali sono da sempre un cibo prezioso, bramato, ed il consumo era parecchio variabile a seconda del periodo storico e dell’estrazione sociale. Fino al XIII° secolo l’attività agro-silvo-pastorale consente lo sviluppo di una dieta diversificata e rende la carne un bene accessibile a tutte le fasce economiche della popolazione. Successivamente, si assiste alla formazione di un divario consistente tra la tavola opulenta e variegata dei nobili e quella più frugale dei poveri, che potevano permettersi lo spezzatino solo durante i giorni di festa. È per questo che le ricette di campagna rimangono legate alle materie prime meno costose come i cereali, i legumi, le verdure, profondamente votate all’utilizzo e la trasformazione di tutte le parti commestibili dell’animale, dalle orecchie alla coda, contro ogni forma di spreco.
zare l’attuale consumo di carne non dobbiamo soffermarci però sul valore assoluto, ma dobbiamo riflettere sull’estrema differenza tra il consumo medio pro capite nelle diverse regioni del mondo, con numeri che vanno da circa 120 kg annui in Nord America a meno di 40 kg in alcune zone dell’Africa e dell’Asia. L’esigenza del mondo moderno è quella di garantire cibo a tutti, un cibo sostenibile sia dal punto di vista economico che qualitativo. È inevitabile quindi affrontare l’argomento “allevamenti intensivi”, oggetto di contesa nel dibattito sulla sostenibilità della produzione zootecnica.
Far passare la scelta vegetale come più sostenibile sul piano ambientale, ma dimenticarsi del contributo del settore zootecnico nella conservazione di paesaggi, territori, tradizioni
006 - Almanacco 2020
e culture, è uno dei messaggi più superficiali, imprecisi e irresponsabili del nostro tempo...
Ma partiamo dalla definizione: che cos’è l’allevamento intensivo? Comunemente, per allevamento intensivo si intende l’accrescimento di un numero molto elevato di capi di bestiame in uno spazio vitale ridotto. Questo tipo di approccio è in realtà superato e richiede un aggiornamento. L’intensità di un allevamento, infatti, può essere definita analizzando il rapporto tra il costo diretto della manodopera e i costi totali, la cosiddetta “intensità del capitale”. Quanto è più basso questo rapporto, con una bassa incidenza del costo
del lavoro rispetto al totale, tanto più l’azienda può essere considerata intensiva, cioè ad alta intensità di capitale. Contrariamente, quando il costo del lavoro diventa un fattore primario, ci troviamo di fronte ad un allevamento estensivo, solitamente portato avanti da piccole imprese a conduzione familiare. Questa analisi è quindi incoerente con la tipica equazione “molti animali che crescono in piccoli spazi equivalgono ad un’agricoltura intensiva”. Ci sono allevamenti bovini con migliaia di capi che hanno a disposizione spazi enormi,
PROIEZIONE SULLA PRODUZIONE MONDIALE DI CARNE AL 2050 Proiezioni sulla produzione globale di carne, come pubblicato dall'Organizzazione delle Nazioni Unite per l'alimentazione e l'agricoltura (FAO) sulla base delle proiezioni future della popolazione e degli impatti attesi delle tendenze di crescita economica regionali e nazionali sul consumo di carne. I dati del 1961-2013 si basano su stime della FAO pubblicate; dal 2013 al 2050 in base alle proiezioni della FAO.
500 milioni
Uova Ovini
400 milioni Bovini
300 milioni Suini
200 milioni
100 milioni
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pensiamo ad esempio alle fattorie sconfinate in Australia e Irlanda, e aziende a conduzione familiare che allevano pochissimi animali in ambienti molto ristretti. Il giudizio sulla qualità del prodotto finale non dovrebbe basarsi dunque sul concetto di “intensivo” o “estensivo”, ma sulle caratteristiche oggettive delle tecniche di accrescimento. È più appropriato fare una distinzione tra allevamenti buoni ed allevamenti cattivi. Nel caso degli allevamenti intensivi, cioè ad alta intensità di capitale, gli allevatori hanno una maggiore disponibilità di risorse, anche economiche, che possono essere destinate al mi-
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glioramento e accrescimento del benessere animale. Per valorizzare al meglio il proprio prodotto, e i nostri allevatori di wagyu giapponese sono maestri in questo, è fondamentale preservare l’equilibrio psico-fisico dei capi, garantire quindi condizioni di vita adeguate, riducendo al minimo lo stress e garantendo un prodotto finale buono e soprattutto sicuro. Una carne di qualità superiore, che ha quindi un costo più elevato della media, è il prodotto nella maggior parte dei casi di allevamenti economicamente intensivi, gestiti da allevatori lungimiranti capaci di investire in sicurezza e qualità alimentare, in sviluppo tecno-
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2050
logico e rispetto della vita animale e dell’ambiente. In questo gioco anche il consumatore riveste un ruolo importantissimo: se la scelta della carne è determinata dalla ricerca spasmodica del risparmio, è molto difficile garantire una produzione più etica, pulita e onesta nei confronti di chi alleva. La sfida che il settore della carne deve vincere oggi è quella di offrire un prodotto sostenibile, frutto di una lavorazione efficiente, attenta all’ambiente, al benessere degli animali, degli allevatori e di tutti i protagonisti della filiera.
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1961
Pollame
SULL’HAMBURGER DI CARNE FINTA Poco tempo fa scrivevo su Facebook: “Non comprendo questa mania di prendere le piante e trasformarle in qualcosa che sa di carne. Ma scusate, le mucche non lo fanno da sempre questo mestiere? E mi sembra ci riescano meglio.” Al di là della natura ilare del post e dei commenti più o meno costruttivi, il concetto in sé esprime una grande criticità di fondo, ed è questa: è molto più semplice e redditizio inoculare miliardi di investimenti per creare un’alternativa aderente alla psicologia del consumatore piuttosto che investirli in soluzioni reali. Gli allevamenti alla base della grande distribuzione non sono più sostenibili ed è necessario riportare il consumo di carne a livelli estremamente più bassi di quelli attuali. Per riportare l’allevamento ad uno standard qualitativo accettabile è necessario rimodulare il concetto di carne come bene di lusso e non più come ingrediente giornaliero della nostra dieta. Il punto cruciale è che una corretta educazione dei consumatori affiancata da una forte presa di posizione e coscienza potrebbe, nel giro di un paio di decenni, riportare equilibri significativi nel sistema.
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Ma l’evidenza ci mostra che non è così. Il consumatore non vuole essere informato. Il consumatore preferisce essere assecondato nelle sue manie insostenibili che gli “ricordano” sapori e profumi a cui è abituato. Questo per dirvi che fare cultura è uno sport tremendo, che richiede tempo soprattutto persone con un’intelligenza tale da comprendere che è dai piccoli cambiamenti che arrivano i cambiamenti grandi. È un pianeta in prestito, il nostro. E non esistono iniziative di massa all’orizzonte in grado di salvarlo. Quindi il problema non è l’hamburger vegetale, che per certi versi può anche essere intrigante. Il problema è l’incomprensione di fondo, poiché l’unica soluzione consiste in una profonda riclassificazione del concetto di allevamento e consumo di carne. E purtroppo non credo avverrà nel breve termine. Ritengo che qualunque iniziativa in grado di perorare la causa sia assolutamente da perseguire. Resta che la vera svolta sta nello sforzo di sensibilizzare le persone verso una più profonda conoscenza del problema. Al netto dei palliativi, è fondamentale comprendere che le risorse del nostro pianeta non sono infinite, anzi. Sdoganare le coltivazioni scellerate in grado di supportare lo squilibrio dovuto dalla mancanza di proteine, generato dalla chiusura dei peggiori allevamenti, porterà ad altre derive da gestire. L'unica arma per fregare il sistema è studiare. Solo allora saremo in grado di fare delle scelte, che non avranno la forma di un hamburger di verdura che sembra carne.
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Portfolio Gastronomico a cura di ANDREA SPIAGGIARI
L E S A M A E S TÀ
Un criti c o d e l N ew Yo r k Ti m e s s t r o n c a l a s t o r i ca steakh o u s e Pe t e r L u g e r e c r e a u n ’ o n d a l u n g a di comme n t i c h e a r r i va f i n o a l ve c c h i o c o n t i n e n t e. Cosa s i p u ò ve r a m e n t e i m p a r a r e , i n q u a l i t à d i c l i e n ti , da q u e s t a r e c e n s i o n e ?
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Ha fatto scalpore un pezzo uscito qualche settimana fa sul New York Times ad opera di uno dei suoi critici gastronomici di lunga data, Pete Wells. L’oggetto della recensione è la famosa steakhouse Peter Luger, maison fondata 132 anni fa a Brooklin da emigrati tedeschi e diventata da tempo uno dei ristoranti più conosciuti e frequentati della Grande Mela. Il giornalista, nel corso di un lungo articolo dai toni un po’ nostalgici, attacca descrivendo svariati aspetti che lo han-
no deluso negli ultimi tempi: la lunga coda all’ingresso, lo staff sottodimensionato e dai modi algidi, l’organizzazione discutibile sia del bar che del ristorante. Fa capire, già dai primi passaggi, che questo locale è da sempre risultato un po’ “spigoloso” per alcuni aspetti. Piccoli difetti che venivano però dimenticati non appena ci si trovava al cospetto dell’agognato cibo. Ma qualcosa, o meglio tutto, sembra essere cambiato. Il critico snocciola argomentazioni oggettive per soste-
nere il verdetto finale che si delinea riga dopo riga: cita hamburger cotti approssimativamente, Porterhouse dal controfiletto maltrattato, patatine pallide e insipide. Perfino la sogliola e la Caesar Salad non passano l’esame. L’autore precisa a malincuore che non sa bene quando il dubbio che questa steakhouse non fosse più all’altezza della sua reputazione ha cominciato ad insinuarsi, ma non ha incertezze nel concludere che non resta più motivo di consigliare questo locale. A nessuno.
prospettiva e, soprattutto, rileggendo una seconda volta la recensione, viene il dubbio che poche cose siano effettivamente cambiate nel corso del tempo. Il giornalista lo dice apertamente e sottolinea diversi aspetti che, anzi, sono rimasti una costante, partendo anedotticamente dal pessimo cocktail di gamberetti e dalla poco invitante salsa utilizzata per accompagnare le bistec-
che. Non nega nemmeno che il conto sia sempre stato salato, e i metodi di pagamento poco al passo coi tempi. Poi viene la materia prima, la carne. Si direbbe che la bistecca servita con un’invitante crosta solo su un lato non sia davvero più accettabile e esistano molti ristoranti che riescano a fare – e questo non sorprende – mirabolan-
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Come è facile da immaginare, questa critica ha avuto una lunga coda di polemiche online e ha anche meritato molti commenti sulla carta stampata. Fermo restando che, a parere di chi scrive, è impossibile costruirsi un’opinione senza un’esperienza diretta, ma si possono fare alcune considerazioni sull’origine di questa stroncatura. Cercando di mettere le cose nella giusta
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ti Maillard su entrambi i lati. Non solo: la carne servita da Peter Luger, seppur tenera e marezzata, manca di quel sapore che le migliori proposte sul mercato riescono invece a offrire. Persino la frollatura pare inefficace, perlomeno confrontando i risultati che non solo altre steakhouse, ma addirittura normali ristoranti riescono a servire. Il verdetto è che la bistecca che si mangia in questo storico locale di Brooklyn è solo una delle tante che si possono trovare in giro per NY, con buona pace di tradizione e reputazione. Viene il dubbio che il problema vero, allora, non sia un peggioramento della qualità in sé, bensì un mancato miglioramento. Sono cambiati gli standard e si è alzato il livello generale, ridefinendo di conseguenza la soglia anche per accedere all’eccellenza. Materie prime di prima qualità non sono più merce rara, così come i processi di affinamento non sono più un’esclusiva peculiarità di avanguardisti
sperimentatori. E se l’asticella si sposta verso l’alto grazie a una democratizzazione delle tecniche di preparazione e di cottura, consentendo anche a ristoranti normali di offrire risultati una volta appannaggio dei soli specialisti, il vantaggio competitivo costruito nel tempo da alcuni attori della ristorazione rischia di assottigliarsi fino a scomparire. Che il giornalista stronchi a malincuore un locale, al quale è per sua stessa ammissione affezionato, deve fare perlomeno riflettere. Non fermatevi ai soli commenti spuntati come funghi sulla pagina di Tripadvisor dedicata alla steakhouse: ovviamente in tanti sono d’accordo con l’articolo e altrettanti dissentono categoricamente con il giudizio espresso dal critico. Se ne esce solo con un gran mal di testa e più dubbi di prima. Cercate piuttosto l’articolo che, solo due giorni dopo, la stessa penna ha pubblicato per spiegare cosa lo spinge a pubblicare una recensione negativa. In risposta alle accuse di lesa maestà, il giornalista spiega che, pur non facendolo a cuor leggero, sente il dovere di mettere in al-
Questa è l’essenza del messaggio da cogliere e il valore aggiunto che un professionista può offrire rispetto ai social media. Non si tratta di difendere una categoria,
beninteso, ma di spingervi ad usare a vostro favore una fonte di informazione non più molto in voga ma non per questo meno attendibile. Si può condividere oppure no il giudizio finale espresso su questo o quel ristorante, ma il monito che sarebbe un peccato ignorare è quello di non fermarsi alla fama storica, o alla sola frequentazione, di un locale.
Perché i tempi cambiano e con essi le vostre esigenze in quanto clienti, che lo vogliate o no. Siamo tutti più educati a riconoscere la qualità, cerchiamo la soddisfazione a tutto tondo e meritiamo di essere avvertiti quando, inconsapevolmente, siamo vittime di confirmation bias. E non preoccupiamoci troppo per Peter Luger. La pubblicità che ha ricevuto da questa recensione molto negativa supera di gran lunga quella che avrebbe ricevuto da una senza infamia e senza lode. L’importante, come recita un vecchio adagio, è che se ne parli.
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lerta il suo pubblico quando, traduzione testuale, i lettori corrono il rischio di sprecare i loro soldi sulla base di una reputazione acquisita.
Guida alle razze a cura di ROBERTO DAL BOSCO
Ce r d o i b ér i co
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i l suo nome è l e ggenda
Ne avete sentito parlare per il prosciutto, quello che arriva a 250 euro al chilogrammo: cioè verso i 2000 euro a pezzo. Il nome del suo affettato – pata negra, zampa nera in italiano – in realtà non vuol dire nulla di preciso, in quanto non tutti i capi iberici hanno l’unghia nera e al contempo l’unghia nera è una feature esclusiva di questa razza. Tuttavia questo suino è leggenda. Considerabile in tranquillità tra le razze migliori del
globo terracqueo, il suino nero iberico gode di meritatissima fama, al punto tale che è possibile trovare cittadini italiani – pazzesco! – disposti ad ammettere che il prosciutto fatto in Spagna (Estremadura, Castiglia La Mancia, Salamanca, Toledo, Andalusia occidentale) e senza scordare quello fatto in Portogallo (Algarve e Alentejo) è migliore di quello che si produce in Emilia o in Friuli. Sento già gli improperi: non lo diciamo noi, lo ammet-
tono alcuni nostri connazionali coraggiosi. Prendetevela con loro. Il Cerdo ibérico (cerdo vuol dire maiale in spagnuolo) rappresenta, con l’asiatica e la celtica, una delle tre razze originarie da cui discendono oggi tutti i suini del pianeta. La specificità del maiale iberico è la penetrazione nelle sue carni dell’acido oleico contenuto nelle ghiande (bellotas) che rappresentano una larga porzione di ciò che mangia
Come sempre, tentiamo di dare un ragguaglio storico. Innanzitutto, sappiatelo: nessuno sa se il maiale discenda da un cinghiale addomesticato o anche solo da un maiale selvatico addomesticato. Sappiamo che le prime testimonianze sul maiale addomesticato risalgono all’Anatolia di 9000 anni fa. Dopo le migrazioni in vari continenti (Oceania compresa!), nel 1500 a.C. arriva in Europa. I primi suini europei sono di colore scuro. I romani consumavano soprattutto carne di maiale, ma è nel medioevo che l’allevamento viene spinto sino a lasciare gli animali liberi di pascolare, campanella al collo, in giro per le antiche città: la funzione, se non lo sospettate, è proprio quella di netturbino. I maiali mangiavano la spazzatura. Il Re di Francia Luigi VI il Grosso (1081–1137) emanò un editto per porre fine alla libertà suina: suo figlio era stato sbalzato da cavallo da uno di questi maiali errabondi. In campagna la macellazione di fine autunno del maiale era già una pratica che serviva per accumulare i salumi che sarebbero poi serviti a nutrirsi nel freddo inverno. Attorno al 1400, anche le città vennero conquistate dalla carne di maiale: ecco che compaiono i charcutiers (dal francese chair, carne, e cuire, cucire), parola che oggi si traduce in salumieri. Era loro
proibito di vendere la carne fresca, per cui la loro attività era, oltre alla macellazione, anche quella di cuocere le parti dell’animale. Nel 1600 il maiale europeo, che è scuro, si incrocia con l’asiatico: ecco che appare sulla scena il colore rosa, cioè quello con cui istintivamente identifichiamo oggi il suino. Le dimensioni, grazie alla miscela genetica, aumentano. Gli allevamenti subiscono un’impennata in produttività quando nel 1800 vengono introdotte le patate. Nel Novecento le razze antiche sono praticamente sparite, sostituite da una specie che cresce due o tre volte più velocemente. Fortunatamente, in qualche regione d’Europa alcuni allevatori hanno tenuto in vita le razze antiche. Dopo la sanguinosa Guerra Civile che segnò la Spagna a fine anni Trenta fu intrapreso, specialmente nelle regioni sudoccidentali, uno sforzo di rimboschimento. Si decise per un sistema che arrivava direttamente dal Medioevo, la dehesa, parola non facilmente traducibile: il significato che ne danno gli spagnoli è più o meno quello di bosco umanizzato. In pratica, terreni boschivi non coltivabili, dove l’uomo però introduce querce e quindi quelle dolci ghiande che diventano il pasto del maiale iberico. Così, durante i mesi caldi, il quadrupede non ha granché da mangiare; ma da ottobre in poi arriva la montanera – il momento in cui le bellotas cascano al suolo. Ecco che il suino fa esattamente quel che si dice per modo di dire: mangia come un maiale. E accumula per l’estate seguente tanto, pregiatissimo grasso. Ricco, come scrivevamo più sopra, di quell’acido oleico di cui sono piene le ghiande. L’acido oleico è la medesima sostanza che trovate nei frutti degli ulivi, è per questo che gli spagnoli amano definire i maiali iberici olive con le zampe. La quantità di bellotas consumate quotidianamente varia a seconda del peso del cerdo, ma ci aggiriamo intorno ai 6-10 kg al giorno, più un 3 kg d’erba e erba aromatica (timo e rosmarino). Quindi, sfatiamo per sempre questo mito disdicevole: il pata negra non si nutre di solo ghiande, perché non ve ne sono né in primavera, né in estate, né nei primi mesi d’autunno. Pensate: in estate, in mancanza di bellotas e in generale di nutrimento, arriva a pesare solo 100 kg: se pensate che il maschio arriva a 280 chilogrammi, la femmina a 180 e la carcassa pesa dai 150 ai 200, capite di che delta di peso stiamo parlando. Praticamente, siamo a livelli di carestia. Alla fine della montanera, quando i muscoli sono impregnati di acido oleico e quindi prima che possa cominciare il dimagrimento, il maiale iberico è sacrificato. La produzione del prosciutto inizia subito dopo la macellazione, quando gli arti posteriori sono messi in una cella frigorifera molto umida per 6-7 ore e portati a 6°C. La salatura dura 6-10 giorni, al termine dei quali la copertura di sale viene lavata via con acqua tiepida. Poi per uno o due mesi le zampe vengono messi in una terza cella frigorifera affinché il sale entri uniformemente nelle carni. L’essiccazione avviene in essiccatoi ad aria naturale per 6-9 mesi. Qui, oltre alla disidratazione del prosciutto, avvengono altre reazioni: gli zuccheri si concentrano, i grassi si ossidano e si sciolgo-
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nei mesi freddi. L’acido oleico rende la carne del maiale nero iberico succosa e tenera. Il grasso, in particolare, è davvero saporito.
016 - Almanacco 2020 foto di Rossella Neiadin
Il taglio del Pata Negra prevede 5 parti: la punta, dove c’è il grasso e il sapore; la maza (il fiocco), grassa e fondente, vi sono avvertibili le note dolci e l’aroma di nocciola; il centro, più asciutto e stagionato della maza ma dove ancora si sentono le note di noce; la babilla (cosciotto) parte magra circondata da grasso saporito; l’alta maza (stinco), magra e piena di fibre, è la zona più fresca. Il Regno di Spagna ha recentemente legiferato (2014) per mettere ordine in questo mondo di prelibatezze sofisticate. Le autorità di Madrid affrontarono così la cosiddetta Burbuja del jamón, la bolla del prosciutto verificatasi negli ultimi anni, data l’enorme richiesta di prodotti iberici. Sebbene sia stata approvata una legge più lassista che ha permesso l’ingresso nel mercato iberico di suino bianco, la domanda non è stata soddisfatta. Almeno il 30% dei prodotti etichettati come iberic; in realtà non lo erano. Ora può definirsi Pata Negra Bellota solo l’animale di pura razza iberica allevato in libertà con frutta in estate e bellotas in inverno. È rarissimo: rappresenta lo 0,5% dei prosciutti spagnoli. Nel 2014, anno della legge, la produzione era di 64.325. Si distingue da tutti gli altri per l’etichetta rigorosamente nera. Il prosciutto iberico Bellota deriva da un animale che ha tre quarti di sangue di razza pura. Libertà di pascolo e nutrizione come il Pata Negra Bellota. Nel 2014 se ne sono confezionati 735.276 pezzi. Etichetta rossa. Il prosciutto iberico Cebo de Campo deve sempre avere il 75% di sangue puro e aver vissuto in libertà, tuttavia può non essere alimentato con ghiande. Dato 2014: appena 26.940 prosciutti. Colore dell’etichetta: verde.
Il prosciutto iberico Cebo è solo per metà di razza pura. Cresce nelle stalle, con cereali e vegetali dispensategli dall’allevatore. Cinque anni fa se ne sono venduti 4.207.151. Etichetta: bianca. Ma non di solo prosciutto vive (cioè, muore) il maiale iberico. Di recente, e a causa della domanda degli ultimi anni, anche il maiale iberico fresco ha iniziato a essere commercializzato. In particolare, le cucine di tutto il mondo hanno scoperto il Secreto Iberico, un taglio con molto grasso intramuscolare. Il Secreto è la parte interna della spalla, le costole e il lardo – da qui il nome segreto. Si presenta con forma irregolare che ricorda un ventaglio, ed è cucinato in padella, griglia, piastra. La Pluma, taglio ritenuto pregiato per la sua consistenza tenera, ha una forma che somiglia ad una piuma. Si trova nella regione anteriore del lombo vicino al collo. I ristoranti lo mettono in tegame, su griglia, su piastra. Il Lagartito è un cordone di filetto fatto in striscioline che vengono da un taglio tra il lombo e le costolette. Croccanti fuori grazie al grasso, rimangono tenerissime all’interno. Gli spagnoli lo fanno alla brace, o lo saltano in padella, e ci fanno pure lo stufato. La Carillada, la guancia venata di succose striature di grasso, è usata per fare spezzatini con vino di Jerez. E poi ancora: il Solomillo, il controfiletto, considerato il taglio più tenero. Il Chuletero (costole più lombo). La Presa, il pezzo di collo sotto la coppa. I Picos de Lomo, i Picos de Costilla, il Morro, l’Higado, l’Espinazo… il maiale iberico ha tanti tagli possibili, tutti resi deliziosi dalle caratteristiche genetiche e di allevamento degli animali. A quanto pare, una specifica letteratura riguardo al Barbecue con maiale iberico non è ancora apparsa. Non pare esserci una riflessione settoriale consistente nemmeno in Spagna, dove di fatto nemmeno lo chiamano Barbecue, ma Barbacoa. Tuttavia nel forum di BBQ4All già potete trovare dei pionieri dell’uso del fuoco su questa bestia dalla carne meravigliosamente marmorizzata.
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no penetrando nella carne. Batteri e funghi proliferano. Non è finita: la stagionatura avviene in una cella con umidità relativa tra il 60% e l’80% ad una temperatura dai 10ºC e i 20ºC. Qui si sviluppano i lieviti e si creano i sapori specifici, con note di nocciola e frutta secca. La durata di permanenza in quest’ultima cella va dai 30 ai 50 mesi.
OFF SET il disp ositivo b arbecue che non conosci Dispositivi e accessori a cura di Michele Chipa e Carlo Trono
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Quando si sente parlare di barbecue americano, subito il nostro pensiero va ai grandi dispositivi a legna che vengono utilizzati dai più famosi BBQ Joint. Su questi dispositivi esistono notizie contrastanti: c’è chi dice che rappresentano il vero barbecue, c’è chi li ritiene più difficili da controllare rispetto ai bullet smoker e c’è chi li considera addirittura sprecati per un uso non professionale. In questo articolo vi dararemo delle informazioni più precise sull’affascinante mondo degli off-set.
Caratteristiche costruttive Gli off-set sono normalmente composti da due camere di diverse dimensioni poste in sequenza, disposte generalmente in orizzontale. La più piccola funge da camera di combustione (fire chamber), mentre la più grande da camera di cottura (cooking chamber), il rapporto tra i due volumi è in genere di uno a tre. Le due camere sono unite lateralmente, e il flusso fatto di calore e di fumo si trasferisce dalla prima alla seconda attraverso un foro. L'aria necessaria alla combustione entra attraverso delle feritoie poste sulla fire chamber, spesso ricavate direttamente sullo sportello; la regolazione della temperatura avviene tramite una saracinesca regolabile che occlude le feritoie (vent-in) e un "tappo" incernierato su un perno alla sommità del camino (vent-out). In alcuni modelli è presente una ulteriore saracinesca di regolazione posizionata tra le due camere e comandabile dall'esterno tramite una leva. Il materiale di costruzione è una lega di ferro con verniciatura esterna resistente alle alte temperature. L'interno non viene verniciato, ma viene rivestito con uno strato di grasso bruciato che polimerizzando crea una patina protettiva in grado di contrastare la formazione di ruggine; si tratta di un procedimento (seasoning) concettualmente simile a quello che si effettua sulle padelle di ferro o ghisa. Le griglie sono generalmente in acciaio inox, anche se è possibile trovarne anche in ferro (smaltato o sottoposto anch'esso a seasoing) o ghisa.
Apparentemente semplici, gli off-set nascondono in realtà al loro interno una accurata progettazione: i rapporti dimensionali
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Molto spesso gli off-set vengono autocostruiti dagli appassionati utilizzando materiale di recupero, specialmente grandi serbatoi precedentemente impiegati per carburante liquido compresso (propano), caratterizzati da un notevole spessore delle pareti e da un peso conseguentemente elevato. I modelli presenti in commercio vengono invece realizzati attraverso la calandratura (deformazione plastica di fogli metallici) di una lamiera, e per questo possono essere di diversi spessori, dimensioni, peso e, di conseguenza, costo.
di uscita, l'aria si raffredda in maniera progressiva, pertanto gli alimenti posti più lontani dalla fire chamber saranno esposti a temperature più basse rispetto a quelli più vicini. Questo sistema è preferito dai Barbecue Joint nei loro giganteschi off-set, impiegati per cucinare contemporaneamente tagli di carne che devono essere sottoposti a temperature diverse e raggiungere contemporaneamente, allo stesso orario, il punto di cottura perfetto. Negli off-set reverse-flow, l'aria calda densa di fumo passa prima sotto un deflettore, e poi ritorna verso la fire chamber; l'irraggiamento emanato dalle pareti di confine con la fire chamber, nonché dallo stesso deflettore riscaldato dal flusso di aria
DIRECT FLOW
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tra fire chamber e cooking chamber, il diametro e la lunghezza del camino, la posizione dei fori di entrata e uscita dell'aria e persino forma e ampiezza del foro di collegamento tra le due camere sono regolati da precisi rapporti matematici, imposti ai costruttori dalle leggi fisiche della fluidodinamica (spesso applicate in maniera empirica dagli appassionati). Un off-set ben realizzato deve "respirare" correttamente e il flusso d'aria che attraversa le due camere deve essere naturale e costante, senza ristagni che, se presenti, provocano una sovraffumicatura degli alimenti e impediscono la formazione di un solido bark a causa dell'umidità rilasciata dalla legna e dalla (tanta) carne in cottura. Su internet si trovano delle applicazioni per il calcolo automatico di questi rapporti dimensionali, ma molto spesso è l'esperienza del costruttore a fare la differenza. Gli off-set, inoltre, si dividono in due categorie: direct flow e reverse flow. La differenza è data dalla presenza all'interno della cooking chamber di un deflettore (baffle plate) tra il foro di collegamento e la griglia che sostiene gli alimenti, nonché dalla posizione del camino di uscita; le due diverse conformazioni influenzano il percorso dell'aria calda all'interno della cooking chamber, e di conseguenza anche l'omogeneità di temperatura. Negli off-set direct-flow, percorrendo la cooking chamber dal foro di collegamento verso il camino
cooking chamber fire chamber
REVERSE FLOW incandescente sotto di esso, bilancia la perdita di temperatura dei fumi. Questo sistema presenta quindi una maggiore omogeneità di cottura in ogni punto della cooking chamber, e si presta in particolar modo agli off-set di dimensione piccola o media. Oltre ai classici off-set dalla forma cicilindrica, che riprendono l'aspetto dei classici serbatoi di propano, vengono realizzati anche dispositivi con forme più squadrate, specialmente quando si opera su grossi spessori o quando si vuole realizzare una
Punti di forza L'off-set ha dalla sua parte una grande capacità della camera di cottura. Questi dispositivi sono studiati per massimizzare lo spazio interno e rendere il più efficiente possibile il consumo di combustibile. A parità di altre condizioni, un off-set ha un consumo più elevato rispetto a un kettle o ad un bullet smoker, quindi è necessario aumentare la quantità di alimenti inseriti per rendere la cottura più conveniente a livello economico. Non a caso gli off-set sono utilizzati soprattutto nei ristoranti bbq, e all'interno di queste attività il lavoro è a ciclo continuo. Un altro punto a favore per l’affumicatore orizzontale è il tipo di combustibile utilizzato: in questi dispositivi si utilizza quasi esclusivamente legna. Dico quasi perché in realtà potrebbero essere alimentati anche a carbone o addirittura a bricchette. In ogni caso il legno è quello che assicura il maggior apporto calorifero e quindi permette un perfetto riscaldamento della grande camera di cottura. Il flavour profile (profilo gustativo) di una cottura in off-set alimentata a legna, inoltre, è il più completo e complesso: gli alimenti, infatti, subiscono una affumicatura continua per tutta la durata della cottura. Per ottenere la giusta composizione del fumo, si utilizzano le stesse essenze di legno utilizzate sotto forma di chips o chunks all'interno dei kettle o dei bullet smoker, ma in questo caso vengono impiegati grossi rami e pezzi di tronco (chiamati logs) accatastati all'interno della fire chamber. La temperatura di combustione deve essere quella subito precedente alla accensione della fiamma (pirolisi secondaria): questo è lo stadio della combustione nella qua-
le vengono maggiormente distillati i componenti fenolici della cellulosa con alta qualità aromatica, e si evita al contempo la formazione di idrocarburi policiclici e delle altre sostanze che invece caratterizzano le cattive affumicature, amare, poco digeribili e sicuramente non salutari. Punti di debolezza Per garantire la stabilità di temperatura di cottura e la capacità di mantenimento di temperature basse (intorno ai 100°C) l’off-set deve essere costruito con materiali ad alto spessore. Solo in questo caso sarà tutto sommato semplice da domare. Questa sua necessità implica un peso elevato con evidenti difficoltà di trasporto (negli USA è molto facile vedere gli off-set installati su carrelli gommati trainati da autovetture). La presenza di materiali spessi fa anche incrementare notevolmente il costo: è bene evitare di acquistare dispositivi di questo tipo a poche centinaia di euro, il perché lo capite facilmente da soli: perdereste più tempo per cercare di mantenere la temperatura costante rispetto a quello che vi servirebbe per affumicare un boston butt! Un altro fattore limitante da considerare è che il peso importante unito alla grandezza della camera di cottura rende l'off-set un dispositivo non economico in termini di consumo. No, non mi sto contraddicendo rispetto a quanto detto prima: non confondete lo spreco con il costo. Un dispositivo del genere conviene se avete grandi quantitativi di carne da cuocere, ma consuma moltissimo – per ovvie ragioni - e quindi il costo del combustibile è comunque elevato. Ultima nota negativa, concedetemi il termine, è l'impossibilità di una cottura diretta nella camera di cottura a meno che non si inserisca del carbone all’interno; tuttavia la distanza tra il fondo e la griglia di cottura la renderà difficoltosa. Un’alternativa è quella di utilizzare la camera di combustione, ma dovreste necessariamente procurarvi una griglia su misura. L'off-set resta, in ogni caso, un dispositivo inadatto per le cotture dirette.
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intercapedine per includere una forma di coibentazione delle camere. Esistono anche degli off-set costruiti con la cooking chamber posizionata in verticale anziché in orizzontale, ed infine si possono trovare in commercio modelli con tre camere; in questi casi la terza camera, posizionata in verticale, può essere posta in continuità con la classica cooking chambers, oppure può essere posizionata sopra la fire chambers, sfruttando così l'irraggiamento e la conduzione per ottenere un vano ad una temperatura adatta alle lunghe cotture o al resting (questo senza passaggio dei fumi).
Tecniche - il planking a cura di Michele Chipa
FORMAGGI A F F U M I C AT I
foto di Rossella Neiadin
dalla A alla... Provola
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Quando sentiamo parlare di formaggi affumicati, subito affiorano alla nostra mente la provola, il caciocavallo e, più raramente, la ricotta. Tuttavia, sappiatelo: qualora non vi piaccia nessuno dei sopra elencati potete tranquillamente provvedere voi stessi all’affumicatura del vostro preferito. Affumicare formaggi è una procedura più semplice di quanto si possa immaginare ed in questo articolo vi dirò come farlo. Ovviamente stiamo parlando di affumicatura a caldo, quin-
di con temperature in camera di cottura che vanno dai 90°C ai 110°C. Prima di iniziare, però, è d’obbligo il giuramento: prometto solennemente di non farvi trasformare il dispositivo di cottura in un contenitore da fonduta! Tipi di formaggio e tecniche di affumicatura adatte In linea teorica, tutti i formaggi sono affumicabili. Ciò che cambia sono le accortezze da utilizzare durante il processo. Vediamo nel dettaglio. I formaggi a pasta dura o semidura (scamorza, caciocavallo, pecorino, etc.) sono caratteriz-
zati da un’ottima tenuta sulla griglia grazie alla loro capacità di fondere lentamente. Ciò significa che in cottura otterremo un cuore cremoso ma un esterno croccante: non a caso vengono anche chiamati grill cheese. In fase di affumicatura il nostro obiettivo sarà quello di mantenerli in forma senza far scivolare la loro pasta sotto alla griglia. Per questo useremo delle plank di legno (ve ne parlo più avanti) oppure in loro assenza li appoggeremo su un foglio di carta da forno precedentemente inumidito, in cottura indiretta. In questo modo otterremo un’affumica-
I formaggi a pasta molle (tomino, brie, camembert, stracchino, crescenza, etc.) sono quelli che necessitano di una maggior cautela quando finiscono in griglia. Se hanno una crosta edibile - è il caso di brie, camembert, tomino - possono essere trattati come i formaggi a pasta dura (seppur con una temperatura di esercizio
un po’ più bassa). Se non c’è crosta, come nel caso di stracchino, crescenza, e la morbidezza della pasta non permette un trattamento a nudo, i formaggi dovranno essere quindi disposti su supporti che permettano un’affumicatura senza la colatura: potrete usare leccarde in alluminio oppure teglie adatte alle alte temperature. Per avere un risultato ancor più particolare potrete avvolgere il formaggio in fogli di legno adatti allo scopo oppure in foglie di vite. In questo modo otterrete il risultato sperato ma con una marcia in più.
Planking L’utilizzo delle placche di legno merita un capitolo a parte. La placca, grazie al calore della griglia, rilascia un piacevole aroma grazie alla diffusione degli oli essenziali che contiene. Consiglio di preparare il grill per la cottura diretta mettendo in accensione il carbone o pre-riscaldando la griglia a gas o elettrica. A carbone acceso, versatelo disponendolo per la cottura diretta. A questo punto prendete il formaggio e adagiatelo sul legno che avrete messo in cottura diretta. In questa fase, è
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tura perfetta e senza sgradevoli colature. Se il vostro formaggio avesse una crosta non edibile potreste pensare di eliminarla in modo da veicolare gli aromi direttamente verso il cuore.
consigliabile tenere aperto il coperchio del dispositivo perché si aumenta la presenza di ossigeno con conseguente aumento della temperatura, agevolando e velocizzando la combustione del lato inferiore della tavoletta; inoltre, c’è una maggiore dispersione di calore e questo è utile per evitare che il formaggio si scaldi troppo presto e per fare in modo che ci sia una sufficiente produzione di fumo utile all’aromatizzazione. Quando vedete fumo sufficiente, potete chiudere il coperchio per favorire l’assorbimento del calore da parte del formaggio, fino a qui protetto dalla tavoletta. Quanto tempo bisogna aspettare? Dipende dal tipo di formaggio: evitate comunque di aprire il coperchio nei primi 8/10 minuti, poi controllate il grado di affumicatura e di scioglimento. La colorazione può darvi un significativo aiuto: dobbiamo ottenere una velatura color paglierino/brunito sulla superficie chiara del formaggio.
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Che tipi di legno si possono usare? Gli stessi che usate per tutti gli atri tipi di alimenti: melo, pesco, cedro, ciliegio, hickory, quercia, betulla, faggio e così via. Da evitare, ovviamente, i legni resinosi come l’abete. Si possono utilizzare anche erbe aromatiche, (alloro, rosmarino, ginepro), paglia e foglie. Consigli per il servizio Avendo parlato di affumicatura a caldo, vi consiglio di servire i formaggi su un piatto precedentemente riscalda-
Volete una ricetta veloce? Vi accontento subito.
INGREDIENTI • 1 placca di cedro • 1 forma grande di formaggio camembert • confettura di albicocche q.b. • gherigli di noce q.b. • pane o crostini da tostare q.b.
Una volta sistemati gli ingredienti, posizionate la forma sulla placca di legno tamponata con carta da cucina e successivamente sulla griglia in cottura diretta, dove il calore è più intenso. È preferibile mantenere il coperchio aperto durante questa fase.
PROCEDIMENTO Ponete la tavoletta in una bacinella con dell’acqua e lasciatela a mollo per 30 minuti circa. Preparare il grill per la cottura diretta mettendo in accensione il carbone o pre-riscaldando la griglia se a gas o elettrica.
Attendete la comparsa delle prime nuvolette di fumo e chiudete il coperchio per accumulare calore indiretto nella parte superiore del formaggio. Per un risultato perfetto è necessario evitare di aprire il dispositivo per almeno 6 o 7 minuti.
Prendete il camembert e distribuite sulla sua sommità una generosa dose di confettura ed i gherigli di noce a ventaglio.
Alla prima apertura verificate la superficie dei vari ingredienti. Dobbiamo ottenere una colorazione brunita di noci e confettura con degli spot più scuri risultanti dalla reazione di Maillard, e una velatura color paglierino sulla superficie bianca del formaggio data da una buona affumicatura. Il formaggio sarà pronto quando, premendo leggermente sulla crosta, lo sentiremo cedevole. Servite il formaggio accompagnato dai crostini di pane tostato.
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to in modo da mantenerli fumanti e col cuore scioglievole. Quando sono caldi, inoltre, potete anche spolverizzarli con un trito di erbe aromatiche fresche per esaltare il loro sapore. Provate a tostare un po’ di sesamo o dei semi di papavero per dare una nota croccantina al tutto, oppure a creare una salsina dal sapore un po’ dolce per bilanciare la sapidità del vostro formaggio.
Ricette - primi piatti a cura della Redazione
QUANDO I R AV I O L I FA N N O B O O M Provateli con l’esplosivo ripieno di
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ricotta affumicata e cheddar al whiskey
È difficile stabilire quale popolo abbia iniziato per primo a mescolare con acqua e sale
una farina ottenuta macinando grossolanamente il grano. L’opinione diffusa è che le sue origini siano da ricercare nella civiltà persiana e, soprattutto, in quella greca. Il primo a parlare di pasta come alimento nel V secolo a.C. è il commediografo Aristofane, che in una delle sue commedie ne descrive una preparazione simile agli attuali ravioli. Un reperto archeologico venuto alla luce nel 2000, nel corso di alcuni scavi a Lajia (Qinghai, Cina), ci racconta che i cinesi nel Neolitico erano già
in grado di ricavare una farina dai chicchi di miglio, per poi ottenere una pasta da stendere grossolanamente in lunghe strisce. In ogni caso, in Italia fu l’ingegno medioevale ad intuire le grandi potenzialità della pasta e ad avvicinarla moltissimo al prodotto che oggi nel mondo tutti amano mangiare, introducendo la cottura in acqua e l’essiccazione per prolungarne la durata. In questo periodo, nella Repubblica marinara di Genova, comparve sulla scena
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La pasta fresca è un caposaldo della tradizione culinaria italiana; un ricettario della nostra cucina non può dirsi completo se non dedica un’ampia sezione a questa preparazione, dalla scelta della farina, fino alla stesura della sfoglia, da cui poi ricavare i vari formati. Nonostante tutto ciò, l’alimento che ci ha reso famosi nel mondo pare non sia stato inventato da noi.
culinaria un quadrato di pasta ripieno di carne e verdure, chiamato raviolo in onore del suo ideatore, il cuoco Ravioli. Questo fagottino delizioso si diffuse con grande rapidità lungo tutta la penisola grazie all’esportazione via mare delle navi genovesi, conquistando il palato di tutti coloro che lo assaggiarono e dando vita anche a molte varianti nella forma (quadrati o tondi, con o senza bordo), nel ripieno (carne, verdure e formaggi) e nel nome (agnolotti, cappellacci, tortelli, anolini ecc…). Per mantenere viva l’evoluzione di questa specialità, vi proponiamo la ricetta dei ravioli farciti con ricotta affumicata e spinaci, saltati nel burro aromatizzato alla salvia. Per dare un po’ più di spinta e di sapidità, abbiamo messo nel ripieno anche un Cheddar aromatizzato al whiskey e zenzero. Il tutto è racchiuso in un semplice guscio di pasta all’uovo, condito con burro fuso, salvia e una spolverata di Parmigiano.
INGREDIENTI per 6 persone 300 g di farina 00 3 uova una ricottina di latte vaccino intera da circa 300 g 300 g di spinaci puliti sale q.b. mezzo cucchiaino di cannella pepe q.b. 80 g di burro 4 foglioline di salvia fresca Parmigiano Reggiano grattugiato q.b.
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100 g di Irish Whiskey & Stem Ginger Cheddar Cheese
PREPARAZIONE: 1. Su una spianatoia, create la classica fontana di farina, all’interno della quale romperete le uova e aggiungerete un pizzico di sale. 2. Inizialmente, incorporate la farina alle uova con una forchetta, poi continuate ad impastare con le mani fino ad ottenere un panetto liscio e compatto, che farete riposare per circa due ore in un recipiente coperto con un canovaccio. 3. Preparate il dispositivo per una cottura indiretta a 160°C, mezza ciminiera di bricchetti sarà sufficiente. 4. Appoggiate sulla griglia, in cottura indiretta, la ricottina intera con sotto un foglio di carta forno leggermente inumidito. Affumicate con due o tre manciate di chips di legno aromatico e chiudete il coperchio. 5. Dopo 30 minuti circa controllatela: se alla vista la superficie risulta disidratata e ha un bel colore dorato è pronta. Altrimenti, chiudete il coperchio e lasciatela andare per altri 10-15 minuti circa. 6. Quando il formaggio è pronto, toglietelo dal dispositivo e fatelo raffreddare. 7. Lessate in abbondante acqua salata gli spinaci, 20 minuti circa dopo il bollore scolateli. 8. Quando sono tiepidi, poco per volta, strizzateli con le mani per eliminare l’acqua in eccesso. Terminata questa operazione tritateli grossolanamente con un coltello. 9. In una ciotola capiente, schiacciate la ricotta con una forchetta e poi unite gli spinaci e il cheddar. Amalgamate bene gli ingredienti tra di loro e aggiustate di sale. 10. Prendete il panetto di pasta schiacciatelo con entrambe le mani e stendetelo, non troppo sottilmente, con il mattarello. 11. Ottenuta la sfoglia, prendete la farcia e con un cucchiaino iniziate a posizionarla, mantenendo una distanza di circa 2 cm . Il ripieno va messo a 5/6 cm dal bordo superiore. 12. Quando avete terminato la prima fila, prendete il lembo di pasta rimasto libero sopra, e coprite il ripieno. 13. Fate aderire bene la pasta alla farcia per eliminare l’aria e tagliate la pasta con la rotella dentata, formando i ravioli. 14. Proseguite fino a quando la sfoglia non è terminata. 15. Mettete a bollire l’acqua salata e, mentre aspettate che raggiunga il bollore, in una padella fate sciogliere il burro con la salvia. 16. Quando l’acqua bolle calate i ravioli e dopo circa cinque minuti scolateli e saltateli nel condimento, aggiungendo anche il Parmigiano I ravioli sono pronti. Se volete, al momento del servizio, potreste decorare i piatti con due foglioline di salvia fritta. I vostri commensali si aspetteranno i soliti ravioli ricotta e spinaci, ma avranno in realtà una piacevole e esplosiva sorpresa al primo morso.
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Che mondo sarebbe senza
PANINI? Il panino rende tutto più buono, è la culla dove riposano gli ingredienti, dove nascono gli amori, il luogo un cui i profumi sbocciano e si intensificano, sostenendosi l’uno con l’altro. Un gioco di consistenze e di colori, tra cremosità e succulenza, sapidità e freschezza; un perfetto equilibrio tra carboidrati, fibre e proteine.
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L'Arte Bianca a cura di Alessandro Trezzi
Sembra che tale panino sia stato inventato presso lo Union Club di New York. Il pri-
mo riferimento conosciuto è una ricetta pubblicata sull’Evening World nel 18 Novembre 1889, nella quale veniva descritto un sandwich composto da due “pezzi di pane Graham tostati, con uno strato di tacchino o pollo e prosciutto tra di loro”. Altre fonti, tuttavia, ne attribuiscono la nascita a un club esclusivo di gioco d’azzardo a Saratoga Springs, nel 1894. Che sia l’una o l’altra cosa, il Clubhouse cominciò a comparire nei menu americani fin dal 1899. Con il tempo vennero sviluppate versioni differenti, come il Breakfast Club contenente uova o roast beef per un maggiore apporto proteico, oppure altre varianti che presentano il bacon e/o il formaggio anziché il prosciutto, mentre le varietà vegetariane possono contenere hummus, avocado o spinaci. Ancora, sandwich di pesce possono contenere ostriche, salmone e granchio. Il panino viene comunemente servito accompagnato da una coleslaw o con delle patate, sia al forno che fritte. Un inno allo spuntino degno della migliore fame, e che deve essere valorizzato con un pane fatto come si deve, non siete d’accordo? Forza allora, mettiamoci al lavoro. L’obiettivo Il miglior pane per realizzare un club sandwich con i controfiocchi è quello cosiddetto in cassetta: un impasto lasciato lievitare in ultima fase in uno stampo rettangolare, quello che usate per il plumcake per intenderci.
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In tutto il mondo è possibile gustare celebri specialità appartenenti a questa grande e gloriosa famiglia: dall’hamburger americano al sandwich cubano, dal tramezzino torinese alla tigella emiliana. Tutti, del resto, amano infilare prelibatezze nel pane basso. Il termine Sandwich deve la sua origine a John Montagu, IV conte di Sandwich, un politico britannico del XVIII secolo che, durante le partite a carte o le gare di golf, si faceva servire al tavolo o sul campo gustosi quadrati di pane farcito per poter mangiare continuando a giocare. E proprio parlando di panini, ce n’è uno nel vasto repertorio mondiale che è ormai diventato il simbolo di bar e fast food: il Club Sandwich. L’avrete sicuramente sentito nominare, è impossibile affermare il contrario. Simbolo dell'ingordigia e dei pasti voluminosi, non per niente è americano. Nella versione tradizionale, il Clubhouse Sandwich non è nient'altro che un panino statunitense composto da pane in cassetta tostato, pollo, prosciutto, lattuga, pomodoro e maionese. Nell’immaginario collettivo (e nelle versioni più moderne), viene realizzato in doppio strato, separando le due parti ugualmente farcite da una terza fetta di pane; il sandwich viene poi tagliato in quarti o metà e tenuto insieme da appositi stecchini, per mostrare con orgoglio la propria farcitura.
L’ultima lievitazione gli consente di avere la struttura necessaria e di crescere in altezza senza che siano necessari prefermenti o lievito madre. Questo semplifica notevolmente la realizzazione e consente di raggiungere un buon volume anche in assenza di strumenti professionali o di grande esperienza. Lavorando nella maniera corretta poi, è possibile diminuire il quantitativo di farina utilizzata ottenendo tuttavia la stessa dimensione finale, per un guadagno certo in termini di leggerezza. Il classico pane in cassetta viene realizzato solitamente con un impasto che ricorda molto quello dei brioche bun per hamburger. Personalmente però, preferisco un gusto più pulito e uniforme per questa tipologia di prodotto, da abbinare a ingredienti già carichi di sapore.
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La farina Detto ciò, la scelta migliore per l’ingrediente principale del nostro impasto ricade su una farina di tipo 00 o 0 con una forza di 280-300W e un’ottima percentuale di assorbimento minimo. L’assenza di crusca permette di creare una maglia glutinica salda e senza interruzioni, con una risultato più performante ed esente da difetti in fase di lievitazione. Il burro I grassi rendono l’impasto più estensibile, malleabile e avvolgendo le bolle di anidride carbonica che si formano durante la lievitazione, le stabilizzano. L’alveolatura diventa così più omogenea e la struttura della mollica molto soffice; tali fattori aumentano notevolmente la shelf-life del prodotto finito. Come già anticipato, cercheremo di mantenere un gusto abbastanza pulito e uniforme; pertanto eviteremo l’uso di latte e uova, aggiungendo alla ricetta solo una parte di burro per accrescere morbidezza e conservabilità.
INGREDIENTI per 2 stampi da 24cm 1 kg di farina 00 di grano tenero (300 W); 600 g di acqua; 85 g di burro morbido a temperatura ambiente; 5 g di malto diastasico; 25 g di sale fino; 10 g di lievito di birra fresco (4 g se secco)
INGREDIENTI 6persone 1 kg di farina 00 di grano tenero (300 W); 600 g di acqua; 85 g di burro morbido a temperatura ambiente; 5 g di malto diastasico; 25 g di sale fino; 10 g di lievito di birra fresco (4 g se secco)
Impastamento Rovesciate in un recipiente ampio (o nella vasca della vostra impastatrice o della planetaria) tutta la farina, il 75% dell’acqua, il lievito sbriciolato e il malto diastasico; dopo una prima fase di miscelazione, aggiungete il sale e l’acqua rimanente poco alla volta, attendendo che sia ben assorbita prima di aggiungerne un’ulteriore quantità. Terminata l’acqua, aggiungete il burro poco alla volta, poi chiudete l’impasto quando sarà liscio, asciutto e setoso, e la maglia glutinica si sarà formata. La temperatura interna dovrà essere di almeno 24°C per permettere a tutti i processi fermentativi e alla maturazione di avere inizio senza particolari ritardi. Lasciate riposare nella ciotola per circa 15 minuti, poi fate alcune pieghe di rinforzo per irrobustire e stabilizzare il glutine (e di conseguenza la struttura dell’impasto). Puntata In questa fase, l’impasto matura e la maglia glutinica si stabilizza. Posizionate il tutto in un recipiente dai bordi alti ben oliato e lasciatelo a temperatura ambiente per almeno un’ora facendo sì che la lievitazione parta; infine mettete in frigorifero per
18-24 ore a una temperatura di 6°C. Staglio e appretto Circa 4 ore prima della cottura togliete l’impasto dal frigorifero e dividetelo in due parti uguali. Ripiegatele dando forza e formate un salsicciotto di uguale lunghezza a quella degli stampi, che nel frattempo avrete imburrato o cosparso con poco olio. Adagiate gli impasti sulle teglie, copriteli con pellicola e lasciateli in appretto a una temperatura di 28-30°C. Cottura Stabilizzate la temperatura del vostro forno a 220°C e cuocete per 30 minuti; per verificare l’avvenuta cottura eseguite un doppio controllo: la temperatura interna, misurabile con un termometro a sonda, deve essere di 90°C, e la mollica deve risultare completamente asciutta. Nel caso in cui la superficie dovesse colorarsi eccessivamente, coprite con della carta alluminio. Raffreddamento, mantenimento e servizio Sfornate il pane, toglietelo dallo stampo e lasciatelo raffreddare su una griglia rialzata, in modo che il vapore non vi rovini la crosta. Anche questo prodotto si conserva benissimo se riposto in frigorifero, magari in un sacchetto o in un recipiente a chiusura ermetica. Passati 2 o 3 giorni, tuttavia, conviene congelarlo. Bene, è fatta: tagliate generose fette del vostro pane e tostatele in padella, prima di farcirle con ogni ben di Dio che vi venga in mente.
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LA RICETTA
Le fasi previste sono: • Impastamento; • Puntata o prima lievitazione; • Staglio e formatura dei panetti; • Appretto o seconda lievitazione in teglia; • Cottura.
Ricette - sandwich a cura della redazione
Va' dove ti porta il
SANDW IC H
Secondo una breve ricerca condotta da Gambero Rosso nel 2019, il Clubhouse Sandwich, Club Sandwich per gli amici, è il cibo preferito dai cuochi. Eppure, al tempo stesso, uno dei piÚ temuti.
INGREDIENTI per un sandwich 13 fette di pane in cassetta 50 g di rucola 300 g di Denver Steak Australian Wagyu AACO 3/5 300 g di funghi champignon 1 pomodoro 50 g lardo Pamigiano Reggiano 50 g burro leggermente salato q.b. crema di rafano q.b. salsa di soia q.b.
foto di Rossella Neiadin
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maionese q.b.
Sembrerebbe persino banale crearlo, che ci vorrà mai? Ma non è così. Lo rendono unico la qualità delle materie prime utilizzate e quella delle salse che troppo spesso, specie fuori dagli Stati Uniti, vengono sottovalutate. La versione originale presenta perfino una ferrea disposizione degli elementi che creano la stratificazione: la tradizione vuole che due fette di pane vengano tostate (solo da un lato) e spalmate di burro. Fatto questo, si procede a inserire una foglia di lattuga iceberg, una fetta di pomodoro e del
bacon croccante o del pollo, interponendo tra uno stato e l’altro una porzione generosa di maionese. Pare sia nato così, a due strati, nonostante noi tutti lo conosciamo con tre fette di pane. Nel tempo ha subito delle evoluzioni – ma non esistono versioni ufficiali italiane, francesi o tedeschemantenendo comunque la struttura degli elementi sempre integra, con piccoli variazioni del caso, come ad esempio l’aggiunta delle uova o l’uso del prosciutto al posto del bacon. La nostra versione manterrà la struttura a tre strati ma cambierà un bel po’ nel gusto. Grazie alla ricetta del nostro Alessandro Trezzi, potrete prepararvi il pane in cassetta da soli. Una volta pronto, farcitelo così. PROCEDIMENTO: 1. Pulite i funghi e tagliateli a fettine sottili. Marinateli con olio, succo di limone, sale e pepe e scaglie di Parmigiano Reggiano. 2. Condite la rucola in una ciotola con un filo d’olio, due gocce di limone, sale e pepe macinato fresco. 3. Predisponete il vostro dispositivo per una cottura diretta e cauterizzate su una piastra in ghisa la vostra Denver Steak sino a cottura desiderata. Fate un rest (riposo) di 3 minuti. 4. Nel frattempo, sciogliete il burro in un pentolino, spennellate le fette di pane da una sola parte e tostatele. 5. Spalmate sul pane ancora caldo la crema di rafano.
6. Adagiate la rucola sulla prima fetta di pane. 7. Affettate il pomodoro, salatelo e ponetelo sopra la rucola. 8. Tagliate la Denver Steak contro fibra, ricavandone rettangoli spessi almeno mezzo centimetro, appoggiateli sul pomodoro a coprire l’intea fetta di pane. Condite con un po’ di sale e di pepe. 9. Continuate a stratificare, aggiungendo i funghi marinati sulla carne. 10. Prendete la fetta di pane tostata da ambo i lati e coprite entrambe le facciate del pane in cassetta con uno strato di lardo battuto. 11. Sovrapponete in chiusura la fetta di pane e procedete a stratificare nuovamente con gli ingredienti in maniera inversa, partendo dai funghi e così via sino ad arrivare nuovamente alla fetta di pane spennellata di burro e spalmata di crema di rafano. 12. Fate una leggera pressione sulla fetta superiore per abbassare il volume dell’intero sandwich e dividetelo in diagonale per ottenere due triangoli, tenendoli fermi con uno stecchino di legno. Una piccola dritta che vi permetterà di dividere al meglio il panino in due metà perfette senza che vi sfuggano le fette o si muovano di qua e di là gli ingredienti al loro interno? Appena finite la chiusura del Club Sandwich con l’ultima fetta, avvolgetelo tutto con pellicola da cucina. Utilizzando un coltello a lama liscia, tagliate il pane insieme alla pellicola che poi asporterete. Otterrete così un taglio in sezione praticamente perfetto.
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Nato a fine ‘800 in America, è un’icona del fast food (anche se la preparazione è decisamente slow) molto prima che arrivasse il Big Mac. Considerato il piatto jolly in tutti gli Hotel, richiesto a qualsiasi ora del giorno e della notte, è in grado, da solo, di intaccare la reputazione del ristorante dell’albergo. Non sono ammessi errori. Eppure, i cuochi costretti a prepararlo agli affamati ospiti lo adorano perché pare ricordi loro i tempi della gavetta, quando per espiare una colpa o per riparare a un errore venivano messi in cucina a preparare Sandwich a ripetizione. Questa preparazione conserva un’aura tutta sua: è un cibo sicuramente confortevole e veloce da consumare, ma al tempo stesso gourmand, capace di trasportarti subito con la mente ad altre epoche e a locali super raffinati frequentati da gentiluomini. Insomma, è sì un panino, ma decisamente chic.
foto di Rossella Neiadin
INGREDIENTI per 6/8 persone 1 kg olive ascolane tenere
Per il ripieno 300 g di avanzi di Brisket 50 g di mollica di pane una cipolla 80 g di Parmigiano Reggiano DOP da grattugiare scorza di mezzo limone una carota piccola una costa di sedano piccola un bicchiere di vino bianco un uovo medio sale fino q.b.
Per la panatura 2 uova medie farina 00 q.b. pangrattato q.b.
Per friggere
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Olio extravergine d’oliva q.b.
Ricette - aperitivi e finger food a cura della redazione
OLIVE
ascolane? No prego,
Nel corso degli anni molti autori si sono soffermati a raccontare la bontà di questo piatto, tra i quali spiccano i nomi di Catone e Petronio. Quest’ultimo, nel Satyricon, colloca le olive sulle celebri tavolate di Trimalcione, personaggio dell’opera famoso per le sue libagioni. Nel corso dei secoli, altri estimatori si sono aggiunti a declamare la bontà della specialità marchigiana. Tra i più famosi dobbiamo ricordare sicuramente Garibaldi che, dopo averle assaggiate, volle coltivare le piante di olivo a Caprera così da potere riprodurre la ricetta ascolana. Nello stesso periodo, inoltre, è da collocarsi l’origine del ripieno. I cuochi delle famiglie nobiliari di quel periodo dove-
vano gestire grandi quantitativi di carne provenienti dalle donazioni dei contadini. Non avendo modo di conservare la ciccia, e dovendola di conseguenza consumare tutta per non sprecarla, si pensò di inserire gli avanzi come ripieno delle olive in maniera da prolungarne la conservazione. In pieno stile ottocentesco abbiamo pensato di utilizzare gli avanzi del brisket, sì proprio quello che avete cucinato per Natale e che avete stipato in freezer - o per meglio dire, quello che siete riusciti a far avanzare strappandolo dalle fameliche fauci di vostra suocera - per la creazione di una trascendentale oliva all’ascolana. Ecco quindi la nascita delle olive briskolane. Sperando che coach Nencioni ci passi il termine. Preparazione 1. Tritate finemente le verdure (cipolla, sedano, carota) e fatele rosolare con 3 cucchiai d’olio extravergine d’oliva; 2. Sminuzzate il brisket e aggiungetelo quando il soffritto sarà dorato; 3. Salate, aggiungete il vino bianco e fate evaporare a fuoco dolce; 4. Togliete il composto dal fuoco e lasciatelo raffreddare, quindi successivamente maci-
natelo (potete utilizzare anche le lame di un mixer); 5. Versate il composto in una ciotola, aggiungete la scorza grattugiata di mezzo limone, l’uovo, il Parmigiano grattugiato, la mollica di pane ridotta in briciole, e impastate bene fino ad ottenere un composto morbido ma compatto, lasciatelo riposare per circa mezz’ora; 6. Denocciolate ora le olive: con un coltellino da cucina a lama liscia, tagliate a spirale l’oliva senza spezzarla partendo dal picciolo, in modo da ottenere una spirale di polpa liberata dal nocciolo; 7. Riempite adesso le olive con il ripieno ricreando la forma originaria all’oliva; 8. Preparate intanto dei contenitori in cui metterete: farina, uova sbattute e pangrattato; 9. Passate ogni oliva prima nella farina, poi nell’uovo sbattuto e per ultimo nel pangrattato. Ogni oliva subirà questo processo due volte in maniera da ottenere una panatura più croccante e compatta; 10. Terminata l’operazione di panatura arriva il momento della frittura. Una volta raggiunta una colorazione dorata scolate le olive in modo da eliminare l’olio in eccesso. Servitele calde.
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Le olive all’ascolana sono un piatto celebre della cultura marchigiana e nazionale, che affonda le sue origini storiche nell’antica Roma. Il pasto quotidiano dei legionari era infatti rappresentato principalmente da olive in salamoia. Questo cibo, in virtù del suo apporto nutritivo e della facile trasportabilità, lo rese l’alimento ideale per i lunghi viaggi. La salamoia era infatti il sistema migliore per preservare e trasportare alimenti deperibili come, appunto, le olive.
briskolane!
...Aspettate, aspettate! Non abbiamo ancora finito! Va fa tta la
frittatina di avanzi! Come tradizione vuole, non si butta via niente. Magari vi sono avanzati uovo, pangrattato, Parmigiano e brisket macinato? Utilizzateli in maniera creativa. Queste frittelline, o frittatine - chiamatele come volete - sono una bomba. Fate così:
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1. Nell’uovo che avete usato per panare le olive aggiungete il brisket macinato e il pangrattato fino a farlo diventare un composto piuttosto denso. Attenzione: calibrate bene questo passaggio perché aggiungendo un nuovo uovo al composto il sapore si diluirà parecchio e perderà quel piglio caratteristico; 2. Dopo avere fritto le olive, friggete anche questo composto per ottenere la frittata briskolana. Potete friggere il composto in un’unica soluzione, o magari sbizzarrirvi facendo piccole cialdine che renderanno l’aperitivo ancora più leggero e dietetico! Eheheh!
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foto di Rossella Neiadin
Ricette - secondi piatti a cura di Michela Bongiorni
Il "nostro"
G U LA S H
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la zuppa del griller
Giornate freddissime e voglia di cose confortevoli: un maglioncino caldo, le pantofole morbide, il the? No, siamo griller, per noi il concetto di generi di conforto è diverso. Mentre gli altri guardano malinconici fuori dalla finestra seduti sul divano e riparati al calduccio delle loro casette, noi pensiamo solo a cosa poter cucinare sulle griglie del nostro dispositivo che non va mai in letargo. Ebbene, oggi prepariamo il gulash. Sì, però a modo nostro. Tradizionalmente, si tratta di una zuppa di carne di manzo, lardo, cipolle, carote e patate, speziata principalmente con la paprika. Tipico piatto dell’Europa Centro-Orientale, in special modo dell’Ungheria, è del tutto simile allo spezzatino e come ogni preparazione tradizionale è declinata in moltissime varianti. Conosciuta anche come gulyàsleves, zuppa del mandriano, deriva dalla cucina povera e nasce dal fatto che gli allevatori di bovini, quando attraversavano la pianura stepposa tipica del bassopiano magiaro, la puszta, avevano bisogno di un piatto che si preparasse velocemente, si conservasse con molta facilità e al tempo stesso li confortasse. Il nome, derivando quindi dalla parola gulyás (bovaro), ricorda questi viaggi dei mandriani che partendo dall’estre-
mo est europeo arrivavano in città come Vienna, Norimberga, Venezia. Per questo motivo, la ricetta si è diffusa in tutta Europa, compreso il nord Italia. Il vero gulash ungherese è dunque più liquido (e spesso servito con gli gnocchetti di farina). In Italia invece, nelle varianti goriziana e triestina, è più asciutto e ritirato. Il tipico colore rosso intenso è dato dalla paprika aggiunta in abbondanza, che però non è molto piccante (quindi occhio, usate quella dolce). La nostra versione, tuttavia, sarà quella di un gulash con cottura ibrida (un po’ come si fa per il pepper stout beef). Prima affumicheremo il cappello del prete (Top Blade, da cui ricaveremo due Flat Iron Steak, eliminando la cartilagine interna) e poi lo porzioneremo e lo metteremo a cuocere con tante cipolle fino all’assorbimento quasi completo del brodo. Già me li immagino i talebani: e allora non chiamatelo gulash! Vabbè, lo chiameremo grillash, la zuppa del griller (mi scusino gli ungheresi per l’abominio linguistico, sono ovviamente ironica). È troppo buono per star lì ad arrovellarsi sul nome. Quindi forza, buttate le pantofole, accendete la ciminiera e cucinate!
PREPARAZIONE: 1. Accendete il vostro dispositivo per una cottura indiretta stabilizzandolo a circa 100°C. 2. Spolverizzate le bistecche con il rub Montreal senza esagerare. 3. Ponetele in cottura indiretta, aggiungendo legno aromatico per affumicare, e chiudete il coperchio finché non hanno raggiunto i 60°C interni. 4. Nel frattempo, affettate le cipolle e mettetele a cuocere nell’olio in modo che lentamente appassiscano. 5. Quando la carne avrà raggiunto la temperatura target, toglietela dalla griglia e velocemente riducetela in grossi cubi che metterete a stufare insieme alle cipolle. 6. Aggiustate di sale e di pepe, aggiungete abbondate paprika, poi il concentrato di pomodoro, la passata di pomodoro e due o tre bicchieri di brodo di carne bollente. 7. Coprite il tegame e lasciate cuocere a fuoco dolce, aggiungete una foglia di alloro e lasciatelo andare per almeno un paio d’ore, controllando che non si asciughi troppo in fretta (in quel caso, abbassate il fuoco e aggiungete brodo caldo). 8. A fine cottura, se necessario, fate ritirare il sugo a fuoco vivace. Servitelo con fette di pane tostato, con polenta, con un buon purè di patate o con qualsiasi altra cosa vi suggerisca la fantasia. Fatecelo sapere, però, che qui siam golosi.
foto di Rossella Neiadin
INGREDIENTI per 4 persone due Flat Iron Steak GLC Selection da circa 500 g l’una 1 kg di cipolle rosse Montreal Steak Rub BBQ4All q.b. Paprika dolce q.b. Sale e pepe q.b. una foglia di alloro
mezza tazza di passata di pomodoro un litro di brodo di carne due cucchiai di olio extravergine di oliva
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un cucchiaio di concentrato di pomodoro
Ricette - secondi piatti a cura della redazione
FalsoMagro, VeroGusto
Siete a dieta? Perfetto, questa ricetta non fa per voi!
INGREDIENTI per 4 persone una Flank Strak Glc Top Selection da un chilo 300 g di manzo macinato 100 g di pecorino grattugiato 50 g di pangrattato BBQ4All Montreal rub q.b.
Per il ripieno 3 uova 100 g di Caciocavallo 042 - Almanacco 2020
100 g di Mortadella Sale q.b. Pepe q.b.
Anche l’origine del particolare nome di questa succulenta preparazione è da ricercarsi in una fusione linguistica tra il francese e il siciliano. Una delle tante teorie attribuisce la paternità del termine alla parola farce (si pronuncia fars), che significa farcia, ripieno. In siciliano il termine farce si trasformò in farzu e successivamente in farzumagru, falsomagro in italiano, ovvero carne magra farcita. Un’altra interessante teoria ipotizza che il nome derivasse da farce maigre, farcia magra: l’idea è che in origine il piat-
to avesse un ripieno magro, poi arricchitosi nel corso degli anni. Secondo un’ultima ipotesi, invece, sembra che il nome derivi dal termine dialettale farzu, falso, ad indicare l’inganno: piatto all’apparenza magro che una volta tagliato rivelava l’opulenza della sua farcitura. Qualsivoglia sia l’origine del nome, questo arrosto è ciò che i siciliani amano definire di sustanza. Un piatto ricco, consistente, ideale per coccolarsi durante le lunghe serate invernali. Non a caso è presente su molte tavole durante le feste natalizie o la domenica, quando ci si concede il lusso di non invecchiare a tavola. Noi lo abbiamo preparato abbinandolo alla nostra adorata e immancabile griglia. Il freddo di Gennaio non ci ha spaventati, i veri griller si riconoscono proprio in questi mesi. Provateci: quella leggera nota affumicata conferisce al luculliano arrostino una marcia in più. E poi la carne del Megastore… vabbè, che ve lo diciamo a fare? Vediamo come prepararlo. Preparazione 1. Accendete il kettle e predisponetelo per una cottura indiretta 2. Lessate le uova quel poco che basta a far coagulare l’albume. 3. Tagliate adesso il caciocavallo a striscioline 4. In una ciotola unite la carne macinata, il pecorino, il pangrattato, il rub e mescolate fino a ottenere un composto uniforme. Aggiustate di sale e pepe
5. Disponete adesso l’impasto così ottenuto sulla Flank aperta a libro, avendo cura di lasciare un bordo di circa 2 cm su tutti i lati 6. Adagiate adesso la mortadella, il formaggio e le uova sode precedentemente sbucciate. 7. Arrotolate il tutto e infine legatelo con dello spago da cucina. 8. Spennellatelo con olio extravergine di oliva e aggiungete un po’ di rub in superficie, senza esagerare (non deve diventare una fettina panata!) 9. Cuocete a cottura indiretta per circa un’ora, affumicandolo anche leggermente con chips di legno aromatico. Rilevare la temperatura in questa fase sarà difficile vista la presenza di elementi cotti e crudi all’interno del nostro arrosto, per cui l’unico metro di valutazione sarà il tempo. Servitelo affettato e con una salsina da accompagnamento, come ad esempio la Salsa Gravy preparata con il brodo di carne: filtrate il brodo e scaldatelo in un pentolino senza portarlo ad ebollizione. Nel frattempo, in un secondo recipiente, fate sciogliere il burro con la farina evitando la formazione di grumi. Appena il roux inizierà a imbrunirsi aggiungete il brodo caldo e mescolate fino ad ottenere una salsa di una consistenza simile a quella della besciamella.
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Piatto tipico siciliano, il falsomagro è una bella braciola ripiena di carne, salumi, uova e formaggio. Affonda le sue origini nel periodo in cui l’isola era sotto l’influenza Angioina, nel XIII secolo. La ricetta è stata tramandata nel corso degli anni e nel ‘600 i monsù che lavoravano nelle corti palermitane, gli stessi che preparavano per i nobili le sarde a beccafico di cui abbiamo parlato nel numero precedente, presero spunto dalla ricetta originale per cucinare il piatto che oggi conosciamo. Secondo quanto si legge nell’ Enciclopedia Gastronomica Italiana, monsù (anche monzù) è una traduzione dialettale napoletana e siciliana della parola francese monsieur che i nobili usavano per indicare i loro cuochi: in un’epoca in cui l’influenza dei cugini d’oltralpe la faceva da padrona, dare un titolo francesizzante, come diremmo oggi, faceva figo, anche se in realtà i cuochi non erano davvero francesi.
Ricette - secondi piatti a cura di Emiliano Nencioni
Wagyu & polenta una polenta un po' svelta
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Cosa potrebbe succedere tentando di unire uno dei piatti più poveri e più diffusi al mondo con uno dei tagli di carne più pregiati del Megastore BBQ4All? Impoverimento istantaneo di tutta la preparazione? Singolarità nel tessuto spaziotemporale? Esistono falangi armate di cultori ultraortodossi della polenta, come per la carbonara e gli arrosticini, pronti ad esternare in maiuscolo il proprio sdegno? Non lo so. Immagino che lo scopriremo presto. Faccio strategicamente a meno di farvi un gigantesco cappello introduttivo sulla polenta stessa, sulle origini, i metodi di preparazione e le varie declinazioni nelle varie regioni; regioni d’italia, certamente, ma anche del mondo. Essendo un piatto poverissimo, realizzabile facendo cuocere acqua e farina di cereali, la polenta si è infatti diffusa in tutte le zone dove è stato possibile coltivare le piante giuste, ovviamente con relative differenze e nomi dall’etimologia completamente diversa. Non si finirebbe mai quindi di fare una lista delle diverse declinazioni esistenti,
di tutta l’aneddotica popolare e della presenza nella cultura e nell’arte propria dei vari ceppi etnici. Dove puoi coltivare frumento, c’è polenta. La chiave del successo di questa pietanza è sicuramente, oltre che nel bassissimo costo e nell’elevata reperibilità, situata nella grande versatilità e adattabilità dell’impasto: avendo, generalmente, un gusto molto neutro che non copre i sapori, e portando velocemente a un discreto senso di sazietà, la polenta si presta benissimo ad un ruolo di contorno. Volendo incuriosirsi ulteriormente, potrei dire che più che un contorno si tratta di un diluente: con la polenta aumento la massa e la “durata in bocca” di quell’alimento saporito (e relativamente più costoso) che sto mangiando, distribuendone il sapore in molti più morsi e riempiendo lo stomaco con un benefico senso di “sazietà a basso costo”. Non dobbiamo però necessariamente, in questo periodo storico, spingerci a imitare aneddoti di povertà estrema, come quello ben noto dell’intera famiglia che poteva solo strusciare il pezzo di polenta
INGREDIENTI per 4 persone Un panetto da 1 kg di polenta pronta 300 g di Ran-Ichi 200 g di Cheddar al chili, lime e tequila Un cucchiaio di Mount Nimba BBQ4All Rub
Ho intenzione di farvi preparare, facendovi perdere anche molto poco tempo, due oggettini diversi, che potrei chiamare snack, data la palatabilità e la sfiziosità: due veicoli di gusto che non vorrei chiamaste crostini o antipasti (hanno dignità di portata completa), mangiabili contemporaneamente, alternando i morsi sull’uno e sull’altro, per procurare continui shock alla vostra lingua: la polenta fritta con fettine di Ran-Ichi e quella con Cheddar al chili, lime e tequila. foto di Rossella Neiadin
Quello che voglio fare è suggerirvi di usare la polenta per accompagnare dei bocconi dal gusto esplosivo e super concentrato, al fine di passare lunghi momenti di sapore intenso che altrimenti si sarebbero estinti in un tempo brevissimo.
Non voglio neanche che voi vi sobbarchiate l’onere di prepararla, questa polenta. Parliamo di un piatto che potrete veramente cucinare in un attimo, dimostrando agli invitati graditi e meno graditi che non tutte le pietanze deflagranti hanno bisogno di ore e ore di lavoro. Provate infatti a comprare la polenta già pronta, in panetti: in questo modo toglierete una variabile dall’equazione dei possibili errori (in termini di tempi, o di risultati) che potete fare.
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sopra un’unica aringa, necessaria per insaporire il boccone. In fondo, se state leggendo questo articolo state ricevendo un magazine in abbonamento e avrete di che sfamare i vostri cari.
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Preparazione: 1. Iniziate col tagliare il panetto in fette regolari. Asciugate bene la carne, come al solito, e nel frattempo friggete in abbondate olio di semi le fette di polenta. Dovete aspettare che il giallo diventi dorato e non ci vorrà molto tempo; mentre fate questa operazione accendete anche il kettle e predisponetelo per una cottura diretta. 2. Il cheddar dovrà essere sbriciolato in frantumi grossi quanto un cece, credo diventi più gradevole al palato così piuttosto che usando la solita fetta liscia tagliata col coltello: in questo modo, quando riscalderete i crostini, il calore potrà fonderne le parti più sminuzzate lasciando più solide quelle più grandi, creando un bel contrasto in bocca. 3. La cottura diretta della carne durerà, come sapete, praticamente un minuto, per cui posticipate questo momento topico fino a quando non avrete fritto tutte le fettine. Se preferite, potete anche usare una padella in ghisa, per una full Maillard molto appetitosa. Quello che dovrete ricercare nella Ran-Ichi è una bella crosticina su entrambi i lati, niente di più: 30 secondi per lato possono bastare, e 40 saranno già troppi. Ve ne accorgerete visivamente. 4. Fatto questo, togliete la carne dal fuoco e tenetela da parte su un tagliere: per adesso non tagliatela, correte subito a mettere il cheddar sulle fette di polenta non destinate alla carne (idealmente la metà del totale), metteteci sopra il formaggio e poi ponetele in griglia in cottura indiretta. Se necessario riscaldate anche quelle su cui adagerete la carne. Chiudete il coperchio per un minuto, e troverete il cheddar parzialmente fuso: resistete all’impulso di mangiare di nascosto gran parte della polenta così arricchita e togliete tutto dal fuoco, mettendolo in salvo su un tagliere o un vassoio abbastanza ampio da poterci lavorare comodamente. 5. Tagliate la Ran-Ichi, buttando un occhio all’andamento delle fibre, in strisce piuttosto sottili, in maniera che sia facile e comodo addentarle senza distruggere tutto l’allestimento; mettetele sopra la polenta e cospargete la carne con il Mount Nimba BBQ4All Rub. Non dovrebbe essere necessario salare. 6. Servite a ciascun ospite una fettina con la carne e una fettina col formaggio, suggerendo di alternare i morsi, e aspettate compiaciuti l’inevitabile coro a bocca chiusa in stile Madama Butterfly che sottolineerà il successo (l’ennesimo) della vostra preparazione.
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foto di Rossella Neiadin
Ci vorrebbe il mare ...anche a gennaio!
Involtini di pesce spada
con melanzane e provola affumicata Giusto per ricordare, in questo freddo gennaio, un po’ del sole della nostra trasferta in Sicilia documentata ampiamente nel numero di Dicembre 2019 del Magazine, vi proponiamo una delle ricette che lo chef Nicola Indomito della Gastronomia “La boutique del pesce” a Mazara del Vallo ha preparato per noi in quei giorni. E quando diciamo per noi, intendiamo proprio che ha preparato questi meravigliosi involtini per rifocillarci in quelle lunghe sessioni di shooting. Vista la bontà, abbiamo pensato di condividerli anche con voi.
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Quello tra la Sicilia e il pesce spada è un legame d’amore. Patrimonio della cucina sicula, quello preparato alla ghiotta è un piatto tipico della parte orientale dell’isola. Ma non solo: a tranci, a fette, a filetto e persino in scatola o in barattolo, il pesce spada si presta ad una moltitudine di piatti. È un pesce che ama vivere in acque temperate, ama la profondità ma tende a stare vicino alle coste. La sua mascella superiore ha la tipica forma di spada, appiattita e tagliente: una caratteristica principale da cui prende il nome. È un pesce azzurro e pertanto, dal punto di vista nutrizionale, i componenti principali sono le proteine e i grassi polinsaturi appartenenti al gruppo Omega3, i cosiddetti grassi buoni.
foto di Rossella Neiadin
Ricette - secondi piatti a cura della redazione
Nicola ha preso per noi delle fette sottili di pesce spada, quelle confezionate dalla famiglia Giacalone nel loro stabilimento, e con pochi ingredienti ha tirato fuori un piatto gustoso e, concedetecelo, sontuoso. Vediamo come replicarlo, volendo anche in griglia.
per 4 persone 8 fette sottili di pesce spada 8 fettine di melanzana 100 g scamorza affumicata 100 g di Parmigiano reggiano 4 fette di pane bianco uno spicchio d’aglio prezzemolo q.b. sale q.b. olio extravergine di oliva q.b.
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INGREDIENTI
Preparazione: 1. Sbriciolate in una ciotola le 4 fette di pane bianco sino ad ottenere una mollica grossolana. 2. Sbucciate e tritate finemente l’aglio. 3. Tritate il prezzemolo. 4. Aggiungete aglio e prezzemolo nella ciotola insieme alla mollica di pane e rimestate per amalgamare i sapori 5. Prendete una fettina di pesce spada e stendete su di essa una fettina di melanzana della stessa misura. 6. Inserite al centro una manciata di mollica di pane condita e un pezzettino di provola affumicata. 7. Condite il tutto con un filo d’olio extravergine di oliva e arrotolate su se stessa la fettina di pesce spada. 8. Chiudete con uno stecchino e adagiate sopra ogni spiedino una fettina spessa di provola. Spennellate con olio evo e spolverate con formaggio gratugiato e prezzemolo fresco. 9. Mettete gli spiedini su una leccarda e poneteli in cottura indiretta nel vostro dispositivo, settato a 180°C per circa 10 minuti (oppure in forno, alla stessa temperatura).
foto di Rossella Neiadin
Dolce un po' salato, tu...
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SALAME AL C I O C C O L AT O
Ricette - dolci a cura della redazione
per 6 persone 150 g di cioccolato fondente al 60% 150 g di panna fresca 15 g di zucchero semolato (1 cucchiaino circa) zucchero a velo q.b. 100 g di biscotti secchi 100 g di noci di Macadamia 15/20 ml di rum
Questo dolce è diffuso in tutta Italia ed è una vera leccornia per tutti gli amanti della cioccolata; prende il nome dalla sua forma lunga e affusolata, simile in tutto e per tutto a quella del salame, e dal fatto che al taglio la frutta secca e i biscotti sbriciolati, racchiusi all’interno della pasta di cacao e burro, sembrano i grasselli tipici di questo salume. La finzione viene completata da una spolverata di zucchero a velo sulla superficie esterna, a simulare la stagionatura, e dallo spago che gli viene legato intorno a mo’ di insaccato. Le origini incerte di questa prelibatezza non ci permettono di dirvi chi sia stato l’ideatore o la zona di nascita, perché un po’ tutte le regioni ne rivendicano la paternità. In
Romagna è un dolce delle festività pasquali, realizzato con la cioccolata delle uova regalate ai bambini; in Toscana ai biscotti secchi si aggiungono le mandorle, ingrediente caratteristico di alcune specialità locali ( come ad esempio i cantuccini); in Piemonte, dove acquista il nome di Salame del Papa per la comune credenza che al clero fosse riservato il cibo migliore, il cioccolato viene sostituito con la gianduia e l’interno è reso ancor più croccante dalle nocciole; per i siciliani invece è il Salame dei Mori (perché scuro come la pelle degli arabi, forse amici di Malgioglio) ed è preparato con il cacao in polvere, i pistacchi o le mandorle e il marsala. Fuori dai confini nazionali, i portoghesi sostengono che sia una loro creazione, conosciuta come il salame de chocolate. Tuttavia, potrebbe avere anche origini inglesi, poiché delizia da sempre i palati reali della famiglia Windsor, tanto da essere richiesto dal Principe William come uno dei dolci per il suo matrimonio. In Inghilterra, dove è noto col nome di Chocolate Biscuit Cake, per consuetudine gli viene data la forma classica di una torta, quadrata o rettangolare, ricoperta con glassa al cioccolato. Anche noi abbiamo fatto una versione tutta nostra, aggiungendo le noci di Macadamia tostate prima nel kettle, che si sposano benissimo con il gusto deciso del cioccolato, grazie anche alla loro consistenza tenera e burrosa.
051 - BBQ4All Magazine
INGREDIENTI
Dici cioccolato e il buontempone di turno, per rallegrare la conversazione, inizia a canticchiare sottovoce: gelato al cioccolato dolce un po’ salato... Solitamente, l’esibizione viene troncata sul nascere dalle occhiate di disapprovazione dei presenti, anche se in questo caso potrebbe strappare una risata, considerando qual è il vero significato del testo che ci è stato svelato diversi anni dopo l’uscita della canzone; diciamo anzi che il buon Pupo (o meglio Cristiano Malgioglio che è l’autore), invece di gelato avrebbe potuto benissimo parlare del dolce che oggi vi presentiamo: il salame al cioccolato. Salame al cioccolato, dolce un po’ salato… sì, decisamente più esplicito. Ma non vogliamo scadere nel porno e nella censura, quindi sorvoliamo.
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PREPARAZIONE: 1. Preparate il dispositivo per una cottura indiretta a 180°C, mezza ciminiera di bricchetti sarà sufficiente. 2. Disponete le noci pelate su una placca adatta alle alte temperature e foderata con la carta forno. Ponetela sulla griglia, dalla parte opposta delle braci, chiudete il coperchio e lasciate andare per circa 10 minuti, o comunque fino a che non prenderanno un bel colore tostato. Attenzione, non deve scurirsi altrimenti diventano amare. 3. Quando le noci sono pronte, toglietele dal dispositivo e lasciatele raffreddare completamente. 4. E’ il momento di fondere il cioccolato. Versate la panna fresca e lo zucchero in un pentolino e portate a bollore. Tritate grossolanamente il cioccolato con un coltello e versatelo nella panna calda. Mescolate con una frusta fino ad ottenere una crema liscia. 5. Mentre aspettate che il cioccolato si raffreddi, spezzate grossolanamente i biscotti con le mani e frantumate le noci. Vi consigliamo di mettere la frutta secca all’interno di una busta di carta e di schiacciarla con un batticarne. 6. Quando la ganache di cioccolato è a temperatura ambiente, unite prima i biscotti sbriciolati e poi le noci, facendo in modo che tutti gli ingredienti siano ben miscelati tra loro. 7. Prendete un foglio di carta forno e versate centralmente l’impasto, dandogli già la sua tipica forma allungata. 8. A questo punto, con entrambe le mani afferrate la carta forno dalle estremità più lunghe, accostandole fra di loro, poi sollevatela e, facendola oscillare leggermente su e giù, fate scivolare all’interno il composto per dargli una forma affusolata. 9. Ponete la carta forno nuovamente sul piano: con una spatola compattate l’impasto ed avvolgetelo come fosse una caramella, stringendolo bene alle estremità. 10. Riponete in frigo il salamotto per una notte intera. 11. Poco prima di servirlo spolveratelo con lo zucchero a velo, affettatelo ed offritelo ai vostri ospiti. Per stemperare il sapore del cioccolato e dare un tocco di freschezza, potreste servire le fette del salame con della panna montata ben fredda o del gelato alla crema.
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Costume e società a cura di Roberto dal Bosco
PERCHÉ NON SIAMO
VEGETARIANI
I ve g e t a r ia ni sono p iù sa ni, più b elli, più in telligen ti. Vivo n o a lu n go. È p r a t i c amente imp ossibile che un giorno non vi imb attiate – maga r i a d d i r i t t u r a ad un vostro sudatissimo B arb e cue! – in qualche ve getari a n o ( l a r a g a z z a dell’amico, il p arente «conver tito» al monoteismo verdura i o , e t c . ) c h e prova ad attaccare la solfa. Con questa rubrica vo gliamo fo r n i r vi argomenti affilati p er tagliare e mettere sulla brace in tra nq uillità q ues to tip o di co nver s az io n e. Due milioni di anni di amore per la ciccia Per oltre due milioni di anni siamo stati principalmente carnivori. La novità dei cereali e dei legumi è subentrata solo negli ultimi 10.000 anni, la dieta umana è cambiata con l’invenzione dell’agricoltura. C’è chi sostiene che non siamo molto adatti a questa dieta a basso contenuto di carne.
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Negli ultimi 10.000 anni siamo diventati più piccoli in statura (la cultura gravettiana, sbocciata circa 50.000 anni fa, aveva uomini alti 1,77-1,87 cm) e dimensioni del cervello. È probabile che sia una dieta fortemente a base di cereali e zucchero a ingenerare i presenti tassi di obesità, cancro, diabete e osteoporosi, problemi della pelle, malattie cardiache e infiammazioni di ogni tipo. Quindi: i nostri geni sono stati sviluppati prima della rivoluzio-
ne agricola, quando eravamo solo dei semplici, entusiastici, mangiatori di carne, e il genoma umano è cambiato meno dello 0,02% negli ultimi 40.000 anni. Sintetizza Kadya Araki, una coach israeliana di bodybuilding: «I nostri corpi sono stati programmati geneticamente per un funzionamento ottimale con una dieta che include carne e la programmazione non è cambiata».
Il mistero dei dentini aguzzi I vegani si arrampicano in immani supercazzole per spiegare la misteriosa presenza nella dentatura umana degli incisivi per strappare la carne, nonché di molari per macinarla. E andando giù per il sistema digestivo: se dovessimo sopravvivere solo di verdure, il nostro sistema digestivo sarebbe simile a quello della mucca, con quattro stomaci e la capacità di fermentare la cellulosa per abbattere il materiale vegetale.
Glicemia a posto La carne aiuta a mantenere stabili i livelli di glicemia grazie al suo alto contenuto di grassi e proteine. Lo zucchero nel sangue costante è fondamentale nella prevenzione del diabete di tipo 2, e del suo predecessore, la sindrome metabolica o insulinoresistenza (che affligge, in Europa e negli Stati Uniti d’America oltre il 35% degli ultracinquantenni) nonché di altre malattie croniche. La carne mantiene costanti i livelli di energia e crea una sensazione di sazietà tra i pasti, riducendo l’appetito per cibi malsani. Con una glicemia stabile, c’è meno possibilità di mangiare fuori pasto, quindi di ingrassare. È il segreto delle diete come l’Intermitting fasting (digiuno intermittente) e la dieta chetogenica: ridurre gli sbalzi di glicemia per diminuire i livelli di insulina, che è un ormone fortemente anabolico (=che fa crescere) per il grasso.
Muscoli! Se vuoi aumentare il tuo volume muscolare (cosa buona e giusta: fa crescere il metabolismo, quindi anche la possibilità di mangiare ciò che ci piace) puoi assumere integratori proteici (amminoacidi, aminoacidi ramificati, proteine Whey, etc.), ma la migliore fonte di proteine è e resterà sempre la carne. La carne contiene anche vitamine e minerali che aiutano la crescita muscolare come lo zinco, che è fondamentale nella riparazione del tessuto muscolare e il ferro, che aumenta i livelli di energia e riduce la fatica. La carne contiene anche creatina, un composto contenente azoto che migliora la sintesi proteica e fornisce energia ai muscoli, favorendo il guadagno muscolare. Se il ruolo positivo della carne nella crescita muscolare non vi basta, sveliamo anche un ulteriore segreto: la carne aiuta anche a bruciare i grassi. Essa ha infatti un alto effetto termogenico a causa del suo contenuto proteico, quindi circa il 30% delle sue calorie viene bruciato durante la sola digestione. La digestione dei carboidrati invece produce solo un aumento del 6-8% del dispendio energetico. Ad ogni modo, pensate allo sport e a quante medaglie avete visto assegnare all’India: eppure quel Paese ha più di un miliardo di cittadini, che in altri ambiti (informatica, medicina, etc.) eccellono. La dieta vegetariana, seguita da larghissima parte della popolazione indiana che trova le proteine solo in crespelle di ceci e affini (dosa etc.) non fa crescere i muscoli necessari all’agone sportivo – se state pensando ai corpi massicci dei giocatori di cricket subcontinentali, beh, quello è un altro discorso. Il cricket svolge la funzione di surrogato della guerra nucleare con il Pakistan, che la carne la mangia e ha quindi giocatori nerboruti. Se qualcuno mangia del pollo, come mi è capitato di vedere, lo fa di nascosto. Senza dimenticare che in India gli anabolizzanti si trovano con facilità... Neurotrasmettitori Le persone che non mangiano carne sono particolarmente vulnerabili a squilibri dei neurotrasmettitori a causa dell’assenza di proteine della carne, che fornisce tutti gli amminoacidi essenziali di cui il corpo umano ha bisogno. I neurotrasmettitori sono messaggeri chimici che regolano molte delle nostre funzioni, comprese le prestazioni fisiche, cognitive e mentali, nonché il nostro ciclo del sonno, il peso e gli stati emotivi. I non-carnivori sono vulnerabili a tali squilibri e possono quindi incappare in problemi come depressione, ansia e iperattività. Secondo una ricerca condotta nel 2014 presso l’Università di Graz, i vegetariani hanno da due a tre volte più probabilità rispetto ai mangiatori di carne di soffrire anche di disturbi alimentari e disturbi somatici. Si fa in genere affidamento sugli psicofarmaci prescritti per curare alcune di queste condizioni, ma la risposta potrebbe essere semplice come mangiare una bella fetta di brisket, un pulled pork, una rosticciana, un chicken wrap. Batterie a lunga durata Tutti hanno sperimentato quel crollo post-pasto, quando la caffeina è l’unica cosa che può tenerci lontani dall’abbiocco. Il corpo umano scompone i carboidrati semplici in zucchero che il nostro corpo bru-
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Se fossimo erbivori, in pratica, rumineremmo. Considerate altresì che nelle società di cacciatori/raccoglitori, il 45-65% del fabbisogno energetico derivava da fonti animali e le malattie cardiache, l’obesità e il diabete di tipo 2 – le malattie che affliggono la società di oggi – non erano un problema. La cosa è visibile ad occhio nudo con il caso dei nativi americani, gli indiani d’America: magri e fieri prima di incontrare il carboidrato occidentale (e l’alcool), sono divenuti una fetta di popolazione sulla quale il diabete mellito si abbatte in maniera disastrosa.
cia rapidamente, lasciandoci schiantati. Al contrario, i nostri corpi utilizzano le proteine nelle carni per un’energia prolungata e duratura. Un altro componente critico del sentirsi energizzato è la stimolazione delle cellule dell’orexina nel cervello, che è direttamente collegata al dispendio energetico e alla veglia. Gli scienziati dell’Università di Cambridge hanno scoperto che gli aminoacidi stimolano le cellule dell’orexina più di qualsiasi altra sostanza. Pertanto, il consumo di proteine della carne porta a bruciare più calorie e più energia; la ridotta attività nelle cellule di orexina è stata collegata sia all’aumento di peso che alla narcolessia. Inoltre, la carne è una delle migliori fonti di ferro. I deficit di ferro ti mettono a rischio di anemia e di bassa energia, motivo per cui l’anemia è un problema cronico per i vegetariani (sottolineatelo mentre gli flippate la Flank steak in faccia). Tema che diventa scottante quando di mezzo ci sono bambini che crescono… Avitaminosi e dogma Ci sono molti nutrienti nella carne che sono fondamentali per la salute generale. Ci sono molte fonti di proteine, ma la carne è un’ottima fonte di proteine completa, contenente tutti gli aminoacidi di cui il nostro corpo ha bisogno, compresi quelli che il nostro corpo non può produrre. Tutte le vitamine del gruppo B si trovano in concentrazioni maggiori nelle carni rispetto alle fonti vegetali e la vitamina B12 può essere trovata solo nelle fonti animali. Le vitamine del gruppo B sono fondamentali per la salute, in particolare la salute mentale. Il deficit di queste vitamine può causare confusione, sensi alterati, aggressività, insonnia, debolezza, demenza e neuropatia periferica. Come saprete, i vegani, che vivono all’ombra della grande sóla del mito della natura incontaminata, sono costretti ad assumere la vitamina B-12 prodotta industrialmente dalle case farmaceutiche e dai produttori di integratori.
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Ci fermiamo qua, ma potremmo andare avanti per ore. Se dopo questa raffica di realtà il vostro interlocutore ancora rompe (non ve lo nascondiamo: è probabile), andate di dogma: «mangio la carne perché è buona!». Il dogma è particolarmente efficace, sino a divenire definitivo, se pronunziato in dialetto locale.
Vegetariani e malvagi Quante volte lo avete sentito? Coloro che non mangiano carne sono più buoni. Per motivi etici, p erché non uccidono un altro essere senziente p er nutrirsi. E p erché, se condo una le ggenda scientifica metrop olitana senza fondamento alcuno, la carne ti renderebb e più aggressivo I cattivi, insomma, amano la ciccia. Siccome vi capiterà sempre, in tavola o fuori, qualcuno che tirerà fuori l’argomento (i mangiatori di carne possono considerare il vegetarismo un rimprovero morale implicito, scrive uno studio pubblicato nel 2012 su Social Psychological and Personality Science) abbiamo deciso di darvi qualche contenuto per difendervi. Anzi: per attaccare. Prendiamo proprio il caso dei vegetariani-buoni. Senza perdersi nei labirinti della biochimica, basterebbe spostare la conversazione sulla Storia.
HITLER
e il futuro vegetariano del mondo È un enorme grattacapo per tutti i vegetariani del mondo il fatto che Adolf Hitler fosse uno di loro. Lo divenne nel 1932 dopo che l’amata nipote Angelika Raubal, detta «Geli», si sparò al cuore con la pistola del futuro Führer vegetariano. Geli era gelosa di Eva Braun, una giovanissima che orbitava intorno allo zio Adolf. Dopo la tragedia Hitler disse che la carne gli ricordava il cadavere di Geli. Un libro degli ultimi anni, Dictator’s dinner, racconta invece che la dieta vegetariana gli fosse stata prescritta dal suo medico contro la flatulenza, assieme ad altre 28 droghe. Eva Braun, al contrario, andava pazza per la zuppa di tartaruga, e continuò a sgattaiolare via furtiva di notte per snack a base di salsicce. Hitler davvero non toccò più neanche mezzo bratwurst, tuttavia scatenò una Guerra Mondiale da decine di milioni di morti. Il dittatore ebbe a dire nel 1941: «si può rimpiangere di vivere in un periodo in cui è impossibile avere un’idea della forma che il mondo del futuro assumerà. Ma c’è una cosa che posso prevedere per i mangiatori di carne: il mondo del futuro sarà vegetariano». Pochi anni dopo, per la fortuna dei nostri palati e dei nostri stomaci, si sparò un colpo in un bunker. killer veg Charles Milles Manson (1934–2017) era, come visibile anche nel recente bel film di Quentin Tarantino Once Upon a Time in Hollywood, una persona con un’insolita capacità di dominare gli altri. Radunò attorno a sé un culto distruttivo e apocalittico che in seguito i media hanno chiamato The Family, che arrivò a contare oltre 100 persone che vivevano in una comune piazzata in un ranch usato per i film Western. Manson era un ambientalista e attivista per i diritti degli animali preoccupato per i danni all’ambiente. Il suo odio per la carne arrivò persino in tribunale. Arringando alla giuria che doveva giudicarlo (novembre 1970), rese chiaro il suo pensiero: «Voi mangiate carne con i denti e uccidete cose migliori di voi, e nello stesso modo dite quanto cattivi persino assassini siano i vostri figli. Avete reso i vostri figli quello che sono. Sono solo un riflesso di ognuno di voi». Sapete per cosa fu condannato? Manipolò i suoi seguaci a fare un’orrenda strage nella quale perse la vita anche una bellissima attrice, moglie del regista Roman Polanski, cresciuta in Italia, a Vicenza: Sharon Tate, allora all'ottavo mese di gravidanza. Sul vegetarianismo di Manson ci sono varie conferme; è rilevante notare che una delle seguaci assassine di Manson era Squeaky Fromme (nel film di Tarantino è interpretata da Dakota Fanning), anch’essa vegetariana.
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CHARLES MANSON
POL POT
il serpentariano Cambiamo continente: parliamo di Pol Pot – che è indicato da varie fonti come vegano – responsabile della morte di circa 2 milioni di cambogiani su una popolazione di circa 8 milioni: chi non periva, andava a lavorare forzatamente nelle piantagioni, dove si poteva essere giustiziati a vista, per esempio se si portavano gli occhiali (chi portava gli occhiali era una persona istruita, quindi un nemico del regime degli Khmer rossi). Sulla immane tragedia cambogiana è possibile vedere il film L’urlo del silenzio, dove appaiono le fosse comuni in cui venivano talvolta seppellite vive le persone a centinaia perché, come da direttiva, «i proiettili non vanno sprecati». Ad onor del vero dobbiamo però dire che alcuni, tra cui il suo cuoco pentito, sostengono invece che nei suoi pasti luculliani, che abbondavano anche mentre il suo popolo moriva (anche) di fame, non potesse mancare lo stufato di cobra, di cui avrebbe consumato anche il sangue. Se il rettile conti effettivamente come carne non sappiamo, e chi ha provato il coccodrillo ci capisce. Esiste il pescetariano (quello che mangia solo verdura e pesce), esiste il pollotariano (si concede anche il volatile): vuoi vedere che Pol Pot era serpetariano?
GENGHIS KHAN
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macellaio buono con gli animali Sulla dieta vegetariana di Genghis Khan ci sono voci contrapposte: c’è chi dice che mangiasse solo carne, ma è vero sicuramente che il suo regno fu il primo ad emanare leggi per avere una macellazione che non facesse soffrire l’animale. Nonostante l’amore per le bestione – e succede spesso a quelli dei «diritti animali» – Temujin (questo il suo vero nome) fece ammazzare circa 40 milioni di persone, e lasciò un segno duraturo nella popolazione mondiale: lo 0,5% degli uomini sulla Terra (uno su 200, in Asia invece l’8%) porta un pezzo del suo DNA – e ci chiediamo se un lavoro del genere, in effetti, si possa fare senza mangiare bistecche. Ad ogni modo, non si contano le rosticcerie di Ulaan Bator chiamate «Genghis Khan». E nel nord dell’Hokkaido (Giappone), esiste il Jingisukan, un tipo di barbecue fatto con agnello o montone grigliato e verdure cotte su un braciere dalla forma speciale.
Patata furiosa ecoassassina Vegano è l’attivista animalista Volkert van der Graaf, l’assassino del politico neerlandese Pim Fortuyn, a cui sparò nel 6 maggio 2002 a Hilversum, Paesi Bassi. Egli è sospettato di aver sparato alle spalle anche a Chris van der Werken, un funzionario responsabile della politica ambientale
nel Nord Veluwe (1996). Volkert era altresì membro di un gruppo chiamato «Le Patate Furiose» (De Ziedende Bintjes), che compiva azioni illegali e violente contro gli allevatori di pellicce, le società che effettuano test sugli animali, e altre realtà che consideravano dannose per l’ambiente. Mistero dell’iniquità vegetariana Infine sganciamo la bomba definitiva: anche l’Anticristo è vegetariano. Mica lo diciamo noi, è il pensiero di Vladimir Sergeevič Solov’ëv, teologo e filosofo, considerabile come uno dei pensatori più importanti dell’intera storia russa. Ne Il Racconto dell’Anticristo, scrive Solov’ëv «il nuovo padrone della terra era anzitutto un filantropo, pieno di compassione e non solo amico degli uomini, ma anche amico degli animali. Personalmente era vegetariano, proibì la vivisezione e sottopose i mattatoi a una severa sorveglianza; le società protettrici degli animali furono da lui incoraggiate in tutti i modi». Nel 1991, in occasione del centenario della morte del filosofo russo, un cardinale cattolico, Giacomo Biffi, ripetè papale papale il concetto in un convegno. I vegani sono ovviamente ancora incazzati.
BBQ4DALAILAMA
qualcuno vi dice che i vegetariani sono più buoni, brasatelo con una qualsiasi di queste storie. Tenetelo bello sul fuoco, finché non ottenete la reazione di Maillard; pressatelo sulla brace del discorso fino a che non vedete le grill marks. E se la storia (e la logica) non basta, e tirano in ballo la religione – del tipo: il rispetto per tutte le creature viventi del Buddha, e bla bla bla – ricordategli che pure il Dalai Lama mangia carne. Riporta il New York Times che egli era perfino riuscito a stare senza carne per 20 mesi filati ma poi, sviluppato l’ittero, i suoi medici gli hanno detto di ricominciare a mangiare carne. Ora Sua Santità mangia carne due volte a settimana. Pensate quanto sarebbe bello averlo ad un corso Grill to Perfection.
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Il cannibale alla frutta Idi Amin Dada, un tempo fiero dittatore dell’Uganda (la pellicola da vedere è L’Ultimo Re di Scozia), scappò in Arabia Saudita dopo che aveva dichiarato guerra alla Tanzania e, nonostante l’aiutone di Gheddafi, dovette scappare dalla capitale Kampala. Esiliato a Gedda, possiamo dire che alla fine della sua carriera arrivò, come si suol dire, alla frutta: divenne fruttariano. Significa che il guerriero mangiava solo mele, arance, pere, pesche, albicocche, che a pensarci bene in Arabia crescono ovunque. Idi Amin fu certamente un politico di spessore, che in patria aveva manovrato per cannibalizzare l’opposizione. Cioè, sul serio, mangiava gli avversari politici. Ad oggi, unico caso conosciuto di persona passata dal cannibalismo al fruttarismo. La cosa non depone a favore di nessuno dei due fenomeni.
Lo speziale del Barbecue a cura della redazione
A TA V O L A C O N
il D iavolo
Consumato da almeno un quarto della popolazione mondiale, il peperoncino si è guadagnato un posto d’onore non solo a tavola, ma anche in altri ambiti di interesse per l’uomo: medico, scaramantico, magico, erotico. Molte cose sono state dette e scritte su questo diavoletto: ha davvero proprietà benefiche e curative? Favorisce sul serio l’attività sessuale? È dannoso per l’intestino? Scaccia il malocchio?
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Oggi cominciamo a parlare di questo ingrediente, praticamente onnipresente sulle nostre tavole e nelle preparazioni bbq, protagonista di un mondo vasto e ricco di sorprese, di forme e di colori sorprendenti e di qualche mito da sfatare. Un po’ di storia Forse non tutti sanno che il peperoncino è una pianta millenaria; infatti, anche se gli europei lo conobbero solo dopo la scoperta dell’America nel 1492, dal 6000 a.C. fu un elemento fondamentale nella vita quotidiana delle civiltà precolombiane stanziate in Sud-America, terra che noi abbiamo conosciuto solo grazie ai viaggi esplorativi di Cristoforo Colombo. Ad attestarne l’antichità esistono alcuni ritrova-
menti archeologici: in Perù, sono stati rinvenuti utensili in pietra che venivano usati per macinare e che sono risalenti al 5500 a.C.; in Messico, invece, sono tornati alla luce alcuni vasi del 2500 a.C. circa, utilizzati per contenere sia alimenti che bevande. In entrambi i casi, le analisi effettuate su questi oggetti hanno rilevato tracce di capsaicina (elemento organico responsabile della piccantezza del peperoncino), dimostrando che questi popoli ne facevano un grande uso nelle preparazioni culinarie, realizzate con farina di mais, fagioli, patate, pesce e carne, ma anche negli infusi. Tuttavia, per queste popolazioni il peperoncino era molto più di una semplice spezia, poiché gli venivano riconosciute anche
proprietà mediche e afrodisiache. Veniva usato per risolvere problemi di digestione e del cavo orale (gengiviti e mal di gola) e, a causa dell’intenso calore che sprigionava in bocca, aveva favorito il diffondersi della convinzione che fosse in grado di stimolare la passione tra gli amanti. Secondo la leggenda, l’imperatore
questa credenza esistono alcune opere artistiche, come l’Obelisco azteco di Tello costruito tra l’800 e il 1000 d.C. (chiamato così in onore del suo scopritore, il primo archeologo di origine indigena sud-americana). Tra i molti simboli rappresentati nel totem, c’è un serpente piumato (un drago), una divinità molto importante per la religione pre-colombiana (dio dei venti, della conoscenza e dei mestieri), dalla cui bocca penzolano quattro peperoncini, a sottolineare la provenienza divina del frutto piccante. azteco Montezuma (1502-1520 d.C.) ne consumava grandissime quantità durante i pasti, credendo in questo modo di mantenere alta la sua libido e soddisfare le sue concubine. Grazie a queste sue qualità, il peperoncino era considerato anche una pianta sacra, un dono che gli dei avevano fatto agli uomini. A testimoniare
Cristoforo Colombo conobbe la pianta e tutte le sue applicazioni nel quotidiano già durante il primo viaggio nell’attuale isola di Haiti, da lui all’epoca battezzata Española , ma aspettò il ritorno dal suo secondo viaggio per far conoscere ai sovrani di Spagna Isabella di Castiglia e Ferdinando d'Aragona il nuovo vegetale, presentandolo come la spezia che avrebbe scalzato il pepe
Purtroppo, a livello economico la sua importazione nel Vecchio Continente non ebbe il risultato sperato, perché fu osteggiato prima dalla Chiesa perché creduto un potente afrodisiaco (e di conseguenza demoniaco), poi dalla nobiltà a cui non piaceva quel gusto decisamente troppo piccante. Soprattutto, a determinarne il grande flop monetario fu la facilità con la quale chiunque poteva coltivarlo: dato che non servivano particolari accorgimenti, veniva definito la spezia dei poveri, il che non contribuì a renderlo pregiato e ambito. In effetti fu il grande insaporitore della cucina contadina povera di grassi ed insipida (all’epoca il sale era un ingrediente costoso, riservato a pochi). Solo nel ‘900 iniziò ad incontrare il favore dei signori. Fu in particolar modo Pellegrino Artusi a favorire questa ascesa, poiché incluse nel suo ricettario (1891) tutte le preparazioni con questo elemento piccante. Lo stesso poeta Gabriele d’Annunzio rimase talmente colpito dal rossoardente diavoletto folle al punto di citarlo in un verso nell’ Ode al Diavolicchio.
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importato dall’Oriente. Inizialmente, in Europa si diffuse col nome di pepe d’India, grazie alla somiglianza nel sapore; in seguito, tra la fine del ‘600 ed inizio del ‘700, ogni nazione si differenziò nell’appellativo: venne chiamato chili in Spagna ed in Germania, paprika in Ungheria, peperone in Italia (nel Bel Paese mutò successivamente in peperoncino ad inizio ‘900, viste le dimensioni ridotte).
Da quel momento, il piccolo peperone tutto fuoco non ha incontrato più alcun ostacolo, conquistando il palato di tutti senza più nessuna distinzione di ceto sociale.
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Qualche mito da sfatare Molto spesso sentiamo affermare che il massimo della piccantezza di un peperoncino risiede nei semi. In realtà, sono le ghiandole capsaiciniche le vere fonti della piccantezza: si trovano nella cosiddetta placenta, ossia nei filamenti chiari visibili all’interno del frutto. Si crede erroneamente che siano i semi i responsabili del grado di bruciore proprio perché sono attaccati alla placenta. Inoltre, non è vero che la piccantezza dipende dal colore rosso acceso: anche qui dobbiamo guardare i filamenti: se sono bianchi, il diavoletto folle non è eccessivamente piccante, mentre se il loro colore tende al giallo o a tonalità più calde allora siamo di fronte a una bomba esplosiva. In ogni caso, mangiare molto piccante fa bene o fa male al nostro organismo? La capsaicina ha sicuramente molteplici effetti benèfici: secondo recenti studi scientifici pare che il peperoncino abbia la capacità di ridurre il colesterolo cattivo e faccia bene al cuore, abbassando il rischio di sviluppare malattie cardiovascolari. Gli vengono attribuite anche virtù antibatteriche e, se consumato fresco, è una ricca fonte di proprietà antiossidanti, in grado di contrastare i radicali liberi. In molti lo evitano perché te-
mono spiacevoli conseguenze infiammatorie a livello intestinale. In realtà, già nel 1857 l'Accademia medica francese ha sancito ufficialmente la validità del peperoncino contro ogni tipo di emorroidi grazie all’azione terapeutica della vitamina K2. Inoltre, nell'intestino, il frutto piccante svolge un'azione antiputrefattiva e antifermentativa, impedendo che le tossine passino nel sangue. Affrontiamo adesso la vera domanda che tutti i maschietti si stanno facendo: è veramente un Viagra naturale? Beh, non può sostituirsi alle medicine per la disfunzione erettile, ma sicuramente ha proprietà vasodilatatorie e quindi favorisce l’apporto di sangue anche agli organi genitali. Vi consigliamo comunque di lavarvi le mani, se avete maneggiato il peperoncino, prima di procedere a qualsiasi attività di questo tipo, perché in caso contrario rischiereste di andare a fuoco nel senso negativo del termine. Curiosità e leggende Come abbiamo già scritto, i Maya mettevano in bocca dei peperoncini quando avevano le gengive infiammate. La famiglia Boccasana della nota pubblicità del colluttorio potrebbe sussultare di indignazione: in realtà, la dottoressa Millicent Goldschmidt, dell’Università di Houston, ha certificato la validità di questa pratica: la vitamina A combatteva le infiammazione e aiutava a guarire le gengive. Molte tribù indiane dell’America del Nord e del Sud con-
sideravano il peperoncino un potente talismano capace di proteggere dal male; per questo motivo legavano ghirlande fatte con questi frutti alle loro canoe, affinché allontanassero gli spiriti cattivi dell’acqua. Pratica che ancora oggi troviamo in alcune regioni del Sud Italia, dove si ha l’abitudine di appendere corone di peperoncini alla porta di casa, per tenere lontane le persone negative. Noi ci abbiamo provato con i bannati dalla nostra Community su Facebook, ma non funziona. In tutto il mondo ci sono gare di mangiatori di peperoncini, anche in Italia: se vi capita di passare da Diamante (CS) durante il Peperoncino Festival potrete assistere alla finale del Campionato italiano mangiatori di peperoncino. I concorrenti si sfidano a suon di piattini colmi di diavoletti tagliuzzati: possono aiutarsi con pane e olio, e hanno 30 minuti a disposizione per mangiarne il più possibile. Una mezz’ora di fuoco, letteralmente. Voi ci riuscireste? Botanicamente Parlando La pianta, appartenente alla famiglia delle Solanaceae come il pomodoro e la patata, viene definita come genere capsicum, probabilmente dal latino capsa che significa scatola. Questo perché i frutti contengono all’interno i semi. Tuttavia, alcuni studiosi propendono per la versione greca del termine kapto, che significa mordere, a causa della piccantezza e della sensazione di bruciore che si ha quando si mangiano questi frutti.
Nonostante sia una pianta perenne, in Italia viene coltivata annualmente a causa delle esigenze climatiche e agronomiche. Ne esistono circa 40 specie e almeno 2000 varietà. Vista l’impollinazione incrociata, è difficoltoso riuscire a creare una classifica definitiva. Ci provò prima Linneo e poi ci riuscì in parte Armando Yheodoro Hunziker, che nel 1956 ne classificò ben 27, di cui 16 spontanee e 11 coltivate dall’uomo. Le più conosciute tuttavia sono cinque: 1. Capsicum annuum ( Peperone dolce, Jalapeno, Ancho poblano, Serrano del sol, Cayenne). 2. Capsicum baccatum (Aji Amarillo, Aji Habanero, Bishop Crown, Lemon Drop). 3. Capsicum chinense (Fatalii, Habanero, Naga Morich, Naga Viper, Schocth Bonnet, Trinidad Scorpion, Carolina Reaper). 4. Capsicum frutescens (Piri Piri, Tabasco, Thai Pepper). 5. Capsicum pubescens (Rocotò sudamericano, Manzano e Locato). La caratteristica principale, che le accomuna tutte e ne permette una classificazione precisa, è il grado di piccantezza. Esiste addirittura un’unità di misura: l’unità Scoville, misurata in S.H.U (Scoville Heats Units); prende il nome dal suo ideatore Wilbur Scoville, farmacista di Detroit che nel 1912 la mise a punto. Di questo però parleremo in un prossimo articolo, con un dettaglio approfondito sugli aspetti relativi alla scala Scoville. Intanto vi lasciamo una tabella di semplice consultazione che raggruppa le caratteristiche principali delle cinque specie sopra riportate.
CAPSICUM PUBESCENS
aroma lievemente fruttato piccantezza elevata maturazione media pianta molto alta a foglie pelose e semi neri
CAPSICUM FRUTESCENS
aroma lievemente fruttato piccantezza elevata maturazione media pianta arbusto a portamento eretto
CAPSICUM CHINENSE
aroma fruttato piccantezza elevata maturazione lenta pianta resistente a ciclo perenne
CAPSICUM BACCATUM
aroma agrumato piccantezza elevata maturazione media pianta alta e vigorosa
CAPSICUM ANNUUM
aroma secco non fruttato piccantezza medio/bassa maturazione veloce pianta voluminosa e più diffusa
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È una pianta ad arbusto. Varia la sua altezza a seconda della specie, da un minimo di 40 cm sino a 2, 5 metri di altezza, come nel caso del Capsicum Pubescens. Ha foglie verdi chiare, che anch’esse possono differire nella forma: da affusolate e piccole, ad esempio nel caso del Capsicum Annuum. a grandi e larghe, come nel caso del Capsicum Chinense. Sia i fiori che i frutti son caratterizzati da componenti comuni per tutte le specie. I frutti sono formati da una bacca che ha all’apice un peduncolo; esso serve a tenerli ben saldi alla pianta. A loro interno troviamo la placenta che tiene attaccati a sé i semi. I fiori, molto simili per forma, si differenziano fra le varie specie per colore della corolla e degli stami.
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B E N C O T TA? N O G R A Z I E! MEGLIO SE
cotta bene!
TA B E L L A D E L L E T E M P E R AT U R E A L C U O R E C O N S I G L I AT E P E R R I S U LTAT I G A R A N T I T I BISTECCHE E ARROSTI DI MANZO, AGNELLO, CERVO. PETTO DI ANATRA Blue
43°-49°C / 110°-120°F
viola scuro, freddo, fibroso, scivoloso
Rare
49°-54°C / 120°-130°F
da viola brillante a rosso, tenero, succoso
54°-57°C / 130°-135°F
rosso brillante, tenero, molto succoso
Medium
57°-63°C / 135°-145°F
rosa intenso, cedevole, succoso
Medium Well
63°-68°C / 145°-155°F
da marrone a rosa, sodo, poco succoso
Well Done
68°C / 155°F e oltre
marrone, gommoso, secco
Medium rare
BISTECCHE E ARROSTI DI MAIALE Rare
49°-54°C / 120°-130°F
rosa pallido, tenero, leggermente succoso
Medium rare
54°-57°C / 130°-135°F
rosa crema, tenero, molto succoso
57°-63°C / 135°-145°F
dal crema al rosa, cedevole, molto succoso
Medium Well
63°-68°C / 145°-155°F
crema, fermo, poco succoso
Well Done
68°C / 155°F e oltre
crema, resistente, secco
Medium
ALTRE CARNI Pork Ribs, Spalla di maiale Brisket, Beef Ribs Pollo, Tacchino Carne macinata, burger, salsicce (eccetto se di pollo) Prosciutto cotto, Hot Dog, Salsicce precotte
la migliore cottura per tagli ricchi in grasso e col95°C / 203°F
lagene è quella low&slow (bassa temperature per lunghi tempi)
71°C / 160°C 71°C / 160°C 60°C / 140°F
carni bianche divenute color crema, carni scure divenute color marrone succosi se si include una percentuale di grasso dal 20% al 30% nella miscela tenero, succoso
Tonno
49°-52°C / 120°-125°F
dal porpora al rosso brillante
Altri pesci
52°C-57°C / 125°-135°F
lievemente translucido, fragile, tenero, succoso
57°C /135°C
opaca
Aragosta, granchi, gamberi, gamberi, capesante Vongole, Cozze, Ostriche
appena si aprono
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PESCE E FRUTTI DI MARE
SALSE
CAPITOLO UNO The Chemical Griller a cura di Virgilio Brunetti
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Definire genericamente la parola salsa è piuttosto semplice: le salse sono preparazioni gastronomiche liquide o semiliquide che hanno il compito di accompagnare e perfezionare, nel gusto e nella consistenza, altri alimenti. Si possono definire salse sia tutti i fondi di cottura opportunamente addensati, legati o emulsionati, sia moltissimi altri condimenti preparati separatamente, costituiti da alimenti vegetali o animali che vengono processati mediante la combinazione di tecniche di estrazione, cottura e fermentazione. In questo contesto potremmo categorizzare le salse in tre enormi categorie: fredde, calde e fermentate. Si suppone che, già in tempi molto antichi, i liquidi saporiti scaturiti dalla cottura sul fuoco della cacciagione potessero essere utilizzati per condire altri cibi e migliorarne il consumo. Sappiamo con assoluta certezza che il termine salsa deriva dal latino salsus (salato), a testimoniare come nell’antichità il sale - o meglio ancora la semplice acqua di mare - fosse il condimento base per migliorare molti cibi. Fonti storiche riportano come anche nella Roma repubblicana fosse diffuso l’uso di salse e condimenti di origine animale e vegetale. Marco Gavio Apicio nel suo De re coquinaria (una raccolta di ricette dell’Antica Roma) descrive la presenza massiccia di spezie ed erbe aromatiche nelle ricette dei vari intingoli della cucina imperiale. Inoltre dedica molto spazio alla descrizione dei vari tipi di condimenti,
Nello specifico, Apicio ci descrive le due salse onnipresenti nelle ricette da lui trascritte: 1. il garum, salsa ottenuta dalla fermentazione in salamoia di sardine, acciughe o delle interiora di pesci più grandi che veniva utilizzata un po’ come noi oggi usiamo il sale, quindi per insaporire tutti i piatti, primi o secondi che fossero. Il nome deriva dal greco garon, ossia il pesce da cui si ricavavano le viscere e non è altro che l’antesignano della nostra colatura d’alici; 2. il defrutum, un condimento dolce a base di mosto d’uva cotto, ottenuto dopo un lungo processo di bollitura in caldaie di rame; se il mosto veniva sottoposto ad una seconda bollitura si otteneva la sapa, un composto viscoso. L’uso degli intingoli e delle spezie si evolve lentamente nell’ultimo millennio; nel Medioevo venivano preparati sughi a base di brodo e spezie ed erbe con l’aggiunta di agresto (mosto acetificato) o aceto, spesso addensati con pane tostato grattugiato; tipiche medievali sono la salsa verde, la piperata, la camelina e la mostarda. Nel ‘300 Guillaume Tirel, nel più antico libro di cucina fran-
cese, Le Viandier, propone numerose ricette di queste preparazioni gustose. Anche i grandi cuochi rinascimentali come il Platina, il Messisbugo ne offrono un ampio panorama nei loro testi. Fu nel corso del Seicento, grazie all’uso più misurato delle spezie, che si cominciò ad utilizzare la farina come legante dei sughi liquidi. Queste preparazioni erano più gentili e sapevano interpretare meglio il gusto del naturale che si andava affermando alla corte di Francia. Nel XVIII secolo, poi, la svolta con la codifica dell’arte della cucina francese e lo sviluppo di tre categorie di salse ben distinte che avrebbero portato a quelle moderne: le riduzioni di vegetali compresi i funghi, le emulsioni a caldo a base di burro e farina (i roux), da cui nacquero besciamella o Mornay, le emulsioni a freddo, di cui è tipico esempio la maionese. Nel XIX secolo, sempre in Francia, le tecniche di preparazione dei vari intingoli vennero sistematizzate soprattutto da Careme, quando si posero le basi per le salse calde e fredde, brune e bianche, madri e composte. Parallelamente, in altre culture fuori dal vecchio mondo il concetto di salsa e condimento si è sviluppato indipendentemente con un numero enorme di varianti; alcune di esse, nel corso del XX secolo, sono diventate successi planetari, e sono stati creati brand che potremmo definire inimitabili: salse di soia Kikkoman; tomato ketchup Heinz, salsa Worcestershire Lea&Amp; sal-
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sottolineando l’importanza di creare abbinamenti e gusti diversi. La cosa interessante da notare è che gli ingredienti più utilizzati, presenti praticamente in tutte le ricette descritte nei dieci libri del De Re Coquinaria, sono solo nove e sono: garum, defrutum, olio, miele, aceto, vino, pepe, cumino e ruta.
sa Tabasco McIlhenny Company Perrins; senape di Digione Maille; salsa Sriracha Huy Fong Foods. La salsa di soia, la madre delle fermentate. La fermentazione spontanea di alimenti genera, nelle giuste condizioni ambientali, processi di degradazione enzimatica che trasformano zuccheri, grassi e proteine in nuove molecole. La libera degradazione dei substrati biologici in molecole più semplici viene comunemente chiamata decomposizione; gli attori di questo processo spontaneo sono i microrganismi naturalmente presenti nell’ambiente. In specifiche condizioni ambientali di temperatura, umidità, osmolarità e pH, alcuni microrganismi possono prevalere su altri generando sui cibi trasformazioni sorprendenti. Vini, birre, aceti, prodotti da forno, conserve, condimenti e una miriade di altri alimenti diffusi in tutte le culture gastronomiche vengono prodotti e migliorati mediante il controllo dei processi di fermentazione. Così, già in tempi remoti in parallelo e in diverse civiltà, alcuni uomini si accorsero che
da qual cibo andato a male si potevano recuperare prodotti interessanti, con un valore gastronomico anche superiore rispetto all’alimento originale. Sia in Oriente che in Occidente sono stati cercati per secoli i modi migliori di preservare i cibi, finché non si è scoperto che l’uso del sale non solo migliora il mantenimento, ma dona sapore. Nell’antica Cina, gli alimenti conservati e i loro condimenti erano noti come jiang, forse il predecessore di quello che noi conosciamo come salsa di soia. Inoltre quella fermentazione poteva essere in qualche modo controllata e propagata, così nel corso dei secoli il fungo Aspergillus oryzae (kōji) è stato addomesticato e geneticamente selezionato per la produzione di vino di cereali, salse di soia e altri condimenti fermentati. Diversi tipi di jiang venivano prodotti da carne, pesce, verdure e grano. Di tutti questi ingredienti, il grano era quello più facilmente disponibile e gestibile; per questo lo jiang fatto dai semi di soia e dal frumento si sviluppò più rapidamente. Il processo di produzione si diffuse poi in Giappone e negli altri Paesi limitrofi alla Cina. Dopo essere stato introdotto in Giappone,
lo sviluppo e la trasformazione dello jiang subì una svolta decisiva: verso la metà del XVII secolo fu definito il processo di produzione della salsa di soia fermentata naturalmente, che iniziò poi a diffondersi in tutto il Paese. La ricerca del quinto sapore, l’umami, è una questione culturale, un elemento basilare della cucina asiatica, ma è proprio in Giappone che trova la sua massima espressione anche in termini di tecnologia produttiva, basti pensare al colosso Ajnomoto, azienda leader nella produzione di Glutammato Monosodico, ovvero del gusto umami allo stato puro e cristallino. La salsa di soia giapponese è composta da pochi e semplici ingredienti (acqua, sale, soia e frumento) ma il processo di produzione è complesso; il ruolo e la selezione degli ingredienti influenzano in maniera diretta la qualità e la tipologia di questo intingolo. Oggi, quella più conosciuta è la Kikkoman, azienda giapponese che ha reso globale questo prodotto. Secondo il disciplinare produttivo Kikkoman, ogni ingrediente ha un ruolo ben preciso; le caratteristiche uniche di questa salsa provengono in primo luogo dalle
TIPOLOGIE DI SALSA DI SOIA GIAPPONESE
068 - Almanacco 2020
SHIRO
USUKUCHI
KOIKUCHI
SAISHIKOMI
TAMARI
SCURA
LEGGERA
proteine contenute nei semi di soia. Questi vengono prima immersi in acqua per un periodo prolungato e poi cotti al vapore a temperature elevate; i componenti che donano alla soia il suo aroma delicato e quel tipico tocco di dolcezza, sono i carboidrati contenuti nel frumento. Quest’ultimo viene tostato ad alte temperature e poi schiacciato per facilitarne la fermentazione; Il sale viene sciolto in acqua e questa soluzione controlla la propagazione batterica durante il processo di fermentazione, agendo come conservante. L’azienda produttrice ha selezionato, perfezionato e protetto i microorganismi responsabili dell’intero procedimento. Fin dalla sua fondazione, Kikkoman ha impiegato un ceppo selezionato di Aspergillus oryzae (kōji). Esso è miscelato con semi di soia e frumento opportunamente trattati, che vengono poi trasferiti ad un impianto che fornisce l’ambiente ottimale per la propagazione del fungo. Questo sviluppo si traduce nella produzione dello shōyu kōji, di fatto la salsa di soia allo stato grezzo, base essenziale di quella raffinata che noi conosciamo Lo shōyu kōji viene trasferito in tini di grande volume e miscelato con una soluzione salina. Questa miscela è chiamata moromi, una sorta di mosto che fermenta e invecchia nei tini per diversi mesi. Qui hanno luogo diversi processi fermentazione che portano alla formazione di acido lattico, etanolo e una varietà di acidi organici che donano al moromi un sapore ricco, oltre ad aroma e colore tipici di questo intingolo. La filtrazione del mosto invecchiato ha come prodotto una salsa dallo stato crudo che viene poi pastorizzata e imbottigliata. Tuttavia, esistono molte aziende Giapponesi che lavorano con metodi tradizionali, manuali e non automatizzati nella convinzione di produrre uno shōyu di qualità nettamente superiore. Un esempio è la salsa di soia Marunaka, una realtà produttiva ostinatamente legata alla tradizione; qui i kura, le vasche di fermentazione, sono riconosciuti dal governo giapponese come veri tesori nazionali. Il prodotto di questa azienda ha lo stesso valore qualitativo di un grande vino d’annata. Esistono inoltre molte varianti nella formulazione della salsa di soia che si differenziano in base al luogo di produzione. La tipologia giap-
ponese risulta più dolciastra e rispetto a quella cinese ha ben cinque declinazioni: 1. Koikuchi. Originaria della regione Kantō, viene ad oggi considerata la vera salsa di soia giapponese. Contiene approssimativamente parti uguali di soia e grano, oltre a sale e lievito. 2. Usukuchi. Popolare nella prefettura Kansai, ha un sapore più salato ed è leggermente più chiara della Koikuchi. Contiene spesso anche riso fermentato, glutine di frumento o di amazake. 3. Tamari. Ha avuto origine nella regione di Chūbu, contiene principalmente soia ed una piccola percentuale di grano. 4. Saishikomi. Originaria della prefettura di Yamaguchi, si ottiene dalla doppia fermentazione della Koikuchi. Di conseguenza è molto più scura, meno salata ma dal sapore fortemente aromatico. 5. Shiro. Prodotta originariamente nella regione di Aichi, ha una colorazione molto leggera poiché prodottaprincipalmente con il grano. La salsa di soia cinese, invece, comprende due varietà di salse: leggera e scura. La prima è molto liquida, ha un colore meno marcato ed è molto salata. La varietà scura invece è più densa e nerastra per l’aggiunta di melassa; di conseguenza, risulta un po’ più dolce della precedente. La salsa di soia indonesiana (Kecap), così come quella cinese, comprende due tipologie: Asin e Manis. La prima è salata, densa e con un aroma deciso. La Manis è caratterizzata invece da un sapore dolce a causa dell’aggiunta di zucchero di palma o di melassa.
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TIPOLOGIE DI SALSA DI SOIA CINESE
La ricetta scientifica a cura di Gianfranco Lo Cascio
IL CLUB SANDWICH Chi ha stabilito che un grande pane con una grande mortadella non siano gourmet quanto Royal Beluga e Krug?
070 - Almanacco 2020
Il lusso vero è fare quello che ci piace quando ci va, fosse anche mangiare un sandwich con pollo e bacon che scoppia di maionese.
071 - BBQ4All Magazine
Il Club Sandwich è uno dei miei guilty pleasure. Tre strati di carboidrati imburrati e tostati che fanno quadrato tra succulenti stracetti di pollo, bacon sfrigolato e croccante, una botta fresca di insalata verde e pomodori affettati, il tutto avvolto e benedetto da un seduttivo strato di maionese. E il naufragar m’è dolce in questo mare.
072 - Almanacco 2020
IL PANE
Il segreto di un sandwich da primo premio è basato sulla scelta della materia prima. Ingredienti scelti con cura, pollo e bacon cotti a puntino e una salsa fatta in casa sono alla base del successo. Ma per prima cosa, scegliete del pane in cassetta di qualità, molti arti-
giani ne producono di straordinari. Oppure preparatelo da soli seguendo la nostra ricetta. Se non lo avete ancora fatto, correte a leggere l’articolo del nostro Alessandro Trezzi, il nerd dei panificati. Troverete tutto quello che dovete sapere sul pane in cassetta, cos’è, come si prepara, come si serve. Importante: ricordate di imburrare appena il pane e tostarlo da entrambi i lati sulla piastra in ghisa prima di confezionare il sandwich. In questo modo otterrete sei strati tostati, profumati e molto saporiti. Montate il sandwich molto alto per massimizzare l’impatto visivo, ma ricordate poi di tagliarlo a triangoli o cubi da due o tre bocconi al massimo. Una preparazione molto ricca deve esaurirsi in
pochissimi bocconi per non risultare stucchevole ed eccessiva.
IL BACON
È un salume tradizionalmente prodotto nei Paesi anglosassoni: Regno Unito, Irlanda, Stati Uniti e Canada. L’abbiamo conosciuto da bambini perché protagonista della full breakfast, la colazione americana e inglese dei campioni composta da bacon, uova strapazzate, funghi saltati, frittelle di patate, salsiccette, fagioli salsati, pomodori e un piccolo toast, che troppi carboidrati fanno male. Ve lo dico subito: Il bacon non viene prodotto solo con la pancetta ma anche con altri tagli del maiale, e prende nomi diversi a seconda del taglio utilizzato e della provenienza.
Bacon o "bacoun" era un termine Middle English (l’inglese parlato dal 1150 al 1500 d.C.) utilizzato per indicare la carne di maiale in generale. Deriva dal francese bako, dall'antico alto tedesco bakko e dall'antico teutonico backe, tutte parole che fanno riferimento al dorso dell’animale. Yorkshire e Tamworth sono le razze allevate per la produzione di questo delizioso salume. L'espressione "portare a casa il bacon" risale al XII secolo, quando una chiesa di Dunmow, in Inghilterra, cominciò a donare una porzione di bacon a qualsiasi uomo che potesse giurare davanti a Dio e alla congregazione di non aver combattuto o litigato con la moglie per un anno e un giorno. Chi riusciva a"portare a casa il bacon" diventava l’eroe della sua comunità.
I L B AC O N N E L L A S T O R I A
N O N T U T T I S A N N O C H E… La pancetta è uno dei tagli di carne più antichi della storia, risale al 1500 a.C. Ogni anno negli Stati Uniti vengono prodotti più di 2 miliardi di libbre di pancetta. Il 70% di tutto il bacon negli Stati Uniti viene mangiato a colazione. Fino alla prima guerra mondiale, il grasso di pancetta era il grasso da cucina preferito dalla maggior parte delle famiglie americane, quando il lardo di maiale preconfezionato diventa comunemente disponibile.
073 - BBQ4All Magazine
Epoca romana. Secondo gli storici dell'alimentazione, i romani mangiavano un salume ricavato dalla spalla del maiale chiamato petaso, che era essenzialmente carne di maiale allevato e bollita con fichi, poi rosolata e condita con il pepe. 1600. La pancetta, una fonte di proteine relativamente facile da produrre e soprattutto economica, diventa un alimento cardine per i contadini europei. La pancetta affumicata, al contrario, diventa cibo per ricchi. 1770. L’inglese John Harris si inventa la produzione industriale di pancetta su larga scala. Apre la sua azienda nel Wiltshire, considerato ancora oggi la capitale mondiale del bacon. 1924. Oscar Mayer introduce in America il bacon preconfezionato e preaffettato. 1990. Il bacon a fette non basta più a soddisfare i suoi estimatori. Nascono moltissimi spin-off del salume affumicato, tra cui la pancetta di pollo fritto e il Bacone (un cono di bacon fritto ripieno di uova strapazzate, patate e formaggio)
I TAGLI DEL BACON Side Bacon: si ricava dalla pancia del maiale ed è caratterizzato da lunghi strati di grasso che corrono paralleli alla cotenna. Questa è la forma di pancetta più comune negli Stati Uniti, affumicato o "aqua" (non affumicato). La nostra pancetta tesa è il Side bacon italiano. Middle bacon: proviene dai fianchi dell'animale, ha un costo medio-basso e per contenuto di grasso e sapore si pone tra streaky bacon e back bacon. Back bacon (Irish bacon/ Rashers o pancetta canadese negli Stati Uniti): ricavato dalla lombata al centro del dorso del maiale. Si tratta di un taglio
LA STAGIONATURA
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Può essere effettuata in due modi: a secco o dry cured, si cosparge il pezzo di carne con una miscela di sale e spezie, lasciando il tempo al sale di penetrare nella carne, disidratandola; in salamoia o wet cured, si immerge la carne in una miscela di acqua, sale e spezie. Il bacon può quindi seguire due strade: essere affumicato oppure no. Il bacon aqua viene stagionato per circa quindici-venti giorni e poi venduto, quello affumicato può abbracciare il fumo sia a freddo che a caldo. Dall’affumicatura a freddo si ottiene un prodotto identico a quello non affumicato, con una carne soda, da consumare solo previa cottura. Dall’affumicatura a caldo, somministrata a
molto magro e carnoso, con meno grasso rispetto ad altri. Ha una consistenza simile al prosciutto. La maggior parte del bacon consumata nel Regno Unito è ricavata dal lombo.
Collar Bacon: ricavato dal collo dell’animale.
Cottage Bacon: è carne magra di maiale affettata sottilmente, ricavata da un taglio di spalla che è tipicamente di forma ovale. Viene stagionata e poi tagliata in fette rotonde che vengono cotte al forno o fritte. Jowl Bacon: guanciale di maiale stagionato e affumicato.
Gammon: dalla zampa posteriore, tradizionalmente “Wiltshire cured”.
Slab Bacon: con una percentuale di grasso da media a molto alta. Si ricava dalla pancetta, dai tagli laterali e dal dorso del maiale.
temperature superiori agli 80°C, nasce un bacon cotto, che lo rende consumabile tal quale, al pari di un salume tradizionale. Il bacon affumicato a caldo esiste anche da noi, è molto diffuso tra i salumifici delle zone alpine
BACON E PANCETTA: QUAL È LA DIFFERENZA ?
Innanzitutto il bacon si può ricavare da diversi tagli di carne, non solo dalla pancia: come già chiarito prima, il back bacon proviene dal lombo ed è quindi molto più magro, poiché composto da una parte magra e dal grasso della schiena (il lardo), il jowl bacon, ottenuto dalla guancia corrisponde al nostro guanciale, il cottage bacon si ricava dalla spalla, lo slab bacon, proveniente da tagli
Hock: estratto dal garretto, dall'articolazione della caviglia del maiale.
Picnic Bacon: è ricavato dal picnic, il taglio sotto la spalla che si utilizza nella preparazione del pulled pork. Questo taglio include la maggior parte del quarto della zampa anteriore del maiale, abbastanza magro e piuttosto duro.
minori laterali e così via. Il bacon prodotto con la pancia prende il nome di streaky bacon, carratterizzato delle tipiche "strisce" di grasso inframmezzate al magro della pancetta. Il termine bacon, quindi, sembrerebbe indicare più un metodo di lavorazione che un taglio di carne, come siamo abituati a fare qui da noi. La pancetta "all'italiana" che più gli assomiglia è quella tesa (non arrotolata) che però non subisce nessun processo di cottura prima di essere commercializzata, a parte quella affumicata a caldo e tipica del Trentino Alto Adige. La differenza sostanziale sta nel tempo di stagionatura: mentre la nostra pancetta è pensata per il consumo a crudo, il bacon nasce per essere cotto. E ora lo Zio vi spiega come.
I METODI DI COTTURA DEL BACON
Quelli più diffusi sono sette, vi descriverò pro e contro di ognuno e vi dirò come lo faccio io.
02. Microonde Come si fa: rivestite il piatto con carta assorbente, poggiate le fette di bacon ben distanziate l’una dall’altra, ricoprite con un altro strato di carta e cuocete per 4-6 minuti a potenza sostenuta. Risultato: Fettine cotte in maniera uniforme, parti grasse ben rosolate e croccanti. GLC Approved: NI È il metodo per chi ha fretta e non vuole salvare il grasso disciolto del bacon. La cottura perfetta ha bisogno di un po’ di tuning, bisogna calcolare al millimetro i tempi ed entrare in sintonia col proprio forno. Pulire il piatto è una passeggiata, basta gettare la carta nel secchio dell’umido ed è fatta. 03. Padella antiaderente Come si fa: sistemate il bacon in una padella antiaderente fredda, cuocete a fuoco medio e girate le fette alla bisogna. Risultato: cottura a macchie di leopardo, con parti più rosolate di altre. Grasso disciolto che può essere filtrato/colato in un barattolo ed usato per la altre preparazioni. GLC Approved: NI È un metodo efficace, ma la cottura a spot non mi fa impazzire.
04. In forno su una gratella Come si fa: preriscaldate il forno a 200°C. Adagiate le fettine di bacon su una gratella che andrà poggiata su una teglia rivestita di carta assorbente. Cuocete fino a doratura (20-30 minuti a seconda dello spessore delle fette) Risultato: Bacon succoso e stiracchiato, con lievissimi accenni di arricciatura. La carta serve per assorbire i grassi disciolti e limitare (ma di poco) la formazione della tipica nebbia-post-pancetta. GLC Approved: NI Cottura graduale ed armoniosa, ma che spreco quel grasso risucchiato dalla carta! Per non parlare della gratella impiastricciata da raschiare alla fine. 05. Friggitrice ad aria Come si fa: mettete le fette di bacon nella friggitrice ad aria e cuocete a 200°C, scuotendo il cestello di tanto in tanto fino ad ottenere delle strisce belle croccanti. Svuotate il contenitore dei residui di grasso tra una cottura e l’altra per non fare i suffumigi di porco. Oppure andate a (farvi) friggere in terrazzo. Risultato: Cottura azzeccata e soprattutto rapida, ci vorranno circa 5/8 minuti al massimo. GLC Approved: NI Le fettine si stropicciano moltissimo, il grasso andrà tutto sprecato e pulire la friggitrice ad aria è una vera spina nel… fianco. 06. Sous vide Come si fa: solo con il bacon tagliato a fette spesse, il bacon affettato sottile non ha nulla da intenerire. Inserite le fettine nel sacchetto e cuocete sottovuoto a 64°C per 8/24 ore. Tirate fuori la carne dall’involucro e rosolate in padella bollente per pochi secondi. Risultato: Bacon molto ciccioso, succulento e grassoccio dentro, soffiato e croccante fuori. GLC Approved: SI
Tecnica laboriosa ma soddisfacente. Potete anche cuocere il bacon sottovuoto e surgelarlo, per poi saltarlo in padella (da surgelato) quando vi occorre. Si conserva in freezer fino a due mesi. 07.Padella in ghisa Come si fa: rivestite la padella di ghisa fredda con il bacon, girate le fette ogni tot fino a doratura. Risultato: Nastri di bacon arricciati, parecchio grassi e opulenti in alcuni punti, fragranti e scrocchiarelli in altri. GLC Approved: SI È il miglior compromesso tra le varie metodologie. La cottura è rapida, tutto sommato soddisfacente, e potete mettere da parte i preziosi grassi avanzati dalla cottura in un barattolo. Metodo GLC Come si fa: prendete una teglia d’acciaio o vetro temperato, rivestitela di carta forno (o se preferite un tappetino di silicone) e sistemate le fette di bacon a 2cm l’una dall’altra. Inserite la teglia nella parte centrale del forno (a freddo), impostate il termostato su 200°C in modalità statica e lasciate cuocere per circa 15 minuti. A cottura quasi ultimata spruzzate le fettine con aceto di mele, quindi cuocete per altri 5 minuti o fino al grado di doratura che preferite. Recuperate il grasso fuso, filtratelo e colatelo in un contenitore, potrete conservarlo in frigorifero per una settimana buona. Risultato: Bacon perfettamente cotto, croccante perché “fritto” nel suo stesso grasso, brillante e caramellato dall’aceto vaporizzato. Voto 10 su tutta la linea. 075 - BBQ4All Magazine
01. In padella con acqua Come si fa: disponete le fette di bacon nella padella fredda, coprite con acqua a temperatura ambiente. Cuocete a fiamma alta e portate a bollore, poi riducete la fiamma fino a completa evaporazione, quindi girate le fette e cuocete a fiamma bassa fin quando il bacon non sarà di un bel colore dorato. Risultato: cottura disomogenea con parti croccanti e frazioni gommose. Per non parlare della patina appiccicosa e pestifera che ricopre la padella, impossibile da pulire. GLC Approved: NO
IL PETTO DI POLLO È la farcitura portante del panino, quindi è cruciale cuocerla bene. Troppo spesso mi sono ritrovato a masticare petti pollo di gomma, alcuni li sto ancora masticando. Sono partito quindi dalla fine, ho pensato che quasi sicuramente il problema sta nella cottura, la soluzione va cercata negli effetti del calore sulla carne.
LA COTTURA IDEALE
Sotto i 50°C La carne è da considerarsi cruda, sia le miofibrille (i filamenti del muscolo) che i “fasci crociati” di collagene (il tessuto connettivo) sono ancora integri. A 50°C La miosina, la parte rossa per intenderci, inizia a coagulare strizzando fuori i liquidi che vengono in parte raccolti nelle guaine di collagene (le guaine che avvolgono le fibre muscolari). A 60°C Tutte le proteine che restano coagulano spingendo ancora liquidi all’esterno, e rendono la carne opaca e turgida.
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A 66°C Anche le proteine della guaina (in gran parte collagene) si coagulano repentinamente e si contraggono. L’effetto è quello che si ottiene strizzando una spugna intrisa d’acqua, a questo punto i liquidi fanno ciao ciao con la manina alla carne. L’Istituto Superiore di Sanità raccomanda una temperatura di cottura di 77°C per il pollo,
82°C nel caso di un pollo intero. Un consiglio per salvaguardare la sicurezza alimentare (a quelle temperature si elimina la maggior parte dei batteri) più che strettamente gastronomico. Comunque, possiamo stabilire il primo criterio per il nostro petto di pollo alla griglia perfetto: la temperatura ideale per cuocerlo è compresa tra i 60°C e i 65°C.
LA MARINATURA
Esiste una differenza sostanziale fra la composizione di una salamoia ed una marinata: la salamoia è una soluzione salina a pH neutro o tendente al basico (acqua, sale e aromi) mentre una marinata è una miscela caratterizzata da una base acida arricchita di zuccheri, grassi, aromi, spezie. Ricordate che solo il cloruro di sodio, il sale in sostanza, è capace di migliorare profondamente le caratteristiche della carne in termini di succosità, sapidità e consistenza. Tutto il resto non fa altro che donare una copertura aromatica caratteristica e superficiale che si andrà a finalizzare e completare durante la cottura; i grassi, gli aromi e gli zuccheri assorbiti sulla superficie dell’alimento non faranno altro che dare una spinta alla reazione di Maillard e favorire la formazione della crosticina esterna.
L A M A R I N AT U R A ACIDA
Una marinatura tradizionale è costituita da: una fase acquosa acida, una fase grassa, un tensioattivo, erbe e spezie, zuccheri e sale.
Quali sono gli effetti di una marinata? In ordine decrescente: – incremento dell’umidità della carne; – aromatizzazione; – ammorbidimento. L’acidità della componente acquosa di una marinata ha proprio il compito di magnificare la sensazione di succosità: l’esposizione diretta di piccoli tagli di carne a componenti particolarmente acide genera una trasformazione profonda dei tessuti muscolari e dei connettivi; un acido non fa altro che apportare ioni H+ (derivati dall’acido acetico, citrico o lattico contenuti nelle basi acide). L’azione di questi ioni cambia radicalmente la conformazione delle proteine della carne, generando una denaturazione e successivamente una coagulazione molto simile a quella che avviene con il calore. Se immergete un pezzo di carne nel succo di limone vedrete un rapido e progressivo cambio di colore che interessa tutte le proteine, comprese i pigmenti muscolari come la mioglobina, che coagulano diventando di colore grigio. Le componenti acide, anche se hanno una velocità di penetrazione bassa attraverso la carne, modificano significativamente la struttura delle proteine rendendole capaci di trattenere una maggiore quantità d’acqua durante le fasi di cottura; parallelamente abbiamo anche un'importante metamorfosi a livello gustativo: la percezione di acido implementa in molti casi la gradevolezza del prodotto, occhio a non esagerare però.
Le proporzioni tra gli ingredienti variano in base al risultato che vogliamo ottenere, ma indicativamente, il rapporto tra sostanza grassa e sostanza acida si aggira su una proporzione da 1:3 a 1:2.
LE BASI ACIDE FERMENTATE
La cucina indiana, straordinariamente ricca per gusto e maestra nell’uso delle spezie, ha sdoganato la preparazione delle marinate a base di yogurt.
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Esistono moltissime basi fermentate, ma poche contengono microorganismi “vivi” responsabili del processo di fermentazione stesso. Yogurt, kefir e latticello sono sicuramente le più interessanti per quanto riguarda il profilo gustativo. L’utilizzo di questi ingredienti ha origini antichissime, tanto quanto la stessa pastorizia. I fermenti lattici e altri ceppi batterici (acetobatteri) non fanno altro che inacidire o meglio fermentare il latte generandone una parziale coagulazione. Le marinate a base di questi prodotti sono ricche di fermenti lattici che competono efficacemente con le altre specie batteriche, evitando contaminazioni crociate e conferendo una sorta di effetto conservante: i batteri lattici convertono efficacemente gli zuccheri del latte (il lattosio) in acido lattico abbassando il pH del prodotto. Il calcio, contenuto naturalmente nel latte e nei suoi derivati, favorito da un pH moderatamente acido, penetra efficacemente la carne attivando le calpaine e incrementando i'intenerimento e l’effetto di ritenzione.
Una delle preparazioni più conosciute che prevede l’uso di una marinata a base di latte fermentato è il famosissimo pollo Tikka Masala. Faremo così anche per il pollo del Club Sandwich. Tagliate il petto di pollo in strisce larghe 1,5cm e spesse 1cm, proprio per dare massima efficacia alla miscela. Per la marinata utilizzate uno yogurt intero, con una buona percentuale di grassi (quello greco è ottimo) nella proporzione di circa 250 grammi per kg di pollo. I tempi di marinatura possono essere spinti anche per 12 ore, rigorosamente in frigorifero. Versate lo yogurt in una ciotola o in in sacchetto per il sottovuoto e aggiungete gli straccetti di pollo. Potete aromatizzare con le
I POMODORI E L'INSALATA
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Dico, è complicato? Perché mettere un metro quadro di lattuga in un panino così com’è? L’insalata croccante, fresca, ci vuole e ci sta bene, ma non credo sia complicato lavarla, asciugarla benissimo, tagliarla a striscioline, aggiungere un goccio di olio, un po’ di pepe, un niente di sale, qualche stilla di aceto e via. Potete utilizzare la varietà che più vi piace, io vi consiglio l’Iceberg perché particolarmente croccante e fresca. E i pomodori? Per evitare che rilascino troppi liquidi di vegetazione asciugateli bene con della carta da cucina. Le mie cultivar preferite per questa ricetta (e per i panini in generale) sono il San Marzano, il Cuore di bue, il Costoluto, il Tondo insalataro e il Camone.
spezie che preferite, io aggiungo pepe di Timut, zenzero e scorze di agrumi (limone, arancia o lime). In questo caso non è necessario rimuovere la marinatura dalla carne prima della cottura perché darà un contributo importante nella formazione del bark.
LA COTTURA
L’ho detto prima, la temperatura ideale per cuocere un petto di pollo è circoscritta tra i 60°C e i 65°C. Ma sappiamo anche che le carni bianche vanno consumate solo se cotte alla perfezione, perché potrebbero essere contaminate da batteri come la Salmonella o il Campylobacter. La tabella 6.5D della Food and Drug Administration riporta i tempi necessari per rendere un alimento igenicamente sicuro
alle varie temperature, ma tali tempistiche si calcolano dal momento in cui il cuore del nostro pezzo di pollo raggiunge quella determinata temperatura: dobbiamo quindi prevedere con un buon margine di sicurezza il tempo necessario affinché il calore si trasferisca dalla superficie all'interno. Per evitare di correre rischi, sia per la salute che per il nostro buon nome di cuochi, trasferiremo il nostro pollo sottovuoto in acqua e lo cuoceremo a 63°C per almeno 40 minuti. Quindi lo estrarremo dal sacchetto, elimineremo la marinatura in eccesso e lo rosoleremo sulla piastra o in una padella rovente fino ad ottenere dei bocconcini di pollo succosi e ben dorati.
TABELLA FDA 6.5D: INATTIVAZIONE SALMONELLA NEGLI ALIMENTI La tabella qui riporta le combinazioni di tempo e temperature sufficienti per eliminare il rischio di contaminazione da Salmonella nel pollame, manzo e maiale. Le temperature indicate sono riferite a quelle raggiunte nel nucleo del cibo, e il tempo viene calcolato a partire del raggiugimento di quella temperatura interna. È necessario un termometro accurato. In caso di dubbio, è sempre opportuno mantenere la temperatura scelta per un tempo superiore al tempo indicato. Le raccomandazioni di cottura della FDA per alimenti freschi si riferiscono ad una riduzione di 6,5 D (dove D sta per "decimale" o fattore 10), che corrisponde all'uccisione del 99,9997% dei patogeni presenti.
TEMPERATURA (°C)
(mm)
55
56
57
58
59
60
61
62
63
64
65
66
5
3.33
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0:48
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1:57
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Spessore della carne, temperatura di cottura e temperatura al cuore: la tabella riporta il tempo necessario alle diverse temperature e a seconda dei diversi spessori per trasferire il calore al cuore dell'alimento (petto di pollo con temperatura iniziale di 5°C). Fonte: Modernist Cuisine
079 - BBQ4All Magazine
SPESSORE
LA MAIONESE SCIENTIFICA
La maionese è la mia salsa preferita, ci puccerei dentro anche i mattoni (e la faccia). Ho un amore morboso per questo condimento, senz’ombra di dubbio una delle più grandi invenzioni del genere umano insieme al fuoco e alla ruota.La maionese nel Club Sandwich non dovrebbe essere un optional. Se preparata con cura, è l’unico elemento di contrasto che permette di bilanciare perfettamente il gusto pieno e corposo del pollo e quello opulento del bacon: il segreto si chiama acidità.
COS’È UN’EMULSIONE
La maionese è un’emulsione di olio, senape e una parte acida tenuta insieme dall’uovo che fa da agente emulsionante. Olio e acqua non si mescolano, lo sanno proprio tutti. Eppure, pochi sanno perché.
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Le molecole d'acqua sono elettricamente sbilanciate, o polari: ognuna ha una leggera carica positiva intorno all'atomo di ossigeno e cariche negative parziali intorno ai due atomi di idrogeno. Le molecole d'acqua tendono quindi a legarsi tra loro perché l'estremità negativa di una attrae l'estremità positiva di un'altra. Ma le molecole di olio, essendo apolari, non interagiscono così bene con l'acqua come l'acqua si mescola con se stessa. Infatti, gli scienziati si riferiscono ai grassi come molecole idrofobe, ovvero che “temono” l'acqua. Se mescoliamo molto forte acqua e olio, questo si frammenterà in goccioline piccole piccole, che tuttavia non si scioglieranno mai veramente nell'acqua. A occhio nudo può sembrare che si mescolino perché le goccioline sospese hanno la capacità di diventare microscopiche. Le emulsioni sono meta-stabili, significa che, trascorsa una frazione di tempo, si separano negli elementi che le compongono. Ma questo non vuol dire che non si possa fare
nulla per legare più a lungo queste componenti. Le goccioline d'olio o le bolle d'aria sospese in un liquido sembrano e si comportano come particelle solide. Queste particelle influenzano la capacità dell'acqua di muoversi e quindi conferiscono alla miscela proprietà distintive. In qualsiasi emulsione, sono due gli elementi imprescindibili: olio (o grasso liquido) e acqua (o qualsiasi liquido a base d'acqua). Uno di questi elementi svolge il ruolo della fase continua (detta anche fase disperdente), che è la porzione che sospende le goccioline dell'altro elemento, detta fase dispersa o discontinua. Se la fase continua è acqua e la fase dispersa è olio, questa viene chiamata emulsione olio-acqua, o emulsione O/A. Il latte, allo stato naturale, è un'emulsione O/A con particelle di grasso di latte disperse in tutta la fase acquosa continua. Anche la panna e la maionese sono emulsioni O/A. Per quanto riguarda il rovescio della medaglia, il burro è un esempio di un'emulsione acqua-in-olio, o A/O. Qui un elemento oleoso (grasso del burro) sospende uno stato disperso dell'acqua dalla panna. Una parte del grasso del burro si solidifica in minuscoli cristalli che aiutano a stabilizzare l'emulsione.
E come facciamo per rendere stabile un’emulsione? ridurre le goccioline alla dimensione più piccola possibile aiuta a creare un composto relativamente stabile per sua natura. Ma per far sì che l’emulsione duri a lungo è necessario aggiungere un emulsionante, un agente che aiuti a creare o a rompere un’emulsione. Di base, le miscele di emulsionanti funzionano meglio di un emulsionante solo. Una regola generale è che il volume di un emulsionante O/A deve essere circa il 5% del volume della fase oleosa. Uno tra gli emulsionanti più potenti ce l’avete in cucina, è il tuorlo d’uovo, ricchissimo di lecitine. Ma prima di passare alla ricetta della maionese facciamo un ripassino veloce sulla composizione delle uova e come si comportano quando vengono riscaldate e unite ad un grasso.
DENATURAZIONE E COAGULAZIONE
Da che cosa è composto l'uovo? Albume e tuorlo. Bianco e rosso. L'albume è prevalentemente costituito da proteine. Il tuorlo da proteine e grassi. Che cosa succede quando somministriamo calore ad un uovo? Semplice: da liquido diventa solido. Il bianco da liquido traslucido trasparente diventa solido e opaco. Il rosso, da liquido viscoso e brillante diventa un solido arancione
Per spiegare bene il concetto di denaturazione proviamo ad immaginare uno di quei cavi arrotolati a forma di elica. Avete presente le cornette del telefono degli anni '80? Immaginate che le proteine siano fatte un po' in questo modo, a spirale. La denaturazione è quel momento in cui tagliamo i legami agli estremi che obbligano l'elica a rimanere arrotolata. Una volta
denaturate, le proteine possono “srotolarsi” e fare le loro cose insieme ad altri elementi. La denaturazione può avvenire per via chimica, meccanica o termica. L'acidita del limone, per esempio “cuoce” le proteine. L'albume montato a neve è un esempio di denaturazione per azione meccanica e la cottura dell'uovo al tegamino è un esempio di denaturazione e coagulazione per via termica.
Immaginiamo le proteine dell'uovo, come dei gomitoli di lana sospesi sul pelo dell'acqua. Inserendo sostanze acide, agitando l'acqua o aumentando la temperatura, alcune proteine cominciano a “srotolarsi” parzialmente: si “denaturano”. La coagulazione invece è molto più evidente della denaturazione e si ha quando le proteine denaturate si separano dagli
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dalla consistenza sabbiosa. E fin qui ci arriviamo tutti. Ma che cosa succede esattamente a livello delle strutture interne?Familiarizziamo con due termini che ci verranno a trovare ogni volta che ci capiterà di cuocere proteine: denaturazione e coagulazione.
altri elementi e solidificano. Applicare calore per un tempo più o meno lungo fa in modo che le proteine creino una struttura che intrappola l'acqua e crea un gel, un solido morbido. Avete presente le uova strapazzate? La meringa? Ecco, quella roba lì. Quando due proteine denaturate si incontrano nel mare in cui sono sospese, si possono legare tra loro e poco alla volta formano un reticolo tridimensionale solido, che ha intrappolato l'acqua al suo interno: questa è la coagulazione. Se questo reticolo proteico diventa troppo fitto, finisce che l'acqua intrappolata viene “strizzata” fuori e ciò che rimane è un groviglio di proteine asciutte. Ecco spiegato l'uovo troppo sodo in cui l'albume sembra silicone e il tuorlo una pappetta di sabbia collosa.
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Il rosso d’uovo, la parte che ci serve per preparare la maionese,
è fatto dal 50% di acqua, dal 32% di grassi e dal 16% di proteine. Questi grassi e queste proteine, di solito, sono però associate e legate insieme in particelle che prendono il nome di lipoproteine. Il tuorlo è una dispersione di granuli in una massa acquosa. È già di suo, per conformazione naturale, un'emulsione, cioè una soluzione di acqua, proteine e grasso stabilizzata grazie anche all'elevato contenuto di lecitine. Queste hanno una parte idrofila che si lega all'acqua e una parte idrofoba che si lega ai grassi. In pratica fanno da collante fra tutti i diversi elementi. Del perché e percome il tuorlo d'uovo si solidifica ci importa fino a un certo punto. Ciò che è importante sapere è che le maggiori responsabili della capacità del tuorlo di diventare duro sono le lipoproteine LDL (Low Density Lipoproteins), che rappresentano all'incirca l'85%
del totale delle proteine presenti nel tuorlo. Queste lipoproteine iniziano a coagulare a 65°C e finiscono di coagulare a 70°C. Questo ci dice che gli stadi intermedi aumentano, man mano che sale la temperatura, la viscosità del tuorlo. E prima di preparare la maionese, riscaldo le uova per due motivi. 1. Pastorizzazione Non amo utilizzare l’uovo crudo nelle mie ricette, il rischio di contaminazione è sempre dietro l’angolo e voglio che prepariate questo sandwich a casa in tutta sicurezza. È possibile pastorizzare le uova, anche intere, tenendole a 57°C per 2 ore; in questo modo si ottiene un risultato indistinguibile dal crudo, ma esente da rischi. 2. Potere emulsionante Somministrare calore ai tuorli d’uovo significa amplificare il loro potere emulsionante,
che stabilizzerà ulteriormente la maionese. Per questo motivo, anziché fermarci alla temperatura sufficiente per la sola pastorizzazione, sceglieremo una temperatura lievemente più alta, somministrata in un tempo più breve. Potete preparare le uova in due modi. Sous vide: separate i tuorli dagli albumi e sbatteteli con una frusta. Quindi versateli in un sacchetto per la cottura sottovuoto e sigillateli. A bagnomaria: dopo aver sbattuto i tuorli con la frusta, prendete una bastardella e mettetela in un tegame pieno d’acqua scaldata a 90°C. Deve sobbollire, non serve il bollore completo. E le temperature? Io scaldo i tuorli in sous vide a 62°C per 1h. Mi raccomando, non superate mai i 62,5°C, rischiate di cuocerli.
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Procedimento Miscelate i due oli in un contenitore con beccuccio. Sbattete i tuorli pastorizzati ancora tiepidi (aggiungi ora la senape se ti piace) e versate a filo l’olio, continuando a sbattere con le fruste. Una volta ottenuta un composto denso, aggiungete la nota acida del limone e dell’aceto e aggiusta di sale e pepe. Utilizzate la salsa ben fredda, si conserva in frigorifero fino ad una settimana.
Prima di passare alle dosi, vi avverto che tornerò a parlare di maionese in maniera ancora più approfondita nei prossimi numeri. Nel frattempo fissate bene questi tre punti: Strumenti: potete utilizzare una frusta a mano, le fruste elettriche, la planetaria, un minipimer o addirittura un frullatore. Sono tutti utensili appropriati, vi anticipo solo che con la frusta a mano impiegherete più tempo. Consistenza: volete una maionese più compatta? Aggiungete olio al vostro mix. Sapore: non vi piace l’aceto? Sostituitelo con altrettanto succo di limone o altro frutto acido (lime, arancia, passion fruit). L’aroma dell’olio extravergine di oliva vi sembra troppo invasivo? Utilizzate solo olio di semi
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LA RICETTA DELLA MAIONESE Ingredienti (dose da 400 g circa) 60 g di tuorli (3-4 tuorli grandi) pastorizzati, ancora tiepidi 150 ml di olio di vinaccioli/noce/semi di girasole 150 ml di olio extravergine delicato 10 ml di succo di limone (fino a 20 ml) 10 ml aceto di vino bianco (fino a 15 ml) Se vi piace, io non la metto: 15 g di senape di Digione (1 cucchiaino) 3 g di sale 1 g di pepe di Timut
IL MONTAGGIO DEL SANDWICH Il Club Sandwich è molto meno banale di quanto pensate e copre tutte o buona parte delle percezioni che la lingua è in grado di rilevare: aspro, dolce, salato e amaro per amplificare l’esperienza gustativa. Uno strato di pane imburrato e tostato, maionese, insalata, pomodoro, bacon, pollo e ancora maionese, ricordati che le fette di pane sono 3 e gli strati totali 15. Aggiungete elementi sapidi e croccanti oltre ad un minimo di pungenza per arricchire ulteriormente la salsa (wasabi, kren). Scegliete sempre gli ingredienti in funzione dell’equilibrio gustativo riproponendovi di non mischiarli a caso. Su tutto, ricordate la nota unta e lussuriosa della maionese. Non ne serve molta (forse) ma è fondamentale.
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Gianfranco Lo Cascio
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Seguo - Rubrica a cura di Emiliano Nencioni
Nell’anno 2015, in un’Italia ancora non toccata dal Revit, quando solo pochi appassionati avevano smesso di bucare le salsicce, mi capitò di trovare, incastrato in un pallet di sacchi di bricchette destinate ad un gruppo d’acquisto irraggiungibile, un manoscritto.
Vergato con una grafìa nervosa, grottesca e appassionata in quei segni marcati di sbalzi d’umore palesi, era probabilmente stato smarrito da un grigliatore fanatico, frequentatore di social e appassionato, potrei dire, di serie TV vecchio stile: quelle girate “live” in un teatro di posa in un massimo di tre set. Lo stropicciato fascicolo era infatti presumibilmente la puntata zero, l’episodio pilota a scopo valutativo di una specie di sitcom sgangherata che prende come “pretesto accentratore di eventi” il più potente generatore di convivialità del mondo conosciuto, il primo motore immobile di commensali e criticoni, il barbecue. La serie non è stata, ormai penso di poterlo affermare con sicurezza, mai presentata a nessun network, servizio di streaming o tv locale (di quelle con le sovraimpressioni CHIAMAMI ORA), forse proprio a causa dello smarrimento del manoscritto, con probabilissimo meltdown finale dell’autore, già visibilmente provato a livello emotivo. Per anni mi son rigirato tra le mani questo plico di carta, indeciso sul da farsi, rifiutando l’idea di appropriarmi del merito intellettuale di quest’opera, per quanto completamente priva di valore o commerciabilità; chissà se ai cinque lettori (ne abbiamo acquisito un altro a dicembre, dopo l’acquisto dell’Almanacco Magazine 2019, non siamo più solo quattro) di questa rubrica potrà interessare la lettura del materiale frutto del fortuito ritrovamento. È solo un episodio zero, per cui tutti i personaggi hanno lo spessore del foglio di carta su cui sono stati descritti, le dinamiche interpersonali sono solo abbozzate e soprattutto, ripeto soprattutto, nessuno dovrà mai, per nessun motivo, sentirsi descritto o deriso da queste vicende: sono cose scritte ormai cinque anni fa, da uno sconosciuto che non conosco e che non vi conosce. La mia unica funzione sarà quella di decifrare la brutta grafia, limare la forma zoppicante e proporvi solo quelle tre o quattro gag che può essere simpatico leggere assieme. L’opera, dopo una serie di ripensamenti e di titoli cancellati con graffi furiosi della penna biro, pare chiamarsi: VITA BRISKETTATA AMORI IN FOIL CALDI A-BRACI OTTO SOTTO UN WATERPAN CAPRIOLE DALLA SEDIA
OSSESSIONI IN GRIGLIA “Ossessioni in Griglia è registrato in presa diretta di fronte a un pubblico, le cui risate scandiranno il ritmo delle varie gag”
Gianni, trentaseienne web designer freelance, sta arrivando, in compagnia della fidanzata Tosca, nei pressi del cortile della casa dei genitori di lei, dove dopo anni di totale riservatezza conoscerà l’intera famiglia acquisita. T
G T
G
T
... E per renderti tutto ancora più facile, Gianni, ho avuto un’idea: incontrerai i miei non a un pranzo austero e serioso, ma ad un barbecue, la tua passione! Oh… ad un barbecue. Forse volevi dire a una grigliata? Ad un barbecue [scandisce Tosca, seccata]… accendiamo il barbecue, e facciamo il barbecue! Bistecchine di maiale, salsicce, rostinciana e i miei preferiti, gli spiedin… GIANNI?! Perché fai quella faccia? Hai già trovato qualcosa da ridire nel mio programma? No, uh, nononono. Bellissimo, una bella grigliata brutta, voglio dire, tradizionale! Un’ottima occasione per rompere il ghiaccio, e poi con tutti i corsi che ho fatto potrò anche insegn… Mio padre SA GIA’ TUUUTTOO. Lui griglia fin da quando ero piccola sai? Fa le costine più croccanti del vicinato, belle secche, magre... e non roteare gli occhi, che ti ho visto.
mio danno, provarti le mie calzature in cristallo? Quanto sei disneyana Tosca, disneyana anni ‘70 però, non disneyana contemporanea col politically correct e il… Oh, ma lasciatemi pure solo col mio eloquio, non mi offendo affatto, andate, andate. [Massimo, scopertosi improvvisamente a parlare da solo, si incupisce] Tosca tira via con sé Gianni, procedendo a passo svelto verso una griglia in muratura costruita malamente con bozze di calcestruzzo; Gianni cerca invano di girarsi per salutare con la mano Massimo, che rimane rabbuiato vicino al cancello. Appare un uomo di quasi sessant’anni, con una spazzola di capelli brizzolati in testa e un paio di occhiali da sole da elicotterista, eccessivamente grandi per la sua fisionomia; all’angolo della bocca una perenne cicca di sigaretta, tenuta per darsi un piglio feroce, come se fosse un sigaro cubano.
M Vi sentivo dare aria alle cavità fonatorie già dall’inizio del viale, complimenti. Ne deduco banalmente che tu sei… Giovanni, il nuovo Bounty Killer della mia sorellaccia, e… G ... sarei Gianni [alzando il dito indice della mano destra] T Massimo, piantala subito di chiamarmi sorellaccia davanti alle persone! M Preferisci sorellastra? Hai forse intenzione di usurpare il mio trono, ordire malversazioni a
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Un ragazzo di neanche vent’anni, dall’aria perennemente scocciata, spalanca il cancello del cortile, pochi istanti prima che i due suonino il campanello.
T S
Sono arrivata in tempo babbo? Per la mia grigliata sei sempre in orario! Ho già versato l’alcool sul carbone, ora vado a prendere l’asciugacapelli e qualche giornale e accend…
Gianni interrompe lo slancio di affetto genitoriale con malcelata saccenza: G
A dire il vero con un cesto accenditore, dei cubetti starter in gel e delle bricchette riusciremmo ad avere il combustibile ben caldo in meno tempo, senza rischi, fumi neri e phon squagliati, basterebbe che… S Tu saresti? L’uomo si avvicina con le mani sui fianchi e un fare militaresco a Gianni, riducendo le distanze a molto meno di qualsiasi soglia di comfort. T
S
Aaaallora babbo, questo è Gianni, e come te è un GRANDE appassionato di barbecue! Ha fatto un sacco di corsi, ha imparato da gente molto esperta e… a dire il vero ogni volta che griglia qualcosa è un patimento, sempre a controllare temperature e tutto ma… dai, avete la stessa passione! Sergio… [si presenta e offre una stretta di mano eccessivamente stritolante] E in questi corsi vi insegnano ad accendere le bricchette nei vostri tutù immacolati e lo chignon, vero?
Tosca ridacchia nervosamente e saltella sul posto cercando di stemperare la tensione. Gianni si gratta una tempia cercando di respirare lontano dalla sigaretta semi spenta; Massimo, in disparte, osserva incuriosito e twitta senza sosta. G
In questi corsi, a cui partecipano uomini e donne
S
con abbigliamento a piacere, ci insegnano ad esempio a cuocere la bistecca perfetta, oppure… AAH BEH. Sai qual è la bistecca perfetta? [alza la voce e si guarda intorno a cercare consensi] Quella alta almeno quattro dita!
Gianni comincia a iperventilare, Massimo inizia a riprendere prevedendo un possibile “contenuto video”. S G S G S
... E sai perchè almeno quattro dita? Sì, ok, ne ho sentito parlare, tuttavia uno spessore anche meno… Sai perchè -almeno- quattro dita? [scandendo e smettendo di sorridere] Certo… va bene dai, adesso non… Perchè sotto le quattro dita… E’ CARPACCIO! [prorompe in una risata esagerata]
L’imbarazzo generale di una battuta a cui nessuno ride è interrotto bruscamente dall’arrivo di un nuovo personaggio che si sporge maldestramente dal muretto del cortile:
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MR Ehi ehi ehi! Ma voi, INVITARE MAI eh? Il pubblico ride per svariati secondi. I personaggi esitano a continuare finché non si estingue la risata fragorosa dovuta all’entrata in scena spumeggiante e al riuscitissimo tormentone del Comic Relief della serie, un corpulento trentenne con il logo di Call of Duty tatuato sull’avambraccio destro e un tribale, ricavato dalla ricerca “best tribal tattoo” su Google Immagini, sul polpaccio sinistro. M Ed ecco che alfin giunse. [Massimo, scrollando la testa e borbottando brani de “Le
Il pubblico scoppia a ridere. Massimo, digrignando i denti, borbotta: M Crude furie degl’orridi abissi, aspergetemi d’atro veleno; crolli il mondo e l’sole s’eclissi, a quest’ira che spira il mio seno! MR Il tuo seno? [dà un pizzicotto al petto di Massimo, il pubblico ride fragorosamente] M Anch’io sono ben lieto di vederti, Mauro. Massimo si incupisce e si mimetizza con l’ambiente circostante fino a sparire. Tosca, sempre più in ansia, si precipita ad accogliere l’inatteso ma autonomamente invitato ospite:
sai, è il mio, voglio dire, noi [gesticola], cioè insomma non è che proprio noi, NOOO, pochin… cioè, MR Ah. Ti sei appassionata al genere “secco” quindi? [Mauro si fa ostile, indica la figura esile di Gianni, il pubblico ride] Irrompe velocemente in scena Sergio, con un forchettone in mano, tuonando con una voce tendente più al ruggito da stadio: S
G
S T G T
Mauro, ehm, ciao, stavamo preparando un barbecue, ... a dire il vero una grigliata [Gianni si intromette alzando l’indice della mano destra] Ssssi, per piacere [Tosca digrigna i denti e fulmina Gianni], stavamo cucinando un po’ di carne e potresti... unirti a noi, certo, stavo quasi per chiamarti! Questo è Gianni, il mio,
GRANDE Maurooo! Oh, figurati che questo è anche un grande esperto di barbecue, a me pare uno che toglie il grasso al prosciutto! [segue un rituale di strette di mano segrete tipo gang del Bronx] Posso farvi notare che sono davanti a voi e vi posso sentire? [Gianni alza di nuovo l’indice della mano destra] Ma lo vogliamo adoperare o no questo professorone della ciccia, eh? E quando ci ricapita? Fai una cosa, scèf... toh! Facci alla perfezione questa bella bisteccona di pediatrica!
Sergio porge bruscamente una bistecca a Gianni, facendo ben attenzione a mostrare le sue quattro dita usate a mo’ di spessimetro. G
S
G
Sarebbe Podolica. Beh io sono abituato ad altre razze, ma il punto è … A che sei abituato? Alla scottona? [Sergio fa sfoggio della sua competenza e si aggiusta gli occhiali sul naso] La scottona è una femmina di bovino che non ha mai partorito, di solito non più vecchia di 16 mesi, non è una razza, ma il problema è che...
Massimo, al bordo estremo dell’inquadratura, sta riprendendo tutto col cellulare per una delle sue Stories. Commenta la scena ad alta voce, interrompendo il flusso di pensieri di Gianni:
089 - BBQ4All Magazine
Nozze di Figaro”, va ad aprire] MR OOoooh, ecco Massimo Della Pena! Secchioni ne abbiamo?? [ride]
M Lo sventurato rispose! G ... il problema [Gianni riprova ad argomentare] è che è troppo tardi, per trattare decentemente un taglio di quello spessore bisognerebbe fare tre-quattro ore di dry brining, una decina di ore di reverse searing, e forse allora... Sergio e Mauro scoppiano in una risata sguaiata. MR Secco aspetta, mi vuoi dire che per mangiarmi una bistecca devo partire a cuocerla il giorno prima? Tempo da perdere NE ABBIAMO?? [Mauro si prende interminabili secondi di applauso dal pubblico] Tosca è in posizione fetale con le mani fra i capelli, Massimo è perfettamente mimetizzato col Pitosforo. G
S
Ma no, non è una cottura, è una preparazione alla cottura. Per fartela breve, molto breve, nel reverse searing cerchiamo di ammorbidire il collagene tenendo per ore la bistecca nel forno, inoltre le catepsine… FERMO UN PO’
In un silenzio agghiacciante tutto si ferma, solo il pubblico emette in coro un “oooh” di sdegnata disapprovazione. Sergio si avvicina con modi da sergente a Gianni, accostandogli il forchettone unto allo zigomo. S
In casa mia, nessuno, dico nessuno ha mai messo una bistecca in forno. In casa mia la bistecca va cotta cinque minuti per lato e poi sette minuti in piedi sull’osso. E quando la affettiamo sai cosa deve fare? Cosa deve fare, Mauro? [sbraita senza distogliere lo sguardo da un ormai sudatissimo Gianni] MR Deve MUGGIRE signore! [Mauro batte i tacchi] Al sangue! Grondante sangue! G Sarebbe miosina [Gianni alza l’indice della mano destra]
090 - Almanacco 2020
Tosca con un guizzo acrobatico trattiene la mano sinistra di Sergio, già caricata nel gesto dello schiaffo a mano aperta. S
Ma questo ha la provvigione da Eni Gas & Luce? Vabbè mangiamo, che sono pronte le salsicce aperte a libro sulla brace. [Sergio ripri-
stina il corretto allineamento dei suoi occhiali e sistema la cicca all’angolo destro della bocca] Taglio, i cinque sono a tavola: Gianni è in un bagno di sudore, Tosca evita il suo sguardo, Massimo sta googolando qualcosa su tre dispositivi diversi mentre in cuffia ascolta un audiolibro su Max Planck e la costante acca tagliato, Mauro porta trionfante in tavola un vassoio con una quantità sconsiderata di carne grigliata in una tonalità tendente per lo più al nero: MR EEE-Oooh! [con una convinzione simile a quella di Freddie Mercury al Wembley Stadium durante il Live Aid del 1985]... proteine NE ABBIAMO? L’azione si interrompe per i successivi minuti di risate ininterrotte del pubblico. S Alla bimba la rosticciana bella croccante, di quella bella tenace che ti rimane tra i denti tre giorni, come piace alle persone per bene [Sergio dà un’occhiataccia a Gianni e esita un attimo], a Mauro centoventordicinquanta salsicce [il pubblico ridacchia, Sergio scandisce di nuovo] ...centoventordicinquanta!! [il pubblico, strigliato da un assistente di produzione, ride più convinto], per me una scamerita ben cotta… e per il professorone abbiamo messo in forno la bistecca, ripassi pure fra quindici giorni! [Ride sguaiatamente, il pubblico è in delirio. Una musica swing con assolo finale di batteria sottolinea la pregevolezza della gag]. Massimo alza il capo dai suoi schermi: M Ehm… GenitoreUno, ci sarei anch’io. S Ah, vero, lo sai che a volte mi ubriachi con la tua simpatia e qualcosa mi sfugge… È avanzata qualche verdura da grigliare? Chiedo per un amico vegetariano eh! [Rumoroso “ooooh” del pubblico in sala] M Non - sono - mai - stato - vegetariano. Non mi piace - mai - quello che grigli. [Massimo, afflitto, si tuffa nello stream di Instagram, arroventando il touch screen con continue strusciate del pollice] MR ...E allora sei vegetariano e non hai ancora fatto coming out! Peso Massimo!! [Mauro assesta una sonora botta sulla schiena di Massimo, il pubblico ride]
M Vi son uomini ch’io ho bisogno di vedere soltanto da lontano. [Massimo borbotta a testa bassa sul cellulare] Gianni, a bassa voce, avvicinandosi a Massimo: Foscolo?
Massimo meravigliato alza il capo lentamente e scruta pensoso Gianni: M Sai, ho letto qualcosa poco fa… su quei tuoi metodi. Ha senso. Riscaldare la carne all’interno, ammorbidire il collagene, salare la carne ore prima, l’acqua che affiora in superficie, gli ioni sodio e cloruro che penetrano nella carne. Ha senso, davvero. Potremmo… potremmo risolvere un paio di problemi comuni, io e te. Posso aiutarti. E tu, forse, potrai finalmente farmi mangiare la carne in maniera decente. G Dimmi solo di cosa hai bisogno.
Le prime righe della pagina successiva, però, mi gelano la schiena. Il titolo dell’episodio successivo è:
MAURO ESIGE RISPETTO.
Emiliano Nencioni
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G
[Musica tensiva, buio] Con questo abusatissimo Cliffhanger si conclude l’episodio pilota nelle intenzioni dell’Anonimo. Francamente non capisco come possa interessare a un network, e forse non interesserà neanche ai miei lettori.
UCHIMOMO DI WAGYU
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GLC TOP SELECTION
N°14/ANNO 2 - FEBBRAIO 2020
MAGAZINE
L'EDITORIALE DI GIANFRANCO LO CASCIO
TRIMMARE IL
BRISKET LE INTERVISTE
MOI
L'UNICO RISTORANTE
OMAKASE IN ITALIA
SPECIALE CUCINA ORIENTALE
IL GIAPPONE DAL WAGYU AL SUSHI DAL RAMEN AL TEMPURA
LA RICETTA SCIENTIFICA
IL KATSU SANDO
094 - Almanacco 2020
foto di Rossella Neiadin
Perché ho smesso di
trimmare
Divenire è più che vivere e quello che non scorre è morto. Se fossi rimasto l’uomo di qualche anno fa ci avrei lasciato la pelle trimmando brisket. Metaforicamente parlando s’intende. Per i lettori che non conoscono questa preparazione, il brisket è in assoluto il piatto più complesso fra i classici dell’American Barbecue: punta di petto di manzo strofinata con sale, pepe e aglio e cotta a lungo, a bassa temperatura, accarezzata da un afflato di fumo di legna. Ed è pure protagonista indiscusso delle gare di barbecue KCBS (Kansas City Barbecue Society), il circuito di competizioni in cui ci si sfida anche a colpi di ribs, pulled pork e chicken. La punta di petto è sicuramente la preparazione più tosta e insidiosa da sottoporre a un giudice. Se si osserva uno score
Brisket o l’ar te di fre garsene del l o smoke ri ng
qualsiasi di una qualunque competizione KCBS, i team che finiscono tra i primi 10 in classifica sono quasi sempre gli stessi. Il brisket è intimidatorio, in assoluto il pezzo di carne più grande e duro che si possa cuocere, e le variabili che ne determinano la cottura perfetta sono di gran lunga in numero maggiore rispetto a quelle delle altre categorie. Ma cosa si intende per brisket da manuale? Una scossa di sapori che solo il manzo può regalare. Manzo che in questo caso deve essere tenero, succoso, incredibilmente saporito e con una gradevole, ma non predominante, nota affumicata. Per centrare questo obiettivo è necessario individuare il Flavour Profile, ovvero il quadro gustativo entro i cui confini dobbiamo far ricadere le caratteristiche del pezzo di carne, una sorta di principio di coerenza da rispettare.
Gli step canonici per preparare il brisket sono: 1. Trimming - Un’operazione che consiste nel ripulire la carne dal grasso superficiale in eccesso e da eventuali brandelli. 2. Injection - Si inocula ripetutamente un liquido (nel caso specifico un ottimo brodo di manzo) all’interno della carne con una siringa alimentare: dovete ricreare un reticolo, distanziando di 3 o 4 cm ogni punto d’ inserimento. 3. Rubbing - Si cosparge la carne con una miscela di spezie, la cui base è sempre il sale. Per il brisket in stile texano il rub è un esaltatore naturale del manzo e non contiene spezie che possano alterare il suo gusto naturale. Si distribuisce sulla superficie del pezzo in maniera omogenea, dopo la fase di injection. 4.Setup del dispositivo e cottura a bassa temperatura, fino al raggiungimento dei fatidici 93-95°C al cuore.
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il
Editoriale di Gianfranco Lo Cascio
Quando ho concepito lo Smoke to Perfection, il primo volume scritto più di qualche anno fa sulla Holy Trinity del BBQ (brisket, pork ribs e pulled pork), venivo da un momento in cui ero visceralmente legato al circuito competitivo. Come sono arrivato a quello? Avvicinandomi inizialmente alla KCBS. Ho seguito il corso di certificazione per diventare giudice in Germania, poi sono stato negli Stati Uniti, ho fatto training con il leggendario Pit Master Jim Johnson (78 volte Grand Champion), ho gareggiato prima in Italia e poi al Jack Daniel’s Invitational, probabilmente l’agóne più famosa e ambita di tutte. Avevo quindi associato la preparazione del brisket americano a quello che si prepara sul campo gara. Il Flavour Profile di riferimento era quello dei giudici, non il mio.
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Vi ricordate i 6 segreti per il brisket perfetto di cui parlo nel libro?Facciamo un ripasso per sicurezza. 1. Il sapore del brisket è frutto del bilanciamento perfetto tra carne, spezie e fumo. 2. Il bark deve essere robusto, corposo, croccante ma sostanzialmente fatto di carne, non di spezie. 3. La nota affumicata del brisket deve essere intensa ma solo un arricchimento del morso finale, non il sapore preponderante. 4. Una volta affettato, il brisket deve essere umido, morbido e succulento. Consistente ma tenero. Tenero ma non “pullabile”. Per ottenere questo risultato bisogna portarlo ad una temperatura interna compresa tra i 93 e i 95 gradi centigradi. 5. In un morso di brisket dovremo percepire nell’ordine: sapore di carne, nota affumicata, bark, pungenza tipica. Poi un leggero retrogusto di fumo e un’effervescente sensazione di piccantezza e sapidità. 6. La fetta di brisket dev’essere consistente e non cedevole, il bark compatto ma non duro e la sezione deve evidenziare uno smoke ring netto e marcato.
Rimaniamo proprio su quest’ultimo punto. Lo smoke ring, quell’aureola rosata che si crea sotto il bark di tutte le preparazioni sottoposte ad affumicazione lenta con temperatura controllata, non era conteggiato ai fini del punteggio di gara, eppure chiunque abbia mai partecipato ad una competizione KCBS sa bene quanto sia importante per ottenere il perfect score. Il trimming compulsivo del “vecchio me” nasce proprio da quello: se il grasso superficiale della punta di petto è troppo spesso lo smoke ring non si forma, quindi per vincere e fare bella figura lo rasavo a zero. Col tempo e la maturità di chi la carne la studia e la mangia, ho capito che il grasso è quell’elemento che dà morbidezza al brisket, oltre al sapore, e che se lo rimuovi completamente tutta questa morbidezza viene a mancare. Ma cosa faceva quindi Gianfranco Team Leader per preservare la succosità del suo brisket, ormai rovinosamente pelato a vivo? Adesso ve lo spiego. I due fasci muscolari del brisket che si sovrappongono, il flat (pectoralis profundus o fiocco ) e il point (pectoralis superficialis o punta), hanno fibre completamente diverse. Nonostante il trimming selvaggio, nel point rimane una grande quantità di grasso infiltrato e di collegene, non a caso è considerato la parte buona del brisket. Il flat di grasso ne ha poco e di connettivo pure, quindi durante la cottura Low&Slow si rimpicciolisce e si rinsecchisce di brutto. A peggiorare la situazione esiste anche quel virtuosismo di separarli: i due pezzi vengono cotti con due tempi e modalità diverse, proprio perché il flat deve spiccare per questo alone quasi fucsia particolarmente marcato, mentre il point viene tagliato a cubetti e servito come burnt ends. In mezzo alle due sezioni muscolari ci sono strati di
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foto di Rossella Neiadin
collagene e grasso che durante la separazione vengono spazzati via senza pietà. Dunque in gara il flat era zero “fat”, il point veniva comunque stra-trimmato e l’unica frazione di grasso che rimaneva era quella interna. Per compensare la mancanza della parte lipidica si iniettava l’injection con una concentrazione di sale al 5%, che agisce come un fosfato “trattenendo” l’acqua all’interno delle fibre muscolari. Le injection liquide sono praticamente inefficaci, non cambiano la resa del prodotto, e quindi si cercava di addizionare la salamoia con ingredienti che trattenessero umidità all’interno: è a quel punto che sono passato alle siringone di emulsioni di grasso per aumentare la viscosità.
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Tu t t o q u e s t o p r o c e s s o macchinoso per accontentare un giudice che avrebbe assaggiato solo un pezzetto di quel benedetto brisket. L’omino che degusta, tenetelo sempre a mente, assaggia un singolo morso di ogni piatto, non è che si mette lì e sbrana tutta la porzione. O alla fine della gara mangerebbe chili di roba. È impossibile giudicare lucidamente da sazi; per questo si limita a mangiare un boccone di flat e una burnt end e dà i voti a tutta la tua preparazione. Ora se devo fare un brisket in gara, aldilà del metro di giudizio che può essere più o meno fallace, faccio un brisket da gara: trimmato ferocemente, super-sapido e con lo smoke ring che si vede al buio. Ma se devo farlo a casa, oltre a gestire il mio tempo in maniera più assennata, conservo quello strato di grasso
del brisket che me lo rende morbido, succoso e profumato. Non sono per lo zero trimming, sia chiaro. Basta conoscere bene l’anatomia del pezzo e andare a tritare l’eccesso inutile - io non mangerei mai un morso di grasso spesso tre dita - lasciando un centimetro di grasso sopra il flat, che ci permetterà di preservare morbidezza e succosità. Volete fare un lavoro di fino e ottenere il massimo dalla vostra punta di petto? Fate una salamoia al 4% (acqua e sale), iniettatela e mettete a bagno il pezzo di ciccia nella stessa soluzione salina per 24-36h. Dopo le prime 24h ci sarà una sensibile variazione della struttura cellulare e il tessuto connettivo contenuto nel point comincerà a degradarsi. Ve ne dico un’altra? Tutta questa umidità in cottura potrebbe anche annientare quello spauracchio che è lo stallo. Che cos’è lo stallo? Il peggior incubo del Pit Master. È quel momento in cui la temperatura interna del pezzo di ciccia si ferma, si inchioda. Si blocca per quattro o più ore e a malapena si alza di una tacca. A volte scende anche di alcuni gradi. Si tratta di un processo di raffreddamento evaporativo, una semplice conseguenza del raffreddamento per evaporazione dell’umidità dalla carne rilasciata lentamente nel tempo attraverso fibre e cellule. All’aumentare della temperatura della carne fredda, il tasso di evaporazione aumenta fino a quando l’effetto di raffreddamento equilibra l’input di calore. Quindi la carne resta in stallo
fino a quando l’ultima goccia di umidità disponibile sarà evaporata. Nel nostro caso, per evitare la parte dello stallo basterà semplicemente innalzare la temperatura a 140°C-150°C. I liquidi interni del nostro brisket iniettato e “marinato” si scalderanno e la temperatura salirà ferocemente. “Sì sì, tutto bellissimo, ma lo strato di grasso sciolto mi lava via il bark” Non è assolutamente vero, il bark si forma eccome e per due motivi. Il primo è il peso specifico del rub, che lo fa mantenere ben saldo alla superficie esterna, il secondo è la presenza di sale che col calore cristallizza e si fissa, fino a formare una crosta spessa. Il “fat cap”, la calotta lipidica, scivola solo se fate un trimming irregolare, magari lasciando delle sacche, degli avvallamenti al centro del pezzo in cui si andranno inevitabilmente a formare delle piscinette di grasso fuso. E anche lì, vi basterà mettere un cuneo sotto, una pallottola di stagnola che costringa la ciccia a mantenere una forma convessa. Questa è la tecnica corretta per preparare un brisket da servire a casa. Il brisket che mangeranno i vostri amici o i vostri familiari, che non vi daranno un voto, o forse sì. Ma almeno ne mangeranno una bella fetta, invece che fermarsi al primo boccone.
Gianfranco Lo Cascio
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foto di Rossella Neiadin
Portfolio gastronomico a cura di Roberto Dal Bosco
LA CUCINA GIAPPONESE
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un patrimonio dell'umanità
Nel febbraio 2012, l’Agenzia per gli affari culturali – un ramo del Ministero della Cultura di Tokyo – ha raccomandato l’aggiunta all’elenco dei patrimoni orali e immateriali dell’umanità UNESCO il washoku e le culture dietetiche del Giappone. Il 4 dicembre 2013, l’UNESCO ha accettato: la voce “Washoku, culture dietetiche tradizionali dei giapponesi”, in particolare per la celebrazione del nuovo anno, è stata aggiunta al tesoro culturale intangibile dell’umanità. In pratica, quando mangi giapponese – quello vero,
beninteso – mangi un pezzo di patrimonio UNESCO. FENOMENOLOGIA DEL WASHOKU Innanzitutto, chiariamo cosa è il washoku. La parola è composta da due caratteri, . Il primo lo conoscete già – è il wa di wagyu, e sta a significare, estesamente, il Giappone. Shoku, invece, significa «cibo», «alimentazione», «mangiare». Quindi il washoku è il cibo giapponese in tutte le sue sfumature tradizionali. Tali sfumature sono innumerevoli. Pesce, carne, verdure, riso: i ryōri (tipi
di cucina) accumulatisi lungo i millenni di storia nipponica sono tanti e tutti perfettamente normati, comprese le acquisizioni più recenti. Prendete, per esempio, il ramen, quella sorta di tagliolini in brodo che avrete visto sicuramente in tanti anime (i cartoni giapponesi che la Generazione X in Italia si è sciroppata in un numero vicino alle 200 serie). Ritenuto originario della Cina (dove è servito ancora oggi come lāmiàn), il ramen divenne popolare in Giappone dopo la seconda guerra sino-giapponese (1937-1945), quando molti
giapponese. Se saliamo di livello c’è il kappō, parola composta dagli ideogrammi per tagliare e bollire, con riferimento possibile alla carne. Usato per definire i ristoranti nell’era Meiji e Taisho (cioè dal 1869 al 1926), ora sta ad indicare quei luoghi dove magari ci sono chef molto preparati. Salendo ancora di livello, troviamo il kaiseki, cioè letteralmente «pietra calda», che è una forma di pasto legata alla cerimonia del tè giapponese. Il kaiseki è considerabile come un rito di ospitalità per tramite della cucina, con un’estetica wabi-sabi (la complessa, agrodolce visione del mondo come «bellezza imperfetta, impermanente e incompleta»). Come la cerimonia del tè, l’apprezzamento delle stoviglie e dei vasi fa parte dell’esperienza stessa. Nel kaiseki moderno in forma standard, il primo piatto è composto da ichijū-sansai (una zuppa, tre piatti), e di seguito sakè ed altre pietanze disposte su piatti speciali.
Mangiare in Giappone significa imparare a sedersi. Dal XX secolo, molti locali come le case private si sono dotati di sedie e tavoli in stile occidentale. Tuttavia sono ancora molto diffusi anche i tavolini e i cuscini giapponesi tradizionali disposti sul tatami (la tradizionale pavimentazione giapponese). Essendo i tappetini di paglia per tatami facilmente danneggiabili e difficili da pulire, le scarpe o qualsiasi tipo di calzatura vengono sempre tolte.
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studenti cinesi furono trasferiti in Giappone. Come avviene per la lingua giapponese, che importa e rende proprie quantità improbabili di parole straniere (chiamate gairaigo), anche la cucina del Sol Levante assorbe ed assimila quello che arriva da fuori, in ispecie, dal periodo della Restaurazione Meiji in poi (1868-), il seiyōshoku, ossia la cucina occidentale. Grazie a questo potere culinario al contempo tradizionale e mercuriale, nel 2011 il Giappone ha superato la Francia come nazione con il maggior numero di ristoranti Michelin a 3 stelle. La capitale Tokyo dal 2018 è la città più stellata al mondo. Ma il washoku non è l’unico termine per designare la cucina
FONDAMENTI DI CUCINA GIAPPONESE La cucina giapponese si basa sulla combinazione di quello che è considerato il cibo base, cioè riso bianco al vapore (gohan), che va accompagnato da uno o più okazu, cioè i piatti principali e i contorni: è un po’ controintuitivo, quello che per noi è il main course, per l’architettura dell’alimentazione giapponese è comunque un accompagnamento del riso. Il pasto può quindi essere accompagnato da una zuppa chiara (miso) e dagli tsukemono, cioè i sottaceti. È importante memorizzare l’espressione sopracitata ichijū-sansai («una zuppa, tre piatti») come composizione tipologica-base di un pasto. A ciascuno dei tre okazu vengono applicate diverse tecniche di cottura. Gli okazu possono essere crudi (sashimi), grigliati, bolliti, al vapore, fritti, in salamoia o conditi. Uno degli aspetti da non sottovalutare è il ruolo delle stagioni nella cucina giapponese. La stagionalità del cibo ha una sua parola in giapponese, shun. Nella pienezza della tradizione, i piatti sono progettati secondo le quattro stagioni o persino dei mesi di calendario. Per sfruttare appieno la stagione bisogna considerare gli yama no sachi (letteralmente «generosità delle montagne»), cioè i «frutti montani» come i germogli di bambù in primavera e le castagne in autunno; gli umi no sachi (letteralmente, generosità del mare) invece, sono «frutti del mare» che piano piano entrano nella stagione. Per esempio, la prima cattura di tonnetto striato (hatsu-gatsuo) è un evento culinario importante. Il primo raccolto o cattura precoce riveste quindi un grande valore, e prende il nome di hashiri. I piatti giapponesi possono essere decorati con foglie e rami di albero. Le foglie di bambù vengono tagliate in forme e poste sotto o utilizzate come separatori dei piatti. La cucina giapponese, generalmente, rifiuta l’idea di mettere più sapori all’interno di uno stesso piatto.
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In una cena tradizionale è comune stare seduti sul pavimento. In un ambiente informale, gli uomini di solito si siedono con i piedi incrociati e le donne siedono con entrambe le gambe su un lato – solo agli uomini in teoria è concesso di sedere a gambe incrociate. Il modo formale di sedersi per entrambi i sessi è noto come seiza. Per sedersi in posizione seiza, ci si inginocchia sul pavimento con le gambe piegate sotto le cosce e le natiche appoggiate sui talloni.
la religione ufficiale del paese cominciarono i divieti di mangiare carne e pesce. Nel 675 d.C., l’imperatore Tenmu proibì di mangiare cavalli, cani, scimmie e galline. Nell’VIII e nel IX secolo, diversi imperatori continuarono a vietare di uccidere molti tipi di animali. Il numero di carni aumentò fino a mettere al bando tutti i mammiferi tranne la balena, che è stato classificato come pesce. Ora capite bene da dove deriva la tanto dibattuta passione dei giapponesi per i cetacei.
NON MANGIATE NULLA TRANNE LA BALENA Tra il 300 e il 100 a.C., il riso – si dice – fu importato in Giappone, terra di cacciatori-raccoglitori, dalla Cina. Gli altri due elementi base della dieta giapponese, il grano e la soia furono introdotti poco dopo. Quando il buddismo divenne
Alcuni studiosi sostengono addirittura che la consumazione di carne fosse scarsa già prima della buddistizzazione dell’arcipelago. Con l’arrivo del Budda, che ricordiamo non necessariamente è adorato da vegetariani, il consumo di yotsuashi («creature a quattro zampe») venne tabuizzato, ma
la balena era ritenuta un pesce e anche la tartaruga d’acqua dolce veniva permessa: le tartarughe, che si trovano facilmente fra i banchi del titanico Tsukiji (il mercato ittico di Tokyo, un’attrazione turistica se sei disposto a svegliarti alle 3 di notte), vengono considerate afrodisiache. Nonostante tutto questo, la carne rossa non sparì. Per esempio, era tollerato il mangiare selvaggina, come la lepre, bizzarramente associata nella grammatica giapponese al quantificatore wa ( ), un quantificatore normalmente riservato agli uccelli (i quantificatori o classificatori sono uno degli incubi di chi vuole imparare il giapponese – e pure il cinese – ogni cosa ha la sua parola diversa per contarla). Quando il Paese nella seconda metà del XIX secolo ricominciò
nazione di dashi (brodo di pesce), salsa di soia, sake e mirin (il sake dolce), aceto, zucchero e sale. Questi sono in genere gli unici condimenti utilizzati per grigliare; anche in cottura in Giappone si è parchi di spezie, che sono da utilizzare solo per dare una nota (pensate al wasabi: e che nota!) o neutralizzare odori come quello di pesce.
NIENTE SPEZIE SIAMO GIAPPONESI Il cibo tradizionale giapponese è in genere condito con una combi-
Questo uso limitato delle spezie ha un suo motivo storico pure derivante dai secoli senza carne. La mancanza di proteine di animali terrestri fece sì che i giapponesi ridussero al minimo l’utilizzo di spezie, che divennero (con l’eccezione di modeste quantità di pepe e di sale) un bene raro. Fu così che il pesce, abbondante in un Paese insulare, divenne la principale fonte di proteine per la popolazione. Già dal IX secolo, quello alla griglia e quello crudo a fette erano molto popolari. LA VERITÀ, VI PREGO, SUL SUSHI Così nacque il mito, oggi
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ad aprirsi al mondo – e all’Occidente - ecco che la carne rossa tornò in abbondanza tra i giapponesi. Il bando sulla ciccia fu tolto dall’Imperatore Meiji in persona. Ma ogni epoca ha i suoi vegani: la rimozione del divieto incontrò una certa resistenza fra i religiosi e un commando di monaci inferociti tentò di irrompere nel Palazzo Imperiale. I monaci affermarono che, a causa della perniciosa influenza straniera, un gran numero di giapponesi aveva iniziato a mangiare carne e che questo stava «distruggendo l’anima del popolo giapponese». Durante questo strambo «putch della ciccia» ordito dai buddisti, diversi bonzi furono uccisi, e quelli che non furono ammazzati furono arrestati. La carne era libera di tornare nello stomaco del Sol Levante. L’imperatore Meiji il grande, sovrano da pochi anni, nel 1872 organizzò una festa di Capodanno progettata per abbracciare il mondo e i paesi occidentali. Durante la festa si serviva cibo europeo ed è considerato l'episodio finale della liberazione nippocarnivora: per la prima volta in mille anni, alla gente era permesso di consumare carne in pubblico. Da qui è cominciata la risalita che ci ha portato, come visto in una puntata precedente, alla meraviglia del wagyu.
celebrato internazionalmente, del sushi. Esso nacque come mezzo per conservare il pesce fermentandolo nel riso bollito. I pesci che vengono salati e poi messi nel riso vengono preservati dalla fermentazione dell’acido lattico, così da prevenire la proliferazione dei batteri che provocano la putrefazione. Una rivoluzione non differente da quella avvenuta con l’introduzione in Europa dello stoccafisso, che permetteva la lunga conservazione del cibo.
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Nel XV secolo, il sushi era arrivato, grazie al controllo della fermentazione, a rimanere edibile per 7-14 giorni; ciò lo rese uno spuntino popolare e un antipasto principale. Durante il periodo Edo (metà del XV secolo) fino alla fine del XIX secolo veniva ancora consumato senza fermentazione. E’ bene dirlo: il sushi oggi non è il principale alimento della dieta giapponese, e al ristorante di sushi ci si va solo in determinate occasioni. Tuttavia, come sanno le narici di chiunque sia uscito dalle megalopoli giapponesi almeno una volta per andare in campagna, c’è un altro pesce che si consuma in modo casual, specie nei tramonti del dopolavoro: l’unagi, l’anguilla, grigliata da carretti di legno con il classico bancone coperto da bandierine, insaporita da salsa di soia in un piatto chiamato kabayaki e servita nell’unadon, la scodella di riso ed anguilla. Una festa per l’odorato e per il palato. DON CIBO L’unadon ci porta a dover scrivere di quello che è uno dei modi precipui della cucina giapponese se vissuta in rapidità,
il donburi. Significa in semplicità «scodella», ed indica quei piatti dove con il riso possono essere serviti carne, pesce verdure. I don, come vengono abbreviati, sono tantissimi. Oltre all’unadon (riso e anguilla), c’è il tamagodon (riso e uovo strapazzato con salsa dolce), gyudon (carne di manzo – cominciate a riconoscere quel gyu di wagyu!), il tendon (con tempura di gamberetti) e il fatidico katsudon. Nel katsudon finisce, con riso, cipolla e uova, una cotoletta di maiale impanata, che si chiama tonkatsu – e qui in genere gli italiani ridono, perché non sanno che katsu è un gairaigo (parola di importazione) abbreviazione di katsuretsu, dal francese côtelette, cotoletta. Il tonkatsu usa il filetto di maiale o la lonza. I FRITTI DEI BARBARI Parlando di fritto, in generale, la cucina tradizionale giapponese utilizza tendenzialmente poco olio da cucina, ma fa eccezione la frittura introdotta durante il periodo Edo a causa dell’influenza della cucina occidentale: è bene ricordare che i giapponesi la chiamavano nanban-ryōri, «cucina dei barbari del sud» nonché della cucina cinese. Emerse così il tempura, che ora è considerato propriamente washoku, tuttavia si dice che la parola abbia origine portoghese. Il deep-frying è coinvolto anche nell’abura-age (tofu fritto) e nel satsuma-age, cioè nelle torte di pesce tipiche di Kagoshima, città dell’estremo meridione giapponese detta anche «la Napoli del mondo asiatico». Di fritto troviamo anche il ganmodoki che è una frittella di tofu fritta a base di verdure come carote, radici di loto e bardana,
più qualche volta, tamago, cioè uovo. Ganmodoki, spesse volte abbreviato in ganmo, significa pseudo-oca in quanto si dice che il ganmodoki abbia il sapore dell’oca, un po’ come la mock turtle soup, quel piatto inglese fatto con cervella ed organi di vitello che riprodurrebbe il sapore della zuppa di tartaruga. CONCLUSIONI È stato un articolo lungo ma non abbiamo nemmeno iniziato a parlare della cucina giapponese, la cui vastità è inimmaginabile quanto goduriosa. Ci prudono le mani per non aver parlato di okonomiyaki, dei soba, udon, pan. Non abbiamo nemmeno iniziato a parlare di teriyaki, e alzi la mano chi non ha condito la carnazza almeno una volta con questa deliziosa salsa di soia. E perché non hai scritto dei puzzolentissimi ma sanissimi fagioli natto? E il sukiyaki e tutto lo stile in pentola (nabemono)? Perché non hai trattato di dolci con l’hanko, la salsa di fagioli rossi? I capi di imputazione, ammettiamo, sarebb ero tantissimi. Se vorrete, faremo altri capitoli, più specifici. Tanto la cucina giapponese non va da nessuna parte: è patrimonio culturale dell’umanità.
La c o nv i v i a l i t à del l a c u c i n a sar t o r i a l e
Intervista a cura di Michela Bongiorni
Arro ganza. S e c o n d o l a definizione della Enciclopedia Treccani significa: insolenza e asprezza dei modi di chi, presumendo troppo di sé, vuol far sentire la sua superiorità. La usiamo con accezione perlopiù negativa, dunque. Se qualcuno che conosciamo ci definisce arroganti, lo prendiamo come un insulto. Ebbene, dopo che avrete letto questa intervista, avrete quello che i linguisti chiamano un mutamento semantico con estensione del significato
in senso migliorativo. In altre parole, quell’epiteto vi sembrerà un bellissimo complimento. Ma partiamo dall’inizio: è un freddo e assolato lunedì di Gennaio quando Francesco Preite, 36 anni, ci apre le porte del suo locale che si trova nel cuore di Prato, città toscana che in maniera irrispettosa alcuni abitati del luogo chiamano PLato, ad indicare l’enorme sviluppo della comunità cinese avvenuta proprio qui negli
ultimi 30 anni. In un comune di circa 195.000 abitanti, il 20% della popolazione, impiegato sopratutto nel ramo tessile, che costituisce un quarto dell'industria locale e corrisponde al 27% del fatturato totale nazionale di questo settore, è cinese. Insisto su questo aspetto, perché il luogo in cui sorge il locale di Francesco non è esattamente il centro di Parigi: è un posto in cui sei letteralmente circondato da miriadi di All you can eat e ristoranti pseudo giapponesi
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N el cuore di Prato, città tos cana nota soprattutto p er il settore tessil e e p er la comunità cinese più grande d’Ita l i a , Fr a ncesco Preite g e s tis ce il Mo i Om akase, l’un i c o ve ro r i st or ant e t radizion ale giapp on ese d’Italia .
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foto di Rossella Neiadin
che fanno leva su quello che noi italiani crediamo di sapere sul Giappone; cosicché, dentro a locali che sembrano usciti dai fumetti o dai cartoni animati anni ‘80, ti propinano cibo spazzatura facendoti credere di mangiare il vero sushi a un costo ridicolo. In un mondo in cui tutto ciò che ci interessa è apparire e pubblicare foto sui social a colpi di #sushitime (lo ammetto, l’ho fatto anch’io in passato), perché mai dovremmo farlo pagando 70 euro per una cena, quando al modico prezzo di 12,90 euro possiamo ingurgitare tutto quello che vogliamo, fotografarci vicino al maneki neko, assaggiare cose che hanno la simpatica e accattivante forma di quelle viste in Kiss me Licia e sentirci molto cosmopoliti e moderni? Il perché ce lo spiega Francesco. Abbiamo appuntamento con lui alle 9,30, ma già alle 8,40 mi scrive chiedendomi se confermiamo l’orario di arrivo e mi fa sapere che è già nel suo locale per preparare il riso. Sono molto attenta a questi dettagli, perché spesso sono portatori di messaggi ben più veritieri rispetto a gesti eclatanti e plateali. Questo comportamento è già un assaggio di ciò che conosceremo di lui: precisione, professionalità, affidabilità e una buona dose di riservato distacco dal mondo dell’ostentazione. Ci apre la porta del suo Moi Omakase situato nel centro di Prato, proprio davanti al Castello dell’Imperatore, opera architettonica costruita a metà del 1200 per ordine dell’imperatore Federico II di Svevia (Prato in realtà è ben più di quella Chinatown italiana a cui la
non può star ti un p o’ simpatico, non puoi trovarlo leggermente odioso, non riesci a definirlo abbastanza affabile: o lo odi o lo ami. O apprezzi questo suo totale disinteresse nel cercare di piacerti a tutti i costi, oppure non lo sopporti. Noi l’abbiamo adorato da subito; d’altronde siamo abituati a questo tipo di personalità all’interno di BBQ4All, e onestamente abbiamo avuto l’impressione che la cosa sia stata reciproca.
porre fine. Parlaci di come hai iniziato
Il ristorante Moi nasce da una semplice passione per tutto ciò che è giapponese. Sono partito interessandomi alle armi da taglio e ho cominciato a fare i primi viaggi in Giappone; dalle armi sono passato ai coltelli da cucina e da lì è nata la passione vera e propria per il cibo e i vari modi di cucinarlo. Prima del locale che vedi oggi ho avuto un’altra esperienza con un ristorante, sempre di mia proprietà, dove il menù era più “commerciale”, passami il termine. Dopo otto anni ho deciso di chiuderlo, e ho fatto un passo indietro e due avanti aprendo il Moi che al momento è l’unico vero ristorante tradizionale giapponese presente in Italia. Unico? Davvero? Sì, perché gli altri ristoranti lavorano sui tavoli, mentre la vera cultura giapponese prevede di lavorare esclusivamente al bancone, per avere interazione diretta coi clienti e per preparare le pietanze davanti a loro, senza dover passare dalla cucina alla sala con inutili sprechi di tempo e soprattutto importanti perdite di temperature. Quindi hai studiato in Giappone?
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maggior parte delle persone oggi l’associa); si presenta in jeans, camicia, occhi azzurri, capelli ricci un po’ afro e un sorriso appena accennato. Il ristorante è elegante, i colori sono sobri, l’ambiente è accogliente e lussuoso ma non sfarzoso. Niente fuochi d’artificio, qui, niente effetti speciali per ingannare l’avventore con ciò che sembra ma non è. Anzi, qui è esattamente il contrario. Diciamolo subito, con Francesco non esistono le mezze misure:
Va a cambiarsi e torna da noi, pronto per una chiacchierata che durerà due ore e alla quale non avremmo mai voluto
di pesce che ci viene appoggiato sopra e soprattutto a seconda della pressione che viene data al riso. Non possiamo dargli la stessa pressione per tutte le tipologie di pesce. Ma soprattutto è fondamentale la temperatura con cui va servito. Assolutamente non freddo: riso a 37-39 gradi e pesce a temperatura ambiente. La legge marziale non scritta dice che, dal momento in cui appoggio il Nigiri sul bancone, non debbano passare più di 15 secondi prima che il cliente lo porti alla bocca. No, la mia esperienza in Giappone è stata a spot: in 22 anni sono andato là circa tre/quattro volte all’anno. Fra circa quindici giorni ci andrò per la settantesima volta. Quando vado là, lo faccio quasi sempre per lavorare appoggiandomi a più ristoranti in modo da apprendere le tecniche da tutti. Il miglior modo per imparare è lavorare. Quanto è falsata la percezione che ha l’italiano medio, abituato agli All you can eat, rispetto al vero sushi che prepari tu? Intanto, se parliamo di cucina tradizionale, parliamo di Nigiri, Sashimi e a volte i maki, cioè il rotolino con l’alga nera esterna. Tutto ciò che è Huramaki, ovvero ciò a cui è abituato il 99% delle popolazione italiana, non è Giappone. Già solo i nomi, il California, il Philadelphia, che sono quelli che vanno per la maggiore, ti fanno capire che arrivano da un’altra parte del mondo. Cosa ci stai servendo adesso, dunque? Questo – appoggia il Nigiri sul bancone- è fatto semplicemente con il riso, a cui viene data la pressione necessaria affinché il pesce sfilettato vada a disegnarsi sopra di lui. Ogni Nigiri cambia a seconda della tipologia
Capiamo b enissimo il tuo linguaggio, lottiamo da anni per insegnare alla gente quanto è importante la temperatura. Come fai a servirlo sempre a 39 gradi? Il recipiente che vedete accanto a me ha la facoltà di tenere il riso tra i 60 e i 70 gradi per sei ore. Nel momento in cui lo lavoro, la temperatura scende e raggiunge il target ideale. La cultura è fondamentale: così come noi italiani non andremmo mai in un posto che ci serve un piatto di spaghetti freddi, allo stesso modo non dovremmo accettare di mangiare il sushi ghiacciato che ci servono nei vari ristoranti All you can eat. Ma dato che non abbiamo idea che stiamo mangiando della vera cacca, non ce ne accorgiamo nemmeno. Questa è mancanza di cultura.
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Il sushi in Italia è ancora qualcosa di sconosciuto. Purtroppo siamo attirati dal prezzo basso. Ma pensa una cosa: andresti mai a mangiare una pizza margherita con una mozzarella di bufala di Battipaglia a 0,50 centesimi? Non lo faresti. Andresti mai a mangiare una bistecca da un chilo a 1,50 euro? E allora perché andare a mangiare una quantità illimitata di pesce
Ripeto: tu parli la nostra lingua. Certo. Quando tu mangi roba a basso costo, forse lì per lì al palato ti piace anche, ma è ciò che accade nel tuo corpo nei giorni successivi che dovrebbe preoccuparti. Io comunque lo dico sempre: meglio un McDonald’s in più, perché è un posto super controllato a livello di pulizia, piuttosto che un ristorante cinese - senza nulla togliere alla vera cultura gastronomica cinese, che però in Italia non conosciamo- in cui rischi veramente di mangiare cibo non solo di scarsa qualità, ma anche pericoloso. La consapevolezza del cliente, quindi, è la parola chiave. Esatto: se scegli consapevolmente di mangiare cibo spazzatura, va bene. Il problema è che ancora molti italiani sono convinti di poter mangiare cibo di qualità a basso costo. E lì, però, dovrebbe esserci anche l’onestà di chi lo serve. Troppe volte andiamo in ristoranti italiani anche quotati e leggiamo sul menù “vera grigliata di pesce locale”, ma poi ci ritroviamo nel piatto prodotti argentini, del Mozambico, indonesiani, magari trattati con l’ammoniaca, perché così non ingialliscono e rimangono all’apparenza freschi per più giorni.
Tu quando scegli di andare a mangiare fuori, dove vai? Bella domanda. Tendenzialmente vado solo da colleghi e amici che conosco bene e so come lavorano. Altrimenti, non mi faccio troppe aspettative né troppe domande. Parlaci di come funziona il tuo ristorante. Posso ospitare 14 persone in un gruppo unico, oppure al massimo 10-12 persone in singole coppie. Il menù è per tutti uguale. Iniziano e finiscono di mangiare tutti alla stessa ora. E’ di fatto una cena su appuntamento. Il cibo è cultura alla cui base c’è la convivialità. Iniziare il percorso di degustazione insieme, mangiando le stesse cose, favorisce lo scambio di opinioni e stimola il dialogo fra le persone che in quel momento sono sedute tutte allo stesso bancone. Mi è capitato di vedere persone che sono rimaste amiche tra di loro, dopo aver mangiato da me, anche se
prima non si conoscevano affatto. Oggi perlopiù si va a mangiare fuori perché ci ritroviamo col frigo vuoto e abbiamo bisogno di soddisfare velocemente la fame, magari in posti dove il cliente rifugge l’interazione con gli altri avventori e con il ristoratore. La cultura giapponese, che io sto cercando di portare avanti ormai da 10 anni, è invece improntata a farti capire cosa stai mangiando, perché lo stai mangiando e soprattutto che il boccone deve essere in simbiosi con la tua persona. In che senso? Quando ho tutte quelle persone davanti divento uno psicologo: il Nigiri che servo all’omòne da 150 kg non potrà avere le stesse proporzioni di quello servito alla signorina che ne pesa 48. Quindi devo creare una vera e propria cucina sartoriale alla cui base c’è la convivialità: il mio obiettivo è quello di far finire di mangiare nello stesso momento sia l’omone che la signorina, il che vuol dire che devono finire di masticare insieme. Ciò è fondamentale alla digestione: se uno dei due finisce di mangiare molto prima, tende a girarsi per parlare con chi ancora deve finire il boccone. Questo crea pressione psicologica che va a interagire con la digestione. A quel punto, io creo il boccone su misura a seconda
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crudo a 14,90 euro? Gli avventori di questi locali dovrebbero capire che è molto meglio andare a mangiare qualche volta in meno fuori, pagando una cifra maggiore quando si decide di andare, piuttosto che ingurgitare roba a basso costo che si va a ripercuotere sulla salute.
della persona che ho davanti: per aumentare il tempo di masticazione dell’omone, aumento la quantità di riso, per facilitare la signorina invece metto più pesce e meno riso. Questo è il motivo per cui lavoro con poche persone alla volta.
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Avrai clienti fissi, ma ne avrai tanti che arrivano qui la prima volta, immagino: qual è la reazione del cliente che non è abituato a questi sapori? Qui non vige la democrazia. Nel momento in cui entri, devi sapere che ti lascerai portare da me in questo percorso in cui io ti metterò in condizioni di capire cosa stai mangiando: se stai per assaggiare una ricciola, ti dirò che stai per mangiare “un pesce che sa di pesce”, perché magari il boccone precedente è stato molto più delicato e hai bisogno di ritornare su sapori più forti. Uso un po’ di salsa di soia, per ammorbidire ma non per nascondere il sapore. Tu devi farti trasportare: se non sei in grado di farlo, io mi impongo. Se mi fai una domanda del cazzo, te lo dico. Poi ti spiego il motivo. Sono arrogante? Sì, perché so quello che faccio e sono molto sicuro del risultato. Qui comando io, proprio perché mi stai pagando. Da me il cliente non ha ragione: sarebbe così se dovessi pagare io per farlo mangiare. Tu, nel momento in cui entri qui, ti lasci trasportare: poi magari scopri che questa esperienza non fa per te, che ci sei venuto solo perché ti piace dire agli amici di essere andato a mangiare il vero sushi per tirartela un po’, oppure scopri che il pesce crudo è la tua ragione di vita. Ne ho convertiti tanti, in questi anni, a dire la verità.
Il menù è fisso? Viene cambiato a seconda del pescato, a volte in modo giornaliero, a volte stagionale (è il mare che decide, sempre). La Capasanta giapponese (sono l’unico in Italia ad averla, la faccio arrivare direttamente dal Giappone) e il Gambero Rosso di Mazara del Vallo sono le uniche due presenze fisse sul menù. Non le cambio mai. Non uso il salmone, ve lo dico subito, a parte le rarissime volte in cui riesco a trovare quello selvaggio. A volte uso il luccio del lago di Garda, che ha una forza muscolare da brivido. Il percorso che faccio è basato quindi non tanto, o meglio, non solo sul sapore del pesce, che è fine a se stesso. Per fare un esempio, se ho una cassetta di 50 Gamberi Rossi di Mazara so che non avranno tutti lo stesso identico sapore perché la loro vita e la loro alimentazione non sono state esattamente le stesse. Io lavoro molto con le percezioni, le consistenze, le persistenze: guardo alla forza muscolare del pesce, alla pressione del riso, al tempo di masticazione, alla temperatura di servizio. Hai qualcuno che ti aiuta? Mi occupo io di tutto. Lavoro da solo partendo dagli acquisti che faccio personalmente: tre volte a settimana vado al mercato del pesce la mattina presto, all’arrivo dei pescherecci, e compro tutto in loco senza farmelo spedire. Poi mi occupo della preparazione e del servizio della cena, tenendo in piedi tutta la serata e interagendo coi clienti. C’è solo mia moglie che mi aiuta per tutto ciò che
è il servizio al di là del banco, quindi servendo le bevande. Ma la cucina è il mio regno. Voglio essere da solo. Un’ultima domanda: che tipo di clienti hai? Un buon 50% viene qui perché mi conosce. Ho clienti che arrivano da tutto il mondo: alcuni vengono qui da Oslo apposta per mangiare da me, si fermano un paio di notti e se ne vanno. Ho anche diversi clienti giapponesi. Ci sono anche coloro che decidono di venire perché hanno sentito dire in giro che sono arrogante e me la tiro, e sono incuriositi da questo. E tu, lo hai già detto, sei davvero arrogante. So quello che faccio, sono sicuro della qualità di ciò servo, sono un professionista e l’ho dimostrato coi fatti. Perché non dovrei essere arrogante? Io dimostro ciò che sono e me la tiro, perché sono in grado di poterlo fare. Se non lo fossi, mi chiuderei nel guscio, ma non ho nessun motivo di farlo. E comunque troppa gente scambia per arroganza la schiettezza di chi, sapendo esattamente ciò che sta facendo, ha il coraggio di dirti che sei un coglione quando sbagli. Siete avvisati. Se decidete di entrare al Moi, per una serata in cui, per una cena del genere, pagherete 70 euro (e se ci pensate è davvero poco) lasciate fuori tutto ciò che credete di sapere sul sushi. E non fate domande del…
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foto di Rossella Neiadin
Siamo in Giappone
oltre al sushi c'è di più Dispositivi e accessori a cura di Michele Chipa
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In Giappone la cottura su griglia fa da sempre parte della vita quotidiana: in ogni casa tradizionale non può mancare un irori, ovvero un focolare che ha sia la funzione di riscaldare l’ambiente per renderlo confortevole, che quella di cucinare il cibo. In passato, anche la consumazione dei pasti da parte di tutta la famiglia avveniva intorno all’irori, abitudine che favoriva il rafforzamento dei legami familiari. Provate a chiudere gli occhi e ad immaginarvi la scena e le sensazioni: il calore del fuoco davanti a voi, l’affetto dei vostri cari che vi avvolge e l’aroma del cibo appena cotto che invade l’aria. Cosa c’è di più bello? I tempi moderni, con la loro velocità e la loro frenesia, purtroppo non permettono più queste tradizioni quotidiane, ma in ogni festa che si rispetti il focolare riveste sempre un ruolo da protagonista. In maniera molto semplicistica si può identificare il bbq giapponese come una cottura diretta su un particolare dispositivo portatile. Ma, ovviamente, c’è molto di più.
Nel linguaggio comune ci sono diversi termini per questo tipo di cottura, ma spesso vengono utilizzati in maniera impropria. In questo articolo cercherò di fare un po’ di chiarezza. Robatayaki Usualmente abbreviato in robata, e rappresenta l’attuale metodo di cottura, ovvero una diretta ad alta temperatura di piccoli o sottili pezzi di cibo su una griglia o un dispositivo portatile disposto al centro del tavolo. Il robatayaki è originario nella regione di Hokkaido, dove i pescatori cuocevano i propri pasti di pesce fresco direttamente sull’imbarcazione. La cottura avveniva su piccole griglie in pietra alimentate a carbone Binchotan (bincho). La pietra aveva la triplice funzione di contenere il carbone, convogliare il calore verso la griglia ed evitare incendi. Questo tipo di cottura estremamente efficiente prese piede anche sulla terraferma e ben presto nell’intero Giappone.
Si inventò, quindi, l’Higoshi o Shichirin: un barbecue portatile da utilizzare direttamente sulla tavola.
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Negli ambienti urbani il pesce era una materia prima costosa e quindi si iniziarono a grigliare anche vegetali e carni povere come pollame, maiale e tagli meno pregiati di manzo. Poiché le dolci temperature necessarie alla cottura del pesce non erano sufficienti per la carne, si dovette anche variare il materiale costruttivo dei dispositivi: si passò, infatti, dalla pietra e dall’argilla all’acciaio rinforzato.
Oggi con robatayaki si può identificare anche il particolare tipo di ristorante che utilizza questo metodo di cottura, ovvero un piccolo locale accogliente dove il cliente viene servito direttamente dallo chef.
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YAKINIKU Questa parola significa letteralmente carne alla griglia, ma nel suo senso più ampio è riferibile alla cottura della ciccia sulla griglia. Di fatto, lo Yakiniku non è altro che il robatayaki a base di carne e frattaglie. I commensali procedono alla cottura in autonomia di piccoli pezzi di carne direttamente sulla griglia posta al centro del tavolo che poi immergeranno in una salsa a base di funghi shiitake, zenzero, salsa di soia, sake, mirin ed aglio (salsa tare). Per lo yakiniku vengono utilizzati molti tagli di carne. Vediamo i più comuni, dividendoli per tipologie:
1. Manzo: Tan (lingua), Harami (diaframma e carne circostante), Karubi/Baraniku (short ribs), Misuji (muscoli della spalla), Rebā (fegato), Rōsu (lombo), Hatsu (cuore), Mino/Hachinosu (trippa) e Tēru (coda); 2. Maiale: Butabara (pancetta), Tetchan/Horumon (intestino), P-toro/Tontoro (guancia e collo), Gatsu (stomaco) e Kobokuro (utero); 3. Pollo: intero animale comprese le frattaglie. Ogni tipo di carne ha una propria marinatura, necessaria ad incrementarne sapore e tenerezza. Questa cottura è diventata talmente importante in Giappone da far proclamare il 29 agosto Yakiniku Day. YAKITORI Yakitori significa pollo alla griglia, quindi si può intendere come uno yakiniku a base di pollo, che viene ridotto a piccoli pezzi e poi infilzato in spiedini
per favorire l’omogeneità e la facilità di cottura. Gli yakitori hanno una forma rotonda oppure rettangolare con un’estremità molto appuntita; la loro lunghezza varia in base alla dimensione della griglia. Del volatile vengono utilizzati praticamente tutti i pezzi, compresi cuore e pelle. Una volta cotto a puntino, lo spiedino viene spolverizzato con un po’ di sale oppure immerso in salsa tare. Tuttavia, nell’uso comune Yakitori ha ampliato il suo significato andando a comprendere anche altri tipi di spiedini cotti alla griglia (pesce, altri tipi di carne e verdure). CARBONE BINCHOTAN Sia che si parli di Robatayaki che di Yakiniku, il combustibile che viene utilizzato per queste cottura è tradizionalmente il carbone Binchotan (bincho). È ottenuto da ciocchi molto densi e pesanti di querce di 20/30
anni di età, ed è disponibile sia in pezzi che in ovuli ottenuti dalla pressatura della polvere proveniente dalla lavorazione. Ma quali sono le caratteristiche che lo rendono così apprezzato per queste cotture? La prima particolarità del Binchotan è che non produce fumo. Pensate che il suo utilizzo originario è stato quello di riscaldare i palazzi aristocratici i cui abitanti non sarebbero stati evidentemente molto felici di puzzare costantemente di fumo. Successivamente è stato adattato all’utilizzo nelle griglie di cottura, aumentandone la purezza e diminuendone le pezzature. La seconda caratteristica peculiare è l’intensità del calore infrarosso: la sua portata permette di mantenere i cibi succosi creando contemporaneamente una croccante crosticina esterna. Ciò è dovuto al fatto che la temperatura di combustione del Binchotan raggiunge anche gli 800°C contro i 400°C di un carbone ordinario. Mi raccomando: ricordatevelo quando vorrete utilizzarlo nel vostro dispositivo!
Quando la griglia è ben calda, il cibo viene posizionato in cottura diretta e girato molto spesso: lo spessore e la dimensione permettono una veloce cottura, anche grazie al fatto che, come abbiamo appena scoperto, il Binchotan raggiunge temperature importanti. Spesso i pezzi di cibo vengono infilzati in spiedini, un po’ per facilitare le operazioni di spostamento in griglia e un po’ perché si riesce in questo modo ad addentare più facilmente il gustoso boccone direttamente a fine cottura. Il condimento può essere realizzato con spezie o con immersione in salse particolari (principalmente la salsa tare). È un metodo di cottura sicuramente molto semplice ed elementare, ma conserva un grande fascino e rappresenta la massima espressione della convivialità. Di fatto, è molto riduttivo parlare di bbq giapponese come una mera cottura alla griglia. Seppur di recente affermazione, essa rappresenta una pietra miliare della tradizione culinaria del Paese del Sol Levante. Ora siete pronti alla vostra prima grigliata alla giapponese: non vi resta che procurarvi un carico di Binchotan, un dispositivo resistente alle altissime temperature, gli alimenti giusti (ma in questo caso noi di BBQ4All potremmo essere adatti all’uopo) e una bella comitiva di parenti e amici con cui condividere un’esperienza decisamente affascinante.
Il carbone, acceso prima in apposite ciminiere che hanno il compito di velocizzare l’incremento della temperatura, viene successivamente collocato nel dispositivo.
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DISPOSITIVI E METODO DI COTTURA Come ho già detto in precedenza, la cottura avviene in dispositivi portatili posti al centro del tavolo e costruiti in acciaio resistente (più raramente in ceramica o in argilla).
Pa e s e che va i buone ma n i e r e che trov i
Dieci semplici regole per non fare figuracce nel Paese del Sol Levante
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Costume e società a cura di Michela Bongiorni Chiunque si interessi un po’ di Galateo, sa che in Italia è assolutamente vietato augurare ai commensali buon appetito così come tirar su rumorosamente i liquidi col cucchiaio; fatelo e vi ritroverete ad essere guardati con aria imbarazzata e schifata. Parlando del Giappone, abbiamo tutti, chi più chi meno, l’idea di un popolo attento alle buone maniere, al bello, alle tradizioni, alle cerimonie. Tuttavia, una cultura così distante dalla nostra spesso potrebbe portarci a imbatterci in situazioni in cui la figuraccia è dietro l’angolo. Certo, i giapponesi sono molto ospitali, e non vi faranno mai notare un gaffe, tuttavia è bene conoscere le basi del loro galateo prima di avventurarsi in Giappone, in modo da sapere quali cose vadano fatte e quali debbano essere assolutamente evitate. Le buone maniere nipponiche sono ben diverse dalle nostre, per cui una piccola guida può esservi utile, anche solo per conoscere usi e costumi tanto distanti da noi.
1. TOGLIERSI LE SCARPE PRIMA DI SEDERSI A TAVOLA Esatto. So che è una cosa che a molti di voi fa storcere il naso e fa subito pensare al terribile odore degli spogliatoi delle palestre dopo un allenamento intensivo, ma in Giappone è assolutamente imperativo, nella maggior parte dei ristoranti e quando si è ospiti a casa di qualcuno, togliersi le scarpe prima di sedersi a tavola per una cena tradizionale giapponese. Già, sedersi a tavola: per noi potrebbe essere difficile perché non siamo abituati a stare seduti secondo la loro usanza. Il tavolo basso impone di inginocchiarsi in stile seiza (inginocchiati e seduti sui talloni) sul tatami (pavimento usato nell’arredamento tradizionale giapponese, ovvero una stuoia di paglia di riso pressata, rivestita di giunco intrecciato). Conosco persone che, una volta raggiunta quella posizione, non riuscirebbero più ad alzarsi nei secoli a venire. Ma tant’è. Se volete partecipare a una cena tradizionale, cominciate ad allenarvi (e a tenere puliti e profumati i piedoni). 2. MAI VERSARSI DA BERE DA SOLI. Il padrone di casa serve gli ospiti, poi uno degli ospiti deve servire lui. Inoltre, durante il pasto è buona regola servire i commensali ed aspettare che qualcuno di loro vi versi da bere; in quest’ultimo caso è molto gentile ricambiare il gesto e servire ancora il commensale. Insomma, è un continuo scambio di gentilezze e di attenzioni, che mette da parte l’individualismo e favorisce l’interazione fra i commensali. Lasciare un bicchiere vuoto significa che si vuole ancora da bere, al contrario se non si desidera più essere serviti basta lasciarlo pieno. Insomma, non continuate a svuotare il bicchiere pensando di fare un favore ai padroni di casa, perché continueranno a versarvi sakè, e la cosa a un certo punto potrebbe diventare difficile da gestire. Quando sentite di essere prossimi al coma etilico, smettete.
4. USARE LE BACCHETTE IN MODO CORRETTO E qui entriamo in un argomento delicato. Nei vari All you can eat si vedono spesso persone che, per darsi un tono, tengono le bacchette un po’ come viene, tirando su il cibo con gesti ineleganti e goffi. Per farlo correttamente, si deve usare un paio di bacchette con una sola mano, tra il pollice e il resto delle dita, per tirare su qualsiasi tipo di cibo, compresi gli spaghetti tradizionali.
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3. FARE RUMORE MANGIANDO Veniamo a una delle cose che più incontrano le nostre resistenze: avete presente il risucchio di vostro nonno quando mangia la minestrina col formaggino, quel rumore che ha su noi lo stesso effetto delle unghie sulla lavagna? Ecco, in Giappone è considerato un segno di apprezzamento del pasto, per cui è un rumore graditissimo. A loro discolpa, possiamo dire che spesso le zuppe ed i brodi serviti caldissimi possono essere, in quel modo, raffreddati e quindi consumati senza che i poveri nipponici si ustionino la lingua e il palato, ma vi accorgerete che lo fanno anche con le vivande fredde, proprio perché quei rumori slurpeggianti stanno a significare un estremo gradimento. Va bene, se andate in Giappone potete anche adattarvi a questi modi, ma in Italia, vi prego, non fatelo mai. Vi prego. Basterà un semplice è squisito e vi crederanno sulla parola.
Esistono diversi tipi di bacchette: quelle particolarmente lunghe, chiamate saibashi, vengono usate perlopiù per cucinare e per friggere, quelle più corte per mangiare. Ci sono anche quelle più appuntite, che sono molto comode per tirare su il riso e per togliere le lische di pesce. Le bacchette possono essere fatte in bambù e in legno, in metallo, in materiali preziosi come la giada, l’avorio, l’argento o l’oro e anche in plastica.
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Devono essere riposte sempre in parallelo sul piattino o sul portabacchette, perché appoggiarle sulla tavola è considerato non elegante e non igienico. Devono essere impugnate in modo che le dita siano distanti dal cibo. Quando si prende del cibo dai piatti di portata bisogna usare la parte posteriore delle bacchette, non quella che si porta alla bocca. Potete offrire un assaggio a qualcuno, però prendendo il boccone e mettendolo nel suo piatto, non passandolo direttamente dai vostri bastoncini ai suoi. È anche considerato un gesto portasfiga. Specie quando si mangia il sushi, il pezzo deve essere messo in bocca tutto intero, senza essere frazionato o addentato, quindi non usate le bacchette a mo’ di coltello: se non siete in grado di usarle, sappiate che non è affatto sconveniente usare le mani, anzi. Tanto, avrete a disposizione le oshibori, ovvero le apposite salviette di spugna, servite spesso inumidite e calde, che servono proprio a pulirsi le mani (non la bocca, non il viso, non la fronte!) tra un boccone e l’altro, e che vanno poi riposte in modo ordinato nella posizione in cui le avete trovate.
5. USARE CON PARSIMONIA SALSA DI SOIA, ZENZERO E WASABI Ecco un altro punto dolente: in Italia si vedono persone che, sedute al tavolo in attesa di scofanarsi sushi fino a scoppiare, versano nel
piattino un lago di salsa di soia e ci sciolgono dentro il wasabi, mescolando forte “... come se facessero la calcina per tirare su un grattacielo!” (cit. di Francesco Preite, cuoco di cui leggerete l’intervista più
6. PORZIONI NON ESAGERATE E anche in questo caso, gli avventori degli all you can eat potrebbero avere un mancamento. La poraccitudine umana che si vede in questi luoghi è sconvolgente, specie se c’è il nastro. Gente che nemmeno si siede per mangiare,
prende il piattino e ingolla il pezzo lì sul posto mentre con le manacce sudice subito si avventa sul piattino dopo; gente che rincorre la roba sul nastro facendola cadere nel tentativo di accaparrarsela per rubarla agli altri avventori, gente che prendilo anche se non lo mangi, prendilo che poi non passa più! C’è chi diventa verde ed è sul punto di scoppiare, eppure continua a ordinare roba, perché vive come una sfida la frase tutto quello che riesci a mangiare ed è disposta a rischiare la lavanda gastrica.
Di fatto, esagerare con le porzioni è considerato maleducato in Giappone esattamente come da noi. Inoltre, se si è ospiti a casa di qualcuno, è vietato cominciare a mangiare prima che tutte le portate siano state servite. Non è maleducato, invece, mangiare con la guance gonfie di cibo, perché è considerata una dimostrazione genuina di gradimento. Ecco, adesso però non prendetela come una sfida: tutto ciò che riesci a mettere in bocca.
7. MAI SOFFIARSI IL NASO A onor del vero, anche in Italia non è esattamente la cosa che si insegna ai bambini: ehi, quando ti devi soffiare il naso, fallo pure a tavola davanti a tutti e possibilmente in modo rumoroso! Anche da noi, sarebbe buona regola alzarsi e allontanarsi dai commensali che non devono essere costretti a sentire i rumori del muco che esce dalle nostre narici. Tuttavia, in Giappone è considerato maleducatissimo soffiarsi il naso in pubblico in generale, figuriamoci a tavola. Se ne sentite la necessita, dunque, non dovete solo alzarvi e allontanarvi, ma andare a nascondervi in bagno. È paradossale, ma è accettato che, sentendovi colare il naso, voi continuiate a tirar su con le narici, piuttosto che tirar fuori il fazzoletto e dare una bella soffiata.
8. ITADAKIMASU Se da noi dire buon appetito prima del pranzo è diventato un po’ cafone perché è come augurare ai commensali di avere più appetito del dovuto e quindi un suggerimento a strafogarsi, non è così per l’Itadakimasu detto prima di un pasto nel paese del Sol Levante; tuttavia non ha lo stesso significato. La parola giapponese significa letteralmente prendo con gratitudine questo cibo. Anticamente era una piccola preghiera per ringraziare il dio del cibo, gli animali e le verdure che avevano sacrificato la loro vita per noi, per ringraziare chi aveva allevato le bestie o coltivato la terra, e infine chi aveva preparato il pasto. Era quindi una vera e propria professione di umiltà di fronte a chi tanto si era prodigato per mettere sulla tavola le cibarie. Adesso è una frase di cortesia, che esprime i princìpi di armonia, convivialità e gratitudine che sono alla base del washoku, la cucina giapponese. Non ditelo, quindi, se non state per mangiare anche voi, perché non è un augurio ma un ringraziamento che state facendo. 9. SOLLEVARE DAL TAVOLO LE CIOTOLE Le zuppe vengono consumate senza cucchiaio, bevendo direttamente dalla ciotola (rumorosamente, come abbiamo
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avanti). Assolutamente non si fa! La salsa di soia dovrebbe essere usata solo per intingere appena il boccone di sushi (dalla parte del pesce e non da quella del riso, altrimenti si sbriciola), in modo che il suo sapore delicato non venga coperto. Il wasabi dovrebbe essere apposto con molta parsimonia direttamente sul boccone. Lo zenzero non dovrebbe essere abbinato al sushi, ma usato per pulirsi la bocca tra un boccone e l’altro. Punto e a capo. Smettete di impastare la calcina. Ora.
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visto poco sopra). Anche se state mangiando il riso, è buona regola sollevare la ciotola dal tavolo, in questo modo: prima abbiate cura di sollevarla con entrambe le mani, quindi passatela sulla sinistra, che la sorreggerà da sotto. A quel punto, con la mano libera, cioè la destra, potete iniziare a mangiare con le bacchette di legno. Quando invece mangiate da un piatto grande, non sollevatelo dal tavolo. A questo punto immaginatevi la scena. Siete seduti in ginocchio, poggiando il sederino sul talloni, avete in una mano la ciotola, nell’altra le bacchette che dovete usare per mangiare gli spaghetti dopo aver bevuto (rumorosamente) il brodo caldo, che però vi ha fatto cominciare a colare il naso: anche volendo non potreste soffiarvelo, ecco perché potete tranquillamente continuare a tirar su con le narici. Tutto torna.
10. UN GRANDE SOSPIRO A FINE PASTO Appena si è finito di mangiare, è buona educazione fare un grande sospiro per far capire che si è molto gradito il pasto. Anche in questo caso c’è una frase di cortesia da pronunciare, ovvero Gochisousama deshita che suona più o meno come era tutto buonissimo, ma che in origine era detto, di nuovo, per ringraziare chi si era dato tanto da fare per preparare il pasto. L’uso di Gochisousama è stato per molte generazioni considerato come sacro, come se fosse un rituale insieme a Itadakimasu. Entrambi i termini sono usati obbligatoriamente in situazioni formali, ma spesso vengono impiegati anche in momenti colloquiali e informali perché sinonimo di buona educazione. Tuttavia, sembra che l’uso di Itadakimasu si stia un po’ perdendo (specie al ristorante, in molti pensano di non aver nulla di che essere riconoscenti, dato che stanno pagando), mentre resiste meglio Gochisousama, forse perché sopravvive questa forma di cortesia o perché si è perso, nella memoria collettiva, il significato originale che è sempre quello di essere grati.
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Found in traslation . . . Pe r c a p i r c i q u a l c o s a : un glossario utile per m a n g i ar e i n Gi a p p o n e Glossario a cura di Michela Bongiorni
ASA GOHAN: è la tipica colazione nipponica. Comprende cibi dal sapore forte, come verdure sottaceto, polpo, pesce secco. Non può mai mancare il riso, cotto per assorbimento e privo di qualsiasi condimento, servito in una scatola laccata con coperchio che lo mantiene caldo. BENTO: (anche obento) è uno stile di cucina dove diverse vivande vengono servite in un vassoio o in una scatola, molto utile per le gite fuori porta, durante i viaggi in treno o durante i pic nic. DOBIN MUSHI: zuppa che viene servita nella teiera (dobin), solitamente accompagnata da mezzo limone per essere insaporita.
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DONBURI: è il tipico piatto unico casalingo, preparato in molte varianti. Spesso prevede pollo cotto in brodo dashi, poi versato sul riso caldo. KATSUDON: piatto simile al Donburi, fatto con riso, uovo e tonkatsu, cioè
MISOSHIRU: zuppa che prende il nome dal suo ingrediente principale, il miso. Il miso è una pasta di soia fermentata, ed è utilizzata molto spesso per marinare. Questa zuppa è fatta col brodo dashi, fatto con scaglie di tonnetto essiccato (katsuobushi) e un’alga (konbu), nel quale viene sciolto il miso. M O C H I: dolce tradizionale giapponese, fatto con pasta di riso appiccicosa e morbida, tipicamente di forma tondeggiante. OKONOMIYAKI: piatto tipico di Osaka, fatto con un impasto di farina e cavolo e poi cotto sul teppan, cioè la piastra di ferro calda. Significa letteralmente cucina tutto ciò che vuoi, infatti può essere fatto con moltissimi ingredienti aggiuntivi, dalla carne al pesce, dalle uova alle verdure. ONIGIRI: involtini a base di riso e alga cruda, di forma triangolare. Possono poi essere farciti con carne e pesce. Molto diffusi sono quelli con all’interno l’umeb oshi, una prugna giapponese essiccata con sale. RAMEN: zuppa con carne, spaghetti di grano, uova e alghe crude. Esistono molte varianti. SASHIMI: pesce o molluschi freschissimi, tagliati in fettine sottilissime e serviti con una salsa in cui intingerli appena. SHABU SHABU: fettine di carne di vitello e di maiale molto sottili che vengono cotte direttamente sul tavolo in un brodo leggero,
accompagnate spesso da salse. SOBA: spaghetti sottilissimi di grano saraceno, serviti sia freddi che caldi, in brodo o asciutti. SAKE: vino ottenuto dalla fermentazione del vino. Per condire o marinare, di solito si usa il mirin, che è un sake più leggero. SUKIYAKI: simile allo shabu shabu; fettine sottili di manzo cotte in brodo di salsa di soia, zucchero e sake. Sono cotte direttamente al tavolo e poi vengono accompagnate da verdure e tofu. SUSHI: polpettine di riso cotto tcon aceto di riso, zucchero e sale, guarnite con pesce crudo o ripiene con pesce e verdure. Esistono maniere diverse di costruire il sushi, indipendentemente dal ripieno. Eccole: Futomaki: polpetta cilindrica con alga nori all'esterno, spessa due o tre centimetri e fatta con tre ripieni all’interno. Gunkanzushi: pugnetto di riso avvolto a mano in una striscia di nori, non ripieno ma con gli ingredienti sopra. Hosomaki: polpettina cilindrica con alga nori all’esterno, spessa due centimetri e con un solo ripieno all’interno. Makizushi: polpettina cilindrica formata con l'aiuto di un tappeto di bambù detto makisu. E’ quella più conosciuta dagli occidentali. Nigirizushi: sushi modellato a mano, fatto con una piccola polpettina di riso e pesce crudo appoggiato sopra, fermato a volte con una striscia sottile di alga. Oshizushi: blocco di riso fatto usando una forma di legno detta oshibako. Una volta guarnito e formato, il blocco viene rimosso dalla forma e tagliato in pezzi delle dimensioni di un boccone. Temaki: polpetta a forma di cono, con il nori all'esterno e gli ingredienti che sporgono dall'estremità larga, si mangia con le mani. Uramaki: polpetta cilindrica di dimensioni medie con due o più ripieni. Differisce da altri maki perché il riso è all'esterno ed il ripieno è al centro circondato da un foglio di nori. TAKOYAKI: polpettine di polpo tipiche della cucina popolare di Osaka. TEMPURA: tipica frittura mista giapponese. UDON: spaghetti di grano tenero piuttosto grossi, serviti spesso in brodo. YAKINIKU: sottili fettine di carne cotte direttamente sulla griglia. YAKITORI: spiedini di pollo.
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cotoletta di vitello o di maiale panata e fritta.
Tem p u r a l'ar te d i fri g g ere croccante asciutto leggerissimo Storia e tecnica in un piatto a cura di Alessandro Trezzi
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Oggi più che mai l’oriente ha un fascino innegabile in cucina. E nel complesso e variegato mondo asiatico, riveste un ruolo importantissimo il Giappone. Il Paese del Sol Levante è un simbolo indiscusso di quiete, di ricerca del perfezionismo, di disciplina e precisione. La filosofia del Samurai, atta a ricercare la perfezione in ogni gesto, si riversa anche nella vasta cultura gastronomica. Tra i piatti più conosciuti, specie in occidente, c’è il Tempura, ovvero un misto di pesce e/o verdura impastellati separatamente e fritti. DA DOVE HA ORIGINE? Quante tipologie ne esistono? E quali sono i segreti per prepararlo al meglio? Scopriamolo insieme. Da Oriente a Occidente, da Occidente a Oriente Ci pensate? Uno dei più celebri piatti della cultura giapponese possiede una forte influenza europea. In origine i fritti venivano preparati senza pastella,
con una leggera panatura di farina di riso; fu nella Nagasaki del XVI che, grazie ad alcuni mercanti e missionari portoghesi della regione dell’Alentejo, un intruglio di farina e uova venne acquisito anche dagli abitanti della regione. Il Tempura nasceva per soddisfare una forte esigenza di carattere religioso, dato che all’inizio di ogni stagione i cristiani si astenevano dal mangiare carne per tre giorni (mercoledì, venerdì e sabato). Questi quattro periodi, durante i quali i missionari si cibavano solo di pesce e verdure, erano chiamati in latino Quattro Tempora. Da qui l’etimologia della parola. All’inizio del XVII secolo, intorno alla baia di Tokyo, ingredienti e preparazione del Tempura subirono notevoli cambiamenti, proprio nel momento in cui la cultura Yatai (ovvero quella degli stand gastronomici) acquistava popolarità. In sostanza, si cercava di sfruttare e di valorizzare al meglio le proprietà nutritive e i sapori dei frutti di mare freschi, cercando di preservarne il gusto delicato. Nasceva così il Tempura moderno, una tecnica rimasta invariata fino ad oggi, conosciuta come Stile Tokyo o Stile Edo.
LA PASTELLA PERFETTA Dimenticatevi qualsiasi impanatura a cui siate abituati. Nel Paese del Sol Levante hanno tecniche precise e secolari per rendere i fritti croccanti, asciutti e leggerissimi. Per quanto sia opzionale e molto comune l’uso dell’uovo, per le motivazioni già citate la pastella più diffusa è composta solo da farina debole e acqua molto fredda (in rapporto di 2:3), il tutto mescolato minimamente per mezzo di bacchette di legno. Questo evita la viscosità tipica di un impasto, causata dalla formazione del glutine del grano data dall’unione tra gliadina e glutenina (due proteine contenute nella farina), che impedisce di raggiungere il grado di croccantezza desiderato, perché renderebbe il prodotto morbido e simile ad una frittella. L’utilizzo di acqua frizzante può agevolare il raggiungimento di una consistenza più ariosa, in quanto l’anidride carbonica contenuta fa gonfiare maggiormente la pastella nella fase di cottura. Altri ingredienti, come bicarbonato di sodio, lievito, amido di mais, olio e spezie per aromatizzare la pastella sono previsti in varie versioni, ma vanno contro l’obiettivo principale della preparazione: esaltare il gusto docile e pacato dei frutti di mare.
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Le ricette tempura erano popolari soprattutto nelle bancarelle di cibo che persistevano lungo il fiume, dove l’abbondanza dei prodotti del mare era decisamente più elevata. Anche tale diffusione ha una motivazione ben precisa: durante il periodo Edo era vietato servire cibi fritti in casa, perché l’olio utilizzato per il Tempura rappresentava un pericolo di incendio nell’edificio tipico giapponese, fatto di carta e legno. Ecco perché tali preparazioni hanno guadagnato popolarità come fast food, consumato tra i banchi di cibo all’aperto, infilzato con uno spiedino di legno e mangiato accompagnato dall’immancabile salsa. Il termine Tempura ha ormai guadagnato popolarità soprattutto nel sud del Giappone, dove viene ampiamente utilizzato per riferirsi a qualsiasi tipo di cibo preparato usando olio caldo.
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Vi stupirà sapere che i grumi sono volutamente lasciati nella miscela. Saranno proprio quei grumi, insieme allo sbalzo termico dovuto all’immersione di una massa fredda nell’olio molto caldo, a condurre all’esclusiva struttura soffice e croccante del Tempura. Per accentuare tale differenza di temperatura, la pastella viene spesso mescolata all’interno di una ciotola precedentemente conservata nel congelatore. Contrariamente a quanto qualcuno potrebbe pensare, il Tempura giapponese non utilizza pangrattato (o Panko, il tipico preparato orientale) per il rivestimento. I fritti ricoperti vengono denominati Furai, ovvero cibi in stile occidentale inventati in Giappone, come ad esempio il Tonkatsu (maiale impanato e fritto) e l’Ebi Furai (un piatto composto da gamberi fritti).
Oltre a tali nozioni di base, c’è da dire che i giapponesi tradizionalmente friggevano nei più comuni (per loro, si intende) olio di sesamo o olio di semi di tè, sebbene nei Quattro Tempora si utilizzasse principalmente lardo. Siamo onesti, da noi queste tipologie d’olio non sono poi così diffuse e costano uno sproposito. Meglio lavorare piuttosto con un buon olio di semi di arachide (punto di fumo 230 °C), mantenendo la temperatura intorno ai 170-180 °C. Se non si dispone di un termometro (anche se sono sicuro che, da amante del BBQ, ne avrai a tonnellate) puoi fare una prova semplicissima: immergi un pezzettino di pastella, e se va in fondo al tuo wok per poi subito risalire significa che l’olio è pronto. Gocce di pastella vengono letteralmente gettate sui pezzi
durante la frittura, in modo da formare le classiche increspature croccanti e saporite. Quel che rimane nell’olio (noto come tenkasu) viene recuperato con un piccolo cucchiaio denominato ami jakushi (non preoccuparti, puoi benissimo usare un comune ragno o una schiumarola), e servito anche in piatti dedicati. Il servizio perfetto Una volta cotto, il Tempura viene consumato insieme a una salsa nella quale si immerge rapidamente pezzo dopo pezzo, oppure utilizzato per assemblare altri piatti. Viene comunemente accompagnato al Daikon, una varietà di ravanello bianca e allungata, e consumato caldo. La salsa più tipica è la tentsuyu, composta da tre parti di dashi (il tipico brodo leggero di pesce della cucina giapponese), una parte di mirin (sakè dolce) e una di shoyu (salsa di soia). In alternativa, il Tempura è cosparso da sale marino o ancor più da un misto di sale e tè verde in polvere. È possibile trovarlo in combinazione con altri alimenti, come sopra il Soba (la pasta di grano saraceno), oppure come piatto donburi, dove gamberi e verdure vengono serviti sopra del riso al vapore, o ancora sopra la zuppa di udon (la pasta di grano tenero molto lunga e spessa). DI TEMPURA IN TEMPURA Esistono, neanche a dirlo, svariate tipologie di Tempura, definibili in base all’ingrediente principale che viene fritto in pastella. Si parte dagli immancabili ebi (gamberi e gamberetti), popolarissimi in ogni piatto tempura, per passare ai sakana (pesce), filetti o piccoli pesci come il merlano giapponese, i bianchetti, il ghiozzo o lo sweetfish (Ayu o Plecoglossus altivelis) Dalle proteine più comuni si arriva alle componenti vegetariane. Le Nasu sono melanzane giapponesi, che a seconda della dimensione possono essere tagliate a rondelle, o a metà, o ancora a ventaglio per intento coreografico. Diconsi Kinoko i funghi fritti, popolarissimi anch’essi per il Tempura, specialmente i maitake o i celeberrimi shiitake. Quando è stagione, trova spazio nei piatti anche la kabocha, una varietà di zucca del Sol Levante dalla pelle sottile tipicamente verde scura, che viene lasciata anch’essa in cottura insieme alla polpa color arancio. Le satsumaimo sono patate dolci giapponesi con una pelle violacea e la pasta gialla. Vengono tagliate finemente e ne viene conservata la buccia, e richiedono qualche minuto più di cottura a causa della loro consistenza. Se fritte da sole, è consigliabile cuocerle a temperatura più bassa, intorno ai 150-160 °C. Ingrediente molto tipico delle fritture è lo shiso, foglie dai sentori molto simili alla menta che vengono utilizzati come guarnizioni insieme al sashimi, ma che trovano spazio per arricchire di sapore anche il Tempura.Last but not least, non è raro trovare il kakiage nei menu Tempura: un impasto vero e proprio, realizzato pressando delle varietà di verdura tagliate a julienne e qualche frutto di mare tenuti insieme dalla pastella, e fritto ovviamente a temperature inferiori. Può esser servito come aperitivo, contorno o come topping in una ciotola di riso o di noodles.
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LA FRITTURA PERFETTA Fondamentale, come in tutti i fritti, è tenere a mente tre condizioni necessarie e sufficienti: Lo spessore degli ingredienti deve essere quanto più similare possibile, per evitare differenze di cottura; friggere pochi pezzi alla volta impedisce alla temperatura dell’olio di calare rapidamente, mantenendo stabile il tempo di cottura ed evitando quindi che la pastella possa assorbire olio e risultare pesante; rispettare il punto di fumo dell’olio utilizzato per la cottura impedisce a quest’ultimo di bruciare e di conferire un gusto amaro al fritto, oltre a non generare acrilammide e a ridurre il rischio di cibi cancerogeni.
Sushi? Amore, stasera
...Prepariamocelo da soli!
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Storia e tecnica in un piatto a cura di Giusy e Carlo Trono
Il pesce è sempre stata la principale fonte di proteine per i popoli affacciati sul pescosissimo Oceano Pacifico; in attesa che qualcuno inventasse l’elettricità e i frigoriferi, in antichità erano necessarie delle tecniche che permettessero la conservazione degli alimenti a lungo. I cinesi già duemila anni fa conservavano per diversi mesi il pesce (eviscerato, squamato, salato e fatto precedentemente fermentare in una pressa per un periodo da dieci giorni ad un mese) all’interno di barili di riso bollito freddo; la produzione di acido lattico modificava il gusto del pesce e permetteva la sua conservazione anche per un anno. All’apertura dei barili, il riso era ridotto ad una poco invitantemelma viscosa, quindi veniva scartato. I giapponesi iniziarono ad importare e replicare questo prodotto nel periodo Nara (710-784 d.C.), chiamandolo narezushi, (sushi stagionato) che possiamo ritenere essere la forma primordiale di sushi. E qui scatta la prima sorpresa: il sushi l’hanno inventato i cinesi, non i giapponesi. Nei secoli successivi, il popolo del Sol Levante modificò la preparazione originale al fine di consumare il prezioso riso insieme al pesce. Nel periodo Muromachi (tra il 1336 e il 1573 d.C.), una delle epoche di maggiore fioritura culturale nella storia del Giappone, era divenuto molto diffuso il namanare-zushi (sushi crudo), il quale veniva consumato entro massimo dieci giorni dalla produzione, quindi molto prima che i processi di fermentazione intensificassero il gusto rendendolo particolarmente complesso e distante da quello che conosciamo oggi. Nel periodo Edo comparve il vero precursore del sushi come lo conosciamo oggi, ovvero l’haya-zushi (sushi veloce). In questa preparazione il riso bollito veniva condito con aceto di riso, ricreando in maniera rapida l’acidificazione provocata dall’acido lattico durante la lunga fermentazione, ma ottenendo al contempo un gusto molto diverso. Questo cibo era concepito per essere realizzato e consumato rapidamente, avendo perso la necessità di conservazione dei suoi predecessori.
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Ormai è ovunque, più invadente degli alieni di Mars Attacks Tutti lo propongono: i giapponesi (pochi), i cinesi (troppi!), gli italiani (in genere sposati con un orientale o quelli che si sono fatti un viaggio nel Sol Levante e sono tornati in patria con l’ideona imprenditoriale del secolo), probabilmente anche qualche egiziano che si è stancato di infornare pizze. Lo si trova a tutti i livelli della ristorazione: c’è quello realizzato dallo Chef così importante da potersi permettere di rimandare al mittente le celebri Tre stelle Michelin, passando per il localino gastro-romantico-fighetto per coppiette innamorate (l’ideale per farsi perdonare qualcosa), fino ad arrivare al temibile all you can eat a 14,90€ bevande escluse, dove tutti noi, anche se non l’ammetteremo mai, siamo andati almeno una volta nella vita, cercando di segnare un nuovo record nella sfida tra uomo e cibo. Senza sapere che dopo il trentesimo piatto di nigiri ordinato al tavolo, in cucina iniziano ad impastare il riso con cemento, ghiaia e sabbia. La popolarità e la capacità di penetrazione di questo alimento nelle diverse fasce di reddito ricorda molto quello dell’hamburger, anch’esso reperibile sul mercato con prezzi che vanno da 1€ fino ad assurde cifre con tre zeri. In effetti, il sushi e la celebre polpetta di manzo hanno una matrice comune: entrambi nascono come preparazioni fast food. Ma facciamo un passo indietro.
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Di questa tipologia di sushi ne furono create numerose varianti (sugata-zushi , bo-zushi, oshizushi), ma quello di maggior successo commerciale fu senza dubbio il nigiri-zushi, inventato nel 1820 dallo chef Hanaya Yohei (per gli amici Yoshi, come l’amico di Super Mario). Questa polpetta allungata di riso sormontata da un filetto di pesce divenne l’equivalente dell’hamburger o dell’hot-dog per i giapponesi: un cibo facile e veloce, almeno per la concezione dei nipponici, da consumare con una mano sola, prima di entrare a teatro o nel dopo lavoro, seduti a sorseggiare sakè nelle celebri
bancarelle ambulanti con le tendine che abbiamo visto milioni di volte da piccoli nei cartoni animati. Nel dopoguerra iniziarono a diffondersi anche in Giappone i sistemi di refrigerazione; aumentarono le varianti con aggiunta di altri ingredienti (ai nigiri si affiancano i vari makizushi, sushi arrotolati con riso, verdure, alga nori essiccata), comparvero le prime forme di asporto, con box prima in legno e successivamente in polistirolo, ed infine, ci fu il boom dei celebri kaiten-zushi (sushi su nastro trasportatore), o sushi-bar, locali fast-food nei quali le varie tipologie di sushi vengono posti dai cuochi su un nastro trasportatore che corre lungo il bancone dove sono seduti i commensali . Negli anni sessanta, il sushi sbarca negli States ad opera di alcuni chef giapponesi emigrati, i quali, per vincere l’avversione degli
americani per il pesce crudo, pensarono bene di aggiungere ai maki ingredienti come il surimi, la polpa di granchio, il formaggio spalmabile, l’avocado, dando vita ai vari Philadelphia Rolls (ve la ricordate Kaori nella pubblicità degli anni ’90?), California Rolls, Tiger Rolls e via dicendo. Da lì, il passo per invadere l’intero globo terrestre fu facile, con una infinità di varianti e contaminazioni, tra le quali possiamo trovare delle vere eccellenze, ma anche degli assoluti orrori gastronomici. Ad esempio il sushi-pizza, che ovviamente non è stato inventato da un italiano ma da canadesi, i quali prima o poi dovranno rendere conto a qualche divinità per questo crimine. COME SI PREPARA IL SUSHI? Il sushi è un cibo facile e veloce. Ma quando mai? Forse per la concezione dei nipponici, ma per noi occidentali la preparazione di questo cibo costituisce un notevole impegno. Ci sono molti passaggi da eseguire con attenzione maniacale per evitare di rovinare il risultato finale. La chiave è l’attenzione ai dettagli. Disgustati dai pessimi all-you-can-eat, un bel giorno abbiamo deciso di fare un corso serio per poterci
preparare il sushi a casa, in modo da mangiarlo ogni volta che volevamo senza diventare macchine sparabolle per una settimana. Ecco ciò che abbiamo imparato.
anch’esso una cultivar facente parte della subspecie japonica, caratterizzato da chicchi piccoli, tondi e con un discreto quantitativo di amilopectina al suo interno. In parole più semplice, il nostro Originario è un cugino di primo grado del Koshihikari. Anche l’Arborio, il Vialone Nano e il Carnaroli fanno parte della subspecie japonica, ma rispetto all’Originario sono meno tondeggianti, hanno una maggiore quantità di amilopectina e soprattutto tengono maggiormente la cottura, per questo sono più adatti a sontuosi risotti. Un aspetto importante: il riso deve essere stagionato da 6 a 12 mesi dalla raccolta. Risi più vecchi richiedono una maggiore quantità di acqua, e potrebbero rivelarsi inadatti alla preparazione. La quantità di riso necessaria è pari ad una tazza ogni 3 roll. Da ogni roll si ricavano dai 6 agli 8 pezzi di sushi, ed in genere si calcolano almeno due roll per ogni persona (lasciate perdere per un attimo le quantità che ingurgitate negli all-you-can-eat). Prima di essere cotto, il riso va accuratamente sciacquato in un filtro a maglia fine sotto l’acqua corrente, oppure delicatamente lavato in un contenitore cambiando più volte l’acqua fino a che questa non diventa da torbida a trasparente. Lo scopo è eliminare più amido possibile, in modo da evitare l’effetto colloso. Questo passaggio è fondamentale, ed è necessario ripeterlo anche dalle quattro alle sette volte. Dopo aver completato questa operazione, il riso va tenuto a riposo per qualche minuto all’asciutto prima di procedere alla fase successiva. Per cuocere il riso correttamente bisogna considerare un rapporto tra riso e acqua che va da 1:1,1 a 1:1,2 nel caso di un riso più stagionato. Questo vuol dire che, per un riso di sei mesi dalla raccolta, ogni 3 tazze di riso, avremo bisogno di 3 tazze più 1/3 di acqua. Il modo più semplice per cuocere il riso è utilizzare l’apposito cuociriso a vapore, dove è sufficiente accendere la macchina, inserire riso e acqua e dimenticarsene fino a che non scatta il timer preimpostato. In mancanza di questo elettrodomestico, il riso può essere preparato per assorbimento: si fa bollire l’acqua su una pentola dal fondo spesso, si aggiunge il riso e si attende la ripresa del bollore, dopo di che si abbassa la fiamma al minimo e si fa sobbollire per 15 minuti con un coperchio pesante ed ermetico. Al termine di questo tempo si spegne la fiamma e si lascia il tempo necessario affinché il riso assorba tutta l’acqua (ci vorranno all’incirca altri 10 minuti).
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IL RISO Il sumeshi (riso all’aceto) è la base fondamentale per la realizzazione di un buon sushi. Per fare un parallelo con la cucina italiana, ha la stessa importanza della sfoglia di pasta fresca nella preparazione dei tortellini. Deve avere una consistenza tale da poter essere raccolto in palline, ma al contempo si deve sgranare immediatamente in bocca senza sembrare colloso al palato; il sapore deve essere una perfetta combinazione agrodolce, che accarezzi il pesce crudo accompagnandolo senza sovrastare il suo gusto delicato. I cuochi giapponesi devono superare un apprendistato di due anni solo sulla preparazione dei riso, prima di passare alle fasi successive. Il riso perfetto è ovviamente quello di alta qualità, con chicchi corti e bianchi. La varietà più pregiata è il Koshihikari, coltivato in Giappone ma anche in Australia e in California. Altre varietà derivate da incroci sono Akitakomachi, Hitomebore e Hinohikari. Da non usare assolutamente il riso Mochigome, caratterizzato da un altissimo tenore di amido e utilizzato per questo motivo per la realizzazione del gelatinoso dolce mochi. Dobbiamo necessariamente usare del riso giapponese? No! Possiamo utilizzare un comunissimo, italianissimo e facilmente reperibile riso Originario (purché sia di buona qualità). Questo riso infatti è
mente realizzato conservandolo a temperatura ambiente (se lo mettete in frigo fate un disastro) con un canovaccio bagnato e strizzato sopra, e passate agli altri ingredienti. I L P E S C E E G L I A LT R I INGREDIENTI Una volta realizzato il sumeshi, il più dovrebbe essere fatto, vero? E invece no. Adesso bisogna cacciare le lame.
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Mentre il riso cuoce, è possibile preparare il sushizu, ovvero il condimento: per ogni tazza di riso va messo in una casseruola 1/4 di tazza di aceto di riso, 3 cucchiai di zucchero e 1 cucchiaino di sale. Volendo dare maggiore sapidità al condimento, si può mettere in infusione anche una strisciolina di alga nori. Il composto va scaldato e mescolato fino a che sale e zucchero saranno disciolti. Le proporzioni del sushizu possono variare in base al gusto personale, ed è anche possibile utilizzare quello già pronto facilmente reperibili nei supermercati ben forniti. Se non troviamo questo prodotto e nemmeno l’aceto di riso, è possibile ottenere un buon compromesso utilizzando dell’aceto di mele e bilanciando l’acidità con una quantità lievemente maggiore di zucchero. Una volta cotto, il riso va riversato in una teglia di materiale inerte e va formato uno strato di massimo cinque cm di altezza, utilizzando una paletta in legno e stando accorti a non schiacciare i chicchi. Il condimento va aggiunto a caldo versandolo direttamente sul riso mentre con la paletta in legno si mescolerà il tutto senza schiacciare o impastare, ma eseguendo dei “tagli” longitudinali. Contemporaneamente, mentre versate con una mano il condimento e con l’altra manipolate la paletta di legno, con la terza mano dovrete agitare un ventaglio per raffreddare rapidamente il riso. Se siete la dea Kali, non avrete problemi in questa operazione; se siete invece dei comuni mortali, obbligate il vostro compagno ad aiutarvi. Se siete single, andrà benissimo un discreto ventilatore. Continuate l’operazione fino a che il riso smetterà di emettere vapore e i chicchi assumeranno un aspetto lucido, quasi laccato. Provate a formare una pallina con una lieve pressione: se si tiene insieme ma si sgrana con altrettanta facilità avrete fatto un buon lavoro. Proteggete il vostro sumeshi così faticosa-
Qui c’è da fare una scelta in base alla propria capacità manuale: se siete bravi con il coltello, allora potete cimentarvi nella realizzazione dei nigiri. Se non siete capaci di ottenere delle belle fette, allora conviene nascondere il tutto all’interno dei makizushi. Se non riuscite ad ottenere i rotolini, potete optare per un chirashizushi (riso servito in una ciotola o in una scatola laccata, con pezzi di pesce sparsi sopra). Se non sapete fare nemmeno questo, andate all’all-you-can-eat. Nei nigiri, il taglio del pesce deve avvenire in modo tale da agevolare al massimo la masticazione ed esaltare la tenerezza quasi scioglievole di questa proteina. Per ottenere
ottenuto con le stesse tecniche artigiane delle spade dei samurai. Nei makizushi il taglio può essere effettuato più tranquillamente, per quanto mantenere l’inclinazione a 30°-45° rispetto al tagliere renda sempre il risultato migliore al palato, accorciando le fibre di connettivo che rendono spiacevole la masticazione dell’alimento. I makizushi, così come nei temaki (realizzati dando all’alga nori la forma di un cono, dove infilare di tutto a mo’ di cuoppo napoletano), sono ideali per sfruttare gli avanzi che rimangono dal taglio delle fette. Che pesce utilizzare? Qualsiasi! I sushi-bar giapponesi sono caratterizzati da una varietà incredibile di tipologie, che scaturiscono dalla grande diversità di pesci che popolano (probabilmente ancora per poco) il Mar del Giappone. Chiaramente i pesci più grandi sono più semplici da lavorare, quindi per chi inizia è opportuno utilizzare dei filetti di tonno, salmone o sgombro. Se si utilizzano delle materie prime crude, è importante verificare qualità e salubrità: per stare tranquilli, è opportuno scegliere solo prodotti correttamente abbattuti, per ridurre il rischio da contaminazione di anisakis o da altri parassiti. Oltre al pesce crudo, potete utilizzare gamberi crudi o cotti, filetti di pesce affumicato o scottato sulla piastra, dei ritagli di frittatina, o addirittura della carne: vi abbiamo già parlato dei nigiri di Wagyu nel numero di dicembre 2018, il mitico numero zero del BBQ4All Magazine. In genere nei nigiri, gli alimenti cotti vengono contraddistinti da un anello di alga nori che li lega come una cintura intorno alla polpettina di riso. Nei nigiri non si includono altri ingredienti oltre al riso e alla proteina. Nei maki invece c’è ampio spazio all’utilizzo di alga nori, di semi (sesamo, papavero), di verdure, di ortaggi (cetrioli, porri), di frutta (avocado), di formaggi spalmabili e di qualsiasi altro ingrediente suggerito dall’unione delle diverse culture (no, la pizza NO!). Verdure e frutta devono essere tagliate a bastoncini, sottili ma sufficientemente lunghi per percorrere buona parte della lunghezza del rotolino. Bisogna fare particolare attenzione alla scelta dell’alga nori: in commercio si trova sotto forma di fogli conservati sottovuoto. Se il colore del foglio è tendente al marrone, vorrà dire che l’alga è troppo vecchia e si spezzerà durante la formazione dei maki; se invece è verde scuro, allora può essere utilizzata senza problemi.
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questo risultato, è necessario tagliare ortogonalmente alle linee del tessuto connettivo, mantenendo al contempo una inclinazione della lama di 45° rispetto al tagliere; a metà del taglio, la lama va inclinata ulteriormente per ottenere una fetta con maggiore superficie e con una forma a conchiglietta, utile per aderire alla quenelle di riso che caratterizza il nigiri. Questo taglio va effettuato in un unico movimento, senza intoppi o strappi, per ottenere una fetta di pesce dalla superficie perfettamente liscia, senza segni di taglio o seghettature; la lama non va spinta verso l’alimento, ma si appoggia il tagliente alla superficie e, senza applicare alcuna pressione, si effettua un momento in uscita, tirando a sé l’utensile facendo scorrere la lama verso la punta. Oltre a tanto allenamento, per ottenere questo risultato è consigliabile utilizzare un coltello estremamente affilato e dalla lama lunga; l’ideale è lo Yanagi-ba, il coltello tradizionale giapponese
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DARE UNA FORMA Una volta preparati il riso e gli altri ingredienti, è arrivato il momento di assemblare il tutto. Per manipolare il riso, è necessario avere le mani bagnate da acqua o da una miscela di acqua e aceto di riso, per questo è conveniente avere a portata di mano una vaschetta piena. Se avete effettuato correttamente i passaggi precedenti, realizzare i nigiri sarà a questo punto abbastanza semplice. Basterà dare al riso la forma di una polpetta allungata, senza comprimere eccessivamente i chicchi nella mano, per poi sormontare il tutto con l’ingrediente abbinato. Se vogliamo utilizzare un ingrediente cotto sul nigiri, avvolgeremo riso e proteina con una strisciolina di alga nori, inumidita in modo da essere plasmabile ad anello e sufficientemente appiccicosa. Fate attenzione alle dimensioni: il nigiri va consumato in uno o massimo due morsi, quindi evitate di dare forma ad un’arancina palermitana! Per realizzare i maki, si utilizza la classica stuoietta di bambù (consigliabile avvolgerla completamente con la pellicola) o di silicone. Sulla stuoietta viene appoggiata un quadrato o un rettangolo di alga nori, sul quale viene distribuito uno strato sottile e omogeneo di riso, facendo attenzione a non schiacciare i chicchi. E’ importante lasciare una striscia finale di alga libera, che ci sarà utile per richiudere il sushi. Gli ingredienti vengono posizionati entro il terzo più vicino a noi del quadrato di alga nori, percorrendo tutta la larghezza del rotolino. A questo punto,
aiutandosi con la stuoia, viene chiuso progressivamente il maki, procedendo un terzo alla volta e compattando accuratamente ad ogni giro con polpastrelli e palmo di entrambe le mani, partendo dal centro verso le due estremità del cilindro. Chiuso il rotolino, va pressato lievemente ai lati per evitare che il riso fuoriesca durante il taglio. La distribuzione degli ingredienti, nonché la dimensione del rotolo, determinano le principali varietà di maki. I rotoli sottili con un singolo ingrediente sono chiamati hosomaki (rotoli magri); i due più classici esempi di questa categoria sono il tekkamaki (involtini di tonno) e il kappamaki (involtini di cetriolo, spesso mangiati come intermediario per la pulizia del palato tra le diverse varietà di pesce). I rotoli spessi con più ingredienti (generalmente tre) sono chiamati futomaki (rotoli grassi); il California Roll è un classico esempio americano di questo stile, mentre in Giappone i ripieni sono in genere un mix di verdure e sottaceti, scelti per i colori e i sapori complementari tra loro. Disponendo il riso all’estero e l’alga all’interno, a contatto con gli ingredienti aggiuntivi, otteniamo gli uramaki. Un caso a parte è il già citato temaki, costituito da un mezzo foglio di nori avvolto in una forma a cono attorno al sumeshi e ai vari ripieni, che vanno da una vasta scelta di verdure e sottaceti al pesce crudo e cotto, in filetti o in tartare battute finemente, spesso a base di tonno piccante o salmone. Una volta formati, i rotolini vanno lasciati riposare per qualche minuto, idealmente
fino a pochi istanti prima del servizio. In questo modo l’alga assorbe parte dell’umidità del riso, diventando più cedevole al taglio e alla masticazione. I rotoli vanno tagliati prima in due parti e successivamente ogni parte va divisa in altre tre o quattro parti, in modo da ottenere da ogni rotolo dai sei agli otto pezzi. Per tagliare più agevolmente il rotolino è consigliabile mantenere bagnata la lama. COME SI SERVE E COME SI CONSUMA Il sushi viene comunemente accompagnato con una ciotolina di salsa di soia, una punta di wasabi e delle fette sottili di gari, ovvero dello zenzero marinato in una soluzione di acqua, zucchero e aceto. Quest'ultime, così come i kappamaki a base di cetriolo, vanno utilizzate per pulire il palato tra una tipologia di sushi e l’altra. Vi raccomandiamo di ripassare le regole del galateo a tavola già indicate nell'articolo dedicato. A questo punto, non ci resta che augurarvi itadakimasu!
Una storia di
Ramen Noi cuochi siamo animali strani e, prima che scoppiasse la b olla me diatica, ci aggiravamo indisturbati e piuttosto solitari, con ambizioni realistiche, nascondendoci tra le cucine di mezzo mondo, mischiandoci per nazionalità e scambiandoci qualche parola in inglese. Le case erano condivise, sgraziate, vuote mentre scorrevano le nostre interminabili giornate di lavoro. Il giorno di chiusura del ristorante ci sorprendevano il disagio, la spossatezza fisica e una specie di “paura del vuoto”, un misto di solitudine e nostalgia che facevamo tutti fatica a riempire di parole… lo riempivamo di musica e di cibo, a turno, preparando i nostri comfort food. Non ricordo Hisashi di dove fosse originario e dove possa essere adesso, son passati più
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Storia e tecnica in un piatto a cura di Alessia Morabito
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di 15 anni e nonostante i social ci siamo persi di vista, ma il mio primo Ramen è il suo. E’ pomeriggio, ho il cappotto sopra il pigiama, sono sul retro del cucinotto di casa, carico l’asciugatrice col bucato di lavoro e mi sorprende un buon profumo di brodo, intenso, confortevole. Vado in cucina, lui sorride, il lavandino che ricordavo stracolmo di tazze è sgombero e pulito, sul fornello a piastra c’è una pentola, in forno una teglia, sul tavolo un’insalatiera di vetro con dentro uova sode senza guscio immerse in un liquido scuro. Hisashi sorride. - Cup of tea? - Yes thanks. - Wait for you at 19. Eat together. Eat all together… - lo dice facendo un segno circolare col dito come a dire tutti quelli
di casa, un gesto imparato in cucina. - Thanks Hisashi. Esco dalla cucina con la mia tazza mug fumante, allegra di non dover decidere cosa mangiare per cena e pensando che dovrei proprio comprare delle birre. Nella giornata non incontro gli altri, forse dormono, forse sono usciti; fuori è freddo, io passo la giornata a leggere, in pigiama, poi mi vesto e vado a prendere le birre, in bottiglia. Siamo in cucina, siamo in 5, tutti in piedi, fuori è già buio, forse piove, non siamo in pigiama ed ognuno sorseggia una birra; sul tavolo una coppia di bacchette ciascuno e un cucchiaio, uno di noi, ovviamente Hisashi, è di fronte a 5 ciotole/tazze/ insalatiere. Di schiena, con grazia ma con ritmo, lo vedo
mettere cose dentro le ciotole, dalla prima all’ultima, di seguito, molte volte di seguito. Nell’ultimo passaggio mette un grosso mestolo di brodo e tappa ogni ciotola con un piatto rovesciato - Wait 3 minutes! - facendo tre con le dita della mano destra. Controlla l’orologio ed uno ad uno toglie i piatti da sopra le ciotole e ce le porge. Noi siamo silenziosi, appoggiamo la birra sul tavolo e prendiamo la scodella con entrambe le mani, sprofondando il viso sulla nuvola di fumo. Silenziosi e ipnotizzati ci sediamo. Il nostro viso, allontanato dalla nuvola di vapore, mette a fuoco ciò che si trova dentro la ciotola: brodo, pasta lunga, uovo non troppo sodato diviso a metà, carne, il verde del cipollotto,
germogli di soya e un cerchietto bianco e rosa che sembra una moneta di plastica. Gli spaghettini in brodo con il lesso sfilacciato erano un classico invernale di mia madre, riconosco questo cibo, familiare eppure diverso; qualcuno lo ha cucinato per me ed io gli sono grata, lo guardo, gli sorrido, sorrido forte, si vede che sono felice. Hisashi ha gli occhi che ridono e accenna un piccolo inchino con la testa, prende il cucchiaio e ci esorta ad iniziare partendo dal brodo. A quel punto io torno bimba. È questo il mio primo ricordo legato al ramen, da allora è il cibo che cerco, e che funziona, per curare la malinconia. Ma se sei una cuoca malata cronica di malinconia, non basta mangiare il ramen per stare meglio, ti applichi per impararlo.
Il brodo Dashi è ciò che distingue il ramen giapponese dalle altre preparazioni di pasta in brodo presenti in tutta l’Asia. È ricavato dall’infusione di un’alga bruna di profondità, la kombu, e fiocchi di tonno essiccato, fermentato e leggermente affumicato, il katsuobushi. La combinazione di questi due ingredienti caratterizza la cucina giapponese; la percezione del gusto ricca ed avvolgente, l’umami, è un vero e proprio sesto gusto (gli altri sono acido, amaro, dolce, piccante, salato) che, invece di sollecitare solo alcune aree specifiche delle papille gustative, le accende tutte ed è in grado di far risaltare al massimo il sapore degli altri ingredienti, riducendo in tal modo l’uso di sale e di grassi aggiunti. Spesso gli ingredienti del Dashi vengono cotti direttamente nel brodo di base. Spesso brodo Assari e brodo Kotteri vengono mixati assieme. Come spesso avviene nella gastronomia nipponica, il Ramen è un piatto importato e naturalizzato giapponese nel secondo ‘800, ma è la pasta l’ingrediente che rivela la sua vera origine. Farina di grano duro, sale e acqua alcalina del lago Kan, l’acqua kansui che contiene carbonato di sodio e carbonato di potassio: questi gli ingredienti dei noodles più tipici per il ramen che, infatti, sono comunemente chiamati men. Il kansui fa sì che vengano rilasciati dei pigmenti che conferiscono appunto la tipica sfumatura gialla ai noodles; inoltre li rende elastici
Il brodo da ramen è la combinazione di 2 brodi diversi: quello di base (Assari o Kotteri) e il brodo Dashi. Il brodo Assari si distingue per la limpidezza: è chiaro, ottenuto da carne, pesce e/o verdura cotti per poco tempo (4 ore circa) e a bassa temperatura, ha l’aspetto simile al nostro brodo italiano. Il brodo Kotteri è denso, opaco, ricco di grassi, minerali e proteine, è quasi sempre il risultato di carne spesso grassa, bollita molto a lungo e fuoco sostenuto. Il popolare Ramen Tonkotsu ha di base un brodo bianco e denso ricavato dalla cottura di ossa di maiale per circa 48 ore.
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Di preciso, il piatto che chiamiamo Ramen cos’è? E’ un piatto unico composto di 4 elementi di base: brodo, pasta, tare, topping.
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e aumenta la loro capacità di assorbire l’acqua e il brodo senza scuocere. Nel primo dopoguerra il governo giapponese, tra effetto nucleare e pessime, scarse raccolte di riso, fu costretto a importare grano e farina dal governo degli Stati Uniti. Gli spaghetti di frumento divennero un’integrazione fondamentale della dieta nazionale nipponica. Con un’intuizione geniale, alla fine degli anni ’50 Momofuku Ando, fondatore dell’azienda Nissin Food, inventò e commercializzo i noodles istantanei. L’introduzione del ramen istantaneo in un contenitore termico di polistirolo, pronto a ricevere l’acqua calda per reidratarlo e la divertentissima campagna pubblicitaria degli anni ’80 ne hanno decretato l’incredibile successo popolare e internazionale. Come nota di costume, sono il cibo consumato spessissimo dall’ispettore Zenigata nel cartoon Lupin. Secondo il sondaggio effettuato nel 2000 dall’ormai mitica rivista “Lucky Peach”, i giapponesi hanno decretato il ramen istantaneo come la loro migliore innovazione del ventesimo secolo. I tipi di men sono fondamentalmente tre: dritti sottili, arricciati di medio spessore e arricciati spessi. Altri tipi di pasta che si possono trovare nel ramen sono: Udon: spaghettoni realizzati con farina di grano tenero, acqua e sale, sono quelli che vengono tirati a vista in molti ristoranti. Si servono anche saltati. Somen: lo stesso impasto degli udon ma in spaghetti sottili; si mangiano prevalentemente freddi. Soba: sono spaghettini di grano
saraceno, il loro uso è prevalente nelle zuppe fredde ma si usano anche caldi. Shirataki: letteralmente significa cascata bianca, sono ricavati dalla radice di konjak (una specie di calla), hanno apporto calorico molto basso e praticamente non contengono carboidrati. Il Tare è l’aromatizzazione predominante, ciò che definisce il tipo di ramen anche nel nome, e lo caratterizza a seconda della zona di provenienza, dello stile del ristorante e dello stile personale dello Chef. La classificazione ufficiale ne prevede tre: shio ovvero sale, shoyu con l’aggiunta di salsa di soya, miso con l’aggiunta di un fermentato in crema di soia, riso, orzo etc... Ogni tipologia è poi accompagnata da un ulteriore personale mix di spezie e di ingredienti aromatici (aglio, mirin, sake, spezie, zenzero, olio di sesamo, shishimi togarashi , buccia di yuku o mandarino, olio di crostacei…). I Topping, infine, determinano l’aspetto estetico del Ramen, oltre che il suo gusto. Eccone alcuni: Chashu: pancetta di maiale arrostita, bollita o stufata, ma anche guancia, spalla, lingua etc etc e di vari animali. Ahi Tamago: uovo, col cuore morbido; oppure ajitsuke tamago, uova marinate nella soia e mirin. Kamaboko: un panetto di surimi (pasta di pesce bollito) che, affettato, possa mostrare un disegno. Il più frequente è la spirale che prende il nome di Naruto. A proposito, sapete che l’omonimo
manga Naruto nella sua prima stesura, avrebbe dovuto avere come uno dei temi dominanti il cibo ed in particolare il Ramen perché il suo autore, Masashi Kishimoto, ne è letteralmente ossessionato, ma la produzione bocciò la prima stesura della storia e lo esortò a ridimensionare questa sua fissazione? Altri topping del ramen sono fungo shitake, fungo enoki, erba cipollina, negi (ovvero il verde del cipollotto), germogli di soia, germogli di bambù (menma), cavolo cinese, shiso, sesamo, cipolla fritta, alga nori, alga wakame, burro, Tonkatsu ( la cotoletta fritta tanto iconica nella cucina giapponese), mais e molti altri. Il ramen è un piatto con una forte identità regionale e locale oltre che personale del ristorante o dello chef, per questo motivo le ricette codificate e standardizzate sono tante ma si sviluppano in maniera indipendente anche lontano dall’ispirazione iniziale. Si parla spessissimo di ramen di pollo e maiale e meno spesso di ramen di manzo che, in realtà, sono altrettanto diffusi; in questi spesso la carne di manzo, di solito un taglio prestigioso, è servita a lato per poter essere intingolata nel brodo bollente solo all’ultimo momento. I ramen di manzo, meno diffusi ma più tradizionali, sono quelli ottenuti con le frattaglie come trippa o lingua. A meno che non vogliate rivolgerti al prodotto liofilizzato, fare il ramen in casa è un lavoro piuttosto impegnativo in termini di tempo e reperibilità di alcuni ingredienti ma estremamente gratificante.
Come si mangia il Ramen? Alcuni partono dal brodo, altri dagli spaghetti. Il risucchio degli spaghetti deve essere rumoroso per consentire all’aria di entrare ai lati della bocca e raffreddare la pasta. Per il resto, il ramen non è un cibo conviviale, ma è anche un cibo che si consuma spesso in solitaria, al bancone, voi e la vostra ciotola fumante.. è un momento intimo e non sarò certo io a dirvi come dovete vivere la vostra intimità. Mi sento però di lasciarvi con le frasi del film sul Ramen più bello che al momento sia stato fatto, un ramen western (si, non ridete, è il corrispettivo di un italianissimo spaghetti western) uscito nel 1985. Vi esorto a cercarlo e a guardarlo: Tampopo di Juzo Itami.
“ A esprimere il tuo sentimento d’amore verso il ramen” “ Capisco...” “Poi spingi giù l’arrosto di maiale” “Si mangia prima l’arrosto?” “No, devi solo accarezzarlo con la punta delle bacchette, prendilo gentilmente e affondalo nella zuppa nella parte destra della ciotola. Ciò che è veramente importante a questo punto è scusarsi col maiale dicendogli: a presto. Finalmente si può iniziare a mangiare: prima gli spaghetti. Ah dimenticavo, mentre tiri su rumorosamente gli spaghetti tieni gli occhi fissi sull’arrosto” “Sì...” “Con gli occhi di un innamorato.” Il vecchio mangiò un pezzo di germoglio di bambù e lo
masticò per un pò, poi prese una manciata di spaghetti, poi mentre stava ancora masticando gli spaghetti prese un altro pezzo di bambù, dunque, per la prima volta, assaggiò la zuppa. Tre volte. Si tirò su, sospirò; sollevato prese una fetta di arrosto come se dovesse prendere una decisione di vitale importanza e diede un colpetto leggero sul bordo della ciotola “Maestro, questo a cosa serve?” “Solo per asciugarla”.
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(…)un vecchio che aveva studiato il ramen per 40 anni mi insegnò il modo corretto di mangiare il ramen: “Prima la zuppa o gli spaghetti?” “Innanzitutto osserva attentamente la ciotola nel suo insieme” “Si maestro” “apprezza la sua foggia, inala gli aromi osserva, piccole perle di grasso luccicano sulla superficie.. le radici dei germogli di bambù brillano, le foglie d’alga affondano leggermente, le rondelle di erba cipollina che galleggiano. Concentrati sulle tre fette di arrosto di maiale: queste ultime giocano un ruolo decisivo, ma restano modestamente nascoste. Innanzitutto accarezza gentilmente con le bacchette la superficie del Ramen.” “A cosa serve?”
Speciale Giappone - ricette a cura della Redazione
KAME-HAME RAMEN
INGREDIENTI per 4 persone Per il brodo mezza carcassa di gallina (o di pollo) mezza cipolla mezzo porro uno spicchio d’aglio una fetta di zenzero 30 g di katsuobushi 5 g di alga kombu 3 l di acqua Per la salsa a base di soia 25 g di acqua 180 g di salsa di soia 7,5 g di sale 7,5 g di mirin 7,5 g di aceto di riso 5 g di katsuobushi 5 g di alga kombu 1 spicchio di aglio 1 fetta di zenzero mezzo porro Per le uova morbide 4 uova ghiaccio q.b. Per la pasta 300 g di noodles Per la carne 300 g di lonza di maiale in un unico pezzo Salsa teriyaki q.b. Per guarnire Cipollotto fresco q.b.
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Peperoncino fresco q.b.
Per chi non fosse pratico stiamo parlando delle arti figurative nipponiche più comunemente conosciute come manga. Tutti questi fumetti hanno un denominatore comune: i protagonisti sono ghiotti di Ramen. Questa pietanza, resa famosa anche grazie ai manga e agli anime è di origine cinese e fu introdotta in Giappone solo all’inizio del ‘900. In questo periodo i cuochi cinesi presenti sull’isola nipponica offrivano dei semplici piatti di ramen di tagliatelle con guarnizioni e brodo ai lavoratori dell’isola: molti di questi cuochi erano proprietari di piccoli chioschi mobili e vagavano vendendo il loro prodotto dove la presenza di lavoratori e operai più alta. Per farsi pubblicità in maniera più efficace erano soliti ricorrere all’utilizzo di un corno musicale che richiamasse l’attenzione degli operai e identificasse la loro presenza. Terminata la seconda guerra mondiale molti soldati giapponesi rientrarono in patria e, a causa dell’evento bellico, si ritrovarono senza un impiego. Di necessità virtù molti di questi ex-soldati, grazie all’esperienza maturata in Cina durante la guerra, iniziarono ad aprire i propri ristoranti di ramen creando una corrente giapponese che si andava ad affiancare alla già presente corrente cinese sull’isola. Mangiare ramen, benché fosse ormai largamente diffuso come alimento, restava comunque
un’occasione speciale. Questo era dovuto principalmente alla lunga lavorazione necessaria e alla poca praticità ad essa legata. Nel 1958 però si ha una svolta epocale per la cucina nipponica. Grazie a Momofuku Ando si ha l’invenzione dei noodles istantanei, e il ramen, da pasto occasionale diventa un piatto pratico che si diffonde in tutto il paese. Con l’arrivo degli anni ’80 e l’avvento dei primi anime (cartoni animati) il ramen diventa icona culturale e si diffonde in tutto il mondo. Con l’ampia diffusione nascono anche diversi tipi di ramen. La varietà è molto ampia e le differenze possono essere sia geografiche che legate al venditore. La principale differenziazione prevede una distinzione tra ramen di tagliatelle e ramen in brodo. La versione che vi proponiamo oggi è quella in brodo con i noodles, abbinandola anche alla cottura in griglia: attenzione, non è quella originale, è semplicemente la nostra. Preparazione: Per il brodo 1. Mettete tutti gli ingredienti tagliati grossolanamente in una pentola con acqua fredda. 2. Portate a bollore e lasciate andare a fuoco lento per circa 6 ore, meglio se per una notte intera. 3. Filtrate il brodo e mettetelo da parte. Per la salsa a base di soia 4. Unite gli ingredienti e lasciate cuocere a fuoco lento per almeno un’ora. 5. Terminata la cottura filtrate la salsa e lasciatela raffreddare.
Per le uova morbide 1. Portate l’acqua a bollore. 2. Immergete le uova per 6 minuti. 3. Trascorso il tempo necessario passare l’uovo nel ghiaccio per fermare la cottura. N.B.: se si salta il passaggio nel ghiaccio l’uovo procederà nella cottura e avrà la consistenza tipica di un normale uovo sodo! Per la carne 1. Mettete a marinare la carne nella salsa teriyaki per almeno 4 ore. 2. Predisponete il kettle per una cottura indiretta. 3. Cuocete la carne col coperchio chiuso fino alla temperatura di circa 75 gradi al cuore (potete affumicare con chips di melo in questa fase). 4. Lasciatela poi riposare in rest per un paio d’ore. 5. Affettatela molto sottilmente. Per comporre il piatto 1. Cuocete i noodles. 2. Versate nella ciotola in cui verrà servito il ramen la salsa a base di soia. 3. Aggiungete un mestolo abbondante di brodo precedentemente scaldato. 4. Aggiungete i noodles appena scolati. 5. Tagliate adesso l’uovo in due e disponetelo nella ciotola. 6. Aggiungete qualche fettina sottile di carne a piacere. 7. Guarnite con cipollotto e peperoncino a piacere.
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Dragon Ball Naruto One Piece Shokugeki no Soma Mob psycho 100
Speciale Giappone - ricette a cura della Redazione
GYUDON
the beef bowl
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McDonald's, Burger King, Kfc, sono tra le più grandi catene di franchising per il fast food a livello mondiale. Yoshinoya, Nakau, Matsuya sono, invece, a livello internazionale meno famosi ma popolarissimi in Giappone. Queste sono, infatti, le più grandi catene di fast food giapponesi, celebri per il loro Don buono, economico e veloce. Il Don, cibo che ha reso grandi questi ristoranti, è un piatto tipico nipponico. Con questo nome si intende una ciotola di riso cotto al vapore condito con salsa di soia e poi coperto con gli ingredienti più vari. Il gyudon, nello specifico, è quello con il manzo (ricordate il numero uno del magazine in cui si spiegava che gyu significa manzo?). Le origini di questa pietanza, inizialmente chiamata gyunabe, sono da ricercare nel periodo Meiji. Questo imperatore, in carica dal 1867 al 1912, è noto soprattutto per avere dato il permesso al popolo di mangiare il manzo. Fino a prima della sua incoronazione infatti ai giapponesi era proibito mangiarlo; questo divieto cessò il 18 febbraio 1872, data in cui l’imperatore in persona mangiò della carne di manzo per rompere questo tabù. Con l’arrivo del prelibato cibo sulle tavole dei nipponici nacquero i primi esperimenti e le prime ricette, tra cui il gyunabe, predecessore del gyudon. Questa
ricetta, nata a Yokohama, prevedeva di scottare il manzo con la cipolla e poi mangiarlo accompagnandolo con del riso. Dal primo esperimento culinario la diffusione fu rapida e Kahei Nakagawa aprì al gyunabe le porte della ristorazione vendendolo per primo nel suo ristorante di Tokyo. Inizialmente questo piatto non fu molto apprezzato per via del sapore forte a cui i giapponesi non erano abituati, ma col tempo venne migliorato questo aspetto e si diffuse rapidamente. Nel corso degli anni la ricetta venne poi modificata con l’aggiunta di salsa di soia, zucchero, miso e successivamente anche verdure. Divenne inoltre usuale, una volta finita di mangiare la carne, versare i succhi sopra la ciotola di riso, usata come companatico. Da questa abitudine nacque l’idea di servirlo direttamente come piatto unico e il gyunabe si trasformò nel gyudon. L’insieme di queste caratteristiche permise il rapido diffondersi di questo piatto su tutto il territorio nazionale. Il principale ristorante che cavalcò questo momento fu Yoshinoya che monopolizzò il mercato fino alla metà degli anni sessanta del ‘900. Nel 1966 per contrastare l’egemonia di Yoshinoya la concorrenza provò a investire fondi e fu così che vennero fondati i principali rivali come Nakau e Matsuya.
Oggi, dopo quasi due secoli dalla sua comparsa, il gyudon rappresenta il fast food giapponese per eccellenza. La ricetta che vi proponiamo in questo articolo è la versione più diffusa e comune. Preparazione: 1. Cuocete il riso al vapore, o in alternativa in maniera tradizionale e lasciatelo raffreddare. 2. Accendete il kettle e predisponetelo per una cottura diretta. 3. Mettete a scaldare la padella in ghisa sopra il kettle. 4. Tagliate finemente la cipolla e fatela rosolare con un filo d’olio. 5. Q u a n d o l a c i p o l l a s i imbiondisce aggiungete il brodo dashi, la salsa di soia, il sakè e lo zucchero facendo attenzione a fare sciogliere bene quest’ultimo. 6. Infine aggiungete la carne una fetta per volta e cuocetela fino a quando non si imbrunisce. 7. Nel frattempo ponete il riso in una ciotola. 8. Quando la carne sarà cotta aggiungetela alla ciotola di riso 9. Guarnite a piacimento con il benishoga, l’erba cipollina e lo zenzero.
INGREDIENTI per 4 persone 250 gr di Uchimomo GLC Top Selection mezza cipolla rossa 200 gr di riso cotto al vapore Per la salsa: 80 cc di Dashi 3 cucchiai di salsa di soia 2 cucchiai di Sakè 2 cucchiai di zucchero Per guarnire: Benishoga una grattugiata di zenzero fresco
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Erba cipollina q.b.
Speciale Giappone - ricette a cura di Emiliano Nencioni
L'asse Kyoto Nashville
hamburger con cavolo cinese e maionese al rafano
INGREDIENTI per 4 persone Per la maionese al rafano: (dose per 400 g circa) 60 g di tuorli, tiepidi 150 ml di olio di semi di girasole 150 ml di olio extravergine di oliva 10 ml di succo di limone 10 ml di aceto di vino bianco 3 g di sale 1 g di pepe rafano q.b. Per il burger: un hamburger di wagyu 30 g di cavolo cinese tagliato a listarelle 50 g di maionese 150 ml di salsa di soia un bicchiere di sake’
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3 cucchiaini di zucchero
Hamburger: pensi agli USA, agli stivali, ai diner e ai juke box. Wagyu: pensi al Giappone, all’impegno, alla dedizione nell’aderire a certe pratiche di allevamento, alle rigorose cerimonie nel servire e preparare il cibo. Hamburger, di nuovo: pensi che la città di Amburgo, in Germania, crei un trittico un po’ strano dal retrogusto di sincretismo amaro da Seconda Guerra Mondiale, in questo panino. Qualcuno deve averci pensato prima di me, visto che negli anni ‘20, in USA, preferivano riferirsi alla polpetta di manzo macinato come Bistecca Salisbury, da James Salisbury, un dottore e proto- nutrizionista americano che propugnava una dieta a base di manzo macinato, privato di ogni grasso o tessuto connettivo (posso immaginarmi la consistenza arida e il sapore ingrato).
L’hamburger di Wagyu pare proprio una neoformazione geniale: hai la possibilità di goderti il sapore indimenticabile del Wagyu senza funambolici trucchetti in fase di cottura, senza spendere una somma di tutto rispetto, senza dover pianificare ore prima, semplicemente usufruendo di un prodotto comodamente conservabile nel suo packaging. Chiunque abbia accesso a una fonte di calore e una padella può tecnicamente prepararsi una cena lussuosa a base della carne più saporita del pianeta, e la probabilità di commettere errori e comprometterne la riuscita è quantomeno risibile. La mia intenzione adesso è quindi quella di proporti una maniera incredibilmente semplice, ma efficace, di preparare questa bontà: qualcosa che valorizzi e non mascheri assolutamente la carne (che sarebbe criminale sotterrare sotto litri di salse, sapori forti e coprenti, almeno per le prime esperienze) e contemporaneamente rimandi, in una sorta di
coerenza filologica, ai sapori dell’oriente, terra di provenienza della proteina in esame. Preparazione della maionese al rafano: Potete comprare della maionese già pronta e aggiungere un po’ di rafano, oppure potete divertirti a farla da soli: nel numero del Magazine di gennaio c’è un articolo lungo, dettagliato e interessante su come farla al meglio, anadate a rileggerlo. Vi riassumo qui i passaggi fondamentali, saltando tutte le giustificazioni chimico-fisiche. 1. Sbattete i tuorli e versate lentamente l’olio, aiutandovi con uno squeezer nel quale avrete mescolato quello di semi e quello d’oliva. 2. Continuate a sbattere con regolarità. A un certo punto, inglobando aria, il composto diventerà denso e sarà il momento di aggiungere limone, aceto, sale e pepe (aggiusta secondo i tuoi gusti). 3. Per far evolvere una semplice maionese in una maionese al rafano non dovete far altro che raschiare con un coltellino un pezzetto di radice di rafano, grattugiarla fino a raccoglierne un cucchiaino e incorporarla alla maionese mescolando con cura. Preparazione dell'hamburger 1. Tagliate a striscioline il cavolo e conditelo, in una scodella, con la maionese al rafano. 2. Mescolate in un pentolino la salsa di soia, lo zucchero ed il sakè. 3. Ponete il pentolino sul fuoco e portatelo ad ebollizione fino a far ridurre la salsa. 4. Preparate il kettle per una cottura diretta molto calda, o se volete prendete la tua padella in ghisa e scaldatela sul bruciatore.
5. Tagliate i panini in due e tostateli un po’. Il mio consiglio è di recuperare del pane molto buono, che sia meglio di quello “finto” del supermercato: nei passati numeri del Magazine vi abbiamo anche insegnato a farli da soli. 6. Estraete il patty dalla confezione e asciugatelo bene; non servirà inumidirlo con l’olio, visto che il grasso dell’impasto, sciogliendosi, sarà sufficiente a lubrificare e a veicolare il calore. 7. Mettete la carne sulla griglia, o in padella, spennellatela con la riduzione di salsa di soia e aiutandovi con una spatola giratela ogni trenta secondi fino alla formazione della reazione di Maillard, una bella crosticina bruna (non nera!) saporita e molto profumata. 8. Mettete la carne nel pane, spennellatela di nuovo con un po’ di riduzione, condite con il cavolo cinese e la maionese al rafano. Confesso timidamente che, per una componente di opulenza extra, non resisto all’impulso di fare la scarpetta intingendo la parte superiore del panino nei succhi di wagyu rimasti nella padella in ghisa.
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La parola hamburger venne erroneamente interpretata come ham-burger, e per meglio identificare i vari tipi di carne sono nati i relativi neologismi beef burger, chicken burger, tofu burger e via discorrendo. Il termine burger è invece un neologismo frutto di una retroformazione, evento linguistico nel quale una parola (inesistente) viene ritenuta base di derivazione di una parola già esistente. Pensi di non esserti mai imbattuto in una retroformazione, nell’italiano corrente? Sbagli. Usufruire, esercente, latticino ne sono tre insospettabili esempi.
Speciale Giappone - ricette a cura di Emiliano Nencioni
Multiverso Burger la realtà alternativa della polpetta
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Immagino siamo tutti quanti d’accordo nel considerare possibile la teoria del multiverso: non un universo, ma un multiverso, la coesistenza di un insieme iperfinito e numerabile di universi molto simili ma con realtà alternative, generati a seguito del Big Bang. Dopo la Botta Grossa (che non è un tipico evento sociale del venerdì sera) si sono susseguite una serie di ondate di processi di espansione, detti inflazione cosmica, che hanno costituito una struttura frattale di universi-bolla, ognuno con la propria raltà e linea temporale. Le leggi fisiche dovrebbero essere, si suppone, molto simili in ognuna delle bolle; questo ci è sufficiente, con buona approssimazione, per affermare che in almeno un altro universo parallelo a noi si apprezzi la carne di Wagyu. Vi chiedo questo sforzo di soppressione dell’incredulità per potermi seguire in questo articolo: immaginate infatti che i nostri alter ego paralleli abbiano reso usuale e socialmente accettabile divorarsi il prezioso wagyu non sotto forma di fettine, neanche in dischi compatti chiamati hamburger, ma in piccole sfere irregolari. Polpettine di wagyu. Voglio darvi la possibilità di introdurre nella nostra linea temporale un alimento tipico di almeno una realtà parallela, auspicabilmente senza ledere il tessuto spaziotemporale, creare anomalie, collassarti in
un unico punto di massa infinita o risolvere degli antipaticissimi integrali. Voglio farvi portare le polpette di wagyu in questa realtà. E voglio farvi preparare una salsa di accompagnamento. Procedimento quantico per far trascendere le polpette nella timeline corrente: 1. Prendete un hamburger di Wagyu BBQ4All, toglietelo dal suo involucro. 2. Scomponetelo in un recipiente e aggiungi all’impasto un pizzico di pepe. 3. Formate delle polpettine roteando un po’ di impasto tra i palmi delle mani, riducendo il macinato ad un solido sferoidale. 4. Adesso, contrariamente ad ogni previsione, avete delle polpette sferiche partendo da un solo hamburger. 5. Pesate su una bilancia di precisione le polpette: se la massa totale (a stesse condizioni di altitudine e pressione atmosferica) è esattamente uguale alla massa originaria dell’hamburger saprete di non aver causato disastrosi e fatali squarci nell’universo. 6. Passate ogni polpetta nella farina, poi nell’uovo sbattuto, poi cospargetele uniformemente di panko. 7. Friggete le polpette impanate in olio di semi, fino a una gradevole doratura. Accompagnate le polpette con la salsa di pomodoro scientifica, come vi ha insegnato Gianfranco Lo Cascio.
Procedimento per la salsa di pomodoro: 1. Mettete i pomodori, in una teglia, a cuocere nel forno. Non è necessario aggiungere acqua o olio o sale, anzi: sarebbe controproducente. 2. Passate al setaccio i pomodori ben appassiti dopo il trattamento nel forno, togliendo con cura bucce e semi. Se necessario potete anche ridurre ancora un po’ il succo in un pentolino sul fuoco basso. 3. Aggiustate di sale e pepe. 4. Con il succo ancora caldo aggiungete olio o un po’ di burro (dipende dai vostri gusti, in questa fase l’importante è aggiungere la parte grassa) e accanitevi a emulsionare il composto con il frullatore a immersione, fino a raggiungere una certa densità. Vi accorgerete che la salsa è diventata di un color arancio molto acceso, tanto che dovrete faticare per convincere gli astanti che non avete utilizzato la panna. Per gusto, consistenza e colore avrete un bel da fare a convincere gli increduli, pronti all’inflazionatissima battuta sull’uso della panna dove non serve. Vendicatevi, obnubilando le loro fragili menti con la teoria del multiverso composto da bolle di universi- tasca a mollo in un oceano inflazionario. Desisteranno.
INGREDIENTI per 4 persone un hamburger di wagyu 100 g di panko un uovo un kg di pomodori maturi pepe q.b. sale q.b. olio extravergine di oliva o burro q.b.
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olio di semi q.b.
Carne a
OGNI SCHERZO VALE?
no, dai, fa schifo come titolo
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Introduzione a cura di Mariangela Ibba
evale
All’età di sette anni volevo mascherarmi da principessa, avevo supplicato non so quante volte mia madre di regalarmi la maschera vista nella vetrina dell’unico negozio di giocattoli in centro. Era così bella, rosa e luccicante. Fu allora che conobbi la vera crudeltà: dopo avermi promesso il vestito scintillante, la mia cara genitrice mi comprò un orripilante gonnellone fiorato, con bretelle nere e un cappellino di carta celeste a forma di tamburello. L’etichetta riportava la scritta vestito ungherese. Vi assicuro, non aveva niente a che vedere con la bellezza del costume tradizionale d’Ungheria. Per mettere la ciliegina sulla torta, tutta giuliva mia madre mi disse: l’ho preso un po’ più grande, così lo metti per qualche anno.
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Scrivere un articolo sul Carnevale non è stato facile, perché voglio essere sincera con voi: a me non piace. Inizialmente, ho pensato di esordire con una breve e variopinta descrizione di tutti gli elementi classici di questa festa: il profumo dei dolci fritti, i coriandoli lanciati in aria dai bambini, le risate scaturite dagli scherzi, i cortei mascherati, bla, bla, bla. Poi ho pensato che sarebbe stata una stucchevole farsa, degna del manierismo più becero. Diciamo la verità, il Carnevale della mia infanzia è stato tutt’altro. Innanzitutto è stato per me l’incubo ricorrente- ancora oggi mi sveglio in preda all’ansia- degli inseguimenti fino a casa da parte dei compagni di scuola armati di bombolette di schiuma, più di una volta sono rientrata assomigliando ad una meringa pronta da infornare. In secondo luogo, per me il Carnevale ha un unico, terribile sinonimo: il costume da ungherese.
Ho indossato quella meraviglia per la prima volta durante una recita scolastica: salita sul palco la gente ha cominciato a ridere, io mi sono dimenticata la mia battuta e la maestra mi ha fatta uscire dalla porta di servizio per evitare le uova marce. Insomma, sì, il Carnevale è proprio un bel ricordo per me.
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Tuttavia, al cuore non si comanda ma alla gola nemmeno: nonostante l’odio profondo per questa festa, aspetto questo periodo dell’anno per strafogarmi dei dolci tipici del periodo. E’ per questo che ho accettato di scrivere l’articolo: ho potuto riassaggiare una notevole quantità di leccornie al solo scopo di rendere il testo il più esauriente possibile. Quindi, bando alle ciance, parliamo del Carnevale e di come nasce questa festa. Tutti sapete che si svolge dopo l’Epifania e prima della Quaresima, ma quanti di voi, senza chiedere aiuto a Siri, saprebbero indicare il periodo esatto? Per eliminare ogni imbarazzo, la consuetudine popolare ha arbitrariamente incoronato Febbraio il mese del Carnevale, triplicando la durata dei festeggiamenti. Il motivo per cui ogni anno la festività corre su e giù tra Gennaio, Febbraio e Marzo è racchiuso nel nome stesso. Il termine Carnevale deriva dall’espressione latina carnem levare (togliere la carne), poiché durante la Quaresima come sappiamo dovremmo mangiare di magro, per rievocare i quaranta giorni di digiuno e penitenza di Gesù nel deserto. Dunque, per rendere sopportabile ai fedeli il lungo periodo di privazioni, la Chiesa nel
Medioevo istituì dieci giorni di baldoria nei quali potersi mascherare, fare scherzi, bere e mangiare a sazietà. I festeggiamenti hanno inizio la nona domenica prima di Pasqua (detta settuagesima) e toccano il culmine il Giovedì e il Martedì Grasso (ultima giornata). In realtà questa festività affonda le proprie origini nel paganesimo. Quando fu proclamato religione ufficiale dell’impero romano (Concilio di Nicea 325 a.C.) il cristianesimo, a fine di rendere meno doloroso il passaggio tra il culto politeista e quello monoteista, adattò al proprio credo alcune celebrazioni molto amate dal popolo. E’ successo sia per il Natale che per la Pasqua, come tutti sappiamo. Ed è successo anche per il Carnevale. Saturno, divinità di origine italica, era molto importante all’interno del mondo romano, perché protettore dell’agricoltura, della pastorizia e delle sementi (ricordiamoci che gli abitanti del Lazio, prima di essere i conquistatori del mondo, erano contadini e pastori). Secondo la mitologia, sotto il regno di Saturno gli uomini vissero un’età dell’oro, in pace e nell’abbondanza. Dunque, in epoca imperiale per rievocare l’atmosfera spensierata e rilassata di quel periodo, dal 17 al 23 dicembre a Roma la vita politica e l’attività bellica cessavano, le distinzioni di classe cadevano, ognuno poteva fingere di essere quello che non era, camuffando il proprio aspetto esteriore. Nel Medioevo, Il Cristianesimo, religione costruita perlopiù sul sacrificio, decise comunque di mantenere la festa spostandola nel tempo (poiché mal si conciliava con il valore del Natale) disponendo che avvenisse prima della Quaresima, in modo da rallegrare i fedeli in vista del lungo periodo di penitenza che li aspettava. Però, se i saturnali improntavano quasi tutto il divertimento al chiuso, durante i banchetti a base di vino, sesso e gioco d’azzardo, il carnevale cristiano lo concentrò sul travestimento, lo scherzo e la risata, e lo trasportò nelle strade e nelle piazze. Il compito dei saltimbanchi e dei giullari, con acrobazie e declamazione di racconti e barzelette irriverenti, era far dimenticare al popolo la povertà e la fame. Verso la metà del ‘500, con l’esordio della commedia dell’arte il panorama carnevalesco si arricchì di nuove maschere. I servetti furbi del bergamasco Arlecchino e Colombina, l’avaro di Venezia Pantalone, lo sfrontato chiacchierone Pulcinella, il saccente avvocato bolognese Balanzone, il domestico poltrone fiorentino Stenterello, il bonaccione milanese Meneghino, lo spaccone ligure Capitan Fracassa: tutte rappresentano le caricature dei difetti e dei pregi degli abitanti delle varie città e degli individui appartenenti alle classi sociali, con le quali si mettevano in scena storie divertenti basate sull’inganno e sull’equivoco. Nel corso dei secoli sono state migliaia le manifestazioni carnevalesche che hanno animato il paese da Nord a Sud; oggi molte sono scomparse, alcune sono rimaste semplici feste di quartiere, mentre altre hanno conosciuto la fama internazionale. Il Carnevale di Cento, in provincia di Ferrara, risalente agli inizi del ‘600,
come testimoniano alcuni affreschi del Guercino (1591-1666) che immortalano l’evento, è diventato celebre in tutta Europa solo nel 1993, quando c’è stato il gemellaggio col carnevale di Rio De Janeiro (tant’è che ogni anno una creazione mobile centese partecipa alla passerella carioca nel Sambodromo davanti a circa 400.000 spettatori). La grande particolarità del Carnevale di Cento è che le maschere sopra i carri, per tutta la durata della sfilata lanciano peluche sul pubblico, per la gioia dei bambini. Il giovane (è nato solo nel 1873) Carnevale satirico di Viareggio, in provincia di Lucca, si apre con tre colpi di cannone che annunciano l’arrivo dei carri. E’ una sfilata monumentale, considerata l’altezza delle costruzioni mobili di cartapesta che percorrono il lungomare versiliese: 30 metri di altezza, per 15 metri di lunghezza e 40 tonnellate circa di peso. Ogni carro ha la propria musica e il proprio corteo di maschere. Il Carnevale di Venezia è uno dei più antichi d’Italia, le prime documentazioni scritte risalgono alla fine dell’anno 1000. E’ tutt’oggi una festa elegante e sontuosa, in cui maschere ricche e dettagliate percorrono le calle veneziane rievocando i fasti settecenteschi della Serenissima. Tornando ai dolci, durante il Carnevale tutte le regioni propongono le proprie specialità. Molto spesso si tratta della stessa preparazione che varia per un solo ingrediente, oltre che nel nome. Tutto questo, come saprete, crea le consuete discussioni durante le quali ogni parte afferma che la propria ricetta sia la migliore. Però su una cosa sembrano tutti concordare: le golosità carnevalesche sono preparazioni semplici (realizzate con farina acqua, burro e zucchero), buonissime mangiate calde appena tolte dall’olio di frittura ed impanate nello zucchero. Ve lo dico subito, cuocerle nel forno è un’eresia. Una festa basata sulla trasgressione non può avere dolci light.
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Sicuramente, il trascorrere dei secoli non ha intaccato minimamente lo spirito libero, giocoso ed irriverente del Carnevale, però a differenza del Natale e della Pasqua, sembra aver perso totalmente la sua funzione liturgica rimanendo solo una bellissima festa dove svagarsi. In un’epoca in cui non siamo certamente più legati alle imposizioni religiose e ci è concessa totale libertà, il Carnevale ha ancora un senso? Certamente sì, perché eliminarlo significherebbe perdere una parte importante della nostra storia e delle nostre tradizioni. Con buona pace di mia madre e del costume ungherese.
Speciale Dolci di Carnevale- ricette a cura della redazione
chiacchiere Poche parole, molte
Sono dei nastri sottili di pasta fritta croccante, ricoperti con abbondante zucchero, sono diffuse in tutta Italia e hanno mille nomi; Cenci in Toscana, Fiocchetti in Emilia, Meraviglias in Sardegna, Bugie in Piemonte, Cioffe in Abruzzo, Cunchielli in Molise, Lattughe a Brescia e a Mantova, Frappe a Roma, Sfrappole a Bologna. Ma il nome con il quale tutti voi le conoscete, da Nord a Sud, è senza dubbio Chiacchiere. Nonostante i molti appellativi, la ricetta rimane più o meno sempre la stessa: farina, latte, uova, zucchero e liquore per aromatizzare.
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Secondo alcune ipotesi, questa preparazione sarebbe nata alla fine dell’800 dalla fantasia del cuoco napoletano Raffaele Esposito alla corte dei Savoia, per esaudire una richiesta della regina Margherita. Mentre stava intrattenendosi con alcuni ospiti, alla sovrana sopraggiunse un leggero languorino e, non avendo Ambrogio a disposizione, ordinò al cuoco una merenda per tutti i presenti. La sfiziosa novità piacque talmente tanto a sua maestà che decise di battezzarla con l’appellativo di chiacchiere in
onore dell’occasione per cui era stata creata. In realtà, altri fonti sostengono che la preparazione avesse origini molto più antiche risalenti ai saturnali romani, durante i quali si gustavano i frictilia: sfoglie di pasta fritte nel grasso del maiale. E’ una preparazione molto semplice, ma non è facile da realizzare, perché basta non saper stendere bene la pasta per compromettere il risultato finale. Preparazione: 1. Sciogliete il burro in un pentolino a fiamma bassa. 2. Dopo averla lavata bene, grattugiate la buccia del limone. 3. Versate all’interno di un recipiente capiente tutti gli ingredienti, compreso il burro fuso e la scorza del limone, ed iniziate ad amalgamarli prima utilizzando una forchetta e poi con le mani. Lavorateli fino ad ottenere un panetto liscio e compatto. 4. Lasciate riposare l’impasto in una ciotola ricoperta con della pellicola alimentare, per 30 minuti circa. 5. Stendete la pasta (con un mattarello o con la macchinetta
apposita): lo spessore deve essere di 2 mm circa. 6. Ritagliate con una rotella dentata la sfolgia ottenuta, riducendola in strisce. Decidete voi la lunghezza e la larghezza; volendo potete fare un fiocco. 7. Scaldate l’olio di semi in un’ampia padella; quando avrà raggiunto la giusta temperatura iniziate a friggere le chiacchiere. 8. Quando saranno dorate da entrambi i lati, asciugatele dall’olio in eccesso sulla carta assorbente e spolverizzatele con lo zucchero.
INGREDIENTI per 4 persone 300 g di farina forte 300-320W 2 uova 30 g di burro 4 0g di zucchero zucchero a velo q.b. 2 cucchiai di rum la scorza di un limone biologico
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olio di semi per frittura q.b.
Speciale Dolci di Carnevale - ricette a cura della redazione
castagnola
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Una
Le castagnole sono un’antica specialità carnevalesca di fine ‘600, tipiche della Liguria, dell’Emilia-Romagna, del Veneto, del Lazio, dell’Abruzzo, delle Marche e dell’Umbria. Contrariamente a quello che si può pensare, non sono realizzate con la farina di castagne. Infatti le morbide palline fritte (preparate con farina, burro, uova e zucchero) si chiamano così perché nella forma e nella grandezza ricordano le caldarroste. In Veneto sono conosciute anche col nome di favette e vengono consumate anche il 2 di Novembre, in occasione del giorno dei morti. Hanno sicuramente origini antiche: esistono ben quattro ricette diverse che portano il nome di Castagnole in un manoscritto di fine ‘700, trovato negli Archivi di Stato della città di Viterbo. Facendo un passo indietro, nel 1684 il Nascia, cuoco della Casa dei Farnese, e nel 1692 il Latini, cuoco della casa reale dei D’Angiò, preparavano gli struffoli alla romana (termine che è usato spesso, ai nostri giorni, come sinonimo di castagnole) la cui descrizione corrisponde perfettamente a quella dei deliziosi dolcetti. Ovviamente questa leccornia ha molte varianti: con o senza
tira l'altra
ripieno, fritte o cotte al forno, con o senza liquore, con scorza d’arancia o di limone, ricoperte con miele o con zucchero. Dunque, non esistendo nessuna ricetta ufficiale abbiamo deciso di proporvi una versione semplice e veloce da realizzare.
Preparazione: 1. In una ciotola versate tutti gli ingredienti ed amalgamateli. Inizialmente aiutatevi con una forchetta e poi continuate ad impastare con le mani fino ad ottenere un panetto compatto e omogeneo. 2. Coprite l’impasto ottenuto con un canovaccio e lasciatelo riposare per 30 minuti circa. 3. Tagliate un pezzo di pasta e, facendola scorrere avanti e indietro tra le vostre mani e la superficie di lavoro infarinata, dategli una forma cilindrica e allungata. 4. Con un coltello, sezionate in tocchetti il filoncino. 5. Arrotondate ogni pezzetto di pasta tra le mani per formare delle palline grandi come una castagna. 6. Scaldate l’olio di semi in una padella, quando sarà caldo al punto giusto, iniziate a friggere le castagnole poco per volta, avendo cura di girarle spesso per ottenere una doratura e cottura omogenea.
7. Quando sono pronte, con una schiumarola, toglietele dall’olio. Passatele prima velocemente nella carta assorbente e poi nello zucchero bianco semolato, per far sì che si attacchi bene alla superficie esterna. 8. Continuate fino a quando le castagnole non saranno tutte fritte. Servitele calde.
INGREDIENTI per 4 persone 200g di farina 40g di burro 50 g di zucchero a velo zucchero semolato bianco q.b. un cucchiaio di rum 2 uova mezzo cucchiaino di lievito per dolci la scorza di un limone biologico Olio per frittura q.b.
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INGREDIENTI per 4 persone 500 g farina di semola 100 g di strutto 100g di zucchero 5 uova un’arancia 500 g miele un litro d’olio per frittura 100 ml acqua
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sale q.b.
sasorigliettas
Speciale Dolci di Carnevale - ricette a cura della redazione
Tutto ha origine col fuoco. Stiamo parlando della Sardegna, dove spettacolari falò illuminano le vie dei paesi nel cuore di quest’isola magica, che non è solo macchia mediterranea, distese di spiagge dalla sabbia candida e finissima che si tuffano in un mare splendido. No, la Sardegna è sopratutto tradizioni millenarie, riti agropastorali e rurali tuttora rispettati. Il Carnevale, in special modo, in Sardegna è una festa molto vissuta: inizia il 16 Gennaio, con il falò di Sant’Antonio Abate su Carrasecare, termine che significa “carne viva da smembrare” per poi continuare tra sacro e profano, con danze di personaggi e di maschere ancestrali, sia antropomorfe che zoomorfe, ricoperte di pelli animali, orbace e campanacci che rappresentano il profondo legame tra uomo e animale e la continua lotta con la natura. I campanacci di Mamunthones e Ishoaddores di Mamoiada, le percussioni dei Tumbarinos di Gavoi, le sfilate di maschere dei Thurpos a Orotelli, Boes e Merdules a Ottana, Mamutzones e Urtzu a Samugheo, i carri allegorici di Tempio Pausania e Bosa, le pariglie e le sartiglie di Bonorva e Oristano e tantissime altre manifestazioni in decine e decine di paesi della Sardegna:
un festeggiare lungo sino alla Quaresima.
Due mesi di eventi che si susseguono, in un coinvolgimento del popolo sardo senza sosta. In tutto questo rincorrere di feste, ciò che invade le stradine di paese in un'isola intera che si lega alla tradizione e al costume, è un profumo unico e inconfutabile: l’odore denso di olio di frittura, unito al profumo dolce dello zucchero. Non c’è casa, non c’è donna che non riempia una padella d’olio per realizzare prelibatezze uniche, da condividere in famiglia o da portare in piazza per contribuire alla festa. Mani sapienti, che tirano l’impasto, di donne attorno a sa banca (il tavolo), e che intrecciano, tagliano, ricamano la sfoglia e compongono, cuociono e decorano i dolci mentre gli uomini intrattengono qualche amico con un cicchetto dell’ultima vendemmia. Tra le varie bontà isolane realizzate durante il Carnevale, trova un posto d’onore tra zippule e li frijori longhi, il dolce indiscusso del carnevale sardo, Sas origliettas. Pochi ingredienti, sapientemente miscelati, dai quali prende forma un delicato ghirigori di pasta
leggerissima che diventa un dono dorato da regalare ai più piccini. Appiccicaticce quanto basta da leccarsi le dita e friabili da accarezzar l’udito ad ogni morso, le origliettas prendono un nome diverso a seconda della zona dove vengono realizzate. La storia non ci rivela un’origine definita di questo dolce. L’unica cosa che sappiamo è che si accomuna ad un altro di origine catalana chiamato orelletes, piccole orecchie. Probabilmente è una contaminazione avuta durante la dominazione spagnola in Sardegna risalente alla fine del XV secolo. Il dolce spagnolo, seppur costituito dagli stessi ingredienti e dallo stesso tipo di cottura, si differenzia dalle origliettas sarde per forma e decorazione finale. Nella versione catalana, sono piccole sfoglie fritte con l’ausilio di un bastoncino che gli dà la caratteristica forma ad orecchio; nella versione sarda, sono strisce di pasta dai bordi sagomati (o arricciata a piccole spirali) che si susseguono, ricoperte di miele aromatizzato con scorze di agrumi. Nel territorio sardo, anche la forma di questo dolce ha la sua tipicità a seconda della zona di produzione. La sua forma tipica prevede un piccolo cerchio centrale del diametro di qualche centimetro; attorno ad esso, vengono realizzati 4 petali, all’interno di un ulteriore cerchio che racchiude l’intero fiore. Stessa forma assumo sas origliettas di Orune, che però prendono il nome di montecadas, mentre in Gallura vengono dette trizzas o trezzitas, e sono realizzate come treccine,
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il dolce del carnevale sardo
con una pasta stesa a grissino, ripiegata in due e arrotolata su se stessa, poi chiusa a goccia sulle due estremità. Infine ci sono quelle di Bono e Benetutti, tipicamente a forma di fisarmonica.
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Una volta fritte, vanno fatte asciugare e colare dall’olio su carta assorbente e successivamente arricchite della nota dolce del miele. Quest’ultimo viene scaldato in un pentolino, con una minima parte di acqua calda per diluirlo e con la scorza di agrumi (arancia o limone) per aromatizzarlo. Le origliettas vengono quindi immerse nel pentolino di miele e sono pronte ad essere consumate e apprezzate sia da grandi che dai bambini. Scaldate l’olio e iniziate a lubrificare i gomiti, c’è da impastare. Preparazione: Origliettas tradizionali 1. In una ciotola, inserite le uova e aggiungete lo zucchero. Con una frusta, sbattete il composto sino ad amalgamare bene gli ingredienti. 2. Inserite pian piano a pioggia la farina precedentemente setacciata e impastate. 3. Aggiungete lo strutto, un pizzico di sale e continuate ad impastare sino ad ottenere un impasto omogeneo, compatto e liscio. 4. Stendete la pasta, sino ad ottenere una sfoglia di circa 2 mm di spessore. 5. Con una rotella o un pantografo, realizzate le strisce da circa 2/3 cm di larghezza. 6. Iniziate formando un cerchio di qualche centimetro di diametro. 7. Realizzate quattro petali attorno al cerchio centrale, incollandole con l’ausilio di qualche goccia d’acqua. 8. Create un cerchio esterno con una striscia di pasta incollandolo ai petali e racchiudete il fiore appena realizzato. 9. Procedete cosi per la restante
pasta sino al termine per realizzare le successive origliettas. 10. Scaldate abbondante olio per friggere in una pentola e immergetevi una per volta le vostre origliettas. 11. Cuocete senza dorare eccessivamente. Le vostre origliettas dovranno rimanere piuttosto chiare e croccanti dopo la cottura. 12. Fate scolare e asciugare per bene l’eccesso d’olio su carta assorbente. 13. Sciogliete in un pentolino, il miele con l’acqua. Inserite all’interno la scorza di un’arancia. 14. Affondate nel pentolino ogni singola origliettas e fate attenzione che si ricoprano tutte con un leggero velo di miele. 15. Posizionatele su un vassoio per servirle. Origliettas a fisarmonica 1. Ripetete tutto come sopra dal punto 1 al punto 5 compreso. 2. Realizzate con una striscia di pasta una spirale a forma di goccia. 3. Continuate a formare le altre gocce, contrapponendole l’una all’altra e incollandole tra loro aiutandovi con una goccia d’acqua. 4. Procedete come sopra dal punto 9 sino al punto 15 compreso. Lasciate raffreddare prima di consumare. Si narra che dalla cottura delle origlietas venisse valutata la qualità della donna in cucina. Per meritare le lodi dei commensali, le origlietas dovevano essere servite chiare come la luna. Voi ci riuscirete?
Speciale Dolci di Carnevale - ricette a cura della redazione
Frate
...se ne fa un altro?
In Toscana, non esiste Carnevale, festa per il Santo Patrono, fiera di paese o Luna Park in cui non sia presente un food-truck pronto a vendere bomboloni e frati caldi. Frati?! Niente paura, non stiamo parlando dei poveri monacelli, ma di deliziosi dolcetti fritti. Contrariamente al pensiero comune, nonostante molto spesso siano spesso realizzate con lo stesso impasto, le due preparazioni non nascono l’una dalla costola dell’altra, perchÊ lontanissime tra loro sia temporalmente che geograficamente. Le ciambelle ricoperte di zucchero nascono in Sardegna; conosciute col nome di para frittus (letteralmente frati fritti)
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MorSo un
approdarono sul continente nel Medioevo grazie alla Repubblica Marinara di Pisa. La potenza pisana conobbe Spagna orientale. Quando il dolce approdò sulla costa toscana gli abitanti della città della Torre pendente ne rubarono di fatto la paternità al popolo sardo. Sicuramente adesso vi starete domandando perché si chiamano fratti fritti? Le risposte a quanto sembra sono due: la forma della ciambella ricorda la chierica dei confratelli e la fascia chiara centrale richiama il saio stretto in vita dal cordone. I Bomboloni o Bombe derivano dal Krapfen, un dolce austriaco nato alla fine del’600 per festeggiare il Carnevale. E' un dolce fritto fatto di pasta lievitata, farcito con marmellata o crema, e spolverizzato di zucchero.
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Già conosciuto nel '600 a Graz, si sarebbe diffuso a Vienna, per poi affermarsi anche nelle aree trentine. Questa golosa frittella conquistò l'Italia con varianti tutte molte simili l’una all’altra: partendo dal Trentino arrivò fino in Romagna e in Toscana in cui divenne il bombolone farcito di crema pasticcera, passando da Modena dove venne chiamato crafen, fino ad arrivare a Roma, dove diventò la bomba alla crema, e a Napoli la graffe ripiena con marmellata di amarene. L’Artusi suggerisce di farcire l'impasto con la crema prima della cottura, per fare in modo che l’aroma si diffonda bene in ogni parte del bombolone. In ogni caso, come dicevamo all’inizio, in Toscana entrambe le preparazioni vengono realizzate con lo stesso impasto e poi spolverizzate con lo zucchero: il bombolone poi viene farcito con crema o cioccolato (o Nutella!) e il frate invece è la versione light, di solito accompagnato dalla tipica frase “no no, prendo ‘r frate, perché voglio sta’ leggero”.
INGREDIENTI per 4 persone per la crema 4 tuorli 500 ml di latte intero 100 g di zucchero a velo 30 gr di farina una bacca di vaniglia per l'impasto 200 ml di latte intero 550 r di farina 00 60 g di zucchero a velo 20 g di lievito di birra 2 uova 75 g di burro la scorza di un limone non trattato 1 l di olio di semi
Preparazione dell'impasto 1. Sciogliete il lievito di birra in un bicchiere di latte tiepido. 2. In un recipiente capiente
versate prima gli elementi liquidi, il latte, le uova, il burro fuso e amalgamateli tra loro. Unite lo zucchero, la scorza del limone, il latte rimanente con il lievito e mescolate bene. 3. Iniziate a lavorate l’impasto, aggiungendo poco per volta la farina, fino a che non diventerà liscio ed elastico. 4. Ponetelo in una ciotola e copritelo con la pellicola trasparente per 2/3 ore fino a quando non sarà raddoppiato di volume. 5. Quando la pasta sarà lievitata lavoratela per qualche minuto con le mani e poi stendetela con un mattarello. Deve avere uno spessore di circa un cm e mezzo. 6. Con un coppapasta realizzate i dischetti e posizionateli su una teglia foderata con della carta forno. Copriteli con la pellicola alimentare e lasciateli riposare
per circa 30 minuti circa, fino a quando- di nuovo - non saranno raddoppiati di volume. 7. Se invece volete realizzare i frati, con un coppasta più piccolo create dei buchi al centro del disco creando delle ciambelline. 8. Mettete a scaldare l’olio in una padella, quando è caldo al punto giusto iniziate a friggere i dolci. 9. Quando saranno dorati da entrambi i lati, con una schiumarola toglieteli dall’olio e asciugateli nella carta da cucina. 10. Mentre sono ancora caldi passateli nello zucchero, in modo che si attacchi bene sulla superficie. 11. Bucate delicatamente i bomboloni col manico del coltello e con una sac à poche riempiteli di crema.
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Preparazione della crema 1. con la punta di un coltello incidete la bacca di vaniglia per tutta la lunghezza e grattate i semi all’interno. 2. In un pentolino versate il latte a temperatura ambiente, aggiungete i tuorli, la farina, lo zucchero e la vaniglia. Ogni volta che aggiungete un ingrediente, mescolate il tutto con una frusta per evitare la formazione di grumi in cottura. 3. Ponete la pentola su una fiamma medio bassa girando continuamente il composto con un cucchiaio. Quando la crema inizia a sobbollire, mescolatela con più vigore e toglietela dal fuoco appena si addensa.
Salse CAPITOLO DUE
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The Chemical Griller a cura di Virgilio Brunetti
IL KETCHUP E IL MAGICO DESTINO DI HENRY
Ai più verrà da pensare che il ketchup sia una salsa di origine statunitense, il prodotto americano per eccellenza. In realtà (e incredibilmente) l’origine di questa salsa è orientale. Infatti il termine ketchup è preso in prestito dal malese kecap, che in origine fu una salsa a base di pesce fermentato. Quando nel 1600 questa salsa sbarcò in Europa, i cuochi iniziarono a personalizzarla utilizzando svariati ingredienti tra cui ostriche, funghi, noci, limone. La ricetta del ketchup inizia a svilupparsi come la conosciamo alla fine del 1700, quando in America alcuni cuochi iniziano ad utilizzare il pomodoro per produrla: nasce quindi il primo tomato ketchup, prodotto nel 1812 da James Mease, di Philadelphia. Ma fu solo nel 1872 che Henry John Heinz sviluppò la ricetta che la sua azienda utilizza ancora oggi. In contrasto con le consuetudini di allora, Heinz aumentò la quantità di aceto e di zucchero, aggiunse la cipolla e un mix di spezie. Questa combinazione vincente di sapori divenne talmente famosa che gli americani identificarono ben presto il termine ketchup solo ed esclusivamente con la salsa di Heinz, e da allora nulla è cambiato in buona parte del mondo, Italia compresa. C’è un antico detto che identifica alla perfezione la storia di Henry J. Heinz: homo faber fortunae suae (Appio Claudio Cieco 350–271 a.C.), ogni uomo è artefice del proprio destino. Per alcuni uomini audaci l’America ha rappresentato il substrato sul quale coltivare opportunità e idee. Senza dubbio uno di questi audaci fu Henry J. Heinz, nato nel 1844 a Pittsburgh in Pennsylvania da una famiglia di immigrati tedeschi. La sua prima idea commerciale arrivò quando era giovanissimo: confezionare il rafano che la madre coltivava nell’orto e venderlo per le strade della città. La sua formazione religiosa, il college e il lavoro presso l’azienda del padre lo fanno crescere come uomo ed imprenditore ma sarà la madre ad avere un ruolo fondamentale nella sua corsa verso il successo. Capisce subito che il settore delle conserve vegetali è un ottimo affare, quindi nel 1869, assieme all’amico L. Clarence Noble, fonda la Heinz Noble Company: l’azienda rifornisce di rafano,
HENRY J. HEINZ
Nel 1875 l’azienda fallisce a causa di una crisi improvvisa, e le banche negano il credito al giovane Heinz il quale non riesce a far fronte ai debiti verso i fornitori di ortaggi. La profonda delusione fa sì che Henry maturi un nuovo spirito imprenditoriale. A risollevare l’azienda ci pensa la madre che con i suoi ultimi risparmi fonda una nuova società, la Heinz Food Company.
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sottaceti e crauti i ristoranti e i negozi di Pittsburgh. Erano anni in cui sempre più persone si trasferivano dalla campagna alla città, dove mancava lo spazio per coltivare frutta e ortaggi. La Heinz Noble cresce e la vecchia casa di famiglia diventa il suo laboratorio dove due casalinghe tedesche lavano e conservano gli ortaggi, usando i metodi di conservazione tradizionale grazie ai quali i prodotti si conservano bene e a lungo, inoltre il confezionamento in barattoli facilita il trasporto.
LA SALSA S R I R AC H A E IL SOGNO AMERICANO
La nuova azienda a conduzione familiare cresce in maniera lenta ma costante ed Henry non si risparmia lavorando nei campi, nel magazzino, nelle vendite. Il fallimento è un’onta che gli pesa molto e si impegna a saldare i suoi debiti fino all’ultimo centesimo anche se non è tenuto a farlo. Continua inesorabile a sfornare nuovi prodotti, tra questi una portentosa salsa rossa a base di pomodoro. I processi di conservazione a quei tempi erano basati su prove empiriche, lunghe cotture e ingredienti di uso comune come zucchero, spezie, aceto. Heinz intravede il potenziale della sua salsa rossa ma capisce che la gente ha anche bisogno di vedere ciò che acquista, così usa vasetti e bottiglie di vetro trasparente; Heinz nota inoltre che la parte della salsa che viene a contatto con l’aria nel collo della bottiglia, diventa più scura e gelatinosa perché si ossida, non avendo più un bell’aspetto. Decide così di utilizzare dei collarini per le bottiglie che nascondono l’inconveniente.
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Henry Heinz di fatto reinventa il ketchup trovando una formula micidiale che sbaraglia la concorrenza di quelli già presenti sul mercato. In tutti gli anni a seguire continua la sua marcia verso il successo non tradendo i suoi obiettivi commerciali, i suoi collaboratori e i suoi clienti. Anche se non è stato lui ad inventare il ketchup è sicuramente quello che lo ha venduto meglio. E’ stato senza dubbio un genio del marketing ed uno dei primi a dare valore al Brand e alla fiducia del consumatore, a considerarli mattoni su cui costruire un’azienda moderna. La Heinz Company è stata una manifestazione del suo pensiero che si può riassumere nel motto “fai del bene, nonostante gli altri”. Oggi la Heinz è uno dei principali marchi internazionali. Con trentatremila dipendenti ed un fatturato di 8 miliardi di dollari, è leader del mercato in molte zone del mondo. Negli Stati Uniti ha una quota di mercato del ketchup del 98%. Il Ketchup Heinz è una delle salse che nonostante i semplici ingredienti, resta assolutamente inimitabile; inoltre è indiscutibilmente una delle basi fondamentali di molte salse barbecue e accompagnamento imprescindibile di preparazioni con diffusione globale come hamburger e patatine fritte
Quella della salsa Sriracha è un’altra storia di imprenditoria americana che ruota intorno ad un uomo eccezionale, noto per aver creato un brand colossale basato su una salsa “non autentica” o meglio fuori dai canoni della maledetta e beneamata tradizione. Il consumo di questa salsa in Italia è limitato, probabilmente patisce il fatto di avere una forte impronta asiatica con un livello elevato di piccantezza e una quantità di spezie non affine ai nostri palati; tuttavia molti griller curiosi e attenti probabilmente conoscono bene la bottiglia di salsa piccante con il gallo sull’etichetta ed il tappo verde. Il suo creatore grazie a questo prodotto è diventato leggenda, la perfetta personificazione del sogno americano. David Tran impara a preparare salse piccanti a casa sua in Vietnam. Tran è un umile e geniale agricoltore di peperoncini; nel 1975 inizia a produrre la Pepper Sa-te. La confeziona in barattoli di vetro di omogeneizzati per bambini e in bicicletta la consegna e la distribuisce presso amici e parenti. Poco dopo, nel ’79, fugge dal Vietnam comunista e si imbarca su un mercantile taiwanese registrato a Panama, di nome Huey Fong. Il nome di quella nave diventerà il nome della sua grande azienda, la Huy Fong Foods. Negli Stati Uniti Tran viene accolto come rifugiato politico e qui inizia a fare ciò in cui riesce meglio: preparare salse piccanti. In
Eppure in quel momento Tran non ha ancora idea dell’enorme potenziale dei suoi prodotti ed in particolare della sua Sriracha. Beh, In 40 anni la Huy Fong Foods cambia sede più volte crescendo e modernizzando di volta in volta gli impianti e soprattutto mantenendo segreta la formula della salsa. Attualmente la sede produttiva a Irwindale, California, converte annualmente oltre 100 milioni di libbre di peperoncini freschi in centinaia di migliaia di bottiglie di Sriracha, per un fatturato di 80 milioni di dollari all’anno. Il successo globale della Sriracha Hot Sauce non è privo di intoppi: la Huy Fong ha appena perso una grande battaglia legale
DAVID TRAN
con la Underwood Farms, da tempo fornitore di peperoncini freschi, mentre i media hanno messo in dubbio l’autenticità della Sriracha di Tran. I puristi della tradizione colpiscono in ogni compartimento della gastronomia mondiale e la competizione con altri brand è feroce. Il mercato delle salse asiatiche è un business colossale e la stoccata da parte dei produttori tailandesi non è tardata ad arrivare accusando Tran di produrre una salsa che non è altro che una “americanizzazione” della salsa tradizionale. La questione che un cibo etnico popolare sia solo un imbastardimento della versione tradizionale è un argomento che ci sta sempre molto a cuore, sapete bene cosa succede quando ad un italiano tocchi la carbonara, la cacio e pepe o l’aglio-olio e peperoncino. Così accade anche in altri contesti come la cucina italo-americana o asiatica-americana. Spesso, soprattutto sui social, queste discussioni diventano un pantano di pregiudizi culturali che poco hanno a che fare con la cucina. È quello che è accaduto con la Sriracha di Huy Fong, che è “americanizzata” perché è nata per una comunità molto specifica, ovvero la comunità asiatica residente negli Stati Uniti. Proprio negli States il criterio di “autenticità” di un prodotto è sempre il vero punto della questione, ovvero l’abilità di molti cuochi ed altrettanti imprenditori di riadattare in maniera assolutamente geniale i cibi tradizionali in una nuova e autentica forma. In un’intervista rilasciata al New York Times nel 2001, Tran stesso ha riassunto il proprio processo di personalizzazione e di adattamento in una frase emblematica: non è Sriracha thailandese. È la mia Sriracha.
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quel momento non esistono in USA salse abbastanza piccanti da soddisfare il palato della grande comunità asiatica americana; così, in un magazzino della Chinatown di Los Angeles, inizia a produrre la sua salsa al pepper Sa-te ma anche Sambal Oelek, Chili Garlic, Sambal Badjak e Sriracha Hot Sauce. Utilizza materie prime locali come gli jalapeño freschi, d’altronde non ha a disposizione i tradizionali e micidiali peperoncini asiatici. Tuttavia Tran svuota sistematicamente i suoi magazzini invadendo con suoi nettari infuocati i mercati ed i ristoranti asiatici di Los Angeles, di San Francisco e di San Diego.
Katsu sando La ricetta scientifica di Gianfranco Lo Cascio
Per fare un tavolo ci vuole il legno, per fare il katsu sando ci vuole… la cotoletta! Esistono vari tipi di katsu in Giappone, di cotolette intendo. Quella di manzo si chiama Gyu katsu, quella fatta con il pollo Chicken katsu, quella di spalla di maiale non poteva che essere Hamu katsu. Stavolta vi voglio parlare del Tonkatsu ( , o ), la cotoletta di maiale fritta giapponese che fa parte della categoria degli “agemono”, i cibi fritti del Sol Levante.
Si prepara partendo da una fetta di carne di maiale spessa 1-2 centimetri, si immerge in una pastella di acqua e farina, si arrimìna nel panko (il pan grattato nipponico) e si glorifica friggendola in immersione in abbondante olio. A cottura ultimata si taglia a striscioline e si serve con cavolo cappuccio affettato sottile e zuppa di miso. Oppure si schiaffa tra due fette di pane morbido, il famoso pane al latte giapponese, lo shokupan, insieme al cavolo cappuccio tagliato a chiffonade e abbondante salsa agrodolce. Una goduria di morsi salsati incredibili, la lingua solleticata da quei crick rock della panatura che crépita come una carta di caramella. Ebbene, ho deciso di condividere con voi, cari lettori, la mia personalissima versione del sandwich più stiloso del globo terraqueo, ovviamente ragionata, ovviamente scientifica.
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Potevo mai proporvi una ricetta fatta a katsu?
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IL PANE
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Alla base di un buon panino c’è sempre lui, il pane. Questa volta al latte, morbido come una nuvola, con la mollica fitta e scioglievole. Lo Shokupan, il famoso pane al latte di Hokkaido, si prepara con il metodo tangzhong, uno starter di nuova concezione fatto di acqua e farina cotti come un roux. Trovate un approfondimento e una ricetta qui accanto, ma se non avete voglia di impastare esistono degli ottimi pani in cassetta, spessi e spugnosi, che potrebbero fare al caso vostro. Importante: ricordate di imburrare il pane dal lato della farcitura e di tostarlo sulla piastra in ghisa prima di confezionare il sandwich. Montate il katsu sando molto alto per agevolare il colpo d’occhio, ma ricordate tagliarlo lungo il perimetro della cotoletta e soprattutto n-o-n s-c-h-i-a-c-c-i-a-t-e-l-o!
LO SHOKUPAN: IL PANE AL LATTE COL METODO TANGZHONG È il pane al latte preparato con il metodo tangzhong, anche conosciuto come water roux, una tecnica nata a Taiwan nel 2003 che prevede la preparazione di uno starter liquido costituito da 1 parte di farina e 5 parti di acqua scaldate a 65°C. Si tratta dunque di amido gelatinizzato: durante la cottura in forno i granuli di amido assorbono acqua, si gonfiano e formano una struttura rigida intorno all’anidride carbonica. Quando l’espansione delle bolle si arresta, l’acqua contenuta all’interno di queste evapora, creando una rete di fori comunicanti. Che poi di fatto è la mollica. Nel tangzhong gli amidi sono già idratati prima che avvenga l’impastamento. Questo significa che non devono gareggiare con le altre proteine presenti nella pasta per assorbire acqua. Nel momento in cui si mescolano gli ingredienti, gli amidi idratati perforano gli strati di glutine. La rigidità di questi granuli di amido è responsabile della struttura spugnosa e chiusa della mollica tangzhong, poiché l'impasto con una maglia glutinica meno perforata forma bolle più grandi e una mollica più aperta.
INGREDIENTI:
• 25 g di farina forte 280-300W • 125
ml di acqua o latte (o acqua e latte in parti uguali) PROCEDIMENTO: 1. Misurare e mescolare bene la farina in acqua senza grumi. 2. Cuocere a fuoco medio-basso e portare a 65°C, mescolando costantemente con un cucchiaio di legno, una frusta o una spatola per evitare che si attacchi e bruci sul fondo. L'impasto si addenserà abbastanza rapidamente. 3. Rimuovere dal calore. Trasferire il tangzhong in una ciotola pulita e coprire con pellicola aderente sulla superficie, per evitare che si secchi. Lasciare raffreddare a temperatura ambiente prima dell'uso. NOTA: Il tangzhong può essere usato subito una volta raffreddato, quello avanzato può essere conservato in frigorifero fino a pochi giorni. Se diventa grigio, buttatelo! Questo starter può essere usato in tutte le ricette di pane, pizza o lievitati a cui volete conferire leggerezza e morbidezza, considerando che per il water roux va usata una quantità di farina compresa tra il 5 e il 10% del totale.
SHOKUPAN: LA RICETTA INGREDIENTI:
• 270 g di farina 300 W • 95 g di tangzhong • 45 g zucchero semolato • 1 uovo intero (45g) • 30 g di panna fresca (o latte intero) • 25 g di latte intero • 25 g di burro morbido • 15 g di lievito di birra fresco • 4 g di sale
PROCEDIMENTO: 1. Preparare il tangzhong come da istruzioni mescolando i 25 grammi di farina con 125 ml di acqua. Cuocere a fiamma bassa mescolando continuamente fino a raggiungere la temperatura di 65°C. Trasferire in una contenitore, coprire con pellicola a contatto e lasciar raffreddare. 2. Mettere in una ciotola la farina, aggiungere il lievito di birra sbriciolato, 95 grammi di tangzhong, lo zucchero, l'uovo e gradualmente il latte e la panna. Lavorare l'impasto in planetaria o a mano: sarà piuttosto morbido e leggermente appiccicoso. 3. Una volta incordato, aggiungere il burro a pezzetti e il sale e lasciar assorbire. 4. Trasferire l'impasto in un contenitore e lasciar lievitare fino al raddoppio in un luogo tiepido (28°C), ci vorrà circa un’ora. 5. Pesare l'impasto e dividerlo in tre parti uguali. Stendere con il matterello, arrotolare l'impasto su se stesso per il lato corto, appiattire con le mani, riallungare con il matterello e riavvolgerlo. Trasferire ogni rotolo in uno stampo da plumcake imburrato delle dimensioni di 21x12x7,5, con la chiusura verso il basso. Lasciar lievitare fino a che l'impasto non avrà raggiunto la superficie dello stampo. 6. Preriscaldare il forno a 180°C e inserire un pentolino con dell’acqua, per saturare la camera di cottura con del vapore. 7. Spennellare la superficie del pane con uovo sbattuto e mescolato a qualche goccia di latte o panna. Rimuovere il pentolino con l’acqua e cuocere in forno statico a 180°C per 30 minuti circa.
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COME SI PREPARA IL TANGZHONG
LA CARNE
In Giappone per il tonkatsu si utilizza il filetto ( hire) o la lonza ( rōsu) di maiale. La carne viene di solito condita con sale e pepe prima di essere infarinata leggermente; successivamente viene immersa nell'uovo sbattuto e ricoperta di panko prima di essere fritta in abbondante olio di semi. Ma cosa succede quando prendiamo un taglio magro, come il filetto appunto, e lo friggiamo in olio bollente a 180°-190°C? La temperatura al cuore sale, le fibre si strizzano e la carne diventa secca come un materassino da yoga. È per questo motivo che noi useremo la coppa e cuoceremo la cotoletta in maniera completamente diversa. La coppa comprende una parte del collo e, rifilata dalle prime cinque costole, si presenta come in foto. (foto del pezzo di carne) È un taglio molto saporito perché ricco di grasso, proprio quello che ci serve per mantenere la nostra cotoletta morbida e succosa, ed è caratterizzato anche da una piccola parte di connettivo, che andrà necessariamente cotta a lungo e a bassa temperatura per poterla tramutare in gelatina. Avete capito bene: vi sto dicendo di cuocere la coppa intera sottovuoto e, solo a cottura ultimata, tagliare le fette e panarle per la frittura. Siete curiosi di sapere perché, giusto? VANTAGGIO NUMERO 1 Cuocere la coppa intera in sous vide significa fondere le parti grassi e convertire il connettivo in gelatina. Sappiamo con certezza assoluta che per intenerire la carne di maiale possiamo intervenire su due proteine: la miosina e l’actina. Dobbiamo denaturare la prima, intervenendo sulla struttura proteica e portando la temperatura interna a 60°C, e non superare i 75°C, range in cui si va a intaccare la struttura della seconda.
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E il collagene? Il collagene comincia a sciogliersi a partire da 55°C, a 60°C registriamo la scomparsa degli agenti infettivi, oltre i 65°C le fibre si contraggono sempre più e iniziano a strizzare fuori liquidi. Noi cuoceremo la nostra bella coppa a 65°C per 7h,
in questa finestra temporale la carne si scalderà e perderà liquidi; anche il collagene si scalderà e si trasformerà in gelatina. E magia della scienza, la gelatina riassorbirà tutta quell’acqua come una spugna. Contemporaneamente il grasso si scioglierà con il calore dolce e costante, mescolandosi con gli zuccheri, gli amminoacidi e i glucidi: insieme creeranno un numero incalcolabile di molecole che produrranno una serie di reazioni gustative a catena. VANTAGGIO NUMERO 2 Vi è mai capitato di mangiare una cotoletta con contorno di pangrattato? Di perdere un pomeriggio a infarinare e friggere, con le dita inguacchiate di uova e calcestruzzo, per poi assistere alla separazione dell’olio e della panatura come novelli Mosé del grasso saturo? Vi vedo, lo so come ci si sente. È successo perché non avete mai preparato una cotoletta con un pezzo di ciccia già cotto. Rifletteteci un attimo: cosa fa staccare la crosta dal pezzo di carne? 1) Il rimpicciolimento della carne. La carne cruda, a contatto con l’olio caldo, si contrae e si restringe sensibilmente. 2) L’evaporazione dei liquidi. La carne cruda immersa in un grasso bollente strizza fuori buona parte dei liquidi che contiene, generando il vapore che stacca la panatura.
LA COTTURA DELLA CARNE
Una volta recuperato un bel pezzo di coppa intero, trimmate leggermente la superficie, per eliminare gli eccessi di grasso e generare attrito tra carne e pastella, per farla aggrappare meglio; massaggiate con poco sale e cuocete sottovuoto per 7h a 65°C. A cottura ultimata abbattete la temperatura immergendo il sacchetto in acqua e ghiaccio e lasciate in frigorifero per almeno qualche ora. Dovete tagliare la carne a fette di 1,5 cm, meglio se rettangolari, rigorosamente a freddo.
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Adesso passiamo alla preparazione della pastella, gli ingredienti sono questi: • 120 gr di farina di riso • 90 g di amido di riso • 6 gr di sale • 500 ml di acqua (dose indicativa)
Il glutine, quella grossa molecola proteica che si forma quando si impasta la farina con l’acqua e gliadine e glutenine si dispongono a formare una rete, in frittura, non serve. Noi non vogliamo un composto elastico e gommoso ma una soluzione colloidale che renda la nostra cotoletta croccantissima e friabile. Useremo la farina e l’amido di riso perché questo cereale non riesce a formare il glutine, poiché le prolammine (proteine dei cereali) contenute in esso sono in bassissima concentrazione.
E ORA ANDIAMO A FRIGGERE!
Una volta preparata la pastella, seguite questi step: 1. Immergete la carne nella pastella e poi subito nel panko. Fatta questa prima panatura rimettete la carne in frigorifero per almeno 15 minuti, per farla aderire bene
2. Nel frattempo sbattete 4 uova in un terrina, sfrutterete il loro potere legante e apporterete così grasso e sapore. 3. Passate le fette già panate nell'uovo e poi subito nel panko (o nel pangrattato)*. 4. Disponete le cotolette su un unico strato su di un vassoio e trasferite in congelatore per venti minuti. Nel frattempo scaldate l’olio. 5. Quando l'olio avrà raggiunto i 190°C friggete le fette in immersione, devono sprofondare completamente. 6. Cuocete fino a quando non si colorano esternamente, dovete solo portare a cottura la panatura perché la carne è praticamente già cotta. *Nel vostro supermercato non vendono il panko? Niente paura, vi dico come prepararlo. Vi basterà procurarvi un filone di pane in cassetta, tagliatelo a fette di 1 cm e scaldatele in forno ventilato a 160°C per 5-10 minuti, il tempo di asciugarlo un po’. Quindi tagliate via la crosta, tritatelo al mixer o meglio ancora grattugiatelo con una grattugia a fori larghi. Quindi ripassate le briciole nuovamente in forno, sempre a 160°C, e lasciate che si colorino leggermente. Lasciate raffreddare e riponete il panko fatto in caso in un contenitore a chiusura ermetica.
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LA DOPPIA PANATURA
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LE SALSE
Maionese o Salsa Tonkatsu, la cosiddetta salsa barbecue giapponese? Avete l’imbarazzo della scelta, io preferisco la prima di parecchi lustri e la personalizzo con una puntina di wasabi grattugiato. Una botta di vita.
La salsa Usuta ( ), simile per gusto ma più fine e liquida. La salsa Chuno ( ) di consistenza media. La salsa Tonkatsu ( ) la più densa e corposa delle tre, considerata dai più la salsa barbecue giapponese. Tutte e tre sono perfette per accompagnare takoyaki, okonomiyaki, yakisoba e katsu. LA RICETTA (dose da 150g) Ingredienti • 60 g di ketchup • 70 g di Worcestershire sauce • 1 cucchiaino di zucchero semolato (5 g) • 2 cucchiaini di salsa di soia (10 ml) Procedimento Mescolare tutti gli ingredienti e conservare in frigorifero in un contenitore sigillato fino a due mesi.
MAIONESE SCIENTIFICA La maionese è un’emulsione di olio, senape e una parte acida tenuta insieme dall’uovo che fa da agente emulsionante. Se preparata con cura, è l’unico elemento di contrasto che permette di bilanciare perfettamente l’untuosità della cotoletta fritta e la dolcezza del cavolo cappuccio saltato: il segreto si chiama acidità. LA RICETTA (dose da 400g) Ingredienti • 60 g di tuorli (3-4 tuorli grandi) pastorizzati, ancora tiepidi • 150 ml di olio di vinaccioli/noce/semi di girasole • 150 ml di olio extravergine delicato • 10 ml di succo di limone (fino a 20 ml) • 10 ml aceto di vino bianco (fino a 15 ml) • Opzionale: 15 g di senape di Digione (1 cucchiaino) • 3 g di sale • 1 g di pepe di Timut Procedimento Miscelare i due oli in un contenitore con beccuccio. Sbattere i tuorli pastorizzati ancora tiepidi (aggiungere ora la senape) e versare a filo l’olio, continuando a sbattere con le fruste. Una volta ottenuta un composto denso, aggiungere la nota acida del limone e dell’aceto e aggiustare di sale e pepe. Utilizzare la salsa ben fredda, si conserva in frigorifero fino ad una settimana.
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TONKATSU Fa parte del triumvirato delle salse giapponesi, che si differenziano tra loro in base a viscosità e consistenza.
IL CAVOLO CAPPUCCIO
Molecolarmente affine al maiale, è il classico abbinamento orientale, ma pure italiano se vogliamo. Prendete un cavolo cappuccio, verde o rosso, tagliatelo sottile sottile e passatelo velocemente in padella con olio, 200 ml di aceto di vino bianco o mela e 20 g di zucchero semolato. Fatelo appassire leggermente e mettetelo da parte. Ci farcirete il panino solo quando si sarà raffreddato. Sarà l’elemento agrodolce di contrasto che andrà ad equalizzare la parte grassa del tonkatsu.
L'ASSEMBLAGGIO DEL SANDWICH
Abbiamo tutta linea pronta, gli ingredienti sono disposti sul piano di lavoro, le cotolette sono ancora roventi e non ci resta che assemblare il tutto. Prendete una fetta di pane, già imburrata e scaldata, spalmatela con la salsa e aggiungete il cavolo cappuccio acidulato, la cotoletta bella calda, un altro pochino di salsa e chiudete con l’ultimo strato di pane. Tenete a freno le manacce e non schiacciate niente, avvolgete delicatamente in un foglio di carta oleata il rettangolo farcito e tagliatelo a metà, quindi servitelo in un vassoio con la parte del taglio rivolta verso l’alto. E filate subito a prepararne un altro perché i vostri commensali ne vorranno ancora.
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Gianfranco Lo Cascio
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L'utente è
DEIEZIONE
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Seguo rubrica a cura di Emiliano Nencioni
Spiego meglio, per quelli dell’ultimo banco: la captatio benevolentiae è un diabolico espediente retorico usato per cercare di ingraziarsi velocemente i lettori, con lusinghe neanche troppo velate, non lontane dalle odierne tecniche di copywriting seduttivo di cui sarete stati vittime qualche volta pure voi (“Solo i clienti più esperti e di classe come te potranno davvero comprendere la qualità di questo prodotto e la fenomenale portata
MARTIN HEIDEGGER di questa offerta a tempo limitatissimo”, tanto per fare l’esempio più banale che si possa pensare). La captatio malevolentiae menzionata nel titolo invece tende, in maniera del tutto controproducente e inutile (non mi sono mai serviti stratagemmi e sofismi per rimanere sulle scatole alla maggioranza di voi) a irritare il lettore e a porlo da subito sul piede di guerra; è tuttavia proprio quello che in questo momento mi serve per farvi intraprendere la lettura di questa Seguo un po’ difficilotta e cervellotica ma che, mi auguro, chiarirà e giustificherà l’irriverente esordio mensile, posto in alto a caratteri sfrontatamente cubitali dal nostro grafico Carlo, che come ogni volta si ricorderà di rispettare le mie indicazioni su impaginazione, corsivo e grassetto per non incorrere in feroci reprimende. Sì, sono esigente e per la Seguo esigo un certo impatto visivo. Per comprendere, o tentare di farlo, dobbiamo ripassare brevemente i fondamentali sul filosofo Martin Heidegger, noto anche come “quello tedesco che non si sa dove va l’accento”. Per prima cosa, Heidegger, che era un esistenzialista, preferiva indicare l’essere umano come l’esserci, nel senso di esser-ci, essere-nel-mondo, in continua relazione e interazione con gli altri; questa situazione (mondo) di costrizione all’agire insieme e per causa degli altri è riassunta nel concetto di gettatezza, visto che l’esserci è gettato nel mondo indipendentemente dalla sua volontà. Anche l’utente del social network è gettato nel calderone di interazioni con sconosciuti. A parte non rari ma esecrabili casi di utenti-silenti iscritti solo per pubblicare foto di portaceneri, tramonti, bicchieri di birra e piedi al mare, con la foto profilo scattata in auto durante l’ennesima pausa semaforica, ogni utente in un gruppo di interesse è inevitabilmente
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“Captatio malevolentiae palese”, mi sono detto pensando al titolo della Seguo di questo mese, inventandomi lì per lì una figura retorica banalmente ispirata alla più nota captatio benevolentiae. Diligentemente, come sempre per evitare figure barbine davanti ai miei sei lettori superstiti, ho tentato una veloce ricerca e… delusione: non ho inventato io questa espressione. Non volendo, rischiavo di far passare per farina del mio sacco il frutto della creatività altrui, in questo caso del professor Umberto Eco, che nel suo libro “A passo di gambero” ne parla divertito. Divertito perché anche al professore è successa la stessa cosa, proprio sulla stessa captatio di cui sopra: evidentemente anche Eco, oltre al sottoscritto, aveva i suoi brevi momenti di banalità. Con un colpo di reni di ingegno e fantasia però svicola e giustifica questo involontario furto con una digressione sulla poligenesi letteraria, fenomeno che si ha quando la stessa idea viene a persone diverse, in luoghi diversi, nello stesso tempo.
forzato a interagire, a presentarsi, a dare un’immagine (non necessariamente veritiera) di sé e a difendere le proprie posizioni: indipendentemente dalla sua volontà di mostrare come è stato in grado di cuocere una bistecca o di rielaborare una aglio olio e peperoncino, dovrà interconnettersi con domande, accuse e richieste dei suoi pari.
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Un utente completamente silente, afono e che presentasse solo foto e scarne didascalie, senza una descrizione, un confronto con gli altri, un’attitudine al contraddittorio, sarebbe ben poco piacevole in una community come quella di BBQ4All, tant’è vero che abbiamo deciso di non approvare affatto la pubblicazione di post muti o irrilevanti ai fini di uno scambio di idee. So bene che per alcuni letto-
ri essere privati del piacere di postare il gatto accanto al kettle o il figlio con la pinza da griglia in mano (“piccoli griller crescono”, e giù reactions di cuoricini) possa rappresentare una cocente delusione; provate a prenderla un po’ come lo scotto da pagare per l’adesione a un gruppo con un certo livello di contenuti. L’esserci, l’ente che nel nostro caso in esame si è iscritto a Facebook, incontra, nella sua gettatezza, le prime rogne nel raffrontarsi al mondo: “si è sempre fatto così, non si dice, non si fa, si deve mettere il guanciale, sotto le quattro dita non si chiama bistecca”: la dittatura del Si. Non del sì con l’accento che si contrappone a no, ma di quel si impersonale e irresponsabile, la particella pronominale garanzia di inautenticità e omologazio-
ne. Come si fa ad obiettare, se si fa così? Se non si deve mettere, lo dice Coso, un motivo ci sarà. Molto comodamente, il si decide per noi, con la tranquillità di non doversi prendere nessuna responsabilità personale. Ah beh, Verfallenheit! E’ questo che succede al nostro povero esserci non ancora iscritto alla Mail Class di BBQ4All: il si dice tipico della quotidianità anonima domina sulla chiacchiera, sul sapere inconsistente, sull’equivoco e sui falsi miti; la gettatezza in questa dimensione inautentica trasforma l’esistenza - sempre secondo Heidegger, io non mi permetterei mai di insinuare, figuriamoci - in deiezione, traduzione/adattamento dal tedesco Verfallenheit.
Ed è nella deiezione, quando proprio siamo nella Verfallenheit fino al collo per intenderci, che non c’è un’autentica comprensione (dei fatti, dei motivi, della verità), ma solo un adeguamento alle convenzioni (si è sempre fatto così!), portate avanti dalla chiacchiera, dall’equivoco. Questo è quanto di più lontano alla mission storica della Community BBQ4All: abbiamo sempre lottato per darvi un metodo, per farvi capire le cose giustificando il tutto con basi scientifiche, dati alla mano, risultati tangibili e replicabili ogni volta. Non abbiamo mai propugnato il nostro inautentico “si fa così perchè si deve fare” alzando la voce, usando toni super testosteronici, indossando occhiali a specchio sempre più grandi per aumentare il coolness factor, carisma e sintomatico mistero, non abbiamo mai detto “è così e zitti”.
- “Devi portare rispetto alla mia esperienza ventennale di denigratore di bacon! Nessuno può permettersi di contestarmi in pubblico! Adesso perlustro il tuo profilo e cerco una foto o un comportamento da stigmatizzare qui davanti a tutti, per testimoniare a tutti gli iscritti che non accetto di essere smentito e ristabilire il mio ruolo autorevole!” - “Intendevo solo dire che il tuo esserci soffre la dittatura del si e sguazza nella Verfallenheit.” - “Stai citando l’ultima puntata di Neon Genesis Evangelion, adattamento italiano a cura di Gualtiero Cannarsi?” - “No, l’ho letto sulla Seguo.” * Denigratore di Bacon ha lasciato la chat *
Quindi, tornando al titolo, sì, l’utente è deiezione: almeno fino a quando non abbandona la dimensione inautentica della chiacchiera e la dittatura del si. - “Ieri ho messo il bacon nella carbonara” - “Guai a te! non si fa! Non è carbonara!” - “Ma a me pareva proprio carbonara” - “Non si deve mettere il bacon, serve il guanciale!” - “Ma questo in base a cosa? - “Si è sempre fatto così!” - “Ma chi te l’ha detto?” - “Si è sempre detto e scritto che ci va il guanciale!” - “Tu sei innegabilmente deiezione.”
Insomma, Martin Heidegger consigliava a tutti di iscriversi alla Mail Class di BBQ4All.
C’è un rimedio? Possiamo sperare di recuperare i nostri amici griller sprofondati nella deiezione, o quanto meno non pestarla noi stessi? Bella domanda. Martin Heidegger non è di molto aiuto in questo campo, anche perché essere un filosofo tedesco negli anni ‘40 poteva avere implicazioni politiche diciamo “inducenti distrazione”, ma il baffuto esistenzialista ci indica il concetto di Cura, inteso come il prendersi cura e l’aver cura, come conseguenza dell’essere-nel-mondo. La Cura è la preoccupazione verso il contesto in cui si realizza il proprio essere: restringendo il campo al nostro modestissimo “mondo di griglie”, possiamo facilmente dire che possiamo combattere la gettatezza e non sprofondare nella deiezione solo allontanandoci dal sentito dire, dai metodi della nonna, dalle tradizioni regionali incistite, dalle chiacchiere, e dedicandoci all’approfondimento, allo studio, all’approccio critico e ripulito da pregiudizi e sovrastrutture inutili.
Fare e cose alla bell’e’meglio, ogni tanto, può essere un passatempo piacevole o un modo per rilassarsi, ma mi sentirei di diffidare di chi (e la cosa può essere facilmente estesa fuori dal mondo del grilling), sistematicamente, spinge a non studiare, a non documentarsi, a non evolversi, a non chiedersi il perché delle cose e ad andare beceramente dietro a chi urla più forte, a chi mette più emoji nei post, a chi fa leva sulle caratteristiche più esecrabili di tutta ‘sta gran gettatezza di deiezione.
Emiliano Nencioni
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Non proprio, ok. Credo tuttavia che basarsi su uno studio dall’approccio scientifico e sperimentale sia un’occasione di crescita personale molto più ricca dal seguire i precetti di una persona perchè “ha tanta cenere alle spalle” (sbagliare innumerevoli volte non fa di te un esperto), perchè ha la barba più lunga, i toni più aggressivi, lo stipendio più alto o i dispositivi più costosi.
182 - Almanacco 2020
ZABUTON DI WAGYU
GLC TOP SELECTION
N°15/ANNO 2 - MARZO 2020
MAGAZINE
LA RIVINCITA DEL
POLLO il Galletto glassato, le Alette
croccanti e i Nuggets fatti in casa
LA RICETTA SCIENTIFICA
IL RA GÙ di Gianfranco Lo Cascio
SPECIALE CUCINA ORIENTALE
LA CINA dai jiaozi all' anatra laccata cotta al barbecue
DISPOSITIVI E ACCESSORI
IL WOK
184 - Almanacco 2020
ragù
Editoriale di Gianfranco Lo Cascio
La Santa Inquisizione del
ALLA BOLOGNESE e di altri condimenti eterodossi
Quante volte mi è capitato di assistere a processi per un piatto di pasta. Non per pozioni magiche o negromanzia, macché, io stavo solo preparando ‘na carbonara. Eppure quasi mi pareva di sentire odore di bruciato, e non era mica il guanciale. Era il fuoco che certi provavano e provano ad appiccare sotto i miei piedi. Mi prendono in giro loro, mi osteggiano. Ma io non mi spavento eh, piuttosto muoio da incendiario. Proprio con i talloni mezzi bruciacchiati e la camicia pregna di fumo, per questo numero di Marzo voglio entrare
nel tempio del ragù e rovesciare le pentole. Ma prima di lanciarmi nell’invettiva e seminare panico e scompiglio, lascio parlare la tradizione, è pur sempre (e solo) il punto di partenza, giusto?
IL RAGÙ NAPOLETANO
Il diretto antenato del ragù è un piatto della cucina popolare medievale provenzale risalente al XIV secolo chiamato “ daube de boeuf”: si trattava di uno stufato di carne di bue mescolato a verdure e cotto lungamente in un recipiente di creta. La ricetta arriva nelle cucine napoletane solo intorno al XVIII secolo con il regno di Ferdinando IV di Borbone, periodo in cui vi fu una grande influenza della cultura e della moda francigena a corte. Molti piatti napoletani, infatti, presero il nome dalle “storpiature” delle pietanze francesi, come appunto il ragù (ragout), o il gattò (gateau), e ancora il sartù (surtat). Fu proprio Maria Carolina d’Asburgo-Lorena, moglie di Ferdinando IV, a introdurre nelle cucine dei palazzi nobili la moda dei cuochi transalpini, arricchendo le mense
con questo sontuoso piatto a base di carne di manzo o vitello di prima qualità, ma ancora scevro di pomodoro. È la penna di Vincenzo Corrado ne “Il cuoco galante” del 1773 a scrivere per la prima volta la parola “ragù”. Con questo nome, di chiara derivazione francese, non descriveva di certo il famoso condimento per la pasta, ma una pietanza a se stante che oggi potremmo paragonare a uno spezzatino o a un brasato. Il piatto prevedeva una prima rosolatura in burro, lardo o olio, poi una cottura in brodo o vino con ortaggi ed erbe aromatiche. Spesso si aggiungeva a fine cottura succo di limone, o più raramente aceto, per incrementare l’acidità del piatto. Il ragù veniva utilizzato perlopiù per insaporire altre vivande, oppure per formare un ripieno. Di certo non veniva associato alla pasta, insomma. Nella mastodontica opera in sei volumi di Francesco Leonardi, autore de “L’Apicio moderno”, stampato per la prima volta
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Nel 1179 e negli anni a venire, chiunque promulgasse o mettessi in pratica qualsiasi forma di devianza teologica, morale o di costume veniva condannato a tutta una serie di cose sgradevoli. E quando l’eretico, il deviato cioè, proprio non ne voleva sapere di piegarsi all’abiura, allora veniva legato ad un palo e sistemato su abbondanti fasci di legname e paglia.
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a Roma nel 1790, troviamo i Maccaroni alla Napolitana, un piatto di pasta con un condimento simile all’attuale ragù alla napoletana, ma in una forma piuttosto grossolana: dopo la cottura in acqua i maccheroni venivano conditi con formaggio stagionato, pepe e sugo di vitello o manzo, poi fatti riposare sopra la cenere calda e serviti. Fondamentale ricordare che tra la prima e la seconda edizione del ricettario Leonardi inserisce un passaggio importantissimo per la storia della gastronomia, ovvero la possibilità di aggiungere il sugo di pomodoro alla carne stufata. Qualche anno più tardi nel ricettario “La cucina casereccia” stampato a Napoli e firmato con le sole iniziali M.F. si potrà leggere dell’archetipo del ragù napoletano: i maccheroni lessati e cosparsi di formaggio
grattugiato si condiscono “con buon brodo di ragù, dove sieno stati cotti i pomidori”. Nella ricetta il sugo si prepara con un grosso pezzo di manzo steccato con prosciutto e chiodi di garofano, fatto rosolare con cipolla, prosciutto, lardo ed erbe aromatiche e infine cotto nel brodo con l’aggiunta di pomodoro. Il “ragù” rimarrà ancora per molto tempo un piatto di carne stufata, lo ritroveremo anche nel libretto della Bohème di Puccini. Per condire la pasta si utilizzava quindi solo il condimento, mentre la carne veniva mangiata a parte, come un secondo. La ricetta ricomparirà nella “Cucina teorico pratica” di Ippolito Cavalcanti del 1837, il ricettario napoletano più famoso di sempre, ma solo nel Novecento il pomodoro
entrerà di diritto nella lista degli ingredienti imprescindibili. Contemporaneamente compariranno le prime varianti, come quella che prevede un’aggiunta di carne di maiale, inizialmente non contemplata (Azz!). “Da quanti se coli, ogni domenica, come la messa sugli altari, ricorre il ragù sulle mense napoletane? Fin dalle primissime ore del mattino un tenero vapore si congeda dai tegami di terracotta… Il cielo di Napoli presiede alle sorti del ragù, perché il ragù non si cuoce ma si consegue, non è una salsa ma la storia e il romanzo e il poema di una salsa… In nessuna fase della cottura deve essere abbandonato a se stesso; come una musica interrotta e ripresa non è più una musica, così un ragù negletto cessa di essere un ragù e anzi perde ogni possibilità di diventarlo.”
E dopo il racconto ricco di minuzie sulla genesi del ragù partenopeo, eccovi scodellata la “ricetta vera e autentica del ragù classico bolognese tramandata ai posteri dal dott Nuvoletti Conte Giovanni“. Leggete bene. “Nel 1982, Domenica diciassette Ottobre alle ore tredici e quindici minuti, a Bologna, presso l’Hotel Royal Carlton via Montebello n 8 è stato stilato un verbale davanti al Dott Aldo Vico di Bologna Presenti il prof Zangheri di Rimini, il dott Nuvoletti Conte Giovanni, Il prof. Cetrullo Carlo. Il prof Cetrullo Carlo, nella anzidetta sua qualità, dichiara che la Delegazione Bolognese d e l l a Ac c a d e m i a d e l l a Cucina ha voluto, avviando indagini lunghe e laboriose, promuovendo e realizzando indagini di natura storica, sociale, d’ambiente, mercantile, turistica e folcloristica, nonché indicendo pubblica consultazione a mezzo del giornale quotidiano aperta ad ogni strato sociale dell’intera popolazione della città di Bologna
AC C E R TA R E Onde tramandarla ai posteri, la ‘ricetta vera ed autentica , classica e tradizionale del ‘Ragu Classico Bolognese’. A tale scopo sulla scorta degli esiti delle indagini, degli studi, delle ricerche, dei risultati della pubblica consultazione di cui sopra si è detto che hanno tenuti ben presente: Le peculiari caratteristiche di questa salsa in rapporto alle abitudini ed alle possibilità agricolo-alimentari dei nostri predecessori La qualità dei componenti, comuni ed economici, che erano reperibili nelle nostre zone; La qualità degli utensili, ed il conseguente metodo di cottura, di normale impiego nelle famiglie del passato; I ricordi, gli insegnamenti e le tradizioni dei nostri vecchi; Il costante riferimento a rigorosi criteri di classicità e di fedeltà al passato; la delegazione Bolognese della Accademia Italiana della Cucina SOLENNEMENTE DECRETA Che la Ricetta del ‘Ragù Classico Bolognese’, la cui fama, oltre ad essere universale, è secolare, tanto da perdersi nella Storia per sconfinare nella Leggenda, è la seguente: Componenti e Quantità Cartella di manzo g 300 (diaframma n.d.r.) Pancetta distesa g 150 Carota gialla g 50 Costa di sedano g 50 Cipolla g 30 Salsa di pomodoro Cucchiai 5 Vino bianco secco bicchiere 1/2 Latte intero bicchieri 1 Utensili necessari Tegame di terracotta circa 20 cm di diametro Cucchiaio di legno Coltello a mezzaluna
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IL RAGÙ ALLA BOLOGNESE
PROCEDIMENTO Si scioglie nel tegame la pancetta tagliata a dadini e tritata con la mezzaluna; si aggiungono le verdure ben tritate con la mezzaluna e si lasciano appassire dolcemente; si aggiunge la carne macinata e la si lascia, rimescolando sino a che sfrigola; si mette 1/2 bicchiere di vino ed il pomodoro allungato con poco brodo; si lascia sobbollire per circa due ore aggiungendo, volta a volta, il latte e aggiustando di sale e pepe nero Facoltativa, ma consigliabile, l’aggiunta, a cottura ultimata, della panna di cottura di un litro di latte intero. Tale preparazione, decreta infine la Delegazione Bolognese della Accademia Italiana della Cucina, è la più aderente alla formula che garantisce il gusto classico e tradizionale del vero Ragù Bolognese, quello che da secoli si fa, si cuoce, si serve e si gusta nelle Famiglie, nelle Trattorie, e nei Ristoranti della Dotta e Grassa Bologna.”
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IL RAGÙ STELLATO
Sul suo è atterrata una cometa, più che una stella. Voglio parlarvi della versione di Massimo Bottura, lo chef dell’Osteria Francescana di Modena, l’uomo che riuscirebbe a cucinare l’impossibile, il cuoco alchimista che trasforma in oro quello che gli altri buttano via. Ebb ene Chef Bottura vi suggerisce di: Non macinare la carne. Il ragù è più saporito se i pezzi di carne sono grandi. Casomai li tagliate dopo la cottura. Non mettere i pomodori. L’avete sempre fatto? Bene, avete incon-
sapevolmente provocato uno “scontro di sapori”. “L’aggiunta del pomodoro è una cosa recente, risale a 50 anni fa” dice Bottura, e non è stata certo una pensata modenese: “L’Emilia non è una regione vocata alla produzione di pomodoro”. Non mettere l’aglio. Fuorviante e praticamente sconosciuto alla tradizione emiliana. Non mettere gli odori. Due foglie di alloro e un rametto di rosmarino al massimo. Prima di impiattare vanno assolutamente eliminati. Non mettere la salsiccia. O meglio, considerarla un orpello superfluo. Per la precisione: niente salsiccia di maiale con le carni bianche, meglio allora di pollo o coniglio. Usare pasta all’uovo e non secca. Lo richiede la tradizione, e non a caso, la mantecatura viene decisamente meglio. È cruciale cuocere la pasta dentro il ragù a fuoco medio. Necessaria una spolverata di Parmigiano Reggiano. La stoccata finale? “Si può usare pollo o coniglio invece di vitello e manzo, oppure piccione e anatra!” Capìta l’antifona?
IL “QUASI RAGÙ” DEL PROFESSORE DARIO BRESSANINI
Si fa chiamare “Chimico di quartiere”, ma per tutti noi è un riferimento autorevole quando si parla di scienza applicata alla cucina (e non solo). Il ragù by Bressanini si prepara partendo da queste proporzioni: 40% di salsiccia di maiale, 30% di vitello e 30% di manzo, per un totale di 1,250 kg di carne. Il Soffritto? Cipolle + Carote + Sedano, ovvero 70% di cipolla
e scalogno, 15% di sedano e 15% di carote. Burro: 55 grammi, da aumentare o ridurre al gusto Aglio: 2/3 spicchi per ogni kg di ragù. Aromi: qualche foglia di alloro fresco. Latte: quanto ne servirà (circa un litro). Vino: 1 bicchiere di bianco Un tubetto di triplo concentrato. Il procedimento? Si rosola la carne e si stufano le verdure con il burro, in due pentole separate, per estrarre il massimo delle molecole aromatiche dagli ingredienti e per innescare la reazione di Maillard, in assenza di umidità. Poi si unisce il triplo concentrato al macinato miscelato al trito, si aggiungono latte ed aromi e si lascia cuocere per parecchie ore, dolcemente.
IL MIO RAGÙ SCIENTIFICO
Ho scelto degli ingredienti diversi rispetto a tutti i protocolli descritti, ho calibrato le dosi in maniera differente e ho approntato un procedimento con un’identità tutta sua. È il mio piccolo contributo alla storia di questo piatto, con la speranza che vi renda felice o almeno sollevati, in un momento storico poco piacevole per tutti e che ci costringe a trascorrere molto tempo in casa. Tr ova t e t u t t o d e s c r i t t o maniacalmente nella rubrica “La ricetta scientifica”, tutti i passaggi spiegati in maniera cristallina e il ragionamento che c’è dietro. Non saltate le pagine però, c’è tanto da leggere e imparare in questo numero del BBQ4All Magazine. (Segue a pagina 82)
Portfolio gastronomico a cura di Roberto Dal Bosco
la cucina
Cinese
Questo antico proverbio cinese proviene dall’Hanshu (il Libro dei primi Han), un’opera storica compilata nel secondo secolo. Sbaglierebbe il lettore che lo volesse associare al piacere epicureo, all’edonismo culinario. Ciò non è esattamente quel che originariamente dichiarava il detto. Il paradiso ( ) indicato qui non era visto come una sorta di Eden ideale ma come una forza suprema: il cielo, sotto alla cui legge è sottoposto ogni essere umano. In altre parole, per la maggior parte delle persone che vivevano in Cina a quel tempo, niente era più importante che avere abbastanza da mangiare. Il cibo era una forza primaria, una forza celeste.
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per le persone, il cibo è il paradiso.
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La leggenda narra che la cultura della cucina cinese ebbe origine nel XV secolo a.C. durante la dinastia Shang e fu originariamente introdotta da Yi Yin, il primo ministro. Se così stanno le cose, questa cultura gastronomica ha almeno 3.500 anni. La preferenza per il condimento e le tecniche di cottura delle province cinesi dipendono dalle differenze storiche e dall’influsso dei gruppi etnici, e immaginate che la Repubblica Popolare Cinese oggi ne riconosce ufficialmente ben 56. La Cina possiede inoltre una varietà estrema di geografie:
montagne, fiumi, foreste e deserti hanno anche un forte effetto sugli ingredienti locali disponibili; il clima della Cina varia da tropicale a sud a subartico a nord-est. A causa della storia di espansione del Celeste Impero, gli ingredienti e le tecniche di cottura di altre culture sono integrati nel tempo nelle cucine cinesi. Il sale veniva usato come conservante sin dall’antichità, ma è noto che per aggiungere il sapore salato qui si usi soprattutto la salsa di soia. Parimenti iconica è la predominanza delle bacchette come utensili per mangiare. Ciò è
in realtà anche una dichiarazione culinaria: un cibo da bacchette richiede anche che la pietanza sia preparata in pezzi di dimensioni ridotte e che sia tenera al punto di non necessitare l’uso del coltello. Le Quattro principali cucine, a cui si riferisce con l’espressione Sì dà càixì ( ), rappresentano i quattro antichi ceppi della tradizione alimentare. Sono la Chuan (della regione del Sichuan), la Lu (dello Shandong), la Yue (la cucina cantonese) e la Su (del Jiangsu; talvolta identificata con la sua variante
Cina: Anhui ( ), Cantonese ( ), Fujian ( ), Hunan ( ), Jiangsu ( ), Shandong ( ), Sichuan ( ) e Zhejiang ( ). Come vedete, torna sempre la parola cài ( ), che va letta tsai. Tale sillaba sta a significare, in origine, la verdura; oggi indica le diverse cucine cinesi. Ma niente paura: nonostante qualche passione vegetariana da parte dei religiosi, ai cinesi non è mai mancata la passione per la ciccia. Pensate che nel periodo Han (II secolo), alcuni scrittori già si lamentavano spesso di come i pigri aristocratici non facessero altro che sedersi per tutto il giorno a mangiare carne e arrosti affumicati.
FILOSOFIA CULINARIA
La cucina in Cina non nasce solo dal cibo: nasce dalla filosofia. La filosofia alla base secondo alcuni è radicata nell’I Ching (il libro dei mutamenti tramite il quale qualche vostro amico ha provato a leggervi il futuro) e nella medicina tradizionale cinese: il cibo era giudicato per colore, aroma, gusto e consistenza e ci si aspettava che un buon pasto bilanciasse le Quattro Nature (caldo, tiepido, fresco e freddo) e i Cinque Sapori (pungente, dolce, acido, amaro e salato). Le due scuole di pensiero dominanti della cultura cinese hanno entrambe avuto grandissima influenza sulla storia politica ed economica del paese, ma è meno noto come esse abbiano impattato anche sullo sviluppo delle arti culinarie.
Oggi dunque si parla delle moderne Otto Cucine della
Confucio sottolineò gli aspetti artistici e sociali della cucina e del cibo. I cinesi non si riuniscono senza che sia coinvolto cibo ed è considerata una cattiva etichetta invitare gli amici a casa senza fornire cibo adeguato. Confucio stabilì altresì gli standard di cucina e di etichetta a tavola, la maggior parte dei quali rimane fino ai giorni nostri. L’esempio più ovvio è il taglio di pezzi di carne e verdure di dimensioni ridotte durante la preparazione del cibo, piuttosto che usare un coltello a tavola, che non è considerato educato. Il filosofo inoltre incoraggiò la miscelazione di ingredienti e aromi per la creazione di un piatto coerente, rispetto all’assaggiare i singoli
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subregionale Huaiyang), che rappresentano rispettivamente le cucine della Cina occidentale, settentrionale, meridionale e orientale. «Da una prospettiva a lungo termine sembra abbastanza chiaro che almeno fino alla spinta della globalizzazione che ha soffiato sulla Cina verso l’alba del terzo millennio, la continuità era più forte del cambiamento» scrive Thomas O. Höllmann nel suo The Land of the Five Flavors, The Culture History of Chinese Cuisine.
Un segno indelebile su tutte le cose umane lo ha lasciato il saggio , detto comunemente Confucio (551–479 a. C.). Al momento dell’arrivo di Confucio nel periodo storico detto degli Stati Combattenti (che va dal 453 a.C. al 221 a.C), la cucina era già una forma d’arte stabilita. Il saggio seppe portarvi la sua ferrea etica cosmica. Negli Analetti (dialoghi) di Confucio, al capitolo VI verso 8, è possibile leggere: «Il riso non dovrebbe essere mai troppo bianco, la carne non dovrebbe essere mai tagliata troppo finemente... Quando non si è cucinato bene, l’uomo non dovrebbe mangiare. Quando si è cucinato male, l’uomo non dovrebbe mangiare. Quando la carne non viene tagliata correttamente, l’uomo non dovrebbe mangiare. Quando il cibo non è preparato con la salsa giusta, l’uomo non dovrebbe mangiare. Sebbene ci siano molte carni, non dovrebbero essere cotte più del cibo base». Perle di saggezza, a cui aggiungiamo questa, che ha sapore vagamente lapalissiano: «Non c’è limite per l’alcol, prima che un uomo divenga ubriaco». Grazie al...
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componenti. Per il saggio l’armonia era la priorità. Così come nel suo pensiero sociale, anche per l’arte culinaria egli insegnava che senza armonia degli ingredienti non poteva esserci gusto. Mise dunque l’accento sull’importanza della presentazione e sull’uso del colore, della consistenza e della decorazione di un piatto. Soprattutto, con Confucio la cucina è diventata un’arte invece di una brutta funzione da espletare, e sicuramente egli ha contribuito a diffondere la filosofia del vivere per mangiare piuttosto che del mangiare per vivere.
C’è anche il Tao, l’altro grande filone filosofico del Celeste Impero. Ha incoraggiato la ricerca sugli aspetti nutrizionali del cibo e della cucina. Invece di concentrarsi sul gusto e sull’aspetto, i taoisti erano più interessati alle proprietà vivificanti del cibo. Il taoismo contribuì a scoprire le proprietà salutari di ogni sorta di radici, erbe, funghi e piante. Molti sacerdoti taoisti consideravano la loro dieta estremamente importante per la propria salute fisica, mentale e spirituale, specialmente per quanto riguarda la quantità di qi ( , a volte traslitterato
anche come ch’i) nel cibo: il qi, come noto, si ritiene che sia una forza vitale che fa parte di qualsiasi entità vivente, e lo potete tradurre anche come energia materiale, o flusso di energia. L’invenzione del tofu alimentare è stata attribuita a un taoista. La letteratura religiosa taoista spesso incoraggia i praticanti a divenire vegetariani per ridurre al minimo i danni, perché tutte le forme di vita sono considerate senzienti. Una forma di digiuno taoista chiamata bigu, secondo la tradizione sarebbe in grado di conferire la trascendenza,
l’immortalità e la capacità di vivere senza nutrirsi, assorbendo solo l’energia cosmica del qi. Tuttavia pare che lungo i millenni i cinesi non abbiamo dato troppo retta a queste fisime del clero, altrimenti non avremmo quel trionfo di sapore e di abbondanza che è la storia della cucina cinese. E anzi, aggiungiamo che un terzo filone del pensiero sinico, quello buddista, raffigura spesso la gioiosa pienezza del Budda con una panza importante, volumetricamente superiore a quelle che capita di incontrare ai corsi Grill to Perfection (per esempio: la nostra). La pancia piena è sacra. Crediamo possa costruirsi una religione sincretica su questo.
LE QUATTRO PRINCIPALI CUCINE
il Delta del Fiume delle Perle). La sua importanza fuori dalla Cina è dovuta al gran numero di emigranti di questa regione; è risaputo che il cantonese divenne, ad esempio, la lingua franca dei cinesi emigrati negli ultimi secoli negli USA. Gli chef addestrati nella Yue sono rari e quindi molto ricercati in tutta la Cina. Fino a poco tempo fa, la maggior parte dei ristoranti cinesi in Occidente serviva in gran parte piatti cantonesi. Questa cucina utilizza molti metodi di cottura, tra cui il vapore e la frittura, che risultano favoriti per le loro praticità e rapidità. Altre tecniche includono frittura superficiale, doppia cottura a vapore, brasatura e deep frying. Per molti cuochi tradizionali cantonesi, i sapori di un piatto dovrebbero essere ben bilanciati e mai grassi; le spezie dovrebbero essere usate in modeste quantità per evitare di schiacciare i sapori degli ingredienti primari e questi ultimi a loro volta dovrebbero essere al culmine delle loro freschezza e qualità. In aperto contrasto con altre cucine orientali, non c’è un uso diffuso di erbe fresche nella cucina cantonese. Tra i piatti forti troviamo: (Maiale macinato al vapore con uovo di anatra salato), (una sorta di brisket stufato), , (costine al vapore con fagioli neri fermentati e peperoncino) e, se proprio non li conoscete, il (maiale in agrodolce) e l’eterno, ineludibile – il riso alla cantonese.
La cucina cantonese (detta yuè cài) ha origine a Canton (Guandong) e nei territori limitrofi (Macao, Hong Kong,
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Come scrivevamo sopra, sono numerosi gli stili che possiamo considerare in quel palazzo senza uscite che è la cultura gastronomica cinese, tuttavia gli stili più noti e influenti sono la cucina cantonese, quella dello Shandong, quella del Jiangsu e la cucina del Sichuan. Questi stili si sono differenziati nei secoli a causa della diversa disponibilità di risorse, del diverso clima, della diversa geografia (la Cina è praticamente un continente a sé), la diversa storia, le diverse tecniche di cottura e il differente modo di vivere. Uno stile può favorire l’uso di aglio, su peperoncino e spezie, mentre un altro può favorire la preparazione di frutti di mare rispetto alla carne.
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La cucina dello Shandong (detta ) rappresenta uno degli stili più influenti nella storia culinaria della Cina. Si dice che la maggior parte degli altri si sia sviluppata da essa. Le scuole di cucina moderne nella Cina del Nord (Pechino, Tianjin e le regioni nord-orientali) sono considerabili rami del grande albero della Shandong, e i pasti nella maggior parte delle famiglie della Cina settentrionale sono in genere preparati usando metodi semplificati di questo stile. Sebbene il trasporto moderno abbia aumentato la disponibilità di ingredienti in Cina, la cucina Shandong rimane radicata nella tradizione. È nota per la sua varietà di frutti di mare, tra cui capesante, gamberi, vongole, cetrioli di mare e calamari. Viene prestata massima attenzione alla materia prima, anche perché la Shandong è memore degli Analetti di Confucio, che era cittadino dello stato di Lu un tempo contenuto nella regione di Shandong: «Non consumare alimenti che sembrano viziati, con odori viziati, fuori stagione,
macellati in modo improprio o non preparati con il giusto condimento». Alcuni la considerano come una cucina vicina a quella giapponese. Del tutto particolare è il suo uso del granturco, servito fritto o al vapore, in genere in forma gommosa. Piatti diffusi sono la , la carpa in agrodolce, , cetriolo di mare con cipollotto, , intestino di maiale in salsa, , gamb eri saltati e d il famoso , il pollo brasato croccante. La cucina del Jiangsu (detta anche ) ama brasati e stufati. Si concentra molto sulla temperatura di cottura: in generale, la consistenza delle sue pietanze è caratterizzata dalla morbidezza, ma fino ad un
La cucina del Sichuan ( ), che domina l’omonima provincia, ha sapori audaci, ed è universalmente temuta in particolare per la piccantezza derivante dall’uso massivo di aglio e peperoncino, nonché del pepe del Sichuan ( , il «pepe fiore»). Il piccante, detto in mandarino là ( ), trova in Sichuan una sua mistica celebrata ben oltre i confini della Cina. Ci sono molte varianti locali in questa provincia e nel vicino comune di Chongqing (la più grande megalopoli al mondo con oltre 40 milioni di abitanti), che faceva parte della provincia del Sichuan fino al 1997. Quattro sottotipi di questa cucina includono gli stili Chongqing, Chengdu, Zigong e lo stile vegetariano buddista. Nel 2011 l’UNESCO ha dichiarato Chengdu, la capitale della provincia dello Sichuan,
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certo punto. Ad esempio, la carne deve essere tenera ma giammai al punto da separarsi dall’osso. Poiché lo stile della cucina del Jiangsu è praticato in genere vicino al mare, il pesce è un ingrediente molto comune. Altre caratteristiche includono la rigorosa selezione degli ingredienti in base alle stagioni. La zuppa è utilizzata come strumento per migliorare il sapore. Shanghai un tempo faceva parte della provincia del Jiangsu, da qui la somiglianza tra le due tradizioni, al punto che taluni ancora oggi considerano la cucina shanghaiese come parte della Su. Tra i piatti più noti: (costine brasate), (zuppa di carpa), gli (palline fritte con polpette di carne o verdura saltata).
capitale della gastronomia come riconoscimento alla raffinatezza della sua cucina. Il maiale è il tipo più comune di carne consumata qui, e la carne di manzo è un po’ più comune in questa cucina rispetto ad altre, forse a causa della prevalenza di bovidi nella regione. Questo stile utilizza volentieri vari organi bovini e suini come ingredienti: oltre alle porzioni di carne comunemente usate, intestino, arterie, testa, lingua, pelle e fegato. Anche la carne di coniglio è molto popolare, al punto che la provincia ne consuma il 70% di quella prodotta in Cina. Tra i piatti più noti: (da noi detto pollo Kung Pao), (anatra affumicata nel Tè), (maiale cotto due volte). Fra gli altri stili, ricordiamo la cucina dello Zhejiang che si concentra maggiormente sul servire cibi freschi ed è più simile al cibo giappones; la cucina del Fujian. famosa per i suoi deliziosi frutti di mare, per le zuppe e per l’uso preciso di spezie scintillanti; la cucina di Hunan, famosa per il suo sapore piccante; la cucina Anhui che incorpora cibi selvatici per un gusto insolito ed è più selvaggia di quella del Fujian.
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LA CARNE CINESE
I cinesi praticamente mangiano carne di tutti gli animali, come maiale, manzo, montone, pollo, anatra, piccione e molti altri. Il maiale è in assoluto la carne più consumata e appare in quasi tutti i pasti, al punto che il sottoscritto è tornato varie volte dalla Cina con caramelle di maiale, prontamente servite a chi suonava il campanello per il dolcetto o scherzetto
della vigilia di Ognissanti – il fatto che l’indomani le caramelle venissero ritrovate nel cassonetto non depone a sfavore del totalismo porcino della cucina cinese ma della generazione attuale, la quale non sa che con la cotenna di maiale fanno anche le caramelle gommose così popolari da noi. È emblematico il fatto che la parola usata per indicare la carne , possa essere utilizzata anche per significare il porco. La carne suina e quella bovina vengono utilizzate per piatti più tipici come i ravioli al vapore e alla griglia, o servita con i vari tipi di pasta. Bisogna notare che i cinesi raramente mangiano carne cruda. La preparano e la cucinano in vari modi. Ogni tipo di ciccia può essere bollita, fritta, in umido, arrostita, fatta in camicia, al forno o in salamoia. Con l’eccezione degli eventi buddisti, è inconcepibile una cerimonia che non serva proteine animali. Com’è noto, i cinesi hanno ampie vedute rispetto alle fonti animali. In centro a Pechino, tra le ondate di turisti, non è che gli scorpioni caramellati vengano nascosti; se ci si avventura invece nei mercati popolari – il più impressionante testimoniato dallo scrivente è il mercato di mezzanotte di Urumqi, nell’estremo occidente musulmano cinese – non si può non rimanere impressionati da larve, serpenti e scolopendre divorate sul posto.
IL CIBO, SERIAMENTE
«Se c’è qualcosa in cui noi facciamo sul serio, non si tratta della religione o dello studio, ma del cibo». Negli anni ‘30 lo scrittore cinese candidato due volte al Nobel
Lin Yutang (1895-1976) riassunse le aspirazioni culinarie dei suoi connazionali come denominatore comune nel suo libro Il mio paese e il mio popolo (1935) Di questa estrema serietà speriamo di aver dato qualche ragguaglio nelle righe qui sopra. Tuttavia, come è accaduto per l’articolone sulla cucina giapponese, terminiamo di scrivere con l’amarezza e la vergogna di chi sa di non aver scalfito nemmeno una percentuale minima di quello che ci sarebbe da dire. Per un altro episodio, promettiamo di trattare più approfonditamente le 8 scuole di cucina moderna, e raccontare altre vette paradisiache – o strambissime – di questa che potrebbe essere la cucina più antica della Storia dell’Uomo. Nel frattempo, posso consigliare una deliziosa variazione cinematografica sul tema, una pellicola dal titolo bellissimo Mangiare bere uomo donna, . Si tratta di un tenero, ironico film del regista taiwanese Ang Lee (La tigre e il dragone, Lust, I Segreti di Brokeback Mountain, Vita di Pi) che contrappone una storia di litigi familiari con scene squisite di genialità culinaria. Il titolo è una citazione dal Libro dei riti, uno dei classici confuciani, che si riferisce ai desideri umani di base e li accetta come naturali. La citazione recita: «le cose che gli uomini desiderano fortemente sono comprese nella carne e nelle bevande e nel piacere sessuale». Quando uno dice la saggezza cinese…
Speciale Cina - Intervista a cura di Andrea Spaggiari
I l c o n t r ar i o de l l 'Al l you c an eat si chi ama
Bon Wei
Se chiedete all’uomo della strada, la caratteristica che più spesso viene associata alla ristorazione cinese è un elevato rapporto qualità prezzo. Non è una generalizzazione valida per tutti i consumatori, certo, ma è innegabile che la grande presenza di esercizi commerciali che han fatto una scelta di posizionamento estremamente popolare ha portato a questo risultato. Noi, manco a dirlo, abbiamo scelto di puntare diretti all’eccezione andando
a intervistare uno dei titolari del ristorante Bon Wei a Milano, più volte riconosciuto come uno dei migliori d’Italia. E non lo abbiamo fatto in un momento qualsiasi, bensì nel pieno del tumulto dovuto alla diffusione del Coronavirus. Al di là degli effetti sulla salute umana, relativamente ai quali lasciamo la parola a chi è più titolato di noi per parlarne, questo virus ha in qualche modo messo a dura prova anche quella dei ristoranti.
Ben prima dell’arrivo del provvedimento che ha disposto la chiusura di molti locali pubblici in diverse zone del Nord Italia, infatti, si è constatato un progressivo “boicottaggio” di esercizi gestiti da persone di origine cinese. Una paura ingiustificata, ovviamente, che ha mostrato ancora una volta quanto “sensibile” sia in generale il settore della ristorazione – compresa quella alta di gamma – all’emotività dei consumatori.
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È uno dei ristoranti c i n e s i p i ù c o n o s c i u t i d ’ I t a l i a . S i trova a Milano, “Buon g u s t o ” è l a t r a d u z i o n e d e l n o m e e l’ispirazione che ha g u i d a t o i p r o p r i e t a r i n e l l a s u a creazione ormai die ci a n n i o r s o n o
Con Le Zhang, uno dei soci di Bon Wei, non abbiamo però parlato solo di questo. Anzi, abbiamo appreso come si fa a differenziarsi in un settore a dir poco affollato e di come si possa – e debba – adattare la propria proposta per incontrare i gusti di un pubblico sì internazionale, ma in gran parte non cinese. Non bastano infatti le capacità tecniche di eseguire correttamente una ricetta: una volta di più abbiamo l’occasione di ribadire che il successo passa per la sperimentazione e l’abilità di ascoltare i propri clienti. I ristoranti cinesi nel cuore di Milano non mancano, eppure Bon Wei sa differenziarsi per il notevole livello di qualità dei cibi e del servizio. Come si fa a spiccare in mezzo a tanta concorrenza? Quali sono i tratti salienti della vostra proposta?
Il ristorante è nato da una discussione avvenuta 10 anni fa tra me, mio padre e il nostro attuale socio. Avevamo all’epoca un locale a gestione famigliare a Padova e pensavamo che mancasse un ristorante di alto livello nel panorama della ristorazione cinese in Italia. La nostra idea era di proporre le cucine regionali, più autentiche e valorizzanti rispetto alla versione “classica”. Così, quando è nato, Bon Wei è stato il primo ristorante cinese in Italia ad annoverare un menù regionale. Continuiamo a credere che questo sia il modo giusto per rinforzare la nostra immagine e promuovere la nostra cultura culinaria, tant’è vero che anche recentemente abbiamo organizzato una serie di ben otto cene a tema, una per ciascuna delle principali regioni cinesi.
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Un’altra peculiarità della nostra
proposta è la continua ricerca dell’innovazione: rinnoviamo i piatti con una certa frequenza e proponiamo, caso piuttosto raro, un menu per il periodo estivo e uno per quello invernale. Non si può prescindere, inoltre, dall’eccellenza delle materie prime. Due esempi su tutti: ci approvvigioniamo di carne di Kobe A5 e Wagyu, che non sono di origine cinese ma meritano di fare un’eccezione, e il pesce che serviamo è tutto pescato all’amo. Queste scelte hanno ovviamente un impatto sui costi dei nostri piatti ma la nostra clientela è principalmente costituita da persone che riconoscono il valore di queste proposte. Ed è grazie ai ritorni dei clienti che siamo stati più volte identificati come il ristorante cinese migliore d’Italia. Sia chiaro, sappiamo di essere un caso particolare nel panorama della ristorazione cinese e non
vogliamo in nessun caso discriminare chi ha una strategia diametralmente opposta alla nostra, nella fattispecie la formula “all you can eat” praticata da molti connazionali. Penso non ci sia una proposta in assoluto migliore dell’altra: si tratta solo di scelte di posizionamento diverse. Sfogliando il vostro menù ci si trova a dover scegliere tra le pietanze della cucina classica e quelle della controparte “regionale”. Come aiutate la vostra clientela a orientarsi nella scelta? Facciamo subito una distinzione. I frequentatori assidui hanno piena fiducia in noi e ci danno praticamente carta bianca, mentre i clienti occasionali hanno ovviamente bisogno di essere guidati. In questo processo ci piace affidarci ad aneddoti e curiosità, che come si può immaginare non mancano per una cucina con origini cosi antiche. Un esempio: esiste una qualità di Tofu chiamata mala. È caratterizzato da una piccantezza così accentuata da renderla fastidiosa, proprio come… una suocera, a cui il termine si riferisce.
bevande possano essere un po’ anticonvenzionali. Cosa vi guida in questo processo? Partiamo dal dire che in carta abbiamo quasi 600 etichette. Tenendo ben presente che le bevande tradizionali cinesi sono il tè e la birra, è ovvio che non ci sono molte scelte “preconfezionate” e l’abbinamento corretto tra piatto e vino passa per la sperimentazione. Ogni preparazione nuova che mio padre concepisce, prima di essere messa in menu, viene ovviamente testata ed è proprio in questa fase che cerchiamo gli abbinamenti più convincenti. Io sono sommelier e di norma curo personalmente questa processo, ma come si può immaginare gli incidenti di percorso non mancano. La ricerca dell’equilibrio tra pietanza e bevanda, in ogni caso, è sempre il principio ispiratore e non si lascia nulla al caso. Questa operazione può rivelarsi particolarmente impegnativa per il menù del capodanno cinese: pensate che partiamo da una selezione di circa 50 piatti per arrivare a una carta di 10 e come è facile immaginare i giusti abbinamenti son tutt’altro che banali. BBQ4All Magazine è una rivista che tratta la cottura sul fuoco in tutte le sue forme e si trova spesso a trattare ricette di origine statunitense, ma questa volta ci sentiamo di fare un’eccezione. Ci racconti come preparate l’Anatra laccata alla pechinese? L’anatra alla pechinese è uno dei piatti più rinomati della cucina cinese nonché una delle pietanze più consumate nel nostro locale. A differenza di altri ristoranti, che la preparano intera e solo su prenotazione, noi abbiamo deciso di proporla in menù e di renderla ordinabile anche in singole porzioni, corrispondenti a un quarto dell’animale e in vendita per 18€.
Uno dei punti forti della vostra proposta è una carta dei vini ben fornita. Eppure il vino non è una bevanda tradizionale cinese: ne deduciamo quindi che gli abbinamenti tra cibo e
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Scherzi e aneddoti a parte, tutto sta nel capire di cosa è in cerca il cliente e nell’avere uno staff capace di ascoltare e raccontare quale proposta, tra tutte quelle disponibili, sia la più adatta per la persona che si ha di fronte.
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un semplice pennello da cucina, si fa asciugare una seconda volta e poi si passa in forno per circa un’ora e mezzo a 160°C. La pelle diventa in questo modo croccante e la carne rimane succulenta. Va precisato che la porzione che serviamo, costituita da fette di carne con la pelle attaccata, è un adattamento richiesto per venire incontro ai gusti occidentali. In terra d’origine, infatti, l’anatra cosi preparata viene servita in tre diverse pietanze: la prima è costituita dalla sola pelle con il suo strato di grasso e pochissima carne (servita in piccole “crespelle” chiamate e accompagnata da verdure fresche e salsa n.d.r.) ; la seconda è un piatto che prevede la polpa tagliata a dadi
o straccetti, stufata o passata in padella con funghi e bamboo; infine la terza portata è una zuppa realizzata con i resti. La vostra è quindi autentica alta cucina cinese, ma essendo basati in Italia non potete sfuggire ad adattare le vostre ricette alla disponibilità di ingredienti e al palato dei clienti occidentali. È difficile restare fedeli alla tradizione con questi vincoli? Come funziona il processo di “adattamento”? Il tema è sicuramente importante ma è sempre esistito. Basti pensare che uno dei piatti più conosciuti da tutti, il riso alla cantonese, fuori dalla Cina viene da sempre servito con il prosciutto cotto, che nel nostro paese di origine praticamente
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Innanzitutto bisogna scegliere anatre dotate di un adeguato strato di grasso sottocutaneo, indispensabile per la riuscita del piatto. Una volta eviscerato, il volatile viene condito al suo interno con un composto di spezie ai 5 aromi, sale, pepe, anice stellato, cipollotto e cipolle. L’anatra viene quindi “soffiata” a bocca e viene lasciata asciugare: questo processo veniva fatto tradizionalmente appendendola a una cappa accesa, mentre noi utilizziamo un box ventilato costruito appositamente che ci aiuta a ridurre il tempo di asciugatura a sole 24 ore circa. Si procede quindi a scottare la pelle irrorandola con una miscela di acqua calda e aceto finché la pelle stessa non cambia colore e si lascia quindi riposare. Infine si procede alla laccatura con il miele, fatta con
non esiste. Detto ciò, la necessità di adattare i piatti ha ragioni molto facili da comprendere. L’anatra di cui abbiamo parlato è un buon esempio: quando la servivamo, le prime volte, nella sua forma più fedele al piatto originale, ovvero solo la pelle con poca carne attaccata, i clienti rimanevano delusi.
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Occorre inoltre tener presente che le spezie usate nella nostra cucina non sono come quelle occidentali. Facciamo un esempio prendendo le ricette della regione di Sichuan, famosa per il suo pepe. È la zona dove si mangia più piccante in assoluto e senza un processo di “addomesticamento” delle spezie si rischia letteralmente di non riuscire a mangiare la pietanza. Le bacche del famoso pepe, per esempio, dovrebbero essere passate nell’olio di semi per rilasciare il proprio gusto e poi ritirate. La persistenza del loro gusto, infatti, specie se abbinata alla piccantezza del peperoncino, rischia di mettere alla prova anche i palati più coraggiosi. Io stesso, mangiando il suzu – uno stufato di manzo o pesce preparato abbinando peperoncini secchi, freschi e olio al pepe di Sichuan – in piena zona d’origine mi son trovato in seria difficoltà! I recenti fatti di cronaca legati al Coronavirus hanno generato dei pregiudizi che hanno impattato notevolmente sulle attività commerciali che hanno legami diretti o indiretti con la Cina. Voi avete rilasciato più volte dichiarazioni in tal senso, invitando le persone a non discriminare. Com’è la situazione per voi e quale evoluzione prevedete? (NdA:
l'intervista è stata rilasciata in una data precedente alle restrizioni ora in vigore per contenere la diffusione del Covid-19) Sono arrivato in italia quando avevo solamente nove anni, sono naturalizzato dall’età di diciotto e quindi mi sento di parlare da italiano. La mia prima speranza, ovviamente, è che le conseguenze sulla salute delle persone non peggiorino. Ho però la percezione che si stia esagerando con i pregiudizi verso i cinesi. Noi siamo stati toccati sin dalla prima ondata, a fine Gennaio, ma nonostante tutto abbiamo voluto tenere duro e, anzi, abbiamo voluto contribuire con varie iniziative benefiche ad aiutare gli altri. L’ultima di queste si è tenuta attorno alla metà di Febbraio, è stata chiamata “la notte delle bacchette” ed è stata realizzata in collaborazione con le fondazioni Italia-Cina e AiBi. Tutti i ristoratori cinesi di Milano hanno aderito, proponendo una pietanza da proporre come piatto solidale e tutti insieme abbiamo raccolto una bella somma. Purtroppo l’indomani sono cominciati i primi ricoveri e quindi la seconda ondata di paura, che questa volta ha impattato su tutti i ristoratori con gli effetti che ben conosciamo. Noi ci riteniamo tutto sommato fortunati perché alcuni personaggi pubblici ci hanno aiutato e si sono associati a noi per invitare al buon senso. Abbiamo già vissuto un problema simile: ai tempi della SARS eravamo a Padova e abbiamo dovuto fare i conti per ben un anno e mezzo con il lavoro pressoché dimezzato. Oggi come allora ci rimbocchiamo le maniche e andiamo avanti pur nella difficoltà, sperando per il bene di tutti che il pericolo e soprattutto la paura passino presto.
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A Cena in Cina Dieci semplici regole per non fare figuracce nel Paese del Dragone Costume e società a cura di Michela Bongiorni
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Nello scorso numero abbiamo affrontato lo stesso argomento parlando del galateo giapponese: cosa fare e soprattutto non fare a tavola, per non trovarsi in imbarazzo nel paese del Sol Levante. Nel momento in cui ho deciso di scrivere un articolo che parlasse del galateo da osservare a tavola in Cina, nel nostro Paese, l’Italia, è scoppiata l’emergenza Covid-19, altrimenti conosciuto in modo generico come Coronavirus. Siamo tutti perfettamente consapevoli che molto probabilmente non farete viaggi nel Paese del Dragone per diverso tempo, così come sappiamo che il problema potrebbe non essere di veloce risoluzione. Non so quale sarà la situazione nel momento in cui leggerete questo mio scritto, io spero che le cose vadano per il meglio. È altrettanto vero, però, che la Cina e la sua cultura gastronomica in questo periodo sono state – ingiustamenteconsiderate la concentrazione di tutti i mali. La psicosi ha spinto le persone a comportamenti
irrazionali, a gesti talora veramente inaccettabili e incomprensibili e soprattutto al boicottaggio di tutto ciò che potesse ricondursi alla Cina. Per questo motivo e anche per esorcizzare la paura del contagio, oggi parleremo delle buona maniere che dovreste osservare qualora – e mi auguro che possiate farlo quanto prima- vogliate concedervi un viaggio in un Paese tanto affascinante, grande e con una storia ultramillenaria. Lo faremo anche con una certa leggerezza, perché un sorriso non deve mai mancare, anche durante le emergenze, anzi soprattutto in questi casi. Quindi mettiamoci comodi e scopriamo quali sono le buone maniere da rispettare quando saremo seduti alle tavole cinesi.
1. ARRIVARE PUNTUALI.
A onor del vero, a me piacerebbe molto che anche in Italia questa fosse considerata una regola ferrea, una legge marziale. Arrivare in orario e non far aspettare sia chi vi ha invitato che gli altri ospiti è una forma di cortesia universalmente riconosciuta. Non ho mai visto una regola del galateo in cui si consigliasse di arrivar tardi a un appuntamento, a parte il famoso ritardo delle spose che viene tollerato (quasi) se rimane entro la mezz’ora (in caso contrario il matrimonio può trasformarsi da noiosa giornata estenuante a gustoso aneddoto da raccontare agli amici: non si è presentata all’altare, è scappata con il testimone, gli invitati se le sono data di santa ragione e io non mi sono mai divertito tanto!). In ogni caso, i cinesi vanno oltre: non solo esigono la puntualità ma gradiscono anche coloro che si presentano all’appuntamento con un certo anticipo, pratica che invece personalmente odio più del ritardo. Non c’è cosa peggiore di essere sotto la doccia dopo aver preparato una cena da sedici portate e sentir suonare il campanello. A volte mi è capitato e ho lanciato maledizioni in lingue sconosciute, oltre ad aver pensato di mettere una buona dose di guttalax nel tiramisù. Comunque, siete avvisati: in Cina arrivare puntuali o in anticipo è una cosa fondamentale. Il ritardo è considerato una profonda mancanza di rispetto. ]
Se avete abbastanza confidenza con colui che vi ha fatto l’invito, è buona educazione portare un piccolo regalo per ringraziarlo. Usate entrambe le mani per offrire il vostro dono. Ricordate che i cinesi non scartano i regali quando li ricevono, perché aspettano di essere da soli. Questa è una bellissima usanza, se ci fosse stata anche da noi mi sarei risparmiata da bambina tanti cazziatoni di mia madre, allorché, aprendo i regali dei parenti, dovevo fingere esaltazione – ovviamente non riuscendoci- per il maglioncino bianco a collo alto o per la collana di perle, quando avrei voluto solo Barbie. Quando incartate i regali, scegliete una carta rossa perché è il loro colore preferito, simbolo di buona fortuna. Anche i numeri pari sono considerati di buon auspicio, con l’unica eccezione del quattro ( sì), che in cinese ricorda la parola “morte”. Quindi tenetelo in considerazione. È inappropriato regalare orologi perché sono associati al concetto dello scorrere del tempo ed all’avvicinarsi della morte. Forbici, coltelli, oggetti affilati simboleggiano la separazione. Meglio optare per un libro, un CD, un profumo e andare sul sicuro.
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2. PORTARE DEI REGALI.
3. NON SEDERSI DOVE CAPITA.
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La disposizione dei tavoli e delle sedie è davvero molto importante per l'etichetta cinese (che non è quella dietro i maglioni). Nell’antica Cina questa disposizione si basava sulle quattro classi sociali: la corte imperiale, i burocrati e le autorità locali, i mercanti e i commercianti, i contadini e chi faceva lavori manuali. Oggi è stata semplificata in: il proprietario o colui che invita organizzando il banchetto, gli ospiti. Il posto d'onore a tavola è sempre rivolto verso est oppure verso l'ingresso. Accanto vengono fatti sedere gli ospiti più importanti. Non è detto che il posto d’onore sia riservato al padrone di casa, di solito è invece per chi ha uno status sociale più alto. In antichità si utilizzava il Tavolo degli Otto Immortali, presso cui si sedevano due persone
per lato con una distribuzione ben precisa: l'ospite d'onore si sedeva sulla parte destra del lato rivolto verso est, poi le sedie che avevano importanza erano la seconda, la quarta, la sesta e l'ottava, a partire dalla sinistra del posto d’onore. Sul lato destro invece erano la terza, la quinta e la settima. Nei banchetti con più tavoli si segue ancora oggi lo stesso ragionamento; il tavolo d'onore è rivolto verso est e i tavoli alla sinistra in ordine di importanza sono il secondo, il quarto, il sesto e l'ottavo, quelli alla destra sono il terzo, il quinto e il settimo. Gli ospiti siedono in base al loro status sociale o secondo i gradi di parentela. Insomma, scordatevi quelle scenette esilaranti durante le cene di Natale nostrane con settordicimila parenti in cui i primi tre quarti d’ora sono dedicati a capire chi si deve sedere accanto a chi: ma nonna non parla con la nuora, mia madre non tollera sua cugina, zio ha litigato con la cognata… Questa trovata dei posti
con l’ordine di importanza dell’ospite l’ho provata una volta anch’io a un matrimonio, dove molto elegantemente i tavoli erano identificati coi nomi delle pietre preziose o semipreziose: il tavolo Diamante era quello degli sposi e poi via via per ordine di preziosità. Finche rimanevi nel tavolo Rubino o Smeraldo, potevi essere felice. Un po’ meno contenti furono coloro che si dovettero sedere ai tavoli Ametista e Giada. Gli ospiti che si ritrovarono seduti quei tavoli smisero di ridere all’istante.
4. SERVIRE SEMPRE PRIMA GLI ANZIANI.
Le persone anziane devono essere sempre salutate per prime in segno di rispetto. Allo stesso modo devono essere servite prima. Importante: bisogna aspettare che si siedano a tavola e non si deve iniziare a mangiare se loro non hanno ancora cominciato. Vale lo stesso per i brindisi. Sempre in segno di rispetto per l’ospite più anziano, che magari vi ha invitato al ristorante, al momento dell’arrivo del conto si dovrebbe insistere un po’ per poter pagare. State tranquillissimi: l’offerta verrà gentilmente declinata e voi non dovrete tirare fuori nemmeno uno spicciolo. Non è necessario che fingiate di esservi dimenticati il portafoglio, tecnica collaudata negli anni dell’Università quando, da studentessa squattrinata, cercavo di scroccare le cene agli amici. Poi te li rendo, eh!
5. USARE LE BACCHETTE CON DISINVOLTURA.
In Cina tutto deve essere
Le altre cose che non dovete fare assolutamente sono: mordicchiare le bacchette, leccarle, usarle per indicare qualcuno (ricordate che in Cina c’è ancora la pena di morte), usarle per spingere giù il cibo quando lo avete messo in bocca (!), picchiettarle sul tavolo in stile John Bonham, usarle per passarsi le cose con gli altri commensali e soprattutto, SOPRATTUTTO, non piantarle in verticale al centro della vostra ciotolina di riso, perché è considerato un presagio di morte. Probabilmente la vostra.
6. NON METTERSI LE MANI IN BOCCA.
Non che in Italia sia esattamente una cosa consigliata da Csaba Dalla Zorza, tuttavia mettersi le mani in bocca per rimuovere rimasugli di cibo incastrati nelle fauci (e chi scrive in questo momento sta soffocando i conati di vomito) in Cina, tanto per cambiare, è considerata una profonda mancanza di rispetto, così come mangiare con la bocca aperta. Sebbene vi consigli caldamente di ordinare cibi senza ossa, dovete sapere che queste ultime, insieme ad altri scarti di cibo, possono essere lasciati sul tavolo vicino alla propria ciotola o in certi casi, buttati anche sul pavimento, ma non voglio pensarci. Usate un fazzoletto, vi prego. Mentre mangiate, la ciotola deve sempre essere portata verso la bocca, perché il movimento contrario è considerato poco educato. In altre parole, non dovete lasciarla sul tavolo e non dovete mai chinarvi in avanti per mangiare, azione che oltretutto potrebbe rallentarvi la digestione e crearvi gonfiore. Potete tranquillamente appoggiare i gomiti, ma cercate di evitare di mangiare nascondendo la mano libera sotto la tavola o tutti si chiederanno che cosa stiate facendo. Accarezza il gatto? Si gratta una gamba? Sta domando il cobra che non è un serpente?
7. NON FINIRE LE PORZIONI.
Il cibo verrà servito al centro della tavola. Non dovete, ovviamente, mangiare dalla portata principale usando le vostre bacchette. Evitate anche di rovistare nel vassoio alla ricerca del boccone del prete, e magari non avventatevi sulle pietanze servendovi porzioni esagerate rubandole agli altri commensali. Vale una regola semplice: mettete nella vostra ciotola ciò che riesce a contenere senza far fuoriuscire il cibo dai bordi. Tanto non vi preoccupate: non vi mancherà da mangiare. Anzi, probabilmente avrete a che fare con portate luculliane. A tal proposito, mangiare velocemente e finire tutto ciò che avete nel piatto apparirà agli occhi dei padroni di casa come la protesta di chi ha ancora fame, quindi la ciotola vi sarà riempita nuovamente. È buona regola, dunque, raggiunta la sazietà, lasciare un po’ di cibo nel piatto, gesto che è anche considerato carino perché significa che avete mangiato a sufficienza e quindi il padrone di casa saprà di non avervi lasciati affamati. Chiedete sempre agli altri ospiti se vogliono finire una pietanza. Cercate di nascondere la delusione se vi rispondono di sì. Ultima curiosità: non lesinate sui rutti, perché è il più genuino fra i complimenti che possiate indirizzare allo chef. Burp!
8. NON BERE RUMOROSAMENTE.
È considerato carino fare un po’ di rumore mentre si mangia, perché si sta dimostrando di gradire la pietanza, tuttavia la stessa cosa non vale quando si sta bevendo. Quando viene servito il the, non è educato finirlo in un solo sorso, anche se la tazza è molto piccola. E’ sempre bene bere a piccoli sorsi, a meno che qualcuno non dica “gānbēi! ( )”, che vuol dire
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mangiato con le bacchette. I cibi sono tagliati in piccoli pezzi proprio per questo: per aiutarvi a tirarli su facilmente. Qualora vi trovaste alle prese con un involtino ribelle, che non ne vuol sapere di essere sollevato con disinvoltura dagli ostici bastoncini, ecco cosa non dovete fare: infilzarlo in stile coltellata, magari imprecando, oppure cercare di prenderlo usando le bacchette con due mani. Ricordatevi sempre come si tengono in mano: tenete la prima stretta fra pollice e palmo, poi prendete la seconda e tenetela parallela alla prima, stringendola tra pollice e indice come fareste come con una penna; questa seconda bacchetta è quella che potrete muovere per prendere il cibo. A quel punto basta ricordarsi la regola della V: quando manipolate le bacchette, se formate una V mentre prendete il cibo non sbagliate. Se proprio l’involtino ancora non si arrende, prendetelo con le mani.
letteralmente, vuotiamo il bicchiere, e a quel punto siete obbligati a scolarvelo tutto in una volta. Potrebbe essere complicato farlo se si sta bevendo , letteralmente liquore bianco, un distillato a forte gradazione alcolica (65 gradi) ricavato dal sorgo o dal mais. Siate preparati al colpo o chiedete prima un’ambulanza in loco. Ultima cosa da ricordare: non versatevi mai da bere prima di aver riempito i recipienti di chi vi sta accanto.
9. ALZARSI IN PIEDI PER BRINDARE.
Questo in realtà si fa solo nelle situazioni molto formali. In tutti gli altri momenti si può rimanere seduti. Se vi propongono un brindisi bisogna sempre accettarlo e bere con gli altri ospiti. Gli alcolici non si bevono mai da soli. Se state bevendo un qualsiasi tipo di liquore ricordatevi di finirlo e di non lasciarlo nel bicchiere. Perché ho la sensazione di star inutilmente sottolineando l’ovvio? Come ho già detto, il primo brindisi dovrebbe essere fatto dall’ospite d’onore. Una cosa che dovete ricordare è che sarebbe opportuno tenere il bicchiere più in basso rispetto a quello dell’ospite più anziano, in segno di rispetto. A meno che non siate proprio voi quelli più anziani. E in tal caso, potrete consolarvi del fatto che per voi la morte è più vicina ricordando che sarete i primi a mangiare e a bere.
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10. PICCHIETTARE LE NOCCHE SUL TAVOLO.
Non è necessario fare ampi gesti o alzare la voce per richiamare l’attenzione dei camerieri: ad esempio, vi verrà servito il the come bevanda gratuita non appena vi siederete al tavolo del ristorante. Arriverà subito un inserviente che provvederà a versarlo nella vostra tazza, lasciando poi la teiera sul tavolo in modo che possiate continuare a servirvi da soli. Vedrete che, appena l’acqua sarà terminata, una cameriera provvederà a riempirla subito. Quando la bevanda viene versata nella vostra tazza, è buona educazione picchiettare il tavolo con le nocche della mano due o tre volte come segno di ringraziamento. Notato il gesto, il cameriere smetterà immediatamente di versare il the. Ultima cosa importante: è assolutamente sconsigliato lasciare mance ai camerieri al ristorante perché potrebbe essere percepito come una maniera insultante per degradarli al ruolo di schiavi.
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TUTTO QUELLO CHE DOVETE SAPERE SULLA PADELLA CINESE Dispositivi e accessori a cura della redazione
LE ORIGINI Il termine wok può essere tradotto in pentola o calderone. Nasce in Cina, probabilmente 2000 anni fa, anche se gli storici non sono del tutto d’accordo con questa datazione; così come non si è certi che l’origine sia effettivamente cinese quanto piuttosto l’uso del wok sia stato un prestito di un’altra cultura, dato che lo stesso tipo di padella è utilizzato in tutta l’India e nell’Asia sudorientale (dalla Tahilandia alla penisola malese). È però sicuramente certo che sia nata come strumento di estrema versatilità ed economicità di utilizzo. Nel suo libro “The food of china”, E. N. Anderson dice: “Chinese cooking is the cooking of scarcity. Whatever the emperors and warlords may have had, the vast majority of Chinese spent their lives short of fuel, cooking oil, utensils, and even water.” (La cucina cinese è la cucina della scarsità. Qualunque cosa potessero aver avuto gli imperatori e i signori della guerra, la stragrande maggioranza dei cinesi trascorreva la vita a corto di carburante, di olio da cucina, di utensili e persino d’ acqua). È evidente quindi che in Cina, specie all’interno di famiglie normali, si dovette cercare un metodo di cottura veloce, pratico e molto versatile. Non c’erano né tempo né combustibile per star dietro a lunghe cotture e le cucine erano di piccole dimensioni con al massimo due fuochi. Il wok rappresentava la soluzione ideale a questi problemi: ci si poteva cuocere di tutto con bassi consumi. COME SI USA Il wok tradizionale è costruito in ghisa o ferro, cioè materiali particolarmente adatti al mantenimento della temperatura di cottura. Il metodo di utilizzo di questa versateli padella si compone di due usi: il primo è una cottura veloce con fiamma molto alta, mentre il secondo è la possibilità di cuocere l’intero piatto nello stesso strumento (basta inserire gli ingredienti rispettando l’ordine di cottura e il loro sapore). L’arma vincente è, però, la forma semisferica unita al
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Il
Avete presente quella padella profonda dalla forma semisferica, di diametro generoso, inventata in Cina? Sì, quella con un manico in legno o doppio ai lati. Proprio quella che avete comprato e avete usato al massimo due volte ma dove avreste voluto friggere, cuocere a vapore, fare la pasta e i risotti; insomma, quella molto versatile che potrebbe sostituire gran parte delle stoviglie in una cucina. Molto bene. In questo articolo cercheremo di parlarvene accuratamente soprattutto mettendone in risalto gli usi tradizionali cinesi.
fondo concavo: una caratteristica peculiare sfruttata sia per uso casalingo che professionale. Come abbiamo detto il wok viene quotidianamente utilizzato dalle famiglie per cucinare interi piatti e con necessità di fare economia su combustibile e condimenti. Il fondo concavo rende possibile la frittura con pochissimo olio (frittura profonda o deep frying) mentre grazie al lungo manico si possono far saltare gli alimenti. L’unione del deep frying e del salto conferisce al cibo cotto all’interno del tegame semisferico un gusto particolare e irriproducibile con altri strumenti. Ma come si riesce ad ottenere questo risultato? Bisogna utilizzare l’intera superficie di cottura: mentre sul fondo vengono inseriti gli ingredienti da friggere o soffriggere, sulle pareti vengono posti quelli da abbrustolire, rispettando un ordine preciso (ovvero quelli più delicati o che cuociono più velocemente devono essere disposti più lontano dal fondo). Una volta cotti gli ingredienti, uno o più salti uniscono e amalgamano il tutto per terminare la preparazione. La cucina cinese utilizza, inoltre, anche molte pietanze cotte a vapore, anche queste realizzabili con un wok: basta mettere acqua sul fondo, poi posizionare una griglia sulla quale appoggiare l’alimento e infine chiudere con un coperchio. È facile adesso comprendere come questa caratteristica pentola sia di estrema importanza nella cucina cinese casalinga.
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Nei ristoranti le cose un po’ cambiano, nel senso che il wok viene utilizzato quasi esclusivamente per cotture molto veloci ed al salto. Gli chef utilizzano un metodo che potremo identificare come frittura al salto o styr frying che si declina in due tecniche principali: il e il . Le due diverse metodologie hanno in realtà molte caratteristiche comuni, ma il risultato che producono è decisamente diverso. Nel primo metodo, il , gli alimenti risultano più morbidi, perché in cottura vengono aggiunti dei liquidi come salsa di soia, aceto o vino, che contribuiscono al mantenimento dell’umidità. Nel secondo metodo, il
i cibi diventano più croccanti perché senza l’aggiunta dei liquidi hanno una reazione di Maillard più marcata. In entrambe le tecniche si parte da un wok estremamente caldo e da un olio vegetale ad alto punto di fumo. Successivamente si inseriranno gli ingredienti secondo il loro grado di cottura, che verranno poi mescolati rapidamente. Nel sono successivamente inumiditi poco prima della fine della cottura, mentre nel bào non c’è aggiunta di liquidi, si continua solo a mescolarli molto velocemente. Va da sé che la seconda tecnica è perfetta per piccoli bocconi da cuocere rapidamente, mentre con la prima possiamo trattare anche pezzature un po’ più grandi. Queste tecniche sono eseguibili perché i fuochi presenti nelle cucine professionali sono molto larghi e con una fiamma molto forte che si sviluppa verso l’alto (non è circolare, insomma). Questo permette alla padella di prendere subito calore sia sul fondo che sui lati poiché le fiamme la lambiscono completamente. Inoltre nei ristoranti non c’è mai stata scarsità di combustibile e di condimenti, quindi ci si è potuti concentrare su cotture dai risultati molto saporiti e dalle consistenze contrastanti. WOK OCCIDENTALI Nel momento in cui la cucina cinese si è affacciata in Occidente, anche gli strumenti di cottura utilizzati hanno iniziato ad essere presenti nei negozi specializzati. I wok in commercio, però, sono stati adattati ai nostri piani di cottura appiattendone il fondo. I fuochi nostrani hanno una bocca stretta (dobbiamo pur
Fortunatamente esistono alcuni modelli con fondo concavo seppur meno pronunciato rispetto agli originali. In questi è possibile riprodurre i metodi di cottura cinesi ma con alcune accortezze: andranno acquistati esclusivamente di ghisa o di ferro ed andranno scaldati molto, a fuoco alto, prima dell’utilizzo. Questo perché le fiamme disponibili nelle nostre cucine non hanno molta potenza e, inoltre, la loro direzione non permette di lambire l’intera superficie esterna. Solamente usando un materiale in grado di accumulare molto calore riusciremo ad avere una temperatura di cottura omogenea su tutto il tegame. Fate attenzione perché saranno strumenti molto pesanti e quindi da manovrare con cautela onde
evitare problemi! WOK E BARBECUE Sicuramente vi starete domandando: posso utilizzare il wok nel mio dispositivo di cottura? La risposta è sì a patto di ricordare che è necessario molto calore per scaldarlo. Per i possessori di un bbq a carbone è necessario posizionarlo molto vicino alle braci ben accese o addirittura sopra le stesse: in questo caso ricordatevi di spostarlo, indossando guanti adatti alle alte temperature, dopo averlo ben riscaldato, anche per evitare fiammate derivate dai grassi usati per cucinare. Il dispositivo andrà quindi predisposto come una cottura diretta ad alta temperatura, ma con in più la possibilità di utilizzare il coperchio se necessario. Coloro che volessero usare il wok in un dispositivo a gas dovranno scaldarlo per un tempo maggiore rispetto agli utilizzatori del carbone. Questo perché l’irraggiamento della superficie è parzialmente schermato dalle barre aromatizzanti e dalle protezioni dei bruciatori. Una volta raggiunta la temperatura ideale, comunque, la padella dovrà esser mantenuta sopra al bruciatore acceso alla massima potenza. I griller che utilizzano dispositivi a pellet o elettrici dovranno valutare rispettivamente la reale capacità del firepot o della serpentina di assicurare un giusto irraggiamento alla ghisa. IL MINI MENÙ PER DUE Ci siamo! Avete comprato un wok con tutte le caratteristiche esposte in precedenza e volete provarlo a tutti i costi. Bene, bene, bene. Ecco un paio di ricette facili, veloci ma dal risultato stupefacente. Prima di iniziare vi dobbiamo avvertire che, per sfruttare al meglio le potenzialità di un wok, dobbiamo per forza provare a cucinare rispettando i dettami della cucina cinese, ovvero con alimenti tagliati a piccoli pezzi per una cottura più veloce possibile, e ingredienti/ condimenti ricchi di umami. Vi daremo le dosi per due persone perché più gestibili ma nulla vieta di aumentarle una volta presa dimestichezza. Partiamo!
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sempre metterci un pentolino o una caffettiera!) e il fondo concavo non è compatibile con piani ad induzione o elettrici. Il materiale di costruzione, infine, è spesso teflon o acciaio, che non riesce a conferire l’aroma dato dalla cottura in ghisa o in ferro spesso. Purtroppo questo adattamento ne ha anche compromesso l’utilizzo. Con un fondo piatto, per ottenere un deep frying è necessario molto olio e quindi lo spazio da poter utilizzare ai lati è veramente poco. Risultato? Usare un wok occidentale significa adoperare una padella con un ingombro maggiore. L’unico vantaggio è che le pareti alte permettono di saltare meglio gli alimenti rispetto a quelle dai lati bassi. Ma come ben potete immaginare, si perde completamente la funzione originale e insieme ad essa il risultato.
Spaghetti saltati con verdure
INGREDIENTI per 2 persone
un cucchiaio di olio di semi un cucchiaio di vino di riso due cucchiaio di salsa di soia chiara sale q.b. due pezzetti di zenzero fresco uno scalogno mezza carota mezza zucchina mezzo peperone due foglie di cavolo cinese una manciata di germogli di soia erba cipollina cinese q.b. (da spolverare sul piatto una volta servito) 350 g di spaghetti di riso
Questa è una ricetta basica che vi permetterà di prendere confidenza con il wok senza “sprecare” ingredienti più pregiati, dato che è a base di soli vegetali.
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Il risultato deve essere un piatto a base di spaghetti di riso cotti a puntino con verdure croccanti e saporite. Preparazione: 1.Ricavate dallo zenzero 2 pezzetti di piccole dimensioni (circa 2cm di lunghezza per 1 di larghezza e 0,5 di altezza). Tagliate lo scalogno a pezzi di medio/piccole dimensioni. Carota, zucchina, peperone e foglie di cavolo cinese andranno tagliati a listarelle sottili.
2. Cuocete gli spaghetti di riso in acqua bollente togliendoli quando ancora al dente. Passateli sotto acqua fredda corrente per bloccare la cottura. 3.Scaldate molto bene il wok. 4. Aggiungete l’olio di semi, lo zenzero e lo scalogno. Mescolate continuamente. 5. Una volta che sentirete sprigionare il profumo dello zenzero e dello scalogno, toglieteli dal wok. 6. Aggiungete carota, zucchina e peperone mescolando continuamente e saltando una/due volte per mescolare al meglio gli ingredienti aggiunti. 7. Aggiungete vino di riso e fate sfumare continuando a mescolare. 8. Aggiungete pochissimo olio di semi se necessario.
9. Quando le verdure inizieranno ad ammorbidirsi, aggiungete il cavolo cinese e i germogli di soia. Continuate a mescolare e saltare una/due volte. 10. Aggiungete il sale e due cucchiai di salsa di soia quando vedrete le foglie di cavolo un po’ appassite. Non esagerate con il sale perché la salsa di soia ha giù un elevato grado di sapidità. Mescolate ancora. 11. Non appena vedrete le verdure quasi cotte aggiungete gli spaghetti, mescolate e saltate tre/quattro volte. 12. A fine cottura aggiungete altri due cucchiai di salsa di soia (o a vostro piacimento), mescolate e saltate ancora per un minuto. 13. Spolverate il piatto di erba cipollina cinese e servite.
Pollo Marinato con verdure INGREDIENTI per 2 persone un cucchiaio di olio di semi uno scalogno una manciata di Funghi Shiitake due cucchiai di vino di riso mezza zucchina mezzo peperone acqua q.b. 300 g di pollo marinato per la marinatura del pollo due cucchiai di salsa Hoisin un cucchiaino di miele due cucchiaini di salsa di soia chiara due cucchiaini di polvere 5 spezie cinesi un cucchiaino di olio di sesamo tostato un cucchiaino di fecola di patate
Utilizzeremo entrambe le parti del wok: il fondo e i lati. Il risultato da ottenere è un pollo morbido, umido e saporito accompagnato da verdure croccanti. Preparazione: 1. Aggiungete in una ciotola il pollo tagliato a piccoli bocconi e gli ingredienti della marinatura tranne la fecola di patate. 2. A m a l g a m a t e i l t u t t o mescolando molto bene. 3. Aggiungete la fecola di patate, mescolate e trasferite il tutto in un contenitore ermetico. 4. Lasciate riposare tutta la
notte o comunque almeno 2 ore. 5. Tagliate lo scalogno e i funghi a fettine sottili. 6. Tagliate peperone e zucchina a listarelle sottili. 7. Scaldate molto bene il wok. 8. Aggiungete l’olio di semi e un cucchiaio di vino di riso. 9. Una volta che il liquido sarà caldo aggiungete scalogno e funghi. Mescolate bene e saltate una/due volte. 10. Quando lo scalogno si sarà ammorbidito aggiungete il peperone e la zucchina. Continuate a mescolare. 11. Spostate le verdure sui lati del wok e mettete il pollo marinato sul fondo. Lasciate cuocere per qualche minuto cercando di mantenere le verdure non a contatto con il pollo. Aiutatevi con un mestolo. In ogni caso
non succede niente se qualche verdura va a toccare il pollo. Lo spostare sui lati le verdure ha lo scopo di renderle più croccanti. 12. Mescolate il pollo per avere una reazione di Maillard omogenea su tutti i lati. 13. Una volta rosolati bene i pezzi di pollo aggiungete l’acqua e il restante vino di riso. 14. Mescolate ancora il pollo e poi saltate due/tre volte tutti gli ingredienti per amalgamarli. 15. Una volta che il pollo sarà cotto aggiungete sale e salsa di soia chiara. Mescolate, saltare due/tre volte ancora e servite. 213 - BBQ4All Magazine
In questa ricetta utilizzeremo il pollo, uno degli ingredienti principali della cucina cinese, che viene quasi sempre marinato per conferirgli sapori particolari.
Il pane al vapore una soffice nuvola eterica
Speciale Cina - Arte Bianca a cura di Alessandro Trezzi
La Cina è la terra del riso, un cereale che specialmente in Oriente viene consumato in svariate forme e modi. Non è un segreto quanto sia il mondo occidentale ad essere il terreno fertile per il grano e i suoi frutti, come il pane, consumatissimo in una moltitudine di tipologie non solo in Italia, ma anche nel resto del continente europeo e in America. Eppure esiste una versione di pane cinese che è diventata talmente famosa da essere ormai presente nelle varie China Town sparse per il globo. Si tratta di una soffice nuvoletta bianca, morbida, eterea, perfetta come accompagnamento sia dolce che salato, o come comodo street food da consumare rigorosamente passeggiando per la strada. Tantissime personalità della cucina moderna ne hanno adottato una propria versione, come lo stesso Renato Bosco, pizzaiolo e panificatore, che nei suoi locali propone l’ormai celebre “mozzarella di pane”, un panino cotto al vapore e servito con un cuore di stracciatella e topping differenti. Come come? Non avete mai assaggiato un panino al vapore?
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Sacrilegio!
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LE ORIGINI
Secondo una leggenda cinese, nel periodo dei tre regni lo stratega Zhuge Liang, nel riportare l’esercito in Patria, a Shu, si trovò di fronte ad un fiume impetuoso, impossibile da attraversare. Un uomo del luogo gli raccontò che i barbari dei tempi antichi erano soliti sacrificare 50 uomini, per poi gettare le loro teste nel fiume, appagando in tal modo lo spirito delle acque e permettendo quindi l’attraversamento. Non volendo sacrificare nessuna vita umana, Zhuge Liang decise di uccidere le mucche e i cavalli dell’esercito, riempiendo la carne di panini dalla forma di teste umane e gettandoli nel fiume. Una volta compiuta la traversata, egli diede a tali panini il nome di Mantou, che significa letteralmente testa del barbaro. Macabre leggende a parte, i classici panini al vapore vengono oggi consumati per lo più nella parte settentrionale della Cina, dove tradizionalmente si coltiva il grano al posto del riso. Possono variare dai 4 cm (una pagnotta vaporosa servita
nei ristoranti più eleganti) ai 15 cm (un pane molto denso che costituisce il cibo degli operai). In origine erano formati solo da farina, acqua e lievito, e considerando che la lavorazione del grano era ben più costosa di quella del riso, nella Cina pre-industriale erano ritenuti cibo di lusso. Oggi il pane al vapore è prodotto e consumato in tre modi principali, ovvero vuoto da accompagnamento (il Mantou vero e proprio), oppure farcito (Baozi), o ancora fritto e servito con una ciotola di latte condensato.
DI RIPIENO IN RIPIENO
Come per i ravioli, esiste una moltitudine di ripieni con i quali i cinesi farciscono i Baozi, sebbene il più classico rimanga quello con carne e verdure. Il Cha siu bao o char siu bao (altresì detto manapua) è ad esempio un Baozi ripieno di maiale al vapore, mentre il Goubuli è una varietà con diciotto pieghe sempre a base di carne tipica della città di Tianjin, il cui nome significa letteralmente I cani non vi prestano attenzione. Lo Xiaolongbao o tangbao è ripieno di zuppa, tipico di Shanghai, e a causa della sua succulenza è considerato molto più affine a uno Jiaozi (il tipico raviolo cinese chiuso a fagottino); il Caibao invece è un raviolo ripieno solo di vegetali. Non mancano le versioni dolci: il Doushabao è un Baozi ripieno di crema di fagioli rossi dolce, il Ling Yong Bao è invece ripieno di crema di semi di loto zuccherata, mentre il Nai huang bao è ripieno di crema pasticciera.
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COME SI FANNO?
Sebbene siano nati con acqua e senza sale, la versione che vi propongo oggi è il compromesso perfetto per realizzare in maniera perfetta sia i Mantou che i Baozi; un risultato morbido, vaporoso, etereo e in grado di conferire un contrasto amabile tra il dolciastro dell’impasto e la sapidità del ripieno. Grazie alla cottura al vapore, alla tipica crosta croccante e colorata del pane si contrap-
pone una copertura lucida in superficie. Ingredienti per circa 28 panini: - 500 g di farina di grano tenero 00 (280-300 W); - 300 g di latte intero; - 30 g di zucchero semolato; - 12 g di sale fino; - 10 g di lievito di birra fresco.
L’IMPASTO
Terminato il tempo di maturazione, recuperate l’impasto e formate delle palline da circa 30 gr di peso ciascuna. In alternativa, per ottenere i classici Mantou dalla forma rettangolare, potete stendere l’impasto con il mattarello, arrotolarlo e tagliarlo con un coltello. Lasciate lievitare i panini su una teglia con della carta forno per 2 – 3 ore tra i 26 e i 28 °C.
LA COTTURA
Terminata anche l’ultima lievitazione, siete pronti per la cottura. Tuttavia, nel caso in cui vogliate realizzare i Baozi, que-
sto è il momento perfetto per farcire i panini. Aiutatevi con un leggerissimo velo di farina e stendete a mattarello i panetti, per poi riempirli con circa un cucchiaino di ripieno; spennellate i bordi con dell’acqua e chiudeteli effettuando delle pieghe e stringendo verso l’alto. Il più classico dei ripieni è preparato con carne di maiale macinata, verza, cipollotto fresco, zenzero grattugiato, salsa di soia e aceto di riso. Tritate tutto, formate un composto e utilizzatelo per farcire i vostri panini. Predisponete la vostra vaporiera facendo bollire dell’acqua in una wok. A seconda della grandezza della vaporiera stessa, disponete su un livello 3 o 4 Mantou (o Baozi), coprite e lasciate cuocere. Per i Mantou di questa grammatura sono sufficienti 8 – 10 minuti, mentre per i Baozi almeno 12 – 15 per permettere al ripieno di cuocere adeguatamente. Servite ben caldi, accompagnandoli con della salsa di soia aromatizzata con del cipollotto tritato finemente.
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Versate tutta la farina, il lievito e lo zucchero in una ciotola o nella vasca della vostra planetaria, aggiungete circa il 75% del latte della ricetta e iniziate a impastare fino a che il liquido non sarà perfettamente assorbito. A questo punto aggiungete tutto il sale, e continuate a lavorare versando piano piano il latte rimanente. Chiudete l’impasto tra i 24°C e i 26°C, ottenendo una massa liscia, setosa ed equilibrata. Riponetelo in un contenitore con chiusura ermetica e lasciatelo lievitare a 20–22°C per circa 1 ora, dopodiché posizionatelo in frigorifero a 6°C per 18 – 24 ore.
Speciale Cina - ricette a cura della Redazione
Chūn Juăn
gli involtini primavera Quando parliamo di cibo cinese, il pensiero corre subito a loro, gli involtini primavera. In realtà fanno parte di quelle preparazioni che tutti conoscono ma che nessuno saprebbe dire se siano originali o no, perché molto consumati in Occidente e onnipresenti nei menù tipici dei ristoranti cinesi; tuttavia la domanda che aleggia sempre in questi casi è: qualcuno ha mai mangiato davvero gli involtini cinesi in Cina?
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Andare a scavare nei meandri della cultura asiatica sull’origine di questo piatto non è affatto semplice. Pare che risalga a quasi duemila anni fa e che abbia subìto durante la storia dell’impero Cinese diverse rivisitazioni. A partire tra la metà del 300 d.C, e gli inizi del 400 d.C, durante la dinastia Jin, nacque un piatto fatto con una sfoglia di farina accompagnato a delle verdure. All’epoca venne denominato piatto della primavera, da qui l’evoluzione sino agli attuali involtini primavera. Sicuramente, la versione che conosciamo noi, ovvero fritti e pieni di verza è una rivisitazione tutta occidentale. In Cina sono più piccoli, serviti come dim sum (antipasto o spuntino) e possono essere fritti oppure no, contenere carne o verdure e essere insaporiti con una granella di arachidi. Le varianti esistenti, insomma, sono
molte e dipendono dalla zona in cui vengono preparati. Infatti non ci sogniamo proprio di darvi la ricetta che dovrebbe o potrebbe essere l’unica e sola versione dell’involtino primavera; più semplicemente ve ne daremo una nostra adattata in parte alla cottura barbecue e che si avvicina molto ad alcune delle versioni asiatiche, per metodi di cottura e utilizzo degli ingredienti. Proviamo a descrivere un involtino primavera. Per le ragioni dette prima, il suo interno può avere mille varianti, dovute non solo alla scelta dei prodotti con cui comporlo, ma anche al metodo di cottura utilizzato e alla versione salata o dolce. Ma come è fatto veramente? È un rotolo di sfoglia, che avvolge dolcemente un mucchietto di ingredienti ben calibrati, che viene fritto o cotto al vapore. Da qui in poi si apre un mondo. Partiamo dalla sfoglia. Deve essere un finissimo strato di sfoglia a base di farina di riso che funge da contenitore dei sapori. Spesso però, nella versione occidentale, non trovandola disponibile sui banchi del supermercato, si utilizza la classica pasta fillo, molto simile come caratteristiche ad una sfoglia di riso. Nella nostra versione, abbiamo optato per la sfoglia di riso e vi diremo come farla a casa.
Altri tre ingredienti che caratterizzano questa ricetta, presenti quasi sempre in tutte le versioni sono salsa di soia chiara, salsa di ostrica e olio di semi di sesamo. La salsa di soia chiara è differente da quella che solitamente ci viene proposta durante le cene a base di sushi giapponese per intingere nigiri o sashimi. Quella chiara è prodotta dalla prima coltura di soia cotta al vapore e poi lasciata fermentare in salamoia. Al palato risulta meno densa e più salata. Utilizzata per marinature di cibi come pollo, maiale ma anche pesce, in cottura tende a non accentuare il suo sapore proprio per l’assenza di zuccheri; infatti non ha aggiunte di caramello che donano quel sapore dolciastro e quel colore tipicamente scuro alla salsa di soia che conosciamo. La salsa di ostrica è realizzata utilizzando come base l’acqua stessa delle ostriche. Con l’aggiunta di salsa di soia, di poco zucchero e di una minima quantità di amido di mais, si riduce a fuoco basso sino ad ottenere una salsa perfetta in abbinamento con carni bianche, perché ne esalta il sapore. L’olio di semi di sesamo è ricavato dalla spremitura dei semi dell’omonima pianta. Il sapore ha una predominante iniziale dolciastra, un leggero gusto aggiuntivo stringente e sulla parte terminale rilascia una nota calda. Spesso utilizzato a crudo per il condimento di insalate e verdure, in Asia è comunemente usato anche in cottura. Non ci resta che metterci ai fornelli.
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Preparazione: 1. Asciugate bene il petto di pollo e marinatelo con olio extravergine di oliva, il succo di un limone, un cucchiaio di salsa di soia chiara, 10 grammi di zenzero grattugiato. Lasciatelo riposare almeno mezz’ora in frigorifero. 2. Predisponete il dispositivo per una cottura indiretta con temperatura in camera di cottura sui 120° C. 3. Recuperate il petto di pollo dalla marinatura che scarterete e asciugatelo per bene. Massaggiatelo con un velo d’olio. Rubbatelo, strofinando dappertutto con le cinque spezie e mettetelo in cottura indiretta, affumicandolo con chips al melo sino ai 52° C al cuore. 4. Toglietelo dalla cottura e tagliatelo a piccoli cubetti, quindi riportatelo in cottura in un wok. 5. Aggiungete un filo d’olio nel wok e riscaldate quasi al punto di fumo. Versate i pezzetti di pollo affumicato, aggiungete 20g di salsa di ostriche, 40g di salsa di soia, 5 g di olio di sesamo e 15 g di zucchero. Lasciate andare in cottura per un minuto, poi saltate per tre minuti, dopodiché togliete il pollo dalla padella. 6. Tagliate a striscioline le verdure e versatele nel wok. Aggiungete un filo di olio extravergine di oliva e lasciatele andare in cottura a fuoco medio. 7. Aggiungete la salsa di soia, la salsa di ostriche e l’olio di sesamo. 8. Quando le verdure saranno pressoché ammorbidite, aggiungete i germogli e mescolate il tutto. 9. A fine cottura, versatele insieme al pollo in una ciotola capiente e lasciate raffreddare il tutto. 10. Mescolate con una frusta le polveri (farina, amido e sale). 11. Versate l’acqua in una ciotola e pian piano, con l’aiuto della frusta, versate a pioggia la farina sino ad ottenere una pastella. 12. Portate a bollore una pentola con dell’acqua. Appoggiatevi sopra una padella bassa antiaderente o meglio una crepiera e lasciatela scaldare per bene. 13. Ora, spennellate la pastella sulla padella con movimenti rotatori, sino a coprire il fondo e formare un disco di sfoglia. 14. Quando la sfoglia comincia a diventare bianca e ad asciugarsi sui bordi, staccatela delicatamente e sollevatela da un lato sino a staccarla del tutto. 15. Appoggiate tutte le sfoglie così ottenute su un piatto coprendole con un foglio di carta da forno bagnato e ben strizzato. 16. Prendete una sfoglia, e dividetela a livello immaginario in 4 parti per orizzontale. Sul 2° quarto basso, adagiate un cucchiaio del ripieno di verdure e pollo. 17. Chiudete i lembi laterali della sfoglia verso il centro. 18. Ora coprite il ripieno con il lembo basso della sfoglia e arrotolatela sino quasi a chiuderla. 19. Sbattete in una piccola boule un uovo. 20. Spennellate i bordi della sfoglia di riso e arrotolate per chiudere l’involtino. Ripetete per tutti gli altri. 21. In una padella ampia, versate abbondante olio per frittura e portatelo a 170°C. 22. Immergete con molta attenzione i vostri involtini e dorateli leggermente. 23. Scolate l’olio in eccesso e adagiateli su carta assorbente. 24. Servite con salsa a piacere.
INGREDIENTI per 4 persone
Per il ripieno mezzo petto di pollo 50 g di cavolo cinese (o cappuccio) 2 carote 200 g di germogli di soia o bamboo 2 cipollotti un uovo 30 g di zucchero 40 g di salsa di ostriche 150 g di salsa di soia chiara 10g olio di sesamo olio per friggere q.b. olio extravergine di oliva q.b. 20 g zenzero fresco un limone 5g di polvere cinque spezie Per le sfoglie di riso (8 pezzi) 100g di farina di riso
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Jiaozi i ravioli della fortuna
Speciale Cina - ricetta a cura di Michela Bongiorni
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In nessun altro luogo come in oriente la cucina è il risultato del connubio tra l’atto vero e proprio di preparare i cibi e la filosofia. In Cina, in particolare, è il taoismo, fondato sul principio del bilanciamento degli opposti, a influenzare anche l’arte culinaria. Yin e Yang, nero e bianco, oscurità e luce. Basandosi sulla cucina taoista ogni cibo può essere diviso tra questi due opposti: è yang tutto quello che cresce all’aria aperta e al sole, mentre è yin quello che cresce nell’oscurità e nella terra. Se è salato è yang. Se è dolce è yin. Se è piccolo, secco e piccante è yang mentre è yin se è grande, soffice e morbido. Se è di colore freddo è yin, se è caldo yang. Se i cibi sono fritti, essiccati, grassi, quindi caldi, sono yang, mentre se sono freddi come frutta, verdure, crostacei sono yin. Insomma, ogni pietanza deve esprimere l’armonia tra questi due elementi e deve rispettare le quattro leggi della cucina taoista: buon sapore, buon aspetto, buon aroma e buon livello nutritivo. La gastronomia cinese tradizionale si fonda, inoltre, sulla teoria taoista dei cinque elementi. Cinque sono i gusti (amaro, acido, dolce, salato, piccante), così come le consistenze (croccante, liscia, sugosa, secca e morbida). Non a caso sono proprio cinque le spezie che compongono la miscela largamente usata nella preparazione dei piatti tradizionali (ne parliamo più avanti nella rubrica dello speziale). Secondo questa teoria, dunque, tutti e cinque i nostri sensi devono essere sollecitati dall’incontro con questa realtà gastronomica. Senza addentrarci troppo nella filosofia taoista, è certamente vero che nella cucina cinese si ritrova un altro aspetto di questa scuola di pensiero: quello di avvolgere, di riportare insieme le cose, secondo la visione per la quale tutto nell'universo è soggetto ad un eterno ciclo. Si avvolge il cibo e si ricompone un qualcosa di prezioso, si chiude il cerchio in unione armoniosa di sapori e di aromi. Ed è proprio nei ravioli cinesi che questa affascinate tradizione dell’avvolgere il cibo trova il suo significato più completo.
JIAOZI
Chiamati inizialmente Tiao (corno) per la loro forma, sono stati in seguito denominati anche Bianshi (cibo piatto) grazie al loro aspetto appiattito. Solo dopo molto tempo il nome è stato cambiato in Jiaozi ( ); questo termine indica quel lasso di tempo che va dalle 23,01 alle 23,59 prima del Capodanno cinese, in cui pare che mangiare ravioli sia di buon auspicio. Vengono chiamati così soprattutto nel nord-est della Cina, ma al sud sono conosciuti anche come Hum Tun o Won Ton. Mettiamolo subito in chiaro: noi sbagliamo di grosso a considerarli una specie di aperitivo prima della grandi abbuffate negli All you can eat. I ravioli sono un rito, collegato a grandi ricorrenze come quella di celebrare l’equinozio che saluta l’inverno e dà il benvenuto alla primavera, durante i matrimoni e in ogni altra occasione in cui si voglia augurare la felicità a qualcuno.
È un piatto molto povero da mangiare, consumato perlopiù senza condimento o condito con qualche salsa. Si racconta anche che in passato venisse messa una moneta all’interno di uno dei ravioli in modo da rendere ricco il fortunato che l’avesse trovata.
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Secondo la tradizione tutta la famiglia deve partecipare alla loro preparazione, dalla lavorazione dell’impasto sino alla cottura, per poi consumarli con grande gioia e chiasso su un grande tavolo circolare.
di festeggiare il ricordo di questo evento creando ravioli a forma di orecchio.
LA SFOGLIA
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LE ORIGINI
Ma com’è nato questo delizioso raviolo? Avete mai notato quanto assomigli nella forma a un piccolo orecchio? Ebbene, in effetti pare che sia proprio la parte esterna del nostro organo uditivo la causa della loro invenzione. Secondo molte testimonianze pare sia stato Zhang Zhongjing, medico cinese che scrisse il Trattato sulle malattie febbrili e malattie varie, ad inventare il delizioso fagottino. Quando Zhang si ritirò dal servizio, tornò nella sua città natale e ne divenne il sindaco, aprendo anche una piccola clinica. A causa del forte freddo, molte persone soffrivano di geloni molto dolorosi alle orecchie, ma la sua clinica era veramente minuscola per poter ospitare tutta quella gente. Installò così una tenda al centro del paese, posizionò un calderone lì davanti e cominciò ad offrire una zuppa fatta con erbe mediche a tutti coloro affetti dai dolorosi geloni. Questo medicinale venne chiamato Quhuan jiao’er tang ( , zuppa di erbe per dissipare il freddo e proteggere le orecchie)
Era una minestra fatta con carne di pecora, peperoni piccanti e molte altre erbe. Successivamente questi ingredienti sminuzzati furono messi all’interno di dischi di pasta, buttati poi nella zuppa di erbe e cotti. Nacquero così i ravioli, offerti ad ogni paziente insieme a una scodella di minestra. I malati, bevendo la zuppa e mangiando ravioli, si accorsero che tutto il corpo cominciava a riscaldarsi, comprese le orecchie. Per questo motivo, per molti anni a seguire, la popolazione decise
Non è difficile trovare nei supermercati italiani più forniti i dischi di sfoglia già pronti per preparare in casa degli ottimi ravioli cinesi. Il problema di queste sfoglie già pronte, però, è che sono tutte dello stesso spessore, mentre l’ideale sarebbe stendere dei dischi di pasta un po’ più spessi al centro e un po’ più sottili ai bordi, in modo da poterli chiudere con facilità ma anche renderli più resistenti nel punto in cui devono trattenere il ripieno. Volendo preparare in casa anche la pasta, quindi, il mio consiglio è quello di recarsi negli alimentari cinesi o nei reparti dei supermercati specializzati in cibo orientale, in modo da acquistare una farina fatta appositamente per i Jiaozi. Si può utilizzare anche una normale farina 00, ma il risultato potrebbe non essere soddisfacente: i ravioli, da cotti, dovrebbero essere bianchi quasi trasparenti ed abbastanza resistenti, utilizzando una farina 00 invece rischiereste di averli molto morbidi e perlopiù opachi.
IL RIPIENO
Nel sud est della Cina, il ripieno viene fatto principalmente con carne di maiale, manzo, agnello combinata con verdure miste come cipollotto, porro e cavolo cinese; sono comunque moltissime le possibili varianti: dai gamberi alla carne di pollo,
dalle sole verdure alla nostra adorata carne affumicata (come potrete leggere sul nostro Magazine - numero di Maggio 2019 - abbiamo riempito i ravioli al vapore con gli avanzi di pulled pork). La cosa importante da ricordare è che l’impasto del ripieno non deve essere troppo liquido, anzi deve risultare compatto, in modo da poter essere trattenuto bene dall’involucro di pasta, e che tutti gli ingredienti devono essere tagliati in pezzi piccolissimi (pochi millimetri). E’ utile lasciarlo riposare in frigo, una volta pronto, per un’oretta. Al momento di realizzare i ravioli, si mette un cucchiaino di ripieno al centro di ogni disco, chiudendolo poi formando tante pieghette sul bordo. In realtà ci sono differenti modi per chiuderlo, l’unica cosa davvero importante è che i bordi siano saldi e stretti in modo che il contenuto non fuoriesca durante la cottura. Quindi, niente panico se non avete la manualità per renderli perfetti: potete chiuderli anche in modo semplice, senza fare le pieghe. L’importante, lo ripeto, è che siano ben saldi.
LA COTTURA
Erroneamente crediamo che i ravioli vadano cotti solo al vapore (e magari successivamente piastrati). In realtà in Cina si consumano anche bolliti (o addirittura fritti). Se volete cuocerli al vapore, è utile avere il cestello di bambù dentro il quale appoggiarli, distanziati fra loro per fare in modo che non si attacchino durante la cottura. Se optate per la bollitura in acqua salata, bisogna fare molta attenzione, anche in questo caso, che non si attacchino tra di loro e nemmeno al fondo della pentola. E’ consigliabile girarli di tanto in tanto, molto delicatamente, fino a quando non diventano trasparenti e vengono a galla. A quel punto possono anche essere saltati in padella con un po’ di salsa di soia, oppure serviti così, bolliti o al vapore, accompagnati da una salsa fatta con aceto di riso, salsa di soia, aglio tritato, olio di sesamo e un pizzico di zucchero. O da qualsiasi altra salsa vi suggerisca la vostra voglia di sperimentare.
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È consigliabile utilizzare un mattarello di legno non troppo grosso e ingombrante, in modo da muoversi liberamente sul piano di lavoro. La pasta deve essere preparata prima del ripieno, così da poterla mettere a riposare per almeno una mezz’oretta, impastando tre parti di farina, una di acqua e un pizzico di sale a piacere. Una volta pronta, va lasciata per almeno 30 minuti in un posto umido. Trascorso questo tempo, si crea con la pasta un piccolo cilindro del diametro di 2,5 cm, dal quale si tagliano delle fettine tutte uguali che poi andranno stesi col mattarello sul piano di lavoro infarinato, dando loro una forma circolare. Ricordate: l’interno deve essere lasciato un po’ più spesso rispetto ai bordi.
Noodles
Speciale Cina - ricette a cura della Redazione
A tutto
Se la diatriba tra Italia e Cina sulla paternità degli spaghetti è di lungo corso, non si può affermare lo stesso quando parliamo di noodles, che contrariamente a quanto ci si possa aspettare non sono un piatto di origine giapponese, bensì cinese. Questi spaghetti hanno origini antichissime. Qualche anno fa, nel sito archeologico di Lajia, alcuni studiosi rinvenirono un reperto straordinario: i più antichi noodles della storia realizzati con farina di miglio e risalenti a circa 4000 anni fa. Secondo altri storici, la loro origine sarebbe da individuare nella città di Lanzhou capoluogo della provincia di Gansu nel nordovest della Cina. La posizione strategica lungo la via della seta unita alla diffusione delle tecniche di macinazione del frumento e alla continua capacità degli orientali di sperimentare nuovi metodi culinari permisero la diffusione del prodotto prima in tutto il paese, e poi anche nel resto del mondo. Ecco quindi che i noodles sono diventati ovunque il simbolo della cucina orientale. In Cina erano originariamente conosciuti come Lamian, lavorati a mano con energia, si ottenevano sbattendo più volte e scenograficamente un’unica palla di impasto su un piano, che successivamente veniva poi tirata a mano per conferire massima elasticità. Lamian è la combinazione di “la” che significa tirare e “mian” che significa tagliolini, e pare che la prima ricetta di questa prelibatezza si trovi già in un codice della dinastia Ming del 1504.
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Esistono diverse varietà di lamian che differiscono per la regione di provenienza. Oltre ai già citati Lanzhou lamian , troviamo gli Shandong lamian gli Henan lamian e i Longxumian , tagliatelle lunghe e sottili. Un’altra distinzione è quella che caratterizza l’impasto. Si avranno quindi i mian (paste di grano) e fen (quelle di riso). Tra i più comuni è possibile citare i miànbó dove vuol dire sottile), quindi spaghetti sottili all’uovo, quelli che sarebbero i nostri tagliolini; i lāmiàn spaghetti tirati a mano, solitamente di grano e acqua; i dāoxiāomiàn, tagliatelle tagliate a coltello direttamente dalla matassa dell’impasto sulla pentola di cottura, una specialità dello Shanxi; i mifěn (dove è riso e vermicelli), quindi spaghetti di riso sottili anche detti vermicelli; gli héfěn paste di riso piatte, molto larghe tipo pappardelle; e infine i dōngfěn vermicelli di fagiolo mung. Quindi, come potete intuire, nella categoria “noodles”rientrano in realtà tipi di pasta anche molti diversi tra loro. Per semplificare, e aiutarvi a capirci qualcosa di più, ecco un piccolo riassunto. Noodles di riso: particolarmente diffusi oltre che in Cina anche nel sud-est asiatico. Essendo realizzati con farina di riso tendono ad essere di colore pallido, quasi bianchi, e molto molto friabili. Lo spessore è
variabile. Generalmente sono precotti ma necessitano comunque di qualche minuto in acqua bollente prima di essere consumati. Noodles di fagiolo mung: sono conosciuti con il nome di spaghetti di soia o vermicelli di soia. Sono molto simili ai noodles di riso, ma più elastici e con una consistenza maggiore. Hanno un colore scuro e leggermente trasparente e necessitano di cottura prima di essere utilizzati. Tendono ad appiccicarsi tra loro se non tenuti molto idratati. Noodles integrali: sono simili a quelli di soia ma un poco più spessi, e dal gusto più intenso. Hanno un tempo di cottura lievemente superiore. Noodles all’uovo: consumati molto anche in Giappone sono disponibili sia freschi che secchi. Questi ultimi sono più veloci e comodi da preparare. È consigliabile metterli in ammollo prima di prepararli, in modo da renderli più gustosi.
Noodles istantanei: il creatore di questi noodles è il giapponese Momofuku Ando che nel 1971 inventò il Chicken Ramen, ossia il primo ramen istantaneo al mondo. Successivamente, nel 1971, inventò il primo ramen istantaneo servito in una ciotola usa e getta, i Cupnoodles. Momofuku ha dunque contribuito allo sviluppo dell’industria
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Noodles udon: sono i tipici noodles consumati perlopiù in Giappone, e sono disponibili sia freschi che secchi. E’ assolutamente necessario metterli in ammollo prima di cucinarli.
INGREDIENTI per 4 persone 1 kg di farina di frumento 3 g di sale 10 g amido di mais 500 cl di acqua
diventando il presidente della Japan Instant Food Industry Association. Attualmente i noodles istantanei sono quelli più diffusi nel mondo. Secondo una ricerca condotta nel 2015, 52 paesi hanno consumato 97,7 miliardi di porzioni (Cina e Hong Kong 40.430 milioni e l’Indonesia 13,20 miliardi)
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In ogni caso, la cucina cinese è molto legata alla tradizione e questa vuole che gli spaghetti, per la loro particolare forma allungata, stiano a simboleggiare la longevità: vengono mangiati in ricorrenze quali anniversari e compleanni, come buon auspicio di lunga vita. L’ideale sarebbe cuocere un unico spaghetto molto lungo. Oggi dimenticheremo gli spaghettini istantanei e li prepareremo partendo dalla farina
di frumento. Poi starà a voi e al vostro gusto condirli come più vi piace. Gli spunti, anche in questo numero del Magazine, non vi mancheranno di certo. PREPARAZIONE: 1. In una ciotola, mescolate la farina e l’amido, quindi salate l’acqua ed iniziate ad incorporarla lentamente. 2. Usate le mani e continuate a mescolare fino a quando l’impasto non risulterà liscio ed omogeneo. 3. Fatelo riposare per 30 minuti in frigorifero coperto da un canovaccio. 4. Passato questo tempo, toglietelo dal frigorifero, versate qualche goccia di olio di sesamo e lavoratelo per qualche minuto con le mani, quindi riponetelo in frigo per circa 4 ore sempre coperto con un canovaccio. 5. Cospargete il piano di lavo-
ro con della farina e stendeteci, grazie all’aiuto di un matterello, l’intero impasto tirandolo in maniera omogenea. 6. Spolverate la sfoglia con un cucchiaio di amido di mais, quindi piegatela a metà. 7. Versate di nuovo un cucchiaio di amido a pioggia sulla pasta e piegatela ancora a metà. 8. Lasciate riposare il tutto per 30 minuti sulla spianatoia. 9. Ora, con un coltello, tagliate l’impasto in modo da ottenere spaghetti sottili ed il più possibile uguali, tutti dello stesso spessore. 10. Ponete sul fuoco una pentola di acqua e, una volta che ha raggiunto il bollore, aggiungete i noodles cuocendoli per 2 minuti. Conditeli a vostro gusto.
IL MAIALE BRASATO D E L GENERALE M A O Speciale Cina - ricetta a cura di Michela Bongiorni
Eh già, come direbbe il buon vecchio Vasco. Tutto quello che noi ingurgitiamo in questi luoghi è di fatto una versione riadattata, calibrata sui nostri gusti e in certi casi totalmente stravolta di quello che i veri cinesi mangiano in Cina. Stiamo parlando di un paese enorme: dai confini a nord, dove in inverno si raggiungono i 40 gradi sotto lo zero, si passa per il deserto dello Xinjiang a nord-ovest, per poi incontrare praterie, montagne, foreste pluviali e spiagge, fino ad arrivare alle aree subtropicali dove si superano spesso i 40 gradi sopra lo zero. La vastità del territorio e i diversi climi che
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Hong Shao Rou
Ehi, ti va di mangiare cinese stasera? Quante volte ci siamo sentiti fare questa domanda, complici anche i vari film americani nei quali l’abbiamo ascoltata più volte ? È una frase che crea subito l’atmosfera giusta: ci sentiamo immediatamente newyorkesi dalla vita frenetica, con un lavoro che assorbe la maggior parte del nostro tempo in una città caotica che non dorme mai, anche se viviamo in Italia, magari in un paesino sperduto in cui il baretto del circolo chiude alle 21, e dove l’unica cosa frenetica che conosciamo è il viavai delle signore al mercato della frutta del lunedì mattina, attirate dal 3x2 sulle pere. A quel punto cerchiamo il primo ristorante a tema della zona, spesso situato in capannoni anonimi di quartieri deserti, accanto al ricambio gomme e al negozio di bricolage, e ci sentiamo felici come bambini nel mangiare la vera cucina cinese che in Cina non esiste.
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si incontrano, dunque, si riversano anche nella abitudini culinarie degli abitanti. Potrete quindi immaginare quanti autentici piatti cinesi esistano che noi non conosciamo affatto, attirati come siamo da ristoranti in serie che ci propinano versioni annacquate e adattate alla cultura occidentale di quei pochi fanta-piatti ormai sdoganati: gli involtini pLimaveLa, il gelato fLitto, il Liso cantonese… Il primo ristorante cinese in Italia tirò su le serrande a Roma nel 1949. Successivamente aprirono locali simili anche a Firenze, a Milano e pian piano in tutta Italia. Nonostante il grande successo ottenuto fin da subito, complici il gusto esotico delle pietanze e i costi relativamente contenuti, il vero problema che questi locali incontrarono fu quello della reperibilità dei prodotti, oltre ad una certa diffidenza di fondo della clientela italiana a buttarsi a capofitto in sapori molto distanti dalla propria tradizione: insomma, esotico sì ma non troppo. Tutto questo ha portato naturalmente ad una forte rivisitazione dei piatti della tradizione cinese: innanzitutto, le spezie sono state fortemente ridotte, a favore di sapori più delicati e più vicini a quelli occidentali. Anche l’utilizzo di molte carni comunemente usate in oriente è stato limitato: niente montone, pecora, zampe di gallina e tartaruga, ma principalmente pollo, maiale e manzo. Infine la tipologia di cottura ha subito dei cambiamenti rispetto alle abitudini originarie: mentre la
cucina cinese predilige cotture più lente come quella al vapore, sono stati i piatti fritti o saltati nel wok quelli ad aver trovato più fortuna da noi. In ogni caso, gli stili di cucina cinese più diffusi in Italia sono due, quello cantonese e quello chuan, rispettivamente provenienti da due regioni: Guangdong e Sichuan. In realtà, sono ben otto le regioni della Cina da cui provengono altrettanti stili culinari e il piatto che ho scelto oggi è originario dalla regione dello Hunan, nella Cina meridionale. Preparazione amatissima dal generale Mao, il maiale brasato (Hong Shao Rou, ) è un piatto che si è diffuso in tutto il ter-
INGREDIENTI per 4 persone 500 g di pancia di maiale in un unico pezzo con cotenna due cucchiai di paprika dolce due cucchiaini di sale 200 ml di salsa di soia classica 200 ml di vino bianco 60 g di zucchero di canna due bicchieri d’acqua un porro olio di semi d’arachide q.b. zenzero fresco q.b.
ritorio cinese, seppur con numerose varianti: ad esempio a Shanghai il gusto è decisamente più sapido, mentre in altre città si punta molto su un gusto più dolce e caramellato. È una pietanza che, a mio avviso, si presta molto bene ad essere adattata alla griglia (ovviamente, come sempre, non abbiamo la pretesa di presentarvi la ricetta originale, ma ci piace giocare con una nostra variante). Cercando qualcosa di meno conosciuto da presentarvi rispetto ai piatti triti e ritriti, ho pensato che la pancia del maiale, cotta a lungo sul nostro dispositivo, fosse la miglior proposta che potessi farvi. Quindi, per dir-
Preparazione: 1. Staccate la cotenna dalla pancia del maiale senza lasciarle attaccato il grasso. 2. Rubbate (strofinate) la pancia del maiale con la paprika e il sale, accendete il vostro dispositivo, stabilizzatelo ad una temperatura di circa 110 gradi e mettete in cottura indiretta sia la pancia che la cotenna. 3. Aggiungete chips di legno aromatico per affumicare (il
melo è l’ideale) e chiudete il coperchio. Non apritelo più per almeno un paio d’ore. 4. Quando la pancia del maiale avrà raggiunto i 70 gradi al cuore, cominciate a preparare il sughetto: tritate finemente il porro, fatelo soffriggere in un tegame con l’olio di semi e aggiungete lo zenzero fresco; a questo punto, togliete la pancia del maiale dal vostro dispositivo (ma lasciate ancora la cotenna) e tagliatela il più velocemente possibile in bocconi larghi circa 4 cm e spessi 2. Buttate i bocconi ottenuti nel soffritto, bagnate il tutto col vino e lasciatelo evaporare. 5. Una volta evaporato il vino,
aggiungete la salsa di soia, lo zucchero di canna e due bicchieri d’acqua: coprite il tegame e lasciate cuocere la pancia a fuoco lento fino a quando il sughetto non sarà ben ritirato e la carne tenerissima; 6. Poco prima di servire il maiale brasato, scaldate abbondate olio di semi in un pentolino alto e friggete la cotenna che avevate lasciato a disidratare nel dispositivo: quando sarà scoppiata, toglietela dall’olio e servitela con lo stufato, al posto del pane. .
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la con Lao Tzu, ogni viaggio inizia sempre con un primo passo: il vostro primo passo è accendere il carbone. Poi non vi resta che leggere la ricetta per raggiungere la meta.
pollo
SPECIALE:
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La rivincita del
quanto amiamo le
ALETTE DI POLLO
Le abbiamo viste mille volte ingurgitate da omoni barbuti come se fossero caramelle, nei vari film americani e nei reality di seconda categoria. Le abbiamo utilizzate per le sfide di resistenza fra omaccioni cattivi (e qualche volta anche signorine temerarie) alla loro elevata piccantezza. Ci hanno fatto venire l’acquolina in bocca solo a sentirne l’odore. Oggi le abbiamo cucinate in due versioni differenti perché siamo dei viziosi che non si accontentano mai.
Tuttavia, negli anni, la moda di cucinare le chicken wings non si è fermata e sono nate moltissime ricette alternative, così come altrettante salse con le quali servirle. Tutto il mondo ha cominciato ad apprezzare le alette di pollo, preparandole in diversi modi (anche al barbecue) e accompagnandole a salse spesso ispirate alle cucine orientali o caraibiche. Abbiamo pensato a due variazioni sul tema: una con una salsa piccante ma sorprendente e un po’ più strong, e una che si avvicina alle originali, quindi fritte, ma con una tecnica particolare per renderle croccantissime. Queste seconde, non essendo piccanti, sono adatte anche a commensali più delicati, ma non perdono niente in termini di gustosità e “ciliegiosità”. Cosa vuol dire? Che una tra l’altra come le ciliegie (se vale petaloso, vale anche ciliegioso!). Provatele e diteci se non abbiamo ragione.
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Nate intorno agli anni ‘60, le chicken wings più famose sono certamente quelle della città di Buffalo (New York). Le loro origini sono incerte, ma sicuramente quelle deliziose alette di pollo hanno avuto da allora un successo strepitoso. Che siano state inventate da Teressa Bellissimo nel 1964 presso l'Anchor Bar, 1047 Main Street, oppure da un uomo di nome John Young trasferitosi dall’Alabama a Buffalo, è certo che durante gli anni ‘70 e ‘80 le ali diventarono famosissime come cibo da bar e come gustoso antipasto, sia negli Stati Uniti che in Canada. Nel 1982 e nel 1983 nacquero Buffalo Wild Wings e Hooter’s, entrambe specializzati in questa preparazione. Nel 1990 McDonald’s iniziò a vendere le Mighty Wings nei suoi ristoranti degli Stati Uniti, e nel 1994, dopo quattro presenze al Super Bowl della squadra di football Buffalo Bills, la Domino’s Pizza cominciò a servire le ali di Buffalo, seguita da Pizza Hut nel 1995. Nello specifico, le alette delle città statunitense vengono marinate in una salsa piccante a base di peperoncino Cayenna, la Frank's RedHot sauce, e nel burro. Successivamente vengono fritte e accompagnate dalla salsa al Blue Cheese e da bastoncini di sedano croccante e carote, pensati proprio per alleviare la piccantezza del piatto.
Speciale Pollo - ricette a cura della Redazione
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BLACK LABEL CHICKEN WINGS
Canta così Zakk Wylde frontman dei Black Label Society in Stillborn. Forse non tutti sanno che il nome della band deriva dalla viscerale passione che Wylde aveva per il Johnny Walker Black Label.
Nel creare questa ricetta è stata presa ispirazione da quest’aneddoto e si è immaginato che il cantante invece che amare il whiskey fosse patito di pollo. Dall’aspetto molto cupo, a tratti definibile heavy, queste alette sono dei perfetti finger food da servire accompagnati alla salsa dolce, dai sapori molto southern, a cui abbiamo pensato di abbinarle. Preparazione: 1. Tagliate le alette seguendo le giunture e dividete ogni singola aletta in tre parti. 2. In una ciotola sufficientemente capiente versate tutti gli ingredienti e mescolateli con cura. 3. Aggiungete adesso le alette di pollo e coprite con la pellicola da cucina. 4. Riponete la ciotola in frigo per un minimo di 4 ore. Meglio se tutta la notte. 5. Fate soffriggere leggermente il peperoncino. 6. Sfumate con il Johnny Walker. 7. Aggiungete adesso i liquidi e le polveri e mescolate con cura. 8. Aggiungete il ketchup e portate a ebollizione.
9. Fate sobbollire il composto a fuoco lento fino a farlo ridurre di circa un terzo. 10. Aggiungete adesso ancora un po’ di Johnny Walker (è stato detto che la salsa sarebbe stata “heavy”). 11. Frullate ora il composto. 12. Aggiungete infine il miele per lucidare e aumentare la dolcezza, poi lasciate raffreddare. 13. Settate il kettle per una cottura indiretta (160°C circa). 14. Tamponate con un foglio di carta assorbente le alette in modo dal eliminare la marinatura in eccesso. 15. Disponete adesso le alette nella parte della griglia lontane dalle braci e lasciate cuocere fino al raggiungimento dei 72°C avendo cura di girarle almeno una volta. 16. Con un pennello spalmate la salsa sulle alette e passatele sulla fiamma diretta da entrambi i lati. C o m ’ e r a q u e l l a fa m o s a pubblicità? Se non ti lecchi le dita godi solo a metà. Forse un po’ abusata, e come sapete noi non amiamo moltissimo i tormentoni, ma sicuramente è uno slogan che possiamo prendere in prestito in questo caso, perché descrive perfettamente ciò che accadrà dopo che le avrete servite.
INGREDIENTI per 4 persone 1 kg di alette di pollo per la marinatura 25 cl di Johnny Walker Black Label mezzo limone un cucchiaio di olio extravergine d’oliva sale q.b. pepe q.b. per la salsa un cucchiaio di cipolla in polvere un cucchiaio di aglio in polvere un peperoncino (preferibilmente un habanero tipo chocolate) un cucchiaio di salsa Worcestershire due cucchiai di miele millefiori 250 g di ketchup un cucchiaio di aceto di mele un bicchiere di Johnny Walker un bicchiere di succo di mela tre cucchiai di melassa mezzo cucchiaio di peperoncino di Cayenna in polvere pepe q.b. sale q.b. NB: Se non riuscite a trovare la melassa è possibile compensare con lo zucchero di canna. Va tenuto però in considerazione che la melassa conferisce il caratteristico colore scuro alla salsa. Utilizzando esclusivamente lo zucchero il colore della salsa virerà verso il rosso invece che verso il nero.
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Blind me Erase what was Stillborn, i have become…
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Avete presente quei fritti perfetti, non grondanti d’olio, senza la pastella molliccia, asciutti, croccanti, che fanno crunch al morso? Il segreto è la pastella fatta con la farina di riso, senza glutine, senza uova, croccantissima. Velocissima da preparare, deve avere la giusta consistenza e non deve essere né troppo liquida né troppo cremosa. L’assenza del glutine le impedisce di raggiungere la tipica viscosità di altre pastelle. L’utilizzo di acqua frizzante (comunque sempre molto fredda) può agevolare il raggiungimento di una consistenza più ariosa, poiché l’anidride carbonica contenuta fa gonfiare maggiormente la pastella mentre si sta friggendo. Le alette, una volta immerse, devono essere completamente ricoperte da questa cremina bianca semi-liquida. Dopodiché non ci accontentiamo: le passiamo nel panko, per un risultato ancora più goloso e crispy. Si fa prima a farle che a descriverle. Quindi, non perdiamo tempo. Preparazione 1. Togliete la pelle dalle alette di pollo e lasciatele da parte. Se volete un risultato più comodo al momento in cui andate a consumarle, potete anche disossarle. 2. Preparate la marinata e poi immergetevi le alette. 3. Lasciatele riposare in frigorifero per almeno quattro ore. 4. Preparate la pastella, ricordando che deve essere semiliquida. 5. Togliete le alette dalla marinata e passatele nella carta assorbente per levare quella in eccesso.
6. Passate le alette nella pastella facendo attenzione che vengano completamente ricoperte, poi passatele nel Panko. 7. Fate scaldare l’olio fino al raggiungimento di 180°C e poi immergetevi le alette. 8. Friggete per circa sette minuti; quando saranne dorate da tutti i lati, toglietele e passatele nella carta assorbente. Servitele caldissime e con una salsa di accompagnamento nella quale pucciarle senza pietà. Ricordatevi una cosa: vi abbiamo dato le dosi standard, ma sappiamo già che un kg di alette, specie fritte in questo modo, non vi saranno sufficienti, quindi raddoppiate le dosi e andate sul sicuro. Non vorremmo mai che ci accusaste di dare dosi da dieta ferrea!
INGREDIENTI per 4 persone un kg di alette di pollo per la marinatura 100 g olio 70 g di mirin (sostituibile con lo sherry) 20 g salsa di soia per la pastella 60 g di farina di riso 45. g di amido di riso (o patata/ mais) acqua frizzante fredda 500 ml 6 g sale Panko q.b. (o pangrattato) Olio per friggere q.b.
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CRISPY FRIED CHICKEN WINGS
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POLLO PANKO PANKO POLLO
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Ideati da Robert C. Baker, professore in scienze dell’alimentazione specializzato in avicoltura alla Cornell University nello Stato di New York, fecero la loro prima comparsa sulle tavole statunitensi intorno al 1963. Fino agli anni ’50, il chicken non era un alimento molto apprezzato dagli americani, che preferivano di gran lunga mangiare il manzo e il maiale. A sottolineare tutto ciò, esistevano solo due modi di cucinare il pennuto: intero al forno oppure a pezzi, fritto. A capitanare l’inversione di tendenza fu l’innovatore Baker che pubblicò nel 1950 un bollettino di poche pagine, il “Barbecued Chicken and other meats” (Pollo alla brace e altre carni), in cui forniva le istruzioni per realizzare un barbecue di successo con il delizioso e nutriente volatile. All’interno dell’opuscolo, venivano date tutte le indicazioni per costruire un dispositivo in pietra fai da te e per preparare una deliziosa salsa (a base di olio, aceto di mele, uova e pepe), con la quale spennellare il pollo prima e durante la cottura. Il professore, infatti, era solito affermare Barbecued broilers without sauce are like bread without butter! (i polli alla brace senza salsa sono come il pane senza burro). Conquistato il grande pubblico con la sua ricetta, ad oggi ancora apprezzatissima e conosciuta con il nome di Chicken Cornell, Baker si prefissò un nuovo obiettivo: ideare nuovi sistemi di lavorazione della carne avicola.
Il suo grande impegno portò alla creazione di alcuni prodotti molto noti, come il prosciutto di tacchino, l’hot dog e i nuggets di pollo. La fortuna di quest’ultimo prodotto è data dalla spessa panatura perfetta, nata da un profondo studio scientifico per legare bene la pastella alla carne in modo che non si staccasse durante la frittura. La polemica Nell’ultimo ventennio i piatti precotti della grande distribuzione realizzati con carni macinate, in particolar modo le cotolette e le crocchette di pollo e di tacchino, sono sul banco degli imputati perché l’opinione pubblica accusa le grandi case produttrici di realizzarli non solo con la polpa dell’animale, ma con l’intera carcassa tritata (occhi, becchi, zampe ed intestino). Una cosa è certa: fin dal loro esordio questi preparati sono nati dalla necessità di sfruttare il più possibile la materia prima trattata, dopo aver prelevato le parti nobili (nel caso del pollame, il petto e le cosce). All’inizio la carne veniva staccata manualmente dallo scheletro, ma il grande boom economico e la crescita esponenziale della domanda di questo tipo di alimenti resero necessaria la sostituzione della forza lavoro umana con le macchine, per velocizzare il processo di produzione. Dunque, negli anni ’60 fece la sua comparsa nel panorama dell’industria alimentare la separazione meccanica della carne. In che cosa consiste questo procedimento? Gli operai introducono poco per volta le carcasse in un grande setaccio che separa la polpa
(compresi i tendini e le fibre muscolari) dalla struttura ossea con un processo di spremitura meccanico, ottenendo così un impasto omogeneo e malleabile con cui realizzare würstel, cotolette, crocchette, ripieni di tortellini etc. Il Reg. CE 853/04 definisce la carne separata meccanicamente “il prodotto ottenuto mediante rimozione della carne da ossa carnose dopo il disosso o da carcasse di pollame, utilizzando mezzi meccanici che conducono alla perdita o modificazione della struttura muscolo fibrosa”. Quindi, tutte le preparazioni create utilizzando questo tipo di prodotto - oltre ad essere a basso costo - si possono tranquillamente definire cibo spazzatura, perché arricchite di additivi, conservanti, sodio, grassi e aromi artificiali che nascondono il vero sapore. Inoltre i consumatori temono che la carcassa della bestia, prima di subire la fase di spremitura, venga immersa nell’ammoniaca per essere disinfettata nonostante l’autorità per la sicurezza alimentare europea (EFSA) vieti del tutto questa pratica. Tuttavia, la degradazione delle fibre causate dal tipo di lavorazione aumenta fortemente il rischio di contaminazione, per cui gli alimenti, prima di finire sul banco frigo dei supermercati, devono sempre subire una pre-cottura per eliminare ogni rischio di proliferazione batterica (sulle etichette deve essere obbligatoriamente riportata la dicitura “consumare previa cottura”). Facendo attenzione alla lista degli ingredienti su questo tipo
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I Nuggets sono dei bocconcini dorati e croccanti di carne tritata di pollo impanati e fritti nell’olio bollente.
di prodotti, scoprirete che molti dei vostri cibi preferiti riportano la scritta “realizzato con carne separata meccanicamente”. Sul sito de “Il fatto alimentare” troverete l’elenco di tutti gli impanati di pollo e di tacchino che utilizzano questo tipo di prodotto e in che percentuale. Come sempre, l’unico modo per essere sicuri di non mangiare quell’impasto rosa e simile al pongo, che vedete nelle foto in giro per il web, è preparasi da soli un bel piatto di nuggets dall’inizio alla fine.
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Ecco la nostra proposta: dopo aver marinato il pollo nel succo d’arancia ed averlo cotto a bassa temperatura affumicandolo, lo triteremo e lo impaneremo nel panko. Come avete letto nel numero di Febbraio, questo tipo di panatura quando entra a contatto con l’olio caldo non frigge, ma gonfia incamerando aria; il sapore del fritto non sovrasterà, quindi, il gusto dell’alimento. In questo modo i nuggets manterranno la loro tipica croccantezza ma al contempo conserveranno succosità e morbidezza. Preparazione: 1. In un contenitore versate l’olio d’oliva, il succo d’arancia, il miele, il sale il pepe e la senape ed emulsionate gli elementi insieme con la frusta. Versate il composto ottenuto all’interno di un sacchetto insieme al pollo (così il petto sarà totalmente avvolto dalla marinatura) e riponetelo in frigo per una notte. 2. Togliete il pollo dalla marinata ed asciugatelo bene con la carta da cucina, almeno un’ora prima della messa in cottura. 3. Preparate il vostro dispositivo per una cottura indiretta a 130°C, mezza ciminiera di bricchetti sarà più che sufficiente. Una volta inserito il combustile nel dispositivo, chiudete il coperchio.
4. Spennellate il petto con l’olio extravergine di oliva e aromatizzate la superficie con sale e pepe. Appoggiatelo direttamente sulla griglia dalla parte opposta delle braci e affumicatelo con due manciate di petali di legno aromatico. Chiudete il coperchio e lasciatelo cuocere. 5. Mentre il pollo è in cottura, preparate il panko. Prendete 300 g di pane, eliminate la crosta e frullatelo nel mixer per pochi secondi, perché deve avere una consistenza molto grossolana. 6. Distribuitelo su una teglia rivestita di carna forno e fatelo essiccare a 60°C per 20 minuti circa. Mi raccomando, il pane va solo disidratato e non cotto, quindi è imperativo che mantenga un bel colore bianco. 7. Quando il pollo ha raggiunto al cuore una temperatura di 70°C, toglietelo dalla griglia e lasciatelo intiepidire. Successivamente, tagliatelo a fettine e frullatelo nel mixer insieme al pane bianco e a due cucchiai di latte. Se l’impasto dovesse risultare troppo asciutto, aggiungete un poco di latte. Alla fine deve diventare compatto e malleabile. 8. Unite al composto un po’ di timo in polvere ed amalgamate il tutto. Aggiustate con sale e pepe. 9. Realizzate delle palline e schiacciatele passandole prima nella farina, poi nell’uovo sbattuto con un pizzico di sale ed infine nel panko che avrete distribuito su un piatto. 10. In una padella, scaldate l’olio di semi e friggete poco alla volta i nuggets. Quando sono belli dorati da entrambe le parti, toglieteli dal fuoco e passateli nella carta da cucina per eliminare l’olio in eccesso. Serviteli caldi e con una gustosa salsina di accompagnamento.
INGREDIENTI per 4 persone 400 g circa di petto di pollo 1 l di succo d’arancia due cucchiai di olio d’oliva extravergine mezzo cucchiaio di miele sale q.b. pepe q.b. 100 g di Parmigiano grattugiato mezzo cucchiaino di senape due cucchiai di latte due uova farina q.b. 1 l di olio di semi d’arachidi 400 g di pane bianco in cassetta o panko
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Speciale Pollo - ricetta a cura di Michela Bongiorni
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IL GALLETTO PUDICO
Uno dei grandi classici, quello che proprio non può mancare sulle tavole dei griller amanti del pollo (so che ci siete, uscite allo scoperto e nessuno si farà male) è il galletto grigliato. Con la scusa de lo faccio perché piace ai bambini, o mia suocera lo ama o mia moglie vuole solo carne bianca, vuoi o non vuoi il pennuto è onnipresente in tutte le varie braciate familiari e domenicali, insieme alle verdurine e alle patate. Il povero e bistrattato galletto, definito spesso su Facebook banale, scontato, insapore, inutile è come una moglie tradita ma dalla quale i fedifraghi tornano sempre.
A quel tempo mi limitavo a constatare i danni, adesso so perfettamente perché il risultato era così devastante. Somministrando calore diretto al galletto, mio padre non dava il tempo alla pelle di disidratarsi e la rendeva bruciacchiata ma molliccia. Al contempo, la carne
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Insomma, in moltissimi lo cuociono, ma in quanti lo fanno diventare davvero buono? Non sarà che la pessima reputazione del galletto, come del pollo, dipenda dal risultato finale, con carne asciutta e stoppacciosa, pelle flaccida e sapore deludente? Ho visto galletti maltrattati in griglia durante tutta la mia adolescenza, quando mio padre, da perfetto uomo di casa, decise di diventare l’addetto alle grigliate. Quei poveri polletti, sbattuti sulla griglia in cottura diretta, girati e rigirati dopo essere stati spennellati con un rametto di rosmarino bagnato nell’olio, la cui carne al morso era simile alla suola di gomma delle mie Converse e terribilmente pericolosa per le protesi di nonna, hanno popolato i miei incubi. La pelle, poi. La pelle, santo cielo. Se la masticavi abbastanza a lungo potevi farci le bolle come con le Big Bubble.
perdeva tutta la succosità diventando dura e asciutta. In realtà, ho già avuto modo di dirlo in passato, se cucinato bene il pollo, o il galletto in questo caso, è una preparazione passe-partout che piace proprio a tutti: vi salva la vita con gli ospiti che si rifiutano di assaggiare carne al sangue (anche se sono sicura che ultimamente ne avrete convertiti parecchi), i bambini lo adorano, le mamme anche, per non parlare delle fidanzate perennemente a dieta. È un cibo rassicurante, confortevole, di cui tutti si fidano perché lo conoscono. Il punto però è uno: deve essere cucinato in modo perfetto, perché in caso contrario diventa schifosissimo e immangiabile.
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Niente paura, non è difficile. Basta somministrargli calore dolce per convezione, quindi mettendo il galletto in cottura indiretta, con coperchio chiuso e a temperatura moderata. A quel punto la pelle, preventivamente cosparsa di olio e di spezie, tenderà a disidratarsi. Allo stesso tempo, la temperatura di esercizio intorno ai 140°C favorirà la reazione di Maillard, generando una superficie scura, profumata e croccante. Infine, la carne, contraendosi lentamente grazie alla temperatura non altissima, manterrà un livello di succosità molto elevato. Un consiglio? Aprite il galletto incidendolo sulla schiena invece che sul petto: in questo modo si riesce a limitare la perdita di umori preziosissimi, che invece escono copiosi dalle parti esposte al taglio usando il metodo tradizionale. E inoltre il pennuto a quel punto assume
una posa maliziosamente pudica e accattivante, che volendo è anche una dichiarazione di intenti: dalla scontata e un po’ noiosa esperienza coniugale del sabato sera, è pronto a mettersi le calze a rete del gusto e farvi fare le capriole. Preparazione: 1. Aprite a libro i galletti, dopo aver controllato che non abbiano residui di piumaggio (e in tal caso rimuoveteli o bruciateli con un cannello) incidendoli sulla schiena, spennellateli con un velo d’olio e insaporiteli con un po’ di sale, un po’ di pepe e un cucchiaino di rub Tennessee BBQ4All. Potete fare questa operazione anche una notte prima. 2. Accendete mezza ciminiera di bricchetti e versateli nel dispositivo per una cottura indiretta. Chiudete il coperchio e stabilizzate il dispositivo a 140°/150°C. 3. Ponete i galletti in cottura indiretta con la pelle rivolta verso l’alto e chiudete il coperchio del dispositivo: in questa fase, se volete, potete anche affumicare con chips di legno aromatico, senza mai esagerare. 4. Nel frattempo in una ciotola, emulsionate il succo di limone, l’olio, la senape e il miele. 5. Quando i galletti avranno raggiunto i 72°C interni e la pelle sarà croccantina, spennellateli con l’emulsione che avete preparato e chiudete di nuovo il coperchio per farla rapprendere. 6. Quando saranno belli lucidi e glassati, toglieteli dalla griglia e serviteli: non sarà necessario litigarsi le cosce coi vostri figli, perché scoprirete che l’intero galletto sarà succulento e umido al punto giusto.
INGREDIENTI per 4 persone 2 galletti 125 ml di succo di limone 250 ml di olio extravergine di oliva due cucchiai di miele millefiori 1 cucchiaio di senape di Digione pepe q.p. mezzo cucchiaio di Tennessee Mild Dry Rub BBQ4All
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sale q.b.
Ricette a cura della redazione
CHEESECAKE
UNA CHE VENIVA DA LONTANO Che vi troviate da Billy’s Bakery sulla 9th Avenue nel quartiere Chelsea di New York o al Junior’s Bar sulla 45th Street di Wall Street di Broadway, di una cosa siamo certi: avete in mano una meravigliosa fetta di cheesecake newyorkese.
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È la torta al formaggio più diffusa al mondo e uno tra tra i dolci più antichi. Per quanto la si accosti alla tradizione americana, la storia dice ben altro riguardo alle sue origini. La sua collocazione tra i riferimenti storici è nel 776 a.C., a Delos in Grecia. Pare che proprio nell’isola greca, durante i primi giochi olimpici, gli atleti venissero rifocillati con un dolce a base di formaggio di pecora e miele. Ne fa riferimento Callimaco, poeta e filosofo greco del III° sec. a.C., attribuendo la ricetta ad Egimio, autore di un testo sulle torte al formaggio. Un secolo dopo anche Marco Porcio Catone, detto Catone il Censore, nel Liber De Agri Cultura, cita un dolce realizzato con dischi di pasta contenente un ripieno di formaggio e miele aromatizzato con alloro. In Grecia tutt’oggi si porta avanti la tradizione di questa deliziosa torta. Si chiama mizithropita e prende il nome dal formaggio utilizzato, il mizithra. Si realizza una base con impasto di farina, con la quale si crea una piccola pallina. Quest’ultima viene riempita al centro con il mizithra e successivamente schiacciata a formare una pita che andrà fritta nell’olio e guarnita con
miele. Se ci pensate, ricorda la seadas. Che sia anche quest’ultima una discendente dell’antica cheesecake? Non diciamolo ai sardi. Spostandoci per l’appunto in Italia, si trovano versioni di torta al formaggio quasi in ogni regione: dalla torta laurina laziale, alla pastiera napoletana, dalla pizza di ricotta abruzzese, alla versione lucana con il liquore Strega, fino alla parmense torta Susanna, una crostata ripiena di ricotta e ricoperta di un guscio golosissimo di cioccolato fuso. Spostandoci sulle Isole, la Sicilia e la Sardegna sono protagoniste nell’utilizzo del formaggio nelle preparazioni dolciarie. I greci, che importarono in Sicilia la ricotta, insegnarono alla popolazione locale a produrla. Gli ellenici già producevano la placentam, un torta a base di questo goloso formaggio, e una leggenda narra che siano stati proprio loro i primi ad inventare la cassata siciliana. Oltre a questa torta famosa, altri a base di formaggio caratterizzano la pasticceria siciliana: i cannoli, le cassatelle, i cartocci, la cuccìa di Santa Lucia e gli sfinci di San Giuseppe. L a S a r d e g n a a n n ove r a anch’essa una vasta scelta di prodotti dolciari a base di formaggio. Ricordiamo, tra tutti, le casadinas, cestini di pasta di semola friabile ripiene di ricotta, uova, uvetta e aromatizzate con scorze di arancia e limone, e la seadas, già menzionata prima. Ecco che ritorna così quel
disco di pasta che racchiude un formaggio di pecora e che si accompagna divinamente con il miele. To r n a n d o a l l a n o s t r a cheesecake, la versione che noi tutti conosciamo ha come caratteristiche tre elementi principali: il fondo croccante, spesso qualche centimetro, principalmente costituito da biscotti secchi, la crema al formaggio voluminosa e morbida, e il topping di decorazione che conferisce una nota acidula. Analizziamo questi tre aspetti. Fondo: è prevalentemente fatto di biscotti secchi, tritati e poi uniti al burro fuso per creare una base di sostegno della crema, solida e saporita. A Malta, si utilizzano i biskuttini tar-raħal e la farina di mandorle. In Polonia, nel popolare Sernik invece il fondo viene omesso e l’intera cheesecake è di solo formaggio Twarog, molto simile alla ricotta. In Ungheria, la Sajttorta, facile da trovare a Budapest, ha come base il muesli. Troviamo delle versioni di torta al formaggio anche in Giappone (Cotton Cheesecake), in Nepal (Panira madhye keka), in Sudafrica (Rose Cheesecake), in Germania (Käsekuchen) e in Svezia (Ostkaka). Crema al formaggio: qui troviamo le vere differenze. La tipologia del formaggio utilizzato varia di Paese in Paese, perché di solito si predilige il prodotto locale. Sicuramente viene utilizzato un formaggio
La versione più moderna e ormai globalizzata utilizza il più famoso Philadelphia nato nel 1872 da un lattaio newyorkese di nome William Lawrence. Tentando di ricreare proprio il Neufchâtel, produsse questo nuovo prodotto caseario cremoso che è diventato quello più diffuso al mondo e utilizzato principalmente come base moderna dell’attuale cheesecake. Guarnizione: questo dettaglio del dolce è di libera interpretazione. Segue spesso il gusto personale di chi lo prepara: spesso la versione newyorkese prevede una copertura di frutta fresca, con o senza coulis. In ogni caso, niente vieta di potersi deliziare di una fetta di cheesecake senza guarnizione. Per voi abbiamo adottato la versione con coulis e frutta fresca. Esistono fondamentalmente due modi per fare una cheesecake: la versione a crudo e quella cotta. Cosa le differenzia? L’uso degli ingredienti che fanno da legante. Nella versione cruda e fredda, l’elemento legante può essere di origine animale come un foglio di gelatina o vegetale come l’agar agar. Nella versione cotta, che principalmente prevede la ricotta
come formaggio, si prevede l’uso di uova e/o panna che creino consistenza e sapore. Veniamo adesso alla nostra versione della cheesecake. Creeremo il classico fondo realizzato con biscotti secchi, ai quali daremo una nota croccante e saporita inserendo una percentuale di frutta secca, precedentemente caramellata e affumicata, e un tocco di Rub Mount Nimba BBQ4ALL con note di caffè, cioccolato e vaniglia. Andremo inoltre ad affumicare la ricotta su placca di legno, che poi utilizzeremo come formaggio principale di questo dolce. Inseriremo poi il mascarpone c o m e elemento
cremoso, per dare morbidezza e delicatezza. La ricotta sarà l’ingrediente principale, di tipo vaccino, grassa e corposa, che unita alle uova sosterrà il volume dell’intero dolce.
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cremoso. In Italia si adoperano più diffusamente la ricotta e il mascarpone, in proporzioni variabili. In Francia questa torta viene fatta con il neufchâtel.
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PREPARAZIONE: 1. Settate il vostro dispositivo per una cottura indiretta stabilizzandolo sui 120°C in griglia. 2. Fondete 30 g di burro in un pentolino e unitelo alla frutta secca in una boule. 3. Aggiungete 20 g di zucchero e il rub, quindi mescolate sino a ricoprire interamente la frutta secca. 4. Utilizzate una teglia per stendere la frutta secca e lasciatela affumicare con chips di noce pecan per circa due ore, nel vostro dispositivo. 5. Lasciatela raffreddare e poi tritatela con l’ausilio di un mixer. 6. Tritate con un mixer i biscotti secchi. 7. Sciogliete i restanti 70 g di burro e uniteli in una ciotola insieme a 30 g di zucchero, ai biscotti e alla frutta secca tritata, fino ad amalgamare bene l’impasto. 8. Coprite il fondo e i lati di una tortiera da 24 cm di diametro, con carta da forno. Versate all’nterno l’impasto di biscotti. 9. Stendete bene il fondo, compattandolo con le dita e uniformandolo sino ad ottenere uno strato spesso omogeneo e liscio. 10. Realizzate un leggero bordo rialzato di circa 2 cm tutto intorno. 11. Lasciatelo riposare in frigo per mezz’ora. 12. Bagnate una placca di legno di cedro e, dopo averci messo sopra le vostre formine di ricotta, fate affumicare in cottura diretta per circa 10 minuti, sino a colorazione della ricotta. 13. Toglietele e lasciatele raffreddare. 14. Iniziate sbattendo le uova con lo zucchero in una ciotola capiente. 15. Inserite nella ciotola il mascarpone e, con l’aiuto di una frusta, amalgamate il formaggio alle uova sino ad ottenere un composto liscio. 16. Incidete una bacca di vaniglia in due parti ed estraetene la polpa al suo interno, quindi inseritela nel composto di formaggio. 17. Unite la ricotta al composto, legando i due ingredienti. 18. Aggiungete la scorza di un limone grattugiato e il succo di limone, e continuando a mischiare con la frusta aggiungete anche il sale e la panna non montata. 19. Versate l’intera crema ottenuta all’interno della tortiera. 20. Riponetela in frigo e settate il dispositivo sui 180°C in griglia per una cottura indiretta, con vent out aperte di un quarto. 21. Lasciate cuocere nel vostro dispositivo per mezz’ora circa, dopodiché stabilizzate sui 150/160°C e lasciate cuocere ancora per 20 minuti. 22. A fine cottura, chiudete le vent in e aprite del tutto le vent out e lasciate raffreddare completamente l’interno del dispositivo. 23. Lavate i lamponi e fateli cuocere a fuoco medio in una padella antiaderente per due minuti circa. 24. Spostateli dalla fiamma e unite lo zucchero a velo e il limone, rimestando con una frusta . 25. Fate andare ancora un minuto a fuoco medio. 26. Toglieteli dal fuoco e passateli al colino, pressando con una spatola e raccogliendo la salsa in un contenitore; poi lasciatela raffreddare. 27. Sformate la torta dallo stampo quando già fredda. 28. Mescolate la panna acida con lo zucchero a velo e ricoprite la superficie della torta, livellandola. 29. Versateci sopra la coulis di lamponi e adagiate a piacere i frutti di bosco. Servitela fredda. Meglio ancora, servitela dopo averla fatta riposare almeno mezza giornata in frigorifero, perché si fondano i sapori.
INGREDIENTI per 4 persone Per la base 200 g di biscotti secchi 40 g di nocciole 40 g di mandorle 40 g di noci o anacardi 100 g di burro 50 g di zucchero 30 g Rub Mount Nimba BBQ4ALL Per la farcitura 600 g di ricotta 250 g di mascarpone 100 g di zucchero 2 uova 100 ml di panna fresca una bacca di vaniglia 3 g di sale un limone (scorza grattugiata) un cucchiaio di succo di limone Per la coulis ai frutti di bosco 250 g di lamponi 50 g di zucchero a velo 30 g di succo di limone Per la guarnizione 300 ml di panna acida 40 g di zucchero a velo
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Frutti di bosco a piacere
Lo Speziale del Barbecue a cura della redazione
le Cinque
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Spezie Cinesi
La Cina è certamente un grande paese in cui le spezie, le erbe aromatiche e quelle medicinali costituiscono le componenti immancabili di ogni pietanza, valorizzano il sapore dei piatti e possiedono anche proprietà terapeutiche Sappiamo che sotto gli Han (206 a.C- 221 a.C) in Cina si decise di recuperare tutte le opere letterarie per rielaborarle secondo modelli concettuali
precisi. Tra le opere principali dell'epoca c’è lo Huangdi Neijing (Libro interno dell’Imperatore Giallo), considerato ancora oggi una delle fonti principali della medicina tradizionale e della cultura cinese; esso comprende anche lo yangsheng ( , coltivare la vita), ovvero l'insieme di quei principi che servono a coltivare la propria vita in tutti i vari aspetti per renderla migliore. I cibi ritenuti come principale rimedio preventivo e terapeutico vengono classificati in macro-categorie: cereali, frutta, verdura, carne e pesce. A questo periodo, quindi, risale la frase cardine della dietetica cinese: cura con i cinque sapori, i cinque cereali e le cinque erbe. La teoria dei cinque elementi è il punto cardine di tutto il pensiero filosofico cinese: secondo questa teoria, ogni vita umana si svolge sulla base dei cinque elementi: legno, fuoco,
terra, metallo e acqua. Questo modello viene utilizzato anche in cucina, raggiungendo per quanto possibile l’armonia tra i pasti. Secondo la Medicina Tradizionale cinese, anche i cinque gusti – aspro, amaro, dolce, piccante e salato - si rispecchiano nei cinque elementi, tramite i quali è dunque possibile influire sulle funzioni dell’organismo. Nello specifico: dolce e neutro per l’elemento terra, piccante per l’elemento metallo, salato per l’elemento acqua, amaro per l’elemento fuoco, aspro per l’elemento legno. La polvere cinque spezie rispetta esattamente questo equilibrio ed è la mistura ideale per insaporire carni bianche come anatra, pollo o maiale, ma anche i frutti di mare prima della cottura. Analizziamo a fondo questo fantastico miscuglio e vediamo le proprietà individuali di ognuno degli aromi che lo compongono.
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Conosciuta e apprezzata ormai in tutto il mondo, la polvere cinque spezie è una miscela largamente utilizzata nella cucina cinese. Riuscire a risalire alle esatte origini di questo blend di sapori non è molto facile. C’è chi sostiene sia stato un cuoco inciampato per puro caso in questa combinazione felice di aromi e chi invece pensa che i cinesi stessero cercando una specie di polvere esplosiva e meravigliosa che si adattasse a qualsiasi preparazione.
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ANICE STELLATO (LEGNO) Nome scientifico: Illicium verum Nome Volgare: Anice stellato cinese, badiana Origine: Cina Parti utilizzate: Semi Nonostante questa spezia fosse nota in Cina da tempi immemori, Marco Polo ne custodì gelosamente le origini, perché commercialmente si vendeva a peso d'oro. Fu poi un marinaio inglese di nome Cavendish ad importarla in Europa alla fine del XVI secolo. Il frutto a 8 punte a forma di stella, oltre ad avere un aspetto molto elegante, è da molti considerato sensuale. L'anice stellato è il frutto della badiana. La raccolta avviene quando è ancora verde per essere poi essiccato al sole assumendo il caratteristico colore bruno-rossastro. All'interno dei baccelli sono presenti i semi, con un forte sentore di anice. È utilizzato nella medicina tradizionale cinese per curare infiammazioni, nervosismo, insonnia e dolore; ha proprietà antibatteriche, antimicotiche e antiossidanti. Il suo sapore è simile a quello della cannella unita agli agrumi e ai chiodi di garofano, e si concentra solo nel pericarpo (o guscio) e non nei semi. Questa spezia è originaria della Cina e non ha niente in comune con l'anice che si trova nel bacino mediterraneo, seppur condividano al loro interno lo stesso olio essenziale, l'anetolo. Non deve essere confuso nemmeno con un altro tipo di anice stellato, quello giapponese, detto anche Shikimi, che ha frutti più piccoli e rotondi e semi con un piccolo uncino. Quest'ultimo è pericoloso in quanto contiene oli essenziali neurotossici e stupefacenti. In cucina oltre ad essere una delle componenti principali della miscela delle cinque spezie cinesi, l’anice stellato può essere utilizzato intero per piatti a lunga cottura. Lo troviamo anche in pietanze vietnamite, giamaicane e indiane.
CANNELLA (FUOCO) Nome scientifico: Cinnamomum verum Nome Volgare: Cinnamomo, cannella vera, cannella di Ceylon Origine: Sri Lanka Parti utilizzate: Corteccia È una spezia antica diffusa in vari paesi come le Seychelles, il Madagascar e il Sudamerica. La qualità migliore, più raffinata e costosa è la cannella Ceylon, originaria dello Sri Lanka. Fu scoperta dai portoghesi nel 1505, motivo per il quale gli inglesi e gli olandesi si contesero il dominio dull’isola per molti anni a venire. La Compagnia delle Indie ne detenne il monopolio sino ai primi dell'ottocento finché non venne liberalizzata. La varietà che però più facilmente viene utilizzata nella miscela delle cinque spezie è la cannella Cassia, che ha un aroma meno raffinato, leggermente più amaro e pungente rispetto a quella Ceylon. Entrambe sono ottenute dalla corteccia di un alloro sempreverde. All'età di due anni, l'albero viene tagliato per far si che cresca a cespuglio e formi nuovi germogli che diventeranno, appunto, cannella. Ha proprietà benefiche antimicrobiche, eupeptiche e carminative. Tuttavia è bene ricordare che la cannella contiene delle sostanze chiamate Cumarine le quali, se assunte in quantità elevata, possono essere epatotossiche, cioè dannose per il fegato e i reni. La Cassia ne contiene anche 63 volte di più rispetto alla Cannella Ceylon, per cui è bene stare attenti: l’Istituto federale tedesco per la valutazione dei rischi nel 2011 ha espresso la dose giornaliera tollerabile di cumarine in 0,1mg per kg di peso corporeo, e un cucchiaino da caffè di Cannella Cassia può contenere tra i 5,8 e i 12,1 mg di cumarine. Il suo aroma caldo, lievemente piccante e amarognolo in cucina trova applicazione in diverse pietanze. Fantastica in abbinamento a mele, panna, cioccolato, banana, agnello, maiale, pollo, cacciagione, ma anche a pane speziato, composte di frutta e vin brulè.
PEPE DI SICHUAN (METALLO) Nome scientifico: Zanthoxylum piperitum Nome Volgare: Fagara, fiore del pepe Origine: Cina, Sichuan. Parti utilizzate: bacche, foglie
Con fiori ad ombrello e foglie a barba, le sue piante arrivano sino a due metri di altezza. I suoi semi assomigliano a quelli del cumino, ma più verdi e dal sapore robusto con un aroma caldo. Come l'anice descritto sopra, contiene anetolo nei suoi oli essenziali. Questo gli conferisce un gusto che assomiglia vagamente all'anice, ma più dolce. Proprio per via del suo sapore si abbina bene con carni dal carattere selvatico e ferroso come quelle di cervo e di cinghiale. È una spezia molto utilizzata anche nella concia degli insaccati, quali salsiccia luganega e finocchiona. Viene utilizzata per le sue proprietà toniche, aperitive (cioè in grado di stimolare la secrezione gastrica con conseguente stimolo dell’appetito), digestive, depurative, antispasmodiche, carminative (ovvero in grado di lenire i dolori delle coliche). Si sposa benissimo con: maiale, anatra, manzo, agnello, pesce, crostacei, formaggio, uova e legumi.
Nonostante lo si chiami pepe, non ha nulla a che vedere con la spezia a cui pensate voi. Si tratta del frutto del frassino cinese. I piccoli grani di questa pianta, che assomigliano in effetti alle bacche del pepe, vengono lasciati essiccare al sole affinché acquisiscano un colore rosso – marrone. La sua caratteristica principale è quella di creare intorpidimento alla bocca, rilasciando un aroma caldo e legnoso. Harold McGee, autore del libro sulle scienze alimentari “Il cibo e la cucina”, paragona la sensazione stimolata dal pepe di Sichuan a quella che si ottiene se si accosta la punta della lingua ai poli di una batteria a 9 volt. Gli oli essenziali vengono sprigionati facendo tostare i suoi grani per qualche minuto. Si abbina bene all'anice stellato, in cucina è perfetto per pollo, anatra, cacciagione, maiale, manzo, funghi , patate e zenzero.
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SEMI DI FINOCCHIO (TERRA) Nome scientifico: Foeniculum Vulgare Nome Volgare: Finocchio selvatico, finocchio comune Origine: Italia Parti utilizzate: bulbo, stelo, foglie, semi
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CHIODI DI GAROFANO (ACQUA) Nome scientifico: Syzygium aromaticum o Eugenia caryophyllata Nome Volgare: Chiodo di garofano Origine: Molucche Parti utilizzate: fiori o boccioli Questa spezia si ricava dai boccioli essiccati dell'albero sempreverde del Syzyum aromaticum, la sua origine risiede nell'Indonesia. Questo sempreverde, produttore di chiodi di garofano, può vivere oltre 100 anni e raggiungere un altezza di 20 metri; i boccioli lucidi e chiari profumano l'aria circostante con il loro aroma dolcissimo. Gli alberi crescono lentamente e prima che fioriscano le prime gemme occorrono circa 8 anni. Dopodiché vengono raccolte a mano, non appena il loro colore vira al rosa brillante, e fatte essiccare. Greci e Romani già commerciavano questa spezia, ma solo nel Medioevo raggiunse la sua popolarità in Europa grazie ai navigatori portoghesi e olandesi. I chiodi di garofano furono molto apprezzati per gli usi medici e culinari e per la conservazione dei cibi. Diventarono quindi una spezia pregiatissima con la quale fare profitti. Tra le proprietà troviamo quelle antiossidanti, antibatteriche e antimicotiche, grazie ad un composto attivo, l'eugenolo. Per questo in Cina già dal II secolo utilizzavano i chiodi di garofano per curare indigestione, nausea e mal di denti. Per via del loro aroma caldo, lievemente salato, canforato, acuto e forte, i chiodi di garofano creano una leggera insensibilità alla bocca. In ambito culinario, si adattano ai piatti sia salati che dolci, anche se a causa del loro sapore molto intenso vanno utilizzati con cautela. Si abbinano bene a maiale, prosciutto cotto, mele, arance, vino rosso. Un consiglio? Provateli nel ragù! Altre applicazioni di questa spezia si trovano in cosmetica, dove viene usata sopratutto per la formulazione di profumi maschili.
LE PROPORZIONI Ora che conosciamo molto bene ogni spezia contenuta all'interno della miscela cinque spezie, non ci resta che parlare della ricetta. Ne troverete in commercio centinaia che si differenzieranno l'una dall'altra per note più o meno piccanti, più o meno dolci, più o meno amarognole e così via. L'unica cosa che certamente posso dirvi è che, nonostante ci siano queste variazioni in commercio con dosaggi personalizzati dai produttori stessi, in Cina è di uso comune utilizzare tutte le componenti in ugual peso. Pertanto se volessimo creare la nostra miscela delle cinque spezie cinesi, non dovremmo far altro che prendere gli ingredienti singoli, scegliere la nostra unità di misura a seconda della quantità che vogliamo produrre e pesare in egual modo ogni spezia. Questa non è una regola fissa. Ognuno può personalizzarla aggiungendo o togliendo note a proprio piacere, alternando le quantità dell'una o dell'altra spezia, facendo però attenzione a non turbare l’equilibrio fra i vari gusti a cui la cucina cinese fa riferimento. Una delle cose che dovete sapere è che tutte e cinque le spezie insieme donano ai cibi un retrogusto intenso di liquirizia. In ogni caso, giocate con questa polvere adattandola alla vostra esigenza di volta in volta e non ve ne pentirete. Vi restituirà profumi e sapori mai percepiti che la faranno diventare una delle miscele che più apprezzerete.
Le salse cinesi The Chemical Griller a cura di Virgilio Brunetti
Alcune salse più di altre ci sono familiari proprio perché le ritroviamo nei menù dei ristoranti cinesi, altre molto meno. Negli sconfinati menu del vostro ristorante di fiducia vi sarete sicuramente imbattuti nella famigerata salsa d’ostriche. In realtà è particolarmente diffusa sia nella cucina cinese ma anche in quella malese, quella thailandese e quella vietnamita; insomma, un quarto della popolazione mondiale l’apprezza. Vi sarete chiesti: ma contiene davvero ostriche?
Ebbene sì, infatti nella versione originale l’ingrediente base sono effettivamente i preziosi molluschi cotti lungamente fino ad ottenere un fondo di cottura denso e scuro dal forte odore caratteristico; nelle versioni industrializzate la base è una percentuale variabile di estratto d’ostriche al quale si aggiungono amidi, zucchero, sale, glutammato monosodico o altri esaltatori di sapidità. Sapete bene che un eccesso di glutammato appiattisce il sapore di qualsiasi ingrediente, quindi un buon condimento deve avere un’elevata percentuale di concentrato dell’ingrediente base grazie al quale l’uso dell’esaltatore di sapidità è inutile (leggete le etichette). Quella d’ostriche è una salsa fortemente umami e dolce, dall’aspetto molto scuro e denso. È utilizzata in gran parte come condimento di cibi cotti, come i cavoli cinesi al vapore e il pollo saltato al wok. La sua genesi è relativamente recente: fu inventata per caso da Lee Kum Sheung a Nanshui,
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Quando mi aggiro tra gli scaffali di un market etnico sono sempre combattuto, perché nella mia testa si avvicendano due sentimenti contrastanti: curiosità e sospetto. Soprattutto il made in China nel nostro immaginario è sinonimo di prodotto scarso a basso costo e, quando si tratta di alimenti, l’allerta è massima. Eppure molti di noi non si fanno specie a mangiare in un all you can eat di finto cibo giapponese, giusto? Spesso riesco a fugare i miei dubbi semplicemente leggendo la lista degli ingredienti (e la data di scadenza). Basta avere il minimo sindacale di cultura per capire se un prodotto ha un valore gastronomico o meno, soprattutto se ha una lista di ingredienti che comprende
esclusivamente acqua, sale, zucchero e esaltatori di sapidità. Il mondo delle salse, soprattutto quelle esotiche, mi attizza sempre parecchio e spesso non resisto: le compro pur non avendo la più pallida idea di come possano essere utilizzate; non ridete, sono sicuro che la maggior parte di voi ha un arsenale abbandonato in frigo e in dispensa a fare la muffa.
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Zhuhai, nella provincia del Guangdong, in Cina. Nel 1888 Lee gestiva una bancarella che vendeva tè e brodo d’ostriche; un giorno stava cucinando i molluschi come al solito, ma perse la cognizione del tempo e li lasciò cuocere a fuoco lento fino a quando non sentì un forte e insolito odore. Sollevando il coperchio della pentola, scoprì che la zuppa di ostriche normalmente limpida si era trasformata in un composto denso e brunastro che aveva un gusto sorprendente. Presto Lee iniziò a vendere la sua nuova salsa, che ebbe un successo clamoroso tanto che ancora oggi l’azienda Lee Kum Kee da lui fondata è una dei maggiori produttori di condimenti asiatici nel mondo. Ricordatevi che per essere definita buona, deve essere a base d’ostriche e non di glutammato. Il brand Thailandese Mae Krua ad esempio, con il suo 30% di estratto in cima alla lista degli ingredienti, è una buona scelta. Come tutti i condimenti umami, anche questo rappresenta un accostamento interessante per carni grigliate; esattamente come la meno famosa (in Italia) Hoisin: una tradizionale salsa cinese dall’aspetto denso, scuro e brillante. La parola da cui prende il nome sta per frutti di mare; peccato che nella lista degli ingredienti non se ne trova traccia. Alla base di una buona Hoisin c’è il delicato equilibrio di dolce, acido, amaro e salato; è anche una salsa profondamente umami, speziata, moderatamente agliata e piccante. È molto complessa, il cui corpo è strutturato dalla presenza di derivati della soia
fermentata e dall’amido usato come addensante. L’acidità e la dolcezza si bilanciano grazie allo zucchero e all’aceto di riso. Gli aromi che fanno parte delle cinque spezie cinesi (finocchio, anice stellato, cannella, chiodi di garofano e pepe di Sichuan) le danno l’inconfondibile impronta asiatica, resa più rustica per l’aggiunta di aglio e peperoncino. Queste caratteristiche rendono la Hoisin versatile sia in purezza che come ingrediente base di altre preparazioni; proprio per questo alcuni la definiscono la salsa barbecue cinese o il ketchup cinese. Meathead Goldwyn nel suo Amazing Ribs ne consiglia l’utilizzo in alcune preparazioni squisitamente barbecue, come le sue Hoisinful Nine Dragon Ribs e Chinatown Char Siu Ribs. La deriva asiatica delle preparazioni in griglia è un trend assolutamente hot negli States, tuttavia la Hoisin è un complemento imprescindibile di una delle ricette più famose e complesse della cucina cinese: l’anatra laccata alla pechinese. In Italia la reperibilità di brand sicuri dal punto di vista qualitativo è affidata ai numerosi market etnici presenti sul nostro territorio; vi suggeriamo l’acquisto della Hoisin a marchio Lee Kum Kee che non avrete problemi a reperire online. Quando vi siete seduti per la prima volta in un ristorante cinese probabilmente avete ordinato involtini primavera; insieme all’immancabile salsa di soia vi hanno sicuramente servito un intingolo dalla composizione indefinita di colore rosso-arancione dal
sapore dolce-acido. Vi siete sicuramente chiesti come si chiama ma la risposta è banale: salsa agrodolce. Immagino che abbiate anche domandato come si faccia, perché vi è così tanto piaciuta da volerla riprodurre a casa, ma siete anche rimasti male perché la cameriera non vi ha dato una risposta comprensibile. Sappiate che generalmente quella che vi servono è fatta con ketchup, aglio, zucchero e aceto oppure molto più facilmente è stata comprata all’etnico dietro l’angolo. Le varianti di questa salsa sono innumerevoli e anche nell’ambito della cucina cinese ci vorrebbe un trattato per poterle descrivere tutte, soprattutto perché molte preparazioni la richiedono sia come parte della ricetta sia come intingolo d’accompagnamento. Inoltre varia in base all’alimento che si vuole condire; in Cina ne esiste una variante per ogni ricetta a base di manzo, di anatra, di verdure, di tofu, di pesce, ecc... Ma tranquilli, la variante più diffusa si basa semplicemente su una riduzione fatta con zucchero, aceto di riso, salsa di soia e spezie (chiodi di garofano e zenzero fresco), mentre nella versione occidentalizzata viene aggiunto il concentrato di pomodoro. Si potrebbe dire dunque che la Sweet&Sour è una categoria di salse. Tra queste degna di nota la Duck Sauce, che è un condimento comune per l’anatra arrosto; non è altro che una riduzione di polpa di prugne, aceto di riso, zucchero, zenzero fresco e peperoncino. In alcuni casi le prugne possono essere sostituite dalle pesche, dalle albicocche, dal mango, dall’ananas e dalla papaia verde (giusto perché le varianti non sono mai troppe).
BĚIJĪNG KǍO YĀ
la ricetta definitiva dell'anatra alla pechinese
L’Anatra laccata alla pechinese è probabilmente il piatto più iconico della cucina cinese, un piatto imperiale divenuto prima popolare e poi globalizzato quasi mai declinato in stile fast (trash) food. La caratteristica più attraente e affascinante di questa preparazione è la laccatura della pelle che deve risultare lucida, croccante e ambrata. Nella versione tradizionale in effetti veniva servita esclusivamente la pelle dell’anatra, una delizia di cui solo l’imperatore e la sua corte erano degni. L’anatra laccata fortunatamente non si è estinta con la dinastia dell’ultimo imperatore della Cina e, pur rimanendo un piatto raffinato, ha conquistato i ceti più popolari grazie alla perizia dei numerosi cuochi cinesi specializzati quasi esclusivamente nella sua preparazione che richiede tecnica, attenzione per le materie prime, pazienza, dedizione ed esperienza. È sicuramente un piatto da ristorante ed è proprio dai locali di Beijing che ha iniziato a conquistare il mondo. È caratterizzata da una complicata preparazione che si completa con la presentazione del piatto al cliente; tutto avviene in maniera assolutamente codificata, ed è proprio in questa
fase che questo cibo assurge alla dignità di esperienza gastronomica. Il cerimoniale di presentazione è fondamentale ed è rispettato in tutti i ristoranti che servono questo piatto. Di solito viene mostrata per intero ai commensali, poi lo chef inizia ad affettare l’anatra laccata con un coltello affilatissimo e gesti precisi per ottenere fettine oblique sottili e regolari. Al cospetto di ospiti di riguardo, la pietanza viene servita con il brodo e le carne a parte. La presentazione classica invece prevede l’abbinamento con un mix di verdure fresche a listarelle. Con una salsa agrodolce e fruttata ( ) si spennellano sfoglie sottilissime simili a crêpes ( ) su cui si dispongono le fettine di anatra. Per il palato l’esperienza è unica. Croccante, morbido, succoso, umami, dol-
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The Chemical Griller - la ricetta a cura di Virgilio Brunetti
ce, grasso si presentano tutti contemporaneamente. La sensazione di provare allo stesso tempo armonia e contrasto è impareggiabile. Un antico detto cinese dice che: non sei stato a Beijing se non hai assaggiato la vera anatra laccata. Il direttore del BBQ4All Magazine Rossella Neiadin vi consiglia di fare un viaggetto a Pechino a mangiare l’anatra al ristorante Da Dong, .
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Il primo a fare dell’anatra un piatto “popolare” fu Yang Quanren: 150 anni fa aprì il ristorante Quanjude, che esiste ancora oggi e, anzi, si è diffuso fino a diventare un famoso franchising globale di cibi cinesi. Un secolo e mezzo fa Yang Quanren ha rivoluzionato il modo di preparare l’anatra laccata: se fino ad allora veniva cotta sdraiata in forno, da quel momento venne introdotta la cottura in sospensione nei forni chiusi. Questo sistema consente al grasso di colare lentamente e lascia la pelle più asciutta e croccante. Tale è stato il suo successo che, attualmente, il metodo Quanren si è imposto come tradizionale. Il forno aperto è alimentato con legna di alberi da frutto: fino a qualche anno fa si utilizzava esclusivamente legno di giuggiolo, ma ora sono stati sdoganati anche quelli di pero, melo e ciliegio. Le anatre utilizzate per questa preparazione hanno circa 100 giorni e nell’ultima settimana vengono alimentate forzatamente con un sistema simile a quello usato per l’ingrasso delle oche da foie gras. Dopo la macellazione l’animale viene gonfiato, per far staccare la pelle dalla carne e successivamente vengono eliminate le viscere, con un metodo di estrazione che permette di mantenere intatto il corpo. A questo punto l’anatra viene rapidamente immersa in acqua bollente, poi viene spennellata con uno sciroppo dolce a base di miele e appesa ad asciugare per 24 ore. Prima della cottura viene versato del brodo bollente nelle cavità dell’anatra: questo consente alla carne di cuocere lentamente e a temperatura costante, mentre la pelle si disidrata, si cuoce e si affumica a contatto con il calore più forte
Ma come prepararla in casa? Metteremo adesso gli accenti su tutti i passaggi fondamentali per ottenere una anatra laccata perfetta: dalla scelta del volatile fino al servizio. La prima variabile è la selezione dell’anatra, che deve essere grassa, della dimensione giusta e la cui carcassa, in fase di macellazione, deve essere mantenuta il più possibile integra al fine di poter staccare adeguatamente la pelle dalla muscolatura sottostante. Vediamo sommariamente tempi e fasi di preparazione. Primo giorno: pulire accuratamente l’anatra da tutti i residui di piumaggio e rimuovere il collo preservando la pelle in modo da poterla legare. Appendere l’animale in frigo ad asciugare per una notte. Secondo giorno: separare la pelle dalla carcassa insufflando aria con una pompa da bicicletta oppure con un compressore o ancora manualmente aiutandosi con il manico di un cucchiaio. Sbollentare rapidamente l’anatra in acqua
bollente per rassodare la pelle. Nappare la pelle dell’anatra con una miscela in parti uguali di sciroppo di malto e salsa di soia. Appendere in frigo una notte per asciugare. Terzo giorno: cuocere l’anatra appesa verticalmente in un dispositivo a legna o a carbone. Utilizzare un setup indiretto, privo di fonti di vapore e affumicare con legno fruttato (melo e ciliegio). Mantenere una temperatura moderata e prolungare la cottura affinché il grasso sottocutaneo venga renderizzato, fondendo, e possa drenare attraverso lo spazio libero tra muscolatura e pelle. Ricordatevi che la pelle è la protagonista della preparazione mentre la carne ha un ruolo marginale. L’anatra sarà pronta quando la pelle sarà perfettamente croccante, lucida, di un intenso colore ambrato. Ma qual è la chiave per ottenerla croccante? Bisogna eseguire necessariamente tre passaggi funzionali al risultato: 1. Innanzitutto, fino a quando tutta l’umidità interna non viene rimossa, è impossibile portare la pelle a una temperatura sufficientemente elevata perché si brunisca correttamente. Ricordate? Il nemico numero uno della reazione di Maillard è l’acqua. 2. La pelle deve cuocere lentamente ed in maniera progressiva, sviluppando il sapore e la tipica texture croccante. Questo significa che l’ambiente di cottura deve essere ventilato ed il calore somministrato deve essere indiretto, costante e secco con un buon aroma di fumo di legno fruttato. Inoltre,
la precottura della pelle con acqua bollente e il trattamento con zuccheri riducenti favoriranno lo sviluppo della Maillard. 3. Infine, se il grasso liquido rimane intrappolato a ridosso della pelle, a fine cottura si rapprenderà e la pelle sarà intrisa di grasso vanificando il lavoro precedente. Per questo motivo l’anatra viene appesa e cotta in verticale. Lo scollamento della pelle favorisce il drenaggio per gravità. Questo stesso approccio non è forse la base per ottenere anche un prefetto Beer Can Chicken? Il “trucco” del bicarbonato di sodio e del sale. Tradizionalmente, prima della cottura, l’anatra viene tenuta in frigo ad asciugare, per aumentare la croccantezza e l’imbrunimento della pelle. Ecco, in questa fase si può applicare a secco una piccola quantità di bicarbonato e sale da cucina sulla superficie esterna del pennuto. I sali agiranno in due modi: aumentando il pH, con la conseguenza che le reazioni di Maillard avverranno in modo più efficiente, e modificando le proteine del tegumento, rendendo la pelle più croccante e friabile. La preparazione dell’anatra laccata non termina con la cottura. Volendo seguire la tradizione si dice che i cinesi gustino l’anatra alla pechinese tre volte: mangiando la pelle, poi la carne saltata e infine la zuppa con il brodo. L’unica problema di questa preparazione è solo e soltanto uno: crea dipendenza.
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delle braci. Solo dopo tre passaggi in tre forni con temperature diverse l’anatra è pronta e tutto il grasso adeso alla pelle si sarà fuso e drenato. Il fatto che le anatre vengano appese in posizione verticale favorisce lo scorrimento del grasso fuso tra la carne e la pelle del volatile. Questa tecnica di cottura è estremamente affascinante e il tecnicismo ha basi scientifiche solide; inoltre approccia in maniera interessante alcune tecniche di cottura che potremmo definire assolutamente barbecue.
APPROFONDIMENTO a cura di ROBERTO DAL BOSCO
la Bistecca sintetica una storia sbagliata? Cultura e Socieltà a cura di Roberto Dal Bosco
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Quando mangiate una picanha perfettamente cotta e la sentite cambiare consistenza all’interno della vostra bocca, quando odorate le molecole della Maillard che vi chiamano a sé, quando vi sentite fieri di essere l’ultima, fortunatissima parte della filiera alimentare, mai pensereste che qualcuno in questo universo di gioia vi voglia togliere questi piacere, o meglio, sostituire. Proprio così: le ricerche per i surrogati della carne vanno avanti da decenni e nonostante gli ostacoli immani (capita, quando si sfida la natura e la bellezza financo gustativa del creato) continuano imperterriti, basandosi su tecniche ed ideologie sempre nuove. Certo, per il Grill Master si tratta di pura blasfemia. Siccome la carne finta è arrivata persino nei fast food italiani, c’è da cominciare a prendere la misura con il fenomeno. BISTECCHE PETROLIFERE Se qualcuno deve pensare ai terribili anni Settanta, non può in alcun modo evitare di pensare agli shock petroliferi. I prezzi della benzina alle stelle, gli Stati che proponevano domeniche senz’auto quando l’inquinamento non era nemmeno considerato. Lo shock avveniva soprattutto perché all’epoca si pensava che all’oro nero non vi fosse alternativa. Erano anni foschi: poco prima, un tale Paul Ehrlich, un entomologo, aveva pubblicato un libro chiamato The Population Bomb in cui diceva che, a causa della sovrappopolazione, in pochissimi anni saremmo morti tutti per la fame e per le guerre conseguenti. Non poteva essere che negli anni Settanta, quindi, gli scienziati se ne venissero fuori con la bistecca derivata dal petrolio. E invece si inventarono una carne completamente sintetica, ottenuta dalla sostanza che spinge avanti le automobili. La sfida era di ottenere proteine da colture di microrganismi su derivati del petrolio, da utilizzare come mangimi e come alimenti direttamente rivolti agli uomini. L’Italia fece la sua parte: in Calabria un maxi stanziamento statale mise in piedi, in un’ex salina, gli stabilimenti dell’im-
presa Liquichimica Biosintesi; dopo soli due mesi di attività, il Ministero della Sanità dichiarò che quelle bioproteine potevano essere cancerogene per l’intero ciclo alimentare (!). L’impianto venne chiuso e tutti i dipendenti vennero messi in cassa integrazione, rimanendoci 23 anni (!!!). Nel resto del mondo, la questione della minaccia di fame e di sovrappopolazione cominciò a sfumare: le previsioni catastrofiste di Ehrlich erano completamente errate. Si era pensato che Paesi come l’Italia e il Giappone, con poca terra e tanta popolazione, fossero destinati al precipizio alimentare. Non fu così: agricoltura e zootecnica progredirono nel trend di innovazione partito
LA CARNE COLTIVATA La cosiddetta carne coltivata (detta anche carne pulita, carne sintetica, carne artificiale o carne in vitro) è prodotta dalla coltura in provetta di cellule animali, anziché da animali macellati. È una forma di agricoltura cellulare. In pratica una bistecca di Cultivated Beef mai è stata parte di un animale intero, e quindi capite come – nella cornice sempre più utilitarista della nostra società che inorridisce rispetto al dolore – vi siano conseguenze etiche rilevanti per il trattamento degli animali. Il concetto di carne coltivata fu lanciato nei primi anni 2000 da Jason Matheny, tecnologo legato a istituzioni dei servizi segreti americani. L’idea è quella di usare le tecniche di rigenerazione dei tessuti tipiche della medicina rigenerativa per creare bistecche a partire da singole cellule. Matheny fondò New Harvest, la prima organizzazione no profit al mondo dedicata a sostenere la ricerca sulla carne
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n e l dopoguerra e della fame, nel mondo sviluppato, non si vide nemmeno l’ombra. La bistecca petrolifera sparì. Tuttavia l’imperativo di sostituzione della carne non muore, semplicemente si trasforma. Suona un po’ apocalittico ma è proprio così.
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in vitro. La possibilità teorica di coltivare carne in modalità puramente industriale è un sogno che attirava perfino Winston Churchill, che nel 1931 ebbe a dire: «sfuggiremo all’assurdità di coltivare un pollo intero per mangiare il petto o l’ala, coltivando queste parti separatamente sotto un terreno adatto». Dalla sparata futurologica del primo ministro inglese passarano 40 anni prima che Russel Ross, luminare di patologia e degli studi sull’arteriosclerosi, riuscisse a coltivare con successo fibre muscolari (1971). Nel 1998 tale Jon F. Vein depositò un brevetto per la produzione di carne ingegnerizzata per il consumo umano. Nel 2001, un dermatologo, un medico e un uomo d’affari olandesi depositarono un altro brevetto basato su una matrice di collagene e di cellule muscolari. La NASA si dedicò alla possibilità
di fornire agli astronauti carne di tacchino cresciuta nello spazio; un consorzio di bioscienze americano nel 2002 creò un filetto di pesce a base di cellule di pesce rosso (!), mentre l’Harvard Medical School esibì a Nantes, in Francia – dove sennò? – della carne ottenuta da cellule di rana che fu cotta e mangiata nel 2003. I primi, veri risultati di questa tentata rivoluzione bioculinaria si videro nel 2013, quando il dottor Mark Post, professore all’Università di Maastricht, creò il primo di hamburger coltivato direttamente a partire da cellule. Invitarono in Olanda esperti di cucina per provare quella che i giornali italiani ribattezzarono come sinto-carne. L’hamburger fu cucinato dallo chef Richard McGeown del Great House Restaurant di Couch, Polperro, in Cornovaglia, e assaggiato dalla critica Hanni Rützler, da un ricercatore alimentare del
Future Food Studio e dal food writer Josh Schonwald . «Il sapore è come quello della carne. Sentivo la mancanza del grasso, ma in generale sì, sembra di masticare un hamburger», disse Schonwald. La Rützler aggiunse che anche in una prova alla cieca avrebbe scambiato il prodotto per carne piuttosto che per un surrogato alla soia. Era stata loro servita una svizzera creata da cellule staminali di vacca, a cui erano stati aggiunti succo di barbabietola rossa, zafferano, sale, uova in polvere e Parmigiano grattugiato. Si scoprì che l’esperimento, che aveva costi importanti (circa $325.000), era stato finanziato anche dal cofondatore russo-americano di Google, Sergej Brin. Post fece da apripista, altri pionieri che prototiparono bistecche e polpette in provette si fecero avanti; nessuno però arrivò alla commercializzazione. Mosa Meat, società dei Paesi Bassi fondata nel 2015 dallo
stesso Post, è al momento l’unica realtà che ha un piano per arrivare alla produzione industriale di bistecche in vitro. Nel 2018, raccolse un round di € 7,5 milioni di finanziamento dai Venture Capital. Secondo l’azienda, la vendita al consumatore potrebbe iniziare attorno al 2021, con un prezzo di $ 11 dollari ad hamburger. Inseguono molte aziende di tutto il mondo, da Israele alla Silicon Valley. Tuttavia i Paesi Bassi rimangono in testa alla ricerca. Un sito annuncia l’apertura del Bistro in Vitro, il primo ristorante dedicato alla carne sintetica, ma a guardare bene pare si tratti di uno scherzo per promuovere un documentario. Segnaliamo quindi che la carne coltivata può aprire una porta ulteriore, quella che dà su uno dei penultimi tabù rimasti all’uomo moderno: il cannibalismo. In pratica, se mi creo un muscolo umano a partire da cellule, senza quindi uccidere un uomo intero, non faccio nulla di male, teorizzano alcuni sostenitori. Si tratterebbe di un semi-cannibalismo, di uno pseudocannibalismo, di un cannibalismo cruelty-free (proprio così). Non si tratta di uno sterile esercizio intellettuale, visto che uno scienziato pubblicato in tutto il mondo, Richard Dawkins, nel 2018 ha suggerito apertis verbis il fatto che mangiare carne umana creata in laboratorio possa aiutare a superare il «tabù contro il cannibalismo». «É da tanto che lo aspettavo» ha scritto su Twitter il professore oxoniano, generalmente noto come campione mondiale dell’ateismo. Senza passare per le bistecche cellulari, è noto come a fine 2019 uno scienziato comportamentale svedese, Magnus Söderlund, abbia cominciato a discutere della consunzione di carne umana come aiuto contro il cambiamento climatico. I problemi più immediati, nell’infelice mondo della bistecca sintetica, li dà comunque un’altra sostanza: la soia.
La sostituzione della carne ha una lunga storia che parte (come si vede sull’articolo di questo mese dedicato alla cucina cinese) dall’antichità del Regno di Mezzo. Il tofu era utilizzato come succedaneo della carne in Cina già durante il periodo della dinastia Han
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HAMBURGER CHE FANNO VENIRE LE TETTE AGLI UOMINI I surrogati della carne attualmente disponibili sul mercato (chiamati anglofonicamente meat analogue, meat alternative, meat substitute, mock meat, faux meat, imitation meat, vegetarian meat, fake meat, vegan meat) sono quasi sempre a base di soia e derivati.
occidentale (206 a.C.- 9 d.C.). La parola per definirlo, in un documento scritto all’ambasciatore della dinastia dei Tang meridionali Tao Gu (903-970), è , ossia piccolo montone. L’influsso buddista non fece che aumentare il potere di tofu e famiglia nella dieta dei cinesi, senza però piegarne del tutto le abitudini carnivore. Anche nel Medioevo europeo si cercarono temporanei sostituti della carne nel periodo della Quaresima (che succede, appunto, ai giorni di festa in cui la carne-vale). I cristiani medievali, scrive Melitta Weiss in Food in the Medieval Times, tritavano mandorle e uva come sostituto della carne tritata, e tagliavano il pane a dadini per creare un effetto-ciccioli. In era moderna, a cercare forsennatamente di sostituire la carnazza, fu il nutrizionista statunitense John Harvey Kellogg, l’indimenticato inventore della colazione americana a base di cereali. Egli evitava così agli uomini il bacon mattutino, ed anzi teorizzava un ruolo anafrodosiaco (cioè, il contrario di afrodisiaco) dei corn flakes poi industrializzati dal fratello. Will Keith Kellogg; infatti, uno dei suoi interessi maggiori era di portare avanti la campagna nazionale contro la masturbazione, grande preoccupazione dell’epoca che segnò pure la non ancora spenta abitudine di circoncidere in massa i bambini nordamericani.
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Dobbiamo aspettare i nostri anni per vedere ufficialmente aperta l’era dei surrogati totali. Nell’aprile 2013, Beyond Meat, una società che godeva di centinaia di milioni di dollari di investimenti da fondi venture e mega-ricconi come Bill Gates, iniziò a vendere il pollo sintetico (Beyond Chicken) nei negozi di Whole Foods, catena di supermercati bio da poco comprata da Amazon; il cibo era composto da proteine di soia e piselli, fibre e altri ingredienti, ed ebbe successo commerciale, portando la società californiana a lanciare prodotti di pseudo-carne bovina e suina. Beyond Meat andò in borsa nel maggio 2019 ad un prezzo di $ 25 ad azione; a metà dicembre si è arrivati a $ 72: se ci avevi investito 10.000 dollari te ne potevi uscire con 28.800. Cioè quasi il triplo. Nel 2016, un’altra azienda di cripto-soia carnale, Impossible Foods, introdusse un sostituto della carne bovina, che, affermava, aveva l’aspetto, il gusto e proprietà di cottura simili alla carne vera e propria. Impossible Meat a differenza del concorrente non è scesa in borsa, ma dai round di finanziamento che ha cercato a novembre possiamo sapere che si dà un valore tra i 3 e i 5 miliardi di dollari. L’azienda riesce a stipulare un contratto con una mega-catena di hamburger presente anche in Italia, dove è nel pacchetto di una oggi discussa famiglia di capitalisti. La sfida è vinta: l’hamburger di non-carne entra nel menu internazionale
Ma l’America profonda, quella del rodeo e delle ribs, non è rimasta con le mani in mano davanti all’avanzata anti-BBQ. Secondo James Stangle, un medico di medicina veterinaria del Sud Dakota, l’hamburger a base di soia servito dalla nota catena di fast food contiene 18 milioni di volte più estrogeni rispetto ad un normale hamburger di carne bovina. Il che porta ad effetti problematici, specie per il consumatore maschio. «Solo sei bicchieri di latte di soia al giorno hanno abbastanza estrogeni per far crescere le tette su un maschio», ha scritto il professor Stangle. La crescita del seno in un corpo maschile, detta anche ginecomastia, è un effetto legato alla sovrabbondanza di estrogeni nell’organismo; il fenomeno è ben conosciuto dai body builder,
perché alcuni derivati sintetici del testosterone (quelli che chiamano steroidi) in alcuni casi possono aromatizzare, cioè trasformarsi in estrogeni, gli ormoni che esplicano le fondamentali funzioni per la comparsa e il mantenimento dei caratteri sessuali femminili.
ad essere una bomba di estrogeni. Riguardo all’hamburger senza carne, «la cosa buffa è il fatto che sia un OGM e che le persone che hanno più probabilità di mangiarlo sono quelle che hanno più probabilità di essere contro gli OGM» dice Stangle.
Mica è finita: un altro studio del 2008 ha scoperto che «gli uomini che hanno mangiato più soia hanno una minore concentrazione di spermatozoi». Il dottor Stangle inoltre racconta di un ingrediente dimenticato dell’hamburger di soia della nota catena: la leghemoglobina, usata per dare il colore rosso all’hamburger surrogato. Per ottenere questo risultato, gli scienziati avrebbero usato l’ingegneria genetica su alcuni lieviti. Tecnicamente, quindi, quell’hamburger di soia è un OGM – oltre
Insomma, quanto vogliono complicare l’esistenza a chi vuole mangiarsi della carne in santa pace? In attesa della risposta, impariamo una cosa certa: mangiare carne finta può trasformarti, nell’anima e nel corpo. Quindi, ora e sempre, viva la ciccia, viva la ciccia vera, viva il fuoco che la cuoce, viva gli amici che te la sbafano, viva le persone che la conoscono e la rispettano.
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dei fast food.
Il
ragù
LA RICETTA SCIENTIFICA
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di Gianfranco Lo Cascio
“VIRGINIA Signo', ma io credo che tutta questa cipolla abbasta. ROSA Adesso mi vuoi insegnare come si fa il ragù? Più ce ne metti di cipolla più aromatico e sostanzioso viene il sugo. Tutto il segreto sta nel farla soffriggere a fuoco lento. Quando soffrigge lentamente, la cipolla si consuma fino a creare intorno al pezzo di carne una specie di crosta nera; via via che ci si versa sopra il quantitativo necessario di vino bianco, la crosta si scioglie e si ottiene così quella sostanza dorata e caramellosa che si amalgama con la conserva di pomodoro e si ottiene quella salsa densa e compatta che diventa di un colore palissandro scuro quando il vero ragù è riuscito alla perfezione. VIRGINIA Ma ci vuole troppo tempo. A casa mia facciamo soffriggere un poco di cipolla, poi ci mettiamo dentro pomodoro e carne e cuoce tutto assieme. ROSA E viene carne bollita col pomodoro e la cipolla. La buonanima di mia madre diceva che per fare il ragù ci voleva la pazienza di Giobbe. Il sabato sera si metteva in cucina con la cucchiaia in mano, e non si muoveva da vicino alla casseruola nemmeno se l'uccidevano. Lei usava o il «tiano» di terracotta o la casseruola di rame. L'alluminio non esisteva proprio. Quando il sugo si era ristretto come diceva lei, toglieva dalla casseruola il pezzo di carne di «annecchia» e lo metteva in una sperlunga come si mette un neonato nella «connola», poi situava la cucchiaia di legno sulla casseruola, in modo che il coperchio rimaneva un poco sollevato, e allora se ne andava a letto, quando il sugo aveva peppiato per quattro o cinque ore. Ma il ragù della signora Piscopo andava per nominata.”
Pronti per una full immersion di tre giorni sul concepimento del ragù migliore di sempre? Iniziamo.
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Io di cognome faccio Lo Cascio ma vi garantisco una cosa: la formula del ragù che sto per rivelarvi metterà d’accordo proprio tutti. Sì, i tempi per realizzarlo sono un po’ lunghetti e i passaggi laboriosi, ma vi assicuro che ne vale davvero la pena. Il vostro ragù sarà meglio di quello della mamma, della nonna e di tutte le mamme e le nonne bolognesi e napoletane messe insieme. Vi serviranno pochi ingredienti e tanto tempo a disposizione. E siccome il tempo non va misurati in ore e minuti ma in trasformazioni, stavolta la trasformazione è di quelle radicali.
Il grasso
GIORNO 1
Lo strutto e il grasso bovino, si sa, sono ottimi per friggere. Hanno un punto di fumo molto alto (lo strutto 240°C e il sego bovino 230°C) e vengono utilizzati in moltissime ricette o adoperati nella frittura delle patatine. Donano una fragranza ed un gusto molto particolare alle pietanze, agli impasti, persino ai dolci. Per preparare la nostra versione del ragù ci occorre una discreta quantità di sego bovino. Non fate i maliziosi, la terza media l’avete finita diverse primavere fa. Il punto di fusione di un lipide è tanto più elevato quanto maggiore è il grado di “saturazione” degli acidi che lo costituiscono. Ovvero la fluidità di un lipide è tanto più elevata quanto maggiore è il grado di “insaturazione” degli acidi grassi che lo costituiscono. Mentre gli oli si presentano in forma liquida a temperatura ambiente, il sego è un blocco bianco e solido che comincia a sciogliersi solo se portato ad una temperatura superiore ai 40°C.
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Ed è proprio scaldando dei pezzi di grasso scartato dalla lavorazione della carne che dovrete autoprodurvi il sego. Ora vi spiego come. Per prima cosa procuratevi 500 grammi di grasso di manzo, quanto più pulito possibile, e fatevelo macinare dal macellaio: è importante che venga ridotto in piccoli pezzi. Io ho utilizzato il nostro pregiatissimo grasso di Wagyu Miyabi GLC Top Selection (lo trovate sul Megastore), l’ho raffreddato in congelatore per un’oretta circa e l’ho tritato nel mixer ottenendo una sorta di sfarinato grezzo. Ma prima di fare qualsiasi cosa ho messo i guanti. Credetemi quando vi dico
che questa roba unge, toccatela con le mani e dovrete lavarvela dalle dita con il napalm. A questo punto potete procedere in uno dei tre modi seguenti: 1. Trasferite il grasso triturato in una pentola a bordi alti, aggiungete 2 litri d’acqua e cuocete per circa 2-3 ore. L’acqua vi servirà a non superare il punto di fumo del grasso e a sciogliere il tutto gradualmente. Filtrate a caldo con un colino a maglie strette e trasferite in una ciotola di vetro. Lasciate raffreddare il sego a temperatura ambiente, il composto si solidificherà e diventerà bianco opaco, e vedrete tutte le impurità depositarsi sul fondo. Per eliminarle vi basterà capovolgere la ciotola, sformare delicatamente e grattare via lo strato di collagene e di piccole frazioni di carne che non sarete riusciti ad eliminare in fase di filtraggio. Conservate in frigorifero ben coperto. 2. Sistemate il grasso triturato in una pentola a bordi alti e scaldatelo a bagnomaria, collocandola in una seconda pentola riempita con acqua. Lasciate sciogliere lentamente, filtrate a caldo con un colino a maglia finissima in uno o più barattoli di vetro. Lasciate raffreddare e conservate in frigorifero. 3. Versate il grasso polverizzato in un sacchetto per la cottura sottovuoto e scaldate in sous vide a 90°C per 4-5 ore, o fino a quando il grasso non si sarà sciolto del tutto. Filtrate e colate in uno più barattoli di vetro. Lasciate raffreddare e conservate in frigorifero.
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Il brodo Il sugo
GIORNO 2
Per preparare il ragù scientifico vi occorre uno stinco di manzo, anteriore o posteriore non fa differenza. Fatevelo disossare dal macellaio e chiedetegli di segare l’osso a rondelle o a baguette, in senso verticale.
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Raschiate via il preziosissimo midollo e mettetelo da parte, ci servirà per il sugo. Con le ossa preparate un buon brodo tostandole a fuoco spinto con poco olio, poi deglassate con acqua la crosticina brunita che si sarà formata sul fondo fino a coprire per 2-3 cm; aggiungete una costa di sedano, una carota, una cipolla, alloro, bacche di ginepro e grani di pepe. Lasciate sobbollire e salate solo alla fine. Mettete da parte il brodo ottenuto perché vi servirà il giorno successivo.
Ora inizia la parte interessante. Il mio ragù non prevede un’aggiunta di carne di maiale o insaccati, gli ingredienti sono solo: triplo concentrato di pomodoro, sedano, carota, cipolla, carne di manzo, brodo di manzo, grasso di manzo, midollo di manzo. Manzo elevato al manzo, una matrioska di bovidi in pratica. Niente mischioni di proteine animali, pussa via aggiunte di latte e derivati. Estraiamo il massimo dai pochi ingredienti elencati e tiriamo fuori un gusto potente, irruento ma lineare. Per ottenere un sugo carico, saporito e opulento ci occorrono due tagli di carne: - uno ricco di tessuto connettivo, da cuocere insieme al triplo concentrato di pomodoro - uno più magro, da macinare e con il quale “condire” e strutturare il sugo. È come il matrimonio eterno tra il ragù partenopeo e quello bolognese. È il meglio dei due mondi perché bilanciato e cotto con raziocinio. La carne ricca di collagene andrà ad arricchire la salsa, mentre il macinato darà consistenza e sapore, senza essere inutilmente violentato dall’esposizione prolungata al calore. Per arricchire la salsa con una buona quota di gustosa gelatina possiamo utilizzare: Geretto anteriore o posteriore, un taglio molto compatto e ricchissimo di collagene. Lo stinco è senz’altro la mia prima scelta poiché mi consente di utilizzare anche il midollo che racchiude all’interno del suo osso; Biancostato, situato nella parte bassa delle coste e particolarmente carico di collagene; Punta di petto, il muscolo della parete addominale farcito di tessuto adiposo e del collagene delle costole; E come facciamo ad estrarre questa gelatina e trasferirla direttamente nel sugo? Semplicissimo, basterà portare la carne ad una temperatura superiore a 68°C. È proprio in quel momento che il collagene si scioglie e si trasforma in un gel saporito.
Ricapitoliamo, per preparare questo primo sugo ci occorre: • 1 kg di polpa di stinco di manzo (in alternativa biancostato o punta di petto); • 1 l di brodo di manzo; • 500 g di triplo concentrato di pomodoro; • il midollo ricavato dall’osso dello stinco; • 1/2 cipolla rossa; • 1 bicchiere di vino rosso • qualche foglia di alloro fresco; • basilico; • bacche di ginepro; • olio extravergine di oliva; • sale; • pepe nero.
Tagliate la polpa dello stinco in grossi cubi e rosolateli a fiamma alta in un fondo di olio. Aggiungete la cipolla tagliate a cubetti, fate imbiondire, deglassate il tutto con il vino rosso e lasciate evaporare l’alcol. Unite il triplo concentrato di pomodoro e diluitelo con il brodo caldo, aggiungete il midollo, le erbe e le spezie e lasciate cuocere lentamente, su un alito di calore, per almeno quattro o cinque ore. Lasciate peppiare il sugo con il coperchio ben collocato e controllatelo di tanto in tanto, spegnete solo quando l’acqua sarà evaporata del tutto e la carne si sarà sfaldata. In questo modo avrete concentrato al massimo i sapori e avrete ottenuto un sugo carico e denso, color palissandro proprio come quello di Sofia Loren in Sabato, Domenica e Lunedì. Salate, filtrate il tutto e mettete da parte la carne, la mangerete a parte o la riutilizzerete in altre ricette. Hey. Qui è quando mi date retta e non prendete l’iniziativa di “pullare” la carne dentro al sugo. Non fatelo perché farà saltare tutte le proporzioni. Il sugo vi verrà fuori troppo denso e poi darete la colpa alla ricetta. La carne stracotta va tolta, tutta. E il sugo filtrato. Mangiatela dentro al “cuzzitiello” del filone con una bella grattata di ricotta salata. Ve lo ripeto: dovete toglierla. Ha dato ciò che doveva dare. Adesso non fa più parte della ricetta.
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Mettete sul fornello una tegame di ghisa a bordi alti. Perché di ghisa? Perché accumula il calore e lo ridistribuisce sul fondo e lungo le pareti, equalizzando la temperatura lungo tutta la sua superficie. In alternativa potete utilizzare una pentola ampia di coccio o di acciaio a fondo spesso.
La carne
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Adesso si passa alla preparazione del macinato, il condimento, il riempimento del sugo, l’ingredienti che serve a dare corpo al ragù e soprattutto sapore di tostato. Acquistate un pezzo magro, il girello è perfetto per questo scopo. Parliamo del taglio rotondeggiante e affusolato situato lungo il posteriore, un pezzo molto tenero e perlopiù utilizzato nella preparazione di carpacci o arrosti. Io ho scelto un Eye Round GLC Top Selection di black angus, ovviamente frollato e leggermente marezzato. Perché utilizzo carne relativamente magra? Perché il sugo sarà già bello carico di gelatina e la parte grassa la inseriremo successivamente con una manovra a sorpresa.
Ingredienti • 1 kg di Eye Round (girello) GLC Top Selection • Olio extravergine di oliva q.b. Macinate o fatevi macinare la carne dal macellaio in maniera grossolana, non vogliamo un omogeneizzato di carne ma grani belli grossi e separati tra loro. Distribuite il macinato su una teglia ricoperta di carta forno, asciugate con cura con della carta assorbente e ungete leggermente con poco olio. Scatenate una massiccia reazione di Maillard cuocendo in forno preriscaldato, con il grill sparato a 230°C e posizionando la teglia al centro del forno. Lasciate lo sportello leggermente aperto per permettere al vapore di fuoriuscire.
Ormai sapete come funziona, vero? La reazione di Maillard è quella reazione chimico-fisica che si manifesta quando proteine e zuccheri riducenti, in totale assenza di acqua, vengono esposti ad una fonte di calore. Queste molecole si riallineano e formano nuove molecole, non esistenti in natura, molto profumate, gustose e dal colore ambrato. E come otteniamo una crosta di cauterizzazione perfetta? In totale assenza di umidità. A temperatura della superficie di contatto di almeno 140°C In presenza di zuccheri riducenti. Ce le avete tutte e tre. Con ogni probabilità, la carne inizierà a buttar fuori dei liquidi. Non buttateli via ma toglieteli
dalla teglia, per i motivi che ho già spiegato sopra. Versate il liquido nel tegame con il sugo attraverso un colino. Aggiungerà sapore. A queste punto non vi resta che rigirare il foglio di carta forno e lasciar rosolare l’altro lato, sempre a 230°C, a grill andante. Vi starete chiedendo il perché del forno. Ebbene, rosolando il macinato in pentola si sarebbe sviluppato un grande quantitativo di vapore, che avrebbe sicuramente lessato la carne. E lì dove si fosse riusciti a tostarla, sprecando tantissimo tempo, avremmo ottenuto dei granelli secchi e completamente privi di umidità. Ci serve la reazione di Maillard ma ci serve anche succulenza e sapore. Ecco perché usiamo il metodo dello strato sottile in forno. Le due superfici cauterizzate ci daranno sufficiente Maillard. Ma la carne al centro conterrà ancora succosità e sapore. Ora mettete da parte e dedicatevi alla preparazione del soffritto non soffritto.
Le verdure
Così come il macinato, le verdure tradizionalmente utilizzate per il soffritto ci serviranno per amplificare la nota tostata e per apportare dolcezza, nota erbacea e soprattutto freschezza. Non le abbiamo cotte insieme alla carne o al sugo per preservarne gusto, intensità e consistenza.
Tagliate le verdure a cubetti di 2-3 mm, asciugatele con cura con della carta assorbente, ungente con olio, che veicolerà il calore, e distribuitele su una teglia ricoperta di carta forno. Cuocete in forno preriscaldato a 180°C posizionandole al centro del forno e rigirandole di tanto in tanto. Dovete ottenere dei cubetti di verdura caramellati, freschi, saporiti e sopratutto ancora intatti.
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A questo punto preparate una brunoise con: • 200 g di cipolla rossa (40%) • 150 g di carota (30%) • 150 g di sedano (30%)
L'assemblaggio Ci siamo quasi, se chiudete gli occhi potete già sentire l’eco degli applausi e lo schiaffo bruciante della suo cera invidiosa.
Per dare corpo, struttura e leggerezza al ragù dovete emulsionare la salsa con un grasso. Non con la panna, il latte e derivati. È importante però che il sugo sia ben caldo per ottenere una crema densa e vellutata.
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A questo punto potete
aggiustare di sale, pepe e quant'altro. Aggiungete 200 g di sego bovino fuso, tuffate il minipimer nel tegame e via a smurritiàre su e giù finché non diventa densa e di un colore arancione brillante. In questa fase potete aggiungere poca acqua calda, nel caso il “proto ragù” vi sembrasse troppo gelatinoso. Una volta raggiunti i 70°- 80°C “condite” la salsa emulsionata “sbriciolando” con le manine
sante la carne macinata arrostita e le verdurine rosolate. Potreste anche azzardare e calare la pasta, ma vi perdereste 3/4 dell’esperienza. Pazientate un altro pochino, fate raffreddare a temperatura ambiente e poi lasciate maturare in frigorifero. Il ragù si addenserà e tutti gli ingredienti si sposeranno fra loro finché fauci non li separi. Hey, di nuovo. Resistete alla tentazione. Dovete attendere la maturazione del ragù in frigo. Servono 24 ore.
Il servizio
GIORNO 3
È arrivato il momento di mettere la tavola. Quella dei giorni speciali, dei pasti da ricordare. Scaldate il quantitativo di ragù che vi occorre per condire la pasta in una padella ampia, che vi consenta di saltarla nel sugo in agilità. A me il ragù piace con i paccheri, quelli di Gragnano essiccati lentamente, ruvidi, porosi e che trattengono bene il sugo, ma nulla vi vieta di utilizzarlo per condire delle strepitose tagliatelle all’uovo. L’importante è che vi ricordiate di terminare la cottura della pasta nella padella del ragù, allungandolo con pochissima acqua di cottura. Saltatela bene per tirare fuori l’amido e spadellate per quei 3-4 minuti finali. Impiattate e servite incandescente, ma ricordatevi di tenere un po’ di ragù caldo da parte, da aggiungere sopra per fare il montino. Se vi piace, aggiungete una spolverata di Parmigiano Reggiano. Portate a tavola e prendetevi qualche secondo per osservare le reazioni…
“Venivano gli amici e dicevano: «Signo', ma come lo fate questo ragù che fa uscire pazzo a vostro marito? L'altra sera ci ha fatto una testa tanta "E il ragù di mia moglie sotto, e il ragù di mia moglie sopra..."» e mammà tutta contenta l'invitava; e quando se ne andavano dicevano: «Aveva ragione vostro marito». E si facevano le croci.”
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Preparate questo ragù per i vostri cari e fidatevi di me: vedrete tante di quelle mani incrociarsi in preghiera che manco alla messa della Vigilia di Natale.
OSSESSIONI IN GRIGLIA
Episodio 0.1
Antefatto: Nella Seguo di Gennaio scorso vi avevo raccontato di quella volta che durante un corso di barbecue, nel 2015, ritrovai fortuitamente un manoscritto gettato - o dimenticato - in mezzo a un pallet di bricchette. Era l’opera di un appassionato di cottura su fiamma, emotivamente molto disturbato a giudicare dai contenuti e dalla grafia: si trattava della sceneggiatura di una sit-com dal gusto smaccatamente retrò, di ambientazione casalinga - familiare, ma con tematiche decisamente aderenti al mondo barbecue.
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Evidentemente rifiutata, o mai presentata a nessun network, la sceneggiatura è stata riproposta sulle pagine del Magazine e, contrariamente alle mie aspettative, è stata sottolineata da molte testimonianze clandestine, quella maniera criptata e carbonara che i (sei) lettori della Seguo hanno di fornirmi un feedback di apprezzamento pubblico in Community. Perché, come i lettori più fedeli ormai sanno, non si fanno complimenti. L’episodio pilota pubblicato sul numero di Gennaio continua con un secondo appuntamento, come se l’autore originale avesse avuto la baldanza di supporre che gli scout delle case di produzione potessero essere interessati. Il titolo, come anticipato a gennaio, è:
Mauro esige rispetto Seguo rubrica a cura di Emiliano Nencioni
“Ossessioni in Griglia è registrato in presa diretta di fronte a un pubblico, le cui risate scandiranno il ritmo delle varie gag” Esterno, Bed&Breakfast “Il Sottocosto”: Gianni, la cui permanenza nottetempo in casa di Tosca non era stata prevista, si gode un agghiacciante latte macchiato e un cornetto sottovuoto la mattina successiva al drammatico incontro con la famiglia della fidanzata; arriva un messaggio di testo. <3 TOSCA <3 - Stasera mangiamo di nuovo a casa mia. Facciamo di nuovo il barbecue. Comportati meglio.
GianPierGianni GrillMaster84 - Sai che tecnicamente è una grigliata sì? <3 TOSCA <3 - Iniziamo molto male >:-/ Ho parlato con mio padre e stasera starai tu in griglia, l’ho convinto a farti provare, dovrà essere tutto perfetto. GianPierGianni GrillMaster84 - Ah non sento affatto la pressione, no. Stacco, cortile di casa di Tosca: Gianni sta ripassando i suoi appunti di cottura diretta e indiretta sul cellulare, alternando la lettura a esercizi di training autogeno e sporadica iperventilazione; Sergio, con la sigaretta perfettamente aderente all’angolo destro della bocca e degli occhiali da sole a goccia oversize, sbatte sul tavolo il sacchetto bianco pieno di carne appena comprata. S Sei baffe di costine di maiale! Ora le taglio tutte, separando osso per osso, e mi fai vedere la tua famosa tecnica “costine tu perfessiòn” [Sergio si rivolge a Gianni con un ghigno irriverente] G Nonono! No, non tagliamole: vanno cucinate così, intere, ovviamente trimmate, e verranno morbide, succose, umide… S Amico! [Sergio interrompe la spiegazione con una posa da vigile urbano anni ‘50, braccio teso con mano aperta in segno di stop e braccio opposto col pugno appoggiato sul fianco] Qui in casa mia le costine si sono sempre tagliate, e alla bimba [indica Tosca] piacciono belle croccanti, secche, magre, senza quel grassaccio! M Ecco, iniziano [Massimo, mimetizzato nell’ambiente circostante, appare dal nulla e passa davanti all’inquadratura], sta per avere luogo l’eterna lotta fra tradizione e innovazione, fra illuminismo e feudalesimo! G Sai, nel mio gruppo diciamo spesso che la tradizione è un’innovazione che ce l’ha fatta! [Gianni tira fuori il cellulare e mostra agli astanti una schermata di social network]
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Riassunto della puntata precedente sotto forma di brevissime clip: Gianni e la fidanzata Tosca partecipano ad una grigliata alla casa paterna di lei, dove il nostro protagonista, appassionato di cottura su fiamma e frequentatore di corsi e community, conosce il padre Sergio e il fratellastro Massimo, un adolescente cupo e riflessivo; si auto invita Mauro, comic relief della serie, invadente vicino di casa e invaghito di Tosca fin dall’infanzia. In breve nascono dissapori e tensioni a causa delle convinzioni “tradizionali” in materia di grilling di Sergio e Mauro, e dell’inevitabile saccenza di Gianni; Massimo, silenzioso osservatore e da sempre detrattore dei metodi di cottura di suo padre, valuta l’idea di servirsi delle conoscenze del cognato Gianni per sovvertire l’ordine costituito dai modi arroganti e repressivi di Sergio.
S
Nel tuo gruppo di professoroni mi pare si dicano tante cose, ma la tradizione non si batte! Noi italiani abbiamo una tradizione culinaria imbattuta e decisamente superiore [l’inquadratura scivola verso un primo piano di Sergio, la musica si fa epica e marziale], e adesso dobbiamo farci contagiare da quelle americanate? E’ gente che mette il ketchup sulla pasta! L’ananas sulla pizza!
Un suono di arbusti e frasche smosse cattura l’attenzione della camera e del pubblico, l’inquadratura si sposta sulla siepe che funge da delimitazione col cortile dei vicini: è Mauro, che fa capolino dal fogliame, spezzando la tensione della scena precedente. MR Ehi ehi ehi!! Ma voi… Invitare mai? [stacchetto di batteria, il pubblico in sala ride sguaiatamente per interminabili secondi all’entrata dell’adorato comic relief della serie] G Noooooo!! [Gianni sprofonda nello sconforto e si sbatte una mano in faccia]
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Massimo e Tosca, affranti, si tengono le mani a vicenda per darsi coraggio. Mauro scavalca il muretto di cinta e senza esitazione va ad aggiungersi al già problematico duo di appassionati di cottura su fiamma. MR E chi abbiamo qui? Abbiamo il Secco e il suo telefonino pieno di regolette, regoline,
forni accesi per cinquantadue ore! L’ho letto sai, quel tuo gruppo, la setta! [Mauro ride sguaiatamente e batte il cinque a Sergio]. E c’è Tosca, e quello che cerca di nascondersi dietro il secchio del compost mi pare proprio sia il mio amico Massimo Scoperto! [Il pubblico ride sguaiatamente] M Oh… un soprannome dal gergo bancario oggi. Te la sei preparata, hai fatto ricerche, hai gugolato? [Massimo alza un sopracciglio e si isola dal gruppo con delle cuffie antirumore] MR Insomma Sergio, vedo che abbiamo delle belle costine! Sai come le chiamano ora? Ribs! Le cuociono per ore, le tuffano nello sciroppo d’acero, le spruzzano con l’aceto di mele, le spennellano con un ketchup che sa di ciliegia! Si! [Mauro, forzatamente entusiasta, si impadronisce dell’inquadratura; il pubblico affoga dal ridere] ...L’ho letto, l’ho letto sul social network! Allora mi sono iscritto, solo per andare a commentare e ho scritto… [prende fiato] S Me lo devi troppo dire!! [Sergio si forza ad usare un linguaggio molto giovane e “nativo digitale”] MR Ho scritto: “Scusate ma LE FANNO ANCHE DA UOMO?” Il frastuono delle risate del pubblico interrompe anche la recitazione, che rimane in pausa alcuni secondi. Qualcuno tossisce per il troppo sforzo. S Cioè dai verament-Ahahaha! [Sergio è sopraffatto dall’ilarità] MR Sì, come se intendessi che se ti piacciono quelle cose è come se tu foss - Ahahaha! [Mauro non riesce a proseguire per la crisi di riso]
Durante le risate del pubblico il dolly alza la camera e l’inquadratura si sposta su Tosca, disillusa e afflitta, e Massimo, amaro e scuro come suo solito. M Non percepisci la bellezza potente di questa scena? [Massimo, particolarmente ispirato, scruta in disparte la conversazione sempre
più animata dei tre uomini in griglia] T Cosa ci vedi di bello? E’ un’altra delle tue riflessioni nichiliste e autodistruttive? [Tosca, ormai demotivata, si strappa nervosamente le doppie punte] M E’ teatro, è tragedia, non vedi? Una situazione ad altissimo potenziale, in cui tutto non può che iniziare ad andare male: è come quando sei sulle montagne russe, e dopo l’interminabile salita iniziale sai che stai per precipitare in mille evoluzioni. Un crescendo di tensioni verso uno spannung terribile di litigio, rabbia, recriminazioni: è Jane Eyre poco prima dell’incendio, è i Promessi Sposi dopo aver sentito “Scommettiamo?”, è il Re Leone all’arrivo del branco di gnu. T Ma fai sul serio? [Tosca è scocciata e incredula] M Non proprio, ho solo visto un’occasione propizia per tirare fuori il mio cinismo e un paio di citazioni letterarie, alle quali ho aggiunto un classico Disney per avvicinarmi un minimo alla pop-culture. Il dialogo introspettivo viene spezzato dalla voce di Mauro e dal suo passo nervoso e piccato mentre si allontana dalla griglia. MR Novvabbè! [urla Mauro con faccia indignata] ...non solo si ribella alla nostra tradizione in cucina, mi manca anche di rispetto! G Mauro ma che dici… torna qua per piacere, oppure rimani lì o altrove, ma francamente ti stai facendo un film tutto tuo! [Gianni prova a rimanere lucido e a sedare la questione] MR No! Non lo permetto! Tu puoi avere anche le tue opinioni, che, voglio dire… ma puoi anche averle! Ma io non ti ho mai mancato di rispetto! E io esigo il rispetto da te! G A parte che, va bene, lasciamo pure perdere il tuo modo di fare e di rivolgersi alle persone ma… quale rispetto? Ti ho solo dimostrato
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M Grandissime risate davvero, molto maturo come argomento, assolutamente non trivio o scontato, repertorio da stand up comedian ricercatissimo.[Massimo batte sarcasticamente le mani in un lento applauso, togliendo le cuffie antirumore ormai sconfitte] G A dire il vero a me le ribs kansas city style piacciono molto [alzando l’indice della mano destra, Gianni prova a riportare il discorso su livelli decenti], e non è proprio come… MR E TI PAREVA! [Mauro scoppia di nuovo a ridere e prorompe in una parodia del balletto del brano “In the Navy” conquistando totalmente il pubblico] S Va bene, dai, [Sergio si asciuga le lacrime e prova a ristabilire un certo ordine] ma poi ci sei rimasto in questo gruppo? Hai letto qualcosa? MR No, mi hanno buttato fuori subito, quella setta di professoroni! Pensa, si vantano della loro moderazione e del loro clima corretto e tutto gnè gnè gnè! Ma tanto erano insopportabili, ho trovato un altro gruppo molto più simpatico, e… G Possiamo tornare alla cottura di oggi? [Gianni, schiarendosi la voce, riprende il controllo] Avevo in mente di affidarmi a una classica cottura con metodo 3-2-1, MR Seeh, tre, due, uno, fiiiiii! [Mauro dopo il conteggio ad alta voce fischia e fa un gesto teatrale volto ad incorniciare le sue stesse pudenda]
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che le tue convinzioni in fatto di affumicatura sono sbagliate e vengono da un clamoroso fraintendimento, dai! [Gianni rivolge verso Mauro una inevitabile “mano a cucchiaio”] MR E dimmi tu se questo non è mancare di rispetto! Tu, davanti a tutti, ti metti non “a supporre”, ma a dimostrare che io ho torto? Ma come ti permetti! Questa cosa l’ho letta sul gruppo che seguo! Quello di gente vera, non di fanfaroni e delle cinquantadue ore di forno! Io ho un sacco di amici che dicono che ho ragione! E sono amici! Veri! Perchè io sono pieno di amici, e quando arrivo io ridono tutti con me! [Mauro, in crisi di valori, si aggrappa alle sue convinzioni] G Mauro, stiamo parlando di affumicatura nel barbecue. Tu mi dici che tieni la legna a bagno nel chianti due ore per affumicare all’aroma di vino, io ti parlo di esperimenti ben precisi che sconfessano questo mito e ti porto a testimonianza un sacco di articoli scientifici. E’ un fatto! Dov’è il problema? [Gianni, conciliante, si stringe nelle spalle e mostra la schermata di un noto blog a tema barbecue] MR Rispetta la mia opinione! [Mauro, con gli occhi spalancati, urla] G Sì, ma quella non è un’opinione: è uno sbaglio. Le opinioni sono una cosa diversa. [Gianni alza l’indice della mano destra con ritrovata sicurezza] T Anche Parmenide [Tosca finalmente sbotta] contrappone il mondo Secondo Verità a quello Secondo Opinione. L’opinione è una tesi interiore, una nozione imperfetta, una conoscenza di primo grado! S Tosca! Quante volte ti avrò detto di non fare ragionamenti che le persone non capiscono [Severo ammonimento di Sergio] M Sarà per questo che mi accusate di stare sempre troppo zitto quando c’è gente? [Massimo prende la palla al balzo] MR Ma insomma, prima che prendesse la pinza in mano ‘sto secco le grigliate in questa casa erano divertenti! [Mauro incolpa Gianni] T Ma taci tu, che se ti togliamo sessismo e rutti non sai mettere due discorsi in fila! [Tosca reagisce] S ...Tosca! M Nessuno si è mai accorto che io alle grigliate mangiavo solo yogurt bianco? S ...Massimo!
G S
Tosca ma veramente tu hai rischiato di metterti con questo qui? ...Gianni! [Sergio è via via più inviperito e perde il controllo della situazione]
Si scatena il parapiglia. I dialoghi si fanno indistinti. Nel vociare confuso che ne consegue, si sente solo Sergio urlare straziato: S Il barbecue è convivialità!!
Dolly che sale, la camera si allontana, musica triste di pianoforte. Timidi applausi del pubblico. La bozza della puntata successiva continua a suscitarmi dei dubbi; il titolo è:
“Non fare quella faccia” Non so se lo leggerete mai. Forse è meglio che torni a parlare di parallelismi fra scienziati e tecniche di cottura del maiale, per non indispettire i miei sei (dato aggiornato) lettori.
Emiliano Nencioni
(Da un manoscritto anonimo)
N°16/ANNO 2 - APRILE 2020
SPECIALE GRIGLIATE
picanha, asado, flank steak, beer can chicken
MAGAZINE COME SI FA
la Pizza Romana fatta in casa
LA RICETTA SCIENTIFICA
Cr oq ue tasJa mó n de di Gianfranco Lo Cascio
LA GUIDA DEFINITIVA AL
maialino sardo
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Tapas
Editoriale di Gianfranco Lo Cascio
una cena sotto copertura
Ma per chi non avesse seguito la discettazione nella Community Facebook, mi riferisco alle istruzioni per costruire senza intoppi le famose crocchette spagnole ripiene di besciamella e pepite di prosciutto iberico. Non esiste taperìa spagnola che non le proponga, magari accompagnate da un buon bicchiere di vino. Cos’è una taperìa? È un ristorante che serve tapas, oggettini che La Real Academia Española definisce “piccole porzioni di un qualsiasi alimento che funge da completamento di una bibita”. La tapa, al plurale tapas, è un accompagnamento minuto e gastronomico che viene servito in tutti i locali
spagnoli assieme alla bevanda ordinata: succo analcolico, sangrìa, bicchiere di vino, di birra (caña) o di vermut rosso, che in Spagna viene proposto alla spina e solleticato con la soda. La basic tapa è gratuita, generalmente compresa nel prezzo del bicchiere di alcolico scelto. Parliamo di una ciotolina di olive, spiedini di verdure sottaceto, bruschette con prosciutto o chorizo, filetti di acciuga, non di più. Ma da qualche anno gli chef più rinomati innovano e si scervellano per crearne versioni più saporite e sofisticate, e i turisti di tutto il mondo si guardano bene dal non lasciare la Spagna senza averle provate.
Tapas del mito e altre storie immaginifiche L’etimologia sostiene che il termine “tapa” derivi dal verbo “tapár”, che semanticamente non diverge molto dal corrispondente italiano “tappare”. In origine, infatti, pare che le tapas fossero semplici fette di pane o di carne (prosciutto o chorizo, il salame piccante) utilizzate dai bevitori di sherry dell’Andalusia per coprire i bicchieri, nel tentativo di impedire ai moscerini di suicidarsi nel vino liquoroso spagnolo. Un’altra teoria, per meglio dire una leggenda, racconta che nel XVI secolo un taverniere della regione di Castilla-La Mancha pensò bene di coprire (“tapár”) il sapore di un vinaccio ingannando le papille dei propri clienti e offrendo pezzi di formaggio gratuiti, particolarmente odorosi, da accompagnare alla bevanda. Si racconta infine che il Re di Spagna Alfonso XIII sostò un giorno a Càdiz (Cadice) per sorbire un bicchiere di vino. L’oste servì il bicchiere al monarca coprendolo con una fetta di prosciutto, per impedire che la sabbia della vicina spiaggia, sospinta dal vento capriccioso e tipico della zona, finisse nel drink reale. Il Re gradì tantissimo la trovata e ordinò, almeno così pare, un secondo bicchiere con tanto di coperchio.
Tapas è partecipazione Quando ne parliamo non ci riferiamo solo agli stuzzichini mediterranei e colorati che ci fanno sbavare come i lama, ma anche, e soprattutto, a quel modo tutto ispanico di intendere il pasto. La potremmo definire “tapasofìa”: piccoli piatti, ciotoline di coccio, finger food da consumare direttamente al bancone, magari in piedi, chiacchierando
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L'attesa del piacere è essa stessa il piacere? Oppure è ansia, che diventa paranoia e si trasforma irreparabilmente in insuflaggio di gonadi? Io non vorrei mai mettere alla prova il vostro sistema nervoso né soppalcarvi i cabbasìsi, per questo ve lo spiattello senza girarci troppo intorno, e con buona pace del filosofo: sì, questo numero del BBQ4All Magazine contiene la ricetta delle attesissime croquetas de jamón. Ve lo avevo promesso e ho realizzato la mia versione.
bruschette, ovvero fette di pane condite con gli ingredienti più disparati (peperoni, prosciutto, olive, formaggi); montaditos: paninetti in formato mignon lunghi circa 5 cm, farciti con la qualunque empanadas e empanadillas: di origine sudamericana, sono dei fagottini di pasta ripieni di carne e spezie, verdure oppure tonno.
e rilassandoci con gli amici. È proprio questo l’obiettivo degli spuntini iberici: stimolare la conversazione e le interazioni sociali. Quei contatti che in questi giorni ci mancano così tanto e che torneranno, date retta allo Zio.
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L’idea dietro alle tapas è radicalmente opposta al concetto italiano del “pranzo domenicale”, con le porzioni gargantuesche e le maratone di cibo inaffrontabili che si protraggono fino a sera. In Italia abbiamo qualcosina che alle tapas ci somiglia: l’antipasto, solitamente caratterizzato dalla presenza di salumi, sottaceti, crostini e pesce all’insalata. C’è una differenza sostanziale e bella importante però: se l’antipasto è solo una parte del pranzo o della cena, studiata per precederli, le tapas rappresentano l’intero pasto, come dei tasselli a formare un mosaico. Parlottare, sorseggiare, ridere e contemp oraneamente spiluccare, in piedi o al massimo appoggiati a muri e banconi di qualche bar, tutta questo è tapéo. Da tapear, compartir, condividere. E chi non mangia in compagnia…
Le Tapas più famose Partiamo con quelle tradizionali e più conosciute, facendo le dovute distinzioni in base all’ingrediente portante. A BASE DI SALUMI: jamón: prosciutto crudo; lacón: prosciutto cotto; chorizo: salame piccante a grana grossa; morcilla: insaccato di maiale realizzato con sanguinaccio di maiale al riso e speziato alla cannella; lomo: arrosto di maiale; cecina: insaccato ricavato dal posteriore del bovino. A BASE DI FORMAGGI: queso manchego: il pecorino spagnolo più famoso; cabrales: l’erborinato spagnolo tetilla: formaggio di latte vaccino pastorizzato delle razze galiziane. Sì, si chiama così perché la sua forma ricorda una “tetta”; zamorano: formaggio ovino di Zamora, grasso, piccante e a pasta dura. A BASE DI PANE: pinchos: somigliano alle nostre
A BASE DI PATATE: patatas bravas: patate selvagge da mangiare con le mani e da affogare con le salse; si tagliano a cubetti, si friggono a due temperature diverse e poi si saltano in padella a fuoco alto. Tassativo riempirle di tabasco e paprica; patatas aioli: ricetta catalana, condita con una salsa a base di succo di limone, olio d’oliva e tanto aglio pestato al mortaio croquetas: crocchette di patate fritte con dentro cabrales (formaggio erborino molle) o salmone; tortilla: la frittata altissima e soffice con le patate e le cipolle. A BASE DI VERDURE E ORTAGGI: ensaladilla: simile all’insalata russa nostrana, talvolta con un’aggiunta di tonno; pimientos del padron: piccoli peperoni verdi fritti interi; pimientos del piquillo: peperoni rossi ripieni di baccalà; pimientos rojos asados: peperoni rossi cotti al forno e conditi con olio, aglio e prezzemolo; aceitunas: olive condite con aglio ed erbe aromatiche; banderillas: spiedini con cetrioli, peperoni e cipolline sottaceto; salmorejo: non c’entra nulla col salmoriglio, è una crema a base di pomodori e cipolla servita con uovo sodo sbriciolato sopra
galiziana, i cardidi appartengono alla famiglia dei molluschi bivalvi forniti di conchiglia a forma di cuore; brandada de bacalao: una crema calda di baccalà al latte; percebes: la peduncolata. Sono degli stranissimi crostacei tipici galiziani, generalmente costosi e apprezzati da molti (tranne che da me). A BASE DI CARNE: pinchito moruno: uno spiedino di carne di manzo, ne abbiamo
A BASE DI PESCE: anchoas: filetti di acciughe boquerones: alici marinate con aceto e condite con olio d’oliva, aglio e prezzemolo; calamares a la romana: anelli di calamari marinati nel limone, immersi in una pastella arricchita da lievito e zafferano e poi fritti; sardinas: sardine fritte; pulpo a la gallega: pietanza tipica della Galizia, per prepararlo bisogna bollire il polpo e poi utilizzare la sua acqua di cottura per lessare le patate a fettine. Su ogni fetta si disporranno poi i bocconcini di polpo ben conditi con prezzemolo e paprica dolce; gambas al ajillo: i gamberi (gambas) devono essere saltati in padella a fuoco altissimo con aglio, olio, peperoncino, prezzemolo e una piccola aggiunta di salsa di pomodoro. Si servono con pane croccante. pescado a la plancha: tranci di pesce semplicemente scottati sulla piastra; salpicón de mariscos: mix di frutti di mare conditi con una “vinagreta” e prezzemolo; berberechos: tipici della costa
parlato nel numero di Novembre 2019; albondigas: le polpette in umido di manzo o maiale, tuffate in una salsa a base di pomodoro e ricchissima di aglio; pollo al ajillo: pezzi di pollo fritti nell’olio addizionato con aglio (tanto) e sfumati con il vino; orejas a la plancha: orecchie del maiale scottate sulla piastra.
Le mie Croquetas de Jamón Ho apportato le consuete modifiche alla lista degli ingredienti ed ai protocolli da disciplinare iberico, trovate tutto descritto con dovizia di particolari nella rubrica “La ricetta scientifica”, tutti i passaggi spiegati e soprattutto motivati da buon senso e applicazioni delle leggi chimico-fisiche. Non fate il salto con l’asta da picanha però, perché vi vedo. C’è davvero tanto da setacciare e da studiare in questo numero del BBQ4All Magazine. (Segue a pagina 80)
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revuelto: uova strapazzate e condite.
pizza in casa
Fare la
è la cosa più bella del mondo
L'Arte Bianca a cura di Alessandro Trezzi
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È proprio così: è gratificante, riempie le giornate e genera una soddisfazione a dir poco unica. Vedere acqua e farina unirsi, crescere, svilupparsi e imbrunire all’interno del forno è sempre un’emozione. Ve l'assicuro, ogni volta che inizio o termino una sessione di impasti e di sfornate, non posso fare a meno di ripercorrere ogni singolo attimo trascorso con questa passione stupenda. Non si arriva mai alla vetta, c’è sempre qualcosa da imparare, da scoprire e da migliorare, è uno stimolo continuo. Farina, acqua, sale e lievito: da questi semplici ingredienti è nata una delle preparazioni più fortunate al mondo. Figlia del pane, simbolo di artigianalità gastronomica e della cultura italiana, la pizza è ormai un piatto fortemente globale, consumato in lungo in largo e soggetto ad un’evoluzione che pare senza fine. E il più delle volte, quando un appassionato torna a casa da un’esperienza incredibile presso
uno dei tanti maestri della pizza, il desiderio di poter replicare quella meraviglia anche in ambito domestico è forte, sincero e passionale. Soprattutto oggi, con le moderne scoperte tecnologiche, il miglioramento della strumentazione e la diffusione di concetti e competenze, fare un’ottima pizza in casa non solo è possibile, ma è anche molto più facile e accessibile che in passato. E vi dirò di più: potete raggiungere risultati entusiasmanti anche senza disporre di attrezzatura da maniaci della farina. Certo, è necessario adattare la tecnica al contesto e individuare la tipologia più consona a una cottura in forno di casa, ma la vera discriminante sta nel comprendere il metodo, senza basarsi sulla sola ricetta. Volete sapere di quale tipologia stiamo parlando? Vediamolo insieme.
La pizza perfetta fatta in casa Analizziamo insieme un classico contesto casalingo? Abbiamo un forno a incasso, che raggiunge i 250°C massimi di temperatura; spesso non disponiamo nemmeno di un’impastatrice da banco e men che meno di una planetaria, ma solo di una ciotola capiente e delle nostre mani. C’è una tipologia, tra tutte, che ben si presta ad essere realizzata in questi termini: la pizza in teglia alla romana. Nata nel dopoguerra, quando ai panettieri venne l’idea di prendere l’impasto del pane e cuocerlo in teglia dopo averlo condito, la teglia romana si caratterizza oggi per la sua base croccante e la mollica morbida, alveolata e scioglievole al morso. Negli anni ’80, l’esigenza di mantenere la pizza al taglio sul bancone per alcune ore e farla tornare croccante dopo averla riscaldata spinse alcuni professionisti romani, primi fra tutti Angelo Iezzi e successivamente Gabriele Bonci, a lavorare con impasti molto idratati, farine di forza e maturazioni/lievitazioni a temperature controllate. L’impasto viene realizzato con farine ad alto assorbimento di acqua, poco lievito e sale, e lunghe maturazioni (24/72 ore) in cella frigorifera. Viene cotta per circa 15 minuti a 280-330°C in forno statico.
C’è una cosa tuttavia che la rende ancora più gratificante: l’enorme attitudine al rinvenimento. Una pizza in teglia romana può dirsi perfetta quando la mollica è distanziata dalla crosta, quando la friabilità è alle stelle, quando l’interno è asciutto e leggero, ma soprattutto quando la croccantezza permane anche dopo il raffredamento. Se sarete in grado di raggiungere un simile risultato, vi basterà riscaldare
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Perché è la miglior pizza replicabile in casa? Perché anche in mancanza di forni professionali, un risultato ottimo e sorprendentemente vicino all’originale può essere ottenuto anche in un classico forno domestico con temperature tra i 250 e i 300°C.
anche a distanza di ore (o giorni, nel caso decidiate di congelarla) il vostro trancio di pizza per pochi minuti a 200°C; non solo recupererete pienamente le caratteristiche iniziale, ma potreste persino migliorarle. Ci pensate? La vostra pizza potrebbe diventare l’arma segreta per inviti a cena, ospiti a casa, aperitivi o picnic.
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I due concetti fondamentali che dovete sempre tenere a mente sono la comprensione del metodo e l’attenta selezione delle materie prime, per garantire la realizzazione di un prodotto unico, standardizzabile e fortemente replicabile.
La farina Prima o poi ce lo metteremo in testa, soprattutto in ambiente
domestico: la farina è e sarà sempre l’ingrediente principe su cui si basa la realizzazione di ogni panificato.
Purtroppo non funziona proprio così: se le cose fossero così semplici saremmo tutti pizzaioli, non credete?
Potrebbe sembrare un concetto scontato, eppure l’errore commesso nel 90% dei casi è quello di generalizzare, utilizzando una materia prima non adatta allo scopo.
Anzitutto, sebbene sia nata con l’utilizzo di farine di forza, oggi è opinione sempre più diffusa che la pizza in teglia alla romana abbia il suo rendimento ottimale con l’utilizzo di farine di grano tenero semi-integrali macinate a pietra naturale, con forza medio/ alta (300-330 W); il risultato è un prodotto profumato, con sapori marcati, perfetti per una pizza di questo tipo dove la sezione è abbastanza importante.
La colpa, purtroppo, è anche del mezzo trilione di ricette presenti ovunque, tra web e libri, che riportano la dicitura “farina” e la sua dose, senza specificarne la tipologia, come se ne esistesse una sola o fossero tutte perfettamente sostituibili. Motivo per cui l’utente medio legge le quattro righe riportate sul testo, si reca al supermercato, compra la prima cosa che gli capita a tiro, mischia a un po’ d’acqua e attende il miracolo.
Facciamo chiarezza su un paio di concetti: la normativa italiana distingue per il solo grano tenero cinque tipologie di farina, in relazione al grado di abburattamento (un setacciamento particolare del prodotto svolto
Badate bene, non si parla di salubrità o meno della farina, di presunti veleni, di miracoli dovuti al consumo di integrale o altro; il quantitativo di fibre presenti all’interno della materia prima determina (se il prodotto è stato macinato con professionalità, rispettando il grano) un sapore marcato e caratteristico, e spesso aiuta anche l’assorbimento dei liquidi. Di contro, un prodotto integrale tenderà a sviluppare meno, e a dare una sensazione di leggerezza inferiore. Tra le proteine presenti nel vostro pacchetto, due svolgono una funzione importantissima. Miscelandosi con l’acqua, la gliadina e la glutenina formano un complesso proteico fondamentale per tutto il processo: il glutine, che concorre alla formazione della cosiddetta maglia glutinica, un reticolato fitto ed elastico che trattiene le bolle di anidride carbonica sviluppate durante la lievitazione, facendo gonfiare il panificato. Il comportamento della farina e del glutine è ben sintetizzato dal valore W presente nelle schede tecniche dei prodotti, che denota (seppur impropriamente) la forza della farina stessa in funzione di tenacità ed estensibilità della maglia. Solitamente, più il W è alto, più l’impasto reggerà sia lunghe maturazioni che lievitazioni, e sicuramente un quantitativo superiore di acqua. Il tutto dipende dalla qualità della farina utilizzata: mettetevi
in testa che, 90 su 100, se una farina non riporta il W è da considerarsi un prodotto non tecnico, scarsamente utilizzabile per i panificati. Non è nemmeno sintetizzabile al 100% dal quantitativo di proteine, perché non tutte formano il glutine.
L'acqua Seconda sola alla farina, l’acqua è una componente fondamentale di tutta la ricetta, e la sua quantità elevata è una delle caratteristiche principali della pizza in teglia alla romana. Durante l’impastamento, l’energia cinetica ceduta alla maglia glutinica fa in modo di rafforzare e trasformare i legami delle proteine che la compongono, creando una struttura estesa, omogenea e tenace, che conferirà la struttura finale del prodotto, trattenendo l’aria liberata durante la lievitazione. Un quantitativo di acqua superiore alla norma (tra il 75% e l’85% sul peso della farina) contribuisce ad agevolare la maturazione e a incrementare la leggerezza del prodotto, che a parità di peso (per ovvie ragioni) sarà meno calorico rispetto a una pizza meno idratata. L’acqua tuttavia può essere un’arma a doppio taglio, perché se non correttamente gestita e assorbita rimane “libera” nell’impasto, compromettendo la lievitazione ma soprattutto la cottura, e di conseguenza la digeribilità del prodotto finito.
Il sale Ingrediente fondamentale è poi il sale, non solo per conferire sapidità, ma soprattutto per garantire un miglior assorbimento dell’acqua e per rafforzare la maglia glutinica. Non va mai aggiunto a contatto con i lieviti perché ne distrugge la parete cellulare, sottraendo per osmosi acqua alla cellula.
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durante il processo) e quindi alla resa della farina. Ne avrete sicuramente sentito parlare: 00, 0, tipo 1, tipo 2 e integrale.
Il lievito
La ricetta
La classica pizza in teglia alla romana viene poi realizzata mediante l’utilizzo di lievito di birra (Saccharomyces Cerevisiae) fresco (acquistabile solitamente in cubetti da 25 g) o secco (inrapporto di 1/3 rispetto al fresco). La funzione dei lieviti è quella di nutrirsi degli zuccheri dell’impasto, producendo fra le altre l’anidride carbonica che fa gonfiare il semilavorato. La sua quantità dipende da diversi fattori, come il tipo di lievito, la sua freschezza, l’idratazione dell’impasto, temperatura e umidità esterne e la presenza di grassi.
Apprese le nozioni fondamentali, vediamo insieme gli step per realizzare una teglia romana fumante e profumata. E quale modo migliore di gustarla, se non sfornando una Margherita fatta con criterio, la pizza italiana più rappresentativa? Leggenda narra che venne preparata nel Giugno 1889 dal cuoco Raffaele Esposito in onore della regina Margherita di Savoia in visita a Napoli. La dolcezza dei pomodori pelati schiacciati a mano, la cremosità della mozzarella fiordilatte, la freschezza balsamica del basilico e il gusto intenso e avvolgente dell’olio extravergine di oliva l’hanno resa famosa in tutto il mondo.
Perché non il lievito madre? Perché utilizzarlo in casa non è così semplice come si possa pensare: anzitutto, la sua gestione richiede continui rinfreschi, in mancanza dei quali il lievito non è produttivo al 100% e comprometterebbe la struttura della pizza. Secondariamente, i bonus conferiti dal lievito madre (struttura, sapore e “shelf life”) sono inutili in un prodotto dalla sezione non importante come nel pane e nel panettone, coperto di ingredienti e che vi magnate seduta stante. E no, il lievito di birra non è indigesto, nella maniera più assoluta. Smontiamo questa malsana credenza.
I grassi
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Per la pizza in teglia alla romana, sono facoltativi. Nonostante infatti la ricetta originale preveda l’utilizzo di olio extravergine di oliva nella misura del 3% sul peso della farina, il suo contributo è praticamente irrisorio, e se non aggiunto con cautela rischia di rovinare la struttura del semilavorato.
Per l’impasto (dosi per 3 teglie 30×40): 1 kg di farina di grano tenero di tipo 1 macinata a pietra naturale (320 W); 750 g di acqua (75% sul peso della farina); 20 g di sale fino o integrale (2% sul peso della farina); 5-10 g di lievito di birra fresco (5 in estate, 10 in inverno). Per la farcitura: Pomodoro San Marzano DOP dell’Agro Sarnese-Nocerino; Mozzarella fiordilatte; Basilico fresco; Olio extravergine di oliva. IMPASTAMENTO Sia che stiate lavorando a mano, con una planetaria o per mezzo di un’impastatrice, l’ordine e le modalità di inserimento degli ingredienti non cambiano. Sciogliete il lievito in un bicchiere d’acqua e aggiungi
PUNTATA Trascorse le 2 ore, ripiegate nuovamente l’impasto e riponetelo con il contenitore in frigorifero a 6°C per 24 ore. In questa fase l’impasto matura, cresce verso l’alto e la maglia glutinica si stabilizza. STAGLIO Trascorsa la puntata, riprendete l’impasto e porzionatelo nei pesi desiderati, adatti alla misura delle teglie dove verranno cotti. Posizionate le pagnotte in recipienti unti e chiusi ermeticamente o in una cassetta di lievitazione. Vengono solitamente calcolati mezzo grammo per ogni cm2 di teglia; per una classica 30×40 quindi si tiene conto di circa 600 gr di impasto. APPRETTO Durante lo staglio l’impasto viene manipolato, i lieviti ridistribuiti e la maglia glutinica rinforzata. Lo scopo dell’appretto è quello di rendere possibile l’ultima lievitazione e la maturazione, oltre a permettere l’estensibilità necessaria alla stesura. L’impasto viene quindi riposto a temperatura ambiente (20-24°C) per 4-6 ore. STESURA La stesura si effettua ribaltando il panetto su una superficie cosparsa di semola rimacinata di grano duro, che diminuisce l’attrito con il piano di lavoro e in cottura tosta conferendo sapore. Dopo aver infarinato anche la parte superiore
della massa, premete delicatamente con l’ultima falange delle dita, spingendo l’aria che allargherà piano piano l’impasto. Procedete prima sui bordi poi nella sezione centrale, fino a quando la forma non sarà indicativamente larga circa i 2/3 della superficie della teglia; a questo punto caricate la massa sull’avambraccio, scrollate la farina in eccesso e adagiate l’impasto sulla teglia stessa precedentemente spennellata con dell’olio. Allargate poi tutti i lembi, portandoli adiacenti al bordo, fino a stesura ultimata. Per la margherita, è sufficiente stendere un velo di pomodoro su tutta la base, anche sui bordi (la teglia romana non prevede il cornicione), stando attenti a non toccare la teglia in quanto potrebbe risultare poi difficile staccare la pizza una volta cotta. Non esagerate con il pomodoro all’inizio, meglio assicurare lo sviluppo in cottura per poiaggiungerlo in un secondo momento. Un filo d’olio e siamo pronti per infornare. COTTURA Nei forni casalinghi è necessario preriscaldare al massimo in modalità statica, per poi passare preferibilmente alla ventilata in modo da asciugare nel minor tempo possibile sia la crosta che la mollica. Infornate la teglia a contatto con il pavimento per avere la giusta spinta dal basso; una volta che la base è ben colorata, sfornate la pizza, aggiungete il pomodoro rimanente, trasferitela sotto la resistenza superiore fino al raggiungimento della doratura superficiale. Negli ultimi due minuti, mettete del fiordilatte tagliato a listarelle e lasciatelo fondere; deve rimanere cremoso, non bruciare, mi raccomando. A cottura ultimata, sfornate definitivamente e completate con una generosa dose di basilico fresco e di olio extravergine di oliva. Adagiate quindi il vostro capolavoro su una griglia rialzata per farla asciugare e raffreddare, impedendo il raffermamento (processo che causa il deterioramento dei panificati). Tagliate rigorosamente con le forbici per valorizzare al massimo i frutti del vostro lavoro, rispettando la struttura aperta e voluminosa e la crosta croccantissima. Buona pizza!
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la restante acqua nella farina man mano, solo quando la precedente è perfettamente assorbita. Dopo aver immesso circa i 2/3 dell’acqua è il momento di aggiungere il sale, per poi continuare fino ad aver esaurito l’acqua prevista. Terminato l’impastamento, trasferite sul piano e chiudetelo fino a formare una pagnotta, ripiegandolo su sé stesso 3 o 4 volte ogni 10-15 minuti finché non si sosterrà da solo. Il risultato deve essere una forma liscia, uniforme, asciutta e ad una temperatura di almeno 24°C. Riponetelo in un recipiente unto di olio e chiuso ermeticamente, lasciandolo a temperatura ambiente (20-24°C) per circa 2 ore, finché la lievitazione non sarà partita.
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Il giro del mondo in
CINQUE GRIGLIATE Speciale grigliate dal mondo Portfolio Gastronomico a cura di Andrea Spaggiari
Il sospetto vi era già venuto. Vi abbiamo portato in Giappone e poi in Cina, invitandovi a scoprire usanze e ricette di due dei paesi dalla cultura culinaria più ricca e antica. Vi abbiamo raccontato gli strumenti, le ricette e le tradizioni. Ci avete preso gusto e avete chiesto di averne di più. Nel frattempo, però, tutto d’un colpo, il mondo come lo conosciamo è cambiato. Ci ritroviamo tutti costretti, volenti o nolenti, a fermarci e a fare i conti con il nostro piccolo mondo fatto delle quattro mura di casa e delle persone più strette. Stop ai viaggi, agli eventi, alle gite fuori porta. Volendo cogliere almeno un lato positivo, ci costringe a resettare. Quale occasione migliore, dunque, per prendere un bel respiro e per viaggiare con l’immaginazione alla scoperta di qualche destinazione ne abbiamo scelte cinque – che dovrebbero stuzzicare la vostra voglia di ripartire e, probabilmente, anche il vostro appetito. Come avrete capito, i paesi non sono stati scelti a caso. Parliamo di bbq nel mondo, allacciate quindi le cinture di sicurezza e slacciate quella dei pantaloni.
Argentina
La parilla identifica, dal canto suo, sia lo strumento usato per grigliare sia la steak house dove questo tipo di griglia la fa da padrone. Ogni argentino DOC ne possiede una in giardino: è molto solida, con listelle a sezione a V per indirizzare i grassi verso una canalina di raccolta e evitare che questi cadano sulle braci provocando fiammate. Le più raffinate hanno anche un sistema di sollevamento che permette di regolare con precisione la distanza dalla fonte di calore ma quasi tutte
son costruite in modo da avere una sorta di rastrelliera – un vero e proprio firebox – dove impilare legna o carbone per favorirne la completa accensione. Le braci sono pronte mano a mano che cadono sul piano sottostante e vengono stese con cura per garantire un fronte di calore tenue e uniforme. Se l’asado descritto sopra è l’equivalente del low&slow, la parilla è una cottura diretta che rientra appieno nella definizione di grilling anche se non prevede l’uso di un calore estremamente intenso. Aspettatevi, anche in questo caso, una carne piuttosto cotta, tendenzialmente ben salata e assolutamente succosa. Merito, ovviamente, delle materie prime ma anche delle competenze dell’asador. Come ogni tradizione che si rispetti, ogni famiglia ha i suoi segreti: legna o carbone (apprezzatissima la varietà Quebracho blanco), taglio di carne, tipo di sale e anche, relativamente a
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Cominciamo la nostra carrellata, non a caso, dall’Argentina. Una curiosità prima di tutto: se vi ritenete grandi mangiatori di carne, sappiate che molto probabilmente l’argentino medio vi batte a mani basse. Viene infatti stimato che il consumo procapite nel paese sudamericano sia attorno ai 60 kg l’anno. Facile intuire quindi che la carne non sia solo considerata come un alimento ma un vero e proprio fenomeno sociale. In Argentina ogni avvenimento e festa comandata sono buone occasioni per riunirsi attorno a una grigliata, in aggiunta ovviamente ai normali weekend. Sciogliamo anche il nodo del vocabolario: la grigliata, in Argentina, si chiama asado e il griller asador. Non bisogna lasciarsi ingannare dal fatto che Asado è anche il nome della tecnica che viene usata per cuocere animali interi all’aperto. In questo caso la carcassa viene aperta, le due mezzene dell’animale sono issate su grandi spiedi di ferro conficcati nel terreno (sembrano quasi aquiloni) e inclinati in direzione di un letto di braci di carbone. L’effetto è una cottura dolce e lenta nella quale gli unici ingredienti sono la carne, il sale, il vento e il fuoco. Questa tecnica molto scenografica è però ovviamente praticabile solo in grandi spazi aperti e richiede una certa maestria. Quindi, se non possedete un ranch e non avete accesso con facilità a manzi interi, è molto più probabile che dobbiate ripiegare sulla parilla.
quest’ultimo, tempistica nell’uso.
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I tagli meritano un paragrafo a sé. Sappiamo che ogni paese ha le sue consuetudini – Italia in primis – in fatto di lavorazione degli animali e l’Argentina non costituisce di certo un’eccezione. Il generale i macellai sudamericani preferiscono tagliare attraverso ossa e fasci muscolari anziché assecondarne la direzione: un esempio emblematico sono i tranci ricavati dalla cassa toracica in cui le coste sono visibili in sezione (asado de tira). Non si creda, però, che un Paese che rispetta a tal punto la carne bovina da farne un simbolo si limiti a consumare i pezzi più conosciuti. Un asador che si rispetti è infatti capace di preparare un grande repertorio di pietanze con le interiora, spesso trattate con salse e marinature per renderle croccanti e giocare con le consistenze. Gli organi come cuore e fegato sono in genere cotti interi e serviti porzionati, non mancano preparazioni come le salsicce di sangue e ci si spinge a consumare anche stomaco, lingua, cervello e addirittura i capezzoli. Se volete cambiare sapore dal manzo, non è difficile trovare del pollo aromatizzato al limone, del maialino da latte e della spalla di agnello. Completano il quadro le immancabili salse, regina delle quali è la conosciutissima chimichurri, e il vino rosso preferibilmente locale come bevanda. Come avrete capito, l’asado è molto più di una semplice occasione per mangiare e gli argentini, da buoni latini, non perdono occasione per discutere, festeggiare e fare tardi, molto tardi.
Rimaniamo in America del Sud e occupiamoci dell’altro pezzo da novanta in tema di carne sul fuoco, il Brasile. Come solito, basta una caratteristica che da sola spiega la varietà di tradizioni e usanze – impossibili da riassumere – che si incontrano in questo Paese: la sua estensione. Il Brasile ha una superficie maggiore dell’intera Australia, si affaccia sul mare e gran parte del suo territorio è coperto da spazi verdi in cui si alternano foreste e praterie. La tradizione del Churrasco – questo il termine
con cui si definisce la cottura della carne al fuoco - nasce nello stato del Rio Grande do Sul, collocato nella parte meridionale del Paese e confinante, guarda caso, con l’Argentina. Qui i gauchos, i mandriani, infilavano grossi pezzi di carne in enormi spiedi che servivano da supporto per rosolare la carne sul fuoco da accampamento. Ognuno a turno asportava una fetta con il proprio coltello e lasciava che il pezzo principale continuasse a rosolare. Questa procedura consentiva di consumare un pasto e al tempo stesso affumicare un grosso trancio di carne per favorirne la conservazione ed è stata, lo avrete riconosciuto, l’ispirazione per
la grande varietà di ristoranti che hanno fatto di questo tipo di servizio un elemento scenografico di grandissimo richiamo. La churrascaria, oggi, è animata quindi da una processione ininterrotta di camerieri che portano grandi pezzi di carne ancora sullo spiedo e ne porzionano abbondanti fette direttamente nel piatto dei clienti. Tipicamente si alternano tagli di manzo, salsiccia arrotolata, coppa di maiale, kebab di agnello e addirittura cuori di pollo. Ma il churrasco è, prima di tutto, tradizione famigliare da consumarsi tra le mura domestiche, soprattutto la domenica a pranzo. Ovviamente
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Brasile
anche in questo caso la carne è infilata negli spiedi e messa a cuocere sospesa su un letto di carboni ardenti. Viene girata più volte a mano, a intervalli regolari, e viene servita come nei ristoranti tagliando le fette dallo spiedo direttamente nel piatto dei commensali. Non esiste una regola precisa per la preparazione in quanto ogni capofamiglia porta avanti la propria tradizione: come si taglia e come si infila la carne sullo spiedo, come si prepara il fuoco e, ancora una volta, quando è il momento giusto di salare la carne. Se non è azzardato paragonare il Rio Grande do Sul al Texas in quanto a tradizione di carne al fuoco, allora la Picanha è senza dubbio la preparazione omologa del Brisket. Preparare questo taglio è un vero e proprio rituale, partendo soprattutto dal macellaio che deve essere bravo a isolarlo correttamente dal resto del retro dell’animale e soprattutto deve lasciare un adeguato strato di copertura di grasso. Il risultato è un pezzo di forma vagamente triangolare che raramente supera due chilogrammi anche sugli animali più grandi, e se non credete che i brasiliani abbiano addirittura un’ossessione per questo taglio, cercate su Youtube i tutorial dei macellai locali e vi renderete conto di quanta cura viene posta nella sua lavorazione. Prima di andare in cottura viene tagliato in fette spesse circa tre dita che vengono infilate nello spiedo e prendono la forma di una “C” oppure vengono grigliate direttamente, avendo cura di conservare un pezzo del grasso di copertura per ogni boccone. Piccola nota di colore, i più esperti tra i lettori sanno che un altro taglio “famoso”di forma triangolare è il tri-tip. Anche questo viene ovviamente cotto e consumato, cosi come si fa ovviamente anche con il filetto, la bavetta e chi più ne ha più ne metta, ma è considerato il cugino povero (e troppo magro) della Picanha. Anche il pollo ha la sua dignità nel churrasco: le carni bianche vengono marinate e si procede poi a creare degli spiedini in cui, separatamente, si cuociono cosce, ali e i già citati cuori.
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Non manca nemmeno il maiale, preparato non solo sotto forma di salciccia ma anche con le apprezzatissime ribs, che ovviamente vengono lasciate intere. Si griglia allo stesso modo pure la frutta, con grande protagonista l’ananas che prima di finire allo spiedo viene fatto macerare con zucchero e cannella, restituendo una crosta caramellata e un interno succosissimo. Nella carrellata finale menzioniamo il contorno per eccellenza: si chiama farofa ed è un piatto composto da farina di manioca arricchita con olive, cipolle, erbe, noci e anche bacon. Se pensate possa essere leggermente “asciutto”, non esitate ad attingere alle bevande ma fate attenzione: quella tipica da associare al churrasco è la Caipirinha!
Cambiamo continente e spingiamoci di nuovo verso Oriente. Dopo Cina e Giappone una menzione speciale, almeno nel contesto del BBQ, lo merita sicuramente la Corea. Dimenticate, in questo caso, scenografiche griglie dalle sup erfici sprop ositate o imponenti spadoni: lo strumento è una griglia portatile o addirittura incassata al centro del tavolo, a maglie molto strette, alimentata a gas o a carbone, sulla quale i commensali provvedono a cuocere la propria porzione di carne a piacere. Mettete da parte anche velleità “misuratorie” di spessore e di superficie: manzo, maiale e pollo sono tagliati in straccetti o quadrati di piccole dimensioni
in modo da poter essere cotti molto rapidamente e da massimizzare la parte di carne che potrà godere della reazione di Maillard. Tradizione vuole che la carne si giri una volta sola e si usino le forbici per ridurre alle dimensioni di un boccone i pezzi troppo grandi.Il gioco di consistenza – crosta croccante e grasso scioglievole – e sapori è il centro dell’esperienza, oltre ovviamente alla convivialità di cucinare tutti insieme. In alcuni casi, ovviamente riservati ai ristoranti, si può trovare un’isola centrale con unagrande griglia e uno chef che cucina per le persone sedute attorno. Due ricette della cucina bbq coreana sono particolarmente conosciute: la prima è il Bulgogi appena descritto e la seconda è il Galbi. In quest’ultimo caso
ad essere marinate in una salsa agrodolce a base di soja sono specificamente le short ribs, che possono essere di manzo, di maiale e talvolta anche di pollo. Esistono diverse varianti di ricette per queste due specialità ma grossomodo la tendenza è di non marinare i pezzi di manzo provenienti da tagli di prima scelta, usare una marinatura leggera e piuttosto neutra per i tagli meno raffinati e più tenaci e spingere un po’ più forte sugli aromi e gli zuccheri quando si marina il maiale, in modo da ottenere le glasse agrodolci così famose nella cucina orientale. Nel caso del pollo, le varianti sono spesso orientate verso il piccante. Definire accompagnamento, o contorno, tutto il bendiddìo che si può trovare a complemento
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Corea
della carne è assolutamente riduttivo. Si chiama Banchan e raggruppa cetrioli sottaceto, vari tipi di verdura fermentata (il cavolo chiamato kimchi è quella più diffusa), spinaci marinati, acciughe soffritte, omelette e altro ancora. Vengono spesso usate foglie di una pianta simile alla menta per riunire in un solo boccone carne, verdura e salsa, un po’ come si usa fare per il sushi. Per i più coraggiosi, a fine pasto si può prepare un piatto composto dagli avanzi del riso di accompagnamento e della carne: si chiama Bokkeumbap e permette di chiudere anche l’ultimo buco eventualmente rimasto nello stomaco. Per accompagnare un banchetto così copioso i coreani prediligono il soju, un vino prodotto dalla fermentazione del riso che molto somiglia al sake.
Australia
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Spingiamoci un (bel) po’ più a Sud e diamo uno sguardo down-under. In Australia il bbq viene chiamato affettuosamente Barbie ma viene considerato una cosa seria: non è solo un’occasione per un ritrovo saltuario tra famiglie di amici ma una vera e propria istituzione. Complice il clima “sottosopra” anche il Natale è spesso festeggiato attorno alla griglia, oltre ovviamente alla Pasqua e alla festa nazionale. Due particolarità che distinguono l’Australia dai Paesi europei sono la stragrande preponderanza di dispositivi a gas in confronto a quelli alimentati da altri combustibili e l’abbondanza di parchi pubblici nei quali sono installati
bbq a disposizione di tutti. E, badate bene, non stiamo parlando di una costruzione in muratura sulla quale installare una sgangherata griglietta arrugginita, bensì di imponenti strutture metalliche ancorate al terreno, con tanto di coperchio e tutti i crismi. Sono tanti anche i griller che preferiscono rimanere fedeli alla propria attrezzatura e non perdono occasione di caricare in auto bombole e dispositivi portatili per un picnic fuori porta. Le alternative insomma non mancano ma un filo comune esiste in ogni caso: il Barbie, che sia in prossimità della spiaggia o in una bella radura piena di verde, è sinonimo di informalità. Ma veniamo, è il caso di dirlo, al piatto forte. Chi dice Australia dice manzo, specialmente di razza Black Angus, ma non solo. Le alternative più o meno “esotiche” sono pecora, maiale, pollo, emu (simile allo struzzo) e addirittura il canguro. Questi ultimi due animali sono particolarmente apprezzati per le carni e sono considerati un alimento molto sano dai locali. Nota di colore, gli australiani hanno una vera e propria passione per le salsicce e si rivelano estremamente creativi sia nel tipo di carne sia negli ingredienti che arricchiscono la farcia. Non stupitevi quindi di poter scegliere tra salsicce di manzo con pomodori secchi e basilico, pollo e formaggio o pollo e lime, maiale al miele e altre ancora. Se siete invitati a un bbq australiano e non volete andare a mani vuote, non esitate a portare un po’ di birra locale. È la bevanda per eccellenza per le grigliate e non potete sbagliare.
Rimaniamo nell’emisfero australe e chiudiamo la nostra carrellata con il Sud Africa. Qui la grigliata si chiama braai e questo termine – derivato dalla lingua afrikaans – è talmente utilizzato da essere diventato un verbo, sinonimo appunto di grigliare. Il sudafricano tipo, un po’ come il lettore medio di questo magazine, griglia più volte a settimana per la sua famiglia o per grandi gruppi di amici. La consuetudine vuole che si usi una superficie di grandi dimensioni, le cotture sono quasi sempre dirette e a calore piuttosto forte. Difficile trovare un Braai Master (sì, si chiama così) che utilizzi carbone: il combustibile per eccellenza è la legna e la preparazione del letto di braci è un rituale affidato al padrone di casa. Gli altri uomini
del gruppo lo aiuteranno poi a sorvegliare la cottura mentre alle donne è in genere affidata la preparazione delle insalate di accompagnamento. È perfettamente normale, inoltre, che l’organizzatore comunichi agli invitati cosa portare, sia in termini di carne – precisando addirittura quali tagli procurarsi e in che quantità – sia di bevande. A tal proposito, se non stupisce che sia la birra a farla da padrone, va detto che anche il vino è particolarmente apprezzato, ma sorprendentemente è quello bianco ad essere prediletto per il braai. Sulla griglia trovano posto diverse varietà di legumi, pannocchie di mais, carne e pesce al tempo stesso. Relativamente alla carne si spazia dal pollo al manzo, dall’antilope allo struzzo per arrivare fino al coccodrillo, ma
il posto d’onore lo occupano ancora una volta le salsicce, chiamate boerewors. È consueto, indipendentemente dal tipo di carne scelta, farle marinare un minimo prima del passaggio in griglia: le varianti di formule ovviamente non mancano ma spesso vengono usate versioni che affidano alla cola l’apporto zuccherino e a una salsa agrodolce quello acido. Come in Australia, l’usanza di grigliare anche fuori casa è davvero diffusa. Barbecue più o meno portatili o dispositivi pubblici a disposizione sono una presenza costante nei parchi, in spiaggia, in montagna e addirittura nei parcheggi degli impianti sportivi. E ora, a voi la scelta. Avete deciso quale sarà la vostra prossima meta, quarantena permettendo?
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Sud Africa
Il Maiali
la guida definitiva
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Cultura e SocietĂ a cura di Luca Gallozza
303 - BBQ4All Magazine
ino Sardo
Da quanto tempo aspettavate un articolo definitivo che desse le linee guida di quello che è il piatto riconosciuto da tutti come il simbolo della Sardegna? Ecco, è finalmente arrivato il momento. Parliamo di maiale e più specificatamente di maialino da latte. Che non si chiama porceddu. Levatevelo dalla testa. Potete chiamarlo porcetto, termine molto italianizzato, puscheddu nel Sassarese e polcheddu nel territorio di Olbia-Tempio Pausania; oppure ancora proxeddu, porcheddu, proceddu, copieddu, in altre zone della Sardegna. Sentirlo chiamare porceddu è come vedere Carlo Cracco gridare: devi bucare la cotenna! Più o meno equivale ad andare a bestemmiare in chiesa. Così come la cotenna non si buca MAI, allo stesso modo il maialetto non si chiama in quel modo.
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Appurate le basi, passiamo alla storia. Il suo allevamento ha origini antichissime, con documenti che risalgono ad età preistoriche documentate da numerose testimonianze, cosi come per la lavorazione delle sue carni. Gli studi archeologici effettuati in Sardegna hanno fatto risalire la presenza del maialetto, grazie al rinvenimento di ossa di animali domestici e non, fin dal Neolitico antico, intorno al VI millennio a.C. Nel periodo nuragico, tra il 1800 e il 238 a.C. , invece abbiamo testimonianza della sua presenza anche grazie alle rappresentazioni figurative in statuine di bronzo che ritraggono marcatamente sia il maiale che il cinghiale. Nell’epoca romana, ci fu addirittura una crescita dell’allevamento del maiale, essendo utilizzato come moneta per il pagamento dei tributi da parte della Sardegna. Più avanti, nel periodo medievale, intorno al XIV sec., erano il Codice Rurale di Mariano IV-Giudice di Arborea e la Carta de Logu della Giudicessa Eleonora D’Arborea a regolamentare gli allevamenti suini, con capitoli interamente dedicati al mammifero rosa, denominati ”De su porchu mannali”, “Porchus de gamma” e “De Porchos”. In partiocolare, il primo dei capitoli citati faceva riferimento al suino da ingrasso per uso familiare, il secondo delineava le sanzioni da attuare contro gli allevatori che facevano sconfinare il branco in territori altrui (vigne e orti), mentre il terzo vietava l’introduzione dei suini al pascolo e nel maggese nel periodo invernale. Ancora oggi, soprattutto nell’entroterra e nelle zone in cui l’economia è basata sull’agro-pastorale, l’allevamento del maiale ha notevole importanza oltre che diffusione. Infatti ogni famiglia che conduce uno stile di vita di quel tipo alleva su mannale, il maiale, al fine di soddisfare le esigenze familiari con provviste di salumi, carne e lardo. L’allevamento di questo tipo, proprio grazie a diversi fattori intrinsechi, come gli aspetti fisici e geografici del territorio, permette di ottenere dal suino sardo prodotti peculiari e unici. Questo ed altri fattori hanno permesso alla razza suina sarda di essere riconosciuta ufficialmente attraverso il decreto DM n° 21664 dl’08/06/2006 (successivamente modificato dal DM n° 24089 del 18/12/2006). Essa viene infatti inserita in quel gruppo di razze autoctone italiane come la cinta senese, la mora romagnola, il nero siciliano, la casertana e la calabrese.
Quali sono le caratteristiche peculiari che permettono un risultato di così alta qualità e di bontà distinguibile e difficilmente replicabile? La caratteristica principale del classico maialino sardo è quella legata al peso e all’età dell’animale.
Non è consuetudine infatti per il sardo che vive in zone extraurbane andare ad acquistare il maialino sotto casa dal macellaio di fiducia. Anche se a volte non se ne può fare a meno, la normale fornitura avviene principalmente tramite allevatori certificati e in regola con le vaccinazioni. La particolare alimentazione dona alle carni un sapore specifico e difficilmente reiterabile con maiali da allevamenti intensivi e con alimentazioni differenti. La parte grassa, ad esempio, è maggiore nei suinetti di razza sarda allevati en plein air, così come è maggiore lo spessore della cotenna. Questo perché il tipo di allevamento permette a questi animali di crescere in salute e di raggiungere un peso di macellazione in più giorni, rispetto ad altri tipi di suinetti, allevati in semi-intensivo o in intensivo. Dal punto di vista culinario, il fattore principe che rende riconoscibile un maialetto sardo è la cottura. Questa può avvenire con varie tecniche e ora le analizzeremo una per una.Il nostro obiettivo, in ogni caso, deve essere sempre e solo uno: la buona riuscita della cotenna.
Preparazione del maialino: pre-cottura La preparazione parte dalla macellazione. Dopo aver sacrificato il nostro suino, questo va appeso per le zampe anteriori. Tramite un’incisione nella giugulare, viene fatto lo sversamento del sangue. Questo stesso sangue in passato veniva raccolto e utilizzato successivamente per essere spennellato sulla cotenna. Sembrerebbe un rito macabro e ancestrale ma le donava un gusto distintivo e unico. Ora non è più praticabile per comprensibili norme igienico-sanitarie. Il sangue veniva utilizzato anche per la produzione del sanguinaccio. Dopo aver effettuato questa pratica di sversamento, il maiale viene spanciato ed eviscerato, lavato e lasciato pulito internamente e totalmente intero, compreso di testa, coda e piedini. Vengono successivamente realizzati due intagli all’altezza dei reni che faranno da tasche in cui infilare le zampe. Quindi si procede all’eliminazione delle setole mediante il bruciatore a cannello. Qui si ferma la preparazione di ogni singolo capo. Successivamente, prima della cottura, si decide se dividerlo in due mezzene o aprirlo a libro.
Tipologie di cottura Sono principalmente tre le tipologie di cottura di questo prelibato suino: • a carraxu; • a schidonadura; • in furru.
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Esso deve rigorosamente avere un peso che va dai 5 kg circa sino a massimo 7/8 kg e un’età compresa tra i 30 e i 45 giorni. Si parla di post svezzamento, pertanto la nutrizione dell’animale sarà principalmente a base di latte materno per le prime 2/3 settimane, integrata poi con cereali, erbe o ghiande. L’allevamento deve essere allo stato brado o semi-brado.
A carraxu Non si hanno fonti certe sulle origini di questo tipo di cottura. Essa viene perlopiù attribuita alla necessità di bracconieri, ladri di bestiame o latitanti durante il periodo del banditismo, i quali, oltre a dover nascondere la refurtiva, avevano bisogno di cibarsi senza farsi scoprire. Potremmo immaginare i fuochi accesi nel pieno della notte, tra lentischi e sugheretti, rituali quasi primitivi, all’ombra di un nuraghe dove ripararsi o sotto il fusto di un ulivo. Potremmo sentire i profumi di mirto bruciato e dei carboni ardenti che scoppiettano, col fumo che sale davanti ad una silhouette di montagne granitiche e fredde, circondati da una natura selvaggia e aspra. Di sicuro c’è da dire che questo tipo di cottura che in alcuni rari casi viene ancora praticata, si propone quasi esclusivamente nella Barbagia e nell’Ogliastrino. La pratica prevede: un Maialetto Sardo di circa 6-7 kg; erbe aromatiche, in prevalenza mirto e rosmarino in quantità abbondanti; una buona qualità per la brace, con legna di olivastro, ginepro e lentisco. Poi procedete in questo modo: preparate un bel fuoco in terra, vicino a dove volete realizzare la fossa. Scavate una buca di quasi un metro di profondità che contenga ampiamente il maialetto. All’interno di quest’ultima, preparate un bel fuoco che rilasci almeno uno strato di brace di 20/25 cm. Salate il maialetto esternamente e internamente e preparategli un “abito” di erbe. Il vestito si fa ricoprendo interamente il maiale con rami di mirto e di rosmarino, quasi fosse un bozzolo. Se necessario, si legano i rami attorno al maialetto con spago o con filo metallico.
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Con la brace ormai pronta all’interno della buca, eliminate la cenere in eccesso. Fate un letto di erbe aromatiche sopracitate e adagiatevi sopra il maialetto vestito. In questa fase potete legarlo con due spezzoni di circa un metro di fil di ferro per facilitarne l’estrazione dalla buca dopo la cottura. Quindi sovrapponete un altro strato di erbe sopra. Spostate la brace realizzata all’esterno della buca sulle erbe aromatiche. Coprite con uno strato di pietre e successivamente con uno strato di 10 cm di terra. La rimanenza della brace rimasta fuori va spostata ora sulla buca. Fate cuocere per circa 6/8 ore. Passato il tempo, aprite con attenzione e tirate su il maialetto. Ripulitelo dalle erbe e suddividetelo a pezzi, ben caldo. Questo tipo di cottura restituisce un prodotto molto umido e succoso, ma ahimè con una cotenna che non è il risultato che vorremmo ottenere. D’altronde, la finalità di questa metodologia, come detto prima, non era quella di ottenere un maialino con tutte le caratteristiche di un piatto stellato, bensì quella di nutrirsi. Inoltre, in questo caso, come possiamo notare è inevitabile basarsi solo sull’esperienza, sia con le temperature che coi tempi. È pur vero che questa sepoltura fa in modo che si crei una camera di vapore tale a riprodurre le condizioni ottimali per cuocere la carne in modalità L&S e a mimare quelle che
sono abitualmente le condizioni di un foil (foglio di alluminio). Perché è andata in disuso tale metodologia? Intanto, per la grossa mole di lavoro che serve per creare un vero e proprio dispositivo di cottura, alquanto rurale e primitivo. Oltre a questo, per un risultato non del tutto convincente dal punto di vista gustativo. So di sfatare un mito e so benissimo quanto possa affascinare l’idea di una cottura così primordiale ma, onestamente, se dobbiamo ragionare in ottica di maialetto to perfection questo metodo non conviene né in termini di tempo né a vantaggio dei sapori. La cotenna perfetta e croccante di cui parlavamo all’inizio non sarà nemmeno minimamente avvicinabile. Ci troveremo con un porcheddu veramente troppo saporito e molto probabilmente anche sovraffumicato, che avrà certamente una carne umida ma la cui cotenna sarà alquanto flaccida e gommosa. Senza la dovuta maestria, inoltre, il rischio di ritrovarsi con un maialino che sa di bollito è molto alto.
Schidonadura, da spidu, ispidu, schidoni, schironi a seconda della zona; in due parole: allo spiedo. Questa tecnica prevede due modalità di cottura: una verticale (più tradizionale) e una orizzontale (più pratica). MODALITÀ VERTICALE Solitamente realizzata all’aperto, prevede un’indiretta con braci di legna. Gli arrostitori preparano la zona di cottura realizzando una base con sabbia. Se bisogna cuocere numerose mezzene, ci si può servire di una struttura realizzata in ferro per il sostegno degli spiedi. L’area delle braci può essere rettangolare e abbastanza lunga se supera le 50 mezzene (nel caso di sagre o feste paesane) oppure circolare. Sa brexa (la brace) è in posizione centrale e distante da sa petha (la carne). La brace deve essere
costante e forte. La cottura lenta e omogenea, per questo ogni tanto va aggiunta legna grossa che alimenti il fuoco. Non bisogna apprettare sa petha (mettere fretta alla carne), ma essere abili nel tenere il fuoco alla giusta intensità. Se troppo forte, tenderebbe a bruciare l’esterno lasciando cruda la parte interna. La sacralità di questa cottura prevede diverse accortezze. Innanzitutto, bisogna saper schidonare, ovvero saper spiedare il maialetto nel giusto modo per bilanciare perfettamente il peso al fine di gestire meglio la cottura e la sistemazione dello spiedo. Ci sono due modi per schidonare il maiale: utilizzando una mezzena del suino oppure lasciandolo intero e aperto a libro. In entrambi i casi, lo spiedo viene inserito dalla parte del cosciotto posteriore, facendo un entra ed esci almeno due volte
nelle carni, e fatto passare poi dal costato fino ad arrivare alla testa e fatto uscire dal grugno. I più abili utilizzano questo metodo riuscendo a non bucare mai la cotenna. Altri per praticità realizzano almeno un foro di uscita e uno di entrata. Nel caso si decida per il maialetto intero a libro, si utilizzano due spiedi di lunghezza inferiore all’altezza degli arti e perpendicolari a quello centrale, a formare una sorta di H per evitare il chiudersi della carcassa verso l’interno. Un’altra accortezza è quella di saper valutare quando sia il caso di girare lo spiedo per rendere la cottura pressoché identica in entrambi i lati del suino. Un terzo elemento importante è la salatura che avviene verso metà cottura: molto dipende dalla pezzatura del maiale e dal gusto personale. Le parti più grosse, come coscia e spalla, andranno salate maggiormente rispetto ai
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A schidonadura
fianchi più sottili. Infine è importantissima la cottura della cotenna. Non va mai bucata. Mai. Ve l’avevo già detto?
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La sua croccantezza è determinante per una cottura perfetta. Grazie alla fonte di calore molto alta, la cotenna subisce la cristallizzazione gradualmente. A contribuire all’effetto friabile e fragrante si può ricorrere all’uso del lardo: un bel quadrotto spesso, infilzato in un ramo scortecciato di ulivo, che viene utilizzato per ungere la cotenna e veicolare il calore. Molto spesso un insieme di ramoscelli di mirto viene utilizzato a mo’ di pennello per spargere il lardo fuso su tutta la cotenna. Oltre a fare da mopping, il mocho di mirto rilascia sulla cotenna i propri oli essenziali anche a causa del calore ricevuto durante lo sfregamento.Per capire se il suinetto è cotto, si utilizzano modalità empiriche che permettono di sapere quando la carne è pronta. Una di queste prevede di bucarlo nelle parti più spesse mediante la punta di un coltello o di uno spiedino e di stabilire in base alla sensazione di calore sul polso l’avvenuta cottura della carne. Un altro modo è quello di verificare il distaccamento dell’orecchio mediante tiratura. Essendo fatto di cartilagine, il suo distacco corrisponde ad uno scioglimento del collagene e quindi ad una temperatura interna della carne sicuramente superiore ai 65°C e prossima o maggiore ai 90°C. È sicuramente un range molto ampio per definire con certezza la cottura, ma si riduce se abbiniamo questa prova al raggiungimento della perfetta croccantezza della cotenna, che avviene a temperature superiori ai fatidici 72°C (target minimo per il maiale, secondo i manuali). Quando è pronto il maiale viene spiedato e trasferito in sa maizzoba, un vassoio di sughero dove si adagiano alcuni ramoscelli di mirto sul fondo; a questo punto si procede al taglio. Il maialetto viene servito così com’è: nessuna spezia aggiuntiva, soltanto il sale a gusto personale. Accaparrarsi le parti migliori diventa una sfida. Tra i tagli più ambiti, ci sono per primi i piedini e le orecchie, poi la testina che contiene come uno scrigno un gran tesoro, il cervello. A seguire le costolette. Molto apprezzate la parte della pancia e la parte della coppa con l’osso. Diciamo che è difficile che ne rimanga un solo pezzo. Ma non temete: se avanzerà sarà comunque ottimo anche da freddo. MODALITÀ ORIZZONTALE Vale quanto detto per quella verticale, per quanto riguarda la preparazione del maiale e la schidonadura. È un sistema utilizzato principalmente con girrarrosto e in molti casi è fatto anche all’interno delle abitazioni, nei grandi camini a legna o sui dispositivi in muratura aperti. È sicuramente il più pratico e il più adatto per suinetti di razza sarda di dimensioni tra i 5 e gli 8 kg.
In su furru È il metodo di cottura più ampiamente diffuso, sia a casa che nei ristoranti sardi, perché prevede una modalità più semplice e veloce rispetto a quelle già descritte. Se ancora negli agriturismi e in qualche paese dell’entroterra si possono trovare realizzazioni di cotture a carraxu (molto raro) o a schidonadura (molto frequente in località turistiche), la cottura al forno è quella che risolve il problema a tutti coloro che abitano in città e vogliono godere della bontà del maialino con tutte le sue connotazioni distintive: sapore e succosità delle carni e croccantezza della cotenna. Qui si semplifica davvero il tutto e ci si attiene sopratutto a tempistiche e temperature precise per raggiungere un risultato ottimale. Si saltano tutte le parti prima elencate di pre cottura, perché la fornitura avviene principalmente dal macellaio di fiducia o addirittura attraverso la GDO di zona. Quindi ci si porta a casa un prodotto finito e pronto per la preparazione. A causa della carenza degli spazi e degli strumenti utilizzati, si tende a dividere la mezzena in tre parti (anteriore, posteriore e centrale ) e a cuocerla in teglia. Ripeto ancora una volta che il vostro obiettivo è ottenere una cotenna croccante, quindi procedete in questo modo: appena togliete dal frigorifero il maialetto, asciugate bene la cotenna e preriscaldate il forno in modalità ventilato a 160°C. Predisponete in una teglia il maialetto con la cotenna verso la parte alta e infornate. Ancor meglio se utilizzate una griglia dove appoggiare la carne . Lasciate cuocere per 40 minuti senza mai girare la carne poiché in caso contrario la fragranza e la croccantezza verrebbero compromesse se la cotenna entrasse in contatto continuo con i suoi liquidi. Innalzate successivamente la temperatura a 180°C. Ungete con dello strutto la cotenna e salatela, poi dimenticatevelo per un’ora buona. Quando dopo un’ora a 180°C inizierà ad essere bella dorata, alzate la temperatura del forno a 220°C. Tenete quella temperatura per circa 10/15 minuti, dopodiché testate la cotenna con la punta di un coltello. Battendola, dovrà essere tostata e dovrà produrre un rumore sordo e vuoto. A queso punto non resta che sfornare il tutto e servire caldo.
Bene, quelle appena descritte sono le tre tipologie più comuni in Sardegna per cuocere il maialetto. Ovviamente possiamo adattare anche la sua cottura anche al nostro dispositivo. Come avrete capito, quella migliore sembra essere proprio quella a schidonadura. Quindi potremmo prendere ad esempio questa tecnica per ottenere nel nostro dispositivo a carbone o a gas un risultato simile grazie all’uso dello spiedo. Sino a metà del secolo scorso, poter consumare carne e sopratutto sacrificare un capo di bestiame così giovane era un lusso che la gente si concedeva solo in occasioni particolari, quali ricorrenze sacre o matrimoni; solo raramente quindi ci si poteva permettere di rinunciare ad un grosso investimento per soddisfare un vizio e dare importanza alla festa. Oggi, grazie ad un miglioramento delle condizioni di vita e ad una produzione più alta del bestiame, questa preparazione è divenuta una tradizione isolana, e viene eseguita con
maggior frequenza anche per accontentare i turisti. La qualità dei suini autoctoni e delle loro carni è dovuta, come dicevamo all’inizio, ad un allevamento di tipo brado (solo in alcune zone centro orientali dell’isola, sopra i 500 m.s.l.m) e semi-brado. Il prodotto che deriva da questo tipo di allevamento è qualcosa di unico, genuino e legato direttamente al territorio. Purtroppo ogni medaglia ha il suo rovescio: tale tipologia di allevamento facilita la persistenza del virus della Peste Suina Africana (PSA), rendendone problematica l’estinzione. Ci sono quindi dei protocolli molto rigidi da seguire per scongiurare il rischio che questa malattia dilaghi in modo incontrollato sul territorio (la malattia non è trasmissibile all’uomo, ma decima la popolazione suina). Tornando alle nostre cotture, come potete ben immaginare, non si svolgono in maniera passiva e silenziosa. Tutt’altro. Sopratutto per quella a schidonadura, tra le più diffuse, tradizionali e folkloristiche, sono coinvolti diversi gruppi di persone che si divertono un casino. Solitamente agli uomini è affidata la cottura sulle braci all’esterno, mentre la donna diventa regina tra le mura domestiche per tutte le
altre preparazioni. Tra gli arrostitori non si hanno compiti specifici. Tutti si approntano allo spostamento delle braci, ad alimentare il fuoco, a girare gli spiedi. Questo nel massimo della convivialità. Infatti l’arrostitore, per quanto lavori duramente per tutte le fasi pre, durante e post cottura, sarà assistito da altri amici, con casu, inu e civraxu ( formaggio, vino e pane tipico). Di solito non manca nemmeno la distribuzione di prodotti simbolo dei vari allevatori come la sartizza a loriga (tipica salsiccia stagionata a forma di U ) e sa musteba (salume tipico stagionato artigianalmente e ottenuto dal lombo o dalla lonza). Il tutto viene digerito a fine pasto con un buon bicchierino di filù e ferru o liquore al mirto. Insomma, come potete capire, non si tratta di una semplice cottura. Quella della preparazione del maialino è una vera propria arte che inizia dall’allevamento, passa dal rispetto per il sacrificio dell’animale, e si conclude con tutte le fasi che ci permettono di gustarlo al meglio. I sardi vanno fieri e orgogliosi del loro prodotto e di tutta la ritualità che lo circonda. Voi non potete far altro che provarci e sentirvi parte di tutto questo.
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Non sarà così rilevante la sua temperatura interna perché avrà sicuramente superato i 72°C , ma la carne sarà comunque succosa, grazie alla percentuale di grasso sottocutaneo che la terrà umida.
Lo Speziale del Barbecue a cura di Luca Gallozza
Il
MIRTO [...]...piove sui pini scagliosi ed irti, piove sui mirti divini... [...] Gabriele Dâ&#x20AC;&#x2122;Annunzio
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da "La pioggia nel pineto"
Conosciuto da tempi antichissimi, fu una pianta sacra a Venere e quindi simbolo dell’amore e della poesia sentimentale; per questo motivo si usava cingere con corone di mirto il capo dei partecipanti ai conviti amorosi. Durante le feste in onore della dea dell’amore, le donne che ne prendevano parte usavano adornarsi le braccia, il capo e le caviglie con la pianta aromatica, reputandola un potente afrodisiaco capace di stimolare il desiderio e agevolare gli incontri.
sono numerosi i rimatori che hanno celebrato il mirto, rimasto simbolo della gloria poetica.
La corona di mirto, simbolo del matrimonio, chiamata “coniugalo” veniva usata per imbellettare la sposa il giorno delle nozze. Inoltre i rami di questo arbusto durante il solstizio d’estate venivano utilizzati dagli amanti per concordare un p atto di fedeltà reciproca. Da Dante a D’Annunzio, da Monti a Foscolo
Il profumo dell’arbusto risvegliava non solo l’eros ma anche la gola, e proprio in campo alimentare, prima dell’arrivo del pepe, le sue bacche erano molto diffuse come ingrediente per esaltare i sapori della carne. Con questo aroma i Romani insaporivano un insaccato che si chiamava myrtatum, l’antenato della nostra mortadella.
L’impiego fitocosmetico della pianta risalirebbe invece al Medioevo, quando con Acqua degli angeli s’indicava il liquido distillato dai fiori con cui venivano fatte abluzioni per conservare la bellezza. Tutt’oggi l’olio di mirto, un liquido giallo di odore aromatico ricavato per distillazione dalle foglie, è ancora usato come balsamo, sedativo e antisettico.
L’uso massiccio del mirto in cucina arrivò fino al Medioevo, poi le sue qualità vennero dimenticate, per tornare ad essere considerate in tempi più recenti.
La Classificazione botanica • • • • • • • •
Dominio: Eukaryota Regno: Plantae Divisione: Magnoliophyta Classe: Magnoliopsida Ordine: Myrtales Famiglia: Myrtaceae Genere: Myrtus Specie: M. communis
La pianta di Myrtus Communis in tenerà età si presenta con una corteccia di colore rossastro, che tenderà ad assumere sfumature scure di grigio con gli anni. Nel portamento tipico dell’arbusto, i rami sottili si infittiscono tantissimo. Le sue dimensioni variano in altezza da 50 cm sino ai 2,5 mt. Tuttavia ci sono alcuni esemplari che possono arrivare anche a 7 mt con andamento verticale. I rami sono eretti. Le foglie sono coriacee, persistenti, opposte e talvolta incrociate su quattro file, di colore verde intenso, lucide e brillanti sulla parte superiore, più chiare in quella inferiore. La loro lunghezza si aggira sui 5 cm circa, la forma è ovale. Sono ricche di ghiandole aromatiche e strofinandole rilasciano i profumatissimi oli essenziali, grazie ai loro costituenti principali: mirtolo, geraniolo, alfa-pinene, limonene, cineolo e tannini. Ha fiori bianchi, con stami dorati ed evidenti, solitari, lungamente peduncolati e molto profumati. Sbocciano da Giugno a Settembre, periodo della loro
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Quando parliamo di mirto, la prima cosa a cui pensiamo è la Sardegna, regione dove questa pianta si diffonde nella macchia mediterranea locale, sopratutto perché i più riconosciuti liquori sono prodotti proprio lì. È una pianta aromatica sempreverde, della famiglia delle myrtaceae, comprendente un centinaio di specie originarie delle regioni calde del vecchio e nuovo mondo; in Italia è presente una sola specie, il Myrtus Communis, che cresce spontanea in tutto il bacino del Mediterraneo. Solitamente spunta in zone costiere, ma non è raro trovarlo anche a poco più di 500 metri sul livello del mare. È un arbusto cespuglioso che può raggiungere anche i 2,5 metri di altezza e che matura tra novembre e gennaio, ha foglie opposte ovate e fiori ascellari a petali bianchi e profumati, con bacche a contorno vario grosse più o meno come i piselli, di colore blu nerastro.
caduta e della loro raccolta. Le foglie invece durano tutto l’anno, mentre le bacche sono presenti solo nel periodo autunnale. Queste ultime sono ovoidali, di colore nero-blu violaceo e carnose, molto gradite agli uccelli. Più raramente sono biancastre, con numerosi semi reniformi bianchi e lucenti privi di albume, dal sapore astringente. Ogni bacca ne contiene in numero da 1 a 8. La buccia è pruinosa, sottile, facilmente separabile dalla polpa, che è bianca crema. sostenuta, di sapore acidulo ed astringente nei frutti non completamente maturi, aromatica con retrogusto resinoso in quelli maturi. Una migliore conoscenza delle proprietà nutraceutiche delle bacche di mirto potrebbe rappresentare un incentivo per il loro futuro sfruttamento nelle industrie alimentari, farmaceutiche e cosmetiche. Sono ricche di composti fenolici, tra cui acidi fenolici (acido gallico, acido ellagico), flavonoli (miricetina glicosidi con piccole quantità di quercetina e gliceridi kaempferol), flavan-3-oli (epigallocatechina, epigallocatechina 3 -O- gallato, EGCG, ed epicatechina 3 -O- gallato) e antociani.
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Il suo utilizzo
Il mirto è un arbusto che si presta a molteplici usi. Ha caratteristiche importanti per il recupero e la rivegetazione di aree degradate, come mangime per bestiame e come pianta ornamentale da esterno e da interno. In cucina è largamente usato come aroma per insaporire piatti di carne e pesce e, come abbiamo visto, è l’ingrediente principale nella realizzazione del maialetto sardo. Di largo uso anche nel settore cosmetico e medicinale, in particolare per le caratteristiche antisettiche e balsamiche dei suoi oli essenziali, benèfici per la cura delle malattie respiratorie. In cosmesi, la sua essenza è ottima come tonico per la pelle e per la cura della caduta dei capelli. La parte legnosa invece viene spesso utilizzata nell’artigianato locale per la creazione di cestini e nasse per il pesce, in quanto molto resistente. In Sardegna, le bacche sono ampiamente utilizzate nell’industria alimentare, e principalmente in quella dei liquori per produrre il famoso Mirto di Sardegna, riconosciuto come indicazione geografica dell’isola della Sardegna, secondo il Reg. CE.no.110/2008. L’infusione idroalcolica può essere di bacche mature, nel caso del mirto rosso, o di foglie nel caso di quello bianco. La produzione annuale di Mirto di Sardegna è di circa quattro milioni di bottiglie tra quelle di tipo industriale e quelle artigianali. Con lo scopo di proteggere la produzione, data la sua importanza economica nel settore agricolo sardo, dal 1998 sono state stabilite specifiche di produzione sulla base di uno studio approfondito della composizione chimica della bacca e del processo di preparazione del liquore. La popolarità sempre crescente di questo prodotto tipico ha suggerito la necessità di una ricerca agronomica per addomesticare le piante spontanee: il risultato è stato l’impianto di circa 200 ettari di piante di mirto in Sardegna.
Sfortunatamente, i produttori di liquori preferiscono i frutti delle piante selvatiche, disponibili in quantità sufficienti; pertanto, la domanda di mercato per prodotti realizzati con piante non spontanee è scarsa. Per questo motivo, c’è un forte interesse nel cercare applicazioni in settori diversi dall’industria dei liquori. Uno di questi settori è proprio quello della medicina rigenerativa. Secondo studi effettuati presso l’Università di Sassari le potenzialità dei polifenoli di mirto sono notevoli poiché agirebbero sia nella prevenzioni di infiammazioni cutanee, sia nel miglioramento dell’efficacia dei farmaci nella cura delle psoriasi. Per ora queste ricerche sono tutte in fase di studio e devono vedere la loro applicazione sull’uomo, sperando in risultati efficaci. A noi non resta che continuare a consumare del buon mirto al fine di aumentare la quantità di scarti di produzione e aiutare la ricerca.
Volete produrvi in casa un buon mirto da condividere con gli amici? Ecco la ricetta per farlo in casa.
Vi occorre un litro di alcol etilico per dolci a 95°, 800g di zucchero semolato e 300/400 g di bacche di mirto appena raccolte. Mettete in infusione le bacche nell’alcol per 40 giorni in un capiente contenitore ermetico di vetro. Dopodiché filtrate l’essenza alcolica dalle bacche e preparate uno sciroppo con un litro di acqua e tutto lo zucchero. Quando sarà freddo unite allo sciroppo l’essenza alcolica, mescolate bene e poi fate riposare. Le bacche rimaste dall’infusione possono essere passate in un torchietto per estrarre ancora parte dei succhi. L’estratto ricavato va aggiunto al liquore, questo permetterà di ottenere un sapore più intenso. Lasciate riposare per 30 giorni la vostra bottiglia di liquore e poi gustatevelo. Siamo arrivati alla fine del racconto e non ve la prendete se vi sfato un mito.
"E tando no lu cumbidamus s’amigos ? Ello, ponide a buffare a tottus" E allora non li invitiamo a bere gli amici ? Certo, mettete da bere a tutti
Se è vero che bevendolo freddissimo si ha tutta la piacevolezza del fresco, è anche vero che si perdono tutti i profumi e gran parte del gusto. La temperatura di servizio ideale è compresa tra i 15- e i 20° C. Versatelo nel bicchiere giusto, come il Napoleon da Cognac, con non più di due/tre dita di prezioso nettare.
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Se vi chiedessi a che temperatura bere il mirto, voi tutti mi rispondereste: rigorosamente ghiacciato! Niente di più sbagliato.
Speciale Grigliate - ricetta a cura di Michela Bongiorni
CHURRASCO DI PICANHA 314 - Almanacco 2020
CON ARROZ BRANCO
Pensate al Brasile. Qual è la prima cosa che vi viene in mente dopo il calcio, i fondoschiena delle ragazze del luogo e il carnevale? Considerando che state leggendo il nostro nostro Magazine, mi pare ovvio che la risposta sia la Picanha. Conoscete già bene questo meraviglioso taglio, se siete assidui della nostra community: proviene dalla parte posteriore dell’animale, in corrispondenza dei glutei, ed è conosciuta in Italia come codone, punta di sottofesa o copertina dello scamone; è di forma triangolare, ha un peso massimo di poco più di un kg ed è caratterizzato da una copertura di grasso, presente su uno dei due lati, alta un cm. Uno strato di puro sapore, fondamentale per un risultato in griglia che, come diciamo spesso, non deve mai essere una tacca sotto allo stupefatto “wow!” dei commensali (e anche vostro, s’intende). In Brasile, la picanha è generalmente la preparazione regina del Churrasco, ovvero una grigliata mista di vari tipi di carne che possono essere tagliati a pezzettoni o lasciati interi, di solito marinati e poi cotti alla griglia a temperatura altissima, quasi a contatto diretto col fuoco. Si può assaggiare il churrasco nelle churrascarias o churrasquerias molto diffuse in tutta l’America Latina. Se vogliamo parlare del modo migliore di cuocere la picanha alla brasiliana, non possiamo certo dimenticare le spade: la carne va tagliata in tre o quattro fette spesse due/tre dita, poi ripiegata lasciando il grasso all’esterno, infine infilzata su una spada da posizionare direttamente sopra le braci, ad una distanza di circa trenta cm. La spada deve essere a questo punto girata continuamente in modo che il grasso si sciolga e coli sulla carne (ecco il sapore puro di cui parlavamo all’inizio) formando una crosticina. A quel punto si comincia ad affettare la carne dalla parte più esterna e a servirla, fino a che non si raggiunge lo strato ancora crudo. Si rimette lo spiedo in cottura, si ricomincia a girare e si procede via via in questo modo. Si serve con un pizzico di pepe e di sale grosso, ma volendo può essere salata prima della cottura, come spesso fanno in Brasile.
INGREDIENTI 4/6 persone Una Picanha intera Black Angus Star Ranch del BBQ4All Megastore Sale kosher q.b. Pepe q.b. Due pomodori grossi Una cipolla bianca Uno spicchio d’aglio Un mazzetto di prezzemolo Mezza carota Un gambo di sedano Peperoncini jalapeño piccanti in olio extravergine q.b. sale e pepe q.b. olio extravergine di oliva q.b. 350/400 g di riso
Niente paura, la soluzione c’è. Oggi, per esempio, abbiamo cucinato questa splendida Picanha del nostro Megastore applicando prima il Revit come lo Zio comanda (sapete benissimo di cosa stiamo parlando, a meno che... griller fai da te? No Mail Class? Ahiahiahi! Iscrivetevi!); poi abbiamo grigliato il pezzo intero per non più di trenta secondi sul lato senza grasso, facendo venire una splendida crosticina esterna, infine lo abbiamo tagliato a pezzi e abbiamo rimessi ancora i pezzi in griglia, in modo che il grasso si sciogliesse un po’ e rosolasse bene. Lo abbiamo servito con arroz branco (riso bianco) tipico accompagnamento di carne, verdure e uova, onnipresente sulla tavola dei brasiliani. Noi però non lo abbiamo servito proprio bianco-bianco, ma “sporcato” con un trito di verdurine piccanti che hanno reso tutto il piatto completo e dai sapori pieni e soddisfacenti. L’effetto wow è stato perfettamente raggiunto.
Ora provateci anche voi.
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E se non si hanno a disposizione le spade?
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PREPARAZIONE
1.
Accendete il forno a circa 52°C e inserite la carne, dopo averla tenuta avvolta nella carta assorbente a temperatura ambiente per qualche ora.
2.
Tenete la Picanha in forno il tempo necessario affinché raggiunga la temperatura al cuore di 52°C e la superficie si disidrati completamente; dopodiché, se possibile, prolungate il tempo di permanenza della carne a quella temperatura.
3.
Nel frattempo, preparate l’arroz branco: sciacquate il riso sotto l’acqua corrente a lungo, poi soffriggere mezza cipolla e lo spicchio aglio, ben tritati, nell’olio. Aggiungete il riso lavato e scolato, salate e soffriggete per un minuto.
4.
Coprite il riso con acqua bollente, mescolate per l’ultima volta e cuocetelo a fuoco basso per circa 10 minuti; quando l’acqua si sarà asciugata, controllate che sia cotto. Se necessario aggiungete un po’ d’acqua e lasciate cuocere ancora 1 o 2 minuti. Poi copritelo e lasciatelo riposare così.
5.
Tritate finemente il sedano, la carota, la cipolla e il prezzemolo, tagliate i pomodori a dadini insieme ai peperoncini: condite il tutto con sale, pepe e olio extravergine di oliva.
6.
Accendete il vostro dispositivo per una cottura diretta e fate scaldare bene la griglia, meglio ancora se avete una piastra di ghisa che appoggerete in corrispondenza delle braci per farla diventare rovente.
7.
Quando la carne sarà pronta per essere messa in griglia, spennellatela con un filo d’olio e poi buttatela sulla griglia rovente (o sulla piastra di ghisa) per 30 secondi (non dal lato del grasso, ovviamente). Occhio che in questa fase, se non avete la piastra, potrebbero alzarsi le fiamme a causa del grasso che cola sulle braci: siate sempre pronti con le pinze a spostare la carne nel lato “freddo” della griglia.
8.
Si formerà una crosticina perfetta e la carne dentro sarà perfettamente rosata e calda al punto giusto. A questo punto tagliate la picanha in fette alte circa due/ tre dita e rimettetele in griglia in cottura diretta, cercando di far rosolare il grasso che sciogliendosi andrà a investire la carne e darà sapore.
9.
Tagliate a fettine sottili la picanha e, se la preferite più rosolata, continuate a farla cuocere velocemente in griglia in questo modo girando spesso le fette; se avete le spade, o anche degli spiedi lunghi, questa operazione sarà molto più veloce e comoda.
10. Servite le fettine di Picanha condendole con sale kosher e pepe, e accompagnatele con l’arroz branco condito con il trito di verdure piccanti.
ASADO ESSENZIALE, PRIMORDIALE, SENZA COMPROMESSI Speciale grigliate Approfondimento a cura di Virgilio Brunetti In Argentina l’asado dei gaucho è essenzialmente carne di manzo cotta lungamente davanti ad un muro di brace di legna appesa a supporti di metallo fissati nel terreno; nella sua espressione più ancestrale i tagli del bovino non venivano neanche scuoiati, parte della pelle veniva lasciata al fine di trattenere una maggiore succosità visto che le pezzature sono sempre piuttosto grandi e vengono cotte per molte ore. Inoltre in Argentina la carne non viene consumata mai al sangue. L’asado è un metodo di cottura, lento, primitivo, faticoso che richiede esperienza, metodo e buone capacità di adattamento. Si cucina all’aperto, esposti ai capricci del vento; vi assicuro che in quel modo far arrivare correttamente il calore indiretto di una brace di legna sulla carne non è affare da poco. Ho provato di persona: la cottura di un agnellone intero di appena 10 kg in una torrida giornata d’Agosto mi ha letteralmente distrutto. La fatica però è stata proporzionale solo alla soddisfazione di aver cotto un così grande pezzo alla perfezione, dalla pelle al midollo osseo. Carne tenera e succulenta, intrisa di grasso e succhi e con quell’aroma di fumo che solo la brace può dare, niente bruciature, solo puro godimento carnivoro. Vi dico una cosa: non sarete mai non avete mai provato l’esperienza dell’asado alla crux. Per spiegare cos’e la vera cottura al fuoco del Sud America bisogna descrive i singoli elementi che la caratterizzano.
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veri amanti della cucina al fuoco se
Fuoco L’asado è una cottura generalmente indiretta che non prevede l’uso di dispositivi chiusi; la fonte di calore è unicamente una brace di legna fumante che deve essere preparata e alimentata in modo che il calore sia sempre intenso e costante. L’asador deciderà caso per caso, in base al tipo di carne, la grandezza del taglio e le condizioni ambientali, se condurre la cottura esponendo la ciccia al calore della brace o alla fiamma della legna in combustione; quindi, di fatto, la sua capacità sarà quelle di saper modulare manualmente l’intensità del calore e la quantità di fumo talora aggiungendo o togliendo brace o legna. La scelta dei legni è fondamentale: duri, sufficientemente integri, secchi e con alto potere colorifico.
Metallo La cottura a la cruz è il metodo più tradizionale, e prende il nome dalla forma del supporto metallico che sorregge l’animale o il taglio di carne; viene fissato nel terreno in obliquo, a una distanza dal fuoco corretta affinché anche enormi pezzi cuociano uniformemente e profondamente, ma senza carbonizzare la superficie.
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Il taglio più tipico e spettacolare dell’asado a la crux è la costilla ovvero un grande pezzo di costato bovino. In Patagonia e in Cile, per la preparazione dell’agnello
e del maiale interi viene fatta in modo simile ma la crux viene sostituita dal palo, un metodo ancora più primitivo ed impegnativo perché richiede che il palo e la carne vengano mossi spesso rispetto alla fonte di calore. Il grande spiedo viene fatto ruotare e può essere anche posto in orizzontale sulla brace o la fiamma viva. Nella cottura al fuoco argentina non manca quella sulla griglia ovvero la parrilla, ma non aspettatevi nulla di simile a quello che siete abituati a usare a casa. La parilla argentina è enorme, pesante e viene movimentata da sistemi di carrucole per distanziare la massiccia struttura dalle braci. È caratterizzata dall’uso abbondante di sale non solo sulla carne ma anche sulla griglia, che ha un caratteristico colore bianco proprio perché spesso irrorata con una soluzione concentrata di sale da cucina che, evaporando, lascia un fine strato sul metallo. Il sale ha sia la funzione di condimento sia quella di evitare in questo modo che la carne si attacchi e si bruci a contatto col metallo rovente. Nell’assetto da campo la parilla può essere sostituita da materiale di fortuna: non di rado vitelli interi vengono arrostiti su una vecchia rete da letto. Nei ristoranti argentini la parillada è un must e su queste griglie si arrostisce di tutto, soprattutto i tagli manzo che richiedono cotture più brevi ovvero i tagli del collo, della lombata, della pancia e le frattaglie.
La cottura al fuoco argentina è legata strettamente alla cultura pastorale e trova nel bovino la sua massima espressione. L’eccellenza della carne argentina ormai è riconosciuta in tutto il mondo. L’allevamento del bovino da carne fu introdotto nelle pianure delle Pampas più di un secolo e mezzo fa. Il bestiame pascola nelle praterie allo stato semibrado, tecnicamente in sud America l’allevamento dei bovini e di tipo estensivo. In queste aziende il pascolo è la principale fonte di sostentamento del bestiame, i capi sono tenuti all’aperto per tutto l’anno o per lunghi periodi, quindi le spese in strutture di ricovero e mangimi sono ridotti al minimo. Dal punto di vista produttivo gli allevamenti sudamericani sono caratterizzati dal bassissimo incremento medio giornaliero dei capi e per la lunga durata dei cicli di ingrasso. Sono generalmente specializzati su razze di origine britannica, e principalmente Angus, ma nelle aree tropicali e sub tropicali del continente vengono allevate le razze zebuine (taurus indicus) poiché tollerano bene il clima caldo. Questi fattori determinano una differenza di qualità abissale tra la carne bovine argentina e quella brasiliana. I tagli di manzo argentino non sono troppo differenti da quelli Italiani; ovviamente la denominazione è differente. Quelli della lombata sono praticamente uguali:
il controfiletto (bife de chorizo), il filetto (bife de lomo), la rib eye (ojo de bife) e la costata (costilla). Ma i tagli che rendono veramente unico e caratteristico l’asado sono quelli del costato e della pancia: le coste (costillas) e la parte bassa del costato (asado de tira), la parte addominale ricca di grasso (matambre e vacìo). Anche la carne di maiale è apprezzata: la salsiccia, che farcisce sempre il pane (choripan), le costicine (costillas), la morcilla, un particolare insaccato di piccole dimensioni a base di sangue, con un impasto cremoso e spalmabile, il petto di maiale (pechito de cerdo) e il matambre a la pizza, il sottopancia di suino condito con pomodoro e formaggio. Oltre alle porzioni appena citate, tipiche soprattutto della zona di Buenos Aires e dell’Argentina centrale, nel Nord e lungo le Ande si possono trovare più spesso anche l’agnellone (cordero), la capra e il lama, che prima della cottura vengono marinati con olio ed erbe aromatiche. Nel Sud e in Patagonia si usa anche il cordero patagonico, un altro ovino caratteristico della zona. Fra gli animali meno diffusi c’è anche il potro, un cavallo selvatico, mentre la choriceata e la polleada sono grigliate a base di salsiccia o di pollo. La parrillada mista, invece, prevede carne di manzo, maiale (cerdo), pollo, ovino, e interiora di vacca, capra o pecora, che possono essere la portata principale o l’antipasto dell’asado.
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Carne
Sale Il sale è il condimento numero uno e spesso l’unico utilizzato, tuttavia non manca l’uso delle erbe aromatiche. La carne prima di essere cotta viene trattata con una salatura a secco con solo sale grosso. Gli effetti del sale sulla carne sono potenti; utilizzato a secco o in soluzione ma anche successivamente in cottura, penetra profondamente nella carne modificando le proteine e generando un importante effetto di ritenzione di liquidi: maggiore tenerezza, maggiore succosità. Questa la base scientifica sul perché è vantaggioso salare la carne prima della cottura. Il fatto di esserne consapevoli è un altro paio di maniche, sappiamo benissimo che molti sono ancora convinti che salare prima delle cotture sia un sacrilegio.
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Nella cottura al fuoco argentina si sala in maniera estensiva: attraverso la salamoia insieme alle erbe per irrorare la carne durante le lunghe cotture a la crux, attraverso il seasoning della parilla e ovviamente durante preparazione del chimichurri. Sale, olio, aceto, origano fresco, sono la base della salsa più famosa abbinata all’asado; a questi ingredienti si aggiungono quantità variabili di prezzemolo peperoncino, pomodoro, alloro... probabilmente ogni famiglia argentina ha la sua ricetta.
ASADO DE TIRA l’incubo del griller
Gli altri problemi che avrete con questo taglio è il livello di frollatura, di marezzatura e di presenza di collagene. Il termine tira si riferisce alla parola costilla e in pratica significa striscia di costola. È infatti un taglio che individua le prime 3 o 4 costole del manzo, tagliate in modo trasversale e con i muscoli della pancia ancora attaccati. Se avete superato il problema del procurarvi la carne, l’unica maniera per cucinarla correttamente è applicare il metodo corretto per affrontare il problema. Il metodo consiste in una cottura ibrida con alcuni passaggi in cottura indiretta.
PREPARAZIONE 1.
Dry brining, si potrebbe osare una wet brining al 5% di sale ma visto che siamo in Argentina perché non seguire la tradizione? Applicate il 2% di sale sul peso della carne vale a dire 20 grammi su ogni kg. Approssimativamente un cucchiaino di sale grosso su un pezzo da circa 500 grammi. Distribuitelo uniformemente e lasciate riposare in frigo per almeno una notte.
2.
Allestite un kettle per un cottura indiretta.
3.
Asciugate la carne e passate un sottile strato d’olio.
4.
Utilizzate il calore diretto del grill per imbrunire uniformemente la carne, rosolate bene, evitando bruciature e fiammate.
5.
Stabilizzate il kettle tra i 120°C e i 140°C.
6.
Passate la carne al calore indiretto, aspettate, saggiate la temperatura, quando la temperatura interna sarà vicina ai 65 gradi.
7.
Mettete i singoli tagli in un doppio strato di foil, e posizionateli al calore indiretto; non vogliamo che il nostro asado de tira diventi pullabile quindi portiamo la temperatura della carne a appena sotto i 90°C.
8.
Tirate fuori la carne dal foil, asciugate l’eccesso di umidità e ripassate con olio, potete spennellare la carne con del chimichurri.
9.
Rifinite la carne sul calore diretto e servite immediatamente con salsa chimichurri e insalata di patate.
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Questo taglio, se non trattato con i giusti accorgimenti, sarà sempre duro e secco come un pezzo digomma vulcanizzata. Intanto dieci e lode per chi, qui in Italia, riesce ad andare in macelleria a farsi confezionare uno dei tagli più famosi dell’asado argentino. Sebbene qui da noi la cultura della carne sia in netto miglioramento, spiegare al macellaio medio come farsi sezionare un taglio che non ha mai pensato di fare nella sua carriera è piuttosto complicato anche se non impossibile.
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Speciale grigliate - Ricetta a cura di Michela Bongiorni
FLANK IN FLIP & BRUSH T'AMO, PIA BAVETTA!
Spesso questo taglio viene fatto marinare in salsa teriyaki, poi cotto e infine ridotto a striscioline sottili per condire i tacos. Noi abbiamo invece voluto dimostrare che anche tagliato a fette più spesse e consumato senza troppi intingoli o condimenti dà grandissime soddisfazioni. Abbiamo deciso di marinarlo, dandogli un sapore più orientale, poi di cuocerlo in flip&brush. Infine lo abbiamo servito con una salsa profumata alla menta. Se siete abbonati dalla prima ora, o se avete frequentato uno dei nostri corsi, sapete sicuramente cosa sia il flip&brush, ma permettetemi di ripeterlo per tutti quei lettori che si sono avvicinati adesso all’affascinante mondo della griglia. E comunque un ripassino non fa mai male a nessuno! Questa tecnica è sicuramente la migliore per cuocere una bistecca sottile. Letteralmente significa “spennella e gira”: si accende il carbone, si aspetta che la griglia sia rovente, vi si appoggia sopra la bistecca (o nel nostro caso la flank) e poi la si cuoce girandola ogni 30 secondi, spennellandola contemporaneamente sul lato esterno con una riduzione della stessa marinata in cui l’abbiamo tenuta per qualche ora. E via così. Spennella e gira, spennella e gira, finché la crosticina esterna sarà uniforme e bella brunita (ma non carbonizzata!) e l’interno sarà rimasto rosa e succulento. Sono principalmente due le cose a cui dovete fare attenzione: innanzitutto, nel caso utilizziate una
marinata contenente zucchero per spennellare la vostra flank, siate accorti e lesti, poiché gli zuccheri, quando sottoposti a calore elevato, tendono a caramellare molto in fretta e il rischio carbonizzazione (con conseguente sapore amarognolo e terribile) è molto elevato. In secondo luogo, dovete fare molta attenzione, una volta cotta, a tagliare la flank nel modo giusto, ovvero controfibra. Per fortuna, la sua struttura evidenzia palesemente la striatura delle fibre che corrono per il lato lungo del pezzo. Il taglio migliore è quindi quello perpendicolare. Come abbiamo detto, la nostra flank vi permette di poterla tagliare anche in fette un po’ meno sottili di quelle a cui potete pensare: anche con fette spesse un dito la troverete estremamente morbida e gustosa. Ok, adesso siamo pronti per entrare nel dettaglio.
INGREDIENTI 4 persone Una flank di Black Angus del BBQ4All Megastore 50 g di zenzero 5/6 cucchiai di salsa di soia dolce 3 spicchi d´aglio 4 cucchiai di saké Un mazzetto di menta fresca Olio extra vergine di oliva Tre cucchiai di maionese Un mazzetto piccolo di prezzemolo Due pomodori secchi Mezza cipolla rossa Sale e pepe q.b.
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Sottovalutata e bistrattata in Italia, la bavetta, taglio di pancia o più precisamente del fianco che noi appassionati di griglia conosciamo come Flank Steak, è sorprendente sia per il sapore che per la consistenza. È sottile, dalle fibre lunghe, ricca di tessuto connettivo. Avrete anche letto un po’ ovunque che, se non viene tagliata in striscioline sottili, può diventare difficile da masticare una volto cotta. Questo non è assolutamente vero per quello che riguarda la Flank Steak del nostro Megastore. Quella che abbiamo usato per questa ricetta è in pregiato Black Angus, la gemmazione americana dell’Aberdeen Angus. Un bovino che vive anche in Brasile, in Argentina e in Australia, oltre che negli Stati Uniti, ed è certamente famoso per la sua carne delicata, con quella generosa marezzatura che la rende saporita ed ambita a livello internazionale. Insomma, parliamo di una garanzia assoluta se si vogliono ottenere risultati eccezionali in griglia.
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PREPARAZIONE
1.
Grattugiate finemente lo zenzero nella salsa di soia. Aggiungete due spicchi d’aglio schiacciato, il sake e qualche foglia di menta. Infilate la flank in un sacchetto con la marinata, sigillatelo e poi lasciatelo in frigo per qualche ora.
2.
Preparate la salsina di accompagnamento, tritando finemente la menta, il prezzemolo, i pomodori secchi e la cipolla. Condite il tutto con sale, pepe e olio, poi aggiungete la maionese e mescolate. Lasciate riposare la salsa.
3.
Togliete la flank dalla marinata raccogliendo quest’ultima in un pentolino; avvolgete la carne nella carta assorbente tenendola a temperatura ambiente, accendete il carbone e mentre aspettate che sia pronto riducete sul fuoco la marinata.
4.
Preparate il vostro dispositivo per una cottura diretta, aspettate che la griglia sia ben calda, spennellate la carne con un filo d’olio e buttatela in griglia: a questo punto, aiutandovi con un pennello alimentare, spennellate la riduzione sulla carne e poi giratela con una pinza. Continuate a fare questa operazione finché la crosticina esterna non sarà uniforme e di color marrone scuro. Occhio a non carbonizzarla!
5.
Una volta cotta, adagiatela su un tagliere e affettatela controfibra. Conditela con sale e pepe e servitela insieme alla maionese profumata di menta, che darà quel tocco di freschezza e si sposerà benissimo con lo zenzero della marinata.
Speciale grigliate - menĂš completo a cura della redazione
Aprile e maggio sarebbero stati i mesi delle scampagnate con gli amici e con le grandi comitive chiassose, ma la quarantena e la convivenza obbligata con il nostro partner ci costringono a tornare ai tempi della passione e della seduzione: tempi nei quali, anche in griglia, si faceva di tutto per assecondare le voglie del nostro commensale del cuore.
UNA GRIGLIATA PER DUE
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Ă&#x2C6; dunque arrivato il momento di organizzarsi per una serata a due che regali al nostro partner coccole e tentazioni.
Il menù
Gli ingredienti
“La guerra è di somma importanza per lo Stato: è sul campo di battaglia che si decide la vita o la morte delle nazioni, ed è lì che se ne traccia la via della sopravvivenza o della distruzione. Dunque è indispensabile studiarla a fondo.” - Sun Tzu
Per le melanzane in ember-roasting vi occorrono: due melanzane, mandorle sottili e croccanti, o altri tipi di frutta secca come nocciole, pistacchi o arachidi non salate, formaggio caprino, aglio, menta, succo di limone, Olio extravergine di oliva.
Non possiamo affrontare una grigliata per riconquistare o riscaldare il cuore di chi ci sopporta ogni giorno senza una strategia ed una perfetta pianificazione. La base di tutto è il menu. La scelta delle portate è fondamentale e si devono tener presente aspetti che non siano necessariamente solo culinari. Iniziamo dalle basi: non sporcate molto. Cercate di organizzarvi con un tagliere, due coltelli e qualche ciotola. Fatevi bastare un set ridotto di attrezzi. Non esagerate con le portate, ma ricordatevi che è una cena fatta e pensata per qualcun altro che però vi consenta di stare insieme, al tavolo, per un momento più lungo di 20 minuti. Chi legge questo Magazine normalmente mangerebbe sempre e solo carne. A volte i nostri partner ci assecondano ma preferirebbero anche altro. Trovate una mediazione e dimostrate che sapete fare di più e considerate la presenza di un antipasto o di un dolce, o di entrambi. Cotture lunghe ma non eterne. Non date l’impressione di iniziare a cucinare solo per evitare la noia del momento. Devono vedervi operosi ma non fermi a fissare un termometro, magari wireless seduti sul divano e con una bottiglia di birra. Niente brisket e pulled pork. La serata è per lei/lui ma anche per voi e dunque niente cotture dirette. Quando sarà il momento di sedersi a tavola dovrete poterlo fare anche voi insieme al partner e senza profumo di affumicato sulla pelle. Tiriamo le somme. Io sono un fortunato, ho seguito i corsi GTP ed ho visto i coach organizzati e capaci, in 6 ore, di fare lezioni teoriche, cucinare, insegnare a cucinare, farmi godere come un riccio. Perché non scavare a man bassa in quelle esperienze e provare ad organizzare una serata?
Antipasto con melanzane in ember
326 - Almanacco 2020
Costine all’italiana (rosticciana) accompagnate da salsa con verdure sempre in ember Dolce al cucchiaio cucinato al barbecue
Per la salsa di accompagnamento alle costine: due peperoni, un pomodoro ramato, un aglio intero, una cipolla rossa di tropea, salsa Worcestershire, tabasco ed olio evo. Prezzemolo e, quando sarà possibile, origano fresco. Per le costine di maiale: un costato intero ben rifilato, olio, sale, pepe e limone. Un goccio di aceto di mele. Per il dolce: Due mele renette, cannella, miele, muesli croccante o biscotti digestive. Nessun ingrediente è stato o sarà pesato. Come amiamo dire al sud le dosi sono “a sentimento”.
Cottura e preparazione Se siete bravi ed organizzati in meno di quattro ore porterete tutte le pietanze a cottura e sarete pronti, previa doccia ristoratrice e profumatrice, al vostro incontro galante.
Nel frattempo preparate tre ciotole di vetro o di acciaio nelle quali metterete una volta pronti le melanzane, gli altri ortaggi, le due mele. Girate gli ortaggi durante la cottura e controllate le mele che devono ammorbidirsi. Non esiste un tempo preciso ma in circa 30 minuti dovreste averle ben cotte: le melanzane saranno cedevoli, i peperoni saranno raggrinziti e le mele si presenteranno disidratate e morbidine. Non aspettatevi che tutto sia pronto allo stesso momento, quindi pazientate finché non avrete raggiunto l’obiettivo. Aglio, cipolle e pomodori richiedono pochissimo tempo. Sarà poi il momento della cipolla e del peperone. Melanzane e mele saranno le ultime ad essere pronte. Mettete gli ingredienti nelle ciotole e copriteli con dell’alluminio in modo che non fuoriesca il vapore. Continueranno lentamente la cottura.
Mentre le verdure erano nel grill avrete avuto moto di rifilare le costine, pulendole dalla pleura. Un goccio di olio per massaggiare, abbondante sale e pepe per condire. Nessuno vi vieta l’uso di un ancor più classico SPG: Salt, Pepper and Garlic; personalmente uso una parte in volume di sale, una di pepe e mezza di aglio. Assaggiate per verificare che sia tutto ben equilibrato. Fate fare una bella crosticina in modalità diretta alle vostre costine. Dopo che avrete ottenuto la reazione di Maillard ricercata, inserite la baffa di costine tra due fogli di alluminio con un cucchiaio di aceto di mele. Verificate che il pacchetto sia ben chiuso e speditelo nel kettle a 150°/160°C. Torniamo alle mele. Liberatele dalla buccia e raccogliete la polpa priva di semi nel bicchiere alto del frullatore ad immersione. Aggiungete un po’ di cannella, qualche goccia di limone come antiossidante ed un po’ di miele. Il miele, soprattutto se di mono floreale vi donerà degli aromi aggiuntivi. Preferisco quello di coriandolo con una bella nota vanigliata, castagno o acacia vanno bene comunque. Se non avete trovato il miele usate dello zucchero di canna. Omogenizzate con un frullatore ad immersione. Dividete in due coppette. Prima di servire, ricordatevi di aggiungere dei biscotti digestive sminuzzati o meglio ancora del mesli croccante.
327 - BBQ4All Magazine
Preparate il vostro kettle con una ciminiera quasi piena di bricchetti, metteteli da un lato e poggiate sui carboni ardenti le tre melanzane e le altre verdure; un po’ distanti, in una teglietta piccola che le contenga, mettete le due mele renette. Chiudete con il coperchio e lasciate andare con le vent-in a metà corsa.
La mise en place e il servizio Preparate una bella tavola. Nessun tovagliolo o bicchiere di carta. Aprite il vino. In due ciotoline dividete la crema di melanzane dove avrete aggiunto qualche pezzetto di caprino, delle mandorle tostate al volo in un padellino e qualche foglia di menta. Accompagnatele con tortillas chips. Versate il vino.
328 - Almanacco 2020
Passiamo alle verdure. Pulitele ed inseritele in un’altra ciotola. Potete utilizzare anche quella precedentemente usata per le mele, è pulita, basta asciugare il vapore che si è generato mentre si raffreddavano. Ricordatevi di non sporcare troppo! Eliminate i semi dal pomodoro, le foglie esterne della cipolla e la pelle al peperone. Pulite 3-4 spicchi d’aglio. Dopo aver pulito le verdure sminuzzatele con un coltello sul tagliere. Non dovete ricercare un effetto frullato ma tutte le verdure devono essere ben tritate. Condite con tanto olio extravergine di oliva e del prezzemolo. Un goccio di salsa Worcestershire e del tabasco. Questa sarà la salsa che accompagnerà le vostre costine. Tornate alle melanzane: pelatele e raccogliete la polpa nel bicchiere del frullatore che avrete sciacquato. Scolate la
polpa. Salate, pepate, unite aglio, succo di limone e menta e frullate il tutto. Assaggiate ed aggiustate di sale e pepe se necessario. Antipasto pronto all’85%. Andate a controllare le costine. A questo punto dovranno stare nel foil ancora pochi minuti. Verificate di essere giunti al punto di cottura ottimale. Con la pinza afferrate tre costole. Se le ribs si piegheranno formando un angolo superiore ai 30° siete arrivati in cottura altrimenti lasciatele nel kettle ancora qualche minuto. Giunti in cottura aprite il foil, fate un passaggio in diretta per far asciugare il bark; mettete le costine in una teglia coperta nel forno a 70°C. Andate a farvi la doccia velocemente e non usate molto profumo per non coprire quelli che si sprigioneranno dalle vostre pietanze.
Quando avrete finito è il momento delle costine. Dividete in due ciotole la salsa di verdure in ember. Prendete le costine e poggiatele sul tagliere in legno più bello che avete. Mi raccomando niente plastica. L’unica cosa plastica sarà la vostra posa mentre vi concederete ad una foto mentre porzionate la rosticciana. Spremete un limone, aggiungete dell’olio ed emulsionate con fare sicuro direttamente al tavolo, infine spennellate la ciccia. Servitene tre non di più. Cercate di controllare il cowboy texano che è in voi. Pucciate amabilmente il pane nella salsa ember che avete preparato. Indugiate nei ricordi e nei programmi per il futuro. Questo è il momento di stupire con il dolce. Aggiungete il muesli sulle coppette di composta di mele. Un limoncello gelato e/o un altro liquore dolce saranno il completamento della cena. A questo punto il risultato ed il proseguimento della serata dipendono da voi e da quanto siete stati coccolosi e convincenti con il partner. Consigli per il dopo cena? Non penso ne abbiate bisogno.
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Speciale grigliate - Ricetta a cura di Emiliano Nencioni
IL POLLO 330 - Almanacco 2020
ADAGIATO SULL' ANFORA DI CERVOGIA
Una lattina della migliore birra è un piedistallo perfetto per la cottura di un’elegantissima preparazione del ruspante gallinaceo. Questo è quanto scriverei se volessi soltanto compiacere i lettori, rendendomi complice di una delle più durature mistificazioni dell’universo barbecue. Partiamo dall’inizio: quasi tutti noi, appena finito di togliere dalla scatola il nostro primo kettle, abbiamo pensato “finalmente anch’io potrò cimentarmi in quella cottura di cui tutti parlano”. Si tratta, eliminando ogni giro di parole e ogni eufemismo pietoso, dell’arcinoto “Pollo con la lattina di birra in culo”. Si chiama così, ed è quello che è. Il tredicenne che alberga in ognuno di noi ha riso di gusto alla visione di uno di quei tanti video in cui la preparazione in oggetto, camuffata pudicamente dagli anglofoni con il nome “beer can chicken”, viene narrata con voce suadente e ammiccante e sottolineata da una colonna sonora lounge, o con quel tipico funky erotico anni ‘70 caratterizzato dalla chitarra che ripete ci ci kà cìca cìca cikà. Non c’è niente da fare, niente raggranella views e condivisioni come il tag “culo”. Perché tutta questa agitazione per un pollo arrosto? Semplicemente perché il pollo viene tenuto “in piedi” sulla griglia, e non appoggiato su petto o schiena, tramite un banalissimo stratagemma: una lattina di birra, piena per metà per essere più pesante e stabile, viene conficcata nella cavità addominale del pennuto, assumendo funzione di (precario in verità) piedistallo. Tutto qua. Questo è sufficiente per scatenare una quantità infinita di motteggi spiritosi di elevata qualità e cachinni che trovano nei social il loro habitat naturale. Aggiungiamo a questo due fattori molto rilevanti e non trascurabili: • La preparazione è economica ma altamente didattica (per i rudimenti di cottura indiretta e di affumicazione) e viene proposta in qualsiasi corso di cottura barbecue. • Il pollo sulla lattina di birra, lepidezze a parte, quando è cotto bene è buono.
INGREDIENTI 4 Persone Un Pollo 50 g di zenzero 6 cucchiai di BBQ4All Tennessee rub 2 cucchiai di paprika (opzionale) Olio d’oliva q.b.
A che scopo parlarne allora, se è una cottura tanto diffusa, semplice e collaudata?
Vediamo, innanzitutto, come farlo bene. Ancor prima di comprare la gallina, fissiamo bene in mente un traguardo: la carne dovrà essere succosa, non secca, e la pelle dovrà essere al contrario asciutta e croccantina. La pelle del pollo molliccia fa schifo in bocca - nessuno finga il contrario - e visto che di solito è coperta di spezie diventa un peccato doverla togliere.
331 - BBQ4All Magazine
Il motivo è che proprio l’ampia diffusione del metodo e la detonante accoppiata “goliardia più birra” ci ha portato a un germogliare incontrollato e indisturbato di miti, false credenze e leggende varie. Un po’ come è successo per il “sigillare i pori” della carne o per “ridistribuire i succhi”, ma con l’aggravante del contributo di una categoria sociale appassionata e riottosa: gli appassionati di birre artigianali.
332 - Almanacco 2020
PREPARAZIONE 1.
Preparate il kettle per una cottura indiretta, stabilizzata a 110°C: combustibile da un lato, Pietanza dall’altro; il coperchio andrà chiuso per innescare i ben noti moti convettivi che scalderanno uniformemente il cibo. Ormai lo sapete benissimo. Attenzione, certi kettle modello “compact”, con il coperchio un po’ bassino e con poco spazio in altezza sulla griglia non andranno bene, il volatile non avrà abbastanza posto per stare in verticale. In alternativa, un forno ventilato può darvi comunque buoni risultati.
2.
Con una pinzetta, o con un cannello se avete poca pazienza, togliete la peluria rimasta sulla pelle del pollo: trovare resti di piumaggio nel piatto è molto fastidioso.
3.
Come rub è estremamente indicato il BBQ4All Tennessee mild rub, al quale però aggiungerei una buona dose di paprika dolce, al solo scopo di renderlo più colorante e di far apparire quindi più vivacemente brunito il pollo una volta cotto; se puntate al piccantino invece miscelate secondo il vostro gusto con la paprika piccante.
4.
Prendete una lattina di birra, apritela, bevetene un sorso se vi va; fate attenzione in fase di acquisto, perché una cosa fondamentale è che la lattina non sia di quelle lunghe, da 66cl. É un errore che abbiamo commesso tutti le prime volte: “è più lunga, ci va più birra, sarà più stabile!” E invece no: è troppo lunga, o sfonda il pollo o lo tiene troppo in alto, alzando pericolosamente il baricentro e rendendo improbabile quell'equilibrio già precario.
5.
Mettete un po’ di rub all’interno della cavità addominale del pollo, e convincetelo a sedersi in maniera decisamente penetrativa sulla lattina, accertandovi che sia possibile una certa minima stabilità. Se siete più smaliziati, procuratevi l’apposito accessorio in commercio, che altro non è se non una teglia circolare con un cilindretto cavo che protrude dal centro.
6.
Ungete la pelle del pollo usando olio d’oliva, ammorbando gli eventuali astanti con la nota filastrocca di Apelle, e spolverate una robusta ma non eccessiva quantità di rub.
7.
Mettete l’instabilissimo accrocchio polliforme nel kettle in cottura indiretta, o nel forno già caldo; la temperatura target della carne sarà di circa 72° - 75°C, ma attenzione: con un termometro istantaneo a spillo vi accorgerete che la temperatura al petto non sarà uguale a quella rilevata alla coscia. Cercate un compromesso accettabile, ricordando che il pollo crudo è disgustoso e sanitariamente non raccomandabile (aspettate che raggiunga almeno gli 83°-85°C nelle cosce).
8.
Se state usando il kettle potete affumicare sin dall’inizio della cottura, facendo carbonizzare delle chips (scaglie) o chunk (tocchi) di legna aromatica: molto appropriato il melo, il ciliegio, l’ontano o l’acero.
Raggiunta la temperatura desiderata togliete la lattina dal pollo, gettate la birra, e dividete in pezzi il pollo. Potete anche scegliere di sfilacciare la carne, unendo poi la pelle croccante tagliata in piccole strisce, ottima servita dentro un panino o una piadina arrotolata.
333 - BBQ4All Magazine
Fin qui tutto bene: procedimento tradizionale, divertente, molto facile, risultato molto probabilmente gustoso. Questo è il punto però in cui io vengo scelto, tra tutta la redazione, per rompere gli idilli. Dopo la lotta contro i Bagnatori di Chips (Magazine BBQ4All, annata 2019) vedrò di inimicarmi anche parte del movimento brassicolo italiano. Una buona birra dal sapore deciso aggiunge sapore al pollo. Falso. Per una questione abbastanza banale di temperature, il liquido all’interno della lattina, rivestito di pollo, non supera i 100°C visto che è schermato dalla carne che, si è detto, arriverà al massimo a 73°C. Il liquido può evaporare, certo, ma quel poco vapore che esce dalla lattina va comunque ad impattare con la carne subito circostante, e ovviamente solo con l’interno dell’animale, una porzione minima rispetto al peso totale della pietanza. Una buona birra dal sapore veramente deciso aggiunge sapore al pollo. Falso. Più che altro state sprecando una birra particolare, o costosa. Volete togliervi un dubbio? Pesate la lattina prima e dopo la cottura. Il 97% del poco peso perso è evaporato sotto forma di acqua (insapore) e alcol (insapore). La parte aromatica è davvero, davvero minima.
334 - Almanacco 2020
Una buona birra mischiata ad un sacco di spezie aromatiche versate dentro la lattina aggiunge sicuramente sapore al pollo. Falso. State insaporendo una birra che poi butterete. Molto più saggio cospargere di spezie direttamente il pollo, anche nella cavità interna: ma lo abbiamo già scoperto nel procedimento poco sopra. Il metallo della lattina fa cuocere meglio l’interno del pollo. Falso. L’interno del pollo cuocerebbe meglio se il flusso d’aria calda potesse fluire libero, invece di venir bloccato da una lattina metallica che sottrae calore (con tanto di liquido all’interno che agisce da volano
termico). Ecco perché un accessorio “supporto per pollo”, forellato, porta a risultati migliori. Con la lattina inserita invece la parte interna dell’animale si cuoce solo con il calore propagato dalla parte esterna della carne, e inevitabilmente per arrivare ad una temperatura sufficiente al cuore si tende a stracuocere l’esterno. Ovviamente di maillard nella parte interna, se c’è la lattina di mezzo, neanche a parlarne. La lattina tiene comunque il pollo in una posizione vantaggiosa ed è molto comoda come supporto. Mmmm, insomma. É vero che la posizione è vantaggiosa, perché tiene gli arti separati in modo che tutta la superficie venga investita dal calore, dorando la pietanza e rendendo gustosa la pelle; è vero che tenere il petto lontano dalla griglia fa in modo che questa parte del pollo, più magra, arrivi alla temperatura target in ritardo rispetto alle cosce, con meno rischio di stracuocere ed asciugarsi. Ma non mi pare che la lattina sia un supporto molto comodo, e non ditemi che non avete mai passato un brutto momento di dense profanità quando il pollo è caduto dal suo scranno cilindrico, o quando per togliere a fine cottura la lattina incastrata vi siete rovesciati la birra caldissima sulle scarpe o avete frantumato il pollo stesso cercando di fare in qualche modo leva sull’alluminio. Io sono comunque veramente veramente esperto di birra, e ti posso assicurare che la differenza si sente, eccome, certo se usate quelle birre commerciali da supermercato. E allora mi sa che tanto tanto esperto non sei.
335 - BBQ4All Magazine
Insomma, traendo le debite conclusioni, beer can’t chicken.
Speciale grigliate - ricette a cura della redazione
ODE AL CARCIOFO Ed ecco sul più bello arriva Maria con la sua sporta, sceglie un carciofo, non lo teme, lo esamina, l’osserva contro luce come se fosse un uovo, lo compra, lo confonde nella sua borsa con un paio di scarpe, con un cavolo e una bottiglia di aceto finché,entrando in cucina, lo tuffa nella pentola. Così finisce in pace la carriera del vegetale armato che si chiama carciofo,
336 - Almanacco 2020
poi squama per squama spogliamola delizia e mangiamo la pacifica polpa del suo cuore verde.
Il termine comune Carciofo viene dall’arabo al-kharshuf che significa letteralmente pianta spinosa. Le spine, che caratterizzano questa pianta, vengono a volte considerate ostiche e non è infrequente che per questo motivo altri ortaggi siano preferiti al nobil carciofo. In realtà quest’ultimo è da annoverarsi tra i vegetali più ricchi di fibre, molto utile al buon funzionamento dell’intestino; è inoltre una buona fonte di vitamina B, C e K. A causa del suo gusto amaro, come ci insegna l’antica teoria secondo la quale le piante presentano segni che ci indicano le loro proprietà utili per la vita dell'uomo, il carciofo è sempre stato collegato per analogia alla bile e di conseguenza classificato fra i rimedi epatici. Di sicuro sappiamo che è ricco di sali minerali quali ferro e magnesio. Il suo particolare sapore tannico, responsabile degli effetti tonici e astringenti, ci delizia da secoli, tant’è che le prime coltivazioni risalgono ai tempi dei romani. Oggi in Italia è la Sardegna la prima regione produttrice di carciofi, ma anche Liguria, Lazio, Campania e Sicilia presentano importanti coltivazioni di questo prelibato ortaggio. Si trova da novembre fino a maggio inoltrato e per tradizione è uno dei contorni più utilizzati nelle varie festività di primavera. Chi non ha assaggiato il carciofo fritto in vita sua, non ha mai vissuto davvero; tuttavia, se ci seguite da un po’, sapete anche quanto sia buono cotto in ember roasting (a contatto diretto con le braci). Oggi, però, andremo a sfruttare una ricetta tradizionale tipica della sicilia occidentale e la reinterpreteremo in pieno stile BBQ4All: i carciofi a pignateddu.
PREPARAZIONE 1.
Accendete il kettle per una cottura indiretta stabilizzandolo sui 160°C.
2.
Tagliate il gambo dei carciofi quanto più in alto possibile e in modo più regolare possibile. Questa sarà la base su cui poggerà il carciofo ed è necessario che sia fatta a regola d’arte
3.
Togliete adesso le foglie più esterne del carciofo se non hanno un bell’aspetto.
4.
Tagliate infine l’estremità con le spine a circa 1/3 dell’altezza del carciofo
5.
Tritate aglio e prezzemolo finemente
6.
In una ciotola create un composto con aglio, prezzemolo, sale, pepe, olio e il pangrattato. Passate il tutto al mixer per rendere il composto più uniforme.
7.
Usate adesso questo composto per condire i carciofi prestando attenzione a farlo penetrare tra le foglie
8.
Disponete infine i carciofi in verticale in una teglia dai bordi alti adagiandoli gli uni con gli altri
9.
Ponete la teglia a cuocere in cottura indiretta aggiungendo un filo d’olio e mezzo bicchiere d’acqua.
10. Coprite con il coperchio e lasciate cuocere per circa un’ora. Se volete, in questa fase potete anche affumicare con chips di legno aromatico. 11. Saranno pronti quando, alla prova con uno stuzzicadenti, risulteranno cedevoli. Serviteli caldi.
INGREDIENTI 4 Persone 4 carciofi 2 spicchi d’aglio Un mazzetto di prezzemolo Pangrattato q.b. Sale q.b. Pepe q.b. Olio extravergine di oliva q.b.
337 - BBQ4All Magazine
Così concludeva Pablo Neruda la sua Ode al carciofo. Per la ricetta di oggi abbiamo scomodato un così grande autore per rendere grazia e giustizia a un ortaggio che spesso passa in secondo piano. Ma che in realtà dà grandissime soddisfazioni, anche a noi griller.
Speciale grigliate - ricette a cura della redazione
338 - Almanacco 2020
QUANTO CI PIACE LA PATATA... ARROSTO!
You like potato and I like potahto You like tomato and I like tomahto Potato, potahto, tomato, tomahto! Let’s call the whole thing off!
L’E.A.P.R. (associazione europea di ricerca sulla patata) suddivide i preziosi tuberi in quattro diverse tipologie, in funzione della valutazione visiva del loro comportamento dopo la cottura a vapore: Tipo A (polpa soda): comprende le patate destinate alla preparazione di insalate e minestroni. Questo tipo rimane sodo anche dopo la cottura, non è farinoso e ha la grana molto fine; Tipo B (polpa abbastanza soda): comprende le patate per ogni uso. Questo tipo si apre poco durante la cottura, ha media resistenza, è scarsamente farinoso e ha la grana abbastanza fine; Tipo C (polpa farinosa): comprende le patate per purè. Dopo la cottura questo sono molto aperte, farinose, hanno la polpa tenera e la grana piuttosto grossolana; Tipo D (polpa molto farinosa): comprende patate che non sono adatte al consumo alimentare. Sono assai farinose e dopo la cottura si sfaldano completamente. Un’ulteriore divisione avviene in base al colore della polpa, avremo quindi varietà a pasta gialla, bianca e rossa. A complicare il tutto le varie cultivar non sono sempre univocamente ascrivibili a una sola tipologia e, considerando che solo in Italia ce sono circa 50, la scelta diventa sempre più complessa.
In linea di principio e senza addentrarsi in troppi tecnicismi, le migliori patate da fare arrosto sono quelle con la buccia rossa e la polpa gialla. Da noi la varietà più diffusa è la Monnalisa. Chiarito dunque quale tubero scegliere è opportuno anche capire come cucinarle nel migliore dei modi. Lo scopo è quello di ottenere una polpa tenera e una crosticina croccante il tutto esaltato da un buon equilibrio tra i condimenti. Per arrivare a questo risultato sarà necessario prestare attenzione a più passaggi: 1. Il taglio: deve essere regolare, quanto più uniforme possibile in maniera che tutte le patate cuociano alla stessa velocità. 2. La cottura: questa avverrà in due fasi, la prima per cuocere l’interno e la seconda per rendere croccante la crosta 3. I condimenti: sarà opportuno prestare attenzione all’ordine in cui verranno aggiunti seguendo una linea di principio generale che prevede prima le spezie e gli aromi, poi eventuali componenti acide e in ultimo la componente grassa. Cominciamo quindi a cantare e prepariamo le nostre patate arrosto.
INGREDIENTI 4 Persone 1 kg circa di patate a polpa gialla Tre rametti di rosmarino Due spicchio d’aglio Sale e pepe q.b. Olio d’oliva q.b. Tabasco a piacere Mezzo bicchiere di aceto di vino bianco
339 - BBQ4All Magazine
Così cantavano Louis Armstrong e Ella Fitzgerald nel brano Let’s Call the Whole thing Off (oppure Homer e Marge Simpson in base alle versione che preferite). Sicuramente cantare rende più piacevole l’esperienza in cucina, ma non trasforma magicamente il cibo. E uno dei piatti apparentemente tra i più banali ma in realtà tra i più ostici dell’intero panorama dei contorni sono le patate arrosto. Troppo morbide, troppo cotte, troppo secche, troppo bruciate. Un dilemma che spesso ci ha fatto rassegnare alla monotonia delle patate precotte. In questo articolo ci concentreremo su due aspetti fondamentali per rendere fenomenali le vostre patate arrosto: la varietà di patate da scegliere per la migliore resa in cottura, e la tecnica migliore per esaltarne il sapore.
PREPARAZIONE
1.
Accendete il kettle e settatelo per una cottura indiretta a circa 180°C.
2.
Lavate le patate e se preferite levate la buccia.
3.
Tagliatele adesso il più uniformemente possibile.
4.
Sciacquatele fino a quando l’acqua non sarà completamente trasparente.
5.
In una pentola portate a ebollizione abbondante acqua salata e aggiungete l’aceto.
6.
Quando l’acqua avrà iniziato a bollire fate lessare le patate per 5 minuti.
7.
Scolatele e fatele sgocciolare su una griglia in maniera che perdano i liquidi senza ristagnarvici sopra.
8.
Quando le patate avranno finito di sgocciolare e si saranno raffreddate ponetele in una ciotola e conditele con rosmarino tritato grossolanamente, sale, pepe, tabasco e infine olio d’oliva.
9.
Ponetele in una teglia e aggiungete l’aglio in camicia.
340 - Almanacco 2020
10. Cuocetele nel kettle in cottura indiretta finché non avranno fatto una bella crosticina.
Speciale grigliate - ricette a cura della redazione
L'AGLIO E OLIO SCIENTIFICA INCONTRÒ IL
BAGNÈT VERD
341 - BBQ4All Magazine
E FU SUBITO AMORE
Il bagnèt verd, ovvero la salsa verde piemontese, è una ricetta facente parte dei PAT (prodotti agroalimentari tradizionali). Perfino Pellegrino Artusi dava delle indicazioni sulla preparazione di questa salsa verde già nel 1891, nel libro “La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene”. Le origini di questo piatto sono anche più antiche in realtà e vanno ricercate nelle cucine di casa Savoia. È a Vialardi che si attribuisce la paternità di questa preparazione. Lo chef, al servizio prima di Carlo Alberto e successivamente di Vittorio Emanuele II, creò questa salsa ispirandosi a delle preparazioni tipiche dell’area Savoia. Preparazioni simili, infatti, erano state descritte dall’Ordine dei Cavalieri del Tartufo e dei Vini d’Alba già nei primi anni dell’800. Rispetto a queste versioni Vialardi preferì eliminare il limone e dare maggiore al tutto consistenza aggiungendo delle acciughe e dei tuorli, ottenendo così una salsa più omogenea, ottima per accompagnare il bollito misto alla piemontese. Per una ricetta così sontuosa era assolutamente necessario un intingolo che sostenesse ed esaltasse il piatto. Per la pietanza dei Re niente doveva essere lasciato al caso.
1.
Ponete le lame del mixer in freezer.
2.
Pelate tutti gli spicchi e metteteli a cuocere nell’olio in un tegame piccolo dai bordi alti.
3.
Mettetelo sul fornello a fuoco bassissimo e lasciate che l’aglio si ammorbidisca senza mai soffriggere. Se avete il termometro, stabilizzate l’olio a 65°C.
4.
Quando l’aglio si sarà sgonfiato, mettetelo insieme all’olio nel bicchiere del mixer, aggiungete un pizzico di sale e il succo di limone ed emulsionate aggiungendo l'acqua di cottura della pasta poco alla volta, fino ad ottenere una salsa liscia e vellutata dal colore bianco/giallognolo. Pulite le lame del mixer e rimettetele in freezer.
Negli anni la ricetta si è evoluta ed è stata reinterpretata da vari chef. Così come la caponata in Sicilia anche il bagnetto verde ha quindi una sua personale versione su ogni pianerottolo piemontese. Anche la redazione del BBQ4All Magazine voleva contribuire a questa sperimentazione ed è così che è stato deciso di far conoscere al bagnetto verde l’aglio e olio scientifica di Gianfranco Lo Cascio creando un nuovo connubio “regale”. Provatela con le costine, con la picanha o con la flank e non ve ne pentirete.
5.
In una ciotola mettere la mollica e l’aceto.
6.
Sciacquate sotto l’acqua corrente i capperi e i filetti d’acciuga.
7.
Tritate grossolanamente il prezzemolo (anche i gambi!).
8.
Adesso mettete nel mixer, il prezzemolo, la mollica, le acciughe e i capperi.
9.
Accendete il mixer, con le lame fredde, a velocità molto bassa e andate ad aggiungere a filo la salsa aglio e olio appena fatta, in maniera da incorporarla in uniformemente al resto degli ingredienti. Quando avrete ottenuto la consistenza desiderata, fermatevi. Se vi è avanzata l’aglio e olio, fatevi uno spaghettino al volo e fate merenda!
Diamo ovviamente per scontato che sappiate di cosa stiamo parlando, quando nominiamo l’aglio e olio scientifica. In caso contrario vi tocca una tiratina d’orecchi e un immediato corso di recupero da affettuare sulla nostra community Facebook.
342 - Almanacco 2020
PREPARAZIONE
Seguite intanto questa procedura e cominciate a scardinare le vostre vecchie convinzioni. Un consiglio spassionato? La prossima volta che cuocete la pasta, tenetevi da parte un bicchiere di acqua di cottura. Fidatevi.
INGREDIENTI 4 Persone
1 una testa dâ&#x20AC;&#x2122;aglio Un bicchiere di olio dâ&#x20AC;&#x2122;oliva Un bicchiere di acqua di cottura della pasta Sale q.b. Un cucchiaio di succo di limone 150 g di mollica di pane raffermo Mezzo bicchiere di aceto di vino 400 g di prezzemolo Un cucchiaio di capperi sale
343 - BBQ4All Magazine
4 filetti di acciuga
Speciale grigliate - ricette a cura della redazione
CHUT NORRIS Chuck Norris non piange
344 - Almanacco 2020
Suda dagli occhi
PREPARAZIONE
Che voi siate o meno il leggendario attore, dopo avere mangiato questo chutney non potrete fare altro che sudare dagli occhi.
1.
Pelate i pomodori, il mango e la cipolla e fatene una dadolata.
Oggi parliamo di un piatto particolare, esotico, dal gusto agrodolce, di origini indo-pakistane.
2.
2. Ponete adesso gli ingredienti in una ciotola capiente.
3.
3. Aggiungete il peperoncino tritato e lo zenzero tagliato a fettine sottili.
4.
4. Aggiungete ora la buccia del lime grattugiato e il suo succo, lo zucchero, il cardamomo, l’aceto e una parte del coriandolo tritato finemente.
5.
Lasciate marinare almeno un paio d’ore.
6.
Accendete il kettle per una cottura diretta con braci non troppo alte e ponete sulla griglia una casseruola adatta, in modo che il fuoco sia delicato.
7.
Trasferite dalla ciotola alla casseruola il composto che avete fatto marinare.
8.
Aggiungete adesso la senape e la curcuma e lasciate cuocere per un’oretta o due, se il composto si secca troppo aggiungete un po’ d’acqua.
9.
Lasciate raffreddare e infine aggiungete il coriandolo per guarnire.
Esistono diverse versioni di chutney e si può preparare praticamente con ogni tipo di frutta e verdura esistente. Ad esempio, con il mango ne esistono ben quattro tipi diversi e tutti tipici: • L’avakkai mangai: il più diffuso. • Il chunda: un chutney di mango dolce. • Il mangga thuvial: un chutney di mango verde. • Il chanti khasa: un chutney molto piccante su una base di crema di mango. In questa ricetta, che come sempre contraddistingue lo stile BBQ4All, ne andremo a preparare una versione dal gusto a dir poco esplosivo. Sarà importante calibrare soprattutto la quantità e la qualità del piccante in base al piatto che il chutney andrà ad accompagnare. Nel caso in cui decideste di usarlo come rifinitura per dei piatti di carne, come ad esempio la picanha o l’asado, è preferibile utilizzare dei peperoncini forti, dal gusto deciso e marcato come deg li scotch bonnet o un habanero chocolate. Se invece la scopo del chutney è quello di accompagnare un pesce, o qualche crostaceo potrebbe essere più indicato utilizzare un peperoncino meno aggressivo come il serrano, oppure il classico calabrese. Se volete invece osare, un ottimo abbinamento è quello con il naga morich, peperoncino dolce e dal gusto acidulo che però è estremamente piccante. Qualunque sia la varietà che decidiate di utilizzare ricordatevi poi di non toccarvi la faccia con le mani. Voi non siete Chuck Norris!
INGREDIENTI 4 Persone
Una cipolla bianca Un mango 2 pomodori Una radice di zenzero fresco Un lime Un peperoncino Un mazzetto di coriandolo 2 cucchiaini di zucchero di canna Mezzo bicchiere di aceto di mele 2 cucchiaini di senape in polvere 2 cucchiaini di curcuma 1 cucchiaino di cardamomo
345 - BBQ4All Magazine
Già il nome di per sé è significativo; infatti, in hindi catnī sostantivo femminile del verbo cātnā significa letteralmente leccare. Di fatto parliamo di una salsa vegetale molto densa, usata spesso come condimento che si accompagna bene a piatti a base di carne, riso, verdure o crostacei (come per esempio alcuni tipici del mazarese, avete presente?).
Dulcis in fundo - Ricetta a cura della Redazione
LA TORTA
346 - Almanacco 2020
SENZA I BISCHERI
Nel 1279 a Firenze, con la posa della prima pietra, ebbe inizio la costruzione della Cattedrale di Santa Maria Del Fiore (attuale Duomo della città). L’unico ostacolo alla realizzazione di quest’opera monumentale erano le proprietà di una delle famiglie più facoltose di tutta la città, i Bischeri, che sorgevano proprio sul sito dei lavori. Visto il grande sacrificio richiesto, fu offerta ai proprietari terrieri un’ingente somma di denaro per comprarne tutti i possedimenti; il capostipite Giannozzo Bischeri rifiutò l’offerta, forse nella speranza di ottenere molto di più. Ebbe allora inizio un corteggiamento serrato per far capitolare i Bischeri, ma più la cifra promessa lievitava, più granitico diventava il loro no. Tutto ebbe fine una notte, quando le proprietà della famiglia bruciarono in un misterioso incendio. Nessuno ha mai saputo dire con certezza a chi appartenesse la mano che appiccò il fuoco, in molti sostengono che fossero stati gli stessi committenti dell’opera stanchi del tira e molla infinito, ma fra le varie ipotesi alcuni sostengono siano stati proprio i Bischeri ad incendiare i loro palazzi non sopportando che fossero abbattuti per fare spazio alla futura Cattedrale. In ogni caso, dopo l’incidente la famiglia fu costretta a vendere le proprie terre per due soldi e ad abbandonare la città per sfuggire allo scherno generale. Infatti a Firenze il nome diventò presto un aggettivo e con bischeri venivano indicati tutti coloro che si comportavano in maniera poco sensata. Da lì a diventare sinonimi dei genitali maschili fu un attimo. Dunque se un toscano vi
urla di non fare il bischero, vi sta dicendo di non comportarvi da c… beh, ci siamo capiti. Ma veniamo adesso al nostro dolce: cosa c’entra tutto questo preambolo? In Toscana esiste una crostata che viene chiamata la torta co’ bischeri, farcita con una lussuriosa crema di riso e cioccolato, arricchita con uvetta, liquore e pinoli rigorosamente del Parco di San Rossore. A differenza delle crostate classiche, il bordo di questa preparazione è decorato con dei beccucci, ottenuti con una speciale ripiegatura della pastafrolla. Insomma, i bischeri. La forma allusivamente fallica dei becchi della decorazione portò il popolo a battezzarla proprio in questo modo. Ora, dovete sapere che esiste un disciplinare di produzione della "Torta co’ bischeri”. In 5 pagine sono elencati i requisiti e le condizioni che un dolce deve possedere per essere definito tale, per cui se osaste riprodurla senza formare quei bischeri benedetti, ci sarebbero rivolte cittadine e paesane. Dato che, però, è buonissima, gustosissima e il ripieno è eccezionale, e che non volevamo offendere nessuno, abbiamo ben pensato di fare le crostatine senza i bischeri. Ovvero con la farcia esattamente identica a quella originale, ma con un procedimento più facile per la base. Non contenti, ci abbiamo messo sopra le fragole. L’abbinamento cioccolato e fragola è un grande classico della pasticceria. La fresca acidità del frutto, mitigando il gusto deciso del cioccolato, ne amplifica al contempo il sapore, mentre la nota amara del cacao esalta la delicata dolcezza della fragola. In questo caso il gusto più marcato delle fragole grazie alla caramellatura nel dispositivo a carbone (il calore secco eliminando l’acqua in eccesso ne concentra la dolcezza), aggiunge una leggera nota aromatica in più al già ricco e profumato ripieno, avvolto in un guscio croccante di pasta frolla al burro, rendendolo un’esplosione di sapore e calorie.
347 - BBQ4All Magazine
Che cosa sono i bischeri, o sarebbe meglio dire CHI sono i bischeri? In Toscana, sono persone povere di furbizia, ricche di ottusità, inclini alla stupidità e a fare quasi sempre le scelte sbagliate nel corso della loro esistenza. Questa parola è tipica del dialetto locale, in particolar modo della parlata fiorentina in cui affonda la propria origine.
INGREDIENTI 6 Persone PER LA FROLLA 300 g di farina 120 g di burro 130 g di zucchero a velo 1 uovo La scorza grattugiata di un limone biologico Un pizzico di sale PER IL RIPIENO 100 g di riso originario 2 uova 60 g di pinoli 80 g di cioccolato fondente al 60% 150 g di zucchero 50 g di cacao amaro 50 g di uvetta Liquore Strega q.b. per la decorazione 300 g di fragole Zucchero semolato bianco q.b.
348 - Almanacco 2020
1 cucchiaino di cardamomo
PREPARAZIONE 1.
In una ciotola capiente versate la farina e lo zucchero a velo (entrambi setacciati), aggiungete l’uovo sbattuto e il burro freddo tagliato a cubetti. Lavorate gli ingredienti con le mani fino ad ottenere un panetto liscio e compatto.
2.
Avvolgete l’impasto ottenuto nella pellicola alimentare e lasciatelo riposare per almeno 60 minuti in frigorifero.
3.
Fate bollire il riso in acqua completamente priva di sale.
4.
Nel frattempo ammollate l’uvetta in una tazza di acqua tiepida.
5.
Quando il riso è pronto scolatelo e, mentre è ancora caldo, unite il cioccolato tritato grossolanamente, mescolando fino a quando non si sarà completamente sciolto.
6.
Aggiungete al composto prima il cacao in polvere, poi l’uvetta strizzata, i pinoli ed infine il liquore. Ogni volta che incorporate un nuovo elemento dovete amalgamarlo al composto prima di passare al successivo.
7.
Lasciate riposare il ripieno, a temperatura ambiente, fino a quando non sarà completamente freddo. Dopodiché aggiungete un uovo e mescolate.
8.
Su una spianatoia spolverata di farina stendete la pasta frolla sottilmente con il matterello e ricavate dei dischi che abbiano un diametro più grande degli stampi che andrete ad utilizzare. Imburrate e foderate le piccole tortiere con la pasta e bucherellate la base con una forchetta.
9.
Riempite le crostatine con la farcia, lasciando lo spazio per fare il bordo. Con la pasta in eccesso fate delle sottili strisce, per formare il tipico reticolato delle crostate e poi chiudete il bordo.
10. Infornate a 180°C per 30 minuti circa. 11. I dolci sono pronti quando la frolla ha acquistato un bel colore dorato e il ripieno un bel colore brunito. 12. Una volta cotti, lasciateli leggermente intiepidire e poi sformateli con delicatezza. 13. Preparate il dispositivo per una cottura indiretta, mezza ciminiera sarà più che sufficiente. Una volta versato il combustibile al suo interno, chiudete il coperchio perché raggiunga la temperatura di 180°C. 14. Nel frattempo, lavate le fragole sotto l’acqua corrente e asciugatele in un canovaccio.
16. Quando sono pronte toglietele dal dispositivo e lasciatele raffreddare, poi decorate le crostatine secondo il vostro gusto.
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15. Eliminate con un coltello la parte del picciolo, senza esagerare, per creare una base. Spolveratele con lo zucchero e disponetele su un teglia foderata di carta forno e poi posizionatela dalla parte opposta delle braci finché non saranno caramellate. Mi raccomando il coperchio deve rimanere chiuso.
The chemical Grilled a cura di Virgilio Brunetti
Addensare una
350 - Almanacco 2020
SALSA parte 1
Nei precedenti capitoli abbiamo visto come, già nell’antichità, queste preparazioni gastronomiche rivestissero un ruolo fondamentale e come si siano evolute in maniera indipendente nella cultura delle popolazioni di tutto il mondo. Abbiamo fatto inoltre una panoramica delle salse e dei condimenti che dalla tradizione asiatica, europea ed americana si sono evolute in prodotti inimitabili e brand diffusi a livello planetario. Una tale complessità ha generato nei secoli una codifica rigorosa che si è andata man mano perfezionando e ha trovato nella cucina francese la massima espressione; non a caso nelle grandi cucine è presente la figura dello chef saucier, che deve garantire l'eccellenza delle salse preparate ed in particolare dei fondi. Gli accademici della cucina d’oltralpe individuano come base i fondi di cucina (bianchi e scuri) e i roux; da questi vengono preparate prima le salse madri (besciamella, vellutate, olandese, fondi legati e salse di pomodoro) e successivamente quella dette base (cioè a base di, ovvero generate dalle salse madri); dalle salse base vengono preparate quelle derivate. A queste si aggiungono le emulsionate a freddo e a caldo, le neutre, le marinate e i condimenti. Da notare che le salse possono essere ulteriormente separate in altre due categorie, ovvero le salse da cucina e da pasticceria. Tutte hanno una comune definizione: sono preparazioni culinarie liquide e semiliquide utili a migliorare, accompagnare e completare altri alimenti.
In un approccio più moderno e scientifico si possono definire le salse in base alle proprietà fisico-chimiche correlate alla tipologia degli ingredienti impiegati e alle modalità di preparazione. Oltre ai sapori e agli aromi che stimolano i recettori del gusto e dell’olfatto, devono dare uno stimolo corretto anche sui recettori tattili, per questo motivo sono caratterizzate oltre che dal colore (appearance), sapore e odore (flavour), anche dalla consistenza (texture); apparence, flavour e texture sono tutti considerati fattori di qualità. La scienza che studia e caratterizza la texture degli alimenti è una branca specifica della fisica che si chiama Reologia (degli alimenti). L’importanza della texture nel giudizio di accettabilità varia notevolmente a seconda degli alimenti. Soprattutto per l’industria alimentare è molto importante poter misurare la consistenza di questi ultimi per avere una misura di qualità; tuttavia è necessario definirla esattamente, cioè bisogna precisare ciò che viene misurato e ciò che viene percepito. La texture è la risposta sensoriale ad uno stimolo prodotto dalla manipolazione di un alimento. Una delle definizioni maggiormente accreditate riguardo il significato di texture è quella data da Sherman (1970). Essa mette in rilievo le sue tre caratteristiche essenziali: • è una qualità sensoriale; • è propria della struttura di un alimento; • è un complesso delle diverse proprietà dell’alimento. Tutti gli attributi meccanici di un cibo sono percepibili attraverso recettori meccanici, tattili e, quando appropriato, visivi e uditivi. Con proprietà della texture si intendono le caratteristiche fisiche che derivano da elementi strutturali dei cibi: sono percepite principalmente attraverso il tatto, sono correlate alla deformazione, alla disintegrazione e al flusso dell’alimento sotto una forza, e sono misurate oggettivamente da funzioni di massa, tempo e distanza. Le proprietà maggiormente studiate e conosciute sono quelle meccaniche. Quando andiamo a misurare queste ultime, non misuriamo la consistenza in toto poiché essa dipende anche da fattori legati alla masticazione, a meno che non siamo in grado di valutare delle correlazioni fra proprietà meccaniche misurate e consistenza percepita attraverso i sensi (tatto, senso cinestetico, vista e udito).
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La preparazione delle salse è una macro area assolutamente complessa nell’ambito del seasoning.
352 - Almanacco 2020
Tecnicamente in una cucina professionale supertecnologica si potrebbero caratterizzare le salse misurando la loro viscosità mediante strumenti scientifici dedicati quali viscosimetri e reometri. Tuttavia il nostro apparato buccale è uno strumento di sensing molto più sofisticato rispetto ad un viscosimetro ed è in grado di percepire non solo la viscosità assoluta di un alimento liquido ma anche una serie di caratteristiche più fini quali granulosità, untuosità, scorrevolezza, collosità, astringenza; se provassimo a saggiare con un viscosimetro dell’ olio d’oliva, dello sciroppo d’acero o una bisque legata, probabilmente si otterrebbero valori numericamente molto simili, ma se provassimo ad assaggiare gli stessi alimenti si noterebbe sicuramente un’enorme diversità. Non c’è in italiano un termine breve per definire la serie completa delle sensazioni che un alimento liquido o semiliquido trasmette al nostro palato; in inglese questo concetto si esprime con mouthfeel. La viscosità e le sensazioni tattili correlate sono difficili da definire se non con il linguaggio della fisica, tuttavia c’è un esempio banale che ci può venire in aiuto per capire cosa si intende quando si parla di elevata viscosità: pensate di dover attraversare una folla di persone, maggiore sarà il numero di persone maggiore sarà la forza necessaria per poter passare. Questo è quello che succede alle particelle di un fluido quando si trovano in una condizione di viscosità elevata.
Sensazioni tattili Si potrebbe definire il tatto il senso più intimo e primordiale dell'uomo. Gli scienziati lo considerano fondamentale, perché è l'unico in grado di percepire gli stimoli meccanici. Esso è il primo senso che si sviluppa negli esseri umani: già dopo pochi mesi di vita il feto risponde a stimoli tattili. Le sensazioni che dipendono dall'apparato sensoriale del tatto sono molteplici e possono essere distinte in diverse categorie, sulla base del tipo di stimolazione coinvolta.Ci sono quelle che si basano su una sollecitazione fisica dei meccanorecettori, molto presenti sui polpastrelli delle dita, ma anche sul volto e in bocca. In quest'ultimo caso si parla di mouthfeel per indicare specificamente le sensazioni tattili come l'astringenza, la viscosità orale e l'untuosità (tenete conto che anche un alimento solido con il lavoro dell’apparato masticatorio diventa una sostanza fluida deglutibile che approssimativamente può essere considerata alla stessa stregua di una salsa). Si parla di cinestesia quando, toccando o masticando un prodotto alimentare, abbiamo delle sensazioni che dipendono dalla reazione della materia alle pressioni esercitate dai muscoli (per esempio della mandibola) che ci permettono di percepire le caratteristiche relative alla consistenza come la durezza (croccantezza), l'adesività e l'elasticità. Con chemestesi si intende invece quel gruppo di percezioni indotte chimicamente che non implicano l'attivazione dei recettori gustativi e olfattivi, causando invece l'attivazione di quelli sensibili agli stimoli fisici. Si intendono quindi tutte le sensazioni di irritazione o di caldo/ freddo indotte da certe sostanze, come avviene per il piccante e il rinfrescante. Mentolo e capsaicina sono due molecole che simulano la sensazione di calore-dolore o freddo ingannando di fatto i recettori termici.
Viscosità e reologia La viscosità è una grandezza fisica che rappresenta l'attrito interno nei fluidi ed esprime la maggiore o minore facilità di scorrimento di uno strato rispetto a un altro adiacente. Provate a miscelare con una frusta un impasto molto liquido di acqua e farina o a far colare uno sciroppo sul dorso del cucchiaio; pensate per esempio alla naturale tendenza a far scorrere la lingua (superficie mobile) sul palato (superficie fissa) quando assaggiamo una salsa (fluido). Dal punto di vista microscopico la viscosità è legata all'attrito tra le molecole del fluido. Quando esso è fatto scorrere dentro una tubatura, le particelle che lo compongono generalmente si muovono più velocemente sull'asse della tubatura e più lentamente vicino alle sue pareti; per questa ragione uno sforzo, che si traduce in una differenza di pressione, è necessario per contrastare l'attrito tra gli strati di particelle e mettere in movimento il fluido. Lo sforzo da applicare è proporzionale alla viscosità.
Essa viene solitamente indicata con la lettera greca µ (mi) o più raramente con la lettera n (eta) per richiamare il collegamento con il coefficiente di attrito della meccanica classica. Viene detta spesso viscosità dinamica per distinguerla da quella cinematica, che è una grandezza simile ma dimensionalmente differente. Si definisce inoltre fluidità la grandezza reciproca della viscosità. La viscosità dinamica si misura nel Sistema Internazionale in poiseuille (simbolo Pl) e nel sistema cgs in poise (simbolo P). Il millipoiseuille (o centipoise) continua comunque a essere molto utilizzato in quanto esprime approssimativamente la viscosità dinamica dell'acqua a temperatura ambiente (1,001 mPl a 20°C). Quando misuriamo le proprietà meccaniche degli alimenti non misuriamo la consistenza in toto, che dipende anche da fattori legati alla masticazione. Il comportamento meccanico dei cibi va valutato con strumenti che forniscano misure oggettive e ripetibili e in unità di misura standard. La branca della fisica che studia la deformazione e lo scorrimento della materia si chiama reologia; in food science le sostanze che modificano le caratteristiche meccaniche e di scorrimento degli alimenti vengono chiamati modificatori reologici.
TABELLA 1 Viscosità di alcuni fluidi di uso comune
FLUIFO
VISCOSITÀ IN CENTIPOISE
COMPORTAMENTO
Azoto liquido
Newtoniano
0,2 (a -196°)
Acqua
Newtoniano
1
Latte
Newtoniano
2
Sangue
Newtoniano
10
Panna liquida
Newtoniano
20-40
Olio vegetale
Newtoniano
50-100
Miele
Newtoniano
2000-3000
Melassa
Newtoniano
5000-10000
Sciroppo al cioccolato
Newtoniano
10000-25000
Yogurt
Tixotropico
25000
Ketchup
Pseudoplastico
50000-70000
Impasto di acqua e maizena
Dilatante
100000-200000
Burro d'arachidi
Plastico
150000-250000
Sugna
Plastico
1000000-2000000
Se mescoliamo una tazza di the, di latte o di caffé, oppure facciamo la lavatrice al calice di vino per fare i fighi, per quanto
353 - BBQ4All Magazine
Caos Cremoso: fluidi newtoniani e non-newtoniani
vorticosamente agitiamo questi fluidi essi rimangono tali in termini di viscosità. Sono quelli che hanno un comportamento “normale”, newtoniano, in cui gli sforzi sono direttamente proporzionali alla velocità di deformazione (la velocità di flusso aumenta proporzionalmente alla forza applicata).
354 - Almanacco 2020
Molti fluidi invece hanno comportamenti diversi a seconda di come li mescoliamo, li agitiamo, li colpiamo, li accarezziamo; di volta in volta cambiano comportamento. Questi “psicopatici” hanno la caratteristica di variare la loro viscosità a seconda delle forze che interagiscono con essi ovvero, se sottoposti alle forze di taglio, evidenziano un flusso di scorrimento che può essere: plastico, pseudoplastico, tixotropico, dilatante. Maionesi, grassi solidi, panna e bianchi d’uovo montati sono fluidi non newtoniani con comportamento plastico. Sono sostanze che iniziano a scorrere solo se lo sforzo applicato supera un valore limite detto sforzo di
snervamento ovverosia che si tratti di emulsioni o schiume questi fluidi si comportano in maniera ordinaria, come quelli newtoniani, solo dopo uno sforzo iniziale. Nella pratica sapete bene come si come comportano l’albume d’uovo montato a neve ferma e la panna montata o la margarina, è abbastanza intuitivo: per farli scorrere è necessario applicare un certo sforzo all’inizio. Il ketchup è un fluido non newtoniano con comportamento pseudoplastico. Conoscete benissimo questa salsa burlona: finché e ferma nella sua bottiglia rimane lì allo stato semisolido ed è necessario qualche colpo per iniziare a farla muovere. La forza applicata modifica la viscosità del ketchup facendolo uscire dalla bottiglia spesso in maniera rovinosamente abbondante. Questo accade perché le fibre della salsa si agganciano l’una all’altra finché non si somministra una forza, allorché si sganciano (di colpo) e il ketchup fluisce dalla bottiglia perché si abbassa la viscosità ma si ricompatta
istantaneamente sul piatto, sull’hamburger, sulle patate fritte, sul tavolo, sulla giacca e sulla cravatta. Lo yogurt è un fluido non newtoniano con comportamento tissotropico ovvero, se lo maltrattate frullandolo e frustandolo, perde struttura e compattezza nel tempo: man mano che lo stressate passa da una viscosità più alta a una più bassa in modo abbastanza lento. I tixotropici sono fluidi che quando sottoposti a sforzi di taglio vedono diminuire la viscosità al passare del tempo. Per questo motivo, quando fate il vostro tzaziki, mai frullare ma spatolate il composto con gentilezza. Questi comportamenti sono caratteristici anche di altri fluidi non newtoniani; questi cambi di viscosità sono osservabili sul dentifricio, quando compatto esce dal tubetto e poi lo spalmiamo sui denti, sul muco nelle vie aeree quanto tossiamo, sul sangue di San Gennaro quando accade il prodigio.
aggregano. Tecnicamente molte salse possono essere definite soluzioni colloidali (o colloidi). Quelle di interesse culinario e gastronomico si possono distinguere a seconda dello stato di aggregazione (solido, liquido, gassoso) della fase dispersa e del mezzo disperdente e possono essere classificati secondo la nomenclatura riportata in Tabella 2.
Gli impasti a base di acqua e maizena comprese alcune creme sono esempi di fluido non newtoniano con comportamento dilatante. Applicando forze più deboli, come il lento inserimento di un cucchiaio nel fluido, esso si manterrà nel suo stato liquido. Se invece riempite una piscina di acqua e maizena potete
correre sul liquido a patto che lo facciate velocemente. Quindi i fluidi dilatanti rispondono diversamente se si applicano forze di taglio lente o veloci. Si ha questo comportamento per sospensioni altamente concentrate di materiale solido in un liquido. A riposo dominano le forze intra particellari. All’aumentare dello sforzo applicato le particelle si
Le particelle dei colloidi sono sempre molto piccole e hanno dimensioni tra 1 nanometro e 1 micron. Queste particelle possono avere geometria globulare (ovoalbumina, emoglobina) o lineare e ramificati (polisaccaridi). I sistemi colloidali con mezzo disperdente liquido vengono generalmente distinti: in liofili e liofobi a seconda del comportamento fisico-chimico della fase dispersa nei riguardi del mezzo disperdente (se è acqua, si parla
TABELLA 2 Classificazione delle soluzioni colloidali FASE DISPERSA
TIPOLOGIA
ESEMPIO
Liquido
Gas
Aerosol lquido
Nebbia, spray liquidi
Solido
Gas
Aerosol solido
Fumo
Gas
Liquido
Schiuma
Panna montata
Liquido
Liquido
Emulsione
Latte, maionese, sangue
Solido
Liquido
Sol
Dentifricio, metalli colloidali
Gas
Solido
Schiuma solida
Poliuretano espanso, aerogel
Liquido
Solido
Gel
Formaggi
Solido
Solido
Sospensione solida
Vetro, leghe metalliche
355 - BBQ4All Magazine
FASE DISPERDENTE
di colloidi idrofili e idrofobi). A seconda della somiglianza delle particelle disperse nella fase disperdente i sistemi colloidali possono essere distinti in: • Colloidi liofobi, caratterizzati da scarsa affinità tra la fase dispersa e quella disperdente, per cui risultano instabili e tendono a separarsi nel tempo (colloidi irreversibili); • Colloidi liofili, che mostrano un’elevata affinità tra fase dispersa e fase disperdente. Messi in soluzione acquosa si rivestono di uno strato di molecole di solvente (solvatazione) e diventano così “pseudo-solubili”, ovvero sembrano solubili (per esempio, amido, latte e sangue). I colloidi liofili si suddividono a loro volta in molecolari e micellari. Le particelle nei primi sono macromolecole, nei secondi, vengono chiamate micelle e sono composte da più molecole, in genere di piccola massa, tenute insieme da legami deboli. Fra le sostanze più comuni che si trovano allo stato colloidale vi sono le proteine, i polisaccaridi, le gomme (colloidi liofili molecolari), i saponi (colloidi liofili micellari), i sol dei metalli (colloidi liofobi). Una delle proprietà caratteristiche che serve a distinguere i sistemi colloidali dalle soluzioni vere è l’effetto Tyndall, per cui quando un raggio di luce attraversa un liquido puro o una soluzione vera il suo percorso rimane praticamente invariato perché le particelle in soluzione sono troppo piccole per diffondere la luce (appare quindi trasparente). Nei sistemi colloidali invece le dimensioni delle particelle sono in grado di diffondere la luce quindi il percorso luminoso risulta modificato.
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Un’altra caratteristica dei sistemi colloidali è che spesso la fase dispersa assume strutture di organizzazione di tipo micellare, ossia si formano aggregati di molecole particolari (con parti polari o ioniche e parti non polari) che si dispongono lasciando le parti polari verso l’esterno, mentre le parti non polari sono lasciate all’interno. In pratica, la parte interna di una micella, formata da lunghe catene non polari, è rappresentata dalla goccia di olio o di benzina dispersa nell’acqua. Nel caso in cui la fase disperdente sia apolare e la fase dispersa sia di tipo acquoso, le micelle che si formano sono di tipo inverso, perché la situazione è capovolta rispetto alla precedente (è il caso dell’acqua dispersa nella massa grassa del burro). La lunghezza della coda apolare, la natura e la dimensione della testa polare o ionica, l’acidità della soluzione, la temperatura e la presenza di sali aggiunti sono i fattori più importanti che determinano il tipo di aggregato che si forma. Se si variano questi parametri, è possibile variare la forma e le dimensioni delle micelle ottenute. Le strategie per modificare la texture delle salse sono sia di tipo fisico che strumentale, quali cottura, raffreddamento, abbattimento, utilizzo combinato di strumenti di miscelazione come fruste, spatole, frullatori a lame, omogeneizzatori rotore-statore, sonicatori. Ma ci sono anche strategie di tipo chimico ovvero l’uso di additivi alimentari naturali e di sintesi, quali addensanti e altri modificatori reologici. Semplicemente cuocendo o raffreddando un alimento possiamo già ottenere delle
modificazioni importanti sulla texture perché la temperatura genera processi reversibili e irreversibili sulla struttura stessa delle macromolecole degli alimenti, quali proteine, grassi e carboidrati. Nella pratica addensare una salsa può sembrare un processo banale ma c’è veramente tanta scienza e tecnologia e il controllo e la conoscenza di queste procedure può fare realmente la differenza.
Addensare mediante riduzione Gli addensanti sono una categoria piuttosto varia di composti, tuttavia prima di introdurli vale la pena ricordare che uno dei metodi più semplici per addensare una salsa è la restrizione, ovvero semplicemente cuocendo quindi somministrando calore in maniera controllata. Le salse che vengono addensate per restrizione sono quelle cotte, che vengono dunque ristrette (ridotte di volume da cui il sinonimo riduzione) e concentrate; di conseguenza tutti i soluti presenti nella miscela risulteranno disciolti in un volume minore. Le percezioni di dolce, salato e umami nelle salse ristrette saranno fortemente potenziate e andranno gestite correttamente. Restrizioni a base di succhi di frutta e ortaggi, aceti di mosto e salse di soia o brodo danno origine a liquidi viscosi con un’impronta gustativa veramente potente.
Abbiamo finito la prima parte, ma non voglio lasciarvi a bocca asciutta. Provate queste due salse per cominciare a mettere un pratica quanto studiato fino a qui. Ci vediamo il prossimo mese.
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Le tecniche di riduzione vengono già citate da Apicio nel De re coquinaria e sono basilari in molte preparazioni della Nouvelle cuisine. Gli attori principali, come in qualsiasi alimento, sono gli zuccheri (semplici e complessi), i grassi e il sale. Ognuno di queste composti reagisce in maniera peculiare al calore ma sappiamo anche che una salsa è ben più complessa. Somministrando calore ad una soluzione l’effetto più evidente sarà la graduale perdita di volume e la concentrazione dei soluti dovuti all’evaporazione dell’acqua, ma anche delle eventuali frazioni volatili qualora presenti (per esempio le molecole alcooliche e aromatiche e altre a basso punto di ebollizione). Inoltre concentrando i soluti in miscele ad elevato contenuto di grassi e zuccheri, le temperature di ebollizione possono tranquillamente salire oltre i 100 C°; a temperature elevate gli zuccheri possono aumentare notevolmente la viscosità del preparato o concentrarsi, così come accade negli sciroppi, aumentando la percezione del gusto dolce; se sono presenti zuccheri riducenti e proteine, possono innescarsi le reazioni di Maillard che come noto producono composti aromatici, saporiti e scuri. La natura polimerica dei prodotti di Maillard modifica inevitabilmente la viscosità del preparato, e questo ad esempio è il processo fondamentale nella preparazione di fondi di cottura. Sebbene le restrizioni non richiedano necessariamente l’aggiunta di addensanti dobbiamo sempre mettere in conto i limiti della tecnica, ovvero la perdita delle componenti aromatiche volatili e la modificazione irreversibile dei nutrienti per via della cottura.
Riduzione di ciliegie affumicate (Smoked Cherry Reduction)
Questa salsa è perfetta sugli arrosti di tagli magri del maiale quali filetto e lonza, ma se siete amanti della cacciagione la troverete eccezionale anche su arrosti di cervo e cinghiale. Un grande classico che strizza l’occhio alla cucina barbecue.
Ingredienti • 150 g di ciliegie snocciolate • 150 ml di porto secco o cherry • 15 ml di aceto balsamico, • 15 g di burro.
Preparazione Allestite il kettle in setup di cottura indiretta con 5-7 bricchette accese, stabilizzate la temperatura tra i 70 e gli 80 gradi, disponete le ciliegie in una leccarda di alluminio; posizionatela lontana dalla brace e aggiungete un chunk di legno di ciliegio. Chiudete con coperchio e affumicate in continuo per circa 40 minuti. In una piccola padella, unire le ciliegie affumicate, il porto e l'aceto balsamico. Posizionare a fuoco medio-alto e cuocere a fuoco lento, mescolando. Quando la salsa si addensa e si riduce leggermente, toglietela dal fuoco e aggiungete il burro mescolando energicamente.
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Sconsiglio vivamente di frullare questa salsa, piuttosto prima della fase di restrizione potete recuperate la polpa e i succhi delle ciliegie affumicate utilizzando uno chinoise in modo da escludere le bucce. L’aggiunta di spezie è a vostra discrezione ma in quantità veramente millesimali: pepe di Giamaica, pepe lungo del bengala, cannella o chiodi di garofano. Queste spezie soprattutto cannella e chiodi di garofano possono devastare qualsiasi preparazione. Il burro darà un aspetto opaco e vellutato alla salsa.
Salsa teriyaki al miele La teriyaki tradizionale di base è composta da 3 ingredienti: salsa di soia, mirin (un sake leggermente dolce) e zucchero. Può essere utilizzata come condimento, come marinata o come salsa di glassatura, in questo caso sarà necessario applicare un po' di calore affinché si addensi perdendo volume.
Preparazione Combinate gli ingredienti in un pentolino e scaldate la salsa finché non assume una consistenza sciropposa e lucida.
Il mio consiglio è partire da una salsa di soia leggera in modo che restringendosi non diventi troppo sapida. Nella nostra variante barbecue il miele, l’aceto e il concentrato di pomodoro giocano un ruolo fondamentale nel bilanciamento della dolcezza e dell’acidità della salsa che di base è potentemente umami. Le fibre del concentrato di pomodoro daranno un contributo determinate nella struttura della salsa.
Ingredienti • 120 ml di salsa di soia low salt • 30 ml di mirin 30 ml • un cucchiaio di miele d’acacia • 15 ml di aceto di riso
concentrato di pomodoro
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• un cucchiaio di triplo
SONO VEGANO! is the new Allah Akbar!
Quello dei vegani non è uno stile di vita. Non è un insieme di credenze. Non è un complesso di scelte alimentari.
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Quella dei vegani è una religione: e ora finalmente lo riconoscono anche i tribunali.
Cultura e Socieltà a cura di Roberto Dal Bosco
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Londra, primi giorni del 2020. Un vegano licenziato dal suo datore di lavoro sta portando un caso legale di riferimento a un tribunale britannico, sperando di cambiare la legge per garantire che il veganismo sia considerato una credenza filosofica con una protezione simile a quella di cui gode la religione. Jordi Casamitjana, un signore che si definisce ethical vegan, afferma di essere stato licenziato ingiustamente dal suo datore di lavoro. Lavorava presso un’associazione benefica per il benessere degli animali (cioè, un ente animalista) a nome League Against Cruel Sports, che lo avrebbe mandato via perché egli avrebbe informato i colleghi che il fondo pensione dell’associazione investiva in società che sperimentano sugli animali e in “fondi non etici”, riporta la CNN. Tale accusa è respinta dall’ente benefico. I vegani etici non solo seguono una dieta vegana, ma si oppongono anche all’uso di animali per qualsiasi scopo, dalle pellicce ai test medici in vivo. Il caso è complesso, così il signor Casamitjana decide di preparare il terreno in modo strategico: prima di sfidare il suo ex datore di lavoro in merito al suo licenziamento, si lancia in un tentativo di provocare un cambiamento all’Equality Act, la legge britannica che protegge le persone dalla discriminazione, dalle molestie o dalla vittimizzazione sul lavoro. L’idea è quella di includere il veganismo nell’alveo delle convinzioni filosofiche, quindi di fornirgli protezione dalla discriminazione. Secondo la legge del Regno Unito, tali convinzioni filosofiche
devono essere «sinceramente credute; essere una convinzione e non un’opinione o un punto di vista basato sullo stato attuale delle informazioni disponibili; essere convinto di un aspetto pesante e sostanziale della vita e del comportamento umano; raggiungere un certo livello di cogenza, serietà, coesione e importanza; ed essere degno di rispetto in una società democratica, compatibile con la dignità umana e non in conflitto con i diritti fondamentali degli altri». L’azzardo paga. Il tribunale di Norwich, nella persona del giudice Robin Postle, dichiara che il veganesimo etico professato da Casamitjana rientra nell’ambito dei diritti garantiti dall’Equality Act. Gli animalisti in tutto il mondo fanno festa. In un secondo tempo verrà deciso della sua causa contro il datore di lavoro, ma per il momento si è ottenuto un cambio di paradigma non da poco: la Giustizia riconosce il veganismo come sistema di credenza, cioè al pari di una religione.
Evangelizzazione e crociata Era ora, direte voi. Già. Che il veganismo fosse una religione – e di stampo integralista – lo sapevamo tutti da mo’. Con pochissime, virtuose eccezioni, è quasi impossibile imbattersi in un vegano che non ti sommerga con il suo zelo etico-alimentare, e talvolta con il suo disprezzo. «Quella vegana non è una scelta che si limita al piano individuale, ma ha l’ambizione di cambiare lo
Il proprio senso di identità è riformulato nell’ottica della propria scelta filosofica-alimentare, la quale orienta anche scelte famigliari delicatissime
come il cibo da dare ai figli: così come il cattolico battezza il figlio, il vegano trasmette la sua fede alla prole privandola delle pietanze di derivazione animale. Vorremmo portare più in là quest’idea. Perché ci è davvero difficile non vedere le similitudini non solo con le religioni, ma più propriamente con i fondamentalismi che pervadono il nostro mondo.
Cenni di storia del fondamentalismo islamico e vegano Prendiamo ad esempio l’integralismo islamico, che qualcuno chiama anche jihadismo. Tracciare la storia della radicalizzazione dell’Islam – fenomeno esacerbatosi soprattutto nella seconda metà del XX secolo – sarebbe lungo e fuorviante, tuttavia vale la pena di ricordare che, come ammette pure il manuale dell’ISIS, il gruppo che ha dato la scintilla iniziale al fondamentalismo per Allah è quello dei Fratelli Musulmani, ovvero quello da cui proviene l’attuale capo di Al Qaeda, Mohammed Al Zawahiri (la telespalla di Bin Laden, quello con la barba canuta). Nati in Egitto, i Fratelli Musulmani (che avevano preso il potere con il Presidente Mohamed Morsi, poi defenestrato da Al-Sisi) furono lanciati da un uomo, Sayyid Qutb, che trasferitosi negli USA ebbe una reazione di rigetto profondo per il mondo moderno – nota bene, noi riteniamo che se fosse stato debitamente esposto alla cultura del BBQ, oggi la storia avrebbe preso una piega differente.
I Fratelli Musulmani intrapresero quindi una serie di attentati culminati con lo spettacolare assassinio del presidente egiziano Sadat (1981). La convinzione dei fondamentalisti era che, alla morte del presidente, il popolo si sarebbe alzato e avrebbe preteso l’instaurarsi di uno Stato coranico. Invece non successe nulla. Anzi, i fratelli finirono in galera a bizzeffe. È qui che subentra il concetto che ben descrive anche la religione vegana: la jāhiliyya. La parola si può tradurre in Italiano con ignoranza, ed è il termine con cui i musulmani indicano il periodo precedente la missione profetica di Maometto del VII secolo. Il mondo, si convinsero i Fratelli al gabbio, è piombato in uno stato di totale mancanza di consapevolezza, e la massa ignorante – coloro che non conoscono la rivelazione profetica – può meritare il trattamento che si meritano i barbari. Tale pippone di microstoria del terrorismo ve lo abbiamo sparato perché possa sembrare anche a voi evidente come il veganismo sia di fatto un fondamentalismo che considera noi carnivori annegati nella jāhiliyya, nella tenebra dell’ignoranza, lontani dalla salvezza, e anzi esseri corrotti e pericolosi per il bene della società. Alzi la mano chi non abbia mai sentito questo senso di superiorità del vegano nei vostri confronti; alzi la mano chi non ha mai percepito quel sottile disprezzo, e financo l’inquietante desiderio di rettificarvi. Non che la cosa sia priva di logica: ritenendo, secondo l’ideologia antispecista (la base biofilosofica dell’animalismo), la vita di un animale pari alla vita di un essere umano, è chiaro che
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status quo, la società, il mondo» scrive Luca Avoledo nel libro “No Vegan” (Sperling&amp;Kupfer). «La condanna del consumo di carne, pesce, uova e latte non resta confinata nell’ambito astratto e teorico: è destinata a concretizzarsi in azioni reali, di natura e portata sì diversa, ma che in definitiva mirano tutte alla conversione del non vegano». C’è una meccanica umana ovvia dietro al fatto che non vi lascino stare. «Se il fine ultimo del manifesto vegan è l’affermazione di una realtà in cui gli animali vivano liberi, indisturbati e soprattutto non destinati ad essere utilizzati dall’uomo, il cambiamento personale non basta: ci vuole il proselitismo, ci vuole l’evangelizzazione, e, se ancora non fosse sufficiente, ci vuole la crociata». La religione infatti, checché così non sembri agli spiriti moderni, non può mai essere un fatto privato, individuale: è la parola stessa che implica la moltitudine di esseri umani che vanno uniti, secondo alcuni proverrebbe dal latino relegĕre, raccogliere, o ancora religare, cioè rilegare, tenere insieme gli uomini. Prima della recentissima sentenza inglese, già l’idea del veganismo come opzione religiosa trovava spazio presso le istituzioni. L’Università di Padova fece uno studio in cui descrisse della cultura vegana «l’enfasi protoreligiosa» e «una pervasività che va ad investire ogni aspetto della vita quotidiana con le forme, spesso, della coercizione».
il vegano può considerarvi come dei mostri assassini, divoratori di povere creature per giunta indifese, oltre che inquinatori dell’ambiente (soprattutto chi mangia manzo) nonché della biochimica del proprio corpo (chi mangia carne si ammala) e quindi abusatori della Sanità pubblica. Il carnivoro vive nella jāhiliyya lontano dalla luce della rivelazione vegana; e tu grillmaster che stai leggendo sei il sommo sacerdote di questo paganesimo anteriore al Verbo veg – se ti va bene. Se ti va male, sei da considerare come una sorta di Eichmann del Weber.
Complotto vegano
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Altro elemento che unisce la religione vegana con il fondamentalismo è certamente il ricorso alla teoria di cospirazione. Le Brigate Rosse, a loro modo una setta apocalittica, credevano nel SIM, lo Stato Imperialista delle Multinazionali, cioè che il potere delle aziende dei ricconi fosse in grado di controllare la politica mondiale. Parimenti, oggi non è raro vedere anche il conversatore vegano tirar fuori dal cilindro il mega complotto dei poteri forti carnivori, sia sanitario che farmaceutico, perché le multinazionali ti vogliono far mangiar carne così ti ammali e consumi i loro farmaci. Un complotto alimentare ed accademico, perché gli studi che dimostrano quanto sia stupendo fare a meno di proteine animali vengono ingiustamente silenziati; chimico, perché i grandi produttori di cibo mettono nella sbobba che
ci fanno comprare nei supermercati porcherie sintetiche mai viste; economico, perché se mangiassimo tutti verdure sarebbe un risparmio assoluto che manderebbe in fallimento interi comparti economici; infine morale, perché qualcuno vuole tenere la popolazione mondiale all’oscuro dall’assoluta, raggiante verità del comunismo transpecifico, quello per cui tutte le creature viventi si equivalgono e non devono soffrire in alcun modo. Non riconoscere anche solo un elemento di questa vasta macchinazione cosmoplanetaria ti può far guadagnare, immediatamente, l’accusa di essere ignorante e disinformato, e ciò vale anche quando con evidenza su taluni argomenti ne sai di più dell’interlocutore. In via sperimentale, il carnivoro disinibito prova con il vegano una ri-simmetrizzazione del conflitto: davanti all’ennesima ipotesi di complotto contro i Vegan, tenta di ribattere che essi stessi potrebbero essere involontariamente parte di una terribile cospirazione. L’idea è portata avanti sul serio da vari gruppi negli Stati Uniti e non solo; in particolare, vi è chi, statistiche endocrinologiche alla mano, ritiene che i vegani facciano parte di un processo di femminilizzazione della società occidentale. È il caso del vasto movimento di maschi americani postosi in totale antagonismo con il femminismo, ritenendo che una dieta a base di soia aumenti gli estrogeni, cioè gli ormoni femminili, nel corpo degli uomini, devirilizzandoli. L’insulto più tremendo per questi ragazzi è soyboy, ragazzo-soia. Il termine soyboy, scrive l’Urban Dictionary, «descrive i
maschi che mancano completamente e totalmente di tutte le qualità maschili necessarie. Questo stato patetico è di solito raggiunto da un’eccessiva indulgenza di prodotti e/o ideologie che cancellano la virilità. L’origine del termine deriva dagli effetti negativi che il consumo di soia avrebbe sul fisico maschile e sulla libido». Cos’altro è il veganismo se non un culto basato sul consumo di soia? Cos’altro è il veganismo se non la religione del soyboy?
Religione organizzata Il veganismo, come ogni religione, ha il suo testo sacro: il volume – controverso è dir poco – chiamato The China study, dove si annuncia che per vivere bene bisogna evitare ogni cibo di origine animale. Non manca certamente una particolare forma di ascetismo: non è raro imbattersi in vegani che conducono vite sempre più ritirate, in crescente dissociazione con famiglia e amici rimasti nel paganesimo carnivoro. Inoltre il veganismo basa la sua etica sulla dinamica del peccato: in questo caso, peccare significa ovviamente mangiar carne, e la conseguenza è un inferno medico in vita, perché "la carne fa venire il cancro!" (quella grigliata di più), fa venire l’osteoporosi, la carne e il latte sono responsabili dell’obesità che affligge la popolazione terrestre, delle patologie cardiocircolatorie, dei tumori tutti quanti. Le motivazione salutistiche, si badi bene, sono uno strumento efficacissimo nel proselitismo
impellicciate, vetrine rotte, sagre interrotte (tolsero la corrente ad una festa dell’arrosticino, ma a volte incasinano anche le feste delle Pro Loco a base di rane e lumache) e poi minacce ed insulti al limite dell’insopportabile, come quando alcuni ultrà animalisti dissero che Gessica Notaro, showgirl riminese sfregiata dal fidanzato, si era meritata l’acido – la sua colpa era quella di essersi battuta per il delfinario cittadino. Lo stesso Gary Yourofsky, grande attivista americano a lungo sostenuto da PETA, ha ammesso che in effetti un attivismo vegan che sia anche pacifista non può esistere, perché chi non ha compassione non ne merita e quindi le persone cattive talvolta devono morire: «Io spero che cose cattive accadano a persone cattive, mi dispiace ma non posso portare nel cuore alcuna empatia o amore per le persone malvagie – dice il calvo attivista in una intervista – non è piuttosto irrazionale, illogico e scorretto che le persone violente condannino una risposta violenta alla loro violenza?». Siamo davanti alla giustificazione della ferocia tipica delle religioni fondamentaliste? Parrebbe proprio di sì.
Fatevene una ragione Po s s i a m o s o l o d i r v i , i n conclusione, che se proprio dovete parlare con un vegano, c’è un consiglio principale da seguire: spostate il registro. Cercherà prima di parlarvi della vostra salute e della sua (magari senza accorgersi che le spalle gli si sono rattrappite), poi passerà alla questione etica dell’amore
per le creature animali. Voi non fatevi fregare e spostate subito il discorso sul vero terreno di scontro: la religione. E dite che voi un credo ce l’avete già o, se non ce l’avete, grazie ma siete a posto; se siete atei non avete rifiutato millenni di cultura religiosa per poi convertirvi di colpo al monoteismo del tofu. Qualora invece la religione ce l’abbiate, ricordiamo che per lo meno da queste parti, si è celebrato a lungo un Dio che mangiava agnello e che del nutrirsi insieme ha fatto la base della Sua fede – anzi, pensateci, il cristianesimo è religione talmente carnalista che Dio stesso si è fatto carne. Se non siete così mistici, potete ricordare quantomeno il Vangelo secondo Matteo, capitolo 15 versetti 10-11: «Ascoltate e intendete! Non quello che entra nella bocca rende impuro l’uomo, ma quello che esce dalla bocca rende impuro l’uomo!». Qualcuno può leggerla così: mangiate quel che volete, ma attenti a quello che dite: il contrario esatto di quanto fanno i vegan. Il vostro interlocutore vuole entrare in questa discussione? Ha argomenti a sufficienza? Si rende conto del fatto che il suo fare proseliti ci fa rimpiangere quando ci suonano il campanello i Testimoni di Geova o i Mormoni? Il veganismo è una religione: aiutiamo i vegani a farsene una ragione. Magari questa semplice consapevolezza rappresenterà il primo passo per uscire dal loro tunnel di rabbia e soia.
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vegan, perché è chiaro che le ragioni etiche sul benessere animale (quelle propagate con immagini sbiadite di macelli ed esperimenti vari) coinvolgerebbero solo una parte minima degli individui da convertire. Il veganismo, come altre religioni, prevede la beatitudine e la santità: anche qui, in mancanza di un paradiso dedicato (si tratta, in fondo, di una religione propriamente materialista) le promette nella vita terrena, anzi è il caso di dire carnale. Ecco che la sigla più potente dell’animalismo USA, la PETA (People for Ethical Threatment of Animals), l’associazione che ogni tanto fa spogliare la quasi sessantenne Pamela Anderson e qualche altra divetta, dirama urbi et orbi un video educazionale in cui si rivela che i vegani a letto durano di più – i sessuologi che si sono dati pena di stare a sentire, hanno ovviamente smentito. La beatitudine vegana fa anche compiere miracoli, e guadagna pure ascensioni, in senso letterale: ecco Maria Strydom, signora che nel 2016 tentò di scalare l’Everest per provare che i vegani non sono deboli come si crede; è solo un dettaglio da niente che la sudafricana sia morta nell’impresa. La religione vegan, che abbiamo capito essere fortemente organizzata, ha poi come noto la sua ostinata, ineludibile crociata: l’onnivoro è definito nel gergo interno mangiacadaveri, e va messa in discussione ogni sua tradizione, ogni sua attività anche solo vagamente connessa alla carne. Ad opera del mondo veg-animalista si sono registrati negli anni attacchi ai camion di bestiame, molestie a pescatori e cacciatori, assalti ai McDonald’s, lanci di liquidi contro pelliccerie e signore
Carne
morfologia
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Approfondimento a cura di Roberto dal Bosco
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vegetale
Dopo averne parlato già nel numero di Marzo 2020, continuiamo il nostro viaggio nel (terribile) mondo della «carne vegana», come la chiamano. Essa è prodotta principalmente da due aziende, Impossible Foods e Beyond Meat, che non stanno con le mani in mano. Il loro prodotto si sta evolvendo. E molto. «Fino a poco tempo fa, le opzioni a base di carne sintetica – alternative a base ve getale progettate per replicare il sapore, la consistenza e l’aspetto della carne – erano spaventose» dice lo scrittore-chef J. Kenji López-Alt, ristoratore ed autore del recente bestseller The Food Lab. «Tutto è cambiato quando due società, Beyond Meat e Impossible Foods, hanno introdotto una nuova generazione di sostituti della carne vegana sviluppata con decine di milioni di dollari di finanziamenti e anni di ricerca scientifica».
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Impossible Foods, nata nel 2011, ha sede a Redwood City, a Sud di San Francisco. Dall’anno scorso potete assaggiare la sua carnenon-carne da Burger King anche in Italia: basta che ordiniate il Rebel Whopper. Beyond Meat ha aperto a Los Angeles nel 2009. A luglio del 2019 valeva in borsa 11,7 miliardi (billions) di dollari, nonostante l’anno prima non arrivasse a fatturare 90 milioni. Ne abbiamo parlato il mese scorso, ma continueremo a parlarne in futuro. Perché a tavola troverete sempre più spesso quelli che «ma la carne vegana... ». All’inizio, saranno i vostri commensali marziani. Poi sarà il turno di amici, parenti, vostra moglie… e poi voi?
Per la carne finta è diverso: non si tratta di una startup nata con il crowdfunding. Si tratta, ripeto, di uno spostamento massivo di capitale e di scienza, una liberazione di energie enormi atte a far fare all’umanità un paradigm shift, un salto di paradigma, fuori dall’alimentazione a base di bovidi. Chi si è avventurato a provare questa novità tecnoalimentare – tipo lo scrivente – ha notato che il gusto del burger è differente, ma non ci si allontana. L’aspetto, pure: una tranquilla svizzera cotta a mouse ring totale, mediocre ma capace di ingannare il palato. Ciò succede perché per la ciccia sintetica i biotecnologi (e certamente gli esperti di marketing, più orde di tester) hanno lavorato per la più dettagliata mimesi possibile: consistenza (quella che chiamano texture), aspetto e sapore. Le tre dimensioni della carne che Impossible Foods e Beyond Meat hanno deciso di replicare. Talvolta riuscendoci, talvolta no: ad ogni modo, il prodotto è in tavola. Il dado vegano è tratto.
La consistenza Nella carne macinata, le proteine animali forniscono una consistenza elastica e consentono alla carne di legarsi a se stessa. Grazie a questo fenomeno i burger esistono e non si sbriciolano solo a guardarli. La difficoltà incontrata dalla tecnologia vegetale dunque era dovuta alla differenza tra animali e piante: tutti i muscoli animali per necessità sono elastici, le fibre vegetali no. Per muovere i loro corpi, gli animali devono essere in grado di cambiare facilmente la forma e la tensione della loro carne senza danneggiarla. Al contrario le cellule vegetali vengono da creature piuttosto sedentarie, statiche. «Per dirla semplicemente, le piante sono croccanti e la carne è gommosa» ha scritto in un saggio pubblicato sul New York Times López-Alt. «Questo è il motivo per cui gli hamburger vegetariani possono spesso sentirsi friabili o molli nella consistenza, senza il morso e l’elasticità delle proteine animali». Per risolvere questo problema, i ricercatori hanno trascorso anni
isolando e catalogando una vasta gamma di fonti proteiche a base vegetale. Il miglioramento della texture della carne vegana ora è fornito dalle proteine del grano o dei piselli. L’altro fattore principale nella consistenza del manzo è il grasso animale, che – come sa ogni seguace di BBQ4All – fornisce ricchezza e succosità al boccone. Infatti tende a sciogliersi lentamente, in un ampio intervallo di temperature. Questo lento rilascio di grasso provoca succosità che si prolunga durante la masticazione. Su questo aspetto si è giocata l’altra vertiginosa scommessa dei Frankenstein della non-carne: la differenza tra grassi animali e vegetali è abissale. Il punto di fusione di un grasso è legato al suo livello di saturazione, cioè, in termini scientifici, al numero di legami singoli rispetto ai doppi legami nella sua catena di acidi grassi. Nel caso degli animali i grassi tendono ad essere più saturi di quelli vegetali (di solito indicati come oli), motivo per cui quello di manzo e maiale è solido a temperatura ambiente mentre gli oli di oliva e mais sono liquidi. È qui che entra in gioco il tanto vituperato olio di cocco. Esso, infatti, costituisce un’eccezione: è altamente saturo, quindi diventa solido a temperatura ambiente. Ecco allora che sia Impossible Foods che Beyond Meat utilizzano l’olio di cocco come grasso primario, producendo una consistenza avvolgente simile al grasso animale. Ci sono delle controindicazioni: l’olio di cocco si scioglie a una temperatura molto più bassa
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Cerchiamo di non arrivare a quel punto. Dobbiamo capire una cosa: l’investimento scientifico ed economico per sostituire la carne è immane. Centinaia di milioni di euro, se non miliardi. Scienziati che scompongono il nostro pasto preferito per ricostruirlo sinteticamente da zero. Insomma: la carne surrogata è qui per restare; almeno fino a che qualcuno non troverà un modo per abbatterla: in genere, queste cose succedono con gli scandali alimentari. Qualche tempo fa, ovviamente sempre a partire dalla Silicon Valley, vi fu il caso di Soylent: una bevanda in polvere che avrebbe dovuto sostituire caloricamente e nutritivamente un intero pasto. Dietro al nome macabro (il soylent è la sostanza di cui si cibava la società distopica del film con Charlton Heston 2022 i sopravvissuti, che era ricavata dai cadaveri riciclati) dicevano che c’era tutta la scienza possibile. I problemi di Soylent iniziarono nel 2017 quando dovettero fermare la vendita di barrette a causa di segnalazioni di malattie gastrointestinali, tra cui nausea, vomito e diarrea. Attualmente non ho amici che si dicono entusiasti di volersi nutrire così.
molto più velocemente. In bocca, questo si traduce in bocconi che iniziano ricchi e corposi, ma la cui succosità svanisce molto più rapidamente. «In questo ambito, le carni di origine vegetale hanno ancora molta strada da fare» sostiene J. Kenji López-Alt. Da un punto di vista sostanziale, Impossible Foods costruisce la sua texture con proteine di soia e patate, mentre Beyond Meat usa proteine di piselli, riso e fagioli verdi.
L’aspetto I tecnologi si sono concentrati, e con un certo successo, a replicare il colore rosso che associamo alla carne di manzo. Nel caso del bovino, quel colore deriva dalla mioglobina, un composto che trasmette ossigeno dal flusso sanguigno alle cellule muscolari. La mioglobina, detta anche deossimioglobina, studiata per la prima volta dal Nobel Kendrew nei capodogli (avete presente: le balene con il testone) è quella proteina globulare che quando entra in contatto con l’ossigeno dell’aria diventa ossimioglobina, e di conseguenza il colore della carne passa da rosso scuro a rosso vivo. Si tratta insomma di un processo non facilissimo da riprodurre. Beyond Meat utilizza estratti di barbabietola come colorante, mentre Impossible Foods si basa su un altro composto contenente ferro chiamato leghemoglobina, una molecola di trasporto dell’ossigeno presente nelle radici dei legumi, come la soia. Nell’articolo su BBQ4All Magazine dello scorso mese abbiamo accennato ai rischi ormonali inerenti al consumo di derivati di questo tipo. Secondo James Stangle, un medico di medicina veterinaria del Sud Dakota, i prodotti con la leghemoglobina contengono 18 milioni di volte più estrogeni (ormoni femminili) in comparazione alla carne bovina normale, cosa che potrebbe portare, in alcuni, fenomeni come la ginecomastia (cioè, la crescita delle tette nei maschi).
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Come la mioglobina, la leghemoglobina è di colore rosso e, secondo Impossible Meat, ha un sapore che ricorda la carne. Ulteriore problema per i vegetariani amanti del bio: è oramai noto al pubblico il fatto che l’azienda produce la leghemoglobina per i suoi prodotti con l’aiuto di lieviti geneticamente modificati. Insomma: hamburger finti creati da esseri OGM. L’olio di cocco viene in aiuto anche per il look. Ambo i produttori lo impiegano incorporandolo in piccoli pezzi che imitano l’aspetto del grasso animale. Ma è l’unica fonte di grasso vegetale in gioco: gli Impossible burger sono progettati anche con l’olio di girasole, quelli di Beyond con l’olio di canola. «Quando mordi un burger Impossible o Beyond medium rare, la somiglianza con la carne macinata di colore e consistenza è sorprendente» confessa López-Alt.
Il sapore
Menu californiano
Sul come abbiano ottenuto un gusto che inganna le papille gustative facendogli percepire qualcosa di prossimo alla carne ci sono solo supposizioni, perché le regole di etichettatura della Food and Drug Administration (FDA) non impongono alle aziende di divulgare gli ingredienti aromatizzanti esatti; è bastevole la dicitura «aromi naturali» oppure «aromi artificiali». Entriamo quindi nel campo del segreto industriale, e nessuna delle due aziende – come tutte le altre, in realtà – indica di cosa si tratti.
J. Kenji López-Alt ha alle spalle due anni e mezzo di sperimentazione nella cottura di miscele proteiche a base vegetale progettate per assomigliare alla carne macinata e ingannare palato, occhio e lingua.
C’è poi un altro problema sugli aromi: come abbiamo visto succedere con la succosità, la propensione dei grassi di origine vegetale a sciogliersi rapidamente fa sì che i composti aromatici liposolubili si disperdano in bocca più rapidamente rispetto alla carne bovina. C’est à dire, come molte cose deludenti nella vita, il sapore della carne finta dura poco.
Il Wursthall è uno dei ristoranti che Kenji (che viene da una dinastia di veri scienziati premiatissimi, sia da parte di madre che da parte di padre) ha aperto. Sta a San Mateo, sempre sotto San Francisco: la California, ribadiamo, è per tante ragioni l’epicentro dell’assalto alla carne. «Sebbene le salsicce costituiscano la spina dorsale del menu, io e il mio team abbiamo creduto che le persone che non mangiano carne dovessero essere in grado di cenare in compagnia mista senza sentirsi cittadini di seconda classe o che il loro pasto consistesse in una serie di contorni, come fanno spesso nei ristoranti» Dopo il biennio di studi sperimentali per il suo menu californiano, López-Alt ne ha tratto qualche conclusione: con la carne vegetale puoi fare un cheeseburger; puoi fare un kebab, ma l’uso più alto della carne macinata vegana ritiene sia in quei piatti in cui lo sparpagli in una padella calda, come nel chili, che gli ha dato particolare soddisfazione. Come un buco nero, l’uso dei surrogati si espande e inghiotte le ricette circostanti, fino – sostiene lo scrittore chef – al ragù alla bolognese, che non riusciamo ad immaginare nelle mani di un californiano che utilizza vegetali che mimano la carne. La formula depositata in camera di commercio a Bologna è diversa, sì. E anche quella, fresca di stampa, del ragù scientifico di BBQ4All. Siamo veramente lontani, ad ogni modo, dalla possibilità che la carne sintetica si avvicini ai tagli del barbecue – anni luce. Non è che ci vergogniamo a pensare che la cosa rimanga così. La nostra galassia carnivora vive benissimo distante dai buchi neri.
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Di per sé anche questi termini possono essere fuorvianti. Gli aromi naturali e artificiali possono essere chimicamente identici tra loro, ma in USA solo quelle sostanze chimiche derivate da una fonte naturale possono essere etichettate dalla FDA come «naturali», indipendentemente da quanto siano raffinate o trasformate: un discorso scivoloso, ma stiamo parlando del resto di un miracolo di ingegneria inventato per evitare una polpetta normale.
«Anche prima di aprire il mio ristorante, Wursthall, un paio di anni fa, sapevo che prendere sul serio le opzioni vegane e vegetariane – con cibi tradizionalmente vegani e moderne alternative a base di carne – sarebbe stato un elemento centrale del suo successo».
La ricetta scientifica a cura di Gianfranco Lo Cascio
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Croquetas de Jamรณn
Cada maestrillo tiene su librillo, ogni maestro ha i suoi trucchi dicono gli spagnoli. Sì perché le crocchette le hanno inventate in Francia, ma ogni Paese ha adattato la ricetta in base ai propri usi e costumi. In Europa esistono decine di versioni del bocconcino fritto e croccante, solitamente a base di purè di patate e pastella. Il termine crocchetta è onomatopeico, deriva da “croc”, lo scricchiolio che la panatura fritta produce quando la azzanniamo di gusto. Il nome cambia a seconda del territorio in cui lo cuciniamo: croquette in Francia, kroket in Olanda, krokett in Ungheria, korokke in Giappone, croquete in Portogallo e in Brasile, kroketten in Germania, croqueta in Spagna. È qui che diventa una pietanza molto saporita e ricca, spesso a base di besciamella e condita con pesce (bacalao, marisco, merluza, gambas), queso azúl (formaggi erborinati) e insaccati (jamón, cecina, chorizo).
Visti i recenti viaggi in terra spagnola ho deciso di mettere a punto una mia versione; vi avevo solleticato anche in Community ed eccomi qua, pronto a mantenere la parola data. Prima di iniziare e scomporre la ricetta, partiamo sempre dai trattati di gastronomia e, in questo caso specifico, dalla salsa madre che sta alla base delle croquetas de jamón: la besciamella.
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Le croquetas de jamón, l’avrete senz’altro intuito, sono le mie preferite: pepite di besciamella cremosa e sapida, farcite con prosciutto iberico ridotto in piccoli pezzi, ricoperte di pangrattato e poi tuffate nell’olio bollente, da mangiare ancora incandescenti, a costo di fulminarsi il palato.
LA BESCIAMELLA La storia
Le varianti
La tecnica
Rinnegata dagli chef causa livelli di figaggine molto bassi, la besciamella regna e sopravvive all’inanellarsi dei secoli nel tepore della cucina di ogni italiano rispettabile.
La ricetta è facilmente adattabile alla destinazione d’uso, possiamo regolare la densità della besciamella aumentando la quantità di farina e burro, ma sempre mantenendo un rapporto costante tra i due ingredienti (burro e farina in pari peso).
Ma come preparare la besciamella? Requisiti fondamentali: un pentolino dal fondo spesso, una frusta da cucina. Sciogliere lentamente il burro in un pentolino dal fondo spesso; trattandosi di burro non chiarificato comincerà a schiumare dopo qualche secondo. Lasciar evaporare la parte acquosa, non vogliamo che questa si leghi alla farina e trasformi la nostra salsa in una ignobile colla per manifesti.
Appartiene alla categoria delle “salse madri”, ufficialmente creata tra i fuochi dello chef francese François Pierre (de) La Varenne (1615 – 1678) cuoco di Nicolas Chalon du Blé, in onore del marchese di Nointel Louis de Bechameil. Voci di corridoio sostengono invece sia nata col nome toscano di “salsa colla” all’epoca di Caterina De’ Medici. Pellegrino Artusi ci mette del suo e la chiama simpaticamente balsamella, ne “La Scienza in cucina e l’Arte di mangiar bene” la indica come “il segreto principale per una cucina fine”.
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Una besciamella perfetta deve essere setosa, brillante e totalmente priva di grumi. Questi si possono formare se non abbiamo mescolato in modo appropriato il burro e la farina, nella prima fase, e se abbiamo aggiunto il latte caldo, che gelatinizza all’istante la parte esterna dei granuli di farina e raggruma rovinosamente ogni speranza di una buona riuscita.
Per una salsa piuttosto densa useremo la più classica delle ricette: • 500 ml di latte intero freddo o a temperatura ambiente • 50 g di burro • 50 g di farina debole Per una salsa più fluida, da utilizzare in timballi o lasagne, vireremo su questa: • 500 ml di latte intero freddo o a temperatura ambiente • 25 g di burro • 25 g di farina debole
Aggiungere in un solo colpo la farina setacciata e girare velocemente con una frusta per amalgamare i due ingredienti. Lasciar cuocere per qualche minuto a fiamma dolce e far raffreddare leggermente prima di addizionare il latte. Il roux appena ottenuto può essere conservato in frigorifero ed utilizzato per addensare diverse tipologie di salse. Versare il latte a filo, freddo o a temperatura ambiente, nel pentolino, amalgamare velocemente al resto degli ingredienti con dei repentini giri di frusta e portare ad ebollizione. Prolungare la cottura della besciamella di qualche minuto e lasciar addensare, sempre mescolando. Coprire con pellicola a contatto o con un coperchio per evitare la formazione della fastidiosissima “pellicina”.
I trucchi Non puoi considerarti un cuoco se non padroneggi le salse madri - e come ogni preparazione culinaria che si rispetti - la pratica e un po’ di ingegno rendono perfetti. Per realizzare una besciamella priva di difetti dovete fare due cose: • Evitare i grumi Aggiungendo latte al roux gradualmente, permettete al roux stesso di incorporare la parte liquida in maniera uniforme e a un ritmo controllabile. Mai e ripeto mai aggiungere latte caldo, rischiereste di far partire la gelatinizzazione degli amidi contenuti nella farina.
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• Aggiungete altro roux Se la vostra besciamella risulta troppo lenta, anche dopo averla cotta per il tempo necessario, potete sempre fare un secondo batch veloce di roux e rimetterla a posto. Saprete che la besciamella è pronta, e della giusta consistenza, quando riuscirà a nappare il retro di un cucchiaio di legno.
Salsa Mornay: la storia Troppo spesso scambiata per sua madre, la besciamella appunto. In realtà, nonostante le similitudini, le salse hanno una formulazione leggermente diversa. La salsa Mornay è una besciamella a cui viene aggiunto formaggio, tuorli d’uovo e talvolta panna fresca. Generalmente si utilizza il più pop dei formaggi, il Parmigiano Reggiano, ma ci si può concedere anche il Pecorino, l’Emmentaler, il Gruviera o persino un buon Cheddar artigianale.
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Come avviene per molte preparazioni, c’è un dibattito infuocato sulla paternità della ricetta. Mater (la besciamella) semper certa est, del resto. Alcuni sostengono che l’inventore sia il Duca di Mornay, eppure c’è chi dissente. Filippo di Mornay visse tra il 1549 e il 1623 e fu governatore e signore della tenuta di Plessis-Marly, oltre che scrittore e apprezzato diplomatico. Il fatto che sia vissuto a cavallo tra il XVI e il XVII secolo, però, ci pone di fronte a degli interrogativi importanti.
Anzitutto, in una tavola imbandita del ‘600 una salsa di quella risma poteva essere solamente una vellutata, dato che la besciamella non aveva di certo l’aspetto e le caratteristiche della versione che conosciamo tutti. Della salsa Mornay non vi è traccia nemmeno nella decima edizione de “Le cuisinier Royal” (1820), una enciclopedia gastronomica molto autorevole. Inoltre, questa preparazione non dovrebbe essere più antica de Le Grand Véfour, storico ristorante parigino sorto nel XIX secolo, il locale in cui la salsa è comparsa per la prima volta in via ufficiale. Nella Parigi dell’epoca, quella di Carlo X, il nome Mornay apparteneva soltanto a due uomini: il marchese di Mornay e suo fratello, il conte Charles. Queste persone vengono citate nelle memorie di Lady Blessington che ricostruiscono la vita nella capitale francese tra il 1828 e il 1829. La storia è quindi controversa e manca sicuramente qualche pezzo.
La ricetta • 500 g di besciamella • 100 g di panna fresca • 100 g di formaggio grattugiato (Parmigiano Reggiano, pecorino ma anche Emmentaler, Gruviera, Gouda o Cheddar) • 60 g di tuorli • 30 g di burro Alla besciamella calda unite i tuorli, la panna fresca ed il burro. Completate con il Parmigiano grattugiato, profumate con una macinata di pepe e regolate di sale (fate attenzione perché il formaggio è già salato di suo). Amalgamate accuratamente con una frusta fino a ottenere una composto omogeneo. Usate la salsa mornay versandola sopra l’ingrediente che volete gratinare, già precotto, bollito o saltato, e sistemato su una teglia. Si sposa alla grande con patate, cavolfiori, asparagi, capesante, uova, ostriche, cozze, ma anche con la pasta come gnocchi, lasagne o timballi.
Anatomia della besciamella
Cosa sono gli amidi: la struttura L’amido è un polisaccaride costituito da lunghe catene di molecole di glucosio collegate tra loro sotto forma di amilosio (che è composto principalmente da molecole lineari) o amilopectina (le cui molecole sono altamente ramificate). Le proporzioni di amilosio e amilopectina che si trovano negli amidi variano a seconda della fonte vegetale dell’amido, ma la maggior parte di essi contiene circa il 75% di amilopectina e il 25% di amilosio. È il contenuto di amilosio variabile a causare differenze di consistenza negli alimenti: amidi e fecole con livelli più alti di amilosio tendono a gelificare, mentre quelli con un contenuto più elevato di amilopectina ci daranno un prodotto “gommoso”.
Le caratteristiche degli amidi Gli amidi subiscono quattro processi: gelatinizzazione, gelificazione, che è la formazione del gel, retrogradazione e destrinizzazione. Sono queste capacità che li rendono così preziosi nella preparazione dei cibi, anche se alcuni sono più utili di altri. La concentrazione di amilopectina e amilosio determinano e fissano il range di temperature entro i quali questi fenomeni hanno luogo. Gli amidi possono anche essere modificati chimicamente o fisicamente per meglio servire a scopi specifici (vedi amidi ibridi o pre-gelatinizzati), ma di questi parleremo un’altra volta.
Struttura degli amidi AMIDO
AMILOSIO%
AMILOPECTINA%
Patata
21
79
Tapioca
17
83
Mais
28
72
Mais "ceroso"
0
100
Frumento
28
72
Caratteristiche degli amidi cotti TIPOLOGIA DI AMIDO
TEMPERATURA CRITICA
CARATTERISTICHE DELL'AMIDO COTTO
Radici e tumeri (patate e tapioca)
56-70°
Viscoso, pasta semi trasparente, gel poco stabile
Cerali (mais, sorgo, riso,frumento)
62-75°
Viscoso, pasta opaca, gel stabile
Ibridi cerosi (mais e sorgo)
63-74°
Molto denso, pasta chiara, resistente alla gelificazione in fase di raffreddamento
Ibridi ad alto contenuto di amilosio (mais)
100-160°
Rigido, pasta opaca, gel molto stabile
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Latte, farina, burro. Il grasso per dare sapore, il latte per dare corpo, la farina per addensare. Ma siamo proprio sicuri che la farina sia l’ingrediente giusto? Sono anni che non la uso più per fare salse e creme, meglio utilizzare gli amidi puri, molto più diligenti in cottura e soprattutto dal sapore meno invadente.
La gelatinizzazione Avviene quando i granuli di amido vengono riscaldati all’interno di un liquido. L’acqua, il latte o il brodo sale di temperatura, i legami di idrogeno che tengono insieme l’amido si indeboliscono, permettendo alla parte acquosa di penetrare nelle molecole di amido, causandone il rigonfiamento fino al raggiungimento del picco di densità.
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I granuli di amido si idratano progressivamente, gonfiandosi e perdendo la struttura cristallina, amilosio e amilopectina entrano in soluzione con l'acqua, formando legami con essa, di conseguenza l’acqua in forma libera diminuisce e la viscosità della soluzione aumenta. Per capire questo concetto, immaginate di avere una piscina piena di acqua e di palloncini vuoti: si potrà ancora nuotare in mezzo ai palloncini, ma se li gonfiamo con l'acqua della piscina, il liquido nel quale possiamo nuotare verrà intrappolato, e se il numero di questi è sufficiente, ci troveremo nell'impossibilità di sguazzare perché non ci sarà più acqua in forma libera. Così, se scaldiamo una quantità sufficiente di granuli d'amido in un litro di latte, quando questi si saranno gonfiati avranno sottratto gran parte dell'acqua libera, che si sarà trasformata in una soluzione densa e viscosa. L'aumento del volume e della “gommosità” associato alla gelatinizzazione cambia radicalmente la consistenza di molti alimenti. Pasta, riso,
avena, patate e la maggior parte delle salse, minestre e budini sono molto diversi in termini di consistenza prima e dopo la cottura.
Fattori che influenzano la gelatinizzazione La gelatinizzazione dipende da diversi fattori: quantità d’acqua, temperatura, tempi di cottura, agitazione e presenza di acidi, zuccheri, grassi e proteine.
Acqua
Deve essere disponibile in quantità sufficiente per l'assorbimento da parte dell'amido. La percentuale di liquido necessaria dipende dalle concentrazioni di amilosio e amilopectina nell'amido. Quando si preparano alimenti amidacei come i cereali o la pasta, l’acqua non viene aggiunta solo per coprire l’alimento, ma anche per consentire l’evaporazione e l’espansione in termini di volume.
Temperatura
Gli amidi non si dissolvono in acqua fredda o a temperatura ambiente. Nei liquidi riscaldati, i granuli di amido si gonfiano e scoppiano, rilasciando più
particelle di amido nel liquido. L'intervallo di temperatura entro il quale la gelatinizzazione può verificarsi varia a seconda del tipo di amido. L'ispessimento inizia di solito a circa 60°C. Alcuni amidi derivati da radici, come la tapioca, hanno alte concentrazioni di amilopectina, e questo innesca l'ispessimento a temperature più basse. La maggior parte degli amidi gelatinizza quando la temperatura raggiunge i 56°/75°C. Più grandi sono i granuli di amido (vedi quelli della patata), più gelatinizzeranno a temperature più basse, mentre i granuli più piccoli, come quelli del grano, gelatinizzeranno a temperature più elevate.
Tempi di cottura
Il riscaldamento oltre la temperatura di gelatinizzazione riduce la viscosità. I granuli di amido si rompono quando il riscaldamento continuo sollecita i legami che li tengono insieme.
L’agitazione
È necessario mescolare durante la formazione precoce della pasta di amido o della miscela di amido gelatinizzante al fine di garantire una consistenza uniforme e di evitare la formazione di grumi. Un rimescolamento continuo o troppo energico, tuttavia, provoca la
rottura prematura dei granuli di amido, con il risultato di una pasta di amido scivolosa e meno viscosa. Questo vale anche per l’utilizzo del frullatore ad immersione o del colino. Quindi vi è concesso qualche colpetto di minipimer, ma poi rimettete tutto sul fuoco per ristabilire la densità necessaria.
Acidi
Gli acidi, come il succo di limone, il vino e l'aceto, indeboliscono la capacità degli amidi di addensarsi. In particolare, un pH inferiore a 4,0 diminuisce la viscosità di un gel di amido.
Zuccheri
Lo zucchero compete con l'amido per l'acqua disponibile, ritarda l'insorgenza della gelatinizzazione e rende necessaria una temperatura di esercizio maggiore. Gli zuccheri che hanno più impatto, in ordine da minimo a massimo, sono: fruttosio, glucosio, lattosio e saccarosio. Altri fattori che contribuiscono al rallentamento della gelatinizzazione causata dagli zuccheri sono il ridotto rigonfiamento granulare e le ridotte interazioni amido-zucchero e amido-acqua.
Grassi/Proteine
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I grassi o le proteine ritardano la gelatinizzazione poiché rivestono con una “patina” i granuli di amido e gli impediscono di assorbire l’acqua.
La gelificazione
La destrinizzazione
La gelatinizzazione deve avvenire prima della fase successiva, la formazione del gel, chiamata anche gelificazione. Una pasta di amido fluido è un sol, mentre una pasta semisolida è nota come gel. Non tutti gli amidi gelificano, ma tra quelli che lo fanno, il gel si forma dopo che il sol gelatinizzato è stato raffreddato, di solito a meno di 38°C.
Un altro processo caratteristico degli amidi è la destrinizzazione, che si traduce in un aumento della dolcezza. L’effetto collaterale è che gli amidi destrinizzati perdono molto del loro potere addensante poiché sono stati scomposti in unità più piccole; quindi, è necessario più amido per addensare la salsa se la farina è stata rosolata con un grasso (vedi roux bruno per esempio)
La formazione del gel dipende dalla presenza di un livello sufficiente di molecole di amilosio, perché l'amilosio gelificherà e l'amilopectina no. Le molecole di amilosio lineari formano legami forti, mentre le molecole di amilopectina altamente ramificate formano legami troppo deboli per contribuire alla densità del prodotto finale. I legami che si formano tra le molecole di amilosio creano una rete tridimensionale che intrappola l'acqua e aumenta la rigidità della massa d’amido.
La retrogradazione
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Quando l'amido gelatinizzato si raffredda, avviene un fenomeno chiamato retrogradazione (o ricristallizzazione) dell'amido, un processo che tende a far tornare l'amido in una configurazione simile (sebbene mai identica, la gelatinizzazione è un processo irreversibile) a quella iniziale. Quello che avviene con la retrogradazione è un riarrangiamento delle catene di amilosio e amilopectina, con conseguente esclusione di una parte dell'acqua che era stata inglobata dalla struttura. La retrogradazione è un processo reversibile, nel senso che fornendo calore al prodotto l'amido gelatinizza nuovamente.
Costruzione di una salsa: l’agente addensante Quello più utilizzato è senz’altro la farina di frumento, specialmente in Nord America e in Europa, mentre nei paesi asiatici si fa largo utilizzo di amido di riso o mais. Gli amidi pre-gelatinizzati o istantanei accelerano il processo poiché si addensano immediatamente e a freddo, ma preferisco parlarne in un’altra occasione perché sono difficili da reperire. Uno dei primi passi nella preparazione di una salsa è quello di aggiungere un addensante amidaceo sotto forma di roux, beurre manié (pomata di burro e farina 1:1), o roux freddo (mix di acqua e farina). Il roux “classico” si prepara come descritto prima: il burro fuso ricopre i granuli di farina, che in questo modo rimarranno separati e non si appiccicheranno tra loro formando dei grumi. Il liquido freddo viene aggiunto gradualmente alla farina cotta con il burro, e questa combinazione viene scaldata fino a raggiungere la consistenza desiderata, a seconda del tipo di salsa che si sta preparando. Esistono tre tipi di roux: bianco, biondo e bruno. Man mano che il roux cuoce, diventa più scuro (la cara e vecchia reazione di Maillard): il suo sapore inamidato diminuisce, ma anche il suo potere addensante si riduce (le molecole di amido vengono scomposte dal calore). Così, più scuro è il roux, più dovrete utilizzarne per ricavare una salsa densa e vellutata.
La croqueta de jamón Abbiamo ripassato la teoria, sappiamo tutto sugli amidi e possiamo procedere con la parte divertente della faccenda: la costruzione della crocchetta. Prima di passare alla preparazione della besciamella, la massa principale, dobbiamo “affinare” e trasformare l’ingrediente chiave: il prosciutto spagnolo, noto ai più come “Pata Negra”. Facciamo un passettino indietro e spendiamo un po’ di inchiostro per approfondire: il nomignolo “Pata Negra”, letteralmente “unghia nera”, sta a differenziare i prosciutti di maiali spagnoli con gli zoccoli scuri. Volete sapere la novità? È un denominazione che non ha nessun senso . Non tutti i maiali iberici hanno l’unghia nera né l’unghia nera è un’esclusività di questa razza, sono altre le caratteristiche che distinguono un prosciutto spagnolo di qualità. A tutelare produttori e consumatori ci pensa un decreto che riconosce solo tre tipi di denominazioni di prosciutto iberico, tutte stabilite in base al tipo di alimentazione dei maiali durante la fase di ingrasso: Prosciutto Iberico De Cebo, alimentato con mangimi a base di cereali e leguminose. Prosciutto Iberico De Cebo De Campo, allevato a regime semi brado e combinato di mangimi, foraggi e risorse campestri. Prosciutto Iberico De Bellota: durante la Montanera, il periodo che va da ottobre a dicembre, il maiale vive allo stato brado e si ciba esclusivamente di ghiande di leccio, sughero o rovere. Ed è proprio questo il prosciutto che andremo ad utilizzare noi.
Tened paciencia ma io soffro solo all’idea di dover friggere un prosciutto crudo così prezioso. È per questa sensazione di disagio che mi sono inventato una soluzione più efficace e meno truculenta.
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Parliamo di una materia prima nobile e dal sapore sbalorditivo: assaporando la fibra tenera ed untuosa, scioglievole come nessun prosciutto al mondo potrà essere, si possono cogliere note stagionate che ricordano le erbe selvatiche, il fungo, il tartufo, che aumentano di intensità e complessità a seconda della stagionatura. Tornando alla nostre crocchette, gli spagnoli estraggono il sapore dal prosciutto schiaffandolo in padella insieme all’olio o al burro e la farina, preparando un roux aromatizzato da allungare con il latte.
IL BURRO "PROSCIUTTATO" In pratica consiste in una chiarificazione del burro con un’infusione di prosciutto in pezzi. Si fa così:
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INGREDIENTI • 250 g di burro (materia grassa minimo 82%) • 125 g di jamón de bellota 100% iberico PROCEDIMENTO Riducete il prosciutto in piccoli pezzi o cubetti. Io avevo a disposizione del prosciutto
spagnolo sottovuoto “cortado” (affettato) a mano. Inseritelo in un sacchetto per il sous vide e aggiungete il panetto di burro, avviate il roner impostando la temperatura a 65°C e dimenticatevelo per due ore. Potete effettuare questa operazione in un pentolino a bagnomaria oppure in un gingillo simil-Bimby, l’importante è non sfondare la soglia dei 65°C. Una volta fuso, trasferite in una
contenitore e piazzate in frigo per almeno 12h. Trascorsa la mezza giornata, scaldate il tutto e separate i pezzetti di prosciutto, vi serviranno in un secondo momento per “condire” la besciamella. Lasciate solidificare nuovamente in frigorifero: otterrete un burro chiarificato e prosciuttato a dovere, con uno strato di siero e gelatina depositato sul fondo (guai a voi se lo buttate!).
Procedimento 1
Okay, okay, lo spiegazzo è stato lungo, lo ammetto. Ma adesso possedete tutti gli strumenti per spignattare la vostra pozione, senza grumi o retrogusto di gesso. Avete fondamentalmente due strade: partire da un roux di amido di frumento e burro oppure dall’amido mescolato nel latte freddo. L’importante è tenere sotto controllo la temperatura, poiché sforando i 75°C rischiate di sabotare la salsa. So a cosa state pensando. Posso usare il Bimby/Kenwood Chef? Certo che sì. Posso preparare la besciamella sous vide? Ni, perché agitare il composto durante la cottura è importante, come detto qualche paragrafo fa.
Ingredienti: • • • •
• • • •
1 l di latte intero 100 g di amido di frumento 100 g di burro “prosciuttato” 125-200 g di jamón de bellota 100% iberico (125 gr usati per l’infusione più 75 gr a “a crudo”) 20 g di gelatina di prosciutto (il fondo del burro chiarificato) Noce moscata q.b. Pepe nero macinato fresco q.b. Sale q.b.
Per la panatura • Pan grattato o panko • 4 uova • Olio di mais o arachidi per friggere Ora scegliete uno dei due metodi descritti qui a fianco.
Procedimento 2 Potete saltare il passaggio del roux e partire dal latte freddo miscelato con l’amido. Disperdete con cura la polvere nel liquido e mettete sul fuoco. Portate delicatamente a temperatura (75°C), lasciate addensare e aggiungete il burro e la gelatina. Continuate a lavorare con la frusta e ultimate la salsa unendo il prosciutto, il pepe, la noce moscata. Assaggiate e regolate di sale, potrebbe essere già abbastanza salata per via dello jamon. Lasciate raffreddare con la pellicola a contatto e fate rassodare in frigorifero.
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LA BESCIAMELLA SCIENTIFICA
Acchiappate un tegame, aggiungete il burro (la parte gialla) e l’amido di mais. Riscaldate delicatamente ed avrete un roux bianco, liscio e con i grassi completamente disciolti. Il passo successivo nella preparazione della salsa è quello di combinare il liquido, il latte nel nostro caso, rigorosamente a temperatura ambiente o appena tiepido, versandolo a filo sul roux caldo e lavorandolo con una frusta. Per eliminare del tutto il sapore amidaceo bisogna raggiungere i fatidici 75°C. Continuate a cuocere la besciamella a fuoco dolcissimo, fino a quando non raggiunge una densità pari a quella del purè di patate, mescolando di continuo. A questo punto aggiungete i cubetti di prosciutto, la gelatina, il pepe e la noce moscata. Assaggiate e aggiustate di sale se serve. Lasciate raffreddare con la pellicola a contatto e fate rassodare in frigorifero.
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L’alternativa al formaggio In Spagna non si utilizza, ma i più golosi sono liberi di sperimentare. Una volta preparata la besciamella, mettetene da parte 500 grammi e aggiungete a caldo una miscela fatta con 60 grammi di tuorli 100 grammi di panna fresca. Mescolate con una frusta e unite 30 grammi di burro e 100 grammi di formaggio grattugiato (Parmigiano Reggiano 18 mesi). Controllate la consistenza e se necessario riportate sul fuoco (basso), la salsa deve essere molto densa. Ultimate con il prosciutto e le spezie, omettete il sale. Coprite con pellicola e lasciat rassodare in frigorifero.
LA FORMAZIONE DELLE CROCCHETTE Una volta raffreddata la massa, trasferitela in una sac à poche (diametro della punta: 2 cm) e dressatela nell’albume leggermente sbattuto, come in foto. Il composto a base di besciamella deve essere abbastanza denso da non perdere la forma. Tagliate dei cilindretti con le forbici e passateli nel pangrattato o panko. Fatta questa prima panatura, rimettete la crocchette in frigorifero per almeno 15 minuti, per far aderire bene. Nel frattempo sbattete i tuorli negli albumi, sfrutterete il loro potere legante e apporterete grasso e sapore. Passate le crocchette già panate nell'uovo e poi subito nel pangrattato (o nel panko*). Disponetele su un unico strato su di un vassoio e trasferite in congelatore per venti minuti. Nel frattempo scaldate l’olio, quando avrà raggiunto i 190°C friggete le crocchette in immersione, poche alla volta, per non fare abbassare la temperatura all’interno del tegame. Cuocete fino a quando non si colorano esternamente, dovete solo far dorare la panatura perché la besciamella all’interno è già cotta.
Servite le croquetas de jamón caldissime, quasi ustionanti: schioccheranno in bocca come le nacchere, farete un viaggio sensoriale e lisergico al pari di Gaudì. Bene, siamo arrivati in fondo all’articolo e di cose ne abbiamo imparate parecchie. Ora procuratevi gli ingredienti necessari.
"el que sigue la consigue" (Chi segue i consigli raggiunge i risultati)
Gianfranco Lo Cascio
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*Non riuscite a trovare il panko? Procuratevi un filone di pane in cassetta, tagliatelo a fette di 1 cm e scaldatele in forno ventilato a 160°C per 5-10 minuti, il tempo di disidratarlo leggermente. Quindi tagliate via la crosta, tritatelo al mixer o meglio ancora grattugiatelo con una grattugia a fori larghi.
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SEGUO ma ad un metro di distanza
Al momento in cui scrivo l’Italia, ma ormai anche mezzo mondo, è in completo lockdown. Seguo a cura di Emiliano Nencioni
Le notizie di una città mai sentita prima, Wuhan, in cui gli abitanti sono costretti all’isolamento domiciliare forzato, interrompono fastidiosamente gli agognati aggiornamenti sugli sviluppi della faida tutta italiana: è stato bullismo? È stato un momento di creazione estemporanea di arte? È stata una mancanza di rispetto? Anche alla RAI parlano di rispetto quando semplicemente qualcuno fa una cosa che a loro non piace? E basta con ‘sti cinesi, che non ci interessa. Al massimo, smettiamo di andare all’ All You Can Eat. La prima conseguenza sul suolo italico è stata proprio questa: ristoratori, parrucchieri, riparatori di telefonini, piccoli imprenditori asiatici in difficoltà economiche: la reazione dell’italiano è stata pronta e efficacissima: un hashtag! Scriviamo tutti #abbracciauncinese continuando a canticchiare “le tue brutte intenzioni, la maleducazione…”
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SEGUO
Spiego per i posteri, per chi ci leggerà fra anni, ritrovando il magazine in qualche cassetto abbandonato o tra i residui della piattaforma digitale Issuu: c’è stato un periodo, alla fine dell’anno 2019, in cui alcune eco distanti di brutte sindromi influenzali in qualche posticino della Cina generavano risatine e facezie su quanto fosse poco igienico mangiare pipistrelli, e allora via libera ai meme su Ozzy Osbourne, allegria a denti stretti, cose del genere; nelle prime settimane del 2020 in Cina in molti iniziavano a preoccuparsi e a registrare i primi decessi, ma lo stivale era completamente assorbito - io per primo - dalle vicende entusiasmanti del Festival di Sanremo: non è tanto la radio che ti pugnala con il festival dei fiori, quanto l’incredibile fruibilità social di una lite in diretta entrata nella storia della TV generalista. Una canzone modificata lì per lì, in piena gara, diventa un violento dissing fra i componenti di un malassortito duo; è un capolavoro mediatico: si registra un’anomalia nella produzione di meme, gif e tormentoni, cover, reinterpretazioni, il web impazzisce.
Poi è arrivato il primo caso in Italia, e per lo più la reazione è stata “ma chissà cosa ci sarai andato a fare in Cina”. Poi c’è stata una seguitissima partita di calcio allo stadio, e Bergamo si è riempita di casi positivi. Poi alcuni Stati hanno deciso di non accettare aerei o navi provenienti dall’Italia. Ci siamo affrettati a scrivere su tutti i nostri profili social che era una comunissima influenza, che tutti gli anni c’è qualche vecchietto che muore.
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Poi il comune di Codogno è diventato improvvisamente famosissimo in Italia solo per il denso focolaio d’infezione, “un po’ come Domodossola per la D”, ho letto da qualche parte. Ma #Milanononsiferma, la gente scriveva. Nel frattempo, si registrano sempre meno critici musicali e sempre più virologi e immunologi dilettanti, in attività sui social. Poi… Poi ci sono stati dei decessi di personale ospedaliero, gente giovane, gente sana. Ma era sempre un problema di qualche posticino al Nord. Era sempre una brutta influenza gestita male dallo Stato. Una mattina ci siam svegliati, e invece dell’invasòr abbiamo trovato il silenzio. Negozi chiusi, strade deserte. “ Tu t t a l ’ I t a l i a è z o n a rossa, #restateacasa, #andràtuttobene” La situazione era ben diversa, pesante, restrittiva, un grosso cambiamento per le nostre abitudini, ma ci erano stati forniti ben DUE hashtag. Certo, per qualche giorno non avremmo lavorato, non
saremmo andati a scuola, niente bimbi dai nonni, niente cinema, ristoranti vuoti, ma che sarà mai: “state a casa, è così bello, riscoprite la famiglia!”. Ok, facciamolo. Divano, serie televisive in streaming, la geniale mossa del sito per adulti più famoso del mondo che regala l'abbonamento premium a tutti gli italiani. Spuntano lenzuoli bianchi, con arcobaleni disegnati e hashtag istituzionali, appesi ai balconi: sarà uno spasso, stiamo per un po’ a casa! E il tempo è passato; a un certo punto, parecchio tempo è passato. L’appuntamento irrinunciabile è diventato l’AperiCovid, il report giornaliero della Protezione Civile, alle 18; il momento della suspance è invece il discorso del Presidente del Consiglio, che volta per volta ci chiede ancora uno sforzo in più. I lenzuoli bianchi sono diventati grigi, sporchi, le scritte a tempera si sono slavate, colando come i titoli di testa dei film dell’orrore, diventando una specie di simbolo per un ottimismo forzato che inizia a mostrare il suo retrogusto amaro. Anche i flash mob dal balcone, incoraggiati dai media i primi giorni, ci sono venuti ampiamente a noia: va bene cercare di tirare su l’umore, ma se sei stonato e fai solo per riprenderti col selfie stick e raggranellare due views sul tuo profilo, allora dai fastidio già alla terza volta. Al momento in cui scrivo, dicevo, abbiamo imparato a prendere il dato di 700 morti in 24 ore come un deciso miglioramento che ci fa ben sperare. Anche i più accaniti sostenitori del “solo una banale influenza” hanno cambiato registro, spostandosi per lo più sulla critica politica. Attualmente abbiamo tutti i capelli incolti, l’automobile sporca, la pelle delle mani screpolata dai furiosi e frequenti lavaggi a scopo sanitario - e non voglio tirare in ballo i problemi economici che sono sopraggiunti per tantissimi di noi.
Una rubrica, diciamolo finalmente, che fa arrabbiare la gente, quando non cerca disperatamente di farla divertire con due trovate originali; una rubrica che avrebbe potuto far arrabbiare molte più persone, se solo la gente leggesse oltre il quarto rigo. Ho pensato a lungo sull’opportunità di scriverla, la rubrica, o se al contrario saltare un mese. Troppo facile, al momento, pestare un nervo scoperto e risultare sciacallo o inadeguato; poi chi mai, dopo trenta giorni di isolamento sociale, ha ancora voglia di paragonare l’esistenzialismo di Heidegger al rigore dei 52 gradi del Revit? Però poi ho fatto mente locale a quei famosi “sei lettori” della Seguo. È veramente uno sfizio vedere come si cerchi, diffusamente, di far capire agli altri lettori che si è letta la Seguo, postando alcune cose in Community, ma senza dichiararlo chiaramente: riferimenti, paroline in codice, allusioni che solo i lettori di vecchia data possono capire, una specie di gergo carbonaro spontaneo, dovuto forse agli iniziali rimbrotti che i vari estimatori della rubrica si sono beccati dopo un coraggioso “è la cosa che leggo per prima!”.
Da qui il consueto adagio “non fate complimenti”, inteso stavolta non come “sentitevi completamente a vostro agio”, ma proprio come ...non scrivete complimenti in pubblico, non per la Seguo, per il bene stesso della Seguo! Però vi siete ingegnati, avete scritto cose sibilline pur di recapitare il messaggio, incuranti del rischio, e in tutto questo come potrei essere così ingrato da lasciarvi un mese senza Seguo? Non me la sono sentita. Un episodio della nota sitcom “ossessioni in griglia”, magari? Il manoscritto dell’anonimo è sempre qui, pronto alla consultazione. No, farvi leggere i litigi di uno stereotipato gruppo di grigliatori in conflitto, privi di distanziamento sociale e non #rimastiacasa, mi pare indelicato. Ma la soluzione è sotto gli occhi di tutti, lampante! Ricorrerò ad uno dei famosi confronti della Seguo: da una parte un esecrabile e inflazionato comportamento da troll, e dall’altra una lucida dissertazione su una teoria scientifica, un capolavoro letterario, una corrente filosofica del ’900. È praticamente inevitabile un lesto paragone fra le angosce del griller in lockdown da pandemia e i monatti del Manzoni, la Storia della colonna infame e le nuovissime denunce lanciate da un cortile all’altro per grigliate abusive senza mascherina. Inizio sicuramente con un toccante raffronto fra le paure e le sensazioni di vulnerabilità, il degenerare del risentimento della gente che finisce nella caccia all’untore - o a chi fa jogging, poi per completezza
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In tutto questo bel clima di serenità, disteso, sono chiamato a scrivere la rubrica Seguo. Una rubrichetta dove si dovrebbe parlare di “pittoresca fauna da social”, che spesso sfora nella filosofia spicciola per ironizzare sui parallelismi nel comportamento dei troll, o che con l’abusata scusa del “sembra proprio il metodo BBQ4All!” finisce per raccontare una storia insolita su qualche fisico stralunato, o su una matematica discriminata per il suo essere donna, o su un’attrice del cinema muto che getta le basi per le trasmissioni Wi-Fi.
tiro in ballo anche Boccaccio ed i noti tre ragazzi e sette ragazze che, in isolamento volontario, si intrattenevano con racconti un po’ bucolici e un po’ scollacciati, invece di fare scorta di lievito e mettersi a cuocere focacce su focacce, invece di produrre gel disinfettanti inefficaci secondo tutorial condivisi da youtube, ...e sono già a tre pagine di contenuto discutibile, pronto per chi fa finta di non leggere, per chi non legge e per chi legge ma non lo può dire a nessuno. Nel finale, inevitabile, un rimando alla scena della morte di Cecilia dei Promessi Sposi, che però non rovinerò con battutine cretine o rimandi cinici al bulletto facebookiano del mese, dal momento che è una pagina di letteratura sublime e non può essere toccata in nessuna maniera, specie per i turpi scopi mensili della Seguo. Passaggio memorabile, il sopradetto, che vi esorto a rileggere da adulti se non ne avete memoria o se l’avete affrontato solo alle scuole medie, con le dita nel naso, svogliati, distratti e generalmente maleodoranti. Invece, a quanto pare, questo non è successo. Non ho scritto una Seguo giustapponendo le due timeline peste/covid o Manzoni/ Facebook. Per quale motivo? Perchè ogni blogger, ogni youtuber, ogni influencer, ogni grafomane l’ha già fatto: era troppo invitante. Anche i giornalisti “veri”, quelli che scrivono sul giornale che si compra in edicola (ma si può ancora comprare un giornale in edicola? Mi sa di no), si sono decisamente sprecati in arditi raffronti sulla falsariga di quello che pensavo di fare io. Per cui va bene che sono prosciugato dalla carenza di stimoli causa blocco domiciliare forzato, va bene il malumore generalizzato, va bene l’impossibilità di trattare alcuni argomenti, ma anche mettere lì la cosa banalotta trita e ritrita, condivisa da qualunque blogghettino acchiappaclick, no, quello proprio no. Per non farmi mancare il consueto incremento nella curva degli hater però ho lasciato qualche easter egg nell’articolo sul pollo assiso sulla lattina, andatevelo a rileggere con occhio critico per poi fare commenti criptici che capiamo in cinque o sei.
Emiliano Nencioni
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DISTANZIATO SOCIALMENTE BEN PRIMA CHE DIVENTASSE MAINSTREAM
N°17/ANNO 2 - MAGGIO 2020
MAGAZINE
LA RICETTA SCIENTIFICA DI GIANFRANCO LO CASCIO
CUBAN S A N DW I C H
SPECIALE PANINI
lampredotto, porchetta, pane e panelle, philly cheese steak, burrito, kebab sandwich, croque monsieur, po'boy
COME SI FANNO
P I A D INA E FO CACCIA B A RE SE INTERVISTA ALLO CHEF
MAX MARIOLA
Editoriale di Gianfranco Lo Cascio
e n ap
Dottore mi aiuti! Ho un attacco di
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... Di merende adolescenziali e panini inverecondi mangiati sul divano
Certe volte mi piglia come una smania, un tumulto interiore che mi sospinge con nervo davanti allo sportellone argenteo del frigorifero. I miei attacchi di pane si consumano di notte, quando nessuno guarda e il divano diventa un’isola, un fazzoletto di terra sul quale piantare una tenda e trovare un po’ di pace. Il cielo stellato sopra di me, toastino notturno dentro di me. Lo chiamo toastino perché è solo mio. Mi piace mangiarlo in solitaria, mi piace tutto del rito che lo accompagna. Mi piace scegliere la seconda fettina di pane nella confezione, perché la prima di solito è secca e col cappero che la mangio. Mi piace imburrare la base con il coltello dalla punta arrotondata, magari scaldato sul fornello per far sciogliere il burro più velocemente. Mi piace l’odore lattico e quasi zuccherino che si sprigiona quando la mollica unta sfiora la ghisa e arrossisce per la vergogna, mi piace lo sfrigolìo e il vapore che ammanta la cucina. Mi piace fare quattro mucchietti del salume di turno, generalmente mortadella o coppa di maiale, grandi quanto un boccone. Mi piace esagerare con il formaggio, strati su strati di scioglievole formaggio, che poi scaldandosi tracìma come magma e lava via tutti i peccati. E ustiona pure le mucose. Ma non importa, perché la bocca non brucerà mai quanto il mio cuore. Lo confesso: amo il toastino più di molte persone. Ed è per questo che ho deciso di dedicare un intero numero del BBQ4All Magazine ai toast, ai sandwich, ai panini insomma. Panino s. m. [dim. di pane]. – Piccola forma di pane, in genere tondo o ovale, talora anche di pasta dolce, spesso reso più soffice con l’aggiunta di altri elementi all’impasto (p. all’olio, al burro, al latte); viene spesso tagliato orizzontalmente e farcito con ingredienti varî: p. ripieno; p. imbottito; p. al (o col) prosciutto, salame, formaggio e sim.; mangiare un p. al bar; preparare i p. per la gita al mare.
Non è la prima volta che parliamo di sandwich noi di BBQ4All, permettetemi di fare un riassunto prima di introdurvi alle sale dorate di pane tostato e farcito con la qualunque.
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Questa è la definizione che accompagna le merende, i pranzi veloci, i peccati notturni da prendere a morsi davanti alla tv. Il panino italiano nasce ad inizio '900 e Alberto Cougnet è il primo a distinguere tra sandwich e panini ‘gravidi', inserendo questi ultimi in un ricettario, indicati con un vocabolo italiano, anzi fiorentino. All’epoca il sandwich era borghese e aristocratico (protagonista di antipasti, buffet, picnic, viaggi), mentre il panino, variato da città a città, era cibo per lavoratori e gente qualunque. E il termine “sandwich” invece, da dove salta fuori? Proprio per risparmiare tempo, se non denaro, a metà ‘700 il conte inglese John Montagu di Sandwich aveva cominciato a farsi portare direttamente alla scrivania e al tavolo verde una generosa porzione di roastbeef chiusa tra due fette di pane. La cosa gli era piaciuta a tal punto da richiedere lo stesso servizio quando si trovava fuori casa, diffondendo il nuovo verbo dello street food.
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PASTRAMI SANDWICH (Aprile 2019) È impossibile visitare la città di New York senza addentare un panino ripieno di questa carne affumicata: sarebbe come visitare l'Italia senza mangiare il gelato o la pizza. Il pastrami può essere preparato con la carne di manzo, di tacchino, di maiale, di montone, ma di fatto il più apprezzato rimane il beef pastrami. Il classico sandwich farcito con questa prelibatezza affumicata può essere alto anche 10 cm, grazie allo strato esagerato di carne con cui viene riempito. Il condimento può variare: c'è chi preferisce gustarlo con insalata e pomodori, chi con il formaggio fuso e chi nella versione classica con pane di segale, cetriolini sottaceto e senape. Fan Fact: visitando il locale a New York dove il film "Harry ti presento Sally" è stato girato, Katz's Delicatessen, potrete anche sedervi allo stesso tavolino dove era seduta la giovane protagonista e, alzando gli occhi al soffitto, leggere: dove Harry ha incontrato Sally… spero che tu possa provare quello che ha provato lei!
BURGER (Giugno 2019) Polpetta rotonda stretta fra due strati di pan brioche. L’hamburger deve avere dei tratti caratteristici che i nostri fratelli americani hanno delineato per noi. Non sto parlando di ricette o di condimenti, ma mi riferisco alle migliori tecniche per ottenere i migliori risultati. Come si prepara il patty perfetto? Un buon compromesso può essere quello di utilizzare 4 parti di magro, 4 parti di tagli ricchi di collagene e 2 parti di grasso. Punta di petto e reale andranno benissimo. Il grasso potrete riciclarlo da questi stessi tagli. Per macinare è necessario un
tritacarne, ma se non lo avete arrangiatevi con un robot da cucina. Tagliate la carne a cubetti, grasso compreso, lasciatela nel freezer per una mezz’ora. Mettete tutto dentro al robot e tritate facendo girare il motore ad impulsi. Controllate e fermatevi quando avrete raggiunto la consistenza di vostro gradimento. Questo metodo, oltre a garantire la giusta struttura della vostra polpetta, limita la formazione della carica batterica che risulterà nettamente inferiore rispetto a quella della carne già macinata dal macellaio. Oppure procuratevi un burger BBQ4All. TACO (Settembre 2019) Esistono tacos con carne di manzo, di maiale, di pollo, di pesce oppure esclusivamente di verdure. Originari di Città del Messico, sono nati come cibo povero ma sono man mano diventati un cibo da strada idolatrato in tutto il mondo. In Messico il taco non è solo un cibo, ma è diventato un modo di dire, uno stile di vita. Come scrivono Déborah
alla sola Europa, ma nel XVIII secolo ha solcato l’oceano conquistando anche i futuri Stati Uniti, determinando la nascita dello street food più conosciuto al mondo: l’hot dog. Tutto partì dallo stato del Winsconsin dove si stabilirono i primi immigrati tedeschi portando con sé le proprie tradizioni, tra cui la deliziosa salsiccia che iniziarono a commercializzare.
Inventato tra 1.000 e 500 a.C., il taco è di fatto un cucchiaio commestibile che può contenere un numero infinito di cibi. E non esiste un prototipo di categoria, non c'è il taco numero uno. A Baja California li riempiono di marlin affumicato, nello stato del Querétaro servono tacos di manzo, fritti nello strutto di maiale; in
Chiapas servono il pito tacos, fatto con polpettine di fiori dell'albero del corallo, impanate e fritte e poi servite nel taco con zuppa di pomodoro. HOT DOG (Ottobre 2019) La conquista deI salsicciotto tedesco, il Wurst, non si limitò
Le origini dell’Hot Dog sono incerte ed esistono diverse leggende. Tuttavia, a consacrarlo agli inizi del ‘900 fu la famosa vignetta di Tad Dor-
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Holtz e Juan Carlos Mena, autori di Tacopedia, i messicani li mangiano talmente spesso che l'espressione echarse un taco (farsi un taco) è diventato sinonimo di mangiare un boccone; così come la frase Le echas mucha crema a tus tacos (hai aggiunto molta panna acida ai tuoi tacos) si usa per definire una persona che si dà troppe arie, che si crede migliore di ciò che è in realtà.
Inizialmente veniva venduta senza il classico panino di forma allungata, servita bollente direttamente dalla piastra su un foglio di carta. Un supplizio per i poveri clienti. Ma in Missouri la signora Anton Feuchwanger pensò bene di schiaffare la salsiccia nel pane, incrementando anche gli affari del fratello panettiere. Sicuramente l’aggiunta del panino permetteva di mangiarla più agevolmente e di accompagnarla anche con diverse salse.
mati ospiti, lo adorano perché pare ricordi loro i tempi della gavetta, quando per espiare una colpa o per riparare a un errore venivano messi in cucina a preparare sandwich a ripetizione. KATSU SANDO (Febbraio 2020) Il Tonkatsu ( , o ) è la cotoletta di maiale fritta giapponese che fa parte della categoria degli “agemono”, i cibi fritti del Sol Levante.
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gan, che disegnò un bassotto allungato dentro un panino con la testa e la coda di fuori. Ironia apprezzata e capita da pochissimi, tanto che in molti iniziarono a credere che fosse veramente fatto con carne di cane. CLUB SANDWICH (Gennaio 2020) Tre strati di carboidrati imburrati e tostati che fanno quadrato tra succulenti straccetti di pollo, bacon sfrigolato e croccante, una botta fresca di insalata verde e pomodori affettati, il tutto avvolto e benedetto da un seduttivo strato di maionese. Nato a fine ‘800 in America, è un’icona del fast food (anche se la preparazione è decisamente slow) molto prima che arrivasse il Big Mac.
Considerato il piatto jolly in tutti gli Hotel, richiesto a qualsiasi ora del giorno e della notte, è in grado, da solo, di intaccare la reputazione del ristorante dell’albergo di turno. Non sono ammessi errori. Eppure, i cuochi costretti a prepararlo agli affa-
Si prepara partendo da una fetta di carne di maiale spessa 1-2 centimetri, si immerge in una pastella di acqua e farina, si arrimìna nel panko (il pangrattato nipponico) e si glorifica friggendola in immersione in abbondante olio. A cottura ultimata, si taglia a striscioline e si serve con cavolo cappuccio affettato sottile e zuppa di miso. In alternativa si schiaffa tra due fette di pane morbido, il famoso pane al latte giapponese, lo shokupan, insieme al cavolo cappuccio tagliato a chiffonade e abbondante salsa agrodolce. È così che nasce uno dei miei sandwich preferiti: il Katsu Sando.
mento sulla diga, mia nonna ed io, per scambiare qualche parola con la signora de Villeparisis, che ci ha detto di aver ordinato per noi all’hotel croque-monsieur e crema d’uova.”
KEBAB SANDWICH Si dice sia di origine persiana: sembra che già nel ‘400 i cavalieri persiani cuocessero la carne montandola sulle spade. In Europa, invece, la sua importazione risale a circa 50 anni fa: non si sa bene ancora se per mano degli inglesi o dei tedeschi. Con molta probabilità venne servito per la prima volta nel 1966 a Stoke Newington, a Londra. Oppure a Berlino, grazie a due emigrati turchi nei primi anni '70. Il kebab viene cotto sullo spiedo (shish), che può essere orizzontale o verticale (döner kebab). La parola döner sta proprio ad indicare il movimento rotatorio
dello spiedo. Il classico panino con Kebab, quello che abbiamo mangiato tutti almeno una volta nella vita (io qualcuna di più), viene generalmente realizzato con la pita, un pane antichissimo e molto versatile. CROQUE-MONSIEUR Tra gli estimatori più famosi di questo toast troviamo lo scrittore Marcel Proust, al quale si deve la prima citazione letteraria nel romanzo All'ombra delle fanciulle in fiore, pubblicato nel 1918 (secondo volume su sette della sua opera letteraria più importante, Alla ricerca del tempo perduto, 1913-1927). “Ora lasciando il concerto, nel prendere il sentiero che va in albergo, ci siamo fermati un mo-
CUBAN SANDWICH L’ho tenuto apposta per ultimo, non vedo l’ora che leggiate la Ricetta Scientifica di questo mese per replicarlo a casa alla perfezione. Pane cubano, prosciutto affumicato, maiale succoso, formaggio filante e cetriolini croccanti. Non è un elenco di ingredienti, è la trama di un film a lieto fine. A proposito di film, chi ha visto “Chef, la ricetta perfetta”? [Segue a pagina 80]
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PANE E PANELLE Un panino inventato a Palermo, la città dove sono nato, durante la dominazione araba intorno all’anno Mille. Per prima cosa si prepara un impasto di farina di ceci, acqua e finocchietto , si cuoce e si lascia freddare. Dopodiché si taglia in fogli sottili, si frigge e si infila nel pane. Nel corso dei secoli il piatto ebbe tanto di quel successo da finire sulle tavole più illustri, passando dai reali fino ai più grandi scrittori e letterati del secolo passato. Io non sarò un illustre scrittore, ma di pane e panelle, di quelli con la mafaldina e i crocché bollenti, ne ho mangiati bancali.
Il croque-monsieur deve essere preparato con il pan de mie farcito con besciamella densa e burrosa, formaggio a pasta filante (emmentaler o gruyere) e prosciutto cotto; la parte superiore del panino deve essere ricoperta con uno strato grondante di besciamella e formaggio grattugiato. E poi deve essere tassativamente gratinato.
pane La banalità del
Portfolio gastronomico a cura di Alberto Zonghetti
Farina, acqua, lievito. Assoluta semplicità. Banalità, verrebbe da dire, con l’accezione del linguaggio moderno che ne evidenzierebbe l’ovvietà, la mancanza di originalità o di eccezionalità. Invece il termine “banalità” a cui voglio riferirmi nel titolo è, piuttosto, riferito al significato etimologico originario: dal francese banal, in origine è inteso come appartenente al signore, al padrone; successivamente, significava comune a tutto il villaggio.
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Nell’antichità feudale qualcosa di b a -
nale, come un luogo, un edificio, un apparecchio, era qualcosa il cui uso era concesso all’intera comunità. Così la banalità di un acquedotto, di un mulino, di un forno, aveva un’accezione ben diversa da quella odierna; ciononostante si intende bene come il significato si sia poi esteso al non originale, al triviale, all’ovvio: il banale è il comune. Il pane pertanto “apparteneva” prima al feudatario, al vescovo, al monastero – a chiunque insomma detenesse il potere sul territorio – perché sia la produzione casalinga che i forni co-
Perché era così importante la gestione di un alimento apparentemente così semplice? Perché il pane è, contemporaneamente, cibo e simbolo. Lontanissimo dall’essere banale nella moderna accezione, è l’emblema della eccezionalità, il simbolo del nutrimento, metafora stessa dell’esistere umano. Iniziamo quindi il nostro viaggio: io sarò solo un semplice narratore che cercherà di semplificare un discorso complesso senza però tradirne la profondità e l’importanza, a vantaggio di tutti noi che amiamo non solo la griglia, ma la cucina e la ricchissima cultura del cibo. Viaggio che sarà suddiviso in due tappe e sarà scandito da parole chiave come riferimento per il nostro percorso: nella prima darò voce all’antropologia, la scienza che studia gli uomini e le loro usanze nelle differenti società, e si parlerà di ciò che rappresenta il pane per l’uomo; nella seconda sarà la storia a raccontarci il percorso del pane presso i popoli nei vari secoli. LAVORO Sembra facile, ma il pane si costruisce col lavoro, tanto: coltivare la terra, seminare il grano, attendere che cresca, raccoglierlo. Batterlo, per isolare il chicco dalla paglia. Preparare un luogo appropriato (asciutto, fresco) per conservare il chicco, e ogni tanto macinarlo, con abili gesti manuali o con macchine complesse, mosse dall’acqua o dal vento o, più recentemente, da un motore elettrico. Stivare la farina in
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illustrazioni di Eleonora Castagna
muni nei quali si cuoceva il pane erano loro proprietà: l’uso era sottoposto ad una tassazione. Successivamente, il pane divenne “comune a tutto il villaggio” perché la gestione dei forni, in età comunale (siamo intorno al XII secolo), passò alla gilda dei panettieri. Curioso, vero? Il significato della parola banal sembra trasformarsi proprio come chi detiene la produzione del pane.
sacchi grandi e piccoli, mantenendola, anch’essa, in luoghi adatti. Impastarla con l’acqua, far lievitare la pasta con minuscoli enzimi, per loro natura pericolosi, ai quali abbiamo insegnato a comportarsi bene, costringendoli a lavorare per noi. Attendere un po’ e mettere in forno, dosando sapientemente il calore della fiamma. La quantità di cultura, cioè di sapienza e di lavoro, che questo lunghissimo procedimento contiene in sé ha dell’incredibile. Sembra quasi la somma delle abilità umane, delle tecniche e dei saperi messi insieme in svariati millenni, fino a renderci capaci di addomesticare la natura e di trasformare il mondo. L’uomo doma la natura, le forze intangibili del creato spesso ostiche e avverse.
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CIBO E SIMBOLO Il pane è uno degli alimenti più ricchi di significati, di funzioni e di valenze culturali: porta con sé memorie, valori simbolici, tradizioni che vanno oltre il semplice sfamare il corpo: il pane nutre anche lo spirito. Studiare il pane significa conoscere quali sono le sostanze di cui è fatto, le tecniche e la sapienza necessari alla sua produzione e al suo consumo e, infine, le reti di relazioni sociali e i significati culturali che caratterizzano le tante forme che assume, nella nostra e nelle altre culture. Il pane rappresenta per l’uomo il riscatto dalla fame e diventa, nel mondo rurale, il simbolo per eccellenza dei cicli stagionali; si inserisce in tutta quella serie
d i riti c h e s e r vono a riscattarsi dal senso di insicurezza e precarietà su cui si basava il vivere quotidiano. Al tempo stesso non si può non riportare l’importanza che questo rivestiva nel consumo comunitario del pasto, nella necessità di dividerlo e di offrirlo agli altri, di scambiarlo, di ostentarlo per affermare posizioni di prestigio sociale. La presenza di questo alimento all’interno degli eventi festivi e cerimoniali ne attesta le valenze magiche e simboliche, tanto da divenire offerta votiva, dono o talismano. Per capire meglio questo complesso modo di essere insieme cibo e simbolo, occorre però affidarci a tre categorie che caratterizzano il pane: l’uso, la forma e gli ingredienti. L’USO Bisogna subito distinguere l’uso quotidiano che si fa del pane (quindi a scopo nutritivo) da quello cerimoniale. Se il primo infatti sfama, il secondo veicola una varietà di significati, e non sempre occorre consumarlo. Il suo complesso simbolismo si riferisce ad ambiti quali la sessualità e la fecondità umana, la fertilità della terra, il ciclo vita-morte, la salute e il benessere di uomini e animali. Lo ritroviamo come elemento portante di tutta quella ritualistica relativa al ciclo della vita (nascita, iniziazione, matrimonio, morte) e dell’anno (semina, coltivazione, raccolta, feste del raccolto). Questo perché nelle società arcaiche la vita era concepita in termini di cicli e il grano, che consentiva di avere il pane, era sentito come metafora sacra di questa concezione. Possiamo cogliere il valore sacro di questo alimento da una semplice osservazione: un po’ ovunque produzione, prepara-
zione e consumo di questo cibo sono accompagnati da gesti, preghiere, formule e riti di propiziazione e ringraziamento.
vegetali, floreali, antropomorfiche, simbologie astrali, iconografie greco-romane e giudaico-cristiane. Tutte sono il retaggio delle antiche offerte primiziali alle divinità. GLI INGREDIENTI Che sia alimento o che sia segno, il pane è sempre una combinazione di ingredienti, in base ai quali possiamo distinguerne varie categorie: con o senza lievito, con l’uso di differenti cereali e con l’aggiunta di altri ingredienti all’impasto base per distinguersi dal pane quotidiano.
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LE FORME La sagoma, lo spessore, la dimensione, invece, sono sempre simboliche. La forma è il mezzo attraverso il quale l’uomo dialoga con il sacro. Gli antropologi ci dicono infatti che la forma non nutre: veicola informazioni, non calorie. Nella concezione e nella modellazione dei pani rituali si riassumono i significati simbolici e rituali di una determinata festa. Ogni festa ha ovviamente i suoi cibi rituali, ma ritroviamo il pane quasi sempre protagonista di altari e banchetti, di doni e di voti. Quest’ultimo però, proprio perché deve sottolineare la particolare dimensione festiva rispetto a quella feriale, è diverso da quello quotidiano soprattutto per la forma che deve riassumere in sé i significati simbolici e rituali di una determinata festa. Il pane diventa così il marcatore culturale di quella particolare festa, caratterizzandola in maniera netta (pensiamo al panettone a Natale, ai pani di San Giuseppe, alla colomba pasquale). Le sue varie tipologie veicolano messaggi e significati culturali attraverso le diverse forme, che possono essere svariate: geometriche,
Gli elementi che lo compongono possono cambiare anche a seconda dei destinatari del suo consumo, ricchi o poveri, ma anche in base alla loro simbologia. Questo vale in special modo per i pani votivi e cerimoniali. Ma la caratteristica più importante da osservare, in questo contesto, è la presenza o meno del lievito, e di come e quanto è fatto lievitare il pane (orizzontalmente o verticalmente). Tuttavia, lo straordinario spessore simbolico attribuito al pane non si comprenderebbe senza una reale eccellenza del manufatto. L’ampiezza e l’importanza dei valori assunti di questo prezioso alimento nella nostra cultura non sarebbero state possibili senza un alto valore “intrinseco” del prodotto, senza un gusto, un sapore, un profumo, una qualità alimentare e gastronomica impareggiabili. Prima di diventare altro, il pane è stato davvero, concretamente, il re degli alimenti, e ha potuto esserlo perché su di esso gli uomini hanno investito tutte le loro energie fisiche e mentali.
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DACCI OGGI IL NOSTRO PANE QUOTIDIANO Così recita la preghiera del Padre Nostro: per il Cristianesimo il pane eucaristico diventa il corpo di Cristo, una sostanza divina commestibile che, sotto forma dell’ostia, viene offerta al fedele. Un ruolo fondamentale, di assoluta centralità. Troviamo però anche altri significati: il pane è la grazia spirituale concessa a chi pratica le più elevate contemplazioni, è la sacra dottrina, è Cristo stesso. Come fondamento dell’alimentazione esso rappresenta anche l’essenza della carità, la consolazione per chi ha fame in senso fisico e spirituale, la comprensione delle Scritture. A causa della sua lenta e articolata preparazione, rappresenta il travaglio fruttuoso, quello che una volta superato rende più forte lo spirito. Ma questa preghiera per molti non aveva affatto un significato simbolico, era propria una litania scaccia-fame. Pregare Dio di assicurarci il pane vuoI dire, in ogni caso, chiederGli (chiunque Egli sia) di farci essere noi stessi, di conservare quella identità umana, quella dignità, quella capacità di pensare e di fare che faticosamente abbiamo saputo costruire e trasmettere dall’una all’altra generazione. PANE E COMPANATICO Esiste una sorta di grammatica dell’alimentazione – non scritta - la cui più importante regola universale è quella che vede il pasto composto da un
alimento base, che fornisce l’essenziale di ciò che viene considerato come nutrimento, associato a un companatico a base di ingredienti vari (carne, pesce, latticini, verdura e condimenti vari). Il companatico ha il compito di insaporire l’alimento base, di norma abbastanza neutro nel gusto. La formula è quindi molto semplice: nutrimento + companatico dove, a un’analisi più approfondita, scopriremo che l’alimento base è sempre un farinaceo, mentre il companatico assume forme diverse. Se al farinaceo spetta il compito di apportare quante più calorie possibili (necessarie a generare forza lavoro) al companatico spetta quello di colmarne le carenze, apportando amminoacidi, vitamine e sali minerali. In virtù dell’essere un vero e proprio nutrimento, il pane è considerato primario nell’alimentazione, poiché sazia, dà forza e vigore. Il companatico d’altro canto è secondario, è un piacere utile a condire ciò che è imprescindibile sulla tavola: è la mancanza di nutrimento, non di condimento, che fa patire la fame. Scopro quindi ora perché mio suocero, il quale patì la fame durante il secondo dopoguerra nutrendosi di alimenti razionati e di pane - tanto pane, altro non c’era - è così critico nei miei confronti, dato che solitamente ne limito il consumo ad una fetta o due al massimo durante il pasto (bruschette escluse!): durante i primi tempi mi guardava con sospetto, insisteva offrendomi ad ogni piatto bocconi di pane ma io non capivo e declinavo con malcelato imbarazzo. Un giorno esplose, additandomi come un… non ricordo bene cosa, ma non era un complimento! Ricondussi l’accaduto ad una delle sue numerose intemperanze, senza capirne bene le ragioni. Ultimamente mi addita, con maggiore rispetto, come quello che tanto non mangia pane. Evidentemente il mio consumo del carboidrato non è sufficiente secondo la sua visione della questione; ma ora la questione è chiara, sono un parassitario divoratore di companatico! Non ho conosciuto la fame e oso saziarmi con ciò che, nella sua idea, è accessorio! Faccio parte delle smidollate nuove generazioni che si permettono questo affronto! Sacrilegio! Però non preoccupatevi, andiamo d’accordo abbastanza… ci rispettiamo con stima.
Il primo passo importante nell’evoluzione del pane si ebbe probabilmente per caso: quando cioè un recipiente con farina e acqua fu lasciato a lungo vicino a un fuoco. Si vide allora che questi ingredienti tendevano a rassodarsi e a creare un impasto più o meno omogeneo; oppure potrebbe essere capitato che un impasto di acqua e farina venisse appoggiato su una pietra calda, in modo da consolidarsi rapidamente e dare origine a una rudimentale focaccia. I popoli della Mesopotamia si nutrivano principalmente di cereali, soprattutto orzo, da cui ricavavano pappe calde, pani molli, focacce. GLI EGIZI, I PRIMI PANETTIERI In questa storia un capitolo decisivo l’hanno scritto gli Egizi, gran popolo che secondo lo storico Erodoto (484 - 425 a.C.) «fece ogni cosa in modo diverso dai comuni mortali». Eccellenti
agricoltori, in pratica sono stati loro i primi veri panettieri ed hanno posto le basi affinché il pane potesse conoscere un successo senza fine e senza frontiere. In sostanza, ai tempi in cui i Romani ancora si nutrivano di una semplice pappa di farina e i Greci di una specie di sfoglia cotta sul fuoco, gli Egizi già applicavano con sistematicità quella che assai più tardi sarebbe stata chiamata la lievitazione naturale. Erano capaci, insomma, di mettere in tavola pagnotte gonfie e appetitose, fragranti e profumate. Tutto ciò allora era considerato un fenomeno misterioso, dall’origine forse soprannaturale. Come facevano, gli Egizi, a compiere un tal miracolo? Non dimentichiamo che questo popolo produceva la birra e aveva una certa dimestichezza con la fermentazione spontanea. In ogni caso, avevano scoperto che per ottenere il “magico” risultato bastava aggiungere all’amalgama di chicchi macinati ed acqua un pezzetto di pasta avanzata il giorno prima, dal sapore un poco acidulo, che per questo veniva gelosamente custodita - come fosse cosa sacra - in ogni casa egizia (oggi, la piccola quantità di pasta tenuta da parte è chiamata levatina). Maestri indiscussi nell’arte della panificazione, si guadagnarono l’appellativo di «mangiatori di pane», tanto che già allora lo preparavano in una cinquantina di modi e forme differenti: utilizzavano vari tipi di farina, di orzo, di amido o di frumento, che venivano lavorati con miele, burro, latte, uova. Il pane più diffuso si chiamava ta; quello mangiato dai soldati era chiamato “pane
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IL PANE NELLA STORIA Questo alimento accompagna la storia dell’uomo da almeno diecimila anni. È infatti nell’era di passaggio tra Paleolitico e Neolitico (tra il 10.000 e l’8.000 a.C.) che l’uomo inizia a coltivare cereali (grano, segale, farro). Ne sono testimonianza ritrovamenti archeologici in varie zone dell’Europa occidentale e del Medio Oriente. È difficile stabilire una data esatta in cui l’uomo “inventò” il pane. Per lunghi periodi, infatti, l’uomo si cibò dei chicchi interi – crudi o cotti – o macinati con pietre. Il passaggio successivo avvenne quando la farina, di grana grossa e non pura, fu unita all’acqua. La pappa così composta aveva un buon potere nutrizionale, ma non era facilmente digeribile.
degli asiatici”. La fabbricazione era casalinga; le ville signorili avevano la propria officina di panificazione. Il panettiere si cominciò ad affermare a partire dal Nuovo Regno, periodo in cui si diffuse l’uso del forno, che permise la fabbricazione commerciale del pane. IL POPOLO EBRAICO Più tardi gli Egizi trasmisero i segreti della panificazione agli Ebrei, che però producevano soltanto una sorta di panini rotondi spessi circa tre centimetri. Nella cultura ebraica, durante il periodo di Pessach (la Pasqua ebraica) era proibito mangiare cibo lievitato, pertanto anche il pane doveva essere azzimo ovvero senza lievito. Presso il popolo d’Israele, che attribuiva al pane importantissimi significati religiosi, la professione di fornaio godeva di grande prestigio ed ogni città aveva un forno pubblico adibito alla cottura dell’impasto.
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I RINOMATI PANI GRECI Dagli Egizi appresero a panificare anche i Greci, nel cui mondo l’idea del pane era strettamente legata a quella della fecondità della terra (basti pensare a Demetra, la dea raffigurata con le messi, celebrata durante i riti dei misteri eleusini connessi ai culti agrari). Gli allievi, poi, si dimostrarono degni dei loro abili maestri tra l’altro, perfezionarono la costruzione dei forni, portando quest’arte ad elevati livelli e produssero pane in tante ottime specie utilizzando diversi cereali: se l’orzo era ritenuto sacro, erano adoperati anche avena, spelta, grano. La panificazione si svolgeva in ambito domestico ed era una pratica tipicamente femminile. Secondo cronisti dell’epoca, già nel periodo classico - cioè tra il VI ed il V sec. a.C. - ce ne erano ben 72 tipi diversi: 50 di impasto semplice e 22 più complessi (gli antenati della pasticceria), con miele, latte, vino, formaggio. Rinomati erano per esempio i pani della Cappadocia (lievitato col latte) e di Cipro (cotto sotto la brace) o il profumato amogee, il pane dei contadini, ottenuto da una miscela di cereali. Omero, nell’Odissea, fa pronunciare a Ulisse queste parole per descrivere Polifemo: “Era un mostro gigante, e non somigliava a un uomo mangiatore di pane”. Ciò significa che nutrirsi di pane era segno di civiltà, ciò che distingueva l’uomo dai
barbari e dagli essere mostruosi dominati dall’irrazionalità e dal caos. PANEM ET CIRCENSES E nell’antica Roma? Come in tutte le grandi civiltà, soprattutto presso quelle mediterranee, il significato simbolico del pane era alquanto rilevante. A Roma, però, entrò nell’uso quotidiano soltanto verso la fine del periodo della Repubblica: stando a quanto racconta Plinio, la sua cottura fu introdotta nel 168 a.C. ad opera di alcuni schiavi catturati in Macedonia dopo la sconfitta del re Perseo. Fino ad allora i Romani mangiavano cereali sotto forma di chicchi crudi allo stato lattiginoso o arrostiti sul fuoco, e minestre di fave, lenticchie, piselli, fagioli e ortiche. Il modello di forno introdotto dalla Grecia fu nel volger di poco tempo perfezionato, per adattarlo alle esigenze di una «industria» di fondamentale importanza in una grande città come Roma. La stessa molitura dei cereali non restò più la stessa: i vecchi mortai furono a poco a poco accantonati per far posto alle macchine rotanti, a trazione animale, umana o idraulica. Ma la più grande innovazione introdotta nell’industria panaria dai Romani fu senza dubbio l’abbinamento del forno e del mulino. Nella città eterna, dove sorsero le prime botteghe per lo smercio di pane (risulta che nel terzo secolo d.C. ce ne fossero ben 254!), compare anzitutto la categoria dei mugnai e successivamente quella dei fornai panettieri: sotto Traiano (che, nato nel 53, fu imperatore dal 98 al 117 d.C., anno della sua morte), riuniti in corporazioni presero a fornirlo a tutta la collettività. All’epoca dell’Impero romano il pane era l’alimento base per gran parte della popolazione e, per evitare sommosse e rivolte, bisognava assicurarlo a tutti. Per questo, vigeva una specifica legislazione, un editto stabiliva tra l’altro che il pane di frumento fosse più sano e preferibile alla sorta di polenta (puls) e agli altri impasti di cereali in uso, e che era consentito acquistare frumento in pubblici granai ad un prezzo inferiore a quello di mercato. Quali e quanti tipi di pane si facevano nella potente antica Roma? Plinio ci parla per esempio del panis streptipcius, forse un antenato dell’odierna
L’ETA DI MEZZO L’abilità raggiunta dai fornai romani andò perdendosi nel corso delle invasioni barbariche e dell’alto Medio Evo, periodo durante il quale soltanto i monasteri possedevano panetterie di qualche importanza. Intanto, i diritti dei signori feudali si estendevano, come abbiamo visto all’inizio del nostro percorso, addirittura alla preparazione casalinga del pane: imponevano l’uso dei loro forni ai contadini, vale a dire alla gran massa dei più poveri, per ricavarne tasse d’ogni tipo. In ogni caso, il pane era il cibo di base per ogni classe sociale nel Medioevo, accomunava poveri e ricchi, cambiava solo il tipo: se i nobili potevano permettersi quello bianco, il contado aveva il nero, includendo ogni parte dei cereali che avevano a disposizione. Il frumento, disponibile nelle parti meridionali del Mediterraneo, era sostituito, a seconda della disponibilità del luogo, da avena, farro, spelta, orzo, segale, crusca, miglio, castagne e legumi. In tempo di carestia il pane si impastava con quel che c’era a disposizione: radici, erbe, perfino cenere corteccia di alberi triturata. Solo in epoca comunale i fornai tornarono ad essere numerosi e fondarono una delle corporazioni più potenti, an-
che perché liberavano la popolazione dal controllo dei forni esercitato dalla Chiesa, dai conventi o dai feudatari. Il pane lievitato era più comune nelle regioni del sud, dove la fermentazione dei cereali era più semplice per ragioni climatiche, mentre al nord si usava spesso pane azzimo. All’inizio del Medioevo la «civiltà del pane» individuava il mondo mediterraneo e la «civiltà della carne» i popoli provenienti dall’Europa settentrionale. Allora mangiare carne divenne necessità sociale ed esibizione di status di contro al mangiare vegetali, che si trasformò nell’espressione della povertà e della debolezza. IL RINASCIMENTO La vera grande rivoluzione nel campo della panificazione si ebbe solo nel Rinascimento. Nel pane, fino ad allora lievitato naturalmente, fu introdotto il lievito di birra, prodotto dalla complessa lavorazione di lieviti naturali e malto, appunto il principale ingrediente per produrre la birra. Fu grazie a questo ingrediente e al sempre più massiccio consumo di prodotti panificati da parte delle classi più agiate che i fornai diedero libero sfogo alla loro fantasia creativa; pani all’olio, al burro, alle olive, alle erbe aromatiche; e poi panini dolci con le uvette, con il cioccolato, con l’anice. Il migliore pane comune era quello di frumento, spesso “tagliato” con altri cereali, spelta o miglio, a seconda delle disponibilità. Anche le forme erano varie: pagnotte, pagnottelle, trecce, spighe; ma anche le più bizzarre secondi i gusti personali o i capricci dei nobili. Non dimentichiamoci poi degli opulenti banchetti rinascimentali, nei quali l’estetica dei cibi e delle pietanze veicolava il prestigio del padrone di casa. I pani, soprattutto quelli dolci, assumevano forme di pupazzi, animali, personaggi, con decorazioni che a volte nascondevano simbologie: a reticolo, a scacchiera, a losanga, a rombo, vegetali e floreali. Accanto a questa molteplicità di pani dolci e salati non mancava la presenza del pane azzimo – senza lievito - simile alla nostra piadina, soprattutto tra i ceti più bassi. Il pane come lo conosciamo oggi, insomma, deriva in buona parte propria da questo periodo. Infatti, nei secoli successivi, la storia del pane non prosegue come un
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pizza (era composto da un impasto leggero di farina, acqua, latte, olio, strutto e pepe, e veniva cotto rapidamente a sfoglie sottili), dell’artologalum (una sorta di sfoglia che serviva da antipasto), del panis adipatus (grassottello, in effetti, perché condito con pezzi di lardo e pancetta), del panis testicius (antenato della piada romagnola) preparato e consumato dai legionari nei loro accampamenti. Ma i pani erano moltissimi: tutti in certo modo speciali perché - come si può notare persino dai nomi attribuiti - riflettevano una divisione rigidamente classista della società. I fornai romani realizzavano anche prodotti con forme bizzarre ed artistiche, in base all’estro del panificatore ma anche allo status del committente: a forma di chiavi, dadi, trecce e quant’altro desiderassero i clienti. Non possiamo infine dimenticarci del gradilis, il pane che, in omaggio alla demagogica promessa di offire «panem et circenses» (pane e giochi circensi), veniva distribuito al popolo durante i giochi negli anfiteatri.
piacevole viaggio tra ingredienti e tecniche, ma si intreccia sempre più con tematiche politiche, sociali, economiche. DIFFERENZIAZIONE SOCIALE E RIVOLUZIONI La storia del pane come nutrimento è, come abbiamo visto nei secoli precedenti, anche quella di una crescente differenziazione sociale, tra ricchi e poveri e tra città e campagna, cosa che si afferma soprattutto a partire dal Cinquecento. Nelle città si inizia a esigere sempre di più il pane bianco, in maniera direttamente proporzionale alla crescente ricchezza dei cittadini. I contadini, dal canto loro, iniziano sempre più a coltivare il grano e il frumento per soddisfare le esigenze della città, riservando per il loro consumo cereali meno nobili come l’orzo, il grano saraceno, il farro, l’avena e il sorgo.
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La mancanza di pane (o anche la sola paura di non averne) è un incubo che serpeggia costantemente nella storia dell’umanità. Nell’ Italia del ‘600, epoca di grandi difficoltà economiche e sociali, iniziano le rivolte per il pane, sul quale gravavano un’infinità di tasse, le più impopolari che siano mai state inventate: dalla gabella per la farina al dazio per la cottura nei forni di proprietà padronale. Proviamo a rileggere i capitolo XII e XIII dei Promessi sposi in cui Manzoni racconta con straordinaria efficacia narrativa l’assalto al forno di Milano durante la carestia del 1628. Non dimentichiamoci infine della Marcia su Versailles, il 5 ottobre 1789, nella quale le donne parigine, in protesta per la mancanza del pane, il costo sempre maggiore e la carestia in atto, radunarono molti rivoluzionari e marciarono verso la reggia di Maria Antonietta: fu un evento che originò la Rivoluzione Francese. L’ETÀ MODERNA E L’INDUSTRIA Fino alla seconda metà del Settecento il lavoro dei fornai era rimasto praticamente immutato. Si erano affinate le farine, era stato introdotto il lievito di birra per rendere i pani più leggeri e morbidi, ma null’altro era cambiato nei forni: confezionamento e lievitazione dell’impasto la sera prima, sveglia in piena notte del fornaio che, all’alba, preparava il forno a legna. I primi tentativi di meccanizzazione del lavoro del fornaio avvennero già nella seconda metà del Set-
tecento, ma fu solo a metà Ottocento che furono create le prime vere innovazioni tecnologiche. Nacquero le impastatrici meccaniche – poi sostituite da quelle elettriche –, le spezzatrici, le formatrici. Oggi quello del fornaio resta un lavoro pesante, ma assai meno impegnativo di un tempo, perché tutte le fasi della panificazione sono meccanizzate e le macchine hanno sistemi elettronici preimpostati per le varie fasi di lavorazione. IL PANE E L’ARTE Mi sento in dovere di aprire una breve divagazione all’interno della Storia dell’Arte; non solo perché è il mio ambito di lavoro ma, soprattutto, perché è decisamente pertinente con il nostro percorso. Seguitemi: il pane è cibo e simbolo, ma anche fonte di ispirazione artistica. E’ soggetto frequente all’interno delle iconografie di tutti i secoli, ma voglio citare solo un artista: Salvador Dalì, surrealista catalano, vissuto tra il 1904 e il 1989, famoso per l’eccentricità della sua vita e delle sue opere, scriveva: “il pane è stato uno dei più antichi oggetti di feticismo e di ossessione della mia opera, il primo a cui sono stato più fedele”. Fin da bambino, esso era stato il suo alimento preferito e gli aneddoti riguardanti i rapporto tra Dalì e questo cibo sono numerosissimi: la pagnotta triangolare (pa de crostons) svuotata e usata come cappello, la delirante Rivoluzione del Pane, una sorta di manifestazione collettiva e planetaria che lo vedeva camminare nelle strade delle più importanti città con baguette lunghe fino 12 metri; e poi la forma del pane usato come decorazione (ne vediamo centinaia), lungo le mura del perimetro esterno - dal surreale colore fucsia acceso - del suo mausoleo, il Teatro-Museo di Figueres. Due sono i simboli che diventano essenziali per l’esistenza stessa di Dalì, l’uovo, emblema della vita uterina, e il pane, simbolo della vita terrena e di quella divina “l’ostia, l’immagine della fame soddisfatta, la base della comunione tra gli uomini”. Il nostro artista amava particolarmente - udite udite - utilizzare fettine di pane abbrustolito per tirare fuori la polpa dei ricci di mare. Non so a voi ma questo episodio mi ricorda un personaggio di nostra conoscenza: eclettico, geniale, visionario, amante alla follia dei ricci (li vende pure online!). …voi che ne dite?
Ma negli ultimi anni qualcosa è cambiato. I forni contadini hanno ripreso a funzionare nelle aziende agrituristiche, molti ristoranti producono il pane internamente come segno distintivo di genuinità; si è sviluppato il dibattito sulle farine e sulla qualità delle stesse – tralasciamo le mode alimentari – unitamente al recupero dei cereali antichi. Si è tornato a fare il pane in casa; forse per fronteggiare la crisi, ma anche con motivazioni più profonde, inconsce: una nuova voglia di naturalità, di genuinità, di semplicità, di convivialità, di sicurezza; nuove spinte morali, ambientali, spirituali. Perché, durante il periodo di quarantena (marzo-maggio 2020) la gente sembrava impazzita nel panificare in casa, tanto che gli scaffali dei supermercati si presentavano spesso vuoti nella sezione dedicata alle farine? (io non ho avuto proprio tempo, tra il correre dietro ai tre figli e alle lezioni online per i miei studenti: già è
un miracolo aver acceso il kettle un paio di volte alla settimana). Perché le persone si annoiavano? Per riempire i tempi morti? Non credo. Mi piace pensare ad una nuova consapevolezza di un ritorno alle origini, nata nell’ultimo decennio, e culminata, per drammatica necessità, in questi mesi: non un revival nostalgico, intendiamoci, o un vagheggiamento del passato, ma un recupero lucido e contemporaneo - mosso da una nuova fame, emotiva, di senso, una fame spirituale -, un recupero delle buone pratiche di comunità e dei relativi valori; una riscoperta di un tempo lento, arcaico, legato maggiormente al calendario agricolo. Un nuovo tempo del pane. Un nuovo tempo dell’uomo.
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IL PANE OGGI Dal secondo dopoguerra abbiamo lentamente assistito all’esodo rurale verso le città, al progressivo miglioramento delle condizioni economiche dei ceti meno abbienti; successivamente l’aggressione pubblicitaria e l’affermazione del modello consumistico. Sono mutate le abitudini e gli stili di vita delle popolazioni d’Occidente, ponendo fine alla panificazione domestica. Nell’era consumistica, in particolare negli anni ’90 del secolo scorso, la grammatica dell’alimentazione stata stravolta: il companatico è diventato assolutamente centrale relegando il pane ad elemento accessorio, superfluo.
LA FOCACCIA
BARESE non chiamatela pizza!
L'Arte Bianca a cura di Alessandro Trezzi
Immaginate di intraprendere un viaggio ideale della nostra penisola da Nord a Sud, assaggiando tutte le tipologie di focaccia presenti sul nostro territorio. Un’impresa titanica, vero?
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Questo prodotto stupendo ha ormai molteplici forme, e può cambiare nome e identità a pochi chilometri di distanza come spesso accade per tante preparazioni dello stivale. Pensate che nel 2014 Regione Toscana, Unioncamere, Accademia della Crusca e Accademia dei Georgofili hanno inventariato le versioni della loro “schiacciata”: sono venuti fuori ben 617 nomi. Del resto in alcune regioni d’Italia le focacce sono delle vere e proprie istituzioni, prodotti di culto celebri, rinomati e per le quali si combattono guerre spesso inutili. Basti pensare alla genovese, morbida, fragrante, con i classici e rinomati buchini ricolmi di salamoia, amata al punto da essere oggi il sinonimo stesso di focaccia. Eppure, nell’eterna diatriba tra Nord e Sud, c’è chi ovviamente non è d’accordo, chi ritiene che “la sola e unica” sia un’altra indiscussa eccellenza. Noi, come ben sapete, di queste insulse lotte ce ne freghiamo altamente; quel che ci interessa è scovare le bontà universali e farle nostre, con tutte le disquisizioni necessarie per riprodurle nel modo perfetto. E tra queste bontà non si può certo escludere lei, la splendida focaccia barese.
C'è focaccia e focaccia Chiariamo anzitutto un punto fondamentale, armandoci di un semplice tecnicismo utile a dare delle definizioni: mentre per pizza intendiamo un qualsivoglia prodotto lievitato steso e infornato al momento, la focaccia beneficia di un’ulteriore lievitazione in teglia, che consegna più morbidezza alla mollica, una struttura uniforme e un’alveolatura omogenea. Questa è, ad esempio, la differenza tra la cosiddetta pizza bianca consumata in lungo e in largo nel Lazio e una focaccia bianca; troppo spesso si confonde tra l’una e l’altra per la sola aggiunta del pomodoro, ma così non è. Una definizione che nasce dalla necessità di distinguere uno spettro enorme di prodotti in due grandi famiglie. Non mancano le dovute eccezioni, merito di denominazioni regionali e di tradizioni secolari. Ne è un esempio la pizza al trancio milanese, derivata dallo sfincione palermitano e dalla schiacciata toscana, che in realtà è un focaccione al pomodoro in quanto lievita dopo la stesura in teglia, chiamato pizza per semplice associazione visiva. Ancora, la focaccia con il formaggio di Recco tanto focaccia non è, in quanto non solo non lievita in teglia, ma non ha neppure il lievito.
Barese o pugliese? In questa stupenda regione del Sud Italia, terra delle cime di rapa e del pane di Altamura, la varietà di prodotti venduti nei forni è a dir poco imbarazzante, specialmente per quanto riguarda l’impasto. Di fatto, il disciplinare redatto nel 2012 per il marchio Autentica Pizza Barese predisposto dalla LUCA (Libera Unione Commercianti Apulia) risulta fin troppo rigido e severo, e quindi poco utilizzato. Nonostante la difficoltà di reperire notizie e precise e documentabili, è possibile trovare un filo conduttore per la maggior parte delle focacce prodotte, nate probabilmente per sfruttare il calore iniziale del forno a legna non ancora a temperatura per cuocere il pane, e utilizzata per sfamare i panettieri durante le ore di lavoro.
Per focaccia pugliese s’intende un lievitato fatto con gli ingredienti sopra citati (farina, patate lesse, acqua, lievito e sale); la differenza con la barese, con cui condivide gli ingredienti, sta nella fase che precede la cottura: mentre la versione pugliese passa per un’ulteriore fase di lievitazione in teglia, la versione barese viene stesa, condita e subito infornata.
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La ricetta originale prevedeva semola rimacinata di grano duro, patate lesse, acqua, lievito e sale. Le principali varianti più o meno ufficiali sono la “focaccia alle patate” e la “bianca”, ma la classica e riconosciuta come immagine collettiva prevede un topping composto da olio, pomodorini freschi, olive nere e origano. Una preparazione talmente celebre da esser divenuta persino protagonista di un film del 2009, “Focaccia Blues”, storia del panificatore di Altamura che nel 2002 fece chiudere il vicino McDonald’s a colpi di pane e focaccia. Urge però un chiarimento: tra la “barese” e la più generica “pugliese” c’è una differenza di fondo; proviamo a circoscriverle muovendoci con i piedi di piombo, non vorremo fare torto al campanilismo di nessuno.
più equilibrate e soggette a minor rischio di collasso, oltre a spezzare la resistenza già citata, il grano duro s’impiega spesso insieme a quello viene tenero. Consiglio che, neanche a dirlo, ritroveremo nella nostra ricetta. Infine, visto che l’assorbimento mimino è maggiore, gli impasti di grano duro risultano di norma meno asciutti rispetto ai corrispondenti di grano tenero, e somigliano ad un impasto per gnocchi. Le dosi che consentono maggior equilibrio sono in genere 50/50, ma tutto dipende dall’idratazione e dalla quantità di patate, in quanto entrambe accrescono l’umidità dell’impasto. Tenete sempre a mente, infatti, che al crescere di tale condizione la percentuale di farina di grano tenero dovrà essere più alta, in quanto consente struttura salda e una migliore asciugatura.
L'impasto illustrazioni di Ozzy Bellesi
In questo modo cambia la struttura; la prima è più alta e soffice, l’altra bassa e croccante; la preferenza è una faccenda di gusti personali, e a noi, come sapete, importa fino a un certo punto. Differenza secondo la quale tecnicamente rientrerebbe tra le pizze, ma poco importa.
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Farina o farine? Anche per la questione materia prima è possibile trovare un’infinità di punti di vista. C’è chi usa solo farina di grano tenero, chi solo semola, e chi un mix di entrambi. Il grano duro è indiscutibilmente molto utilizzato nel nostro sud, e il prodotto adatto alla panificazione è la cosiddetta semola rimacinata. Tra i due grani, duro e tenero, esistono differenze sostanziali. Il colore del grano duro tende al giallo per la presenza di carotenoidi; il glutine, corto e stretto, consente una maglia glutinica fitta e resistente, con alveoli piccoli e uniformemente distribuiti. In genere è in grado di assorbire e trattenere maggiori quantità d’acqua (60-68% contro i 50-60% del grano tenero) e ha una resa più elevata. Di contro, è meno stabile e più tenace, ragione per cui, con l’obiettivo di rendere le ore di riposo
Tradizionalmente per la preparazione della focaccia barese viene usato il lievito madre, soprattutto considerando che a preparare la focaccia in Puglia erano soprattutto i panettieri, una volta la settimana, per concedersi qualche gioia durante le ore lavorative. E tuttavia la gestione del lievito madre complica la vita degli impasti casalinghi, risultando per altro meno sicura e fin troppo variabile per assicurare un risultato standardizzato e ripetibile. Parliamoci chiaro, le prerogative di questo agente lievitante sono tre: aumento del complesso aromatico, struttura e shelf-life. Volete più sapore? Usate farine e materie prime di qualità, bastano e avanzano.
Vogliate dunque perdonarvi se vi consiglierò strenuamente l’utilizzo del lievito di birra e di una maturazione in frigorifero: vi salva la vita e il risultato non sarà da meno, ve lo posso assicurare. Anzi, sarà stabile e certificato. Il vero discriminante dell’impasto tuttavia è l’utilizzo delle patate; lessate, schiacciate e fatte raffreddare, fanno compiere il vero salto di qualità, che si mantiene anche un paio di giorni in più grazie alla maggiore umidità che le patate trasferiscono alla mollica. La percentuale varia dal 10% al 20% del peso totale dell’impasto, un valore da bilanciare in relazione altri ingredienti; esagerando, e tenendo elevata l’idratazione (che qui varia dal 60% al 70%), può diventare complicato manipolare massa e panetti, oltre che a cuocere correttamente l’impasto con conseguenti problemi di digeribilità.
Il topping Il 90% delle versioni che ho avuto la fortuna di testare e sperimentare prevedeva quantità modeste di olive nere insieme al pomodorino. Un abbinamento che ha dell’incredibile: il retrogusto acido con tendenza al dolce del pomodorino viene bilanciato dalla componente
INGREDIENTI per 3 teglie 30x40cm
Per l'impasto 500 g di farina 00 (300 W); 500 g di semola o di sfarinato di grano duro; 650 g acqua; 150 g di patate lessate, schiacciate e fatte raffreddare; 50 g olio EVO; 15 g lievito di birra fresco; 25 g malto d’orzo in sciroppo o 5 g di malto diastasico in polvere; 25 g sale fino.
Per la salamoia: 85 gr acqua calda; 35 gr olio EVO; 11 gr sale fino.
Per la farcitura: 400 g di pomodorini; 100 g di olive nere denocciolate; origano essiccato.
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Volete una struttura solida? Gestite bene le fasi di impastamento e maturazione, non serve altro per pizze e focacce. Volete più shelf life? Bilanciate in maniera corretta idratazione e cottura, tenendo conto poi che grazie a patate e grano duro (e alla maggiore umidità residua) tale prodotto vi durerà di base molto più a lungo. Ma poi a chi volete darla a bere, vi conosco: tempo 5 minuti e ve la siete già sbranata.
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illustrazioni di Ozzy Bellesi
abbiate cura che non siano calde, e nella fase di raffreddamento ricordatevi di coprirle con della pellicola perché non si ossidino. Verso la fine mettete il sale e solo all’ultimo l’olio, poco a poco e a filo, perché il peso potrebbe compromettere la formazione della maglia glutinica rovinando il lavoro svolto.
La ricetta
2. PUNTATA Una volta ottenuta la massa liscia e asciutta, posizionatela in un contenitore stretto dai bordi alti e lasciatela puntare per mezz’ora a temperatura ambiente. Considerando l’elevata umidità dell’impasto per focaccia, in questo frangente non dovete temere particolarmente la formazione della pelle; tra acqua e patate il rischio che si formi e praticamente inesistente.
La preparazione della focaccia barese si svolge in fasi distinte, seguirle con scrupolo e rispettare i tempi è il vero segreto per un ottimo risultato. Le fasi da seguire sono sei: 1. Impastamento; 2. Puntata o prima lievitazione; 3. Staglio o formatura dei panetti; 4. A p p r e t t o o s e c o n d a lievitazione; 5. Stesura e farcitura; 6. Cottura. La principale difficoltà consiste nella manipolazione di una massa leggermente più umida rispetto a quella classica della focaccia. Più pratica fate, meglio è; cercate di non andare in panico buttando farina sul piano nella speranza di risolvere problemi inesistenti. La panificazione richiede pazienza: dovesse capitarvi di ottenere un risultato troppo umido, lasciatelo leggermente all’aria aperta per asciugarne la superficie e renderlo più maneggevole. 1. IMPASTAMENTO Cominciate sciogliendo lievito e malto nell’acqua e aggiungete il tutto al mix di farine precedentemente mescolate tra loro. Una volta ultimato l’assorbimento dei liquidi è il turno delle patate;
3. STAGLIO Ricavate tre pagnotte di egual peso da sistemare in altrettanti contenitori ben oliati, per poi riporre tutto in frigorifero a circa 4°C per 18-24 ore. 4. APPRETTO Al termine di questa fase l’impasto sarà quasi triplicato; ungete tre teglie di alluminio (le più adatte allo scopo, perché a causa della conduzione uniforme del calore e dello spessore più elevato evitano che la base diventi croccante prima del tempo) e rovesciateci dentro i panetti. 5. STESURA E FARCITURA Con le vostre abili mani stendete la focaccia in modo che sia uniforme in tutta la sezione. Completata la stesura, mescolate gli ingredienti della salamoia e versatene metà su
tutta la superficie, dopodiché, utilizzando i polpastrelli, premete con forza per lasciare la vostra impronta, e terminate di distribuire il liquido in modo che finisca nelle fossette appena formate. Tagliate a metà i pomodorini e posizionateli nei buchi sul dorso, alternandoli con le olive nere denocciolate. Un’ultima spolverata di origano e il gioco è fatto. 6. COTTURA Nel caso utilizziate un classico forno casalingo, preriscaldate il forno a 240°C in modalità statica e cuocete per circa 14-15 minuti, fino a completa doratura. Per agevolare la cottura del fondo, lasciatela sul pavimento nella prima fase per rendere la base croccante al pari della parte superiore. Se doveste invece avere a disp osizione un forno elettrico professionale, ormai ampiamente diffusi anche in casa, preriscaldate sempre a 240°C, utilizzando però il 100% della potenza della platea (il piano inferiore) e solo il 20% di potenza del cielo (la parte superiore), più che sufficiente per una doratura uniforme. Sfornate e lasciate raffreddare su una griglia rialzata per evitare che la condensa rovini la friabilità della base, e irrorate con un ultimo filo di olio extra vergine, in modo che il calore faccia sprigionare tutti i profumi. Ah, una piccola aggiunta di origano non fa male a nessuno. Tagliate, e gustatevi l’aroma stupefacente di questo soffice materasso, che esplode letteralmente in corrispondenza dei pomodorini e dei buchi colmi di salamoia.
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piacevolmente amarognola delle olive. Un buon extra vergine arrotonda il sapore, lasciando all’origano un ulteriore upgrade aromatico, fresco e balsamico. Nulla vieta, volendo, di usare le olive verdi, anche perché l’originale tipologia di questo ingrediente non è ancora del tutto chiara.
...e quel progetto di esportare la
PIADINA
ROMAGNOLA L'Arte Bianca a cura di Alessandro Trezzi
“Ovunque si trovino su questa terra, gli esseri umani producono pani bassi con il cereale più diffusamente disponibile.” (Aralyn Beaumont) Esiste forse una frase più vera? Che si parli di pita, di tortillas messicane, di arepas venezuelane, di kisra sudanese o di dosa indiano, da secoli l’uomo prepara del pane basso e senza lievito per farcirlo con qualsiasi cosa gli capiti a tiro. Cibo povero, del popolo, in altri tempi relegato alle classi meno abbienti e fortunate. Anche la nostra Italia, ovviamente, di questi pani ne è piena: il carasau sardo, la crescia marchigiana, la tigella emiliana e ovviamente la specialità più famosa della penisola, la piadina romagnola.
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La storia Che si sappia: di piada non ne esiste una sola, e le sue vere origini si perdono nella notte dei tempi. Quel che è certo è ciò che noi intendiamo per “piadina romagnola” nacque solo nel Novecento. Nel VII secolo a.C., gli Etruschi furono la prima popolazione a usare un impasto di farina e grassi come sostitutivo del pane. Ma è con i Romani che una simil-piada cominciò realmente diffondersi: il nome latino era panis depesticius, ovvero pane schiacciato; si trattava di un pane azzimo con cui si alimentavano i soldati durante le campagne belliche, grazie alla facilità con cui veniva preparato e conservato. La prima apparizione testuale è del 1371, e più precisamente di un documento
della comunità di Modigliana che ne attestava il tributo di due l’anno da consegnare alla Chiesa. Nel 1572 il medico riminese Costanzo Felici si rivolgeva alle “piacente, cresce o piade” come “pessimo cibo, con tutto che a molti tanto piaccia”. Altre sporadiche apparizioni nel 1622 e nel 1801, e poi il successo: a far esplodere il fenomeno ci pensano Giovanni Pascoli (che le definì “il pane del lavoro”) e il turismo. Gremite folle che, proprio in Romagna, consumavano tonnellate di pani bassi preparati dalle donne fuori dall’uscio. “Piada, pieda, pida, pié, si chiama dai romagnoli la spianata di grano o di granoturco o mista, che è il cibo della povera gente; e si intride senza lievito; e si cuoce in una teglia di argilla, che si chiama testo, sopra il focolare” diceva il poeta di San Mauro.
LE MILLE PIADE PIÙ UNA Secondo il Consorzio di Promozione e Tutela della Piadina Romagnola Igp, ci sono 94 marchi di piadina registrati nel mondo. In Italia però la piadina romagnola è un marchio IGP dal 24 ottobre 2014; ergo, se non la vendete in Romagna, non può essere denominata romagnola. A meno che, come cantava Samuele Bersani in Freak, non si pensi a un progetto serio per esportarla. Comunque, non crediate che questo ci fermerà dal darvi tutte le indicazioni per rifarla a casa. Nossignori, ci basterà chiamarla “Piadina BBQ4All” e nessuno si farà male. Una cosa però possiamo dirla, e cioè che le versioni più famose sono due: • La riminese, grande e sottile (dai 23 ai 30 cm di diametro, spessa massimo 3 millimetri); • La forlivese, piccola e grossa (dai 15 ai 25 cm di diametro, alta dai 4 agli 8 millimetri).
Che siate amanti di una o dell’altra tipologia, materie prime e processo non cambiano. Come al solito, ci tocca fare una disamina del prodotto finale per comprendere con precisione cosa dobbiamo ottenere, e qual è il modo migliore per farlo. Il tutto al di là di tradizioni, fissazioni e leggende metropolitane. Il nostro obiettivo è un disco di pasta non lievitata, largo e sottile, fragrante, gustoso, dalla leggera crosticina friabile e dall’inconfondibile morbidezza interna. Potrebbero presto entrare nel Disciplinare le piadine di farro e integrali, ma non è questa la sede per complicarci la vita. Simili cereali richiederebbero un processo differente, in quanto cambia sia l’assorbimento farinografico sia la capacità di formare glutine resistente. Personalmente poi, preferisco puntare ad un impasto dal gusto equilibrato e dalla consistenza scioglievole, che possa
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LA PIADINA PERFETTA
di fusione (circa 42°C) che permette di conservare per lo più intatte le sue caratteristiche e di rendere la sofficità della mollica il punto target che ci interessa raggiungere. Non è sostituibile col burro (che ha un punto di fusione basso, tra i 28°C e i 33°C) e tantomeno dall’olio extravergine di oliva, che per darvi un risultato quantomeno vicino a quello dello strutto dovrebbe essere impiegato per una quantità tre volte superiore.
ben accompagnare salumi e formaggi delle tipologie più disparate. Mettetevi il cuore in pace quindi: per quanto l’uso di farine alternative sia oggetto di moda, la piadina perfetta si fa con la farina bianca di grano tenero, l’unica che vi assicura struttura e consistenza adeguata. Una farina 0 quindi, o meglio ancora una tipo 1 macinata a dovere, che possa darvi modo di raggiungere lo stesso standard qualitativo di una farina più raffinata con il surplus di un complesso aromatico più completo dato dalla maggior presenza di parte cruscale. Forza bassa, 200-220 W, in quanto necessitiamo di un prodotto che dovrà riposare giusto il tempo per poter essere steso a dovere, e la cui estensibilità risulti perciò adeguata.
C’è chi dice latte, c’è chi dice acqua. Sebbene l’apporto di materia grassa sia utile a rendere l’impasto più malleabile e dalla shelf-life più duratura, l’utilizzo della sola acqua rende sicuramente il tutto più leggero senza farvi perdere granché nelle caratteristiche finali. L’idratazione sarà del 60%, per un impasto morbido ma non troppo elastico. Niente lievito abbiamo detto, in quanto la piadina non deve assolutamente gonfiare, o otterremmo un risultato completamente differente per fisionomia e caratteristiche tecniche. Solo una punta di bicarbonato per agevolare la friabilità, aiutando la crosticina a sollevarsi leggermente dalla mollica durante la cottura.
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Al solito, il sale per gli impasti non serve solo per dare sapidità ma per stabilizzare la struttura del glutine. Non essendoci tuttavia lievito, il suo contributo può ritenersi meno rilevante, ragion per cui ci atterremo all’1.5% sul peso della farina. Importante è invece il ruolo dello strutto. Meno indigesto dell’olio extra vergine di oliva? Sicuramente, ma il contributo di questo grasso per un simile impasto non è assolutamente sostituibile da nessun altro elemento, proprio a causa del suo alto punto
Farina, acqua, strutto, bicarbonato e sale. Fine, non vi serve altro.
LA RICETTA L’impasto può essere condotto sia a mano che per mezzo di una planetaria o un’impastatrice a spirale. Qualunque sia il metodo utilizzato, l’ordine di inserimento degli ingredienti non cambia; versate tutta la farina nella vasca con il bicarbonato e aggiungete il 75% dell’acqua della ricetta, impastandola fino a che non sarà completamente idratata e la massa inizierà ad essere liscia e omogenea. A questo punto aggiungete il sale tutto insieme, aumentate la velocità (o la forza impressa dalle vostre possenti mani) e proseguite aggiungendo l’acqua poco alla volta, solo quando la precedente risulterà completamente assorbita. Lo strutto, come tutti i grassi, andrà incorporato solo alla fine una volta formato il glutine; in caso contrario potrebbe pesare sulla struttura dell’impasto
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vanificando tutto il lavoro svolto. Aggiungetelo quindi in piccoli tocchi, aspettate che la quantità venga assorbita e proseguite, fino a terminare gli ingredienti. Formate una palla e lasciatela riposare a temperatura ambiente in una ciotola coprendo con pellicola a contatto per circa un’ora. Trascorso il riposo, utile solo a permettere all’impasto di risultare più lavorabile, dividete la massa in 12 parti uguali, che risulteranno essere di circa 150 gr. Formate dei panetti tondi e lasciateli riposare per altri 60 minuti per agevolare il lavoro di stesura; dopo il relax l’impasto risulterà infatti più estensibile e vi richiederà meno farina.
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Secondo la tradizione, la piadina viene cotta sul testo romagnolo, una sorta di padella di terracotta che tuttavia ha bisogno di particolari cure nella manutenzione, in quanto delicata e soggetta a rotture. Di fatto, ora sono molto più diffusi i testi in ghisa o in lamiera: hanno uno spessore di tre o quattro millimetri e la superficie si scalda in modo uniforme, consentendo così una cottura omogenea della piadina. Voi, amanti del barbecue, avrete sicuramente una buona piastra in ghisa da utilizzare per la cottura. In caso contrario lavorate con rame o alluminio (materiale con un coefficiente di conducibilità termica elevato), in modo da garantire una distribuzione di calore il più possibile uniforme al vostro prodotto. La cosa importante in tutto ciò è cuocerle poco prima di magnarvele, in quanto le piadine
appena fatte non conserveranno le loro caratteristiche in eterno, a meno che non le mettiate sottovuoto. M u n i t ev i d i m a t t a r e l l o , cospargete di semola rimacinata di grano duro quel tanto che basta per stenderle senza farle attaccare, e ricavate un disco di circa 25 cm di larghezza e dallo spessore uniforme di 4-5 mm. Sovrapponetele su un piatto e copritele con un panno mentre riscaldate il vostro potente mezzo;misurandolo con un termometro laser, il vostro piano dovrà essere caldo almeno 250°C per garantire una cottura rapida e indolore alla piada. Una volta pronti, partite a cuocere la prima, per poi proseguire in rapida successione con tutte le altre. Scaldatela bene da un lato, bucando con la forchetta le bolle che si formeranno per evitare che l’impasto si sollevi troppo; appena la base sarà colorata e con i classici spot bruniti, giratela e ripetete l’operazione. In queste condizioni la cottura vi durerà circa 4-5 minuti. Lasciate riposare le piadine pronte sempre in un piatto coprendo con un canovaccio, meglio ancora al caldo in un contenitore isotermico. Ci siete. Prendete il crudo migliore che possiate trovare, spalmate sulla base uno strato abbondante di squacquerone e tuffate sopra abbondanti fette di questo salume dolce e meraviglioso. Condite un ciuffo di rucola selvatica con olio, sale e una punta di aceto balsamico e completate l’opera. Chiudete, mordete e siate felici.
INGREDIENTI per circa 12 piadine Per l'impasto 1 kg di farina di grano tenero di tipo 1 (200-220 W); 600 g di acqua; 160 g di strutto morbido; 15 g di sale fino; 6 g di bicarbonato di sodio
Intervista
a cura di Andrea Spaggiari
L’emergenza sanitaria ha portato una vera rivoluzione in molti settori, primo fra tutti quello della ristorazione. Da un giorno all’altro tutti gli esercizi commerciali hanno dovuto prima fermare le attività per poi ripartire gradualmente con la consegna a domicilio e, da poco, con l’asporto. Ovvio quindi che questa perturbazione tutt’altro che passeggera, abbinata al molto tempo libero dovuto al confinamento, abbia risvegliato la voglia di cucinare degli italiani. Mai come in questi ultimi mesi sono quindi fioccate le proposte di video-ricette, tutorial e corsi on-line in risposta alla crescita esponenziale della domanda di contenuti didattici. E se da un lato gli strumenti per diffondere contenuti non difettano, bisogna dirsi chiaramente che non basta una telecamera puntata sul piano di lavoro per fare di un cuoco un bravo divulgatore: servono esperienza, entusiasmo e tanta voglia di “metterci la faccia” per riuscire a servire
contenuti che generino il giusto grado di coinvolgimento. Questo mese abbiamo parlato con un cuoco che della divulgazione attraverso lo schermo ha fatto un mestiere, Max Mariola. Romano verace, sempre sorridente e dotato di una spiccata autoironia, Max ha iniziato assistendo i più grandi chef del mondo sui set televisivi di Gambero Rosso Channel in un’epoca in cui questi personaggi non erano ancora le superstar che siamo abituati a conoscere oggi. Una gavetta che lo ha portato in seguito a guadagnarsi un posto sotto i riflettori da protagonista di varie programmazioni, la più recente delle quali – “I panini li fa Max” – lo ha consacrato specialista del panino gourmet. Max non è però solo un volto del piccolo schermo, è anche uno Youtuber molto prolifico con oltre 280 video all’attivo. Dal set casalingo della sua cucina escono ricet-
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Max Mariola
Dagli schermi di G a m b e r o R o s so a qu e l l i di You tub e. Questo mese vi parliamo di uno c he f c he di r i c e t t e ne ha vi ste tan t e e ha deciso di condividerle con tutti gli appassionati della c u c i na tr adi zi on a l e i tal i a n a
te per tutti i gusti: dai primi tradizionali della cucina romana – la sua Gricia conta 1,7 milioni di visualizzazioni – ai secondi di pesce, ci sono tutorial per tutti i gusti. Ma basta una buona conoscenza dell’argomento e una faccia simpatica per farsi un seguito attivo e fedele? Noi crediamo di no: sembrerà scontato ma senza una passione viscerale per il proprio lavoro e un amore per il proprio pubblico non si possono creare contenuti coinvolgenti. Fate una prova e andatevi a leggere i commenti dei video più visti di Max: oltre a farvi due risate con quelli più esilaranti troverete intere paginate di ringraziamenti e affettuosi complimenti. Con Max abbiamo avuto la fortuna di fare una lunga chiacchierata dai molti risvolti: si è parlato di ricette tradizionali, ingredienti e tecniche di cottura, ma anche del suo punto di vista sulle possibili evoluzioni del settore. Vi consigliamo di seguirla fino in fondo, soprattutto se avete piantato un po` di cicoria nell’orticello dietro casa. Potrebbe tornarvi utile per una succulenta sorpresa…
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Max, il tuo percorso professionale è a dir poco articolato: parla della passione che vince su tutto, di tanta esperienza e qualche opportunità colta al momento giusto. Ce lo racconti? Ho cominciato a frequentare le cucine trent’anni fa, subito dopo aver lasciato l’istituto d’arte e spinto dalla passione per questo mondo. Son parti-
to come sguattero e per guadagnarmi un’opportunità ai fornelli frequentavo le scuole serali. È lì che ho incontrato Laura Ravaioli - una delle prime chef a realizzare ricette in video – che nel `99 mi ha proposto di aiutarla nel progetto di Gambero Rosso Channel, uno dei primi canali tematici di food al mondo. Ho colto la palla al balzo e in poco tempo ho fatto da assistente a oltre 300 cuochi – da Gualtiero Marchesi e Joël Robuchon passando per il cuoco di osteria - ognuno dei quali mi ha trasmesso qualcosa, in un periodo in cui gli chef costruivano la propria notorietà in cucina prima ancora che sullo schermo. Ho in seguito completato varie collaborazioni: ho disegnato strumenti di cottura, fatto da consulente per aziende alimentari, ristoranti, gruppi di hotel e grandi gruppi della distribuzione. Il tuo stile di comunicazione è molto diretto e spontaneo, perfetto per piacere a un pubblico vasto e variegato. Ma soprattutto quando si opera sui social bisogna fare i conti anche con commenti un po’ “speciali”. Come vivi questo rapporto con il tuo pubblico? La maggior parte dei miei follower mi ringrazia, dicono che li metto di buon umore. Ma è vero anche il reciproco: mi sveglio la mattina e non vedo l’ora di vedere cosa scrivono sotto ai miei video, mi dà una grande soddisfazione. Sono un idealista e credo che una delle ricompense più grandi venga proprio dalla riconoscenza delle persone. Mi diverte giocare
con quelli che mi punzecchiano e mi piace vedere come ci sia una schiera di “fedelissimi” che mi difende dagli attacchi dei detrattori. Anche questo è un piccolo piacere quotidiano. E come si fa a “spiccare” dalla massa? Non è propriamente semplice costruirsi un pubblico fedele su internet. Come dice sempre giustamente mia moglie, qui fuori c’è posto per tutti. L’importante è scegliersi un posizionamento nel quale ci si rispecchia e rimanerne fedeli. Io sono per le cose semplici e genuine, adoro scegliere i miei ingredienti al mercato per trovare l’ispirazione e sono molto lontano come filosofia da quei cuochi – e son sempre di più – che ordinano i loro ingredienti al telefono e non curano la scelta. Credo fermamente che per avere successo in questo mestiere serva essere prima di tutto ottimi selezionatori e, in seconda istanza, bravi esecutori. Inoltre, non bisogna avere paura di usare pochi ingredienti. La semplicità è tutt’altro che banale e pochi elementi di qualità eccellente bastano per definire un piatto ben riuscito. Tendo sempre a diffidare di ricette troppo complesse perché il rischio è di perdere la percezione dei singoli ingredienti. Oltre ad essere un volto del piccolo schermo sei anche un consulente nell’ambito della ristorazione professionale. Quali cambiamenti credi che impatteranno su questo settore nei prossimi anni? Sei anche tu dell’idea che il me-
scelte. Vedo invece sempre più in difficoltà – e le conferme in tal senso non sono mancate negli ultimi due mesi - i cosiddetti ristoranti gourmet, strangolati da costi altissimi e costretti a far quadrare i conti con attività collaterali come i bistrot e il catering. Con un calo delle presenze massiccio e le incertezze che si delineano per i mesi a venire si prospetta una complessità dello scenario davvero difficile da gestire. Prevedi cambiamenti anche nel tuo lavoro? Come ti muoverai in questo periodo di grande incertezza?
Io la vedo in modo leggermente diverso: non credo che la battaglia si giocherà tra alto e basso di gamma bensì soprattutto a livello di dimensioni. Da una parte immagino un aumento del peso delle catene, capaci di gestire grandi volumi di coperti grazie a un attento controllo dei processi e dei costi. In genere questi ristoranti non operano a livelli qualitativi eccelsi e rispondono a una domanda con poche pretese, che cerca soprattutto un prezzo basso. All’estremo opposto credo si posizioneranno sempre più le piccolissime realtà:
un singolo o un’impresa famigliare, con proposte di nicchia estremamente caratterizzate. Quella che vedo scomparire è invece la categoria degli improvvisati, ovvero tutta quella fascia di imprenditori che, senza una formazione specifica, avevano visto nella ristorazione un’operazione di investimento redditizia. Vediamo delinearsi una situazione in cui non bastano un cuoco e un manager per far funzionare con successo un ristorante. Certo, qualche eccezione alla regola ci sarà sempre, ovvero locali che si son costruiti nel tempo una solida reputazione e che rimangono fedeli alle loro
Spendiamo due parole sulla cucina tradizionale. Tu sei uno specialista di quella romana: ci hai fatto “assaporare” il guanciale, il pecorino, i broccoletti e la focaccia di Roscioli per citare alcuni degli ingredienti più conosciuti. Quando si parla di ricette e piatti tradizionali, pensi siano più importanti gli ingredienti “giusti” o la consapevolezza nella preparazione? Su Youtube ci seguono da tutto il mondo, a tal punto che
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dio di gamma scomparirà?
Credo molto all’elasticità come principio ispiratore. Se non posso gestire un progetto da solo mi avvalgo di collaboratori con cui posso avere un rapporto diretto, scelgo di essere sempre presente in prima persona e opero solo con aziende che godono della mia fiducia. Questo vale anche per le partnership: se associo la mia immagine a un prodotto voglio essere sicuro di riconoscermi nei valori ispiratori.
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abbiamo dovuto cominciare a mettere i sottotitoli per favorire il seguito dei nostri amici non italiani, e una delle domande più frequenti riguarda proprio gli ingredienti. “Posso mettere la pancetta invece del guanciale? Posso usare un altro formaggio al posto del pecorino?” Io lo capisco che sia difficile trovare certe specialità al di fuori dall’Italia, ed è un’eresia pretendere che tutti usino solo gli ingredienti “tradizionali”. Quindi rispondo: “ben venga la pancetta, basta che sia di qualità. Usa pure un altro formaggio, basta che si possa sciogliere per fare una crema.” Sono davvero liberale e anche nei miei video dico spesso che “a casa mia faccio quello che mi pare”. Non dimentichiamo che tutte le ricette odierne sono in qualche modo un’evoluzione di quelle originarie: noi italiani siamo fatti cosi da sempre, c’è sempre qualcuno che mette o toglie qualcosa, tanto vale farsene una ragione. Figuratevi che in qualche famosa cucina romana si limitano a strofinare la padella con la cipolla – pur di poter dire che “non la mettono” – quando fanno l’amatriciana. Capite bene quindi che essere radicali porta a contraddizioni davvero difficili da giustificare: diamoci allora come obiettivo un legame con la ricetta originale e la qualità degli ingredienti e il resto verrà da sé. Anche perché la maggior parte delle ricette tradizionali italiane hanno come vocazione di innalzare “quello che c’è” a piatto di portata. Una sorta di antenato del princi-
pio di sostenibilità, tanto in voga oggi. Questo è forse il principio più nobile da rispettare, no? Partiamo sempre dal presupposto che la cucina italiana è fatta da pochi ingredienti, il più importante dei quali è l’ingegno. Un esempio tra mille, ciceri e tria: ricetta originaria del Salento, prevede di friggere una parte di pasta per aggiungerla alla “normale” pasta e ceci bollita. Stesso ingrediente, due consistenze diverse, esplosione di gusto. Un altro aneddoto che racconto spesso riguarda Fulvio Pierangelini, uno dei cuochi che mi ha insegnato di più. Una delle sue ricette più famose é la passatina di ceci con gamberi, un piatto che ha fatto parlare il mondo. La leggenda narra che un giorno di presentò al suo ristorante il Marchese Incisa della Rocchetta, proprietario di Sassicaia, nel giorno di chiusura. Lui aveva delle mazzancolle fresche che ha accompagnato con una crema di ceci e del pomodoro, ideando un piatto delizioso con letteralmente solo quello che aveva a disposizione. Questi, per me, sono i veri geni. Come chi ha ideato la lasagna, il tiramisù, i cannelloni e i tortellini, non quelli che si inventano spume e schiumette. Io sono anche contrario a certi processi come le cotture sottovuoto perché non ci consentono di metterci alla prova, tutto è standardizzato. Nel barbecue, per esempio, nelle cotture dirette ci confrontiamo con un fuoco da gestire, dobbiamo padroneggiare la posizione e la temperatura degli ingre-
dienti per ottenere il risultato voluto. Nel confronto tra te e la padella misuri quanto sei bravo: a non scuocere la pasta, a mantecarla come si deve… e il risultato finale è il tuo premio. Si chiama esperienza ed è una di quelle cose che non si possono comprare. Io posso farti dieci cacio e pepe e non saranno mai uguali: potrai riconoscere la mia “mano” ma innegabilmente non saranno il risultato di un processo standardizzato. Che intendiamoci, non è il male assoluto, è solo più adatto al banco gastronomia di un supermercato che alla cucina di uno chef o di un appassionato. Parliamo del panino gourmet. Cosa fa fare il salto di qualità a una preparazione che molti considerano solo uno “svuotafrigo”? Il panino è un piatto vero e proprio e va ideato come tale. A volte mi dicono che sono esagerato nelle dosi o nel processo, ma la chiave è davvero affrontarne la preparazione come si farebbe con una pietanza. Ci sono quattro caratteristiche fondamentali: il pane deve essere buono, vi serve una salsa che unisca e ammorbidisca il tutto, ci deve essere la verdura e, ovviamente, vi serve la proteina. Chiariti questi capisaldi, quando penso alla realizzazione di una ricetta la immagino davvero come un piatto da mettere dentro al pane. Badate che quest’ultimo non è solo un contenitore per i vostri ingredienti: è la prima cosa che incontrate quando affondate il morso e deve contribuire alla
Non possiamo congedarci dal re dei panini senza una ricetta pensata per gli amanti della griglia. Cosa ci puoi suggerire? Eccovi il panino perfetto per i fanatici del barbecue: pizza bianca dei forni Roscioli ripiena di punta di petto alla fornara, cicoria di campo e maionese al peperoncino. Cominciate condendo leggermente con un classico SPG –
sale, pepe nero e aglio in polvere – e un po’ di rosmarino la punta di petto, preferibilmente di vitello da latte. Mettetela a cuocere in low and slow (tra i 120°C e i 140°C) con una teglia per raccoglierne i succhi. Irrorate durante la cottura con un po’ di vino bianco e i succhi stessi che gradualmente verranno rilasciati dalla carne, dovreste averne per circa 4 ore. Il vostro obiettivo è di portarvi tra i 65°C e gli 80°C gradi al cuore, quel che basta per intenerire il collagene senza però comportarne il completo scioglimento come in un brisket. Nel frattempo sarete andati a fare cicoria nei campi, la avrete raccolta con le vostre manine, la avrete lavata, bollita e ripassata con aglio e olio extravergine - di quello buono, mi raccomando! Fate quindi una maionese classica mixando tuorli d’uovo, olio di girasole e qualche goccia di aceto bianco, incorporando anche del pe-
peroncino macinato. Quando la carne è pronta, aprite la pizza e tostatela come se fosse una bruschetta. Spalmate poi di maionese piccante tutta la superficie interna della pizza, mettete la cicoria ed infine le fettine di carne non senza averle preventivamente bagnate nel loro succo caldo per accentuarne la morbidezza. Buon appetito! Max Mariola Chef, docente, conduttore di programmi TV fb.com/ ChefMaxMariola instagram.com/chefmaxmariola/ www.maxmariola.com
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ricerca dell’equilibrio globale della vostra preparazione. Può portarvi croccantezza o morbidezza, aiutarvi ad assorbire le salse e i condimenti e contribuisce a mantenere caldi gli ingredienti. Però non dimenticatevi la cosa più importante: la vostra preparazione deve poter essere tale che, togliendo il pane, la si potrebbe servire come un piatto. In questo modo non potete sbagliare.
Speciale Panini - Ricetta a cura di Michela Bongiorni
Hai mai assaggiato il
LAMPREDOTTO nella passerina?
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Dovendo scegliere una sola esperienza, gastronomicamente parlando, che passando da Firenze non si può proprio evitare di fare, quella di fermarsi a un baracchino a mangiare i’ lampredotto ni’ pane bòno è sicuramente al primo posto; ovvero, per chi non è toscano e ha difficoltà a comprendere il vernacolo, fermarsi a uno dei tanti chio-
schi di trippai presenti in vari punti della città (famoso è quello alla Loggia del Porcellino, nome popolare che indica la Loggia del Mercato Nuovo) per assaggiare il re dello street food toscano: il panino col lampredotto. Stando alle cronache, già nel
Quattrocento si parlava di trippe e di botteghine fumose a pochi passi dall’Arno, dove si bollivano e si vendevano le interiora a prezzi molto convenienti per chi aveva fame. Erano di fatto proteine a buon mercato, rese più appetibili e gustose, nel corso dei secoli, grazie a ricette golose.
stomaco vero e proprio ed è il Lampredotto tanto famoso a Firenze, di colore scuro e piuttosto grasso. Prende il nome dalla lampreda, un’anguilla un tempo molto diffusa nell’Arno, della quale ricorda l’aspetto ondulato, e viene gustato generalmente bollito e poi servito dentro il panino insieme a una salsa verde. Per la trippa alla fiorentina, invece, si usano di solito rumine o reticolo già puliti e precotti, poi tagliati a striscioline e infine stufati insieme alla passata di pomodoro. Oggi noi faremo entrambe le preparazioni, dando una nostra personale rivisitazione delle ricette tradizionali, come ben sanno i lettori di lungo corso del BBQ4All Magazine. Poi metteremo tutte e due le preparazioni dentro un bel pa-
ninozzo. Già, ma quale? Mica un panino qualsiasi. Dobbiamo usare il semelle, detto anche passerina. E qui dobbiamo fare una piccola digressione. LA PASSERINA Immagino che tutti conosciate la corroborante verve dei toscani. Chiunque abbia letto qualche volta il Vernacoliere, famoso mensile di satira, umorismo e mancanza di rispetto in vernacolo livornese (cit.) sa bene di cosa parliamo. I toscani non vanno mai troppo per il sottile, e spesso non vengono compresi. Ne sa qualcosa Roberto Benigni che, negli anni ‘80, dopo essersi lasciato sfuggire un affettuoso “Wojtylaccio” nei confronti del Papa, venne investito da polemiche indignate, e ne sa qualcosa anche Paolo Ruffini: che pochi
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COSA É LA TRIPPA, COSA É IL LAMPREDOTTO? Pare che in molti, appena sentono nominare la trippa, pensino subito all’intestino del bovino, in realtà sbagliando. Essa infatti fa parte del cosiddetto quinto quarto, termine usato per indicare in generale le frattaglie; nello specifico è ricavata dalle quattro parti dello stomaco del bovino: tre prestomaci (il rumine, il reticolo, l’omaso) e lo stomaco vero e proprio (l’abomaso). Il rumine è il primo e il più grasso dei tre prestomaci. Il reticolo è il secondo prestomaco ed ha un aspetto spugnoso e reticolare che ricorda una cuffia. L’ omaso è il terzo prestomaco ed è il più magro; ha una struttura lamellare ed è chiamato anche “millepieghe” e “millefoglie”. L’abomaso è lo
anni fa disse alla Loren, durante una premiazione cinematografica, “sei sempre una topa meravigliosa!”, scatenando le ire di signore e signorine che urlarono alla battuta sessista. Il fatto è che i toscani hanno un amore per un certo linguaggio colorito e certamente si indignano quando sentono parlare di mancanza di rispetto (Nencioni, dico a lei). Questo perché le battute toscane e i relativi doppi sensi non sono mai da intendersi come offese, i toscani non ridono mai DI voi, ma CON voi (ai tempi del Covid-19 abbiamo riscoperto un certo amore per le preposizioni semplici, dunque usiamole), quindi hanno un’idea abbastanza singolare del politicamente corretto. Anch’io, che sono donna e alquanto rompicoglioni quando si parla di rispetto, ho sempre considerato simpatica e innocua la battuta di Benigni e un bellissimo complimento quella di Ruffini. Mi rendo conto, però, che bisogna essere toscani per capirlo davvero.
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Tutto questo preambolo è solo
per dirvi che sì, il nome del pane usato per il lampredotto rimanda esattamente alla cosa cui avete pensato subito, con buona pace dei vostri bambini quando vi chiederanno “perché si chiama passerina?”. Potete comunque salvarvi chiamandolo semelle, e non avrete pensieri. Unico pane salato toscano, nato per essere inzuppato nel latte o nel caffè, è un panino tondo e bianco che ha al centro un profondo taglio. Originariamente nato per i ricchi, poiché veniva fatto con ingredienti più costosi, ha poi subito nel corso degli anni delle rivisitazioni ed è diventato più popolare, risultando alla fine simile a una rosetta, mantenendo però il nome. Noi la si chiamava anche la passerina. Voleva dire fatto come la natura. La passerina per noi l’è la natura. Ecco, c’ha questo… queste due labbra, con questo cosino… questo taglio ni’ mezzo. (dal Vocabolario del fiorentino contemporaneo, Accademia della Crusca).
Bene, chi scrive sta a Pisa, e vi sembrerà strano ma, benché ci troviamo a soli 80 km di distanza da Firenze, i fornai pisani non hanno assolutamente idea di cosa sia il Semelle. Vi lascio oltretutto immaginare le battute che mi sono presa quando, per spiegare bene cosa cercassi, lo chiamavo con l’altro nome. Finché a un certo punto ho pensato: abbiamo in redazione un esperto di panificazione, chiederò a lui una ricetta e mi preparerò i panini da sola. Gli ho anche promesso che lo avrei scritto: Trezzi mi ha aiutato con la Passerina. Ogni promessa è debito, Alessandro. L’articolo non sarebbe stato completo se non avessimo avuto il pane giusto. E anche se andrò incontro al biasimo di chi mi accuserà di far battute da terza media, pazienza. Insomma, adesso siamo pronti per buttarci a capofitto in queste due preparazioni tipiche toscane, quindi armatevi di trippa e di lampredotto, di farina e di lievito di birra e andiamo.
INGREDIENTI Per i panini da 150 g l’uno: 1 kg di farina di tipo 1 o 0 270-300W 650 g di acqua 1 g di lievito di birra fresco 15 g di sale 3 g di malto diastasico Per la Trippa alla fiorentina: 500 g di millepieghe già pulito e precotto un gambo di sedano mezza cipolla bianca uno spicchio d’aglio due foglie di alloro
un cucchiaio di passata di pomodoro pepe q.b. olio extravergine di oliva q.b. sale q.b. Per il Lampredotto: 500 g di lampredotto già pulito un gambo di sedano una carota una cipolla un pomodoro maturo sale q.b. per la salsa verde 200 g di prezzemolo un’acciuga sott’olio sale q.b. pepe q.b. un cucchiaino di aceto di mele tre cucchiai di olio extravergine di oliva un peperoncino
I PANINI: PREPARAZIONE 1. Preparate il poolish mescolando 400 g di farina, 400 g di acqua e il lievito; dovete solo idratare la farina, poi coprire con una pellicola e lasciar riposare dodici ore a temperatura ambiente: il poolish è pronto quando si formano delle crepe in superficie. 2. Prendete il poolish, aggiungete la restante farina e la restante acqua (quindi 600 g di farina e 250 g di acqua), il malto diastasico e il sale: impastate come vi ha insegnato il buon Trezzi, poi lasciate raddoppiare nel forno con la luce accesa (indicativamente per due/ tre ore). 3. Formate i panetti, di circa 150 g l’uno, chiudendoli bene verso il centro, passateli in un poco di farina o di semola e metteteli a lievitare ben distanziati su una teglia rivestita di carta forno. 4. Copriteli con un panno
umido (triplicheranno, tenete conto di questo) e metteteli di nuovo nel forno con luce accesa per una o due ore. 5. Quando saranno ben lievitati, preriscaldate il forno statico a 230°C e quando sarà bello caldo, poco prima di infornare i panetti, fate un taglio profondo al centro di ognuno, usando un coltello tagliente: andate dritti senza paura, se il panetto è asciutto si taglia facilmente, altrimenti passate sul coltello un velo di farina. 6. Infornate per circa 35-40 minuti. Per i primi 15-20 minuti mettete un pentolino d’acqua bollente e spruzzate con il vaporizzatore, poi toglietelo. Gli ultimi 5 minuti aprite leggermente il forno per far uscire il vapore. Sono pronti quando la T interna è 95°C, la mollica è asciutta alla prova stecchino e bussando da sotto suonano vuoti.
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due cucchiai di concentrato di pomodoro
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LA TRIPPA ALLA FIORENTINA: PREPARAZIONE 1. Accendete le braci e predisponete il kettle in modo da poter collocare il wok nell’apposito spazio sulla griglia. La braci vanno sotto al wok ma non a contatto. 2. Preparate un trito di sedano, cipolla, aglio e carota. 3. Quando il wok sarà ben caldo versateci tre cucchiai di olio extravergine di oliva e il soffritto che avete preparato. 4. Facendo attenzione che il soffritto non bruci, fatelo imbiondire leggermente e poi aggiungere la trippa tagliata a listarelle. Fate insaporire, aggiustate di sale e pepe, poi aggiungete il concentrato e la passata di pomodoro, infine le due foglie di alloro. Versate un
bicchiere di acqua e aspettate che riprenda bene il bollore. 5. A questo punto cominciate ad affumicare con chips di melo, chiudendo il coperchio e stabilizzando il kettle ad una temperatura di 170/180°C. Fate cuocere la trippa per circa due ore, girandola e controllandola ogni tanto e aggiungendo acqua per non farla asciugare troppo. Quando sarà pronta aprite il coperchio e fate ritirare per bene il sughetto. IL LAMPREDOTTO E LA SALSA VERDE: PREPARAZIONE: 1. Preparare il brodo vegetale e fate bollire il lampredotto per circa un’ora e mezza. 2. Col frullatore a immersione, preparare la salsa verde
mixando tra loro il prezzemolo (compresi i gambi), le acciughe, un pizzico di sale, l’olio extravergine di oliva, l’aceto e il peperoncino. Se vedete che la salsa è troppo asciutta, aggiungete un po’ di olio e di aceto. In ogni caso assaggiatela sempre per aggiustarla di sale. A questo punto siete pronti per farcire i panini: apriteli a metà e metteteci dentro la trippa al sugo o il lampredotto con la salsa verde, a seconda del gusto dei vostri commensali. Se volete fare proprio un’esperienza completa, pucciate - o meglio inzuppate, ché a Firenze si inzuppa e non si puccia - la parte superiore dei panini nel brodo del lampredotto prima di richiuderli.
Speciale Panini - Ricetta a cura della redazione
PANEEPANELLE ...quando due parole diventano una Tra muratori a metà mattina: - Compà! C’è fame! chi manciamu? - Paneepanelle! Il figlio al genitore: - Mamma che mi porto a scuola come merenda? - Paneepanelle! Due amici dopo una notte brava in discoteca: - Fra’ bellissima la serata, ma ora ho fame, fra’! Che possiamo mangiare fra’? - Paneepanelle fra’! Una coppia di fidanzati all’aperitivo - Amo’ che mangiamo con l’aperitivo? - Paneepanelle! Due bancari in pausa pranzo: - Collega stai andando a mangiare? Cosa mangi? - Paneepanelle! In famiglia la sera: - Ragazzi non ho voglia di cucinare. Cosa vorreste mangiare? - Paneepanelle!
Come è possibile immaginare dai dialoghi esemplificativi, il panino con le panelle in Sicilia è LA soluzione. Reperibile praticamente h24-7/7, è l’alternativa più semplice e comoda per placare i morsi della fame. Questo piatto, tipico soprattutto della Sicilia occidentale, è venduto ovunque, dai ristoranti più blasonati fino ai camioncini mobili disposti strategicamente nei piazzali dei paesi. Come già descritto nel numero di Giugno 2019 (panelle e sliders) questa pietanza vede i suoi natali a Palermo, durante la dominazione araba intorno all’anno Mille. La farina ottenuta dalla pestatura dei ceci veniva amalgamata con acqua e cotta fino a creare un impasto solido. Il sapore di questa preparazione non era esattamente un’esplosione di gusto. Fu grazie all’ingegno e alla maestria dei palermitani che questo piatto entrò negli annali della cucina siciliana. All’idea originale importata dagli arabi, i mastri panellari, apportarono delle piccole modifiche per rendere quel miscuglio più affabile e gustoso. Per prima cosa aggiunsero il finocchietto all’impasto, per conferire maggiore aroma e sapore; poi una volta tagliato in fogli sottili, esso veniva fritto e infine infilato in una pagnotta di pane. Un piatto povero, semplice, che però sfamò il popolo per anni grazie alla sua versatilità. Nel corso dei secoli il piatto ebbe tanto di quel
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Ipotetici dialoghi che potreste sentire in giro per la Sicilia
successo da finire sulle tavole più illustri, passando dai reali fino ai più grandi scrittori e letterati del secolo passato.
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Con il conseguente diffondersi delle panelle, anche i locali che le vendevano accrebbero il loro successo. In particolare nel cuore di Palermo, grazie all’iniziativa di Salvatore Alaimo, nel 1834 nacque una focacceria. Alaimo aveva passato venticinque anni al servizio dei Principi di Cattolica come maestro di sevizio (vi ricordate i monsù delle sarde a beccafico del numero di dicembre?); terminata quest’avventura decise di investire su se stesso e aprì questo locale nei meandri del centro di Palermo. Neanche nei suoi sogni più reconditi avrebbe potuto immaginare che quella piccola focacceria sarebbe stata la testimone di tanta storia del nostro Paese e sarebbe resistita per quasi 200 anni. Da Garibaldi a Falcone, su quei tavoli si sono seduti tra i più grandi personaggi del panorama italiano e internazionale; in molti hanno ceduto alla gola e si sono fatti inebriare del gusto delle panelle. Sull’onda del successo di questa focacceria, le friggitorie e i panellari si moltiplicarono fino a diventare capillari su tutto il territorio dell’isola. Non c’è piazza, scuola, mercato che non abbia un panellaro vicino. Chi con un chioschetto mobile, chi con un camioncino, chi in un piccolo negozio, tutti continuano imperterriti a friggere panelle per deliziare i siciliani e i turisti. Negli anni l’offerta gastronomica si è ampliata e differenziata, offrendo una più ampia gamma di abbinamenti per fare contenti i palati più difficili. Possiamo annoverare diversi tipi abbinamenti per imbottire i panini. • la versione classica: panelle in un panino tipo mafalda condite con una spruzzata di limone. • la versione palermitana, le panelleecrocché: panelle e soffici crocchette di patate. • la versione “per i bambini”: panelle, wurstel (anche questi fritti) e ketchup. • la versione “per i bambini veg”: panelle, patate fritte e maionese. • la versione gourmet: panelle e salmone fresco sott’olio. • la versione mazarese: panelle, gambero rosso crudo e una spruzzata di limone. • la versione mazarese overflow: panelle, gambero rosso pastellato e fritto. • la versione BBQ4All: panelle e sliders. Oggi vi proponiamo la ricetta base per fare l’impasto da friggere. Il resto è alla vostra inventiva!
PREPARAZIONE: 1.
In una pentola capiente mescolate la farina di ceci setacciata e l’acqua.
2.
Aggiungete il sale e il pepe.
3.
Mescolate il tutto con una frusta (o in alternativa con un frullatore a immersione) in modo da non creare grumi e ottenere un impasto liscio e setoso.
4.
Accendete la fiamma a fuoco medio e cominciate a mescolare il composto.
INGREDIENTI
5.
Quando si stacca dai bordi della pentola aggiungete il finocchietto continuando a mescolare per qualche altro minuto.
500 g di farina di ceci
6.
Versate adesso il composto in uno stampo (per plumcake) unto con un po’ d’olio.
7.
Lasciatelo raffreddare una notte.
8.
Quando si sarà raffreddato ribaltatelo su un tagliere e affettatelo sottilmente.
9.
Mettete l’olio a scaldare.
per 10 panini circa 1,5 lt di acqua un cucchiaino di sale raso un mazzetto di finocchietto selvatico (in alternativa potete usare il prezzemolo) pepe q.b. olio per la frittura (preferibilmente d’arachidi
11. Scolatele su carta assorbente, poi salate e pepate a piacimento. 12. Servite all’interno del panino con una spruzzata di limone.
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10. Friggete adesso le panelle nell’olio bollente.
Speciale Panini - Ricetta a cura di Emiliano Nencioni
LA PORCHETTA
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è maiale porchettato
Ma sto divagando: voglio parlarvi della porchetta, the original porchettato. Nelle sue forme più arcaiche e tradizionali è prodotta partendo da un intero suino, epidermide e tutto, ripulito delle interiora, riempito di spezie (per lo più rosmarino
e finocchietto) e del suo stesso fegato a tocchi; un bastone infilza poi il maiale per tutta la sua lunghezza e viene usato come spiedo per una lenta cottura girevole. È proprio questa immagine un po’ truculenta e un po’ medievale che mi ha tenuto lontano da questa nostra tipicità molto italiana, fino all’età adulta. Questo, e altri dettagli, tipo la frequente esposizione della porchetta completa di testina del maiale abbrustolita, con quell’espressione un po’ triste e un po’ sorpresa, sicuramente amareggiata, inutilmente sbeffeggiata da una mela ficcata nelle fauci; la porchetta poi, leader indiscusso dello street food pre-invasione dei fast food (e francamente prima che il cibo di strada si chiamasse street food), presente in fiere e sagre ma anche e soprattutto in discutibilissimi Ford Transit con la sponda ribaltabile, immancabili su ogni strada di grande comunicazione, non era esattamente l’emblema della sanificazione, del rispetto delle norme HACCP e dell’incontaminazione dell’alimento. Tutt’altro: in Toscana specialmente, regione dove sono cresciuto e dalla quale vi scrivo, la figura del porchettaro notturno è legata a doppio filo alle gesta dell’omonimo fumetto di Marco Citi (di Ponsacco, PI), presente sulla pubblicazione assurta a lettura obbligatoria per qualsiasi toscano non voglia farsi cogliere impreparato dall’ironia velenosa del livornese di turno: il Vernacoliere. Insomma, nella mia immaginazione di adolescente e giovane adulto la porchetta poteva essere solo il laido coprotagonista di una striscia satirica che parlava di sporcizia, evasione fiscale, imbarazzanti signore non più giovani fasciate da inadeguati abitini che tornavano dall’overnight in discoteca e battute sui pisani. Quale non fu il mio sconcerto nell’apprendere che della porchetta si
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Che sollievo finalmente poter usare i termini con il loro giusto scopo e contesto! La porchetta, stavolta non ci piove, è un caso lampante e omologabile di alimento porchettato; non solo, è l’origine di molti abusati suffissi in -ettato presenti nel mondo del barbecue. Non sapete di cosa stia parlando? Probabile. In tal caso, o la mia azione di stigmatizzazione verso certe parole è andata a buon fine, o il vostro è solo un colpevole tentativo di fare lo gnorri. La motivazione di tutto questo è presto detta: la porchetta è sostanzialmente un maiale avvolto su se stesso e ripieno di ancora altro maiale, in breve; questo ha causato tutta una serie di eredità linguistiche, arrivando ad attribuire una condizione di porchettato a molti alimenti avvolti, farciti e legati con lo spago. Fin qui tutto bene, tutto tollerabile, tutto perfettamente sensato. Ma poi vi siete inventati il briskettato ed è andato tutto allo sfascio: qualsiasi cosa cotta a bassa temperatura e coperta di sale pepe e aglio avrebbe potuto fregiarsi della medaglia di briskettato. Se non ne avete mai sentito parlare significa che avete iniziato la vostra carriera di griller sui social network da relativamente poco tempo, e che qualcuno ha combattuto delle sanguinose battaglie per la vostra integrità linguistica. Prego, non c’è di che.
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mangiava - e si gradiva particolarmente - anche la cotenna del maiale! Fu proprio a una sagra paesana che, combattuto fra il digiuno forzato e un panino con la porchetta, nel comprare il mio primo assaggio, concentrandomi per non guardare la testina arrostita dritto negli occhi, mi rivolsi all’ambulante (non erano ancora pitmaster o street chef) con tono polemico e sprezzante: “scusi eh, ma almeno faccia in modo di non lasciarmi la cotenna nel panino”, indicando un pezzettone croccantissimo finito tra le mie fette. La reazione del professionista della ristorazione itinerante fu più di dispiacere, amarezza e delusione che di stizza: “O’bimbo... ma se t’ho scelto il pezzo meglio, dè, è il su’bello, senti com’è bono, dai retta vai!”. Pagai e il signore continuò a rivolgere una meritatissima mano a cucchiaio alla mia figura che si allontanava. Buona, era buona. Molto buona, in effetti: ma non riuscivo a non rimanere sconvolto dall’idea della testa arrostita con la mela in bocca, che mi guardava e mi giudicava. E’ stato con BBQ4All che ho riscoperto il piacere della porchetta: non più cibo da attacco di fame caratteristico di certi dolenti furgoncini in viali desolati a ridosso delle pinete (insomma, i mangia-etromba, si chiamano qui), ma un alimento succulento finalmente preparato, cotto e consumato in perfetta igiene, fresco di cottura. Soprattutto, della porchetta avrei visto solo la parte commestibile, non l’inutile e crudele ornamento della testina arrostita. Era tutto lì, il nocciolo: la gestione del senso di colpa, il
faccia a faccia, il confronto. E’ proprio per questo che dal macellaio dovrete farvi preparare una bella pancettona, cotenna e tutto (perchè aveva ragione il signore del furgoncino, una buona cotenna croccante è la parte migliore), che non abbia solo grasso ma anche un bel po’ di carne (e il macellaio protesterà perché dovrà sciupare le costine); aggiungete anche un bel pezzo di lonza, o di filetto, sarà il vostro nucleo porchettiforme. Vi servirà per preparare il piatto di quest’articolo: il panino con la porchetta con salsa agrodolce di cipolle e arance. PREPARAZIONE: 1. Togliete eventuali setole residue sulla cotenna servendovi di pinze o di un cannello. Cospargete l’interno della pancetta con la miscela di spezie che vi ho suggerito (ma sentitevi liberi di aggiungere o togliere aromi a vostro piacimento). 2. Adagiate i filetti al centro della pancetta e, sempre tenendo la parte con la cotenna all’esterno create un rotolo che li avvolga; fermate il tutto con dello spago e una serie di nodi ben piazzati. C’è tutta una serie di tutorial in giro su come eseguire una legatura a regola d’arte. Ve lo abbiamo spiegato anche noi sul Magazine di Marzo 2019, sempre parlando della Porchetta. Se proprio non siete capaci, potete farlo anche alla buona, senza incorrere in sanzioni penali. 3. Predisponete il vostro kettle per una cottura indiretta, o accendete un solo bruciatore del vostro dispositivo a gas, stabilizzando ad una temperatura di 150°C in camera di cottura. 4. Se avete un girarrosto è il momento perfetto per vantarvi
del vostro acquisto e usarlo, in caso contrario appoggiate la pietanza sulla griglia e ricordatevi di ruotare la porchetta sul suo asse di tanto in tanto. Chiudete il coperchio e aspettate fino a quando la temperatura al cuore non sarà arrivata a circa 85°C. Ricordate, non state facendo un pulled pork. La carne deve arrostirsi, non sfilacciarsi: l’interno deve essere cotto, ma succoso, umido: la porchetta asciutta non va bene per niente. 5. A 85°C arriva la parte delicata: la cotenna. Se una cotenna croccante e friabile è gustosa e piacevole al palato, una pellaccia molliccia è disgustosa e stomachevole; non solo: diffidate di chi spaccia per croccante una cotenna dura come il vetro. Che scrocchia sì, ma il rumore lo fanno i vostri molari che vanno in mille pezzi. Come avrete già letto, è l’acqua presente nella pelle che, andando velocemente in ebollizione, fa gonfiare gli strati dell’epidermide facendoli diventare friabili, simili a dei pop corn. La chiave è tutta lì, nella velocità. Bisogna alzare la temperatura in maniera repentina, introducendo un provvidenziale cesto di bricchette ben accese nel kettle o dando potenza ai bruciatori del vostro dispositivo a gas. Fate scoppiare, non bruciate: se in un punto l’umidità nella pelle è già andata tutta via, non avrete nessuna esplosione, solo cotenna simile a un cristallo temperato. Inutile insistere. Evitate di fare il Wile E. Coyote della situazione e inventarvi astrusi stratagemmi, tipo - sì, l’ho visto consigliare online ricorrere a una pistola termica da carrozziere per sparare aria
per 6 persone
per il panino CON la porchetta sei panini una pancia del maiale da circa un kg due filetti di maiale da circa 500 g l’uno un cucchiaino di sale pepe in abbondanza mezzo cucchiaino di semi di finocchio un cucchiaino e mezzo di aglio in polvere un cucchiaino e mezzo di rosmarino in polvere olio extravergine di oliva q.b. spago da cucina per la salsa agrodolce mezza cipolla 2 arance un cucchiaino di zucchero un cucchiaino di aceto di mele un cucchiaino di sciroppo d’acero
Alcune raccomandazioni per la consumazione e per l’irrinunciabile condivisione social: le urla cavernose rivolte verso la porchetta sul girarrosto vanno benissimo; le gesta di tripudio a ogni esplosione di cotenna sono tollerate e incoraggiate; rubare la cotenna migliore al vicino di posto è gesto goliardico e generalmente ben accetto; le rimembranze di quella volta, “com’era buona la porchetta in quel furgoncino una sera tardi”, stringono il cuore e fanno convivialità ma attenti a micidiali e irrimediabili gaffe. Soprattutto, nel momento di pubblicare le vostre Stories, ricordatevi che non state facendo un video ASMR (risposta sensoriale apicale autonoma): piantatela di ficcarvi mezzo smartphone in bocca per farci sentire come scrocchia la cotenna che siete stati così bravi a preparare, evitateci la pena di vedere a tutto schermo la vostra masticazione, il vostro palato molle, fate pure a meno di tenere il boccone mezzo fuori dalle ganasce per far vedere che è proprio quella. la vostra cotenna, a fare quei suoni croccanti. Ci crediamo, dopotutto state seguendo le metodologie del Magazine BBQ4All, per cui non c’è motivo di dubitare. La camera frontale del vostro smartphone non è un endoscopio, non fate cose brutte a vedersi, che poi è imbarazzante anche dovervelo dire. Ve l’ho detto. A posto così?
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INGREDIENTI
a 400°C sulla cotenna. LO SO che vi tenta, ma quell’oggetto non è pensato per scopi alimentari, rischiate di lanciare polveri combuste e chissà quali altre schifezze direttamente sul cibo che andrete a mangiare. 6. Terminata l’Operazione Deflagrazione lasciate la porchetta a fare qualche minuto di rest e dedicatevi alla salsina di accompagnamento. 7. Affettate le cipolle e le arance sbucciate e private della peluria bianca, mettetele in un pentolino assieme allo zucchero e all’aceto di mele e cuocete piano piano, col coperchio, senza dimenticare di mescolare. 8. Quando si sarà formato un composto denso schiacciatelo grossolanamente con una forchetta o un pestello e aggiungete lo sciroppo d’acero. A questo punto, frullate il tutto e rimettetelo nel pentolino per farlo un po’ ritirare, facendo attenzione che non si bruci. 9. Con un coltello affilato tagliate a fette di 10 - 12 mm la porchetta, facendo attenzione allacotenna: mettete da parte il vostro ego e togliete di mezzo la cotenna moscia, o dura e non scoppiata. Sarà tutto buono lo stesso, meglio togliere un po’ di cotenna che ritrovarsi con un pezzo di SecurGlass in bocca. 10. Aprite in due un bel panino, fatelo tostare leggermente e farcitelo con estrema generosità di porchetta: questo non è un alimento che si presta a dosi minimaliste, meglio di più che di meno. 11. Coprite la carne con un velo massiccio di salsa agrodolce e servite il panino.
Speciale Panini - Ricetta a cura della redazione
PHILLY CHEESESTEAK il mio ring è la strada! Quando si parla di Philadelphia (la città, non il formaggio spalmabile), una delle prime cose a cui si pensa è la scalinata del Philadelphia Museum of Art.
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Questo luogo, reso celebre grazie ai film di Rocky, da cui abbiamo tratto la citazione del titolo, non è l’unica cosa per cui Philly, nome con cui viene chiamata in slang la città, merita di essere menzionata. Oltre alle bellezze architettoniche infatti, il famoso centro urbano della Pennsylvania è famoso anche per specialità gastronomiche come il Philly cheesesteak. Guarda caso, oggi parliamo proprio di quello. Così come nel film Rocky il protagonista era un pugile di origini italiane, anche la discendenza di questo panino è legata all’italico ingegno. Infatti, secondo quanto riportato dalla guida turistica di Philadelphia, la paternità di questo panino è da attribuire a Pat e Harry Olivieri, due fratelli che avevano aperto una bancarella di hot dog intorno agli anni ‘30, agli angoli della 9th Street, Wharton Street e Passyunk Avenue. Un giorno del 1933, secondo la storia, Pat mandò Harry al mercato per comprare una bistecca non troppo costosa da servire
ai loro clienti. Quando Harry tornò, nacque la geniale idea: la affettarono sottilmente, quindi la grigliarono insieme ad alcune cipolle tritate. L'aroma attirò un tassista, cliente abituale della bancarella, che chiese di provare il piatto. Beh, gli piacque talmente tanto che consigliò ai fratelli Olivieri di smettere di servire hot dog e di cominciare a servire quel panino con la bistecca. Nel giro di pochissimo tempo la notizia si diffuse tra i tassisti e presto quel chioschetto divenne una meta obbligatoria per il pranzo. Dato lo straordinario successo, i due fratelli decisero di aprire il loro ristorante, il Pat’s King of Steak, nello stesso luogo in cui sorgeva il loro chiosco. Il caso volle però che sull’angolo nord, opposto al lor ristorante, ce ne fosse un altro, il Geno’s Steak. Se in ambito pugilistico l’avversario da battere per Rocky era Apollo, sulla scena alimentare, lo scontro fu sicuramente quello tra Pat’s vs Geno’s. I due ristoranti infatti, sin dall’apertura, si combatterono a colpi di panini per diventare i leader del mercato. Sembra che l’aggiunta al panino del cheese whiz (crema di formaggio spalmabile) sia da attribuire a Geno’s, e che per risposta Pat’s abbia presentato la variante col provolone.
Fatto sta che dopo oltre 50 anni entrambi i ristoranti servono ancora sandwich nella loro storica location. Entrambi aperti h24 7su7, round dopo round si combattono il primato come miglior Philly cheesesteak della città. Nella nostra personalissima versione abbiamo optato per un politically correct e vi proponiamo entrambe le versioni. A voi l’ardua sentenza.
INGREDIENTI per 4 persone
Una ribeye GLC Top Selectione del BBQ4All Megastore tagliata a fettine sottili una cipolla bionda mezzo peperone rosso mezzo peperone giallo 2 panini o una baguette divisa in due parti 2 fette di provolone o in alternativa il cheese whiz (crema di formaggio spalmabile) Sale q.b. Pepe q.b. Olio extravergine di oliva q.b. Burro q.b.
PREPARAZIONE 1. Settate il kettle per una cottura diretta. 2. Affettate finemente la cipolla e i peperoni. 3. Fateli rosolare con un filo d’olio usando una padella in ghisa, salate e pepate. 4. Aprite in due i panini e spalmate sulla parte della mollica un po’ di burro. Fateli adesso dorare sulle braci. 5. Quando le verdure saranno cotte, spostatele in una terrina e usando la stessa padella fate cuocere molto velocemente gli straccetti di ribeye con un filo d’olio. 6. Componete adesso il panino iniziando dalla carne, poi le verdure e infine il formaggio. 7. Ponete infine il panino nel kettle, giusto il tempo di fare sciogliere il formaggio.
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Fateci sapere per quale delle due versioni avete optato, anche se sappiamo che sarete talmente golosi e curiosi da provarle entrambe. In quel caso, diteci qual è stata la vostra preferita.
Speciale Panini - Ricetta a cura della redazione
LAMB KEBAB
dalla griglia con amore
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Tutti noi abbiamo sognato di farlo dopo l’immancabile attacco di fame ogni volta che alla TV vedevamo i cowboy o i guerrieri arabi sedersi nelle radure intorno ad un fuoco, a far cuocere nelle fiamme dell’inferno quei fantastici spiedini di carne succulenta. Dai, ammettetelo, siete stati rapiti da quelle immagini e il più delle volte vi hanno fatto alzare dalla sedia per andarvi a prendere qualcosa da mangiare.
ne o capra e non maiale per via dell’assoluto divieto di mangiarne, causa questioni religiose. Quando parliamo di Kebab, descriviamo un mondo molto variegato sulle tipologie di questo piatto.
Ebbene, fin dal momento in cui ha scoperto come ammaestrare il fuoco, l’uomo ha sempre cercato di cuocere i suoi pezzi di carne attraverso uno spiedo, prima realizzato in legno e poi nel corso dei secoli utilizzando altri tipi di accessori. È nato così il kebab, che significa proprio “carne arrostita“.
In Turchia esistono più di cinquanta preparazioni diverse, a seconda della zona in cui viene preparato, degli ingredienti utilizzati, del modo di cuocerli e del tipo di carne usata. In generale comunque si realizza infilzando fette di carne sovrapposte nello spiedo. Si inizia con parti magre e si conclude con le parti grasse che, essendo nella parte alta, quando sottoposte a calore tendono ad irrorare la carne sottostante con i loro grassi, rendendo nel complesso l’intero blocco succoso e saporito.
Pare che la sua origine sia persiana: sembra che già nel ‘400 i cavalieri persiani cuocessero la carne utilizzando le loro spade, nei loro accampamenti. In Europa invece la sua importazione risale a circa 50 anni fa, non si sa bene ancora se per mano degli inglesi o dei tedeschi. C’è chi afferma che la prima tavola calda dove venne servito il kebab fu aperta nel 1966 a Stoke Newington, a Londra. C’è chi invece riferisce della sue prima presenza a Berlino, grazie a due emigrati turchi nei primi anni 70’. In ogni caso, la sua preparazione prevede carne di agnello, monto-
Nel tempo, a causa di una diffusione sempre maggiore di questo cibo, si è andata perduta in parte la qualità del prodotto. I locali commerciali utilizzano sempre più spesso prodotti congelati dal sapore piatto e livellato ad uno standard di gusto: sa di poco e sa ovunque della stessa cosa. Possiamo infatti riconoscere facilmente un prodotto commerciale da uno artigianale già dall’aspetto visivo. Quello commerciale rimane molto compatto e dalla forma regolare, quello artigianale si distingue per l’irregolarità nella forma e per la netta distinzione delle carni, nella stratificazione dello spiedo.
INGREDIENTI per 2 persone
due panini di tipo Pita 400 g di coscia d’agnello GLC Selection 100 g di cavolo cappuccio 2 melanzane viola di Firenze 2 pomodori ramati una cipolla rossa 8/10 foglioline di menta 100 ml olio extravergine mezzo limone 2 spicchi aglio sale q.b pepe q.b olio extravergine di oliva q.b. due cucchiai di salsa tzatziki mix di spezie per l'agnello un cucchiaio di aghi di rosmarino fresco un cucchiaino di cumino in polvere mezzo cucchiaino di cannella mezzo cucchiaino di noce moscata un cucchiaino di aneto un cucchiaino di cardamomo in polvere un cucchiaino di sale
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Realizzeremo il nostro panino con un cosciotto di agnello che dovrà essere ben disossato, in modo da ottenere un unico pezzo da cui andremo a ricavare le fettine da inserire nella pita. Dopodiché lo condiremo con le spezie e lo metteremo a marinare, prima di cuocerlo, condirlo e mangiarlo con estrema soddisfazione. PREPARAZIONE: Un giorno prima 1. Iniziate col preparare il cosciotto di agnello, disossandolo a libro e ungendo ambo il lati con un velo d’olio leggerissimo. 2. Preparate il mix di spezie: tritate finemente gli aghi di rosmarino fresco, aggiungete il resto delle spezie e cospargetelo per tutta la superficie della carne. 3. Ora arrotolate il cosciotto a cilindro e avvolgete ben stretto con la pellicola tra-
sparente al fine di realizzare una sorta di salsicciotto. 4. Infilzatelo con uno spiedo di legno o di acciaio lungo circa 30 cm e ponetelo in freezer a congelare. Il giorno dopo 1. Predisponete il vostro dispositivo per una cottura indiretta con temperatura in griglia di circa 140°C. 2. Tagliate le melanzane a fette spesse. Spennellatele con l’olio extravergine e mettetele in cottura diretta sino a formare delle belle grill marks, poi spostatele in indiretta e fatele cuocere per circa 20 minuti, finché non risultino tenere. 3. Affettate i due spicchi d’aglio e fateli tostare su un foglio di alluminio, finché son ben dorati da ambo le parti, poi teneteli da parte. 4. Togliete dal freezer il vostro spiedo di carne. Eliminate la pellicola e mettetelo in cottura indiretta sino ai 72°C al cuore. Ora preparate la linea degli altri ingredienti di contorno. 5. Mondate il cavolo, lavatelo e tagliatelo a striscioline. Tagliate il pomodoro a fette circolari non troppo spesse. Tagliate una cipolla rossa a fettine di qualche millimetro. 6. Create un salmoriglio con olio, sale, pepe, menta tritata e il succo di limone. 7. Quando l’agnello raggiungerà i 72° C al cuore, spostatelo rapidamente in cottura diretta per qualche minuto, girandolo ripetutamente al fine di cauterizzare maggiormente la superficie. 8. Toglietelo dalla griglia, ap-
poggiate il vostro spiedo ad un tagliere e affettate verticalmente in piccoli pezzi di carne. 9. Scaldate la pita per qualche secondo sulla griglia, apritela e riempitela stratificando in questo modo: dapprima il cavolo cappuccio, poi due fette generose di pomodoro, infine una fetta di melanzana. Irrorate leggermente col salmoriglio, disponete qualche fettina di aglio tostato e poi coprite il tutto con abbondante carne. Finite la vostra pita, adagiando sopra la carne alcune fettine di cipolla. 10. Ora è il momento di aggiungere la salsa. Una cucchiaiata per ogni pita è più che sufficiente. Per la salsa lasciamo a voi la scelta. Noi consigliamo una tzatziki, perché restituisce un tocco di freschezza e acidità grazie ai cetrioli e lo yogurt. Per concludere una curiosità. Anche James Bond nel libro “Dalla Russia con amore” mangia un Kebab di agnello con cipolla, per il quale ha una vera passione, al suo arrivo in Turchia per la missione da compiere. D’altronde il suo autore, Ian Fleming, era uno che prestava attenzione al cibo. Egli stesso affermava: “Ricavo un ridicolo piacere da quello che mangio e bevo. Dipende dal fatto che sono scapolo, ma soprattutto dal vizio di curare esasperatamente i particolari. Sono pedanterie degne di una vecchia zitella, ma in genere quando lavoro devo mangiare da solo, e fare caso a tutto rende la cosa più interessante.”
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Il tipo di cottura del Kebab avviene mediante spiedo (shish) che si divide in orizzontale e verticale (döner kebab). La parola döner sta proprio a significare il movimento rotatorio dello spiedo. Sebbene nasca come un prodotto realizzato alla brace, la commercializzazione ha fatto sì che esso venga cotto oggi grazie a delle macchine apposite, alimentate da bruciatori a gas o tramite resistenza elettriche. Noi lo riporteremo alle origini, cuocendolo nel nostro dispositivo. Il classico panino con Kebab, che troviamo nei locali etnici occidentali, viene generalmente realizzato con uno specifico tipo di pane: la pita.
UN BURRITO BURROSO
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ed è subito WOW!
Speciale Panini - Ricetta a cura della redazione
Ripassando un po’ la storia di questa deliziosa preparazione, dobbiamo ricordare che è indubbiamente un punto forte della cucina Tex Mex, ma che già dagli anni 80 ha spopolato in tutto il mondo. Nato verso gli inizi del secolo scorso durante la Rivoluzione messicana, fu inventato da Juan Mendez, che decise di avvolgere il cibo che vendeva all’interno di una tortilla affinché rimanesse caldo durante le fughe, dovute alle persecuzioni del dittatore Porfirio Diaz. Il successo di questa preparazione fu enorme, tanto da permettere a Juan di poter acquistare un piccolo asino per espandere il proprio commercio anche nelle zone limitrofe. Fu così che decise di dare il nome al piatto, chiamandolo burrito, che in lingua spagnola significa asinello. Questo rotolo inizialmente veniva riempito di fagioli riscaldati e carne essiccata, a causa della mancanza di frigoriferi che potessero permettere l’utilizzo di ulteriori ingredienti degradabili. Oggi sappiamo che non c’è limite alla scelta delle farciture. Lo troviamo in innumerevoli varianti, con diverse specialità di carne, di verdure, di formaggi.
Forse è proprio la sua versatilità ad averlo reso così famoso nel mondo.
aromatizzare con pepe nero e la scorza grattugiata di mezzo limone.
Una cosa però è certa: per comporre un ottimo burrito, sono cinque gli elementi che non devono mai mancare: la carne, la verdura, il formaggio, l’elemento piccante e la salsa. Scegliendo accuratamente questi elementi e bilanciandoli tra loro, siamo certi di ottenere un prodotto che farà esplodere le nostre papille gustative. Per questo motivo abbiamo pensato che un’altra versione del burrito non poteva che essere un modo come un altro per rendervi la vita in griglia ancora più entusiasmante. Infatti per questa meravigliosa composizione dei cinque elementi, siamo partiti da qualcosa di veramente esplosivo. Un taglio povero, ma ricco di sapore: Hanger Steak, ovvero il lombatello di manzo. Già preso da solo è, tra i tagli del manzo, veramente eccezionale per sapore intenso, mineralità e fibrosità.
Il peperone Corno di Toro rosso: scelto per intensità di sapore ma soprattutto per l’estrema croccantezza e l’altrettanta dolcezza che si accompagnano bene al sapore intenso della carne.
L’elemento umami che abbiamo voluto apportare a questo taglio è la salsa tamari, che formerà una bella marinatura per un ulteriore boost di gusto e forza. Vediamo quindi quali sono gli altri ingredienti che caratterizzano il nostro burrito e che abbiamo scelto per voi. Il mascarpone: un formaggio dolce e spalmabile che ben si lega al lombatello e agli elementi di contorno, perché restituisce un po’ di dolcezza e di burrosità. Noi lo andremo ad
Puntarelle: questi straordinari germogli di cicoria catalogna dal sapore vagamente amarognolo bilanciano perfettamente il formaggio e il peperone. Tenere e croccanti, saranno leggermente condite a parte, con un filo d’olio, qualche goccia di limone, sale e pepe nero. Salsa: questo è proprio un discorso a sé, perché andremo su qualcosa che tiri fuori il meglio dalla hanger steak. Riprenderemo la ricetta della chimichurri e ne faremo una versione adatta al nostro burrito. Procediamo ora con ordine per comporre il tutto all’interno di una tortilla calda e avvolgente. Aperti h24 e 7/7, round dopo round si combattono il primato come miglior Philly cheesesteak della città. Nella nostra personalissima versione abbiamo optato per un politically correct e vi proponiamo entrambe le versioni. A voi l’ardua sentenza!
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In un numero tutto dedicato al mondo dei panini, entra di diritto il burrito. Ve ne avevamo già parlato nel Magazine di Settembre 2019, ma ora vogliamo dedicargli ulteriore attenzione, essendo un cibo così diffuso, con mille sfaccettature e altrettante possibilità di realizzarlo.
PREPARAZIONE: 1. Prendete innanzitutto la vostra Hanger Steak del Megastore e marinatela per mezz’ora, all’interno di un sacchetto a zip, con la salsa Tamari.
INGREDIENTI per 4 persone 4 Tortilla 500 g di Hanger Steak GLC Top Selection 100 ml di salsa Tamari 200 g di mascarpone 4 peperoni Corno di Toro rosso 300 g di puntarelle due cucchiaini di sale mezzo cucchiaino di pepe nero un limone Olio extravergine di oliva q.b. per la salsa Chimichurri 15 g di Memphis Dry Rub BBQ4All 100 g di pomodori datterini gialli uno scalogno un ciuffo di prezzemolo un ciuffo di origano fresco 50 ml di Olio extravergine di oliva 50 ml di Aceto di mele barricato 50ml di Acqua tiepida Sale q.b. Pepe q.b.
2. Preparate la salsa, tagliando a brunoise i pomodorini datterini gialli, affettando lo scalogno, tritando il prezzemolo e defogliando l’origano fresco. Inserite in una ciotola tutti gli altri ingredienti e mescolate per bene; quindi lasciare riposare in frigo fino all’utilizzo. Questa operazione può essere fatta anche il giorno prima. Lasciando così maturare la salsa si otterrà un sapore più intenso. 3. Avviate il dispositivo per una cottura diretta con tecnica Flip&Brush. 4. All’interno di una ciotola, mescolate il mascarpone con pepe nero, un pizzico di sale e la buccia di mezzo limone grattugiata. Tenete da parte. 5. Prendete i peperoni corno, lavateli, dividete per metà eliminando tutti i semi e la placenta. Quindi tagliateli a strisce di un centimetro. 6. Lavate le puntarelle, spuntate la base e affettate a julienne. Mettete in un recipiente con acqua fredda e ghiaccio per circa 15 minuti, finché si arricceranno. Dopodiché condite con olio, sale e qualche goccia di limone 7. Scolate la vostra hanger steak dalla marinatura. Asciugate bene e fatte un seasoning con un velo d’olio su tutta la superficie della carne. 8. Cuocete applicando la tecnica del Flip&Brush sino a 58°C al cuore. Rest di qualche minuto. 9. Ora avete un po’ di tempo per scaldare le vostre tortillas. 10. Tagliate controfibra la bistecca, ricavando fettine dello spessore di 1 cm.
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11. Componete il burrito, spalmando uno strato sottile di mascarpone aromatizzato sulla tortilla. Adagiate le puntarelle, immergete ogni pezzo di carne dentro la salsa Chimichurri e posizionatelo al centro del pane. Distribuite il peperone rosso sopra la carne. Chiudete il tutto. Ho sentito dire in giro che “riceverete l’applauso dai tovaglioli e si gireranno anche le cannucce dai bicchieri per guardarvi” (cit. Gianfranco Lo Cascio).
Speciale Panini - Ricetta a cura della redazione
LE CROQUEMONSIEUR Vuoi mangiare un signore caldo caldo?
Quasi sicuramente, se avete visitato Parigi, vi sarà capitato di leggere un menù esposto nelle tante caffetterie o negli innumerevoli bistrot che popolano il centro cittadino. Scorrendolo con attenzione, per non incappare nel rischio di ordinare del cibo indesiderato, il vostro interesse potrebbe essere stato attirato da una specialità amatissima dai francesi, Le Croque Monsieur. Tradotto letteralmente significa mordere il signore: si tratta di un toast - anche se definirlo così è riduttivo - farcito prima con besciamella, formaggio, prosciutto cotto e poi gratinato in forno. È un piatto ideale per una pausa pranzo o per uno spuntino veloce; fin dal suo esordio ha fatto innamorare di sé i francesi che lo considerano uno dei simboli della propria cultura, al pari della pizza in Italia.
Tra gli estimatori più famosi di questo toast troviamo lo scrittore Marcel Proust, al quale si deve la prima citazione letteraria del croque-monsieur nel romanzo All'ombra delle fanciulle in fiore, pubblicato nel 1918 (secondo volume su sette della sua opera letteraria più importante, Alla ricerca del tempo perduto, 1913-1927). “Ora lasciando il concerto, nel prendere il sentiero che va in albergo, ci siamo fermati un momento sulla diga, mia nonna ed io,
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Le sue origini sono un po’ fumose, così come la motivazione sulla scelta del nome. Lo storico René Girard ci racconta nel suo lavoro pubblicato nel 1948, Histoire des mots de la cuisine française, l’origine divertente del croque-monsieur. Nel 1901 a Parigi, in Boulevard des Capucines, c'era un piccolo caffè che si chiamava "Le Bel Age". Il capo, Michel Lunarca, aveva la reputazione di essere un cannibale, malignità indubbiamente messa in giro dai concorrenti. Ogni giorno un gran numero di clienti entrava nella caffetteria di Michel e questo fatto aveva attirato sul malcapitato l’invidia di tutti i gestori delle caffetterie parigine. Così, per rovinargli gli affari, diffusero la maldicenza su di lui. Lunarca, però, per niente scoraggiato dalla bugia, iniziò a scherzare apertamente con i clienti sulla sua preferenza per la carne umana, tanto da attirare sempre più avventori. Quando presentò il nuovo sandwich (da lui inventato un giorno in cui, a corto di baguette, decisa di usare il pan de mie, simile al pane in cassetta ma dal gusto dolce e senza la crosta), alla domanda su cosa avesse usato per il ripieno rispose “carne di signore”, scatenando l’ilarità generale.
per scambiare qualche parola con la signora de Villeparisis, che ci ha detto di aver ordinato per noi all’hotel croque-monsieur e crema d’uova.”
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A sottolineare ancora di più l’importanza di questa pietanza nella quotidianità del popolo francese fu l’inserimento del goloso sandwich all’interno della IX edizione del Dizionario dell’Accademia di Francia: “Vivanda formata con due fette di pane tra le quali è messo del prosciutto ricoperto di formaggio che viene cotta al forno.” La definizione, messa su carta dopo molte ore di discussione e che parlava appunto di cottura al forno, non convinse la moglie di Louis Leprince-Ringuet, fisico, ingegnere delle telecomunicazioni, storico della scienza e della saggistica francese, e membro dell’Assemblea atta a decidere quali nuove parole dovessero essere inserite nel vocabolario. La donna, dopo aver ascoltato la versione finale, rispose al marito che per tostare il panino non bisognava usare il forno, perché esisteva l’apposita griglia: le grill à croques-monsieurs. Dopo la drammatica scoperta il fisico cercò di convincere i colleghi ad apportare la modifica mostrando loro l’utensile, senza riuscirvi. Forse perché dopotutto la ricetta poteva essere realizzata comodamente anche senza l’arnese apposito.
INGREDIENTI per 6 persone
12 fette di pane in cassetta 6 fette di prosciutto cotto
Passando alla pratica, come si prepara? L’accademia culinaria di Francia ha stabilito che un vero croque-monsieur deve essere preparato con il pan de mie farcito con besciamella, formaggio dalla pasta filante (Emmenthal o Groviera), prosciutto cotto; lo strato superiore del panino deve essere ricoperto con besciamella e formaggio.
400 g di formaggio Emmenthal o Groviera
Dopo qualche anno comparve la prima variante, il croque-madame; a differenza dell’originale il sandwich è abbrustolito in padella nel burro fuso ed è sormontato da un uovo fritto, che ricorda il cappellino a falda larga indossato all’epoca dalle signore: da qui, il nome.
50 g di burro
In seguito sono nate molte altre versioni più o meno famose come: - il vegetariano croque-mademoiselle, probabilmente dedicato alle fanciulle perché, essendo prive di marito dovevano stare attente alla linea, diversamente dalle donne sposate che un uomo lo avevano già accalappiato; - il croque-provençal, realizzato con il pomodoro; - il croque-norvégien, dove il salmone sostituisce il prosciutto; - il croque-auvergnat, con il formaggio blu d’Alvernia, prodotto nell’omonima regione nel Sud della Francia. E tantissime altre ricette. Se, dopo tutte queste chiacchiere, vi è venuta voglia di sgranocchiare un signore, ecco a voi la ricetta.
500ml di besciamella preparata secondo la ricetta di Gianfranco Lo Cascio del numero di Aprile 2020, con le seguenti dosi: 500 ml di latte intero freddo o a temperatura ambiente 50 g di farina debole
PREPARAZIONE: 1. Tritate grossolanamente il formaggio con un coltello. 2. Preparate il dispositivo per una cottura indiretta a 250°C. 3. Prendete un fetta di pane, spalmateci sopra una generosa dose di besciamella e ricopritela con una una fetta di prosciutto. Potete utilizzare un prosciutto affumicato, tipo Praga. 4. Ricoprite il salume con abbondante formaggio. 5. Chiudete il tutto con il pane. 6. Per creare il topping, rivestite la parte alta del toast con un po’ di besciamella e di formaggio. La besciamella dovrà essere della consistenza di una crema pasticcera. 7. Mettete il toast su una teglia foderata con carta forno e ripetete la procedura con un altro panino. 8. Ponete la teglia sulla griglia, dalla parte opposta delle braci, chiudete il coperchio, lasciate andare i toast per 5 minuti circa. 9. Sono pronti quando il formaggio sarà fuso e leggermente dorato.
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Vi ricordo che è vietato l’utilizzo di qualsiasi tipo di sottiletta, pena la ghigliottina.
Speciale Panini - Ricetta a cura di Michela Bongiorni
PO'BOY
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dalla Louisiana a Mazara
INGREDIENTI per 2 panini
due ciabattine ai cereali da circa 250 g lâ&#x20AC;&#x2122;una 400 g di Gamberi di Mazara GLC Top Selection (puliti e sgusciati) 100 g di insalata iceberg un lime mezzo cucchiaio di olio extravergine di oliva 400 g di farina 00 200 g di acqua frizzante fredda sale q.b. pangrattato q.b. mezzo litro di olio di semi di arachidi per la maionese al lime 200 g di yogurt greco 100 g di maionese un lime sale q.b. per la salsa piccante due peperoni rossi tre pomodori tondi non troppo maturi mezza cipolla bianca 200 g passata di pomodoro due cucchiaini di salsa Worcestershire due cucchiaini di aceto di mele un cucchiaino di zucchero un peperoncino mezzo cucchiaino di zenzero in polvere due cucchiaini di sciroppo dâ&#x20AC;&#x2122;acero sale q.b.
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â&#x20AC;˘ tre cucchiai di olio di oliva
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sarà semplice, perché difficilmente riuscirete a resistere alla tentazione di mangiarveli così, appena scolati dall’olio, croccanti e caldissimi. Per cui, ho pensato di darvi anche un ricetta di una salsa piccante (ma non troppo) che si inspiri a quella della Luoisiana, fatta però con peperoni e pomodori cotti in ember roasting, ovvero a contatto diretto con le braci, in cui intingere i deliziosi e irresistibili crostacei fritti mentre preparate i panini per il resto della ciurma. Ok, siamo pronti? Sgusciate e pulite bene i gamberi rossi (ma non buttate vie le teste, sarebbe un peccato mortale! Usatele per la bisque) e scaldate l’olio di semi. Il Po’ Boy ci aspetta. Il nome di questo famoso sandwich di New Orleans, richiama certamente le sue umili origini. Come accade spesso quando si cerca di risalire alla storia di una preparazione ormai famosa e tradizionale, anche l'origine del Po’ Boy ha diverse versioni, spesso di dubbia veridicità. Di fatto, la storia più ampiamente accettata sostiene che il sandwich fu inventato da Clovis e Benjamin Martin, fratelli ed ex conducenti del tram, che aprirono un ristorante in St. Claude Avenue a New Orleans negli anni '20 del Novecento. Quando, nel 1929, venne proclamato lo sciopero dei conducenti, i fratelli Martin, in segno di solidarietà, sposarono la loro causa e crearono un panino molto economico condito con sugo e roast beef, da servire ai disoccupati nella parte posteriore del loro ristorante. Ogni volta che un lavoratore andava a prenderne uno, dalla cucina saliva il grido "here comes another poor boy!" (ecco che arriva un altro povero
ragazzo!). Alla fine cominciò ad essere chiamato così proprio il panino, Poor Boy, contratto successivamente in Po’ Boy. Oltre alla versione col roast beef, nel tempo questo sandwich ha conosciuto molte altre varianti: nella baguette vengono spesso serviti più tipi di fritto fra cui pesce, pollo e anatra. Una delle versioni più famose è certamente quella coi gamberi fritti, insalata, maionese e salsa piccante della Louisiana. Bene, noi abbiamo deciso di rendere il Po’ Boy un ragazzino un po’ meno povero usando i gamberi, sì, ma quelli rossi di Mazara del Vallo. Quelli che ormai avete imparato a conoscere, grazie anche allo speciale del Magazine di Dicembre 2019. Burrosi, sontuosi, dolcissimi, i gamberi rossi di Mazara si sono sposati benissimo con la croccantezza dell’insalata iceberg e con la maionese al lime. Tuttavia, vi assicuro che ficcare i gamberi fritti in un panino non
PREPARAZIONE: 1. Accendete mezza ciminiera di bricchette e, quando saranno pronte, versatele nel vostro dispositivo, appoggiandoci sopra direttamente i peperoni e i pomodori. Fate attenzione a girare gli ortaggi ogni tanto, in modo che si arrostiscano da tutti i lati. Quando saranno pronti, la buccia sarà bruciacchiata e loro si saranno ammorbiditi, trasferiteli in una teglia di alluminio e lasciateli raffreddare. 2. Spellate i peperoni, privateli dei semi e tagliateli a brunoise; spellate i pomodori e schiacciateli con una forchetta. 3. Tritate finemente la cipolla, e mettetela a soffriggere in un pentolino con l’olio e il peperoncino anch’esso tritato molto finemente. Aggiungete poi i peperoni, i pomodori schiacciati, la passata di pomodoro. 4. Aggiustate di sale e lasciate cuocere il sugo per qualche minuti, poi aggiungete la salsa Worcester, lo zenzero in
Poveri ragazzi, dovete mangiarvi ‘sto panino! So’ sacrifici.
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polvere, l’aceto di mele e lo zucchero. Lasciate sobbollire la salsa a fuoco dolce per un’oretta buona, girandola di tanto in tanto e facendo attenzione che non si asciughi troppo. 5. Aggiungete alla fine lo sciroppo d’acero e fatela cuocere ancora qualche minuto, poi spegnete il fuoco. A questo punto potete scegliere se passarla con il frullatore a immersione o se lasciarla più rustica (io ho optato per la seconda opzione). 6. Mescolate lo yogurt con la maionese, aggiustando di sale, e grattugiateci dentro la scorza del lime. 7. Preparate una pastella con farina, acqua frizzante e un pizzico di sale, e tuffateci i gamberi, che poi passerete anche nel pangrattato. 8. Scaldate l’olio di semi di arachidi a 180°C e friggete i gamberi per pochi minuti, poi scolateli e passateli nella carta assorbente. Nel frattempo affettate sottilmente l’insalata iceberg, e conditela con un pizzico di sale, olio e succo di lime. 9. Aprite i panini a metà, tostateli un po’ e poi adagiate sul fondo l’insalata, i gamberi e infine la maionese al lime. 10. Servite a parte la salsa piccante, che potrete mettere nel panino o usare come accompagnamento al cartoccio di gamberi fritti che sicuramente vi sarete tenuti da parte.
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Ricetta a cura della redazione
LA CROSTATINA ALLE NOCCIOLE E GRAND MARNIER
Tu non ci basti mai, davvero non ci basti mai!
Lo sappiamo che lo avete pensato. Ne siamo consapevoli, vi abbiamo presentato nei mesi crostate in tutte le salse e anche questo mese abbiamo optato per questa scelta. Ma c’è un motivo. Con l’arrivo della bella stagione è quasi impossibile non parlare di questa specialità: è uno dei simboli della primavera, e anche se qualcuno potrebbe pensare “eh capirai, avanguardia pura!” a noi piace un sacco, e soprattutto la riteniamo adatta per il menù presentato in questo numero. Fra le altre cose, è il dolce per eccellenza dei pic-nic, perché facilmente trasportabile e perché si può mangiare direttamente con le mani senza forchettina e piattino (e in periodi come questi, in cui si può passeggiare ma non sostare a lungo in un posto, portarsi dietro una merendina comoda e veloce da ingurgitare non è un male). Come tutte le ricette, anche questa ha una storia. La sua nascita sembra risalire intorno all’anno 1000 a Venezia, quando venne trasformata una ricetta salata già esistente dall’età pre-cristiana, in una torta con la semplice aggiunta dello
zucchero di canna, proveniente dai viaggi della Serenissima in Cina. Alcuni studiosi sostengono (senza però dirci quando) sia nata dalle mani delle suore del convento di San Gregorio Armeno a Napoli, e che la tipica decorazione a reticolo rappresenti le grate dei parlatori. Dietro al nome crostata si nasconde una grandissima varietà di ricette e di gusti. A partire dalla frolla semplice, al burro o aromatizzata al cacao, alla vaniglia, agli agrumi e alla nocciola; passando dal tipo di cottura, in cui la base e il ripieno possono essere cotti insieme o separatamente; fino ad arrivare al ripieno che può comprendere ogni tipo di marmellata e di confettura e una moltitudine quasi infinita di creme alla vaniglia, alla ricotta, al limone, all’arancia, al cioccolato, al tè verde e chi più ne ha più ne metta. Oggi andiamo proprio sul classico, presentandovi la preparazione must della bella stagione: la crostata di frutta fresca. Per realizzarla utilizzeremo la pasta frolla con la farina di nocciole IGP del Piemonte tostate, la crema al Grand
Marnier e i frutti di bosco. Il sapore dolce e burroso della frutta secca con un leggero sentore di cacao (esaltato dalla tostatura), si sposa alla perfezione con la nota aromatica all’arancia del liquore; mentre la leggera punta di acidità dei mirtilli, delle more e dei lamponi dona quel tocco di freschezza in più stemperando al contempo la dolcezza persistente della pasta e del ripieno, permettendoci di assaporarne tutti i singoli elementi. Per ovviare all’unica difficoltà di questa preparazione, ovvero la decorazione di un dolce di dimensioni più grandi, che richiede una grande manualità (solitamente i risultati casalinghi sono molto deludenti, poiché spesso la frutta è maldestramente affettata e distribuita ancora peggio, tanto da risultare molto spesso affogata nella crema), vi abbiamo proposto queste goduriose crostatine. In questo modo vi basterà disporre i lamponi, le more e i mirtilli centralmente, lasciando la crema a vista. Semplice, veloce e di sicuro effetto. Preparate i telefoni, la foto da postare sui social è in agguato.
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Oh no, ancora una crostata?
PREPARAZIONE: 1. Preriscaldate il forno alla temperatura di 200°C. 2. Disponete le nocciole su una teglia e infornatele fino a quando non saranno belle dorate. Non devono assolutamente bruciare, altrimenti daranno un fastidioso sentore amaragnolo alla frolla. 3. Tritate nel mixer la frutta secca fino a farla diventare polvere. 4. In una ciotola capiente versate la farina setacciata, la polvere di nocciole, lo zucchero, il burro freddo (tagliato a cubetti) e i tuorli. 5. Lavorate l’impasto con le mani fino a quando non avrete ottenuto un panetto compatto, che avvolgerete nella pellicola alimentare. Lasciatelo riposare in frigo per almeno un’ora. 6. A questo punto preparate la crema. In un pentolino versate il latte a temperatura ambiente, i tuorli già sbattuti, la farina setacciata, lo zucchero e il liquore. Ogni volta che inserite un ingrediente mescolate vigorosamente con la frusta per evitare la formazione di grumi. 7. Ponete il pentolino su una fiamma medio alta continuando a mescolare il composto. Quando la crema arriva al bollore spegnete la fiamma e continuate a mescolare. Fate raffreddare completamente la crema. 8. Su una spianatoia spolverata con la farina, stendete con un matterello la pasta frolla sottilmente. Coppate la sfoglia ottenendo dei cerchi con i quali foderare gli stampi imburrati. Bucherellate il fondo con l’aiuto di una forchetta. 9. Preparate il forno (statico) per una cottura a 180°C. 10. Ritagliate dei dischi di carta forno con i quali ricoprire la pasta frolla per ottenere una base omogenea; metteteci un peso all’interno, dei fagioli o dei ceci secchi andranno benissimo. 11. Infornate per 15-20 minuti circa. 12. Quando le crostatine sono pronte, sformatele delicatamente e lasciatele raffreddare su una griglia.
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13. Con la crema, completamente raffreddata, riempite i gusci di frolla e decorateli secondo il vostro gusto con i frutti di bosco. Lucidate con della gelatina neutra o poca marmellata di albicocca diluita con acqua. 14. Riponete le mini crostate in frigo almeno per mezza giornata prima di servirle. Se volete al momento del servizio potete colarci sopra un po’ di cioccolato fuso.
INGREDIENTI per 6 personei per la frolla 300 g di farina 00 100 g di nocciole sgusciate 130 g di burro 120 g di zucchero a velo di canna Per la crema: 400 ml di latte intero 4 tuorli d’uovo 100 g di zucchero 4 cucchiai Grand Marnier 30 g di farina Per la decorazione: 50 g di more 50 g di lamponi 50 g di mirtilli Gelatina neutra per lucidare
IL MALE vegetariano
spiegato alle ragazze!
C’è un libro che dovrebbe fungere da Bibbia di chi vuole davvero combattere le orde vegane – e più in generale vegetariane. Si chiama The vegetarian Myth. Si tratta di un testo fondamentale, che dovreste regalare a qualunque vostra amica vegetariana, sostiene il medico nutrizionista Michael R. Eades. Non che non lo si possa offrire in cadeau anche ai vegani maschi: è che, in molte pagine, è pienamente percepibile una sensibilità femminile, invero ferita negli anni dal male vegetariano. L’autrice, Lierre Keith, è una signora americana ambientalista e femminista radicale (ecofemminista: c’è la parola). Uno può fare a meno di sentire le sue idee, ma non può ignorare la storia personale di dolore e consapevolezza di cui dà testimonianza. Il responso è netto ed incontrovertibile. «Una dieta vegetariana – soprattutto una versione a basso contenuto di grassi – non fornisce un’alimentazione sufficiente per il mantenimento in buone condizioni del corpo umano nel lungo periodo. Per parlare chiaro: vi danneggerà». Non lo dice solo perché ha studiato la materia sui libri, ma
perché l’ha vissuto – purtroppo – sulla sua pelle. «Avevo sempre fame, ma credevo che la rettitudine e la giustizia sarebbero state il mio nutrimento. Ho fatto in modo che fosse vero. Il corpo e il cervello si sono consumati, giorno dopo giorno. Fino all’ultima ora della mia vita vegana, ho fatto in modo che fosse vero». VITA DI DOLORE Giovanissima, dopo due anni che aveva intrapreso il veganismo, la salute di Lierre peggiorò, e non poco: «L’ha fatto in modo catastrofico. Ho sviluppato una patologia degenerativa delle articolazioni che mi
accompagnerà per il resto della vita». Era cominciata con un dolore di fondo, dice, in una zona del corpo che nemmeno pensava che potesse essere sensibile. Qualche mese dopo percepiva come delle schegge dentro la sua schiena. Gli anni che seguirono furono di sofferenza con il consueto calvario medico che potete immaginare: visita questo specialista, visita quest’altro, m a g a r i badando
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Cultura e Socieltà a cura di Roberto Dal Bosco
a chiedere appuntamento a quelli vegan-friendly. «Ci sono voluti quindici anni per avere una diagnosi invece che una pacca sulla testa». Nessuno dei medici prendeva in considerazione il fatto che potesse trattarsi di discopatia degenerativa, tantomeno nessuno osava ammettere che la colonna vertebrale di una teenager non cade a pezzi da sola. Ora, dice guardando la radiografia, «la mia spina dorsale assomiglia ad un incidente aereo».
Lierre Keith
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Non che ci siano voluti anni perché sentisse che nel suo corpo le cose andavano male: «Dopo sei settimane di dieta vegana sperimentai il mio primo episodio di ipoglicemia, sebbene non abbia imparato a classificarla prima che fossero passati 18 anni, e fosse diventata parte della mia vita». Ma il male vegano non si arresta, racconta, e si propaga per il corpo sino ad intaccare persino la fertilità della persona. «Dopo tre mesi di dieta le mie mestruazioni cessarono, il che avrebbe dovuto costituire un indizio del fatto che probabilmente non si era trattato di una buona scelta». In realtà, anche questo dettaglio fu incredibilmente ignorato per decenni. Ma non finisce qui. Spossatezza, senso continuo di freddo. La pelle le diventò così secca da desquamarsi, e d’inverno il dolore era tale da non riuscire a dormire. A 24 anni arriva la gastroparesi: la parziale paralisi dello stomaco, malattia che ha come risultato la stagnazione del cibo dentro la sacca gastrica per un tempo abnorme. Tra i non pochi sintomi del problema: nausea cronica, vomito, bruciore di stomaco, perdita di peso, spasmi addominali, gonfiore, reflussi gastroesofagei. Nessuno però, guarda guarda, gliela diagnostica né gliela cura. Deve aspettare i 38 anni, quando si affida ad un medico «specializzato nel recupero dei vegani». (Sì, esistono: Dio li benedica). «Sono stati 14 anni di nausea costante, ed ancora adesso non posso mangiare dopo le cinque del pomeriggio». Vi basta? Ma neanche per scherzo. A tutto ciò si sommano depressione ed ansia. «Tutto era crollato, vuoto, privo di significato, quasi ripugnante».
Uscita dal tunnel, riesce a capire il perché. La serotonina, la sostanza endogena ritenuta fondamentale per il benessere, è prodotta a partire da un aminoacido chiamato triptofano. Il quale è contenuto proprio negli alimenti aborriti dal veganesimo: carne, latte, uova. Il bianco d’uovo disidratato ne contiene all’1,27%; il parmigiano all’1,47; il manzo all’1,12%. L’assunzione di triptofano, peraltro, non comporta alcun miglioramento se non vi sono anche i grassi saturi, cioè propriamente i trigliceridi che trovate nel grasso animale. I grassi saturi sono fondamentali per consentire l’operatività dei neurotrasmettitori. Quella del grasso che fa male – definita in scienze alimentari «Ipotesi lipidica» – è un altro mito sul quale andrebbe posta qualche domanda. ANORESSIA VEGETARIANA? Senza carne, uova e latte, non c’è felicità? Parrebbe di no, soprattutto se poniamo a mente una spiegazione alimentare del triste caso dell’anoressia. L’idea che avanza – terribile – è quella di un’associazione tra vegetarianismo e disturbi alimentari. I dati cantano: «un numero compreso tra il 30% e il 50% delle ragazze e delle donne che ricorrono a un trattamento per l’anoressia e la bulimia sono vegetariane». Un terzo dei pazienti che vengono ricoverati in cliniche per l’anoressia, come il Bloomington Hospital (Indiana) e l’Harvard Eating Disorder Clinic seguono una dieta veg. Metà dei pazienti del Radder Institute a Los Angeles, dove opera la nutrizionista Sheri Weitz, sono vegetariani. A questo fenomeno, la correlazione tra vegetarianismo e anoressia/bulimia, non c’è una risposta sociopolitica. C’è una risposta biochimica: le diete vegetariane hanno tipicamente un basso contenuto di triptofano, cioè del precursore della serotonina. «Gli studi hanno dimostrato in continuazione che rimuovendo il triptofano dalla dieta si riduce la serotonina, ed aumentano la depressione (compresa la depressione stagionale), l’insonnia, gli attacchi di panico, la rabbia e anche la bulimia e la dipendenza chimica» scrive la psicologa dell’alimentazione
La dottoressa Ross, che ha studiato la biochimica dell’anoressia, ritiene che la principale questione sia la mancanza di triptofano: senza di quello, niente serotonina, cioè il neurotrasmettitore che ci fornisce autostima e benessere. Una persona priva di vero cibo, scende nei livelli di serotonina; quello che resta, senza autostima, è una psiche che si attacca alle compulsioni. Quando la serotonina cala, scrive la Ross, «Si diventa ossessionati da pensieri che non si possono scacciare, o da comportamenti che non si possono arrestare». In pratica una sindrome ossessivo-compulsiva di origine alimentare: «Così come gli ossessivi-compulsivi con bassi livelli di serotonina si lavano le mani cinquanta volte al giorno, qualche giovane a dieta può cominciare a praticare una costante e volontaria vigilanza sul cibo e sul corpo, che deve essere perfetto. Diventano ossessionati dal conteggio delle calorie (...) Via via che mangiano meno, i livelli di serotonina scendono ulteriormente, aumentando l’ossessione di mangiare ancora meno». Un circolo vizioso, tutto causato dalla mancanza del giusto, sano onnivorismo: «come la carenza di vitamina C (scorbuto) provoca un’eruzione di macchie rosse, così la carenza di triptofano (e di serotonina) dà adito alla comparsa di
quei comportamenti ossessivi compulsivi che chiamiamo “controllo”. Possono anche esserci fattori psicologici in questo quadro, ma un cervello con poca serotonina è mal equipaggiato per risolverli». La Keith ammette di aver conosciuto tanti casi di anoressia, perfino tra i maschi. «Chiunque abbia conosciuto affetto da un disordine alimentare era vegetariano». IL QI DELLA SCATOLETTA DI TONNO L’ultimo giorno da vegana di Lierre è descritto in modo struggente. Si era recata, nel disperato pellegrinaggio alla ricerca di una soluzione allo scompiglio devastante del suo corpo, da un maestro di Qi Gong, l’antica pratica cinese che cura le energie del corpo, cioè il qi (ne abbiamo parlato su queste colonne nell’articolo sulla storia della cucina cinese). Il maestro di Qi Gong deve essere in grado di leggere il qi di una persona quando la tocca in un punto preciso. Questi era nato in Cina, e li aveva studiato, per poi solo successivamente, da adulto, emigrare negli USA. Aveva avuto con probabilità una vita di privazioni, e non aveva la capacità di esprimersi subito in inglese. Per cui, Lierre dovette leggergli il volto quando egli le prese i polsi, lo strumento diagnosticoper eccellenza della disciplina. Il cinese sbiancò. La guardò «metà con timore e metà con orrore». «Non c’è nulla qui. Non hai alcun qi». Il maestro capì che il problema era l’alimentazione. «Niente carne? Niente pollo? Niente pesce? Non puoi fare questo». Lierre cominciò a piangere. «Non voglio fare male a nessun animale». «Pesce grande mangia pesce piccolo» disse il cinese con limpida semplicità. La ragazza negò di essere un pesce, il maestro scrollò le spalle come per dire: certo che lo sei. Nella commozione, Keith non era pronta a capire quanto ciò fosse vero. «Lui sapeva la verità su di me: ero un cadavere che si muoveva grazie alla pura, testarda forza di volontà. La struttura di base del mio corpo stava crollando lentamente. Ero così fredda che le mie mani e i miei piedi dolevano mesi mesi l’anno. E non avrei potuto avere un bambino
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Julia Ross nel suo libro The Diet Cure. In pratica «Le donne e le ragazze vegetariane che si rivolgono alle cliniche per i disturbi alimentari in così grande numero non hanno cominciato come anoressiche che hanno casualmente scelto una dieta vegetariana. È accaduto l’opposto. Cominciarono scegliendo il vegetarianismo, e la mancanza di triptofano le ha predisposte a un disordine alimentare». Anche la carenza di zinco è un problema per l’umore e per la comparsa di sintomi ossessivo-compulsivi. E lo zinco è una delle cose che può mancare nella dieta vegetale, visto che si trova soprattutto nella carne rossa e nei tuorli d’uovo. Assieme a quella di triptofano e zinco, anche la carenza di niacina – la vitamina PP, quella senza la quale i nostri bisnonni si ammalavano di pellagra – pare essere interessata nei disordini alimentari.
nemmeno se l’intera specie fosse dipesa da me». Così, finito il trattamento, Lierre cercò le forze per passare da un supermercato. Comprò una scatoletta di tonno. Arrivata a casa, la mise sul tavolo della cucina. Prese una forchetta. Aprì. Mangiò. «Non so descrivere cosa accadde dopo. “Mi sono sentita come se uscissi da un coma” mi disse una volta una ex vegana. Potevo sentire ogni cellula del mio corpo – ogni cellula, letteralmente, che pulsava. E finalmente, finalmente, nutrita. Oh Dio, pensai: è questo che si prova ad essere vivi». In seguito, pianse. Pianse ogni giorno per tre settimane: ma mangiando carne. Una cosa che le dava sensazioni talmente intense che dopo mangiato doveva sdraiarsi. Dopo qualche tempo, non pianse più, e trovò pure il coraggio di confessarlo a degli amici vegani. Alcuni confessarono a loro volta di non aver mai smesso di mangiare carne.
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HAPPY END CON CARNE Alla fine della storia, una volta uscita dal nero tunnel del veganismo, come sta Lierre? «La mia spina dorsale non è guarita, ma il passare ad una dieta costituita da prodotti di animali alimentati ad erba ha consentito un parziale recupero, e alleviato moderatamente i livelli di dolore. I miei recettori per l’insulina non sono ancora in numero adeguato, ma le proteine e i grassi mantengono la mia glicemia stabile e contenta».
Le mestruazioni le sono riprese con regolarità, «sebbene abbia sviluppato un tumore agli organi riproduttivi del quale attribuisco la responsabilità alla soia». Già, la soia, un altro capitolo immenso, che ci teniamo per un altro episodio. Il senso di spossatezza e il freddo le sono rimasti. La depressione no, e dice che è stata vinta grazie alla spiritualità e ad una dieta ricca di nutrienti. «Ho perso vent’anni a causa della depressione: la maggior parte della mia giovinezza. Il mondo ha i suoi colori adesso, è perfino bello, e ne sono grata ogni giorno». Sottolinea: «il mio cervello, e il mondo che lo ha reso possibile, ha bisogno di essere nutrito. È semplice, ho bisogno di almeno 90 grammi di cibo proteico di qualità al mattino, altrimenti a mezzogiorno il mondo comincia a diventare un ripido precipizio di ansia e disperazione». Anche senza parlare di depressione, la definizione ci pare perfetta: un mondo senza carne non può che sembrarci «un ripido precipizio di ansia e disperazione». Il lettore, che giocoforza conosce le gioie della carne, non può che convenirne. Quella di Lierre Keith è una vera testimonianza: cioè, una vita che deve esserci di monito. «Non dovete sperimentare su voi stessi: vi è consentito apprendere dai miei errori». La dobbiamo prendere in parola. E non trascurare un sacrificio del genere. E adesso sotto a far cenere per tutti. Quando offrite il BBQ a qualcuno lo state salvando.
Le Razze - rubrica a cura di Roberto Dal Bosco
La bionda galiziana è ambita assai. La bionda galiziana fa felice un uomo. La bionda galiziana non è una birra, non è una sigaretta, tantomeno è una donna. La bionda galiziana è un bovino. Il carnivoro disinibito conosce il suo nome spagnuolo, Rubia Gallega. Togliete una elle e ottenete il nome in galiziano: Rubia Galega. La sostanza non cambia: siamo al top dei top, con alcuni specialisti che la piazzano sulla vetta della classifica bovina mondiale accanto alla Wagyu. La Rubia viene dalla Galizia, la regione – pardon, la comunidad autónoma – che si affaccia all’Oceano. Vive in tutta la Galizia, ma tre quarti della popolazione rubia si concentra nella provincia di Lugo (che non è Lugo di Romagna e nemmeno L u g o
in provincia di Vicenza: è una località galiziana). È facile trovarla in montagna sopra i 550 metri nel nord della provincia: Serra da Carba, Serra de Lourenzá e Serra de Xistral. Dicono che abbia parentado francese, in particolare di quella che chiamano la Blonde d’Acquitaine. Oltralpe infatti è chiamata Rouge de Galice. In passato è stata considerata u n a
vacca di razza mista, atta a produrre, oltre che la carne, il latte, utilizzato nella produzione di un formaggio chiamato Tetilla, il quale ha ottenuto la certificazione
DOC dal 1993 e la certificazione europea DOP dal 1996. Il primo standard della razza è fissato al 1933, ma la selezione è molto risalente. Si ritiene che nel XX secolo si verificarono alcuni incroci con le razze portoghese Barrosã, Braunvieh, Simmenthal e British Shorthorn. La Rubia mangia un’erba grassa, ricca di iodio – fenomeno dovuto alla salsedine nell’aria atlantica. Cresce dentro un clima dolce, e viene lasciata pascolare liberamente per tutto l’anno, riducendo il suo stress praticamente a zero. Ciò le permette di sviluppare grasso all’interno dei muscoli, che come sappiamo è la chiave di volta nella qualità della carne.
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Rubia Gallega
MORFOLOGIA DI UNA BIONDA Possiede un petto profondo, lungo e arcuato. La schiena e i lombi sono larghi, piatti e muscolosi. Cosce, glutei e gambe sono lunghi e convessi. Lo scheletro è robusto e ben sviluppato. Tutte queste condizioni coincidono con la conformazione larga ed abbondante degli animali specializzati nella produzione di carne. Il maschio arriva a pesare 900-1100 chilogrammi; la femmina 650-700. La carcassa della femmina arriva a toccare i 380 chili. Si chiama rubia perché il suo pelo può essere rossobiondo, color grano o color cannella (detta capa teixa). Il tal colore rubio ammette oscillazioni che vanno dal chiaro (marelo) allo scuro (vermello): il termine biondo in lingua galiziana ha la stessa radice di rubor in castigliano (che indica un colore rossastro) ed entrambi derivano dal latino rubor, ruboris che indica il rossore del volto (da cui la parola italiana rubizzo). Le mucose sono rosa e gli zoccoli e le corna di colore chiaro, dal bianco rosato al color castagna, con qualche oscuramento nelle estremità. La rubia è di temperamento tranquillo e si rivela adatta per il lavoro animale, ma è considerata lenta rispetto alle altre razze. La sua cifra è il tempo: viene fatta invecchiare molto a lungo, specie se prendiamo come paragoni le razze anglo. Parliamo di 8-15 anni, siamo ad un passo dalla patente e dalla tessera elettorale.
STORIA DI UNA ROSSA Nel volume Razas bovinas españolas (1984) Vallejo e Sánchez raccontano di come la rubia sia figlia della storia europea e dei suoi rivolgimenti. Tra il 1840 e il 1892, lo sviluppo economico emerso in Inghilterra sulla scia della rivoluzione industriale generò un mercato del bestiame più favorevole alla Galizia rispetto al tradizionale mercato che si svolgeva in Castiglia. Fu l’Inghilterra il fattore chiave nello sviluppo del mercato – e quindi della nuova razza. Lo scambio con gli inglesi fu condotto direttamente attraverso i porti di La Coruña, Carril e Vigo, e pure per via indiretta attraverso il Portogallo, raggiunto scavalcando i valichi di frontiera: il bestiame veniva spedito oltremanica dal porto di Porto. I galiziani estendevano i loro commerci anche con Gibilterra. Il risultato fu che, a differenza dei castigliani (con cui pure continuavano ad avere traffici) i gallegos rappresentavano l’unica realtà iberica ad essere aperta all’incombente potenza industriale britannica. L’idillio anglo-galiziano si interruppe negli anni 1890, quando il commercio con l’Inghilterra fu definitivamente sospeso, a seguito dello sviluppo di navi refrigerate e quindi della creazione di nuove possibili rotte per la carne con il Nord America e l’Argentina. Questo impasse economico portò gli allevatori galiziani a escogitare un miglioramento genetico del loro bestiame. Scelsero dunque di introdurre altre razze per migliorare la rubia.
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Così, tra Ottocento e Novecento, importarono in Galizia tori da monta di varie razze come Durham, Angus, Hereford, Swiss Brown, Simmenthal. La storia della Rubia parte da qui: l’identità razziale, annotata negli anni da alberi genealogici per lo più voluti dagli inglesi, fu per sempre compromessa ma a vantaggio di una razza oggi considerata stabile nell’Olimpo della zootecnia. Il primo congresso agricolo e zootecnico tenutosi in Spagna, ebbe luogo a Lugo nel 1906. Stabilì la necessità di effettuare una selezione scientificamente diretta. Nel 1916 fu pubblicata la prima monografia sulla razza. Si distinguevano due varietà: Rubia delle valli e Rubia delle montagne. Nel 1933 la direzione generale del bestiame pubblicò il Regolamento ufficiale dei libri genealogici e fu stabilito per la prima volta lo standard della razza Rubia Gallega.
Il lavoro di selezione diede i suoi frutti. L’effetto immediato fu un avanzamento concreto, e quantificabile, della razza. Scrive lo studioso Luciano Sánchez García in Raza vacuna rubia gallega: evolución, situación actual y perspectivas zootécnicas che il peso medio dei tori da monta nel concorso nel 1913 era di circa 600 kg, mentre nel 1950 alla fiera di Campo de Madrid era di 984 kg.
Nel 1960 fu approvato dal Ministero dell’Agricoltura spagnuolo il Regolamento de Libros Genealógicos y Comprobación de Rendimientos del ganado (ganado è probabilmente l’unica parola che l’italiano fatica a tradurre intuitivamente: significa bestiame); nel 1969 apparvero le Normas Reguladoras del Libro Genealógico y Comprobación de Rendimientos del ganado vacuno de la raza rubia gallega, che avevano lo scopo di mantenere la purezza della razza attraverso la selezione, preservare la sua rusticità e sviluppare la sua precocità. Nel 1973 furono regolamentati di nuovo i libri genealogici. Il censimento della razza al 31 dicembre 2013 contava 65.469 bestie, con 50.252 femmine e 15.217 maschi distribuiti in 2.282 allevamenti, ma va tenuto presente che questa cifra indica solo gli animali registrati nel Libro genealogico, un requisito che esclude numerosi esemplari, come quelli che non rispondono in modo soddisfacente allo standard razziale, cioè quegli esemplari che non raggiungono una qualifica minima di 65 punti nelle femmine o 70 punti nei maschi, su una scala fino a 100. MANGIARE LA BIONDA Chi l’ha assaggiata sa che parliamo di un sapore marcato, talvolta persino piccante, che persiste in
bocca. La carne è piuttosto tenera. Si dice inoltre che la salinità presente nel gusto sia dovuta all’aria atlantica: con la Rubia, insomma, l’Oceano si fa sapore. Nella Rubia anche la marezzatura ha colori particolari, andando dal bianco perla al gialloarancio. C’è in giro chi parla di frollatura per 40 giorni di modo da far esplodere il sapore. Lorenzo Cogo (nomen omen: cogo in veneto significa cuoco), giovanissimo chef stellato vicentino (il locale si chiama El Coq), ha dichiarato di detenere il primato: «negli ultimi anni la moda di questa tipologia di carne in Italia è sopraggiunta ma possiamo godere il fatto di esser stati tra i primi a proporla». Poi racconta il «gusto forte e deciso. Un gusto e una consistenza inimitabile. Il suo sentore speziato e la maturazione per un minimo di 40 giorni ne esaltano il sapore». Nel suo ristorante l’ideale rubio è in versione costata: «Di varie pezzature, viene cucinata in forno e a brace, così da esprimere il suo meglio. Ma anche la tartare è estremamente particolare e gustosa». In un articolo del 2015 del quotidiano londinese Telegraph, la giornalista si chiedeva se si trattasse della carne migliore del mondo. Lasciamo ai nostri palati la sentenza. Certo, il nostro gusto va educato: mangiare la carne è un momento magico della vita, e quindi la materia prima non può che essere speciale, unica, pregiata. O vogliamo lasciare la magia delle nostre esistenze alla GDO?
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Nonostante vari piani agricoli che la regione ha varato sin dagli anni Quaranta, l’ideale di purezza razziale è stato via via abbandonato. Sono stati importati esemplari della razza del South Devon, con l’idea che fungessero da miglioratori della rubia tramite l’assorbimento incrociato. Nel 1955 fu creato il Consiglio di coordinamento per il miglioramento del bestiame e fu organizzata una delegazione tecnica per la razza. Il Consiglio approvò una selezione di piani di purezza con i quali intese ottenere per le imprese agricole una migliore conformazione della vacca, una migliore resa della carcassa e una migliore produzione di latte.
Lo Sp una cottura secolare
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Approfondimento a cura di Virgilio Brunetti
Probabilmente lo spiedo rappresenta la prima vera rivoluzione tecnologica nell’ambito della cottura al fuoco e, per molti secoli, con poche sostanziali modifiche è rimasto il più comune e apprezzato metodo per cucinare la carne. Non si sa esattamente quando e dove gli uomini abbiano iniziato a far ruotare la ciccia infilata su un’asta davanti alla brace, ma è certo che questo metodo ha cavalcato i secoli rimanendo praticamente invariato fino ai nostri giorni. Giampiero Rorato, giornalista e
Il termine latino venabulum (spiedo da caccia) si evolve in latino tardo in spetus e poi diviene spiede durante il regno Longobardo. Numerose fonti riportano accurate descrizioni dell’antico spiede longobardo: un’arma riadattata, una lancia, di ferro o di legno, appuntita ad una estremità, in modo da poter
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iedo
studioso di enogastronomia, in un suo saggio, riporta come l’uso di aste e spade per la cottura al fuoco della carne fosse una pratica di cui si trovano note già nell’Iliade di Omero (IX –VII secolo a.C.) e nelle opere del poeta latino Virgilio (7019 a.C.); se ne trovano testimonianze scritte nella cultura gastronomica della Magna Grecia e dell’antica Roma. Più tardi, durante la lenta e lunga agonia dell’Impero Romano, con la diffusione delle abitudini alimentari barbariche, l’arrosto diviene il pilastro della cultura gastronomica medievale. Carne arrostita al fuoco e cottura allo spiedo divengono definitivamente sinonimo con l’avvento sul territorio Italiano delle tribù germaniche, soprattutto dei Longobardi i quali si stanziarono in Italia settentrionale con centocinquantamila persone di cui trentamila guerrieri; il resto erano familiari. Dimorarono a lungo nella pedemontana veneto-friulana-lombarda: Cividale, Ceneda a Soligo, Breganze, Lessinia. fino a Brescia e poi a Pavia; sono tutte città che ancora oggi mantengono viva la cultura di questo metodo di preparazione. I Longobardi si insediarono in queste zone fin dall’anno del loro ingresso in Italia, avvenuto attraverso le Alpi Giulie nel 568, e vi rimasero da dominatori fino al 774, quando il Re Desiderio fu sconfitto dai Franchi di Carlo Magno. In 200 anni di dominio lo spiedo, prima arma poi strumento di cottura, diviene tradizione solida.
trafiggere e infilare i pezzi carne, appoggiata da un lato ad una forcella, mentre dall’altra parte sostenuta e nel contempo fatta ruotare da una persona addetta a questo compito, una fatica che solo un uomo del medioevo poteva compiere. Col passare del tempo, i sostegni a forcella divengono due, fissati al fusto verticale degli alari del camino in modo da dispensare il rosticciere dalla fatica di reggere l’asta. L’iconografia medioevale mostra spesso servitori che manovrano con una mano gli spiedi, mentre tengono l’altra alzata nell’atto di proteggersi dalle vampe di calore, oppure per impugnare grandi mestoli per irrorare la ciccia durante la cottura.
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Sull’uso dello spiedo nel Medioevo esiste una vasta letteratura italiana che non solo ne conferma l’esistenza, ma insiste molto sulle caratteristiche delle carni cotte allo spiedo; a tal proposito mi sembra doveroso citare Otello Fabris, storico della gastronomia, il
quale scrive un volume di oltre 440 pagine dal titolo “Introduzione all’arte dello Spiedo” che raccoglie un numero impressionante di ricette, quasi a testimoniare come esso fosse stato per secoli il metodo più amato per la cottura di più o meno qualsiasi pietanza. Tra le 300 ricette presentate, tra cui molte e assai interessanti quelle dedicate all'oca, tante sono dedicate ad ingredienti insospettabili, come le tettine di vitella, le chiocciole, le ostriche, il burro, le uova, i pesci. Di nuovo, Giampiero Rorato testimonia come il consumo della carne rimane fortemente legato alle abitudini alimentari della nobiltà guerriera, nella
convinzione che ci sia uno strettissimo legame tra consumo di carne e forza fisica; il medico senese del ‘300 Ugo Benzi scrive in un suo trattato: “le carni rustite sono de megliore e magiore nutrimento e più conveniente a li corpi robusti”. Il biografo di Carlo Magno, Eginardo (770-840), ricorda come, nei castelli dell’alto Medioevo, lo spiedo fosse sempre in movimento vicino al fuoco in quanto grandi pezzi di carne dovevano ogni giorno essere portati in tavola per soddisfare la fame dei guerrieri e soprattutto di Carlo Magno e dei suoi comites. Questo tipo di cottura rimane sicuramente il metodo più apprezzato anche nel Rinascimento, tanto che lo stesso Leonardo da Vinci, genio assoluto della sua epoca, progetta e disegna spiedi azionati da sistemi meccanici; il foglio 21r del Codice Atlantico ci mostra due immagini di girarrosti di sua ideazione: uno azionato da un contrappeso, l’altro dall’aria calda sollevata dai fuochi e incanalata tramite una rotazione proporzionale all’intensità delle fiamme stesse. Nonostante i geniali tentavi di automazione del
Brillat Savarin scrisse trecento anni fa che “rosticceri si nasce, non si diventa” e chi almeno una volta si è impelagato nell’avventura di cucinare della carne su uno spiedo manuale sa benissimo di cosa parlo. Allestirlo non è banale, poiché bisogna equilibrare il pezzo da arrostire in modo che non sia in qualche modo pendente; la rotazione deve essere regolare, non ci devono essere rallentamenti ed accelerazioni dovute al carico, tutto deve girare come un orologio, al fine di rendere uniforme l’irraggiamento del calore e di conseguenza la cottura. Oggi la tradizione del girarrosto rimane viva in luoghi specifici del territorio Italiano soprattutto in quelli che furono i domini dell’antico Regno Longobardo. Chi, come me, segue BBQ4All dagli albori ricorderà bene il tormentone dello Spiedo Bresciano e del suo disciplinare che si contrappone storicamente a quello dello Spiedo Veneto. Ai nostri giorni parte del declino di queste tradizioni è dovuto al loro forte legame con l’arte venatoria, soprattutto la caccia di animali da penna: molte delle prede prescritte nell’allestimento di questi spiedi sono di fatto animali protetti dalla legge. La polenta con gli osei richiede appunto tradizionalmente uccellini di dimensioni minime, la cui caccia è strettamente regolamentata e la vendita assolutamente vietata. L’allestimento di questi
spiedi, dunque, perde una componete molto tradizionale, dato che gli ingredienti previsti devono essere modificati e di conseguenza snaturati. Rimane di base una vasta cultura, intrisa di storia, che riguarda questa affascinante tecnica, che però di fatto tenderà inesorabilmente all’estinzione, anche se abbondantemente semplificata dai girarrosti motorizzati. Ma come funziona? Contrariamente a quanto si possa pensare, questo metodo non secca la carne, anzi è in grado di conferire una doppia consistenza altrimenti impossibile da ottenere con altri mezzi: croccantezza fuori, succulenza dentro. Sappiamo che maggiore è la quantità di calore a cui viene sottoposto un pezzo di carne, maggiore sarà la contrazione delle fibre e la conseguente perdita di liquidi. Per questo motivo dobbiamo necessariamente mantenere la temperatura bassa ottenendo un doppio beneficio: il calore dolce e i tempi lunghi disidratano la superficie che, in questo modo, lascia spazio alla reazione di Maillard, creando quella croccante e golosa crosticina esterna. Lo sapete bene: una superficie non può essere croccante se al suo interno contiene acqua. Il lungo tempo di esposizione al calore secco asciuga la superficie delle carni allo spiedo rendendolo incredibilmente croccan-
te esternamente. Esistono anche alcune malizie per potenziare l’effetto gustativo del girarrosto. Una su tutte, raccogliere i liquidi in caduta e usarli per spennellare la carne. Questa operazione, oltre a dare sapore, rallenta la disidratazione superficiale. Utile per esempio nei pezzi di carne molto grandi che necessitano tempi di cottura anche di alcune ore. Oggi esistono anche accessori, compatibili col girarrosto, come i cestini, che permettono di esporre ingredienti impossibili da innestare in uno spiedo ai benefici del girarrosto. Ad esempio le patate. L’effetto è il medesimo: crosticina croccantissima fuori, interno morbido e fondente. Ovviamente, le possibilità offerte dalla spada e dai cestini sono praticamente infinite. Basti pensare alle ali di pollo o di tacchino, alle salsicce, alle polpette, alle verdure, alle castagne, fino ad arrivare al pop corn. E ovviamente alla porchetta, di cui vi parliamo anche in questo numero.
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grande Leonardo il ruolo del rosticcere rimane fondamentale ed immutato.
The Chemical Griller - rubrica a cura di Virgilio Brunetti
Addensare una
salsa
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parte II
Gli amidi sono polisaccaridi di riserva delle piante così come il glicogeno è il polisaccaride utilizzato come stock energetico nelle cellule animali. L’amido si trova nei semi, nei frutti nelle radici e nei fusti di molte piante; è composto da due polimeri tipicamente: amilosio (che ne costituisce circa il 20%) e amilopectina (circa l’80%). I rapporti variano in base all’origine botanica dell’amido. In entrambi i casi si tratta di polimeri del glucosio che si differenziano l’uno dall’altro per la struttura. Il primo è un polimero lineare che si avvolge ad elica, il secondo è invece un polimero ramificato. L’amilosio è presente per circa il 20% in granuli disponibile nell’amido. Non è in grado di influire sul processo di retrogradazione degli alimenti, grazie alle caratteristiche di questo tipo di polimero di glucosio. I cibi con la sua più alta percentuale sono: il mais, il frumento, i legumi. L’amilopectina è presente per circa 80% in granuli contenuti nell’amido. Il polisaccaride può influire maggiormente sul processo di retrogradazione degli alimenti; la sua più alta percentuale si trova nella patata, nel riso, nella manioca. GELATINIZZAZIONE E RETROGRADAZIONE La cosiddetta gelatinizzazione dell’amido è un processo di fondamentale importanza per l’alimentazione umana, si pensi solamente al fatto che interviene in modo determinante per la preparazione di prodotti come il pane, la pasta e il riso; è inoltre fondamentale in tutte le preparazioni di pasticceria, come la crema, i bignè o il pan di Spagna.
Essa avviene dunque grazie al riscaldamento in ambiente acquoso. I granuli di amido si idratano progressivamente, gonfiandosi e perdendo la struttura cristallina, amilosio e amilopectina entrano in soluzione con l’acqua, formando legami con essa, di conseguenza quest’ultima, libera, diminuisce mentre la viscosità della soluzione aumenta. Così, se scaldiamo una quantità sufficiente di granuli di amido in un litro di acqua, quando questi si saranno gonfiati avranno sottratto gran parte dell'acqua libera ed essa, che originariamente era liquida, sarà trasformata in una soluzione densa e viscosa. Quando l’amido gelatinizzato si raffredda, avviene un fenomeno chiamato retrogradazione o ricristallizzazione dell’amido, un processo che tende a farlo tornare in una configurazione simile a quella iniziale. Ciò che avviene con la retrogradazione è un riarrangiamento delle catene di amilosio e amilopectina, con conseguente esclusione di una parte d’acqua che era stata inglobata dalla struttura. La retrogradazione è un processo reversibile, nel senso che fornendo calore al prodotto l’amido gelatinizza nuovamente. Il processo di gelatinizzazione è influenzato dall’origine botanica dell’amido e dalla quantità di acqua. E’ molto importante dal punto di vista gastronomico e ne determina l’uso come addensante, soprattutto in pasticceria ma anche nella preparazione di salse. Capirete che l’importanza degli amidi a livello culinario è enorme, anche se già da molto tempo, a livello professionale, sono stati integrati e sostituiti da numerosi altri agenti addensanti più moderni e tecnologici.
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Come abbiamo visto è formato da due molecole complesse, l’amilosio e l’amilopectina. Queste due molecole si aggregano a formare dei granuli insolubili in acqua a temperatura ambiente, e difficilmente attaccabili dagli enzimi digestivi. Per diventare digeribili, i granuli di amido devono essere portati a temperatura elevata, in ambiente acquoso: in queste condizioni essi si idratano, perdono la struttura ordinata e ne assumono una disordinata, con le caratteristiche di un gel: è il processo di gelatinizzazione degli amidi, che li rende attaccabili dagli enzimi.
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IL METODO DELLA NONNA: ADDENSARE CON FARINA E PATATE Il famoso metodo della nonna, per addensare un sugo o una zuppa, prevede l’aggiunta di una quantità arbitraria di patate o di farina bianca; realmente già questi due ingredienti possono essere considerati dei buoni addensati per uso domestico. Farina e patate sono alimenti amidacei ubiquitari ma vanno usati con cognizione di causa al fine di poterne prevedere gli effetti sulla preparazione finale. La farina 00 di tipo debole contiene prevalentemente amido ma anche una quota non trascurabile di proteine. Se idratata senza essere adeguatamente dispersa forma un impasto disomogeneo difficilmente solubile, che tende ad agglomerarsi gelatinizzando in superficie e rimanendo secco all’interno; si formano appunto i grumi. Affinché l’amido della farina lavori come addensante è necessario disperderlo in acqua a temperatura ambiente e idratarlo scaldandolo gradualmente. La miscelazione durante il riscaldamento contribuisce ad ottenere un composto liscio traslucido dalla texture cremosa-collosa. Il metodo base per capire come funziona la farina come addensante è una preparazione che ha poco a che fare con la gastronomia: la ponnula, ovvero la colla di farina cotta in acqua utilizzata da secoli per la lavorazione della cartapesta. Occorrono 50 grammi di farina 00 debole e 250 grammi di acqua: si stempera
la farina fino ad ottenere un liquido lattiginoso senza grumi, poi lo si scalda ficnhé non si ottiene un composto denso che vela il cucchiaio. Che sia acqua, un brodo, una zuppa o un sugo l’errore che non si dovrebbe mai fare è addensare direttamente con la farina cruda un liquido caldo e permettere che i granuli di amido rimangano in sospensione dando appunto la terribile sensazione di masticare orrendi grumi di farina. La stessa cosa accade aggiungendo della patata cruda in pezzi o grattugiata. In entrambi i casi la sensazione sarà sgradevole, un disastro gastronomico. Gli amidi della farina e della patata non riescono a solubilizzarsi e a gelatinizzare se non vengono dispersi, idratati e cotti a sufficienza. Quello che si dovrebbe sempre fare è quindi sospendere la fonte di amido in acqua, idratare e cuocere al fine di creare un gel solubile. Il rimescolamento, e quindi il lavoro meccanico durante il riscaldamento della miscela, è un altro fattore piuttosto importante sulla riuscita della preparazione e ha un effetto abbastanza consistente sulla texture e l’appearance. Teniamo anche bene in mente che le salse acide sono più difficili da addensare. ADDENSARE CON IL ROUX Quando un cuoco vuole fare il figo preparando un roux, dice che sta destrinizzando la farina. In effetti quando lo prepariamo non facciamo altro che modificare la struttura dell’amido contenuto nella farina di frumento, sfruttando le ca-
pacità termiche di un liquido altobollente ovvero un grasso (es. burro chiarificato) in assenza di umidità; più è alta la temperatura più efficace sarà la degradazione degli amidi ma anche la possibilità che si inneschino le reazioni di Maillard e alla lunga di carbonizzazione. Il grasso che si utilizza per preparare i roux non fa altro che impacchettare i singoli granuli di amido: ha l’unico scopo di proteggere il granulo dall’acqua e scaldarlo efficacemente. Il roux preparato correttamente è immediatamente solubile nelle basi acquose fredde tiepide e calde; la rapida ed uniforme gelatinizzazione dei granuli d’amido impacchettati nel grasso addensa la fase acquosa senza generare grumi e particelle sospese. L’obiettivo è ottenere una consistenza liscia, brillante e setosa. I classici roux chiari, biondi e scuri, corrispondono, dal punto di vista colorimetrico, al grado di destrinizzazione degli amidi; al progredire del grado di cottura della miscela di farina-grasso il roux si scurisce e acquisisce una diversa impronta aromatica. Infatti, ad alte temperature le proteine del burro e della farina generano insieme agli zuccheri riducenti una rilevante quantità di composti aromatici scuri dovuti alla reazione di Maillard; quindi un risultato molto ben tostato sarà anche più profumato e saporito e avrà applicazioni diverse rispetto ad uno chiaro dall’aroma più neutro. Importantissimo è sapere che la trasformazione dell’amido in altri composti quali destrine
Sebbene i roux siano un pilastro della cucina classica, la tipica cottura in padella genera risultati disuniformi in termini di potere addensante: in poche parole diviene difficile prevedere il risultato sul prodotto finito. Molte persone continuano a rifiutare l’applicazione del metodo scientifico in cucina, soprattutto quando la scienza osa mettere in discussione i dogmi della cucina classica, quella della nonna e della tradizione regionale italiana. Ma perché sbattersi se tanto da secoli “si è sempre fatto così”? La risposta è semplice: le ricette scientifiche sono ottimizzate perché chiunque possa ottenere risultati eccellenti e ripetibili. IL ROUX SCIENTIFICO Per rendere ripetibile la preparazione, bisogna utilizzare un metodo di cottura che permetta un rigido controllo fine delle temperature del dispositivo utilizzato, in questo caso il forno. La preparazione richiede più tempo rispetto al metodo classico ma evita di dover controllare ad occhio la cottura miscelando continuamente il composto. Il roux tipicamente è composto da farina 00 di tipo debole e burro chiarificato e in parti uguali, potete variare la composizione del roux cambiando la tipologia di grasso: olio di cocco, lardo, grasso d’oca, olii vegetali con punto di fumo elevato, margarine, sego. Potete
aggiungere alla miscela piccole quantità di erbe aromatiche e spezie secche polverizzate. Miscelate 250 grammi di burro chiarificato fuso e 250 grammi farina in una teglia alta o una pentola adatta alla cottura in forno; un totale di 500 grammi di composto, che saranno più che abbondati per l’uso in una cucina casalinga, giacché il roux preparato in questo modo è pastorizzato e conservabile in frigo per mesi in contenitore ermetico. Preriscaldate il forno in modalità ventilata a 180 gradi, posizionate la teglia e miscelate il composto ogni 20 minuti per uniformare la cottura in tutto il volume. Per un roux biondo saranno necessari 90 minuti, per un roux scuro 180 minuti. Versate il composto ancora caldo in un contenitore richiudibile ermeticamente, sterilizzato e resistente al calore. Lasciatelo raffreddare fino a temperatura ambiente e poi riponetelo in frigo. Potete ripartire il composto ancora allo stato fluido in piccoli stampi di silicone al fine di ottenere monoporzioni già pesate che potete conservare in surgelatore per un massimo di sei mesi. Quindici grammi di roux biondo sono sufficienti per addensare 200 grammi di latte o brodi. IL DRY ROUX Il potere addensante del roux è strettamente legato all’amido, principale costituente della farina di frumento. La componete grassa ha il ruolo di stabilizzare la dispersione dei granuli e di trasmettere efficientemente il calore necessario a rendere solubile l’amido nella fase ac-
quosa della salsa. In una certa visione, il grasso del roux potrebbe essere considerato del tutto superfluo. Tostando a secco una farina debole in forno o in padella si ottiene un composto addensante che gelatinizza istantaneamente a contatto con l’acqua: molto utile qualora non sia necessario aggiungere un’ulteriore quota di grassi alle vostre preparazioni. Anche in questo caso, il livello di tostatura della farina ne determina le performance come addensante. Potete aggiungere il dry roux in una uguale quantità di burro fuso per ottenere rapidamente un classico roux oppure potete disperderlo direttamente nella salsa. Per ottenere il Dry Roux preriscaldate il forno a 180° in modalità statico e tostate la farina in un contenitore perfettamente asciutto. Processatene una quantità tale da avere sempre un’esposizione uniforme al calore e rimescolatela ogni 15 minuti fino ad ottenere una polvere dorata dal caratteristico odore tostato (ma non bruciato). Quello che andiamo ad ottenere è la forma grezza di un amido modificato, il dry roux casalingo è in realtà il precursore di un amido modificato trattato termicamente, per ottenere un composto in parte destrinizzato con la capacità di gelatinizzare istantaneamente a contatto con un liquido acquoso. Il nostro viaggio su come addensare le salse non è ancora terminato, ci vediamo nel prossimo numero per continuare questo percorso insieme.
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e composti di Maillard sottrae potere addensante al roux ma ne complessa l’impronta aromatica e ne aumenta leggermente il sapore dolce.
La ricetta scientifica a cura di Gianfranco Lo Cascio
C UBAN SANDWICH
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LA RICETTA SCIENTIFICA
Carl Casper: Aspetta un attimo. Lo trovi noioso tu? Percy: No, mi piace. Carl Casper: Sì, io l’adoro. Quello che è successo di buono in vita mia è grazie a questo. Forse non faccio tutto bene nella vita, non sono perfetto, ma sono bravo in questo. E voglio condividerlo con te. Voglio insegnarti quello che ho imparato. Entro nella vita della gente con il mio mestiere. È la mia ragione di vita e l’adoro. E se ci provassi l’adoreresti anche tu. Percy: Sì Chef.
Quando il menù lo prevede non posso fare a meno di ordinarne uno. E siccome non credo di poter volare oltreoceano per un bel po’, ho deciso di preparare il cuban sandwich scientifico. Partiamo come sempre dalla base.
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“Que se sepa” di Roberto Roena risuona nelle casse del furgone a strisce gialle e bianche. C’è Martin che tra un ellisse disegnato coi fianchi e l’altro versa il Mojo, la salsa cubana per marinare il maiale. È così che si prepara la farcitura dei cubanos, i panini ripieni di spalla tagliata a fette, prosciutto cotto, formaggio e cetriolini sottaceto. Tutto rigorosamente imburrato e piastrato, nel film “Chef, la ricetta perfetta” così come nella vita vera.
01. IL PANE a cura di Alessandro Trezzi
Il pane, in tutte le preparazioni in cui funge da contenitore, viene spesso visto come elemento secondario, di poca importanza. Si compra quel che si trova a buon mercato, tanto serve solo tenere insieme gli ingredienti, giusto? Sbagliato. Il pane è una prerogativa fondamentale per qualsiasi panino. Provate a pensarci: lavorate sodo per realizzare l’hamburger migliore della vostra vita, spendete ore e ore per cuocere minuziosamente un pulled pork da maestri, curate senza sosta la carne di maiale per il cubano, e poi per colpa di una materia prima scadente vi si sfracella tutto al primo morso, rovinandovi l’esperienza. Non si fa, non è cosa. Ragioniamo quindi sul risultato perfetto che ci interessa ottenere, in modo che sia possibile prepararlo in totale autonomia a casa nostra, aiutandoci a raggiungere il Nirvana boccone dopo boccone. Abbiamo bisogno di un panino estremamente friabile, dalla mollica presente ma leggera, che ceda al morso senza fatica, resista alla tostatura e che sia neutro in quanto a sapore, per lasciare il più completo spazio alla sinfonia di ingredienti che dovrà contenere. Dimenticatevi quindi farine integrali o di cereali diversi dal grano tenero: stiamo cercando un gusto equilibrato, estremamente scioglievole, una mollica che risulti arioso e quasi inesistente al palato pur conservando una sua struttura. Tradizionalmente il sandwich cubano si consuma, neanche a dirlo, con il pane cubano, che sostanzialmente è una sorta di baguette più cicciotta, con un’idratazione del 60-62%, senza le classiche estremità appuntite.
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In mancanza d’altro, spesso è possibile trovare ricette che utilizzano proprio la baguette francese come sostitutivo, ma risulta poco idoneo per i nostri scopi, perfetto come friabilità ma non come mollica. Bassa idratazione, crosta troppo dura e mollica troppo piena; se non stiamo attenti, la resistenza al morso sarà troppo elevata e gli ingredienti ci scapperanno tutti di lato. Un altro classico sostituto del pane cubano è la nostra ciabatta, un formato ad alta idratazione (75-80%), molto scioglievole ed etereo, che tuttavia presenta i difetti opposti: poca mollica (quasi inesistente a dire il vero), e quindi totale scomparsa dopo la particolare tostatura che il cubano deve subire. Come fare? Semplice, combiniamo i metodi e facciamo una pratica via di mezzo tra le due soluzioni: un pane friabile e strutturato come la baguette, croccante e scioglievole come la ciabatta.
L’IMPASTO Come già anticipato, ci servirà una farina bianca, di forza medio-alta e dall’assorbimento farinografico minimo sufficiente per sostenere un’idratazione più elevata della classica baguette. Per aumentare la friabilità e garantire uno sviluppo omogeneo della mollica, ci rifaremo alla tecnica del poolish, un pre-fermento di origine polacca e adottata dalla Francia sin dal XIX secolo. In sostanza si tratta di un impasto liquido ottenuto mescolando farina e acqua in pari quantità, più una percentuale di lievito che dipende dalle ore di maturazione scelte; la temperatura ideale per la lievitazione è di circa 20-22 °C, e il poolish è maturo quando il volume è raddoppiato e tende a cedere al centro, con una crepa ben visibile. Tale tecnica vi assicura alveoli piccoli e ben distribuiti, un effetto crunch superiore, la maglia glutinica molto estensibile grazie all’acqua in eccesso che accelera l’attività enzimatica. Il sapore è più pungente, a causa della presenza di acido acetico e alcol. Per realizzare l’impasto ci atterremo ad un’idratazione del 70%, ma è fondamentale che la farina utilizzata abbia un assorbimento minimo (verificabile nella scheda tecnica) di almeno il 60-62%; in caso contrario, l’impasto non avrà la consistenza necessaria per lievitare correttamente in forma, allargandosi in cottura e crescendo in larghezza anziché in altezza. Poco sale, in quanto utilizzando il poolish abbiamo già gran parte dell’impalcatura necessaria garantita, e una punta di malto diastasico per una carica enzimatica e zuccherina che
servirà sia durante la lievitazione che per la reazione di Maillard in cottura. Con maturazioni più lunghe causa pre-fermento infatti e la presenza di una farina bianca (tipicamente ad attività amilasica più bassa) tale aggiunta può rendersi necessaria per mantenere alta l’efficienza del vostro prodotto ed evitare di arrivare alla cottura scarichi di zuccheri, ottenendo un prodotto basso, pallido e sgonfio. LA RICETTA Ingredienti per circa 6 panini Per il poolish: • 400 g di farina di grano tenero di tipo 0 (270-280 W); • 400 g di acqua; • 1 g di lievito di birra fresco. Per l’impasto: • 600 g di farina di grano tenero di tipo 0 (270-280 W); • 300 g di acqua; • 15 g di sale fino; • 5 g di malto diastasico in polvere (o 20 g di malto diastasico in sciroppo); • 0.5 g di lievito di birra fresco. PREPARAZIONE DEL POOLISH Mescolate gli ingredienti in una ciotola, fermandovi non appena la farina risulterà completamente idratata. Non dovete impastare e formare glutine, ma solo uniformare il composto. Coprite con pellicola e lasciate maturare a una temperatura di 20-22°C per 12 ore. Il poolish sarà pronto quando prossimo al collasso, ovvero quando inizierete a notare delle crepe sulla superficie.
STAGLIO E FORMATURA Recuperate l’impasto, ribaltatelo sul piano da lavoro e dividetelo in sei parti uguali, formate delle palline e appiattitele delicatamente per formare un ovale, poi ripiegate l’impasto verso il centro fino a ottenere un panetto regolare allungato. Lasciate quindi riposare (con il lato della chiusura in basso) 15-20 minuti per far rilassare il glutine e recuperare estensibilità. Dopodiché, appiattite ogni panetto, ripiegate ancora i lembi
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IMPASTAMENTO In una ciotola o nella vasca della vostra impastatrice o planetaria versate tutta la farina, il malto, il lievito (che servirà come starter per far partire la lievitazione) e i 3/4 dell’acqua della ricetta e iniziate a impastare, fino a ottenere una massa uniforme e asciutta. A questo punto aggiungete il sale, e proseguite mettendo l’acqua a poco a poco, solo quando la precedente risulterà perfettamente assorbita. Chiudete l’impasto quando risulterà liscio, uniforme e ben incordato. Ripiegatelo sul banco per dargli una struttura, oliate un recipiente (possibilmente con i bordi alti e stretti per consentirgli di crescere in altezza), chiudete ermeticamente e mettete a lievitare a una temperatura di 26-28°C per un’ora.
verso il centro per dare forza all’impasto, servirà a dargli ulteriore struttura e permettergli di crescere in altezza durante l’appretto. A questo punto arrotolate tra le mani per avere una forma allungata e uniforme, tenendo come riferimento la dimensione della vostra teglia, tipicamente da 40 cm. Infarinate un canovaccio (abbastanza lungo) e stendetelo sulla teglia, appoggiate un filone (con il lato della chiusura verso l’alto) e poi il successivo, tirando un po’ il tessuto tra uno e l’altro per tenerli separati. In ogni teglia da 30x40 cm riuscirete a mettere 3 filoni. APPRETTO Coprite con un altro canovaccio e lasciate lievitare per un’altra ora a 26-28 °C, o comunque fino al raddoppio del volume.
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COTTURA Preriscaldate il forno statico a 230 °C e preparate un pentolino di acqua bollente. Appena i filoni saranno pronti, capovolgeteli su una teglia foderata con carta forno. Spolverate leggermente con della farina la parte superiore e fate un taglio longitudinale con una lametta o un coltello ben affilato. Infornate per circa 10 minuti con il pentolino nella parte bassa e la teglia in posizione centrale. Trascorso il tempo, togliete il pentolino e cuocete per altri 5-10 minuti con la porta leggermente aperta per far uscire il vapore e asciugare la crosta, che dovrà risultare croccante, friabile e ben colorata. Sfornate, lasciate raffreddare su una griglia rialzata e preparatevi per farcirle a dovere.
02. LA CARNE
E adesso passiamo all’ingrediente portante del sandwich cubano: la carne di maiale. Generalmente le scuole di pensiero su quale sia il destino più dignitoso per il porco sacrificato sull’altare si dividono tra la cottura di un’intera spalla, previa salamoia, da tagliare a fettone generose, oppure il pullaggio del pezzo, condito con il famosissimo Mojo, la salsa cubana che non c’azzecca niente con i colpi di anca. Io che con le rivoluzioni, cubane e non, ci vado a nozze, ho deciso di dare il mio personalissimo tocco alla ricetta, mettendo la carne in salamoia e iniettandola con lo stesso liquido, cuocendola come il più classico dei pulled pork (il maiale sfilacciato cotto a lungo e a bassa temperatura) e irrorandola con un Mojo al lime profumatissimo. Ma partiamo dalla scelta del pezzo.
I TAGLI
Ciò che determina la conversione del collagene in gelatina e la conseguente destrutturazione del reticolo proteico che tiene insieme le fibre del nostro maiale è un fenomeno che prende il nome di “idrolisi del collagene”. In pratica, grazie alla denaturazione (cambiamento della struttura) di questa proteina per via termica, ciò che prima era duro e tenace si trasforma in un liquido gelatinoso. In linea teorica, il maiale sfilacciato si può preparare con qualunque taglio, ma dobbiamo trovare la quadra tra percentuale di grasso e collagene rispetto alla massa muscolare. Come ho spiegato più volte, il grasso migliora l'umidità e conferisce sapore, mentre il collagene, una volta convertito in gelatina, diventa un incameratore di umidità molto efficace. E non fate l’errore di scegliere tra i tagli nobili dell’animale, una volta di tanti anni fa ho preparato un pulled con la coscia del maiale, convinto che un pezzo così nobile mi avrebbe restituito un risultato eccezionale. Ebbene, sembrava di sfilacciare l'imballo di un pacco di Amazon. La coscia di maiale è un taglio decisamente meno grasso della spalla e con un contenuto di collagene inferiore, ecco perché è poco adatto. Vi consiglio di scegliere tra: Boston Butt (taglio americano) È IL taglio: la porzione di spalla assicura il corretto apporto di collagene, mentre la coppa apporta la giusta quantità di grasso, gusto e succosità. Il Boston Butt è squadrato e compatto e comprende al suo interno la scapola (“paletta”). Pic Nic (taglio americano) Si tratta di un taglio più economico e dalla resa inferiore, ma in grado di dare un Pulled Pork con caratteristiche abbastanza simili a quelle del Boston Butt, poiché contiene molto più collagene.
Spalla di maiale (taglio italiano) Al contrario della coppa, qui abbiamo una gran quantità di collagene su un taglio abbastanza magro. Cuocendo la spalla otterrete un maiale sfilacciato poco saporito. Fondamentale oltre al taglio è anche prendere in considerazione l’età dell’animale, che determina il tipo di struttura del connettivo. La degradazione enzimatica delle proteine post mortem (collagenasi, catepsine & co) determina la “solidità”
della struttura del connettivo di quel preciso animale che richiederà tempi sicuramente diversi rispetto a qualunque altro. La quantità di grasso intramuscolare, invece, può dipendere da mille fattori. Un giusto livello di marezzatura e frollatura del maiale faranno senza dubbio una differenza abissale rispetto ad un capo magro e appena macellato. Soprattutto la quantità di liquidi ritenuti nei tessuti e il pH della carne possono dare risultati completamente diversi.
LA SALAMOIA ACIDIFICATA
La denaturazione delle proteine, oltre che per via termica, può avvenire anche per via chimica. Due elementi in grado di favorire questo processo sono il sale e l’acidità. Il cloruro di sodio, il sale in sostanza, è capace di
migliorare profondamente le caratteristiche della carne in termini di umidità, sapidità e consistenza, mentre la parte acida ha il compito di magnificare la sensazione di succosità. L’esposizione diretta di piccoli tagli di carne a componenti particolarmente acide genera una trasformazione profonda dei tessuti muscolari e del connettivo; un acido non fa altro che apportare ioni H + (derivati dall’acido acetico, citrico o lattico contenuti nelle basi acide). L’azione di questi ioni cambia radicalmente la conformazione delle proteine della carne, generando una denaturazione e successivamente una coagulazione molto simile a quella che avviene con il calore. Preparando i vostri carpacci avrete senz’altro osservato che
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Coppa di maiale (taglio italiano) Buona quantità di grasso e quindi grande gusto, sovrabbondante rispetto al collagene. Il risultato sarà un Pulled Pork saporito, il grasso assicurerà morbidezza e una grande carica aromatica. Io ho utilizzato una coppa di 3,5 kg.
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immergendo un pezzo di carne nel succo di limone si assisterà ad un rapido e progressivo cambio di colore che coinvolgerà tutte le proteine, compresi i pigmenti muscolari come la mioglobina, che coagulano diventando di colore grigio. Le componenti acide modificano profondamente la struttura delle proteine rendendole capaci di trattenere una maggiore quantità d’acqua durante le fasi di cottura; parallelamente abbiamo anche un'importante esplosione a livello gustativo: la percezione di acido implementa in molti casi la gradevolezza della carne. Ecco perché è molto importante mettere a mollo la ciccia e “pompare”, tramite una siringa apposita, la stessa salamoia acidificata all’interno del pezzo di carne qualche ora prima. Gliene infilate quanta più possibile, tanto rimarrà all’interno solo una parte, che
è impossibile da quantificare a priori.
(diventerà grigiastro una volta trascorso il tempo necessario).
Salamoia al 5% di sale • 800 ml succo d’arancia • 800 ml acqua • 200 ml aceto di riso • 200 ml rum • 100 g sale • 50 g zucchero di canna • 8 spicchi di aglio pestato • 1 g timo • 2 g rosmarino • 2 g origano • 2 g salvia • 3 g pepe nero in grani
Trasferite la ciccia su un tagliere e filtrate la salamoia con un colino a maglie molto strette. Riempite la vostra siringa da allegro chirurgo con la salamoia e inoculate il liquido lungo tutta la superficie, pungendo ogni 2 cm circa. Importante: questa roba schizza. Mettete un grembiule e state alla larga da muri appena imbiancati. E non vi affaccendate a nascondere le magagne con un colpo di straccio, la vostra compagna avrà già chiamato i RIS di Parma.
Per la “rubbatura”: • Senape di Digione q.b. • BBQ4All Tennessee Rub Preparate la salamoia e mettete a bagno il pezzo di carne, quindi copritelo con della pellicola. Lasciatelo in ammollo in frigorifero per almeno 12 ore, girandolo di tanto in tanto
Una volta seviziato il porco, battezzatelo con un velo di senape di Digione e cospargetelo di un sottile strato di BBQ4All Rub Tennessee su tutti i lati. Ho detto sottile, non state inzuccherando il pandoro.
Quando si parla di Pulled Pork si rispolvera sempre la tenzone tra “low&slow” e “hot&fast”, le due tecniche che si contendono il titolo di cottura più adatta. In parole povere c’è chi dice che cuocere a bassa temperatura per più tempo è meglio che ad alta temperatura per poco tempo. E viceversa. Il consiglio che vi do è: diffidate da chi si schiera per l’una o per l’altra. Lo scioglimento del connettivo non avviene solo ad una data temperatura. Avviene sempre, anche quando l’animale grugnisce ancora. Il nocciolo della faccenda è che a determinate temperature questo processo si accelera in modo significativo. Questo range è compreso fra 70°C e 82°C/85°C. A 85°C si ha il picco massimo di velocità di scioglimento del connettivo. Questi 85°C però non sono il punto di arrivo, anche se il pezzo di carne raggiunge la temperatura target al cuore non significa che il connettivo che contiene si è sciolto del tutto. Il punto è che mantenendo la carne a questa temperatura sto velocizzando il processo di scioglimento. Che comunque ci impiegherà, realisticamente, qualche ora. Ed è proprio per questo motivo che entra in gioco la fase di “rest” cioè di riposo. Maggiore è il tempo in cui lasciamo la carne all’interno di questo range di temperature, più veloce sarà il processo di scioglimento. Ora comprenderete che la tecnica grazie alla quale arrivo a questa temperatura è assolutamente ininfluente (low&slow/hot&fast) se mi sono preoccupato di favorire la denaturazione per via chimica, iniettando una salamoia acidificata. Che cosa cambia quindi se ci arrivo lentamente o velocemente? Cambia l’effetto superficiale e quindi il sapore. Una cottura in low&slow, magari in foil, rende più critica la formazione e il mantenimento del bark (la crosta superificiale). Una cottura in hot&fast, probabilmente, faciliterà il sapore di “arrostito” grazie alla velocizzazione dei processi di cauterizzazione (reazione di Maillard). Ma di certo l’hot&fast non facilità né complica il processo di scioglimento del connettivo in gelatina; quello accadrà comunque ed è solo una questione di tempo. Quali sono i pregi e difetti del low&slow? Gestione più semplice del processo di cottura a fronte di tempi più lunghi. Quali sono i pregi e difetti dell’hot&fast? Gestione mediamente più complessa a fronte di tempi sensibilmente più brevi e note “arrostite” più marcate. Resta inteso che senza il controllo della fase di scioglimento del connettivo, i due metodi non apportano ulteriori benefici. Io il “puerco” l’ho preparato in low&slow, nel forno di casa. Cotto al barbecue è senz’altro migliore, la nota affumicata ci sta da Dio e trovate un breve recap sull’argomento, ma ho voluto semplificare la ricetta anche per chi non si è ancora munito degli strumenti adatti.
AL BARBECUE
Le tre fasi La prima fase è quella dell'affumicatura, che è più efficace in ambiente umido. Lo scopo è identificare il giusto grado di umidità, senza trasformare però il rub in una pappetta molle.
Procedete in questo modo: 1. Predisponete il carbone formando il classico Snake, il sistema usato più spesso nei kettle che consiste nel creare un “serpentello” costituito da una o due file di bricchetti spenti, disposti in doppio strato e aderenti al braciere. Una volta sistemati, si versano dei bricchetti accesi su una delle due estremità del semicerchio: i bricchetti accesi intaccano quelli spenti partendo da quella estremità e si prosegue lungo tutto il cerchio. Stabilizzate la temperatura a 110-120°C. 2. Disponete la carne nel dispositivo di cottura, quindi affumicate in modalità thin blue, cioè con pochi trucioli di melo che producono un fumo leggero e costante, fino a quando la carne non avrà raggiunto i 55°C. 3. Sospendete l’affumicatura quando avrete ottenuto il bark della consistenza desiderata e di un bel color mogano. 4. Procedete alla messa in foil con la tecnica del Texas Crutch: una sorta di cartoccio costituito da un foglio di stagnola posto sotto il pezzo di carne e richiuso in maniera gentile, accartocciando i lembi sopra di esso senza pressare eccessivamente sul bark. Oppure semplicemente mettendo la ciccia in un vaschetta di alluminio e
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03. COTTURA
La seconda fase è quella della disidratazione del rub, è qui che l’umidità va ridotta drasticamente. La terza fase è quella che mira a raggiungere la completa gelatinizzazione del collagene e la destrutturazione della rete proteica, che consente lo sfilacciamento del nostro maiale alla cubana.
sigillando la sommità con un foglio di stagnola stretto intorno alla cornice. Sistemate una testa d’aglio sbucciata in una teglietta o su un guscio di alluminio accanto al pezzo di carne (vicino, non insieme), vi servirà per preparare una cremina da spalmare sul pane. 5. Continuate la cottura fino a quando la carne non avrà raggiunto i 98°C al cuore. 6. Lasciate la carne in rest e sfilacciatela con i suoi succhi. 7. Recuperate l’aglio che sarà diventato morbidissimo, frullatelo insieme a poco olio, sale e un goccio di succo di limone. Potrete spalmare un velo di questa salsetta sulla base del panino.
IN FORNO
1. Accendete il forno in modalità statica e impostate la temperatura sui 120°C. 2. Poggiate la carne su una gratella (per tenerla sollevata) e piazzate una vaschetta di alluminio sotto, per non sporcare tutto. 3. Quando il bark si sarà formato e sarà perfettamente asciutto, trasferite la ciccia in una vaschetta di alluminio e mettete in foil, come vi ho spiegato prima. A parte piazzate una testa d’aglio in una piccola teglia o in un cartoccio di alluminio. 4.Continuate la cottura fino a quando la carne non avrà raggiunto i 98°C al cuore. 5.Lasciate la carne in rest e sfilacciatela con i suoi succhi. 6.Lavorate l’aglio come descritto prima.
LA RIGENERAZIONE
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So già che state per chiedermelo: posso cuocere il pork il giorno prima per farcire il panino il giorno dopo? Certo che sì, il segreto sta nel riscaldarlo nella maniera corretta, per evitare che si secchi o si rovini. È fondamentale quindi mettere da parte i suoi preziosissimi succhi. Fate così: scaldate i succhi di cottura e versateli sul maiale sfilacciato che avrete conservato in una vaschetta o in una teglia di alluminio. Poi coprite e mettete a scaldare in forno ad una temperatura di circa 80°C.
04. IL PROSCIUTTO
AFFUMICATO
Procuratevi una coscia disossata a femore chiuso. Così il femore e l’osso del ginocchio verranno asportati senza aprire a metà la coscia. Chiedete al vostro macellaio se può procurarvi una coscia già destinata e pre-rifilata per i prosciutti cotti HU (con molto grasso sottocutaneo) o HE (più magro). Preparate una salamoia tradizionale con acqua, sale e aromi. Indicativamente per 1 litro di liquido aggiungete 140 grammi di sale e aromi a piacere. Prima di mettere a bagno la coscia, iniettate la salamoia fin dentro la carne, rigorosamente a freddo per evitare la proliferazione batterica. Il prosciutto iniettato va fatto riposare in un contenitore per circa 6 giorni in ambiente refrigerato, tra i 2 ed i 4°C. È sconsigliato andare oltre il 20% del peso della coscia con le iniezioni, quindi per una coscia di 10 kg iniettate 2 litri circa di salamoia. Quella che vi sto suggerendo è una ricetta semplificata, esistono metodi e lavorazioni più elaborati che prevedono
l’utilizzo di additivi come nitrati e polifosfati. Passati i 6 giorni, rimuovete il prosciutto dal frigo e legatelo, fate prima un cappio stretto e saldo centralmente e poi continuate a realizzare degli anelli, tirando più che potete lo spago, fino ad ottenere una “margherita”. Mettete in griglia la vostra coscia con la cotenna rivolta verso l’alto e, se vi piace, incidete a rombo con un coltello affilato. Preparate il dispositivo per una cottura a bassa temperatura, tra i 115 ed i 130°C, un paio di chunk di melo e iniziate ad affumicare. Fondamentale per la buona riuscita del prosciutto è saturare l’ambiente di umidità, quindi posizionate il water pan bello carico di acqua bollente, poiché il vostro obiettivo non sarà un bark croccante, ma morbidezza della carne e sentore di fumo. Proseguite dritti fino alla meta fissata a 82°C al cuore. Una volta pronto, avvolgete il prosciutto nel foil e mettetelo in rest per qualche ora. Quindi fate scendere la temperatura sotto i 35°C. Vi consiglio di prepararlo il giorno prima e di metterlo in frigo. Scendere sotto i 35°C permetterà al collagene di riacquistare consistenza e quindi potrete ricavare fette più omogenee e compatte.
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Nel Cuban Sandwich ci va il prosciutto cotto, quello classico e senza particolari aggiunte. Ma a me pareva un ingrediente un po’ moscetto e piatto, per cui ho deciso di arricchire il panino con la nota affumicata del Prosciutto di Praga. Che potete comprare nella vostra salumeria di fiducia oppure fare in casa. Come? Ve lo spiego subito.
05. I CETRIOLI sotto aceto
La conservazione sott'aceto può avvenire sostanzialmente in due modi: per fermentazione lattica o con un'aggiunta di un ingrediente acido (aceto) ad un alimento precotto. I sottaceti fermentati più famosi sono appunto i cetriolini, ingrediente chiave del nostro paninozzo cubano. I cetrioli vengono sottoposti ad una proliferazione microbica: lo starter è costituito dai microorganismi naturalmente già presenti su ortaggi e verdure, mentre l'acido lattico funge da conservante. Si sfrutta l'azione di batteri lattici quali L. mesenteroides, E. faecalis, P. cerevisiae, L. brevis e L. plantarum. Per prima cosa i cetriolini vengono lavati, puliti e tagliati. Poi si aggiunge il sale da cucina, che serve a selezionare la colonia microbica giusta, attivando solo i batteri necessari alla liberazione di acido lattico.
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Ma esistono anche i sottaceti preparati con ingredienti lavati, tagliati, precotti e poi immersi in un liquido acido bollente, con un pH di circa 4,6. Questo perché i batteri si sviluppano prevalentemente a pH di 6,5-7,5, le muffe a circa 6, ed i lieviti in un range di pH oscillante tra 3 e 4. Con la precottura e la successiva immersione del sott'aceto nel liquido di governo ustionante è possibile abbattere quasi del tutto la carica microbica.
IL METODO 1-2-3 di Magnus Nilsson Esiste però una tecnica per ottenere dei sottaceti espressi, freschi e che conservano una grandissima croccantezza, poiché l’ingrediente da conservare non viene mai scaldato. È il metodo 1-2-3 che lo Chef stellato svedese Magnus Nilsson (ex patron del leggendario Ristorante Fäviken) descrive nella Bibbia della cucina nordica “The Nordic Cookbook”. È un metodo molto semplice da mettere in pratica. Per farlo vi servono: • 1 l aceto di vino bianco • 2 kg di zucchero • 3 l di acqua • 1 kg di cetrioli • 40 g sale fino Per prima cosa bisogna preparare la marinata. 1. Portate l’acqua a bollore e dissolvete lo zucchero, fino ad ottenere uno sciroppo. Aggiungete l’aceto e fate raffreddare. 2. Tagliate i cetrioli a fettine o a rondelle, ad uno spessore di 3mm; disponete in uno scolapiatti e cospargete con il sale. Lasciate agire per 30 minuti e poi strizzate. 3. Sistemate i cetrioli in un barattolo e ricoprite con la marinata. Fate riposare in frigo per almeno 2 ore. 4. Aggiungete aromi a piacere (semi di senape, aneto, cipolla tritata), i sottaceti così preparati si conservano in frigorifero per 1 settimana.
Riempite un barattolo in vetro con i vostri cetrioli affettati e coprite con il liquido, aggiungete qualche fettina di lime per aromatizzare e qualche rametto di timo, che viene utilizzato anche per la cottura del maiale. Lasciate riposare per qualche ora e fateli sparire entro pochi giorni. Mi raccomando, questa non è una tecnica per conservare i sottaceti a lungo.
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Questa procedura è più che collaudata, ma per i cetrioli del nostro panino ho pensato di fare una piccola modifica, riducendo il quantitativo di zucchero e aumentando quello dell’aceto. Sciogliete 800 grammi di zucchero in 1,5 litri d’acqua, poi aggiungete 600 ml di aceto. Affettate 500 grammi di cetrioli (non togliete la buccia!) e seguite le istruzioni come sopra.
06. LE SALSE Così come siamo soliti condire il pulled pork con una salsa, è fondamentale irrorare i nostri straccetti di maiale con un sughetto acidulo, che andrà a bilanciare la nota grassa e opulenta della carne e del formaggio svizzero, che va stratificato senza ritegno con il resto degli ingredienti. Ingredienti per il Mojo: • 180 ml di olio extravergine di oliva • 10 g cilantro fresco • 130 ml succo arancia • 130 ml succo lime • 7 spicchi aglio tritati • 10 gr di buccia d’arancia grattugiata • 5 g di buccia di lime grattugiata • 3 g origano • 2 g pepe nero • 1 g cumino • sale q.b.
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Preparate il Mojo il giorno prima, lasciando in infusione tutti gli ingredienti per 24 h. Quindi filtrate il tutto con cura ed emulsionate con il minipimer o con le fruste. E la senape? Va spalmata sotto il cappello del panino, bella spessa. Vi consiglio però di darle un po’ di friccicore aggiungendo 10 grammi di succo di lime (o limone) per ogni 100 grammi di senape. Questo per armonizzare i sapori di un sandwich non proprio facile da affrontare.
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07. assemblaggio del SANDWICH E adesso veniamo alla mia parte preferita, la costruzione finale dell’opera. Tagliate il pane a metà e spalmate del burro sia sulla parte della mollica che della crosta. Tostate la parte interna del panino, spalmate sulla base un velo sottilissimo di crema di aglio, se vi piace, e una buona dose di senape sulla parte interna dell’altra metà. Disponete le fette di prosciutto di Praga, formando dei fiocchetti grandi quanto un morso. Potrà sembrarvi superfluo, ma vi assicuro che renderà molto più semplice azzannare il panino senza far sgusciare nulla sul pavimento. Ora aggiungete il maiale sfilacciato e bello intriso di salsa e coprite con delle fette di formaggio svizzero (tante). Chiudete il panino, piastratelo o scaldatelo in forno per far fondere il formaggio, poi riapritelo e aggiungete i cetrioli a fette sulla sommità. Serrate e ammirate la spavalderia del vostro sandwich, magari sorseggiando un Mojito alla Fidel e urlando “Ueh Nixon! Giù le mani dal mio cubano!”
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Gianfranco Lo Cascio
Seguo - rubrica a cura di Emiliano Nencioni
Ami g da l a 486 - Almanacco 2020
la materia grigia che rende il tuo nome grigio.
“Preparati a vestire il grigio” è la tipica punchline di ogni moderatore a cui piaccia fare un intervento tranchant e cinematografico prima di sanzionare con ban e pubblica derisione il riottoso del momento. Dopo il provvedimento disciplinare il nome dell’utente diventa grigio e le reazioni degli astanti si dividono fra pavido dileggio e solidarietà indignata; il consesso online si libera dei fastidiosi interventi del reietto e, generalmente, un amministratore si accolla dodici ore di polemica in chat privata. Dietro questi provvedimenti c’è, generalmente, una reazione sconsiderata dell’utente: con modalità che sembrano sfuggire ad ogni comprensione può infatti capitare che una persona normalmente mite, tranquilla e a volte - è capitato! - anche estremamente servile, ossequiosa e zerbinata, si tramuti in un caustico dispensatore di cattiverie, vendette e aberrazioni linguistiche. Cosa genera questo infausto scatto? Forse il social network promuove una certa schizofrenia rimasta latente? No, è più qualcosa che ha a che fare con la rapidità che i nostri progenitori avevano a riconoscere un serpente. Detta così sembra un po’ tirata per il collo, ma
una pratica comune qui nella Seguo è spararle grosse e poi cercare di giustificare tutto con sofismi e sillogismi traball a n t i , c o m e del resto i miei lettori (recentemente cresciuti fino al notevole numero di otto, mi han detto) ormai ben sanno. È tutto lì, nel meccanismo fight or flight (attacco o fuga), che risiede l’inghippo delle reazioni sconsiderate. C’è questa struttura nel cervello, simile a un paio di mandorle (da qui il nome), che si fa carico di un compito essenziale: produrre reazioni alla svelta, alla sveltissima. L’amigdala riesce a filtrare uno stimolo proveniente dal mondo esterno con la memoria emozionale dell’individuo e a produrre reazioni “di emergenza” in tempi brevissimi senza dover far passare tutto dal complesso e ben più lento meccanismo del pensiero cosciente. Se intravedo il muso di un serpente me ne accorgo subito e mi predispongo alla fuga, non richiamo prima alla mente la sensazione di pelle squamosa, i ricordi di Sir Biss de La Spada nella Roccia, un paio di aneddoti biblici e una cintu-
È di grande esempio il caso piuttosto famoso di una donna americana, conosciuta con le iniziali SM, la “donna senza paura”: sin dall’infanzia una pesante anomalia bilaterale all’amigdala l’aveva resa completamente priva di paure e di ogni forma di timidezza. La donna viene descritta come incapace di rispettare certe forme di “distanza col prossimo”: tende a stare troppo vicino, cercare il contatto con tutti, fidarsi di tutti, e ad essere “quantomeno civettuola” e molto disinibita. Questo l’ha portata a mettersi pesantemente nei guai, fino al punto di essere minacciata di morte, aggredita con coltelli e armi da fuoco, aver subito borseggiamenti e furti, quasi uccisa in un paio di episodi di violenza domestica, ma nonostante questo la signora continua a non fare una piega:
semplicemente, non è in grado di ricavare paura (e quindi deterrente ad agire) dai propri ricordi di rischio e trauma; non è in grado di impaurirsi neanche con un film horror, non è in grado di percepire una musica come triste o cupa, non riesce a decifrare gli indizi sociali quali fastidio, noia o paura nei propri interlocutori. Nei social network odierni l’amigdala è sicuramente in superlavoro continuo: dovendo badare all’intersezione del proprio spazio personale con quello degli altri, la continua intrusione imposta dal concetto stesso di “condivisione al giudizio altrui” porta un sovraccarico inevitabile. Chiaro indicatore di questa esasperazione è la reazione ai post relativi alle inserzioni a pagamento dei brand commerciali: pagando (non poco, a dire il vero) un obolo ai gestori dei social è possibile intrufolarsi dentro i flussi di notizie degli utenti, ed apparire, non richiesti, tra i vari post di gattini, di pagine di meme volgari (sì, dico a te, là in fondo) o di complottisti antivaccinisti (dico a quell’altro) che l’utente sceglie di seguire. Questo viene interpretato spesso come intollerabile intrusione nello spazio personale, al pari di uno sconosciuto che venga a urlarti in faccia talmente vicino da toccare il suo naso col tuo. Negli individui più sensibili la reazione è maiuscola, e nei momenti di noia è possibile passare giornate intere leggendo i commenti sproporzionati e animaleschi sotto le pubblicità a pagamento: persone che si prendono dieci minuti del proprio tempo per scrivere a una multinazionale senza volto che la loro automobile è meglio di quella da loro reclamizzata, per far notare al brand di abbigliamento sportivo che il modello usato per indossare la maglietta (di solito un
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ra di alta moda. Probabilmente salto via prima di aver addirittura pensato di dover saltare via. Siamo capaci di riconoscere certi tratti di figure “pericolose” (le caratteristiche facciali di un serpente sono solo un esempio) perfino da cose completamente astratte come le macchie di Rorschach. Per ogni evento riconosciuto come pericoloso l’amigdala è capace di prendere il controllo del sistema cardiovascolare, dei muscoli (per la fuga o la lotta), dell’intestino (pare che si fugga meglio con l’intestino sgombro, e questo mi fa ripensare a tante coliche nervose durante le interrogazioni al liceo), e ogni ricordo utile viene rapidamente preso in esame per elaborare una reazione efficace o una contromisura salvifica. Questa specie di canale prioritario verso la reazione motoria, con un eccellente algoritmo di ricerca nella memoria emozionale, è come si può intuire fondamentale per la sopravvivenza e ben radicato negli esseri viventi. Gli informatici più vecchia scuola (che sono il 40 per cento dei miei lettori, quindi me la gioco facile questa) potrebbero facilmente paragonare questo funzionamento con la generazione di un interrupt. Se negli animali l’amigdala presiede alla funzione fondamentale di salvaguardia dai predatori, nei primati e poi nell’uomo la cosa si è evoluta, e ti pareva, fino a livelli complicatissimi e cervellotici. Non solo la paura, ma anche la timidezza, l’aggressività, ma anche concetti molto più complessi come la sacralità dello spazio personale sono mediati da queste due mandorle ficcate nel cervello, ed è qui che entra in gioco la problematica Social.
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campione, o una specie di statua) è fuori forma, brutto o antipatico, o altre sconclusionate e inutili manifestazioni di rabbia e frustrazione. La violazione dello spazio personale, inevitabile negli esami medici, nella vita sui social e - sacrilegio - nella moderazione, è un evento così grave che l’amigdala lo gestisce a modo suo, che come ho detto poco sopra significa agire in fretta e con impulsi e reazioni non mediate dalla ragione. Puro istinto. Dirottamento dell’Amigdala. Si chiama così. Nel senso di dirottamento compiuto da parte dell’amigdala ai danni dell’individuo. Succede quando la reazione emotiva è completamente sproporzionata e fuori luogo rispetto all’evento scatenante, e non è colpa di nessuno. È chimica, è biologia. Spesso infatti suggerisco ai moderatori di “ammortizzare il colpo” di questi malcapitati, agendo in caso di manifesta iper reazione in maniera benevola, magari eliminando il post prima che qualcuno si innervosisca davvero e silenziando il feroce utente per qualche tempo, dandogli modo di recuperare il senno, sbollire l’ira funesta e smettere di riconoscere le fattezze del serpente nell’avatar del moderatore. Ma, spesso, è tutto vano. Si sfocia nella reazione di prestance, e ne parleremo presto, voi intanto fate una ricerchina veloce. Cancellare un commento o silenziare è un ulteriore affronto, un oltraggio alla sfera emotiva, come
se all’indifeso primate inibissero la possibilità di mostrare aggressivamente la dentatura per scoraggiare il predatore, o il rivale nell’accoppiamento. “Ti sei permesso di cancellare un mio commento” “Beh sì, fa parte della moderazione” “Non deve succedere mai più” “Lo spero, basta che tu non contravvenga alle regole e sicuramente non accadrà” “Non ti devi permettere di cancellare, al massimo avvertimi!” “Siete sessantamila, non è fattibile: se una cosa non va bene la togliamo, niente di personale” “Con me non ti devi permettere di farlo” “Non vedo perché e non sono neanche troppo curioso di apprenderlo” “Si può sapere chi ti credi di essere? Solo perché hai un ruolo pensi di poterne abusare?” “Guarda, il mio ruolo è di moderare. Significa dover togliere i commenti. Ma sicuramente sei una persona splendida, affabile, solare e giusta fra i giusti: solo che non andava bene quel commento, ed è stato tolto” “Una simile mancanza di rispetto è intollerabile” “Ah, vedo che non hai mai letto la Seguo” “...?” “Se hai una mezz’oretta di tempo proverò a parlarti un po’ del vero nome di quello che tu chiami rispetto, tu mettiti comodo.”
Emiliano Nencioni
N°18/ANNO 2 - GIUGNO 2020
MAGAZINE
L'EDITORIALE DI GIANFRANCO LO CASCIO
I FALSI MITI SULLA COTT URA SOTT OVUO TO SPIEG ATI BENE
LASCIATEMI GRIGLIARE
S O N O U N I TA L I A N O:
alla genovese, alla milanese, alla veneziana, alla parmigiana, ma soprattutto alla griglia
PESTO
LA RICETTA SCIENTIFICA
IL DI BASILICO
FORMAGGIO FATTO IN CASA
COME SI FA IL CHEDDAR SPECIALE BISTECCA non è la fiorentina, è la
FIORENTINA PERFETTA
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Editoriale di Gianfranco Lo Cascio
La a c c e t iB s tifica n e sci
I falsi miti sulla cottura sottovuoto spiegati dalla scienza Lo scienziato non è l’uomo che fornisce le vere risposte, è quello che pone le vere domande. Siccome la scienza sta alla base del mio lavoro e, per quanto mi riguarda, dell’esistenza stessa, mi sono sempre chiesto a che diamine possa mai servire riscaldare un pezzo di ciccia per poi schiaffarlo in acqua e ghiaccio. Non potevo quindi limitarmi a chiarire a parole che raffreddare una bistecca è un esercizio di stile inutile, e per questo ho deciso di fare un esperimento documentato a supporto della mia tesi. Ma partiamo dalla teoria: perché abbattere in positivo una costata prima di cuocerla non serve a una cippa? L'argomento è stato affrontato molte volte ma le cattive abitudini sono dure a morire e fanno presto a diffondersi, come le malattie delle parti intime. È fondamentale, dunque, contestualizzare: State cuocendo per poi conservare in frigo e rigenerare un'altra volta, per la cena di dopodomani? State cuocendo/scaldando la bistecca per mangiarla subito dopo il passaggio in sous vide? Ve lo dico perché una cosa esclude l’altra, delle due bisogna sceglierne una. Se sto cuocendo un petto di piccione che però dovrò rigenerare sabato prossimo a pranzo con la famiglia, allora sì, devo tassativamente procedere al raffreddamento rapido dopo la cottura. Questo mi permette di controllare la proliferazione batterica e beneficiare della pastorizzazione ottenuta con il sous vide. Cuocio, raffreddo, conservo in frigo per 10/12/15 giorni, a seconda di ciò che c'è dentro il sacchetto.
Però "quelli di là", esperti professionali/isti di cottura a bassa temperatura, predicano assolutamente l’abbattimento sempre! E poi ti dicono "cottura classica su piastra" con i soliti svariati minuti (ovvio, altrimenti resta gelata al cuore) e assolutamente non rigenerare in roner, diretto da frigo al fuoco! Ho provato, educatamente argomentando, a fare le dovute contestazioni, ma per questo mi hanno "silenziato" per una settimana. Capisci che chi si approccia non sa a chi dare retta?
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Se invece sto scaldando la bistecca per cuocerla in griglia o sulla piastra in ghisa subito dopo il passaggio in sous vide, non devo raffreddare per nessuna ragione al mondo. Perché in questo caso sto vanificando il beneficio fondamentale e cioè avere una temperatura uniforme all'interno della mia fetta di carne. Raffreddare o abbattere una bistecca cotta/scaldata sottovuoto da grigliare subito è un non-sense, è come un fumetto di Sio ma che non fa ridere. Quindi non si fa. Quello che devo fare è invece cuocere/scaldare, aprire il sacchetto, asciugare e cauterizzare in padella o in griglia.
Qualche giorno fa ho parlato di cottura sous vide in Community, nel nostro gruppo Facebook, chiedendo la cortesia agli utenti di non diffondere informazioni mendaci, che possono confondere le idee a chi si approccia per la prima volta a certe cotture. Il risultato, tra le tante espressioni di pensiero, è stato un commento talmente surreale che sento di doverlo riportare anche qui. Segue l’analisi del testo e la parte in cui vi spiego perché non ha credibilità scientifica. "La superficie della carne a 52°C messa sulla ghisa o sulla griglia a temperature estremamente elevate raggiungeranno la temperatura di 140°C (Maillard) praticamente nello stesso tempo (differenze di frazione di secondi o giù di lì) di una carne abbattuta in positivo ( anche solo qualche minuto per intervenire solo in superficie senza modificare sostanzialmente la temperatura interna)."
FALSO
La reazione di Maillard inizia a manifestarsi a temperature superiori ai 160°C, in assenza di umidità e in presenza di proteine
e zuccheri riducenti. Se queste tre condizioni non si verificano, contemporaneamente, la reazione di Maillard non avviene. Ora, una carne abbattuta in positivo parte da una temperatura sensibilmente più bassa. A contatto con la superficie rovente, inizia subito la trasmissione del calore dal metallo alla carne. Tutti sanno che i tempi di reazione di una carne fredda e non trattata con Revit (trattamento con salatura e asciugatura in forno a 52°C) sono sensibilmente più lunghi a causa del coefficiente di trasmittanza (la tendenza di un elemento allo scambio di energia, ovvero l'inverso della capacità isolante di un corpo) del calore carne su carne; in poche parole, il calore esterno scalda la superficie della carne e mano mano si trasmette verso il centro. In questo frangente ci sarà sufficiente calore per disattivare la mioglobina ma non sufficiente a far partire le reazioni di Maillard. Il risultato, a parità di crosticina croccante, è un mouse ring (un bordo grigiastro) più pronunciato. Quello che invece cambia è l’escursione termica che si ha da 52°C a 140°C e da 2/3°C a 140°C, chiaramente superiore nel secondo caso!
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CORRETTO
Il differenziale termico comporta fondamentalmente due cose: Ovvero molecole più contratte nei primi millimetri di superficie, (nozioni
basilari della chimica fisica) che quindi messe in condizioni termiche estreme fanno si che gli amminoacidi e gli zuccheri sulla superficie più esterna (chiaramente asciugata maniacalmente) reagiscano tra di loro in maniera molto più efficace, in quanto appunto, essendo le molecole più contratte (fino e qualche millimetro sotto la superficie), tratterranno al loro interno più liquidi di quanto farebbero invece molecole più distese (52°C). liquidi che andrebbero in parte a influire negativamente sulla Maillard che sta avvenendo nella parte più esterna ormai disidratata (decimi di millimetro).
FALSO
Le nozioni basilari della chimica e della fisica dicono esattamente il contrario, mio giovane e confuso Padawan. E questo principio è alla base dell'invenzione del sous vide. Il sous vide nasce per aggirare la perdita di liquidi delle cotture tradizionali, proprio per denaturare il tessuto connettivo grazie a tempi lunghi e temperature più basse. È stato progettato per trattenere una percentuale significativa di umidità all'interno della carne proprio perché l'alta temperatura provoca contrazioni repentine che strizzano fuori l’acqua. Quando ad un pezzo di carne somministriamo calore, a Mazara del Vallo come ad Aosta, questo si contrae. Le fibre si accorciano quindi sia longitudinalmente che trasversalmente, si restringono e si compattano. Tecnicamente, questo processo viene definito “coagulazione proteica”, anche se la definizione non è del tutto corretta. Il range di contrazione
Quindi se qualche guru del sottovuoto blatera e dice cose del genere, vuol dire che non sa di cosa parla. E non è colpa mia, basterebbe andare a consultare gli studi fatti in materia come ho fatto io e come può fare chiunque. Dire che la carne fredda ha le fibre più contratte e quella calda invece più distese è un assolutamente fuori da ogni evidenza scientifica. È vero invece il contrario, prendendo in esame la naturale predisposizione delle fibre. Tecnicamente, se questa “efficacia” della reazione fosse davvero comprovabile, lo sarebbe al limite con la carne calda e non con quella fredda. Ma non è nemmeno così. E per un motivo ancora più evidente. Sottoporre a cottura, sia dentro che fuori da un sacchetto, un pezzo di carne vuol dire trasmettere energia. Questa energia si propaga dalle superfici più esterne verso l’interno. Allo stesso tempo, come abbiamo detto in precedenza, il calore fa contrarre le fibre. Calore che, ovviamente, è più intenso sulle superfici esterne e meno potente man mano che ci si avvicina al cuore, specialmente durante le fasi iniziali della cottura. Questo cosa compor ta? Comporta che l'acqua ancora
Ma aspettate, non ho ancora finito. Il tempo per reazione di Maillard è inferiore (qualche manciata di secondi) nonostante una temperatura iniziale più bassa, e quindi c’è un mantenimento eccellente delle condizioni ottenute col sous vide!
FALSO
Una carne fredda su una superficie rovente, con livelli di idratazione normale, crea immediatamente uno strato di condensa/vapore acqueo. Perché? Perché come abbiamo detto, la contrazione delle fibre espelle l'acqua, questa si riversa negli strati tra carne e padella e, sempre come abbiamo detto, la Reazione di Maillard in presenza di vapore, non avviene. Non solo, la temperatura del vapore, circa 110°C, è più che sufficiente per disattivare la mioglobina. Il risultato è una carne grigia che si sta lessando nella sua acqua.
493 - BBQ4All Magazine
trasversale, quello della miosina è 55/60°C. Il range di contrazione longitudinale, quello della actina è 70/75°C. Per ipersemplificare il concetto: la particella fondamentale di una fibra di carne si chiama sarcomero, immaginiamolo come una lattina di Coca Cola. La lattina è l'actina, la Coca Cola sta a rappresentare le miofibrille. La mano è il calore. Se apro una lattina e la strizzo nel mezzo che succede? Esatto, esce fuori il liquido. Se poi faccio un piccolo twist alla lattina (alzo la temperatura) e mettendola su un piano do un colpetto sulla superficie che succede? Esatto, si schiaccia e implode. Questo è ciò che accade quando somministriamo calore ad un pezzo di carne: si contrae prima trasversalmente (miofibrille) e poi longitudinalmente (actina). Ma la carne non è metallo, la carne col calore si contrae. Il fenomeno che cosa comporta? L’espulsione dei liquidi intrappolati nella trama delle fibre. Qualsiasi pezzo di carne, messo in sous vide e portato a 55/60/70/75°C, perde dei liquidi che si riversano nel sacchetto. E più la temperatura sale, più liquido ci sarà nella bustina. Questa è ciò che le leggi della fisica e chimica affermano, non il contrario. E mi dispiace ma non le stabilite io.
intrappolata nella bistecca viene letteralmente spinta verso il cuore della carne. Quindi allontanata dalla superficie la cui energia termica preme verso l'interno. Nel momento in cui vado a raffreddare la carne, questa differenza di potenziale cessa e l'acqua torna a ridistribuirsi in modo uniforme. In soldoni, la superficie che prima, grazie alla spinta di energia, conteneva meno acqua rispetto agli strati interni, dopo il raffreddamento torna ad idratarsi per ristabilire l'equilibrio. Ne consegue che, al contrario di come affermato, una carne fredda, dopo l'abbattimento, ha: Fibre distese e non contratte. Più “liquidi” di una carne a 52°C.
SOUS VIDE vs SOUS VIDE + ABBATTIMENTO IN POSITIVO Quanti di voi hanno messo una bistecca fredda da frigo in padella per poi vederla bollire miseramente nella sua melmetta brodosa? [Ho alzato la mano]
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Io non ho alcun interesse a denigrare o difendere una tecnica di cottura. Il mio compito è riportarvi esattamente la verità. È la verità è che abbattere un pezzo di carne da cauterizzare subito dopo è una stupidaggine, su tutta la linea. Non esistono benefici comprovabili. Uno che sia uno. Altro discorso se sei un ristoratore. Altro discorso se devi ottimizzare le preparazioni e devi tenerle pronte da rigenerare all'occorrenza. In quel caso, è assolutamente necessario procedere all'abbattimento. La carne cotta in sous vide, da finire in padella o in griglia immediatamente, non va abbattuta. E adesso ve lo dimostro anche con la pratica. Ho preso due ribeye Blue Ox di
Black Angus, new entry della mia selezione, qualità Prime e dallo stesso peso (350 gr.). Messe entrambe sottovuoto e poi a bagno a 52°C per 3 h, anche se con questa tipologia di carne, già frollata e marezzata, basterebbe una piccola scaldata solo per raggiungere la temperatura ottimale al cuore. Trascorsi i 180 minuti ho asciugato la prima ribeye con carta assorbente, più volte, ho velato con poco olio e ho cotto su piastra rovente in ghisa, misurando la temperatura con un termometro ad infrarossi (300°C). Ho tenuta la carne a contatto con la ghisa incandescente per pochi secondi per lato, il tempo necessario per ottenere una reazione di Maillard soddisfacente ed una temperatura di 52°C al cuore. Potete analizzare il risultato in foto: crosta accentuata, che tuttavia non raggiunge la croccantezza di una stessa bistecca asciugata in forno (mi occuperò di fare un confronto tra tecniche nel prossimo numero del BBQ4All Magazine), cottura
uniforme e priva di mouse ring, l’antiestetico anello grigio che evitiamo come la peste. Passiamo alla se conda bistecca: l’ho sgocciolata dalla vasca del sous vide, con lesto movimento di mano l’ho trasferita in una boule piena di ghiaccio e sale. Ho atteso che la superficie si raffreddasse come da improvvide istruzioni, ho aperto il sacchetto e ho asciugato con cura. Nel frattempo la piastra in ghisa si è arrovellata come certi personaggi ostili, velo d’olio extravergine in superficie e via. Per ottenere una Maillard pari alla bistecca precedente, come sospettavo, ho impiegato più tempo, e non solo non ho notato miglioramenti sostanziali nella crosta di cauterizzazione, ma questa ha comportato una cottura disomogenea, con l’inevitabile comparsa dell’alone color topastro. Cosa scrivervi se non un proverbiale “Ve l’avevo detto?”
Gianfranco Lo Cascio
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SE DICI GENOVA DICI
FOCACCIA
L'Arte Bianca a cura di Alessandro Trezzi
Simbolo indiscusso di una regione intera, tra mille varianti, colori, sapori e profumi, la focaccia genovese è entrata con forza nell’immaginario collettivo, al punto da esser spesso considerata come sinonimo di tutta la categoria. Come per tutti i prodotti di acqua e farina di storica tradizione italiana, le sue origini si perdono nella notte dei tempi. Sebbene nel XVI secolo venisse consumata in chiesa e durante i matrimoni, la “fügássa” si diffuse nell’Ottocento nelle zone portuali, e più precisamente nelle “sciammade”, antiche friggitorie con il forno a legna necessario per cuocere una delle preparazioni più famose al mondo; veniva consumata alle 11 in punto assieme a un buon bicchiere di vino bianco di Coronata. La sensazione di sazietà che ne derivava permetteva ai camalli (gli scaricatori di porto), all’occorrenza, di saltare la pausa pranzo; una necessità tipica di ogni regione, di ogni terra, specialmente nelle aree e nelle famiglie più povere dove il pane, la pizza e la focaccia costituivano spesso l’unico pasto della giornata.
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Ma cosa si intende con il termine “focaccia”? È presto detto: mentre la pizza è un qualsivoglia prodotto lievitato steso e infornato al momento, la focaccia beneficia di un’ulteriore lievitazione in teglia, che consegna più morbidezza alla mollica, una struttura uniforme e un’alveolatura omogenea. La versione genovese si differenzia per un interno morbido e vaporoso, la crosta croccante, dorata e saporita, con in superficie i tradizionali buchi bianchi e cremosi, che grazie alla salamoia e all’olio distribuiti prima della cottura generano esplosioni di gusto a ogni morso. Le principali varianti alla liscia sono le farciture con olive, cipolle o pomodorini e origano, sebbene l’intera Liguria sia costellata da celebri focacce come la Recco ripiena di crescenza o stracchino o la Voltri, bassa e croccante. LA FARINA Facciamo un bell’esercizio: ragioniamo a ritroso, focalizzandoci sul risultato da ottenere e individuando la scelta migliore per quanto riguarda la materia prima e il processo. Vogliamo una focaccia sviluppata, morbida, vaporosa, dalla mollica aperta e non compressa, la struttura uniforme senza crateri o bolle eterogenee (che in questo prodotto sono un difetto da
evitare). La genovese deve essere soffice e asciutta, l’interno equilibrato e la crosta croccante. Per questo motivo la farina consigliata è senza ombra di dubbio una 00 o una 0, in quanto crusca e fibre presenti nelle integrali e semi-integrali, nonostante il profilo nutrizionale migliore, trattengono l’umidità e ostacolano in parte la formazione del glutine. Ciò che otteniamo è un prodotto morbido e con una shelf life più lunga grazie all’umidità residua, ma meno espansa e leggera in quanto le fibre conferiscono un senso di sazietà maggiore.
IL PROCESSO Se nella pizza ogni fase è di cruciale importanza per la bontà del risultato finale, nella focaccia l’impastamento è la parte più semplice, effettuabile senza problemi anche a mano. Ciò dipende dall’idratazione tipicamente molto bassa, spesso inferiore all’assorbimento minimo farinografico
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Tradizionalmente la fügássa viene realizzata con farine medio-deboli e maturazioni corte a temperatura ambiente. Come tutti i prodotti da forno tuttavia, è necessario oggi più che mai rispondere alle esigenze moderne; se è vero che un tempo era necessario sfamare la gente con un solo pasto, oggi mangiare è e deve essere un’esperienza. Nella versione aggiornata e proposta in questo numero useremo quindi farine medio-forti e una maturazione condotta in frigorifero, comoda da fare a casa e in grado di migliorare il profilo aromatico e le caratteristiche strutturali della focaccia. Esatto, ciò che imparerete a fare non è la vera focaccia genovese, ma la mia versione.
della materia prima, un parametro fondamentale per l’ottenimento di un impasto molto plastico che possa essere steso uniformemente e la cui mollica sviluppi in maniera equilibrata durante la lievitazione in teglia. Se è molto idratata, non è una genovese; risulterà elastica, con un’alveolatura eterogenea e una mollica meno asciutta.
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Attenzione, non significa che non possa essere un ottimo prodotto, semplicemente non sarà in linea con le caratteristiche ricercate. La fase fondamentale che pregiudica il 90% del risultato della fügássa è il riposo, diviso in quattro momenti distinti: una parte iniziale in massa, una in forma, una in teglia dopo la stesura e l’ultima dopo la formazione dei buchi. Ognuna di queste fasi dovrà essere condotta nel giusto momento perché le caratteristiche possano ritenersi perfette; se stendete troppo presto l’impasto tornerà indietro e non otterrete un prodotto rettangolare e della stessa altezza in tutta la superficie, se formate i buchi troppo presto torneranno su durante l’ultima lievitazione. Qui più che mai tenete i tempi come parametri puramente indicativi, in quanto pratica e capacità di osservazione sono fondamentali per standardizzare il vostro risultato. LA STESURA Volete la vera eretica rivelazione? Perché la struttura ottenuta sia il più possibile uniforme, sviluppata e aperta ma con un’alveolatura fine e distribu-
ita, il modo migliore è stendere a mattarello. Lo so, siete caduti dalla sedia e vi state rotolando sul pavimento, piangendo e maledicendo il mio nome a gran voce. Ma è la pura e semplice verità e va accettata a fin di bene per la bontà del prodotto finito. Potete fare i fenomeni stendendo a mano e magari ottenendo qualcosa di realmente positivo, ma non potrete mai assicurarvi la certezza come con la stesura a mattarello, che consente alla vostra fügássa di eliminare i gas della prima lievitazione e di crescere uniformemente in teglia. E qui mi vorrete senz’altro chiedere, “ma perché faticare tanto con la puntata in massa se poi con questo arnese del demonio rovino tutto il lavoro svolto?” Semplice: perché dei gas della prima lievitazione non ve ne fate assolutamente nulla. Ciò che conta è l’ottenimento, tramite la maturazione, delle caratteristiche organolettiche, del volume e dell’estensibilità necessaria perché il tutto possa essere steso riempiendo la teglia, spezzando la tenacità dell’impasto e la sua elasticità. L’OLIO Non esiste focaccia genovese senza un buon olio extravergine di oliva; sono prodotti che vivono in simbiosi, come il pomodoro e la mozzarella. Se cercate un prodotto ipocalorico cambiate strada; sulla fügássa ne va, e tanto. Fate i bravi e procuratevi il miglior extravergine che potete permettervi: equilibrato, profumato, fruttato e delicato, senza essere troppo incisivo.
Per ovvia associazione territoriale il consiglio migliore è un olio ligure, ma l’Italia ha tanti altri prodotti che ben si prestano all’utilizzo, come quello del Garda o il Toscano, e tutte le produzioni che annoverano Casaliva, Frantoio, Leccino e Moraiolo tra le varietà di olive utilizzate. Nell’impasto l’olio ha la funzione di qualsiasi altro grasso: se usato almeno intorno al 6-8% sul peso della farina rende l’impasto più estensibile, malleabile e, avvolgendo le bolle di anidride carbonica che si formano durante la lievitazione, le stabilizza. L’alveolatura diventa così più omogenea e la struttura della mollica molto soffice. E tuttavia, in concomitanza con l’evoluzione dei prodotti moderni e della ricerca di una leggerezza sempre più accentuata, il suo utilizzo può essere tralasciato senza particolari conseguenze. I condimenti generosi e profumati del trancio rendono trascurabile l’apporto aromatico dell’olio, senza contare l’ingente risparmio economico che deriva dal suo non utilizzo. L’apporto fondamentale è in realtà la combinazione con la salamoia e lo spargimento in superficie, dove contribuisce a creare una crosta sottile, croccante, profumata ed esplosiva in corrispondenza dei buchi, la vera chicca che ha reso questa preparazione così famosa. IL MALTO Smontiamo uno dei miti più insistenti e fastidiosi nel mondo della panificazione, vi va? Lo stramaledetto zucchero nell’impasto.
INGREDIENTI per 3 teglie 30x40cm
Per l'impasto 1 kg di farina di grano tenero di tipo 00 (300 W); 550 g di acqua (il 55% sul peso della farina); 25 g di sale fino (2.5% sul peso della farina); 5 g di malto diastasico in polvere o 20 g di malto d’orzo in sciroppo; 10-15 g di lievito di birra fresco (10 in estate, 15 in inverno). 60 g di olio extravergine di oliva (opzionale)
Per la salamoia: 225 g di acqua calda; 150 g di olio extravergine di oliva; 18 g di sale fino.
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Partiamo dalle basi: le cellule del lievito si nutrono di zuccheri e producono anidride carbonica per la fermentazione. Per questo lo zucchero (maltosio e saccarosio) non va semplicemente aggiunto all’impasto in quanto verrebbe subito consumato, ma prodotto continuamente dalla saccarificazione (il processo che trasforma i carboidrati in zuccheri semplici) dell’amido contenuto nella farina con l’aiuto delle amilasi e dalle diastasi, enzimi presenti nella farina come nel malto stesso. L’uso corretto del malto velocizza fermentazione e lievitazione, e vista la maggiore presenza di zuccheri che caramellano durante la cottura, migliora struttura e colore della focaccia, oltre ad accrescerne profumi e sapori. Il contributo del malto è fondamentale in presenza di farine con bassa attività amilasica, di solito inversamente proporzionale alla sua forza e all’abburattamento (setacciatura graduale del grano macinato per ottenere farina di diversa finezza). Le farine integrali e deboli hanno quindi maggiore potere enzimatico, chiamato anche potere diastasico. In commercio esistono diversi tipi di malto, differenti per potere diastasico e quantità di zuccheri; la soluzione migliore è l’estratto di malto concentrato in sciroppo e il malto diastasico in polvere, utilizzabili in proporzioni di 5:1. In sostanza, quando qualcuno vi dice “Potete sostituire il malto con il miele o lo zucchero”, giratevi dall’altra parte e datevela a gambe.
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Le fasi da tenere in considerazione per la realizzazione del prodotto finito sono: 1. Impastamento; 2. Puntata o prima lievitazione; 3. Staglio o formatura dei panetti; 4. Appretto o seconda lievitazione; 5. Stesura; 6. Terza lievitazione in teglia; 7. Formazione dei buchi e condimento con salamoia; 8. Quarta e ultima lievitazione; 9. Cottura. L’IMPASTAMENTO La fase di impastamento, come già specificato, è di una semplicità disarmante e può essere condotta anche a mano. Cominciate sciogliendo lievito e malto nell’acqua, miscelando poi con la farina. Verso la fine inserite il sale e l’ultima parte di acqua; solo a questo punto aggiungete l’olio a filo, poco alla volta. Lavorate fino ad ottenere una massa liscia e uniforme, che non dovrà superare i 21°C. PUNTATA Una volta ottenuto l’impasto posizionatelo in un contenitore stretto dai bordi alti e lasciatelo puntare per circa un’ora, a temperatura ambiente in inverno o in frigorifero d’estate. STAGLIO E APPRETTO Trascorsa la puntata, riprendete il vostro impasto e porzionatelo nei pesi desiderati (in questo caso in tre parti uguali), da sistemare in altrettanti contenitori ben oliati; fate molta attenzione a distribuire l’olio su tutta la superficie, in quanto con una così bassa idratazione il rischio di formare la fastidiosa pelle è dietro l’angolo. Riponete quindi in frigorifero e lasciate maturare a 6°C per circa 24 ore. STESURA Al termine di questa fase l’impasto sarà quasi triplicato. Utilizzate delle teglie in alluminio, le più adatte allo scopo, perché
conducono meglio il calore ed essendo più spesse evitano che la base diventi croccante prima del tempo. Rovesciate dentro i panetti, appiattiteli leggermente con il palmo della mano e poi stendeteli uniformemente con il mattarello, per ottenere uno strato omogeneo e privo di gas della prima lievitazione; così facendo la focaccia sarà uniforme in tutta la sezione. L’impasto riuscito sarà molto malleabile, quasi “plastico”. TERZA LIEVITAZIONE IN TEGLIA Completata la stesura, lasciate lievitare per circa 60 minuti in un ambiente caldo, preferibilmente a 28-30°C; il vostro forno spento con la luce accesa andrà benissimo. FORMAZIONE DEI BUCHI E SALAMOIA Utilizzando i polpastrelli, premete con forza per lasciare l’impronta su tutta la superficie, per poi distribuire gli ingredienti della salamoia (dividendola logicamente in tre parti uguali) mescolati in modo che finiscano nelle fossette appena formate. QUARTA E ULTIMA LIEVITAZIONE Lasciate lievitare nuovamente dai 90 ai 150 minuti, fino a quando i buchi saranno “sprofondati” nella struttura lievitata dell’impasto. COTTURA Preriscaldate il forno a 240°C in modalità statica e cuocete per circa 14-15 minuti, fino a completa doratura. Il posizionamento della teglia dipende dal forno; in alcuni casi potrebbe essere necessario lasciarla sul pavimento per rendere la base croccante, per poi spostarla a metà altezza nella seconda parte della cottura. Sfornate e lasciate raffreddare su una griglia rialzata per evitare che la condensa rovini tutto il lavoro svolto; infine irrorate con un ultimo filo di olio extra vergine, in modo che il calore faccia sprigionare tutti i profumi di questo splendido capolavoro di panetteria moderna.
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LA RICETTA
Speciale Tradizioni - ricette a cura della redazione
Che gran pezzo di
GNOCCO! INGREDIENTI per 2 personei
250 g farina 00 110 ml acqua 30 g strutto 5 g lievito di birra fresco
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5 g sale fino
Le fondamenta della cucina emiliana sono certamente i salumi nella più elevata ed ampia accezione del termine. Le lunghe stagionature in ambienti asciutti tipiche delle terre pre appenniniche hanno generato salumi sopraffini, opulenti e noti in tutto il mondo. In questo contesto si inserisce un alimento semplice, in grado di contenere e valorizzare le gemme proteiche del territorio: il gnocco fritto, con l'articolo che utilizzano da queste parti. Da mangiare rigorosamente ben caldo in modo da permettergli di accentuare i sapori e di sciogliere leggermente le immancabili parti grasse delle fette di prosciutto, di coppa e di culatello che avranno la fortuna di finirci dentro. Le sue origini sembrano risalire alle invasioni barbariche che portarono nelle cucine nostrane l'utilizzo dello strutto, all’epoca affronto culinario-culturale alla linfa vitale della cucina dell'Impero romano: l'olio d'oliva. Pertanto diciamo sin d’ora che il gnocco emiliano va fritto obbligatoriamente nello strutto onde evitare movimentazioni e rigurgiti incontrollati all'interno dei loculi longobardi padani. Parliamo di un prodotto tipico delle province di Modena e Reggio Emilia. Da qui, percorrendo la Via Emilia in direzione ovest, lo si può trovare sino alla periferia est di Bologna dove, però, cambia nome e diviene crescentina. Dall’altro verso, se percorriamo la strada maestra emiliana e ci si dirige verso la Lombardia, a Parma diventa torta fritta ed a Piacenza cambia pure lingua trasformandosi in chisulen.
Per i veri appassionati del gnocco fritto emiliano, nel 2008 è stato fondata a Modena la Confraternita del Gnocco D’Oro. Un gruppo di estimatori e appassionati di tradizioni modenesi si è riunito in un’associazione culturale con l’obiettivo di tutelare il simbolo della più rigorosa tradizione gastronomica geminiana, da secoli cibo principe nelle tavole modenesi. Lo statuto dell’associazione prevede tra le sue finalità quella di mantenere la tradizione della delizia modenese e il coinvolgimento diretto dei pubblici esercizi, bar e ristoranti che somministrano gnocco fritto nei loro locali; creando una mappa dei luoghi d’eccellenza dove sia possibile gustare il migliore pezzo di Gnocco fritto modenese, magari abbinato a una fetta di superlativo Prosciutto crudo di Modena, ai ciccioli e salame delle montagne emiliane, ad una scaglia del re dei formaggi il Parmigiano Reggiano. Il tutto innaffiato da Lambrusco di Sorbara o Salamino di Santa Croce, delle cantine più rappresentative della provincia. Nel territorio i locali inseriti nel circuito sono dotati di una targa di appartenenza, simbolo dell’alta qualità rappresentata, e ogni anno una commissione di saggi ed esperti proclama il “Gnocco d’Oro”, ovvero il miglior pezzo di Gnocco somministrato in quell’anno nei locali del circuito. Ma veniamo a una domanda fondamentale: lo abbiamo chiamato sempre IL gnocco fritto, ma siamo sicuri sia corretto? Mettiamolo subito in chiaro, onde evitare orde di grammar nazi indignati, la regola grammaticale riconosce una sola forma: LO. E su questo siamo tutti d’accordo. Tuttavia sappiatelo: se entrerete in un bar di Modena o di Reggio chiedendo lo gnocco fritto, probabilmente vi chiederanno di uscire e anche di corsa. C’è una cosa che va assolutamente salvaguardata nel panorama linguistico e culturale italiano: il dialetto. Ebbene, come sapranno gli appassionati della materia, ci sono molti studi secondo i quali in Italia il dialetto si distingue dal vernacolo perché, a differenza di quest’ultimo, non è una variante della lingua standard ma una vera e propria lingua a sé, con le sue regole grammaticali e un vocabolario di uso quotidiano tipico, non immediatamente comprensibile per chi non la conosce. Ed è così che il termine dialettale al gnoc frèt si “traduce” in italiano in IL gnocco fritto. Grazie a quell’articolo “sbagliato” , questa specialità acquista una sua identità specifica e territoriale. Chiamandolo così, non state parlando di una qualsiasi preparazione simile a quella, ma specificatamente e solo DEL gnocco fritto modenese o reggiano. E infatti, come diceva Tullio De Mauro, importantissimo linguista italiano ed esperto di filosofia del linguaggio nonché incubo per tutti gli studenti di Lettere alle prese coi suoi manuali: “Talvolta un solecismo, una forma linguistica che la grammatica definisce scorretta, può essere giustificato se il suo uso risulta continuo e radicato in una
determinata area geografica” PREPARAZIONE 1. Riscaldate leggermente l'acqua, versatela in una ciotola, aggiungete il lievito di birra sbriciolato e mescolate ben bene il composto. 2. Disponete su un ampio tagliere la farina, aggiungete al centro del "vulcano" lo strutto e il sale. Versate pian piano l’acqua e mescolate con una forchetta. 3. Impastate fino a rendere l’impasto sodo ed elastico, formate una palla e lasciatela lievitare in una ciotola coperta da pellicola trasparente fino al raddoppio del volume. 4. A lievitazione avvenuta stendete l'impasto sul piano da lavoro aiutandovi con un mattarello, fino a renderlo una sfoglia sottile (non più di 2 millimetri). 5. Tagliate l’impasto a rombi di 7/8 cm con un taglia pasta liscio. 6. Riscalda lo strutto in una padella antiaderente. 7. È tempo di friggere il vostro gnocco girandolo spesso durante la cottura fino ad ottenere una doratura uniforme. Rimuovete il gnocco fritto con una schiumarola e fatelo asciugare su carta assorbente. 8. Servite subito i gnocchi ben caldi ed accompagnateli con i migliori salumi che riuscite a recuperare e formaggi teneri.
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La sua natura di accompagnamento opulento ai salumi stagionati emiliani pedemontani è rimasta inalterata ed attualmente è re incontrastato dello street food del luogo.
Speciale Tradizioni - ricette a cura della redazione
Parmigiana di melanzane o
MELANZANE
ALLA PARMIGIANA? INGREDIENTI per 6 personei
4 melanzane lunghe 4 uova farina 00 q.b. 300 g di mozzarella di bufala o fior di latte 100 g di Parmigiano Basilico q.b. Sale e Pepe q.b. Olio di arachidi per friggere q.b. 700 g di passata di pomodoro
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una cipolla ramata
Speck, speck delle mie brame, chi è la più buona del reame? Parlami vero, non dire panzane: “è la parmigiana di melanzane”.
prime fonti che parlano con certezza di Parmigiano Reggiano risalgono ai primi anni del 1600. Facendo quindi le dovute conclusioni è dunque ipotizzabile che la disponibilità degli ingredienti per realizzare la parmigiana di melanzane si sia avuta intorno al XVII secolo.
Oh parmigiana, parmigiana adorna che mi porta colui che prima inforna tu sei Silvia, Bea e Laura in una tu dai vita, girovita e gran fortuna.
Secondo alcune fonti il termine "parmigiana" deriverebbe dal siciliano parmiciana (dal latino parma, scudo) con cui vengono chiamate le lamelle di legno che compongono una persiana (la finestra). Sempre secondo queste fonti, il sovrapporre le fette fritte di melanzana richiamerebbe esattamente la disposizione a strati delle listarelle che compongono le persiane. Il fatto che in in quest’area geografica il piatto si chiami "parmigiana di melanzane" e non "melanzane alla parmigiana" sembra avvalorare questa tesi. Il nome di questo piatto potrebbe derivare dalla parola araba al-badingian (laddove la b si pronuncia p). Fra l’altro nella cucina araba esiste un piatto abbastanza simile che poi è diventato una preparazione greca, la moussakà. Facile pensare che gli arabi l’abbiano trasmessa sia alla Grecia che alla Sicilia.
Via, si taccia ogni pudore: sei misura d’ogni amore. Quanto amo questo e quella? La famiglia e la mia bella? Una vita allegra e sana? Tale e qual la parmigiana. Così Luca Iaccarino, critico culinario di Repubblica (e altre testate giornalistiche), racconta di questo piatto ne “Il gusto delle piccole cose. Breve manuale di spensieratezza”: titolo che, nei giorni di quarantena, cadeva come si suol dire a fagiuolo. La parmigiana è una pietanza che di recente è addirittura diventata patrimonio dell’Unesco. Con la calura estiva di certo è una di quelle prelibatezze che tutti amano mangiare. Poche sono le certezze sulla parmigiana. Non è, infatti, chiaro se sia un piatto originario della Sicilia, del napoletano o dell’Emilia. Dalle fonti storiche le uniche certezze che si hanno in merito ai principali ingredienti è che le melanzane vennero portate dagli arabi durante il basso medioevo in Sicilia; nel 1492 Cristoforo Colombo, di ritorno dalle Americhe, introdusse i pomodori tra le colture del Belpaese, e infine le
C’è però chi sostiene che il piatto sia nato a Napoli. Secondo quanto scritto nel libro “Il cuoco galante" del 1773 di Vincenzo Corrado, cuoco e gastronomo pugliese al servizio di importanti famiglie aristocratiche di Napoli, sembrerebbe proprio così: nella sua versione egli usava le zucchine fritte nello strutto, condite con formaggio e burro e poi cotte in forno. Ci si avvicina di più Ippolito Cavalcanti, duca di Buonvicino, cuoco e letterato italiano (esatto, discendente di Guido Cavalcanti, amico di Dante) nel suo "Cusina casarinola co la lengua napolitana" (1839), dove parla di melanzane tagliate a fette, fritte, montate a strati con formaggio, pomodoro, basilico, e poi stufate (ah, questo lo dobbiamo al nostro Direttore Rossella Neiadin, pena la crocifissione in sala mensa: le melanzane, nella versione campana, vanno pastellate con farina e uovo e non fritte “a nudo”). Certo, l’utilizzo del Parmigiano – arrivato probabilmente in una fase successiva come alternativa al pecorino o alla mozzarella – è chiaro richiamo alla città emiliana (dove infatti il piatto si chiama Melanzane alla parmigiana) e può far pensare a una nascita di questa preparazione proprio a Parma. Pare che nel XV e XVI secolo il detto cucinare alla maniera dei parmigiani servisse ad indicare l’usanza di cuocere verdure a strati. Insomma, la questione è di difficile risoluzione. È certo che, così come molti alti piatti nazional popolari, anche la parmigiana ha le sue mille sfumature e ognuna è caratterizzata da ingredienti del territorio che le danno un’accezione caratteristica. C’è la versione siciliana, semplice e adatta alla calura estiva, composta esclusivamente da melanzane fritte, passata di pomodoro, formaggio e basilico. Tra le versioni tradizionali spicca pure la variante partenopea, che prevede le melenzane pastellate (vedi sopra!), l’aggiunta di mozzarella e un passaggio di finitura in forno. La ricetta che vi proponiamo oggi parla sicuramente con accento napoletano, non ci resta quindi che dire: jamm', appicciat' 'stu BBQ!
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La natura tua divina ti fa infatti una e trina: melanzane, salsa bella Parmigiano & mozzarella.
PREPARAZIONE 1. Tagliate le melanzane in fette abbastanza spesse (5mm) per il lato della lunghezza. Mettetele ad affumicare con chips di legno aromatico nel kettle, con un pizzico di sale, ad una temperatura di circa 130°C in cottura indiretta, finché non saranno leggermente appassite (non devono cuocere) 2. Tagliate finemente la cipolla e fatela imbiondire in un pentolino a fuoco dolce. 3. Aggiungete adesso la passata e regolate di sale e pepe. Fate cuocere a fuoco lento per circa mezz’ora. 4. Preparate due contenitori per pastellare le melenzane, uno con la farina e uno con l’uovo leggermente sbattuto con un pizzico di sale. 5. Passate le fette prima nella farina, e poi nell’uovo. Friggete le melanzane in olio bollente (180-190°C) e lasciate raffreddare su carta assorbente
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6. Aggiungete un po’ di carbone a quello già presente nel kettle e settate la temperatura per una cottura indiretta a circa 180°C. 7. Componete adesso la parmigiana alternando sugo, melanzane e mozzarella per 3 strati. Nell’ultimo strato sostituite la mozzarella con il Parmigiano e coprite il tutto con delle foglie di basilico. 8. Mettete a cuocere nel kettle per circa 30 minuti.
Speciale Tradizioni - ricette a cura della redazione
Bello e possibile!
OSSOBUCO AFFUMICATO
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CON RISOTTO GIALLO
Forse non lo sapete ma, come spesso accade in Italia quando si cerca di salvaguardare i piatti della tradizione, anche l’ossobuco alla milanese ha visto nascere, circa cinque anni, fa la sua Confraternita. Nata dalla collaborazione con l’Accademia delle cinque T (territorio, tradizione, tipicità, trasparenza, tracciabilità), l’Associazione di Òsbuss “Confraternita dell’ossobuco alla milanese” nasce al fine di “celebrare, tutelare, insegnare e gustare la cucina milanese in genere ma nel nome di un piatto, l’ossobuco, che ne è un po’ un compendio e un esempio”. Citato per la prima volta in modo ufficiale da Giuseppe Sorbiatti, cuoco richiestissimo da molte famiglie nobiliari milanesi nella seconda metà dell’800 -in un manuale dal nome lunghissimo, Il Memoriale della Cuoca, o il modo di preparare la Cucina di Famiglia coll’aggiunta di diverse vivande e bibite internazionali (1879) - l’Òss büs compare anche – e come poteva essere altrimenti- dopo il 1891 nel libro di Pellegrino Artusi La Scienza in Cucina e l’Arte del mangiare bene. Le due ricette, ovviamente, sono molto diverse tra loro. Il Sorbiatti fa rosolare gli ossobuchi solo nel burro, mentre l’Artusi prepara un soffritto con sedano carota e cipolla; il primo sfuma col vino bianco e mette il pomodoro, il secondo fa un roux per legare meglio il sugo e lo lascia in bianco. Infine, mentre il Sorbiatti lo serve con la gremolada, l’Artusi si limita a un po’ di prezzemolo e a un goccio di limone. Vale anche qui quello che ho scritto più avanti a proposito della bistecca alla fiorentina: ci sarà fra i due un ossobuco meno milanese dell’altro?
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A leggere ciò che dice la Confraternita pare che la ricetta ufficializzata sia un misto tra le due sopracitate: sì al soffritto di cipolla e carote e al vino bianco, no al pomodoro (anche se è ammesso come variante), sì al limone e al prezzemolo, ma con l’aggiunta di aglio. È considerata invece blasfemia la cottura in forno. E noi che lo facciamo sul kettle e lo affumichiamo, cosa siamo? Chiamiamo Wanna Marchi Do Nascimento per sciogliere il sale e liberarci dal maligno che alberga in noi. In ogni caso, l’ideale accompagnamento per questo piatto è il risotto giallo (ris giald) ovvero allo zafferano con tanto parmigiano e tanto burro. Non tutti conoscono la leggenda che ne spiega l’origine: all’epoca della costruzione del Duomo di Milano (1386) arrivarono in città artigiani da tutta l’Europa e fra questi anche un mastro vetraio proveniente dal Belgio, nella cui bottega lavorava un bravissimo garzone; pare che il ragazzo in questione riuscisse a ottenere
In ogni caso, adesso entriamo in un altro vespaio. Come cuocere il riso? Sicuramente molti di voi ricorderanno un post in Community di Gianfranco Lo Cascio e l’editoriale nel numero di Settembre 2019 che ne seguì. Si parlava di risotto scientifico, e di un metodo che fece saltare sulla sedia coloro che portano scritto con orgoglio nella descrizione dei loro profili Facebook “re dei risotti, mia moglie dice che nessuno lo fa come me!”. Stiamo insomma parlando della cottura per assorbimento.
Lascio a Gianfranco l’arduo compito di spiegarvela a livello scientifico per filo e per segno in una delle prossime uscite del BBQ4All Magazine (so che c’è in cantiere un numero dedicato interamente ai risotti… ma non ditelo a nessuno!) e mi limito a dirvi che con questo metodo di cottura il risultato è stato, a livello aromatico, molto più brillante. Burro e Parmigiano, due ingredienti chiave del risotto giallo, hanno apportato il loro contributo senza sovrastare sullo zafferano e sulla cipolla. I sapori perfettamente bilanciati tra loro, uniti all’esatto livello di cremosità che ho voluto dare alla preparazione e alla cottura ottimale del chicco di riso, rendono il risultato pressoché perfetto e replicabile ogni volta che si vuole. Che tipo di riso ho usato? Un ottimo Carnaroli come vuole il disciplinare, ma andrebbe bene anche un buon Vialone nano, anche se mi è d’obbligo avvertirvi che “altre varietà di riso o altre varianti proposte devono essere approvate dal Consiglio dei Saggi”. E se voglio aggiungere funghi o tartufo? Posso farlo, con buona pace dei puristi e dei Confratelli. D’altronde, lo sostenne nel 1959 anche Carlo Emilio Gadda, scrittore e ingegnere milanese appassionato di cucina, sulla rivista Il gatto selvatico (pubblicazione sostenuta dal presidente di ENI Enrico Mattei, e dedicata all’azienda e al suo lavoro, ma con contributi culturali di importanti scrittori come, fra gli altri, Primo Levi e Leonardo Sciascia):
Il risotto alla milanese non deve essere scotto, ohibò, no! solo un po' più che al dente sul piatto: il chicco intriso ed enfiato de' suddetti succhi, ma chicco individuo, non appiccicato ai compagni, non ammollato in una melma, in una bagna che riuscirebbe schifenza. Del parmigiano grattuggiato è appena ammesso, dai buoni risottai; è una banalizzazione della sobrietà e dell'eleganza milanesi. Alle prime acquate di settembre, funghi freschi nella casseruola; o, dopo S. Martino, scaglie asciutte di tartufo dallo speciale arnese affetto-trifole potranno decedere sul piatto, cioè sul risotto servito, a opera di premuroso tavolante, debitamente remunerato a cose fatte, a festa consunta. Né la soluzione funghi, né la soluzione tartufo, arrivano a pervertire il profondo, il vitale, nobile significato del risotto alla milanese. Carlo Emilio Gadda (E Gadda usava il Vialone nano, per dire.) A questo punto non ci resta che vedere nel dettaglio come si preparano questi ossobuchi affumicati con risotto alla milanese cotto per assorbimento. E se “le mie brutte intenzioni. la maleducazione, la mia ingratitudine e la mia arroganza” (cit.) nel voler a tutti i costi rivisitare una ricetta sacra vi spingeranno a dire “ok, però non chiamarlo ossobuco alla milanese!”, va bene, nessun problema. Chiamiamolo OssoBugo! *a Morgan piace questo elemento.
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spettacolari colori delle vetrate aggiungendo un pizzico di zafferano alle preparazioni. Quando la figlia del mastro vetraio si sposò, venne organizzato un banchetto per tutte le maestranze e quel garzone di bottega aggiunse al risotto un po’ di polvere gialla. Tutti pensarono a uno scherzo, ma assaggiandolo si accorsero di quanto fosse buono, tanto da rendere il garzone di bottega cuoco ufficiale della Fabbrica del Duomo e a proclamare quel risotto come specialità milanese per eccellenza. In realtà, come ormai sappiamo da varie fonti, pare che l’uso dello zafferano sia derivato dall’antica usanza medievale di servire i cibi ricoperti di finissima polvere d’oro (i medici sostenevano che facesse bene al cuore), poi sostituita con la spezia gialla per questioni di costo. E probabilmente a questa usanza si è ispirò anche Gualtiero Marchesi quando servì e rese celebre, nel 1981, il suo risotto zafferano e oro.
INGREDIENTI per 6 persone
per il risotto giallo 320 g di riso Carnaroli una bustina di zafferano una cipolla bianca Brodo di Manzo (il doppio del volume del riso più una tazza) Parmigiano grattugiato fresco q.b. sale e pepe q.b. per gli ossobuchi 4 ossobuchi di manzo alti almeno 4 cm con midollo una cipolla bianca una carota piccola un gambo di sedano 60 g di burro farina q.b. un bicchiere di vino bianco secco brodo di manzo q.b. sale e pepe q.b.il succo e la scorza di un limone
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un ciuffo di prezzemolo
PREPARAZIONE 1. Accendete il kettle e settatelo in modo da potervi permettere una iniziale cottura diretta e poi in un secondo momento un’indiretta a coperchio chiuso. Poco più di mezza ciminiera di bricchette accese andrà bene: preparate comunque uno snake per prolungare la cottura per il tempo necessario affinché gli ossobuchi siano perfettamente cotti, senza rischiare di dover rabboccare il carbone in corso d’opera. 2. Tritate finemente il sedano, la carota e la cipolla, poi ponete il soffritto insieme al burro in un tegame (l’ideale sarebbe una cocotte in ghisa) adatto sia per la cottura diretta che indiretta. Infarinate gli ossobuchi. 3. Ponete la cocotte in cottura diretta e aspettate che il soffritto sia ben appassito, poi inserite gli ossobuchi e fateli rosolare bene da entrambe le parti. Sfumate col vino bianco e quando sarà evaporato spostate il tegame nella parte “fredda” della griglia. 4. Salate, pepate e bagnate con un goccio di brodo. A questo punto, prima di chiudere il coperchio e stabilizzare il dispositivo a una temperatura di circa 150/160 gradi, aggiungete chips di legno aromatico per affumicare. 5. Lasciate andare così per mezz’ora, poi aprite il coperchio, aggiungete un po’ di brodo e richiudetelo. Quando la carne avrà raggiunto la temperatura di circa 65° interni, e sarà brunita perfettamente, aggiungete un po’ di brodo nella cocotte e poi copritela col suo coperchio (nel case abbiate usato un diverso recipiente, fatelo con l’alluminio). Richiudete il kettle e continuate così, finché la temperatura degli ossobuchi non avrà raggiunto i 95/96°C. La carne dovrà essere tenera e tenderà a staccarsi dall’osso. Lasciate gli ossobuchi in caldo e preparate il risotto. 6. Mettete a bagno il riso nel brodo (come abbiamo detto, quest’ultimo dovrà essere il doppio del volume del cereale più una tazza). In questo modo si preleverà l’amido dalla superficie dei chicchi prima della tostatura. Tenetelo così per una decina di minuti, poi scolate il riso e tenete da parte il prezioso brodo. 7. Tostate il riso con una noce di burro, quando i chicchi saranno traslucidi aggiungete il brodo (tenendovene però da parte una tazza) con l’amido tutto insieme, date una rimestata, aggiustate di sale e poi lasciate che si compia la magia. Non sarà necessario mescolare il riso continuamente. 8. Fate soffriggere a parte nel burro, a fuoco molto dolce, una cipolla bianca tritata finemente e quando sarà appassita aggiungetela solo a quel punto al riso. Date una seconda mescolata, coprite con un coperchio e aspettate ancora. 9. Grattugiate il Parmigiano e sciogliete lo zafferano nella tazza di brodo che vi siete tenuti da parte. Quando il riso avrà assorbito tutta l’acqua, e sarà perfettamente cotto, aggiungete a quel punto una noce di burro, il Parmigiano e il brodo allo zafferano. Mescolate energicamente. 10. Servitelo caldo con una bella macinata di pepe e adagiategli sopra gli ossobuchi con prezzemolo tritato, il succo del limone e una grattugiata della sua scorza.
Speciale Tradizioni - ricette a cura della redazione
FREGULA
CON LE VONGOLE Spiagge, litorali e chilometri di coste. Non c’è niente di più bello e di sognato dai turisti che immergersi in acque cristalline, incontaminate e ricche di ogni tipo di fauna marina. Eppure, quando parliamo della cucina sarda, possiamo dire che di certo non brilli per i piatti di pesce. Questo non vuol dire che sull’isola non siano bravi a prepararlo, ma in un territorio prettamente legato allo sviluppo agropastorale, i piatti di questo tipo non sono tantissimi. O comunque non come ci si aspetterebbe. L’eccezione che conferma la regola è il piatto che abbiamo pensato di proporvi in chiave BBQ. Trattasi niente meno che di Sa fregula. Sì signori, fregula e non fregola. Perché ce ne “fregola” molto (come direbbe Lino Banfi) della pronuncia. E in Sardegna ci tengono particolarmente. Fregula, che deriva dal latino ferculum, significa sminuzzare, frammentare, sbriciolare. Questo è dovuto al particolare formato che si ottiene facendo ruotare manualmente l’impasto all’interno di un piatto piano e largo, ottenendo così delle piccole sfere rustiche e irregolari che vengono poi stese su un telo ad asciugare e infine infornate per circa 15 minuti. Questo processo di tostatura fa sì che la pasta assuma un bel colore tostato e dorato ed
elimini tutta l’umidità residua. Ovviamente non vi diciamo di produrvi questa pasta caratteristica direttamente a casa ma, se voleste provarci, vi consigliamo di fare un’asciugatura nel dispositivo, all’interno di una teglia, con un minimo di affumicatura leggerissima di un blend delicato. Un ulivo o un arancio potrebbe andare benissimo al caso. Oltretutto non è un prodotto di difficile reperibilità in commercio, ma la sua provenienza è tipicamente sarda. Questa tipologia di pasta risale al X secolo d.C. Molto somigliante al cous cous, potrebbe
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Il mare nel piatto
essere stata importata dai popoli Fenici, Cartaginesi o Punici. Vista la forma, potrebbe sembrare un’imitazione del suo “cugino” orientale, ma non ci sono fonti accreditate che lo dimostrino. Pertanto la Fregula è ritenuta dai sardi un prodotto tipico autoctono: essi ne preservano l’identità cercando di riprodurla sempre fedelmente e con alti standard qualitativi. Come è facile capire, essa non può essere solo il frutto di un lavoro manuale. Infatti molto spesso ciò che ci viene servito nei locali, o anche nelle case private, è un prodotto industriale, che richiede comunque l’uso di trafilati di bronzo. I trafilati permettono a questa pasta una rugosità tale da trattenere bene i condimenti e al contempo di non rilasciare agglomerati di amido nel piatto. Di per sé, questo tipo di pasta si può facilmente abbinare a carne e verdure oppure a pesce. Molto dipende dalla zona in cui vi verrà servita. Sicuramente al Sud, nel cagliaritano, il più classico dei suoi abbinamenti è quello con pomodoro e vongole (o arselle): Fregula cun cocciula.
e provvedete nuovamente a creare la soluzione salina. Immergete nuovamente le vongole e lasciate in frigo sino al momento della cottura. Prima della cottura effettuate preventivamente un ultimo risciacquo. Aggiungeremo le nostre tecniche e le nostre conoscenze a un piatto che esalterà i profumi e i sapori del mare, insieme alla bontà di questa pasta che è unica. In questo caso opteremo per una salsa realizzata con pomodoro e aglio in ember e una cottura in wok di ghisa.
Originariamente il piatto veniva eseguito con le tipiche vongole nere dello Stagno di Santa Gilla. Queste ultime, però, a causa della commercializzazione di specie più produttive son state nel tempo abbandonate a favore di vongole comuni dell’Adriatico e solo ultimamente si sta cercando di ritornare alle origini salvaguardando la specie. Tra le prime cose da non trascurare è la pulizia profonda delle arselle. Non c’è bisogno che vi diciamo che vivendo negli arenili possono facilmente contenere sabbia. La tecnica migliore, tra le tante provate, per spurgarle è quella di riprodurre un habitat naturale per le vostre vongole. Andranno immerse in acqua salata per circa una giornata, ma non basterà salarla a piacere. Dobbiamo infatti riprodurre la salinità marina affinché queste si schiudano e rilascino i residui sabbiosi. Quindi faremo una soluzione salina al 3,5 %: esattamente 35 g di sale su litro d’acqua. A questo punto, dovrete procurarvi due contenitori: uno che contenga tutta la soluzione salina e una più piccola che contenga le sole vongole.
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La seconda deve poter stare dentro l’altra e non deve toccare il fondo. È ottima per questo tipo di uso una fuscella per ricotta. Procedete al lavaggio delle vongole sotto acqua corrente mediante sfregamento l’una con l’altra per eliminare eventuali impurità esterne. Scartate quelle rotte o aperte. Quindi immergetele nell’acqua salata per due o tre ore, durante le quali le risciacquerete almeno due volte sotto acqua corrente. Trascorso questo lasso di tempo, unite all’acqua un cucchiaino di farina. Le vongole si apriranno in presenza di cibo e favoriranno lo spurgo. Grazie alla fuscella, sarà possibile separare le vongole dal fondo dove si depositerà lo sporco. Rimettete in frigo per altre 3-4 ore e a questo punto estraete le vongole, ripulite la ciotola dai residui rilasciati
INGREDIENTI per 4 persone
1 kg di vongole veraci o arselle, 400 g di frègula uno spicchio d’aglio 2 pomodori ramati ½ cipolla dorata vino bianco secco q.b. olio extra vergine di oliva q.b. prezzemolo tritato q.b. peperoncino a piacere
cottura delle vongole. 11. Soffriggete la cipolla tagliata finemente in poco olio extravergine di oliva insieme a un pizzico di peperoncino, e aggiungete la salsa di pomodoro ottenuta. 12. Aggiungete la frègula e procedete alla cottura come fosse un risotto, utilizzando come brodo il liquido rilasciato dalle vongole. Volendo si può allungare leggermente con del brodo vegetale. Lasciate cuocere per il tempo indicato dal produttore della frègula. 13. A metà cottura aggiungete le vongole sgusciate e lasciatele insaporire. 14. A cottura ultimata, cospargete di prezzemolo, abbellite il piatto con le vongole in guscio e servite. Giusto il tempo di inserire la prima cucchiaiata in bocca che verrete immaginariamente catapultati su un bellissimo yatch a largo di Villasimius. Profumi di ginepro e lentischio, la salinità del mare nelle narici, lo spumeggiare sulla battigia e i micro granelli di sabbia tra le dita dei piedi. Arriverete a grattare il fondo del piatto e vi sentirete, finalmente, appagati.
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PREPARAZIONE 1. Lavate le vongole come spiegato precedentemente. 2. Preparate il dispositivo per una cottura diretta, con una temperatura intorno ai 200°C. Se il dispositivo è alimentato a carbone, disponete al centro le braci e utilizzate possibilmente una griglia gourmet. 3. Cuocete in diretta, per 5 minuti circa, i pomodori da circa 200 g ungendoli leggermente e girandoli spesso per bruciacchiare la parte esterna. 4. Tostate uno spicchio di aglio su una teglia per verdure o sul wok stesso, poi toglietelo e tenetelo da parte. 5. In un wok con poco olio, inserite le vongole già scolate. 6. Irroratele con poco vino e lasciatele dealcolizzare, fino all’apertura di tutte le vongole. 7. Lasciatele raffreddare, quindi sgusciatene almeno un buon 80%. 8. Tenete il restante 20% col guscio per guarnire i piatti. 9. Filtrare il liquido di cottura delle vongole, da utilizzare per la cottura della frègula. 10. Frullate i pomodori cotti alla brace, insieme all’aglio tostato, utilizzando poco liquido di
No, non è la fiorentina. È la
FIORENTINA
PERFETTA
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Speciale Tradizioni - approfondimento a cura di Michela Bongiorni
Il mio articolo voleva proprio dimostrare che non esiste un metodo certo e codificato per cuocere una T-Bone al modo dei toscani e che la frase cuocila come ti pare, ma se la vuoi chiamare Fiorentina va fatta solo in un modo era una vera sciocchezza.
I MEDICI, L’ARTUSI E IL SANTINI Sappiamo con certezza che la parola bistecca comparve ufficialmente per la prima volta all’Esposizione di Parigi nel 1889, quando, esposta nel padiglione italiano, venne presentata come un piatto toscano (quindi fiorentino, poiché a quel tempo Toscana era più o meno sinonimo di Firenze, essendo quest’ultima la città più conosciuta). Tuttavia, la nascita della Bistecca alla fiorentina non è certa: secondo alcune fonti nacque grazie alla famiglia de’
Ecco cosa dice l’Artusi nella ricetta numero 556 del suo La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene:
Vi faccio un breve riassunto di quanto scrissi allora.
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C’è stato un periodo nel 2017 in cui uno dei problemi maggiori per i frequentatori di Facebook e di social vari, prima di pandemie e di crisi economiche, era dimostrare come si cuocesse la vera Bistecca alla fiorentina. Fu in quel periodo che scrissi un articolo, che ancora potete trovare sul nostro sito, intitolato: Bistecca alla Fiorentina e reverse searing: perché no?. La tecnica citata, che tutti noi adesso conosciamo come Revit da quando Gianfranco Lo Cascio ha ripreso e modificato a suo modo il metodo Finney, faceva andare fuori di testa orde di gastrotalebani toscani e non, che non sopportavano proprio l’idea di vedere- a loro diresnaturata una preparazione così tradizionale e rappresentativa. Tenerla a 52°C per ore? Magari in forno? E icchell’è? Un arrosto?
Medici, che governarono Firenze tra il 1400 e il 1700. Pare che fosse una tradizione, ogni 10 Agosto (per il giorno di San Lorenzo), offrire ai cittadini numerosi quarti di bue che venivano cotti direttamente sui falò disseminati per la città. Secondo alcune ricostruzioni, sembra che le fette di manzo che oggi identifichiamo come Fiorentine venissero chiamate carbonate, poiché cotte a contatto diretto con le braci. Secondo la leggenda, verso la metà del ‘500, alcuni inglesi che si trovavano a Firenze per affari economici, dopo aver assaggiato le carbonate, esclamarono Beef Steak! per averne ancora. Da qui sarebbe nato il nome. Alcuni sostengono che in realtà sia stata inventata a Livorno, il cui porto era uno degli scali più importanti e luogo in cui la comunità inglese era molto presente e ben inserita in città. Fu comunque Pellegrino Artusi, famoso scrittore e gastronomo, a far conoscere e a rendere un classico della cucina italiana questa bella fettona di carne alla griglia, nel 1800.
(…) non è altro che una braciuola col suo osso, grossa un dito o un dito e mezzo, tagliata dalla lombata di vitella (…) Mettetela in gratella a fuoco ardente di carbone, così naturale come viene dalla bestia o tutt’al più lavandola e asciugandola; rivoltatela più volte, conditela con sale e pepe quando è cotta, e mandatela in tavola. Non deve essere troppo cotta perché il suo bello è che, tagliandola, getti abbondante sugo nel piatto. Se la salate prima di cuocere, il fuoco la risecchisce, e se la condite avanti con olio o altro, come molti usano, saprà di moccolaia e sarà nauseante. Probabilmente, l’Artusi avrebbe sussultato di disgusto se avesse letto le parole che più di un secolo dopo scrisse Aldo Santini, scrittore e giornalista livornese purosangue, autore di numerosi libri sulla cucina toscana. Così leggiamo nel volume La cucina fiorentina: storia e ricette:
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Carne rosa, dunque, e frollata a perfezione. Mi spiego: frollata nel suo quarto, sennò inaridisce. Cinque, sei giorni di ghiacciaia, meglio sette. E che non abbia filamenti. E tagliata con maestria, che la costata venga fuori dal quarto tutta intera, filetto e controfiletto. E che sia almeno di quattro etti, ma l’ideale è di sei. Ora ci vuole fuoco di brace e di legna. E una gratella. La bistecca non va lavata né salata. Olio niente. Quando si gira, un pizzico di sale grosso e pepe. I lettori più attenti avranno già capito dove voglio andare a parare; facendo una rico-
struzione storica, fra leggende, ipotesi, dati certi e citazioni, in poche righe ho già descritto almeno due o tre diversi modi su come debba essere cucinata la Fiorentina e quali caratteristiche debba avere: i Medici la cuocevano direttamente a contatto con le braci, l’Artusi parla di una braciola alta un dito o un dito e mezzo che al taglio deve buttare abbondante succo, Santini parla di una costata che pesi dai quattro ai sei etti. Per l’Artusi va salata e pepata dopo la cottura, per il Santini durante. Per l’Artusi va lavata prima, per il Santini no. Per quest’ultimo deve essere ben frollata, l’Artusi invece non parla affatto di frollatura. Molti di quelli che scrivono indignati sui gruppi citati ad inizio articolo inorridirebbero di fronte al carpaccio dell’Artusi
(e ancor di più davanti a quello del Santini) non troppo cotto e galleggiante nei suoi succhi nel piatto. L’ACCADEMIA DELLA CRUSCA E DARIO CECCHINI Ma andiamo avanti. Molti siti riportano questa citazione dell’Accademia della Crusca: Perché poi – fuori di Toscana – un la sanno nemen tagliare: la fanno bassa, senza filetto… Basta tu guardi le bistecche disossate! Icché le sono: braciole! Ma pe’ noi la bistecca… arta tre diti! Ma un la sanno nemmen còcere… la bistecca: zàzzà! e via! Già qualche anno fa notai che, andando sul sito ufficiale della Crusca (www.accademiadella-
Stavolta ho pensato di contattare direttamente l’Accademia, attraverso il loro Ufficio Stampa, in modo da poter fare un po’ di luce su questa citazione. Mi hanno risposto con precisione, velocità e puntualità: il brano citato fa parte delle inchieste dialettologiche, svolte alcuni anni fa sotto forma di intervista, per il Vocabolario del Fiorentino Contemporaneo, progetto pluriennale dell'Accademia della Crusca. Tuttavia,
questa specifica intervista non è attualmente consultabile nei materiali del database on line. In pratica il lavoro svolto dalla redazione del Vocabolario, come si può leggere sul loro sito (www. vocabolariofiorentino.it), è quello di portare “progressivamente alla ribalta la realtà linguistica in cui si muove il parlante” al fine di “definire le caratteristiche di un aggiornato progetto di lessicografia dialettale”. La Crusca non si è affatto occupata, dunque, di dare le direttive sui metodi di cottura, avallando un metodo a discapito di un altro, quanto piuttosto di intervistare i parlanti “per dare una chiave di accesso e di lettura della specificità lessicale” del fiorentino. Come è giusto che sia, L’Accademia si occupa dell’aspetto linguistico. Appurato questo - e ringraziando sempre l’Accademia per la preziosa collaborazione
- possiamo comunque notare una cosa: la persona che ha risposto all’intervista ha parlato di una bistecca “alta tre dita” (ma sempre meno delle famose quattro dita sotto le quali sarebbe carpaccio) cotta “zazzà e via”. E quindi diciamo addio ai cinque minuti per lato e ai quindici in piedi. Diciamo addio proprio ai tempi di cottura. Anche perché vorrei che qualcuno ci spiegasse come farebbero la braciuola alta un dito dell’Artusi, quella che pesa quattro etti del Santini, quella alta tre dita citata dalla Crusca e quella alta non meno di quattro dita di certi puristi dei nostri giorni ad avere un tempo di cottura ben preciso e codificato. Ma la vera domanda che mi sono posta già tre anni fa e che vi ripropongo è: quale delle quattro diverse fiorentine è meno fiorentina delle altre?
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crusca.it), non c’era traccia di tale citazione, non si sapeva chi fosse l’autore, da quale testo fosse stata tratta e a quale epoca si riferisse. Si sapeva solo che veniva ripresa da molti siti, da pagine Facebook e da varie pubblicità di ristoranti con l’intento di affermare vedi, la Crusca ci dà ufficialmente ragione!, come se il Salviati in persona avesse dettato le regole per la cottura della bistecca.
Deve essere solo di Chianina? Santini è stato uno che ha avvalorato molto questa tesi ne La cucina fiorentina: storia e ricette, paragrafo Il romanzo della Bistecca ci porta negli Stati Uniti. Peccato che Dario Cecchini, ad esempio, considerato da moltissimi il re di questa preparazione, non usi la Chianina. Ho scritto io stessa la recensione sull’Officina della Bistecca, e ho criticato più di un aspetto del percorso gustativo ideato del famoso macellaio, ma non ho mai affermato che il Cecchini non cucini comunque fiorentine. Secondo voi potremmo dirgli chiamala solo costata, ma non Bistecca alla fiorentina, come ho letto su qualche commento in cui si affermava che se non è di Chianina non può essere considerata pura? Direi di no. ACCADEMIA DELLA FIORENTINA Nel 1991, un gruppo di rappresentanti dell’Associazione Fiorentina Macellai insieme ad artisti, cuochi, gestori di ristoranti tipici della città e altri personaggi della scena politica e del giornalismo costituirono a Firenze, nel Salone de’ Dugento in Palazzo Vecchio, l’Accademia della Fiorentina con lo scopo di far apprezzare la bistecca “secondo i canoni della più autentica tradizione”, ovvero come appunto si legge sul loro sito, “cotta alla griglia sui carboni ardenti di rovere nel rispetto dell’arte gastronomica fiorentina”.
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In pratica, al tempo cercarono di ufficializzare un solo e unico modo di cuocerla, senza però riuscirci. Sul sito infatti, sotto la voce “Disciplinare” non si trova assolutamente nulla e cercando un po’ online si legge molta confusione in merito: il metodo per capire quando è cotta dovrebbe essere ”a occhio”, perché “dipende da tanti fattori”; il sale prima? Forse sì, ma forse no (c’è ancora chi addirittura sostiene che il sale “asciughi il sangue” e dia problemi in cottura) , condirla dopo è “questione di gusti”, sui cinque minuti per lato e i quindici in piedi “non si sa, potrebbe volerci più tempo”; sul carbone poi non ne parliamo: solo rovere come sostiene l’Accademia della Fiorentina? No, vanno bene anche ciliegio e noce, tuttavia non si disdegnano quercia e olivo.
E poi l’apoteosi: il procedimento di cottura prevede che la carne “sudi sangue” nella parte superiore e solo a quel punto vada girata per farle “sudare sangue” anche dall’altra parte, in modo da capire in questo modo quando è cotta Capite adesso? Da anni portiamo avanti il concetto di scienza al servizio della cucina, abbiamo spiegato in lungo e in largo che quel liquido rosso che si vede grondare dalla ciccia non è sangue ma una proteina chiamata mioglobina, abbiamo combattuto contro il concetto di ricetta per innestare nella mente di tutti coloro che ci seguono quello di metodo scientifico, ovvero un modo per rendere sicuro e replicabile qualsiasi risultato. Ci siamo sgolati nello spiegare cosa sia e come avvenga la denaturazione delle proteine e cosa si intenda per Reazione di Maillard. E i difensori della tradizione sono ancora fermi al deve grondare sangue. Qui urge sottolineare l’ovvio: non solo non esiste un disciplinare di produzione di questo famoso piatto, ma non c’è nemmeno un metodo di cottura univoco, ognuno fa a modo suo, va a occhio, decide a seconda del proprio gusto, probabilmente interrogando le stelle o i tarocchi. In quest’ottica dunque possiamo dire di aver dimostrato, senza ombra di dubbio, che il Revit può essere abbinato a questa preparazione senza toglierle in nessun modo lo status di Fiorentina. Anzi, come sanno bene i nostri lettori, questo metodo collaudatissimo la rende più buona, più morbida, più succosa. Sicuramente è replicabile in modo perfetto ogni volta. Beninteso, ognuno a casa sua farà quel che vuole e accettiamo
LA BISTECCA ALLA FIORENTINA Ancora in molti credono che la fiorentina sia la razza bovina da cui ricavare bistecche. In realtà è il taglio. La schiena del manzo è composta da tredici costole. Nei tagli moderni si distingue tra le prime cinque costole, dalle quali si ottiene la lombata con osso, e le restanti otto, dalle quali si ottiene il lombo. Quest’ultimo, a sua volta, viene suddiviso in due parti: dalle cinque costole finali si ricava la bistecca senza filetto, mentre dalle tre costole anteriori quella con filetto. Il tipico osso a forma di T è il segno che contraddistingue la Bistecca alla fiorentina. Non a caso nei paesi anglossassoni lo stesso taglio viene chiamato T-Bone. A seconda delle dimensioni del filetto, negli Stati Uniti ha due nomi differenti: T-Bone, se ha il filetto più piccolo e Porterhouse se invece lo ha più grande. Questo perché la prima viene ricavata dalla parte centrale del taglio, mentre la seconda dalle estremità. Appurato questo, veniamo all’annosa questione: solo di
Chianina? Come avete avuto modo di leggere sulla nostra Community, abbiamo più volte spiegato come frollatura e marezzatura siano fondamentali per ritrovarsi nel piatto una bistecca succosa, saporita e morbida invece di una simile a un copertone asciutto che sa di poco. La frollatura, ovvero quel periodo di tempo che intercorre tra l'abbattimento dell'animale e la sua vendita sul banco - e che deve avvenire in cella frigo a temperature controllate, affinché la carne perda progressivamente i liquidi in eccesso e il suo tessuto connettivo degradi – è la responsabile della concentrazione di sapore e della tenerezza. La marezzatura invece è quel grasso infiltrato nella ciccia, che è l’elemento più saporito nel complesso strutturale della bistecca. Maggiore sarà la marezzatura, più potente sarà il sapore. La carne fresca, bella rossa, ricca d’acqua e poco marezzata non sarà, per forza di cose, tenera e saporita come quella ben frollata e marezzata. Per anni e anni in Italia si è portata avanti la convinzione, invece, che una carne rossa (quindi ricca d’acqua) e sopratutto molto magra fosse più buona. Ma come scrive Gianfranco Lo Cascio: La predisposizione genetica di un animale gioca sicuramente un ruolo importante nella quantità di grasso infiltrato, tuttavia il metodo di allevamento fa molto di più la differenza. Ovvero, cosa mangia l’animale, quanto e come. La razza fine a se stessa non determina la qualità della carne e quindi non ha alcun senso dire che il Wagyu è il top e la Chianina fa schifo, o il contrario. Il punto è che, per assunzione di protocollo, alcuni allevamenti hanno precise filosofie di sviluppo dei bovini. Quindi chi alleva Chianina, di solito, ha l'obiettivo di mantenerla magrissima, e sulla base di questo va a tarare il metodo di allevamento. Chi alleva Wagyu ha l’obiettivo esattamente opposto. Inoltre la Chianina ha una bassa predisposizione allo sviluppo di grasso intramuscolare, che è il punto di partenza per ottenere carne magra, mentre per il Wagyu è il contrario. In Italia si ama la ciccia fresca e rossa, quindi si va ad allevare e a vendere carne magra e possibilmente poco frollata. Questa è però una percezione che genera una scelta tarata su un assunto di partenza che, di fatto, è scientificamente sbagliato. Alla luce di tutto questo, cuocere una Bistecca alla Fiorentina, come abbiamo fatto noi, di Wagyu australiano, è fare una scelta ben diversa e molto più consapevole, ma soprattutto libera dai condizionamenti imposti da anni di convinzioni errate: questo tipo di manzo è il risultato di una selezione genetica di incroci fra bestiame Wagyu giapponese con razze continentali. La carne bovina australiana Wagyu è preziosa a causa della sua intensa marmorizzazione e dell'alta percentuale di grassi insaturi oleaginosi intramuscolari. Il risultato è stato un’esplosione di sapore che solo chi lo ha provato almeno una volta nella vita può capire. E sì, siamo assolutamente convinti di aver preparato LA Bistecca alla fiorentina perfetta, senza temere di essere smentiti, soprattutto perché non di Chianina.
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assolutamente che le persone decidano la propria metodologia anche in base al tempo che hanno a disposizione, alla fame che provano in quel momento, alla fretta, alla materia prima utilizzata. Ma non possiamo assolutamente più tollerare certe dimostrazioni – spesso molto maleducate- da parte di gastrotalebani dalla mentalità chiusa convinti di preservare la tradizione. Come diceva Mark Twain: “Il radicale inventa le opinioni; quando le ha sperimentate, interviene il conservatore e le adotta.”
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MA ALLA FINE, REVIT SÌ O REVIT NO? DIPENDE. Ok, fermiamoci un attimo: dopo essere stati così precisi nel dimostrarvi che non c’è un unico modo di cuocere ‘sta benedetta Fiorentina, sarebbe disonesto dirvi che il Revit vale sempre e comunque. Sapete tutti come funziona questa tecnica, no? Prima teniamo la bistecca in Dry Brining poi la prendiamo, la asciughiamo bene bene, poi la asciughiamo ancora e poi di nuovo. La mettiamo su una gratella e la mettiamo in forno ventilato dopo averlo portato ad una temperatura di circa 52°C. A questo punto il nostro obiettivo è quello di farla scaldare lentamente in modo che al cuore raggiunga la temperatura di 52°C. Esternamente, la carne deve cominciare a disidratarsi e a ossidarsi,
a causa degli iniziali processi di co agulazione. Dentro non deve cuocere, ma deve scaldarsi. Quando raggiunge la temperatura al cuore, la bistecca deve rimanere in questa condizione fino al momento di andare sul grill, o in padella per il searing finale. Il lungo tempo di permanenza a bassa temperatura permetterà una corretta distribuzione del calore alla temperatura prevista, innescando di conseguenza i processi di degradazione del collagene. Al momento in cui andremo a cauterizzare la superficie, scopriremo che la ciccia rimarrà sul grill o in padella per pochissimi secondi per lato (non minuti, secondi!),
formando - grazie alla reazione di Maillard, in cui proteine e zuccheri riducenti sottoposti a calore reagiscono fra di loro formando molecole nuove con il tipico sentore di arrostito - quella buonissima crosticina saporita e non bruciacchiata. All’interno la bistecca sarà completamente rosata, da parte a parte, senza quell’orrendo anello grigio che in gergo chiamiamo mouse ring. Avremo dunque una Bistecca alla Fiorentina con le seguenti caratteristiche: cuore rosa intenso ma non freddo, quindi eviteremo quell’orribile sensazione di ciccia cruda, fredda e non masticabile della carne
Sbagliato, ho scritto un articolo per dimostrarvi che non esiste un solo modo per cuocere la fiorentina, che dire “solo Chianina!” è una baggianata e che il Revit, metodo che insegniamo da anni con convinzione anche ai nostri corsi, è il modo migliore per cuocerla, quando abbiamo a che fare con una bistecca frollata qualsiasi. Tuttavia, con le carni GLC Top Selection, già frollate e marezzate al punto giusto, non è assolutamente una tecnica necessaria: la T-Bone AUS WX 5+ by Rangers Valley Wagyu F1 Crossbreed che abbiamo cucinato per questo articolo, ad esempio, è già una concentrazione di sapore puro, è già burrosa, è già morbi-
dissima, quindi il Revit può tranquillamente essere saltato (il che non significa che sia vietato farlo, ma che non è necessario) o essere sostituito con un pre-condizionamento più lieve: 25 minuti in sous vide a 52°C, per scaldarla all’interno, e poi il searing sulla ghisa rovente può essere un’ottima soluzione, ad esempio. Chiaro il concetto, dunque? Per cuocere la Fiorentina Perfetta dovete in ogni caso allontanarvi dalle vostre convinzioni, aprire la mente, evitare le frasi fatte e scegliere con consapevolezza (ad ogni carne la sua tecnica, non si scappa) perché avete davanti a voi il risultato ottimale da raggiungere, e che certamente non otterrete con una bella Chianina alta quattro dita, cinque minuti per lato e quindici in piedi!
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“che deve grondare sangue” dei gastrotalebani poc’anzi citati, crosticina perfettamente formata e saporita, tenerezza estrema, incredibile succosità, zero perdita di liquidi nel piatto. Cosa abbiamo fatto, dunque? Abbiamo concentrato il sapore della nostra ciccia, facendo in modo che si scaldasse all’interno, che formasse la Maillard molto velocemente, che rimanesse burrosa e succulenta. Ebbene, ci sono carni che vi consentono di saltare il Revit. Ma come, direte voi, hai scritto tutto l’articolo cercando di convincerci che è il modo migliore di cuocere la bistecca!
Speciale Tradizioni - ricetta a cura di Virgilio Brunetti
La leggenda della
GENOVESE La Genovese che tutti conosciamo è un condimento della cucina tradizionale napoletana, un ragù bianco di cipolle e carne bovina e pochi altri ingredienti che vengono stufati lungamente fino a diventare un condimento cremoso da servire su pasta corta. Si distingue dal ragù alla napoletana per l’assenza del pomodoro e per il diverso tipo di carne impiegata. Sono state avanzate molte ipotesi per giustificare il nome di questo piatto. I genovesi, presenti nelle bettole del porto napoletano durante la dominazione aragonese del XV secolo, narravano di un fantomatico gastronomo partenopeo soprannominato 'o genovese che avrebbe inventato la preparazione, mentre il celebre Ippolito Cavalcanti nel suo ricettario del 1837 riporta diverse vivande alla genovese. Proprio quest’ultima denominazione, in realtà, indica come nella gastronomia italiana dell’epoca ottocentesca si affermassero ricette o pietanze che venivano identificate a seconda della provenienza: alla napoletana, alla milanese, alla siciliana, alla romana; le quali, più che il luogo d’origine, indicavano per i cuochi del tempo un determinato stile di cucina, caratterizzato da tecniche di cottura ed ingredienti chiave. Con alla genovese si indicava l’uso dei fondi di cottura di carne; lo stesso Cavalcanti identifica con questo nome un sugo bianco ben ristretto ottenuto rosolando un taglio di manzo magro nel lardo, che veniva utilizzato per condire la pasta. In questa versione la cipolla non era contemplata.
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Durate il XX secolo, la diffusione di altri condimenti, alcuni dei quali ebbero un successo planetario (come il ragù alla bolognese) decretarono l’abbandono quasi totale del sugo di carne in cucina e con esso, lo stile alla genovese si estinse in tutta la penisola ma sopravvisse gloriosamente nella città di Napoli. Facciamo la radiografia a questo condimento: si tratta di un sugo ricco costituito da due elementi essenziali: cipolla e carne. Ingredienti variabili e facoltativi: strutto, lardo, lardelli di prosciutto, basilico, alloro, prezzemolo, pomodori pelati, formaggio Parmigiano o pecorino o addirittura entrambi. Qualunque metodo o ricetta utilizziate la cipolla rimane sempre l’elemento predominante, la texture deve risultare cremosa senza eccessive fibrosità, si deve sentire l’incastro perfetto tra i sapori e aromi estratti dalla carne di manzo, la gelatina, i grassi e la dolcezza vegetale e sulfurea della cipolla. Andiamo ad analizzare e radiografare singolarmente gli ingredienti.
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LA CIPOLLA È sicuramente l’ingrediente chiave, la protagonista indiscussa della Genovese. Solo in Italia esistono 20 varietà di cipolle di grandissima qualità, alcune sono molto famose e blasonate al centro di business corpulenti, altre sono invece relegate al consumo locale e di nicchia. Esistono inoltre cipolle da consumo fresco e altre da serbo; sono classificate per forma, dimensione e colore del bulbo, che può essere rosso, dorato-ramato e bianco. Anatomia di una cipolla: tutte le cultivar di cipolla sono tassonomicamente ascritte alla famiglia delle Liliacee (porro, scalogno e aglio appartengono alla stessa famiglia), la parte edibile nobile di Allium cepa è il bulbo, ovvero un fusto modificato che ha la funzione di accumulare sostanze nutritive utili alla sopravvivenza della pianta. Il bulbo è costituito dall’ingrossamento della parte basale delle foglie che si ispessiscono, divengono carnose, bianche o leggermente colorate di rosso o violetto. Le guaine esterne si presentano invece sottili, cartacee, di colore variabile; dal bianco, al dorato, dal rosso al violetto, a seconda della varietà. Il clima, la granulometria del terreno e le cure agronomiche sono determinanti nella definizione della qualità di una cipolla.
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ll miglioramento genetico di questa specie ha avuto inizio di recente, la selezione operata dagli agricoltori in precedenza ha consentito di disporre di un certo numero di varietà e di tipi differenti per esigenze luminose, lunghezze del ciclo biologico (precoci, medie e tardive), destinazione del prodotto, forma del bulbo e colore delle tuniche esterne (bianche, rosse, gialle, viola, brune). A seconda della destinazione del prodotto, si distinguono varietà per il consumo fresco (in genere quelle precoci), da serbo, raccolte a fine estate-inizio autunno, da sottoli e sottaceti, a bulbo bianco come la Bianca di Baretta o la Borettana. Tutte hanno caratteristiche di base comuni, tra questi il particolare odore dovuto all’abbondanza di amminoacidi solfossidi. In breve, quando le cellule vengono danneggiate, ad esempio tagliando la cipolla con un coltello, si libera un enzima vacuolare chiamato allinasi
che converte queste molecole solforate presenti nel citoplasma in acidi sulfenici. Nella cipolla l’isoallinina, chiamata anche precursore lacrimogeno, si trasforma in acido sulfenico che, grazie ad un secondo enzima scoperto nel 2002, si trasforma successivamente in una molecola chiamata propantial-S-ossido. Questa molecola è molto volatile e quando raggiunge i nostri occhi attiva i sensori presenti che scatenano la lacrimazione (da Scienza In Cucina di D. Bressanini “La cipolla lacrimogena”). Un’altra componente caratteristica e comune a molti ortaggi a bulbo (ma anche tuberi e rizomi) è la quota di carboidrati sotto forma di zuccheri complessi e semplici accumulati nelle cellule vegetali. I produttori di cipolle rosse di Tropea IGP fanno vanto dell’alta concentrazioni di zuccheri semplici quali glucosio, fruttosio e saccarosio tanto da riportare il grado zuccherino sulle confezioni. Come in tutti i bulbi delle liliacee eduli è presente una quota rilevante di fibre solubili, ovvero elementi che in cottura contribuiscono a modulare la texture del preparato; le componente amidacea nella cipolla è assente. Essendoci una notevole abbondanza di zuccheri riducenti, la cottura della cipolla è un tipico esempio vegetale di come la reazione di Maillard sia un fattore chiave nell’esaltazione di tutte le preparazioni che hanno per protagonista questo antichissimo ortaggio. A tal proposito, vi ricordiamo che la Maillard è una reazione chimica tra zuccheri riducenti e aminoacidi, che
La scelta di una data cipolla appare quindi determinante per la riuscita di una specifica preparazione. Non parliamo di scegliere l’ormai diffusissima qualità rossa di Tropea rispetto a quella di Cannara o alla tradizionale Cipolla ramata di Montoro; queste sono solo denominazioni di appartenenza ad un territorio che omologano un determinato ecotipo, il quale dovrebbe, e ripeto dovrebbe, rappresentare un disciplinare produttivo e uno standard qualitativo. La verità è che anche andando al mercato si potrà scegliere la cipolla giusta per la Genovese, senza la necessita di sbattersi per trovare necessariamente una IGP o un presidio Slow Food. Quindi così come una cipolla da consumo crudo deve avere caratteristiche tali da rendere piacevole la masticazione e la digestione, allo stesso modo occorre quella adatta per una specifica cottura. Le tipiche cipolle da consumo crudo sono cultivar rosse, fresche ricche di acqua di vegetazione, zuccheri: quindi la cipolla giovane di Tropea oppure la corpulenta cipolla rossa di Acquaviva. Ed è innegabile che
in questo contesto la componente cromatica appaghi maggiormente la vista. Le cotture rapide tendono invece ad esaltare il caratteristico aroma sulfureo dell’ortaggio, la sua naturale dolcezza, la texture tendenzialmente croccante e moderatamente fibrosa. Le cotture dirette su brace richiedono cipolle con una minore quantità di acqua di vegetazione e una elevata quantità di zuccheri semplici; ovviamente la componente cromatica ha un ruolo importante, ma non fondamentale e quindi anche grandi cipolle bianche si adattano molto bene a tal scopo. La Maillard interessa maggiormente la superficie dell’ortaggio e necessita di una rilevante quantità di grasso di cottura e di una temperatura media che assieme evitino reazioni di carbonizzazione. Le cotture lunghe in umido invece sono un contesto ben diverso, nel quale la cromaticità dell’ortaggio non è rilevante ai fini gastronomici. A mio avviso, maggiore rilievo hanno la quantità di zuccheri semplici, di fibre - soprattutto quelle insolubili- e di acqua di vegetazione. Una buona cipolla infatti avrà sempre e comunque una sostenuta quantità di fattore lacrimogeno tale da farvi grondare di lacrime. Inoltre la quantità di carne prescritta nella ricetta è inferiore in peso rispetto alle cipolle. Su un kg di carne parliamo di circa 1,2-1,5kg di cipolla da tagliare con un coltello ben affilato, con un tagliere umido e una buona scorta di fazzoletti. Se proprio non ce la fate potete usare occhialini da piscina oppure raffreddare le cipolle intere in freezer per 15-20 minuti in modo da rallentare la velocità di propagazione della reazione enzimatica. Un altro metodo interessante è l’inattivazione al calore degli enzimi precuocendo le cipolle intere in forno fino a temperatura di denaturazione delle proteine (gli enzimi sono proteine) a 60°C interni (personalmente non l’ho mai provato, ma con l’aglio della A.O.P. scientifica funziona benissimo). Anche quelle non estremamente dolci si adattano comunque bene visto che la lunga cottura della genovese andrà comunque a restringere il sugo e ne esalterà la dolcezza. La fibrosità della cipolla invece sarà determinante nella riuscita del composto: cipolle troppo ricche di fibre daranno al composto finale una texture disomogenea slegata con la percezione di prodotto semicrudo nonostante la lunghissima cottura. La cipolla ideale invece dovrebbe letteralmente fondersi in una crema ricca e leggermente agrodolce con una lontana sfumatura sulfurea. La cremosità della base di questo sugo lungamente stufato può essere arricchito (secondo tradizione) con l’aggiunta di ritagli di salumi, lardo o strutto che daranno una emulsione più ricca di sapidità, tuttavia sono dei metodi che non servono in sé per migliorare la base “cipollosa” ma per compensare la magrezza del manzo che di base rimane la fonte proteica nobile della ricetta. La lunghissima cottura umida avrebbe ragione sulla consistenza di un copertone di Vespa, quindi nella saggezza popolare il recupero degli scarti grassi dei salumi, il lardo e lo strutto non facevano che compensare la qualità e tagli di un manzo a volte troppo magro. Certo, se andrete a usare, come abbiamo fatto noi, uno spezzatino di Black Angus, vi assicuro che non avrete bisogno di aggiungere nulla al vostro sugo.
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ha come prodotto molecole polimeriche aromatiche, saporite e dal caratteristico colore bruno. Viene modulata da differenti condizioni dell’ambiente di reazione, quali umidità, temperatura e pH. Un pH neutro tendente al basico sarà un fattore che accelererà la reazione di Maillard da cui il “vecchio trucco” del bicarbonato che può essere usato in blanda soluzione per il lavaggio della cipolla una volta affettata.
LA CARNE I tagli per la genovese sono quelli per la maggior parte adatti alle cotture in umido, tendenzialmente ricchi di collagene, ma ci sono eccezioni perché nella tradizione sono suggeriti anche tagli nobili come il girello e lo scamone. • •
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Colarda: scamone. Gallinella e gamboncello: stinco disossato, garetto posteriore. Lacerto: girello. Lacertiello: girello di spalla. Locena, corazza: reale. Primo taglio di annecchia: ovvero la punta dello scamone di vitello (o’ vaccariello).
La cottura della carne avviene a pezzi e a seconda della “nobiltà” del taglio utilizzato, la Genovese si presta sia come condimento per la pasta sia come secondo di carne da consumare a parte. Il fatto che la carne possa essere tenuta ancora compatta o sfaldata, servita come piatto unico o con portate separate, dipende dalla specifica occasione (dal contesto sociale; dalla la presenza di ospiti di riguardo, dalle festività) e porta ovviamente alla scelta di tagli più costosi del quarto posteriore, mentre in un contesto familiare le scelte possono essere differenti. Molte fonti riportano come lo chef Gennarino Esposito sia affezionato ai tagli di vitello (annecchia) il che contrasta un po’ con la logica di un taglio bovino che deve infondere sapore di carne ad un sugo sovrastato da un’immensità di cipolle. La realtà è che nella ricetta della Genovese la cipolla è sempre l’ingrediente numero uno, la carne è un complemento
che deve infondere il sapore al preparato cedendo grassi e gelatina; il fatto di utilizzare un taglio nobile di vitello non è altro che un escamotage per rendere più adatto all’alta ristorazione un sugo popolare dove la carne viene sfruttata al massimo come si farebbe per un brodo. L’approccio dello Chef Esposito necessita di modifiche sostanziali della ricetta che evitino la disintegrazione di un taglio bovino giovane. Dall’altra parte sappiamo bene che tagli bovini come punta di petto, stinco, pancia, coda, guancia potrebbero dare un’impronta molto più incisiva e potente ma allo stesso tempo devastare l’identità di una preparazione che di fatto ha assunto questa struttura per questioni di reperibilità degli ingredienti e per il fortissimo legame con la tradizione culinaria partenopea. Tecnicamente la carne lasciata in pezzi abbastanza grandi viene rosolata in olio o strutto affinché le superfici dei pezzi assumano il tipico colore bruno, dopo di che con poco vino (lo chef Esposito usa il brandy) si va a deglassare e a restringere prima di inserire una montagna di cipolle. La lenta e lunghissima cottura completa l’alchimia di questo sugo tradizionalissimo che ovviamente ha dei margini di miglioramento osando con un po’ di tecnica e di metodo scientifico. Come dicevo prima, usare un tipo di carne come quello della ricetta che vi andremo a presentare, ovvero lo spezzatino Stew AUS Black Market 5+ Rangers Valley Black Angus del Megastore, vi risolverà qualsiasi dilemma: sono cubi di carne extra marezzata che ridurranno significativamente iI tempo di cottura (la ciccia è già tenera) e che riverseranno nel sugo la giusta quantità di grasso – e quindi di sapore - necessario a rendere questo sugo un’esperienza orgiastica per le vostre papille.
LA PASTA La cultura della pasta a Napoli ed in Campania è così potente che sarebbe impossibile smantellare il binomio. La Genovese richiede una pasta corta di ottima fattura. La tradizione prevede filati quali ziti, mezzanelli, candele spezzate a mano, paccheri e poche altre variazioni. La caratteristica di questi filati richiede necessariamente una scelta di prodotti di qualità ed una certa accortezza nella cottura per non disfare la struttura di questi formati. Lo dico col cuore, non c’è nulla di più triste di un pacchero o zito scotto collassato su se stesso, se non siete in grado di gestire la cottura di questi filati usate le penne lisce. Scegliere una buona pasta secca non è un’impresa impossibile, indipendentemente dalla provenienza, dovete scegliere pastifici che espongano etichette chiare, dando il giusto peso alla provenienza della materia prima, visto che storicamente l’Italia non produce quantità sufficienti di grani di qualità tali da sostenere un’esportazione di prodotto finito su scala planetaria. Il processo produttivo della pasta è suddiviso nelle seguenti fasi:
Selezioniamo la nostra pasta in base ai seguenti parametri qualitativi, quindi: preferire pasta essiccata a basse temperature. Nonostante questa
sia una delle informazioni di solito omesse dai produttori, è possibile desumere con certezza quasi assoluta che i produttori più piccoli e artigianali usino proprio questo metodo per garantire un prodotto più completo. Preferire pasta con un aspetto “sano” e ben conservato, con una superficie omogenea e un colore simile al grano senza frammenti o segni di aggressione di muffe o insetti, trafilata al bronzo perché la sua rugosità assorbe meglio il condimento e lo trattiene, con garanzia sulla tenuta di cottura. Infine scegliere una pasta con una percentuale di proteine tra il 12,5 e il 15%. Un valore di 13,5% indica che siamo in presenza di ottima semola. Le etichette non riportano quasi mai le % ma i grammi di proteine per 100 grammi di prodotto, che sono esattamente la stessa cosa
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1. Selezione delle semole. Quelle da usare per la pasta sono fondamentali per la produzione di un prodotto di alta qualità. Di norma, le semole si scelgono in base alle loro caratteristiche fisiche (peso specifico ed impurità) e tecnologiche (proteine, qualità del glutine e indice di giallo). Infatti una buona pasta viene valutata in base alla quantità di proteine presenti che seguono degli standard: il minimo quantitativo di proteine per i prodotti di semola di grano duro è del 10,5% e del 11,5% nel caso di paste integrali, ma più questo valore è alto più le semole sono superiori a livello qualitativo (il 14% è uno dei valori più alti). 2. Macinazione delle semole. Questo processo permette di trasformare le semole in prodotti “nobili” che verranno poi usati per la pasta. La macinazione delle semole a pietra o con altri materiali non costituisce di per sé un indice qualitativo della pasta. 3. Impasto e gramolatura. Una volta macinata, la semola è lavorata con l’acqua e dove necessario con altri ingredienti aggiuntivi. Questa fase che viene definita gramolatura, influisce sulla fattura finale dell’impasto. Una semola a gramolatura grossa (>450-500 micron) valorizza al meglio le qualità tecnologiche del grano donando all’impasto un aspetto compatto ed omogeneo. 4. Trafilatura. È l’operazione che permette di dare una determinata forma alla pasta. Quella ottenuta dalla trafilatura in bronzo ha una superficie ruvida e porosa mentre quella ottenuta da trafilatura in teflon è più liscia. 5. Essiccamento. È la fase più delicata del processo produttivo, quella che avrà un maggiore impatto (dopo la scelta della semola) sul risultato finale. La pasta viene fatta essiccare dentro appositi macchinari che rilasciano acqua calda per farla asciugare così da raggiungere massimo il 12,5% di umidità previsto dalla legge. Più basse sono le temperature di essiccazione meglio è: infatti se la pasta viene fatta essiccare a temperature troppo alte avrà caratteristiche organolettiche e nutrizionali inferiori, tipiche della pasta prodotta con metodiche industriali massive.
INGREDIENTI per 4 persone
1 kg di spezzatino Stew AUS Black Market 5+ Rangers Valley Black Angus del Megastore 1,5 kg di cipolle dorate; una carota un gambo di sedano qualche fogliolina di salvia un paio di pomodori pelati olio extra vergine di oliva q.b. mezzo bicchiere di vino bianco sale e pepe q.b. a piacere pecorino e Parmigiano anche mischiati insieme
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mezzo chilo di paccheri di buona qualità (o ziti spezzati)
LA RICETTA Ogni famiglia napoletana ha la sua. Come ho già specificato più volte, la scelta degli ingredienti è determinante per la resa finale del sugo. Ma adesso avete tutte le informazioni per non sbagliare un colpo. Questa è la versione di nonna Eliana, napoletana verace che mi dettò la ricetta diverso tempo fa, solo leggermente modificata. PREPARAZIONE 1. Fate rosolare un po’ la carne in una casseruola pesante, potete farlo anche sul vostro dispositivo in una cocotte. 2. Sfumate col vino bianco e aggiungete le cipolle tagliate sottilmente e il soffritto di carota e sedano tritati finissimi insieme alla salvia. 3. Aggiungete il vino, poco per volta, e i due pomodori pelati tagliati a pezzettini. Lasciate quindi cuocere a fuoco lento per almeno tre ore e, se occorre, aggiungere un po’ di acqua calda. Le cipolle devono diventare una crema mentre la carne deve risultare morbida alla forchetta. 4. Cuocete la pasta e poi, aiutandovi con l’acqua di cottura, fatela saltare col sugo cremoso alla genovese. Conditela , se vi piace, con pecorino e Parmigiano secondo il vostro gusto.
Speciale Tradizioni - ricette a cura della redazione
godi solo a metà
Forse è uno dei piatti più conosciuti del Lazio. Sicuramente è tra i piatti regionali più diffusi nell’intero territorio nazionale. L’abbacchio a scottadito è ormai un must nelle grigliate primaverili e estive, sia per la sua semplicità che per il sapore distintivo dell’agnello da latte. Facciamo però un po’ di chiarezza sul nome. Secondo il vocabolario romanesco di Filippo Chiappini, medico e poeta dialettale romano, “si chiama abbacchio il figlio della pecora ancora lattante o da poco slattato; agnello, invece, il figlio della pecora presso a raggiungere un anno di età e già due volte tosato”. Questo tipo di distinzione è in realtà riconosciuta solo a Roma e nel Lazio, nel resto d’Italia sia il primo che il secondo vengono riconosciuti solo come “agnello”. Potremmo dire dunque che l’abbacchio è l’agnello da latte, o, per usare un’espressione del poeta latino Giovenale, “vergine d’erba, più di latte pieno che di sangue”. L’etimologia del nome è incerta: alcuni sostengono venga dal latino ad bacùlum, "al bastone" in riferimento alla brutale modalità con cui l’animale veniva soppresso nell’antichità (da qui anche il termine abbacchiato, ovvero affranto, abbattuto). Secondo altre teorie il nome deriverebbe da abecula a sua volta derivato dal diminutivo latino ovecula (da ovis, pecora). Dal 2009 l’Abbacchio Romano ha ottenuto il riconoscimento di prodotto con Indicazione Geografica Protetta (IGP). Il Disciplinare di produzione ne definisce le caratteristiche, a partire dalla razza: con questa denominazione si intendono esclusivamente gli agnelli, maschi o femmine, nati e allevati allo stato brado e semibrado, di razza Sarda, Comisana, Sopravissana, Massese, Merinizzata Italiana. Sono legittimi anche gli incroci con altre razze e tra di esse. La carne può essere messa in commercio secondo differenti tagli (intero, mezzena, spalla e coscio, costolette, testa e coratella, ovvero le interiora dei piccoli animali) e deve presentare un colore rosa chiaro con una consistenza compatta e leggermente infiltrata di grasso. Tutti noi associamo questa preparazione al periodo pasquale, poiché l’agnello, nella tradizione cristiana, viene raffigurato come sacrificio a Dio. In antichità si macellavano principalmente pecora e montone e solo durante la Pasqua era concessa la macellazione della bestia giovane. In realtà a Roma la stagione degli agnelli dura tutta la primavera: comincia a Pasqua e finisce il 24 Giugno per San Giovanni. Certamente l’allevamento delle pecore è una delle forme più antiche di attività economiche, specie a Roma e nel Lazio, dove ha sempre permesso alla popolazione di cibarsi e di guadagnare, grazie alla produzione di carne, latte, formaggi e alla vendita stessa del bestiame. Non va dimenticata poi l’importanza della lana e delle stoffe derivate dalla tosatura e dalla concia.
Naturalmente la tradizione culinaria e gastronomica laziale ha numerosissimi piatti con l’abbacchio. Già dai tempi antichi, in occasione dell’abbacchiatura (uccisione degli agnelli da latte), i pastori banchettavano con la pagliatella, cioè la carne più grassa dell’intestino dell’abbacchio, cotta alla brace. Altri preparati tradizionali che vedono come ingrediente l’abbacchio sono le animelle, i granelli, la milza, il fegato e l’intestino tagliato a pezzi da cucinare in padella. Fra le varie preparazioni c’è di sicuro quella che vi presentiamo oggi: l’abbacchio a scottadito. Questo piatto vuole che venga cotto alla brace e la sua peculiarità prevede che si consumi mangiandolo con le mani, appena terminata la cottura: da qui il nome. Devono essere usate le costolette che si ottengono dalla lombata senza filetto. È importantissimo, per una cottura che sarà abbastanza veloce, tenere la carne fuori frigo almeno un’ora prima della messa in griglia, affinché non sia completamente fredda e agevoli una buona Maillard. Si effettua una marinatura delle costolette con aromi mediter-
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L'ABBACCHIO Se non ti scotti le dita
Non è un caso se proprio un romano, Marco Terenzio Varrone, vissuto nel I sec. a.C. , ci ha lasciato il trattato più completo sull’arte della pastorizia, il De re pecuaria secondo libro dell’opera didascalica De re rustica. E non è nemmeno un caso che l’etimologia del termine pecunia (denaro), derivi dal latino pěcus (bestiame, pecora).
ranei, poi si passa ad un’asciugatura successiva, e infine a un seasoning con spennallata d’olio. Usualmente si tende a battere la carne della costoletta al fine di abbassarla e renderla più sottile, per una cottura più veloce. Noi sappiamo benissimo che questo metodo non ci porta alcun vantaggio, così come sappiamo che tenendole leggermente più spesse potremmo ottenere una maillard più efficace senza stracuocerle e con un mouse ring meno pronunciato.
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Si cuociono con la tecnica del grilling, lasciandole solo qualche minuto per lato per ottenere una buona Maillard, dopodiché vanno servite calde e mangiate a mani nude. L’osso della costoletta servirà per prenderle e portarsele alla bocca.
INGREDIENTI per 4 persone
1.
Create una doppia marinatura, con olio, succo del limone grigliato, aglio, rosmarino, timo e menta. Una per lapre cottura e una per il post cottura.
2.
Versate la marinatura sulle costolette poste all’interno di una pirofila e lasciatele riposare in frigo un’ora circa.
3.
Togliete dal frigo un’ora prima della cottura e procedete all’asciugatura della carne.
4.
Spennellate le costolette per tutta la superficie con olio extra vergine di oliva.
5.
Predisponete il dispositivo per una cottura diretta.
6.
Adagiate le costolette sulla griglia e fatele cuocere per circa 3 minuti per lato, creando una bella crosticina e ricordandovi di cauterizzare la parte grassa. Tenete come riferimento la temperatura di cottura dell’agnello tra i 68°C e i 72°C al cuore.
7.
Estraete le costolette dalla griglia, salatele e irroratele con qualche cucchiaio di marinata.
8.
Servitele ancora caldissime: è la prerogativa di questo piatto. Devono, davvero, scottare le dita.
un kg di costolette di agnello 4 cucchiai di olio extravergine di oliva un cucchiaino di aglio in polvere 2 rametti di rosmarino 2 rametti di timo 5/6 foglie di menta 1 limone grigliato dalla parte del taglio sale e pepe q.b.
531 - BBQ4All Magazine
PREPARAZIONE
COTOLETTA
ALLA MILANESE
532 - Almanacco 2020
Una ricetta "sconosciuta"
Speciale Tradizioni - ricette a cura della redazione
Per sottolinearne maggiormente l’importanza l’AIFB (associazione italiana food blogger) nel 2016 la inserì nel suo progetto “Il Calendario del Cibo italiano” -nato con lo scopo di promuovere e di diffondere la cultura gastronomica su tutto il territorio nazionale- proclamando il 17 Gennaio di quell’anno la giornata nazionale della cutuléta alla milanese. Questa scelta potrebbe risultarvi discordante rispetto all’introduzione appena letta; infatti che senso ha dedicare un giorno alla conoscenza di una pietanza già così famosa nel mondo? La risposta è semplicissima, perché è una notissima sconosciuta. Non solo la maggioranza degli italiani non l’ha mai addentata, ma non sa nemmeno come vada preparata. Nonostante il termine derivi dal francese cotôlette corrispondente alla parola italiana costoletta (fetta tagliata nel costato), secondo il pensiero comune corrisponde ad una fettina di carne sottile e magra (bovino, suino o pollame), impanata e fritta nel burro, ingrediente principe della cucina tradizionale del Nord-Italia. Vi assicuriamo che la vera milanese è tutt’altra cosa. Per realizzarla serve una costoletta di lombata di vitello con osso ricavata dal carré, nello specifico dalle prime sei costole, che hanno la giusta percentuale di grasso. Lo spessore è di circa 2 cm circa e il peso si aggira sui 250 grammi. La carne viene prima battuta leggermente per uniformarne la superficie (ma noi non lo faremo mai!) dopodiché viene immersa nell’uovo sbattuto, poi passata nel pangrattato e alla fine cotta in abbondante burro, per ottenere una frittura asciutta e croccante. L’espressione oreggia d’elefant (orecchia di elefante) non è il secondo nome di questa preparazione, perché si riferisce a un piatto abbastanza diverso: la carne viene privata dell’osso e battuta con il batticarne fino a renderla simile per grandezza all’orecchio del mastodontico pachiderma. Rispetto alla cotoletta dove c’è un sapiente equilibrio tra la croccantezza della panatura e la morbida succosità della lombata, qui il sapore del fritto predomina sugli altri, rendendola una preparazione molto amata soprattutto dai bambini. Come molte altre ricette, anche la cotoletta è al centro di una diatriba sulla paternità, nel caso specifico a contendersela sono Italia, Austria e Francia. Gli austriaci affermano che la Milanese sia la rivisitazione della Wiener Schinitzel, fetta sottile di carne di vitello o di maiale impanata privata dell’osso, cotta senza l’uso delle uova e fritta nello strutto. Per smentire questa affermazione, gli italiani hanno portato come prova una lettera scritta nei primi dell’800 dal maresciallo Josef Radetzky (a cui Strauss dedicò la famosa marcia militare); mentre egli era governatore del territorio lombardo-veneto, raccontava di aver gustato
uno straordinario piatto a base di vitello impanato nell’uovo e fritto nel burro. Questa testimonianza dimostrerebbe che fu il creatore della Wiener Schinitzel ad ispirarsi alla milanese e non il contrario. A l o r o vo l t a i f r a n c e s i sostengono che la preparazione italica si è rifatta ad una ricetta d’Oltralpe nata intorno al 1750, importata con il nome di cotôlette rivoluzionarie (cotoletta rivoluzionaria) dai cuochi di Maria Luisa D’Asburgo, moglie di Napoleone, che dopo la sconfitta del consorte a Waterloo si era trasferita nel Bel Paese (1816). Anche in questo caso la procedura è molto lontana dalla nostra, infatti la carne viene marinata nel burro aromatizzato con delle erbe, poi impanata e infine fritta. Il punto definitivo all’interminabile discussione fu posto il 17 Marzo 2008 dal Comune di Milano, il quale con delibera della Giunta ha assegnato la denominazione comunale (De.Co.) alla Costoletta alla milanese, basandosi su un’importante fonte: questa pietanza semplice e gustosa, veloce da preparare ha allietato i banchetti dei ricchi o delle festività importanti fin dal lontano Medioevo, come testimonia Pietro Verri (massimo esponente dell’Illuminismo italiano) nella sua “Storia di Milano”, riportando che nel menù del pranzo organizzato dai canonici della Basilica di Sant’Ambrogio il 17 Settembre del 1134 per festeggiare l’onomastico di Satiro, (il quale aveva abbandonato la sua vita per aiutare il fratello, Sant’Ambrogio, durante la sua opera pastorale come vescovo della città
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È un secondo piatto tipico della città di Milano, come sottolinea il nome stesso. Famosa in tutta Italia e all’estero è uno dei simboli della vivace e frenetica metropoli lombarda, al pari della Scala e della Madonnina, che dall’alto delle guglie del Duomo domina il centro cittadino. Infatti, non c’è ristorante meneghino, dal più economico allo stellato, che non la proponga nel suo menù.
meneghina) erano presenti i lombolos cum panitio ovvero gli antenati della cotoletta alla milanese. Pare che i medici medievali prescrivessero l’assunzione di oro pure come cura per le malattie cardiovascolari e che la borghesia milanese fosse solita cospargere di polvere d’oro le vivande. Questa pratica è testimoniata anche da Bernardino Corio, storico italiano, che descrisse il pranzo imbandito nel 1368 in occasione delle nozze di Violante Visconti, figlia di Galeazzo II, con Lionello Plantageneto duca di Chiarenza (banchetto al quale partecipò anche Francesco Petrarca), dove furono serviti pasci e carni ricoperti d’oro finissimo. Successivamente, però, complice anche il costo elevato del metallo, la polvere d’oro venne sostituita da due ingredienti che sono poi diventati gli elementi chiave della cucina meneghina: lo zafferano e il pangrattato.
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Fra le altre cose, su come impanare a regola d’arte Maestro Martino da Como, nel suo Libro de Arte Coquinaria del 1492, dà precise indicazioni: piglia un pane bianco, et grattogialo menuto, et con esso pane mescola tanto sale quanto te pare necessario per lo arrosto; poi gitta questa mescolanza de pane et de sale sopra lo arrosto in modo che ne vadi in ogni loco; poi dalli una bona calda de foco, facendolo voltar presto; et in questo modo haverai el tuo arrosto, bello, et colorito. Anche questa volta abbiamo vinto noi. La cotoletta è nostra., ma che ne sanno i francesi e gli austriaci...
PREPARAZIONE 1.
Mettete a tostare i panini nel forno (o nel vostro dispositivo) alla temperatura di circa 180°C. Quando saranno belli tostati tritateli con un mixer.
2.
In un recipiente capiente sbattete le uova con un pizzico di sale.
3.
Versate in un piatto il pangrattato, il sale, il rub, il Parmigiano e mescolate bene bene.
4.
Immergete la cotoletta prima nell’uovo e poi passatela nella miscela col pangrattato, premendo leggermente, in modo che il pane si attacchi bene alla superficie. Ripetete il procedimento una seconda volta.
5.
Fate sciogliere il burro in una padella, la cottura non deve avvenire per immersione. Quando entrambi i lati della cotoletta sono belli dorati, toglietela dalla pentola e asciugate il grasso in eccesso con la carta assorbente. Oppure preparatela al barbecue!
6.
7.
Setup indiretto a calore molto vivace, circa 150°C; braci da una parte, carne dall'altra e coperchio chiuso. Con un vaporizzatore che andrete a riempire di olio extravergine, spruzzate sulla crosta poco prima di andare in cottura. L'olio è un eccellente conduttore di calore e pertanto aiuterà la formazione della crosta. Vaporizzate nuovamente quando andrete a rivoltare la bistecca. Con il vostro insep arabile termometro controllate che la carne arrivi a 55°C per averla al sangue, 65°C per averla a cottura media, 75°C per averla ben cotta.
Il contorno ideale per questo piatto potrebbe essere un’insalata condita con un’emulsione di olio extravergine e di limone; l’acidità dell’agrume rinfrescando il palato vi permetterà di apprezzare ogni singolo sapore della Milanese.
INGREDIENTI per 4 persone
4 Cowboy Steak Prime Black Angus del Megastore 150g di burro chiarificato 2 uova due panini raffermi da 250 g l’uno 50 g di Parmigiano Rub Mount Nimba q.b sale q.b.
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SALTIMBOCCA ALLA ROMANA ...siamo sicuri?
INGREDIENTI per 8/10 persone
un Eye of Round di circa 1 kg Usa Star Ranch Prime Black Angus
Salvia qb. Pepe nero q.b. Farina 00 q.b. Montreal rub q.b.
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200 g di prosciutto di Parma tagliato a fette
La pansa nò la gha orècie. (La pancia non ha orecchie.) Questo è il significato del detto bresciano. Sembra strano sentir parlare dialetto lombardo in un articolo che parla di un piatto che nel conoscer comune ha origini romane. Tanto buoni da sembrare di voler “saltare in bocca” (è chiaro il significato del nome, quindi) sulla loro origine c’è molto mistero: non si sa dove nascano precisamente. C’è chi dice Roma, c’è chi dice Brescia. Adolfo Giaquinto, chef, scrittore e poeta , nel suo “Manuale pratico di cucina” già nel 1899 menzionava i “saltimbocca alla bresciana” indicando un’origine nordica del piatto.
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Di contro l’Artusi, dopo averli mangiati in una trattoria romana chiamata “Le Venete”, li citava nel suo trattato “La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene” descrivendoli così: “sono bracioline di vitella di latte, condite leggermente con sale e pepe, sopra ognuna delle quali si pone mezza foglia di salvia (una intera sarebbe di troppo) e sulla salvia una fettina di prosciutto grasso e magro. Per tenere unite insieme queste tre cose s’infilzano con uno stecchino da denti e si cuociono col burro alla sauté; ma vanno lasciate poco sul fuoco dalla parte del prosciutto perché questo non indurisca. Come vedete è un piatto semplice e sano.” Il fatto che li avesse conosciuti a Roma, spingeva a pensare che il piatto avesse origini capitoline. Restava quindi di difficile attribuzione la paternità di questo piatto, ma fece da paciere Giuliano Malizia che nel suo libro “La cucina romana ed ebraica” affermava che: “… per la lunga permanenza nella nostra città (Roma ndr), per la simpatia che li rende attraenti, per la semplicità così appetitosa…” siano da considerarsi ambivalentemente bresciani e romani. Forse non si scoprirà mai chi sia stato l’inventore di questo sfiziosissimo piatto, certo è che ormai è un “must” della cucina della Capitale e del Lazio in generale. La ricetta che vi proponiamo oggi è una versione rivisitata in chiave bbq che aggiunge al sapore della tradizione un plus derivante dalla cottura su fuoco. Certamente non abbiamo snaturato la ricetta rispetto a come l’ha descritta l’Artusi, ma abbiamo apportato delle piccole variazioni. Una di queste è l’aver usato la carne del nostro Megastore, che come sapete non può deludere mai. Poi abbiamo insaporito il tutto con uno dei nostri meravigliosi Rub (il Montreal) e infine abbaimo fatto una diretta veloce a fuoco alto. Sappiamo cosa state pensando: sì vabbè, capirai, il saltimbocca è proprio banale, lo dice anche l’Artusi! Ebbene vi sfidiamo: preparatevi perché se siete abituati a quelli della nonna, con le fettine sottili, insapori e cartonate, dovrete ricredervi.
PREPARAZIONE: 1.
Accendete il forno alla temperatura di circa 52°C in modalità ventilata e mettete il pezzo di ciccia ad asciugare, finché la superficie non si sarà disidratata bene.
2.
Tagliate a fette non troppo spesse l’eye round, spennellatele con un po’ di burro chiarificato fuso, salatele, pepatele e cospargetele di rub (occhio a non esagerare col sale).
3.
Adagiate sopra ad ogni fetta di carne una fettina di prosciutto, anche piegandola in due.
4.
Ponete quindi al centro della carne una foglia di salvia. Fermate il tutto con uno stuzzicadenti.
5.
Accendete il kettle e settatelo per una cottura indiretta ad alta temperatura.
6.
Buttate in griglia i i saltimbocca con la foglia di salvia rivolta verso l’alto. Dopo pochi secondi, toglieteli dal fuoco e serviteli (il prosciutto non deve cuocersi ma solo sudare abbondantemente).
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Il cuore a
VENEZIA e il FEGATO
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nel piatto
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Gli hèneti, questo gran popolo, avevano una volta la h al posto del v e il cambio alla lettera attuale sembra sia attribuito allo storico romano Tito Livio che, raccontando il grande aiuto che la gente della laguna fornì alle truppe romane nello scacciare i Galli, li battezzò veneti (“gens universa veneti appellati sunt”). Divenuti poi nel tempo cittadini della Provincia Romana che Cicerone amava definire “quel fiore dell’Italia, quell’ornamento del popolo romano…”, il legame dei veneti con Roma divenne fortissimo e incise nelle loro abitudini culturali e culinarie talmente a fondo che possiamo trovarne traccia anche ai giorni nostri. Nell’antica Roma il consumo delle frattaglie di carne, come ad esempio il fegato (iecur), era sempre accompagnato ai fichi (ficatum), di cui quel territorio era ricchissimo, espediente che serviva a mitigare il gusto troppo ferroso ed amaro tipico del taglio. Nel periodo del Sacro Romano Impero ricostruito da Carlo Magno, i veneti iniziarono a spostarsi dalla laguna e a coltivare nell’entroterra, producendo diverse specie di ortaggi e arrivando a modificare la ricetta romana iecur ficatum: i dolci fichi del Mezzogiorno vennero quindi sostituiti dalle sio’le, le cipolle, più facilmente reperibili nei loro terreni. Nacque quindi la ricetta del Figà àea venexiana con cipolla bianca di Chioggia, già largamente usata dai pescatori veneziani per la conservazione del pesce. Nella famosa ricetta delle sarde in saor, ad esempio, si fa un massiccio uso di cipolla e di aceto accompagnati da numerose spezie, di cui in quel tempo Venezia era in assoluto il più grande importatore europeo. Nel territorio veneto nacquero delle varianti con leggere differenze che sopravvivono tuttora. Dalle mie parti, nel vicentino, si prevede l’uso del vino bianco secco da sfumare all’imbiondire della cipolla; nel veronese la carne viene passata in pastella d’uovo, poi panata e cotta nel burro; in alcune zone si consiglia l’uso dell’aceto e in altre lo si sostituisce con del succo di limone. In ogni caso, tutte le numerose versioni ricercano sempre l’equilibrio tra i due ingredienti principali della ricetta, due attori dalla spiccata personalità e con distinti sapori agli antipodi: fegato e cipolla. La cipolla, rigorosamente bianca di Chioggia, nota per la sua dolcezza, non tritata ma tagliata alla mezza veneziana cioè spaccata a metà e poi affettata il più sottilmente possibile. Il fegato, un tempo di maiale, è oggi sostituito da quello di vitello o di vitellone per il gusto leggermente più delicato.
INGREDIENTI per 4 persone
500-600 g di fegato di maiale o di vitello o vitellone 2 cipolle bianche di Chioggia 4 cucchiai di olio extravergine d’oliva un bicchiere di vino bianco secco un mazzetto di prezzemolo tritato finemente sale q.b. pepe q.b. farina bianca q.b.
PREPARAZIONE: 1.
Preparate il kettle per la cottura diretta e posizionate il wok direttamente sopra le braci, sempre che non abbiate la griglia gourmet, in questo caso infilatelo nello spazio predisposto.
2.
Tagliate come descritto le cipolle: prima a metà e poi affettate sottilmente. Prendete il fegato: freschissimo mi raccomando! Dev’essere visivamente tendente al violaceo acceso. Ossidandosi assume una colorazione via via più scura acquistando al contempo toni sempre più amari. Asciugatelo benissimo e tagliatelo a listarelle sottili.
3.
Versate nel wok i cucchiai d’olio, aggiungete tutta la cipolla lasciando imbiondire leggermente, sfumate con il vino e fate evaporare. Lasciate stufare dolcemente, aggiungendo dell’acqua calda se necessario. Le cipolle sono pronte quando assumono una colorazione quasi trasparente. Regolate di sale e di pepe.
4.
Toglietele dal wok e tenetele da parte al caldo. Salate e pepate leggermente le listarelle di fegato e passateci una leggera spolverata di farina sopra (poca mi raccomando, come fareste con un rub) Pulite e riposizionate il wok alzando la temperatura (aggiungendo ulteriori bricchette): dovrà risultare ben caldo.
5.
Scottate velocemente le listarelle di fegato, ricercate la reazione di Maillard per una crosticina saporita. Non indugiate troppo nella cottura perché rischiate che, diventando troppo asciutto, risulti poi stopposo.
6.
Aggiungete un cucchiaio di cipolla stufata, il prezzemolo tritato e fate sposare bene il tutto. Il piatto va servito caldissimo.
Questo vi permetterà di avere, per dirla come il compianto Maestro Gualtiero Marchesi, “dei sapori distinti e precisi dove il fegato sa di fegato e la cipolla di cipolla”. Ognuno poi potrà trovare il suo perfetto equilibrio aggiungendo o meno altra cipolla. Nell’eventualità che dopo il convivio ve ne rimanga un po’, non buttatelo ma inserite fegato e cipolla in un bicchiere da immersione. Con il minipimer emulsionate il tutto aggiungendo a filo dell’olio EVO e del succo di limone, regolando di sale e di pepe. Realizzerete un gustoso paté rustico che potrete conservare in frigorifero per alcuni giorni.
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Servitelo mettendo a disposizione dei commensali fette di pane abbrustolito, eventuali cipolle rimaste, della polentina morbida o in alternativa del purè di patate.
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Il
TIRAMISĂ&#x2122;
dei ribelli
Il Tiramesù fa la sua prima apparizione nel 1970 nel ristorante “Alle Beccherie” di Treviso, ideato dal cuoco Loli Linguanotto che rielaborò una preparazione già molto conosciuta: “lo sbatudin” (preparazione povera a base di uova sbattute con zucchero e marsala, considerato un ricostituente da mangiare durante la convalescenza) La ricetta originale del tiramisù prevede strati alternati di savoiardi bagnati al caffè con crema al mascarpone, uova e zucchero, il tutto ricoperto da polvere di cacao. Nel corso degli anni, complici il grande successo e la facile realizzazione di questo dolce sono apparse tantissime varianti (con il pan di spagna, i biscotti secchi, col pandoro, con la bagna al latte, con la crema al pistacchio, con la fragola e così via); e su questo punto avremmo tanto da discutere. Tuttavia vale la pena ricordare ciò che è avvenuto un anno fa. Nel Maggio 2019 Carlo Cracco, famoso cuoco italiano che non ha bisogno di presentazioni e che ha scatenato più volte l’ira degli odiatori su internet (ricordate la pizza?), probabilmente non sapendo cosa fare si diverte a sconvolgere l’Italia dichiarando, durante un intervista al Messaggero: “Io il tiramisù lo faccio con la panna, perché la forma, per essere servito in pasticceria, deve essere perfetta. Non basta: ho tagliato la testa al toro e l’ho fatto anche al vapore tipo soufflé”.
Effettivamente, la presenza di un secondo elemento grasso unito al mascarpone crea una crema soda e compatta, ma al contempo ariosa, assicurando una maggiore stabilità allo struttura del dolce ed eliminando il rischio afflosciamento. Inoltre, ma forse i nostri anti-evoluzionisti della cucina non lo sanno, la panna di fatto è da sempre un ingrediente del tiramisù. Sapete cosa è il mascarpone? Panna scaldata e fatta coagulare con l’acido citrico. Quindi Cracco per preparare questa prelibatezza al cucchiaio, di fatto, è stato crocifisso per aver aggiunto panna... alla panna. D’altronde, la totale mancanza di un protocollo ufficiale depositato che sancisca quali caratteristiche debba rispettare il tiramisù per essere definito tale, toglie le castagne dal fuoco. Certamente il nome allude a certune proprietà afrodisiache che gli vengono attribuite; il tiramisù sarebbe un aiutino, un Viagra goloso che, secondo la leggenda sarebbe nato in una casa di appuntamenti di Treviso in cui la proprietaria del locale, la maîtresse, era solita preparare il dolce e offrirlo ai clienti. Parliamo di una preparazione certamente calorica, quindi, che deve avere la funzione di “tirar su”. Ma dove sta scritto che, mantenendo la struttura
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Apriti cielo. Il delirio nazionale che ne è seguito è durato per giorni, rimbalzando su ogni social esistente e arrivando perfino ai tg nazionali. Andando al bar la mattina, era facile sentire due signore attempate dare giudizi indignati sul tiramisùdicracco. I soliti gastrotalebani, contrari a qualsiasi tipo di evoluzione culinaria, hanno guidato la folla armata di torce e forconi contro lo stregone stellato. La grave colpa attribuitagli è di aver ufficializzato una pratica già nota in realtà da molto tempo: mettere la panna al posto degli albumi montati a neve. Infatti, se avete voglia di fare una veloce ricerca in rete , troverete tantissime ricette, antecedenti l’affermazione dello chef, nella cui lista degli ingredienti compare la terribile arma del delitto.
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stratificata tipica di questo dolce, non possano esserci variazioni sul tema e aggiunte di ingredienti diversi? Perfino nel d.m. 22 luglio 2005, in vigore dal 29 gennaio 2006, che definisce con precisione le caratteristiche e la composizione di famosi prodotti dolciari italiani tra cui il sacro panettone, leggiamo: “è in facoltà del produttore
aggiungere al panettone farciture, bagne, coperture, glassature, decorazioni e frutta, nonché altri ingredienti caratterizzanti”, così come “l'impasto base del panettone può essere caratterizzato dall'assenza di uvetta o scorze di agrumi canditi o di entrambi” Se possiamo chiamare panettone il prodotto con le
gocce di cioccolato in vendita a tre euro al supermercato, possiamo tranquillamente chiamare tiramisù la versione di Cracco. La ricetta che vi proponiamo, dunque, è una delle tante varianti, ovviamente con panna perché siamo ribelli da sempre e ci piace fare indignare i puristi.
PREPARAZIONE: 1.
Partiamo dal Pan di Spagna, che potete tranquillamente preparare anche la sera prima. Preriscaldate il forno a 180°C in modalità statica.
2.
Rompete le uova e unitele con lo zucchero in una casseruola dal fondo spesso su fiamma dolcissima. Scaldate fino a 45°C, o in alternativa utilizzate uova a temperatura ambiente. Trasferite in una ciotola, unite la polpa della vaniglia e montate con le fruste elettriche a velocità moderata fino a quando il composto è freddo e scrive in superficie. Ci vorranno almeno 20-25 minuti.
3.
Unite farina e fecola setacciate usando una spatola con movimenti delicati, per non smontare la massa, e ruotando contemporaneamente la ciotola.
1/2 bacca di vaniglia Tahiti
4.
Foderate una teglia da 28-30 cm con un foglio di carta forno e trasferitevi l’impasto facendolo scendere dall’alto, senza battere la teglia.
Per la crema tiramisù:
5.
Infornate a 180°C per 20 minuti circa. La torta è pronta quando bucandola con uno stecchino nella parte centrale risulterà asciutto.
6.
Sformate la base e lasciatela raffreddare completamente su una griglia.
7.
Preparate il caffè e versatelo in una ciotola capiente, zuccheratelo ed aromatizzato con il liquore secondo il vostro gusto.
8.
È giunto il momento di fare la crema. Versate l’acqua in un pentolino d’acciaio, aggiungete lo zucchero semolato e munitevi di termometro. Nell’attesa, lo sciroppo deve raggiungere la temperatura di 121°C, recuperate le fruste elettriche e fate schiumare leggermente i tuorli con la polpa della vaniglia.
9.
Versate velocemente lo sciroppo nei tuorli, facendo scivolare il liquido sulle pareti della ciotola e a debita distanza dalle fruste (lo sciroppo è ustionante). Montate il composto fino a raffreddamento e mettete da parte. Vi consigliamo di prepararne una dose più generosa (raddoppiate le dosi), la base tiramisù può essere preparata in anticipo e stoccata in congelatore per 10/15 giorni.
INGREDIENTI per 8 persone
Per la base tiramisù:
50 g di acqua
225 g di base tiramisù 250 g di mascarpone 250 g di panna fresca per un Pan di Spagna da 28/30 cm: 250 g di uova intere 175 g di zucchero 150 g di farina 00 75 g di fecola di patate 1/2 bacca di vaniglia Tahiti per la bagna: 400 g di caffè espresso lungo zucchero q.b. (potete anche non zuccherarlo) marsala q.b. Per il montaggio del dolce 500 g di crema tiramisù 250 g di pan di Spagna 400 g di bagna al caffè 30 g di cacao amaro
10. Lavorate il mascarpone con una frusta, fino a renderlo una crema, e aggiungete una piccola dose di base tiramisù. Una volta amalgamati i due composti aggiungete il resto della base tiramisù e continuate a mescolare. 11. Aggiungete la panna “lucida”, montata ma non troppo, e mescolate delicatamente dal basso verso l’alto. 12. Adesso siete pronti per imbastire il vostro tiramisù. Prendete il Pan di Spagna e sezionatelo in tre dischi. Tagliatelo a misura dei bicchieri o delle coppette che avrete scelto per servirlo. 13. Disponete sul fondo di ogni coppetta il Pan di Spagna e con un pennello alimentare bagnatelo con il caffè al marsala. 14. Versate una generosa dose di crema (meglio con una sac à poche), poi continuate in questo modo facendo un secondo strato. 15. Spolverizzate la superficie finale con la polvere di cacao amaro. 16. Riponete in frigo per almeno 6 ore prima di servire.
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90 g di tuorli (4-5 circa) 170 g di zucchero semolato
fotografie di Elisa Giuli
IL CHEDDAR
spiegato agli italiani cosa è, come farselo in casa L'arte Casearia a cura di Giovanni Minelli
Frequentando la community di BBQ4All e leggendo questo Magazine siamo diventati dei fuoriclasse del barbecue, abbiamo imparato tanto sulla carne e come trattarla. Il Megastore ci offre tagli pregiati e finalmente anche i burger. Abbiamo già imparato tutti i segreti per preparare in casa dei perfetti bun, dunque è giunto il momento di scoprire anche come possiamo creare il più fantastico dei cheddar da inserire nei nostri panini. Quello dei formaggi è un mondo vastissimo e dalle mille sfaccettature, fatto di eccellenze e di prodotti da battaglia. Spesso il cheddar è percepito dai più come uno di questi ultimi, in realtà si tratta di un prodotto incredibile, capace di esaltare le preparazioni nelle quali lo inseriamo o di stupirci se gustato al naturale. Viene prodotto in tutti i paesi d’influenza anglosassone, e assume peculiarità differenti regione per regione. Più che un formaggio potremmo quasi dire che si tratta di una tipologia di formaggi, perché dal West Country Farmhouse Cheddar, che è la DOP inglese, si sono evolute centinaia di produzioni, che ne condividono i processi tecnologici.
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Provo a spiegarmi meglio con un esempio: in Italia, se dico Parmigiano Reggiano DOP intendo proprio Parmigiano Reggiano DOP e nient’altro, niente di simile; intendo il prodotto caseario ottenuto nel rispetto del suo disciplinare di produzione, quindi con quel latte, in quel contesto geografico. Lo definiamo formaggio a pasta cotta per la temperatura alla quale viene portata la cagliata, pasta dura per la percentuale in acqua, semigrasso per l’utilizzo di latte parzialmente scremato. Fa parte, dunque, dei cosiddetti formaggi “grana”. Quando parliamo di Cheddar invece non necessariamente ci riferiamo alla DOP ma a tutti quei prodotti che condividono con la DOP il processo di cheddaring, vale a dire quella fase,
associano a questo prodotto immagini distanti dalla realtà, la percezione media è che si tratti di una americanata, quindi non è richiesto e, gioco forza, il livello qualitativo disponibile è tra i più bassi immaginabili. Direi che è arrivato il momento di aggirare l’ostacolo, rimboccarsi le maniche e cominciare a produrcelo in autonomia.
Ma non è solo questo il motivo del colore del cheddar. Tradizionalmente veniva prodotto con il latte di bovine guernsey (dall’omonima isola nel canale della manica, molto vicina alla contea del Somerset, dove si trova Cheddar, il paese dove nasce questo formaggio), una razza lattifera di piccola taglia, che produce modeste quantità di
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del tutto peculiare, nella quale la massa cagliata viene fatta leggermente inacidire. Le tradizioni locali, il miglioramento dei processi produttivi e la sensibilità dei casari ci danno la possibilità di trovarlo sul mercato in vari formati e affinato in maniere molto differenti: almeno una volta lo avremo visto ricoperto di cera o avvolto in garze, spesso al naturale e frequentemente con la crosta nappata con oli vegetali. Lo troviamo in forme cilindriche o parallelepipede, da un chilogrammo fino ai sessanta chili per le produzioni destinate a lunga stagionatura. Si tratta di uno dei formaggi più venduti al mondo ma, purtroppo, la maggior parte di quello che arriva nei nostri supermercati si va ad inserire nelle fasce qualitative più basse; e non parlo neanche delle fette di formaggio fuso a base di cheddar perché non vorrei diventare volgare. Purtroppo il mercato è quello che è, i consumatori
Per capire come produrlo bisogna inquadrare quali caratteristiche vogliamo trovare nel prodotto finale. Se pensate al cheddar, cosa vi viene in mente? Un formaggio a pasta dura, dalla consistenza friabile, sapido e leggermente acidulo, che fonde se applichiamo calore. Odori al naso, ed aromi in bocca sono simili e si accentuano con la stagionatura, diventando più persistenti. Percepiamo sentori lattici di burro fuso, vegetali di patata lessa e nocciola, e con stagionature prolungate ne percepiremo anche l’animalità. E il colore? Dal bianco avorio ad un arancio intenso: da cosa dipende? Il latte è bianco ma non tutto. Se avete mai osservato il colore del latte delle vacche in alpeggio forse sapete di cosa parlo, ma tanto ve lo dico comunque: vacche alimentate con erba fresca assumono una maggiore quantità di carotenoidi che vengono trasferiti al latte.
latte ma ricchissime di grassi e proteine (il massimo per chi vuol caseificare) e, che ve lo dico a fare, di colore giallo. Oggi solo una piccola percentuale di questo formaggio viene ancora prodotta col latte di guernsey, dunque si utilizza un colorante alimentare: l’annatto (E160b per chi vorrà replicare anche il colore maggiormente evocativo). Stabiliti i target vediamo quali ingredienti ci servono per la produzione casalinga di un chilo di formaggio: • 10 litri di latte, fresco pastorizzato o crudo da distributore automatico, intero; • caglio liquido di vitello 3 ml, 1:10000; • fermenti mesofili; • sale.
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E quali strumenti bisognerà utilizzare: • una pentola abbastanza grande per i 10 litri; • un termometro per alimenti; • un coltello; • una frusta; • una forma per formaggi rigida, si chiama fuscella; • una pressa casalinga (dei pesi possono comunque andar bene); • cartine tornasole (sarebbe meglio un pHmetro con sonda ma capisco che l’investimento al momento può sembrare prematuro); • una siringa per dosare il caglio; • tela di lino. Capiamo dove trovare le cose meno comuni: caglio e fermenti mesofili si possono reperire in tutte le farmacie. La forma e la pressa si trovano in tutti
i negozi che vendono articoli per l’agricoltura. Il latte deve essere intero, abbiamo capito parlando di carne quanto sia importante il grasso: ecco, è importante anche per la resa e per il gusto dei prodotti caseari. Non possiamo utilizzare latte UHT, per intenderci quello che troviamo fuori frigo, perché l’elevatissima temperatura al quale viene pastorizzato lo rende quasi impossibile da cagliare. Ci possiamo orientare su un fresco pastorizzato che troviamo nel banco frigo o su un latte crudo da distributore automatico. Non vi annoio sulle rigide prassi igienico-sanitarie che permettono di rifornire giornalmente questi distributori, però deve essere chiaro che il latte crudo da distributore va bene, mentre quello crudo preso direttamente alla stalla senza una specifica licenza per la vendita di questo prodotto non lo posso consigliare. Detto ciò, credo di avervi annoiato abbastanza quindi veniamo al sodo. Abbiamo accennato ai fermenti mesofili; altro non sono che colture batteriche il cui metabolismo lavora bene a temperature medie. Non ve la faccio troppo lunga: questi batteri fermentano il lattosio, ci danno acido lattico, si moltiplicano e “lavorano” bene a temperature comprese tra i 25°C e i 40°C, dunque più acido e valori di pH che scendono. Per questa preparazione li lasceremo indisturbati a riprodursi per 40 minuti a 31°C. Il primo passaggio è proprio riscaldare il latte in pentola a 31°C, aggiungere i fermenti, chiudere la pentola col coperchio e attendere 40 minuti. I fermenti sono prodotti seguendo processi tecnologici simili tra loro e normalmente sono venduti in sacchetti dentro ai quali si trovano in forma disidratata, già dosati per quantitativi di latte standard, ad esempio 10, 50 e 100 litri. Dopo questo periodo di incubazione del fermento, controlleremo la temperatura ed eventualmente la riporteremo a 31°C, che in questo caso è anche la temperatura di coagulazione, quindi inseriremo il caglio in ragione di 2,5/3 ml per i 10 litri di latte in questione. Questa quantità è riferita ad un caglio liquido di vitello 1:10000 che è anche uno dei più
Ora è giunto il momento di tagliare la cagliata e procederemo col coltello, dapprima con un taglio a croce e poi con tagli paralleli alle due braccia della croce. Otterremo un reticolo a scacchiera. Dopo una sosta di appena 5 minuti passiamo alla frusta e continuiamo a rompere la cagliata, delicatamente, procedendo come se mescolassimo dal basso verso l’alto, fino ad ottenere delle parti omogenee di circa un centimetro e mezzo di volume. Rimettiamo la pentola sul fuoco, a fiamma bassissima, e cominciamo ad innalzare la temperatura molto lentamente. L’obiettivo è portare la massa, coperta di siero, alla temperatura di 39° C in 40 minuti e a pH 6/6,2. Durante questa semicottura della pasta mescoliamo quasi costantemente, poiché non bisogna far attaccare la cagliata al fondo e occorre che tutta la soluzione sia a temperatura omogenea. Il perché di questo riscaldamento lento consiste nel dare il giusto tempo
A questo punto la forma sarà ben soda, la estrarremo dalla sua fuscella e la posizioneremo su di un tagliere, rivoltandola una volta al giorno, fin quando sentiremo che la superficie sarà diventata asciutta. Mediamente occorrono quattro giorni per questo formato. Non dobbiamo tentare di velocizzare questo processo, l’asciugatura dovrà essere naturale e fatta in un ambiente umido, almeno all’80% di umidità relativa; diciamo che per questi quattro giorni potremmo tenerla nel forno, logicamente
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comuni che si trovano nelle farmacie. Il caglio va sempre diluito in poca acqua tiepida, bene in 50 ml a 36°C. In circa 40 minuti otterremo una cagliata della giusta consistenza, sarà una massa gelatinosa solida ma morbida. Come si vede dalla fotografia, appoggiando un cucchiaio sopra di essa rimane appoggiata senza sprofondare.
affinché il processo di “spurgo” del siero da dentro la cagliata (tecnicamente si chiama sineresi) sia completo; qualora rimanga troppo siero all’interno della pasta si avrebbero delle fermentazioni che porterebbero il formaggio ad assumere sensazioni amaricanti tali da non renderne gradevole il consumo. Raggiunto l’obiettivo è ora di spegnere il fuoco e di lascir riposare per 15 minuti. La cagliata si depositerà sul fondo e tenterà a rassodarsi in un’unica massa. A questo punto, mani dentro al siero tiepido a formare delle fette grossolane che estrarremo e disporremo su di un tagliere, così, soggette all’aria e ad una temperatura di circa 30°C (le possiamo mettere in forno spento con una bacinella d’acqua tiepida). Questo è il processo di cheddaring, cheddarizzazione italianizzando un po’. Ogni 10/15 minuti rivoltiamo le fette fino al raggiungimento del valore pH 5,4, poi le trasformiamo in cubetti e aggiungiamo il 2% di sale fino, rispetto al peso del formaggio. Foderiamo la fuscella con la tela di lino, ci inseriamo la cagliata a cubetti, la copriamo con il resto della tela e cominciamo a pressare. Applichiamo 10 kg di pressione per 30 minuti. Ribaltiamo il formaggio sottosopra nella fuscella sempre foderata dalla tela di lino e applichiamo di nuovo 10 kg di pressione per altri 30 minuti. Rovesciamo di nuovo e teniamo una pressione di 20 kg per 12 ore. La tela di lino lascia impressa la sua trama sul formaggio, e dove è più abbondante lascerà dei segni evidenti ma questi non sono un problema per la struttura.
è anche uno “schermo” contro l’aria, per far sì che l’asciugatura sia il più lenta possibile, cosicché la perdita di volume sia graduale e contrastata dall’elasticità della pasta, per evitare screpolature o fessurazioni che comprometterebbero l’integrità del prodotto. Lo strato di cera è maggiormente protettivo da questo punto di vista e potrebbe permetterci di stagionare un po’ più a lungo il formaggio. Io utilizzo appena una goccia d’olio per prevenire le muffe, ma si tratta di un gusto personale, ad ognuno libera scelta. Maggiore è la dimensione della forma che otteniamo, maggiori potranno essere i tempi di stagionatura del prodotto. Odori e aromi si sviluppano nel tempo grazie alle fermentazioni che avvengono nella pasta. Se vogliamo stagionare oltre l’anno, occorrerà fare forme più grandi per evitare una eccessiva perdita di umidità che renderebbe il formato da un chilo molto asciutto e poco appetibile.
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spento ed eventualmente con una bacinella d’acqua. Al momento di rivoltare la forma, rimuoviamo anche le eventuali muffe superficiali che si andranno a creare e, quando la superficie sarà perfettamente asciutta, possiamo decidere se trattarla con olio, cera o lasciarla al naturale prima di piazzarla in cantina a stagionare. I requisiti che rendono idoneo un ambiente per la stagionatura sono umidità elevata e temperatura costante (in questo caso almeno 85% UR e T <15°C). Approfondiamo un po’ gli eventuali trattamenti, capiamone la ragion d’essere e poi decidiamo in autonomia qual è la scelta più indicata per noi, per i nostri obiettivi di maturazione, per la nostra cantina e per i nostri gusti. I trattamenti superficiali, sia con oli sia con cera, svolgono più di una funzione: in primo luogo rappresentano una barriera fisica contro le muffe e, seppur vero che certe muffe nobili apportano al formaggio sentori desiderabili, è altrettanto vero che altre ci portano ad una perdita di prodotto edibile e, a livello casalingo, è difficile stabilire e gestire quali delle due prendano il sopravvento. Una barriera fisica non è utile solo contro le muffe ma
Capiamo meglio cosa vuol dire maturazione e stagionatura, o meglio quando è maturo e quando è stagionato. Se pensiamo alla frutta, una mela ad esempio, diciamo che è matura quando avviene una virazione del colore, la concentrazione degli zuccheri e il rammollimento della polpa. Se parliamo di formaggi, il concetto non è così dissimile: un formaggio arriva a maturazione ottimale quando, messo nelle condizioni idonee, riesce a sviluppare tutte quelle caratteristiche che ci eravamo dati come obiettivo all’inizio del processo. Ritorniamo all’esempio del Parmigiano Reggiano DOP: appena estratto dalla fascera è di colore bianco, già abbastanza consistente ma con una percentuale d’acqua molto più elevata rispetto a
Veniamo al nostro cheddar: una forma così piccola arriverà a maturazione in tempi brevi, a quattro mesi potremmo già consumarla, ma potremmo anche stagionarla un po’ ed arrivare a nove mesi. Oltre questa soglia non mi spingerei, perché con un volume così limitato l’eccessiva perdita di umidità ci porterebbe ad avere un prodotto troppo diverso da quello che avevamo in mente. Non dico cattivo, ma tecnologicamente perderà quelle caratteristiche che ce lo farebbero desiderare all’interno di un hamburger. Ricapitoliamo il tutto fissando come ora 0 il momento in cui abbiamo messo il latte in pentola e lo abbiamo portato a 31°C:
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aggiungo al latte a 31°C i fermenti mesofili latte a 31° e aggiungo il caglio primo taglio della cagliata a croce secondo taglio con la frusta fino alla dimensione di 1,5 cm e rimetto la pentola sul fuoco mescolando la cagliata è arrivata a 39°C e pH 6/6,2 ora la lascio ammassare sul fondo taglio la cagliata a fette e la dispongo sul tagliere per il processo di cheddaring, rigiro le fette ogni 10/15 minuti la pasta è arrivata a pH 5,4 e la taglio a cubetti, la salo al 2% e la inserisco nella fuscella foderata di tela di lino e applico 10 kg di pressione rivolto il formaggio e applico 10 kg di pressione rivolto il formaggio e applico 20 kg di pressione estraggo il formaggio dalla forma e lo metto ad asciugare
Ora fate vostro questo processo, rileggete tutto anche più volte, soprattutto se è la prima volta che vi cimentate con la produzione di un formaggio, e quando sarete convinti di aver capito tutto rimboccatevi le maniche. Sicuramente non si tratta del prodotto più facile ed immediato da produrre, ma se rispetterete il procedimento alla lettera il risultato non potrà che essere più che soddisfacente e con un po’ di pratica chissà dove arriverete. Nella community risponderò ad eventuali dubbi o incertezze..
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quando normalmente viene consumato; odori e aromi sarebbero limitati e meno persistenti, infatti bisognerà attendere un anno affinché questo diventi Parmigiano Reggiano DOP, venga marcato a fuoco e commercializzato. Ma cosa è avvenuto in questi dodici mesi? Va bene, sicuramente abbiamo perso umidità e peso, ma sono anche giunti a compimento quei fenomeni lipolitici e proteolitici che conferiscono al formaggio il suo aroma caratteristico e la consistenza alla quale siamo abituati. Bisogna quindi attendere almeno dodici mesi perché questo sia definito maturo, oltre questo tempo comincia invece la stagionatura vera e propria, ed è il tempo che diamo al formaggio per continuare a perdere umidità e per concentrare i sapori.
Lo Speziale del Barbecue - rubrica a cura di Alberto Zonghetti
ROSMARINO La rugiada del mare
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Il rosmarino è indissolubilmente legato ai miei ricordi d’infanzia, comuni – credo – a quelli di molte persone amanti della cucina: rivivo l’immagine di un ampio camino acceso, nell’ampia e spoglia sala della casa di campagna – più simile ad un rudere in verità - che la mia famiglia e quelle dei numerosi cugini affittavano d’estate; le persiane socchiuse per non permettere al sole d’agosto di riscaldare troppo l’ambiente; mio padre che brandiva fieramente un ramo di rosmarino intinto d’olio e dei grassi di caduta e “dava il pilotto alla carne”, ovvero spennellava fieramente le quaglie sul girarrosto a molla. Il profumo dei volatili, succulento, si diffondeva per la stanza unitamente a quello, inebriante e balsamico, della nostra erba aromatica: carne arrosto e rosmarino, connubio indissolubile in cucina; ma, prima di analizzarne gli utilizzi, ci fermiamo in attimo e andiamo a conoscere meglio la nostra pianta aromatica. Il rosmarino appartiene al genere Rosmarinus, famiglia delle Lamiaceae ed il suo nome scientifico è Rosmarinus officinalis. Originario dei paesi del Mediterraneo, si ritrova spontaneo lungo la fascia costiera e fino ad una altezza di 1500 m sul mare. L’etimologia del suo nome è abbastanza controversa, secondo alcuni deriverebbe
E’ un arbusto legnoso, sempreverde, con fusto eretto o spesso sdraiato alla base e poi ascendente, molto ramificato, che raggiunge altezze di 50–300 cm. A partire dal secondo anno di vita la parte inferiore del tronco presenta una corteccia che si sfoglia in strisce longitudinali di colore marrone scuro. Le foglie, ricche di ghiandole oleifere, sono piccole, lunghe 2-3 cm e larghe 1-3 mm, resinose e aghiformi; presentano un colore verde scuro nella parte superiore che si presenta lucida e con i bordi ripiegati verso il basso, e di colore biancastro sulla superficie inferiore, leggermente vellutata. Sessili e riunite nei rametti più giovani, le foglie sono inserite a due a due nei nodi. I fiori sono piccoli e di colore azzurro o violetto chiaro a seconda delle specie; sbocciano in vari periodi dell’anno in relazione al clima, solitamente da marzo a ottobre. Una leggenda narra che un arbusto di rosmarino offrì riparo alla Vergine Maria durante la fuga in Egitto, e poiché Ella appese alla pianta il proprio manto, i fiorellini bianchi divennero azzurri. I frutti sono composti da quattro piccoli semi oleosi di colore bruno, racchiusi nel fondo del calice persistente. L’impollinazione è entomofila, ovvero avviene tramite insetti, tra cui l’ape domestica, attirati dal profumo e dal nettare prodotto dai fiori: avete mai sentito parlare del miele di rosmarino? Fra poco ve ne suggeriremo un utilizzo interessante in cucina. Nel genere Rosmarinus ritroviamo non solo l’officinalis ma numerose varietà che si differenziano per la maggiore o minore aromaticità e per il portamento. Tra di esse ricordiamo il Rosmarinus officinalis prostratus molto utilizzato come pianta ornamentale perché, come dice il nome stesso, ha un portamento prostrato. Presente spontaneamente in numerosi spazi verdi del nostro Paese, diffuso soprattutto in area mediterranea, essendo una pianta spontanea e molto rustica non necessita di particolari concimazioni periodiche. Viene comunemente coltivato nei giardini
come pianta ornamentale, negli orti, anche in vaso. Che dite, vi è venuta voglia di tenere una pianta in casa? La cura è semplice: è molto comune difatti l’uso in vaso in ambito domestico, basta seguire alcune accortezze. Non fate come mia moglie quando, qualche anno fa, lo piantò sciaguratamente nella zona più in ombra del nostro minuscolo giardino, riuscendo nell’impresa di farlo seccare. Il rosmarino è una pianta che non dà problemi particolari, è molto resistente, non ha bisogno di innaffiature frequenti e l’unica cosa che richiede è un terreno sabbioso e ben drenato, onde evitare marcescenze alle radici, cosa che potrete facilmente ottenere mischiando una piccola quantità di sabbia (possibilmente di spiaggia) al normale terriccio reperibile nei negozi specializzati. Poi richiede un’esposizione soleggiata, poiché la pianta necessita di calore e luminosità per produrre in abbondanza l’olio essenziale che costituisce il principio attivo medicinale. E’ importante proteggerla dai venti freddi: è consigliabile quindi, in inverno, spostare il vaso in zona riparata dai venti (anche le piccole serre da terrazzo sono efficaci) ma esposta al sole. Se avete il “pollice verde” potete anche seminare la pianta, in serra se è primavera o all’aperto, in terreno ben drenato, d’estate. Per l’uso quotidiano potete raccoglierlo in piccole quantità durante tutto l’anno ma, per l’essiccazione, è opportuno prelevare i rametti freschi in periodo estivo o prima della fioritura. Vanno poi lasciati essiccare rapidamente all’ombra; le foglie devono essere tolte prima di riporle in recipienti di vetro o porcellana; per restituire l’aroma alle foglie essiccate, è opportuno sminuzzarle appena prima dell’uso. NOME COMUNE: Rosmarino NOME BOTANICO: Rosmarinus officinalis Lamiaceae FAMIGLIA: Lamiaceae ORIGINE: Europa meridionale e Africa settentrionale ad oggi diffusa in tutti i climi temperati ALTRI NOMI: EN: Rosemary ES: Romero FR: Romarin DE: Rosmarin IN ITALIA: Ramerino ,Rosamarina , Rumosino, Tresomarino
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dal latino ros (rugiada) e maris (mare) vale a dire “rugiada del mare”, da intendersi anche in senso lato: rugiada come lacrime, stille, balsamo, aroma. Quindi balsamo marino, per le sue proprietà aromatiche e l’ambiente di crescita. Secondo altri deriverebbe dal latino rhus (arbusto), cioè “arbusto di mare” perché cresceva spontaneo sulle coste; oppure dal greco “rops” (arbusto) e “myrinos” (odoroso).
illustrazioni di Eleonora Castagna
UN PO’ DI STORIA Nell’antichità, il rosmarino veniva utilizzato soprattutto nella sua accezione rituale, come tramite tra la parte terrena e la componente divina. Soltanto col Rinascimento si valorizzò pienamente la sua valenza in cucina soprattutto nella cottura delle carni: oggi il suo uso alimentare è diffusissimo in area mediterranea, soprattutto in Italia.
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Ma qualche migliaio di anni fa come era considerato il nostro arbusto? I popoli antichi lo consideravano una pianta eccezionale per doti aromatiche e terapeutiche, soprattutto gli Egizi: il popolo del Nilo pensava fosse un elemento magico, i cui rametti erano in grado di procurare l’immortalità perché, anche se tagliati, si mantenevano freschi nel tempo. In Egitto infatti, questa pianta della famiglia delle labiate era uno degli ingredienti principali per la preparazione degli oli d’imbalsamazione dei defunti, procedura indispensabile per garantire all’anima la rinascita nel regno dei morti, ed era di conseguenza tenuta in grande considerazione. Il rosmarino, sempre per gli Egizi, era anche detto “l’erba del ricordo”, poiché una delle proprietà di questa pianta è di migliorare le capacità
mnemoniche e di rinfrancare lo spirito, grazie alla presenza di sostanze blandamente psicoattive. La tradizione egizia gli attribuiva quindi la capacità di conservare nei trapassati la memoria dei loro cari rimasti ancora sulla terra, confortando il loro viaggio verso l’aldilà. I Greci lo utilizzavano, unitamente all’origano e alla la menta, tuttora le erbe più rappresentative di questo popolo, per massaggiare e frizionare i cadaveri con lo scopo di preservarli più a lungo. Fino al II sec. d.C. questa erba non era un ingrediente di cucina, poi Galeno, famoso medico di Pergamo, ne identificò la virtù digestiva, anche se per diversi secoli l’utilizzo come erba aromatica fu secondario. I Romani diedero al rosmarino numerosi e complessi significati: pianta dedicata a Venere, era ritenuto un afrodisiaco che se preso in dosi massicce poteva provocare l’aborto; simbolo quindi della morte e dell’amore. In onore degli dei ne bruciavano i rametti per purificare l’aria durante i sacrifici e Orazio, sommo poeta, consigliava: “Se vuoi guadagnarti la stima dei defunti, porta loro corone di rosmarino e di mirto”. Inoltre i romani erano soliti usarlo per incoronare i Lari, figure della religione romana che rappresentano gli spiriti protettori degli antenati defunti e del focolare domestico, i quali vegliavano sul buon
Nel Medioevo i monasteri e i conventi diventarono i principali riferimenti per lo studio e la coltivazione delle piante aromatiche, nonché luoghi di ristoro, ospitalità e cure, soprattutto per i pellegrini: il monachus infirmarius, una sorta di figura a metà strada tra il farmacista, il farmacologo ed il medico, era addetto a sorvegliare l’orto e la produzione dei preparati medicamentosi. Proprio da questo periodo nasce e si sviluppa la pratica, tuttora in uso, di coltivare le piante officinali o aromatiche negli orti, nei giardini, nei terrazzi. E il rosmarino? Ad esso venivano riconosciute numerose qualità, ma è segnalato primariamente come ottimo rimedio per attenuare il mal di stomaco. Molto nota è “l’acqua di San Giovanni” da preparare il giorno prima del 24 giugno, festa di San Giovanni, che corrisponde al solstizio d’estate. La tradizione vuole che si raccolgano varie specie di erbe (Ginestra, Iperico, Artemisia, Verbena, Timo, Salvia, Basilico, Maggiorana, Lavanda, Rosa e Rosmarino) da lasciare in acqua all’aperto durante tutta la notte del 24. Il mattino seguente ci si deve lavare con quest’acqua, che va poi gettata via, per purificare la pelle e per
prevenire le malattie. Il legno veniva inoltre utilizzato per fabbricare cucchiai capaci di proteggere dall’avvelenamento – pratica assai diffusa all’epoca – e, addirittura, pettini contro le calvizie. Questa erba si credeva inoltre collegata alle mani e ai loro mali. Per questo motivo durante i riti di purificazione ci si lava le mani con il rosmarino, pena la non guarigione. Una delle leggende più suggestive sul mito dell’eterna giovinezza si intreccia con la nascita del primo profumo e ha come protagonista la Regina Isabella d’Ungheria. La leggenda narra che la regina Isabella d’Ungheria, che nel 1370 aveva settantadue anni, soffrisse di terribili dolori reumatici. La notizia si era diffusa ed era giunta alle orecchie di un alchimista, il quale si mise prontamente all’opera e creò un’acqua distillata di rosmarino e lavanda. Recatosi dalla regina, le presentò la miracolosa fragranza, assicurandole che le avrebbe donato una singolare bellezza, guarendola dai suoi dolori. Sebbene scettica, la regina iniziò a cospargersi con l’acqua profumata tutti i giorni, accompagnando il rituale con accorate preghiere. Dopo poco tempo la sua salute migliorò, ma la cosa più sorprendente fu la ritrovata bellezza che le conferì
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andamento della famiglia. Una delle numerose leggende dei romani raccontava come il rosmarino fosse nato dalle lacrime del dio Nettuno: la sposa del dio del mare, la ninfa Anfitrite, un giorno fuggì sulla terra, stanca delle intemperanze del marito, che oltre ad avere un carattere estremamente collerico non disdegnava, come il fratello Giove, qualche capatina sulla terraferma per sedurre le mortali. Nettuno, disperato, emerse dal mare e vagò a lungo per cercarla, e le sue lacrime, cadute sulla sabbia, fecero nascere questa pianta. Al momento della riappacificazione tra le due divinità, il rosmarino fiorì, conservando per sempre la memoria della pace ritrovata.
un aspetto incredibilmente giovanile e avvenente. Il suo fascino era tale che il granduca di Lituania, Carlo Alberto, la chiese in sposa. Il potere della miracolosa fragranza si diffuse a corte ed ogni dama iniziò a farne uso per migliorare l’aspetto della pelle. Fu così che l’Acqua della Regina d’Ungheria iniziò ad essere usata per secoli per curare le affezioni cutanee e per donare bellezza al viso. Parlando di Medioevo, potevano mancare infine gli immancabili riferimenti ai Templari? Sappiamo che i Cavalieri dell’Ordine bevevano, come si usava all’epoca, sia birra che vino al naturale o, come era consuetudine, aromatizzato all’anice, al rosmarino o bollito e speziato con cannella e chiodi di garofano o dolcificato con il miele. Nel Rinascimento, come già accennato, il rosmarino diventa protagonista della cucina: Maestro Martino, una delle figure di riferimento della storia culinaria italiana, nel suo “Libro de Arte Coquinaria” raccomanda un uso cauto e discreto delle pungenti spezie orientali che avevano dominato la cucina medievale, mentre sempre più spesso fa ricorso alle erbe odorose e alle essenze locali, come salvia, rosmarino, origano, menta, prezzemolo, maggiorana, in una concezione decisamente più moderna, verso una rinnovata cucina mediterranea. Da questo momento e nei secoli successivi, l’utilizzo della pianta odorosa in cucina diventa usuale e diffuso, iniziando quel percorso che lo porta a diventare uno degli aromi italiani per eccellenza.
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Vincenzo Corrado, famoso cuoco del ’700, autore del fondamentale testo “Il cuoco galante”, scrive così: “Col rosmarino si condiscono vivande di carne in istufa , ed in arrosto, specialmente quei di agnello, e salvagiume [selvaggina]. Colle cimette tenere di Rosmarino si fanno frittelle in pastella. Con i fiori di Rosmarino si guarniscono lessi di carne, e di pesce , ed insalate diverse” In effetti, scorrendo il testo, si notano numerosi piatti nei quali è il gusto dominante della pietanza. Qualche esempio? Coscia di Castrato al rosmarino, Uccelletti fritti al rosmarino, Frittelle di rosmarino all’ uova, Arrosto [di capretto] al sapor di rosmarino, Pasticcio di lepre al rosmarino, e così via. Nel XVII sec. alla corte di Francia divenne di gran moda la famosa “Acqua della Regina d’Ungheria”, che abbiamo, già conosciuto nel Medioevo. Era considerata una panacea, re Luigi XIV la assumeva per curare la gotta, mentre Madame de Sévigné
la portava in tasca per profumarsi la pelle. Dall’Ottocento, poco alla volta, l’Acqua della Regina venne sostituita da un’altra preparazione al rosmarino: l’Acqua di Colonia. Negli ultimi cinquant’anni si è assistito ad una interessante disputa sulla preparazione del Risotto all’isolana – piatto veneto tipico della cittadina di Isola della Scala. Tale diverbio traeva origine dall’impiego o meno di un rametto di rosmarino nella preparazione del soffritto: gli abitanti si sono divisi in due grandi fazioni, i sostenitori e gli avversari del famoso aroma. Il conflitto fu sanato dall’intervento di un grande cuoco, Pietro Secchiati, che decretò: “Mentre si soffriggono la carne di maiale e quella di vitello nel burro, si metta un rametto di rosmarino, il quale conferirà, con il suo olio essenziale, un aroma piacevole e gustoso”. Secchiati ricompose così la disputa trovando un perfetto compromesso: il rosmarino utilizzato per rosolare le carni è, infatti, eliminato quando queste risultano ben indorate.
PROPRIETÀ Grazie alla sua ricchezza in oli essenziali, tra cui il canforene (dalle blande proprietà psicoattive), illimonene e il pinene, il rosmarino è antisettico, con un effetto positivo sugli stati influenzali e febbrili, e con un deciso potere calmante su asma e tosse. Può essere utilizzato per rinfrescare l’alito e migliorare la salute della bocca. Tra le sue molteplici proprietà conta anche quella di facilitare la digestione, la produzione della bile e di prevenire l’ulcera da stress. Le sue proprietà antinfiammatorie sono impiegate per trattare diarrea, flatulenza e gonfiore addominale. Usato per applicazioni esterne è utilissimo come analgesico e antinevralgico, infatti la tintura calma il mal di denti, mentre le frizioni con l’olio essenziale o con il distillato alcolico attenuano il mal di testa. Sempre rimanendo nel campo delle applicazioni esterne, gli impacchi ed i cataplasmi ottenuti scaldando nell’olio d’oliva le foglie tritate sono efficaci contro slogature, distorsioni e contusioni. Recenti ricerche hanno dimostrato che il rosmarino contiene molte sostanze antiossidanti, pertanto il suo utilizzo abituale è utile al buon mantenimento della salute psicofisica in generale e a ritardare l’invecchiamento cellulare. L’acido carnosico contrasta gli effetti nocivi dei radicali liberi nel cervello. Questo significa che il rosmarino aiuta a prevenire l’invecchiamento cerebrale.
Negli ultimi anni è arrivato anche nel mondo della cosmesi: il suo distillato, vaporizzato sulla pelle, previene e attenua le rughe. Utilizzato negli shampoo, rinforza i capelli e combatte l’eccesso di sebo nel cuoio capelluto, restituendo lucidità alle chiome opache o grasse. Sia che il rosmarino provenga dalla vostra coltivazione personale, sia che venga acquistato dal fruttivendolo o dall’erboristeria, ricordate di usarlo sempre fresco e possibilmente non fiorito. La pianta essiccata infatti perde circa la metà dei suoi principi attivi, mentre le cime fiorite sono meno attive a causa della fioritura stessa.
UTILIZZO IN CUCINA Parliamo di un’erba aromatica considerata “forte”, il cui aroma si sviluppa soprattutto in cottura cedendo il sapore a contatto con i grassi e dei liquidi dei sughi e dei fondi di cottura. Le sue note balsamiche, con sentore di eucalipto, note di pino e fiori, il gusto intenso e leggermente amarognolo, lo rendono molto versatile e perfetto per numerosissime preparazioni. E’ un’erba d’elezione nella nostra penisola e molto gradita anche nella Francia del Sud, benché nelle cucine degli altri paesi del bacino mediterraneo non incontri lo stesso apprezzamento. Il rosmarino ha un ottimo sapore anche quando è essiccato, benchè si perda la complessità del fresco e si avvicini all’omogeneità delle altre erbe aromatiche essiccate. Fondamentale per confezionare i mazzetti aromatici assieme a salvia, alloro, timo, maggiorana, non manca mai nella cucina della nostra penisola: che provenga da un vaso posto nel nostro terrazzo, dal giardino (nostro o altrui – chi non ha mai sottratto, a volte furtivamente, un rametto che si affaccia oltre il cancello del vicino?), da profumatissime formazioni
usati come pianta ornamentali negli spazi comuni dei condomini, o semplicemente da arbusti spontanei. E’ molto adatto, per le sue caratteristiche aromatiche, a preparazioni dal sapore deciso: carni arrosto, alla griglia, in padella, in umido. Quindi agnello, maiale (la porchetta ad esempio), pollo, selvaggina, manzo…a proposito, ricordate la Tagliata alla Robespierre? Ancora si vede nei menu di qualche locale vintage: un pezzo di carne tagliato alto e cotto “al sangue” aromatizzato con aglio, rosmarino e pepe verde. Aromi che, si dice, vennero messi nella cesta contenente la testa ghigliottinata del celebre rivoluzionario francese per identificarla come quella di un maiale. Il rosmarino è utilizzato anche per alcuni tipi di pesci, soprattutto quelli di grossa pezzatura e quelli più grassi. Non dimentichiamoci poi delle zuppe di legumi, dei funghi (eccezionale l’aroma di bosco che nasce da questa unione), delle svariate cotture in umido, degli olii e degli aceti aromatizzati, semplici da realizzare anche in casa. E che dire delle patate? Immancabile il matrimonio con il famoso tubero. E con la zucca? Straordinario in contrasto la polpa dolce della cucurbitacea. Io adoro ceci e rosmarino, in ogni declinazione: come condimento delle tagliatelle, nelle zuppe, con il baccalà, anche con le vongole. Permettetemi ora un altro ricordo: 24 dicembre, pranzo della vigilia di Natale, pasta e ceci in brodo. Protagonista assoluto, spande il suo aroma inconfondibile per tutta la casa. Anche i lumachini di mare in umido (da noi, nel pesarese, si chiamano bombolini), come da ricetta di mio nonno, erano cotti con oltre una dozzina di aromi tra i quali spiccava, deciso, il rosmarino. Non mi permetto poi di entrare nell’universo dei panificati: mi apro solo un piccolo spiraglio e vedo pani aromatizzati, focacce, pizze, ognuno declinata secondo la propria tradizione locale. Vorrei menzionare, dalla tradizione culinaria, il pan di ramerino, con rosmarino e uvetta, dal sapore molto singolare, di origini medievali, di cui allego una ricetta. Appartenente allo stesso ambito regionale è il più famoso castagnaccio, dolce tipico presente già nei ricettari del ‘500, preparato con farina di castagne e arricchito anche con uvetta, pinoli. E poi il miele di rosmarino, profumato e molto aromatico ottimo per gli abbinamenti con formaggi freschi e nelle marinature. Dimenticavo, le marinature: per noi, incalliti griller,
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Allo stesso tempo la pianta è anche stimolante delle funzioni cognitive: tonificante nervino, è un antistress, combatte la nausea e aiuta contro mal di testa e cefalea, oltre a essere indicato in caso di tensione nervosa, stanchezza e depressione: migliora la concentrazione, l’umore e la memoria. A questo proposito, Shakespeare nella celebre opera “Amleto", accenna proprio al rapporto tra il Rosmarino e la memoria: il dialogo tra Ofelia ed Amleto ci offre questi versi “…c’è il rosmarino per la rimembranza. Ti prego, amore, ricorda “.
illustrazioni di Eleonora Castagna
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è fondamentale per diverse tipologie di carni in eccellente combinazione con il limone. E per finire, il dessert! Ormai diffuso in molti locali è il tortino al cioccolato e rosmarino; oppure il gelato, assaggiato di recente in un ristorante stellato della mia città, abbinato ad un biscotto morbido di nocciole con crema di caramello: fresco e delizioso. E la frutta? Non può mancare! Prendete dunque un’anguria piccola, tagliatela a fette spesse circa 5 centimetri conservando la scorza, eliminate quanti più semi potete. Poi spennellate la superficie con un composto di 4 cucchiai di olio extravergine di oliva, un cucchiaio di rosmarino finemente tritato, sale e pepe, poi cuocetele sulla griglia fino alla formazione di una bella crosticina, circa 5 minuti per lato. Servite con spicchi di limone, meglio se grigliati: ottimo accompagnamento per carne di maiale alla griglia. Come digestivo, direi un ottimo liquore al rosmarino, dalle già citate proprietà benefiche, magari aromatizzato con agrumi e spezie digestive, cannella per esempio. E concludiamo con un viaggio all’interno di un mondo
che amo molto - quella della birra – che conferma, se mai avessimo avuto necessità, la grande versatilità della nostra erba aromatica. In Spagna, più precisamente a Xativas, vicino a Valencia, un birrificio artigianale ha ideato un prodotto, Socarrada, che include tra gli ingredienti usuali, ovvero acqua, malto, luppolo, anche il rosmarino e del miele di rosmarino. L’idea è stata quella di collegare questa pianta aromatica, piena di mediterraneità e di calore spagnolo, con l’amaricante profumo e aroma del luppolo. Avrei voluto raccontarvi l’esperienza degustativa, iniziando la frase con “…l’analisi olfattiva rivela un predominio del rosmarino, il colore etc…”. La verità, mi spiace deludervi, è che non sono ancora riuscito a berla: ne ho solo sentito parlare, molto bene, visto che ha vinto numerosi premi internazionali.
IL PAN DI
RAMERINO Una ricetta antica per merende del nuovo millennio
illustrazioni di Ozzy Bellesi
Lo Speziale del Barbecue - la ricetta
E’ un cibo semplice: i “ramerini”, piccoli panini aromatici con rosmarino e uva passa, hanno insaporito per secoli le merende dei bambini dell’Appennino, prima dell’arrivo delle merendine industriali. Questa ricetta, tramandata di generazione in generazione, è viva ancora oggi. Noi andremo a proporvela leggermente rivisitata, con l’obiettivo di creare un impasto di base al quale potremmo dare varie forme e ricavare diverse interpretazioni: dai bun alternativi, più compatti e saporiti di quelli ormai consacrati dal nostro Magazine, fino a veri e propri pani dolci.
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Il Medioevo è un periodo storico di grande ricchezza culturale, a dispetto del suo appellativo “Età di mezzo” che suona un po’ come un passaggio – un intermezzo - tra la grandezza dell’Impero Romano e gli splendori del Rinascimento. Non parleremo però degli studi storici per riabilitare “I secoli bui” – non credo d’altronde che i lettori apprezzerebbero, bisogna pur andare in griglia o in forno con qualcosa di commestibile, non con tomi polverosi – ma recupereremo alcune tradizioni medievali che ancora oggi permangono. Riallacciando dunque il nostro discorso all’approfondimento sul rosmarino, vivremo un breve viaggio indietro nel tempo di circa mille anni, destinazione Toscana. Ci troviamo all’interno della Settimana Santa, il periodo liturgico che precede la Pasqua: il Giovedì e il Venerdì Santo viene intensificata la produzione del Pan di Ramerino, prodotto sfornato durante tutto l’anno ma che, per i contadini del luogo (soprattutto per le province di Prato e Firenze), in questi giorni acquista valore devozionale.
PREPARAZIONE:
INGREDIENTI per circa 8 panini
700 g di farina tipo 3 macinata a pietra (100 g per il lievitino, 600 g per l’impasto) 70 g di olio evo extra vergine di oliva 300 g circa di latte un cucchiaio di miele millefiori 3 - 4 rametti di rosmarino fresco 100 ml di birra Sale q.b. un uovo semi di sesamo q.b. ingredienti a piacere tipo: uvetta, pinoli, noci, datteri, albicocche secche farina bianca q.b
1. Si prepara il cosiddetto “lievitino”, un impasto di base contenente per metà farina (100 g) e per metà birra (100 ml) al quale si aggiunge un cucchiaio di miele millefiori; in alternativa vanno bene anche malto di riso o malto d’orzo. La maturazione del lievitino dovrebbe durare una notte, circa 10 ore, nel forno spento, dentro ad una ciotola chiusa con una pellicola. 2. Aromatizziamo l’olio scaldandolo lentamente con dei rametti di rosmarino fresco: la quantità giusta è pari al 10% del totale della farina che metteremo nell’impasto definitivo. Lo filtriamo ed eliminiamo il rosmarino. 3. Prepariamo l’impasto: al lievitino aggiungiamo l’olio aromatizzato raffreddato (che non possiamo mettere a caldo perché uccideremmo i lieviti sviluppatisi), la farina (600 g), il latte in quantità pari a circa il 40% il peso totale della farina, il sale. 4. Iniziamo ad impastare a mano (oppure in impastatrice o in planetaria) quindi a metà del procedimento aggiungiamo del rosmarino fresco tritato, a piacere, secondo il vostro gusto. 5. Lievitazione: riponiamo l’impasto dentro una ciotola all’interno del forno spento. A questo punto è difficile dare una tempistica, l’obiettivo è il raddoppio del volume: tutto dipende dall’ambiente dato che i lieviti operano sino ad una temperatura di 32°C, più l’ambiente è favorevole più velocemente lieviterà l’impasto. 6. Preparazione dei pani: in questo caso abbiamo realizzato dei panini da 90-100 g. Prima di dare forma al pane è possibile aggiungere diversi ingredienti che ne caratterizzeranno il sapore finale: l’uvetta, lasciata in ammollo in acqua fredda, per il ramerino tradizionale; oppure noci, pinoli, datteri, albicocche secche. 7. Cottura: su una placca da forno stendiamo i nostri panini, spennelliamoli con l’uovo (o del latte) aggiungiamo una spolverata di semi di sesamo; li inseriamo nel forno caldo, in modalità ventilato per avere una crosta leggermente croccante, alla temperatura di 180°C per circa 30 minuti. Il risultato? Molto interessante. Noi abbiamo preparato dei panini per ospitare ricche farciture: la crosta esterna è bruna e croccante, l’interno morbido è più compatto dei classici bun, ma al morso risulta piacevole e non tenace. Il profumo di rosmarino è intenso e si sposa bene con la carne, ad esempio con un ottimo burger bovino oppure – perché no? – di agnello. Lo dico sottovoce, ma è buonissimo anche senza carne: melanzane alla griglia, cipolla caramellata, pomodori secchi, burrata, origano, prezzemolo, basilico, salsa piccante ai peperoni gialli e aglio.
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Se aggiungiamo un po’ di uva passa possiamo stemperare l’aroma deciso del rosmarino, raggiungendo un equilibrio ottimo per il pollame; utilizzando le noci possiamo anche azzardare carni dal sapore più intenso (di Wagyu, vi dice nulla?). Ma ciò che rende questa ricetta interessante è la sua versatilità: una volta ottenuto l’impasto di base, potete sbizzarrirvi: aggiungete miele, più uva passa, noci e datteri, e otterrete degli ottimi pani dolci per una sfiziosa merenda.
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illustrazioni di Ozzy Bellesi
The Chemical Griller - rubrica a cura di Virgilio Brunetti
ADDENSARE UNA SALSA
parte III
AMIDI NATIVI E MODIFICATI Nella cucina moderna l’uso degli amidi puri, sia naturali che modificati, amplia lo spettro applicativo di questi addensanti nel campo della cucina, della pasticceria e della gelateria, al fine di ottenere risultati controllabili in termini non solo di texture ma anche di flavour e di appearance. Inoltre, alcuni di questi amidi sono solubili anche a freddo e il loro potere addensante rimane inalterato se sottoposti a congelamento. Nella tabella della pagina seguente potete vedere il comportamento e l’applicazione dei principali amidi naturali di interesse gastronomico.
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Le regole fondamentali per utilizzare gli amidi puri naturali di diversa origine botanica non sono molto differenti dalle strategie utilizzate per le farine. Per essere utilizzati efficacemente devono essere dispersi in acqua o in mezzo acquoso, idratati e riscaldati. Queste sono le procedure fondamentali affinché i granuli di amido si idratino e si compia il processo di gelatinizzazione (che ricordiamo essere un fenomeno completamente diverso dalla gelificazione, tipica di altre molecole polimeriche di interesse gastronomico dette idrocolloidi). Gli amidi modificati sono quelli naturali nativi processati con metodi chimici o fisici per ottenere molecole nuove con caratteristiche migliorate rispetto a quelle di partenza. Molti amidi modificati
di interesse gastronomico sono utilizzati non solo come semplici addensanti ma anche come stabilizzanti ed emulsionanti. Cosa hanno di nuovo queste molecole? Sono stabili sia ad alte che a basse temperature, riescono ad addensare liquidi molto acidi, hanno un potere addensante più elevato; inoltre come gli amidi nativi si possono differenziare in base allo loro resa in termini di texture e di appearance mentre dal punto di vista del flavour spesso sono assolutamente neutri o insapori. Gli amidi possono essere modificati: 1. Chimicamente, sostituendo i gruppi alcoolici (-OH) con gruppi acetato (acilazione), idrossipropilici (idrossipopilazione) e gruppi fosforici. L’amido idrossipropilato è formato dalla reazione dell’amido con l’ossido di propilene. Ci sono anche quelli ottenuti mediante trattamenti con vari agenti funzionali che permettono la formazione di legami etere o estere con i gruppi idrossilici dell’amido, ottenendo una reticolazione della molecola (cross-linked starches) 2. Con trattamenti fisici, mediante azione del calore o per azione meccanica. 3. Con trattamento enzimatico: l’amido è sottoposto a idrolisi parziale con aumento della sua solubilità in acqua. Con questo trattamento si ottengono le maltodestrine.
amido
texture
appearance
flavour
uso quantitĂ
sensibilitĂ al calore
stabilitĂ al congelamento
no
instabile
si
instabile
no
instabile
si
instabile
si
instabile
si
stabile
no
stabile
si
stabile
brodi 1% arrowroot
cremosa
chiara
neutro
jus 2% gravies 2% brodi 1,5% creme 2-2,5%
mais
cremosa
opaca
forte
vellutate 2-2,5% gravies 3-4% budini 5-6,5% gelatine ferme 9% brodi 2%
kudzu
gelatinosa
chiara
neutro
glasse 5-7% budini 12% brodi 1%
patata
collosa
chiara
delicato
jus 2% gravies 2% stir-fry sauce 2,5% glasse 3-3,5%
riso
collosa
opaca
delicato
zuppe 4-5% budini
7-8%
purees brodi 1,5-2% tapioca
collosa
chiara
delicato
jus 2,5-3% gravies 2,5-3% creme di frutta 4-5% brodi 1%
mais ceroso
cremosa
opaca
delicato
dressing senza grassi
2,5%
gravies 4%
frumento
cremosa
opaca
forte
creme 2,5% gravies 3-3,5% beschamel 4-5%
comportamento e lâ&#x20AC;&#x2122;applicazione dei principali amidi naturali di interesse gastronomico.
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vellutate 2,5%
Gli amidi modificati sono prodotti ormai indispensabili nell’industria del food, molto diffusi anche nei laboratori di cucina e pasticceria mentre restano poco conosciuti nell’ambito della cucina domestica. Ferran Adrià, lo chef ultrastellato di ElBulli, per primo ha immesso su mercato la sua linea di prodotti per la cucina molecolare ad uso anche delle più ardite casalinghe. Una linea completa di prodotti chiamati Texuras. Tra questi una serie di addensanti, emulsionati e gelificanti con confezioni di grammatura per uso domestico. In ambito professionale esistono numerosi brand con prodotti a base di amidi modificati che hanno caratteristiche molto interessanti. Dai volumi di Modernist Cuisine ho estratto una tabella sugli amidi modificati di maggiore interesse suddivisendendoli in base al nome commerciale e al brand, specificando da quale amido derivino, quali sono le tipiche % di utilizzo, l’aspetto, la texture (consistenza finale), la stabilità al calore e al raffreddamento (resistenza alla retrogradazione).
562 - Almanacco 2020
N-ZORBITM (by Ingredion) è una maltodestrina di tapioca ottenuta dalla modificazione enzimatica dell’amido di tapioca. L’uso di questo prodotto modificato non ha una particolare rilevanza nell’addensamento delle salse, in quanto instabile a temperature basse ed elevate, ma ha la capacitàeccezionale di assorbire grassi quindi si presta alla preparazione di sabbie, terre e sassolini edibili. Sebbene Zorbit abbia un’applicazione fuori dal contesto di questo articolo non riesco a trattenere l’entusiasmo di poter descrivere questo prodotto capace di trasformare condimenti o altri liquidi saporiti in solidi. In pratica avete una polvere leggerissima che, miscelata con un grasso liquido, genera un composto pastoso ma secco che può essere polverizzato o compresso in piccole masse simili a sassolini. Il peso del grasso deve essere la metà di quello della polvere, è possibile aggiungere altri aromi e condimenti purché in polvere possibilmente molto fine (sale e zucchero a velo) ma anche aceti disidratati. La maltodestrina è uno zucchero, il suo gusto base è solo leggermente dolce ed è inodore. Si dissolve facilmente in acqua, può assorbire una buona
quantità di olio. Nella cucina molecolare e creativa, essa viene utilizzata principalmente come portatore di aromi. Quando una buona quantità di maltodestrina viene mescolata con ingredienti grassi, come ad esempio l’olio di nocciole, il grasso di pancetta o il cioccolato fuso, essa assorbe questo ingrediente pur mantenendo la sua forma polverosa. Il risultato è un’intera gamma di polveri saporite le quali possono essere cosparse su preparazioni alimentari e piatti. Variando le proporzioni di maltodestrina e ingrediente scelto, e mescolando meno, si possono ottenere dei “grumi” saporiti. Poiché essa è uno zucchero, i grumi possono essere riscaldati in una padella per caramellarne l’esterno e renderli croccanti. PURE-COTE® B790 (by GPC) è un amido di mais modificato a bassa viscosità, che forma pellicole chiare e flessibili senza richiedere idratazione o cottura. I prodotti addensati con Pure-Cote si asciugano in un film trasparente e croccante a temperatura ambiente. Forma pellicole chiare e flessibili con un’eccellente lucentezza ad asciugatura rapida e senza sapore. Funziona come un forte legante e come agente di rivestimento liscio e lucido. Può essere usato per formare pellicole di frutta. ULTRA-TEX® (by Ingredion) è un additivo per gastronomia molecolare e consiste in una linea di amidi alimentari modificati progettati per la creazione di salse e altre preparazioni cremose. Ultra-Tex si disperde e si idrata in liquidi freddi o caldi, senza grumi, e conferisce una migliore consistenza finale rispetto agli amidi tradizionali. Sono disponibili diversi tipi di Ultra-Tex: Ultra-Tex 3, 4 e 8. Molti amidi tradizionali formano grumi perché sono pregelatinizzati; l’amido nativo è pre-esposto a un liquido, poi seccato e confezionato. Gli Ultra-Tex sono buoni sostituti della gomma di Xantano (modificatore reologico ottenuto da fermentazione batterica), e possono essere utilizzati per addensare rapidamente salse e sughi. In concentrazioni superiori, è possibile produrre una texture sciropposa e simile al gel. I vari Ultra-Tex vanno scelti in base alle caratteristiche e alle temperature dell’alimento che vogliamo addensare. ULTRA-TEX® 8 è progettato per fornire una struttura più solida e più cremosa rispetto agli altri; è un amido alimentare derivato dalla tapioca. A fronte di un gusto molto neutro dona alle preparazioni una cremosità ricca. Questo
prodotto ha una moderata tolleranza al riscaldamento e alle condizioni acide. Il vantaggio principale quando lo si utilizza è l’eccellente stabilità strutturale che possiede a basse temperature. ULTRA-TEX® 4 pur mantenendo le caratteristiche di texture di ULTRA-TEX® 8 è il migliore in condizioni di calore estremo ed è consigliato per preparazioni molto acide. È un amido alimentare modificato derivato dal mais ceroso (simile a Crystal mais by Decorfood). Infine ULTRA-TEX® 3 ha le stesse prestazioni del 4 ma è derivato dalla tapioca. ULTRA-SPERSE® 3 (by Ingredion) è un amido pregelatinizzato naturale derivato dalla tapioca. È caratterizzato da un’eccellente dispersibili-
Ci vediamo il mese prossimo con un nuovo aritcolo di questa rubrica che amo molto e che spero vi sia davvero utile per farvi approcciare alla cucina con un metodo scientifico che, ormai lo avrete capito perché lo ripetiamo in ogni dove, è quello che BBQ4All ha scelto da tempo.
Brand
Derivato
Quantità
Aspetto
Texture
Sensibilità al contatto
Stabilità al congelamento
N-ZorbitM
Ingredion
tapioca
20-100%
opaco
granulosa
instabile
instabile
Ultra-Sperse 3
Ingredion
tapioca
0,2-8%
opaco
liscia
stabile
stabile
Ultra-Tex 8
Ingredion
tapioca
1-10%
opaco
cremosa
stabile
stabile
GPC
mais
0,2-20%
trasparente
liscia
stabile
instabile
Pure-Cote 8790
uso
terre e sabbie edibili gravies gravies, Jus creme succhi di frutta
nomi commerciali degli amidi modificati di maggiore interesse
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Prodotto
tà e conferisce una consistenza morbida e liscia a un’ampia varietà di prodotti alimentari. Si disperde facilmente in acqua fredda e calda senza grumi inoltre si distingue per l’eccellente stabilità strutturale in tutte le condizioni, anche estreme, di calore; tollera la cottura al microonde, pH molto bassi, abbattimento e surgelazione.
564 - Almanacco 2020
foto di Rossella Neiadin
La ricetta scientifica a cura di Gianfranco Lo Cascio
Il dibasilico
pesto
Luddismo s. m. [dall’ingl. luddism, der. dal nome di un operaio del Leicestershire, Ned Ludd, che nel 1779 avrebbe infranto per protesta dei telai per maglieria]. – Movimento operaio che in Inghilterra, all’inizio del sec. 19°, reagì violentemente contro l’introduzione delle macchine, ricorrendo, come metodo di lotta, alla distruzione delle macchine stesse, considerate la causa principale della crescente disoccupazione; il movimento luddista fu represso con numerose impiccagioni e deportazioni. Oggi con le macchine abbiamo fatto pace, ci conviviamo senza particolari acredini, a nessuno verrebbe in mente di sostituire il computer con il pallottoliere o la Lettera 22. Ma il luddismo sopravvive tra le frange oltranziste del fatto a mano a tutti i costi. Nelle nostre comunità, a volte anche in forma piuttosto sguaiata, possiamo comunque registrare un frequente biasimo dell’artificio meccanico, e di come si sostituisce alla manualità dell’uomo. E non mi riferisco solo al piglio oscurantista di alcuni, quanto a teorie su ciò che per vari motivi non può o non deve essere delegato ad una strumento: prendiamo ad esempio le rimostranze luddiste rivolte allo smartphone, o le critiche di quelli che vogliono liberare la produzione agricola da una solerzia sintetica e senza cuore, pensiamo infine a quelli che si rifiutano di preparare il pesto con il frullatore, perché il famoso condimento di basilico si fa solo nel mortaio di marmo. Ma perché insistere, perché farsi venire una tendinopatia del sopraspinato pur di rimanere aggrappati alla sottana della tradizione?
565 - BBQ4All Magazine
Mistero.
Storia del
pesto alla
GENOVESE Olio extravergine di oliva Riviera Ligure, basilico Genovese DOP, Parmigiano Reggiano stravecchio, Fiore Sardo, pinoli pisani, aglio di Vessalico, sale di Trapani: è questa la ricetta da disciplinare. L’antenato del pesto genovese che conosciamo tutti è probabilmente il moretum romano, ovvero un mix di erbe, pecorino, sale, olio d’oliva e aceto, ma le prime tracce scritte sulla nostra salsa risalgono all’Ottocento e compaiono nel volume “La vera cuciniera genovese” di Giobatta Ratto, anno di pubblicazione 1863. Ma c’è anche chi ritiene che si tratti di un’evoluzione dell’agliata (aggiada in dialetto genovese), fatta con aglio, mollica di pane, olio d’oliva, vino e aceto, solitamente utilizzata per accompagnare il pesce. Sulle origini del pesto è ancora buio (pesto).
Il
BASILICO
Ne esistono di diversi tipi, ma quello che preferisco usare per preparare il pesto è il cosiddetto Italiano Classico, uno delle 60 cultivar di Ocimum basilicum esistenti sul Pianeta Terra, coltivato un po’ dappertutto. Tra le altre tipologie troviamo basilico comune crespo, quello lattuga o anche noto come basilico napoletano, quello greco, thai, rosso, porpora o Dark Opal.
566 - Almanacco 2020
Il basilico Italiano Classico o Genovese ha foglie piccole, dalla forma ovale e convessa, di colore verde tenue. L’aroma ricorda il gelsomino, la liquirizia ed il limone. Non vi è traccia invece della nota mentolata tipica del basilico Napoletano o Siciliano. COME CONSERVARLO La cosa migliore, se non avete a disposizione le classiche piantine da davanzale, è conservare i mazzetti di basilico avvolti in fogli di carta assorbente bagnata, messi in una bustina di plastica non sigillata. Non fate mai l’errore di chiudere le erbe in una busta, poiché l’ambiente asfittico permetterebbe all’umidità di trasformare i vostri bei fasci di basilico in mazzetti flosci e neri.
567 - BBQ4All Magazine
568 - Almanacco 2020
DEBUNKING mortaio vs mixer
Roberto Panizza è forse l’uomo più titolato al mondo per parlare di pesto genovese, ideatore del Campionato Mondiale del Pesto al Mortaio nonché titolare a Genova del ristorante Il Genovese e del Pesto Rossi, il pesto più buono mai messo in commercio. Questo è quello che dice sulla preparazione della salsa alla vecchia, cioè con il mortaio.
Eppure lo stesso Panizza, da uomo intelligente e illuminato qual è, prepara il suo pesto, il famosissimo Pesto Rossi citato pocanzi, nel mixer. Non ha mica un esercito di Umpa Lumpa che glielo preparano col pestello. E se lo fa lui, che nella vita avrà preparato tonnellate di condimento verde senza perdere la cittadinanza genovese, perché non potete farlo anche voi?
569 - BBQ4All Magazine
“Prendete un bel grembiule pulito, meglio se di colore verde così non si vedranno gli schizzi della salsa. Poi un mortaio di marmo, rigorosamente, e un pestello di legno. Mai di ulivo, che è pieno di venature: lì si va ad annidare il pesto, irrancidendosi, e sarà poi difficile da pulire. Il legno invece deve essere di fibra compatta, come quello di pero o di altri alberi da frutta. Sulla sequenza degli ingredienti ci sono diverse scuole di pensiero. Io parto dall’aglio e lo schiaccio. Poi i pinoli e li schiaccio. Poi il basilico e il sale grosso, sempre insieme perché il sale aiuta la macinatura del basilico. Quando basilico e sale sono ridotti in crema aggiungo il Parmigiano e il pecorino grattugiati, e subito dopo l’olio extravergine. Un altro giro di pestello e il pesto è pronto. Se i formaggi sono a pezzi schiaccio anche loro e alla fine aggiungo l’olio. Un’altra tecnica è quella di schiacciare aglio e pinoli e di toglierli mettendoli da parte. Poi si procede con il basilico e il sale grosso, in seconda battuta con i formaggi aggiungendo alla fine i pinoli e l’aglio ridotti in crema in modo da dosarli meglio, soprattutto l’aglio! Qualcuno aggiunge i formaggi grattugiati contemporaneamente all’olio. Anche riguardo al movimento, al “pestaggio”, ci sono diversi metodi a misura di fisicità e di scelta. In genere all’inizio si batte e poi si ruota il pestello, le foglie di basilico vanno ammaccate con un movimento dall’alto verso il basso, una volta che sono pestate e già quasi ridotte in crema umida non si può battere altrimenti la salsa schizzerebbe, quindi si continua a schiacciarla ruotando il pestello lungo il mortaio”
"il pesto si fa solo con il mortaio di marmo perché così rimane verde". FALSO
L’ossidazione è un processo noto ed è causato da un complesso di enzimi che si chiamano polifenolossidasi e che vengono attivati sempre, mortaio o non mortaio. Solo che con il frullatore la faccenda diventa più evidente poiché l'attrito della rotazione scalda le lame e gli enzimi si attivano più velocemente. Ma qui ci viene in soccorso la scienza. Vi basterà immergere il basilico per 10 secondi nell’acqua bollente, poiché l’enzima si disattiva tra gli 80 e i 95°C, e poi immediatamente in acqua e ghiaccio.Per preservare la resa cromatica in maniera ancora più efficace potete aggiungere un pizzico di acido citrico o in alternativa un cucchiaino di succo di limone e il problema è risolto (trovate le dosi nella ricetta). E non c’è alcun bisogno di storcere il naso perché è garantito che l’acidità, a quelle grammature, non sarà minimamente percettibile, ma tuttavia sufficiente a evitare l'ossidazione e mantenere il pesto di un bel verde brillante.
"Il Basilico dev’essere solo quello di Pra’ perché è più buono". FALSO
Pra’ non è una città, è un quartiere di Genova, ed è grande quanto il salotto di casa mia. E per quanto basilico ci possa crescere, buono o no è un altro discorso, basterebbe probabilmente per un mese di consumo dei soli abitanti di quel quartiere circoscritto. Avete presente il Pistacchio di Bronte? Bronte equivale a 3 o 4 campi di calcio, ma intanto tutto il mondo mangia il suo pistacchio. Un buon basilico è un buon basilico, ovunque si coltivi. Può variare la forza aromatica, parlando sempre di Ocimum basilicum italiano classico, ma sfido chiunque a distinguere quello coltivato a Pra’ e quello che viene da un balcone di Sant’Ilario. Quindi no, non esiste “il basilico”, esistono i diversi tipi di basilico. E un buon basilico va benissimo per il pesto. Quello che invece è inappuntabile è il potere aromatico delle foglie giovani e piccoli, se avete a disposizione delle piante, scegliete solo quelle per preparare il pesto.
"L’aglio va messo categoricamente crudo". FALSO
570 - Almanacco 2020
La ricetta del pesto prevede l’aglio crudo ma voi sapete che io me ne frego di quello che dice la tradizione. Il punto è che, per il mio palato, l’aglio crudo non ha assolutamente nulla che non va. Pesto scacciavampiri? Ci sto, mi piace. Ma non perché qualcuno ha deciso così 250 anni fa, ma semplicemente perché piace a me. Ci sono però tante persone che hanno una serie di problemi con l’aglio, ed è a queste che mi rivolgo con il mio pesto scientifico: invece del succedaneo senza Allium sativum proverete la mia versione, dove l’aglio ci sarà, ma non avrete nessun problema a digerirlo.
571 - BBQ4All Magazine
IL TEST
stessa ricetta, tecniche diverse Preparare il pesto perfetto non è un affare da poco, maneggiare il basilico è una faccenda spinosa e per due motivi: • Il basilico, come il prezzemolo, ha una parte aromatica volatile, che si disperde facilmente con il calore; • Il basilico si ossida rapidamente e cambia nel colore.
Per dimostrare praticamente che si può preparare un ottimo pesto anche con il mixer, ho deciso di fare un test adoperando da una parte il mortaio e dall’altra un comunissimo frullatore. Ho utilizzato gli stessi ingredienti, seguendo la ricetta ufficiale del Campionato Mondiale del Pesto al Mortaio, apportando però delle piccole modifiche nel procedimento a macchina.
Pesto al mortaio
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Ho raccolto le foglioline di basilico direttamente dalla pianta, le ho sciacquate delicatamente e le ho lasciate asciugare su un panno. Ho inserito pinoli e aglio crudo nel mortaio, pestato con cura fino a ricavare una pasta traslucida e senza grumi e messo da parte. Poi ho riempito l’incavo del mortaio con il basilico, aggiunto il sale grosso e ho cominciato a pestare, facendo roteare il pestello come si diceva prima. Quando il basilico ha cominciato a stillare un liquido verde smeraldo ho aggiunto i due formaggi grattugiati (Parmigiano e Pecorino) e la pasta di aglio e pinoli. Ho unito l’olio a filo, continuando a pestare, fino a quando non ho ottenuto una salsa piuttosto densa. Colore: verde intenso. Odore: delicato di basilico, prepotente quello di aglio crudo (ma anche il Pecorino non scherza). Sapore: gradevole e fresco di basilico, umami a palla, ma l’aglio rimane comunque frizzantello sulla lingua.
Pesto al mixer
Ho sistemato lame e bicchiere del mixer in congelatore, per raffreddare per benino il tutto. Ho raccolto un secondo batch di foglioline, ho messo su la pentola con l’acqua e il sale e ho aspettato che bollisse. Con un setaccio in acciaio piuttosto ampio ho immerso le foglie per dieci secondi nell’acqua bollente e poi le ho trasferite velocemente in una boule con acqua e molto ghiaccio. Quindi le ho asciugate delicatamente e le ho messe da parte. Nel frattempo ho versato l’olio extravergine in un pentolino, ho aggiunto l’aglio e ho lasciato che si sgonfiasse (dopo vi spiegherò meglio il perché). Quindi ho buttato nel mixer tutti gli ingredienti (basilico, aglio, pinoli, formaggi, sale e acido citrico), aggiungendo a filo l’olio. Con quattro o cinque pulsazioni ho ottenuto una salsa densa e quasi fosforescente. Colore: verde neon, alla faccia dell’ossidazione e della spondilite anchilosante. Odore: piacevole di basilico, equilibrato. Sapore: bilanciato, l’aglio è dolce e non schiaccia le note fresche ed erbacee del basilico.
Tirando le somme, il pesto fatto al mortaio è ottimo, la consistenza è pari a quella di un paté, ma richiede una certa manualità, velocità di esecuzione (potete notare l’accenno di ossidazione nelle foto comparate) e l’aglio crudo rimane per alcuni una mina vagante. Il pesto fatto al mixer è sicuramente più facile da preparare, con le dovute accortezze del caso, più verde, più veloce ed equilibrato. Ma si può fare di meglio.
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Il verdetto
IL PESTO DI BASILICO SCIENTIFICO INGREDIENTI: • 160 g di basilico italiano classico (ocimum basilicum) • 140 g di Parmigiano Reggiano • 60 g di Pecorino sardo • 60 g di pinoli tostati in padella • 4 spicchi d’aglio • 10 g di sale grosso • 2 g di acido citrico o 30 ml di succo di limone • 160 ml di olio extravergine di oliva Non scrivo Pesto alla genovese perché non ha nulla a che fare con la versione classica, ovviamente. Sarà migliore? Peggiore? Sono state combattute guerre per molto meno, non entrerò nel merito. Ha però 3 obiettivi precisi: 1. esaltare il gusto del basilico; 2. evitare l'ossidazione per mantenerlo verde brillante; 3. migliorare la digeribilità dell’aglio. Ribadisco: non sono in competizione con gli oltranzisti del pesto tradizionale, la mia versione è una normale evoluzione che smussa alcuni spigoli. Di certo è più pesto del pesto senza aglio, per dire.
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Adesso vi spiego come prepararlo.
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Per ricavare quella quantità di foglie ho fatto fuori quasi 3 piantine di basilico. A costo di sterminare tutta la flora del vostro terrazzo, vi consiglio di prepararne un bel quantitativo per volta, sia per ottimizzare i tempi che per assicurarvi un risultato perfetto. Non avete l’acido citrico in dispensa? Potete sostituirlo con il succo di limone. Considerate che in un litro di succo di limone ci sono 63,4 grammi di acido citrico, il 6%. Quindi 30 millilitri di succo corrispondono a 2,1 grammi di acido citrico puro. Prima di sbianchire il basilico, mettete l’aglio in una bustina per il sottovuoto aperta (potete fissarla alla vasca con una molletta) e versate nel sacchetto dell’olio extravergine d’oliva, fino a coprire il tutto. Lasciate scaldare a 65°C fino a quando gli spicchi non risultano cedevoli al tatto. Oppure utilizzate un pentolino, avendo però l’accortezza di tenere sotto controllo la temperatura dell’olio, che non deve mai friggere. A cosa serve questo passaggio? A rendere l’aglio più digeribile. L’aglio contiene alliina, una molecola che ha dentro dello zolfo. Quando la struttura si rompe, grazie ad un enzima chiamato alliinasi, l'alliina si trasforma in allicina, un complesso sulforganico che dà all'aglio il tipico profumo e gusto pungente. In uno spicchio integro, l'alliinasi è confinato in sacche (vacuoli) nella cellula, mentre l’alliina fluttua liberamente nel citoplasma. Frantumando e sminuzzando il bulbo di aglio, queste sostanze vengono in contatto e producono l’allicina, che ha quel distinguibile odore sferzante ed intenso. Imparato questo, vi è senz’altro chiaro il motivo per cui tagliare uno spicchio e rimuovere il germe per rendere l'aglio più digeribile è una stupidaggine, che però non ne vuole sapere di sparire per sempre, soprattutto nelle cucine di certi cuochi professionisti. Come mi piace dire, eliminando “l’anima” l’avete appena venduta al demonio, avete appena dato modo a due sostanze di produrre l'enzima che farà di voi dei pessimi baciatori. Ma non è finita qui: ad alte temperature, l'alliinasi si disattiva e non è in grado di produrre allicina. Produce invece disolfuro di allile, il composto che ha il confortante odore e aroma di "aglio cotto”, per niente aggressivo e più dolciastro. Quando l’aglio è pronto e si sarà raffreddato, passatelo al mixer con i pinoli tostati fino ad ottenere una crema. Quindi aggiungete il basilico ben asciugato (non lo stropicciate!), il sale grosso e l’acido citrico (o il succo di limone). Date qualche colpetto di mixer e aggiungete i formaggi grattugiati, poi aggiungete a filo l’olio extravergine di oliva, fino ad ottenere una pasta piuttosto densa. Se il vostro frullatore ve lo consente, una volta aggiunto il basilico poggiate il bicchiere in una ciotola con poco ghiaccio, per abbassare la temperatura del contenitore.
LA CONSERVAZIONE Il pesto scientifico si conserva in frigorifero per una settimana, travasatelo in un barattolo in vetro e copritelo con un velo d’olio. Oppure congelatelo, potete custodirlo in freezer per almeno due mesi. Sempre che vi avanzi, sia chiaro.
Gianfranco Lo Cascio
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A questo punto avrete un bel po’ di salsa per condire trofie, trenette, spaghetti, o la trafila di pasta che vi piace di più, magari con la collaudatissima accoppiata fagiolini e patate. Oppure potete usarla per arricchire un panino o una bruschetta.
Seguo - rubrica a cura di Emiliano Nencioni
La felicità è una cottura a fuoco lento Tranquilli. Non sto cercando di fare uno slogan da pubblicitario anni ‘90, con scontatissimi motteggi tipo “la felicità è un boston butt che pulla” o “felicità è uno spinacino ben briskettato”, “il barbecue è convivialità” e altre espressioni stra abusate quanto un meme sui gattini. Non sto cercando di convincervi a buttarvi completamente sul Low&Slow, non sto cercando neanche uno dei soliti parallelismi della Seguo, del tipo “qui da noi ci comportiamo così, dai concorrenti si comportano in maniera diversa, e questo è straordinariamente simile ai battibecchi fra questi due scienziati”: voglio proprio parlare della felicità. O del suo perseguimento. La felicità è, ne sono sicuro, una cottura a fuoco lento: non è un oggetto valutabile in maniera istantanea e puntuale, non puoi fare la derivata della felicità sul tempo, valutandone l’incremento in un istante epsilon piccolo a piacere; la felicità si guarda nel tempo, traguardandola come i punti di mira di un fucile. Quella cosa istantanea per cui siamo contenti proprio adesso è la gioia, che è un’altra condizione molto bella e auspicabile, ma diversa, più effimera, più facile, sicuramente legata al “qui e ora”: la gioia per un vestito nuovo, un complimento ricevuto, una bistecca cotta bene, la moto che parte dopo mezza giornata passata a pulire il carburatore. La gioia è più una bella grigliata: ghisa rovente, trenta secondi per lato, birra in mano (o una bevanda gassata aromatizzata al chinotto, se piace) e al morso una breve e intensa scarica di gusto e endorfine.
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La felicità non è proprio così: non è mai veramente uno stato, non è mai il momento vissuto, è probabilmente più una ricerca, spesso una ricerca nevrotica verso qualcosa che si modifica in continuazione, e questo continuo inseguimento ci porta a non percepirla come una realtà, ma come un’ambizione; un “tendere a”, un comportamento asintotico. La fregatura di tutto questo rincorrere e sfuggire è l’accorgersi di non possederla, la felicità. E non sto parlando dell’infelicità, poiché essa non è l’opposto della felicità. L’opposto della felicità è la mancanza di felicità in un dato periodo. La differenza è tanto importante che la lascio alla vostra riflessione personale, senza spiegare niente di più di questo. Volendo ricorrere ad un paragone vagamente culinario (giustificando così la trattazione dell’argomento su queste pagine, e adempiendo ad alcuni obblighi contrattuali), se la gioia sono i carboidrati, con un apporto energetico
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Edvard Munch - "Melancholy" (particolare)
immediato, un senso di benessere rapidamente spendibile e una gratificazione massiccia quanto volatile, la felicità sono i lipidi della piramide nutrizionale del nostro stato d’animo: gustosi, a volte stucchevoli, e te li ritrovi addosso anche a distanza di anni. Il mondo anglosassone ha una parola più specifica per la felicità nell’accezione di cui vi sto parlando adesso: bliss, non direttamente traducibile se non con un’espressione simile a beatitudine, inteso come “essere pervasi da appagamento”. Per capirci meglio, diamo per noto che mi riferirò alla felicità come al “piacere stabile”: una specie di gio“La Felicità” ia sorda dotata di robusti smorzatori e di un grande volano che reca inerzia. Una contentezza stabilizzata da un supporto steadycam.
Henri Matisse - "Bonheur de Vivre"
Non riesco a parlare di felicità contrapposta a gioia senza spendere due righe sull’eudemonismo, la ricer-
ca dello scopo della vita nella bellezza che alberga nella felicità (da eudaimonia, ). La contrapposizione ovvia a questa idea è l’edonismo, la ricerca continua del piacere immediato: in pratica la differenza fra un’escursione in solitaria sull’Eyjafjallajökull in Islanda e una notte all’Ushuaïa a Ibiza.
(G.
In letteratura è inevitabile fare due esempi illustri: Pascoli e D’Annunzio. Mi rendo conto di non essere troppo capace di parlarne in maniera molto imparziale e distaccata, avendo una predilezione personale per la poetica del fanciullino, del nido e Pascoli) degli affetti più stretti del poeta romagnolo rispetto alle spacconate da Belle époque del Principe di Montenevoso. Se Pascoli si chiude, si “accontenta”, fa introspezione e cerca (non trovandola mai?) la felicità nella semplicità, D’annunzio vive di
Quando, all’alba, dall’ombra s’affaccia, discende le lucide scale e vanisce; ecco, dietro la traccia d’un fievole sibilo d’ale, io la inseguo per monti, per piani, nel mare, nel cielo: già in cuore io la vedo, già tendo le mani, già tengo la gloria e l’amore... Ahi! ma solo al tramonto m’appare, su l’orlo dell’ombra, lontano, e mi sembra in silenzio accennare lontano, lontano, lontano. La via fatta, il trascorso dolore m’accenna col tacito dito: improvvisa, con lieve stridore, discende al silenzio infinito.
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Capito l’antifona insomma?[ndA]
duelli, di eccessi, di lusso, di disinibizione: edonismo, per l’appunto. Oh, intendiamoci, non giudico! Le mie preferenze sono strettamente legate alla produzione letteraria e ad un personale attaccamento emotivo in seguito ad una mia visita al “nido” di Pascoli a Castelvecchio, esperienza (molto economica tra l’altro) che vi consiglio di fare se vi trovate a passare vicino Lucca. Vi tranquillizzo riconducendovi al confortevole mondo delle grigliate, perché percepisco che vi sto perdendo per strada: tornate con la mente all’ultima volta che, dopo aver studiato paginate e paginate di mail class, aver approfondito le tecnica sulle pagine del Magazine e chiesto conferme online (temerari!), avete affrontato la vostra prima cottura non banale, con la volontà di un’esecuzione perfetta, indugiando nell’affinamento dei gesti e delle tempistiche, e avete por-
tato in tavola una delle fantastiche preparazioni scientifiche, o un teppanaki to perfection, o un uovo fritto con l’albume perfettamente circolare e il tuorlo situato in maniera micrometricamente concentrica (guilty pleasure noto, mi rendo conto, solo ai Seguisti più incarogniti). Ecco, la felicità derivata dall’aver speso volontariamente tempo, risorse e fatica in quest’opera viene comunemente indicata come felicità generativa.
profondire, o a sfidare le maglie fitte della moderazione per far capire agli altri di aver letto, postando contenuti sibillini simili a sciarade oppure con più laconici “io parto dal fondo”, è una delle due o tre cose al mondo che riesce a far impennare il mio fatturato di felicità. E la felicità, esattamente come nel caso delle cotture preparate con tanto impegno per una tavolata, si scontra con l’ansia da prestazione e con le aspettative sproporzionate.
E’ senza dubbio un trucchetto indefettibile per il conseguimento della beatitudine (intesa ovviamente in senso laico come il sopracitato bliss anglosassone); per quanto egoisti, egocentrici e sufficienti a voi stessi possiate essere - vi ho già parlato dell’OltreUomo? - non si scappa: produrre qualcosa per il benessere altrui porta felicità. Il volontariato, l’insegnamento, la professione medica sono tutte “rogne” che devono gran parte della loro diffusione alla felicità generativa derivante dal loro adempimento; di più, c’è un’altra felicità generativa palesemente verificabile, che forse potrà far capire il senso del discorso ad alcuni di voi: avere un figlio. Pensateci.
Troppe volte capita di rovinarsi il gusto di una cottura (o di una qualsiasi altra esperienza generativa) per il timore di non arrivare ad un dato risultato prima di aver ottenuto qualsiasi risultato: l’ansia è aspettativa di perdita. Non dovete farvi fregare, o addio felicità; bisogna a tutti i costi evitare di cadere nel paradosso delle medaglie d’argento, per il quale il terzo classificato gioisce molto di più
Sono costretto ad ammetterlo, funziona anche su di me: fare qualcosa che piaccia a qualcuno è irresistibilmente gratificante nel lungo termine, con un’onda lunga di benessere e soddisfazione che può creare dipendenza; scrivere una Seguo un po’ interessante che spinga un pugno di lettori a informarsi autonomamente su un argomento trattato, ad ap-
Giovanni Pascoli
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Gabriele D'Annunzio
del secondo, che si dilania di frustrazione. Esempio: Un signore (A) entra in un negozio e riceve 100 euro in buoni spesa in quanto milionesimo cliente. Un signore (B) cede il passo ad uno sconosciuto, che entra in un negozio e riceve diecimila euro in buoni spesa; B entra subito dopo e riceve un premio di consolazione di 200 euro in buoni spesa. Chi è più contento, A con 100 euro o B con 200 euro? Esattamente: B sentirà di aver “perso” una cosa che non aveva mai vinto. E’ il meccanismo di frustrazione ed empatia che tiene attaccati al televisore milioni di telespettatori, a guardare un concorrente di quiz televisivo che da un montepremi iniziale spropositatamente alto “affetta” via via metà del bottino ad ogni errore. Molto probabilmente, nelle cotture come in questioni più profonde, la chiave è non essere vittime inconsapevoli di modelli irraggiungibili.
“la mia vita è stata piena di terribili disgrazie, la maggior parte delle quali non si è mai verificata”
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Michel Eyquem de Montaigne
Frederic Lord Leighton "Lachrymea" (particolare)
Un giorno forse, quando riuscirò a trovare un parallelismo minimamente accettabile con il mondo del grilling, vi scriverò anche due righe sull’ansia. Conosco uno che se ne intende, un grande esperto.
Emiliano Nencioni
Vini abbinati a cura di Enio Berton
con il gulash (p.40) Merlot 2017
Cantina: Subida di Monte Da servire: 12/14°C in calici a tulipano Uve: 100% Merlot Zone produzione: Subida Cormons (Go) Grado alcolico: 13,50%
vini abbinati
L’abbinamento con il Gulasch richiederebbe, secondo una teoria consolidata, di abbinarlo con lo stesso vino usato nel condimento. Ma noi siamo diversi e cerchiamo un abbinamento che sappia compensare la pienezza del piatto. Il vitigno merlot trova le sue origini in Francia nella zona di Bordeaux attorno al 1700, coltivato in tutto il mondo viene vinificato in purezza oppure assieme al Cabernet Sauvignon e Cabernet Franc nel tradizionale taglio bordolese. Risulta essere presente nella collezione della scuola Enologica di Conegliano dal 1875. Le zone più famose di coltivazione sono in Francia, zona di Pomerol, dove sono presenti 151 produttori su un’area di 12 km quadrati, ed in Italia nelle zone di Toscana (Bolgheri) , Veneto, Trentino e Friuli. E proprio in Friuli Venezia Giulia troviamo la cantina Subida di Monte. Gestita attualmente da Andrea e Cristian Antonutti, eredi del sogno di papà Luigi che nel 1972 decise di intraprendere a tempo pieno l’attività di viticoltore. Attualmente l’azienda si sviluppa su 10 ettari in piena zona Collio Goriziano. Le attività in vigneto seguono principi naturali utilizzando solo concimi organici ed inerbimento controllato. Le uve vengono raccolte a mano nella prima decade di ottobre, diraspate e fatte fermentare sulle bucce per circa 10 giorni. Il mosto viene, poi, travasato in vasche di acciaio inox dove svolge la fermentazione malolattica. Viene imbottigliato nel corso del mese di luglio dell’anno successivo alla vendemmia. Dal colore rosso rubino intenso, al naso sprigiona profumi possenti di frutta fresca a bacca rossa quali more e ciliegie, con sentori di tabacco. Al palato tornano prepotenti le note di frutta con un tannino ancora giovane ma che promette longevità e lunga maturazione. Gradevole il fin di bocca.
con il Falsomagro (p.42) Etna Rosso DOC Cauru 2018
Cantina: Torre Mora Da servire: 16/18°C in calici a tulipano Uve: 85% Nerello Mascalese 15% Nerello Cappuccio Zone produzione: Rovittello e Alboretto Chiuse del Signore Grado alcolico: 14,00% Il Falsomagro è un piatto tipico della tradizione siciliana, pertanto rimaniamo nel territorio in una zona particolare della
Sicilia attorno al suo più conosciuto vulcano, l’Etna. La denominazione Etna DOC creata nel 1968 è la prima doc della Sicilia. L’Etna Rosso Doc è prodotto principalmente con uve del vitigno Nerello Mascalese e Nerello Cappuccio mentre l’Etna Bianco Doc viene prodotto con uve Carricante e Cataratto assieme a piccole percentuali di Trebbiano e Minella. Il Nerello Mascalese, le cui origini si perdono nella notte dei tempi, è un vitigno autoctono siciliano prevalentemente coltivato ad alberello con piede franco sui terreni sabbiosi vulcanici. L’azienda Torre Mora si trova sulle pendici dell’Etna in località Rovittello e fa parte delle tenute della Famiglia Piccini, viticoltori toscani dal 1882. Il Cauru (caldo in siciliano) viene prodotto da uve provenienti da due diverse cru (zone): la contrada Alboretto Chiuse del Signore in comune di Linguaglossa e Rovittello, situate nel versante nord-est del vulcano. Le coltivazioni sono a cordone speronato sulle zone piane ed ad alberello sui terrazzamenti. La vendemmia avviene ai primi giorni del mese di ottobre: dopo una macerazione a freddo di 24 ore le uve sono messe a fermentare per sette giorni in vasche di acciaio. Proseguono la maturazione in grandi botti di legno per almeno 12-18 mesi. Dal colore rosso rubino brillante, al naso le note fruttate di mora e piccoli frutti di sottobosco sono accompagnate dai profumi floreali di viole e rosa con un finale ai sapori di datteri. In bocca la freschezza accompagna un tannino aggraziato e speziato, le noti di calcare e pietra focaia ci riportano alle sue origini. Fin di bocca persistente, fresco.
con il salame di cioccolato (p.50) Barolo Chinato
Cantina: Cocchi Da servire: 14/16°C in bicchieri da dessert Uve: 85% Nerello Mascalese 15% Nerello Cappuccio Zone produzione: Piemonte Grado alcolico: 16,50% Siamo ad un fine pasto semplice ma gustoso, delicato ed al tempo stesso pieno di sapori dolci che saziano ulteriormente le nostre papille, abbiamo bisogno di qualcosa che ci faccia digerire ma che non contrasti la dolcezza del nostro dolce. Parlando di Barolo Chinato non si può non parlare di Giulio Cocchi, che fin dal 1891 ha iniziato assieme al farmacista Giuseppe Cappellano di Serralunga d’Alba (zona di Barolo DOCG) a far macerare nel barolo la china calisaia assieme ad altre spezie tra cui rabarbaro, genziana e cardamomo. L’azienda Cocchi, iscritta dal 2012 nel registro nazionale delle Imprese Storiche d’Italia, è nata, come già detto, nel 1891 dal pasticciere fiorentino Giulio Cocchi,
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GENNAIO
Vini abbinati a cura di Enio Berton trasferitosi ad Asti ed innamoratosi sia delle specialità della tradizione enogastronomica piemontese, sia della figlia del titolare di un bar in centro ad Asti che per questo diventa, narrano i vecchi, il primo bar Cocchi. Aprì nel corso dei primi anni del ‘900 una serie di bar dove servivano solo i suoi prodotti. Famoso in tutto il mondo per il vermouth ed altri preparati che sono la base di cocktail tradizionali quali il Negroni, l'Americano, etc. Il Barolo Chinato viene prodotto con una ricetta che non è variata nel corso degli anni, può essere consumato come vino da dessert ma anche come vino da meditazione o, udite udite, come corroborante antiinfluenzale. Dal colore rosso bruno con sfumature granate, al naso sprigiona sentori balsamici e speziati con note di cannella, china, rabarbaro e liquirizia. Al palato il dolce e l’amaricante si alternano con una struttura vellutata e persistente
FEBBRAIO con il sushi (p.128) Il sushi ed, aggiungo, il sashimi sono piatti che si perdono nella notte dei tempi, come ampiamente spiegato nei nostri articoli, ma la cosa più importante è che rappresentano, in maniera indiscutibile, la cultura e la tradizione della civiltà nipponica. Queste preparazione non possono essere ridotte ad un’alternativa di un fast food, ma devono essere apprezzate e gustate come ottimi piatti preparati da chef esperti e certificati che tramandino la tradizione.
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L’abbinamento del vino deve tener conto degli elementi gustativi che ci troviamo nel piatto: di sicuro c’è il pesce, sia magro che grasso (branzino, orata, tonno, anguilla) tendenzialmente crudo; troviamo, come base, il riso bollito con presenza di aceto di riso e, per chiudere in bellezza, una quantità di verdure, erbe, alghe che proprio neutre, al gusto, non sono. A complicare ancora un pochino la nostra scelta ci sono la salsa di soia e il wasabi, se decidiamo di dare una leggera o una media piccantezza al nostro boccone. Comunque parliamo prevalentemente di pesce, per cui possiamo escludere da subito i vini rossi strutturati e maturi, che coprirebbero i sapori uccidendone il gusto, per cui scartiamo anche i vini rosati o i vini rossi giovani. A questo punto ci restano solo i vini bianchi, che con la loro freschezza e il loro profumo possono accompagnare ed esaltare il nostro piatto. Tra fermo o bollicine è una scelta personale, sicuramente dobbiamo scegliere un vino elegante e fine che sappia far risaltare le componenti aromatiche del piatto, per cui possiamo spaziare tra vini fermi come il Sauvignon, il Pinot Grigio, lo Chardonnay ma non disdegniamo il Soave, il Gavi, la
Passerina, la Falanghina, il Verdicchio. Scegliamo un vino con una buona sapidità e una buona acidità, dal colore giallo paglierino sia giovane che più strutturato e maturo. Per le bollicine le alternative possono essere un metodo classico italiano come il Franciacorta od il Trento Doc, o altre produzioni come quelle dell’Oltrepo pavese, e ancora un metodo classico francese come Champagne o Cremant d’Alsazia; oppure possiamo stappare un vino charmat quale il Prosecco rigorosamente brut.
Alto Adige Chardonnay DOC Tschaupp 2016 Cantina: Tenuta Schweitzer Da servire: 8/10°C in calici tulipano Uve: 100% Chardonnay Zone produzione: Tenuta Schweitzer Merano (BZ) Grado alcolico: 12,50%
Viene coltivato in collina a 450 metri slm vicino a Merano, in una posizione meravigliosa, panoramica e soleggiata sotto le cure dell’enologo Martin Aurich premiato a livello nazionale ed internazionale. La raccolta avviene a maturazione dell’uva e, dopo la diraspatura, la fermentazione prosegue in parte in botti di acacia ed in parte in tini di acciaio a temperatura controllata. Dal colore giallo paglierino brillante, al naso presenta subito le note di mela golden che vengono accompagnate con dei sentori di frutta esotica passando per sensazioni flo reali e minerali. Al palato risulta pieno con una buona acidità e altrettanta sapidità. Fin di bocca persistente.
Champagne Brut Millésimé 2008 Cantina: Laurent-Perrier Da servire: 8/10°C in calici tulipano Uve: 50% Chardonnay 50% Pinot Noir Zone produzione: Champagne Grado alcolico: 12,00%
Nella Maison Laurent-Perrier solo le annate migliori possono essere imbottigliate da sole e non con vini di altre annate; la stagione vitivinicola 2007 è stata, per la zona dello Champagne, un anno spettacolare. Questo millesimato vede la presenza alla pari di uve Chardonnay e Pinot Noir che donano eleganza e freschezza al vino. Dal colore giallo paglierino chiaro, con un perlage fine e persistente, riporta, al naso, note ampie e complesse che spaziano da sentori agrumati e esotici a note di tostatura e leggeri ricordi di lieviti. Al palato i sentori agrumati sono accompagnati da note di albicocca e richiami alla frutta secca. Fin di bocca persistente e gradevole.
con i dolci di carnevale (p.148) I dolci di carnevale sono, generalmente, fritti con presenza di creme e decorazioni zuccherine che ti portano ad appagare il palato con la loro nota dolce e a saziare lo stomaco con la loro pesantezza. La pasta con cui sono fatti, tendenzialmente, contiene degli ingredienti aromatici che spaziano dalla vaniglia alla cannella, passando per componenti agrumati più o meno alcolici (anche se l’alcolicità con la cottura tende a svanire). Ma tra frati, bomboloni ripieni, chiacchiere e castagnole magari ripiene di cioccolato, cosa possiamo abbinare? Cerchiamo di identificare le componenti aromatiche che abbiamo di fronte. Troviamo il gusto del fritto, la dolcezza del ripieno o della decorazione, le possibili note agrumate o liquorose; a questo punto dobbiamo prendere una decisione: vogliamo contrastare queste note o cerchiamo un vino o liquore che si avvicini per analogia alla nostra pietanza? Se vogliamo contrastare il gusto, possiamo andare sulle classiche bollicine con un leggero residuo zuccherino, quindi un dry se il residuo zuccherino è tra i 17/32 grammi per litro, oppure un extra dry se il residuo zuccherino è tra i 12/17 grammi per litro; anche una grappa barricata da uve aromatiche o semiaromatiche (gewurztraminer, riesling, moscato) può andar bene. Tra i vini fanno parte di questa categoria il Prosecco DOCG ed il Moscato d’Asti nella versione Dry, fra le grappe la scelta può spaziare tra le tradizionali etichette storiche nazionali quali Poli, Bonaventura Maschio, Domenis, Nonnino, Berta Distillerie, Marzadro. Se, invece, vogliamo abbinare un vino o un liquore che accompagni il gusto del nostro dolce carnevalesco, dobbiamo distinguere tra i dolci secchi e quelli con la presenza di creme o ripieni di frutta; nel primo caso possiamo abbinare un Moscato d’Asti tradizionale o un Recioto di Soave, mentre con la presenza di creme o ripieni di frutta possiamo provare un vino passito o da raccolta tardiva, quindi un Passito di Pantelleria o un Brachetto d’Acqui. Se, invece, vogliamo osare ed oltrepassare il confine andando in Germania possiamo gustare un Riesling Auslese. La differenza tra vino passito e vino prodotto da raccolta tardiva non è banale. Il vino passito viene prodotto da uve raccolte a maturazione e successivamente fatte passire in graticci in locali aerati; solo dopo un certo periodo, quando le uve si sono leggermente disidratate facendo aumentare il loro grado zuccherino, si effettua la spremitura e si inizia la vinificazione. Il vino prodotto da raccolta tardiva, come dice il nome, proviene da grappoli raccolti dopo la maturazione fisiologia e fatti appassire direttamente sulla pianta
Vini abbinati a cura di Enio Berton
Mosel Prädikatswein Ürzige Würzgarten Riesling Auslese 2014 Cantina: Dr.Loosen Da servire: 10/12°C in calici tulipano Uve: 100% Riesling Zone produzione: Mosella (Germania) Grado alcolico: 8,00%
Viaggiamo con la mente fino in Germania nella zona della Mosella regina dei Riesling. I vini che vengono prodotti in questa zona sono longevi e con profumi molto intensi. I costi non sempre sono accessibili, ma dobbiamo fare una distinzione sul tipo di vino che stiamo stappando. La classificazione dei vini Prädikatswein o QmP indica anche il livello di grado zuccherino presente nel mosto ed anche il metodo di vendemmia. Avremo quindi, ordinati per grado di maturazione crescente: Kabinett: vino con contenuto zuccherino del mosto non inferiore a 70 gr/lt. Spatlese (“vendemmia tardiva”): vino prodotto con uve da vendemmia tardiva la cui data di inizio è stabilita ufficialmente ogni anno. Minimo 76 gr/lt. Auslese (“vendemmia selezionata”): vino prodotto con raccolta manuale di grappoli accuratamente selezionati in vendemmia, anche attaccati da muffa nobile (botrytis cinerea). Minino 83° gr/lt. Beerenauslese (“vendemmia selezionata di acini”): vino di grande concentrazione ottenuto con la vendemmia manuale di acini selezionati surmaturi e/o attaccati da botrytis. Minimo 110 gr/lt. Trockenbeerenauslese (“vendemmia selezionata di acini disidratati”): prodotti con la stessa concezione dei beerenauslese, si presentano più concentrati e devono ottenere almeno 150 gr/lt. Eiswein: uve vendemmiate ad una temperatura non superiore ai -7° con concentrazione non inferiore a 110 gr/lt. Per semplicità ho trasformato i gradi oechsle in gr/lt con conversioni 1 a 1, anche se il disciplinare tedesco parla di gradi oechsle, che però tralascio per non scendere nei concetti di vinificazione. Capite bene che una raccolta dei singoli grappoli, o meglio ancora acino per acino, di base aumenta il costo di acquisto del prodotto finale per cui non stupitevi dei prezzi che potete trovare. Il vino proposto lo considero un giusto compromesso qualità/prezzo; viene raccolto quando i grappoli hanno subito, almeno per il 50%, l’attacco della muffa nobile. Dal colore giallo dorato con un densità accentuata nel bicchiere (provate a far girare il
bicchiere e vedrete la massa del vino girare compatta)al naso si presenta con un ventaglio aromatico intenso con sentori di frutta matura a polpa gialla e con note agrumate che piano piano lasciano il posto a sottili ma intense note mielate. In bocca risulta pieno, con un giusto compromesso tra sapidità, che consentirà una lunga vita alla bottiglia, e le note dolci; emergono ulteriori note speziate ed il caratteristico sentore da “idrocarburi” tipico dei Riesling.
MARZO con i jiaozi (p.222) Marlborough Sauvignon Blanc Te Koko 2016 Cantina: Cloudy Bay Da servire: 10/12°C in calici tulipano Uve: 100% Sauvignon Blanc Zone produzione: Marlborough Grado alcolico: 12,50%
Jiaozi in cinese, in giapponese gyoza ed in coreano gyoja: sono un piatto tipico della tradizione culinaria di questi paesi. In Cina sono spesso offerti durante il capodanno cinese come forma di augurio e di buona fortuna per il nuovo anno, grazie alla loro forma molto assomigliante ad una moneta, il tael d’oro. Il ripieno e il tipo di cottura sono molto importanti per decidere quale vino abbinarci. La cottura al vapore è la più conosciuta nel nostro continente anche se sono ugualmente ottimi sia bolliti che brasati. Per quanto riguarda il ripieno, oltre alla tradizionale carne di maiale tritata possiamo trovarli con crostacei o con verdure. In accompagnamento, la salsa di soia non può mancare ma non dimentichiamo anche lo zenzero e l’aceto di riso. Il vino deve reggere le note aromatiche del piatto e la delicatezza della pasta che avvolge il ripieno ma non deve assolutamente sovrastarne il sapore. La scelta, pertanto, può cadere sulle classiche bollicine, rigorosamente brut mi raccomando, oppure possiamo idealmente rimanere da quella parte del globo scendendo verso il polo sud per arrivare nella nazione che molti definiscono l’Italia dall’altro capo del mondo, la Nuova Zelanda. È un Paese conosciuto per i grandissimi giocatori di rugby che con la loro danza propiziatoria, l’Haka, cercano di incutere timore agli avversari. Non incute timore ma fa sorgere curiosità la vasta produzione di vino di qualità, soprattutto di quello bianco, con il Sauvignon Blanc che primeggia su tutti. Le coltivazioni iniziarono con l’arrivo dei primi immigrati dall’Europa confinati, per un lungo periodo, nella parte nord del Paese. Fu negli anni ‘60 che, da una intuizione di due fratelli giocatori di rugby, Phil e Ross Spencer, iniziò la coltivazione del Sauvignon Blanc nella zona di Malborough nella parte nord dell’isola più a sud.
Coltivato nella zona di Marlborough e più precisamente nelle aree vinicole di Rapaura, Brancott e Renwick, questo vino viene prodotto dalla cantina Cloudy Bay nata nel 1985 e di proprietà del grande gruppo francese LVMH (Dom Perignon,Ruinart, Moet e Chandon, Hennessy solo per citare alcune loro Maison).La vendemmia, rigorosamente manuale, avviene nella prima settimana di aprile – siamo dall’altra parte del mondo, ricordatelo- e dopo una leggera pressatura la fermentazione continua in botti di rovere francese con i propri lieviti. Continua l’affinamento in botte sulle fecce fini. Alla vista risulta giallo paglierino, al naso le note fruttate arrivano schiette e precise, con sentori di pompelmo e di pesca bianca impreziosite da crema di limone e cera d’api. In bocca risulta fresco, equilibrato con note di legno e di leggera affumicatura. Fin di bocca persistente, gradevole e fresco
con la pancia di maiale (p.229) Merlot Vistorta 2011
Cantina: Conti Brandolini d’Adda Da servire: 18/20°C in calici ampi Uve: 100% Merlot Zone produzione: Salice (Pordenone) Grado alcolico: 12,50% Questa bomba calorica, dove lo zenzero ha il difficile compito di sgrassare il piatto, la possiamo cucinare con o senza la cotenna ma, ai fini del nostro abbinamento, cambia ben poco. Ci troviamo di fronte sicuramente ad un piatto ricco e corposo che, come detto, lascia allo zenzero il difficile compito di dare freschezza e contrastare le parti grasse cercando di non coprirne il gusto. La scelta di un vino rosso in questo caso è d’obbligo, ma si potrebbe spaziare partendo da qualche vino frizzante (magari un Gutturnio o un Lambrusco) fino ad arrivare su un rosso maturo con un’anima strutturata ma con tannini non troppo aggressivi o giovani. La cantina Conti Brandolini d’Adda si trova nel comune di Sacile in provincia di Pordenone, la cui storia è strettamente legata al fiume Livenza che attraversa l’attuale centro storico. In località Vistorta sono presenti la tenuta e l’antica sede in una villa veneziana. I vigneti di Merlot sono dislocati attorno alla villa, mentre nella sede di Cordignano (in provincia di Treviso) sono presenti le altre varietà. Fondata nel 1800 dal conte Guido Brandolini ha subìto, nel corso degli anni, una conversione ai metodi biologici seguendo le regole di produzione dei grandi vini francesi che l’attuale erede, il conte Brandino, con l’aiuto dell’enologo francese George Pauli, ha fatto propri. La raccolta e la spremitura avvengono separate vigneto per vigneto; il mosto rimane a contatto con le bucce fino ad un massino di 25 giorni per poi essere, in parte, posto in barrique per la fermenta-
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in modo che, preferibilmente, abbiamo subito l’attacco di muffe nobili (prodotte dalla botrytis cinerea), le quali donano il caratteristico sentore di affumicato. Se invece vogliamo abbinare un liquore o un vino fortificato possiamo pensare ad un Porto o ad un Marsala o, perché no, un rum giamaicano.
Vini abbinati a cura di Enio Berton zione malolattica. Una volta assemblato, continua la vinificazione in barrique per 12 mesi, successivamente viene affinato in bottiglia per almeno 5 mesi. Dal colore rosso rubino brillante, al naso i profumi di frutti a bacca rossa ed i sentori di frutta sotto spirito ti avvolgono e già ti fanno pregustare il sorso. L’evoluzione nel bicchiere fa spuntare note di caffè e di cacao. In bocca risulta pieno, corposo confermando le note di frutta soprattutto di sottobosco. Fin di bocca pulito, persistente.
APRILE con il maialetto (p.302)
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Maialetto sardo, una cottura che viene tramandata di generazione in generazione dove ogni famiglia ha il suo segreto e la sua ricetta particolare. Ho chiamato Luca (Gallozza, autore dell’articolo sul maialetto) e per scrupolo professionale gli ho chiesto se avesse usato spezie particolari o marinature della carne; la sua risposta è stata secca, semplice e concisa: “nessuna marinatura né spezie strane, se non il classico mirto e un po’ di rosmarino ed ovviamente il sale in cottura”. Col senno di poi ho pensato: cavolacci è vero, il segreto del maialino sta tutto nella scelta della carne, maialini da latte allevati allo stato brado o semibrado nei querceti e nei boschi della bella Sardegna, e del suo metodo di cottura. E qui cominciano le distinzioni e le tradizioni, ma parliamo sempre di cotture indirette dove l’obiettivo è mantenere la succosità della carne e di trasformare la cotenna in una croccante patatina che dà sapore e sapidità alla ciccia. Altro ingrediente importante, e ulteriore prodotto tipico dell’isola, è il mirto che dona aromi e profumi intensi. Ma la Sardegna dal punto di vista vinicolo offre molto e non tutti la conoscono. Le zone di produzione dell’unica DOCG e delle diciassette DOC dell’isola spaziano dai vini bianchi o rossi, fermi o spumantizzati, secchi o dolci. Ricordo ancora come, ad uno dei miei primi Merano Wine Festival, il primo contatto con un produttore di Vermentino mi abbia affascinato e ammaliato per la passione con la quale parlava della sua terra e dei suoi vigneti. La produzione nel 2019, da fonti ISTAT, è stata di 626.000 ettolitri di vino su una superficie vitata di circa 28.000 ettari. A farla da padrone è il Cannonau seguito a distanza dal Vermentino. Fino al 2002 si pensava che il Cannonau fosse stato introdotto dagli aragonesi attorno al 1400, ma il ritrovamento di vinaccioli nel complesso archeologico di Duos Nuraghes fanno propendere la sua introduzione, nell’isola, a cura dei Fenici. Le sue caratteristiche organolettiche sono simili al vitigno Tocai Rosso, prodotto nei colli Euganei in provincia
di Padova, alla Grenache francese, alla Garnacha spagnola ed alla Vernaccia nera di Serrapetrona in provincia di Macerata. La DOC Cannonau di Sardegna è stata istituita nel 1972 divisa in quattro sottozone che comprendono le provincie di Cagliari, Oristano, Sassari, Nuoro, Ogliastra, Olbia-Tempio e Sud Sardegna (ex Carbonia-Iglesias e Medio Campidano). Oltre alla DOC altre zone producono vini IGT con una forte prevalenza di uve Cannonau. Penso che abbiate capito che, per gustare appieno il nostro maialetto, dobbiamo privilegiare un vino del territorio, anche se nulla vieta di spaziare tra i vitigni internazionali quali merlot, cabernet sauvignon o cabernet franc. La cosa importante è la presenza di un tannino maturo, aggraziato che possa contrastare la grassezza e succulenza del piatto ma che non sia troppo violento da spegnere, in bocca, la dolcezza della carne giovane e tenera del maialino.
Turriga IGT 2015
Cantina: Argiolas Da servire: 16/18°C in ampi ballon Uve: 85% Cannonau, 5% Carignano, 5% Bovale, 5% Malvasia Nera Zone produzione: Selegas (SU) Grado alcolico: 14,50% Dalla zona IGT Isola dei Nuraghi, arriva questo vino prodotto dalla cantina Argiolas su vigneti vecchi radicati in zona calcaree a 230 metri slm, accarezzati dalla brezza mediterranea. La cantina Argiolas è un riferimento nel panorama vitivinicolo sardo. È stata fondata nel 1938 da Antonio, trisavolo degli attuali proprietari, sui terreni su cui aveva iniziato a piantare viti al posto degli ulivi e frutteti. Attualmente, l’azienda si estende su 230 ettari di proprietà tra cui spicca un vigneto con oltre 560 biotipi diversi di varietà autoctone sarde. La cura del vigneto e del prodotto in cantina è demandata all’enologo Mariano Murru, un’autorità nel campo vitivinicolo italiano, che fu chiamato dal grande Giacomo Tachis (enologo del Sassicaia e Tignanello) nel 1991. Prodotto da uve raccolte a mano tra ottobre e novembre, dopo la pigiatura prosegue la fermentazione a temperatura controllata con macerazione sulle bucce per circa 16-18 giorni con la tecnica del delestage (estrazione del mosto da sotto le bucce e successivo riversamento sopra di esse). Viene affinato per 24 mesi in barrique nuove di rovere francese per poi continuare la maturazione in bottiglia per altri 12-14 mesi. Dal colore rosso rubino intenso con riflessi granati, al naso si presenta con un bouquet di macchia mediterranea con note di frutti rossi maturi seguiti da sentori di mirto e malva. Al palato risulta di grande struttura, caldo, rotondo con tannini aggraziati che, fondendosi con le note di spezie, dona un sorso potente e persistente. Fin di bocca notevole.
con la crostatina ciccolato e fragole(p.346) L’abbinamento di un vino ai dolci, almeno per me, è sempre difficile e amletico. Proporne uno dolce diventa abituale e scontato, anche se si potrebbe continuare per anni proponendo vini italiani ed esteri sempre diversi. Proporre un vino liquoroso, a volte può essere azzardato e oltretutto personalmente preferisco berlo come vino da meditazione con un buon cioccolato. Proporre un liquore tipo rum o whiskey può essere talora la soluzione... ma vuoi mettere il piacere di accompagnarlo con un buon sigaro o toscano? E allora cosa facciamo, beviamo un’aranciata? Direi proprio di no, ma prima di tutto facciamo chiarezza nei termini e capiamo cosa vogliamo abbinare ai nostri dessert. Quando parliamo di vini dolci dobbiamo distinguere tra vini passiti o muffati. Altra categoria sono quelli liquorosi. Per vini passiti intendiamo quelli prodotti da uve raccolte tardive, cioè lasciate in vigneto fino ad una sovramaturazione degli acini o raccolte e poste in appassimento in aree ventilate per un periodo, in modo che l’acqua contenuta negli acini evapori e rimanga lo zucchero. Da tale tecnica derivano vini quali il Passito di Pantelleria, Il Recioto di Soave, Il Vin Santo toscano, ma l’elenco è lungo ed articolato (nella sola Italia se ne contano circa una cinquantina). Non sempre passito vuol dire dolce (l’Amarone della Valpolicella ne è un esempio lampante) Se l’acino viene attaccato dalla muffa nobile, la botrytis cinerea o botrite (in italiano), che, depositandosi sulla buccia, la fora nutrendosi di alcuni componenti della polpa, allora abbiamo i vini muffati. Tale attacco richiede un clima tendenzialmente continentale con mattine umide e pomeriggi assolati e secchi. Famosi sono i Sauternes francesi, la Selection de Grains Nobles alsaziani o i Beerenauslese e Trockenbeerenauslese tedeschi (dei quali abbiamo parlato nel numero di febbraio); oppure il Tokaji ungherese, considerato da molti, purtroppo per i produttori friulani del tocai fermo, il capostipite di tutti i vini muffati. In Italia la produzione di vini muffati è rara, il clima non aiuta in questo caso, ma ci sono realtà importanti come il Muffato della Sala di Antinori o il famoso Acini Nobili ed il Torcolato di Breganze prodotto da Maculan; altre piccole produzioni si trovano in Umbria (oltre ad Antinori), Lazio e Toscana. Pensiamo all’abbinamento: abbiamo una crostata abbastanza impegnativa, con sapori intensi e strutturati di frutta secca e cioccolato.
Vini abbinati a cura di Enio Berton
Cantina: Castello della Sala Da servire: 14/16°C in calici piccoli Uve: 60% Sauvignon Blanc, 10% Grechetto, 10% Riesling, 10% Sémillon, 10% Traminer Zone produzione: Orvieto Grado alcolico: 12,00% Tra i muffati, questo è, in assoluto, il più conosciuto ed apprezzato oltre i confini nazionali. La tenuta umbra di Castello della Sala si trova vicino ad Orvieto, copre una superficie di circa 500 ettari di cui 140 a vigneto, tutti dai 250 ai 400 metri slm. Di proprietà della famiglia Antinori, fu, in questa azienda che nacque il rapporto tra i Marchesi Antinori e Renzo Cotarella, attuale amministratore delegato del gruppo, nonché enologo affermato. La produzione della cantina spazia da vitigni internazionali, come chardonnay, sauvignon blanc, pinot nero, semillon e traminer, a vitigni locali quali il grechetto ed il procanico. La vendemmia avviene a mano, ai primi di novembre in modo che la nebbia mattutina consenta il proliferare della muffa nobile; lasciato fermentare per almeno 18 giorni in vasche di acciaio viene poi fatto affinare in barrique di rovere francese per 6 mesi fino al suo imbottigliamento. Prodotto dal 1987 solo nelle annate che, climaticamente, consentono la proliferazione della muffa nobile. Dal colore giallo dorato acceso, poco fluido nel bicchiere (nota positiva per un vino dolce), preparatevi ad una bomba di sensazioni odorose che coinvolgono il vostro naso. Le noti di aromi floreali e mielosi lasciano con il tempo lo spazio a sentori agrumati freschi e coinvolgenti. Al palato una nota speziata iniziale viene subito ammorbidita da intensi profumi di fiori e agrumi. Fin di bocca persistente.
MAGGIO con il lampredotto (p.424) l lampredotto riporta la mente in Toscana, dove il consumo del quinto quarto vive nella tradizione popolare e fonda le sue origini nel medioevo. La storia del lampredotto ci porta ai fasti della Firenze e di tutta la Toscana del Quattrocento; da subito l’arte dei lampredottai si è affiancata a quelli dei vinattieri, gli antichi Enotecari, associazione che venne fondata a Firenze nella seconda metà del 1300. Ma i vinattieri da dove facevano arrivare il vino? Ovviamente dalla zona del Chianti, come veniva indicata la zona tra Firenze, Arezzo e Siena da una pergamena del 790; altre pergamene, rinvenute nella chiesa di Santa Cristina ora S.Giovanni Battista a Lucignano d’Arbia, del 913, fanno riferimento alla vinificazione e produzione di vino in Chianti. Grazie agli insegnamenti dei
monaci, nel corso del XII secolo alcune famiglie nobili cominciarono a produrre vino: stiamo palando dei Ricasoli o gli Antinori, nomi ancora importanti nel panorama vinicolo italiano e mondiale. Il consumo del prodotto vinicolo si diffuse non solo sulle tavole dei nobili ma divenne una bevanda popolare utilizzata, in alcuni casi, anche come farmaco. Da documenti dell’epoca il vino rosso era chiamato “rutilante” o “vermiglio” mentre quello bianco veniva chiamato “vernaccia” (altro nome che ora viene usato per un vino toscano bianco); quello prodotto in Chianti era “vernaccia” quindi bianco. Non si ha notizia di quando da bianco il vino prodotto in quella zona divenne rosso. Fin dal 1364 venne imposta la vinificazione, con regole ben precise, da Giovanni da Durante e Roberto di Giudo Bernardi. Tra le prescrizioni si legge l’aggiunta di uva passa per eliminare le impurità, albume, mandorle e sale per chiarificarlo e petali di rosa per dargli un bel colore. Nel 1400 furono imposte ulteriori regole dalla Lega del Chianti per tutelarlo dalle contraffazioni, imponendo sigilli sui contenitori e tempi di vendemmia ben precisi. Nel 1716 il granduca Cosimo III emanò provvedimenti per regolare la produzione, la vendita ed il nome, stabilendo anche i confini delle varie zone e le pene per la contraffazione ed il traffico clandestino. I vini identificati furono il Chianti, il Pomino,il Carmignano e il Val d’Arno di Sopra. Si arriva con varie sperimentazioni, dapprima dall’Accademia dei Georgofili e poi da Bettino Ricasoli, il barone di ferro, ad un uvaggio che viene usato dal 1874 e che la creazione della DOCG nel 1984 inserì nel disciplinare di produzione. Nel 1924, 33 produttori fondarono il consorzio Gallo Nero tuttora marchio di tutela del Chianti classico DOCG. Nell’immaginario collettivo il Chianti viene associato al fiasco, il contenitore di vetro soffiato avvolto da paglia, che ha segnato, nel corso degli anni, la storia bella e brutta del vino. Bloccata, per legge, l’esportazione di fiaschi vuoti nel 1930, fu comunque utilizzato per la vendita di prodotto di scarsa e dubbia qualità nel corso degli anni 50 e 60, creando non poco danno all’immagine del vino nel mondo. Esistono due DOCG per il Chianti. La denominazione Chianti Classico DOCG, che racchiude la zona storica del Chianti tra cui Castellina, Radda, Greve e Gaiole e la denominazione Chianti DOCG che viene suddivisa in 7 sottozone che sono: Colli Aretini, Colli Fiorentini, Colline Pisane, Colli Senesi, Montalbano, Montespertoli e Rufina. Direi che, a questo punto, bando alle ciance, armiamoci di un bel panino col lampredotto ed apriamo una bottiglia di un vino potente ma giovane che non richieda troppi convenevoli o mega bicchieri ma che ci permetta di contrastarne la sua succosità.
Chianti Superiore DOCG
Collezione Oro 2018
Cantina: Tenute Piccini Da servire: 6/18°C in calici o anche in bicchieri di plastica… Uve: 75% Sangiovese, 15% Merlot Zone produzione: Zona Chianti DOCG Grado alcolico: 13,50% Prodotto dalla cantina Tenute Piccini fondata nel 1882 da Angiolo Piccini, in una tenuta di solo 7 ettari di terreno a Poggibonsi, dove iniziò la produzione nei classici fiaschi. Attualmente opera nel territorio toscano con quattro tenute ed altre due in Basilicata e in Sicilia. In Toscana le tenute si trovano nella zona del Chianti Classico, del Brunello di Montalcino e nella Maremma grossetana. Un altro punto di produzione si trova nella zona della DOCG Chianti. L’azienda occupa una superficie di circa 200 ettari, più altri 500 in affitto, con una produzione media annuale di 15 milioni di bottiglie. È prodotto da uve sangiovese e merlot, che vengono raccolte a mano in piena maturazione e, separatamente, portate a fermentazione a temperatura controllata. Terminata la malolattica, il vino viene sottoposto ad un affinamento in vasche di cemento per circa 8 mesi per poi subire un ulteriore periodo di affinamento in bottiglia. Dal colore rosso rubino acceso, al naso risulta complesso con note di frutta rossa, prugna e amarena su tutto, con sentori di spezie fresche quali pepe appena macinato. In bocca risulta pieno, equilibrato, caldo, si confermano le note olfattive. Fin di bocca persistente.
con il po'boy (p.448) Possiamo cuocere il gambero come vogliamo, ma la sua caratteristica nota dolciastra rimane sempre presente e ci fa ricordare le sue origini. La terra di Sicilia viene associata, molto spesso, alla pesca e all’agricoltura, viene legata agli agrumi e, solo da alcuni decenni, alla viticoltura. In realtà la tradizione vitivinicola dell’isola ha le sue origini con gli sbarchi dei fenici tra l’VIII ed il VII secolo a.C. ma fu con l’arrivo dei primi coloni dalla Magna Grecia che iniziò una vera e propria attività continuata sotto il dominio dei Romani, per poi arrestarsi durante il periodo barbarico e riprendere con i Normanni e le successive dominazioni degli Aragonesi e degli spagnoli. Un anno importante per la viticoltura dell’isola è il 1773, quando il commerciante inglese Woodhouse, a causa di una forte tempesta, attraccò con il suo brigantino a Marsala e, narrano le leggende, per festeggiare lo scampato pericolo si inebriò con un vino locale molto simile al Porto ed allo Cherry, estremamente in voga nei paesi anglosassoni. Di lì a breve cominciò ad acquistarlo e ad inviarlo via mare in Inghilterra,
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Muffato della sala 2015
Vini abbinati a cura di Enio Berton non prima di averlo addizionato con dell’alcol sia per preservarlo lungo il viaggio, sia per aumentarne il grado alcolico. La produzione del vino Marsala iniziò così ad aumentare e a coinvolgere anche i nobili locali tra cui i Florio. che costruirono una cantina similare a quella costruita da Woodhouse, vicino al porto di Marsala. Ma oltre al Marsala la Sicilia venne utilizzata, nel corso degli anni, come produttrice di vino da taglio, in quanto l’alta gradazione della sua produzione consentiva di aumentare il grado alcolico ai vini del nord Italia. Solo dopo gli anni 60, alcuni imprenditori capirono le potenzialità del vino di Sicilia ed iniziarono le produzioni del prodotto in bottiglia. Oggi la Sicilia produce circa 4,3 milioni di ettolitri di vino (dati 2019 fonte Istat), circa un decimo della produzione nazionale. Nell’isola esiste una sola DOCG e 23 DOC sparse per tutto il territorio. Nella produzione, oltre ai classici internazionali quali il Syrah, Chardonnay, Sauvignon, Cabernet Franc e Merlot, troviamo una folta serie di vitigni autoctoni tra i quali vale la pena di citare il Nero d’Avola, e lo Zibibbo (o Moscato d’Alessandria) con cui si produce il Passito di Pantelleria. Tra i vitigni a bacca bianca, inoltre, troviamo il Caricante, il Cataratto, il Greganico, il Grillo, l’Inzolia usati nella produzione del Marsala, oltre ad essere vinificati in purezza. Tra i vitigni a bacca rossa troviamo il Frappato, il Perricone, il Nerello Cappuccio ed il Nerello Mascalese (croce e delizia del mio esame da sommelier, penso che lo ricorderò per tutta la vita). Quindi, tornando ai nostri gamberi, per gustarli e non rovinare la loro dolcezza dobbiamo ricercare un vino fresco, con una accentuata acidità ed un giusto equilibrio tra calore e corpo. Possiamo restare nell’isola e assaggiare un vino fermo prodotto con i vitigni a bacca bianca sopra elencati o possiamo spaziare tra la bollicina, più o meno nobile, sia italiana che francese o viaggiare verso la Nuova Zelanda.
Terre Siciliane Grillo IGT “Il Grillo del Barone” 2019
588 - Almanacco 2020
Cantina: Barone di Serramarrocco Da servire: 10/12°C gradi in calici Uve: 100% Grillo Zone produzione: Erice Grado alcolico: 13,00%
Restiamo nell’isola siciliana e nei d’intorni di Marsala, più precisamente ad Erice, per scoprire come un vitigno, di solito tagliato con altri vini, possa sprigionare profumi e sapori non comuni. Le origini dell’azienda si disperdono nel tempo per arrivare attorno al 1630, quando Don Giovanni Antonio Marrocco y Oriales, Signore di Serramarrocco e
Capitano di Giustizia di Salemi, grazie al suo contributo dato alla popolazione colpita dalla peste, fu elevato dal grado di Signore a quello di Barone dal re Filippo IV di Spagna e Sicilia. Già a quel tempo la zona era nota per la sua produzione vinicola. Ritornando ai giorni nostri, nel 2001, il discendente Marco di Serramarrocco, dopo una carriera di broker finanziario a Londra, iniziò un progetto di riordino fondiario che ha portato nel 2013 al riconoscimento, da parte della regione Sicilia, della denominazione Vigna di Serramarrocco come prima vigna della DOC Erice. Attualmente l’azienda ha 60 ettari di terreno di cui 22 a vigneto dove sono allevate uve di Pignatello, Nero d’Avola, Zibibbo, Grillo, Cabernet Franc e Cabernet Sauvignon, oltre ad altri vitigni autoctoni a solo scopo sperimentale. Le uve del vigneto delle “Quojane” danno origine a questo vino tramite una maturazione in vasche di acciaio ed un successivo affinamento per almeno tre mesi in bottiglia. Dal colore giallo paglierino con riflessi oro, all’olfatto sprigiona note di pesca bianca, biancospino e frutta esotica. In bocca una persistente mineralità e sapidità, fresco. Fin di bocca persistente e balsamico.
con la crostatina alle nocciole e Grand Marier (p.452) Nel suggerire l'abbinamento per la crostatina cioccolato e fragole, ci eravamo lasciati con la definizione dei vini passiti; con quest'altro abbinamento ad un dolce, proviamo a chiarire cosa e quali siano i liquorosi o fortificati. Questi ultimi sono ottenuti da vino o mosto la cui fermentazione viene bloccata dall’aggiunta di alcol o acquavite, in modo da ottenere un prodotto il cui grado zuccherino sia almeno al doppio rispetto a quello di partenza. L’aggiunta avviene attraverso l’uso di un preparato composto da altro mosto o vino, reso infermentiscibile dall’aggiunta dell’alcol, chiamato mistella e dalla base alcolica scelta. La presenza di zuccheri non fermentati deve essere al massimo 40 gr/litro per i vini liquorosi secchi e superiore ai 50 gr/litro per quelli dolci. La base di partenza determina in modo rilevante il risultato finale, per cui fortificare del mosto significa ottenere sicuramente un prodotto finito più dolce rispetto al fare la stessa operazione con un vino che abbia quasi completamente svolto la fase di fermentazione. Il processo di maturazione ed affinamento avviene in botti non completamente piene, che favoriscono lo scambio di ossigeno e l’ossidazione controllata del vino. La proliferazione batterica sulla superficie ne garantisce la maturazione controllando il corretto
grado di ossidazione. In alcuni vini un particolare lievito appartenente alla famiglia dei Saccharomyces, la flor, governa ulteriormente lo scambio di ossigeno. Altra particolare tecnica di maturazione è il metodo soleras o “Solera y criaderas” che consiste nello scambio di vino tra annate diverse tramite una piramide di botti dove il prodotto più recente si trova nella botte in cima alla piramide. Ogni anno esso viene travasato nelle botti sottostanti quando avviene il prelievo per l’imbottigliamento nelle botti a terra. Il grado alcolico e la presenza degli zuccheri non fermentati garantiscono, a questa particolare categoria di vini, una longevità e un affinamento che possono tranquillamente superare i 50 anni. Il processo di fortificazione è stato usato, nel passato, per garantire la conservazione del prodotto nei lunghi viaggi navali dai luoghi di produzione fino alla destinazione, prevalentemente, in Inghilterra o Paesi Bassi. La produzione di vino liquoroso dolce è diffusa in tutta Europa, famosi sono i Madeira dolci , alcuni tipi di Porto, il Vin doux Naturel francese, lo Cherry spagnolo e, in Italia, solo per citare i più noti, la Vernaccia di Oristano DOC liquoroso, l’Aleatico di Gradoli DOC liquoroso, Il Gioia del Colle DOC Aleatico liquoroso, il Salice Salentino DOC Aleatico liquoroso dolce, il Pantelleria DOC Moscato liquoroso, il Pornassio o Ormeasco di Pornassio DOC passito liquoroso e il San Martino della Battaglia liquoroso DOC. Tra le produzioni di quello liquoroso secco oltre al nostro Marsala troviamo alcuni tipi di Porto e di Madeira. Se i vini liquorosi secchi sono ottimi come aperitivo o come vino da meditazione, quelli dolci possono accompagnare in maniera perfetta le nostre torte o i pasticcini con la crema e la frutta, così come una buona pasticceria secca.
Muscat de Beaumes de Venise 2012 Cantina: Delas Frères Da servire: 10/12°C gradi in calici piccoli Uve: 100% Muscat Petit grains Zone produzione: copre i comuni di Beaumes-de-Venise, Suzette, Lafare e La Roque-Alric nel dipartimento del Vaucluse (Rodano Francia) Grado alcolico: 15,00%
Questa volta ho scelto un vino francese proveniente da una zona non da tutti conosciuta. Il comune di Beaumes de Venise si trova nella valle del Rodano del sud, ai piedi della catena montuosa Dentelles de Montmirail che la salvaguarda dal vento maestrale della zona. La cantina fondata dal 1835 dall’omonima compagnia mercantile ha avuto, nel corso degli anni, periodi alterni.
Vini abbinati a cura di Enio Berton
GIUGNO con la fiorentina (p.514) La Bistecca alla Fiorentina ha i suoi riti che, qualche volta, abbiamo cercato di dissacrare – anche in questo numero- ma che continuano imperterriti a perseverare nella cultura enogastronomica toscana. I minuti di cottura per lato, lo spessore, la presenza imprescindibile del filetto (magari mignon) sono le caratteristiche che accompagnano questo tipo di preparazione. Cosa mai potremmo abbinare a questa tipica portata della Toscana se non un Chianti o meglio ancora un Brunello o un Montepulciano o, se il budget lo permette, uno dei supertuscan quali il Massetto o il Sassicaia? Io voglio andare controcorrente e sconfinare nell’est dell’Italia, nella zona conosciuta in tutto il mondo per il suo vino bianco spumante. La provincia di Treviso o Marca trevigiana è parte importante della produzione vitivinicola della regione Veneto e, oltre al Prosecco, produce un’ottima scelta di vini bianchi e rossi. La storia della viticoltura veneta risale ai tempi della dominazione romana e prosegue nei tempi più bui grazie ai monaci che tramandarono le tecniche di coltivazione. All’epoca dei comuni, tra il 1300 e 1400, diversi editti emanati dai Podestà imponevano la tassazione alla produzione del vino, distinguendolo in due categorie e classificando come seconda scelta o primacqua il vino prodotto dalla prima torchiatura. La classificazione teneva conto anche delle zone; i vini dei Colli del Montello ed Asolani erano considerati i migliori e quindi soggetti a maggiore tassazione.
Dopo un periodo di relativa calma la Marca fu sconquassata da un lungo conflitto con la lega dei Cambrai ma, nonostante tutto, nel 1591 messere Giovanni Bonifaccio nella sua “Istoria di Trivigi” scrisse che il vino prodotto nella zona del Montello era buonissimo e che metà bastava alla popolazione locale mentre l’altra metà veniva portato a Venezia. La catalogazione dei vitigni fu fatta ad opera di Giacomo Agostinetti da Cimadolmo, che nel 1679 classificò i vitigni locali; verso la fine del ‘700 Domenico Zambenedetti presentò all’Accademia Agraria degli Aspiranti di Conegliano la distinzione tra Recaldina e Rabosa suggerendo per la prima la coltivazione sui terreni collinari. La coltivazione della Recaldina, o Recantina come attualmente viene chiamata, continuò soprattutto nella zona dei Colli Montelliani ed Asolani come dimostra una ricerca di Carpenè (nome storico della viticoltura trevigiana) pubblicata nel 1874. Possiamo ora assaggiare un vino proveniente da questa zona ma, se volete, potete rimanere con un abbinamento regionale e quindi aprire una bottiglia dei vini nominati all’inizio; oppure viaggiare verso il Piemonte o la Valtellina o sconfinare, come al solito, in Francia. L’importante è che sia un vino di corpo con tannini maturi e con una grossa carica olfattiva che permetta di digerire il corposo e succulento piatto.
Montello DOC Capo di Stato 2016 Cantina: Loredan Gasparini Da servire: 14/16°C in calici a tulipano Uve: Cabernet Sauvignon, Merlot, Cabernet Franc, Malbec Zone produzione: Montello DOC Grado alcolico: 13,50%
La storia di questo vino è strettamente collegato al fondatore dell’azienda, il conte Piero Loredan, diretto discendente del Doge di Venezia Leonardo Loredan, che negli anni 60 volle creare una riserva speciale, prodotta solo nelle annate migliori ed in quantità limitate. Il nome deriva dal fatto che il vino venne presentato durante una cena a Venezia a Charles de Gaulle, all’epoca Capo di Stato francese, che ne rimase entusiasta. Attualmente l’azienda possiede una sessantina di ettari divisi nelle due tenute di Venegazzù e Giavera. La produzione spazia da vitigni internazionali quali il Cabernet Franc e Sauvignon, il Merlot, il Malbec, la Glera ed il Manzoni Bianco. Il Capo di Stato fu prodotto la prima volta nel 1964 come frutto delle migliori uve provenienti dalla vigna più vecchia dell’azienda chiamata le “100 piante”. Particolare l’etichetta disegnata, nel 1967, dall’artista Tono Zancanaro e che raffigura la duplice anima dell’uva
femminile che diventa vino maschile. La faccia femminile è utilizzata, attualmente, solo in particolari occasioni. Dal colore rosso rubino intenso con sfumature granate, al naso si presenta elegante e ricco di spezie con sentori fruttati. Al palato risulta caldo, profondo con una buona freschezza e tannini levigati e maturi. Fin di bocca persistente.
con l'abbacchio (p.529) La carne dolce e tenera dell’agnello profumata da spezie fresche è una tradizione laziale che è stata sancita anche dalla denominazione geografica protetta per l’”Abbacchio Romano IGP” valida su tutto il territorio regionale. Ma, per rientrare nel regno di Bacco, la viticoltura laziale ha origine, come si può intuire, lontana nel tempo, ben prima che gli eserciti romani diffondessero la cultura della vite in tutti i territori conquistati, compresa la Francia. L’alchimia nata dalla commistione tra la cultura etrusca e quella greca sta alla base delle origini della viticoltura laziale. Dagli etruschi fu acquisita la coltura maritata, aggrappata, della vite ai pioppi, mentre dai greci fu acquisito il gusto di miscelare il mosto con acqua, spezie ed infusi per produrre il “mulsum”, una bevanda usata come aperitivo che veniva prodotta con tre parti di vino ed una parte di miele, in anfore lasciate a riposare per almeno un mese. Diverso era il vino mescolato con la resina di conifere e chiamato “vinum picatum” che Plinio elogia per le sue qualità benefiche per il corpo nel Naturalis Historia XXIII. Il nettare di Bacco era ad uso della sola popolazione ecclesiastica o nobile, mentre per il popolo e per gli schiavi il vino era una miscela di acqua ed aceto o una bevanda che, secondo Catone, veniva prodotta dalle vinacce spremute, a cui si aggiungeva acqua lasciandola a fermentare. I Romani furono abili viticoltori e le loro ricerche furono le base delle tecniche utilizzate fino al ‘700. La catalogazione delle varietà coltivate e le caratteristiche organolettiche dei vini ottenuti furono tramandate grazie ad autori quali Plinio e Columella. Finito l’Impero, la tradizione enologica fu raccolta dal monachesimo e coltivata poi dai papi del Rinascimento (come mostra la ricca varietà dei vini presi in esame da Sante Lancerio, bottigliere di Papa Paolo III Farnese, nello scritto del 1559 “Della qualità dei vini”). Nei secoli XVIII e XIX la coltura del vino nello Stato della Chiesa decadde, fino all’arrivo dei piemontesi. Alla fine dell’Ottocento, i vini più noti del Lazio erano il Castelli Romani, il Frascati, il Marino, l’Est! Est!! Est!!!, tutti ottenuti da vitigni autoctoni. Una peculiarità della regione, favorita dalle condizioni climatiche, è stata la diffusissima produzione vinicola familiare anche in aree non vocate per
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Negli anni ’70 il gruppo Roederer ha acquisito l’azienda e, sotto le mani esperte di Fabrice Rosset, ha iniziato un profondo restyling sia in vigna che in cantina. Attualmente ha circa 30 ettari di vigneto suddivisi tra la Côtes du Rhône, l’Hermitage, Saint-Joseph e Crozes-Hermitage. Le uve vengono raccolte manualmente con passaggi successivi, per garantire la vendemmia al momento ottimale di maturazione dell’acino. Dopo la pressatura e la svinatura, le fermentazioni vengono eseguite in una cella fredda a 15° C per un massimo di ventuno giorni. I vini vengono quindi trasferiti in alcool neutro per raggiungere il grado minimo di 15° C e un contenuto zuccherino residuo di 110 gr/litro. Prosegue l’affinamento in vasche di acciaio fino alla primavera successiva per poi essere imbottigliato. Dal colore giallo dorato tenue, al naso sviluppa intensi sentori di fiori bianchi e frutta fresca a polpa bianca confermati dal palato, dove le note agrumate sono accompagnate da una freschezza che bilancia la nota dolce del moscato. Rotondo, di corpo non stucchevole.
Vini abbinati a cura di Enio Berton l’autoconsumo. La modernizzazione ha riguardato per lo più lo sviluppo delle cantine sociali, che si sono dotate di impianti di vinificazione di dimensioni industriali. L’area vitata del Lazio copre una superficie di circa 23.000 ettari per il 70% in zone collinari ed il restante 30% in zone pianeggianti. La produzione annuale si aggira intorno ai 1.500.000 di ettolitri dove i vini bianchi la fanno da padrone con il 75% sul totale prodotto. La regione ha 3 DOCG e 27 DOC dislocate in tutto il territorio regionale. Le DOCG sono il Cannellino di Frascati, il Cesanese del Piglio ed il Frascati Superiore. Tra le DOC mi permetto di citare, nella zona del Circeo, il Moscato di Terracina DOC sia amabile che secco che mi ha impressionato per i suoi profumi e i sentori di frutta bianca fresca. Ma torniamo al nostro abbacchio e per un abbinamento regionale lo degustiamo con una DOC legata alle uve Cesanese di Affile. Il Cesanese di Olevano Romano è catalogata come DOC dal 1973, la zona di produzione si trova in provincia di Roma, nell’alta valle del Sacco sulle pendici dei monti Simbruini tra i comuni di Olevano Romano ed in parte di Genazzano. La millenaria produzione vinicola della zona è documentata da numerosi documenti tra i quali gli “Statuti del Castro Olibana”, emanati il 15 gennaio 1364, che regolavano l’ordinamento della comunità olevanese su cui era basata la vita sociale, quella economica, quella religiosa, l’agricola e infine la pastorale. Diversi capitoli sono dedicati alla vite ed alla produzione del vino, a testimonianza dell’importanza che tale coltivazione avesse. Bene, adesso bando alle ciance e andiamo ad assaggiare un vino che sappia appagare il palato e che permetta all’abbacchio di esprimere tutte le sue note dolciastre e profumate. Oltre alla mia proposta potete accompagnarlo con un buon Cabernet Franc o un Sauvignon magari con qualche anno di affinamento, o andare decisi verso un Ripasso della Valpolicella o, se volete sconfinare, un Bordeaux non troppo giovane.
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Olevano Romano Cesanese DOC Cirsium 2016
tipicamente vulcanico con un clima temperato e baciato dalla brezza marina proveniente dal mar Tirreno. La selezione Cirsium, il cui nome trae ispirazione dal cardo campestre, proviene da un unico vigneto di circa un ettaro piantato nel 1953. Vendemmiato rigorosamente a mano con una accurata selezione degli acini, viene fatto macerare ad una temperatura non superiore ai 25°C per un periodo di 15 giorni per poi affinare sui propri lieviti per 18 mesi in botti di rovere francese con frequenti batonages. Imbottigliato, continua l’affinamento in cantina per altri 2 anni. Dal colore rosso rubino intenso, al naso sprigiona profumi di frutta rossa matura ma con un complesso richiamo a note di tabacco, liquirizia e pepe nero. Al palato risulta di corpo, armonioso con un tannino fine e non invadente. Fin di bocca persistente.
con il tiramisù (p.540) Le teorie sulle origini del dolce italiano più conosciuto al mondo sono contrastanti; si parte dal XVII secolo e da Siena dove durante una visita di Cosimo III de’ Medici fu servito un dolce denominato la “Zuppa del Duca” con caratteristiche molto simili al tiramisù, anche se il mascarpone ed i savoiardi non rientrano nella cucina tipica senese. Altre fonti lo danno originario dell’Emilia dove nel 1891 Pellegrino Artusi ne descrisse la ricetta nel suo libro “La scienza in cucina e l’arte del mangiar bene”. Si parla anche del Piemonte dove un pasticciere torinese inventò un dolce per “tirare sù” Camillo Benso Conte di Cavour dalle sue fatiche per la riunificazione dell’Italia. Ma il vero duello, sancito anche da carte bollate, è stato fra Treviso e due comuni del Friuli Venezia Giulia e precisamente Tolmezzo in provincia di Udine e Pieris di San Canzian d’Isonzo in provincia di Gorizia che, al momento, risultano i vincitori. La tradizione popolare, però, narra che questo dolce fu creato da una maitresse di una casa di piacere ubicata in centro città a Treviso alla fine del 1800, che serviva ai suoi ospiti questo dolce corroborante dopo le “faticose” prestazioni fornite prima di ritornare al talamo coniugale, da qui il nome di Tiramisù.
Cantina: Damiano Ciolli Da servire: 14/16°C in calici Uve: 100% Cesanese di Affile Zone produzione: Olevano Romano DOC Grado alcolico: 13,50%
Dolce molto sostanzioso che oltre a uovo e biscotti abbina mascarpone e panna, una bomba calorica che appaga immediatamente il palato con una dose di zuccheri, poco addomesticati dal sapore del caffè.
Cirsium è una selezione della cantina Damiano Ciolli che si trova a Olevano Romano, capitanata da Damiano dal 2001 che è alla quarta generazione di vignaioli di famiglia. Attualmente l’azienda consta di circa sette ettari dislocati tra i 300 e 450 metri slm con esposizione a sud e riparati sugli altri tre lati dalle colline. è un terreno
L’abbinamento diventa quasi d’obbligo con un vino passito quali il Passito di Pantelleria, il Recioto, il Torchiato di Fregona (per rimanere in zona Treviso) o il Ramandolo di Nimis (provincia di Udine) oppure un vino frizzante quale un Moscato d’Alba o volendo esagerate un vino liquoroso sia italiano che estero.
Io questa volta faccio capolino alla punta meridionale del nostro territorio.
Passito di Pantelleria DOC Ben Rye 2017
Cantina: Donnafugata Da servire: 12/14°C in bicchierini da dessert Uve: 100% Zibibbo Zone produzione: Pantelleria Grado alcolico: 14,00% Il nome della cantina fa ricordare una donna in fuga e fu precisamente la regina Maria Carolina, moglie di Ferdinando IV di Borbone che, fuggendo da Napoli dopo l’invasione delle truppe napoleoniche, si rifugiò nelle terre dove oggi si trova la tenuta. La cantina è conosciuta in tutto il mondo per i suoi vini bianchi freschi e sapidi e per i suoi rossi, che il sole siciliano rende sinceri ed eleganti. Dai vigneti situati al centro dell’isola di Pantelleria viene prodotto questo passito che nasce da una sapiente raccolta a mano delle uve in piena maturazione. Durante la fermentazione del mosto viene aggiunto l’uva passa sgrappolata a mano, che dona al vino la sua dolcezza e la sua freschezza. La maturazione avviene in vasche di acciaio per almeno sette mesi per poi continuare in bottiglia per altri dodici. Dal colore ambra brillante poco fluido, riporta al naso un ampio bouquet di arance candite ed albicocche passite con sentori di erbe aromatiche e balsamiche. Al palato risulta equilibrato con una fresca vena acida, fin di bocca persistente e prepotente.
Birre consigliate a cura di Riccardo Meniconi
con Wagyu&polenta (p.44) Mac Runa
birre consigliate
Inverno. Niente evoca più questa magica stagione di una baita di montagna con il camino che scoppietta, mentre fuori nevica pacificamente. La tavola è apparecchiata: siete circondati da chi più amate, l'odore della polenta si sparge per la stanza, mischiandosi al profumo del Wagyu ed al caldo fumo della legna che brucia. La birra che andremo ad abbinare al nostro piatto, oggi, rievoca proprio queste sensazioni. Siamo in Piemonte, precisamente a Montegioco; in questa magica terra di mezzo sorge l'omonimo birrificio creato da Riccardo Franzosi. Il microbirrificio vanta copiose etichette e tra queste sceglieremo la MAC Runa, una Belgian Ale dal sentore affumicato. Prodotta con l’aggiunta di malto torbato, lo stesso utilizzato per gli Scotch whisky, veramente perfetta in abbinamento alla nostra polenta. Nel bicchiere si presenta di colore oro carico, caldo e velato, con una schiuma bianca e uniforme ma poco persistente. Al naso percepiamo nettamente le note di torba salmastra e speziata sotto le quali si intuiscono sentori di frutta gialla. In bocca apre con sentori mielati e caldi di biscotto e caramello, perfettamente integrati con l'affumicatura che rimane persistente anche dopo la bevuta, accompagnata da un piacevole erbaceo di luppolo; chiude poi dolcemente sulle note di susina matura e di nuovo miele e biscotto. Una bevuta lunga e complessa, da protrarre nel tempo ma piacevolissima nei suoi 7,2°. Vi consiglio di servirla in un calice a tulipano, ad una temperatura di 8°C-10°C
con il club sandwich (p.70) To Øl Blossom
Pane. Lattuga, pomodoro, bacon, pollo. Pane. Lattuga, pomodoro, bacon, pollo. Pane. 3 strati di uno dei piatti più americani che ci sia. Il Club sandwich, deve, a quanto pare, il suo nome all' Union Club di New York dove si crede sia stato inventato. La prima ricetta diffusa è datata 1889 e compare nell' "evening world". Solo 10 anni dopo prese piede anche in altri ristoranti americani e si radicò nella cultura nazionale. È spesso servito con patatine fritte o coleslaw come contorno e viene diviso in 4 triangoli fermati da uno stecchino per poterlo mangiare comodamente. Uno spuntino, un pranzo veloce o uno stuzzichino per la serata al pub.Ingredienti semplici, un comfort food di quelli veri, pochi fronzoli e tanta sostanza. La freschezza della lattuga, la dolcezza del pomodoro maturo, il pollo grigliato e la croccantezza del bacon, tutto racchiuso in delle fette di
pane in cassetta leggermente tostato e spalmato di maionese. Ci serve una birra fresca ma decisa, luppolata ma morbida. La Blossom di To Øl fa al caso nostro, una American Wheat Ale che racchiude tutto quello che ci serve. Le Wheat Ale, come dice il nome, sono birre in cui il malto d'orzo è affiancato da quello di frumento, sono parenti alla lontana delle weissbier tedesche, ma si distinguono per il loro profilo aromatico floreale e l'assenza dei tipici sentori di banana. Nonostante sia danese, questa birra è primaverile come un picnic a Central Park, fresca alla bevuta grazie anche alla grande varietà di fiori e foglie impiegate nella realizzazione (rosa, calendula, foglie di lamponi, fiordaliso, ibisco, rosa, biancospino... ) che mitigano i suoi 6,3° alcolici; l'utilizzo di luppoli americani ne enfatizza la marcata componente aromatica, il tutto racchiuso nella morbida coperta strutturale del frumento. Alla vista si presenta dorata come il sole con schiuma bianca e abbondante. Si consiglia di infilare nel cestino della scampagnata anche un paio di pinte e di servirla ad una temperatura di 8-10°C
FEBBRAIO con l'hamburger di Wagyu (p.144) Oude Geuze
Dell'hamburger abbiamo già parlato qualche numero fa, ma oggi parleremo di una variante, speciale, incredibile, quasi illegale. L'hamburger di Wagyu, un concentrato di umami, un proiettile di gusto, un disco di piacere, perfettamente cauterizzato sulla superfice, incredibilmente croccante fuori e scioglievole dentro. Un concetrato di sapori, strutturato e complesso da gustare in purezza o in un godurioso panino. Ma cosa possiamo bere per esaltare e sostenere tutta questa potenza? Mmmh... Una bock? Sì, ha l'alcool giusto ma probabilmente risulterebbe troppo dolce, allora una ipa? Meglio di no, la luppolatura troppo spinta potrebbe rovinare l'equilibrio della carne. Meglio cercare qualcosa di diverso, in grado di equilibrare tutta questa opulenza ed invogliare ancora il morso. Se penso ad una birra che mi renda qualcosa ancora più appetibile,che aumenti la salivazione e pulisca il palato mi viene in mente subito una Gueuze (o Geuze in fiammingo). Nello specifico la Oude Geuze di 3Fonteinen. Quando, nel 1953, Gaston Debelder decise di fondare 3Fonteinen divenne subito famoso per il suo incredibile olfatto, strumento indispensabile per assemblare questo tipo di birre. Dovete sapere, infatti, che fino al 1998 lì venivano assemblate lambic* provenienti da altri birrifici, ma non si brassava nessuna birra in loco. Anche questa Geuze è un
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GENNAIO
Birre consigliate a cura di Riccardo Meniconi blend, ottenuta dalla miscelazione di una parte di lambic di un anno, una di lambic vecchio 2 anni e una di 3. Naturalmente le percentuali variano di anno in anno, a seconda delle qualità organolettiche delle birre prese in considerazione e così anche il prodotto risultante è sempre diverso. Il bello di questo stile è che anche la stessa bottiglia, se bevuta in momenti differenti della sua vita, può essere diversa. Difatti l'attività dei lieviti non si interrompe mai, neanche una volta finita la rifermentazione in bottiglia. Essendo un prodotto vivo a tutti gli effetti è possibile osservarne l'evoluzione di anno in anno. È importante, per salvaguardarne la qualità, tenere le bottiglie coricate in cantina al buio. Vi racconterò ora della bottiglia che ho bevuto per scrivere questo articolo (è un duro lavoro, lo so). Ma per quello che dicevo poco sopra non prendetelo come standard. Una volta tolto il tappo in sughero l'esplosione di aromi selvaggi ci pervade. Versandola nel bicchiere noteremo una schiuma bianca, dal perlage fino ed irregolare, molto evanescente. Sotto una birra dorata, torbida e con leggeri riflessi ramati, troviamo subito al naso aromi di frutta bianca e acerba che fanno da preambolo ai classici sentori di animale, polvere, legno e crosta fiorita di formaggio. Il corpo è di media intensità, brioso, con sentori netti di acido lattico e un leggero acetico, con note aspre di limone e uva bianca. Nel finale chiude secca, rustica ma pulita, con una leggera nota amarognola. Dissetante e divertente. Da servire ad una temperatura di 8° nel tipico bicchiere da Geuze. *lambic è uno stile di birra caratterizzato dalla fermentazione spontanea, prodotta nella regione del Payottenland, a sud ovest di Bruxelles, in Belgio. Il mosto di birra viene esposto in vasche di rame ai lieviti e batteri che si trovano nell'aria.Fermentando solamente con questi lieviti, il prodotto finale è secco, acido con sentori di vino o sidro.
con il tempura (p.124)
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Zona Cesarini
La tempura è una tecnica di frittura Giapponese che consiste nel tuffare gli alimenti in una pastella fredda e friggerli velocemente in modo da creare una corazza croccante fuori e lasciare umido l'interno. Quando parliamo di tempura, parliamo di verdure a julienne e pesce, il più delle volte gamberi, spesso accompagnti da una salsa agrodolce. Questa volta andremo a creare un abbinamento per contrapposizione, con una birra abbastanza amara ma leggera, che ci permetterà sia di sgrassare il palato sia di bilanciare i sapori agevolando (come se ce ne fosse bisogno!) il boccone successivo. Non tutti sanno che il Giappone non è famoso solo per il sushi, gli anime e il nostro amato waguy. Nel mondo della birra è celebre per essere la terra natia di un luppolo molto particolare chiamato Sorachi Ace.
E’ stato sviluppato per l'appunto in Giappone alla fine degli anni 70, per cercare di creare qualcosa di simile al ben più famoso Saaz (tipico della Repubblica ceca, e onnipresente nelle pilsner di quella zona). I risultati non furono però soddisfacenti e venne messo da parte fino a quando, nel 2006, alcuni Mastri birrai americani lo rivalutarono per i suoi aromi citrici. Oggi viene coltivato solo in america ed è uno dei luppoli utilizzati nella Zona Cesarini, la pacific Ipa del birrificio Toccalmatto. Ancora prima di stapparla mi vorrei soffermare un attimo sull'etichetta, per me una delle più belle mai stampate. I colori del sol levante la fanno da padrone incorniciando un’onda marina ispirata a quella del Maestro giapponese Katsushika Hokusai, dalla quale si stagliano le sagome di tre aerei da guerra a monito della potenza di questo piccolo capolavoro. Ma veniamo alla birra. La schiuma è bianca, quasi pannosa e molto persistente, il colore è di un dorato carico tendente all'arancione. Il naso è prepotente, le sensazioni olfattive sono nette: frutta tropicale, ananas, mango, mandarino pompelmo e lime con un tocco di resina. In bocca l'amaro è piacevole ed elegante, molto coerente con il naso, ritroviamo infatti tutta la frutta e gli agrumi, insieme ad ottimi sapori maltati di crackers e crosta di pane. Qui la nota resinosa si fa sentire di più, rendendo la bevuta ancora più piacevole e dissetante, il corpo è pieno, ma agile. Nel finale le note balsamiche e una leggera secchezza chiudono in bellezza. I 6,6 gradi abv sono quasi un incentivo a berne ancora e ancora. Vi consiglio di servirla ad una temperatura di 8-10° in una pinta Americana.
MARZO con i nuggets (p.238) Imperial Zest
Pepite di pollo croccanti e succulente. I Nuggets sono deliziosi bocconcini perfetti da abbinare ad un ottima pinta bevuta al bancone del nostro pub preferito. Se poi li rendiamo speciali con una marinatura agli agrumi, una leggera affumicatura e la panatura super croccante del panko possiamo solo sperare che non finiscano mai. Naturalmente vorremmo vederli recapitare al nostro sgabello insieme ad una birra in grado di esaltarne ed accompagnarne le incredibili sfaccettature di sapori e consistenze. In questo caso l'abbinamento può sembrare azzardato, soprattutto dal punto di vista del volume alcolico, ma noi siamo impavidi e non ci lasciamo certo scoraggiare da un numero scritto sull'etichetta, no? Anche perchè l'Imperial Zest questo numero lo nasconde molto bene, peri-
colosamente bene oserei dire. Sorella maggiore della Zest del birrificio Extraomnes, possiamo definirla come una Saison "on steroids", o come si legge sulla scheda tecnica, Belgian Strong ale. Versandola nel bicchiere ci incanta fin da subito con il suo colore arancio opaco con sfumature dorate. La schiuma è da manuale, compatta, spessa e molto persistente, al primo sorso vi sembrerà di affondare le labbra in una nuvola profumata. Al naso spiccano note di agrumi come pompelmo, arancia e mandarino, accompagnate dalla dolcezza dell'ananas maturo e da sentori di litchi. In bocca è molto coerente, ritroviamo una bella polpa d'arancia e di frutta gialla matura con note predominanti di zest di agrumi. Il corpo è incredibilmente snello e veloce, sostenuto da una base maltata di cereale e da note speziate di pepe che nel finale tendono ad amplificarsi insieme ad un leggero calore etilico, che vi si propagherà dal centro del petto seguito da un infinito benessere. Va infine a chiudere con un perfetto bilanciamento tra dolce e amaro, in un limbo di secchezza che subdolamente vi attirerà verso il sorso successivo. Attenzione, questa birra è in grado di metterti K.O. senza che neanche ve ne accorgiate. È facile farsi trasportare da questo grande capolavoro brassicolo. Vi consiglio di servirla ad una temperatura di 10-12°C in un calice a tulipano.
con il galletto alla griglia (p.242) Mukkellerina
Mentre scrivo posso sentirne l'odore, immaginando la pelle che sfrigola sulla griglia rovente, la succosità delle carni, l'incredibile lucentezza data dalla glassa al miele e limone. Una vera e propria poesia gastronomica. Il galletto alla griglia è un piatto semplice ma che può dare grandi soddisfazioni, schietto e diretto, un comfort food nella massima espressione. Perfetto da abbinare a una birra da bere...sempre, sempre, sempre!!! Questa è la dicitura che troviamo nel retro dell'etichetta della Mukkellerina, la Keller di casa Mukkeller, mi scuserete il gioco di parole. È un birrificio che sorge sulle coste del Fermano, più precisamente a Porto Sant'Elpidio, vincitore nel 2019 come miglior birrificio d'Italia al Birra dell'anno, concorso dell'Assocazione Unionbirrai che premia ogni anno le migliori birre nelle proprie categorie secondo il BJCP e il miglior birrificio in assoluto. Ma veniamo alla birra, probabilmente la mia Keller italiana preferita. Nel bicchiere scende limpida, cristallina dal colore dorato coronato, dalla perfetta schiuma bianca dal perlage fino e compatto. Al naso esce subito un guizzo di miele
Birre consigliate a cura di Riccardo Meniconi
APRILE con la grigliata per due (p.325) Beerbera
Tutti abbiamo iniziato la nostra strada per... diventare Grill Master (cit.) su una griglia scassata, con spiedini, salsicce, bracioline, costine e qualche fetta di pancetta. Poi abbiamo incontrato BBQ4All. Probabilmente ancora oggi ci troviamo a volte nella stessa situazione, sicuramente più preparati e attenti a cosa e come lo facciamo, ma la magia di stare con gli amici tutti intorno alla griglia è la cosa più bella del mondo. La grigliata all'italiana, se fatta bene -e si può fare bene, fidatevi- è motivo di orgoglio, di romantica nostalgia e porta bandiera dell'italica convivialità. Solitamente si accompagna con litri di vino rosso, almeno a casa mia, qui in Umbria. Certo, questo non è esattamente il periodo giusto per organizzare un ritrovo con gli amici, ma niente vieta di sognare e di programmare quel momento tanto atteso in cui potremo tornare alle nostre vite. Sappiate che la mia proposta si abbina benissimo comunque alla cenetta per due che vi proponiamo su questo numero. Tutti conoscono il vino in Italia, parecchi sono anche appassionati di birra, pochi sanno però che c'è un anello di congiunzione tutto italiano: le Italian Grape ale, abbreviate in IGA sono infatti il primo stile brassicolo riconosciuto dal BJCP nato nella nostra penisola che prevede l'utilizzo di una percentuale variabile di mosto di vino, uva o Saba. Uno degli esempi, secondo me meglio riusciti, è la BeerBera di Valter Loverier del birrificio Loverbeer (TO). Ci delizia con questo "ibrido" a base di mosto Barbera. Facile intuire il perché del nome. Altra particolarità del birrificio e della birra in questione è la fermentazione spontanea che le dona un carattere inimitabile. "Una semplice spremuta di frutta, pigiata e diraspata, tanta... tanta quanto basta, non come semplice aromatizzante ma con il preciso intento di accendere la fermentazione in legno di questa birra, senza aggiungere alcun lievito. La sua
ricetta è un risultato armonico affinato negli anni. La mia non è una moda ma una precisa intenzione." – Valter Loverier Nel bicchiere si veste di un incredibile colore ramato, con riflessi rubino, leggermente velata. La schiuma, bianca e fine è estremamente evanescente; e lascia al naso il piacere di scoprire le splendide note vinose con sentori di frutta rossa e legno, un ricordo di cantina, e di quello che la fermentazione spontanea porta con sé. Si percepisce, infatti, la nota "sour" di acido lattico. In bocca entra a gamba tesa, con forte predominanza di frutta, e un leggero sapore di malto. L'acidità è importante ma ben bilanciata dalla carbonazione e da un'elevata secchezza che fa aumentare la salivazione, e pulisce bene la bocca. Una birra importante, di grande impatto, ma se siete amanti del genere vi lascerà a bocca aperta. Sopratutto quando, leggendo l'etichetta, vi accorgerete che può vantare ben 8°, che mai avreste potuto immaginare solamente bevendola. Vi consiglio di servirla ad una temperatura di 10/12°C in un bicchiere snifter.
MAGGIO con la focaccia barese (p.408) Margose
La Focaccia barese è un prodotto da forno lievitato tipico della zona di Bari, Andria e Taranto. Sicuramente molti di voi si saranno cimentati nella preparazione di questa magnificenza della panetteria italiana durante questo periodo di "pausa". La ricetta ha radici antichissime e ne esistono centinaia di varianti. Una volta lievitata in teglia si può condire in svariati modi, io impazzisco letteralmente per la versione con pomodorini, olive baresi e origano, naturalmente il tutto innaffiato con dell'abbondante e profumatissimo olio di quelle terre. Ogni volta che la preparo la casa si inonda di quel profumo unico, inebriante, sensuale. Ti senti catapultato lì, affacciato sul mare, con alle spalle l'imponente basilica di San Nicola, il sapore della salsedine in bocca ed il moto delle onde che ti cullano dolcemente; la focaccia non è cibo, è amore. E da lì, da quel mare, da quell'aria salata, che nasce una birra unica nel suo genere. Nel birrificio Birranova, a pochi chilometri da Bari, prende forma la Margose. Parliamo prima dello stile Gose, che probabilmente uscirà dalla comfort-zone di alcuni di voi (ma vi assicuro che una volta provata non si torna più indietro!). Si tratta di una birra ad alta fermentazione, dal gusto leggermente sour, sapido e dolce allo stesso tempo, classicamente prodotta con grano, orzo, ed acqua ad alto contenuto salino (e spesso con aggiunta di coriandolo). Nello specifico la nostra
Margose, 4,6°, si presenta luminosa come il sole e fresca come la primavera, con la sua schiuma poco persistente, leggera, e con il suo colore dorato ed i profumi agrumati di buccia di limone, le note di miele e pepe, e la presenza evanescente di zagara e camomilla. In bocca la fine gasatura precede un inizio dolce, che subito lascia spazio alle venature acidule e soprattutto alla nota salata (proveniente, ovviamente depurata, dall'acqua del vicino Adriatico). Oltre al frumento e al malto d’orzo compare anche una percentuale di Avena e tra le spezie, come dicevamo, il coriandolo. L'unico consiglio che mi sento di dare è: compratela, mettetela in fresco (8°), infornate la focaccia, e preparatevi a commuovervi.
con il philly cheese steak (p.436) Beach Boys Pils
Siamo a Philadelphia, città del formaggio spalmabile (eheh), di Rocky Balboa, della Liberty Bell, ma soprattutto del Philly Cheese Steak! Questo piatto è compagno fedele di ogni americano degno di questo nome, un panino dalle molteplici varianti, ma con solide basi negli ingredienti: ciccia, cipolle caramellate e formaggio, tanto godereccio formaggio filante. Credo proprio che dopo aver mangiato uno di questi colossi di pane e carne, avrete bisogno anche voi di farvi una corsetta sulla celeberrima scalinata del Philadelphia Museum of Art, scegliete voi il sottofondo musicale, anche se io andrei sul classico con la celebre colonna sonora "Gonna Fly Now". Ovviamente, durante il pasto (e soprattutto dopo i 72 scalini) avrete sicuramente sete, e cosa vi disseterebbe di più, rimanendo in stile "tu vo' fa l'americano" se non una Beach Boys Pils del birrificio Mukkeller, nato a Porto Sant'Elpidio (Marche) nel 2010. Lo Stallone italiano, birra italiana! Andiamo quindi a sorseggiare questa West Coast Pilsner, 5,3°, che unisce la nobiltà classica di una Pils, al carattere esuberante dei luppoli americani Amarillo e Citra. Bando alle ciance, siamo assetati! Al primo assaggio veniamo assaliti, senza opporre nessuna resistenza, dal gusto di pompelmo, cedro, limone e lime, che puliscono piacevolmente la bocca, accompagnati da note finali vegetali, quasi resinose, balsamiche. Il carattere dello stile, ovviamente, non manca: l'agrume viene ben supportato dal classico sapore di crosta di pane, prerogativa dell'originale Ceca. Il suo colore è dorato opaco, movimentato da alcuni riflessi tendenti al verde, la schiuma bianca e persistente "a prova di baffo", l'aroma di luppolo pervade il naso, nascondendo quasi la vera natura di questa birra - coprendo in parte la tipica nota di craker - che si riprende ammirevolmente nella bevuta. Vi consiglio di berla in una Pinta... Americana, magari in compagnia di ADRIAANAAAAAA.
593 - BBQ4All Magazine
millefiori, e quel cereale che ti apre lo stomaco, come dal fornaio in piena notte aspettando il tuo trancio di pizza appena sfornato. Il tutto contornato da note erbacee e di fieno un po' secco. In bocca entra decisa, ritroviamo la crosta di pane ed il miele, scende bene, l'amaro è sottile ed equilibrato dai sapori garbatamente maltati; chiude asciutta, la bevuta è veloce e serrata, non c'è tempo per riprendere fiato, ne devi fare subito un altro bel sorso. I 4,8 gradi abv in fondo ce lo permettono e la bottiglia da mezzo litro aiuta. Bevi, e fatte grossu ci intima l'etichetta, e chi siamo noi per non obbedire? Salute!
Birre consigliate a cura di Riccardo Meniconi
con il kebab di agnello (p.438) Timpa
594 - Almanacco 2020
ll Mediterraneo racconta una storia affascinante, fatta di contaminazioni - in senso buono, in questo periodo è bene specificarlo- culturali, intrisa di conflitti, di incontri, di avvicendamento di popoli, di migrazioni. Il mio intento oggi è celebrare quel legame, piuttosto evidente, tra Italiani ed Arabi, in un luogo che universalmente rievoca l'unione e la famiglia: la cucina. In questo stesso numero potrete leggere la ricetta per prepararvi da soli la portata principale, un succulento, profumato, Kebab di Agnello: lo streefood mediorientale per eccellenza, che con il solo odore di cumino, coriandolo, cannella, e di tutte le tipiche spezie Shawarma, rievoca i caotici mercati di Riyad. Noi siamo addetti al beverage, è quindi d'obbligo portare in tavola una birra degna della storicità di questa convivenza; voliamo quindi in Sicilia, precisamente a Ragusa, dove la contaminazione Araba è stata ed è tutt'ora fortemente radicata, ed entriamo direttamente nel birrificio Yblon, il cui motto è "l'aspetto più importante della birra è il potere di connettere le persone". Beh... direi più che azzeccato! Opteremo per la Timpa, Belgian Saison, prodotta con malto pils belga e luppoli europei. Versandola notiamo subito una spessa schiuma, piuttosto compatta e persistente, e ad un primo esame visivo si presenta di colore giallo, leggermente opaco ma molto intenso. Al naso la sentiamo speziata, fresca, delicata ma complessa, con lievi note di frutta gialla (pesca principalmente), date sicuramente dagli esteri – brevemente: profumi fruttati creati dall'azione del lievito durante la fermentazione –; non manca però la lieve presenza del miele, dovuta molto probabilmente al Pilsner utilizzato nella realizzazione. Assaggiandola la prima cosa che notiamo è la carbonazione tipica dello stile, che pulise piacevolmente, ma non disturba in bocca; i 6,5° sono abilmente nascosti dal corpo inizialmente dolce, che si asciuga gradualmente lasciando il posto ad un amaro molto calibrato, e ad una freschezza che invoglia a berne ancora. Il gusto rimane coerente con l'olfatto, frutta gialla, noce moscata, miele, e l'amaro elegante rilasciato dai luppoli nobili europei. Una bevuta che, come la cultura Araba con quella del Sud Italia, si unisce magistralmente al piatto, portandoci lontano. Vi consiglio di servirla in un Tulipano, ad una temperatura di servizio di 8°- 10°C
GIUGNO con la cotoletta (p.532) Always Standing
Profumata, abbronzata, alta, popola i sogni più spinti di ogni uomo. Parlo ovviamente della cutulèta a la Milanesa, la diva della cucina lombarda, la Sofia Loren del fritto nel burro, la Nemesi del Salutista e la lauta ricompensa della Buona Forchetta. Uno, due centimetri, non importa veramente – probabilmente alcuni illustri colleghi potrebbero essere contrari a questa affermazione – la cosa importante è che addentandola si sia avvolti dalla punta di sale nella crosta, dalla giusta grassezza della carne, e dalla morbidezza del burro. Semplice, ma da far perdere la testa. E mentre siamo al cospetto de "La Bela Madunina tuta dora e piscinina", con la nostra Bionda tutta burro e curve, per raggiungere la pace dei sensi manca solo una buona birra. Il motto di questo birrificio è "Bevi come un Toro", ed un po' come quando sentiamo una canzone alla radio, il cui testo ci sembra familiare, e ci sorprendiamo a pensare "ma sta parlando di me!?"; made in Piacenza (perché la birra è come un congiunto, e per Lei possiamo oltrepassare qualsiasi confine), il birrificio La Buttiga ha quello che fa per noi. Arriva l'estate, comincia a far caldo, e non credo che ci sia nulla di più dissetante (tranne l'acqua, ma quella è una materia che non mi compete) di una Blanche dai profumi di petali di rosa, coriandolo, agrumi: la Always Standing. Si presenta con un colore paglierino opalescente, ed una schiuma bianca e sottile, abbastanza persistente per lo stile. Al naso sentiamo chiaramente tutti gli ingredienti sopracitati, che convivono in modo estremamente elegante e, mentre la birra si scalda (se le darete il tempo di farlo!), potrete notare come le note di rosa e coriandolo comincino lentamente a lasciare il posto alla componente agrumata e leggermente citrica. Mentre la sorseggiamo pulisce il palato con una lievissima carbonazione per nulla fastidiosa; per niente amara, ma neanche stucchevole, con una leggera nota dolce che va piacevolmente a contrastare la salinità della cotoletta; ritroviamo in bocca i sentori floreali e speziati che hanno caratterizzato il naso, e vengono accompagnati molto bene dal malto d’orzo e dal frumento donando un buon corpo e una piacevole persistenza gustativa. Questa è una di quelle birre da bere a litri, e grazie ai suoi 4,2° non avrete niente di cui pentirvi il giorno dopo (se non del fatto che potevate berne di più). Vi consiglio di berla possibilmente con un\a congiunto\a davanti una cotoletta. E la notte è giovane. Temperatura di servizio 6°\8°C.
con i saltimbocca alla romana (p.535) Drago'n Cella
Un piatto della cucina popolare romana, ma che probabilmente tutte le nonne d'italia conoscono e ci hanno preparato almeno una volta nella vita, è il Saltimbocca: fettina di vitello, prosciutto crudo e salvia. Rosolati nel burro e sfumati nel vino bianco. Stop. Così semplice, però capace di riportarci alla nostra infanzia in meno di un secondo. Ma ora, per fortuna o purtroppo, siamo adulti e possiamo quindi abbinare una birra a questo magnifico ricordo. Rimanendo nel Lazio c'è l'imbarazzo della scelta: nella culla della Birra artigianale italiana si distinguono diversi birrifici in grado di far impallidire la Germania e l' Inghilterra dei tempi d'oro. Però, tra tutti, oggi vi voglio raccontare una storia, che narra di un progetto che ho sempre ammirato: il birrificio "Vale la Pena" capitanato da Paolo Strano è un progetto della Onlus "Semi di Libertà"; nato nel 2014, è una realtà di inclusione dei detenuti del carcere di Rebibbia. Con l'aiuto dei più grandi Mastri Birrai Italiani “Val la Pena” è in grado di formare i ragazzi e di garantire una produzione stabile che auto sostenga il progetto. Tra le varie birre la "Drago 'n Cella" è, secondo me, la più adatta per questo piatto (e ha un nome fantastico). Si tratta di una Belgian Ale aromatizzata al dragoncello con buccie di bergamotto e limone nata dalla collaborazione con Luigi D'Amelio di Extraomnes. Nel bicchiere si presenta di un bel colore dorato carico, appena opalescente, con riflessi arancioni e una schiuma bianca, la perlage fine, compatta e abbastanza persistente. Al naso i sentori di dragoncello e agrumi sono in evidenza accompagnati da note erbacee e speziate. In bocca è coerente, leggermente amara con un finale non troppo lungo, secco ed elegante. La luppolatura leggera ma decisa rendono la bevuta avvincente, perfetta a tutto pasto. Grazie anche ai 5 gradi Abv. Vi consiglio di servirla in un tulipano ad una temperatura di 8°C. Salute, e fate i bravi!
Cockails a cura di Riccardo Meniconi
GENNAIO
MARZO
con l'oliva briskolana (p.36)
con l'involtino primavera (p.218)
Martini Dry
Wasabi Mari
cocktails
In origine per la preparazione veniva usata una varietà di nome "Ascolana tenera del Piceno DOP", oliva dalla polpa consistente e nocciolo piccolo facilmente separabile dal resto; oggi tuttavia si prediligono olive greche per la dimensione maggiore e il prezzo sicuramente più contenuto. Il ripieno però è rimasto pressappoco invariato. Probabilmente ogni famiglia ne custodisce gelosamente la propria versione ma generalmente è composta da carne di manzo, maiale e pollo con l'aggiunta di scorza di limone e vino bianco. Le olive ascolane vengono spesso servite come antipasto o aperitivo, quindi le abbineremo ad un classico pre-dinner. Parlando di cocktail e olive non può non venire in mente, erroneamente oserei dire, il Martini Dry. Erroneamente perché la famosa oliva in realtà andrebbe servita a parte e non all'interno del bicchiere, per non "sporcarlo", come invece è richiesto nella versione Dirty Martini che prevede l'aggiunta della salamoia delle olive stesse. Semplice e diretto, due ingredienti che si uniscono per dar vita ad uno dei cocktail più emblematici della storia. Amato da grandi scrittori, come ad esempio Ernest Hemingway, il quale ci ha persino lasciato una sua variante conosciuta come Montgomery o Hemingway Martini, che condivide gli ingredienti e la preparazione con originale ma sbilanciato dalla parte del gin allo scopo di renderlo più secco. Pur essendo un ottimo aperitivo non è sicuramente una bevuta facile: è un cocktail adulto, che si fa amare con il tempo. Veniamo quindi alla preparazione, un vero e proprio rito per gli amanti del genere. Prima di tutto raffreddiamo una coppa Martini, poi in un mixing glass colmo di ghiaccio versiamo: • 6 cl di gin; • 1 cl di vermouth dry. Mescoliamo velocemente, senza diluirlo troppo. Togliamo il ghiaccio dalla coppa e versiamo il cocktail filtrando il tutto. Aggiungiamo un twist di limone spruzzandone gli olii essenziali sul bordo del bicchiere facendolo poi cadere all'interno dello stesso e serviamo.
L'involtino primavera è un piatto tipico della cucina cinese, servito spesso come antipasto ma può essere anche un ottimo aperitivo. Quindi perché non abbinarlo ad un cocktail dai sentori orientali come un Wasaby Mary a base di sakè? Il sakè è la bevanda alcolica tradizionale giapponese e si ottiene tramite la fermentazione del riso, non dalla distillazione come parecchi credono. Sembra abbia fatto le prime apparizioni nella Cina del 5000 a.C. e che solo successivamente sia stato portato in Giappone. I primi produttori, dovendo scindere gli zuccheri complessi in zuccheri semplici per permettere ai lieviti di trasformali in alcool, e non conoscendo ancora la tecnica della maltazione, erano costretti a masticare il riso per poi sputarlo per farlo fermentare. Da questo processo prende il nome il primo sake, “Kuchikami”, letterlamente masticato in bocca. Si consuma principalmente durante i pasti, come un vero e proprio vino di riso, e può essere servito sia freddo, in bicchiere di vetro, o caldo, in tazze di ceramica. Freddo, se di buona qualità, è paragonabile ad un nostro vino bianco, con sentori molto particolari e intriganti. Se lo vogliamo invece gustare caldo va scaldato a bagnomaria nella sua bottiglia tradizionale, il tokkuri, e va lasciato intorno ai 37/40 gradi per apprezzarne al meglio ogni sfumatura. Nel nostro caso andrà a sostituire la vodka e donerà un'incredibile aromaticità e complessità al drink. Procediamo quindi alla preparazione. Riempiamo il mixing glass di ghiaccio e versiamo: - 2 parti di sakè - 3 parti di succo di pomodoro - 2 gocce di tabasco (o più a vostro piacere) - una goccia di salsa Worchestershire - un quarto di parte di succo di limone - un pizzico di wasabi - sale e pepe q.b. Mescoliamo velocemente e striniamo in un tumbler alto colmo di ghiaccio. A guarnire un gambo di sedano e una fettina di zenzero fresco.
595 - BBQ4All Magazine
L'oliva all'ascolana è simbolo di un intera regione e diffusa in tutta italia, ma è appunto ad Ascoli che trova il suo natale. Saporita, croccante e deliziosamente fritta.
Cockails a cura di Riccardo Meniconi
APRILE
GIUGNO
con il churrasco di picanha (p.314)
con lo gnocco fritto (p.502)
Il churrasco è il tipico modo di grigliare brasiliano e consiste nel cuocere vari pezzi di carne alla brace infilandoli in speciali spiedi a forma di spada in modo da poter girare la pietanza ed avere una cottura uniforme. Si può grigliare di tutto, dalle alette di pollo al lombo di maiale, passando per il codone di manzo, chiamato più propriamente Picanha, il pezzo più rappresentativo e gustoso della grigliata sudamericana. La carne solitamente è marinata e tagliata in pezzi più o meno grandi, la particolarità di questa cottura è che la carne essendo abbastanza lontana dalla fonte di calore cuoce lentamente e acquisisce un leggero sentore di affumicato. Famosa come la carne brasiliana c'è solo la cachaca, il distillato nazionale del Brasile che si ricava dalla fermentazione della canna da zucchero, processo simile a quello utilizzato per il rum, ma al quale non può essere accostato per una sostanziale differenza organolettica. Si distingue infatti la nota dolce della canna da zucchero, ma è solitamente sgraziata e accompagnata da una forte nota eterea che lo rende molto difficile da bere liscio. Trova però posto all'interno di cocktail come la Caipirinha o nelle batidas di frutta. La Caipirinha è il drink brasiliano per eccellenza, creato probabilmente per rendere potabile questo distillato povero tipico delle favelas, consumato principalmente dalla gente che lavorava nei campi per alleviare la fatica. Il nome infatti sembra che derivi dalla parola caipira, che viene usata per indicare gli abitanti delle zone rurali. Essendo un cocktail povero è anche molto semplice da realizzare, e anche se non è facilissimo reperire la Chacaca, è possibile trovarla in negozi specializzati (o magari valutare una delle tante varianti come la Capiroska a base di vodka o la Caipirissima a base di rum bianco). Si parte con 2 bar spoon di zucchero di canna bianco in un bicchiere old fashioned precedentemente raffreddato, mezzo lime tagliato in 4 e pestiamo velocemente per farne uscire il succo, si aggiunge poi il ghiaccio, tritato o in cubetti, e per finire 5 cl di cachaca.
596 - Almanacco 2020
Mescoliamo e serviamo con uno spicchio di lime e due cannucce corte
"Quando sentii la prima volta nominare la crescente, credei si parlasse della luna; si trattava invece della schiacciata, o focaccia, o pasta fritta comune che tutti conoscono e tutti sanno fare, con la sola differenza che i bolognesi, per renderla più tenera e digeribile, nell'intridere la farina coll'acqua diaccia e il sale, aggiungono un poco di lardo." (Pellegrino Artusi, La scienza in cucina e l'arte di mangiar bene, 1891)" Il Gnocco fritto, crescentina, torta fritta, pinzino...Insomma, chiamatelo come volete, l'importante è che sia fritto, caldo e in compagnia dei migliori salumi e formaggi che si possano trovare. Se per caso passate nelle vicinanze di Modena, verso l'ora dell'aperitivo o poco prima di cena, sicuramente troverete sulle tavole cesti pieni di questa delizia e nei bicchieri litri di lambrusco. Vorrei però proporvi qualcosa di diverso. In questo pre Dinner un po' particolare il Lambrusco sostituisce il prosecco per dare vita ad un Twist del tutto nuovo del Negroni Sbagliato, chiamatelo simpaticamente se volete, Negroni Molto Sbagliato. Conoscete bene il Negroni, specie se frequentate da tempo la nostra Community. Sapete dunque cosa si intenda anche per Negroni sbagliato: nato nel bar Basso di Milano, differisce dal classico Negroni amaro fiorentino per la presenza dello spumante brut che sostituisce il gin in quello classico. Un Negroni più leggero, dunque. Noi siamo andati oltre. E lo abbiamo sbagliato ancora un po’. Per prepararlo ci servono: • 2,5cl di Campari Bitter • 2,5cl di Martini Rosso Antica Formula • 2,5cl di Lambrusco • Peel d'Arancia Procediamo così: In un tumbler colmo di ghiaccio versiamo il Campari e il vermouth, con un bar spoon mescoliamo vigorosamente in modo da diluire leggermente il composto e finiamo con il lambrusco e la scorza d'arancia. Da bere in buona compagnia preferibilmente tra le 17 e le 20.
liquori
La Caipirinha
Negroni Sbagliato
Liquori a cura di Riccardo Meniconi
SUNTORY TIME!
For relaxing times, make it Suntory Time! I più appassionati di cinema avranno subito associato il titolo dell’articolo al film da cui la citazione è tratta. Questa è infatti una frase pronunciata da Bill Murray in Lost in translation, dove Murray interpreta un attore in declino che vive in Giappone e per cercare di sopravvivere sponsorizza diversi prodotti, tra cui lo Yamazaki 12 anni prodotto dalla Suntory. La scena è paradossale, e sembrerebbe la classica marchetta a un prodotto scadente. Ma così come il film nel 2003 ha vinto 4 oscar anche lo Yamazaki ha fatto incetta di premi. Nel 2003 infatti il whisky prodotto dalla Suntory è stato il primo maltato giapponese a conquistare il primo premio all’International Spirit Challenge. Da quel momento per la Suntory è stato un susseguirsi di riconoscimenti, culminati poi nel premio “miglior Whisky al mondo” nel 2015. Il percorso per arrivare a questo riconoscimento è stato lungo ed è cominciato nei primi anni del ‘900 quando Masataka Taketsuru di ritorno dalla Scozia, dove aveva studiato per 5 anni le arti della distillazione, incontra l’imprenditore Shinjiro Torii che stava aprendo la sua prima distilleria a Yamazaki. Il percorso intrapreso dai due coraggiosi non è semplice e la loro visione non è sempre la stessa. Torii è alla ricerca di un gusto più morbido, adatto ai palati giapponesi, mentre Taketsuru vuole mantenere una linea più pura con uno stile più simile a quello scozzese. Le diatribe tra i due portano a un’inevitabile divisione e a intraprendere strade differenti. La Suntory rimane in mano a Torii mentre Taketsuru qualche anno dopo fonda la sua distilleria che ora è diventata l’attuale Nikka. Oggi troviamo ancora le due aziende che si contendono la leadership del mercato nipponico anche se negli ultimi anni si sono affacciate altre aziende, come la Kirin, e piccoli produttori come la White Oak. E’ una filiera di successo e in rapida espansione che deve il merito soprattutto alla purezza dei corsi d’acqua e al clima, nettamente distinto nelle quattro stagioni, che consente un invecchiamento più fluido e permette al whisky di affinarsi ulteriormente.
Questo whisky è una miscela invecchiata in 5 tipi diversi di legno, tra cui il rovere, lo sherry e il Mizunara, raro legno giapponese che caratterizza molto questo prodotto. La linea Hibiki della Suntory è molto giocosa al palato, caratterizzata da un’ampia profondità di sapori che si percepisce molto lentamente su tutta la lingua. Le prime sensazioni che si avvertono sono quelle del malto e della quercia, entrano quindi le note floreali che sono arricchite da sensazioni agrumate. È un whisky estremamente piacevole da bere, occhio a non finire la bottiglia però!
597 - BBQ4All Magazine
Altra particolarità della filiera è che in alcune distillerie ogni singolo alambicco usato per la distillazione è diverso dall’altro. Questo sistema permette di ottenere da ognuno di essi un whisky leggermente diverso. L’offerta di maltati nipponici è molto differenziata non solo come varietà ma anche per i prezzi. Quello che vi proponiamo oggi è appunto quello citato nel film Lost in translation: il Suntory Hibiki Harmony.
ALMANACCO 2020 VOLUME II
Direttore Editoriale Rossella Neiadin
Redattore Capo Michela Bongiorni
Redazione
Enio Berton Virgilio Brunetti Tommaso Buccafurri Nunzia Clemente Roberto Dal Bosco Tommaso Di Gregorio Salvatore Di Mento Luca Gallozza Mariangela Ibba Gianfranco Lo Cascio Riccardo Meniconi Giovanni Minelli Emiliano Nencioni Stefania Pompele Andrea Spaggiari Alessandro Trezzi Carlo Trono Alberto Zonghetti
Realizzazione Grafica
Impaginazione Carlo Trono Illustrazioni di Eleonora Castagna e Ozzy Bellesi Fotografie di Rossella Neiadin, Tommaso Buccafurri, Luca Gallozza, Elisa Giuli, Emiliano Nencioni
Stampa
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N°19/ANNO 2 - LUGLIO 2020
MAGAZINE
L'EDITORIALE DI GIANFRANCO LO CASCIO
REVIT E SOUS VIDE A CONFRONTO
FRENCH DIP: COME SI FA
LA BAGUETTE PERFETTA
LA RICETTA SCIENTIFICA
B R AC I O L A DI MAIALE
E PATATE ARROSTO
AMERICAN DREAM ITALIAN BBQ
Gumbo, la pizza Chicago Style, Memphis Style ribs, Tacchino ripieno, Chimichanga, Juicy Lucy, Sloppy Joe, Pomodori verdi fritti, Burgoo, Cobb Salad
Editoriale di Gianfranco Lo Cascio
La bistecca scientifica
REVIT vs SOUS VIDE a confronto
004- Almanacco 2020
Facciamo un gioco di ruolo. Voi siete un cameriere, io un commensale. Sono seduto, consulto il menù con prontezza, voi vi avvicinate al tavolo ed io esclamo: “Un calice di vino per favore”. Voi cosa fate, a quel punto? Oltre a cadere dal pero intendo. Quante domande pensate siano necessarie per capire quale tra le decine di bottiglie disponibili in cantina sia proprio quella che fa al caso mio? Lo voglio bianco o rosso? Secco o fruttato? Del Nord o del Sud? Estero? Fermo o mosso?
resta che imparare a sceglierla e cucinarla in maniera adeguata, oppure continuare a vivere nell'incertezza e nella confusione, la stessa che avreste, o per meglio dire avremmo, nello scegliere tra una seta Bourette e una Crêpe (bóne le crêpe!) Alcuni preferiscono nascondere la testa sotto il rub. Comprano carnaccia a caso, da chiunque, senza avere la benché minima idea di cosa vogliano dire certe sigle e certi nomi stampati sulle confezioni. E poi ci sono quelli come voi, miei affamati lettori, i testardi del gruppo. I maniaci del controllo. Quelli che devono andare in fondo alle cose perché è vitale riuscire a trovare il bandolo della matassa.
Ora invertiamo le parti, immaginate di essere voi il cliente e io il macellaio. Alla domanda “Posso avere una bistecca frollata” quanti quesiti dovrei sottoporvi per capire che tipo di carne frollata state cercando? Vitello, vitellone, manzo, scottona, vacca? Quanto marezzata? Allevata da chi e dove? Italiana o Estera? Chianina, Angus o Wagyu? Dovreste ormai avere ben chiaro che la frase “Una bistecca frollata” non vuol dire assolutamente nulla, e nella maniera più categorica.
Facciamo un ripassino su ciò che ripeto spesso riguardo al Revit (Reverse searing a 52°C più dry brining) che male non fa: Ho detto che è sconsigliato farlo con le carni fresche, non marezzate e non frollate? Sì, vero. Ho detto che ha senso farlo con le carni frollate? Sì, vero. Ho detto che non ha senso farlo con la GLC Top Selection? Sì, vero. Eppure c’è qualcuno tra voi che è ancora un pochino confuso, ma lo Zio è qui apposta per spiegare.
Non esiste “il vino”. Esistono “i vini”. Non esiste “la carne frollata”. Esistono “le carni frollate”. Ora, se volete bere bene avete due strade: o imparate a conoscere i vini oppure vi affidate ad un esperto.
Pensate che tra il punto numero due e il punto numero tre non ci sia niente in mezzo? Beh, ho una buona e una cattiva notizia per voi. La cattiva è che tra il secondo e il terzo aspetto c'è un abisso profondo.
Vi sarà capitato almeno una volta nella vita di leggere nomi di vitigni o di cantine che non vi dicevano assolutamente nulla. Perché non eravate o non siete esperti di vino. Non è mica un crimine eh, avrete senz’altro competenze in altri settori e passioni per altri piaceri materiali. Per esempio, so per certo che avete una sana ossessione per la carne. Quindi, appurato ciò, non vi
Vi ricordate quando sopra ho fatto l'esempio del vino? Bene, è il momento di capire perché. E questa è la buona notizia. Parto dal presupposto che abbiate studiato la Mail Class e che abbiate letto i miei vecchio editoriali, perché non posso riscrivere un fiume di roba sulla frollatura, marezzatura e dry brining.
Una carne non frollata e non
marezzata custodisce una struttura proteica praticamente integra. I complessi di miosina, actina e connettivo non sono ancora stati attaccati dai processi enzimatici. Conservano perfettamente la loro elasticità. Somministrare calore ad un pezzo di carne non frollata significa strizzarla completamente, provocare l'espulsione dei liquidi grazie alla pronta risposta delle strutture proteiche. L'assenza di grasso infiltrato nelle fibre è indice di mancanza di sapore. Perché, come sappiamo, le informazioni aromatiche del bovino sono principalmente registrate nel grasso. Fare Revit su carni di questo tipo,
quindi, è assolutamente sconsigliato perché controproducente. Si asciuga la carne esteriormente, si strizza all'interno, le proteine si contraggono e il risultato è un gustosissimo trancio di cartone ondulato. E allora cosa vi consiglio in questo caso? Se proprio non riuscite a fare a meno di comprare la carne sotto casa, mettetela in dry brining per almeno un giorno e mezzo. Il sale produrrà una degradazione non enzimatica dei complessi proteici rendendola quantomeno decente alla masticazione. Metterla in Reverse non è consigliato perché non è detto che dentro il vostro pezzo di ciccia ci siano calpaine e catepsine. Non è nemmeno certo che alla temperatura corretta questi enzimi si attivino. È molto probabile invece che la bistecca si trasformi nel tappetino del mouse. Nel dubbio, dry brining sì, Reverse no. Passiamo alle carni frollate e marezzate “che trovate in giro” e che devono essere: • Ricavate da bovini allevati con standard qualitativi elevatissimi. • Perfettamente frollate e ben marezzate. • Succose e tenere. • Economiche. Una carne economica non può essere anche allevata con elevatissimi standard qualitativi, perfettamente frollata e marezzata, buonissima, succosa e tenera. Produrre una carne di questa risma significa sostenere costi di produzione sensibilmente elevati. Dovete mettervi nella zucca che questi costi qualcuno li deve pagare. E che nessuno vi fa
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Secondo voi, due banane, una molto acerba e una matura, hanno la stessa struttura e consistenza? No. Hanno lo stesso sapore? No. Alla masticazione sono due prodotti completamente diversi. La prima è turgida, acre, che lascia una nota erbacea sulla lingua e la sensazione di bocca asciutta. Quella matura è soffice, vanigliata, con sentori vagamente alcolici e lascia una sensazione di unto e fauci impastate. Eppure sempre banana è, giusto? Il punto, nelle intenzioni, è identico che con la carne. Tanto sempre carne è, giusto?
risparmiare perché si preoccupa di voi. Un prezzo stracciato attira un bacino di persone con basse capacità di spesa. E queste persone vivono nell'illusione di agguantare la migliore qualità possibile per pochi spiccioli. E vantandosene pure. Ma se vi fermate un attimo a riflettere, come potrebbe una persona ammettere di aver comprato un prodotto di scarsa qualità, ad un prezzo basso, senza sentirsi un po' fessacchiotto? Esatto, non può. Deve necessariamente uscirne, in qualche modo, vincitore: “Ho comprato un’ottima carne ad un prezzo bassissimo, sono un grande, ho fatto un affare!”
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Questa è, nella media, l'illusione del consumatore che fa la corsa al risparmio. Molti ne sono addirittura ossessionati. Pensate ai saldi. Poi c'è la realtà, quella brutta, che ti dice che un'Alfa Romeo non sarà mai una Bentley. E chi compra Bentley lo sa. E chi produce Bentley lo sa. Perché nel processo di produzione, la corsa al risparmio non è minimamente tenuta in considerazione. La Bentley costa quello che costa semplicemente perché non è prodotta sulla base di compromessi al ribasso. Ma veniamo al punto: Certo che esistono carni che stanno nel mezzo tra “Frollata e Marezzata” e “GLC Top Selection”. Ed è per raggiungere risultati accettabili su queste carni che vi ho insegnato le tecniche di cui abbiamo parlato. Non voglio mettermi a fare nomi di brand, marche, farms eccetera. Non è questo il punto. Il punto
è che se non è nel Megastore non è Top Selection. Esistono carni allevate con metodi “non al top”. Che hanno un sapore “non al top” e che hanno una consistenza “non al top” pur essendo ben marezzate e ben frollate. Queste sono le carni con cui potete, anzi dovete usare le tecniche che vi ho insegnato. Perché la struttura è comunque almeno in parte degradata. Perché il grasso garantisce un sapore dignitoso e una buona morbidezza e perché si può ancora intenerire agendo a livello enzimatico. Ecco perché vi dico di applicare il Revit con le carni che trovate in giro. Se non avete capacità di spesa per il Megastore (e non
c'è assolutamente nulla di male in questo) e volete comunque divertirvi, le tecniche che vi ho insegnato vi permetteranno di migliorare sensibilmente il risultato finale. Vi consentiranno di intenerire la carne, di asciugarla all'esterno per una buona Maillard che amplifica il sapore e tutto il palinsesto. Parliamo invece della carni che ho selezionato per voi Standard qualitativi? I migliori del globo. • Frollatura? Mai meno di 45/50 giorni. • Marezzatura? Da molto marezzata a spaventosamente marezzata. • Sapore? Indimenticabile, dà assuefazione. • Tenerezza? Imbarazzante.
Ora, davvero, a me sembra tutto molto chiaro e lineare. E spero che la confusione si sia dissipata leggendo questo mio scritto. Il Revit, Reverse searing a 52°C più dry brining – una procedura che ho messo a punto personalmente – è una tecnica che ho studiato per permettervi di ottenere risultati migliori con carni che non sono le migliori in circolazione e che incontrano la capacità di spesa di molti. Ma ribadisco, a gran voce, per la mia selezione, le tecniche che avete imparato potete modularle in modo funzionale al risultato. Volete una Maillard più marcata? Sapete come fare. Volete scaldarla uniformemente? Sapete come fare. Volete mangiarla dallo skin buttandola in padella? Sapete come fare. Volete farla in sous vide? Sapete come fare. La mia carne vi perdona tutto, pure gli errori. Le altre non vi perdonano niente.
Quindi ci hai insegnato il Revit per dimostrare che le carni da battaglia non potranno mai arrivare ai livelli della GLC Top Selection, nemmeno con questa tecnica? Sì, è esattamente così. Ma vi ho dato uno strumento per cucinare e mangiare la carne molto meglio di chiunque altro. E mi sembra che su questo, dubbi, non ce ne siano più.
RIBEYE in REVIT VS RIBEYE SOUS VIDE + ASCIUGATURA A 52°C
Ma adesso vediamo cosa succede quando metto a confronto due delle mie “fettine”, una trattata con metodo Revit e una scaldata brevemente sottovuoto e poi asciugata in forno a 52°C. Ho preso due ribeye australiane AACO Wagyu F1 Crossbreed, con un livello di marezzatura medio-alto (3+) e dello stesso peso (400 g). Che cos’è il Wagyu F1? È il risultato di una selezione genetica di incroci fra bestiame Wagyu giapponese con razze continentali: potete ammirare dalle fotografie la trama straordinaria del grasso intramuscolare dipinta sulle due bistecche. Per questa tipologia di carne, già frollata e marezzata, basterebbe una leggero tamponamento con carta assorbente e una bella botta di calore su ghisa fino al raggiungimento della temperatura ottimale al cuore. Ma noi vogliamo tutte le sfumature del godimento, non ci possiamo accontentare della cottura alla brutazza. Prendo la prima ribeye, cospargo con il sale da una parte e dall’altra e lascio in frigorifero fino al giorno dopo. Trascorse le dodici ore, piazzo la bistecca su una teglia forata e la schiaffo in forno ventilato a 52°C (viene benissimo anche nell’essiccatore). Apro lo skin pack della seconda ribeye, asciugo con carta assorbente e la trasferisco in un sacchetto adatto alla cottura sottovuoto. Preriscaldo il bagno termostatico a 52°C e quando l’acqua ha raggiunto la temperatura target immergo il prezioso pacchetto con la carne. Dopo 30 minuti, il tempo di scaldarla, tiro fuori la bistecca dal sacchetto e la asciugo con cura con la carta. Adagio su una teglia forata e piazzo in forno a 52°C per un’ora. Trascorsi i 60 minuti asciugo la seconda ribeye con carta assorbente, più volte, ungo con poco olio e sbatto su piastra rovente in ghisa, misurando la temperatura con un termometro ad infrarossi (300°C). Tengo la carne a stretto contatto con la superficie incandescente per pochi secondi per lato, il tempo necessario per ottenere una buona reazione di Maillard ed una temperatura di 52°C al cuore, lascio riposare per qualche minuto prima di sbranarla.
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Perché io la scelgo per voi già così. Ovvio che poi ci si può giocare. La mia selezione regge un Reverse di 8 ore? Certo che sì! Ma non è fondamentale farlo. Vi aiuterà semplicemente ad asciugare la ciccia e ottenere una Maillard migliore. La mia selezione regge un dry brining di 36 ore? Certo che sì! Ma non è fondamentale farlo. Vi aiuterà semplicemente a conferire una sapidità uniforme. La mia selezione regge una cottura Sous Vide di 4 ore a 52°C? Certo che sì! Ma non è fondamentale farlo. Perché è già tenera, è già burro. Farlo vi permetterà di scaldare la bistecca uniformemente prima di passarla sul ferro. Ma è davvero utile tenerla 4 ore a bagno? No.
Bistecca preparata con il metodo REVIT: Maillard
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Bistecca scaldata sottovuoto e poi asciugata a 52°C: Maillard
Passiamo all'altra bistecca: tampono leggermente, tanto è già asciutta all’esterno, ungo con olio e piazzo sulla piastra in ghisa, che ha raggiunto nuovamente i 300°C. Cuocio 30 secondi per lato, non di più, e il risultato è avvolto in una crosta soffiata color caramello, cottura al cuore omogenea e impeccabile, interno umido ma meno grondante rispetto alla sorella scaldata sottovuoto.
E il gusto? Eccezionale in entrambi i casi. La bistecca fatta in Revit ha un sapore più concentrato e una crosticina superficiale scrocchiarella, mentre la bistecca scaldata in sous vide e poi asciugata in forno risulta più succosa e umida. Qual è la migliore? Tutte e due. E sono entrambe migliori di tutte le bistecche che trovate in giro.
Gianfranco Lo Cascio
Bistecca scaldata sottovuoto e poi asciugata a 52°C: cottura interna
Bistecca preparata con il metodo REVIT: cottura interna
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Potete analizzare il risultato in foto: crosta accentuata e color mogano, cottura uniforme e priva di mouse ring (l’alone grigio che sa di lesso), interno umido e succoso.
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La globalizaizazitempione di Colombo
Portfolio Gastronomico a cura di Alberto Zonghetti
È da poco finito giugno, il mese degli esami di maturità: può capitare a noi docenti, verso la quarta ora di colloqui, che il nostro pensiero ogni tanto possa divagare, soprattutto quando il candidato inizia a parlare di morfologia greca e magari non conosciamo nulla di tale lingua. Accade allora che la mente possa concentrarsi sugli argomenti trattati precedentemente che ci ricordano il nostro, di esame, diversi anni, decenni addietro. Qualche giorno fa è capitato al celebre “Dialogo tra la Natura e un Islandese” di Giacomo Leopardi, che qualcuno di noi ricorderà, alcuni con orrore, altri con entusiasmo (io appartengo, lo ammetto, alla seconda categoria); altri, forse, non lo ricorderanno affatto. Così, tra le riflessioni, la stanchezza e l’anidride carbonica inalata dopo ore di respirazione con la mascherina, si sono confuse in un viaggio onirico ad occhi aperti le parole del sommo poeta di Recanati e quelle di Michela Bongiorni, caporedattore del Magazine (“Dovrai scrivere un testo riguardante i prodotti che nei secoli scorsi abbiamo importato dall’America”). Ne è nato questo breve dialogo immaginario che, me ne sono accorto mentre concludevo la stesura, è fortemente influenzato dalle surreali situazioni dipinte con maestria all’interno della rubrica “Seguo” (della quale ammetto di essere un fan) . DIALOGO TRA UN DISCEPOLO DI LO CASCIO (O DEL BUON SENSO) E UN BUCASALSICCE (O DELL’ITALICO MEDIO) [ …parlando di cucina] DISCEPOLO: …poi mi piace viaggiare, sono andato spesso in molti paesi esteri. BUCASALSICCE: Hai trovato molti ristoranti italiani? D: Veramente non li ho proprio cercati… B: Che hai fatto, hai mangiate quelle schifezze che ti danno fuori dall’Italia? D: Schifezze…non direi, anzi ho trovato diversi spunti interessanti. B: Si, per il cibo dei cani! D: Ma no, questo è un pregiudizio, in realtà se prendi in esame la cultura del luogo puoi comprendere che la cucina del posto… B: Non giriamoci intorno, la cucina italiana è la migliore del mondo! D: Sicuramente tra le migliori, intendo per la varietà da cui è costituita e dall’attenzione per il cibo anche nella quotidianità. B: Pensa a quanto cibo italiano abbiamo esportato! E poi alla dieta mediterranea! I nostri simboli: il pomodoro, caspita, un monumento dobbiamo fargli! I peperoni, i peperoncini, le melanzane. Penso a mia nonna e ai suoi gnocchi di patate… D: Veramente tutti questi prodotti vengono dal Sudamerica, sai, Cristoforo Colombo, poi i Conquistadores… B: Non mi toccare i fagioli con le cotiche della trattoria “Da Maria”! D: Anche quelli sono importati, in Europa esisteva solo una varietà oggi abbastanza rara, i fagioli con l’occhio, piccoli e diversi da quelli conosciuti oggi. B: [espressione attonita] D: In realtà, tranne le melanzane che provengono dall’Asia, sono tutti importati dall’America, assieme al tacchino, al mais, al cacao, alla zucca, all’ananas e a diversi altri prodotti, magari meno utilizzati: le arachidi, la vaniglia, l’avocado, il mango, la papaya. B: Eh si, ma allora che mangiavamo prima? Mi sa che sei un complottista anti-italiano, avrai letto delle fake news! D: Guarda che lo puoi trovare in molti testi che parlano di cucina. B: E chi ha il tempo [e voglia, aggiungo io] di leggere! D: Si, in effetti hai ragione, leggere al tempo d’oggi proprio non è di moda.
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illustrazioni di Eleonora Castagna
I cibi che abbiamo importato dalle Americhe e che sono diventati i simboli della nostra cucina.
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Il termine che ho usato per il titolo di questo articolo – globalizzazione – è fondamentalmente utilizzato in modo improprio: tale fenomeno è infatti stato introdotto negli anni ’90 del secolo scorso per indicare un insieme piuttosto ampio di accadimenti, connessi con la crescita dell’integrazione economica, sociale e culturale tra le diverse aree del mondo. Ma Cristoforo Colombo è considerato da alcuni il padre, inconsapevole, della globalizzazione: dopo di lui infatti tutto si rinnova: frontiere, spazi, mercati, una nuova economia mondiale, con regole e protagonisti diversi, sconosciute antichissime e floride culture, ma anche nuovi problemi e tragedie. Noi parliamo però di cibi, cucina, tradizioni: molti sono a conoscenza del fatto che, anche se potrà sembrare strano, fino al 1492 non esistevano in Europa molti prodotti che oggi ci sembrano l’emblema della nostra cucina e della dieta mediterranea. La nostra domanda è la seguente: quali prodotti sono stati importati dalle Americhe? L’elenco lo potete trovare ovunque all’interno della Rete: noi cercheremo di capire, invece, le ragioni profonde del perché un prodotto importato sia stato capace di inserirsi o meno all’interno della tradizione gastronomica italiana. Sembrerebbe semplice: arrivo in una terra nuova, trovo prodotti alimentari mai visti, li assaggio, accolgo quelli che mi piacciono, ringrazio, e li inserisco nella mia cucina. Sbagliato, non è proprio così. L’adozione e l’incorporazione di nuovi alimenti, sia nella cucina italiana sia nelle varie tradizioni gastronomiche del mondo, non sono avvenute immediatamente, né in maniera consequenziale. Dopo un viaggio fisico attraverso l’Oceano Atlantico, i nuovi cibi dovevano spesso completare un percorso teorico, psicologico, culturale nelle menti del pubblico a cui si rivolgevano per essere riconosciuti come alimenti. Ci sono almeno tre fattori che hanno determinato la diffusione dei nuovi ingredienti. Il primo riguarda la presenza o meno di omologhi, ovvero di prodotti simili già riconosciuti come cibi sani e salutari nel sistema gastronomico italiano; per esempio, l’associazione del tacchino al pavone, o
il mais ad altri grani, facilitava il loro trasferimento dai giardini di meraviglie agli orti di cucina. In altri casi, invece, l’omologo trovato ostacolava la sua incorporazione, come ad esempio nel caso del pomodoro, guardato all’inizio come una pianta pericolosa al pari della mandragola. Il problema per le patate, invece, era che gli alimenti europei a cui erano paragonate non chiarivano il loro possibile uso culinario; l’aspetto esteriore assomigliava ai tartufi, ma non si poteva usarle nello stesso modo. Il secondo fattore si collega alla possibilità di far parte o meno della cucina rinascimentale, caratterizzata da sapori forti, da spezie aromatiche, da salse di accompagnamento e artificio: il tacchino, ad esempio, è entrato nella cucina delle classi alte in ricette elaborate e speziate. Il terzo e ultimo aspetto riguarda le classi sociali, in quanto i cibi venivano percepiti in modi diversi dai vari ceti: per i poveri il tacchino era soltanto un simulacro del paese dei sogni, mentre era alimento centrale per i ricchi; il granturco invece era mangime per animali, che soltanto i poveri con i loro stomaci forti potevano abbassarsi a mangiare. Le divisioni sociali così rigide si allentarono con il passare dei secoli, per arrivare al tempo dell’unificazione italiana e dell’industrializzazione delle città: a questo punto la cucina borghese esemplificata nel libro di Pellegrino Artusi, La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene pubblicato nel 1891, è diventata lo stile nazionale. Ma poniamoci un’altra do-
LA CUCINA AZTECA Arrivando nelle Americhe, gli spagnoli si confrontarono con una vera e propria tradizione culinaria, poiché gli Aztechi avevano elaborato una cucina fra la più raffinate della meso – america e, addirittura, pare che godessero di un regime alimentare più vario ed equilibrato di quello degli europei contemporanei. L’elemento base della cucina azteca era il mais, un tipo di coltivazione molto importante nella loro società, come lo era il frumento in Europa o il riso in buona parte dell’Asia orientale. Esistevano numerose varianti per colore, aspetto, dimensione e qualità, e veniva consumato sotto forma di tortilla, tamal e atole. La combinazione di questo ed altri alimenti base – sale, peperoncino, fagioli, semi di amaranto - forniva all’azteco medio una dieta completa senza carenza di vitamine o minerali. La sua alimentazione comprendeva un’incredibile varietà di animali: tacchini ed altro pollame, geomidis (una sorta di roditore), iguana, axolotl (un genere di salamandra d’acqua), gamberi, pesci e molti insetti e larve. Le cucurbitacee erano popolari e venivano cucinate in molti modi: fresche, essiccate o arrostite, se ne mangiavano anche i semi. I pomodori, molto differenti dalle varietà coltivate oggi, erano consumati sotto forma di salse mischiati con peperoncini o come ripieno del tamal (per una magnifica reinterpretazione moderna dei ta-
males si veda il numero di settembre 2019 del nostro Magazine). La cucina azteca oltre ad essere varia era anche raffinata: ogni piatto era accompagnato da salse di differente colore (pomodori verdi e peperoncini verdi; pomodori rossi e peperoncino rosso) e da erbe aromatiche tagliate finemente. LA CUCINA RINASCIMENTALE Ma, di contro, quali erano le caratteristiche della cucina Rinascimentale? In attesa di un futuro approfondimento sulle pagine del nostro Magazine, ci basta sapere che tra le principali troviamo le spezie, anche se con Maestro Martino ci si avvia verso un loro uso più cauto e discreto rispetto agli eccessi medievali. Iniziamo intanto a sfatare un mito: l’idea molto diffusa dell’uso degli aromi per mascherare il gusto di carne imputridita è sbagliata. Le spezie, ricordiamolo brevemente, erano utilizzate come segno del benessere di chi ne faceva uso, oltre a bilanciare l’equilibrio dei cibi. Inoltre erano importate dall’Oriente e costavano molto di più della carne, quindi chi poteva comprarle non le sprecava mettendole sui cibi putrefatti. In ogni caso, sappiamo con certezza che una della ragioni commerciali che spinsero l’esplorazione delle Indie e delle nuove terre consisteva nella possibilità di acquisire importanti quantità di spezie. A livello culinario, altri elementi caratteristici dello stile rinascimentale erano la preponderanza della carne, l’importanza delle salsa di accompagnamento e la mescolanza del dolce e del salato, dato che lo zucchero era considerato una spezia. Un apprezzamento per l’artificio era un altro tratto distintivo di questo stile, elemento che si vede nelle sculture elaborate di zucchero chiamate trionfi, nelle preparazioni complicate con tanti ingredienti, e nelle presentazioni vistose, volte ad impressionare i commensali. IL PURGATORIO ORTIVO Il termine “Purgatorio” indica, nella teologia cristiana, uno dei regni dell’oltretomba, che rappresenta lo stato intermedio e transitorio di espiazione in attesa del Paradiso. Nel linguaggio parlato, lo utilizziamo come luogo di attesa, una “sosta a lungo termine” nell’aspettare un evento piacevolmente risolutivo.
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manda per comprendere ancora meglio il nostro viaggio: che cosa trovarono gli spagnoli al loro arrivo nel Nuovo Mondo?
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Per questo diciamo che tutte le piante precolombiane sbarcate in Occidente – di cui tra poco parleremo con maggiore dettaglio - conoscono il purgatorio dei giardini botanici, principeschi ed ecclesiastici. Arrivati come delle curiosità, molti dei vegetali americani saranno, per un certo periodo, coltivati unicamente come piante ornamentali, come ad esempio le varie specie di pomodoro nel corso dei secoli XVI e XVII, oppure il peperoncino, denominato in Francia corallo del giardino. Nell’attesa, il purgatorio ortivo può rivelarsi particolarmente lungo, a volte anche diversi secoli. Alcune diventeranno piante ortive (peperoncino, pomodori), altre, più robuste, lasceranno il giardino per essere coltivate nei campi (mais, patate). Alcuni vegetali non supereranno mai lo stadio della curiosità, sia per evidenti ragioni climatiche sia per delle questioni di gusto e di mode culinarie. È il caso del peperoncino, che in Francia non interessa ad una nuova cucina sempre più lontana dalle spezie, mentre si impone in Spagna ed in Italia meridionale sin dalla prima metà del XVI secolo. IL POMODORO Parliamo dell’emblema dell’italianità, del frutto (sembra strano, ma botanicamente è considerato tale) che trascende le distinzioni regionali e sociali, uno degli alimenti più diffusi in tutto il mondo: basti pensare alla pizza, alla pasta, ai sughi, alla caprese e così via. Ed è proprio al pomodoro che dedicheremo più spazio all’interno di questo percorso.
Il suo ingresso nella cucina italiana è stato tardivo e faticoso: giunse in Spagna dalle Americhe ad inizio del ‘500, ma non ebbe un gran successo, forse proprio perché era una pianta radicalmente nuova, che colpiva ma anche sconcertava per la forma e per il colore rosso acceso. Veniva considerata velenosa in quanto presentava affinità con specie tossiche come l’erba morella e la mandragola. I primi pomodori erano presumibilmente piuttosto piccoli, tanto è vero che venivano scambiati per grosse ciliegie; alcune specie erano gialle e per questo, sembra, gli italiani li battezzarono pomi d’oro (mela d’oro, pomodoro). “Al mio gusto è più presto bello che buono”, dichiarò un medico modenese dell’epoca. L’Italia fu il primo paese europeo, dopo la Spagna, a conoscere questo frutto, grazie agli stretti rapporti esistenti tra i Borbone e le famiglie regnanti dell’epoca, e ai domini spagnoli su territorio italiano. Ma la sua diffusione nel nostro Paese fu tuttavia assai lenta: la diffidenza iniziale verso il nuovo frutto, non associabile a nessun cibo già conosciuto, ne mortificò a lungo le potenzialità gastronomiche. Furono le classi popolari che cominciarono a degustarlo per prime, friggendolo nell’olio con sale e pepe, allo stesso modo delle melanzane e dei funghi. Sulle tavole dei ricchi, ancora alla meta del ‘600, il pomodoro compariva soltanto come elemento di decoro. Solo alla fine del Seicento riemerge nella cucina alta grazie al ricettario napoletano Lo scalco alla moderna di Antonio Latini (1692/4), nel quale troviamo la «salsa di pomadoro”. Questa diffusione è facilitata dal fatto che il suo utilizzo come salsa di accompagnamento rientra nella modalità d’uso che in un certo senso favoriva l’accettazione del nuovo prodotto, riconducendolo nell’ambito di una tradizione gastronomica consolidata, quella antica, medievale, rinascimentale. Anche per questo il pomodoro trova piena accoglienza nella cucina italiana del Settecento/Ottocento: il toscano Panunto, il romano Leonardi e il napoletano Vincenzo Corrado lo includono ormai senza remore nei loro ricettari. Troviamo le prime testimonianze di associazione con la pastasciutta
IL MAIS Portato da Colombo nel 1493, viene inizialmente coltivato, nel corso del XVI secolo, in Andalusia, nella Castiglia ed in Catalogna. Lo ritroviamo anche in Italia, allora sotto influenza spagnola. In Francia si impianta durevolmente nel sudovest a partire dalla prima metà del XVII secolo. Per comprendere le vicende riguardanti la sua diffusione in Europa dobbiamo recuperare la concezione, oggi a noi lontana (per certi versi) della stretta correlazione tra cibo e classi sociali: i ricchi mangiavano frumento, i contadini i cereali meno pregiati. Il percorso del mais nel Vecchio Mondo vede pertanto due strade: gli abbienti e gli studiosi lo piantavano nei giardini come un pianta ornamentale da collezione o come una meraviglia venuta dal Nuovo Mondo, i contadini lo coltivavano come mangime per gli animali. Con l’arrivo delle carestie, che colpiscono spesso l’Europa nel ’500, il mais diventa, da cibo per bestiame, un alimento importante nella dieta dei poveri, dato il suo alto rendimento rispetto agli altri cereali e alla ottimale integrazione nel ciclo di rotazione delle colture. La sua immagine, però, soffrirà molto del fatto di essere adoperato per nutrire gli animali e di venire utilizzato come cereale di sostituzione in caso di carestia. Per questi motivi non godette di un grande successo e la sua diffusione in Europa fu lenta e discontinua durante il XVI e XVII secolo, fatte pochissime eccezioni come il territorio del Veneto: lì, verrà accolto con maggiore entusiasmo dando origine alla polenta, uno dei piatti più rappresentativi di questo territorio. Solo successivamente otterrà un ruolo primario nell’alimentazione e diventerà parte integrante della cultura alimentare del Vecchio Mondo, superando le resistenze sociali che inizialmente ne avevano condizionato l’affermazione.
LA PATATA Come il mais, non fu immediatamente apprezzata dagli italiani, ma accettata soltanto durante periodi di fame e di carestia. Il tubero americano doveva fare i conti con diversi fattori principali che ostacolavano la sua incorporazione nella cucina del Belpaese. Primo, la pianta fa parte del genere solanaceae; altri membri di questo genere già conosciuti in Italia erano la mandragola e la belladonna, tutte e due piante velenose (infatti il frutto e le foglie della patata sono tossici). Un secondo problema era che i medici del tempo associassero le radici della pianta ai noduli dei malati di cancro e di lebbra. Altro fattore che minava alla popolarità dell’uso delle patate, almeno da parte degli aristocratici, era la sua identità di radice. Le parti commestibili crescono sottoterra e questo voleva dire che la patata era appropriata soltanto ai poveri, che avevano stomaci adatti a digerire gli alimenti “forti” provenienti dalla terra. Il problema più grande era però rappresentato dal non avere omologhi europei, mancavano le “istruzioni per l’uso” necessarie all’utilizzo del tubero bitorzoluto: assomigliava al tartufo ma non ne condivideva alcuna caratteristica. Pertanto anche questo alimento inizialmente stenterà ad affermarsi in Europa se non come cibo di carestia, fatta eccezione per l’Irlanda, dove si diffuse tra i ceti popolari già nella seconda metà del Seicento. Nel Settecento si assimilò il suo impiego a quello, tradizionale, delle rape: “Al-
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e con la pizza nel Cuoco maceratese del 1779 di Antonio Nebbia e poi in Cucina casereccia pubblicato nel 1839 da Ippolito Cavalcanti. Il matrimonio con la pasta segna dunque nell’Ottocento, dopo tre secoli dal suo arrivo in Europa, il trionfo del pomodoro: la versione moderna della salsa e dei suoi usi ci è data da Pellegrino Artusi nel 1891.
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lessate e tagliate in fette condite con agli, pepe, petrosellino, e oglio in un tegame – spiega l’agronomo riminese Giovanni Battarra – fanno un manicheretto gustoso”. Nello stesso secolo, in Francia, l’agronomo Parmentier ne apprezzò le qualità e promosse la diffusione su larga scala, che fu sollecitata anche dai pubblici poteri di altri stati europei. Più tardi, agli inizi dell’Ottocento, si affermò anche nella cultura “alta” e, a differenza del mais, andò ad occupare uno spazio fino ad allora sconosciuto. Inoltre si cominciò a usare nell’impasto degli gnocchi, una vivanda cara al gusto popolare fin dal Medioevo, preparata sino a quel momento con farina o con pane grattugiato. Del resto, l’e-
sperienza non tardò a mostrare quante raffinate elaborazioni fossero possibili con il nuovo prodotto d’oltreoceano: già i libri di ricette del primo Ottocento rivelano l’attenzione dei palati raffinati per l’uso in cucina della patata. Vincenzo Corrado, partenopeo, include un Trattato sulle patate o pomi di terra nel suo Cuoco galante. Da questo momento il tubero entra di diritto nella nostra recente tradizione gastronomica. PEPERONE E PEPERONCINO Più difficile appare la “promozione sociale” di un altro cibo americano, il peperone, che stenta parecchio, probabilmente per mancanza di cibi somiglianti, ad affermarsi nella cucina italiana. Ne troviamo alcuni cenni nella letteratura gastrono-
Nel XIX secolo, i peperoni sott’aceto di un oste veronese finiranno sulla tavola di Napoleone, dell’imperatore d’Austria e del re di Napoli: vicende che ci fanno capire come questo alimento abbia iniziato ad essere introdotto nella cucina aristocratica e borghese. Oggi è un simbolo della cucina mediterranea e tutte le popolazioni che si affacciano su questo mare ne conoscono innumerevoli ricette: dalla Spagna al sud della Francia, dall’Italia alla Grecia. Il peperoncino, al contrario, appena introdotto ebbe un immediato successo tra le classi meno abbienti, grazie alla sua facile acclimatazione, diventando aroma “popolare” e “spezia infuocata” con la quale sostituire condimenti costosi come pepe, cannella, noce moscata. Gli aristocratici continuarono, invece, a confinarlo nei giardini, poiché una prodotto popolare e a buon mercato perde la caratteristica principale: l’esclusività. (Per un approfondimento sul peperoncino rimando al numero di Gennaio 2020 del nostro Magazine). IL FAGIOLO Questo alimento costituiva una delle basi dell’alimentazione delle popolazioni mesoamericane. Già al momento dello sbarco degli spagnoli, i fagioli erano
costituiti da diverse varietà adatte quasi ad ogni clima e pertanto si dimostrarono superiori a molti legumi conosciuti nel Vecchio Mondo. Del resto fu proprio la familiarità di queste piante con quelle europee a permettere una sorta di riconoscimento prima e a facilitare, secondariamente, l’inserimento nell’alimentazione europea, facendo affermare il fagiolo già dal XVI secolo e favorendo ben presto la sua diffusione in Europa, Africa ed Asia. Ad ulteriore testimonianza di quanto fossero preziosi e ricercati i fagioli, ricordiamo la loro presenza nei ricettari del Messisbugo (assieme ai fagiolini), dello Scappi, e nel menù di un banchetto papale offerto nel 1570. In ogni caso, le nuove varietà importate dal Nuovo Mondo risultavano decisamente più produttive, versatili, dal sapore decisamente migliore. Non mi sono soffermato su altri prodotti e alimenti introdotti dalle scoperte del Nuovo Mondo perché ho scelto semplicemente di dare spazio ai cibi più diffusi e conosciuti nella nostra tradizione. Ricordiamo quindi cacao e vaniglia, da subito diffusi come spezie del Nuovo Mondo; la zucca, che però non era nuova in Europa; ananas, arachidi, vaniglia, avocado, mango, papaya, topinambur. E il tacchino? Il celebre volatile ormai divenuto simbolo della cucina Americana, il famoso Gallo d’India menzionato nei ricettari a partire dal’500, avrà uno spazio tutto suo nelle prossime pagine con una scheda dedicata e una ricetta preparata al barbecue. Per concludere, proviamo a ripensare alla lunga strada che hanno compiuto i nostri prodotti: dopo il viaggio transatlantico, e i percorsi culturali e mentali che li hanno fatti pervenire sulla tavola italiana, questi ingredienti in realtà non hanno concluso il loro tragitto. Partiti dall’Italia con l’emigrazione iniziata il secolo scorso, le ricette tradizionali a base di questi ingredienti adesso fanno parte della cucina di altri posti, inclusi gli stessi luoghi d’origine da cui sono arrivati. L’emigrazione italiana rimandava tanti degli alimenti originari del Nuovo Mondo. Queste specie sono adesso così tipiche della cucina italica, che anche nei loro luoghi di nascita sono consumati in preparazioni d’origini italiane, come negli Stati Uniti dove il sugo di pomodoro, diventato ormai un cibo quotidiano, è spesso chiamato marinara.
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mica del XVII secolo: Carlo Nascia lo propone per la cottura del tacchino, Antonio Latini per insaporire alcune salse. Stessa tiepida accoglienza, un secolo dopo, nel Cuoco galante di Corrado, che qualifica il peperone come “cibo rustico e volgare” pur ammettendo che piace ormai “a molte persone”: in tal modo ci lascia immaginare vicende in parte simili a quelle del pomodoro.
Ricetta a cura di Alberto Zonghetti
COME SI FA: CUOCERE IL LEGGENDARIO
tacchino ripieno
Le dimensioni contano. A volte. No, non pensate subito male (sorrisino). A tavola, nel Rinascimento, le dimensioni contavano. Contano anche quando oggi vogliamo stupire qualcuno con le nostre abilità sul sacro fuoco: a cosa serve una Tomahawk? Non impressiona forse i commensali quando con gesto d’imperio la afferriamo dall’osso e, girandola sopra la griglia rovente, la brandiamo come un ricco trofeo di caccia? E le Dinosaur Beef Ribs, che serviamo con l’aria trionfante di chi ha avuto veramente la meglio su un animale del Pleistocene? E il maialino intero, le mezzene degli asadores... insomma, quando si vuole impressionare i nostri commensali dal punto di vista culinario, le dimensioni contano, eccome.
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Come dette, erano importanti anche quattro-cinque secoli addietro, nel Rinascimento, quando il banchetto non era solo un lussuoso modo per nutrirsi, ma anche per ostentare ricchezza, potere, opulenza; non era un semplice pranzo, ma un vero evento sociale, uno spettacolo che prevedeva un’attenta regia e delle esibizioni artistico-culinarie. Inoltre, secondo il pensiero dell’epoca, la teoria della Grande Catena dell’Essere, i volatili ed il pollame (essendo carne che viene dall’aria e dall’alto) erano un cibo degno degli aristocratici. Gli uccelli grandi come il pavone, il fagiano, erano doppiamente stimati perché facevano una grande impressione.
illustrazioni di Ozzy Bellesi
nel barbecue
BREVE STORIA DEL TACCHINO E qui torniamo alle esplorazioni di Colombo: tra gli animali che portò in Europa dai nuovo territori scoperti – che pensava erroneamente essere le Indie – figura il tacchino, che fu tra i pochi cibi del Nuovo Mondo a raggiungere un immediato successo. Le ragioni sono semplici e molteplici: la prima è la presenza di omologhi di largo consumo in Europa, ovvero polli, fagiani e pavoni. Il Gallo d’India – così fu chiamato – riflette pienamente l’idea del “conosciuto” e dell’esotico (ma non troppo). Inoltre era già mangiabile, dal sapore molto gradito agli uomini del tempo. Il fatto che i volatili in generale fossero più pregiati di altre carni è il terzo fattore che favorì l’arrivo del tacchino sulle tavole dei ricchi poiché, come abbiamo giù visto, già solo il fatto di essere un uccello rendeva nobili e degne le sue carni. Un gallo d’India arrostito e portato in processione alla tavola principale di un banchetto, dove un addetto trinciante lo tagliava davanti a tutti, era più che un piatto, era veramente uno spettacolo. Non a caso troviamo molto spesso i tacchini sul menu dei banchetti dei nobili, soprattutto in occasione di nozze fastose. La fortuna del nostro volatile continua fino al ‘700, come testimoniato da diversi ricettari e anche da interessanti opere d’arte. Ma questa pietanza oggi in Italia affascina come una volta? Nonostante il fatto che fosse uno dei primi alimenti del Nuovo Mondo a diventare parte della cucina italiana, il tacchino ai nostri giorni non è un alimento di particolare importanza. Anche se non è sconosciuto o ignorato, non è caricato di significati culturali come una volta. Infatti, anche in Italia, è più spesso associato con la tradizione alimentare americana che con quella italiana.
Come i fagiani, pavoni, oche, e faraone, i tacchini oggi non sono apprezzati come una volta, anche se sono probabilmente mangiati più spesso degli altri uccelli appena citati. Nessuno meglio dell’Artusi può spiegare bene questo fenomeno: “Le pietanze pur anche vanno soggette alla moda e come il gusto de sensi varia seguendo il progresso e la civiltà, ora si apprezza una cucina leggiera, delicata e di bell’apparenze e verrà forse giorno che parecchi di questi piatti da me indicati per buoni, saranno sostituiti da altri assai migliori”.
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Già all’epoca di Artusi, non aveva più l’importanza di un tempo dato che nel celebre volume “La Scienza in cucina e l’arte di mangiare bene”, il numero di ricette che richiedono il tacchino, delle 766 totali, è solo 8, di cui 7 lo suggeriscono soltanto come sostituto di un’altra carne quando non è disponibile. Forse questo è dovuto in parte al fatto che questi pennuti erano iconicamente associati all’alta cucina del Rinascimento, che a seguito dell’arrivo dello stile delicato venuto dalla Francia a cominciare dal XVII secolo, inizia a decadere.
LA RICETTA “Volendo cucinare il pollo indiano, leva lo sterno, stacca la carne e battila assieme a un poco di grasso, polpe di vitello, rosso d”uovo e carne di piccione, mescola ben bene, aggiungi le spezie e riempi il pollo con essa composizione, aggiungendo anche sale, pepe, chiodi di garofano pestati e capperi. Infila il pollo sullo spiedo, giralo adagio, e prima che il volatile sia cotto del tutto, ponilo in una pentola con del brodo buono, erbette aromatiche e funghi, fai soflriggere del lardo in una padella, poi levalo e nel suo grasso, soffriggi della farina, aggiungi poi un poco di brodo e di agresto, e versa essa salsa con un poco di sugo di limone sul pollo, e da ultimo servi in tavola. Quando che sia la loro stagione, aggiungi anche una mano di lamponi.”
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Questa è la ricetta originale di La Varenne, grande cuoco francese del Seicento, autore del fondamentale testo “Le cuisinier François”, del 1621, universalmente riconosciuta come la prima opera fondamentale della cucina classica d’Oltralpe. Il libro, che nel 1720 contava già oltre trenta riedizioni, univa la gastronomia italiana alle cucine regionali francesi, ponendo probabilmente le basi di una cucina “moderna”. Varenne era un sostenitore dei cibi leggeri e nelle sue ricette si proponeva di conservare il sapore originario degli alimenti, condannando l’esubero di spezie esotiche e proponendone piuttosto un uso moderato. Vi presentiamo la sua ricetta (riadattata al barbecue ovviamente) perché, a differenza di molte preparazioni che riguardano il tacchino e che troviamo a partire dal XVI secolo, questa è più adatta ai nostri palati. È un procedimento abbastanza lungo e laborioso, ma il risultato vale sicuramente il lavoro svolto.
INGREDIENTI per 8 persone Un tacchino (o 2 polli) un litro di salamoia al 4% di sale Ultimate SPOG Sal’s Seasoning q.b. olio extravergine di oliva q.b. un gambo di sedano una carota una cipolla
Per il ripieno 200 g di petto di tacchino o di pollo 100 g di macinato di manzo 100 g di lardo 4 uova 1 cucchiaino di sale 2 pizzichi di pepe 2 pizzichi di chiodi di garofano in polvere 1 cucchiaio di capperi
Per la salsa 2 l di brodo di pollo 1 rametto di rosmarino 1 rametto di timo 4 foglie di salvia 4 cucchiai di funghi secchi 200 g di lardo/pancetta a dadini 4 cucchiai di farina 1 cucchiaio di aceto aromatico 1 cucchiaino di succo di limone
PROCEDIMENTO 1. Procuratevi un tacchino, o meglio una tacchinella, di massimo 5 kg. In mancanza un paio di polli da almeno 2/3 kg possono andare bene. Togliete eventuali residui di piumaggio dalla pelle, preparate una salamoia classica e fate le injection al volatile, poi ponetelo in frigorifero per 12/24 ore (per il pollo immergetelo nella salamoia per lo stesso arco temporale). 2. Preparate il ripieno: macinate il petto di pollo, e unitelo al lardo e al macinato di manzo. Fate rassodare le uova, sbriciolatene il tuorlo e aggiungetelo al resto. Mescolate il sale, il pepe, i chiodi di garofano in polvere e i capperi. Riempite col composto il tacchino pulito. 3. Preparare il kettle per una cottura indiretta, stabilizzandolo a circa 160°C. Utilizzare il girarrosto sarebbe perfetto. 4. Spennellate il tacchino con olio e applicate lo Spog avendo cura di metterlo anche sotto la pelle. 5. Posizionate il tacchino su una ampia vaschetta di alluminio (meglio se doppia) con il petto verso il basso, aggiungendo del brodo di pollo sul fondo e delle verdure tagliate grossolanamente (sedano, carota cipolla). Se invece avete lo spiedo, abbiate cura di posizionare una leccarda con poca acqua sotto al volatile per raccogliere i grassi di cottura. Aggiungete, se volete dei petali di legno aromatico per affumicare, il melo andrà benissimo. 6. Dopo circa un’ora girate il tacchino. Dopo circa un’ora e mezza, alzate la temperatura del vostro dispositivo a circa 180°C e proteggete con alluminio le parti più esterne che rischiano di bruciarsi. Se avete il girarrosto verificate che la cottura prosegua uniformemente, se serve spennellatelo con i suoi succhi contenuti nella leccarda. 7. Mentre il tacchino cuoce, fate bollire il brodo di pollo con rosmarino, timo, salvia e i funghi, per almeno dieci minuti. 8. Munitevi di termometro a sonda e abbiate cura di togliere il tacchino quando raggiunge i 75 C° al centro delle cosce. 9. Preparate la salsa: mentre il tacchino riposa, filtrate i liquidi di cottura (se volete potete sgrassarli) e aggiungeteli al brodo aromatizzato. In una cocotte fate sciogliete il lardo (io ho usato della pancetta), rosolate la farina. Aggiungete il brodo filtrato, l’aceto e il succo di limone, insaporite con sale e pepe, e fate addensare. 10. Tagliate il tacchino: utilizzate la tecnica che preferite, ma per una presentazione ottimale staccate i filetti tagliando la carne da entrambi i lati dello sterno, per il lungo. Poi scostateli progressivamente dalle ossa facendo scorrere un coltello ben affilato lungo le costole; infine affettate finemente i filetti. Disossate il coscio e ricavate delle fette, affettate il ripieno ( se volete esagerare ripassate il ripieno in cottura diretta per formare una bella crosticina appetitosa).
12. Apprestatevi a divorare il Gallo d’India bilanciando le quantità tra boccone di carne, salsa, lamponi (che va aggiunta ogni boccone, ne basta una lacrima affinché non sovrasti il gusto della preparazione). Capriole? Se siete stati bravi sicuramente sì; ma più che capriole, è meglio dire un tuffo... nel passato!
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11. Impiattate alternando le fettine di filetto con quelle del coscio e del ripieno, poi aggiungete la salsa, sopra la carne o a parte, come preferite. Infine aggiungete i lamponi, o direttamente sul piatto, oppure frullandoli semplicemente.
Diventare
assaggiatore Guida completa alla degustazione a cura di Stefania Pompele
Cosa ci faccio in questo covo di nerd del barbecue, io che mi destreggio tra griglie e cotture con la stessa scaltrezza con cui un ippopotamo danzerebbe sui tacchi? Fortunatamente non sono qui per parlarvi di griglie e cotture (e nemmeno di tacchi). Tenterò invece la mirabolante impresa di accompagnarvi alla scoperta di sensi, percezioni e assaggio. In altre parole, quella matassa ingarbugliata di processi fisiologici, psicologici, filosofici e culturali che noi gastro-strippati chiamiamo degustazione. Ho la presunzione di credere che dopo questa rubrica non assaggerete più un pezzo di ciccia con lo stesso piglio, perché nel mentre avrete capito qualcosina in più su come approcciarvi all’assaggio, ma soprattutto avrete imparato qualcosa di più su voi stessi. Insomma questa rubrica parla di voi, delle vostre diversità e di come queste si palesino ogni volta che addentate un pezzo di succulenta proteina animale. Non c’è nulla di più soggettivo dell’assaggio e nulla che riesca a coinvolgere simultaneamente così tanti sistemi sensoriali, ed è proprio questa multi-modalità che cercheremo di scomporre qui, sbrogliare la matassa del sistema percettivo per capire chi fa cosa ed essere maggiormente consapevoli di ciò che accade, e al contempo acquisire magari un vocabolario più corretto per descrivere le proprietà sensoriali del cibo.
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Un po’ come avviene nelle fasi iniziali del training previsto per i futuri panelisti -gli assaggiatori addestrati secondo metodologie normate e utilizzati nei cosiddetti panel test- vi parlerò insomma di organi di senso e percezioni, scomponendo le diverse sensazioni in base al canale percettivo coinvolto. Ma basta tergiversare, iniziamo.
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illustrazioni di Eleonora Castagna
Vista (o l’occhio o sistema visivo)
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Cenni di fisiologia e meccanismo percettivo Preziosissima per noi mammiferi ottici, grazie alla vista possiamo cogliere lo spazio in un “colpo d’occhio”, orientarci, tracciare schemi e, non da ultimo, pregustare i cibi. Sarà forse per questo che è riuscita ad aggiudicarsi il podio nella classifica dei sistemi sensoriali? L’evoluzione ci suggerisce proprio questo, da quando abbiamo smesso di camminare carponi nella foresta e abbiamo assunto una posizione eretta, la vista ha assunto un ruolo primario per la comprensione del mondo. Di certo è il senso più stimolato per informarci, affamarci con nuovi bisogni e suggerirci nuove esperienze. Siamo mammiferi visivi e spesso l’assaggio evidenzia questa occhio-dipendenza. Il processo della visione è piuttosto complesso ma potremmo paragonarlo, semplificando parecchio, al funzionamento di una macchina fotografica. Le immagini attraversano cornea e cristallino -la prima e la seconda lente- colpiscono le cellule fotosensibili che compongono la retina – la nostra
pellicola- e su questa vengono impresse rimpicciolite, bidimensionali e capovolte. Un po’ come avviene ogni volta che facciamo “clic” insomma. La similitudine si interrompe qui perché questo segnale viene poi trasdotto (trasformato) in impulso elettrico e inviato dal nervo ottico alle aree del cervello preposte a elaborare gli stimoli visivi. Qui l’immagine viene raddrizzata, diventa tridimensionale e collocata nello spazio. Solo qui avviane ciò che in gergo definiamo percezione, pianificazione del comportamento e risposta. Solo grazie a questa scatola, il cervello appunto, possiamo valutare le caratteristiche visive di un taglio di carne ad esempio. Le onde elettromagnetiche comprese nello spazio del visibile (tra 400 e 760 milionesimi di millimetro) sono responsabili della percezione dei colori. Quindi ciascun colore possiede una lunghezza d’onda specifica ed è proprio questa forma di
Se è vero che aspetto ed estetica sono ingredienti imprescindibili per l’appetibilità del cibo e un occhio esperto è in grado di cogliere dettagli importanti su tutta una serie di fattori legati alla qualità di ciò che mangia, è altresì vero che questa capacità di pregustare (mangiare con gli occhi si dice) e generare aspettative può portarci a fare valutazioni che poi sono smentite da olfatto e gusto durante l’assaggio. Ciò che vediamo è valutato sulla base di esperienze pregresse e anche la vista è ovviamente legata a questa memoria. Sono meccanismi d’apprendimento e orientamento in parte imposti dal contesto culturale in cui viviamo, lo stesso che sembra aver relegato a sensi minori altri canali percettivi fondamentali per la comprensione del mondo. Tendiamo a credere di più a ciò che vediamo che a ciò che annusiamo ad esempio, ma questa è un’altra storia. Ne parleremo presto.
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energia riflessa ad essere catturata dal senso delle vista. Insomma, quello che vi fa dire che quel pezzo di carne cruda è rosso, è determinato dal fatto che il nostro occhio assorbe tutte le lunghezze d’onda, ad eccezione di quelle che il nostro cervello codifica come rosso. Forma, tonalità, intensità e omogeneità del colore, lucentezza e opacità della superficie, consistenza sono tutte informazioni che acquisiamo osservando il cibo. In un taglio di carne possono quindi fornici informazioni importanti sullo stato di salubrità e conservazione, sull’alimentazione dell’animale e sulla modalità di allevamento, e ancora su alcune fasi del processo produttivo, sulla cottura. Sarebbe davvero impossibile farvi un elenco dei molteplici attributi sensoriali rilevabili attraverso la vista, le variabili sono pressoché infinite e dipendono da enne fattori dovuti al tipo di carne e alle molteplici correlazioni di filiera/cottura.
Speciale Stati Uniti - ricette a cura della redazione
CALIFORNIA
COBB SALAD Mi prendo "giusto" un'insalatina... Quante volte vi sarà capitato in piena notte di essere presi dai morsi della fame, alla ricerca di qualcosa da mettere sotto i denti, e di formulare improbabili accostamenti pur di saziarvi? Più o meno è quello che è successo a Bob Cobb, proprietario del ristorante Brown Derby ad Hollywood. Si trovava nel suo locale, era notte fonda e le cucine erano chiuse, per cui nessuno poteva preparargli qualcosa da mangiare; decise perciò di creare qualcosa con quello che aveva a disposizione e si inventò, nel 1937, un’insalata.
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foto di Luca Gallozza
Non una qualsiasi, ma quella che divenne uno dei piatti più amati d’America, perché ricca di ingredienti e completa: la Cobb Salad.
Le varianti comunque abbondano e capita abitualmente che questa insalata venga servita in una ciotola con ingredienti vari lanciati sbrigativamente e alla rinfusa sulle verdure. In ogni caso, basta che contenga almeno tre cose: ovvero pollo, pancetta e formaggio blu, per poter essere chiamata Cobb Salad, indipendentemente da cos’altro ci sia dentro. É una preparazione che può rendere la cena completa e appagante, la soluzione ideale per un buffet estivo, che richiede però un po’ di tempo e molta cura nella preparazione. Deve essere realizzata stratificando su un piatto ogni componente e trattandolo in maniera accurata. La stessa vinaigrette con la quale viene condita è insolita e vivace, poiché contiene con la quale viene condita è insolita e vivace, poiché contiene senape di Dijon, succo di limone e salsa Worcestershire. Ovviamente non è possibile assemblare in largo anticipo questa insalata ma ci sono elementi come il pollo e le uova che possono essere preparati in precedenza e poi refrigerati.
ERRORI DA EVITARE Ecco cosa solitamente si sbaglia quando ci si appresta a preparare la Cobb Salad. 1. Non preparare “la linea “, cioè l’insieme degli ingredienti che compongono l’insalata in un ordine appropriato, prima di condirli. La vinaigrette, i pomodorini e il formaggio sbriciolato sono tra i primi da disporre in singole ciotole. Si può inoltre cuocere le uova, friggere la pancetta e cuocere il pollo alla griglia, così da avere tutto pronto da assemblare alla fine con le parti più fresche, cioè la lattuga. 2. Non condire gli ingredienti separatamente. Il segreto di questa ricetta dipende da questo: usare la giusta quantità di vinaigrette per ogni singolo ingrediente assicura un giusto bilanciamento dei sapori, garantendovi un risultato finale strepitoso. Al contrario, se provaste a disporre gli elementi su un piatto e a condirli alla fine, sareste costretti a mescolare il tutto, finendo per non avere una Cobb Salad a regola d’arte. 3. Usando un piatto troppo piccolo non sarà possibile inserire la giusta quantità di ingredienti e sarà difficile disporli in maniera accurata dando all’intera preparazione un aspetto disordinato. Lo scopo di questa ricetta è di mettere in luce ogni alimento che la compone, disponendolo abilmente per la lunghezza del piatto, sopra le lattughe. 4. Usare un’insalata qualunque non darà l’effetto “crunch” e la preparazione sarà molto deludente. La lattuga romana e il crescione sono la scelta ideale perché rimarranno freschi e croccanti a lungo. È un fattore da non sottovalutare, specialmente se state servendo questa delizia in giardino per una festa, quando potrebbe rimanere sul tavolo al caldo per un po’ di tempo. 5. Assemblare il tutto troppo in anticipo darà un aspetto bagnato e un morso inzuppato ben poco appetibile: fatelo sempre poco prima del servizio e non sbaglierete.
INGREDIENTI per 6 persone 2 petti di pollo senza pelle, disossati circa 500 g di lattuga romana 150 g di crescione 300 g pomodori a grappolo 3 uova un avocado 8 fette di bacon 100 g di Formaggio Blu (Stilton, Roquefort, Gorgonzola) 3 cucchiai di erba cipollina tritata fresca un cucchiaio di Sal’s Seasoning Rub Tenneesee
per la vinaigrette 200 ml di olio extra vergine di oliva 2 cucchiai di aceto di vino rosso 2 cucchiaini di succo di limone un cucchiaino di salsa Worcestershire un cucchiaino di senape di Dijon uno spicchio d’aglio tritato 7 g di sale 4 g di zucchero 2 g di pepe nero
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Il piatto fu un successo grazie alla frequentazione dei divi di Hollywood nel locale di Bob e ancor oggi, dopo oltre ottanta anni e all’interno dei Parco degli Studi Disney in California, viene servita ai tavoli come allora. La versione classica comprende pollo, avocado, pomodori, gorgonzola, pancetta, uova e lattuga.
PROCEDIMENTO 1. Bollite 3 uova in una casseruola media. Fatele cuocere per 10 minuti dalla ripresa del bollore. Trascorso il tempo, trasferitele in una ciotola con acqua fredda e ghiaccio e lasciatele riposare per 5 minuti. Sbucciate le uova, tagliatele a metà e dividete in quarti. Tenetele da parte. 2. Tagliate i pomodorini in 4 parti e metteteli da parte. 3. Sbriciolate il formaggio blu e mettetelo da parte. 4. Predisponete il dispositivo per una cottura indiretta e dopo aver insaporito il pollo con un velo d’olio e il Sal’s Seasoning Tennessee, cuocetelo sino ai 72° C , affumicando leggermente con chips al melo. Una volta cotto, tagliatelo a cubetti regolari. 5. Cuocete il bacon su una piastra in ghisa nel vostro dispositivo fino a quando non diventa croccante. Quindi fate assorbire il grasso in eccesso su carta assorbente. Spezzettate e tenete da parte. 6. Realizzate la vinaigrette, sbattendo insieme l’olio extra vergine di oliva, l’aceto, la Worcestershire, il succo di limone, la senape di Dijon, lo zucchero, il pepe, lo spicchio d’aglio tritato e il sale. 7. Lavate, mondate e tagliate grossolanamente la lattuga e mescolatela alle foglie di crescione. Condite con 5 cucchiai di vinaigrette in una grossa ciotola. 8. Mettete i pomodori tagliati a quarti in una ciotola e conditeli, mescolando delicatamente, con un cucchiaio di vinaigrette. 9. Condite il pollo a cubetti, in una ciotola, con altri 3 cucchiai di vinaigrette. 10. Dividete in due parti, per la lunghezza, un avocado. Denocciolatelo e riducetelo a dadini. 11. Tritate finemente l’erba cipollina poco prima di impiattare. Ne serviranno ben 3 cucchiai.
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12. Prendete un bel piatto capiente, che sia rettangolare o tondo poco importa. É essenziale che riesca a contenere tutti gli ingredienti, disposti in maniera metodica. Create un bel letto di insalata verde ( lattuga e crescione ), sopra di essa stendete, da sinistra a destra, la dadolata di avocado, il formaggio blu sbriciolato grossolanamente, i pomodorini in quarti, il pollo grigliato, le uova ed infine il bacon. Versate a filo un leggero velo di vinaigrette superficialmente e spargete l’erba cipollina. Avete terminato la vostra prima Cobb Salad. Ora non vi resta che affondarci le forchette e assaggiare ogni boccone di questa ricca pietanza.
ILLINOIS
DEEP DISH
Chicago Pizza
Sappiamo bene la faccia che avete fatto. Che ricetta è mai questa? Perché proporre una simile oscenità, a noi che siamo nella patria della pizza? E se siete napoletani peggio ancora, la vostra indignazione avrà toccato livelli mai visti. Starete pensando di inserire questo numero tra l’elenco dei libri eretici e di bruciarlo alla prima accensione del vostro kettle. Ma calmiamoci un attimo, stappiamoci una birra e parliamone. Siamo qui per spiegarvi tutto. Sappiamo bene che non è semplice uscire dai canoni e soverchiare le abitudini più radicate, ma a volte la nostra è solo paura di ciò che è ignoto. La Deep Dish Chicago Pizza non ha il cornicione, non ha la chiazzatura bianca di mozzarella (in America ci mettono il Parmesan), è crostosa invece che soffice e bruciacchiata, e la passata di pomodoro con cui viene condita è cotta prima, ma questo non vuol dire che non sia comunque piacevole poterla mangiare e apprezzarla come un prodotto da forno diverso dalla pizza a cui siamo abituati. Abbiamo sempre una strana reazione quando sentiamo utilizzare il nome di una preparazione associato a un’altra, più o meno diversa. Lo vediamo tutti i giorni, anche sulla Community Facebook: fai la carbonara e ci metti la cipolla? Non è più carbonara. Prepari la parmigiana ma non friggi la melanzana? Non è più parmigiana. A volte siamo troppo chiusi in schemi mentali che non ci dovrebbero appartenere e che ci limitano. Pertanto sappiamo che molti di voi staranno pensando: questa non va chiamata pizza! In realtà lo è. È la versione che vendono a Chicago. Non vogliamo paragonarla alla napoletana “ca pummarola 'ngopp", né alla romana di Bonci,
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foto di Luca Gallozza
Speciale Stati Uniti - ricette a cura della redazione
né a nessun’altra tipologia che voi abbiate mai assaggiato in Italia. Ma ha comunque una sua storia ed è consumata da milioni di persone in tutto il mondo, pertanto ha il diritto di essere valutata senza pregiudizi.
respirare), che però noi sostitui remo con i burger BBQ4All per una Chicago Deep Dish with Ember Roasted Pepper and BBQ4All Steak Burger.
Questa pizza nasce a Chicago nei primi anni ‘40 del Novecento. La contesa è tra Ike Sewel, proprietario della catena Pizzeria Uno e i fratelli Boglio, immigrati piemontesi e fondatori della Giordano’s. Una vera paternità non c’è: entrambi la reclamano come propria opera. Venne chiamata così perché ha al suo interno i tre elementi chiave che caratterizzano una qualsiasi pizza: impasto da forno, mozzarella e pomodoro. All'atto pratico è quasi più una quiche. D’altronde, il suo nome Deep Dish significa “piatto profondo”, perché la sua cottura avviene in uno stampo alto cinque cm che crea dei bordi notevoli.
L’impasto per la Deep Dish si caratterizza per la presenza abbondante di grassi e per la miscela di due farine, una delle quali è di mais in proporzioni ridotte, per dare maggiore croccantezza. Noi la faremo con semplice farina adatta a tutti gli utilizzi, con una forza intorno a W 270. La sua consistenza dovrà essere molto elastica e burrosa. La cottura avviene in forno sui 230°C per un tempo piuttosto lungo, circa 30/40 minuti, a seconda dello spessore della base. Può essere impastata in planetaria o a mano. Sarà un impasto diretto, senza pre fermenti, con una quantità superiore di lievito rispetto alla norma e tempi di riposo nettamente inferiori rispetto alla pizza “de casa nostra”. Come abbiamo già detto, è un prodotto differente e non paragonabile.
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Anche l’ordine degli ingredienti è invertito. Si parte con la farcitura di mozzarella sul fondo dell’impasto, la quale viene ricoperta di uno strato abbondante di salsa di pomodoro, spolverato con formaggio grattugiato. Nelle versioni più farcite, si aggiungono poi gli ingredienti più disparati, dai peperoni verdi alla salsiccia, dal prosciutto all’ananas (prendete fiato, ce la potete fare!) Noi faremo la nostra ricetta, ovviamente, adattando alcuni ingredienti alla cottura al BBQ. Abbiamo scelto una delle versioni più classiche, che vuole i peperoni e le salamelle all’interno della pizza (niente ananas, potete ricominciare a
Andiamo al concreto.
La mozzarella dovrà essere vaccina, meglio se fior di latte o provola. È consigliabile evitare i formaggi che contengono un eccesso di siero. Questo perché, dovendolo posizionare sulla base dell’impasto, un formaggio molto umido non permetterebbe una cottura ottimale. L’eccesso di liquidi comprometterebbe la cottura e ci ritroveremmo con una base cruda e fradicia. Quindi opteremo per un fior di latte o per una mozzarella tritata e lasciata scolare bene. Ne servirà una quantità abbondante che
ricopra efficacemente il fondo e che dovrà filare al taglio. Al posto della salsiccia utilizzeremo gli Steak Burger di BBQ4All che cuoceremo prima su una piastra e poi scomporremo per disporli all’interno della pizza. I peperoni verdi potranno essere utilizzati in due modi differenti, in consistenze diverse. Potremo cuocerli in Ember roasting e inserirli insieme ai burger, oppure potremo tagliarli a striscioline e metterli circa dieci minuti prima di finire la cottura, sopra alla salsa di pomodoro. Nel nostro caso abbiamo scelta la prima opzione. Volendo si possono poi inserire anche altri ingredienti a piacere, ma vi consigliamo di cuocerli prima di aggiungerli alla pizza. Anche la salsa della Deep Dish merita un approfondimento. Deve essere leggermente dolce, saporita e ristretta, quindi deve essere cotta prima e fatta addensare. A cottura ultimata, si lascia riposare prima di usarla come strato finale per riempire la pizza ammmerigana. È possibile aggiungere infine una dadolata di pomodoro. Il tutto andrà saggiamente ricoperto con una spolverata generosa di Parmigiano grattugiato che donerà una fantastica colorazione dorata alla superficie. Vediamo quindi come procedere alla preparazione della nostra Chicago Style Deep Dish Pizza.
PROCEDIMENTO 1. Iniziate ungendo leggermente la ciotola che conterrà l’impasto e tenetela da parte. 2. In un altro recipiente, versate tutta la farina con il 65% di acqua. Mescolate e lasciate riposare per 20 minuti. 3. Trascorso questo tempo, sciogliete il lievito in acqua a 32°C e aggiungetelo a filo, lavorando l’impasto sino a completo assorbimento dell’acqua. Quando la maglia glutinica sarà quasi formata, aggiungete il sale e infine l’olio, lavorando sino ad ottenere una massa liscia, elastica e omogenea.
per una teglia da 30 cm Per l'impasto 375 g di Farina W 270 220 g di acqua 60 g di olio extravergine d’oliva 4 g di lievito di birra fresco 2 g di sale
Per la farcitura
4. Riponete il tutto nella ciotola precedentemente unta, assicurandovi di ungere anche l’intero panetto. Coprite con della pellicola da cucina e lasciate lievitare a temperatura ambiente sino al raddoppio. Ci vorranno circa 2 ore. 5. Cuocete i vostri Steak Burger BBQ4All su una piastra in ghisa, come indicato nella confezione, tenenedoli un po’ indietro di cottura (ma con una buona maillard formata) poiché la termineranno all’interno della pizza. 6. Predisponete i peperoni verdi per una cottura in ember roasting, quindi a contatto diretto con le braci. Quando saranno pronti, puliteli bene dalla buccia esterna bruciacchiata e riduceteli a filetti larghi qualche centimetro. 7. Preparate la salsa. Fate soffriggere la cipolla tritata finemente nell’olio extra vergine di oliva, quindi unite al soffritto il concentrato di pomodoro e il pomodoro pelato. Condite con due spicchi di aglio tritato, l’origano, lo zucchero e il sale.
450 g di mozzarella
8. Fate cuocere per 20 minuti. Quando si sarà ridotto di un terzo, aggiungete i pomodori a dadini e proseguite la cottura per altri 15 minuti.
un peperone verde
9. Quando l’impasto sarà lievitato sarà pronto per essere steso e farcito.
50 g di Parmigiano Reggiano
10. Prendete il panetto e stendetelo sul banco con l’aiuto di un mattarello dandogli uno spessore di qualche millimetro.
Per la salsa
11. Ungete bene una teglia o uno stampo a cerniera da 30 centimetri, e foderatela con l’impasto appena steso, ricordandovi di formare dei bordi di almeno 5 centimetri che possono contenere i condimenti.
2 Steak Burger BBQ4ALL
250 g pomodoro pelato 250 g polpa di pomodoro finissima a dadini 30 g concentrato di pomodoro 50 ml olio extravergine d’oliva 15 g sale 1,5 g origano 2 spicchi di aglio tritato ½ cipolla piccola tritata ½ cucchiaino di zucchero
12. Adagiate sul fondo abbondante mozzarella. Sopra di essa continuate a farcire l’impasto con lo Steak Burger scomposto a piccoli pezzi. 13. Ora è la volta dei peperoni. Disponeteli sopra lo strato di Steak Burger. 14. Coprite il tutto con uno strato cospicuo di salsa di pomodoro, sino a raggiungere i bordi della pizza. Spolverate tutto con il Parmigiano a ricoprire la salsa. 15. Infornate a 230°C sul livello basso del forno, per un tempo prossimo ai 30/40 minuti e comunque sino a doratura dei bordi. 16. A cottura ultimata, levate la pizza dal forno, toglietela dalla teglia e appoggiatela su una gratella per circa 5/7 minuti affinché si perda l’umidità residua. Dopodiché tagliate e servite. La prima cosa che vi salterà all’occhio sarà la strabordante mozzarella che seguirà la corsa della fetta, mentre la sollevate dal piatto. Otterrete l’effetto cinema, proprio come vedete nei film, di quelle pizze che colano formaggio da tutti i lati. Il profumo sarà invitante e l’aspetto sarà WOW. Ovviamente dovrete essere predisposti a voler assaggiare qualcosa che si discosta molto dalla vostra idea di pizza, ma sarà comunque un’esperienza culinaria da provare almeno una volta. Solo dopo questo passo, potrete decidere se rimanere ancorati alle vostre tradizioni o propendere per una vita fatta di nuove esperienze in cucina. Lasciatevi convertire, non ve ne pentirete.
031 - BBQ4All Magazine
INGREDIENTI
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foto di Rossella Neiadin
Speciale Stati Uniti - ricetta a cura di Michela Bongiorni
il nostro
GUMBO
la zuppa della Louisiana con l'anima siciliana Fra le diverse cucine locali degli Stati Uniti, sicuramente merita una menzione particolare quella della Louisiana: non a caso diverse ricette di questa zona degli States sono già finite sul nostro Magazine. Sono state moltissime le popolazioni che, passate da quelle parti, hanno lasciato le loro usanze culinarie; il caleidoscopio dei sapori francesi, portoghesi, spagnoli, italiani, dei nativi americani, degli schiavi africani e dei pescatori caraibici è riscontrabile in molti dei piatti che ormai, grazie alla globalizzazione e al turismo, sono diventati conosciuti e apprezzati anche da noi. La cucina della Louisiana ha due anime: quella creola e quella cajun. La prima, più raffinata, deriva dall'adattamento e dalla fusione delle pratiche culinarie europee venute a contatto, sia tra di loro che con gli usi degli autoctoni, nelle diverse isole dell' Arcipelago delle Antille - e dalle quali poi ha raggiunto il sud degli Stati Uniti - la cui impronta indigena più rilevante è senza ombra di dubbio il sapore piccante. Se gli europei hanno introdotto la canna da zucchero, il frumento, la melanzana, la cipolla, il cavolo, il cetriolo, l’arancia, il mandarino, il limone – sapori tipici di questa cucina- dobbiamo agli abitanti delle Antille l’uso del peperoncino, della manioca e della patata dolce. Gli indiani, arrivati in massa negli ultimi decenni del XIX secolo, hanno successivamente introdotto il curry, il tamarindo, il latte di cocco e l’uso del riso. La cucina cajun è invece molto più rustica: è figlia degli immigrati francesi dell’Acadia in Nova Scotia, Canada, scacciati nel 1755 dai coloni inglesi e trasferitesi in Louisiana e nel Sud del Texas. I cajun o acadians sono quindi i discendenti di quei francesi sfuggiti dal Canada, che ancora oggi hanno un’identità forte, riscontrabile in modo inequivocabile nella musica, nella lingua e ovviamente nella cucina. I gamberi d’acqua dolce, che popolano i corsi d’acqua e gli acquitrini del delta del Mississippi, sono l’ingrediente principale dei piatti cajun, oltre a quelli definiti la Santa Trinità: peperoncini verdi, cipolle e sedano. Uno dei piatti cajun più famosi – i nostri fan più attivi si ricorderanno che siamo stati tra i primi in Italia a presentare questa preparazione adattandola al nostro palato e alla griglia- è la jambalaya: una ricetta che ricorda la paella spagnola ma senza lo zafferano e con sapori molto più marcati. In realtà ne esiste anche una versione creola, più raffinata, che prevede l’uso del pomodoro; se siete curiosi di assaggiarle entrambe e di confrontarle, il posto migliore per farlo è sempre in Louisiana, a Gonzales, la capitale della jambalaya, che ogni anno dal 1968 organizza un festival dove viene proclamato il
campione del mondo di questo piatto spettacolare. Senza ombra di dubbio la seconda ricetta più famosa di queste zone è il gumbo. Si tratta di una zuppa di pesce molto densa, alla quale possono essere aggiunti ingredienti diversi: dalle chele di granchio al pollo, dalla salsiccia piccante e speziata ai gamberi, dal maiale alle ostriche. Come succede con molti altri piatti, dare una ricetta originale e universale di questa zuppa, per ovvie ragioni, è praticamente impossibile. Immagino che ogni famiglia, inoltre, abbia una sua versione. Già il fatto che ci sia molta confusione sul definirla creola o cajun – se fate qualche ricerca ve ne accorgerete- è un chiaro indizio che scovare la vera ricetta sia facile quanto cercare il Sacro Graal. In realtà, come per la Jambalaya, esistono entrambe le versioni, ma in generale quando in un piatto è previsto l’uso del pomodoro è da considerarsi creolo. Sicuramente però sono almeno tre gli ingredienti non devono mai mancare in questa saporitissima preparazione nella quale confluiscono i sapori di mezzo mondo: un roux scuro, denso e tostato, i gamberi e l’okra, una pianta di origine africana portata in Louisiana dagli schiavi e diventata un ingrediente principale della cucina di queste zone. Ovviamente, non siamo qui per darvi una ricetta originale di questo piatto, ma un’interpretazione tutta nostra che vedrà i gamberi di Mazara spodestare prepotentemente i gamberetti d’acqua dolce della Louisiana, in una versione molto più delicata e raffinata che però mantiene un’anima piccante ed esotica.
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LOUISIANA
PREPARAZIONE 1. Pulite i gamberi e tenete da parte le teste e i carapaci; a questo punto potete cominciare a preparare il vostro assoluto di gamberi (il procedimento dettagliato è riportato nel numero di Dicembre 2019 del BBQ4All Magazine). 2. In una padella, fate soffriggere il trito di verdure e poi spadellate tutte le rimanenze dei gamberi a fiamma alta. Sfumate col cognac. 3. Evaporato l’alcool, aggiungete il concentrato di pomodoro, la spremuta di mezzo lime e il ghiaccio, in modo che i carapaci e le teste non si brucino in cottura. 4. Fate ridurre il tutto, frullatelo con un mixer a immersione e filtratelo con un colino cinese, ottenendo un concentrato molto denso. 5. Preparate il roux facendo sciogliere il burro in una pentola e poi versando la farina a pioggia; fate attenzione a rimescolare bene la farina in modo che non si formino grumi, poi abbassate il fuoco e aspettate che il roux diventi di un bel colore nocciola, facendo sempre attenzione a non bruciarlo. 6. In un’altra padella fate un soffritto con sedano, carota, cipolla e aglio, poi tagliate la salsiccia piccante a pezzetti piccoli o a fettine sottili e buttatela in padella. 7. Unite a questo punto le verdure con la salsiccia al roux, mescolate bene e cuocete per qualche minuto. 8. È arrivato il momento di aggiungere la passata di pomodoro, il brodo caldo e l’assoluto di gamberi che avete preparato in precedenza; aggiustate di sale e di pepe e lasciate cuocere per almeno un’ora.
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9. Trascorso il tempo dovuto, aggiungete alla zuppa prima l’okra tagliata a fettine e poi i gamberi. Fate cuocere per pochi minuti e poi spegnete il fuoco. 10. Fate cuocere infine il riso basmati in acqua salata e servitelo tiepido insieme alla zuppa calda e a una spruzzata di succo di limone.
*...MA COS’È L’OKRA?
INGREDIENTI per 4 persone
per la zuppa 400 g di gamberi Rossi di Mazara 200 g di salsiccia piccante;
Si chiama anche gombo, oppure ocra con la c, ed è una pianta appartenente alla famiglia delle Malvacee. Originaria dell’Africa, è coltivata in zone tropicali e sud tropicali. I suoi frutti ricordano nella forma e nel colore i nostri friggitelli, all’interno dei quali sono presenti i semi e una sostanza gelatinosa.
una cipolla bianca; una costa di sedano; mezza carota di dimensioni medie; tre spicchi d’aglio; olio extravergine di oliva q.b. 200 g di okra* due cucchiai di succo di limone 200 g di passata di pomodoro un litro di brodo vegetale sale e pepe q.b. 400 g di riso Basmati
per il roux 100 g di burro 100 g di farina
per l'assoluto di gamberi (bisque) due cucchiai di trito di sedano, carote e cipolle due cucchiai di olio extravergine di oliva le teste e i carapaci dei Gamberi Rossi di Mazara mezzo bicchiere di cognac; mezzo cucchiaio di concentrato di pomodoro mezzo lime abbondante ghiaccio.
Poco conosciuta in Italia (anche se ne esiste una piccola produzione in Sicilia), si è invece molto diffusa nella cucina indiana, in quella giapponese, in quella turca e appunto nel sud degli Stati Uniti dove in Louisiana ha dato anche il nome alla famosa zuppa che oggi vi presentiamo: gumbo deriverebbe dalle lingue parlate da molti schiavi dall'Africa occidentale, dove l'okra era conosciuta come ngombo ki o quingombo. Contiene poche calorie, aiuta a regolare i livelli di zucchero nel sangue grazie a una sostanza che si chiama mucillaggine, è ricca di fibre e di acido folico. Anche se, come ho già detto, assomiglia a un peperoncino nella forma, il suo sapore dolce è più simile a quello degli asparagi. Per consumarla, prima di tutto bisogna spuntarne la cima. Se è giovane non presenta peluria, mentre se è più matura, dopo averla sciacquata, va strofinarla con attenzione. Tuttavia, se è troppo grande rischia di diventare legnosa, quindi è molto meglio consumarla quando è ancora piccola. La sostanza gelatinosa che
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foto di Rossella Neiadin
contiene ne fa un ingrediente perfetto per rendere piÚ cremose le zuppe, tuttavia per evitare che diventi troppo viscida in altre preparazioni, è opportuno lasciarla in ammollo in acqua e aceto. Necessita di brevi tempi di cottura (non piÚ di 10 minuti) e grazie alla nota dolce si sposa benissimo con cibi dal sapore speziato e piccante.
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Speciale Stati Uniti - ricette a cura della redazione
KENTUCKY
BURGOO lo stufato dei campioni
I monti Appalachi, i grandi corsi d’acqua come il Mississippi e le immense praterie occidentali. Questo fu lo splendido paesaggio che videro i primi esploratori francesi quando si addentrarono nelle foreste del Kentucky nel 1682. Una terra ricca di risorse naturali e affascinante, allora ancora abitata dai pellerossa che ne avevano colto l’immenso potenziale naturalistico. Il Kentucky infatti faceva parte dell’area delle foreste vergini che fino a metà dell’800 erano presenti negli Stati Uniti. Distese sconfinate di pioppi gialli, castagni e querce che sopravvissero fino all’arrivo dell’epoca moderna. Purtroppo, già con la guerra civile americana che vide molti scontri in quest’area, molte delle foreste vennero abbattute. A oggi, grazie a delle politiche mirate di riforestazione, più del 40% del territorio è nuovamente verde. Il ministero delle politiche agricole e forestali dello stato ha inoltre emanato delle leggi a protezione delle ultime due foreste vergini rimaste nell’area: la Blanton Forest e la Lilley Cornett Woods.
INGREDIENTI per 8 persone 1/2 kg di spalla di maiale; 6 cosce di pollo; 400 g di Stew AUS Black Market 5+ Rangers Valley Black; 2 cipolle; una carota; 2 coste di sedano;
300 g di fagioli rossi già lessati o cotti al vapore; 5 spicchi d’aglio; 800 g di pomodori pelati; due foglie di alloro; timo q.b. sale e pepe q.b. tabasco a piacere: un litro di brodo di manzo; olio extra vergine di oliva q.b. ;
foto di Rossella Neiadin
2 cucchiai di Worcestershire sauce.
Si tratta di uno stufato, tipico dell’area nord dello Stato, la cui storia è incerta e si divide tra varie ipotesi. Una delle più accreditate sembra sia legata alla guerra civile. Pare infatti che durante le attese tra le varie battaglie qui avvenute, un soldato, di nome Gus Jaubert, si fosse improvvisato cuoco. A causa degli scontri non era possibile cacciare la grande selvaggina e Gus si arrangiò con ciò che riuscì a catturare: prevalentemente scoiattoli, conigli e selvaggina da penna.
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Grazie alle grandi distese verdi, il Kentucky è uno stato ricco di fauna, tappa intermedia di una delle più grandi rotte migratorie al mondo. È stato possibile contare nel suo territorio più di 300 specie di volatili e quasi 200 diverse specie ittiche fluviali. Piccoli e grandi mammiferi popolano freneticamente le foreste di quest’area. I grandi carnivori che la dominano sono gli orsi, i lupi e le pantere, anche se sono sempre meno gli avvistamenti. Tra gli ungulati è invece possibile trovare i bisonti, le alci e i cervi – questi ultimi sono presenti in grande quantità –e ovviamente non mancano i piccoli animali come i conigli, gli scoiattoli, le volpi, i procioni, le marmotte e gli opossum. La grande varietà di fauna e la viscerale passione per le armi che contraddistingue una parte della popolazione degli USA ha fatto in modo che il Kentucky diventasse area di grande interesse per survivalisti e appassionati di caccia. L’abbondanza di cibo derivante dall’attività venatoria ha influenzato e caratterizzato la cucina dell’area. Montone al bbq, pesce gatto fritto, zuppa di tartaruga, scoiattolo allo spiedo sono solo alcuni dei piatti caratteristici dell’area. Tra tutti questi però è solo uno quello più menzionato e descritto: il burgoo.
6 patate medie;
Altra teoria, invece, propende a dare la paternità di questo stufato agli schiavi liberati. Sembra che fosse il pasto che offrivano agli avventori durante le fiere di vendita del bestiame, dentro cui veniva utilizzata la selvaggina invece del bestiame che doveva essere venduto. Quest’ultima teoria sembra la più valida, soprattutto perché legherebbe questo piatto alla più famosa corsa dello stato: il Kentucky derby, una competizione ippica che si corre sulla distanza di un miglio e un quarto (circa 2 km) riservata ai purosangue inglesi di tre anni.
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Il burgoo è infatti il piatto tipico di questa manifestazione. Sembra che la famosa gara si sia diffusa sin dai primi anni dell’800; quando ancora la corsa non aveva un nome e non era famosa già veniva servito questo stufato come pasto per tutti gli avventori. Nel 1875 con l’istituzione ufficiale della competizione il piatto divenne lo “sponsor” di molti ippodromi in cui essa viene organizzata. Il più famoso ippodromo in cui è possibile gustare questo piatto è quello di Keeneland che, ancora oggi, continua a servire la sua personalissima ricetta. La tradizionalità del piatto e il fatto che venga servito in un’occasione come il Kentucky derby ha fatto sì che il burgoo diventasse un piatto “da condivisione”. È infatti mal visto prepararlo piccole quantità e quando arriva il momento di cucinarlo l’unica cosa che si può fare è sfoderare il pentolone delle grandi occasioni, armarsi di tavoli e sedie, e condividere questa pietanza con quante più persone possibile. Nella nostra interpretazione non ci siamo sottratti a questa tradizione e quindi le dosi che troverete saranno sufficienti per sfamare un bel po’ di amici. Abbiamo deciso di presentarvi la versione urban, ma ne esiste una wild. Il procedimento è lo stesso, cambia solo la natura degli ingredienti che nel tipo urban sono di facile reperibilità, mentre in quella wild sono reperibili più facilmente se siete dei cacciatori: cinghiale, cervo, fagiano. Noi, in modo molto più comodo, abbiamo usato in parte la carne del Megastore che garantisce, come sempre, un risultato più che perfetto, e soprattutto abbiamo adattato la ricetta al palato molto italiano, in modo che possiate convincere ad assaggiare questo spezzatino anche le suocere poco avvezze alle americanate.
PROCEDIMENTO 1. Accendete una ciminiera scarsa di carbone e versatelo nel vostro dispositivo in corrispondenza di dove appoggerete la cocotte in ghisa. 2. Tritate grossolanamente le cipolle, le carote, il sedano, l’aglio e fateli rosolare nella cocotte con un po’ d’olio. 3. Quando le verdure saranno dorate aggiungete un po’ d’olio e fate rosolare anche l’aglio 4. Aggiungete adesso le carni: le cosce del pollo disossate, la spalla tagliata a pezzi di circa 5 cm per lato e lo spezzatino di Black Angus. 5. Lasciate insaporire, salate e pepate a piacere, mettete il timo e l’alloro, poi aggiungete i pelati e bagnate con un po’ di brodo. 6. Portate a ebollizione il composto e a questo punto cominciate a affumicarlo con chips di legno di Hickory e melo. Lasciatelo affumicare chiudendo il coperchio del kettle (ma non quello della cocotte) per una mezz’ora, facendo attenzione che lo spezzatino non si asciughi troppo. 7. Trascorso il tempo necessario, riaprite il kettle, mettete il coperchio sulla cocotte e lasciate il tutto a cuocere a fuoco lento per almeno 2 ore. 8. Aggiungete adesso le patate precedentemente lavate, pelate e tagliate. 9. Lasciate cuocere fino a quando le patate saranno abbastanza morbide (non devono disfarsi). 10. Aggiungete la salsa Worcestershire e il tabasco, regolando di sale in base al vostro gusto; infine è il momento dei fagioli: dopo averli versati nella cocotte, lasciate che il tutto si insaporisca ancora per una decina di minuti e servite lo spezzatino dei campioni ai vostri commensali.
Speciale Stati Uniti - ricette a cura della redazione
MEMPHIS STYLE
PORK RIBS
foto di Tommaso Buccafurri
TENNESSEE
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SO FAR, SO GOOD
per i lettori del Magazine non è più così difficile preparare delle ribs degne di questo nome. Fin qui, tutto bene insomma. Il nostro lavoro dà i suoi frutti.
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Le barbecue pork ribs sono senza alcun dubbio l’icona rappresentativa del barbecue americano tradizionale. Negli Stati Uniti del sud sono un vero e proprio culto e, a seconda delle zone, assumono caratteristiche ben precise che ne definiscono lo stile. La base di partenza è comune a tutte le varianti: un costato di maiale intero che viene affumicato lentamente a temperatura bassa e costante. Cotte con tutti i crismi, diventano un boccone di piacere godereccio che stimola le ghiandole salivari solo alla vista. In molte zone della fascia sud statunitense, il maiale viene definito come l’unico e il solo vero ingrediente degno di essere preparato al bbq. Per i puristi la scelta di utilizzare il manzo è segno di non autenticità, ma il motivo è probabilmente puramente pratico: questa zona è storicamente stata sempre meno ricca del nord e l’allevamento dei maiali richiedeva meno risorse oltre ad essere molto redditizio. Il Kansas è la patria delle costine in versione “wet”: vengono
spennellate in finitura con una spessa, potente e agrodolce salsa a base di ketchup o pomodoro, ovvero ciò che nel resto del mondo ha preso l’identificativo di salsa barbecue, per via della sua diffusione. La tradizione americana di cucinare la carne lentamente in presenza di fumo di legna infatti è diventata così popolare grazie alle ribs in versione wet, che oggi è possibile gustarla (più o meno fedelmente) oltre i confini a stelle e strisce, non senza errori e sbavature purtroppo. Decisamente, grazie al lavoro incessante di BBQ4All, che da anni ormai insegna a cucinare e a mangiare le costine di maiale all’americana, per i seguaci della Community e
In ogni caso, se il Kansas vede la versione bagnata con salsa bbq, Memphis è invece la patria delle costine in versione “dry”. La finitura infatti viene effettuata aggiungendo un layer di spezie secche prima di tagliarle, mentre in cottura vengono spennellate con una salsa acida e dolce, la cosiddetta “mop sauce”. Il barbecue americano ha una storia secolare, e le ribs ne sono un punto cardine che necessita di un approfondimento. Il tutto ha inizio con l’arrivo dei maiali dall’Europa nel nuovo continente. Cristoforo Colombo portò con se questi animali durante il suo viaggio a Cuba nel 1493. In circa tre anni il loro numero crebbe fino a 700 esemplari, diventando parte integrante del regime alimentare degli abitanti. Come abbiamo ripetuto spesso, le costine di maiale a seconda del taglio assumono caratteristiche diverse.
Le spare ribs si trovano invece nella parte piatta della gabbia toracica. Anche se la presenza di carne nella parte superiore è minore, quella presente tra un osso e l’altro è senza ombra di dubbio più ricca e saporita rispetto alle baby back, anche se necessita di maggiore accortezza e di un tempo più prolungato in fase di cottura. Infine abbiamo il St Louis Cut, un taglio squadrato ricavato dalle spare ribs, dal quale si eliminano le Rib Tips, ossia le nostre spuntature. Il risultato è un pezzo di costato di dimensioni uniformi, con le ossa dritte e compatte che garantiscono una cottura omogenea ed un risultato perfetto anche esteticamente. La parola chiave è equilibrio. Il sapore della carne deve sempre prevalere: i rub e le salse devono solo sostenere e accompagnare il gusto della ciccia
PROCEDIMENTO 1. Prima di tutto preparate la salsa mop. Unite tutti gli elementi in un pentolino, intiepidite fino a far sciogliere lo zucchero e una volta fredda lasciate maturare la salsa in frigo almeno 24 ore. 2. Per il rub miscelate tutte le polveri per bene fino a ottenere un condimento perfettamente omogeneo. 3. Prima di tutto trimmate la slab, ripulitela da brandelli e parti che potrebbero bruciare in cottura ed eliminate la membrana bianca che copre le ossa aiutandovi con un cucchiaino: inseritelo al di sotto e poi infilate un dito fino a staccarla. Aiutandovi con un po’ di carta da cucina verrà via senza problemi. Lasciandola invece otterrete dopo la cottura una consistenza fastidiosa simile alla carta. 4. Cospargete la slab con un sottile strato di olio di semi e applicate con un setaccio a maglie fini un cucchiaio di rub per lato. 5. Stabilizzate il vostro affumicatore a 110°C circa (10 in più o in meno non faranno la differenza) e mettete in cottura indiretta la slab con il lato delle ossa rivolto verso il basso affumicando con l’essenza che più gradite. Gli alberi da frutto, come melo o ciliegio, si sposano a meraviglia con il maiale. 6. Chiudete in coperchio e dimenticatevela li per almeno un’ora. Dopo un’ora date una generosa spennellata di salsa mop e richiudete per un'altra ora. 7. Quando il bark sarà asciutto e di un bellissimo color mogano avrete due strade. Potrete continuare la cottura a coperchio chiuso fino a cottura ultimata oppure avvolgere le ribs in un doppio strato di foil per accorciare i tempi di cottura. 8. Le ribs si possono cuocere secondo due gusti personali; c’è chi le preferisce perfect bite, ossia tenere ma ancora sostenute, che al morso cedano ma che il segno del morso sia ben visibile. La temperatura target da misurare tra le ossa in questo caso è di 88°C. Poi c’è chi le preferisce fall of the bone dove la carne si stacca completamente dall’osso lasciandolo pulito. In questo caso prolungate la cottura fino ai 92/93°C. Spesso però, con le ribs, la misurazione può essere falsata, ad esempio toccando l’osso con la punta del termometro. A tal proposito esistono dei test molto validi per assicurarvi la cottura perfetta della vostra slab. Il primo è detto toothpick test, durante il quale si infila uno stuzzicadenti nella carne presente tra le ossa. Questo deve entrare senza sforzo attraverso tutti gli strati,come fossero burro a temperatura ambiente. L’alternativa è il bend test che si effettua invece con le pinze. Si pinza la slab fino alle prime 3/4 ossa,si capovolge e si alza. Se la carne mostra segni di cedimento e inizia a separarsi dalle ossa vuol dire che siamo nei pressi del punto di cottura perfetto. Tra alcuni pitmaster è in uso la tecnica di prendere la slab con una mano per il centro e stabilire la cottura a seconda di quanto si piegano le estremità, ma in quel caso occhio ed esperienza fanno la differenza. 9. A cottura ultimata spolverizzate un altro strato leggero di spezie sulle vostre costine, tagliate tra un osso e l’altro e gustatevele.
041 - BBQ4All Magazine
Le più famose e gettonate sono probabilmente le baby back ribs, il taglio più tenero e carnoso proveniente dalla zona collegata direttamente alla spina dorsale. Si riconoscono subito per via della loro incurvatura e della gradevole cicciosità. Vengono definite baby non perché ci sia qualche attinenza con l’età dell’animale, ma per la loro dimensione sostanzialmente più piccola degli altri tagli.
foto di Rossella Neiadin
INGREDIENTI per 2 persone Una slab di ribs Duroc del Megastore Olio di semi q.b
Per il rub: 15 g di paprika affumicata o dolce due cucchiaini di Ultimate SPOG Salâ&#x20AC;&#x2122;s Seasoning 12 g zucchero di canna un pizzico di cumino 5 g di senape in polvere
Per la salsa mop: 100 g aceto di mele 20 g Worcestershire 5 g di zucchero di canna
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25 g senape gialla americana
Speciale Stati Uniti - ricette a cura della redazione
ALABAMA
POMODORI VERDI FRITTI
...alla fermata di BBQ4All
È possibile immaginare la memoria come un enorme magazzino in cui per tutta la vita immettiamo informazioni di ogni genere. Queste ultime, una volta registrate, si possono smarrire ma difficilmente dimenticare del tutto. Il sistema delle associazioni è il meccanismo attraverso cui il nostro cervello riesce a “ripescare” le informazioni smarrite all’interno del nostro “magazzino”. Una volta che l’informazione entra, i cinque sensi la scompongono e si dirigono in arie corticali differenti. Quando una cosa viene ripescata, le varie micro-informazioni si ricompongono fino a rievocare il ricordo. Questo processo è velocissimo e genera continue associazioni tra i vari sensi e ciò spiega la “creatività” umana. Può succedere di ricordare senza apparenti motivi qualcosa di insolito, magari un avvenimento dei tempi della scuola o fatti accaduti molti anni prima. Le parole citate all’inizio dell’articolo sono solo alcune delle associazioni mentali possibili. Per cui parlando di pomodori verdi fritti non si
può fare a meno di pensare al celebre libro di Fannie Flagg, Pomodori verdi fritti al caffè Whistle Stop diventato poi un film dove la parte finale del titolo è stata sostituita con “alla fermata del treno”. Ed è esattamente questo che vi sentirete rispondere ogni santa volta che vorrete preparare questo gustoso antipasto/contorno. Il romanzo è un best seller internazionale pubblicato per la prima volta in Inghilterra nella seconda metà degli anni ’80. La storia si sviluppa su due binari paralleli dove da un lato viene raccontata dalla signora Weems attraverso i “bollettini del Whistle Stop” e dall’altro si articola tramite gli aneddoti raccontati dall’anziana signora Theadgoode. Da sfondo a questi racconti c’è l’Alabama rurale ai tempi della Grande Depressione, i viaggi in treno, le storie dei passeggeri, la società non ancora influenzata dalla globalizzazione. Un mondo diverso, agli antipodi rispetto a quello in cui viviamo adesso. Tra le righe del libro viene descritta una società in cambiamento, ancorata alle vecchie tradizioni, che però è allo stesso tempo provata dalla grave crisi economica ed è travolta da quello che sarà ricordato come il “New Deal” di Roosevelt. Le persone presentate nel libro vivono in una fase di passaggio e, come in tutti i grandi cambiamenti, sono dominate dal dubbio e dall’incertezza. Il paese è cambiato e la società egemone si trova a confrontarsi con coloro che fino a poco tempo prima erano gli schiavi dei campi di cotone. Fra struggenti descrizioni e momenti di leggerezza l’autrice ci trasporta indietro nel tempo, riuscendo a sviluppare tutta la vicenda attorno alla ricetta in questione, che fa da perno a tutto il romanzo e della quale si trova il procedimento esatto nelle pagine finali. Questa preparazione è in realtà un cibo molto conosciuto negli States, specie quelli dei sud, e per realizzarla si devono utilizzare i pomodori verdi dalla consistenza molto soda e quasi privi di semi. Anche stavolta trovare la ricetta originale di questo piatto povero ma sfiziosissimo è un’impresa ardua: c’è chi li prepara con doppia panatura, chi li fa in pastella, chi li passa solo nella farina e nel pangrattato. Noi abbiamo optato per una versione tutta nostra, in tempura, come ci ha insegnato Alessandro Trezzi nel numero di Febbraio 2020 del BBQ4All Magazine. Con questa ricetta il vostro aperitivo avrà di sicuro una marcia in più e citando la stessa autrice vi possiamo assicurare una cosa: dopo averli mangiati penserete di essere morti e andati in paradiso!
043 - BBQ4All Magazine
Maccio? ...Capatonda! Cuccurucucù? ...Paloma! Star wars? ...Darth vader! Il vecchio e? ...il mare!
PROCEDIMENTO 1. Affettate i pomodori per ottenere delle fette di mezzo centimetro di spessore tutti uguali. 2. Preparate la pastella utilizzando la farina di riso e l’acqua frizzante e tenendo la ciotola all’interno di un’altra contenente ghiaccio. Non preoccupatevi che si formino grumi. 3. Scaldate nel wok l’olio a una temperatura di 170/180°C. 4. Tuffate i pomodori nella pastella ghiacciata e poi nell’olio bollente. 5. Friggeteli fino a ottenere una perfetta doratura, scolateli e serviteli caldi e croccanti con sale e pepe.
INGREDIENTI per 4 persone 4/6 pomodori verdi 150 g di farina di riso 225 g di acqua frizzante ghiacciata abbondante ghiaccio sale e pepe q.b.
foto di Rossella Neiadin
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Olio di semi di Arachidi q.b.
Speciale Stati Uniti - ricette a cura della redazione
ARIZONA
BORN TO BE
CHIMICHANGA
Se non avete letto le parole sopracitate senza cantare molto probabilmente siete nati l’altro ieri o avete vissuto reclusi gli ultimi 50 anni. Per quei pochi che non le conoscessero è doveroso spiegare che sono le prime parole del testo della canzone degli Steppenwolf, “Born to be wild”. Canzone che nel 1969 divenne celebre perché fu scelta come colonna sonora per il film “Easy rider”. Nel film Dennis Hopper (Billy), Peter Fonda (Wyatt) e un giovanissimo e semisconosciuto Jack Nicholson (George) attraversano gli States a bordo di due chopper. Il film racconterà della loro avventura mentre attraversano il sud del paese. Molto bella e controversa per l’epoca, la pellicola catturò l’attenzione della maggior parte degli spettatori non tanto per la trama, quanto soprattutto per la bellezza delle due motociclette: la Captain America guidata da Wyatt e la Billy Bike che invece era nella mani di Dennis Hopper. Il film segnò un punto di cambiamento radicale nel mondo delle due ruote. La passione per lo stile “easy rider” si diffuse a macchia d’olio e tutti cominciarono a sognare di avere moto come quelle viste al cinema e di guidarle lungo le panoramiche highway degli USA. Il mondo dei biker e il loro stile di vita si fecero conoscere sempre di più e molte persone ne rimasero stregate. Telai hardtail, motori panhead, cerchi da 21’’, marmitte turn out e serbatoi personalizzati. Per gli amanti delle due ruote queste parole sono l’equivalente del Brisket di Wagyu per i clienti del megastore. Un sogno. Anche se magari non vi capiterà mai di farlo, provate comunque a immaginare di essere a bordo della vostra moto preferita lungo la Route 66: gilet di cuoio, Ray-Ban di ordinanza, il deserto intorno, il sole che vi scalda la pelle, l’aria che vi accarezza il volto e come unico rumore il sordo rombo del vostro panhead (o twin cam se avete un modello più recente). Durante il tragitto del vostro viaggio state attraversando l’Arizona, e all’altezza di Tucson oltre al rombo del motore iniziate a sentire un altro tipo di rombo proveniente dal vostro stomaco: è fame! Per fortuna, lungo le interstatali i bikerbar sono molto frequenti e offrono agli spossati motociclisti la possibilità di rifocillarsi e dissetarsi. Proprio a Tucson, a cavallo tra le due grandi guerre, sembra sia nato uno dei piatti più iconici per i bikers: i chimichanga. Una pietanza ricca, saporita e pratica. Infatti è facile da trasportare ed entra comodamente nei piccoli vani a disposizione nelle motociclette. L’origine del nome sembra derivare dalla fusione delle parole “chimi” e
“changa”. Chimi si riferisce a chamuscado che significa bruciato, e probabilmente è riferito a un tipico piatto messicano chiamato chamuco, una banana bruciata nell’olio. Changa invece si riferisce al verbo chingar, parola che riassume una serie infinita di volgarità su cui si può tranquillamente soprassedere. Sembra che questo piatto sia frutto di un errore della proprietaria del ristorante “El charro” a Tucson, appunto, nel 1922. La storia che ci è pervenuta racconta che, durante la preparazione di un burrito, la cuoca del ristorante si sia distratta e lo abbia fatto cadere nell’olio bollente. Accortasi dell’errore lo avrebbe estratto velocemente dall’olio il burrito ormai bruciato, con diversi improperi e maledizioni più o meno colorite. In cucina, tuttavia, è noto che bisogna minimizzare gli sprechi, quindi la proprietaria del ristorante decise di assaggiare quel burrito fritto e si rese conto che in realtà era veramente gustoso. La diffusione di questa pietanza ad opera dei ristoranti avvenne però in seguito, quando a metà degli anni ‘50 Woody Johnson, fondatore del “Macayo Mexican Kitchen” si autoproclamò come l’inventore del chimichanga.
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Get your motor runnin; Head out on the highway Lookin’ for adventure And whatever comes our way
046- Almanacco 2020 foto di Rossella Neiadin
Le origini di questo piatto sono dunque incerte e fumose, come succede in moltissimi casi. Certo è che, a partire dagli anni ’60, questi burrito fritti si diffusero per tutti gli States e oggi sono parte integrante in tantissimi menù Tex- Mex. Come sempre la redazione di BBQ4All si impegna a personalizzare e a rendere caratteristici i piatti per i suoi amati lettori. In questo caso abbiamo scelto di dare un tocco di originalità al piatto usando una delle preparazioni più chiaccherate in community: i pomodorini #drogarossa.
INGREDIENTI per 8 persone 8 tortillas 250 g di carne trita di manzo 1 spicchio d’aglio un gambo di sedano mezza carota mezza cipolla 200 g di fagioli rossi cotti al vapore 500 g di pomodorini droga rossa 2 peperoncini pasilla secchi Olio extravergine di oliva q.b. Sale q.b. Panna acida a piacere Olio di semi per la frittura
PROCEDIMENTO 1. Tagliate i peperoncini, privateli dei semi e metteteli in una ciotola con acqua calda per reidratarli. 2. Accendete il kettle e mettete il wok al centro della griglia nell’apposito spazio. 3. Scolate i peperoncini e strizzateli dall’acqua in eccesso. 4. Aiutandovi con un frullatore a immersione create una salsa utilizzando i pomodorini droga rossa, l’aglio e il peperoncino. 5. Fate rosolare la carne nel wok insieme a un trito di sedano, carota e cipolla e a due cucchiai d’olio. 6. Quando la carne sarà perfettamente rosolata aggiungete la salsa appena creata. Salate e pepate a piacere. 7. Se il composto dovesse risultare “secco” potete aggiungere un po’ d’acqua fino a raggiungere la consistenza desiderata. Fatelo cuocere per almeno un’oretta. 8. Nel frattempo in una ciotola schiacciate i fagioli aiutandovi con una forchetta fino a creare una crema da poter spalmare. 9. Scaldate adesso le tortillas fino a farle ammorbidire. 10. Componete il vostro Chimichanga spalmando la crema di fagioli su ogni tortilla e poi aggiungendo il sugo. Ripiegatele e sigillatele aiutandovi con degli stuzzicadenti. 11. Scaldate l’olio per la frittura, quando sarà a temperatura immergete i Chimichanga per pochi secondi in modo da farli dorare. 12. Scolateli e adagiateli su della carta assorbente in modo da eliminare l’olio in eccesso. 13. Serviteli accompagnandoli con della panna acida.
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A quel tempo Johnson possedeva un ristorante che si chiamava “Woody El Nido” che nel 1952 subì un restyling. Il nome cambio in “Macayo’s” e i Chimichanga vennero introdotti nel menù come piatto principale. Una versione differente della storia è quella raccontata da Jim Griffith, antropologo e folklorista, che in uno dei sui scritti affermò di avere visto i Chimichanga al ristorante “Yaqui Old Pascua Village” a Tucson nei primi anni del 1950.
048- Almanacco 2020 illustrazione di Ozzy Bellesi
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foto di Rossella Neiadin
foto di Tommaso Buccafurri
FLORIDA
SLOPPY JOE
...e penso di sentirmi sbrodolante e felice Ci sono alcune preparazioni che ci suscitano una tremenda salivazione solo pronunciando il nome. Una di queste è sicuramente lo Sloppy Joe, un panino laido e grondante di carne macinata unta e sugosa. Le origini di questa pietanza sono ancora oggetto di studio tra gli appassionati e numerose sono le varianti presenti nel panorama gastronomico, a seconda della zona di sviluppo. Si stima che sia comunque una ricetta risalente alla fine del XIX secolo. Molti attribuiscono l'origine e il perfezionamento del piatto ad un cuoco chiamato Joe, da qui il nome Sloppy Joe. Un bar a Key West e un paninoteca a Sioux City, in Iowa si contendono la paternità di questa ricetta da sempre. Altri, invece, pensano che questo panino sia nato durante la Seconda Guerra Mondiale, quando le casalinghe, per cercare di sfamare le proprie famiglie, allungavano lo stufato di manzo con salsa di pomodoro, verdure e spezie rendendo in questo modo i panini più sostanziosi. La carne condita con salsa di pomodoro e zucchero potrebbe invece avere influenze cubane, correlata al picadillo, una salsa di carne macinata dolce e piccante consumata con il riso. Toasted Deviled Hamburgers, Chopped Meat Sandwiches, Spanish Hamburgers, Hamburg a la Creole, Beef Mironton e Minced Beef Spanish Style sono solo alcuni dei nomi coi quali è stato definito quella meraviglia di sandwich che conosciamo come Sloppy Joe. In Canada è frequente l'uso di servirlo in un panino da hot dog, mentre un sandwich simile, il "dinamite", nel Rhode Island si distingue per l'uso di cipolle, peperoni e talvolta sedano. Spesso si può incontrare la variante con i peperoncini jalapeño che lo rendono piccante. Non importa quali siano le sue radici, certo è che si tratta di un classico americano goloso e nutriente.
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Non si può transigere da alcune caratteristiche che fanno di un banale panino con carne macinata uno Sloppy Joe: il pane deve essere morbido e cedevole al morso, la carne macinata deve essere attrice protagonista gentilmente accompagnata da salsa di pomodoro, spezie e verdure, e la salsa Worcestershire non può mancare, poiché ne caratterizza gusto e potenza. Gli ingredienti e la materia prima sono di fondamentale importanza per la buona riuscita di preparazioni semplici come questa. La cottura dovrà avvenire in un tempo relativamente breve (30/35 minuti) quindi preferite tagli ricchi di grasso ma non troppo ricchi di collagene per avere un boccone ben lubrificato ma ancora consistente. Abbiamo scelto il Chuck Roll di manzo macinato una volta sola (oppure provate con i nostri nuovi burger Blue Ox). Potete optare per l'utilizzo della senape in polvere,
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Speciale Stati Uniti - ricette a cura della redazione
PROCEDIMENTO 1. Almeno due ore prima della preparazione (meglio se il giorno prima) occupatevi del cipollotto di Tropea pickled. In un pentolino preparate la soluzione agrodolce unendo tutti gli ingredienti del pickle e portandoli a bollore tranne il ghiaccio, che inserirete a questo punto per diluire e raffreddare la soluzione. 2. Pulite per bene il cipollotto e tagliatelo in falde, sbollentatele 1 minuto e raffreddatele in acqua e ghiaccio. 3. Inserite il cipollotto in un barattolo di vetro o in una busta sottovuoto e aggiungete la soluzione agrodolce. Se utilizzate la busta sottovuoto basteranno anche 20 minuti per ottenere un ottimo risultato, altrimenti lasciate passare almeno 2 ore.
in quel caso un cucchiaino, oppure per una buona senape gialla americana. Il bun è importante che sia morbido, ben tostato nella parte interna e caldo: non c'è cosa peggiore di addentare uno Sloppy Joe servito in un bun freddo. In questo caso abbiamo usato un bun fatto in casa da 160g. Provate anche voi a farlo in casa e non tornerete più indietro.
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Nella nostra variante abbiamo aggiunto della cipolla di Tropea pickled, per dare una nota acida che si sposa divinamente con l’untuositá della carne, ma voi potete sbizzarirvi e aggiungere ciò che preferite: ad esempio del buon cheddar o dei cetriolini in agrodolce. La chiave per ottenere un boccone perfettamente equilibrato è l'acidità. Inserite un elemento acido per bilanciare la grassezza della carne e le vostre papille gustative prenderanno il volo, garantito. Preparatevi a sporcarvi fino ai gomiti: lo Sloppy Joe si mangia con le mani, uscendone sbrodolanti e felici.
4. In una padella di ghisa fate scaldare un filo d’olio e aggiungete la carne avendo cura di sgranarla per bene con un cucchiaio. Fatela rosolare fino alla completa brunitura, non abbiate fretta in questa fase, anche se si tratta di carne macinata la reazione di Maillard arriva, eccome se arriva, favorendo un overboost di sapore alla vostra preparazione. 5. Rimuovete la carne dalla padella, aggiungete il peperone e la cipolla tritati finemente e fate dorare per bene a fiamma viva. A circa 3/4 della doratura aggiungete anche l’aglio e quando il tutto ha assunto un bel color ramato entrate con lo zucchero di canna e la salsa Worcestershire. Sfumata vigorosa e continuate con la passata di pomodoro e la senape. 6. Coprite con un dito d’acqua e lasciate cuocere a fiamma bassa per 30/35 minuti o comunque fino a consistenza desiderata aggiungendo dell’acqua calda all’occorrenza. 7. In dirittura d’arrivo, quando la consistenza vi soddisfa aggiustate la preparazione con sale, pepe nero e peperoncino in fiocchi, se lo gradite. 8. Tostate leggermente il bun in forno e farcite con una generosa cucchiaiata di carne e qualche falda cipolla pickled. Facile, godurioso, alla portata di tutti.
INGREDIENTI per 4 persone 4 morbidi bun 600 g di Chuck Roll di manzo macinato una volta sola 150 g di peperone verde 150 g di cipolla dorata 10 g aglio 60 ml di salsa Worcestershire 40 g zucchero di canna olio q.b pepe q.b sale q.b 120 g di passata di pomodoro acqua q.b 40 g senape gialla fiocchi di peperoncino q.b
Per il cipollotto di Tropea pickled: 1 cipollotto di Tropea 200 g ghiaccio 100 g aceto di vino bianco 100 g vino bianco 200 g zucchero
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5g sale
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foto di Rossella Neiadin
Speciale Stati Uniti - ricetta a cura di Emiliano Nencioni
MINNESOTA
Andiamo al cuore fondente della questione
JUICY LUCY
con la "i"
Un cheeseburger ripieno di... ulteriore formaggio. Juicy Lucy? O Jucy Lucy? La parola juicy, succoso, succulento, si scrive correttamente così, con la i nel mezzo; tuttavia la pronuncia “joo - see” non mette in risalto la vocale incriminata, che si va a perdere e a generare eventuali errori di spelling. E’ all’incirca qui che inizia la storia, e anche la disputa, del panino: Minneapolis, nel Minnesota, due bar (o per meglio dire Diner) a cinquanta chilometri di distanza, entrambi rivendicano dagli anni ‘50 del secolo scorso la paternità di questo hamburger. Uno è il 5-8 Club, ex locale clandestino durante il proibizionismo, che serve i Juicy Lucy (attenzione: con la i nel mezzo) in una cornice kitsch e retrò addobbata di oggetti di tipico modernariato americano, gli stessi che probabilmente incontrereste in qualsi-
asi localino ispirato alle atmosfere di Grease o Happy Days nel mondo: cofani di Chevrolet, pompe di benzina meccaniche, statuine di Marilyn, busti di Elvis. Avventurarsi però in questa sottolineatura pleonastica dell’ovvio in Minnesota è come aprire una pizzeria in Italia e riempirla di foto di Totò, statuine di pulcinella e gigantografie del Golfo di Napoli (ma pensandoci bene credo di aver descritto un paio di locali che conosco). Il locale rivale, Matt’s Bar, serve lo stesso piatto, meno una vocale: da loro si mangia il Jucy Lucy (notare la differenza), e ne vanno ben fieri. Sì, perché secondo i gestori Matt Bristol serviva agli avventori i Jucy Lucy ben prima di diventare proprietario del diner, e quando nel 1954, al momento dell’acquisto dell’attività e delle nuove insegne, il materiale relativo al piatto best seller arrivò con un errore di ortografia (perché di errore si tratta, non c’è una lectio facilior e una lectio difficilior), qualcuno decise di lasciare tutto esattamente così. Oppure nessuno si accorse di nulla; o ancora, a chi fece notare lo sbaglio venne risposto “eeeh, che sarà mai, è arrivato il professorone, fattela una risata”, o analoga versione più redneck e più 1950-ish di questa ormai abusata espressione molto molto italiana. Non lo sapremo mai. A complicare le cose, portando al parossismo una diatriba legale e commerciale su un medesimo, normalissimo panino riproposto in chissà quanti altri locali, ci si è messo anche Obama. Il POTUS in persona, notoriamente ghiotto di junk food e paninazzi in genere, nel 2014 si è fermato a pranzo – per quanto un presidente degli Stati Uniti possa semplicemente “fermarsi”, con codazzo di bodyguard, cecchini appostati sui tetti dei palazzi, disturbatori di radiofrequenze e limousine gemelle blindate - proprio da Matt’s, quello del Jucy senza la i. Possiamo solo tentare di immaginare il rosicamento atroce e inconsolabile dei gestori del 5-8 Club, con un testimonial del genere e con l’eco mediatica di copertura social che ne è scaturita, così, gratis tra l’altro. Ironia della sorte, il giorno stesso della visita di Mr. Obama, solo poche ore prima, lo storico proprietario Matt Bristol, l’autoproclamatosi “vero scopritore del Juicy Lucy”, è venuto a mancare a 89 anni. Spelling e folklore a parte, cos’è alla fine il Juicy (o Jucy? Userò la forma più corretta con buona pace del compianto Matt) Lucy? Niente di più che un panino con dentro un hamburger con un cuore di formaggio fuso; eventuali condimenti, salse e contorni saranno ovviamente presenti, ma affinché il panino possa fregiarsi del nome in questione è solo uno il punto cruciale: il formaggio dentro la polpetta di carne.
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C’è una preparazione, nel cuore rurale degli States, che ha diviso e scatenato guerre di denominazione e spelling al pari delle nostre futili ma cruentissime dispute su arancino o arancina, su cecina o torta (o farinata, al massimo, ma “calda calda” no, mi rifiuto).
La particolare configurazione del patty comporta alcune conseguenze cardine: • il tempo per la confezione è decisamente maggiore rispetto al dover solo pressare il macinato; • la presenza del cuore di formaggio introduce un grado di complessità nelle strategie di cottura; • una saldatura non perfetta dei bordi provocherà una fuoriuscita del ripieno in fase di searing, rovinando la preparazione; • i grassi provenienti dalla liquefazione del formaggio irroreranno il macinato circostante, aumentandone molto la succosità.
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Tenendo presente quanto sopra, vediamo quindi come procedere per preparare un Juicy Lucy adeguato agli impietosi standard qualitativi del Magazine BBQ4All. Gli obiettivi da raggiungere sono molto chiari, e non troppo diversi da ogni altro hamburger ben imbastito: • crosticina croccante fuori, segno evidente di una buona maillardizzazione della superficie; • cuore formaggioso completamente sciolto, caldo e non fuoriuscito dai bordi; • accostamento sensato e coerente degli ingredienti, tenendo conto stavolta anche del sapore del formaggio scelto per il ripieno. Data la natura della preparazione, la scelta della componente casearia è di grande importanza: tradizionalmente viene usato il cheddar, ma abbiamo numerose alternative; soprattutto vorrei consigliarvi di non usare il cheddar fasullo, quel polimero reso arancione dal colorante che ha un gusto non dissimile dal teflon. Esistono diversi cheddar molto dignitosi, con un sapore profondo e assertivo che può caratterizzare in maniera decisa un panino che fa del suo punto di forza la cremosità e il gusto del formaggio. E in ogni caso, se avete letto il numero di Giugno 2020, avete imparato a farvelo da soli in casa. Non ne ho ancora parlato perché penso, dopo 18 numeri di Magazine, di poterlo dare per scontato, ma penso sia chiaro che per un buon hamburger serva della buona carne: inutile impegnarsi per un risultato perfetto e scegliere gli abbinamenti ideali se poi la ciccia ha un sapore polveroso e truciolare. Potete sicuramente tritare del manzo molto saporito per conto vostro, ma sicuramente la via più pratica è l’acquisto dei burger Blue Ox, GLC Top Selection. Non prendetela come una marchetta o una spinta promozionale: non ce ne sarebbe bisogno. La verità è che sono degli hamburger perfetti e non si trova di meglio neanche facendoli artigianalmente.
INGREDIENTI per un Juicy Lucy due hamburger Blue Ox, GLC Top Selection 100 g di cheddar di ottima qualità 3 fette di bacon un pomodoro rosso qualche foglia di lattuga maionese e/o senape q.b. un bun per hamburger
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foto di Rossella Neiadin
PROCEDIMENTO 1. Come già accennato, la parte “sfidante” di questo piatto è riuscire a servire il panino col ripieno completamente fuso senza aver stracotto la carne: ho pensato quindi di ridurre il cheddar in frammenti il più possibile piccoli e sottili, per aumentarne la superficie a parità di volume e scioglierlo con facilità. La carne macinata deve fungere da alcova per il formaggio, e per fare questo avete due opzioni: la prima, tipica delle persone per bene, più assennate, consiste nel prendere un coltello da sfiletto e aprire il patty come se fosse una focaccina, in due dischi di pari spessore; con il pollice basterà ricavare nel centro una depressione circolare pari a circa due terzi dell’area del cerchio (quindi non ai due terzi del diametro, non ragionate linearmente per piacere), nella quale depositare le scaglie di cheddar precedentemente preparate, mentre il secondo disco di macinato avrà il ruolo di coperchio. Una seconda opzione si adatta maggiormente a chi ha fretta, a chi ha una estensione mandibolare fenomenale o a chi ha in programma una successiva ostentazione di opulenza sui social network: imprimete col pollice o col fondo di un bicchiere il giaciglio circolare per il formaggio nell’hamburger da 200 g intero, spezzate il secondo hamburger, plasmatene una metà fino ad ottenere un disco di pari diametro e con questo fornite un coperchio alla polpetta. Avrete già intuito che il mezzo hamburger rimasto vi offre un pretesto inattaccabile per preparare un secondo Juicy Lucy e pareggiare i conti (per un totale di quattro hamburger da 200 g). 2. Attenzione alla saldatura: non tirate via proprio su questo passaggio, non sottovalutate l’importanza dell’adesione dei bordi dei due dischi di macinato, o rischierete di rovinare un bel po’ il risultato. schiacciate i bordi con le mani, poi ricompattateli, poi schiacciateli di nuovo finché non sarete sicuri che le due parti non abbiano nessun pretesto per staccarsi quando si ritireranno in cottura. Aprite a metà il panino e tostatelo un po’ nella parte interna, affettate i pomodori e preparate la lattuga, disponendo tutto in maniera comoda ed efficiente per un successivo montaggio rapidissimo (chi non odia i panini che si freddano quando chi li confeziona è lento, serafico e bradipiforme?). Scaldate una padella in ghisa e appoggiateci il super-patty leggermente unto d’olio, girandolo con estrema cautela tramite una spatola. Quando entrambi i lati saranno adornati da una bella brunitura a causa della ormai nota reazione di Maillard, togliete la carne dal fuoco e iniziate a rendere croccante e caratteristicamente arricciolato il bacon, ponendolo sulla padella ormai diventata molto calda: pochissimi secondi saranno sufficienti. In alternativa potete cuocere l’hamburger sul kettle o in un dispositivo outdoor a gas, in cottura diretta, molto semplicemente, usando le accortezze esposte per la padella: maggiore attenzione però richiederà il procedimento di cottura del bacon, che potrebbe scivolare tra le griglie e cadere nel carbone o tra le fiamme, generando indicibili profanità. 3. Prendete il restante cheddar e scaldatelo velocemente sulla padella per qualche istante, per farlo sciogliere senza farlo bruciare. A questo punto è il momento dell’assemblaggio del panino: prendete la parte inferiore del bun, spalmateci sopra mezzo cucchiaio di maionese o senape o entrambe; sopra il pane va subito l’insalata, che aiuta anche a non far infradiciare di liquidi lo strato spugnoso sottostante. Appoggiate qualche fettina sottile di pomodoro (meglio se leggerissimamente salato o inumidito con salsa di soia), Ora è il turno della carne, impreziosita da un “topping” di cheddar sciolto. E infine il bacon (i manieristi del burger vi direbbero che la stratificazione ideale è: pane, salsa, carne, formaggio, pomodoro, insalata, bacon, pane. Ma a noi è piaciuto anche così. n.d.r.).
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4. La parte superiore del panino chiude il tutto, ed è pronto da servire. Fate presente ad eventuali ospiti ignari o a persone particolarmente fameliche che l’interno fuso può raggiungere temperature micidiali. in modo da evitare scenette fantozziane e intempestive corse al pronto soccorso. Usando questo procedimento come base di partenza potrete ricavare numerose varianti, anche solo giocando con i formaggi e sostituendo il cheddar con cose più nostrane, tipo caciocavallo o scamorza affumicata, e cercando sapori più pungenti con gorgonzola, pecorino o ricotta forte.
Speciale Stati Uniti - ricette a cura della redazione
CALIFORNIA
FRENCH DIP
foto di Rossella Neiadin
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essenziale, indimenticabile lussurioso
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Diventato nel tempo una voce molto comune nei menù di vari ristoranti, paninoteche e fast food d’Oltreoceano, Il French Dip è un panino molto saporito e godurioso eppure molto essenziale: solo carne, pane e salsa au jus. Il nome, che farebbe pensare a un’origine francese di tutta la preparazione, si riferisce invece al fatto che la carne viene servita in una baguette inzuppata nella salsa au jus, servita di solito anche in accompagnamento. Sono due i ristoranti americani che si contendono la paternità di questo sandwich, entrambi di Los Angeles: Cole's Pacific Electric Buffet e Philippe the Original. Quest’ultimo, che riporta nel logo la definizione “Home of the Original French Dip Sandwich” è decisamente più accanito nel cercare di dimostrare la paternità del panino alla francese, presentato come specialità della casa. Entrambi i ristoranti furono fondati nel 1908, e ambedue affermano di aver inventato questa preparazione: ma mentre Cole afferma di averlo messo in menù da subito, Philippe dice di averlo ideato lui dieci anni dopo, nel 1918. Diverse sono anche le leggende che i due ristornati raccontano sull’origine del French Dip: secondo alcuni sarebbe nato da un errore di un cuoco che avrebbe fatto cadere per sbaglio il pane nei succhi della carne mentre stava preparando un sandwich per un poliziotto (è singolare come molto spesso compaiano figure delle forze dell’ordine in storie simili, forse perché si vuole dare alla
storia una sorta di ufficialità e di autorevolezza), altri dicono che invece sarebbe stata una trovata per far consumare ai clienti il pane stantio (e questo è molto meno romantico), e c’è perfino chi dice che il panino sarebbe nato per accontentare un cliente col mal di denti (decisamente l’ipotesi meno affascinante). In ogni caso, accertata l’impossibilità di risolvere la diatriba sulle vicende legate alla nascita del French Dip, in entrambi i ristoranti il panino viene servito più o meno nello stesso modo: immerso nei succhi della carne prima di essere farcito; è possibile richiederlo double dipped, ovvero con entrambe le metà del sandwich inzuppate prima di essere servite con la carne all’interno. La salsa au jus, con la quale viene accompagnato, serve anche a bagnare il sandwich durante la consumazione ed è molto più densa di un brodo di base. Si realizza recuperando i succhi di cottura della carne, che poi si fanno ulteriormente stufare insieme a sedano, carota e cipolle; dopodiché si aggiunge un brodo e si fa ulteriormente addensare il tutto. A quel punto si può decidere di lasciarla così o di trasformarla in una salsa vera a propria aggiungendo un roux. Per realizzare questa ricetta, noi abbiamo utilizzato il fondo di cottura di un brisket di Wagyu, e abbiamo cotto il nostro Eye Round tenendolo prima in forno per farlo scaldare internamente e poi griglian-
dolo velocemente sul kettle. Ci siamo potuti permettere di velocizzare i tempi grazie alla qualità indiscutibile della carne del nostro Megastore: un Eye Of Round Usa Star Ranch Prime Angus. L'Eye Round è il corrispondente dell'italiano Megatello, una sezione pregiata della coscia bovina, usato molto spesso per la preparazione del Pit Beef, come ben sapete. Con carni di qualità inferiore, il consiglio è quello di fare un Revit (dry brining + forno a 52) in modo da concentrare il più possibile il sapore della ciccia e ottenere un risultato perfettamente rosato, senza mouse ring, caldo internamente, morbido e succoso. La ricetta della baguette, è gentilmente fornita dal nostro Alessandro Trezzi, poco più avanti.
INGREDIENTI per 6 persone un Eye Of Round Usa Star Ranch Prime Angus da circa un kg Sal’s Seasoning Montreal Steak rub q.b. Olio di semi q.b. sale e pepe q.b. un gambo di sedano una carota mezza cipolla bianca circa 100 ml di fondo di cottura del Brisket 500 ml di brodo di manzo 2 cucchiaini di salsa Worcestershire 30 g di farina 30 g di burro chiarificato
PROCEDIMENTO 1. Trimmate eventuali piccoli scarti dall’Eye Round, spennellatelo con un velo di olio di semi, e cospargetelo col Montreal senza esagerare. 2. Accendete il forno a 52°C e mettete la ciccia all’interno, appoggiandola su una griglia. Dovete aspettare il tempo necessario affinché all’interno raggiunga i 50/52 gradi. 3. Quando avrà raggiunto la temperatura desiderata, accendete una ciminiera di carbone e versatela nel kettle per una cottura diretta ad alta temperatura. 4. Grigliate il vostro Eye Round formando una gustosa crosticina omogenea (potete farlo anche aiutandovi con una padella o una piastra di ghisa appoggiata sulla griglia in corrispondenza della braci): non buttate mai la carne in griglia prima che quest’ultima (o la padella in ghisa, se l’avete usata) non sia rovente. 5. Una volta formata la crosticina, togliete il megatello dal fuoco e tenetelo in rest fino al momento del taglio. 6. Nel frattempo avrete preparato la salsa au jus: versate in una padella il fondo di cottura del brisket, aggiungete sedano, carota, cipolla tagliati grossolanamente e lasciateli stufare, in modo che rilasciano i loro succhi nel fondo di cottura. 7. A questo punto aggiungete il brodo di manzo e due cucchiaini di salsa Worcestershire . Fate ridurre il tutto, sgrassatelo e passatelo al setaccio.
9. Aprite la baguette e bagnate adesso una o entrambe le metà con la salsa au jus. Tagliate a fette l’Eye Round e farcite il panino. Servitelo con la salsa in accompagnamento.
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8. Fate sciogliere il burro a fuoco medio poi spostate il tegame dal fuoco e aggiungete la farina setacciata tutta in una volta mescolando energicamente. Rimettete il pentolino sul fuoco basso e lasciatelo finché la farina sarà tostata (senza farla bruciare!). A quel punto potete aggiungere al roux il brodo concentrato ottenuto in precedenza, facendolo addensare. Le proporzioni di solito sono 1:1:10, quindi 30 g di burro, 30 g di farina e 300 ml di brodo per una salsa abbastanza densa. Comunque, potete variare le dosi, a seconda che la vogliate più o meno liquida.
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L'Arte Bianca - rubrica a cura di Alessandro Trezzi
Ci sono forme di pane ormai ben radicate nell’immaginario collettivo, il cui eco risuona nei secoli. Tra queste, riveste un ruolo di indiscutibile importanza la baguette, il celeberrimo pane francese riconoscibile tra mille: forma allungata e appuntita alle estremità, crosta croccante, mollica morbida e alveolata. La traduzione letterale è “bacchetta”, proprio per la sua particolare conformazione: un bastone di 55-65 cm di lunghezza per 5-6 di diametro, con un peso di circa 250-300 grammi. Esistono poi in Francia altre versioni meno conosciute, che differiscono dalla classica per le dimensioni: - Il flûte (flauto) è tipicamente parigino, più largo, dal peso di 400 grammi; - La ficelle (stringa) è più piccola, di circa 120-125 grammi; - La demi-baguette è più corta, utilizzata solitamente per i panini.
Sebbene i francesi ne siano, per ovvi motivi, i più strenui consumatori (con oltre 30 milioni di forme al giorno), la baguette è diffusa in tutto il mondo, compresa l’Italia e i paesi ex-coloniali francesi (come l’Algeria).
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Ed è proprio quest’ultima la caratteristica più bella di questo pane eterno: la grandissima adattabilità alle farciture, che la rendono perfetta per i classici burro e marmellata o burro e prosciutto crudo, ma anche per una serie interminabile di abbinamenti. Uno di essi è sicuramente il French dip che vi abbiamo proposto in questo menu americano. Si tratta, di fatto, di un pane da passeggio, che come tale ben si presta alla più nobile delle arti culinarie: il panino.
LA STORIA Nel 1830 arriva in Francia il pane viennoise: una forma allungata e ovale a base di lievito di birra, cotta a vapore (metodo ai tempi innovativo) e consumato solo in ambiente aristocratico a causa delle tasse sul pane bianco. La particolare cottura permetteva di formare una crosta croccante mantenendo l’interno morbido e scioglievole. Con il tempo, le tasse vennero abolite e il pane viennoise divenne alla portata di tutti, trasformandosi piano piano nel cibo dei lavoratori; comodo, pratico e acquistato ogni giorno specialmente dai parigini, in quanto la conservazione non era ottimale e non era
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possibile comprarlo in quantità maggiori per consumarlo durante la settimana. Dopo un breve ritorno al pane nero di segale durante la Prima guerra mondiale (più economico rispetto al bianco), la baguette torna alla carica e raggiunge il suo apice intorno agli anni Venti del '900, quando una legge vietava ai fornai di lavorare prima delle quattro, impedendogli di cucinare le classiche pagnotte tonde per la colazione. La baguette risolse il problema in quanto
poteva essere preparata e cotta in tempi decisamente inferiori. Poco a poco la forma si allungò sempre di più, trasformandosi nel bastone che oggi tutti conosciamo e che, dagli anni ’30, cominciò la sua scalata verso il successo. Nel 1967 arrivano in Francia i ticket restaurant; i parigini cominciarono a riempire le boulangerie durante la pausa pranzo, e ciò che fino ad allora era considerato un accompagnamento divenne un vero e proprio pasto. Nasce proprio in questo periodo il celebre jambon beurre (prosciutto e burro), detto anche sandwich parisien.
LA BAGUETTE TRADIZIONALE Un decreto del Governo Francese del 1993 definì i soli ed unici 4 ingredienti ammessi nella produzione della baguette de tradition française, detta anche baguette tradition: farina di frumento, acqua, lievito madre (non di birra) e sale (18 grammi di sale ogni chilo di farina). Sono ammessi tre adiuvanti: farina di semi per una percentuale massima del 2%, farina di soia per un massimo di 0,5% o farina di frumento malto consentita per uno 0,3%. L’uso di amilasi fungina come adiuvante tecnologico è accettato, ma non sono
ammesse altre sostanze. La baguette tradition non deve essere stata congelata durante le sue fasi di preparazione, e la lievitazione deve durare dalle 15 alle 20 ore, contro le 3-4 ore normalmente impiegate per le altre baguette.
LA BAGUETTE PERFETTA Detto questo, come ben sapete il nostro rispetto per la tradizione è sacrosanto, ma la perfezione è un’altra cosa e non sempre va di pari passo. Dobbiamo fare i conti con le materie prime di cui disponiamo, degli strumenti del contesto quotidiano, ma soprattutto di scienza e consapevolezza; i francesi quindi ci perdoneranno se le dosi e i tempi del nostro metodo non saranno identici ai loro.
Anzitutto il peso, che è possibile valutare con le proprie mani: la baguette deve dare una sensazione di leggerezza, testimonianza di una corretta lievitazione. Tagliando poi una fetta di baguette ci dobbiamo trovare di fronte a un’alveolatura irregolare con buchi non troppo fini, ma nemmeno voragini eterogenee. La mollica deve, inoltre, aderire bene alla crosta. Infine, facendo una leggera pressione con le dita su quest’ultima, il pane deve tornare nella sua forma iniziale, testimonianza di una mollica asciutta, che respira, e il cui interno non si appallottola senza ritegno alla minima sollecitazione. L’IMPASTO La baguette nasce tradizionalmente con la farina bianca, di forza medio-alta e dall’assorbimento farinografico minimo sufficiente per sostenere un’idratazione media; nel nostro metodo giocheremo con i profumi, alternando una parte di farina 00 o 0 (che garantisce una struttura intatta ed equilibrio nel gusto) a una parte di farina di tipo 1 macinata a pietra, in grado di conferire profumi più marcati e piacevoli alla mollica. Per aumentare la friabilità e garantire uno sviluppo omogeneo, giocheremo in casa (d’altri) utilizzando la tecnica del poolish, un pre-fermento di origine polacca e adottata dalla Francia sin dal XIX secolo. In sostanza si tratta di un impasto liquido ottenuto mescolando farina e acqua in pari quantità, più una percentuale di lievito che dipende dalle ore di maturazione scelte; la temperatura ideale per la lievitazione è di circa 20-22°C, e la maturazione perfetta viene raggiunta quando il volume è raddoppiato e tende a cedere al centro, con una crepa ben visibile. Tale tecnica è in grado di assicurarci gli alveoli ben distribuiti tipici della baguette, un effetto crunch superiore e una maglia glutinica molto estensibile grazie all’acqua in eccesso che accelera l’attività enzimatica. Il sapore è
più pungente, a causa della presenza di acido acetico e alcol. Per realizzare l’impasto ci atterremo ad un’idratazione del 65%, la via di mezzo perfetta per ottenere un impasto modellabile senza fatica ma al contempo leggero e scioglievole. PREPARAZIONE DEL POOLISH Mescolate gli ingredienti in una ciotola, fermandovi non appena la farina risulterà completamente idratata. Non è necessario che formiate il glutine, dovete solo uniformare il composto. Coprite con pellicola e lasciate maturare a una temperatura di 20-22°C per 12 ore. Come già anticipato, il poolish risulterà maturo quando prossimo al collasso, ovvero quando inizierete a notare delle crepe sulla superficie. IMPASTAMENTO In una ciotola o nella vasca della vostra impastatrice o planetaria versate tutta la farina, il lievito (che servirà come starter per far partire la lievitazione) e i 3/4 dell’acqua della ricetta e iniziate a impastare, fino a ottenere una massa uniforme e asciutta. A questo punto aggiungete il sale, e proseguite mettendo l’acqua a filo, solo quando la precedente risulterà perfettamente assorbita. Chiudete l’impasto quando risulterà liscio, uniforme e ben incordato. Ripiegatelo sul banco per dargli una struttura, oliate un recipiente (possibilmente con i bordi alti e stretti per consentirgli di crescere in altezza), chiudete ermeticamente e mettete a lievitare a una temperatura di 26-28°C per un’ora. STAGLIO E FORMATURA Recuperate l’impasto, ribaltatelo sul piano da lavoro e dividetelo in otto parti uguali, che peseranno circa 120-125 grammi l’uno. Logicamente dobbiamo adattarci agli spazi del forno di casa, e la nostra baguette risulterà quindi più piccola dell’originale; la cosa importante, come sempre, è rispettare le caratteristiche tecniche. Formate delle palline e dategli la cosiddetta
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Su un aspetto tuttavia non dobbiamo transigere: come riconoscere la baguette perfetta.
“pre-forma”: appiattitele delicatamente per formare un ovale, poi ripiegate l’impasto verso il centro fino a ottenere un panetto regolare allungato. Lasciate quindi riposare (con il lato della chiusura in basso) per 30 minuti a 26-28°C per far rilassare il glutine e recuperare estensibilità. Dopodiché, appiattite ogni panetto e ripiegate ancora i lembi verso il centro per dare forza all’impasto, in modo da conferire ulteriore struttura e permettergli di crescere in altezza durante l’appretto. A questo punto arrotolate il panetto tra le mani per avere una forma allungata e uniforme in tutta la sezione, tenendo come riferimento la dimensione della vostra teglia, tipicamente da 40 cm. Non dimenticate di conferire alle estremità la classica forma appuntita, premendo e ruotando con i palmi delle mani in modo da ottenere un piacevole effetto croccante dopo la cottura. Infarinate un canovaccio (abbastanza lungo) e stendetelo sulla teglia, appoggiate un filone (con il lato della chiusura verso l’alto) e poi il successivo, tirando un po’ il tessuto tra uno e l’altro per tenerli separati. In ogni teglia da 30x40 cm riuscirete a mettere 3 filoni. APPRETTO Coprite con un altro canovaccio e lasciate lievitare per 1-2 ore a 26-28°C, o comunque fino al raddoppio del volume.
INGREDIENTI per circa 8 baguette persone per il poolish 100 g di farina di grano tenero di tipo 00 o 0 (270 – 280 W); 100 g di acqua; 0.5 g di lievito di birra fresco.
Per l’impasto 200 g di poolish maturo; 500 g di farina di grano tenero di tipo 1 (270 – 280 W);
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300 gr di acqua; 10 gr di sale fino; 1 gr di lievito di birra fresco.
COTTURA Preriscaldate il forno statico a 240°C e preparate un pentolino di acqua bollente. Appena i filoni saranno pronti, capovolgeteli su una teglia foderata con carta forno, spolverate leggermente con della farina la parte superiore e praticate i classici taglietti trasversali con una lametta o un coltello ben affilato. Infornate per circa 15 minuti con il pentolino nella parte bassa e la teglia in posizione centrale. Dopodiché, togliete il pentolino e cuocete per altri 5 minuti con la porta leggermente aperta per far uscire il vapore e asciugare la crosta, che dovrà risultare croccante, friabile e ben dorata. Sfornate, lasciate raffreddare su una griglia rialzata e preparatevi per azzannare questo pezzo di storia. Farcite le baguette con la carne per il French dip. Ma viste che ne avete in abbondanza, dateci di burro e marmellata oppure provate anche il sandwich parisien, fidatevi.
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illustrazione di Ozzy Bellesi
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Speciale Stati Uniti - ricette a cura della redazione
per 4 persone 200 g di farina 250 g di latte 2 uova 30 g di zucchero bianco 30 g di burro chiarificato mezza bustina di lievito per dolci burro per la cottura in padella q.b. sciroppo d’acero a piacere
Per finire dalla brace alla padella
PANCAKE
Calde e soffici frittelle rotonde servite impilate una sopra l’altra, a mo’ di torretta, ricoperte con lo sciroppo d’acero (nella versione classica), col cioccolato fuso, col caramello o con la marmellata, guarnite con frutta secca o fresca: sono i pancake, una delle tante preparazioni tipiche della ricca e varia colazione anglo-americana. Il cinema e le serie tv statunitensi ci hanno insegnato che sono talmente buoni da essere preparati per iniziare al meglio la giornata, un po’ come da noi che per lavorare felici e contenti dobbiamo inzuppare un cornetto nel cappuccino, pena il malumore fino a sera. Chi di voi non ha sognato almeno una volta di infilare la forchetta in quei dischi appetitosi? Se poi leggevate Topolino, non può non esservi venuta l’acquolina quando vedevate Paperino preparare centinaia di pancake ai suoi saputelli nipotini. Ebbene questa preparazione non affonda le proprie origini nel Nuovo Continente, ma nella culla della civiltà occidentale, la Grecia. Infatti, le prime testimonianze di una ricetta similare risalgono al 500 a.C., nei pochi versi sopravvissuti allo scorrere del tempo dei commediografi ellenici Cratino e Magnete. Negli stralci delle loro opere perdute, entrambi parlano di un dolce tipico del mattino, le Teganites o Tagenites (il nome deriva dalla pentola usata per realizzarlo), ovvero frittelle tonde fatte con farina, acqua e olio, ricoperte di miele. Questi testi fanno parte della collezione dei Papiri di Ossirinco, sito archeologico egiziano dove, fra il 1896 e il 1907, due studiosi dell’Università di Oxford, Bernard Grenfell e Arthur Hunt, scoprirono una serie di documenti pubblici e privati (editti, compravendite, etc.) e parti di poemi latini e greci. A diffondere la preparazione, inizialmente nell’aria mediterranea e poi via via in ogni zona del proprio dominio, furono i Romani. Quando Roma annetteva al proprio territorio una nuova provincia, non distruggeva la cultura dei vinti, anzi permetteva loro di mantenerla a patto che riconoscessero senza nessuna riserva la supremazia del vincitore. Perciò ogni conquista portava all’incontro e alla fusione di tradizioni e stili diversi. I conquistatori erano soliti acquisire e portare a Roma sotto forma di bottino (schiavi, ricchezze, opere d’arte ecc.), tutto ciò che di bello, interessante ed utile offriva il nuovo territorio. Il contributo della cultura greca sicuramente fu molto importante, sia nel campo delle arti che in quello delle scienze, ma ebbe un peso significativo anche in cucina e le Teganites ne sono una prova. Durante il periodo imperiale l’impasto fu arricchito con latte, uova e spezie, e fu trasformato di fatto da dolce semplice e accessibile a tutti, a prelibatezza riservata solo ai patrizi e ai ceti abbienti. La sua bontà era tale che fu ribattezzato Alica Dolcia (lett. incantesimo dolce). Con la caduta dell’Impero Romano d’Occidente nel 476 d.C., e con l’avvento del Medioevo questa ricetta fu quasi del tutto dimenticata nella penisola italica, mentre incontrò grande fortuna nel resto d’Europa, in particolare in Inghilterra. Basti pensare che il termine pancake
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INGREDIENTI
(pan, padella e cake, dolce), comparve per la prima volta in un documento inglese del 1430.
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A tutt’oggi nel Regno Unito sono il dolce per eccellenza dello Shovre Tuesday o Pancake Day corrispondente al nostro martedì grasso. Gli inglesi non festeggiano il Carnevale, ma il giorno prima del Mercoledì delle Ceneri, per liberarsi dai cibi proibiti come uova, burro, miele e zucchero, secondo la tradizione sono soliti cucinare le frittelle con le quali abbuffarsi durante il corso della giornata in vista del lungo periodo di penitenza e di privazioni che li aspetta: la Quaresima. Secondo una leggenda nel 1445 a Olney, paese della Contea di Buckinghamshire, una donna era talmente intenta a spadellare frittelle da non rendersi conto del tempo che passava. Così quando sentì il suono delle campane che annunciava l’inizio delle confessioni si precipitò fuori di casa correndo verso la chiesa, con ancora indosso il grembiule e il padellino in mano con dentro una focaccina. Per ricordare questo simpatico episodio ogni anno nella cittadina viene organizzata la “Olney Pancake Racey”. È una corsa aperta solo alle donne maggiorenni residenti a Onley almeno da tre mesi, che indossando un grembiule e con in mano una padella devono percorrere 415 yard (circa 379 metri). Alla partenza devono prima far saltare in aria il pancake e solo dopo possono iniziare a correre. L’importanza degli inglesi nella storia dei pancake non finisce qui; essi infatti giocarono un ruolo fondamentale nell’esportazione di questa prelibatezza nel
Nord America, la quale arrivò in New England insieme ai Puritani o Padri Pellegrini (i primi a bordo della Mayflowers approdarono a Cape Cod nel 1620), che per sfuggire alle persecuzioni religiose nella madre patria, in cerca di fortuna e ricchezza, si rifugiarono nelle colonie britanniche del nuovo mondo. Ma a determinare il grande successo di questo dolcetto tra gli yankee sarà l’arrivo negli Stati Uniti, più di 200 anni dopo, del lievito chimico in cucina, che li trasformerà nelle morbide focaccine rotonde note in tutto il mondo. Il lievito moderno fece la sua comparsa nell’800 in Germania dove il farmacista August Oetker diede vita ad una produzione di massa destinata all’ambito casalingo. Negli Stati Uniti questo nuovo elemento si impose dopo la fine della guerra di Secessione (1861-1865) ad opera di due fratelli, Joseph e Cornelius Hoagland. A introdurre l’elemento lievitante nella pastella delle frittelle furono alcune massaie, le quali curiose di provare il nuovo ingrediente in cucina, inconsapevolmente contribuirono alla nascita di uno dei simboli culinari della tradizione americana. Il successo delle focaccine lievitate fu tale da attirare anche l’interesse dell’industria alimentare che, nel corso del tempo, ha imposto sul mercato diversi preparati in polvere a cui si può aggiungere solo un po’ d’acqua o di latte per assaporare i veri pancake. Nonostante i pancake possano essere insaporiti con qualsiasi tipo di crema spalmabile o di marmellata, il condimento preferito per eccellenza dagli
americani è lo sciroppo d’acero. Un dolcificante naturale, già presente nella dieta dei nativi americani prima dell’arrivo dei coloni, ottenuto bollendo insieme le linfe di due varianti d’acero: quello zuccherino e quello nero. Il leggero gusto di melassa e miele si sposa alla perfezione con il sapore delicato e burroso dei pancake senza sovrastarlo. Dopo tanta teoria è finalmente arrivato il momento di passare ai fatti. PROCEDIMENTO 1. Con le fruste elettriche montate le uova e lo zucchero, poi aggiungete il latte e il burro sciolto. Ogni volta che inserite un elemento, amalgamatelo bene al composto prima di aggiungere il successivo. 2. Dopodiché unite poco alla volta la farina setacciata ed infine il lievito, sempre mescolando dal basso verso l’alto fino ad ottenere una pastella liscia, ma al contempo corposa 3. Mettete su un fuoco medio basso una padellina, fate sciogliere una piccola noce di burro e versate al centro un mestolo di pastella senza schiacciarlo. 4. Quando si formano le bollicine sul lato superiore, girate la frittella con una spatola o se siete bravi fatela saltare. 5. Ripetete il procedimento fino a quando la pastella non sarà terminata. 6. A questo punto è arrivato il momento di mettere una sopra l’altra le vostre frittelle. Bagnate la parte superiore con una generosa dose di sciroppo d’acero e servitele ancora calde.
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Il sogno americano sotto forma di formaggio
MONTEREY JACK L'arte Casearia a cura di GIOVANNI MINELLI
In un menù tutto statunitense, verace e ben pensato, c’è spazio per un formaggio che sarebbe capace di far scendere anche la lacrimuccia ad un eventuale ospite d’oltreoceano. In Italia è quasi del tutto sconosciuto, ma basta fare un viaggetto nel nuovo mondo per scoprire di quanta popolarità goda e altrettanto orgoglio susciti il poter affermare che si sta consumando un originale Jack. Sto parlando del Monterey Jack, un formaggio la cui storia iconica incarna perfettamente il concetto di “sogno americano”. Conosciamolo un po’ meglio prima di imbarcarci in questa nuova avventura casearia che ci porterà alla sua realizzazione.
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Si tratta di un formaggio ottenuto da latte intero, quindi grasso, a pasta cruda e semidura. Normalmente viene consumato come formaggio da tavola ma trova spazio in numerose ricette tipiche, soprattutto in California, dove è nato. Classico protagonista degli spuntini spezzafame, lo troviamo spesso anche all’interno di preparazioni dove la cultura statunitense si mescola a quella messicana. Com’è facilmente intuibile nasce a Monterey, la mitica città in cui sono ambientate le rocambolesche avventure di Danny e tutta l’allegra combriccola di Pian della Tortilla (se non sapete di cosa sto parlando dovete porre rimedio al volo, lo dico per voi). Alla fine del 1700 i frati francescani della Missione San Carlos Borromeo del Rio Carmelo lo producevano per lo più per consumo interno. Intorno alla metà del 1800 David Jack, uno scozzese emigrato in California, acquistò centinaia di ettari di terreno intorno alla città, diventando il più grande proprietario terriero della zona. Tanta terra, tanto bestiame, tanto latte. Cominciò a produrre formaggio seguendo la ricetta dei frati e lo commercializzò col nome di Queso Blanco. Da subito riscosse un gran successo, tanto che le realtà produttive di tutta la regione volevano produrre questo formaggio. David Jack, la cui storia è abbastanza controversa e spesso non stimola simpatia, di sicuro sapeva cavalcare l’onda favorevole del mercato e, da vero businessman, colse la palla al balzo, e si affiliò a un gran numero di caseifici, così da comin-
ciare la commercializzazione su vasta scala e dominare il mercato, con quello che fu ribattezzato Monterey Jack. Normalmente, è consumato dopo un periodo di maturazione che va dai 30 giorni fino ai 6 mesi ma ne esiste una versione stagionata, il Dry Jack, che viene consumato anche oltre l’anno e si presta bene per gli affinamenti più fantasiosi. Di norma il Dry lo troviamo sul mercato ricoperto da uno strato di cera che lo preserva da un’eccessiva perdita di umidità nel corso del lungo periodo di stagionatura. Abbastanza celebre anche il Pepper Jack, una variante aromatizzata con peperoncino. Ma senza Monterey Jack non ci sarebbe neanche l’iconico Colby-Jack, o Cojack, uno dei formaggi americani dall’aspetto più caratteristico, ottenuto dalla pressatura di cagliate diverse, in parte Monterey Jack e in parte Colby, un formaggio la cui pasta ha un’accesa colorazione arancione data dall’annatto.
Anche questa volta vi descrivo il processo per trasformare 10 litri di latte, non vado su quantità inferiori così da ottenere un formaggio con una pezzatura adatta ad una maturazione che possiamo protrarre per qualche mese. Vi anticipo subito che questa volta procederemo con la salatura del
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Cosa bisogna aspettarci dall’assaggio? Si tratta di un formaggio dolce, delicato, con note acide nel finale. Aromi e profumi ricordano latte e burro fresco, poi in base alla materia prima di partenza possiamo ritrovare sentori di erba e frutta a guscio. Ha una persistenza abbastanza limitata e le sue peculiari caratteristiche tecnologiche lo rendono davvero duttile in cucina, pensiamo ad un gusto neutro ed una buona capacità di fondere al calore, quindi alla possibilità di conferire rotondità, grassezza e morbidezza se lo inseriamo in una ricetta.
re più macchinoso, ma i risultati non potranno che lasciarvi soddisfatti. Il mio invito è sempre quello di provare, poi vi farete due conticini e deciderete quale delle due tecniche adottare in futuro. Ma se ci tenete a limitare gli errori e la variabilità nei vostri prodotti, il mio consiglio è quello di affinare questa tecnica.
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formaggio utilizzando la salamoia: se per il cheddar abbiamo effettuata una salatura a secco direttamente nella pasta prima di pressarla, questa volta immergeremo il prodotto in una soluzione di acqua e sale. Se vi state domandando se sia assolutamente necessario, la risposta è no. Nella maggior parte dei casi, i formaggi presamici (che ricordiamo essere quelli che produciamo utilizzando il caglio come coagulante) possono essere salati indistintamente sia a secco sia in salamoia. Volendo
generalizzare, quella a secco rappresenta la tecnica tradizionale, e a differenza di quanto abbiamo fatto nel cheddar, si effettua cospargendo le due facce del formaggio con del sale grosso; quella in salamoia, un po’ più tecnica, rappresenta la normale evoluzione dei processi produttivi. Il vantaggio è sostanzialmente quello di avere più uniformità nella penetrazione del sale nella forma, e nelle altre forme, così da ottenere un certo livello di riproducibilità e costanza nei nostri prodotti. Potrà sembra-
Andiamo al sodo, cosa ci serve per ottenere un Monterey Jack degno di questo nome? Può sembrare strano ma ingredienti e attrezzature sono più o meno gli stessi che abbiamo già incontrato per il Cheddar. Ma allora, i formaggi sono tutti uguali? Non direi, hanno in comune tecniche e ingredienti: a fare la differenza sono tutte le altre variabili sulle quali giochiamo, quindi temperature, tempi di maturazione/fermentazione e pH, ovvero tutti quegli elementi responsabili di modificazioni di natura fisica o chimica alle componenti del latte. Le variazioni su questi elementi possono sembrare talmente piccole da non avere effetti rilevanti ma fanno una
Sicuramente ci sarà qualche nuovo lettore, quindi vediamo nel dettaglio gli ingredienti: • 10 litri di latte intero, fresco pastorizzato o crudo da distributore automatico; • caglio liquido di vitello 4 ml, 1:10000; • fermenti mesofili; • sale e acqua per la sala moia. Per quanto riguarda le attrezzature anche questa volta abbiamo bisogno di: • una pentola abbastanza grande per i 10 litri; • un termometro per alimenti; • un coltello; • una frusta; • una forma per formaggi rigida, si chiama fuscella; • una pressa casalinga o dei pesi; • un pHmetro o delle cartine tornasole; • una siringa per dosare il caglio; • tela di lino. Mettiamo il latte in pentola e innalziamo la temperatura fino ai 32°C , mescolando il latte per far si che sia omogenea. Aggiungiamo i fermenti mesofili (li trovate in farmacia, come il caglio), mettiamo un coperchio sulla pentola e la-
Raggiunto l’obiettivo prefissato, spegniamo la fiamma, mettiamo il coperchio e aspettiamo una mezz’ora, periodo nel quale la cagliata si sedimenterà sul fondo riaggregandosi mentre i batteri mesofili che avevamo inserito nel latte continuano a fermentare il lattosio. A questo punto è arrivato il momento di estrarre la cagliata e metterla in forma; vi dico come procedo io, ma è chiaro che se trovate un modo più comodo potete dare spazio alla fantasia. Con un mestolo comincio a prelevare il siero dalla superficie, che vado a mettere in un’altra pentola, in modo da poterlo utilizzare per produrre della ricotta, ma questa è un’altra storia. Stando attendo a non prendere dei fiocchi di cagliata liberi, continuo a prelevare il siero fin quando è possibile. Alla fine nella pentola sarà rimasta la massa cagliata e poco liquido: prendo la tela di lino, la faccio passare sotto al formaggio e faccio un bel fagotto, in modo da far sgrondare ancora del liquido e comincio ad am-
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gran differenza, per questo i processi vanno seguiti alla lettera.
sciamo in incubazione per 45 minuti. Passato questo lasso di tempo controlliamo la temperatura ed eventualmente la riportiamo a 32°C, aggiungiamo il caglio preventivamente diluito in 50 ml di acqua a 36°C, mescoliamo e attendiamo che la magia si compia: ci vorranno 40 minuti indicativamente per ottenere una cagliata della giusta consistenza. Solita storia, procediamo col taglio: prima a croce, poi creiamo un reticolo e proseguiamo con la frusta fino ad ottenere dei pezzetti omogenei di un centimetro cubo. Non attendiamo oltre, rimettiamo subito la pentola sul fuoco a fiamma bassissima, l’obiettivo è portare la massa a 37°C in 40 minuti e pH 6,3/6,4. Ricordiamo che questo passaggio è fondamentale, sia per far fuoriuscire la frazione liquida da quella solida (sineresi), sia per aumentare la consistenza dei granuli di cagliata: uno è causa dell’altro. Anche in questo caso occorre mescolare di tanto in tanto, per evitare che la cagliata si attacchi al fondo.
igienico-sanitaria sia per la penetrazione del sale. Chiaro, stiamo approcciando ad una preparazione casalinga, tuttavia per dovere di cronaca lo puntualizzo: l’acqua è il substrato più noto per le proliferazioni batteriche e, nonostante il sale contrasti questo fenomeno, ci sono sempre dei ceppi resistenti ad esso, gli alofili. L’acidità della salamoia dovrà essere quanto più possibile simile a quella del formaggio da salare e contribuirà alla formazione della crosta, in questo caso siamo nella media e parliamo di un 5,1 di pH. Altro aspetto fondamentale sarà la concentrazione del sale: questa varierà in funzione della presenza di acqua all’interno dei formaggi; maggiore sarà l’umidità contenuta nella pasta maggiore sarà anche la penetrazione del sale.
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massare la pasta in una forma più o meno sferica. Cercando di mantenere la tela abbastanza distesa sul fondo, la inserisco nella fuscella. Ne ho scelta una più larga che alta. Apro questo fagotto e con le mani presso leggermente la pasta così da creare una sorta di panettone. In sostanza gran parte della cagliata sarà perfettamente all’interno della forma ma circa un terzo di essa rimarrà fuori. Con cura piego i lembi della tela in eccesso sopra alla pasta e comincio a pressare, aiutandomi con un tappo in legno. Do 10 kg di pressione per 30 minuti, poi riapro la tela, estraggo il formaggio e ne rifilo il contorno al coltello. Ci siete? Se anche voi come me avete fatto tutto bene, una piccola parte della massa avrà invaso il bordo della fuscella: quello lo eliminiamo, dopo averlo rifilato, e con un pizzico di sale ce lo mangiamo. Distendiamo la tela di nuovo nella fuscella, ci mettiamo il formaggio rovesciato rispetto a prima, di nuovo pieghiamo gli eccessi di tela e via con la pressione, 15 kg per un’ora. Ripetiamo il rivoltamento, applichiamo 20 kg di pressione e ce lo lasciamo per 6 ore. Siamo pronti per la salatura; capiamo bene quali sono le caratteristiche per una salamoia che sia efficace e sicura, ma anche quelle che sono le criticità alle quali fare attenzione. Dei benefici dell’utilizzo di questa tecnica qualcosa vi ho già accennato, ma una salamoia non fatta bene vi darà più rogne che soddisfazioni. Di norma essa deve essere impiegata ad una temperatura non superiore ai 15°C, sia per aspetti legati alla sfera
Vorrei raccontarvi di più ma rischiamo che metà Magazine parli solo di questo, quindi rimaniamo sul generale e magari nel tempo approfondiremo la questione. Evitiamo contenitori di rame o di ferro, orientiamoci sull’acciaio inox. Come avrete intuito quello che avviene è un processo osmotico, la frazione liquida contenuta nel nostro Jack tenderà ad uscire da esso “addolcendo” la salamoia. Per il nostro formaggio, che vi ricordo essere a pasta semidura (quindi il contenuto in acqua è tra il 35 e il 45%), ci orientiamo su una concentrazione di sale del 20% su 4 litri di acqua che andranno a salare un chilo di formaggio. Si tratta di un rapporto da tenere a mente, 4:1. Per quanto riguarda la gestione dell’acidità, phmetro alla mano, aggiungiamo siero fin quando non raggiungiamo il nostro obiettivo. Va bene, dovremmo esserci, immergiamo il Monterey Jack nella salamoia e se abbiamo fatto tutto correttamente il formaggio rimarrà a galla, ma completamente sommerso, al massimo la faccia superiore potrebbe tendere a stare fuori dal pelo dell’acqua, ma dopo un’ora di immersione comunque lo gireremo. Due ore di salamoia in tutto saranno sufficienti. Lo estraiamo e lo mettiamo a sgocciolare, tamponandolo un po’ con carta a perdere. Solito concetto: l’asciugatura dovrà essere graduale in ambiente umido (80% UR) e la temperatura costante intorno ai 12°C. Mi rendo conto che con l’addentrarci nella stagione estiva non sarà facile, ma non dobbiamo vanificare tutti gli sforzi proprio alla fine, mi raccomando. Una volta ben asciugato potremo piazzarlo in cantina avendo cura di
Ricapitoliamo il tutto, sempre considerando l’ora 0 come inizio del processo: 00:00 aggiungo al latte a 32°C i fermenti mesofili; 00:45 latte a 32°C e aggiungo il caglio; 01:25 taglio della cagliata a croce e proseguiamo con la spinatura con la frusta fino ad ottenere pezzetti di circa un centimetro; 01:30 comincio ad innalzare la temperatura, mescolando, fino al raggiungimento dei 37°C in 40 minuti; 02:10 la cagliata è arrivata a 37°C e pH 6,3/6,4 ora la lascio sedimentare sul fondo; 02:40 prelevo la cagliata tramite la tela di lino dopo aver eliminato il siero in eccesso; 02:45 inserisco tela e formaggio nella fuscella e comincio a pressare, 10 kg; 03:15 rivolto il formaggio e applico 15 kg di pressione; 04:20 rivolto il formaggio e applico 20 kg di pressione; 10:20 estraggo il formaggio dalla forma e lo immergo nella salamoia; 12:20 estraggo il formaggio e lo metto ad asciugare. I gusti sono insindacabili, se di norma preferi-
sco formaggi più stagionati, il Monterey Jack mi fa impazzire già a due mesi, ma scegliete bene quanto resistere prima di passare all’assaggio. Vi butto là qualche spunto. Ai tempi dell’università avevo un coinquilino del Kentucky e vi dico come lo abbiamo utilizzato con lui: quando era ancora fresco, appunto ad un paio di mesi, lo abbiamo piazzato dentro delle Quesadillas, mentre intorno ai 6 mesi lo abbiamo messo nella preparazione della Farmer’s Casserole e in una sorta di millefoglie nella quale si alternano sottili fette di patata a strati di formaggio. Ve l’ho detto, si tratta di un formaggio estremamente versatile e con un po’ di fantasia vi potete proprio divertire, sfruttando la sua capacità di fondere e di avvolgere il palato.
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tenerlo libero dalle muffe.
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#CHIEDIALCOACH
SAL DI MENTO "Il seasoning
è ciò che fa la differenza"
Intervista a cura di Michela Bongiorni Abbastanza schivo su Facebook ma anima pulsante di BBQ4All, Salvatore “Sal” Di Mento è, oltre a uno dei Coach Senior della BBQ4All University, il nostro veterinario ufficiale e la mente diabolica che si cela dietro alla nuova linea di rub la quale, appunto, porta il suo nome: Sal’s Seasoning. Il suo carattere decisamente tosto unito alla passione per le carni e per la griglia hanno fatto in modo che questo signore, che ha un’anima metà siciliana e metà veneta, dal lontano 2008 arrivasse per rivoluzionare, insieme a Gianfranco Lo Cascio, tutto il mondo italiano della macelleria e delle cotture su fuoco, per prendere a mazzate quella convinzione quasi indistruttibile che solo in Italia si sappia cucinare bene e che il Bel paese non abbia nulla da imparare dal resto del mondo. Abbiamo deciso di inaugurare una serie di interviste ai nostri Coach partendo proprio da lui, affinché ci raccontasse qual è stato il percorso che lo ha portato, in 12 anni, a diventare un Coach dopo essere stato il classico bucasalsicce, per poi divenire l’ideatore di una linea di rub che non ha niente da invidiare a quelle più blasonate d’Oltreoceano. M. Come hai iniziato? S. Nel 2008 ero in Irlanda per lavoro (ci sono rimasto per cinque anni); lavoravo già nel mondo delle carni e avevo una grande passione per la cottura sul fuoco, anche se partivo, come ogni buon italiano, dalla classica grigliata “tutto bruciato”. In Irlanda però ho cominciato ad approcciarmi a un modo nuovo di grigliare. Là cominciavano già a circolare i primi Weber, erano più avanti di noi, e io ho scoperto tutto un mondo davvero nuovo che mi ha conquistato: quello del vero bbq.
M. E da lì è iniziato tutto. S. Certo. Sono andato su internet a cercare delle info per capire a che punto fossimo in Italia sull’argomento e mi sono imbattuto in un Forum molto interessante gestito da un signore che si chiamava Gianfranco Lo Cascio. Il Forum si chiamava BBQ4All. Io mi sono iscritto
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M. Come hai conosciuto questo nuovo mondo affascinante? S. In Irlanda c’erano già i locali dove poter mangiare ribs e pulled pork e anche diversi amici che frequentavo possedevano i kettle e mi invitavano a cena servendomi queste preparazioni incredibilmente buone. Per questo motivo nel 2010 ho acquistato anche io il primo kettle.
come semplice utente, ma le cose che scriveva questo signore mi aprivano mondi fantastici. Da lì ho capito che avrei dovuto conoscerlo di persona, perché le sue idee avevano un potenziale enorme. M. Lo hai conosciuto subito? S. No, io dall’Irlanda ho cominciato a vedere che BBQ4All stava organizzando i primi corsi in Piemonte e mi ripromisi di frequentarli, una volta tornato in Italia. Cosa che ho fatto: appena rientrato in Veneto, ho contattato colui che sul Forum conoscevo come Dani Weber, il quale organizzava corsi nella mia regione per conto di BBQ4All. Dani Weber altri non era che Daniele Faresin, l’attuale Direttore della BBQ4All University: andai al corso e insieme a me, come compagni di studi, c’erano altre due persone che poi sono diventate volti noti della BBQ4All University: Piè Spazio e Enio Berton. M. Quindi Gianfranco si è fatto desiderare! S. Ho un simpatico aneddoto che riguarda al primo contatto che ho avuto con lui: se vuoi te lo racconto. M. Certamente, siamo curiosi! S. Era il 9 Maggio 2013, io ero ancora in Irlanda e mia moglie spesso faceva acquisti di oggettistica per la casa su un noto sito online. C’erano delle griglie in offerta, ma io mi accorsi che qualcosa non andava: sia le foto che le descrizioni le avevo già viste da qualche parte. A un certo punto capii che il noto sito (davvero molto famoso) aveva rubato foto e didascalie a BBQ4All e a Lo Cascio (questo per darti un’idea di quanto fosse già influente la voce di Gianfranco in Italia) e lo contattai su Messenger per segnalarglielo. Ho ancora qui davanti il messaggio che gli scrissi. Lui mi rispose ringraziandomi tantissimo e mi disse che, una volta tornato in Italia, sarei stato ospite a uno dei suoi corsi.
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M. E poi cos’è successo? S. Una volta rientrato e dopo aver fatto i corsi, ho inziato il mio percorso per diventare Coach
(che poi ho completato) e sono entrato anche nel Team BBQ4All International per partecipare alle gare di bbq. Ma mi sono reso conto che c’era un vuoto da colmare: qui da noi mancava completamente la cultura dei tagli di carne “diversi”, e quelli che BBQ4All riusciva a reperire erano destinati solo ai corsi. Per questo motivo, lavorando io nel settore delle carni, ho pensato di proporre a Gianfranco e ai suoi collaboratori del tempo un’idea di bussiness nuovo. Volevamo rendere accessibili al grande pubblico dei tagli che gli italiani non conoscevano affatto, insegnando loro come trattarli e come cucinarli tramite i corsi, rivoluzionando di fatto non solo il mondo delle cotture alla griglia ma anche quello della macelleria. E così nel 2014 abbiamo lanciato on line le prime ribs di suino, che hanno avuto un successo enorme. Il resto è storia recente e tutti i nostri lettori ormai conoscono la realtà del Megastore e cosa siamo riusciti a combinare. M. E poi l’idea dei rub come ti è venuta? S. Sono sempre stato un appassionato di cucina, e so che il seasoning è ciò che fa la differenza, specie quando si vanno a cucinare le preparazioni barbecue di una cultura tanto diversa dalla nostra, che invece è legata ancora ai sapori tipici italiani tipo
M. Qual è stata la sfida, dunque? S. Sono state principalmente due: trovare gli equilibri giusti affinché il sapore dei rub non coprisse quello della carne, che deve essere sempre la protagonista indiscussa; e poi trovare dei gusti che potessero piacere anche al palato meno avvezzo a sapori tanto diversi dell’italiano medio: con la linea Sal’s Seasoning direi di esserci riuscito. M. Da cosa sei partito? S. La prima cosa che ho fatto è sistemare il vecchio rub #19 che era super polveroso. Sembrava quasi di poterci fare il Tiramisù (ridacchia n.d.r.). Ma il primo vero rub tutto nuovo è stato il Montreal. Anni fa ho fatto un viaggio in Canada e sono rimasto estasiato da quella roba saporita che mettevano sulla carne: da lì ho cominciato a interessarmi a questo mondo fantastico, mi sono portato a casa due barattoli di quella preziosa miscela e, dopo un lungo lavoro, abbiamo lanciato la nostra versione del Montreal, calibrandolo sulle nostre esigenze. M. E immagino che questo sia solo l’inizio.
S. Esatto, ci sono in cantiere tanti altri prodotti. M. Puoi dirmi quali oppure se me lo dicessi dopo dovresti uccidermi? S. No, ci mancherebbe, possiamo svelarlo a tutti. Abbiamo in dirittura di arrivo due salse bbq, le marinature e dei nuovi rub: uno sviluppato in collaborazione con Virgilio Brunetti, Coach storico di BBQ4All. Poi lanceremo anche le cipolle caramellate. La linea diventerà sempre più completa. Non ci fermiamo. Avremo anche tutta la linea piccante: Tex-Mex, peperoncino Thai e Chipotle. M. Un’ultima domanda: torniamo indietro nel tempo, a quando hai cominciato. Qual è l’errore più “grave” che il Coach Sal Di Mento ha commesso quando stava imparando? Così rassicuriamo i lettori che magari si trovano nelle stesse condizioni e si sentono un po’ scoraggiati. S. Te ne dirò due: ho avuto grossi problemi a trattare il pesce. Era un incubo, mi si attaccava sempre tutto alla griglia. Ma la cosa veramente traumatica, nel momento in cui mi sono trovato a tu per tu con un kettle, era riuscire a settarlo alla temperatura corretta e soprattutto mantenerla. Ci ho messo un po’ a capire come fare. É tardi, la telefonata deve concludersi. Sono riuscita a strappargli questi minuti, fra una call in Giappone e una riunione, ma adesso deve tornare a occuparsi di quella ciccia fantastica che potete trovare ogni settimana sul Megastore. M. Vuoi dire un’ultima cosa sui rub? S. Sì, che non è da sottovalutare la loro versatilità. Non pensateli esclusivamente come seasoning per la carne: provate. sperimentate e scoprirete quanti utilizzi possano avere in cucina. Dalle uova ai formaggi, dalla pizza ai dolci. Scappo! Grazie per la telefonata. Grazie a te, buon lavoro!
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rosmarino e origano. Quelli sono condimenti, il seasoning è un’altra cosa.
The Chemical Griller - rubrica a cura di Virgilio Brunetti
IDROCOLLOIDI
PARTE 1: la gelatina di origine animale Nei capitoli precedenti abbiamo visto come gli amidi siano una categoria di prodotti estremamente diversificata, il loro utilizzo nella preparazione delle salse è assolutamente basilare anche se non indispensabile; abbiamo anche visto come l’industria alimentare abbia raffinato la struttura molecolare di questi polisaccaridi al fine di azzerare l’impatto sul sapore del prodotto finito e di caratterizzare a livello millimetrico gli effetti sull'aspetto e la texture. Un amido modificato avvantaggia il cuoco perché non altera in nessun modo il sapore degli ingredienti base e permette di prevedere con estrema precisione il livello di densità e l’estetica del preparato finale. Basta semplicemente seguire i dosaggi raccomandati sulle schede tecniche. Inoltre è estremamente versatile perché utilizzabile in condizioni estreme di temperatura e pH. Cottura, abbattimento, stoccaggio e ritorno in temperatura sono metodiche basilari in qualsiasi laboratorio di cucina e di pasticceria moderna, di conseguenza l’uso di addensati tecnologicamente avanzati garantisce di mantenere la struttura del prodotto dalla preparazione fino al servizio.
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Le proprietà stabilizzanti di alcuni amidi modificati si evidenzia in modo particolare in preparazioni caratterizzate da una spiccata acidità. In questo capitolo andremo ad estendere la conoscenza delle tecniche di tickening (addensamento, ndr) definendo una ampia categoria di ingredienti con caratteristiche tecniche estremamente interessanti definite idrocolloidi. Non spaventatevi perché, al di là del nome, molti di essi sono ingredienti di uso comune, come la vecchia colla di pesce e la miracolosa gomma di xantano. GELATINA Gli idrocolloidi sono composti polimerici sia polisaccaridi sia proteine solubili in acqua con una spiccata propensione a formare gel. Fanno parte della nostra vita quotidiana e hanno uno spettro applicativo impressionante. Molti di questi polimeri non si comportano solo come addensanti ma anche come agenti emulsionati, stabilizzanti, gelificanti, chiarificanti, schiumogeni e filmogeni,
tuttavia la loro caratteristica più interessante è proprio quella di assorbire grandi quantità d’acqua formando degli idrogel, che possono essere trasformati in aerogel con opportune tecniche di disidratazione. Il capostipite di queste sostanze è una molecola che i griller conoscono fin troppo bene ovvero il collagene in forma idrolizzata, comunemente noto come colla di pesce o gelatina alimentare. Essa riassume quasi tutte le caratteristiche sopra elencate ed è in grado di soddisfare una vasta gamma di funzionalità, ma in particolare è apprezzata a livello culinario perché nella forma idratata diventa un gel termo-reversibile basso fondente e trasparente. È una sostanza assolutamente naturale di origine esclusivamente animale estratta dai tessuti connettivi dei bovini. Il suo pregio è proprio la caratteristica di essere un gel a temperatura ambiente, ma di fondere esattamente a temperatura corporea (35°-37°C - temperatura di melting): questo rende i prodotti che la contengono particolarmente piacevoli al palato perché si sciolgono facilmente donando un sollievo gustativo e tattile. Questo precisa sensazione, definita mouthfeel, non è riproducibile con il blasonato analogo di origine algale, l’agar agar che invece ha una temperatura di melting di oltre 80°C. Ma perché la chiamiamo “colla di pesce”? Ci sono varie ragioni storiche, alcune facenti parte della storia recente. Anticamente era un prodotto secondario derivato dalla lavorazione dello storione russo e del caviale, ma anche del merluzzo per la produzione di baccalà e stoccafisso; in particolare dalle vesciche natatorie e dalle carcasse essiccate degli storioni (che sono pesci cartilaginei) si estraeva questa sostanza, che non era altro che collagene di pesce utilizzato come colla, infatti il suo nome dotto è proprio ittiocolla utilizzata in ebanisteria e nella produzione artigianale della carta. La prima gelatina alimentare si ricavava artigianalmente lasciando la pelle del pesce in acqua. Il problema di questa estrazione grezza era l’impatto olfattivo. La vera colla di pesce è un ingrediente molto costoso, esiste in commercio ed è tornata in uso in tempi recenti proprio in seguito alla BSE
(L'Encefalopatia Spongiforme Bovina meglio conosciuta come Morbo della mucca pazza) che colpisce i bovini. PRODUZIONE E CARATTERISTICHE CHIMICO FISICHE La gelatina è un idrocolloide molto versatile. Essa, infatti, è in grado di gelatinizzare, addensare, condensare, stabilizzare, emulsionare, legare l’acqua; ha azione schiumogena e filmogena. Non tutti gli idrocolloidi raggruppano in sé queste proprietà.
Il processo produttivo industriale è complesso: dopo l’estrazione da materie prime contenenti collagene si passa alla filtrazione e alla successiva sterilizzazione a 140°C. La combinazione dei singoli step di produzione rende questo prodotto alimentare assolutamente sicuro. Da diversi animali è possibile estrarre collagene idrolizzato con diverse caratteristiche chimico fisiche:
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La gelatina è una proteina derivante da materie prime animali (soprattutto bovini e suini) contenenti collagene (pelle, ossa, tendini, cartilagini.). Contiene l’84-90% di proteine e l’1-2% di sali minerali, il resto è acqua. Generalmente è un prodotto altamente purificato per ragioni sanitarie ed è sempre privo di conservanti e additivi, colesterolo e di purine (cataboliti degli acidi nucleici).
1. La gelatina di tipo A si ottiene da collagene idrolizzato dalla lavorazione di pelle suina in condizioni acide e ha un punto isoelettrico intorno a pH tra 7,5 ed il 9,4. 2. Quella di tipo B si ricava per idrolisi basica di collagene bovino e con punto isoelettrico intorno a pH 4.8-5.2. Ma che cos’è il punto isoelettrico? È una caratteristica fondamentale di tutte le proteine, più precisamente il range del pH in cui la proteina ha carica netta zero, ovvero non è né catione (+) né anione (-) ma zwitterione (dal tedesco ione ibrido) con carica neutra. Per quanto riguarda il collagene idrolizzato, il punto isoelettrico è un valore utile per definirne il range applicativo o un uso specifico, giacché il pH della soluzione potrebbe destabilizzare e annullare il potere addensante e gelificante della nostra preziosa alleata. Se volessi gelificare il succo di frutta acido, come un estratto di frutti di bosco, per avere un risultato ottimale dovrei scegliere una gelatina di tipo B, mentre per una comune panna cotta ed un brodo utilizzerei preferibilmente una gelatina di tipo A.
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Si, ma quanta ne devo usare? La risposta è più complessa di quanto potete pensare. La gelatina animale è reperibile in fogli, in granuli o in polvere. Ovviamente la forma in cui è commercializzata non ha nessuna relazione con il potere gelificante, mentre piuttosto è importante da quale risorsa animale viene estratta e raffinata. È sempre corretto dosare il prodotto in grammi,
infatti deve essere pesato e idratato in una pari quantità d’acqua. Una volta ammorbidita in acqua fredda (assorbe un massimo di cinque volte il suo peso) viene sciolta nel liquido caldo della ricetta. Quella in polvere deve essere messa in acqua a temperatura ambiente per circa 30 minuti, in questo modo il granulo di gelatina assorbe acqua e avviene un rigonfiamento. A questo punto viene sciolta a bagnomaria e successivamente aggiunta al liquido caldo. La sua proprietà fisica più importante è il valore Bloom, che viene espresso in gradi. Esso varia tra i 50 e i 300 e indica la solidità e la forza gelificante. Quanto più elevato è il valore di Bloom, tanto maggiore sarà la forza gelificante del prodotto. Quelle con valore di Bloom alto sono le migliori gelatine anche da un punto di vista della trasparenza e della purezza. In pasticceria si usano generalmente gelatine che hanno un Bloom che va dai 180 ai 250 gradi. Per misurare i gradi Bloom esiste uno strumento apposito, chiamato gelometro Bloom. Per definizione, la quantità di gradi Bloom da assegnare a una gelatina corrisponde esattamente al peso in grammi che questa riesce a sopportare prima di arrivare a un abbassamento pari a 4 millimetri. Il peso in questione viene applicato attraverso un pistone che misura esattamente 12,7 millimetri di diametro, il quale viene usato su un gel al 6,67% che è stato a riposo per 16-18 ore alla temperatura di 10 gradi centigradi.
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Gelatina Bronzo: 130° Bloom. Gelatina Argento: 160° Bloom. Gelatina Oro: 200 ° Bloom.
Ecco un esempio di dosaggi con lo stesso potere gelificante: 15,4 g gelatina bronzo 130 Bloom equivalgono a 12,5 g di gelatina argento 160 Bloom che a sua volta equivalgono a 10 g gelatina oro 200 Bloom. Fissando come standard una gelatina argento 160° Bloom abbiamo un gel elastico: - molto morbido utilizzando lo 0,75 % su volume; - morbido utilizzando lo 0,85 % su volume; - solido utilizzando 1%; - molto solido 1,5%. Se volessi gelificare un litro di brodo di pollo chiarificato, per ottenere una struttura solida “al coltello” dovrei sciogliere 15 grammi di tipo argento preferendo una tipologia A che ha migliore performance con liquidi tendenzialmente neutri e alcalini. Maggiore è il potere gelificante di una colla di pesce (e quindi più alto è il suo numero di gradi Bloom) minore è la quantità di gelatina richiesta per la preparazione, di conseguenza maggiore sarà la velocità di gelificazione. Capite ora che, se avete dimestichezza solo con la classica colla di pesce della GDO non avete cognizione di quanto possa essere versatile e raffinato questo prodotto in ambito professionale. Come si usa in modo corretto? La comune gelatina in fogli è un prodotto essiccato, e in quanto tale va reidratato in acqua fredda, per poi essere mescolato con la quantità di liquido prevista nella ricetta, quindi fatto sciogliere in un pentolino senza superare i 37 °C per evitare grumi. Gelatine con un grado Bloom maggiore richiedono temperature di fusione superiori, fino ad arrivare ad un massimo di 70° C, oltre i quali si rischierebbe di compromettere la resa finale. La fase di solidificazione avviene intorno ai 10°C. Maggiore sarà il tempo impiegato per la solidificazione, migliore sarà il reticolo formato nel prodotto finale, che sarà più stabile. Ci sono anche delle limitazioni di utilizzo, poiché si destabilizza con il congelamento in quanto il reticolo della struttura proteica si rompe e il gel perde struttura; inoltre il collagene può essere degradato enzimaticamente dalle proteasi naturalmente presenti in alcuni prodotti vegetali, nello specifico, ananas, kiwi, papaya, fichi e litchi. Questo naturalmente non significa che non si possano utilizzare gelatine con questi alimenti: per poterlo fare è però necessario rendere inattiva la proteina scaldando la polpa dei frutti fino al bollore.
L’uso della gelatina come addensante abbraccia un’ampia serie di preparazioni, in cui la presenza di collagene idrolizzato è già presente, come ad esempio brodi e fondi di cottura ottenuti dalla lenta bollitura e dalla restrizione di prodotti carnei dove il collagene è particolarmente rappresentato, soprattutto se utilizziamo tagli di maiale, di bovino e frattaglie come ossa, tendini e cartilagini. Il dripping generato dalla lunga cottura barbecue di boston butt e del brisket sono una risorsa eccezionale per la preparazione di concentrati naturalmente ricchi di gelatina animale, che possono essere utilizzati come base per la preparazione di salse barbecue casalinghe, con un profilo aromatico impensabile rispetto alle comuni tipologie commerciali. La presenza di una elevata quota di questo composto garantisce anche un notevole effetto emulsionante e quindi la possibilità di incorporare sotto forma di emulsione una buona quantità di grassi, così come accade nella preparazione di alcune salse gravy. Per questo mese termino qui, onde evitare di darvi troppe informazioni tutte insieme. Ci vediamo ad Agosto, quando parleremo degli idrocolloidi delle alghe e vi darò la ricetta della Besciamella senza burro. Ah, mi raccomando, studiate seriamente e non fate i lavativi al mare: a settembre interrogo!
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Ecco la classificazione che generalmente si utilizza per distinguere le gelatine in relazione ai gradi Bloom:
La ricetta scientifica di Gianfranco Lo Cascio
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Braciola di maiale con patate arrosto
La maggior parte degli esseri umani ha una capacità infinita di dare per scontate le cose. Un tetto sopra la testa. L’affetto dei propri cari. La braciola di maiale dura, talmente dura che vostra mamma la lanciava in modalità wireless al posto della tradizionale ciabatta. Siamo talmente abituati a quell’aspetto bollito, a quella consistenza tipica di camera d’aria, che ormai ci siamo arresi al brutto. Mangiamo la braciola ma non la mastichiamo, la buttiamo giù come una medicina. Per fortuna che ci sono le patate di contorno. Eppure vi confesso, cari i miei piccoli estimatori del porco, che esiste un modo per ottenere una braciola morbida, succosa e con una bella crosticina ambrata e fragrante. Ma prima che vi sveli tutti i segreti, partiamo dalla base.
IL TAGLIO
Per fortuna, però, esistono razze e protocolli di allevamento che assicurano una ottima infiltrazione di grasso intramuscolare, come nel nostro caso, che rende la carne scioglievole e succulenta. Una volta cotta, dalla vostra ciccia si sprigioneranno sentori di castagna, ghianda e nocciola. Ma solo se la lavorate e la cucinate nella maniera corretta.
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Si ricava dalla lombata del maiale, solitamente porzionata con il tipico osso a forma di “T”, un po’ come per la T-bone. Una volta disossata si ottengono il lombo (o lonza) ed il filetto, entrambi tagli estremamente magri e poveri di collagene e tessuto connettivo.
convinzioni errate sulla carne di maiale
Temperature al cuore e Sicurezza alimentare
Le battaglie su come e a che temperatura vada cotta la carne di maiale si consumano da che ho memoria. Autorità ed esperti ci hanno sempre raccomandato di stracuocerla perché potenzialmente contaminata dall’infingardo verme cilindrico altresì noto come Trichinella spiralis. Ma certe posizioni, piuttosto antiquate consentitemelo, non prendono in considerazione tre fattori molto importanti: 1. I miglioramenti nelle pratiche di allevamento e lavorazione della carne suina hanno praticamente eliminato la contaminazione da Trichinella nella carne prodotta commercialmente nei paesi sviluppati. Uno studio ha dimostrato che solo otto casi di trichinellosi potevano essere attribuiti alla carne lavorata negli Stati Uniti tra il 1997 e il 2001. Durante lo stesso periodo, la popolazione americana ha consumato circa 32 miliardi di kg di maiale. Si tratta di una quantità enorme di carne, no? E si sono ammalati solo in 8. 2. La maggior parte della carne di maiale in commercio viene abbattuta per uccidere il parassita. 3. La Trichinella si elimina facilmente cuocendo la carne a bassa temperatura.
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L’istituto Superiore di Sanità raccomanda una temperatura di cottura di 73°C al cuore, sia per scongiurare la contaminazione da nematodi che quella perpetuata da batteri come la Salmonella. A discapito però della resa gastronomica. Sappiamo benissimo cosa succede alla carne quando si supera la soglia dei 60°C. Ma perché questa disinformazione continua a persistere? Semplice, per preservare autorevolezza e status quo. Una volta inculcato alla gente che la carne di maiale ha bisogno di essere cotta ad alte temperature, ci vuole un po' di coraggio per cambiare rotta, soprattutto se significa ammettere di aver commesso un errore.
TRICHINELLA Cos'è e come contamina la carne Un'infezione invasiva da vermi, caratterizzata dal ciclo vitale della Trichinella, inizia quando un animale consuma tessuto muscolare che contiene un verme incistato.
può arrivare a -18°C / -30°C. Non sapete a che temperatura potete spingere il vostro elettrodomestico? Vi basterà contare gli asterischi raffigurati accanto al nome:
Liberate dal tessuto dal processo digestivo del nuovo ospite, le larve maturano rapidamente in adulti maschi e femmine, accoppiandosi e rilasciando nuove larve. Ogni larva scava in una cellula muscolare, convertendola in una cosiddetta cellula infermiera, secernendo proteine che favoriscono la formazione dei vasi sanguigni. I vasi sanguigni crescono poi intorno alla larva e la alimentano. Le larve possono vivere in cisti calcificate protettive per anni fino a quando l'ospite muore e viene mangiato. E via che ricomincia il ciclo in un altro ospite.
* ** *** * * * *
= = = =
-6°C -12°C -18°C -24°C / -30°C
Ebbene, la Trichinella si elimina tenendo la carne a - 15°C per 20 giorni o a -18°C per 106 h, poco meno di 5 giorni. Va da sé che la permanenza al fresco si riduce esponendo la carne a temperatura ancora più basse (-21°C per 82h, -23°C per 63h, -26°C per 48h, -29°C per 35h). Oppure potete cuocere la vostra braciola sottovuoto a bassa temperatura, eliminando simultaneamente sia i vermi che i batteri. Vi basterà attenervi alla tabella riportata qui sotto:
Lo so che ‘sta roba fa accapponare la pelle ma ve lo dovevo dire. La buona notizia è che i vermini bastardi si possono disintegrare in due modi: col freddo e col calore.
A quel punto potrete scegliere se abbattere (ora sì!) la carne e congelarla, oppure cuocerla e consumarla subito.
Tenete presente che un congelatore domestico
55°C
56°C
57°C
58°C
59°C
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089 - BBQ4All Magazine
Spessore
MOLLA L'OSSO!
Vediamo cosa succede quando poggiamo la nostra braciola sulla griglia o sulla piastra. Con osso: la carne si ritira perché si contrae longitudinalmente o trasversalmente, l’osso tocca la piastra o la griglia e dove non c’è contatto tra superficie riscaldata e carne avremo meno Maillard, meno crosticina brunita insomma.
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Senza osso: siamo liberi di disossare la braciola e cuocerla senza. É solo questione di preferenza, senza l’osso che fa da impaccio avremo senz’altro una Maillard più uniforme, ma filetto e lonza separati.
LA COTTURA IDEALE
60°C al cuore
Sotto i 45°C La carne è da considerarsi cruda, sia le miofibrille (i filamenti del muscolo) che i “fasci crociati” di collagene (il tessuto connettivo) sono ancora integri. A 45°C La miosina, la parte rossa per intenderci, inizia a coagulare strizzando fuori i liquidi che vengono in parte raccolti nelle guaine di collagene (le guaine che avvolgono le fibre muscolari). A 60°C Tutte le proteine che restano coagulano spingendo ancora liquidi all’esterno, rendendo la carne opaca e turgida. A 66°C Anche le proteine della guaina (in gran parte collagene) si coagulano repentinamente e si contraggono. L’effetto è quello che si ottiene strizzando una spugna intrisa d’acqua, a questo punto la braciola è diventata una mensola di betulla. Come detto in precedenza, l’Istituto Superiore di Sanità raccomanda una temperatura di cottura di 72°C ( l’FDA di 71°C) per il maiale. Un consiglio per salvaguardare la sicurezza alimentare (a quelle temperature si elimina la maggior parte dei batteri) più che il risultato in termini di gusto. Ma noi sappiamo che esistono tanti modi per mangiare la carne in sicurezza, e quindi possiamo stabilire il primo criterio per la nostra braciola perfetta senza troppe paturnie: la temperatura
ideale per cuocerla è tassativamente 60°C - 62°C. Prima di iniziare a giocare con termometro e griglia, dobbiamo tener presente che gli zuccheri riducenti nella carne di maiale sono pochi, e che la Maillard (la crosticina) su questo taglio conserva sempre quell’aspetto a “macchia di leopardo”. Ormai l’avete imparato: per avere un pezzo di carne perfettamente cauterizzato vi servono 3 cose: temperatura superiore ai 140°C, concentrazione dei reagenti (zuccheri riducenti e proteine) e assenza di umidità. Ma cosa possiamo fare per potenziare la Maillard e intenerire la carne, senza però ricorrere ad una salamoia o alle injection? La risposta si chiama Maillard Booster. È un composto di sale e destrosio che serve a far assorbire alla carne gli zuccheri riducenti che si trovano in superficie. Sarà il sale a mantenere la carne succosa e a far penetrare gli zuccheri al suo interno. Il mix si prepara unendo una parte di sale, una parte di destrosio in polvere e, se volete, 1 parte di aromi in polvere (cipolla, aglio, semi di senape tritati). Una volta miscelato il tutto dovete seguire gli stessi step di un normale dry brining: cospargete la carne da una parte e dall’altra con le polveri e lasciate in frigo per 12 h; trascorso questo intervallo di tempo rifate la procedura e attendete altre 12 h. A questo punto entra in gioco il forno ventilato, ma prima spendiamo due paroline per il contorno: le patate arrosto.
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Facciamo un ripassino sulla mutazione nella consistenza e nel colore della carne di maiale a determinate temperature.
PATATE ARROSTO
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PREMESSA Scegliere quelle adatte La cultivar (la specie botanica) gioca un ruolo fondamentale nella scelta, ma è preferibile basarsi sulla valutazione dello stato d’idratazione del singolo tubero, misurandone la densità mediante il principio di Archimede. Ve la ricordate la legge dei solidi immersi in un liquido? Quella lì. La patata giusta per la nostra ricetta deve avere un contenuto equilibrato di amidi e umidità: questo implica una densità intermedia tra una patata giovane, fresca, ricca d’acqua di vegetazione e una patata vecchia, conservata a lungo, ricca di amidi e fortemente disidratata. Per selezionare patate con questa caratteristiche dovrete ricorrere a questo semplice metodo. Preparate due soluzioni saline a differente densità: • La prima a bassa densità: 9% di sale (90 grammi di sale disciolti in 1 kg d’acqua). • La seconda ad alta densità: 12% di sale (120 grammi di sale in 1kg d’acqua). Le soluzioni, messe in due grossi contenitori, devono avere volume sufficiente al fine di valutare la spinta idrodinamica sulle singole patate. Le patate che galleggeranno nella soluzione a bassa densità andranno scartate: sono troppo ricche d’acqua per il nostro scopo. Le patate che affondano nella soluzione a bassa densità vincono la prima selezione, si qualificano come idonee e passano allo step successivo. A questo punto bisogna testare le candidate superstiti immergendole nella soluzione salina più forte: le patate che affondano anche in questa soluzione vanno messe da parte perché troppo disidratate e ricche di amido, mentre quelle che galleggiano sono le candidate perfette per noi.
FASE 1 Sbollentare le patate
FASE 2 Asciugare le patate
Adesso è il momento di sbollentare i nostri tuberi. Tagliate le patate in quarti (non le pelate!), lavatele sotto l’acqua corrente fin quando non diventerà limpida e immergetele in acqua a 90°C per circa mezz’ora. Le patate devono conservare una consistenza sufficientemente soda da poter essere maneggiate. Scolate le patate e mettetele da parte.
Tutta la procedura collima nell’ultimo passaggio in forno, a quel punto dovrete controllare tutte le variabili che governano la reazione di Maillard: alta temperatura, pH basico, presenza di zuccheri riducenti e soprattutto totale assenza di umidità superficiale. Ma è a questo punto che aggiungo al metodo ormai sdoganato dall’immenso Heston Blumenthal (Fat Duck, Bray, Berkshire, Inghilterra) il mio personalissimo tocco. Seguitemi con attenzione.
Dose per 1 kg di patate • 1 kg di acqua • 15 g di sale • 2,5 g di zucchero semolato • 2,5 g di bicarbonato di sodio Questo intruglio donerà una crosta superficiale incredibile alzando il pH e fornendo una dose di zuccheri riducenti che accelereranno la reazione di Maillard nelle successive fasi di cottura. Il bicarbonato di sodio, che è alcalino, innesca una reazione a catena che scompone letteralmente la spina dorsale delle molecole di pectina contenuta nelle patate e le disintegra. Dunque, imbustate le patate e aggiungete la stessa quantità in peso di salamoia (300 grammi di patate più 300 grammi di soluzione). Sigillate le busta eliminando tutta l’aria e cuocete per 15 minuti a 90°C. Successivamente abbattete o raffreddate il più rapidamente possibile, scartate la salamoia e asciugate le patate; anche in questo caso cercate di non esagerare con la cottura, le patate devono essere cotte ma non devono disfarsi.
PERCHÉ QUESTI METODI FUNZIONANO? Devono accadere due cose affinché una patata diventi croccante, ed entrambe dipendono dall'umidità. In primo luogo, i granuli di amido contenuti nel tubero devono assorbire acqua e gonfiarsi, liberando un po' del loro amilosio. In secondo luogo una parte dell'amilosio deve scomporsi in glucosio, un tipo di zucchero. Una volta che l'umidità evapora sulla superficie della patata, l'amilosio si indurisce in un involucro simile a un guscio di plastica, che donerà croccantezza, mentre il glucosio si scurisce, producendo una crosticina ambrata deliziosa. INGREDIENTI per 4 persone • 4 braciole di maiale alte 3,5 cm Per il Maillard Booster • 10 g di sale • 10 g di destrosio in polvere • 2,5/5 g di cipolla in polvere • 2,5/5 g di aglio in polvere Per le patate arrosto • 2 kg di patate a pasta gialla precotte (come descritto nella Fase 1) • olio extravergine di oliva q.b. • sale q.b. • pepe q.b. • rosmarino fresco / erbe aromatiche.
093 - BBQ4All Magazine
Oppure cuocetele in sous vide. Dopo aver tagliato le patate come spiegato precedentemente preparate una soluzione miscelando:
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LA RICETTA Braciola di maiale con patate arrostite Partiamo dalla braciola. Per prima cosa dovete preparare il Maillard booster: vi basterà pesare gli ingredienti e miscelarli in una ciotolina. A questo punto prendete le vostre fettone di carne e cospargetele con le polveri da una parte e dell’altra, poi lasciate in frigo la carne per 12 ore. Trascorsa la mezza giornata rifate la procedura. Sistemate la carne su una griglia o su una teglia forata, quindi mettetela in forno a 60°C e piazzate la vostra sonda all’interno della braciola. Per poter eliminare qualunque rischio per la salute, dovete assicurarvi di lasciarla in forno per almeno 2 h. Preferite scaldare la braciola sottovuoto? Sigillatela in un sacchetto adeguato alla cottura sottovuoto e lasciatela in un bagno termostatico a 60°C per almeno 50 minuti (meglio se per un paio d’ore). Successivamente estraete le braciole dai sacchetti, asciugatele con della carta assorbente e trasferitele in forno ventilato a 60°C per 3060 minuti. E le patate? In forno insieme alle braciole! L’asciugatura prima della cottura definitiva servirà a formare un film attorno alle patate, che con il calore formerà una crosta talmente croccante che pure i vicini vi sentiranno masticare. L’umidità residua interna spingerà contro la pellicola esterna formando uno strato soffiato e crunchy che vi ripagherà di tutto il tempo speso nella preparazione. Lasciate quindi asciugare le patate sbollentate per almeno un’ora, devono risultare asciutte al tatto. A questo punto prendete una teglia abbastanza profonda e fatela preriscaldare in forno a 180°C. Una volta raggiunta la temperatura, versate mezzo centimetro di olio extravergine di oliva e sistemate le patate sulla teglia, ungendole con cura. Fate cuocere fin quando non risulteranno dorate e croccanti, girandole di tanto in tanto e ruotando la teglia. Nel frattempo mettete a scaldare la vostra padella in ghisa oppure predisponete una cottura diretta nel vostro dispositivo. Ungete le braciole con un velo d’olio extravergine e cauterizzate per pochi minuti, quel tanto che basta per ottenere una Maillard soddisfacente. Fate attenzione a non superare i 60°C al cuore, mi raccomando, la carne deve essere rosata e morbida. Servite calda assieme alle super patate e preparatevi ad assaggiare la migliore bistecca di maiale della vostra vita. I vostri familiari vi butteranno le braciole al collo.
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Gianfranco Lo Cascio
Seguo - rubrica a cura di Emiliano Nencioni
OSSESSIONI IN GRIGLIA
Episodio 0.2
Antefatto: Nella Seguo di gennaio scorso vi avevo raccontato di quella volta che durante un corso di barbecue, nel 2015, ritrovai fortuitamente un manoscritto gettato - o dimenticato - in mezzo a un pallet di bricchette. Era l’opera di un appassionato di cottura su fiamma, emotivamente molto disturbato a giudicare dai contenuti e dalla grafia: si trattava della sceneggiatura di una sit-com dal gusto smaccatamente retrò, di ambientazione casalinga - familiare, ma con tematiche decisamente aderenti al mondo barbecue. Evidentemente rifiutata, o mai presentata a nessun network, la sceneggiatura è stata riproposta sulle pagine del Magazine e, contrariamente alle mie aspettative, è stata accolta da molte testimonianze clandestine, quella maniera criptata e carbonara che i (nove) lettori della Seguo hanno di fornirmi un feedback di apprezzamento pubblico in Community. Perché, come i lettori più fedeli ormai sanno, non si fanno complimenti. L’episodio pilota pubblicato sul numero di Gennaio continua con altri sconnessi tentativi di puntate successive, come se l’autore originale avesse avuto la baldanza di supporre che gli scout delle case di produzione potessero essere interessati. Il titolo dell’episodio che questo mese vi riporto è:
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Non fare quella faccia
097 - BBQ4All Magazine
Riassunto della puntata precedente sotto forma di brevissime clip: Gianni, in visita alla famiglia della fidanzata Tosca, è solitario ospite di uno sgangherato agriturismo quando viene raggiunto da una serie di messaggi della ragazza che lo invita ad un altro “barbecue riparatorio” alla villetta del padre, dopo il catastrofico esordio dell’episodio pilota. Nonostante gli sforzi però il conflitto con il suocero Sergio e l’ingombrante e litigioso vicino di casa Mauro esplode nuovamente in occasione della cottura di alcune costine: Gianni prova a proporre i metodi letti in Community, scardinando con accurata scientificità le convinzioni dei due griller “old school”. Mauro prende la cosa come una gravissima mancanza di rispetto e trascina tutti gli astanti in una lite, probabilmente frutto di ruggini preesistenti. Sergio, esasperato, conclude la puntata urlando disperato che il barbecue è sempre stato, prima di queste innovazioni di Gianni, in massima parte convivialità. “Ossessioni in Griglia è registrato in presa diretta di fronte a un pubblico, le cui risate scandiranno il ritmo delle varie gag” Interno, Bed&Breakfast “Il Sottocosto”: Gianni, al quale tuttora non è stato concesso di pernottare in casa della fidanzata Tosca, sta cercando di capire il funzionamento del perfido dispenser automatico di latte - caffè - tè - ginseng, riuscendo solo a ricavarne una tazza di acqua bollente con uno spruzzo di latte in polvere e quattro dosi di zucchero. Arriva il consueto messaggio mattutino di Tosca <3 TOSCA <3 - Quattro giorni di pausa spero siano stati sufficienti a far sbollire le tensioni fra di voi. Stasera mangiamo di nuovo a casa mia. Niente barbecue, non voglio saperne, serve solo a rovinarmi le serate. GianPierGianni GrillMaster84 -Meglio, dai… spaghettata?
098- Almanacco 2020
<3 TOSCA <3 - No, credo sia in programma un arrosto, a mio padre hanno regalato un pezzo di manzo appena è entrato in macelleria. GianPierGianni GrillMaster84 - Un pezzo di manzo a caso? Regalato? Sei consapevole che probabilmente sarà uno scarto, duro, ingrato e inutilizzabile?
<3 TOSCA <3 - Non ne ho idea, so solo che è stato tutta la serata di ieri a seguire videotutorial di un tizio che pareva un narcotrafficante, parlava di un busker, un fisker… GianPierGianni GrillMaster84 - Aspetta, starà mica cercando di fare in forno un brisket con un pezzo di carne a caso? <3 TOSCA <3 - Ecco sì bravo GianPierGianni GrillMaster84 - NOOOOOO :’’’((( Stacco, cortile di casa di Tosca: Massimo, con gli anfibi neri slacciati, la maglietta nera di uno sconosciuto gruppo gothic metal scandinavo e il suo consueto incedere silenzioso e furtivo si accinge ad aprire il cancello sferragliante del cortile, per fare entrare Gianni, giunto all’appuntamento con le migliori intenzioni e con una bottiglia di spumante “Auguroni” comprato al minimarket. Mauro, il vicino invadente e personaggio prediletto degli spettatori, si fa spazio sbracciando come un venditore di auto usate e compare in tutta la sua fisicità dalla destra dell’inquadratura; Gianni, che stava per salutare, rimane interdetto e ammutolito. MR Ooooh, come al solito, se non facessi del mio meglio controllandovi dalla mia finestra per… per la sicurezza del quartiere [Mauro esita], voi, proprio, invitare mai! [Mauro scandisce il suo tormentone, gli spettatori mai sazi di questa punchline geniale ridono per interminabili secondi] M Francamente no, invitare mai, non c’è mai stato bisogno, ci hai sempre preceduto, diciamo così. Ma… entra, entra pure, non fare complimenti, come no, è sempre un piacere. [Massimo si rivolge a Mauro a mezza bocca, sarcastico, fingendo di ignorare che il vicino non lo stia ascoltando e si sia autonomamente incamminato all’interno della proprietà] G La simpatia, [lo apostrofa Gianni sorridendo a Massimo] M Il mai inopportuno, G Il niente affatto intempestivo, M L’ovviamente auspicabile [Gianni e Massimo scambiano ironici commenti all’indirizzo di Mauro]
ra russa, gli scacchi e la psicanalisi. Immagina anche di dover sopravvivere all’ampiezza di vedute di un liceo di provincia dove il più popolare è chi umilia i meno allineati. Diventa molto molto più facile giocarsi la carta del freak asociale dark, costruirsi un personaggio a tavolino e mantenerlo per i cinque anni necessari a conseguire il diploma. G Non fa una piega [Gianni annuisce], e i Ricchi e Poveri come si collocano in… M Li ascoltava mia madre. Ho pochissimi ricordi di lei, ero piccolo e forse li ho sovrascritti per potermi ricordare le password di World Of Worldwords e i PIN di tutti i telefonini che ho cambiato, non so. Ma Tosca qualche anno fa mi disse questa cosa strana della musicoterapia, che aiuta anche i malati di Alzheimer a ricordare le cose, perché il nostro cervello richiama meglio i ricordi se associati a delle emozioni. Gianni annuisce lentamente, cercando nel frattempo una via di fuga educata da quel discorso. M ...la musica stimola ovviamente l’udito e il sistema limbico che, mi diceva Tosca, è alla base dell’elaborazione delle emozioni: in questo modo mi bastano poche misure del ritor-
099 - BBQ4All Magazine
MR OU, Circo Massimoooo [Mauro attira l’attenzione con voce altissima dall’altra parte del cortile, il pubblico ride di gusto] ma un po’ di musica? Attacco la mia USB con le mie playlist, vi svolto la serata! M Ogni giorno, ogni singolo giorno si inventa qualche espressione da associare al mio nome. In anni e anni che lo conosco, non si è mai ripetuto: a quella mente semplice va certo riconosciuto il merito di una certa fertilità! [Un brano di musica house del ‘92 sovrasta le riflessioni di Massimo] G Immagino che anche come gusti musicali non ti stia facendo un grosso favore, tu sei più un tipo da… Septic Flesh? Peritoneal Disorder? [Gianni prova ad indovinare i gusti musicali di Massimo citando alcuni tra i più tenebrosi gruppi metal nordeuropei] M Ma no, quello è il mio personaggio. A me piace il funk anni ‘70, e quando voglio davvero stare bene ascolto i Ricchi e Poveri. G Scherzi? [il pubblico scandisce un Oooh di delusa meraviglia] M No no, sul serio. Immagina di essere uno studente disinteressato a stringere legami con coetanei insulsi, ignaro delle ultime novità del calciomercato, della moda o dei teen idol, con una spiccata fascinazione verso la letteratu-
100- Almanacco 2020
nello di Voulez Vous Danser e in un attimo rievoco… G Oh! Scusa scusa eh torno subito! Scusa! [Gianni interrompe il ragazzo e si alza di scatto] Tosca! Tosca..! M No no, figurati, mi stavo solo aprendo un attimo, niente di importante, ci sono abituato, colpa mia! Calciomercato! Di calciomercato bisogna parlare, si sa! [Massimo torna nell’ombra] T Gianni, sei arrivato allora! Qui è tutto pronto! Mio padre si è occupato personalmente della cottura… vada come vada, non avrà nessuno da incolpare, ergo sarà presumibilmente tutto buonissimo, e guai a chi dice il contrario. [Tosca sbuffa] MR Secco! A tavola! Aspè, vieni qua, dammi la bottiglia di spumante del Discount, che dopo vogliamo fare la foto da mettere nel nostro gruppo WhatsApp privato “I meglio maschi della gastronomia” e ci fai fare una figura come se fossimo te…[indica Gianni] ho stampato il PDF dell’etichetta della bottiglia del Sor Expendiòn che costa quanto mantenere un figlio fuori corso all’università, dammi sto intruglio che ce la faccio a-de-ri-re. [Mauro scandisce con inutile arroganza la parola aderire, il pubblico ride di pancia] T A questo siamo arrivati… e sempre con queste foto, questa necessità di documentare e condividere qualsiasi cosa mangiate! Sembrate tutti scrittori a-proprie-spese, che appena finiscono un nuovo capolavoro sentono il bisogno di somministrarlo forzatamente a più lettori possibile, per avere rassicurazioni e
conferme. [Tosca sbotta, con espressione volutamente snob] MR Uuuh, e che pesantona sei diventata da quando mi stai con sto secco qua! E fattela una risata! M Ed ecco che si gioca una perla del suo repertorio già ad inizio serata! [Massimo appare dal nulla e prende posto nell’angolo destro della tavola, dove sa che potrà avere al massimo solo un’altra persona adiacente a lui] “Chiedo per un amico” l’ha detta forse mentre indossavo le mie cuffie antirumore? Sergio entra finalmente in scena, con gli occhiali a specchio oversize e la cicca di sigaretta incollata [si consiglia una goccia di cianoacrilato] all’angolo della bocca, portando in tavola orgoglioso un vassoio con una pietanza vagamente simile a un piccolo meteorite, nera e granellosa. S Aaah, ora sì che prima no! Un arrosto coi fiocchi, senza sciroppi, senza aceto di mele [Sergio dà una veloce occhiataccia a Gianni], con un bel sapore i - ta - lia - no! [La sillabazione ha un che di storicamente già sentito] T Uuuh, che bellezza, cosa sarebbe? [Squittisce Tosca] M La versione stealth, tutta nera e invisibile ai radar, di un arrosto? [Massimo borbotta a mezza bocca] MR Io lo so! [Mauro prende fiato] ...È un cappello del prete briskettato! L’ho visto fare online da certi youtuber umili che rispettano i loro subscriber! S Bravo, finalmente! [ringhia Sergio]
po, Mauro ha servito a tutti una fetta di carne] Cala un improvviso silenzio, gli occhi sono sgranati e la bocca di tutti è contratta in una strana smorfia. Massimo con estrema rapidità estrae il cellulare, fa una ricerca e mette in riproduzione, col volume al massimo, un abusato campionamento da un film con Alberto Sordi:
“...Ammazza che zozzeria!” Silenzio. Poi Tosca sbotta a ridere, e anche un po’ a piangere. T Basta vi prego… É colpa mia, questa cosa deve avere una fine! [Tosca se ne va piena di sconforto] Mauro tace e non riesce a ingoiare. Sergio stoicamente trangugia e fa il chiaro gesto di chi apprezza la vivanda. MR Mmm, che bel saporino maschio, deciso, robusto! G Più che altro salatissimo, probabilmente per l’enorme quantità di miscela sale pepe aglio qui ne vedo almeno un centimetro di spessore - che ci è stata versata sopra! Sai perchè è così dura? Ti spiego. Se tu prendi la punta del petto, e il fiocco, da cui si ricava tradizionalmente il brisket, il tessuto connettivo… [Gianni viene interrotto dall’ennesima manata sul tavolo, Sergio perde di nuovo le staffe] S Non mi interessa! Il mio macellaio mi dà solo cose buone! Il manzo è buono tutto! La cottura lenta ammorbidisce gli arrosti! Io non voglio spiegazioni, voglio solo che alle cene quando c’è la mia bimba [indica Tosca ormai estraniatasi dal gruppo] le cose che cucino vengano bene e siano gradite! E non voglio professoroni, voglio facce contente! Come sempre! Si è sempre mangiato bene qui da me, senza il perfection, senza obiezioni! E tu! [indica con rabbia Massimo] Non fare quella faccia! Ti vedo sai, che fai lo scontento, il deluso, l’annoiato! Ho passato anni a dirti di non fare quella faccia! Sempre scontento, qualsi-
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MR Grande! S Bravo!! MR Sei troppo il migliore! [i due si scambiano rassicuranti complimenti e si battono il pugno] G Fatto sta… [Gianni sospira e si rivolge ai due alzando l’indice della mano destra] T No, di nuovo! [Tosca singhiozza, Massimo si toglie le cuffie incuriosito] G ...Fatto sta che quello è un codone di manzo. Avresti potuto farci una picanha decente, ma volerci fare un brisket - che per inciso si fa con la punta di petto del manzo - significa rovinarlo. Eh già. S Giovane! Non cominciamo! Qualsiasi parte del manzo, se la cuoci lentamente dopo averla cosparsa di badilate di miscela aglio - sale - pepe in parti uguali, dopo almeno sette ore di cottura diventa un brisket! E se tagli una fetta puoi metterla in equilibrio sul dito e farci una foto! [Sergio dà una manata sul tavolo] M E mi sa di no! c’è tutta la storia del connettivo, che sciogliendosi… S Fermo fermo! Ogni volta mi tiri fuori una roba dei tuoi amici scientifici del coso to perfection! E i gradi, e il forno, e asciuga la carne, e non usare il diesel agricolo per accendere il carbone… Questa è una ricetta seria e la carne è di prima qualità, me l’ha regalata il mio macellaio, uno che ha la carne più fresca della provincia! M Infatti, regalato, nemmeno ha provato a venderla. Comunque è codone. [Gianni si stringe nelle spalle e ritira il suo dito indice alzato] MR Secco… e basta un po’ però! Guarda, guarda qua che morbidezza! [Mauro taglia una fetta dell’arrosto e se la adagia sul dito per fare la prova di flessibilità che ha visto online. La fetta rimane orizzontale e tesa come Juri Chechi ad Atlanta nell’86] Mmm, vabbè, a parte queste finzioni su internet, sentite com’è buona! Un burro! Un burro! Lo dicono tutti, quando fai la carne buona devi dire che è un burro! S DI burro? [chiede Sergio interdetto] MR No no, dicono proprio UN burro… S Ma il manzo non sa di burro, mi fa schifo un etto di burro in bocca! MR No ma perché è morbida… S Ma il burro è duro! Oppure si scioglie, ma la carne liquida nemmeno in ospizio la danno! MR Mah, senti, dicono UN burro, io non me la sento di usare un’espressione diversa e rischiare di non essere capito o accettato. [nel frattem-
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asi cosa io provi a fare! Ho badato a te come a un figlio, ma tu no, sempre quella faccia! Sempre scontento! Ora insoddisfatto anche delle grigliate e degli arrosti, perché è arrivato il sapientone del tessuto connettivo e la miosina e la cauterizzazione! M È il sintomo. [Massimo interrompe con inaspettata durezza Sergio] S Ma che stai a… ma cosa c’entrano ora i sintomi! M Tu vuoi che una persona si dipinga la gamba dei jeans sopra il gesso di una caviglia rotta e che venga a correre con te. S Massimo guarda che se inizi con le tue pappardelle esistenziali… M È il sintomo! Tu vuoi che le cose vadano come vuoi. Che le persone reagiscano come vuoi. Tu non vuoi vedere la reazione, quando non ti piace. Tu non vuoi sapere i perché. S Ma stai zitto un po’... M Lo vedi? Non ti interessa il motivo, non ti interessa approfondire. Tu vuoi che una situazione che non ti piace semplicemente non esista più, da un momento all’altro; vuoi cancellare i sintomi, invece di eliminare le cause, perché a te risultano scomodi solo i sintomi, le manifestazioni. Hai la gamba rotta? Puoi non avere la gamba rotta e correre? È questo che fai in ogni aspetto. La famiglia, il lavoro, ora anche la carne! Sto male, sono scontento, sono afflitto? Puoi non fare quella faccia? Puoi non manifestarmi e rendermi palese il tuo disagio? Puoi fingere che tutto vada bene e che io abbia fatto un egregio lavoro di genitore, di lavoratore, di grigliatore? Non hai nessun interesse a rimuovere, o quantomeno a conoscere le cause, non è un peso che vuoi portare. Perché fai quella faccia? Perché la carne è venuta dura, salata, appestata d’aglio, nervosa e impresentabile? Sono domande che non hai mai fatto, le cui risposte ti rifiuti di sentire. [Il pubblico mormora indistintamente] MR Oh l’allegrone qua si è scatenato stasera, sembra proprio… sembra proprio un… [Mauro si accorge di non essere minimamente ascoltato e rinuncia alla battuta facendo la faccia vaga] M Avresti la possibilità di capire cosa sbagli nelle cotture, ma non ascolti questo tizio qua che, mamma mia quanto è saccente e puntiglioso, ma due cose le sa. Avresti la possibilità di migliorare la nostra permanenza a tavola,
con tua figlia che ti idolatra e vorrebbe solo un minimo di armonia e la tua approvazione, ma no, devi portare avanti il tuo personaggio da Sergente Hartman low cost. G Come tu porti avanti il tuo personaggio dark a scuola, avete un bel punto in comune! [Gianni si azzarda a fare un tentativo di conciliazione] M Beh perché per me è più facile e inevitabile, ormai. [Massimo risponde ormai del tutto stizzito] S Evidentemente è più facile ed inevitabile anche per me. [Il pubblico fa un lungo e partecipato Oooh] Scusatemi, vado a mettere in ordine il disastro in cucina. [Sergio, abbandonato il piglio da istruttore dei Navy Seals, si allontana scuro in volto] M Troppo? [Massimo, un po’ rinsavito, chiede parere a Gianni] G Un pochin… anzi, beh, più che dirti “troppo” dovrei chiederti, seguendo il tuo discorso, “come mai” stasera è stato troppo, no? M Probabilmente. Magari un’altra volta, così roviniamo un’altra cena. Stacco, interno, cucina. G Posso... una parola? [Gianni alza l’indice in maniera titubante verso Sergio che ha un’espressione amara] S Fai un po’ come ti pare. G Mi sono preso la libertà di iscriverti a questa cosa che seguo pure io: è gratis, ti arrivano delle mail molto istruttive, chiare, semplici, si imparano un sacco di cose. Alla fine sarebbe solo un tentativo. S Tanto c’è sempre la casella spam. [Sergio è sprezzante e guarda altrove] G Già… S È gratis dicevi? G Sì certo, completamente! S Allora stai pur certo che cercheranno di vendermi qualcosa! G Oh beh… Potrebbero! [Gianni si stringe nelle spalle e prontamente nasconde la sua tessera Membership Diamond] Musica agrodolce, sigla.
Emiliano Nencioni
(Da un manoscritto anonimo)
N°20/ANNO 2 - AGOSTO 2020
MAGAZINE l ' editoriale di gianfranco lo cascio
SALSICCIA ALLA BRACE DEFINITIVA
LA
COME SI FA
SFINC IONE SPECIALE AGOSTO
META È PART IRE
LA
Cheese&Bacon Roll, Pica Pollo, Kitoza, Chico Roll, Feijoada, Pata Asada
arte casearia
PREPARAR E LO
SQUA CQUE RONE IN CASA LA RICETTA SCIENTIFICA
GUACAMOLE
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La prima regola del GLC Club
Editoriale di Gianfranco Lo Cascio
mai bucare le
SALSICCE
L'amore e le salsicce sono uguali. Non se ne ha mai abbastanza di entrambi. Tutti e due necessari, tutti e due maltrattati, ma le salsicce un pochino di più. Tagliate a metà, bucate coi forconi, ustionate nell’acqua bollente. Povere salamelle, pare la Guantanamo dei fornelli. Orde di grigliatori frettolosi e frotte di mamme col pallino delle calorie: scene degne di una pellicola splatter a budget limitato. La parola "salsiccia" deriva dal latino "sale" e indica una miscela di carne tritata e sale, appunto, insaccata in un involucro commestibile. Il sale svolge due ruoli importanti all’interno della salsiccia: tiene a bada la contaminazione microbica e scioglie una delle proteine dei filamenti delle fibre (miosina) dai muscoli e sulle superfici della carne, fungendo da collante. Tradizionalmente l'involucro commestibile era lo stomaco o l'intestino dell'animale, e il grasso rappresentava almeno un terzo della miscela. Oggi molte salsicce sono alloggiate in budelli artificiali e contengono molto meno grasso.
te e mangiate senza ulteriore cottura per diversi giorni, o più a lungo se sono state parzialmente essiccate o affumicate. Vengono preparate con la solita miscela di carne e grasso, o con una serie di altri ingredienti che si addensano durante la cottura. La salsiccia bianca francese, il boudin blanc, è fatta con varie carni bianche legate insieme con latte, uova, pangrattato o farina, mentre il boudin noir, il nostro sanguinaccio, non contiene alcuna carne: è circa uno terzo grasso di maiale, un terzo di cipolle, mele o castagne e un terzo di sangue di maiale.
Ci sono un'infinità di variazioni sul tema salsiccia, ma la maggior parte rientra in una manciata di famiglie. Le salsicce possono essere vendute crude e consumate appena cotte; possono essere fermentate; possono essere essiccate all'aria, cotte e/o affumicate per conservarsi per qualche giorno o per un tempo indefinito. La carne e il grasso possono essere tagliati in pezzi di varie dimensioni, oppure possono essere disintegrati, mescolati insieme e cotti in una massa omogenea. La salsiccia può essere per lo più carne e grasso, oppure può includere una parte sostanziale di altri ingredienti.
La salsiccia di fegato si ottiene invece cucinando una miscela di fegato e grasso finemente macinati. I produttori spesso usano proteine di soia e derivati del latte per addensare il composto e preservare l’umidità interna.
Le salsicce cotte vengono riscaldate in alcune fasi della loro produzione e possono essere acquista-
Queste salsicce hanno un interno molto fine, omogeneo, tenero e dal sapore relativamente dolce. Sono fatte combinando carne di maiale, manzo o pollame con grasso, sale, nitrito, aromi e solitamente acqua aggiunta, e mixando gli ingredienti insieme in un grande frullatore fino a formare una "pastella" liscia, simile a una salsa emulsionata: il grasso è uniformemente disperso in piccole goccioline, che sono circondate e stabilizzate da
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SALSICCE FRESCHE E COTTE Le salsicce fresche sono quelle appena fatte, non fermentate e crude, quindi altamente deperibili. Devono essere cotte entro un giorno o due dalla produzione o dall’acquisto.
SALSICCE EMULSIONATE Le salsicce emulsionate sono un tipo speciale di salsiccia cotta, meglio conosciuta come würstel e così chiamata per le sue presunte origini tedesche (Francoforte) o austriache (Vienna). La mortadella appartiene alla stessa categoria.
frammenti delle cellule muscolari e da proteine disciolte dal sale. La temperatura durante la miscelazione è critica: se si superano i 16°C in una pastella di maiale o i 21°C nella carne di manzo, l'emulsione diventa instabile. La pastella viene quindi estrusa in un budello e cotta a circa 70°C. Il calore coagula le proteine della carne e trasforma la pastella in una massa solida e coesa dalla quale si può rimuovere l'involucro. A causa del loro contenuto di acqua relativamente elevato, circa il 50-55%, le salsicce emulsionate sono altamente deperibili e devono essere refrigerate. INGREDIENTI DELLA SALSICCIA: GRASSO E BUDELLO Il grasso per la fabbricazione delle salsicce è generalmente di maiale e proviene dallo strato sotto la pelle della schiena. Il grasso di maiale ha il vantaggio di avere un sapore relativamente neutro, e quello dorsale in particolare ha la giusta consistenza: abbastanza duro da non sciogliersi e separarsi, nonostante la carne venga macinata o conservata a temperatura ambiente calda, ma abbastanza morbido da non risultare granuloso e pastoso quando viene mangiato fresco. Il grasso della pancia è più morbido, il grasso di rognone, quello di
manzo e agnello sono più duri; i grassi di pollame, per finire, sono troppo teneri. Nelle salsicce standard non emulsionate, il contenuto di grasso di oltre il 30% aiuta a separare i frammenti di carne e conferisce tenerezza e umidità. Più grossolani sono i frammenti di carne, più ridotta sarà la superficie che il grasso deve lubrificare. Quindi basterà un 15% per avere una buona consistenza. I budelli delle salsicce venivano tradizionalmente ricavati da varie parti del tubo digerente degli animali. Oggi, la maggior parte degli involucri "naturali" sono costituiti da sottili strati di tessuto connettivo di intestino di maiale o di pecora, spogliati del loro rivestimento interno e degli strati muscolari esterni, parzialmente essiccati e confezionati sotto sale fino al loro riempimento. Esistono anche budelli a base di collagene animale, cellulosa vegetale e carta.
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LA SALSICCIA FRESCA ITALIANA Si tratta di un grosso cilindro di carne di maiale macinata grossolanamente e insaccata in budello, spesso aromatizzata con semi di finocchio. Viene venduta rigorosamente cruda e può essere acquistata legata o sciolta. Ingrediente versatile, la salsiccia viene utilizzata un po’ dappertutto: nei sughi per condire la pasta, saltata con i leggendari friarielli napoletani, sulla pizza. Tra le varietà regionali più famose ricordiamo:
Toscana: la salsiccia qui è preparata con maestria utilizzando rifilature di coscia, spalla di suino e ritagli grassi con aggiunta di sale, pepe, aglio e spezie. Spesso i produttori utilizzano i semi di finocchio, che la rendono particolarmente aromatica. Umbria: il centro di produzione e macellazione del maiale è Norcia e celeberrima è la salsiccia che si produce qui. Realizzata solo con le migliori carni di suino o cinghiale dai leggendari maestri norcini. Campania: la cervellata o cervellatina trova la sua più grande interpretazione nella cucina campana. Un tempo prodotta con carni miste e cervello di bovino o suino, ora viene confezionata con sola carne suina tritata finemente al coltello (punt’ ‘e curtièll'). La morte sua è con i friarielli (i broccoli, non i peperoni verdi) soffritti in aglio e olio extravergine.
Liguria: la celebre salsiccia di Ceriana è a base di puro suino, pancetta e grasso, conditi con sale, pepe o peperoncino e erbe aromatiche come il rosmarino. Lombardia: protagonisti della Cassoela, sono i salsicciotti da verzata o Salamit di verz, piccole salsicce fresche di suino speziate e a pasta fine, di solito cotte in umido e servite con contorno di verdura Veneto: la Luganega, detta così dall’origine lucanica, è una salsiccia caratterizzata dall’utilizzo di tagli di carne suina come il collo o il guanciale, particolarmente irrorati dai vasi sanguigni dell’animale. Ne esistono due varianti: una magra (detta da rosto) adatta ad essere cucinata alla brace, e una più grassa solitamente cotta in umido, bollita o cotta in tegame (detta da riso).
Puglia: la zampina, che prende il suo nome dalle basi degli spiedi utilizzati per cuocerla, è caratterizzata dalla forma a spirale e composta da carni bovine e ovine, macinate e impastate con sale, pepe, pomodoro, basilico fresco e formaggio locale. Le spezie utilizzate sono cambiate negli anni, in passato si preferiva il timo selvatico sosti tuito, nel tempo, con il basilico fresco e il prezzemolo. Sicilia: la Pasqualora prende il suo nome dall’usanza siciliana di consumarla specialmente nel periodo di Pasqua. Anche Virgilio nelle Georgiche la cita
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Piemonte: la salsiccia di Bra, preparata fresca con carni magre di bovino e pancetta di suino. L’antica variante di carne esclusivamente bovina, nata per servire l’antica comunità ebraica braidese, può essere consumata anche cruda.
e la descrive così: “un insaccato dalla tipica forma a U, di carne mista di maiale e bovino, tritata a grana grossa o a punta di coltello”. Condito con sale, semi di finocchio e pepe, il macinato è poi inserito in budella di capretto e cucinato in padella con vino o arrostito sulla brace o fritto nel ragù.
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COME RICONOSCERE UNA BUONA SALSICCIA Una buona materia prima è alla base di tutto. Ne esistono un’infinità di tipi, alcune già pronte in vaschetta, altre addirittura precotte. Un buon macellaio sarà sempre felice di prepararvi le salsicce con i tagli ed il grasso che preferite. Probabilmente le pagherete di più, ma avrete la certezza di avere sempre ingredienti di qualità eccellente e con il beneficio della personalizzazione del condimento. QUALI SONO I PARAMETRI DELLA SALSICCIA PERFETTA 1 – Spessore Un budello ritorto di maiale sarebbe sempre da preferire a quello più sottile di agnello (stile luganega per capirci): è più grande, più resistente e permette alla salsiccia di avere uno spessore maggiore, che ci aiuta a gestire il calore per ritenere i liquidi all’interno. 2 – Rapporto grasso /magro Una buona salsiccia non è solo carne trita e sale. È molto di più. Per prima cosa, un buon rapporto grasso/magro è necessario per bilanciare succulenza e sapore. La percentuale grasso/magro ideale dovrebbe rimanere compreso tra il 15% e 20% di grasso rispetto al magro. Per una salsiccia più ricca si può arrivare al 25%, ma andare oltre significherebbe ottenere un morso decisamente troppo “unto” e poco gradevole. Quale grasso scegliere? L’ideale sarebbe prelevare il grasso da due tagli diversi, metà di pancia (si scioglie) e metà di schiena (tiene la cottura). Si tratta di un blend incredibilmente interessante dal punto di vista gastronomico. 3 – Parte magra Il taglio ideale è la spalla ma sarebbe anche preferibile includere parti ad elevato tenore di collagene come il collo o la guancia. Tagli magri come l’arista o la coscia sono decisamente poco adatti. 4 – Aromatizzazione Si può scegliere il classico sale e pepe ma esistono miliardi di possibili aromatizzazioni: paprika dolce e aglio, semi di finocchio e macis, pepe bianco e
origano. È interessante anche l’utilizzo di ingredienti dalla forte carica umami come pomodori secchi, olive taggiasche, capperi, funghi porcini o formaggi stagionati. Ma la salsiccia che mi sta dando grandissime soddisfazioni è la nostra, aromatizzata al formaggio cheddar e chipotle. Una bomba. 5 – Legatura Farsi legare le salsicce è un’operazione fondamentale. La legatura, oltre a conferire il classico aspetto a “banana”, garantisce anche omogeneità nella dimensione e conseguente uniformità del tempo di cottura. Ricordatevi solo di tagliare il budello in prossimità del nodo e rimuovere il filo prima di andare in griglia. I PARAMETRI DELLA SALSICCIA ALLA GRIGLIA PERFETTA Ecco le tre caratteristiche che deve avere una salsiccia grigliata alla perfezione, vi spiegherò poi come ottenerle. 1 – Colore Il budello non cauterizza come la carne ma è abbastanza sottile per garantire la cauterizzazione della carne sottostante; vogliamo ottenere un color mogano e brillante e una superficie perfettamente integra. 2 – Succulenza Mantenere succhi e parte del grasso disciolto. Una salsiccia da 100 g conterrà solo 15 g di grasso, la stessa quantità di olio con cui di solito andiamo a condire il nostro piatto d’insalata; dite alla mamma che può stare tranquilla. Il calore fa contrarre le fibre e scioglie parte del grasso. Le fibre sono corte e si strizzano espellendo liquidi, ma noi vogliamo che questi liquidi rimangano intrappolati all’interno. 3 – Smoky flavour È quel sentore di affumicato, delizioso e non invadente, che questa volta andremo a fornire utilizzando dei trucioli di legno aromatico, che faremo bruciare in combustione incompleta, cioè senza fiamma. COME OTTENERE IL COLORE Abbiamo già trattato tante volte la reazione di Maillard. In questo caso e diversamente dal solito, il setup del barbecue sarà effettuato per le cotture indirette. Dispositivo a 120-150°C, non importa che sia a gas o carbone. Braci da una parte, carne dall’altra, piccola manciata di chips di legno aromatico di ciliegio, di melo, di hickory (o un mix fra
COME OTTENERE SUCCULENZA Nel caso della carne di maiale, salsiccia compresa, la temperatura da raggiungere è fissata ad un minimo di 75°C al cuore. L’unica accortezza da mantenere durante la rilevazione della temperatura è quella di inserire l’ago del termometro da una delle estremità per limitare la fuoriuscita di liquidi. Un valore compreso tra 75 e 83°C è l’ideale per le salsicce. In questo modo, saremo certi di cuocere la carne in ogni suo punto senza mai perdere succosità. COME OTTENERE LO SMOKY FLAVOUR IDEALE L’affumicato è dato dai liquidi e i grassi in fusione che colano sulle braci (in caso di barbecue a carbone) o sulle barre aromatizzanti (in caso di barbecue a gas o elettrico) che si vaporizzano all’istante e risalgono in forma di fumo aromatico, investendo la car-
ne e profumandola. Per evitare che i sentori diventino invadenti, bisogna ridurre al minimo l’esposizione al fumo pur mantenendo costante la temperatura. In questo caso il fumo non verrà generato dai liquidi in caduta ma da trucioli di legno aromatico messi a bruciare (senza fiamma) direttamente sopra la fonte di calore. L’affumicatura, lo ripetiamo, dev’essere leggera; un paio di piccole manciate di trucioli a 15-20 minuti di distanza l’una dall’altra sui braccetti sono più che sufficienti per i nostri scopi. CUCINARE LA SALSICCE AL CHEDDAR E CHIPOTLE DEL MEGASTORE Per le nuove arrivate in casa Megastore vale lo stesso discorso fatto in precedenza: setup per una cottura indiretta, dispositivo a 130°C-150°C e affumicatura con poche manciate di chips di ciliegio. Cottura target: 82°C. Il risultato sarà un boccone croccante e profumato fuori, con un ripieno goloso e fondente. Vi consiglio di abbinarle ad una salsa a base di peperone, cipolla cruda tritato con olio, sale, pepe e aceto. CONSIGLI PER IL SERVIZIO È importantissimo che la salsiccia sia servita e mantenuta calda. Le salsicce risentono della mancanza di umidità molto più dei tagli serviti interi. Volete prepararle in anticipo? Potete mantenerle calde semplicemente immergendole (completamente) in un liquido molto caldo, ad una temperatura verosimilmente di poco inferiore a quella del limite di cottura fissato, per un tempo variabile da mezz’ora a due ore. Questo impedisce alle salsicce di asciugarsi e diventare dure. Si può utilizzare birra, succo di mela, brodo di carne o vegetale. Il sapore non ne risentirà, perché il liquido non riesce a permeare il budello, ma la quantità ottimale di umidità interna verrà preservata. Adesso avete tutti gli elementi per cucinare le salsicce alla griglia più buone di sempre, ora tocca a voi. E guai se vi pesco di nuovo a bucarle.
Gianfranco Lo Cascio
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i tre), si chiude il coperchio e si lascia andare fino a cottura. Senza toccare le salsicce, senza girarle, senza far nulla. Il fumo, unito al calore ed alcune reazioni chimiche che fissano l’emoglobina residua nei tessuti, renderà la superficie scura, di un colore bruno rossastro e sarà incredibilmente profumata. Provate ad alzare il coperchio nella fase iniziale: vedrete le salsicce “sudare”. Questo fenomeno è dovuto principalmente all’evaporazione dei liquidi del budello. Il calore secco provvederà nel giro di qualche decina di minuti a disidratare la pelle e da quel momento inizieranno le reazioni di imbrunimento.
Diventare assaggiatore - guida a cura di Stefania Pompele
L'olfatto guida completa alla degustazione Biologicamente singolare, dotato di straordinario potere evocativo e risonanza emotiva, dalla grande efficacia semiotica e tendenzialmente refrattario al linguaggio. È stato relegato a senso minore dalla filosofia classica e a lungo considerato il senso degli istinti più bassi. Spodestato dalla vista (soprattutto nella cultura occidentale) ha perso in parte il suo talento, ma vive oggi una sorta di rinascimento. Anche se molto resta da capire circa il suo funzionamento. Quel che è certo è che il suo legame con il mondo odoroso permea il nostro quotidiano, non solo quando si tratta di annusare una bistecca. Capirne i meccanismi è quindi utile non solo per approcciarsi all’assaggio più consapevolmente, ma soprattutto per comprendere cose di noi e di questo tipo di intelligenza tanto invisibile quanto potente. Ssiore e ssiori, oggi vi parlo di olfatto, odori e cervello, mettetevi comodi.
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CENNI DI FISIOLOGIA Se l’anatomia dell’olfatto è abbastanza chiara, fisiologia e genetica rimangono parecchio oscure. Ciò che definiamo odore è costituito da diverse molecole chimiche che entrano nelle nostre narici con l’aria che respiriamo e raggiungono le pareti più profonde del nostro naso, dove sono presenti cellule specializzate alla ricezione degli odori. Si tratta di veri e propri neuroni (si, come quelli che abbiamo nel cervello) dotati di terminazioni specializzate chiamate ciglia che sporgono sull’epitelio olfattivo – l’avamposto di ricezione degli odori, posizionato all’altezza delle tempie sulla sommità del naso- sulle quali sono localizzati i recettori olfattivi. Sulla superficie delle ciglia si sono delle proteine, e proprio a queste si legano le molecole odorose. Un odore raggiunge l’epitelio viaggiando su due diversi binari: quello ortonasale, quando annusiamo qualcosa, e quello retronasale, quando quel qualcosa lo stiamo anche assaggiando e le molecole odorose risalgono la rinofaringe, il tubicino che collega la gola al naso. Le sensazioni percepite per via retronasale sono quelle che, un po’ impropriamente, vengono spesso definite retrogusto. Se si parla di gusto in senso stretto (cioè l’organo di senso preposto a percepire i sapori), l’unica sensazione a lasciare un
ricordo di sé dopo le deglutizione è l’amaro.In buona parte si tratta di odori appunto, sarebbe quindi più corretto parlare di sensazioni retrolfattive -se ci si sta riferendo alla componente aromatica del cibo- oppure di sensazioni gusto-olfattive. Uno degli errori più comuni che facciamo quando descriviamo le proprietà sensoriali del cibo è proprio quello di confondere un odore con un sapore. Il fatto è che proprio in bocca tutte le sensazioni tendono a mescolarsi e diventa complicato stabilire cosa sia odore, sapore o sensazione tattile. Anche la scuola anglofona all’assaggio non ci aiuta granché, perché utilizza largamente il termine flavour riferendosi appunto all’insieme di odori e sapori percepiti durante l’assaggio. Secondo questa classificazione il flavour di chessò, “arrostito”, può riferirsi sia all’insieme di aromi di tostatura, grassi fusi e Maillard ma magari anche all’amaro, che è appunto una sensazione gustativa e non un odore. Il contesto fortemente sinestesico in cui avviene l’assaggio non ci aiuta a capire chi fa cosa e a scomporre le sensazioni che ci restituisce il cibo. Volete provare a fare un esperimento? Tappatevi il naso, prendete una caramella alla frutta e, sempre con il naso tappato, provate a descrivere
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Illustrazioni di Eleonora Castagna
la componente aromatica. Nulla? Ora stappate il naso, meglio vero? Non appena il flusso d’aria tornerà a fluire avvertirete anche l’aroma, quello che ha evidentemente un ruolo da protagonista quando si tratta di appetibilità e gradimento di un cibo, ma è così interconnesso al resto da sfuggire ad una semantica corretta.
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IL MECCANISMO PERCETTIVO: UNA MATASSA INGARBUGLIATA E IN BUONA PARTE SCONOSCIUTA Ciò che nel nostro cervello trasforma un segnale olfattivo in percetto è una faccenda parecchio ingarbugliata. Ciò che insomma definiamo percezione e codifica dell’informazione olfattiva è legato a enne variabili genetiche, ambientali, culturali e ascrivibili alla natura stessa dell’odore. La valigia genetica che riceviamo in eredità determina il numero di neuroni olfattivi, e non tutti nasciamo con la stessa dotazione. Gli studi ci suggeriscono che nell’uomo sono presenti tra i 6 e i 9 milioni di neuroni olfattivi (alcune fonti parlano di 10).
Quindi nascere più o meno dotati è correlato ad una maggiore capacità di percezione degli odori. Non tutte le molecole si legano a tutti i recettori, e non allo stesso modo. Non è del tutto chiaro come avvenga esattamente l’interazione molecola-recettore, per ora la teoria più accreditata è quella di una sorta di meccanismo “chiave-serratura”. La chiave (molecola) apre la serratura (recettore) che ha una forma complementare. Si sa che ogni neurone olfattivo esprime un solo tipo di recettore, quindi è una specifica chiave, ma non si conoscono ancora i meccanismi genetici in base ai quali viene “scelto” quale recettore esprimere. Dobbiamo poi considerare che un odore è quasi sempre il risultato di più molecole insieme che attivano in modo diverso recettori diversi secondo una sorta di codice. Indovinate? Non si conosce nemmeno il codice. Sappiamo che talvolta sono le caratteristiche delle molecole –ad esempio la loro forma molecolare e concentrazione- a giocare un ruolo chiave in questo processo. L a prima parte di decodifica di un odore segue
gruppo di geni olfattivi, fosse significativamente associata alla percezione dell’odore di “sapone” che molti utilizzano per descrivere il coriandolo. Alcune molecole aromatiche che lo caratterizzano appartengono alla famiglia delle aldeidi insature, in particolare l’E-(2)-decenale ha un odore particolarmente disgustoso, emesso come sostanza repellente da alcuni insetti, tra cui le cimici appunto. Un studio di nutrigenomica su soggetti caucasici ha mostrato che anche un’altra variante su un cromosoma dei geni dei recettori olfattivi è fortemente associata alla repulsione per il coriandolo. Un’ipotesi plausibile è insomma che chi odia il coriandolo sia più geneticamente sensibile all’odore di queste molecole.
Se parliamo di relazione tra variabili genetiche e composti aromatici un esempio calzante è quello del coriandolo fresco. Vi piace o siete anche voi come la sottoscritta che lo ha incasellato tra le cose disgustose alla voce “odore di cimice”? Pare che alla base dell’estrema variabilità di percezione, quindi all’apprezzamento o avversione per il prezzemolo cinese, vi siano non solo ragioni socio-culturali ma appunto genetiche. Uno studio del 2012 ha analizzato il DNA di circa 30.000 soggetti, riscontrando come una variazione su un cromosoma all’interno di un
A queste variabili dobbiamo poi aggiungere altri inghippi, come iposmie e anosmie specifiche (ridotta e totale incapacità di percepire un odore), deviazioni del setto nasale, poliposi, allergie e più in generale tutti gli stati infiammatori che possono compromettere la percezione degli odori. Ci sono poi variabili di tipo ambientale, legate insomma al contesto. Annusare una bistecca in un luogo silenzioso, privo di odori (che non siano quelli della ciccia in questione) e più in generale dove non vi siano distrazioni di sorta, ci mette in una condizione di maggiore attenzione,
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una via definita anatomicamente dalle connessioni tra i neuroni olfattivi e i due bulbi olfattivi. Nel bulbo i prolungamenti dei neuroni olfattivi con lo stesso tipo di recettore convergono in strutture più complesse e organizzate chiamate glomeruli. La combinazione di glomeruli che si attiva con un odore riflette il tipo di recettori che sono stati attivati. L’informazione viene poi trasmessa direttamente alla corteccia olfattiva dove invece pare non ci sia una “mappa” che rifletta ciascun tipo di odore. Capire come la rete di neuroni nella corteccia decodifica questi messaggi è uno dei grandi grattacapi dei ricercatori, perché è proprio qui che le molecole si trasformano in puzze, profumi, ricordi…
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va da sé che anche la percezione migliori. E per completare il puzzle dobbiamo aggiungere variabili di tipo culturale. Le esperienze che abbiamo collezionato e il modo in cui abbiamo memorizzato quello specifico odore rendono il nostro percetto squisitamente soggettivo. A volte sono solita affermare, un po’ provocatoriamente, che non esistano puzze e profumi assoluti, ma sia più una faccenda legata a come noi abbiamo memorizzato quell’odore, alla situazione e all’eventuale emozione che ha
accompagnato quel momento. E così, l’incenso in un Barolo può far inorridire l’assaggiatore al quale ricorda il funerale del nonno, e il sentore di puzzola dipingere un sorriso sul volto in chi ricorda la gita in campagna con i genitori. Questo si lega alla parte descrittiva, grande cruccio dei degustatori. Attribuire un’etichetta semantica ad un odore è parecchio complicato, di certo è impossibile dare un nome ad un odore se non si ha
fragola. Per capire e identificare una cosa abbiamo bisogno di visualizzarne l’immagine, altrimenti quella cosa non solo resta invisibile, ma diventa in qualche modo inesistente. Un odore non ha forma, colore, consistenza. C’è, il più delle volte lo subiamo (non possiamo non respirare), ma sfugge al concetto stesso di tangibilità. È effimero per natura. LA VIA DEL SEGNALE OLFATTIVO: UNA CORSIA PREFERENZIALE DRITTA AL CENTRO DELLE EMOZIONI Come se non bastasse il segnale olfattivo viaggia su una corsia preferenziale rispetto agli altri sensi. È come se percorresse velocemente un’autostrada in corsia d’emergenza quando c’è coda, senza nemmeno fermarsi a pagare il pedaggio. Arriva prima, senza tappe intermedie e dritto al centro delle nostre emozioni. È ovviamente una faccenda Darwiniana, per gli animali captare un odore significa individuare chi lo ha prodotto, quindi fuggire se è un predatore, prepararsi a banchettare se è cibo o accoppiarsi.
Noi mammiferi visivi abbiamo in parte modificato questo schema, nel nostro caso il legame odore-naso-cervello agisce non tanto guidando direttamente questi comportamenti sociali, ma coinvolgendo le nostre emozioni e il loro ricordo. Insomma, non
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familiarità con quell’odore e molto spesso, anche di fronte a qualcosa di già sentito, abbiamo difficoltà a trasformare quella sensazione in parola. Una delle frasi più frequenti che mi sento ripetere da quando mi occupo di formazione all’assaggio è “mi ricorda qualcosa ma non so descrivere cosa”. Il fatto è che siamo tarati su un linguaggio principalmente visivo e tattile. Se io vi chiedessi di pensare all’odore di fragola molto probabilmente il vostro cervello inizierebbe a costruire un’immagine mentale della
Non ci sono tappe intermedie, sono i neuroni olfattivi a recepire gli odori e mandare l’informazione come segnale nervoso al bulbo olfattivo, e da qui alla corteccia olfattiva e alle aree limbiche. Questa parte del cervello, chiamata anche rinoencefalo, è quella evolutivamente più conservata tra le specie animali e vi risiedono strutture cerebrali fondamentali per la regolazione dei ritmi vitali e la sopravvivenza. In quest’area del cervello troviamo la corteccia entorinale, l’amigdala, l’ipotalamo (semplificando le aree che regolano i cicli umorali e ormonali) anatomicamente molto vicine all’ippoccampo, responsabile di fondamentali meccanismi di apprendimento e memoria.
ci basta annusare qualcuno per decidere di accoppiarci, seguiamo una serie di filtri socio-culturali (ma l’odore della persona amata ci fa subito emozionare, avoja). È facile intuire come il coinvolgimento degli odori nella nostra sfera emozionale abbia un ruolo fondamentale nella costruzione dei ricordi. Anche in questo caso però si tratta di processi poco conosciuti. Tornando agli odori, sembra il loro coinvolgimento aiuti a fissare meglio quei ricordi legati a esperienze molto emozionanti. L’ipotesi possibile è che visto lo stretto legame e parziale sovrapposizione tra i circuiti cerebrali che decodificano gli odori e quelli che processano le emozioni e la memoria, l’evento venga “fissato” nella nostra testa in associazione all’odore percepito, quindi annusando nuovamente quello stesso odore si ricordi l’evento e si rievochi lo stato d’animo ad esso associato. Di fatto accade più facilmente che quelle evocate siano sensazioni ed emozioni che poi, come dicevo poche righe fa, sia più difficile trasformare in parole. E QUINDI, COME SI DIVENTA UN “NASO”? Chiariamo subito una faccenda: non esistono i nasi assoluti. È vero che il DNA ci rende più o meno dotati ma per il resto si tratta per lo più di un fatto culturale, di attenzione e allenamento. Banalmente a volte si tratta di prestare attenzione a quello che annusiamo, cosa che difficilmente avviene nel quotidiano caotico in cui siamo immersi. Dovremmo poi smettere di dare così importanza all’aspetto, potrei raccontarvi dozzine di esperimenti che hanno dimostrato quanto sia infinocchiabile il nostro naso (o meglio il nostro cervello) proprio perché tarato su schemi di apprendimento tendenzialmente visivi. Impariamo a fidarci di quello che ci suggerisce l’olfatto, indipendentemente da quello che ci suggerisce la vista.
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Collezionate esperienze (non solo alimentari ovviamente) e cercate di memorizzarle, il gioco sarà più facile se quell’esperienza avviene in un contesto emotivamente significativo. Anche acquisire un vocabolario condiviso ovviamente aiuta, è ciò che di fatto avviene nel training di ogni assaggiatore, molto spesso aiutandosi con appositi supporti semantici. Insomma, se dobbiamo imparare a descrivere le caratteristiche aromatiche di un taglio di carne cruda, dovremo necessariamente annusare quella carne cruda (di ottima e pessima qualità), avere quindi modelli qualitativi di riferimento e un vocabolario condiviso con qui descrivere il percepito. Ci sono percorsi specifici a riguardo? Si, ma magari ve ne parlerò più avanti. Per approfondire: • Il Senso Perfetto, Anna D’Errico - Codice Edizioni • The Scent Of Desire, Rachel Herz - HarperCollins Publishers Inc
Viaggio intorno alla cucina
come raggiungere mete esotiche senza muoversi da casa Porftolio Gastronomico a cura di Michela Bongiorni
Durante i lunghi mesi del lockdown, mentre lavoravo da casa e per distrarmi dai pensieri brutti cucinavo tutto il cucinabile, ho riscoperto anche l’amore per la lettura – quello per il jogging è un’altra malattia da cui non sono stata contagiata -. Fra i vari libri che ho riletto in quel periodo, uno dal nome curioso ha ispirato il titolo di questo articolo: Viaggio intorno alla mia camera, di Xavier de Maistre (1794) scritto durante gli arresti domiciliari che lo scrittore doveva scontare come punizione per aver partecipato a un duello. Fra i tanti spunti di riflessione, questo libro mi ha insegnato a vivere l’ambiente, in cui ero costretta - come tutti- a vivere quotidianamente, con lo stesso spirito del viaggiatore. Ed è proprio quello il momento in cui mi sono resa conto che le tanto agognate e irraggiungibili mete paradisiache che popolavano i miei sogni sarebbero potute venire da me, attraverso le ricette tipiche dei luoghi.
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Illustrazioni di Eleonora Castagna
Un viaggio attorno alla cucina (e al kettle) dunque, per scoprire odori, sapori, tradizioni molto distanti, eppure così raggiungibili e a portata di palato. L’idea era così convincente che abbiamo pensato di condividerla con voi e di prendervi per mano per condurvi in un viaggio gastronomico senza farvi muovere di un cm dalle vostre griglie. Ogni viaggio, però, inizia conoscendo il Paese in cui sta andando: quindi eccovi una breve guida per ripassare un po’ di storia e di geografia, che non fa mai male (ho volutamente escluso la Sicilia, presente come meta delle vacanze con ben due ricette di questo Magazine, perché do per scontato che sappiate dove si trovi e quale storia abbia). Mettetevi seduti comodi, che partiamo.
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AUSTRALIA Provate a chiedere ai vostri conoscenti quale sia la capitale dell’Australia. Scommettiamo che la maggioranza risponderà Sidney o Melbourne? In effetti, sono in molti a sapere ben poco di questo enorme continente. Molti furono gli europei che tra la fine del 1500 e la prima metà del 1600 avvistarono il nuovissimo continente, senza però riuscire concretamente a “scoprirlo”. Tuttavia già i cartografi del XVI secolo si convinsero dell'esistenza di una terra australe la cui massa doveva necessariamente esistere quale naturale e ovvio contrappeso a quella emersa dell'emisfero boreale. Nel 1557 Abramo Ortelio costruì un mappamondo a proiezione ovale dove era presente una Terra Australis Nondum Cognita (Terra Meridionale non ancora scoperta). Qual era il problema? Che egli riportava, con estrema fantasia, nomi di fiumi, campagne e posti, facendone un luogo reale, incredibilmente grande e ricco di materie prime preziose. Allettate dalle ricchezze che la Terra Australis Incognita si diceva promettesse, le potenze europee effettuarono molte spedizioni esplorative, che si risolsero in altrettante clamorose sconfitte. Furono solo i viaggi dell’inglese James Cook alla fine del XVIII secolo a ridimensionare la realtà della terra australe, che scomparve dalla carte geografiche per lasciar posto all’Australia vera e propria, luogo molto distante dalle fantasiose e affascinanti ipotesi che per tanto tempo avevano occupato la mente di geografi e di naviganti. Colonizzata dalla Gran Bretagna, che portò avanti un sistematico sterminio degli aborigeni -popolazioni di cacciatori e raccoglitori con uno stile di vita nomade che abitavano il territorio- , il continente divenne una nazione nel 1901 quando le sei colonie britanniche costituirono la Federazione dell'Australia stabilendo la capitale a Canberra. Attualmente la sua popolazione è di venticinque milioni di abitanti, distribuiti perlopiù sulle coste. Tagliata quasi esattamente a metà dal Tropico del Capricorno, il continente australiano ricade nel dominio dei climi tropicali aridi. Grande esportatore di minerali, è uno dei maggiori produttori di lana, latticini e frumento.
Per quanto riguarda le abitudini alimentari, ovviamente i colonizzatori importarono piatti, materie prime e cultura gastronomica. L’Australia è uno dei maggiori produttori di carne bovina al mondo (qualcosa mi dice, però, che questo lo sappiate già) e la cottura alla griglia è una tradizione ormai radicata sul territorio. Tuttavia la cucina australiana non è solo questo: dallo street food ai ristoranti di alto livello, dalla produzione vinicola di qualità alla fusione di stili diversi, sono molti gli appuntamenti enogastronomici durante l’anno nati nel nuovissimo continente. I prodotti di mare e di terra del Queensland sono protagonisti del Noosa International Food and Wine Festival a maggio; ad Adelaide, ogni due anni, chef e produttori si danno appuntamento a Tasting Australia in aprile. ll Melbourne Food & Wine Festival ospita ben 200 eventi gourmet ogni anno tra febbraio e marzo. Infine a ottobre l’Orange Wine Festival celebra l’omonima regione nell’entroterra di Canberra. A proposito, ora ve lo ricordate che è proprio quest’ultima la capitale, vero? C’è da dire che in effetti questa scelta arrivò al termine di una lunga disputa tra Sydney (che rimane comunque la città più popolosa) e Melbourne (all’inizio captale provvisoria), quindi siamo tutti un po’ giustificati se ci confondiamo. Comunque, adesso siamo pronti per il Milionario. BRASILE Torniamo a parlare di capitali? Probabilmente quella del Brasile è più nota a un numero maggiore di persone rispetto a quella australiana, ma anche in questo
Brasile si dette una costituzione federale sul modello di quella degli Stati Uniti. Seguì un periodo di stabilità economica, cessata con la crisi del 1929 che provocò grande tensione sociale tra la classe operaia e i ceti medi, e che portò successivamente al potere Getulio Vargas e il suo regime di stampo fascista. Un altro colpo di stato nel 1964 instaurò nel paese una vera e propria dittatura militare che cessò di fatto solo nel 1985, quando al governo tornarono i civili. Oggi conosciamo il Brasile come un paese in via di sviluppo, con una sostanziale stabilità anche se con profonde difficoltà economiche. Non possiamo non pensare alle baraccopoli poste alle periferie delle città, conosciute come favelas, in cui miseria, criminalità e profonda mancanza di igiene testimoniano le inaccettabili condizioni di vita di oltre undici milioni di cittadini. Il Brasile però è molto altro. Cedendo un po’ agli stereotipi siamo costretti a ricordare gli straordinari paesaggi naturali, la varietà di piante e animali selvatici della Foresta Amazzonica, le spiagge, il carnevale e i fondoschiena più belli del mondo. A tal proposito, immagino che molti dei lettori potrebbero essere interessati al concorso che ogni anno si svolge a San Paolo per eleggere Miss BumBum (esiste anche una pagina Instagram, correte!) Torniamo a parlare però della cosa che – spero - vi interessi più di Miss BumBum (o almeno altrettanto): la cucina locale. Essendo nata dall’integrazione fra le tre culture, quella europea dei conquistatori, quella locale degli autoctoni e quella africana degli schiavi, è certamente ricca di sapori e di ingredienti. Alla base della gastronomia brasiliana c’è sicuramente l’immancabile arroz com feijão (riso con i fagioli). Molto forte è anche la tradizione della carne cotta sul fuoco: non si può non menzionare il churrasco (ne abbiamo parlato qualche numero fa) la cui preparazione regina, la Picanha, è anch’essa una vecchia amica di tutti i nostri lettori e degli affezionati clienti del Megastore. Ovviamente, ogni regione del Brasile ha i suoi piatti tipici: se a Rio è la feijoada (vedi più avanti) a fare la parte della protagonista, a Bahia sono sicuramente i frutti di mare e L'acarajé un impasto di fagioli fritto nell’olio di dendê (una palma tipica brasiliana) con cipolla, gamberi e peperoncino. Non dimentichiamo poi i finger food: empadinhas (tortine di pasta frolla che vengono riempite con verdure e gamberi/pollo) coxinha de galinha (polpettine di carne di pollo), risoli (mini panzerotti ripieni di piselli, gamberi o pollo, e cuore di palma) pão de queijo (piccoli panini di tapioca al formaggio), bolinhos del bacalhau (frittelle di baccalà). E molti altri.
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caso se interrogherete qualche amico sull’argomento non difficilmente vi sentirete rispondere “Rio de Janeiro”; in ogni caso, diciamocelo, la geografia è uno di quegli argomenti su cui tutti facciamo più fatica (al netto di molti appassionati che si ricordano i nomi dei più piccoli corsi d’acqua della più piccola regione del mondo. E sono sicura che tra voi ci sarà qualcuno super esperto: ecco, per voi non vale, non sentitevi presi in causa). Abitato fino al 1500 da popolazioni indigene autoctone, il Brasile fu raggiunto proprio in quell’anno da Pedro Alvares Cabral, navigatore che spalancò le porte alla colonizzazione da parte del Portogallo. Nel 1549 la corona portoghese assunse direttamente il governo dei territori brasiliani. Intorno alla metà del 1700, nonostante le molte riforme, il paese del Sud America cominciò a mostrare una certa ribellione verso la dominazione coloniale; l’insofferenza era mostrata sia dalle popolazioni meno abbienti che dalle elìte creole (creoli venivano chiamati tutti coloro che nascevano in America da genitori europei, specie se provenienti dalla Penisola iberica). Tuttavia, l’indipendenza venne proclamata nel 1822, senza particolari lotte nazionali. Il paese conobbe una fase di profondo sviluppo verso la metà del 1800; durante questo periodo, per effetto di una intensa importazione di schiavi africani destinati al lavoro nelle piantagioni, la società brasiliana acquisì il profilo multietnico. Un colpo di stato militare nel 1889, però, fece sì che alla monarchia subentrasse la repubblica: successivamente il
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Non vi resta che farvi un giro da quelle parti per scoprire quanti altri sapori può riservarvi quella variegata gastronomica. Mi sembra di dimenticare qualcosa… ah sì, la capitale è Brasilia, città nata appositamente per assumere questo ruolo nella parte centro-orientale dello Stato di Goiás, nel Planalto Central, tra il 1956 ed il 1960. Fino ad allora la capitale era stata Rio de Janeiro, quindi anche in questo caso siamo giustificati se ci confondiamo un po’. O no? CANARIE Lasciamo il Brasile e diamoci appuntamento nelle Isole Fortune (Insulae Fortunatorum) di Tolomeo, conosciute da noi come Canarie, un gruppo di isole situate nell’Oceano Atlantico poco distante dalla costa occidentale africana. Lanzarote, Fuerteventura, Gran Canaria, Tenerife, Gomera, Palma e Ferro sono le maggiori; Alegranza, Graciosa, Montaña Clara, Roque del Este, El Roquete, Isleta del Rio, I. de Lobos sono le minori. In tutto quattordici. Quasi sicuramente conosciute fin dai tempi dei Fenici, descritte dai poeti latini Plinio e Plutarco come sede dei Campi Elisi, durante il Medioevo furono praticamente dimenticate, perfino dai navigatori arabi che pare non le raggiungessero mai durante le loro spedizioni. Solo nei primi del XIV le isole tornarono ad esser visitate ed esplorate. Il Petrarca nel De vita solitaria parla di un'armata genovese che avrebbe compiuto la conquista delle Canarie prima del 1304. Tuttavia non si hanno testimonianze tangibili di questa vicenda, né di altri leggendari racconti sorti intorno alla loro ri-scoperta. Nel 1341 partì una spedizione organizzata da Alfonso IV re di Portogallo, a scopo di ricognizione commerciale. Abbiamo un’eccezionale testimonianza di questa spedizione lasciataci dal Boccaccio nel De Canaria et insulis reliquis ultra Hispaniam in Oceano noviter repertis. Nel 1402 Bethencourt guidò una spedizione che valse ad accrescere le conoscenze sulle Canarie: egli sbarcò sulla costa settentrionale di Lanzarote e conquistò per la Castiglia Fuerteventura e Ferro (Hierro). Il successivo assoggettamento compiuto dagli Spagnoli, che sterminarono la popolazione locale e colonizzarono tutte le isole, portò a una sistematica ricognizione dal punto di vista topografico, naturalistico e archeologico. Sull’origine del nome Canarie non si hanno dati certi; si sa invece, grazie anche all’opera del Boccaccio e a quella dei molti cronisti, degli storici e degli esploratori, che prima della conquista spagnola le
isole erano abitatee dai Guanci, una popolazione primitiva che alloggiava in capanne di pietra o in caverne scavate nel tufo. Erano allevatori, conoscevano la cerealicoltura e la ceramica ma non la metallurgia. Non praticavano la navigazione al punto di non saper nemmeno costruire una zattera, ma avevano re, principi e dinastie, una classe sacerdotale ben organizzata e una casta di guerrieri, come una vera e propria società urbana. Le donne godevano degli stessi diritti degli uomini (e su questo punto, permettetemi di dirlo, faccio fatica a definirli “primitivi”) e la trasmissione ereditaria della regalità avveniva per via matrilineare. Alcuni cronisti riportano anche che essi, molti dei quali alti, biondi, di carnagione chiara e con gli occhi azzurri, sostenevano di provenire originariamente da una grande isola scomparsa nell’Oceano, il che alimentò moltissimo il mito di Atlantide. Tutt’oggi c’è molto mistero attorno a questa popolazione, poiché a parte alcune incisioni simboliche e indecifrabili all’interno delle caverne, essa non ha lasciato nessuna testimonianza scritta della sua storia. Queste isole sono conosciute ai nostri giorni soprattutto come località turistica e come metà per i pensionati decidono di dare una svolta alla loro vita e di trasferirsi in questo arcipelago spagnolo. Il clima, tipicamente marittimo, è caratterizzato da una debolissima escursione annua specie sulle coste; l’unico inconveniente è dato dai venti che spirano dal Sahara e che spesso elevano bruscamente le temperature e portano le polveri del deserto. La flora locale è molto ricca e variegata, la fauna è di tipo mediterraneo. La cucina, punto di incontro tra numerose culture, risente sia della tradizione tipicamente spagnola, sia di quella africana. La maggior parte delle ricette locali è composta da un insieme di sapori che hanno trovato nel tempo una combinazione molto particolare. Gli alimenti base della gastronomia canaria sono principalmente tre: il gofio, il mojo e le papas arrugadas. Il gofio è una particolare farina scura (spesso di mais) utilizzata nei più svariati casi: per il dolci o per il pane, nei brodi di pesce, nelle ricette a base di carne e verdure. Il mojo è una salsa a base di aglio, erbe aromatiche, sale e aceto. Può declinarsi in molte varianti, se si aggiungono ingredienti diversi come il cumino, il peperoncino, il coriandolo e così via. Le papas arrugadas sono patate novelle cotte con tutta la buccia in acqua di mare. Per quanto riguarda
ISOLE CAYMAN Con un balzo ci spostiamo (ma quanto sarebbe bello poterlo fare davvero!) nel mar dei Caraibi, a Sud di Cuba e a nord-ovest della Giamaica. Stiamo parlando di un gruppo insulare delle Piccole Antille composto da tre isole (Grand Cayman, Little Cayman e Cayman Brac) il cui capoluogo è George Town (dai questa era facile!). Costituiscono un Territorio britannico d'oltremare e sono contemplate nella lista delle Nazioni Unite dei territori non autonomi, cioè sono ancora soggette a colonialismo. Furono scoperte da Colombo in persona nel 1503 e passarono sotto la dominazione inglese nel 1670 con il Trattato di Madrid. Furono successivamente sottoposte alla colonia della Giamaica che cessò nel 1959 in seguito alla creazione della Federazione delle Indie Occidentali Britanniche. Nel 1962, le Cayman tornarono a dipendere direttamente dalla corona britannica. Nel 1972 fu redatta una nuova costituzione e fu introdotto il dollaro delle Cayman, in sostituzione di quello giamaicano. Sono probabilmente il paradiso fiscale più famoso al mondo; si dice che a Grand Cayman siano registrate più imprese che abitanti. Le attività bancarie e finanziarie contribuiscono per circa 1/3 alla formazione del PIL, favorite dalla stabilità politica e dall’assenza di tassazioni e restrizioni sugli scambi con l’estero. Oltre a non avere imposte sulle società, le Isole Cayman non impongono tasse dirette ai residenti. Le isole sono anche una meta turistica, certamente: ricordatevi che siamo pur sempre ai caraibi, anche se George Town è piena di avvocati e imprenditori che lavorano in grandi edifici di vetro parcheggiano le loro Ferrari a due passi dalle spiagge. Il clima è tropicale: la stagione delle piogge va da Maggio a Ottobre, quella secca da Novembre ad Aprile. La flora e la fauna sono ovviamente
ricche e variegate: fra le altre cose, ricordiamo che le Cayman possiedono cinque sottospecie di farfalle, che possono essere ammirate al parco botanico dell’isola maggiore. Il fatto che Colombo avesse nominato questo luogo Las Tortugas, per la quantità di tartarughe marine che popolano le loro acque, è rivelatore di quanto esse non siano solo un paradiso fiscale, ma anche turistico: sono molto amate da chi pratica immersioni, grazie alla vicina barriera corallina e agli incantevoli fondali marini. Il bagno con le razze è una delle attività più consigliate ai visitatori. Dal punto di vista culinario, sono i caraibi a fare la voce grossa: si fa largo uso nelle ricette di noce di cocco, banana, mango, manioca e patate; ovviamente non può mancare il pesce, in prevalenza tonno, dentice e molluschi. L’ingrediente che merita un discorso a parte è la carne di tartaruga marina che viene servita in zuppe, stufati oppure in tranci brasati. Il Lime Pepper Seasoning è una miscela aromatica e piccante molto utilizzata da queste parti per insaporire carne e pesce prima della cottura alla griglia (vedi più avanti). Ricordiamo infine due grandi eventi gastronomici annuali che vengono organizzati nell’arcipelago e che offrono la possibilità di gustare la cucina caraibica, declinata anche in versione gourmet e stellata: il Cayman Cookout, un incontro fra chef di fama mondiale, e il festival Taste of Cayman, accompagnata da musica e fuochi d’artificio. Preparate il Ferrarino, che si parte. MADAGASCAR Stavolta è davvero difficile: sapere il nome della capitale del Madagascar - soprattutto saperlo pronunciare correttamente - è una di quelle cose che potrebbero svoltarvi la serata con una donna o con un bel fanciullo. Quindi esercitatevi e ripetete con me: Antananarivo. No, non è una supercazzola. Siamo nell’Oceano Indiano, a Sud Est del continente africano, da cui ci separa il Canale di Mozambico. La popolazione malgascia è il prodotto di una mescolanza, durata a lungo, tra due popoli arrivati dall’Africa orientale e dall’Indonesia intorno al 2000 a. C. circa, che dette vita a due categorie distinte: i Vazimba, popolo di cacciatori e raccoglitori stabilitosi nelle foreste delle regioni centrali, e i Vezo, popolo del litorale dedito invece alla pesca. Da queste prime due popolazioni iniziali sono nate nel corso dei secoli diciotto etnie disseminate in tutto il territorio, ognuna con un dialetto e una cultura che le differenzia dalle altre.
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il consumo di carne ricordiamo il pata asada (vedi più avanti), il conejo en salmorejo (coniglio marinato), la morcilla (sanguinaccio con uva passa e frutta secca), il puchero canario (una zuppa molto saporita a base di carne e verdure), il mojo cochino (uno spezzatino di maiale con salsa mojo); ovviamente non possiamo dimenticare che la ricchezza della pesca nell’arcipelago consente di assaggiare molti frutti di mare e altrettanti pesci. Cito due piatti in particolare: embarrado de atun fresco (Tonno fresco marinato) e il salpicon de pescado (insalata di frutti di mare). Non so voi, ma io avrei veramente tanta voglia di partire...
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Molto probabilmente il primo europeo ad arrivare in Madagascar fu il portoghese Diego Dias nel 1500. Tra il 1600 e il 1619, diversi missionari cattolici portoghesi tentarono nell’isola un’opera di evangelizzazione, senza successo. il Madagascar diventò in quel periodo il bersaglio di tentativi di insediamento di diversi Stati europei, ma furono i francesi che imposero il loro protettorato sull'isola nel 1885. Nel 1958 il paese, rinominato Repubblica Malgascia, divenne autonomo all’interno della Comunità Francese e nel 1960 ottenne l’indipendenza piena. Pur essendo in crescita dal 2011, il Madagascar rimane comunque un Paese in cui il 70% della popolazione vive sotto la soglia della povertà. La corruzione dell'amministrazione pubblica, la mancanza di certezza del diritto, l’arretratezza della legislazione fondiaria certamente hanno contribuito nel corso degli anni a mantenere questa situazione di grave difficoltà. L'economia nazionale è basata essenzialmente sull'agricoltura (la coltura del riso occupa gran parte delle superfici coltivate), sull'allevamento del bestiame e sulla produzione di oggetti di artigianato. La pesca rappresenta un settore importante dell'economia malgascia mentre l’industria è poco sviluppata. Il turismo è in crescita, anche è esposto a fluttuazioni a seconda della stabilità politica del Paese. Un discorso a parte va fatto per la vaniglia. Il Madagascar è responsabile della metà di tutta la produzione mondiale di questo aroma molto richiesto; negli ultimi anni, a causa della crescita della domanda, delle avversità climatiche che hanno ostacolato i raccolti e delle numerose attività illegali sorte attorno alla produzione, la coltivazione di vaniglia ha avuto numerose conseguenze negative sull’economia e sulla stabilità del paese, poiché ultimamente è al centro di riciclaggio, corruzione ed episodi di violenza (in un articolo uscito sul Guardian nel 2018, si racconta di diversi omicidi sommari avvenuti per tentate rapine ai danni degli agricoltori che si sono fatti giustizia da soli a colpi di machete.). Secondo un rapporto pubblicato nel 2017 da Cook’s Vanilla i prezzi di questo ingrediente così richiesto stanno diventando insostenibili e creeranno gravi conseguenze per l’economia malgascia, visto anche l’incremento dell’utilizzo da parte di molte aziende dell’aroma artificiale ai danni di quello naturale. Torniamo però al nostro viaggio fra i sapori e i piatti tipici di queste mete esotiche: per quello che riguarda la cucina, in molte abitazioni malgasce di oggi il pasto è costituito sempre da un Laoka, un piatto di carne
o pesce accompagnato da verdure di contorno e da un’abbondante ciotola di riso bianco aromatizzato al cocco. Il piatto nazionale, un tempo considerato solo per ricchi, è la Romazava, una specie di stufato, il più delle volte preparato con la carne di zebù se possibile (in alternativa, col manzo) insaporito con pomodoro, cipolla, ginseng e brède mafana, una specie di pianta erbacea aromatica della famiglia delle Asteraceae. Il Ravitoto sy henakisoa è maiale fatto cuocere lentamente e poi saltato in padella insieme a aglio e foglie di manioca (griller, le vostre menti non stanno lavorando alacremente pensando a come adattare un piatto del genere alla nostra passione?). L’influenza della cucina francese in quella malgascia è sicuramente presente; la zuppa di verdura Iasopy ne è un esempio. Se avete previsto un viaggio in Madagascar, specie da novembre in poi, dovete assaggiare la frutta tropicale tipica del luogo. Fra gli altri, provate il mangostano, un frutto esotico che cresce soltanto vicino all’equatore ed è uno fra i più saporiti del pianeta. E non dimenticate di provare il litchi. E adesso salite a bordo che il viaggio continua. POLINESIA Parliamo di un insieme di isole e arcipelaghi situato nell’Oceano Pacifico centromeridionale. I gruppi più occidentali formano invece la Melanesia e la Micronesia. Dite Polinesia e pensate a Thaiti e Bora Bora, giusto? In realtà sono molti gli arcipelaghi che la compongono: Hawaii, Samoa, Tonga, Tokelau, Tubuai solo per dirne alcuni. Dunque, il termine Polinesia ha un significato etnologico più che geografico, e se la consideriamo da questo punto
coi traduttori automatici, vi uscirà “aiutare la testa” o “aiutare testa a testa”, direi abbastanza chiaro come significato). Meta ideale per le vacanze (direi che rappresenta il prototipo di categoria dei viaggi esotici, facilmente riconoscibile in tutti i post su Facebook del tipo “abbandonatemi qui!” e “domani vorrei svegliarmi su questa spiaggia”), la Polinesia gode di un clima tropicale estremamente piacevole. Grazie agli alisei che soffiano durante tutto l’anno, la temperatura si aggira sempre intorno ai 27°C., soprattutto nella stagione invernale (che va da maggio a ottobre, quando il clima è più fresco e asciutto).
REPUBBLICA DOMINICANA Ci spostiamo in America Centrale, nell’isola di Hispaniola tra Cuba e Puerto Rico. I primi abitanti di questo luogo meraviglioso furono i Taini, un popolo di stampo agreste amichevole e pacifico. Ovviamente sterminato e poi sostituito con schiavi neri africani dopo la conquista e la colonizzazione. Nel dicembre del 1492 Cristoforo Colombo raggiunse
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di vista comprende anche la Nuova Zelanda, i cui abitanti Maori appartengono appunto al gruppo cosiddetto polinesiano. A parte qualche eccezione, molte di queste isole sono ancora oggi occupate perlopiù da popolazioni aborigene, discendenti di gruppi già presenti su queste terre all’epoca della scoperta e della colonizzazione europea. Il che non significa che non abbiano comunque subito influenze esterne: la cristianizzazione, la diffusione di merci e stili di vita occidentali hanno al contrario profondamente cambiato le società locali. Le prime scoperte europee cominciarono nel 1521, quando l’esploratore portoghese Ferdinando Magellano giunse a Pukapuka, nell’arcipelago Tuamotu. Durante il XVII secolo, furono molti gli esploratori che giunsero fino alle isole polinesiane, ma ricordiamo l’olandese Jacob Roggeveen che scoprì Bora Bora, il francese Louis Antoine de Boungaville e l’inglese James Cook che giunsero invece a Tahiti. Nel corso del XIX secolo la marina francese, per procurarsi degli scali, si insediò nelle isole che costituirono l’Établissements français de l'Océanie, ovvero gli Stabilimenti francesi d’Oceania, detti Polinesia francese dal 1957. Dal 1959 la Polinesia francese è divenuta territorio d’Oltremare. Negli ultimi anni gli abitanti locali tentano di raggiungere una propria autonomia e l’indipendenza economica dalla Francia ma si tratta di un processo molto difficile e lento, che potrebbe richiedere diversi decenni per potersi realizzare. Popolo semplice ed estremamente ospitale, i polinesiani sono particolarmente rilassati e vivono in base alla filosofia dell’ aita pea pea, cioè del vivere senza alcuna preoccupazione (se provate
Per quanto riguarda la cucina, il pesce- soprattutto mahi mahi, pesce spada e salmone- è uno dei protagonisti assoluti nei menu sia dei ristoranti più quotati (nei quali è accompagnato da vino francese), sia nei locali più semplici. È servito spesso crudo come il fafaru, marinato intero in acqua di cocco e condito con latte di cocco o come il kokoda che aggiunge il limone al condimento. Sono numerosi i tuberi locali, fra cui ricordiamo il taro, che è una sorta di patata. Così come la frutta: mango, lime, papaya lime, ananas, panassa (frutto dell’albero del pane). La cottura tradizionale di carni e pesci avvolti spesso nelle foglie di taro o di banano avviene sulle pietre roventi dell'Ahima'a, il forno tahitiano dalle antichissime origini, scavato nella terra. Per quello che riguarda i dolci, è il cocco a farla da padrone: da provare il poe: pezzetti di banana o di papaya ridotti in purea, mescolati con farina di taro e semi di vaniglia. Il composto ottenuto viene racchiuso in foglie di banano, cotto in forno e servito con del latte di cocco. Insomma, anche da queste parti non si muore di fame, possiamo stare tranquilli e partire. Cosa dimentico? Ah sì, la capitale: Papeete. Lo so che un numero considerevole di italiani associa questo nome a una famosa spiaggia del litorale romagnolo e alle famigerate gesta di un famoso politico che faceva comizi tra un mojito e un fondoschiena, ma vabbé…
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le coste di una delle isole delle Antille; dato che gli ricordava alcune regioni della Spagna, la chiamò Hispaniola (diciamolo, a quel tempo non avevano grande fantasia coi nomi). Qui Colombo ed i suoi uomini fondarono la prima città del Nuovo Mondo, Santo Domingo, che inizialmente dette il nome a tutta la colonia e che oggi è la capitale della Repubblica, conosciuta come la più antica città d’America, nella quale gli europei costruirono i primi monumenti, la prima fortezza e la prima chiesa (quest’area conserva ancora oggi più di trecento edifici storici ed è stata proclamata dall’UNESCO patrimonio culturale dell’umanità). Dopo il rapido processo di colonizzazione, nel 1697 venne stabilita ufficialmente la partizione dell’isola fra francesi e spagnoli, che fu l’origine dell’attuale divisione in due stati indipendenti: Haiti, che copre la parte occidentale e la Repubblica Dominicana, di lingua spagnola, che copre la parte orientale. Nel 1822 Haiti riuscì ad occupare anche la parte orientale, ma nel 1844 gli abitanti, guidati da Juan Pablo Duarte, si ribellarono e proclamarono la propria indipendenza fondando, dunque, la Repubblica Dominicana. Con l’arrivo del XX secolo la nazione incontrò diverse difficoltà sia dal punto di vista economico che politico, culminate in una guerra civile che vide l’intervento degli Stati Uniti nel 1965, per l’instaurazione della democrazia. A partire dall’anno successivo il paese ha goduto di una sostanziale stabilità politica. È impossibile visitare questo posto senza rimanere contagiati dalla musica e dal Merengue. Covid -19 permettendo, ogni anno a Dicembre al Malecòn di Santo Domingo, conosciuta come la più grande discoteca del mondo, si festeggia il Natale ballando. Sarebbe ridondante parlare dettagliatamente della bellezza di flora e fauna dominicane - la zona è ricca di riserve naturali e di luoghi incontaminati che speriamo rimangano tali per molto a lungo; ah, se potete visitare questi posti incantevoli a novembre, non perdetevi lo spettacolo delle balene che giungono dalle regioni artiche sino alla Baia di Samanà e al Banco de La Plata per poter partoriredunque, passiamo subito alla cucina locale. Nominata capitale della cultura gastronomica dei Caraibi dall’Accademia ispanoamericana della Gastronomia e dall’Accademia Reale spagnola, le Repubblica Dominicana è caratterizzata – a livello culinario- da una mescolanza di sapori che trova le sue radici in differenti culture: quella dei Taini, quella spagnola e quella africana. A questa
ricca composizione, con il tempo ben amalgamata, si aggiungono le influenze della cucina asiatica e fusion. La cucina creola rimane comunque la base di questa realtà gastronomica. Il piatto, per così dire, nazionale è la bandera, composto da riso bianco, fagioli (neri o rossi) e carne; il sancocho è una zuppa di carne bovina a cui vengono aggiunti yucca, patate, platano fritto e vari aromi, mentre l’asopao è fatta con riso, pollo, pomodoro e un pizzico di coriandolo. Ricordiamo anche i contorni e i finger food: i tostones, fette di platano verde fritte, i bollitos, palline di yucca fritte in padella ripiene di formaggio o polpa di granchio e le empanaditas, fatte sempre con di yucca, formaggio o carne. Una cosa che non tutti sanno è che la Repubblica Dominicana è leader mondiali nella produzione di rum, zucchero di canna, caffè, riso, ma soprattutto cacao, che costituisce il 60% delle coltivazioni e che ha favorito la nascita delle rutas, ovvero dei percorsi guidati per far assistere i visitatori a tutte la fasi della produzione del cibo degli dei: dalla raccolta dei frutti al confezionamento del cacao e alla successiva vendita in sacchi. Vale la pena, se si è da quelle parti, fare un’esperienza del genere. Ma non state troppo a pensarci adesso, perché l’ultima tappa del nostro viaggio ci attende. Smettete di ballare ‘sto Merengue che ripartiamo. ZANZIBAR Qui non potete sbagliare sulla capitale, perché porta lo stesso nome dell’isola maggiore dell’arcipelago (che però è chiamata anche Unguja, e questo sì è un po’ difficile); poi c’è Pemba, seconda per dimensioni, e svariati altri isolotti minori perlopiù incontaminati. Si trova nell’Oceano Indiano presso la costa dell’Africa centro-orientale ed è politicamente compresa nella Tanzania. Inizialmente influenzata da dominazione arabe provenienti dall’Egitto, dall’Arabia e dalla Persia (che dettero vita, tra il IX e il X secolo, alla cultura swahili) fu successivamente “scoperta”, nel 1499, da Vasco da Gama che dal Portogallo sbarcò a Zanzibar e si trovò di fronte a un centro per il commercio tra Medio Oriente, India e Africa già ben avviato. I portoghesi ne diventarono quasi subito i governatori ma furono allontanati dagli arabi nel 1698, momento in cui Zanzibar cominciò a far parte dei possedimenti dell’Oman. Nel 1861 poi, in conseguenza di uno scontro per la carica di sultano, Oman e Zanzibar si separarono formando due principati autonomi. Quest’ultima controllava anche una porzione della
nella cucina del luogo, ma anche per l'economia zanzibarina. Lungo le strade di Stone Town, nel centro di Zanzibar city, un po’ ovunque sorgono piccoli bazar aromatici dove si può annusare tutto quel bendidio. L’assortimento più vasto si trova al mercato di Darajani, su Creek Road. Ovviamente tutti quei profumi si ritrovano poi nei piatti locali: una ricetta tipica dell'isola è la carne Pilau, un autentico trionfo di gusto e sentori esotici fatta con oca, agnello o manzo (non maiale per rispettare la tradizione musulmana) con l'aggiunta di cannella, pepe nero e di cumino macinati, zenzero, aglio, grani di pepe nero, chiodi di garofano e servita con l’immancabile riso bollito nel latte di cocco. Le onnipresenti spezie sono praticamente in ogni preparazione di carne o di pesce (quest’ultimo molto utilizzato sulle coste) e perfino nel the: da provare quello che di solito viene servito a fine pasto, con cannella e cardamomo. Fra le altre cose da assaggiare assolutamente ricordiamo: Ndizi Kaanga (platano fritto), Biryani ya Zanzibar (riso speziato con carne o pesce), Mchuzi wa pweza (polpo al curry) Ugali (una cosa a metà tra purè e polenta). Ora non dovete fare altro che accendere i fuochi e prepararvi a viaggiare anche attraverso le ricette che vi abbiamo proposto in questo numero, in attesa, speriamo molto presto, di poter ricominciare a visitare questi luoghi incantevoli anche dal vivo, liberi finalmente di goderci la vita senza mascherine e senza pensieri. Hakuna Matata!
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costa orientale dell’Africa, conosciuta con il nome di Zanj, ma tra il 1887 ed il 1892 il sultano di Zanzibar perse questi territori che passarono a Gran Bretagna, Germania e Italia. Fu proprio l’Impero britannico ad assumere progressivamente il controllo dell’arcipelago tanto che nel 1890 esso venne reso un protettorato della corona inglese con il nome di Sultanato di Zanzibar e Pemba. Solo nel 1963 esso raggiunse l’indipendenza dalla Gran Bretagna ma l’anno successivo a causa di una rivoluzione, sostenuta dalla maggioranza nera contro la minoranza araba dominante da secoli, il sultano fu deposto, l’isola proclamò la repubblica e si unì al Tanganica per formare la Tanzania. Oggi la popolazione è costituita in prevalenza da Bantu e Swahili, con minoranze indiane e arabe. Se il Madagascar è famoso per la vaniglia, Zanzibar lo è principalmente per le spezie: le piantagioni si trovano soprattutto nella parte interna dell’isola, dove le piogge più frequenti forniscono un clima ideale. Insieme alle piante di spezie cresce una flora variegata (conoscete l’albero del rossetto?) che rende il paesaggio decisamente paradisiaco. Le coltivazioni sono visitabili dai turisti (si dice che anche il principe Carlo e la moglie Camilla abbiano voluto fare questa esperienza), ma è soprattutto nei mercati locali che si viene travolti dall’odore delle ceste ricolme di variopinte polveri: chiodi di garofano, cannella, zafferano, pepe, ginger, vaniglia, noce moscata, curcuma, coriandolo, citronella e molte altre. La dominazione araba è stata certamente la responsabile di questa tradizione che riveste anche un ruolo di primaria importanza non solo
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Illustrazioni di Eleonora Castagna
Viaggio intorno alla cucina - ricette a cura della redazione
AUSTRALIA
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CHEESE&BACON ROLL il pasto del surfista
Some people stand in the darkness Afraid to step into the light Some people need to have somebody On the edge of surrenders inside
Allora vi diamo un altro suggerimento: Pamela Andreson, Jason Momoa, David Hasselhoff, Carmen Electra. Se non avete ancora capito che stiamo parlando di Baywatch le alternative sono due: o venite da Marte oppure non avevate una televisione negli anni ’90. La serie Tv infatti, in quegli anni, ebbe un successo planetario. Vuoi il nuovo format, vuoi le nude carni dei bagnini che appagavano la vista degli spettatori, vuoi l’ambientazione paradisiaca, in moltissimi si sintonizzavano per guardare lo show. Protagonista indiscussa della serie era sicuramente la baia di Santa Monica con le sue spiagge stupende e l’oceano che la faceva da padrone (sì, stiamo per parlarvi di un piatto australiano e partiamo dalla California: è voluto, non è un errore, abbiamo comprato l’Atlante, state tranquilli!). A questo splendido paesaggio facevano da contorno le persone che praticavano le più svariate attività sulla spiaggia, prendendo il sole e giocando a beach-volley. Tante erano e sono gli sport che si possono praticare sulla costa, ma quello che in particolare spopolava negli anni in cui la serie andava in onda, era il Surf. Cavalcare le onde a bordo della propria tavola, baciata dal sole e accarezzati dalla salsedine, a Santa Monica è sicuramente una delle attività più gettonate, e infatti nella vicina città di Leemore si svolge la Freshwater Pro, una delle tappe della World Surf League. La WSL è l’organizzazione internazionale che gestisce il campionato e gli eventi legati al mondo del surf. Ogni anno in giro per il globo, i migliori surfisti del pianeta si sfidano a cavalcare le onde più maestose e grandi. La manifestazione è itinerante e tocca le coste di tutti i continenti, la Freshwater Pro in America ad esempio, la Bali Pro nell’omonima isola, la Pro Jeffreys Bay in Sudafrica, o la Pro Portugal giusto per citarne alcune. Tra tutte le bellissime location scelte per questo tour una sola però viene considerata la Mecca: l’Australia (visto che ci siamo arrivati? In fin dei conti, parliamo di viaggi, ci possiamo permettere di fare il giro largo). La WSL organizza infatti ben tre tappe del tour in Australia: la Pro Gold Coast, la Pro Bells Beach e la Margaret rivers Pro. La presenza della barriera corallina, le correnti oceaniche e i venti che lambiscono le coste rendono questi posti i migliori in assoluto per fare surf, soprattutto a livello competitivo. Chi ha la possibilità, di solito segue il tour australiano, perché è là che i campioni si fanno vedere. Ma come sopravvivere alle lunghe giornate calde e ventose? Dopo la terza birra (la Mr. Canediguerra, come ci
suggerisce il buon Meniconi) inizia ad aprirsi la classica voragine nello stomaco. Di quelle difficili da placare con un piccolo snack. Ecco quindi che protagonista diventa la cucina australiana con un piatto che si può definire in ogni modo, tranne che light: cheese and bacon rolls Di fatto sono dei panini conditi e farciti di formaggio e pancetta, molto in voga in Australia. Ovviamente anche questa preparazione è declinata in tantissime varianti: c’è chi usa il pane bianco, chi il pane al latte, chi addiruttura dei bun per hamburger. Potevamo non darvi una nostra versione? Qui accanto trovate una stella di panini da panificio, ma vi consigliamo di seguire la ricetta che potete trovare anche sul nostro sito, perché secondo noi quella consistenza è perfetta per questa preparazione: un pane morbido che però possa contenere i succhi della pancetta e il grasso del formaggio, e che doni la giusta forza al morso senza disfarsi ma senza farvi fare troppa fatica. Una volta fatti i panini, cavateli e farciteli con pancetta e cheddar, per poi riscaldare tutto leggermente nel kettle (o in forno). Non è una ricetta difficile, eppure è tanto, tanto di effetto e tanto, tanto buona. I bambini ne andranno pazzi, i nonni (con la dentiera) anche.
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Se non avete riconosciuto il testo della canzone, pensate a un costumino rosso, spiagge da favola, lo sciabordio delle onde. Ancora nulla?
PROCEDIMENTO 1. Intiepidite leggermente una piccola parte di latte per poter scogliervi all’interno il lievito di birra, senza mai superare i 40-45°C. 2. Versate in una ciotola le farine setacciate con il malto (o il miele), lo zucchero, il lievito sciolto nel latte, e le uova una alla volta , non fredde. A questo punto potete impastare a mano oppure aiutarvi con una planetaria.
INGREDIENTI per 8/10 persone per i panini 500 g di farina forte (W>350) 225 g di latte intero 40 g di zucchero semolato 75 g di burro morbido 10 g di sale 7 g di lievito di birra fresco 10 g di malto diastasico (oppure miele di acacia) 2 uova medie
per la finitura Latte fresco intero q.b. 2 tuorli d’uovo
per la farcitura 500 g di pancetta 500 g di cheddar di ottima qualità
3. Impastate per almeno 25 minuti aggiungendo a filo il latte; una volta formato l’impasto aggiungete il burro morbido, un pezzetto alla volta. Fate incordare per bene, aggiungete il sale e a questo punto fate la prova “del velo”, allargando una piccola quantità di impasto tra le dita. Se si straccia prolungate la fase di impasto. 4. Quando sarà pronto lasciatelo triplicare, coperto con pellicola, a 28°C circa. 5. Conclusa la fase di lievitazione, riprendete l’impasto e attendete che arrivi a temperatura ambiente. Poi strappate delle porzioni di pasta da circa 75 g l’uno (o meno se volete panini meno grandi) dando loro una forma tondeggiante e regolare. 6. Disponeteli sopra una teglia coperta di carta forno e spennellateli con il tuorlo e il latte sbattuti con una forchetta, prima e dopo la lievitazione. Distanziate bene i panetti (3-4 cm) e lasciate che triplichino in volume, in un ambiente caldo basterà un’ora e mezza circa. Se invece volete fare una stella, avvicinateli e disponeteli in modo da formare il disegno. 7. Cuocete i bun in forno in modalità statica a circa 190°C: il pane è cotto quando raggiunge una temperatura interna di 93°C. 8. Sfornate i panini e lasciateli raffreddare. 9. Al momento opportuno, tagliate la pancetta a cubetti e fatela rosolare bene su una padella in ghisa. Tenetela da parte. 10. Sbriciolate il cheddar e mettetelo in una ciotola.
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11. A questo punto togliete la parte superiore dei panini, farciteli con un po’ di cheddar sbriciolato, inserite dentro la pancetta e infine di nuovo il cheddar. 12. Rimettete i panini in forno (o nel kettle, se lo avete ancora caldo) e lasciate che il cheddar si sciolga. Mangiateli ancora belli caldi e fragranti.
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AUSTRALIA
CHIKO ROLL i l p e r fe tto sna c k L’Australia è la casa del più grande essere vivente esistente sul nostro pianeta, la Grande Barriera Corallina, e del più famoso e stupefacente monolito, l’Ayers Rock (o Uluru per usare quello che è oggi il suo nome ufficiale, rispettoso della tradizione aborigena). Un posto dove si trovano più creature letali che in qualunque altra parte della terra. I dieci serpenti più velenosi del mondo sono tutti australiani. Cinque delle sue creature – ragno dei cunicoli, medusa a scatola, blue-ringed octcpus, zecca ixodet bolocydus, pesce pietra – sono le più micidiali fra tutte quelle dello stesso tipo. Questo è un paese dove anche il più tenero dei bruchi può stendervi con un pizzico tossico, dove le conchiglie non solo vi pungeranno ma talvolta vi punteranno. Come racconta Bill Bryson nel libro In un paese bruciato dal sole. L’Australia, il nuovissimo continente ha fra gli aspetti più affascinanti le vastissime, variegate e intriganti bellezze naturali. Chiunque sia appassionato di esperienze wild ha sognato almeno una volta di andare in questi posti. Girovagando su internet è possibile trovare migliaia di tour organizzati, trekking a piedi con spostamenti in aereo, viaggi in autobus con tappe, affascinanti carovane di camper. Uno dei più gettonati però è senza dubbio l’esperienza in off-road. Sarebbe sicuramente un viaggio incredibile quello che oggi vogliamo regalarvi attraverso il potere dell’immaginazione e dell’immedesimazione. Se Proust riusciva, attraverso i sapori, a viaggiare indietro nel tempo e nei ricordi (le famose intermittenze del cuore), noi possiamo certamente spostarci almeno con la fantasia (e di nuovo attraverso il gusto) nello spazio. Quindi chiudete gli occhi e iniziate a farvi un’immagine mentale. La prima cosa da fare e organizzare un bagaglio comodo, che occupi poco spazio e che contenga le cose veramente utili. Quindi dentifricio, crema solare, abbigliamento comodo, costume da bagno, scarpe da trekking, macchina fotografica, carica batterie, biglietti aerei. Insomma funzionale e pratico. Una volta fatta la valigia è il momento di partire e di affrontare gli innumerevoli controlli e le lunghissime ore di volo. Una delle tratte più frequenti è quella che vola da Milano a Monaco, poi arriva a Doha e infine come ultima tappa a Sydney. Una volta giunti in Australia è il momento di fare sul serio e quindi di noleggiare una potente Jeep. Un’attenzione particolare va riservata
ad alcune caratteristiche del mezzo, come la trazione (rigorosamente 4WD con le ridotte per i percorsi più complessi) e la capienza che deve essere sufficiente a contenere taniche di acqua e carburante per i casi di emergenza. Noleggiato il mezzo si passa alla fase successiva, ovvero affittare e montare una tenda sul tetto, una di quelle pieghevoli. È sconsigliato fare bivacco al livello del terreno vista la grande varietà di animali pericolosi che ci sono in giro da queste parti. Non rimane altro adesso che fare gli acquisti dell’ultimo minuto come torce, acciarino per il fuoco e perché no un Kakadu traders hat (il tipico cappello da cowboy australiano) per sentirsi un po’ più autoctoni. Ultima tappa prima della partenza è quella per fare rifornimento di acqua e carburante, e in questi viaggi è sempre meglio abbondare, e poi siamo pronti per partire per l’avventura. Non resta che dare gli ultimi ritocchi all’itinerario di viaggio e in base alle condizioni meteo scegliere se è più opportuno passare prima attraverso l’outback ,facendo il percorso dell’entroterra da Adelaide a Darwin per poi proseguire lungo la costa nord, oppure se è il caso di circumnavigare l’i-
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p e r u n' e s p e r i e nza fu oristr a d a
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sola percorrendo la highway. È un lungo viaggio, ma essendo immaginario, non bisogna tornare al lavoro lunedì e le ferie possono durare anche all’infinito. L’atmosfera e il panorama sono magici ed entusiasmanti, è tutto perfetto se non fosse per il languorino che poco a poco diventa una voragine nello stomaco. Ci vorrebbe qualcosa di buono. Ed ecco la soluzione: uno degli snack più consumati dagli australiani, il Chiko Roll! È stato inventato da Frank McEncroe nei primi anni ‘50. All’inizio era chiamato chicken roll anche se non conteneva pollo. Lo snack fu progettato proprio per essere nutriente e pratico da mangiare. Dopo un primo periodo di rodaggio, diventò famoso; al culmine del suo successo in Australia venivano venduti 40 milioni di pezzi ogni anno. Come sempre abbiamo voluto dare la nostra personalissima interpretazione a questo delizioso e sfizioso involtino. Per cui parcheggiate il fuoristrada e accendete i fuochi.
INGREDIENTI per 4 persone
PROCEDIMENTO 1. Settate il vostro kettle per una cottura diretta. 2. Rompete il burger fino a ottenere la carne macinata grossolanamente e conditela con il Montreal steak rub. 3. Tagliate finemente la verza, la cipolla, il sedano e le carote, meglio se a julienne. 4. In una padella in ghisa, posta sopra la griglia in corrispondenza delle braci, fate sciogliere il burro e fate soffriggere la carne, aggiungete quindi le verdure. 5. Quando il composto sarà ben rosolato aggiungete un cucchiaio di farina e quindi sfumate con labirra. 6. Salate e pepate. 7. Nel frattempo stendete due fogli di carta fillo e spalmate il rosso d’uovo su 3 lati; prendete adesso un po’ di condimento e ponetelo sul lato in cui non avete spalmato l’uovo. Procedete con la chiusura del roll. Infine aiutandovi con l’uovo sigillate il lembo di chiusura.
4 Burger Blue Ox GLC Top Selection 2 Carote 2 coste di Sedano una cipolla mezzo cavolo verza 20 g circa di farina (un cucchiaio) 50 g di burro
8. Nel frattempo mettete a scaldare dell’olio per frittura in un wok (potete anche usare il kettle, ma se avete a disposizione un fornello vi è più comodo). 9. Quando l’olio sarà caldo friggete i roll fino a raggiungere la doratura.
un rosso d’uovo 8 fogli di pasta fillo sale q.b. pepe q.b. olio per friggere a.b. Sal’s Seasoning Montreal steak rub q.b.
Serviteli caldi e fragranti, magari con qualche salsa di accompagnamento che non fa mai male: anche in questo caso potete spaziare con la fantasia.
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Una birra dal sapore forte e deciso, una stout o una bock
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SANTO D OMINGO
PICA POLLO farà crik o farà crok?
Nell’arcipelago delle Antille, di fronte alle coste della Florida, del Messico e del Venezuela, bagnata in parte dall’Oceano Atlantico e in parte dal Mar dei Caraibi, si trova Santo Domingo. La capitale della Repubblica Dominicana è uno degli insediamenti più antichi dell’uomo europeo nel Nuovo Mondo; infatti, grazie alla sua ubicazione strategica (vicino al fiume navigabile Ozama), fu scelta come punto di appoggio sia per le prime missioni esplorative degli spagnoli in cerca di ricchezza e di fortuna, sia per l’abbondanza di terra fertile e coltivabile da cui era circondata. Oggi, la Repubblica Dominicana occupa i due terzi dell’Isola Hispaniola sulla quale Cristoforo Colombo sbarcò nel 1492, mentre nel restante territorio si trova Haiti. La cultura di questa cittadina è definita creola poiché è un mix delle diverse civiltà che l’hanno attraversata nel corso dei secoli, a partire dall’incontro-scontro tra la popolazione autoctona e i conquistadores, per poi proseguire con l’importazione degli schiavi africani (utilizzati nelle miniere e successivamente nelle piantagioni di cacao, di zucchero e di caffè) e terminando con l’influenza dei vicini haitiani e statunitensi. Questa grande mescolanza di usi e tradizioni diversi ha contribuito a creare l’attuale realtà vivace, allegra e variopinta dominicana; naturalmente tutto ciò si è riflesso anche in ambito culinario.
Tra tutte le pietanze presenti nel vario menù dominicano abbiamo deciso di presentarvi il pica pollo. È uno street food da mangiare direttamente con le mani durante una pausa pranzo o come spuntino veloce durante una passeggiata. È composto da pezzi di pollo insaporiti con una miscela di farina e di spezie e poi fritti nell’olio bollente. Il motivo per cui è stato battezzato pica pollo rimane oscuro, c’è chi sostiene che la parola “pica” significhi tagliare, quindi il nome sottolinea il modo in cui viene servito (cioè tagliato a pezzi), mentre altri affermano che il nome stia ad indicare il termine “picar” che ne gergo dominicano significa “mangiare con le mani”.
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Nonostante la cucina creola sia considerata comunque povera è sempre molto apprezzata sia visivamente, per la sua varietà di colori, sia per il suo ricco sapore. Quella dominicana in particolare si basa sull’uso del pollo, del maiale, del riso, del mais e dei fagioli a volte uniti a ingredienti “ricchi” come la farina di grano, il manzo e il pesce, e spesso insaporita da condimenti molto speziati e piccanti.
Viene tenuto a bagno per una notte in una marinata a base di birra e di spezie (timo, origano, aglio in polvere). Questo è un passaggio fondamentale perché non solo garantisce una carne gustosa, ma anche morbida e succosa. Dopodiché il pollo viene asciugato, ricoperto con un mix di farina e aromi, tra i quali spicca l’origano dominicano, e alla fine fritto.
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Visto che la cultura dominicana è aperta al cambiamento, abbiamo deciso di presentarvi una nuova versione della ricetta per adattarla al mondo della cottura in griglia. Mantenendo il suo tipico aroma di fondo abbiamo deciso di arricchirlo con il nostro Rub Tennesse, che aggiungerà al pica pollo il gusto del barbecue americano, il tutto senza perdere la sua tipica croccantezza. Infatti, dopo aver marinato le cosce e averle spolverate con il mix di polveri, le cuoceremo in indiretta a 130 gradi; il lento procedimento di disidratazione della pelle a bassa temperatura ci permette di non perdere l’effetto crunch al morso. Quando la temperatura della carne al cuore sarà di 70 ° spennelleremo la superficie del pollo con l’olio di semi, per veicolare meglio il calore, e la passeremo in cottura diretta. Se il processo di disidratazione è avvenuto correttamente sentirete la pelle scoppiettare. Il tocco in più? Avete presente la cipolla fritta croccante che di solito vediamo utilizzare sugli uramaki negli all you can eat? Ecco, provatela sul pollo, dateci retta.
INGREDIENTI per 4 persone 8 cosce di pollo 4 cucchiai di rub Sal’s Seasoning Tennessee un cucchiaino di origano in polvere 2 cucchiai di farina bianca un cucchiaio di pangrattato cipolla fritta croccante q.b.
per la marinata 200 ml di birra 100 g di olio extravergine di oliva sale q.b. pepe q.b. due spicchi d’aglio due cucchiai di origano in polvere un cucchiaio di paprika piccante olio di semi q.b.
PREPARAZIONE 1. Partite dalla marinata. In una ciotola capiente versate prima gli elementi liquidi e poi le polveri mescolando bene con una frusta. Dopo aver fatto ciò aggiungete al composto gli spicchi d’aglio schiacciato. 2. Bruciate con un cannello da cucina gli eventuali residui di piume sulla pelle del pollo e poi immergetelo nella marinata. Coprite la ciotola con la pellicola alimentare e riponetela in frigo per almeno 8 ore. 3. Trascorso questo tempo, togliete il pollo dalla marinata ed eliminate l’umidità in eccesso avvolgendolo nella carta da cucina, avendo cura di cambiarla più volte. 4. Preparate il vostro dispositivo per una cottura indiretta a 120°C. una mezza ciminiera di combustibile sarà più che sufficiente. Quando il carbone sarà accesso versatelo lateralmente e aggiungete del carbone spento per creare lo snake, in questo modo non sarete costretti ad inserire nuovo combustibile. Chiudete il dispositivo con il coperchio perché raggiunga la temperatura desiderata. 5. In un recipiente mescolate insieme le polveri, versatele all’interno di una busta di plastica per alimenti e mettete all’interno dell’involucro anche le cosce. Sbattete il sacchetto vigorosamente in aria fino a quando il pollo non sarà ricoperto in maniera omogenea. 6. Collocate il pollo in cottura dalla parte opposta delle braci e affumicatelo con due manciate di petali di legno fruttato. 7. Quando la temperatura della carne al cuore è di 70°C, spennellatela con un po’ di olio utilizzando un pennello alimentare e ponete le cosce sul calore diretto. Quando la pelle risulterà bella brunita e croccante e la temperatura al cuore sarà di 83-85°C toglietele dal fuoco e servitele ancora calde con una generosa manciata di cipolle croccanti sopra.
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MADAGASCAR I like to move it move it
KITOZA
con riso al cocco e salsa satay
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Il dolce suono del mare che vi culla, voi in vacanza con un bel cocco in mano, gli occhiali da sole e il tempo che sembra fermarsi. È ora di fare un salto nel continente nero, il cuore pulsante del mondo: l’Africa! Lo facciamo gustandoci uno dei piatti tipici della quarta isola più grande del mondo, il Madagascar. Spiagge paradisiache, una barriera corallina immensa, natura selvaggia e foreste tropicali fanno di quest’isola una meta da aggiungere alla vostra lista dei posti da visitare. Se poi ci mettete anche dell’ottima cucina tradizionale siete a cavallo! La ricetta in questione è quella dei kitoza, sottili fettine di manzo che vengono arrostite sul carbone, affumicate o spesso seccate al sole a seconda delle zone. L’accompagnamento classico è il riso cotto nel latte di cocco. Il Madagascar, infatti, è il più grande consumatore di riso pro capite al mondo, con 135 kg l’anno, spesso sostituito da mais o tapioca perché più economici. L’isola, situata al largo della costa meridionale dell’Africa, vanta una moltitudine di influenze dal punto di vista gastronomico.
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I primi a raggiungere l’isola sono stati probabilmente due popoli arrivati dall’Africa orientale e dall’Indonesia. Il tutto ha avuto un forte impatto sulla cucina del Madagascar che mette insieme aspetti del sud-est asiatico e centroafricani, con sfaccettature indiane, europee e cinesi, frutto delle successive contaminazioni. Non ci sono ricette ufficiali e argomentate dei Kitoza, che spesso sono un gustoso streetfood accompagnato da una salsa conosciuta come salsa satay, principalmente a base di arachidi. Perciò prendete il procedimento come una linea guida sul quale fare i vostri opportuni aggiustamenti, aggiungendo ad esempio le spezie che più preferite o variando il metodo di cottura tra quelli elencati prima. Per la carne, preferite dei tagli ben infiltrati di grasso ma dalle fibre lunghe, così se optate per l’asciugatura al sole o in essiccatore (come dei Jerky in pratica), tagliando controfibra non vi ritroviate a masticare una roba simile al copertone di una ruota. Noi abbiamo scelto una flank steak ben marezzata del Megastore e la cottura in due step: una leggera affumicatura e una finitura in cottura diretta. Per quanto riguarda il riso dovete per forza di cose sceglierne uno dal chicco lungo e povero di amido, come il profumatissimo jasmine o un ottimo basmati, perfetti per la cottura ad assorbimento. Per gustare il piatto in maniera più caratteristica, potete anche servirlo non sul tavolo ma su una stuoia dove apparecchierete anche tutto il resto delle pietanze, come degli autentici malgasci! Non abbiate paura di osare con le spezie, cumino e aglio faranno da padroni in questa preparazione semplice ma sfiziosa.
PROCEDIMENTO 1. Ripulite la carne da eventuale tessuto connettivo presente e tagliatela a striscioline di circa mezzo centimetro.
INGREDIENTI per 4 persone Per i Kitoza 500 g di flank steak o chuck roll GLC Top Selection del Megastore 2-3 spicchi d’aglio un cucchiaino di cumino in polvere un cucchiaino di pepe nero sale q.b olio di semi di arachide q.b.
Per il riso 2 tazze di riso basmati 3 tazze di latte di cocco sale q.b. (o salsa di soia)
Per la salsa satay 300 g arachidi sgusciate 3 cucchiai di olio di semi un peperoncino fresco (facoltativo) 5 g zenzero fresco un lime coriandolo q.b. sale q.b.
2. Insaporitela e con le spezie e le erbe scelte per almeno due ore, poi affumicatela gentilmente a 80/100ºC con l’essenza che più preferite. In questo caso della quercia andrà benissimo. 3. Grigliate a calore diretto per una trentina di secondi le vostre strisce di carne affumicate per ottenere una gustosa reazione di maillard. 4. Intanto preparate il riso. Sciacquatelo in abbondante acqua fino a che non la vedrete limpida, segno che avrete eliminato parte dell’amido. Fate una cottura ad assorbimento, quindi con una volta e mezzo il volume del riso in liquido di cottura. Inserite il latte di cocco, il riso e il sale o la salsa di soia in una pentola e chiudete il coperchio. Portatelo a ebollizione e cuocete con il coperchio chiuso a fiamma bassa per 10-13 minuti senza mai aprire o girare. 5. Per la salsa satay vi basterà unire l’olio e le arachidi in un frullatore e azionare fino a consistenza desiderata: c’è chi lo preferisce più granuloso e rustico chi più cremoso e liscio. Ricordatevi di azionarlo a scatti per non surriscaldare troppo il composto. Correggete con il succo e la scorza di un lime, lo zenzero grattugiato, il peperoncino tritato al coltello e il coriandolo. 6. Servite caldo e gustatevi un pranzo o una cena in stile malgascio.
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ZANZIBAR
BOKU-BOKU
è severamente vietato usare le posate!
Il continente africano, così misterioso e ricco di contaminazioni, nasconde dei gioiellini gastronomici che vale la pena assaggiare almeno una volta nella vita. Oggi vi prenderemo per mano e vi porteremo, con la mente e con il palato, in Tanzania, per assaporare uno dei piatti tipici più gustosi e semplici del continente antico. Se avete voglia di un piatto etnico capace di catapultarvi in vacanza, o almeno farvi sognare di esserci, dovete assolutamente provare il boku-boku ,una sorta di spezzatino dalla consistenza cremosa tipico della Tanzania e in particolare dell’isola di Zanzibar.
Tornando al boku-boku, si tratta di un piatto a base di carne di manzo cotto due volte: la prima in ambiente umido, in acqua, con delle spezie e degli insaporitori e la seconda in un intingolo composto dal fondo di cottura mescolato con del frumento integrale. Cumino, peperoncino, zenzero e cipolla dorata sono gli ingredienti utilizzati per insaporire questo piatto nella prima parte della cottura, il gusto risulta intenso ma piuttosto semplice, in grado di essere apprezzato da tutti. Zanzibar d’altronde è famosa per le sue spezie. Tradizionalmente il boku-boku viene gustato
INGREDIENTI per 4 persone 500 g di Top Blade o Stew GLC Top Selection del Megastore 1 cipolla dorata 120 g di farina di frumento integrale 240 ml di acqua (più q.b per la cottura della carne) 40 g zenzero fresco o 2 cucchiaini di zenzero in polvere 1 cucchiaino di semi di cumino 1 peperoncino mediamente piccante 20 pomodorini ciliegino sale q.b. pepe nero a piacere
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Nonostante la gastronomia del luogo sia l’apoteosi del pesce, con aragosta, gamberi, polpi, seppie, granchi, barracuda a farla da padroni sulle griglie e sulle tavole degli abitanti, le preparazioni tipiche a base di carne si difendono comunque bene, dimostrando una grande varietà di sapori e di tecniche di cottura. La carne di manzo o di montone è infatti ampiamente impiegata in stufati e cotture in umido, oppure nelle tradizionali grigliate africane, spesso accompagnate da una polentina di mais o di miglio.
con le mani, accompagnato spesso da cipolle fritte. In questo arido ma florido stato dell’Africa, le popolazioni che si possono incontrare durante le escursioni, come i Masai, offrono ai turisti una vasta selezione di piatti tipici, che nei piccoli villaggi sono consumati appunto senza posate. Questa preparazione tipica della cucina povera africana è molto saporita e povera di grassi, poiché per realizzarla non si utilizzano olio né burro. In Tanzania, ma in generale in tutto il continente nero, non è inusuale trovare dei piatti unici a base di farinacei e stufati a base di carne, soprattutto manzo, montone o pollo. Non viene largamente consumato, invece, il maiale, vista la massiccia presenza e la diffusione capillare della religione musulmana.
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Per la carne utilizzate dei tagli che abbiano una buona dose di collagene e di marezzatura, così da ottenere dei bocconcini teneri e succulenti: cappello del prete, reale o punta di petto andranno benissimo. Il Megastore a questo proposito offre tagli perfetti per voi. Basta che chiediate al vostro Coach di riferimento e il gioco è fatto. Se amate il sapore fresco e intenso dello zenzero optate per la radice fresca, altrimenti per un tono più delicato usate quello in polvere. La gastronomia della Tanzania, ha subito l’influenza delle culture arabe, indiane e africane, che nel corso degli anni hanno lasciato un marchio indelebile nei piatti della tradizione di questo paese africano. I chiodi di garofano, la
cannella, il cardamono,il cumino e lo zenzero sono le spezie che maggiormente si usano nei piatti tradizionali. Inoltre i popoli del centroafrica ne hanno caratterizzato sviluppi e tradizioni. Il cumino e il peperoncino sono fondamentali: per quanto riguarda il primo, scegliete sempre quello in semi da tostare all’occorrenza e non la polvere già pronta. Fa tutta la differenza del mondo, perché vi restituisce un profumo più deciso, fresco e balsamico. Fate così anche con il pepe e tutte le altre spezie che si presentano in semi. Il frumento integrale è una colonna portante in questo piatto, sia in termini di sapore che di consistenza. Infatti tradizionalmente frumento, mais e miglio vengono combinati con l’acqua per addensare e arricchire gli stufati, così da renderli più nutrienti, gustosi e saporiti (e soprattutto per facilitarne la degustazione senza le posate). Anche dal punto di vista economico questa è la scelta migliore per preparare dei piatti abbondanti senza esagerare con materie prime costose come la carne. Non ci sono ricette ufficialmente riconosciute del boku-boku, quindi sentitevi liberi di aggiungere altre spezie per dare complessità e identità al vostro piatto, come cannella, chiodi di garofano o semi di coriandolo. Si tratta di una preparazione semplice nella realizzazione, ma siamo sicuri che diventerà un vostro must per delle cene con gli amici non convenzionali o, chissà, per viaggiare con la fantasia nei luoghi meravigliosi e affascinanti dell’Africa più autentica.
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PROCEDIMENTO Tagliate la cipolla a julienne, il manzo a cubi di 2 cm per lato, i pomodorini in quarti e lo zenzero a lamelle. Unite il tutto in una casseruola. Tostate i semi di cumino in una padella antiaderente fino a che non sprigioneranno una nota intensa e persistente. Pestateli leggermente e uniteli agli altri ingredienti in casseruola. Coprite con il coperchio e cuocete a fuoco basso fino a che la carne non risulterà tenera e scioglievole. Aggiungete un po’ d’acqua se necessario. Il risultato finale dovrà avere l’aspetto e la consistenza di uno spezzatino molto lento. Aggiungete anche il peperoncino, è fondamentale che ci sia. In un altro pentolino cuocete il frumento con un pizzico di sale e i 240 ml di acqua fino ad ottenere la consistenza di una besciamella. Unite la carne con il suo fondo di cottura ed amalgamate bene, lasciando inspessire leggermente il boku-boku che dovrà assumere la consistenza finale di un gulash. Aggiustate di sale e di pepe e aggiungete eventualmente acqua calda in caso di densità eccessiva. Servitelo come piatto unico, magari accompagnato da una dose generosa di cipolla fritta… e provate la liberazione di mangiarlo con le mani, però prendendolo dal vostro piatto personale (non esageriamo con le libertà, sono tempi difficili questi).
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POLINESIA
Amici...
TARNA’ARA’A!
Il titolo può trarre in inganno, ma non stiamo parlando di Bruno e Max. il duo comico i Fichi d’India. Siamo in Polinesia francese, nel bel mezzo del Pacifico, famosa soprattutto per le preparazioni a base di pesce. E invece noi parliamo di un piatto di carne, probabilmente uno fra i più identificativi del posto, con un nome decisamente difficile da pronunciare: il Tarna’ara’a, a base di carne di maiale e frutta.
Ormai in disuso come tecnica, riportata in auge al solo scopo di attrattiva turistica, è stata adattata ad una cottura più tradizionalmente al forno. Noi, ovviamente, la faremo nel nostro dispositivo,senza perdere niente di ciò che ci è stato tramandato, anzi cercando di esaltarne il sapore. Per questa preparazione, il taglio da utilizzare sarà la lonza di maiale. Non è previsto un peso specifico, per cui voi potrete replicare la ricetta in base alla grandezza della lonza che vorrete cuocere. Questo arrosto agrodolce prevede di creare una tasca da riempire di frutta per poi cuocerla in griglia. Viene solitamente accompagnato dal taro, un tubero molto simile alla patata, ricco di calcio, alimento basilare delle popolazioni oceaniche. La sua radice è tossica, perciò va bollito prima del consumo. Poi lo friggeremo e lo utilizzeremo come accompagnamento alla nostra preparazione. Apriremo la lonza di maiale a libro, al suo interno andremo a collocare tocchetti di banane e di mango, preventivamente marinati con sale e pepe, che poi spolverizzeremo con il pangrattato. Andremo a insaporire con Sal’s Seasoning BBQ4All Montreal, dal gusto più speziato e agrumato, poi griglieremo inizialmente l’intero pezzo, per favorire la reazione di Maillard, in diretta e successivamente andremo a realizzare una cottura agrodolce. In una cocotte, aggiungeremo l’olio con la cipolla tagliata a fettine, e sfumeremo man mano con brodo di carne. Lasceremo cuocere ad una temperatura in griglia sui 180°C sino al raggiungimento dei 78°C , su un punto della lonza dove infileremo la nostra sonda. Una volta ultimata la cottura, la ricetta originale prevede l’utilizzo di una salsa ricavata da acqua amidata con fecola di patate e succhi d’arrosto,
INGREDIENTI per 6 persone 1 kg di lonza di maiale 250 g di banane 250 g di mango 250 g di pangrattato 250 ml di brodo di carne 200 ml di olio extra vergine di oliva una cipolla 400 ml di succhi di arrosto di maiale (o di pulled pork) 40 g di burro 35 g di farina senape q.b. Rub Sal’s Seasoning BBQ4All Montreal q.b. sale e pepe q.b. 500 g di taro (circa 6/7 tuberi) o patate olio per figgere q.b.
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Ricordate la cottura del maialetto sardo “a carraxiu “? Questa preparazione gli somiglia molto almeno per quanto riguarda la tecnica di cottura, fatta tradizionalmente nell’ahi mā'a o ahimā'a (ahi, fuoco e mā'a, cibo), il tipico forno tahitiano ricavato da una buca scavata nel terreno, nella quale vengono riposte delle pietre incandescenti. Nello specifico, funziona così: si scava una buca di circa un metro, all’interno si stratifica la legna che poi viene coperta da circa 50cm di pietre laviche. Quando queste diventano incandescenti, le si copre di foglie di banano, sulle quali si appoggiavano i cibi da cuocere.
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Un Mai Tai, un’insalata polinesiana fatta di lattuga, pompelmo rosa, avocado, mango, gamberetti, semi di sesamo, olio e spezie e il gioco è fatto. Non servirà molto per catapultarvi direttamente negli atolli polinesiani. Basterà chiudere gli occhi mentre portate la forchetta alla bocca, e sarete voi a decidere se sarà Bora Bora, Moorea, Tahiti o Fakarava. Finché ad un certo punto, oltre a sentire le piccole onde che si infrangono sulla battigia, il brusio delle palme smosse dal vento e il profumo salino delle acque cristalline, udirete in lontananza una vocina che vi dice: “ Ehi la pacchia è finita. Alzati che c’è da sparecchiare!”. E di polinesiano vi rimarranno giusto le infradito con il cocco disegnato sopra. Ma vi siete goduti un bel viaggio lo stesso.
PROCEDIMENTO 1. Lavate la frutta, sbucciatela e tagliatela a tocchetti. Marinatela in un contenitore, con sale e pepe, e lasciatela riposare per mezz’ora. 2. Prendete la lonza e apritela a libro, per realizzare una tasca. 3. Spolverate la frutta con il pangrattato e riempite la tasca. 4. Ricucite con spago da cucina in maniera accurata, affinché non fuoriesca il ripieno. 5. Spennellate con senape e aromatizzate con il Rub Sal’s Seasoning BBQ4All Montreal. 6. Accendete il vostro dispositivo e predisponetelo per una cottura diretta, coi carboni nella parte centrale, che poi vi serviranno anche per quando posizionerete la cocotte. Grigliate il vostro arrosto ripieno fino a che non si sarà formata una bella crosticina. 7. A questo punto continuate la cottura in una cocotte di ghisa. Aggiungete l’olio, la cipolla a fette sottili e lasciate cuocere l’arrosto sino ai 78°C, sfumando di tanto in tanto con il brodo di carne. 8. Mentre aspettate che la lonza raggiunga la temperatura target, pelate e sbollentate il taro per pochissimi minuti, poi toglietelo dall’acqua e lasciatelo ad asciugare in un panno assorbente. 9. A cottura ultimata, prelevate i succhi dell’arrosto, nella quantità richiesta, oppure come utilizzate come abbiamo fatto noi i succhi di un vecchio pulled pork. 10. Sciogliete in un tegamino il burro fino a fargli prendere una colorazione nocciola. Spostate dalla fiamma e versate la farina, mescolando velocemente con una frusta sino a farla rapprendere bene, senza formare grumi. 11. Versate a filo i succhi caldi dell’arrosto, continuando a mescolare con la frusta. Quando avrete inserito tutti i succhi, riportate sul fornello il tutto e, mescolando, portate ad ebollizione. 12. Togliete da fuoco e continuate a mescolare energicamente con la frusta per abbassare la temperatura della salsa. 13. Tagliate a tocchetti grossolani il taro (o le patate) e friggetelo come fareste con le patatine fritte. 14. Servite il Tarna’ara’a ancora caldo con la salsa di accompagnamento e il taro fritto.
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che noi abbiamo provveduto a sostituire realizzando un roux coi succhi di un vecchio pulled pork che avevamo tenuto da parte. Ora, ancor prima di infilarvi la ghirlanda di fiori al collo e sdraiarvi sotto una palma, con il cocco e la cannuccia in mano, vediamo come preparare questo piatto. Seguite il procedimento nel box a lato.
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Viaggio intorno alla cucina - ricette a cura della redazione
BRASILE
Anche gli angeli mangiano...
FEIJOADA
Finalmente l’estate: le giornate che si allungano, il bagno in mare, l’aperitivo sulla spiaggia, le foto da scattare e poi condividere a settembre con l’hashtag #memories. Ma anche i giri in vespa, i tormentoni estivi, i flirt. Questa è una tipica cornice dell’estate italiana, o comunque lo è nell’immaginario nazional popolare (sentite anche voi la musica del Cuore di Panna?)
INGREDIENTI per 4 persone 500 g di fagioli neri una slab di ribs St.Louis Duroc GLC Top Selection due salsicce 100 g di pancetta affumicata 100 g di guanciale una cipolla 2 spicchi d’aglio qualche foglia di alloro mezzo bicchiere di passata di pomodoro sale q.b. pepe q.b. olio extra vergine di oliva q.b. un velo di senape o di olio di semi Sal’s Seasoning Tennessee Mild dry rub q.b. Birra/brodo per le salsicce q.b.
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Parlando di questa stagione il primo paese a cui si pensa è il Brasile (anche se in questo periodo là è inverno, poiché essendo nell’emisfero australe l’estate va da dicembre a febbraio). Le sue spiagge paradisiache, la natura incontaminata, le danze e i colori. Sappiamo che vi vedete già per per le strade di Rio de Janeiro a ballare la samba (o il samba), una danza che nasce a Salvador di Bahia dall’incontro di varie tradizioni musicali africane quali l’yoruba e il nagò. L’origine di questa danza è molto legata al candomblé, la religione degli schiavi che si formò a Bahia. Essi, costretti a convertirsi al cristianesimo, nascosero le loro credenze nei simboli della religione egemone. Nei testi dei brani del samba è infatti possibile ritrovare le divinità della religione propria degli schiavi. Fautori di questa rivendicazione furono sicuramente il poeta Vinicius de Moraes e il chitarrista Baden Powell. Questo ballo iniziò a diffondersi all’inizio del ‘900 per le vie dei quartieri più poveri. Nei racconti dell’epoca è curioso il fatto che, quando la polizia arrestava qualcuno per vagabondaggio o aspetto poco raccomandabile, controllava se il malcapitato avesse callosità sui polpastrelli della mano sinistra: la prova schiacciante indicava che si era suonatori di violão e quindi certamente sambisti. Negli anni poi venne sempre più accettata, nacquero le prime scuole di ballo e poco a poco si diffuse in tutto il paese perdendo anche quella connotazione di lotta che aveva assunto agli albori della sua storia. Oggi è considerata spesso la colonna sonora per fare festa, e qualunque brasiliano può concordare che gli elementi portanti per un party sono tre: samba, caipirinha e feijoada! Se le prime due sono note, la feijoada non gode forse della stessa fama fuori dal paese carioca. È uno stufato a base di fagioli neri e ritagli di maiale tipico delle cucina brasiliana. La tradizione popolare racconta che il piatto sia stato inventato dagli schiavi che lavoravano nelle piantagioni e nelle miniere. La loro versione base consisteva in riso e fagioli, ma per le occasioni speciali venivano utilizzati ritagli di maiale per arricchire la loro dieta. Seppure romantica, questa storia è falsa. Il piatto è di origini portoghesi, e fu esportato in Brasile con l’arrivo dei primi coloni. In molti scritti di cucina è infatti possibile individuare le origini di questo preparazione in Portogallo da ben prima che arrivasse nel Nuovo Continente. È così buono che tutti si concederebbero questo peccato di gola, anche i santi in Paradiso. Come siamo soliti fare vi proponiamo oggi la nostra versione, forse meno suadente e più rock’n’roll.
PROCEDIMENTO 1. Mettete i fagioli a mollo in acqua per una notte 2. Trimmate e rubbate le costine di maiale con il Tennessee mild dry rub, usando un velo di olio di semi o di senape. 3. Settate il kettle per una cottura indiretta a 110°C e mettete ad affumicare le costine e le salsicce. Non bucate queste ultime e aspettate che raggiungano un bel colore rossastro e rosolato, poi spostatele nella birra o nel brodo caldi. Le costine devono invece raggiungere il grado di cottura desiderato (c’è chi le preferisce più consistenti e chi, invece, vuole che si stacchino del tutto dall’osso). 4. Nel frattempo, tritate mezza cipolla e fatela rosolare, aggiungete quindi i fagioli precedentemente scolati e copriteli con nuova acqua. Portate i fagioli a cottura 5. In un dutch oven fate adesso rosolare la restante mezza cipolla e l’aglio tritati. 6. Quando il fondo sarà ben rosolato aggiungete la pancetta e il guanciale e fateli rosolare per qualche minuto (volendo potete aggiungere anche gli scarti delle ribs, se ne avete) poi i fagioli e la passata di pomodoro. 7. Aggiungete adesso acqua a coprire e regolate di sale e pepe.
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8. Chiudete il dutch oven e lasciate cuocere a fuoco lento per almeno 3 ore. A fine cottura, tagliate grossolanamente una delle salsicce e giratela insieme ai fagioli, le altre affettatele a rondelline. 9. A cottura ultimata, servite i fagioli insieme alle costine e alle salsicce affumicate.
Viaggio intorno alla cucina - ricette a cura della redazione
CANARIE
PATA ASADA sagrada y venerada
Questa è la volta buona per portarvi alle Canarie. Vorrete mica dirci che non ci andreste? Chiudete gli occhi e lasciatevi trasportare. Come ve la raccontiamo noi, vi sembrerà di stare con i piedi che vi penzolano da un’amaca. Vi stiamo catapultando virtualmente a Tenerife. Volevate andare in Sardegna? Vedrete che alla fine non la rimpiangerete affatto, fidatevi. Ma parliamo subito dei sapori che conosceremo oggi. Quello che vi stiamo proponendo è un piatto tipico delle Canarie, fatto con la coscia del maiale. Si chiama pata asada. Se siete già stati da queste parti, sapete sicuramente di cosa stiamo parlando. Si realizza arrostendo nel la coscia del suino per ricavarne una sorta di prosciutto. Il roasting si esegue facendo cuocere il taglio, lentamente, a temperature non superiori ai 160°C per favorire una reazione di Maillard esterna pronunciata e una disidratazione delle carni. Nel caso specifico del Pata Asada, il nostro cosciotto subirà un trattamento con sale ed erbe aromatiche prima della cottura. La pata del cerdo asada è un piatto straordinariamente versatile: delizia sia da solo che accompagnato da salse (molto spesso al coriandolo) oppure dentro ai sandwich. È anche uno dei piatti più tipici delle feste di Natale alle Canarie, ma noi lo serviremo in un panino accompagnandolo a sapori estivi e freschi. Si suppone che questa preparazione sia nata in un tempo in cui, non esistendo frigoriferi, i generi alimentare per essere conservati anche per più giorni venivano salati, marinati e arrostiti. Tradizionalmente, al grasso che rimane sui bordi delle fette tagliate dalla coscia si aggiunge il sale; l’arrosto di coscia non può essere servito senza las cortezas, ovvero la crosticina esterna che conosciamo bene noi griller. Di solito i suoi accompagnamenti ideali sono le papas arrugadas, ovvero le patate arrostite nello stesso sugo di cottura della coscia, oppure le papas arrugadas con mojo, cioè arrostite e poi accompagnate con la salsa mojo (se avete letto l’articolo introduttivo, sapete cos’è).
Per quanto riguarda il pane, a Tenerife è molto diffuso e persino protetto con certificazioni apposite dell’Unione Europea, il gofio. È di fatto un mix di farina di miglio e cereali. Il dettaglio che rende così particolare il sapore di questa farina è la tostatura dei vari semi prima di essere triturati. La polvere che si ottiene viene utilizzata poi per svariati piatti canari. Noi abbiamo sfiorato l’idea di utilizzare il gofio per preparare una focaccia da riempire col Pata Asada, ma dato che Trezzi era super impegnato e non ha potuto studiare una ricetta in tempi utili (ma vi promettiamo che lo costringeremo a farlo nei prossimi mesi) abbiamo pensato di utilizzare un filone multicereali.
di carpaccio che ben si sposa con il gusto del maiale e ne contrasta le note grasse. Come base, un’insalata gentile, croccante e gustosa e un formaggio erborinato, lo Stilton, uno dei pochi formaggi inglesi a denominazione di origine controllata che aggiunge al nostro panino l’elemento piccante oltre a una buona dose di umami. Tutto questo viene poi accompagnato dal famoso mojo al coriandolo (ma se non gradite questa spezia, potete sostituirla con qualsiasi cosa vi aggradi). Vediamo subito tutti i passaggi perché la fame si fa sentire.
INGREDIENTI per 4 persone un cosciotto di maiale (1,5 kg circa) 4 spicchi d’aglio Erbe aromatiche a piacere (origano, rosmarino, timo) Sal’s Seasoning BBQ4All Ultimate SPOG q.b. Sal’s Seasoning BBQ4All Memphis q.b. 1 ananas 100 g di insalata gentile 100 g Formaggio erborinato Stilton 10 grani di pepe nero 100 ml Olio extra vergine di oliva 300 g di coriandolo un cucchiaino di cumino in polvere 20 g di aceto di mele due filoncini di pane ai multicereali di circa 300 g l’uno
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A questo, abbiamo abbinato un ananas grigliato. Non fettone da 2 cm, ma una sorta
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PROCEDIMENTO 1. Togliete il cosciotto dal frigo almeno un’ora prima e lasciatelo a temperatura ambiente. 2. Impostate il vostro dispositivo per una cottura indiretta a circa 180°C in griglia. 3. Incidete la cotenna del cosciotto a losanghe e praticate, in alcuni punti, delle incisioni nella carne, dove inserirete gli spicchi d’aglio tagliati per metà. 4. Cospargetelo di Sal’s Seasoning BBQ4All Ultimate SPOG, senza eccedere. Aggiungete tra le incisioni qualche grano di pepe e spolverate il tutto con Sal’s Seasoning BBQ4All Memphis. 5. Tritate finemente alcuni rametti di erbe aromatiche e cospargete la coscia di maiale, strofinando delicatamente. 6. Mettete il cosciotto in cottura indiretta sino ai 78/82°C al cuore. 7. A cottura ultimata, fate alla coscia il rest sino a raffreddamento e poi conservatela eventualmente in frigorifero. 8. Tagliate l’ananas a fette spesse non più di mezzo centimetro e caramellatele sul dispositivo o su una piastra in ghisa. Mettetele da parte e lasciatele freddare. 9. Con un mixer, tritate le foglie di coriandolo e uno spicchio d’aglio, aggiungendo il cumino in polvere e l’olio a filo, sino ad ottenere una salsa cremosa e fluida. Ora avete tutto ciò che serve per assemblare il vostro panino. 10. Lavate e asciugate alcune foglie di insalata gentile. 11. Procedete al taglio del pata asada, a fette da circa mezzo centimetro di spessore. 12. Scaldate i panini e apriteli a libro. 13. Oliate e salate alcune foglie di insalata gentile in un contenitore e disponetele sulla base del panino. 14. Coprite le foglie di insalata, con le fette di ananas caramellata. 15. Sovrapponete all’ananas le fette di pata asada.
17. Infine sbriciolate alcuni pezzetti di formaggio Stilton sopra la carne e chiudete il panino.
Anche questo viaggio si conclude con una bella scorpacciata fra amici.
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16. Insaporite la carne con qualche cucchiaino di mojo verde.
I S O L E C AY M A N
TATAKI DI TONNO
AL SESAMO CON LIME PEPPER SEASONING
150- Almanacco 2020
Anche a Jack Sparrow piace questo elemento.
Viaggio intorno alla cucina - ricette a cura di Michela Bongiorni
Tornando al motivo per cui siamo qui, cioè la ricetta, abbiamo scelto di presentarvi un tataki di tonno al sesamo aromatizzato con i sapori caratteristici proprio dei Caraibi e delle Cayman: lime pepper seasoning. Per quello che riguarda la materia prima, abbiamo usato dei cubi di tonno Pinna Gialla cotti con la tecnica tataki, ovvero solo premarinato e poi scottato velocemente all'esterno. Il famoso mouse ring che tanto odiate nelle bistecche qui è obbligatorio: dentro il tonno deve rimanere crudo e freddo, perché le diverse temperature al morso si devono sentire. Il lime pepper seasoning è qualcosa che vi creerà dipendenza. In fondo è un condimento molto semplice, a base di lime essiccato, sale e pepe: ma è un’esplosione vera e propria per il vostro palato. Non ne potrete fare a meno: vi basti sapere che durante lo shooting lo abbiamo messo ovunque, anche sui pomodori verdi fritti dello scorso numero. Jack Sparrow (ma lui mi direbbe “Capitan Jack Sparrow, se permettete!”) da buon pirata ucciderebbe per questo piatto che rispetta le molte anime delle Cayman: quella raffinata e ricercata della cucina per i ricchi imprenditori che bazzicano da queste parti, quella fusion che nasce come conseguenza (un posto così turistico e frequentato ormai da tutto il mondo deve per forza fondere i diversi sapori e le tecniche di cottura, per accontentare un po’ tutti) e quella caraibica che torna con forza nei sapori brillanti, speziati e essenziali del condimento. Non ci resta che levare l’àncora e salpare per le acque cristalline del Mar dei Caraibi, in fretta e senza pensarci troppo, perché ricordate il Codice dei Pirati: ogni uomo che rimane indietro, indietro viene lasciato.
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PROCEDIMENTO In un recipiente, mettete gli ingredienti della marinata e emulsionateli fino a ottenere un liquido omo gene o: immergete il tonno nella marinata e lasciatelo in frigo per un’oretta. Nel frattempo pelate i lime con un pelapatate e mettete le bucce ad essiccare in forno a circa 60°C. Una volta essiccate tritatele finemente, poi unitele al sale e al pepe, amalgamando bene il tutto. Una volta trascorso il tempo necessario, togliete il tonno dalla marinatura, spennellatelo con un velo di senape e passatelo nei semi di sesamo facendoli aderire bene. Cuocete il tonno su una piastra rovente per pochissimi minuti: dovrà essere dorato fuori e crudo dentro. Servite il tonno tagliandolo a fettine di un cm, condendolo con un filo d’olio extravergine di oliva e il lime pepper seasoning.
INGREDIENTI per 4 persone 2 tranci da circa 200 g l’uno di Tonno Pinne Gialle un velo di senape semi di sesamo q.b.
per la marinata: il succo di un lime 2 cucchiai di olio extra vergine di oliva un cucchiaino di senape un cucchiaino di salsa di soia
per il condimento: 4 lime ben lavati due cucchiaini di sale due cucchiaini di pepe
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Non è solo il paradiso fiscale per cui tutti maggiormente lo conoscono: il territorio d’oltremare del Regno Unito è anche un incantevole posto ricco di biodiversità. Tartarughe, pappagalli, orchidee, farfalle, fondali spettacolari e barriera corallina: sono tantissime le attrattive che offrono le Cayman. Il Queen Elizabeth II Botanic Park, ad esempio, ospita trecento specie native ed è uno spettacolo da maggio a giugno, quando fioriscono le orchidee. Il National Trust Parrot Reserve è il luogo in cui nidifica il pappagallo verde smeraldo: qui si possono fare escursioni guidate. La meta per le immersioni più famosa è un cacciatorpediniere russo, che si sta popolando come una scogliera artificiale, affondato apposta nel 1996 per dare l'opportunità a chi fa immersioni di fare un giro di ricognizione in un relitto. Già, perché non può mancare, nell’immaginario comune, l’idea che sui fondali del Mar dei Caraibi ci siano navi affondate cariche di tesori nascosti. D’altronde, nel XXII secolo queste isole erano un rifugio di pirati: la leggenda vuole che il pirata Barbarossa abbia nascosto sull’isola di Cayman Brec il suo tesoro, così bene, ma così bene, che da allora nessuno è più riuscito a trovarlo. Ogni anno a novembre viene organizzato il Pirates Week Festival una specie di carnevale a tema, che permette anche agli adulti il piacere di travestirsi da feroci banditi dei mari che si nascondevano in queste isole. Immaginate l’esercito di Jack Sparrow che si muove per le strade e sulle spiagge del luogo. Magari non altrettanto irriverenti, sconclusionati e irresistibili come l’originale, ma vabbè, ci accontentiamo.
SICILIA
Rotondo, supremo, celestiale
GELO DI MELLÓNE
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Il gelo di mellone (abbiamo rubato dei versi a Neruda per descriverlo nel titolo) è una specialità dell’antica pasticceria siciliana, in particolar modo di Palermo dove è stato incoronato dolce ufficiale del Festino di Santa Rosalia (15 luglio), la celebrazione in onore della patrona della città. Nel restante territorio siculo è legato alla festa dell’Assunta, ovvero a Ferragosto. Sull’isola è presente una ricca e florida produzione d’anguria, favorita dal clima caldo e temperato, quindi non è necessario programmare una vacanza intorno a questi due eventi per poter gustare questa leccornia. Infatti, non è una cosa insolita trovare ai bordi delle strade (da aprile fino ad ottobre) carretti o camioncini strabordanti di cocomeri pronti per essere venduti interi o a fette per una pausa dalla calura isolana. Contrariamente a quello che potete pensare, tratti in inganno dal nome il gelo di mellóne è realizzato generalmente con l’anguria, infatti nel dialetto siciliano il termine mellóne lett. significa cocomero (pare derivi dal francese melon d’eau, ovvero melone d’acqua). Questa cucurbitacea dai colori intensi- il verde esterno, il rosso della polpa incorniciato dal bianco brillante della buccia e costellato da semi neri- dal sapore zuccherino , estremamente dissetante e nutriente è nota e apprezzata dall’uomo da quasi 5000 anni. Le prime testimonianze risalgono all’antico Egitto, dove era considerato una pianta sacra perché il popolo credeva fosse nata da un seme di Seth, il dio della malafede e della violenza che si manifestava sotto forma di tuoni e di burrasche. Perciò questo frutto, per la sua sacralità e per le sue proprietà nutritive e dissetanti, faceva parte del corredo alimentare con cui erano allestite le tombe dei faraoni (gli egiziani credevano che dopo
la morte esistesse un’altra vita fatta degli stessi bisogni di quella terrena). Sembra che gli ebrei, durante il lungo peregrinare nel deserto del Sinai alla ricerca della “Terra promessa” rimpiangessero la dolce frescura del cocomero conosciuto durante la schiavitù in Egitto. A portare l’anguria in Europa ed in Italia furono nel XII secolo gli arabi durante la loro opera di conquista e di espansione. Certamente, in Sicilia la pianta ha trovato un clima favorevole per crescere e proliferare, tanto da diventare un alimento fondamentale nella dieta sicula. Le origini del gelo sono incerte: c’è chi ne attribuisce la paternità agli ottomani poiché portarono sull’isola non solo il frutto, ma anche tutti gli ingredienti per realizzare il dolce, mentre c’è chi la riconduce agli arbëreshë , gli albanesi, che tra il XV e il XVII secolo per sfuggire all’avanzata degli ottomani lasciarono la madre patria per cercare rifugio in Europa ed in Italia (Puglia, Campania e Sicilia). Il loro grande desiderio di integrazione avrebbe portato alla fusione di una tipica preparazione balcana a base di anguria (dove la pianta era già conosciuta ed apprezzata) con gli ingredienti presenti sul luogo. Ad avvalorare questa tesi è il fatto oggettivo che i nuovi abitanti si stabilirono nell’attuale Piana degli Albanesi nei pressi di Palermo e che il gelo sia originario proprio di quelle zone. Ma nello specifico, che cosa è? A differenza di ciò che suggerisce il nome non è un alimento ghiacciato, è un dolce al cucchiaio che ricorda nella sua freschezza il gelato, però non ha una consistenza cremosa bensì gelatinosa e la sua preparazione è
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molto più rapida e semplice. Basta far sobbollire il succo dell’anguria con amido di mais e zucchero, come se stessimo preparando una crema; quando raggiunge il grado di densità desiderata il composto viene suddiviso in pirottini di acciaio, di alluminio o di silicone (in origine erano di coccio) e fatto freddare. Il sapore di questa preparazione può essere arricchito con diversi ingredienti, il cioccolato, la cannella, i chiodi di garofano, i pistacchi (rigorosamente di Bronte), il gelsomino (se parlerete con un amico siciiano, e ne abbiamo in redazione a cominciare dal boss, vi dirà che senza gelsomino non è omologabile) e i canditi; inoltre a volte possiamo trovarlo decorato con il tipico ornamento della cassata: la zuccata ( zucca candita). Ma tutto ciò dipende molto dalla tradizione familiare. Se siete pronti a cucinare, questa è la nostra ricetta.
PROCEDIMENTO 1. Tagliate grossolanamente la polpa del cocomero, avendo cura di togliere tutti i semi, e frullatela con il mixer ad immersione. 2. Per eliminare la polpa in eccesso, versatela in un colino a maglie strette. In questo modo eliminerete anche i semi che vi sono sfuggiti nel passaggio precedente. 3. Versate il succo in un pentolino e aggiungete l’amido e lo zucchero. Ogni volta che unite un ingrediente mescolate bene con la frusta per evitare la formazione di grumi. 4. Ponete la pentola sul fuoco medio basso, continuando sempre a girare il composto prima con una frusta e poi con un cucchiaio. 5. Quando arriva al bollore, abbassate la fiamma al minimo e lasciatelo andare per due minuti circa, sempre continuando a mescolare. Controllate che abbia raggiunto almeno i 75°C. 6. Fatelo intiepidire leggermente e poi versate all’interno le gocce di cioccolato, l’essenza di gelsomino e la cannella, avendo cura di mescolare perché si distribuiscano in modo omogeneo.
INGREDIENTI per 6 persone 400 ml di succo di cocomero 30 g di amido di mais 40 g di zucchero di canna 50 g di gocce di cioccolato fondente 40 g di pistacchio tritato 154- Almanacco 2020
una goccia di essenza di gelsomino un cucchiaino raso di cannella
7. Suddividete il liquido nei pirottini e lasciate riposare in frigo per almeno 8 ore. 8. Sformate il gelo direttamente sul piattino in cui verrà servito, dopodiché decoratelo a vostro gusto con le gocce di cioccolato e la granella di pistacchi.
L'Arte Bianca - rubrica a cura di Alessandro Trezzi
L'irresistibile
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sfipalermi ncionetano
L'ARTE BIANCA - RUBRICA a cura di ALESSANDRO TREZZI
In cosa si distingue un vero appassionato di cucina? Oltre ad essere ossessionato nella perfetta realizzazione dei piatti, il vero nerd tende a studiare e a conoscere i retroscena storici e culturali del prodotto di riferimento, una pratica importantissima e imprescindibile per questa grande arte: sapere come è nata e si è evoluta una qualsiasi preparazione è fondamentale per meglio comprendere come essa possa crescere e fin dove possa arrivare. Io sono di Milano, città non certo conosciuta per la sua pizza, e che tuttavia ha nella sua tradizione un golosissimo baluardo dei pranzi lavorativi e universitari: il trancio- un materassone alto, morbido, farcito con un’abbondante dose di pomodoro, mozzarella, origano e del buon olio- è colpevole di riportarmi alla mente le merende dal panettiere o le veloci pause pranzo sin dai tempi dell’Università. Ma come ha fatto un prodotto così distante dalla cultura meneghina a giungere in questa terra? Sebbene abbia chiare assonanze con la pizza da panificio, è innegabile che la diffusione del trancio nel milanese abbia origini ben precise, come spesso raccontato dalla famiglia Innocenti, fondatori di Spontini. Gli anni ‘50 e ‘60 sono per l’Italia quelli della ricostruzione e del boom economico, ed è Milano a prenderne le redini, causando una massiccia immigrazione da tutto il paese. Tra i tanti, arrivano nella grande città i progenitori degli Innocenti, toscani di origine e proprietari di osterie e trattorie. È proprio uno di loro ad aver portato (prima in Toscana negli anni a cavallo tra le due guerre e poi a Milano dopo la seconda) la pizza al taglio, una rivisitazione di una specialità scoperta durante uno dei suoi viaggi in Sicilia. Esatto, l’antenato del trancio milanese è proprio lo Sfincione, ricetta palermitana legata alle feste natalizie, quando per l’occasione si “vestiva a festa” il semplice impasto del pane.
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Dal latino spongia e dal greco spòngos, ossia spugna, è una pizza alta, morbida, farcita con una salsa a base di pomodoro e cipolla, acciughe, origano e caciocavallo ragusano. Il toscano lo scopre, se ne innamora, e di ritorno a casa lo ripropone senza i sapori forti inadatti per i gusti locali, ci aggiunge la mozzarella e la vende al taglio. Ed è proprio questo uno degli aspetti più belli della cultura panificatoria del nostro paese: ovunque si vada è possibile trovare somiglianze stupende tra pizze, focacce e forme di pane, che pur presentando nomi differenti riportano aspetti comuni evidenti nella forma e nel processo di realizzazione.
Ma Milano non è certo l’unica ad aver subito l’influenza di questo classico della tradizione isolana. In America (specialmente negli stati nel Nord-Est del continente) esiste una celeberrima tipologia di pizza denominata Sycilian Style che ricalca gli stessi dogmi dello sfincione: soffice, alta, croccante alla base, cotta in teglia e farcita con abbondante pomodoro.
LA STORIA Il classico sfincione nasce nel cuore di Palermo, con tutta probabilità nel Convento di San Vito, tra il mercato del Capo, la via Cappuccini e Piazza Indipendenza. L’esigenza primaria era quella propria di qualsiasi panificato condito della tradizione povera: preparare una sorta di pane saporito per le festività, poi sdoganato in epoca recente in tutti i mesi dell’anno. Esiste anche una variante bianca, specialità di Bagheria, tipicamente di forma tonda, e preparata con acciughe, tuma a fette (un formaggio siciliano a latte crudo di pecora), pangrattato, pecorino grattugiato, cipolla, sale e olio extravergine di oliva. La storia dei due gemelli è profondamente correlata. Nel 1650 il principe Giuseppe Branciforte di Butera, dopo il fallimento del complotto contro la Corona per ottenere il distacco della Sicilia dalla Spagna, decise di ritirarsi nei propri possedimenti vicino Palermo, facendosi costruire un imponente palazzo fortificato attorno al quale si sviluppò, negli anni successivi, l’odierna Bagheria.
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Nella corte di servitori del principe militavano i Monsù, i cuochi a servizio delle famiglie aristocratiche siciliane, i quali erano soliti riprodurre la ricetta dello sfincione creata dalle monache del monastero di San Vito per la famiglia Branciforte. Si trattava di una rivisitazione di una ricetta araba o forse greca, e prevedeva l’utilizzo di besciamella, frattaglie di pollo e piselli. A Bagheria i cuochi del Principe decisero di re-inventarlo utilizzando le materie prime del territorio, sostituendo la besciamella con la tuma prodotta dai caseari del posto. Dopo la seconda guerra mondiale il prezzo del pomodoro si abbassò notevolmente, diventando accessibile al popolo. È proprio in questo periodo che dallo sfincione vengono eliminati quasi tutti gli altri ingredienti: nasce così la celebre variante rossa dello sfincione palermitano, un cibo di strada acquistato tra i vicoli e nei mercati. Nella tradizione popolare bagherese, invece, le famiglie portavano nei forni del quartiere i propri ingredienti per creare la propria versione con l’aiuto del maestro sfincionaro.
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LO SFINCIONE PERFETTO Facciamo insieme un gioco, vi va? Creiamo nella nostra mente l’immagine chiara e nitida dello sfincione perfetto. Una pizza alta, morbida, spugnosa, farcita di tutto punto. Una bomba di sapori in rapida successione, dalla cremosità della salsa di pomodoro e cipolle, al gusto intenso dei formaggi e dell’olio, al balsamico dell’origano, fino ad arrivare al kick sapido finale dell’acciuga, il tutto racchiuso dalla doppia crosta croccante della base e del pangrattato che ben si contrappone all’estrema morbidezza della mollica. Voi non avete idea del carattere estremamente pornografico di questa teglia. E ora che avete ben chiaro il risultato da raggiungere, che ne dite di dare un occhio ai segreti del capolavoro siciliano?
Prima di iniziare precisiamo come sempre: non si tratta della ricetta iscritta all’albo, né di quella di vostra nonna. Ciò che vedrete è un processo scientifico, atto a conferirvi le capacità per creare uno sfincione perfetto sotto ogni punto di vista, standardizzabile, ripetibile e che rispetti le caratteristiche tecniche che ne definiscono la tipologia. Tutto chiaro? Perfetto, cominciamo. IL MIX DI FARINE La Sicilia, come quasi tutto il Sud, è una terra dove l’utilizzo del grano duro trova ampio respiro, e lo sfincione non fa eccezione. Il colore del grano duro tende al giallo per la presenza di carotenoidi; il glutine, corto e stretto, consente una maglia glutinica fitta e resistente, con alveoli piccoli e uniformemente distribuiti. In genere è in grado di assorbire e di trattenere maggiori quantità d’acqua (60-68% contro i 50-60% del grano tenero) e ha una resa più elevata. Di contro, è meno stabile e più tenace, ragione per cui, con l’obiettivo di rendere le ore di riposo più equilibrate e soggette a minor rischio di collasso, oltre a spezzare la resistenza già citata, esso s’impiega spesso insieme a quello tenero. E guarda un po’, è proprio quello che faremo noi oggi. Al fine di ottenere una struttura quanto più possibile aperta, ma morbida e spugnosa, ci atterremo su una
LA RICETTA
percentuale del 70% di grano tenero e del 30% di semola rimacinata di grano duro.
L’impasto come sempre riveste un ruolo fondamentale: considerando il peso e la generosità della farcitura, è importantissimo che la struttura possa sostenere il grosso carico richiesto, motivo per cui non esageriamo con l’innesto di grano duro e preferiamo conservare una buona base di grano tenero che dia struttura ed espansione.
INGREDIENTI per 2 teglie 30x40cm
per l'impasto 700 g di farina 00 (300 W); 300 g di semola o di sfarinato di grano duro 600 g acqua 50 g olio extravergine di oliva 15 g lievito di birra fresco 25 g malto d’orzo in sciroppo o 5 g di malto diastasico in polvere 25 g sale fino
per la salsa: 800 g di pomodori pelati 1 cipolla bianca grande 4 acciughe sale fino pepe nero origano olio extravergine di oliva q.b.
per la farcitura 300 g di caciocavallo semi-stagionato 40 g di acciughe
IMPASTAMENTO Cominciate sciogliendo lievito e malto nell’acqua e aggiungete il tutto al mix di farine precedentemente mescolate tra loro. Verso la fine mettete il sale e solo all’ultimo l’olio, poco a poco e a filo, perché il peso potrebbe compromettere la formazione della maglia glutinica rovinando il lavoro svolto. PUNTATA Una volta ottenuta la massa liscia e asciutta, posizionatela in un contenitore stretto dai bordi alti chiuso ermeticamente e lasciatela puntare per circa mezz’ora a temperatura ambiente, coprendo con un panno umido per evitare la formazione della pelle.
origano a piacere caciocavallo semi-stagionato grattugiato a piacere pangrattato olio extravergine di oliva.
STAGLIO E APPRETTO Ricavate due pagnotte di egual peso da sistemare in altrettanti contenitori ben oliati, per poi riporre tutto in frigorifero a circa 6°C per 18 ore. STESURA Al termine di questa fase l’impasto sarà quasi triplicato; ungete due teglie di alluminio e rovesciateci i panetti.
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IL MAGICO TOPPING Non ve lo nascondo: la farcitura dello sfincione è tra le cose più goliardiche e pornografiche che mi sia mai capitato di assaggiare in vita mia. Il segreto sta nel preparare una salsa di pomodoro e nel calibrarne attentamente la cottura, al fine di ottenere un semilavorato che non sia né troppo liquido ma nemmeno troppo denso. Dovranno concentrarsi insieme tutti i sapori utilizzati, al fine di creare una verticale che esploderà in bocca rendendo l’esperienza appagante e dall’altissimo livello sensoriale. E lì, sotto a quella copertura di pomodoro, si nascondono le piccole gioie: cubetti di caciocavallo semi-stagionato che in alternanza con l’acciuga riempiono di sorpresa il morso dell’incurante assaggiatore, che non può non innamorarsi del cavallo di razza siciliano. Ve lo assicuro: se ben fatto, questo sfizioso prodotto è amato da chi generalmente non apprezza la cipolla, e ciò significa parecchio.
La preparazione dello sfincione palermitano si svolge in otto fasi distinte: 1. Impastamento; 2. Puntata o prima lievitazione; 3. Staglio o formatura dei panetti; 4. A p p r e t t o o s e c o n d a lievitazione; 5. Stesura 6.Terza lievitazione in teglia; 7. Preparazione della salsa e farcitura; 8. Cottura;
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L’alluminio è in assoluto il materiale che più si presta allo scopo perché, a causa della conduzione uniforme del calore e dello spessore più elevato, evita che la base diventi croccante prima del tempo e consente alla lunga cottura di risultare il più equilibrata possibile. Appiattite i panetti leggermente con il palmo della mano e poi stendeteli uniformemente con il mattarello, per ottenere uno strato omogeneo e privo di gas della prima lievitazione; così facendo il vostro magico sfincione sarà uniforme in tutta la sezione anche durante la crescita successiva. TERZA LIEVITAZIONE IN TEGLIA Completata la stesura, lasciate lievitare per circa 90 minuti in un ambiente caldo, preferibilmente a 28-30 °C. Se non possedete una cella non preoccupatevi, significa semplicemente che la vostra malattia da nerd non è ancora giunta al culmine; in questo caso andrà benissimo il vostro forno spento con la luce accesa. PREPARAZIONE DELLA SALSA E FARCITURA Tritate la cipolla e cuocetela a fuoco lento in un tegame insieme a un filo d’olio e alle acciughe ridotte a filetto; dovrà appassire quasi del tutto, risultando molto morbida e cremosa. A questo punto aggiungete i pomodori pelati frantumati a mano, aggiustate di sale e di pepe e lasciate cuocere per circa 30 minuti a fuoco minimo, evitando di far ridurre eccessivamente il tutto. Una volta raffreddata la salsa, aggiungete abbondante origano e preparatevi a usarla per la farcitura.
croccante al pari della parte superiore. Se doveste invece avere a disposizione un forno elettrico professionale, ormai ampiamente diffusi anche in casa, preriscaldate sempre a 270°C, utilizzando però il 100% della potenza della platea (il piano inferiore) e solo il 30% di potenza del cielo (la parte superiore), più che sufficiente per una doratura uniforme. Dopo circa 15-20 minuti tirate fuori lo sfincione quando il fondo sarà ben bruno e spolverate una generosa dose di caciocavallo grattugiato, pangrattato e origano. Prestate particolare attenzione che il vostro pangrattato sia ben tostato, in caso contrario fategli fare un passaggio in forno; senza tale accortezza, il pane si ammollerà con il calore dello sfincione facendovi perdere l’effetto croccante voluto. Una volta che il formaggio sarà sciolto, sfornate e lasciate raffreddare su una griglia rialzata per evitare che la condensa rovini la friabilità della base, e irrorate con un ultimo filo di olio extra vergine, in modo che il calore faccia sprigionare tutti i profumi. As usual, una piccola aggiunta di origano non fa male a nessuno, anzi. Tagliate, servite e godete, poi penserete a ringraziarmi.
COTTURA Nel caso utilizziate un classico forno casalingo, preriscaldate il forno a 250 °C e, per agevolare la cottura del fondo, posizionate la teglia sul pavimento nella prima fase per rendere la base
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Non appena lo sfincione sarà lievitato, alternate cubetti di caciocavallo e pezzettini di acciuga, spingendoli per bene nell’impasto per evitare di farli bruciare in cottura. Versate poi la salsa e uniformatela aiutandovi con le mani, bordi compresi. Un giro d’olio abbondante e siete pronti per infornare.
L'Arte Casearia - rubrica a cura di Giovanni Minelli
Crescenza, stracchino,
tu chiamalo, se vuoi,
SQUACQUERONE
Fa talmente caldo che quasi quasi rinunceremmo anche alla griglia… vabbè, non esageriamo. Però ci va qualcosa di fresco, quindi stavolta vi insegno a preparare un formaggio da consumare al volo, senza lunga maturazione in cantina, facile da fare e gustosissimo. Dopo due giorni, passati in frigorifero, sarà pronto per essere gustato e soddisfare ogni fantasia
Facciamo uno stracchino, delicato e spalmabile. Sento già nell’aria il sibilo degli strali che starete lanciando. Ogni volta che si parla di stracchini, un casaro in Lombardia muore. Vi spiego perché, così ragioniamo un po’ sui riferimenti culturali da tenere presenti.
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Più o meno in tutta Italia, per stracchino intendiamo un formaggio freschissimo, spalmabile, senza nervo, dolce e leggermente acido, dal gusto decisamente lattico, non troppo complesso, comunque buonissimo. La sua cremosità, la sua delicatezza lo rendono “spendibile” in innumerevoli preparazioni: da solo per un semplice spuntino o come ingrediente di ricette complesse. Versatilità e fantasia di chi cucina lo rendono un elemento di tutto rispetto, anche quando si cerca di sfruttarlo solo per le sue qualità tecnologiche, cioè fondere e avvolgere il palato, conferire grassezza e cremosità. Se sei nato in Lombardia, invece, gli stracchini sono sempre paste molli, ma assumono tutta un’altra forma, un’altra complessità anche in base alla provincia. Per capirci, tra quelli tradizionali lombardi abbiamo il taleggio, il quartirolo, lo strachitunt e il gorgonzola, solo per citarne alcuni tra i più celebri e particolari o che comunque si discostano maggiormente dalla crescenza, sempre lombarda ma più simile all’idea di stracchino che abbiamo nelle altre zone del Paese. Non sto dicendo che uno è migliore dell’altro, ma che ci sono differenze sostanziali e che, in base alla zona d’origine, ci viene in mente qualcosa di diverso quando utilizziamo questo termine. Vi dico la verità, nell’immaginare per voi questo
formaggio ho cercato ispirazione nel processo produttivo di un celebre stracchino romagnolo, lo Squacquerone. Ed ecco che altri connazionali staranno ordinando una bambolina vudù. Lo Squacquerone è una cosa seria e va trattata con tutto il riguardo del caso. Se pensiamo a tutti i prodotti tipici della zona, forse non ce n’è uno più evocativo dei questo, magari in una Piadina Romagnola. Si tratta di una DOP, quindi ha un disciplinare di produzione e degli organi di tutela. Ho tenuto il processo produttivo di questo come linea guida che mi desse una base di partenza sulla quale ragionare, poi l’ho pasticciato un po’ per renderlo semplice e applicabile alla realtà domestica. Il risultato finale, sia per facilità, sia per tempi di realizzazione molto contenuti, oltre che per la versatilità in cucina e per il gusto, vi darà tanta di quella soddisfazione che non so, se poi, avrete voglia di fare altro. Come al solito, per capire come raggiungere un obiettivo bisogna averlo chiaro in testa: vogliamo ottenere un formaggio a pasta molle (vuol dire che il suo contenuto in acqua è maggiore del 45%), senza crosta e che si possa spalmare. Gusto dolce, lievemente acidulo, non amaro - in caso sarebbe da considerare un difetto- con profumi e aromi riconducibili al latte fresco, al burro e allo yogurt. Per raggiungere tutto ciò la parola d’ordine è proteolisi, che dopo approfondiremo nel dettaglio. Siccome ho anche promesso che sarà facile, come fermento starter utilizzeremo dello yogurt bianco, intero, al naturale. Questa volta sono costretto a fare nome e cognome di chi lavora col favore delle tenebre, mi riferisco allo Streptococcus thermophilus, batterio lattico omofermentante termofilo che troviamo proprio nello yogurt. Adotteremo anche una nuova tecnica di salatura; abbiamo già visto quella in pasta e quella in salamoia, ora aggiungeremo sale direttamente al latte in caldaia. Si tratta di una tecnica abbastanza moderna per il nostro paese, dove tradizionalmente si procede o con la salamoia o con la salatura a secco (cospargere di sale le facce del formaggio) ma ormai è largamente utilizzata proprio in questa tipologia di prodotti, perché è molto pratica e ci aiuta a limitare le fermentazioni in fase di stufatura.
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Andiamo con gli ingredienti, ve li metto in ordine di comparizione: • 10 l di latte intero, fresco pastorizzato o crudo da distributore automatico; • yogurt, 200 grammi; • sale, 80 grammi; • caglio liquido di vitello, 5 ml, 1:10000.
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Gli strumenti: • solita pentola abbastanza capiente per i 10 litri; • termometro; • coltello (io utilizzo anche una spatola perché è comoda e ce l’ho, ma basta il coltello); • fuscelle in quantità sufficiente più una • schiumarola; • pHmetro o delle cartine tornasole; • siringa per dosare il caglio.
Cosa vuol dire “fuscelle in quantità sufficiente più una”? Ve lo spiego al volo: da questa preparazione ho estratto tutta la cagliata per metterla nelle forme, e ne ho riempite 4 da 700 grammi. Col tempo il formaggio perderà acqua e volume, quindi la resa finale sarà comunque più bassa, ma inizial-
mente le forme dovranno essere colmate. “Più una” perché, soprattutto durante il primo rivoltamento, la consistenza della pasta sarà molto delicata, dunque sopra la fuscella col formaggio ne metto un’altra vuota, sottosopra, e le giro insieme. Latte in caldaia e cominciamo ad innalzare la temperatura, aggiungiamo lo yogurt, mescoliamo e continuiamo a scaldare fino a raggiungere i 38°C. Dopo una sosta di appena 10 minuti, aggiungiamo il sale e mescoliamo fin quando non sentiamo che si è disciolto completamente (ne sentiremo la presenza sul fondo della pentola). Controlliamo la temperatura, se eventualmente si fosse abbassata, ma ne dubito, la riportiamo a 38°C e aggiungiamo il caglio liquido disciolto nei soliti 50 ml d’acqua tiepida, mescoliamo per un minuto. Già dopo 10
minuti circa potremo vedere la cagliata che comincia a formarsi. Passati venti minuti sarà il momento di procedere col taglio: come al solito facciamo una scacchiera in verticale e procediamo con dei tagli orizzontali, l’obiettivo è creare dei cubi grandi come una noce. Ora, nel giro di un minuto la cagliata tenderà a scendere e a sedimentarsi sul fondo e noi la lasciamo così. Do delle tempistiche indicative, io ce l’ho lasciata per 40 minuti, ma è un tempo variabile in funzione anche della temperatura esterna, dunque
Dopo circa 20 minuti dall’inizio della stufatura dovrebbe essere possibile effettuare il primo rivoltamento: procediamo come raccontavo prima. Al termine della stufatura piazziamo tutto in frigo a 4°C. Dopo mezz’ora rivoltiamo di nuovo e ancora dopo un’ora.
A questo punto cominciamo a mescolare, molto delicatamente per non spappolare la massa, per circa 10 minuti, fino al raggiungimento di pH 6. Ora con la schiumarola preleviamo la cagliata e la trasferiamo nelle fuscelle, le colmiamo oltre il limite. Una volta estratta e messa nelle fuscelle, piazziamo questa ultime a stufare in ambiente umido per 30 minuti, dentro al forno chiuso andrà bene.
Il nome, proteolisi, già ci dice che riguarda proteine e lisi, intesa come dissoluzione: proprio di questo si tratta. Ora sicuramente ci sarà qualcuno più
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il nostro obiettivo sarà raggiungere un pH di 6,2.
Lasciando il formaggio refrigerato e in forma per 24 ore prenderà una consistenza più robusta, che non ci darebbe la sensazione di un formaggio spalmabile; in effetti se lo andassimo a tagliare in questo momento rimarremmo delusi perché non sarebbe maturo e avremmo fatto una gran fatica per nulla. La magia deve ancora avvenire. Va bene, non è magia lo sappiamo, sono processi proteolitici che comportano delle modificazioni a livello chimico e fisico al formaggio, andando ad agire sia sugli aromi sia sulla struttura della pasta. Avvengono in tutti i formaggi. Ma adesso facciamo un piccolo approfondimento per capire meglio di cosa si tratti.
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fresco di studi, che si ricorderà già bene tutto, per gli altri facciamo un ripasso veloce: vi dice nulla legame peptidico? Le proteine sono molecole molto grandi formate da una catena di amminoacidi uniti tra loro, appunto, da legami peptidici (tra il gruppo amminico di un amminoacido ed il gruppo carbossilico di un altro). La rottura di questi legami è quello che ci interessa e a farlo per noi ci sono altre proteine “lavoratrici”, le conosciamo come enzimi, che sono catalizzatori della reazione. Ora questi enzimi in parte derivano dalle colture starter che utilizziamo, in parte sono naturalmente presenti nel latte, in parte dal caglio. Ne avevamo già parlato nel gruppo Gastronomica-Mente: il caglio è un complesso di due enzimi, chimosina e pepsina, quest’ultima, se presente in maggior concentrazione, renderà più rapida la proteolisi (prometto che approfondirò la questione caglio in uno dei futuri numeri del Magazine). Ora tutti questi enzimi che chiamiamo proteasi tagliano il legame peptidico in alcuni tratti della proteina, quindi avremo dei peptidi che per effetto di altri enzimi (peptidasi) ci daranno gli amminoacidi liberi da ogni legame. Quindi a maturazione raggiunta, la degradazione delle proteine ci darà il cambio di struttura del formaggio, mentre la degradazione degli amminoacidi, ad opera dei batteri lattici, ci darà la complessità aromatica. Come sempre, umidità e temperature sono nostre alleate; per favorire la proteolisi in tempi brevi abbiamo bisogno di alta umidità e “alta” temperatura, quindi diciamo che in frigorifero può stare al massimo intorno ai 6°C. Torniamo a dove abbiamo lasciato il nostro stracchino. Era in frigorifero e in forma da 24 ore. A questo punto lo togliamo dalla fuscella e lo rimettiamo al fresco. In altre 24 ore la pasta avrà cominciato a cedere e a diventare cremosa: obiettivo raggiunto. Come si vede dalla foto, la forma di stracchino comincia a cedere e collassare su
se stessa, quindi ci dà un’idea della cremosità che sentiremo in bocca: in questo caso “brutto” è buono. Ricapitoliamo tutto il processo, solito sistema: 00:00 il latte in caldaia, già addizionato dello yogurt viene portato a 38°C e viene lasciato riposare; 00:10 aggiunta del sale, mescoliamo e aggiungiamo del caglio continuando a mescolare per 1 minuto; 00:30 caglio della cagliata della grandezza di una noce; 01:10 circa – abbiamo raggiunto pH 6,2 quindi cominciamo a mescolare delicatamente; 01:20 circa – abbiamo raggiunto pH 6, mettiamo la cagliata nelle fuscelle; 01:25 mettiamo in stufatura i formaggi nel forno spento; 01:45 primo rivoltamento; 01:55 fine della stufatura, mettiamo il formaggio in frigorifero; 02:15 secondo rivoltamento; 03:15 terzo rivoltamento; 27:00 rimuoviamo il formaggio dalle fuscelle e lo teniamo in frigorifero; 51:00 stracchini pronti per il consumo. Avendo a disposizione quattro forme, mi sono divertito a tenerle in condizioni differenti così da mostrarvi le varie possibilità che abbiamo. Due stracchini li ho lasciati in forma oltre le prime 24 ore, e avendo le pareti delle fuscelle come contenitore sono collassati di meno su loro stessi, ma hanno continuato a perdere acqua, assumendo una consistenza più pastosa. Seguendo la ricetta con 10 litri di latte, nulla vi vieta di fare questa prova e capire quale delle due maturazioni è più interessante per voi. Io preferisco la prima, ma ad esempio la fotografa si è innamorata della seconda. Nel dubbio mettetevi all’opera, provate e paragonate, vorrei sapere la vostra e poi dai, è troppo facile per non tentare.
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Le razze - rubrica a cura di Roberto Dal Bosco
LA COMPAGNIA DELL'
AGNELLO Agnus Dei è un espressione latina dei Vangeli: l’Agnello di Dio è Gesù Cristo, vittima sacrificale che redime i peccati dell’intera umanità. Sta scritto nel Nuovo Testamento: «Ecce Agnus Dei, ecce qui tollit peccata mundi». È il versetto ripetuto ad ogni messa cattolica. «Ecco l’agnello di Dio, ecco colui che prende su di sé il peccato del mondo» (Vangelo secondo Giovanni 12, 1). Nei secoli questo animale è stato quindi raffigurato come felice e vittorioso: sulle pareti e sulle vetrate di chiese e cattedrali si spreca la figura dell’agnello che porta una croce o un vessillo crociato, tenuto quasi sempre con la zampa destra. Anche nell’araldica, lo vediamo spesso con l’aureola, e quindi viene detto «agnello nimbato». Questo segno potente lo ritroviamo nello stemma del Canton Argovia (Svizzera del Nord) o del Comune di Bressanone. Oltre al cristianesimo, anche l’ebraismo ha l’agnello nelle sue scritture: nell’Antico
Testamento, in particolare nel libro dell’Esodo al capitolo 12, si parla dell’Agnello Pasquale, sacrificato in memoria della liberazione del popolo di Israele dalla schiavitù d’Egitto. È Iddio stesso a spiegare come va celebrato il pasto sacro, e dettagliatamente. «Il dieci di questo mese ciascuno si procuri un agnello per famiglia, un agnello per casa. Se la famiglia fosse troppo piccola per consumare un agnello, si assocerà al suo vicino, al più prossimo della casa, secondo il numero delle persone; calcolerete come dovrà essere l’agnello, secondo quanto ciascuno può mangiarne. Il vostro agnello sia senza difetto, maschio, nato nell’anno; potrete sceglierlo tra le pecore o tra le capre» (Esodo 12, 3-5) «In quella notte ne mangeranno la carne arrostita al fuoco; la mangeranno con azzimi e con erbe amare. Non lo mangerete crudo, né bollito nell’acqua, ma solo arrostito al fuoco con la testa, le gambe e le viscere» (Esodo 12, 8-9). Nell’Islam, viene tradizionalmente sacrificato durante le feste di Eid, in commemorazione del sacrificio di Abramo (Eid al-Adha), o per celebrare la fine del mese di digiuno, il Ramadan (Eid el-Fitr). Tuttavia, è vietato uccidere un animale che sta ancora venendo allattato da sua madre. L’agnello nel senso stretto di una giovane pecora non svezzata non può quindi essere mangiato nell’Islam.
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Ha un temperamento giocoso, e il suo fascino si guarda crescere lungo i millenni. Nella mente della Civiltà significa timidezza, mitezza, sacrificio, purezza, festa. Ha origine misteriose, perché il suo antenato, detto con la parola latina ovis, non si sa esattamente da dove salti fuori: i sapienti hanno formulato un’ipotesi, dicendo che deriva dalla linea di sangue dei mufloni europei ed asiatici. L’agnello non è solo un mistero per l’evoluzione, è una certezza per la religione.
Anche le religioni antiche prevedevano il sacrificio degli agnelli. Quelli neri venivano sacrificati alle divinità greche dei venti per garantire una buona navigazione.
100.000 anni fa: l’agnello quindi è in nostra compagnia da tanto, tanto tempo. La sua diffusione ha toccato l’India, la Cina a Oriente; il Nord Africa e l’Europa ad occidente.
Sacrifici di ovini vi sarebbero, sia pur non molto pubblicizzati, anche nell’Induismo, soprattutto nel culto della Dea della morte Kali. Gandhi ne parla nella sua autobiografia (Autobiography: The Story of My Experiments with Truth), nella pagina dove ricorda che «nella mia mente la vita di un agnello non è meno preziosa di quella di un essere umano».
Le testimonianze greche e romane abbondano, e sono legate ai sacrifici per placare gli dei irati o per festeggiare i cicli stagionali. Il cristianesimo lo rese un animale importante e popolare, un animale sacro, ma la cui carne non era proibito consumare.
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Insomma, una bestia mistica, per tutti. A qualsiasi latitudine, in qualsiasi era storica umana. Gli storici sostengono che possiamo parlare di tracce dell’addomesticamento del montone in Mesopotamia
Nel Medioevo si ebbe un consistente consumo di carne di pecora e montone, tuttavia l’interesse degli uomini era quello di allevarli per il latte e per la lana. L’agnello divenne un piatto presente nei menu aristocratici; il volgo invece si cibava per lo più di montone.
L’interesse per questo animale crebbe alla fine dell’Ottocento, quando gli allevatori cominciarono – come parimenti stava avvenendo per la carne bovina – a programmare gli allevamenti in termini razziali, così da soddisfare bisogni precisi (più lana, o più latte, o più carne). La razza della pecora, di conseguenza dell’agnello, prende spesse volte il nome dell’area del loro allevamento, come per le mucche e le galline. C’è nel tirreno la pecora corsa, sarda; c’è quella delle Prealpi del Sud. In Gran Bretagna ci sono quelle dello Shropshire, del Southdown, del Suffolk; c’è la Hampshire Sown Sheep. In Francia ci sono la Causses du Lot, la Blanc del Massiccio Centrale, la Limousin. Il Belgio ha l’Ardennais roux, la Pré Salé, poi quella che chiamano «Belgium Milk». In Grecia c’è la Chio.
TAGLI D’AGNELLO Francesi, inglesi, italiani hanno modi diversi di tagliare il giovane ovino, che è un animale piccolo e quindi necessita di una divisione delle carni semplificata, in modo da avere pezzi abbastanza grandi per la condivisione tra più persone. Tra i pezzi scelti, ricordiamo:
Quello che ha compiuto 3 o 4 mesi può arrivare a pesare dai 14 ai 18 chili. Gli si può dare il latte vaccino. La carne diviene più rosea e il sapore si fa più intenso. Quello di 5 mesi supera i 20 chili. Il nutrimento spazia dall’erba ai cereali. La sua carne è decisamente più rosa, il sapore si intensifica ancor di più. Il cosiddetto castrato, oltre i cinque mesi di età, può andare dai 30 ai 35 chili, e mangia erba e cereali quotidianamente. La carne è oramai divenuta rosso chiaro. Il sapore è marcato. Se allevato su prati salmastri, lo si mangia a questa età.
Il collo: con o senza l’osso, preparato per cotture lunghe, fornisce un sapore dolce ai fondi e alle salse di agnello.
Oltre a questo periodo, scatta la differenziazione dell’ovino adulto. Se l’agnello è femmina, diventa una pecora, che si suole tenere per la riproduzione (fino a 4 agnelli all’anno); il verso caratteristico della pecora è il belato. Il castrato adulto diviene montone: la carne ha un sapore intensissimo. L’agnello maschio lasciato crescere diviene invece ariete, e si usa nella riproduzione. È noto per la sua forza. Non bela, piuttosto blatera, come i cammelli.
Il carré: le prime e seconde costolette, in genere dalla quarta all’undicesima dimodoché si ottenga un nodino commisurato per avere quindi una cottura uniforme dell’intero pezzo.
Le costolette del collo: considerabili come le costate per il manzo, sono le prime cinque costole dietro al collo. Il grasso ivi contenuto le insaporisce (il loro gusto è più forte) e fornisce loro tenerezza. La sella: sono le cinque costolette successive a quelle del collo, ma non sono vere costole: sono vertebre lombari. Non c’è osso sporgente da utilizzare come manico. Le seconde costolette: sono quattro costole vere e proprie successive a quelle del collo. Il sapore è assicurato dal grasso lungo il manico. La carne è detta noce, e si presenta come un pezzo rotondo al centro molto consistente. Le prime costolette: sono le quattro costolette che seguono le seconde. La prima è detta «costoletta reale», conosciuta per il grande equilibrio tra polpa
e grasso. La noce è grossa, il manico lungo ma percorso da minore quantità di grasso. La spalla: si prepara intera o a pezzi. Spesso viene rosolata in padella, o arrostita con l’osso della scapola, o ancora disossata, arrotolata, farcita. È preferibile sceglierne una rotonda. L’epigramma: «Questo è un pezzo assolutamente favoloso scrive Arthur Le Caisne «pieno di sapore e con un bel grasso!». Lo si ottiene dalla parte sotto alla spalla, e comprende una porzione del petto. In genere non si dovrebbe disossare, e si griglia al forno; con esso si fa il brasato o il bollito. Il cosciotto: il taglio per la famiglia – è la zampa dietro tagliata assieme alla Sella. Intero, senza osso, arrotolato. Si vende anche a pezzi più piccoli che seguono la noce, tipo bistecca. Ne consigliano la cottura lunga e dolce, per esempio in cocotte. La spuntatura di costolette: soda sezione dell’osso delle coste, contiene il midollo. In genere viene brasata o messa in brodo. La nocciola: la parte centrale delle Prime Costolette una volta tolto l’osso e il grasso. I piedini: considerabili come frattaglie, sono utilizzati per la produzione di gelatine dal sapore delicato per terrine e paté o come complemento di certe carni fredde. Il petto: la parte bassa dell’agnello è composta da vari tagli
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CHI È L’AGNELLO? È una pecora che non ha compiuto un anno. Sta in pancia di sua madre per circa cinque mesi. Mamma pecora in genere può farne due alla volta. Il parto va dall’una alle tre ore. Gli uomini scansionano la vita dell’ovino in varie fasi. Il cosiddetto agnello da latte (fino a 5 o 6 settimane) pesa 6-10 chilogrammi e mangia solo il latte dalla tetta della madre. La sua carne è chiara sino ad essere bianca, è molto tenera e dal sapore leggermente zuccherino.
quali le costolette alte e l’epigramma. Vi sono ossa e cartilagini, e i muscoli dell’addome. Quando si cucina intero si fa bollito o brasato. La sella del cosciotto: è la parte alta dei glutei, diciamo come la fesa per il vitello o la parte posteriore dello scamone per il manzo. È diffusa come pezzo unico per fare gli arrosti a fette. Lo stinco: parte dell’arto posteriore, venduto anche separatamente al cosciotto, nell’agnello è morbido e gelatinoso. La culotte: pezzo meno conosciuto che comprende tutto il posteriore della bestia – due cosciotti e due selle. Il baron: è la culotte a cui si somma la sella inglese, e cioè: 2 cosciotti, due selle e una Sella inglese. Il rosbif: è il Baron più i carré delle costolette coperte e scoperte. Cioè, tutto l’agnello tranne il petto, le spalle e il collo. Il papillon: la spalla e il collo. Cioè tutto ciò che resta togliendo il rosbif. SUL PIATTO Sono pressoché infinite le ricette a base di agnello che potete trovare ad ogni latitudine. Si va dalla lamb pie, la torta di agnello, allo shawarma, dal cassoulet marocchino (specialità di fagioli secchi e carni bianche), dalle costolette di agnello alla coreana (dolci e piccanti grazie alla pasta di peperoncino gochujang) al lahmacun turco (focacce turche speziate ripiene di manciate di prezzemolo fresco a foglia piatta e una spremuta di succo di limone), dalle crocchette di agnello e rapa al più conosciuto miracolo di tenerezza dell’agnello al latte.
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Poi si va oltre: a me è capitato di mangiare ai Tigli – prestigiosissima e rarissima pizzeria gourmet di San Bonifacio (Verona) – anche una pizza all’agnello, e l’ho trovata perfino gustosa, perché il piatto era pensato bene, e l’animale cotto a dovere. Questo può bastare come introduzione. In un prossimo episodio scriveremo delle razze di agnello e dei modi in cui si sceglie. Perché, come per il manzo, come per tutte le cose, la materia bisogna conoscerla sul serio. Affrontare duramente anche la tenerezza dell’agnello: dovrebbe essere il motto del griller ispirato.
The Chemical Griller - rubrica a cura di Virgilio Brunetti
IDROCOLLOIDI
Gli idrocolloidi delle alghe e la sferificazione
Questi prodotti hanno uno spiccato potere addensante e gelificante e differiscono dalla gelatina animale soprattutto perché si possono utilizzare anche a freddo, superando il grosso limite che invece ad esempio la colla di pesce, la quale deve essere attivata e sciolta a caldo preventiva idratazione. Il nome deriva da Carraghen, ovvero la località dove si raccoglievano queste alghe marine rosse già più di sei secoli fa, quando venivano utilizzate per gelificare il latte. Le carragenine sono estratte da alghe che vivono nelle acque dell’Atlantico settentrionale: Chondrus crispus e Gigartina mamitiosa, dette anche carragheen, muschio d’Irlanda o lichene marino. Sulle etichette degli alimenti, nei quali vengono utilizzate anche come gelificante, sono indicate con la sigla E407. Anche i medicinali possono contenerle in quanto stabilizzanti e addensanti. Inoltre possono essere presenti all’interno dei dentifrici e, a volte, vengono applicate direttamente sulla pelle per alleviare particolari fastidi. La carragenina è un estratto naturale costituito da unità di galattosio (polisaccaride) con contenuto di gruppi solforici variabile; in base a questa caratteristica si distinguono in tre tipi, ovvero Lambda, Kappa e Jota. 1. La Lambda è molto ricca in gruppi solforici e quindi solubile in acqua e latte freddo. Essa è in grado di dare solo addensamento. 2. La Kappa è meno ricca di gruppi solforici ed è quindi solubile a caldo intorno ai 70°C. Essa è in grado di formare gel solidi reversibili a raffreddamento e tende a dare sineresi (espulsione dell’elemento liquido da parte di un colloide, ovvero tende a rilasciare acqua). Se si utilizza insieme alla farina di carruba si ha una diminuzione della perdita di acqua e si ottengono gel più elastici. La presenza di sali di potassio aumenta il suo potere gelificante, al contrario se
utilizzata in presenza di sali di sodio il suo potere gelificante viene inibito. 3. La Jota ha una percentuale intermedia di solfati, questo la rende solubile a caldo e permette la formazione di gel più soffici, elastici e cremosi. Non presenta il fenomeno di sineresi. Le carragenine sono stabilizzanti potenti e interagiscono con le caseine del latte e la gelatina animale, formando dei complessi stabili. La loro azione, tuttavia, viene annullata quando il pH della soluzione è al di sopra o al di sotto del punto isoelettrico delle proteine. Sono solitamente impiegate nei prodotti a base di latte, proprio perché agiscono con le proteine di quest’ultimo. Commercialmente si presentano sotto forma di polvere e quando si utilizzano, per evitare che si formino dei grumi, le si miscelano a secco con dello zucchero prima di versarle nel liquido (latte) bollente. In miscela con dell’amido è impiegata per preparazioni tipo budini. Le carragenine raggiungono il grado ideale di viscosità rapidamente, sono stabili alla pastorizzazione e alla sterilizzazione, sono però poco stabili a pH acido. Conoscete la modernist béchamel ovvero la besciamella perfetta senza burro? È possibile prepapararla? Sì, proprio grazie alla carragenina, e ora vi dico come fare. Ve lo avevo promesso. Ingredienti: 1 litro di latte intero, aromi a piacere (bouquet garni), 10 grammi di carragenina lambda, sale, pepe noce moscata. Procedimento: Si porta ad ebollizione un litro di latte con un bouquet garni, poi si eliminano gli aromi e a fuoco spento si disperdono 10 grammi di carragenina lambda, si emulsiona per pochi secondi con un frullatore ad immersione e poi si riporta il latte a bollore. Si filtra e si condisce con sale pepe e noce moscata. Ovviamente la stessa procedura è utilizzabile per creare fondi chiari a base di brodi per preparare vellutate fat free.
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Riprendiamo il discorso da dove lo avevamo lasciato un mese fa e cominciamo a parlare di carragenine, agar agar e alginati: ovvero gli idrocolloide delle alghe.
AGAR AGAR L’agar agar è un idrocolloide biosintetizzato nelle pareti cellulari delle alghe rosse (specie Gracilaria, Gelidium e Pterocladia), composto da una complessa miscela di polisaccaridi omogenei: agarosio e agaropectina. L’agarosio è un polisaccaride non ionico fortemente gelificante costituito da unità di β-D- galattopiranosio con legame 1,3 e unità 3,6-anidro-a-L-galattopiranosio con legame 1,4, mentre l’agaropectina è un polisaccaride meno definito e più complesso con gruppi solfati ad esso collegati, che influenza fortemente la solubilità, la cinetica di gelificazione e le caratteristiche del gel. L’agar agar è un additivo naturale ben accettato in etichetta, utilizzato come agente gelificante, addensante, strutturizzante, idratante ed emulsionante nell’industria alimentare e in un numero enorme di applicazioni cosmetiche, farmaceutiche e tecniche.
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PROPRIETÀ DELL’AGAR AGAR: È versatile completamente solubile solo a caldo in acqua bollente. Fornisce gel inodori, incolori anche a concentrazioni molto basse. Il suo processo di gelificazione tollera pH acidi ed elevate concentrazioni di zuccheri e sali. È il più forte agente gelificante naturale e fornisce un gel termo reversibile. La soluzione di agar gelifica a temperature comprese tra 35°C e 43°C e fonde a temperature tra 85°C e 95°C.
È l’unico idrocolloide che fornisce gel che resistono alle temperature di sterilizzazione e ha un’eccellente resistenza all’idrolisi enzimatica. Reagisce solo con l’acqua e questo consente la sua incorporazione nella maggior parte delle formulazioni alimentari È perfetamente compatibile con le proteine del latte. Si utilizza per quelle lavorazioni in cui il sapore del prodotto non rischia di alterarsi se si raggiungono temperature molto elevate, proprio perché la sua funzione addensante si attiva col caldo.È ideale nella preparazione di spume al sifone o di creme per cui è richiesta una densità diversa da quella della gelatina animale. Il gel solido ottenuto dalla polimerizzazione dell’agarosio presente nell’agar agar può essere rotto meccanicamente frullando il gel e ottenendo salse dalla viscosità interessante ma soprattutto con livelli di acidità improponibili per altri agenti gelificanti e addensanti. Inoltre l’agar agar si presta bene a tecniche di sferificazione senza l’utilizzo di ulteriori eccipienti come il cloruro di calcio, indispensabile invece per la gelificazione dell’alginato. Dall’altra parte la gelificazione dell’agar agar richiede alte temperature che inevitabilmente modificano sapore e aromi di molti alimenti. Sapete cosa è la sferificazione? È una tecnica inventata dal cuoco spagnolo Ferran Adrià che consente di creare delle perle che racchiudono un liquido, dall’aspetto molto simile
Ingredienti: 170 grammi di condimento balsamico da mosto di uva o mela (mosto acetificato invecchiato), 2 grammi di agar agar, olio vegetale freddo. Procedimento: Si stempera l’agar agar nella base da sferificare e si porta ad ebollizione, si lascia raffreddare la base agarizzata fino ad 80°C e poi si fa gocciolare in un contenitore alto con all’interno dell’olio vegetale. Le gocce di composto agarizzato solidificano a contatto col l’olio vegetate, che le raffredda e permette la loro gelificazione quasi istantanea nella forma termodinamicamente più favorevole, ovvero piccole sfere col volume delle gocce che andiamo a far colare nell’olio. Generalmente si utilizzano dei flaconi dal tappo forato, creati appositamente per la sferificazione. Con un cucchiaio forato o con un colino potete separare il caviale balsamico dal bagno oleoso. Le sfere saranno lucide e brillanti e utilizzabili come condimento e complemento di tartare di carne, pesce e crostacei. Qualsiasi base acida e zuccherina si presta bene a questo processo di sferificazione, inoltre la gelificazione dell’agar è estremamente versatile e tollerante a condizioni saline e zuccherine molto concentrate e a
pH anche molto bassi (aceti e succo di agrumi e pomodoro).
ALGINATI Gli alginati sono sali dell’acido alginico, o più semplicemente algina, un polimero ricavato dalla parete cellulare di svariate alghe brune, principalmente laminaria (Laminaria spp.) e fucus (Fucus vesiculosus e Fucus serratus). L’acido alginico è un polimero anionico lineare dell’acido D-mannuronico
e di quello L-glucoronico, tenuti insieme da legami β 1-4. La proporzione tra questi due acidi varia a seconda delle fonti algali da cui viene estratto, influenzandone direttamente le proprietà: gli alginati ricchi in acido D- mannuronico formano gel soffici e flessibili, mentre quelli ricchi di acido L-glucoronico formano gel più compatti e resistenti. Nel linguaggio comune, quindi, sotto il termine alginati rientrano l’acido alginico (E400) ed i relativi sali, come quello di sodio (E401), di calcio (E404), di potassio (E402) e di ammonio (E403). Le applicazioni degli alginati sono piuttosto varie, ma accomunate da precise caratteristiche funzionali, poiché essi assorbono una quantità d’acqua decine di volte superiori al proprio peso. Nell’industria alimentare questa proprietà assorbente li rende di largo impiego come “addensanti” per esaltare la
consistenza di confetture, marmellate, gelati, dolciumi, formaggi fusi e creme spalmabili. In ambito culinario l’alginato viene ormai utilizzato da anni per le tecniche di sferificazione di alimenti liquidi. Di fatto, essa non è altro che un processo di gelificazione in cui le parti liquide vengono trasformate in perle ripiene di fluido o di gel, grazie alla miscelazione del liquido di base con alginato di sodio. Oltre alla miscela base che si vuole sferificare e alla quantità di alginato di sodio corretta serve anche il cloruro di calcio. Quando l’alginato entra in contatto con quest’ultimo, il sodio viene sostituito dal calcio il quale, avendo doppio peso molecolare, consente l’unione in doppia catena e incentiva la gelificazione e facendo in modo che si formi una pellicola intorno al liquido. Come usarlo in breve: per la sferificazione utilizzare l’1% di alginato di sodio rispetto al peso del liquido. Per scioglierlo, aggiungetelo mentre mescolate energicamente il liquido oppure miscelatelo con un altro ingrediente secco (come lo zucchero) prima
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al caviale. E anche in questo caso vi do una ricettina: il caviale di aceto balsamico.
di aggiungerlo al liquido. Poiché la polvere inizia a gelificarsi in presenza di calcio, non cercate di usare un liquido che ne abbia una quantità elevata, come il latte. Per semplificare il processo, utilizzate un’acqua a basso contenuto di calcio. Aggiungete la polvere al liquido o alla purea e usate una siringa per dosare le goccioline in un bagno di calcio, che si trasformeranno in perle di caviale. Invertire i due ingredienti per la sferificazione inversa (usando l’alginato di sodio per il bagno d’acqua). Sferificazione basica: in breve, si unisce l’alginato di sodio al composto che si vuole sferificare e successivamente lo si versa nel bagno a base di sali di calcio. Per versarlo si può fare ricorso a una siringa senza ago o a stampi semisferici. Il calcio penetra nella preparazione e forma un gel con l’alginato di sodio contenuto in quest’ultima. Cosa si ottiene? Una sfera con un cuore liquido, instabile nel tempo.
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Sferificazione inversa: a differenza di quella basica, la sferificazione inversa si ottiene grazie alla presenza del calcio necessario alla gelificazione già nella preparazione che volete trasformare in sfere. È necessario mixare e far riposare a dovere l’alimento da sferificare per far sparire le bolle e poi immergerlo nel bagno di alginato di sodio, proprio come nella sferificazione basica. Nota bene: Se l’ingrediente scelto è troppo acido, il risultato non sarà soddisfacente ma si può comunque correggere il pH della soluzione utilizzando il sale citrato di sodio. Se è eccessivamente liquido, non
si trasformerà in una sfera perfetta. Il tempo di stabilizzazione e gelificazione delle sfere è di circa 3-5 minuti. È importante fare ruotare le sfere nel bagno per ottenere un’omogenea gelificazione di alginato e soprattutto evitare che esse si tocchino tra loro per non farle attaccare. È necessario risciacquare bene le sfere per ottenere una superficie liscia e senza imperfezioni. Differenze tra sferificazione basica e inversa? In quest’ultima, lavando le sfere il processo di sferificazione si blocca immediatamente. La sferificazione basica produce risultati che devono essere consumati in breve tempo a causa della loro instabilità, mentre l’inversa è duratura e stabile nel tempo. Un ultima curiosità: il processo inverso è particolarmente indicato per prodotti ricchi di calcio e di alcool e permette di sferificare quasi tutti gli ingredienti, quindi se siete amanti del Negroni potete cimentarvi nella sua sferificazione.
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ALLEVAMENTI e GAS SERRA
La verità oltre lo Squalo e Heidi
Cultura e Società a cura di Giovanni Minelli
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Stiamo vivendo quelle che si spera siano le battute finali di una emergenza sanitaria globale. Per tutti è stata un’esperienza senza precedenti. Abbiamo vissuto attimi di sconcerto nel veder modificate le nostre più radicate abitudini. Le misure stabilite dai governi mondiali per contenere il contagio, fino a pochi mesi fa, sarebbero state immaginabili solo all’interno di romanzi fantascientifici e invece ci siamo davvero confrontati con esse. Abbiamo rinunciato ai nostri affetti, alla nostra routine, al nostro modo di vivere la vita. Persino le grandi aziende hanno dovuto interrompere il proprio esercizio, o comunque modificarne le abitudini facendo spazio a pratiche come lo smartworking. Solo il settore primario non ha subito rilevanti modifiche nel suo naturale svolgimento, mentre anche i cicli produttivi dell’industria sono cessati. Le immissioni in atmosfera di gas ad effetto serra sono crollate ai minimi storici. Questo periodo ci ha messo difronte ad una realtà nuova e destinata a suscitare dei dubbi riguardo ad una delle convinzioni ormai più radicate, ripetuta spesso come un mantra dai detrattori dell’allevamento: “i bovini sono produttori di gas serra, inquinano!”. Tutti lo abbiamo letto, abbiamo visto immagini satellitari e filmati da zone tristemente note per la bassa qualità dell’aria. Ma è impossibile, gli allevamenti sono rimasti attivi, si sa che le vacche producono più gas serra di automobili ed industrie. Si sa, è così, l’ho visto su internet. Ma sarà davvero così? In effetti in molti, più che affermare qualcosa, si sono posti delle domande: come mai, con industrie e trasporti fermi, e allevamenti che lavorano a pieno regime come sempre, le immissioni in atmosfera di gas ad effetto serra sono scese così tanto? Che le responsabilità del mondo zootecnico siano state sovrastimate? Ma poi, chi le ha stimate? Come e quando? Nessuna attività dell’uomo ha impatto 0, quindi anche l’allevamento bovino ha il suo. Non sono qui per convincere nessuno, vorrei solo ragionare insieme a voi sfruttando i dati che il mondo della ricerca ci mette a disposizione. Sia chiaro che questa tematica ha un ruolo centrale per gli addetti ai lavori ancor prima che per le associazioni ambientaliste. I maggiori portatori di interesse sono proprio coloro che si occupano di produzioni animali. Vedremo dei numeri, questi potrebbero essere percepiti come tanto o come poco, è indifferente, la cosa importante è avere un dato dal quale partire per poter ragionare e lavorare per poter migliorare, questo è l’approccio delle scienze animali. Prima di entrare nel vivo della questione me la prendo comoda, e faccio pure un po’ di polemica per contestualizzare la situazione odierna riguardo al percepito dalla gente riguardo la zootecnia. Spesso il consumatore ha una visione distorta del mondo agricolo, frutto di una comunicazione poco puntuale soprattutto
Dopo aver tolto i sassolini dalle scarpe, ragioniamo un po’ insieme riguardo i gas serra, cosa sono, come vengono prodotti, come vengono prodotti dalle bovine e vediamo anche un po’ di dati. Partiamo dalla base, cosa sono? Chiamiamo gas ad effetto serra quei gas, presenti nell’atmosfera, che sono in grado di trattenere una parte r i l eva n t e d e l l o spettro infrarosso della radiazione solare, che dopo aver colpito il suolo terrestre, viene emesso da esso, dalle nuvole e dall’atmosfera. Mi spiego meglio e d utilizzo un esempio. Abbiamo
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sul media principale degli ultimi 30 anni, la televisione. Mi riferisco sia alla pubblicità sia alle trasmissioni che parlano di allevamento e le divido brutalmente in due tipi. Metto da un lato quelle trasmissioni di approfondimento che, con un approccio in stile inchiesta giornalistica, portano le telecamere all’interno degli allevamenti intensivi, decontestualizzano le immagini senza alcuna spiegazione, magari con una musica di sottofondo in stile “Lo squalo” di Steven Spielberg, così da suscitare nello spettatore un senso di insoddisfazione ed ingiustizia che non fa altro che far percepire l’allevamento come il male assoluto. Dall’altro lato ci metto le trasmissioni della domenica mattina in cui si mostra una zootecnia in stile Heidi e le caprette che fanno ciao, in cui spesso si dà risalto al non professionista, magari “ex bancario che molla tutto” e alleva la razza di vacca in via d’estinzione, perché si sa che per fare l’allevatore non occorre preparazione, lo possono fare tutti. Poi c’è la pubblicità a rincarare la dose: produco formaggio dal latte delle vacche dei conferitori in pianura? Perché non mostrare l’alta montagna, magari qualche vacca sui prati degli alpeggi, pazienza se poi è una razza da carne quella che mostro (non faccio nomi ma è successo davvero). Oppure quelle pubblicità di prodotti da forno in cui mostrano la macinazione del grano con bellissime macine in pietra tanto evocative, peccato raffigurino un frantoio per olive. Insomma la tv ci mette del suo per far confusione e alimentare uno scontro che diventa ideologico e poco costruttivo.
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presente le serre utilizzate in orticoltura? Il principio è lo stesso, il nome è mutuato da qui. Abbiamo il suolo, l’aria e una copertura esterna fatta di vetro che rappresenta l’atmosfera. La luce del sole penetra nella serra attraverso i vetri e arriva a terra, riscalda aria e suolo e “rimbalza” fuori, ma una parte di questa luce, lo spettro infrarosso, rimane catturato all’interno da vetri, rimanendo a scaldare ancora aria e suolo. Avendo uno strato più spesso di gas serra, maggiori radiazioni infrarosso rimangono all’interno con conseguente innalzamento della temperatura media. Cominciamo a capire di cosa si tratta quando parliamo di surriscaldamento globale. Quali sono? Ce ne sono molti, il più presente è il vapore acqueo, poi ce ne sono altri che in larga parte sono sempre di origine naturale ma le cui immissioni sono fortemente correlate alle attività antropiche, come anidride carbonica (CO2), metano (CH4) e protossido d’azoto (N2O), infine gas esclusivamente prodotti dalle attività umane, gli alocarburi tra cui i più conosciuti e impattanti sono i clorofluorocarburi (CFC), le cui emissioni sono regolamentate dal Protocollo di Montréal del 1987. Quando parliamo di bovini facciamo riferimento soprattutto al metano, frutto delle fermentazioni ruminali ed enteriche, e al protossido d’azoto prodotto dallo stoccaggio, spandimento e decomposizione dei reflui. L’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale (ISPRA) lo scorso aprile ha presentato i dati che descrivono lo stato emissivo del nostro paese. Il comparto agricolo, con tutte le sue sfaccettature, quindi parliamo di agricoltura fondiaria, allevamento e attività forestali ha un peso del 7% sul totale delle emissioni. Il dato è applicabile esclusivamente alla realtà italiana, forse risulterà superflua questa puntualizzazione ma la devo fare, e non perché in Italia siamo più o meno bravi di altri, ma perché stiamo parlando di una percentuale, quindi soggetta al “peso” anche delle altre emissioni. In un paese in cui le industrie hanno un’attività maggiore, aumenteranno le emissioni a carico di queste e diminuiranno quelle a carico dell’allevamento e viceversa. Questo 7% lo possiamo scomporre e vedremo che esso è formato per un 47% dal metano delle fermentazioni enteriche di tutti gli animali d’allevamento (quindi oltre ai bovini anche suini, avicoli ed equidi), per un 18,8% dalla gestione delle deiezioni e per un 27,6% dallo spandimento del letame. Non voglio annoiarvi oltre con i numeri anche perché se vi collegate al sito di ISPRA li trovate tutti in maniera molto dettagliata e accurata. Voglio
invece continuare a sfruttare questo spazio per un altro ragionamento su bovini e gas serra che mi incuriosisce e affascina, ognuno subisce il fascino di qualcosa, povero me, m’è toccato questo, m’è toccato il ciclo del carbonio. I bovini, e il bestiame in genere, fanno parte di un ecosistema nel quale sono integrati, e fanno parte di un ciclo perfetto che proverò a spiegare ispirandomi al modello proposto da CLEAR Center dell’University of California. Che vi ricordate della fotosintesi clorofilliana? Forse un sacco di cose, forse poche, allora intanto la dico semplice, poi in caso una ricerchina su internet. Si tratta di quel processo biochimico grazie al quale le piante, in presenza di luce, convertono CO2 atmosferica e H2O metabolica, in carboidrati ed ossigeno molecolare. Dunque il carbonio proveniente dalla CO2 atmosferica viene “immagazzinato” dalle piante nei propri tessuti sottoforma di cellulosa. Lo fanno tutte le piante: gli alberi, il grano, l’erba del giardino e la scarola prima di finire su una pizza di Trezzi. Alcune piante sono alimento per il bestiame. I bovini, grazie al rumine e alla flora microbica presente al suo interno, riescono a fermentare la cellulosa e sfruttarne nuovamente il carbonio per il proprio metabolismo e una parte di questo carbonio viene convertito in metano ed emesso di nuovo in atmosfera. Sempre l’Università della California (vi invito a cercare Biogenic Cow Carbon Cycle) ha stimato che occorrono circa 10 anni affinché il metano venga di nuovo trasformato in vapore acqueo e CO2, pronta a rientrare nel ciclo. Quindi tanto carbonio all’inizio quanto carbonio alla fine. Questo è vero per animali che si nutrono in maniera indipendente quando si trovano al pascolo. Se avete qualche dubbio lo fughiamo subito, il pascolo è un sistema alimentare all’aperto dove gli animali si muovono alla ricerca di nutrimento, ben diverso dai paddock per il movimento e per beneficiare del sole. La moderna zootecnia è più improntata alla somministrazione di alimenti in stalla, quindi si fornisce agli animali una miscela di materie prime atta a soddisfarne i fabbisogni e grazie alle avanzate tecniche mangimistiche oggi è possibile anche regolare i batteri ruminali metanogeni, andando a limitare, in una certa quantità, il CH4 prodotto. Spero che queste righe abbiano chiarito qualche dubbio e ne sollevino di nuovi, oltre ad evidenziare quanto impegno e duro lavoro c’è dietro ad ogni boccone che ci godiamo.
Qual è il reale impatto
dell’allevamento bovino sulla produzione dei gas serra?
Attenzione
all’informazione distorta!
Cosa sono i
GAS SERRA 1. Strato più spesso di gas serra 2. Maggiori radiazioni infrarosso all’interno 3. Innalzamento della temperatura media
Quali sono i
GAS SERRA
Di origine vegetale
7%
H20
IN ITALIA
Vapore acqueo
CH4
Metano
Prodotte solo dall’uomo
1. Fermentazioni ruminali ed enteriche 2. Stoccaggio, spandimento e decomposizione dei reflui Dati sul sito ISPRA
CO2 H20
10 anni
CO2
Anidride carbonica
N2O
Protossido d’Azoto
CFC
Clorofluorocarburi
Come vengono prodotti dai bovini
Limitazione di
Carbonio
Alimentazione in stalla
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CH4
Metano
G
La ricetta scientifica a cura di Gianfranco Lo Cascio
uacamole Sapete cos’hanno in comune gli obelischi d’Egitto, le torri di Irlanda e Scozia, i sassi piantati a Cuzco e persino l’Empire State Building? Sono tutti simboli fallici.
Lo so lo so, questa è la ricetta scientifica e non si fanno discorsi del c… , ma il protagonista di questa rubrica agostana, il frutto dell’amor che soppianta e divelle la banana è lui: l’avocado. Un po’ per la forma inequivocabile, un po’ per le sue sedicenti proprietà afrodisiache, gli Aztechi chiamavano le piantagioni su cui cresce “āhuacacuahuitl”, che si traduce letteralmente in “albero dei testicoli”. E come se non bastasse, il lemma “guacamole” deriva dall’azteco “ahuacamolli”, che significa, indovinate un po’, “salsa di testicoli”. Invitante, no? “Passami il puré di cabbasisi che ci devo inzuppare i nachos!” Diventerà la vostra catchfrase estiva preferita.
che cosa è il
GUACAMOLE In origine era solo avocado maturo schiacciato in un mortaio di basalto e pestato con del sale. È così che lo preparavano gli Aztechi 500 anni fa, facendo della deliziosa salsa il più antico cibo tradizionale ancora prodotto in America. La versione moderna viene arricchita con cipolla rossa, succo di lime, coriandolo fresco, pomodoro a cubetti e più raramente con aglio. Negli States lo amano così tanto che durante il Super Bowl, la finale del campionato della National Football League, ne ingurgitano quasi 23.000 tonnellate. Con chissà quante di nachos.
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Visto il consumo smodato di salsa, penserete voi, qualcuno di loro avrà senz’altro craccato il codice per evitare che i frutti, da verdi e burrosi, diventino marroni e flaccidi a distanza di poche ore dal taglio. Macché! Alcuni pensano ancora che conservare il nocciolo preservi l’avocado dall’ossidazione, per via di chissà quali poteri magici, tipo Sfera del Drago. Meno male che c’è lo Zio che si sacrifica per voi, per fare questo esperimento ho buttato talmente tanti avocado che i noccioli escono dalle fottute pareti.
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scegliere il giusto
AVOCADO
Esistono tantissime cultivar di avocado. Possono essere succosi e semiduri, come i Fuerte (grandi, grossi e con la buccia liscia), oppure ricchi e cremosissimi, come la varietà Hass (tondeggianti, violacei e con la buccia rugosa). Questi ultimi sono quelli giusti per preparare un guacamole perfetto.
la maturazione
La finestra temporale in cui gli avocado sono assolutamente perfetti - morbidi e teneri, senza macchie o striature marroni - è notoriamente breve. Questa peculiarità può rendere la pianificazione di una ricetta a base di avocado un'esperienza logorante. I miei avocado matureranno in tempo per la cena Tex-Mex di sabato? E se poi diventano marroni? Fortunatamente ci sono alcuni trucchetti per accelerare o rallentare il processo di maturazione, a seconda del caso. Lo sviluppo nei frutti è regolato da un gas chiamato etilene, che viene prodotto naturalmente dalla frutta stessa. Maggiore è la concentrazione di questa sostanza, più veloce sarà la maturazione. Ecco perché è consigliabile lasciare gli avocado acerbi in sacchetti di carta insieme a delle banane: questo accorgimento concentra l'etilene e innesca una maturazione in tempi record (2-3 giorni). Ma come si fa ad individuare gli avocado maturi al banco della frutta?
regola n.1
regola n.2
Rimuovere il picciolo: se viene via facilmente e il forellino sottostante è di un colore verde-giallo, il frutto è pronto. Se fa resistenza è acerbo, se sotto è marrone, ahimé, è marcio.
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Proprio come i gioielli di famiglia, mai tastare! Dovete tenere a bada quelle manacce. Piuttosto osservate il colore della buccia: è verde brillante? L’avocado non è ancora pronto. Dovete agguantare quelli di colore bruno-violaceo, quelli marroni sono troppo maturi.
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Illustrazioni di Eleonora Castagna
MORTAIO
DUE VOLTE: i messicani sono peggio dei genovesi
I frutti maturi ce li abbiamo, non ci resta che tagliarli a metà in senso verticale, “svitare” le due metà e rimuovere il nocciolo colpendolo con il calcagno della lama. Si estrae la biglia legnosa, si preleva la polpa con un cucchiaio e si procede con la fase più delicata: il pestaggio. Non dovete menargli eh, limitatevi a schiacciare il tutto con lo strumento che preferite: una forchetta, una frusta da pasticceria, cambierà la consistenza del prodotto finito ma non il sapore! Il pestello magico del molcajete (mortaio messicano) di basalto non vi serve, ve lo garantisco.
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E il mixer? Non mi piace utilizzarlo perché si rischia di rendere il composto troppo fine. Io preferisco il guacamole con ancora qualche pezzetto da masticare. Il resto è omogeneizzato verde.
DEBUNKING
SULL'OSSIDAZIONE: il nocciolo non serve a niente
Gli avocado contengono una classe di composti chiamati fenoli, che possono essere convertiti in nuovi composti chiamati chinoni quando esposti all’aria. Questo processo è accelerato dallo stesso enzima che fa scurire il basilico: la polifenolossidasi. I chinoni sono tossici per i batteri (servono al frutto per difendersi dai loro attacchi) e possono anche reagire tra loro per formare lunghe catene polimeriche, causando il mutamento del colore da giallo-verde a marrone. Questo avviene anche in molti altri frutti, ma nell’avocado il processo è più rapido dato l’altissimo contenuto di polifenolossidasi. Schiacciare gli avocado espone all'aria l'interno delle cellule del frutto. Questo permette all'enzima, la polifenolossidasi (PPO) contenuta nelle cellule di reagire con l'ossigeno dell'aria. Questa reazione enzimatica porta alla formazione di pigmenti melanoidinici. Con il guacamole, il risultato è una poltiglia molto poco appetitoso, di colore verde brunastro. Sono stati sperimentati numerosi metodi per evitare che il guacamole diventi marrone.
Recentemente, negli States si può acquistare guacamole confezionato in buste sigillate. Il confezionamento sottovuoto prolunga la durata di conservazione sottraendo l’aria, ma alcuni marchi sono riusciti ad andare oltre. In alcune catene, la PPO è stata inattivata dall'alta pressione, un processo che fa sì che l'enzima si dispieghi, neutralizzandolo. Anche se lasciato esposto all'aria durante la notte in una ciotola aperta nel frigorifero, il guacamole trattato ad alta pressione rimane verde come il giorno in cui è stato prodotto. La combinazione di inattivazione della PPO con l'alta pressione e la riduzione del contenuto di ossigeno tramite l'imballaggio sottovuoto permette di conservare il guacamole per diverse settimane senza tracce di deterioramento.
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Forse il rimedio più antico (più stupido) e più comunemente suggerito è quello di mettere il nocciolo intero al centro del prodotto finito. Perché questo funzioni, il nocciolo dovrebbe in qualche modo interagire con la PPO per inibire l’ossidazione. Nonostante la ritenga da sempre una pratica sciamanica senza alcun senso, ho voluto provare lo stesso. Ho poggiato il nocciolo al centro di una piccola ciotola di guacamole e l’ho lasciato in frigorifero per tutta la notte. Il giorno dopo è finito nell’organico. Solo la parte direttamente sotto il nocciolo era ancora verde.
L'ESPERIMENTO:
COME CONSERVARE L'AVOCADO
A
B
C
D
campionature di avocado dopo 18 ore trascorse in frigorifero
E
F
H
Ho recuperato 4 avocado Hass maturi a puntino, li ho tagliati a metà, ho rimosso il nocciolo e ho predisposto le 8 campionature.
Vedete quell’anello marrancino sul lato destro? Se col basilico ci era andata bene, con l’avocado non funziona.
Procediamo con ordine, da sinistra a destra, partendo dalla fila in alto:
D Questa sezione è stata ricoperta da cipolla affettata, poiché i suoi composti sulfurei riescono a proteggere le superfici dall’ossidazione. Nonostante l’abbia inserita in contenitore con coperchio ermetico, questo non ha impedito ad alcune parti di diventare color ruggine.
A Frutto coperto con pellicola alimentare a contatto; B Frutto messo sottovuoto; C Frutto messo in acqua bollente e poi raffreddate nel ghiaccio, quindi messo sottovuoto; D Frutto ricoperto con cipolle; E Frutto immerso in acqua; F Frutto immerso nel succo di limone; G Frutto immerso in olio extra vergine di oliva; H Frutto non trattato. Dopo 18 ore trascorse in frigorifero si presentavano come in foto: A La pellicola alimentare non riesce a proteggere la polpa del frutto, appare visibilmente deteriorata e marrone in alcuni punti.
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G
E Mi sono fatto fregare da Kenji López Alt, il giornalista scientifico di Serious Eats e autore della premiatissima rubrica “The Food Lab”. Ebbene, Kenji consiglia di immergere i frutti in acqua fredda, e così ho fatto. Niente, un altro avocado buttato. F Qui non c’è nessuna traccia di ossidazione, ma il limone ha praticamente neutralizzato il colore verde, oltre ad avere donato un’acidità alla polpa inaffrontabile: era meglio leccare una pila.
B Frutto praticamente intatto, solo leggermente ammaccato dalla pressione. Consistenza perfetta, colore impeccabile: ce l’ho fatta!
G L’avocado immerso in olio tiene botta, si è conservato perfettamente anche se in alcuni parti cominciano ad affiorare segni di imbrunimento. Troppo dispendioso come metodo di conservazione, continuo a preferire il sottovuoto.
C La cottura, seppure estemporanea, ha modificato il colore e la consistenza dello strato esterno.
H Qui potete ammirare una natura morta, ma morta sul serio. Requiescat in pace.
addomesticare la
CIPOLLA
Ho sempre adorato la cipolla cruda, la mangiavo impunemente a discapito della digestione e dei rapporti interpersonali. Ora ho scoperto come ammansirla, con un protocollo che somiglia molto a quello dell’aglio e olio scientifica (non sapete cos’è? Dovete assolutamente recuperare!) La cipolla, così come l’aglio, contiene l’allinasi, un enzima, che favorisce la trasformazione di molecole a base di zolfo (alchil cisteina solfossidi) in acido sulfenico, piruvato e ammoniaca. Non contenta di questa prima reazione, la cipolla utilizza un altro enzima per trasformare l'acido sulfenico in sin-propanethial-S-ossido, una molecola voltatile e idrosolubile, che è appunto quella sostanza che ci fa piangere a fontanella quando facciamo la genovese. Come vi ho già spiegato nell’articolo sul pesto di basilico, quando le cellule dell’aglio o della cipolla vengono danneggiate, ad esempio dalla lama del coltello o dalla pressione del nostro palmo, liberiamo l’enzima allinasi, che converte queste molecole solforate in acidi sulfenici. Nell’aglio l’azione dell’enzima produce l’allicina. Nella cipolla, prende il nome di isoallinina, una sostanza che conferisce al bulbo l’odore caratteristico e la pungenza fastidiosa. Ma cosa si può fare per evitare che l’allinasi si trasformi in isoallinina?
Non avete il microonde? Potete immergere la cipolla in acqua, oppure utilizzare il sous vide, riempiendo il sacchetto con acqua e sale e lasciando aperta un’estremità. Una volta raggiunta la temperatura, tuffate la cipolla in acqua e ghiaccio, per ridarle croccantezza, e tagliatela a cubetti.
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Fate così: prendete la cipolla intera, immergetela in una salamoia al 4% di sale (1 l di acqua e 40 gr di sale) e fatela cuocere al microonde fin quando non ha raggiunto i 65°C. Se vi piace, potete acidulare l’acqua con dell’aceto di mela o vino, donerà un colore molto brillante alla cipolla.
il
GIANFRAMOLE
INGREDIENTI 3 avocado hass 1 peperoncino serrano 1/2 cipolla rossa (40 gr.) o 1 scalogno 5 gr di coriandolo fresco Il succo di 1 o 2 lime La buccia di 1 o 2 lime 1 pomodoro San Marzano (va bene anche di qualità Roma o Cuore di Bue) maturo tagliato a dadini di 6 mm • 3 g disale • Sal’s Seasoning Smoky Chipotle Chili • • • • • • •
Prendete gli avocado, tagliateli a metà, eliminate il nocciolo. Trasferite la polpa dei primi due in una ciotola o un mortaio e schiacciate con i 3 g di sale in maniera grossolana. Una volta ottenuta una purea non troppo liscia, aggiungete la polpa del terzo avocado, incidendola a mo' di griglia ed estraendo i cubetti con il cucchiaio. Trattate la cipolla come vi ho suggerito nel paragrafo dedicato, tagliatela a cubetti di circa 3-4 mm. Battete al coltello il coriandolo fresco e mettete da parte, eliminate la polpa e i semi del pomodoro e tagliatelo a cubetti di 6 mm. Grattugiate la buccia del lime e spremetelo per ricavare il succo. Unite tutti gli ingredienti e il rub Sal’s Seasoning Smoky Chipotle Chili, senza rimestare troppo, quindi versate in un contenitore e mettete il Gianframole sottovuoto. Lasciate insaporire per un’ora e servitelo con i nachos
la conservazione Vi sono avanzati degli avocado o ne avete di maturi che rischiano di marcire? Tagliateli a metà, denocciolateli e sbucciateli. Metteteli in un sacchetto e fateli rassodare in congelatore. Quando saranno diventati belli duretti, inseriteli in un sacchetto dedicato e metteteli sottovuoto. Conservateli in frigorifero o in freezer, a seconda della vostra urgenza/esigenza. Ora sapete tutto, ma proprio tutto sul guacamole, quindi vi lascio come farebbe Tony Montana nel leggendario Scarface: “Amigo, l’unica cosa a questo mondo che conta davvero sono le palle, tu ce l’hai le palle?”
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Avoja! C’ho il frigo pieno di avocado.
Gianfranco Lo Cascio
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SEGUO - RUBRICA a cura di EMILIANO NENCIONI
TORMENTONI “Basta una parola, una frase: una di quelle frasi antiche, sentite e ripetute infinite volte, nel tempo della nostra infanzia.” Questa sarà una Seguo di servizio. Di pubblica utilità. Niente nerdeggiamenti svolazzanti sopra flebili legami quantistici fra la Costante di Plank e la tenderness delle Ribs Kansas City Style, niente amare e devastanti introspezioni sulla solitudine del griller scientifico immerso in una poco ricettiva marmaglia di commensali ingrati, sbrigativi e promotori dell’antico adagio “è il manico che conta”.
Per inciso, lo sapete che esiste da qualche tempo una campagna d’odio contro il termine “commensale”? Non scherzo. Colpa nostra, di BBQ4All intendo. Mi sto sforzando per trovarvi un termine alternativo ma per adesso “convitato al desco” mi pare possa avere poca fortuna. Ci sto lavorando. Questo mese sento la necessità di affrontare un argomento antipatico (e ti pareva), molto spesso delicatamente accennato, anche con velate allusioni, proprio su queste pagine, ma mai affrontato di petto, con decisione e assertività. Sarà spiacevole, alzerà più di un sopracciglio, risulterà forse arrogante, supponente o inappropriato e intempestivo. Sicuramente, posso scommetterci, si parlerà di mancanza di Rispetto. Insomma:
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Bisogna smettere quanto prima di cercare di fare cabaret sui social network usando sempre le solite cinque frasi.
Giusto per farsi un’idea dell’originalità e della freschezza delle cose, il primo uso ironico e stereotipato di “asking for a friend” risale al 2015. Cinque anni e rotti fa, ovviamente prima nei gruppi di lingua inglese, poi copiato e ricalcato anche in italiano. Come è successo? Molto probabilmente in molti si sono accorti che aggiungendo quello scarico di responsabilità (figlio forse dello storico “un mio amico sogna spesso che…” tipicamente sentito in ogni film ambientato a New York che presenti l’obbligatoria seduta dell’analista) una qualsiasi domanda banale, un motteggio zoppicante o una battuta fallimentare ha un riscontro in termini di “hahaha” molto molto maggiore. Da qui, complice quel maledetto desiderio di sentirsi apprezzati, il rinforzo positivo: lo uso, mi dicono bravo, ergo lo uso in continuazione. La genesi dei punti esclamativi “con gli uni!!!11” è invece molto più romantica. Avete mai sentito parlare del l33t? L33tspeak. Si legge come Leet (lìt), proveniente da Elìte. In un tempo ormai passato, più glorioso e dignitoso, pochi sparuti appassionati di telematica, per lo più studenti molto competenti, si ritrovavano in certe BBS, bullettin board system, private, spesso aggregate in macro reti dalla topologia stellare (dove non tutti i punti sono uguali, ma si radunano verso accentratori - nodi - che poi scambiano informazioni fra loro) come la mai dimenticata FidoNet. I membri Elite avevano accesso ad un livello
più esclusivo di gruppi, file o informazioni, e come spesso succede in un gruppo ristretto si venne a sviluppare un gergo, un sottocodice. EliteSpeak. LeetSpeak. L33t. Questo gergo assorbì molto volentieri e molto velocemente le consuetudini generate dall’esplodere della popolarità dei giochi MMORPG (Massive Multiplayer Online Role Playing Game), dove, in mezzo a frenetiche battaglie e tenzoni in tempo reale, diventava di fondamentale importanza comunicare con amici e alleati scrivendo velocemente insulti o ordini di battaglione direttamente dalla tastiera, senza la possibilità o il tempo necessario per tornare indietro a correggere eventuali typo. Nelle tastiere qwerty, lo sapete benissimo, il punto esclamativo è un uno sotto shift, per cui nella concitazione della pugna era praticamente inevitabile farsi scappare qualche undici superfluo. Parliamo, indicativamente, del 1997 al massimo. Ventitré anni dopo, questo “common typo” è lentamente diventato un modo omologato e inconfondibile per indicare un commento o un’opinione tipica di un complottista, un facilmente indignabile, una figura generalmente invisa all’opinione generale del gruppo in questione. Su UrbanDictionary possiamo trovare questo approfondimento, risalente al 2003:
One exclamation point is usually one too many. If you do plan to use more, please take care that you retain muscle control over the finger holding down the right-hand shift key. (Un punto esclamativo è solitamente uno di troppo. Se hai in mente di usarne di più, cerca di aver cura di mantenere il controllo muscolare sul dito che tiene premuto lo shift di destra) Per i restanti neoconii giocosi menzionati poco sopra (le H superflue, il dileggio del dialetto etc) invece la situazione è diversa. Si tratta di una sottospecie di Lessico Famigliare (da qui la citazione all’apertura della rubrica, se mai ve lo foste chiesto), una maniera come un’altra di sentirsi parte di una comunità e di omologarsi docilmente ai sentimenti della massa-alveare un po’ dispotica che solitamente forma la mega-coscienza distribuita di un grande gruppo su un social network. É fisiologico, e auspicabile, che queste novità, que-
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Bisogna. Pensiamo alla cosa come un imperativo morale. Non se ne può più. Mi dilungo con solo pochissimi esempi presi a caso: • [Domanda retorica, provocatoria o scontata, considerata irritante nel gruppo in questione], chiedo per un amico! • Mettereh le accah superflueh per dileggiare un tonoh troppo enfaticoh • I punti esclamativi che diventano uno e undici!!!!1!1unoeleven • Meddere le gonzonandi sbaggliade e le dopie a caso per simulare un intervento di un udende ingnorande e invedabilmende associato ad alcuni dialetti centromeridionali • Imitare per filo e per segno il guru / capogruppo / entità carismatica di turno, ripetendo allo sfinimento ogni sua espressione, particolarità o vezzo, costringendolo di fatto a trovare nuove espressioni “trademark”.
ste espressioni gergali e segni grafici considerati irrinunciabili e decisamente à la page in un dato momento, diventino inesorabilmente demodè e detestabili con grande velocità: è ricambio, ci si stufa, non è più l33t se tutti quanti ne abusano; questo succede praticamente ovunque, in qualsiasi comunità ristretta. Nei social network italiani pare di no. Siamo più refrattari al cambiamento. Nel microcosmo del social griller, poi, non ne parliamo: determinate espressioni, espedienti, gag e tormentoni si sono incistite ad un livello mai visto prima. Certe cose non sono neanche più una gag, o un tentativo di utilizzare un linguaggio che rimanga opaco ai non iniziati, sono diventate tristemente repertorio obbligato. Avete presente la ginnastica artistica o il pattinaggio di figura a coppia? Interpreta quanto vuoi, ma se vuoi che ti dia un voto mi devi fare un doppio Salchow e un Triple Lutz. E quindi via, per compiacere la massa, sempre i soliti discorsi, le solite gag alimentate anche dall’immancabile pioggia di Like e di consensi - perché se fai notare quanto la cosa sia venuta a noia, lo sapete, parte la tiritera del Rispetto. Il niubbo (da newbie, novellino) con le idee diverse dal gruppo verrà imitato con una parlata che ricorda una persona con un forte raffreddore, o forse Ciriaco De Mita (per i più stagionati), e ogni tipicità o espressione originale (qualora ne esistesse qualcuna) delle personalità più in vista o più seguite della cerchia verrà ripetuta e abusata fino allo sfinimento. In fondo, “se lo dice lui, che qui dentro è il top, posso provare a dirlo mille volte pure io, e così farmi notare come perfettamente allineato”. Per carità, è una cosa normale, sempre esistita: c’è stata la generazione che ripeteva a macchinetta le gag di Mai Dire Gol, quella che parlava immancabilmente come uno sketch di Drive In (contenitore serale umoristico anni ‘80), e quella, più vintage, ossessionata con il citazionismo sfrenato di Totò o Gino Bramieri.
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Noi però, ammettiamolo, stiamo esagerando. Senza dubbio ormai dobbiamo fare i conti con una oralità scritta, in cui gli utenti cercano di superare le barriere espressive del testo con segni grafici anticonvenzionali (ASCII art e faccine prima, emoji ed emoticon successivamente) e dove l’ortografia
perde drammaticamente importanza in favore dell’immediatezza - tanto la colpa è sempre “del T9”, anche se il T9 era sui Nokia di vent’anni fa ma il problema è proprio nel regolarizzare gli errori tipici degli utenti “sgraditi”, fino a creare un’identità ludica di gruppo. Risultato? Impestare di parodie dialettal-ortografiche ogni singolo post, rendendo sgradevole non tanto il richiamo all’utente odioso o al comportamento riprovevole che si vuol canzonare, ma l’intera discussione o, peggio, l’intera comunità online. Per scherzo una volta ho scritto “se volete posso crearvi dei tormentoni nuovi, a prezzi (quasi) modici.” La risposta, prontamente, è stata “ma diventeranno odiosi e ripetitivi e non originali pure quelli!” Verissimo! La soluzione c’è ma deve essere distribuita in un gran numero di volenterosi rivoluzionari. Compiti per casa: • Non ridere più a espressioni iper-inflazionate, non mettere neanche like o nessuna reaction positiva • Smettere completamente (“droppare”) di utilizzare le espressioni più fastidiose • Permettersi, una volta ogni tanto, di far notare a qualcuno (meglio se non permaloso, meglio se non detentore di strumenti di moderazione coercitiva) che quel repertorio ha stancato • Coniare nuove boutade, proprie e inedite (e qui casca l’asino), almeno una volta ogni sei mesi. La speranza è quella di incoraggiare un nuovo moto di originalità e rendere le nostre spelonche aggregative telematiche dei posti un pochino più gradevoli per l’occhio e per lo spirito. Abbiamo debellato spontaneamente “Ciaone”, “ma anche no”, “breve storia triste” e l’insopportabile “grazie alle sue due lauree”, con un po’ di impegno metteremo a tacere anche gli imitatori di De Mita e i Fotocopiatori di Guru. Le taumaturgiche lacrime, raccoglietele ragazzi. (cit. fatt. appost.)
Emiliano Nencioni
N°21/ANNO 2 - SETTEMBRE 2020
Cosa resterà di questi anni '80?
Cocktail di gamberi, Riso Mare e Monti, Tortello fritto panna e prosciutto, Tonno vitellato, Tagliata rucola e Grana, Crespelle, Scaloppine al limone, il Non Filetto al Pepe Verde, Profiterol
A B e e t h ove n e S i n a t r a preferisco l’insalata l'editoriale di Gianfranco Lo Cascio
Dressing fatti in casa la salsa barbecue #zerosbatti
La ricetta scientifica: il ketchup
Editoriale di Gianfranco Lo Cascio
200- Almanacco 2020
A Beethoven e Sinatra preferisco l'Insalata
con la formula magica che sto per rivelarvi riuscirete a creare insalate adatte a ogni occasione.
Lo ha detto James Beard, chef americano autore di bestseller nonché protagonista del primo programma di cucina americano (1946), ma è una frase che avrei potuto pronunciare anche io.
4. Equilibrata
Insalata, idiosincrasia di molti, nemica giurata dei bambini e degli interstizi dentali, spesso la associamo ad un regime alimentare restrittivo e mortificante, ad un contorno banale a base di fogliame condito (male). Sbagliando. Esiste infatti una versione pimpata e persino gustosa del contorno più odiato di sempre, si chiama insalata gourmet.
Cos’è l’insalata gourmet? L’insalata gourmet è un’insalata:
1. Buona da morire.
Riuscite a crederci? Un’insalata buona può e deve esistere. Vi nutrirete con un piatto sfizioso, saporito e appagante perché costruito con i criteri delle percezioni sensoriali.
2. Sana.
Bilanciate la vostra alimentazione cestinando le cattive abitudini.
3. Sempre applicabile.
Che si tratti del pranzo da portare in ufficio, un barbecue estivo, un aperitivo con gli amici, una cena in grande stile o un pranzo della domenica,
Ricaricate il metabolismo usando a dovere olio extravergine, cereali, legumi e proteine. Spegnete le fiamme della fame con un piatto sano e buono.
5. Benefica.
Introducete nel corpo antiossidanti, minerali, vitamine e fitochimici, che sono nutrimento per il cervello, le ossa, la pelle, il sistema immunitario. Prendete tutto il buono di frutta e verdura crude.
6. Consigliata dagli esperti.
Sarete in linea con i consigli degli esperti che raccomandano l’apporto calorico bilanciato di tutti i nutrienti. Non si vive di sole mangiatoie di lusso o carnazza ignorante, eh.
7. Indicata per perdere peso. È una potente alleata in caso di dieta ipocalorica.
8. Appagante.
È un pasto colorato, croccante e sfizioso. Sazia senza appesantire, e non vi lascia con quel senso di incompiuto in bocca.
9. Rapida.
Cominciate a guardare il cibo quotidiano con occhi diversi, spostate l’attenzione dai pasti pronti (surgelati o non) a quelli buoni e che si preparano in dieci minuti. Per assemblare una vera insalata gourmet, e per formulare infinite ricette, basta seguire poche fondamentali regole.
Fate attenzione a queste quattro macro-categorie:
1. Sensoriale.
La nostra insalata può dare stimoli chimici, termici, meccanici, dolorosi, chemestesici ed emozionali. Gli stessi elementi che veicolano il senso dell’UMAMI.
2. Salutistico.
La nostra insalata fornisce fibre, vitamine, sali minerali, antiossidanti, tutti elementi che garantiscono la massima efficienza del nostro organismo.
3. Nutrizionale.
La nostra insalata è equilibrata nel rapporto tra carboidrati, proteine e grassi, tutti elementi che garantiscono un pasto bilanciato.
4. Gourmet.
La nostra insalata è prima organoletticamente buona, poi tutto ciò che vogliamo rappresentare.
Gli ingredienti dell’insalata gourmet Consiglio di partire da quelli fondamentali per poi aggiungerne altri una volta acquisita una certa dimestichezza. Alla fine vi svelerò dei piccoli trucchetti, apparentemente banali ma di grande impatto.
ORTAGGI
Sono tantissimi, hanno sapori decisi e consistenza perlopiù croccante. I diversi tagli permettono di variarne la percezione.
201 - BBQ4All Magazine
“Troppe semplici insalate verdi soffrono di mancanza di immaginazione.”
A FOGLIA Cicorie propriamente dette, l’indivia belga e i tutti i tipi di radicchio. Un contributo di sapore importante per la nota amaricante più o meno intensa. Indivie .La riccia, la scarola e la belga per intenderci. La prima ha foglie frastagliate e sapore pungente. Si usa in abbinamento ad altre insalate, quasi mai da sola. La scarola si presta a essere cotta. Lattughe. Assumono la forma a cappuccio, come la trocadero e l’iceberg, o a coste, come la lattuga romana oltre a quelle da taglio. Molto croccanti ma dal sapore delicato. Erbe aromatiche. Inutile elencarle tutte, aggiunte all’insalata, basilico, prezzemolo, origano fresco e maggiorana danno aroma e sapore. DA FIORE. Cavolfiori, broccoli, cavoletti di Bruxelles, cavolo cappuccio, verza, carciofi e asparagi. Alcuni devono essere necessariamente cotti e raffreddati nel ghiaccio per mantenere un bel colore verde brillante. Personalmente adoro la julienne di cavolo cappuccio crudo.
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DA FRUTTO. Pomodori, melanzane, peperoni, zucchini, zucche, cetrioli e avocado. Crudi, alla piastra, al vapore o appena sbianchiti e poi raffreddati. Possiedono un sapore spiccato e distintivo. DA FUSTO. Sedano e finocchio. Gusto deciso e consistenza croccante, oltre a una componente aromatica molto forte.
DA RADICE. Carote, barbabietole, rape, ravanelli, daikon e sedano rapa. Vagamente dolci, aggiungono croccantezza, sapore e note pungenti (soprattutto ravanello e daikon). DA TUBERO. Patata, patata dolce, topinambur, zenzero. (che è un rizoma, più tubero che radice). Estremamente versatili.
FRUTTA. Aggiunta all’insalata la frutta dà un tocco di stile e sapore. Fresca, in piccoli pezzi da masticare, affettata o tagliata a fiammiferini. Aggiunge dolcezza e acidità a supporto delle percezioni sensoriali.
UMAMI. Alcuni ingredienti apportano una forte carica di sapore, potremmo dire che parlano ad un "volume" alto. Anche in piccole quantità fanno deflagrare le papille gustative, controparti utilissime per i vegetali meno gustosi. Ce ne sono tanti, ma possiamo provare a classificarli. Occhio alle dosi, ricordate che apportano carboidrati, proteine e grassi. Formaggi stagionati o erborinati. Gorgonzola, Roquefort, Feta, Caprini, Parmigiano Reggiano 30/60 mesi, pecorini, tome. Un patrimonio spesso italiano che dà un’identità unica al piatto. Stimolano la salivazione e non annullano gli altri sapori. Variate anche la forma: briciole, petali, scaglie o fiammiferi. Salumi. Selezionate il meglio:
speck, culatello, il migliore prosciutto crudo o cotto. Qualche etto non rovina il patrimonio ma concentra gusto e sapidità come poco altro. Legumi. Fagioli, ottimi i Borlotti e i bianchi di Spagna, Ceci, Fave, Lupini, Piselli. Cotti ma ancora un po’ tenaci. Scolati, asciutti e sgranati aggiungono sapore e consistenze diverse. Apportano carboidrati, proteine, acido folico e ferro. Sottoli e sottaceti. Funghi, olive, peperoni, melanzane, carciofini, ortaggi grigliati, tonno e pomodori secchi. Cercate il prodotto giusto, anche di nicchia se serve, ne basta poco per ricavare una potenza gustativa unica. Con il tono acido, i sottaceti contrastano il sapore delle insalate, provate e fatemi sapere. Prodotti conservati nel sale. Olive nere e verdi, capperi, acciughe, alici, uova di trota o simili, bottarga. Aroma e picco sapido. Da aggiungere tagliati a piccoli pezzi che saporiti come sono impennano la curva del gusto. Funghi. Se coltivati, si tagliano a lamelle sottili e si aggiungono crudi o appena scottati. I funghi selvatici, come i porcini, hanno una carica di sapore esplosiva, deliziosi da crudi.
ELEMENTO CROCCANTE. Serve a fornire percezioni meccaniche di contrasto. Vivacizzano l’insalata e la rendono golosa.
Fettine sottili di pane tostato. Interagiscono con il piatto, le portate alla bocca con le mani, le mordete, le usate come palette sulle quali poggiare gli ingredienti. Affettate il pane, lo mettete su una placca spennellato con un velo d’olio, aggiungete qualche erbetta e strofinate appena un pezzetto di aglio, poi via in forno per qualche minuto. Buonissimo! Verdura e frutta disidratata. Come prima, mettiamo in forno le fette così le asciughiamo. Si disidratano trasforman-
dosi in elementi croccanti di forte identità gustativa. Utili per dare consistenze diverse agli ingredienti, per esempio, possiamo tagliare dei cubetti di mela e aggiungere delle fette di mela disidratata, stesso tema, sapori diversi.
Tips & Tricks da mago
Frutta secca. Mandorle, nocciole, noci, pistacchi, anacardi, semi di sesamo, eccetera. Carica energetica, proteica ma grassa, quindi meglio non esagerare: bastano 4/5 anacardi tostati per aggiungere sapore e contrasto.
Tagliateli a fette sottili, zucchini, melanzane e peperoni ma anche asparagi, coste di bietola, zucca, cipolle, fagiolini, fave e piselli nel baccello, procuratevi una piastra in ghisa e scottateli a fuoco violento per un minuto, solo da un lato. Le sostanze termolabili saranno in parte conservate e le verdure quasi cotte ma ancora croccanti vi stupiranno.
DRESSING. Definirlo condimento sarebbe riduttivo, nemmeno vinaigrette o citronette è appropriato. Il dressing è un concentrato di tecnica e conoscenza che decreta il successo di un’insalata. Vedrete come cambia il risultato.
Vi svelo qualche trucchetto per aggiungere ulteriore magia al vostro piatto.
Per gli ortaggi:
Per la frutta:
Caramellata in padella per concentrare e intensificare il sapore. Ad esempio: affettate una mela, sporcate il polpastrello di succo di limone e strofinatelo
203 - BBQ4All Magazine
Crostini. Cubetti di pane anche integrale, tostati in padella o al forno, insaporiti con una goccia di olio extravergine. Un bocconcino che scricchiola sotto i denti equilibra la consistenza morbida dei cubetti di mozzarella, anche di bufala. Attivazione di più recettori = Maggiore intensità sensoriale.
sulla superficie della fetta. Poi ripetete sporcandovi il dito di zucchero semolato. Fate passare qualche minuto. L’acidità del limone scinde lo zucchero in glucosio e fruttosio, due zuccheri riducenti che aiutano la Reazione di Maillard, inoltre l’acido citrico è un anti-ossidante naturale che non fa annerire la mela. Centrifugate la frutta e unite un pochino di succo di limone per mantenere il colore contrastando l’ossidazione. Aggiungete il centrifugato di frutta per intensificare il sapore.
Per i salumi:
Essiccate delle fette sottili in forno; vi dice niente il profumo dello speck affumicato e croccante da mangiare alla fine, magari con le mani? L’essiccatura concentra sì il sapore ma anche la sapidità, per cui regolate di conseguenza la quantità di sale. Usate i salumi anche in una mousse. Prosciutto e mortadella si prestano alla perfezione. Emulsionate dei cubettini di prosciutto di Praga, dall’aroma affumicato, in un mixer con dell’acqua bollente. Spalmatene un cucchiaino su una fetta di pane tostato e accompagnate l’insalata.
204- Almanacco 2020
Per i sottoli e sottaceti:
Vanno sgo cciolati b ene sulla carta assorbente prima di aggiungerli all’insalata. L’eccesso d’olio è superfluo. Non sbilanciamo la quantità di grassi del dressing caricando calorie inutili, no? Se preferite un gusto più delicato, mettete i sottaceti a bagno per 10 minuti in acqua fredda con un po’ di sale. Perderanno un po’ di carica acida nel liquido per effetto dell’osmosi e le verdure, specialmente le cipolline, risulteranno
più gradevoli. Personalmente amo l'acidità spiccata.
di temperatura aggiunge un altro elemento sensoriale.
Per i funghi secchi:
I quattro comandamenti della insalata gourmet
I funghi secchi hanno un intensissimo potere Umami perché l’essiccatura ne concentra la forza. Aggiungete al dressing l’acqua tiepida usata per farli rinvenire, così rinforzate il gusto.
Per la frutta secca:
Questo è un grande trucco e molti lo conoscono già; tostare la frutta secca in padella fa emergere in superficie gli olii essenziali. Il gusto cambia completamente e il contrasto
«Cogli l’attimo»
Cogliere l’attimo è fondamentale, la più entusiasmante espressione di tortellini in brodo perde ogni carisma se servita sotto l’ombrellone, in una spiaggia siciliana, ad agosto. Contestualizzare l’ambiente e l’occasione per la degustazione
«Cogli l’essenza dell’ingrediente»
Tutti gli alimenti hanno due gusti, uno è registrato nel nostro cervello, l’altro è quello specifico, che può essere diverso da quello che abbiamo memorizzato; spesso lo è. Se qualcuno ci chiedesse di descrivere il gusto di una banana, la nostra risposta immediata sarebbe “è dolce”. Questo perché il ricordo è stato registrato quando abbiamo mangiato la più buona banana di sempre, che da quel momento è diventato il nostro indice di comparazione. Ecco cos’è l’essenza dell’ingrediente. Per questo è importante mettere nella nostra insalata gli ingredienti migliori; trasformeremo un semplice pasto in un piacere cui è impossibile rinunciare.
«Rispetta la stagionalità degli ingredienti»
La natura sa cosa fare, lasciamola lavorare in pace. Impariamo a conoscere i prodotti e la loro ciclicità, diamo la preferenza ai prodotti di stagione, un pomodoro raccolto al momento giusto equivale a un picco di sapore.
«Impara la tecnica»
Ascoltate gli ingredienti, una mela con qualche macchia nera probabilmente è al punto più alto di maturazione. Non è bella da vedere ma può diventare una mousse lussuriosa. Cuocetela al microonde, diventerà morbida, profumata senza annerirsi. Ora passate la polpa al setaccio, emulsionatela con succo di limone, pochissimo fruttosio o zucchero di canna, un’idea di cannella e un microgrammo di sale. Mentre è ancora calda, riempite un piccolo bicchierino e sbriciolate mezzo frollino da colazione sulla sommità, guarnite con una foglia di menta ed ecco pronto il vostro piccolo dessert. Esistono molte tecniche per conservare, cuocere, presentare.
Il condimento perfetto per l’insalata si chiama dressing Noi italiani condiamo le insalate con olio extravergine d’oliva, aceto o
succo di limone, sale e pepe. Gli americani, invece, utilizzano un cabaret di condimenti sia liquidi che cremosi. Ne fanno di tutti i colori, dal rosso delle salsine al lampone al giallo del peperone arrosto. E le basi: maionese, yogurt, cetrioli e via folleggiando. Esiste perfino il famigerato “Italian dressing” del quale è meglio continuare a ignorare l’esistenza. Una volta, in una Steak House di Memphis, ho trovato anche la «Carta dei Dressing», un fantasioso elenco di salse per accompagnare le insalate. Anche troppo fantasioso, leggere le etichette di quelle cremine e pensare a provette e bilancini è stato automatico: antiossidanti, stabilizzanti, tensioattivi, conservanti, addensanti, esaltatori di sapidità. Alcuni marchi offrono prodotti dignitosi ma le salse economiche sono davvero pozioni da druido. Eppure quegli intrugli mi avevano incuriosito, per cui mi sono chiesto:
C’è qualcosa che non va nella nostra oliera? E nei loro dressing? Si può fare di meglio? E se sì, come? Mi sono messo a cercare le risposte, ed è venuto fuori che: 1. Il metodo italiano di condire l’insalata è completamente sbagliato. 2. L’uso del dressing che fanno gli americani è incontrollato, però l’idea c’è. 3. Chiamatelo pure cerchiobottismo, ma il condimento ideale è un cocktail delle due scuole di pensiero. Le foglie d’insalata bagnate
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di un piatto è fondamentale. Si parte sempre dal nostro desiderio: il primo pomodoro del nostro orto ci ricorda una gita in campagna? Sentiamo ancora il profumo di quel basilico tanto era intenso? Una caprese fatta in modo diverso è quello che ci vuole. Vengono gli amici a cena e voglio fare bella figura. Fuori fa freddo e ho bisogno di un cibo confortevole? Ci vuole un risotto caldo e corroborante piuttosto che una fredda insalata di riso, vero? Fuori fa caldo e voglio mangiare un pasto leggero senza appesantirmi. Pollo arrosto o petto di pollo marinato al lime e rosmarino, cotto sulla griglia con un’insalata estiva magari di lattuga Trocadero e indivia riccia, spicchi d’arancia pelati al vivo, due scagliette di pecorino sardo, cipollotto, crostini di pane di segale e dressing alla senape e miele. Che ne pensate?
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dall’olio diventano traslucide, non succede la stessa cosa con i liquidi non oleosi, come l’acqua, l’aceto o il succo di limone. Questo perché le foglie sono rivestite da un sottile strato di materiale ceroso, una sorta di impermeabile incorporato grazie al quale le foglie si proteggono dalle intemperie. L’acqua che raggiunge le foglie scivola sullo strato ceroso e si aggrega in piccole goccioline. L’olio, invece, che diversamente da quel che si pensa è meno denso dell’acqua, penetra all’interno rovinando l’aspetto delle foglie. Provate! Molti usano la vinaigrette mischiando una parte di olio e due (o tre) di aceto. Ma olio e aceto non sono amalgamabili tra loro. Se li mettiamo in un contenitore e mescoliamo energicamente, prima le due masse si uniscono, quindi si disperdono in gocce piccolissime fino a quando non si separano di nuovo. Guardate l’aspetto della vinaigrette sopra la foglia d’insalata, l’olio si aggrappa tenacemente alla foglia mentre la povera goccia di aceto, sospesa sull’olio, cade al minimo movimento. In pratica, l’olio si ancora saldamente alla foglia invece l’acqua scivola sulla parte cerosa. Ecco perché l’aceto, che dovrebbe star sotto, è invece in superficie, sopra l’olio. Per capire come mai l’aceto cade è stato fatto un altro esperimento: si è messa dell’insalata dentro un imbuto appoggiato sui bordi di un bicchiere. L’esperimento consiste nel capire se una vinaigrette stabilizzata, cui si è aggiunto un ingrediente in grado da fare da collante (come la senape ad esempio), offra una maggiore capacità di adesione rispetto a una
preparata in modo tradizionale. Stessa quantità d’insalata e vinaigrette, ma una è stabilizzata mentre l’altra no. La Vinaigrette stabilizzata rimane saldamente aggrappata all’insalata mentre l’altra dapprima si separa, la parte oleosa resta attaccata alle foglie mentre quella acquosa (aceto) cade sul fondo del bicchiere. Come dire che la maggior parte della dose di aceto che usiamo per condire l’insalata finisce in fiondo al piatto entro pochi secondi. Insomma, un condimento sbilanciato da tutti i punti di vista che dovrebbe convincerci a mandare in pensione l’oliera: il metodo italiano non è efficientissimo.
è quindi realizzare un’emulsione stabilizzata invece di condire con olio e aceto separatamente. Solo così vi assicurerete una maggiore presa del condimento, che riuscirete anche a distribuire in modo uniforme. Ovviamente, per creare la miscela adatta a ogni tipo d’insalata, oltre a olio e aceto possiamo includere numerosi altri ingredienti.
Cosa accomuna il condimento degli americani al nostro? Una filosofia assolutamente valida: unire grasso, acido, sale, spezie, aromi. Il problema è che negli States si perde facilmente il controllo della situazione, le insalate finiscono annegate da fiumi di condimento dominato dalla maionese. Saranno anche buone, io le salse le adoro, ma si tratta di sapori grossolani, chiassosi. Senza contare che per tenere uniti grasso, acido, sale, spezie, e aromi conservando a lungo il buon sapore è obbligatorio ricorrere all’uso massiccio di additivi alimentari. Il problema di molte salse americane è che la lista degli ingredienti riconoscibili dura una sola riga mentre quella degli additivi quattro.
In chimica fisica, è una miscela costituita dalla dispersione di goccioline di un liquido (fase dispersa o discontinua) in un altro (fase disperdente o continua) nel quale sono insolubili o quasi.
Ecco perché è il caso di preparare da soli i nostri dressing, scegliendo con cura gli ingredienti. Abbiamo visto che senza l’uso di stabilizzanti l’emulsione è comunque destinata a separarsi, ma a noi interessa che resti unita il tempo di mangiare l’insalata. Per far questo bastano gli stabilizzanti naturali. Quello che vi raccomando di fare
Per prima cosa chiariamo il concetto di emulsione. Sopra abbiamo parlato di “emulsione” e “stabilizzata”. Secondo l’enciclopedia Treccani il significato di emulsione è questo:
Sono emulsioni molti alimenti (latte, burro, maionese), cosmetici (creme, lozioni), medicamenti, detersivi, insetticidi, lubrificanti, vernici. Fare un’emulsione significa quindi disperdere delle gocce di un liquido in un altro non amalgamabile con il primo. Per ottenere queste gocce è necessario rompere la struttura delle molecole e riorganizzarla, in pratica dobbiamo mescolare le due sostanze, più energia mettiamo più piccole saranno le gocce. Così facendo otteniamo una soluzione composta da piccole gocce d’acqua e olio, affiancate in modo casuale. Per il principio della coalescenza (due particelle che si uniscono per formarne una più grande)
Detto questo, immaginate gli infiniti condimenti che possiamo realizzare? Adesso proviamo a stabilire con ragionevole certezza quali elementi deve contenere il dressing. UNTUOSITÀ. Un grasso, molto spesso un (grande) olio. ACIDITÀ. Aceti, succo di limone o lime ma anche succhi di frutta di spiccata acidità. SAPIDITÀ. Sale e non solo: salsa di soia, colatura di alici, Worcestershire sauce. DOLCEZZA. Zuccheri, meglio se aromatici: miele, sciroppo d’acero, zucchero grezzo, zucchero di cocco. AROMATICITÀ. Erbe, spezie, ortaggi. Infinite possibilità. UMAMI. Il “volume” del sapore.
STABILIZZANTE. La famosa colla. Miele, lecitina di soia e senape sono stabilizzanti naturali, ma ce ne sono molti altri. La stessa maionese è al contempo emulsione ma anche stabilizzante. Di olio è pieno il mondo, di grandi oli meno, non risparmiamo su questo prezioso ingrediente, usiamo il migliore che possiamo permetterci. Senza dimenticare gli oli di semi pregiati: Olio di mandorla di Noto, Olio di Pinoli di S. Rossore, Olio di Pistacchio di Bronte, Olio di Nocciola. Pur non rappresentando un’alternativa all’olio extravergine, sono veramente piacevoli, una specie di elisir. Olio a parte, possiamo ricorrere a un altro ingrediente squisito anche se spesso sottovalutato: lo yogurt. Se intero apporta una maggiore quantità di grasso ma anche una splendida acidità. E ora l’aceto. Di vino bianco, di vino rosso, balsamico, tradizionale, di mele, di miele, di lamponi, di mirtilli, di more, di umeboshi, di riso, di ribes nero, di mais e tutti quelli che dimentico. L’acido è la base comune, ma le sfumature di sapore sono diverse e fanno la differenza. Altro ingrediente bistrattato: la salsa Tabasco. Qualche goccia e il dressing può trasformarsi in una bomba di sapore. Lo zucchero mitiga l’azione pungente dell’acido e del sale. Possiamo usarlo semolato ma nessuno ci impedisce di provare un buon miele o lo zucchero di palma/acero/cocco. Sono tutte note aromatiche distintive. Aromaticità non vuol dire soltanto origano o prezzemolo,
si può fare di più. Pensiamo alle foglie di shiso, al lemon grass, alla vaniglia, al cardamomo, al macis, allo zenzero, al wasabi. A elencarli tutti non finiamo più. Portiamo carattere, nuovi sapori, nuove inclusioni. La sperimentazione in cucina fa parte del gioco ed è anche divertente, scoprire abbinamenti che funzionano è appagante, perché non farlo? Molti gastrortodossi inorridiscono davanti al termine UMAMI, non si capisce perché. Esistono molti elementi umami liquidi, alcuni li abbiamo già indicati sopra, la salsa di soia, la salsa Worcestershire, anche Salsa di pesce fermentato (per gastroindulgenti) o la splendida colatura di alici di Cetara. Si possono utilizzare alghe, funghi e quanto già sappiamo. Volete un altro suggerimento? Rinforzate il condimento con uno degli ingredienti principali dell’insalata. Se ne preparate una con gli zucchini saltati, probabilmente avrete usato solo la parte verde esterna, più croccante e saporita. Recuperate l’interno, saltatelo in padella con del cipollotto e un goccio di vino bianco. Quando è stracotto aggiungetelo al dressing e frullate tutto, sarà una valida spalla per l’ingrediente principe del piatto. Fatelo con i peperoni, con la zucca, con i cavoli, con qualsiasi cosa. Ultimo ma non ultimo è il dispositivo che permetterà la creazione del dressing perfetto: Il blender o mixer. Oltre a frullare e sminuzzare perfettamente, l’alta velocità dello strumento regala all’emulsione una struttura vellutata, impossibile da ottenere sbattendo tutto a mano. In aggiunta, le particelle
207 - BBQ4All Magazine
le goccioline tenderanno ad aggregarsi nuovamente; in altre parole si spostano e si uniscono per creare una goccia più grande. Se invece volessimo mantenere legate queste gocce, dovremmo utilizzare una sorta di colla che nel caso delle emulsioni si chiama “stabilizzante” o “surfattante”. Un agente che ha la particolarità di abbassare la tensione superficiale di un liquido. La tensione superficiale, per farla semplice, è la forza che permette alle zanzare di camminare sul pelo dell’acqua.
generate dalla turbolenza della rotazione sono molto piccole, in questo modo lo stabilizzante è più efficace e l’emulsione rimane stabile per giorni.
L'insalata del griller: la Steak Salad «La
bistecca con questo caldo? Ma sei fuori?» Sì, a grigliare. A parte che i veri Grill Master moriranno da eroi e accenderanno la griglia sempre e comunque, da un certo punto di vista, però, non me la sento di darvi torto del tutto. Ma c'è sempre un ma. E c'è sempre una soluzione, sempre. E la soluzione si chiama Steak Salad.
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Avete presente il prosciutto cotto? È un salume. A base di carne cotta. Che si mangia freddo. Avete presente invece il Prosciutto di Praga? È un salume. A base di carne cotta. Affumicata. Che si mangia freddo. Avete presente la mortadella? Bene. Come sopra. Avete presente invece il prosciutto crudo? È un salume di carne cruda. Stagionata. Che si mangia freddo. Avete presente il Salame Ungherese? È un salume a base di carne cruda. Affumicato. Stagionato e che si mangia freddo. Passiamo ad un altro sport. Avete presente lo Jamon Iberico? È un salume a base
di carne cruda. Stagionato. Che si mangia a temperatura ambiente. Avete presente la differenza abissale tra il sapore del miglior prosciutto crudo italiano e il più scarso Jamon Iberico de Bellota spagnolo? Esatto. Inarrivabile. La cosa che però forse non sapete è che la temperatura a cui viene servito fa una profonda differenza. Nessuno, in Spagna, vi darà dello Jamon Iberico freddo di frigo. Nessuno. Quando lo vedi nel piatto è sempre, come dire "sudato". Lucido. Brillante. Oltre al disciplinare di lavorazione, la differenza importantissima è data dalla temperatura di servizio. Andiamo alla nostra Steak Salad. La Steak Salad è un'insalata fatta con una bistecca cotta. Che si mangia a temperatura ambiente. Quindi scottare una bistecca (come si deve) anche molte ore prima, affettarla molto sottile e mangiarla a temperatura ambiente in mezzo all'insalata è un'esperienza meravigliosa. Che cosa dobbiamo tenere in considerazione quando prepariamo una steak salad? Croccantezza: Usate sempre degli elementi croccanti nell'insalata. Che siano le stesse verdure o dei crostini di pane o del pane carasau o qualsiasi cosa "crunchy" che vi viene in mente. Acidità: Usate sempre un dressing acido -oppure- della frutta acidula. Non abbiate alcun timore a mescolare carne fredda e frutta acidula perché ne resterete
estasiati. Serve ad equalizzare le note grasse della ciccia. Pungenza: Usate sempre qualcosa che punga. La nuova linea di Rub Sal’s Seasoning, per esempio, andrà a nozze con questo concetto. Cipollotto, capperi, un po' di senape di Digione nel dressing, un pezzo di peperoncino fresco o dello zenzero. Qualcosa che spinga. Conditela all'ultimo secondo e mi raccomando: c'è la ciccia quindi servirà un po' più di sale rispetto al solito. Usate una carne di media marezzature. Una PRIME o una 5/6+ sarà perfetta. A temperatura ambiente otterrete quel tipico aspetto "sudato" perché il grasso tenderà a fondere rendendo il boccone assolutamente strepitoso.
209 - BBQ4All Magazine
Mangiare la bistecca fredda? Sì, se è ricercato e soprattutto se la temperatura esterna lo richiede, non solo si può fare ma si deve. Ah, stesso principio per un carpaccio marinato. La tostatura della cottura darà note aromatiche interessanti al tutto. Quindi non abbiate nessuna paura di tenere un paio di bistecche già cotte nella pellicola in frigo. Tanto adesso sapete benissimo come utilizzarle e come valorizzarle al massimo, no?
Burro Burro di Cacao Olio di Palma Olio di Oliva
Carboidrati
Saturi
Monoinsaturi
Olio di Mandorle
Semplici
Olio di Soia Olio di Mais
Poliinsaturi
Olio di Girasole
Grassi
Insaturi
Margarina
Grassi Idrogenati
Pesce Crostacei
Omega 3
Olio di nocciole Noci Cereali
Omega 6
Pane
Acidi Grassi Essenziali
Fosfolipidi
LDL
Composti
Trigliceridi
Lipoproteine
Macronutrienti
HDL
Selezione del fornitore
Materia Prima
Controllo qualità Conservazione Preservativa Cottura
Tecnica
Conservazione Styling Servizio
Aspetti Tecnologici
Tutti
Il cuoco
Chi sono Cosa Voglio
Forte Identità
Perchè
Insalata Gourmet
Come lo ottengo E se... Forma contenitore Ingredienti portanti
Struttura
Dressing Ingredienti di contrasto Ingredienti Dosi Ausili Tecnici
Formula Esecutiva
Costo Metodo di esecuzione
La ricetta
Tempi di realizzazione Cena di gala Cooking Show Cena in famiglia
Circostanza
Barbecue all’aperto Dieta Ipocalorica Tutte le altre
L’essenza del Momento
Freddo Pioggia
Condizioni Meteo
Caldo Vento
Il contesto
210- Almanacco 2020
Altre Stagionalità Esempio. Banana Dolce o non troppo
Saporte “attuale” Intensità Contesto Culturale Affinità di sapore
Cogliere l’essenza dell’ingrediente
Acido Dolce
Bocca
Amaro Salato
Semplici
Zuccheri
Complessi
Amidi
Umami
Naso
Proteine
Aroma
Chimiche
Vegetali
Ghiacciato
Animali
Freddo Fresco Tiepido Caldo Bollente
Micronutrienti
Termiche
Fibre Vitamine Minerali Fitochimici
Sensoriale
Meccaniche
Aridità
Coesione
Umidità
Densità
Rugositòà
Viscosità
Granulosità
Durezza
Scivolosità
Fratturabilità
Lveviftezza
Assorbimento di Umidità
Omogeneità di masticazione
Gommosità
Omogeneità
Pesantezza
Omogeneità di morso
Rilascio di umidità Pungenza Bruciore Freddo Intorpidimento Astringenza
Chemestesiche
Visuale Emozionale Mentale Spirituale
X-Factor
Fibre
Salutistico
Vitamine
Per il cuore
Minerali Fitochimici
Per gli occhi
Vitamine
Per il cervello
Minerali
Per la pelle
Per la articolazioni
Vitamine
Fitochimici
Per le ossa
Per il sistema immunitario
Vitamine
Vitamine Minerali Vitamine Minerali
211 - BBQ4All Magazine
Mindmap
Nutrizionale
Insalata Gourmet
Calore
Il senso del
GUSTO guida completa alla degustazione!
Illustrazioni di Eleonora Castagna
212- Almanacco 2020
a cura di Stefania Pompele
Nella gerarchizzazione dei sensi propria della filosofia antica, il senso del gusto rappresentava una sorta di porta degli inferi per gli istinti più bassi, carnali. Platone sosteneva che ciò che percepiva la lingua non producesse benefici sull’anima intellettiva ma al contrario, su di essa potesse sortire effetti dannosi: “l’appetito è una forza potente, inarrestabile, che deve essere tenuta in catene come un animale selvatico, affinché non sovrasti il vivente nella sua interezza”. Al contrario di vista e udito – percepiti come strumenti fondamentali nella conoscenza della realtà – quindi prerequisiti essenziali per l’attività intellettuale e filosofica, il gusto rappresentava il più basso recinto della dimensione umana. Con Aristotele l’analisi dei sensi diventa meno idealistica e più scientifico-pragmatica. Ma pur ammettendo che le anime avessero bisogno dei corpi e la carnalità non potesse semplicemente essere derubricata a gabbia e ostacolo per l’anima razionale, e pur rilevando come il piacere rappresentasse una dimensione importante delle virtù umane, la vista e l’udito sono considerati i sensi più elevati e importanti da un punto di vista conoscitivo. Insomma, relegati a sensi minori, o addirittura demonizzati, olfatto e gusto hanno subito storicamente una sorta di caccia alle streghe. Il presente ci consegna uno scenario direi capovolto, la sensorialità non è solo al centro di ennemila pubblicazioni scientifiche, ma spesso tema trattato nei salotti in cui si filosofeggia di estetica, arte, e appunto gusto (nel senso più ampio del termine). Non è ovviamente mia intenzione filosofeggiare di alcunché, ma guidarvi alla scoperta di questo tipo di sensorialità.
Insomma la faccenda è parecchio ingarbugliata e in questa area, ossia quando addentiamo un pezzo di succulenta ciccia, lavorano in sinergia parecchi telescopi sensoriali. Data la loro moltitudine e complessità, e la mia attitudine al caos, raccontarne un pezzetto per volta dovrebbe semplificarci le cose.
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Dunque spostiamo la prospettiva qualche centimetro più in basso e parliamo di percezioni gustative. In realtà la zona orofaringea è interessata da svariati stimoli, ascrivibili al altrettanti recettori (termici e gustativi ad esempio), terminazioni nervose libere (tipo quelle sensibili al piccante) e sistemi misti.
Cenni di fisiologia e meccanismo percettivo La parola gusto, in senso stretto, è riferita all’organo di senso preposto a percepire gli stimoli chimici che giungono in contatto con i recettori gustativi, gli stimoli che interagiscono con l’apparato gustativo sono definiti sapore. La zona maggiormente coinvolta nella percezione del sapori è la lingua, tuttavia si trovano recettori anche sul palato molle, labbra, faringe ed epiglottide, anche se queste ultime svolgono un ruolo meno rilevante. Lo stimolo sensoriale ha origine nei cosiddetti bottoni (o gemme) gustativi, strutture a forma di cipolla presenti in numero variabile all’interno delle papille gustative.
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Sulla parte anteriore della lingua troviamo le papille fungiformi, le circumvallate si trovano invece nella regione posteriore della lingua (formano una sorta di V capovolta), e le papille foliate, provviste anch’esse di gemme gustative, vanno a formare piccoli solchi ai lati della lingua nella regione posteriore. Abbiamo poi le papille filiformi, in questo caso si tratta di recettori privi di gemme gustative, non sono in grado di pecepire sapori ma sono coinvolte nelle percezioni tattili. All’apice dei bottoni gustativi sono presenti delle estroflessioni filiformi dette microvilli. Le molecole veicolate dalla saliva sono trattenute da queste estroflessioni e vengono quindi in contatto con le cellule
gustative. I recettori del gusto inviano quindi impulsi elettrici ai nervi gustativi che arrivano alla base dei bottoni dove si ramificano estensivamente, creando una connessione sinaptica con più recettori all’interno dello stesso bottone gustativo. I recettori rilasciano l’informazione ai nervi gustativi attraverso neurotrasmettitori, da qui il segnale viene trasdotto in impulso elettrico - l’unica lingua che il nostro cervello è in grado di comprendere- per raggiungere quindi specifiche aree del cervello (corteccia primaria e secondaria) responsabili della percezione vera e propria di sapori e di risposte comportamentali, come avversione, secrezione gastrica, comportamento alimentare.
La geografia dei sapori: la corazzata potemkin della percezione Le scienze sensoriali sono materia recente, lo sappiamo. Ma questa cosa della geografia dei sapori non è certo una faccenda attuale, tutt’altro. Eppure ci sono voluti tipo un centinaio d’anni per capire di aver male interpretato uno studio di fine ‘800. Fu D.P. Hänig lo scienziato che per primo misurò le soglie di percezione gustative basandosi a sua volta sugli studi di E. B. Tichener (allievo di W. Wundt, il padre della psicologia sperimentale). Hänig dimostrò l’esistenza di una preferenza specifica dei singoli recettori rispetto ai sapori primari, cosa peraltro confermata, limitandosi appunto ad indagare questo aspetto della percezione. Non affermò però che quegli stessi recettori non fossero in grado di percepire anche altri sapori. Ammesso si fosse posto il problema non avrebbe avuto i mezzi per approfondire la questione. E con questa errata convinzione abbiamo scritto quintalate di materiale e indottrinato eserciti di assaggiatori di ogni ordine e grado “geografizzando” la lingua. A smentirci ci ha pensato uno studio americano del 2001 che ha dimostrato come le singole cellule sensoriali, ovvero le papille gustative dotate di gemme gustative, non rispondano esclusivamente ad un unico sapore, ma solitamente a più stimoli gustativi, seppur in modo diverso. Esiste una preferenza specifica dei recettori rispetto ai sapori
La cosa più utile da fare quindi per discriminare i sapori è imparare a capire come si comporta un carboidrato rispetto ad uno zucchero semplice, il cloruro di sodio rispetto al potassio, l’amaro dato da tostatura rispetto a quello che potete trovare in una crucifera (solo per fare alcuni esempi), prestando attenzione a quello che accade nel vostro di palato, non solo in termini di intensità di percezione ma di zone maggiormente coinvolte in quel tipo di stimolo sensoriale.
Di sapori primari, soglie di percezione e supertaster Dolce, acido, salato, amaro, sapido e grasso (eh sì, ve ne parlo poi). Questi i cosiddetti sapori primari che le scienze sensoriali identificano in quanto rispondenti a specifici stimoli sensoriali, associati a loro volta a sostanze specificatamente alimentari, insomma macro e micronutrienti o, in alcuni casi, sostanze potenzialmente tossiche (il nostro rapporto conflittuale con l’amaro lo testimonia). Chiarito l’ovvio, cioè che il nostro corredo sensoriale è progettato per rispondere a bisogni primari, l’intensità con cui sperimentiamo uno stimolo è una faccenda squisitamente soggettiva. Genetica, età, sesso, cultura e contesto hanno un peso rilevante in tal senso. Non tutti percepiamo i sapori con la stessa intensità e le differenze di percezione in alcuni casi sono significative. Sono parecchi gli studi a tema, recente e tutto italiano quello orchestrato dalla SISS – Società Italiana di Scienze Sensoriali. “Italian Taste” ha testato in un triennio un campione rappresentativo di circa 3000 volontari, con lo scopo di indagare le tendenze alimentari dello Stivale. Proprio in relazione
alle variabili genetiche, lo studio si è concentrato su due parametri: la conta delle papille fungiformi e la risposta sensoriale ad alcune sostanze amare chiamata in gergo PROP status, ritenendo questi parametri indicativi in quanto capaci di condizionare le nostre scelte alimentari, quindi il nostro stato nutrizionale e di salute. Per quanto riguarda la conta delle papille, i test hanno evidenziato l’estrema variabilità di recettori per cm2, presenti nei soggetti testati in numero variabile da 1-2 fino a 100 papille. In particolare, nel campione preso in esame, si è evidenziata una maggiore presenza di papille fungiformi per cm2 nelle femmine (23) che nei maschi (21), presenza che tende a diminuire drasticamente con l’avanzare dell’età soprattutto nei maschi tra i 30 e i 40 anni, mentre nelle femmine segue un andamento più graduale. Evolutivamente parlando questa cosa ha parecchio senso, nella stessa direzione anche l’ipersensibilità all’amaro. Nel 1994 Linda Bartoshuk, allora nel team della Scuola di Medicina della Yale University, pubblicò uno studio fondamentale sull’influenza della genetica sul senso del gusto. Il lavoro della ricercatrice si basava sulla valutazione della capacità dei soggetti testati di riconoscere il sapore amaro di specifiche sostanze, la feniltiocarbammide (PTC) e il 6-n-propiltiouracile (PROP), già da tempo utilizzate in questo tipo di ricerche. Il PROP status (abbreviazione
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primari, ma non vi è una selettività assoluta. Potreste insomma percepire il dolce non solo sulla punta della lingua, piuttosto che il salato ai lati e via discorrendo, ma percepire anche altri sapori in queste stesse aree, magari con intensità diverse. La percezione dei sapori avviene a macchia di leopardo su quasi tutta la lingua, labbra e buona parte della cavità orale. La discriminazione dei sapori non è quindi tanto una faccenda geografica, ma piuttosto legata al tipo di recettore e all’attività di confronto con gli altri recettori gustativi.
di 6-n-propylthiouracil) testa appunto, attraverso l’assaggio in una soluzione opportunamente dosata con acqua demineralizzata, l’ipersensibilità ad alcune sostanze amare.
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Non è l’amaro della caffeina, nemmeno quello del luppolo, tantomeno quello legato ad una eccessiva caramellizzazione degli zuccheri in una salsa barbecue. È piuttosto imparentato con l’amaro delle crucifere, e del radicchio. Amari associati ad alcune sostanze potenzialmente tossiche presenti nel regno vegetale, per cui evidentemente abbiamo conservato una sorta di retaggio evolutivo e di risposta sensoriale avversa. La scala di intensità che misura questo tipo di amaro va da 0 a più infinito, si, avete letto bene. Questo per darvi un’idea dell’intensità con cui un Super Taster (così in gergo
vengono chiamati i soggetti che mostrano ipersensibilità a questa sostanza) percepisca alcuni amari. Anche in questo caso, secondo i dati forniti da Italian Taste, le femmine risultano avere maggiore sensibilità ad alcune sostanze amare rispetto ai maschi. Il 34,6% delle femmine e il 21% dei maschi è risultato super taster, mentre il 28% dei maschi e il 24% delle femmine è Non Taster, non percepisce affatto l’amaro del PROP insomma. La relazione tra i due parametri, numero di papille per cm2 e ipersensibilità all’amaro (a cui è legata una generale maggiore sensibilità ad altri sapori, salato e sapido ad esempio) ci rendono geneticamente molto diversi. Statisticamente circa il 50% della popolazione si colloca nella fascia centrale, Non Taster e Super Taster si suddividono più o meno equamente la restante
fetta della torta, con le variabili di sesso citate pocanzi.
UMAMI: servi del glutammato che ci esalta Mi rendo conto che parlare di sapidità in un gotha dei nerd della proteina possa espormi a sonore pernacchie, se non è chiaro a voi come si manifesta questo stimolo sensoriale a chi altri? Umami (o sapido, traduzione non letterale della parola saporito, umami appunto in giapponese) è il termine utilizzato per descrivere la risposta sensoriale dei recettori gustativi in presenza di alimenti contenenti il glutammato (e suoi Sali) e due nucleotici. Era il 1908 quando Kikunae Ikeda, professore di chimica all’Università Imperiale di Tokyo, teorizzò potessero esistere recettori
Dicevamo che la sapidità è dovuta alla presenza nel cibo di glutammato e di due nucleotidi, guanosina monofosfato (GMP) e inosina monofosfato (IMP). Il glutammato è un derivato dell’acido glutammico, uno degli aminoacidi che costituiscono le proteine, anche vegetali. Si tratta di un amminoacido non essenziale, una sostanza che il nostro corpo è in grado di produrre in maniera autonoma. La guanosina monofosfato è abbondante ad esempio nei funghi essiccati, mentre l’inosina monofosfato è abbondante in
alcuni tipi di tonno, sardine e acciughe. Inizia a formarsi alla morte dell’animale e raggiunge la massima concentrazione dopo circa dieci ore, momento in cui la carne del pesce ha maggior sapore. Carni, caseina del latte, glutine dei cereali, contengono glutammato. La miosina della carne ne contiene in quantità pari al 20-30% del peso della molecola. Lunghe bolliture, processi fermentativi, parziali disidratazioni portano a liberare parte del glutammato, ed proprio la frazione libera a stimolare i nostri recettori. Insomma, il brodo di carne diventa saporito non certo per quel pizzico di sale che aggiungete all’acqua, ma perché la lunga bollitura della proteina porta a liberare parte del glutammato, o la fermentazione di una salsa di soia spinge a vette altissime l’intensità di sapore. Carne, pesce, mais sono ricchi di acido glutammico legato, mentre Parmigiano,
piselli e pomodori sono alimenti in cui l’acido glutammico si presenta libero. Il glutammato monosodico, largamente utilizzato come insaporitore, è appunto il sale sodico dell’acido glutammico. Il sapore umami del glutammato è di per sé abbastanza debole e ancor più debole è quello dei due nucleotidi, ma quando queste sostanze sono presenti contemporaneamente aumenta l’intensità percepita della sapidità. Esiste insomma una sinergia importante tra questi composti, sinergia che già era stata intuita dai cuochi giapponesi quando aggiungevano l’alga kombu, ricca di glutammato, a una zuppa preparata con tonno essiccato per preparare il kombu dashi che tanto intrigava il professor Ikeda. Una bomba sapida insomma. Il glutammato è anche un importante neurotrasmettitore,
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specifici per individuare questa sostanza negli alimenti. Isolò del glutammato da un concentrato di alghe kombu identificandolo come responsabile del caratteristico sapore. Di lì a poco il suo sale, il glutammato monosodico, sarebbe stato largamente commercializzato come condimento in Giappone, e nelle cucine di mezzo mondo, sotto forma di sale cristallino.
il più abbondante nel sistema nervoso dei vertebrati, dove svolge funzione eccitatoria ed è coinvolto nei processi di apprendimento e memoria. È inoltre precursore dell’acido γ-aminobutirrico (GABA), il principale neurotrasmettitore con funzione inibitoria. Il glutammato non è in grado di attraversare liberamente la barriera emato-encefalica: esiste un trasporto attivo ad elevata affinità che permette un controllo della concentrazione di glutammato nei fluidi cerebrali, mantenuta su livelli costanti indipendentemente dalla quantità di cibi contenenti umami consumati. La risposta sensoriale al glutammato è un qualcosa che solitamente fatichiamo ad individuare con precisione (soprattutto noi occidentali) vuoi perché la sua presenza nel cibo è sempre legata ad altre sensazioni gustative, vuoi perché il suo manifestarsi genera uno stimolo di difficile interpretazione. Sembra stare a metà strada tra il dolce e il salato. Solitamente lo si descrive per lo più come “intenso” riferendosi genericamente alla pianezza e concentrazione del sapore percepito.
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Oleogustus: il sapore del grasso Che parole usate per descrivere la marezzatura di un taglio di carne? Sapreste raccontare nel dettaglio quel tipo di stimolo sensoriale? Probabilmente usereste descrittori ascrivibili a sensazioni tattili (morbidezza, avvolgenza tanto per fare un esempio) o più genericamente
parlereste di “ricchezza o intensità” riferendovi al sapore nel suo insieme. A quanto pare gli acidi grassi non sono responsabili solo di sensazioni tattili ma attivano specifici recettori del gusto. A suggerlo è stato uno studio della Washington University School of Medicine, che ha dimostrato come alcuni recettori gustativi si attivino o meno in presenza di lipidi. A regolare questo meccanismo acchiappa grassi è il gene CD36. Quando è attivo vengono sintetizzate grandi quantità di proteine che localizzano i lipidi e ci fanno essere più sensibili rispetto alla presenza di questi composti negli alimenti, mentre quando è poco presente o viene “impigrito” (assumendo cibi grassi), tendiamo ad ingerire maggiori quantità di lipidi e con sempre maggior frequenza. Nel 2015 il prof. Richard Mattes e il team di ricercatori della Purdue University hanno scelto il termine Oleogustus per definire la sensazione gustativa legata agli acidi grassi, al grasso insomma. Per dimostrarlo, Mattes e colleghi hanno chiesto a 102 volontari, selezionati per la loro abilità di percepire i grassi, di assaggiare campioni contenenti sostanze riconducibili ai cinque sapori primari e ovviamente il presunto sesto. Secondo quanto emerso, gli acidi grassi non esterificati, in particolare quelli a media e lunga catena (i trigliceridi per farla breve) generano sensazioni qualitativamente diverse, quindi distinte,
rispetto agli altri sapori primari. Lo stesso test ha dimostrato una sovrapposizione (quindi una confusione semantica) con l’umami, ma potrebbe dip endere dalla nostra scarsa familiarità con questa sensazione gustativa. Insomma, i volontari hanno identificato e discriminato la sensazione gustativa ascrivibile ai grassi, a quanto pare percepita come sgradevole nelle descrizioni generiche fornite dal panel. Abbiamo insomma un descrittore nuovo di zecca per una risposta sensoriale vecchia quanto l’uomo. Torniamo al vecchio adagio, il nostro equipaggiamento sensoriale è progettato per rispondere a specifici bisogni primari. Individuare le fonti di grassi negli alimenti attraverso specifici recettori del gusto, e provare disgusto se troppo presenti, rientra tra le intelligenze evolutive che abbiamo sviluppato, poco importa se non ne abbiamo consapevolezza. Per approfondire: Andrè Holley - il Cervello Goloso Ole G. Mouritsen, Klavs Styrbaek - Umami: Unlocking the Secrets of the Fifth Taste Receptor in humans can taste fat: https://medicine.wustl. edu/news/podcast/receptorin-humans-can-taste-fat
Illustrazioni di Eleonora Castagna
Nostalgia
canaglia
anni '80
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per gli
Speciale Anni '80 - Portfolio Gastronomico a cura di Alberto Zonghetti
Il celebre brano cantato da Al Bano e Romina Power, al tempo considerato imbarazzante, agghiacciante da chi avesse un minimo di cultura musicale ma oggi da molti sdoganato come exemplum dei tempi che furono, ci introduce ai magnifici anni’80. Perché li definiamo magnifici? E per quale motivo li ripercorriamo con tanta nostalgia?
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Solo chi li ha vissuti può dirlo: io ci sono stato immerso dall’infanzia all’adolescenza e li ricordo con straordinario piacere. Sono stati anni belli, spensierati, nonostante le contraddizioni e il dubbio gusto che si fece spazio in diversi ambiti della nostra società, dalla musica all’abbigliamento fino ad arrivare, ovviamente, alla cucina.
L’Italia usciva dagli anni ’70, dove tutto era politica, ed entrava in un periodo nel quale la cultura si smarcava dalle ideologie. Sono gli anni dell’edonismo reaganiano che in Italia si tramuta nello yuppismo, nella “Milano da bere”: siamo in un paese che insegue un nuovo benessere economico, mentre l’individuo cerca il piacere privato, personale, disimpegnato, ostentato. Nascono le emittenti private e la TV commerciale, programmi come il Drive-In dopo decenni di austere trasmissioni Rai in bianco e nero, il berlusconismo televisivo; è l’era della pubblicità, del consumismo, dei grandi ipermercati che aumentano a dismisura la vendita di surgelati, merendine, bibite coloratissime e iperzuccherate, sofficini e cibi industriali affini. Non possiamo tracciare ora tutti gli eventi storici, politici e sociali del decennio, né soffermarci sul prezzo pagato, come ad esempio il raddoppio del debito pubblico, la corruzione diffusa, lo scandalo Tangentopoli. Ci basta accennare solo ad alcuni simboli che sono diventati ormai mito: l’Italia campione del mondo nel 1982 in Spagna, il Walkman, le VHS, le spalline, i capelli cotonati, il gel, le foto da sviluppare su pellicola, i cartoni giapponesi; l’era dei videogiochi, dei paninari, del vestiario firmato, della new wave, delle magliette “Fruit of the loom”; Il decennio fu concluso simbolicamente nel 1989 con la caduta del Muro di Berlino, che chiuse un’epoca e ne aprì un’altra, quella della globalizzazione.
Una cucina "barocca" l termine barocco è spesso usato in maniera impropria, con accezione negativa a evidenziare aspetti come l’artificio, l’eccesso, l’esuberanza, la ridondanza, l’opulenza. Il 1600 a tavola è sinonimo di elaborazione ed ornamento: è anche il periodo dello zucchero in cucina, utilizzato in ogni pietanza, con intento dettato soprattutto dall’esigenza di ostentare uno status sociale. «Il zucchero non guasta mai menestra», frase ricordata da Costanzo Felici (medico e naturalista del XVI sec.), riflette bene l’atteggiamento dei cuochi del tempo. Negli anni ’80 dello scorso secolo, sull’onda del benessere, si accantona l’esperienza della Nouvelle Cuisine, ma il recupero della tradizione italiana non è abbastanza chic ed appagante, è “roba passata”; c’è l’esigenza di stupire, oltrepassare il limite, di forzare la mano, a costo di “travestire” alcuni piatti snaturando il senso degli ingredienti. Protagonista assoluto non è lo zucchero di barocca reminiscenza, ma sua maestà la panna, voluttuoso ingrediente che unifica e lega i sapori delle preparazioni che hanno un filo conduttore ben definito: l’opulenza, il soddisfacimento immediato del palato. Ancora oggi l’uso di questo ingrediente, di origine francese, divide la platea: la chef che per prima osò allontanare il tortellino dal sacro brodo fu Cesarina Masi, cuoca dell’omonimo ristorante di via Santo Stefano a Bologna. Ma la nostra cuoca, nel Dopoguerra, usava panna scremata di qualità, derivata dal latte appena munto, non certo la panna industriale, deplorata dalla “Dotta confraternita del tortellino”. Prima di passare ai piatti che resero celebre il nostro magnifico decennio,
cerchiamo di ricordare i nostri anni Ottanta a tavola, come li abbiamo vissuti e quali ricordi rimangono.
non bilanciato, eccessivo nei sapori, buono, grasso, abbondante oltre misura. Si finiva sempre con l’arrancare all’aperto, piegati per la pancia che scoppiava, ostentando soddisfazione e appagamento come fosse l’adempimento di un rito.
In quel periodo mio padre ottenne una posizione di prestigio all’interno di un’Associazione di commercianti, ristoratori, albergatori. Maggiore benessere, senza eccessi, e tanti inviti a pranzo e a cena: bettole, trattorie, ristoranti prestigiosi. Almeno un paio di volte al mese si andava a mangiar fuori, non sempre con il beneplacito di tutta la famiglia – mio fratello e mia sorella maggiori, compresi tra l’adolescenza e la maggiore età, ogni tanto avrebbero passato in altro modo il loro tempo -, ma io ero allora una mente semplice: gita fuori porta, ottimo cibo in abbondanza, offerto gentilmente da volenterosi ristoratori, risate assicurate dalle gaffe di qualcuno della famiglia. Cosa volere di meglio? E poi le tavolate: in quel decennio invitare gente a qualsiasi evento rappresentativo per la propria famiglia era quasi un obbligo. Non so a quanti banchetti partecipai: matrimoni, comunioni, cresime, nozze d’argento, d’oro, di diamante. Di parenti stretti e amici, certo, ma anche di persone mai viste: colleghi di lavoro di mio padre, parenti di secondo, terzo, quarto grado, o personaggi di cui mi sfugge tuttora il legame con la nostra famiglia. Raduni di decine, centinaia di persone, intente a “sgolfanarsi” (letteralmente ingozzarsi di cibo, in dialetto marchigiano settentrionale) tra fiammanti e fumanti fiamminghe che con eccitata celerità volenterosi camerieri portavano fieramente e senza sosta dalla cucina. Tanto cibo,
Ma finalmente rispondiamo alla domanda che tutti si aspettano: cosa mangiavamo in quegli anni? Sulla spinta di un’alta società rampante, ricca e un po’ cafona, da film dei fratelli Vanzina, troviamo sulla tavola primi come i tortellini alla boscaiola, paglia e fieno ai quattro formaggi o al doppio burro; le pennette alla vodka e al fumè, le farfalle al salmone; l’accostamento “mari e monti”, porcini e gamberi, vongole e funghi etc...spina nel fianco dei sostenitori delle eccellenze territoriali; l’improbabile risotto alle fragole, quello alla crema di scampi (mangiato un mese fa al confine tra Lazio e Abruzzo, considerato dal titolare il piatto forte da 40 anni!); o anche la versione allo champagne, perfetta per dare un tono chic, stravagante, esterofilo alla cena (e chi mai avrà utilizzato veramente il costoso vino per mortificarlo nella casseruola?); la pasta con sugo “pasticciato”, gioia dei bambini di allora e anche di adesso: ovvero ragu’ di vario tipo – rossi o bianchi – con l’aggiunta, indovinate un po’?, della panna… dagli immancabili tortellini (rigorosamente industriali), agli strozzapreti, alla gramigna, alla poveretta. Stanchi della solita pasta? Allora arrivano le crespelle, o crepes se vogliamo darci un tono, ripiene di verdure, prosciutto, tanto formaggio o mozzarella ma, soprattutto, affogate nella goduriosa besciamella; servite non calde né bollenti: ustionanti! L’ingrediente innovativo, d’avanguardia, era la rucola, l’evoluzione dell’insalata: la sua presenza era indice di cucina moderna, dal carpaccio alla tagliata, nella piadina con lo stracchino, nelle decorazioni. Ammetto che il suo uso era così inflazionato che iniziai a detestarla: ho ripreso a mangiarla con piacere, utilizzandola con maggiore rispetto e parsimonia, solo pochi anni fa, versi i quaranta.
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Arriviamo ai secondi: il classico filetto al pepe verde, ma anche tranci di carne affogati da improbabili salse pannose al gorgonzola, ai formaggi,
al whisky o brandy, magari con le noci a rendere croccante il tutto. Le immancabili scaloppine si preparavano con ogni variazione: limone, funghi, vino bianco, burro e salvia. Ma, per dare un tocco di teatralità, piacevano molto all’epoca le carni in crosta di pane: filetti, selle e quant’altro si prestasse ad essere seppellito nel sarcofago di carboidrati.
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E il p esce? Ovviamente al cartoccio, innovazione strabiliante e di sicuro effetto, buona anche per gli spaghetti allo scoglio. Oppure rombo o branzino al sale, prodigio culinario altamente scenografico. Per i dolci non c’era il menu: arrivava direttamente il carrello, portato orgogliosamente dal cameriere o, preferibilmente, dal maitre: non so con quali
risorse del nostro organismo riuscivamo a mangiare ancora dopo un pasto completo ultracalorico, il fatto è che di fronte a noi si ergeva un monumento alla curva glicemica: affiancati si trovavano Profiteroles, Saint-Honorè, panna cotta, Montebianco, zuccotto, millefoglie, crostata, bavarese, zuppa inglese, e tiramisù. Mancano dal carrello ma è impossibile ignorarli: la pesca melba, spesso realizzata con frutta sciroppata (?), e la banana split, vero esempio di “food porn”. E che dire del sorbetto al limone? Non era, come oggi, consumato in modalità “vorrei un dolce ma sto leggero e fresco”; no, lui era l’invito alla prosecuzione del pasto, serviva per pulire la bocca, magari tra le portate di carne e pesce alternate, tanto in voga nei banchetti matrimoniali.
Una curiosità: la mia formazione da autodidatta in cucina proviene, tra le diverse esperienze, dallo studio dei testi in uso presso la scuola alberghiera. Ebbene, moltissimi dei piatti che abbiamo appena ricordato sono ancora inseriti in questi testi, segno che ormai sono entrati nella nostra cultura, oltre ad essere ottimo banco di prova per i giovani chef. Adesso però è’ ora di digerire: preferite Cynar, Biancosarti, Braulio, Strega, Ramazzotti? (tralascio i classici che restano in voga ancora oggi). Oppure i reclamizzatissimi brandy italiani o i Whisky, eccellente strenna natalizia? (nella vetrina sei superalcolici ho un paio di bottiglie di Chivas Regal direttamente da quegli anni). Mi fermo, già capisco che non ho menzionato tanti piatti,
Il buffet a casa Estate del 1986, tranquilla cittadina di provincia nelle Marche. “Driinn”, squilla in casa il telefono a disco rotativo color grigio tortora. Rispondo, affrettandomi perché all’epoca oltre i tre squilli significa che non c’era nessuno. “Pronto?” rispondo ansimando dopo aver percorso di corso il lungo corridoio di casa, dalla zona notte a quella giorno. “Son ehm, io….” È mio padre, con voce impostata “da ufficio”, profonda, baritonale, serissima – segno inequivocabile che era in presenza di altri nel suo studio. “Vorrei parlare…con mia moglie”. Rimango interdetto, del resto ho appena dieci anni e certe stranezze non le capivo, all’epoca: una vocina mi suggerisce: “sua moglie, cioè tua madre”. Rinsavisco: “Ah, ciao papà! Vuoi la mamma?. Lo stimato e austero Direttore – mio padre - replica grave: “Eh si, d’accordo!”. Urlo a squarciagola con la cornetta del telefono vicina: “Maaammaaaa! Ti vuole papà con la voce da ufficio!”. Dall’altro capo del telefono il papà-Direttore tossisce per coprire l’eco del mio urlo che probabilmente stava arrivando anche ai severi colleghi che assistevano alla conversazione via cavo. Arriva dalla cucina mia madre, indaffaratissima come sempre, “Mmmh, sarà una cosa seria, speriamo di no”. Mi allontano e incuriosito cerco di capire cosa sta accadendo. Dopo i convenevoli I toni si fanno concitati “Come? Domani sera? I tuoi colleghi delle altre Regioni? Che c’entriamo noi? Ah… No, aspetta, cosa vuol dire l’aperitivo a casa nostra? E me lo dici adesso? Con tutto quello che ho da fare?!? Immagino mio padre che risponde agli acuti di mia madre solamente con le formule: “Si…certo…d’accordo…sicuramente...” Poi la conversazione termina. E’ aria di tempesta, ma solo temporanea per fortuna. Situazioni già viste. Era d’uso allestire faraonici buffet e cene in casa propria per “far conoscere” la famiglia a illustri colleghi, una sorta di rito iniziatorio per i giovani direttori – mio padre non aveva neanche cinquant’anni e una posizione di prestigio al tempo si acquisiva solitamente in età più matura. Per sdrammatizzare accendo la televisione a colori: la sigla del Supertelegattone su Canale 5 lascia la parola a Maurizio Seymandi che introduce il video “Take on me” degli A-ah, gruppo norvegese famoso per ammaliare le adolescenti dell’epoca. Alle note cadenzate del celebre singolo accorre mio sorella quasi diciassettenne, fan sfegatata del trio scandinavo, che si siede ipnotizzata sul divano in pelle marrone e afferra il pesante telecomando per alzare il volume,
mentre osserva il rivoluzionario videoclip personaggi incarne e ossa interagiscono con altri “fumettati”. “Ragazzi, domani sera vostro padre ha invitato alcuni suoi colleghi a casa nostra per un aperitivo di lavoro”, ci convoca sorridendo forzatamente nostra madre. “Avrebbe piacere che ci fossimo tutti (sottinteso: siete obbligati a esserci pena la radiazione dalla famiglia, azzerate tutte i vostri impegni e rimandateli a data da destinarsi)“. “Ma è sabato sera…” osa dire mia sorella, ma lo sguardo infuocato della genitrice le tronca la protesta sul nascere. Sbuffa, alza le spalle – anzi, le spalline - , afferra il suo fedele walkman e si rinchiude in camera. “Eh no!” - scatta innervosito mio fratello – “Sabato gioca l’Italia! Sono i Mondiali, dopo aver vinto quelli nell’82 non possiamo perderci neanche un minuto!”. “Eh già” - ribatto io, neo campione provinciale con la mia squadra degli esordienti – “c’è la partita….” “Ragazzi, sentite, è una questione di lavoro molto importante non solo per vostro padre, ma per tutta la famiglia. Usate il videoregistratore VHS cha abbiamo appena comprato e registratela, ve la guarderete domattina. Lo sguardo rassegnato tra fratelli sottolineò l’inutilità di ogni opposizione. Ogni protesta fu vana. E fu sera, e si fece mattina. E buffet fu. Il
menu
era
un
classico,
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soprattutto quelli riferiti ai buffet e agli aperitivi: farò di più, ve li racconterò tratteggiando con un breve scritto una delle più temute usanze dell’epoca, il ricevimento a casa per i colleghi di lavoro: coraggio entrate a casa mia, quasi 40 anni fa.
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derivante dai numerosi compleanni, eventi, cene organizzate da mia madre e dalla mia numerosa famiglia. Se la panna era protagonista dei pasti comandati, regina indiscussa dei buffet era la maionese: in tubetto o barattolo, pubblicizzata in maniera incessante, tutti ne eravamo avidi consumatori. Mia madre escluse nell’ordine: l’insalata di riso, più adatta ad un pic-nic od un pranzo al mare; prosciutto e melone, troppo casalingo; i grissini avvolti nel prosciutto, degni di un ristorante campagnolo di seconda categoria; il pesce finto, troppo dozzinale (confesso che la scorsa vigilia
di Natale l’ho riproposto, con ottimo successo). L’inizio era riservato ad un grandioso classico, la mia specialità: gamberetti in salsa rosa o, meglio, cocktail di gamberi. Io ero addetto alla preparazione della salsa, della quale mi vantavo pubblicamente nonostante la giovane età: maionese ben mescolata con puntina di senape, ketchup, succo di limone. La lavoravo così bene che il risultato era cremosissimo. La ritenevo migliore di quella dei ristoranti; l’elegante presentazione in coppe di vetro smerigliato (e non nel bicchiere Martini) spettava ovviamente a mia madre.
A seguire il trionfo per gli occhi: le tartine! Le più gettonate erano quelle con salmone affumicato e burro (anzi con margarina vegetale, che all’epoca si credeva molto più salutare), ravvivate cromaticamente dall’oliva centrale. Poi il caviale, o meglio il più economico lompo, che comunque faceva molto chic nei suoi lucenti colori nero e rosso. Polpa di granchio no, in casa nostra non era presente, benché fosse molto diffusa in queste occasioni. Era il turno dei Vol au vent, ripieni di salsa tonnata, che circondavano una fastosa zuppiera colma di insalata
E si chiudeva con sua maestà, il salmone, protagonista indiscusso dei buffet prestigiosi: presentato in bellavista era una meraviglia di fasto e sapori. All’appuntamento con il buffet perfetto mancavano solo loro, gli aspic, futuristiche architetture gastronomiche di gelatina trasparente che celavano al loro interno misteriosi ingredienti dai colori brillanti e dall’aspetto non sempre invitante. Mia madre non li sapeva fare e, per quanto fosse eccellente cuoca, li aveva proprio cancellati dal suo repertorio. Come i dolci, del resto, ma questo è un altro capitolo. Il tutto era innaffiato da bevande per tutti i gusti: il classico analcolico - bitter e succo di arancia - servito in brocca trasparente con ghiaccio e miscelatore in plastica rossa, affiancato dal
suo fratello con alcol, simile ma preparato con il Rosso Antico; l’immancabile prosecco emblema dell’italianità in contrapposizione con il nemico champagne proveniente dalle migliori cantine del Trentino -, adagiato con voluttà nel secchiello con ghiaccio in acciaio satinato; il misterioso cocktail di colore blu intenso – lo stesso tono che campeggiava sullo sfondo del simbolo dell’Associazione- che mio padre sfoderava con i colleghi. No, no era il Blue Lagoon, antenato famigerato dell’Angelo Azzurro degli anni’90, era più leggero e bevibile, ma sempre a base di Curacao. Per l’occasione la sala e il tinello, di solito divisi solamente dal divano, posizionato a mo’ di separè, divenivano ambiente unico per ospitare i prestigiosi ospiti e le loro signore, e l’ampio tavolo rotondo – estendibile – in severo color noce, diventava il supporto per tutto quel ben di Dio. Il copione era sempre lo stesso in occasione di questi eventi: mia madre vestiva i panni della perfetta first lady, con ampia acconciatura cotonata, mio padre che ostentava equilibrio ma era agitatissimo, sempre impeccabile nei suoi abiti dalla classicità senza tempo. E poi le immancabili indicazioni a noi figli di vestirsi dignitosamente, di fare bella figura e di non creare situazioni sconvenienti, eventualità abbastanza frequente, in verità. Vi risparmio i dettagli: il buffet fu un successo, a parte qualche piccolo inconveniente di ordinaria amministrazione: una tartina che mi cadde per terra, e per poco non fece scivolare il Direttore di Trento, il vassoio dei salatini che mia sorella fece crollare senza che nessuno si accorgesse (e nascose furtivamente tutto sotto il tappeto finto persiano), mio fratello che, da buon maggiorenne, si arrischiò a bere il prosecco con nonchalance rischiando di strozzarsi con le bollicine e sputarlo addosso agli eccellenti ospiti. Io mangiai a volontà, come sempre, chiedendo a mia madre se dopo ci fosse stata la cena o meno. Ma l’effetto boomerang fu devastante per la padrona di casa: negli anni successivi alcuni colleghi di mio padre, in visita nelle nostre zone, non vollero più andare al ristorante ma chiesero di mangiare a casa nostra. La cucina di donna Beatrice era indiscutibilmente la migliore. Ed è così che introduciamo questo numero del Magazine: puntando sulla nostalgia di un tempo che per molti di noi non è stata solo un’epoca passata, con le sue mode, i suoi eventi storici, le sue contraddizioni e il suo stile eccessivo, ma è stato anche e soprattutto casa, famiglia, calore, amore. 225 - BBQ4All Magazine
russa con abbondante maionese di solito. Immancabile il pezzo pregiato di famiglia: la galantina, piatto straordinario che tradiva le origini basso marchigiane della nonna materna, accompagnata dalle salsiere in ceramica bianca con maionese e salsa rosa. Sempre per rimanere in tema di carne, non poteva mancare il vitel tonnè, che sebbene di origini piemontesi, era così chiamato per assonanze esterofile o per ravvivare il suo appeal. Circondavano la carne, adagiate su una magnifica teglia ovale, le iconiche uova sode ripiene di salsa tonnata e decorate con capperi.
80
Speciale Anni '80 - Introduzione a cura di Michela Bongiorni
' ANNI Cosa resterà di questi
Se lo chiedeva Raffaele Riefoli alias Raf, allo scadere di quel decennio che, per molti di noi, ha rappresentato quello dell’infanzia o della giovinezza, e che è comunque ricordato da tutti come un’epoca d’oro in cui si viveva con più spensieratezza e con una grande fiducia nel futuro. Erano i tempi della Milano da bere,“del grande Real, di Happy days e di Ralph Malph” (cit.)
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A distanza di, sigh!, 30 anni, forse possiamo rispondere a quella domanda: cosa è rimasto degli anni ‘80? E, per certi versi, cosa non se ne è mai andato? Il recente successo sul piccolo e sul grande schermo di titoli come Stranger Things e Ready Player One (e se siete ancora in tempo, fra un lockdown e l’altro, andate al cinema a vedervi Onward, oltre la magia- godibile, divertente- per scoprire quanti riferimenti anni’80 contenga) suggerisce senza ombra di dubbio che quella decade, definita da Steven Spielberg “un’epoca in cui non esisteva lo stress” incombe su di noi con tutto il suo nostalgico bagaglio di ricordi ancora intatto. Prendete un affermato uomo d’affari quarantenne e cominciate a cantare “o-oo-...”: lo vedrete in un attimo urlare “occhi di gaaaatto!”, con i cuoricini nello sguardo e la mano sul petto.
Quindi, abbiamo già una prima risposta: ciò che ci è rimasto degli anni’80 è sicuramente la capacità di tornare giovani e spensierati in un attimo. Basta una canzone, basta un film. Io compio gli anni il 21 Ottobre e a coloro che sono intenditori veri questa data dovrebbe dire qualcosa: è proprio il 21 Ottobre 2015 che Doc e Martin arrivano con la DeLorean nel futuro. Ebbene, quel giorno di cinque anni fa ho festeggiato il mio compleanno al cinema, perché in quell’occasione le sale avevano rispolverato il cult di Zemeckis. Non avete idea di quanti genitori coi figli fossero presenti, in uno strano gioco di inversione delle parti in cui i padri saltavano sulla sedia in estasi e i figli rimanevano sbigottiti e anche un po’ contrariati. Un’altra delle cose che ci è rimasta di quell’epoca, e che ogni tanto torna fuori con un dettaglio, un colore o uno stile, è la moda: mia
madre si è disintossicata dalla spalline sotto i vestiti solo da pochi anni, ma ancora la vedo che è pronta a ricascarci. Sfido uno qualunque di voi a non aver messo nella sua vita una polo bianca col colletto alzato o un paio di jeans a vita alta (tornati fra l’altro prepotentemente in auge); oppure un golfino sulle spalle o un paio di Converse Weapon. Mi rendo conto che potrei stare per ore a discutere su questo argomento, ma sarei leggermente fuori tema (dovrei fondare un Magazine che parli di moda, accidenti).
Potremmo continuare per ore e forse per giorni; se avessimo anche noi una macchina del tempo e tornassimo al 1979 tutte le cose che ho scritto (e molte altre), che per noi rappresentano modi di dire comuni, non sarebbero comprese. È evidente quindi come gli anni ‘80 siano rimasti nella nostra lingua senza mai andarsene. Certamente anche la musica internazionale (che a quel tempo era “straniera”) ha lasciato un’impronta indelebile nei nostri cuori: ma su questo sospendo l’approfondimento, perché noterete che in questo speciale dedicato al nostro decennio d’oro la musica sarà protagonista, dato che ad ogni ricetta il nostro Community Manager Emiliano Nencioni ha abbinato un brano ad hoc (oltre ad essere coach e CM è anche un liutaio moderno, per cui la musica è affar suo). Accanto alle cose da ricordare con nostalgia, però, ci sono anche quelle dimenticabilissime: i paraorecchi, per esempio. La permanente, il fard fotonico, i capelli a spazzola e/o cotonati, il mangianastri che mangiava realmente i nastri delle cassette, i VHS smagnetizzati, le gomme da masticare ricoperte di zucchero che ti spaccavano i denti, Sandy Marton. Per molto tempo, ad onor del vero, l’espressione “è anni ‘80” è stata
sinonimo di “che cosa orribilmente demodè!”. C’è stato un periodo, dagli anni ‘90 al primo decennio del 2000, in cui se provavi a tirar fuori una qualsiasi cosa fosse riconducibile a quell’epoca la gente ti guardava come se avesse visto l’anticristo e probabilmente si faceva il bagno nell’acqua santa. Ultimamente invece c’è stata una riscoperta e una successiva nostalgica rivalutazione di quegli anni: esistono siti dedicati esclusivamente a quel decennio (www.glianni80.com) e perfino libri (Roberto Nardo, Il mio primo dizionario degli anni ‘80). E in cucina? Qui si scende nel gorgo. Per lungo tempo è stata demonizzata, considerata poco chic, eccessiva, pesante, brutta da vedere e da mangiare, a tratti orrorifica, condita di troppa panna e di troppa gelatina. Insomma, vade retro. O no? Insieme al direttore del BBQ4All Magazine Rossella Neiadin e a
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Certamente troviamo molti pezzi di anni ‘80 nei nostri modi di dire. La pubblicità in quel periodo ha scolpito le nostre menti. Ma non solo: il cinema, la musica, le serie tv. Studiare in jeans c’est plus facile, Grande Giove!, boys boys boys!, no Vasco, io non ci casco, e poi ci troveremo come le star, sono sempre io: il paninaro, la forza sia con noi, bingo!, fare o non fare: non c’è provare, ne ho viste cose che voi umani…, io ce l’ho profumato!
una piccola delegazione di redattori, mi trovavo una sera a cena sul finire del Luglio scorso insieme a Gianfranco Lo Cascio e alla sua famiglia a Mazara del Vallo. Fra un gambero e un astice, una coppa di champagne e una di passito, ci è venuta la grande idea: e se proponessimo ai nostri lettori un menù anni ‘80, però rivisitato da te? A quel furbone dello Zio, che da sempre fonda la sua comunicazione sul buttare giù i giudizi e soprattutto i pregiudizi dei gastrotalebani, sono brillati gli occhi: facciamolo! E così il giorno dopo siamo andati a fare la spesa, ci siamo recati a casa sua con le macchine fotografiche e i registratori vocali, e lo abbiamo guardato e ascoltato mentre cucinava i piatti che più anni ‘80 di così non si può ma a modo suo: rimodernandoli, reinventandoli e riequilibrandoli.
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Accanto al suo menù completo, la redazione ha voluto inserire poi altre ricette tipiche di quell’epoca affinché il vostro viaggio nel tempo fosse completo. Sì, cari lettori, troverete in questa carrellata tutte le ricette che vi vengono in mente, e se state già arricciando il nasino snob accettate questo consiglio: prima di giudicarle, provatele. E scoprirete quanto sia vero che tornare agli anni ‘80 sia rientrare di colpo in un’epoca fiduciosa, senza pensieri e senza stress. E solo il cielo sa quanto ne abbiamo bisogno adesso. Vorrei dirvi: cominciamo, che la strada è lunga. Ma...
Strade? Dove andiamo noi non ci servono strade.
IL NUOVO COCKTAIL DI GAMBERI PIACE ALLA GENTE CHE PIACE fotografie di Rossella Neiadin
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Come ha avuto modo di affermare lo scrittore, giornalista e gastronomo inglese Nigel Slater , il cocktail di gamberi ha trascorso gran parte della sua vita passando rapidamente da piatto glamour e alla moda a preparazione ridicolmente demodé. In effetti, se dovessimo scegliere un solo piatto che rappresenti appieno gli anni ‘80 in cucina probabilmente sarebbe questo: sospeso tra terra e cielo in quella linea sottile che separa il vintage dall’evergreen, è ancora onnipresente (spesso nella versione con gli scampi) in tutti i menù dei classici cenoni di fine anno, quelli con le signore con i capelli cotonati e vestite di lamé che trascinano i mariti alla ”serata danzante aspettando il brindisi di mezzanotte!”. Forse proprio per questo motivo, molti gastrofighetti in tv e sui social hanno coniato l’espressione “ma è anni ‘80!” per descrivere qualcosa di passato di moda, per niente sorprendente per il palato e troppo popolare. Il cocktail di gamberi, probabilmente anche a causa della salsa rosa (conosciuta in America anche con Mary Rose Sauce) con il suo inconfondibile aroma di Brandy, è sicuramente una di quelle preparazioni che racchiude tutte queste caratteristiche: abusato, scontato, banale, ovvio. Però buono, provate a dire di no. Nato, secondo alcuni, già negli anni ‘60, ha conosciuto il boom negli anni ‘80 del Novecento quando, emblema di eleganza e raffinatezza, veniva servito sulle tavole di tutto il mondo (vi ricorderete senz’altro della scena in cui i Blues Brothers ne ordinano ben cinque al ristorante insieme a dodici bottiglie di Champagne) nelle coppe da Martini o nelle conchiglie con l’immancabile foglia di lattuga croccante. La ricetta originale è semplicissima: si lessano i gamberi, si scolano e si lasciano raffreddare, poi si prepara la salsa mescolando maionese, ketchup, senape, Brandy e panna e la si lascia riposare in frigorifero almeno un’ora prima dell’utilizzo. Al momento del servizio, nelle coppe rivestite di lattuga si versa un cucchiaio di salsa e uno di gamberetti, si decora a piacere con una spolverata di pepe e del prezzemolo. Et voilà. Se si è particolarmente pigri la salsa cocktail è disponibile in vasetti al supermercato.
INGREDIENTI 4 persone 24 gamberi rossi Mazhara GLC Top Selection Per la maionese di gambero: le teste dei 24 gamberi 60 g di tuorli 150 g di olio di semi di girasole 10 ml di succo di limone 10 ml di aceto di vino bianco 3 g di sale 1 g di pepe di Timut Brandy q.b. Per la composta di peperoni: 500 g di peperoni rossi e maturi 200 g di zucchero 1 dl di aceto di vino bianco sale q.b. (senza esagerare) peperoncino a piacere (opzionale)
Coach Nencioni consiglia:
RIO di Duran Duran, 1982.
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Con i tipici arpeggi di
E qui entra in gioco la versione di Gianfranco Lo Cascio che, partendo dalla materia prima più buona del pianeta (il Gambero Rosso di Mazara, of course), ha rivisitato a suo modo questo grande classico della cucina italiana e internazionale, togliendogli un bel po’ di rughe ma senza snaturarlo. Il risultato è stato, nemmeno a dirlo, sorprendente: la scelta di presentare il cocktail alla vecchia maniera, nella coppa di vetro coi gamberi in piedi (abbiamo solo evitato di inserire la lattuga) è stata voluta. I vostri ospiti si aspetteranno il classico sapore di gamberetti in salsa rosa e al primo assaggio l’effetto sorpresa sarà una vera e propria detonazione. Non vi anticipiamo nulla, seguite passo passo la ricetta e godetevi lo spettacolo di fuochi d’artificio.
sintetizzatore e le sonorità energetiche, è un inno ad eccedere e a godersi positività e “la belle vie"
PREPARAZIONE
1. Togliete la testa ai gamberi, poi privateli del carapace e dell'intestino aiutandovi con uno stuzzicadenti. Cuoceteli al vapore finchĂŠ non diventeranno opachi (oppure in un padellina a coperchio chiuso, con un filo d'acqua e a fuoco molto lento). Quando saranno pronti, asciugateli bene e poi lasciateli raffreddare. 2. Mettete le teste in una casseruola con un po' d'acqua e schiacciatele bene. Fate uscire il liquido e fatelo ritirare, poi filtratelo. Otterrete un composto denso e rosso, da aggiungere alla maionese. In alternativa potete preparare l'Assoluto di gamberi cosĂŹ come descritto nel Magazine di Dicembre 2019 e di Luglio 2020 (nella ricetta del gumbo). 3. Pastorizzate i tuorli delle uova, poi miscelate i due olii in un contenitore con beccuccio. Sbattete i tuorli pastorizzati ancora tiepidi insieme al liquido molto ristretto ottenuto dalle teste di gambero (o a un paio di cucchiaini di assoluto), e versate a filo l'olio continuando a sbattere con le fruste. Aggiungete a questo punto il limone, l'aceto, il sale e il pepe. Aromatizzate la vostra maionese con un goccino di brandy e mettete tutto in frigo a far raffreddare. 4. Pulite i peperoni, privandoli del piccolo, dei semi e dei filamenti. Tagliateli a cubetti e poi metteteli sul fuoco insieme allo zucchero, all'aceto, al sale e al peperoncino (opzionale). Cuocete il tutto per una quarantina di minuti, poi passatelo al mixer e filtratelo.
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5. Servite il vostro cocktail di gamberi di Mazara mettendo la salsa in un bicchiere, poi i preziosi crostacei cotti al vapore e sopra la maionese con mezzo cucchiaino di composta di peperoni.
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fotografie di Rossella Neiadin
CROSTINO IN DUE VERSIONI Mazara del Vallo, 31 Luglio 2020. Luogo: sala da pranzo di casa Lo Cascio, durante la pausa dello shooting per il Magazine. Ci stiamo mangiando i crostini al salmone di cui fra poco vi parleremo (è proprio duro il nostro lavoro... ). Dopo il primo morso, lo Zio esclama: “Il salmone affumicato farà anni ‘80, ma è proprio buono!”. In effetti, possiamo affermare senza ombra di dubbio che il pesce nordico affettato sottilmente sia sempre stato uno dei protagonisti indiscussi sulle tavole di quel decennio. Anzi, diciamo pure che il suo successo non è stato scalfito neppure nel decennio successivo e solo negli anni 2000, complici gli innumerevoli programmi tv in cui i cuochi sono diventati star televisive e influencer, le preparazioni a base di salmone affumicato hanno conosciuto un lieve declino proprio perché bollate come demodé. Eppure, fra i tanti piatti anni ‘80 che non hanno retto allo scorrere del tempo, quelli col pescione rosa al sapore di fumo ancora resistono e, così come diremmo di una bella signora attempata ma ancora piacente, si portano bene gli anni che hanno. Il perché è presto detto: ha ragione Gianfranco Lo Cascio, il salmone affumicato è proprio buono ed è versatile, quindi in grado di stare al passo coi tempi. Questo pesce è parte della storia dell’umanità da millenni. Con l’arrivo della stagione fredda gli antichi essiccavano al fuoco i pesci per ottenere una maggiore durabilità delle carni. Anche secondo la medicina tradizionale cinese, esporre un alimento al fumo per lungo tempo ne aumenta la conservazione e gli conferisce un potere energetico molto utile per l’inverno. Quello affumicato a freddo come lo conosciamo oggi, sarebbe nato a Londra nei primi anni del ‘900, quando l’ebreo russo Harry Forman arrivó nella città inglese in fuga dai pogrom antisemiti e aprí un affumicatoio, importando salmone in salamoia
Da dove viene il salmone che mangiamo?
Il mercato Italiano è composto prevalentemente da tre provenienze: la Norvegia, la Scozia e l’Alaska, (esiste poi una quarta provenienza molto presente sul mercato, spesso omessa in etichetta, il Cile). La Norvegia è il primo allevatore al mondo di salmone, quindi il prodotto più comune che troviamo nei negozi è proprio norvegese. La posizione geografica facilita lo sviluppo del pesce che necessita di acque fredde e pulite per raggiungere l’età adulta. Questa provenienza è tra le migliori se parliamo di salmone prodotto negli allevamenti: il paese nordico punta molto su quelli all’avanguardia dove viene salvaguardata la salute del pesce e dell’ambiente circostante. La Scozia non differisce molto dalla Norvegia, anche se la sua posizione geografica è un po’ meno favorevole, essendo più a sud e quindi con le temperature dell’acqua che in certi periodi dell’anno possono innalzarsi un po’ rispetto agli standard ideali per il nostro pesce, che ama l’acqua fredda. In ogni caso anche la Scozia è uno dei principali allevatori europei, che dal punto di vista qualitativo non differisce molto da quello norvegese, poiché le tipologie di accrescimento si basano su direttive standard. Tra Norvegia e Scozia quindi, le differenze non sono grandi in termini di gusto se si assaggia il prodotto fresco. Tuttavia la Norvegia è il paese più all’avanguardia se parliamo di tecniche di allevamento (per chi fosse interessato all’argomento, segnaliamo che nel 2016 un articolo pubblicato sul sito dell’Associazione SlowFood ha attaccato duramente le condizioni degli allevamenti del salmone norvegese, e in seguito a quell’episodio il Norwegian Seafood Council ha ribattuto punto per punto rassicurando i consumatori sulla qualità e sulla sicurezza del prodotto ittico da esso certificato); il
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uh-uh... fenomenale!
dal Baltico. Si rese conto subito, però, che quello atlantico pescato negli estuari scozzesi era di qualità migliore e poteva essere acquistato fresco. A quel punto perfezionò la London cure, un mix segreto di sale e fumo di quercia e in pochi anni l’azienda di famiglia diventò il primo fornitore di salmone affumicato dei migliori negozi, dei ristoranti stellati e della Regina.
salmone affumicato scozzese, però, presenta un gusto più raffinato grazie alle ricette tradizionali di affumicatura e alla tradizionale affettatura lunga. L’Alaska è il paese di provenienza del salmone selvaggio che si discosta fortemente da quello di allevamento sia in termini di gusto che di qualità organolettiche. La sua carne è molto magra e tende al rosso vivo, caratteristiche date rispettivamente dallo stile di vita del pesce in natura e dall’alimentazione fatta in gran parte di crostacei (a differenza di quelli di allevamento la cui carne è più grassa e nel cui mangime è contenuta l’astaxantina, un carotenoide che dona la colorazione rosa alla carne). Mangiando il salmone selvaggio si percepisce un sapore decisamente più intenso. Questa tipologia di materia prima deve essere sempre abbattuta a -18 C° prima di essere lavorata, così da eliminare il rischio Anisakis. Ultima sotto tutti gli aspetti è la provenienza cilena: il pesce di questa tipologia viene acquistato dagli affumicatori europei solo perché costa molto meno, purtroppo a discapito della qualità finale. Gli allevamenti cileni, purtroppo, detengono il primato mondiale per utilizzo di antibiotici nelle pratiche di acqua-cultura.
Le ricette
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Tornando ai nostri crostini, come avete letto nel titolo essi rappresentano la rilettura e l’evoluzione di uno degli antipasti più in voga negli anni ‘80: la tartina. La tradizione era questa: pane per tramezzini, burro, salmone, vari ed eventuali condimenti sopra (limone, pepe rosa, erba cipollina). Da qui poi prendevano forma le varianti: col Philadelphia, con il mascarpone, con la maionese, con la robiola, col cipollotto, con l’aneto, con i ribes ecc… La versione Locasciana lascia intatto solo l’ingrediente principale, il salmone affumicato appunto, e rivoluziona completamente gli altri elementi. Il pane, innanzitutto, non è più quello morbido per tramezzini ma è una baguette o una frusta tagliata a fettine che vengono tostate in padella, per dare croccantezza. Il burro viene sostituito da due diversi ingredienti: da un lato la stracciatella, dall’altro lo yogurt all’aglio. A seconda di quello che si sceglie, sarà diverso poi l’elemento da mettere sul salmone che chiuderà il crostino: se si opta per la burrosa e dolce stracciatella, una fettina sottile di limone sarà la scelta ideale, se al contrario si sceglie lo yogurt, già più acido, una fettina di fico andrà a completare e a bilanciare perfettamente il gusto. E se si è ribelli e si vuol provare la soluzione burrata+salmone+fico? Nessun problema: un goccio di salsa di soia aggiusterà il tutto.
PREPARAZIONE
1. Tagliate il pane a fette alte mezzo cm, poi tostatele. 2. Tritate finemente l’aglio e poi unitelo allo yogurt greco insieme a un pizzico di sale e di pepe. 3. Tagliate il salmone a striscioline e affettate i fichi. 4. Preparate i vostri crostini: yogurt greco, salmone e una fetta di fico, oppure stracciatella, salmone e una fettina di limone. Come scritto in precedenza, potete anche optare per stracciatella, burrata e fico, completando il boccone con un goccio di salsa di soia.
INGREDIENTI 4 persone 400 g di salmone affumicato una baguette o una frusta da mezzo kg 200 g di stracciatella 200 g di yogurt greco fettine sottilissime di limone aglio q.b. sale e pepe q.b. due fichi maturi salsa di soia (opzionale)
Coach Nencioni consiglia:
SHOULD I STAY OR SHOULD I GO di The Clash, 1982. Un brano ipnotico sull’indecisione tra l’abbandono e la continuità, proprio come il senso di colpa di chi si strafoga di crostini senza
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riuscire a darsi un limite
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RISO PILAF
CON SUGO DI LEPRE E RICCIO DI MARE
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ANCHE L'UOMO DEL MARE & MONTI HA DETTO SI!
fotografie di Rossella Neiadin
INGREDIENTI 4 persone Per il fondo bruno 800 g di ossa e carcasse di lepre una carota una cipolla una costa di sedano 2 pomodori un bicchiere di vino rosso un mazzetto di erbe aromatiche (alloro, rosmarino, salvia) un cucchiaio di olio extra vergine di oliva sale e pepe q.b. 70 g di farina 70 g di burro Per il riso 400 g di riso a chicco lungo 800 g di acqua o brodo 60 g di burro sale q.b.
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la polpa dei ricci di mare q.b.
Ah, gli anni ’80. Quelli sì che erano bei tempi. I gettoni telefonici, la vespa arcobaleno, l’Italia che vince il mondiale in Spagna, Bim Bum Bam, la distruzione della morte nera, i Queen al Live Aid. In fondo il nostro cervello funziona così: seleziona i ricordi più belli e li edulcora per fissarli nella memoria. Fatta esclusione per gli eventi traumatici, si tende a ricordare solo le cose belle del passato e a dimenticare tutto il resto. Ma gli anni ’80 non sono stati solo Maradona e Paolo Rossi, ci sono anche quelle cose e quei momenti che sono stati dimenticati e che sono stati un incubo in alcuni casi: le cinture El Charro, il glam metal, i maglioni di lana con le stampe improponibili, la Fiat Ritmo, i mondiali di Messico ’86. D’altro canto è vero che i giudizi sono soggettivi e ciò che per una persona può essere stupendo per un’altra può essere atroce. Ad esempio la finale del mondiale di Spagna è stata sicuramente uno dei momenti più belli ed emozionanti per Dino Zoff, ma allo stesso tempo per Rummenigge è stata una delle serate più tristi della sua carriera. Allo stesso modo alcuni oggetti che negli anni ’80 erano considerati brutti con il tempo sono stati rivalutati e sono diventati oggetti, come ad esempio le scarpe futuristiche che indossava Marty McFly in Ritorno al futuro, o le Polaroid che hanno riaperto la strada al ritorno dell’analogico. Chissà forse un giorno anche la Fiat Ritmo diventerà un’auto classica da collezione. Speriamo di no. Ovviamente, anche la cucina ha seguito questo andazzo. Forse è stato uno dei settori che ha più patito quel decennio. Infatti in quel periodo spopolava l’utilizzo di prodotti in scatola e si preferiva usare materie prime estere invece che ricercare quelle nostrane.
Coach Nencioni consiglia:
TAKE ON ME
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di A-ha, 1985.
I primi accenni di globalizzazione e l’avvento delle grandi catene aveva aperto ai cuochi un serbatoio di ingredienti nuovi e tutti da scoprire. Ovviamente, far viaggiare il cibo era più complesso e lento, e gli alimenti venivano inscatolati per aumentarne la shelf life a discapito della freschezza. In quegli anni, andando a mangiare nei ristoranti, le preparazioni che andavano per la maggiore nei menù erano le pennette alla vodka, i tagliolini al salmone e le gelatine di pollo. Pietanze con cui molti di noi hanno convissuto e sono cresciuti e che se cucinate con tutti i criteri, restano (non tutte ma alcune sicuramente) ancora oggi piatti interessanti e gustosi.
Esempio di come la giustapposizione di due cose lontane e antitetiche possa diventare un grande successo: la strofa veloce, pop e spensierata stride con il rallentando esasperato del ritornello, dove il cantato indugia in un falsetto tecnicamente impervio.
Ma il momento gastronomico anni ’80 lo rese un piatto iconico. E ancora oggi quando si pensa a quel decennio è uno dei piatti che viene più facilmente menzionato. In realtà potremmo dire che le preparazioni Mare e Monti sono quelle ad aver provocato in maniera contenuta lo sdegno degli chef, che invece ha investito più o meno tutto il resto del menù anni ‘80: lo testimonia il fatto che molti ristoranti stellati propongano nei propri menù abbinamenti di pesce e carne (due esempi su tutti: Lele Usai con la sua coratella d’agnello e scampi e Matteo Baronetto, storico braccio destro di Carlo Cracco, con i testicoli di vitello, gamberi e rafano). Noi in realtà abbiamo in menù (lo vedrete fra poco) un altro abbinamento Mari e Monti fra i secondi piatti, per cui adesso siamo voluti rimanere sul più classico primo: vongole e funghi porcini? Naaaaa. Lo Zio ha tirato fuori dal cappello lepre e ricci di mare, abbinati al riso Pilaf. Siete curiosi? E allora non perdete tempo e leggetevi ‘sta ricetta.
PREPARAZIONE
1. Fate rosolare in forno a 200°C le ossa della lepre per circa 15-20 minuti. In una pentola capiente preparate un soffritto con sedano carota e cipolla e aggiungete le ossa rosolate insieme a eventuali scarti di lepre. 2. Sfumate con il vino rosso, quindi aggiungete 4 litri di acqua, le erbe aromatiche tenute insieme da uno spago da cucina e i due pomodori interi. Sistemate di sale e di pepe. 3. Lasciate cuocere per circa 4 ore, aiutandovi con una schiumarola per togliere le impurità che salgono in superficie . Lasciatelo restringere e una volta pronto, filtrate il brodo con l’aiuto di un colino cinese. 4. Prendete un litro di brodo e rimettetelo sul fuoco, aggiungete la farina setacciata e il burro, mescolando continuamente fino a che non si addensa (ci vorrà un po’). Preparate il riso Pilaf cuocendolo per assorbimento: in una pentola fate sciogliere il burro e poi tostate il riso per qualche istante, dopodiché aggiungete il brodo o l’acqua salate e portatelo a bollore senza mescolare; coprite la pentola e fate cuocere per circa 15/20 minuti. 5. Un volta cotto il riso, aiutandovi con un coppapasta servitelo sopra il fondo bruno di lepre e completate il tutto con la polpa dei ricci di mare. Pepate a piacere.
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Tra tutte queste pietanze, però, ce n’è una che merita un discorso a parte. Più che un piatto è opportuno definirlo un abbinamento, perché lo si usava con la pasta, nel panino, con i risotti. Stiamo parlando del Mari e Monti, ovvero l’accostamento contemporaneo di pesce e carne. In realtà esso è un abbinamento che nella gastronomia italiana esiste da secoli, tanto da essere citato spesso anche dall’Artusi.
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fotografie di Rossella Neiadin - realizzato da Gianfranco Lo Cascio
Speciale Anni '80 - Ricette a cura della Redazione
IL TORTELLO FRITTO
IL RIPIENO DI PROSCIUTTO ...un cuore di panna e noi
Coloro i quali, invece, hanno intrapreso il percorso universitario hanno avuto sicuramente modo di provare sulla propria pelle esperienze uniche, a tratti trascendentali, a cui si sottoporrebbe solo uno studente universitario: la resistenza al cibo delle mense pubbliche, l’incredibile capacità di passare una notte insonne a studiare e l’indomani dare l’esame, il dono di prendere appunti e contemporaneamente invitare la ragazza seduta nel banco vicino a prendere un caffè dopo le lezioni. Queste sono le principali skill di cui è dotata la fauna universitaria fuori sede, un po’ come il personaggio di un videogioco che aumenta i suoi punti forza uccidendo i vari mob nel gioco, così uno studente, oltre ad aumentare la sua conoscenza di una determinata materia, forgia le sue caratteristiche durante gli anni di studio.
Per chi deve studiare c’è poco da fare, bisogna frequentare le lezioni, studiare a casa, e dare gli esami. Il tempo per la vita sociale, cibo e sonno sono risicatissimi, e ogni giorno il dilemma verte su quale rinuncia bisogna fare per riuscire a conseguire l’agognata carta pecora. Nell’escalation delle privazioni, tendenzialmente, la prima cosa a cui rinuncia il giovin virtuoso è la vita sociale. Spranga la porta di casa, spegne il telefono e dopo sufficiente tempo la scrivania diventa l’amico a cui confidare segreti e desideri. Una privazione in fin dei conti ragionevole considerato l’obbiettivo. Ma più la sessione d’esame s’avvicina più le privazioni sono toste da sopportare. Il secondo step è la privazione del sonno. Si arriva al momento in cui il tempo è poco e le pagine da studiare sono troppe, per cui bisogna ricorrere a soluzioni estreme. Si apre il barattolo di guaranà (sì proprio quella del tormentone estivo), si tirano fuori le scorte di barrette energetiche e nel caffè invece di mettere l’acqua ci si mette direttamente la redbull. E se state storcendo il naso leggendo queste cose, o se pensate che sia esagerato, ricordate che stiamo parlando di soluzioni estreme, adottate in momenti di emergenza. La terza fase è la semplificazione estrema del cibo.
Per risparmiare tempo e dedicarne di più allo studio lo studente disperato deve ricorrere a un rigido piano di ottimizzazione dei tempi e cucinare, mangiare, lavare le stoviglie sono operazioni che vanno svolte nel tempo massimo di 18’e42”. E quando ci si riesce in tempo minore è sempre cosa lieta (leggende narrano di studenti fantastici che siano riusciti a completare quest’operazione in meno di 6 minuti). Si escludono quindi le lunghe preparazioni e i cibi a breve conservazione. L’alimentazione in questa fase si basa principalmente su carboidrati e scatolette. Si va una sola volta al supermercato e gli acquisti devo essere conservabili nell’armadio, non sia mai il coinquilino di turno decida in preda alla fame notturna di consumare cibo non suo. Tra tutti i piatti annoverati nei ricettari degli studenti universitari però uno su tutti troneggia sugli altri: i tortellini panna e prosciutto. Una pietanza semplice, fatta con ingredienti a lunga conservazione e ricca di proteine. Il top per lo studente disperato. Una preparazione che tormenta gli emiliani dagli anni ’80 e che è arrivata ai
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Non tutti hanno avuto la possibilità di studiare all’università. Chi per scelta, chi per cause di forza maggiore, una volta finita la scuola dell’obbligo si è catapultato nel mondo del lavoro. Una scelta che merita rispetto e stima ma che purtroppo ha sicuramente precluso una serie di esperienze che, pur non essendo sempre piacevoli, meritano di essere raccontate.
giorni nostri tramandato da generazioni di studenti universitari disperati. Questo piatto ha ereditato dagli anni ’70 l’usanza di mettere la panna su tutto e dagli anni ’80 quella di utilizzare cibi in scatola. Quaranta anni fa era su tutti i menu d’Italia (spesso nella variante coi piselli) e oggi è possibile ancora trovarlo in qualche mensa universitaria. Quel giorno a Mazara, quando abbiamo deciso di affrontare l’ennesima sfida, non potevamo certo eliminare un piatto del genere nella nostra rivisitazione e così lo Zio ci ha pensato un po’ su e poi ha tirato fuori questa imprevedibile versione. Ma nel farlo ha stuzzicato anche la fantasia di suo figlio Flavio, 12 anni: papà, ma il tortellino so farlo meglio io di te!
realizzato da Flavio Lo Cascio
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E dunque è partita la sfida. È stato bello vederli cucinare insieme, e vi assicuriamo che Lo Cascio padre non ha fatto sconti a Lo Cascio figlio: ha preso la gara seriamente e si è battuto come un leone. Lo stesso possiamo dire di Flavio. Avete le foto di entrambe le preparazioni: non c’è niente da fare, al DNA non si sfugge. Dunque, correte a comprare tutti gli ingredienti e preparate insieme a noi questa particolare rivisitazione dei tortellini panna e prosciutto (ci scuseranno gli studenti universitari, ma la nostra versione supera i 15 minuti).
INGREDIENTI 4 persone Per la sfoglia 500 g di farina 00 5 uova sale q.b.mare q.b.
PREPARAZIONE
Per il ripieno 250 g di prosciutto cotto
1. Setacciate la farina e impastatela con le uova e il sale. Create un panetto che metterete a riposare in frigorifero per un’oretta. Poi stendetela in fogli sottili e ritagliate dei quadrati non troppo piccoli.
250 g di ricotta sale q.b. Per il ripieno 250 g di prosciutto cotto
2. Nel frattempo avrete preparato il ripieno frullando insieme la ricotta e il prosciutto cotto tagliato a striscioline, aggiustandolo se necessario di sale. 3. Ponete al centro di ogni quadrato un po’ di ripieno (senza mai esagerare) e formate a questo punto il tortello (Flavio Lo Cascio è stato un maestro!). 4. Chiudete bene il tortello e, se non siete sicuri che tenga bene, aiutatevi a farlo stare chiuso con uno stuzzicadenti; scaldate bene l’olio e friggete i vostri tortelli, poi metteteli a scolare sulla carta assorbente. 5. Nel frattempo, frullate la stracciatella con la panna e aggiustatela a vostro gusto con sale e pepe. Servite i tortelli fritti e fragranti con la stracciatella: pucciandoli, scoprirete il paradiso.
250 g di ricotta sale q.b. 500 g di stracciatella 200 ml di panna olio di semi di arachidi q.b. sale e pepe q.b.
Coach Nencioni consiglia:
CENTRO DI GRAVITÀ PERMANENTE di Franco Battiato, 1981. Un centro di massa, un punto di riferimento inamovibile, granitico, intoccabile, nel nome della tradizione. Ma poi i furbi contrabbandieri macedoni sovvertono tutto.
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E ora diteci: quale dei due tortelli, a vedere le foto, vi ispira di più? Padre o figlio? Non siate timidi, qualunque sia la vostra risposta lo Zio sarà felice.
Speciale Anni '80 - Ricette a cura della Redazione
IL TONNO VITELLATO
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INSUPERABILE!
fotografie di Rossella Neiadin
Il vitel tonnè è un po’ come Carla Bruni: sembra francese ma è italianissimo. Le prime nozioni di questo piatto sono infatti presenti già alla corte dei Savoia nel XVIII secolo. Nella versione originale però non erano presenti il tonno e la maionese: si componeva con scarti di vitello, acciughe e capperi. Si faceva cuocere a lungo il vitello per farlo ammorbidire, e poi in mancanza di sale gli si conferiva sapidità con le acciughe e i capperi che avevano una reperibilità e un costo molto inferiore rispetto al sale. Il nome deriva probabilmente dal dialetto piemontese, dove tonnè e una trasformazione dell’originale tannè (conciato in dialetto piemontese, appunto). La ricetta rimase pressoché immutata fino all’unità d’Italia. In quel periodo infatti si intensificarono gli scambi commerciali tra il Piemonte e le tonnare di Sicilia e Sardegna. Il tonno arrivava in enormi scatole da 5 kg e poi venduto al dettaglio. Il permanere a lungo in queste scatole aperte guastava il prodotto sia visivamente che dal punto di vista igienico sanitario. Quindi, per mascherare le imperfezioni del tonno, esso veniva usato come ingrediente per il vitel tonnè. A trasformare questo piatto da espediente per camuffare prodotti deteriorati a ricetta della tradizione ci pensò l’immancabile Pellegrino Artusi che nella sua “Scienza in cucina e arte del mangiar bene” codifica per la prima volta questo piatto. Nella ricetta vengono descritti ingredienti a preparazioni necessarie. Viene consigliato ad esempio di utilizzare vitella da latte, che deve essere fatta bollire insieme a prezzemolo, chiodi di garofano, sedano, carote e alloro. Una volta cotta la carne, va poi tagliata a sottil fette e messa in infusione nella salsa di acciughe per un giorno o due.
Il vitel tonnè (ma chiamatelo pure anche vitello tonnato), in quanto piatto della tradizione, è stato ovviamente suscettibile di modifiche e personalizzazioni, sia dai cuochi casalinghi che dai grandi chef stellati. Ha conosciuto enorme successo negli anni ‘80, tanto che in quegli anni non era Natale se non c’era il vitello tonnato sulle tavole. Quando abbiamo lanciato il primo numero del Magazine, a dicembre 2018, abbiamo volutamente provocato i lettori con una versione tutta nostra sapendo già che in molti ci avrebbero accusato di anniottantismo. Ma la verità è che, come molte delle preparazioni che vi stiamo presentando in questo speciale, questo è un piatto – che, fra l’altro, può essere annoverato fra le preparazioni Mari&Monti di cui vi parlavamo qualche pagina fa- gustoso, raffinato e affascinante. Parlvamo di chef famosi: Carlo Cracco sostiene che non debba essere preparato con la maionese, ma con la salsa tonnata. Una delle modifiche più famose di questo piatto è stata però quella di invertire i due ingredienti e farlo diventare un Tonno Vitellato. Sicuramente la versione più celebre è stata quella di Antonino Cannavacciuolo, ma anche Heinz Beck ne propone una interpretazione convincente. Gianfranco Lo Cascio oggi ve ne presenta una tutta sua, il Tonno Vitellato Insuperabile. Prima di iniziare vi diamo un consiglio: al prossimo brisket raccogliete un po’ di fondo di cottura e tenetevelo da parte.
Coach Nencioni consiglia:
UPSIDE DOWN di Diana Ross, 1980. Sottosopra, a rovescio, tutto stravolto!
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Insomma, nella ricetta dell’Artusi nulla è lasciato al caso: viene pure consentito di servirla fredda e mangiarla nei mesi più caldi, al contrario di quanto ad esempio accade in Argentina, dove invece viene servito caldo per il cenone di Natale. L’ultima modifica della ricetta avvenne negli anni ’60 del Novecento, quando Guido e Lidia Alciati, famosi gestori di un ristorante piemontese delle Langhe, aggiunsero la maionese alla preparazione (In molti ricorderanno Lidia – scomparsa nel 2010- per la preparazione che l’ha resa ambasciatrice della cucina tradizionale piemontese: gli agnolotti al plin) .
PREPARAZIONE
1. Tritate finemente le nocciole e poi sbattete le uova con un pizzico di sale. 2. Impanate il tonno passandolo prima nell’uovo e poi nella nocciola; ripetete l’operazione due volte formando una doppia panatura. 3. Mettete una padella sul fuoco e scaldate bene l’olio di semi, poi friggete il tonno dorandolo bene all’esterno ma facendo attenzione a non cuocerlo all’interno (vi ricordiamo che il tonno deve rimanere rosato). Basteranno pochi istanti.
INGREDIENTI 4 persone Due fette alte 3 cm di tonno fresco (circa 400 g di peso in tutto) 300 g di nocciole intere due uova sale e pepe q.b. olio di semi per friggere q.b.
4. Nel frattempo, preparate la maionese montando le uova aggiungendo a filo l’olio di semi, poi l’aceto e il fondo di cottura del brisket. Una volta ottenuta la maionese, frullatela insieme alla carne con un frullatore a immersione, rendendola il più vellutata possibile. 5. Preparate anche la panna acida: mescolate lo yogurt insieme alla panna, aggiungete il succo di limone filtrato e mescolate ancora. Lasciatela riposare in frigorifero.
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6. Servite il tonno tagliandolo a fette altre circa mezzo cm, condendolo con le salse e guarnendolo coi frutti dei capperi.
frutti dei capperi per decorare per la maionese vitellata 200 g di olio di semi due tuorli pastorizzati mezzo cucchiaio di aceto di mele fondo di cottura del brisket q.b. 50 g di brisket cotto per la panna acida 100 ml di panna fresca 100 g di yogurt 1 cucchiaino di succo di limone
Speciale Anni '80 - Ricette a cura della Redazione
RUCOLA E GRANA PERFETTA LA BISTECCA È UN PIACERE, SE NON È "WOW" CHE PIACERE È?
fotografie di Rossella Neiadin
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LA TAGLIATA
Abbiamo fin qui parlato perlopiù delle cose da ricordare degli anni ‘80. Affrontiamo adesso un discorso più ostico: le cose da dimenticare, più in fretta possibile. Partiamo subito dicendo che a quell’epoca non tutti avevano in dotazione una nonna italiana votata al piacere culinario, esistevano quelle che odiavano spignattare e quando lo facevano imponevano ai nipotini un’esperienza che assomigliava più a un’espiazione che a un pranzo. Per cui, ogni fuga al ristorante poteva facilmente essere percepita come un’esplosione di sapori e una ricca “flavour experience” di cui poter raccontare con il piglio di un giovane ussaro sopravissuto alla battaglia di Baradinò. Ed è così che molti giovani virgulti e altrettante delicate signorinelle conobbero in quegli anni la tagliata rucola e Grana.
“Stasera si va a mangiare la tagliata!” “Perchè tagliata?” “É una bistecca” “Allora perché la chiamano tagliata?” “Perché te la portano tagliata a fette!” “E nel frattempo non fredda?” “Eh ma è buona...” “Non possiamo tagliarcela da soli?” “No, è una bisteccona grande, e serve per tutti, ognuno prende una fettina e se la mette nel piatto” “E se prendessimo una bistecca a testa?”
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“Nooo, sai quanto si spenderebbe?”
I prodromi per una sonora delusione erano già abbastanza palesi: una bistecca tagliata da uno sconosciuto, servita ormai fredda su un vassoio dal quale, per ottimizzare le spese pro capite, gli ospiti si sarebbero rubati l’un l’altro i pezzi migliori, facendo balenare rapide occhiate inquisitorie nei piatti degli altri per assicurarsi che nessuno avesse preso una razione maggiore.
In quegli anni la presentazione del piatto avveniva come segue: il cameriere mostrava in tavola una T- bone (ai tempi chiamata bistecca e basta, obbligatoriamente con costata, filetto e osso) appena cotta ad una non meglio specificata brace, assisa su di un grande vassoio di metallo che, a ripensarci adesso, doveva sicuramente fungere come dissipatore, contribuendo a raffreddare inesorabilmente la
portata; la tavolata era solita fare un cordiale “oooh” di approvazione, col capotavola tenuto a dispensare degli impercettibili cenni di assenso col capo, con gli occhi chiusi: il significato era all’incirca “hai fatto un buon lavoro nella cottura, ti consento di servirla alla mia famiglia”; ovviamente nessun rifiuto o contestazione sarebbe stato contemplato. Ricevuto l’assenso del pater familiae il cameriere spariva per altri dieci minuti buoni, per poi tornare con la gloriosa e intramontabile tagliata con rucola e Grana, esposta come segue: - vassoio metallico facente funzione di dissipatore di calore conosciuto poco sopra, pieno di brandelli di carne dalle dimensioni variabili; - laghetto, alto un centimetro buono, di succhi della carne, altresì noto e temuto come “sangue”; - scaglie di Grana, o Parmigiano o qualcosa che possa assomigliarvi, in numero poco inferiore a dieci; - tristemente esagerata quantità di foglie di rucola a coprire tutta la carne, fino a formare un tappeto verde uniforme e un pantano mucillaginoso nei succhi della carne; - osso della bistecca messo in piedi, a guisa di fallico obelisco ad interrompere il giardino zen formato dalla rucola; - olio e due limoni a parte. Usando la forchetta a mo’ di rastrello uno dei parenti era incaricato di arrangiare il manto erboso in modo da trovare le prime avvisaglie di carne, e subito il malcontento iniziava a essere generalizzato nella tavolata:
"Ma è completamente cruda!" "Io tutto quel sangue non lo voglio vedere!" "Ma ormai è fredda stecchita!" "Quell’osso... chi lo spolpa?" (Leggasi: con chi devo litigare per conquistarne il possesso?) Partivano poi immediatamente le prime concitate richieste al cameriere:
“Può prendere questi pezzi di tagliata e cuocerli in padella finchè sono cotti?” “Ma va mangiata al sangue!” “Ma a me piace bella cotta senza sangue, e l’ho pagata un sacco questa carne.” Da sola la carne sapeva di padella sporca, era secca e ingrata, resa irrimediabilmente amara dalla contaminazione con l’odiato Flagello Verde, la rucola; insieme alla scaglia di formaggio invece tutto sapeva di Grana Padano. Sapore completamente sovrastato. Il resto della serata trascorreva con dei furiosi “ammiccamenti” degni di un campionato regionale di Briscola, in cui fra coppie di coniugi venivano inventati gli espedienti più discreti e pudici per avvertire con elaborate gestualità di impietose foglioline rimaste tra i denti.
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C’erano poi regioni più sfigate di altre (e qui già cominciamo a buttar giù le convinzioni granitiche). In Toscana la bistecca veniva servita, invariabilmente, carbonizzata fuori e cruda dentro. Tollerare “l’amarognolo fuori”, in pratica trangugiare creosoto, era sintomo di grande virilità e di sicure origini etrusche. Non che le cose siano cambiate poi di molto, attualmente; “al sangue” voleva dire proprio sangue, nessuno aveva ancora parlato della miosina, e l’idea diffusa era che il liquido rosso e il colore della carne cruda fosse di provenienza ematica. A quel tempo, spesso succedeva che, tutti belli fomentati per l’arrivo della tagliata rucola e Grana, uno dei parenti, suppongo quello incaricato di saldare il conto, decidesse e sancisse che per ben gustare la carne tutti avrebbero dovuto saltare completamente il primo piatto, per non guastarsi l’appetito: si procedeva quindi all’arrivo del micidiale “misto di antipasto toscano” (generalmente fette di prosciutto salato tagliato al coltello, salame, pecorino di fossa, pane - sciapo ovviamente - e due cipolline proprio-due-dinumero), per poi passare alla portata tanto attesa.
INGREDIENTI 4 persone Chuck-Flap AUS Black Onyx 3+ Black Angus sale e pepe q.b. per la spuma di Parmigiano (dosi per un sifone da 500ml) 15 g di farina 15 g di burro 250 g di latte 100 g di Parmigiano Reggiano grattugiato 100 ml di panna un foglio di colla di pesce per la cialda di Parmigiano 150 g di Parmigiano Reggiano grattugiato per l'olio alla rucola 100 g di rucola
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olio extravergine di oliva q.b.
E così, in un tripudio di sorrisi a scacchi, di diastemi ricolmi di fogliame, di strane smorfie e, alla fine, di inguardabili stuzzicadenti pilotati con sapienza e rassegnazione negli spazi interdentali, la “tagliata experience” si risolveva con uno dei più classici “a casa nostra si fa meglio e si cuoce come pare a noi” che, tutto sommato, era una considerazione molto avanti con i tempi, visto che fra i lettori del magazine la convinzione “a casa mia la faccio meglio” è ormai la regola. La carne fredda, l’impossibilità di dosare la percezione del Grana, la terribile invadenza sia di gusto sia, molto prosaicamente, odonto-relativa della rucola e in generale una preparazione e una presentazione arruffata, approssimativa e dozzinale sono le cose che hanno rovinato questo piatto storico, probabilmente anche al cospetto di famiglie meno polemiche o incasinate di quella qui descritta. É proprio per mitigare questi aspetti che Gianfranco Lo Cascio propone questa rivisitazione; rucola e grana si può, ma con qualche accortezza l’accostamento può passare da traumatizzante a mai più senza: il formaggio diventa una spuma, la rucola è presente con la sua punta amara - ma senza il fogliame! - in un olio, la carne è cotta (e come potrebbe essere altrimenti) alla perfezione, e ognuno potrà miscelare i vari ingredienti a suo piacimento, senza sovrastare o impoverire il sapore della carne.
PREPARAZIONE
1. Asciugate la carne e poi mettetela in sous vide a 52°C per scaldarla all’interno, basteranno circa 30 minuti. Poi tiratela fuori dal sacchetto per il sottovuoto, asciugatela bene di nuovo e mettetela in forno a 52°C per un’ora. 2. Nel frattempo, in un frullatore a immersione frullate insieme rucola e olio, poi mettete tutto da parte. 3. Fate una semplice besciamella morbida, aggiungete il Parmigiano e la panna, infine un foglio di colla di pesce ammollato in acqua fredda. Filtrate il tutto con un passino molto fine ,versate il composto nel sifone ed inserite 2 capsule di azoto. Fate riposare per un’oretta. 4. Prendete una padella antiaderente del diametro di circa 10-12 cm, scaldatela bene sul fuoco e poi cospargete la superficie con uno strato uniforme di Parmigiano. Aspettate che si sciolga e con una pinza staccatela dal fondo della padella, poi lasciatela raffreddare. Ripetete per 4 volte. Poi filtrate con un colino a maglia finissima l’olio alla rucola: deve rimanere solo la parte grassa colorata di verde, senza fogliame. 5. Togliete la carne da forno, asciugatela ancora, ungetela con un po’ d’olio e buttatela su una piastra rovente in ghisa (deve raggiungere i 300°C). Solo pochi secondi per raggiungere la Maillard e poi la bistecca è pronta per essere tolta dalla piastra, fatta riposare per qualche istante e infine tagliata. Coach Nencioni consiglia:
SU DI NOI di Pupo, 1980. "Dicevano: no, vedrai, è tutto sbagliato”, ma proprio come Pupo questo piatto è rimasto per decenni l’immagine della toscanità all’estero
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6. Servitela sifonando nel piatto la spuma di Parmigiano, adagiandovi sopra con la cialda, poi conditela a piacere con sale, pepe e l’olietto alla rucola.
Speciale Anni '80 - Ricette a cura della Redazione
CRESPELLE GRANDI O GRANDI CRESPELLE?
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COMUNQUE, Ã&#x2C6; OBBLIGATORIO USARE FUNGHI E BESCIAMELLA.
fotografie di Tommaso Buccafurri
INGREDIENTI per 8 crespelle
1 uovo 140 g di farina 00 175 g di latte Sale q.b Pepe q.b 20g burro fuso + q.b per ungere la padella
Per il ripieno: 25 g di farina 00 25 g di burro 250 ml di latte Pepe nero q.b. Sale q.b. 25 g di Nduja di Spilinga 200 g di erbe di campo 1 spicchio d’aglio 1 filetto d’acciuga sott’olio La scorza di un limone 150 g provola silana dolce
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50 g funghi porcini freschi
Lo street food preferito dai bambini, uno dei simboli culinari della Francia, uno dei dessert più facili da preparare in casa: la popolarità delle crêpes è tutta meritata. Ma siamo in Italia, per di più negli anni ‘80: parliamo italiano e chiamiamole crespelle. Golosi scrigni di pastella che racchiudono meraviglie dolci e salate. Il nome deriva dal latino crispus (arricciato) per indicare delle frittatine leggerissime, sottili, quasi trasparenti e soprattutto increspate, perché cuocendo si raggrinziscono sui bordi. Questa preparazione secondo alcune fonti avrebbe un’origine molto antica. Sembra infatti che siano nate per sfamare dei pellegrini francesi giunti stremati a Roma nel quinto secolo, dopo il lungo viaggio intrapreso per partecipare alla festa della Candelora. Sarebbe stato Papa Gelasio ad ordinare a suoi cuochi di cucinare un cibo ricostituente d'emergenza, fatto con semplici ingredienti come farina e uova. Le frittatine diedero molto sollievo agli affamati e la ricetta venne riportata e diffusa in Francia come un alimento ristoratore per il corpo e per l'anima.
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Nel tempo questa povera preparazione medievale si è arricchita degli elementi più diversi. Tra le crespelle più celebri ricordiamo le Suzette, nate nel tentativo di soddisfare il palato del principe del Galles Edoardo VII, preparate con il beurre Suzette (una salsa di burro, zucchero caramellato, succo d'arancia e mandarino, con aggiunta di Curaçao o Grand Marnier, a volte flambata): sono rimaste per due decenni un simbolo di lusso e golosa decadenza. Avete presente il volo "canonico" della crêpe, che fluttua elegantemente in aria e poi ricade in padella? Ecco: il segreto è il movimento preciso del polso. È facile impararlo, ma attenzione, non si sgarra con le misure. La crêpe deve sollevarsi ad almeno 15 centimetri dalla padella. Se vi viene fuori molto bene usatela per la crepe complète, ovvero la versione salata classica "completa": formaggio grattugiato, uovo e prosciutto cotto. In Bretagna si preparano le krampouezh, dolci con farina di frumento o salate con grano saraceno, ma anche le gallette. - queste ultime vengono cotte nel galettoire (o galétière), una padella dai bordi molto bassi. Non "ortodossa" ma molto diffusa la variante flambé. Paese che vai, crespella che trovi. In Germania si prepara il Kaiserschmarrn, una crêpe
spessa tagliata a pezzi e accompagnata da zucchero a velo e marmellata; in alcune zone dell'Europa dell'Est è diffusa la Palacsinta, versione più spessa e morbida rispetto a quella tradizionale e talora servita arrotolata; in Ucraina e in Russia invece si mangiano i Blinis: piccoli, lievitati e strepitosi con il caviale. Secondo la tradizione la prima e l'ultima crêpe vanno date agli animali domestici, perché sono quelle che vengono peggio. La forma? A mezza luna sì, ma anche a triangolo, arrotolata o a fagottino. Negli anni ‘80 in Italia ci fu l’enorme successo delle crespelle ai funghi con la besciamella servite come primo piatto straniero, francese, diverso: noi italiani, abituati alla pastasciutta, alle lasagne, ai tortellini, osavamo sfidare la tradizione servendo come primo una frittellina ma ovviamente condendola con cose eccessive, opulente e ridondanti. Alzi la mano chi non ne vorrebbe un piatto adesso, qui, subito. Mamma che fame! Così, seguendo quello stesso languorino che sentite anche voi, è nata questa versione un po’ diversa (ma abbiamo lasciato besciamella e funghi), a nostro parere interessante e sicuramente da provare, se riuscite ad accaparrarvi gli ingredienti giusti. Abbiamo farcito le nostre crespelle salate con una besciamella alla ‘Nduja di Spilinga, delle erbe di campo amare (nel caso specifico abbiamo utilizzato della cicoria ma vanno bene anche bietoline o spinaci), dei funghi porcini della Sila e una provola dolce di latte.
Coach Nencioni consiglia:
CARELESS WHISPER di George Michael, 1984 Delicato, romantico ai limiti del piccante, con solo una punta di amarezza, con le note cremose dell’assolo di sax tenore più famoso della storia.
PREPARAZIONE
1. Per prima cosa occupatevi dell’impasto delle crespelle. In una bowl capiente unite l’uovo, il latte e il burro fuso e amalgamate con una frusta. Aggiungete la farina setacciata a pioggia fino ad ottenere un composto omogeneo e senza grumi. Aggiustate di sale e pepe e lasciate riposare in frigo il tempo necessario alla preparazione del ripieno. 2. Preparate una classica besciamella. In un pentolino fate fondere il burro, aggiungete la farina e cuocete il roux per circa un minuto. Aggiungete poi tutto il latte freddo e mescolate con una frusta. La vecchia credenza di utilizzare il latte caldo è solo un’inutile complicanza. Il latte freddo e la frusta vi danno il tempo di sciogliere bene il roux all’interno del liquido. Aggiungendo un liquido già caldo la gelificazione degli amidi sarebbe disomogenea e troppo rapida e quasi sicuramente ottereste dei fastidiosi grumi. 3. A cottura ultimata della besciamella, una volta inspessita, aggiustatela di sale e di pepe e aggiungete la ‘nduja così da scioglierla mescolando con il calore residuo. Mettete da parte. 4. Sbollentate in acqua leggermente salata le erbe di campo per 2-3 minuti, raffreddatele in acqua e ghiaccio e strizzatele bene. In una padella fate saltare a fuoco vivace le erbe di campo con aglio, olio extravergine d’oliva e il filetto di acciuga per 3-4 minuti. Terminate aggiustando di sale e con la scorza di limone grattugiata al momento. 5. Preriscaldate un’altra padella per i funghi, sciogliendo una noce di burro e aggiungendo uno spicchio d’aglio in camicia. Una volta ben calda inserite i funghi tagliati a listerelle e cuoceteli per pochi minuti aggiungendo il sale e il pepe solo alla fine della cottura. Dovranno risultare ben arrostiti ma ancora integri e fragranti. 6. Ora passate alle crespelle Trascorso il tempo mescolate l’impasto per farlo rinvenire e poi scaldate una crepiera (o in alternativa una padella antiaderente dal diametro tra i 18 ed i 22 cm) ed ungetela con una noce di burro. Una volta a temperatura versate un mestolo di impasto sufficiente a ricoprire la superficie della padella, ruotandola fino a distribuire il composto uniformemente molto in fretta, poiché la pastella cuocerà rapidamente. 7. Quando i bordi cominciano a staccarsi e dorarsi è il momento di girare la crêpe con una spatolina o con un movimento deciso del polso. 8. Una volta cotte tutte le crêpes potete farcirle con un paio di cucchiai di besciamella alla nduja, le erbe di campo saltate, i funghi porcini e qualche pezzetto di provola di latte. 9. Arrotolate le crespelle e disponetele ben stette in una teglia imburrata leggermente.
11. Infornate sotto il grill per circa 15 minuti controllando la doratura delle crêpes fino alla creazione di una gustosa crosticina. 12. Sfornate, fate riposare 10 minuti e servite le vostre crespelle salate e piccanti.
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10. Cospargete la superficie con un altro cucchiaio di besciamella e qualche fiocchetto di burro.
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dove c'è
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SCALOPPINA AL LIMONE c'è casa
fotografie di Tommaso Buccafurri
Tra i secondi piatti più classici della tradizione italiana, merita sicuramente un posto sul podio Sua Maestà la Scaloppina. Era la protagonista incontrastata dei pranzi della domenica da nonna, o per chi era fortunato la più ovvia soluzione della mamma al rientro da scuola (sicuramente anche la bambina col gattino della pubblicità della Barilla, dopo le penne, ha mangiato le scaloppine), declinata in varianti regionali e/o creative: ai funghi, al limone, alla pizzaiola, con la panna (poteva mancare?). Il nome deriverebbe dal francese escalope (cotoletta); chiamata in Italia sia scaloppa che col diminutivo, sta ad indicare una fetta sottile di carne (di manzo, di pollo e più raramente anche di maiale) che tradizionalmente veniva battuta per essere sfibrata, successivamente infarinata, lasciata insaporire nel burro, sfumata col vino e poi insaporita con altri ingredienti.
INGREDIENTI per 4 persone 8 fettine di Eye Round Aus Black Market 5+ Rangers Valley Farina 00 q.b. 60 g di succo di limone 50g latte 1 spicchio d’aglio un rametto di rosmarino, salvia o altre erbe gradite 50 g burro Sale q.b. Pepe nero q.b.
Si credeva fosse una delle pietanze più gradite da Umberto II, l’ultimo re d’Italia: per rimangiare quel piatto che aveva assaggiato in un ristorante del centro di Milano offrì uno stipendio altissimo alla cuoca affinché andasse a Roma a cucinare per lui e per la sua famiglia. Una brezza nostalgica dei meravigliosi anni ‘80 (sì, meravigliosi, facciamo definitivamente outing!) che gastronomicamente parlando ha sancito dei ricordi indelebili in ognuno di noi.
I punti di forza di questa preparazione sono la velocità di esecuzione e la delicatezza dell’insieme. La scelta della carne è, ovviamente, di estrema importanza.
Coach Nencioni consiglia:
TIME AFTER TIME di Cindy Lauper, 1984 Un brano che parla di un punto fermo, di una figura salvifica che è sempre là per soccorrerti: come le scaloppine che da decenni salvano le nostre cene.
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Che sia la classica di manzo o quella di pollo, a caratterizzarla è sempre stata la salsa, che a seconda delle tradizioni gastronomiche regionali può variare di molto. Nelle zone del Sud Italia vengono spesso cucinate alla pizzaiola, ovvero con olio, pomodoro, origano, mentre nelle regioni settentrionali per la cottura viene tradizionalmente utilizzato il burro, e la salsa comprende spesso anche la panna. Che siano al vino bianco, al marsala, ai funghi porcini o, come in questo caso, al limone, c’è una sola regola: abbondare con le quantità. Sì, perché questo immancabile cavallo di battaglia degli anni ottanta crea dipendenza e non stanca mai (ma diciamolo: esiste un piatto di quel decennio che non crei dipendenza? Siate onesti).
Un bel girello (o megatello) di manzo è quello che fa al caso vostro per un successo assicurato. La tenerezza dell’Eye Round Australiano Black Market 5+ Rangers Valley è imbarazzante e la nostra scelta ricade su un pezzo di questa meraviglia, sottilmente tagliato all’affettatrice. È superfluo sottolineare, ma lo facciamo lo stesso, che non serve assolutamente battere un tipo di carne del genere per sfibrarla e renderla tenera, specie se non volete provare ad essere battuti voi dallo Zio.
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Si tratta di un piatto sostanzialmente semplice, bisogna solo seguire delle accortezze. Le fettine vanno passate nella farina poco prima di metterle in padella, altrimenti si creerà una pappetta indecente che trasformerà il risultato finale in una vera nefandezza. Il burro va portato a color nocciola: questo passaggio darà una profondità di gusto maggiore e la reazione di Maillard sarà molto più veloce, aspetto rilevante per evitare di cuocere troppo la carne. Tempismo e intuito saranno i vostri maggiori alleati nella preparazione di questo gustoso secondo, perché basta un nulla per trasformare delle splendide scaloppine in due pezzi di fastidiosa suola di scarpa. La zest di limone è importantissima: rinfresca il palato senza l’aggressività del succo, il quale viene smorzato dalla grassezza e dall’avvolgenza del latte. Se volete aggiungere una nota grigliata alla vostra preparazione potete, prima di spremerne il succo, grigliare il limone tagliato a metà fino a quando non risulterà ben cauterizzato per poi ricavarne il liquido profumato. Abbiamo scelto volutamente di non stravolgere questa ricetta, perché già la scelta della carne faceva tutta la differenza del mondo: provare per credere. E se, come è giusto che sia, siete legati alle scaloppine-cartone di nonna o di mamma, lasciate pure quelle nella valle dei ricordi dolci, dove ci sono bambine e gattini, e nessuno ve le toccherà; ma oggi preparatevi queste.
PREPARAZIONE
1.
Sciogliete il burro in una padella antiaderente, insaporendolo con aglio e con le erbe che più vi piacciono fino a portarlo a color nocciola. Rosmarino e timo vanno a nozze con il limone.
2. Tagliate con un affettatrice delle fettine di eye round di massimo mezzo cm, passatele nella farina rimuovendo l’eccesso e doratele in padella a fuoco medio-alto con il burro. Deve crearsi una bella crosticina, ci vorranno all’incirca 2 minuti. 3. Appena girate le fettine di eye round, aggiungete il succo di limone e il latte precedentemente mescolati in un bicchiere. 4. Aggiustate di sale e di pepe e protraetela cottura per qualche altro minuto fino a quando non si otterrà una deliziosa e profumata cremina. 5. Servitele immediatamente con una grattugiata di zest di limone e guarnitele con delle fettine di limone e le erbe che avete scelto per la preparazione.
Speciale Anni '80 - Ricette a cura della Redazione
IL NON FILETTO AL PEPE VERDE
fotografie di Luca Gallozza
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il gusto pieno della ciccia
Negli anni ‘80 era sinonimo di raffinatezza ed eleganza: un piatto fatto da un taglio, a quel tempo l’unico taglio considerato nobile e costoso, coperto da una disumana dose di salsa aromatizzata. Stiamo parlando dell’indimenticabile filetto al pepe verde. Di origine francese, con burro e panna e per di più con un ingrediente principale che “fa ricco”: aveva sulla carta tutte le caratteristiche per spopolare nel nostro decennio d’oro. E infatti così fu. Quella sua aurea ricercata lo rendeva il secondo piatto perfetto per le cene dei cumenda e delle loro mogli ingioiellate a cotonate. Inoltre, considerata la -poca- cultura che al tempo gli italiani avevano sulla carne (ci piace pensare che oggi le cose siano cambiate, grazie anche al nostro instancabile lavoro), mangiare filetto era spesso l’unico modo conosciuto per trovarsi nel piatto carne sufficientemente tenera. E non importava che fosse poco saporita, tanto era ricoperta da grasso e aromi in abnorme quantità. Oggi sappiamo bene che niente, assolutamente niente, deve coprire il gusto della ciccia, quando è buona. Ma scendiamo nel dettaglio e analizziamo gli elementi principali di questo piatto, partendo dal pepe verde. Esso non è nient’altro che la bacca acerba della pianta del Pepe Nigrum, originaria dell’Asia. Questa bacca è la base di diversi tipi di pepe che comunemente troviamo in commercio. Ciò che cambia è la sua lavorazione. Partendo dal frutto acerbo, a seconda di come viene lavorato si può ottenere pepe verde, pepe nero e pepe bianco.
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Infatti i processi che si possono effettuare possono essere quelli di fermentazione, essiccazione o salamoia. Se applichiamo una salamoia alla bacca acerba della pianta di Pepe Nigrum, otteniamo il cosiddetto pepe verde in salamoia. Con l’essiccazione dello stesso frutto otteniamo quello verde essiccato. Se invece lo andiamo a fermentare per qualche giorno e poi lo essicchiamo, otteniamo quello nero. Rimuovendo la polpa esterna dalla bacca acerba e lasciando il solo seme, dopo l’essiccazione otteniamo il pepe bianco. La bacca del pepe verde, proprio perché ancora acerba, ha in sé un profilo aromatico più intenso e un sapore più erbaceo, maggiormente marcato se si utilizza quello in salamoia. In fase di cottura, a contatto con i liquidi, questa caratteristica fa sì che vengano rilasciati maggiori composti aromatici. Ovviamente questo sapore incisivo sarebbe minore con l’utilizzo di pepe nero o bianco, perché essi subiscono ulteriori processi, come la fermentazione o la rimozione della polpa, che ne attenuano il sapore. Per quanto riguarda la carne, invece, il filetto è sempre stato considerato (e tutt’ora l’idea persiste) il taglio più pregiato e di conseguenza il più tenero e saporito che ci possa essere. Ma è davvero così? La domanda, per voi lettori del Magazine e frequentatori della Community Facebook, è ovviamente retorica. Da anni Gianfranco Lo Cascio vi dice e vi dimostra che esistono tagli di carne che, se saputi trattare e cuocere in modo adeguato, sono estremamente morbidi e molto più saporiti. Il filetto, conosciuto anche come chateaubriand o tournedos (quando tagliato dalla parte più piccola e conica) si ricava dalla zona lombare
Coach Nencioni consiglia:
AGAINST ALL ODDS di Phil Collins, 1981 Sonorità soft, eleganti e raffinate per ricevimenti esclusivi. Cambiano gli ingredienti ma non l’atmosfera di fondo.
INGREDIENTI per 2 persone 300 g di Teres Major GLC Top Selection 12 bacche di pepe verde in salamoia 15g olio di sesamo 10 g di semi di sesamo 50 g di pinoli 50g Olio di semi. Sale q.b.
per la salsa: 200 g salsa teriyaki 40g di miele sei grani di pepe verde
Dopo gli anni ‘80 il filetto al pepe verde è stato via via sempre più demonizzato: non di rado si trovano esperti gastronomici che lo definiscono addirittura cibo spazzatura. Noi siamo convinti che la via giusta sia sempre quella in mezzo, senza demonizzare e senza esaltare immotivatamente, per cui prendiamo questo classico della cucina di quell’epoca e lo rivisitiamo.
Ricordiamo la ricetta originale: si prendeva il filetto, si legava con lo spago da cucina e lo si rivestiva di grani di pepe pestato al mortaio. Poi lo si metteva a rosolare in padella col burro, si sfumava col brandy e infine si aggiungevano senape e panna. Cottura “a sentimento”. La nostra rivisitazione saluterà la panna e lascerà solo i due attori principali di questo piatto: la ciccia di manzo e il pepe verde. Ma partiremo cambiando completamente il taglio. Useremo il Teres Major, che in Italia è conosciuto anche come filettino di spalla. Non ha niente da invidiare alla tenerezza del suo più blasonato collega, ma costa un quinto e soprattutto ha trame di marezzatura decisamente più intense. Lo cuoceremo in Flip&Brush, al fine di ottenere una Maillard perfetta, tenendolo al cuore alla temperatura ideale. Faremo poi una riduzione di teriyaki e pepe verde, fatta a parte e servita in finitura: lo ripetiamo, il sapore non deve sovrastare quello della carne, ma deve esaltarlo. Il tocco in più saranno i pinoli tostati che accentuano le note di pinene contenuto nel pepe verde.
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dell’animale, nella porzione centrale del grande psoas. Poiché questo è un muscolo che, durante la vita dell’animale, non viene mai allenato, va da sé che rimanga tenero. Di contro, però, è povero di grasso e quindi di sapore. Inoltre proprio perché magro, è molto più propenso ad asciugarsi in cottura. Abbiamo già capito, dunque, il motivo per cui a questo piatto è stata aggiunta una salsa così grassa e ricca di aromi: per dargli un sapore che preso da solo non avrebbe affatto e per tenerlo più morbido e succoso. A discapito però del gusto della ciccia: con quel tipo di salsa, potreste condire la gommapane e il sapore sarebbe esattamente lo stesso.
PREPARAZIONE
1. Partite preparando la riduzione di salsa teriyaki. In un pentolino, ponete la salsa teriyaki e il miele, mescolate, aggiungete 6 grani di pepe verde in salamoia e fate scaldare a fuoco basso sino al ridursi della metà del volume. 2. Tostate i pinoli in forno preriscaldato a 190°C, disponendoli in un unico strato su una teglia e lasciateli cuocere per circa 10 minuti. Dopodiché mescolateli, lasciate andare per altri 5 minuti e infine metteteli da parte. 3. Tagliate la vostra Teres Major al fine di ottenere dei medaglioni. Legate i medaglioni con spago da cucina per dargli una forma cilindrica regolare e uniformare la superficie di cottura. 4. Scaldate a temperature superiori ai 180°C, una padella o una piastra in ghisa unta d’olio. 5. Massaggiate i medaglioni con olio di sesamo. 6. Raggiunta la temperatura ideale, poggiate i medaglioni sulla ghisa e applicate la tecnica del Flip&Brush, lasciando la carne qualche secondo per lato sulla padella e rivoltandola dall’altro lato, dopo aver spennellato con olio, fino al raggiungimento di una buona crosticina esterna e della temperatura di cottura ideale.
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7. Togliete la ciccia dalla padella e adagiatela sul piatto; appoggiate sopra la carne ancora calda il pepe verde rimanente. Fate riposare qualche minuto, salate, quindi versate sopra la riduzione di teriyaki al pepe verde e una manciata generosa di pinoli tostati.
Speciale Anni '80 - Ricette a cura della Redazione
Coach Nencioni consiglia:
I WANT TO BREAK FREE di Queen 1984 eccessivo, opulento, ridondante, ma è perfetto cosÏ, senza nulla
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togliere e senza nulla aggiungere.
PROFITEROLE
...c’est bon!
Morbidi bignè ripieni di panna, di crema chantilly o di zabaione, disposti uno sopra l’altro a mo’ di piramide, ricoperti di cioccolato fondente, il tutto guarnito con ciuffi di panna qua e là, formano il Profiterole, un classico della pasticceria anni ‘80. Partiamo subito col dire che la maggior parte degli italiani non sa pronunciare correttamente il nome: proffitteròl, profìterol, profitterolle, profitterolles. La pronuncia esatta è profitròl. Con la r più moscia (o r uvulare, per i linguisti) che riusciate a fare.
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Oggi è considerato un dolce un po’ passato di moda, perché in un’epoca in cui il pensiero della pasticceria contemporanea si basa su forme geometriche pulite prive di sbavature, sulla stratificazione precisa, su glassature ideate per sottolineare la perfezione sferica o squadrata di ogni creazione, la squisitezza bitorzoluta appare un’intrusa, una preparazione destinata all’estinzione; nonostante ciò, a differenza del sorbetto questa delizia (perché lo è) non è caduta nell’oblio, anzi non è raro trovarla nei menù dei ristoranti o nelle vetrine di pasticcerie e di gelaterie in versione mono-porzione, adattata alla moda del momento, senza perdere il suo carattere deciso ed intenso. Dopotutto, il classico abbinamento panna, cioccolato e crema, seppur scontato, è di sicuro successo, e potrebbe risultare sbagliato incasellare il profiterole in un decennio definito, poiché soddisfa il palato dei più golosi già da qualche secolo. Il primo profiterole, anche se ancora privo della copertura in cioccolato aggiunta successivamente, fu creato alla fine del XVIII secolo dal famoso chef della pasticceria Antoine Carême (rinomato per le sue altissime opere eleganti di marzapane e zucchero, utilizzate per decorare le tavole a Versailles); egli decise di farcire i bignè con la panna, rendendo il dolce più lussurioso all’assaggio, e di impilare le bernoccolute palline una sopra l’altra, creando così un effetto scenografico suggestivo. Secondo il suo pensiero, al quale si deve la nascita della raffinata pasticceria francese, i dolci non dovevano essere solo buoni ma anche qualcosa di meraviglioso alla vista. Infatti, l’aspetto esteriore doveva essere il preludio dell’esplosione del gusto al primo morso.
Il nome deriva dal francese profit (lett. Profitto): fu chiamato così perché nell’aspetto ricordava una già nota preparazione salata a base di carne di cervo e tartufo, le profiteroles des indulgences, donate di solito dai padroni ai servi che li accompagnavano durante le battute di caccia. Ovviamente, opulento, eccessivo, tutto panna e crema com’è, in più col nome e la provenienza francesi, negli anni ‘80 questo dolce ha rappresentato un punto fermo per ogni evento o tavolata importante; per le signore all’epoca, che non si azzardavano nemmeno a prepararselo in casa, era l’occasione per ordinarlo alla famosa pasticceria del centro e poter dire alle amiche “tesoro, non puoi capire quanto lo fanno buono! Costa un po’ eh, ma ne vale la pena. Sulla roba francese sono imbattibili!”. Servire il profiterole era un biglietto da visita, in quell’epoca in cui apparire, sfoggiare, eccedere erano sinonimi di vittoria. I bambini veramente fortunati se lo ritrovavano come torta di compleanno, quelli meno fortunati a volte dovevano accontentarsi delle versioni low-cost (surgelate e del supermercato) con la panna “fantasia” -chiamata così perché era un’illusione e appena la mettevi in bocca spariva-, il cioccolato riservato solo ai bignè posti nella parte alta -che ovviamente veniva servita agli ospiti, perché dovevano avere sempre il boccone migliore- e le palline che nascondevano una non-sorpresa, poiché in molte erano completamente vuote e pescarne una ripiena era un po’ come vincere la lotteria di Capodanno. Cosicché da torta bellissima e gonfia qual era prima del taglio, i malcapitati si ritrovavano nel piatto una frittella schiacciata di bignè vuoti bagnati dalla panna sciolta e con sopra un grammo di cioccolato. Abbiamo voluto proporvi la ricetta classica con ripieno alla crema Chantilly, priva di rivisitazioni, proprio per darvi modo di prepararlo in casa e finalmente riempire quelle palline quanto volete e far colare il cioccolato fino in fondo. Ci sono sassolini che dalle scarpe vanno tolti, prima o poi. La parte più ostica della ricetta per alcuni potrebbe essere la realizzazione dei bignè a causa della doppia cottura prima sul fuoco e poi in forno. Se dopo averli sfornati risultassero gommosi invece che morbidi
e friabili, non cresciuti e di conseguenza non cavi all’interno, armatevi di pazienza e riprovate: non sempre è buona la prima. Se siete invece tra i bambini anni ‘80 fortunati, potete cogliere questa occasione per rievocare un’intermittenza del cuore di proustiana memoria. In ogni caso, ne vale comunque la pena.
INGREDIENTI 4 Persone
per la pasta choux: 150 g di farina 00 110 g di burro 125 g di acqua 125 g di latte 4 uova intere un pizzico di sale
per la crema Chantilly: 50 g di zucchero a velo 15 g di farina o di fecola di patate 250 ml di latte intero 2 tuorli 150 ml di panna da montare una bacca di vaniglia
per la glassa al cioccolato fondente: 450 g di cioccolato fondente al 60% 200 g di acqua
150 g di zucchero a velo
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80 g di panna liquida
PREPARAZIONE
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1. Pre-riscaldate il forno a 180°C. 2. Fate sciogliere il burro tagliato a dadini con l’acqua e il latte su un fuoco medio-basso avendo cura di girare con un cucchiaio. Quando raggiunge il bollore abbassate le fiamma e aggiungete in una sola volta la farina (precedentemente setacciata), e amalgamate vigorosamente con una spatola fino ad ottenere un composto compatto e morbido che si stacca dalle pareti. 3. A fuoco spento, unite all’impasto un uovo per volta. L’uovo va aggiunto solo quando quello precedente è stato assorbito totalmente. 4. Mettete la pasta all’interno di una sac à poche con bocchetta liscia (1 cm di diametro). 5. Su una teglia rivestita di carta forno distribuite i bignè. Per renderli tutti regolari con il dorso di un cucchiaio bagnato schiacciate lievemente la superficie di ognuno. 6. Infornate a 180°C per 12 minuti circa, non chiudendo completamente lo sportello, potete utilizzare il manico di un mestolo di legno. 7. Trascorso il tempo dovuto, sfornate e lasciate raffreddare. Avete ottenuto un buon risultato se i bignè sono dorati, ben cresciuti e cavi all’interno. 8. Incidete la bacca di vaniglia lungo tutta la lunghezza con la punta di un coltello e grattate i semi. 9. In una pentola versate il latte e scaldatelo. In una ciotola aggiungete i semi di vaniglia, i tuorli, lo zucchero e la farina, mescolate (ma non montate) con una frusta. Quando il latte arriva al bollore, versatelo sui tuorli, amalgamate il tutto e riportate sul fuoco, affinché si addensi. Versate la crema in un recipiente e lasciatela raffreddare. 10. Montate la panna ed unitela alla crema fredda, avendo cura di amalgamarle delicatamente. 11. Con un coltello, tritate il cioccolato grossolanamente. 12. In una pentola fate sciogliere lo zucchero nell’acqua, su un fuoco medio basso. 13. Quando inizia a bollire inserite il cioccolato e mescolate con una frusta per evitare la formazione di grumi. 14. Raggiunto nuovamente il bollore, lasciatelo andare ancora per qualche secondo continuando a girare, dopodiché versatelo in una ciotola, in modo da accelerare il processo di raffreddamento. 15. È giunto il momento dell’assemblaggio: bucate i bignè utilizzando solo la punta pulita della sac à poche, andando in profondità. 16. Trasferite la crema all’interno della sac à poche e riempite tutti i bignè; una volta terminata questa operazione riponeteli in frigo per almeno 15 minuti. 17. Immergeteli nella glassa al cioccolato e poi disponeteli su un piatto formando una piramide. 18. Mettete la torta in frigo e per renderla più golosa, al momento del servizio decoratela con ciuffi di panna.
IL PANINO DA BUFFET
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L'Arte Bianca a cura di Alessandro Trezzi
Vou-au-vent, pesce finto, un trilione di tartine con uova di lompo, insalata russa, cocktail di gamberi in salsa rosa e grissini avvolti da prosciutto crudo: sono solo alcuni degli antipasti tipici di una festa degli iconici anni ’80, protagonisti di tavole addobbate, compleanni, ricevimenti, rinfreschi e chi più ne ha ne metta. Ve lo assicuro, ho un elenco infinito di feste di vecchi amici o parenti dipinte allo stesso identico modo; ai tempi il catering non aveva ancora preso piede in maniera preponderante, si trattava per lo più di ordinazioni fatte e ritirate presso gastronomie o pasticcerie limitrofe, create tutte con lo stampino dalla prima all’ultima. Niente di disastroso, credetemi; ad un adolescente interessava poco o nulla di ritrovare chissà che varietà nelle proposte, che in ogni caso veniva garantita dalle farciture della pasta sfoglia o dai topping delle tartine. Ci si andava per divertirsi, per ballare, per fare festa, e per rifocillarsi di tanto in tanto. L’unica vera eccezione, per me, era l’odiatissimo paninetto secco. Esatto, proprio lui, il panino all’olio, al latte, da buffet o come diavolo volete chiamarlo. Non è un segreto che ancora oggi ai figli della panificazione venga data un’attenzione praticamente nulla; negli anni ’80 poi la maggior parte delle scoperte odierne riguardanti la leggerezza e la conservabilità di un prodotto erano per lo più sconosciute, e i risultati parlavano da sé: vere e proprie pietre dure e asciutte, vendute come “in grado di resistere per giorni”, quando invece risultavano immasticabili dal primo all’ultimo morso. Venivano riempite con una fettina di salame Milano da busta o di spalla cotta e formaggio, nel modo più triste e abusato possibile. Non ve lo nascondo: l’estrema monotonia unita all’incapacità del pietraio di dedicare il benché minimo impegno nella realizzazione dei panini, snobbandoli in tutto e per tutto, ha contribuito ad accrescere il mio odio per questa tipologia di antipasto, che snobbavo ben volentieri. Eppure chiunque converrà con me, qualsiasi ingrediente acquista complessità e completezza se racchiuso in due fette di morbido pane, che ne costituiscono contenitore, posata e unificano l’esperienza al tempo stesso. Se ben realizzato, un panino da buffet può diventare a tutti gli effetti il vero protagonista della vostra tavola anni ’80; basta variare le farciture, lavorare d’ingegno e prestare la giusta attenzione alla base.
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Che ne dite, vogliamo porci come sano e ambizioso obiettivo quello di rivalutare le stramaledette pietre di 40 anni fa, ridando lustro al concetto e creando il nuovo panino nerd?
Anzitutto, come amiamo fare, focalizziamoci sul risultato che vogliamo ottenere. Ciò che ci serve è un paninetto piccolo, di circa 5-6 centimetri di diametro, estremamente soffice, con crosta assente e la cui particolarità deve essere necessariamente una shelf-life prolungata. Stiamo parlando di panini che dovrete produrre con parecchio anticipo insieme ad altre mille preparazioni, e che rimarranno in tavola esposti all’aria per alcune ore; la durabilità è una caratteristica che non potete in alcun modo tralasciare. Sapete che vi dico? Risolvere gli ovvi problemi legati alla secchezza e all’immasticabilità del prodotto non mi basta, per niente. Voglio dare un nuovo volto al panino nerd, qualcosa che ne attribuisca caratteristiche atomiche. Voglio che sia profumato in modo esaltante, ma soprattutto in perfetto accordo con lo stile di farcitura che abbiamo intenzione di abbinare. Vi serve un contenitore perfetto per le vostre creazioni di carne? Avete bisogno di soddisfare il vostro palato esotico con esperimenti legati al pesce crudo o ai crostacei? Dovete pensare anche agli invitati che non si nutrono di animali? Ho la soluzione perfetta a tutti i vostri problemi, seguitemi fino in fondo. Nel mentre ricapitoliamo i punti saldi del nostro panino nerd:
1. sofficità estrema; 2. shelf life prolungata; 3. profumi esaltanti; 4. adattabilità alla farcitura, che essa sia di carne, pesce o veggie. elevata.
La sofficità Vi vedo che leggete ovunque che quei miseri 30 grammi di olio su chilo di farina sono sufficienti per mantenere morbido il vostro panino. Balle, sonanti. I grassi sono elementi necessari a rendere un impasto ben lavorabile, malleabile ma soprattutto a stabilizzare la lievitazione, in quanto avvolgono le bolle di anidride carbonica formatesi durante l’azione dei saccaromiceti. Eppure, una simile azione inizia a portare risultati rilevanti sopra un certo quantitativo, pari ad
almeno l’8% sul peso della farina; pensate ad esempio al caso dei grandi lievitati, dove addirittura è possibile trovare il 20% di burro. Ecco, cosa pretendete che possa fare quindi quello scandaloso quanto inutile 3% di olio EVO? Oltretutto i grassi, essendo elementi molto pesanti, vanno aggiunti solo a maglia glutinica completamente formata e con la dovuta calma attenzione, in quanto se inseriti con troppa foga potrebbero spaccare la struttura ottenuta con tanta fatica. Lasciamo quindi perdere i grassi e concentriamoci sulla vera discriminante per una sofficità senza eguali: una lievitazione in forma corretta e bilanciata, che possa diminuire il rapporto massa/volume incrementando la scioglievolezza a dismisura.
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Il panino da buffet perfetto
La shelf life Vi vedo che leggete ovunque che quei miseri 30 grammi di olio su chilo di farina sono sufficienti per mantenere a lungo il vostro panino. Anche qui, siamo lontani anni luce dalla verità vera.
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Ciò che può darvi durabilità assicurata è il mix tra una corretta lievitazione, che mantenga il giusto quantitativo di aria all’interno della forma definitiva (pronta per andare in forno), e una cottura adeguata che cristallizzi gli amidi e lasci il panino asciutto ma ancora morbido e scioglievole. Esiste però un altro trucco per assicurarsi il duplice vantaggio di una sofficità ancor più estrema oltre che di una shelf-life incredibile: il Water Roux. Si tratta di una particolare e semplicissima tecnica di derivazione cinese, (Tang Zhong in lingua originale) che consiste nell’utilizzare farina e acqua in proporzione di 1:5 (1:10 nel caso del Milk Roux con latte come parte liquida) dove la farina deve essere il 6% del peso totale
utilizzato. La preparazione è molto simile a quella del roux preparato per la besciamella, un addensante naturale: il composto viene riscaldato in un pentolino fino al raggiungimento dei 65°C (stando attenti a non incorrere nella formazione di grumi) e poi fatto raffreddare con pellicola a contatto prima di aggiungerlo al resto degli ingredienti. L’unione del Water Roux freddo all’impasto darà incredibili benefici: • L’impasto risulterà più morbido e idratato; • La sua particolare azione emulsionante consente di raggiungere risultati ottimi in termini di conservabilità e sofficità, eliminando l’uso di grassi soprattutto in caso di intolleranze alimentari; • La shelf-life guadagna punti, consentendo di mantenere intatte le caratteristiche del prodotto per 3-4 giorni in frigorifero.
Il profumo Ancora, vi vedo che leggete
ovunque che quei miseri 30 grammi di olio su chilo di farina sono sufficienti per rendere profumato il vostro panino. Facciamo due conti? Con un chilo di farina tirate fuori circa 55 paninetti, nei quali vengono distribuiti i vostri amati 30 grammi di olio. Significa in sostanza che ogni panino ha circa mezzo grammo di olio; e voi vorreste farmi credere che, in mezzo alle fette di salame o di prosciutto cotto, riuscite a distinguere quello sputo di grasso? Sciocchezze. Meglio concentrarci piuttosto su un’ottima materia prima di partenza; giocheremo con i cereali, dando ai nostri panini profumi tostati, incredibilmente complessi, aiutandoci solo con un’aggiunta di farine diverse dal grano tenero su una base bianca.
Le farciture Ormai tutti noi siamo rimasti stregati dall’evoluzione della
Perché quindi non pensare ad un contenitore che possa sposarsi perfettamente con le nostre creazioni di carne, pesce, formaggi e verdure? Abbiamo un Pastrami o del Pit Beef appena affettato? Le note fragranti e tostate del panino alla segale ci riporteranno dritti a New York, accompagnando il manzo con i profumi di caffè e cacao di questo cereale povero ma entusiasmante. Dal nostro wok sono usciti dei gamberi scottati in salsa al curry, o abbiamo del salmone affumicato su placca di cedro e della guacamole fresca? Allora vi potrebbe far comodo un bianco panino al riso cotto a vapore, sofficissimo, perfetto per un viaggio in oriente e per risaltare il gusto placido dei frutti del mare. Il vostro orto ha dato vita a verdure colorate e non vedete l’ora di farci una crema o di grigliarle, oppure avete voglia di caciocavallo impiccato spolverato con una dose generosa di origano? Vi serve sicuramente un panino più rustico di grano duro, il pane della terra, che ben si sposa ai prodotti dell’agricoltura e dell’allevamento. Ho la vostra attenzione? Bene, diamo vita al nostro nuovo metodo.
PANINI ALLA SEGALE Per il Water Roux • 60 g di farina di grano tenero di tipo 00 (300 W); • 300 grdi acqua; Per l'impasto • 690 g di farina di grano tenero di tipo 00 (300 W); • 250 g di farina di segale integrale; • 350 g di acqua; • 18 g di sale fino o integrale; • 10 g di lievito di birra fresco. PANINI AL RISO Per il Water Roux • 60 g di farina di grano tenero di tipo 00 (300 W); • 300 g di acqua; Per l'impasto • 640 g di farina di grano tenero di tipo 00 (300 W); • 300 g di farina di riso; • 350 g di acqua; • 25 g di sale fino o integrale; • 5 g di malto diastasico in polvere; • 12 g di lievito di birra fresco. PANINI AL GRANO DURO Per il Water Roux • 60 g di farina di grano tenero di tipo 00 (300 W); • 300 g di acqua; Per l'impasto • 540 g di farina di grano tenero di tipo 00 (300 W); • 400 g di grano duro senatore cappelli integrale; • 350 g di acqua; • 20 g di sale fino o integrale; • 5 g di malto diastasico in polvere; • 10 g di lievito di birra fresco
Le dosi indicate sono per circa 55 panini per tipologia. Tra gli ingredienti noterete leggere differenze riguardo il mix, la percentuale di sale e di lievito, e la presenza o meno di malto diastasico in polvere. Questo perché è importante che il panino conservi le sue caratteristiche primarie di sofficità e shelf-life; la segale è un cereale che pesa sulla struttura (specie se integrale), ma fortemente nutriente, quindi è assolutamente sconsigliabile la presenza di malto per non esasperare l’attività amilasica degli enzimi. Di contro i panini se non impastati a dovere potrebbero non gonfiarsi come i gemelli e rimanere quindi meno soffici, motivo per cui la dose di sale risulta leggermente più bassa e quella di lievito più alta.
Preparazione del Water Roux Posizionate un pentolino sul fuoco e versate l’acqua, poi la farina a pioggia. Mescolate energicamente con la frusta per impedire la formazione di grumi, e attendete il raggiungimento dei 65 °C. Il Water Roux sarà pronto quando la consistenza sarà simile a una gelatina e comincerà a vedersi il fondo del pentolino, ma non dovrà mai divenire troppo denso. Togliete dal fuoco, lasciate intiepidire leggermente, poi coprite con pellicola a contatto e lasciate raffreddare fino a 48 ore in frigorifero. Il composto non può essere aggiunto all’impasto da caldo, in quanto provocherebbe la morte dei lieviti.
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cucina, tra abbinamenti classici e azzardati, esotici o nostrani; il buon vecchio dispositivo da barbecue ci consente di attingere ad una schiera infinita di preparazioni per i topping, abbiamo solo l’imbarazzo della scelta.
Impastamento Rovesciate in un recipiente ampio (o nella vasca della vostra impastatrice) le farine, il Water Roux, metà dell’acqua, il lievito sbriciolato e il malto diastasico (se presente); dopo averli amalgamati bene aggiungete l’acqua rimanente poco alla volta. Aggiungete infine il sale e terminate l’impastamento quando l’insieme risulterà liscio, asciutto e setoso e la maglia glutinica si sarà formata. La temperatura interna dovrà essere di almeno 24°C per permettere a tutti i processi fermentativi e alla maturazione di avere inizio senza particolari ritardi. Lasciate riposare nella ciotola per circa 15 minuti, poi ripiegate l’impasto in forma di pagnotta in modo che sia in grado di crescere verso l’alto.
Puntata Trascorsa la prima parte del riposo, riponete l’impasto in un recipiente dai bordi alti ben oliato e chiuso ermeticamente, e lasciate a temperatura ambiente per almeno un’ora per dar modo alla lievitazione di partire. Posizionatelo infine in frigorifero per 18-24 ore a una temperatura di 6°C.
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Staglio Circa 4 ore prima della cottura togliete dal frigorifero e dividete l’impasto in panetti da 30 g l’uno. Schiacciate poi per bene facendo uscire l’aria formatasi durante la prima lievitazione, per poi arrotolare e formare una pallina ben chiusa; in tal modo, i gas sviluppatisi durante
l’appretto risulteranno uniformemente distribuiti e la mollica avrà una struttura omogenea, senza bolle d’aria indesiderate ed eterogenee che creerebbero dei punti vuoti non necessari in questo prodotto. Adagiateli su una teglia con della carta forno, ben distanziati uno dall’altro, coprite con un panno umido e lasciate in appretto a una temperatura di 28-30°C.
Appretto Dopo circa 30 minuti inumiditevi leggermente le mani e schiacciate i panetti lievitati per formare dei dischi di circa 2 cm di spessore; tale espediente impedisce di sfornare dei panini troppo alti e di mantenerli ben tondi. Aspettate ancora tre ore e mezza a 28-30°C e i vostri figlioli saranno pronti per essere infornati; nel caso del pane di riso spennellate con acqua o latte.
Cottura In questa fase i panini al riso necessitano di un accorgimento in più; fate bollire abbondante acqua in un pentolino e riponetelo nel forno caldo, nebulizzando se necessario. Questo trucchetto rallenterà l’avvenimento della reazione di Maillard mantenendoli ben bianchi. Se il vostro forno spinge troppo dalla parte alta, può essere utile coprire la teglia sulla quale cuocete con una pirofila alta capovolta in modo da proteggerli dal calore diretto della resistenza; in alternativa, una volta che si saranno gonfiati per bene, potete coprire con
un po’ di carta alluminio per ottenere lo stesso effetto. Panini alla segale e al grano duro non devono rimanere bianchi, ma un po’ di acqua nebulizzata non fa certo male, impedirà la formazione della crosta indesiderata. Stabilizzate la temperatura del vostro forno a 215 °C e cuocete per 10 minuti; per verificare l’avvenuta cottura è necessario un doppio controllo: la temperatura interna deve essere di 90 C, e la mollica deve risultare completamente asciutta.
Raffreddamento, mantenimento e servizio Una volta sfornati lasciateli raffreddare su una griglia rialzata, evitando in tal modo la formazione di condensa che rovinerebbe il duro lavoro svolto finora. Potete riporli tranquillamente in un sacchetto chiuso ermeticamente fino a 3-4 giorni in frigorifero, oppure congelarli.
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fotografie di Elisa Giuli
MASCARPONE
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L'Arte Casearia a cura di Giovanni Minelli
Solo i più curiosi lo hanno assaggiato in purezza, tutti almeno una volta lo hanno trovato in qualche preparazione, anche perché non conosco una persona che non abbia mai assaggiato un tiramisù. Sto parlando del Mascarpone, preparazione lattiero-casearia lombarda con caratteristiche talmente peculiari che possiamo considerarlo un prodotto senza simili. Abbastanza noto è il fatto che sia un preparato ad elevato tenore lipidico, ma è davvero così? Decisamente si, se confrontiamo le etichette dei prodotti in commercio la media ci indica un 47/48% di grassi sul totale. Parlo di preparazione lattiero-casearia e non di formaggio perché la questione è un po’ controversa, la legislazione che regola il mondo dei formaggi per la verità non si era posta il problema di come inquadrare questo prodotto, quindi volendo essere cavillosi abbiamo elementi per considerarlo un formaggio ed elementi per non considerarlo tale, ma ci interessa davvero? Noiosa questione, ma volendo ne possiamo parlare in Gastronomica-Mente.
Dico che è un prodotto senza simili per due motivi, il primo riguarda la materia prima di partenza e il secondo riguarda il processo di coagulazione. Tutti i formaggi che abbiamo incontrato fin’ora li abbiamo ottenuti utilizzando latte, caglio e sale, ma per il mascarpone la materia prima di partenza non è latte, ma la crema di latte, quella che normalmente chiamiamo panna, che rappresenta la frazione lipidica del latte. Sono comunque presenti proteine, caseine nella fattispecie, e come per i formaggi bisogna farle coagulare. Esistono due grandi categorie di formaggi se le dividiamo in base a come coaguliamo le proteine: formaggi
Come al solito, ragioniamo sul prodotto finito per avere in mente cosa vogliamo ottenere: il mascarpone si presenta informe, o meglio, prende la forma del suo contenitore. Privo di crosta, bianco crema e lucido, dalla consistenza cremosa, untuosa e adesiva. Aromi e profumi poco persistenti di latte fresco e burro, se si percepissero delle note tostate sarebbe da considerarsi un errore, oltre al fatto che non è un granché, ma poi ne parleremo meglio. In bocca spicca la sua dolcezza e talvolta si può percepire un po’ d’acidità dovuta al siero. Si tratta di un prodotto da consumare fresco, è facilmente deperibile, quindi lo possiamo conservare in frigorifero solo per pochi giorni. Sarà conveniente farne piccole quantità da usare di volta in volta, anche perché è davvero di facile realizzazione. Per produrre il mascarpone occorrerà scaldare la crema di latte fino a 90/95°C. Se lo facciamo su fiamma diretta saremmo costretti a tenere in agitazione costante la materia prima, per evitare che attacchi o che si bruci, in questa
eventualità i sentori tostati saranno inevitabili, quindi la soluzione che consiglio è procedere a bagnomaria. Per capire cosa rende possibile la produzione del mascarpone non posso risparmiarvi lo spiegone riguardo proteine, temperature e acidità. Ragionando degli altri formaggi abbiamo già accennato al fatto che nel latte sono presenti prevalentemente due tipologie di proteine, le caseine e le sieroproteine. Queste hanno caratteristiche abbastanza differenti tra loro. Le caseine nel latte le troviamo legate al fosfato di calcio sottoforma di micelle, e sono quelle che dopo coagulazione, assieme al grasso, conferiscono struttura al formaggio. Le sieroproteine sono solubili in acqua e normalmente rimangono nel siero dopo aver prodotto il formaggio. Sono quelle che sfruttiamo per ottenere la ricotta. Nel Mascarpone abbiamo entrambe le tipologie di proteine. Siccome le sieroproteine le perderemmo nel siero occorre fare in modo che queste si leghino alle caseine, quindi occorre denaturarle per via termica, e questo avviene tra gli 80° e i 90° Celsius. Quando queste proteine cominciano a srotolarsi formano un gel che in seguito ad acidificazione tende ad associarsi alle micelle di caseina che contestualmente abbiamo denaturato e che coaguliamo sempre per via acida. Prima ho accennato ad un valore di pH e al punto isoelettrico, il perché lo dico ora: immaginiamo le proteine disperse in acqua, queste assumono una carica elettrica in base al pH della soluzione. Ogni proteina ha un proprio punto isoelettrico, quindi un valore di pH al quale la carica netta è pari a 0. Quindi a valori di pH più elevati di 4,7 (il latte mediamente è a 6,6) le micelle di caseina tendono a respingersi, mentre quando ci avviciniamo al punto isoelettrico tenderanno ad aggregarsi. Quando giochiamo
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presamici, quelli che otteniamo tramite l’utilizzo di caglio, dove ad agire sono degli enzimi, chimosina e pepsina e formaggi a coagulazione lattica, che otteniamo agendo sull’acidità del latte, quando arriviamo a pH 4,6 (punto isoelettrico). Se pensiamo alla crema di latte e ai prodotti che normalmente otteniamo da essa ci viene in mente la panna montata e il burro. Li otteniamo per azione meccanica, la prima con la frusta e il secondo con la zangola, ma non sono formaggi. Per ottenere il mascarpone? Parliamo di coagulazione termico-acida e quindi agiremo sia sulla temperatura sia sul pH della crema. Ve lo anticipo, è semplice in maniera disarmante, ma come al solito dovremo essere precisi per essere soddisfatti del prodotto finale.
col pH del latte lo strumento più consono a disposizione è l’acido citrico (E330). Con chi frequenta Gastronomica-Mente ne abbiamo già parlato quando ragionavamo sulla ricotta e sull’acidificazione diretta per le mozzarelle. Puoi utilizzare succo di limone o aceto? Si, ma perché essere approssimativi se si può essere precisi!? Facile da trovare anche in farmacia, costa una sciocchezza, si utilizza disciolto in acqua.
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Passiamo alla preparazione, abbiamo detto che occorre solo crema di latte e acido citrico. La panne deve essere fresca e ottenuta per centrifugazione, quella d’affioramento può portare sia a problemi di natura igienico-sanitaria sia a delle anomalie nella struttura
e consistenza del prodotto finale. Come strumentazione occorrerà come al solito il termometro, due pentole per la cottura a bagnomaria, una tela di lino a fibra stretta, una formina da formaggio ma in questo caso va bene anche uno scolapasta. Mettiamo sul fuoco una pentola con dell’acqua e all’interno di essa un’altra pentola nella quale verseremo la crema di latte, insomma ci prepariamo per una normale cottura a bagnomaria ed innalziamo la temperatura della panna fino a raggiungere i 90° Celsius. Io ho utilizzato 2 litri di panna, quindi aggiungo 2 grammi di acido citrico disciolto in 18 ml d’acqua, e mescolo delicatamente per 5/10 minuti. Si potrà sentire un cambio di consistenza nella crema di latte. A questo punto foderiamo una fuscella con una spessa tela
di lino e al suo interno versiamo il composto. Gocciolerà molto poco a differenza di come siamo abituati con altri prodotti, anche perché il contenuto d’acqua della crema di latte è molto più basso rispetto a quello del latte. Lo lasciamo raffreddare per poi piazzare il tutto in frigorifero per 12 ore. Passato questo periodo di tempo durante il quale la crema prenderà consistenza e drenerà il liquido in eccesso, lo possiamo prelevare per utilizzarlo o per inserirlo in un recipiente. Io lo utilizzo direttamente e ci preparo una versione mignon di una meraviglia semidimentica: la torta zola-mascarpone e noci. Tra gli anni 80 e 90 era protagonista dei banchi gastronomia di qualunque supermercato o negozio di generi alimentari, non
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solo in Lombardia dove è nata, ma davvero ovunque. In centro Italia, dove vivo io, è da anni che non se ne vede più una quindi rimedio facendomela da solo. Il procedimento è davvero semplice, basterà alternare strati di mascarpone a strati di Gorgonzola dolce per poi foderare la parte esterna con dei gherigli di noce. Mi sono divertito e sforzato ad essere preciso, la cucina è davvero un’arte e a me manca un po’ di sensibilità in questo senso, ma ce l’ho messa tutta. Con una saccapoche ho realizzato i riccioli di mascarpone esterni nel tentativo di trasmettere tutta l’opulenza delle preparazioni degli anni ’80. Lo so, il massimo sarebbe produrre da soli anche il formaggio erborinato dunque prometto, arriverà anche il processo per un blue cheese, qui nel Magazine, basta solo un po’ di pazienza.
The Chemical Griller a cura di Virgilio Brunetti
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LE GOMME Col termine gomma si identifica una serie di molecole caratterizzate da struttura polimerica, ovvero costituite dalla ripetizione di singole unità molecolari che, legate tra di loro, formano lunghe strutture lineari, alcune delle quali hanno la spiccata tendenza a formare reticoli tridimensionali in opportune condizioni.
Probabilmente la gomma più famosa in assoluto è il caucciù, ottenuto dalla lavorazione del lattice di una pianta tropicale. Il mondo dei polimeri abbraccia non solo la scienza dei materiali ma, come abbiamo visto nei precedenti capitoli, anche l’industria alimentare. Per similitudine con il caucciù molte sostanze naturali estratte dalle piante vengono chiamate gomme e molte di queste, da secoli, hanno vasto utilizzo nelle preparazioni alimentari. Quando masticate un chewing gum (in alcune zone d’Italia la chiamano ancora “cìcles”) state assaporando un prodotto dolciario masticabile che ha come base una gomma naturale derivata dalla corteccia della Manilkara chicle. Molte caramelle gommose ne hanno un’altra, anch’essa naturale, estratta dall’Acacia Senegal famosa come Gomma Arabica. Con la sigla da E412 ad E418 vengono appunto identificati gli additivi alimentari conosciuti come gomme naturali facenti parte della macro area degli addensanti, degli stabilizzanti e degli emulsionanti.
E412: la Gomma di Guar (o Farina di Guar) è una polvere idrosolubile ottenuta dalla macinazione dell’endosperma dei semi del Guar (Cyamopsis tetragonoloba), pianta erbacea delle leguminose tipica dell’India e del Pakistan, ma coltivata anche in Cina e Stati Uniti. Largamente impiegata nell’industria alimentare, la gomma di guar è principalmente utilizzata come agente stabilizzante, emulsionante ed addensante nella preparazione di prodotti come gelati, salse, carni conservate e bevande. E413: la Gomma Adragante (più raramente chiamata anche “Gomma da Tragacanto”) è un essudato secco ricavato dai fusti e dai rami di una ventina di specie di leguminose del genere Astragalus, originarie del sudest europeo e del sudovest asiatico. Il maggior produttore mondiale è l’Iran, ma è presente anche in Iraq, Siria, Kurdistan turco e Grecia. È viscosa, inodore, insapore e solubile in acqua. Per queste caratteristiche è usata soprattutto in ambito farmaceutico nella preparazione di emulsioni, ma anche nell’industria alimentare come additivo (addensante per salse, sciroppi, caramelle gommose, gelati, decorazioni dolciarie). E414: la Gomma d’Acacia o Gomma Arabica è ottenuta da un essudato prodotto dagli stami e dalle branche degli alberi di Acacia Senegal e Acacia Seyal del sud del Sahara (Sudan, Chad, Senegal e Nigeria). In forma di larghi noduli, viene prodotta dagli alberi a seguito di un processo naturale chiamato “gommosi”, finalizzato a rimarginare o a riempire incisioni che vengono appositamente provocate sulla corteccia degli alberi. Grazie alle sue numerose proprietà viene utilizzata con successo nell’industria alimentare, in quella farmaceutica, nella cosmetica e nelle vernici. Questo ingrediente ricopre infatti tre importanti funzioni: ritarda o previene la cristallizzazione degli zuccheri, fa da strutturante e agisce da emulsionante permettendo un’omogenea distribuzione delle componenti grasse. In campo alimentare viene utilizzata soprattutto come addensante, umettante, agente solidificante, testurizzante, adesivo, elasticizzante e come fonte di fibra solubile, inoltre è un ottimoemulsionante e stabilizzante che produce delle emulsioni stabili in un ampio spettro di pH, anche in presenza di elettroliti senza la necessità di un ulteriore agente stabilizzante. Grazie alla sua eccellente solubilità nelle soluzioni acquose, alla sua bassa viscosità, al sapore delicato, all’odore neutro, al contenuto di fibre e al basso tenore calorico è un ottimo ingrediente
per diverse applicazioni, infatti è anche eccellente per incapsulare gli aromi, impedendone l’ossidazione. E416: la Gomma di Karaya è un polisaccaride naturale ottenuto dalla scorza dell’albero Sterculia Urens, tipico dell’India. È un composto con funzione addensante, stabilizzante ed emulsionante. Può essere contenuto in diversi prodotti, come per esempio cibi a base di cereali e patate, liquori all’uovo, salse. E417: la Gomma di Tara è un additivo di origine naturale ricavato dai semi della Tara (Caesalpinia spinosa) originaria dell’America Latina e dell’Africa. È un composto con funzione prevalentemente addensante che si può comunemente ritrovare in ogni genere di alimenti. E418: la Gomma di Gellano è prodotta dal batterio Sphingomonas elodea, ed è ottenuta per via industriale attraverso la coltura del batterio in processi di fermentazione su larga scala. È un polimero non ramificato formato dalla ripetizione di un tetrasaccaride: glucosio-ramnosio-glucosio-acido glucuronico. Le unità monosaccaridiche possono essere ripetute fino a mezzo milione di volte. Le catene polimeriche formano una doppia elica l’una attorno all’altra e gelificano in seguito al raffredamento in presenza di cationi bivalenti, come il calcio, i quali si associano a gruppi carbonilici dei residui dell’acido glucuronico, legando fra loro diverse porzioni delle catene ed originando dei gel. Può essere addizionata dall’industria alimentare a diversi cibi, come per esempio confetture, gelatine, marmellate, prodotti a cottura ridotta. È inoltre un ingrediente tipico della cucina molecolare.
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Ecco una piccola guida:
la Gomma di Xantano Per ultimo lascio spazio all’addensante, emulsionante e stabilizzante perfetto, il modificatore reologico universale: E415, la gomma di Xantano.
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È un ingrediente che ha aumentato la sua presenza nei prodotti sugli scaffali ma sempre più frequentemente è usata nelle cucine professionali. Quando compro un alimento controllo spesso le etichette, soprattutto nei prodotti base comuni nella cucina barbecue. Ebbene, lo Xantano è ormai sempre presente “in tutte le salse”. Ma cos’è nello specifico? Quali sono i suoi usi e perché è diventata popolare? Esso viene ottenuto mediante processo di fermentazione di glucosio o saccarosio da parte di ceppi naturali del batterio Xanthomonas campestris, purificato per estrazione in alcool etilico; il polimero purificato viene essiccato e poilverizzato. Lo Xantano è un polimero a base di D-glucosio e il D-mannosio, nonché degli acidi D-glucuronico e piruvico, e viene preparato sotto forma di sali di sodio, di potassio o di calcio. La sua elevata capacità di solubilità, la stabilità in presenza di sali e la sua resistenza agli enzimi hanno reso questa sostanza uno dei principali polimeri utilizzati nell’industria alimentare. La rigidità strutturale del polimero di questa gomma le conferisce proprietà insolite e vantaggiose difficilmente ottenibili in un singolo additivo alimentare, ovvero: viscosità stabile in ampi intervalli di temperatura e pH resistenza alla degradazione enzimatica. Non è solubile nei solventi organici compreso l’etanolo. Le soluzioni acquose di xantano sono altamente viscose. Questa viscosità non è influenzata dalla temperatura, né nel congelamento né nel punto di ebollizione. Motivo per il quale lo xantano viene scelto dall’industria alimentare affinché le proprietà dei prodotti finali in cui viene utilizzato
rimangano sempre e comunque inalterate. Le soluzioni di xantano hanno caratteristiche reologiche particolari: sono fluidi non newtoniani di tipo pseudo-plastico, caratteristica importante nella stabilizzazione di sospensioni ed emulsioni. Quest’ultima proprietà migliora le caratteristiche sensoriali del prodotto finale (sensazione al palato, e nel rilascio del sapore) garantendo anche un alto grado di miscelazione, di pompaggio e di versamento. Lo xantano non ha effetti gelificanti, viene quindi utilizzato per il controllo della viscosità a causa delle deboli associazioni che gli conferiscono proprietà di formazione di gel deboli. Tuttavia, quando aggiunto ad altri idrocolloidi, può produtte gel forti. Questa gomma può essere aggiunta ad Agar Agar e Carragenina Kappa per formare un gel più stabile. La buona capacità di ritenzione idrica può essere utilizzata per il controllo della sineresi e per ritardare la ricristallizzazione del ghiaccio (crescita dei cristalli di ghiaccio) nelle situazioni di congelamento-scongelamento. Può essere utilizzata anche nei ripieni di pasta frolla, per evitare la trasudazione e il rilascio dell’acqua nel ripieno, proteggendo la croccantezza della crosta. Aggiunto al gelato evita la formazione di cristalli di ghiaccio. È in grado di produrre un grande aumento della viscosità di un liquido anche se aggiunta in quantità molto piccola; nella maggior parte delle applicazioni è usata allo 0,5% o anche a 0,05%. Spesso è usata in condimenti per insalata e salse. Aiuta a prevenire la separazione dell’olio stabilizzando l’emulsione. La gomma di xantano aiuta anche a sospendere le particelle solide, come le spezie. Inoltre, utilizzata in cibi e bevande surgelati, aiuta a creare una piacevole consistenza dei prodotti finali. Non cambia il colore o il sapore degli alimenti e delle bibite.
LA SALSA BARBECUE #ZEROSBATTI
Capite ora che se volete progettare, costruire e produrre una salsa barbecue perfetta non potete fare a meno di questo additivo alimentare che vi permetterà di eseguire un controllo micrometrico delle texture del condimento senza impattare in alcun modo sul gusto finale, perché è totalmente insapore e ed agisce a microdosi. Potrete preparare la vostra salsa barbecue usando la minima quantità di calore possibile al fine di non modificare per effetto della cottura nessuno degli ingredienti base. Vediamo un esempio di una possibile struttura di una salsa barbecue che potremmo definire “zerosbatti”, dato che è un banale assemblaggio di ingredienti. La Base: il ketchup scientifico come da ricetta di Gianfranco Lo Cascio, che trovate dopo questo articolo. Oppure un ketchup commerciale di ottima qualità, io vi suggerisco l’inimitabile Heinz; le fibre di pomodoro presenti daranno struttura base alla salsa. Componente fruttata: Confettura di albicocche, pesche o amarene Sciroppo acido: 250 grammi di zucchero muscovado (melassa, malto, golden syrup, miele d’acacia) in 500 grammi di aceto di mele o lamponi. Componete umami: una miscela di salsa di soia tipo shoyu e di salsa worcester in parti uguali Componente speziata: vi consiglio i nostri Sal’s Seasoning Rub come il Montreal Steak, il Tennesee Mild Dry rub, il Memphis Dry o il Mount Nimba che daranno struttura e kick alla salsa barbecue. Ricordatevi, le spezie devono essere visibili ma perfettamente disperse nella texutre della salsa. Modificatore reologico: Xantano 0,5%
La salsa è stabile in frigo per almeno 5 giorni, e potrete pastorizzarla in contenitore sterile di vetro senza avere nessun effetto sulla texture.
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Assembliamo: uniamo 800 g di ketchup, 200 g di componente fruttata, 300 grammi di sciroppo acido, 200 grammi di componente umami, da 15 a 20 grammi di Sal’s Rub. Pesiamo la miscela e aggiungiamo gradualmente la gomma di Xantano per un massimo dello 0,5% frullando con un mixer ad immersione. Non aggiungo volontariamente la componete grassa in quanto produrrebbe una opacità dovuta all’emulsione della fase acquosa e quella grassa. La salsa dovrà risultale lucente e semitrasparente: la classica prova del cucchiaio sarà ottima per saggiarne la texture, in trasparenza si dovranno vedere le spezie.
La ricetta scientifica a cura di Gianfranco Lo Cascio
Il Ketchup 282- Almanacco 2020
“Three tomatoes are walkin' down the street. Papa Tomato, Mama Tomato and Baby Tomato. Baby Tomato starts lagging behind, and Papa Tomato gets really angry. Goes back and squishes him and says: “Ketch - up!” Mia Wallace, Pulp Fiction, 1994
Americanate, sulle patate ci si mette il rosmarino. Ma la verità è un'altra. Ed è che il ketchup fatto a regola d'arte è una salsa strepitosa che tutti adorano ma che in molti rinnegano. A me lo status quo non piace e sono un grande fanatico del ketchup. Per questo motivo ho deciso di darvi la mia ricetta personale. Non saprei dirvi se è migliore o peggiore di quella Heinz (la mia preferita tra i marchi da supermercato) in senso assoluto, ma per quanto mi riguarda non ha eguali. Perché? Perché prima di metterla a punto mi sono fatto delle domande e mi sono dato delle risposte: 1. Il ketchup non si consuma assoluto ma si degusta sempre in abbinamento a qualcosa. Quindi va equalizzato alla pietanza da accompagnare. Ne deriva che da solo potrà essere sbilanciato. 2. Essendo in accordo con la pietanza da accompagnare ne deriva che non può esistere UN ketchup ma esistono MOLTI ketchup a seconda del piatto che dovranno accompagnare. Sì, avete capito benissimo. Un ketchup per il cheeseburger
potrebbe non andar bene per le patatine fritte e viceversa. Per preparare il ketchup scientifico non accenderete un solo fornello e vi servirà qualche grammo di un particolare additivo alimentare reperibile agilmente online. Il risultato sarà una salsa densa e brillante, lucida e compatta, di grande viscosità e che avvolgerà con un pungente abbraccio le vostre patatine: chips, french fries classiche o country style con la buccia, come piacciono a me. Imparando il processo di costruzione sarete in grado, ovviamente, di produrre delle varianti che meglio si accosteranno ai diversi tipi di abbinamento. Se avete un locale potrete mostrare con vanagloria la vostra carta dei ketchup artigianali, fatti in casa, senza alcun conservante. Potrete scegliere il vostro pomodoro e il vostro aceto preferito oltre, che ve lo dico a fare, al miliardo di spezie e aromi esistenti sul globo terraqueo. La vostra salsa sarà più o meno acidula, più o meno pungente, più o meno piccante, più o meno floreale. Una giostra di sapori. Ammettetelo: quando mai vi ho deluso con una ricetta?
Il Ketjap È il nome di una salsa a base di pesce fermentato attualmente ancora in vendita; i primi ad assaggiarla furono gli inglesi, in una regione che corrisponde all’attuale Malesia. Gli albionici pensarono bene di esportarla nelle loro colonie del Nord America e fu lì che comincia-
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Qual è l’elemento che accomuna voi fan di Tarantino con voi altri che proprio lo detestate? Entrambi avete consumato ettolitri di ketchup nella vita. Il problema è che poi siete cresciuti, e quando i radical chic del desco hanno iniziato a demonizzarlo, vi siete uniformati ai diktat dei presìdi e delle eccellenze del territorio.
rono a replicarla aggiungendo nuovi ingredienti come funghi e noci. I pomodori non pervenuti fino al 1800, ma è all’inizio del ventesimo secolo che avvenne la svolta: la gente diventava sempre più ostile al consumo di cibi pompati coi conservanti. Per chetare gli animi, due uomini di nome Harvey Wiley e Henry Heinz (sì, quell’Heinz) tirarono fuori dalla manica sporca di ketchup una ricetta con soli conservanti naturali. Preparata esclusivamente con pomodori maturi (e non scarti di produzione del pomodoro), che contengono dosi generose di pectina, un conservante naturale, un po’ di sale e una percentuale di aceto bella importante. Il risultato? Una salsa stabile e da scaffale, che poteva essere serenamente stoccata a temperatura ambiente.
Come nasce un ketchup industriale L'ingrediente principale del ketchup moderno è il pomodoro. La quantità varia a seconda della marca e del tipo. I pomodori vengono lavati e triturati finemente per creare una massa dalla consistenza omogenea e lungo il percorso di produzione, una parte dell'acqua di vegetazione contenuta nel frutto viene fatta evaporare per addensare la salsa. Poiché i pomodori contengono per lo più acqua, circa il 95%, il peso dei pomodori iniziali potrebbe essere superiore al peso effettivo dei pomodori presenti nel ketchup finale. Per esempio, per fare 100 g di ketchup Heinz vengono utilizzati 148 g di pomodori. I più maliziosi tra voi potrebbero pensare che la produzione del ketchup sia un pretesto per consumare pummarole marcescenti e di bassa qualità. Tuttavia, spesso è vero il contrario. I pomodori per il ketchup possono essere raccolti in anticipo, poiché il tempo per passare dal raccolto alla produzione è di frequente molto breve. I grandi marchi di salse hanno solitamente un contratto con coltivatori che piantano e raccolgono frutti appositamente per il loro ketchup.
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Oltre ai pomodoro, gli altri due componenti principali sono solitamente l'aceto e lo zucchero. Entrambi sono essenziali per garantire che i pomodori non si rovinino e che il ketchup possa essere conservato abbastanza a lungo. Nella lista finale degli ingredienti appiccicata allo squeezer troviamo sempre anche sale e spezie. Ma come funziona la linea produttiva? Per prima cosa i pomodori vengono ordinati e lavati. Il processo da quel momento in poi varia leggermente a seconda del produttore, ma consiste in alcuni passaggi fondamentali. Per cominciare, come accennato prima, il pomodoro deve essere ridotto in pezzi più piccoli. Può essere macinato o trasformato in poltiglia utilizzando un omogeneizzatore. Talvolta può anche essere pelato, generalmente la pelatura viene effettuata con l'aiuto del vapore. Un breve trattamento a vapore caldo dei pomi ammorbidirà la pelle e ne faciliterà la rimozione. I pomodori devono essere sottoposti ad almeno una fase di trattamento termico, in gergo chiamato "hot break”, che serve a disattivarne gli enzimi. Queste particelle, che sono naturalmente presenti, potrebbero
altrimenti rompere la pectina, una grande molecola colloidale che aiuta ad addensare il ketchup. L’altro trattamento termico papabile può essere il processo di cottura. Durante questa fase il concentrato di pomodoro viene mescolato con l'aceto, lo zucchero e altri ingredienti e cotto insieme per ottenere la consistenza desiderata. Applicando calore l'acqua evapora, concentrando la salsa, ed eventuali microrganismi vengono annientati sul colpo. Il trattamento termico e il processo di cottura non devono necessariamente avvenire in un processo unico. Invece di iniziare con i pomodori freschi, alcuni produttori di ketchup acquistano concentrato di pomodoro già pronto (proprio come faremo noi!) e lo convertono in ketchup.
Il flusso del ketchup è speciale Ne abbiamo già parlato nel numero di Aprile 2020, ma farò un riassuntino per chi è entrato alla seconda ora. Se agitiamo una tazza di the, di latte o di caffè, oppure sciarbottiamo il vino con lesto movimento di polso, per quanto vorticosamente agitiamo questi liquidi essi non cambiano in termini di viscosità. Sono quei fluidi che hanno un comportamento “normale”o newtoniano, in cui gli sforzi sono direttamente proporzionali alla velocità di deformazione: la velocità di flusso aumenta proporzionalmente alla forza applicata. Molti fluidi invece hanno comportamenti diversi a seconda di come li mescoliamo. Questi cattivoni imprevedibili hanno la caratteristica di variare la loro viscosità a seconda delle forze che interagiscono con essi ovvero, se sottoposti alle forze di taglio, evidenziano un flusso di scorrimento che può essere: plastico, pseudoplastico, tixotropico o dilatante.
E ora veniamo aI ketchup. La nostra salsa rossa è un fluido non-newtoniano con comportamento pseudoplastico. Non devo dirvelo io, dressarla dalla sua confezione non è semplice: finché e ferma nella sua bottiglia rimane lì allo stato semisolido ed è necessario qualche colpo per iniziare a farla cadere. La forza applicata modifica la viscosità del ketchup facendolo uscire dalla bottiglia spesso senza controllo. Questo accade perché le fibre della salsa si agganciano l’una all’altra finché non si somministra una forza, allorché si sganciano (di colpo) e il ketchup fluisce dal flacone; la viscosità si abbassa ma si ricompatta istantaneamente sul piatto. Lo yogurt è un fluido non newtoniano con comportamento tissotro-
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Maionesi, grassi solidi, panna e bianchi d’uovo montati sono fluidi non newtoniani con comportamento plastico. Sono sostanze che iniziano a scorrere solo se lo sforzo applicato supera un valore limite, detto sforzo di snervamento. Che si tratti di emulsioni o schiume, questi fluidi si comportano in maniera ordinaria, come quelli newtoniani, solo dopo uno sforzo iniziale. Nella pratica sapete bene come smuovere l’albume montato a neve ferma o la margarina: per farli scorrere è necessario applicare una certa forza iniziale.
Nome Fotografo - Mus2020 ereped magnias itatem. Perunda cullupis sequat. 286Almanacco
pico, ovvero, se lo maltrattate frullandolo e frustandolo, perde struttura e compattezza nel tempo. Gli impasti a base di acqua e maizena, comprese alcune creme, sono invece esempi di fluido non newtoniano con comportamento dilatante. Applicando forze più deboli, come il lento inserimento di un cucchiaio nel fluido, esso si manterrà nel suo stato liquido. Se invece riempite una piscina di acqua e maizena potete correre sul liquido a patto che lo facciate alla Forrest Gump.
Perché preparare il ketchup in casa
selezionato e quell’equilibrio, sfacciatamente soggettivo, tra acidità e dolcezza.
Beh, vi ribalto la domanda: perché no?
Come si fa una salsa perfetta
Quando si cucina qualcosa da zero, si sa esattamente cosa ci finisce dentro. Il ketchup industriale avrà sempre la sua quota di conservanti e non sarà mai plasmato sui vostri gusti. Non avrà mai il sapore del concentrato di pomodoro, magari fatto da voi col pomodoro buono, l’aceto
O meglio quali sono i parametri che ci permettono di crearla: Ingrediente portante. È ciò che compone in quantità maggiore la salsa. Che sia una verdura, un latticino, un legume, un pesce, un piccione in caduta, fate in modo sia di qualità.
Acido. Come la componente grassa, deve stare tra il 10 e il 30% della salsa e ha la funzione di
equilibrare i sapori della carne e del grasso disciolto senza sovrastarli, ma accentuandoli. Alcolici, agrumi, panna acida e acqua di pomodoro verde i più usati. Aroma. Siamo totalmente nel campo olfattivo, ma il loro valore è determinante. Parliamo di erbe, spezie, scorze di agrumi o germogli da usare con cautela ma senza timidezza. Diciamo tra il 5 e il 10% del totale. E infine:
- Sapidità - Dolce - Amaro - Percezioni sensoriali - UMAMI In dosi sufficienti (quanto bastano) per esaltare al massimo le qualità della salsa.
Gli ingredienti del ketchup: il pomodoro
Antico Pomodori di Napoli, Camone, Ciliegino, Corbarino, Cuore di bue, Fiaschetto, Marinda, Pera d’Abruzzo, Pizzutello, Pachino, Pomodoro giallo, Regina, Riccio di Parma, Roma e San Marzano. Sono solo alcune delle cultivar di pomodoro da salsa italiane e l’ultima è la mia preferita in assoluto. Ma quali caratteristiche deve avere un vero Pomodoro San Marzano? • la dimensione è medio-grossa, con una lunghezza compresa tra i 60 e gli 80 mm. • La forma è cilindrica e allungata • Non è presente il peduncolo. • Il colore è rosso brillante, uniforme e tipico. • La buccia, sottile e consistente, si stacca facilmente dalla polpa quando la maturazione è completa. • La polpa è soda ed elastica, poco
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Grasso. Spesso si parte da sua goduria, il laido grasso, ma non nel caso specifico del ketchup. Parlando di salse in maniera generalizzata, non ne abusate (al massimo deve essere un terzo degli ingredienti) e tenete in considerazione la sua valenza aromatica. Della serie l’olio e il burro non sono sullo stesso piano del foie gras.
acquosa e quasi priva di semi. • L’acidità è scarsa e il pH massimo è 4,50. • Infine, il sapore è tipicamente agrodolce, fresco e intenso. Perfetto per il nostro ketchup scientifico.
della sua percentuale di acido acetico. Vi faccio un piccolo elenco che potrebbe tornarvi utile:
L'aceto
Lo sciroppo di glucosio
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Per questa ricetta preferisco utilizzare un aceto bianco o di alcol che, attenzione, non è l’aceto di vino bianco. Queste due tipologie di aceto, infatti, differiscono in quanto a produzione. L’aceto di vino si ottiene dalla fermentazione acetica del vino (bianco o rosso) ad opera di alcuni batteri chiamati acetobacter che, in presenza di acqua e ossigeno, ossidano l’alcol etilico che è contenuto nel vino. Si ottiene così un liquido che può avere diverse sfumature di colore. L‘aceto di alcol, invece, detto anche aceto bianco, è semplicemente una soluzione di acqua e acido acetico. Si ottiene tramite doppia fermentazione, prima alcolica poi acetica (opera di batteri), di bevande alcoliche, malti, riso o frutta. Spesso si ricava dalle barbabietole da zucchero. Si presenta sotto forma di un liquido trasparente e per questo viene chiamato anche aceto di cristallo, vi garantisco che anche il supermercato sotto casa lo vende. Ormai mi conoscete come le vostre tasche di manzo, sono un grande fan della nota acida, ma vi incoraggio a sperimentare e provare anche un aceto meno aggressivo e più aromatico, tenendo conto
Aceto di mela 5% Aceto di riso 4% Aceto di vino bianco 6% Aceto bianco o di alcol 6%
Secondo la legge vigente, lo sciroppo di glucosio è una "soluzione acquosa depurata e concentrata di carboidrati alimentari, ottenuta da amido, fecola e/o da inulina, che deve rispondere alle seguenti caratteristiche: •
sostanza secca non inferiore al 70% in peso • equivalente destrosio non inferiore al 20% in peso sulla sostanza secca, espresso in D-glucosio • ceneri solfatate non superiori all'1% in peso sulla sostanza secca.” • Lo sciroppo di glucosio si produce tramite idrolisi acida dell'amido, oppure con la sua trasformazione enzimatica. Si adopera in genere l'amido di mais, ma può essere utilizzato anche quello derivante dalle patate, dal riso e dal frumento. L'amido è un polisaccaride costituito da lunghe catene di molecole di glucosio che vengono “spezzate", fondamentalmente in due modi: con l'aggiunta di acido cloridrico e tramite l'utilizzo di enzimi come l'alfa-amilasi (in grado di ottenere sciroppi col 10-20% di glucosio libero) e la gluco-amilasi (più potente,
consente di arrivare al 90% di glucosio libero). Tali enzimi vengono ricavati, industrialmente, da batteri o funghi che vengono coltivati per questo scopo. L'idrolisi acida è utilizzata per produrre sciroppo di glucosio a basso equivalente destrosio (DE), mentre per sciroppi ad alto DE si utilizza il secondo metodo. Lo sciroppo di glucosio viene preferito al normale zucchero, soprattutto nella formulazione del ketchup, per una delle sue proprietà funzionali. Alta fermentesci bi lità, igroscopia, dolcezza, potere anticongelante, capacità di favorire le reazioni di Maillard e, caratteristica che interessa a noi, la viscosità. Anche questo prodotto si trova facilmente nel reparto dolciumi e ingredienti per la pasticceria.
La gomma di xantano o xantana
Addensante, emulsionante e stabilizzante perfetto, il modificatore reologico universale: E415. Volete sapere tutto ma proprio tutto su questa polverina magica? Tornate indietro di qualche pagina e leggete tutto d’un fiato la lezione che Coach Brunetti ha scritto per voi. Ahimè non posso suggerire un ingrediente sostitutivo per questa gomma, ma vi assicuro che è facilmente reperibile sia in farmacia che online.
Prevenire è meglio che curare: per ogni problema una soluzione
Problema n°1
Grumi di polvere sospesi nel composto Causa La xantana non è stata dispersa in maniera omogenea Soluzione Miscelate la xantana con lo zucchero e spargetela
nel vortice formato movimento del mixer
Problema n°2
dal
Il composto non si addensa, anche se i granuli di polvere risultano correttamente dispersi Causa 1) Il peso della xantana non è quello giusto. 2) Avete aggiunto nel ketchup succhi di frutta con all’interno enzimi che ostacolano la gelificazione (kiwi, ananans, papaya). Anche l’alcool ostacola il processo.
3) Il ketchup è stato congelato, il congelamento rompe la gelificazione. Soluzione 1) Pesate con cura la xantana con una bilancia di precisione 2) Se volete personalizzare il ketchup con del succo di frutta, cuocetelo e usatelo freddo, oppure utilizzate frutta in scatola o congelata 3) Non tenete in freezer il ketchup, potete lasciarlo in congelatore per un massimo di 4 ore
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Prima di svelarvi la ricetta, voglio essere sicuro che non facciate errori maneggiando la xantana da aggiungere al ketchup. Sono due gli scenari nefasti che dovete rifuggire:
La ricetta scientifica
Dose per 600 ml circa di ketchup • 200 g di doppio concentrato di pomodoro S.Marzano DOP • 200 g di sciroppo di glucosio (sostituibile con miele di acacia) • 130/150 g di aceto distillato di alcol • 40 g di zucchero semolato • 15 g di sale • 1.2 g di xantana • 0.4 g di chiodi di garofano in polvere Per una variante aromatica, aggiungere: • 0.4 g cipolla in polvere • 0.2 g di noce moscata in polvere • 0.2 g di cannella Il procedimento è semplicissimo, vi occorreranno soltanto un mixer (o un minipimer) e una bilancia di precisione. Mescolate a mano il doppio concentrato di pomodoro e l’aceto, aggiungete lo sciroppo di glucosio (o il miele di acacia), amalgamate con cura per evitare che lo sciroppo si depositi sul fondo e versate il tutto nel mixer. Provate prima con 130 g di aceto ed assaggiate, siete sempre in tempo per aggiungerne dell’altro. Azionate la macchina (o il minipimer) e versate lo zucchero miscelato con la xantana nel vortice. Unite quindi i chiodi di garofano in polvere, il sale, e se vi piacciono, cipolla in polvere, noce moscata e cannella. Non lavorate troppo la salsa, bastano pochi colpetti. Trasferite il tutto in un barattolo o uno squeezer munito di tappo e conservate in frigorifero per un massimo di due settimane.
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E ricordate : Il cosa scegliete, la maniera in cui lo avete preparato, il modo in cui avete scelto di conservarlo. Questi sono gli elementi che vi diranno già oggi cosa troverete nel vasetto domani.
Gianfranco Lo Cascio
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SEG Panopticon
In un numero incentrato sugli anni ‘80, così focalizzato sulla cultura pop da proporre anche abbinamenti fra pietanze e storici brani musicali di quella decade, risulta inevitabile dedicare le ultime atipiche e dissonanti paginette del magazine a una rubrica Seguo carica di colori fluo, riccioli cotonati, spalline oversize, cinture El Charro, sintetizzatori Yamaha DX7 e chitarre elettriche con ponte Floyd Rose.
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O meglio, personalmente mi è risultato inevitabile non appena mi è stato fatto notare che il mio pezzo completamente fuori tema avrebbe rischiato di spiccare con dolorosa incoerenza tra le pagine del numero di settembre, come un papavero in un campo di girasoli. Quindi, niente colori fluo e Duran Duran. Andiamo più su un cupissimo bianco e nero. Seguo - Rubrica a cura di Emiliano Nencioni
Il soggetto che darà inizio alle riflessioni socio-psico-inutili di questo mese è 1984, Nineteen eighty-four, influente romanzo di George Orwell, citato ormai in qualsiasi espressione artistica: musica, cinema, videogiochi, altri romanzi e - superfluo sottolinearlo - reality show. Sorpresa sorpresa, Nineteen eighty-four non è un romanzo degli anni ‘80. Figuriamoci. È però ambientato nel 1984, o in una versione distopica di un possibile mondo di quegli anni, come potrebbe essere immaginato da uno scrittore nel 1948, poco dopo aver vissuto gli anni della prima e della seconda guerra mondiale, con annessi regimi totalitari, patti sociali disillusi, fiducia tradita, guerra fredda e immanente sensazione di poter ricascare nel conflitto da un momento all’altro.
non commettano uno psicoreato (vale a dire avere anche solo un’idea invisa al regime). Lo stesso linguaggio parlato in Oceania, la Neolingua, consta solo di termini basilari e privi di sfumature, proprio per disincentivare e ostacolare il pensiero critico: dopotutto i pensieri sono formati dalle parole, e se conosciamo poche e basilari parole diventa impossibile articolare un pensiero che si sollevi dalla banalità dei concetti quotidiani. La seconda e micidiale arma del partito è infatti il Bispensiero, l’unica forma di ideologia permessa dal regime, il quale riscrive puntualmente a suo favore ogni nozione e dato storico, ripetendolo come verità fin quando, nella testa dei cittadini, sarà diventata effettivamente un fatto vero e indiscutibile:
GUO L’opera di Orwell è ambientata in una Terra divisa in tre superpotenze dopo la terza guerra mondiale: Oceania, Estasia ed Eurasia; i fatti narrati interessano l’Oceania, un regime totalitario governato da un partito unico con a capo il Big Brother, descritto come una crasi fra i principali tiranni-spauracchio che si potessero ricordare nel secondo dopoguerra. Big Brother, letteralmente fratello maggiore, con tutte le connotazioni relative al termine, è stato tradotto brutalmente in italiano come Grande Fratello, e ohimè, così ce lo siamo dovuti sorbire per una settantina d’anni: non ha molto senso, eppure è quello che i traduttori del tempo hanno ben pensato di fare ed è quello che è sopravvissuto nell’uso comune, poi cementato anche nelle menti dei meno umanisticamente curiosi tramite l’omonimo non-tanto-reality-show. Non volendo assolutamente fare una sinossi del libro, né una critica che di certo non sta a me fare, vi rimando - se servisse - a un veloce e autonomo ripasso del romanzo e salto subito al punto della questione, al motivo per cui ho scelto di parlarvene. Come è noto, in 1984 il partito unico “Socing” trasmette su tutti i teleschermi l’immagine e la propaganda del dittatore supremo Big Brother, e tramite detti teleschermi spia, con telecamere e microfoni, la vita e le idee dei cittadini, affinché
“La menzogna diventa verità e passa alla storia”.
Occupandomi di moderazione di comunità social smisurate come quelle di BBQ4All, la percezione degli interventi e della (lieve, dai) imposizione di linee di condotta nelle attività dei moderatori sono un mio cruccio giornaliero:
“Siete una setta dove i non allineati vengono rimossi”
“Tutti seguaci del guru, che ogni volta decide quale tecnica sia giusta o sbagliata” “Certe carni, non del megastore, non vengono neanche mai pubblicate” “Non si può neanche fare una battuta simpaticissima attingendo al repertorio attuale e sempre fresco di Alvaro Vitali o dalla premiata collana di film “Vacanze di Natale a…”
Abbiamo abbondantemente parlato, su queste paginette finali, dei problemi nella percezione della moderazione presso l’utente comune; la confortante auto illusione del Portar Rispetto, la deflagrazione incontrollata dell’Amigdala, l’umiliazione di essere ripreso pubblicamente tra un’assemblea di pari, e via discorrendo.
293 - BBQ4All Magazine
Il (vero) anno 1984, con il suo carico di Wham, Magnum P.I., floppy da 3”½ e Beverly Hills Cop è stato uno di quegli anni che ha deluso ampiamente le aspettative, insieme ad alcuni suoi illustri colleghi: l’Anno Mille, il 1999, il 2001 senza nessuna Odissea o almeno un monolite, il 2015 senza auto volanti e la grande beffa del 2012 con quei Maya burloni.
É per questo che, lungi dal voler creare un regime di controllo e repressione distopico di stampo Orwelliano, i miei sforzi sono protesi verso una moderazione utopistica, gradevole, grata e ben accolta dagli utenti. Facile? Non direi, visto che nonostante l’impegno profuso da un volenteroso manipolo di moderatori ogni intervento volto a ristabilire l’ordine rischia spesso di essere clamorosamente frainteso o strumentalizzato. Musi lunghi, ripicche, vendettine, tentativi di postare un contenuto a mitraglia nella speranza di trovare l’amministratore di manica larga, foto ingannevoli: in una community di tali dimensioni certi utenti le provano tutte, e quando interrogati sul tentativo di infrazione diventano surrealisti:
Presidio Modelo 294- Almanacco 2020- Cuba
“Ma in questo gruppo non c’è neanche un regolamento!” “Certo che c’è, l’ho scritto io, lo saprò?” “Eh ma io sono nel gruppo dal 2018, sai quante cose mi sono successe in questi anni?” “Cos… eh?” (Scambio realmente avvenuto) l gruppo continua a crescere, e aumentare il numero dei moderatori aiuta, ma la complessità dell’organismo sale in maniera non lineare; l’idea di una governabilità non ottimale mi spaventa: immaginatevi una community dove ogni meme stantìo venga puntualmente postato, dove abbondi la coprolalìa, dove lo standard dei moderatori si abbassi sempre di più, fino ad arruolare figure conniventi o corruttibili, “amici di”, o palesemente faziosi. Questo sì che sarebbe distopico, altro che la neolingua! Rimuginando senza sosta, mi sono imbattuto nella figura controversa e non universalmente gradita di Jeremy Bentham, filosofo e giurista inglese del 1700-800. Esponente dell’utilitarismo, corrente filosofica per la quale il bene è ciò che porta la felicità, apparentemente Beccariano, Bentham sosteneva
Più precisamente, il Panopticon avrebbe potuto essere un qualsiasi edificio istituzionale di controllo: perfetta per una prigione, riadattabile anche per scuole ed uffici, aveva come fondamento la scissione della coppia guardia - prigioniero, osservatore osservato, vedere - essere visto; si trattava di una struttura cilindrica, nella quale le celle occupavano su più piani soltanto la parete esterna, completamente libere alla vista verso l’interno, dove risiedeva, centralmente, una torre di controllo. Le guardie potevano vedere ogni cella attraverso delle paratie tipo veneziane, non potendo in questo modo essere mai visti dai detenuti, i quali erano completamente isolati tra loro in celle “monolocale” estremamente luminose e prive di zone di privacy: in questa maniera il reo, non riuscendo a stabilire con precisione quando fosse sotto osservazione o no, avrebbe finito per sentirsi sempre sorvegliato, finendo per “fare l’abitudine a comportarsi bene”. Idealmente, la sorveglianza, anche se inevitabilmente discontinua e affidata a pochissimi agenti, era nei suoi effetti costante, assicurando un rispetto “automatico” delle regole. Distacco fra sorveglianza e sorvegliato, impersonalità, filtro emozionale impenetrabile: forse è questo ciò che serve ad una moderazione moderna ed efficiente, per scongiurare la discesa verso un degrado visigoto. É proprio durante una torrida giornata siciliana, con quel sole che puoi quasi sentire premere sulla pelle, alla fine di una sessione di “pensieri in libertà” insieme al maître à penser Gianfranco Lo Cascio, che si è fatto vivo il germe dell’idea. Scindere il ruolo visibile del moderatore dalla figura umana, nascondendolo dietro le “persiane a veneziana” di un account impersonale: una sorta di Tipo di Dato Astratto inconoscibile dall’esterno. Faccio alcuni esempi pratici: • Utente1 scrive una smargiassata fastidiosissima e imperdonabile, Mod1 commenta bacchettando Utente1 e paventando sanzioni; Utente1 si sente disonorato e svergognato (per così poco? Eppure fate proprio così, lo sappiamo) presso la stessa comunità nella quale vorrebbe apparire “ganzo”,
e con un tipico fallo di reazione offende Mod1, peggiora vieppiù il tono degli interventi e se possibile contatta Mod2, che ha più in simpatia, lamentandosi dei modi autoritari e repressivi di Mod1. • Mod1 interviene come da regole sul post ingenuo di un nuovissimo Utente2, il quale, inesperto, si inalbera giocando la carta del “pensavo fosse un gruppo dove ognuno può dire la sua”, va a spulciarsi il profilo privato di Mod1 e lo sfotte in pubblico irridendo i suoi hobby, il suo aspetto, il suo schieramento politico o il numero di foto di gattini che condivide mensilmente. Mod1 se la lega al dito e inizierà a sanzionare con ferocia qualsiasi intervento di Utente2, incasinandone la crescita come griller e come potenziale cliente. • Utente3 è amicissimo di Mod2 e Mod3 e mal sopporta Mod1: ad ogni post taggherà con mille salamelecchi Mod2 e Mod3, e cercherà di pubblicare il post nell’orario in cui, lo sanno tutti, Mod1 non è in servizio perché ha la classe di Judo. Mod1 sembra essere socialmente problematico, una vera calamita di criticità sociali, una caricatura non collocabile nel mondo reale - ma non è così: ricordiamoci che nella corrispondenza uno-a-molti di un moderatore e sessantamila utenti, queste occorrenze hanno una probabilità non trascurabile. Tutt’altro! Ribaltiamo il tutto adesso pensando all’intervento di una generica “pagina di moderazione”, un account social gestito da una moltitudine di collaboratori fidati e rigorosamente addestrati: ad ogni tipologia di infrazioni corrisponde una serie di frasi predeterminate ben precise da scrivere, asettiche, studiate con rigore e senza la foga del nervosismo e l’agone del momento; l’utente si sente riprendere in maniera educata, asciutta, concisa ed efficiente da un account senza volto, non assimilabile ad un altro umano verso cui provare vergogna o risentimento, e accetta di buon grado l’indicazione; notando ventiquattro ore su ventiquattro la comparsa del solito account di vigilanza l’utente potenzialmente mariuolo non potrà mai sperare di postare quando il mod più lassista è di turno, o se non altro quando quell’amministratore che proprio non tollera è fuori a far sgambare il cane: sorveglianza continua percepita. Da un lato interventi amministrativi sempre ben scritti, mai gettati sull’impulso di rabbia o frustra-
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che il reato fosse espressione di malattia e non di depravazione o deviazione. Per questo, tra le sue opere spicca una particolarissima teorizzazione di una struttura carceraria rivoluzionaria, il Panopticon.
zione, senza ripercussioni personali (avete idea della cattiveria dei messaggi privati che arrivano ai mod?), dall’altro un’accettazione molto più serena da parte dell’utente e un aspetto più rigorosamente controllato dell’intero gruppo. Sembra, a tutti gli effetti, una situazione win-win, DISTANZIATO SOCIALMENTE BEN PRIMA CHE DIVENTASSE MAINSTREAM dove entrambe le parti hanno soltanto a giovarne: utilitarismo applicato ai social network.
Emiliano Nencioni
La massima felicità per il maggior numero. Ma, nella storia, il Panopticon ha avuto fortuna, di pari passo con l’interiorizzazione dell’aderenza totale alla disciplina? Insomma. Anzi, no. Un insuccesso totale: Bentham stesso continuava a proporsi come costruttore e amministratore di carceri, anche sfruttando la necessità di ostacolare la diffusione di febbre tifoide che imperversava tra gli istituti correttivi decimando detenuti, guardie e giudici, ma con scarsissimo successo. Tutti gli edifici ispirati o aderenti all’idea di Panopticon sono stati dismessi o demoliti, ad eccezione di tre penitenziari olandesi e delle carceri cubane della Isla De La Juventud, cinque blocchi circolari attualmente trasformati in museo, il “Presidio Modelo”. Rivolte, sovraffollamento, condizioni molto poco umane: non deve destare meraviglia che proprio in queste strutture George Orwell trasse ispirazione per il suo Big Brother. E un po’ il cerchio si chiude. 1984. Nel numero speciale anni ‘80.
"Sia che si tratti di punire i criminali incalliti, sorvegliare i pazzi, riformare i viziosi, isolare i sospetti, impiegare gli oziosi, mantenere gli indigenti, guarire i malati, addestrare quelli che vogliono entrare nell’industria, o fornire l’istruzione alle future generazioni […] è applicabile a tutti gli stabilimenti in cui, nei limiti di uno spazio che non sia troppo esteso, è necessario mantenere sotto sorveglianza un certo 296- Almanacco 2020
numero di persone. "
Jeremy Bentham
Verrà mai attuata questa rivoluzione nella moderazione del brand? Chissà. Le idee sono buone, gli scogli sono tanti, i malumori non tarderanno ad arrivare. Ho il sospetto che in questi tempi di vetrinizzazione sociale (argomento di una futura rubrica Seguo - stay tuned) agire in un anonimato impersonale tolga un po’ di brio ai sorveglianti, trasformati da baldi sceriffi a funzionari del controllo sociale
Emiliano Nencioni
N°22/ANNO 2 - OTTOBRE 2020
Babelica Sicilia Come si preparano: Insalata di razza, Polpo e patate, Sugo di moscardini, Cous cous al pesto, Lasagne al pesce spada, Paella di Mazara del Vallo, Parmigiana di spada, Involtini e polpette di cavallo, Panino con la milza, Cotoletta alla palermitana, Iris fritte alla ricotta e cioccolato
Fuori dalla zona di comfort food: la Shepherd’s Pie L'editoriale di Gianfranco Lo Cascio
Chef’s Table BBQ: una recensione disallineata Come si fa: la ricotta
La ricetta scientifica:
le Arancine
298- Almanacco 2020 fotografie di Rossella Neiadin
Editoriale di Gianfranco Lo Cascio
Una ricetta perfetta per l'autunno:
la
Shepherd’s Pi e migliore del mondo Fuori dalla zona di comfort food
slegato dagli altri. Poi andremo ad assemblare il tutto.
Mantengo la mia promessa e vi svelo la ricetta completa che vi avevo anticipato tempo fa in Community: la Shepherd's Pie.
Ve lo dico, è una procedura rognosa da morire. E vi serve il sous vide. Se non lo avete, potrete cogliere gli spunti e applicare la tecnica utilizzando altri strumenti. Ma sarà un vero bagno di melma.
La ricetta classica è abbastanza semplice da preparare: si mettono a soffriggere in una padella di ghisa, in olio e burro, sedano, carote e cipolle; si aggiunge la carne e si fa brunire per bene. Dopo questa operazione si aggiunge il concentrato di pomodoro, un po’ di salsa Worcestershire, un po’ di farina e si allunga con il brodo. Infine, si lascia sobbollire finché la salsa non si addensa. Nel frattempo, si prepara il purè di patate a cui si aggiunge formaggio, latte e burro e si ricopre la padella tappando il ripieno. Si inforna per fare un po’ di crosta croccantella e il pasticcio è pronto. Niente di complicato. La versione che riporto qui, invece, vi farà drizzare i capelli in testa poiché richiede ben due giorni di preparazione. Ma voi lettori del magazine siete abituati alle mie elucubrazioni culinarie. In realtà è una ricetta scientifica a tutti gli effetti, ma soprattutto un pretesto per farvi rendere conto di quanto un piatto possa cambiare completamente identità semplicemente rivedendolo in chiave moderna, strizzando l’occhio alla scienza. Ciò che andremo a fare sarà cuocere ogni elemento per conto proprio,
Qual è l'idea Come anticipato, l'idea è quella di far esplodere a fondo scala il sapore di ogni singolo elemento della Shepherd’s Pie. E sono davvero tanti anche se non sembra. Ma quali sono i componenti della ricetta che andremo a separare? Intanto partiamo con i due macro elementi: la farcia e il topping. A loro volta, questi due macro elementi saranno costituiti dall’assemblaggio ragionato di altri sotto-elementi. Ognuno cotto con una filosofia precisa. Cominciamo? Partiamo dalla farcia e poi ci dedichiamo al topping di patate.
299 - BBQ4All Magazine
È un classico piatto inglese di carne che ricorda un po’ la versione palermitana del “gattò di patate.” In realtà, quella che vi presento somiglia più ad una Cottage Pie, poiché prevede l’utilizzo del manzo al posto dell’agnello, anche se ormai si tende a usare i due nomi per indicare entrambe le preparazioni. È il piatto del pastore: pasticcio di carne e verdure, ricoperto da uno strato di purè di patate.
INGREDIENTI Per la carne 1,2 kg di top blade/chuck roll/ brisket/boneless beef ribs SPOG q.b. Per il fondo 2 foglie di alloro 2 rametti di rosmarino 2 spicchi d’aglio 2 bacche di ginepro 2 chiodi di garofano 500 ml di vino rosso 2 cucchiai di triplo concentrato di pomodoro Per le verdure 250 g di carote 25 g di burro 3-4 rametti di timo 3-4 scorze di limone 2 olive bianche 60 g di sedano La punta di cucchiaino di aglio in polvere 1 cucchiaino di aceto di vino bianco 125 g piselli 125 g cipolla 30 ml di salsa Worcestershire 1 cucchiaio di sciroppo d’acero Per il topping di patate 1kg patate 2 tuorli d’uovo 120 g burro 150 ml di panna fresca 15 ml di aceto di vino bianco Rosmarino q.b. Noce moscata q.b.
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Per la finitura 150 g Parmigiano Reggiano 30 mesi
Il Pasticcio di carne Ci sono le verdure, c’è la carne e c’è il suo fondo di cottura. Questi tre elementi verranno ancora splittati. Le verdure Cuoceremo separatamente le carote, il sedano, le cipolle e i piselli. La carne Cuoceremo la carne e andremo a recuperare anche i liquidi di cottura che ci serviranno per… Il fondo Prepareremo il fondo a cui aggiungeremo il liquido di cottura della carne, perché contiene un elemento importante che darà un gusto esplosivo alla preparazione. Ricordate una cosa importante: gli elementi aromatici nel sacchetto si amplificano e si propagano in modo molto arrogante. Quindi non preoccupatevi se qualche ingrediente vi sembrerà irrisorio. Vi garantisco che non lo è e farà una grande differenza. LE CAROTE Preparate il sous vide e preriscaldatelo a 84°C. Tagliate le carote a cubetti grossolani, non troppo piccoli, due o tre centimetri di lato. Nel sacchetto aggiungete un pezzetto di burro, rametti di timo, delle dimensioni di un pollice. La scorza di limone, poca, un mezzo cucchiaio, poi aggiungete anche un pizzico di sale e pepe. Tenete il sacchetto nel bagno termostatico per un’ora. Provvedete a raffreddarlo immediatamente con acqua e ghiaccio e conservatelo in frigo, senza aprirlo. IL SEDANO Sous vide sempre a 84°C. Pelate le coste di sedano con un pelapatate per rimuovere i filamenti. Tagliatelo della stessa dimensione delle carote. Aggiungete una punta di cucchiaino di aglio in polvere, due olive bianche, senza nocciolo, tagliate in quarti, un cucchiaino di aceto di vino bianco e mezzo di olio extravergine. Un pizzico di sale e pepe.
LA CARNE Ovviamente vi do i parametri da tenere a mente per la mia carne, perché è quella che conosco.
I PISELLI Ancora come sopra, sous vide a 84°C. Poca scorza di limone, punta di aglio in polvere, mezzo cucchiaino di olio extravergine. Un pizzico di sale e pepe. Cuoceteli per un’ora, raffreddate e lasciate in frigo. Potrete ottimizzare i tempi usando tre sacchetti nello stesso bagno termostatico, durante la stessa ora di cottura.
La prima scelta è il Top Blade (cappello del prete). Va bene il Chuck Roll (reale). Vanno bene le Beef Ribs (biancostato). Va bene il Brisket (punta di petto). Decidete voi.
LA CIPOLLA Qui niente sous vide. Non so se siete pratici, ma se cuocete la cipolla sottovuoto rischiate di far scoppiare il sacchetto a causa dei gas che produce. In questo caso usiamo la cara, vecchia padella. Tritate una bella cipolla, goccio d’olio in padella di ghisa, fate arroventare a dovere e soffriggetela. Quando sarà parzialmente caramellata aggiungete una tazzina di salsa Worcestershire e un cucchiaio di sciroppo d’acero. Fate tirare il liquido, togliete dalla padella e conservate in una ciotola coperta dalla pellicola, in frigo.
Tagliate la carne a pezzi da circa 200/300 grammi. Asciugatela bene. Spalmate di olio e fate tostare in forno a calore feroce fino a quando non avrà sviluppato una bella Maillard (crosta croccante) esterna. Fate raffreddare.
Mettete non più di due pezzi di carne per ogni sacchetto e versate dentro la salsa. Non ci dovete affogare tutto, basta che ricopra la carne per metà. Preriscaldate il sous vide a 75°C. Quando sarà arrivato a temperatura, immergete il sacchetto della carne e cuocete per 24 ore. Eh lo so, ma ci vuole il tempo che ci vuole. Dimenticatevi la carne fino al giorno dopo.
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Cuocetelo come per le carote, un’ora. Poi raffreddate con acqua e ghiaccio e conservatelo in frigo senza aprire il sacchetto.
IL FONDO Lasciate ridurre in padella mezza bottiglia di un buon vino rosso con due cucchiai di triplo concentrato di pomodoro. Dealcolate (il calore farà evaporare la parte alcolica) e fate ridurre della metà. Raffreddate il più velocemente possibile. Quando carne e riduzione si saranno raffreddati, iniziate ad insaccare ma non prima di aver condito la carne con un po’ di SPOG Sal’s Seasoning (sale, pepe, aglio e cipolle in polvere) Aggiungete alloro, un piccolo rametto di rosmarino, due bacche di ginepro, due chiodi di garofano.
Il topping È un purè di patate super ricco. C’è dentro formaggio, burro, panna e uova. Da questo elemento scorporeremo solo le uova che verranno cotte a parte e delle quali useremo solo i tuorli.
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LE PATATE Anche qui, le patate vanno nel sous vide a 90°C per 90 minuti. Tagliate le patate (pelate) a cubetti e aggiungete uno spicchio d’aglio intero, due noci di burro, un cucchiaio di aceto di vino bianco, un piccolo rametto di rosmarino.
LE UOVA Cuocete due tuorli a 62°C per 60 minuti. E raffreddateli. Dopo 90 minuti togliete le patate dall’acqua, togliete il rosmarino dal sacchetto e mettetelo da parte. Schiacciate le patate alla vecchia, con lo schiacciapatate. Non usate il frullatore altrimenti l’amido le farà diventare una colla (quello è il segreto per fare le crocchette di patate che non si spappolano con la frittura). Schiacciate anche l’aglio, se vi piace. Aggiungete il burro
a caldo, mescolando bene, quindi unite i tuorli d’uovo. Poi versate a filo la panna fresca, aggiustate eventualmente di sale e pepe e date una bella grattata di noce moscata. Deve avere una consistenza cremosa/solida. Non troppo asciutta né troppo liquida: se non dovesse essere sufficiente, aggiungete ancora un po’ di panna e burro. Lasciate raffreddare e mettete il composto di patate in una sac à poche con beccuccio per decorazioni floreali.
L'assemblaggio degli elementi Quando il fondo sarà pronto potrete assemblare gli elementi. Nel grande recipiente mettete la carne, la cipolla e tutte le verdure preventivamente scolate dal loro liquido prodotto nel sacchetto.
Rimettete il liquido di cottura della carne sul fuoco e fatelo ridurre. Lasciate restringere a fuoco moderato finché non vela il cucchiaio. Dovrà essere molto viscoso. Fidatevi, perché ci sarà dentro tutto il connettivo rilasciato dalla carne che tenderà a gelificare.
Continuate a mescolare e assaggiate per capire se dovrete aggiustare di sale e pepe. A questo punto disponete il tutto nella teglia o nel tegame di ghisa. Pareggiate lo strato e lasciate riposare disponendo uno strato di pellicola a contatto.
Mescolate e amalgamate bene. Aggiungete il fondo di cottura, non importa se ancora caldo, anzi meglio.
Lasciate a temperatura ambiente per qualche ora. L’ideale sarebbe averlo pronto al mattino per infornarlo la sera. Prima di andare in forno dressate dei fiori di patate con la sac à poche sopra il pasticcio, ovviamente dopo aver tolto la pellicola. Copritelo del tutto, non dovete lasciare alcuno spazio aperto. Mettetene uno strato bello consistente. Spolverizzate la superficie con del Parmigiano Reggiano 30 mesi. Preriscaldate il forno a 200°C, infornate e fate crispare le patate e scaldare il pasticcio. Direi che 20, 25 minuti saranno più che sufficienti.
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Quando la carne si sarà raffreddata aprite il sacchetto e recuperate il liquido. Filtratelo bene. Tagliate la carne a cubetti, della stessa dimensione delle verdure. Riducete le verdure in una brunoise e usatene 300 grammi, mettetela in una ciotola molto grande, vi servirà per assemblarla con gli altri elementi prima di andare in teglia o tegame in ghisa.
Lasciate intiepidire e gustatevi la perfezione. Ogni elemento sarà perfettamente valorizzato, ma il connubio totale risulterà come una specie di sinfonia. Da piatto povero, ve lo garantisco, diventerà un classico delle grandi occasioni. Ma non è tutto. Dopo questo sbattimento avrete imparato una cosa fondamentale: come esaltare le verdure per farle diventare un complemento irresistibile di ogni pietanza. Potrebbe sembrarvi fanatismo legato a un piatto povero, ma la verità è che dopo la Shepherd’s pie, il vostro approccio al sous vide cambierà radicalmente. Scoprirete potenzialità dello strumento che al momento non riuscite nemmeno a immaginare.
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Gianfranco Lo Cascio
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IL TATTO
Il sistema somatosensoriale aka
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Illustrazioni di Eleonora Castagna
Diventare degustatore a cura di Stefania Pompele
Ingarbugliato, sparpagliato, corruttibile e peccaminoso. Ci avvolge, letteralmente, dentro e fuori. Alcuni lo definiscono il senso totale, dell’armonia e della conoscenza, il più intimo dei sistemi sensoriali, quello che ci fa sentire dentro. Il senso della reciprocità. Siamo soliti chiamarlo impropriamente tatto, probabilmente perché toccare (voce del verbo) ben descrive un’abilità che necessità di prossimità – anzi, di vero e proprio contatto - per potersi manifestare. In realtà le sensibilità somatiche sono molteplici, non solo quelle proprie del tatto, e rispondono a diversi stimoli sensoriali, tutti interconnessi e indispensabili per restituirci il mondo - o meglio, la nostra idea al riguardo - nella sua interezza. Insomma, nell’esperienza multisensoriale, zeppa di bias cognitivi e inghippi sinestesici che chiamiamo assaggio, l’intelligenza del sistema somatosensoriale assume un ruolo chiave. Non la pensavano così alcuni filosofi, lo sappiamo. Erano altre le sensorialità a cui era affidata la conoscenza del mondo. La svalutazione filosofica dei nostri sensi più carnali si era spinta al punto da definire il concetto stesso di arte, e di giudizio artistico, in quanto forma di conoscenza affidata ai sensi. Hegel sosteneva che “il sensibile” dell’arte si riferisse solo ai due sensi teoretici della vista e dell’udito, ed escludeva “dal godimento artistico” olfatto, gusto e tatto perché afferenti alla materialità in quanto tale, e alle sue qualità. E se pittura, scultura, musica, danza e poesia sono annoverate storicamente tra le arti per definizione, a quella culinaria si fatica ancora a dare analoga definizione. Anche Platone le aveva negato dignità artistica, la considerava una pratica empirica finalizzata solo al piacere più che a una forma di conoscenza. Evidentemente la caratteristica di scomparire, essere consumata e non lasciare apparentemente tracce, fa dell’esperienza col cibo qualcosa che appariva in antitesi con il concetto stesso di arte museale, quindi conservativa o replicativa.
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Ma sapere è toccare. Così almeno ci direbbe Aristotele, che considerava il tatto il più filosofico dei sensi in quanto prioritario ai pragmata (le cose, gli oggetti), quindi più generale e intimamente legato loro rispetto alla vista. Sosteneva, insomma, che fosse proprio attraverso questo tipo di sensibilità che la psiche individuava la cose identiche a sé, e toccando il particolare identificava l’universale. Chissà cosa avrebbero pensato tutti dell’opera di un “tale” di nome Cattelan e di una banana da 120mila dollari esposta in una delle fiere di arte contemporanea più importanti del mondo, letteralmente divorata da David Datuna “affamato d’arte”.
Ma sto tergiversando, lo so. Raccolgo tutto il pragmatismo e lo scibile in mio possesso, ne prendo in prestito parecchio anche dal prossimo, e provo a sbrogliare questa matassa che ci fa godere delle consistenze cedevoli e burrose di un Wagyu 9+, delle libidinose croccantezze di una cotenna di maiale Duroc, le calde cucchiaiate di una ribollita oppure il fine perlage di uno champagne. Insomma quell’universo di sensori propri del sistema somatosensoriale.
Cenni di fisiologia e meccanismo percettivo
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Questo complesso sistema comprende, appunto, diversi tipi di telescopi. Questi telescopi sono distribuiti su tutto il corpo e sono associati a visceri, pelle, muscoli e articolazioni; sono responsabili della sensibilità tattile, termica, pressoria, propriocettiva (riguardante la postura, l’orientamento spaziale e la forza del movimento) e del dolore. Messe giù queste prime verità, ci rendiamo conto che è quindi improprio chiamarlo – semplicemente - tatto. Il tatto è appunto solo una piccola parte del puzzle. La faccenda è piuttosto aggrovigliata. Differenti tipi di sensori lavorano simultaneamente per restituirci l’esperienza nella sua complessità. In alcuni casi si tratta di recettori, come quelli tattili o termici ad esempio, in altri di terminazioni nervose libere, o ancora di sistemi misti. La strada che compie uno stimolo somatico dal sistema nervoso periferico a quello centrale e quindi al cervello, può essere grosso modo schematizzata cosi: recettore / terminazione nervosa libera > neurone
spinale o cranico > fascio nervoso spinale o cranico > cervello. Dalla periferia al cervello solitamente ci sono di mezzo un recettore e tre neuroni. Sì, è complicato e non è mia intenzione aggrovigliare di più la matassa, provo semmai a scomporla così: Tatto e Pressione I recettori tattili e pressori sono dei meccanocettori ampiamente distribuiti sulla pelle. Tre dei recettori coinvolti nel tatto e nella pressione sono: - Terminazioni nervose libere, importanti per la percezione degli oggetti che sono a contatto con la pelle, coinvolti anche nella percezione del dolore; - Corpuscoli di Meissner, sensibili alle sensazioni tattili localizzate e importanti nella percezione di leggeri stimoli tattili discriminativi; - Corpuscoli del Pacini,
Temperatura Si chiamano termocettori, sono localizzati immediatamente al di sotto della pelle e includono due tipi di terminazioni nervose per la percezione delle variazioni di temperatura. In breve, abbiamo due recettori specifici per il caldo e per il freddo, interconnessi con i recettori del dolore. Propriocezione È la sensorialità della postura e permette di percepire la localizzazione e la velocità del movimento di una parte del corpo rispetto ad un’altra. Responsabili di questo tipo di sensibilità sono gli organi tendinei del Golgi, che si trovano a livello delle giunzioni dei tendini con i muscoli, e i fusi muscolari localizzati nei muscoli scheletrici. Dolore Si chiamano nocicettori e sono terminazioni nervose libere stimolate da un danneggiamento del tessuti, anche in
questo caso li abbiamo sparpagliati sulla pelle, nei tessuti degli organi interni e svolgono (ça va sans dire) funzione protettiva. Possono venire attivati da stimoli meccanici, termici e chimici e sono gli unici che mancano di adattamento (anche se voi divoratori di peperoncino che mi leggete potreste avere qualcosa da ridire a riguardo). Trigemino (e i suoi fratelli) Manca un fondamentale tassello al puzzle. Saliamo in zona fauci e dintorni e quindi ci concentriamo su una sensorialità legata soprattutto all’esperienza con il cibo. È sempre parte del sistema somatosensoriale, è un senso chimico come olfatto e gusto, ed è quello che comunemente chiamiamo sistema trigeminale. Si tratta anche in questo caso di terminazioni nervose libere che vengono stimolate da sostanze presenti nel cibo (e non), eventualmente irritanti. In realtà, anche qui, la faccenda è un filo più ingarbugliata. Il complesso sistema sensitivo dell’estremità cefalica (capo e collo per intenderci) è costituito da diversi sensori: il trigemino appunto, che con le sue tre branche fornisce la sensibilità alla faccia e alle mucose oro-nasali, il nervo facciale - che con il suo ramo si unisce al trigemino per innervare i due terzi anteriori della lingua - il nervo glossofaringeo, che interessa la parte posteriore della lingua e il nervo vago che trasmette quanto rilevato dall’esofago, dalla regione orofaringea e dai polmoni. Chemorecettori Comprendono una vasta famiglia di sensori, vale a dire che ne esistono di vario tipo; quelli che mi interessa citare in questa sede sono quelli (semplifico) sensibili a sostanze ferrose, metalliche.
Le sensibilità proprie del tatto nella valutazione del cibo Alcune sono intuitive, le abbiamo elencate qui sopra e non serve approfondire la questione più di tanto. Si tratta di tutte quelle informazioni legate alla forma, struttura, consistenza e variazione di temperatura di un alimento. Quelle che alcune scuole di assaggio definiscono percezioni fisiche comuni. Mi preme invece approfondire un altro aspetto della sensorialità tattile (in questo caso si tratta di stimoli di tipo chimico), vuoi perché in alcuni casi viene erroneamente associata ad un sapore, vuoi perché non è chiaro come si manifesti. Cosa sto blaterando? È l’astringenza, baby Quella che ci lascia a bocca asciutta, ruvida e con lingua felpata: è la risposta sensoriale avvertibile a livello della
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circondati da diversi strati di tessuto connettivo, comuni nel derma profondo e nel tessuto sottocutaneo, nei tendini e nei legamenti e che sono stimolati da forti pressioni.
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mucosa del cavo orale (quindi lingua, palato, gengive e labbra) dovuta alla combinazione, coagulazione e precipitazione delle proteine dell’epitelio e/o delle proteine salivari in presenza di sostanze presenti in tutte le parti verdi e legnose delle piante che rispondono al nome di tannino. Un po’ come in un impasto (perdonami, Trezzi), le proteine della nostra saliva hanno, tra le altre, la funzione di renderla viscosa, ed è proprio la viscosità a svolgere funzione lubrificante. Quando consumiamo un alimento ricco di tannini (pensate ad un calice di nebbiolo o al carciofo crudo) questi composti si legano alle proteine producendo l’inizio di un processo di cuoificazione. Le proteine precipitano, la saliva diventa acquosa e perde il suo potere lubrificante ma non solo, i dotti salivari subiscono una contrazione e nel cavo orale affluisce meno saliva. L’astringenza è appunto una sensazione tattile indotta da questo legame tannino-proteina. La sensazione di secchezza e l’effetto carta vetrata non si manifestano immediatamente: la risposta sensoriale all’astringenza non è immediata, ma tende a lasciare un lungo ricordo di sé anche dopo la deglutizione. Le variabili sui tempi di latenza e intensità di percezione dipendono sostanzialmente da tre fattori: dalla natura della bevanda / alimento, dall’interazione con altre sostanze presenti nell’alimento stesso (pH, eventuale presenza di alcool, polisaccaridi) e dalla composizione e quantità di saliva durante l’assaggio. Non tutte le salive sono identiche,
non tutti percepiamo l’astringenza nello stesso modo.
Sensazioni chimiche comuni Come per l’astringenza, anche in questo caso i sensori coinvolti rispondono a stimolazioni chimiche. Largamente coinvolto il nervo trigemino – non a caso vengono definite anche sensazioni trigeminali - e più in generale tutte le terminazioni nervose libere associate di cui vi ho parlato un paio di paragrafi più su. Piccante È la sensazione irritante, focosa ed eventualmente dolorosa, provocata da composti quali capsaicina, piperina, isosolfocianato di allile (senape) e più in generale tutte le sostanze piccanti. Sono certa abbiate una certa confidenza con questo tipo di stimolazione sensoriale. Vi sarà di certo capitato di ingoiare, magari involontariamente (sottostimare è l’errore più comune di noi spavaldi) quantità considerevoli di peperoncino. Oltre alla bocca in fiamme, gradazioni cromatiche facciali in evoluzione, sudorazione e lacrimazione, avrete magari sperimentato una parziale intorpidimento della zona orofaringea associato ad una percezione gustativa alterata. La tendenza è solitamente quella di percepire un unico sapore dopo l’assunzione, alcuni avvertono tutto il cibo amaro, altri riescono a percepire solo il dolce. Essendo coinvolto il nervo trigemino e avendo quest’ultimo terminazioni nervose libere nelle vie nasali, l’azione irritante può interessare ovviamente anche
naso e occhi (lo starnuto per il pepe nel naso è la risposta sensoriale del trigemino irritato). I divoratori di peperoncini manifestano una soglia di percezione decrescente della piccantezza. Più vi strafogate di cibi piccanti, più dovrete aumentare la dose per avvertire la piccantezza con la stessa intensità. Ho il sospetto non serva spiegarlo a voi. Pungente È la risposta di tipo trigeminale in presenza di molecole a carattere irritante come acido acetico, ammoniaca, l’acido cloridrico e soda caustica. Sempre all’interno della famiglia che pizzica, meritevole di menzione è la CO2, che per azione di un enzima (anidrase) presente sulla saliva, viene trasformata in acido carbonico, responsabile della ben nota sensazione che titilla il palato quando sorseggiamo bevande gassate. L’azione irritante di queste (e altre) sostanze in zona olfatto, viene in gergo definita falso odore proprio perché diverso è il tipo di recettore coinvolto. Per farla breve, le sostanze elencate e gli stimoli ad asse associati non riguardano né olfatto né gusto. Non si tratta di odore, nemmeno di sapore. Burn baby burn: alcol inferno Questa cosa la spiego solo agli astemi, gli altri possono passare a quella successiva. Viene definita in gergo sensazione pseudo-calorica, ed è appunto la sensazione di calore associata ad alcune delle soluzioni idroalcoliche con cui noi diversamente astemi sollazziamo il palato. La percezione di calore tende a diminuire all’aumentare delle stimolazioni (insomma, il primo
Rifrescante Anche in questo caso si tratta di una pseudo variazione di temperatura, anche in questo caso è coinvolto il trigemino (and Co.) ed è causata da composti quali il mentolo, l’eucaliptolo e simili, ad effetto rinfrescante delle mucose nasali e gustative.
Metallico - Ferroso Ovvero la sensazione ferrosa, sanguigna, di p osateria d’argento, di “mazzo di chiavi ciucciato” e chi più ne ha più ne metta, che possiamo riscontrare in alcuni cibi e bevande. È la riposta sensoriale in cui sono coinvolti i chemorecettori che citavo qui sopra, sensori distribuiti su tutto il corpo e largamente presenti anche in bocca e naso. La sensazione può insomma manifestarsi mentre stiamo annusando una tartare, o addentandola. Anche in questo caso non si tratta di un odore, nemmeno di un sapore.
Sbrogliare la matassa sensoriale, capire chi fa cosa e acquisire un vocabolario condiviso è anche lo scopo fondante di un’associazione di professionisti che dal 2011 propone attività formative legale alla degustazione della ciccia. De Gustibus Carnis è nata per volontà di un gruppo di macellai in collaborazione con Good Senses (all’epoca Centro Studi Assaggiatori), società di ricerca e formazione in analisi sensoriale. Casomai vi avessi fatto venire voglia di approfondire queste faccende sensoriali applicare all’assaggio della carne, ora sapete a chi rivolgervi.
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cicchetto si fa sentire, il quarto meno). L’effetto vasodilatatorio dell’alcol - favorendo l’afflusso di sangue - genera un reale, seppur minimo, aumento della temperatura corporea. Le avete presenti le maniche corte a -10°C? Ecco.
d a l l a s tuf a al b b q
immagini cortesia di Weber
Il p ellet
Dispositivi e Accessori rubrica a cura della redazione
Da qualche anno sul mercato è disponibile una nuova tipologia di dispositivi per le cottura in griglia: quelli a pellet. Sono la combinazione perfetta fra la semplicità di uso dei bbq a gas e l’aroma tipico del carbone. Le specifiche caratteristiche li rendono appetibili sia per un principiante, per l’evidente facilità di utilizzo, che per un esperto , grazie alla possibilità di personalizzazione della cottura. In questo articolo vi chiarirò le idee sul loro funzionamento e vi presenterò la risposta di Weber per il 2020: lo SmokeFire.
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COME FUNZIONA UN DISPOSITIVO A PELLET
Il sistema di cottura a pellet ha una struttura molto semplice. Il pellet, ovvero l'insieme di palline di segatura compressa, viene inserito in una tramoggia che funziona da serbatoio. Sul fondo della tramoggia è presente una coclea che permette il trasferimento del combustibile al braciere (firepot). Questo meccanismo ha una velocità variabile in base alla quantità di pellet necessario al mantenimento della temperatura di cottura. Una volta che il pellet ha raggiunto il firepot, viene incen-
lo
Smoke
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Fire
diato per iniziare la combustione. Quasi tutti i dispositivi a pellet hanno la tramoggia posta di lato collegata al firepot, sito in zona centrale della camera di cottura, tramite una lunga coclea. In base alla qualità del prodotto potremo avere pareti più o meno spesse e sistemi di controllo temperatura più o meno efficienti. Sotto la griglia è posta una piastra che funge da deflettore in modo che i succhi in caduta dagli alimenti vengano convogliati verso la vaschetta di raccolta per rendere più agevole la pulizia ed evitare incendi. Sempre lateralmente, ma dalla parte opposta rispetto alla tramoggia, è di solito piazzato un camino che permette la fuoriuscita del calore e del fumo dalla camera di cottura. Il sistema di controllo della temperatura si compone di una sonda che va a monitorare la temperatura in griglia e di un PID che regola la combustione secondo le impostazioni dell’utente. I dispositivi più evoluti hanno anche una app per la gestione ed alcuni anche un collegamento wi-fi per il controllo da remoto.
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PUNTI DI FORZA E PUNTI DEBOLI DEI DISPOSITIVI A PELLET
Il primo elemento distintivo di questa tipologia di bbq è senz’altro la facilità di utilizzo: basta impostare la temperatura e il sistema di controllo agisce in autonomia sul suo mantenimento assimilandone il funzionamento a quello di un bbq a gas. Questo potrebbe farli sembrare sistemi banali ma in realtà la user experience può essere personalizzata ed essere adattata anche ad un esperto. Inoltre, quest’ul-
timo potrà concentrarsi sulla preparazione preliminare e la finalizzazione dei piatti piuttosto che sulla loro cottura. Un altro punto di forza è l’aroma conferito agli alimenti. Seppur meno efficace rispetto ai dispositivi a carbone, il fumo prodotto riesce a conferire un flavour profile complesso soprattutto se si creano dei blend con le tipologie di pellet presenti sul mercato. Parlando invece dei limiti, uno importante è la possibilità di grigliare esclusivamente in cottura indiretta. Indipendentemente dalla temperatura raggiungibile in camera, il deflettore inserito per la raccolta dei liquidi non permette un corretto irraggiamento al cibo e la sola aria, anche molto calda, non è sufficiente per creare una gustosa crosticina prodotta dalla reazione di Maillard. Un altro elemento negativo da considerare è sicuramente la dipendenza dall’elettricità: per garantire il funzionamento di tutto il sistema è necessario collegare il dispositivo ad una presa di corrente. Dovete tenerlo a mente quando decidete dove posizionare il bbq in cottura. Anche il sistema di pulizia è da migliorare perché in quasi tutti i dispositivi è necessario smontare sia le griglie che il deflettore, per arrivare alla cenere che si deposita sul fondo della camera di cottura. E svuotare la cenere è di fondamentale importanza per evitare malfunzionamento del firepot.
WEBER SMOKEFIRE
Weber ha finalmente deciso di entrare nel mercato dei dispositivi a pellet creando la sua SmokeFire Series, che sarà di-
sponibile entro il primo trimestre 2020. La lettura delle caratteristiche tecniche mette in evidenza il fatto che Weber ha fatto una lista di tutti i difetti dei dispositivi a pellet attualmente sul mercato e li ha eliminati. Vediamo insieme cosa ha deciso di inserire nei nuovi SmokeFire.
FINALMENTE LA COTTURA DIRETTA!
gas ma perfezionate. Queste ultime convogliano i liquidi verso dei binari che li faranno cadere in una vaschetta. In questo modo è stato possibile mantenere delle aperture fra le barre permettendo un irraggiamento estremamente migliore rispetto ai competitor.
SISTEMA DI PULIZIA DELLA CENERE
I depositi di cenere sul fondo della camera di cottura rappresentano una delle più frequenti cause di malfunzionamento del dispositivo, e per arrivare alla loro rimozione è
necessario rimuovere la griglia di cottura e il deflettore. Weber ha forato il fondo del firepot per far sì che la cenere prodotta dalla combustione cada istantaneamente in una vaschetta sita sotto al firepot stesso. In questo modo la pulizia del fondo della camera di cottura potrà essere effettuata più sporadicamente e senza avere problemi nella tenuta della fiamma per presenza di depositi di cenere.
TRAMOGGIA CLEA
E
CO-
La tramoggia è situata sul retro del dispositivo e centralmente in corrispondenza del firepot. Questo accorgimento permette di utilizzare una coclea corta che previene il rischio di inceppamento del pellet. Inoltre, nella tramoggia è presente un sensore collegato direttamente con il pannello di controllo che serve ad attivare una notifica se il livello del combustibile è troppo basso. Infine, nella parte inferiore è presente un pannello che,
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Uno dei punti deboli dei dispositivi a pellet è, come detto poco sopra, la sostanziale impossibilità di effettuare cotture dirette. In una cottura di questo genere non è tanto importante la temperatura della camera quanto piuttosto il calore irraggiato sotto all’alimento da cuocere. Come ha fatto Weber a superare questo problema? Semplice: ha creato un nuovo sistema di raccolta dei succhi in caduta eliminando la piastra disposta sotto alla griglia. Negli SmokeFire il firepot è protetto direttamente con un deflettore in modo da evitare incendi, mentre il resto del lavoro di raccolta grassi è compiuto da barre aromatizzanti, tipiche dei dispositivi a
se aperto, permette di svuotare la tramoggia attraverso uno scivolo, in modo da poter cambiare tipologia di pellet in corso di cottura. Per evitare il rischio, seppur remoto, di “burn back” la coclea è inclinata verso l’alto e termina in uno scivolo, che a sua volta finisce nel bruciatore. In questo modo non c’è alcuna possibilità che un’eventuale fiammata possa far incendiare il pellet all’interno della coclea e che da lì arrivi alla tramoggia. Un altro accorgimento finalizzato alla eliminazione di questo rischio è il processo di spegnimento del dispositivo, il quale prevede che la coclea, in un determinata fase, ruoti in senso inverso per ricoverare tutto il pellet non utilizzato all’interno della tramoggia.
C A R AT T E R I S T I C H E COSTRUTTIVE
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Il corpo dello SmokeFire è costruito in acciaio smaltato a doppia parete: in questo modo si migliora la coibentazione dall’ambiente esterno e si ottimizza la stabilità di temperatura e il consumo di combustibile. Inoltre, a differenza degli
altri dispositivi a pellet, Weber non ha inserito nello SmokeFire un camino ma ha aperto delle fessure sul retro della camera di cottura, che rendono più efficiente il moto convettivo all’interno della stessa. Le griglie sono delle medesime dimensioni di quelle della serie Spirit, di conseguenza quindi potrà essere utilizzato anche il Gourmet System in compatibilità.
WEBER CONNECT
Weber ha inserito nella sua app la possibilità di controllare da remoto lo SmokeFire ma non si è fermata solamente a questa feature. Ha creato delle ricette interattive che comunicano all’utente, tramite notifiche sullo smartphone, la necessità di compiere una determinata azione (girare l’alimento, cambiare temperatura, caricare il combustibile, etc…); grazie al sistema di sonde integrato al pannello di controllo sono collegabili fino a 4 sonde, di cui una riservata alla temperatura di cottura. Ultima ma non ultima, è presente la presenza di un ETA che va ad indicare il tempo
stimato di fine cottura, aggiornato in tempo reale in base alle risultanze delle analisi delle sonde. In conclusione, Weber sulla carta ha eliminato gran parte dei difetti presenti sui dispositivi attualmente sul mercato ed ha inserito alcune funzioni che rendono la user experience facile, intuitiva e smart. Non vi resta che testarlo per verificare la bontà di quanto descritto.
"Ă&#x2C6; in Sicilia che si trova la chiave di tutto. La purezza dei contorni, la morbidezza di ogni cosa, la cedevole scambievolezza delle tinte, lâ&#x20AC;&#x2122;unitĂ armonica del cielo col mare e del mare con la terra. Chi li ha visti una sola volta, li possederĂ per tutta la vita." J. W. Goethe
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Speciale Sicilia
La S c a leid os copi o d i sa p ori che so rge dal mare
fotografie di Rossella Neiadin
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Speciale Gastronomia Siciliana introduzione a cura di Michela Bongiorni
Fra i molti luoghi comuni che sentiamo ripetere sulla Sicilia, certamente uno dei più gettonati è “ah, ma come si mangia bene da quelle parti!”. Ebbene, pur non amando moltissimo gli stereotipi, trovo impossibile provare a smentire questa affermazione. Tipicamente mediterranea, la gastronomia sicula è basata principalmente su olio, pasta, pesce, frutta, ortaggi ed erbe aromatiche; il repertorio dei prodotti tipici è talmente ricco da rendere la cucina locale, secondo molti, non paragonabile a nessun altra realtà regionale italiana: sfarzosa, succulenta, ricca, goduriosa, variegata. Chiunque sia andato almeno una volta in Sicilia è tornato sicuramente con due cose più pesanti: la valigia, piena di prodotti locali, e il didietro, prima vittima dei peccati di gola. D’altronde, quando vai in un posto nuovo non puoi mica dire di averlo visitato davvero se prima non assaggi tutti i piatti tipici. Il fatto che molti siciliani cucinino davvero bene e sopratutto lo facciano per battaglioni interi, e che si offendano se non accetti una cosa che ti stanno offrendo, è del tutto secondario. O no?
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Sicilia
L’aspetto di quei babelici pasticci era ben degno d’evocare fremiti d’ammirazione. L’oro brunito dell’involucro, la fragranza di zucchero e cannella che ne emanava non erano che il preludio della sensazione di delizia che si sprigionava dall’interno quando il coltello ne squarciava la crosta: ne erompeva dapprima un vapore carico di aromi, e si scorgevano poi i fegatini di pollo, gli ovetti duri, le sfilettature di prosciutto, di pollo e di tartufi impigliate nella massa untuosa, caldissima dei maccheroni cotti cui l’estratto di carne conferiva un prezioso color camoscio. Così Giuseppe Tomasi Di Lampedusa, nel Il Gattopardo (1958) definisce uno dei pranzi a cui partecipano i protagonisti del romanzo, che può ben descrivere l’arte culinaria siciliana - quella dei nobili - complessa e barocca. D’altra parte, esiste anche la cucina povera e umile, quella dei pescatori, dei braccianti, degli zolfatari e dei pastori, che certo non potevano permettersi lo sfarzo delle corti. Due anime quindi, ma un unico sentire comune: quello di godersi la vita, di far bella figura, di soddisfare la propria famiglia e gli ospiti.
La storia Vi è una Sicilia “babba”, cioè mite, fino a sembrare stupida; una Sicilia “sperta”, cioè furba, dedita alle più utilitarie pratiche della violenza e della frode. Vi è una Sicilia pigra, una frenetica; una che si estenua nell’angoscia della roba, una che recita la vita come un copione di carnevale; una, infine, che si sporge da un crinale di vento in un accesso di abbagliato delirio …Perché tanti volti? Perché la Sicilia ha avuto la sorte di ritrovarsi a far da cerniera nei secoli fra la grande cultura occidentale e le tentazioni del deserto e del sole, tra la ragione e la magia, le temperie del sentimento e le canicole della passione. Soffre, la Sicilia, di un eccesso d’identità, né so se sia un bene o sia un male.
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Gesualdo Bufalino, scrittore, poeta e aforista italiano del ‘900 in Cento Sicilie
Eccesso di identità, proprio così. Anche e sopratutto in cucina. La gastronomia sicula, probabilmente la più antica d'Italia, è il risultato delle numerose culture che sono passate su quel territorio e vi hanno lasciato tradizioni e sapori. il primo libro di cucina della storia (essenzialmente una raccolta di ricette) fu scritto dal siciliano Miteco Siculo, vissuto a Siracusa nel V secolo a.C., che fu cuoco e scrittore. Grazie a lui, che soggiornò e conobbe anche Sparta ed Atene, la gastronomia dell'isola venne conosciuta anche in terra ellenica. Numerosi lavori di eruditi greci narrano le vicende dei Sicelioti (abitanti delle poleis greche di Sicilia) e le loro abitudini alimentari. I cuochi locali erano richiestissimi ad Atene e a Sparta, poiché considerati tra i più bravi in circolazione. Le due culture, quindi, si mescolarono: mentre i siciliani portarono la loro conoscenza in cucina, i greci
trasmisero agli abitanti della bella isola l’amore per la ricotta e insegnarono loro a migliorare i metodi di coltivazione delle vigne; inoltre, introdussero l’origano, i dolci di mandorle e di miele e soprattutto importarono l’ulivo.
Nell’827 d.C. i musulmani d’Africa sbarcarono a Marsala, dando inizio a quella che fu una vera e propria rivoluzione
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Durante la dominazione romana la situazione non cambiò molto: anche i patrizi si contendevano i cuochi isolani, a quel tempo ancora considerati abilissimi. Essendo ricca di grano, la Sicilia fungeva come granaio per la città di Roma. Con il tempo si svilupparono nuove preparazioni oltre al classico pane: per esempio si diffuse l’abitudine di cuocerlo e poi di intingerlo nel vino e nel miele. La comunità ebraica introdusse l’elaborata preparazione delle verdure, l’uso dell’aglio soffritto con olio d’oliva e l'utilizzo delle frattaglie come companatico, insegnando di fatto ai siciliani che di un cibo non si butta mai niente. Risale a questo periodo anche l’abitudine di rifocillarsi, dopo gli spettacoli negli anfiteatri, nelle taberne, consumando piatti veloci come fritture di pesce, focacce o frittelle. Probabilmente da questa consuetudine si evolverà la rosticceria spicciola, da strada, tipica dell’isola. I bizantini portarono la cannella, i chiodi di garofano e nuovi tipi di lavorazione dei formaggi: se prima ci si limitava a produrre ricotte salate e caci, da qui cominciarono ad essere prodotti anche formaggi piccanti e a pasta molle.
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culturale e gastronomica. Importarono le arance e i limoni, la canna da zucchero, il riso, il gelsomino, il sesamo, la cannella e lo zafferano. Abilissimi pasticceri, è proprio agli arabi che dobbiamo la Cassata e lo sharbat, progenitore del sorbetto, per il quale furono costruite in tutta l’isola le neviere: locali sotterranei realizzati per conservare la neve fino all’estate. Sono arabi anche il marzapane e la pasta di mandorle. Amanti delle essenze, gli arabi crearono dolci profumati alla frutta, alla cannella e al gelsomino. Inventarono i geli (di melone, di mosto, di cannella); crearono storte ed alambicchi per la distillazione della grappa che usavano solo per disinfettare le ferite, in osservanza del Corano.
A loro si devono altre famose preparazioni come le panelle, i ceci essiccati ed i fiori di zucca seccati e salati, nonché il panino con la milza. Il cous cous, invece, raggiunse l’isola secoli dopo la fine della dominazione araba, ma questo piatto di origine berbera è divenuto molto importante nella tradizione della fascia costiera trapanese. Secondo alcune teorie, è proprio agli arabi che si deve l’arrivo della pasta in Sicilia (se è vero che essa è nata in Cina, gli scambi con l’Oriente avrebbero favorito il diffondersi di questo alimento dapprima sull’isola e poi in tutta Europa) e ad un loro cuoco l’invenzione del primo piatto mari e monti della storia: secondo la leggenda, nel siracusano un cuoco arabo si trovò a dover sfamare l’esercito
accampato e dovette dunque arrangiarsi con ingredienti reperibili in zona. Nacque così una preparazione composta da pasta con le sarde, mescolata con finocchietto selvatico e pinoli. Quando gli Arabi vennero sconfitti dai Normanni nel 1063, la popolazione proveniente dal Nord Europa (perlopiù formata da cacciatori) rinforzò la gastronomia della selvaggina e introdusse lo stoccafisso, elemento diventato nel tempo fondamentale per alcuni piatti siciliani. Gli Svevi successivamente determinarono il consolidamento della cucina aristocratica, sviluppando nuove ricette per carni rosse e pesci di grossa
Merita una piccola digressione la caponata siciliana: essa è senza ombra di dubbio l’espressione più tipica della legge gastronomica secondo la quale i piatti partono da una base semplice e a seconda della disponibilità degli ingredienti si arricchiscono di sapori. Il prodotto che conosciamo oggi è sicuramente il risultato delle varie influenze subite nel corso dei secoli dalla gastronomia siciliana. Secondo una teoria, in verità molto discussa, il nome potrebbe derivare dalla caupona, parola con cui si indicavano la taverne degli antichi romani nelle quali si consumava una pietanza costituita da verdure condite con olio e aceto: un piatto parecchio semplice, consumato soprattutto dai ceti meno abbienti, molto diverso da quello attuale poiché le melanzane erano ancora sconosciute (non arrivarono prima del 1600) così come il pomodoro. È proprio durante la dominazione spagnola che la caponata divenne una portata
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taglia, prevalentemente rivolte ai ceti più elevati. Grazie all’influenza spagnola degli Aragonesi (fino al 1713), arrivarono in Sicilia le spezie della Indie Occidentali e sempre grazie agli iberici, che importarono il Pan di Spagna, ci fu l’importante evoluzione della cassata. Sono sempre di questo periodo le varie ‘mpanate (che come si può intuire dal nome derivano dalle empanadas), l’introduzione del pomodoro, del cacao e del mais importati dall’America insieme alla patata, al tacchino, ai peperoni; la melanzana invece arrivò dalle Indie.
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più ricca, talora quasi aristocratica poiché arricchita con crostacei e diversi tipi di pesce. Era comunque una preparazione ancora parecchio distante dalla ricetta che oggi conosciamo: ancora non aveva le melanzane e il protagonista era, spesso, il capone, pesce condito con una salsina agrodolce, da cui potrebbe anche derivare il nome del piatto. Troviamo una prima versione della caponata un poco (davvero un poco, a dirla tutta) più vicina alla nostra nel trattato culinario Cucina teorico-pratica (Napoli,1837) scritto dal cuoco e letterato Ippolito Cavalcanti. Egli però non parla minimamente del pesce capone, la qual cosa ci ripresenta inevitabilmente l’interrogativo precedente: qual è l’origine etimologica del termine “caponata”? Secondo l’Atlante Linguistico della Sicilia la radice del termine (quindi cap-) si riferirebbe allo sminuzzare delle verdure e degli ortaggi. In ogni caso l’unico elemento in comune tra la ricetta del Cavalcanti e tutte le versioni successive fino ad arrivare a quella attuale è la salsa agrodolce con cui all’epoca si condiva il pesce e con cui adesso s’insaporiscono le verdure e le melanzane. È molto probabile, dunque, che il cambiamento sia avvenuto in ambito popolare dove si cercò di riprodurre la
tocchetti regolari e le olive intere, schiacciate e denocciolate. Anche la ricetta trapanese è molto diffusa: fino a qualche anno fa si aggiungevano a questa variante le parti meno pregiate del tonno, prodotto facilmente reperibile in una città legata alla tradizione delle tonnare. Anche se nella maggior parte dei casi la presenza del pesce ai nostri giorni è stata eliminata, una variante molto diffusa attualmente è la cosiddetta caponata di spada, con i tocchetti di questo gustoso pesce aggiunti agli altri ingredienti. Immagino che siate curiosi di assaggiarla, e noi siamo qua per questo Torniamo alla storia della gastronomia siciliana per parlare della moda diffusasi nell’800: quella dei monsù (da monsieur), cuochi di origine francese (o presunta tale), esperti nella preparazioni di piatti ricchi e sontuosi. C’erano famiglie nobili che si sfidavano addirittura a duello per ottenere i loro servizi. Fu proprio grazie ai monsù che le due culture gastronomiche presenti sull’isola, cioè quella aristocratica e quella popolare, ebbero l'opportunità di incontrarsi e fondersi. Ciò che succedeva era più o meno questo: la servitù, che spesso abitava nello stesso palazzo dei nobili per cui lavorava, proponeva ai signori dei piatti poveri ma sfiziosi; a questo punto gli aristocratici chiedevano ai monsù di rielaborare le ricette in modo da renderle più ricche e raffinate. Di conseguenza, le popolane che lavoravano in cucina apprendevano queste modifiche e cercavano di ricrearle, dando vita una specie di circolo virtuoso, grazie al quale i piatti tradizionali della cucina siciliana possono essere preparati, a seconda delle disponibilità di ingredienti, in una versione più modesta e in una più ricca. Con l’unità d’Italia arrivarono sull’isola le usanze del Settentrione e via via, decennio dopo decennio, siamo arrivati a quella cucina eterogenea e ricca di sapori di cui ho parlato all’inizio: gioia per il palato, un po’ meno per i fianchi. Ma in fondo, chi se ne frega. Parafrasando la Regina di Cuori di Alice nel Paese delle Meraviglie, la dieta è sempre ieri o domani, mai oggi.
Mazara e la Boutique del Pesce Abbiamo già abbondantemente parlato nel numero di Dicembre 2019 di questa meravigliosa cittadina affacciata sul mare e della famiglia Giacalone, proprietaria dello stabilimento che ci fornisce i vostri (nostri!) amati gamberi rossi, gli scampi giganti e le tartare che tanto ci deliziano. Abbiamo anche parlato della Boutique del Pesce, chiamarla pescheria non le rende giustizia: un luogo dove acquistare pesce fresco e surgelato e dove il cuoco Nicola prepara ogni giorni i suoi manicaretti, aiutato dai ragazzi in cucina; manicaretti che la gente poi viene a comprare per ogni occasione: si va da una veloce pausa pranzo alla cena di Natale o di San Valentino. Dimenticatevi i piatti un po’ tristi delle rosticcerie e delle gastronomie a cui siete abituati, e pensate in grande: siamo nel cuore della vera Sicilia, siamo nel paese dei pescatori, siamo in un posto che non ha niente di turistico, finto oppure edulcorato. I piatti presentati da Nicola detto Colalavecchia non sono mai scontati: noi, dopo essere stati di nuovo a Mazara questa estate e averli assaggiati tutti, vogliamo proporvene una selezione, in modo che possiate ricrearli a casa e vantarvi con la famiglia e con gli amici. Mettetevi comodi: vi sazierete solo leggendo.
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pietanza delle classi agiate sostituendo il pesce con le ben più economiche e diffuse melanzane. Nel 1860 il vocabolario siciliano-italiano di Antonino Traina descrive la caponata così: “un manicaretto ov’entra del pesce, petronciani (una particolare tipologia di melanzane n.d.r.) o carciofi ed altri condimenti, e si mangia per lo più in freddo”. A completare il piatto l’insostituibile sapore agrodolce del sugo di pomodoro con l’aggiunta di aceto e zucchero. Una ricetta, dunque, molto più vicina a quella odierna. Tantissime sono le varianti che nei decenni si sono affermate a seconda delle località (e spesso a seconda dei quartieri e addirittura delle famiglie). Sicuramente, la più conosciuta al mondo è quella palermitana, con le melanzane tagliate a
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INSALATA DI RAZZA PREPARAZIONE 1. Mettete le ali di razza su un vassoio e cuocetele in un forno a vapore. Se non siete in possesso di un forno che abbia questo tipo di funzione, potete utilizzare una pentola sul cui fondo si portare a ebollizione un po’ d’acqua. All’interno poi inserite un cestello o un colapasta di metallo in cuipotrete disporre le ali di razza. 2. Quando saranno morbide e cotte, ricavate la polpa e tenetela da parte, per farla raffreddare bene. 3. Nel frattempo pulite e affettate finemente i finocchi. 4. Affettate finemente anche il basilico.
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5. A questo punto mettete la razza in una ciotola, conditela con olio, sale, pepe, il succo di limone o l’aceto, aggiungete il finocchio e il basilico e mescolate. Aggiungete all’occorrenza sale e olio. Lasciate l’insalata così composta in frigorifero per due ore, poi servitela: è ottima come antipasto, ma anche come piatto unico leggero, gustoso e saporito. Potete anche sostituire il basilico con la menta, se amate il sapore più fresco di quest’ultima.
INGREDIENTI 4 persone 500 g di ali di razza sale e pepe q.b. olio extravergine di oliva q.b. due finocchi interi basilico a piacere il succo di due limoni oppure un cucchiaio di aceto di mele
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fotografie di Rossella Neiadin
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INGREDIENTI 4 persone un polpo intero da circa 800 g 500 g di patate Olio extravergine di oliva q.b.
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sale e pepe q.b. il succo di un limone prezzemolo q.b.
INSALATA DI POLPO grigliato con patate PREPARAZIONE 1. Procedete alla precottura del polpo pulito in un tegame, a secco, ovvero senza l’aggiunta di liquidi. A fuoco molto lento, coprendo con il coperchio, lasciatelo cuocere fino ad una consistenza tenera delle carni, che testerete con uno spiedino. 2. Una volta cotto e intenerito, lasciatelo raffreddare all’interno del tegame senza toccarlo e tenendo il coperchio chiuso. 3. Una volta raffreddato a temperatura ambiente, il polpo va conservato fuori dalla sua acqua di cottura, in un contenitore ermetico in frigorifero per almeno sei/ otto ore. Questo periodo di permanenza restituisce tonicità alla carne senza pregiudicarne la tenerezza al morso. 4. Nel frattempo pelate e bollite le patate in acqua e sale, poi lasciatele raffreddare.
6. Tagliatelo adesso a pezzetti di media grandezza e fate lo stesso con le patate: condite il polpo con olio, sale, pepe e limone, e le patate con olio, sale e pepe. Unite poi i due ingredienti e terminate il piatto con un po’ di prezzemolo tritato.
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5. Spennellate il polpo con un filo d’olio e grigliatelo sul vostro dispositivo, in cottura diretta per pochissimo tempo a temperatura molto alta, infilzandolo in uno spiedino. Questo passaggio serve a creare una crosticina profumata e croccante e a scaldarlo internamente.
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SUGO DI MOSCARDINI PREPARAZIONE
1. Pulite i moscardini oppure fateveli pulire dal pescivendolo. 2. Lasciate qualche tentacolo intero, poi tagliare il resto a pezzettini piccoli. 3. Preparare un soffritto con la cipolla, la carota e il sedano, unendo anche il un pezzetto di peperoncino. 4. In una padella fate scaldare l’olio, unite il soffritto e il pesce, facendolo insaporire a fiamma alta. Bagnate col vino bianco, lasciatelo evaporare e poi unire il concentrato sciolto in mezzo bicchiere d’acque e la passata. 5. Aggiustate di sale, coprite la padella, abbassate la fiamma e fatelo cuocere per circa 40 minuti o comunque fino a che il pesce diventerà morbido senza sciuparsi.
INGREDIENTI 4 persone 500 g di moscardini freschi mezza cipolla una carota piccola uno spicchio d’aglio mezzo bicchiere di vino bianco sale q.b. peperoncino q.b. due cucchiai di olio extravergine di oliva un cucchiaio doppio concentrato di 330- Almanacco 2020
pomodoro due cucchiai di passata di pomodoro
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COUS COUS
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AL PESTO DI BASILICO
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PREPARAZIONE 1. In una ciotola capiente aggiungete alla semola un cucchiaio di sale fino, poi il primo bicchiere d’acqua e mescolate con le dita, in modo da far assorbire uniformemente il poco liquido da tutta la farina.
4 persone Per il cous cous Un kg di semola di grano duro 3 bicchieri di acqua tiepida un cucchiaio di sale fino 3 bicchieri di olio extravergine di oliva mezza cipolla uno spicchio d’aglio
per il pesto di basilico 160 g di basiico italiano classico 140 g di Parmigiano Reggiano 60 g di pecorino sardo 60 g di pinoli tostati in padella 4 spicchi d’aglio 10 g di sale grosso 30 ml di succo di limone 160 ml di olio extravergine di oliva.
per condire Gamberi rossi di Mazara e frutti di mare a piacere. olio extravergine di oliva q.b. uno spicchio d’aglio
2. Una volta che il composto è asciutto, inserite il secondo bicchiere, mescolate e lasciate nuovamente asciugare all’aria. Ripetendo il processo tre volte raggiungerete una dimensione media dei grumi, la più classica, ma è bene dire che a seconda dei gusti più o meno passaggi consentono di variare lo stile del cous cous. 3. Nel mentre, preparate un’emulsione utile a condire il cous cous prima della cottura. Mettete l’olio, la cipolla e l’aglio in un bicchiere e riducete il tutto a crema con un frullatore a immersione, Poi aggiungetela ai grumi e mescolate il tutto ulteriormente a mano o tramite lo sbattitore elettrico. 4. Cuocete il cous cous utilizzando la couscoussiera, una doppia pentola a incastro in acciaio inox: la prima alta e la seconda più bassa, forata e con coperchio. Se avete un forno a vapore, potete utilizzare quello, mettendo il cous cus in una teglia forata. Qualsiasi sia il metodo utilizzato, per una grana media il tempo di cottura è di circa due ore. 5. Preparate il pesto come descritto nel numero del Magazine di Giugno 2020 utilizzando il mixer: fate prima appassire gli spicchi d’aglio in una pentolino con l’olio a coprire, senza mai superare i 65°C. L’olio non deve mai friggere e l’aglio deve risultare cedevole al tatto. 6. Mettete le lame e il bicchiere del mixer nel freezer. Sbianchite il basilico: fate bollire una pentola d’acqua e sale e poi immergetevi le foglie del basilico per dieci secondi; trasferitele poi velocemente in una boule con acqua e ghiaccio. 7. Quando l’aglio sarà pronto e raffreddato, passatelo al mixer coi pinoli tostati, quindi aggiungete il basilico ben asciugato, il sale grosso, il succo di limone e date qualche colpetto di mixer e poi aggiungete i formaggio grattugiati. Poi aggiungete a filo l’olio extravergine di oliva fino a ottenere un composto denso. 8. Pulite i frutti di mare e i gamberi rossi; fateli saltare in padella con olio, uno spicchio d’aglio e un pizzico di sale. 9. Condite il cous cous col pesto di basilico e aggiungete i frutti di mare e i gamberi rossi. Mescolate il tutto e servite freddo o a temperatura ambiente.
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INGREDIENTI
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LASAGNA DI PESCE SPADA PREPARAZIONE
INGREDIENTI 4 persone Per il ragù 400 g di pesce spada fresco mezza cipolla una carota un gambo di sedano
1. Setacciate la farina e create la fontana, formando al centro un incavo in cui romperete le uova. Aggiungete il sale e, aiutandovi con una forchetta, le uova e la farina, prendendone a poco a poco dai bordi. Continuate a impastare e alla fine formate un panetto di pasta liscia e omogenea. 2. Tirate le sfoglie con la macchinetta (o se siete particolarmente bravi, usate il mattarello). Le sfoglie alla fine devono risultare sottili ed elastiche. 3. Preparate il ragù facendo un soffritto con sedano, carota, cipolla e aglio; aggiungete il pesce spada tagliato a cubetti e poi sfumate col vino bianco. 4. Quando il vino sarà evaporato, aggiustate di sale e di pepe e unite la passata e il concentrato di pomdoro insieme a mezzo bicchiere d’acqua. 5. Lasciate che il ragù cuocia per qualche minuto in modo che gli ingredienti si amalgamino fra loro e poi spegnete il fuoco. 6. Preparate la besciamella: sciogliete il burro in un pentolino e unite la farina setacciata. Sempre mescolando con una frusta, fatela tostare senza lasciare che scurisca troppo. 7. Versate il latte, facendo attenzione che non si formino i grumi, portate il tutto a bollore, aggiungete sale e noce moscata e fate addensare.
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8. Siete pronti a questo punto ad assemblare le vostre lasagne, esattamente come quelle tradizionali: a strati, in una teglia imburrata, unendo ragù, besciamella e Parmigiano. 9. Infornate le lasagne a 180°C per circa venti minuti (oppure usate il kettle, predisponendolo per una cottura indiretta). Lasciatele poi riposare un attimo e servitele calde.
uno spicchio d’aglio due cucchiai di olio extra vergine di oliva mezzo bicchiere di vino bianco un cucchiaio di concentrato di pomodoro mezzo cucchiaio di passata di pomodoro
per la besciamella 50 gr di burro 40 gr di farina 500 ml di latte intero noce moscata q.b. sale q.b.
per le lasagne 300 g di farina 00 3 uova un pizzico di sale
per le lasagne Parmigiano Reggiano grattugiato a piacere
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PAELLA DI MAZARA
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PREPARAZIONE 1. Preparate il brodo vegetale e tenetelo da parte. 2. In un tegame largo fate aprire le cozze e le vongole, poi filtrate l’acqua di cottura e tenetela da parte. 3. Pulite i calamari, tenete da parte i tentacoli e tagliate il resto ad anelli. 4. Pulite i gamberi e tenete da parte le teste e i carapaci; a questo punto potete cominciare a preparare il vostro Assoluto di Gamberi. 5. In una padella, fate soffriggere il trito di verdure e poi spadellate tutte le rimanenze dei gamberi a fiamma alta. Sfumate col cognac. 6. Evaporato l’alcol, aggiungete il concentrato di pomodoro, la spremuta di mezzo lime e il ghiaccio, in modo che i carapaci e le teste non si brucino in cottura. 7. Fate ridurre il tutto, frullatelo con un mixer a immersione e filtratelo con un colino cinese, ottenendo un concentrato molto denso. 8. Fate un soffritto con mezza cipolla, una costa di sedano e mezza carota. 9. Preparate il kettle per la cottura diretta e posizionate il wok direttamente sopra le braci (se avete la griglia gourmet, posizionatelo nell’apposito spazio). 10. Versate nel wok un cucchiaio abbondante di olio extravergine d’oliva e poi subito il soffritto, lasciandolo imbiondire. 11. A questo punto aggiungete il riso e cominciate a farlo insaporire, poi cominciate a bagnare con brodo vegetale. 12. Aggiungete i calamari, le cozze e le vongole e bagnate con l’acqua di cottura dei molluschi che avevate tenuto da parte; aggiungete anche i peperoni tagliati a listarelle. 13. Sciogliete una bustina di zafferano in poco brodo e aggiungetela a tutto il resto insieme alla paprika dolce, aggiustate di sale e pepe. 14. Continuate per un po’ ad aggiungere il brodo, ma circa a metà cottura smettete e fate in modo che il riso cominci a tostarsi, senza bruciarsi: otterrete così il socarrat, ovvero la gustosa crosticina che rende la paella così buona.
16. Quando la paella sarà pronta aggiungete abbondante olio extravergine, un cucchiaio di succo di limone, due cucchiaini di Assoluto di Gamberi (il resto congelatelo e utilizzatelo per altre preparazioni) e date un’ultima mescolata, grattando bene la crosticina dal wok; infine, lasciate riposare il tutto. 17. Servite la paella insieme ai gamberi grigliati.
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15. Nel frattempo, usando un secondo dispositivo più piccolo (o se siete bravi organizzandovi lo spazio in griglia in modo da poter utilizzare la zona intorno al wok), grigliate i gamberi rossi.
INGREDIENTI 4 persone
Per la paella 500 g di riso Arborio o Carnaroli due coste di sedano una cipolla una carota due spicchi dâ&#x20AC;&#x2122;aglio un ciuffo di prezzemolo 1 kg di cozze pulite 500 g di vongole veraci 20 calamari un peperone giallo un peperone rosso 8 Gamberi rossi Mazhara GLC Top Selection olio extravergine dâ&#x20AC;&#x2122;oliva q.b. paprika dolce a piacere pepe q.b. una bustina di zafferano mezzo cucchiaio di concentrato di pomodoro succo di limone q.b.
Per lâ&#x20AC;&#x2122;assoluto di gamberi due cucchiai di trito di sedano, carote e cipolle due cucchiai di olio extravergine di oliva le teste e i carapaci dei Gamberi Rossi di Mazara mezzo bicchiere di cognac mezzo cucchiaio di concentrato di pomodoro mezzo lime abbondante ghiaccio per il brodo vegetale una costa di sedano una cipolla due ciuffi di prezzemolo una carota mezzo cucchiaio di concentrato di pomodoro
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olio e sale q.b.
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PARMIGIANA DI SPADA
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PREPARAZIONE 1. Tagliate le melanzane a fette abbastanza spesse per il lato della lunghezza. Mettetele in uno scolapasta con un pizzico di sale e lasciate che perdano l’acqua per almeno un’oretta. 2. Tagliate finemente la cipolla e fatela imbiondire in un pentolino a fuoco dolce. 3. Aggiungete adesso la passata e regolate di sale e pepe. Fate cuocere a fuoco lento per circa mezz’ora. 4. Infarinate le melanzane e friggetele in olio bollente. 5. Lasciatele raffreddare su carta assorbente. 6. Componete adesso la parmigiana alternando le fettine sottili di pesce spada insaporite con un pizzico di sale, il sugo, le melanzane e la mozzarella per tre strati. Nell’ultimo strato sostituite la mozzarella con il parmigiano.
INGREDIENTI 4 persone
7. Mettete a cuocere nel kettle in cottura indiretta o nel forno a 180 gradi per circa 30 minuti.
200 g di pesce spada tagliato a fette sottili 2 melanzane farina q.b. una mozzarella 200 g di Parmigiano Basilico q.b. Sale e pepe q.b. Olio per friggere q.b. 500 g di passata di pomodoro una cipolla rossa
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uno spicchio d’aglio
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CAPONATA DI PESCE SPADA PREPARAZIONE 1. Lavate le melanzane sotto l’acqua corrente e mantenendo la buccia tagliatele a dadini non troppo piccoli. 2. Prendete uno scolapasta, versate all’interno un primo strato di melanzane e salatele, poi un secondo strato e salatele nuovamente. Appoggiate sopra di esse un piatto con un peso, in modo che possano perdere il proprio liquido amaragnolo, per 30 minuti circa. 3. Sciacquate la dadolata di melanzane sotto l’acqua e asciugatela tra due canovacci. 4. Friggete le melanzane in abbondante olio di semi: quando saranno belle dorate, con l’aiuto di una schiumarola toglietele dalla padella e adagiatele su un piatto ricoperto con carta da cucina, per asciugarle dall’olio in eccesso. 5. In una casseruola versate un po’ di olio extravergine d’oliva e mettete a rosolare la cipolla e il sedano tagliati grossolanamente. 6. Quando il sedano e la cipolla saranno imbionditi, unite le olive - denocciolate e ridotte a rondelle - e i capperi. Lasciate insaporire per qualche minuto. 7. Aggiungete la passata di pomodoro, l’aceto e lo zucchero e mescolate bene; dopo una decina di minuti mettete anche le melanzane ed aggiustate di sale (e di pepe, anche se lo chef ne evita sempre l’uso, perché dice che tutti i suoi piatti devono essere consumati anche dai bambini). Lasciate cuocere il tutto finché le melanzane non saranno morbide.
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8. Mezz’ora prima di passarlo sulla piastra, togliete il pesce spada dal frigo ed avvolgetelo con della carta da cucina per eliminare l’umidità in eccesso. 9. Quando le verdure saranno quasi pronte, oliate il pesce spada e scottatelo su entrambi i lati. 10. Tagliatelo a cubetti e unitelo alle verdure affinché termini la cottura e si amalgami con gli altri ingredienti.
fotografie di Rossella Neiadin
INGREDIENTI 4 persone 200 g di pesce spada due melanzane una costola di sedano una cipolla 80 g di olive verdi denocciolate 30 g di capperi sotto sale mezzo bicchiere di aceto di vino bianco 100 g di passata di pomodoro 40 g di zucchero semolato
olio di semi q.b. sale q.b. pepe q.b.
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olio extravergine dâ&#x20AC;&#x2122;oliva q.b.
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fotografie di Tommaso Buccafurri
SIAMO A CAVALLO!
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le polpette e gli involtini catanesi Catania è la patria della carne di cavallo. Sebbene lo stemma della città raffiguri un elefantino porpora un rampante cavallino ci sarebbe stato altrettanto bene vista la quantità e la diffusione della carne equina tra le mura. Chi è stato in questa città sa quanto i catanesi amino i cavaddu, profondamente radicato da secoli nelle loro abitudini alimentari. Dicono che, nella cottura della carne di cavallo, come si può constatare nei rioni di via Plebiscito, il trucco stia nel buttare il salmoriglio non solo sulla carne, ma anche sulla brace. Per le piazze della splendida città siciliana aleggia sempre una nuvola di fumo e di profumo sprigionata dalle griglie, rigorosamente a carbone, di qualcuno pronto a soccorrere gli attacchi di fame
compulsiva dei visitatori o dei cittadini. I puppetti, cicciotti e sfrigolanti, riempiono le strade di un aroma che sa di profondo sud: non sono altro che polpette di carne equina spesso cotte ed avvolte nelle foglie di limone, insaporite con aglio, prezzemolo e del buon pecorino siciliano. Morbide all’interno e croccanti all’esterno, talora arricchite da un ingrediente segreto che ogni arrustituri custodisce fedelmente. E forse è anche questo mistero a renderle così uniche e così speciali. Altra preparazione tipica, invece, è rappresentata dagli involtini: questi vengono confezionati partendo dalle fettine di coscia del cavallo, panate una ad una e farcite con ingredienti semplici del territorio, tra i quali
solitamente la provola e l’aglio non mancano. Si aggiunge del prezzemolo e del pecorino e si chiudono i due capi. Una volta infilzati con due spiedini o con uno piatto gli involtini così ottenuti si possono cuocere alla griglia o in umido, con pomodoro e cipolle. Protagonisti indiscussi dello street food catanese, gustosi e saporitissimi, sono perfetti da gustare tra una viuzza e l’altra del centro città. Ancora una volta, Via del Plebiscito è il cuore pulsante di questa tradizione, dove si possono trovare numerose botteghe specializzate in tutte le declinazioni della carne di cavallo. Da un punto di vista nutrizionale, la carne equina possiede molte proprietà interessanti.
Il suo consumo viene pertanto spesso consigliato a chi soffre di anemia, ai bambini, alle donne in gravidanza, agli anziani, ai convalescenti e agli sportivi. Una carne che ha letteralmente fatto la storia: la carne di cavallo fu fin dal Paleolitico uno dei cibi più apprezzati dall’uomo; presso i Greci e i Romani era occasionale,
anche se ad Atene c’erano botteghe dove la si vendeva a chi era meno abbiente; per i tartari e i nomadi rappresentava il cibo della sopravvivenza e, infatti, i cavalieri mongoli per conservare la carne di cavallo , prima di partire per lunghissimi periodi, la tagliavano a lunghe strisce sistemandola tra il dorso e la sella, per far sì che il sudore salato diventasse una sorta di marinatura. Da cruda – difficilmente la cuocevano, poiché accendere fuochi li avrebbe esposti aò rischio di essere avvistati - veniva mangiata con l’aggiunta di bacche selvatiche e spezie: ciò che poi si è evoluto nella famosa tartare, che originariamente era ricavata dalle carni di animali più vecchi o feriti. Nei paesi del Centro-Nord Europa, sia per ragioni pratiche (nel medioevo i cavalli erano molto più utili da vivi che da morti) sia per ragioni religiose (mangiare carne di cavallo ricordava anctiche usanze pagane), il consumo
di questo alimento venne duramente condannato dalla Chiesa. Esiste una sanzione con bolla papale, mai revocata, del 732 secondo la quale la carne di cavallo re e rimane l’unico cibo proibito per i cattolici. Divieto mai applicato, però, nei paesi del sud Europa che erano cristiani già da parecchi secoli. Tra le curiosità ricordiamo che in Francia, a fine ‘800, venne rivalutata definitivamente quando venne servita in occasione di un grande banchetto organizzato al Grand Hotel di Parigi, con la partecipazione di grandi scrittori ed intellettuali quali Alexandre Dumas e Gustave Flaubert. Tornando alla nostra amata Sicilia, celebrata in questo speciale del Magazine, vi presentiamo appunto le due golosità di cui parlavamo all’inizio. Siamo sicuri che ci ringrazierete.
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È piuttosto magra e con un carattere marcato nel sapore: sapida, con retrogusto dolciastro. L'elevato contenuto di ferro è la sua principale peculiarità. Nella carne di cavallo, infatti, esso è presente in grande quantità in 100 grammi di carne cruda si trovano 3,9 milligrammi di ferro, ovvero più del doppio rispetto ai tagli bovini e più del triplo rispetto a pollo e tacchino. Inoltre, risulta essere altamente biodisponibile: viene cioè facilmente assorbito dal nostro organismo (in proporzioni tre volte maggiori, per esempio, rispetto a quello contenuto nei vegetali come gli spinaci).
INGREDIENTI 4 persone 12 fettine di cavallo spesse circa 3/4 millimetri un mazzetto di prezzemolo 3 spicchi di aglio 60 g di pecorino siciliano stagionato
INVOLTINI PREPARAZIONE 1. Preparate Il mix di pane grattugiato, prezzemolo tritato, sale e pepe nero per le fettine avendo cura di panarle con attenzione,dopo averle unte leggermente con un filo d’olio. 2. All’interno di ognuna inserite nella parte bassa delle sottili lamelle di aglio, un cucchiaino di pecorino e della provola tagliata a listarelle (circa 1 cm di larghezza e un paio di millimetri di spessore). 3. Arrotolate stringendo bene la fettina attorno al ripieno. 4. Una volta preparati tutti gli involtini, rincalzate i lati e fermateli con degli spiedini di bambù lasciati a bagno almeno un’ora o ancor meglio uno spiedino piatto di acciaio. 5. Accendete mezzo cesto di carbonella e attendete la formazione di un sottile strato di cenere che indicherà il momento giusto per versare il carbone nel braciere. 6. Grigliare a calore diretto fino ad ottenere una gustosa crosticina all’esterno e a rendere filante la provola all’interno.
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7. Serviteli caldissimi, magari vaporizzandoli con un goccio di aceto di vino bianco.
grattugiato Sale q.b. Pepe nero q.b. Olio extravergine d’oliva q.b. 300 g di pangrattato 200 g di provola semistagionata Aceto di vino bianco q.b. (facoltativo)
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POLPETTE PREPARAZIONE 1. Tritate finemente gli spicchi d’aglio e il prezzemolo e uniteli al macinato equino amalgamando il tutto insieme alle uova sbattute, il pangrattato e il pecorino. 2. Aggiungete un filo d’olio extravergine d’oliva e la scorza di un limone, poi aggiustate di sale e pepe.
INGREDIENTI 4 persone
Per l'impasto 800 g di macinato equino un mazzetto di prezzemolo 3 spicchi di aglio 120 g di pecorino siciliano stagionato grattugiato Sale q.b. Pepe nero q.b. Olio extravergine d’oliva q.b. 2 uova 100 g di pangrattato La scorza di un limone 4 panini tipo mafaldina
per il salmoriglio
3. Lasciate riposare in frigo giusto il tempo di accensione del carbone. 4. Accendete mezzo cesto di bricchette e attendete la formazione di un sottile strato di cenere che indicherà il momento giusto per versarle nel braciere. 5. Durante il confezionamento delle polpette, preriscaldate la griglia al massimo della temperatura. 6. Formate delle palline da almeno 60/70 g e schiacciatele dando loro una forma leggermente allungata. 7. Passate un sottile strato di olio sulla griglia calda e ungete leggermente anche le polpette. Cuocete a calore diretto rivoltando la polpetta almeno ogni minuto fino al raggiungimento dei 55°C al cuore Devono rimanere rosa al centro e formare una deliziosa crosticina esterna. 8. Servitele caldissime in un mafaldina fragrante, condite con un tocco di salmoriglio che avrete preparato frullando gli ingredienti con un minipimer.
30 g olio 30 g succo di limone un cucchiaino di senape
uno spicchio d’aglio
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prezzemolo q.b.
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PANI CA MEUSA
il re dello street food siciliano
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Quando parliamo di pani cà meusa sappiamo perfettamente dove ci troviamo: casomai aveste bisogno di una traduzione, è il panino con la milza. La tipicità di questa pietanza è legata indissolubilmente alla Sicilia bedda. Si tratta di un piatto povero, ricavato dal quinto quarto, diventato un’eccellenza dello street food isolano e nazionale. Il pane è una pagnotta morbida ricoperta superficialmente di semi di sesamo, (detta vastella o guastedda) riempita di milza (mieviusa o meusa), polmoni e
fotografie di Luca Gallozza
trachea di vitello, tutto bollito e fatto sfrigolare nello strutto di maiale. U pani ca meusa ha origine nel X secolo, con l’arrivo a Palermo di alcuni macellai ebrei. Essi vivevano all’interno di un proprio ghetto e lavoravano nei vari mattatoi della città. Dato che la loro religione vietava i compensi in denaro per i lavori di macellazione, a titolo di regalìa, trattenevano per sè le interiora dell’animale escluso il fegato, ritenuto troppo pregiato.
Per tirar su qualche soldo, inventarono una pietanza: dopo aver bollito le frattaglie, vendevano il prodotto alle persone (non di fede ebraica, s’intende) che lo mangiavano per strada, unendo le frattaglie al pane e arricchendo il tutto con ricotta o formaggio. Quando la comunità ebraica venne allontanata dall’isola per intervento di Federico d’Aragona detto il Cattolico, verso la fine del 1500, gli ebrei vennero sostituiti dai caciottari
Oggi sopravvivono sempre le due versioni, schiettu e maritatu. La prima si riferisce alla vastella ripiena di frattaglie e condita con solo sale e succo di limone.
La versione maritata, invece, rispetto alla prima ha l’aggiunta di caciocavallo grattugiato (u cannistratu) messo dentro al panino a coprire le frattaglie. Ma come viene preparata la materia prima per la realizzazione di questo straordinario panino? Le parti del quinto quarto, meusa (milza), primuna (polmone) e attaccagghieddi o scannaruzzatu (cartilagini di trachea di vitello); vengono lavate e poi messe a bollire in abbondante acqua per almeno mezz’ora. Dopodiché si estraggono dall’acqua e vengono lasciate raffreddare un’altra mezz’ora, poi trasferite in frigo sino al completo raffreddamento. Fatto questo, le frattaglie sono pronte per essere affettate finemente al coltello. Il passaggio successivo prevede una cottura nello strutto di almeno 4 o 5 minuti. La particolarità di questo passaggio è data dallo strumento utilizzato. Non è una semplice padella, ma una sorta di mezzo fusto in acciaio che ha il fondo di cottura in pendenza. Questo permette allo strutto
di rimanere solo in un lato del dispositivo, dove vengono immersi i pezzi di carne. Nella parte alta di questa sorta di padella, si spostano le carni già cotte per essere scolate dallo strutto. Il pane utilizzato, come già accennato, è la vastedda, morbido come i bun per gli hamburger e con semi di sesamo; in alcuni casi si usa la mafalda. E’ tipico anche il modo di confezionamento del panino. Con una forchetta a due rebbi si infilzano i pezzi di carne immersi nello strutto e si adagiano velocemente sulla base del pane, sino al riempimento. Il tutto viene chiuso e strizzato leggermente per scolare l’eccesso di grassi. Su richiesta è possibile farsi preparare una favolosa scuccidda, una mafalda divisa in due parti e poi ancora suddivisa in due per creare quattro parti di pane poi condite con la milza a due a due, tipo sandwich. Non ci resta che illustrarvi i passaggi e gli ingredienti in maniera più precisa possibile, in modo che possiate eseguire a casa questo meraviglioso panino.
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palermitani. La vendita avveniva per strada (come ancor oggi si fa) tramite bancarelle ambulanti. Questi venditori proponevano un panino molto economico che veniva intriso di sola sugna e arricchito con un po’ di formaggio, generalmente caciocavallo. Anche nelle classi meno abbienti, c’era chi non poteva permettersi un cibo semplice come questo. Infatti i vastiddari, o più modernamente meusari, vendevano due tipi di panino. Il classico, intriso di sugna e formaggio che allora veniva chiamato schettu, oppure uno più ricco e costoso che comprendeva anche le frattaglie e che veniva detto maritatu, ovvero sposato nel senso di accompagnato da altro. In questo caso, maritatu con le frattaglie.
PREPARAZIONE 1. Lavate e pulite dalle impurità la milza, il polmone e la trachea, lasciandoli interi, e cuoceteli in abbondante acqua bollente salata. 2. Lasciate bollire per mezz’ora, poi scolate e fate raffreddare a temperatura ambiente per altri 30 minuti. 3. Trasferite il tutto in frigorifero e lasciate raffreddare per minimo un’ora. 4. Togliete le frattaglie dal frigo e tagliatele a fettine sottili. 5. Inclinate su un fornello, da un lato, una padella dai bordi alti nella quale scioglierete lo strutto a temperatura medio alta. 6. Immergete le fettine sottili di carne, e lasciatele cuocere per qualche minuto. 7. Tagliate i panini parzialmente a metà e svuotateli della mollica. 8. Con l’ausilio di un forchettone a due punte, infilzate la carne e adagiatela sulla base del panino. 9. Strizzate la carne con l’ausilio di una paletta forata, salate, aggiungete il limone a piacere o il caciocavallo.
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10. Servite i panini caldi avvolti dalla carta assorbente.
Se mangiate u pani ca meusa per strada, fate ben attenzione. Non è un’impresa facilissima riuscire a non macchiarsi gli indumenti, ma c’è un metodo sicuro: divaricate le gambe, tenete la schiena dritta e le braccia davanti a voi. Sporgetevi un po’ in avanti e tenendo ben saldo il panino tra le mani addentatelo con un morso deciso. Sentirete un gusto ricco, forte e caratteristico. Non ci sono mezze misure: è qualcosa che si ama o si odia. Ma voi lo amerete, noi lo sappiamo.
INGREDIENTI 4 persone
300 g di polmone di vitello 100 g di milza di vitello 8 g di trachea (solitamente attaccata al polmone) 300 g di strutto 150 g di caciocavallo 1 limone Sale q.b.
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4 panini al sesamo o mafalde
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COTOLETTA ALLA PALERMITANA
...non chiamatela fettina panata!
Mangiare male è una scelta. Mangiare male per risparmiare tempo è una perversione assurda. Si può mangiare benissimo usando lo stesso numero di padelle e nello stesso tempo. Cucinare bene o male richiede lo stesso tempo e con ogni probabilità lo stesso numero di stoviglie da pulire. Quindi cucinare male è una perversione dell’intelletto. Punto. E nel mio modo di concepire la cucina è, appunto, inconcepibile. Gianfranco Lo Cascio
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Qualche numero fa, abbiamo parlato della cotoletta alla milanese. Oggi vogliamo presentarvi una una delle sue mille varianti. La cotoletta alla palermitana. E di nuovo affrontiamo l’ostico argomento “fettina panata”, aggiungendo un ulteriore difficoltà: già, perché questa versione siciliana è addirittura light, senza uova e non fritta. Il che vi farà sicuramente salire la domanda più ovvia: ha senso di esistere? La risposta ve la dà la citazione qui sopra: dipende. Non è la fettina panata in sé a dover essere demonizzata, quanto piuttosto il tempo e l’impegno che mettete nel prepararla. Oltre, ovviamente, alla scelta degli ingredienti. Passiamo ora alla ricetta della cotoletta alla palermitana: questa ricetta chiamiamola tradizionale: prevede l’uso di una fettina – ovviamente- magra magra e fresca fresca di vitello (ma qualcuno usa anche il pollo) ripassata prima in olio extravergine d’oliva poi impanata con un pangrattato aromatizzato con prezzemolo, pecorino, foglioline di menta e pepe nero. Dopodiché, la fettina viene cotta, alla griglia, alla piastra, in padella o al forno. Come potete intuire da soli, di per sé la ricetta ha la potenzialità di diventare ‘na chiavica - scusate il francesismo- così come un piatto da capriole sulla
sedia. La differenza sta proprio in quell’impegno di cui parla lo Zio e che dovrebbe essere alla base di ogni preparazione. Noi ci abbiamo messo molto impegno e abbiamo scelto come taglio un Eye of Round Australiano AACo 3-5+ Wagyu F1 Crossbred. Quello che in Italia corrisponde al magatello, molto conosciuto e adottato per la realizzazione del Pit Beef. La nostra versione della panatura consiste in un mix di pane grattugiato leggermente spesso, formaggio, e Sal’s Seasoning Dallas rub e Sal’S Seasoning Smoke- Chipotle in parti eguali. Abbiamo inoltre inserito nel mix di pane alcune foglie di menta fresca, un po’ di prezzemolo e zeste di limone. Le note affumicate del jalapeno mixate con quelle della menta fresca sono amplificate dagli olii essenziali di quest’ultima e danno un boost di sapore. Il limone contribuisce a riequilibrare il tutto con la sua aromaticità fruttata. Come formaggio, abbiamo usato una miscela di caciocavallo e pecorino. Il risultato giudicatelo voi, che noi siamo troppo impegnati a mangiarcele tutte, ‘ste cotolette paradisiache!
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fotografie di Luca Gallozza
PREPARAZIONE 1. Ricavate dal pezzo di ciccia 8 belle fettine dello spessore di qualche millimetro. 2. Spennellate le fettine con olio extravergine di oliva e tenetele da parte. 3. Prendete la mollica di pane raffermo e sbriciolatela grossolanamente in una ciotola. 4. Aggiungete il formaggio, un pizzico di sale e di pepe, i Sal’s Seasoning Dallas e SmokeChipotle, il prezzemolo grattugiato e le zeste di mezzo limone. 5. Ora versate a filo ancora un po’ di olio extravergine d’oliva, per inumidire e amalgamare gli ingredienti. 6. Passate le fettine unte d’olio nella panatura, pressandole leggermente affinchè essa aderisca meglio alla carne. 7. Impostate il vostro dispositivo per una cottura indiretta sui 180°C in griglia. 8. Aiutandovi con uno spruzzino, ungete leggermente le fettine sopra la panatura, nebulizzando ulteriore olio extravergine. 9. Appoggiate le fettine sulla griglia - potete anche utilizzare la carta forno per aiutarvi a non far attaccare la panatura- e lasciatele cuocere a coperchio chiuso in indiretta sino a doratura. 10. Servitele ancora calde semplicemente con una spruzzatina di succo di limone.
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Il consiglio in più? Fate una salsa con olio extravergine d’oliva, due spicchi d’aglio tritati finemente, qualche ciuffo di prezzemolo tritato con tutti i gambi, ancora qualche zeste di limone ge un paio di foglioline di menta in infusione nell’olio. Potete preparare la salsa qualche ora prima e lasciarla maturare in frigo. Accompagnatela con un’insalata dolce come la lattuga romana, qualche pachino tagliato a spicchi, delle rondelle sottili di cipolla rossa di Tropea e alcune foglie di rucola. Per arricchire l’insalata, inserite qualche cappero dissalato e olive nere snocciolate, qualche pinolo tostato in padella e dell’uva passita rinvenuta dentro una tazzina di buon marsala e poi strizzata. Condite con il miglior olio extravergine d’oliva che avete, salate e pepate.
INGREDIENTI 4 persone
8 fettine di Eye of Round Australiano AACo 3-5+ Wagyu F1 Crossbred) 300 g di mollica di pane raffermo 70 g di caciocavallo grattugiato 30 g di pecorino 5/6 foglie di menta fresca olio extravergine di oliva q.b. un ciuffo di prezzemolo 15 g di Salâ&#x20AC;&#x2122;s Seasoning Dallas 15 g di Salâ&#x20AC;&#x2122;S Seasoning Smoke- Chipotle un limone sale q.b.
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pepe q.b.
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IRIS ALLA RICOTTA CON SCAGLIE DI CIOCCOLATO
...per ricordare gli Eroi.
Probabilmente molti di voi conoscono bene il film diretto e interpretato da Pif: La mafia uccide solo d’estate. Nella pellicola viene raccontata la vita del piccolo Arturo che, tra una partita di pallone, i compiti di matematica e i primi amori, cresce nella Palermo degli anni bui, quando Cosa Nostra la faceva da padrona e teneva sotto scacco la Sicilia e i suoi abitanti. Agli occhi del giovane Arturo la vita è come quella di ogni altro bambino, ma quello che lui non vede e che si nasconde agli occhi dei più è ciò che fa vergognare ogni siciliano degno di questo nome. A partire dalla metà degli anni ‘70, Palermo viene segnata da una violenza inaccettabile e incancellabile, che ha reso la città tristemente famosa nel mondo. Fama che certamente non le rende giustizia: Palermo non è mai stata solo mafia ma, fra i moltissimi “regalini” che Cosa Nostra ha lasciato ai suoi abitanti e ai siciliani in generale, dobbiamo anche contare tutte le battute (divenute negli anni addirittura barzellette, a peggiore se possibile la situazione) che vedono gli abitanti di questa splendida regione sempre accostati ai mafiosi.
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Violenti attacchi dinamitardi e sparatorie a cielo aperto devastano profondamente la città negli anni di piombo, e l’isola tutta. La mafia vuole espandere la propria influenza e vuole incrementare il suo potere. Lo Stato assegna molte risorse al fine di sconfiggere questa piaga e negli anni molti Eroi si espongono per contrastare l’egemonia de Cosa Nostra. Queste persone, con coraggio e determinazione, l’hanno affrontata con l’intento di sconfiggerla; persone che purtroppo in molti casi vengono ricordate attraverso i nomi delle vie, dei palazzi e delle scuole a loro intitolate post-mortem. Morti tragiche, violente, superflue. Stamo parlando di nomi come Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, Carlo Alberto Dalla Chiesa, Pio La Torre, Mario Francese, Rocco Chinnici e Boris Giuliano. Questi uomini hanno vissuto e amato la Sicilia fino alla fine, e come chiunque ami quest’isola, anche loro sono stati sicuramente conquistati dalla cucina e dalla pasticceria. Non sappiamo con esattezza quali piatti preferissero, ma nel film di cui parliamo ad inizio articolo viene raccontato un aneddoto divertente su Boris Giuliano. Egli aveva l’abitudine di fare colazione tutte le mattine al bar Lux, un locale storico del centro di Palermo. Purtroppo, quest’abitudine gli costò la vita perché proprio dentro quel bar subì l’attentato mafioso che gli costò la vita.
Ma perché Giuliano ogni mattina andava proprio in quel posto a fare colazione? Nel film vediamo il giovane Arturo Giammarresi, accompagnato dal padre a fare colazione al bar Lux, che mentre sta per fare la sua scelta davanti alla vetrina dei dolci, incontra proprio Boris Giuliano, seduto lì affianco, che suggerisce di mangiare l'iris: uno scrigno di morbida pasta brioche che custodisce un raffinato cuore di crema di ricotta e scaglie di cioccolato. Da quest’episodio nascerà poi l’amicizia tra Arturo e il commissario. Noi non abbiamo alcuna certezza che la storia sia vera, e che realmente Boris Giuliano fosse appassionato di Iris, ma a noi piace credere che lo sia e in questo numero dedicato alla gastronomia siciliana ci è sembrato giusto ricordare anche questa brutta pagina della storia millenaria della bella isola e celebrare gli Eroi che hanno lottato contro quell’immenso orrore, proprio attraverso uno dei dolci preferiti dai palermitani.
Paolo Borsellino
fotografie di Rossella Neiadin
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"Parlate della mafia. Parlatene alla radio, in televisione, sui giornali. Però parlatene."
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PREPARAZIONE 1. Versate la farina, dopo averla setacciata, in un ciotola poi aggiungete il lievito e lo zucchero. 2. Aggiungete a poco a poco il latte tiepido e iniziate a mescolare. 3. Aggiungete adesso l’uovo e lo strutto, e continuate a mescolare fino a ottenere un composto liscio eomogeneo.
per 12 iris
per l'impasto 280 g di latte intero 550 g di farina 00 25 g di zucchero un uovo 5 g di lievito di birra secco 50 g di strutto (o in alternativa burro) Per il ripieno di base 300 g di ricotta di pecora 100 g di zucchero al velo Da aggiungere al ripieno per la versione classica 50 g di ricotta vaccina 50 g di zucchero al velo Da aggiungere al ripieno per la versione al cioccolato 50 g di gocce di cioccolato fondente Per l’impanatura 2 uova 200 g di pangrattato Per la frittura Olio di semi di arachide
4. Una volta ottenuta la giusta densità del composto, formate una pallina e mettetela a riposare in un ciotola coperta da pellicola trasparente. 5. Lasciate riposare il composto per almeno 4 ore in un luogo fresco e asciutto a una temperatura di circa 25-30 gradi. 6. Nel frattempo ponete la ricotta sopra un colino e successivamente mettete il colino in una ciotola; riponetela adesso in frigo per farla sgocciolare dall’acqua in eccesso (circa 3-4 ore). 7. Mettete su un piatto le gocce di cioccolato e riponetele in freezer per farle congelare. 8. Una volta lievitato l’impasto, dividetelo in 12 pagnottelle di forma rotonda e fatele lievitare circa un’ora sopra una teglia ricoperta da carta da forno. 9. Nel frattempo in una ciotola preparate l’impasto per le due versioni. Mescolate la ricotta di pecora con lo zucchero al velo e dividetela in due parti uguali, in una aggiungete la ricotta vaccina, nell’altra invece non mettete nulla. Le gocce di cioccolato verranno aggiunte in un secondo momento. 10. Una volta lievitate le pagnottelle stendetele a formare dei cerchi, e ponete al centro un cucchiaio di ripieno. Per la versione classica usate il mix di ricotte, per la versione al cioccolato invece la ricotta semplice e le gocce di cioccolato congelate. 11. Chiudete ora i cerchi come se fossero un fagottino chiudendo il lembi e date loro una forma più possibile sferica. 12. Una volta formate le sfere passatele nell’uovo sbattuto e nel pangrattato. Per avere una panatura più croccante potete ripetere quest’operazione due volte, ma attenzione a non esagerare con il pangrattato. 13. Una volta panate tutte le iris è il momento della frittura: portate l’olio a temperatura e friggetele a immersione fino a quando non avranno un aspetto dorato. 14. Una volta fritte ponetele su un vassoio foderato di carta assorbente per drenare l’olio in eccesso. 15. Prima di servirle potete cospargerle di zucchero semolato o al velo, se lo gradite.
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INGREDIENTI
Aranci n oAranci
Speciale Gastronomia Siciliana approfondimento a cura di Michela Bongiorni
fotografie di Rossella Neiadin
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. . . M a in fondo c he c o s â&#x20AC;&#x2122;è u n nome?
Ebbene, la cosa si è ingigantita così tanto da aver attirato l’attenzione, qualche anno fa, nientepopodimenoché dell’Accademia della Crusca. La quale in realtà non ha dato una risposta definitiva. Scrive la Crusca: il gustoso timballo di riso siculo deve il suo nome all’analogia con il frutto rotondo e dorato dell’arancio, cioè l’arancia, quindi si potrebbe concludere che il genere corretto è quello femminile: arancina. Ma non è così semplice. Infatti, si vogliono far risalire le origini della polpettona alla dominazione araba in Sicilia (dal IX all’XI secolo) poiché gli arabi effettivamente avevano l’abitudine di appallottolare riso allo zafferano nella mano e condirlo con carne di agnello creando delle palline prendevano il nome della frutta a cui assomigliavano: piccole arance, quindi arancine. Tuttavia, non ci sono testimonianze di questa preparazione in Sicilia nelle cronache, nei dizionari, nei ricettari e in nessun altro posto prima della seconda metà del XIX secolo. Inoltre nel Dizionario siciliano-italiano di Giuseppe Biundi (1857) troviamo per la prima volta la forma arancinu, che però descriveva una pietanza dolce. La cosa farebbe dunque pensare che il delizioso timballo fritto non nasca dalla tradizione araba, ma da un piatto
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no ina?
Se lo chiedeva anche Shakespeare nell’indimenticabile scena tratta da Giulietta e Romeo: quella che chiamiamo rosa con un altro nome profumerebbe lo stesso. Vale la stessa cosa per queste piccole – si fa per dire - polpette di riso giallo (tonde o a punta) farcite perlopiù con ragù e piselli ricoperte da una panatura dorata, spessa e croccante. Potremmo chiamare queste polpette “Pierluigi” e vi assicuro che il loro irresistibile gusto non cambierebbe. Eppure la questione divide da sempre la Sicilia, in particolare le città di Catania e di Palermo. Nella prima il nostro Pierluigi viene chiamato Arancino, nella seconda cambia sesso e diventa Arancina. Non pensate di poter chiedere a un siciliano di risolvere la questione, magari durante una cena: ognuno vi dirà che il modo giusto di chiamare la polpetta di riso è quello che usano nella sua città o nella sua famiglia. Ma perché? Perché sì, sarà la risposta.
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nato nella seconda metà del XIX secolo come dolce di riso, trasformato quasi subito in pietanza salata, dato che il passaggio dolce-salato è abbastanza comune nella storia della gastronomia italiana. Ma allora perché arancino? Se assomiglia all’arancia, dovrebbe essere giusta la forma al femminile. In siciliano, però, così come in altre regioni italiane (anche in Toscana, ad esempio), a differenza dell’italiano standard che fa la distinzione tra il femminile per i nomi dei frutti e maschile per quelli degli alberi, si continua ad usare la forma al maschile arancio intendendo il frutto arancia. La prima attestazione nella lessicografia italiana di arancino si trova nel Dizionario moderno del Panzini (1942), che registra la forma maschile definendola dialettale siciliana. Questa forma è quella che poi è stata ripresa anche da diversi dizionari italiani (ad esempio, il GRADIT) e anche dal Ministero delle politiche Agricole, Alimentari e Forestali nella lista dei Prodotti Agroalimentari Tradizionali (P.A.T.). É dunque arancino la forma corretta? No, è solo accettata tanto quanto l’altra, secondo l'Accademia della Crusca; basta solo decidere se si vuole utilizzare la forma dialettale o quella dell’italiano standard. Certo, probabilmente in linea puramente teorica la forma al femminile è percepita come più corretta (specie nello scritto) perché l’opposizione di genere, tipica nella nostra lingua, a parte qualche rara eccezione, è usata per differenziare l’albero dal frutto. Ma non è poi così inaccettabile la forma al maschile, specie nel parlato (ricordiamoci inoltre che preservare le forme dialettali è importantissimo ed è diventata è una missione per molti linguisti). Parafrasando Shakespeare, quindi, possiamo tranquillamente affermare che l’arancino o l’arancina con un altro nome profumerebbe lo stesso e sopratutto farebbe sbavare tutti nello stesso modo.
LA RICETTA TRADIZIONALE
Io ne ho assaggiate due versioni. Una con il ragù, quella classica, e l’altra con prosciutto e formaggio. In poche parole, ero solita mangiare la prima come merenda e la seconda come colazione (solo perché devo ancora superare l’inutile sovrastruttura mentale che mi fa sembrare un azzardo troppo grosso mangiare il ragù alle 8 della mattina). Oggi proviamo a preparare proprio quest’ultima. La ricetta (io vi darò quella tradizionale, mentre più avanti Gianfranco Lo Cascio vi darà quella perfezionata a suo modo) ha tempi di realizzazione molto lunghi, almeno un giorno e mezzo: il ragù di carne e il riso, prima di essere assemblati insieme, devono riposare
almeno otto ore, in più ci sono da considerare le tempistiche di ogni singolo passaggio. Partiamo dal ripieno, la cottura più impegnativa: tutti voi sapete che un buon ragù deve cuocere lentamente come minimo quattro/cinque ore a fuoco bassissimo. Qui siete liberi di cucinare la ricetta della vostra nonna avendo cura di scegliere una carne tenera e ben marezzata, in modo da ottenere una farcitura ricca di sapore. Oppure per rendere le vostre arancine indimenticabili lasciando amici e parenti a bocca aperta, potete ricreare il ragù scientifico di Gianfranco Lo Cascio (che trovate nel numero di marzo 2020 del Magazine). In entrambi i casi, non dimenticate di aggiungere al sugo i piselli, ingrediente immancabile di questa preparazione. Il ragù dovrà essere ben ritirato: per eliminare anche gli ultimi residui di liquido al termine della cottura aggiungete un po’di amido di mais. Pronto il ripieno passate al riso. Preparate un buon brodo vegetale filtratelo più volte perché sia limpido e privo di residui. Per far sì che il riso (qualità arborio) sia gustoso ed abbia il suo tipico colore giallo, insaporite il brodo filtrato con un po’ di burro, qualche foglia di alloro e lo zafferano.
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Se siete stati in Sicilia – sono reduce dall’ennesimo viaggio a Mazara del Vallo in occasione del compleanno dello Zio- vi sarete accorti che questa icona dello street food siciliano, che io chiamerò da qui in avanti con il nome al femminile, è disponibile nei banconi dei bar, delle gastronomie, delle pasticcerie e dei locali a qualsiasi ora del giorno e della notte. Arrivi alle due del mattino e hai un certo languorino? No, scordati il cioccolatino: vai alla ricerca di un locale aperto e gustati questa bombetta di riso calda e goduriosa che ti rifocilla e ti consola, che ti lascia le mani unte e il cuore pieno di gratitudine.
Quando il riso (1 kg) ha assorbito tutto il liquido (2 l) versatelo su una placca larga e bassa per farlo raffreddare in modo omogeneo, perché diventi compatto e di conseguenza facilmente manipolabile.
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Trascorsa la notte è finalmente giunta l’ora di dare forma alle arancine. Suddividete il ragù in tante piccole palline. Quanto riso serve per formare una palla di riso grande come un’arancia? La risposta è molto semplice, dovete usare come unità di misura il palmo della vostra mano. Prendete il riso con la sinistra (o con la destra, se siete mancini): i chicchi devono ricoprirla tutta fino alla punta delle dita. Pressateli, mettete al centro del palmo la carne e chiudete la mano; se necessario aggiungete un po’ di riso. Dovete lavorare la sfera fino ad ottenere una superficie liscia. Se preferire potete dare al tutto la forma conica tipica della tradizione catanese. Esiste addirittura uno stampo chiamato arancinotto. Naturalmente andate avanti così fino a quando non terminate gli ingredienti. Preparate la pastella con acqua e farina, né troppo densa né troppo liquida. Immergete l’arancina nel composto facendolo aderire bene su tutta la superficie. Dopodiché passatela nel pangrattato. Tranquilli, state quasi per tagliare la linea del traguardo. In abbondante olio di semi di arachide e friggete le arancine: quando sono belle dorate toglietele dal fuoco e passatele sulla carta assorbente. Dopo averle fatte riposare qualche minuto sono pronte per essere mangiate. La sfida è farlo alle 4 di notte o alle 8 di mattina, ma sono sicura che la vincerete.
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IN SICILIA IL PANE Ã&#x2C6; TUTTO
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L'Arte Bianca a cura di Alessandro Trezzi
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Ve ne accorgerete passeggiando per le vie di Palermo, invase dai profumi dei forni, dei panifici e delle rosticcerie: tutto è più buono dentro a due calde fette di pane, e i furbi isolani lo hanno sempre saputo.
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Del resto già alla fine del Medioevo nessuno mangiava pane diverso da quello di grano duro; nella cultura contadina della Sicilia pre-industriale era considerato un uomo vero chi mangiava pane travagghiatu, cioè ottenuto cioè con il sudore della propria fronte. La panificazione casalinga era un compito tipicamente femminile; il sabato pomeriggio il contadino tornava dalla campagna e trovava il pane caldo ad aspettarlo, oltre a qualche trancio di pasticcio o di pizza condita con olio e prezzemolo. Allora, il nostro contadino si sedeva e spezzava quel profumatissimo pezzo di artigianalità, spargendo briciole e sesamo su tutta la tovaglia. Da un punto di vista della tipicità, il pane casereccio più diffuso in Sicilia è e rimane quello realizzato con la semola di grano duro ed un’alveolatura fitta e minuta, a bassa idratazione ma a elevata conservabilità.
Il pane al sesamo più famoso
I semi di sesamo sono in ogni caso un ingrediente molto presente sia nella cucina araba che, per derivazione, in quella siciliana; la cubbàita (dolce a base di farina 00, farina di mandorle, zucchero, cannella, lievito, miele e semi di sesamo), la tahina (pasta di semi di sesamo utilizzata per la halva e altri dolci tipici dei Balcani) o la chebakia (dolce marocchino tipico del Ramadan) sono solo alcune delle preparazioni più celebri del Mediterraneo che fanno uso di questo versatilissimo prodotto.
Di tradizione in tradizione l pane rappresentava anticamente l’abbondanza produttiva, spesso utilizzato come elemento celebrativo di un buon raccolto, andando poi a fondersi nel tempo con le tradizioni cristiane o pagane. Neanche a dirlo, in tutta la Sicilia è pieno di storie di pane e di panificati di grano duro in generale. Il 17 Marzo, per San Patrizio, in molti centri siciliani è uso preparare delle sorte di altari, delle tavole imbandite arricchite di ogni alimento, compreso il noto pane di Ramacca (definita la capitale del pane), comune in provincia di Catania: è un prodotto realizzato con la semola di grano duro Senatore Cappelli e lievito madre, cotto poi in forni a pietra alimentati a legna. A spasso per l’isola, ci fermiamo a Monreale, comune celebre per la produzione dell’omonimo pane, inserito nel 1999 nelle liste dei prodotti agroalimentari tipici (P.A.T.). Il pane di Monreale è un prodotto da forno dalla crosta dorata e croccante, realizzato esclusivamente con la semola di grano duro, sale, acqua, sesamo e lievito naturale; viene sottoposto a una lievitazione di un paio di ore, al termine della quale le forme vengono depositate a riposare nei cosiddetti cannistri di giunco e poi cotte a legna a 300-320°C. Il risultato è un pane dalla mollica morbida e gialla, lavorato in diverse forme e dimensioni.
Il migliore pane di sesamo Qual è il risultato che vogliamo ottenere? Un pane dalla crosta spessa e dorata, non particolarmente croccante ma profumatissimo, dalla mollica morbida, spugnosa, l’alveolatura fitta e distribuita, e il colore giallastro, perfetto per accogliere i succhi della milza o l’olio delle panelle. Vi sta già aumentando la salivazione vero? Così detto sembrerebbe un risultato molto semplice; un pane chiuso e dalla crosta non croccante, praticamente l’errore più comune quando si prova a fare un pane casereccio e si è alle prime armi, cosa potrebbe andare storto? Attenzione, perché sono proprio le cose più semplici a nascondere maggiori insidie. Il pane non deve avere un’alveolatura eterogenea e aperta, ma ciò non significa che debba essere chiusa e compatta; la mollica deve SEMPRE respirare. Il segreto per lavorare nella giusta direzione è uno soltanto: condurre la lievitazione nel modo corretto e arrivare alla cottura con un impasto pronto e che non collassi per assenza di struttura.
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In Sicilia se dici pane al sesamo spesso dici mafalda. Si tratta di un pane dalla crosta dorata, dal delicato e caratteristico sapore dei semi di sesamo e sfornato in forme diverse tra cui le più celebri sono gli occhi di Santa Lucia (una sorta di serpentina) e la Corona, ottenuta tagliando in due punti il lato superiore di un panetto a forma di mezzaluna, che con lievitazione e cottura si apre a ventaglio nella parte incisa divenendo simile, appunto, a una corona. Tipica specialmente di Palermo e ideale per essere farcita con le golosissime panelle, pare che la Mafalda abbia origini arabe dato l’impiego della giuggiulena, termine siculo-arabo per definire semola e semi di sesamo, i due ingredienti principali di questa preparazione oltre alle rocce di arenaria locale, tipiche dei monti Iblei, e che si sfaldano in piccoli ciottoli ricordando i semi di sesamo. Più probabilmente tuttavia la storia di questo pane parte dall’Ottocento, in particolar modo da un maestro panificatore catanese che lo dedicò più avanti a Mafalda di Savoia.
L'impasto
Il grano duro è indiscutibilmente molto utilizzato nel nostro Sud, e il prodotto adatto alla panificazione è la cosiddetta semola rimacinata.
Poolish? Biga? Lievito madre? Niente di tutto questo. Per ottenere un risultato perfetto non abbiamo particolare bisogno di lavorare con dei prefermenti, che darebbero ben poco ausilio alla struttura di un pane piuttosto basso come la Mafalda; ma soprattutto, come già sappiamo, i prefermenti aggiungono variabili fin troppo dipendenti da una temperatura di fermentazione più stabile possibile e, se non gestiti nella maniera corretta, rischiano di compromettere un risultato di per sé già non così immediato. Il buon vecchio impasto diretto è sempre la soluzione più comoda quando si tratta di standardizzare un processo; tuttavia oggi, per la nostra rivisitazione Nerd della Mafalda prenderemo spunto dal metodo della focaccia genovese. Si, avete capito benissimo: lievitazione esasperata e utilizzo del malto saranno le chiavi per sfornare un prodotto da urlo. Senza dimenticare l’aiuto di un’amica di cui sentiamo parlare fin troppo spesso, e che oggi potrebbe darci una mano: l’autolisi.
Tra grani duro e tenero esistono differenze sostanziali. Il colore del grano duro tende al giallo per la presenza di carotenoidi; il glutine, corto e stretto, consente una maglia glutinica fitta e resistente, con alveoli piccoli e uniformemente distribuiti. In genere è in grado di assorbire e trattenere maggiori quantità d’acqua (60-68% contro i 50-60% del grano tenero) e ha una resa più elevata.
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Di contro, è meno stabile e più tenace: ragione per cui, con l’obiettivo di rendere le ore di riposo più equilibrate e soggette a minor rischio di collasso (oltre a spezzare la resistenza già citata), il grano duro s’impiega spesso insieme a quello viene tenero. Infine, visto che l’assorbimento mimino è maggiore, gli impasti di grano duro risultano di norma meno asciutti rispetto ai corrispondenti di grano tenero e somigliano ad un impasto per gnocchi. Questa volta, avendo un’idratazione molto bassa e ben pochi pericoli di trovarci di fronte ad impasti ingestibili, eviteremo tuttavia di miscelare il grano duro con quello tenero; fate solo attenzione che questo fantastico cereale potrebbe richiedere un po’ di tempo in più per la formazione del glutine rispetto al gemello.
Illustrazioni di Ozzy Bellesi
La farina
Ne avevamo già parlato in occasione dell’articolo sulla genovese, ma è utile rivangare ogni tanto per assicurarci di aver completamente dimenticato le false credenze: perché il malto e non il semplice (e più reperibile) zucchero da tavola? Partiamo dalle basi: le cellule del lievito si nutrono di zuccheri e producono anidride carbonica per la fermentazione. Per questo lo zucchero (maltosio e saccarosio) non va semplicemente aggiunto all’impasto in quanto verrebbe subito consumato, ma prodotto continuamente dalla saccarificazione (il processo che trasforma i carboidrati in zuccheri semplici) dell’amido contenuto nella farina con l’aiuto delle amilasi e dalle diastasi, enzimi presenti nella farina come nel malto stesso. L’uso corretto del malto velocizza fermentazione e lievitazione e - vista la maggiore presenza di zuccheri che caramellano durante la cottura migliora struttura e colore della focaccia, oltre ad accrescerne profumi e sapori. Il contributo del malto è fondamentale in presenza di farine con bassa attività amilasica, di solito inversamente proporzionale alla sua forza e all’abburattamento, cioè la setacciatura graduale del grano macinato per ottenere farina di diversa finezza. Le farine integrali e deboli hanno quindi maggiore potere enzimatico, detto anche diastasico. In commercio esistono diversi tipi di malto, differenti per potere diastasico e quantità di zuccheri; la soluzione migliore è l’estratto di malto concentrato in sciroppo e il malto diastasico in polvere, utilizzabili in proporzioni di 5:1. In sostanza, quando qualcuno vi dice “Potete sostituire il malto con il miele o lo zucchero”, giratevi dall’altra parte e datevela a gambe. Al di là della solfa appena che vi ho appena illustrato, l’utilizzo del malto si rende necessario nella Mafalda come nella focaccia genovese in quanto esaspereremo la lievitazione, al fine di rendere l’impasto profumato ma soprattutto l’alveolatura fine e uniforme; per tal motivo abbiamo bisogno di un ricarico di zuccheri che impedisca all’impasto di trovarsi senza sostentamento in lievitazione e in cottura, assicurandoci per altro quel magico colore dorato che stiamo cercando.
L'autolisi In biologia, autolisi è il processo di disintegrazione delle cellule che interviene dopo la loro morte per opera degli enzimi contenuti nei lisosomi. La tecnica dell’autolisi in arte bianca è stata sviluppata dal francese Raymond Calvel, ed è una sorta di pre- impasto che consente sostanzialmente di sfruttare l’autoevoluzione del glutine. Si sviluppa in tre fasi distinte: 1. miscelazione iniziale della farina con una parte dell’acqua; 2. riposo dell’impasto autolitico ottenuto; 3. impasto finale. Questa tecnica nasce sostanzialmente per agevolare l’assorbimento di acqua, lo sviluppo della struttura, i profumi e la shelf-life, oltre a ridurre i tempi di lavorazione
finale. Il grano italiano è infatti sempre stato debole, tenace, poco panificabile e in grado di formare ben poco glutine; si rendevano quindi necessarie pratiche di pre-impasto (come l’autolisi o la biga), utili ad agevolare l’assorbimento, la struttura e quindi la leggerezza del prodotto finito. Tuttavia oggi, con la grande offerta disponibile sul mercato per quanto riguarda le farine, i pregi di tale metodologia risultano decisamente superflui. Pare infatti inutile ricorrere a pre-impasti e pre-fermenti quando in realtà la materia prima consente di soddisfare alte percentuali di assorbimento senza alcun aiuto; oltretutto, ogni metodo in aggiunta alla tecnica più semplice non fa che aumentare il numero di variabili in gioco, rendendo il processo scarsamente standardizzabile e ripetibile. Per questo motivo l’autolisi, sebbene venga utilizzata in lungo e in largo senza logica, spesso e volentieri rappresenta un contributo praticamente nullo o irrisorio. Gli unici casi in cui è davvero utile si presentano con l’utilizzo di farine molto resistenti o con il grano duro, dotato (come già speficicato) di un glutine molto “più chiuso” e dall’assorbimento più lento e graduale; in questo caso infatti rende più morbida la maglia glutinica grazie alla proteolisi (scissione delle proteine in peptidi e amminoacidi liberi grazie agli enzimi proteasi). Ve lo state chiedendo? Vi do già la risposta: esatto, oggi vi do ufficialmente il permesso di utilizzare la vostra stramaledetta autolisi, siete contenti?
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Il malto
Preparazione dell'autolisi
Mescolate gli ingredienti in una ciotola, fermandovi non appena la farina risulterà completamente idratata. Non è necessario che formiate il glutine, dovete solo uniformare il composto. Coprite con pellicola e lasciate riposare a una temperatura di 20-22°C per 12 ore.
Impastamento
INGREDIENTI Per circa 6 mafalde Per l'autolisi 1000 g di semola rimacinata di grano duro (W 240-260); 450 g di acqua;
In una ciotola o nella vasca della vostra impastatrice o planetaria spezzettate l’impasto autolitico, sciogliete il lievito e il malto nell’acqua rimasta, poi versatene metà e iniziate a impastare, fino a ottenere una massa uniforme e asciutta. A questo punto aggiungete il sale, e proseguite mettendo l’acqua a filo, solo quando la precedente risulterà perfettamente assorbita. Chiudete l’impasto quando risulterà liscio, uniforme e ben incordato. Ripiegatelo sul banco per dargli una struttura, oliate un recipiente (possibilmente con i bordi alti e stretti per consentirgli di crescere in altezza), chiudete ermeticamente e mettete a lievitare a una temperatura di 24°C per un’ora.
Puntata
Ripiegate nuovamente l’impasto per dargli struttura, dopodiché riponete il recipiente in frigorifero a 6 °C per 24 ore.
Staglio e formatura Per l'impasto 1450 g di impasto autolitico 110 g di acqua; 18 g di sale fino; 5 g di malto diastasico in polvere o 15 g di malto in sciroppo; 15 g di lievito di birra fresco; Semi di sesamo q.b.
Recuperate l’impasto, ribaltatelo sul piano da lavoro e dividetelo in sei parti uguali, che peseranno circa 260 gr l’una; date a queste parti una forma a filoncino e lasciateli riposare per circa 30 minuti. Dopodiché, allungate i filoni ruotandoli con i palmi delle mani sul banco da lavoro, fino a raggiungere una lunghezza di 80-90 cm e un diametro il più possibile uniforme in tutta la sezione. Formate quindi delle curve ben attaccate tra loro, una sorta di “doppia S”, e ripiegate la parte rimanente del filone al centro accavallandolo alle S. Dopodiché vaporizzate abbondante acqua sul lato superiore della Mafalda e appoggiatela su un letto di semi di sesamo in modo da farli aderire per bene; dovrà risultarne ben piena.
Appretto
Foderate una teglia con della carta da forno e appoggiate i filoni ben distanziati; coprite con un canovaccio umido e lasciate lievitare per 1-2 ore a 26-28°C, o comunque fino al raddoppio del volume.
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Cottura
Preriscaldate il forno statico a 215°C e preparate un pentolino di acqua bollente. Appena le mafalde saranno pronte, infornate per circa 20 minuti con il pentolino nella parte bassa e la teglia in posizione centrale. Dopodiché, togliete il pentolino e cuocete per altri 10 minuti con la porta leggermente aperta per far uscire il vapore e asciugare la superficie in modo che diventi ben dorata. Sfornate, lasciate raffreddare su una griglia rialzata e preparatevi a farcire questo profumatissimo pane con milza e caciocavallo grattugiato.
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L'Arte Casearia a cura di Giovanni Minelli
fotografie di Elisa Giuli
LA RICOTTA
Si siete mai chiesti cosa hanno in comune i caseifici artigiani, i piccoli laboratori delle aziende agricole e gli stabilimenti produttivi delle grandi industrie lattiero-casearie? Se non vi siete ancora dati una risposta bene, ve lo dico io: tutti trasformano il latte in formaggi, magari ognuno ha il suo prodotto di punta o la particolarità per la quale diventa celebre, ma sicuramente la ricotta è sui banchi di tutti. La ricotta è forse è uno dei pochi prodotti che davvero troviamo senza eccezioni in tutta Italia, che unisce culturalmente tutto il nostro Paese e quelli del bacino del Mediterraneo, assumendo forme e sfumature gustative tipiche per ogni areale. Il suo gusto delicato e la cremosità l’hanno resa uno degli ingredienti più versatili nella cucina italiana. Mi stavo domandando: che mondo sarebbe quello delle paste ripiene se lo privassimo della ricotta? Forse un mondo a modo suo comunque bello ma che non vorrei mai vivere. E se pensiamo alle meraviglie gastronomiche siciliane, che ne sarebbe di cassata e cannoli, solo per citare due delle preparazioni più celebri in tutto il mondo? Sto parlando di ricotta fresca, ma non dimentichiamo che da nord a sud ci sono infinite varianti di ricotte salate e stagionate; ve ne suggerisco tre che mi hanno rubato il cuore: dalle province lombarde di Sondrio e Bergamo, la mascherpa, ottenuta da siero di latte vaccino, o misto con quello caprino; dalla Carnia la scuete fumade, vaccina affumicata; dalla mia Umbria, la ricotta salata della Valnerina di siero ovino, al naturale o ricoperta di crusca. La ricotta si dimostra davvero facile da realizzare e molto versatile, vi invito a seguire alla lettera il processo produttivo ma anche ad osare, a volare con la fantasia. Vorrei vedere in Gastronomica-Mente le vostre creazioni più sfacciate: giocate con aromi, gusti e colori, pensatela come una tela bianca e da lì in poi siate creativi. Come al solito, capiamo bene di cosa si tratta, quali sono gli elementi distintivi da ricercare in un buon prodotto e come ottenerli.
L’aroma del latte di vacca è ben percepibile e del tutto caratteristico, la cremosità invece è la prima cosa che mi aspetto quando assaggio: non dovrebbe mai essere grumosa. Una buona materia prima di partenza, quindi il siero, deve avere delle caratteristiche ben precise: un valore di pH compreso tra 6,3 e 6,4, che possiamo valutare come al solito con un phmetro o almeno con le cartine tornasole. Questa informazione ce ne dà indirettamente un’altra che sicuramente non sarà sfuggita ai lettori più attenti: possiamo utilizzare solo il siero ottenuto
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Se i formaggi sono ottenuti dalla coagulazione delle proteine del latte, la ricotta è ricavata da quelle del siero: le proteine ivi contenute ammontano a circa un 11% tra albumine e globuline. Se vi siete già divertiti nel realizzare qualche formaggio, dopo l’estrazione della cagliata vi sarete ritrovati con una pentola piena di liquido da smaltire: ecco, prima di pensare a dove buttarlo, produrre ricotta è un obbligo morale per ogni buongustaio. Il latte di partenza può essere vaccino, ovino, caprino o bufalino: è indifferente, sarà sempre ricott,a ma le qualità organolettiche saranno differenti ed anche il processo produttivo sarà soggetto ad alcune variazioni. Di seguito, il processo che vedremo insieme sarà calibrato sul latte di vacca.
dalla lavorazione di formaggi presamici, cioè quelli in cui coaguliamo le proteine del latte tramite l’azione enzimatica del caglio. Questo perché nelle lavorazioni lattiche arriviamo a pH 4,7 (ne abbiamo parlato nel numero di settembre del Magazine). Per dare un riferimento medio accettabile, tendenzialmente quando eseguiamo il secondo taglio della cagliata, il siero è alla giusta acidità; in ogni caso, controllate sempre il pH come descritto sopra.
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La coagulazione delle sieroproteine è ottenuta per via acido/termica e la loro precipitazione è compresa in un intervallo di temperatura che va dagli 85°C ai 95°C, quindi in questo frangente verrà a galla il reticolo che si è formato: quella è la nostra ricotta, la estrarremo con una schiumarola e la posizioneremo nelle apposite fuscelle. In questo caso non darò dei tempi di riferimento, è tutto guidato esclusivamente dalla temperatura. Possiamo mettere la pentola su fiamma diretta o procedere a bagnomaria (le prime volte mi sento di consigliare la seconda opzione per evitare il rischio di far attaccare il fondo e avere nel prodotto finito uno sgradevole gusto tostato). Procedendo a bagnomaria, inoltre, potremo evitare di mescolare e stressare il siero. Un’ultima informazione di servizio, giusto per farci due conti: possiamo aspettarci una resa media del 3-4% per siero da latte di vacca e fino al 7% per quello ovino. Vi renderete conto di quanto questa informazione ci tornerà comoda soltanto tra qualche riga. Procediamo ancora. Per prima cosa filtriamo il siero e lo pesiamo, magari all’interno è rimasto qualche piccolo pezzo di cagliata e non sarebbe gradevole trovarlo nella ricotta. Cominciamo ad innalzare la temperatura e a 63° Celsius aggiungiamo del sale, circa l’1,5% sul peso finale della ricotta (ecco a cosa ci serviva la resa media); lo sfrutteremo come coadiuvante per la flocculazione, e non lascerà alcuna traccia nel prodotto finito. Arrivati alla soglia dei 70°C, di solito io aggiungo dal latte intero in ragione del 10% sul siero che sto lavorando. Alcune note di servizio: aggiungere il latte è del tutto facoltativo, lo faccio per ottenere un
Comincerà a formarsi un reticolo che ingloba grasso formando una massa dalla consistenza molto delicata. Un leggero sobbollire del liquido consentirà
di inglobare anche un po’ d’aria, elemento che facilita l’affioramento, ma occorre prestare molta attenzione poiché se bollisse con violenza distruggeremmo il coagulo e addio ricotta. Spento il fuoco, dopo una rapida sosta di 5 minuti possiamo trasferire la ricotta nelle fuscelle per farla spurgare e successivamente la piazzeremo in frigorifero a 4°C. Ricapitolo in breve tutte le temperature utili: • 63°C sale all’1,5% del peso finale della ricotta; • 70°C latte al 10%; • 85°C acido citrico allo 0,1% del siero; • 95°C circa, o a fine affioramento spengo il fuoco e dopo circa 5 minuti estraggo la ricotta. Se volessimo produrre quella salata, dopo lo spurgo sarebbe il momento di passare alla fase di salatura, e potremmo procedere con la tecnica di salatura a secco. Davvero molto semplice; dunque, datevi da fare, provate e godetevela ma soprattutto divertitevi a creare la vostra ricotta speciale, mi aspetto grandi cose da voi.
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prodotto più grasso e cremoso. Se si decide di fare questa aggiunta, ci si orienta tra il 5 e il 20%: può essere latte intero, panna o una miscela tra i due. Continuando ad innalzare la temperatura e giunti a quella minima di coagulazione, correggiamo l’acidità utilizzando acido citrico: siamo dunque intorno agli 85°C e vogliamo portare il pH a 5,6 quindi utilizziamo circa 1 grammo di sale di acido citrico disciolti in acqua per chilogrammo di siero.
CHEF'S TABLE BBQ una r e cens ion e di sal li neat a
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a cura di Emiliano Nencioni
Ecco una di quelle vicende che sembrano accadere per volontà di uno sceneggiatore pigro alle prese con una commedia degli equivoci con pochissimo budget, da girarsi per forza col solo scopo di riscuotere i fondi straordinari stanziati per il cinema italiano da questa o quella regione. Complice una serie di teaser trailer ben fatti e ammiccanti, nella realtà grigliante internettiana italiana inizia a serpeggiare una voce che, rimbalzando di condivisione in condivisione, diventa presto il grido di una folla: “Su Netflix fanno una serie sui migliori BBQ Joint e pitmaster! Una produzione seria, americana, non il solito format comprato e seviziato dall’Italia!” In breve tempo i profili social dei soliti appassionati si sono popolati di commenti, scambi di giudizi, con un topos ricorrente: “Ah, potessi essere il nipote di quella signora!” “Magari avere una nonnina così!” Curioso come una biscia, nonché patologicamente abbonato ad ogni servizio streaming disponibile, ho fatto quel che dovevo: un doveroso binge watching di tutta la Season di Chef’s Table BBQ.
Le istruzioni caporedattoriali mi sono giunte con la consueta irrinunciabile perentorietà: “Scrivi le tue solite cose e poi fammi anche la recensione di quello show sul barbecue di Netflix” “Aspetta, quello con la gara con gli smoker, condotto da Ruthledge Wood? Carino sì…” “No, l’altro. Quello con la signora anziana”. Non ho battuto ciglio. Procedo.
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Fatto questo, come ogni nerd di mezza età, ho compiuto l’inevitabile: un bel commento non richiesto, sul mio profilo personale. Tranchant, breve, senza fronzoli: un rapido riferimento a delle gonadi, presenti in numero di due. Dribblando la consueta indignazione di uno sparuto manipolo di contestatori, e cavandomela con un paio di commenti disinteressati, pensavo di essermi buttato il capitolo Chef’s Table BBQ alle spalle. Illuso.
Chef’s Table BBQ è una serie di David Gelb in esclusiva per Netflix, candidata agli Emmy per il 2020: porta agli occhi degli appassionati abbonati l’opera e la filosofia di quattro chef e pitmaster di successo del Messico, Stati Uniti e Australia. I quattro professionisti del settore, protagonisti delle attuali quattro puntate, sono Tootsie Tomanetz, Lennox Hastie, Rodney Scott e Rosalia Chay Chuc. Dal punto di vista tecnico, la serie è estremamente curata, pulita, raffinata e pettinata: la fotografia è eccellente, con riprese molto attente alla morbidezza della luce, alla costruzione delle inquadrature e alla gestione della profondità di campo, con una messa a fuoco cristallina che si contrasta con uno sfocato molto morbido degli elementi in secondo piano, per un bokeh molto studiato e perennemente presente. Si nota un deciso uso/abuso di riprese estremamente ravvicinate e di uno slow motion (molto fluido e realizzato perfettamente) per esaltare i momenti “emozionali”, di solito per caricare di pathos una faccenda tutto sommato ordinaria come soffiare sul fuoco, girare una bistecca in griglia o riempire di carbone rovente un dispositivo.
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Quello che posso sicuramente affermare di questo show è che, a differenza di molti altri documentari a tema culinario, verte molto molto meno sul concetto di eye-candy: non è una interminabile presentazione di pietanze succulente, è più una glorificazione della persona, dello chef, e delle idee alla base di tutto. Inevitabilmente si casca piuttosto spesso nella mitizzazione del fuoco, fino alla ben nota raffigurazione sotto forma di entità da domare e alla solita solfa dell’”averci il manico”, di riconoscere la temperatura ideale col solo tocco del dorso della mano, tutte cose che potresti sentir dire (e con quanta convinzione!) anche alla gara di quartiere più sgangherata. Il calcare la mano con deferenza quasi religiosa su aspetti decisamente quotidiani del lavoro in cucina, come la gestione delle temperature o la scelta della materie prime, è quello che ai miei occhi appesantisce irrimediabilmente l’intera opera, fino al rischio di far crollare l’interesse: slow motion esasperati, enfasi ridondante su concetti semplici, aggravati anche dal tono spesso troppo solenne, vibrante e introspettivo dei doppiatori italiani, sicuramente molto più teatrali ed eccessivi rispetto alle intenzioni dello chef in questione (che comunque continuiamo a sentire in sottofondo, in pieno stile “documentario anni 70 di David Attemborough”). Gli avidi studenti di metodi scientifici sempre in attesa di qualche nuovo procedimento da eseguire alla perfezione rimarranno delusi: niente tecniche, niente segreti, niente descrizioni di gesti collaudati e trucchi geniali. C’è tanta poesia - se così possiamo chiamarla - ma proprio niente di materiale.
Prendiamo ad esempio l’episodio più citato, quello di Tootsie Tomanetz: l’ottanta per cento dello screen time è usato per parlare delle sventure familiari, del marito, dell’impiego come bidella in una scuola superiore del Texas, poi ecco bellissime inquadrature del suo fantastico brisket, con super slo-mo e commento sonoro struggente. Nemmeno una parola sulla tecnica, che non sia “so quando uno smoker è alla giusta temperatura toccandone un’estremità con due dita”. Ecco. L’altro episodio di solito citato in giro per i social network è quello di Lennox Hastie: “è venuto via da Etxebarri!”, “ha grigliato il caviale!” sono le frasi ricorrenti. Non c’è molto più di questo, effettivamente: una bella storia (per chi ne fosse interessato) di come è arrivato a lavorare con Arguinzoniz e successivamente a piantarlo in asso al vertice del successo, un filmato al rallentatore di Lennox che guarda con occhio severo e ispirato una serie di pezzi di manzo durante un dry aging insolitamente lungo (“ha commosso Bottura!”, ripetono gli appassionati nei commenti), primissimi piani in HD. Pronti. Episodio finito. Ma fra appassionati dovrete sempre dire di avere apprezzato, sognando, questi due primi episodi, altrimenti sarete tacciati di superficialità e di scarso interesse per la materia. Gli altri due episodi non li cita nessuno. Mai. Il terzo episodio, su Rodney Scott, è probabilmente il più centrato in quanto a tematiche barbecue, ma non ha avuto l’eco mediatica de “l’episodio della nonna” o di “quello che griglia il caviale”: al massimo c’è una rara menzione per “quello che fa il maiale intero”. Ho una teoria: nel quarto episodio, incentrato su Rosalia Chay Chuc, sul mais, la cochinita pibil e l’antico retaggio Maya, la quasi totalità dei grandi appassionati si è addormentata. Non se ne fa parola, da nessuna parte. Qualora desideraste non farvi trovare impreparati agli occhi dei grigliatori più intransigenti, quelli che adorano il potere del fuoco, che lo considerano una forma di vita dispettosa e vendicativa, quelli che si beano delle scene al rallentatore con parecchio bokeh, vi basterà quindi guardare distrattamente i primi due episodi.
Non serve altro. L’importante è non farsi trovare impreparati, e non ammettere di averlo visto controvoglia, distrattamente, col cellulare sempre in mano, con la speranza di apprendere qualche trucco puntualmente delusa.
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Oppure potete sempre barare, giocandovi con maestria due frasi chiave: “Magari fossi stato suo nipote!” e “Ha grigliato il caviale e si è licenziato da Etxebarri!”
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La ricetta scientifica a cura di Gianfranco Lo Cascio
Le
arancine
Ve lo immaginate Giovanni Verga con un account Facebook il giorno di Santa Lucia? Il 13 Dicembre avrebbe scritto qualcosa del genere prima di onorare la festa col suo piatto tradizionale, citazione di Boris (la serie TV) compresa. A punta, a punta alta, tonda o ovale, per me l’arancina, come tutte le cose belle, è fimmina. Una palla di riso farcita e fritta, accarne (alla carne, con ragù) o abburro (al burro), mangiata in piedi a colazione o a mezzanotte sul divano.
Seguitemi con attenzione e fiondatevi a recuperare gli ingredienti, questa ricetta è stata perfezionata negli anni dal sottoscritto e testata da palati parecchio snob ed esigenti. Pensate che da quando l’ho messa a punto non faccio più raid notturni in rosticceria, ho sempre qualche pallina dorata in congelatore, pronta da friggere. E qualche amico che scrocca la cena.
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Ma come si fa a preparare l’arancina di riso perfetta, avvolgente ma coi chicchi ancora integri, il sughetto saporito e grassoccio e la crosta super croccante?
IL RISO
Partiamo dalla base: la scelta e la cottura del riso
Commercialmente parlando, il riso si classifica in quattro gruppi: comune originario, semifino, fino e superfino. Questa distinzione si basa su forma e dimensioni del chicco. Il comune è tondeggiante mentre il superfino è lungo e ha dimensioni maggiori.
I risi comuni
Hanno chicchi piccoli e tondi, cuociono velocemente (in 12-13 minuti) e sono molto indicati per minestre e dolci. Le varietà che appartengono a questa tipologia sono il Rubino, il Bali, il Ticinese, il Selenio, il Pierrot, il Razza 253, l'Americano 1660, l'Elio, l'Auro, il Raffaello, il Cripto e il riso Originario.
Il riso Originario
Chiamato anche riso Comune o Balilla, è una cultivar molto antica e già classificata negli anni '20. Si tratta di un prodotto molto economico e saziante, la prima scelta delle famiglie meno abbienti del ventennio. Ha chicchi corti e tondi e un'elevata capacità di assorbimento dei liquidi, i tempi di cottura sono molto brevi, tra i 13 e i 15 minuti, ed è perfetto per preparare anche torte e dolci, minestre, minestroni e talvolta (non questa volta) arancine.
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I risi semifini
Hanno chicchi tondi di lunghezza media. La cottura si aggira intorno ai 13-15 minuti. Perfetti per condimenti in bianco, timballi e antipasti. Fanno parte di questa categoria il Titanio, il Monticelli, l'Italico, il Maratelli, il Piemonte, il Padano, l'Argo e il Vialone Nano. Ma anche varietà più ricercate come il Lido, il Romeo e il Rosa Marchetti.
I risi fini
I chicchi dei risi fini sono lunghi e affusolati e hanno tempi di cottura non inferiori ai 16 minuti. Tengono molto bene la cottura e sono quindi adatti alla preparazione di risotti e insalate, dove i granelli devono restare ben separati tra di loro. Fanno parte del gruppo l'Europa, il R.B., il Ringo, il Romanico, il P. Marchetti, il Radon, il Veneria, il Rizzotto, il riso Ariete, il Bonnet, il Loto, il Molo, il Riva, il Cervo, il riso Drago, il riso Smeraldo, il Vialone nero, il pregiato Sant'Andrea e il Ribe.
I risi superfini
Sono il meglio del meglio, si distinguono per i chicchi grossi e molto lunghi. La loro cottura non è inferiore ai 17-18 minuti, ma in alcuni casi può arrivare anche a 20. Perfetti per i risotti, grazie alla quantità di amido che rilasciano in cottura e alla loro capacità di assorbimento di acqua e contorni. Fanno parte di questa categoria: il Redi, l'Arborio, il Volano, il Roma, il Razza 77, l'Ilapatna, il Silla, il Gritna, il Koral, l'Onda, il riso Strella, il Miara, il Panda, il riso Vela, il riso Star, il riso Baldo e il più pregiato di tutti, il Carnaroli.
Il riso Roma
La varietà Roma è quella perfetta per la nostra ricetta. Un riso a chicco lungo, affusolato e perlato, quest'ultima caratteristica lo distingue dal riso Baldo, a prima vista molto simile. Molto versatile in cucina, anche grazie ai suoi tempi di cottura contenuti, assorbe molto bene i liquidi grazie al chicco corposo, caratteristica fondamentale per la riuscita di un buon timballo, sformato o riso in bianco. Nato nel 1931, si coltiva in tutte le terre da riso della nazione: dai prevedibili Lombardia e Piemonte alla Sardegna.
La cottura per assorbimento Cuocere il riso è facile, ma cuocerlo a puntino non lo è affatto. Se non lo fate in maniera scientifica, ovviamente. Può attaccarsi alla pentola, scuocere, diventare appiccicoso. Per fronteggiare questi ed altri incidenti culinari ci hanno venduto il riso parboiled, dall’inglese partially boiled, parzialmente bollito. Dopo essere stato posto in ceste metalliche e lasciato immerso in acqua calda a 50°C, questo riso “truccato” viene trattato con getti di vapore sotto pressione che indurisce l’amido presente in superficie. Successivamente viene “sbramato” ed essiccato. Il chicco del riso parboiled non scuoce e assorbe meno grassi, non si ammassa e risulta particolarmente digeribile e indicato per piatti freddi, pilaf e timballi. Ma dove sta la fregatura? Nella cremosità e nel sapore! Il riso parboiled è sconsigliato per i risotti poiché, non liberando amido durante la fase di cottura, non si amalgama e richiede giocoforza l’aggiunta di altri ingredienti (panna, besciamella) per renderlo commestibile. Come se non bastasse, avendo la superficie molto liscia, il chicco trattiene poco condimento. Non compratelo per fare le arancine, date retta allo Zio.
Come con le patate o la pasta, la sfida principale quando si cucina il riso è capire come controllare gli amidi al millimetro. Tuttavia, mentre le patate o la pasta sono spesso cotte in molta acqua per lavare via l'amido in eccesso, il riso richiede un metodo di cottura più preciso. Se si fa bollire e si scola, si finisce per lavarne via il sapore delicato e per inzuppare eccessivamente i chicchi. Il riso, fidatevi, si cuoce meglio con una quantità misurata di acqua in una pentola coperta, per scongiurarne l’evaporazione. II granuli di amido, che sono il componente primario del riso, tendono a non assorbire liquidi a temperatura ambiente. Mentre si riscalda il riso in acqua, invece, l'energia delle molecole del fluido in rapido movimento comincia ad allentare i legami tra le molecole di amido, permettendo all'acqua di penetrare. Questo, a sua volta, causa il rigonfiamento dei granuli di amido, i quali rilasciano alcune molecole gommose che poi agiscono come una colla per tenere insieme i chicchi. Il riso, a questo punto, si ammorbidisce e diventa appiccicoso o “inamidato".
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Il riso è un seme della pianta nota come Oryza sativa. Quando viene raccolto, è coperto da una lolla protettiva, una specie di buccia insomma. Dopo che la lolla viene rimossa si ottiene il riso integrale, che è composto da tre parti: la crusca (che racchiude uno strato di cellule chiamato strato di aleurone, ricco di olio e di enzimi), il germe, e l'endosperma. Per diverse migliaia di anni, il riso integrale è stato parboiled e poi macinato per rimuovere la crusca e il germe, lasciando solo l’endosperma ricco di amido.
Come i nostri tuberi preferiti, il riso contiene due tipi di molecole di amido: l'amilosio e l'amilopectina. La quantità di amilosio e il contenuto proteico dei granuli di amido determinano le proprietà strutturali del riso - da sgranato e tenero ad appiccicoso e gommoso - quando è cotto. Eccezioni permettendo, il riso con un più alto contenuto di amilosio e proteine (come il riso a chicco lungo), una volta cotto, si presenta in grani separati, leggeri e teneri. Al contrario, il riso con un basso contenuto di amilosio e proteine (come l’Arborio) risulta piuttosto umido e cremoso, con chicchi che tendono ad appiccicarsi l’un l’altro. A causa delle differenze nel contenuto di amilosio e proteine, i granuli di amido nel riso a chicco lungo si gonfiano e gelatinizzano a una temperatura molto più alta (70°C) rispetto ai granuli nel riso a chicco medio (62°C). I granuli di amido che gelatinizzano ad una temperatura più bassa rilasciano più amilosio, anche anche se ne contengono meno. Questo fa sì che i chicchi si attacchino tra loro. Il riso a chicco lungo contiene circa il 22% di amilosio e l'8,5% di proteine, e i grani sono da quattro a cinque volte più lunghi di quanto siano larghi. Necessita di più acqua per cuocere e, una volta cotto, rimane in grani separati che si induriscono man mano che si raffreddano (a causa del più alto contenuto di amilosio, sempre lui).
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Il riso a chicco medio contiene circa il 18% di amilosio e il 6,5% di proteine, e i grani sono da due a tre volte più lunghi di quanto siano larghi. Questo riso ha bisogno di un po' meno acqua per cuocere rispetto al riso a chicco lungo e risulta tenero e leggermente appiccicoso. Il chicco corto contiene circa il 15% di amilosio e il 6% di proteine ed è quasi rotondo. Si cuoce in quantità d'acqua ridotte e può essere abbastanza appiccicoso e tenero da cotto. È l’ideale per piatti come sushi, in cui i chicchi devono rimanere praticamente incollati.
La ricetta del riso per le arancine Dose per 28 arancine da 135 g • • • •
1 kg di riso Roma (o Originario o Bomba) 2 lt di brodo vegetale 0,3 - 0,4 gr di zafferano (3 bustine canoniche) 150 g di burro
Procedimento
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1. Mettete il riso in uno scolapasta o in un colino a maglie fini e sciacquatelo leggermente con acqua fredda. Servirà ad eliminare l’amido in eccesso. 2. Versate in una pentola il brodo, che avrete preparato con i classici sedano, carota, cipolla e il sale, e aggiungete il riso e lo zafferano, mescolando continuamente fino a quando i chicchi diventano “gessosi” e opachi (da 1 a 3 minuti). Alzate la fiamma e portate ad ebollizione. 3. Abbassate la fiamma, coprite con il coperchio e cuocete a fuoco lento fino a quando tutto il liquido non sarà stato assorbito. 4. Fuori dal fuoco, rimuovete il coperchio e mantecate con il burro, il grasso servirà ad apportare gusto e creare un film scivoloso attorno al riso. Quindi, posizionate un canovaccio pulito piegato a metà sopra la pentola; rimettere il coperchio. Lasciate riposare per 10-15 minuti, il vapore verrà assorbito dal tessuto. 5. Rovesciate il riso su una teglia raffreddata in congelatore e foderata con carta forno. Livellate e fate asciugare i chicchi, coprite con della pellicola e fate riposare in frigorifero dalle 4 alle 12 ore.
IL RAGÙ SCIENTIFICO
VELOCE O una versione semplificata. Per questa preparazione, già laboriosa di per sé, apportiamo delle modifiche agli ingredienti e nei processi alla ricetta che già conoscete.
Il brodo vegetale • • • • • •
1,25 l d’acqua; 1 costa di sedano; 1 carota; 1 cipolla rossa; 1 foglia di alloro; grani di pepe nero;
Lasciate sobbollire gli ingredienti nell’acqua e salate solo alla fine. Mettete da parte e dedicatevi alla preparazione del ragù.
Il sugo
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Per ottenere un sugo bello sostanzioso ci occorrono due tagli di carne: • 1 ricco di tessuto connettivo, da cuocere insieme al triplo concentrato di pomodoro; • 1 più magro, da macinare e con il quale dare struttura al sugo. Per arricchire la salsa con una buona dose di gelatina possiamo utilizzare uno dei seguenti tagli: • G e r e t t o a n t e r i o r e o posteriore, molto compatto e ricchissimo di collagene; • Biancostato, situato nella parte bassa delle coste e particolarmente carico di collagene; • Punta di petto, il muscolo della parete addominale,
arricchito di tessuto adiposo e del collagene delle costole.
Come facciamo ad estrarre questa gelatina e trasferirla direttamente nel sugo? Semplicissimo, basterà portare la carne ad una temperatura superiore a 68°C. È proprio in quel momento che il collagene si scioglie e si trasforma in un gel saporito. Ricapitoliamo, per preparare questo primo sugo ci occorre: •
• • • • • • • •
1 kg di polpa di stinco di manzo, biancostato o punta di petto; 1 l di brodo vegetale 500 g di triplo concentrato di pomodoro 1/2 cipolla rossa 1 bicchiere di vino rosso Abbondante basilico Olio extravergine di oliva Sale Pepe nero
Mettete sul fornello una tegame di ghisa a bordi alti. In alternativa potete utilizzare una pentola ampia di coccio o di acciaio a fondo spesso. Tagliate la polpa dello stinco (o del Brisket/biancostato) in grossi cubi e rosolateli a fiamma alta in un fondo di pochissimo olio. Aggiungete la cipolla tagliata a cubetti, fate imbiondire, deglassate il tutto con un vino rosso corposo e lasciate
evaporare l’alcol. Unite il triplo concentrato di pomodoro e diluitelo con il brodo caldo, aggiungete le erbe e le spezie e lasciate cuocere lentamente, su un soffio di calore, per almeno quattro o cinque ore. Lasciate pippiare il sugo con il coperchio ben collocato e controllatelo di tanto in tanto, spegnete solo quando l’acqua sarà evaporata del tutto e la carne si sarà sfaldata. Salate, filtrate e mettete da parte la carne, la mangerete a parte o la riutilizzerete in altre ricette.
La carne
Adesso si passa alla preparazione del macinato, l’ingrediente che serve a dare corpo al ragù e soprattutto sapore di tostato. Scegliete un pezzo “magro”, il girello è perfetto per questo scopo. Parliamo del taglio rotondeggiante e affusolato situato lungo il posteriore, una porzione di muscolo molto tenera e perlopiù utilizzata nella preparazione di carpacci o arrosti. Procuratevi un Eye Round GLC Top Selection di black angus del Megastore e andrete sul sicuro. Perché utilizzare carne relativamente magra? Perché il sugo sarà già bello carico di gelatina e la parte grassa la inseriremo successivamente, come avete già imparato a fare. Ingredienti • 1 kg di Eye Round (girello) GLC Top Selection; • Olio extravergine di oliva q.b. Macinate o fatevi macinare la carne dal macellaio in
A queste punto non vi resta che rigirare il foglio di carta forno e lasciar rosolare l’altro lato, sempre a 230°C, a grill andante. Attenti a non far seccare troppo la carne, mi raccomando.
Perché rosoliamo il macinato in forno e non nella pentola? Perché nel secondo caso si sarebbe sviluppato un grande quantitativo di vapore, che avrebbe sicuramente lessato la carne. E lì dove si fosse riusciti a tostarla, sprecando tantissimo tempo, avremmo ottenuto dei granelli secchi e completamente privi di umidità. Ecco perché usiamo il metodo dello strato sottile in forno. Le due superfici cauterizzate ci daranno sufficiente Maillard. Ma la carne al centro conterrà ancora succosità e sapore.
Le verdure
Ora mettete da parte e dedicatevi alla preparazione del soffritto non soffritto.
Tagliate le verdure a cubetti di 2-3 mm, asciugatele con cura con della carta assorbente, ungete con olio, che veicolerà
Così come il macinato, le verdure tradizionalmente utilizzate per il soffritto ci serviranno per amplificare la nota tostata e per apportare dolcezza, nota erbacea e soprattutto freschezza. Non le abbiamo cotte insieme alla carne o al sugo per preservarne gusto, intensità e consistenza. A questo punto preparate una brunoise con: • 200 g di cipolla rossa (40%); • 150 g di carota (30%); • 150 g di sedano (30%).
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maniera grossolana, distribuite il macinato su una teglia ricoperta di carta forno, asciugate con cura con della carta assorbente e ungete leggermente con poco olio. Scatenate una furibonda reazione di Maillard cuocendo in forno preriscaldato, con il grill sparato a 230°C e posizionando la teglia al centro del forno. Lasciate lo sportello leggermente aperto per permettere al vapore di fuoriuscire.
il calore, e distribuitele su una teglia ricoperta di carta forno. Cuocete in forno preriscaldato a 180°C posizionandole al centro del forno e rigirandole di tanto in tanto. Dovete ottenere dei cubetti di verdura caramellati, freschi, saporiti e sopratutto ancora intatti.
L’assemblaggio
Per dare corpo, struttura e leggerezza al ragù dovete emulsionare la salsa con un grasso. Non con la panna, il latte e derivati. È importante però che il sugo sia ben caldo per ottenere una crema densa e vellutata. A questo punto potete aggiustare di sale, pepe e quant'altro. Aggiungete 100 ml di olio extravergine di oliva, tuffate il minipimer nel tegame e via ad agitare finché non diventa densa e di un colore arancione brillante. Una volta raggiunti i 70-80°C “condite” la salsa emulsionata sgranando con le mani la carne macinata arrostita e le verdurie rosolate. Lasciate raffreddare e mettete da parte.
I PISELLI • • • • •
400 g di piselli freschi o surgelati; 50 g di burro; 1 scorzetta di limone; Sale; Pepe.
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Io non ho particolare simpatia per questa leguminosa verde, però devo ammettere che nell’arancina ci sta da Dio. L’unico modo per non sciupare i piselli è cuocerli sottovuoto ad 84°C per un’ora e unirli al ragù una volta pronti. In questo modo eviterete di stracuocerli e ne preserverete gusto, dolcezza e consistenza. Versate nel sacchetto i piselli e aggiungete il burro, la scorzetta di limone, il sale e il pepe. Agitate e lasciate nel bagno termostatico. Rimarranno belli verdi e gonfi. Un volta cotti, aggiungeteli al ragù di carne e mettete da parte. Questa dose di condimento vi basterà per 60 arancine circa.
LA FORMATURA DELLE ARANCINE Esistono in commercio degli stampi modulari per la formatura delle arancine, sono accessori semplicissimi da utilizzare, io ce li ho di tutte le forme e misure perché sono veramente comodissimi. Per chi non avesse voglia di investire in un attrezzo specifico, che resta francamente una gran figata, si può sempre utilizzare uno stampo a semisfera in silicone o il palmo della mano. Bagnato, mi raccomando, altrimenti vi ritrovate con chicchi di riso pure nelle orecchie. Prendete il vostro stampo, riempitelo di riso, fate il buchetto per il ripieno e chiudete. Al ragù potete aggiungere cubetti di provolone o del formaggio semi stagionato che vi piace di più. Inumidite le mani leggermente, sistemate le arancine in fila come tanti soldati (con la panza) su una leccarda foderata di carta forno e riponete in frigo.
La pastella • • • •
120 g di farina di riso; 90 g di amido di riso (o mais); 6 g di sale; 500 ml di acqua (dose indicativa).
Il glutine (quella grossa molecola proteica che si forma quando si impasta la farina con l’acqua e gliadine e glutenine si dispongono a formare una rete) in frittura, non serve. Quello che ci occorre non è un composto elastico e gommoso ma una soluzione colloidale che renda la nostra arancina croccantissima e friabile, arricchita da una crosta sottile e asciutta. Useremo la farina e l’amido di riso perché questo cereale non riesce a
formare il glutine, poiché le prolammine (proteine dei cereali) contenute in esso sono in bassissima concentrazione. Una volta preparata la pastella unendo a freddo tutti gli ingredienti, seguite questi step: 1. Immergete le arancine nella pastella (aiutatevi con una schiumarola), che avrete sistemato in una ciotola profonda, e poi rotolate subito nel pangrattato. Impanate bene facendo aderire su tutti i lati e sistemate le arancine in una teglia foderata con carta forno. 2. Disponete le arancine su un unico strato su di un vassoio e trasferite in congelatore per venti minuti, o in frigorifero per un paio d’ore. Una volta raffreddate completamente, scaldate l’olio. 3. Quando l'olio avrà raggiunto i 190°C friggete le arancine in immersione, devono sprofondare completamente. Pochi pezzi alla volta o la temperatura dell’olio si abbassa e inzuppate la panatura. 4. Cuocete fino a quando non si colorano esternamente, dovete solo portare a cottura la pastella perché riso e ripieno sono già cotti.
L’ingrediente segreto...
...e facoltativo. Di tanto in tanto aggiungo alla pastella dell’amido di mais modificato, o E1420. Questa polverina arricchita in amilosio crea un film che in frittura si trasforma letteralmente in vetro croccante, proteggendo inoltre l’arancina da un assorbimento di olio incontrollato. La proporzione è 2,5%, 2,5 grammi per 100 grammi di pastella.
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Abbiamo tutta linea pronta, gli ingredienti sono disposti sul piano di lavoro e si sono raffreddati, non ci resta che assemblare il tutto.
Per ogni problema una soluzione Perché gli incidenti capitano anche nelle migliori famiglie.
1) L’arancina rimane attaccata allo stampo Cause: • Avete aggiunto uova al riso o formaggio. Disgraziati che non siete altro. • C’è troppo poco burro nel riso. • Il riso è ancora troppo umido e caldo. • Avete utilizzato una tipologia di riso poco adatta. Soluzione: Provate a ungere leggermente lo stampo con dell’olio o burro, ma la prossima volta attenetevi scrupolosamente alla ricetta.
2) L’arancina si spappola, è troppo molle e non riuscite a friggerla Cause: • Il riso è ancora troppo umido e caldo. Soluzione: Lasciate raffreddare e asciugare per bene il riso e fatelo riposare in frigorifero per qualche ora, anche una notte se necessario.
Conservazione e rigenerazione Con un kg di riso vi vengono fuori circa 28 arancine, ma nulla vi vieta di raddoppiare le dosi e farne di più (con tutto quel ragù ne preparate almeno una sessantina). Potete pre-friggerle, farle raffreddare e surgelarle. Quando ne avete voglia, potete tuffarle nuovamente nell’olio da surgelate, oppure ripassarle in forno ventilato a 190°C. E regalarvi sprazzi infiniti di godimento assoluto: mordere la crosta scrocchiarella e saporita, affondare nel riso profumato di burro e zafferano, arrivando fino al ripieno, aromatico e sapido, con le note balsamiche di basilico che si arrampicano sugli sbuffi di vapore.
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Sabbinirica!
Gianfranco Lo Cascio
395 - BBQ4All Magazine
I pedanti vetrinizzati Seguo - Rubrica a cura di Emiliano Nencioni illustrazione di Ozzy Bellessi
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È ben diverso scrivere immersi nella solitudine fisica e mentale, attendere la pubblicazione del libro, la sua distribuzione, l’uscita delle recensioni e infine la reazione dei lettori - potrebbero volerci mesi, anche anni - o invece scrivere su un blog, Twitter o Facebook: lì ci sono un milione di follower che, nel momento esatto in cui mettiamo il punto finale a una frase, cominciano ad affannarsi sulla tastiera per inviarci le loro reazioni, critiche ed elogi, esponendo anche il proprio punto di vista. Si passa da un monologo al dialogo continuo. Sapere che la nostra frase, giocoforza breve, sarà letta da una moltitudine di follower nel momento esatto in cui la scriviamo accende in noi un’energia euforica che regala alle parole vibrazioni vitali. La letteratura da eremiti narcisisti giace nel mausoleo del Ventesimo secolo. Adesso la letteratura, e specialmente la poesia, nascono dalla collaborazione stretta tra lo scrittore e i suoi lettori: insieme creano l’opera. I lettori si connettono con te, ti seguono, ti rispondono, ma se quello che dici non è quello che vogliono sentirsi dire, ti chiudono la bocca con un ‘unfollow’ e ti abbandonano. Te li devi guadagnare giorno per giorno, devi sorprenderli, convincerli, coccolarli, accarezzarli. Tu sei la barca che li traghetta, navigando nell’oscuro mare dell’inconscio per arrivare alla Coscienza.
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GUO
Citazione da un webinar dei Ferragnez? Ultimo tweet di Selvaggia Lucarelli? Video virale di Davie504? Non esattamente. È l’incipit di Metaforismi e Psicoproverbi di un geniale scrittore, poeta e sceneggiatore contemporaneo, Alejandro Jodorowsky (attualmente ancora in vita e quasi centenario). Il fatto che l’autore di Quando Teresa si arrabbiò con Dio, non certo un nativo digitale, influencer e web-oriented, abbia ritenuto necessario aprire la mente alle diverse meccaniche della comunicazione online può di fatto iniziare a convincerci della loro importanza. Non è forse quello che abbiamo sempre fatto qui nelle ultime paginette della Seguo, quelle lette proprio come ultima risorsa, quando neanche i video consigliati di YouTube riescono più a svagarci un attimo? Le reazioni sono importanti. Le reazioni della massa di utenti/lettori sono imprescindibili perché, sia che stiamo scrivendo per un famoso blog, sia che stiamo per inviare l’ultimo aggiornamento di status del profilo personale, lo facciamo per confrontarci con il responso, con l’accoglienza di chi legge. Certamente, c’è un gran fiorire di “io scrivo solo per me stesso/a, me ne frego di cosa pensano gli altri” - e credo proprio sia una balla colossale. Nessuno scrive i propri pensieri su un tovagliolo di carta per poi bruciarlo. Come accennato infatti nella scorsa e molto controversa Seguo (controversa nel senso che un lettore ha detto di averla trovata gradevole, l’altro restante lettore ha detto che -mamma mia- era troppo lunga) incentrata sul Panopticon, Bertrand Russel e George Orwell, prima o poi avrei voluto soffermarmi sul concetto di vetrinizzazione sociale. Non vi faccio aspettare neanche un mese, fedelissimi ed egregi (otto) lettori, e ne parliamo prendendo come espediente narrativo la devastante figura del…
398- Almanacco 2020
Commentatore Per Forza.
Ogni profilo è infestato da almeno uno di questi dolenti personaggi. Manifestano la loro esistenza e il loro peso nell’ecosistema producendo commenti superflui, spesso fuori contesto, svilenti, ma soprattutto hanno sempre qualcosa da aggiungere. Parli dell’estetica delle elettrosaldature? Dicono la loro, che ne sanno assai; rifletti sul senso della vita, e loro si trasformano in fini pensatori; metti una foto del tuo cane, ti rispondono con una foto del loro gatto; racconti un fatto spiacevole, mettono il like;
confessi di aver perso il lavoro, mettono il like; descrivi la tua ultima litigata in fila alle casse del discount, rispondono che sei una persona meravigliosa, vera, che sono estremamente fieri di avere una così bella amicizia con te (ma quando? Sei poco più di una notifica sui miei digital device, un’entità che posso disabilitare con uno swipe a sinistra). Molto probabilmente, e io fossi in voi farei una prova, criticando aspramente una delle loro perle letterarie non richieste i tristanzuoli reagiranno tirando in ballo il rispetto, spendendo numerose parole su come non volessero assolutamente mancarvene, su come per loro sia alla base di tutto, perché va bene scherzare ma oh, loro sono i primi a darne ed esigerne. Tradotto, come sempre, “ti prego di non contraddirmi in pubblico e io cercherò di fare lo stesso con te”. (No, non mi sto solo “ripetendo”: sto cercando di far passare e sdoganare una questione molto importante.) • •
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“Un filosofo, che non poteva camminare perché si pestava la barba, si tagliò i piedi.“ Ciao grande bellissimo post, sai, io uso sempre una cera da barba profumata al sandalo, la rende morbida e pettinabile. "Trionfare è imparare a fallire. Fallire è solo cambiare strada." Ma tu sei una Grande Persona! E solo le persone Vere come te troveranno sul loro Cammino la Gioia o almeno un grande Amico come me! (Esatto, i commentatori per forza abusano spesso di Maiuscole Superflue, e si ritrovano a premere shift all’inizio di qualsiasi parola che, per motivi ignoti ai più, intendano investire di un’aura mistica e di deferente rispetto - o Rispetto)
Affrontiamo quindi il nodo della Vetrinizzazione Sociale: Una prima vetrinizzazione è apparsa nella società occidentale nel 1700, col mutamento del rapporto fra bottega e strada: la comparsa di vetrine esterne, funzionali ad attrarre il cliente di passaggio, cambia anche la funzione e il ruolo di alcuni prodotti, che escono dall’anonimato dei retrobottega dei laboratori artigiani per diventare i protagonisti della contrattazione, modificati e pensati per attrarre lo sguardo del compratore: è l’inizio di una nuova fase di commercio, dove il bene venduto, e la sua capacità di seduzione, si arroga l’importanza centrale che prima era propria del rapporto artigiano - compratore.
Nella seconda metà dell’800 la comparsa dell’illuminazione elettrica, abbattendo i rischi di incendio delle lampade a gas, spettacolarizza ulteriormente l’esposizione in vetrina, illuminata con i criteri di un set teatrale. Tutto questo, arrivando al ventesimo secolo, porta ad un perfezionamento maniacale e sistematico dell’allestimento estetico della merce e si presta straordinariamente bene ad una metafora del modello di comunicazione prevalente nel ventunesimo secolo. Tutto è in vetrina, tutto deve essere bello, tirato a lucido, impeccabile, positivo, condivisibile, esperibile, “eye-candy”: perfino le cose non oggettivamente positive, come i lamenti esistenziali degli adolescenti incompresi e più dark, devono sottostare a un certo disciplinare e il minimo sindacale in questi casi è una citazione di un poeta sudamericano, una foto di tramonti caraibici e un font svolazzante. Giungiamo, secondo il sociologo Vanni Codeluppi, alla Vetrinizzazione Sociale. Vedo post di nonnine ottuagenarie che dopo aver fatto gli auguri alla nipotina allegano un efficace Call to Action, maturi imprenditori perdere il lume della ragione se uno sconosciuto qualsiasi li smentisce in un post molto visibile, machissimi autoproclamatisi maschi alfa precipitare nell’horror vacui
se si accorgono di non avere la desiderata street credibility all’interno di un sottogruppo di utenti. Perché, non me ne vorrà il prof. Codeluppi (che tanto figurati se mi legge, ma se mi legge lo saluto tanto caramente), oltre alla vetrinizzazione sociale ci siamo impantanati nella Terribilizzazione. Tutto è terribile e con conseguenze devastanti: un commento storto, un ban da un gruppo, un like non messo da un amico, un “condividi se hai un cuore” non rispettato. Quante volte dopo uno sgarro social ci è arrivato un messaggio privato pieno di insulti e con minacce tipo “un giorno ci incontreremo e me la pagherai”, “tu non sai chi sono io e il ruolo che ricopro”, o il più agghiacciante di tutti, “buona vita”? Mai? Buon per voi. A me capita quasi giornalmente. É evidente la sproporzione fra sgarbo e reazione, ma la terribilizzazione della vetrinizzazione porta anche a questo: pacate, stimate, docilissime persone che minacciano di morte o di tremenda vendetta altre innocue persone, in massima parte sconosciute, rovinandosi la serata, la digestione, spesso il sonno e sicuramente incasinandosi i livelli di cortisolo. Ed è qui che il nostro commentatore per forza torna in gioco!
399 - BBQ4All Magazine
immagine tratta dal film Poesia senza fine di Alejandro Jodorowsky
Egli commenta tutti. Vuole bene a tutti. Rispetta tutti. Ha, in verità, tonnellate di rispetto superfluo da elargire, perché non vorrebbe mai e poi mai dire qualcosa di sbagliato, di poco celebrativo, di non allineato, e diventare meno gradito. Per lui sarebbe sicuramente terribile perdere la stima (che crede di avere) della persona commentata, terribile non reagire ad un così bel post, terribile mancare quella ghiotta opportunità di farsi di nuovo vivo e contribuire alla conversazione. Mai e poi mai rimanere nell’ombra: il commentatore per forza si sente sempre in vetrina nella vetrina degli altri, in guisa di guest star, e non vuole certo sfigurare in questo featuring esclusivo. É ovunque, dispensa positività e daccordismi (pensala come vuoi, è sempre d’accordo con te), probabilmente sollevato da una certa idea di poter brillare per luce riflessa. O, molto più semplicemente, per quel senso di sollievo di quando eravamo bambini (negli anni ‘80, non so se si fa anche adesso) e l’amichetto diceva • Sono per la Juve! • Anch’io! • E guardo sempre l’Uomo Tigre su OdeonTV! • Siii pure io! • E l’arte marziale più bella di tutte è il karate! • Vero! KIAI!! • Anzi scusa volevo dire il Judo, ho sbagliato! • Anch’io volevo dire il Judo! Ho sbagliato! Il Judo! UATA’!
400- Almanacco 2020
Il commentatore per forza non si accorge di essere diventato un supplizio. Passa velocemente la voglia di rispondere a uno costantemente allineato, che fa sempre la battuta (trita) per sottolineare quanto tu sia in gamba e i tuoi detrattori siano dei cretini, che ripete a pappagallo cose dette precedentemente da te (vuoi far vedere che hai studiato?), che azzanna con violenza inutile e non desiderata chiunque, nei commenti successivi, provi a sminuirti o contraddirti. Diventa una macchietta. Non sa che ormai si collezionano i ritagli degli screenshot delle milioni di notifiche “ha commentato un tuo post” o “liked your photo” per scambiarli con gli amici in chat. Bisognerà che qualcuno, facendoci la parte dell’antipatico, renda consapevoli i commentatori per forza del loro appartenere alla nefasta categoria. Questo stesso articolo per me è una sorta di
espiazione. Sono stato, in passato, un commentatore per forza. Ma un commentatore per forza di quelli cattivi, non uno di quelli compiacenti e fastidiosetti. Un esemplare da sindrome post traumatica a ogni notifica, da attacco di panico. Non saprei dire DISTANZIATO perché, ma avevo preso lo “svilire SOCIALMENTE BEN DIVENTASSE MAINSTREAM tutto” come PRIMA una CHE missione. Mi accanivo particolarmente contro la poesia usata per abbellire certi post, distruggevo di sarcasmo ogni condivisione di traguardo sportivo (Tizio ha appena corso 3 km con la nuova applicazione! yuhu! fondamentale farlo sapere!), ogni esternazione di malessere, ogni volgare ostentazione di felicità. Sempre, puntualmente, una frasina cattiva per svilire. Io ridevo, tre o quattro persone ridevano, mi pareva di fare un grande servizio di milizia e ironia a tutto il web. In realtà tolte le tre o quattro persone non rideva nessuno, e la mia percezione presso le persone si aggravava con velocità preoccupante. Fino a che, fortunatamente, una persona mi ha fatto notare il mio errore di incauta gioventù, con calma, dignità e classe. Mi fece piacere? No, per niente. Negai tutto con ulteriore sarcasmo. Smisi però, credo, quasi del tutto.
Emiliano Nencioni
Questo è il nocciolo. Le persone moleste vanno avvertite. Un commentatore per forza, ci scommetto, è convinto di essere un leale e stimato sostenitore, un braccio destro, una persona schierata e allineata, una figura positiva. Non lo sa mica, che deve rallentare. Non se ne accorge, che ogni suo contributo è accolto con una pletora di “oh no ancora lui”. Bisognerebbe avvertirlo. Con calma, dignità e classe (cit.).
Emiliano Nencioni Approfondimenti: La vetrinizzazione sociale: il processo di spettacolarizzazione degli individui e della società Vanni Codeluppi Bollati Boringhieri, 2007 Metaforismi e Psicoproverbi Alejandro Jodorowsky Feltrinelli, 2017
N°23/ANNO 2 - NOVEMBRE 2020
e s e v o n gescientifica Pasta con la
A Scuola di Tacos
l'editoriale di Gianfranco Lo Cascio
November Pork
i tagli del maiale nel mondo Ribs: Baby Back vs St. Louis cut
La Porchetta Perfetta
al BBQ e al forno come si fa
La Robiola Street Food
Il panino con la salsiccia
402- Almanacco 2020
Tacos
i d la o cu s A
Editoriale di Gianfranco Lo Cascio
come trasformare casa vostra in una taqueria
“I tacos hanno il sapore che le voci di un centinaio di angeli che cantano Bob Dylan seduti sugli arcobaleni e che suonano il banjo avrebbero se quel suono fosse commestibile.”
Alcuni di voi lo sanno già da un po’, ma molti altri no. Io ho un'autentica passione per i tacos. Ma direi che è molto di più di questo. È qualcosa che sta a metà tra l’amore sfrenato e l'ossessione tossica. Per farvi capire il livello, probabilmente sarebbe l'ultimo pasto che sceglierei se mi condannassero a morte. E probabilmente sarebbe l'unico tipo di locale che accetterei di aprire se non avessi altre priorità. Esatto: non una Steak House ma una Taqueria. Insomma, non è una cosa che tengo nascosta ma non ne faccio grande pubblicità perché ho dei progetti per i tacos in Italia. E prima o poi prenderanno vita.
So che è strano pensare che un dischetto (in realtà per il tacos si usano quasi sempre due tortillas per evitare che si sfaldi mentre si mangia) di farina di mais (ma anche di grano) con un po' di roba dentro possa appassionare così tanto. Eppure, conoscendolo a poco a poco, sono certo che vi resterà nel cuore. È arrivato il momento di aprire i cancelli del regno dei tacos.
403 - BBQ4All Magazine
Questo però non mi impedisce di condividere con voi giovani Padawan questa cocente passione che mi porto dentro, no? Dovete capire che il taco è radicato nel DNA dei messicani come la pasta in quello degli italiani. Ma è molto più forte, ha radici molto più profonde. I messicani adorano tramandare le ricette a voce alle nuove generazioni. Le nuove generazioni amano impararle e continuare a custodirle nella memoria. La differenza con il nostro mondo è che sono ricette talmente semplici ed essenziali, fatte con ingredienti talmente freschi e cotti per forza di cose in modo espresso, che alla fine dal taco non si può più togliere nulla: è semplicemente perfetto.
Tacos Story: Salsa Roya. Partiamo con la costruzione delle salse. Anche perché, dirvi tutto in un solo articolo sarebbe impossibile, oltre che denigrante per la materia. C'è davvero tantissimo da dire e ne parleremo ancora. Fate pace con questa frase:
Tacos = Cibo dei messicani. Fate questo sforzo e provate ad immaginare il forte legame che il popolo messicano ha con questo piatto. Tutti i messicani mangiano tacos, realisticamente tutti i giorni o quasi. Capirete che, come per il barbecue, le variazioni sono moltissime a seconda delle regioni in cui vi trovate. I tacos non sono una ricetta, sono una filosofia alimentare. La stessa denominazione varia sempre, da città a città, da famiglia a famiglia, da taqueria a taqueria. A differenza dell'italiota medio che combatterebbe una guerra per difendere l'assenza di cipolla dalla carbonara, ogni messicano è invece orgoglioso di avere la propria versione del Taco del suadero o del Cabrito o della Cochinita pibil. Non ne proverete mai due uguali pur avendo lo stesso nome.
404- Almanacco 2020
Io penso che sia una cosa fantastica. Un modo perfetto di preservare appartenenza a un concetto accontentando anche il palato. Le uniche cose su cui i messicani sembrano essere tutti d'accordo sono salse e condimenti. Alcuni sono assolutamente obbligatori. Difficilmente troverete un taco senza cipolla e cilantro, a meno che non ne fate espressa richiesta. Anche le salse giocano un ruolo fondamentale nel taco. Non sono solo un complemento ma parte integrante. Salsa verde, salsa rossa e guacamole considerateli un must in tutto il paese; certo, anche queste in mille varianti. Di base c'è dentro peperoncino, pomodoro, spezie e aceto o succo di agrumi. Sia nella verde che nella rossa. Dire peperoncino in Messico non vuol dire nulla. Ne esistono davvero centinaia di varietà diverse, dai freschi, ai secchi, alle paste agli affumicati. Da quelli dolci a quelli così piccanti da trebbiare, arare e infine asfaltare la lingua anche in piccolissime quantità. La salsa rossa è sensibilmente più piccante di quella verde. Ma parleremo dopo della struttura della salsa. Adesso volevo focalizzare la vostra attenzione su un concetto preciso. Farne a meno vuol dire non sapere e non capire cos'è un taco. Ne sono consapevole, per molti italiani il cibo estremamente piccante non è tollerato. Non siamo abituati. Pensiamo che si perda il gusto del cibo. Questo è vero ma solo in parte. Si perde il gusto del cibo proprio perché noi non siamo abituati. E quasi non lo usiamo nella nostra dieta, figuriamoci anche solo immaginare di includere una salsa preparata con un’intera brocca di peperoncini. Follia.
Uno dei tanti peperoncini amati dai messicani è l'habanero. Non so se siete pratici. Molti sicuramente lo conoscono, la maggior parte credo di no. O se lo conoscono magari non l'hanno mai provato. Come si può descrivere? Immaginate di masticare un cavo attraversato dalla corrente e dovrebbe arrivarvi il senso di ciò che vi sto dicendo. L'habanero appartiene alla famiglia delle solanacee e alla specie Capsicum Chinense. Per capirci, il peperoncino di Caienna o quello lungo calabrese, sono capsicum annuum. I chinense hanno questa forma tondeggiante e arricciata. La differenza tra le specie è data anche dal contenuto di capsaicina, ovvero l'alcaloide responsabile del senso di piccantezza, che si misura in unità scoville. Per darvi un'idea, la classica salsa tabasco ha un valore di piccantezza di circa 30.000 unità scoville. L'habanero rosso arriva alle 350.000 unità scoville. La versione Red Savina dell'habanero, leggermente più piccolo e meno arricciato, è più incazzato che mai e supera le 800.000 unità scoville. L'ibrido più piccante, che non esiste in natura ma è stato creato in laboratorio, è il Carolina Reaper che raggiunge una disumana quota di 2.200.000 unità scoville. Ti si ustionano gli occhi se lo tieni aperto anche solo a 1 cm di distanza. Questo per darvi un'idea di dove posizionare l'habanero. Il punto è che amare i tacos vuol dire prestarsi a delle cose che non conosciamo e cercare di capirle, sforzarsi di comprenderle.
E allora che si fa? Si fa come fanno i messicani con i loro bambini. Mi spiego meglio. Non pensate che il messicano medio sia tanto masochista da ustionarsi la bocca senza motivo. Il punto è che lui ha una soglia di tolleranza al piccante molto più alta della nostra. Perché, notiziona della madonna, è possibile sviluppare l'abitudine al peperoncino, perché il peperoncino crea dipendenza. Occhio che questa è carina. Avete presente tutte quelle sostanze che finiscono per -ina e che creano dipendenza? No? • Coca-ina • Morf-ina • Ero-ina • Anfetam-ina • Efed-rina • Capsaic-ina Bravi. Sono tutti alcaloidi. Compreso l'ultimo che, come detto, è l'alcaloide responsabile della piccantezza. Ed è esattamente così: la capsaicina crea dipendenza alla stessa stregua del tabacco. È una dipendenza blanda, ovviamente. Questo perché quando la mangiamo, in bocca si attiva un particolare recettore del dolore che viene
attivato solo quando la temperatura del cibo è troppo alta. E suggerisce al cervello che ci stiamo scottando. Qui è la stessa cosa. Ma l'attivazione del recettore avviene per via chimica, tecnicamente chemestesica. Il punto è che il dolore genera adrenalina immediata e subito dopo endorfine. Ecco perché ci si sente benissimo dopo essersi "scottati" con i cibi piccanti. Ed ecco perché, sia ometti che femminucce, dopo una sbronza di capsaicina, migliorano le loro performance orizzontali. Quindi il segreto è tutto qui: 1. Non avere paura o timore di questi peperoncini super piccanti. 2. Iniziare ad includerli partendo da poche gocce. Dico sul serio. Il profumo dell'habanero è irresistibile. Non pensate che sia un comune peperoncino. Nient'affatto. Ha un gusto fruttato e agrumato allucinante. Potrei stare ore a sniffarlo. Anche le stesse polveri. Iniziare ad usarlo a piccole dosi vi permetterà di abituarvi a sentire tutte le sfumature di sapore oltre al piccante. Alzerà la vostra soglia di tolleranza permettendovi, piano piano, di aumentare la dose senza perdere in gusto. Insomma, ad ognuno il proprio "frizzichino" che piace e non invade. Ma che ci sia però. E vi garantisco che un po' alla volta, goccia dopo goccia, anche voi arriverete a mettere la salsa rossa di habanero, a cucchiaiate, sui vostri tacos. Il primo che commenta "ma a me non piace il piccante perché copre il gusto e sento solo il fuoco" vince un mese di vacanza su una crociera per vegani.
405 - BBQ4All Magazine
Dire da noi nessuno vende cilantro e allora ci metto il prezzemolo, beh, va bene, ma non stai mangiando un taco, non lo stai capendo. Stessa cosa per la salsa rossa o per l’habanero.
LA RICETTA DELLA SALSA ROJA Ho scritta "la ricetta" ma vorrei che capiste che è una delle possibili ricette. A costo di dirvelo fino allo sfinimento, i messicani non funzionano come noi. Non esiste "la ricetta originale" per loro. Esiste "la mia ricetta che è migliore di qualunque altra". Spero che prima o poi possiate entrare in questa ottica. Anche per un messicano, fare una salsa di soli habanero è decisamente troppo. La salsa rossa contiene, in moltissime delle versioni che potrete incontrare, una buona quantità di pomodoro rosso maturo. I nostri San Marzano sarebbero l'ideale ma scegliete qualsiasi pomodoro carnoso e ben maturo. Ingredienti • • • • •
1 kg di pomodori San Marzano; 1 kg di peperoncini habanero; 2 spicchi di aglio in camicia; 1 cipolla; 1 cucchiaino di aceto di vino rosso; • Olio extravergine di oliva q.b. • Sale q.b. • Cilantro q.b.
406- Almanacco 2020
Si parte con il tostare sia gli habanero che i pomodori sulla plancha. Va bene anche una padella. L'importante è che li tostiate a secco perché dobbiamo bruciacchiarli.In parti uguali in peso. Tanto peperoncino quanto pomodoro. Se avete gli habanero secchi, tostateli lo stesso e poi rinveniteli in acqua bollente. Stessa cosa se avete la polvere. Tostare, lasciare in acqua bollente. Tostate anche i due spicchi d'aglio, in camicia, sempre per abbrustolire. A questo punto siete quasi pronti.
Prendete una cipolla e tagliatela a cubetti piccolissimi. Fatela ammalvire in una padella con un po' di olio. Non tantissimo, a fuoco basso, finché non diventa trasparente. Nel frattempo, aprite gli habanero e togliete i semi. Risparmierete un po' di piccantezza. Tritate tutto nel mixer: pomodori, habanero, aglio e un pizzico di sale. Se serve aggiungete un goccio d'acqua bollente fino ad ottenere una consistenza semi-liquida. Mettete il trito nella padella con la cipolla stufata, aggiungete un cucchiaino di aceto di vino rosso, fate amalgamare per un minuto e la salsa è pronta. Vi raccomando di non togliere la pelle ai pomodori, perché daranno quel gusto di affumicato tipico di molte salse messicane. Mettete in un barattolo, fate raffreddare e, se volete, aggiungete un po' di cilantro tritato per dare freschezza e poi mettete in frigo. Non temete, si conserverà a lungo perché il peperoncino non si lascia aggredire facilmente dai batteri. Usatela a gocce. Non a cucchiaiate. Sentirete quella tipica violenza dell'habanero ma anche tutto il suo gusto fruttato e agrumato, assolutamente delizioso. Usate gli habanero che avete. Occhio con i chocolate: quando li tostate, è difficile distinguere il momento in cui li avrete fulminati con il calore. Iniziate ad usare la salsa roja dappertutto. Ovunque ci sia carne, qualche goccina ci sta benissimo. Vedrete che con il tempo inizierete, piano piano, a usarne sempre di più.
Tacos Story: La Salsa Verde. Assieme alla rossa, è un’altra salsa irrinunciabile quando si parla di tacos. Quando leggete salsa verde dovete leggere acidità. E noi sappiamo bene quanto sia importante l’acidità nei piatti a base di carne grassa. È sensibilmente meno piccante della salsa rossa ma contiene comunque peperoncino. Mi tocca rimarcare l’ovvio ma è importante: Non esiste LA ricetta della salsa verde ma esistono un miliardo di variazioni che, di fatto, rende impossibile trovarne due uguali. Solitamente si usano peperoncini Serrano, ma anche lo jalapeño è molto comune. Rigorosamente raccolti verdi, non ancora al pieno della loro piccantezza ma con quella freschezza di peperone deliziosa.
Non è raro trovare sia la versione cruda che cotta della salsa verde. Son due sapori diversi e due colori diversi. Quella cotta ha un tono un po’ più spento e un’acidità più mitigata. Quella cruda è di un verde brillante e molto più acida e piccante.
407 - BBQ4All Magazine
La base della salsa non è il pomodoro verde, anche se può essere un degnissimo sostituto qui in Italia, ma il tomatillo. Appartiene sempre alla famiglia delle solanacee ed è più simile all’alchechengi, il fruttino giallo esotico. È una sorta di pomodoro racchiuso in una foglia, acido a bestia.
Ingredienti • 600 g di tomatillo (o pomodoro verde) • 4 Peperoncini serrano (o jalapeño) • 1 cipolla bianca • 4 spicchi di aglio • Cilantro q.b. • Sale q.b.
408- Almanacco 2020
Gli ingredienti per la salsa sono pochissimi: Tomatillo (o pomodoro verde), peperoncino serrano (o jalapeño), cipolla, aglio, cilantro, sale. Nella versione cotta si mettono tomatillo e serrano a bollire in
acqua oppure a tostare sulla plancia, come per la rossa. Poi si mette tutto nel frullatore e si crea la salsa aggiungendo un po’ d’acqua per aggiustare la consistenza. Nella versione cruda si trita tutto da crudo ed eventualmente si aggiunge acqua bollente per aggiustare la consistenza. Non so dirvi quale sia più buona, hanno consistenze diverse e sapori differenti. Visivamente è più bella quella cruda ma è, appunto, solo questione visiva.
Come vi avevo annunciato, lo scopo di questa salsa è dare freschezza. E un taco non è un taco se da qualche parte nei paraggi non c’è la salsa verde. Mangiata da sola può sembrare un po’ blanda, ma unita ad un pezzo di carne con un po’ di grasso crea una sinfonia bestiale di goduria gastronomica. Ne esiste una versione che prevede anche l’aggiunta di un avocado, parliamo della terza e ultima ricetta della santissima trinità delle salse per tacos.
TacoStory: Salsa taquera de aguacate. E no, non è il guacamole.
Il guacamole spesso contiene anche del pomodoro a cubetti, è più solida e si ottiene schiacciando gli avocado maturi nel mortaio. Accompagna quasi sempre le tortilla chips ed è più un dip che una salsa. Ovviamente è ottima anche per accompagnare i tacos. La salsa de aguacate è più liquida. È piccante, perché contiene spesso peperoncino jalapeno o serrano verde, ed è il tocco perfetto di acidità, pungenza e untuosità, ideale per accompagnare i tacos di carne che, notoriamente, contengono una grande quantità di grasso di cottura. Abbiamo già ampiamente discusso della ricetta del Guacamole. Ne abbiamo anche fatta una versione scientifica, il GianfraMole, che trovate nel BBQ4All Magazine di Agosto. La salsa de aguacate si fa con il tomatillo, il quasi pomodoro
verde che abbiamo visto per la salsa verde, peperoncino, un po’ di cipolla, aglio, sale, cilantro, lime e chiaramente avocado. Si frulla nel mixer ed eventualmente si aggiusta per renderla un po’ più liquida e vellutata, a differenza del guacamole che ha struttura disomogenea, solida e grossolana. Ingredienti • 6 tomatillo maturi • 4 peperoncini serrano • 12 mazzetti di cilantro • 1 cipolla bianca • 1 spicchio d’aglio • 1 avocado maturo • Il succo di 1 lime • acqua q.b. • sale q.b. È molto diffusa nelle regioni centrali del Messico, quasi sempre la trovate nelle taquerie che servono i leggendario Tacos al Pastor, che ricorda un po’ il Kebab (ma poco). Personalmente adoro entrambe le versioni ma devo dire che per i tacos di carnitas, barbacoa e ovviamente al Pastor, questa salsa, più qualche goccia della rossa, è un must irrinunciabile. Provate a rifarla e cercate il vostro equilibrio sul piccante. È perfetta, tra l’altro, per il pulled pork o per un tacos di Pepper stout. Il mio consiglio personalissimo è di usarla con un taco di fegato e cipolle. Vi spacca davvero la faccia.
Gianfranco Lo Cascio
409 - BBQ4All Magazine
Un’altra immancabile salsa per i tacos è la salsa di avocado. C’è tanta controversia su questa salsa, anche fra i messicani. C’è chi si scommette la madre affermando che questa salsa è di fatto guacamole. C’è chi invece lotta per dimostrare che sono due cose diverse. C’è anche chi la fa, ma senza avocado. Insomma, un bel casino. La realtà dei fatti è che a seconda delle regioni in cui ti trovi salsa guacamole e salsa de aguacate non sono la stessa cosa. La verità è che le due varianti esistono e hanno una struttura e un sapore diverso.
A spasso nel tempo in compagnia del
MAIALE NELL'ANTICHITĂ&#x20AC;
illustrazione tratta dalla locandina della Festa del Nino - Luna Pork - edizione 2019
410- Almanacco 2020
Portfolio Gastronomico a cura di Alberto Zonghetti
“L’argomento del tuo prossimo articolo per il magazine di Novembre è il maiale, la sua evoluzione nella storia e in cucina. So che l’argomento è vasto, ma scegli tu in che direzione muoverti” mi dice il caporedattore Michela Bongiorni. “Perfetto” - ho pensato tra me e me contento ma preoccupato: ci vorranno un paio di mesi di lavoro intensivo, come minimo; e quanto dovrà essere lungo? Serviranno una ventina di pagine come minimo, forse un dossier extra da allegare al magazine, con copertina in setole suine…
Ultimo passaggio per entrare finalmente dentro al pezzo: la notte del 21 ottobre, alle ore 03.15, il pargolo minore (il terzo per chi non lo sapesse) decide – come accade spesso, purtroppo – che per lui è giunta la mattina: inizia a gridare festante saltellando dentro al suo lettino. Apro faticosamente gli occhi per chiamare mia moglie, ma la visione di lei praticamente svenuta sul letto – la notte precedente era stata sveglia diverse ore – mi induce a prendere in mano la situazione. Afferro l’adorato erede e provo a riaddormentarlo. La faccio breve: il procedimento si protrae per circa un’ora, nella quale cerco di riordinare le idee per la stesura dell’articolo. Si susseguono nel dormiveglia immagini di ere passate, macchine del tempo, banchetti, sacrifici rituali, suini allo stato brado. Ad un certo punto, credo di essermi addormentato seduto sul letto col pargolo in braccio, vedo l’astronauta del manifesto che si anima, mi saluta, si presenta: è Capitan Porcello, viaggiatore e guardiano della Macchina del tempo: sarà lui a guidarmi nei secoli per rivivere qualche breve frammento di storia suina, avvertendomi però che, a causa di un’anomalia di funzionamento, il viaggio potrebbe essere frammentato e poco lineare. MI sveglio, confuso e stordito: ripongo l’erede nel suo lettino, fiero di averlo stecchito. Ripenso alle visioni oniriche appena esperite, mi stendo sotto le coperte pronto a godermi il meritato riposo ma… all’improvviso il pianto dell’infante mi riporta alla cruda realtà. “Ma porca di quella maiala tr**a!”. La moglie si sveglia, missione fallita. Continuo ad imprecare, il pupo viene allattato, alla fine mi assopisco. Ma la mattina seguente, al risveglio, tutto è chiaro: Capitan Porcello ci guiderà in questo viaggio, un po’ come Virgilio seguì Dante nella “Divina Commedia”. E scopriremo che anche le mie volgari imprecazioni hanno un significato molto interessante. Pronti? Andiamo!
411 - BBQ4All Magazine
Ecco, considerando quanto già scritto sull’argomento, ho visto il mio contributo quasi offensivo e poco utile, ma non avevo fatto i conti con l’imprevisto. Ho iniziato, come sempre, a documentarmi e ad approfondire l’argomento, raccogliendo diverse fonti interessanti. Fino al 21 ottobre, data fondamentale per i nostalgici cinefili: è il giorno in cui Marty Mc Fly, protagonista della saga “Ritorno al futuro”, approda nel 2015. Qualche giorno prima avevo visionato assiemi ai miei figli il lungometraggio animato “Mr Peabody e Sherman”, anch’esso legato all’idea del viaggio attraverso le ere precedenti alle nostre. Non iniziate a dirmi “che c’entra il maiale?”; seguitemi, arrivo al dunque. Nelle Marche, regione nella quale vivo, da quasi vent’anni si organizza uno straordinario evento chiamato “Festa del Nino”, incentrato appunto sulla figura del maiale, della quale vi parlerò più tardi nel dettaglio. Il taglio di questa festa è assolutamente originale, ironico, fuori dagli schemi: il filo conduttore di ogni edizione è legato ad un evento caratterizzante l’anno in corso. Se nel 2019 si ricordava lo sbarco sulla Luna avvenuto cinquant’anni prima, il tema non poteva essere che “Luna Pork”, come potete vedere dalla magnifica locandina.
FENOMENOLOGIA DEL PORCO “Prima di iniziare il nostro viaggio surreale - esordisce Capitan Porcello, dotato di notevole acume intellettuale ed invidiabile eloquio - condividiamo alcune riflessioni”. “Porco” è un’offesa, un attributo da affibbiare all’interno di un’ingiuria, sinonimo di ignoranza, ingordigia, sporcizia, lussuria, egoismo, godimento sfrenato, o addirittura parte di un’espressione blasfema. L’epiteto “maiale” non è da meno, anche se può acquisire un’accezione meno offensiva all’interno di un discorso più leggero e colloquiale. Maiala, scrofa, porca o, peggio, troia, alludono inequivocabilmente alla sfera sessuale femminile con riferimenti ad un riprovevole disordine morale. Potremmo continuare a lungo, dato che anche in altre lingue accade lo stesso fenomeno: pensiamo al “pig” che in terra anglosassone viene rivolto come insulto ai poliziotti; o alla “Fattoria degli animali” di George Orwell, capolavoro distopico nel quale gli animali si ribellano alla dominazione umana solo per ritrovarsi oppressi proprio dai suini.
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In ogni caso, l’immagine che gli uomini hanno del maiale è il suo rotolarsi nel fango in mezzo ai propri escrementi; l’odore che abbiamo inalato nelle vicinanze di una porcilaia non si dimentica facilmente. Eppure il nostro amico sarebbe un animale pulito, in presenza di acqua corrente; il problema è che, non potendo sudare, tenta di trovare refrigerio con quanto ha a disposizione, ovvero liquami di vario tipo. Non dimentichiamoci però che “del maiale non si butta via niente”: il suino è anche una dispensa vivente, una risorsa incredibile dal punto di vista gastronomico. Ciò che si ricava dal nostro animale è inoltre straordinariamente saporito, gustoso, opulento, nutriente: carni, salsicce, insaccati, lardo, fegatelli etc… una vera “maialata”, appunto. E allora? Perché questa duplicità? Forse perché l’uomo spesso nomina ciò che ama, che fa parte della sua esistenza, della sua storia; ma nomina anche ciò che teme. Infatti il maiale ci accompagna da millenni e la sua ambivalenza è sospesa in un simbolismo che lo fa oscillare tra significati positivi, addirittura salvifici e accezioni negative, peccaminose. Del resto, forse, accade che a volte ciò che è troppo gustoso, appetibile, inneschi un certo senso di colpa…
AGLI ARBORI DELLA CIVILTÀ
E’ buio, non vedo nulla, è freddo, un forte odore di chiuso e di umidità mi fa rabbrividire. “Capitano, dove siamo?” grido mentre il suono rimbomba ed echeggia nelle tenebre. “In Spagna, nelle grotte di Altamira, guarda!”. Accende una torcia e rimango stupefatto: di fronte a me ammiro le famose e antichissime pitture rupestri risalenti a circa 40.000 anni fa. Le conosco, sono un emblema dell’arte preistorica che propongo sempre ai miei studenti, ma non sapevo che si trovassero anche rappresentazioni del suino. “Pensa – mi indirizza la mia guida –, si crede che la storia del maiale cominci addirittura 50 milioni di anni fa." Queste sono le immagini dei progenitori del maiale; si trovano ancora allo stato brado e devono essere cacciati. I maiali di tanto tempo fa assomigliavano molto al cinghiale: il loro corpo era coperto da setole più lunghe e folte, il loro muso era più lungo e a punta, le spalle erano più robuste ed il loro colore più scuro per confondersi nel sottobosco. Gli uomini iniziarono ad allevare il maiale circa 5.000 anni prima di Cristo, durante la “rivoluzione neolitica”, nella quale si passa dalla società nomade a quella stanziale, e fu una grande scoperta: meno fatica, poco impegno dato che il nostro amico mangia di tutto e aumenta velocemente di peso. In effetti, adesso che ci penso, mi ricordo di aver letto di alcune immagini rupestri di soggetti suini ritrovate in Indonesia e nello Zambia. Anche in Cina troviamo testimonianze di una prima domesticazione: praticamente era pre-
sente in tutti continenti, o quasi. Il maiale raggiunse ben presto anche il Golfo persico, la Mesopotamia ed infine il Mediterraneo orientale. I vari popoli del medio oriente, ne avevano un rapporto alquanto contradditorio: gli arabi ne disprezzano la carne, gli ebrei lo ritenevano un animale immondo (troviamo indicazioni precise nella Bibbia, anche se il maiale era allevato per uso commerciale), mentre assiri e babilonesi lo tenevano in grande considerazione. Anche presso il popolo egizio troviamo alcune fonti che lo considerano un tabù alimentare; nonostante questo troviamo quantità di ossa suine in diversi villaggi, prova evidente che almeno fra i lavoratori questo animale costituiva una parte consistente della loro dieta. Tra l'altro si trova citato in diversi testi letterari ed è rappresentato nelle arti figurative lungo tutto il corso della civiltà egizia. La scrofa con i lattonzoli fu interpretata come un aspetto della dea del cielo Nut che ogni mattina generale stelle per poi ingoiarle la sera. Solo in tarda epoca il maiale venne percepito come un essere negativo e malevolo fino a venire considerato l'incarnazione di Seth il dio della confusione del caos e assassino di Osiride. Volete avere un’idea della cucina egizia? Le fonti ci dicono che erano poco diffusi gli stufati di carne, ma parlano spesso di braciole di maiale, fatte macerare per qualche ora con olio, sale, cipolla; cotte alla griglia o alla piastra (pietre rese roventi dall’esposizione al fuoco) e unti ripetutamente, durante la cottura, con la loro salamoia. Oppure sappiamo d e l l a
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La macchina del tempo di Capitan Porcello non assomiglia per nulla a quelle che vediamo nei film, caratterizzate da strutture futuristiche in metallo e leghe sconosciute, con schermi e visori interattivi. E’ un vecchio trattore da campagna con la cabina arancione opaco e i vetri oscurati. Punto. Entriamo, c’è posto a malapena per due: il comandante gira la chiave, il motore si accende ed arranca, sembra sempre in bilico tra lo spegnersi e l’esplodere. “Ci siamo!” grugnisce soddisfatto; “questa è la leva del tempo”, mi indica quello che sembra il cambio: “non è preciso e non sempre funziona ma…in ogni caso, si parte!
grande diffusione della carne suina salata: tagli morbidi e senza osso, coperti abbondantemente di sale, aglio, coriandolo; poi fatti essiccare al sole. Spostiamoci dall’ Egitto verso il Mare Egeo; anche all’interno della cultura greca troviamo questa duplicità dell’immagine suina.
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Il celebre poeta Omero, nei suoi capolavori dell’Iliade e dell’Odissea, riporta numerosi riferimenti ai maiali, ne accenno solo un paio: la maga Circe che trasforma i compagni di Ulisse in maiali, dopo averli sedotti con la sua bellezza. E il
ritorno dell’eroe a Itaca dopo oltre venti anni: la prima persona che incontra è Eumeo, il guardiano dei porci, assieme al quale sacrifica un suino come ringraziamento. Maiale come casa dunque, rifugio caldo e sicuro, come nella mitologia cinese. Ma a tavola? Era sicuramente molto diffuso nell’allevamento e nell’alimentazione, dato che era il cibo meno costoso. Le preparazioni riguardavano la cottura alla brace e allo spiedo, anche se non mancavano altre opzioni. Infatti gli Spartani consumavano essenzialmente stufato di maiale, il fa-
moso "brodo nero", una sorta di spezzatino preparato con sale, aceto e sangue di maiale: era servito con maza (una sorta di gallette di farina d’orzo) fichi e formaggio, a volte aggiungendo selvaggina e pesce. Secondo Plutarco, era "talmente apprezzato che gli uomini anziani si nutrivano solo di quello, lasciando la carne ai più giovani". Qualsiasi persona proveniente da un’altra polis non apprezzava per nulla questo piatto, considerato troppo forte ed immangiabile.
ROMA CAPUT MUNDI
Mi ritrovo davanti ad una statua in marmo bianco che raffigura una donna con una lunga veste, seduta, con un velo che le cinge il capo. “Iniziamo da qui” esclama il Capitano. “Chi è costei?” “La dea Maia, adorata dai Romani come un'antica dea della fecondità e del risveglio della natura in primavera. Il mese di Maggio era a lei dedicato, pertanto i sacerdoti le offrivano in sacrificio una scrofa (in latino “sus”) gravida, in modo che anche la terra fosse generosa di frutti. Quindi il nome “maiale” potrebbe derivare dal latino “sus maialis”, scrofa offerta a Maia. Lo sapevi? “Ehm, certamente – arranco verbalmente con malcelato imbarazzo – come non potrei?” Cambio discorso, colpito da questa chicca di cultura etimologica. “Come era la situazione nell’Urbe?” “Direi buona”, dice il Capitano iniziando la sua dissertazione. Sappiamo da diverse fonti, come Plinio il vecchio e Giovenale, che ogni anno venivano inviati dall’Etruria a Roma almeno 20.000 suini, destinati primariamente alla produzione di prosciutti, base dell’alimentazione di facchini, gladiatori e soldati delle legioni. L’allevamento suino era quindi dunque molto diffuso e la sua carne molto apprezzata, anche dagli Etruschi. I romani utilizzavano la salagione e l’affumicamento per la conservazione delle carni come già praticato anche dai greci; i nostri progenitori, inoltre, sono stati i primi ad utilizzare gli insaccati, in quanto dopo aver conquistato la Lucania, trovarono un salume chiamato “lucanica”, l’antenato della nostra salsiccia; da allora lo utilizzarono con assidua frequenza, introducendolo soprattutto nella zona corrispondente all’odierno Veneto. Plinio il Vecchio racconta che si conoscevano ben cinquanta differenti modi per preparare le carni del maiale. Anche Petronio, nei racconti delle cene a casa di Trimalcione, si riporta che i romani impazzivano per il piatto prelibato di “Porcus trojanus”, che consisteva in un maialetto ripieno di uccelletti, ver-
dure, salse varie e cacio: una vera esplosione di gusto! Ma la “Bibbia” culinaria dell’antica Roma è il celeberrimo trattato di cucina “De Re Coquinaria” di Apicio, noto cuoco, gastronomo e scrittore. Leggendo il testo notiamo che le preparazioni a base di carne di maiale sono decisamente prevalenti rispetto a quelle di altri animali. Da citare il Pasticcio di Apicio, una sorta di complesso antenato della nostra lasagna che prevedeva strati di sfoglia alternati a polpa di maiale, pollo, pesce e altro, ricoperto infine di pinoli e pepe; le polpette di fegato di maiale; le braciole alla ostiense a alla apiciana, tuttora riadattate alla nostra cucina e cavallo di battaglia di diverse “cene archeologiche”; molto apprezzati e diffusi erano gli arrosti di suino, sempre lavorati con salse intense a base di “garum” e mosto. Terminiamo citando lo stesso Apicio: ““… per conservare le cotenne di maiale e gli zampetti cotti, immergili fino a coprirli, nella senape fatta con aceto, sale e miele e quando vorrai li potrai usare: rimarrai meravigliato ed estasiato dalla raffinata bontà!” Cosa simboleggiava, infine, il maiale presso il popolo romano? Nell’Eneide di Virgilio, i riferimenti ai suini indicano che sono animali graditi dagli dei ed ottimi per i sacrifici rituali. All’eroe fu suggerito in sogno dal dio Tiberino che sul suo cammino avrebbe trovato un scrofa bianca con trenta piccoli, segno che in quel luogo il figlio Ascanio avrebbe fondato trent'anni più tardi una città e l'avrebbe chiamata Albalonga. Nelle campagne romane, e più tardi anche durante la cerimonia finale del censimento, era spesso praticato la “suovetaurilia”, un sacrificio a scopo di purificazione e ringraziamento, di un suino (di solito una scrofa), un ovino ed un toro: i tre animali venivano condotti con una solenne processione al luogo che si doveva purificare e poi uccisi secondo le sacre prescrizioni.
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Il trattore…cioè, la macchina del tempo, ha un improvviso sussulto, la cabina inizia a vibrare. “Che succede?” grido preoccupato. “E’ ora di cambiare era – annuncia il Capitano – avanti tutta verso la capitale del monto antico!”.
IL MEDIOEVO
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Nel 476 dopo Cristo cade l’Impero romano d’Occidente. Le popolazioni barbariche invadono i territori romani e tutto cambia: da un assetto prevalentemente agricolo e molto organizzato, si passa ad una diffusione delle aree più boschive ed incolte, ottime per l’allevamento allo stato brado del maiale. I barbari d’oltralpe, inoltre, popoli seminomadi, consideravano la carne come il cibo migliore, soprattutto quella suina. Per farla breve, il maiale nell’”età di mezzo” diventa la risorsa alimentare più importante, il principe della tavola medievale, secondo solo rispetto a sua maestà la selvaggina. I maiali di questo periodo erano però ben diversi da quelli attuali: piccoli, magri, snelli, abituati alla vita dei boschi e incrociati con i cugini selvatici, i cinghiali. Al grande successo alimentare, non corrispose una positività dell’iconografia suina: simbolo benevolo della religione pagana, l’immagine del porco venne demonizzata ed associata al
peccato: lussuria, sporcizia, invidia, avarizia… povero porco, che tanto aveva sfamato e saziato nell’antichità! Ci fu però un santo, Antonio abate, che contribuì al riscatto del povero suino. Grande eremita del cristianesimo ascetico, visse verso la metà del III secolo dopo Cristo: durante i suoi lunghi periodi di eremitaggio e isolamento nel deserto (tra il Mar Rosso e la Palestina) subì innumerevoli tentazioni, rappresentato dagli artisti attraverso l’immagine del maiale, incarnazione dei vizi. Fin qui tutto è in linea con quanto abbiamo già detto. Ma nell’XI secolo, durante una gravissima epidemia di ergotismo (il cosiddetto fuoco di sant’Antonio, che all’epoca era mortale e causava cancrena del corpo e allucinazioni sensoriali), nei pressi delle reliquie del santo (in Francia meridionale), venne utilizzato il lardo per curare la malattia: le guarigioni furono numerose e miracolose.
Da allora Sant’Antonio divenne il protettore invocato per ogni genere di infiammazione grave, il protettore degli animali, ed associato quindi al maiale; tanto che nelle immagini del santo ormai il binomio Antonio-suino è quasi indissolubile. Per avere un’idea di come era utilizzato il maiale in cucina dobbiamo dare un’occhiata ai frammentari ricettari medievali e anche a quelli del 1400, nei quali troviamo molte preparazioni dei secoli precedenti. Per iniziare, il predominio di lardo e strutto come condimenti è quasi incontrastato, decisamente primario rispetto al costoso olio di oliva. Permane la produzione di salumi ed insaccati, risorsa fondamentale per tutta la popolazione. Degne di interesse in quanto proponibili anche per i nostri palati erano la “Carbonata”, fette di pancetta fresca cotta in padella e aromatizzate con un intingolo a base di aceto, succo di arancia, prezzemolo, zucchero di canna e cannella; oppure il Cormary, una sorta di arrosto di lombata marinato e cotto con vino rosso, aromi, coriandolo e cumino (evidente in questo caso l’influenza araba); l’immancabile maialino ripieno, simile alla porchetta ma molto più speziato; e poi costolette marinate con mosto cotto, cotte alla griglia a calore moderato e spruzzate di succo d’arancia; scaloppine con pancetta, vino e tuorli d’uovo; e le immancabili salsicce, sempre molto speziate e aromatiche.
DALL'ETÀ MODERNA AI GIORNI NOSTRI
Nel Cinquecento, il maiale continua ad essere molto diffuso tra il popolo e perde importanza nei fastosi banchetti aristocratici. Nonostante questo, l’allevamento dei suini progredisce lentamente verso l’addomesticamento rurale, passando in maniera definitiva dai boschi alle stalle verso la seconda metà del ‘700, gra-
zie alla rivoluzione agricola. A seguito degli interventi di numerosi letterati, tra il ‘600 e l’800, l’immagine del porco si riscatta da pregiudizi e tabù negativi e viene nobilitata, anche se in questo periodo troviamo una flessione generale nel consumo di carne, inclusa quella suina. Nel’900, infine, si giunge infine da un punto cruciale: il passaggio dall’allevamento rurale e contadino a quello su larga scala, al servizio dell’industria di lavorazione delle carni suine e dell’approvvigionamento dei mercati urbani. In cucina, dalla fine dell’800, si codifica la tradizione rurale delle preparazioni suine che, unite poi al testo fondamentale di Pellegrino Artusi, costituisce la base dell’uso odierno del maiale nella cucina con-
temporanea, argomento però che esula dal nostro viaggio nel tempo. È interessante notare che la società moderna ha rimesso in discussione il nostro amato porcello, non più simbolo del male, ma nemico della salute, emblema di colesterolo e trigliceridi. Non c’è pace per il quadrupede prima selvatico, poi domestico: che sia religione o salute, è sempre additato come demonio. Fortunatamente in questi ultimi anni stiamo assistendo ad una netta e decisa inversione di tendenza anche grazie alla ricerca scientifica la quale ha dimostrato che la carne di maiale è sicuramente uno degli alimenti più digeribili e completi di cui l’uomo, sempre con buon senso e giusta misura, può cibarsi.
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“Bene – gongola Capitan Porcello – ci siamo quasi, sta terminando il tempo a nostra disposizione”. “Ma… veramente, mancherebbero ancora almeno sette secoli per arrivare ai giorni nostri”. “Si, certo – mi risponde beffardo – ma la parte più interessante è quella che abbiamo già conosciuto. Comunque ascoltami bene mentre ci prepariamo al gran finale…
LA FESTA DEL NINO Ultima tappa: siamo a Castelleone di Suasa, nelle Marche, è la fine di gennaio, di un anno non precisato compreso tra il 2001 e il 2020. Siamo alla Festa del Nino, l’evento dedicato al maiale.
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Chi è Nino? Sant’Antonio, Antonino, Nino: così era chiamato affettuosamente fino a qualche decennio fa, nelle campagne marchigiane, il maiale, la “dispensa vivente” per la famiglia del contadino. E cosa è la festa del Nino? Innanzitutto è un occasione per leggere, scrivere, riscrivere, consumare e riprodurre, , quanto di cultura e tradizione il Nino comprende e sottende nel territorio delle alte Marche ma anche altrove; è un catalizzatore dei “sapori”, ovvero dei “saperi”, che attraverso il gusto possono essere letti, scritti e trascritti nello sterminato e mai casuale mosaico di tradizioni alimentari che si distende vivo sul territorio; è’ l’alfabeto della “cultura che nutre” che la tradizione s’incarica di trasmettere, la vita di usare ed il gusto di leggere. Abbiamo finito il tempo, vi propongo solo alcuni manifesti per coglierne la forza ironica, dissacrante, geniale e allo stesso tempo strettamente legata alla tradizione in maniera arcaica, viscerale. Concludo con una citazione di Ivo Picchiarelli, fondatore ed ideologo della Festa del Nino, che fornisce lumi e spiegazioni alla mia volgare imprecazione che trovate all’inizio dell’articolo.
"La porca era la vittima per eccellenza dedicata alla dea Cerere altrimenti detta Maja o, in Grecia, Demetra ovvero la Dea Madre. Era, altresì, dedicata e offerta a Tellus, la Terra, affinché proteggesse e nutrisse le sementi. Così a Cerere-Maia nel mese a lei dedicato, Maggio, il mese del diventar Maggiore, veniva offerta la porca praecidanea (ovvero di prima del taglio delle messi) detta maiala, perché dedicata alla dea Maia. Inoltre, il modo per eccellenza dell’offerta in maggio della porca alla dea alla quale era dedicata era quella di cuocerla, appunto, “in porchetta” (non a caso, infatti, la porchetta è femminile essendo la porca, e non il porco, l’offerta alla dea) ovvero more troiano. Infatti, cotta tutta intera, così come il cavallo di Troia era riempito di Greci, similmente la porca maiala, cotta in porchetta, era piena di fegatelli ai quali i Romani aggiungevano anche tordi, uova sode ecc. Così, la porca maiala acquistava un altro attributo, quello di troiana che a sua volta si è sostantivato in troia. Pertanto la porca maiala troia è la sintesi dei sinonimi della scrofa dedicata alla dea della crescita che è nutrice e della quale con la sua fertilità la scrofa era immagine simbolica oltre che vittima”.
IL FUTURO “Capitano dove siamo finiti?” “Sorpresa! È il 2050” “Ah… spero di non incontrarmi, non voglio vedermi, avrò più di 70 anni…” “Osserva bene” mi dice mesto il mio setoloso Virgilio. Con timore apro gli occhi, rimasti socchiusi fino allora, e vedo distese di campi a dismisura. Verdure, cereali, frutti, poi serre; come fossero città. Nessuna traccia di allevamenti. “Che è successo?” chiedo con voce tremante “Vegani. Hanno vinto. E’ tutto loro. Gli animali allevati producevano inquinamento di ogni tipo. Eliminati dalla produzione, confinati in riserve selvagge, lontani dall’uomo“. “Ma questo è un incubo, dimmi che è uno scherzo”. “No, non lo è affatto” “Ma porca di quella maiala tr**a!
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“Ah no, adesso basta! Va bene, hai ragione, è solo un universo parallelo, una streamline alternativa…”
IdelTaglimaiale negli
in Italia
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illustrazioni di Eleonora Castagna
Infografiche a cura della redazione
Stati Uniti
in Spagna
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illustrazioni di Eleonora Castagna
Ribs
Babye Back St.Louis
...tenere da mozzare il fiato.
Dire “costine di maiale” è facile, ma si apre un mondo che va dai classici nostrani fino ad arrivare ai tagli meno facili da reperire. Anche perché, parliamoci chiaro: mettici il nome che suona strano, mettici l’abitudine e la paura del nuovo, è davvero molto probabile che il nostro macellaio di fiducia faccia resistenza a fornirci quello che abbiamo in mente. Quello di cui parliamo è sempre costato di maiale, ma dalla stessa regione del corpo possiamo ottenere tagli davvero diversi, non solo per la forma della quale potremmo francamente infischiarcene, ma per le caratteristiche sensoriali e gustative, date dai vari fasci muscolari e la presenza di collagene e tessuto connettivo.
Vi va se vi racconto qualcosa di Baby Back e St. Louis, due tra i tagli di pork ribs più interessanti dal punto di vista gastronomico? M a sì, dai. Già le abbiamo imparate a conoscere, ma focalizzeremo l’attenzione su come ottenerle e cosa aspettarci se approcciamo alla cottura come i nostri Grill Master insegnano. Dimenticatevi di costine bruciacchiate e carne tenace, difficile da staccare dall’osso e cominciate ad immaginare qualcosa di diverso, di tenero e succoso. Dico, immaginate: perché purtroppo ora diventerò moderatamente noioso. Tanto per farvi passare la fame partiamo con un approccio anatomico, per contestualizzare un po’ la situazione.
La porzione delle coste che si va ad articolare con la colonna vertebrale, private della carne dell’arista, che troviamo esternamente sopra e a ridosso della colonna vertebrale, sono le Baby Back Ribs. Parliamo di circa 10/12 centimetri di osso, molto incurvato e con una dose generosa di carne posta sulla faccia esteriore dell’osso. Tendenzialmente, se ci si approccia alla cottura con tutte le dovute accortezze, saranno abbastanza tenere, adatte ad una cottura più breve rispetto alle Spareribs, che sarebbe tutta la restante parte del costato, dopo che abbiamo sezionato longitudinalmente e asportato tutta la parte delle Baby Back. Dunque le Spare ribs sono un grosso taglio che comprende sia le porzioni ossee sia quelle cartilaginee del costato. Da queste, andando ad asportare la parte cartilaginea, le Rib Tips, e il Flap, quella porzione distale di carne senz’osso e lo Skirt dalla parte interna, otteniamo una forma rettangolare, abbastanza piatta perché abbiamo eliminato le parti che conferiscono la curvatura al costato. Questo taglio è il St. Louis e si presta bene a cotture più lunghe e temperatura inferiore con lo scopo di gelatinizzare il collagene e restituire succulenza.
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Ci troviamo nella regione toracica, e le coste sono delle ossa arcuate (curvatura molto pronunciata nei suini a differenza dei bovini) ed allungate che si articolano alle vertebre toraciche. Ogni vertebra ha una coppia di coste per un totale di 14/15 coppie. Ogni costa è composta da una porzione ossea ed una cartilaginea. La porzione ossea è quella che si articola dorsalmente con la colonna vertebrale e prosegue ventralmente, quella cartilaginea si articola con lo sterno per le prime 7 coppie (coste sternali), mentre per le altre 7-8 coppie (asternali) si articolano cranialmente con la costa precedente. Questa è la base ossea, ma noi mangiamo la ciccia, che poi sappiamo essere i muscoli, vi risparmio l’elenco di nomi ma un ragionamento facile bisogna farlo: nella parte interna del costato troveremo la pleura, un tessuto connettivo che, come abbiamo imparato frequentando il mondo BBQ4All, non è mai proprio gradevole da masticare. Parlo più di ossa che di carne, perché in realtà sono quelle che ci guidano nel taglio. Ora che abbiamo tutto un po’ più chiaro vediamo come sono posizionate le Baby Back e le St. Louis.
DUE SLAB E UN'ANIMA DA DUROC
Baby Backs vs St. Louis Al bbq o al forno? Facciamo entrambi.
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Approfondimento Tecnico a cura di Michela Bongiorni e Emiliano Nencioni
Dite la verità: è vero o no che vi siete avvicinati al mondo delle cotture bbq dopo aver assaggiato - durante un viaggio all’estero, o in un locale a tema, o in una sagra, o in un evento scoperto per caso - le mitiche Ribs all’ammmeregana? Ok, forse qualcuno risponderà di no, che prima ha assaggiato il Brisket o il Pulled Pork, ma vi assicuriamo che per molti lettori è andata proprio così: un giorno si sono ritrovati fra le mani quell’ossetto con carne succosa e affumicata, ricoperta da una salsa barbecue dolce e piccante e, abituati a decenni di rosticciana dura e carbonizzata, hanno avuto un’epifania. Ma allora le costine possono essere buone! Ma allora hanno davvero della carne attaccata all’osso! Quindi fino ad ora non ho mai veramente vissuto! Probabilmente conoscerete il geniale scrittore americano Chuck Palhaniuk. Ebbene, in Soffocare scrive, a proposito di una pratica sessuale ben precisa, che anche la peggiore delle performance è comunque meglio della più profumata delle rose, del più fantastico dei tramonti e della risata dei bambini. Ecco, con le costine c’è un po’ lo stesso effetto: prendete un amico abituato alle grigliate all’italiana e dategli le ribs fatte nel peggior modo possibile e lui le troverà comunque più buone di qualsiasi rosticciana a prova di dentiere forti mai assaggiata fino a quel momento. E probabilmente anche lui preferirà quella ciccia alle rose, ai tramonti e ai pargoletti felici. Ma questa è un’altra storia. Ebbene immaginate adesso cosa succederà se, invece di servirgli ribs fatte allacà gli metterete tra le mani le costine migliori mai cucinate. Vi piace l’immagine? La state visualizzando? Ecco, noi siamo qua per renderla reale.
Si fa presto a dire Ribs. Sì, ok, facciamole: ma di cosa stiamo parlando? Qual è la differenza tra i due tagli che vi stiamo presentando oggi? Per semplificare molto la questione, partendo dall’osso spinale della bestia, dove le costole sono più piccole e incurvate, si ottiene il taglio Baby Back. Il taglio St. Louis si ottiene da quello Spare Ribs: quest’ultimo è ricavato partendo dal taglio finale delle Baby Backs fino ad arrivare allo sterno: pareggiando i bordi e togliendo l’eventuale pezzo di carne sporgente presente sul retro, che attraversa la slab diagonalmente, si ottiene dunque il famigerato St. Louis. Che differenza c’è tra i due tagli? Mentre nel primo (Baby Back) le costine presentano più carne sopra l’osso e sono sensibilmente più tenere e succose, nel secondo (St. Louis) le ribs hanno più carne tra un osso e un altro e sono più ricche di tessuto connettivo. Questa differenza, letta sulla carta, potrebbe farvi pensare che le Baby Backs siano la scelta migliore sempre e comunque. In realtà, quando si parla di costine, si entra in un regno in cui il gusto personale di ognuno di noi pesa moltissimo sulla scelta sia del taglio che del metodo di cottura, senza trascurare i sapori: c’è chi le preferisce più tenaci (nel significato migliore del termine, ovvero non dure o gommose, ma che presentino al morso una certa resistenza senza sfarsi del tutto, pur preservando morbidezza e succulenza), c’è chi invece vuole proprio che si stacchino dall’osso e si sciolgano in bocca come burro; c’è chi le ama caramellate e laccate, chi le preferisce con sapori più puliti, chi le ricopre di salsa come se non ci fosse un domani e chi sceglie solo sale, pepe e limone. Certamente, tutti quanti concordano su una cosa: quella rosticciana secca e stoppacciosa a cui ci hanno abituati fin da bambini è esattamente l’unico vero modo in cui NON debbano essere fatte. Indicativamente, quindi, se appartenete al popolo di quelli che preferiscono le ribs più compatte e resistenti al morso, scegliete le St. Louis; se al contrario avete aderito al team di coloro che amano le costine che sbrodolano e si sciolgono in bocca, scegliete le Baby Backs. Se siete golosi come noi, provatele entrambe e festa finita.
Forno o bbq?
Tuttavia, sarebbe profondamente ingiusto se la mancanza di un dispositivo bbq vi impedisse di poter mangiare, con qualche compromesso, delle ottime ribs: per questo motivo oggi le prepareremo in
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Ovviamente, se parliamo del tradizionale American Barbecue, le ribs degne di questo nome non possono non avere i seguenti parametri: una crosticina gustosa e croccante (chiamata bark in gergo tecnico), un aspetto molto pulito con un bel colore scuro senza bruciature e soprattutto uno spiccato sentore di fumo (smoky flavour). Va da sé che questo tipo di preparazione non può prescindere dalla cottura bbq.
entrambe le versioni dimostrandovi che anche nel forno di casa il risultato sarà senza ombra di dubbio “wow”. Quindi, non vi resta che recuperare sul Megastore il taglio delle ribs che preferite di maiale Duroc, una confezione di Sal’s Seasoning Tennessee rub, una di Sal’s Seasoning Ultimate SPOG, due o tre cucchiai di paprika dolce, olio di semi quanto basta e la miglior salsa barbecue brillante e laccata che possiate trovare (per caso avete sentito parlare della Sal’s Seasoning KC Glossy? No? Ahiahiahi!)
Al BBQ.
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La prima cosa da fare, valida per entrambi i metodi di cottura, è quella di togliere la pleura polmonare, quella pellicola che trovate sul retro delle slab, che al morso è onestamente fastidiosa. Aiutandovi con il manico di un cucchiaino o con uno strumento simile non tagliente, sollevatela quel tanto che basta per poterla poi strappare via come se fosse un adesivo. Con un coltello molto affilato, poi, rimuovete eventuali brandelli di carne che si brucerebbero in cottura, facendo
attenzione a non andare troppo a fondo e a non scoprire l’osso. Diciamo che le slab sottovuoto del nostro Megastore sono già rifilate e tagliate con cura, quindi questa operazione di pulitura (in gergo trimming) sarà veloce e quasi non necessaria. Finita questa operazione, ungete leggermente di olio di semi (ha un punto di fumo più alto e non altera il sapore delle ribs) le due slab e poi cospargetele di rub Tennessee in uno strato regolare, uniforme e non eccessivo. Come avrete letto più volte in Community, NON dovete esagerare col rub pensando che, mettendone di più, otterrete uno strato di bark più alto. Non è così. Mettendone troppo il rub si bagnerà, non diventerà affatto croccante e si attaccherà ai denti al primo morso. A questo punto, non vi resta che accendere il vostro dispositivo, predisponendolo per una cottura indiretta, stabilizzarlo a una temperatura di 110/120°C e poi appoggiare le vostre ribs sulla griglia di cottura, dalla parte opposta delle braci. Piccola digressione: noi, a questo giro, abbiamo detto sì al waterpan e no al foil. Niente panico, vi spieghiamo subito il significato di questi termini oscuri: abbiamo messo una vaschetta di alluminio riempita per tre quarti con acqua al livello della griglia carbone, accanto alle braci accese
due/tre ore: aprire il coperchio per vedere se è tutto a posto. State tranquilli, godetevi le birre e rilassatevi. Noi per arrivare a cottura ci abbiamo messo circa sei ore per entrambe le slab. Come capire se le ribs sono pronte? Uno dei metodo migliori è il bend test: con una pinza capovolgete la slab sopra la griglia e poi afferratele per le prime tre ossa. Sollevatela e guardate: se si piega bene e nel punto di flessione la carne comincia a lacerarsi, le ribs sono cotte. Toglietele dal dispositivo, laccatele con la salsa barbecue e tagliatele. Noterete che si sarà formato un anello di un color rosa intenso brillante appena sotto la crosticina: niente paura, si tratta dello smoke ring, un cambiamento di colore dovuto ad una reazione chimica che avviene durante la cottura, i cui principali responsabili
Ok, siamo pronti per partire: prima di chiudere il coperchio del vostro dispositivo, assicuratevi di aver introdotto il vostro legno aromatico preferito sotto forma di chunks (pezzi di legno) o di chips (petali di legno), appoggiati sulla griglia delle pietanze, accanto alle ribs, in corrispondenza delle braci. Il legno non deve bruciare, ma consumarsi lentamente. Se optate per le chips i pezzi più piccoli potrebbero cadere sui carboni, ma non vi preoccupate, si bruceranno praticamente subito e non succederà nulla. Noi abbiamo messo chips di ciliegio. Chiudete il coperchio e armatevi di pazienza. Una cosa non dovete fare, almeno durante le prime
sono il monossido di carbonio (CO) e monossido d’azoto (NO). Entrambe queste molecole gassose sono in grado di penetrare per qualche millimetro nella carne, diffondendosi attraverso i succhi e legandosi alla mioglobina. Se avete dosato bene il fumo, e siamo sicuri di sì, al morso sentirete un sapore bilanciato: lo smoky flavour che non sovrasta il sapore delle ciccia, la dolcezza della salsa bbq, la piccantezza del rub e la succulenza della carne di Duroc. Insomma, ci viene fame solo a descriverlo. Le ribs al bbq sono una delle cose per cui vale la pena vivere. Non per questo, come dicevamo prima, se non possedete un dispositivo bbq, dovete privarvi di questo immenso piacere. Vediamo come procedere col forno di casa. 427 - BBQ4All Magazine
(water pan), ma abbiamo scelto di non avvolgere le ribs in doppio strato di alluminio (foil) durante la cottura. Questo è solo uno dei molti metodi con cui si possono cuocere le costine, ognuno ha il suo preferito. Usare il foil spesso facilita e velocizza la cottura: se optate per questa scelta, ricordatevi di farlo sempre dopo che la crosticina superficiale si è formata. Mai prima.
Al forno. La fase di trimming è identica a quella sopra descritta, per cui evitiamo di ripeterla. Per la cottura in forno, abbiamo scelto di procedere con un metodo più rapido, descritto tempo fa da Gianfranco Lo Cascio: più veloce, ma di sicuro effetto. Seguiteci con attenzione.
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Dopo aver unto con l’olio le slab, cospargetele con una dose di Ultimate SPOG a cui noi abbiamo deciso di aggiungere un paio di cucchiaini di paprika dolce, più per un discorso cromatico che di sapore. Accendete il forno alla temperatura di 130°C, in modalità statica, inserita le ribs a metà altezza appoggiandole sulle griglie, e posizionate una teglia di alluminio sul fondo del forno, per preservarlo dalla caduta di grassi. Tenete le ribs in forno a questa temperatura per circa due ore e mezzo. Alzate poi il forno alla massima temperatura per l’ultima mezz’ora. Terminato questo tempo, togliete le ribs dal forno, tagliatele e scegliete se mangiarle così, in purezza, laccarle o pucciarle dentro la salsa. Noterete due cose: la prima è che manca lo smoke ring, ma questo non incide minimamente sulla tenerezza e sulla succulenza della carne, la seconda è che (ovviamente) il sentore di fumo è assente. Tuttavia questa non è necessariamente una cosa da annoverare tra i punti a sfavore: in molti non amano il sapore affumicato e parecchi fanno fatica a digerirlo. La cottura in forno sarà sicuramente molto più apprezzato da queste persone. Il sapore intenso del maiale sarà il protagonista assoluto, ben esaltato dalla crosticina saporita e dalla salsa.
Ricette a cura della Redazione
CALDARROSTE AL RHUM AVVOLTE NELLO SPECK
fotografia di Luca Gallozza
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buone come il pane? di più!
Novembre, autunno inoltrato. Le foglie ormai hanno preso quel colore tipico, con sfumature che variano dal rosso al giallo, le strade ne sono sommerse. Tipo Autumn in New York, ricordate? Abbiamo messo i cappotti e gli ombrelli sono per lo più gli oggetti che ci tengono compagnia quotidianamente. In mezzo a tutto questo freddo, e a volte alla nebbia, il ristoro di un alimento caldo è il primo pensiero che ci passa per la mente. Cosa ci fa sognare in questo periodo più delle caldarroste? Uno dei comfort food da strada per eccellenza, di sicuro tra i più pratici.
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Anche se la castagna non possiede una delle caratteristiche principali della frutta, ovvero la succosità (la percentuale di acqua presente nel prodotto fresco è del 50%), è a tutti gli effetti un frutto di bosco. Nel corso dei secoli ha rivestito un ruolo importante nell’alimentazione umana, in special modo della parte più povera, per il suo grande apporto energetico e calorico, soprattutto perché fu un eccellente sostituito del grano nei momenti di carestia causati dalla peste, dalla guerra e dalla siccità. Infatti, grazie alla grande ricchezza di amido, le castagne essiccate sono facilmente trasformabili in farina, tanto che lo storico greco Senofonte nel IV sec. a.C. battezzò il castagno l’albero del pane. Diversi studi archeologici hanno dimostrato, sulla base del ritrovamento di alcuni reperti fossili, che questa pianta era presente sulla terra già nell’era Cenozoica e che scomparve a causa della Glaciazione, per ripresentarsi
in seguito nell’Asia Minore entrando a far parte nella dieta delle prime forme di civiltà. Furono i romani, con la loro opera di conquista, a diffondere questi frutti in Italia e in buona parte dell’Europa, dopo averne conosciuto i frutti sul territorio ellenico, dove erano soliti gustare le castagne abbrustolite sulle braci, bollite nell’acqua o sotto forma di focaccine dopo essere state trasformate in farina. I latini, oltre ad apprezzare questi gustosi frutti attribuirono loro anche un carattere afrodisiaco perché nella forma ricordano i testicoli. Sono molte le varietà di castagne presenti sul nostro territorio: alcune di esse hanno ricevuto il riconoscimento IGP (ad es. la castagna di Cuneo o la castagna di Montella) e DOP (come ad es.la castagna di Vallerano); tuttavia i Marroni rappresentano la qualità più pregiata, in passato destinati al solo consumo dei ricchi. Anche per loro esistono diverse qualità, come il Marrone del Mugello (IGP), il Marrone di san Zeno (DOP), il Marrone di Caprese Michelangelo (DOP) etc… I nobili apprezzavano molto il gusto delle castagne ma, quando nel Medioevo esse si trasformarono nel cibo dei poveri montanari, decisero di riservare i marroni al loro esclusivo consumo. A differenza di ciò che molti pensano, le castagne e i marroni non sono propriamente la stessa cosa: a sancirlo, fu un Decreto Regio del 1939, che distingue il frutto spontaneo da quello coltivato. La raccolta di entrambi i prodotti ha inizio a fine Settembre, per
terminare con gli ultimi giorni di novembre; mentre i marroni sono il prodotto dei castagneti coltivati, dove le piante sono il risultato di innesti ideati dall’uomo, le castagne nascono da quelli selvatici che popolano i nostri boschi. I primi sono più grandi e tondeggianti (un riccio ne contiene al massimo tre perciò il frutto cresce in libertà senza restrizioni di spazio), le seconde sono più piccole (il riccio del castagno selvatico può arrivare a contenere fino a 7 frutti). I marroni hanno una buccia color mogano con delle striature in verticale, e la loro pasta risulta più saporite e zuccherina rispetto a quella delle castagne che sono di un bel marrone scuro. Naturalmente anche il marrone come la castagna era considerato un cibo afrodisiaco, tanto che in passato regalare a una dama una scatola di Marron Glacé (marroni lessati e glassati con lo sciroppo di zucchero) celava un sicuro messaggio erotico. Da mettere in conto, poi, una certa similitudine con le gonadi maschili, aka i testicoli, sia del prodotto coltivato che del prodotto selvatico: ciò ha dato vita a espressioni gergali come “preso in castagna” e “ne ho pieni i maroni”. Sono principalmente tre i modi di cucinare le castagne. • Le caldarroste: cotte direttamente sulle braci, dopo aver inciso le castagne con un coltellino esse vengono poste in una superficie bucherellata posizionata sopra il fuoco, poi girate spesso perché si abbrustoliscano senza bruciare. • Le ballotte: le castagne vengono incise giro giro
lungo tutta la lunghezza della buccia, cotte nell’acqua, dopodiché ancora calde ve n g o n o s b u c c i a t e e mangiate o utilizzate per la creazione di dolci e ripieni di arrosti, pasta fresca ecc... • Essiccate e tramutate in farina, con la quale preparare pasta, pane e molti tipi di dolci come il castagnaccio e il neccio ripieno di ricotta. Noi siamo andati fin nel Trentino per tirar fuori una preparazione alla griglia che abbiamo adattato a nostro piacimento. Ecco, preparatevi, perché da qui in avanti vi presentiamo dei succulenti, irresistibili marroni al rhum e speck. Un semplice finger food, facile e sfizioso da presentare ai vostri ospiti prima delle portate principali. Andremo a lessare i deliziosi frutti in acqua salata bollente, successivamente li tufferemo in acqua fredda per bloccare la cottura e poi dopo averli ben asciugate, creeremo un seasoning con poco miele, un po di rhum e una spolverata di Mount Nimba che spennelleremo su ogni singola castagna. Infine andremo a bardare le castagne con mezza fetta di speck, bloccando il tutto con uno stecchino. Andremo a finire la cottura in griglia. Vediamo quindi cosa ci occorre.
INGREDIENTI 4 persone
PREPARAZIONE 1. Lavate bene i marroni, asciugateli e incidete orizzontalmente la buccia possibilmente senza intaccare la polpa. 2. Versateli in una pentola e riempitela d’acqua finché saranno interamente coperti. 3. Lasciateli cuocere per almeno 45 minuti, da quando inizia il bollore. 4. Scolateli in una ciotola di acqua e ghiaccio per 2 minuti, per bloccarne la cottura e iniziare il raffreddamento. Una volta raffreddati, asciugateli. 5. Sbucciateli con cura, tenendoli interi senza romperli. 6. In una ciotola, versate il miele, il rhum e il Mount Nimba. Mescolate bene e spennellate il composto leggermente su ogni Marrone. Tenete il tutto da parte su un foglio di carta forno. 7. Dividete ogni fetta di speck in due parti, per la lunghezza. Avvolgete ogni mezza fetta di speck intorno ad ogni singolo marrone. Fissate lo speck con uno stuzzicadenti. 8. Accendete mezza ciminiera di carbone o semplicemente uno dei bruciatori del vostro dispositivo a gas, sistemate ogni singolo marrone su un vassoio in acciaio per verdure e cuocete in griglia a 180°C in cottura diretta, per 10/15 minuti. Finita la cottura, sistematele sopra un bel piatto da portata. Il loro profumo darà il via all’atmosfera della serata. Semplice da realizzare, poco impegnativo nei tempi e di sicuro impatto. Riusciranno a riunire tutti intorno al tavolo, c’è solo da fidarsi.
500 g di marroni 50 g di miele 20 cl rhum 20 g di Sal’s Seasoning Mount Nimba
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15 fette di speck
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Ricette a cura della Redazione
ZUPPA DI CIPOLLE GRIGLIATE ...buona fino alle lacrime
Difatti se proviamo a intaccare, o a tagliare o comunque a rompere uno dei mantelli della cipolla, viene rilasciato un enzima che trasforma alcune sostanze in acido sulfenico. Questa molecola si trasforma in un gas irritante per le terminazioni nervose dell'occhio, in particolare per la cornea Uno degli espedienti utilizzati per lenire questo problema sta nel cercare di bloccare o
rallentare le molecole volatili del fattore lacrimogeno. Questo è possibile sfruttando il freddo o l’utilizzo dell’acqua durante il taglio. Basterà porre in freezer per una decina di minuti la cipolla da tagliare e utilizzare tagliere e coltello ben bagnato, per limitare la volatilità delle molecole con conseguente riduzione della lacrimazione. Quindi fatelo, perché per questa ricetta useremo cipolle in notevole quantità. Ci sono molte storie e leggende intorno alla nascita di questo piatto: quello che sappiamo è che una sorta di zuppa di cipolle era consumata sin dai tempi degli antichi romani, nonché amata da tutte le classi sociali, sia per l’economicità della preparazione, sia per il suo sapore indiscutibilmente gustoso. Infatti, se ne trova origine in un libro di ricette di Marco Gavio Apicio, il De re conquinaria (intorno al 230 d.C ) dove si fa cenno ad una ricetta di zuppa di cipollotti e pesce salato (!) Di sicuro sono stati francesi a migliorare e a rendere questo piatto un’istituzione nazionale. La sua fama iniziò tra i banchi del mercato parigino di Les Halles, definito dallo scrittore realista Émile Zola “il ventre di Parigi”, dove gli amanti della vita notturna parigina andavano a consumarne una ciotola, come rimedio contro la sbornia. Il commerciante serviva questa zuppa di cipolle in tazze nelle quali disponeva due fette di pane raffermo sul fondo. Era più simile a una brodaglia molto allungata che alla gustosa preparazione che possiamo immaginare oggi. A renderla poi col tempo più appetibile e saporita fu l’introduzione del formaggio e successivamente la gratinatura. Fu così che la zuppa di cipolle entrò di diritto nei menu dei ristoranti, tanto da avere ad oggi versioni molteplici della stessa ricetta, con versione e varianti di cuochi famosi. Oggi vi presentiamo la nostra versione, che sarà impreziosita da tocchi di brace e fumo, ça va sans dire. Vediamo un attimo come prepararla e quali saranno gli elementi caratterizzanti. Partiamo col dire che gli elementi di questa zuppa, sono principalmente quattro: le cipolle, il brodo, il formaggio e il pane. PARTIAMO CON LA CIPOLLA. Come dicevamo in apertura, le tipologie sono svariate. Nessuno ci impedisce di utilizzare una cipolla di Tropea oppure una di Certaldo. Noi vi consigliamo, se possibile, la cipolla rossa di Breme, per dolcezza, croccantezza e digeribilità. In alternativa anche una comunissima cipolla dorata non comprometterà la buona riuscita del piatto. Abbiamo visto in precedenza i fattori chimici scatenanti la lacrimazione, ma noi vorremmo sorridere davanti ad un piatto così, pertanto
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Alla fine di questo articolo, finiremo in un bagno di lacrime? No, dai. Tirate fuori la maschera. No, non si tratta di Covid-19, intendiamo la maschera da sub. Indossatela e preparatevi a tagliare un campo intero di cipolle, perché realizzeremo una zuppa cosiddetta povera, ma alquanto piacevole e rinvigorente, ovvero la famosa soupe à l’oignon. Ma che tipo di cipolle? Quelle tra le più comuni e conosciute, sono circa venti: le sarde, come la tipica di Banari nel sassarese, la calabrese Rossa di Tropea, la bianca Giarratana siciliana, quelle dorate di Parma, la bionda piemontese di Cureggio e Fontaneto, la borettana in Emilia Romagna, la cipolla ramata di Montoro in Campania e quelle di Certaldo in Toscana. Tutte valide, con caratteristiche e forme diverse tra loro, ma tutte con un unico comune denominatore per l’uomo: la lacrimazione.
cercheremo di trattare la cipolla con rigore scientifico e soprattutto i nostri occhi con maggiore riguardo. IL BRODO: L’ideale è farne uno non troppo saporito, che arricchisca ma non sovrasti il sapore dell’ingrediente principale. Noi useremo un brodo di pollo, ma va benissimo anche un brodo vegetale ben fatto. Per quanto riguarda il formaggio, nelle più svariate ricette che si trovano nei libri o girando qua e là sul web, il consiglio è sempre quello di usare un grouviere, un camembert o comunque un formaggio francese. Noi però non vogliamo solo un formaggio che si sciolga, ma che fonda, che sia equilibrato nelle dosi, non copra il sapore delle cipolle, si allinei al gusto del brodo e che non rimanga stucchevole. La fontina valdostana è quella che fa al caso nostro. INFINE IL PANE: Quello di semola a crosta dura sarà perfetto; ideale da tostare e da immergere nella zuppa senza che si sfaldi.
INGREDIENTI 4 persone 1 kg di cipolle 2 l di brodo di pollo o vegetale 250 g di fontina valdostana 50 g di grasso di Wagyu mezzo bicchiere di vino bianco secco 1 cucchiaio di zucchero di canna Olio extravergine d’oliva q.b. Sale q.b.
PREPARAZIONE 1. Procedete impostando il vostro dispositivo per una cottura diretta. 2. Lavate dapprima le cipolle e, dopo averle divise in due parti ciascuna per la lunghezza, tuffatele in acqua fredda e lasciate in ammollo per mezz’ora. 3. Scolatele dall’acqua in eccesso, asciugatele e spennellate la base delle cipolle con un filo d’olio extravergine di oliva, quindi mettetele in griglia a cauterizzare. 4. Toglietele dalla griglia quando avranno assunto i segni visibili di cauterizzazione e si siano dorate alla base. 5. Affettate finemente le cipolle e iniziate a cuocerle in una padella col grasso di Wagyu, per circa 10 minuti a fuoco lento. 6. Aggiungete quindi il vino secco e lasciate dealcolizzare a fiamma alta pe qualche minuto. 7. Abbassate nuovamente la fiamma e inserite lo zucchero per caramellizzare maggiormente le cipolle. Quindi versate il brodo pian piano in cottura e lasciate cuocere finché le cipolle saranno cedevoli e caramellate, ma senza che scuriscano eccessivamente. 8. Preparate una fetta di pane per commensale. Strofinate su un lato per ogni fetta, uno spicchio d’aglio, ungete con un filo d’olio e salate quanto basta, quindi tostate in griglia sino a doratura. 9. Poggiate sulla base di un tegame in terracotta la fetta di pane tostato, versateci sopra la zuppa di cipolle e attendere che il pane venga a galla. 10. Grattugiate grossolanamente circa 60 g di fontina per fetta di pane, quindi ponete in forno o in dispositivo ad una temperatura di 220°C circa per ottenere una magnifica gratinatura.
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11. Lasciate riposare 5 minuti prima di servire. Vi verranno le lacrime agli occhi, sì, ma per la bontà e non a causa delle cipolle
Ricette a cura della Redazione
FILETTO CON FUNGHI E CASTAGNE
fotografie di Tommaso Buccafurri
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...più autunnale di così non si può
Per celebrare l’autunno e lo splendore dei suoi colori abbiamo penato a un’altra ricetta col filetto di maiale ricetta raffinata ma di sicuro effetto! Può sembrare a prima vista un secondo piatto, ma è proponibile anche come antipasto. Camminando per i boschi in questo periodo, accompagnati dai profumi della terra umidiccia e dallo scricchiolare delle foglie cadute, con un minimo di attenzione, ci si imbatte spesso nei nostri amici funghi. Porcini, ovuli, chiodini e finferli diventano i protagonisti di questa meravigliosa stagione, immancabilmente accompagnati dal pregiatissimo tartufo bianco. E le castagne? Ne vogliamo parlare? Tra quelle che vantano il marchio IGP ed il prestigioso riconoscimento DOP, c’è solo da leccarsi i baffi… ma noi siamo quelli che non disdegnano nemmeno le castagne senza riconoscimenti. Vero, eh? Vi sfidiamo a dire il contrario. Le castagne, un tempo, erano considerate il pane dei poveri: ne esistono varietà più dolci, più minerali e sapide, ognuna ottima per l’uso appropriato. Noi per questa ricetta abbiamo utilizzato la castagna Riggiola, la cultivar di castagno più precoce della Calabria, che matura già nelle prime decadi di Ottobre. Tondeggiante, di dimensioni medio grandi e facile da sbucciare, presenta una polpa dolce e leggermente sapida. Ad armonizzare il tutto ci aiuteranno i cachi, con la loro polpa gelatinosa e leggermente acidulata ci ripuliranno per bene il palato, boccone dopo boccone. Per quanto riguarda invece la componente proteica del piatto, abbiamo scelto il filetto di maiale, leggermente affumicato con quercia rossa. La salsa di accompagnamento sarà una versione della meat glaze molto più veloce, ma saporitissima e lucida al punto da potercisi specchiare, spessa e perfetta per accompagnare i piatti di carne.
MEAT GLAZE 1. Partire dalla meat glaze. Tostate le ossa di manzo e gli scarti in forno a 230/240 gradi per 20/25 minuti. Devono risultare ben rosolate. 2. Nel frattempo lavate accuratamente carote, cipolle e sedano, anche senza sbucciarli, e tagliateli in pezzi regolari. La testa d’aglio invece sarà sufficiente tagliarla a metà nel senso della larghezza. 3. In una pentola che possa contenere almeno 4 volte il volume delle ossa fate scaldare un filo d’olio d’oliva e tostate le verdure a fiamma vivace fino a che non risulteranno bruciacchiate. 4. Aggiungete il vino e raschiate con vigore il fondo della pentola, dove si sarà attaccato e caramellato tutto il vero gusto della salsa, staccandola e diluendola nel liquido. 5. Dealcolate bene e con cautela inserite le ossa tostate e gli scarti in pentola. Coprite di ghiaccio e a fiamma bassa fate cuocere fino a ridurre almeno del 70% il liquido che si formerà. Otterrete così un’estrazione di sapori perfetta. 6. A questo punto filtrate con un colino cinese, spremendo bene ad ogni step per ricavare ogni goccia di questo succo meraviglioso.
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7. Riponete in abbattitore o in frigo fino a quando le parti grasse non affioreranno in superficie, separandosi. 8. Eliminate con cautela il grasso aiutandovi con un cucchiaio e continuate a ridurre la salsa (che da fredda avrà l’aspetto
9. Aggiustate la consistenza e il sapore con il glucosio o il miele che ne aumenteranno anche la naturale lucentezza oltre a bilanciarne la sapidità e la potenza. Si conserva in frigo per mesi. FILETTO DI MAIALE 1. Stabilizzate il dispositivo per una cottura indiretta sui 125/130°C; successivamente, condite il filetto di maiale abbondantemente con sale, pepe e olio d’oliva. 2. Ponete in cottura indiretta affumicando con legno di quercia rossa o alberi da frutto fino ai 63/64°C al cuore 3. Date un passaggio veloce in diretta per ottenere una crosta profumata e croccante. Lasciate riposare fino ai 68°C al cuore. FUNGHI 1. Pulite i porcini in maniera classica. Con un panno umido rimuovete terriccio e impurità o se eccessivamente sporchi sotto un getto di acqua corrente in maniera rapida e decisa. 2. Tagliate la cappella in bocconi da 1/1,5 cm di lato, molto regolari per una cottura omogenea. I gambi potete utilizzarli per un buonissimo risotto o una tagliatella memorabile. 3. Riscaldate in una padella il burro con l’aglio tritato finemente fino a sentirne un profumo intenso e tostato. Aggiungete le cappelle e spadellate velocemente per
circa 10 minuti. A cottura ultimata aggiungete un cucchiaino di meat glaze e regolare di sale e pepe. CREMA DI CALDARROSTE E GEL DI CACHI 1. Incidete le castagne con un coltello e ponetele in acqua a mollo per almeno 20 minuti. 2. Preparare il dispositivo per la cottura diretta e grigliare le castagne a calore forte finché non saranno tenere e dolci. 3. Sbucciate le castagne da calde (non bollenti, mi raccomando, calde) e mettetele a bagno nel latte per un paio d’ore. Portate a cottura le castagne con il latte aggiungendo la panna. 4. In un blender frullate il composto, quando il latte si sarà ritirato di 2/3 montate aggiungendo il burro a fiocchetti. Aggiustare di sale e pepe. 5. Passate la purea al colino cinese. Dovrà risultare molto liscia e vellutata, sostenendosi anche in altezza. 6. Frullate la polpa del caco con il succo di limone.
INGREDIENTI 4 persone Per il filetto: 400 g di filetto di maiale Duroc Sale q.b. Pepe q.b. Olio extravergine di oliva q.b. Per la crema di caldarroste: 365 g castagne Riggiole (circa 25 castagne) Acqua q.b. 1 l di latte intero 100 g panna 100 g burro di montagna Sale q.b Per il gel di cachi: 1 caco ben maturo 1 cucchiaino di succo di limone Per i funghi: 1 spicchio d’aglio 200 g di funghi porcini 1 cucchiaio di meat glacé 20 g burro di montagna Sale q.b. Pepe nero q.b. Per la meat glacé: 3 kg ossa e ritagli di carne di manzo
Assemblate ogni piatto così: con un medaglione di filetto condito semplicemente con olio e sale maldon, una quenelle di purea di caldarroste dalla parte opposta e la meat glaze servita caldissima al centro tra i due elementi, così da essere ponte d’unione. I funghi sparsi nel piatto, così come degli spot di gel ai cachi, che andranno a solleticare il palato anche con le loro note tanniche. Un antipasto chic che celebra l’autunno in tutta la sua generosità.
2 cipolle dorate 4 carote 3 coste di sedano 1 testa d’aglio Un mazzetto aromatico 500 g Barolo o Nebbiolo Ghiaccio q.b. 20 g miele oppure glucosio
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di un budino gelatinoso) di almeno un altro 15%, per un totale di circa 85% rimanente.
Ricetta a cura di Michela Bongiorni
Fate i fichi... con il
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FILETTO DI MAIALE IN SOUS VIDE
fotografie di Emiliano Nencioni
È il mese del maiale. No tranquilli, non sto parlando di oroscopo cinese (o di qualsiasi altra baggianata che parli di astrologia). Novembre è davvero il mese in cui più o meno in tutta Italia si celebra il nostro porco amico. Se siete di Parma conoscerete sicuramente il November Porc, una kermesse itinerante da Sissa a Polesine Parmense, da Zibello a Roccabianca, che celebra il maiale (e la nebbia della bassa). Questa infatti è la stagione in cui tradizionalmente i norcini davano inizio alla macellazione per procurarsi i prodotti derivati. Ancora oggi viene celebrato questo evento molto importante, e quasi rituale della vita contadina di tanti anni fa, con feste e sagre dove gustare i vari prodotti locali: salsicce, salami, cotechini, prosciutti e carni da cucinare. Il November porc è probabilmente il più famoso in Italia, ma non mancano altri tipi di eventi sparsi perlopiù nel Nord Italia, che purtroppo quest’anno saranno annullati causa Covid-19. Ma confidiamo e speriamo tutti nel 2021.
Ok, fate scorta di filetti di maiale sul Megastore (sorrisino!) e non perdete altro tempo. La ricetta è servita.
INGREDIENTI 4 persone 2 filetti di maiale Duroc del Megastore un bicchiere di succo di pompelmo 8 fichi secchi 300 g di noci sgusciate Sal’s Seasoning Ultimate SPOG q.b. qualche fogliolina di menta aceto balsamico di ottima qualità timo q.b. olio extravergine di oliva q.b. un pizzico di sale
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Anche noi abbiamo voluto celebrare questo evento con un numero dedicato in gran parte al porco, come avete già potuto constatare. Da qualche mese, oltretutto, sul nostro Megastore abbiamo introdotto tagli suini di Duroc, una razza americana che più volte abbiamo definito “il Black Angus dei maiali”. È più leggero dei suini a cui siamo abituati, ha un colore tendente al mogano e un sapore più intenso grazie a una percentuale più elevata di marezzatura. Il suo PH è più elevato e quindi la sua carne è più tenera e più succosa. Il filetto di questo animale si trova nella lombata, nella parte posteriore. È composto da quattro muscoli: il grande psoas, il piccolo psoas, il quadrato dei lombi e l'iliaco laterale. Più piccolo di quello bovino, è un taglio molto tenero e abbastanza magro, che viene cotto di solito intero e poi scaloppato. Diciamolo subito, così tagliamo la testa al… Duroc: sì, ovviamente per le ricette presentiamo i nostri prodotti. Ogni tanto ci accusano di essere troppo autoreferenziali. Beh, nessuno vi costringe a utilizzare il miglior maiale che possiate trovare sul mercato, il nostro è un suggerimento. Non siamo comunque responsabili dei risultati, qualora scegliate di utilizzare altro, ma siete comunque liberi di farlo. Tornando al nostro filetto, a questo giro abbiamo voluto cuocerlo in sous vide, poi gli abbiamo fatto il searing finale in padella e infine lo abbiamo servito con un’insalata di fichi secchi, noci, aceto balsamico e menta. Insomma, in un solo boccone troverete tutto: il croccante delle noci, il balsamico dell’aceto, la freschezza della menta, il dolce dei fichi (con un tocco di acidità grazie al succo di pompelmo) e, ovviamente, la morbida succulenza del maiale che grazie alla cottura sous vide rimarrà leggermente rosato e tenerissimo. Ci è sembrata un’ottima occasione per celebrare a modo nostro il November porc, con sapori autunnali e direi quasi natalizi: fichi secchi e noci, in molte parti d’Italia. rappresentano la naturale congiunzione tra i luculliani pasti delle feste, quando i parenti non si alzano nemmeno da tavola e, mentre giocano a carte o a tombola, giusto per fermare lo stomaco, si dilettano mangiucchiando la frutta secca.
PREPARAZIONE 1. Cospargete leggermente i filetti con lo SPOG su entrambi i lati. 2. Inserite il filetto in una busta adatta alla cottura e mettetelo sottovuoto. Immergete la busta nel bagno d'acqua a 62°C e impostare il timer su 2 ore. Coprire il contenitore di cottura con un coperchio. 3. Terminata la cottura, estraete la busta dal bagno d'acqua e immergetela in acqua fredda finché la carne non si sarà completamente raffreddata. Nel frattempo mettete a bagno i fichi secchi nel succo di pompelmo per almeno un’ora. 4. Estraete il filetto e asciugatelo completamente tamponandolo con carta assorbente. 5. Preparate il condimento: tagliate i fichi secchi a pezzetti, piccoli e mescolateli insieme al timo, a un poco d’olio extravergine di oliva, alle noci spezzettate e a un po’ di menta tritata. 6. Ungete il filetto con un filo d’olio, scaldate bene una padella in ghisa e fate il searing finale alla carne, senza bruciacchiarla.
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7. Scaloppate il filetto e servitelo con l’insalata di noci e fichi secchi, finendo il tutto con l’aceto balsamico.
LA PORCHETTA PERFETTA AL FORNO Si. Può. Fare.
LA MATERIA PRIMA Lo dicono sempre sia Gianfranco Lo Cascio sia tutti i nostri redattori responsabili della stesura delle varie rubriche presenti sul Magazine, da quella sulla panificazione a quella sui formaggi: la materia prima è fondamentale per il risultato.
INGREDIENTI per un tronchetto per 6 persone circa una pancia di maiale Duroc da circa 1,5 kg 2 filetti di maiale Duroc da circa 500 g l’uno un cucchiaino di sale pepe in abbondanza mezzo cucchiaino di semi di finocchio un cucchiaino e mezzo di aglio in polvere un cucchiaino e mezzo di rosmarino in polvere olio extravergine di oliva q.b. spago da cucina
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Non è la prima volta che sul Magazine parliamo della regina dello street food italiano. L’anno scorso l’abbiamo presentata anche con un ripieno morbido, in versione tronchetto. Come avrete letto sull’articolo in cui parliamo di quella umbra, c’è una differenza sostanziale tra il tronchetto e il maiale intero: sono parenti tra di loro, certamente, ma cambiano e non poco le procedure di cottura. Va da sé che, per farsela in casa e per mangiarla coi familiari e con gli amici (non più di sei, per carità, sennò rischiamo la denuncia!), sia molto più facile e gestibile cucinare un tronchetto piuttosto che una bestiolina intera. Sappiamo inoltre che molti dei nostri lettori, sia per esigenze familiari e/o condominiali, sia per scelta o mancanza di occasioni, non dispongono di un dispositivo per la cottura a carbone o a gas, e quindi spesso optano per la cottura in forno: il nostro motto da sempre è “se lo puoi cucinare, lo puoi grigliare”; beh, è vero anche il contrario. E anche qui permettetemi una piccola digressione: ci è capitato nel corso di questi – quasi- due anni di Magazine che qualche lettore si lamentasse del fatto che non parliamo solo di bbq e di ricette laide e corrotte, super formaggiose, super colanti di succhi e di salse. Ho già avuto modo di scrivere questa precisazione anche in community: il nostro Magazine non tratta solo di bbq per scelta editoriale, per il semplice motivo che questo tipo di cottura è solo una delle tante espressioni della cucina. Non puoi saper grigliare se non sai anche cucinare bene, non puoi saper cucinare bene se non sai farlo col metodo scientifico che da tanto tempo vi stiamo presentando attraverso le ricette di Gianfranco Lo Cascio. Questo non significa che abbiamo rinnegato il mondo bbq (e questo numero ne è un esempio): abbiamo solo ampliato gli orizzonti e abbiamo pensato alle esigenze di tutti i lettori. E i risultati si vedono: al netto di qualche, ormai rara, voce fuori dal coro che si lamenta a prescindere, tutti gli utenti ci ringraziano tutti i mesi dicendo che ogni numero è migliore di quello precedente. E questo ci dà la misura di quanto siamo sulla strada giusta. Tornando quindi al nostro “Tronchetto di Porchetta”, per tutti i motivi fin qui citati e anche per il fatto che, entrando ormai nella stagione delle piogge (e della neve, per chi abita in zone fredde) molte persone potrebbero non aver voglia di cimentarsi con le cotture all’aperto, abbiamo pensato di darvi una procedura sicura, semplice ed efficace per avere un bel risultato utilizzando il forno di casa. Quindi vediamola insieme.
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So che può sembrare banale dirlo e ribadirlo, ma vi assicuro che non è così: in tempi in cui tutto viene messo in discussione, anche consigliare una materia prima rispetto a un’altra viene visto con sospetto dal complottaro medio. Ah, per forza, la vendete! Il mio macellaio con trentamila lire me ne dà il triplo ed è buonissima. Non è mica vero che solo la vostra è la migliore, ci sarà qualcosa sotto. A nessuno viene mai il sospetto che, se abbiamo scelto di vendere questa carne, non sia per chissà quale complotto o accordo segreto con la lobby dei macellai dei ricchi, ma sia perché, semplicemente, è la migliore che abbiamo trovato? E dato che abbiamo come mission aziendale quella di darvi un’esperienza a tavola che vi faccia fare le capriole sulla sedia (cit.), è ovvio che siamo qui a dirvi: ehi, comprate la nostra, perché è la migliore. Ho avuto già modo di scrivere su un altro articolo che nessuno vi obbliga, ma noi certamente vi consigliamo per il meglio. E il meglio, che ci crediate o meno, è questo. D’altronde, non ho mai visto sul sito della popolare crema spalmabile alla nocciola un post che dicesse: comprate quella della concorrenza, tanto è uguale. Detto ciò, parliamo appunto della materia prima: abbiamo usato pancia e filetto del maiale Duroc, gentilmente fornitoci dal nostro Megastore. Il Black Angus dei maiali. Una marezzatura importante, una morbidezza estrema. La sicurezza di un risultato decisamente superiore a qualsiasi altro mai assaggiato fino ad ora, in termini di succulenza e tenerezza. Provate per credere. Nel nostro caso, abbiamo scelto di fare un tronchetto decisamente non grande, che potesse essere messo in forno e gestito in modo agevole. Ovviamente, ciò che fa la differenza tra una porchetta mediocre e quella perfetta è sempre lei: la cotenna croccante. In molti pensano che nel forno non sia possibile ottenerla con facilità, ma siamo qui apposta per dimostrarvi il contrario.
fotografie di Emiliano Nencioni
PREPARAZIONE 1. Togliete eventuali setole residue sulla cotenna servendovi di pinze o di un cannello e poi cospargete l’interno della pancetta con la miscela di spezie. 2. Adagiate i filetti al centro della pancetta e, sempre tenendo la parte con la cotenna all’esterno create un rotolo che li avvolga; fermate il tutto con dello spago e una serie di nodi ben piazzati procedendo in questo modo: si passa lo spago sotto e sopra la porchetta, legando le due estremità del filo. La stessa cosa si fa passando lateralmente. Dopo aver fatto i nodi non si deve tagliare il filo: è molto più comodo lasciarlo attaccato alla matassa, così non si rischia che a un certo punto manchi. Con il filo si forma un cappio e si infila la mano al suo interno, girandola su se stessa due volte per formare un attorcigliamento alla base del cappio. Con il cappio attorno alla mano, si afferra l’estremità del tronchetto e si fa scivolare lo spago sotto ad esso, in modo che entri nel cappio. A questo punto si sfila la mano dallo spago e si tira per stringerlo attorno alla carne. Si continua a procedere allo stesso modo per legare tutta la porchetta: ogni volta che si infila la carne nel cappio, bisogna spostarsi di un paio di cm rispetto al punto precedente. Completata la gabbia, ripetendo questa operazione su tutta la lunghezza del tronchetto, si ferma la legatura con un nodo all’estremità. Si taglia a questo punto lo spago et voilà: il tronchetto è pronto per essere cotto. 3. Accendete il forno statico ad una temperatura di circa 110-120°C, posizionate il vostro tronchettino sulla griglia a metà altezza e sul fondo mettete una leccarda per raccogliere l’inevitabile grasso che si scioglierà durante la cottura. Come posizionare la porchetta? Con la parte dei due lembi della pancia, che si incontrano dopo la legatura, sotto. Questo permetterà al grasso in eccesso di colare giù e vi permetterà di non bucherellare la cotenna. 4. Tenete la porchetta nel forno alla temperatura consigliata finché non raggiunge i 78/80°C al cuore, cercando di aprire il meno possibile il forno: fatelo solo se volete spennellare la cotenna con dell’olio, del burro o dello strutto.
6. Non vi resta che toglierla dal forno, aspettare che si raffreddi leggermente (nel frattempo potete preparare salse di accompagnamento di vario genere, nei Magazine vecchi ne troverete in abbondanza) e poi servirla: al piatto, nei panini, con le mani unte e bisunte. Insomma, fate come più vi aggrada, solo una cosa è certa: sentirete per qualche minuto solo il silenzio interrotto da tanti crunch! e sospiri di ammirata soddisfazione. Immancabile la foto sui social con hashtag #seèpornotolgo, ma non ditelo al Community Manager.
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5. Arrivati alla temperatura target (ci metterete qualche ora, ed è giusto così), alzate la temperatura del forno al massimo. L’acqua presente nella pelle, andando velocemente in ebollizione, farà gonfiare gli strati dell’epidermide facendoli diventare friabili. La chiave è tutta lì, nella velocità. Bisogna alzare la temperatura in maniera repentina. Vedrete che la cotenna comincerà a formare delle bollicine e a scoppiare come un pop corn. A quel punto, potreste notare che fa fatica a scoppiare anche nelle parti laterali: il rischio è quello di farla bruciacchiare sulla parte alta aspettando che esploda anche ai lati. Niente paura: aiutandovi con un supporto molto casalingo, quale può essere una pallina di fogli di alluminio, girate prima su in lato e poi sull’altro la vostra porchetta, fermandola appunto con l’alluminio affinché non rotoli su se stessa, e aspettate di vedere la cotenna che si “popocornizza” ovunque.
a t t e h rpo cumbra
a r e v La
...con un finale a sorpresa*
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Approfondimento a cura di Riccardo Meniconi
Ma parlando di campagna e di maiali, non può che venirci in mente il suo setting prediletto per la vendita, il mercato settimanale. Ogni frazione o piccolo comune che si rispetti, nella nostra Umbria, ne ha uno. Ed ogni mercato degno di questo nome deve rispettare dei precisi standard qualitativi: la bancarella dei fiori, quella della frutta/verdura, quella dei vestiti pe’ nonna, la bancarella con polli, anatre, pulcini da comprare per arricchire il pollaio, e soprattutto è FONDAMENTALE il porchettaro. Ogni mercato rionale ha il suo, proprio ed esclusivo. E' metà mattinata, il vociare degli anziani e degli ambulanti è quasi assordante, il ricordo della colazione è quasi svanito e lo stomaco reclama cibo. Siamo lì, con le borse piene dei nuovi acquisti di nonna, mentre l'oasi del suino si staglia all'orizzonte come meta, salvezza per i camminatori del deserto. Non nominerò porchettari specifici, perché dalle mie parti questo significherebbe dare il via ad una significativa guerra civile, ma posso parlarvi dei tipi di avventori che ho avuto il piacere di conoscere durante le mie lunghe ore accumulate in fila di fronte ai food truck della porchetta. C'è chi preferisce portarsi a casa la porchetta nella "scartata", così, al naturale, solo con una abbondante cascata di sale; chi vuole un panino con solo la parte magra così da sentirsi meno in colpa (solitamente, questi individui hanno qualcosa da nascondere, quindi diffidate); c’è chi predilige la parte grassa, più gustosa e saporita; ci sono poi i vecchietti, simili agli umarell, che accerchiano il camioncino modalità "squalo" per accaparrarsi la testa del maiale; e poi c’è chi, come me, preferisce il panino dei campioni: con abbondante crosta e fegatelli, da vero intenditore. Il panino, solitamente, è composto in tal guisa: pane croccante, fresco di giornata (rosetta o panino all'olio) che viene farcito con la porchetta appena tagliata, una fetta di parte magra e una di parte grassa, il fegatello, una spolverata di sale e a coprire un
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Il maiale in Umbria fa parte della quotidianità: è un animale simbolo della regione, la colonna portante dell'alimentazione e della cultura di questo pezzo di Centro-Italia; nelle campagne umbre, ogni famiglia aveva (e molto spesso ha tutt'ora) un suino nella stalla. Il porco casalingo è servito e riverito, è un animale dall'aura sacra - non solo per le imprecazioni dei vecchi contadini - ma anche perché, di lui, non si butta via niente. Da ragazzini, in Umbria, almeno una volta abbiamo raccolto nella macchia mele o ghiande da portare al "Nino", che le reclamava ghiotto dal recinto e, sempre da ragazzini, almeno una volta abbiamo sbirciato di nascosto e con indomito coraggio il lavoro sporco che il norcino (cioè, la figura preposta alla macellazione del maiale) veniva a svolgere nel periodo tra Dicembre e Febbraio. Quello dei norcini è un antico mestiere nato nel cuore verde d'Italia. La loro minuziosa bravura nel macellare i suini, nel periodo dell'Impero romano e successivamente nel Medioevo, li vedeva spesso essere paragonati - per precisione - ai chirurghi.
bel pezzo di cotenna croccante. Qui, mi raccomando: se non è abbastanza croccante, potrebbe rovinare tutto il panino.
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Ma il porchetto, come diventa porchetta? Iniziamo col dire che quando si parla di porchetta in Umbria si intende l'arte di arrostire un maiale intero – testa compresa - disossato (ma esistono anche versioni con l'osso come la porchetta di Costano, cotta rigorosamente nel forno a legna), svuotato dalle interiora, e farcito con finocchietto selvatico, aglio, sale e pepe. La differenza tra arrostire un maialino intero e cuocere un tronchetto potete immaginarvela. Ci vuole molto più spazio nel primo caso, poi ci vuole molta più esperienza, Tuttavia, se ne tempo prenderete dimesti-
chezza con questa pratica e se disponete di un dispositivo con girarrosto abbastanza grande, il mio consiglio è quello di provare la versione intera. La preparazione inizia scegliendo accuratamente il capo da macellare, con il giusto rapporto tra parte grassa e parte magra. Solitamente, si usa la femmina del maiale appositamente allevata. Una volta pulita e disossata si procede alla speziatura: una massiccia ma calibrata dose di sale (circa 30 g/kg) e pepe (a piacimento) viene strofinata sulle carni sulle quali poi viene fatta cadere una pioggia di aglio schiacciato e finocchietto selvatico. Questo, per me, è un momento commovente. Ogni volta che sento l'aroma del pepe e dell'aglio che si
mescolano alla carne fresca di maiale la mia mente vola a casa dei nonni, qualche giorno dopo l'8 dicembre, quando tutta l’abitazione, inondata da questi aromi, si riempiva di amici e familiari che, con l'aiuto di un norcino esperto, si dedicavano alla spezzatura del maiale, alla produzione di sanguinaccio e coppa di testa, per poi passare a salsicce, lonzini e capocolli (coppe); si lavoravano prosciutti e spallette da mettere a stagionare in cantina e si beveva (loro, io ancora ero troppo piccolo, ahimè, ma mi sono rifatto nel tempo) qualche bicchiere di vino. Lasciamo la valle dei ricordi e torniamo alla nostra porchetta: dopo aver tagliato e speziato il fegato, lo si dispone all'interno del maiale per poi procedere alla sapiente legatura, operazione
con un coltello molto affilato per tutta la cotenna poi l’animale viene introdotto per almeno due/tre ore all'interno di un forno capiente (dipende dalla dimensione dell’animale, che non dovrebbe comunque superare i 90 kg) alla temperatura di 200°C, al fine di rendere croccante la cotenna; la temperatura viene poi abbassata molto (circa 120°C) e l’animale lasciato in rest (uso questo termine familiare a noi, non certo ai porchettari umbri) per altre sei/otto ore, a seconda della dimensione. Il maiale così cuoce nel suo stesso grasso che, grazie ai fori praticati in precedenza, colerà all'interno di una teglia (cosa combineremo poi con quella teglia è un'altra storia...*). Prassi comune è che la cottura avvenga in notturna, per avere così la porchetta pronta nelle
prime ore del mattino, pronta ai banchetti descritti poco più su. L'odore che pervade i vicoli nemmeno ve lo sto a raccontare: per me, probabilmente è quello che più si accosta al profumo del Paradiso. Non resta che aprire un panino e sentire il coro degli angeli. Vi lascio con questa massima in dialetto Umbro.
"Tuttu me pare meno che 'na partita a tressette, dicìa lu porcu su lu tavolacciu." "Tutto sembra fuorchè una partita a carte, disse il maiale steso sul tavolo"
* Bonus Track : Il Cicotto di Grutti Compagno fedele della Porchetta, nei chioschi ambulanti dei mercati cittadini fa capolino questa specialità, riconosciuta dal presidio Slow Food; è una pietanza strana, appiccicosa e unta: quindi, che ve lo dico a fare, super goduriosa. Sono tutti gli scarti del maiale (orecchie, zampetti, coda e altre parti coriacee) messi a cuocere sotto alla porchetta, in teglie (sesti, così vengono chiamati da noi) che raccolgono tutti gli umori e i sapori della carne. In questo modo si aggiunge sapore al prodotto. Grazie alla cottura molto lenta, che va di pari passo con quella della porchetta, il cicotto rimane morbido e ricco di aromi. Terminata la cottura, lo si lascia raffreddare, si scolano il grasso e i liquidi di cottura in apposite ceste e poi è pronto per il consumo. E’ ottimo anche conservato e riscaldato. Spesso si accompagna a ceci o a fagioli, ma viene messo da parte anche per la preparazione di sughi.
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assai importante per la buona riuscita della porchetta. Si posiziona una grossa asta di metallo al centro (che servirà per agevolare lo spostamento del capo) e ci si avvolge la carne tutta intorno, per poi cucirne i lembi con uno speciale ago ricurvo (negli anni passati, questo era fabbricato partendo dal rebbio di un ombrellone) e uno spago molto spesso composto da fibre naturali. Una volta completata la prima cucitura si procede alla legatura esterna: si fa passare lo spago sotto la porchetta e si stringe saldamente con una serie di cappi che vanno dalla coda alla testa. Qui tappate le orecchie e gli occhi allo Zio, perché il metodo che vado a descrivervi non ha niente di scientifico o di perfetto, ma è quello usato dai porchettari: prima si praticano delle incisioni
Ricette a cura della Redazione
MONT BLANC
...è tutta questione di equilibrio Vi presentiamo un grande classico della pasticceria autunnale: il Mont Blanc, una preparazione tipica della Valle D’Aosta, del Piemonte e della Lombardia. E’ un dolce al cucchiaio, realizzato con purea di marroni aromatizzata al rhum e cacao, dal cuore di meringa e decorazioni di panna. Ci pensa Nanni Moretti a descrivere questo dolce, nel film Bianca:
“Lei non faccia il tunnel! Lei mi sta scavando sotto e mi toglie la panna, la castagna da sola sopra non ha senso. Il Mont Blanc non è come un cannolo alla siciliana che c’è tutto dentro, è come uno zaino: lei se porta appresso per un mese e sta sicuro. Il Mont Blanc si regge su un equilibrio delicato non è come la Sachertorte!” Bene, facile capire da dove deriva il nome di battesimo: fu battezzato Mont Blanc perché la sua forma conica e la guarnizione bianca ricordava il profilo del Monte Bianco innevato, situato al confine tra Italia e Francia. Va da sé che il nome stesso è un chiaro indizio delle sue origini. Infatti sembra proprio che il dolce sia nato nel Ducato dei Savoia, il cui territorio era a cavallo tra la Francia e l’Italia come la montagna stessa. Proviamo invece a collocarlo cronologicamente: pare che la sua nascita sia avvenuta nel XVII secolo, quando i pasticceri di corte idearono una preparazione dolciaria con le castagne, di cui il regno era ricco, aggiungendo però una new entry, cipoè la barbabietola da zucchero importata dai numerosi viaggi nelle Americhe. Il successo di questa golosa preparazione è dimostrato dalla sua presenza ne “La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene” di Pellegrino Artusi (1891), in cui viene presentata con il nome di “Dolce di marroni con panna montata”.
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Con il tempo, come tutti i dolci di gran successo, anche il Mont Blanc è stato oggetto di rivisitazioni: in alcune preparazioni il cacao in polvere è stato sostituito con quello fuso, rendendo il gusto del cioccolato più marcato; talvolta al cuore croccante di meringa si è preferita una stratificazione di pan di spagna e crema; a volte la purea di marroni è stata usata per farcire gli strati di una una torta classica con meringhe e cioccolato, che ricorda nei gusti il Mont Blanc perdendo tuttavia completamente l’aspetto caratteristico. La ricetta che noi vi proponiamo è quella classica, facile da realizzare anche se richiede i suoi tempi di preparazione.
INGREDIENTI 6 persone 600 g di marroni 400 ml di latte intero 220 g di zucchero semolato bianco una bustina di vanillina 20 g di cacao in polvere amaro un pizzico di sale 250 ml di panna 30 g di zucchero a velo 100 g di albumi
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PREPARAZIONE 1. Partiamo dalle meringhe. Nella planetaria impostata alla massima velocità, lavorate gli albumi con 100 g di zucchero semolato. Lo zucchero va inserito poco per volta. Gli albumi sono pronti quando una volta sollevata la frusta rimane attaccato un bel ciuffo compatto. Solitamente i tempi di preparazione sono di cinque minuti. 2. Pre-riscaldate il forno statico a 90°C. 3. Inserite gli albumi montati in una sac à poche e, su una teglia rivestita con della carta forno, create le meringhe. 4. Infornate per due ore circa, senza chiudere totalmente lo sportello: per bloccare lo sportello, utilizzate il manico di un mestolo di legno. 5. Passiamo alla preparazione dei marroni. Incideteli lungo tutta la buccia, facendo il giro per poi lessarli in abbondante acqua. Una volta raggiunto il bollore, lasciateli andare per una quindicina di minuti. 6. Una volta pronti, tirateli fuori dall’acqua un po’ per volta e sbucciateli. Più sono caldi, più sarà veloce togliere la buccia. 7. Terminata questa operazione, in una pentola unite alla polpa il latte, lo zucchero semolato (120 g) e la vanillina. Cuocete il tutto a fuoco basso, avendo cura di mescolare ogni tanto. Il composto è pronto quando tutta la parte liquida è stata assorbita 8. Versate il composto in una ciotola e aggiungete il liquore e il cioccolato in polvere. Amalgamate il tutto. 9. Iniziate ad assemblare il dolce. Prendere il piatto da portata, al centro disponete le meringhe (non tutte quelle che avete preparato) in forma piramidale. 10. Prendete uno schiacciapatate, inserite la purea un po’ per volta e schiacciando iniziate a ricoprire le meringhe con un movimento circolare, fino ad ottenere la classica forma conica. Continuate fino a che non avete terminato il composto.
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11. Riponete la vostra montagna in frigo e montate la panna con lo zucchero. 12. Una volta pronta guarnite il vostro Mont Blanc secondo i vostri gusti. Le meringhe avanzate potete usarle come guarnizione, occhio a non esagerare.
CHE MONDO SAREBBE SENZA...
fotografia di Emiliano Nencioni
Una preparazione a quattro mani a cura di Alessandro Trezzi e di Giovanni Minelli
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PARTE 1
IL PANE
da salsiccia perfetto L'Arte Bianca a cura di Alessandro Trezzi
Che mondo sarebbe senza salsiccia?
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No, seriamente: riuscite a darmi il nome di un altro cibo così versatile, godurioso e apprezzato da tutti? Le prime notizie storiche relative alla salsiccia risalgono all’Impero romano, precisamente ad un riferimento letterario di Cicerone che aveva assaggiato le salsicce portate fino nella capitale dalle schiave delle popolazioni lucane assoggettate a Roma. In quella che oggi è l’attuale Basilicata, già allora si producevano insaccati di qualità sopraffina (almeno per i tempi, s’intende) tanto da meritarsi un appellativo geografico tipico: “della Lucanica”, ossia la Lucania. Nel suo scritto Cicerone ne tesseva le lodi, definendo il sale come l’aroma perfetto per il maiale. Tra l’altro il sale era ingrediente assolutamente imprescindibile per permettere il trasporto e la conservazione nel tempo. Nello stesso periodo anche Marco Terenzio Varrone nel suo “De Re Rustica” raccontava i deliziosi salumi provenienti dalla Lucania e utilizzati dai soldati romani in guerra. Tuttavia, la salsiccia rimaneva semplicemente carne tritata e insaccata nel budello,
illustrazioni di Ozzy Bellesi
mentre sarà più avanti Marco Gavio Apicio a trattare una ricetta specifica nel suo “De Lingua Latina”. Dopo, il milanese Ortensio Lando documenta invece nel suo tour gastronomico in Italia le diverse località e le relative zone di produzione degli insaccati: tra queste Bologna, Modena, Monza e Lucca. Provate a togliere il maiale a un modenese, lo difenderà al posto della sua stessa vita. La verità è che per quanto l’arte dell’insaccato (crudo o stagionato) sia diffusa in tutto il mondo, la salsiccia italiana è senza ombra di dubbio riconosciuta in tutto il globo, e come accade per la stragrande maggioranza delle famiglie gastronomiche, viaggiando da Nord a Sud per lo stivale è possibile trovare centinaia di tipologie diverse. Luganega, salamella, toscana e a punta di coltello sono solo alcune delle più celebri e diffuse nella nostra penisola, ma come spesso vi sarà capitato di sentire, una delle migliori soddisfazioni è quella di crearsela in casa, selezionando il corretto mix di tagli di carne, la percentuale e il tipo di grasso, la quantità di sale e di pepe, gli aromi e tutte le personalizzazioni del caso. Vostra nonna la fa con il peperoncino, vostro cugino con il finocchietto e parmigiano a cubetti, lo zio con la cotenna e Pino il salumiere con un mix di spezie super segreto. E indovinate un po’? La loro salsiccia sarà sempre la migliore del mondo. E questo, è un mondo bello perché vario. C’è un però: come in tutte le cose, il metodo scientifico non sbaglia mai. Vale per la cottura di una bistecca, per la carbonara, per il ragù, per il pesto e... sì, anche per le salsicce. Poteva quindi esimersi BBQ4All dal creare la propria versione di questo insaccato tanto italiano? E potevo forse esimermi io dal proporvi il pane perfetto per contenere e degustare una salsiccia di suino a dir poco spaventosa, leggermente speziata e con aggiunta di cheddar e jalapeno? Direi proprio di no. Scopriamo insieme come farlo, che ne dite?
Quindi, pensiamoci bene: abbiamo un insaccato molto bilanciato nel grasso e nel magro, con una buona aggiunta di formaggio sapido e intenso, una piccola dose di paprika e un kick deciso grazie al peperoncino jalapeno. Una salsiccia certamente carica ma molto equilibrata, che risveglia doti ancora più incredibili con l’aggiunta di un ingrediente per nulla insolito: l’affumicatura di ciliegio. Ripetiamo la solita regola, che vale anche in questi casi: il
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L’obiettivo
miglior panino possibile deve contenerla per intero, non deve sfaldarsi durante l’esperienza gustativa né sovrastare, ma non dovrà nemmeno risultare completamente nascosto e insignificante. Per sorreggere i giganti ci vogliono altri giganti, non credete? Ecco perché nel pensare a un pane perfetto per la salsiccia BBQ4All mi sono lasciato trasportare dai ricordi, da quel magnifico currywurst assaggiato in un food truck nel centro di Berlino; se l’Italia è la patria della salsiccia, la Germania è innegabilmente terra dei würstel, e questa particolare variante nient’altro è che una “salsiccia” grigliata, tagliata a rondelle e condita con una generosa dose di ketchup e curry in polvere, servita con pane bianco o patate fritte. Perché non riproporre quindi il concetto, affiancando agli aromi speziati dell’insaccato un’aggiunta di curry inserendolo questa volta nel pane come elemento aromatizzante? E non è finita: per sorreggere l’insieme caratterizzando il tutto inseriremo nella miscela la miglior farina multicereali che riuscirete a trovare in giro, conferendo rusticità e arrotondando il gusto complessivo. Il risultato dovrà essere un filoncino dalla forma di un pane per hot dog, con crosta assente, estremamente morbido ma profumato a dismisura, dal colore giallastro dato dall’aggiunta del curry con le note scure regalate dalla vostra farina multicereali.
Il Water Roux
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Anche questa volta ci affideremo al Water Roux per assicurarci il duplice vantaggio di una sofficità ancor più estrema oltre che di una shelf-life incredibile. Dicevamo, Water Roux: ricapitoliamo di cosa si tratta, che è meglio. Dicesi Water Roux (o Tang Zhong in lingua originale) è una semplicissima tecnica di derivazione cinese che consiste nell’utilizzare farina e acqua in proporzione di 1:5, dove la farina deve essere il 6% del peso totale utilizzato. La preparazione è molto simile a quella del roux preparato per la besciamella, un addensante naturale: il composto viene riscaldato in un pentolino fino al raggiungimento dei 65°C (stando attenti a non incorrere nella formazione di grumi) e poi
fatto raffreddare con pellicola a contatto prima di aggiungerlo al resto degli ingredienti. L’unione del Water Roux freddo all’impasto darà incredibili benefici: • L’impasto risulterà più morbido e idratato; • La sua particolare azione emulsionante consente di raggiungere risultati ottimi in termini di conservabilità e sofficità, eliminando l’uso di grassi soprattutto in caso di intolleranze alimentari; • La shelf-life guadagna punti, consentendo di mantenere intatte le caratteristiche del prodotto per 3-4 giorni in frigorifero.
L’esplosione di sapore Tutto molto bello, direte voi: ma che divertimento sarebbe se non potessimo giocare con gli ingredienti e i metodi, sfruttando questo particolare pre-fermento cinese, il calore e la gelatinizzazione degli amidi per far esplodere ancora di più il sapore? Basterà aggiungere il curry alla miscela ed utilizzare la farina multicereali per il roux per risvegliare l’incredibile aroma di grani e spezie e invadere la stanza di profumi mai sentiti fino ad ora.
I compagni di viaggio Perché il panino risulti leggero, ben sviluppato ed equilibrato nel gusto, è tuttavia fondamentale utilizzare la solita tipo 00 o 0 come base, in modo da sostenere l’insieme con una maglia glutinica salda e senza interruzioni, con un risultato più performante ed esente da difetti in fase di lievitazione; tenete inoltre presente che tra gli ingredienti figura una quantità consistente di grassi ed elementi di peso, quindi una maglia glutinica solida sarà in grado di sostenerne perfettamente il carico oltre a trattenere i gas della lievitazione e conferire struttura, solidità ma anche morbidezza. Latte e burro rendono l’impasto più estensibile, malleabile: avvolgendo le bolle di anidride carbonica che si formano durante la lievitazione le stabilizzano. L’alveolatura diventa così più omogenea e la struttura della mollica molto soffice; tali fattori aumentano notevolmente la shelf-life del prodotto finito. Le proteine dell’uovo, invece, possiamo dividerle in schiumogene e coagulanti nell’albume ed emulsionanti nel tuorlo.
INGREDIENTI Per il Water Roux: 60 g di farina multicereali; 300 g di acqua; 10 g di curry inglese in polvere;
Per lâ&#x20AC;&#x2122;impasto: 750 g di farina di grano tenero di tipo 00 (300 W); 190 g di farina multicereali; 250 g di acqua; 170 g di burro morbido; 1 uovo e un tuorlo (a temperatura ambiente); 18 g di sale fino o integrale;
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10 g di lievito di birra fresco (4 g se lievito secco).
Procedimento Le fasi previste sono: • Preparazione del Water Roux; • Impastamento; • Puntata o prima lievitazione; • Staglio e formatura dei panetti; • A p p r e t t o o s e c o n d a lievitazione; • Cottura.
Preparazione del Water Roux
Posizionate un pentolino sul fuoco e versate l’acqua, poi il curry e la farina a pioggia. Mescolate energicamente con la frusta per impedire la formazione di grumi, e attendete il raggiungimento dei 65°C. Il Water Roux sarà pronto quando la consistenza sarà simile a una gelatina e comincerà a vedersi il fondo del pentolino, ma non dovrà mai divenire troppo denso. Togliete dal fuoco, lasciate intiepidire leggermente, poi coprite con pellicola a contatto e lasciate raffreddare fino a 48 ore in frigorifero. Il composto non può essere aggiunto all’impasto da caldo, in quanto provocherebbe la morte dei lieviti.
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Impastamento
Rovesciate in un recipiente ampio o nella vasca della vostra planetaria le farine, il Water Roux, metà dell’acqua e il lievito sbriciolato; dopo aver amalgamato bene aggiungete l’acqua rimanente poco alla volta. Aggiungete quindi burro e uova devono necessariamente essere a temperatura ambiente; potete agevolarvi unendoli in precedenza e creando un composto morbido da inserire
spatolata dopo spatolata, attendendo che la quantità precedente sia stata assorbita prima di mettere la successiva. Aggiungete infine il sale e terminate l’impastamento quando l’insieme risulterà liscio, asciutto e setoso e la maglia glutinica si sarà formata. La temperatura interna dovrà essere di almeno 24°C per permettere a tutti i processi fermentativi e alla maturazione di avere inizio senza particolari ritardi. Lasciate riposare nella ciotola per circa 15 minuti, poi ripiegate l’impasto in forma di pagnotta in modo che sia in grado di crescere verso l’alto.
Puntata
Trascorsa la prima parte del riposo, riponete l’impasto in un recipiente dai bordi alti ben oliato e chiuso ermeticamente, e lasciate a temperatura ambiente per almeno un’ora per dar modo alla lievitazione di partire. Posizionatelo infine in frigorifero per 18-24 ore a una temperatura di 6°C.
Staglio
Circa 4 ore prima della cottura togliete dal frigorifero e dividete l’impasto in panetti da 100 g l’uno. Schiacciate bene ogni panetto; poi arrotolate ogni panetto su se stesso fino a formare un salsicciotto di circa 15 cm di lunghezza, uniforme in tutta la superficie. Adagiate i panetti così allungati su una teglia con della carta forno; nelle vostre classiche pirofile da casa (con misura 30x40 si intende) ce ne staranno circa 6, distanziati circa 2 cm gli uni dagli altri.
Coprite con un panno umido e lasciate in appretto a una temperatura di 28-30°C.
Appretto
Altre tre ore e mezza a 28-30°C e i panini saranno pronti per essere infornati. Al termine di questa fase, i salsicciotti saranno arrivati a toccarsi; in cottura la parte di mezzo rimarrà bianca e morbida, e costituirà un ottimo ausilio per effettuare il taglio e farcire il vostro panino.
Cottura
Stabilizzate la temperatura del vostro forno a 230°C e cuocete per 10-11 minuti. I panini saranno pronti quando la temperatura interna, misurabile con un termometro a sonda, sarà di 90°C e la mollica completamente asciutta.
Raffreddamento, mantenimento e servizio
Una volta sfornati lasciateli raffreddare su una griglia rialzata, evitando in tal modo la formazione di condensa che rovinerebbe il duro lavoro svolto finora. Fateli prima raffreddare, conservandoli eventualmente in frigorifero per 2-3 giorni o in freezer se prevedete di superare il tempo limite. Ok, ci siete: praticate un taglio longitudinale senza arrivare fino in fondo, tostateli interamente in forno a 180-200°C per formare una crosticina croccante e saporita e farciteli con la vostra salsiccia BBQ4All cotta rigorosamente intera a 200°C nel vostro kettle, con una leggera affumicatura di ciliegio.
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PARTE 2
ROBIOLA ...formaggio di necessità e fantasia L'arte casearia a cura di Giovanni Minelli
Probabilmente il più comune tra i formaggi a coagulazione acido-lattica del nostro paese, talmente celebre da diventare la lattica per antonomasia. Sto parlando, ovviamente, della Robiola.
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Ci sono infinite vie per realizzare la robiola, davvero, ognuna valida e legata alle necessità, agli strumenti e alla fantasia di chi la trasforma. A differenza della stragrande maggioranza dei formaggi - dove per ottenere il risultato prefissato occorre seguire il processo con scrupolo certosino - per la robiola possiamo essere più flessibili, rimanendo negli intervalli che vedremo in seguito. Io vi darò il processo che faccio più frequentemente in casa ma ragioneremo sui possibili effetti delle piccole variazioni che il processo ci concede. Anche per questo prodotto, come è successo la volta scorsa per la ricotta, qualora decideste di seguire il mio processo andrete a colpo sicuro ma se ci vorrete mettere del vostro creerete un prodotto identitario, vi divertirete e sarete di sicuro e comunque soddisfatti. A me piace consumarla fresca e spalmabile, ma in condizioni idonee potreste farla asciugare per ottenere un prodotto da
L’obiettivo è ottenere un prodotto pronto da consumare in tre giorni, privo di crosta. La nostra robiola al gusto sarà acidula e dai delicati sentori lattici, sia al naso sia in bocca. Il segreto è nella fermentazione del lattosio in acido lattico ad opera di batteri lattici mesofili. Quindi, occorrerà tenere il latte con i mesofili ad una temperatura costante per diverse ore: per fare ciò, io utilizzo un contenitore in polistirene espanso, facile da reperire ed estremamente economico. La resa del latte in formaggio è molto elevata per questa tipologia di prodotto e se pensiamo anche alla facilità di realizzazione, la robiola potrebbe diventare uno dei formaggi che più volentieri andrete a preparare. Lo abbiamo già detto, si tratta di una coagulazione acido-lattica, quindi potremmo non usare affatto il caglio: io lo uso comunque, in quantità minima, per ottenere un coagulo un po’ più compatto e facile da lavorare a mano in fase di formatura. Certo: puoi anche pensare di realizzare una robiola senza, ti basterà seguire il processo tralasciando quel passaggio. Nel numero di Settembre 2020 del Magazine abbiamo già parlato del punto isoelettrico: per essere precisi, ne abbiamo parlato nell’articolo in cui vi ho raccontato come produrre il mascarpone e il concetto chiave è sempre quello. Tralasciando questo passaggio, invece, sarà il caso di vedere che cosa di imprescindibile ci serve: neanche a dirlo occorre il latte e una pentola, fermenti mesofili, un contenitore in polistirene per mantenere la temperatura (se avete un mezzo più tecnologicamente avanzato, chiaramente è meglio), una tela per concentrare il prodotto e far spurgare il siero. Partiamo: mettiamo il latte in pentola e raggiungiamo la temperatura obiettivo,
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fotografie di Elisa Giuli
taglio o addirittura farla ricoprire da muffe bianche, aiutandosi, a livello casalingo, con un contenitore ermetico per alimenti e con i ceppi selezionati di Geotrichum candidum e Penicillium camemberti. Prima di vedere come possiamo ottenere queste variazioni sul tema, concentriamoci su quella più evocativa che piace a me: quella spalmabile.
che è quella alla quale i batteri mesofili saranno in condizione di crescere e di assolvere il compito che gli abbiamo appaltato, fermentare il lattosio in acido lattico, quindi abbassare il pH del substrato. Si tratta di un intervallo di temperatura compreso tra i 20°C e i 30°C: io preferisco portarlo proprio a 30C°, tra poco capirete perché adotto questa scelta. A temperatura raggiunta inserisco in pentola i mesofili e lascio sostare per 6 ore, all’interno della cassetta di polistirene. É importante che il latte non scenda sotto i 20°C in queste 6 ore, considerato il fatto che siamo a novembre e le temperature sono abbastanza rigide. La cassetta di polistirene è funzionale a mantenere la temperatura ma non è neppure il miglior strumento del mondo, per questo motivo partendo da un latte a 30°C posso stare abbastanza tranquillo.
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Dopo questa sosta tecnica aggiungo il caglio in quantità
minima, diluisco in acqua circa due gocce per litro di un caglio liquido di vitello 1:10000 al 25% di pepsina. Mescolo delicatamente e lascio in sosta per 18 ore sempre nella cassa. Sono passate complessivamente 24 ore da quando abbiamo cominciato il processo e abbiamo ottenuto una massa cagliata a pH inferiore di 4,6: dunque è il momento di estrarla. Sarà una cagliata molto delicata quindi utilizzo una schiumarola per passarla
all’interno della tela. Una volta trasferita tutta la cagliata, chiudo il fagotto e la lascio appesa a drenare per circa 8 ore a temperatura ambiente. Passo la crema di formaggio in un recipiente dove la lavoro con un mestolo e aggiungo l’1,5% di sale fino. Io mi diverto a pasticciare, dunque formo le mie piccole robiole a mano, ma voi giocate pure di fantasia. Riassumo e poi vi do qualche
Vi do anche un paio di spunti: potrei far sgrondare il siero direttamente all’interno di comuni fuscelle e se avessi
messo del sale nel latte dopo lo spurgo sarebbero già pronte da consumare senza ulteriori passaggi. Il sale, orientativamente 4/5 grammi per litro, lo andrei ad inserire, preventivamente disciolto in un po’ di latte, dopo la prima sosta e prima di inserire il caglio. Se avete letto gli altri numeri del Magazine avete già tutti gli elementi per capirne il motivo, per questo motivo vi sfido a spiegarmelo all’interno del gruppo Gastronomica-mente.
Vi accennavo alla possibilità di far asciugare le robiole e farle ricoprire da muffe bianche, come si fa? Penicillium camemberti e Geotrichum candidum, li trovate dove avete imparato a trovare i fermenti, li inserirete nel latte insieme ai mesofili, oppure successivamente alla formatura spruzzandoceli sopra, dopo averli diluiti in acqua. Per far sviluppare le muffe, saranno necessari alta umidità e ossigeno.
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spunto per le variazioni sul tema: • Ora zero: latte in pentola a 30°C e aggiungo i fermenti mesofili; • Dopo 6 ore: aggiungo il caglio; • Dopo 24 ore: estraggo la cagliata e la posiziono nella tela; • Dopo 32 ore: aggiungo il sale e formo le robiole.
PARTE 3
ASSEMBLIAMO IL PANINO INGREDIENTI per 4 persone: • • • • • •
Una confezione di Pork Sausage cheddar jalapeno skin packed 4 panini (secondo ricetta Trezzi) robiola q.b. (secondo metodo Minelli) un porro farina q.b. olio di semi di arachidi q.b.
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PROCEDIMENTO: 1. Accendete il vostro dispositivo e predisponetelo per una cottura indiretta, stabilizzandolo ad una temperatura di circa 130°C. 2. Appoggiate le salsicce in griglia dalla parte opposta delle braci e chiudete il coperchio del dispositivo. Attendete circa 45 minuti e poi verificate la cottura. Togliete le salsicce dal fuoco e tenetele in caldo fino al momento del servizio. 3. Scaldate i panini. 4. Affettate i porri molto sottilmente, poi infarinateli e friggeteli per pochi istanti (attenzione a non farli bruciare, è facilissimo!) fino a che non saranno croccanti. 5. Aprite i panini a metà e farciteli con la robiola, la salsiccia affettata e i porri fritti.
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fotografia di Emiliano Nencioni
Sal's Seasonings PICCOLA GUIDA AI RUB
cosa sono e come utilizzarli al meglio
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Approfondimento a cura di Virgilio Brunetti
Partiamo con il Dry Rub: per dirla in maniera sintetica, è una miscela di spezie ed erbe
secche con quantità variabili di sale. Personalmente, ritengo che sia uno dei metodi di seasoning più potenti, efficaci e versatili a disposizione del griller. Nella sua apparente semplicità, un Rub costituito da pochi ingredienti, come un SPG (salt, pepper, garlic), è in grado di rendere memorabile una preparazione ma anche di devastarla rendendola assolutamente immangiabile; un eccesso di pepe nero e aglio disidratato sono capaci di rendere immangiabile il più pregiato dei Brisket, asfaltandovi letteralmente la lingua; stessa cosa dicasi per gli ingredienti con un carattere
esuberante ed invadente quali cannella, chiodi di garofano, cumino e peperoncino. La questione sale: come abbiamo già detto tantissime volte, nei seasoning il cloruro di sodio gioca un ruolo chiave nella somministrazione di sapidità e nella modificazione della struttura delle componenti proteiche degli alimenti come carne, pesce, crostacei, molluschi e formaggi. L’uso del sale ha la funzione primaria di conservante, ma ha anche un ruolo cruciale nella modulazione e nell’esaltazione delle proprietà organolettiche dell’alimento,
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Direi che è giunto il momento: ogni bravo griller deve avere un po’ di animo da speziale, giocare con le erbette (quelle legali, s’intende!), i cosiddetti odori per arricchire e per, diciamola tutta, rivoluzionare la propria carne. Questa piccola guida ai rub, senza falsa modestia, vi ritroverete a stamparla ed incorniciarla nel vostro tempietto personale: è senza tempo e vi tornerà utile, per sempre. Bene, non ci resta che iniziare, senza troppi fronzoli.
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soprattutto in termini di texture e ritenzione di moisture. È quasi una banalità, ma ci tengo sempre a ribadire che la ricerca dell’equilibrio nella formulazione dei Dry Rub sia un fattore cruciale; diventare agili nell’uso di questi metodi di seasoning è una capacità che si affina sia con l’esperienza sia con lo studio dei singoli ingredienti. Saggiare la qualità di un prodotto tal quale non è sufficiente per determinarne la qualità e le proprietà: probabilmente, assaggiando un prodotto di questo tipo in purezza, le vostre papille gustative saranno sferzate da un eccesso di sapidità, piccantezza e pungenza; tuttavia, il rub non è mai formulato per essere gustato in purezza, occorre avere un bel po’ di elasticità mentale per prevederne gli effetti in cottura e a contatto con alimenti caldi. Quando utilizzate il sale nelle tecniche di Dry brining, ad esempio, tenete sempre in mente che nelle fasi di cottura e di reverse searing (soprattutto nel Revit) continua la sua diffusione all’interno dell’alimento, perfezionando la sua distribuzione. Applicando il sale sulla superfice di uno spesso taglio di muscolo bovino, generiamo uno strato superficiale ipersalato che lentamente andrà a distribuirsi dall’esterno verso l’interno con una velocità approssimativa di 1 mm/ora (fate bene attenzione:
fotografia di Rossella Neiadin
questa è un’approssimazione grossolana, che non tiene conto della struttura complessa di alcuni tagli ed è calcolata in maniera indiretta assimilando la penetrazione del cloruro di sodio ad un colorante, ovvero una molecola che non ha le stesse capacità di diffusione); ma questa distribuzione interna continua in cottura equilibrando in maniera definitiva il sale nello spessore della carne. Anche spezie ed erbe secche possono distribuirsi quando sono a contatto con alimenti umidi e grassi, tuttavia la loro capacità di penetrazione è bassissima, soprattutto se paragonate al sale. Le molecole aromatiche di alcuni ingredienti hanno comunque la capacità di impregnare le carni e di fissarsi alle superfici in maniera piuttosto efficace, oltre che di farsi sentire anche a bassa concentrazione; per farvi un esempio banale ma molto comune, se avete dimenticato una mezza cipolla nel frigorifero e non l’avete chiusa ermeticamente il suo aroma andrà ad attaccarsi un po’ ovunque in
maniera piuttosto casuale. Molte spezie ed erbe officinali possono trasferire il loro aroma anche senza contatto diretto con l’alimento; allo stesso modo, se infuse in un mezzo grasso o acquoso possono rilasciare un gran numero di molecole che impartiscono agli alimenti non solo l’odore caratteristico ma anche sapore e colore. “Meathead” Goldwyn nel suo Amazing Ribs, in un capitolo dedicato alla Scienza dei Rub mostra come alcune miscele di spezie rilascino le loro componenti aromatiche e cromogene se messe in infusione per alcuni minuti in acqua oppure olio vegetale. Il risultato, per mia opinione, va oltre il fatto che i Rub funzionino meglio se a contatto con acqua o grassi, e dimostra inequivocabilmente che gli ingredienti di un rub a contatto di substrati complessi come la carne rilasciano in maniera
Parliamo ora del bark: è l’obiettivo numero uno del Rub nel contesto barbecue è la formazione di uno strato semisolido e saporito, appunto il bark, che tutti i griller anelano di ottenere. Le caratteristiche fisiche del Dry rub sono un altro fattore fondamentale che richiede attenzione. La granulometria degli ingredienti in una miscela di spezie è determinate nella formazione del bark. Spesso questo fattore tecnico viene ampiamente trascurato da tutti coloro che si dilettano a preparare in casa un Dry Rub; i griller più esperti invece sanno benissimo che, nella formulazione di un semplice SPOG (salt, pepper, garlic, onion) per la preparazione di un Brisket
Texas Style, è fondamentale che i quattro ingredienti abbiano granulometria controllata che consideri il peso specifico dei singoli granuli; il modo corretto per distribuire un Rub è utilizzare dei flaconi con coperchio dotato di fori che devono essere sufficientemente grandi da poter distribuire il prodotto senza escludere nessuno degli ingredienti; che si tratti di sale, pepe, aglio e cipolla in granuli, dovete distribuire il rub miscelandolo continuamente nel flacone e disperdendone la giusta quantità per unità di superfice. Notate bene che agitando un Rub formulato in maniera incoerente dal punto di vista della granulometria di sale e spezie, queste ultime tendono a stratificare andando poi a prevalere nell’atto della dispersione. Capirete che se avete un sale con un cristallo troppo grande o troppo pesante, o un pepe nero che è una miscela eterogenea in termini di granulometria, rischiate in qualche modo di avere sulla carne una distribuzione degli ingredienti molto diversa dalla composizione originale del Rub. Stesso dicasi se
utilizzate un flacone con un filtro a maglie troppo strette rispetto alla grana di alcuni ingredienti. È indubbio ora che per avere un Rub di qualità l’origine degli ingredienti deve essere frutto di un’accurata selezione che tenga conto delle provenienze, della freschezza e della corretta conservazione. Ormai dovreste capire che un “banale” pepe nero può avere un prezzo al kilogrammo piuttosto elevato e che una eventuale lavorazione di macinatura deve rendere una granulometria adeguata all’uso. Ma veniamo al dunque: sono sicuro che a questo punto molti di voi abbiano testato la nostra selezione di Rub Sal’Seasoning. Alcuni di voi ormai li utilizzano per condire anche la mozzarella e la macedonia, ma probabilmente ancora pochi di voi sanno che queste miscele non sono state create solo dalla mente malata (in senso buono!) di Salvatore Di Mento, ma sono anche frutto di un accurato processo di selezione degli ingredienti; questo ovviamente genera un prodotto che ha un prezzo al kilogrammo piuttosto alto, ma vi assicuro che ne vale la pena ed una volta provati, non tornerete da nessun altro rub.
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differenziata una moltitudine di molecole che arricchiscono l’alimento di aroma, sapore e colore.
THE ULTIMATE S.P.O.G.
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The Ultimate SPOG è un rub dallo straordinario equilibrio pari solo alla semplicità degli ingredienti base. Spicca il sale kosher dalla peculiare geometria in sfere, pepe nero pregiato a grana media, aglio e cipolla in granuli. I griller più esperti sanno bene bene come non sia banale trovare questi quattro ingredienti nella grana perfetta, ovvero media, che permetta una aspersione della miscela precisa, coerente e senza sprechi, che renda in cottura al massimo senza uccidere il vostro manzo e vi dia un bark da Brisket da “Grand Champion”. L’aglio e la cipolla in granuli che trovate nei supermercati o nel vostro negozio etnico di fiducia spesso sono prodotti di pessima qualità, capaci di devastare con le loro note sulfuree qualsiasi alimento. Il pepe a grana media setacciato e privo di polvere è un altro ingrediente quasi introvabile soprattutto se parliamo di un prodotto di qualità. Sal ha reso perfetto un Rub che apparentemente non ha margini di miglioramento: lo ha chiamato “The ultimate” perché lo ha dopato con un paio di “ingredienti segreti” che ne migliorano profumo e gusto. Se cercate un uso alternativo a questo Rub ricordate che potete utilizzarlo come boost nella preparazione dei vostri hamburger e polpette a base di manzo e altre carni rosse.
MONTREAL STEAK RUB
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Il Montreal Steak Rub è un capolavoro. Molti conoscono questo prodotto per la sua estrema versatilità. Nasce come rub di finitura e si differenzia da tutti gli altri sul mercato per la sua particolarissima grana dovuta all’abbinamento di ingredienti grossolani e l’utilizzo di estratti che conferiscono una appearence davvero unica. La presenza di paprike pregiate lo rende sensibile a temperature estreme, il calore è tuttavia necessario affinché sprigioni tutta la schiera di olii essenziali presenti nella miscela. Il Montreal di Sal nasce dal classico Montreal Rub caro alla cultura barbecue canadese, che è costituito generalmente da una miscela variabile di sale kosher, pepe di grana media, coriandolo, paprika affumicata, aneto, peperoncino frantumato, aglio e cipolla granulare, semi di senape gialla, sale. Per la particolare struttura di questo Rub potere osare una lunga infusione in olio vegetale a temperatura controllata (4 ore in SV a 60°C) in modo che tutte le componenti aromatiche e cromogene vadano ad infondere nella base grassa. Potete utilizzare questo estratto come marinatura su base oleosa per pollo e maiale; in questo modo potrete apprezzare al massimo le note agrumate di questo rub. Se nella stessa procedura utilizzate un olio extravergine d’oliva potrete utilizzare il prodotto aromatizzato come condimento su formaggi freschi e pane arrostito.
DALLAS MILD RUB
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Dallas Mild Rub è il classico a base senape, che nasce principalmente pensato per il manzo. Se lo avete assaggiato avrete sentito spiccare tra le note sulfuree di aglio e cipolla e la pungenza della senape, un’accattivante acidità dovuta alla presenza dell’acido citrico che manderà in subbuglio le vostre papille gustative. Questa combinazione di ingredienti e di sapori lo rende decisamente adatto alle carni bianche tirandole fuori dall’anonimato senza peraltro sovrastarne il gusto base. Sebbene questo Rub abbia un’elevata attitudine per il pollame, la sua particolare composizione lo rende eccezionale per la preparazione di classiche salse stir fry, adatte anche a maiale e crostacei; la senape in questo caso espleterà a pieno il suo potere emulsionante andando ad ispessire la salsa che avvolgerà i succosi tocchi di carne bianca, pesce e verdure. Per bilanciare il tutto, non lesinate su peperoncino e salsa di soia.
TENNESSEE MILD DRY RUB
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Tennessee Mild Dry Rub non è altro che la versione sotto steroidi del nostro Serial Rub #19, rivisitato nella grana delle spezie e arricchito di una potente componete umami. Insieme al Montreal è sicuramente uno dei Rub che si distingue per versatilità, ma con una spiccata attitudine non solo per la preparazione del manzo ma soprattutto per il pork: ribs e boston butt. In tutti i nostri Rub le componenti sapide, umami e piccanti sono accuratamente calibrate al fine di poter rimodulare in maniera efficace la sapidità e la potenza del kick. Sappiamo benissimo che uno stesso prodotto può risultare troppo/poco piccante o salato se utilizzato su tagli diversi come le ribs, che hanno poco volume e una grande superfice ed una spalla di maiale che invece ha un rapporto superfice/volume inverso. Proprio in visione di una tale eventualità potrete voi stessi modulare l’aggiunta di sale, elementi piccanti e umami per ottenere Tennesse Hot “Power Boost”. Senza commettere alcuna blasfemia culinaria potrete utilizzare questo rub per rendere inimitabile le vostre salse barbecue o il vostro ketchup home made. In fase di assemblaggio dovrete semplicemente aggiungere il Tennessee Mild Dry Rub nella ragione di 20 grammi per litro di salsa e scaldare lievemente perché le spezie e gli oli essenziali infondano bene nella base acquosa della salsa.
MEMPHIS DRY RUB
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Memphis Dry Rub è un’altra miscela da finitura, dedicata ai tagli di maiale. L’utilizzo di elezione è la finitura dry delle Pork Ribs, perfetto quindi su carni e tagli con una ricca prevalenza di grassi che in cottura diventano fluidi e si arrichiscono di tutti gli aromi e i colori ceduti dalla infusione delle spezie di questo Rub. Non a caso molti adorano utilizzarlo su formaggi freschi e uova, tuttavia sprigiona le sue migliori doti se la miscela di spezie viene a contatto con alimenti caldi. Se avete la macchina per i pop corn aggiungete un cucchiaino di questo Rub quando il mais inizia a scoppiare oppure in fase di rosolatura sulle vostre patate al forno: estasi pura.
MOUNT NIMBA RUB Mount Nimba Rub è una miscela di finitura con una spiccata propensione gourmet. Aroma di fumo, cacao e vaniglia sono gli elementi caratterizzanti. Una miscela di spezie audace che si presta ad accostamenti sia classici che insoliti. La sua naturale attitudine è il manzo (sia la bistecca, sia il classico Brisket). La dolcezza dell’aroma di vaniglia e del cacao sviluppata dal Mount Nimba possono suggerire accostamenti di una cucina fatta di carni più particolari: brasati di cervo, capriolo o cinghiale e, se non lo avete mai provato, su un raffinato spiedino di filetto di coda di canguro. Provatelo appena tostato su un carpaccio di carne equina o un ceviche di tonno rosso. Il suo carattere esotico complessato con spezie calde orientali piccanti come lo zenzero, la cannella, il chiodo di garofano, lo rendono strepitoso su preparazioni a base di frattaglie rosse come il fegato bovino appena scottato magari accompagnato da una mostarda di fichi. Provatelo ancora su una mini ricotta di latte ovino con un velo di polvere impalpabile di liquirizia.
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Probabilmente ai più questo Rub potrebbe sembrare difficile da collocare ma è più versatile di quello che si potrebbe pensare. Il Mount Nimba anche nel caffè? No, ma nel cioccolato fondente con nocciole anacardi e zenzero ad accompagnare un Rhum Solera e un buon sigaro ci sta alla grandissima.
e s e v o n ge
La ricetta scientifica a cura di Gianfranco Lo Cascio
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a l n o aP sta c
Per i pochi sventurati che non lo sapessero, il sugo alla genovese è una sorta di ragù bianco totalmente estraneo agli affari della capitale ligure. Nasce e mette radici a Napoli qualche centinaio di anni fa, è un piatto della cucina popolare che si ottiene dalla cottura lunga di bilici di cipolle e carne. Questa cottura infinita disfa sia le une che l’altra. Oltre a trasformare l’intera casa in una pompa di metano. Solitamente si condiva il sugo con la pasta e si lasciava la carne per secondo, oggi si mangiano assieme in tutta la loro complessità. Se avete provato la genovese partenopea saprete che è un piatto che respinge qualsiasi via di mezzo: è opulento, potente, unto, spiccatamente dolce e al contempo acido. Dopo averlo ingerito il vostro alito profumerà come quello di un Alpino ubriaco con la cirrosi epatica dopo che ha masticato tabacco e tartufo nero. Ma quanto è buono, maronna mi’. Smisuratamente godurioso. Un cibo confortante che placa la golosità e ti lascia immerso nelle endorfine. I rischi in cui si incorre cucinandolo sono molteplici: scegliere il taglio di carne sbagliato, cuocere troppo le cipolle, esagerare con le carote, ritrovarsi con un sugo che sa di bollito, coi condimenti praticamente devastati dal calore, per poi sporcare appena la pasta con una salsa slegata e unta. Il compitino ambizioso che mi ero assegnato era quello di eliminare gli elementi fastidiosi da questo piatto senza intaccarne aroma e godibilità. Concentrare ed esaltare i sapori di carne e cipolle e migliorare la ricetta dal punto di vista della digeribilità. E devo dire che dopo qualche tentativo ci sono riuscito. Il risultato è stato devastante. Per chi l’ha assaggiata, una genovese “scostumata” e ottantamila leghe superiore all’originale, più buona e più digeribile. Mai più fiato da sciacallo e manate di Vigorsol, giuro.
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fotografie di Rossella Neiadin
LA STORIA.
C’è chi è pronto a spergiurare sull’esistenza di un cuoco inventore che di cognome faceva Genovese, chi invece si intestardisce con la storia del monzù (monsieur, Signore) di Ginevra (Genève, Genevois e quindi Genovese), chi straparla di osti genovesi e proprietari di numerose trattorie in zona Napoli porto (pare che questi stufassero la carne con le cipolle, nonostante non se ne faccia menzione in nessun libro sulla gastronomia ligure).
La genovese una ricetta famosa a tutte le latitudini, che dà la possibilità, una volta era la regola, di mangiare anche la carne come secondo piatto, servendo la pasta con il solo sugo delle cipolle ed alcuni pezzettini di carne sfaldatisi durante l’interminabile cottura. L’unica certezza che abbiamo su origine e usi, a parte il liquorino digestivo a fine pasto, è l’essenzialità e la semplicità degli ingredienti: carne e cipolle. Nella mia versione non giocheremo con i componenti ma con la tecnica: andremo a preparare una demi glace di carne esagerata, un “assoluto di cipolla” e condiremo la pasta aggiungendo del macinato ben rosolato e una julienne di cipolla arrosto.
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Intrigante, no?
LA CARNE.
A stare appresso ai napoletani dovremmo utilizzare solo il “lacierto”, il girello, che dovrebbe essere rigorosamente di annecchia (cioè una manzetta macellata prima che compia un anno) o la “colarda” (in italiano scamone). Ma sono entrambi tagli troppo magri e poveri di collagene per essere cotti a lungo. Solo i più scafati tra i campani utilizzano il “gammunciello” (gamboncello, il geretto posteriore di manzo), un taglio che potrebbe anche prestarsi, ma che noi utilizzeremo in un altro modo.
IL BRODO. • • • • • • • • •
Ingredienti 1 stinco di manzo 1 cipolla ramata 2 carote 1 costa di sedano Pepe in grani Bacche di ginepro Rametti di timo fresco 2 foglie di alloro 3 lt di acqua
Tostate le ossa e la polpa dello stinco in forno a calore feroce (230°C) con poco olio, poi deglassate con acqua la crosticina brunita che si sarà formata sul fondo. Trasferite il tutto in una pentola alta e aggiungete acqua, sedano, carote, cipolla, alloro, bacche di ginepro e grani di pepe. Lasciate sobbollire e mettete da parte.
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Per preparare la genovese scientifica vi serve un buon brodo di carne. E per preparare un buon brodo di carne vi serve uno stinco di manzo, anteriore o posteriore non fa differenza. Fatevi disossare il geretto dal macellaio e chiedetegli di segare l’osso a rondelle o a baguette, in senso verticale. Raschiate via il midollo e mettetelo da parte, ci servirà per la demi glace.
LA DEMI-GLACE VELOCE. Senza perdere il sonno dietro alla ricetta francese, che già abbiamo tanto da fare. Ingredienti • 2 kg di Top Blade (cappello del prete) o di Chuck Roll (reale) GLC Top Selection Blue Ox Prime • 1 carota • 1 cipolla • 1 costa di sedano • 1/2 testa di aglio • 50 g di concentrato • 50 g di burro • 1 bicchiere di vino rosso • 2 l di brodo • Il midollo dello stinco utilizzato per il brodo (non è fondamentale) • 2 rametti di rosmarino • 1 chiodo di garofano • sale q.b. Seguendo la scia profumata del mio ragù, la genovese scientifica deve avere un sugo di carne bello intenso, e per ottenerlo ci servono due tipologie di tagli: • uno ricco di tessuto connettivo, che sarà la base della demi glace • uno più magro con il quale dare struttura e consistenza al sugo finale.
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La carne ricca di collagene andrà ad arricchire la salsa, mentre il macinato darà consistenza e sapore al piatto, senza essere inutilmente esposto alla cottura lunga. Per arricchire la demi glace con una buona quota di gustosa gelatina possiamo utilizzare: • Top Blade, Feather blade, Oyster Blade, oppure in italiano Copertina di spalla e Cappello del Prete. In base alla nomenclatura italiana è il muscolo della spalla, quindi proveniente dalla mezzena anteriore dell’animale. È il taglio perfetto
per le cotture prolungate grazie al quantitativo generoso di tessuto connettivo; • Chuck Roll, o Reale, comprende i muscoli del collo dell'animale fino alla quinta vertebra. È un taglio incredibilmente saporito, una parte del manzo ricchissima di tessuto connettivo e grasso. • Biancostato, situato nella parte bassa delle coste e particolarmente carico di collagene; • Punta di petto, il muscolo della parete addominale farcito di tessuto adiposo e del collagene delle costole; Scegliete tra uno di questi quattro tagli e nessuno si farà male, io ho usato i primi due. Ma come facciamo ad estrarre questa gelatina dalla ciccia e trasferirla direttamente nella demi glace? Semplicissimo, basterà portare la carne ad una temperatura superiore a 68°C. È proprio in quel momento che il collagene si scioglie e si trasforma in un gel saporito. Dobbiamo dunque fare una salsa, bella densa ma comunque fluida. E che sappia di manzo, ma di brutto. Quindi l'obiettivo fondamentale è quello di estrarre sapore dalla ciccia e infilarlo nella salsa. Per fare questo ci concentriamo su due processi: generiamo quanto più sapore possibile e poi lo estraiamo.
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PRIMO STEP: tostatura della carne in forno. Tagliate la carne a cubotti, mettete la placca nel forno, sotto al grill e tostatela come se fosse l'ultimo giorno prima del lockdown, senza nemmeno il pelo di un cane da portare giù. Ben brunita, Maillard a cannone.Vi resteranno dei liquidi e grassi disciolti nella teglia. Recuperate fino all'ultima goccia perché ci servirà dopo. Stessa identica cosa farete con i cubetti di verdura: sedano, carota, cipolla, più l’aglio a spicchi interi. Mescolate la verdura con dell'olio e poi tostate bene in forno. Abbiamo creato tantissima superficie aromatica sia grazie alla reazione di Maillard che alla caramellizzazione. Queste reazioni, come sappiamo, creano molecole profumate e gustose che non esistono in natura. Molecole che, in buona parte, passeranno alla fase liquida successiva. Abbiamo ottenuto ciò che avevamo in testa: generare sapore.
SECONDO STEP: estrazione. Adesso possiamo passare alla fase successiva che sarà quella dell'estrazione. Fiamma sostenuta, poco burro nel tegame, si buttano dentro le verdure rosolate, il midollo e la carne tostata con i suoi liquidi. Aggiungiamo del concentrato di pomodoro, sciogliamo bene e amalgamiamo al resto.
TERZO STEP: la fase liquida.
Fate prendere il bollore sempre a fuoco feroce, abbassate la fiamma e lasciate cuocere con il coperchio, fin quando la carne non si sarà disfatta. Fate ridurre della metà, date una schiumatina se occorre (potrebbero affiorare delle impurità) e poi filtrate il tutto. Vi serve solamente la parte fluida. Con la carne e le verdure ormai strizzatissime potete fare due polpette da friggere. Ci rompete un uovo dentro, pane ammollato, un po' di Parmigiano e via di stuzzichino. A questo punto abbiamo un fondo bruno super carico di sapore. Non resta altro da fare che trasformarlo in demi-glace, facendolo ridurre in un pentolino. Una volta ottenuta una salsa spessa, aggiungete il sale (non salatelo prima!), trasferite in un boccale e immergete il contenitore in acqua fredda. Emulsionate con un minipimer fin quando non avrete ottenuto una crema areata, simile ad una maionese. Trasferite in frigorifero, una volta freddo acquisirà la consistenza di un paté.
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Prima bagniamo con un bel bicchierone di vino rosso di buona struttura. Lasciamo che l'alcol evapori e poi allunghiamo con il brodo di manzo preparato in precedenza. Potete sostituirlo con del brodo vegetale, di pollo, come vi pare, l’importante è non salarlo. Se non ce l'avete usate l’acqua. Aggiungete il rosmarino e i chiodi di garofano, se volete potete utilizzare una garza e assemblare un bouquet garni (un mazzetto di erbe aromatiche che preferite).
LA CIPOLLA BIANCA Le cipolle bianche dividono: c'è chi dice che siano le più pungenti e chi sostiene che siano molto delicate. Questo perché di cipolle bianche ne esistono moltissime varietà. LA CIPOLLA ROSSA La dolcezza è sicuramente la forza della cipolla rossa. Il suo sapore è un po' più pungente e il suo profumo più potente di quello della cipolla bianca, ma il contenuto di zuccheri è maggiore. La sua naturale dolcezza le rende l’ingrediente ideale per i sottaceti o per le composte. L'altra caratteristica imprescindibile di questi bulbi è chiaramente il colore: questa sfumatura di rosso che regala ai piatti una nota cromatica molto particolare.
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LA CIPOLLA RAMATA La cipolla ramata ha un contenuto solforoso molto importante che le dona un sapore e un odore molto forti. Cucinarla è un dovere, non azzannatela mai cruda, poiché il calore permette alla dolcezza della cipolla ramata di esprimersi alla perfezione.
LE CULTIVAR DA CONOSCERE
In Italia siamo maestri della diversificazione e della specializzazione. Le cipolle non sono tutte uguali, ma manco per sogno. Ogni cipolla ha le sue caratteristiche ben precise, uno scopo e un utilizzo.
CIPOLLA DI CERTALDO Dai versi del Decamerone allo stemma cittadino, la cipolla di Certaldo, comune della provincia di Firenze, è entrata nella storia. La Certaldo, dolce e viola nella varietà statina, rossa accesa e pungente nella vernina, è particolarmente indicata per preparare la zuppa di cipolle. CIPOLLA BELENDINA DI ANDORA Rossa, grossa, succosa e dolce. La cipolla belendina di Andora è un Presidio Slow Food coltivato sulla piana di Andora tra le provincie di Savona e Imperia: si è salvata grazie all’agricoltore Trentino Bellenda (da cui il nome) che da solo ha recuperato la specie. Ha una caratteristica forma a fiasco e può arrivare a pesare oltre un chilo. Si usa per preparare la farinata di ceci con cipolle. CIPOLLA ROSSA DI LAMEZIA TERME Varietà molto antica dal sapore dolce e dalla consistenza croccante, anch’essa Presidio Slow Food. Ottima per la panzanella. CIPOLLA ROSSA DI BREME La particolarità della rossa bremese, cipolla dolcissima pavese, consiste in un ciclo di produzione lunghissimo (quasi due anni) realizzato interamente a mano. Fondamentale per due piatti tipici della zona, l’insalata bremese con cipolla, tonno e fagioli e il baruat a base di cipolla, rane e polenta. CIPOLLA ROSSA GENOVESE Questa varietà sferica e molto dolce viene coltivata nell’entroterra di Chiavari, Lavagna e Sestri Levante. Conosciuta anche come “cipolla di Zerli”, è molto apprezzata a crudo, sulla focaccia o nelle torte salate della cucina tipica ligure.
APPROFONDIMENTO
LA CIPOLLA.
CIPOLLA ROSSA DI TROPEA IGP Orgoglio gastronomico di Calabria, IGP in provincia di Vibo Valentia e Cosenza, ha forma ovale, colore fucsia acceso e gusto dolcissimo. Ottima a crudo e in composta.
CIPOLLA ROSSA DI ACQUAVIVA Acquaviva delle Fonti, provincia di Bari, deve il suo nome alla falda sotterranea perenne, riserva di acqua dolce che nutre e arricchisce il suolo di sali minerali. Soprattutto, lo rende adatto alla coltivazione della cipolla rossa locale, dolcissima e dalla classica forma appiattita. Questo Presidio Slow Food, la cui produzione è limitata al solo territorio comunale, si mangia volentieri a crudo o caramellato.
CIPOLLA VERNINA DI FIRENZE La formaè quella di una trottola. La vernina di Firenze ha colore rosso acceso e odore forte e pungente. Per domarla bisogna stufarla o arrostirla, come nelle salsicce con patate e cipolle al forno. CIPOLLA DI CANNARA Le prime testimonianze della cipolla di Cannara, provincia di Perugia, risalgono al Cinquecento. Dall’Ottocento la produzione di questa varietà dal sapore delicato e dall’ottima digeribilità si fa specifica e dedicata. Dà il meglio come topping sulla pizza tonno e cipolla. CIPOLLA DI BRUNATE Bianca, globosa, croccante e fragrante: la brunatese o scigulìtt in dialetto comasco è una cipollina mediopiccola, ideale per essere messa in conserva sott’olio o sott’aceto. Complice inseparabile della luganega, diventa protagonista assoluta nella zuppa di cipolle. CIPOLLA BIANCA DI MARGHERITA IGP Questa IGP pugliese coltivata nella zona di Barletta si distingue per forma piatta e precocità. Le sue caratteristiche principali sono croccantezza e succulenza. Il sapore dolce e pungente si apprezza particolarmente a crudo: ad esempio nell’insalata tonno, olive, pomodorini e cipolle. CIPOLLA BIANCA DI CHIOGGIA Con la cipolla bianca di Chioggia, perfettamente tonda e croccante, si preparano le sarde in saor, aromatiche e agrodolci, oppure il fegato alla veneziana CIPOLLA BIANCA DI FARA FILIORUM PETRI Coltivata dal 1300 in Val di Foro, nel cuore dell’Abruzzo, questa varietà antichissima del comune di Fara Filiorum Petri, ovvero la “terra dei figli di Pietro”, è protetta da Presidio Slow Food. Dal sapore dolce e aromatico, si apprezza da sola, alla brace o nella cipollata, lo stufato di cipolle, olio e acqua. CIPOLLA PAGLINA DI CASTROFILIPPO Minuscolo Presidio Slow Food della provincia di
Agrigento, si distingue per il colore giallo pallido, il sapore dolce e delicato e la versatilità in cucina. Ottimo da crudo, si utilizza nei piatti tradizionali come la cipuddata e la frittata di cipuddetti. CIPOLLA BIONDA DI CUREGGIO E FONTANETO Bionda, piatta e dolce, va ad arricchire i piatti tipici del territorio come la frittata rognosa, a base di salame, e la rustìdä, un secondo a base di carne e frattaglie di maiale. CIPOLLA DI SERMIDE La Sermide è una varietà mantovana di colore giallo paglierino e dal gusto spiccatamente dolce. Il suo uso tradizionale è nel tiròt, una focaccia a base di cipolle il cui impasto viene “tirato” direttamente nella teglia prima della cottura. CIPOLLA DI BANARI Questa varietà del sassarese ha bulbo bianco e schiacciato che può raggiungere dimensioni (e peso) considerevoli. Ha un gusto particolarmente dolce ed è ottima al forno o fritta in pastella. CIPOLLA DORATA DI PARMA La cipolla dorata di Parma è una delle cultivar più diffuse in Italia, perfetta per soffritti, sughi e brodi. CIPOLLA DI SUASA Questa cipolla marchigiana, coltivata tra PesaroUrbino e Ancona, è rosa dentro e viola fuori. Recuperata in extremis una ventina di anni fa, è buonissima alla brace, al gratin o in composta. CIPOLLA DI ALIFE La cipolla di Alife (comune del casertano), documentata fin dall’epoca romana, prima di diventare una specialità gastronomica è stata medicina e talismano. Oggi purtroppo è a rischio estinzione, tenuta in vita dal Presidio Slow Food e dall’impegno di pochi produttori. Ha colore rosso ramato ed è buona anche cruda. CIPOLLA DI CAVASSO E DELLA VAL COSA Nella provincia friulana di Pordenone si nasconde la Val Cosa, tra i prodotti tipici spicca la cipolla, ora ramata, ora rosa acceso ma con un inconfondibile cuore croccante e dolce. Il Presidio Slow Food ne tutela la produzione, caratterizzata da una lunga conservazione in trecce.
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CIPOLLA ROSSA DI BASSANO Di colore variabile tra il rosa e il rosso, la cipolla di Bassano del Grappa ha forma piatta, polpa bianca e gusto spiccatamente dolce. Si fa sott’olio, fritta oppure in saor, il tipico agrodolce veneto con uvetta, aceto, pinoli e le immancabili sarde.
CIPOLLA BORETTANA Piccola e piatta, la borettana è la varietà suprema da aperitivo, da infilzare senza pietà. Un modo originale per gustarla è arrosto con miele e spezie. CIPOLLA DI ISERNIA Da secoli a Isernia si coltiva questa varietà bianca dal bulbo molto schiacciato, raccolta tradizionalmente verso la fine di giugno e celebrata in occasione della festa di San Pietro e Paolo. Considerata una cipolla fresca, ha odore e sapore poco accentuati ed è ideale per essere consumata a crudo. CIPOLLA DI GIARRATANA Un Presidio Slow Food e un peso massimo delle cipolle: la Giarratana parte infatti dai 500 grammi e può superare i 2 chili di peso. Ingrediente della gastronomia tipica ragusana, questa varietà sapida e poco pungente viene utilizzata comunemente nelle scacce, panzarotti ripieni di pomodoro e cipolla. Perfetta anche per lo sfincione palermitano CIPOLLA DI PIGNONA Bionda tendente al ramato e leggermente schiacciata, la cipolla di Pignona è una varietà ligure della Val di Vara che può raggiungere il chilo di peso. Per dimensioni e gusto dolce, si presta alle cotture aggressive come frittura e griglia.
LE CULTIVAR DA CONOSCERE
CIPOLLA DI VATOLLA Piccola e a forma di trottola, dalle sfumature rosate, la cipolla di Vatolla (Perdifumo, provincia di Salerno) ha un gusto delicato e versatile in cucina. Dal Cilento, terra in cui è nata la dieta mediterranea.
CIPOLLA DI TRESCHIETTO Un esemplare più unico che raro, la cipolla di Treschietto è di forma piatta e di colore rosso rubino intenso. Coltivata sull’Appennino tosco-emiliano, è un prodotto cosiddetto a “edizione limitata”. Buonissima cruda in insalata. CIPOLLA PIATTA DI ANDEZENO Solo quattro produttori tengono in vita questa varietà piatta e dorata della provincia di Torino. Ha consistenza tenera, gusto dolce e si serve ripiena.
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CIPOLLA RAMATA DI MONTORO La cipolla perfetta per la pasta alla genovese? La ramata di Montoro, varietà dolce e aromatica della zona tra Avellino e Salerno. È lei la nostra cipolla.
APPROFONDIMENTO
CIPOLLA RAMATA DI MILANO La ramata di Milano è caratterizzata dalla forma allungata, le grosse dimensioni e sapore pungente. Goduriosa in pastella in stile onion rings.
La scienza del sapore della cipolla. Le cipolle possono essere dolci, saporite, aspre, morbide o croccanti, hanno così tante facce diverse, e tutte si palesano in contesti differenti. Tuttavia, le diverse espressioni hanno origine dalla stessa cipolla e dalle stesse molecole, tanto per cominciare. Tutto inizia con una cipolla cruda, le cipolle sono un ortaggio unico nel loro genere: crescono sottoterra e sono fatte a strati. Poiché si tratta di bulbi, sono destinate a immagazzinare molta energia per la crescita della pianta, che viene stoccata sotto forma di zuccheri. Le cipolle sono strettamente imparentate con l'aglio, un bulbo anch’esso, ed entrambi appartengono alla famiglia degli Allium.
L'importanza del suolo. Lo zolfo è un atomo essenziale per lo sviluppo dei sapori e degli odori tipici della cipolla, ma può essere assorbito solo attraverso il terreno. Di conseguenza, nei terreni con più zolfo cresceranno cipolle con sapori e odori più forti. Naturalmente, molto dipende anche dalla cultivar, alcune cipolle assorbono meno zolfo rispetto ad altre.
Come scegliere la cipolla giusta? A domanda rispondo. Le dimensioni contano? Ahh, una domanda che ritorna sempre. Le dimensioni di una cipolla hanno poca influenza sul sapore. Almeno su questo potete stare tranquilli. Come faccio a distinguere le cipolle mature da quelle andate a male? Non importa che tipo di cipolle scegliete, assicuratevi che siano sode al tatto quando le acquistate. Se le radici o l’estremità dello stelo vi sembrano un po’ moscette, è probabile che anche gli strati interni siano marcescenti.
Ho notato che, come le scarpe e le sale cinematografiche, alcune cipolle “odorano” più di altre. C'è un modo per saperlo prima di comprarle? L'odore di una cipolla dipende in gran parte da quanto tempo è stata conservata. Più è stata in magazzino (in alcuni casi, fino a mesi), più sarà pungente. Generalmente le cipolle vengono vendute senza un’etichetta di produzione, ma per distinguere le “vecchie” dalle “nuove” dobbiamo guardare la “buccia”. Le prime hanno uno strato superficiale più spesso e duro, mentre le cipolle più fresche hanno tuniche esterne (così si chiamano gli strati che generalmente buttiamo via) più sottili e trasparenti.
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Qual è il posto migliore per conservarle? Conservate le cipolle in un luogo fresco, asciutto, buio, ma mai in un contenitore sigillato, che intrappolerebbe l’umidità e le farebbe marcire. Le cipolle già tagliate possono essere messe in un sacchetto di plastica e conservate in frigorifero.
La chimica della cipolla - i tiosolfati. La chimica della cipolla (e degli Allium in generale) è determinata per lo più da molecole che contengono un atomo di zolfo (S), i cosiddetti composti solforici. Il gruppo che determina il sapore e l'odore delle cipolle sono i tiosolfati. Sono questi componenti che ci fanno piangere a fontanella, ma che conferiscono anche aroma e profumo (o puzza, decidete un po’ voi). Quello che è interessante, però, è che la cipolla cruda non contiene queste molecole. Al contrario, si formano solo quando viene danneggiata o tagliata a fette. L’azione della lama rompe le strutture cellulari, liberando tutte le diverse molecole all'interno. Di conseguenza, specifici enzimi (allinasi) entrano in contatto con le molecole della cipolla che sono precursori di quei tiosolfati. Gli enzimi catalizzano una reazione che porta alla formazione dei tiosolfati, come ad esempio l’ossido di S-propanetiale S., la molecola che stimola la lacrimazione e contribuisce anche al caratteristico sapore di cipolla, o l’isollinina, prodotto dall’azione dell’allinasi, che trasforma le molecole a base di zolfo in acido sulfenico, che conferisce l’odore caratteristico e la pungenza fastidiosa. Ma cosa si può fare per evitare che l’allinasi si trasformi in isoallinina?
Il controllo dei tiosolfati. Il taglio della cipolla è la prima misura di controllo dei tiosolfati. Poiché i componenti dell'odore e del sapore si formano solo dopo che la polpa è stata tagliata a pezzi, tagliando una cipolla più finemente questa sprigionerà più sapore. È vero anche il contrario però, se si fa bollire una cipolla, si disattivano gli enzimi prima ancora che catalizzino una reazione chimica. Di conseguenza, a questa cipolla mancherà una parte del suo sapore caratteristico. E quindi, che si fa?
Cuocere le cipolle.
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Un italiano lo impara prima di cominciare a parlare. Quando si saltano le cipolle a calore moderato, queste diventano di un marroncino chiaro, color caramello. Stiamo parlando della cara e vecchia reazione di Maillard, una reazione tra zuccheri riducenti e proteine. In un mondo ideale, mentre le cipolle cuociono, tre cose accadranno contemporaneamente: (1) il completo ammorbidimento delle strutture cellulari della cipolla (2) la massima caramellizzazione degli zuccheri (prima che le note amare comincino a svilupparsi), e (3) una buona Maillard.
L’assoluto di cipolla. Ve l’ho promesso all’inizio: la genovese scientifica sarà un concentrato di gusto e più digeribile di quella tradizionale. E per concentrare e alleggerire la quota cipolle, dobbiamo fare una cosa importante, che avete già imparato a fare con l’aglio e olio: disattivare gli enzimi cattivi. Mai più alito che sa di Apocalypse Now. Ingredienti 15 cipolle ramate (preferibilmente di Montoro) Lista degli ingredienti più che essenziale, vi serviranno solo delle buone cipolle ramate. Prendetele così come sono, senza nemmeno pelarle, sistematele su una teglia rivestita di carta forno e mettetele in forno a 230°C fino quando non arrivano a 65°C interni. Per misurare la temperatura, utilizzate una cipolla “spia”, che infilzerete con la sonda e scarterete una volta pronta.
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Una volta cotte, pelatele e tenete da parte mezza cipolla per commensale, ci servirà per finire il piatto. Il resto delle cipolle va infilato direttamente in un estrattore di succhi (o grattugiato/tritato) e poi spremuto e filtrato. Quel liquido, ricchissimo di glucosio, fruttosio e saccarosio, va versato in un pentolino dal fondo spesso e poi cotto, fin quando non si riduce ad un terzo e diventa color caramello mou.
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IL CONDIMENTO - 01:
IL MACINATO DI CARNE.
Adesso si passa alla preparazione del macinato, il riempimento del sugo, l’ingrediente che serve a dare corpo e soprattutto sapore di tostato. Dev'essere un mix bilanciato di magro, grasso cartilagine. Quindi avete l'opzione "vado dal macellaio e mi faccio tritare un po' di questo e un po' di quello" oppure prendete i nostri burger e avete risolto la pratica: sono già perfetti così. Ingredienti • 6 Burger Blue OX del Megastore. • Olio extravergine di oliva q.b. Distribuite il macinato su una teglia ricoperta di carta forno, asciugate con cura con della carta assorbente e ungete leggermente con poco olio. Scatenate una massiccia reazione di Maillard cuocendo in forno preriscaldato, con il grill sparato a 230°C e posizionando la teglia al centro del forno. Lasciate lo sportello leggermente aperto per permettere al vapore di fuoriuscire. Ormai sapete come funziona, ma ripetere fa sempre bene. La reazione di Maillard è quella reazione chimico-fisica che si manifesta quando proteine e zuccheri riducenti, in totale assenza di acqua, vengono esposti ad una fonte di calore. Queste molecole si riallineano e formano nuove molecole, non esistenti in natura, molto profumate, gustose e dal colore ambrato. E come si ottiene una crosta di cauterizzazione perfetta? 1 In totale assenza di umidità. 2 A temperatura della superficie di contatto di almeno 140°C 3 In presenza di zuccheri riducenti.
Ma perché in forno e non in pentola? Perché rosolando il macinato in pentola si sarebbe sviluppato un grande quantitativo di vapore, che avrebbe sicuramente lessato la carne. State attenti però: ci serve la reazione di Maillard ma anche succulenza e sapore. Fate uno strato di carne non troppo sottile, così le due superfici cauterizzate ci daranno sufficiente Maillard, ma la carne al centro sarà ancora succosa e morbida.
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A queste punto non vi resta che rigirare il foglio di carta forno e lasciar rosolare l’altro lato, sempre a 230°C, a grill andante.
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IL CONDIMENTO - 02:
LA JULIENNE DI CIPOLLA.
Ricordate le cipolle infornate che vi ho fatto tenere da parte? Ricavatene una julienne, anche grossolana, vi servirà per condire la pasta.
L'ASSEMBLAGGIO DEL PIATTO. A questo punto avrete preparato la demi glace, ormai fredda ed emulsionata, l’assoluto di cipolla, il macinato tostato e la julienne di cipolla. È arrivato il momento di mettere su l’acqua: calate ziti spezzati, candele, paccheri, rigatoni o calamarata, l’importante è che sia pasta trafilata al bronzo ed essiccata lentamente, bella ruvida. Terrà la cottura senza fare una piega e tratterrà per benino il sugo. In una padella stemperate un cucchiaio abbondante di demi glace e due cucchiai rasi di assoluto di cipolla per commensale, aggiungete acqua di cottura, il macinato bello sgranato, la julienne di cipolla e terminate la cottura della pasta, agitando bene per tirare fuori tutto l’amido. Servite la genovese con una spolverata di Parmigiano, o del formaggio stagionato che preferite, andrà ad equalizzare le note dolci della cipolla. E poi dite a tutti che Gianfranco l’eretico l’ha fatto di nuovo. Il limonage è salvo, pure senza mentine.
491 - BBQ4All Magazine
Gianfranco Lo Cascio
Un bel tacer non fu mai postato Seguo - Rubrica a cura di Emiliano Nencioni
492- Almanacco 2020
Conference call di redazione: -“L’impaginazione è fatta, il menabò ricontrollato, manca solo il testo della Seguo e andiamo in stampa” -“Si sarà impigliata una mail, fatti rimandare il testo immediatamente e procediamo.” -”No no, non l’ho proprio scritta questo mese.” -”Non scherzare che il tempo stringe, dai.” -”Sul serio, non avevo nulla da dire: ritengo che per i miei lettori la mancanza di un testo scritto sia un palese invito all’introspezione, un atto di meta-letteratura catartico e…” -”Hai tre ore di tempo per scrivere tre pagine dei tuoi vaneggiamenti. Interrompi tutto quello che stavi facendo e butta giù qualsiasi cosa adesso.” -”Guarda che è una presa di posizione coraggiosa e innovativa!” -”Riempi quelle paginette, prima che le destiniamo definitivamente ad una rubrica di abbinamenti fra wurstel e prodotti per la rasatura” -”Avete mai sentito parlare di 4’32”? Un brano musicale composto di sole battute di pausa, un…” -”Hai tre ore.” You’ve been logged out.
rielaborazione grafica di un opera di Lucio Fontana - Concetto Spaziale, Attesa, 1967
Avete mai sentito parlare del Mercenariesimo? É la traduzione italiana di Mercerism, termine usato da Philip K. Dick all’interno di Do Androids dream of electric sheeps?, in Italia “Ma gli androidi sognano pecore elettriche?”, conosciuto ai più come il testo da cui ha preso forte ispirazione (pur se con trama molto diversa) il film Blade Runner di Ridley Scott: il Mercenariesimo è, a grandi linee, una pratica pseudo-mistica o meditativa in voga presso gli umani dell’universo narrativo di Dick. L’umanità del romanzo è costretta ad emigrare sulle colonie di Marte o a rimanere su una Terra devastata dalle radiazioni e dalla onnipresente polvere, coabitando con androidi dalle fattezze umane, a volte ribelli, criminali e fatalmente irriconoscibili dalle persone “biologiche”. L’unico tratto discriminante tra viventi e sintetici è l’empatia: gli androidi (replicanti, nell’adattamento di Scott) ne sono completamente privi e questo tratto viene evidenziato tramite un breve interrogatorio mirato, che manda immancabilmente in confusione gli esseri cibernetici.
Il parallelismo con la nostra permanenza sui social network è presto fatto: [...] É che non c’è, così su due piedi, un parallelismo. Oppure potrei fabbricarne uno, stiracchiato e deboluccio, pateticamente enfatico, con la mancanza di empatia presente negli hater di professione, un altro fra seguaci del Revit e spietati
493 - BBQ4All Magazine
L’empatia che distingue nettamente umani dalle forme di quasi-vita ad imitazione dell’umano si trova a ricoprire un ruolo di importanza primaria nella morale comune, tanto che non prendersi cura di un animale e non esercitare giornalmente una palese empatia è considerato assolutamente disdicevole e condannabile. Entrano quindi nell’uso globale e rituale le “scatole di empatia”, piccoli monitor portatili dove, come pratica di miglioramento personale, ogni umano è tenuto ad osservare scene di un individuo, Mercer, alle prese con una difficile e ripida scalata (simboleggiante la realizzazione) e con malvagi avversari (impersonificanti il Male) intenti a bersagliarlo di pietre. Questo esercizio quotidiano, obbligatorio alla stregua di una funzione religiosa, dovrebbe contrapporsi alla disumanizzazione di una vita senza più flora e fauna e irrimediabilmente confusa con la vita sintetica, fredda e spietata degli androidi.
494- Almanacco 2020
Edward Hopper - Morning Sun (particolare) - 1952
No, il fatto è che alle volte bisognerebbe avere il coraggio di rimanere in silenzio: non sempre c’è una cosa ficcante da dire, non sempre arriva puntuale la punchline impeccabile degna di un film d’azione degli anni ‘90. Anzi, statisticamente è molto più probabile generare delle banalità o delle argomentazioni trite e inefficaci, proprio per la correlazione tra evento strettamente probabile e natura stessa della banalità. Il riferimento a 4’32” di John Cage presente nel nefasto cappello introduttivo non è un’invenzione, ma un brano realmente esistente, ed anche più volte eseguito all’interno di dottissimi concerti. In seguito ad una breve permanenza in una camera anecoica il compositore si rese conto del valore del silenzio e della sua irrealizzabile perfezione: anche in mancanza totale di qualsiasi suono proveniente dall’esterno, Cage notò che il completo silenzio era comunque interrotto dal rumore del proprio battito cardiaco e da altri impercettibili cigolii fisiologici del corpo, perennemente presenti anche se totalmente inudibili in condizioni normali. Probabilmente anche nei social network un maggiore silenzio delle masse favorirebbe l’udibilità di alcuni fenomeni precedentemente soverchiati: un complimento sincero e non costruito a tavolino, un’obiezione spontanea, una domanda impopolare, una precisazione geniale e innovativa. La grande massa, rumorosa e onnipresente, è invece quella che svilisce, obnubila e copre tutto; una massa di commentatori a casaccio, convinti della sagacità, della pertinenza e della
tempestività delle loro mirabolanti boutade: un po’ come il kipple, tradotto poco genialmente in palta nella versione italiana del già citato romanzo di Dick. “[...] sono tutti gli oggetti inutili, come una bustina di fiammiferi dopo aver usato l'ultimo fiammifero, o una fascetta gommata, o il giornale omeopatico del giorno prima. Quando non c'è nessuno in giro, il kipple si riproduce. Per esempio, se vai a letto lasciando in giro del kipple, la mattina dopo, quando ti svegli, ce n'è il doppio. E diventa sempre di più.” “«C'è la Prima Legge della Palta», disse Isidore. «'La palta scaccia la nonpalta.' Come la legge di Gresham sul denaro falso, ha presente? E in questi appartamenti non c'è nessuno a contrastare la palta.»” Dei commentatori per forza abbiamo già recentemente parlato. Questi qui invece sono peggiori: sono i sagaci per forza. Gli inopportuni. Gli allineati dell’umorismo standardizzato. Dietro alla giustificazione pietosa del “sacrosanto black humour” arrivano a scrivere cose improponibili, squalificanti, becere o semplicemente superflue e indesiderabili: riciclano all’infinito formule di sicuro (secondo loro) successo, dissacrano, si umettano di citazionismo del guru, perché piacere a molti è sicuramente un obiettivo, ma piacere proprio a lui è certamente un traguardo. Non fanno ridere, non scatenano una riflessione o un pensiero, ma sono convinti di aver calato l’asso in una conversazione ordinaria, tramutandola in un audacissimo scambio di lepidezze bukowskiane; nessuno li rimbrotta, nessuno li stigmatizza, e questo non me lo spiego. In un ecosistema sicuramente volto all’indignazione facile, mai che un volenteroso si prenda l’ardire -e di certo il gusto- di rimproverare aspramente un’uscita sconveniente e intempestiva. Non c’è nessuno a contrastare la palta. Se questi personaggi si nutrono di approvazione, compiacimento, like e
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“Grigliatori solo col manico”, e terminare la rubrica con un telefonatissimo “come lacrime… nella pioggia.” Frase che alla fine fu solo un’improvvisazione estemporanea di Rutger Hauer, non presente né nel libro né nella sceneggiatura, e ormai inflazionata e logora come i jingle delle compagnie telefoniche.
successivi sub-commenti, credo che sia dovere morale dell’utente consapevole e integro far scoppiare la bolla dell’autocompiacimento con semplici, brevi, efficaci commenti dissuasivi. Alcuni brevi esempi: • Nonostante gli sforzi, non fa ridere • Sono certo delle buone intenzioni, ma ha prevalso la maleducazione • Ricordo che questo tormentone sembrava gradevole scritto da [Tizio], ma credo che tu l’abbia rovinato per sempre • Repertorio rivedibile • Basta • Smetti
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La ricetta credo sia chiara: nessuna offesa, uno sterile consiglio irreprensibile, e mai mettere il punto in fondo. Il punto in fondo vi tramuta in quegli organismi che vogliono avere sempre l’ultima parola, in pieno stile “e finiamola qua.” “buona serata.” o il terrificante e già citato “buona vita.”. Si arrabbieranno, sicuramente, non gradiranno e all’inizio la rivolta non sarà efficace: ma in un tempo sufficientemente lungo anche il più brutale dei
sagaci per forza si stuferà di vedere il prezioso frutto delle sue scopiazzature dileggiato e mal recepito. Con un po’ di ottimismo, si spera che tutto il vario “scritto per forza” si tramuti in un po’ di silenzio. Esiste già la maniera di partecipare al gradimento di un post senza dover dire la propria, sotto forma di reaction. C’è bisogno di capire che la ricerca della frase ad effetto, stra-allineata, super conformata e sempre dannatamente uguale ad altre mille frasi abusate, non è più una cosa gradevole. É anche per questo motivo che invece di scrivere una conclusione intimistica o stimolante, ribadendo il mio pensiero di non aver nulla di veramente utile da dire, lascio ai miei lettori residui un piccolo spazio dove annotare una propria personale chiosa o un epilogo o pensiero che funga da scioglimento a quanto detto sopra. Potete poi fotografare la vostra mini produzione letteraria e postarla, con un laconico commento, dove più vi aggrada. Oppure potete non farlo assolutamente, e capirò che avete preferito un cauto e apprezzabilissimo silenzio.
Emiliano Nencioni
N°24/ANNO 2 - DICEMBRE 2020
A Scuola di Tacos parte seconda
l'editoriale di Gianfranco Lo Cascio
Pulled pork BBQ vs Forno
Speciale comfort food
Uova ripiene, pasta e fagioli, pasta e ceci, salsiccia e purè, polenta e funghi, cima alla genovese, insalata di rinforzo, cappone ripieno, doppia fonduta Come si fa
Il panettone
La Ricetta Scientifica
Cotechino lenticchie e purè
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Tacos
Editoriale di Gianfranco Lo Cascio
i d la o cu s A come trasformare casa vostra in una taqueria
parte II
Per fare il taco ci vuole la tortilla. Per fare la tortilla ci vuole il nixtamal nixtamal. Per fare il nixtamal ci vuole il mais.
La nixtamalizzazione è quel processo a cui viene sottoposto il mais. Una bollitura in una soluzione di calce che rende più facile la rimozione del pericarpo, l’involucro esterno, e rende il mais estremamente più digeribile, potenziandone le proprietà nutritive, producendo molti aminoacidi pregiati e proteine e riducendo i fitati. Nixtamal è quindi la pasta base per produrre una buona tortilla. La tortilla è un affare complicato, molto complicato da spiegare. Lasciatemo dire, alcune di quelle già pronte sono più che dignitose. Non è semplice farsi il nixtamal in casa, quindi molto spesso si usa la “masa harina” o “maseca”, la farina di mais già nixtamalizzata da impastare. Farsele da soli è un altro sport ovviamente. Se riuscite a trovare del mais come si deve potete tentare la nixtamalizzazione con l’idrossido di calcio, ma è una
cosa che magari vi conviene imparare facendo un giretto didattico in Messico. Considerate un concetto importante: la tortilla non è una cosa banale. Può fare una grande differenza nella preparazione del taco. Ad onor del vero, in molte regioni si usano anche quelle di grano, ma il mais resta alla base di tutto. In Mesoamerica il cereale più antico è il granturco, utilizzato già dai Maya per le masa, e proprio dal 700 a.C. si iniziarono a produrre tortillas, così battezzate dai coloni spagnoli del XVI secolo. Solo 400 anni dopo, questi frisbee dorati sarebbero diventati un elemento importantissimo della cucina di quel territorio. Nel Nuovo Mondo gli spagnoli piantarono campi enormi di frumento e cominciarono ad allevare il bestiame, una novità che avrebbe portato successivamente alla nascita di un sacco di piatti tipici. È quindi scontato affermare che le tortillas a base di farina nacquero nel XVI secolo, e furono per ovvie ragioni consumate esclusivamente dai coloni europei fino al XIX secolo, quando poi furono adottate anche dalle comunità del Messico settentrionale. Preparare una tortilla è semplice, ma non tutti gli ingredienti necessari sono facilmente reperibili.
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Lingua affascinante il nahuatl, l’antichissimo idioma parlato dagli aztechi. Per qualche motivo un po’ lungo da spiegare, alcune parole azteche sono ancora oggi nei vocabolari di molte altre lingue. Pochi sanno, per esempio, che la parola “cioccolato” deriva proprio dal nuathl “xocolatl”. Esatto, in questa lingua la “x” si pronuncia come una “sh”. Nixtamal quindi si legge “nishtamàl”.
L’originale messicana prevede, come vi ho detto prima, l’utilizzo della masa harina, la farina di mais bianco, che viene sottoposta ad un trattamento speciale: i chicchi vengono essiccati, cotti e messi in ammollo con acqua e ossido di calcio, in modo da far avvenire la decorticazione prima della macinazione e del successivo confezionamento. Questo processo rende disponibile all’assorbimento digestivo le vitamine PP e B, altrimenti non pronte per essere assimilate. Si tratta di una farina completamente diversa da quella classica di mais giallo, che non va per niente bene per essere impastata.
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In alternativa è possibile utilizzare della farina di grano tenero di tipo 00 o 0 e forza tra i 200 e i 220 W, con la quale si ottengono delle tortilla di grano. È ovviamente da precisare che gusto e consistenza cambiano terribilmente in base alla materia prima utilizzata. Non dimentichiamoci mai che la farina di mais regala un gusto più marcato, dalle tipiche note tostate, e una croccantezza
leggermente superiore, mentre la farina bianca restituisce un sapore più leggero, neutro ed equilibrato. Il grano tenero, peraltro, non è in grado di assorbire la stessa percentuale di acqua: mentre con il mais bianco viene utilizzata 1.2 kg di acqua per kg di farina, con il frumento la dose scende a 500g su kg. Ingredienti Per le tortillas di mais: • 1 kg di masa harina; • 1,2 kg di acqua; • 30 g di sale. Per le tortillas di farina di grano • 1 kg di farina 0 o 00 200-220W • 500 g di acqua • 50 g di sale Il procedimento è sempre lo stesso: mescolate l’acqua e 50g di sale per ogni kg di farina, fino ad ottenere una consistenza liscia ed uniforme. Dividete l’impasto in parti uguali, dai 50 ai 100 g a panetto, secondo le esigenze, e lasciate riposare dai 20 minuti alle 2 ore coprendo con la pellicola; questo periodo di riposo renderà decisamente più facile l’opera-
zione di stesura delle palline. Importante: utilizzate meno farina possibile nella stesura, o vi ritroverete a masticare polvere bianca bruciacchiata. Un trucchetto, se non si dispone della pressa specifica per schiacciare le palline, consiste nello stendere ogni disco con il mattarello mettendolo tra due strati di carta da forno, fino ad ottenere uno spessore di 2-3 millimetri. Le tortilla vanno quindi cotte su una piastra rovente, 3-4 minuti per lato, e conservate in un panno da cucina perché non si secchino. Il consiglio è quello di consumarle in fretta, non si conservano per molto. Nella cultura messicana questo pane basso viene farcito o servito in un sacco di modi, ognuno con il suo nome specifico. La tortilla viene abbrustolita sul fuoco (in casa potete appoggiarla su un fornello da cucina) e poi chiusa a mezzaluna su un mattarello in modo che, una volta freddatosi, prenda la forma di una conca, un guscio, utile ad accogliere il godurioso condimento
Taco story: ad ogni regione la sua versione I tacos de asador vengono preparati con carne alla griglia, che può essere di manzo, pollo, chorizo o tripita (trippa o stomaco); la salsa abbinata è in genere la guacamole, tipica soprattutto con le interiora per smorzarne il sapore.
Nei tacos de cazo la carne viene cotta a fuoco molto basso e per un lungo tempo, fino a raggiungere una consistenza morbidissima, per poi compiere un passaggio sul comal (la piastra in ceramica) in modo da rendere l’esterno croccante e saporito; il ripieno più popolare è costituito dalla carnitas (spalla, trippa e gola), ma è possibile trovare una versione con la punta di petto di manzo. Interessantissima è la preparazione della carne di pecora o di capra per i tacos de cazuela, cotta secondo la tecnica del barbacoa (cottura di origine caraibica dalla quale deriva anche il moderno barbecue): la carne (un misto di testa e altre parti del muso, stufato di cervella o la guancia) viene avvolta in foglie d’agave e cotta in un forno aperto ricavato da una buca del terreno. I tacos al Pastor (anche detti tacos de adobada) sono tortillas ripiene di carne di maiale conservata attraverso l’adobo, una marinatura a base di aglio, origano, paprika e aceto, che viene cotta in maniera similare al gyros greco, ovvero sminuzzata e compattata in lunghi arrosti cotti verticalmente. Questi tacos vengono spesso accompagnati da ananas, cipolle e pomodori. I tacos al carbòn sono tipici dello stato di Sonora, vengono riempiti da carne di manzo grigliata, dal tipico aroma di brace dato dalla carbonella; sono accompagnati da cipolle verdi piastrate, cetrioli e ravanelli.
Non mancano ovviamente i tacos di pesce, originari della penisola di Baja, diffusi ormai in tutta la bassa California; il pesce può essere fritto o alla griglia, accompagnato da julienne di cavolo verde e una salsa a base di panna acida, chipotle e lime. Una gustosissima variante è costituita dai tacos di gamberi, che possono essere fritti o alla griglia.
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I Tacos de canasta sono praticamente impossibili da trovare fuori dal territorio messicano; vengono farciti con chorizo, patate, cotenna di maiale e fagioli.
Taco story: tacos de picadillo Picadillo vuol dire banalmente stufato di carne e patate. Ma neanche a dirlo ne esistono un miliardo di versioni e nessuna è quella giusta o quella originale. Ve ne lascio una di base con cui potete iniziare a giocare per capire quanta versatilità ci può essere in un taco. Ingredienti • 500 g di macinato di manzo (i nostri burger Blue Ox sono perfetti per lo scopo); • 1 cipolla; • 1 peperoncino habanero o serrano tritato (o peperone dolce); • 2 patate medie a pasta bianca; • 2 pomodori a cubetti; • sale q.b. • pepe q.b.
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Prendete il macinato di manzo, olio nella padella e via a tostare bene. Non mettete altro. Quando è ben tostato buttate dentro la cipolla
e lasciate appassire per un minuto. Poi un po' di peperoncino fresco tritato (se non lo avete va bene il peperone dolce), patate a cubetti già cotte ma ancora turgide e qualche cubetto di pomodoro. Lasciate amalgamare per un paio di minuti, aggiustate di sale e pepe e il picadillo è pronto. Volutamente lo si lascia così, dal sapore più essenziale possibile. Farcite i tacos aggiungendo l'immancabile cipolla dolce cruda e tritata, il cilantro, e una delle salse che già conoscete. Questo tipo di taco rientra nella categoria dei "tacos de guisado" cioè tacos con lo stufato. Nella cucina messicana esistono centinaia se non migliaia di ricette diverse di stufati ed è molto popolare mangiarli farcendo una bella tortilla. È impossibile catalogarli tutti e farne un elenco esaustivo. Vi basti sapere, però, che quando mangiate un taco con uno stufato dentro state mangiando un taco de guisado. Il mio consiglio è di farvi 3 tacos di picadillo con 3 salse diverse. In uno provate solo qualche goccia di lime.
La quintessenza del taco di Città del Messico, il suadero, consiste nel cuocere la carne di manzo nel proprio grasso su un comal (padella di ghisa) convessa-concava. La carne cuoce nella sezione concava e le tortillas vengono riscaldate sulla sezione convessa. La mia ricetta è una versione semplificata che utilizza la punta di petto invece che il matambre, la pancia di manzo messicana praticamente introvabile in Italia. Il taco dovrebbe essere ricco e nutriente, con la salsa che conferisce un sapore brillante e speziato. È uno dei miei tacos preferiti da cucinare e da mangiare. Con questa ricetta cucinerete abbastanza carne e salsa per un bel po' di tacos, ma gli avanzi di carne possono essere conservati in frigorifero o congelati. Ingredienti • 2 kg di brisket GLC Top Selection; • 2 kg di grasso bovino; • 1 testa d’aglio ; • SPOG Sal’s Seasonings q.b. • 30 tortillas di mais; • 1/2 mazzetto di coriandolo finemente tritato; • 1/2 cipolla a cubetti; • 1 lime a spicchi. Per la salsa roja • 3 peperoncini habanero; • 3 spicchi di aglio; • 2 pomodori; • 1/2 cipolla; • 250 ml di acqua calda; • 50 ml di aceto di mele; • 1 pizzico di sale; • 1 pizzico di cumino in polvere. Iniziate strofinando generosamente il brisket con lo SPOG Sal’s Seasonings, lasciate in frigorifero per una notte. Mentre la punta di petto riposa al fresco, preparate la salsa. Preriscaldare il forno a 250°C. Mettete una padella su fuoco vivo e tostate i peperoncini fino a quando non iniziano a fumare, poi trasferiteli in una ciotola e copriteli con l'acqua calda. Lasciate in ammollo per 20 minuti. Nel frattempo, mettete i pomodori, l'aglio e la cipolla su una teglia e fate cuocere in forno per 30 minuti o fino a quando non si saranno leggermente
sbruciacchiati. Sbucciate l'aglio e mettetelo in un frullatore con i pomodori e la cipolla, quindi aggiungete i peperoncini ammollati e l’acqua. Tritate e poi aggiungere il cumino e il sale. Assaggiate e aggiustate il condimento secondo il vostro gusto - dovrebbe essere affumicato e un po' piccante. Abbassate la temperatura del forno a 150°C. Prendete il brisket e tagliate la carne in pezzi di 8 cm. Mettete qualche cucchiaio di grasso di manzo (o di anatra se volete) in una teglia dai bordi alti e riscaldate fino a quando non si sarà sciolto. Aggiungete i pezzi di manzo e scottateli su tutti i lati fino a quando non saranno rosolati e croccanti, poi trasferiteli in una ciotola (potrebbe essere necessario farlo in più step). Aggiungete il resto del grasso nella teglia e riscaldate fino a quando non si sarà sciolto. Aggiungete la carne rosolata, mescolate per amalgamare, poi coprite e cuocete in forno fin quando non si sarà intenerita. Dovrete essere in grado di tagliarla con un cucchiaio. Utilizzate una schiumaiola per separare la carne dal grasso, battete al coltello la carne grossolanamente e mettetela in una padella a fuoco medio. Cuocere per 3-4 minuti per farla croccantizzare, poi trasferitela in una ciotola e tenetela in caldo. Nella stessa padella, scaldare le tortillas fino a renderle flessibili e morbide, ricoprendole poi con un canovaccio umido, per evitare che si induriscano. Passiamo al servizio: mettete un cucchiaio di carne in ogni tortilla, seguito da un cucchiaio di salsa. Finite con un po' di coriandolo, cipolla e una spruzzata di succo di lime. Dopo il primo morso esclamerete qualcosa di questo tipo: «Ma com'è possibile?» Che cosa vuol dire? Preparatevi un taco e scopritelo da soli.
Gianfranco Lo Cascio 503 - BBQ4All Magazine
Taco story: taco de suadero
SPECIALE
comfort food
…Un bicchiere di vino con un panino è la FELICITÀ
Portfolio Gastronomico a cura di Michela Bongiorni
Così cantavano Al Bano e Romina negli anni ‘80 e di fatto descrivevano ciò che oggi definiremmo Comfort Food. Sappiamo tutti cosa sia? Si legge sulla Treccani:
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“letteralmente “cibo in grado di dare conforto”, termine che di solito si riferisce a preparazioni tradizionali, capaci di suscitare richiami nostalgici o sentimentali (all'infanzia, alla famiglia). Il termine può indicare anche cibo facile da mangiare, perché morbido, o da digerire, o con alto contenuto di calorie e/o nutrienti.” Un altro dizionario, l’Oxford English Dictionary, sostiene che il primo uso del termine risalga al 1977, in un articolo del Washington Post in cui ci si riferiva a un piatto con gamberetti e porridge di mais, piatto tipico dell’America del Sud. Particolare, non credete? In realtà, chiunque abbia letto Marcel Proust e il suo Alla ricerca del tempo perduto, sa che si parla proprio di Comfort Food nell’episodio della petites madeleines riportato in uno dei sette libri che compongono l’opera, Dalla parte di Swan. Ovviamente lo scrittore francese non ha usato, nei primi anni del ‘900, il termine che conosciamo oggi, ma il più elegante e nostalgico intermittenze del cuore: quei soprassalti straordinari che nello scorrere della vita di tutti i giorni ci riportano a eventi, cose o persone del passato rimaste nell’ombra della nostra mente e che aprono una porta diretta sui ricordi di un tempo, appunto, perduto. Accadde così che il protagonista, assaggiando quei dolcetti, dice:
“[...] sentendomi triste per la giornata cupa e la prospettiva di un domani doloroso, portai macchinalmente alle labbra un cucchiaino del tè nel quale avevo lasciato inzuppare un pezzetto della madeleine. Ma appena la sorsata mescolata alle briciole del pasticcino toccò il mio palato, trasalii, attento al fenomeno straordinario che si svolgeva in me. Un delizioso piacere m’aveva invaso, isolato, senza nozione di causa. E subito, m’aveva reso indifferenti le vicissitudini, inoffensivi i rovesci, illusoria la brevità della vita… non mi sentivo più mediocre, contingente, mortale. Da dove m’era potuta venire quella gioia violenta? Sentivo che era connessa col gusto del tè e della madeleine [...] All’improvviso il ricordo è davanti a me. Il gusto era quello del pezzetto di madeleine che a Combray, la domenica mattina, quando andavo a darle il buongiorno in camera sua, zia Leonia mi offriva dopo averlo inzuppato nel suo infuso di tè o di tiglio.” Ecco qua: senza dubbio questa è la migliore definizione di comfort food, che fa impallidire quella della Treccani. Siamo sicuri che sarete d’accordo con noi.
Che mangiare sia da sempre un evento associato all’idea di felicità è un dato di fatto e sembra quasi banale dirlo. Tuttavia, all’interno della grande categoria “cibo”, il comfort food, diventato solo negli anni ‘80 del Novecento un genere ben delineato, è più associato a particolari sensazioni di benessere, soddisfazione, conforto e gioia rispetto ad altri generi. Si tratta perlopiù di alimenti collegati alla nostra infanzia e all’ambiente nel quale siamo cresciuti, che ci ricordano tempi più felici. Il nostro cervello, capace di fare associazioni tra un evento piacevole e gli odori, i sapori e le consistenze del cibo, codifica questi piatti come precursori di felicità. Per capire quanto queste associazioni siano potenti, basti pensare che l’US Army prepara i cibi considerati confortevoli dagli americani per i soldati che sono impegnati in missioni all’estero: quindi, lontani da casa per lunghi periodi e di sicuro malinconici. Una delle principali caratteristiche del comfort food è di essere variabile: pur mantenendo caratteristiche comuni l’uno con l’altro, gli alimenti che possono cadere in questa specifica categoria sono molti e diversi, poiché dipendono principalmente dal vissuto di ogni singolo individuo. A livello psicologico, però, sono svariati i fattori che ci spingono a cercare conforto in un genere alimentare, oltre a quello di ricercare la felicità del tempo perduto. Secondo Charles Spence, docente presso la Oxford University e autore del libro Gastrofisica: la nuova scienza del cibo, la fame emotiva e la ricerca di comfort food esprimono spesso la necessità di fronteggiare emozioni negative come ansia, tristezza, senso di colpa, ma denota anche il bisogno di consolazione che abbiamo, ad esempio, quando siamo ammalati e costretti a casa a causa di un’influenza; e non a caso usciamo con uno speciale dedicato all’argomento in questo periodo, in cui tutto il mondo è costretto a fronteggiare un’emergenza sanitaria e ha bisogno di molto, molto conforto.
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Risvolti psicologici
Spence, inoltre, ci spinge ad allargare il concetto: non si parla solo di cibo che stiamo mangiando in un certo momento, ma anche di tutto l’ambiente che ci circonda e degli oggetti che stiamo utilizzando. Le patatine sono più buone se il sacchetto che le contiene “fruscia” (che certi suoni stimolino il benessere è ampiamente dimostrato anche dal successo dei video ASMR -Autonomous Sensory Meridian Response- che ormai spopolano un po’ ovunque); la musica classica è meglio del pop per gustare qualcosa, perché percepita più raffinata e rilassante; il cibo mangiato in riva al mare con le mani e senza posate, si pensi al fish&chips, ha un altro sapore rispetto a quando lo ordiniamo al ristorante vicino a casa. E ancora: preferiamo i piatti rotondi quando abbiamo bisogno di conforto perché associamo gli oggetti spigolosi al pericolo, mentre le forme circolari sono legate a qualcosa di piacevole e dolce. L’atto di mangiare in compagnia, poi, innesca il sistema endorfinico nel cervello. Prendersi il tempo di sedersi insieme alle persona cui vogliamo bene, durante un pasto, ha effetti profondi sulla nostra salute fisica e mentale, sulla nostra felicità e sul nostro benessere. Da non dimenticare poi il tatto: tendiamo a preferire cibi morbidi, caldi e cremosi quando abbiamo bisogno di coccole.
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Di sicuro vi ricorderete delle campagne marketing di questi ultimi anni, portate avanti da grandi brand come Nutella e Coca Cola, che spingevano molto sulla personalizzazione delle bottiglie e dei vasetti: cerca il tuo nome! Fallo fare apposta per te!. Anche M&M’s ha lanciato un servizio di personalizzazione dei famosi confettini al cioccolato: puoi scegliere il colore, l’immagine da stamparci sopra, il nome, il marchio. Sapete perché? Per il semplice motivo che tutti amiamo qualcosa di personalizzato, che ci dia l’idea che venga fatto apposta per noi, così come la mamma ci preparava latte e biscotti la mattina quando eravamo bambini o la merenda il pomeriggio. Non a caso, secondo alcune
teorie, è proprio alla figura materna che spesso viene associato il comford food: la mamma è la persona più importante dei primi momenti della nostra vita poiché rappresenta gli aspetti vitali e basilari del cibo e dei bisogni affettivi. Il conforto che ricerchiamo non è altro che il ricordo del primo alimento ingerito, nel quale era insito un gesto di cura e di amore verso di noi. Come molte lettrici mamme sapranno, il famoso allattamento a richiesta - sul quale i pediatri spingono tanto negli ultimi anni - ha in sé anche una grossa componente consolatoria, poiché spesso il bambino non vuole attaccarsi al seno per fame ma proprio per trovare calore e coccole. Secondo diversi studi, infine, pare che il comfort food si differenzi tra uomini e donne: mentre queste ultime sembrano preferire cibi morbidi e zuccherosi come il gelato, i dolci al cucchiaio, le creme, le torte al cioccolato, gli uomini sono più attratti dagli alimenti salati o cotti alla griglia, come una bella bistecca ( …e ho scoperto in questo momento di essere un uomo).
Risvolti fisiologici La scienza da anni studia il rapporto esistente tra cibo ed emozioni, dimostrando una cosa fondamentale: certi squilibri nutrizionali possono incidere negativamente sull'umore, causando tristezza e depressione. Vi sono alimenti che per natura favoriscono il rilascio di endorfine, dopamina e serotonina, ad esempio le noci e il cioccolato fondente, che contribuiscono in maniera naturale a ridurre lo stress e a migliorare l'umore. Certamente, tutti conoscete il mito delle voglie in gravidanza: anche se la scienza continua a interrogarsi su questo fenomeno e dà la colpa per gran parte ai risvolti di tipo psicologico, in molti
sostengono c h e i colpevoli siano gli ormoni: l’aumento della produzione di estrogeni può infatti avere conseguenze sul senso del gusto e dell’olfatto e potrebbe essere un segnale che il corpo della futura mamma manda al cervello per avvisarlo dell’aumentato fabbisogno calorico. Insomma, il corpo ha bisogno di più calorie e il cervello fa in modo che vengano assunte attraverso i cibi di conforto.
Dato però che stiamo affrontando l’argomento analizzando tutti i vari aspetti, sono costretta a riportare uno studio condotto dal Dipartimento di Psicologia dell’Università della California, che ha voluto verificare se il consumo di alimenti di conforto fosse davvero in grado di agire sulle modificazioni psicofisiche che si verificano per compensare un evento stressante. Ebbene, l’esperimento condotto su 150 donne sottoposte a un forte stress ha evidenziato che non c’erano differenze tra l’effetto ottenuto mangiando cibi come gelato, cioccolato, biscotti e quello ottenuto invece mangiando frutta o verdure. Non si sono infatti osservate variazioni significative sull’umore o su altri indicatori di stress, come l’attività cardiovascolare e i livelli di cortisolo. In pratica, secondo questi studiosi (pagati dai vegetariani, non c’è alcun dubbio!Ed è subito GOMBLODDOH!) sostengono che mangiare cibi ricchi di grassi, zuccheri e carboidrati non serva assolutamente a nulla e sia solo dannoso, e che a questo punto sarebbe meglio mangiare la più salutare frutta e verdura, abituando la nostra mente a consolarsi con una bella mela (spauracchio di chiunque abbia mai fatto una dieta e si sia sentito dire “quando hai fame, mangia un frutto!”). C’è da dire che in effetti esiste una correlazione molto forte
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Anche nei giorni che precedono il ciclo mestruale possono manifestarsi delle voglie di cibo, una forte necessità di zuccheri e degli sbalzi d’umore; anche in questo caso sembra che siano gli ormoni i responsabili: l'estrogeno e il progesterone aumentano per poi diminuire poco prima del ciclo e questa oscillazione pare sia legata a un aumento della fame. Inoltre si impenna anche il cortisolo mentre cala la serotonina ed ecco che si spiegherebbe – il condizionale è sempre d’obbligo - come mai le donne siano in quei giorni particolarmente attirate dai dolci o comunque dai carboidrati.
fra il consumo di Comfort Food come una risposta allo stress emotivo e la dilagante obesità nel mondo occidentale, con tutte le conseguenze patologiche che essa si porta appresso. Quindi, come in tutte le cose, è giusto consolarsi e coccolarsi un po’, ma senza esagerare.
I quattro tipi di comfort food
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Secondo una recente classificazione, non esiterebbe solo un tipo di comford food, ma addirittrua quattro: fisico, nostalgico, pronto e peccaminoso. Per comfort food fisico si intende quello che apporta cambiamenti di tipo sensoriale nel consumatore: i cibi che riscaldano, quelli che percepiamo morbidi alla masticazione sono spesso associati a sensazioni d'intimità, di accoglienza, di comodità, ma anche di sazietà e di pienezza. Rientrano in questa categoria le creme, le vellutate, le zuppe, il purè. Sono spesso alimenti impegnativi dal punto di vista calorico, burrosi, con formaggio filante e profumi inebrianti. Quello nostalgico, invece, è esattamente ciò di cui parla Proust nella citazione riportata all’inizio: un cibo che ci ricorda un tempo felice, un periodo dell’infanzia, un amore mai dimenticato, una tradizione di famiglia, un particolare momento della giornata. E in questa categoria, come ben potete immaginare, può ricadere un’enorme varietà di alimenti: ognuno ha il suo. Sono spesso cibi legati alla tradizione, non solo familiare, ma anche del territorio. Sappiate che nessuna ricetta, perfetta o scientifica che possiate preparare seguendo le indicazioni del nostro Magazine, potrà mai competere con questo tipo di Comfort Food. Il ragù della nonna, la cotoletta della mamma, le arancine della bisnonna, il pesto della zia vi sembreranno sempre più buoni anche se oggettivamente siete in grado di comprendere quanto le loro versioni scientifiche siano migliori. E ciò è perfettamente normale. Non a caso anche Gianfranco Lo Cascio dice sempre che se deve pensare alla preparazione
che gli ricorda i momenti più piacevoli della sua vita, al primo posto, indiscusso e incontrastato, rimane il piatto di pasta e fagioli della sua mamma. Il comfort food pronto è forse il peggiore di tutti, spesso assimilato al cibo spazzatura: è quello rappresentato dagli snack, dalle barrette, dalle patatine o dai dolciumi comprati in qualunque negozio della GDO, e dal cibo precotto delle grandi catene. É scelto da chi non ha voglia di cucinare ma cerca gratificazioni veloci, immediate, senza sforzi. Ricadono in questa categoria, però, anche il cibo da asporto e il surgelato, e non necessariamente queste due realtà devono essere associate alla qualità mediocre e al junk food (ma ne parleremo ancora).
Quindi, dopo aver affrontato tutti i risvolti - positivi e negativi - di ciò che è ormai diventato un autentico fenomeno sociale, addentriamoci in quella che è la nostra idea di comfort food, in un mese, Dicembre, che da tradizione porta con sé la voglia di intimità e di appagamento, visto l’avvicinarsi delle festività; quest’anno poi – un nefasto 2020 - esaspera ancora di più la nostra voglia di conforto e di coccole. Consolatevi con noi, senza sensi di colpa.
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Infine, il peccaminoso è quello associato al non dovrei, ma non resisto: quindi si porta dietro anche un leggero senso di colpa per aver consumato cibi dannosi per la salute poiché ricchi di grassi, burro e zuccheri. Girava anni fa un meme su Facebook in cui un gattone guardava con occhi languidi una fetta a tre strati di torta al cioccolato e la didascalia diceva “quando devi scegliere tra essere felice e essere magra”. Ecco, quello è il comfort food peccaminoso: la sua caratteristica fondante è il sentimento di appagamento attraverso il consumo di piatti eccessivamente calorici. La sachertorte, il mont blanc, il tiramisù, le lasagne, un hamburger super farcito... la lista è potenzialmente infinita.
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Infografica a cura della Redazione Illustrazioni di Eleonora Castagna
Ecco nello specifico tutte le differenze tra i vari tagli:
COPPA DI MAIALE
E’ la parte di muscolatura del collo compresa tra la prima vertebra cervicale e la terza vertebra toracica. Tra i muscoli in questione possiamo riconosce sia quelli del trapezio che quello omotrasversario. Il taglio di carne si ottiene dalla lavorazione della porzione superiore del collo e da una parte (superiore) della spalla. Il pezzo così ottenuto, tradizionalmente, si presta a un duplice utilizzo. Disossato e stagionato, diventa un salume, conosciuto sia come coppa che come capocollo in base alle diverse aree geografiche del nostro Stivale. Utilizzato fresca invece è un taglio ottimo da cucinare grazie anche alle numerose venature di grasso. In particolare è possibile ottenere delle succulente bistecche che, una volta marinate, sono ottime per una cottura diretta su griglia. Allo stesso modo, il pezzo intero può essere utilizzato in alternativa all’arista o alla lonza per dei lussuriosi arrosti della domenica. La coppa è un taglio ricco di grasso ma povero di collagene. Generalmente si trova in macelleria con o senza osso. A fette o a tranci. Tra le due varianti offerte dal panorama italiano è forse quella che meglio si presta per ottenere un maiale sfilacciato. L’elevata presenza di grasso porterà ad avere un pulled pork molto saporito che però resterà un po’ più asciutto.
SPALLA DI MAIALE
Lungo la spalla passano muscoli come il deltoide e il muscolo sopraspinato. A differenza della coppa è un taglio in cui è presente un’elevata quantità di collagene e una limitata quantità di grasso. Solitamente è utilizzata per la realizzazione del prosciutto cotto di spalla, o in alternativa viene divisa in due parti. La parte più tenera è pregiata è la fesa e viene utilizzata per la preparazione del salame, la parte invece più dura, composta principalmente da muscolo, viene utilizzata per la realizzazione di prodotti come il cotechino, la mortadella e i würstel. È un taglio idoneo alla realizzazione del pulled pork: contrariamente a quello fatto con la coppa, otterremo un risultato finale meno saporito ma più idratato. Per cercare di compensare la mancanza di collagene si può utilizzare la spalla con osso per apportare uno sprint al sapore.
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PULLED PORK: I TAGLI ITALIANI
I vecchi abbonati al Magazine e i più esperti di voi sapranno già ormai che i tagli per fare il pulled pork si possono dividere in due grandi “famiglie”. Quelli derivanti dalla macelleria Italiana, la coppa e la spalla, e quelli della macelleria americana, il Boston Butt e il Pic Nic.
PULLED PORK: I TAGLI AMERICANI
Infografica a cura della Redazione Illustrazioni di Eleonora Castagna
Al contrario della tradizione italiana, i tagli dell’anteriore in US si dividono diversamente. Invece di coppa e spalla avremo Boston Butt e Pic Nic.
BOSTON BUTT
Nel New England pre-rivoluzionario, i macellai tendevano a prendere tagli meno pregiati di prosciutto e spalla e li confezionavano in barili per lo stoccaggio e il trasporto, noti come butt. La parola deriva dal latino “buttis” che significa botte o barile. Questo particolare taglio della spalla divenne noto in tutto il Paese come una specialità di Boston, e da qui il nome. È il taglio per eccellenza per la preparazione del pulled pork. É composto da una parte della spalla e da una parte della coppa. A differenza di quanto avviene in Italia, l’articolazione è recisa di netto e si ottiene un taglio dalla forma più squadrata. Per ottenerlo è necessario sezionare l’articolazione all’altezza dell’osso scapolare, cosa mal vista dai macellai della tradizione italica visto l’elevato quantitativo di scarto che ne deriverebbe. L’unione di una porzione della coppa con una della spalla garantisce un connubio perfetto assicurando il corretto apporto di collagene in equilibrio con il giusto quantitativo di grasso.
PIC NIC
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Sotto la coppa si trova la spalla di maiale. Questo taglio include la maggior parte del quarto della gamba anteriore del maiale. Poiché i muscoli delle gambe lavorano molto di più rispetto alla schiena, la carne del Pic Nic è un po’ più dura rispetto a quella del Buston Butt. La spalla tagliata con il gambo - o attaccata al garretto- è chiamata dagli americani “Pic Nic Ham”. Questo taglio è più economico perché richiede meno lavoro durante la macellazione e ha più ossa. Esso viene solitamente venduto dal macello in confezione sottovuoto e pronto per l’uso. E’ la parte che viene utilizzata principalmente lungo l’East Coast. I ristoranti barbecue, dovendo preparare ingenti quantitativi di pulled pork, hanno optato per questa scelta più economica rispetto al Buston Butt. Lo stinco e la gamba, se cucinati correttamente, sono pieni di sapore grazie anche alla ricca presenza di ossa. La quantità di collagene è, forse, sovrabbondante. Si tratta di un taglio più dalla resa inferiore, ma è comunque in grado di dare un pulled pork con caratteristiche abbastanza simili a quelle del Boston Butt, che tuttavia rimane la scelta migliore tra tutti i tagli qui presentati.
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Quante volte ne abbiamo parlato ormai? Non si contano più gli articoli sul Magazine che ne parlano, così come i post in Community, le foto, le domande, i commenti. Senza dimenticare uno dei tre e-book scritti da Gianfranco Lo Cascio dedicato proprio a lui, il pulled pork.
AL FORNO O AL BBQ
Tutti pazzi per il pulled pork
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Approfondimento tecnico a cura di Michela Bongiorni
Potremmo dire di aver ormai affrontato l’argomento analizzando ogni aspetto. Allora, perché un nuovo articolo, vi chiederete? Le ragioni in realtà sono molteplici: stiamo uscendo con un numero natalizio dedicato al comfort food, e non c’è ombra di dubbio che il nostro amato porco sfilacciato faccia parte del genere a pieno titolo, bello morbido, gratificante, succoso e appagante com’è. Inoltre, così come è accaduto per le Ribs di maiale nello scorso numero del Magazine, sappiamo che molti lettori sarebbero curiosi di assaggiarlo ma, non disponendo di un dispositivo a carbone, sono un po’ titubanti a farlo in forno. Certo, adesso possono comprarlo già cotto sul nostro Megastore (ah, non sapevate della grande novità? Ops, forse era un segreto...), ma ci sono anche quelli che non vogliono togliersi il gusto di cucinarlo per poter dire agli amici e ai parenti “visto come sono bravo?”. Ecco perché siamo di nuovo qui a fare un confronto fra la cottura bbq, per gli irriducibili, e quella al forno, per chi non ha modo o non ha voglia di accendere il carbone nella stagione fredda. Sappiate che non vi giudico in ogni caso: ho passato un Capodanno, cinque anni fa, durante quella che fu la notte più fredda della stagione, con la bufera e i fulmini, cucinando proprio il pulled pork e un Baltimora Bit beef. Quindi capisco entrambe le ragioni: pur divertendomi, mi ricordo di aver pensato spesso “ma perché non l’ho messo nel forno?!”. Potrei star qui a snocciolare altre ragioni per cui abbiamo deciso di parlare ancora di questa preparazione
Cos’è il Pulled Pork Potete leggere la scheda tecnica sui tagli adatti a questa preparazione in questo stesso numero, per cui non mi dilungherò sulla questione. Però credo che molti lettori gradiscano un recap, per mettere a fuoco bene la cosa di cui stiamo parlando. Per cui, che ripassino sia, come a scuola. Nato nel sud degli Stati Uniti, in Carolina del Nord, il pulled pork (maiale sfilacciato) da quelle parti è una sorta di religione che sarebbe ingiusto definire solo come un ammasso di straccetti di carne speziata e salsata da infilare nel panino. E’ molto di più, è un simbolo, è un mondo intero, è un rito con delle precise regole da rispettare, è una cosa seria che porta la gente a discussioni interminabili e a prese di posizione degne dei gastrofanatici più convinti. Dovremmo scrivere un libro di mille pagine per raccontare questa preparazione in ogni sua sfumatura, per cui qui ci limitiamo a ricordare velocemente quali sono i parametri di un pulled pork che sia degno di questo nome: deve avere una crosticina spessa e saporita (bark), deve avere una nota affumicata che non sovrasti il sapore della carne (smoky flavour), deve sfilacciarsi senza sforzi e non deve essere asciutto e stoppaccioso. Detto così, sembra facile. Nella realtà, ho visto e assaggiato pulled pork di tutti i tipi: bolliticci, insapori, secchi, con la consistenza della segatura, troppo affumicati, troppo saporiti, troppo speziati, coperti dalla salsa e dai condimenti per nascondere errori di cottura. Il percorso per arrivare a farlo alla perfezione è, parafrasando una famosa citazione, una strada infernale lastricata di buone intenzioni ( Hell is paved with good intentions, frase ricordata da Boswell nella Vita di Samuel Johnson, 1791). Non è semplice, non è comodo e non è immediato, per cui non spaventatevi se per le prime volte potreste avere dei problemi, anche seguendo pedissequamente le indicazioni. Noi siamo sempre qui per aiutarvi a capire gli eventuali errori. Certo, scegliendo il taglio giusto e la carne di qualità
il rischio di avere un risultato non soddisfacente si abbassa moltissimo. Noi a questo giro abbiamo optato per due Boston Butt di maiale Duroc. Come sapete, questo è IL taglio: la porzione di spalla assicura il corretto apporto di collagene, mentre la coppa apporta la giusta quantità di grasso, di gusto e di succosità. Uno dei due BB finirà in forno, l’altro nel kettle a carbone. Seguitemi con attenzione e fate esattamente ciò che vi dirò. Ve lo dico subito: abbiamo volutamente scelto di non iniettare la carne perché l’alta qualità del Duroc, con la sua marezzatura importante e il suo sapore brillante e deciso, ci ha permesso di saltare questo passaggio ottenendo comunque degli sfilacci goduriosi, succosi e saporiti. Per il resto, abbiamo scelto di usare il water pan (soprattutto se siete alle prime armi e optate per la cottura bbq vi aiuta a stabilizzare la temperatura del vostro dispositivo) e di andare in foil dopo la formazione del bark. In rete troverete miliardi di opinioni in merito: sì foil, no foil, sì water pan, no water pan. Come dico sempre, ognuno scelga il metodo che preferisce: per quello che mi riguarda, quello che andrò a descrivervi è il migliore, specie se si parla di una cottura casalinga. Low&Slow, ovviamente, manco a chiederlo. Ingredienti per le due preparazioni: • 2 Boston Butt di Maiale Duroc del BBQ4All Megastore; • una confezione di Sal’s Seasoning Tennessee; • Olio di semi di girasole q.b. • (solo per la cottura al forno) Paprika affumicata spagnola (Pimenton de la Vera) q.b. • ceto di mele q.b.
Procedimento bbq: 1. Togliete il Boston Butt dalla confezione, dategli una lavata sotto l’acqua corrente e poi procedete alla fase di trimmatura togliendo eventuali accumuli di grasso. 2. Cospargete con un filo d’olio di semi il pezzo di ciccia e poi rubbatelo col Tennessee; anche in questo caso vale lo stesso discorso per le Ribs: non esagerate mai col Rub. 3. Accendete il vostro dispositivo e predisponetelo per una cottura indiretta che duri a lungo, quindi è indispensabile che conosciate lo Snake Method: dovete creare un serpente costituito da bricchette di carbone spente disponendole lungo il bordo del braciere, andando a creare una sorta di mezza luna.
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tipica dell’American bbq, per esempio che è sempre bene fare un ripasso ogni tanto, oppure che è bello fare la prova con il nostro Duroc, il Black Angus dei maiali, che garantisce un ottimo risultato al 100%. Ma la verità è che il pulled pork ci piace così tanto che ogni occasione è buona per cucinarlo, mangiarlo e presentarlo. E poi si sa che siamo malefici, pensiamo solo al fatturato e vogliamo farvi venire la voglia di comprarlo!
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Poi procedete all’accensione dello Snake versando bricchette accese (meno di metà cesto accenditore) solo ed esclusivamente ad una delle due estremità, dando così inizio al sistema di innesco continuo. La lenta combustione va a generare quindi un ciclo virtuoso dove le bricchette accese prendono il posto di quelle esaurite, garantendo una temperatura costante. Lo Snake dovrà durare almeno 12 ore. 4. Stabilizzate dunque il vostro dispositivo a una temperatura di circa 110/120°C in griglia mettendo anche una vaschetta di alluminio riempita per circa un terzo d’acqua accanto allo snake, sulla griglia carboni. Quando la temperatura del vostro kettle sarà quella ideale, appoggiate la carne sulla griglia dalla parte opposta delle braci- sotto ci sarà la vaschetta con l’acqua- inserite il legno per affumicare (chips o chunks), inserite la sonda del termometro nella ciccia e chiudete il coperchio. A questo punto comincia la parte noiosa: dovete aspettare senza aprire il coperchio per controllare
cosa stia succedendo dentro l’infernale aggeggio. Non fatelo. I vostri unici punti di riferimento sono le due temperature: quella in griglia, che deve rimanere costante per ore, e quella della ciccia che deve lentamente salire. 5. L’attesa potrebbe essere lunga ed estenuante: stiamo parlando come minimo di sei chili di carne. Tendenzialmente, quando il pork raggiungerà i 65/70°C (quindi diverse ore dopo) potete aprire il coperchio, controllare il bark e, se quest’ultimo sarà perfettamente formato, potrete andare in foil (facendovi aiutare da qualcuno). Noi abbiamo scelto il Texas Crutch: abbiamo inserito la carne in una vaschetta di alluminio nella quale abbiamo versato un poco di aceto di mele- ma va bene anche l’acqua - per poi avvolgerla con fogli di alluminio in modo che non ci fossero fori o buchi. Ovviamente, dopo dovete reinserire la sonda nella ciccia, chiudendo il piccolo foro che si formerà con altro alluminio. È fondamentale che questa
liscio vi accorgete che il bark è ancora intatto e che nella vaschetta si è formata una discreta quantità di succhi di cottura. Anche qui, le scuole di pensiero si dividono: c’è chi preferisce pullare dentro la vaschetta e chi preferisce pullare fuori dai liquidi e aggiungerli dopo. In ogni caso noterete che la ciccia si sfalderà senza sforzi sotto i colpi delle forchette e che ogni sfilaccio avrà lo smokering: quell’anello rosa intenso appena sotto il bark, inutile ai fini del sapore ma tanto bello a vedersi. 8. Siete pronti a servire il pulled pork come più vi piace ( di solito, in un panino con l’immancabile coleslow): occhio ad avere amici o familiari intorno durante questa fase, perché ho visto chili di sfilacci sparire nel giro di due minuti, presi con le mani e mangiati con mugolii di soddisfazione da uomini e donne con mani e bazze unte.
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procedura avvenga velocemente e che la carne non subisca shock termici che comprometterebbero la riuscita della preparazione. 6. Una volta chiuso il pork nell’alluminio, rimettetelo in cottura, aprite tutte le vent del vostro kettle e lasciate che la tempertura salga, e di nuovo aspettate. La temperatura interna deve raggiungere i 98°C. Quando succederà, anche se saranno passate ore (circa 12 se avete fatto tutto alla perfezione) non fatevi prendere dall’entusiasmo: aprite il coperchio, aprite il foil, lasciate uscire il vapore interno, richiudete il foil, richiudete il coperchio, chiudete tutte le vent del dispositivo e lasciate che la temperatura del vostro pork scenda lentamente per almeno due ore. Ho appena descritto la fase di rest (mantenimento), fondamentale affinché gli sfilacci del vostro pulled pork rimangano succosi e teneri anche dopo il pullaggio. 7. Trascorse le due ore, potrete togliere il pork dal dispositivo e aprire bene il foil: se tutto è filato
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Procedimento al forno: 1. La fase di trimming è esattamente uguale a quella descritta poc’anzi, mentre al momento di stendere il Rub aggiungete al Tennessee la paprika affumicata. Questo perché, per ovvi motivi, in forno non potrete affumicare con il legno e quindi darete una leggera nota di fumo attraverso la paprika: no, non la stessa cosa, ma è comunque un buon compromesso. 2. Anche in questo caso, vi consiglio di inserire sul fondo del forno una vaschetta di alluminio con un po’ d’acqua dentro (anche per salvaguardare il forno dalla colatura dei succhi). 3. Qui diventa facilissimo: accendete il forno in modalità ventilata a una temperatura di circa 110/120°C. Quando sarà pronto, inserite la ciccia appoggiandola direttamente sulla griglia posta a metà altezza. Ovviamente, anche in questo caso è necessario inserire la sonda del termometro per rilevare la temperatura della carne. 4. Anche in questo caso non resta che aspettare, ma qui sarete molto più rilassati: innanzitutto non dovrete preoccuparvi di oscillazioni impreviste di temperatura, non dovrete chiedervi se avete inserito la giusta quantità di bricchette, tale da garantire la durata per tutte le ore di cottura che servono, e soprattutto la porta trasparente del forno vi permetterà di vedere cosa succede minuto per minuto. 5. Sostanzialmente, la procedura rimane quella descritta poco sopra: al raggiungimento del bark, si va in foil esattamente nello stesso modo. Si rimette tutto in forno e si aspetta il raggiungimento dei 98°C. 6. Si spegne il forno, si apre il foil, si fa uscire il vapore in eccesso, si richiude tutto e si lascia tutto nel forno spento (o acceso al minimo della temperatura) per un paio d’ore. Poi si pulla. 7. La prima differenza che vedrete è quell’assoluta mancanza di smokering che però avevate gia messo in conto. Per il resto, lo smoky flavour sarà appena percettibile e comunque molto diverso rispetto all’affumicatura nel dispositivo. La consistenza e la morbidezza, così come la croccantezza del bark saranno le stesse. Forse, in questo caso una buona salsa bbq con note affumicate potrebbe andare a compensare ciò che manca. Avete comunque guadagnato in relax, calduccio, serenità e comodità. E il Duroc vi ha garantito un risultato comunque ottimo. A questo punto, non vi resta che scegliere: siete per l’adrenalina infernale o per la comodità casalinga?
Sono giapponese... ma parlo americano.
GYOZA AL PULLED PORK INGREDIENTI 4 persone Per la salsa: 60 g di acqua di peperoni in ember roasting 32 g di salsa di soia 30 g di succo di limone 40 g di sciroppo di zucchero 5 g di tabasco 20 g di semi di sesamo misti 4 g di olio di sesamo Per il ripieno: 40 g di cavolo cappuccio rosso 40 g di insalata iceberg 4 g di aglio fresco Olio extravergine di oliva q.b. 4 cucchini di Salsa di accompagnamento 4 cucchiaini di salsa Worchestershire 300 g di pulled pork già sfilacciato 80 g salsa barbecue 1 peperoncino (facoltativo) Per la pasta (circa 30 ravioli) : 320 g di farina 00 140 g di acqua calda un cucchiaino di sale
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Spesso però capita che il Pulled Pork avanzi, soprattutto quando si è in pochi e bisogna comunque cuocerne una quantità minima considerevole per ottenere un ottimo risultato. Per carità, la classica versione nel panino, con la salsa acidula e la coleslaw croccante è indiscutibilmente un must dal livello di salivazione assurdo, ma ogni tanto è bene anche provare qualcosa di nuovo. È con questa ricetta cercheremo di armonizzare più culture in un colpo solo creando un piatto fusion, saporito e di grande effetto. Prepareremo dei gustosissimi ravioli alla piastra tipici della cultura asiatica, i gyoza, ripieni di pulled pork in pieno stile americano da intingere in una salsa, che ha come base la mediterraneità del peperone arrosto, potente e leggermente affumicata. Questi deliziosi ravioli li troviamo spesso nei ristoranti asiatici, sia cinesi che giapponesi, ma la differenza sostanziale tra i gyoza in stile giapponese e i Jiaozi cinesi è la presenza notevolmente più elevata dell’aglio che è quasi assente nei secondi. Entrambi vengono spesso accompagnati con salsa tarè o piccante e si differenziano anche per tipologia di cottura e ripieno. Si possono infatti cuocere al vapore per una versione più leggera, alla piastra per un gusto più deciso (yaki gyoza) e infine friggere per la variante più golosa. La cosa divertente è reinterpretare il ripieno come si vuole, mentre la chiusura richiede un po’ di esercizio ma trasmette una serenità zen senza eguali.
PREPARAZIONE DEI RAVIOLI 1. Impastate energicamente sul piano di lavoro per far prendere elasticità alla pasta. Lasciate riposare almeno 20 minuti. 2. Nel frattempo preparate il ripieno. In una padella scaldate un filo d’olio, aggiungete l’aglio tritato finemente, il cavolo e l’iceberg entrambi tagliati a julienne. Fate saltare per qualche minuto, poi condite con la salsa di accompagnamento e regolate il sapore con la salsa Worchestershire. 3. Unite in questa fase il pulled pork avanzato fatto rinvenire con salsa barbecue e un goccio d’acqua o brodo vegetale. Amalgamate bene gli ingredienti e lasciate raffreddare leggermente. 4. Stendete la sfoglia dei ravioli e coppate con un tagliapasta della misura desiderata. Inserite la quantità di ripieno adatta alla misura scelta per ottenere un raviolo cicciotto e sostanzioso. 5. Praticate una chiusura a mezzaluna e poi effettuare il classico ricamo dei ravioli alla piastra partendo da destra verso sinistra, avendo cura di schiacciarne leggermente la parte inferiore. 6. Scaldare il dispositivo al massimo della temperatura e predisponete la configurazione per inserire una piastra in ghisa o in ceramica. 7. Preriscaldate molto bene il supporto, poi aggiungere un filo di olio di semi e i ravioli fino a che non formeranno una deliziosa crosticina sul fondo. A questo punto versate mezzo bicchiere d’acqua e coprite con un coperchio per sviluppare vapore che aiuterà a cuocere la parte superiore della pasta. Quando risulterà cotta basterà togliere il coperchio e far evaporare tutta l’acqua in eccesso per far riprendere la giusta croccantezza al fondo dei ravioli.
PREPARAZIONE DELLA SALSA 1. Cuocete due peperoni in Ember roasting, ossia posizionandoli tra le braci roventi finché non sarà carbonizzata la parte esterna. Avvolgeteli in un sacchettino di plastica alimentare e chiudeteli per far sviluppare vapore e favorire la fuoriuscita dell’acqua di vegetazione che sarà la base della salsa. Dopo circa mezz’ora spellate i peperoni. Grazie al vapore sviluppatosi nel sacchetto quest’operazione sarà semplice e veloce da eseguire. Dividete i peperoni in falde e mettetele a scolare per almeno un’ora in un colino a maglie fini; recuperate tutta l’acqua di vegetazione possibile. La polpa di peperoni potrà essere utilizzata in svariate preparazioni: per una salsa dip da stuzzicare come aperitivo o come ripieno per dei tortelli o infine come gustoso contorno.
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2. Unite all’acqua di peperone arrosto gli altri ingredienti e fate maturare almeno un’ora. A piacere aggiungete delle rondelle di peperoncino. 3. Servite i ravioli con la salsa di accompagnamento.
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Speciale Comfort Food - Ricette a cura della Redazione
LE UOVA RIPIENE
e quel "certo languorino" Nel mondo culinario, l’uovo (in particolare quello di gallina) è uno degli ingredienti più usati, anche perché, a causa del suo elevato contenuto di proteine, è considerato non a torto uno tra gli alimenti più nutrienti al mondo. Un uovo grande contiene circa nove grammi di proteine, otto di grassi, tracce di carboidrati e tutte le vitamine presenti nella maggior parte nel tuorlo (tranne la vitamina C) e i minerali essenziali (calcio, ferro, lecitina). Si stima che ogni anno in Italia vengano prodotte più di 13 miliardi di uova, e nonostante questo non bastano: per questo motivo vengono anche importate.
Quando arrivava il Natale, si iniziava a sentire il profumo di uova sode già dal giorno dell’Immacolata, l’8 Dicembre. Le donne meno avvezze ai fornelli, quando si iniziava a dover decidere chi doveva preparare cosa durante le battaglie estenuanti dei pranzi delle feste, facevano a gara a chi alzava prima il braccio gridando: “Le uova ripiene le faccio io!”. Valeva come avere Parco della Vittoria a Monopoly. Questo perché la loro preparazione era molto semplice, ma essendo gustose e servite come antipasto spesso ricevevano
fotografie di Luca Gallozza
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Insomma, parliamo di un alimento che tutti conoscono e che tutti mangiano perché, viste le molteplici possibilità di cucinarlo (la tradizione vuole che le cento pieghe di un cappello da chef rappresentino gli altrettanto diversi metodi che un vero cuoco conosce nel preparare un uovo), è molto difficile che almeno una delle tante non incontri il nostro gusto. Sicuramente, le uova tonnate sono state uno dei punti fermi sulle nostre tavola di Natale degli anni '80. E dato che ci avviciniamo al periodo dei festeggiamenti, addentriamoci nella selva oscura. Le ricordate? Erano uova sode che venivano tagliate a metà per estrarre il tuorlo. Poi si creava una salsa tonnata, fatta principalmente di maionese, tonno, lo stesso tuorlo sodo, e alcune aggiunte a piacere: l’acciughina, il cappero, la paprika. Infine si rimetteva questa salsa molto densa all’interno degli albumi sodi, là dove una volta stava il tuorlo.
Volendo rivisitarle in chiave moderna, ma utilizzando comunque tutti quegli ingredienti che le hanno caratterizzate, per non snaturare la preparazione, abbiamo pensato a una versione vitel tonnè. Cuoceremo l’uovo come da ricetta originale, lasciandolo in acqua per dieci minuti, una volta raggiunta l’ebollizione. Poi lo sgusceremo e lo divideremo in due metà. Estrarremo il tuorlo che terremo da parte, e riempiremo le parti lasciate vuote dal tuorlo. “Si ma come ?” chiederete voi. Con una polpettina di tartare che poi condiremo con una salsa tonnata. Non parliamo di una tartare qualsiasi, ma quella esplosiva tagliata al coltello, ricavata da una Teres Major del nostro Megastore. Non importa che sia una Creekstone Farm Prime o una SRF 9+. La qualità è indubbia comunque e otterrete un risultato stratosferico. Stavolta teniamo il nostro dispositivo a riposo, risparmiando le bricchette.
INGREDIENTI 4 persone 6 uova medie 300 g Teres Major 6 fette di bacon 100 g di tonno sgocciolato Olio extravergine di oliva q.b. Sale q.b. Pepe q.b. 1 cucchiaino di Salsa di soia ½ Cipolla rossa 1 cucchiaino di senape 30g Capperi 2 Acciughe 1 cucchiaino di limone 2 cucchiai di maionese 1 ciuffo di erba cipollina fresca Sal’s Seasoning Montreal Rub q.b..
PREPARAZIONE 1. Riempite un pentolino d’acqua e mettete a cuocere le uova per otto minuti da che inizia l’ebollizione. 2. Ultimata la cottura, raffreddate in acqua e ghiaccio le uova e lasciatele riposare 5 minuti. 3. Procedete con lo sgusciare le uova, che dividerete in due parti eguali per la lunghezza. 4. Estraete i tuorli e tenete da parte gli albumi sodi. 5. Create la salsa tonnata, frullando in un mixer, i 4 tuorli sodi, il tonno, i capperi, le acciughe, il limone e l’olio. Aggiungete poi la maionese e mescolate per ottenere un composto omogeneo. 6. Tagliate e battete la Teres Major a coltello. Inserite la tartare in una ciotola. 7. Aggiungete alla tartare un filo d’olio, la salsa di soia, la senape, la cipolla tritata finemente, sale e pepe e una spolverata di Sal’s Seasoning Montreal della linea GLC Top Selection. Mescolate bene il tutto. 8. Create con la tartare delle mini polpettine da circa 50/60g l’una e adagiatele nella parte convessa dell’albume. 9. Fate rosolare per bene, le fette di bacon su una piastra. 10. Da ancora calde, utilizzate le fette di bacon per bardare l’uovo, ricoprendo la polpettina di tartare. 11. Versate sul bacon un po’ di salsa tonnata e un pizzico di erba cipollina tritata finemente e gustatevele insieme ai vostri commensali.
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l’approvazione entusiasta dei commensali con un certo languorino, attratti dal quel sapore tonnato e cremoso. Poco importa se il pranzo prevedeva novecento portate successive: i vassoi con le uova ripiene sparivano a vista d’occhio.
Speciale Comfort Food - Ricette a cura della Redazione
PASTA E CECI PASTA E FAGIOLI il comfort food delle nostre nonne
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La tradizione contadina non le chiamava certo Comfort Food, ma sicuramente la pasta e ceci e la pasta e fagioli sono due primi piatti che confortano tantissimo: va da sé, quindi, che non potevano certo mancare in questo numero di Dicembre così pieno di piatti appaganti, morbidi, vellutati e saporiti. Piatti consolatori, per dirla tutta. Quando abbiamo pensato al menu per questo ultimo numero del BBQ4All Magazine avevamo pensato di inserire solo una delle due, ma dato che scegliere ci è sembrato troppo difficile, ci siamo detti: ma sì dai, meglio abbondare, facciamole entrambe, che di sicuro non dispiace! Partiamo dalla pasta e ceci: è una ricetta conosciuta in tutta Italia, tanto che ogni regione ha di fatto la sua variante, ma la tradizione la vede nascere nel Centro-Sud Italia, dove è ancora parecchio radicata. Si tratta di un primo piatto veloce, preparato con ingredienti semplici ma gustosi: a guardar bene gli ingredienti primari sono due, la pasta ed i legumi. Di qualità potremmo dirne a decine, ci limitiamo a dire che una pasta e ceci fatta bene è cremosa, sostanziosa, profumata: è il piatto contadino per eccellenza. Un pieno di carboidrati e proteine, in passato mangiata anche a colazione, adatta a ricaricare le batterie prima di tornare a faticare nei campi. Il retaggio di questa squisitezza è arrivato fino a noi, con la sua semplicità, il gusto autentico, semplice, schietto, che riempie di calore lo stomaco ed il cuore durante le uggiose giornate della stagione fredda: c’è da dire che ne abbiamo parecchio bisogno, di ‘sti tempi. Esistono, come dicevamo, moltissime varianti di questo piatto nonostante i semplici e pochi ingredienti. Attenti eh, che vi vediamo: già siete lì, a sostenere fieramente che la vostra famiglia è l’unica degna di essere detentrice della vera ed unica ricetta. E con tutta probabilità, ognuno di voi ha ragione. Affascinante come, con così pochi passaggi, si possa ottenere un risultato simile, dalle
sfumature più sorprendenti. Passiamo a parlare dell’ingrediente principale: i ceci. Partiamo col dire che questi legumi rappresentano un viaggio meraviglioso nella storia dell'uomo; arrivati sino a noi grazie all'espansione dell'Impero romano (chiamati Cicer in onore di un antenato di Cicerone, che aveva una simpatica verruca sul naso a forma di legume), nascono e vengono utilizzati sin dall'inizio dei tempi nelle zone occupate oggi da Iraq, Turchia, Egitto e Grecia. La loro resistenza alla siccità e le loro proprietà nutritive sono state alla base dell'evoluzione umana, infatti è proprio questa pianta che l'essere umano riuscì a coltivare durante l'età del Bronzo. Soprannominati “la carne dei poveri”, i ceci sono estremamente ricchi di proteine e carboidrati, e risultano terzi in classifica nella lista dei legumi più consumati nel mondo. Grazie agli acidi grassi Omega3 contribuiscono a regolarizzare la pressione arteriosa, aumentando i valori del colesterolo buono e tenendo sotto controllo quello cattivo. Sono inoltre degli integratori naturali di magnesio, calcio, fosforo, potassio, vitamine C e B. Un vero toccasana. Per quanto riguarda il capitolo “curiosità piccanti”, anticamente ai ceci venivano attribuite addirittura proprietà afrodisiache, ma sfidiamo chiunque a dare il meglio di sé dopo aver ingurgitato un piatto abbondante di pasta e ceci! Sulla pasta si potrebbe aprire un dibattito infinito. C'è chi utilizza i maltagliati, c'è chi mischia vari rimasugli di pasta secca di diverso formato ed ancora chi usa la pastina da minestra, i capellini o gli spaghetti spezzati, così come i tagliolini all'uovo; non c'è una pasta che esca vittoriosa su altre: tutte sono ugualmente giuste. In questa ricetta abbiamo preferito la pasta secca che cuocendo man mano insieme a tutti gli altri ingredienti, rilascia il suo amido, aiutando a legare il tutto.
4 persone pasta e ceci
fotografie di Emiliano Nencioni
INGREDIENTI
160 g di pasta corta (casarecce, ruote, tubetti, mista) 250 g di ceci secchi 2 spicchi dâ&#x20AC;&#x2122;aglio olio extravergine di oliva q.b. rosmarino fresco q.b. mezzo cucchiaio di concentrato di pomodoro peperoncino q.b. sale&pepe q.b.
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8 gamberi rossi di Mazara GLC Top Selection
PREPARAZIONE PASTA E CECI 1. Prima di tutto scordiamoci dei ceci in scatola, fingiamo - per favore - che non esistano. Aggiungete quindi alla lista della spesa un sacchetto di ceci secchi, che lascerete in ammollo per circa 12 ore. 2. Dopo l'ammollo prendete una pentola capiente e piazzandola sul fuoco, annaffiate con dell'olio extra vergine di oliva (possibilmente novello, in questo periodo dell'anno) e lasciatelo scaldare. Nel frattempo sbucciate e schiacciate due spicchi d'aglio, aggiungendoli all'olio e lasciandoli soffriggere dolcemente. 3. È il momento di aggiungere i ceci, lasciate rosolare nel soffritto a fiamma vivace girando per circa un minuto, aggiungete il rosmarino fresco (a piacimento) e poi allungate il tutto con 3 bicchieri di acqua lasciando successivamente bollire il composto a fuoco lento per un’oretta circa, con coperchio (finché i ceci non risulteranno morbidi). 4. Arrivati a questo punto aggiungete un pizzico di concentrato di pomodoro e del peperoncino (a voi la scelta, in base al gusto). Prelevate dalla pentola un mestolo di ceci e teneteli da parte; ora aggiungete altra acqua alla zuppa (non troppa, il consiglio è quello di regolare la brodosità della minestra man mano); salate, fate prendere il bollore, e finalmente aggiungete la vostra pasta preferita (sui 160 grammi circa). 5. Ora, ricordate i ceci messi da parte? Bene. Frullateli con un mestolo della loro acqua di cottura, e riversate la crema ottenuta insieme al resto nella pentola.
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6. Portate la pasta a cottura, e attendente qualche minuto che il tutto si intiepidisca (la pasta continuerà ad assorbire liquidi e rilasciare amido, aumentando la cremosità del piatto). 7. Impiattate con una tartare di gamberi rossi che avrete condito con sale, pepe, unite un filo d'olio a crudo e servite.
PASTA E FAGIOLI:
trait d’union di tutta Italia La pasta e fagioli, invece, è quella più consumata nelle regioni settentrionali del nostro Paese, anche se la Campania vanta una buona tradizione su questo piatto. Anche in questo caso si parla di numerosi varianti, che però possono essere raggruppate in quattro macro-gruppi: le paste e fagioli condite a base di lardo, quelle condite a base di olio, quelle con i fagioli interi, quelle con i fagioli passati (tutti o in parte). I fagioli sono presenti nella dieta dell’uomo da moltissimo tempo, ma bisogna fare una fondamentale distinzione tra i fagioli che si coltivavano in Italia prima della scoperta dell’America e quelli che sono stati introdotti dopo. I primi, i cosiddetti fagioli all’occhio, sono piccoli, di colore bianco crema e provvisti di un piccolo anello nero (l’occhio, appunto) che indica il punto di attacco del seme al legume. Sono originari delle regioni tropicali dell’Asia e dell’Africa e sono i fagioli conosciuti e abitualmente consumati da Greci e Romani prima che arrivassero dall’America i fagioli che coltiviamo oggi. Questi ultimi – i fagioli “importati” dalle Americhe, insomma - pare che siano stati coltivati per la prima volta in Italia nella zona di Belluno intorno ai primi anni del ‘500. Pian piano, poi, questo legume divenne protagonista della gastronomia di quasi tutte le regioni italiane. Esistono diverse varietà di fagioli, è giusto nominare le tre che hanno ottenuto il riconoscimento IGP sul nostro territorio: il fagiolo di Lamon della Vallata Bellunese, il fagiolo di Sarconi originario della provincia di Potenza, e il fagiolo di Sorana presente nella provincia di Pistoia. Dopo questa breve disamina sui legumi, passiamo anche qui alla pasta. La tipologia di pasta da utilizzare è quella corta, secca o all’uovo: l’importante è che sia di buona tenuta e di ottima qualità. Anche in questo caso vanno bene maltagliati, tagliatelle corte, ditalini rigati, spaghetti spezzati, e così via. Fra le molteplici varianti di questo piatto troviamo quella con le cotiche, quella con le patate, quella con le verze, quella con o senza il pomodoro. Impossibile trovare la ricetta originale, tante sono state le rivisitazioni nel corse dei secoli. Noi abbiamo optato per i fagioli cannellini (ci perdonerà il Maestro Gualtiero Marchesi se non abbiamo usato i borlotti), l’uso dell’olio e non del lardo, una parte di fagioli interi e una frullata per renderla molto più cremosa. E come sulla pasta e ceci abbiamo usato un ingrediente goloso come topping: seguiteci quindi nelle ricette per scoprire le nostre versioni.
PREPARAZIONE PASTA E FAGIOLI 1. Mettete a mollo i fagioli per circa 12 ore. 2. Tritate sedano, carota e cipolle e mettete il trito a soffriggere in una casseruola con abbondante olio extravergine di oliva. 3. A questo punto gettate nella pentola i fagioli tolti dall'ammollo, aggiungendo abbondante acqua salata e il rametto di rosmarino. Fate partire il bollore e cuocete a fuoco mooooolto lento. Ci vorranno due ore e mezza buone, mettetevi comodi. 4. Trascorso questo tempo, togliete il rosmarino, togliete una parte dei fagioli insieme a tre mestoli della loro acqua e frullateli. 5. Aggiungete il concentrato di pomodoro al brodo e ai fagioli interi, mettete la pasta a cuocere, aggiustate eventualmente di sale e aggiungete anche la purea di fagioli. Durante la cottura, se dovesse addensarsi troppo, aggiungete un poâ&#x20AC;&#x2122; di acqua o brodo. 6. Tostate in padella la pancetta e a fine cottura servite la pasta e fagioli ancora calda, con pepe, olio extravergine di oliva e un topping di pancetta croccante.
fotografie di Emiliano Nencioni
INGREDIENTI 4 persone
pasta e fagioli 250 g di fagioli cannellini secchi 160 g di pasta secca corta una cipolla dorata grande mezza costa di sedano una carota un rametto di rosmarino mezzo cucchiaio di concentrato di pomodoro olio extravergine di oliva q.b. sale e pepe q.b.
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200 g di pancetta affumicata
Speciale Comfort Food - Ricette a cura della Redazione
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È NATO PRIMA IL PURÈ O LA PATATA? Purè: il nome suona bene. Troppo spesso considerata una pietanza “da malati”, per colpa soprattutto di quei menù ospedalieri in cui servono una cosa chiamata arbitrariamente purè ma che ha il sapore e la consistenza del calcestruzzo (non che lo abbiamo mai assaggiato, il calcestruzzo intendiamo, ma è così che ce lo immaginiamo), in realtà quella morbida, vellutata, burrosa crema di patate è quanto di più consolatorio possa esserci. Caldo, morbido purè di patate: gioia per il palato e per l’umore. È talmente buono che viene quasi da chiedersi se sia nato prima lui o il tubero da cui proviene. Originaria del Perù, della Bolivia, e del Messico dove veniva coltivata fin dai tempi della civiltà azteca e inca, la patata venne scoperta dagli spagnoli di Pizarro, sulla Cordigliera Andina, solo a metà Cinquecento. All’inizio guardata con diffidenza dagli europei, anche perché alcuni si erano intossicati consumando le foglie ricche di solanina, fu a causa di una terribile carestia del 1663 che in Irlanda si cominciò a consumarla per l’alimentazione umana. Fu introdotta in Italia dall’ordine dei Carmelitani Scalzi che, nel XVI secolo, insegnarono alla popolazione come coltivarla, raccoglierla e mangiarla. In Francia fu l’agronomo e farmacista francese Antoine Augustin Parmentier a favorire la diffusione di questo tubero. Dopo un periodo di prigionia in Germania, dove poté gustare frequentemente le patate, egli tornò in Patria (era la seconda metà del 1700) e prese parte ad un concorso sulla ricerca dei possibili sostituti del pane presentando, dunque, la pomme de terre. Redasse un articolo esaltandone il sapore, la facilità con cui poteva essere coltivata e la sua versatilità. L’alimento suscitò il grande interesse del Re Luigi XVI, soprattutto a seguito della carestia del 1785, quando egli impartì l’ordine ai nobili di obbligare i propri contadini a coltivare la patata. Pare che Parmentier, per convincere Luigi XVI della bontà del prodotto abbia organizzato un pranzo con soli piatti a base di patate, tra cui quello che divenne il famoso Hachis Parmentier, una preparazione economico a base di purè di patate e carne macinata ripassata in padella, molto simile al britannico Shepherd’s Pie, preparato anch’esso con carne e patate.
Ok, si fa presto a dire “patata”, ma qual è la migliore per preparare il purè? La classificazione delle varietà è fatta in base alle caratteristiche della polpa: più soda in quelle a pasta gialla, più farinosa in quelle a pasta bianca. La nostra morbida purea ha bisogno di quelle asciutte, tenere e farinose, che contengano molto amido e poca acqua. Quindi sono consigliabili le varietà a pasta bianca la cui polpa farinosa tende a sfaldarsi durante la cottura. Per questa ricetta non abbiamo voluto apportare alcun cambiamento alla preparazione del classico purè, ma lo abbiamo abbinato a una tipica preparazione in griglia: le salsicce. Ovviamente abbiamo usato le nostre, grigliate alla perfezione, belle saporite e formaggiose, per rendere questo comfort food, come Mary Poppins, praticamente perfetto sotto ogni aspetto. Vabbè, abbiamo parlato anche troppo, tuffiamoci in questo purè alla svelta. Ah, ovviamente, anche se pare superfluo dirlo ma noi non ci stanchiamo mai di ripeterlo, è fondamentale scegliere tutti ingredienti di altissima qualità per un purè con un sapore pieno e intenso, che non necessiti dell’aggiunta di formaggi.
INGREDIENTI 4 persone
8 salsicce Pork Sausage Cheddar Jalapeno del BBQ4All Megastore 500 g di patate farinose a pasta bianca 150 g circa di latte fresco intero 70 g di burro di malga sale q.b. noce moscata a piacere
fotografie di Emiliano Nencioni
PREPARAZIONE 1. Lavate con cura le patate scegliendole in modo che abbiano dimensioni simili, poi lessatele con la buccia. Assicuratevi della cottura punzecchiandole con una forchetta o con la lama di un coltello che non deve riscontrare alcuna resistenza. 2. Pelate le patate ancora calde poi schacciatele usando un passaverdure o uno schiacciapatate. 3. Nel frattempo mettete a cuocere le salsicce nel vostro dispositivo, stabilizzandolo per una cottura indiretta a circa 130°C. Cuocetele per circa 40 minuti o comunque fino al grado di cottura desiderato, ovviamente senza bucarle e poi passatele velocemente in cottura diretta per pochi istanti. Tenetele in caldo.
5. Scaldate il latte fino a portarlo quasi ad ebollizione, poi aggiungetelo a piÚ riprese alle patate continuando a mescolare con una frusta facendo attenzione a non formare grumi e a rendere il composto omogeneo. Aggiungete il burro e mantecate il purè fino a farlo sciogliere completamente e a terminare tutto il latte. 6. Servite le salsicce insieme al purè ancora caldo e dimenticatevi il calcestruzzo spacciato come tale da coloro che sono a dieta.
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4. Ponete le patate schiacciate in un tegame per la cottura a bagnomaria, aggiungete il sale e una generosa spolverata di noce moscata.
Speciale Comfort Food - Ricette a cura della Redazione
POLENTA
...altrimenti detta l'oro dei poveri
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In questo numero del Magazine parliamo di una preparazione molto diffusa ma spesso emarginata ingiustamente: la polenta di mais. Piatto povero della tradizione contadina italiana, fino ad epoche molto vicine a noi veniva realizzata cuocendo la farina di granoturco in acqua salata, dentro un paiolo di rame direttamente sul fuoco del camino (molti di noi ricordano i nonni che la preparavano così anche negli anni ‘80). Per tutta la durata della cottura, veniva rimestata con un cucchiaio di legno robusto, per evitare che formasse grumi e che bruciasse attaccandosi sul fondo; una volta pronta, la polenta veniva versata su una spianatoia di legno, dalla quale tutta la famiglia attingeva. Coloro che ancora scelgono di cuocerla come tradizione comanda sanno che è una preparazione molto lunga e faticosa, poiché bisogna mescolarla costantemente vicino a una fonte di calore, aumentando gradualmente la forza man mano che il prodotto si addensa. L’industria alimentare ha ridotto moltissimo i tempi di cottura, per adattarla alla frenetica vita moderna, creando delle miscele innovative che a contatto con l’acqua bollente in soli 10 minuti si trasformano in un bella amalgama gialla, morbida e fumante, pronta per essere condita con un sugo ai funghi, un formaggio o un ragù di carne. Contrariamente a ciò che si può pensare, la polenta non nasce alla fine del ‘500 con l’introduzione nel panorama agricolo italico del granoturco, importato in Europa dopo la scoperta dell’America nel 1492, ma ha origini antichissime risalenti alla nascita della civiltà. Possiamo quasi azzardarci ad affermare che è una delle prime preparazioni ideate dall’ingegno umano, perché con il termine polenta non si indica una ricetta, ma un tipo di cottura dei cereali macinati. I Sumeri la realizzavano con il miglio, i greci usavano l’orzo e i romani preferivano il farro. A questi ultimi dobbiamo il nome: “polenta” deriva dal latino “puls” (farina di farro). Durante la Repubblica, ne erano grandi consumatori, tanto da essere soprannominati “pultiferi” (mangiatori di polenta); la gustavano insieme al pesce sotto sale, ai formaggi, alla frutta, al miele, alle verdure cotte e alla carne, proprio perché il suo sapore neutro e delicato si sposava bene con
tutto. Il filosofo romano Seneca, rimpiangendo quel periodo basato su forti valori morali e sulla semplicità dei costumi, davanti al decadimento imperiale scriveva: ”Pulte, non pane, vixisse longo tempore Romanos manifestum” (di polenta e non di pane vissero per lungo tempo i romani). Torniamo alla polenta che noi tutti conosciamo: quella di mais. Perché questa versione ha surclassato tutte le altre varianti, relegandole nell’oblio? Inizialmente, quando il mais fu introdotto nel Vecchio Continente, non si intuirono le sue potenzialità; esso veniva utilizzato soprattutto come mangime per polli, colombi e maiali; fu in Italia, in special modo in Val Padana, che conobbe la sua fortuna andando a sostituire quasi totalmente i cereali vernini (farro, miglio e orzo), diventando l’alimento principale dei contadini e spesso, diciamolo, anche l’unico. Il boom dipese da due fattori: il primo riguardava il fatto che, essendo una nuova coltivazione, non veniva rubricata nei contratti tra il padrone e i suoi mezzadri, per cui non era sottoposta alle decime sui raccolti; inoltre, il granoturco manteneva i campi sempre produttivi. Solitamente, la terra che veniva coltivata a grano, cereali e legumi dopo il raccolto era messa a riposo perché riacquistasse i sali minerali e tornasse fertile; i contadini non solo scoprirono che il mais cresceva bene sul suolo demineralizzato, ma che esso al contempo, durante la sua crescita, fertilizzava la terra. Un’interessante testimonianza sull’importanza rivestita dalla polenta nel Settentrione si trova all’interno dei “Discorsi” dedicati a Giovanna Arciduchessa d’Austria di Pietri Andrea Mattioli: “i villani che abitano nei confini che determinano l’Italia dalla Germania, fanno della farina la polenta, la quale dopo che è cotta in una massa, la tagliano con un filo in larghe fette e sottili e acconcianla in un piattello con cascio o con butirro et assai ingordamente se la mangiano”. In realtà, a causa della loro estrema povertà, molto spesso le famiglie contadine finivano per mangiare tutti i giorni polenta senza alcun condimento; questo tipo di nutrizione, scarsa di acido nicotinico
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fotografie di Emiliano Nencioni
o vitamina PP, favorì la diffusione di una malattia molto grave: la pellagra. Questa patologia attaccava il sistema intestinale, l’epidermide e il sistema nervoso, causando la morte nei soggetti più gravi. La malattia diminuì con il diffondersi di una dieta più varia, ma in Veneto continuò a fare vittime fino al secondo dopoguerra, specialmente fino a che non migliorarono le condizioni di vita degli agricoltori e di conseguenza la loro alimentazione.
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Considerato un piatto unico tipico del periodo invernale, grazie al suo sapore delicato si abbina alla perfezione con il gusto deciso dei legumi, dei formaggi, delle salsicce, dei funghi, del miele, delle verdure, dei sughi di pomodoro. Ogni regione da Nord al Sud ha la sua ricetta della polenta abbinata ai prodotti tipici del proprio territorio. In maniera molto approssimativa, perché potremmo scrivere un libro con tutte le ricette tipiche regionali, ricordiamo che in Val d’Aosta viene servita spesso con la toma e la fontina; in Piemonte è gustata con salse dolci, uova e latte; In Lombardia, con qualunque tipo di carne ma soprattutto in versione “pasticciata”; in Veneto è accompagnata da molteplici alimenti, dal fegato al baccalà, dal miele alla frutta secca; in Emilia è famosa quella piacentina con lo stracotto di cavallo, i peperoni e il pomodoro; in Toscana, la polenta rappresa viene fritta e poi condita con i funghi come un crostino; nel Lazio fa coppia con le spuntature del maiale, mentre in Basilicata, in Calabria e in Sicilia viene servita con la salsiccia e con il ragù. Come ben saprete la farina di mais è priva di glutine e ne esistono diverse qualità a seconda del tipo di macinatura: la bramata a macina grossa, perfetta per polente granulose e rustiche, condite con sughi e formaggi; la fioretto a macina fine, ideale per preparare biscotti e dolci, ma anche polente morbide; la fumetto a grana finissima, che viene spesso utilizzata nelle panature, nella preparazione delle frolle e dei dolci a impasto morbido come i plumcake; la farina di mais bianco, che per il suo sapore ancora più delicato si sposa alla perfezione con il pesce. Fra i vari tipi di mais meritano una menzione
il Marano Vicentino, il Nostrano di Storo, il Biancoperla e la varietà Ottofile. Il Marano Vicentino dà luogo a quella che viene chiamata la “Ferrari della polenta”. È una varietà di mais, selezionata oltre un secolo fa in Veneto, tuttora custodita nella banca del germoplasma dell’Istituto di Genetica e Sperimentazione Agraria Strampelli di Lonigo. Presenta pannocchie più piccole di quelle tradizionali e chicchi rosso rubino, tondi e lucidi. La farina che se ne ottiene è proteica e molto saporita. Il Nostrano di Storo viene coltivata in Trentino Alto Adige. La raccolta avviene a fine Ottobre e le pannocchie vengono lasciate essiccare al vento di montagna per poi essere macinate fino ad ottenere la nota farina gialla di Storo, prodotto Igp. Il Biancoperla è una varietà di mais bianco, coltivato in provincia di Padova e Treviso, con granella di grandi dimensioni e di colore perlaceo. Praticamente introvabile, è sotto la protezione di un’associazione che ne tutela la purezza e ne recupera la coltivazione. Anche questo germoplasma è conservato nell’Istituto Agrario di Lonigo. La polenta che ne deriva, delicata e di colore bianchissimo, è perfetta in abbinamento al pesce di fiume e di laguna e al baccalà. L’Ottofile, tipico delle Langhe, deve il suo nome alle otto file di chicchi arancioni che compongono l’unica pannocchia che cresce sulla pianta. Ancora oggi viene coltivato con metodi naturali e macinato a pietra. Se ne ricava una farina integrale ricca di sapore che rende la polenta di mais varietà Ottofile particolarmente genuina, dolce e amabile. Oltre alla polenta di mais (gialla) esiste anche la polenta nera, preparata con la farina di grano saraceno macinata a grana mediogrossa, dal sapore intenso e aromatico; e la polenta taragna, ottenuta miscelando la farina integrale di granturco a quella di grano saraceno a grana media; in questo modo si ottiene il mix perfetto per questa polenta tradizionale lombarda, che si prepara aggiungendo anche formaggi, burro e pangrattato. Non dimentichiamo poi la polenta con farina di castagne, tipica dell’appennino tosco-emiliano e quella sarda, con farina d’orzo, spesso arricchita con brodo di manzo e menta.
PREPARAZIONE 1. Cuocete le salsicce nel vostro dispositivo, predisponendolo per una cottura indiretta a 130/150 gradi, fino al grado di cottura desiderato, poi tenetele al caldo.
INGREDIENTI 4 persone
per la polenta: 500 g di farina di mais bramata 2 l di acqua salata
per il condimento: una confezione di Pork Sausage Cheddar Jalapeno 50 g di burro 500 g di funghi misti mezza carota un gambo di sedano mezza cipolla uno spicchio d’aglio mezzo bicchiere di vino bianco 100 g di passata di pomodoro
2. Preparate il sugo di funghi, pulendo questi ultimi dai residui di terra e poi affettandoli non troppo sottilmente; noi abbiamo messo anche dei funghi pioppini o piopparelli: funghi con carne compatta e dal sapore gradevole che non assorbono troppo i liquidi e vengono perlopiù lasciati interi, specie se molto giovani e piccoli. Sono piacevolmente scrocchiarelli e saporiti. Preparate un trito di sedano, carota, cipolla e aglio e poi soffriggetelo in padella con il burro. Insaporite di sale e di pepe, bagnate col vino bianco che lascerete sfumare e poi aggiungete il pomodoro, lasciando cuocere il sugo per circa quindici minuti.
sale e pepe q.b.
3. Preparate la polenta con pazienza e in modo tradizionale, in una pentola di rame e con un cucchiaio di legno robusto, portando prima l’acqua salata a ebollizione e poi mescolando il prodotto lentamente a fuoco medio-basso. Ci vorranno circa 40/50 minuti.
4. Una volta pronta, versatela su un tagliere di legno e servitela ancora calda e morbida con un cuore di fontina filante (basterà aggiungere il formaggio tagliato a dadini alla polenta), il sugo di funghi e la salsiccia grigliata tagliata a fettine.
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fontina a piacere
Speciale Comfort Food - Ricette a cura della Redazione
LA CIMA a modo nostro.
Il Natale è una delle ricorrenze che sembrano fatte apposta per sfoderare la tradizione culinaria, che sia una strettamente familiare oppure una locale, della propria zona. Qualsiasi sia la regione di provenienza, tutti sentiamo il bisogno di preparare piatti del territorio, tramandati negli anni di nonna in mamma, di mamma in figlia. Tra questi, in Liguria c’è un piatto tra i più gettonati per le feste natalizie dal quale abbiamo preso spunto per la ricetta che vi presenteremo. Stiamo parlando della Cima genovese, un piatto di recupero che vede come ingrediente principale una tasca ricavata dalla pancia del vitello. Quest’ultima viene prima riempita con diversi ingredienti, spesso di recupero, e poi viene cucita su tre lati, infine cotta mediante bollitura. È una procedura molto lenta e accurata che richiede parecchio tempo e parecchia esperienza per l’esecuzione, anche perché il rischio è che esploda in cottura. Il grande Fabrizio De Andrè, da buon genovese, ha celebrato questo piatto tradizionale, vero e proprio comfort food della domenica per gli abitanti del Capoluogo ligure, in una canzone in dialetto, a’ cimma, scritta insieme a Ivano Fossati, altro genovese DOC.
"Cè serèn tèra scùa carne tènia nu fàte nèigra nu turnà dùa e ‘nt'ou nùme de Maria tùtti diài da sta pùgnatta anène via. "
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(Cielo sereno terra scura carne tenera non diventare nera non ritornare dura e nel nome di Maria tutti i diavoli da questa pentola andate via) Ok, diciamolo subito: questa è una dichiarazione di pace e non di guerra, rivolta soprattutto agli amici genovesi. Noi abbiamo solo strizzato l’occhio a questa ricetta e ne abbiamo realizzato una tutta nostra, utilizzando solo alcuni ingredienti della
versione tipica. Sappiamo quanto gli abitanti del Capoluogo ligure prendano sul serio questa preparazione tradizionale; e dato che non sono esattamente famosi per essere accomodanti, non abbiamo nessuna pretesa di chiamarla Cima genovese. Però ne abbiamo tratto ispirazione, perché in uno speciale che parla di comfort food ci sembrava giusto sfiorare anche questa tipica pietanza di Genova che rappresenta sicuramente un cibo di conforto per tutti gli abitanti. Quindi eccola, la Cima a Modo Nostro. Ovvero grigliata. Potete ricominciare a respirare e a rilassarvi adesso. Per la ciccia, abbiamo evitato il vitello e abbiamo optato per una tasca ricavata da un Tri-Tip USA Star Ranch Choice del nostro Megastore: straordinario taglio, adattabile a diverse preparazioni. Anche la cottura, nella nostra versione, viene fatta su un dispositivo barbecue. All’interno utilizzeremo un macinato di carne che ricaveremo dai nostri burger BBQ4All. Prima lo andremo a soffriggere, con cipolla e carota, sfumandolo con vino bianco, poi lo lasceremo raffreddare. Quindi, realizzeremo una legatura per la carne fatta di aglio, uova, formaggio, maggiorana, sale e pepe. Uniremo il tutto al nostro macinato e andremo a riempire la tasca, che poi chiuderemo con ago e filo da cucina. Faremo un seasoning esterno con i nostri rub della linea Sal’s Seasoning, utilizzando un mix così suddiviso: 40% di Ultimate SPOG, 25% Dallas Mild, 25% Tennessee e 10% Smoke Chipotle Chili. É importante sapere che a causa del volume che creerà l’uovo in cottura, la tasca dovrà essere riempita solo per 2/3. Infine andremo in griglia. Oh, magari un giorno presenteremo anche quella originale, quando riusciremo a convincere lo Zio a bollire la carne. Ma non è questo il giorno. Cari amici genovesi: sappiamo bene che questa ricetta non potrà sostituire le intermittenze del cuore che vi dona la vostra della tradizione. Ma se siete illuminati come crediamo, sappiamo che darete anche a questa ricetta una chance e la proverete. Vero?
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fotografie di Luca Gallozza
Speciale Comfort Food - Ricette a cura della Redazione
L'INSALATA DI RINFORZO che conforto!
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Opulenta, ricca di sapori e abbondante di ingredienti: l’insalata di rinforzo già dal nome è un programma. Nasce a Napoli questa ricetta ricca di verdure, senza la quale non si apparecchiano le tavole partenopee alla vigilia di Natale, ma anche durante l’ultimo dell’anno. L’insalata di rinforzo risale circa al 1800, quando il Cavalcanti la descrisse nel suo libro Cucina teorico -pratica (1837), denominandola caponata. Niente a che vedere con la preparazione che conosciamo oggi, ovviamente (ne abbiamo parlato molto nel numero di Ottobre 2020). Questo è un piatto tradizionale che spesso costituisce una delle portate principali del menù natalizio. L’ingrediente più importante è il cavolfiore, quelli complementari i sottaceti, insieme a papaccelle (peperoni napoletani), capperi, acciughe e olive. Inquadrata la faccenda, vi chiederete: perché è chiamata di rinforzo? Esistono almeno tre spiegazioni. Per alcuni è perché veniva preparata per la vigilia di Natale e rimaneva un piatto di accompagnamento per tutte le festività che portano sino al Capodanno. Da qui il rinforzo, dato dall’inserimento degli ingredienti mancanti, man mano che si consumavano. La seconda spiegazione è legata al cavolfiore. Questo elemento principale pare andasse rinforzato, dato i suo sapore delicato, con l’aggiunta di altri ingredienti di carattere come i capperi, le acciughe e l’aceto. La terza e ultima ipotesi è legata alle
pietanze che venivano servite durante la cena della viglia, durante la quale si mangiava di magro, solo pasta e pesce, e quindi l’insalata serviva per l’appunto al “rinforzo” della cena, proprio con lo scopo di renderla corposa. Riguardo l’ultima ipotesi, al giorno d’oggi possiamo garantirvi che, almeno a Napoli, la cena della Vigilia di Natale tutto è fuorché una cena di magro. Sostanzialmente, l’insalata di rinforzo viene utilizzata verso la metà della cena, per “pulire la bocca”, dicono alcuni, dai sostanziosi primi piatti e passare, dunque, a corpose fritture di pesce. Quindi, la versione di BBQ4All sarà una insalata ma non di rinforzo, dato che ormai sulle nostre tavole è presente ogni bendidio. Questa nostra variante si chiamerà insalata di conforto, perché ci aiuterà a superare con forza d’animo le lunghe abbuffate natalizie. Procederemo con un’affumicatura del cavolfiore, sostituiremo le papaccelle con dei comuni peperoni dolci, ai quali daremo una semicottura in ember roasting, per donare una nota bruciata ma tenendoli un pochino croccanti, e friggeremo delle belle olive nere di fresco raccolto. Voi in alternativa potrete ricorrere ad ottime olive nere di Gaeta. A questi ingredienti aggiungeremo delle belle sarde sotto sale e i cucunci, ovvero i frutti del cappero. Aggiungeremo carote, cipolline borettane, cetriolini sott’aceto e qualche verdura di stagione come il cardo.
fotografie di Emiliano Nencioni
INGREDIENTI 4 persone
un cavolfiore (circa 1 kg) 300 g di carote 100 g di Olive Termite di Bitetto oppure di Olive nere di Gaeta un cardo 100 g di cipolle borettane 100 g di acciughe sotto sale 200 g di peperoni 50 g di frutti dei capperi 80 g di cetrioli sottâ&#x20AC;&#x2122;aceto Aceto di mele q.b Olio extravergine di oliva q.b Sale q.b. Zucchero q.b
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il succo di un limone
PREPARAZIONE 1. Lavate scrupolosamente le olive e scolatele. In un tegame versate una porzione generosa di olio. Fate scaldare e unite le olive. Salate e fate cuocere per circa 10/15 minuti a fuoco medio/basso mescolando delicatamente. Appena risulteranno morbide, saranno pronte. Lasciate raffreddare da parte. 2. Pesate le acciughe sotto sale, poi dissalatele a bagno in aceto. Pulitele bene e spinatele. Sgocciolatele e tenetele da parte. 3. Lavate bene i cucunci e teneteli da parte. 4. Lavate anche qualche costa interna di cardo. Pulitele, eliminando i filamenti esterni e la pellicina bianca interna. Poi tagliate a tocchetti di qualche cm e immergeteli immediatamente in acqua e succo di limone per prevenire l’annerimento dovuto ad ossidazione. Lasciate a bagno sino all’utilizzo. 5. Togliete il primo manto delle cipolline borettane, lavate bene e asciugate. Sbollentatele per dieci minuti in acqua salata, scolatele e raffreddatele. Mettetele in una ciotola, irroratele con un filo d’olio, un cucchiaio di aceto, un cucchiaino di zucchero e ½ cucchiaino di sale. Rimestate bene e poi scolate l’eccesso. Predisponete il vostro dispositivo per una cottura diretta e mettete le cipolline a cuocere all’interno di un vassoio bucato per verdure; lasciatele cuocere per 20 minuti circa e toglietele con una consistenza ancora al dente. 6. Lavate e pelate le carote. Tagliatele a rondelle spesse qualche cm e fatele sbollentare in un litro d’aceto e un cucchiaino di sale, per 6 minuti. Scolate e lasciate raffreddare. 7. Ora predisponete il vostro dispositivo per una cottura indiretta, alla temperatura di circa 180°C. Suddividete le cime del cavolfiore, lavatele e fatele cuocere su un vassoio per verdure, all’interno del vostro dispositivo, per 30 minuti, affumicando con chips di legno aromatico. Togliete il cavolfiore e lasciatelo raffreddare. 8. Lavate esternamente i peperoni e asciugateli bene. Dividete in due metà ciascun peperone. Eliminate picciolo, placenta e semi. Cuocete direttamente sulle braci nel vostro dispositivo, avendo premura di appoggiarlo con il lato buccia sui carboni, affinché si bruciacchi ma rimanga comunque croccante. Togliete dal fuoco, spellate e lasciate raffreddare. 9. Siete pronti ad assemblare l’insalata. In una ciotola capiente inserite per primo il cavolfiore. Condite con olio e aceto, aggiungete il sale e amalgamate delicatamente il tutto. 10. Prendete i peperoni, tagliateli prima a falde larghe 4/5 cm e poi a quadrettoni, infine aggiungeteli nella ciotola. 11. Ora inserite uno per volta i restanti ingredienti: carote, cardi, cipolline, olive, capperi, acciughe i cetriolini sott’aceto tagliati a tocchetti.
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12. Infine condite con altro olio extravergine di oliva, aceto e sale e mescolate con accuratezza al fine di non sfaldare i cavolfiori.
Nella versione tradizionale è facile trovare il più delle volte l’insalata riccia. Essa rilascia la nota amara all’interno del piatto, ma solitamente tende ad appassirsi già dopo qualche giorno. Questo il motivo per cui l’abbiamo sostituita con un freschissimo cardo marinato. Ma se proprio volete mettercela, aggiungetela fresca di volta in volta, a seconda del consumo.
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CAPPONE
RIPIENO E AFFUMICATO ...opulenza irrinunciabile del Natale
Tra le tante portate della cena natalizia il cappone ripieno è un classico intramontabile che non può mai mancare. Le ricette sono svariate, quasi ogni famiglia ha la sua versione con i ripieni più golosi e disparati. Che sia arrostito oppure bollito, il cappone è contemporaneamente l'immagine dell'opulenza e della convivialità, della tradizione e del gusto: tutte caratteristiche che ci renderanno un po’ più speciale questo Natale 2020, di certo non facile. In occasione del solstizio d’inverno, nel mese di dicembre, questa preparazione faceva parte della tradizione gastronomica festiva fin dal Medioevo. Durante le fredde notti di veglia intorno al camino si raccontavano storie mangiando cibi particolarmente nutrienti e sostanziosi. Il nostro cappone viene citato anche nella letteratura: nell’opera I promessi Sposi, Renzo ne regala ben quattro all’avvocato Azzeccagarbugli, per l’epoca considerati un’autentica leccornia. Proprio in Lombardia, in special modo a Milano, tra le famiglie più abbienti era tradizione allevare quattro capponi da consumare durante le feste: uno per San’Ambrogio, uno a Natale, un
altro a Capodanno, e infine l’ultimo per l’Epifania. A quel tempo, l’animale veniva allevato in cortile, mentre oggi ovviamente la maggior parte di noi lo acquista: eppure, questa gustosa tradizione resiste e porta sulla tavola il profumo intenso dei giorni di festa. Aneddoti a parte, conosciamo un po’ più da vicino cos’è, questo benedetto cappone; in pochissime parole, il cappone è un pollo maschio castrato. La castrazione è una tecnica antichissima e molto utile, innanzitutto perché consentiva di avere più galli in uno stesso pollaio, e poi perché rendeva la carne più tenera e grassa. Nell’antica Roma pare che l'allevamento dei capponi fosse nato anche per un'esigenza pratica: quella di aggirare una legge che proibiva l'allevamento delle galline dentro casa. La presenza del cappone segnò anche aspetti culturali e antropologici molto importanti. Il brodo ottenuto dalla sua cottura, infatti, era considerato un toccasana per i malati. Inoltre, si diceva che accrescesse e rinvigorisse l'eros (forse in virtù dei suoi nutrienti, perché a pensarci bene, essendo castrato… ). Ce lo conferma tra i tanti Ulisse Aldrovandi, naturalista e medico bolognese della seconda metà del XVI secolo che in un suo trattato ribadisce l'importanza del brodo di cappone come nutrimento. Il cappone è, quindi, non solo gustoso ma culturalmente incastonato nelle tradizioni gastronomiche e agricole di molti territori del Nord e del Centro Italia. Lo andremo a fare a modo nostro, come tutte le ricette che vi presentiamo, sicuri che vi piacerà da morire.
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Cena di Natale: quale migliore occasione per ritrovare piatti e preparazioni che, solitamente, durante l’anno latitano? Vuoi per stagionalità, vuoi per “corposità”, vuoi per il tempo impiegato per le preparazioni… insomma: Natale significa ritrovare parenti e piatti. E a noi, questo non dispiace affatto, giusto? Forse a qualcuno dispiacerà per i parenti, ma… concentratevi sul resto. Vi aiutiamo noi.
PREPARAZIONE 1. Per prima cosa procedete alla preparazione del ripieno, che è possibile fare anche il giorno precedente. In una padella non antiaderente fate scaldare 15 g di burro chiarificato, quando è rovente aggiungete i fegatini di pollo, salate, pepate e cuocete per un minuto, non di più. Deglassate il fondo con metà del marsala, avendo cura di staccare ogni parte raschiando molto bene. Flambate e mettere da parte. 2. Nella stessa padella ripetete la medesima operazione ma utilizzando la cipolla dorata e tritata finemente, più i 10 g di burro chiarificato restanti. Sfumate con il marsala ma questa volta portate a cottura aggiungendo un po’ d’acqua fino a che la cipolla non risulti ben appassita ma non acquosa. 3. In una bowl capiente unite i macinati, la mortadella, la frutta secca battuta al coltello, il Parmigiano, il pane ammollato nel latte per 10/15 minuti e ben strizzato, i fegatini battuti al coltello, la cipolla appassita al marsala, la maggiorana tritata al coltello e la scorza di un limone. Aggiustate di sale, di noce moscata e di pepe nero. Impastate bene con le mani e lasciate riposare almeno 30 minuti in frigorifero. 4. Un trick per testare a grandi linee la sapidità del ripieno e quello di fare un piccolo patty con un cucchiaino di impasto e cuocerlo in padella, così da poterlo assaggiare e valutare le eventuali correzioni da apportare. 5. Occupatevi ora del cappone. Eliminate le interiora e ogni residuo di piumaggio con un cannello da cucina o su un fornello. Staccate le punte delle ali e le zampe, se presenti, poi praticate delle injection nel petto con una salamoia al 4%. 6.
Cospargere la parte interna del cappone con un velo sottile di SPOG e anche la parte esterna della pelle. Lasciate riposare il vostro cappone in frigo per 12 ore, scoperto in maniera tale da favorire l’azione disidratante, così da ottenere più facilmente una pelle croccante come un biscottino.
7. Con le punte delle ali, una carota e gli scarti della cipolla utilizzata per il ripieno preparate un brodo leggero di cappone con circa mezzo litro d’acqua, da ridurre fino a 200 ml. 8. Trascorso il tempo indicato preparate il dispositivo per una cottura indiretta con i cestelli in dotazione ai lati e stabilizzandolo ad una temperatura di circa 125/130 gradi. Al centro, sotto la zona di cottura del cappone, inserite una leccarda per raccogliere il fondo di cottura e aggiungete il brodo leggero. 9. Nel frattempo, riempite la cavità inferiore del cappone con il ripieno e sigillatela cucendo le estremità con ago e filo. Legate poi le cosce insieme così da mantenere il cappone compatto durante la cottura. Affumicate dolcemente con un blend di melo e ciliegio fino a che il petto non segnerà una temperatura di 75 gradi°C. 10. A questo punto rovesciare una ciminiera di bricchette accesi e aprire le ventole in per far schizzare la temperatura il più in alto possibile. 11. Intanto, sciogliete il burro chiarificato in un pentolino fino alla temperatura di 240/245°C e spennellate accuratamente la pelle del cappone, così da friggerla e renderla croccante in pochi minuti. 12. Una volta raggiunto il risultato prefissato lasciate riposare il cappone 8/10 minuti, il tempo di preparazione della salsa di accompagnamento.
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13. Recuperate i liquidi e il fondo di cottura dalla vaschetta ed uniteli in un pentolino al vino bianco secco o al succo di limone. 14. Riducete a fiamma alta e dealcolizzate. 15. Montate con il 10% di burro e servite con il cappone e il suo ripieno.
INGREDIENTI 4 persone
un cappone di circa 2 kg Salamoia al 4% 50 g di burro chiarificato Salâ&#x20AC;&#x2122;s Seasoning Ultimate SPOG q.b.
Per il ripieno: 100 g di macinato di bovino 100 g di macinato di suino 150 g di macinato di pollo 50 g di mortadella bolognese macinata 100 di g Parmigiano Reggiano 25 g di albicocche secche 25 g di prugne secche 25 g di mirtilli secchi 25 g di pistacchi 25 g di uva passa 100 g di pane 200 g di latte 25 g di burro chiarificato 50 g di fegatini di pollo 1 cipolla dorata 40 g di Marsala la scorza di un limone maggiorana fresca q.b. noce moscata q.b sale q.b pepe q.b
Per la salsa: fondo di cottura del cappone 200 g di brodo di cappone leggero
10% del peso in succo di limone o vino bianco secco
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10% in peso di burro
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FONDUTA in due versioni
Cosa vi viene in mente di mangiare, dopo una bellissima giornata passata sulla neve? Qualcosa di buono, che valga da piatto unico e conviviale. A noi pare decisamente ovvio, stiamo parlando di lei: la cremosa, avvolgente fonduta valdostana, sicuramente uno dei piatti più goderecci del panorama gastronomico italiano. Per la sua preparazione viene usata la fontina, formaggio DOP valdostano, che viene fusa all'interno di una pentola apposita, detta caquelon, per poi essere mangiata calda e, appunto, fondente. A tavola deve essere servita nella stessa pentola dentro cui viene preparata (in ghisa, terracotta o porcellana) nella quale ogni commensale intinge il suo pezzo di pane tostato o, a volte, di patata lessa grazie all'ausilio di una forchetta apposita. Questo tegame di solito è posizionato al di sopra di un supporto metallico, alla base del quale troviamo una fonte di calore che mantiene la preparazione calda e cremosa, come un fornello ad alcool o una candela.
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Ma tra il dire fonduta e il farla, c’è di mezzo un (bel) po’ di accortezza. Già, perché l’attitudine del formaggio che andremo ad utilizzare ci dà una mano, ma basta un attimo di distrazione e la fonduta è bella che andata: si trasforma in un mix di grumi e tuorli rappresi. La parola chiave è, come spesso accade, temperatura. Ve la traduciamo così: abbiamo bisogno di comprendere il comportamento del formaggio in relazione alla somministrazione di calore. I formaggi sono formati da un reticolo proteico, composto principalmente da caseine; questo reticolo al suo interno intrappola grassi e acqua. La relativa percentuale di questi componenti determina l’attitudine di un formaggio a essere filante (come la mozzarella), a sciogliersi in modo uniforme (come nel nostro caso la fontina), oppure in altri casi a mantenere parzialmente la sua struttura. Somministrando calore gradualmente ad un formaggio, il grasso in esso contenuto comincia a
sciogliersi e il reticolo proteico si indebolisce sino a che le caseine non riescono a fluire liberamente nella miscela che la materia grassa forma con l’acqua. I prodotti con una percentuale di acqua più alta, come le sopra menzionate mozzarella e la fontina, si fondono meglio, mentre formaggi molto stagionati, come il Grana Padano o il Parmigiano Reggiano, hanno bisogno di temperature più alte per sciogliere i legami tra le proteine; fra l’altro, se le scaldiamo troppo, esse coagulano tra loro formando dei grumi. La cremosità della fonduta, dunque, è data anche dalle ottime proprietà emulsionanti delle caseine e dalle proteine contenute nel tuorlo dell’uovo. Secondo alcuni la fonduta sarebbe nata a Torino a opera dei Savoia, mentre secondo Anthelme Brillat-Savarin, famoso gastronomo francese, essa sarebbe di ispirazione svizzera. Pellegrino Artusi, nel suo celebre libro di cucina, la fa entrare di diritto nella classifica delle ricette più gustose d'Italia, definendola "cacimperio". Anche Giovanni Vialardi, cuoco dei re Carlo Alberto e di Vittorio Emanuele II, nel 1854 la inserì nel suo "Trattato di cucina”. Due sono le nostre versioni. Una tradizionale, con tanto di “vigilia” e una più leggera, senza aggiunta di uova, da preparare anche in poco tempo e con un indice di difficoltà notevolmente più basso. Ci sono altre versioni di questa preparazione, che si differenziano a seconda delle zone, come quelle svizzere e quelle savoiarde a base di mix di formaggi come il gruyère, lo sbrinz o l’emmentaler; o ancora, quelle a base di bocconcini di carne (solitamente filetto di manzo) che vengono cotti infilzati con la forchetta, introdotti nella pentola contenente olio vegetale bollente ed estratti dalla pentola immersi in una delle salse a disposizione, la cosiddetta fondue bourguignonne. Anziché salivare direttamente sul magazine, vediamo adesso le due versioni che abbiamo scelto per voi.
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PREPARAZIONE VERSIONE CLASSICA 1. Preparazione della “vigilia”: in una pirofila sistemate la fontina tagliata in cubetti regolari e copritela interamente con il latte. Fatela riposare in frigo almeno 12 ore così da ammorbidire il formaggio e facilitarne lo scioglimento 2. Trascorso il tempo, scolate il formaggio e tenete da parte il latte. Trasferite il formaggio nel caquelon (se disponibile), in un pentolino o in una ciotola a bagnomaria. 3. Mescolate continuamente finché il composto non comincia a sciogliersi. Dapprima si rapprenderà intorno al mestolo; a questo punto aggiungete il latte, il burro e i tuorli d’uovo e continuate a mescolare con cura fino alla consistenza di una crema liscia e senza grumi. 4. Servite con crostoni di pane tostato o delle patate lesse.
INGREDIENTI 4 persone
versione classica 350 g di Fontina DOP 6 mesi 250 g di latte intero 30 g di burro 4 tuorli d’uovo
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Pepe nero q.b.
PREPARAZIONE VERSIONE LEGGERA 1. Sciogliete il burro a fuoco basso, aggiungete la farina e cuocete il roux per circa 1 minuto. 2. Inserite il latte freddo tutto insieme e sciogliete il roux con un frusta. Con il latte freddo, a differenza delle credenze popolari, si ha molto più tempo di dissolvere il roux, ottenendo una besciamella perfetta e senza grumi. 3. Nel frattempo tagliate a cubetti regolari la fontina e il pane e tostatelo in una padella antiaderente con un filo d’olio, l’aglio in camicia, sale e pepe. 4. Appena la besciamella avrà raggiunto una consistenza cremosa toglietela dal fuoco. 5. Quando avrà raggiunto i 65/70°C inserite il formaggio in due tranche avendo cura di mescolare bene fino al suo completo scioglimento. 6. Servite in una fondina precedentemente riscaldata, con i crostini di pane e una spolverata di paprika affumicata, o per i più golosi delle scaglie di tartufo bianco pregiato.
INGREDIENTI 4 persone
versione leggera 300 g di fontina 300 g di latte 25 g di burro 25 g di farina 00 Sale q.b.
paprika affumicata q.b. una bella pagnottella a lievitazione naturale ai cereali tartufo bianco a piacere
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Pepe nero q.b.
fotografie di Rossella Neiadin
L'Arte Bianca a cura di Alessandro Trezzi
e n o t t e n a Il p i t a t i v e i l i d Gran
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Se pensiamo al Natale, una delle prime associazioni per noi malati di gastronomia è senza ombra di dubbio verso il panettone. A meno delle insane lotte territoriali, dei campanilismi e delle guerre con gli infedeli del pandoro, il legame indissolubile tra questo grande lievitato e le feste di fine anno è scritto nelle stelle. Un dolce stupendo, profumato, morbido e complesso, che negli ultimi anni sta avendo una meritata esplosione sul mercato nazionale e internazionale con fiere, gare e riconoscimenti piÚ disparati.
in foto: il panettone GLC Top Selection
E come in ogni filone di moda e cultura, nell’ultimo decennio ad essere esplosa è anche la pratica domestica, compatibilmente con l’apparizione sul mercato di attrezzature su misura per i veri “scimmiati”. Oggi abbiamo abbattitori, essiccatori, macchine per il sottovuoto, forni avanzati a controllo digitale, camere di lievitazione e impastatrici professionali da banco, tutti strumenti progettati, pensati e creati specificatamente per il contesto quotidiano, ridotto ma allo stesso tempo versatile. Badate bene: per me è doveroso fare un’introduzione che non ha l’obiettivo di scoraggiarvi, bensì di prepararvi a ciò che state per affrontare: fare un panettone in casa è oggi possibile, ma si tratta del lievitato dalla gestione più complessa in assoluto. In questi mesi di Magazine abbiamo lavorato con i panificati più disparati, dal pane alla pizza, dalla genovese alla barese, ponendo particolare attenzione sul metodo e mai sulla ricetta; questo non solo perché la scienza è l’unica via oggettivamente certa per realizzare una qualsiasi preparazione, ma anche per predisporvi alla gestione degli errori, delle materie prime e delle temperature, la cui variabilità influenza in tutto e per tutto un semi-lavorato “vivo” come il lievitato. Banalmente, c’è differenza tra il far lievitare un pane a 20°C o a 30°C, nell’utilizzare una farina di tipo 1 o un’integrale, con forza bassa o alta, più o meno idratato, con lievito di birra o lievito madre. Il panettone è, in questo frangente, l’obiettivo finale di un appassionato di paste cresciute; è l’ultima fatica, un prodotto che richiede attenzione costante (soprattutto durante le prime prove) per circa tre giorni (esatto, tre giorni), e dove variabili come farina, pre-fermento e temperature di riposo si rivelano tanto fondamentali quanto critiche. Come ogni preparazione complessa, il successo non può che portare all’immediata soddisfazione personale. Vediamo insieme come approcciare al metodo nel modo più corretto possibile.
Tra storia e leggenda C’è chi narra le vicissitudini di Toni, lo sguattero della cucina di Ludovico Il Moro, che dopo aver visto bruciare il pandolce dal capocuoco degli Sforza nella vigilia di Natale, decise di sacrificare il suo panetto di lievito madre tenuto da parte e di lavorarlo con farina, uova, zucchero, uvetta e canditi. Il risultato venne presentato il giorno dopo e ottenne un successo strepitoso, al punto che Ludovico Il Moro lo intitolò “Pan de Toni” in omaggio al creatore. Il buon Toni tuttavia si contende il primato con altri creativi della pasticceria, come Ughetto degli Atellani e Suor Ughetta, che si contendono non la storia ma l’immaginario collettivo; si tratta di un calderone di leggende nate tra fine ‘800 e inizio ‘900 per nobilitare la gastronomia milanese. La vera origine del panettone va in realtà ricercata nel Medioevo, e in particolare nell’usanza di celebrare il Natale con un pane più ricco. La sera del 24 Dicembre si poneva nel camino un grosso ciocco di legno e venivano portati in tavola tre grandi pani di frumento, se ne consumava uno e se ne teneva un altro per l’anno successivo in segno di continuità. Del resto pensate che fino al 1395 tutti i forni di Milano avevano il permesso di cuocere pane di frumento solo a Natale, destinando il pane arricchito solo alla festa come in molte altre città europee. Per parlare di lievito dobbiamo aspettare il 1853, quando venne menzionato nel “Nuovo cuoco milanese economico”, il ricettario di Felice Luraschi. I canditi di cedro compaiono poi nel “Trattato di cucina, pasticceria moderna” di Giovanni Vialardi solo un anno più tardi. La presenza del panettone in un libro piemontese dell’Ottocento dovrebbe darvi prova della reale diffusione di questo dolce.
Le forme del panettone Oggi il panettone è disponibile in due formati principali, basso e alto; dal primo è nato il secondo, ma il secondo è sicuramente meritevole di aver fatto evolvere il primo. Come accenna il nome, il panettone un tempo nient’altro era che un grosso pane, che fino a inizio ‘900 veniva infornato senza stampo. Ciò era reso possibile dal ridotto contenuto di grassi. Fu Angelo Motta a cambiare tutto negli anni ’20 del Novecento, che decise di arricchire di grassi il suo grande lievitato forse influenzato dal lavoro per
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Oggi il panettone non è più preparato dai soli pasticcieri ma anche da panettieri, pizzaioli e chef, che approfittano del periodo per creare lievitati a marchio sia nella versione classica che con variazione sul tema.
una grossa comunità russa; decise quindi, dovendo fronteggiare un impasto molto più morbido, di fasciarlo con carta paglia per dargli slancio verticale. Da questa idea si sviluppò il “panettone-fungo”, forma che è diventata per decenni la foggia classica del prodotto industriale. Le pasticcerie di Milano continuarono però a produrre l’iconico panettone-pagnotta, introducendo un pirottino basso indispensabile per la quantità di grassi impiegati. Oggi, con l’esplosione non solo dei panettoni su scala industriale ma anche di quelli artigianali, i due formati convivono ed è impossibile dire quale sia il più tradizionale. E tuttavia è bene iniziare a dare dei consigli mirati, in ottica di riproduzione domestica. Il più delle volte è assolutamente preferibile lavorare con uno stampo per panettone basso, in quanto è molto più semplice trovarne di stabili e che rimangano solidi durante il raffreddamento; in genere i pirottini alti sono delicati e tendono a rovinarsi durante le operazioni manuali.
L’obiettivo Cerchiamo anzitutto di capire a cosa stiamo andando incontro e qual è l’obiettivo finale, d’accordo?
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Il panettone è un dolce lievitato di base cilindrica che termina con una forma a cupola, ottenuto da un impasto a base di acqua, farina, burro, tuorlo d’uovo, frutta candita (arancio e/o cedro) e uvetta, più eventuali aromi. Fa parte, insieme a pandoro, polomba e altri prodotti meno celebri, dei cosiddetti “grandi lievitati”: quindi, deve avere delle caratteristiche imprescindibili che ne determinino la qualità a livelli assoluti. Il miglior panettone del mondo deve avere una crosta bruna ma non bruciata, morbida, ben ancorata alla pasta, profumata e dal colore uniforme, senza collassi evidenti; l’interno deve essere omogeneo, non presentare punti con pasta troppo compressa ma nemmeno grossi alveoli, che nel panettone sono sintomo di una lievitazione non uniforme. La pasta deve essere di colore giallo acceso per il corretto dosaggio di uova; devono emergere in crescendo i profumi dovuti dalla base aromatica, la vaniglia, le scorze di agrumi e i canditi; la mollica deve essere morbida, né umida né asciutta, deve sfilacciarsi come cotone senza sbriciolarsi inesorabil-
mente, sintomo di una cottura troppo violenta e di un impasto secco, ma nemmeno deve appallottolarsi sotto le dita, un segnale diretto di umidità ancora troppo presente. I canditi devono essere distribuiti uniformemente, essere profumati, fortemente aromatici e dalla consistenza piacevole e mai gommosa. Last but not least, macchie di colore sono segni di un impastamento condotto in maniera scorretta, cottura sbilanciata o irrancidimento preventivo. Insomma, vogliamo un lievitato profumato, dolce, che brilli sia nei colori che negli aromi. Nondimeno, il corretto bilanciamento di prefermento, grassi, zuccheri, umidità e corretta cottura deve farmelo durare in busta non meno di 1 mese. Più facile a dirsi che a farsi? Lo vedremo.
Il lievito madre Inutile girarci intorno: un panettone, secondo il disciplinare, può essere definito tale solo se realizzato con lievito madre. L’acidità apportata all’impasto grazie a questo particolare prefermento è in grado di conferire al glutine le caratteristiche necessarie per sostenere la massa durante tutte le fasi, per sorreggere il peso di ingredienti “tosti” come i grassi e le cosiddette “sospensioni” (uvetta e canditi), per sviluppare una mollica filante, e per garantire infine una shelf-life adatta allo scopo per cui il panettone è stato pensato: essere prodotto in anticipo e consumato anche un mese dopo. Qual è il grosso problema di base? Che il lievito madre è una coltura complessa di lieviti e batteri con un delicatissimo ecosistema vivente, che cambia in continuazione ed è direttamente influenzato dalle operazioni fatte per il mantenimento. Di fatto, il lievito madre nient’altro è che un impasto di acqua e farina lasciato maturare per un tempo più o meno lungo; durante questo periodo i lieviti e i batteri presenti nell’aria e nella farina avviano il processo di fermentazione. La sua gestione richiede una pratica di rinfresco costante a intervalli regolari, ovvero il nutrimento di questo organismo con nuova acqua e farina e quindi nuovi zuccheri per i lieviti, oltre che un ambiente stabile per le reazioni enzimatiche. Ciò è fondamentale per mantenere il pH intorno al
fotografie di Rossella Neiadin
valore di soglia, ovvero 4.5, che tradotto significa avere un lievito madre dal profumo equilibrato simile a quello dello yogurt. Principalmente ne esistono due versioni, solida (con un’idratazione del 45-50%) e liquida (con un’idratazione del 100%). Abbiamo spesso visto la liquida per il pane, in quanto non solo è immediata nel rinfresco e nella gestione quotidiana ma soprattutto perché l’elevata presenza di acqua accelera l’attività enzimatica regalando una maglia glutinica più estensibile e un sapore più pungente a causa della presenza di acido acetico e alcol; l’acidità pronunciata aiuta a far legare le proteine di cereali deboli come la segale e aumenta la croccantezza della crosta. Avete mai assaggiato un panettone con acidità pronunciata, o con una crosta croccante? O ancora, avete mai sentito parlare delle “farine di forza” utilizzate per i grandi lievitati? Ecco, sono due ragioni ben precise che vi portano direttamente al motivo per cui, nel 99% dei casi, viene utilizzata la versione solida per lo scopo: una struttura salda, spinta verso l’alto e una maglia glutinica solida grazie alla prevalenza di acidi organici, mollica morbida e aromatica grazie all’acido lattico.
Per questo motivo è importante una pratica di rinfresco serrato nel periodo precedente alla produzione. Il lievito solido viene spesso avvolto in un panno e legato per rallentare la fermentazione, o lavato in una soluzione di acqua e zucchero per disperdere i microorganismi indesiderati che ne rallentano l’azione, ma se avete in foto: il panettone GLC Top Selection
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Senza dilungarci troppo vi chiedo: se è vero che un panettone potrebbe essere prodotto anche con un buon lievito in coltura liquida (o Li.Co.Li. in gergo), perché dovremmo rischiare di rovinare tre giorni di lavoro complicandoci la vita? Detto questo, e scongiurato il problema della forma, arriviamo al discorso equilibrio: non basta che un lievito raddoppi in 3 ore per essere considerato pronto, è fondamentale che sia bilanciato nei profumi e senza punte di acidità evidenti.
fotografie di Rossella Neiadin
rinfrescato correttamente circa 3 volte al giorno non dovreste mai averne bisogno. Un esempio pratico: il giorno del primo impasto alle 8.00, alle 12.00 e alle 16.00 fate rinfreschi consecutivi con 1 parte di lievito, 2 di farina di grano tenero forte (la stessa che userete per il panettone) e 1 parte di acqua, attendete che triplichi e replicate il processo. In questo caso la parte di lievito risulta molto bassa proprio per essere sicuri che l’acidità si mantenga su livelli di soglia; se doveste essere confidenti sulla salute del vostro lievito aggiungetene pure 2 parti nel rinfresco.
Gli ingredienti
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Partiamo dalla materia prima principale, la farina; stiamo parlando di un lievitato che deve sostenere compagni pesantissimi, del calibro di burro, uova e sospensioni, e la cui maglia glutinica deve essere in grado di intrappolare diamanti grossi un centimetro quadrato ed espandersi in altezza per parecchi pollici. Non possiamo lavorare nel modo più assoluto con farine prese a caso dallo scaffale, e nemmeno tentare la sorte con segale, farro o cereali di diverso tipo perché la nostra dietista ha detto che il glutine è il veleno del XX secolo. Signori, mettiamoci in testa che una corretta struttura è fondamentale per la realizzazione di un buon panettone, e ciò significa che la maglia glutinica deve essere la migliore mai realizzata finora. Non esistono mezzi segreti o scorciatoie di alcun
tipo. Ciò che ci servirà è una farina di grano tenero con un W tra i 360 e i 400 e un P/L (il rapporto tra tenacità ed estensibilità) di 0.5-0.6. Tradizionalmente a Milano veniva usata la farina Manitoba, la celebre materia prima proveniente dall’omonima provincia canadese; inutile dirvi che ad oggi esistono centinaia di validissimi prodotti di grani nazionali tra cui usufruire per i vostri scopi. L’importante, come sempre, è il risultato, non il mezzo. In genere è più facile trovare ottime 00 o 0 di forza, ma sono presenti anche tipo 1 macinate a pietra di tutto rispetto e dalla resa pari alle gemelle. Per il resto degli ingredienti la parola d’ordine è una sola: qualità. Non badate a spese, soprattutto considerando che non farete quantità astronomiche in casa, anche perché la lavorazione sarà facilitata e gli aromi esploderanno dopo il taglio. La scelta migliore è più comoda per quanto riguarda le uova è quella di procurarsi dei tuorli pastorizzati in brick, con minore possibilità di contaminazione che potrebbero rovinare il lievito madre con i batteri patogeni. Preferite sempre un burro di panna centrifugata o di pasticceria e mai da affioramento, in quanto l’acidità e la scarsa stabilità di quest’ultimo, oltre alla presenza di grassi assolutamente poco qualitativi, sono caratteristiche da evitare per gli importanti obiettivi di realizzazione della mollica, profumi e shelf life. Ecco, magari evitiamo di cadere nelle logiche insulse di moda e inutile salutismo, dimezzando le dosi di
Tradizionalmente parliamo di uvetta, cedro e canditi; è importante sottolineare che sono tutti sostituibili, ma il contenuto zuccherino di questi tre must donano la giusta umidità alla mollica; elementi come il cioccolato invece tendono ad asciugare l’impasto che necessità quindi di un maggiore contenuto di zucchero o di un minor quantitativo sul peso riservato alle sospensioni, circa il 30% in meno. Se siete proprio intenzionati ad usare il cioccolato, evitate le gocce, tritate delle barrette fondenti e conservatele in freezer fino all’ultimo momento per evitare che amalgamandosi si sciolgano colorando l’impasto. Ah, premessa: non amo il cedro, quindi non lo troverete nel mio metodo, ma potete sostituire una parte di arancio senza problemi. Infine, è importante ricordare che l’uvetta va lasciata ammollare la sera prima, poi strizzata e ripesata prima dell’inserimento. Ultimo ma non ultimo ingrediente è il mix aromatico, la firma dell’artigiano; si tratta di una miscela che consente di conferire all’impasto un profumo caratteristico, e che è necessario preparare la sera prima, fatta riposare in frigorifero e poi aggiunta all’impasto. Normalmente si usano miele, vaniglia e scorze di agrumi.
La strumentazione Nella speranza di non scoraggiare nessuno devo darvi una brutta notizia: è fondamentalmente impossibile preparare un panettone a mano. Energia cinetica e costanza di una macchina da 1000-1500 W sono necessari per formare la corretta struttura di un lievitato che deve far assorbire in tempi relativamente corti grassi, uova, zucchero e infine elementi “di disturbo” alla farina e alla maglia glutinica. Un’impastatrice professionale (a spirale o braccia tuffanti) è logicamente preferibile, e oggi il mercato domestico è in fortissima espansione, ma una normale planetaria va assolutamente bene. In questo caso utilizzate il gancio a spirale e mai quello a uncino, in quanto dovete lavorare per tutta la lunghezza della ciotola; in mancanza, preferite sempre la foglia. Altri strumenti necessari sono: • Tarocco; • Pirottini di carta per panettone basso; • Ferri da calza; • Termometro a sonda; • Bilancia digitale; • Ciotola ampia o contenitore a chiusura ermetica; • Bicchiere graduato; • Busta di propilene per alimenti, necessaria per la conservazione. Tutto pronto? Bene, allora cominciamo!
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uova, burro e zucchero, sostituendo con margarina e altre diavolerie per sentirsi meno in colpa. Vi mangiate ‘sto dolce una volta l’anno, vogliamo avere la decenza di farlo come si deve? Inutile dirvi poi che la scelta delle sospensioni si rivela fondamentale; quante volte avete sentito persone che preferivano il pandoro perché non sopportavano la consistenza dei canditi? Questo accade perché si è abituati ai lievitati di sottomarche, che inseriscono per risparmiare dei gommini insapore e difficilmente masticabili.
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panettone GLC Top Selection - fotografia di Rossella Neiadin
INGREDIENTI
per 1 panettone da 1 kg o per 2 panettoni da 500 g
PREPARAZIONE
Il giorno prima grattugiate la scorza di limone e arancia, mescolate con miele e la polpa della vaniglia, coprite con pellicola e lasciate macerare in frigorifero per 24 ore.
Mix aromatico:
1 bacca di vaniglia; La scorza di mezzo limone non trattato; La scorza di mezza arancia non trattata;
Lievito madre (terzo rinfresco): 100 g di lievito madre solido pronto al secondo rinfresco (o 200 gr se siete certi del suo stato di salute);; 200 g di farina 360 W; 100 g di acqua;
Primo impasto: 60 g di lievito naturale solido al terzo rinfresco (la parte restante andrà rigenerata e conservata); 75 g di zucchero semolato; 80 g di acqua; 85 g di tuorlo d’uovo pastorizzato; 85 g di burro di panna centrifugata; 240 g di farina 360 W;
Secondo impasto: Il primo impasto; 60 g di farina 360 W; Il mix aromatico; 5 g di sale fino o integrale; 60 g di zucchero semolato; 80 g di tuorlo d’uovo pastorizzato; 90 g di burro di panna centrifugata; 120 g di uvetta sultanina già ammollata in acqua calda e strizzata; 120 g di arancio candito in cubetti.
Mettete in ammollo la sera prima l’uvetta in acqua calda per mezz’ora, sciacquate bene e rimettete a bagno in acqua tiepida per almeno 5 ore, poi scolatela, strizzatela e lasciatela asciugare in un canovaccio tutta notte. Calcolate i tempi precisi per il rinfresco del lievito e per il primo impasto per non diventare matti e dover lavorare di notte; un’idea potrebbe essere quella di fare 3 rinfreschi alle 8.00, alle 12.00 e alle 16.00 a distanza di 4 ore, e realizzare il primo impasto alle 20.00 in modo da essere pronti alle 8.00 del giorno successivo con il secondo impasto. Qualche ora prima del primo impasto lasciate il burro a temperatura ambiente che dovrà essere morbido, oppure passatelo pochi secondi nel microonde; un’idea intelligente è quella di creare una crema con burro e uova in modo da agevolare l’unione con la massa.
PRIMO IMPASTO
Nella vasca della vostra impastatrice o nella ciotola della planetaria versate tutta la farina, lo zucchero e l’acqua e lasciate lavorare al minimo della velocità attendendo che l’impasto si formi; aggiungete poi metà della miscela di burro e uova e lasciate lavorare ancora finché non saranno assorbiti. A questo punto inserite il lievito naturale e poi il resto della miscela, attendendo l’assorbimento corretto in modo graduale. L’impasto deve presentarsi liscio, setoso, elastico e omogeneo, e tirandolo con le dita dovrà diventare sottile come un velo. La durata del primo impasto sarà di circa 20 minuti, e dovrete vare attenzione di non superare mai i 27°C per impedire ai lieviti di lavorare troppo velocemente intaccando la solidità della struttura. In caso fermatevi e mettete per qualche minuto il tutto in freezer o in frigorifero per far scendere la temperatura.
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20 g di miele di acacia;
Ribaltate la massa sul piano da lavoro, staccatene un pezzo da usare come “spia di lievitazione” e pirlatelo con le mani o con il tarocco, ricavando una palla liscia, asciutta e sostenuta. Riponete l’impasto nel contenitore a chiusura ermetica e la spia nel bicchiere graduato, segnando il livello di partenza con un elastico e coprendo il bordo del bicchiere con della pellicola. L’impasto dovrà triplicare di volume, a 28°C (va benissimo il vostro forno spento con la luce accesa) per circa 12 ore; se l’impasto tuttavia non dovesse essere pronto piuttosto aspettate, in quanto potreste ritardare lo sviluppo successivo e soprattutto avere un prodotto finito con un’alveolatura più chiusa.
SECONDO IMPASTO
Inserite nella vasca dell’impastatrice o nella ciotola della planetaria il primo impasto, la farina e il mix aromatico e lavorate a velocità minima fino a completo assorbimento; aggiungete lo zucchero in più riprese avendo cura che la parte precedente sia amalgamata prima di aggiungete la successiva. A questo punto in tre volte inserite la miscela di tuorli e burro e lavorate fino ad ottenere un impasto elastico, liscio, omogeneo e dalla maglia sottile, per poi terminare con l’acqua prevista poco alla volta. A questo punto aggiungete tutte le sospensioni e fate girare finché la massa non avrà raccolto tutta la frutta.
PUNTATA
Riponete tutto in un contenitore e lasciate riposare 30 minuti, dopodiché ribaltate sul piano, lasciate asciugare all’aria 15 minuti e pesate; a causa della perdita dovuta all’evaporazione il peso deve essere sempre del 10% superiore all’obiettivo finale, quindi 1100 gr per le forme da 1 kg e 550 g per le forme da mezzo kg.
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APPRETTO
Pirlate il panetto con le mani o con il tarocco, e posizionate la massa all’interno del pirottino che avrete sistemato su una teglia; riponete a lievitare coprendo il bordo della carta con la pellicola, lasciando a 28°C per 6/8 ore, fino a quando l’impasto non sarà a circa 2 cm dal bordo.
INCISIONE O SCARPATURA
Preriscaldate il forno a 165°C in modalità statica e lasciate nel mentre il panettone all’aria senza pellicola per formare una sottile pellicina in superficie. Prima di infornare incidete una croce con una lama e posate al centro dei piccoli pezzi di burro. L’alternativa è “scarpare”, ovvero incidere e staccare con la lama i 4 lembi, posizionare il burro e richiudere, un’operazione che vi sconsiglio se siete alle prime armi in quanto si rischia di rovinare la lievitazione tanto sudata.
COTTURA
Infornate posizionando la teglia nella parte più bassa in quanto sviluppando c’è il rischio che la cupola tocchi la resistenza o bruci. Il panettone sarà pronto quando avrà raggiunto al cuore una temperatura di 94°C, impiegando circa 50-55 minuti per le forme da kg e 35-40 minuti per quelle da mezzo kg.
RAFFREDDAMENTO
Sfornate, infilzatelo alla base con due ferri da calza, capovolgetelo delicatamente e lasciatelo in questa posizione sospeso per almeno 2 ore; in mancanza di un sostegno potete utilizzare una pentola ampia appoggiando i ferri sul bordo. Trascorso questo periodo rimuovete i ferri e attendete altre 10 ore.
MANTENIMENTO
Nebulizzate in una busta di propilene per alimenti dell’alcool puro a 95°, che sanificherà il tutto e ridurrà il rischio di formazione di muffe, inserite il panettone e chiudete con un nastro. Il panettone così conservato può durare anche 60 giorni, ma trascorso questo lungo periodo potrebbe non essere più soffice e fresco come un tempo. Per permettere a sapori e profumi di amalgamarsi e sprigionarsi al meglio è preferibile attendere almeno 5 giorni e non superare i 15, in modo da gustarlo senza compromessi valorizzando il lavoro fatto. Finito il poema, direi che è ora di mettersi al lavoro. Pronti ad un inverno pieno di prove e grandi lievitati autoprodotti? Sotto con la farina!
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panettone GLC Top Selection - fotografia di Rossella Neiadin
L'Arte Casearia a cura di Giovanni Minelli
Questo formaggio è da rivoltare!
Piccola guida ad un processo fondamentale
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Ve lo avevo promesso in Gastronomica-mente un po’ di tempo fa e oggi sono qui a mantenere la promessa: faccio un po’ di chiarezza sul come e perché le forme in maturazione e stagionatura vadano rivoltate. Quando si produce un formaggio, che a farlo sia l’industria, un caseificio agricolo o artigiano, o ancora che siamo noi da bravi amatori nella nostra cantina, ci sono delle costanti imprescindibili: significa che alcune cose nella produzione di un formaggio non cambiano, tra queste la perdita d’umidità, quindi di peso.
Pa r t i a m o d a l l ’ e l e m e n t o primigenio: l’acqua. L’acqua va tenuta in considerazione almeno per due aspetti fondamentali, la stabilità igienico-sanitaria del prodotto e la struttura del formaggio: che sia un substrato per la proliferazione batterica lo sappiamo dalle prime lezioni di scienze, per quanto riguarda la struttura del formaggio forse è meno immediato ma basti pensare che la caratterizzazione “pasta molle” si riferisce ad un contenuto in acqua maggiore del 45%, “pasta dura” al 35% e “pasta semidura” tra 35% e 45%:
ricordiamoci sempre, però, che siamo partiti dal latte. Quello di vacca, mediamente, ha circa l’87% di acqua. Abbiamo visto che nei presamici, dopo aver ottenuto la cagliata, si procede con il taglio, specifico per ogni tipologia di formaggio che si va a produrre. Minore sarà la dimensione alla quale portiamo la cagliata, maggiore sarà la superficie di scambio. Dai processi produttivi che abbiamo visto finora spero sia chiaro che tagliamo la cagliata, ed eventualmente la sottoponiamo a cottura o semicottura, per
continua a calare, inizialmente in maniera più rapida e poi più lentamente. Il formaggio se ne sta poggiato su una delle due facce sopra ad una superfice piana, magari un asse di legno, ottimo per lo scambio d’umidità data la porosità, ma anche di più difficile gestione per quanto riguarda gli aspetti igienico-sanitari. Il giorno seguente, toccando la faccia esposta all’aria e lo scalzo (che se ancora non ve lo avessi detto è il termine che indica la parte laterale del formaggio, o lo
spessore della forma e può essere dritto, concavo o convesso), sentiremo che queste parti sono più asciutte rispetto alla faccia che poggia sul piano, e anche il piano sarà umido sotto la forma. Quindi, rivoltando sottosopra daremo tempo e modo alla faccia umida di asciugarsi.
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accelerare il processo di sineresi, cioè proprio la fuoriuscita di parte della frazione liquida da quella solida. Mettiamo la cagliata così trattata nelle fuscelle, magari la pressiamo e vediamo che continua a “spurgare” siero nelle prime ore o primi giorni a seconda del prodotto che avevamo in mente, quindi del processo che abbiamo adottato. Prendiamo ad esempio un formaggio vaccino, taglio a chicco di mais, semicottura a 42°C, messo in forma e rivoltato all’interno di essa per poi essere estratto, messo su una tavola di legno in cantina, ambiente fresco e umido. Anche se non è evidente come nelle prime ore dopo l’estrazione della cagliata, la perdita di umidità continua: se pesassimo il formaggio appena fatto, dopo un giorno, dopo 3, 7, 15, 30 giorni e via dicendo, vedremmo che il peso
stagionatura vera e propria, ed è il tempo che diamo al formaggio per continuare a perdere umidità e per concentrare i sapori.”
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Il nostro obiettivo però non è quello di raggiungere una determinata percentuale di umidità, bensì di raggiungere la maturità del prodotto. Immaginiamo di asciugare il formaggio con un getto d’aria calda tipo asciugacapelli: otterremmo una crosta esterna asciutta ma il formaggio non sarebbe maturo, e per altro la forma dapprima si fessurerebbe per poi spaccarsi, non a caso li teniamo in locali molto umidi. Solo dopo aver raggiunto la maturazione, se il prodotto lo consente, possiamo passare alla stagionatura. Nel numero di giugno 2020 del Magazine, nell’articolo sul Cheddar abbiamo parlato un po’ della differenza tra maturazione e stagionatura, quindi per riprendere il discorso, vi ripropongo quel passaggio: “Se pensiamo alla frutta, una mela ad esempio, diciamo che è matura quando avviene una virazione del colore, la concentrazione degli zuccheri e il rammollimento della polpa. Se parliamo di formaggi non è un concetto così distante, un formaggio arriva a maturazione ottimale quando, messo nelle condizioni idonee, sviluppare tutte quelle caratteristiche che ci eravamo dati come obiettivo all’inizio del processo. Solito esempio del Parmigiano Reggiano DOP, appena estratto dalla fascera è di colore bianco, già abbastanza consistente ma con una percentuale d’acqua molto più elevata rispetto a quando normalmente viene consumato, odori e aromi sarebbero limitati e meno persistenti, infatti bisognerà attendere un anno affinché questo diventi Parmigiano Reggiano DOP, venga marcato a fuoco e commercializzato. Ma cosa è avvenuto in questi 12 mesi? Va bene, sicuramente abbiamo perso umidità e peso, ma sono anche giunti a compimento quei fenomeni lipolitici e proteolitici che conferiscono al formaggio il suo aroma caratteristico e la consistenza alla quale siamo abituati. Bisogna quindi attendere almeno 12 mesi perché questo sia definito maturo, oltre questo tempo comincia invece la
A distanza di poche pagine troverai il processo per produrre della robiola, il tempo di maturazione è di 3 giorni per il prodotto fresco e circa 20 quel quello muffettato. Se andassimo oltre non otterremmo maggior maturazione, un prodotto o è maturo o non lo è, se attendessimo più tempo e finissimo nel concetto di stagionatura, per un prodotto pensato per il consumo fresco, il risultato sarebbe deludente. Abbiamo capito che ogni azione che facciamo ha un motivo ed uno scopo, quindi abbiamo pensato e realizzato un prodotto da stagionare, per esempio il Cheddar di giugno, che avevamo immaginato di portare a 9 mesi. Una volta estratto dalla forma sotto la pressa, lo posizioneremo sull’asse di legno e benché si presentasse esternamente già abbastanza asciutto, l’indomani noteremmo che sotto ad esso, si sarà creato un alone di umidità. Nel giro di una settimana, massimo 10 giorni, girando il formaggio su se stesso una volta al giorno, dovremmo percepirne la superficie completamente asciutta, senza viscosità e con una leggera virazione del colore. Tuttavia l’alone di umidità sulla tavola ancora si andrà a creare ogni giorno e già questo ci suggerisce che c’è scambio tra formaggio ed asse di legno. Noi vogliamo uno scambio lento e graduale, quindi continuiamo con i rivoltamenti giornalieri almeno fin quando di giorno in giorno si rinnova la traccia di umidità sulla faccia inferiore. A quel punto potremmo
Trattandosi di un’operazione abbastanza veloce da fare sui nostri formaggi casalinghi vi invito comunque a fare i rivoltamenti ogni giorno, proprio perché in questo modo potrete eventualmente “ripulire” i formaggi ed evitare l’insorgenza di muffe non desiderate che sono proprio
il substrato di proliferazione degli acari del formaggio, sui quali spendo due parole. Si tratta di Acarus siro, Thyrolychus casei e Tyrofagus longior e sono facilmente riconoscibili inquanto la loro presenza comporta delle erosioni a livello della crosta, che si presenta tendenzialmente marrone e polverulenta. Comportano inoltre una perdita di peso che si fa abbastanza evidente se il problema venisse trascurato. Per evitare l’insorgenza del problema dovremmo evitare che le muffe rimangano sul formaggio e sulle assi di sosta. Quindi ripulire il formaggio e le tavole, oltre che in generale mantenere un ottimo livello di igiene nel locale di stagio-
natura, sono di fondamentale importanza per preservare e valorizzare gli sforzi fatti in fase di caseificazione. Dunque, il rivoltamento è funzionale alla maturazione, elemento fondamentale per lo scambio graduale di umidità e checkpoint quotidiano per valutare la salute del formaggio ed eventualmente impostare le operazioni di tolettatura. Abbiamo impiegato qualche ora a produrre un formaggio che magari rimarrà in cantina per mesi, vogliamo davvero rischiare una delusione nel momento dell’apertura? Non credo, quindi controlliamo con frequenza i formaggi ed abbattiamo i fattori di rischio.
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cominciare ad effettuare i rivoltamenti ogni due giorni. Dopo 4/6 mesi, dipende dalla pezzatura, potremmo effettuare un rivoltamento alla settimana. Occorre comunque controllare il formaggio con cadenza regolare per verificare lo stato di salute del prodotto, contenere lo sviluppo di muffe indesiderate e l’eventuale presenza di acari che ci porterebbero ad una perdita di prodotto edibile.
R EC ENSI ONE
Meater+
by Appti on L abs Dispositivi e Accessori a cura di Emiliano Nencioni
L’idea di un termometro senza fili controllabile via Bluetooth apparse nei radar della community BBQ4All (il gruppo si chiamava ancora “Defenders”) attorno al 2015: si trattava di un ambizioso crowdfunding su Kickstarter, un progetto ricco di innovazioni tecniche e concettuali, con svariate caratteristiche perfette per farlo diventare l’oggetto più ambìto dagli appassionati di barbecue. Innanzitutto, il design: le sonde sembravano penne a sfera di pregio, con la loro finitura in alluminio spazzolato e la parte terminale in ceramica nera; la “base” con funzione di ricarica e di gateway verso le connessioni bluetooth e Wi-Fi era un elegantissimo blocco di bambù, fresato dal pieno in una forma di parallelepipedo molto minimalista ed estremamente accattivante. Dovete sapere che al tempo i più fissati di noi dovevano lottare con termometri che avevano l’aspetto dei telecomandi del condizionatore, con sonde fragilissime collegate tramite un filo di calza metallica che inevitabilmente si sporcava (senza più speranza di pulirlo nei più reconditi interstizi), rimaneva incastrato in coperchi e sportelli vari danneggiandosi, si surriscaldava e in ultima analisi finiva per rovinarsi irrimediabilmente e diventare inservibile entro pochissimo tempo; in piena adesione alle leggi di Murphy tutto questo poteva succedere in una importante sessione overnight, o in una gara.
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Aggravante non da poco: ogni sonda aveva un connettore e un protocollo proprietario, diverso per ogni marca di termometro, quindi potevi dimenticarti di poter comprare una sonda nuova di ricambio da usare con la tua “unità centrale” ancora funzionante. Nelle cotture barbecue poi, a differenza delle grigliate dirette dove interessa la temperatura al cuore della carne, è di grande importanza monitorare l’andamento del calore in camera di cottura, da qui la necessità almeno di due sonde: una conficcata nella pietanza e una…? Sulla griglia non si poteva certo appoggiare: il calore del metallo avrebbe danneggiato la termocop-
pia. I più stagionati ricorderanno due scuole di pensiero: la patata e la pallina di stagnola. Con estrema e ohimè mal riposta fiducia ci servivamo del provvidenziale tubero o di una pallina fatta con l’alluminio come supporto auspicabilmente stabile e termoisolante per la sonda dedicata alla camera di cottura. Il fallimento era dietro l’angolo. Gli amanti del brisket erano i più sventurati, nel caso volessero prendere le temperature separate di point, flat e dispositivo: il kettle si trasformava velocemente in un oggetto dalla stabilità precaria, con tre o quattro fili in calza metallica che uscivano da sotto il coperchio, connessi ad un termometro fissato con strumenti di fortuna, magneti e nastro adesivo, a una gamba o alla maniglia di trasporto. Poi una sera ti facevi stranamente convinto che la temperatura esterna del coperchio non fosse così elevata, decidevi di appoggiare il costoso termometro proprio lì, e la mattina dopo erano pianti e stridor di denti (la scena potrebbe avere dei fondamenti nel vissuto personale dell’autore). In questo panorama scomodo, precario e brutto a vedersi arrivò il progetto Meater, e come è intuibile gli appassionati si buttarono a capofitto nel crowdfunding, finanziando privatamente di tasca loro il progetto, che ebbe immediatamente un riscontro molto positivo e andò in porto. Da qui alla realizzazione fisica dell’oggetto però è passato un pochino di tempo.
Meater, però, ha un suo punto di forza, attualmente ineguagliato: la mancanza del cavo di collegamento con le sonde, e la particolarità del doppio sensore. Le sonde del Meater hanno infatti una prevedibile termocoppia in punta, dove chiunque se l’aspetterebbe, ma riescono anche a misurare sulla “coda” della sonda, restituendo così un utilissimo valore di temperatura in camera di cottura.
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Tre annetti buoni per la precisione, nel corso dei quali sono usciti altri prodotti, altri termometri multi sonda anche piuttosto economici, interfacciabili allo smartphone, con un design funzionale seppur non proprio affascinante, con una buona durata delle batterie e, soprattutto, con ricambi di sonde a buon mercato.
Anche se non è stato quel successo commerciale travolgente che i griller si aspettavano, complice forse anche un prezzo non esattamente economico, gli sforzi di Apption Labs hanno dato luogo ad un prodotto indubbiamente innovativo, particolare, molto bello, molto utile, molto “smart”. Attualmente il range di varianti in vendita comprende: • Original Meater: una sonda con doppio sensore e un blocco di bambù con funzione di ricarica • Meater Block: quattro sonde con doppio sensore, un grande blocco di bambù con quattro dock di ricarica, display integrato,interfaccia Wi-Fi stand alone, range extender fino a 50m per la copertura Bluetooth-to-WiFi. È stato l’oggetto del desiderio originale, ai tempi del crowdfunding: bello, ambìto, funzionale, con quattro sonde per un totale di otto termocoppie. • Meater + : l’oggetto di questa recensione, un decisivo e indispensabile miglioramento rispetto all’hardware di Original Meater. Il punto è proprio che c’è stato immediatamente bisogno del Meater+, perché la prima release aveva una grossa magagna esattamente nella sua killer feature, nella particolarità che lo rendeva unico e desiderabile: il collegamento senza fili Bluetooth. Chiunque abbia usato un paio di auricolari Bluetooth si sarà reso conto che la portata di questo sistema di trasmissione è pesantemente influenzata dalla presenza di pareti o ostacoli metallici: adesso provate a pensare ad una sonda necessariamente imprigionata dentro un kettle chiuso da una superficie sferoidale e… beh il malcontento è dietro l’angolo.
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I dieci metri di “wireless freedom” proclamati dall’Original Meater potevano essere tali solo usando una griglia aperta, e senza frapporre mura, porte o parenti fra pietanza e telefono: una bella delusione per il grigliatore costretto a rimanere entro un paio di metri di distanza dal suo Boston Butt in cottura. Per fortuna alla Apption Labs hanno avuto il buon senso di ascoltare le critiche, ed hanno rilasciato il Meater +. Intelligentemente, infatti, similmente a quanto accade con Meater Block con il suo bridge verso il Wi-Fi, il dock di ricarica in bambù funge anche da ripetitore di segnale Bluetooth, e trovandosi necessariamente fuori da una camera di cottura chiusa, sia essa un forno o un kettle, riesce ad assicurare diversi metri in più (dichia-
Il Meater + si presenta in una confezione eco-friendly in cartoncino marrone, decisamente minimale ma ben fatta, con un solo logo in vista; all’interno, oltre alle raccomandazioni di rito sull’uso dell’hashtag #meatermade per l’irrinunciabile condivisione sui social, troviamo un ulteriore astuccio in cartoncino marrone, paragonabile a quello di una buona penna a sfera, che servirà da custodia per il dock in bambù. Il dock è decisamente carino e ben fatto: è fresato dal pieno, con un coperchio posteriore per le batterie coperto da un astuto sportellino tenuto in posizione da due magneti, per non aver bisogno di cacciaviti o utensili in momenti poco propizi. La qualità è impeccabile, anche se avrei preferito degli angoli un po’ smussati in luogo di quegli angoli perfettamente retti e spigoli vivi, spigoli che inevitabilmente tenderanno a sciuparsi con l’uso. La sonda, facilmente scambiabile per una penna anche per le sue dimensioni, è bella e dà una buona sensazione di solidità; l’elettronica è tutta contenuta nella prima parte dello stelo, e un
vistoso adesivo da rimuovere al primo utilizzo ci avverte di dover infilare sempre l’oggetto dentro la pietanza fino ad oltre metà (un cerchietto inciso nel metallo segnala la posizione precisa): questo perché in questa maniera il cibo stesso fungerà da isolante termico per l’elettronica, che non dovrà mai, in nessun caso, superare i 100°C. La seconda termocoppia, situata in coda lontana dall’elettronica, può invece tollerare e misurare temperature fino a 275°C. Se gli steli dei termometri convenzionali erano delle aste di 3mm acuminate in cima e potevano entrare facilmente nella carne cruda, questa pennetta da 8mm, per quanto disponga di un cono all’estremità, farà un po’ penare per entrare nelle fibre muscolari più tenaci. Forse è meglio conservare una di quelle vecchie sonde non più funzionanti per “pre-forare” la carne e far entrare meglio il nuovo ritrovato della tecnica. La ricarica avviene semplicemente ricollocando la sonda nel dock, senza dover usare nessun connettore: una molla sulla parte posteriore e una piccola pinza sullo stelo mantengono tutto in posizione e garantiscono il contatto elettrico. Un led frontale comunica la ricarica in corso.
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rati: 50) di copertura. Una soluzione brillante a un problema piuttosto serio.
La perfetta costruzione dello stelo consente addirittura il lavaggio in lavastoviglie, per quanto credo che nessuno ne avrà mai il coraggio. L’applicazione è bella, ben disegnata, amichevole, e ha tutti i gadget che si possano desiderare, compresi preset, automatismi, temperature target preimpostate e variabili in base al tipo di pietanza in cottura; i requisiti per la versione per iPhone e iPad sono iOS 10.3 e successivi, mentre per i vari Android in circolazione servirà almeno la versione 5.0. Una feature curiosa e benvenuta è il calcolo del tempo di rest: impostando la temperatura target l’applicazione avvertirà di togliere dal calore il cibo leggermente in anticipo, calcolando la cottura per carry-over (il calore all’esterno si propaga lentamente verso l’interno della pietanza, arrivando potenzialmente ad una sovracottura) e segnalando il momento preciso per iniziare a tagliare e impiattare. Non indispensabile, ma sicuramente contribuisce a un discreto fattore-wow. Passando per l’app poi si può far scatenare il nerd sopito (insomma… si fa per dire, ma tutto può essere) in tutti noi: tramite la Meater Cloud, incanalandosi per il Wi-Fi del telefono, possiamo visualizzare temperature e andamenti della cottura con qualsiasi altro telefono, teoricamente anche dall’altra parte del mondo, più presumibilmente per controllare dall’ufficio una cottura in sous vide. Un grande pregio della mancanza di filo fra sonda e display, infatti, è la possibilità di usare i sacchetti sigillati per il sous vide e di non creare orrendi grovigli dopo due giri di girarrosto.
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In estrema sintesi lo consideriamo un ottimo prodotto, al di là delle forzature di portata wireless o di gadget in-app che poi nessuno userà mai, di ottima qualità e bellissimo a vedersi. L’unica seccatura, come accennavo prima, è la dimensione dell’asta wireless: rischiate di trovarvi diverse fette di carne vistosamente bucate, cosa poco gradevole se dovete servire ad un pubblico pagante o, sia mai, ad una gara di bistecche o di barbecue.
PRO:
+ Design + App ben fatta + Durata della carica + Comodità estrema
CONTRO
- Diametro della sonda - Necessità di usare uno smartphone
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La ricetta scientifica a cura di Gianfranco Lo Cascio
Cotechi n o con fotografia di Rossella Neiadin
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lenticchie e purè
Massimo Bottura
Non posso fare il cotechino come cinquant'anni fa. Digerirei dopo due settimane. Lo stile di vita è cambiato. Spesso si sente dire "ah, una volta...". Una volta c'era la fame. Oggi molto meno. In compenso ci sono agricoltori e artigiani bravissimi e prodotti straordinari. Io parto da un dubbio: la tradizione è poi così rispettosa delle materie prime? L’ha detto lo Chef sul tetto del mondo, Massimo Bottura, a proposito di tradizione, di rispetto, di cotechini. E io sono più che d’accordo con lui. We stan, direbbero i giovani. Siamo proprio sicuri che il cotechino bucato e lessato (Argh!) con un contorno di bucce di lenticchie della mensa sia il massimo da offrire sulla tavola delle feste? Che ricchezza potrebbe mai portarci una vassoiata di legumi bolliti alla meno peggio? Ve lo dico io, manco i punti fragola del supermercato.
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Quanto sarebbe figo invece servire del succulento cotechino tagliato in fette, piastrato e croccantizzato, accompagnato da un purè di patate setoso e ricco, lenticchie in due consistenze e una spruzzata di salsa Teriyaki? Grasso, sapido, dolce e acido. Una seconda portata perfettamente equalizzata, che non si risparmia in termini di aroma e calorie. E siccome è Natale, pure un poco complicato, ci meritiamo porzione doppia. La dieta migliore, ora come non mai, è evitare i cibi che non ci piacciono.
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fotografia di Rossella Neiadin
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fotografia di Rossella Neiadin
IL COTECHINO
ll cotechino è un insaccato cosiddetto “povero”, viene ricavato dai tagli del maiale meno nobili, inadatti a lunghe stagionature e quindi non impiegati nella produzione di salami, prosciutti, salsicce e altri insaccati decisamente più snob. L'ingrediente principale del cotechino è (o meglio era) la cotenna, seguita dagli spolpi della testa e del collo, tutte carni ricche di tessuto connettivo che richiedono una cottura lunga e che assumono, una volta cotte, la consistenza gelatinosa tipica. E chi meglio di voi conosce l’idrolisi del collagene? Storicamente il cotechino veniva insaccato dalle sapienti manine dei "lardaroli e salsicciari" modenesi, che si riunirono in una Corporazione Autonoma nel 1547. La prima citazione ufficiale è datata 1745, in un documento che ne calmierava il prezzo. La prima ricetta compare invece l'anno successivo, nel 1746.
Composizione del cotechino Il cotechino è uno dei salumi più volubili per quanto riguarda la scelta degli ingredienti che lo compongono. La ricetta tradizionale prevede l'utilizzo di cotenna per almeno il 50%, come indicato nel 1841 da Vincenzo Agnoletti, cuoco romano al servizio di Maria Luigia, granduchessa di Parma, il quale afferma che "[...] l'impasto deve essere per metà di cotenna e per metà di nervetti e carne magra". Questo mix di tagli viene insaccato nel budello del maiale, messo ad asciugare per qualche giorno (1-2 settimane al
massimo) e poi consumato, previa lunga cottura necessaria alla trasformazione del collagene della cotenna e delle carni ricche di connettivo che contiene. Oggi solo i produttori artigianali, ancora legati alle tradizioni contadine, continuano a produrre il cotechino seguendo i vecchi dettami. La produzione industriale si è infatti spostata su una ricetta meno ricca di cotenna e infarcita di carni grasse. Nel cotechino da scaffale troviamo infatti solo il 20% di cotenna, il resto 80% è composto da carne magra e grassa (spalla, pancetta, ecc). La cottura del cotechino artigianale può richiedere fino a 3-4 ore, soprattutto se la cotenna non ha subito una precottura prima di essere macinata e insaccata. Va consumato con il purè, oppure con mostarde di mele o di zucca, o ancora con il cren, la pasta di rafano, più o meno piccante, che si sposa molto bene con le carni opulente e gelatinose.
Il Cotechino di Modena I Cotechini Modena IGP sono tra i più antichi prodotti della salumeria italiana. La leggenda narra che hanno fatto la loro prima apparizione nel 1511 a Mirandola, durante l’assedio delle milizie di papa Giulio II della Rovere. In quell’occasione, per sottrarre cibo al nemico, i Mirandolesi si sarebbero ingegnati insaccando la carne di maiale macinata nella cotenna e nelle zampe. Nacquero così, per istinto di sopravvivenza e un poco di cazzimma, il cotechino e lo zampone. Le carni vengono macinate delicatamente e insaporite con spezie ed erbe aromatiche (chiodi di garofano, pepe, noce moscata, cannella e vino). L’impasto così ottenuto viene poi insaccato: lo Zampone Modena IGP in un involucro costituito dalla cotenna della zampa anteriore del maiale, il Cotechino Modena IGP in budelli. Protagonisti indiscussi delle tavolate natalizie, sono sempre più “destagionalizzati” e divorati tutto l’anno.
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È un salume tipico della tradizione modenese, ma che viene confezionato un po’ in ogni parte d'Italia. Tecnicamente un salume, è uno di quei prodotti della macellazione del maiale che viene mangiato per primo, insieme alla coppa (o torta) di testa e ai ciccioli. Anche per questo motivo viene tradizionalmente consumato a Natale: il maiale si macella abitualmente in Dicembre.
IL COTECHINO SCIENTIFICO Il principio è molto semplice.
Abbiamo detto che il cotechino fresco al suo interno custodisce pezzi tritati di carne “povera” che fondamentalmente contengono moltissimo tessuto connettivo. Oltre a una buona quantità di grasso. Questo ci porta a fare un ragionamento ben preciso e cioè cuocerlo nella finestra di idrolisi del collagene in modo che risulti molto tenero e burroso. INGREDIENTI • 1 cotechino fresco da 1 kg La cottura non poteva che non essere in sous vide: mettete il salsicciotto in un sacchetto e immergetelo in un bagno termostatico a 85°C per 4 ore. In questo modo il connettivo avrà tempo di sciogliersi a dovere. Una volta cotto, abbattetelo con acqua e ghiaccio e mettetelo in frigorifero. Dobbiamo affettarlo ben freddo, quando il collagene si sarà nuovamente soldificato. Prima di farlo, però, ripulitelo della gelatina e dello strutto di cui sarà inevitabilmente coperto. Quando avrete anche i contorni pronti, taglierete dei medaglioni non troppo spessi, direi non più di un paio di centimetri. Li passerete sulla piastra a calore feroce (su tutti i lati) per cauterizzare il prima possibile e creare Maillard. C’è tanto collagene sciolto e tanto grasso quindi la crosta sarà molto evidente.
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Ciò che dovete fare è abbinare una salsa dal tono acido per sgrassare il boccone. Uno sciroppo di amarene ci starebbe da Dio. Ma anche una Teriyaki, la salsa giapponese, preparata con la ricetta che segue.
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fotografia di Rossella Neiadin
LA SALSA TERIYAKI La Teriyaki tradizionale di base è composta da 3 ingredienti: salsa di soia, mirin (un sake leggermente dolce) e zucchero. Può essere utilizzata come condimento, come marinata o come salsa di glassatura. Visto che la abbineremo ad un salume particolarmente sapido, il mio consiglio è di partire da una salsa di soia leggera, in modo che restringendosi non diventi troppo salata. Potete sostituirla con una riduzione di vino rosso o con una salsa di amarene. Oppure utilizzarne una confezionata di buona qualità. INGREDIENTI • 120 ml di sake • 120 ml di mirin • 120 ml di salsa di soia leggera • 60 gr di zucchero
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Mescolate tutti gli ingredienti in un pentolino, portate ad ebollizione e lasciate ridurre a fuoco lento. Quando avrà raggiunto la consistenza di uno sciroppo denso, spegnete il fuoco e versate la salsa in un contenitore sterilizzato. Si conserva in frigorifero per 2-3 settimane.
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fotografia di Rossella Neiadin
LE LENTICCHIE
Pare, si dice, che dall’antico Egitto partissero regolarmente navi cariche di lenticchie verso i porti greci e italici. Certo è che venivano apprezzate sia ad Atene che a Roma, tanto che l’autore latino Plinio il Vecchio, nella sua opera Naturalis Historia, le cita come alimento dal grande valore nutritivo e capace di infondere tranquillità nell’animo. Sembra addirittura che l’obelisco del colonnato di Piazza San Pietro a Roma (portato nella città eterna per volere dell’imperatore Caligola) abbia attraversato il Mediterraneo protetto da un gigantesco carico di lenticchie. Sin dal Rinascimento sono simbolo di prosperità e denaro, tanto da attribuire loro il potere di portare soldi, soprattutto se mangiate a Capodanno. Il motivo? Perché a parità di peso con altri legumi, le lenticchie sono molte di più. Nella cultura ebraica, invece, simboleggiano il ciclo della vita per via della loro forma rotonda.
La pianta e la produzione Quel che si mangia sono i semi della Lens culinaris, della famiglia delle Fabaceae. È una pianta annuale, coltivata in diversi paesi in tutto il mondo, ma che non si trova praticamente più allo stato selvatico. Oltre che in Europa, principalmente nei paesi meridionali e orientali come Italia, Grecia e Cipro, la lenticchia si produce in Asia Minore e Centrale, nel Vicino Oriente, Canada e Australia. In Italia viene coltivata praticamente in tutte le regioni, con particolare cura in Sicilia, Abruzzo e Umbria. Si adatta
bene anche a zone semi-aride, terreni poco fertili, zone montane, e ha una buona resistenza agli attacchi dei parassiti. Inoltre è preziosa nella rotazione delle colture. La pianta ha uno stelo tra i 20 e i 70 cm con foglie alterne e composte. Fa dei fiori a corolla, bianchi o blu, riuniti in grappoli, mentre i frutti sono costituiti da baccelli piatti che contengono uno o due semi di dimensione e colore vari, dall’arancione al giallo, dal verde chiaro a tonalità più scure fino al bruno. Sono proprio questi semi la parte che mangiamo. Lo sapevate?
Le lenticchie in cucina La cucina regionale le vuole cotte in umido, abbinate alla pasta o come ingrediente principale di zuppe o minestre (soprattutto al Sud). Ma si abbinano ad ingredienti autunnali come zucca o funghi, con carni grasse – il cotechino appunto – o frutti di mare. Si acquistano secche e si devono conservare al buio, in un luogo fresco e asciutto. Nel caso di varietà dalla pelle sottile, o delle lenticchie rosse decorticate, non necessitano di ammollo prima della cottura.
Proprietà nutrizionali Di elevato valore nutrizionale (circa 300 calorie per 100 grammi) e dal bassissimo contenuto di grassi (1 grammo per 100 grammi), le lenticchie sono una buona fonte di carboidrati complessi, proteine e fibre. Contengono anche potassio, ferro e fosforo. Importante citare anche l’apporto di vitamine B1 e B2. Le lenticchie inoltre non contengono glutine, cosa che le rende particolarmente adatte per chi è affetto da celiachia.
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Le lenticchie sono tra i primissimi legumi a essere stati coltivati dall’uomo. Le prime tracce si fanno risalire alla Mezzaluna fertile e se ne trovano testimonianze anche nella Genesi, nel famoso episodio di Esaù che – cito – proprio per un piatto di lenticchie cedette il diritto di primogenitura al fratello Giacobbe.
Otto varietà italiane di lenticchie Non lasciatevi ingannare dall’apparenza, le lenticchie sono molto diverse tra loro.
LENTICCHIA DI CASTELLUCCIO DI NORCIA Coltivata lungo tutto l’altopiano di Castelluccio all’interno del Parco Nazionale dei Monti Sibillini, la lenticchia di Castelluccio di Norcia è caratterizzata soprattutto dalla grande varietà dei suoi colori e dalla forma rotonda ed appiattita. Dalla buccia estremamente sottile, ha untempo di bollitura di venti minuti e un’alta digeribilità. È perfetta consumata con le carni grassi e, naturalmente, con i salumi umbri. La fioritura della lenticchia di Castelluccio dà vita a uno spettacolo magnifico, che nulla ha da invidiare a quello della fioritura della lavanda in Provenza. LENTICCHIA DI ALTAMURA Si coltiva tra le piante di lino e cotone nello scenario delle Murge, ad Altamura (dove fanno il famoso pane, proprio lì). Questa varietà si caratterizza per le sue grandi dimensioni e il colore verdastro. Viene servita – tradizionalmente – in minestra con aglio, cipolla, sedano ed olio extravergine d’oliva.
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LENTICCHIA DI MORMANNO Ci spostiamo nel cuore del Parco Nazionale del Pollino dove – nel paese di Mormanno – si coltiva da secoli una varietà di lenticchia dal seme molto piccolo e dal colore che varia dal rosa al verdone. Si tratta di una lenticchia molto leggera, dalla buccia sottile cucinata soprattutto nella zuppa con abbondante peperoncino locale. LENTICCHIA DI SANTO STEFANO DI SESSANIO Coltivata a circa 1200 metri di altitudine all’interno del Parco Nazionale del Gran Sasso, secondo alcuni documenti addirittura dall’anno mille, la lenticchia di Santo Stefano di Sessanio si caratterizza per le sue dimensioni estremamente piccole e per la sua naturale sapidità. È l’ingrediente principale di zuppe con erbe, aglio ed olio extravergine d’oliva.
LENTICCHIA DI USTICA Si tratta di una delle lenticchie più piccole d’Italia. Coltivata su terreno lavico e di colore marrone scuro, la lenticchia isolana di Ustica è usata soprattutto per zuppe con ortaggi della zona e finocchietto selvatico, oltre che con la pasta. Dal sapore delicato, ha tempi di cottura molto rapidi. LENTICCHIA DI VILLALBA Il comune di Villalba, in Sicilia, è stato tra i principali produttori di lenticchie in Italia fino alla prima metà del Novecento. La varietà autoctona è a seme grande e le sue qualità nutrizionali sono straordinarie. Questa lenticchia infatti può contenere anche più di 10mg di ferro per 100 grammi di prodotto e possiede un ottimo tasso di proteine. Viene utilizzata soprattutto per le minestre. LENTICCHIA DI RASCINO Piccola e marroncina, la lenticchia di Rascino viene coltivata nella zona del Cicolano tra orchidee selvatiche e farro, al confine tra Lazio ed Abruzzo. Seminata ad aprile ed irrigata con le acque sorgive del parco della Peschiera, questa lenticchia è stata da sempre consumata dai pastori della zona, che la cuocevano nel latte e la servivano agli ammalati. Si tratta di una lenticchia piccola che necessita di ammollo ed è ottima per preparare zuppe col farro locale o col grano biancòla tipico di questo territorio. LENTICCHIA DI SOLETO Nel cuore della Grecìa Salentina dove i discendenti della Magna Grecia parlano ancora oggi un dialetto dorico (il griko), viene coltivata un’antichissima varietà di legumi molto simile ad una lenticchia chiamata vicia (al quale appartengono anche le fave). Anche se il colore nero e la consistenza rugosa possono far immaginare il contrario, si tratta di una varietà estremamente digeribile che prevede una cottura breve. È impiegata di solito per preparare minestre con olio extravergine d’oliva ed erbe locali.
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LE LENTICCHIE SCIENTIFICHE Ingredienti: • 500 g di lenticchie (verdi o rosse); • 1 cipolla; • 2 carote; • 1 costa di sedano; • 2 rametti di rosmarino fresco; • Sale q.b. • Pepe q.b.
Dovete cuocere le lenticchie in due batch: il primo sacchetto da 250 grammi lo immergete in sous vide a 85°C per 1 ora. Nel sacchetto dovrete versare dell’acqua, in volume il doppio rispetto alle lenticchie. E dovete aggiungere 1g di sale ogni 100g d’acqua. Non avrete bisogno di metterle a mollo e si cuoceranno perfettamente, non si staccherà nemmeno una buccia. Il secondo sacchetto, sempre da 250 grammi, lo fate cuocere a 90°C per 2 ore. Una volta cotte le lenticchie le frullate e le filtrate: dovete ottenere una purea, che andrà condita con le lenticchie cotte nell’altro sacchetto. A parte preparate una brunoise di carote, cipolla e sedano. Come se fosse un soffritto. Lo fate andare in padella con un rametto di rosmarino e quando è pronto lo aggiungete alla crema di lenticchie.
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Se preferite una crema più fluida, aggiungete acqua di cottura delle lenticche e calibrate la consistenza.
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fotografia di Rossella Neiadin
La scienza della cottura delle patate
IL PURÈ
Tutto sull'amido
Le patate sono uno degli alimenti più versatili in cucina. Potete servirle cotte al forno, fritte, bollite, schiacciate, sono sempre buone. Il loro amido viene utilizzato per un sacco di cose, basta dare un'occhiata a qualche etichetta sui cibi confezionati. Non ci sono molti altri alimenti che riescono a raggiungere questi livelli di trasformismo. Avete mai fatto uno spuntino con le patatine fritte di broccoli, broccoli gratinati o broccoli bolliti?
Di cosa è fatta una patata? Per prima cosa, non ridete. Ormai le patate vengono coltivate in tutto il mondo, migliaia di anni fa erano un’esclusiva del Sud America. Parliamo di uno dei principali alimenti di base del pianeta, un ingrediente capace di sfamare come pochi ed apportare tanta energia. Come qualsiasi alimento vegetale, la patata è composta da acqua, circa l'80%. Il resto è costituito da carboidrati (18%), di cui la maggior parte amido (più dell’85%), poi un ciccinino di grasso e poche proteine, oltre a varie vitamine e minerali. Tra le cellule della patata troviamo molte sostanze pectiche (pectine) così come la cellulosa e l’emicellulosa, l’elemento che tiene tutto insieme. Ciò che distingue la patata da molti altri prodotti della terra è un'enorme quantità di amido. È l'amido che le conferisce la maggior parte delle sue proprietà funzionali.
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Cos'è l'amido (di patate)? L'amido è un carboidrato di grandi dimensioni e una fonte di energia molto comune in natura. È costituito da due tipi di molecole: amilosio e amilopectina. L'amilosio è una lunga catena più o meno
lineare di zuccheri glucidici, una molecola relativamente piccola rispetto all'amilopectina. L'amilopectina è una molecola grande e fortemente ramificata, molto più ingombrante dell'amilosio. L'amido si trova lungo tutta la patata sotto forma di granuli. Questi granuli possono essere abbastanza grandi (rispetto ad altri tipi di amido), fino a un decimo di millimetro. La forma dei granelli, se vista al microscopio, è in realtà abbastanza simile a quella della patata stessa. L’amido non è ovviamente un’esclusiva della patata, lo ritroviamo in vari alimenti come la farina o il mais. Ognuno di essi ha un tipo diverso di granulo, ma anche un diverso rapporto e un diverso contenuto di catene di amilosio e amilopectina. La fecola di patate, ad esempio, contiene catene di amilosio piuttosto lunghe.
Cosa succede quando si cuoce una patata? Il processo principale che avviene durante la cottura di una patata, indipendentemente dalla tecnica, è di base un aumento di temperatura. La fase inizierà riscaldando l'esterno e poi lentamente tutta la patata. Come con qualsiasi processo di trasferimento del calore, ci vuole un po' di tempo prima che l’intero tubero si riscaldi del tutto. Più piccoli sono i pezzi, però, più velocemente si riscalderà. Quel calore causerà poi varie reazioni chimiche, le tre più importanti sono: 1. Ammorbidimento della patata, la struttura cellulare si disfa, proprio come succede per le altre verdure. 2. L'amido “cuoce". 3. In alcuni casi (ad esempio con la frittura) la patata può prendere quel bel colore dorato e sviluppare sapori extra.
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fotografia di Rossella Neiadin
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Per semplificare, il calore dissolverà la 'colla' che tiene insieme le cellule e romperà le pareti delle cellule stesse. Questo porterà la patata a perdere la sua consistenza. L’acqua evaporerà e il tubero perderà il suo turgore. CUOCERE GLI AMIDI Quando si scalda una patata, le grandi quantità di amido contenute in essa vengono cotte. Come vi ho già detto prima, l'amido si trova nelle patate sotto forma per lo più di granuli e di amilosio libero. A temperatura ambiente, questo amido non si scioglie in acqua. Quando l’acqua viene riscaldata, invece, l'amido è in grado di dissolversi, i granuli la assorbono e si gonfiano. Sono proprio questi processi che rendono difficile la miscelazione dell’amido con l'acqua calda. A contatto col liquido, la superficie esterna dell’amido si gonfierà immediatamente e contemporaneamente si formeranno dei grumi. L'interno di questi grumi conterrà amido che non ha ancora assorbito acqua, che però non potrà più penetrare perché il guscio gelatinizzato glielo impedisce. Se avete mai provato fare la cioccolata calda con il latte bollente e l’amido, avrete senz’altro capito di cosa sto parlando. Durante il rigonfiamento di questi granuli, un po’ dell’amido verrà rilasciato. È per questo che quando bolliamo le patate l’acqua diventa torbida. Questo processo di rigonfiamento, scioglimento e anche fuoriuscita di amido è chiamato gelatinizzazione, un processo irreversibile che può avvenire solo in presenza di acqua.
È TUTTA UNA QUESTIONE DI AMIDO Se una patata è farinosa o cerosa, tutto dipende dal tipo di amido di cui è fatta. Cosa le rende diverse, quindi? È interessante, ma i ricercatori non sembrano mettersi d’accordo su questa faccenda. Tutto dipende, almeno sembra, da una combinazione di amidi e dalla struttura della patata, dalle dimensioni delle cellule e come le cellule sono attaccate l'una all'altra. In generale, sembra che un più alto contenuto di amido dia patate più farinose, che tendono ad avere anche cellule più grandi e più “resistenti”. Per quanto riguarda le patate cerose, invece, pare che rilascino più facilmente l’amido.
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PATATE FARINOSE VS PATATE CEROSE La maggior parte di voi avrà sentito parlare della distinzione tra patate farinose e patate cerose, le prime più secche mentre le altre lasciano una sensazione più morbida in bocca.
IL PURÈ PERFETTO
TUTTI I TRUCCHI
1. Utilizzare un passaverdure o uno schiacciapatate Passando le patate cotte attraverso un passaverdure o uno schiacciapatate si ottiene una consistenza liscia e setosa. Per preparare un purè cremoso dovete limitare la quantità di stress meccanico per evitare danni alla struttura della patata. Perché le patate diventano appiccicose, dite? L'appiccicosità si sviluppa quando si usa il mixer, quando si scuotono troppo le patate e si tira fuori l’amido. 2. Asciugare le patate prima di aggiungere il burro Dopo aver passato le patate attraverso un passaverdura o uno schiacciapatate è meglio asciugarle per qualche minuto. Dovete eliminare quanta più umidità possibile. L'acqua non è amica delle patate, poiché farà gonfiare i granuli di amido, li scomporrà e questi rilasceranno una parte del loro contenuto in essa. 3. Aggiungere abbastanza burro Vi siete mai chiesti perché il purè del ristorante è più buono del vostro? Perché gli chef hanno la manina pesante con il burro, e fanno bene! Provate ad usare il burro in un rapporto da 4:1 a 2:1 rispetto alle patate. Servirà anche a formare un film lipidico attorno ai granuli di amido, contrastando la formazione dei grumi. 4. Condire bene le patate con la dose adeguata di sale Il sale è importantissimo per esaltare i sapori. NOTE SULL'AMIDO NELLE PATATE:
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Repetita iuvant. I granuli di amido contengono due tipi di molecole: l’amilosio, che è lineare, e l'amilopectina, che è ramificata. Queste molecole di amido hanno la capacità di formare altre molecole appiccicose, gel o emulsioni. In acqua fredda l’amido non si dissolve: l'amilopectina è altamente insolubile in acqua, e l'amilosio è solubile solo in acqua ad una temperatura di circa 55°C. Quando immerse in acqua calda, le molecole d'acqua dissolvono le molecole di amilosio e modificano la struttura del granulo dell’amido causandone il rigonfiamento e la rottura. Delle patate bollite lasciate in acqua cominceranno a gelificare e aumenteranno di volume, diventando gonfie e acquose. Se il purè di patate risulterà acquoso, diventerà appiccicoso. Ecco perché è importante asciugare le patate. Quando le patate incontrano il latte, invece, l'amido reagisce in modo diverso. Purè di patate con latte, panna o burro, tutti contengono diversi tipi proteine della caseina. La caseina riduce le quantità di amilosio che fuoriescono dai granuli di amido, e limita anche il rigonfiamento dell'amido, il che comporta una consistenza più liscia e piacevole al palato. La caseina è un potente emulsionante e legante.
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IL PURÈ SCIENTIFICO
Gli ingredienti sono quelli classici, ma la tecnica prevede delle accortezze: •
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Utilizzo di sole patate vecchie, più “secche” delle patate nuove. A me piacciono le patate ratte, che hanno un naturale sapore nocciolato e una consistenza burrosissima. C’è chi utilizza esclusivamente patate a pasta bianca, più farinose delle altre e ricche di amido, e chi preferisce le patate rosse che hanno una polpa più soda. A prescindere dalla tipologia di tubero è consigliabile scegliere patate vecchie per scongiurare il rischio mastice. Cottura delle patate a secco. Sottovuoto o nella pentola di coccio apposita, proprio per evitare un ristagno di acqua e la formazione della colla per manifesti. Setacciamento. Le patate vanno prima schiacciate (o passate al passaverdure) e poi setacciate spatolandole in un setaccio di quelli circolari a maglie fini che si usano per la farina. Rapporto patata/grassi da 4:1 a 2:1
INGREDIENTI • 1 kg di patate vecchie (qui ho usato patate di montagna della Sila) • 250 gr di panna fresca* (o latte fresco intero) • 175 gr di burro di centrifuga • Noce moscata q.b. • Sale q.b.
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A scelta Parmigiano Reggiano 30 mesi
*Se utilizzate il latte, aumentate il peso del burro (minimo 250 grammi) Prendete le patate, pelatele e pesatele: devono essere 1 kg preciso, senza buccia. Tagliatele a cubetti di 2 cm per lato e mettetele in un sacchetto predisposto per il sottovuoto. Immergete in acqua a 90°C e fate cuocere per 90 minuti.
Aggiungete il burro a pezzetti e mescolate con cura, poi trasferite il tutto in un pentolino, aggiungete la panna calda ed amalgamate con una spatola. Non lavorate troppo il purè o diventerà appiccicoso. Togliete dal fuoco, aggiungete la noce moscata, se vi piace, e salate in base al vostro gusto. Tenete al caldo prima del servizio.
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Schiacciate le patate con uno schiacciapatate facendole cadere in una boule di pyrex (o un contenitore qualsiasi resistente al calore) scaldata in forno a 70°C. Le patate non devono raffreddarsi. Una volta schiacciate passatele al setaccio aiutandovi con una spatola o con un tarocco (quelle palette che si usano nella panificazione).
L'ASSEMBLAGGIO DEL PIATTO l vostro cotechino è ben freddo, potete agilmente tagliarlo in fette (non meno di un 1,5 cm) e piastrarlo in stile teppanyaki, cioè su piastra rovente. Lo rigirate più volte fin quando i grassi disciolti non avranno veicolato una Maillard da urlo. Servite con il purè tiepido, se vi piace arricchite con del Parmigiano, la salsa Teriyaki (o una riduzione di vino rosso se preferite), le lenticchie in due consistenze e una spolveratina d’oro alimentare. L’oro sì che porta soldi, mica le lenticchie da sole. Non hanno nemmeno le braccia, come fanno poverine.
e l a t a N Buoen o n n a buon tutti a 590- Almanacco 2020
Lo Zio Gianfranco (Lo Cascio)
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fotografia di Rossella Neiadin
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fotografie di Rossella Neiadin
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Se una notte, d'inverno, un redattore, Seguo - rubrica a cura di Emiliano Nencioni
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E’ il numero di Dicembre del Magazine, sono le ultime pagine, è bene o male la chiusura di un ciclo, un “season finale”. L’ultima Seguo dell’anno, quella dove si tirano le somme, dove si promettono cose mirabolanti per i numeri futuri, si fanno buoni propositi come a Capodanno, la dieta, lo sport, studiare, fare i bimbi bravi. É l’appuntamento meta-letterario, quello in cui la rubrica parla di se stessa, di cosa potrebbe essere e di cosa non ha potuto proporre, quello letto solo dalla compagine più affezionata (se esiste!) di abbonati, interessati anche al dietro le quinte di tutto l’ambaradan. Sarebbe stato bello ripercorrere i titoli e gli argomenti delle Seguo precedenti, metterle in sequenza e vedere il comporsi e il dipanarsi di un percorso ben preciso, un cammino di crescita personale parallelo all’affrontare, insieme ai lettori, i vari argomenti da nefandezza social.
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Raimondo Lullo - Labirinto Ermetico
Jan Van Eyck - Adorazione dell'agnello
Ma non sono Italo Calvino. In un romanzo - ma più un metaromanzo - del 1979, Se una notte, d’inverno, un viaggiatore, Calvino narra la storia di un lettore (chiamato, proprio, Lettore) alle prese con la lettura di vari romanzi che non riuscirà mai a terminare: il primo libro è incompleto per un errore tipografico, e tentando di farselo sostituire conosce una lettrice col suo stesso problema di impaginazione, Ludmilla. Da qui le vicende dei due si intrecciano in un continuo tentativo di sostituzione del libro difettoso, e il Lettore continuerà sempre a trovare tomi incompleti, dei quali leggerà sempre solo l’inizio, a partire proprio da Se una notte, d’inverno, un viaggiatore, per dieci volte di seguito.
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Dieci romanzi, dieci autori-dentro-al-romanzo diversi, dieci opportunità per il “vero” autore, Calvino, di flettere i muscoli e dimostrare il suo talento narrativo, impersonando autori diversi da lui, con stili e tematiche diverse. Un gioco fra scrittore e lettore che avevo immodestamente tentato pure io, scherzando e provocando in ogni iterazione della rubrica Seguo una categoria diversa di lettori, conscio che prima o poi qualcuno avrebbe pensato “ehi, ma parla di me!” e sperando in una reazione, in un’emozione, in qualche tipo di stravolgimento o di clamore. Il pieno di sé, l’iracondo, il permaloso, il superficiale, il lecchino, l’inopportuno, il superfluo: qui nelle
ultime pagine della Seguo abbiamo avuto modo di avvelenarci un po’ con tutti i prototipi di categoria social: la conclusione, inevitabile, è una. O i social-fastidiosi non leggono la Seguo, o non vogliono far sapere di leggere la Seguo, o non si riconoscono in nessuna delle categorie di cui invece fanno parte. Già questo mi sembra un risultato di tutto rispetto. Sarebbe stato bello creare un cammino preciso con le Seguo, dicevamo, quasi come Calvino era riuscito a fare con quello scherzetto dei dieci libri iniziati e mai conclusi dal suo Lettore: i dieci titoli infatti, letti in successione, formano una frase sibillina, di senso compiuto, che è l’incipit di un ipotetico undicesimo romanzo (non entro nel dettaglio per non rovinarvi la lettura). Alla fine del romanzo di Calvino, Lettore affermerà proprio di aver appena terminato “Se una notte, d’inverno, un viaggiatore”, che è proprio il racconto delle vicende di lui medesimo. Cervellotico eh? Il finale di stagione del Magazine è il momento ideale per un veloce ripasso ma, a differenza del Dicembre dell’anno scorso, quando ho radunato in una sorta di clip show gli argomenti trattati, gli argomenti rimasti fuori e gli argomenti censurati, stavolta lascio al lettore il fardello di riprendere in mano tutti i numeri passati e giocare a tro-
Magritte - L'embellie (1962)
vare un filo rosso che faccia da tramite e che fonda in un pensiero organico e progressivo le dodici mensilità. Senza tralasciare - sarebbe imperdonabile e superficialotto - le imprudenti allegorie di Ossessioni in Griglia, la sitcom metaforica più censurata della storia dell’editoria. Vi toccherebbe fare, quindi, un po’ di riscrittura combinatoria: abbandonando il più semplice ordine cronologico, incrociare trasversalmente gli argomenti trattati, riplasmando tutto in un magma ben più profondo e poeticamente ispirato di quanto l’autore (nel senso: io) avesse potuto fare originalmente. Lettore, il protagonista di Calvino, è costretto a farlo, e a lui le cose vanno a finire benissimo: capisce il suo ruolo e sposa Ludmilla.
Potreste ricevere una colossale epifania e provare quel senso spiacevole di formicolìo alla colonna vertebrale, pensando: “In tutto questo tempo… ha sempre parlato di me!” Per una rubrica che ha sempre contato sulla speranza
che nessuno si riconoscesse troppo nei vari sproloqui, mimetizzando sempre ogni sfogo sotto strati di filosofia a buon mercato, riflessioni arzigogolate e terminologia respingente, questa rivelazione potrebbe essere una sconfitta di base: ma in realtà la Seguo avrebbe vinto, riuscendo ad attirare l’attenzione di persone che di solito non leggono oltre la quarta riga, che non si concentrano sulla comprensione del testo e che tutt’al più guardano le figure. Rimane il fatto, non da poco, che la rubrica Seguo, quella preferibilmente non menzionabile in pubblico, è riuscita ad avere l’ultima parola: l’ultima frase dell’ultima pagina dell’ultimo numero dell’anno duemilaventi, a parte qualche immancabile call to action nella penultima di copertina, farà inevitabilmente parte della rubrica più fuori posto e disallineata di tutto il Magazine. L’ultima cosa che leggerete di questa annata di Magazine è la dodicesima iterazione di un appuntamento mensile con l’insofferenza digitale, probabilmente la più astratta, simbolica e meno assertiva delle ventiquattro (più una) scritte ad oggi. La quale, se non v’è dispiaciuta affatto, vogliatene bene a chi l’ha scritta, e anche un pochino a chi l’ha raccomodata. Ma se in vece fossimo riusciti ad annoiarvi, credete che non s’è fatto apposta.
Emiliano Nencioni
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Che male può farvi il rileggere le dodici puntate precedenti? Per una ragione prettamente statistica potreste essere proprio uno di quei birboni digitali contro i quali mi scagliavo dalle ultime pagine della rivista, abusivamente sottratte a qualche ricetta, e finalmente riconoscervi come fonte delle mie frustrazioni e come flagello inconsapevole di migliaia di altri utenti costretti a sopportare le vostre idiosincrasie, rabbie e permalosità.
Vini abbinati a cura di Enio Berton
LUGLIO
grossi conferimenti di uva che gli stessi contadini facevano all’Abbazia.
con il gumbo (p.32)
I vigneti sono dislocati dai 600 ai 900 metri slm. con esposizione sud e sudovest per catturare tutti i raggi di sole possibili in questa zona vinicola che è la più settentrionale dell’Italia. La raccolta delle uve, da cui nasce questo Gewürztraminer, avviene verso la metà di ottobre, dopo la raspatura continua la fermentazione in vasche di acciaio inox a temperatura controllata. Ulteriore affinamento di sei mesi viene fatto sempre in vasche di acciaio inox.
Südtirol - Alto Adige Valle Isarco DOC Gewürztraminer 2019 Cantina: Abbazia di Novacella Uve: 100% Gewürztraminer Zone produzione: Varna (BZ) Grado alcolico: 14,50% Da servire: 10/12°C in calici a tulipano
vini abbinati
Questa zuppa di gamberi e salsiccia piccante richiede un vino che accompagni il gusto dolciastro dei crostacei e che sappia alleviare il piccante della salsiccia; altra nota da tener a mente è la presenza dell’okra, dal gusto simile all’asparago, che dona alla preparazione un’ulteriore nota di dolcezza. Cerchiamo un vino profumato, fresco, leggermente dolce, e visto che parliamo di un piatto tipico della cultura creola giochiamo con un nome difficile da scrivere e da pronunciare il Gewürztraminer. Conosciuto come uno dei pochi vitigni aromatici, il Gewürztraminer produce un grappolo dal colore rosa che dona vini bianchi profumati e di corpo. Le origini risalgono, secondo alcuni, attorno al 1000 d.C. con la varietà originale del Traminer nei dintorni della città di Termeno in Trentino. Rimase popolare fino al XVI secolo per poi essere soppiantato dalla più remunerativa uva Schiava. Nel corso del 1800 la varietà di Traminer Musquè assunse il nome di Gewürztraminer dove l’aggettivo Gewürz significava profumato (e non speziato come secondo la traduzione letterale del termine). Altre ricerche riconducono alla zona tedesca del Palatinato le origini del vitiglio che, sempre attorno al 1000 d.C., si sarebbe poi diffuso in Alsazia e nel resto dell’Europa continentale.
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Nel 1973 anche l’Alsazia adotta il termine Gewürztraminer per la produzione dei suoi pregiati vini provenienti da questo vitigno. Coltivato in molte zone del mondo è la Francia a primeggiare come quantitativo prodotto totalmente concentrato nella regione dell’Alsazia, che produce quanto gli altri stati messi assieme. Vanno citate le produzioni negli Stati Uniti collocate in California e Oregon, nella Germania (zona Reno), in Australia, in Austria ed in Italia. La mia proposta cade sul Südtirol - Alto Adige Valle Isarco DOC Gewürztraminer 2019. L’Abbazia di Novacella, situata nella valle d’Isarco, produce vini fin dal 1142 su terreni originariamente donati da Reginbert di Sabiona ma che continuarono ad aumentare fino al 1800, quando con la secolarizzazione dovette cedere parte dei terreni ai contadini del luogo. Nonostante questo, la produzione di vino non accennò a diminuire visti i
Dal colore giallo paglierino con riflessi oro, al naso si apre con un bouquet di fiori bianchi con note di chiodi di garofano e vaniglia. Al palato le note di rosa a petali bianchi sono un prosieguo a quanto l’olfatto ci ha regalato, il gusto pieno ed aromatico ne esalta le qualità. Fin di bocca persistente e ampio.
con il burgoo (p.37) Dogliani Superiore DOCG Vigna Tecc 2017
Cantina: Poderi Luigi Einaudi Uve: 100% Dolcetto Zone produzione: Dogliani (CN) Grado alcolico: 14,50% Da servire: 16/18°C in calici a tulipano Un bel piatto succulento e piccante, il Burgoo: la combinazione delle carni usate ma, soprattutto, il grado di piccantezza che gli diamo condiziona l’abbinamento ad un vino. La tecnica da usare, in questo caso, è quella di contrapporre al piatto un vino che sappia armonizzare, contrastandolo, il piccante. Dobbiamo quindi usare un vino con alto grado alcolico (l’alcool è un solvente per la capsaicina) o con una bassa temperatura di servizio (il freddo allevia la sensazione di bruciore dato dalle sostanze che producono la sensazione di piccante), oppure, ancora con un vino la cui dolcezza che contribuisca ad ammorbidire il boccone. Le possibili scelte sono tante: un Dolcetto d’Alba, un Rosso Conero oppure se volete osare un bel Riesling o uno Chardonnay, ma che siano con qualche anno alle spalle ed abbiano una struttura potente. La mia scelta invece è caduta sul Dogliani Superiore DOCG Vigna Tecc 2017. La storia della cantina è anche un po’ quella della Repubblica Italiana, infatti, il fondatore della cantina è stato il primo Presidente della Repubblica. Torniamo al 1897, quando un giovane convinto che l’agricoltura avrebbe portato il Piemonte fuori dalla crisi economica del tempo acquistò il suo primo podere nel comune di Dogliani. Da allora introdusse tecniche di coltivazioni moderne contribuendo alla divulgazione dell’uso delle barbatelle con il piede americano per combattere la filossera. Nel 1915 decise di produrre direttamente il vino raccolto da vigneti che godevano una particolare posizione,
Vini abbinati a cura di Enio Berton
Il Dogliani Superiore DOCG vigna Tecc nasce da uve selezionate da oltre settant’anni dal vigneto, esposto nel versante sud della tenuta in località Madonna delle Grazie nel comune di Dogliani a 350-400 metri slm. Dopo la spremitura inizia la fermentazione in vasche di acciaio e cemento a temperatura controllata per 8-10 giorni, per poi continuare l’affinamento con passaggi in legno e acciaio che ne esaltano il corpo e la sua complessità; viene imbottigliato entro la fine dell’anno di vendemmia. Dal colore rosso rubino intenso e brillante si presenta al naso con note di frutta di sottobosco e fragola matura. Al palato le note di frutta danno, assieme ai tannini freschi, una gradevole sensazione, avvolgente e piacevole. Fin di bocca persistente. .
con il french dip (p.59)
Oltrepò pavese Pinot Nero DOC “Umore Nero” 2017 Cantina: Castello di Luzzano Uve: 100% Pinot Nero Zone produzione: Rovescala (PV) Grado alcolico: 12,00% Da servire: 16/18°C in calici a tulipano
Una bella baguette pucciata nel sugo e riempita di sottili fettine di ciccia succulenta che sprigionano le note date da una leggera affumicatura e dal profumo del fuoco in cui è stato cotta. La voglia di mordere quel filoncino di pane è tanta ma devi prima scegliere cosa abbinare. Giochiamo sui nomi e soprattutto sui francesismi e troviamo un vino rosso profumato, nobile e conosciuto come la baguette nel mondo. La scelta cade, inesorabilmente, sul Pinot Nero o meglio Pinot Noir, vitigno coltivato in tutte le zone vitate del mondo. Il nome deriva dal caratteristico aspetto a pigna dovuto alla forma e dimensione degli acini che creano una maglia fitta e ad imbuto del grappolo. Il Pinot Nero
è uno dei vitigni più vecchi al mondo e la sua origine viene posta in Francia nella regione della Borgogna ancora prima della conquista della regione da parte dell’impero romano. Il vitigno viene citato nelle opere di Plinio il Vecchio e Columella nel I° secolo d.c. e, dopo la caduta dell’impero, con il governo di Carlo Magno si assiste al ripristino dei vecchi vitigni da parte degli ordini ecclesiastici nei terreni assegnati attorno ai loro monasteri. L’opera dei monaci è fondamentale per il recupero e la selezione dei vitigni migliori che furono piantati in zone particolari dove il tipo di terreno e la sua esposizione al sole permettevano di ottenere un vino perfetto. I vigneti venivano recintati con muretti in pietra creando i “clos”, gli appezzamenti dei terreni che ancora oggi sono alla base delle classificazioni vinicole della zona della Borgogna e non solo. Il più famoso e quello di Vougeot che è una denominazione Grand Cru della Côte de Nuits. In Italia le prime notizie sulla coltivazione del vitigno arrivano attorno all’anno 1750 quando il conte Lodovico Bertoli pubblicò, a Venezia, il libro “Le vigne ed il vino della Borgogna in Friuli”, anche se le coltivazioni di Pinot Nero erano presenti nel nostro paese a partire dal 1500, portati dai monaci cistercensi francesi. Nel corso del 1800 iniziarono a diffondersi le coltivazioni, in Italia, soprattutto in Trentino Alto Adige, in Friuli e nell’Oltrepò Pavese anche se, fino alla metà degli anni ottanta, le produzioni erano di bassissima qualità causa il tipo di coltivazione utilizzata e delle zone non adatte, che rendevano il vino poco avvezzo all’invecchiamento. Le coltivazioni sono arrivate anche negli Stati Uniti nelle zone esclusive di Napa e Sonoma ma, contrariamente a quello che si può pensare, particolare attenzione merita la produzione in Oregon, regione fredda e piovosa, che produce un Pinot di qualità nella zona di Willamette Valley. La Nuova Zelanda non è da meno, con le zone di Central Otago e Marlborough che producono vini piacevoli e longevi. Per la mia proposta facciamo una tappa nell’Oltrepò Pavese, terra votata alla produzione del metodo classico ma che riserva delle chicche nella produzione di vini fermi. La storia enologica del territorio viene fatta iniziare fin dalla preistoria con il ritrovamento di un ceppo di vite fossilizzato nei dintorni di Casteggio. La tradizione attribuisce all’Oltrepò Pavese l’invenzione della botte nel I sec. a.C. La famiglia Fugazza (grandi proprietari terrieri ed industriali conservieri) acquistò la tenuta agli inizi del 900, investendo in tecniche di impianto e cantine di trasformazione che hanno dato, nel corso degli anni, un impulso notevole a tutto il settore vitivinicolo della zona. Attualmente alla conduzione dell’azienda ci sono due sorelle, Maria Giulia e Giovanella subentrate nel 1980 al padre Emilio. La vinificazione avviene separata
per vigneto in un’ala del castello, dedicata all’uopo fin dal 1936, mentre le antiche cantine del castello sono dedicate all’affinamento in barrique dei vini riserva. Le origini del Pinot Nero nella zona risalgono attorno al 1500 con l’impianto di cloni provenienti dalla Borgogna. La produzione dell’Umore Nero avviene solo con uve di proprietà. Non effettua nessun passaggio in botte per mantenere le note floreali e di frutta tipiche del vitigno. Dal colore rosso rubino acceso al naso si avverte un bouquet di piccoli frutti rossi e note di petali di rosa, al palato risulta delicato, fresco di buona beva con una ulteriore esaltazione dei profumi fruttati. Fin di bocca persistente.
AGOSTO con il tataki di tonno (p.150) Chassagne-Montrachet Les Chenevottes Premier Cru 2014 Cantina: Au Pied du Mont Chauve Uve: 100% Chardonnay Zone produzione: ChassagneMontrachet Les Chenevottes Grado alcolico: 13,00% Da servire: 10/12 °C in calici a tulipano
Un trancio di tonno leggermente scottato, ben rosato all’interno, con il sesamo ad esaltarne i profumi ed il lime a bilanciarne la succulenza rappresenta sempre un piatto da signori. Gli abbinamenti possono spaziare: in questo caso, non abbiamo limiti alla scelta anche se, dando per scontato i bianchi, non dobbiamo esagerare con i vini rossi di corpo. Come già ho avuto modo di raccontare, esiste una zona francese che merita attenzione ed approfondimento. La Borgogna è conosciuta in tutto il mondo per i suoi Pinot Neri e per il suo Chardonnay, vitigni autoctoni della regione che sono, molto spesso, considerati modelli di riferimento per le altre zone produttive. La latitudine dell’area geografica con un clima fresco favorisce la maturazione ottimale dei grappoli di questi due vitigni ma, al tempo stesso, le avversità climatiche possono incidere in maniera pesante sulla qualità del prodotto; per questo motivo ogni annata ha le sue caratteristiche difficilmente ripetibili. La classificazione dei vini in Borgogna segue un’indicazione non solo territoriale, con il riconoscimento dei vari villaggi, ma anche delle potenzialità del terreno e della sua esposizione. Il territorio si divide in cinque macro aree. Chablis è la zona più a nord distante solo 40 chilometri dalla zona dello Champagne e a 100 chilometri dalla zona più famosa della Côte d’Or. Zona di produzione di Chardonnay freschi con note di pietra focaia, lì viene privilegiata la vinificazione e maturazione in vasche d’acciaio. La classificazione dei vini,
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oltra a una felice esposizione e all’ottima qualità del terreno. Nel corso degli anni il numero dei terreni è aumentato fino a raggiungere gli attuali 60 ettari di vigneto. La storia riporta che Luigi non perse una vendemmia neanche durante la lunga permanenza a Roma per poi lasciare le redini dell’azienda al secondogenito Roberto, nato proprio a Dogliani, che affiancò la carriera da imprenditore nel settore meccanico alla conduzione dell’azienda agricola di famiglia. La nipote Paola subentrò alla fine degli anni 80 dando nuovo slancio commerciale all’azienda, rafforzò il marchio e diede un grosso impulso al miglioramento dei vini. Al comando, ora, troviamo la quarta generazione degli Einaudi con il nipote Matteo che continua la tradizione di famiglia valorizzando il territorio e i suoi prodotti.
Vini abbinati a cura di Enio Berton
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partendo dalla più bassa, sono Petit Chablis, Chablis; ci sono poi 40 vigneti che possono vantare l’appellation di Chablis Premier Cru e solo sette hanno la classificazione di Chablis Grand Cru. La Côte D’Or si estende da Digione fino a Santenay, più a sud; a sua volta è divisa in due sotto regioni, a nord si trova la Côte de Nuits famosa per i vini rossi da Pinot Nero ed una piccola produzione di vini bianchi da uve Chardonnay, Pinot Grigio e Pinot Bianco. A sud troviamo la Côte de Beaune celebre per i vini bianchi da uve Chardonnay. Tutti i vini Grand Cru e la maggior parte dei Premier Cru della Borgogna provengono da questa zona. La loro classificazione parte dalle Appellations régional, ossia il Bourgogne Rouge e il Bourgogne Blanc: sono prodotti con uve provenienti da diversi villaggi e spesso assemblano vini prodotti in diverse parti della regione. Al di sopra di essa vi sono le Appellations communal ossia i Villages, riservate a vini prodotti unicamente in uno specifico luogo stabilito dal disciplinare. I vini riportano sempre in etichetta il nome del villaggio. Le categorie superiori prevedono la differenziazione dei vini per singolo vigneto. La menzione Premier Cru è riservata attualmente a 562 vigneti (o climat) che rappresentano circa l’11% della produzione totale della Borgogna. Il nome del vigneto viene riportato nell’etichetta subito dopo quello del villaggio di appartenenza. La categoria più alta è il Grand Cru ad oggi riconosciuta ad appena 33 vigneti per il 2% della produzione totale. Per i Grand Cru in etichetta non viene riportato il nome del villaggio di appartenenza ma solamente quello del vigneto. La Côte Chalonnaise si trova a sud della Côte d’Or e produce vini sia rossi che bianchi (alcuni sono Premier Cru); la zona è famosa per la produzione di vini bianchi da uve Aligoté e per un metodo classico, il Crémant de Bourgogne . Il Mâconnais, ancora più a sud, produce vini bianchi meno eccelsi e non sono presenti né Premier Cru né Grand Cru. I migliori vini del Mâconnais sono tutti bianchi e tutti prodotti con Chardonnay. Il Beaujolais è l’area vinicola più a sud della Borgogna, completamente distinta dalle altre pur appartenendo geograficamente ad essa. Diverso è sia il clima che i vitigni: questa è la patria del Gamay e del suo vino Beaujolais Nouveau, il vino novello divenuto così famoso nel mondo da fare dimenticare gli altri e più importanti vini di questa zona. I vini possono avere tre menzioni di qualità crescente: Beaujolais, BeaujolaisVillages e Beaujolais Cru. Una bella meta turistica ma, se programmate di visitare delle cantine, non osate presentarvi senza appuntamento. Ma torniamo al nostro tonno. Il domaine Au Pied du Mont Chauve ha sede nel castello di ChassagneMontrachet con un totale di 35 ettari di vigneto dislocati nelle zone più rinomate della Côte D’Or. Al comando,
dopo varie esperienze professionali, troviamo Francine Picard, erede di una delle più famose ed importanti dinastie del panorama vitivinicolo francese. Non possiede nessun certificato ma i vigneti vengono coltivati seguendo i dettami dell’agricoltura biologica. I climat sono dislocati nei rinomati villaggi di Chassagne-Montrachet, Puligny- Montrachet, Saint-Aubin e sulla collina di Corton. Il vigneto di questo Premier Cru si estende per circa 10 ettari su un terreno mediamente pianeggiante quasi a ridosso dei Grand Cru di Les Montrachet e Batard-Montrachet. Dal colore giallo paglierino con riflessi dorati sprigiona profumi di fiori bianchi, sentori agrumati e di mela verde. Al palato dopo una prima nota limonosa si espande con un corpo caldo, sapido ed avvolgente, con note di frutta a pasta bianca. Fin di bocca persistente e suadente.
con il gelo di mellone (p.152) Madeira 10 years
Cantina: Henriques & Henriques Uve: 100% Malvasia Zone produzione: Madeira (Portogallo) Grado alcolico: 20,00% Da servire: 16/18°C in bicchieri da liquore Il gelo di mellone (anguria), dolce al cucchiaio tipico siciliano, rappresenta un fine pasto leggero e rinfrescante soprattutto in questo periodo dell’anno. Per questo dolce viaggiamo, con la fantasia, fino al largo del Marocco nell’isola di Madera possedimento portoghese noto per il suo vino liquoroso. Scoperta nel 1418, il nome gli fu dato per l’impenetrabile foresta di cui era ricoperta. Per aprirsi dei varchi gli scopritori iniziarono ad appiccare fuochi che ben presto rasero al suolo tutta la foresta lasciando un ottimo substrato di cenere, sopra la pietra lavica, utile per la coltivazione della vite e della canna da zucchero. Nel 1489 i Gesuiti iniziarono le vinificazioni nel convento di Santa Chiara al centro della capitale dell’isola Funchal. Furono proprio i Gesuiti ad impiantare, nell’isola, le barbatelle di Malvasia importate da Creta. Nel 1600 veniva prodotto un vino da pasto, che era esportato in Europa, attraverso l’utilizzo di uve di malvasia e verdelho che in alcune parti dell’isola non raggiungevano la piena maturazione a causa del clima. Per ovviare al problema si iniziò ad usare la canna da zucchero o alcol da canna da zucchero per diminuirne l’acidità. Questa aggiunta, si scoprì poi, permetteva un miglior affinamento del vino stivato nelle botti delle navi soggetto a temperature molto elevate. Il vino veniva chiamato “vinho da roda” ossia vino di ritorno proprio per la sua caratteristica di invecchiare nelle stive delle navi durante i lunghi tragitti verso l’Europa o le Americhe.
Il metodo di vinificazione da allora consiste nel sottoporre il vino, dopo la fermentazione, per un periodo di alcuni mesi, a temperature attorno ai 50° C utilizzando dei contenitori in pietra suddivisi a scompartimenti e riscaldati da aria calda proveniente da stufe. Le “estufas”, come sono chiamate, simulano il viaggio in navi delle antiche botti e permettono, quindi, al vino di assumere il suo caratteristico sapore e colore aiutato anche dalla costante aerazione della superficie delle vasche , he ne agevola il processo di ossidazione. Il termine “maderizzato” indica difatti, in enologia, un vino vecchio ossidato. I vitigni utilizzati per la sua produzione sono il Tinta Negra Mole un incrocio tra Pinot Nero e Grenache utilizzato per le produzioni dei vini generici o usato come taglio sui vini provenienti da vitigni a bacca bianca che producono i vini più importanti. I vitigni a bacca bianca sono il Sercial, vitigno aromatico impiantato nei terreni più elevati e soggetto a forni sbalzi termici dal quale si ottengono i vini più rinomati, il Verdelho leggermente più zuccherino e coltivato in zone più basse, la Malvasia coltivata in tutta l’isola ed il vitigno autoctono Boal dalle origini misteriose. Un vitigno molto particolare è il Terrantez, in via di estinzione a causa della sua bassa produttività ed alta attitudine alle malattie. La classificazione del Madera prevede sette tipologie distinte che indicano il passaggio in botti ed il tipo di vitigno usato. Il vino da Tinta Negra Mole con 3 anni di botte viene classificato Rainwater senza passaggio in estufas o Finest con passaggio in estufas. Con 5 anni di botte viene classificato Reserva. Con 10 anni di botte e prodotto con Tinta Negra Mole e con percentuali inferiori al 20% di altri vitigni nobili bianchi ha la classificazione Special Reserve. Con 15 anni di botte è Extra Reserve Vini di un’unica annata e spesso di un unico vitigno, che viene dichiarato in etichetta, sono i Colheita. Il vino invecchia per un periodo variabile da 10 a 20 anni, senza utilizzo del calore. Il Frasqueira, detto anche Vintage, deve essere invecchiato almeno 20 anni senza uso del calore ,e deve provenire da un singolo vitigno. L’annata viene dichiarata in etichetta. I vini con invecchiamento da 5 a 15 anni devono indicare anche il loro grado zuccherino, quindi in etichetta troveremo Seco (secco), Meio seco (abboccato), Meio doce (amabile) e doce (dolce) La cantina Henriques & Henriques è stata fondata nel 1850 da un membro di una storica famiglia di Camara de Lobos, località a 10 chilometri dalla capitale Funchal. Francisco Eduardo e João Joaquim Henriques subentrarono al padre João Gonçalves dopo la sua morte nel 1912. Fecero crescere l’azienda di famiglia e nel 1925 decisero di spedire direttamente i vini per accorciare la filiera di produzione. Dopo la morte
Vini abbinati a cura di Enio Berton
Il Madeira 10 years è il più raro della sua categoria, prodotto solo con uve Malvasia (Malmsey) viene affinato in botte per almeno 10 anni. Dal colore rosso porpora intenso, sprigiona, al naso, sentori di frutta rossa matura che si abbinano perfettamente a note di spezie e vegetali. In bocca si esaltano i profumi fini e perfettamente bilanciati con la caratteristica nota dolce. Fin di bocca persistente.
SETTEMBRE con il cocktail di gamberi (p.229) Riesling Alt Scheidt 2018
Cantina: Weingut Peter Lauer Uve: 100% Riesling Zone produzione: Ayl (Germania) Grado alcolico: 10,50% Da servire: 12/14°C in calici a tulipano Il cocktail di gamberi mi riporta alla mente un viaggio di un po' di anni fa nella zona dell’Algarve in Portogallo dove, in un ristorantino sulla costa, abbiamo mangiato un cocktail di gamberi e pere che mio figlio dopo 14 anni ancora se lo ricorda. La nostra rivisitazione, però, introduce alcune varianti da non sottovalutare per la scelta dei vini. Nel piatto rimane, comunque, una dolcezza di fondo che dobbiamo bilanciare con il vino scelto. Ci trasferiamo in Germania questo mese per parlare dei vini di una zona molto particolare ed interessante sia dal punto di vista paesaggistico che enogastronomico. La regione della Mosella o meglio ancora Mosel-Saar-Ruwer si estende lungo il corso del fiume Mosella dai confini con la Francia fino alla confluenza con il fiume Reno, ne fanno parte anche i bacini dei due fiumi affluenti della Mosella il Saar ed il Ruwer. La posizione geografica è tra il 49° e 51° parallelo come le regioni francesi dell’Alsazia e dello Champagne, i vigneti, per sfruttare appieno i raggi del sole sono, generalmente, posizionati in colline sui versanti esposti a sud su pendii anche scoscesi in prossimità dei corsi d’acqua in modo da sfruttare il microclima più temperato che si crea e la rifrazione dei raggi solari nell’acqua. Le origini della viticoltura germanica risalgono al periodo della dominazione romana (I secolo A.C.) che, proprio in questa regione, trovò le condizioni ideali per la coltivazione della vite.
Con l’avvento delle organizzazioni monastiche, attorno all’anno 1000, ripresero le coltivazioni dei vigneti ed attorno al 1435 si hanno le prime informazioni sulla produzione di riesling concentrato sulle sponde del fiume Reno nella zona di Reihngau. Dopo periodi altalenanti e di abbandoni, le coltivazioni furono di nuovo rese floride attorno al 1700 ed agli inizi del 1800 si iniziò a dare importanza al grado di maturazione dell’uva ed al suo contenuto in zuccheri introducendo il sistema di classificazione ancora oggi in vigore che si basa sulla misurazione del grado Oechsle (Oe), che conteggia di quanti grammi un litro di mosto superi il peso di un litro di acqua, partendo dal principio che la differenza sia lo zucchero presente nel mosto. Kabinett: non inferiore a 73° Oe. Spatlese: non inferiore a 85° Oe (da vendemmia tardiva). Auslese: non inferiore a 90° Oe da vendemmia manuale di grappoli molto maturi che possono anche essere stati colpiti da Botrytis Cinerea. Beerenauslese: non inferiore a 125° Oe da vendemmia mediante acinatura delle uve (surmature) colpite da Botrytis Cinerea. Trockenbeerenauslese: non inferiore a 150° Oe acini (botritizzati, passiti o surmaturi) selezionati a mano. Eiswein: non inferiore a 125° Oe da vendemmia effettuata con una temperatura non superiore a -7° di grappoli non colpiti da Botrytis Cinerea. Trocken: vino secco con al massimo 9 grammi/litro di zuccheri residui Halbtrochen o Feinherb: vino semi secco con al massimo18 grammi/litro di zuccheri residui. Colpita dalla filossera attorno al 1881 la coltivazione della vite riprese con un certo vigore solo dopo la fine della seconda guerra mondiale. I caratteristici filari che scendono dritti dalle cime delle colline fino al greto del fiume è l’immagine che rimane impressa in chi visita la Mosella o anche solo fa un viaggio virtuale. Quasi il 60% della produzione della regione, che si estende per 8.800 ettari, è dedicata al Riesling Renano che, in questo microclima, raggiunge un eccellente equilibrio ed una bilanciata acidità che contribuisce alla sua longevità. Altra particolarità sono le bottiglie di forma allungata chiamate Renane che per la Mosella sono verdi mentre per il resto dei vini tedeschi è marroni. Non stupitevi se per aprirle non vi serve il cavatappi, ma molti produttori usano il tappo a vite che, comunque, consente al vino di respirare e di continuare la sua maturazione anche per decenni. Torniamo al nostro cocktail di gamberi e, come dicevamo, dobbiamo bilanciare la sua dolcezza accompagnandola con un vino che ne esalti le caratteristiche. Se non vogliamo andare in Germania possiamo fermarci anche nella zona di Soave in Veneto o nella zona di Arneis in Piemonte per dei bianchi secchi e delicati meglio se giovani e freschi.
Dalla Mosella scegliamo questa cantina che inizia la sua storia nel 1830 dal vignaiolo Konen. Agli inizi del 1900 diede in sposa la figlia a Matthias Lauer che ne rilevò l’attività per poter ampliare i suoi vigneti. Nel 1938 le redini della cantina furono prese dal figlio Peter Lauer che riuscì a salvare l’azienda dalla catastrofe della guerra. Durante gli anni 50 Lauer decise di espandersi con l’acquisto di rinomate cantine con vigneti nelle zone più prestigiose della Mosella. Attualmente le redini dell’azienda sono in mano al figlio Florian che continua il processo di miglioramento ed il passaggio al biologico iniziato dal padre. Prodotto da vigneti nella zona di Ayl questo riesling ha una bassa dose zuccherina ma una freschezza e varietà di profumi donati anche dai suoi lieviti naturali. Dal colore giallo paglierino con riflessi verdognoli al naso si presenta puro con profumi quasi balsamici. In bocca l’acidità è ben bilanciata dal livello zuccherino. Fin di bocca persistente.
con il riso mare e monti con riccio e lepre (p.236) Primitivo “Bizona” 2019
Cantina: Tenuta Macchiarola Uve: 100% Primitivo Zone produzione: Puglia Grado alcolico: 11,00% Da servire: 110/12°C in calici a tulipano La rivisitazione della leggendaria mare e monti proposta in questo numero racchiude, da un punto di vista dell’abbinamento, una doppia insidia data dalla presenza di una carne bianca, delicata tendenzialmente neutra come bilanciamento tra il dolce ed il salato ed il riccio di mare una potenza esplosiva di sensazioni marine con la sua sapidità. La consuetudine ci dice che con il pesce si abbina il vino bianco mentre con la carne si abbina il vino rosso, quindi in questo piatto dovremmo abbinare due vini? Partiamo, innanzitutto, a chiarire che abbinamento rosso-carne, bianco-pesce è una consuetudine e come tutte le consuetudini possono essere infrante, un bianco di corpo regge la carne come un rosso morbido regge il pesce. L’importante è non esagerare magari abbinando un barolo ad un branzino. Ecco questo proprio no. Nel nostro caso dobbiamo bilanciare il sapore del riccio con un vino che ci sgrassi la bocca ma che non vanifichi la tenerezza ed il gusto della carne di coniglio. Rimaniamo in Italia e scendiamo al sud per scoprire una zona vitivinicola molto importante nel panorama mondiale del vino, la Puglia. Terza regione per ettari di vitigno in Italia (87.253 ettari nel 2017) la Puglia nel corso degli anni si è resa nota dapprima per la produzione di mosti concentrati utili a tagliare altri vini per aumentarne il grado alcolico, poi per la produzione di
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dell’ultimo Henriques, in mancanza di eredi, l’azienda è ora governata da tre soci amici dello scomparso, tra i quali Peter Cossart con alle spalle 53 anni di presenza in azienda. Di particolare interesse lo stock di vecchie annate disponibili che vanno dal Malmsey (Marsala) del 1900 e del 1934 al Sercial del 1964. Non cercate il sito internet della cantina, non ce l’hanno.
Vini abbinati a cura di Enio Berton uva da tavola ed infine per la produzione di vino di qualità. Le origini della viticoltura in Puglia risalgono ad ancora prima della colonizzazione greca del VIII secolo a.C., anche se si deve ai greci l’introduzione della coltivazione ad alberello tipica della regione. Con l’arrivo dei Romani fu dato nuovo impulso alla produzione di vino e molti autori dell’epoca, tra cui Plinio il Vecchio, citano i vini pugliesi e ne elencano le varietà. Nel 244 a.C., con la costruzione del porto di Brindisi, fu dato ulteriore impulso al commercio di vino tanto che a Taranto furono scavate, nella roccia, apposite cantine per il suo stoccaggio. Dopo la caduta dell’Impero Romano si assistette ad un abbandono della coltura viticola che fu ripresa, nel corso del Medioevo, dai monaci tanto che Dante, nei suoi versi descrive la Puglia come “terra sitibonda ove il sole si fa vino”. Federico II, durante il suo regno, seppur astemio, capì l’importanza della produzione vinicola tanto da aumentarne la coltivazione ed il commercio. Durante il Rinascimento i vini pugliesi iniziarono a raccogliere consensi anche nelle altre capitali europee ed in molte zone della Francia. Nel 1700-1800 la Puglia si fa notare per le grosse produzioni ma non per la qualità e con l’arrivo della filossera nel nord Europa il vino pugliese fu utilizzato per soddisfare il fabbisogno di vino non più coperto dalle produzioni locali. Con l’arrivo della filossera, in regione, il commercio si interruppe e per uscire dalla crisi furono introdotti vitigni internazionali che hanno sostituito le varietà autoctone. La comparsa delle cantine sociali favorì la produzione di grossi quantitativi di vino a scapito della qualità, dando importanza alla produzione dei vini da taglio utili, come detto, all’aumento del grado alcolico di vini di altre regioni e nazioni. Dopo la Seconda guerra mondiale alcuni produttori capirono l’importanza di produrre vini di qualità ma solo dopo il 1990, con l’arrivo in regione di cantine da altre regioni, si iniziò ad esaltare i magnifici vini autoctoni che la Puglia ci dona.
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Il riso sarà quasi cotto per cui stappiamo la nostra bottiglia scegliendo un rosso leggero e spensierato ma se vogliamo possiamo abbinare un metodo classico, magari scegliendo la versione rosè, o un bianco non troppo vecchio, magari un pinot grigio con almeno un paio d’anni di invecchiamento. La cantina Tenuta Macchiarola è gestita dal 2007 da Domenico Mangione farmacista di professione con un amore immenso per tutto il mondo del vino, essendo figlio di vignaioli. In vigna ha portato la sua filosofia artigianale e biologica di quando, già dagli anni ’80, produceva vino nella masseria del suocero. L’attenzione per il biologico porta a
non utilizzare componenti chimici, solo concimi naturali, con diserbi meccanici e un piccolo aiuto tecnologico per sconfiggere le calure estive. In cantina l’uso di lieviti indigeni ed il rimescolamento delle fecce con il bastone sono le uniche tecniche utilizzate. Il Primitivo “Bizona” è un vino che nasce dalla raccolta anticipata di uve Primitivo e deve il suo nome al celebre film di Lino Banfi “L’allenatore nel pallone” inventore della famosa bizona 5-5-5 Vino leggero spensierato e come tale gioca, al naso, sulla freschezza della frutta rossa con profumi di geranio ed aromi vegetali. Al palato diverte il leggero tannino. Fin di bocca piacevole e succoso.
Birre consigliate a cura di Riccardo Meniconi
con la Deep-Dish Pizza (p.28) Se bevemo fora la baracca
birre consigliate
A Chicago, nello stato dell'Illinois, nasce uno stile di pizza tutto nuovo, il deep dish pizza. A metà tra una pizza e una torta salata, è caratterizzata dalla grande quantità di ripieno e dal bordo alto. Solitamente è farcita con abbondanti quantità di formaggio e salsa di pomodoro, ma è possibile aggiungere a piacimento altri ingredienti come la salsiccia o le verdure. In italia non è molto conosciuta, o meglio, non è molto apprezzata, ma in America è considerata una specialità del Midwest.
stiche richiamano una birra prepotente, in grado di sopportare e supportare il profilo gustativo importante della pietanza. Quando sento dire “carne di maiale, grassa e speziata" la mia mente vola in Belgio senza passare dal via. E oggi ci stappiamo una di quelle birre che vanno conosciute come le proprie tasche. Non so quantificare quante ne ho bevute in questi anni di scorribande alcoliche, ma vi posso assicurare che non c'è stata una sola volta in cui mi abbia deluso. Nasce nel 2013 nel villaggio di Dottigies, dal birrificio De Ranke. Sorella maggiore della SimpleX e della XX Bitter, parliamo della XXX Bitter, che completa la serie. Stile particolare e relativamente moderno: possiamo tranquillamente definirla una Belgian Ipa, anche se a qualcuno si drizzerà il pelo.
A questo piatto, metà torta salata, metà pizza, abbineremo una birra un po' Lager un po' Pale Ale, nata dalla collaborazione di due grandi menti del movimento brassicolo italiano. Gino Perissutti (Foglie D'erba), forte della sua esperienza sulle birre luppolate, e Simone dal Cortivo (del birrificio Birrone) maestro delle basse fermentazioni. Il risultato è una Hoppy Lager, dal nome evocativo di Se bevemo fòra la baracca che tradotto suona più o meno come "ci beviamo l'intera baracca". Nel bicchiere si presenta con uno splendido colore giallo paglierino con riflessi dorati, limpida come le migliori birre tedesche e dalla schiuma bianca e persistente. Al naso le due filosofie si uniscono con aromi di crosta di pane, miele e erba appena tagliata; non mancano note più agrumate e di luppolo verde. In bocca è schietta, molto coerente, con un attacco morbido, appena abboccato che si snellisce subito dopo lasciando spazio alla luppolatura, il finale è secco e amaricato. La beva è sorprendente e i 4,8° abv non sono d'intralcio a quello che il nome ci aveva fatto presagire. Da bere ad una temperatura tra i 6 e gli 8°C in un boccale tedesco.
Nel bicchiere si presenta di un bellissimo colore giallo dorato, con riflessi arancio e con un cappello di schiuma bianca, fine, abbondante e molto persistente. Al naso spiccano aromi freschi, floreali ed erbacei dati dal grande utilizzo dei luppoli Gold e Hallertau, con note di agrumi e di pepe nel finale. In bocca apre dolcemente con sentori di frutta gialla e pane, per virare violentemente sull'amaro erbaceo e secco, che la distingue dalle sorelle minori; la carbonazione bassa e il finale secco rendono la bevuta molto piacevole. Vi consiglio di servirla ad una temperatura di 8°-10° C in un calice a chiudere
con le Memphis Style ribs (p.39)
Per me la regina di questo stile è la Tasty Juice di Lervig Aktiebryggeri, per gli amici solo Lervig, birrificio Norvegese che sa far parlare di sé. La lattina è un turbinìo di colori, che ben anticipa quello che sarà poi la birra. Anche se l'impatto visivo potrebbe destabilizzarvi un po', non vi preoccupate, quel colore arancione torbido, impenetrabile dalla luce, è tipico dello stile. La schiuma è bianca, grossolana e poco persistente. Ma è al naso (e successivamente in bocca) che dà il meglio di sé.Nell'etichetta dovrebbero inserire un clausola con su scritto “utilizzare in ambienti ben ventilati”.
XXX Bitter
Il Memphis Style è uno dei quattro stili pricipali che possiamo distinguere nella tradizione americana del BBQ, insieme al Kansas City, al Texas e al Carolina style. Si differenzia per l'impiego principale di carne di maiale, in particolare Ribs e Pork Shoulders, e per l'assenza di salse in accompagnamento. La carne è insaporita con una miscela di spezie secche macinate, detta dry rub, o semplicemente rub ed è bagnata durante la cottura con una mistura di aceto di mele (o sidro), senape e sale, chiamata mop sauce. Al contrario delle Kansas city Ribs, quindi, risulteranno più speziate e sapide, meno dolci e "appiccicose": queste caratteri-
con il Juicy Lucy, (p.55) Tasty Juice
Il Juicy Lucy, come suggerisce il nome, è un -succoso- cheesburger con il formaggio intrappolato tra due "patty" sigillati insieme, che cuocendo trasformano il ripieno in un cuore fondente e irresistibile. Per una simpatica assonanza e un’azzeccatissima congiunzione gastronomica, la birra di oggi sarà una New England Ipa, AKA Juicy Ipa.
L'aroma è esplosivo: pompelmo, lime, mango e ananas si propagano per tutta la stanza appena stappata la lattina. In bocca è setosa, morbida, succosa; dominano la frutta fresca ed esotica, il mango va per la maggiore con leggere
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LUGLIO
Birre consigliate a cura di Riccardo Meniconi virate sul citrico degli agrumi. Questo stile non brilla di certo per equilibrio, ma l'amaro è discreto, tendente all'erbaceo con note resinose, e i sentori di malto nel finale la rendono un po' meno sgraziata. La bevuta è abbastanza scorrevole e molto piacevole, da record invece la persistenza, vi ricorderete di questa birra per qualche ora dopo l'ultimo sorso. Ma non resisterete così a lungo prima di stapparne un'altra. Prestate comunque attenzione, il grado alcolico non è elevato (6°abv) ma il formato da 50cl è ingannevole. Vi consiglio di servirla ad una temperatura di 6/8° in una pinta americana, magari nel dehor di un pub lungo mare e un Juicy lucy nel piatto!
LUGLIO con il cheese&bacon roll (p.128) Robust Porter
Il cheese&bacon roll è un soffice panino ricoperto di cheddar fuso e bacon croccante. In Australia è consetudine comprarlo nelle "Bakery", e consumarlo principalmente durante i Picnic o come spuntino. È semplice da mangiare e semplice da fare, in piano stile australiano, dove la filosofia di vita si può riassumere con una frase: "No worries, mate!" (Niente preoccupazioni). Forse è per i luppoli coltivati in quelle zone che la Pacific Ipa di Alessandro Allo Gatti, Mr. Canediguerra, è così fresca e spensierata. Ti fa entrare esattamente nello spirito giusto. Il nuovo formato in lattina poi è l'apoteosi della comodità. Come direbbe qualche coach BBQ4All: zerosbatti. Appena versata nel bicchiere si veste di un colore dorato carico, limpido e con un cappello di schiuma bianca candida, dal perlage fine e abbastanza persistente. Al naso è molto fruttata, si possono distinguere svariati frutti tropicali, come ananas, frutto della passione e mango, accompagnati da sentori agrumati di pompelmo e di erba appena tagliata. In bocca è coerente: ritroviamo tutta la frutta con l'esercito di luppoli in bella vista, l'ingresso è delicato, leggermente maltato, con un corpo snello e veloce; il malto Maris Otter (al 100%) è in grado di valorizzare la frutta e aggiungere piacevolissime note di cocco, per poi spostarsi su sensazioni verdi e amaricanti con un finale asciutto e lievemente astringente. La carbonazione è leggere, e i 5,6° ve ne faranno sicuramente stappare un’altra...
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con la feijoada (p.145) Mr. Canediguerra
La Feijoada è un tipico piatto Brasiliano, si tratta di uno stufato di fagioli e carne, spesso accompagnato con riso bianco. Noi ve ne abbiamo dato una versione
bbq, come potete leggere nelle ricette. Nato come piatto povero, oggi è divenuta una pietanza prelibata, un po' diversa dal passato, ed è spesso consumata durante le festività. Si può trovare in quasi tutti i ristoranti brasiliani, ma per via della lunga preparazione è disponibile solamente in determinati giorni della settimana, spesso nei weekend. Come tutti i piatti delle feste è dunque abbondante, grasso e godurioso. Dobbiamo quindi abbinare una birra "spessa", dal carattere deciso e schietto, in grado di supportare questa opulenza. Se c'è una cucina che conosce bene le zuppe di fagioli e le frattaglie è sicuramente quella toscana, così oggi andiamo a Pienza, in provincia di Siena, a trovare i nostri amici di Brasseria della Fonte, che nasce come beerfim nel 2015 e nel 2016 diventa un vero e proprio birrificio, acquistando un proprio impianto e collocandolo all'interno di un bellissimo Agriturismo nel mezzo delle colline toscane. La loro line-up è varia; pur rimanendo nelle birre ad alta fermentazione (Ale) di ispirazione anglosassone, si spazia dalle Summer Ale alle Imperial Stout, e si attraversano vari stili come Scotch Ale e Porter. Ed è proprio la Robust Porter che andremo a bere oggi. Nel bicchiere si presenta di un color ebano, quasi nero, con leggeri riflessi mogano e sovrastato da un cappello di schiuma compatta e ferma di colore bianco crema. Al naso arrivano note torrefatte di cacao, orzo tostato, frutta secca e caffè, grazie a i 6 tipi di malto utilizzato (Pale, Monaco, CrystalT, Crystal DRC, Fiocchi d'avena, Roasted Barley), e un leggero sentore resinoso derivato dall'unico luppolo presente in questa birra (il Columbus). In bocca è come ce la si aspetta: le note di cacao e cioccolato, caffè e noci sono ben calibrate, notiamo una leggera torba e lievi sensazioni acidule da caffè. Se spillata a pompa, come tradizione vuole, il tutto viene ammorbidito e la carbonazione così leggera, aiuta la beva che è già di per sé abbastanza scorrevole, visti anche i suoi 6,6°abv. Il corpo è medio, con un finale amaro e snello. Vi consiglio di servirla in una pinta americana ad una temperatura di circa 8°C.
SETTEMBRE con le scaloppine (p.256) TipoPils
Da sempre la cucina è uno dei metodi più efficaci per viaggiare indietro nel tempo. Un solo boccone di un determinato piatto può riportarci ad un esatto momento della nostra vita, rivivendo suoni, odori, situazioni, riempendo il nostro stomaco di cibo ed il nostro cuore
di nostalgia. La nonna (torniamo a parlare di lei) è per eccellenza la figura che ci ricorda i momenti più belli della nostra infanzia, e non la si può nominare senza figurarsela in cucina, mentre è impegnata a preparare il pranzo, o la cena; per lei non significava cucinare del semplice cibo per placare la fame, ma fare una vera e propria dichiarazione d’amore. Le scaloppine al limone, profumate e dal gusto setoso, non possono che riportarci a quei momenti: l'odore del burro che si scalda, sentirsi grandi aiutando ai fornelli mentre infariniamo la carne (e anche tutti i vestiti), la bellezza di preparare un piatto semplice, ma che è quasi un rituale. In questo caso, onorando la veracità e le sensazioni donateci da questo piatto, ho scelto una birra il cui motto è “cogli l'attimo, cogli l'essenza”: la TipoPils del Birrificio Italiano, la capostipite delle Italian Pilsner, un vanto a livello nazionale e non; la qualità e l'attenzione durante la produzione sono ineccepibili, ma senza ricorrere a troppa tecnologia. Old school, insomma. La Tipopils è ispirata alle tradizionali Pils Tedesche, prevede però l'aggiunta di luppolo a freddo in cantina di fermentazione (dry hopping), tecnica che permette di valorizzarne al massimo tutte le componenti aromatiche. Infatti al naso ci arrivano di primo impatto – grazie ai malti e alle sovrastrutture di luppoli cereali freschi, pane, erbe selvatiche e fiori bianchi; successivamente, in modo lieve, un sentore di resine sempreverdi, ed un'esile venatura di citrico. La schiuma ci si presenta imponente nonostante la bassa fermentazione, e fa da cappello ad un colore paglierino intenso e leggermente velato. Al gusto si ripresentano inizialmente la morbidezza dei panificati, e successivamente un amaro erboristico molto piacevole e avvolgente. Corpo leggero (5.2°) e dalla bevuta semplice, probabilmente una bottiglia non basterebbe per finire le nostre scaloppine! Vi consiglio di servirla a 6-8°, e di berla – possibilmente – a casa della nonna.
Cockails a cura di Riccardo Meniconi
SETTEMBRE con il pica pollo (p.135) Piña Colada
Il pollo fritto è diffuso in tutto il mondo, dalla Cina al sud America, oggi proviamo questa versione dominicana, rivisitata però in chiave BBQ4All. Il pica pollo prevede una marinatura di circa 12 ore, per poi essere panato in un mix di farina, pan grattato e spezie. Noi naturalmente abbiamo usato il nostro Rub Tennessee e un po' di paprika forte, per poi procedere ad una cottura non convenzionale nel kettle. Non so voi, ma io mi diverto molto cucinando questi piatti: ti fanno viaggiare e scoprire abbinamenti nuovi, sapori sorprendenti e culture incredibili.
• 1 fettina di ananas • Ghiaccio tritato (circa 80 grammi) • A guarnire, uno spicchio d'ananas e le sue foglie Procediamo così: Versiamo in un frullatore il rum, il succo d'ananas, la crema di cocco, una fettina di ananas, il lime, (anche se solitamente non è utilizzato serve ad equilibrare meglio i sapori rendendo il tutto meno dolce) ed infine il ghiaccio tritato. Frulliamo per qualche secondo senza esagerare, non è un frozen. Versiamolo in un grande calice o in una di quelle bellissime Tiki Mug. Completiamo con lo spicchio d'ananas, le foglie ed una cannuccia.
cocktails
“Se non potete arrivare al paradiso, lo porterò io da voi”
Ci serviranno: • 4cl di Rum Bianco • 9cl di succo di ananas fresco ben maturo • 3cl di crema di cocco • 1,5cl di succo di lime
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Disse negli anni 30 Ernest Raymond Beaumont Gantt conosciuto come Donn The Beachcomber. Ernest Raymond nasce in Texas nel 1907 da una famiglia non molto benestante e, dopo qualche anno di lavoro, decide di spostarsi verso la California per poi viaggiare in tutto il mondo come Commissario di bordo. Partendo dalla Jamaica, dove si appassiona di Rum, approda nelle isole Caraibiche e del Sul del Pacifico. Arriva ad Hollywood durante l'era del proibizionismo e prende parte, per guadagnare qualche soldo extra, al contrabbando di Whisky Canadese. Qualche anno dopo, nel 1933, terminato il proibizionismo, decide di aprire un locale a tema polinesiano dove servire i suoi drink a base di succhi e distillati. Sfruttando le conoscenze sul Rum e i suoi agganci "secondari", può permettersi una materia prima di ottima qualità ad un prezzo accessibile così da improntare la sua cocktail list esotica su questo distillato, all'epoca ancora poco conosciuto negli Stati Uniti. Nasce così la moda dei TIKI: cocktail, dissetanti e golosi, adatti ad ogni momento della giornata da bere in relax a bordo piscina o sul bagnasciuga di una spiaggia bianca e incontaminata. Spesso questi drink vengono associati ad un sapore dolce e stucchevole, e spesso è così, ma non se sono fatti con materie prime di qualità ed equilibrati da mani esperte. Nell'Olimpo alcolico della categoria c'è sicuramente la Piña Colada, perfetta per accompagnare in modo sfizioso il nostro pollo e abbastanza semplice da fare a casa.