BBQ4All Magazine - Almanacco 2021

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ALMANACCO 2021


Direttore Editoriale Rossella Neiadin

Redattore Capo Michela Bongiorni

Redazione

Enio Berton Virgilio Brunetti Tommaso Buccafurri Nunzia Clemente Roberto Dal Bosco Salvatore Di Mento Luca Gallozza Marco Gerometta Mariangela Ibba Gianfranco Lo Cascio Riccardo Meniconi Giovanni Minelli Emiliano Nencioni Elena Ninotti Andrea Spaggiari Alessandro Trezzi Carlo Trono Paolo Tucci Alex Vasile Caterina Vianello Alberto Zonghetti

Realizzazione Grafica Impaginazione Carlo Trono Illustrazioni di Eleonora Castagna e Ozzy Bellesi Fotografie di Rossella Neiadin, Tommaso Buccafurri, Luca Gallozza, Elisa Giuli, Emiliano Nencioni

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IN D


L’Editoriale di Gianfranco Lo Cascio Le basi della cottura sous vide spiegate bene - parte I Le basi della cottura sous vide spiegate bene - parte II Le basi della cottura sous vide spiegate bene - parte III Assaggiare la carne - introduzione Assaggiare la carne: la bistecca Assaggiare la carne: la vista Assaggiare la carne: l'olfatto Assaggiare la carne: il gusto Glicolisi e frollatura della carne L'hamburger perfetto in 5 mosse Short Ribs al forno e non per principianti Cucinare senza stress - come arrivare salvi alla tavola delle feste

DI

8 122 236 349 461 573 687 799 913 1025 1130 1233

Portfolio gastronomico

Fritto - Friggendo Verso Sud 14 Fritto - Frittura e cultura nel mondo antico 132 La cucina al fuoco - dall'homo erectus al barbecue 242 Affumicatura 354 Picnic 468 Chef della realtà instagrammata 536 Cucina indiana - Metti un po' di India nel tuo piatto 580 Grigliare d'estate 696 Anteprima - Grill&Smoke to Perfection Masterclass - Intervista 802 Storia e diffusione delle salse piccanti 678 Cucina francese 1096 Hamburger 1034 Beef Ribs 1143 Natale ieri e oggi 1251

Mozzarella in carrozza Supplì Waffle americani Pasta fritta toscana Fiori di cipolla BBQ Bacon Wrapped Onion Bomb Gamja Hotdog Bruschetta al polpo, 'nduja, stracciatella e limone Smoked beef jerky Pomodori ripieni alla romana Samosa

26 29 75 156 255 258 261 478 482 486 598

Torta salata Coxinha Griller corn dip Jalapeno pepper with cream cheese and bacon Bresaola di Wagyu Miyabi A5 con gelato all'aglio Salty Smoked almonds Crema di melone in ember con salamini affumicati Crostone con salsiccia Girasoli di pasta sfoglia con brie affumicato e Franks Würst Peperoncini ripieni con salsa al tonno Taquito ripieno di pulled pork Bacon Pepper Twist Quiche Lorraine Mummie di sfoglia Devil Eggs Tortini di zucca bruciata Caldarroste al bbq Cubetti di mortadella affumicata

604 613 633 636 709 712 714 718 722 730 840 842 956 985 986 1172 1175 1178

I - BBQ4All Magazine

Antipasti


Primi piatti Spaghetti con latte di aringa affumicata e peperone crusco 33 Raviolo fritto con scampo e crema al limone 153 Pasta 'ncasciata 264 Risotto ostriche, carciofi e Parmigiano Reggiano 376 Timballini di riso con ragù di pesce 380 Tagliatella al basilico, gambero rosso e burrata 396 Insalata di riso 498 Riso al curry 596 Tagliatelle di gambero 607 Insalata di pasta con frutti di mare 700 Spaghettoni con i ricci di mare 703 Pasta con pesto alla trapanese 706 Jambalaya 824 Spaghettoni con 'nduja, ricotta salata e pomodorini drogarossa 828 Pasta con ragù di pork ribs 1152 Agnolotti con guancia affumicata 1248 Paccheri al ragù napoletano 1260 Tagliolini con limone e caviale 1266 Busiate con la spatola, cavolicelli, pomodorini e pinoli 1270 Risotto agli scampi 1272

Secondi piatti

II - Almanacco 2021

Polpette fritte Corn Dog Cordon Bleu Frico Pollo fritto all'americana Gamberi fritti Baccalà in tempura Sogliola fritta Frittura di pesce Fish&Chips Maryland crab cake Lobster-fish cake Spicy Grilled BBQ Pork Salsiccia in crosta Rosticciana "al pastor" Sovracosce ai cinque pepi Pepper stout beef Aragoste gratinate con mollica al basilico

37 39 49 52 72 146 149 158 161 173 188 190 268 272 365 368 384 388

Involtini di cernia ripieni con contorno di cipollotti Coscia di agnello marinata al bbq Cuban pork con mojo Tonno di manzo Pulled pork shank Catalana di granseola Tartare di manzo e peperoni imbottiti Tagliata di manzo con Parmigiano Reggiano Pollo Tandoori Beef Korma Lomo al trapo Jalapeno pepper with cream cheese and bacon Kartoffelsalat con Franks Würst Galletto marinato alle erbe con salsa honey mustard Zuppa di pollo e latte di cocco Chili con carne Filetti di salmone con zenzero, peperoncino e limone Calamari ripieni con sugo piccante ai pomodori secchi e scamorza

392 400 421 489 492 501 504 508 589 593 610 636 720 732 830 833 836 838


Filetti di pesce blackened Bœuf bourguignon Bouillabaisse Coq au vin Foie Gras Tournedos à la Rossini Thanksgiving Spatchcocked turkey Short Ribs al forno e al barbecue Fried pork ribs with mashed potatoes Ribs alla Trinità Ribs con zuppa di funghi e patate Coniglio alla cacciatora Meatballs in molasses barbecue sauce Spezzatino di Wagyu e funghi Aragosta alla catalana Orata e sarde alla piastra Prime Rib Roast

870 944 948 952 960 964 1095 1129 1155 1164 1166 1169 1194 1263 1276 1280 1300

Verdure e contorni Carciofi fritti Melanzane fritte in due maniere Patate Hasselback Mac&Cheese Potato salad Kimchi Potatoes of the gold digger Zucchine tonde ripiene alla ligure Seven layer salad Patate dolci e jalapeño Gratin dauphinois Ratatouille Soupe d'oignon French fries con tripla cottura Sweet potatoes french fries Tostones Sedano rapa fritto Yuca Frita Yam fritto Taro fritto Giardiniera Yorkshire pudding

43 168 288 304 306 317 404 601 616 845 936 939 942 1079 1083 1084 1085 1085 1086 1086 1282 1303

The Ultimate Burger Pizza con cornicione ripieno di pulled pork Il panino con il roast beef Panino con polpo grigliato, crema di patate e cialde di corallo Baguette con Black Angus Pizza fritta con ricotta, provola e salame affumicato GLC Top Selection Auber burger Hot burger Friul burger Baby back ribs burger The Beast burger Tropea Burger Double Shimofuri burger Umami burger Fiòl Burger Champion's burger Honey Jalapeno burger

276 281 372 495 726 724 1040 1042 1044 1046 1048 1050 1052 1054 1056 1058 1060

III - BBQ4All Magazine

Panini e pizza


Lobster burger Zen burger Carbo burger Murgese burger Granny smith burger Giant rib sandwich Taco Beef ribs

1062 1064 1066 1068 1070 1158 1160

76 77 78 191 193 317 318 634 639 858 1151 1244

Basi, fondi e salse Salsa aioli Salsa tamari e Gochujang Curry ketchup Salsa ai peperoni grigliati e avocado Salsa stracchino, mortadella e pistacchi Crema di riso acquerello Salsa kimchi Spinach Artichok dip Salsa mexicana La cunserva mara e Frate Focu Chinuchurri Brodo di manzo

Dolci e frutta Crema fritta 59 Gelato fritto 61 Sorbetto al limone 176 Torta Sacher 291 Muffin al cioccolato 406 Cheesecake alle fragole 512 Peach cobbler 526 Gelato fatto in casa 619 Crostatina crema limone e frutti di bosco 645 Frutta al bbq 738 Brownies 750 Tiramisù 760 Budino al latte con pesche e mandorle 848 Saint Honoré 967 Crema al cioccolato di Halloween 987 Mousse alla ricotta 1180 Panettone gligliato con marmellata di arance 1284

Bevande Limonata all'americana

637

Lievitati

IV - Almanacco 2021

Pizza fritta Panzerotto barese Pita Pizza in doppia cottura Ravazzate Pane Naan Kaiser roll Sicilian Pepperoni Pizza Croissant BBQ4All Potato roll Ciabatta Pandoro

62 180 294 410 516 624 740 860 976 1072 1184 1288

Formaggi Mozzarella Raclette

194 307


Yogurt Assaggiare il formaggio

423 528

361 474 586 638 872 878 918 1098 1136 1196

Setup dispositivo Cuocere l'hamburger Sfatiamo i miti del barbecue Cotture ibride Cottura diretta Affumicatura

88 202 319 435 539 652

Cottura indiretta sul kettle Cottura indiretta sui dispositivi a gas Il Foil questo sconosciuto Seasoning

766 988 1206 1304

70 75 186 303 416 523 630 746 866 982 1092 1190 1296

84 313 316 426 430 532 645 761 1200

20 140

Le razze e i tagli Chuck Roll Steak Stinco Flap steak - Flap Meat Quinto Quarto - il cuore Quinto Quarto - Fegato e rognone Infografica - i tagli giapponesi Hanger Steak Tenderloin Beef Ribs Quinto quarto - frattaglie bianche

BBQ4All From Zero to Hero - Cottura sul fuoco

Across the pond Fried chicken Waffle americani Gli americani e il pesce Tailgate Party Puerco asado con mojo criollo La dispensa americana - parte I - diffidate della farina Il Menù del 4 Luglio La dispensa americana - parte II Ristoranti in America Ricette di Halloween Tacchino del ringraziamento Ketchup Natale negli USA

Corso di cucina - fornelli e forni Corso di pasticceria - 10 strumenti indispensabili Ristorante Acquerello e ricetta del kimchi Corso di cucina - 10 piccoli elettrodomestici indispensabili Corso di cucina - conosciamo i coltelli Consumi di carne bovina Corso di pasticceria - crostata di frolla e crema Corso di pasticceria - tiramisù Dispositivi e accessori - coltelli

The Chemical Griller Gli oli da frittura Pastella o panatura? Come scegliere

V - BBQ4All Magazine

Approfondimenti


Padelle: conoscerle e i loro usi Patatine fritte scientifiche e alternative

251 1078

Parmigiano Reggiano Ostriche Aged Wagyu Wagyu - reportage dal Giappone Smoked Pepperoni Salami Mini burger

79 198 310 752 990 1088

De Gustibus

La ricetta scientifica Carbonara 2.0 GLCheeseburger Spezzatino Guancia brasata Pasta al pomodoro Insalata di riso Tabuleh Spaghetti alla assassina Cacio e pepe Risotto al Parmigiano Reggiano

93 206 322 439 544 657 768 884 996 1102

Frittata di patate Omelette

1210 1308

Seguo

VI - Almanacco 2021

Il bullo ti tormenta La banalità del bullo Bello, ma lo fanno anche da uomo? Di rancore vive il mondo del grilling Sono stanco e stufo di essere stanco e stufo Aspettative, delusioni, allegorie Too good is to be Gamma, to be Gamma is to be good! Non fare caso al disordine Una questione di -ismi desueti Concedersi un fiasco Il mito della caverna di Platone Clip show

114 230 344 454 568 678 792 906 1018 1118 1226 1322


N°25/ANNO 3 - GENNAIO 2021

L'EDITORIALE DI GIANFRANCO LO CASCIO

Lezioni di sous vide Siamo fritti, disse la polpetta al carciofo Mozzarella in carrozza, supplì, corn dog, carciofi fritti, cordon bleu, frico DALL'AMERICA

Across the pond: fried chicken DE GUSTIBUS

Parmigiano Reggiano tutto quello che c'è da sapere

La Ricetta Scientifica

Carbonara 2.0


Editoriale di Gianfranco Lo Cascio

Sotto vuoto Da Zero a

lezioni di cucina

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Le basi della cottura sous vide spiegate bene


Ne avrai sicuramente sentito parlare (anche da me): il sous vide è un metodo di cottura grazie al quale il cibo viene cucinato a temperatura costante in un bagno d'acqua, prima inserito in sacchetti di plastica speciali e soltanto dopo rapidamente rosolato in padella o sulla griglia. L’associazione mentale che si fa più spesso è con i ristoranti stellati, i cibi raffinati e le attrezzature costose, a prima vista progettate più per un laboratorio di chimica che per una cucina di casa. Ma da un po’ di tempo sempre più appassionati hanno scoperto questo arnese miracoloso - che assicura cibo perfettamente cotto, con un controllo assoluto della temperatura e zero stress - non più appannaggio esclusivo di chef audaci e milionari viziati. E mentre i cuochi che usano regolarmente il sous vide spesso scelgono di investire in attrezzature costose e macchine per il sottovuoto a campana, nell’ultimo decennio sono stati messi in commercio diversi modelli di “termocircolatori a immersione” a prezzi accessibili per l'uso domestico. Fatta la dovuta premessa, mettete da parte i gadget per un minuto. Per questa prima lezione di sous vide avrete bisogno di una pentola, di un fornello, di un termometro digitale, di alcuni sacchetti di plastica e di una mente predisposta al cambiamento. Sì, con nient'altro che questi quattro strumenti di base cucinerete la migliore bistecca che abbiate mai mangiato, il trancio di pesce da tagliare con un grissino e una succosa braciola di maiale accompagnata da patate croccanti fuori e fondenti dentro. Una volta preparata la prima ricetta, rimarrete letteralmente stregati da un insieme di tecniche che rivoluzioneranno il vostro modo di cucinare. Vi spiegherò nel dettaglio le basi delle migliori pratiche per la sicurezza alimentare e vi insegnerò una serie di ricette da consultare per padroneggiare come si deve il sous vide.

Ricordati di questo giorno. È il giorno in cui hai fatto il primo passo per diventare il miglior cuoco che hai sempre saputo di poter essere.

Che cos'è il sous vide Immaginate di dover cucinare una bella Ribeye (costata). In testa avete chiara l’idea di come dovrebbe essere, croccante e profumata fuori e succosa e morbida dentro, giusto? Con il sous vide (pronunciatelo "su vid"), basta preparare una pentola d’acqua, impostare l’intervallo di tempo e la temperatura target e si può ottenere quella esatta, precisa sfumatura di cottura che si desidera, ogni santissima volta. Non a caso gli chef e i ristoranti di tutto il mondo si affidano a questo strumento da decenni, e chi più di loro ha bisogno di risultati sempre perfetti, certi e ripetibili. È un metodo relativamente semplice che può essere facilmente applicato per annientare lo stress inutile legato ad alcune particolari cotture (pensiamo ai tagli di carne più duri), o a sollevarvi dalla cura esclusiva di certi aspetti del piatto, come portare la vostra fiorentina alla temperatura interna corretta senza cuocerla troppo, permettendovi di focalizzarvi su un contorno diverso dalla solita insalata mista, su una salsa di accompagnamento o su un dolce. Una volta appresi i rudimenti potrete passare al livello successivo e scatenarvi con le ricette, dalla carbonara al carré di agnello, dal pollo fritto al salmone marinato. Allora, come funziona il sous vide? E perché è di gran lunga migliore dei metodi di cottura tradizionali per alcuni piatti? Permettetemi di spiegarvelo. Con i metodi di cottura tradizionali, il calore si trasmette dal bruciatore alla padella e poi all’uovo, le resistenze di un forno riscaldano l'aria intorno al pollo e lo cuociono. Poiché l'aria del forno e il metallo della padella sono molto più caldi di quanto noi vogliamo che siano il nostro uovo e il nostro pollo, dobbiamo toglierli dal fuoco al momento giusto. Farlo troppo presto o troppo tardi significa avere nel piatto un cibo crudo o stracotto. Ma quando si cucina con l'acqua, invece che con il forno o con la padella, possiamo alzare la temperatura quanto basta per portarlo alle temperature che preferiamo. Possiamo toglierlo non appena ha finito di cuocere, oppure lasciarlo riposare nell'acqua fino a quandoè

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S

olleva gli occhi dalla pagina e guardati intorno. Dove ti trovi in questo momento? Che ora è? Sei da solo nel silenzio della cucina o in pausa dallo smart working, sognando cosa preparerai per cena?Fermati un attimo e scatta un’istantanea con la mente. Perché questo, mio caro lettore, è il momento esatto in cui inizierai un viaggio che ribalterà il tuo modo di cucinare. Questo è il momento in cui scoprirai il sous vide e le sue potenzialità


Perché cucinare sous vide?

TECNICHE DI COTTURA TRADIZIONALI il cibo rimane perfettamente cotto solo durante un piccolo intervallo di tempo

non appena siamo pronti per sederci a tavola: niente più turni di guardia davanti allo sportello del forno, niente più incatenamenti ai fornelli. Invece di fare la spola tra fornelli e tavola, potrete versarvi da bere e rilassarvi, chiacchierare con i vostri ospiti, o concentrarvi su una parte del pranzo o della cena che richiede più accorgimenti. Cibo perfetto, facile da preparare e pronto solo auqndo volete voi: è questo che rende il sous vide uno strumento rivoluzionario e salvifico. Provateci, e una volta entrati nel loop, cucinerete di più e vi divertirete di più a farlo. E le vostre bistecche saranno leggenda.

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Tecniche tradizionali vs sous vide

Perché è facile, ci si può cucinare di tutto e meglio, perché si può fare ovunque e ci stimola ad osare. Una bistecca perfetta, un trancio di pesce che si sfalda con lo sguardo, costine di maiale tenere e scioglievoli. Tutto questo in cambio di pochissimi accorgimenti.

Cuocere sous vide stasera, cosa vi serve? La p ar te migliore della faccenda? non avrete bisogno di nessun marchingegno infernale per iniziare. Continuate a leggere e preparatevi ad aggiornare il software della vostra cucina, state per ricevere un importante aggiornamento.

STRUMENTI Per capire velocemente come il forno, la griglia o i fornelli cuociono il Ecco cosa vi serve per iniziare. cibo, date un'occhiata al grafico qui sotto. Con le tecniche tradizionali, c'è una strettissima finestra temporale in cui il vostro filetto di maiale 01. Un buon termometro è proprio come piace a voi. Uno sguardo allo smartphone, vi distraete Non mi stancherò mai di dirlo: per qualche minuto e ciao: avete già perso l'occasione di gustare il il termometro digitale è uno miglior filetto di sempre. Un peccato. strumento imprenscindibile Ora guardate questo grafico sul sous vide. Come potete vedere, il per cucinare qualsiasi cosa. Il vostro filetto può rimanere in un recipiente con d'acqua perfettamente controllo della temperatura riscaldata per più di un'ora, ed emergere da lì ancora perfettamente interna degli alimenti ci aiuta cotto. I figli vi chiamano per dirvi che arriveranno in ritardo? Niente paura, la vostra cena si svolgerà comunque senza intoppi. Avete le bistecche pronte per essere croccantizzate sulla piastra, ma CUOCERE SOUS VIDE ci è voluto più tempo di quanto il cibo non diventa mai più caldo dell'acqua vi aspettavate per trovare la così rimane alla temperatura target fino al momento del servizi ricetta della salsa gravy? Non vi preoccupate, potete lasciare tutto com’è. Il cibo cotto in sous vide è pronto quando lo siete voi, e quando sarete pronti, vi accorgerete di aver cucinato un capolavoro.


ad ottenere la sfumatura di cottura giusta e sicura anche dal punto di vista sanitario. Non serve spendere cifre folli, esistono termometri digitali per tutte le tasche.

della busta aperto e appoggiatelo sopra il bordo del contenitore d’acqua. Usate una molletta o un coperchio per tenere il sacchetto in posizione. TECNICHE Volete provare il sous vide ma non siete ancora pronti ad investire in nuove attrezzature? Lo capisco, magari avete ancora qualche riserva su questa storia del cibo imbustato. Niente paura, esistono tre tecniche che sfruttano oggetti di uso comune che avete sicuramente negli sportelli della vostra cucina. Quando usarli e quali? Generalmente, quando avrete bisogno di una cottura veloce, userete il metodo del piano cottura o il metodo dell'acqua corrente. Il primo di solito funziona meglio per la bistecca e il pollo, mentre il secondo può essere una buona opzione per il pesce fresco. Mentre una parte di voi ha a disposizione un rubinetto che spara acqua a temperature vulcaniche, perfetta per scaldare una New York Strip (bistecca di controfiletto) da cuocere a 52°C-54°C, per alcuni potrebbe risultare un pochino antipatico sprecarne diversi litri per un taglio di carne più duro. Per tempi di cottura più lunghi, fino a quattro ore, è meglio affidarsi al metodo con contenitore termico isolato. Dovrete controllare la temperatura di tanto in tanto, questo sì, ma in genere è una tecnica che funziona abbastanza bene. Metodo del piano cottura È abbastanza semplice. Una volta riempita una pentola con l'acqua e messa sul fuoco, la chiave è portare l'acqua alla temperatura desiderata e tenerla lì, in quel range di temperatura, cosa che potrebbe richiedere qualche accorgimento - probabilmente dovrete regolare il calore e potreste dover armeggiare con il posizionamento della pentola sul bruciatore. Tutto questo tuning può essere un po’ noioso, lo so,

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02. Sacchetti di plastica di qualità Leggendo sul web ne sento di ogni, ci sono un sacco di falsi miti legati alla cottura sottovuoto. Il primo tra questi è che avete bisogno di una confezionatrice sottovuoto a campana per imbustare correttamente il cibo. La verità è che si può fare anche con normali sacchetti di plastica con chiusura zip. Di regola potete usarli sempre quando cucini tra i 40°C e i 70°C, ma per stare davvero tranquilli, procuratevi dei sacchetti di buona qualità e che siano fabbricati apposta per questo scopo. Quando lavorate con sacchetti con chiusura a cerniera, usate il metodo del “dislocamento dell’acqua" per togliere l’aria. Per farla semplice: agganciate il sacchetto al lato della vostra pentola e immergetelo nel bagno termostatico, usate l'acqua per spingere fuori l'aria che circonda i vostri pezzi di carne o pesce. Lasciate il bordo


ma mantenete la calma e portate a termine l’obiettivo. E non spaventatevi se la temperatura oscilla di un paio di gradi mentre cucinate, otterrete comunque un buon risultato. Tenete presente una cosa importante: state perdendo costantemente calore attraverso i lati della pentola e tramite l’evaporazione dell'acqua, quindi non c'è modo di aggirare la fluttuazione di temperatura. Tuttavia non perdetevi d’animo e continuate a controllare la situazione: se mantenete l'acqua entro un grado o due, state andando alla grande. Cominciamo! BISTECCA IN SOUS VIDE PER PRINCIPIANTI Attrezzatura • Termometro digitale a lettura istantanea • Sacchetto di plastica • Clip per legare Ingredienti • Una ribeye Blue Ox Prime del Megastore (è importante • utilizzare una carne frollata e marezzata) • Olio extravergine di oliva • Sale • Pepe 01. Preparate un bagno d'acqua Riempite la vostra pentola con acqua. Lasciate abbastanza spazio per evitare che l'acqua trabocchi una volta aggiunto il sacchetto. 02. Fissate il termometro (opzionale) Potete usare uno spiedino o una pinza resistenze al calore per fissare il termometro digitale sul lato della pentola. Potete anche immergere il termometro nell'acqua di tanto in tanto per controllarne la temperatura.

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03. Riscaldate l'acqua Riscaldate l'acqua fino a raggiungere la temperatura desiderata (52°C-54°C), regolando il bruciatore secondo necessità per mantenerla costante. Un avvertimento: questo passaggio può richiedere un po' di tempo per essere fatto in maniera corretta. Pianificate di conseguenza. Mescolare l'acqua frequentemente può aiutare a velocizzare il processo. 04. Confezionate Mettete la bistecca nel sacchetto. Togliete l'aria dal sacchetto usando la tecnica del dislocamento che vedete nell’immagine.


05. Cuocete Usate una clip per attaccare il sacchetto al lato della pentola. Questo dovrebbe evitare che il cibo galleggi sulla superficie dell'acqua, il che potrebbe portare a una cottura non uniforme. Una volta che la bistecca è stata aggiunta al bagno termostatico, dovrete riportare l'acqua alla temperatura desiderata. Questo può richiedere un po' di tempo, specialmente se l’acqua è tanta. Controllate col termometro la temperatura al cuore della carne: una volta arrivata a 52°C, toglietela. Tutti questo parlare di gradi e e temperature al cuore comincia a confondervi un po’? Rilassatevi, nel prossimo numero troverete una tabella con la temperatura target giusta per ogni alimento. 06. Finite il piatto Date una botta di calore alla carne per innescare la reazione di Maillard. Che cos’è? È quella reazione che inizia a manifestarsi a temperature superiori ai 160°C, in assenza di umidità e in presenza di proteine e zuccheri riducenti. È il fenomeno che dà ai cibi la crosta brunita e profumata che ci piace tanto, impossibile da ottenere con la sola cottura sottovuoto. Procuratevi una piastra o padella in ghisa o ferro e scaldatela in maniera feroce. Asciugate con cura la vostra Ribeye con della carta assorbente, ungetela con un sottile strato di olio (il grasso vi servirà per veicolare il calore) e fulminatela per pochi secondi per lato, facendo attenzione a non superare i 52°C interni. Attenzione! Fate molta attenzione quando togliete dal sacchetto gli ingredienti fragili come il pesce o la carne molto marezzata. Potreste rovinare il taglio sfaldandolo tutto. 07. Godete! È tempo di assaggiare il frutto del vostro lavoro. Servite la bistecca con sale e pepe, aggiungete un rub (mix di spezie) di finitura se vi piace.

Gianfranco Lo Cascio

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Ci vediamo a Febbraio per la prossima lezione, ora fatti sorprendere dalla tua nuova rivista preferita.


o d n iFr ggeverso L'importanza di essere "indorato e fritto" dal Molise alla Sardegna

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Costume a cura di Nunzia Clemente

Sud


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arlare di fritto nel Sud Italia senza tener conto delle intermittenze del cuore (se ne parlava qualche numero fa del Magazine), cioè quelle sinestesie tra presente e passato tanto a cuore a Marcel Proust, sarebbe davvero un’ingiustizia. Il fritto è una delle declinazioni del Sud Italia, senza remore potremmo dire anche la più rappresentativa: si frigge per festeggiare, per passare il tempo, per comfort food. Se tutto può essere grigliato, tutto può essere anche fritto. La mia “intermittenza” preferita, parlando di frittura, risiede in uno street food locale dell’Agro Sarnese Nocerino, la mia zona d’origine. Zeppole e panzarotti: mille lire divenute poi un euro di pepite bollenti di pasta cresciuta e “panzarotti” (cioè crocchette) di patate, fritti fritti. Un cibo di conforto disponibile praticamente per gran parte del giorno, dalle undici del mattino fino all’orario di cena, momento in cui il friggitore o smontava il baracchino oppure si dedicava alla frittura di zeppole grandi, ripiene anche con ingredienti presi dal macellaio di fiducia, come salsicce. Il “mio” zeppolaro di fiducia si chiamava ‘Ngiulillo: si calcava un berretto da marinaio in testa e friggeva come soltanto un dio friggitore sapeva fare, in un calderone, sotto l’antro di un palazzo ottocentesco, accanto alla mia vecchia scuola elementare. Non c’era grande attenzione al tempo riguardo il nutrizionalmente valido, ‘o criatur addà mangià, il bimbo deve mangiare. Via libera quindi al sacchettino bollente da portare in classe, nascosto nello zainetto che diventava una sorta di bomba atomica che al solo passaggio titillava le papille gustative. Tanto che alle nove e trenta, ben prima della ricreazione, si intrufolavano le dita nel sacchetto per strappare un pezzo di quello, un pezzo di questo. Bando ai ricordi, ripercorriamo le vie del fritto al Sud e relative ricette.

Innegabile che il fritto sia una tecnica di cottura “avanzata”: come pratica al Sud è ben radicata dal tempo degli scambi culturali e commerciali nel bacino del Mediterraneo. Senza dilungarci troppo sulla storia del fritto (perché avremo tempi e modi di esplorarla per bene), ci limitiamo a segnalare le tappe fondamentali: ad esempio, vedremo come il fritto nell’antica Roma fosse ampiamente diffuso, ma anche come le loro “fritture” in realtà fossero più delle “brasature” con diversi liquidi (garum, vino, aceto). Come ogni tecnica la frittura ha avuto le sue evoluzioni. Nell’antica Roma i cibi fritti più diffusi erano, solitamente, delle frittate o frittelle a forma di ciambella oppure delle sfere; erano indifferentemente accompagnati da intingoli salati oppure dal dolce, in quest’ultimo caso si preferiva di gran lunga il miele oppure prodotti derivati dal mosto del vino, come ci dimostrano molti ritrovamenti del sito archeologico di Pompei. Un bel colpo all’avanzata della frittura come metodo di cottura – cioè, più vicina a come la conosciamo noi – ci viene dato dal contatto con gli arabi e le altre popolazioni del bacino del Mediterraneo. Un bel balzo in avanti e ci ritroviamo nel Sud del Medioevo, alla corte angioina: precisamente, sul finire del Duecento ad opera dell’Anonimo Meridionale. Vuoi la Quaresima, vuoi altro, ci ritroviamo praticamente il primo ricettario in tardolatino (ma facilmente comprensibile senza

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Di frictilia e cose varie


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traduzione) dove ci viene presentata una bella platea di dolci fritti: se restrizione deve essere, che almeno sia gustosa. Secoli dopo, il “cuoco galante” Vincenzo Corrado nemmeno si esime dallo stilare tutta una serie corposa di fritte ricette nella sua opera più famosa, che a tutti gli effetti rappresenta il primo ricettario del Sud Italia: si va dalle costolette fritte, alle zucchine fritte, passando per la ricetta della nostra amatissima parmigiana di melanzane. Perché è davvero così tanta la fortuna del fritto nel Sud Italia? Una cucina sostanzialmente povera (nei tagli e nelle disponibilità degli alimenti) aveva bisogno di reinventare quotidianamente i propri piatti, aggiungendo gusto per rendere più leggere giornate di lavoro intenso. La frittura preferita, al Sud, è quella con olio; ciò non toglie che ancora ad oggi qualcuno usi la frittura aggiungendo una certa quota di strutto, spesso direttamente nella pietanza e non nel recipiente. La frittura è un atto che passa di generazione in generazione, attraverso pacche di melanzane, miscele di tuorli d’uova, pangrattato, profondità delle padelle, creazione delle “bolle”: una cosa indorata e fritta (dorata, cioè passata nell’uovo e poi fritta) è assai più buona di tutto il resto. Migliora anche ciò che magari non è più freschissimo: la frittura è un magnifico, calorico metodo per la nostra amata cucina di recupero. Per non parlare poi dello street food: il diffondersi dell’olio di semi, molto più economico, ha permesso ancor più la diffusione di questo metodo di cottura. Tenevi ben ancorati ai divani, mettete offline la app contacalorie, defenestrate le bilance: vi accompagno in un viaggio a tema fritto per tutto il Sud Italia e dopo niente – niente – sarà più come prima. Dovrete necessariamente friggerlo per renderlo appetibile (la fase-grigliata penso l’abbiamo interiorizzata abbastanza!).


MOLISE - CALCIONI

No, non vi sto proponendo un incontro di wrestling: forse ne farete uno per accaparrarvi l’ultimo calcione molisano rimasto, però. Sfoglie ripiene di prosciutto, tuorli d’uovo, formaggio, ricotta di pecora, ben chiuse ed ovviamente fritte. Da mangiare bollenti, ungendosi le mani e le labbra con il Labello fornito dal Dio olio.

LAZIO – CARCIOFO ALLA GIUDIA

Uno di quei casi dove non capiamo la versione light: ma quando mai ci siamo concessi la variante light di qualcosa di così gustoso come il carciofo alla giudia? Un piatto antichissimo, le cui tracce risalgono almeno al II secolo dopo Cristo e successivamente divenuto tradizionale del quartiere ebraico di Roma. Si tratta, essenzialmente, di una “frittura” di carciofi, ma di un particolare tipo: sono i carciofi cimaroli, detti mammole, coltivati tra Ladispoli e Civitavecchia. Un carciofo morbido e senza spine: una volta fritto a dovere, le foglie risulteranno croccantissime.

CAMPANIA - PIZZA FRITTA

‘a reggina, la regina. Sua Maestà Dorata la pizza fritta, portata agli onori internazionali da Sofia Loren, come ci racconta Alessandro Trezzi nella sua ricetta presente su questo numero del Magazine. Si tratta di una pizza ripiena di ciccioli, ricotta, pepe e poca provola (ma non mancano le varianti), adeguatamente chiusa e fritta per pochissimi minuti. Ci vuole un’estrema abilità ed esperienza per una pizza fritta perfetta: bisogna chiuderla bene, “scuoterla” affinché il ripieno si adagi in maniera omogenea nella tasca, moltissima attenzione al colore della frittura affinché non si bruci. Avete già l’acquolina in bocca: un piscitiello (pizza fritta modellata in lungo) o un battilocchio (impasto modellato come un occhio chiuso) placheranno la vostra fame di fritto.

(E PIÙ IN GENERALE IL FRITTO PUGLIESE) Le popizze, tipiche di Bari, sono delle semplici frittelle di pastacresciuta, di forma tondeggiante. Vengono preparate e vendute principalmente nella Bari vecchia, da esperte friggitrici. Le popizze possono essere semplici, ma anche ripiene di pomodori secchi o ancora olive. Solitamente, ci sono anche le sgagliozze, cioè triangolini di polenta fritta, ma molto frequente è anche il generico fritto di verdure, tra i quali spiccano i lampascioni fritti. I lampascioni sono dei deliziosi bulbi tipici della Puglia e della Basilicata, che fritti esprimono una bontà commovente.

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PUGLIA – POPIZZE O PETTOLE


BASILICATA – OLIVE FRITTE CON PEPERONI CRUSCHI

La Basilicata è una delle mie terre preferite. Un antipasto o un contorno tipico lucano è quello composto da olive e peperoni cruschi… ovviamente, tutto fritto. La regione lucana è naturalmente votata alla coltivazione di molte tipologie di olive, con ben 125 comuni interessati. L’oliva destinata ad essere essiccata e fritta è l’Ogliarola del Vulture, insieme ai tipici peperoni cruschi, cioè i tipici peperoni di Senise essiccati. Servire con bruschette di pane di Matera.

CALABRIA – FRITTELLE DI FIORI DI ZUCCA

I fiori preferiti dai patiti di gastronomia del Sud? Senza dubbio, i fiori di zucca. In molte regioni c’è l’usanza di friggerli (in Campania, anche di imbottirli di ricotta!), ma è in Calabria che essi trovano una terra d’elezione unica. La pastella dei fiori di zucca – delicatissimi, che durano davvero poche settimane nell’arco dell’anno – viene arricchita con abbondante formaggio pecorino. Il tutto viene tuffato in padella. Da addentare bollenti.

SICILIA – ARANCINA

E che vuoi dirle? Sono perfette. Non bouquet, ma sacchetti di arancine e sarò una donna felice. Dell’arancina scientifica ne abbiamo fatto una missione nel numero del Magazine di Ottobre 2020. Ogni tanto, vorrei che il mondo fosse a forma di arancina: a forma vulcanica, ripiena di prelibatezza e soprattutto fritta. Ma anche per friggerle bene, ci vuole arte e maestria. Se vi hanno sempre spaventato con la difficoltà di fare e friggere un’arancina, recuperate la nostra ricetta e andate avanti senza paura… ma con molte macchie di fritto sulle maglie.

SARDEGNA – SEADA

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In Sardegna esiste una delle cose fritte più buone inventate dall’uomo: la seada, seadas al plurale. Tradizionalmente, è una pietanza legata ai pastori, facilmente trasportabile: si pensa sia stata portata nell’isola per la prima volta dagli spagnoli. Chiunque sia stato, gli daremo sempre tutti gli onori. Si tratta di una grossa ciambella di semola sottile, impastata con strutto e “casu furriau” (cioè un formaggio fresco acido), miele e successivamente fritta in abbondante olio, consumata quando è ancora croccante.


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Non si frigge con l'acqua GUIDA DEFINITIVA AGLI OLI The Chemical Griller a cura di Virgilio Brunetti

I

n questo articolo vogliamo rispondere ad una domanda comune ma non banale: qual è il miglior olio per friggere? La risposta è ovvia: dipende. E non ci stiamo lavando le mani della faccenda, anzi: questa sarà la vostra guida definitiva agli oli per friggere, da stampare ed appendere a mo’ di poster dei famosi nelle camerette degli adolescenti (ma anche di noi adulti, eh…).

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Lo diciamo subito: se fate parte di quella schiera di consumatori convinti che utilizzare un extravergine d’oliva da 20 euro al litro per una banale frittura siano soldi buttati, allora potete tranquillamente passare oltre con la lettura; sì, perché la scelta di un olio da frittura e di uno da condimento deve essere ugualmente attenta e consapevole. Sappiate che un buon prodotto costa molto e trovarne uno adatto alla frittura che sia anche scevro da manipolazioni e mistificazioni è veramente difficile. Da pugliese e salentino è fin troppo semplice parlare di olio buono visto quello d’oliva non ci è mai mancato. Nelle generazioni passate, anche sulla mensa dei più umili non è mai venuto meno, almeno fino all’avvento della spietata Xylella fastidiosa che ha di fatto estinto molte interessanti cultivar e cambiato per sempre l’olivocoltura salentina. Proprio perché pugliese, la frittura in olio d’oliva è sempre stata la norma, ed ancora oggi, solo in casi eccezionali a casa mia si frigge in quello d’arachidi. Prodotti come l’olio di palma bifrazionato, quello di soia, l’olio di semi vari o il Friol non hanno mai varcato la soglia della cucina di mamma (tuttavia parleremo anche di quest’ultimo prodotto e del perché frigge bene).


FOCUS: OLIO, LIPIDI, DIFFERENZE. Prima di tutto inquadriamo l’attore principale di questo pezzo, ovvero una categoria vastissima di alimenti che vengono definiti grassi, oli, a volte lipidi. Cosa sappiamo esattamente di queste sostanze? Iniziamo a fare chiarezza ponendoci delle semplici domande ossia: che cos’è un olio e che differenza c’è tra quest’ultimo e un grasso? Che differenza c’è tra grasso e lipide? Dal punto di vista fisico, riferendoci esclusivamente ai prodotti di interesse gastronomico, un olio è una sostanza liquida a temperatura ambiente, immiscibile con l’acqua, viscosa e con una densità bassa. Differisce da un grasso perché quest’ultimo perché si presenta allo stato solido o semisolido in condizioni ambiente di temperatura e pressione. Se grasso è considerato sinonimo di lipide, si può dire lo stesso dell’olio? Esso non è di fatto anche un lipide? In realtà se consideriamo queste sostanze dal punto di vista chimico sarà molto più facile comprendere la loro natura. Il nostro amichevole chimico di quartiere, il prof. Dario Bressanini, ci spiega infatti che nel linguaggio parlato distinguiamo spesso i grassi dagli oli (lo strutto è considerato un grasso, diversamente dell’olio d’oliva). Dal punto di vista chimico però non c’è differenza: semplicemente chiamiamo oli quei grassi che sono liquidi a temperatura ambiente. Quale sia la temperatura ambiente, però, dipende da dove vivete: ai tropici fa molto più caldo che a Trento e un grasso liquido in Nigeria può essere semisolido da noi. Useremo quindi i due termini indifferentemente.

Poiché le caratteristiche fisico-chimiche dell’olio da frittura sono strettamente correlate alla struttura molecolare della sostanza, i lipidi di interesse gastronomico sono per la maggior parte gliceridi, spesso sono trigliceridi ovvero sono esteri del glicerolo con vari acidi grassi (acidi carbossilici a media lunga catena); l’abbondanza di alcuni acidi grassi rispetto ad altri caratterizza a livello aromatico e gustativo lo specifico olio, mentre il loro livello di insaturazione determina le performance degli oli in condizioni di stress termico e ne determina inoltre lo stato solio, semisolido o liquido a temperatura standard. Moltissimi di voi avranno sentito parlare di oli con un alto punto di fumo vero? Il punto di fumo è un parametro essenziale: è la temperatura a cui un grasso alimentare riscaldato comincia a rilasciare sostanze volatili che divengono visibili sotto forma di un fumo formando anche molecole tossiche. Una cosa che mi fa molto arrabbiare è che tutti

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Ora, per quanto concerne la frittura ci concentreremo esclusivamente sui grassi di interesse gastronomico. Possiamo pertanto individuare due grandi categorie di prodotto, ovvero quelli di origine animale e quelli di origine vegetale. In natura i lipidi sono molecole fondamentali, basilari per la strutturazione delle singole cellule; inoltre costituiscono un’indispensabile riserva energetica nei tessuti sia animali che vegetali. Vorrei ricordare a tutti i salutisti in ascolto che potete assumere indifferentemente olio di pesce, olio d’oliva o una fettina di lardo di Colonnata: 1 grammo di grasso corrisponde a 9,46 kcal.


possiamo accedere ad una tabella che rapporta la qualità dell’olio da frittura al punto di fumo ma tutti ignorano il fatto che, andando a comprare un olio per friggere, esso deve essere di elevata qualità ed avere delle caratteristiche produttive adatte alla frittura. Facciamo un esempio alla portata di tutti noi, specie degli estimatori del made in Italy: l’olio extravergine d’oliva. Esso è considerato da tutti perfetto per friggere in quanto a stabilità, punto di fumo, qualità organolettiche e salutistiche. Si, bene, tutto ciò è bello ed è anche confortante perché, al di là delle demonizzazioni mediatica sulla frittura, se proprio devo farlo uso l’extravergine di oliva e sono in una botte di ferro, perché sicuramente è più salutare. Giusto? Forse.

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Sappiamo benissimo che l’olio d’oliva non è tutto uguale e proprio nel contesto della frittura è particolarmente importante capire che il grasso non è altro che un mezzo per trasferire calore ad un alimento in condizioni di temperatura piuttosto elevate. Tutto ciò che nell’elemento usato per friggere non è grasso è inutile ai fini della pratica: polifenoli, antiossidanti, vitamine, oli essenziali, cere, steroli ecc. non hanno rilevanza nelle performance di cottura, piuttosto l’abbondanza di alcune di queste molecole considerate nutraceutiche e caratterizzanti in alcuni extravergine di alta qualità abbassano di fatto il punto di fumo, che mediamente si aggira tra i 160°C e i 200°C: troppo variabile per dire che questo olio è il migliore per friggere. Tutta la schiera di

molecole che vanno a caratterizzare gli oli extravergini d’oliva a bassa acidità impattano in maniera piuttosto complessa sugli attributi gustativi (fruttato, amaro, piccante) del prodotto e sulla sua stabilità all’ossidazione e all’irrancidimento. In generale oli vegetali e animali di scarsa qualità con acidità elevate, ossidati o addirittura rancidi sono da evitare per qualsiasi uso alimentare. Quindi capirete perché un grasso da frittura debba essere integro tanto quanto quello da condimento.

UN OLIO, VISTO DA VICINO Ora definiamo alcuni importanti parametri qualitativi come l’acidità degli oli vegetali. Per capire di cosa si tratta dobbiamo comprendere la struttura di un trigliceride. Esso è composto da tre acidi grassi uniti da una molecola di glicerolo mediante (legame estereo). A livello sintetico si tratta di una reazione di esterificazione tra un alcol, il glicerolo, e gli acidi grassi; la reazione inversa si chiama saponificazione. I grassi nelle piante vengono prodotti tramite una reazione enzimatica, una biosintesi. Essi si accumulano principalmente nel pericarpo delle drupe (le olive) oppure nell’endocarpo dei semi. Questi ultimi vengono definiti oleosi proprio per l’abbondante quantità di grassi. Il legame che unisce il glicerolo ai tre acidi grassi non è molto forte, per questo motivo, di fronte a qualsiasi ambiente ossidante o aggressivo, esso si rompe liberando i tre acidi grassi e causando la degradazione dell’olio.


L’acidità misura la quantità di acidi grassi liberi presenti nel prodotto, ed è uno degli indicatori generali per la determinazione della qualità degli extravergini: quando è minore, l’olio è migliore. Notate bene che essa non è percepibile livello gustativo e non deve essere confusa con i difetti del prodotto finale, tipo il sentore di acetico o vinoso, di muffa, di salamoia, di rancido, di morchia, di riscaldato. Ai fini della frittura è particolarmente importante che l’olio sia integro a livello molecolare ovvero che i trigliceridi non siano interessati da fenomeni ossidativi e di irrancidimento. Cos’è un olio rancido? È un prodotto che ha avuto una serie di reazioni di idrolisi e/o ossidazione che riguardano gli acidi grassi o altri lipidi presenti negli alimenti. Le modificazioni chimiche avvengono tramite meccanismo radicalico che implica l’azione prolungata dell’ossigeno. Abbiamo chiarito che gli oli alimentari sono costituiti da trigliceridi. A tal proposito avrete sentito parlare di lipidi con diversa abbondanza di acidi grassi saturi, insaturi e monoinsaturi, di Omega 3-6-9, di acidi grassi trans; tutte queste caratteristiche chimiche sono correlate alla struttura degli acidi grassi: sappiate che tutti gli oli contengono sempre una miscela di saturi, di monoinsaturi e di polinsaturi. Sempre.

Se i lipidi alimentari hanno una prevalenza di acidi grassi saturi, allora sono solidi o semisolidi. Ciò significa che in gran parte i trigliceridi avranno attaccato dei bastoncini diritti i quali, come dei mattoncini del lego, si riescono a impilare più facilmente rispetto a quelli con una o più piegature. Questo è il motivo principale per cui i grassi saturi hanno un punto di fusione più alto: se non hanno piegature si impaccano molto meglio ed è più facile formare dei solidi. Grassi solidi sono per esempio il burro, il burro di cacao, l’olio di cocco e l’olio di palma, il sego, il lardo. Dunque ora sappiamo che i lipidi alimentari differiscono principalmente per la distribuzione di acidi grassi saturi,

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Sarebbe particolarmente complesso e noioso perdersi nella descrizione della geometria delle loro molecole; come ci insegna il professor Dario Bressanini è più facile farvi figurare l’acido grasso saturo come una catena lineare rigida a forma di bastoncello che può avere diverse lunghezze: mentre un monoinsaturo ha una singola piegatura, i polinsaturi invece ne hanno più di una. Questa caratteristica geometrica è alla base del fatto che se un grasso è liquido a temperatura ambiente allora ha una maggioranza di acidi grassi insaturi, (mono o poli). Quasi tutti i grassi vegetali (ma non proprio tutti) hanno questa caratteristica, mentre è più raro (ma ci sono) trovare dei grassi di origine animale con la medesima peculiarità, come per esempio l’olio di pesce o di crostacei.


monoinsaturi e polinsaturi. Queste differenze li rendono idonei a specifiche applicazioni nel campo delle tecnologie alimentari, della cosmetica, della nutrizione e ovviamente della medicina. Per quanto concerne la frittura sia livello casalingo, sia ristorativo che industriale, essa deve essere eseguita con oli di alta qualità in dispositivi idonei a controllare la temperatura, proprio perché quando il grasso comincia a sviluppare fumo, quest’ultimo può essere fonte di intossicazione acuta e cronica, perché oltre alla famigerata acroleina può contenere idrocarburi policiclici aromatici, ammine eterocicliche, formaldeide, acetaldeide, acrilamide.

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Le emissioni dal processo di frittura ad alta temperatura sono state classificate come “probabilmente cancerogene per l’uomo” (Gruppo 2a) dalla International Agency for Research on Cancer (IARC). Tra le altre cose sappiamo bene che anche gli oli esausti sono classificati come rifiuti speciali e devono essere smaltiti in maniera appropriata. Il punto di fumo, tra le altre cose, può essere variato da un uso eccessivo e ripetuto dello stesso olio consumato nelle fritture. Inoltre è una caratteristica del grasso che non dipende dalla distribuzione di acidi grassi contenuti in esso ma è determinata dalla quantità di acidi grassi liberi, ovvero dall’acidità del prodotto. Questo spiega come oli ricchi di acidi polinsaturi ma con una concentrazione di acidi liberi molto bassa, nonostante siano più suscettibili all’ossidazione, possano avere punti di fumo più alti di quelli composti prevalentemente da acidi monoinsaturi. Inoltre una miscela idonea di oli vegetali arricchita con opportuni additivi alimentari può dare origine a prodotti particolarmente performanti in termini di resa, come ad esempio il Friol che oltre ad essere arricchito con vitamina E (E306) presenta una percentuale di olio di silicone (E900). Quindi intervengono sul punto di fumo di un olio per frittura fattori quali: • agenti antipolimerizzanti (antiossidanti attivi sopra i 130 °C); • la presenza di dimetilpolisiloxani, additivo alimentare E900; • la presenza di acqua e micro componenti volatili: • la presenza di fosfolipidi (lecitine); • la presenza di eventuali residui di solventi di estrazione (esano utilizzato per estrazione di alcuni oli vegetali).

Olio vegetale

punto di fumo

Olio di palma

254°C

Olio di semi di girasole ad alto oleico

244°C

Olio di colza a basso erucico e alto oleico

240°C

Olio di semi di soia

240°C

Olio di semi di soia a basso linoleico

237°C

Olio di colza a basso erucico

236°C

Olio di mais

235°C

Olio di semi di cotone

232°C

Olio di palma alto oleico

230°C

Stearina dell'olio di palma

230°C

Olio di arachidi

230°C

Olio di soia idrogenato

230°C

Olio di riso

229°C

Olio di riso ad alzo orizanolo

222°C

Olio di semi di girasole a medio oleico

211°C

Olio di cocco

196°C

Grasso animale

punto di fumo

Burro chiarificato (Ghee)

252°C

Lardo

240°C

Sego

230°C


La frittura è un metodo di cottura rapido. Sappiamo bene che l’acqua portata ad ebollizione in condizioni standard bolle a 100°C: non c’è verso di superare questo limite a meno che non si vadano a modificare parametri di pressione. I grassi invece hanno temperature di ebollizione molto alte, teniamo conto che il normale olio d’oliva ha una temperatura di ebollizione di 300°C. Quando friggiamo, ovviamente non abbiamo la necessità di portare ad ebollizione il nostro olio, ma ci dobbiamo attestare stabilmente ad una temperatura compresa tra dai 160°C ed i 200°C (condizione ideale per ottenere la reazione di Maillard in base alla tipologia di olio utilizzato) e ci manteniamo sempre sotto la temperatura del punto di fumo. Ora. volendo contestualizzare in Italia la scelta del miglior olio per friggere, mi sento di consigliarvi come prima scelta un olio vergine/ extravergine d’oliva di cui dovete conoscere precisamente il livello di acidità, quindi con uno standard qualitativo elevato ma con un carattere molto soft, un fruttato leggero. La preferenza potrebbe ricadere su un olio ligure o su un Garda DOP; con caratteristiche simili ma ormai introvabile si potrebbe utilizzare un olio monocultivar di Cellina di Nardò.

Per quanto riguarda gli oli di semi/frutti oleosi è preferibile scegliere quelli con un elevato contenuto di acidi grassi saturi o monoinsaturi estratti con metodi esclusivamente meccanici ed evitare oli estratti mediante l’uso di solventi, quindi il range ragionevolmente si restringe quello di arachide e a quello di girasole alto oleico. Proprio per quanto detto, anche i grassi di origine animale (il sego, il lardo e il burro chiarificato) pur avendo costi elevati hanno performance piuttosto interessanti. Tirando le somme, possiamo dire che gli oli più adatti alla frittura devono essere: • resistenti alle alte temperature, quindi quelli ricchi di acidi grassi saturi o monoinsaturi (si preferisce generalmente utilizzare i grassi vegetali ricchi di monoinsaturi per questioni salutistiche); • a bassa acidità, ovvero oli integri dal punto di vista della struttura dei trigliceridi e con bassa percentuali di acidi grassi liberi; • estratti mediante pressatura piuttosto che mediante estrazione con solventi (esano). Spesso si legge di fritture senza olio, fritture non fritture e di friggitrici ad aria. Per me sono altri modi di definire una convettiva che non ha nulla a che fare con la frittura per immersione. L’unico modo che conosco per friggere senza grassi è la frittura in glucosio anidro, che utilizza un liquido altobollente che non è assolutamente un grasso ma una tipologia di glucosio in polvere ad elevata purezza: il destrosio. La frittura non frittura nel destrosio è un metodo di cottura che permette di ottenere un risultato per ovvie ragioni non unto e privo di grassi. Il glucosio in polvere è un ingrediente naturale, facilmente reperibile nei negozi specializzati di pasticceria o nelle farmacie. Esso fonde senza acqua a una temperatura di 160°C e non caramellizza fino ai 190°C quindi, nel range di tempo che il destrosio impiega a passare da una temperatura all’altra si innescano le reazioni di Maillard, le nostre care reazioni chimiche che avvengono a seguito dell’interazione tra zuccheri e proteine e che conferiscono ai cibi la classica crosticina croccante e profumata. Il glucosio, durante il processo di frittura, forma una sorta di “pellicola” trasparente, attraverso la quale penetra solo il calore, permettendo al cibo di restare assolutamente asciutto, croccante all’esterno e morbidissimo all’interno. Vi sembrerà assurdo ma è un tipo di frittura che si adatta bene sia alla cucina che alla pasticceria.

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Molti oli posso essere raffinati con metodi chimici e fisici al fine di migliorarne le caratteristiche; i processi di raffinazione più comuni, consentiti anche su oli “bio”, sono la neutralizzazione (eliminazione degli acidi grassi liberi), la decolorazione, deodorizzazione e la winterizzazione (eliminazione delle cere). Un’altra modificazione piuttosto famosa applicata agli oli vegetali a livello industriale è l’idrogenazione, ovvero la produzione di margarine, una categoria eterogenea di prodotti che in qualche modo riproduce le caratteristiche del burro. Proprio come quest’ultimo esse sono spesso emulsioni di grassi saturi con acqua ed emulsionanti, e non sono destinate alla frittura. Tuttavia idrogenare un grasso vegetale ricco di acidi grassi polinsaturi per alzare la quota di quelli saturi è una via furba per ottenere ancora nuovi lipidi con caratteristiche idonee alla frittura. La mutagenesi indotta sulle piante oleaginose ha dato origine a tutta una nuova schiera di mutanti, i quali producono di fatto oli con caratteristiche tecnologiche differenti dalle piante originali. La colza, la soia e il girasole sono stati mutati geneticamente con vari metodi e selezionati per produrre oli con basso contenuto di acidi saturi e polinsaturi, e una preponderanza di acidi grassi monoinsaturi: possiamo trovare infatti in commercio olio di soia, di colza e girasole del tipo “alto oleico”.


...in carrozza!

LE MOZZARELLE DI SPRINGFIELD

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“Provare è il primo passo verso il fallimento” Questa è una massima che Homer dice a Bart nel celebre film “I Simpson”, fatica cinematografica sull’iconica famiglia di Springfield che si inserisce in quasi 30 anni di serializzazione; periodo di tempo che ha reso Matt Groening il fumettista più famoso di sempre. Potranno piacere o meno, ma i Simpson sono sulle tv di mezzo mondo da una generazione a raccontare con ironia l’apatia e le contraddizioni del mondo moderno. Negli anni è successo di tutto a Homer e alla sua famiglia: ci hanno fatto ridere, piangere, riflettere, hanno pure predetto il futuro in molti casi. Personaggi famosi di ogni calibro si sono fatti in quattro per essere animati e per partecipare ai Simpson, e allo stesso modo i doppiatori nei vari paesi si sono contesi i ruoli chiave. Ricorderete ad esempio la puntata della diciassettesima stagione in cui Francesco Totti e Ilary Blasi doppiavano Buck Mitchell e Tabitha Vixx. I Simpson sono di fatto entranti nell’Olimpo del piccolo schermo, hanno fatto compagnia alle persone per tantissimo tempo e probabilmente - speriamo - la faranno ancora a lungo. Una delle caratteristiche più peculiari della serie è la caratterizzazione dei personaggi; tutti quelli che che interagiscono con la famiglia protagonista sono infatti delineati e disegnati con un’idea ben precisa. Tra i più iconici ricordiamo sicuramente Apu, immigrato indiano che gestisce un piccolo supermarket, oppure Willy il giardiniere con il suo accento sardo (scozzese, in lingua originale). Tra i personaggi più buffi è d’obbligo annoverare il commissario Clancy Winchester. Estremamente ignorante e pasticcione, anche se in diverse occasioni si è dimostrato coraggioso, Winchester ha rischiato più volte il licenziamento a causa della sua pigrizia e dei suoi insuccessi. Nonostante la totale mancanza di professionalità, tuttavia, odia che qualcuno – anche se è un superiore - gli metta i piedi in testa. Nella versione italiana il fantastico Angelo Maggi lo caratterizza con uno spiccato accento napoletano e con tutte le sfumature di questo dialetto. Con uno sforzo di fantasia sarebbe quindi possibile immaginare il commissario in panciolle sul golfo di Napoli mentre mangia delle ottime mozzarelle in carrozza, preparazione che abbiamo pensato di presentarvi in questo speciale fritti! Sarebbe proprio in linea col personaggio. Piatto tipico della tradizione culinaria partenopea, si pensa sia nato all’inizio dell’Ottocento come soluzione di recupero per non sprecare ingredienti non più freschi come il pane raffermo e le mozzarelle del giorno prima. Le origini del nome sono vaghe: l’ipotesi più accreditata vuole che derivi dalla particolare composizione del piatto. La mozzarella adagiata

su due fette di pane dorate ricorderebbe la forma di una carrozza, come a fare da cocchio al formaggio. Le altre ipotesi sull’origine del nome sono tutte molto simili e il concetto di carrozza e cocchio si ripropone frequentemente. Soprassedendo sull’origine poco chiara del nome una cosa è certa, è un piatto goloso e lussurioso. Per cui, come direbbe il commissario Winchester: “Uagliò appicciamm’ ‘stu fuoco!”

INGREDIENTI 6 persone

Pane bianco in cassetta (12 fette) 2 Mozzarelle di bufala campana DOP (preferibilmente preparate un paio di giorni prima, così da trovarle già “scariche” del siero in eccesso). 5 uova grandi 100 g di farina 00 300 g pangrattato Olio di semi di arachidi q.b. Sale q.b. Sal’s Seasoning - Mount Nimba Rub o in alternativa Sal’s Seasoning - Ancho Habanero Chili MEX


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PREPARAZIONE 1.

Affettate la mozzarella in fette di circa mezzo centimetro.

2.

Disponete su un tagliere la metà delle fette di pane e adagiate sopra le fettine di mozzarella. Cospargetele adesso con rub e sale e chiudete quindi il tutto con le fette di pane rimanenti.

3.

4.

028 - Almanacco 2021

5.

Pressate delicatamente con le mani i bordi in modo da compattare il tutto.

farina, poi nell’uovo e infine nel pangrattato. Terminata questa fase mettete il tutto in frigo per circa 30 minuti per rassodare 7.

Trascorsi i 30 minuti panate nuovamente il tutto passandolo nuovamente in uovo e pangrattato. Riponete nuovamente il tutto in frigo per un’altra mezz’ora.

8.

Nel frattempo mettete a scaldare l’olio per la frittura e portatelo a una temperatura compresa tra i 170°C e i 180°C.

9.

Friggete quindi le mozzarelle per circa 1-2 minuti fino a quando non avranno raggiunto un bel grado di doratura.

Rifilate adesso i bordi del pane in modo da eliminare la crosta in eccesso. Sbattete in un recipiente le uova e conditele con un po’ di sale e rub, preparate altri due recipienti,uno con la farina e uno con il pangrattato.

10. Mettetele a scolare dall’olio in eccesso e servite. 6.

Passate adesso i pezzi di pane farcito prima nella


IL SUPPLÌ ma che sorpresa se lo dividi a metà Supplì: già il nome induce una salivazione profonda, il ricordo scrocchiante della panatura sotto i denti, la polpetta che si sfalda in due parti ed il latticino filante a tenerla unita. Bollente, croccante, una pepita dorata e di inestimabile valore godereccio.

029 - BBQ4All Magazine

Il supplì è una tradizionale preparazione rustica tipica della città di Roma, che prende il nome dal termine francese surprise: secondo la leggenda i soldati d’Oltralpe, durante l’occupazione napoleonica di fine ‘700, avrebbero chiamato in questo modo la polpetta deliziosa, lasciando intendere che una volta morsa all'interno si celasse proprio una bella sorpresa, cioè la mozzarella filante. Per questo motivo, il nome per esteso è anche “supplì al telefono”, grazie al filo (da mangiare…).


030 - Almanacco 2021

Le prime tracce ufficiali di questa deliziosa polpetta risalgono al 1874, all’interno del menu della Trattoria della Lepre in via Condotti a Roma, locale peraltro frequentato dagli intellettuali e scrittori Nikolaj Gogol e Herman Melville. Il supplì fece il suo ufficiale “debutto in società” nel 1929, con l’apparizione sul libro della gastronoma e scrittrice Ada Boni “La cucina romana”. Originaria dell’alta borghesia della Capitale, Ada Boni non si sottrasse ad un lavoro certosino di trascrizione ed analisi delle ricette e della società di Roma. Un lavoro encomiabile, ad oggi ancora utilizzato. Quel boccone di riso, caldo, fritto e filante in origine nasceva come preparazione a buon mercato e quindi popolare, con tutta probabilità era anche un piatto di recupero. Com’era fatto il supplì prima di andare in Paradiso, tra interpretazioni e ri-edizioni? Tradizionalmente, il suo interno veniva inserito un sugo semplice realizzato con frattaglie di pollo e con funghi: materie prime povere e, al tempo, facilmente reperibili nei vari mercati. Al netto delle sopracitate interpretazioni storiche, ad oggi la versione del supplì classico comprende invece un ragù di carne di manzo ricco, elaborato, sostanzioso. Ciò che accomuna la versione classica con quella contemporanea è il cuore di mozzarella filante, che garantisce l’effetto sorpresa grazie al filo ottenuto “spaccando” la pepita in due. Questo fagottino va mangiato rigorosamente senza posate: non siate troppo schizzinosi, fa parte della goduria, del momento sacro dedicato al supplì. Non vi pentirete nemmeno per un secondo delle mani unte. Tenuto tra le mani, si addenta con un piccolo morso per svelare i piaceri interni: le cose belle e buone vanno morse ed assaporate con il dovuto rispetto. La mozzarella, inserita per tutta la lunghezza di questa piramide del piacere, farà il famoso “filo” nel momento in cui si andrà a staccare il morso, oppure dividendo in due il supplì per lasciar scappare via un po’ di vapori bollenti prima di addentarlo. SUPPLÌ VS ARANCINA: THE FINAL FIGHT (OPPURE NO?) In molti fanno l’errore di confondere questa deliziosa polpettina di riso con quella siciliana, l’arancina. In realtà le due preparazioni, pur essendo simili, presentano molte differenze: per esempio, il supplì è sempre formato da riso rosso ed è preparato con le uova, mentre l’arancina il più delle volte è preparata con l’aggiunta di zafferano, ha spesso un cuore di ragù e piselli ma esiste anche in versione “bianca”, con burro, formaggio e prosciutto. L’arancina manca di uova, quindi, ma anche della “sorpresa” della mozzarella che tanto caratterizza questo prodotto romano. Insomma: supplì ed arancina sono due cose molto differenti. Noi adoriamo entrambi: per non fare torto a nessuno dei due, avendo parlato dell’arancina qualche numero fa del Magazine, non possiamo esimerci dal fornirvi la ricetta del supplì. Ovviamente, una ricetta tutta nostra, che si poggia su basi classiche ma ha il carattere scientifico del Magazine Ci approcceremo alla preparazione utilizzando comunque le basi delle arancine scientifiche di Gianfranco Lo Cascio; useremo un riso cotto per assorbimento, un ragù scientifico , una panatura che preveda uno zabaione salato e un arricchimento di sapori dato dall’utilizzo dei Rub e degli Steak Booster. Procediamo. Attenzione a non salivare troppo.

INGREDIENTI circa 40 supplì

per il brodo vegetale 3 l di acqua 3 carote 2 coste di sedano 2 cipolle 2 foglie di alloro 2 bacche di ginepro 10 g di Sal’s Seasoning Montreal Steak Rub GLC Top Selection Grani di pepe nero a piacere per il riso 1 kg di Riso Roma 150 g di burro 2 l di brodo vegetale per il ragù scientifico (ma semplificato) 600 g di burger Blue Ox Usa Black Angus 1 l di brodo vegetale 300 g di salsa di pomodoro 370 g di triplo concentrato di pomodoro un bicchiere di vino rosso verdure del brodo vegetale (carota, sedano, cipolla) basilico q.b. olio extra vergine d’oliva q.b. sale e pepe nero q.b. Per lo zabaione salato 6 uova 100 g di Parmigiano Reggiano 150 g di pecorino romano Per il supplì il riso cotto 30 g di Rub Sal’s Seasoning Montreal Steak pan grattato q.b. olio di semi per friggere q,b 500 g di mozzarella a pasta compatta


PREPARAZIONE Preparate il brodo lasciando sobbollire tutti gli ingredienti e inserendo il rub in un infusore per tisane. Salate alla fine e filtrate, tenendo da parte le verdure.

2.

Rimandando all’articolo tecnico di Gianfranco Lo Cascio, sul BBQ4All Magazine di Ottobre 2020, ci soffermiamo solo sul procedimento per una corretta esecuzione. Utilizzate un rapporto 1:2 di riso sulla quantità di brodo. Portate a bollore il brodo, versate il riso, coprite con un coperchio e cuocete a fiamma bassa.

3.

Quando il riso avrà assorbito tutto il liquido, toglietelo dalla fiamma e inglobate il burro, mantecando il tutto.

4.

Abbattete il riso, per fermare la cottura, versandolo in una teglia precedentemente raffreddata in congelatore o nel frigorifero e rivestita di carta forno. Livellate e lasciate asciugare per bene i chicchi di riso. Trasferite in frigorifero, per 4 o più ore sino all’utilizzo (non superate le 12 ore).

5.

Rispetto alla versione del ragù scientifico semplificato dedicato alle arancine, per il supplì avrete bisogno di un sugo più semplice. Tenendo comunque valide le basi scientifiche del ragù di

Lo Cascio, operate come segue: sgranate i burger in una teglia foderata di carta forno e lievemente unta. Impostate il forno sulla funzione grill a 230°C con teglia sul piano centrale e sportello leggermente aperto, per favorire la fuoriuscita dell’umidità. 6.

Appena si formerà la reazione di Maillard, provvedete a girare e far rosolare l’altro lato della carne senza eccedere nell’essiccazione.

7.

Mettete sul fuoco una pentola dal fondo spesso, sminuzzate le verdure precedentemente lessate nel brodo e fate rosolare con un filo d’olio a fiamma alta. Deglassate con il vino rosso e dealcolizzate sino ad evaporazione.

8.

Unite il triplo concentrato, diluite con il brodo e inserite in ultimo la passata di pomodoro. Aggiungete i sapori, salate e pepate. Fate cuocere con coperchio a fiamma bassa, per circa 4 ore, controllando ogni tanto e spegnendo quando l’acqua sarà consumata.

9.

A fine cottura, inserite la carne sgranata dei burger che avete prima cauterizzato in forno.

10. Nella ricetta tradizionale, l’utilizzo dell’uovo è inserito sia nell’amalgama del riso col sugo, sia

031 - BBQ4All Magazine

1.


in panatura. Quindi distaccandoci leggermente dal tradizionale, abbiamo pensato ad uno zabaione salato sia nel riso che nella panatura. Provvedete a creare uno zabaione salato, denaturando le proteine dell’uovo con una frusta. Create due zabaioni con porzioni diverse. Uno per il riso e uno per la panatura. Lo zabaione per il riso va così composto: 3 uova, 100 g di pecorino romano e 80 g di Parmigiano Reggiano. Con la frusta mescolate bene sino ad ottenere un composto omogeneo. Lo zabaione per la panatura, invece è fatto con: 3 uova, 50 g di pecorino romano e 20 g di Parmigiano, pangrattato quanto basta. 11. Assemblaggio del supplì: siamo giunti al dunque. Occupatevi fin da subito della mozzarella, che dovrà essere tagliata a tocchetti e fatta sgocciolare bene per essere il più asciutta possibile. Vi consigliamo una mozzarella a pasta compatta. Prendetene almeno 500 g del meglio che trovate. 12. Prendete il sugo, ormai raffreddato, e unitelo al riso, sino ad ottenere un composto cremoso, compatto, ma non liquido. Inserite la porzione dello zabaione salato preparato per il riso. Amalgamate il tutto per ottenere un composto malleabile e compatto. 13. Ora con l’aiuto di un cucchiaio prendete una porzione di riso, adagiatela sulle mani e allargandola, inserite al centro un pezzo di mozzarella. Chiudete e, arrotolando tra le mani, date una forma allungata e stondata agli estremi. Adagiate su una teglia rivestita di carta da forno e procedete alla formatura di tutti i supplì. 14. Lasciateli in frigo per mezz'ora, prima di procedere con la panatura, per dare nuova compattezza e ridurre la temperatura delle nostre polpettine che si sono riscaldate durante la manipolazione. 15. Prendete a questo punto due contenitori rettangolari e bassi. In uno versate lo zabaione salato e nell’altro il pangrattato. In quest’ultimo inserite il rub Sal’s Seasoning per aggiungere sapore alla panatura. 16. Tirate fuori dal frigo i supplì e passateli prima nello zabaione salato e successivamente nel pangrattato aromatizzato. Formate tutte le polpette e poi lasciatele raffreddare in frigo per qualche ora. 17. Scaldate l’olio sui 180°C e quando i supplì saranno ben freddi, immergeteli non più di un paio la volta per evitare sbalzi termici dell’olio che comprometterebbero la panatura e farebbero assorbire troppo olio alla nostra crocchetta di riso.

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18. Cuocete sino a doratura e scolate su carta assorbente. Un consiglio: essendo in numero così elevato, potete tenerli in frigo per tre giorni crudi (ma già impanati) o per due giorni da cotti. Altrimenti potete formarli e congelarli per averli pronti alla prima occasione. Per quanto riguarda la conservazione su lungo periodo, in congelatore durano fino a sei mesi.


CHE SPAGHETTO!

Con latte di aringa affumicata e peperoni cruschi.

Il peperone crusco è un derivato della coltivazione di un particolare frutto lucano, il peperone di Senise IGP, che è poi sottoposto a essiccazione. Il nome è dato dalla croccantezza inconfondibile che questi ortaggi assumono quando sono poi fritti dopo la fase di essiccatura. Come dicevamo, viene coltivato nell’area di Senise, un comune che si trova alle pendici del Parco Nazionale del Pollino in provincia di Potenza. E’un peperone piccolo e dalla forma allungata che potrebbe essere scambiato per un peperoncino piccante molto più grande, anche grazie al su colore rosso intenso. Ma non fatevi ingannare dal quel fuoco apparente, visto che in realtà questo frutto ha decisamente un sapore dolce. Dato che contiene poca acqua, è particolarmente adatto all’essiccazione. La semina del peperone di Senise comincia in primavera, mentre il raccolto avviene intorno al 10 agosto, per San Lorenzo. Dopo la raccolta i peperoni vengono conservati in reti o teli stoccati in luoghi bui e asciutti per garantire la corretta conservazione. Una volta trascorsi tre giorni si comincia con la produzione della serta, (la ‘nzerta) ovverosia una treccia treccia confezionata con ago e filo in cui i peperoni vengono insertati, poi cuciti con ago e spago, infine lasciati essiccare all' aria. Le trecce di solito vengono confezionate in formati da 250g/40cm e 500g/80cm. Esse sono poi appese per la fase di essiccazione che dura fino a quando la percentuale di acqua rimasta nel peperone di Senise arriva intorno al 10%. La lavorazione artigianale del peperone di Senise prevede che l’essiccazione venga fatta solo a opera di aria e sole, anche se il disciplinare dell’IGP permette un passaggio in forno durante la produzione.

Il peperone crusco fritto poi dovrà essere scolato su carta assorbente dall’eccesso di olio e poi spezzato a metà per sentire il suo suono inconfondibile. Ottimo da sbriciolare nelle farciture, è perfetto anche nel condimento per la pasta, per esempio in un buon piatto di orecchiette. Noi lo abbiamo utilizzato per questi deliziosi spaghettoni con latte di aringa: un risultato spettacolare che vi invitiamo a provare prima di subito, se riuscite a reperire o a rubare a qualche amico il peperone crusco, cosa non proprio facile in questo periodo.

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I peperoni cruschi sono conservati in barattoli di vetro o sacchetti di carta. Tradizionalmente, sono anche appesi in cucina. Una volta che vi siete aggiudicati la vostra scorta, o ve la siete fatta portare dal vostro amico che va in vacanza ogni anno in Basilicata, è il momento di aggiungere i peperoni cruschi nelle vostre ricette. La prima cosa da tenere a mente quando parliamo di peperone crusco è che non deve mai essere lavato. Per pulirlo basta un panno asciutto. Una volta che il delizioso frutto essiccato crusco sarà pronto, dovrà essere fritto nell’olio bollente, che lo farà gonfiare e che gli permetterà di mantenere tutta la sua croccantezza.


PREPARAZIONE

INGREDIENTI 4 persone

1.

Per prima cosa preparate il latte di aringa affumicata. 12 ore prima di utilizzarla, deliscate l’aringa e mettetela a bagno nel latte per dissalarla. In una pentola capiente rosolate la cipolla tagliata à la julienne fino a che non avrà preso un bel colore ramato. Aggiungete la lisca tagliata in pezzi. I filetti andranno inseriti nella fase di mantecatura.

2.

Coprite il tutto con il latte, aggiungete l’alloro e il ginepro e fate sobbollire fino alla riduzione di 3/4. Da un litro di latte iniziale si dovrà arrivare a circa 250 g di riduzione finita.

3.

Pulite con un panno asciutto i peperoni cruschi da eventuali residui di polvere e terra accumulati durante l’asciugatura, privateli dei semi e friggerli in abbondante olio extravergine d’oliva per due tre secondi al massimo. Aiutatevi con una schiumarola. Dovranno prendere un colore lucido e vivo. Scolateli e teneteli da parte fino al momento del servizio. All’inizio sembreranno poco croccanti, col tempo e col raffreddamento lo saranno sempre di più.

4.

Una volta pronta la riduzione, filtratela con un colino a maglie sottilissime in un saltapasta sufficientemente grande.

5.

Cuocete la pasta in acqua poco salata, unitela gli ultimi due minuti di cottura alla riduzione in maniera tale da legare bene il sugo e farla insaporire. A fuoco spento, mantecate con burro, qualche goccia di limone, la scorza del bergamotto e i filetti di aringa tagliati in piccoli cubetti.

6.

Su ogni piatto sbriciolare un peperone crusco e servite subito gli spaghettoni.

400 g spaghettoni di Gragnano un’aringa affumicata 1 litro di latte intero 4 bacche di ginepro una foglia di alloro 1/2 cipolla dorata un bergamotto succo di limone q.b. 20g burro 4 peperoni cruschi olio extravergine di oliva q.b. sale q.b.

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pepe nero q.b.


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Toglietemi tutto, ma non le mie

POLPETTE FRITTE

Come sostiene il buon Artusi, nel suo ormai stracitato anche su queste pagine “La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene”, fare le polpette è una cosa talmente facile “... che tutti lo sanno fare cominciando dal ciuco”. Aggiunge Artusi che la polpetta, definita da Vincenzo Tanara, storico e appassionato di cucina, “la regina delle vivande” non è un’invenzione moderna. Il nome, dal latino pulpa, si rifà proprio alla polpa di ciccia di cui è composta. Ma c’è chi sostiene invece che la radice latina riconduca al verbo palpare: ovvero proprio il gesto che si fa quando si massaggia la carne, prima tritata e poi condita, per formare le pepite gustose; attenzione, non dovrebbero essere perfettamente sferiche, sostiene Pellegrino, ma leggermente schiacciate ai poli. Ma di fatto quando sarebbe nata la polpetta? La risposta è la stessa di tante altre volte: non lo sappiamo con certezza. Ne parla Apicio (I secolo d.C.) nel suo De re coquinaria, dove la nostra beneamata viene chiamata isicia. Nel 1400 Martino da Como nel suo De Arte Coquinaria spiega come crearla da un taglio di carne magra. Cristoforo di Messisbugo (1549) le propone, tra le altre versioni, fritte. Bartolomeo Scappi (1570), cuoco di Papa Pio VI, dedica un intero libro alla nostra pallina, Per far polpette e polpettoni alla carne, che finalmente

sposta questa preparazione da piatto prettamente popolare a ricetta più raffinata. LE POLPETTE DI RENZO Nel settimo capitolo del romanzo I Promessi Sposi (prima edizione, 1827) Manzoni fa entrare Renzo in una taverna, con due amici, e gli fa chiedere un piatto di polpette. L'oste gli dice “E ora vi porterò un piatto di polpette, che le simili non le avete mai mangiate”, così buone “che farebbero resuscitare un morto”. La cosa, come molte volte accade nel mondo della

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Probabilmente nei prossimi mesi dedicheremo un intero numero a queste pepite di ciccia (e non solo) che possono essere cucinate in mille più uno modi diversi, ma in uno speciale tutto fritto, certo non potevano mancare. Sto parlando delle polpette… fritte of course, patrimonio dell’umanità.


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letteratura, ha portato gli studiosi a interrogarsi su quale fosse la reale ricetta preparata dall’oste. Secondo La grande enciclopedia illustrata della gastronomia (2000) la polpetta è di uso antichissimo in Italia, ed è divisa in due tipi: quella preparata con ingredienti crudi e quella con gli ingredienti cotti. Il secondo tipo veniva detto "dei poveri" perché realizzato con gli avanzi. La tipica ricetta toscana delle polpette, ad esempio, raccomanda carne cotta e pane raffermo. Tuttavia, e qui torniamo alla questione del piatto consumato da Renzo, contrariamente al resto d'Italia nell'800 a Milano per polpette non si intendevano palline fatte con carne o verdura tritate, ma degli involtini. Di conseguenza, la domanda è lecita: cosa ha preparato l’oste? Delle vere polpette o degli involtini? Tutto farebbe pensare alla prima ipotesi, anche considerando quanto Manzoni andasse pazzo per le polpette milanesi, che venivano indentificate col nome di Mondeghili, fatte con carne cotta e l’aggiunta di mortadella e di salame. Pare che la madre Giulia Beccaria gli abbia domandato come mai avesse scelto quel piatto per il suo romanzo e che Alessandro abbia risposto: “me le avete fatte mangiate così spesso che ho pensato di farle assaggiare anche ai personaggi del mio romanzo”. D’altronde nel 1939 Giovanni Riaberti in L’arte di convitare afferma senza indugio: “Le polpette sono una vivanda affatto (del tutto n.d.r.) italiana, anzi direi esclusivamente lombarda. La vera metropoli delle polpette è Milano” PATRIMONIO NAZIONALE Piatto lombardo, dunque? Direi che ormai potremmo ritenerla ormai una preparazione rappresentativa della nostra intera ed amata Nazione, come sostengono Daniela Brancati e Daniela Carlà in Polpettology Storia, filosofia e ricette della polpetta. Teoria e pratica del cibo più amato al mondo (2018): “La polpetta è apparentemente disordinata, caotica, anarchica come noi italiani. È lasciata all’intuizione dell’ultimo momento, non chiede procedure, protocolli e pesate di precisione. Ma è anche cura del dettaglio, amore per l’estetica e manualità”. Certamente le pepite gustose si possono cucinare in molti modi, ma sempre secondo La grande enciclopedia illustrata della gastronomia noi italiani le preferiamo fritte. Ed infatti noi le abbiamo preparate proprio così, scegliendo come carne trita i nostri hamburger. Per il resto, la procedura è molto classica e il risultato è spettacolare. Proviamo subito a replicarle. Anche in questo caso è giusto avvisarvi: non fatene poche, perché appena portate in tavola spariranno in un batter d’occhio e voi potreste rimanere senza.

INGREDIENTI 4 persone

500 g di Burger Blue Ox USA Black Angus 2 uova 80 g di Grana Padano DOP da grattugiare prezzemolo q.b. uno spicchio d’aglio sale e pepe q.b. 150 g di mortadella 100 g di salsiccia noce moscata q.b. farina q.b. pangrattato q.b. olio di semi di arachide q.b.

PREPARAZIONE 1.

In una ciotola capiente lavorate bene gli hamburger insieme al prezzemolo e allo spicchio d’aglio tritati finemente, la salsiccia, la mortadella anch’essa ben tritata, la noce moscata, meta del Grana Padano grattugiato, un uovo, il sale e il pepe.

2.

Mescolate il composto amalgamando bene tutti gli ingredienti, poi formate delle palline non troppo grandi.

3.

Una volta realizzate tutte le polpette, sbattete un uovo con un pizzico di sale, mescolate il pangrattato al rimanente Grana Padano, poi passate le palline prima nella farina, successivamente nell’uovo e infine nel pangrattato.

4.

Mettete le polpette così preparate a riposare nel frigo per un’oretta, poi scaldate abbondante olio a una temperatura compresa tra i 165°C e i 185°C e friggete le polpette per qualche minuto finché non saranno ben dorate.

5.

Scolatele bene su in foglio di carta assorbente e servitele subito, caldissime e croccanti, accompagnandole con una o più salse in cui pucciarle.


CORN DOG

a spasso con il cane...di mais! RIABILITIAMO I WÜRSTEL!

Bistrattato, maltrattato e insultato. Cosa mai vi avrà fatto il würstel per essere associato al male assoluto? Dopotutto si tratta pur sempre di ciccia: e, se fatto bene, vi regalerà godimento di certo livello. Lasciamo da parte le battute volgari e concentriamoci su ciò che è il nostro sporco e godurioso lavoro: solitamente si tende a riconoscere in questo prodotto un surrogato di carne, realizzato con rimanenze di tagli, all’interno del quale si vanno ad aggiungere le cose peggiori. Colpa dei prodotti industriali, della massificazione e di un certo tipo di GDO che ha contribuito ad immettere sul mercato prodotti di scarsa qualità, ottenuti da carni separate meccanicamente (quindi, non primi tagli ma spesso residui attaccati alle carcasse).

In passato, sul vecchio BBQ4All Magazine, abbiamo già parlato di questo prodotto e di come la lavorazione industriale lo abbia reso così malvisto dai consumatori (che hanno ragione, in effetti). Oggi invece vogliamo parlarvi dei nostri würstel, quelli che potete trovare sul Megastore: i Franks Würst Blue. Si tratta di prodotti manzosi (se ci è permesso creare un neologismo, questo è bellissimo!) e fatti con criterio, che sanno di carne vera e fanno venire voglia di far festa ad ogni occasione. Quelli che con sicurezza potete dare ai vostri figli. Sono realizzati all beef, con sola carne di manzo di Black Angus, a differenza dei classici Frankwürst formati invece da un misto di manzo e maiale. i Franks Blue Ox della linea GLC Top Selection vengono prodotti con una tecnica artigianale e riprendono il gusto tipico che tanto piace agli americani. Altra particolarità di questo prodotto è l’affumicatura ottenuta senza alcun ingrediente aggiunto e con un sistema tradizionale in forno affumicatore. Il tutto è racchiuso in un

INGREDIENTI 4 corn dog

100 g di farina 00 125 g di farina di mais 5 g di lievito istantaneo per salati 10 g Sal’s Seasoning Smoky Chipotle Chili 10 g Sal’s Seasoning Ancho Habanero Chili Mex 10 g Sal’s Seasoning Dallas Mild Rub 10 g Sal’s Seasoning Tennessee Mild Dry Rub 2 uova un tuorlo 200 ml latte 5 g sale 1 l olio di semi di arachide

039 - BBQ4All Magazine

In realtà in passato non era così. Questo prodotto veniva realizzato già nel lontano ‘400, solo con carni pure di elevata qualità. Le sue radici sono da ricercare in alcuni Stati della Germania, dove ad oggi vi è ancora un culto di questo salsicciotto, soprattutto in Baviera e a Monaco; più in generale, l’abitudine di conservare così alcune carni era molto diffusa non solo nel Sud della Germania ma anche in Austria e fino all’Italia del Tirolo. Perché nacque il würstel? Veniva creato per non sprecare niente del maiale e per affrontare i duri inverni bavaresi con qualcosa di altamente proteico e semplice da conservare. Guai a chi provasse a sbagliare l’esecuzione del würstel: infatti, l’ammenda per l’incauto lavoratore poteva essere un intero giorno di salario. Nel tempo questo salsicciotto prese diversi nomi a seconda del luogo di provenienza. Il suo nome originale però è Frankwürst, che deriva da würst (salsiccia, insaccato) e Frank come abbreviazione di Francoforte. Da qui, e poi nata un’infinità di tipologie, sino ai giorni nostri e ai prodotti commerciali che tutti noi conosciamo.


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I corn dog sono deliziosi wurstel da passeggio infilzati su uno stecchino di legno, avvolti da una croccante pastella e conditi con tutti i gusti di salse più uno! Furono gli emigrati tedeschi con base in Texas a ideare il concetto di corn dog, creando una versione del salsicciotto pastellato e fritto, più o meno negli anni ‘20 del Novecento. Stiamo dunque parlando di un classico esempio di street food, uno dei più famosi. Laido e corrotto quanto basta, è già supergoloso se si utilizza un würstel di scarsa qualità, visto che siamo discepoli del famoso famoso detto basta sia fritto, poi è tutto buono. Immaginate dunque cosa potrà succedere usando un prodotto di alta gamma. Vi occorrono dunque degli stecchini di legno lunghi, una consistente pastella fatta di farina di mais e qualche salsa di accompagnamento. Rispetto alla versione classica, arricchiremo la panatura con i fantastici Rub della linea Sal’s Seasoning GLC Top Selection, in versione classica e in versione Hot. Vediamo come procedere.

PREPARAZIONE 1.

Realizzate la pastella base: mescolate la farina 00 e la farina di mais in un recipiente e unite le restanti polveri (sale, lievito), esclusi i rub che utilizzerete in seguito. Miscelate per bene.

2.

Aggiungete l’uovo e il latte, e iniziate ad amalgamare il composto con una frusta sino ad ottenere una pastella non troppo densa e omogenea. Dividete e versate in 4 parti, la vostra pastella in contenitori cilindrici stretti e alti.

3.

In ognuna di esse, aggiungete un rub per ottenere 4 pastelle di sapori differenti.

4.

Scaldate l’olio ad una temperatura di 180° C, in una pentola dai bordi alti che contenga gli spiedi. L’ideale sarebbe l’asparagiera per la cottura degli asparagi al vapore.

5.

Immergete gli spiedi nella pastella e tirate su velocemente, capovolgendoli. Una volta ricoperti i Franks con la pastella, friggete in abbondante olio.

6.

Cuocete sino a doratura e tirate fuori quando saliranno a galla.

7.

Lasciate asciugare qualche secondo su un foglio di carta assorbente e servite.

I vostri bambini li ameranno. Per loro potete realizzare la versione con i rub classici, per voi che reggete meglio il piccante e i sapori più decisi, potete fare quelli con rub più hot. Sarà fantastico abbinare ad ogni tipologia di rub una salsa giusta. Noi vi consigliamo i seguenti abbinamenti: Sal’s Seasoning Tennessee Mild Dry Rub con la salsa Barbecue, Sal’s Seasoning Dallas Mild Rub con la Honey Ginger Mustard, Sal’s Seasoning Smoky Chipotle Chili con la Big Bob Gibson’s Sauce e Sal’s Seasoning Ancho Habanero Chili Mex con il Ketchup della ricetta scientifica di Gianfranco Lo Cascio. Ovviamente potete fare tutti gli abbinamenti che desiderate, oltre a queste. Alla fine quello che più vi rimarrà sarà il sapore manzoso e godurioso di un corn dog veramente buono! 041 - BBQ4All Magazine

budello naturale. Vi parliamo di questi salsicciotti eccezionali perché sono in assoluto i migliori che possiate trovare sul mercato e perché, avendoli provati per fare i corn dog (lett. cane di mais) volevamo condividere con voi il fantastico risultato. E poi sì, anche per farci pubblicità: ma non ci accuserete, perché sono F-A-N-T-A-S-T-I-C-I. E lo capirete da soli.


042 - Almanacco 2021


L'isdeiola

er parlare del carciofo, benedettissimo fiore ancora in tubero, inizio da un racconto di storia recente in cui sicuramente vi ritroverete. Parliamo di streaming: benedetto sia lo streaming, ché ha sì seppellito Blockbuster, ma ci ha evitato fatiche inenarrabili come a) toglierci le ciabatte per andare al videonoleggio più vicino b) ci ha permesso di poter scegliere liberamente senza doverci accontentare degli obblighi imposti dal palinsesto tv, sempre più scarno, ripetitivo e di bassa qualità. Tra queste piattaforme di streaming, primeggia di sicuro Netflix: grazie al suo parco video, abbiamo praticamente sempre a disposizione serie tv e film per ogni genere e gusto. E ora arriviamo finalmente al carciofo, grazie ad un bel titolo presente proprio su Netflix che ce lo pone come co-protagonista: sto parlando del film L’isola delle rose. Diretto da Sydney Sibilia, traspone in versione cinematografica la vera storia della nascita di una micronazione al largo delle coste romagnole. Vi raccontiamo in breve la trama: sul finire degli anni ’60 il neo ingegnere Giorgio Rosa deve decidere cosa fare della sua vita e del suo futuro, ma si sente insoddisfatto per come la vita gli si sta delineando davanti. Il rifiuto della donna amata è l’incipit per rivoluzionare la sua esistenza: decide così insieme a un amico di creare uno Stato tutto suo dove potersi esprimere in libertà. Dotato di determinazione e forza d’animo e con il valido aiuto del suo amico, egli realizza una piattaforma al largo delle coste romagnole, in acque internazionali. Dopo avere accolto un naufrago, un apolide e una ragazza cacciata da casa, i protagonisti trasformano la piattaforma in uno spazio in cui vengono organizzati eventi e la rendono una

sorta di discoteca in mezzo al mare. Le cose però non soddisfano il giovane ingegnere che vede la sua creazione trasformata in una semplice discoteca della riviera. Decide quindi di portare il suo caso di fronte la Nazioni Unite e farsi riconoscere ufficialmente come stato indipendente. Il resto della storia a questo punto preferiamo non raccontarvela qualora non aveste ancora visto il film. L’isola della Rose rappresenta un caso unico nel suo genere: aveva tutto, una sua lingua (l’esperanto, lingua nata per essere “universale” sul finire dell’Ottocento ma scarsamente adottata in seguito), una sua moneta, un governo e perfino un servizio postale! Arrivati qui, direte voi: e il carciofo? Lo ritroviamo sotto le spoglie del Cynar, l’unico alcolico ammesso sull’isola. Immaginate: se volete sbronzarvi, l’unica possibilità è data da un liquore al carciofo! L’amaro al carciofo celebre per la sua versatilità e il suo gusto! Ormai è difficile trovare il Cynar nei locali più trendy, ma magari se cercate bene nella cantinetta dei nonni forse c’è ancora una bottiglia a impolverarsi da qualche decennio. Ci sono anche quelli “paralleli” venduti al discount dall’altisonante nome di… Carciofo. Questo amaro spopolò nel dopoguerra, e fece la fortuna del suo creatore, Angelo Dalle Molle. Il successo, oltre che per il gusto, è sicuramente da attribuire alla scelta del principale ingrediente, il carciofo. Veniamo ora al dunque: cos’è veramente il carciofo? Si tratta di una pianta erbacea perenne alta fino a 1,5 metri, le cui foglie presentano uno spiccato polimorfismo, originaria del bacino del Mediterraneo; l’Italia ne è ancora oggi tra i più grandi produttori a livello mondiale.

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P

carciofi

carciofi fritti in quattro modi


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La coltivazione del carciofo è largamente diffusa in Sicilia, in Sardegna, in Puglia, in Campania, in Lazio e in Toscana ed esistono decine di varietà che si differiscono per diversi aspetti. Possiamo infatti avere carciofi con spine o senza, viola o verdi, autunnali o primaverili. Districarsi tra tutte queste opzioni non è cosa semplice e fare un elenco sarebbe onestamente noioso, per cui ci limitiamo a ricordare quattro varietà, una DOP e tre IGP, molto importanti nell’economia del nostro Paese: 1. Carciofo spinoso di Sardegna (DOP): cima violetta, foglie carnose, consistenza croccante, cuore tenero, sapore lievemente amaro. 2. Carciofo romanesco del Lazio (IGP): chiamato anche cimarolo o mammola, senza spine, abbastanza grosso, compatto, tenero e versatile. 3. Carciofo tondo di Paestum (IGP): compatto, tondeggiante, senza spine e dal sapore delicato. 4. Carciofo brindisino (IGP): tenero, dolce, saporito e carnoso, dalle foglie verdi con sfumature violette. Oltre a queste, è bene menzionare anche il Carciofo spinoso di Menfi, siciliano, croccante e dal gusto delicato (anche se un po’ difficoltoso da pulire per via delle spine), il Carciofo di Montelupone, che invece non ha spine e non ha peli, ed è molto saporito, il veneziano Carciofo di Sant’Erasmo e lo Spinoso di Albenga entrambi particolarmente adatti ai fritti. Molto amati anche dalle popolazioni elleniche e anche nell’antica Roma, i carciofi si prestano a tante preparazioni: bolliti o al vapore, in umido, in padella, al forno e, soprattutto, fritti. Dato che questo numero è proprio dedicato alle fritture, vi vogliamo presentare tre ricette tradizionali in cui questo versatile ortaggio viene preparato esattamente così. Anche noi fondiamo la nostra Isola e, al posto del Cynar, serviamo solo carciofi fritti!


CARCIOFO ALLA GIUDIA Ingredienti per 4 persone: 4 carciofi romaneschi (mammola o cimarolo)/ un limone/ sale q.b/ pepe q.b/ olio extravergine di oliva q.b. Preparazione: In un’ampia ciotola mettete acqua a temperatura ambiente, il succo di limone e quel che resta dell’agrume una volta spremuto. 2. Con un coltellino pulite i carciofi. Eliminate le foglie esterne, successivamente rimuovete le cime eliminando la parte della punta. 3. Procedete poi pulendo il gambo e tagliatene la parte più dura in eccesso. Conservate almeno 5 cm di gambo. 4. Terminata la pulizia immergete i carciofi nella ciotola con acqua e limone per evitare che si ossidino. Lasciateli in acqua per circa 30 minuti. 5. Togliete i carciofi dall’acqua e asciugateli. Aiutandovi con un tagliere battete i carciofi su di esso in modo da aprire al meglio il fiore. 6. Scaldate nel frattempo l’olio in un capiente tegame, se usate un olio d’oliva la temperatura non deve superare i 150°C. Se invece avete optato per un altro tipo di olio potete salire un po’ di più (tra i 160°C e i 180°C), cercate però di non raggiungere temperature troppo alte. 7. Immergete quindi i carciofi (gambo compreso) nell’olio per circa 10-15 minuti. 8. Metteteli poi a scolare su un foglio di carta assorbente e lasciate che si raffreddino. 9. Una volta raffreddati, aiutandovi con una forchetta, aprite delicatamente i carciofi (come un fiore che sboccia). Salate e pepate. 10. Friggete nuovamente i carciofi, questa volta a una temperatura di circa 180°C. Ponete particolare attenzione perché in questa fase è più facile che si brucino. 11. Una volta cotti fate scolare l’olio in eccesso su carta assorbente. 12. Prima di servire conditeli nuovamente con sale e pepe a piacimento.

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CARCIOFO DI SANT'ERASMO FRITTO

Ingredienti per 4 persone: 12 carciofi di Sant’Erasmo/ 2 uova/ un limone/ farina q.b./ sale q.b./ pepe q.b./ olio di semi di arachide q.b. Preparazione: 1. 2.

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Anche in questo caso preparate un’ampia ciotola con acqua acidulata. Pulite i carciofi dalle foglie esterne ed eliminate quasi completamente il gambo. Poi dividete i carciofi in 4 spicchi. Infarinate ora i carciofi prestando attenzione a coprirli per bene. Sbattete le uova con abbondante sale, e immergetevi gli spicchi di carciofo infarinati. In una casseruola portate l’olio a una temperatura di circa 180°C. Friggete i carciofi fino a una perfetta doratura. Scolate l’olio in eccesso utilizzando un foglio carta assorbente e quindi condite con il sale e un po’ di pepe se lo gradite.


IL CARCIOFO SPINOSO DI ALBENGA IMPANATO Ingredienti per 4 persone: 6 carciofi spinosi di Albenga/ 2 uova/ pangrattato q.b./ farina q.b./ un limone/ sale q.b./ pepe q.b./ olio di semi di arachide q.b. Preparazione:

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Pulite i carciofi, assottigliando il gambo e togliendo le foglie esterne più dure. Tagliare la parte sommitale, dividete in due e con uno scavino pulire il cuore dalla peluria (barba). Infine tagliateli a fette di circa mezzo cm, lavateli e mettete in acqua acidulata per mezz’ora circa. Trascorso questo tempo scolarli e asciugarli bene. Sbattete le uova con un po’ di sale immergete quindi i carciofi nell’uovo dopo averli passati nella farina, e infine impanateli nel pangrattato. Scaldare l’olio a circa 180°C/190°C e una volta raggiunta la temperatura immergete i carciofi poco alla volta per non fare raffreddare l’olio. Una volta dorati scolateli dall’olio in eccesso utilizzando un foglio di carta assorbente. Aggiustate di sale e pepe e servite.

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IL CARCIOFO SPINOSO DI MENFI IN PASTELLA Ingredienti per 4 persone: 6 carciofi spinosi di Menfi/ 2 uova/ 50 g di Parmigiano Reggiano grattugiato/ 40 g di farina/ un limone/ sale q.b./ pepe q.b./ olio extravergine di oliva q.b. Preparazione: 1.

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In una ciotola unite le uova, il formaggio e la farina. Sbattete tutto insieme e aggiungete un pizzico di sale e di pepe. Nel frattempo, pulite i carciofi eliminando la parte esterna e le punte spinose. Rimuovete i gambi e pelateli. Dividete quindi in 4 spicchi il carciofo e in 2 i gambi. Immergete quindi il tutto in acqua acidulata per circa mezz’ora. Sgocciolate quindi i carciofi e lessateli in acqua salata per 5 minuti. Nel frattempo scaldate l’olio a una temperatura di circa 160°C/170°C. Scolate i carciofi dopo averli lessati e asciugateli con cura. Passateli quindi nella pastella e infine friggeteli fino a perfetta doratura. Una volta dorati scolateli dall’olio in eccesso utilizzando un foglio di carta assorbente. Aggiustate di sale e pepe e servite.


Una preparazione leggendaria. Se negli anni ruggenti dei cibi prefritti e preconfezionati la sua fama era legata per di più all’alta presenza di sale, conservanti, di carni separate meccanicamente (cioè separate grazie all’ausilio di speciali macchinari direttamente dalle carcasse), il cordon bleu vanta una storia ben più lunga e gloriosa. Alzi la mano colui o colei che resiste nella salivazione impetuosa, pensando ad una succulenta cotoletta di carne impanata e ripiena di formaggio fuso e prosciutto cotto, sua composizione originale. Negli anni, poi, la ricetta si è trasformata fino a includere versioni dai ripieni più disparati. Ma da dove deriva l’idea di racchiudere uno scrigno cremoso in due fette di carne per poi panarle e friggerle? Come anticipato sopra, il cordon bleu vanta una storia gloriosa e ricca di misteri e leggende: come ogni cibo che ha attraversato i secoli fino a noi, insomma. Scopriamo insieme per quale motivo si chiama così e qual è la storia - vera o presunta - di questo piatto libidinoso. Il nome cordon bleu in francese significa letteralmente cordone azzurro. Strano per un alimento che di azzurro ha ben poco; le ipotesi etimologiche sono molte, così come i racconti popolari che riguardano questo piatto. Ci limiteremo a citare le due ipotesi più probabili. Secondo la storia della cucina

francese, l’ideatore del cordon bleu apparteneva all’Ordine dello Spirito Santo istituito dal Re Enrico III nel 1578, che come insegna ufficiale aveva proprio un nastro azzurro. La preparazione avrebbe quindi acquisito per associazione il nome della caratteristica che distingueva l’Ordine a cui apparteneva il suo inventore, il Duca Gonzaga di Nevers che, come sovrintendente delle cucine di corte, frequentava spesso il mercato per scegliere gli ingredienti migliori indossando l’insegna con il cordone azzurro, e che quindi si sarebbe guadagnato l’appellativo di Monsieur Cordon Bleu. La cotoletta ripiena da lui creata divenne tanto celebre da diventare un titolo ufficiale (chissà se un giorno tornerà a noi il titolo di Gran Maestro della Griglia!). Il Re Sole, infatti, istituì ufficialmente l’Ordine del Cordon Bleu per i sovrintendenti alle tavole reali alla morte del Duca. Secondo un’altra ipotesi, invece, il piatto sarebbe stato creato nei primi decenni del Novecento, per celebrare il conferimento del Nastro Azzurro (cioè un riconoscimento non ufficiale che veniva assegnato alla nave passeggeri con velocità media di percorrenza dell’Oceano Atlantico) al transatlantico tedesco Bremen, e quindi avrebbe preso il nome dall’evento. Secondo questa versione,

Qualunque sia la vera origine del piatto, il cordon bleu rimane uno dei piatti più prelibati e gustosi della cucina internazionale. In questa versione abbiamo utlizzato delle fettine di eye round del nostro Megastore e un goloso ripieno di cipolle caramellate, nduja, cime di rapa saltate e salsa barbecue, oltre a una lacrima di formaggio Emmenthal. Per realizzare questa appetitosa e gustosa pietanza si può utilizzare anche carne di maiale, pollo o tacchino. La scelta dei formaggi ricade inevitabilmente tra quelli morbidi e filanti, in modo che poi fondano in maniera semplice, come scamorza, provola silana, Emmenthal o simili. Per rendere il piatto ancora più saporito vi consigliamo di aggiungere al ripieno delle verdure che daranno consistenza e sapore in più alle vostre creazioni. La cottura più soddisfacente è sicuramente la frittura che dona al piatto una sfiziosità unica, ma per ridurre le calorie e rendere la

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CORDON BLEU

che attribuisce al cordon bleu un’origine marinaresca, il suo nome sarebbe legato in particolare al record per la velocità di navigazione raggiunto dal Bremen nella tratta fra America ed Europa fra 1929 e 1933. Ricevuto il Nastro Azzurro, il capitano indisse una festa incaricando lo chef di bordo di creare un piatto originale per l’occasione. Vide così la luce una cotoletta di maiale ripiena di formaggio, dal nome di Bremen Cordon Bleu, che sarebbe poi stata declinata nel tempo nelle sue molte varianti.


preparazione più digeribile, si può scegliere la cottura al forno disponendo i cordon bleu sopra una placca foderata con carta oleata e lasciando cuocere a 180°C per una ventina di minuti, girandoli a metà cottura. E per gli irriducibili del bbq: sappiate che si può fare la stessa cosa con un dispositivo.

PREPARAZIONE 1.

Iniziate a caramellare le cipolle: in una padella ben calda rosolate le cipolle con un filo d’olio a fiamma alta. Aggiungete il vino, lo zucchero e un pizzico di sale. Quando il vino sarà ridotto di metà aggiungete anche l’aceto e dealcolizzate molto bene. Cuocete fino ad ottenere una consistenza sciropposa. Le cipolle dovranno risultare ancora leggermente croccanti.

2.

Saltate le cime di rapa con l’olio, l’aglio in camicia, l’acciuga sminuzzata e il peperoncino tritato e aggiustatele di sale e di pepe.

3.

Confezionate i cordon blue stendendo su ogni fettina di carne un cucchiaino di cipolle caramellate, la nduja a piacere a seconda della piccantezza desiderata, dei ciuffetti di cime di rapa e un goccio di salsa barbecue. Spezzettate l’emmental tagliato in fettine sottili e chiudere con l’altra fettina di eye round.

4.

Infarinate con cura i cordon blue, passateli poi nell’uovo sbattuto e leggermente salato e infine nel pangrattato; fate una seconda panatura ripetendo questi ultimi due passaggi.

5.

Friggete in olio di semi di arachide ad una temperatura compresa fra 180°C e i 190°C per pochi minuti, giusto il tempo di farli diventare dorati e croccanti.

6.

Serviteli caldissimi e ancora filanti.

INGREDIENTI 6 persone

12 fettine di eye round 150 g di nduja 150 g di Emmenthal 120 g di salsa barbecue 3 uova Farina 00 Pangrattato q.b. Sale q.b. Olio di semi di arachide q.b. Per le cipolle caramellate: 500 g di cipolle rosse 130 ml aceto di vino bianco 30 ml vino bianco 150 g zucchero semolato Sale q.b. Olio extravergine di oliva q.b. Per le cime di rapa: 200 g cime di rapa già pulite 1 peperoncino 1 spicchio d’aglio 1 acciuga sott’olio Olio extravergine di oliva q.b.

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Sale q.b.


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frico!

Non è fritto...

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è


Le origini del frico risalgono verso la metà del Quattrocento, si dice ad opera del Maestro Martino, il cuoco del Patriarca di Aquileia Ludovico Trevisan. Questi ne ideò una versione molto speziata chiamandola caso in patellecte. Gli ingredienti erano semplici: formaggio grasso, né troppo vecchio né troppo salato, strutto per non farlo attaccare sulla padella, erbe e spezie a condire e poi subito

nel piatto, perché si vol magnare caldo caldo. Di fatto, parliamo di una ricetta povera della Carnia ed in generale dell’intera regione del Friuli, nata inizialmente per non sprecare i ritagli del formaggio (detti strisulis) che avanzavano durante il processo di realizzazione delle forme. La versione più croccante veniva spesso portata come delizioso spuntino quando si andava in malga (cioè, in quell’area adibita al pascolo estivo in montagna) a badare al bestiame, a far fieno in alti covoni o a far legna nei boschi; a mezzogiorno, tutti si sedevano all’ombra di un bell’albero per rifocillarsi con la cjacule (il rustico pranzo al sacco, racchiuso in un grande fazzoletto di tela a mo’ di sacchetto) che conteneva anche il nostro delizioso frico. Non esiste solo una ricetta, poiché ogni famiglia della regione ne conserva gelosamente la propria, ma possiamo definirne due tipologie, come dicevamo poco più sopra: il frico croccante ed il frico morbido. Nella prima versione viene cotto il formaggio nell’olio (quasi fritto, dunque), mentre per la seconda, si prevede l’aggiunta delle patate, delle cipolle e talvolta di pomodori o ancora erbe. Noi ora andremo a descrivere la nostra versione del frico. Vista l’untuosità del piatto e la tendenza al dolce, data dagli amidi delle patate e dalle cipolle uniti ai formaggi, l’abbinamento ideale è un vino rosso di media persistenza e struttura.

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a Carnia – zona d’Italia ove appartiene gran parte delle Alpi Carniche, in Friuli - si può definire la patria della polenta e frico; se mai dovesse capitarvi di passare qualche giorno che d’estate in uno dei paesini della provincia di Udine, vedreste, soprattutto dopo un temporale, il fumo generato dall’accensione degli spolèrt (cucine a legna) uscire dai camini e danzare tutt’uno con le nubi basse, e sentireste un persistente profumo di polenta invadere le viuzze del borghi. A quel punto potreste scommettere quel che volete che l’accompagnamento ideale sarebbe una bella porzione di frico. In molti non sanno cosa sia ed erroneamente pensano, vedendolo, che sia fritto. Definirlo non è semplice: è una specie di tortino di formaggio a cui vengono aggiunte spesso patate, cipolla, speck. Sempre morbido, caldo e filante all’interno, talvolta può presentare una crosta croccante, ed è qui che nasce l’erronea credenza che sia in qualche modo un cibo fritto.


VERSIONE CLASSICA Ingredienti per 6 persone: 300 g di cipolla bianca/ 650 g di patate/ 650 g di un mix di formaggi di differenti stagionature/ 1/2 litro di acqua bollente/ olio extravergine di oliva q.b./ sale e pepe q.b./ concentrato di brodo (facoltativo) Preparazione: 1.

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Tagliate finemente le cipolle e fatele imbiondire con l’olio in una padella antiaderente abbastanza capiente a fuoco dolce. In un pentolino fate bollire l’acqua, aggiungendoci se volete un pizzico di concentrato di brodo. Tagliate le patate a fettine dopo averle sbucciate e unitele alla cipolla, alzando il fuoco e girando e rigirando, facendo creare una leggera crosticina. Aggiungete un poco alla volta l’acqua fino alla sua evaporazione per ottenere un composto abbastanza amalgamato, poi aggiustate di sale e di pepe nero. A questo punto è venuto il momento di aggiungere i vari formaggi di latteria tagliati a dadini (potete usare striscioline di lavorazione, formaggio fresco e/o di varie stagionature, come 30/60/90 mesi), mischiare e rigirare fino ad amalgamare il tutto: l’obiettivo è quello di ottenere una crosticina dorata e di non far attaccare il nostro composto (i grassi del formaggio ci aiuteranno in questo). Appena appena ottenuto ciò bisogna girare il frico, aiutandoci con un’altra padella o un piatto, ottenendo la stessa cosa dall’altro lato. Se abbiamo lavorato per bene, serviremo il nostro gustoso frico con una crosticina deliziosa all’esterno, ma morbido all’interno.


E ora per far indignare un po’ i gastrotalebani… Visto che siamo in tema, ma se facessimo un frico fritto? Magari unito alla stessa sorte della polenta? Ebbene sì, una volta messo in frigorifero per far rapprendere il composto, lo si taglia a cubetti ( 3 cm x 3 cm) che andremo a friggere in olio di semi, con doppia panatura, la stessa cosa che faremo con la polenta ma senza andare ad impanare.

Ingredienti per 6 persone: un frico/ 400 g di polenta/ farina 00 q.b./ 2 uova/ pangrattato q.b./ olio di semi di arachide q.b./ sale e pepe q.b./ Sal’s Seasoning Montreal Steak sub e Mount Nimba Rub a piacere 1.

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Preparate in un piatto della farina 00, sbattete un paio di uova con sale e pepe e mettete il composto nel secondo piatto, il pangrattato nell’ultimo piatto. Iniziate facendo aderire la farina ai cubetti di frico, poi aiutandovi con due forchette o una pinza a punta da cucina passateli nell’uovo facendoli scolare per bene prima di metterli nel pangrattato. Nel frattempo portate l’olio alla temperatura di 170°C/180°C e friggete i cubetti per 2 minuti. A questo punto per 30 minuti a riponeteli nel frigorifero. Poi ripassateli nell’uovo e nel pangrattato e via per la seconda frittura. Riducete anche la polenta a cubetti e friggetela direttamente nell’olio per circa 8 minuti. Andrete a servire il vostro antipasto di cubetti di frico fritto e di polenta fritta con una bella spruzzata di mix di Sal’s seasoning rub: verranno spazzolati in men che si dica.

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Preparazione:


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Il dolce ha una sua naturale declinazione FRITTA


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Sicuramente una combo micidiale è l’unione fritto/dolce: infatti la frittura intensifica moltissimo il sapore e il profumo dello zucchero, rendendolo irresistibile. L’aroma del dolce impasto a contatto con l’olio bollente per alcuni di noi equivale al canto delle sirene, si insinua nelle nostre narici e ci ammalia. Ecco spiegato il perché molti di noi, passeggiando tra i banchetti delle fiere (che speriamo di tornare molto presto a visitare), ad un tratto si bloccano come incantati, alzano la testa, annusano l’aria e si precipitano al truck più vicino. La maggior produzione di dolci fritti avviene nel periodo pre-quaresimale e quaresimale stesso, tanto che

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ome dice il proverbio, fritta è buona anche una suola di scarpe. Come dargli torto? Sono pochi gli alimenti che, pastellati, impanati o buttati a nudo nell’olio bollente, non diventano delle piccole tentazioni calde, croccanti dal cuore morbido a cui è quasi impossibile dire no. Sicuramente avrete conosciuto persone che non mangiano pesce, verdure, formaggio, pollo semplicemente perché a loro non piacciono, divorarne invece grandi quantità se ricoperti dalla crosta dorata. Questo grande amore per il fritto, che ci accomuna un po’ tutti, è determinato da un antico retaggio ancestrale, secondo il quale la parte primitiva del nostro cervello ci fa apprezzare molto di più i cibi grassi, fritti e dolci rispetto a quelli salutari. Questo accade perché questi cibi, avendo un grande apporto calorico, ci garantiscono la sopravvivenza. In realtà, mangiare fritto non é molto in linea con lo stile di vita sedentario contemporaneo, ma potremmo considerare “sopravvivenza” anche il conforto dell’anima.


esiste il detto a Carnevale è buona anche l’aria. Le golosità carnevalesche sono per lo più preparazioni molto semplici, realizzate con farina, acqua, burro, uova e latte, fritte nell’olio bollente, spolverate con lo zucchero e a volte arricchite con il miele, la crema o il cioccolato. Ovviamente, ogni regione propone le sue specialità, spesso molto simili tra loro ma chiamate in modo diverso da zona a zona- L’esempio più eclatante sono i nastri di pasta fritta battezzati in Toscana cenci, a Roma frappe, nel Piemonte Bugie, in Emilia Romagna sfrappole e conosciute in tutta Italia come chiacchiere. Detto ciò, il Carnevale non detiene il monopolio dei dolci fritti, come ci dimostrano le zeppole di San Giuseppe e le frittelle di riso, preparazioni tipiche della festa del papà (che cade il 19 marzo), le cartellate e gli struffoli, tipici dolci del Natale in gran parte del Sud, o le ciambelle fritte e le bombe ripiene alla crema che sono preparate praticamente tutto l’anno. E vogliamo parlare del cannolo siciliano? Insomma, l’elenco dei dolciumi fritti sarebbe infinito. Dovendo scegliere le ricette da presentarvi in questo speciale, abbiamo optato per due preparazioni agli antipodi tra loro e con una storia molto diversa l’una dall’altra: la crema fritta, tipica preparazione di alcune regioni quali le Marche, l’Emilia Romagna e del Veneto, e lo psudo-cinese gelato flitto.

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La crema fritta, nelle Marche, ha un doppio carattere: dolce o salato, tutto dipende se la superficie viene spolverizzata con lo zucchero o con il sale. Spesso si serve insieme alle olive ascolane: la delicata dolcezza dei cremini fritti ha il compito di smorzare il carattere amaragnolo dell’oliva. In Emilia Romagna questo dolce boccone di crema è un elemento del gran fritto misto alla bolognese, che comprende carne (pollo, agnello, animelle, mortadella), formaggi (Emmenthal, gruviera e mozzarelline), verdure (zucchine, patate, cavolfiore, anelli di cipolla) e amaretti. La carne e i latticini vengono passati nella farina, nell’uovo e nel pangrattato, mentre le verdure e gli elementi dolci vengono passati nella pastella. Nel Veneto, invece, è una preparazione esclusivamente dolce tipica del periodo di Natale e di Carnevale. Più lungo ed articolato è il discorso da fare sulla seconda preparazione di cui vogliamo parlarvi, cioè una delle nostre pseudocineserie preferite. Il gelato

fritto si presenta come ovvero una piccola sfera di gelato avvolta in uno sottile strato di torta o pane bianco, cotta nell’olio bollente. Nonostante sia un dessert tipico dei ristoranti cinesi o fusion, essa non sembra affondare le sue radici in Cina, Paese in cui domina il pensiero, secondo la loro millenaria medicina, che i cibi dovrebbero essere consumati neutri (né troppo freddi, né troppo caldi) e che quelli ghiacciati siano deleteri alla salute dell’uomo, perché rallentano la digestione e possono provocare diarrea. Ma allora quando e dove è nato il gelato fritto? Purtroppo non ci è possibile fornirvi una risposta certa. C’è chi afferma che il gelato fritto fu servito per la prima volta durante la World’s Columbian Exposition, più conosciuta come Fiera Mondiale di Chicago nel 1893, organizzata per celebrare i 400 anni della scoperta dell’America. Successivamente, nel 1894, il merito dell’invenzione delle palline di gelato avvolte in uno strato sottile di torta da friggere nello strutto fu conferito alla città di Philadelphia definita la casa del gelato americano. Infatti, nonostante il gelato non fosse stato inventato né in quella città, né da un suo abitante, le aziende della zona si distinsero per la miglior produzione di questo alimento. Una seconda ipotesi è che il gelato fritto sia stato inventato intorno al 1960 dai ristoranti di tempura giapponese. La rubrica del New York Times “Dining Out”, recensendo alcuni ristoranti orientali, parlò dello straordinario dessert caldo fuori e freddo dentro. Quindi, come accade molte volte quando si parla di cibo cinese, tutto fa pensare che il gelato fritto sia una versione adattata e orientaleggiante di una preparazione tutta occidentale che poi i furbi ristoratori cinesi hanno adottato per calibrare il loro menu sul palato americano. Nonostante tutta questa incertezza sulle origini, una cosa è sicura; il gelato fritto riscuote sempre un gran successo perché, più che una ricetta sembra il risultato di una formula magica. La preparazione è molto semplice; inizialmente i tempi di attesa tra un passaggio e l’altro sono molto lunghi, per poi diventare quasi frenetici nel rush finale. Vediamo adesso entrambe le ricette, ma prima vorremmo sapere una cosa: voi siete tipi più da roba italiana o da diavoleria pseudocinese? Oppure, come noi, basta che sia fritto e poi mangiate tutto?


LA CREMA FRITTA Ingredienti per 6 persone: 500 ml di latte intero/ 4 uova/ 90 g di zucchero a velo/ 30 g di amido di mais/ una bacca di vaniglia/ olio di semi di arachidi q.b. 1.

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Con la punta di un coltello incidete la bacca di vaniglia per tutta la lunghezza, poi raschiatene l’interno per recuperane i semi. In un pentolino versate il latte, aggiungete i tuorli, l’amido, lo zucchero ed infine la vaniglia. Ogni volta che inserite un ingrediente mescolate vigorosamente con la frusta per evitare la formazione di antipatici grumi nella crema. Fate cuocere il composto su un fuoco medio basso, continuando a girarlo con un cucchiaio per tutta la durata della cottura. Quando raggiunge il bollore, mescolate più energicamente per pochi minuti. Ottenuto l’addensamento desiderato spegnete la fiamma. Foderate una teglia con la carta forno e versateci sopra la crema. Per facilitarvi il compito di darle una forma rettangolare alta 3 cm, copritela con la pellicola alimentare e procedete. Lasciate rapprendere la crema a temperatura ambiente per due ore circa. Trascorso questo tempo, suddividetela in tanti cubetti più o meno di quattro cm. Passateli prima nell’albume sbattuto, poi nella farina ed infine nel pangrattato. In una pentola profonda, portate l’olio a temperatura (fra i 165°C e 185°C) e iniziate a friggere. La cottura è molto veloce: appena la superficie dei cremini è dorata, sono pronti. Scolateli dall’olio, asciugateli con la carta assorbente e serviteli ben caldi.

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Preparazione:


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IL GELATO FRITTO Ingredienti per 6 persone: 500 g di gelato alla crema di ottima qualità/ 6 fette di pane bianco per tramezzini prive di crosta/ olio di semi arachidi q.b/ 150 g di farina 00/ 150 ml d’acqua frizzante fredda/ mezza bustina di lievito per dolci Preparazione:

2. 3.

4.

5.

6.

Con il gelato lavorabile ma non troppo sciolto formate sei palline, non troppo grandi perché poi dovranno essere avvolte nel pane. Per formarle, avvolgete il gelato nella pellicola e lavoratelo con le mani fino ad ottenere una forma sferica. Ponete le sfere nel congelatore per almeno 8 ore. Prendete il pane e assottigliate ogni fetta con il mattarello, devono risultare sottili come un foglio. Tirate fuori dal congelatore il gelato (una pallina per volta), toglietegli la pellicola e avvolgetelo nella fetta tagliando la parte in eccesso. Importante è che il pane aderisca bene al gelato, per questo è necessario avvolgere nuovamente la sfera nella pellicola, prima di riporla nel congelatore per altre 8 ore. Siamo giunti alla preparazione della pastella. In una ciotola capiente versate la farina e il lievito, poi iniziate a mescolare aggiungendo poco per volta l’acqua. Il risultato finale non dovrà essere troppo liquido e nemmeno troppo denso. Se fino a questo momento i tempi di preparazione sono stati estremamente dilatati, adesso dovete essere molto veloci e radunare vicino a voi i commensali. Portate a temperatura l’olio, prendete la pallina liberata dalla pellicola e immergetela prima nella pastella e poi nell’olio caldo. E’ questione di pochi secondi: appena la superficie sarà dorata togliete dal fuoco, asciugate con carta assorbente e servite.

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1.


L'Arte Bianca a cura di Alessandro Trezzi fotografia di Rossella Neiadin

a z z i p La 062 - Almanacco 2021

ifr tta


La storia Da che mondo è mondo, la frittura è sempre stato un metodo di cottura tipico dei Paesi caldi, in quanto più sicuro dal punto di vista della protezione dai batteri a fronte della scarsa qualità nella conservazione del cibo. Nel dopoguerra la tradizionale pizza al forno

partenopea era divenuta quasi un prodotto di lusso; non solo gli ingredienti per condirla scarseggiavano, ma molti dei forni a legna erano andati distrutti nei combattimenti per liberare la città, che fu uno dei fulcri per la Liberazione del nostro Paese. Compatibilmente con l’arrivo dell’olio di semi, si pensò quindi di friggere nell’olio bollente l’impasto, che gonfiandosi conferiva una sensazione di maggior sazietà. I quartieri popolari cominciarono a colmarsi di pentoloni messi su un semplice banchetto fuori dalla porta, cucinando montanare (pasta cresciuta con una mestolata di salsa di pomodoro a fine cottura) o la pizza fritta vera e propria, farcita con gli ingredienti poveri a disposizione: la ricotta, che dalle campagne arrivava a buon mercato, e i ciccioli di maiale, ovvero gli scarti dei tagli pregiati. Il cibo fritto aveva il pregio di conservarsi tranquillamente per tutta la giornata, esposto al sole, per poi venire riscaldato all’occorrenza. Nell’olio finivano crocchè (crocchette di patate speziate), pall’e riso (arancini), frittatine di maccheroni, scagliozzi (pezzi di polenta, spesso a forma di triangoli), verdure, ortaggi, alghe e pezzi di pasta lievitata. La regina del banco, tuttavia, era sempre lei, la “a ogge a otto”, così chiamata perché veniva comprata a credito e pagata la settimana successiva; in quegli

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S

e dici “pizza”, il più delle volte l’immagine che balena nella mente è quella di un caldo forno a legna e di una tonda napoletana, soffice, fragrante, con il cornicione morbido e scioglievole. Eppure, nei mendri della vivace Napoli, là dove la fama di questa specialità è esplosa, esiste un altro interessantissimo prodotto, meno diffuso nel resto d’Italia ma celeberrimo nei vicoli partenopei: la pizza fritta. Si, lo so: senz’altro, non è l’unica forma di pasta cresciuta e/o buttata nel grasso bollente di cui la nostra penisola può vantare, ma per una volta tralasciamo le battaglie territoriali, vi va? Senza andare a toccare mostri sacri come il panzerotto pugliese e la crescentina emiliana, facciamo due chiacchiere su uno dei capisaldi dello street food napoletano.


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anni era un prodotto preparato dal pizzaiolo per arrotondare le entrate domenicali, spesso fritto dalla moglie direttamente all’ingresso dei “bassi”, i caratteristici locali dal soffitto basso in cui abitavano molti napoletani, sovente pizzaioli e relativa famiglia. Non passò molto tempo perché la pizza fritta cominciò a divenire una creazione tipicamente femminile. La più celebre venditrice è senz’altro Sophia Loren, che nel film “L’oro di Napoli” di Vittorio De Sica nel 1954 gridava “Mangi oggi e paghi tra otto giorni”. Oggi la pizza fritta sta vivendo una seconda giovinezza, grazie alla riscoperta da parte dei maestri e all’aggiornamento sulla qualità degli ingredienti utilizzati. Nel “battilocchio” moderno (così chiamato per la forma allungata e “spilungona”) si trovano salumi, polpette, provola, friarielli, farciture più ricche e gustose, anche se a dirla tutta un parente illustre si ritrova già negli archivi gastronomici napoletani, in quelle “zeppolelle” cosparse di miele menzionate dal poeta Giovanni Battista del Tufo, poi passate alla versione salata riportata nel 1837 dal duca Ippolito Cavalcanti, accompagnata da baccalà, pesce azzurro o alici. Insomma, la frittura è una cosa seria, specialmente al Sud.

Vediamo quindi insieme come affrontarla nel modo più corretto.

L’impasto L’obiettivo è chiaro e semplice: il prodotto finale deve essere il più leggero possibile, al fine di non trasformare la pizza fritta in un pasto unto, pesante e quindi in un’esperienza fortemente dimenticabile. Dobbiamo quindi realizzare un panetto estensibile ma di tenuta, in modo che sia possibile renderlo sottile senza bucarlo, ottimizzando i tempi di cottura e impedendo alla pasta di assorbire troppo olio. Quindi non si scappa: farine 00 o 0 di forza media, con un buon assorbimento minimo ed un’ottima stabilità. La maglia glutinica dovrà essere ben formata per le motivazioni già presentate, ed è fondamentale che l’idratazione non sia troppo elevata; in caso contrario ci troveremmo costretti a utilizzare troppo spolvero durante la stesura, che finendo nell’olio caldo tenderebbe a bruciare restituendo un gusto amaro e indigesto. Non lesiniamo nemmeno sul sale, che come abbiamo avuto modo di imparare rafforza i legami proteici rendendo più tenace la maglia, oltre a stabilizzare la lievitazione.


Avremo quindi una tendenza inferiore alla creazione di bolle enormi e fastidiose, ingestibili in fase di stesura e cottura. Fondamentali saranno come sempre i tempi di riposo, utili a completare la fermentazione e la maturazione dell’impasto, in modo da renderlo più asciutto, profumato e soprattutto maneggevole, pronto per le fasi finali di lavorazione.

La cottura

Discorso diverso invece per la pizza fritta, che non solo contiene mozzarella e salumi, ma che gonfiandosi risulta anche più ampia, richiedendo quindi un tempo maggiore perché sia pronta. Ben venga quindi l’olio di semi

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Un tempo il grasso più utilizzato per la frittura era la sugna, ovvero lo strutto di maiale, in quanto economico e di facile reperibilità. Il pregio oggettivo di questo ingrediente è il suo altissimo punto di fumo, ovverosia la temperatura in cui un grasso inizia a decomporsi cambiando struttura molecolare e sviluppando acroleina, una tossina dannosa per il fegato e cancerogena. Cosa significa in soldoni? Che più un punto di fumo è alto, maggiore potrà essere la temperatura soglia per la cottura, minore sarà il tempo di cottura e quindi di permanenza del cibo nel grasso, che si impregnerà meno risultando più leggero. Tuttavia tale espediente si rivela utile per piccoli pezzi di pasta, come le crescentine o le verdure, o con ingredienti poco umidi, la cui temperatura al cuore sarà raggiunta rapidamente.


di arachidi, con un ottimo punto di fumo e meno invasivo per quanto riguarda l’apporto di sapore nel prodotto finito. La temperatura ideale è 180°C, ed è fondamentale che sia rispettata in modo da avere un fritto più leggero possibile, che andrà immerso totalmente nel grasso per uniformare la cottura in tutta la superficie. Ciò significa prestare attenzione ad un’altra regola di base: mai friggere troppi alimenti insieme, in quanto la temperatura dell’olio potrebbe crollare vertiginosamente causando un aumento dei tempi di cottura. Più tempo, più possibilità per la pasta di impregnarsi di olio, meno leggerezza.

La farcitura Qui possiamo sbizzarrirci, lavorando di fantasia e per associazione territoriale, ricordando sempre però che stiamo parlando di un prodotto delicato e che non dovrà bucarsi durante la cottura. Limitiamo quindi ingredienti umidi o acuminati, come mozzarella di bufala, creme acquose, verdure a foglia dura e lunga, e così via. Lo stesso pomodoro, se troppo liquido, può compromettere la solidità della maglia glutinica; meglio aggiungerlo ristretto o su una base di mozzarella. Anche la disposizione della farcitura gioca un ruolo fondamentale per la riuscita del prodotto finito; l’approccio di base è molto simile a quella di una classica pizza, nella quale gli ingredienti devono essere distribuiti uniformemente e ancorati alla base. L’esempio più classico arriva direttamente dalla tradizione: una cucchiaiata abbondante di ricotta setacciata, fiordilatte o provola a dadini, pepe nero a fiumi, una foglia di basilico e salame, polpette o ancora mortadella o ciccioli di maiale.

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Un’alternativa contemporanea? Friarielli in crema, salsiccia a punta di coltello, pepe nero, provola affumicata e basilico. Un’ida più nerd? Dose generosa di baccalà mantecato, cipolle e peperoni in ember roasting, olio al peperoncino. A voi la scelta, l’importante è godere, sempre.

INGREDIENTI

per circa 14-16 pizze fritte

1 kg di farina 00 o 0 (270-280 W); 630 g di acqua; 25 g di sale fino; 3 g di lievito di birra fresco

per la farcitura Ricotta di bufala; Provola bianca; Salame dolce; Pepe nero; Basilico fresco.


IMPASTAMENTO

In una ciotola o nella vasca della vostra impastatrice versate tutta la farina, il lievito sbriciolato, circa i tre quarti dell’acqua e iniziate a miscelare. Non appena l’impasto comincerà a prendere forma ed elasticità versate tutto il sale e l’acqua rimanente a filo, solo quando la precedente è stata perfettamente assorbita. L’impasto sarà pronto quando risulterà liscio, asciutto, il glutine tenace e ben formato, e la temperatura interna dovrà essere di 23°C-24°C. Chiudetelo a pagnotta, mettetelo in un contenitore a chiusura ermetica ben unto e lasciatelo riposare 2 ore a 24°C.

PUNTATA

Trascorse le prime due ore di riposo ripiegate l’impasto nuovamente e riponetelo poi con il contenitore in frigorifero a 6°C per 18-24 ore, in modo da completare la fermentazione e rallentare la lievitazione. Durante questa fase l’impasto matura e la maglia glutinica si stabilizza.

STAGLIO, FORMATURA E APPRETTO

Terminata la puntata recuperate l’impasto, rovesciatelo sul piano da lavoro e dategli la forma di un salsicciotto. Spezzatelo con un tarocco e ricavate dei panetti dal peso di 100-120 grammi ciascuno, che andranno poi chiusi in modo da ottenere una pallina. Disponeteli quindi ben distanziati in una cassetta da lievitazione o su una teglia coperta da pellicola per altre 6-8 ore a 24°C.

Infarinate leggermente il primo panetto, rimuovetelo con decisione con una spatola e appoggiatelo su un cumulo di semola rimacinata di grano duro; quindi giratelo, in modo da infarinare anche l’altro lato e portatelo poi sul piano. Dovrete cercare di lavorare con meno semola possibile in modo da evitare che l’eccesso finisca nell’olio bollente bruciando. La pizza fritta non ha cornicione, e dovrete quindi stenderla uniformemente con l’ultima falange, bordo compreso; cercate di lasciare

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STESURA E FARCITURA


uno spessore maggiore al centro, in modo da evitare che l’impasto si buchi con il peso della farcitura, e fermatevi quando il diametro sarà di circa 20-22 cm. Setacciate la ricotta per renderla cremosa, poi adagiatene un cucchiaio al centro, adagiate il salame dolce tagliato a listarelle e la provola a cubetti, date una grattata abbondante di pepe e mettete due foglie di basilico. Ripiegate quindi il lembo superiore su quello inferiore, e pigiate bene con i palmi delle mani per far aderire l’impasto, avendo cura di far uscire tutta l’aria dalla zona della farcitura. Considerando che state lavorando con poca farina stendete solo quando siete pronti per cuocere, in modo da evitare che l’impasto si attacchi al piano di lavoro.

COTTURA

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Versate abbondante olio di semi di arachidi in una pentola ampia almeno 28 cm, e portatelo a 180°C. Aiutatevi con un tarocco o la spatola per staccare l’impasto dal piano, e a questo punto prendetelo dalla lateralmente dalla parte chiusura (vicino alle punte per intenderci) e sollevatelo, in modo che la farcitura risulti verso il basso e la gravità vi aiuti ad estendere la maglia glutinica.

Portatelo verso la pentola allargando le mani leggermente per dargli la classica forma allungata e adagiatelo nell’olio. Da questo momento mestolo e paletta saranno i vostri inseparabili aiutanti, oltre alla teglia con carta paglia o assorbente che vi siete preparati a fianco. Con il mestolo abbiate cura di versare continuamente l’olio sul lato superiore, che inevitabilmente emergerà dal grasso una volta che l’impasto comincerà a gonfiarsi. Dopo qualche minuto girate la pizza e continuate dal lato opposto, fino a completa doratura. A questo punto appoggiate la pizza fritta sulla teglia e asciugate l’olio in eccesso; prima di cuocere le restanti verificate sempre che l’olio sia tornato a 180 °C.

COME SI MANGIA?

Avvolgetela in un cartoccio, assaggiando prima il “cappello di Pulcinella” (ovvero la punta priva di condimento), poi premete la parte centrale per far uscire il vapore ustionante e spostare il ripieno verso la parte alta, addentate e godete come mai prima d’ora.


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DAGLI STATES

Il pollo fritto: una storia di

grande successo

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Across the Pond a cura di Elena Ninotti Il pollo fritto è uno dei piatti più iconici degli USA, assieme all’hamburger. Contrariamente a quello che si pensa di solito, esiste davvero una cucina degli Stati Uniti: non è tradizionale come la nostra, ma è costruita dalle esperienze e dalle storie degli immigrati che qui si sono trasferiti, portando cibo e memorie dalla propria terra madre. All'inizio era una cucina frammentata, arrivata assieme alle valigie dall'Irlanda, dall'Europa dell'est, dall'Italia e, soprattutto, attraverso le rotte delle navi degli schiavi che portarono nel nuovo continente la manodopera per coltivare – specie negli Stati del Sud cotone, canna da zucchero e riso. La cultura gastronomica di questo luogo d’America diventa quindi un connubio tra le richieste dei ricchi possidenti delle piantagioni, legati alla loro cucina ricca e benestante, generalmente anglosassoni o francesi, miste alle capacità dei cuochi che avevano una cultura e una capacità di utilizzo delle spezie proprie dei Paesi di origine. Questo connubio ha permesso lo sviluppo di una gastronomia saporita e profumata, basata soprattutto su pollo, gamberi, okra, riso e spezie, fritti o stufati. Con la fine della schiavitù, attorno al 1860-70, la possibilità di avere un’alimentazione più ricca e varia si diffuse a tutti i livelli sociali, diventando appannaggio di tutta la popolazione. Con la crisi economica dovuta alla Grande Depressione degli anni Trenta in America, i lavoratori di colore si trasferirono nei ricchi Stati del Nord, portando anche tutto il loro bagaglio culturale e gastronomico.


Il pollo fritto è probabilmente il piatto più rappresentativo del quadro fin qui descritto: economico, comodo, con ingredienti comuni, si può mangiare con le mani ed è indubbiamente molto gustoso. Insomma, è comfort food pratico, che teneva - e tiene ancora - le persone legate alle loro origini. Proprio per questo motivo, per molti anni questa ricetta fu associata alle popolazioni afroamericane; non è un caso che le principali catene di fast food che servono il gustoso pennuto croccante siano nate in stati del sud: Popeye Louisiana Kitchen, Kentucky Fried Chicken, Chick Fil-A (Georgia), PDQ (North Carolina).

La nascita delle catene fast food Harland Sanders nasce alla fine del 1800 a Henryville, nello stato dell’Indiana, da una famiglia anglo-irlandese. Dopo un’infanzia difficile e una gioventù passata a fare i lavori più disparati (assicuratore, venditore di lampadine, venditore di gomme, segretario della camera di commercio, ostetrico) riesce a studiare legge per corrispondenza e a diventare avvocato. Tuttavia non svolge mai la professione per la quale ha studiato e nel 1930 Harland si trasferisce a Corbin, nel Kentucky, per gestire un distributore di benzina Shell con annessa cucina. Lì, nel 1932, comincia a servire uno dei suoi piatti preferiti: il pollo fritto, buono e apprezzato al punto che la gente si ferma apposta per poterlo mangiare. Questo successo fa sì che nel 1935 egli venga insignito del titolo di “Colonnello del Kentucky”, il più alto titolo onorifico di quello Stato. Nel 1940, Sanders arriva a sviluppare un sistema di cottura con friggitrici ad alta pressione e inventa l’Original Recipe mescolando 11 spezie segrete per la panatura. Il suo ristorante, aperto sempre nel 1940, viene inserito dal critico culinario Duncan nella sua guida ai migliori ristoranti in America, Adventures in Good Eating. Da lì, nel 1952, intuendo le potenzialità del franchising, fonda la catena Kentucky Fried Chicken, KFC, seguendo uno sogno visionario: nel 1964 esistono già 600 ristoranti KFC negli Stati Uniti e in Canada.

Aggiungere a 2 tazze (circa 250 g di farina 0): • 2/3 di un cucchiaio di sale; • mezzo cucchiaio di timo; • mezzo cucchiaio di basilico; • 1/3 di un cucchiaio di origano; • un cucchiaio di sale con semi di sedano; • un cucchiaio di pepe nero; • un cucchiaio di senape essiccata; • 4 cucchiai di paprika; • 2 cucchiai di sale all’aglio; • un cucchiaio di zenzero in polvere; • 3 cucchiai di pepe bianco. I cucchiai e i cucchiaini, ovviamente, sono i tbs (tablespoon, cucchiaio)

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Recentemente, durante un’intervista, sembra che un pronipote del Colonnello si sia fatto sfuggire la ricetta segreta delle spezie; nel caso, ve la copio qui, sia mai che vi venisse voglia di provarla.


e tsp (teaspoon, cucchiaino) americani, che si trovano in commercio praticamente ovunque e sono un’unità di misura volumetrica.

Il pollo fritto perfetto Come abbiamo visto è praticamente il cibo più emblematico degli Stati Uniti del Sud e difficilmente si può trovare una persona da queste parti che non abbia una propria opinione su quale versione dsia la migliore: pastellato, infarinato, saltato in padella o fritto in olio profondo, servito caldo con i waffle in una colazione o mangiato freddo con le mani durante un picnic. Vale tutto. In realtà, il fascino del pollo fritto risiede nella sua crosta croccante speziata e nel suo profumo richiama l’infanzia: una carne semplice, passata negli aromi e nella farina prima di essere fritta che non delude mai nessuno. La marinatura nel buttermilk - un prodotto dal sapore piuttosto acido, che deriva dal latte di scarto della lavorazione del burro e che viene utilizzato in numerose preparazioni della cucina statunitense - rende il pollo incredibilmente morbido. Quindi il passaggio importante da non saltare è quello di marinare il pennuto per almeno 12 ore, poi sgocciolarlo bene prima di passarlo nella farina, in modo da avere una crosta senza grumi. In realtà, questo è un passaggio controverso: per alcuni chef, i grumi che si sviluppano nella miscela di farina, contribuiscono a rendere il pollo ancora più crispy. Per capire chi possa aver ragione, basta provare entrambe le versioni.

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La ricetta Io vi propongo una ricetta facilmente replicabile a casa, più una versione 2.0 per ovviare a quello che è il problema più grande: la cottura interna. Ecco l’attrezzatura che vi servirà: • un termometro da cucina, meglio se a sonda. • una pentola profonda, un Dutch oven è perfetto per mantenere la temperatura costante e accomodare i pezzi di pollo nella giusta quantità di olio senza rischiare fuoriuscite. Se avete un fuoco a gas, un wok lavorerà altrettanto bene. • un ragno a maglie strette, per raccogliere i detriti dall’olio e evitare che brucino. • una griglia per biscotti, su cui far raffreddare il pollo fritto senza farlo diventare molliccio

Ingredienti per 4 persone: 1,5 kg di pollo in pezzi regolari con osso e con con pelle/ 250 g di buttermilk o kefir/ 5 cucchiai Sal’s Seasoning Montreal rub/ 180 g di Farina 0/ 60 g di maizena/ un uovo/ un cucchiaio di lievito per dolci/ 1 l di olio per friggere: semi di arachide, olio di girasole ad alto contenuto oleico o olio di canola/ sale macinato al mulinello Preparazione: 1.

Mescolate in una ciotola il buttermilk, l’uovo, un cucchiaio di sale e due cucchiai di rub. Trasferite il tutto in un grosso sacchetto per surgelati e aggiungere il pollo a pezzi. Marinate in frigo, da 4 ore a tutta la notte, scuotendo ogni tanto la busta. 2. Al momento di friggere, mescolate in una ciotola farina, maizena, lievito, due cucchiaini di sale e il rub rimanente. Aggiungete tre cucchiai di marinata alle polveri e mescolate. Versate il pollo in uno scolapasta e lasciarlo sgocciolare dall’eccesso di marinata. 3. Passate i pezzi di pollo nelle polveri, premete bene la panatura sui pezzi e appoggiateli sulla griglia per biscotti. 4. Accendete il forno a 180°C statico o 150°C ventilato. 5. Scaldate l’olio a 215°C in un Dutch oven o un wok, con fiamma medio alta. Assicuratevi che la temperatura sia costante. La cosa migliore sarebbe avere una piastra a induzione in grado di mantenere la temperatura alla fonte, ma con un buon termometro a sonda sarà comunque semplice. 6. Sbattete leggermente i pezzi di pollo per eliminare gli eccessi non adesi, che potrebbero sporcare l’olio. 7. Metteteli nella pentola, col lato della pelle sotto, e abbassate la temperatura dell’olio a 150°C. Non riempite troppo, cercate di avere uno strato uniforme ma non sovrapposto. Lasciare il pollo indisturbato per 3-4 minuti, poi giratelo e lasciatelo cuocere per altri 4 minuti. Dovreste avere una bella crosticina croccante e dorata. 8. Scolate il pollo con il ragno, appoggiatelo sulla griglia per biscotti disposta su una teglia da forno e mettetelo in forno, fino a raggiungere la temperatura interna di 65°C per il petto e 73°C per la coscia. 9. Con il ragno, pulite bene l’olio nella pentola e proseguite la frittura degli altri pezzi 10. Posizionateli su carta assorbente e lasciateli riposare 5/10 minuti. Salate con sale al mulinello e servite in tavola. In caso di avanzi, potete scaldarlo ponendolo freddo di frigo, poi nuovamente in olio a 200°C per 5 minuti e sembrerà appena fatto.


1.

2.

Marinate il pollo come descritto al punto 1, scolate dalla marinata, che andrà conservata in frigo, e cuocete in sous vide per 2 ore a 68°C. Fate raffreddare brevemente il pollo in acqua

3.

e ghiaccio. Scolatelo dal sacchetto e ponetelo nuovamente nella miscela di buttermilk e uova. Continuare come da ricetta base per il pollo a pezzi senza osso, quindi con olio a 190° senza il passaggio in forno, fino a doratura.

Per una presentazione veramente southern style, vi consiglio il Chicken Waffle. Preparate i waffle (traaanquilli, vi do la ricetta), posizionate un bel filetto di pollo fritto su ogni waffle caldo, coprite con due fette di bacon croccante, incrociate, e fermate con uno stecchino. Irrorate di sciroppo d’acero e godetevi il brunch.

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Se usate pezzi piccoli di pollo, tipo petto o sovracosce disossate (cosa che vi consiglio le prime volte per facilitare la cottura) preparate il pollo come nei passaggi 1-2 e friggete direttamente a 190°C senza fare il passaggio in forno In ogni caso, se volete un risultato perfetto saltando comunque la cottura in forno, è possibile sfruttare la cottura sous vide, per un risultato 2.0:


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WAFFLE AMERICANI

Questi waffle si differenziano dai cugini belga, perché non hanno lievito di birra, ma hanno quello per dolci (baking powder, in inglese)

Ingredienti per circa 12 waffle: 2 uova, tuorli e albumi separati/ 150 ml di olio di semi/ 150 g di zucchero bianco/ 125 ml di buttermilk, o kefir oppure 50% yogurt e 50% latte/ 300 g di farina/ 8 g di lievito per dolci/ aroma di vaniglia, dalla bacca, liquido o vanillina/ un pizzico di sale

1. 2. 3.

Montate gli albumi e teneteli da parte. Mescolate le polveri in una ciotola e i liquidi in un’altra. Incorporate le polveri ai liquidi, mescolando brevemente con una frusta. Aggiungete gli albumi a neve e versate la pastella nell’apposita piastra elettrica con stampo spesso, a quadretti. Cuocere fino a doratura. Scolate l’olio in eccesso utilizzando un foglio carta assorbente e quindi condite con il sale e un po’ di pepe se lo gradite.

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Preparazione:


In tutte le salse a cura di Riccardo Meniconi

In tutte le L’AIOLI PER I CARCIOFI

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Il carciofo è pianta spesso utilizzata con accezione negativa. Sei uno sciocco, sei un cretino, sei... un carciofo! Ma quanto c'è da dire su questo vegetale armato? Pablo Neruda ne canta la tenerezza, il gusto e la poetica bellezza nei suoi versi; la cultura culinaria lo declina in centinaia di ricette; la scienza ne esalta le proprietà disintossicanti. Ovviamente fritto è buono tutto, pure una scarpa, ma se nell'olio bollente tuffiamo una prelibatezza il risultato sarà certamente un successo. Croccante, dorato, salato, delizioso. Il carciofo fritto è praticamente un entry level, un cavallo di troia che da bambini ci propinavano per tentare di farci assumere i giusti nutrienti, camuffandolo e rendendolo appetibile (come se ce ne fosse il bisogno, pensandoci ora). Le facce che tanti di noi da fanciulli hanno fatto, costretti ad ingurgitarne almeno uno, adesso ci provocano un sorriso; il carciofo è il simbolo del passaggio dall'infanzia all'età adulta: cominci ad amarlo quando diventi grande. Ora siamo adulti ed anche affamati, quindi: prendiamo un bel

salse

Cimarolo della varietà Romanesco, puliamolo ben bene, lasciando il gambo lungo quanto basta per afferrarlo saldamente, e tuffiamolo in un bagno d'olio. Il procedimento potete leggerlo bene nell’articolo dedicato a questa preparazione. Sto parlando dei carciofi alla Giudìa. Quando saranno fritti alla perfezione, siamo pronti per salare questo meraviglioso dono della terra e già basterebbe per godere forte, ma a noi non basta. Solitamente si aggiungono una o due gocce di limone, e da questa consuetudine ho pensato che sarebbe perfetto lasciarsi cullare dall'avvolgente cremosità di una salsa che sembra creata apposta per i carciofi. L'aioli, diffusa quasi tutti i paesi dell'area mediterranea. è considerata un patrimonio della cucina catalano-provenzale. Nasce come salsa povera a base di aglio pestato, olio di oliva e sale, pensata per accompagnare principalmente patate lesse, verdure e pesce. Oggi è arricchita con il tuorlo d'uovo emulsionato come a creare una maionese molto più aromatica.

Ecco cosa ci servirà: • 4/5 spicchi d'aglio • 1 tuorlo d'uovo • 210 g di olio di semi di girasole (o altro olio neutro) • 90 g di olio extravergine di oliva • il succo di 1 limone filtrato • Sale e pepe Procediamo, quindi, pestando 4 o 5 spicchi d'aglio con il sale grosso, fino a creare una crema liscia e densa, a questo punto possiamo trasferirla in una bowl (o in un mixer se siete pigri come me) insieme al succo di un limone filtrato, un tuorlo d'uovo e poco pepe macinato fresco. Inizieremo a sbattere il tutto e ingloberemo l'olio (a me piace usare un mix di olio neutro e extravergine in rapporto 70/30) dapprima poche gocce per volta e successivamente a filo, lentamente. Vedremo la salsa addensarsi e diventare lucida, a questo punto è pronta da servire. Meglio prepararla qualche ora prima per farla riposare un po' in frigo e permettere a tutti gli aromi di svilupparsi.


QUEL SAPORE UN PO’ ORIENTALE PER LE POLPETTE FRITTE

L'arte del riutilizzare è il filo conduttore nelle cucine di tutto il mondo, dapprima per cercare di sfamare la famiglia con la minor spesa possibile, cercando di non sprecare, creando piatti di recupero, e che piano piano sono entrati a far parte della nostra tradizione. Ne esistono un'infinità, ma solitamente tutto finisce ad avere una determinata forma, iconica, la polpetta. Di bollito, di pesce, di maiale, di verdure, di pane, di formaggio, di manzo, di ceci... insomma, tutto si può trasformare in polpetta, e con molta probabilità sarà più buono della sua forma originale. Se poi la materia prima utilizzata è qualcosa di incredibile e pregiato come la carne dei nostri burger, questa pietanza assume il potere di sconvolgere ogni palato con la sua incredibile prepotenza. La nonna le fa al sugo, la zia con uvetta e pinoli, noi invece le abbiamo presentate in uno dei piatti più globalmente diffusi che il mondo moderno conosce: le polpette fritte. Ho pensato di accompagnarle con una salsa tipica del K(orean)BBQ. Particolarmente speziata, dolce e piccante, grazie all'uso del Gochujang, uno degli ingredienti principali della cucina coreana. Questa pasta è un condimento fermentato a base di peperoncino in polvere e riso glutinoso. Gli ingredienti sono i seguenti: • 150 g zucchero di canna grezzo • 120 g salsa *tamari (o in mancanza salsa di soia) • 15 g aceto di vino di riso • 10 g pasta di Gochujang • 5 g olio di sesamo • 5 g zenzero fresco macinato • 5 spicchi d'aglio macinato • 30 g miele • 5 g amido di mais • 15 g acqua • 0,5 g pepe macinato fresco

*Il tamari: più denso, complesso e più morbido della salsa di soia, è un sottoprodotto della produzione del miso, in particolare il liquido che viene estratto dalla pasta di miso fermentata. Interessante notare che, pur essendo così simili, la salsa di soia è un prodotto della Cina e il tamari è un prodotto del Giappone.

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Mescolate lo zucchero di canna, il tamari e tutti gli altri ingredienti, fatta eccezione per l'amido di mais e l'acqua, in una casseruola. Portate ad ebollizione mescolando continuamente, a parte stemperate l'amido nell'acqua e versatelo nella miscela di tamari bollente. Continua a mescolare la salsa. Abbassare la fiamma e cuocere finché la salsa non si sarà addensata, circa 3 - 4 minuti. Utilizzare immediatamente o conservare coperto in frigorifero per un massimo di 2 settimane. Potete decidere di saltarci le polpette e servirle come le famose alette di pollo coreane, magari con una spolverata abbondande di semi di sesamo tostato e cipollotto fresco sminuzzato o come deeping sauce.


IL CURRY KETCHUP PER I CORN DOG

Il corn dog è l'ennesimo, magnifico, risultato, dell'unione di due culture che si incontrano. Amo il cibo anche per questo, fusione, integrazione, nuovi gusti, nuovi orizzonti; secondo alcune voci, queste delizie dello street food, sono un alimento che avrebbe avuto origine dagli immigrati tedeschi che si trasferirono in Texas nel dopoguerra. Simbolo delle fiere di paese, dei circhi, delle sere d'estate in Minnesota, e dei marciapiedi delle Big Cities, come tutti gli alimenti più golosi è composto da pochi ingredienti: Un würstel, pastella di farina di mais, uova, latte, olio bollente, ed uno stecchino (quello meglio non mangiarlo). Il corn dog grida USA (un po’ come Homer Simpson in qualche scena), ma grida anche melting pot: voglio quindi rendergli onore unendo anche nella salsa culture differenti. Solitamente viene servito con della semplice senape, ma io vi consiglio di provarlo con una salsa che nasce per un altro piatto tipico a base di wurstel, il currywurst. A base di concentrato di pomodoro o ketchup, salsa Worcestershire e curry in polvere. Ma io dico, visto che il nostro Gianfranco Lo Cascio ci ha donato la ricetta per il ketchup scientifico perchè non partiamo da lì per realizzare la nostra salsa? (la trovate a pagina 92 del numero di settembre 2020 del BBQ4All Magazine).

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Ecco dunque gli ingredienti: • 600 g di Ketchup • 2 g di Curry Madras in polvere • Cipolline sott’aceto a piacere Una volta pronto il ketchup possiamo personalizzarlo unendo il miglior Curry Madras in polvere che riuscite a trovare. Dopo averlo fritto e asciugato a dovere, prendiamo il Corn Dog lo irroriamo di Curry Ketchup, aggiungiamo ancora una spolverata leggera di curry e per finire un trito fine di cipolline sott'aceto. Questa ricetta sarà pure semplice, ma il successo è assicurato. Non vi resta quindi che immergere il vostro Corn Dog nella salsa e teletrasportarvi (almeno con la mente) negli USA. Buon viaggio, sono sicuro vi sentirete parte dell’American dream, sfrecciando sulla Route 66.


Parmigiano Reggiano

tutto quello che c’è da sapere sul formaggio stagionato per eccellenza De Gustibus a cura di Caterina Vianello Ci sono cibi cui avvicinarsi assomiglia ad una ritualità consolidata nei secoli: tra questi, sicuramente è da inserire il Parmigiano Reggiano, quelli che moltissimi italiani considerano “il formaggio” stagionato per eccellenza. Nel ricchissimo panorama caseario italiano, il Parmigiano Reggiano è il prodotto che forse più di ogni altro racchiude, prima ancora che un valore gastronomico, anche un valore culturale. Siete davvero sicuri di conoscere tutto del Parmigiano Reggiano? Dopo questo articolo, vi ricrederete.

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Dicevamo: è una ritualità anche avvicinarsi al Parmigiano Reggiano. Nell’incisione della forma, il primo ad entrare in scena è il coltello a mandorla, per praticare una linea mediana. Segue quello a uncino, per incidere la crosta lungo la linea mediana e lo scalzo. Poi quello a pugnale, per aprirsi un varco e consentire ai due coltelli a mandorla, posti a 45° gradi tra la parte piana e lo scalzo, di superare la resistenza della


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crosta e arrivare finalmente alla pasta. Ciò che accade dopo è pari all’apertura di un volume antico, miniato, da collezione. Un’attesa non priva di tensione ed infine, ecco: il giallo paglierino intenso della crosta, sulla quale è incisa la storia stessa del formaggio (cioè mese e anno di produzione, numero di matricola che contraddistingue il caseificio e scritta a puntini su tutta la circonferenza), lascia spazio a quello più tenue della pasta, cui spetta il compito di continuare la narrazione anticipata dalla crosta. Pochi altri prodotti hanno saputo attraversare la storia italiana coniugando geografia, selezione di razze vaccine, tecniche di lavorazione e stagionatura. UNA STORIA… STAGIONATA. INDIETRO NEL TEMPO Non a caso ad accorgersi dell’eccezionalità del Parmigiano si comincia presto, già a metà del Quattrocento. Pantaleone da

Confienza, accademico e medico della corte sabauda (ma anche grande viaggiatore e giornalista gastronomico ante litteram) cui si deve quel capolavoro letterario-caseario che è il “Trattato dei latticini”, nel 1477 ne tesse le lodi parlando del suo “bellissimo aspetto”, dell’estrema cura con cui era stagionato, ma soprattutto decantandone la bontà, introducendo già un’indicazione circa l’influenza della stagionatura sul sapore della pasta: il miglior Parmigiano è quello “confezionato in Primavera e stagionato al punto giusto, vale a dire all’età di tre o quattro anni”. Nel corso dei secoli poco è cambiato se è vero che gli esperti di oggi affermano che il formaggio deve passare due estati: nel corso di due anni di invecchiamento infatti, le trasformazioni enzimatiche cambiano il sapore della pasta, rendendolo più intenso. E ben poco è cambiato anche in relazione alla zona di

produzione, che il disciplinare apposito fissa rigidamente nei territori delle province di Parma, Modena, Reggio Emilia, Bologna alla sinistra del fiume Reno e Mantova alla destra del fiume Po. Qui infatti, nel XII secolo, grazie al lavoro di bonifica dei terreni ad opera dei monaci benedettini e cistercensi per i quali venivano utilizzati i bovini, si comprende presto come il bestiame necessiti di ricoveri adeguati: ecco allora le grancie, una sorta di aziende agricole che affiancavano all’allevamento anche la produzione di latte e casearia. Si deve alle vicine saline di Salsomaggiore il contributo finale, quel sale così prezioso per conservare e stagionare il formaggio. Le forme sono sin da subito di dimensioni considerevoli (100 libbre, ci ricorda il sempre preciso Pantaleone: cioè dai 35 ai 45 kg, esattamente come oggi), e la bontà del prodotto è tale da fargli varcare ben presto i confini


addirittura come un panorama. È una foto aerea dell’Emilia presa da un’altezza pari a quella del Padreterno”), è pur vero che tutto inizia molto prima, dal latte o meglio, dalle vacche.

Se di fronte ad una forma imponente e odorosa aperta a metà, siamo obiettivamente attratti dagli elementi finali del processo produttivo (cioè profumo, colore e gusto: il grande Guareschi ebbe a dire “a fissare con una fortissima lente d’ingrandimento la grana del Parmigiano, essa si rivela non soltanto come un’immutabile folla di granuli associati nell’essere formaggio, ma

PARMIGIANO REGGIANO: LE PROTAGONISTE Diverse sono le autrici che mettono la loro firma su un formaggio che, a seconda della materia prima, è buono, ottimo o memorabile. Prevalentemente si utilizza il latte delle vacche Frisone, quelle con il manto pezzato bianco e nero. Le più vocate tuttavia sono le vacche di razza Reggiana, le Vacche Rosse, il cui latte è particolar-

mente adatto alle stagionature lunghe: ecco perché il formaggio da Vacche Rosse non viene posto in commercio prima del 24° mese. Ci sono poi le vacche Brune Alpine Italiane, che donano un latte più ricco, usato soprattutto per la produzione del Parmigiano di montagna, dal sapore più intenso di quello di pianura. IL PROCESSO PRODUTTIVO Il processo produttivo è lungo: per arrivare alla forma regale con cui vi abbiamo accolto all’inizio (diametro di 35-45 cm, altezza dello scalzo 20-26 cm, peso medio 40 kg, per oltre 550 litri di latte) si parte dalla

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regionali e raggiungere, dai porti di Pisa, Livorno e Genova, il Mediterraneo e attraverso il nord, la Germania, la Francia e le Fiandre. Il processo produttivo si affina, il successo è inarrestabile.


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mungitura. Al latte scremato della mungitura serale si aggiunge il latte intero della mungitura del mattino: dopo la consegna al caseificio, il latte viene versato nelle tipiche caldaie di rame a forma di campana rovesciata, aggiungendo quindi il caglio di vitello e il siero innesto (coltura naturale di fermenti lattici ottenuta dall’acidificazione spontanea del siero residuo della lavorazione del giorno precedente). Prende avvio la coagulazione: utilizzando lo spino, la cagliata viene successivamente ridotta in piccoli granuli quindi cotta lentamente fino alla temperatura di 55°C. I granuli si lasciano sedimentare sul fondo della caldaia, ottenendo così una massa compatta che viene poi estratta, tagliata in due parti, avvolta nella tela, e immessa in una fascera dalla quale prenderà la forma inconfondibile. Dopo la fascia marchiante, tocca alla salatura: le forme vengono immerse in una soluzione salina per poco meno di un mese, quindi ha inizio la stagionatura. Allineati, silenti, in fila su lunghe tavole di legno, i futuri Parmigiani, riposano per almeno 12 mesi, età minima. A questo punto entrano in scena gli esperti del Consorzio: a loro spetta infatti il complesso compito di valutare le forme e la loro perfezione attraverso un esame che prevede l’utilizzo di martelletti,

aghi a vite, tassello. Dal suono emesso dalla forma colpita dal martelletto e dall’estrazione di una piccola quantità di pasta si giunge alla definizione di tre categorie qualitative, prima (quella che risponde appieno al disciplinare e che prosegue la stagionatura), seconda (con leggeri difetti nella struttura della pasta o sulla crosta e che viene quindi destinata ad un consumo da tavola), terza (lo scarto: difetti evidenti che non consentono l’apposizione del marchio DOP). PARMIGIANO REGGIANO: COME LA STAGIONATURA CAMBIA IL PRODOTTO Se all’inizio abbiamo parlato di valore culturale del Parmigiano Reggiano, è perché sono le diverse stagionature a mettere alla prova il palato, la preparazione e la memoria gustativa del consumatore. Non è una questione di spocchia: il Parmigiano sa rendersi accessibile ai più a partire dai 12 e fino ai 24 mesi, con sapori armonici e delicati, realizzando un equilibrio misurato tra dolce e saporito, con note di latte, frutta fresca e frutta secca. La complessità tuttavia aumenta con il tempo di stagionatura ed è a partire dai 30 mesi che il Parmigiano seleziona i palati, manifestando aromi e profumi inesplorati, richiedendo una capacità di assaggio più articolata, che deve abbandonare l’immediatezza per guadagnare invece profondità e calma. Il colore si fa più intenso, al naso arrivano note in cui la sapidità svela pian piano l’erbaceo, memoria dell’alimentazione delle vacche. La pasta è un manifesto che


racconta di sé - attraverso la consistenza friabile e granulosa - ciò che accadrà in bocca, luogo in cui il calore del palato dischiuderà un carattere deciso, arricchito da note di spezie, frutta secca e brodo di carne. La dolcezza tuttavia, non è dimenticata né perduta. La consistenza non oppone resistenza al morso, che attraverso il gioco a due di masticazione e salivazione consente una lettura quasi senza segreti di tutte le componenti aromatiche.

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Con le stagionature prolungate del Parmigiano, il palato inizia a divertirsi: in particolare ad 80 mesi di stagionatura il Parmigiano abbandona il carattere rassicurante del formaggio-simbolo gastronomico, per raggiungere livelli di intensità accessibili solo ai palati più preparati. La pasta qui diventa un libro di antiquariato, che richiede un apparato olfattivo e gustativo attrezzato, per aprirsi e svelarsi. Le note paglierine della pasta si fanno decise, imperiose, il naso percepisce intuitivamente la piccantezza, che al palato è la nota che apre il sipario. Il morso trova una consistenza della pasta che è solubile, non adesiva e in cui a farla da padrone sono i cristalli di tirosina: se tra gli aromi lattici si percepiscono bene quelli cotti di burro fuso, e se nel vegetale si distinguono le note erbacee secche, a prendersi tutto il palcoscenico è l’umami, con il sapore del brodo di carne. La sapidità è complessa e non diventa mai banale carattere salato: semplicemente accentua ogni singola nota aromatica, innalzandola. Se l’umami concentra lodi e luci della ribalta, i palati più allenati non tarderanno a notare anche chi è rimasto ai lati del palco, con un ruolo secondario ma pur fondamentale: albicocche, frutta secca come nocciola e noce, miele, sottobosco ed infine, cuoio. Gli 80 mesi sono un privilegio, insomma. Il consiglio è quello di prendersi del tempo, per degustare: inspirare, socchiudere gli occhi e lasciare che in bocca, tra lingua a palato, quella maestosa forma aperta a metà davanti a voi, vi conceda regalmente una parte della propria, lunghissima, storia.


Alla fiamma: il nostro corso di cucina pratica Qual è la differenza tra un coltello per sfilettare e uno per disossare? Cos’è il taglio mirepoix? Come si seziona un pollo intero?

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Queste e tante altre risposte nel nostro primo corso di cucina pratica passo passo.


PRIMA LEZIONE

PIANO COTTURA E FORNO: CONOSCI GLI STRUMENTI A TUA DISPOSIZIONE.

Conoscere cosa ci si appresta a cucinare è per noi fondamentale per ottenere un risultato ottimale. Tutto ciò che possiamo conoscere su un ingrediente per noi è fondamentale. Lo stesso, vale per le tecniche di cottura: il nostro è un approccio scientifico alla cucina che si propone l’obiettivo di spiegare il perché delle cose e dei fenomeni e soltanto dopo la messa in pratica. In quest’approccio scientifico, non può mancare la conoscenza degli strumenti grazie ai quali cuciniamo.

In questa prima puntata della guida per scoprire com’è fatta in ogni sua parte la nostra cucina, ci concentreremo su due elementi che sicuramente sono presenti nelle nostre case: il piano cottura ed il forno. Di entrambi, ne sono disponibili sul mercato diversi tipi, più o meno utili a seconda dell’utilizzo che se ne deve fare. Cercheremo di illustrarvi brevemente e nel modo più chiaro possibile i pro ed i contro di ogni tipologia.

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La cucina di casa è, spesso, il nostro primo campo di battaglia: prima ancora dei dispositivi di cottura outdoor, prima ancora delle sperimentazioni, prima di tutto, abbiamo sicuramente messo a soqquadro la cucina di casa, con grida di disperazione dei nostri partner destinati ad aiutarci a riparare i guai e… qualche volta a piantarci in asso nel bel mezzo della confusione. Ma quante volte non siamo stati a conoscenza delle potenzialità e delle criticità degli strumenti a nostra disposizione?


PIANO COTTURA Per gli amanti della cucina, la scelta del piano cottura è fondamentale durante la fase di arredo di una casa: andiamo a vedere insieme un po’ di analogie e differenze, chissà che non si chiariscano le idee a chi è in procinto di fare un bel passo in avanti. Piano cottura a gas: il caro, vecchio piano cottura a gas che tutti conoscete. Piano cottura tradizionale in gran parte delle case del mondo che prevede la presenza di una cucina. A livello di costi, il gas è certamente più conveniente da utilizzare rispetto ad altre fonti di energia, ma bisogna tener conto del problema sicurezza. La resa però non è altrettanto valida: servono grandi quantità di gas per raggiungere e mantenere delle temperature, il che lo rende il sistema decisamente meno performante da usare, con tempi molto lunghi di utilizzo e quindi dispendio energetico. Inoltre, i piani cottura a gas non sono per nulla pratici: i fuochi si devono smontare, pulire ed asciugare dopo ogni cottura.

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Piano cottura con tecnologia ad induzione: tra i più moderni in circolazione e a dirla tutta, tra i più efficienti. Questi piani sono composti da speciali bobine poste sotto il piano di cottura. Le bobine generano un campo magnetico che si trasferisce al pentolame (che deve essere adatto a questo tipo di cottura), generando una resa energetica molto elevata: basta pensare che un litro d’acqua giunge al punto di ebollizione in appena 3 minuti. Un piano cottura ad induzione utilizza esattamente il calore di cui ha bisogno per cuocere il cibo: ciò si traduce in zero sprechi. Come dicevamo poco più su, c’è bisogno però di acquistare utensili e pentolame adeguato: infatti questi devono avere uno strato alla base magnetico e fondo spesso, per questo le normali pentole e padelle non funzionano. Altri vantaggi non di poco conto: il piano ad induzione, utilizzando soltanto il calore davvero necessario, non surriscalda l’ambiente circostante. E poi, volete mettere la facilità di pulizia di questo piano… completamente piatto? Piano cottura elettrico: certamente tra i più diffusi nelle cucine, ma probabilmente non tra i più performanti per tutta una serie di questioni. Sono composti da una resistenza di forma circolare concentrica, scaldata con l’ausilio della corrente e alloggiata sotto un piano di ceramica oppure ghisa. Comporta un notevole spreco di energia, perché il fondo della pentola si deve prima riscaldare e poi si passa a cuocere e mantenere la temperatura al suo interno.


Forno elettrico: sono in linea di massima più sicuri dei forni a gas ed offrono un maggior controllo della situazione di cottura. Le resistenze sono poste ai lati del forno e ciò garantisce in linea di massima una temperatura omogenea in tutta la camera di cottura.

Solitamente, i forni elettrici hanno anche un sistema di ventilazione, che è decisamente importante: oltre a tenere la temperatura omogenea nella camera di cottura grazie alle sopracitate resistenze, la ventilazione fa in modo che tutta la teglia (o le teglie) presenti nel nostro forno abbiano la stessa quantità di calore. Forno stagno: il forno a camera stagna è un forno semiprofessionale. Si tratta di un forno con chiusura ermetica, sigillata, in modo tale da impedire la dispersione del calore al di fuori. Con un forno stagno, si impedisce quindi lo spreco di energia ed una resa molto più uniforme. Il forno stagno non è un forno facilissimo da usare, soprattutto per una questione di sicurezza: la camera di cottura raggiunge spesso pressioni altissime e durante l’apertura bisogna prestare attenzione massima per evitare ustioni anche importanti a causa della fuoriuscita improvvisa del vapore acqueo. Forno a vapore: molto interessante questo tipo di forno ed amato da chi predilige cotture miste (alcuni forni possono partire a vapore e poi innescare altri tipi di cottura) e per chi ama cuocere a bassa temperatura, oltre che per affumicare. Infatti, la camera del forno può contenere anche un legno non resinoso. Una lieve combustione dà vita ad una quantità di fumo adatta ad insaporire i cibi presenti sulla griglia.

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UN FORNO PER OGNI OCCASIONE Il forno ha una storia antichissima: forno = calore = fuoco. Di certo, ne è passato di tempo dai primi esperimenti di forno che risalgono all’homo sapiens, ma di base la logica è quella: una camera riscaldata da una fonte di calore, ove si possono cuocere cibi per un tempo più o meno prolungato. Gli Egizi inventarono un forno con apertura sul lato superiore, ma presentava problemi di dispersione di calore molto gravi. I greci, circa nel 1700 a.C., scoprirono che il forno con apertura laterale comportava minori dispersioni di calore. Dobbiamo però al 1826, in Inghilterra, per avere il primo forno a gas “moderno”, che comunque rimase appannaggio dei ricchi a causa dell’elevato costo energetico. Il forno elettrico, finalmente, riuscì ad entrare nelle case di più persone. Ad oggi, i forni spesso sono parte integrante della cucina e spesso sono posizionati ad altezza uomo, per permetterci una agevole cottura e controllo di questa, oltre a mere (ma ovvie e necessarie) ragioni di sicurezza. Le due grandi distinzioni vengono fatte a seconda dell’alimentazione: forni elettrici oppure forni a gas. Inoltre, i forni possono essere statici (senza ventole) o ventilati (e quindi con ventole).


BBQ4All: FROM ZERO TO HERO Capitolo 1

Il set up

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di un dispositivo E

bbene sì, abbiamo ascoltato il grido d’aiuto dei nostri lettori: sappiamo che in molti sono alle prime armi su tutto ciò che riguarda il vasto mondo del bbq e della griglia e che spesso, seppur preparati perfettamente a livello teorico, tantissimi neo-griller hanno grandi difficoltà a capire come tradurre in modo pratico tutto ciò che hanno imparato leggendo la Masterclass e i post sulla Community Facebook. Alcune tra le domande più significative e gettonatissime? Come si fa il foil su un Boston Butt enorme? Dove va infilato precisamente il termometro? Come accendo la ciminiera senza sporcare il cotto del terrazzo, che poi mia moglie sbraita? Come si fanno le injection? Sono cose fondamentali che ci vengono chieste di continuo. Giustamente. Questa nuova rubrica vi darà tutte le risposte: vi spiegheremo bene tutto, partendo da zero o quasi, ma ve lo faremo anche vedere nella pratica, attraverso fotografie e illustrazioni a prova di neofita. Inoltre questa rubrica nasce anche come risposta a qualche pacata protesta dei lettori che vorrebbero “Più bbq! Più bbq!”. Abbiamo spiegato spesso come questo Magazine sia rivolto al mondo della cucina e del food a tutto tondo, e che il bbq (che è stato invero sempre presente in qualche modo che sia nelle ricette, nei metodi, negli articoli di approfondimento) è solo una delle tante espressioni di questa meravigliosa arte. Tuttavia, vogliamo accontentare proprio tutti e inserire una rubrica fissa in cui si parli solo di carboni, griglie e fuoco anche su quei numeri del Magazine (tipo quello attuale) che si discosteranno un po’ di più dall’argomento che tanto amate. Ma allora significa che non parleremo di bbq nel resto del giornale? Assolutamente no! Dedicheremo articoli e numeri interi a questa materia affascinante, anche perché se è vero che molti dei lettori sono alle prime armi, è altrettanto vero che ce ne sono altri già esperti. Vogliamo solo prenderci un impegno con tutti voi promettendovi ciò che avete chiesto.


Set up per cotture dirette Di solito, per una cottura diretta la prima cosa che ci viene in mente di fare è prendere il carbone ben acceso e riversarlo nel braciere. Ma siamo sicuri che sia il metodo più efficiente e più sicuro? Esiste un metodo alternativo per non creare fiammate non appena posizioniamo un alimento piuttosto grasso sulla griglia?

Il set up a tre zone è un metodo molto simile al precedente, con la differenza che la griglia viene virtualmente divisa in tre parti: una ad alta temperatura, una a media temperatura ed una come safe zone. La temperatura viene gestita con una maggiore o una minore quantità di carbone posizionato sotto alla griglia. Questo metodo è perfetto per non carbonizzare quegli alimenti che necessitano di una cottura prolungata: si posiziona il cibo prima sulla griglia molto calda e poi si sposta sulla griglia con temperatura più moderata. La safe zone si usa esattamente come per il precedente set up. Nei dispositivi a gas normalmente non si ha il rischio di fiammate perché i bruciatori sono schermati dalle flavorizer bar (barre aromatizzanti), e quindi i succhi in caduta non vengono a contatto con la fiamma. Tuttavia, in caso di alimenti molto grassi, le barre non riescono a vaporizzare tutti i succhi e quindi qualche fiammata potrebbe verificarsi. In questo caso è sufficiente lasciare spento, se possibile, un bruciatore, in modo da riservarsi una safe zone anche sul dispositivo a gas.

ZONA DI COTTURA DIRETTA

ZONA CALORE INTENSO

ZONADI SICUREZZA

ZONA CALORE MEDIO

ZONADI SICUREZZA

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Parliamo del set up a due zone e di quello a tre zone. Nel primo caso si tratta di dividere virtualmente in due la griglia di cottura: una metà con sotto il carbone ed una metà da utilizzare come safe zone, la zona di sicurezza. L’obiettivo di questo metodo è quello di posizionare l’alimento nella zona di sicurezza al primo accenno di fiammata e poi, chiudendo il coperchio, spegnerla definitivamente.


Set up per cotture indirette Nella cottura indiretta l’alimento non viene irraggiato dal calore del combustibile ma si cuoce per convezione. È imprescindibile, quindi, l’utilizzo del coperchio. Ma dove dobbiamo disporre l’alimento in cottura? In questo caso il metodo più semplice è quello di utilizzare il set-up a zona di cottura laterale: per dirlo in modo molto semplificato e chiaro, carbone da una parte e ciccia (oppure altro alimento) dall’altra. Chiudendo il coperchio avviene la cottura. Questo è il set-up più versatile in quanto si adatta alla maggior parte delle cotture. Nei dispositivi a gas si ottiene accendendo uno o più bruciatori a seconda della temperatura da tenere e lasciandone spento almeno uno, sopra il quale posizionare l’alimento.

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Il set up a zona di cottura centrale è il metodo che andiamo a utilizzare, invece, quando vogliamo esser sicuri che il calore investa il nostro alimento omogeneamente oppure quando usiamo il girarrosto che, per sua caratteristica costruttiva, viene posizionato centralmente rispetto alla griglia. In questo caso è sufficiente posizionare il carbone nei due lati del braciere e mettere l’alimento in cottura nella zona centrale della griglia, che rimane libera dal calore diretto. Usualmente, in questo metodo, si usano i cesti porta carbone perché assicurano una disposizione ordinata dello stesso nel braciere. In un dispositivo a gas questo set up è applicabile a seconda di come sono posizionati i bruciatori e dal loro numero. Infine, il set up a zona di cottura circolare è un metodo che prevede la disposizione del carbone nella parte centrale della griglia, posizionato nei cesti, in modo da tenerlo raggruppato mentre gli alimenti saranno messi sulla parte esterna della griglia. In questo modo è possibile mettere in cottura una maggiore quantità di alimenti a patto che di piccola misura (alette o cosce di pollo, ad esempio, ma anche gamberoni). Questo set up è replicabile solamente in dispositivi a gas di tipologia kettle.


Set up per low&slow Nella cottura low&slow cambia solamente la disposizione del combustibile all’interno del braciere, poiché l’alimento dovrà essere posizionato come in una cottura indiretta. L’obiettivo di questi set-up è quello di eliminare o limitare al massimo la necessità di rabbocco di combustibile, specie durante le cotture molto lunghe. Per quanto ovvio, sottolineiamo che nei dispositivi a gas non c’è questa necessità. Il metodo principale per la predisposizione di un dispositivo a carbone in caso di cottura low&slow è il Minion Method: questo consiste nel disporre combustibile acceso accanto a quello spento il quale, per contatto, lentamente si accenderà garantendo il mantenimento della temperatura di cottura. La disposizione del combustibile cambia a seconda del tipo di strumento utilizzato: bullet smoker (affumicatore verticale), kettle o offset smoker (affumicatore orizzontale).

Un’ultima cosa, proprio perché ci teniamo alla pavimentazione in cotto del vostro terrazzo e all’ugola di vostra moglie, che potrebbero entrambi essere molto sollecitati senza le nostre calde avvertenze: accendere il carbone senza sporcare è molto facile, basta utilizzare il kettle. Prendete il cesto accenditore, lo riempite del carbone che vi serve, togliete dal kettle la griglia per gli alimenti e lasciate quella per il carbone. Lì sopra posizionate gli accenditori, ci appoggiate poi il cesto e aspettate che il carbone sia pronto. A quel punto non vi resterà che riversarlo nel kettle, et voilà, il tutto sarà avvenuto senza sporcare assolutamente nulla. Siamo proprio partiti da zero, ma sapete bene che ogni grande viaggio inizia sempre con un primo passo: e voi, modestamente, oggi avete mosso un gran primo passo.

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Bullet smoker: si riempie l’anello del braciere (charcoal ring) con carbone spento, avendo cura di lasciare una piccola parte centrale libera dove andremo a versare il carbone acceso. Quest’ultimo innescherà lentamente per contatto quello spento. Kettle: in questi dispositivi il Minion Method è chiamato Snake Method. Occorre creare un serpente costituito da carbone spento disponendolo lungo il bordo del braciere; poi si versa il combustibile acceso solo ed esclusivamente ad una delle due estremità della mezzaluna, dando inizio al sistema di innesco continuo. Offset smoker: normalmente questi dispositivi non richiedono l’applicazione del Minion Method perché sono alimentati a legna. Tuttavia, se si volesse utilizzarlo in un offset smoker si dovrà disporre il carbone nella firebox, creando un serpentone, aiutandosi con del materiale refrattario o comunque in grado di inibire l’accensione immediata e totale del combustibile.


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La ricetta scientifica a cura di Gianfranco Lo Cascio fotografie di Rossella Neiadin

Carbonara D

2.0

Ma prima di snocciolare tutte le novità e rivelarvi gli inusitati barbatrucchi, facciamo un ripasso della teoria e di tutte le reazioni chimiche che ci sono alla base del piatto che ci fa litigare più della suocera: la carbonara.

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opo aver fatto sempre la stessa cosa nello stesso modo per due anni, inizia a guardarla con attenzione. Dopo cinque anni, guardala con sospetto. E dopo dieci anni, gettala via e ricomincia tutto daccapo. Di anni ne sono passati quasi quattro dalla pubblicazione del famigerato video sulla mia carbonara scientifica e più che guardarlo con circospezione è decisamente ora di affinare certe asperità. Dopo una serie di esperimenti fatti e centinaia di recensioni più o meno richieste (“Sa troppo di formaggioh11!!”) ho messo a punto una nuova carbonara scientifica, la sua versione migliore fino ad ora, e mi sono ripromesso di condividerla solo con voi, miei affezionatissimi e insaziabili lettori.


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Partiamo dall’ingrediente caratterizzante: l’uovo. Da che cosa è composto? Albume e tuorlo, volgarmente chiamati bianco e rosso. L'albume è prevalentemente costituito da acqua e proteine, il tuorlo da proteine e grassi.

Che cosa succede quando somministriamo calore ad un uovo? Semplice: da liquido diventa solido. Il bianco, da liquido traslucido trasparente diventa solido e opaco. Il rosso, da liquido viscoso e brillante diventa un solido arancione dalla consistenza sabbiosa. Ma che cosa succede esattamente a livello delle strutture interne? Rinfreschiamo la memoria o familiarizziamo con due termini con cui avremo a che fare ogni volta che ci capiterà di cuocere proteine: denaturazione e coagulazione.

della denaturazione e si ha quando le proteine denaturate si separano dagli altri elementi e solidificano. Applicare calore per un tempo più o meno lungo fa in modo che le proteine creino una struttura che intrappola l'acqua e crea un gel, un solido morbido. Avete presente le uova strapazzate? La meringa? Quando due proteine denaturate si incontrano nel mare in cui sono sospese, si possono legare tra loro e poco alla volta formano un reticolo tridimensionale solido, che ha intrappolato l'acqua al suo interno: questa è la coagulazione. Se questo reticolo proteico diventa troppo fitto, finisce che l'acqua intrappolata viene “strizzata” fuori e ciò che rimane è un groviglio di proteine asciutte. Ecco spiegato l'uovo troppo sodo in cui l'albume sembra silicone e il tuorlo una biglia di gesso verde.

Per spiegare bene il concetto di denaturazione proviamo ad immaginare uno di quei cavi arrotolati a forma di elica. Avete presente le cornette del telefono degli anni '80? Immaginate che le proteine siano fatte a spirale.

Quattro punti fondamentali per capire la differenza fra coagulazione e denaturazione:

La denaturazione è quel momento in cui tagliamo i legami agli estremi che obbligano l'elica a rimanere arrotolata. Una volta denaturate, le proteine possono “srotolarsi” e combinarsi insieme ad altri elementi. La denaturazione può avvenire per via chimica, meccanica o termica. L'acidita del limone, per esempio “cuoce” le proteine. L'albume montato a neve è un esempio di denaturazione per azione meccanica e la cottura dell'uovo al tegamino è un esempio di denaturazione e coagulazione per via termica.

2. La coagulazione è un processo visibile, la denaturazione non lo è.

Immaginiamo le proteine dell’uovo come dei gomitoli di lana sospesi sul pelo dell'acqua. Inserendo sostanze acide, agitando l'acqua o aumentando la temperatura, alcune proteine cominciano a “srotolarsi” parzialmente: si “denaturano”.

Adesso focalizziamoci sulla coagulazione delle proteine dell'uovo per via termica. L'uovo e l'albume contengono diverse proteine. Non tutte si denaturano allo stesso modo e non tutte coagulano allo stesso modo. Coagulano a temperature diverse, alcune non coagulano affatto e alcune non si denaturano facilmente col calore.

La coagulazione invece è molto più evidente

1. La denaturazione avviene SEMPRE prima della coagulazione. Le proteine prima si “srotolano” e poi si solidificano.

3. La coagulazione è possibile SOLO su proteine denaturate. 4. La coagulazione può essere controllata, la denaturazione no. Un po' la differenza che c'è tra la manopola del volume e il tasto di accensione della radio. Posso stabilire quanto coagulare ma non posso stabilire quanto denaturare. Si può quindi sovracoagulare ma non si può sovradenaturare.

095 - BBQ4All Magazine

LE UOVA


Partiamo dall'albume. Le proteine più importanti che ci interessa conoscere sono 3: Ovalbumina che rappresenta il 54% dell'albume, si denatura sia per azione meccanica che termica e coagula ad una temperatura minima di 84°C. Conalbumina che rappresenta il 12% dell'albume, si denatura per azione termica e coagula a 61,5°C. Ovomucina, non coagula ma stabilizza la schiuma. Il tuorlo ha una struttura più complessa perché non è costituita solo da proteine. Il rosso d'uovo è fatto dal 50% di acqua, dal 32% di grassi e dal 16% di proteine. Questi grassi e queste proteine, di solito, sono però associate e legate insieme in particelle, che prendono il nome di lipoproteine. Il tuorlo è una dispersione di granuli in una massa acquosa. È già di suo, per conformazione naturale, un'emulsione, cioè una soluzione di acqua, proteine e grasso stabilizzata, grazie anche all'elevato contenuto di lecitine. Fissate bene questo passaggio perché è importante in funzione della ricetta. Del perché e percome il tuorlo d'uovo si solidifichi ci importa fino a un certo punto. Ciò che è importante sapere è che le maggiori responsabili della capacità del tuorlo di diventare duro sono le lipoproteine LDL (Low Density Lipoproteins), che rappresentano all'incirca l'85% del totale delle proteine presenti nel tuorlo. Queste lipoproteine iniziano a coagulare a 65°C e finiscono di coagulare a 70°C. Per farla breve, alcune proteine dell'albume solidificano a 61 gradi e mezzo ma la maggior parte a 84 gradi. La maggior parte delle proteine del tuorlo inizia a coagulare a 65° e finisce di coagulare a 70°C. Questo ci dice che gli stadi intermedi aumentano, man mano che sale la temperatura, la viscosità del tuorlo.

Temperatura di coagulazione delle uova

096 - Almanacco 2021

Contenuto su un uovo intero

Temperatura di coagulazione

m.g.

Acqua

Albume

58-60%

Inizio ispessimento 62°C Coagulazione 65°C

Tuorlo

30-32%

Inizio inspessimento 65°C Coagulazione 70°C

29%

53,50%

Uovo intero

88-90%

Inizio inspessimento 65°C Coagulazione 68°C-70°C

8,70%

77,10%

Guscio

10-12%

87,70%

Note: le temperature di coagulazione possono essere differenti in base alla freschezza dell'uovo e all'ingrediente con cui si cuoce. L'albume fresco è più solido e meno trasparente di quello vecchio, difatti coagula tra 62°C e 64°C. Le temperature di coagulazione diminuiscono con l'aumento del pH e del passare del tempo; quando un uovo invecchia il pH aumenta, modificando la sua struttura e il suo comportamento a contatto con il calore. Ingredienti come sale e succo di limone, fanno abbassare le temperature di coagulazione, mentre lo zucchero le fa aumentare


097 - BBQ4All Magazine


LA NUOVA

CARBONARA SCIENTIFICA

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Dose per 6 persone: 240 g di tuorli d'uovo/ 60 g di Parmigiano Reggiano 30 mesi GLC Top Selection/ 40 g di pecorino romano/ 600 grammi di spaghetti di Gragnano/ 160 g di guanciale/ Aceto di mele q.b./ Pepe q.b.


099 - BBQ4All Magazine


100 - Almanacco 2021


Voglio una salsa cremosa, senza grumi, che non sappia di gallina padovana sotto la pioggia d’autunno e che non faccia il filo di bava quando sollevo la forchetta. Non voglio sentire il sapore sulfureo dell'uovo cotto ma non voglio nemmeno avere la sensazione di mangiare pasta e gel per i capelli. La soluzione si chiama zabaione salato, ma fatto con soli tuorli: consiste nello scaldare i tuorli sbattuti a bagnomaria insieme ad altri ingredienti. In questo caso, con Parmigiano Reggiano e pecorino romano. Ho scelto lo zabaione salato fatto con soli tuorli per 5 motivi fondamentali: 1. L'uovo come agente schiumogeno Le uova sbattute aumentano il loro volume poiché schiumano inglobando aria 2. L'uovo come agente legante Abbiamo visto che le uova sono viscose e coagulano in uno stato semisolido o solido. Questa loro caratteristica influisce sulla capacità di legare altri ingredienti; pensate alle crocchette di patate o alle polpette. I tuorli con le loro proteine possono addensare i liquidi, conferendo una struttura soffice e cremosa. Esattamente quello ci serve nella nostra salsa. 3. L'uovo come agente emulsionante I tuorli stessi sono una concentrata e complessa emulsione di grasso in acqua. Pertanto contengono al loro interno molecole emulsionanti come le lecitine. Queste hanno una parte idrofila che si lega all'acqua e una parte idrofoba che si lega ai grassi. In pratica fanno da collante fra tutti questi diversi elementi. Avete presente la maionese? Lo stesso principio.

5. Solo tuorlo e niente albumi Lo potete leggere nella tabella sulle temperature di coagulazione delle uova. L’albume è composto quasi al 90% di acqua, ha un sapore blando e dona alle preparazioni un’elasticità che noi dobbiamo evitare come la peste. Immaginate una crema che torna su come la bava di un San Bernardo. Il tuorlo, invece, è composto per metà da grassi e proteine, elementi che ci assicurano sapore, cremosità e stabilità, tutte caratteristiche che noi pretendiamo da una carbonara perfetta. Due tuorli grandi a testa e il raggiungimento dei 62,5°C ci assicureranno gusto, consistenza e, fattore non meno importante, sicurezza alimentare.

101 - BBQ4All Magazine

4. L'uovo come agente coagulante e gelificante Le proteine del tuorlo, quando sono riscaldate, formano un reticolo in grado di inglobare i liquidi. Ad esempio nei budini, nella salsa inglese e nella crema pasticciera, l'aggiunta delle uova determina la gelatinizzazione del liquido.


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LO ZABAIONE SALATO

A questo punto consideriamo circa 17 grammi di formaggio a persona. Nella vecchia versione erano 50 grammi, ma convengo con voi che potrebbe risultare una botta di umami e di sapidità troppo elevata per alcuni palati. Voi scegliete il mix e la proporzione che preferite (potete scendere anche a 8 grammi di formaggio a persona), io uso 10 grammi di Parmigiano Reggiano stagionato 30 mesi GLC top Selection e 7 grammi di pecorino romano. Aggiungo prima il pecorino e continuo a sbattere per amalgamare il tutto. Quando è ben amalgamato, aggiungo il Parmigiano. Prendo la mia bastardella e la metto in un tegame pieno d'acqua scaldata a 90 gradi. Deve sobbollire, non serve il bollore completo. Continuo a sbattere per emulsionare e intrappolare quanto più aria possibile, voglio che la mia salsa sia spumosa e vellutata. La scaldo fino a quando non raggiunge la temperatura di 62,5°C. È fondamentale raggiungere i 62,5°C e rimanere in quella finestra di temperatura per almeno 4 minuti e mezzo: solo in questo modo sarò sicuro di aver eliminato ogni traccia di Salmonella dalle uova. Ricordatevi di rimanere tra i 62°C e i 63°C (mai superare i 65°C), o rischiate di fare una frittata. Togliete dal fuoco e lasciate raffreddare continuando a mescolare e immergendo la bastardella in acqua e ghiaccio. Oppure liberatevi dello stress e praparate tutto in sous vide: sbattete i tuorli con il formaggio, mettete nel sacchetto e scaldate sottovuoto per un’ora a 62,5°C. Potete anche preparare lo zabaione in anticipo, raffreddare velocemente il sacchetto e conservarlo in frigorifero (o freezer, perché no). Il risultato sarà una crema liscia e della consistenza simile a quella del miele.

TABELLA FDA 6.5D: inattivazione salmonella negli alimenti La tabella a lato riporta le combinazioni di tempo e temperature sufficienti per eliminare il rischio di contaminazione da Salmonella nel pollame, manzo e maiale. Le temperature indicate sono riferite a quelle raggiunte nel nucleo del cibo, e il tempo viene calcolato a partire del raggiugimento di quella temperatura interna. È necessario un termometro accurato. In caso di dubbio, è sempre opportuno mantenere la temperatura scelta per un tempo superiore al tempo indicato. Le raccomandazioni di cottura della FDA per alimenti freschi si riferiscono ad una riduzione di 6,5 D (dove D sta per "decimale" o fattore 10), che corrisponde all'uccisione del 99,9997% dei patogeni presenti. Tabella tratta da "Modernist Cuisine: The Art and Science of Cooking"

103 - BBQ4All Magazine

Prendiamo due tuorli grandi per commensale (40 grammi), mettiamoli in una bastardella (ciotola d’acciaio predisposta per la cottura a bagnomaria) e iniziamo a sbattere con una frusta. Questo movimento meccanico ci dà la certezza di denaturare buona parte delle proteine. È lo stesso principio che sta alla base del tuorlo montato per la crema pasticciera. Il movimento meccanico denatura le proteine, che una volta denaturate si srotolano, formano il reticolo e imprigionano l'acqua e l'aria in piccole bollicine, che rimangono legate fra loro.


IL GUANCIALE Sapete che differenza passa tra guanciale e pancetta? Innanzitutto parliamo di due tagli di carne diversi. Come suggerisce la nomenclatura, la pancetta si ricava dalla pancia del maiale, mentre il guanciale dalla guancia. Ciò che le differenzia, oltre alla derivazione anatomica, sono le lavorazioni con cui si arriva al prodotto finito e che ne determinano il gusto e la consistenza. La pancetta si ottiene dal tessuto adiposo sottocutaneo della pancia del maiale. In generale la pancetta viene salata e messa a stagionare in un luogo fresco e asciutto, insaporita con diverse spezie, che variano a seconda della regione in cui viene preparata. Conosciamo tre forme di pancetta: la pancetta tesa, che ha un periodo di stagionatura breve (circa 20 giorni), la pancetta arrotolata, che è un vero e proprio salume e si ottiene condendo la carne con spezie e lasciando stagionare per un lungo periodo, e la pancetta affumicata, senza dubbio quella più saporita del gruppo.

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Il guanciale invece si ottiene dalla guancia di un maiale di almeno 9 mesi. Strofinato con sale e pepe, nel Lazio viene insaporito ulteriormente con aglio, salvia e rosmarino. Il periodo di stagionatura è di almeno tre mesi, durante i quali il prodotto acquista un sapore molto intenso e sviluppa la la caratteristica “crosticina” esterna, che lo rende leggermente croccante. Da un punto di vista nutrizionale, pancetta e guanciale hanno un diverso apporto calorico. Cento grammi di pancetta contengono poco più di 450 calorie, con il 45% di grassi e il 40% di acqua. La stessa quantità di guanciale è decisamente più grassa, con un apporto di 655 calorie, 70% di grassi e 22% di acqua. Ed è per questo che si preferisce usare il guanciale a discapito della pancetta, perché è più “ciccione”. E non per dogmi mai messi in discussione o perché ce l’ha detto la Sora Lella in sogno.

Vi piace di più la pancetta? Mettetecela, io non mi offendo. Ma torniamo alla ricetta. Taglio il mio guanciale o la mia pancetta, lo butto in padella e lo faccio diventare croccante. Separo il grasso e lo metto in una ciotola, mi servirà in un secondo momento. Una volta “sgrassato” spruzzo o verso sui cubetti dell’aceto di mele. Perché? Perché gli zuccheri contenuti nell’aceto caramellizzeranno rendendo il guanciale più croccante e lucido, mentre l’acido acetico e l’acido malico doneranno una punta di acidità che andrà ad equalizzare la nota grassa dello zabaione. Cuocio 600 grammi di spaghetti di Gragnano (100 grammi a persona) e nel frattempo riscaldo una padella. Non serve che sia rovente, dev'essere ben calda per non rubare calore agli elementi che andremo a mescolare. Ricordatevi di spegnere il fuoco prima di mettere gli altri ingredienti però. Due cucchiai di zabaione salato sono sufficienti per una singola porzione di pasta. Vi ricordate del grasso fuso del guanciale? Potete aggiungerlo allo zabaione in piccole quantità, un cucchiaino a persona va più che bene, per renderlo ancora più cremoso e saporito. Scoliamo senza troppi fronzoli i nostri spaghetti nella padella, aggiungiamo un paio di cucchiai di acqua di cottura, lo zabaione e mantechiamo. Qui potete fare come più vi piace. La girate, la saltate, quello che conta è che la sbattiate come si deve per far uscire l'amido della pasta e creare la salsina cremosa. Non vi fermate, se la padella è ben calda l'acqua si asciuga e l'amido viene fuori. Quando ottenete la consistenza che vi piace, la impiattate. Mettete gli spaghetti, mettete ancora un po' di guanciale croccante e poi una macinata di pepe. Sì, ma quale?


105 - BBQ4All Magazine


IL PEPE Questi tre sono i miei preferiti: Pepe Tellicherry Extra Bold. Intenso, robusto e facilmente reperibile. Pepe Nero Lungo del Bengala. Non è un vero pepe, ma profuma tantissimo ed è poco piccante.

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Pepe di Timut: è un pepe di Sichuan selvatico, con note agrumate importanti. È così pungente che intorpidisce leggermente la lingua.


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SURF&TURF

la carbonara scientifica con lupini e friarielli Lo zabaione salato, questa crema soave di tuorli e formaggio, si abbina con agio ad un sacco di ingredienti. Di carbonare eccentriche e spiazzanti ne proporrò parecchie qui sul BBQ4All Magazine, e voglio cominciare da una delle mie preferite, quella con lupini e friarielli.

Vongole o lupini Da una parte il lupino, la vongola povera, dall’altra la verace, quasi scomparsa, e in mezzo, a rompere le conchiglie la filippina, quella monovalve allevata nel fango. La Dosinia exoleta, il lupino appunto, ha uno scrigno di forma subtriangolare con rigature concentriche, per una pezzatura che si aggira intorno ai 3-4 cm. La sorella verace, più grande e carnosa, ha conchiglia ovale e arriva a misurare 5-6 cm. C’è chi preferisce l’una all’altra, io non discrimino e le mangio entrambe. Questa volta ho usato i lupini. Prima di cucinarli, assicuratevi che siano stati spurgati a dovere. Sennò metteteli a bagno per 1-2 ore in uno scolapasta immerso in acqua in cui avrete disciolto del sale, 36 grammi di sale per litro di acqua per essere precisi. Lo scolapasta vi serve per far cadere i residui di sabbia sul fondo del contenitore.

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I friarielli I broccoli di rapa o cime di rapa coltivati in Campania sono conosciuti come “friarielli" perché generalmente fritti in padella con aglio, olio e peperoncino. Grazie alla loro caratteristica nota erbacea e amarognola rappresentano il contorno più azzeccato per molti secondi opulenti, come le salsicce di maiale, la braciola o la provola. A Roma si chiamano broccoletti, broccoli di rapa in


Calabria, cime di rapa in Puglia, rapini (o rapi) in Toscana. Sono le infiorescenze appena sviluppate della cima di rapa, vengono coltivate tutto l'anno anche se danno il meglio di sé nel tardo autunno e ad inizi primavera; dei friarielli mangiamo solo le foglie più tenere e i fiori verdi, che diventano anche ripieno per pizze rustiche o sughi inusuali. Ma se c’è una cosa che detesto è quando vengono cotti a casaccio diventando marroni. Come si fa a preparare dei friarielli perfettamente “scoppettiàti”, verdi e brillanti? Bisogna prima di tutto inquadrare il fenomeno che c’è dietro l’imbruttimento di tutte le verdure. Mi riferisco all’ossidazione, un processo noto e causato da un complesso di enzimi che si chiamano polifenolossidasi e che vengono attivati dal calore.

A quel punto potrete spadellarli in olio sfrigolante con aglio e peperoncino, rimarranno verdi come la speranza (e la certezza) di preparare un piatto fenomenale.

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Per conservare colore e turgidità vi basterà immergere i friarielli per 10 secondi nell’acqua bollente, poiché l’enzima si disattiva tra gli 80°C e i 95°C, e poi immediatamente in acqua e ghiaccio. Per preservare la resa cromatica in maniera ancora più efficace potete aggiungere un pizzico di acido citrico (3,7 grammi) e il problema è risolto. E non c’è alcun bisogno di inalberarsi perché è garantito che l’acidità, a quelle grammature, non sarà minimamente percettibile.


LA RICETTA

carbonara scientifica con lupini e friarielli Dose per 6 persone 600 g di spaghetti di Gragnano 1,2 kg di lupini o vongole veraci 2 spicchi di aglio Peperoncino q.b. Pepe Olio extravergine di oliva 100 g di guanciale Aceto di mele q.b. Per i friarielli: 300 g di friarielli (broccoli di rapa) 1 spicchio di aglio Olio extravergine di oliva

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Per lo zabaione salato delicato: 120 g di tuorli (6 tuorli grandi) 15 g di Parmigiano Reggiano 10 g di Pecorino Romano


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Per prima cosa preparate lo zabaione salato come da indicazioni, in questo caso ingentilito da una quantità minore di formaggi (potete anche prepararlo il giorno prima). Il dosaggio è stato ricalibrato per non sovrastare il sapore dei lupini e per non alterare la sapidità complessiva del piatto. Tagliate il guanciale a cubetti o listarelle, rendetelo croccante e spruzzatelo con aceto di mele, come descritto sopra. Mettete da parte (potreste conservare il grasso del guanciale disciolto, filtrarlo e ripassarci dentro i friarielli, vedete voi). Capitolo friarielli: lavateli, eliminate le foglie più dure, sbianchiteli come vi ho spiegato nel paragrafo precedente, immergendoli prima in acqua bollente per dieci secondi e poi in acqua ghiaccio. Asciugateli, tagliateli e ripassateli in padella a fuoco vivace con olio, aglio, peperoncino e un pizzico di sale. Ora è il momento di cuocere i lupini: dopo averli lasciati in acqua salata per un po’, avete due strade. METODO N°1 Cuocete i lupini a secco a fiamma vivace, fateli aprire e toglieteli con una pinza man mano che si aprono. Filtrate il sughetto per eliminare anche l’ultimo residuo di sabbia possibile e unite un soffritto di aglio preparato a parte. METODO N°2 Mettete sul fuoco una padella, aggiungete olio e aglio e lasciate sfrigolare. Unite i lupini e toglieteli dalla padella man mano che si schiudono, tenendo da parte l’intingolo. Sgusciate i 2/3 delle vongole e unitele al sughetto di aglio nella padella. Scolate gli spaghetti al dente, aggiungete un mestolo di acqua di cottura e spadellate con i friarielli ed il guanciale. Fuori dal fuoco aggiungete lo zabaione salato e fate saltare, impiattate con solerzia e guarnite con qualche lupino ancora nella conchiglia e una spolverata di pepe macinato al mulinello. Lo spaghetto che ricade sensuale su se stesso, con quel sughetto paradisiaco che lo percorre tutto, fino a toccare il fondo del piatto. I lupini minerali e sapidi, i friarielli leggermente piccanti ed amarognoli, il guanciale croccante e profumato…

Gianfranco Lo Cascio

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Ma adesso basta sbavare sul Magazine o si bagna, correte in cucina e fatemi vedere quanto bravi siete diventati.


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Il bullo ti tormenta? Per sconfiggerlo serve una sorpresa Seguo - rubrica a cura di Emiliano Nencioni

Vessazioni continue, attacchi seriali e strutturati a una o più persone, perlustrazioni dei profili e dei dettagli personali della vittima, sui social il bullismo non si configura più come una cattiveria uno a uno, alla pari, ma quasi come un’organizzazione ben strutturata, basata su ricerche, archivi, ripetizioni incessanti e trappole a base di falsi profili. Può succedere all’adolescente, ma anche all’attempato professionista; alla casalinga col vlog di cucina e al miliardario capitano d’industria: e quando dico “può succedere” intendo di essere vittima, ma anche di essere carnefice. Ho pensato, una volta tanto, di non proporre il mio pensiero che, arricchito o meno da qualche illustre pensatore del passato, lascia sicuramente il tempo che trova. Al contrario, ho ritenuto utile per i lettori, per la rivista ma anche per il brand intavolare un discorso più sensato e con basi concrete, con un protagonista dell’argomento in questione. No, non un bullo digitale (anche se sarebbe interessante,

115 - BBQ4All Magazine

Avrei voluto iniziare il primo numero della terza annata del Magazine con qualcosa di innovativo, positivo e benaugurante, ma ancora una volta l’estro compositivo deve piegarsi a una realtà ingrata e deludente: l’ultima moda, in fatto di social behaviour tra gli uomini di mezza età, è quella di incarnare lo stereotipo del bulletto disagiato da scuola media di provincia, e seminare scompiglio e malcostume online, al grido di “SMASH that Like button and follow me!”


ora che ci penso), ma con uno psicologo psicoterapeuta nonché presidente dell’Associazione Nazionale Dipendenze Tecnologiche, GAP e Cyberbullismo “Di.Te”. Questa Seguo si pregia di ospitare, sotto forma di una breve intervista, il dott. Giuseppe Lavenia, che ha gentilmente accettato di aiutarci a fare chiarezza sull’argomento.

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Cosa è l’associazione Di.Te., e quale scopo si prefigge? L’Associazione Di.Te è un’organizzazione di volontariato che si occupa della sensibilizzazione, prevenzione, formazione, ricerca e trattamento delle dipendenze tecnologiche del gioco d’azzardo patologico e dei fenomeni correlati, come il cyberbullismo. L’obiettivo principale è quello di educare alla consapevolezza digitale sostenendo i genitori, gli insegnanti e gli adolescenti nel prevenire e contrastare in modo efficace le problematiche connesse alla tecnologia e il disagio che ne consegue. Queste finalità vengono perseguite tramite la formazione, i servizi di consulenza, i progetti nelle scuole e in collaborazione con gli enti locali. La formazione è uno dei maggiori ambiti di intervento dell’Associazione Di.Te. la quale sviluppa e struttura interventi specifici e percorsi formativi destinati a insegnanti, genitori, bambini e ragazzi, ed esperti del settore. Inoltre, organizza convegni e giornate di approfondimento, come ad esempio la Giornata Nazionale sulle dipendenze tecnologiche e sul cyberbullismo con l’obiettivo di sensibilizzare e divulgare le tematiche connesse ad Internet, al Gioco d’Azzardo e al Cyberbullismo e tutti i fenomeni internet correlati. Infine l’Associazione Di.Te. predispone iniziative, giornate e weekend di detox tecnologico per riscoprire il benessere derivante dalle attività e dalle relazioni non filtrate dai dispositivi digitali. Detox tecnologico: pensarci mi terrorizza, e questo dovrebbe far luce su quanto io stesso ne abbia un gran bisogno. Ma è possibile, oggigiorno, da adulti, un vero detox tecnologico per più di 24 ore? E le mail? E la moderazione dei contenuti? Chi, come me, è stato adolescente negli scialbi e pestiferi anni ‘90 si ricorderà che gli atti di bullismo potevi subirli e basta, zitto, o subirli e ribellarti, attendendo poi un supplemento, o subirli e lamentarti con genitori e insegnanti, diventando

istantaneamente un infame e un paria, additato come incapace di “pensarci da solo”. Il cyberbullismo però si propaga alla velocità di una moderna connessione a banda larga, e fortunatamente qualche mente illuminata ha ben pensato di creare un appiglio, una struttura di aiuto contro questa malaugurata metamorfosi telematica. Cosa distingue quindi il cyberbullismo dal più tradizionale bullismo “in real life”? A differenza del bullismo, il cyberbullismo presenta delle caratteristiche che lo rendono più invasivo e di difficile gestione. In primo luogo, può raggiungere un numero illimitato di spettatori in quanto non è ristretto ad un luogo fisico, ma virtuale. In secondo luogo, un’altra importante differenza è che nella Rete le comunicazioni aggressive possono continuare 24 ore su 24, non essendo delineato un limite temporale. Chiunque può diventare bullo, anche chi nella vita reale è vittima. Questo aspetto è legato all’anonimato: i cyberbulli spesso sono anonimi o si celano dietro a nickname e/o falsi profili. Chi compie atti di cyberbullismo, oltre a nascondersi dietro ad un’identità digitale, non si ritiene del tutto responsabile delle proprie azioni, in quanto può sollecitare la partecipazione alle offese da parte di altri profili sconosciuti. Il cyberbullismo si prospetta come più pericoloso in quanto la rete non dimentica, ma amplifica. Infatti, le azioni e il materiale prodotto e pubblicato online rimane nella rete e può essere diffuso in tutto il mondo, senza limiti di tempo. L’assenza di contatto con la vittima e con la sua sofferenza implica inevitabilmente un’assenza di ripercussioni a livello emotivo ed empatico in coloro che mettono in atto azioni di cyberbullismo. In aggiunta, commettere questi atti nel mondo virtuale comporta una perdita del senso delle conseguenze, in quanto apparentemente le azioni online sembrano non avere esiti reali. Anche in termini legali non vi è la percezione del danno e del reato perpetrato da parte di chi commette queste azioni nella Rete. Eh sì, danno. Perché si fanno danni, anche di discrete entità: nel cyberbullismo tra adulti si trascende quasi sempre il “tu fai schifo” e si passa ad un più mirato “il tuo prodotto fa schifo”, innescando una serie di ripercussioni non da poco. Qualcuno può farsi una risata se viene deriso per un naso troppo grande o per gli occhi troppo vi-


É quindi tecnicamente possibile stilare un profilo del tipico cyberbullo? In generale il profilo del bullo presenta caratteristiche quali impulsività e incapacità di controllare gli impulsi; bisogno di dominare sugli altri; incapacità di accettare limiti e/o regole; scarsa/mancanza empatia; esagerata opinione di sé. Dietro al comportamento aggressivo spesso nascondono ansia e insicurezza. Generalmente sono cresciuti in un ambiente familiare disfunzionale, inadeguato, contraddistinto da permissivismo o autoritarismo. Nonostante questi due ruoli (bullo/cyberbullo) condividano diversi aspetti, come il prendere di mira coloro che identificano quali “diversi”,

se nel bullismo siamo a conoscenza di chi è responsabile o comunque è facilmente individuabile, al contrario nel cyberbullismo, proprio per la sua natura virtuale, stilare un profilo tipico non è così immediato. Nel virtuale i ruoli non sono ben definiti, il bullo della vita reale può divenire vittima o viceversa in rete. Per contraltare, è definibile un profilo della vittima ideale? In linea generale, chi subisce attacchi di bullismo può diventare un bersaglio per la presenza di determinate caratteristiche quali: ansia e insicurezza, scarsa autostima e un’immagine negativa di sé, debolezza a livello fisico e/o sociale (appartenenza a determinati gruppi sociali, o minoranze), difficoltà ad affermarsi nel gruppo dei coetanei. Come per il profilo del cyberbullo, nel mondo virtuale, risulta difficile determinare delle peculiarità tipiche della vittima, in quanto i ruoli possono essere interscambiabili a seconda del contesto. Ma, di fatto, cosa fa scatenare la rabbia dell’aggressore? Un aspetto che può generare rabbia o frustrazione nel mondo online è l’affermazione dei propri diritti, che spesso si discosta dal pensiero dominante di una certa parte di popolazione (ad esempio sui Social). In questa occasione il cyberbullo si inserisce attaccando e sfogando la propria aggressività, facendo leva sulla presenza di una platea illimitata che rafforza la sua carica offensiva e “giustifica” i suoi atti.

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cini fra loro, ma quando il tuo prodotto viene sistematicamente dileggiato ed ostacolato entra in ballo il fatturato. É qui che il middle-aged bulletto si distingue dal ragazzino arrogante. Mi sono sempre chiesto cosa potesse spingere una persona adulta e (anagraficamente) matura a buttare via ore di tempo in pratiche poco produttive come l’odio e l’infamia online, notando anche come questo bisogno di sfogo malvagio livelli un po’ qualsiasi estrazione sociale, situazione familiare, provenienza geografica, età o reddito. Cambiano, logicamente, solo le capacità espressive, gli argomenti e i bersagli.


Questa è una cosa abbastanza riconoscibile e riscontrabile: sarà noto ormai a qualsiasi grigliatore di vecchia data che un buon 90% dei gruppi facebook di barbecue sono nati come reazione inconsulta a una frustrazione, un sentirsi esclusi o non rappresentati. Ultimamente la sfacciataggine è ancora più evidente osservando la descrizione di molti gruppi neonati, che portano nel nome l’intento ben preciso di denigrare brand e prodotti. Contando, presumibilmente, sulla tipica impunità dei discorsi fatti online, in seguito ad un’interpretazione un filo lasca del concetto di “free speech”.

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Sono anonimi, si spalleggiano, sono abbastanza cauti da non oltrepassare mai il limite della denuncia penale (più o meno): quanto conta l’effetto “branco”? L’effetto branco porta alla de-individualizzazione. Quando gli individui si trovano all’interno di un gruppo si percepiscono anonimi e il loro comportamento è guidato principalmente da regole che nascono e provengono da quel determinato gruppo piuttosto che dalle credenze e valori personali. Questa condizione porta agli individui ad agire in base all’identificazione di quel gruppo, transitoria, permanente, negativa o positiva che sia. Questa dinamica può promuovere quindi dei comportamenti virtuosi come ad esempio il senso di appartenenza ma può al contrario favorire e scatenare dei comportamenti devianti attivati da sentimenti quali aggressività, frustrazione, rabbia di alcuni componenti che vengono però condivisi dall’intero gruppo. Questa condivisione fa vivere anche la responsabilità stessa come condivisa, facendo diminuire sensibilmente la paura e il senso di colpa che il singolo componente potrebbe provare rispetto a un’azione negativa. Agisce anche l’effetto spettatore, per cui sapendo che si è in tantissimi a prendere visione di quel contenuto ci si sente deresponsabilizzati rispetto ad un’azione diretta, perciò non si agisce per limitarla o bloccarla, non si sente la responsabilità etica di agire “lo farà qualcun altro”. Il quadro è molto chiaro e riscontrabile in qualsiasi nicchia online di cyberbulletti. E’ tutto uno sfogo, tutto un gioco, “possiamo dire quello che vogliamo”, e il compassato manager si toglie la cravatta con nodo Windsor per chiamare a raccolta il caps lock e i famigerati punti esclamativi, la mamma affettuosa piena di foto

di pargoli e cuccioli tenerosi diventa una megera senza vergogna... per quei venti minuti al giorno. Tutti i giorni. Danneggiando qualcuno, qualcosa, un reddito, delle famiglie, un’autostima, senza minimamente avere percezione della portata del loro divertissement serale. Non sono persone cattive, spesso. Non sono delinquenti, non sono persone problematiche (salvo qualcuno, ovvio), sono persone che non hanno idea. E bisognerebbe far loro presente la cosa, anche solo con quello “Smetti.” che suggerii tempo fa di allegare come commento ai post più detestabili o ai commenti meno graditi. Bisogna, nel senso che è proprio necessario, organizzare una reazione sensata. Qual è il modo migliore per difendersi? Il bullismo/cyberbullismo è un fenomeno che non va assolutamente sottovalutato. In primo luogo quindi non va minimizzato l’accaduto e/o non va giustificato. È molto importante parlarne con qualcuno: genitori, un compagno, gli insegnanti. A volte la paura delle conseguenze o il senso di vergogna portano la vittima a tenersi tutto dentro, ma parlarne con qualcuno è il primo passo per affrontare la situazione. Inoltre è fondamentale ricordarsi che il bullismo/cyberbullismo è un reato penale, quindi bisogna denunciare. Buono a sapersi. Deve finire il tempo dell’impunità e delle spalle coperte da un’inerzia generale. “Per sconfiggere il bullo serve una sorpresa” è uno degli innumerevoli aforismi di Alejandro Jodorowsky, e per il cyberbullo evidentemente la sorpresa la recapita la Polizia Postale. Lascio ai lettori i recapiti di Di.Te., nel malaugurato caso avessero bisogno per un giovane familiare o conoscente nei guai. Segreteria Associazione Di.Te. 800.770.960 (lun-ven) www.dipendenze.com info@dipendenze.com Stampa: relazioni@dipendenze.com


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N°26/ANNO 3 - FEBBRAIO 2021

In fondo al mar, se tutto fritto è molto meglio, credi a me Gamberi, baccalà, paranza, sogliola, fish&chips, ravioli di scampi

L'EDITORIALE DI GIANFRANCO LO CASCIO

Lezioni di Sous Vide la mappa delle cotture e le tabelle dei tempi e delle temperature

FROM ZERO TO HERO

Grigliare l'hambuger DE GUSTIBUS

Le ostriche

tutto quello che c'è da sapere

LA RICETTA SCIENTIFICA

il GLCheeseburger


Editoriale di Gianfranco Lo Cascio

Sotto vuoto Da Zero a

lezioni di cucina

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Le basi della cottura sous vide spiegate bene parte II


Nel numero di Gennaio del BBQ4All Magazine vi ho illustrato cos’è la cottura sous vide, qual è la differenza tra questa e altri sistemi di cottura tradizionali, quali sono le tre tecniche per eseguirla. Questo trittico di procedure sfrutta oggetti di uso comune che avrete sicuramente nella credenza nascosti dal 1998. Vi ho già snocciolato cos’è il metodo del piano cottura, ora vi dirò tutto quello che dovete sapere sul “metodo del contenitore termico” e su quello “dell’acqua corrente”. Seguitemi con attenzione.

Metodo della ghiacciaia (o contenitore termico isolato) Quella stessa scatola magica che mantiene le vostre birre ghiacciate quando andate a fare le scampagnate può trasformarsi in uno straordinario bagno termico, purché sia solida, robusta e ben isolata. Avete presente la ghiacciaia, quella in polipropilene anni ’80 con il manico bianco ed il tappo a chiusura ermetica? Proprio lei. Come per le altre tecniche “casalinghe”, è il termometro la chiave per assicurarsi che l'acqua rimanga entro i parametri di temperatura desiderati. I sofisticati termocircolatori a immersione che abbiamo imparato a conoscere (vedi Anova e simili) sono strumenti utilissimi da avere se si cucina spesso sous vide, ma una volta che questi attrezzi salvifici hanno fatto il lavoro di riscaldare l'acqua alla temperatura di cottura desiderata, quasi tutta l'energia che continuano ad erogare va ad arginare la dispersione di calore che avviene attraverso i lati del contenitore e, soprattutto, attraverso l'evaporazione. Potrebbe suonare bizzarro, ma finché la massa dell'acqua di cottura è molto più grande della massa del cibo in cottura, è necessaria solo una modesta quantità di energia extra per portare il cibo alla temperatura desiderata. Questo è una conseguenza del fatto che l'acqua ha un calore specifico molto alto, che in parole povere significa che c'è un'enorme quantità di energia termica immagazzinata nel bagnato termico. Uno strumento per la cottura sous vide può fornire

questa energia extra nel tempo, naturalmente, ma si può anche trasferire l'energia supplementare in anticipo semplicemente aumentando la temperatura dell'acqua di alcuni gradi. Quando il cibo raggiungerà la temperatura di cottura desiderata, l'acqua si sarà leggermente raffreddata a causa dell'energia termica addizionale che passa dall'acqua al cibo. La chiave di questa tecnica, tuttavia, è assicurarsi di usare un contenitore ben isolato che contenga l'acqua calda e il cibo in cottura. Una borsa frigo economica, una ghiacciaia completa di coperchio isolato, è perfetta per questo compito. Lo ripeto nel caso vi fosse sfuggito: avrete anche bisogno di un termometro a lettura istantanea per controllare le temperature. Non mi stancherò mai di dirvi quanto è importante. STRUMENTI • Contenitore termico con coperchio. • Termometro digitale a lettura istantanea. • Sacchetto con cerniera (1 litro). 01. Confezionate il cibo. Mettete il cibo in un sacchetto con cerniera. Potete inserire diverse porzioni in un solo sacchetto, ma fate attenzione a non esagerare con la quantità. SUGGERIMENTO: l'aggiunta di olio nel sacchetto aiuterà a evitare che i pezzi si attacchino tra loro durante la cottura. 02. Riscaldate l'acqua. Usate un termometro a lettura istantanea per regolare la temperatura dell'acqua calda del vostro rubinetto, che varierà naturalmente a seconda di ciò che state cucinando e del grado di cottura che desiderate - più sotto trovate ben due guide su tempi e temperatura per ogni alimento!NOTA: È meglio regolare la temperatura leggermente al di sopra della temperatura di cottura desiderata. A patto che la quantità d'acqua nel contenitore sia molto maggiore della quantità di cibo freddo, aumentate la temperatura dell'acqua di circa 3 °C sopra la temperatura di cottura desiderata. Il calore extra aiuterà a compensare la massa del cibo freddo. 03. Riempite il contenitore termico. Se l'acqua del vostro rubinetto non è abbastanza calda, riempite il contenitore di acqua calda per buona parte e usate dell'acqua bollente scaldata sul fuoco per aumentare la temperatura.

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È

facile trasformare un amico in nemico se non si mantengono le promesse. Io voglio che rimaniamo amici, cari i miei lettori, per cui rieccomi puntuale con la seconda lezione sulle basi della cottura sous vide spiegate bene (ma bene bene eh!).


04. Aggiungete il cibo. Mettete il cibo nella ghiacciaia. Usate la tecnica del dislocamento dell'acqua per rimuovere l’aria (agganciate il sacchetto al lato della vostra pentola e immergetelo nel bagno termostatico, usate l'acqua per spingere fuori l'aria che circonda i vostri pezzi di carne o pesce). Lasciate il bordo della busta aperto e appoggiatelo sopra il bordo del contenitore, appendete il bordo sopra il lato della borsa frigo e chiudete il coperchio sopra la borsa. Questo renderà più facile estrarre il cibo in seguito, e potrete evitare di toccare l'acqua calda. 05. Coprite. È importante chiudere il coperchio della borsa termica per evitare che il calore si disperda per evaporazione. L'evaporazione dell'acqua calda è il principale veicolo di perdita di calore dal refrigeratore. La chiusura del coperchio farà la differenza tra un cibo perfettamente cotto e uno poco cotto. 06. Monitorate la temperatura. Controllate la temperatura dell'acqua dopo 30 minuti. Dovrebbe essere scesa appena sopra la temperatura di cottura desiderata. Per grandi quantità di cibo o tempi di cottura molto lunghi, controllate la temperatura ogni ora circa per assicurarvi che non sia scesa troppo. Se così fosse, svuotate un po' dell'acqua più fredda e mescolate un po' d'acqua bollente fino a raggiungere la giusta temperatura. 07. Togliete il sacchetto. Quando il cibo ha finito di cuocere, togliete il sacchetto dall'acqua calda. Se non siete sicuri che l’alimento abbia raggiunto la cottura desiderata, usate un termometro a lettura istantanea per controllare rapidamente la sua temperatura interna. È ancora crudo? Niente panico: potete semplicemente sigillarlo di nuovo e rimetterlo in acqua per continuare la cottura.

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08. Finite il piatto Quando è pronto, rimuovete delicatamente la carne, il pesce o quello che volete dalla confezione. La maggior parte delle carni e dei frutti di mare cotti con il metodo sous vide beneficia di una fase di finitura, quella che serve a fare la corsticina croccante. Diamo alla maggior parte delle proteine una rapida scottatura prima di servire. 09. Servite! Condite e servite il vostro piatto perfetto, cotto nella ghiacciaia!


BONUS TRACK #01

LA MAPPA DELLE COTTURE SOUS-VIDE Nella pagina seguente troverete la cartina geografica delle cotture sous vide, la mappa del tesoro definitiva. Attenti però: bisogna saperla leggere, ci sono molte più informazioni di quelle che vi sembrano a prima lettura. Per fortuna c’è lo Zio che ve la spiega. È un semplice sistema a coordinate. Ricordate il gioco della battaglia navale? Stesso principio. Nell'asse delle ascisse (orizzontale) c'è il tempo. Nell'asse delle ordinate (verticale) ci sono le temperature. Individuate sulla mappa l'elemento da cuocere, tracciate le coordinate e avrete tempi e temperatura di cottura perfetti.

Ma a cosa serve una mappa per le cotture sous vide?

Creare le proprie ricette da zero poi, ancora più difficile: il sous vide non è stato ancora sdoganato del tutto, le massaie sembrano ancora ostative e non esiste un ricettario completo e consultabile alla portata di tutti. Per non parlare della difficoltà nel servire due piatti cotti in sous vide in una sola volta. Siccome le bistecche cuociono a 52°C, mentre gli asparagi cuociono a 85°C, come si fa a mettere entrambe le cose in tavola alle 21 in punto?

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La maggior parte di noi inizia inizia a cucinare con la tecnica del sous vide memorizzando una manciata di formulette di tempo e temperatura - una bistecca a 54°C o un salmone a 40°C. Ma quando si è pronti a salire di livello, può essere difficile accedere alle informazioni e alle combinazioni per tutti gli alimenti.


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Sulla mappa, la vostra bistecca a 54°C e il salmone a 40°C sono coordinate specifiche, piccole città che esistono all'interno di paesi dove bistecche e salmone possono essere preparati come volete. Raggruppare gli alimenti per tipo ci permette di visualizzare le cotture, dove il pesce cuoce in acque più fredde giù a sud, mentre i brasati succulenti si preparano nel nord-est, dove i tempi di cottura sono più lunghi. Se è di verdura che avete voglia andate al nord, dove le temperature sono più alte. Come vedrete, non c'è un solo modo per cucinare una bistecca, o un salmone, o le patate, ma solo tempi e temperature di massima. E poiché la bistecca e le patate cuociono a temperature e tempi così diversi, non è possibile cucinarli contemporaneamente con successo. La soluzione? Cuocere la carne, poi alzare la temperatura e cuocere gli asparagi. Facile. Tenete a portata di mano questa mappa quando adattate le ricette tradizionali al il sous vide e quando sperimentate con nuovi ingredienti. TAGLI DURI Il tempo e la temperatura denaturano il collagene della carne e in questo modo trasformano i tagli duri in bocconcini tenerissimi. Cucinare un cappello del prete o una punta di petto in sous vide ad alte temperature farà perdere alla ciccia i succhi. Ciccia che poi si cucinerà in quegli stessi succhi diventando incredibilmente succulenta. I tagli duri cotti a temperature più basse, invece, manterranno i loro succhi, restituendo qualcosa di più simile a una bistecca. VERDURE Proprio come la denaturazione del collagene ammorbidisce la carne, la denaturazione della pectina ammorbidisce le verdure. Cucinarle in un sacchetto significa che possiamo preservare le sostanze nutritive, l’aroma e il colore che normalmente svanirebbero con i metodi di cottura tradizionali. Scoprirete che le verdure sode e amidacee come le patate e le rape cuociono a temperature più

basse e più a lungo, mentre le verdure tenere e a foglia come il cavolo richiedono un tuffo veloce in un bagnetto più caldo. UOVA Quando un uovo si riscalda, le proteine raggomitolate del tuorlo cominciano a sbrogliarsi e ad intrecciarsi. Queste proteine mescolate formano una specie di rete che intrappola l'acqua, facendo addensare il tuorlo. È lo stesso processo che permette alle torte salate di rapprendersi e allo zabaione salato della carbonara di addensarsi. Gli albumi hanno molto meno contenuto proteico dei tuorli e quindi si comportano diversamente. Con il sous vide, possiamo regolare le impostazioni di tempo e temperatura per personalizzare e plasmare le diverse consistenze di tuorlo e albume a nostro piacimento. PESCE E CROSTACEI I pesci sono esseri viventi a sangue freddo, quindi le loro proteine si denaturano a temperature più basse di quelle degli animali a sangue caldo. Pertanto, li cuciniamo per un tempo più breve a una temperatura più bassa. Generalmente diamo alla maggior parte dei crostacei una rapida cottura per rassodarli, ma alcuni molluschi e cefalopodi come il polpo, le lumache e i calamari hanno bisogno di temperature più alte e tempi più lunghi per ammorbidirsi (ecco perché il polpo ha una piccola isola tutta sua a nord). TAGLI TENERI E COSCE DI VOLATILI Il calore, si sa, elimina la gommosità della carne cruda. I tempi e le temperature che troviamo al centro del Terra dei Tagli Teneri rendono la carne più tenera; all'estremità meridionale ci sono carni gommosine; a nord, la ciccia strizza parte dei suoi succhi e diventa soda e pallida. Le bistecche e gli hamburger sono nella parte ovest perché si riscaldano più velocemente degli arrosti che si trovano nella parte est. I petti di pollame sono situati a nord-est perché la maggior parte delle persone li preferisce belli bianchi piuttosto che rosa. Le cosce di volatili hanno più tessuto connettivo dei petti di pollo ma meno dei tagli duri, quindi beneficiano di temperature più alte e tempi più lunghi per intenerirle. Cucinarle in questo modo gli darà una bella morbidezza finale.

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Queste sono domande che mi assillano ogni giorno. Come posso aiutare le persone ad adottare questo metodo di cottura quando partire da zero è così impegnativo? Per fortuna da Oltreoceano ci vengono in aiuto: una mappa della cucina sous vide che dà una panoramica di livello superiore della maggior parte degli alimenti e che mostra come i tempi e le temperature si relazionano tra loro.


LA TABELLA SOUS VIDE DEFINITIVA

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Guida ai tempi e alle temperature


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E anche la seconda lezione è terminata, ci vediamo il mese prossimo per la terza lezione sulle basi della cottura sous vide. Voi nell’attesa godetevi questo numero strepitoso del BBQ4All Magazine, fidatevi dello Zio.

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Gianfranco Lo Cascio


STORIA E STORIE.

Fritture e culture

nel mondo antico

Portfolio gastronomico/01 a cura di Alberto Zorghetti Illustrazioni di Eleonora Castagna

una definizione: la frittura è una modalità per cuocere gli alimenti che consiste nell’im-

Nominativi fritti e mappamondi e l’arca di Noè fra duo colonne cantavan tutti ‘Kyrieleisonne’

mersione parziale o totale del cibo in grassi animali o vegetali di diverso tipo. Tale modalità di cottura è recente nella storia dell’alimen-

per la ’nfluenza de’ taglier mal tondi.

tazione, dato che arriva molto tempo dopo l’arrosto ed il bollito;

Non vi inquieti l’incipit di questo straordinario sonetto quattrocentesco, tra i miei preferiti sin dai tempi del liceo; difatti non ve ne chiederò la parafrasi, anche perché sarebbe assai complicato ed anche inutile. Il componimento scritto da Domenico dè Giovanni detto il Burchiello è infatti un non-sense, tecnica per la quale era famoso e dalla quale trasse il suo soprannome: egli ammucchiava termini alla rinfusa – “alla burchia” – creando però sonetti altamente spettacolari, grotteschi, bizzarri. Ma i “nominativi fritti” sono rimasti i termini emblematici della produzione letteraria di questo singolare barbiere-poeta: ma perché proprio fritti e non lessi oppure arrosto?

infatti necessita di strumenti e condizioni particolari, ovvero stoviglie ampie, preferibilmente di metallo, capaci di contenere generose quantità di olio o altri grassi. Sembrano almeno tre le popolazioni del mondo antico che potrebbero aver “inventato” come friggere il cibo. Qualcuno sostiene che i primi siano stati gli egiziani intorno al XIII secolo

La risposta vi sarà suggerita un poco più avanti perché prima dobbiamo chiarire una cosa: se volete leggere una breve storia del fritto, dall’antichità ai giorni nostri, la Grande Rete Mondiale ha ciò che volete: digitate su un motore di ricerca e troverete su Wikiqualcosa ciò che fa al caso vostro: il fritto “for dummies” oppure “spiegato bene” o “raccontato veloce”, anche con diverse archeoricette. Tantissime fonti veloci, rapide ed indolori; alcune anche fatte bene, ci mancherebbe, molto utili nel mio caso, visto che ultimamente le biblioteche sono o chiuse o praticamente inaccessibili. Poi, non dimentichiamoci che io sono solo uno storico dell’arte prestato ad offrire dilettanteschi viaggi nella storia alimentare. Però qualche libro vero mi piace leggerlo ed amo raccontarvi anche le storie, gli aneddoti che ritengo più interessanti; e inizierò rispondendo a un paio di domande che, già lo sento, vi siete posti.

a.C., come possiamo vedere da diversi documenti e raffigurazioni, tra le quali spiccano i dolcetti a forma di spirale fritti nello strutto e conditi con miele (li troviamo nella tomba di Ramses III a Tebe). Secondo altre fonti sarebbero stati gli ebrei nel XIII secolo a.C. a ideare il fritto: il libro del Levitico ci racconta che il popolo ebraico, in fuga dall’Egitto, nel deserto del Sinai, avesse offerto a Dio su di una padella, un

COS’È IL FRITTO? E CHI LO HA INVENTATO?

impasto di farina e grasso. Per la terza ipotesi ci spostiamo

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Per trovare risposta mi sono imbattuto in trattati accademici che parlavano di antropologia, semiotica e altre complicate discipline. Vi rassicuro, non voglio rovinarvi il vostro momento di relax, li tralasciamo: del resto neanche io mi sono addentrato all’interno di quegli ambiti. Per iniziare, partiamo piuttosto dalle basi stabilendo come partenza

in Oriente, precisamente in Cina, nel XV secolo avanti Cristo: qui fu ideata una padella speciale con il fondo concavo stretto, l’antenata della celebre “wok”, che fu utilizzata per le prime


fritture utilizzando come grasso l’olio che già sapevano ricavare dal sesamo, dalla soia e dalla canapa. Quest’ultima sembra ad oggi la tesi più accreditata. La diffusione di questo tipo di cottura non è però uniforme in tutte le zone poiché dipende da fattori culturali, materiali, territoriali. Il tipo di grasso diventa un vero e proprio “marcatore culturale”: nell’area mediterranea troviamo ampia diffusione dell’olio di oliva, in Europa settentrionale il grasso di maiale e il burro; in medio Oriente il grasso di pecora, in Cina l’olio di soia (e anche di sesamo). Inoltre, mentre in Europa la storia del fritto vede una diffusione e una considerazione altalenante, legato soprattutto (ma non solo) alla disponibilità dei lipidi per la frittura, nella cultura orientale la costante reperibilità della soia e un pasto nel quale troviamo un immediato rapporto tra cucina e tavola, favorisce una gastronomia del fritto.

NOMINATIVI FRITTI…

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Dopo aver risposto alle prime, introduttive domande, torniamo di nuovo al sonetto del Burchiello. La parola fritto e i suoi derivati sono molto presenti nel linguaggio, nei modi di dire, nei proverbi della lingua italiana. Gli esempi sono numerosissimi e non possiamo elencarli tutti, basta prenderne qualcuno: ad esempio “aria fritta” o “discorsi fritti e rifritti” indicano tutti argomenti banali, scontati, risaputi. Oppure è comune esclamare, di fronte ad una situazione senza via d’uscita: “Siamo fritti!” Se fare riferimento alla frittura nel nostro parlare comune è molto diffuso,


significa che tale preparazione è entrata nel tessuto sociale della nostra civiltà. Perché?

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Pensiamoci: un alimento infarinato o immerso nella pastella, tuffato in un grasso bollente e sapientemente cotto ci restituisce quasi sempre un qualcosa di caldo, croccante, invitante, gradevole. Friggere è rapido, rende accettabili o addirittura buono anche cibi di basso valore gastronomico: ”Fritta è buona anche una ciabatta” dicevano i nostri nonni. Il Burchiello ci dice semplicemente che la frittura era comune, popolare all’interno della cucina dei secoli scorsi; costituiva una tecnica semplice, apprezzata e molto diffusa tra i ceti medio-bassi, con le caratteristiche dello street-food odierno, ovvero popolare, veloce, gustoso, economico.

In generale neanche oggi il fritto è sempre associato all’idea di “cucina”, bensì a quella di tavola calda, di cibo economico e senza pretese da consumare magari per strada: patatine, supplì, crocchette, frittelle. L’odore pesante del fritto è spesso considerato plebeo. Inoltre la frittura è un modo di cottura sbrigativo, che sovente per sua stessa natura non si rapporta all'alta cucina. Certo, è possibile friggere anche cibi pregiati, ma si tratta di eccezioni o sperimentazioni. Pensiamo alle frattaglie fritte – fegato, cervella, animelle - , emblema della cucina povera, poco appetibili nelle loro forme ma che diventano straordinarie a seguito della frittura. Ed è proprio per questo che alla mensa dei signori, opulenta, scenografica, con le pietanze poste in bella vista, la frittura – da mangiare rapidamente e così

“popolare” non era apprezzata. Del resto “chi non sa cucinare il pesce lo frigge” recita un noto proverbio.

L’EGITTO Appurato che i cinesi siano padri e inventori della frittura, torniamo nel Mediterraneo. In Egitto sembra proprio che si friggesse con buona frequenza: venivano utilizzate padelle basse e larghe dalla tipica forma a calotta. I documenti ci parlano del pane fritto, simile alle nostre crescentine ( o gnocco fritto); di pani dolci che possiamo associare alle odierne frappe; polpette che ricordano i falafel, preparate con fave chiare macinate, cipolla, aglio, spezie, tuttora consumati in grande quantità presso il Vicino Oriente. Molto comune anche la frittura di pesci, soprattutto di piccole dimensioni, che


venivano infarinati e poi cotti in olio bollente. Non pare fosse frequente, anche se non possiamo escluderlo, l’uso di friggere uova, tuberi, verdure. Molte testimonianze citano il cipero, tubero oggi a noi sconosciuto ma diffusissimo nell’antichità, con il quale si preparava un impasto con l’acqua, datteri e miele, dal quale si ricavavano dei triangoli da friggere in olio bollente. Il risultato era composto da biscotti dolci, destinati ad essere serviti freddi. Dimenticavo, tutte le preparazioni di questo tipo erano asciugate in panni di lino, che assolveva alla funzione della nostra moderna carta assorbente. IL MONDO ELLENICO Nel mondo greco, nei diversi secoli percorsi dalla sua storia, troviamo un tipo di cottura dei cibi che possiamo identificare con il fritto e la frittura. Era apprezzato? Sì e no… Nella letteratura troviamo per lo più giudizi negativi: Menandro definisce i cibi fritti mediocri e volgari; Ateneo, in riferimento ai molluschi, dice che si mangiano bolliti o fritti, ma che sono molto meglio quelli arrostiti sulla brace. Inoltre i medici, come ad esempio Ippocrate e Galeno, hanno sempre messo in guardia contro i cibi fritti, soprattutto per la loro pesantezza. A questa negativa considerazione gastronomica va però contrapposta la grande diffusione del fritto, soprattutto all’interno degli strati sociali più bassi. Che cosa scoppiettava nelle padelle di metallo e terracotta dell'antica Grecia?

Primariamente pesci, molluschi e uova. Ma anche focacce: il tiganités artos è una pasta ripiena di formaggio e fritta in olio, antenata dell'odierna tiropita (sfoglia ripiena di formaggio, generalmente feta) ancor oggi venduta in tutta la Grecia da bancarelle od ambulanti. Si friggono anche dolci, come certi tipi di pémmata (focacce dolci) o plakountes (panzerotti dolci, in latino placentae) e il laganon (strisce di pasta sfoglia, da molti ritenute le antenate delle lasagne). ROMA: IL FRITTO TRA REPUBBLICA ED IMPERO Quando pensiamo alla cucina romana ci vengono in mente banchetti stupefacenti, fastosi, eccessivi, anche licenziosi: ad esempio la cena di Trimalcione descritta nel Satyricon di Petronio (da ammirare nell’omonimo film diretto da Federico Fellini nel 1969) oppure i pasti cosiddetti “luculliani”. Altro imprescindibile riferimento è il “De re coquinaria” (Sull’arte culinaria) di Apicio, personaggio vissuto durante il regno di Tiberio. Le ricette che vi leggiamo sono molto interessanti, diverse realizzabili ancora oggi, altre decisamente impraticabili per complessità e al di fuori della nostra concezione alimentare ( si parla di ghiri, murene, pappagalli, cammelli, fenicotteri ed altro ancora… ). Come abbiamo potuto vedere nello scorso numero del Magazine, la frittura era diffusa nel mondo romano. In particolare, negli scavi di Pompei molti ritrovamenti sembrano interessare proprio il mondo del fritto. Molti, infatti, gli utensili che sembrano evidenti servissero alla nobile arte della frittura; come ampiamente anticipato sempre nello scorso numero, la frittura per i latini era un po' diversa rispetto alla nostra. Il verbo “frigere” in latino ha un significato diverso rispetto all’italiano. Indica infatti qualsiasi alimento cotto ad alta temperatura che “saltava su”ed “emetteva suono”. È evidente che il fritto romano fosse molto distante dal nostro, qualcosa a metà tra il lesso e il fritto: si tendeva ad evitare le pietanze dure, leggere e croccanti, condizioni necessarie per un “buon fritto moderno”, ma non indispensabili per i romani. Tanto è vero che nel testo di Apicio alcuni fritti sono ricoperti e accompagnati da brodo o da liquidi vari, in modo da renderli più molli e ancora più umidi. Difatti il nostro autore, per conservare fresca una frittura, consiglia di cospargerla di aceto caldo subito dopo averla tolta dalla padella secondo una ricetta che successivamente sarà molto diffusa in Italia meridionale e che prende il nome di “scapece”. Ecco qualche esempio di pietanza che vediamo dai vari testi romani: come antipasto venivano preparate delle polpette di calamari o gamberi, prima bolliti, sminuzzati, ricomposti in palline che erano poi fritte. Come secondi piatti troviamo numerose vivande che prevedono il pesce fritto, abitudine importata dalla Grecia; ma anche la torta di acciughe fritte, cotte in uovo, olio, garum, vino. Moltissime ricette riguardano i dolci: i globuli, antenati degli struffoli campani; l’encyctum, spirale fritta di origini egizie; i datteri ripieni e

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fritti; ed altri simili alle nostre chiacchiere.

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IL MEDIOEVO E IL RINASCIMENTO Nell’età di mezzo inizia a configurarsi, seppur lentamente, il fritto come lo intendiamo oggi, grazie anche alle invasioni arabe della Spagna e della Sicilia. Tali popoli infatti pare cuocessero verdure, carni e pesci nel grasso bollente ricavato dalla coda delle pecore, chiarificato secondo tecniche già note nel VI sec. a.C. ai persiani che avevano appreso la tecnica della frittura dai cinesi. Intendiamoci, il protagonista delle tavole signorili era senza dubbio l’arrosto, presso i ceti meno abbienti il bollito. Però sfogliando diversi ricettari e documenti medievali emerge il fritto in primo piano nella preparazione dei pesci, di vivande di intermezzo tra le varie portate, dei dolci. Troviamo la “schibezia da tavernaio”, derivato dalla cultura romana, l’antenato del nostro scapece, di cui abbiamo anche la rielaborazione più raffinata nella versione cosiddetta “di Federico II”: pesce fritto, ricoperto di una salsa a base di cipolle, uva passa, prugne, spezie, mandorle, zafferano. Le frittelle, dolci o salate, erano veramente di ogni tipo, persino di fiori come ad esempio il sambuco; o i crostini fritti, cibo da taverna per eccellenza, costituito da pane raffermo grigliato, immerso nell’uovo, fritto e servito con miele.

Dimenticavo: quale grasso era usato? Non scordiamoci che il calendario dell’uomo medievale era scandito dai giorni “di grasso”, in cui erano consentiti la carne e i suoi derivati, e quindi si friggeva con lardo o strutto, che in linea di massima erano maggiormente utilizzati; e i giorni “di magro” dove si consumavano primariamente pesce e verdure (e poi anche uova e formaggi) e si friggeva con l’olio di oliva. Maestro Martino, il più famoso cuoco italiano del Quattrocento, riprende senza dubbio la tradizione medievale dedicando al fritto e alle frittelle un intero capitolo del suo ricettario (Libro de arte coquinaria). Possiamo trovare nel dettaglio le spiegazioni su come «far ogni


A TAVOLA CON I MALATESTI Non esiste modo migliore di raccontare una storia se non attingere dal proprio territorio. Ormai l’avrete capito, le mie origini sono marchigiane, al confine con la Romagna; queste terre, tra il XIII e il XV secolo, diciamo erano dominate dalla famiglia Malatesta, o Malatesti, Signori di Rimini, Cesena, Pesaro, Fano, Senigallia. Leggendo le fonti relative ai banchetti tra il 1373 ed il 1475, troviamo che il fritto ha un ruolo secondario, ma non marginale,

riservato soprattutto ai dolci e al pesce. Venivano adoperati a tale scopo lo strutto e l’olio di oliva, raramente il burro. Se dovessimo ricreare oggi quelle pietanze, avremmo notevoli difficoltà legate alle modalità di cottura, al gusto speziato e dolce dei piatti, agli strumenti usati e ai materiali. Per il fritto, invece, possiamo immedesimarci più facilmente, i procedimenti erano molto simili. Partiamo da un grande classico della cucina italiana, i ravioli, simili a quelli che conosciamo oggi: ripieno di ricotta ed erbe dolci, formaggio, uova, spezie. Erano cotti in brodo, e qui nulla di strano, ma potevano essere anche fritti e poi zuccherati. Nella lista della spesa per le nozze di Gentile da Varano con Elisabetta di Guglielmo Bevilacqua (1373), troviamo una ingente quantità di pesce (546 libbre, circa 160 kg!) destinato in parte ad essere lessato e fritto, ovviamente in entrambi i casi accompagnato da salse per completare il sapore del piatto secondo i gusti dell’epoca. Un esempio? Sogliole fritte con succo d’arance, facili da preparare anche oggi. Nei documenti dei Malatesti non potevano mancare dolci fritti, questo caso tortelli ripieni di un composto a base di zucchero, mandorle e noci; ovviamente cosparso di zucchero.

FRAMMENTI DI STORIA MODERNA Accadono tanti, troppi cambiamenti in questi secoli per raccontarli tutti; basti dire che intorno al 1600 nascono le patatine fritte, e questa è veramente un’altra storia…

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frictella»: di fiore di sambuco, di bianco d'uovo con fior di farina e cacio fresco, di latte quagliato ovvero giuncata, di riso, di salvia, di mele, di fronde d'alloro, di mandorle. Ancora troviamo presenti tutte le varianti di grasso e di magro.


Diciamo che l’accoppiata dolce e fritto è sempre presente, soprattutto - ma non solo nella cucina popolare. Già a partire dalla fine del Seicento si inizia a parlare di varie ricette di frittura che iniziano ad acquisire sempre più importanza; tanto che Antonio Latini di Fabriano nel 1692 descrivendo uno dei celebri pranzi preparato da lui, cita come seconda portata “Un gran piatto di fritto fatto con fegato di vitello, bocconi di animelle, fegatelli di diversi polli, cervelle di vitelle e fette di zinna con sparaci fritti sopra”. Dalle fine del Settecento, già a partire dal “Cuoco galante” di Vincenzo Cuoco ed altri ricettari, troviamo la progressiva inclusione del fritto all’interno della cucina di medio e alto livello, fino ad arrivare al completo sdoganamento nel XIX secolo con Pellegrino Artusi, autore del testo “La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene” del 1891. All’interno di questa vera e propria Bibbia della moderna alimentazione troviamo una trattazione ampia ed esaustiva in un capitolo dedicato interamente al fritto (preparazioni 162-225).

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IL FRITTO E NOI Ognuno ha un rapporto personale con il fritto, dovuto ai ricordi, alle esperienze, al proprio gusto. Il fritto è un comfort food capace di evocare ricordi e sensazioni molto immediate, un’esperienza sensoriale breve, intensa, facilmente memorizzabile. Il mio rapporto con questa

amatissima tecnica è particolare: in casa mia si friggeva poco, mia madre non digeriva questa cottura, non ne amava l’odore che permaneva a lungo nell’abitazione e quindi era raro trovarlo in tavola. Si apprezzava molto però quando si mangiava fuori: il fritto era associato all’idea della festa, del nuovo, dell’extra ordinario. Mi capita spesso anche ora, di apprezzare questa preparazione quando mi trovo fuori casa: del resto uno dei massimi piaceri culinari è quello di mangiare fuori ciò che non è comune nel quotidiano. Non voglio annoiarvi elencando le straordinarie esperienze culinarie legate al fritto che ho vissuto girando l’Italia per lavoro (e per diletto), vi propongo solo alcuni ricordi, i più emozionali, diretti, vividi, suggestivi: Senza commenti, come delle cartoline. Fatelo anche voi, chiudete gli occhi… FORT AUGUSTUS - LAGO DI LOCH NESS, SCOZIA

Fish and Chips, spruzzate di sale e aceto. BRUXELLES - QUARTIERE DI SAINTE CATHERINE

Moules et frites (cozze e patate fritte) e birra blanche. PALERMO - CORSO CALATAFIMI

Pane e panelle; arancine al ragù. NAPOLI - CAPODIMONTE

Pizza fritta.


EPILOGO Alla fine di tutto resta una certezza: un buon fritto è meraviglioso perché stimola tutti i nostri sensi, ci invita a gustarlo con avidità. L’occhio si nutre del colore dorato, lo sfrigolare nel grasso appaga l’udito mentre il profumo inebria le narici e ci attrae inesorabilmente; poi si mangia con le mani, il piacere tattile è impagabile, le posate debbono essere bandite per godere appieno. E il gusto? Abbiamo già detto tanto, ma sappiamo tutti che la brama di afferrarne subito un altro è di fatto inarrestabile… Terminiamo con un altro riferimento letterario: se l’incipit del nostro percorso era stato segnato dallo scanzonato e divertente sonetto del Burchiello, la chiosa è soavemente lirica e suggestiva.

Oda a las papas fritas (Ode alle patate fritte)

di Pablo Neruda da “Navegaciones y regresos (1957-1959)”

El ajo les añade su terrenal fragancia, la pimienta, polen que atravesó los arrecifes, y vestidas de nuevo con traje de marfil, llenan el plato con la repetición de su abundancia y su sabrosa sencillez de tierra.

Scoppietta nell’olio friggendo l’allegria del mondo: le patate fritte entrano nella padella come candide piume del cigno del mattino ed escono semidorate dalla crepitante ambra delle ulive.

L’aglio aggiunge ad esse la sua terrena fragranza, il pepe, polline che attraversò le scogliere, e vestite a nuovo con abito d’avorio, riempiono il piatto ripetendo l’abbondanza e la saporita semplicità della terra.

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Chisporrotea en el aceite hirviendo la alegría del mundo: las papas fritas entran en la sartén como nevadas plumas de cisne matutino y salen semidoradas por el crepitante ámbar de las olivas.


Pastella o panatura? UNA PICCOLA GUIDA PER NON SBAGLIARE MAI

The Chemical Griller a cura di Virgilio Brunetti

Q

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uante volte vi è successo di vedere in TV quei fritti croccanti e dorati, preparati magari da un cuoco famoso, e di pensare: che voglia mi è venuta, me lo faccio pure io! In fondo che ci vuole? Pastella o panatura, olio bollente e via. Poi invece avete fatto i conti con la triste realtà e vi siete ritrovati nel piatto pietanze fritte “mosce”, impregnate d’olio, oppure bruciacchiate fuori e crude dentro, molto lontane dal quel dorato e friabile paradiso che avevate sognato. La dura verità è che friggere è molto ma molto più difficile di quanto si possa pensare. Scegliere l’elemento giusto nel quale friggere un alimento non è per niente una cosa da sottovalutare: come sempre, è la scienza a dettare le regole anche ai fornelli, non si scappa. Vale lo stesso discorso per le pastelle e le panatura. Non basta sbattere un uovo, prendere il pangrattato, aggiungere un po’ di parmigiano e friggere nell’olio per avere un risultato perfetto. Anche se l’Artusi, nel suo La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene (1895) scrive “(…) spegnete la farina col rosso d’uovo e cogli altri ingredienti, versando l’acqua a poco per volta per farne una pasta non troppo liquida. Lavoratela bene col mestolo, per intriderla, e lasciatela in riposo per diverse ore. Quando siete per adoperarla aggiungete la chiara montata. Questa pastella può servire per molti fritti”. Inutile dire che la cosa è un pochino più complicata di così. Ecco quindi una piccola guida per aiutarvi a districarvi nel dedalo di ricette che potrete trovare online o sui libri. Come sempre, non ci limitiamo a dirvi cosa fare, ma vi spieghiamo per bene anche il perché. Qualche lettore ha lamentato una certa difficoltà nell’assimilare bene tutte queste informazioni, che ci rendiamo conto essere spesso molto tecniche e non di immediata comprensione. Ma vi ricordiamo che avete a disposizione un’assistenza clienti eroica e l’altrettanto eroica disponibilità dei nostri coach, che sono pronti a spiegarvi tutto ciò che possa risultarvi ostico ad una prima lettura. Per cui non vi perdete d’animo e buttatevi a capofitto in questa mappa dettagliata per arrivare al tesoro più dorato, croccante e asciutto che ci sia.


IL CONCETTO DI FRITTURA Quello che accade ad un alimento portato in cottura in un olio caldo è quello che definisce la frittura stessa. Si potrebbe dire che l’olio bolle ma non è esattamente così, perché gli oli da frittura bollono ad una temperatura di circa 300°C; quello che accade realmente ha a che fare con l’acqua intrinseca all’alimento: più un alimento è umido più la reazione sarà intensa, ovvero ci sarà un quasi istantaneo sviluppo di vapore a partire dalla superficie. L’acqua di fatto sublima per effetto del calore intenso e in forma gassosa genera dei piccoli geyser di vapore sulla superficie del cibo, generando una colonna di bollicine che avvolgono l’alimento; questo fenomeno si va affievolendo finché la superficie non si disidrata completamente: insomma non si è sigillato un bel niente, se è quello che state pensando! La frittura crea il contesto ideale affinché proteine e carboidrati reagiscano in una fantastica combinazione di reazioni di Maillard: calore intenso e ambiente di reazione privo d’umidità. Attenzione: alimenti molto umidi friggono con particolare violenza perché le piccole gocce d’acqua in essi contenute esplodono letteralmente a contatto con l’olio caldo (ricordiamoci che si lavora in un range di temperature comprese tra 160°C e 190°C!).

Una buona frittura è dunque sicuramente collegata al concetto di croccante. Questo aspetto fondamentale merita un ulteriore approfondimento: in analisi sensoriale si preferisce distinguere tra crispy e crunchy. Crispy è un attributo riferito alla superficie dell’alimento, dura ma molto sottile, che si frantuma immediatamente alla masticazione come se fosse vetro, svelando sotto di essa una matrice leggera, alveolata e scioglievole; il classico esempio di alimento crispy è la patatina fritta. Crunchy è la sensazione uditiva provocata dalla rottura meccanica dell'alimento, che emette un suono durante la masticazione simile a quello che emettiamo quando addentiamo una mela.

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Ora, perché preferire una frittura utilizzando una panatura o una pastella piuttosto che friggere il prodotto tal quale? La risposta è ancora: dipende. È come dire: meglio il carciofo alla giudia o in tempura? Dipende. E poi friggereste delle patatine in pastella oppure un fiore di zucchina senza una pastella? Dovrebbe essere già chiaro nella vostra testa che un fritto ben fatto deve essere caldo, croccante e dorato; il suo colore e il suo aspetto probabilmente sono gli attributi organiolettici più impattanti seguiti dalla texture, mangereste una patatina pallida, unta e molle?


LE FARINE, LE PANATURE E LE PASTELLE Salvo alcune eccezioni, non molti alimenti presentano una appearance gradevole se fritti direttamente in olio per cui le panature e le pastelle diventano nella maggior parte dei casi indispensabili al fine di un risultato ottimale; capirete che, per quanto possiate sbattervi, alcuni cibi non svilupperanno mai una crosta croccante senza un involucro, mentre altri più ricchi di amidi lo fanno spontaneamente. Con molti degli alimenti umidi e idratati, che non si prestano bene alla frittura diretta (come frutti di mare, crostacei e molluschi, particolarmente ostici perché letteralmente esplodono a contatto con l’olio caldo), una pratica comune per tamponare questo effetto è asciugarli infarinandoli abbondantemente e scrollandoli dell’eccesso di polvere. L’umidità stessa dell’alimento andrà a fare da collante alla polvere. Questa è la base della classica frittura mista di pesce. L’infarinatura dell’alimento inoltre è il primo step nell’allestimento della panatura. Questo metodo di preparazione richiede tre step: 1. spolverare l’alimento con un primer: farina 00, amidi, amidi modificati, destrina (Trisol by Texturas); 2. formare uno strato adesivo (di idrocolliode) immergendo in un liquido: uovo intero, tuorlo, albume montato, soluzione di metilcellulosa (E461); 3. ricoprire l’alimento una panatura. Il primo e il secondo step andranno a determinare lo spessore della crosticina in base agli ingredienti utilizzati; l’ultimo step, la panatura propriamente detta andrà a determinare la texture: ingredienti secchi in granuli ed in polvere derivati da prodotti da forno (pane, taralli, friselle, biscotti, grissini, crackers ecc.) generano una panatura compatta con un o spiccato effetto crispy.

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Le panature posso essere utilizzate anche in combinazione con una pastella per amplificare l’effetto crusty e crunchy della frittura. Panature a base di farina precotta di mais, polvere o granuli di cereali in fiocchi, chips di patate o mais, vegetali disidratati in fiocchi (e.s cipolla), generano un risultato meno denso, crispy e crunchy. Pur un effetto spiccatamente extra crunchy andremo invece ad utilizzare cereali soffiati e snack tipo estrusi di mais o di patata. Nelle panature l’obiettivo è ottenere una crosta superficiale croccante sottile e contestualmente un prodotto che all’interno deve risultare perfettamente cotto. Nelle pastelle questo strato si presenta più spesso e complesso e si ottiene sempre mediante la combinazione di un liquido con un prodotto contenete amidi, che sia capace di intrappolare aria. Lo stesso Artusi in maniera empirica suggerisce di stemperare un amido in una componente liquida e in una seconda fase aggiunge una schiuma, ovvero l’albume d’uovo montato a neve. Questo metodo fa sì che la pastella solidifichi istantaneamente a contatto con il mezzo caldo generando una matrice solida, alveolata, leggera e croccante (crispy).


La versione 1.0 della pastella quindi è una banale miscela costituita da farina 00/amido e il 30% d’acqua (slurry), potete utilizzare questa miscela anche come collante per le panature (acqua 50%). Lavorate sempre bene la sospensione di acqua e amidi in modo che questi inizino il processo di gelatinizzazione. Lo spessore dell’involucro in cottura sarà generalmente sottile mentre la consistenza sarà quella di una frittella appena croccante, dorata fuori e compatta, con pochissima alveolatura all’interno, ovviamente sempre che vi atteniate ad una tecnica di frittura corretta.

Nella versione appena più avanzata della stessa pastella utilizzeremo in sostituzione della normale acqua altri liquidi con un’elevata quantità di anidride carbonica disciolta: acqua frizzante, birra, champagne. I liquidi frizzanti devono essere rigorosamente freddi in modo da mantenere il più a lungo possibile la CO2 disciolta durante la miscelazione della slurry. A parità di spessore questa pastella risulterà sia crispy ma anche leggera e ricca di spazi vuoti (puffy) per via dell’ anidride carbonica che, dilatandosi per effetto del calore, farà lievitare istantaneamente la pastella in cottura. Questa variante apparentemente semplice è la base della frittura in tempura. Non mi dilungherò nelle dubbie e non giapponesi origini di questa tecnica. E’ comunque certo che grazie alla cultura gastronomica giapponese questo tipo di preparazione sfiori la perfezione. Croccante, leggera, asciutta. Una combinazione perfetta di una miscela di amido di riso e frumento e acqua gassata, che si fissa istantaneamente sugli alimenti in cottura che devono essere in alcuni casi preventivamente preparati, cotti e raffreddati. La miscela deve essere preparata estemporaneamente mantenendo anche i grumi di amidi non idratati, parte integrante della texture della tempura. Lo shock termico libererà istantaneamente l’anidride carbonica presente nella pastella dandole una struttura ancora più eterea.

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Gli attributi della texture della pastella sono strettamente correlati alla presenza di specifici ingredienti i che sono: un amido, un liquido ed un agente lievitante. 1. Componente amidacea: farina di frumento, riso o mais, amido di cereali (mais, frumento, riso), amido di tapioca, amido di patata, ed infine amidi modificati; 2. Componente liquida: acqua, acqua gassata fredda, birra fredda, latte, latticello, uovo intero, tuorlo, albume, alcol etilico (es.vodka), sidro, aceto; 3. Agente lievitante: lievito di birra, lievito chimico, bicarbonato di sodio, shock termico.


TEMPURA CLASSICA

Ingredienti: 100 g di acqua fredda gassata/ 100 g di farina di riso Preparazione: 1.

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Amalgamare farina e acqua velocemente senza preoccuparvi nel caso in cui resti qualche grumo, che contribuirà a rendere la frittura più croccante. Scaldate l’olio portandolo alla giusta temperatura (170°C), immergete un ingrediente per volta nella pastella senza eccedere e adagiatelo nell’olio. Friggete i vari ingredienti pastellati senza toccarli o girarli di continuo, fin quando non saranno dorati. Raffreddate brevemente la tempura su una gratella quindi servitela.

variante ultra crispy

TEMPURA SOTTO STEOIDI Sostituite la farina di riso con una miscela di farina di frumento, maizena e amido modificato di mais ceroso (E1442, es. Crystal mais)

Ingredienti: 100 g di acqua/ 10 g di vodka/ 30 g di farina di riso/ 10 g di amido di mais/ 10 g di E1442/ 3 g di sale/ lievito chimico 0,5 grammi Preparazione: 1.

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Miscelare gli ingredienti liquidi e solidi, e caricate la miscela in un sifone ben freddo preparato con 2 cariche di protossido di azoto (N2O); non utilizzate anidride carbonica (CO2) perché acidifica la miscela e compromette la reazione di Maillard. Sifonare la schiuma di pastella in un contenitore e utilizzatela rapidamente per pastellare le verdure sbianchite o piccole porzioni di pesci, di crostacei e di molluschi. Prima di pastellare gli alimenti, se ritenete siano troppo umidi, asciugateli con un sottile strato di farina di riso. Friggete come sopra.


L’aggiunta di uova alla pastella di frittura è un altro grande classico, così come testimonia lo stesso Artusi. Questa pratica darà spessore alla pastella, ma soprattutto le donerà una texture più ricca e saporita. La combinazione di amidi, proteine e grassi dell’uovo genera un impasto molto adatto a trattenere aria, per cui va sfruttato per ottenere le componenti volatili (anidride carbonica, etanolo); l’aggiunta di un agente lievitante come un lievito di birra o chimico migliorerà terribilmente la texture di questa miscela. Così come ci insegna l’Artusi, l’aggiunta di albume d’uovo montato alleggerisce la densità della pastella e garantisce una incorporazione d’aria piuttosto efficace senza l’uso di agenti lievitanti. Nelle pastelle a base amidacea o amido-uova,

l’aggiunta di alcool etilico genera interessanti effetti sulla consistenza della pastella. Sia che venga aggiunto direttamente o generato dalla fermentazione naturale del lievito di birra, questo solvente evapora velocissimamente a contatto con l’olio caldo, molto più velocemente e vigorosamente dell’acqua, e genera un curioso effetto e sulla superficie della pastella cotta, che risulta sfrangiata in sottili filamenti croccanti. La combinazione di elementi acidi (latticello, aceto, birra, ecc.) e bicarbonato di sodio genera in poco tempo una reazione chimica, che sviluppa grandi quantità di anidride carbonica diffusa molto velocemente e genera una pastella molto spumosa. È necessario cogliere l’attimo e utilizzare la pastella al picco della reazione. Ovviamente tenete conto che il bilanciamento di componenti acide e basiche non deve devastare il gusto della pastella

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PASTELLE A BASE D'UOVA


I GAMBERI FRITTI ...e le ciliegie mute!

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Si dice che siano appunto le ciliegie a essere talmente irresistibili da far nascere il detto una tira l’altra. Sarà anche vero, ma dite la verità: di fronte a un vassoio di gamberi fritti o di ciliegie su cosa vi buttereste? Dovete essere proprio sinceri sinceri, però: siamo tra amici di frittura. Tra i gamberi, quelli che amiamo noi di BBQ4All, sono quelli rossi di Mazara del Vallo; ne abbiamo parlato spesso (ed anche dedicato un intero speciale a Dicembre 2019). Del gambero rosso di Mazara, sappiamo molte cose: è il gambero emblematico della miglior parte del Mar Mediterraneo, di un deciso color rosso quasi corallo con macchie scure sulla testa che lo caratterizzano. Viene pescato sui fondali marini a circa 400 m di profondità dai pescherecci d’altura. Alla salpata, ovvero nel momento in cui le reti a strascico vengono tirate su; nel più breve tempo possibile viene fatta una cernita e il gambero viene suddiviso in base alla pezzatura. A quel punto, i gamberi vengono separati in vaschette da 1 kg e immediatamente abbattuti a bordo per evitare l’uso di solfiti. Oltre tutte queste cose, in questo ultimo anno abbiamo anche imparato a riconoscere il sapore burroso e pieno del gambero rosso. Queste qualità si avvertono soprattutto quando è mangiato crudo, così come abbiamo appreso dai cuochi di Mazara e da Gianfranco Lo Cascio tutti i segreti per presentarlo in tartare e per utilizzarlo al meglio in ogni occasione; abbiamo imparato anche a realizzare un’ottima bisque partendo dai suoi scarti, perché di un prodotto della natura così eccezionale non bisogna sprecare NULLA. Oggi torniamo alla semplicità: il nostro prelibato gambero lo friggiamo e lo tuffiamo nella salsa rosa. Sì, ma lo facciamo come sempre a modo nostro, con la cura per i dettagli e con un pizzico di inventiva. Partiamo dalla panatura: sicuramente moltissimi di voi conosceranno già il panko. Si tratta di un'impanatura tipica della cucina giapponese, che dona particolare leggerezza e croccantezza. Diversamente dalle panature classiche, il panko dona una panatura molto leggera, non frigge ma

ingloba aria e quindi tende a far scivolare via l'olio in eccesso sugli alimenti fritti. Dunque è perfetto per friggere i nostri amatissimi gamberi rossi Mazhara. Non serviranno grandi sapori per esaltare questi bocconcini deliziosi, ma certamente servirà una salsa. Qui andiamo sul classico (qualcuno direbbe banale, ma noi fischietteremo e non lo ascolteremo) e scegliamo la salsa rosa o salsa cocktail. I lettori più affezionati ricorderanno lo speciale anni ‘80 del Magazine nel numero di Settembre 2020. Lì, lo Zio ha rivisitato un classico degli antipasti di quegli anni: il cocktail di gamberi. Ecco, useremo proprio la maionese preparata in quell’occasione, che ricorda la salsa cocktail giusto per il colore e per l’aggiunta del brandy, per accompagnare il nostro oro rosso fritto. Ma a che temperatura dobbiamo far cuocere il gambero? Come già spiegato in Community, non esiste una temperatura perfetta: spiegato in maniera più dettagliata, non ne esiste una sola di servizio, perché può variare in base al vostro gusto. Facciamo un brevissimo recap a beneficio di tutti: a 45°C è ancora crudo, a 50°C è crudino ma compatto, con una consistenza soda anche se ancora molto umida, a 60°C è cotto ma molto molto tenero, a 70°C è ben cotto e con una succosità accettabile. Oltre questa temperatura, buttatelo via. Friggendolo, quindi avendo bisogno che all’esterno diventi croccante e che non sia troppo tenero tanto da rischiare di sfaldarsi, opteremo per una temperatura di servizio sui 70°C. Ovviamente, se dovessimo cucinarlo in altri modi, preferiremmo servirlo anche a temperature minori. Non ci resta quindi che preparare questo delizioso antipastino e mettere da parte le ciliegie di cui sopra, ché oltretutto non è neanche la stagione giusta.


INGREDIENTI 4 persone

per i gamberi: 1 kg di gamberi rosso Mazhara 280 g di pane panko 150 g di farina 00 300 g di acqua frizzante ghiacciata sale q.b. olio di semi di arachide q.b. per la maionese di gambero: le teste dei gamberi 60 g di tuorli 150 g di olio di semi di girasole 10 ml di succo di limone 10 ml di aceto di vino bianco 3 g di sale 1 g di pepe di Timut

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brandy q.b.


PREPARAZIONE 1.

Versate l’acqua in una ciotola e aggiungete a pioggia la farina, mescolando senza sosta con una frusta. Aggiustate di sale. La pastella dovrà risultare liscia e senza grumi.

2.

Dopo aver pulito i gamberi e averli privati dell’intestino (tenete da parte le teste, visto che ci serviranno), tuffateli prima nella pastella e poi nel pane panko, facendolo aderire bene alla polpa. Ponete poi i gamberi così panati in frigorifero per circa mezz’ora.

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3.

4.

Mettete le teste dei gamberi in una casseruola con un po' d'acqua e schiacciatele bene. Fate uscire il liquido e fatelo ritirare, poi filtratelo. Otterrete un composto denso e rosso, da aggiungere alla maionese. Pastorizzate i tuorli delle uova, poi miscelate i due oli in un contenitore con beccuccio. Sbattete

i tuorli pastorizzati ancora tiepidi insieme al liquido molto ristretto ottenuto dalle teste di gambero (o a un paio di cucchiaini di assoluto), e versate a filo l'olio continuando a sbattere con le fruste. Aggiungete a questo punto il limone, l'aceto, il sale e il pepe. Aromatizzate la vostra maionese con un goccio di brandy e mettete tutto in frigo a far raffreddare. 5.

Scaldate l'olio di semi di arachide a una temperatura di circa 180°C e poi friggete i gamberi: dovranno risultare croccanti all'esterno e ben cotti all'interno (temperatura di 70°C).

6.

Scolate i gamberi su un foglio di carta assorbente e serviteli, caldi e fragranti, insieme alla loro maionese.


Facciamo fritto il

BACCALÀ ...in tempura!

In questo numero del Magazine, abbiamo deciso di friggere il nostro baccalà, con la tecnica della tempura. La sua fragrante

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“Sei proprio un baccalà!”. Chi si offende alzi la mano. Di sicuro, nessuno dei nostri: il baccalà è un prodotto squisito e potremmo soltanto essere fieri di essere accostati ad esso. Chiariamo per bene cosa è il baccalà: esso proviene dal merluzzo atlantico e subisce un lungo processo di salatura. Islanda, le isole Fær Øer, la Groenlandia, la Danimarca e la Norvegia, sono tutti grandi produttori di baccalà da merluzzo atlantico. Il merluzzo viene pulito e parzialmente diliscato: grazie a questi procedimenti, la polpa del merluzzo inizia a perdere acqua, disidratandosi, fino a raggiungere percentuali di acqua presenti nella polpa minori al 48%. Una volta raggiunto questo stadio di lavorazione, il nostro baccalà è pronto per essere messo in commercio. La diffusione del baccalà è, possiamo affermarlo tranquillamente, mondiale. Soltanto in Italia non si contano le innumerevoli versioni e lavorazioni del baccalà: si va dal Veneto alla Campania. Dobbiamo la sua ampissima diffusione alla grande capacità di viaggio e conservazione. Infatti, fino a non molti decenni fa, il baccalà era usato come merce di scambio tra i contadini (che mettevano a disposizione masserizie varie) e commercianti oppure cittadini di posti sul mare. Ecco spiegato perché, anche in posti lontanissimi dalla costa, vige ancora una forte tradizione fatta di baccalà e sagre dedicate. La differenza sostanziale tra baccalà e merluzzo consiste nel fatto che il merluzzo viene essiccato all’aria aperta dopo essere stato decapitato ed eviscerato. Così il merluzzo subisce tutti i fenomeni climatici, avendo una lavorazione minima da parte dell’uomo.


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crosticina, che ad ogni assaggio rompendosi regalerà la morbidezza e tutto il sapore del pesce, conquisterà tutti i vostri ospiti. Sembra che le origini della tempura coinvolgano sia il popolo giapponese che quello portoghese. Durante il Cinquecento, infatti, i missionari gesuiti emigrati dal Portogallo in Giappone importarono anche la loro abitudine di friggere le verdure pastellate in uova e farina durante i periodi di digiuno della Quaresima o delle Quattro Tempora (i giorni in cui i cristiani devono evitare il consumo di carne, tipicamente il venerdì). Con la frittura, i portoghesi rendevano le verdure più appetitose. I giapponesi poi rivisitarono il piatto e lo arricchirono cominciando a friggere anche i frutti di mare. Questa tecnica di frittura è composta da una pastella leggera che avvolge gli ingredienti, i quali spesso hanno bisogno di una cottura molto veloce. Due gli accorgimenti necessari in questa preparazione: bisogna evitare di mescolare eccessivamente la pastella e scegliere una farina con un basso indice proteico. La pastella non deve risultare troppo collosa ed elastica, segno che si sta formando la maglia glutinica, altrimenti anche durante la frittura ritroveremo un composto pesante e gommoso che di sicuro risulterà sgradevole. L’olio dovrà essere sempre caldo e andranno fritti pochi pezzi alla volta. Un’altra garanzia di successo è lo shock termico che avviene quando gli ingredienti freddi entrano in contatto con l’olio caldo: per questo motivo è molto importante mantenere bassa la temperatura della pastella, tanto che alcuni mettono in frigorifero anche la farina (potete anche utilizzare la farina di riso se avete necessità di un prodotto senza glutine). Il dip che useremo per accompagnare la frittura è vagamente di ispirazione messicana con sentori mediterranei. La cottura in ember roasting (a contatto diretto con le braci) farà la differenza.

INGREDIENTI Per il red pepper dip: un peperone rosso una cipolla dorata un peperoncino di cayenna 6 pomodorini Piccadilly un cucchiaino di paprika affumicata uno spicchio d’aglio 2 cucchiaini di Worcestershire sauce 10 foglie di basilico 10 foglie di prezzemolo un cucchiaino di origano secco 1/4 cucchiaino di cumino Sale q.b. Zucchero q.b. Aceto di vino bianco q.b. Olio extravergine d’oliva q.b. Per il baccalà in tempura: 600 g di baccalà 200 g di acqua frizzante fredda 70 g di farina 00 40 g di farina di riso un tuorlo d’uovo (facoltativo) 500 g di olio di semi di arachide la scorza di un limone


1.

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La prima cosa da fare è la dissalatura del baccalà. Riponetelo in una ciotola ampia, capace di contenere almeno due volte il volume del baccalà. Coprite d’acqua e abbiate cura di cambiarla almeno ogni 12 ore per un paio di giorni, o comunque fin quando assaggiando un pezzo di baccalà non risulterà della giusta sapidità. Un giorno prima che il baccalà sia pronto occupatevi del dip; accendete un cesto di carbone e quando sarà pronto rovesciarlo nel braciere del dispositivo in modo tale da creare un letto di braci. Sistemare tra le braci il peperone, i pomodori e la cipolla e lasciateli bruciare esternamente, avendo cura di girarli di tanto in tanto. Una volta cotti gli ortaggi, chiudete il peperone ancora caldo in un sacchetto di plastica per alimenti dove per effetto del vapore creatosi la buccia bruciata si staccherà automaticamente in 10 minuti. Spellate il peperone e il resto delle verdure e battetele al coltello più o meno finemente a seconda dei gusti. In una bowl unite il basilico, il prezzemolo e l’aglio tritato finemente,il peperoncino, la paprika, la salsa Worchestershire e le spezie. Salate a vostro gusto e fate macerare la salsa, aggiungendo l’aceto e l’olio, almeno una notte in frigo.

4.

Porzionate il baccalà in piccoli tranci comodi da pastellare e da mangiare: questo passaggio è fondamentale, vista la rapidità con la quale avviene la cottura con la tecnica tempura.

5.

Unite la farina, il tuorlo se si vuole dare un colore dorato alla pastella, e l’acqua fredda in una ciotola capiente. Mescolate delicatamente con una pinza o una frusta. Anche se si creano dei grumi, basta far riposare la pastella il tempo di riscaldare l’olio e quest’ultimi spariranno.

6.

Infarinate leggermente i tranci di baccalà e con una pinza passateli leggermente nella tempura, così da creare un velo sottile di pastella che diventerà croccantissima. Friggete in abbondante olio di semi di arachide a 170°C/180°C.

7.

Volendo, si può procedere con la fioritura, aggiungendo un cucchiaio di pastella intorno ad ogni pezzo già inserito all’interno.

8.

Nei primi minuti meglio non toccare il pezzo di baccalà in frittura, per evitare che il velo ancora delicato di pastella attorno al pesce si stacchi.

9.

La tempura resta tendenzialmente chiara. Quando risulterà ben croccante scolate su carta assorbente, vaporizzate un po’ di succo di limone e condite con la scorza e un pizzico di sale.

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PREPARAZIONE


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Via di... scampo

4 persone

per la sfoglia: 500 g di farina 5 uova sale q.b. per il ripieno: 200 g di scampi 200 g di ricotta 60 g di Parmigiano Reggiano grattugiato uno spicchio d’aglio mezza cipolla finocchietto selvatico a piacere. olio extravergine di oliva q.b. sale e pepe q.b. per la crema al limone: 500 g di stracciatella un bicchiere di panna un limone biologico per completare: olio di semi di arachidi q.b. sale e pepe q.b.

RAVIOLO FRITTO con la crema al limone Ormai, lavete capito: a noi del BBQA4All Magazine piace citare alcune delle cose che abbiamo già proposto in passato, specialmente in quei numeri che abbiamo amato di più. Uno di quelli sicuramente più apprezzati, sia dai lettori che dalla redazione, è lo speciale anni’80 sfornato a Settembre 2020. Se siete dei nuovi abbonati, cercate di recuperarlo in qualche modo, magari acquistando un arretrato o addirittura l’Almanacco 2020 (forse non dovremmo dirlo noi, ma crediamo che meriti davvero un posto nella vostra libreria). Bene, è proprio a una delle ricette presentate in quel numero che ci siamo ispirati per regalarvi oggi una variazione sul tema molto sfiziosa e delicata. Stiamo parlando del tortello fritto con panna e prosciutto, che oggi si trasforma e “magicamente” diventa un raviolo, sempre fritto viso il tema odierno, ma ripieno di scampi e condito con una crema di burrata al limone. Dello scampo di Mazara venduto sul nostro Megastore abbiamo già parlato: pescato nel Mediterraneo (zona FAO 37), congelato a bordo dei pescherecci insieme all’acqua affinché le chele, molto delicate, non si spezzino durante il trasporto, selezionato per voi affinché vi arrivino sulla tavola solo le migliori pezzature integre e perfettamente conservate. C’è chi lo preferisce addirittura al prestigioso gambero rosso, perché ha un sapore più delicato, meno invasivo, anche se altrettanto burroso e appagante. Ovviamente, anche lo scampo mostra tutto il suo esplosivo sapore quando consumato crudo, condito con appena un po’ di olio buono e di limone. Ma non mancano le ricette in cui poterlo inserire anche cotto. Usarlo per la farcitura di questi ravioli fritti è una bella idea, raffinata quel tanto che basta per fare una bella figura coi vostri ospiti ma non così impegnativo nella preparazione. Insomma, come dice spesso lo Zio: fa figo e non impegna. Facciamone un mantra personale. Beh, certo dovete avere un po’ di dimestichezza nel preparare e tirare la pasta fresca, ma a parte questo passaggio, tutto il resto è veloce e poco complicato. Abbiamo scelto di condire il tutto con una crema agrumata, ispirandoci a un piatto tradizionale di Amalfi, in Campania: i tagliolini al limone. Presentato spesso come un primo adatto alla primavera e all’estate, posso dirvi che l’ho servito per il pranzo di Capodanno (rigorosamente a due soli ospiti) ed è stato un successone. Avere in giardino uno splendido limone da cui cogliere i frutti può aiutare: più che km 0 si parla di metri 2. In alternativa, scegliete sempre dei limoni biologici di ottima qualità; come ormai avrete imparato, la materia prima è sempre fondamentale per garantire un ottimo risultato. Prepariamoci dunque a friggere questi spettacolari ravioli.

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INGREDIENTI


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PREPARAZIONE 1.

Setacciate la farina e disponetela a fontana su una spianatoia. Aggiungete al centro le uova e un pizzico di sale. Sbattetele con una forchetta e incorporatele all'impasto, lavorandolo con le mani fino ad ottenere una palla compatta, liscia e omogenea. Fate riposare l'impasto per un'ora coperto da un canovaccio umido, poi dividetelo in due parti e stendetele con un matterello fino a formare due sfoglie sottili (oppure tirate la sfoglia con la macchina per la pasta).

2.

Nel frattempo preparate il ripieno: tritate l’aglio, la cipolla e un po’ di finocchietto, e fate soffriggere il tutto in padella, insieme a un filo d’olio. Quando il trito si sarà rosolato, incorporate gli scampi sgusciati, puliti e tagliati a pezzetti, insaporendo con un po’ di sale e pepe e facendo cuocere per qualche minuto. Versate subito dopo il tutto in una ciotola e incorporate la ricotta insieme al Parmigiano grattugiato.

3.

Prendete i fogli di pasta e ricavatene tanti quadrati non troppo piccoli: ponete al centro di ogni quadrato un po’ di ripieno e poi richiudetelo con un altro quadrato di pasta, avendo cura di chiudere bene ogni raviolo. Potete anche distribuite su una sfoglia il ripieno in mucchietti distanziati tra loro coprire poi con un’altra sfoglia facendo una leggera pressione attorno al ripieno. Ritagliate infine i ravioli in quadrati con una rotella tagliapasta.

4.

Scaldate bene l’olio (180°C) e friggete i vostri tortelli, che dovranno risultare dorati e bollosi, poi metteteli a scolare sulla carta assorbente.

5.

Nel frattempo, frullate la stracciatella con la panna e aggiustatela a vostro gusto con sale, pepe e una generosa grattugiata della scorza del limone. Servite i tortelli fritti e fragranti con la crema al limone e preparatevi ai sinceri complimenti di ogni commensale. Godetevi il sicuro successo, insomma.


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Che ficattola!

LA PASTA FRITTA TOSCANA

per l'antipasto perfetto! Se siete stati almeno una volta a cena (o a pranzo, visto il periodo) in Toscana e non avete assaggiato la pasta fritta con i salumi e il pecorino come antipasto, insieme agli immancabili crostini con paté di fegatini e alla polenta fritta col sugo di cinghiale o di funghi, non avete mai vissuto davvero. Ammetto di essere di parte ma, signori miei, che vi devo dire? Con questo tipo di antipasto si può prendere l’indigestione.

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Conosciuta in diversi luoghi della Toscana anche con altri nomi (al nord della Toscana si mangiano le ficattole -che però possono anche essere dolci- a Firenze i coccoli, verso Montalcino le donzelle) la pasta fritta non è altro che un impasto di farina, sale e lievito da cui si staccano dei bocconcini irregolari che vengono poi fritti in abbondante olio. Le ricette possono variare di poco localmente, ma la sostanza rimane più o meno sempre la stessa: in generale si fanno con la farina bianca 00, con il lievito di birra, sale, acqua (ma la ricetta originale fiorentina prevede il latte) e con molta pazienza nell’impastare. Bisogna prestare poi molta attenzione alla lievitazione e alla frittura, perché il rischio è quello di trovarsi dei bocconcini mappazzoni, mezzi bruciati fuori e crudi dentro. Una volta pronti vanno consumati caldi e fragranti (anche se resistono bene per un’oretta e sono ottimi anche mangiati tiepidi); spesso si trovano anche nelle rosticcerie, oppure come street food. Se mangiati in purezza sono eccezionali, danno il meglio con i salumi e i formaggi: con un buon salame garfagnino, con un pecorino di Pienza o con una crema di lardo aromatizzata. In molti noteranno la somiglianza con gli sgabei liguri, con IL gnocco fritto modenese, con le crescentine fritte bolognesi, e con tante altre preparazioni simili in tutto il resto d’Italia. Ognuna in realtà si differenzia dall’altra (ad esempio il gnocco è fritto nello strutto invece che nell’olio extravergine d’oliva, gli sgabei sono fatti anche con la farina di mais invece che con

la sola farina bianca) anche se in effetti hanno tutte la stessa finalità in cucina e probabilmente nascono dalla stessa tradizione. Non entrerò nell’Arena degli Hunger Games per stabilire cosa sia nato prima: già solo il fatto di dover lottare coi liguri per la paternità della Farinata, e al contempo lottare anche coi livornesi che la chiamano Torta, mentre a Pisa la chiamiamo Cecina, mi toglie dieci anni di vita. Mi limiterò a darvi la ricetta di ciò che si mangia nella Toscana profonda, senza star lì a stabilire se sia nata prima la pasta fritta o lo sgabeo. Tanto a noi che ce frega? L’importante è magnarsela a tonnellate. Dato che amiamo la contaminazione, lasciamo libero sfogo all’immaginazione e accompagniamo questi bocconcini deliziosi con qualsiasi cosa, non necessariamente di origine toscana, possa stuzzicarci la fantasia e la salivazione: penso alla ‘nduja, al Parmigiano Reggiano versione 80 mesi del nostro Megastore, penso alle salsicce affumicate, ai pomodorini Droga Rossa… penso, sogno e mi viene fame.

INGREDIENTI 4 persone

500 g di farina 00 25 g di lievito di birra 250 cl di acqua tiepida olio extravergine di oliva q.b. sale q.b.


PREPARAZIONE 1. Sciogliete il lievito in un po’ d’acqua tiepida, versatelo in una ciotola dove avrete disposto la farina e, a mano o con l’aiuto di una planetaria, impastate aggiungendo poco per volta il liquido rimasto, il sale e un cucchiaio di olio extravergine di oliva. 2. Abbiate la pazienza di impastare finché non ci saranno più grumi e il composto sarà morbido, liscio e omogeneo. 3. Trasferite l’impasto in una ciotola, copritelo con un canovaccio e lasciatelo riposare in un luogo tiepido (l’ideale sarebbe una temperatura di circa 30°C) fino al raddoppio. 4. Quando l’impasto avrà raddoppiato il suo volume, scaldate bene (circa 180°C) abbondante olio extravergine d’oliva in una pentola piuttosto alta e staccate dei pezzetti di impasto in modo irregolare (potete aiutarvi ungendovi un po’ le mani). 5. Friggete la pasta fino a che non sarà bella gonfia e dorata, poi trasferitela su un foglio di carta assorbente e servitela ancora calda.

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SOGLIOLA FRITTA

Questo non è un Magazine light! Cercate un pesciolino semplice, dal costo contenuto, che non vi porti troppo sbattimento nella pulizia? Ce l’abbiamo: è la sogliola! Questo è un nome comune per chiamare molti tipi di pesce appartenenti alla famiglia dei soleidi e dei Pleuronectidi. L’evoluzione ha portato questi pesci ad avere una posizione “sdraiata” su di un fianco, con gli occhi ravvicinati tra di loro. Anche la pigmentazione cambia: infatti, il lato della sogliola rivolto verso il fondale è bianco, quello rivolto verso l’alto è cangiante oppure camaleontico. Il suo habitat naturale è nei fondali sabbiosi del Mediterraneo, nell’Adriatico e intorno alla Sicilia ed alla Puglia. Le tipologie di sogliola presenti in questi mari sono di dimensioni ridotte, conosciute come solette di Giove. Una sogliola fresca ha le branchie color rosso vivo, la pelle brillante e luminosa, gli occhi vividi e profumo delicato. La sogliola è ben celebrata anche da Virginia Wolf nel suo romanzo Una stanza tutta per sé; ancora, viene festeggiata in Istria, dove gli chef le dedicano giornate intere ( di solito in ottobre e in novembre) preparando numerosi piatti a base di sogliola, dall'antipasto fino al dessert. Il revival della sogliola prende forma, attraverso ricette tradizionali e piatti originali che presentano talora abbinamenti insoliti.

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Da un punto di vista gastronomico, la sogliola rappresenta il pesce perfetto per chi vuole portare il sapore del mare in tavola, adattandosi grandemente alle varie cotture. Nutrizionalmente parlando, contiene pochi grassi, è ricca di Omega 3, perfetta per le diete ipocaloriche e a basso contenuto di colesterolo. Inoltre, è una fonte perfetta di potassio e fosforo. Vista così, la sogliola sembra il segreto per una vita buona e longeva. Ma noi la friggeremo, perché ci piace viverla con gusto, ‘sta vita. Le toglieremo la nomea di cibo triste, bolliticcio ed insapore. Passiamo al nostro compito. Noi la prepareremo con una pastella alla birra: l’utilizzo della bevanda fredda mescolata alla farina la renderà piacevolmente gustosa, leggera e croccantissima. Inoltre il Tennessee Mild Dry rub della linea Sal’s Seasoning si sposerà benissimo con questo tipo di pastella: le sue note speziate e non invadenti esalteranno in maniera fantastica questo pesce dalle carni delicate. Volendo, anche il Coconut cool rub si addice divinamente a questo tipo di preparazione. Per le salse avete ampia scelta. Il segreto è l’acidità che porterà equilibrio e golosità al boccone. Non abbiate paura di eccedere. Se amate lo yogurt anche un condimento a base di questo ingrediente, con aneto, limone e aglio si presterà molto bene a fare da spalla a questo piatto. Noi ve la proponiamo con una maionese pickled e un ketchup di pomodori arrosto

INGREDIENTI 4 persone

Per la sogliola: 700 g di filetti di sogliola una birra Pilsner 2 cucchiaini di Tennessee Mild Dry Rub Sal’s seasoning 200 g di farina 00 sale e pepe nero q.b. origano q.b. un lime 500 g di olio di semi di arachide Per la maionese pickled: 3 tuorli d’uovo 150 ml di olio di semi 40 g di senape 25 g concentrato di pomodoro 5 cetriolini sott’aceto un cucchiaino di aglio in polvere 1/4 cucchiaino di curry in polvere 10 g di aceto di mele 1 g di rafano (facoltativo) sale q.b. Per il ketchup di pomodori arrosto: 500 g pomodori datterini 50 ml di aceto di vino rosso 50 g zucchero 2 cucchiaini di paprika 0,5 g chiodi di garofano 0,5 g zenzero in polvere 0,5 g cipolla in fiocchi noce moscata q.b. sale q.b. gomma di xantano (facoltativo)


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PREPARAZIONE 1.

Per la maionese pickled unite tutti gli ingredienti, eccetto l’olio. Frullate aggiungendo l’olio a filo, fino ad ottenere una crema soffice ed omogenea. Assaggiare e salare a piacere.

2.

Per il ketchup di pomodori arrosto tagliate a metà i pomodorini, disponeteli in una padella in una padella antiaderente col lato tagliato in giù e cuocete a fuoco medio senza mai toccarli fino a che non risulteranno ben bruciacchiati e caramellati.

3.

Passate i pomodori con un passaverdure. Recuperate la polpa e il liquido ottenuti ed unite il resto degli ingredienti.

4.

Aggiungete circa l’1% di gomma xantano frullando con un mixer a immersione aggiustando la consistenza a piacere.

5.

Sfilettate, spinate e togliete la pelle alla sogliola. Ricavate dei pezzi di circa 6/7 cm di lunghezza, facili da maneggiare e da mangiare. Asciugateli accuratamente con carta assorbente.

6.

In una ciotola unite la farina, le spezie, il sale e l’origano e aggiungendo la birra a filo mescolate facendo attenzione a non creare spiacevoli grumi.

7.

Intanto che la pastella riposa, portate l’olio di semi di arachide a 170°C. Immergete i filetti nella pastella in un unico movimento e tuffateli subito nell’olio caldo.

8.

Appena saranno dorati e croccanti sarà il momento di toglierli, asciugarli bene e vaporizzare pochissimo succo di lime.

9.

Serviteli caldissimi con un pizzico di sale.


La paranza è una danza ... non sempre, a volte è una

pesce 161 - BBQ4All Magazine

fridittura


Mi sono innamorato di una stronza Ci vuole una pazienza Io però ne son rimasto senza Era molto meglio pure una credenza Un fritto di paranza, paranza, paranza

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Con buona pace dello stimato cantautore Daniele Silvestri, la paranza non è una danza che si balla nella latitanza, ma è una imbarcazione da pesca diffusa dall’adriatico centrale fino al basso tirreno, in uso fino alla metà del ‘900 e oggi sostituita dai più moderni motopescherecci. La caratteristica principale di questa barca, molto tozza e capiente, sviluppata nel corso dei secoli per poter navigare anche nelle condizioni meteo più avverse, è di essere utilizzata a coppie: le due paranze procedevano di pari passo, grazie all’abilità dei pescatori al comando dell’equipaggio, trascinando ciascuna un'ala di una rete (anche essa chiamata paranza, giusto per confondere le idee) portata a strascico. In questa tecnica di pesca la rete, smuovendo la sabbia, spaventa i pesci che, risalendo dal fondo, rimangono imprigionati nel sacco il quale, una volta riempito, viene issato a bordo, svuotato e schiarato nuovamente per un successivo passaggio. La pesca a strascico è una tecnica con un notevole impatto sull’ecosistema marino: le reti catturano tutto quello che incontrano sul loro cammino, asportando oltre ai pesci e agli invertebrati anche alghe, coralli e posidonie. Per questo motivo, in Italia è vietata la pesca a strascico entro le 3 miglia marine o a profondità inferiori ai 50 metri, esistono i periodi di fermo biologico e le reti devono avere maglie sufficientemente ampie da impedire la cattura di piccoli esemplari non ancora in età riproduttiva. Nonostante tutte queste indicazioni (a volte volontariamente ignorate da pescatori poco onesti e ancor meno lungimiranti) capita, oggi come in passato, che nelle reti finiscano intrappolati pesci di piccole dimensioni con uno scarso valore sul mercato ittico: merluzzetti, triglie, sogliolette, zanchette, alici, ghiozzi, sarde, vope, insieme a qualche totano, seppioline, calamari e - perché no? - gamberetti, costituivano quello “scarto”


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Il fritto deve essere croccante fuori e umido all’interno, va servito caldo e non deve essere unto e pesante. La realizzazione di un buon fritto misto di paranza non richiede una tecnica particolarmente complessa o numerosi passaggi, ma è sufficiente rispettare una serie di accortezze che garantiranno un risultato eccellente. Vediamo quali. Il pesce deve essere freschissimo. Affidatevi al vostro pescivendolo di fiducia e acquistate solo prodotti di giornata; è il mare che comanda! Lasciate sul banco il decongelato di cui non conoscete il percorso. Se non riuscite a trovare il fresco, prendete un abbattuto a bordo ancora surgelato e da fornitori che vi assicurano la massima qualità del processo. Il pesce va portato a temperatura ambiente. Evitate di tirare fuori dal frigo il pesce all’ultimo secondo per non abbassare troppo la temperatura dell’olio durante la cottura. Il pesce va asciugato perfettamente. È fondamentale per la riuscita di un buon fritto croccante eliminare l’umidità superficiale. Tamponate il pesce con la carta assorbente prima di procedere con le fasi successive. I pescetti più piccoli vanno solo eviscerati e ripuliti dalle eventuali alghe, lasciando al suo posto testa e lische (vanno mangiati in un boccone, le spine sono troppo piccole per costituire un pericolo o un fastidio). Anche nel caso di esemplari di pezzatura medio-piccola va mantenuta la testa e la lisca, che andranno rimosse durante il consumo dell’alimento. Se siamo abili con il coltello e preferiamo portare nel piatto solo quello che viene mangiato senza far sporcare le mani ai nostri commensali, possiamo eliminare la testa e aprire il pesce tenendolo collegate le due parti per il dorso, rimuovendo facilmente la lisca. Per quanto riguarda i molluschi, si procede come segue. Le seppioline vanno tenute intere: si incide il corpo con un coltello per la sua lunghezza e si estrae

l’osso, le interiora e l’eventuale sacca del nero; si tira via la pelle sfilandola e con la punta del coltello si eliminano gli occhi. I tentacoli possono essere tenuti insieme al corpo oppure separati; infine va sciacquato tutto sotto l’acqua corrente e messo ad asciugare sulla carta assorbente o su un canovaccio pulito. Totani e calamari vanno ripuliti separando il mantello dai tentacoli; dopo aver eliminato il gladio cartilagineo e la pelle, il mantello va tagliato per formare i classici anelli. È consigliabile eliminare il margine inferiore del corpo (per intenderci il lembo più vicino ai tentacoli caratterizzato da un margine irregolare e dal colore lievemente diverso) perché tende a diventare duro in cottura. I tentacoli, ripuliti dagli occhi e dal rostro, possono essere separati in due o tre parti. È fondamentale cercare di ottenere anelli e pezzi di tentacoli tutti della stessa misura, per non pregiudicare l’uniformità di cottura. Se siete fortunati e avete trovato dal vostro pescivendolo di fiducia anche un bel polpo (magari ben arricciato, o in mancanza va bene anche un decongelato), questo potrà diventare il pezzo forte della vostra frittura: è sufficiente, dopo averlo ben ripulito dall’acqua corrente, cuocerlo in un tegame a secco (sfruttando la sua stessa acqua) fino a che le carni non diventano tenere, dopo di che si lascia raffreddare sempre nel tegame e infine si taglia a tocchetti tutti della stessa dimensione. Altro pezzo forte di una frittura veramente golosa possono essere i moscardini: come per le seppie, meglio tenerli interi; vanno puliti sotto acqua corrente eliminando impurità, sabbia e rimuovendo occhi e rostro, dopo di che vanno scolati in un colino e messi ad asciugare su carta assorbente. Passiamo ai crostacei, ovvero ai gamberi e ai gamberetti. Qui ci sono due scuole di pensiero: classicamente, i crostacei vengono fritti interi con il loro carapace, che servirà a difendere la carne dall’aggressione dell’alta temperatura e che verrà rimosso durante il consumo del pasto; chi invece non ama sporcarsi le mani, preferisce rimuovere il carapace prima della cottura. In entrambi i casi, vi consiglio di adoperarvi di sana pazienza e rimuovere il budello, indicendo il dorso e aiutandovi con uno stuzzicadenti. Se scegliete di rimuovere il carapace dai gamberi, potete mantenere la parte terminale della coda attaccata. Se vogliamo proprio esagerare possiamo friggere anche qualche mitile, in particolare le cozze, che vanno estratte dal loro guscio crude aprendolo con

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che alimentava le famiglie dei pescatori i quali, nei periodi di povertà ci facevano la “zuppa”, mentre quando c’era l’olio in abbondanza, festeggiavano con una gustosissima frittura di paranza. Oggi la frittura di paranza è un secondo piatto diffuso così tanto nei ristoranti ad ogni livello (dalla bettola sotto il porto fino al ristorante stellato, passando per l’immancabile street food) che si può trovare persino chi lo propone misurato non in porzioni o in “grammi”, ma “al metro” proprio come la pizza.


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l’apposito coltello, oppure in alternativa possiamo dargli una veloce botta di calore in pentola togliendole con una pinza appena si schiudono. Volendo, potremmo anche avere la malsana idea di friggere delle ostriche, ma in questa maniera il nostro, più che di paranza, diventerebbe un fritto di yacht. Prima di essere immerso nell’olio profondo, il pesce va “rivestito” da un elemento che proteggerà l’alimento e contemporaneamente contribuirà a dare sapore e croccantezza. A questo punto ci sono due scelte possibili: usare solo farina (o, meglio ancora, una miscela di farine) oppure preparare una pastella. Se scegliete di usare solo farina, potete utilizzare una miscela al 50% di semola rimacinata di grano duro e farina di grano tenero: la semola tosterà fornendo croccantezza al vostro fritto, mentre l’amido della farina di grano tenero assorbirà l’acqua residua sulla superficie del vostro pesce, gonfiandosi e creando il rivestimento intorno all’alimento. In alternativa, per i celiaci, si può utilizzare una miscela di farina di mais e farina di riso. Per rivestire in maniera uniforme gli alimenti, potete usare un sacchetto da congelatore: riempitelo della miscela di farine, inserite una parte del pesce e agitate il tutto (delicamente nel caso dei gamberi, per non romperli). Recuperate il prodotto e ponetelo in un setaccio scuotendo per rimuovere la farina in eccesso. Se optate per la pastella (scelta obbligata nel caso dei crostacei privati del carapace e dei mitili), potete utilizzare sempre il mix di farine 50% semola e 50% farina di grano tenero, diluendo il tutto con la birra ghiacciata. È consigliabile utilizzare una farina debole, e la pastella non va mischiata troppo energicamente, per evitare di formare glutine che darebbe al nostro fritto una consistenza elastica. Se si formano grumi nella pastella, lasciatela riposare per una decina di minuti in frigo e vedrete che si scioglieranno da soli. È consigliabile tenere separate le varie tipologie di pesce, che verranno inserite nell’olio bollente una alla volta per poi essere riunite solo da cotte. In questo modo si otterrà una cottura omogenea delle varie parti della nostra frittura. Il pesce il suo rivestimento non va assolutamente salato prima della cottura, e nemmeno appena uscito dall’olio. Il sale va messo solo un istante prima del servizio, altrimenti il fritto si ammoscerà. Si frigge a 175°C/180°C. Lasciate perdere tutti i metodi empirici tipo buttare una pallina di pane nell’olio e vedere “se fa la schiumetta”, oppure provare a percepire il calore dell’olio passandoci sopra la mano a pochi millimetri di distanza dalla superficie incandescente; affidatevi ad un buon termometro digitale e non fidatevi nemmeno del termostato della friggitrice. L’olio deve essere in quantità dieci volte superiore al pesce. Con questo non voglio dire che dovete consumare una betoniera di olio per fare il vostro piatto, ma dovete friggere poco pesce alla volta in modo da evitare un repentino abbassamento della temperatura che renderebbe la vostra frittura unta e molliccia. Per ogni litro di olio contenuto nella vostra pentola o nella vostra friggitrice, immergerete 100 g di prodotto alla volta. Proprio perché si frigge in piccole quantità alla volta e l’olio deve rimanere a temperatura per tutto il tempo necessario, bisogna usare un olio con un adeguato punto di fumo e con un'ottima resistenza alla degradazione. L’olio di palma raffinato ha un punto di fumo molto alto ma rilascia troppo colesterolo negli alimenti; l’olio extravergine d’oliva ha un buon punto di fumo e basso colesterolo, ma ha un costo elevato e soprattutto incide


E adesso, siamo fritti! Il pesce va tenuto nell’olio per due-tre minuti al massimo, i gamberi e i mitili per un minuto appena, e va girato se necessario solo una volta. Per arricciare i tentacoli dei moscardini, possiamo tenerli con una pinza e fargli fare due o tre tuffi, prima di lasciarli completamente a bagno. Il pesce avvolto dalla pastella richiede in media un minuto in più di cottura rispetto a quello avvolto solo dalla farina. Quando si immerge il pesce crudo nell’olio si sentirà lo sfrigolio dato dall’acqua della pastella che evapora violentemente; nel momento in cui il rumore cesserà, probabilmente il pesce sarà cotto. Verificate la doratura superficiale e recuperate il fritto con l’apposito colino. Posatelo sulla carta paglia stendendolo bene, senza creare montagnole che provocherebbero condensa di vapore acqueo e senza tamponare. Se vi manca molto da friggere, potete tenere il tutto in caldo in un forno impostato ad 80°C con lo sportello lievemente aperto. In nessun caso coprite il fritto con un telo o della carta, sempre per evitare l’accumulo di vapore acqueo che condenserebbe ammosciando il tutto. Finito di friggere, mischiate tutto nel piatto da portata e solo un istante prima di andare a tavola, spargete il sale. E il limone? Spesso è una questione di gusti personali, ma sicuramente qualche goccio di un elemento acido può donare maggiore brillantezza al piatto. Potete utilizzare al posto del classico condimento, un sale aromatizzato al limone o al lime; optare per un'esotica salsa ponzu (soia+succo di agrumi); per una marcia in più, potete realizzare una salsa con soia, aceto di frutta, peperoncino secco e semi di sesamo tostati.

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Se avete un polpo, mettetelo in un tegame a cuocere sul fuoco con il fornello basso, senza aggiungere acqua. Per un polpo di medie dimensioni, il tempo di cottura è all’incirca di quaranta minuti. Testate la sua tenerezza con uno stuzzicadenti. Una volta cotto, lasciatelo raffreddare. Eviscerate i pescetti e i molluschi, passandoli sotto l’acqua corrente per eliminare tutte le impurità. Eliminate con accuratezza dai molluschi gli ossi cartilaginei, gli occhi e il rostro, se riuscite sfilate via la pelle. Ripulite i crostacei dal loro intestino e, se volete, eliminate il carapace sulla coda. Ponete tutto il pesce ad asciugare su un canovaccio pulito o su più strati di carta assorbente, tenendolo separato per tipologia. Separate il mantello dai tentacoli dei totani e dei calamari e tagliatelo in anelli di pari dimensione. Tagliate anche i tentacoli in pezzi di uguale dimensioni. Quando si sarà raffreddato, tagliate anche il polpo. Lasciate seppioline e moscardini interi. Aprite le cozze con un coltello oppure sul fuoco, avendo l’accortezza di rimuovere dalla pentola il singolo mitile appena si schiude, senza aspettare che si aprano tutti. Portate l’olio ad una temperatura di 180°C, misurandola con un termometro. Tamponate ulteriormente il pesce con la carta assorbente, poi passatelo nel mix di farina. Scuotete la farina in eccesso e tuffate il pesce nell’olio, poco alla volta e mantenendo sempre separati le varie tipologie. Crostacei sgusciati e mitili possono essere immersi nella pastella, che può essere preparata anche precedentemente e tenuta in frigo fino all’ultimo momento; rimuovete sempre l’eccesso di pastella prima di immergere l’alimento nell’olio. Per mantenere l’olio pulito, usate una schiumarola a maglie strette. È consigliabile friggere i pesci in pastella per ultimi. Scolate accuratamente il fritto e ponetelo in una teglia rivestita da carta paglia senza creare montagnole. Mettete la teglia al caldo nel forno riscaldato ad 80°C e tenuto lievemente aperto con una pallina di stagnola per evitare la formazione di condensa al suo interno. Finito di friggere tutto il pesce, ponetelo in un piatto di portata e servitelo accompagnato dal sale aromatizzato al limone e da altre salse a base acida, lasciando ad ogni commensale il compito di condire il proprio fritto un istante prima di consumarlo.

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notevolmente sul sapore finale della pietanza; quello che consigliamo per una frittura leggera, facilmente digeribile e croccante è l’olio di arachidi. Attenzione però ai commensali allergici alla frutta a guscio: in tal caso optate per un olio di girasoli alto oleico.


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Colei che sta bene in tutte le ricette!


In realtà, contrariamente a quanto pensano in tanti, il fulcro della città è l’Università. Sin dal 1343 la Pisa ha attirato a sé le menti più brillanti dell’intero pianeta. Ancora oggi è uno dei poli universitari migliori al mondo e vanta ricerche e scoperte nei più svariati ambiti. Ma Pisa vanta anche un’altra caratteristica peculiare: la presenza della scuola Normale Superiore, un istituto di specializzazione che permette alle menti più brillanti di... splendere. Rubbia, Carducci, Fermi. Sono solo alcuni dei nomi delle eccellenze passate per questo istituto. Curioso è il fatto che una scuola che formi premi Nobel ed eccellenze si chiami Normale. In realtà la spiegazione di tale nome va ricercata nel periodo napoleonico. La scuola

nacque, infatti, per volontà dell’imperatore Bonaparte e il termine Normale si riferisce alla sua missione didattica primaria, formare insegnanti di scuola media superiore che educassero i cittadini secondo norme didattiche e metodologiche coerenti. Negli anni dell’impero napoleonico la parola norma si ripresenta almeno in altri due campi: nella musica e in cucina. La prima Norma che viene in mente è quella di Vincenzo Bellini. Un’opera composta pochi anni dopo la fondazione della scuola e che ha reso immortale il suo autore. La seconda Norma è il celebre piatto della cucina siciliana, che con la sua semplicità conquista i palati: pochi e semplici ingredienti come il basilico, il pomodoro, la ricotta salata e delle melanzane cotte a puntino. L’unica insidia nella preparazione del piatto è la frittura delle melanzane che necessitano di essere preparate a norma oppure il piatto perderà la sua eccezionalità (questa almeno è una delle spiegazioni che va per la maggiore sull’origine e il significato del nome della ricetta). Parliamo allora degli innumerevoli modi di friggere questo ortaggio. Una cosa che può apparire normale ma nasconde innumerevoli insidie e difficoltà, come la famosa scuola pisana che a dispetto del nome fa piangere sangue ai suoi pur brillanti studenti. Esistono però parecchi tipi di melanzane – ortaggio estivo che ormai si trova tutto l’anno al supermercato - che cambiano

forma e colore in base alla zona di coltivazione, alle temperature e al clima locale. L’Italia ospita moltissime tipicità locali che si differenziano tra loro anche per il sapore, per la consistenza della polpa e per il colore della buccia che può variare dal bianco, al violaceo, al rosso e al nero intenso. Cerchiamo di conoscerne meglio alcune varietà. Non sono proprio tutte quelle esistenti, ma abbiamo cercato di percorrere un po’lo stivale da Nord a Sud. La melanzana bianca: dal colore bianco latte, con frutti di discrete dimensioni e dal sapore più delicato. Quando la buccia comincia a presentare delle sfumature giallastre vuol dire che è troppo matura. Sapore delicato, pochi semi nella polpa, molto digeribile. Ottima grigliata ma anche fritta. La melanzana perlina: coltivata nel ragusano, ha una forma allungata e un colore violaceo. Sapore dolce, polpa carnosa, molto compatta e soprattutto poco acquosa: adattissima alle preparazioni più asciutte e delicate come la frittura. La melanzana lunga Nilo: di origini romagnole, tra le melanzane dalla forma allungata è una delle più pregiate del mercato grazie soprattutto alla sua consistenza soda e compatta. Il sapore è intenso, è anch’essa adatta alle fritture e alle preparazioni con altri ortaggi dal sapore altrettanto forte. La Violetta di Firenze: dal colore viola intenso, ha una forma rotonda ed è di grosse

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I

lettori più affezionati probabilmente già lo sapranno, ma a beneficio dei nuovi abbonati (e per quelli tra i vecchi che ancora non lo sapessero) chiariamo subito una cosa: questo Magazine parla – anche, per una buona parte - toscano! Risparmiateci battute sulla Coca Cola con la cannuccia corta corta con l’odiosa spirantizzazione forzata della c, perché possiate pensare alle polemiche sulle sfumature dialettali vi diciamo subito che una parte dello staff di questo Magazine è fieramente pisana, di nascita o di adozione. Pisa in effetti è una città varia in cui da secoli si mescolano culture e lingue. Per i turisti asiatici è principalmente la città di Piazza dei Miracoli e della Torre Pendente, e qualcun altro la ricorderà per avere dato i natali a Galileo.


dimensioni. La polpa è soda e compatta, il sapore è leggermente amarognolo però dopo la cottura tende a diventare molto più dolce e poco invasivo. La Zebrina viola: dal fondo violaceo con striature bianche (da qui il nome), si presenta allungata; ha una polpa tenera e un sapore molto dolce. È coltivata soprattutto nel Sud Italia, dove le temperature estive più calde ne agevolano la maturazione. La melanzana rossa di Rotonda: visivamente è simile a un pomodoro, ma la consistenza interna è quella spugnosa tipica delle melanzane. Viene coltivata in Basilicata, ma ha origini africane. Il sapore è piccante con finale amarognolo e si adatta perfettamente ad essere conservata sott’olio o sott’aceto. La Violetta lunga di Napoli: forma allungata e buccia molto lucida, presenta una polpa turgida e ha un sapore più deciso e piccante. È perfetta per essere preparata sott’olio, per la parmigiana, per essere aggiunta alla pasta e per le grigliate.

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La Durona nera di Palermo: una delle tante varietà siciliane, dalla forma ovale leggermente allungata, ha una polpa soda e con pochi semi; è molto apprezzata in cucina soprattutto per la frittura e per i ripieni. Corre l’obbligo però dire che, se si vuole preparare una pasta alla Norma perfetta, la scelta migliore è la Violetta palermitana (altra varietà tipica di questi luoghi) dalla polpa tenera e gustosa. La Tonda piccola genovese: la varietà ligure, rotonda e di piccole dimensioni, il cui colore varia dal

nero della base, per poi arrivare al color viola scuro in prossimità del calice. Dalla polpa soda e compatta, è l’ideale per preparare le melanzane ripiene. La tonda ovale nera: probabilmente è il prototipo di categoria quando si pensa alla melanzana; è una delle varietà più richieste sul mercato, avvolta da una buccia lucida e nera che racchiude una polpa consistente e con pochissimi semi. La quasi totale assenza di semi la rende perfetta per svariate preparazioni, soprattutto in griglia. Vediamo ora di rispondere a due domande fondamentali che tutti si fanno quando si parla di melanzane: vanno salate prima (o, per dirla come le nonne, spurgate)? Vanno sbucciate? La risposta ad entrambe le domande è non necessariamente. Per quanto riguarda la salatura per far perdere l’acqua (e il sentore amarognolo) al frutto, può essere utile quando si decide di friggerlo, ma bisogna ricordare, come abbiamo scritto poc’anzi, che ormai esistono sul mercato moltissime varietà selezionate appositamente per essere meno acquose e più delicate di sapore e che quindi non necessitano dello spurgo preventivo. Decidere se sbucciarle o meno, invece, è proprio un gusto personale: c’è chi non tollera affatto la buccia fra i denti, ma bisogna ricordare che essa è commestibile e anzi, proprio nella buccia si trovano molti antiossidanti e una buona parte di fibre. Ed ora veniamo alle ricette. Vi presentiamo due modi di friggere questo ortaggio tanto amato da noi italiani.


MELANZANE FRITTE IN PASTELLA

Ingredienti per 4 persone: 4 melanzane Perlina/ 200 g di farina / 350 g di acqua frizzante ghiacciata /sale e pepe q.b. / olio di semi di arachide q.b.

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Preparazione: 1. Lavate le melanzane, successivamente tagliatele in modo da ottenere dei bastoncini e delle rondelle. 2. Una volta tagliate mettetele in uno scolapasta con un po’ di sale e lasciate per circa 30 minuti in modo che perdano l’acqua in eccesso. Questo procedimento può comunque essere saltato perché questo tipo di melanzana è comunque poco acquoso. 3. Nel frattempo in una ciotola capiente versate la farina e aiutandovi con una frusta aggiungete l’acqua (freddissima) a filo. Fermatevi quando avrete ottenuto una consistenza cremosa e leggera. 4. Una volta pronta la pastella, immergetevi le melanzane e successivamente friggetele in olio ben caldo (circa 180°C). 5. A cottura ultimata ponete le melanzane su un foglio di carta assorbente in modo da far scolare l’olio in eccesso. Salate e pepate a piacimento e servite ben calde.


COTOLETTE DI MELANZANE IMPANATE

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Ingredienti per 4 persone: 2 melanzane tonde ovali/ 2 uova/ 100 g di pangrattato/ 50 g di Parmigiano Reggiano grattugiato/ Rub Sal’s Seasoning Smoky Chipotle Chili a piacere/ sale e pepe q.b./ olio di semi di arachide q.b. Preparazione: 1. Lavate la melanzana e tagliatela in fette di circa un cm per il lato della lunghezza Cercate di rifilarle in modo da ottenere una forma regolare e simile a una cotoletta. 2. Una volta tagliate mettetele in uno scolapasta con un po’ di sale e lasciatele per circa 30 minuti in 3. modo che perdano l’acqua in eccesso. 4. Passatele adesso prima nell’uovo sbattuto condito con sale e pepe e poi nel pangrattato miscelato con il parmigiano. Potete ripetere l’operazione due volte per ottenere una panatura più croccante. Se volete dare un gusto più forte alle vostre cotolette di melanzane, aggiungete un po’ di Rub della linea Sal’s Seasoning Smoky Chipotle Chili. 5. Friggetele in abbondante olio ben caldo (circa 180°C) 6. A cottura ultimata, ponete le melanzane su un foglio di carta assorbente in modo da far scolare l’olio in eccesso. 7. Salate e pepate a piacimento e servite ben calde, volendo con un po’ di limone e con un pizzico di prezzemolo tritato.


FISH&CHIPS Really good!

Sebbene le sue origini British, ha superato nel tempo la più dura concorrenza di piatti inglesi molto blasonati come il roast beef o la pork pie. A basso costo, ottimo per un pasto veloce e assolutamente gratificante, questa preparazione è nato dapprima come pranzo tipico delle classi lavoratrici e poi street food ricercato da tutti i turisti. Quali sono le sue origini? In verità, incerte. La tradizione nel Regno Unito del pesce pastellato e fritto nell'olio potrebbe provenire da immigrati ebrei arrivati dall'Olanda. Originari della Spagna e del Portogallo e stabilitisi in Inghilterra già nel XVI secolo, avrebbero preparato questo piatto in modo simile al pescado frito, che viene ricoperto di farina e poi fritto nell'olio. Sappiamo che Charles Dickens menziona "fried fish warehouses" in Oliver Twist nel 1838 e nel 1845 Alexis Soyer, famoso chef e autore francese la cui carriera in realtà si è svolta principalmente in Inghilterra, nella sua prima edizione di A Shilling Cookery for the People, fornisce una ricetta per "fried fish, jewish fashion" (pesce fritto, moda ebraica) che è intinto in una pastella di farina e acqua. Insomma: di fish&chips se ne parla parecchio, nella storia del popolo di Sua Maestà. I primi locali a vendere fish&chips conosciuti furono aperti a Londra nel 1860, da Joseph Malin e a Mossley, nel Lancashire, da John Lees. In ogni caso, il pesce e le patatine venivano fritti separatamente da almeno cinquant’anni, quindi esistevano già prima di essere “accoppiati” in una sola ricetta. Questo piatto così economico e pratico divenne il classico cibo per le classi lavoratrici in Inghilterra come conseguenza del rapido sviluppo della pesca a strascico nel Mare del Nord, e dello sviluppo delle ferrovie che collegavano i porti alle principali città industriali durante la seconda metà del XIX secolo, in modo che il pesce fresco potesse essere trasportato rapidamente nelle aree densamente popolate. Anche George Orwell, in The Road to Wigan Pier (1937) lo descrive come il comfort food delle classi lavoratrici, nel suo racconto delle frange operaie nel nord dell’Inghilterra. Durante la Seconda Guerra Mondiale, il fish&chips fu una delle poche preparazioni a non essere soggetta al razionamento. I primi negozi di fish&chips erano pressappoco dei chioschi su strada con i servizi essenziali, con un grande calderone colmo di olio o altro tipo di grasso, come combustibile c’era il carbone. Successivamente, i negozi si sono evoluti aggiungendo un bancone e talvolta qualche seduta spartana.

C’è fish… e fish: quale pesce si utilizza? Il pesce utilizzato per questo tipo di abbinamento è solitamente il merluzzo, ma anche l’eglefino (Pesce atlantico dei Gadidi) un pesce di acqua salata, molto simile al merluzzo per le sue carni ma con un sapore meno sapido e più delicato. Le patate sono tagliate tradizionalmente a spicchi e lasciate con la buccia. Entrambe i prodotti vengono fritti in olio bollente, ma il pesce viene precedentemente rivestito di pastella, che può essere realizzata in maniera più legger con acqua o con birra. Il piatto viene servito con una o più salse. Dalla tartara, all’aioli, dal ketchup alla più comune e richiesta Mushy peas, una purea di piselli arricchita con panna, burro sale e pepe. Immancabile qualche goccia di aceto sulle patate. Una pietanza street food di eccezione, che si ama mangiare anche durante le lunghe passeggiate in spiaggia, all’interno di un cartoccio. Vediamo come farla.

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La superiorità del fish&chips è indiscussa: esistono ben pochi altri piatti con una fama così grande ed una diffusione così capillare, non soltanto nel mondo anglosassone, ma nel mondo intero.


Preparazione: 1.

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Iniziate lavando e tagliando le patate a spicchi. Non è il caso di sbucciarle. Lavatele in acqua corrente e lasciatele a bagno per mezz’ora circa, in modo permettere loro di perdere l’amido. Dopodiché, risciacquatele nuovamente e asciugatele bene con carta assorbente, prima di friggerle in abbondante olio, ad una temperatura tra i 180°C/190° C. Scolatele e lasciate assorbire su apposita carta per fritti l’eccesso d’olio, quindi tenetele in caldo in forno ad una temperatura di servizio. Importantissimo in questa ricetta è l’utilizzo di una pastella freddissima. Pertanto vi consigliamo di utilizzare acqua o birra da frigorifero. Fate la pastella in anticipo e ponetela qualche minuto in frigorifero nel mentre infarinate i filetti di merluzzo. In un contenitore e con l’utilizzo di una frusta a mano, mescolate, la farina, la birra o l’acqua, l’albume, l’olio e il sale. La pastella dovrà risultare liscia ma non liquida. Dedicatevi quindi al merluzzo: se utilizzate prodotto congelato, decongelate, sciacquate e asciugate per bene con carta assorbente. Passatelo nella farina, poi nella pastella. Tirate su, lasciando colare la pastella in eccesso e immergete nell’olio di semi a 190°C. Scolate a doratura avvenuta e asciugate su carta assorbente. Quando avrete finito di friggere il tutto, realizzate 4 porzioni, dividendo i filetti e le patate nei piatti di portata. Accompagnate con la vostra salsa preferita o con quella che vi suggeriamo su questo stesso numero. Servite il vostro pesce a fine frittura. Gli Steak Booster di BBQ4All sono l’ideale anche in questo caso. Voto 10/10 al Lime Pepper.

INGREDIENTI 4 persone

4 filetti di merluzzo (600 g circa) 4 patate rosse 1 l di olio di semi 150 g di farina 170 ml di acqua o birra un albume un cucchiaino di sale fino un cucchiaio di olio extravergine di oliva un limone


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Ce l'abbiamo profumato... il

sorbetto al limone

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Perché, cosa avevate capito?


Coach Nencioni consiglia: Relax, Frankie goes to Hollywood, 1984. Essenzialmente un invito “a durare di più”, esattamente come il sorbetto che è un pretesto a ritardare le fine del pasto. Qualcuno potrebbe dire che siamo dei pazzi ad inserire la ricetta del sorbetto a limone à la BBQ4All in un numero (il secondo, tra le altre cose!) interamente dedicato al fritto. Invece, non c’è cosa migliore che potremmo fare. Coccoliamo i nostri lettori, da inizio pasto fino alla fine. Il sorbetto a limone sarà il vostro rest time tra una serie e l’altra di golose fritture. Rinfresca il palato, crea un piacevole momento di break e convivialità, pulisce la bocca da sapori troppo forti. Ha un sapore un po’ retrò, da vacanza in costiera sorrentina negli anni ’80, o ancora da matrimonio infinito, con menu infinito, dove l’unica cosa davvero accettabile e di vero sollievo era lui: il sorbetto a limone. Scontato dire che il sorbetto a limone qui proposto sarà tutt’altro che banale e che niente avrà a che fare con ciò che avete gustato, anche un po’ controvoglia, fino ad ora. Daremo a questo umilissimo sorbetto, spesso scalzato dalla modernità di creazioni più fantasiose, un nuovo appeal. Pronti?

La tecnica di conservazione della neve e di conseguenza la gelata prelibatezza furono acquisite dai romani con la conquista della Grecia. Il nuovo dolce ebbe un tale successo nel territorio italico da creare in estate, come ci testimonia lo storico Plinio il Vecchio (23-79 d.C.) nei sui scritti, un grande commercio di ghiaccio nelle zone del Terminillo, del Vesuvio e dell’Etna. L’acquisto avveniva presso il thermopolium, antenato delle odierne rosticcerie e fast food. Erano dei banconi con all’interno dei serbatoi di terracotta, atto alla vendita di cibi caldi (thermo=caldo e polium=vendere), che si adattarono alla perfezione al nuovo business. Lo stesso imperatore Nerone (37-68 d.C) era un grande fruitore della bontà gelata, tanto da inviare assiduamente i corrieri più veloci a recuperare la neve del Vesuvio, per assaporare insieme ai suoi ospiti coppe ricolme di ghiaccio mischiato con succo, frutta a pezzi e miele. Sempre grazie alle informazioni tramandate ai posteri da Plinio, sappiamo che la versione latina era molto vicina al sorbetto moderno: ghiaccio finemente tritato mescolato con miele e succo di frutta, quasi a formare una crema. Ovviamente questo era un bene

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IDENTIKIT DI UN SORBETTO Il sorbetto è un dessert al cucchiaio (o come spesso veniva chiamato all’epoca un intermezzo) semi-cremoso, ma al contempo dalla consistenza scrocchiarella (al palato dovrebbe ricordare la neve appena caduta), preparato con succo di limone, acqua, zucchero e albume montato. Esistono anche le varianti all’arancia, al pompelmo, al cocomero e all’uva, ma perlopiù è conosciuto nella variante con l’agrume dalla buccia giallo brillante che oggi abbiamo scelto. Pare che abbia origini antiche, essendo già nota ai tempi di Alessandro Magno (circa 300 a.C.). Durante le sue imprese belliche, il condottiero dava l’ordine di preparare le “neviere” lungo tutto il suo percorso di conquista, in modo da rinfrancarsi dalla fatica e dalle alte temperature con la squisitezza ghiacciata. L’accesso alla neve era concesso anche ai soldati.


fruibile solo dal ceto ricco, lo stesso poeta latino Marziale (38-104 d.C.) affermò che l’acqua ghiacciata costava più del vino. Con la caduta dell’impero romano la preparazione finì nell’oblio fino all’arrivo dei Saraceni nel XII secolo in Sicilia, dove unirono il succo degli agrumi alla neve dell’Etna e dei Nebrodi, dando vita alla versione del sorbetto che noi tutti conosciamo. Alcuni studiosi sostengono che il termine “sorbetto” provenga dalla parola araba “sherbet” (dolce neve), mentre altri affermano che derivi dal verbo latino “sorbeo” (succhiare).

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Con lo sbarco dei mori sull’isola, fu ripresa a pieno regime l’attività dei nivaroli, il cui lavoro consisteva nel ripulire e foderare con delle foglie le neviere poco prima delle nevicate e coprirle con sterpaglie quando erano ricolme di neve. Per garantirne la conservazione fino all’estate, a febbraio con gli ultimi freddi, la neve raccolta veniva battuta per compattarla; questo passaggio era molto importante per preservarla fino all’estate perché oltre ad eliminare l’aria intrappolata all’interno, creava un film protettivo sulla superficie dovuto allo scongelamento al ricongelamento della parte superiore. Con l’arrivo del caldo, a seconda della richiesta, il ghiaccio veniva frantumato in blocchi, avvolto in tele o nella paglia e portato in pianura con i muli. Da quel momento il successo della squisitezza gelata fu solo in ascesa non esisteva corte italiana che non lo presentasse nei suoi banchetti per incantare gli ospiti. Nella metà del XVI secolo, questo dolce divenne la base di partenza di un'altra leccornia amata in tutto il mondo: il gelato.

Nell’incipit di questo articolo, vi avevamo promesso un sorbetto a limone nuovo ed indimenticabile: ci siamo. Per dare nuova vita a questa ricetta ormai dimenticata e per accostarla al mondo della cottura su fuoco (che a noi è tanto caro!) useremo il succo dei limoni grigliati. Il passaggio per qualche minuto sulla griglia degli agrumi non solo ci fornisce una quantità maggiore di liquido, rispetto ad una spremitura a freddo, ma soprattutto ci fa ottenere un succo dal sapore più intenso, poiché il calore fa evaporare l’umidità in eccesso e ne concentra il gusto. Tutto questo renderà il vostro sorbetto indimenticabile. Ovviamente, otterrete il nostro rispetto se lo consumerete come davvero va gustato: dopo averlo servito in eleganti coppe ai vostri ospiti in occasione della cena anni ‘80, berrete quello avanzato di notte, in piedi, a sorsate possenti davanti al frigorifero aperto. Nota tecnica per gli appassionati di pasticceria: la quantità di zucchero dipende molto dalla gelatiera a disposizione e dal luogo in cui il sorbetto viene conservato. Con quelle ad accumulo la percentuale si aggira intorno al 15/16%, in gelateria siamo sui 29/30% mentre per la gelatiera a compressore è preferibile rimanere sotto il 25%. Di questo 25% meglio utilizzare un 20% di destrosio, che ha un potere anticongelante maggiore del saccarosio comune, o in sostituzione un miele dall’aroma poco invasivo (acacia per esempio). C’è chi utilizza l’albume o la meringa italiana per dare un aiutino alla consistenza, ingrediente sostituibile però con un addensante come la farina di semi di carrube. Il destrosio lo trovate, oltre che on-line, in farmacia, mentre la farina di semi di carrube si trova facilmente nei negozi dedicati al bio e affini.


Ingredienti per 6 persone: 280 g di succo di limone/ 210 g di zucchero semolato/30 g di destrosio o miele di acacia/ 3 g di farina di semi di carrube o 30 g di albume pastorizzato/ acqua Preparazione: 1. Preparate il dispositivo per una cottura diretta, accendendo mezza ciminiera di carbone, che sarà sufficiente. Una volta versato il combustibile lateralmente chiudete il coperchio perché la griglia si scaldi bene. 2. Dividete i limoni in due, dopodiché appoggiateli sulla griglia direttamente sul calore per qualche minuto; quando la parte a contattato con la griglia è leggermente brunita sono pronti. 3. Spremete i limoni, filtrate il succo con un colino per eliminare residui i di polpa e i semi, poi lasciateli raffreddare completamente. 4. Se utilizzate la farina di semi di carrube: versate il succo in un pentolino, aggiungete gli zuccheri (saccarosio e destrosio/miele) la farina di semi di carrube e l’acqua, fino a raggiungere il peso totale di 1 kg. Scaldate a fiamma dolce e cuocete fino al raggiungimento dell’ebollizione, allontanate dal fuoco e aggiungete le bucce del limone in infusione. Se avete la gelatiera, aspettate che si raffreddi e versate nella macchina. 5. Se utilizzate l’albume: versate il succo di limone in un pentolino, aggiungete 200 g di zucchero, 30 g di miele e l’acqua, fino a raggiungere il peso totale di 1 kg. Scaldate a fiamma dolce e cuocete fino al raggiungimento dell’ebollizione, allontanate dal fuoco e aggiungete le bucce del limone in infusione. Una volta freddato il liquido, aggiungete l’albume montato a neve con 10 g di zucchero. Mescolate dal basso verso l’alto. 6. Se non avete la gelatiera, trasferite il composto all’interno di una teglia bassa e riponetela nel congelatore per un’ora. Passato questo tempo prendete la teglia e mescolate il composto in modo da rompere i cristalli. Ripetete questa operazione ogni mezz’ora per sei volte o fino a quando non ottenere una crema bianca e uniforme. 7. Servite il sorbetto all’interno di coppette, o in un limone scavato, come certi ristoranti anni ’80.

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L'Arte Bianca a cura di Alessandro Trezzi

o t t o r e z pan e Il

rba es

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... grazie, ignota massaia che lo hai inventato


La storia Bari, XVI secolo: in questo luogo ed in questa epoca è collocata la nascita ufficiale del panzerotto, all’incirca concomitante alla prima apparizione del pomodoro in Italia. Galeotto, pare, fu proprio il pomodoro: grazie alla sua predilezione di abbinarsi alla mozzarella, un’ignota massaia avrebbe preso del pane per poi mescolarlo ai due ingredienti, farcito la pallina schiacciata ed immerso il tutto nell’olio bollente. Come spesso accade nelle origini dei prodotti più famosi, il piatto sarebbe presto diventato economica e prelibata sulle tavole povere. Come tutte le nascite “incerte”, trovare la verità è la giusta arte di collocarsi nel mezzo. Il primato della paternità è conteso con Napoli, che vanta l’invenzione della pizza fritta come alternativa alla pizza al forno, ma lasciatemi dire che delle diatribe territoriali ci interessa relativamente poco, vista la commovente bontà che ci ritroviamo davanti.

Etimologia Pare che il nome derivi proprio dall’idea dell’ignota massaia di racchiudere la farcitura all’interno della pallina di impasto per pane, per evitare di far bruciare gli ingredienti nell’olio. All’interno del pentolone, notò che le palline stesse assumevano la forma di mezzelune tonde e decisamente panciute. Venne quindi coniato il nome “panzerotto” che deriva da “panza”, termine semi-dialettale meridionale per indicare la pancia gonfia. Arrivati a questo punto, potrete capire il dramma dei baresi: spesso (sia fuori provincia che addirittura fuori regione), quando si ordina un “panzerotto”, ci si trova davanti a pietanze completamente diverse da

quelle che ci si aspettava. Il nostro beneamato fritto può assumere forme e nomi diversi a seconda del territorio: in Salento si chiama “calzone”, in Lucania “calzoncello”, in Campania è sostituito dalla “pizza fritta" e il panzerotto è di fatto una grossa crocchetta di patate.

L’impasto Nella sua città d’origine l’impasto viene realizzato con olio, latte o addirittura patata schiacciata, in modo da aggiungere gusto, fragranza e morbidezza. E come sempre, nella nostra versione nerd e in pieno stile BBQ4All, stravolgeremo tutto per arrivare ad un risultato atomico senza inutili aggiunte. Partiamo come sempre dall’obiettivo finale, definendolo in modo chiaro e semplice: il prodotto finito deve essere leggero, un concetto importantissimo specialmente quando si parla di fritto; una materia prima cotta nell’olio in modo sbagliato può infatti trasformarsi in un’esperienza pesante, indigesta e decisamente da dimenticare. Come per la pizza fritta vista lo scorso mese, dobbiamo realizzare un panetto estensibile ma di tenuta, in modo che sia possibile renderlo sottile senza bucarlo, ottimizzando i tempi di cottura e impedendo alla pasta di assorbire troppo olio. La scelta migliore ricade quindi su 00 o 0 di forza media, con un buon assorbimento minimo ed un’ottima stabilità. La maglia glutinica dovrà essere ben formata, ed è fondamentale che l’idratazione non sia troppo elevata per evitare di utilizzare troppo spolvero durante la stesura, che brucerebbe nell’olio bollente. Lasciamo stare olio, latte o patata schiacciata, con i quali non faremmo altro che rischiare di rovinare la maglia o di inumidire eccessivamente l’impasto. Non lesiniamo nemmeno sul sale, che rafforza i legami proteici e rende più tenace la maglia, oltre a stabilizzare la lievitazione.

La cottura Il grasso prediletto per questa tipologia di prodotto rimane senza ombra di dubbio l’olio di semi di arachidi, con un ottimo punto di fumo e meno invasivo per quanto riguarda l’apporto di sapore nel prodotto finito. La temperatura ideale è 180°C, da rispettare in modo certosino in modo da avere un fritto più leggero possibile. Un tempo il grasso più utilizzato per la frittura

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“F

ritta è buona anche una ciabatta”, dicono. Pensate allora agli ingredienti più iconici e tradizionali d’Italia, come il pomodoro e la mozzarella, racchiusi all’intero di una palla di impasto fritto. Pensate all’esplosione di gusto, alla croccantezza della panatura, alla morbidezza del ripieno, al perfetto contrasto tra dolcezza e acidità. Il panzerotto barese è, senza ombra di dubbio, una delle specialità più celebri e conosciute, diffuse ormai in lungo e in largo nella penisola e diventata famosa persino nei pressi del Duomo di Milano, dall’ormai lo storico Luini.


era la sugna, ovvero lo strutto di maiale, in quanto economico e di facile reperibilità, ma soprattutto con un altissimo punto di fumo; vi ricordo infatti che più un punto di fumo è alto, maggiore potrà essere la temperatura soglia per la cottura, minore sarà il tempo di cottura e quindi di permanenza del cibo nel grasso, che si impregnerà meno risultando più leggero. Essendo il panzerotto ben più piccolo della pizza fritta, in caso di poca farcitura e di una dimensione ridotta potrebbe non essere così cattiva l’idea di sostituire l’olio di semi con dello strutto. Provare, come sempre, non costa nulla.

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La farcitura Il panzerotto classico vuole la mozzarella e il pomodoro, su questo non ci piove. La cosa importante, tuttavia, è quella di ottenere un ripieno morbido ma asciutto, in modo tale che l’umidità in eccesso non rischi di rompere l’impasto in cottura combinandovi disastri a dir poco epocali; per questo motivo i due ingredienti vengono miscelati e successivamente scolati lentamente. A discrezione, è possibile prevedere un pizzico abbondante di pepe e soprattutto una grattata di formaggio Pecorino, che aiuta a dare consistenza alla farcitura. Nel barese, la base della farcitura tradizionale si può modificare con prodotti tipici: cime di rapa bollite o stufate, ciccioli di maiale, mortadella e provola, e così via. Come sempre possiamo sbizzarrirci, lavorando di fantasia e per associazione territoriale, cercando però di rispettare la sacra regola del ripieno morbido ma asciutto. Lavorate quindi con pochi ingredienti, massimo due o tre, e che abbiano un ottimo equilibrio. Azzardate, sperimentate e fate lavorare l’ingegno. Last but not least, il panzerotto si presta perfettamente alle versioni dolci, grazie anche alla sua dimensione ristretta che lo rende sfizioso e difficilmente stucchevole. Ricotta lavorata con lo zucchero, marmellata di agrumi, nocciole tritate e foglie di menta fresca potrebbero essere ad esempio un’interessante idea per terminare i vostri cenoni al barbecue.

INGREDIENTI

per circa 30 panzerotti

per l'impasto 1 kg di farina 00 o 0 (W 300); 600 g di acqua; 25 g di sale fino; 3 g di lievito di birra fresco.

per la farcitura 800 g di fiordilatte; 400 g di pomodoro pelato; sale q.b.; pepe nero q.b.


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IMPASTAMENTO

In una ciotola o nella vasca della vostra impastatrice versate tutta la farina, il lievito sbriciolato, circa i 3/4 dell’acqua e iniziate a miscelare. Non appena l’impasto comincerà a prendere consistenza versate tutto il sale e l’acqua rimanente. L’impasto sarà pronto quando risulterà liscio, asciutto e setoso, con il glutine ben formato, e la temperatura interna dovrà essere di 23°C-24°C. Chiudetelo a pagnotta facendo qualche piega in modo da uniformarlo e dargli struttura, dopodiché mettetelo in un contenitore a chiusura ermetica ben unto, ungete anche la parte superiore e lasciatelo riposare 2 ore a 24°C. Questa operazione è molto importante in quanto l’impasto è asciutto, e il rischio è di formare della fastidiosa pellicina. Se capita non disperate: inumidite la zona intaccata e appoggiate un pezzo di carta forno inumidito in modo che l’aria non vi dia più problemi.

e recuperateli con una spatola o un tarocco, appoggiandoli sul piano leggermente sporco di semola; usatene il meno possibile, in modo da evitare che l’eccesso finisca nell’olio bollente bruciando. Stendete uniformemente i panetti con il mattarello ricavando un disco dal diametro di circa 12 cm, con lo stesso spessore in tutta la superficie. Tagliate la mozzarella a dadini e mescolatela con il pomodoro pelato schiacciato, aggiustate di sale e pepe e mettete il tutto a scolare, in modo che la farcitura risulti asciutta e non buchi il panzerotto in cottura. A questo punto allungate leggermente il disco di impasto con le mani dandogli una forma leggermente ovale, adagiate una cucchiaiata generosa di impasto al centro e chiudete poi i lembi a mezzaluna. Aiutatevi con una rotella per pasta fresca per tagliare una piccola zona della chiusura sigillando il bordo, oppure con la punta dei rebbi di una forchetta.

PUNTATA

COTTURA

Trascorse le prime due ore di riposo ripiegate l’impasto nuovamente e riponetelo sempre nel vostro amato contenitore in frigorifero a 6°C per 18 ore, in modo da completare la fermentazione e rallentare la lievitazione.

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STAGLIO, FORMATURA E APPRETTO

Terminata la puntata rovesciate l’impasto sul piano da lavoro e dategli la forma di un salsicciotto. Spezzatelo con un tarocco (mai con un coltello) e ricavate dei panetti dal peso di 50 g ciascuno, che andranno poi arrotolati sul banco in modo da ottenere una pallina. Disponeteli quindi ben distanziati in una cassetta da lievitazione o su una teglia coperta da pellicola per altre 6-8 ore a 24°C.

STESURA E FARCITURA

Infarinate leggermente due panetti

Versate abbondante olio di semi di arachidi in una pentola ampia almeno 28 cm, e portatelo a 180°C. Aiutatevi con una spatola per staccare l’impasto dal piano, e adagiate i due panetti nella pentola. Cuocete fino a doratura completa, girando dopo qualche minuto i panzerotti dal lato opposto e avendo cura di bagnarli sempre con l’olio aiutandovi con schiumarola e mestolo, in modo da uniformare la cottura. Tolti dall’olio appoggiate i vostri scrigni fritti su una teglia coperta di carta assorbente o carta paglia e asciugate l’olio in eccesso. Abbiate sempre cura prima di cuocere i panzerotti rimanenti che l’olio sia tornato a 180°C, evitando così di allungare i tempi e avere il fritto unto e pesante. Non vi resta che avvolgere il vostro stupendo panzerotto fumante nella carta e scottarvi la lingua, godendo in quattro lingue diverse, soprattutto in barese.


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Gli americani e il pesce DAGLI STATES

Across the Pond a cura di Elena Ninotti

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C

irca 40 anni fa, mentre era ospite di una famiglia americana in New Jersey, mia cognata venne invitata ad una battuta di pesca. La compagnia tornò a casa con un bel pesce; alla sua domanda (ovvia, per le nostre orecchie!) se quel pesce sarebbe stata la loro cena, la risposta inorridita fu Ma scherzi? Non lo vedi che ha la testa e la coda? Come facciamo a mangiarlo? Al che lei, figlia di pescatori amatoriali, lo pulì e gli tolse la testa per renderlo quindi commestibile agli occhi degli amici americani. Questa storia è stata raccontata negli anni come una barzelletta sull’eccentricità di questi personaggi. In realtà, quando mi sono trasferita con la mia famiglia in South Florida, ho potuto constatare di persona come questa idea sia diffusa. Mio marito pesca e sono certa che uno dei motivi principali per cui ha accettato il lavoro a nord di Miami sia che qui c’è la più alta percentuale di pescatori sportivi degli Stati Uniti. Youtuber, influencer, campioni di pesca: tutti prima o poi passano le acque tra la Tri-County (Miami-Dade, Broward e Palm Beach), le isole Keys e le Bahamas. Il buon clima tutto l’anno, il mare decisamente calmo e la buona pescosità rendono questa zona un vero paradiso. Quello che mi sconvolge è quanto, però, molti americani peschino per pescare: perché, di fatto spesso non mangiano ciò che hanno catturato. Spesso lottano con la preda per tirarla su, ci si fanno una foto, e poi la ributtano in mare. La pesca sportiva è assimilabile a un safari: l’importante non è se la preda sia edibile, ma quanto è grossa e quanto è combattiva. E per mangiare il pesce? Per chi non è


Io sono cresciuta in Italia, in un paese di mare e il pesce è sempre stato presente sulla mia tavola. Per fortuna, come dicevo prima, noi abbiamo la possibilità di pescarlo e di averlo fresco, anche senza il supporto del mercato. Tuttavia, il pesce dell’Oceano non è simile a quello del Mediterraneo. L’Oceano è molto meno salato del Mare Nostrum e questo si ripercuote sul gusto del prodotto, molto più delicato, che può essere un difetto su pesci dalle carni bianche, ma è un valore aggiunto per il pesce azzurro oppure per quello che da noi in Italia è considerato di scarto o troppo forte, come sugarello, bonito, sgombro. Chiaramente, le ricette americane di pesce non prevedono mai una cottura al forno o una frittura di paranza. Si parla di tranci grossi da grigliare, friggere, affogare nelle svariate salse o con cui farcire sfiziosi tacos o enchilada. Non dico non siano buoni, ma non è certo quello con cui siamo cresciuti noi.

La vera passione degli americani, tuttavia, sono i crostacei e le capesante. Pur, anche in questo caso, con qualche loro peculiarità: scordatevi di trovare gamberi o aragoste compresi della testa, o capesante col corallo e/o il guscio. Mi dicono che i gamberi con la testa si possano trovare in Alabama e in alcuni Stati del Sud, ma ancora non ne ho le prove. Di sicuro, da tutte le altre parti potrete decidere la misura del vostro crostaceo o della capasanta col calibro, ma mai avrete il piacere di vederne uno intero. Anche in questo caso, sono sempre meno aromatici dei nostri, ma comunque davvero interessanti. Le code di aragosta, la polpa di granchio, le innumerevoli varianti di gamberi hanno prezzi per noi molto più accessibili. Una coda di aragosta può costare come un trancio piccolo da 150 g di salmone allevato; si può tranquillamente mangiare al ristorante un lobster roll (un soffice panino al burro, ripieno di insalata di aragosta, maionese leggera e - a volte - fettine di sedano per dare croccantezza.) con 12-15 dollari, e con 20 dollari avere un piatto di lobster linguine. Per gli americani, l’astice con le chele è la Maine Lobster, o Aragosta del Maine (uno stato del New England). L’aragosta con le spine, invece, è la Florida Lobster o Spiny Lobster. E’ meno diffusa e, tra Luglio e Agosto, qui in South Florida è possibile pescarla direttamente dalla spiaggia, in prossimità della barriera corallina, armati di un retino ed un’astina per farla uscire dalla tana (è tuttavia necessario un permesso di pesca dedicato). Purtroppo, quello che non ho mai trovato sono gli scampi (langoustine). Sembra che nelle loro mille versioni di crostacei, questi non siano pervenuti. Ma non demordo, sono certa che prima o poi li troverò.

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pescatore e anche per una parte di quelli che lo sono, si compra rigorosamente al banco del supermercato: filetti bianchi di pesce, tutti uguali, senza testa, senza coda, senza spine, come quelli apprezzati dalla famiglia che ospitava mia cognata; oltre a essere completamente puliti, sono adagiati su letti di ghiaccio secco che li cuoce e li rende indistinguibili. Hai voglia a cercare su Google translate la traduzione del nome del pesce proposto: mai assomiglierà a quella roba bianca e informe che vedi esposta. La possibilità di trovare i pesci interi c’è solo in alcuni supermercati (ad esempio Whole Foods Market) e in qualche pescheria ma, al momento dell’acquisto, l’addetto alla vendita cercherà in tutti i modi di dartelo pulito e spinato. Non so da cosa derivi questa fobia, ma mi è successo anche di voler regalare del pesce appena pescato e sentirlo rifiutare perché ancora intero.


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Da novembre a marzo c’è la stagione delle chele di granchio. I banchi del pesce si riempiono di chele di ogni forma e dimensione e gli americani ne vanno letteralmente pazzi. Semplicemente bollite, spolverate di Old Bay Spice mix, in insalata oppure nelle Crab Cake, che ono una specie di hamburger fatti con granchio, pangrattato, spezie e un goccio di maionese nell’impasto: davvero molto buone. Accompagnate da un’insalata sono un’ottima soluzione per un light lunch al volo decisamente gustoso. Se acquistare pesce è deprimente, non va molto meglio con i molluschi. Le cozze sono quasi introvabili, le vongole sono vendute a numero. UNA vongola va da 50 centesimi a più di un dollaro. E non è detto che siano grosse. Potrebbero essere grandi come una piccola vongola verace, così come un grosso fasolare. Tempo fa ho trovato un sacchetto da 2,5 kg di vongole al supermercato. Le ho prese, pensando di aprirle e conservarne metà per una spaghettata futura. Invece, dopo averle pulite, mi sono ritrovata con un pugno di molluschi. Gusci pesantissimi, liquido all’interno: insomma, invece di fare scorta, sono riuscita giusto giusto a fare una spaghettata per 3 persone. In generale, non è impossibile mangiare buon pesce in USA. Bisogna però uscire dalla propria comfort zone e non pretendere la spaghettata in stile terrazza sul mare, o il branzino da far sfilettare al cameriere. Piuttosto, una volta abbandonati i pregiudizi, potrete apprezzare un trancio di Chilean Sea bass (una sorta di grosso branzino) blackened, cioè spolverizzato di spezie Cajun e poi passato su piastra o sotto il grill, oppure fare scorpacciata di cappesante seared (grigliate) o, ancora, di gamberi fritti, rigorosamente già sbucciati per il piacere del cliente. Se proprio volete esagerare, ordinate un Surf and Turf, traducibile come “mare e monti”. In pratica, vi arriverà una coda di aragosta al burro, accompagnata da un Filet mignon, oppure un trancio di pesce con una NY strip, nello stesso piatto. Questo mese vi do la ricetta delle Crab Cake e delle Fish and Lobster Cake. In attesa che si riaprano le frontiere e possiate assaggiarle nel Maryland, loro zona d’origine, potete provare a farle da soli.

MARYLAND CRAB CAKE Ingredienti per 4 persone: 450 g polpa di granchio sgocciolata e pulita dalle cartilagini/ 60 g pangrattato o cracker salati tritati / 60 g di maionese / un uovo/ 2 cucchiaini di prezzemolo tritato/ un cucchiaino di senape di Digione/ un cucchiaino di Sal's Seasoning - Smoky Chipotle Chili/ sale e pepe q.b per aggiustare/ burro q.b. . Preparazione: 1. In una ampia ciotola, mescolate tutti gli ingredienti. Dividete in 8 parti il composto e fate 8 polpette schiacciate, tipo hamburger. Se avete un coppapasta con pressa, ungete l’anello e formatele aiutandovi con quello. 2. Fate riposare i patty qualche ora in frigo. 3. Sciogliete del burro in una padella e quando è spumeggiante, cuocete le polpette fino a doratura, voltandole con una spatola con cautela. Si possono mangiare nel bun con germogli e un velo di aioli o come piatto principale con una insalata di contorno, accompagnate da salsa remoulade (maionese con una punta di senape e cetriolini agrodolci tritati fini) o con una salsa cocktail all’italiana.


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LOBSTER-FISH CAKE

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Ingredienti per 4 persone: una cipolla media tritata non troppo finemente/ una costa di sedano tritata non troppo finemente/ un peperone medio piccolo o meta di un peperone normale tritato (circa 150 g)/ 600 g di pesce bianco sfilettato, come merluzzo o altro pesce a vostra scelta/ 250 g di polpa di astice (o scampi o gamberi) a pezzi leggermente sbollentati/ 125 ml di panna fresca da montare non zuccherata/ 125 g di pangrattato, panko o craker sbriciolati/ 2 uova/ 2 cucchiai di maionese/ un cucchiaio di senape/ olio d’oliva q.b./ 3 cucchiai di aneto tritato/ un cucchiaio di buccia di limone/ 2 cucchiai di olio/ sale e Pepe q.b./ 100 g di burro/ olio di semi di arachide q.b./ Panko q.b. per impanare

Preparazione: 1. In una padella che possa contenere comodamente il pesce, scaldate due cucchiai di olio e saltate le verdure. Quando sono rosolate, ma ancora croccanti, aggiungete i filetti di pesce ben asciugati e cuocete a fuoco alto per 5 minuti. 2. Aggiungete la panna e portate a cottura per 10 minuti a fuoco medio, poi fate raffreddare bene. 3. Mettete il tutto in una ciotola, aggiungete tutti gli altri ingredienti e lasciate riposare in frigo almeno un paio d’ore. 4. Create 12 polpette medie o 24 piccole, passatele nel panko e friggetele in un mix di burro e olio, fino a doratura. Se non avete il panko, potete tostare del pancarrè e frullarlo leggermente o, ancora meglio, grattugiarlo con una grattugia a fori larghi e poi tostare le briciole ottenute.


In tutte le salse a cura di Marco Gerometta

SALSA AI PEPERONI GRIGLIATI E AVOCADO

Abbinata al Fish&Chips

I peperoni, originari del Sud America e appartenenti alla famiglia delle Solanacee, attualmente vengono coltivati in tutto il mondo. Questo ortaggio, che abbiamo conosciuto grazie allo scambio colombiano, non contiene la sostanza chimica che rende piccanti i peperoncini e al contrario del fratellino caliente non ebbe una rapida diffusione nella cucina italiana. Come tutte le cose ottime della nostra cucina contemporanea, ci abbiamo messo un po’ a capire come valorizzarlo ed usarlo al meglio. Siamo un po’ capoccioni. Lo troviamo in alcune ricette del 1600: abbinato alla cottura del tacchino o usato per insaporire le salse. Nel 1700 viene considerato “cibo rustico e volgare"; ma dato il suo successo, nell’800 i peperoni sott'aceto di un oste veronese finiscono sulla tavola di Napoleone Bonaparte. Da lì, la strada si fece più semplice. Vegetale fra i meglio conservabili, ormai il peperone è un simbolo della cucina mediterranea, poiché tutte le popolazioni che si affacciano sul Mare Nostrum conoscono innumerevoli modi di servirlo. Data la molteplicità delle specie, potrebbe succedere che una varietà dolce sulla carta risulti più piccante del dovuto, quindi è sempre bene assaggiarne un pezzettino. Il peperone è un prodotto ricco di vitamina C e D e di sali minerali come potassio, ferro, magnesio w calcio. Notoriamente, crea spesso qualche difficoltà di digestione; per questo motivo è consigliabile procedere all’eliminazione della pellicola che lo riveste.

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VIENE CHIAMATO “SUPERFOOD”: L’AVOCADO L’avocado, frutto coltivato nell’America centro-meridionale già dagli Aztechi, fu anch’esso importato in Europa da Cristoforo Colombo, descritto dai conquistadores come un frutto di ottimo sapore la cui polpa era simile al burro. Scegliere un avocado al giusto livello di maturazione non è così semplice, ma è molto importante per un risultato ottimale delle ricette. Di solito li si trova troppo duri e non sarebbero buoni e adatti a molte preparazioni, ma per farli maturare alla giusta consistenza, basta metterli in un sacchetto di carta assieme a una


mela o una banana e dopo uno- due giorni al tatto risulteranno morbidi. Quando invece la polpa inizia a scurirsi significa che la maturazione è andata oltre. Con questi due prodotti faremo una salsa deliziosa per accompgnare in modo originale il nostro piatto di Fish&Chips.

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Ecco cosa ci servirà: • 2/3 peperoni misti • un Avocado medio • 4 cucchiaini di panna da cucina • 4 cucchiaini di maionese • 2 cucchiaini di aneto sminuzzato • un grosso spicchio d’aglio • mezzo cucchiaio di sale grosso • un pizzico di Sal’s seasoning Montreal Steak Rub Preparazione: 1. La prima fase di questa salsa consiste nell’andare a grigliate i nostri peperoni: si può optare per un mix di qualità differenti (i classici nostrani gialli, rossi o verdi, i corno, i friggitelli e addirittura qualche piccante lungo) A me piace molto il sapore dato da una cottura in ember roasting, cioè direttamente sulle braci, rigirandoli con dei guantoni termici, fino ad ottenere l’esterno bruciato. In alternativa potete mettere i peperoni sulla leccarda del forno per circa 15 minuti a 250°C fino a che saranno abbrustoliti. 2. Posizionateli in un sacchetto adatto al congelamento: in questo modo dopo 5 minuti si faciliterà l’operazione di spellatura. 3. Con un coltello eliminate poi i semi e la placenta interna, oltre al picciolo, e poi a tagliateli a listarelle. 4. Non vi resta che unire tutti gli altri ingredienti, compresa la polpa dell’avocado maturo, e frullare il tutto per ottenere la vostra salsa.


SALSA STRACCHINO, MORTADELLA E PISTACCHI

Abbinata alla pasta fritta

Lo spalmabile, fresco e saporito stracchino è un formaggio di origine lombarda (a proposito, il nostro Giovanni Minelli sul BBQ4All Magazine vi ha anche insegnato come riuscire a farvelo da soli). Il nome deriva da stracc che in dialetto significa stanco: per realizzarlo, infatti, veniva utilizzato latte proveniente da mucche provate dalla transumanza al fondovalle dopo l'alpeggio estivo. Tornando da una lunga camminata, stracche appunto, queste vacche producevano poco latte, ma sufficiente affinché i pastori potessero produrre un ottimo formaggio che venne chiamato stracchino. Tecnicamente parliamo di un formaggio a pasta molle, di breve stagionatura (massimo 30 giorni) e prodotto con latte vaccino intero. La mortadella Bologna fino a un paio di secoli fa era un prodotto riservato a un’élite di buongustai, nobili e ricchi borghesi che potevano permettersi un salume che richiedeva la manodopera di Norcini altamente specializzati, e che quindi aveva un prezzo superiore persino a quello del prosciutto. Solo in seguito al graduale sviluppo dell’industria salumiera (parliamo dell’Ottocento) la mortadella diventò un prodotto accessibile a tutti, trasformandosi pian piano nella schiscetta preferita dagli operai, mangiata nel panino e innaffiata con una birretta buona. Nel Museo Archeologico di Bologna è conservata la prima testimonianza di quello che si ritiene essere stato un produttore di mortadelle: su una lastra in pietra risalente all’epoca della Roma imperiale, nella quale

sono raffigurati da una parte sette porcelli condotti al pascolo e dall’altra un mortaio con pestello. Dal momento che il mortaio era utilizzato dai romani per pestare e impastare le carni suine con sale e spezie, se ne potrebbe dedurre che il nome della gustosa specialità salumiera nasca da murtatum che significa appunto carne tritata nel mortaio. Il pistacchio – fra l’altro spesso abbinato alla mortadella- è una pianta originaria del bacino Mediterraneo, coltivata per i semi che vengono perlopiù utilizzati per il consumo diretto e in pasticceria, ma anche per aromatizzare gli insaccati di carne. Era noto e coltivato dagli antichi ebrei e già allora ritenuto un frutto prezioso. Furono gli arabi che - conquistando la Sicilia - si attrezzarono per incrementare la coltivazione del pistacchio nell’isola: questo, in particolare alle pendici dell’Etna, trovò l’habitat naturale per uno sviluppo rigoglioso ed eccezionale. Ma torniamo a noi: Abbiamo i nostri fumanti pezzi fritti di pasta toscana e con un cucchiaino andremo a spalmarci sopra un po’ di questa salsina: morso dopo morso sarà una mescolanza di tradizioni davvero sorprendente. Ingredienti: • 150 g di mortadella a fette • 50 g di ricotta di capra • un cucchiaio di Parmigiano Reggiano grattugiato • un cucchiaio di panna da cucina • 2 cucchiai di latte intero • granella di pistacchio q.b. • un pizzico si Sal’s Seasoning Mount Nimba Preparazione: 1. La preparazione è facilissima: vi basterà frullare il tutto ed eventualmente aggiungere altro latte fino alla cremosità desiderata. 2. Servite con la granella di pistacchio e con la pasta fritta fumante.

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Nei miei ricordi dell’anno di naja trascorso in Toscana c’è indubbiamente quello delle libere uscite, quando si andava coi compagni nei locali per mangiare qualcosa e immancabilmente ci ritrovavamo a mangiare un bel piatto di pasta fritta con accompagnamento di salumi e formaggi. Partendo da ciò, ho pensato ad un abbinamento molto sfizioso. Conosciamo meglio gli ingredienti principali.


L'Arte Casearia a cura di Giovanni Minelli

Da mozza a... mozzarella

Come fare il nostro latticino a pasta filata preferito

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Sei proprio una mozzarella: se la Treccani riporta questo detto come da attribuire a persone prive di carattere, beh, non ci giurerei: parliamo di uno dei prodotti più rappresentativi della gastronomia italiana ed in generale mediterranea, sempre al centro di dibattiti talvolta accesi. Per mozzarella intendiamo il prodotto ottenuto da latte bufalino da latte vaccino, assumendo per legge diverse denominazioni: fino al 1996 era possibile chiamare “mozzarella” solo quella di “bufala

campana”, che ha il marchio DOP. Ad oggi, oltre la “mozzarella di bufala campana DOP”, abbiamo anche la “mozzarella di latte di bufala” ma anche la “mozzarella di latte vaccino”. In caso di utilizzi di altri tipi di latte, i produttori sono tenuti a comunicarlo. La mozzarella è preparata principalmente nel Centro-Sud Italia: si hanno testimonianze di

produzione di mozzarella a Capua (in Campania), nel XII secolo; in Centro Italia, verso il XV secolo. Il minimo comune denominatore è la necessità di essere consumata freschissima, quindi in molte zone hanno automaticamente dato il via a proprie produzioni di questo latticino, acquisendo le tradizioni del posto. Questo è uno dei motivi per cui, dopotutto, ci avviamo a fare la nostra mozzarella homemade. Siete pronti? Dite “cheese”! DI


Tutte le paste filate hanno in comune una fase del processo produttivo che è caratteristico della categoria: tra la fase di coagulazione e quella di formatura si passa per la filatura, resa possibile dalla preventiva acidificazione e demineralizzazione della massa cagliata. Ormai sapete bene che per ottenere un proficuo abbassamento del pH possiamo agire seguendo due vie distinte: l’acidificazione diretta, tramite ad esempio l’utilizzo di acido citrico, oppure l’acidificazione indiretta, tramite batteri che fermentano il lattosio. Se pensiamo alla mozzarella e al suo processo produttivo, sicuramente avremo in mente proprio qualche scena di filatura e mozzatura del prodotto, è la sua caratteristica, ma questa necessariamente deve passare per l’acidificazione, meno emozionante ma indispensabile affinché la massa possa essere lavorata. Questa parte di processo può essere approcciata in vari modi: si può lasciare la cagliata sul banco di lavoro, all’aria, oppure sotto siero (o acqua) ma comunque a temperatura costante. Personalmente non sono un amante delle mozzarelle citriche, benché il processo sia abbastanza facile e tendenzialmente più veloce, il prodotto finale risulta essere abbastanza banale, con note sensoriali poco intense tanto da farmi pensare che probabilmente ho sprecato del buon latte. Preferisco realizzare le mie mozzarelle casalinghe acidificando per via indiretta utilizzando fermenti selezionati commerciali. Nella fattispecie utilizziamo dei termofili omofermentanti: Streptococcus termophilus e Lactobacillus bulgaricus.

Si potrebbero utilizzare anche degli innesti partendo dal proprio latte, ma questa sarà un’altra storia. Abbiamo un pH obiettivo da raggiungere, che per il latte vaccino è 5,1/5,0. Ad un pH superiore non riusciremmo a filare il prodotto e ad uno inferiore perderemmo elasticità per eccessiva demineralizzazione. Risulta quindi molto importante raggiungere questa soglia e successivamente bloccare la fermentazione per evitare che il valore continui a scendere. Hai a disposizione tutto il tempo che vuoi prima di continuare a leggere, immagina

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DI MOZZARELLA IN MOZZARELLA: NOTE TECNICHE E PROCEDIMENTO Parlando di mozzarella entriamo nel mondo delle paste filate, a questa categoria appartengono anche provoloni, caciocavalli e scamorze. I prodotti più celebri sono realizzati a partire da latte di vacca o bufala, ma esistono prodotti con latte ovino, come la Vastedda della Valle del Belice. La mozzarella sicuramente è il più celebre e venduto esempio di questa categoria, che a sua volta vanta diverse variazioni sul tema, dai prodotti a minor contenuto d’acqua, come i pizza-cheese, a quelle farcite. Rimanendo nella sua declinazione più classica è comunque molto facile imbattersi in prodotti con caratteristiche eterogenee, questo perché ogni stabilimento di produzione interpreta il processo calibrandolo al netto delle possibilità offerte dal proprio livello tecnologico, dall’economicità del processo e della sua ripetibilità nel tempo.


una soluzione, se hai letto tutti gli altri approfondimenti sul formaggio probabilmente hai già un’idea su come procedere. 3, 2, 1 e te lo dico io: stiamo utilizzando dei termofili, quindi stanno “lavorando” ad una temperatura relativamente alta, dunque basta raffreddare la massa e lo facciamo immergendola in acqua fredda.

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Potremmo parlare moltissimo delle caratteristiche che dovrebbe avere un buon latte per ottenere una mozzarella di prima categoria, tuttavia si tratta di elementi che a livello casalingo non possiamo monitorare dunque l’unica cosa da tenere a mente è che non possiamo utilizzare latte UHT. Ora, forti di queste considerazioni vediamo un processo casalingo valido per poi ragionarci su:

00:00 latte in caldaia a 38°C e aggiungo i fermenti; 00:40 latte a 38°C e aggiungo il caglio; 01:05 primo taglio della cagliata in cubi 4x4x4; 01:15 s e c o n d o t a g l i o a dimensione di una nocciola; 01:20 sosta sotto siero; 04:50 blocco della fermentazione, filatura e formatura. Le tempistiche dalla sosta sotto siero in poi sono indicative, come al solito non sarà propriamente il tempo il nostro punto di riferimento ma il pH e l’elasticità della pasta. Per quanto riguarda il caglio utilizzo un liquido di vitello 1:10000 al 75% di chimosina in ragione di 2,5 ml per 10 litri di latte e l’obiettivo è quello di ottenere una cagliata dalla

consistenza asciutta, che al taglio risulti netta. I due tagli della cagliata dovranno essere approcciati senza fretta, delicatamente, per evitare una resa in prodotto finito limitata. L’acidificazione della massa è il vero fulcro della questione, io la approccio mantenendo la cagliata sotto acqua a 40°C, perché recupero il siero per fare ricotta. Tengo la caldaia all’interno di un contenitore per alimenti in polistirene per mantenere la temperatura costante, ormai sappiamo che i batteri termofili ci vengono incontro se li mettiamo in condizione idonea. A circa 3 ore dall’inizio di questa fase ho fatto la prima prova di filatura ma ho ottenuto la giusta consistenza alla terza prova, a 3 ore e mezza. Consiglio di fare una prova ogni 15 minuti circa.


Prelevo la cagliata, la taglio in grosse fette e a distanza di circa 15 minuti dal primo taglio procedo ulteriormente a tagliarla in strisce, ora è pronta per la filatura. Comincio col preriscaldare la pasta aggiungendo qualche mestolata di acqua a 55°C, è una fase da non sottovalutare, soprattutto se si fila a temperature alte, come faccio io (si potrebbe filare anche a temperature più modeste in funzione del contenuto in acqua e percentuale di grasso). Andare

direttamente con acqua a 85°C/90° C comporta una sorta di scottatura della pasta e il risultato sarà poco appetibile. A questo punto comincio ad aggiungere l’acqua di filatura, preventivamente salata al 2,5%, a 85°C. Utilizzo complessivamente una quantità d’acqua che è circa 3 volte il peso della pasta da filare. Con una spatola lavoro la pasta fino ad ottenere una massa lucida, omogenea e filante. A questo punto posso cominciare con la formatura a mano, quindi consiglio vivamente di tenere accanto una bacinella con acqua e ghiaccio dove immergere le mani spesso e volentieri. Via via che formo le mozzarelle le lascio cadere in acqua fredda dove si rassoderanno e si raffredderanno. Una buona alternativa alla mozzatura, che potrebbe non risultare facilissima, sono i

nodini: allungo una porzione di pasta e appunto creo un nodo. Avendo salato l’acqua di filatura non dobbiamo ulteriormente salare. Il liquido di governo nel quale terremo le nostre mozzarelle dovrà essere mantenuto a temperature abbastanza basse, dai 4°C ai 6°C, leggermente salato e, come avevamo visto per le salamoie, allo stesso pH del formaggio, dunque occorrerà correggere il liquido utilizzando il siero che è avanzato dalla lavorazione. Ora avete tutti gli elementi per fare una mozzarella degna di questo nome in casa vostra. Il processo non è dei più veloci, ma seguendolo dettagliatamente non commetterete errori. Come sempre, aspetto di vedere le vostre creazioni nella nostra community Facebook Gastronomicamente.

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Come approcciare alle prove di filatura? Prelevo un piccolo pezzo di cagliata della dimensione di una nocciola e lo immergo in acqua a 90°C, dopo alcuni istanti durante i quali lo lavoro con un cucchiaio, estraggo la piccola massa e provo a vedere se fila. Se l’obiettivo è raggiunto blocco la fermentazione immergendo tutto in acqua fredda.


e h c i r ost

De Gustibus a cura di Paolo Tucci

Tutto quello che c’è da sapere sulle

O

striche: l’argomento è gustoso, oltre che abbastanza costoso. Nel mondo contemporaneo, l’ostrica è considerata lo status symbol, aperitivo o antipasto per eccellenza di un certo tipo di gourmand, magari da accompagnare a costosi vini ed altri appetizer. Ma noi vi sfidiamo: quanti tra voi sanno riconoscere i diversi tipi di ostriche, quanti di voi sanno destreggiarsi tra le differenti (e mirabili) caratteristiche, quanti di voi saprebbero consigliarne? Di sicuro, qualcuno tra voi sì. Per tutti gli altri, ecco a voi un articolo vademecum con delle informazioni che vi ritroverete a sfoggiare alle prossime cene in compagnia, quando si potranno fare.

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OSTRICHE: CENNI DI STORIA Il rapporto dell’uomo con le ostriche si perde nella notte dei tempi. Il bacino del Mediterraneo è sempre stato molto pescoso e molto ricco, anche di ostriche. Nell’antica Grecia, ostrakon era riferito alle


QUE-EST-CE QUE LE MEROIR ? Di terroir ne avrete sentito parlare: chissà del meroir. Ve lo spiego in pochissime parole: il meroir è l’insieme delle condizioni climatiche, ambientali, di nutrimento presente nelle acque e di qualunque altro fattore geografico possa in qualche modo influenzare il sapore del cibo marino, rendendolo unico ed inconfondibile. Potrete quindi ben capire quanto l’ambiente delle ostriche conti davvero parecchio. OSTRICHE: GEOGRAFIA Di ostriche ne è pieno (diciamo) il mondo: con questo intendiamo che l’allevamento ne è diffuso in gran parte dei continenti. Per quanto riguarda il Vecchio Continente, sua terra d’elezione è senza alcuna ombra di dubbio la Francia. In questo nostro piccolo excursus andremo ad analizzare in particolare le ostriche di una zona della Francia molto specifica: parlo di MarennesOléron, area geografica dedita all'affinamento, l'allevamento nelle radure e il condizionamento delle ostriche che si sviluppa su ventisette comuni e si estende su oltre 3.000 ha. Situtata nel dipartimento della Charante-Maritime, a nord di Bordeaux, a Sud de La Rochelle-Rochefort, sull’Oceano Atlantico, comprende la riva destra e sinistra del fiume Seudre e l’isola di Oléron, collocata di fronte al suo estuario. La piccola isola di fronte – l’Ile d’Oléron - contribuisce a creare una baia, dove l’oceano molto salato incontra l’estuario di un fiume, il Seudre, che sfocia nella città di Saint-Trojan-les-Bains. La baia qui creata tra l’isola e la cittadina viene utilizzata per allevare ostriche che vengono successivamente raccolte e portate lungo il corso del fiume per l’allevamento. Il tempo passato nell’oceano aiuta moltissimo la

nostra ostrica: essa si nutre così di fitoplancton ricco di sostanze importantissime affinché acquisisca sapore e consistenza a noi molto gradita. IL CLAIRE Ecco la seconda parte di vita della nostra ostrica ed entra in gioco un altro aspetto geomorfologico molto importante di questa terra: parliamo del claire, claires al plurale. Ci spostiamo quindi lungo il corso del fiume Seudre, dove incontreremo qua e là delle specie di laghetti: i nostri claires, che sono in realtà resti di saline a cielo aperto, come ne troviamo a Trapani oppure a Cervia. Tecnicamente, come si forma una salina? Essa è una depressione del terreno che viene invasa dal mare. Già i romani capirono che, chiudendo questa “buca” al flusso marino, l’acqua sarebbe scesa, lasciando solo il prezioso sale, raccolto in cristalli (amanti del sale Maldon, sapete bene di cosa sto parlando!). Allo stesso tempo il claire presenta un fondo d’argilla, impermeabile, che permette l’evaporazione dell’acqua. Qui entra in gioco l’empirismo degli amici dell’Impero romano: si resero conto, infatti, che un’ostrica cambiava sapore, grandezza e consistenza a seconda della quantità di acqua salata ricevuta, della qualità dell’acqua e dal nutrimento contenuto in essa. La bassa profondità dell'acqua nel claire permette alla luce di penetrare facilmente e favorisce un rapido scambio termico favorevole allo sviluppo dell’alimento principale delle ostriche, il fitoplancton (alghe microscopiche), alla base del gusto complesso, quasi vegetale, dell’ostrica. La sua piccola superficie impedisce la rimessa in sospensione dovuta all’azione del vento e favorisce la sedimentazione dei materiali portati dalle acque costiere. Torniamo ai nostri claires: essi sono un complesso sistema di pozze dove vengono sistemate una certa quantità di ostriche per metro quadro; le ostriche sostano diverso tempo nei claires, a seconda della tipologia di ostrica desiderata. La zona in cui ci troviamo è stata la prima zona ad ottenere la certificazione IGP, che mira a tutelare questo complesso meccanismo di affinamento, unico al mondo. TIPI DI OSTRICHE Il nome tecnico della nostra ostrica è Crassostrea gigas: andiamo a vedere come si configurano in base alla permanenza o meno, alla densità di allevamento ed altri fattori.

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conchiglie (a sua volta da osteon, osso, in virtù del guscio), alle ostriche, ma per significato traslato anche ai cocci di vaso. Era pratica comune, nelle poleis come Atene, scrivere su questi cocci (o ostriche, o conchiglie) i nomi dei cittadini indesiderati per poi eventualmente epurarli dalla città: questa pratica è passata alla storia come “ostracizzazione”. Questo piccolo aneddoto vi sarà sufficiente a capire l’importanza del nostro bivalve. Ma prima, parliamo di un concetto che forse vi sarà nuovo, ma di fondamentale importanza per capire a pieno il valore di ciò che stiamo andando ad assaporare: parliamo un attimo del meroir.


Ostrica Fine de Claire: cioè un’ostrica finita totalmente nel claire. Ci dobbiamo aspettare una salinità iodata, molto persistente, pulita e delicata. L’ostrica fin de claire è ottima per una persona che si approccia al mondo delle ostriche per la prima volta. Visivamente, l’ostrica ha la sua classica forma concava, dopo aver trascorso in claire 20/30 giorni. La densità delle ostriche nel claire in questo caso è di 20 ostriche/mq. Senza giri di parole: l’ostrica fin de claire sa di mare, è iodata. La disponibilità è tutto l’anno. Ostrica spéciale de Claire: questa selezione è un più particolare, con una forma diversa e si riduce leggermente la densità di allevamento. Disponibile tutto l’anno, la carnosità di quest’ostrica è maggiore, con salinità interessante e pronunciata. La permanenza nel claire nell’ostrica spéciale de claire è lunga: da ciò, abbiamo un’assunzione di fitoplancton più lunga, un contatto con acqua salata e dolce più lungo. In totale, la permanenza in claire è di circa due mesi. La densità di ostriche/ mq è la stessa delle fin de claires. Quest’ostrica è ideale per chi vuole andare oltre.

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Ostrica verde (Huitre vert): davvero scenografica quest’ostrica, dal colore verde/blu dato dalle alghe accumulatesi all’interno dei claires; queste alghe contengono marennina , un pigmento blu-verde prodotto dalla microalga Haslea ostrearia, presente nei bacini dedicati all'affinamento delle ostriche, in particolare i bacini Marennes-Oléron , da cui il nome di questa molecola che, a contatto prolungato con l’ostrica, conferisce un colore molto particolare. L’aroma è nocciolato, da frutta da guscio. L’affinamento in questo caso è di circa due mesi. La Pousse en Claire: un prodotto eccezionale e orgoglio degli ostricoltori, è stato a lungo distribuito in modo riservato, riservato agli addetti ai lavori. Oggi, questa ostrica di alta gamma e punta di diamante di Marennes-Oléron è prodotta da pochi professionisti esperti. Allevato a densità molto bassa, al massimo 5 per mq nella zona limpida dove rimane da quattro a otto mesi, cresce formando sul guscio caratteristici merletti, le linee di accrescimento dell’ostrica (pousse in francese). Durante la sua permanenza in claire, l'ostrica raggiungerà un alto contenuto di polpa e una consistenza croccante, oltre a un pronunciato gusto di terroir che dura al palato. Un’ostrica per momenti speciali ed importanti.


OSTRICHE: NON SOLO CRUDE Nell’immaginario comune, le ostriche si mangiano crude. Vi fornisco qui una ricetta rapidissima e golosa che sfata tutti i miti. Ingredienti: 12 ostriche (se élite meglio) / aglio q.b./ scalogno q.b./ prezzemolo q.b/ briciole di pane grattugiato (meglio se pane panko)/ 1 limone/ 30 g di burro. Procedimento: 1. Aprire l’ostrica, staccare la carne dal guscio e mettere in

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forno preriscaldato a 180°C per 10 minuti. Prendere il burro, il più genuino possibile. Riscaldare il burro e farlo nocciolare in padella, aggiungendo un po’ di succo di limone, aglio e scalogno tritati finemente. Scegliere un buon scalogno, che ben si presta al burro nocciolato. Fate riposare qualche istante, poi aggiungete il pangrattato (o pane panko), prezzemolo tritato. Togliere le ostriche dal forno e scolarle, perché tenderanno a cuocere nella loro stessa acqua. Scolate le ostriche, ricopritele con aglio, scalogno e prezzemolo e servitele subito.

…IN ABBINAMENTO ALLE OSTRICHE Capitolo spinoso, che può essere alquanto costoso: cosa ci si abbina alle ostriche? In generale, vini con buona acidità. Immaginate l’ostrica come burrosa, muscolosa, carnosa, ci vuole un vino che possa bilanciarne bene il gusto. Se è vero che bollicina fa rima con ostriche (almeno a tavola) in generale con ostriche saline e vegetali è da preferire l’abbinamento con un vino bianco secco o una bolla sapida, affilata e verticale. Nel caso contrario, in presenza di ostriche dolci e delicate, propenderei per un abbinamento con champagne invecchiati o dal residuo zuccherino più alto.

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ENTRO QUANTO TEMPO SI DEVONO MANGIARE LE OSTRICHE FRESCHE? Sebbene alcune ostriche nel proprio guscio possano essere gustate da una a due settimane dalla raccolta, a patto che siano state conservate a bassa temperatura e controllando che una volta aperte abbiamo mantenuto l’acqua la risposta secca è: il prima possibile. Dubito possiate resisterne al richiamo, ma può capitare che fra un’incombenza e l’altra, non possiate dedicare il giusto tempo. In ogni caso consiglio di mangiarle dal primo giorno post “raccolta” fino all’ottavo/ decimo: lasciando trascorrere qualche giorno l’ostrica perde il liquido in eccesso e completa il processo gustativo. Ad esempio, delle ostriche raccolte il lunedì, possono essere tranquillamente mangiate durante il weekend successivo, ma mi raccomando: trattandosi di un prodotto vivo utilizzate sempre i vostri sensi e verificate la presenza di liquido residuo all’interno del guscio, un’ostrica secca è indice di cattiva conservazione e non va mangiata.


BBQ4All: FROM ZERO TO HERO Capitolo II - a cura di Emiliano Nencioni

Hamburger P

er la seconda puntata del nostro mini-corso sotto forma di rubrica mensile, abbiamo deciso di approfondire la cottura degli hamburger: ci avete chiesto “più barbecue!” e noi rispondiamo, intanto, con “più grilling!”. Questo ci dà la possibilità di ribadire un concetto che solo qualche anno fa veniva ripetuto fino alla nausea in Community: il barbecue è una cottura a bassa temperatura, per tempi relativamente lunghi, e con presenza di affumicazione. Quando vi cuocete una New York Strip o una sovrabbondante T-bone state facendo grilling. Grigliate. E non c’è niente di male in questo, ma è sempre bello usare i termini esatti. Benissimo, quindi più barbecue sicuramente, ma intanto avanzando per gradi vediamo di fare di voi dei grigliatori più attenti, più precisi, più specializzati: probabilmente essendo abbonati sarete già bravissimi, ma un ripasso rigoroso è sempre utile a non far sopraggiungere certi vizi di forma. Procediamo subito con la cottura degli hamburger allora: la pietanza è stata scelta come secondo appuntamento della rubrica proprio perchè, col minimo sforzo, rende possibile un grande risultato in termini di soddisfazione degli invitati, con annesso sollazzamento dell’ego dell’addetto alla fiamma. Da non trascurare poi la carta dell’infanzia: se ci sono bambini e ragazzini vari servire hamburger buonissimi e altamente personalizzati è un gol a porta vuota, una succulenta occasione di successo capace di trasformare una serata da “interminabile guazzabuglio di sbuffi lamenti e capricci” a “prestigiosa occasione di serena convivialità”. Leviamoci subito il dente partendo con:

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ERRORI DA NON FARE Come la batteria è lo strumento più semplice da suonare male, anche cuocere un hamburger nasconde delle banalissime insidie che possono portare a micidiali delusioni. Banalmente, la prima accortezza da avere è la scelta della carne: non potete pensare di avere risultati prestigiosi in termini di gusto e succosità se partite da una carne non all’altezza. Il macinato deve provenire da una parte ricca di grasso saporito, e prima di tutto originarsi da un capo


di bestiame con le giuste qualità: impastare un etto di “macinato bello magro” preso al discount “tutto a un euro” vi procurerà magre soddisfazioni. Ora, non vorremmo citare proprio gli hamburger del Megastore, ma sicuramente questi sono un ottimo esempio: tra tutte le tipologie di hamburger presenti sullo store troverete sicuramente quello che più combacia con i vostri gusti e aspettative, togliendovi completamente il timore di aver fatto una scelta sbagliata. Potete in ogni caso, avendo un bel po’ di tempo a disposizione, divertirvi a fare da soli i patty degli hamburger, macinando dei bei pezzi di manzo molto infiltrati di grasso, come la punta di petto o il reale. La scelta di ripiegare su una polpetta 100% manzo non è casuale: togliendo la parte di maiale potrete permettervi di rimanere un filo più bassi con la temperatura finale di cottura, e avere l’hamburger leggermente più “indietro” e succoso, se questo è quello che gradite. Ricordatevi comunque che le norme sanitarie vorrebbero sempre, per motivi di carica batterica, una cottura “well done”. Altro errore imperdonabile è quello di sbagliare completamente i tempi (e pare sia l’errore più comune per il neofita ansioso), arrivare a ridosso dell’orario stabilito per il banchetto e ritrovarsi con la griglia ancora fredda: tenere gli hamburger ad asciugarsi impietosamente per interminabili mezz’ore su una brace appena tiepidina non è la sorte che un buon patty di manzo si merita. Griglia (o piastra) sempre calda, brace robusta; imprescindibile: la cottura deve essere ragionevolmente veloce. Arrivereste mai ad un torneo di golf in ciabatte e bermuda? Pensereste mai di presentarvi ad un concerto rock con la chitarra parlante della Chicco? Allo stesso modo, anche per grigliare un umile hamburger servono gli strumenti giusti. La forchetta del servizio buono non va bene, serve solo a abbrustolirsi i peli del braccio; nemmeno il forchettone da grigliata brutta, in vendita a euro zero virgola novantasette, può andar bene per una pietanza che si presenta come una fragile polpetta. Serve una spatola, col manico un po’ lungo se possibile, e di metallo: non fidatevi della spatolina in resina termoplastica “resiste alle alle alte temperature”: non manterrà la promessa del suo slogan.

Sono necessarie giusto un paio di accortezze, anche per non complicare una cottura tutto sommato semplice e da eseguire in scioltezza, con gesto sicuro e atteggiamento impavido. Il vostro dispositivo deve avere una griglia pulita (le

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SETTING DEL DISPOSITIVO


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schifezze di sette cotture precedenti che si attaccano all’hamburger e che hanno il gusto del petrolio greggio non piacciono a nessuno), meglio se recentemente spazzolata con l’apposito utensile, o con una pallina di stagnola se proprio non avete altro; la brace deve essere molto calda e “tutta accesa”, senza pezzi di carbone o di bricchette ancora freddi che possano produrre fumo nero e pestilenziale; una buona pratica è quella di lasciarsi una “safe zone”, una parte di griglia non direttamente scaldata dalla brace, dove depositare tempestivamente la carne in caso di fiammate improvvise o di qualsiasi tipo di piccola emergenza. Per ottenere questo tipo di settaggio è banalmente sufficiente disporre il combustibile (ben scaldato precedentemente nel cesto accenditore) sotto una zona definita della griglia, lasciando almeno una metà dello spazio disponibile privo di irraggiamento diretto.

PREPARAZIONE DELLA CARNE Supponendo che abbiate già un patty ben formato e compatto, cercate di asciugarne più accuratamente possibile la superficie con della car-

ta assorbente; spalmare un velo d’olio su tutta la polpetta vi aiuterà anche a veicolare meglio il calore e a ottenere una crosticina più evidente. Salvo caso particolari di hamburger clamorosamente grandi (che presentano quindi la problematica di diffondere il calore al loro interno prima che la parte esterna sia eccessivamente avanti con la cottura), non serve fare altro: prendetevi però pochi secondi di tempo per appiattire, usando il pollice e il palmo della mano, la parte centrale del patty, quella che in cottura tende a gonfiarsi. Rendendo l’hamburger leggermente più sottile nella parte centrale del disco potrete bilanciare i cambiamenti di volume.

IN GRIGLIA! Mettete in griglia tanti hamburger quanti vi sentite di poter gestire contemporaneamente: probabilmente due per volta, almeno per i primi tentativi. Sfruttate la brace ben calda per procurare una evidente reazione di Maillard al patty, cercando la formazione di una crosticina brunita di color mogano. Una buona strategia a tal proposito è quella di girare (rigorosamente con una spatola) gli hamburger ogni trenta secondi, per avere una


...E LA PIASTRA? Una bella alternativa alla griglia è la piastra, più spesso sotto forma di una buona padella in ghisa o in ferro, che potete usare sia nella cucina indoor (ma attenzione al fumo!) sia nel vostro kettle o su una griglia tradizionale. L’uso di una padella in ghisa toglierà di mezzo la complicazione di dover stare attenti alle fiammate dovute allo sgocciolare del grasso sulle braci, oltre a facilitare di molto la comparsa di una reazione di Maillard “totale”, con una bella crosticina su tutta la superficie esposta del patty. L’unica rinuncia sarà verso il tipico odore di brace, non più presente vista la mancanza di irraggiamento diretto e di vaporizzazione del grasso che cola sul combustibile.

In misura leggermente maggiore rispetto alla cottura su griglia, all’inizio l’hamburger potrà tendere ad appiccicarsi al metallo, ma dopo pochi secondi di attesa, senza dover forzare con la spatola, si staccherà spontaneamente.

SÌ, MA PENSA ALLA SALUTE! L’hamburger non è una costata: è carne macinata. In una costata (o in un qualsiasi altro taglio) eventuali batteri possono posarsi solo sulla superficie, per essere poi uccisi durante la cottura dalla caldissima fonte di calore; nel macinato tuttavia diversi patogeni potrebbero rimanere “inclusi” nella polpetta e dare luogo a conseguenze molto molto antipatiche e spiacevoli. Per questo motivo, le normative sanitarie raccomandano di servire hamburger “ben cotti” senza nessuna traccia di carne rosata neanche all’interno. Ecco perché vi raccomandiamo di ricorrere ad hamburger confezionati professionalmente, in atmosfera controllata e con tutti i controlli possibili: in questo modo ci sarà margine per servire, a chi lo vorrà, un hamburger leggermente più rosato al cuore.

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cottura uniforme anche all’interno. Con un termometro a lettura istantanea a spillo leggete la temperatura al cuore del patty, considerando come vostro target i 58 gradi centigradi: questo sarà il “medium rare”, probabilmente il miglior compromesso per tutti; se qualcuno preferisse proprio il “ben cotto”, potete arrivare fino a 62-65 gradi senza complicazioni.


La ricetta scientifica a cura di Gianfranco Lo Cascio

GLCheeseburger

“È impossibile”, disse l’orgoglio. “È rischioso”, disse l’esperienza. “Provaci”, sussurrò il cuore. Per me un Cheeseburger, disse lo Zio. Ascoltate lo stomaco, esso sì che conosce tutte le cose. Non so il vostro di pancino, ma il mio si rallegra sovente con un buon bacon cheeseburger, rigorosamente fatto in casa. Non è gnegnegnismo e neanche gastrofighettismo, atteggiamento che mi viene spesso rinfacciato da chi è più gastrofighetto del sottoscritto senza rendersene conto. Il fatto è che se proprio nessun locale, pub o hamburgeria è disposto ad accettare i miei soldi per prepararmi un hamburger come si deve, allora non mi resta che farmelo da solo. Fine della fiera. Sì, lo confesso, sono un fanatico dell’hamburger ma non di una qualsiasi polpetta rotonda stretta fra due strati di pan brioche, no. L’hamburger deve avere dei tratti caratteristici che i nostri fratelli americani hanno delineato per noi. Non sto parlando di ricette o di condimenti, mi riferisco alle migliori tecniche per ottenere i migliori risultati. E cosa c’è nella vita di un mangione compulsivo di più utile e salvifico della scienza? Com’è possibile preparare un hamburger impeccabile ed evitare che il figlio maggiore chiami Glovo di nascosto? Con poche e semplici regole che hanno l’unico scopo di assicurarci un risultato eccezionale, ogni volta.

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Bando alle ciance e partiamo subito.


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01: UTILIZZARE IL PANE GIUSTO Il panino usato per l’hamburger nel gergo si chiama bun. Il bun non deve essere un pane di tipo normale: dobbiamo utilizzarne uno che si integri perfettamente con la polpetta di carne. Un pane troppo duro, che richiede propulsione nella masticazione e per lo strappo, non è per niente adatto; ci costringe, inevitabilmente, a imprimere troppa forza che farebbe sgusciare fuori tutta la preziosa farcitura. Il bun dev’essere simile ad una brioche, molto morbido e abbastanza friabile. Questo non significa buttarsi sulla prima confezione di pagnottelle incartapecorite del supermercato. Premesso questo, vi propongo due panini per hamburger, entrambi con la stessa personalità, appartenenti ai lati opposti dello spettro. Il primo è un panino da slider, con una tessitura eccezionale, l’ideale per i vostri smashed burgers; Il secondo è una brioche molto ricca e morbida, che ricorda la scuola francese. Esistono tantissimi altri tipi di panini (in Italia ne abbiamo più di 250), queste due ricette rispondono ad alcuni dei quesiti più interessanti della panificazione: possiamo creare una brioche che non sia troppo stopposa e non troppo burrosa? Possiamo fare un panino soffice in stile fast-food che abbia un sapore complesso? Possiamo farlo senza ricorrere ad additivi difficili da reperire? Sì, sì e sì. E potete farlo anche voi.

Gli additivi

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I panini per hamburger veramente buoni richiedono un sacco di abilità nella cottura, ma anche un po' di know-how sugli ingredienti aiuta molto. La maggior parte dei bun industriali o artigianali sono estremamente morbidi rispetto ad altri tipi di pane. Questo perché i panettieri di professione fanno largo uso di additivi per la panificazione che aiutano a emulsionare gli ingredienti, a migliorare il processo di fermentazione, a rendere i prodotti uniformi e a rendere più soffice la mollica. A casa, possiamo cavarcela usando meno additivi ottenendo risultati che non sarebbero praticabili per le attività commerciali su larga scala. LISINA. Le grandi panetterie e i fast food spesso aggiungono all'impasto un aminoacido chiamato lisina, che interferisce con il glutine (complesso

proteico contenuto nei cereali) e lo fa rilassare. L'impasto trattato con lisina avrà una consistenza più fluida e si distenderà facilmente, permettendogli di espandersi rapidamente nello stampo. Questo è importante quando si fanno centinaia di panini, ma non così fondamentale per un panificatore amatoriale. Quindi, poiché la lisina può essere difficile da reperire, all’occorrenza possiamo appiattire i panini (usando le nostre mani o una superficie piatta come una padella, un piatto) per dare loro una forma. AMILASI. Trovata in quasi tutti i prodotti da forno commerciali, l'amilasi è un enzima che scompone gli amidi in zuccheri, ammorbidendo il panino durante la preparazione e rendendo più soffice il prodotto finale. L'amilasi è naturalmente presente nel germe di grano - e quindi naturalmente presente nella farina - ma solo in piccole quantità. Si aggiunge un po' di amilasi pura per migliorare il processo di fermentazione (ed esaltare il sapore allo stesso tempo), quando vogliamo un prodotto morbido con una mollica leggera. Un altro additivo chiamato malto diastasico in polvere contiene amilasi, ed è quello che utilizzeremo noi nelle nostre due ricette. ACIDO ASCORBICO (VITAMINA C). L'aggiunta di acido ascorbico all'impasto incrementa l'acidità, promuovendo un migliore processo di fermentazione. Al lievito piace l’ambiente acido: per rendere il lievito ancora più felice, aumentate un po' l'acidità dell'impasto. Potete farlo aggiungendo un pizzico di acido ascorbico (vitamina C) o sostituendo parte del liquido con un liquido acido (un cucchiaio di succo d'arancia, succo di limone o aceto). Questo è particolarmente utile quando state realizzando una ricetta di un pane dolce, una in cui il lievito sarà inibito da una maggiore quantità di zucchero.

Formare i bun Una delle cose più belle dei panini industriali per hamburger (o di qualsiasi panino, in realtà) è il loro aspetto perfettamente liscio e uniforme. Un metodo di formatura affidabile può fare la differenza tra panini sbilenchi e ruvidi e panini dall'aspetto impeccabile e professionale.


L’effetto “Oven Spring” “Oven Spring” è un termine di panificazione che descrive la rapida azione lievitante degli impa-

sti di pane appena messi in forno (da “oven” che significa forno, e “spring,” che vuol dire molla). Quando l'impasto si riscalda, l'acqua al suo interno si trasforma in vapore, facendo espandere le bolle di gas all'interno dell'impasto. La quantità di Oven Spring dipende dalle condizioni all'interno del forno: in generale, una maggiore umidità e una temperatura più alta significano più Oven Spring. Il calore contribuisce alla spinta del forno stimolando l'acqua nell'impasto a convertirsi rapidamente in vapore, e l'umidità mantiene l'impasto abbastanza elastico da reggere una rapida lievitazione. Se l'ambiente è caldo e secco, la crosta si svilupperà rapidamente e impedirà al pane di lievitare, restituendo un pane secco con una struttura ad alveoli molto fitti. Ma se si mantiene l'ambiente troppo umido per troppo tempo, il pane non avrà la possibilità di sviluppare alcuna crosta, e crollerà miseramente quando si raffredderà, formando le rughette che vediamo spesso sulla superficie dei bun.

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Per formare i panini, usate un movimento di arrotolamento-piegatura: spingete la pasta verso l'alto dal fondo della palla con l'indice e il medio, e usando il pollice, ripiegate i bordi esterni verso il centro, tirando più pasta verso l'alto e verso l'interno, ed esponendo una nuova superficie esterna. Ripetete fino ad avere un panino a forma di cupola con una superficie liscia. Pizzicate il fondo per chiudere il buco e mettete il panino con il lato pizzicato verso il basso su una superficie non infarinata. Senza toccare il panino, mettete la mano sopra la parte superiore a mo' di "gabbia", con il palmo della mano appoggiato sul piano di lavoro. Con un movimento circolare di arrotondamento formate il panino in una palla stretta.


LE RICETTE SCIENTIFICHE #01

PANINI DA SLIDER

Ingredienti per l'impasto: • 700 g di farina 00 di grano tenero 300W • 200 g di acqua • 4 uova intere + 1 tuorlo • 80 g di burro • 60 g di zucchero semolato • 15 gr di burro morbido • 14 g di sale • 10 g di di birra fresco • 10 g di olio extravergine di oliva • 1 cucchiaio + 1 cucchiaino di malto diastasico in polvere (5 g + 13 g) Per la finitura: • latte intero q.b. • 2 tuorli • 1 pizzico di sale

Impastamento: Iniziate preparando un pre-impasto con l’acqua appena tiepida, 200 grammi di farina, il cucchiaino di malto ed il lievito sbriciolato. Date una mescolata fino ad ottenere una pappetta piuttosto molle, coprite la ciotola con pellicola e lasciate gonfiare per circa 40 minuti in un ambiente caldo. Recuperate una planetaria e montate la frusta a foglia, in mancanza si va giù di olio di gomito. Niente scuse.

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Versate 120 g di farina, un uovo intero e 15 g di zucchero, lasciate lavorare la macchina a bassa velocità per qualche minuto e aggiungete i 15 g di burro morbido fino a completo assorbimento. Sostituite la frusta con il gancio e avviate la macchina per 10 minuti circa. Aggiungete un uovo alla volta, 1/3 dello zucchero e un po’ di farina fino ad esaurire gli ingredienti, unite per ultimo il tuorlo ed il cucchiaio di malto. Lavorate l’impasto per 10 minuti e aggiungete gli 80 g di burro, aspettate che venga assorbito in toto e versate l’olio a filo. Aumentate la velocità della macchina e lasciate impastare per 20/30 minuti circa, terminate l’operazione aggiungendo il sale e fate assorbire. Il risultato è un composto molto elastico che può essere tirato fino a formare un velo sottilissimo. Lasciate riposare comprendo la ciotola con un canovaccio per un quarto d’ora . Riprendete l’impasto e stendetelo in un rettangolo su un piano ben infarinato. Fate una “piega a tre”, portando un lembo di pasta al centro del rettangolo e sovrapponendo il lembo opposto, quindi arrotolate “a campana” come in fotografia.


Puntata Giunti a questo punto potete: A.Trasferire l’impasto in un contenitore sigillato e collocarlo per 12 ore nella parte bassa del frigorifero. B. Continuare la lavorazione. Schiacciate leggermente l’impasto con il matterello e date un secondo giro di pieghe come sopra. Coprite a campana e lasciate riposare per una mezz’oretta. Staglio Ricavate dei pezzetti di impasto aiutandovi con un tarocco, il peso ideale va dai 30 g ai 50 g. Richiudete tendendo la pasta nel pugno come se si trattasse di un piccolo babà e posizionatelo in una teglia circolare o rettangolare a bordi alti, leggermente unta con poco burro. Coprite con pellicola facendo attenzione a non toccare l’impasto. Appretto Lasciate raddoppiare in un ambiente a 28°C. Pennellate con poco tuorlo allungato con il latte e aggiungete una manciata di semi di sesamo, se vi piace. Un trucco per distribuire il cosiddetto “egg wash” senza rovinare la superficie dei panini? Versate il composto in un flacone munito di vaporizzatore e spruzzate la nebbiolina di tuorli e latte.

Una volta pronto e raffreddato, sformate e tagliate a metà tutti i panini senza staccarli, come se fosse una torta. Tostate i due dischi dalla parte della mollica e farcite tutto insieme. In questo modo i commensali potranno strappare con le mani il proprio panino.

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Cottura Preriscaldate il forno a 170°C. Cuocete in modalità statica per 40 minuti circa.


LE RICETTE SCIENTIFICHE #02

BRIOCHE BUN

Ingredienti per 18 panini - impasto: • 1 kg di farina 00 di grano tenero W 300 • 450 g di latte intero • 150 g di burro morbido • 2 uova (a temperatura ambiente) • 80 g di zucchero semolato • 20 g di malto diastasico • 20 g di sale fino • 20 g di lievito di birra fresco

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Per la finitura: • latte fresco intero q.b. • 2 tuorli d'uovo • 1 pizzico di sale • semi di sesamo q.b. • semi di zucca q.b. • semi di lino q.b. • semi di girasole q.b. • semi di papavero q.b. • fiocchi d'avena q.b. • grue di cacao q.b. Impastamento: Rovesciate in un recipiente ampio (o nella vasca della vostra impastatrice) tutta la farina, il 75% del latte, il lievito sbriciolato e il malto diastasico; dopo averli amalgamati bene aggiungete il latte rimanente poco alla volta, attendendo che sia ben assorbito prima di aggiungerne un ulteriore quantità. Burro e uova devono necessariamente essere a temperatura ambiente, il primo per agevolarne l’assorbimento, le altre perché l’emulsione possa avere luogo senza problemi di natura fisico-chimica; un’ottima idea è amalgamare i due ingredienti separatamente utilizzando una frusta, aggiungendo poi il composto a poco a poco nell’impasto. Aggiungete anche lo zucchero poco alla volta in quanto, contribuendo ad aumentare in modo sostanziale l’umidità dell’insieme, va amalgamato lentamente per non compromettere la formazione della maglia glutinica. Aggiungete infine il sale (necessariamente lontano dal lievito, o potrebbe inibirne l'azione) e terminate l’impastamento quando l’insieme risulterà liscio, asciutto e


Puntata In questa fase l'impasto matura e la maglia glutinica si stabilizza. Posizionate il tutto in un recipiente dai bordi alti ben oliato (soprattutto nella parte superiore, per evitare la formazione della pelle) e lasciate a temperatura ambiente per almeno un’ora per dar modo alla lievitazione di partire, e infine mettete in frigorifero per 18-24 ore a una temperatura di 4°C. Staglio Circa 4 ore prima della cottura togliete dal frigorifero e dividete l’impasto in panetti da 80-100g l’uno. Operazione fondamentale, dopo aver pesato i singoli pezzi di impasto, è di schiacciare per bene facendo uscire l’aria formatasi durante la prima lievitazione, per poi arrotolare e formare una pallina ben chiusa; in tal modo, i gas sviluppatisi durante l’appretto risulteranno uniformemente distribuiti e la mollica avrà una struttura omogenea, senza bolle d’aria indesiderate e dislocate. Adagiate su una teglia con della carta forno, ben distanziati uno dall’altro, pennellate con il composto di latte, tuorli e un pizzico di sale sbattuto con una forchetta, coprite con pellicola o con un panno umido e lasciate in appretto a una temperatura di 28-30°C. I panini devono triplicare di volume. Il consiglio è di non posizionare più di 6 panetti per ogni teglia 30x40, per ottenere un prodotto finito che abbia circa 10-11 cm di diametro. Appretto Durante lo staglio l'impasto viene manipolato e i lieviti ridistribuiti uniforme-

mente; l'appretto (o seconda lievitazione) consente al semilavorato di svilupparsi al fine di ottenere la sua forma finale. Se vi piacciono i panini più bassi, dopo circa 30 minuti, inumiditevi leggermente le mani e schiacciate leggermente i panetti lievitati per formare dei dischi; questo banale trucco vi consentirà di contenere la lievitazione. Saltate “l’appiattimento” se vi piacciono i bun alti e tondi. Una volta terminata la seconda lievitazione potete pennellare nuovamente i panini con il composto di latte e tuorli e aggiungere dei semi di sesamo, papavero, zucca, girasole, lino ecc… Io vado pazzo per il grue di cacao (granella di fave di cacao), provatelo. Altre tre ore e mezza a 28-30°C e i bun saranno pronti per essere infornati. Cottura Stabilizzate la temperatura del vostro forno a 230°C e cuocete per 10-11 minuti; per verificare l’avvenuta cottura dei bun è necessario un doppio controllo: la temperatura interna, misurabile con un termometro a sonda, deve essere di 90°C, e la mollica deve risultare completamente asciutta. Raffreddamento, mantenimento e servizio Una volta sfornati i bun, lasciateli raffreddare su una griglia rialzata, evitando in tal modo la formazione di condensa che rovinerebbe il duro lavoro svolto finora. Se riposti in frigorifero in un sacchetto o recipiente a chiusura ermetica, i brioche bun si conservano perfettamente per 2-3 giorni; in caso contrario, è sempre meglio congelarli. Prima di farcire il vostro meraviglioso hamburger, tostateli dalla parte della mollica. In generale, il pane va necessariamente passato sulla piastra per due ragioni: la prima è che la tostatura sviluppa profumo e sapore ulteriore; la seconda è che, rendendo l’interno croccante, i liquidi che fuoriescono dalla carne non rischieranno di ammollarlo.

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setoso e la maglia glutinica si sarà formata. La temperatura interna dovrà essere di almeno 24°C per permettere a tutti i processi fermentativi e alla maturazione di avere inizio senza particolari ritardi. Lasciate riposare nella ciotola per circa 15 minuti, poi fate alcune pieghe di rinforzo per rafforzare e stabilizzare il glutine e di conseguenza la struttura dell’impasto.


02: SCEGLIERE CON CURA IL PATTY E CUOCERLO ALLA PERFEZIONE

Il patty, la polpetta di carne insomma, è il centro focale di tutta la preparazione, il sapore dominante del nostro panino. L'hamburger non deve sapere di pane, di salsa e di sottaceti. Deve avere il gusto di carne. Il primo parametro di degustazione della carne è che il sapore specifico, tipico di una particolare razza, è contenuto principalmente nel grasso, non nella polpa. È importante quindi stabilire il giusto bilanciamento tra massa magra e grasso nell'impasto del nostro burger. Una polpetta fatta di solo muscolo, a fine cottura, risulterà asciutta e stoppacciosa. Quella con un minimo di grasso all'interno risulterà di gran lunga più saporita e succosa.

Per capire il vostro rapporto magro-grasso preferito, dividete il vostro taglio di manzo in due gruppi separati. Carne magra da una parte, grasso bianco pulito dall’altra. Per esempio, in un rapporto 60:40 di grasso, peserete 600 g di carne magra e 400 g di grasso. Tagliate a cubetti i vostri pezzi e mescolateli insieme prima di macinarli.

Il rapporto magro:grasso

State pensando di grigliare il vostro hamburger? 80:20 è il rapporto ideale per evitare le fiammate. Cuocete l'hamburger in padella o su piastra in ghisa? Buttatevi su un 60:40! Tutto quel grasso aiuta la rosolatura e crea un hamburger super umido.

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Pesate la carne magra a cubetti e il grasso a cubetti. Potete provare qualsiasi rapporto a partire da 50:50 (molto grasso, ma ha un senso) e fino a 100:0 (molto magro, anche questo ha il suo perché). Generalmente si propende per un rapporto tra il 60:40 e il 90:10 tra magro e grasso (a seconda del metodo di cottura finale) per ottenere l’equilibrio ideale di sapore, tenerezza e consistenza.

Il rapporto magro-grasso si calcola in base alla tecnica di cottura. Volete cuocere il vostro burger in sous vide? Optate per una polpetta più magra nel range 90:10 o 100:0. Forse vi sembrerà eccessivamente magra, ma cuocendola in sous vide tratterete l'umidità che normalmente perdereste sulla griglia o su piastra.

Alla fine della fiera, potete macinare quello che volete e come volete, ma un burger composto all'80% di magro e al 20% di grasso è l’ideale. Esistono quattro macro categorie di burger:


HAMBURGER SOUS VIDE La cottura sous vide vi restituirà il più succoso (e magro) patty di carne che potete desiderare. Otterrete una polpetta soda ma tenera, succosa all’interna per via dell’umidità trattenuta, oltre a una perfetta cottura da parte a parte che solo il sous vide può garantire. Potete mantenere alto il rapporto tra magro e grasso perché la cottura uniforme e a bassa temperatura non lo asciugherà mai Rapporto magro-grasso: 80:20 fino a 100:0 Grana: 4,5 mm Tipo di lavorazione: Rapida Aggiunte: Un tuorlo d'uovo per mezzo chilo di carne Formatura: utilizzare uno stampo ad anello o una pressa Temperatura di cottura consigliata: 55°C/75°C per 30 minuti/1 ora SMASH BURGER AKA BURGER SPIACCICATO Lo smash burger è tutto un equilibrio perfetto di consistenza e sapore. La croccantezza della cottura perfetta, la succosità che deriva da una percentuale di grasso elevato e il suo sapore e quello dei liquidi che si caramellano sotto la polpetta. Mescoliamo leggermente la carne e poi aggiungiamo tuorlo d'uovo e gelatina in polvere (la colla di pesce per intenderci) per trattenere l'umidità. Si può scottare velocemente e a temperatura elevata, e ottenere comunque una polpetta perfetta. Rapporto magro-grasso: 60:40 Grana: 4,5 mm Tipo di lavorazione: la carne va emulsionata spremendola tra le dita per cinque volte Aggiunte: Un tuorlo d'uovo per mezzo chilo di carne, 1,5% di gelatina, 1% di sale Formatura: No patty, basta forma-

re una palla Temperatura di cottura consigliata: Calda da paura! Utilizzare una piastra in ghisa o una padella antiaderente SLIDER Sono polpettine che cuociono velocemente, delle piccole bombe di sapore, sviluppato grazie a una cottura intensa su piastra piatta. Aroma intenso, mini burger super teneri - il tutto tenuto insieme dalla speranza e da una bella fettona di formaggio - cosa si può chiedere di più? Rapporto magro-grasso: 80:20 Grana: 4,5 mm Tipo di lavorazione: Rapida Aggiunte: Un tuorlo d'uovo per mezzo chilo di carne Formatura: No patty, basta formare una palla Temperatura di cottura consigliata: Calda da paura! Utilizzare una piastra liscia in ghisa o padella antiaderente STEAK BURGER Spesso e succoso. Una macinatura fine e l'aggiunta di gelatina ti assicureranno un patty sodo, pronto per essere affettato come una bistecca. Rapporto magro-grasso: 70:30 Grana: 3 mm Tipo di lavorazione: la carne va mescolata rapidamente schiacciandola tra le dita Aggiunte: 1,5% di gelatina, 1% di sale Formatura: Modellare a mano una bistecca oblunga, spessa circa un 2,5 cm Temperatura di cottura consigliata: 70 minuti a 55°C con 30 minuti di riposo, poi griglia o piastra in ghisa

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Macinare la carne: i tagli ideali Il macinato confezionato è realizzato con ritagli di carne provenienti da tutta la carcassa, schiacciati attraverso dispositivi di macinatura con fori uniformi che garantiscono una consistenza omogenea “all’impasto”. Si divide in fasce a seconda della composizione. Il macinato può essere magro (85% di carne e 15% di grasso), extra magro (90% carne e 10% di grasso), o grasso (80% di carne e 20 per cento di grasso). A casa puoi diventare un cliente ancora più pignolo e tarare le tue percentuali in base al taglio di carne.

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Prendi nota: Flank Steak con rapporto magro-grasso di 90:10 Chuck Eye Steak con rapporto magro-grasso di 80:20 Rib Roast senza osso, alias "Ribeye" con rapporto magro-grasso di 75:25 Boneless Chuck Short Rib con rapporto magrograsso di 70:30 Brisket Primal, alias "Packer Brisket" con rapporto magro-grasso di 65:35

La punta di petto aka brisket: perché è il re degli hamburger Questo taglio è generalmente disponibile ovunque ed è anche relativamente economico per quello che si può ottenere da esso. Il costo sarà maggiore rispetto all'acquisto di carne per hamburger pre-macinata, ma non c’è paragone a livello gustativo. La maggior parte delle persone ha provato la punta di petto solo in alcuni modi. Il corned beef, il brisket affumicato e il pastrami sono le principali trasformazioni di questo meraviglioso taglio. E in tutte queste ricette, è necessario un prolungato tempo di cottura a bassa temperatura per sciogliere tutto il tessuto connettivo. Ma quando lo usate per la carne macinata, il tritacarne vi facilita il compito. Inoltre, ho scoperto attraverso le mie prove che in genere da un brisket raggiungo un rapporto magro-grasso di circa 62:38 - il rapporto perfetto di grasso per i nostri smash burger e steak burger.


Una volta che il manzo è bello che macinato, che si fa? Frulliamo la carne e il grasso insieme o lo mescoliamo con le uova? Che funzione ha il tuorlo? E quando si sala la ciccia? Adesso ve lo spiego. Leganti - Questi agenti vengono utilizzati per tenere insieme il più possibile il grasso e il sapore esistenti, rispettando la carne di manzo. Tuorlo d’uovo - Conferisce morbidezza al burger e aiuta a trattenere più grasso e succhi nella polpetta. Sale - Okay, il sale può rovinare il vostro hamburger se lo fate troppo presto, va aggiunto poco prima della cottura. Il rapporto è dell’1% tra sale e carne. Se non potete aggiungerlo poco prima di andare in griglia, strofinate l'esterno della polpetta. Gelatina - Aiuta a intrappolare l'umidità e forma una crosta super vetrosa sull'hamburger. MA - c’è un grosso MA - la vostra ghisa deve essere ben

condizionata o si attaccherà tutto alla piastra. Il rapporto è l'1,5% di gelatina sul peso totale della nostra carne macinata, va aggiunta dopo che la carne è stata mescolata con il tuorlo d'uovo e il sale, proprio prima di finire sul fuoco.

Preparazione e impasto Miscelazione o “Creaming”: varia a seconda di come cucinerete il vostro hamburger. Se vi apprestate a cucinare il burger in una padella, mantenete la carne sgranata e non la manipolate troppo, con la cottura sous vide bisogna stare nel mezzo, la cottura alla griglia invece richiede un impasto più cremoso. Porzionamento: gli smash burger e gli slider devono essere appallottolati e poi schiacciati, i burger in sous vide devono essere pressati in uno stampo ad anello dopo una leggera mantecata. Gli hamburger grigliati devono essere lavorati e poi pressati in una polpetta sottile e uniforme.

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Capire gli agenti leganti


COME FUNZIONA IL TRITACARNE Il tritacarne è una semplice attrezzo con una trivella che spinge i pezzi di carne più grandi contro una lama e poi attraverso uno stampo che può variare di dimensione. La carne viene triturata mentre viene forzata attraverso la trafila dalla coclea. I componenti sono quattro: il corpo, la trivella, la lama e la trafila. Il tritacarne può essere elettrico o manuale e le sue parti funzionano così: Il corpo tiene insieme tutte le parti. La coclea spinge la carne verso la lama e la trafila. La lama taglia la carne contro la trafila. La trafila controlla la dimensione della grana. COMINCIAMO A MACINARE Suddividete la vostra carne e separatela in magra e grassa. Procuratevi un paio di ciotole o vassoi grandi e separateli per colore. Mettete la parte bianca (il grasso) in una ciotola e la parte rossa (la carne) in un'altra ciotola. Tenete la carne al freddo e lavorate su un pezzo alla volta se pensate di metterci parecchio tempo.

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IL TAGLIO Tagliate la carne in piccoli cubetti di circa due centimetri per facilitare la macinatura. Questo vi impedirà di finire con del tessuto connettivo più lungo di due dita.

STABILITE LA VOSTRA PROPORZIONE Selezionate il vostro rapporto magro-grasso e mixate in modo che il grasso sia distribuito uniformemente. Per farla semplice, per ottenere un rapporto magrograsso di 60:40, pesate 600 g di carne magra per 400 g di grasso pulito. Per un rapporto 80:20 calcolate 800 g di carne magra e 200 g di grasso e così via. RAFFREDDATE GLI STRUMENTI Lavorate con gli strumenti ben freddi, vi basterà tenerli nel ghiaccio per una mezz’oretta. Ricordate che fino a quando non si è pronti per cuocere, il calore è il nemico mortale della carne macinata. Il grasso del manzo inizia a sciogliersi a circa 26°C e il calore della vostra mano è certamente al di sopra di questa soglia. Ricordate, tutto il grasso che rimane attaccato ai taglieri, alle mani e ai recipienti, mancherà alla carne. Inoltre, la temperatura ambiente, favorisce lo sviluppo della carica batterica e l’ossidazione della ciccia. Da evitare assolutamente. MACINATE LA CARNE Le dimensioni della trafila più comuni sono: 3 mm, 4,5 mm e 10 mm. Se la macinatura è troppo fine, la carne rischia di diventare gommosa poiché la miosina appiccica tutto. Quando la grana è troppo grossolana la carne in cottura si sgrana tutta e diventa e dura. La


dimensione perfetta per gli hamburger si assesta tra i 3 (in particolare per gli steak burger) e i 4,5 mm (per gli smash burger e gli hamburger grigliati). PREPARAZIONE E PORZIONATURA Una volta macinata, rimettete la carne di manzo in frigorifero per mantenerla bella fredda fino a quando non sarete pronti a mixarla e porzionarla. Poi aggiungete gli ingredienti e mescolate (o non mescolate) a secondo della vostra ricetta. E il peso? Io preferisco un patty da 200 g se mi accingo a preparare un panino, gli smash li faccio sempre da 115 g e gli slider da 50 g. Voi fate come più vi aggrada.

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ALLINEATE LA CARNE PER UN HAMBURGER TENERO Vi avverto: avrete bisogno di un partner per fare questa operazione. Introdotti nella cucina sperimentale del Ristorante Fat Duck dello Chef Heston Blumenthal, gli hamburger a grana allineata vengono realizzati semplicemente raccogliendo i filamenti di carne che escono dal tritacarne, che devono rimanere distesi. Funziona così: mentre voi girate la manovella, al vostro amico toccherà raccogliere la carne assicurandosi che i filamenti rimangano allineati. La ciccia va poi arrotolata nella pellicola a mo’ di caramella e messa in frigorifero, a solidificare. L'idea è che se tutti i grani rimangono allineati nella stessa direzione, l'hamburger finirà per essere più morbido, con una tessitura "aperta" che si sfalda con lo sguardo. Anche se questi hamburger restituiscono un'esperienza di degustazione davvero incredibile, sono molto difficili da manipolare, dato che non c’è agente legante che tenga i filamenti di carne insieme.


Gli errori più comuni e come rimediare Problema: Il burger rilascia troppi succhi. Soluzione: Cuocere ad una temperatura più bassa. Cuocere a calore meno intenso. Aggiungere il tuorlo d’uovo. Problema: Polpette dure e compatte. Soluzione: Cuo cere a una temperatura di cottura più bassa. Aumentare la percentuale di grasso. Fare una polpetta con un impasto più allentato. Problema: Polpette sbriciolate e asciutte. Soluzione: Cuo cere a una temperatura più bassa. Macinare più finemente.

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Problema: Le polpette sono troppo morbide. Soluzione: Cuocere ad una temperatura più alta. RISOLUZIONE DEFINITIVA DEI PROBLEMI Non vi va di comprare un brisket, di trimmarlo (ripulirlo dal grasso), di porzionarlo, di pesarlo, di separarlo e tritarlo e di aggiungere una serie di ingredienti per tenere tutto insieme? Allora ho la soluzione più veloce al vostro problema: fiondatevi sul Megastore di BBQ4All e fate scorta dei miei burger Blue Ox di Black angus. Ogni patty pesa 200 g, la porzione ideale per ogni occasione. Volete un’esperienza diversa e fuori dalla grazia divina? Accaparratevi i nuovissimi burger Shimofuri Farms. Sono fatti con carne Wagyu Full Blood, Kuroge nera, 100%. Disciplinare di allevamento giapponese, nata, cresciuta e macellata in Giappone, con un grado di marezzatura più vicino al gusto occidentale.


Come cuocere il burger alla perfezione L'obiettivo è chiaro: crosticina croccante fuori, interno morbido e succoso. Per giungere a questo risultato è vietato ragionare per secondi e minuti. Il tempo di cottura è un'ipotesi. Non è possibile specificarlo con precisione, in nessuna preparazione. Quello che invece possiamo stabilire con accuratezza millimetrica è la temperatura finale della nostra polpetta. Gli effetti del calore sulla carne sono noti. La scienza ci dice esattamente a quale temperatura target dobbiamo arrivare per ottenere una data cottura: 55 gradi, patty poco cotto o “al sangue”, anche se sangue non è. A 65°C, cottura media. 75°C ben cotto ma anche cotto bene. La migliore temperatura per l'hamburger, cioè quella che permette di conservare umidità interna e succulenza, si aggira intorno ai 65°C. Meglio poco meno che poco più. A quel grado di cottura il grasso è fuso e i liquidi sono ancora “intrappolati” nella trama. Cuocerlo oltre significa strizzare via liquidi, quindi succosità, quindi sapore. Importante: la sonda o il termometro a penna vanno inseriti al centro del burger e sempre dai lati (mai pungerlo dalla parte superiore!).

LA POLPETTA IN PADELLA O ALLA GRIGLIA Meglio cuocere la polpetta sulla piastra, in padella o in griglia? Dipende. La piastra o la padella, avendo una superficie più ampia a contatto con la polpetta, ci consentono di ottenere una crosticina più estesa. Visto che crosta = sapore, il risultato sarà maggiore croccantezza e gusto. Con la griglia possiamo ottenere un risultato diverso. Gli spazi tra una griglia e l'altra permettono ai liquidi di cadere sopra le braci o sopra i bruciatori. Questi liquidi, a contatto con le superfici roventi, si vaporizzano all'istante e risalgono in forma di fumo aromatico. Questi fumi di risalita investono la polpetta e conferiscono quel sapore di affumicato che ci piace tanto. Inoltre, la parte di griglia a contatto, contribuirà a formare le famose “grill marks” le righe di cauterizzazione, anche quelle portatrici sane di sapore. In definitiva, piastra=tanta crosticina, griglia=sentore di affumicato. È semplice scelta personale, non c'è un meglio o un peggio, c'è quello che ci piace.

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Per ottenere la crosticina esterna, invece, è buona norma rigiralo molto spesso. Questo permetterà alla crosta di formarsi, mentre il calore penetrerà con più difficoltà, aiutandoci a non stracuocere la carne. Due regole semplicissime da tenere a mente: rigiratelo spesso e fermate la cottura a 65°C interni.


03. FONDERE IL FORMAGGIO La scienza delle fette di formaggio da fondere

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Prima di dire "non mi piacciono le sottilette, sono piene di schifezze chimiche”, lasciate che vi racconti la storia del formaggio fuso. È iniziata centinaia di anni fa in Europa, con la fondue francese. La fonduta, come senz’altro saprete, è una miscela di formaggio e vino che viene sciolto in una pentola. E come sanno bene i grandi produttori di fonduta della ridente Svizzera, l'ingrediente segreto per far sciogliere il formaggio è sempre stato un vino molto secco, spesso troppo acido e leggermente fruttato. Un vino di questo tipo contiene naturalmente acidi di frutta concentrati come l'acido tartarico, l’acido malico e quello citrico. E i sali di questi acidi - specialmente il citrato di sodio - sono molto efficaci nel legare il calcio nel formaggio. Questo aiuta ad allentare i legami nella maglia delle proteine della caseina, che a sua volta aiuta a mantenere emulsionato l'intero mix di olio, acqua e proteine nel formaggio. Il risultato? Una fonduta vellutata e fluida. Nessuno sa con certezza a quando risalga la nascita della fonduta, ma nel 1912, due scienziati svizzeri stavano studiando una possibile soluzione al problema della pastorizzazione del formaggio, per poterlo conservare, non refrigerato, in climi caldi. Fino a quel momento, i risultati erano stati fallimenti untuosi, con i grassi che si separavano dalle proteine. Ad un certo punto, però, i due uomini si accorsero che aggiungendo il sale dell'acido citrico (citrato di sodio) al formaggio si poteva agilmente eliminare il fattore oleosità. In parole povere, avevano inventato il formaggio fuso. Qualche anno dopo, un americano fece più o meno la stessa cosa con un altro sale, l'esametafosfato di sodio. Questa scoperta divenne la pietra miliare del suo omonimo business: Kraft. Nell'industria del formaggio, questi sali sono conosciuti come sali di fusione, i moderni sosti-


Oggi, gli chef smanettoni usano questi additivi per alterare la consistenza dei formaggi di alta qualità, ottenendo un ingrediente che si scioglie meravigliosamente pur mantenendo i sapori complessi dei migliori fromage. La tecnica che sto per illustrarvi spiega come fare una versione più fondente di tre tipi di formaggio. Un barbatrucco per farvi le sottilette in casa in pratica.

A proposito dei sali Citrato di sodio - Un po' di citrato di sodio - il sale dell'acido citrico - aiuterà a emulsionare le proteine e i grassi del formaggio, impedendo loro di scindersi e di formare un pastrocchio secco e filamentoso. Il citrato di sodio è anche usato nella sferificazione, per regolare l'acidità e per ridurre il contenuto di calcio (per prevenire la gelificazione precoce). È un ingrediente comune anche nelle bevande commerciali. Esametafosfato di sodio - Quando si fa il formaggio con il solo citrato di sodio, questo fonde, cola, si raffredda e poi si sbriciola. Aggiungendo un po' di sale fosfato - come l'esametafosfato di sodio - insieme al citrato di sodio si ottengono spesso risultati migliori. Questo additivo si trova in molti prodotti: sciroppo d'acero artificiale, latte in scatola, albumi d'uovo confezionati, gelatina, dessert congelati, condimenti, cereali da colazione, gelato e birra. Come il citrato di sodio, è anche usato nella sferifi-

cazione per aumentare il pH di un liquido. Caseinato di sodio - Questo è il sale della caseina, una proteina che si trova nel latte dei mammiferi. È un composto iperproteico, l’industria alimentare e farmaceutica utilizza il caseinato di sodio per le sue incredibili proprietà emulsionanti, addensanti e per la sua eccezionale solubilità. Viene utilizzato anche dagli sportivi per aumentare l’introito proteico nella dieta ed è spesso presente come ingrediente nei cereali, nel pane, nei dessert montati, nei gelati e nei sorbetti e negli integratori.

Scegliere i formaggi giusti Prima di tutto: l'età conta. Con i formaggi più vecchi, è spesso difficile ottenere una fetta che si sciolga bene. Questo perché con il tempo, le proteine del formaggio diventano così frammentate che non hanno quasi più capacità emulsionanti. Gli chef spesso mischiano diversi tagli di carne per creare i loro hamburger perfetti; così come per la carne, mischiare diversi formaggi può migliorare il sapore e la consistenza del prodotto finale. Se volete lavorare con un formaggio stagionato, mescolatelo con uno più giovane dal sapore delicato. I formaggi giovani hanno una caseina relativamente intatta, ma abbondante. Quando un formaggio invecchia, la proteina della caseina (insieme ad altre proteine) si rompe. Alcuni dei frammenti proteici creano i sapori caratteristici di un formaggio maturo, e la proteina della caseina leggermente frammentata in realtà ha maggior potere emulsionante rispetto alle proteine intatte della caseina stessa. Ecco perché spesso mescoliamo un formaggio semistagionato, solido ma flessibile, con uno più giovane o più vecchio. L’aggiunta di caseinato di sodio alla miscela può spesso aiutare ad ottenere un effetto simile. Ottenere la formula giusta per realizzare le sottilette fatte in casa può essere difficile. Per fare pratica, lavorate con queste tecniche testate prima di modificare le proporzioni.

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tuti dell’antico vino troppo secco e aspro. Il loro scopo principale è quello di sostituire gli ioni di sodio con gli ioni di calcio legati alle proteine della caseina nel formaggio. Così facendo, allentano queste proteine e le rendono solubili in acqua. In combinazione con il riscaldamento e l'agitazione, i sali migliorano la capacità emulsionante delle proteine del formaggio. Tendono anche a portare il pH a livelli più alti, il che migliora la consistenza e la stabilità del formaggio fuso (un formaggio fuso troppo acido è instabile e ha una consistenza sgradevole). I produttori dell’industria casearia si attengono a un pH tra 5,2 e 6,3 per ottenere i migliori risultati.


IL CHEDDAR FONDENTE

Ingredienti: 300 g di Cheddar a cubetti/ 120 g di latte intero/ 30 g di burro chiarificato/ 9 g di citrato di sodio/ 4 g di sale/ 0,75 g di esametafosfato di sodio (facoltativo) Preparazione: Unite e il formaggio a cubetti, il latte, il burro e i sali in un sacchetto per la cottura sous vide. Nota: Miscelare a secco i sali prima di unirli al resto degli ingredienti aiuterà la dispersione. Mettete il sacchetto nel bagno termostatico a 75°C e riscaldate fino a quando il formaggio risulterà completamente sciolto. Trasferite immediatamente il contenuto in un frullatore e frullate fino a quando è completamente liscio ed emulsionato. Colate nello stampo desiderato (una teglia rettangolare e bassa dalla quale ritagliare le “sottilette”) e raffreddate per otto ore.

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Volete realizzare delle sottilette di formaggio svizzero? Seguite lo stesso procedimento con 300 g di Emmentaler, 150 g di latte, 14,5 g di citrato di sodio e 12 g di sale (più 6 g di sodio esametafosfato) Preferite un formaggio nostrano? Mixate il groviera con il provolone, 150 g di groviera e 150 g di provolone, aggiungete 180 g di latte, 9 g di citrato di sodio, 8 g di sale (più 1,8 g di esametafosfato di sodio). Replicate il procedimento seguito per il cheddar.


04: PREPARARE DA SOLI LE SALSE

Lo scopo della salsa è quello di aggiungere umidità oltre che sapore. Spesso si usa in accordo al topping come interscambio tra gli elementi. Se uso un topping acido, per esempio i sottaceti, la maionese mi aiuta a controbilanciare l'acidità. Se uso un formaggio filante, il ketchup bilancerà con la sua spalletta acida il grasso del formaggio. Topping e salse si supportano a vicenda. Il primo è solitamente un ingrediente solido, la salsa è invece un fluido. Il topping aggiunge sapore e consistenza, la salsa sapore e umidità. Insieme bilanciano i contrasti.

LA MAIONESE

Dose per 400 g circa: 1 uovo intero (56 g)/ 2 tuorli (36 g)/ 20 g di senape/ 125 g di olio di semi/ 125 g di olio extravergine d'oliva/ 10 g succo di limone/ 10 g di aceto distillato di alcol (o aceto bianco)/ 3 g di sale Preparazione: In un pentolino portate l'olio di semi a 121°C. Nel frattempo versate nel bicchiere del mixer i tuorli e l'uovo intero, il succo di limone, la senape e il sale. Iniziate ad emulsionare con il mixer ad immersione (se non si emulsiona subito il tuorlo tende a coagulare). Versate a filo, molto lentamente, l'olio bollente continuando sempre a frullare. Proseguite con l'olio extravergine d’oliva versato sempre a filo. Terminate con l'aceto bollente continuando ad emulsionare ancora un attimo. In questo fase la maionese sarà calda e un po' molle, ma sarà il freddo a conferirle la consistenza giusta. Si conserva in frigo per due settimane

IL KETCHUP Dose per 600 ml circa:200 g di doppio concentrato di ottimo pomodoro tipo roma/ 200 g di sciroppo di glucosio (sostituibile con miele di acacia)/ 130/150 g di aceto distillato di alcol (o aceto bianco)/ 40 g di zucchero semolato / 15 g di sale/ 1.2 g di gomma xantana/ 0.4 g di chiodi di garofano in polvere. Per una variante aromatica: 0.4 g cipolla in polvere/ 0.2 g di noce moscata in polvere/ 0.2 g di cannella Preparazione: Il procedimento è semplicissimo, vi occorreranno soltanto un mixer (o un minipimer) e una bilancia di precisione. Mescolate a mano il doppio concentrato di pomodoro e l’aceto, aggiungete lo sciroppo di glucosio (o il miele di acacia), amalgamate con cura per evitare che lo sciroppo si depositi sul fondo e versate il tutto nel mixer. Provate prima con 130 g di aceto ed assaggiate, siete sempre in tempo per aggiungerne dell’altro. Azionate la macchina (o il minipimer) e versate lo zucchero miscelato con la xantana nel vortice. Unite quindi i chiodi di garofano in polvere, il sale, e se vi piacciono, cipolla in polvere, noce moscata e cannella. Non lavorate troppo la salsa, bastano pochi colpetti. Trasferite il tutto in un barattolo o uno squeezer munito di tappo e conservate in frigorifero per un massimo di due settimane.

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La salsa è un altro elemento spesso sottovalutato o sovrastimato. Nella stragrande maggioranza dei casi ci si affida alla triade ketchup, maionese e senape.


05: PREPARARE I TOPPING Il topping è proprio l'elemento che aggiungiamo al burger per potenziarne, arricchirne e variarne il sapore. Nelle ricette tradizionali possiamo trovare cetrioli sottaceto e fette di pomodoro. La funzione del topping è di aggiungere varietà e potenza al gusto.

3.

Volete una ricetta pratica e veloce per preparare dei cetrioli sottaceto bombastici? Eccola qui!

Questa procedura è più che collaudata, ma per i cetrioli del nostro cheeseburger ho pensato di fare una piccola modifica, riducendo il quantitativo di zucchero e aumentando quello dell’aceto. Sciogliete 800 g di zucchero in 1,5 litri d’acqua, poi aggiungete 600 ml di aceto. Affettate 500 grammi di cetrioli (non togliere la buccia!) e seguite le istruzioni come sopra.

CETRIOLI SOTTACETO 1-2-3

Dose per 1 kg di cetrioli: 1 l aceto di vino bianco/ 2 kg di zucchero / 3 l di acqua/ 1 kg di cetrioli/ 40 g sale fino

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Preparazione: Per prima cosa bisogna preparare la marinata. 1. Portate l’acqua a bollore e dissolvete lo zucchero, fino ad ottenere uno sciroppo. Aggiungete l’aceto e fate raffreddare. 2. Tagliate i cetrioli a fettine o a rondelle, ad uno spessore di 3mm; disponete in uno scolapiatti e cospargete con il sale. Lasciate agire per 30 minuti e poi strizzate.

4.

Sistemate i cetrioli in un barattolo e ricoprite con la marinata. Fate riposare in frigo per almeno 2 ore. Aggiungete aromi a piacere (semi di senape, aneto, cipolla tritata), i sottaceti così preparati si conservano in frigorifero per 1 settimana.

Riempite un barattolo in vetro con i vostri cetrioli affettati e coprite con il liquido, aggiungete qualche fettina di lime per aromatizzare, un po’ di aneto e dei semi di senape, se ce li avete. Lasciate riposare per qualche ora e fateli sparire entro pochi giorni. Mi raccomando, questa non è una tecnica per conservare i sottaceti a lungo.


06: AMPLIFICARE IL GUSTO IL RUOLO DEL GRASSO, DELL'ACIDITÀ E DELLA CROCCANTEZZA A questo punto abbiamo inquadrato gli elementi che caratterizzano l'hamburger perfetto. Pane, polpetta, topping e salsa. Adesso è necessario mettere gli elementi in equilibrio ricordando questa semplice regola: aggiungere sempre un po' di grasso, una punta di acidità e degli elementi croccanti. Un cheeseburger con il classico ripieno di formaggio cheddar accoglierà la freschezza dell'insalata iceberg e l'opulenza agrodolce di un buon ketchup, oltre alla croccantezza e alla sapidità di un buon bacon. Queste semplici regole non tradiscono mai: grasso, acidità e croccantezza come complementi al vostro hamburger perfetto.

Il bacon metodo GLC Come si fa: Prendete una teglia d’acciaio o vetro temperato, rivestitela di carta forno (o se preferite un tappetino di silicone) e sistemate le fette di bacon a 2 cm l’una dall’altra. Inserite la teglia nella parte centrale del forno (a freddo), impostate il termostato su 200°C in modalità statica e lasciate cuocere per circa 15 minuti. A cottura quasi ultimata spruzzate le fettine con aceto di mele, quindi cuocete per altri 5 minuti o fino al grado di doratura che preferite. Recuperate il grasso fuso, filtratelo e colatelo in un contenitore, potrete conservarlo in frigorifero per una settimana buona. Risultato: bacon perfettamente cotto, croccante perché “fritto” nel suo stesso grasso, brillante e caramellato dall’aceto vaporizzato.

I pomodori e l’insalata

E i pomodori? Per evitare che rilascino troppi liquidi di vegetazione asciugateli bene con della carta da cucina. Le mie cultivar preferite per questa ricetta (e per i panini in generale) sono il San Marzano, il Cuore di bue, il Costoluto, il Tondo insalataro e il Camone.

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Dico, è complicato? Perché mettere un metro quadro di lattuga in un panino così com’è? L’insalata croccante, fresca, ci vuole e ci sta bene, ma non credo sia complicato lavarla, asciugarla benissimo, se vi piace tagliarla a striscioline, aggiungere un goccio di olio, un po’ di pepe, un niente di sale, qualche stilla di aceto e via. Potete utilizzare la varietà che preferite, io vi consiglio l’Iceberg perché particolarmente croccante e fresca.


LA RICETTA SCIENTIFICA IL GLCHEESEBURGER Ingredienti per 6 persone: 6 bun preparati come da ricetta (scegliete una delle due dividendo l’impasto in panetti da 80-100 g)/ 6 burger Blue Ox di Black Angus da 200 g/ 12 fette di formaggio cheddar fondente/ insalata q.b. (iceberg o lattuga)/ 18 fette di bacon già tostato come da ricetta/ 2 pomodori insalatari o cuore di bue/ cetriolini sottaceto q.b./ maionese q.b./ ketchup q.b. Preparazione: Potete cuocere i burger come preferite. Volete prepararli con il sous vide? Metteteli a 55°C per 15-30 minuti (potete lasciarli nel bagno termostatico fino ad un’ora), lasciateli riposare a temperatura ambiente ed asciugateli bene prima di passarli su piastra o in griglia. Con i miei Blue OX potete saltare questo passaggio e buttarli su griglia o ghisa rovente, rigirandoli spesso, fino a raggiungere i 50°C al cuore. Aggiungete le due fette di formaggio su ogni patty e coprite il tutto per pochi secondi per farlo sciogliere. Ricordatevi di rimanere tra i 55°C e i 75°C, non superate mai questa temperatura interna. Ora potete passare alla parte divertente, ovvero la costruzione del panino. Rispettate questo ordine se volete evitare di inzuppare troppo il bun e scaldare eccessivamente la componente vegetale: base di pane tostato, maionese, patty con doppio formaggio fuso, bacon croccante, insalata lavata, asciugata e condita, pomodoro leggermente tamponato, cetriolini asciugati e tagliati a fettine sottili, ketchup e cupola di pane fragrante. Lo so, lo Zio vi dice sempre di non esagerare con gli strati e di conservare una certa sobrietà nello spessore del sandwich, per evitare di slogarvi la mascella. Stavolta voglio autorizzarvi ad esagerare, è un periodo un po’ cupo e pesante e uno strappo, all’hamburger e alla regola, ci sta tutto. Ora preparate tutto il necessario, costruite la vostra piccola opera di ingegneria gastronomica e cercate di fare del vostro meglio per domare a morsi quella bestia.

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Gianfranco Lo Cascio


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Le banalità del bullo La fauna umana che ti aspetteresti di trovare in un gruppo facebook completamente dedito alla derisione e all’insulto continuo e reiterato non è esattamente quella che, all’atto pratico, in realtà si rivela. Al posto di disagiati e incattiviti personaggi ai margini della società, complottisti, diseredati, non è raro trovare paciosi commercialisti, pasticcieri, fustacchioni pseudobellocci con le sopracciglia ad ala di gabbiano, serafici padri di famiglia col profilo di coppia e gigantografie di prole adorata, analisti informatici competenti e di chiaro successo personale e lavorativo. Nessun volto emaciato e spigoloso alla Nosferatu di Murnau, nessun reietto abbrutito autocostrettosi davanti allo schermo a cibarsi solo di patatine e Nutella, in un trionfo di acne e barba tempestata di briciole. Gente normale, che al riparo da occhi indiscreti - e voglio sperare anche dalla moglie/madre della prole - si prende una breve e incolpevole pausa dalla dignità personale.

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Sono in massima parte Joiner. Gente che si aggrega. Che va dove tira il vento, che asseconda il trend, il flow, la moda, chiamatela come volete. Inconsapevoli di quanto una cosa sia disdicevole, o di quanto possa configurarsi come reato, molto semplicemente si associano, imitano, si accodano, perché “ormai si fa così”, perché quello è il comportamento avallato dall’inGroup, perché porta un like e tutti ridono. Nel 1963 la filosofa e politologa Hannah Arendt (tedesca, poi apolide, successivamente statunitense, provate a indovinarne il motivo) fu inviata del New Yorker a Gerusalemme per assistere al processo a carico di Adolf Eichmann, funzionario nazista che ebbe una rilevante parte nell’attuazione pratica della Soluzione Finale, e per questo accusato di genocidio. Nel suo molto discusso saggio Eichmann in Jerusalem: A Report on the Banality of Evil, Arendt si chiese se una persona potesse fare del male senza essere intrinsecamente malvagia: la domanda scaturì dalla constatazione che l’imputato sembrasse poco più che un burocrate impegnato ad eseguire gli ordini senza discutere, senza pensiero critico, empatia o coscienza delle

Seguo - rubrica a cura di Emiliano Nencioni


azioni delittuose scaturite dal suo inappuntabile ed efficiente lavoro. “Era ragion di stato, se si vince si è eroi, se si è sconfitti si va alla forca”, sottolineò lo stesso Eichmann. La corrispondente, in gioventù allieva (e innamorata in maniera quantomeno turbolenta) di Heidegger (filosofo tedesco già discusso in una Seguo di inizio 2020) e di Jaspers, non proprio diplomata alla seppur gloriosa Scuola Radio Elettra quindi, rimase colpita e stupita dalla totale mancanza di malvagità nell’atteggiamento del gerarca nazista, reputato per lo più noioso, insignificante, ignaro, quasi inconsapevole. Eichmann non si era mai soffermato ad osservare le conseguenze del proprio operato, obbediva a testa bassa, era un superficiale, non un genio del crimine, non un supercattivo dei fumetti con il completino viola, la maschera e il mantello. Si faceva così, andava fatto così: un joiner.

all’uncinetto) o che siano i nostri personalissimi gruppi di odiatorelli frustratucci angustiati da BBQ4All, le dinamiche sono sempre le solite.

Su Facebook, dinosauro dei social, evitato come la peste dai più giovani, habitat d’elezione di politici rancorosi e borbottanti signori di mezza età, i gruppi “rogue” vanno per la maggiore: sono i gruppi “bastardi”, quelli dove di solito si entra non con il profilo vero ma con quello di riserva, quello fatto con la scusa di giocare a Candy Crush ma più astutamente riservato alle gare di insulti fra vaggari e alfiattari (sì, ci sono dei signori anziani che si offendono atrocemente prendendo come vulnus l’apprezzamento o la critica verso un’auto del gruppo Volkswagen Aktiengesellschaft o Fiat Auto, ormai recentemente Stellantis - sì, ho capito che sembra inverosimile ma fidatevi), alle conversazioni notturne con l’ex compagna delle medie, e dove per poche ore al giorno ci si sente liberi di abbandonare il contegno, i freni inibitori, l’abitudine dei cuoricini verso il compagno/a, dove lo sbandierato e inutilmente stucchevole “amore per i miei figli” (non dovrebbe essere scontato, vero indipendentemente dalle dichiarazioni sui social?) lascia il posto a un molto più liberatorio, primordiale e ferino “odio per i figli degli altri”. “Siamo un gruppo di liberi pensatori” “Abbiamo il nostro diritto di satira” “Fattela una risata” (questo sta sempre bene su tutto)

La faccenda del metterci la faccia invece mi ha talmente stupìto che tuttora penso di aver frainteso: per farla breve, mettere come avatar un’illustrazione o qualsiasi altro artifizio grafico che non sia la propria effige viene visto come una mancanza di fegato, e osteggiata dai membri più onorevoli dell’inGroup. La questione è buffa e articolata al punto da spingermi a dedicare una prossima rubrica Seguo interamente a questo argomento, probabilmente sotto il titolo evocativo di “La faccia e le palle”.

Scusa ma chi sono gli altri? Non ti preoccupare: tanto, mica sarai uno di loro, no?

Come avrete letto sul Magazine o in Community, BBQ4All si è vista costretta ad agire per vie legali verso alcune persone un po’ troppo entusiaste e prolifiche nel loro spargere odio verso aziende, prodotti e persone. Già, persone, perché alla quinta volta che il creativo di turno fa il post su quanto sia pessima e costosa la carne del megastore, probabilmente il brivido della trasgressione va un po’ a scemare (scemare è il verbo giusto), e per cercare emozioni più frizzanti gli intrepidi liberi pensatori sfociano presto nell’invettiva. Vi assicuro: potete aver vinto una medaglia Fields (o anche solo sapere cosa sia senza usare Google), aver contribuito alla scolarizzazione di un piccolo stato in via di sviluppo, scavato pozzi d’acqua potabile in Sierra Leone, ma se un tizio dal nome (finto) altisonante dichiara che siete stupidi e incapaci, beh, allora per quel gruppo

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Che siano gruppi di odio generico (automobili, videogiochi, squadre sportive, lavoro

Poche regole, ma chiare, al momento dell’iscrizione: • Rispetto per tutti i membri, non dobbiamo offenderci fra noi, ma solo insultare gli altri. • Mettici la faccia altrimenti non hai valore. Rispetto, ancora questa parola. In pratica, non offendere/contraddire me, e io vedrò di non contraddire te, così stiamo più sereni e possiamo offendere gli altri; come in un romanzo di fantascienza distopica, finché non fai parte degli altri non hai niente da temere.


siete irrimediabilmente stupidi e incapaci. La serialità della comicità (perché far ridere è difficile, e se malauguratamente imbroccano una battuta che fa ridere tutto il gruppo la ripetono allo sfinimento) garantisce poi che ogni ingiuria e ogni accusa sia capillarmente recapitata ad ogni partecipante, in una reiterazione puntuale come una piattaforma di streaming. L’arrivo di nefaste letterine raccomandate dovrebbe aver placato gli animi, penserebbero i più savi. Invece no. Dopo un iniziale e sicuramente salubre fuggifuggi si è verificato un fenomeno non raro in ambito calcistico: lo sbeffeggiamento della diffida. Grande impiego del MAIUSCOLO, toni testosteronici, particolareggiati suggerimenti su dove avremmo teoricamente potuto riporre le lettere dei nostri legali, “ma tanto non mi troverete mai”.

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Credo di aver capito il motivo di tanta spavalderia: si è diffusa la notizia, dopo la pubblicazione di uno screenshot in community, che i provvedimenti fossero stati mossi a carico di ignoti. E una denuncia contro ignoti è come un rapporto di classe alle medie! A chi fa paura una denuncia contro ignoti, dai! Questo, più il proverbiale ritardo “molto italiano” (cit.) fra tribunali e poste, e i tristanzuoli si sono sentiti al sicuro. Parliamo un attimo del Bokuto, un’arma tradizionale giapponese, letteralmente “katana di legno”: complici molti film d’azione, probabilmente tutti abbiamo ben presente la letalità e la precisione di una katana ben affilata, la leggenda di Hattori Hanzo, il drappo di seta che cade sulla lama e si divide di netto: una versione in legno dell’arma, del tutto inadatta al taglio, può sicuramente risultare goffa e inutile. In realtà, se la katana può staccare con precisione chirurgica un arto, il bokuto, ben usato, può spappolare un osso, portando irrimediabilmente alla morte un guerriero giapponese del 1500-1600. Pubblicare la denuncia contro ignoti è stato come presentarsi a duello con un bokuto, un po’ come faceva Miyamoto Musashi (che è morto di vecchiaia, imbattuto): ha innervosito, destabilizzato, e in ultimo ha fatto pericolosamente abbassare la guardia.

Spero proprio, con la Seguo di Febbraio 2021, di aver concluso una volta per tutte il ciclo di rubriche sul bullismo online, una parentesi necessaria, ma un momento umanamente estenuante. Le ultime gesta del condannato Eichmann, secondo Hannah Arendt:

“Era completamente padrone di sé, anzi qualcosa di più: era completamente se stesso. Nulla lo dimostra meglio della grottesca insulsaggine delle sue ultime parole. Cominciò col dire di essere un Gottgläubiger, il termine nazista per indicare chi non segue la religione cristiana e non crede nella vita dopo la morte. Ma poi aggiunse: “Tra breve, signori, ci rivedremo. Questo è il destino di tutti gli uomini. Viva la Germania, viva l’Argentina, viva l’Austria. Non le dimenticherò.” Di fronte alla morte aveva trovato la bella frase da usare per l’orazione funebre. Sotto la forca la memoria gli giocò l’ultimo scherzo: egli si sentì “esaltato” dimenticando che quello era il suo funerale. Era come se in quegli ultimi minuti egli ricapitolasse la lezione che quel suo lungo viaggio nella malvagità umana ci aveva insegnato – la lezione della spaventosa, indicibile e inimmaginabile banalità del male.”

Emiliano Nencioni


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N°27/ANNO 3 - MARZO 2021 L'EDITORIALE DI GIANFRANCO LO CASCIO I pregiudizi più diffusi sulla cottura sottovuoto RICETTE BACK TO THE GRILLS! Fiori di cipolla, BBQ Bacon Wrapped Onion Bomb, Gamja-hotdog, Pasta 'ncasciata, Spicy Grilled BBQ Pork, Sasiccia in crosta, The Ultimate Burger, Pizza con cornicione ripieno di pulled pork, Patate Hasselback, Torta Sacher ARTE BIANCA La pita FROM ZERO TO HERO Sfatiamo i miti del barbecue DE GUSTIBUS L'Aged Wagyu LA RICETTA SCIENTIFICA Lo spezzatino


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Da Zero a Sotto Vuoto lezioni di cucina parte III


I pregiudizi più diffusi

Editoriale di Gianfranco Lo Cascio

cottura sottovuoto sulla

Ma, nonostante l'enorme popolarità di questa strabiliante tecnica di culinaria, la cottura sottovuoto è ancora afflitta e vessata da diversi pregiudizi. Di seguito proverò a sfatare i falsi miti che circondano il sous vide e le sue applicazioni in cucina. Siete pronti? Prima di addentrarci nel ginepraio delle falsità da annegare nel bagno termostatico, chiariamo una cosa: sous vide non significa bollire il cibo in un sacchetto di plastica. I cibi da scaldare in acqua, come il riso confezionato e i piatti pronti, prevedono di portare l'acqua ad ebollizione e poi immergere la pietanza confezionata sottovuoto nel liquido, per riscaldarla, non cuocerla. Con il sous vide, invece, il punto è proprio quello di cuocere il cibo delicatamente, ben al di sotto del punto di ebollizione. Stiamo riscaldando l’acqua ad una temperatura che corrisponde alla temperatura interna ideale dell’alimento - mai più calda, e certamente mai bollente! L'idea che sous vide significhi bollire il cibo in un sacchetto è una stupidaggine che persiste e fonte di confusione, ma - dillo ai tuoi amici ostativi - che non è vero.

"Sous vide" significa "sotto vuoto", quindi se voglio provarlo, devo comprare una macchina costosissima per tirare fuori l’aria dai sacchetti.

Sì, "sous vide" in francese significa "sotto vuoto”, e su questo non ci piove. Ma è un termine che può disorientare. Tornando alla questione, non hai bisogno di un aggeggio lussuoso per creare il sottovuoto - o anche di uno economico da battaglia - per cucinare con successo il cibo in acqua a bassa temperatura. Per iniziare con il sous vide, i normali sacchetti stile ziplock andranno benissimo e per alcune applicazioni sono preferibili ai sacchetti sottovuoto. Usa il metodo del dislocamento dell'acqua (aggancia il sacchetto al lato della vostra pentola e immergetelo nel bagno termostatico, usa l'acqua per spingere fuori l'aria che circonda i vostri pezzi di carne, pesce o verdura) per rimuovere l'aria dai sacchetti, poi inizia a cucinare.

Ok, ma devo pur sempre comprare una termocircolatore a immersione, e quello costa. È vero che le persone che cucinano regolarmente sous vide spesso scelgono di investire una discreta somma di denaro in un termocircolatore ad immersione, vedi Anova et similia. Negli ultimi anni, tuttavia, sono stati immessi sul mercato un certo numero di modelli piuttosto economici e per uso domestico. E se vuoi fare solo una prova, puoi improvvisare un setup sous vide con nient'altro che una pentola, un fornello, un termometro digitale e alcuni sacchetti di plastica (te l’ho spiegato bene nei numeri di Gennaio e Febbraio del BBQ4All Magazine).

Ho capito, non ho bisogno di spendere soldi. Questo non cambia il fatto che non è sicuro cucinare il cibo nei sacchetti di plastica.

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N

egli ultimi cinque anni la cucina sous vide - per i più chic o sottovuoto per mia zia - già prezzemolina nei ristoranti stellati, ha preso piede anche nei tinelli di casa. Questo grazie a nuovi giocattoli sempre più accessibili ed economici, ai camei nei film, e alla pubblicazione di opere innovative come la serie Modernist Cuisine e quel libro eccezionale che è Under Pressure di Thomas Keller.


Io il sous vide lo uso quasi tutti i giorni. E ci cucino serenamente e in totale sicurezza. Onestamente, è molto più pericoloso mangiare cibo preparato da mani sbagliate in posti sporchi che usare i sacchetti di polipropilene. Come riporta il Ministero della Salute, le malattie di origine alimentare sono causate principalmente dalla manipolazione del cibo in ambienti non igienizzati. Il sous vide, al contrario, riduce drasticamente il rischio di contaminazione. Secondo le ultime ricerche, le plastiche adeguate e più sicure sono il polietilene ad alta densità per alimenti, il polietilene a bassa densità e il polipropilene. Praticamente tutti i sacchetti sous vide sono fatti di queste plastiche. Lo strato interno di quasi tutte le bustine per sous vide è in polietilene, e anche la maggior parte dei sacchetti di marca per la conservazione degli alimenti e degli involucri di plastica sono fatti di polietilene.

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Ora, altri materiali plastici che possono trovarsi nella tua cucina, come gli involucri di plastica economici e sfusi (ancora comunemente fatti di cloruro di polivinile o cloruro di polivinilidene), possono contenere plastificanti dannosi, che riescono a penetrare nei cibi grassi come il formaggio e la carne. Io vi sconsiglio categoricamente di usarli. Le preoccupazioni riguardo al cibo esposto a queste materie plastiche a temperature più alte sono più che legittime - quando metti nel microonde il cibo avvolto nella plastica, per esempio. Credo che valga la pena spendere qualche centesimo in più e scegliere sacchetti affidabili, conosciuti e di marca. Detto questo, la scienza e l’industria vanno avanti, di pari passo. Ricordi quando le uova erano considerate il male sulla terra? O quando i biscotti integrali a basso contenuto di grassi e di zucchero dovevano aiutarci a perdere peso? Questa settimana il vino rosso e il caffè fanno bene, ma magari tra un


mese viene pubblicato un nuovo studio, che potrebbe dimostrare l'esatto contrario. Dalle padelle antiaderenti ai cibi in scatola, tutti gli strumenti e i cibi confezionati sono stati messi in discussione, a turno. E alla fine della fiera, possiamo sapere solo ciò che conosciamo. E sappiamo che amiamo mangiare carne, pesce, frutti di mare e verdure - tutti cibi sani e freschi - cucinati a temperatura controllate, per tirare fuori da ogni alimento un sapore fantastico e una consistenza perfetta. Adoro la prevedibilità e la semplicità del sous vide e mi piacerebbe che questo mio entusiasmo contagiasse anche te. E se ti sembra ancora strano utilizzare la plastica, non temere, puoi sempre utilizzare dei barattoli di vetro resistente al calore. Naturalmente, non posso garantirti che sarà sempre facile cucinare in totale sicurezza. Ma quello che ti posso assicurare è che, considerati i dati scientifici in nostro possesso, l'utilizzo di sacchetti di alta qualità e la loro corretta manipolazione minimizzi i potenziali rischi di beccarsi un malanno. Dopotutto, i mangioni avventurosi conoscono bene le possibili insidie che potrebbero celarsi nella conchiglia di un'ostrica, nel sushi, o in certi formaggi per palati coraggiosi. Gli spinaci crudi sono tutt'altro che sicuri da mangiare e, che ti piaccia o no, potresti correre un rischio anche addentando un succulento hamburger da fast-food.

Ma perché devo imparare l’ennesima tecnica di cottura solo per preparare solo bistecche, pesce e pollo? Le persone che non hanno familiarità con il sous vide spesso pensano che sia utile solo per cucinare la carne. Ma ti garantisco che puoi prepararci qualsiasi cosa, persino il dolce! Okay, mi hai quasi convinto: questo sous vide mi sembra un buon compromesso per quando ho molto tempo a disposizione, ma per l cucina di tutti i giorni, il mio fidato vecchio forno è molto più efficiente. Spesso si adopera il termocircolatore ad immersione quando si vuole dare ai tagli duri il trattamento low&slow, ma ti assicuro che puoi preparare anche il purè di patate in 45 minuti netti e cucinare pesce, bistecche e pollo in meno di un'ora. E tieni sempre a mente, invece di fare la guardia al forno, sperando che il petto di pollo non si trasformi in una suola di scarpa vecchia, puoi lasciare che il cibo cuocia per buona parte incustodito, sicuro del fatto che i risultati saranno gli stessi ogni volta, e lasciandoti del tempo libero per concentrarti su altre cose. Come, ad esempio, quello che cucinerai dopo.

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Ho letto un sacco di informazioni contrastanti sulla correlazione tra temperature del sous vide e gli agenti patogeni alimentari. Me la spieghi meglio? Certamente. Gli agenti patogeni alimentari non si moltiplicano mai sopra i 52°C; al contrario, “muoiono” lentamente. E più alta è la temperatura, più velocemente si levano dai piedi. Tutti gli agenti patogeni alimentari conosciuti iniziano a disattivarsi sopra una certa temperatura massima: alcuni sopra i 43°C, altri sopra i 45°C, quasi tutti sopra i 50°C e, infine, uno tosto che resiste fino a 52°C. La maggior parte si sviluppa più velocemente tra i 30°C e un po' al di sotto della loro temperatura massima. Quando cucini a temperature inferiori a 52°C - il tonno, per esempio, dà il suo meglio a 43°C - mantieni un tempo di cottura di una o due ore, mai meno; questo limiterà lo sviluppo degli agenti patogeni e impedirà al pesce di diventare molliccio.

Dovrei preoccuparmi a lasciare il cibo nel bagno termostatico per troppo tempo?

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Buone notizie: puoi tenere il cibo nella finestra di sicurezza - 52°C - per tutto il tempo che vuoi. Questo, amico mio, significa che puoi trasformare radicalmente la consistenza del cibo - per esempio, puoi cuocere una coscia d'agnello a 64°C per 16 ore, ottenendo una carne così tenera che i tuoi commensali penseranno che sei diventato un alchimista. NOTA: Quando devi cuocere la carne per molte ore, opta per temperature tra 55°C e 80°C.


Per buona parte, il botulismo diventa è un problema quando stai conservando del cibo. Questo significa che non è un rischio da tenere in considerazione se si sta servendo un piatto cucinato sotto vuoto, al momento.

Ora ho capito. E allora cosa devo sapere se voglio conservare il cibo cucinato sous vide? Puoi preparare il cibo sous vide giorni, settimane e anche mesi in anticipo, ma farlo in modo sicuro richiede un po' di lavoro extra. Per prima cosa,

ovviamente, devi cuocere l’alimento fino a quando non avrai sterminato tutti gli agenti patogeni. Poi, devi raffreddarlo in un bagno di ghiaccio (metà acqua e metà ghiaccio) fino a quando il cibo non si è raffreddato completamente. Dopodiché, la pietanza dovrebbe essere refrigerata o congelato: quanto può durare dipende dalla temperatura a cui la tieni. Il tocco finale è quello di riscaldare il sacchetto in un bagno d'acqua che sia alla temperatura alla quale l’hai cucinato o inferiore (questo riscaldamento richiede un bel po' di tempo). Sebbene ci siano occasioni in cui vale la pena cucinare sous vide in anticipo, questa tecnica dà il suo meglio quando si prepara un piatto che verrà gustato poco dopo la cottura.

Gianfranco Lo Cascio

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Parlami del botulismo.


La cucina al fuoco dall'Homo erectus al barbecue Portfolio gastronomico/01 a cura di Alberto Zonghetti Illustrazioni di Eleonora Castagna

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Dimentichiamo per un attimo tutte le nostre amate e sofisticate strumentazioni per cuocere la carne: dispositivi, pentolame, termometri, accessori vari; chiudiamo gli occhi e immaginiamo di trovarci all’interno di un bosco.

Vedete la radura? Ecco, preparate un bel fuoco. Sul lastrone di pietra, quello più a nord, il giovane cinghiale è già stato scuoiato ed eviscerato; il palo per infilzare la bestia deve essere appuntito accuratamente, con lentezza, seduti su un tronco tagliato mentre attendete la formazione della brace. L’aria fresca della foresta vi accarezza la pelle mentre il mutevole guizzare delle fiamme sembra ipnotizzarvi, ed il calore vi abbraccia. Ma il brivido sale prepotentemente dentro di voi quando la carne appoggiata sopra i tizzoni ardenti inizia a sfrigolare, a cambiare colore, a diffondere l’inebriante aroma di fumo e grasso…

Riaprite gli occhi, dimenticate (e perdonatemi) le numerose imprecisioni ed inesattezze di questa breve visione, iniziamo un nuovo percorso seguendo le parole guida di oggi: fuoco e cucina. Se avete seguito le indicazioni che vi ho proposto sopra, avrete probabilmente percepito “il richiamo della foresta”: primitivo, selvaggio, arcaico. La carne al fuoco ha un che di primordiale, è un rito carnivoro che celebra tutti i sensi ed amplifica le nostre percezioni; è un momento che possiamo pensare come alla naturale conclusione di una battuta di caccia. Ammettiamolo, ogni tanto abbiamo nostalgia di rimanere soli, noi e il fuoco, a guardarci negli occhi, immersi nella natura; per sentirci come Prometeo che rubò il fuoco a Zeus e lo donò agli uomini. E la carne cruda, da posare sopra le braci dopo aver domato le fiamme, per riacquistare il senso primordiale della cottura. Come nella preistoria. Lo so che a questo punto tutti hanno almeno due domande: veramente, quando è nato il barbecue? Ma, soprattutto, da cosa deriva l’etimologia di questa parola?

LA LEGGENDA DEL BARBECUE Dici barbecue e pensi inevitabilmente agli Stati Uniti: nell’immaginario collettivo tutte le case del “sogno americano”


hanno il giardino che ospita un dispositivo di cottura di qualsiasi tipo; il cinema e la televisione ci hanno abituato all’idea che ad ogni weekend amici e vicini si riuniscono per un rituale momento di convivio da trascorrere attorno al fuoco. A questo si aggancia un altro luogo comune: negli States non c’è una dignitosa tradizione culinaria – mica sono come noi italiani -; però sono bravi con il fuoco, peccato per tutte quelle salse immangiabili… Insomma, il termine barbecue parrebbe derivare, quasi come conseguenza, dalla tradizione statunitense: del resto, sanno cucinare solo in quel modo… Ma sarà proprio così?

La cottura era lenta, e lo scopo d e l l a “griglia” era quello di tenere la carne distante dal suolo e dalla contaminazione di insetti

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L’ipotesi principale, avvalorata anche dall’Enciclopedia Treccani, smentisce però la nostra precedente riflessione. La parola barbecue sarebbe legata ai primi esploratori che, nel XVI secolo, arrivarono in America Centrale, nei Caraibi. Essi videro che il popolo locale, chiamato Taino, usava una tecnica di cottura delle carni che consentiva una conservazione a lungo termine, nonostante il poco favorevole clima locale. Consisteva nel disporre il cibo sopra un graticcio di legna sospeso sopra uno strato di braci di legna: pesci, tartarughe, lucertole, alligatori, serpenti, ratti, rane, uccelli, a volte anche cervi e tacchini… ma anche cani. Alcune testimonianze alludono al fatto che tali dispositivi fossero utilizzati anche per carne… umana! Ma il capitolo cannibalismo, per quanto antropologicamente interessante, credo che esuli dalle pagine del nostro amato Magazine.


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ed altri animali terrestri; mentre il fumo avrebbe allontanato insetti volanti e contribuito alla lunga conservazione degli alimenti. La popolazione locale chiamava questi graticci – che pare venissero usati anche per dormire – con un termine che gli spagnoli recepirono come “barbacoa”. I conquistatori, tornati in Europa, diffusero tale metodo di cottura e questa nuova parola con una grammatica più o meno simile in tutte le lingue. Nel 1697 in Gran Bretagna il termine barbecue è citato per indicare una piattaforma su cui dormire, ma nel 1733 la parola è già usata per indicare una riunione sociale all'aria aperta dedicata alla grigliatura della carne. Nel 1769 George Washington annota nel suo diario di essere andato ad Alexandria per partecipare ad un "barbecue". Il viaggio della parola “Un babracot” così scrisse

l’esploratore e botanico inglese Sir Everard Ferdinand im Thurn nel 1883, “è un impalcatura di bastoncini verdi costruita sopra un fuoco e su cui viene distesa la carne”. Il viaggio della parola “barbecue”, parte dunque dall’America Centrale, torna in Europa e, assieme ai colonizzatori, ritorna in America. La pronuncia del termine, dunque, suonerebbe all’incirca così: "bàrbecu". DALLA BARBA ALLA CODA La seconda ipotesi riguarda sempre il Nuovo Mondo, ma coinvolge gli esploratori francesi, i quali si trovarono a gustare una capra intera cotta nelle stesse modalità che abbiamo già descritto nella prima ipotesi. La mangiarono “de la barbe a la queue", dalla barba alla coda, da cui, per contrazione,

nasce il termine "barbecue". In questo caso l’accento, come da tradizione francofona, andrebbe inevitabilmente (e forse un po’ spocchiosamente) sulla lettera finale: "barbechiù". IL PRIMO BARBECUE: UN MILIONE DI ANNI FA? Dopo aver risposto alla domanda relativa all’etimologia, dobbiamo tornare indietro di molte migliaia di anni. Infatti l’invenzione del barbecue è più vecchio dell’homo sapiens e gli antropologi pensano addirittura che sia stata la padronanza del fuoco a modificare in modo permanente il nostro percorso evolutivo; è questo legame primordiale che ci fa ancora amare la cottura alla fiamma. Fu l’Homo erectus, l’ominide appena prima dell’uomo di


Qualcuno pensa ad un evento casuale: un incendio boschivo, i nasi dei primitivi attratti da un profumo particolarmente seducente, la corsa interrotta da qualcuno che inciampava sulla carcassa carbonizzata di un cinghiale e si sporcava le mani con la miscela magica di proteine calde, grasso fuso e collagene untuoso della carne arrosto. Poi il divorare la carcassa fino a raschiare le ossa, gemendo e scuotendo la testa, mentre gli aromi sensuali facevano sorridere le narici e i sapori pieni facevano piangere la bocca. Forse un po’ esagerata come ricostruzione, ma può rendere l’idea della straordinaria scoperta.

Dal punto di vista della ricerca scientifica, credo sia importante citare due eventi. Nel 2007 gli scienziati israeliani d e l l ’ U n i ve r s i t à d i H a i fa scoprirono prove che i primi esseri umani che vivevano nell’area intorno al monte Carmelo, circa 200.000 anni fa, erano seri esperti sul barbecue. Dalle analisi delle ossa e degli strumenti di lavoro, sembra che questi primi cacciatori preferissero animali grandi e maturi, che fornissero ricchi tagli di carne: gli antenati di bovini, cervi e cinghiali. Studiando le bruciature intorno alle giunture e i segni di raschiatura sulle ossa, sono state trovate prove che questi abitanti delle caverne sapevano cucinare. Un altro team di archeologi capitanato da Francesco Berna, studioso italiano della Boston University, ipotizza che già un milione di anni fa

i nostri progenitori usavano il fuoco e, forse, lo facevano per cuocere i loro alimenti. Infatti studiando alcune antichissime tracce di materiali carbonizzati - piccoli resti di ossa e vegetali, rinvenuti nel sito sudafricano di Wonderwerk, si è capito tali residui sono stati bruciati in loco, e non trasportati da acqua o vento. Fuoco primordiale, non scaturito da autocombustione. Ciò significa forse – rimane ancora da dimostrare ma ai ricercatori sembra plausibile che questi esemplari di Homo erectus finalizzassero l’uso del fuoco alla cottura dei cibi. Questa ipotesi consentirebbe di retrodatare di almeno 300.000 anni l’epoca in cui gli ominidi hanno cominciato a padroneggiare la tecnologia del fuoco e, soprattutto, a ‘umanizzare’ la propria dieta. Sì, perché proprio questo aspetto è molto importante: cucinare rende più facile estrarre energia dal cibo. Ciò significava che

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Neanderthal, che assaggiò per la prima volta la carne cotta. Come possiamo immaginare questa scoperta da parte dei primi protoumani?


c’erano più calorie disponibili per i cervelli più grandi, il che naturalmente era un vantaggio evolutivo. Ci è voluto molto meno tempo per mangiare, lasciando tempo per cacciare, socializzare e formare tribù e comunità, e procreare. Hanno imparato rapidamente che il cibo aveva un sapore migliore se era tenuto sopra o a lato del fuoco. E i primi attrezzi? Come afferma lo storico del barbecue Dr. Howard L. Taylor, erano quasi certamente “una forchetta di legno o uno spiedo per tenere la carne sopra il fuoco”; ma a causa del materiale deperibile di cui erano fatti, difficilmente ne troveremo testimonianze integre.

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I PRIMI PIT MASTER: UNA RIVELAZIONE SCOTTANTE Tremino i maschi Alfa, quelli che si elettrizzano al solo pensiero di dominare il fuoco e la fame dall’alto del loro “manico” e della loro mascolinità. Quelli che ritengono fuoco, griglia, spiedi e derivati “roba da uomini”; che durante la settimana non entrano nemmeno in cucina ma, di fronte al barbecue, credono ad un’inevitabile inversione dei ruoli. Mi tocca darvi una cocente delusione. Si, per certi versi è vero ed innegabile che la nostra storia alimentare ha posto la donna al centro della cucina domestica, ma per nostra immensa fortuna negli ultimi decenni il ruolo in cucina si è sganciato dal sesso di appartenenza (infatti in casa sono il detentore del potere assoluto tra i fornelli). Torniamo, però, alla preistoria: dopo la scoperta della cottura al fuoco, l’evoluzione ha favorito i tratti che hanno aumentato la capacità degli ominidi di cacciare e mangiare carne cotta. Hanno imparato a addomesticare i cani per aiutarli con la caccia e ad organizzare per ruoli la loro struttura tribale e familiare. Gli uomini diventarono cacciatori e le donne si specializzarono nel preparare e cucinare i cibi. Se l’alimento principale era la carna cotta al fuoco, la conclusione è netta e incontrovertibile: i primi pitmaster erano donne!


I nostri uomini primitivi, una volta presa dimestichezza con il fuoco, iniziarono a costruire delle rastrelliere di bastoni verdi per tenere il cibo sopra le fiamme. Impararono che, lasciando bruciare i tronchi fino a diventare carbonella, la gestione della temperatura era più semplice da regolare e il sapore della carne risultava migliore. Ma non finisce qui: scoprirono che i cibi esposti lentamente al fumo non solo risultavano più saporiti ma, elemento fondamentale nelle epoche senza refrigeratori, si conservavano più a lungo. Ora sappiamo che questo accade per diversi motivi: perché ci sono composti antimicrobici nel fumo; perché il fumo allontana mosche ed insetti volanti; e perché l’affu-

micatura disidrata i cibi, mentre i batteri necessitano di umidità per proliferare. Affumicatura, asciugatura e salatura della carne erano strategie intelligenti per conservare gli alimenti deperibili e gestire al meglio le risorse alimentari, che potevano essere trasportate in caso di spostamento o migrazione verso altre zone. A questo punto troviamo un passaggio di grande importanza: a partire già dal 3.000 avanti Cristo, l’evoluzione dei costumi e delle usanze porterà l’uomo a considerare la cottura al fuoco come qualcosa che andava oltre la semplice necessità di nutrizione. Un vero e proprio rito.

UN RITO DIVINO Qualche settimana fa mia figlia, durante lo studio della religione ebraica (frequenta la scuola media – o secondaria

di primo grado se vi piace di più), mi chiese: “Senti, ma gli Ebrei, che sacrificavano a Dio tutti questi animali, poi la carne la mangiavano o no?”. Con risoluta autorevolezza paterna risposi: ” Certo, una buona parte sicuramente, mica buttavano via tutta quell’abbondanza!”. Del resto, lavorando da vent’anni nel mondo dell’arte ho una discreta conoscenza della Bibbia; ma, pungolato dal dubbio, andai a controllare. Avevo ragione, per fortuna; ma scoprii anche elementi aggiuntivi molto interessanti. II libro dell’Esodo, al capitolo 27, ci sono informazioni dettagliate per la costruzione degli altari sacrificali, che a pensarci bene sembrano proprio dei barbecue. Costruito in legno di acacia, di forma quadrangolare con lato di circa 2 metri, alto un metro e mezzo, l’altare presentava un rivestimento in rame e ad

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FUMO, FUOCO E FIAMME


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esso erano agganciati tutti gli accessori: vaschette raccogli cenere, palette, vasi per l’aspersione, forchette e bracieri. Una graticola di rame, lavorata a rete, sotto cui erano il fuoco e le braci, incastrata tra i lati dell’altare, serviva per appoggiare le offerte da bruciare. Non aveva ruote, ma stanghe ai lati per poter essere trasportato. Al capitolo 29 ci sono istruzioni su come preparare il sacrificio di un giovane toro e due montoni: “Prenderai poi uno degli arieti; Aronne e i suoi figli poseranno le mani sulla sua testa. Immolerai l'ariete, ne raccoglierai il sangue e lo spargerai intorno all'altare. Dividerai in pezzi l'ariete, ne laverai le viscere e le zampe e le disporrai sui quarti e sulla testa. Allora farai bruciare sull'altare tutto l'ariete. È un olocausto in onore del Signore, un profumo gradito, un'offerta consumata dal fuoco in onore del Signore” (Es 29, 15-18). L’offerta più importante dedicata a Dio sembra essere proprio il fumo profumato dell’arrostitura: il grasso migliore era posto infatti sull’altare e offerto al Signore. Agli officianti del sacrificio e ai collaboratori era permesso mangiare buona parte delle carni sacrificate.

Il primo capitolo del Levitico inizia addirittura come fosse un testo di cucina: fornisce le istruzioni per macellare e preparare offerte da bruciare sull’altare: un toro, tortore, piccioni, pecore, capre, frutta, mais e pane, nonché le leggi per mangiare kosher, cioè secondo i dettami della religione ebraica; dettami seguiti ancora oggi da gran parte della comunità sparsa nel mondo. Ovviamente si trattava di animali senza difetto: Dio gradiva la carne di qualità! Ultima nota: gli eventi descritti nella Bibbia sono collocabili intorno al 1.200 avanti Cristo, oltre tremila anni fa.

UN RITO DI CONVIVIALITA’ Nel nono libro dell’Iliade, i greci hanno un grosso problema (ricordate il film “Troy”? Se non l’avete visto non vi siete persi nulla, a meno che non siate fan dell’epidermide di Brad Pitt): Achille, il loro eroe invincibile, ha litigato con Agamennone, il capo della Spedizione contro Troia. Senza il suo apporto non avranno speranze di vittoria. Quale migliore tentativo di riconciliazione può essere migliore di un banchetto al fuoco?


Allora [Achille] mise un grosso tavolo davanti al focolare, ci mise sopra un dorso di pecora e un altro di grassa capra, poi la schiena di un maialetto, tutta piena di lardo. Li teneva fermi Automedonte: il divino Achille tagliava; sminuzzò per bene la carne e la infilava sugli spiedi. Il figlio di Menezio, pari a un Dio, accese un grande fuoco; e quando il fuoco finì di ardere e la fiamma si spense, Achille spianò la brace, vi posò sopra gli spiedi e, appoggiandoli sugli alari, cosparse il sale divino; terminò di arrostirla e la rovesciò su piatti di legno. Patroclo allora prese il pane e lo distribuì sulla mensa, dentro i canestri di vimini: Achille spartì la carne. In verità il tentativo di riappacificare i due litiganti fallirà. Ma la descrizione di Omero è suadente, lussuriosa mette l’acquolina in bocca. Anche nella celebre Odissea, scritta dallo stesso autore, troviamo nel terzo Libro (vv. 460-468) una magnifica procedura di cottura al fuoco di una vacca: le cosce ricoperte di grasso e avvolta dalle interiora, gli altri pezzi infilati negli spiedi. In entrambi i casi Omero, le cui opere risalgono all’VIII secolo avanti Cristo, considera il banchetto che include la cottura al fuoco come l’emblema del convivio, dell’ospitalità.

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Iliade, IX, 206-217


NOI E IL BARBECUE Voi come la pensate? La cottura al fuoco equivale alla formula “amicizia + condivisione + divertimento + bevute”? Siete soggetti al “richiamo della foresta” ogni tanto? O fate parte della famiglia dei “griller” cittadini iper tecnologici? Da parte mia, vorrei dedicare all’arte del barbecue molto più tempo, ma al momento non riesco; lavoro e famiglia assorbono gran parte del mio tempo, e la cottura al fuoco necessita di eliminare l’orologio e gli impegni. Ma appena posso mi dedico con piacere all’antica pratica, tanto che un paio di volte all’anno con una decina di amici, tutti uomini, ci regaliamo una giornata intera all’insegna della complice convivialità (senza figli, moglie, problemi di lavoro…); casa di campagna semidiroccata, fuoco, carne, birra, tanta birra.

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Il richiamo ancestrale lo abbiamo sentito quanto abbiamo provato a preparare la Cochinita Pibil, secondo il metodo Yucatan: cottura in una fossa

scavata nel terreno con fatica e sudore (era luglio!), con la carne di maiale adeguatamente ridotta a spezzatino, marinata, avvolta in foglie di banano e adagiate sulle braci, ottenute rigorosamente con legna raccolta in loco. Per aumentare l’effetto di affumicatura pensammo di coprire la buca con una cassa di legno trovata nella cantina dell’abitazione. In un momento di distrazione la copertura si incendiò creando delle fiamme non proprio semplici da gestire. Tutto finì al meglio, salvammo anche la carne che risultò commestibile e anche gradevole. Ma il brivido di domare il fuoco rimane immortale nella nostra memoria. Per questo credo che la dimensione del rito primordiale e conviviale sia una componente molto forte del fascino che il barbecue esercita. Forse è l'immagine di una dimensione solidale che da sempre accompagna la vita degli uomini. Il rito della sopravvivenza, del resto, non si celebra da soli.


The Chemical Griller a cura di Virgilio Brunetti

Ad ognuno la sua: quale padella scegliere e perché. UNA GUIDA COMPLETA SUI TIPI DI PADELLE ESISTENTI E I RISPETTIVI MATERIALI DI FABBRICA

Vi vedo, sapete? Vi vedo, con il vostro arsenale nella vostra bella cucina, così simile ad una versione gourmet della Batcaverna. So di non essere solo. Il sottoscritto è un fanatico di pentole, tegami e coltelli: letteralmente, li adoro. Posseggo diverse skillets in ghisa, un paio di lionesi in ferro pesante; addirittura del wok ne posseggo tre versioni: ghisa, acciaio e ferro blu. Passiamo ai tegami: ne ho in alluminio spesso, quelli di mia nonna, una casseruola in rame stagnato, ho addirittura una pesciera. La provenienza fa parecchio anche nel possedere pentolame, che pensate, che sia finita qui? Da buon salentino, posseggo nel mio arsenale le tradizionali pignate in ceramica per la cottura dei legumi al fuoco, le tajine, un paio di Duch oven in ghisa e una casseruola in ghisa vetrificata della storica ed iconica marca francese. Da qualche parte ho anche diversi pezzi in acciaio inox e alluminio teflonato. Ripercorrere la storia di tegami, pentolame, utensili vari può essere complicato. Ci proviamo insieme, anche perché ripercorrere questo tipo di storia significa praticamente passare in rassegna la storia dell’uomo da un certo punto in poi. In principio fu l’argilla. L’utilizzo

dell’argilla per realizzare dei contenitori in grado di contenere i cibi con la finalità sia di conservarli che di cucinarli risale all’epoca in cui l’uomo iniziò ad abbandonare la vita nomade e a vivere all’interno di villaggi. Ciò accade in un momento preciso della Preistoria ovvero, l’Età del Rame, periodo interme dio tra il Neolitico e l’Età del

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Sono sicuro che molti di voi sono dei grandi appassionati di cucina; alcuni tra voi sono anche professionisti, ma quanti – davvero – coltivano la una vera e propria ossessione per stoviglie e posate?


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Bronzo durante i quali l’uomo conobbe grandi e importanti trasformazioni sociali, tecnologiche ed economiche. La tecnologia del fuoco era già ad un livello sufficientemente avanzato, perché gli uomini quest’epoca potessero sviluppare la metallurgia ma anche i primi rilevanti esempi di cottura in contenitori dedicati forni: la cottura dei cibi diventa cucina. Lo sviluppo di tecniche metallurgiche più avanzate segnano i checkpoints fondamentali nello sviluppo della tecnologia umana nella preistoria. L’età del ferro è caratterizzata appunto dalla transizione bronzo e ferro nella produzione di utensili da lavoro, cucina e armi. La svolta fu data dalla capacità degli artigiani del metallo di fabbricare forni che sviluppavano temperature sufficientemente alte da fondere i minerali ferrosi ed ottenere una matrice a grezza, una sorta di spugna, che poi veniva successivamente battuta, purificata dalle scorie, forgiata e temprata per ottenere strumenti in acciaio. Ceramica, bronzo, ferro, rimangono per secoli i materiali più comuni per la fabbricazione di strumenti di cucina. Bisogna aspettare il rinascimento perché compaiano le pentole in rame, destinate a restare largamente in uso fino al XIX secolo. Nel 1700 si produssero anche esemplari in argento, evidentemente destinati alle cucine più ricche. Invece bisognerà aspettare addirittura la fine del 1800 perché l’alluminio diventi metallo disponibile mentre par la produzione di massa di oggetti comuni serviranno altri 40 anni. L’acciaio inox è un altro materiale iconico legato alla fabbricazione di pentolame; sebbene l’acciaio inossidabile sia già prodotto nei primi del Novecento, la produzione di massa di pentolame in questo materiale dovrà aspettare ancora qualche decennio. Pentole, padelle, t e g a m i casseruole hanno utilizzi e scopi ben precisi in cucina ma se parliamo di cotture da contatto, in assenza di acqua e

ad alta temperatura, il dispositivo più adatto sarà una skillet ovvero una padella con manico lungo con bordi medio-bassi. Ma perché scegliere un materiale piuttosto che un altro? Quali sono più adatti e performanti per la cottura ad alte temperature? La risposta più esauriente ci arriva da un articolo scientifico edito dalla rivista Food Studies: Thermodynamic Analysis of Skillet Materials Using Infrared Thermography: A Step toward a More Sustainable Food System. Gli autori, Ramsdell & Ramsdell, descrivono una serie di esperimenti realizzati mediante analisi di immagini in infrarosso ottenute con la tecnica termografia IR di otto diversi materiali comunemente utilizzati per la fabbricazione di padelle (skillets): ghisa nuova e antica, ghisa vetrificata, ferro pesante e leggero, alluminio, rame, acciaio inossidabile. Nello studio tali materiali vengono indagati comparando le caratteristiche di conducibilità, capacità termica ed emissività e la massa; questi risultati vengono ulteriormente


ACCIAIO Gli acciai usati per produrre pentole sono di solito acciai inossidabili, ovvero leghe cromo-nichel a cui sono aggiunti altri elementi come titanio e molibdeno al fine di migliorare la resistenza alla corrosione. L’acciaio inossidabile più conosciuto e usato è l’inox 18/10: questa sigla significa che contiene il 18% di cromo e il 10% di nichel. Le pentole d’acciaio sono adatte soprattutto per cotture che sfruttano l’acqua come mezzo di trasmissione del calore. Gli acciai inox sono caratterizzati da un’eccellente resistenza e durezza. Hanno però scarsa conduttività termica, che causa surriscaldamenti delle superfici a diretto contatto con la fiamma e la conseguente bruciatura del cibo.

ALLUMINIO L’alluminio è un metallo leggero con elevata conducibilità termica. Tanto più una pentola di alluminio è spessa, tanto più la sua qualità è elevata. Un elevato spessore infatti permette una distribuzione uniforme del calore e riduce la possibilità di formazione di punti di surriscaldamento. Inoltre, dato che l’alluminio si dilata quando è esposto ad alte temperature, l’elevato spessore impedisce al metallo di deformarsi, mantenendo invece un fondo planare. Da studi scientifici è emerso che l’alluminio è un metallo idoneo al contatto con gli alimenti; tuttavia è consigliato evitarne il contatto prolungato con cibi acidi o ricchi di sale a temperatura ambiente. Non è adatto al lavaggio in lavastoviglie e, come l’acciaio, ha lo svantaggio che il cibo tende ad aderire facilmente alle pareti delle pentole durante la cottura, bruciandosi. GHISA La ghisa è un materiale piuttosto economico che trattiene bene il calore, lo diffonde lentamente e lo distribuisce in modo uniforme con qualunque fonte di calore. Il pentolame fabbricato in ghisa viene ottenuto per stampaggio della ghisa stessa. Un dispositivo di cottura in ghisa per essere efficace deve essere spesso e di conseguenza pesante. Un’altra caratteristica di questa lega è che dura ma fragile inoltre si ossida abbastanza facilmente quindi richiede una manutenzione sistematica. La ghisa per sé non ha caratteristiche superficiali tali da essere antiaderente, deve essere preventivamente trattata con un processo detto seasoning che permette di depositare strati di grassi polimerizzarti che danno un buon effetto antiaderente ai cibi in cottura e passivano la superfice impedendo l’ossidazione. Il trattamento non è stabile va ripetuto ed è sensibile a sostanze acide. GHISA VETRIFICATA O SMALTATA Alcune famose aziende francesi vantano una ormai lunga ed esclusiva tecnologia per la vetrificazione della ghisa. I prodotti così trattati sono

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analizzati in base alle caratteristiche “non termiche” dei materiali quali costo, longevità, facilità d’uso, reattività del materiale. I risultati di questo studio non sono sorprendenti ma comunque invitano a riflettere su alcune comuni convinzioni rispetto ai materiali utilizzati per produrre pentolame, Prima di addentrarci ed analizzare i risultati di questo studio, vorrei passare in rassegna insieme a voi i principali


esteticamente molto gradevoli, alcuni tipi di smaltature sono veramente molto stabili, le differenze, l’affidabilità le potete apprezzare su un prodotto Staub o Le Creuset confrontato con uno simile comprato in IKEA. La qualità del trattamento superficiale determina il costo di questi dispositivi; tutte le smaltature patiscono sempre gli shock termici e meccanici, e possono sche ggiarsi esponendo la ghisa all’ossidazione. Il rivestimento non garantisce il potere antiaderente, ma ne facilita sicuramente la pulizia e le rende immuni a qualsiasi processo di ossidazione o altra aggressione chimica.

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FERRO Il ferro è un materiale economico con scarsa conducibilità termica, fattore che potrete capire sia determinante nella scelta di un utensile per la cottura. Il ferro, insieme alla ghisa, è il materiale migliore per ottenere una reazione di Maillard perfetta. Purtroppo al contatto con l’acqua arrugginisce molto facilmente e molto rapidamente. Le pentole in ferro come quelle in ghisa devono essere pretrattate al fine di ottenere un seasoning superficiale di olii polimerizzati che proteggono il metallo dall’ossidazione e gli danno buone caratteristiche di antiaderenza. Le skillets in ferro pesante sono chiamate generalmente pentole lionesi ma a rafforzare il loro legame con la cucina d’oltralpe partecipa anche uno storico produttore sinonimo stesso di pentola in ferro ovvero De Buyer. RAME Il rame è il miglior conduttore termico dopo l’argento e questa caratteristica lo rende il metallo più nobile per la realizzazione di tutte le stoviglie da cucina. Tuttavia è un materiale molto costoso e, come per la ghisa, gli utensili realizzati con questo metallo sono pesanti e poco maneggevoli. Non è idoneo al contatto con gli alimenti e di solito viene ricoperto

internamente con uno strato di stagno: le pentole così ottenute sono molto durature nel tempo, oltre ad avere un bellissimo effetto visivo. FINALMENTE, LO STUDIO Ritorniamo allo studio di cui prima: dopo le doverose premesse, ora avrete sicuramente più facilità nel capirlo. Lo studio di Ramsdell & Ramsdell mediante indagine termografica IR rivela come quasi in tutti i casi ghisa e ferro siano i materiali migliori per le cotture da contatto

mentre gli altri si prestano bene a cotture più generiche ed in presenza di acqua. Ovviamente l’analisi suggerisce come lo spessore delle padelle e la finitura superficiale siano fattori determinanti della qualità dei dispositivi. Se vi state chiedendo se sia meglio il ferro o la ghisa, gli autori fanno una logica deduzione. Osservano infatti come skillets del diametro di 24 cm iniziano ad essere piuttosto pesanti e con diametri superiori diventano assolutamente scomode. Secondo l’analisi termografica, il ferro avere performance non migliori ma simili alla ghisa tuttavia ha maggiore leggerezza e quindi migliore maneggiabilità. Inoltre, dovrete comunque utilizzare una deposizione strato su strato di grassi polimerizzati… tradotto, il vostro seasoning. Ciò non esclude, comunque, la manutenzione certosina degli utensili a vostra disposizione. Questa è una condizione necessaria innanzitutto per sfruttare a meglio la “mercanzia” in dotazione, nonché di mantenerla quanto più a lungo possibile. Pronti a spadellare come se non ci fosse un domani? Via!


Se son

CIPOLLE ...fioriranno

A noi, non fanno mica piangere!

Bloomin’Onion è proprio il nome della ricetta che stiamo per presentarvi e che, ne siamo sicuri, molte donne preferiranno alle rose. Almeno, le donne dotate di buon gusto. Questa ricetta viene anche chiamata Awesome Blossom a seconda del ristorante o della città statunitense che la ospita e la cucina. Conosciamo anche l’inventore di questa preparazione: si tratta di Tim Gannon, ovvero uno dei quattro fondatori dell’Outback Steakhouse, il cui primo locale è stato aperto nel sud della Florida nella seconda metà degli anni ‘80. Nato e cresciuto a Fort Lauderdale (città dove risiede la nostra Elena Ninotti, colei che cura la rubrica Across the Pond che potete leggere più avanti, ndr), Gannon ha inventato prima la ricetta per la Bloomin ’Onion e poi è stato tra i co-fondatori dell’Outback Steakhouse a Tampa nel 1988. Questo delizioso fiore di cipolla fritta è una ricetta gustosa, a basso costo, goduriosa e sorprendente.

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Se qualcuno ruba un fiore per te, sotto sotto c’è… I più nostalgici ricorderanno bene questo spot pubblicitario degli anni ‘80 di un noto deodorante, dove la signora in questione si vedeva recapitare una rosa da un ragazzotto che l’aveva rubata per lei, inebriato dal suo profumo dopo averla incrociata per caso. Ebbene, è ora di superare questo banale stereotipo secondo il quale la donna si scioglie per una rosellina. Andiamo oltre, pur restando sul floreale: regalate (o regalatevi) un fiore… sì, ma di cipolla!


Ha avuto fin da subito, insomma, tutte le caratteristiche per avere un glorioso successo; ed infatti così è stato. Per tanto tempo questo piatto è stato uno dei più grandi misteri della vita (un po’ come il Triangolo delle Bermuda o chi ha ucciso Laura Palmer?), che ha tenuto col fiato sospeso milioni di persone. Per anni, il processo alla base della creazione di questo antipasto è stato tenuto segreto al pubblico e, quindi, le domande senza risposta su come prepararselo in casa erano più o meno all’ordine del giorno. Il primo Fiore è stato servito per la prima volta nel ristorante principale di Tampa; oggi, uno su quattro antipasti ordinati all'Outback è il Bloomin’Onion. Le colossali cipolle fritte erano originariamente tagliate a mano, ma ora una macchina speciale chiamata Gloria viene utilizzata per trasformarle in modo efficiente in bellissime fioriture con più di 200 petali. Grazie a Gloria, milioni e milioni di fiori sono stati serviti nei ristoranti Outback, nonostante il fatto che nel 2008 Men's Health lo abbia definito il Peggior Antipasto d’America, poiché un singolo fiore di cipolla con condimento contiene circa 1954 calorie. Insomma, chiamarlo antipasto è coraggioso, in effetti. Se riuscirete a mangiare qualcosa dopo, sappiatelo: sarete i nostri eroi. In realtà i nostri fiori saranno più piccoli rispetto al mastodontico originale. Diciamo che faremo dei fiorellini, quindi si ridurranno le calorie. Il che he vi permetterà di consumarle o di offrirle ai vostri ospiti con meno sensi di colpa. Scegliete delle cipolle ramate di grandi dimensioni: questo vi faciliterà il compito nel tagliare gli spicchi e ne favorirà lo stacco dei petali, che ognuno poi andrà a pucciare nella salsa di accompagnamento.

INGREDIENTI 4 persone

per la salsa di accompagnamento 2 cucchiai di maionese 1 cucchiaio di ketchup mezzo cucchiaino di paprika mezzo cucchiaino di sale mezzo cucchiaino di origano un pizzico di pepe nero macinato un pizzico di peperoncino di Cayenna per la pastella un uovo mezzo bicchiere di latte mezzo bicchiere di birra per le cipolle 4 cipolle ramate grandi olio di semi di arachidi per friggere q.b. 5/6 cucchiai di farina 00 un cucchiaio di pangrattato mezzo cucchiaio di sale mezzo cucchiaino di peperoncino di Cayenna mezzo cucchiaino di paprika mezzo cucchiaino di pepe nero mezzo cucchiaino di origano mezzo cucchiaino di cumino

Bene, armatevi dunque di un coltello affilato, di una friggitrice e di una buona birra, ma anche due: una per l'attesa e una per degustare i vostri fiori.

mezzo cucchiaino di timo un cucchiaino di Montreal Steak

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PREPARAZIONE 1.

Mescolate bene tutti gli ingredienti formando la salsa; mantenetela poi coperta in frigorifero fino al servizio.

2.

Formate la pastella sbattendo le uova, per poi unirle con un frustino insieme alla birra e al latte.

3.

Mescolate bene anche tutti gli ingredienti per l’infarinatura.

4.

Prendete la cipolla, tagliate la parte superiore per un paio di centimetri e rimuovete la buccia esterna; tagliate appena appena la parte inferiore.

5.

Con un coltello molto affilato, affettate la cipolla più volte al centro per creare i petali, senza andare fino in fondo (prima 4 tagli, poi altri 4 facendo attenzione con questi ultimi, in modo da ottenere 16 fette). A questo punto con una leggera pressione aprite i petali.

6.

Mettete a bollire dell’acqua in una casseruola, e in un’altra vicina mettete acqua ghiacciata: immergere la cipolla per circa 1-2 minuti nell’acqua bollente e poi subito in quella ghiacciata, in questo modo i petali resteranno separati.

7.

Immergere per bene la cipolla nel composto di uovo, latte e birra e poi nella ciotola con la farina e spezie, poi ripetete il procedimento. Mettete a scaldare l’olio fino ad una temperatura di 175°C assicurandosi di usarne abbastanza da ricoprire l’intera cipolla. Friggete per 10 minuti o finché quest’ultima non risulterà dorata. Appoggiatela su carta assorbente.

8.

Servite con la salsa di accompagnamento in modo da immergervi leggermente la punta dei petali e gustarsi questa preparazione, di sicuro effetto, in compagnia. E tutti vissero felici e contenti, profumati con fiorellini di cipolla.


257 - BBQ4All Magazine


Bionda! Sei una bomba!

BBQ BACON WRAPPED

ONION BOMB

Facciamo un esperimento insieme, vi va? Chiudete gli occhi. Immaginate una cosa gastronomicamente lussuriosa. Anzi, facciamo così: vi do un suggerimento. Immaginate una grande polpetta. Una lussuriosa polpetta di formaggio. Immaginate questa polpetta ripiena di formaggio racchiusa in una cipolla. Come? Sì, in una cipolla. E poi immaginate la polpetta nella cipolla avvolta da pancetta. E poi, ancora, immaginate il tutto spennellato con salsa barbecue. Sì: è una delle cose più laide e goduriose che avrete l’opportunità di mangiare. Ma perché limitarsi solo a immaginarle, quando possiamo cucinarle e, soprattutto, mangiarle? Stiamo parlando di un appetizer perfetto, facile da realizzare e talmente apprezzato che non si corre davvero il rischio di vederlo avanzare sul tavolo. Inoltre, state sicuri che intratterrà i vostri ospiti durante le lunghe cotture al bbq. Immaginate di avere un pulled pork da terminare: non vi staranno inutilmente intorno, saranno troppo presi da queste bombe. Niente più zombie affamati a darvi fastidio. Un fantastico gioco di consistenze: l’esterno glassato e croccante lascia spazio ad un cuore grondante di formaggio cheddar.

258 - Almanacco 2021

A farla da padrone nella scelta della materia prima sono sicuramente i burger Blue Ox USA Black Angus del nostro Megastore, che contengono il giusto bilanciamento tra parte grassa e parta magra in modo da garantire un risultato praticamente perfetto. Il guscio della cipolla dorata, in cottura, ci regalerà delle note dolci e rotonde che andranno ad equalizzare il sapido del bacon e del cheddar. Nulla vieta, nel caso non ne troviate una tipologia di buona qualità, di sostituire il cheddar con un buon formaggio a pasta dura e con carattere deciso. Pensate di prepararne, che so, dieci? Fate venti, ad occhi chiusi: è un finger food che va via come caramelle.


INGREDIENTI 4 persone

per 18-20 onion bomb 800 g di Burger Blue Ox USA Black Angus 100 g di pane grattugiato un uovo 100 g di salsa barbecue 20 g di senape di Digione 2 cucchiaini di Sal’s Seasoning Ultimate SPOG Salsa worchester q.b. 150 g di cheddar 20 fettine di bacon 2-3 cipolle dorate.b. per la salsa barbecue: 100 g di ketchup 100 g di aceto di mele 30 g di zucchero di canna un cucchiaio di salsa worchestershire mezzo cucchiaio di peperoncino mezzo cucchiaio di cumino mezzo cucchiaino di sale mezzo cucchiaino di pepe nero

259 - BBQ4All Magazine

25 g di miele, marmellata o sciroppo d’acero


260 - Almanacco 2021

PREPARAZIONE 1.

Mescolate tutti gli ingredienti in un una pentola (tranne la marmellata o lo sciroppo o il miele) e fate cuocere giusto il tempo di farli amalgamare bene.

2.

Spegnete il fuoco e aggiungete la parte sciropposa scelta. È ideale farla riposare almeno un giorno in frigo così da dare il tempo giusto per la maturazione.

3.

In una bowl capiente amalgamate gli hamburger con l’uovo, il pangrattato, 30 g di salsa barbecue, la senape, lo SPOG e la salsa Worchester. Impastate fino a che il composto non risulti omogeneo e sodo.

4.

Porzionate l’impasto in quenelle da 30/40 g circa e farcite ogni porzione con un cubetto di cheddar. Per dare la forma al meglio, fate roteare l’impasto fino a dargli una forma tondeggiante.

5.

Pulite le cipolle, mettete da parte la testa e la parte inferiore e separare gli strati avendo cura di mantenere ogni falda il più integra possibile. Per farlo, praticate un taglio in maniera longitudinale alla cipolla fino a meta. Gli strati esterni molto grandi andranno ritagliati e modellati per contenere la porzione, quelli intermedi saranno praticamente già pronti mentre quelli più interni si potranno riutilizzare per un’altra ricetta.

6.

Inserite ogni porzione nella falda di cipolla, come fosse un guscio sferico, e avvolgete quest’ultima nel bacon sia in senso trasversale che longitudinale.

7.

Fermate con uno stuzzicadenti la fetta di bacon, in maniera tale che rimanga in forma durante la cottura.

8.

Stabilizzare il vostro dispositivo sui 160°C/170°C e predisponetelo per una cottura indiretta.

9.

Volendo si può scegliere di affumicare le polpette con essenze come ciliegio o melo, a coperchio chiuso ovviamente.

10. Appena il bacon sarà diventato croccante, spennellate ogni bombetta con la restante salsa barbecue e cuocete fino ai 70°C/72°C. 11. Gustatele super calde e ancora filanti.


GAMJA-HOTDOG da oggi gli farete la festa!

Il gamja-hotdog, con il suo Korean Sounding, è molto diffuso a Koreatown, Los Angeles, sia tra i coreani che tra gli americani. Sul nostro Magazine troverete la ricetta infallibile per i Gamja-hotdog. Da oggi, i vostri bambini li ameranno e anche gli adulti si faranno conquistare facilmente dalla bontà di questa preparazione. Ma come diamine si mangiano queste diavolerie iper caloriche, irrinunciabili? Generalmente, in Corea, vengono serviti con dello zucchero (si,avete capito bene, zucchero semolato), col ketchup – di solito usato come principale condimento - e con senape gialla, come succede con i classici hot dog. Noi abbineremo invece due salse un po’ diverse, perché come sempre vogliamo elaborare ogni ricetta a modo nostro: faremo una maionese allo scalogno fritto e un ketchup… sì, ma piccante. Alla morbidezza del würstel e della pastella si contrappone l’involucro croccante di patatine fritte e pangrattato, da abbinare ad un bancale della vostra birra ghiacciata preferita. Relax totale. Potete sostituire il pangrattato con il panko o insaporirlo con semi e spezie di vostro gradimento (magari scegliendo qualche rub piccante della linea Sal’s Seasoning). Sono perfetti da gustare davanti alla tv sul divano, guardando una partita tra amici o il vostro film preferito.

INGREDIENTI per 12 gamja-hotdog

6 würstel Franks BLUE OX 2 patate 400 g di farina 00 350 g di acqua un cucchiaino di lievito secco 300 g di pangrattato (o pane panko) sale q.b 1 l di olio di semi di arachidi Per la maionese allo scalogno fritto: 20 g di scalogno 100 g di olio di semi di girasole 24 g di succo di limone un uovo sale q.b. pepe bianco q.b. Per il ketchup al chipotle: 150 g ketchup un peperoncino chipotle acqua calda q.b. sale q.b. pepe nero q.b.

261 - BBQ4All Magazine

Ogni street food che si rispetti deve onorare senza alcun dubbio tre parametri fondamentali: deve essere grasso, deve essere ciccioso e deve indurre una salivazione incontrollata. Oggi vogliamo presentarvi il re del cibo di strada coreano: se il corn dog vi era sembrato già abbastanza calorico, questo farà fare un triplo salto mortale sulla sedia al vostro dietologo. E forse anche al cardiologo. Stiamo parlando di un würstel avvolto da una pastella croccante fatta di patatine fritte! In coreano lo chiamano Gamja-hotdog, ed è simile alla versione americana ma senza la pastella di farina di mais. I venditori ambulanti della Corea vendono molti tipi di hot dog da passeggio. Alcuni di loro hanno il formaggio all'interno, alcuni hanno sia il würstel che il formaggio, alcune varianti possono anche essere avvolte con bacon, purè di patate o alghe, ma questa versione ha piccoli pezzi di patate incorporati nella pastella.


PREPARAZIONE 1.

Il giorno prima preparate le salse, così da avere il tempo di farle maturare in frigo.

2.

Per la maionese allo scalogno fritto mettete l’olio e lo scalogno a julienne in un pentolino e portatelo a 80°C/90°C per circa 20 minuti.

3.

Alzate la temperatura a 110°C/120°C e cuocete fino a che lo scalogno non risulti dorato e croccante.

4.

Scolate su carta assorbente e tenete da parte l’olio, che una volta freddo verrà usato per montare la maionese.

5.

Nel bicchiere di un mixer a immersione unite l’uovo, lo scalogno fritto, il sale e il pepe. Frullate fino a dissolvere lo scalogno e montate aggiungendo l’olio a filo.

6.

Una volta ottenuta una maionese soda e compatta, aggiungete il succo di limone e aggiustare di sale e pepe.

7.

Per il ketchup al peperoncino chipotle reidratate in acqua calda il peperoncino, poi strizzatelo e frullatelo con il ketchup prima di aggiustare di sale e pepe.

8.

Preparate la pastella per gli hot dog in una bowl mescolando la farina, l’acqua tiepida, il lievito e il sale e lasciate riposare fino al raddoppio del volume.

9.

Tagliate le patate in cubetti di 1 cm per lato e sbianchitele per circa 2/3 minuti. Scolatele, asciugatele e cospargetele di farina.

10. In un vassoio capiente sistemate in ordine da sinistra verso destra il contenitore con la pastella, le patate tagliate a cubetti e infine il pangrattato, così sarà più agevole e veloce il processo di panatura.

262 - Almanacco 2021

11. Al raddoppio della pastella intingete ogni würstel Franks Blue Ox, tagliato a metà e infilzato con uno spiedino in bambù, nella pastella. Passatelo poi velocemente nelle patate e infine nel pane, avendo cura di pressare per bene così da sigillare l’hot dog. 12. Friggete in olio abbondante a 160°C/170° C per circa 7/8 minuti. La pastella deve avere il tempo giusto per cuocersi e prendere una doratura omogenea. 13. Servite caldissimi.


263 - BBQ4All Magazine


Piovono polpette... sulla

PASTA 'NCASCIATA a modo nostro.

“L’acqua bolliva, calò la pasta. Squillò il telefono, ebbe un momento d’esitazione, incerto se rispondere o no. Temeva una telefonata lunga, che magari non era facilmente troncabile e che avrebbe messo a rischio il punto giusto di cottura della pasta. Sarebbe stata una catastrofe sprecare la salsa corallina con un piatto di pasta scotta. Decise di non rispondere. Anzi, per evitare che gli squilli gli turbassero la serenità di spirito indispensabile per gustare a fondo la salsetta, staccò la spina.”

264 - Almanacco 2021

Così il maestro Camilleri descriveva in uno dei suoi libri il viscerale amore del commissario Montalbano per il cibo. Un momento di privacy e di intimità che non andava turbato per non rovinare il risultato finale. Negli anni, e nel corso delle sue innumerevoli avventure, il commissario Montalbano ci ha permesso di conoscere più a fondo la Sicilia. Ci ha fatto innamorare dei paesaggi mozzafiato descritti, ci ha permesso di comprendere più a fondo la sicilianità; ovviamente, ci ha ingolosito con gli innumerevoli manicaretti che questa terra ha da offrire. Tra le pietanze più citate e amate dal commissario è doveroso citare le arancine, il falso magro, la caponata. Tutti piatti che i lettori più affezionati del magazine ormai conoscono e che sapranno cucinare magistralmente. Una pietanza che però non è ancora stata citata dalla redazione del Magazine, molto amata dai redattori tutti (è dal nostro commissario preferito) è la pasta ‘ncasciata (o ‘ncaciata). Si tratta del piatto che la fedele Adelina prepara al commissario in occasione della grandi feste. La pietanza nasce infatti come preparazione della domenica, o delle feste in generale. In particolare, nel messinese, si suole cucinarlo per ferragosto. Il nome, quantomeno particolare, sembrerebbe avere due possibili origini. Una prima teoria afferma che derivi dal tegame che veniva usato per cuocerla. Questa pentola in terracotta veniva posta sulle braci e fatta cuocere sul fuoco vivo. Quindi il nome ‘ncasciata sarebbe traducibile abbrustolita, bruciacchiata all’interno del tegame. Una seconda teoria invece deriverebbe dalla presenza del caciocavallo: la presenza del cacio avrebbe portato all’utilizzo del termine ‘ncaciata.

Nessuna delle due teorie ha reali fondamenti storici, però entrambe mettono in evidenza due importanti criteri sulla preparazione: la pasta deve essere cotta in un tegame, che sia su braci o in forno poco cambia ed è importante che è che sia ben abbrustolita. In tempi più antichi infatti si era soliti utilizzare il forno a legna in cui precedentemente era stato cotto il pane. L’altro importantissimo dettaglio è l’utilizzo del caciocavallo. Parmigiano e grana sono arrivati solamente con il finire del secolo scorso. Fra le numerose varianti d’altronde abbiamo ormai imparato a capire quanto sia difficile parlare di una vera, sola e unica versione delle ricette, specie se siciliane, specie se presentano tanti ingredienti come questa- la messinese in passato prevedeva un ragù preparato con polpettine di manzo, pollo e fegatini. Con il sugo si condiva la pasta e i pezzi di carne venivano serviti a parte come secondo piatto. Oggi a Messina la pasta ‘ncasciata si condisce rigorosamente con un ragù di carne. Noi ci siamo presi qualche libertà e, intraprendenti e un po’ incoscienti come siamo, abbiamo pensato di farla a modo nostro, ispirandoci alla versione messinese e creando un ragù di polpette per condire la nostra pasta al forno, affumicandola anche un po’ nel kettle. Al posto quindi del salame e del prosciutto cotto, sulla nostra pasta goduriosa sono piovute deliziose polpettine al sugo. Non ci resta che darvi la ricetta della pasta ‘ncasciata… sì, ma a modo nostro.


265 - BBQ4All Magazine


PREPARAZIONE 1.

Preparate il ragù di polpette: mescolate insieme i due macinati e la salsiccia, aggiungete un uovo, il Parmigiano, sale e pepe, e due spicchi d’aglio tritati finemente. Formate delle polpettine grosse quanto una noce e poi friggetele in olio extravergine di oliva, toglietele dal fuoco e lasciatele scolare.

2.

Nello stesso olio dove avete fritto le polpette mette a soffriggere sedano, carota e cipolla tritati finemente, poi aggiungete la passata di pomodoro, il sale, il pepe, qualche foglia di basilico anch’essa tritata, e lasciate andare il sugo per qualche minuto.

3.

Aggiungete a questo punto le polpettine, chiudete con un coperchio e lasciate cuocere a fuoco lento per un’oretta circa, finché il sugo non sarà ben rappreso.

4.

Mondate la melanzana e tagliatela a tocchetti non troppo piccoli. Metteteli in uno scolapasta e cospargeteli con sale grosso. Lasciateli riposare per 1 ora perché perdano l’acqua di vegetazione.

5.

Nel frattempo preparate le uova sode e quando saranno tiepide sgusciatele e tagliatele a pezzi.

6.

Trascorsa l’ora di riposo sciacquate brevemente le melanzane, strizzatele bene e tamponatele con carta da cucina. Infarinatele leggermente e friggetele in padella fino a quando non saranno belle dorate. Scolatele bene e trasferitele su un piatto ricoperto con carta da cucina per eliminare l’unto in eccesso. Tenetele da parte.

7. 8.

9.

7. Cuocete la pasta in acqua bollente salata portandola a metà cottura. Scolatela e trasferitela in una ciotola. Aggiungete il ragù di polpette nella ciotola con la pasta. Mescolate bene e unite le melanzane fritte, quindi il caciocavallo a dadini. Aggiungete anche le uova sode a pezzetti e amalgamate. Condite il tutto con un po’ di olio extravergine di oliva. Accendete una ciminiera di carbone e settate il vostro dispositivo per una cottura indiretta a 180°C

266 - Almanacco 2021

10. Ungete una pirofila e cospargetela di pangrattato. Distribuitevi all’interno la pasta, cospargete con altro pangrattato e con il pecorino grattugiato. 11. Cuocete ora nel kettle per 20-25 minuti affumicando con qualche petalo di legno aromatico, se vi aggrada. 12. Lasciate riposare qualche minuto per fare assestare la pasta, quindi servite

INGREDIENTI 4 persone

Per il ragù di polpette: 250 g di macinato di manzo 250 g di macinato di maiale 50 g di Parmigiano Reggiano grattugiato un uovo una salsiccia un gambo di sedano mezza cipolla mezza carota uno spicchio d’aglio qualche foglia di basilico 500 g di passata di pomodoro olio extravergine di oliva q.b. sale e pepe q.b. Per la pasta al forno: 400 g di pasta, formato corto una melanzana grossa olio di semi di arachide q.b. farina q.b. pangrattato q.b. 200 g di caciocavallo 2 uova 100 g di pecorino grattugiato olio extravergine di oliva q.b.


267 - BBQ4All Magazine


SPICY GRILLED BBQ PORK

Tutto quello che dovete sapere sulle nostre braciole con alto tasso erotico! a cura di Michela Bongiorni Quanti nomi abbiamo per descrivere queste belle fette di maiale con osso? Bistecche, bistecchine, braciole, bracioline o anche costatelle. Sulle tavole degli italiani, da Nord a Sud, quasi ogni famiglia la chiama in un modo differente. … ed ogni grigliatore alle prime armi almeno una volta l’ha cotta in maniera deludente: ed eccoci nel piatto letteralmente delle lamiere dure, stoppacciose, bruciacchiate o ancora prive di carattere, grigiastre e senza attrattiva.

268 - Almanacco 2021

Sappiamo tutti che, quando si parla di cuocere la carne alla maniera classica sulla griglia, il maiale non possa essere servito al sangue, ma nemmeno rosato, perché è fortemente sconsigliato dal punto di vista della sicurezza alimentare. E noi alla sicurezza alimentare ci teniamo tantissimo, viene prima di tutto il resto. La carne di maiale deve essere servita ad almeno 73°C al cuore, consigliano le linee guida dell’Istituto Superiore di Sanità. Cosa significa 73°C al cuore? Questo, purtroppo, si traduce spesso in una braciola ben cotta e dura sotto i denti, senza crosticina e asciutta. Come avete letto sul numero di Luglio 2020 del Magazine, la temperatura ideale affinché una bistecca di maiale sia morbida e succulenta, ma comunque cotta, è di circa 60°C. Beh, allora come conciliamo la sicurezza alimentare al gusto? La ricetta scientifica dello Zio vi illustra tutti i passaggi necessari per essere sazi ed in salute. Noi oggi passeremo per una via più “facile”, e sicuramente meno scientifica, ma che garantisce un buon risultato: prepareremo una marinatura che ci consentirà di ammorbidire la ciccia e successivamente, dato che ottenere una buona reazione di Maillard con la carne di maiale è più difficile perché povera di zuccheri riducenti, faremo un po’ i furbi e andremo ad inumidire con la stessa marinatura le nostre bracioline rendendole belle da vedere, saporite ed anche un po’ piccantine.

Forse i puristi storceranno un po’ il nasino perché, anche in questo caso come spesso avviene con le bistecche di manzo, faremo una cottura combinata fra forno e griglia, ma è un passaggio necessario: i bimbi buoni che seguiranno le indicazioni senza fiatare si troveranno a mordere una ciccia paradisiaca. E i cattivi? Che perdano pure i denti a cercare di masticare il MordiMordiCheMaiSiConsuma (semicit.) Per gli ipocondriaci, però, voglio riassumere ciò che lo Zio ha scritto nel suo articolo sul Magazine di luglio 2020: è vero che le linee guida sulla sicurezza alimentare consigliano di cuocere la carne di maiale ad alte temperature perché potenzialmente contaminata da Trichinella spiralis, ma negli ultimi anni i vari miglioramenti nell’allevamento e nella successiva lavorazione della carne suina nei Paesi sviluppati hanno praticamente eliminato la contaminazione dal maledetto verme cilindrico; inoltre, la maggior parte della carne in commercio viene abbattuta per uccidere il parassita, che comunque si elimina facilmente cuocendo la carne per un periodo relativamente lungo a bassa temperatura. Insomma, fidatevi. Piuttosto, preoccupatevi di resistere voi alle alte temperature… quelle date dalla piccantezza dei condimenti. Abbiamo scelto come accompagnamento una preparazione tunisina, la salsa harissa. Di solito viene utilizzata soprattutto per accompagnare piatti come il kebab o il cous cous. Il nome deriva dall’arabo harasa che significa pestare, ridurre in poltiglia. L’harissa è a base di peperone rosso e peperoncino, aromatizzata con spezie come aglio, cumino e coriandolo. Può essere più o meno piccante a seconda della quantità dei peperoncini utilizzati. Noi le daremo anche una nota affumicata perché utilizzeremo dei peperoni cotti in ember roasting. Poi, dato che non ci accontentiamo, useremo anche


269 - BBQ4All Magazine


uno dei Rub piccanti della linea Sal’s Seasoning per condire le nostre bistecche e… farvi letteralmente andare a fuoco. Scaldate le griglie, ragazze e ragazzi: prepariamo insieme queste braciole vietate ai minori.

INGREDIENTI 4 persone

4 braciole di maiale con osso sale e pepe q.b. prezzemolo tritato q.b. Sal’s Seasoning Ancho Habanero Chili MEX a piacere per la marinata: 300 g di salsa bbq il succo di un limone due cucchiai di olio extravergine d’oliva un cucchiaino di salsa Worcester per la salsa Harissa: 2 peperoni rossi un cucchiaino di semi di coriandolo un cucchiaino di semi di cumino un cucchiaino di semi di finocchio 3 cucchiai di olio d'oliva mezza cipolla rossa 4 spicchi d'aglio 5 cucchiai di succo di limone spremuto 5 peperoncini rossi piccanti passati al mortaio un cucchiaio di concentrato di pomodoro

270 - Almanacco 2021

sale q.b.


1.

2.

3.

4.

5.

6.

7.

Il giorno prima: predisponete il vostro dispositivo per una cottura a contatto diretto con le braci, e posizionate i peperoni sul carbone, girandoli dall’altra parte dopo qualche minuto. Non servirà molto tempo prima che si ammorbidiscano e la buccia si annerisca. Chiudete i peperoni ancora caldi in un sacchetto di plastica per alimenti dove per effetto del vapore la buccia bruciata si staccherà automaticamente in 10 minuti, dopodiché spellateli eliminando i semi, tagliateli a listarelle e teneteli da parte. In una padella tostate i semi di coriandolo, di cumino e di finocchio per qualche minuto, poi trasferiteli in un macinino per spezie o in un mortaio e polverizzateli (per saltare questo passaggio, potete usare già le spezie in polvere). Soffriggete la cipolla, l’aglio e il peperoncino a pezzetti con un cucchiaio di olio extravergine d’oliva e lasciate andare finché tutto non sarà perfettamente morbido e dorato. Aggiungete infine il concentrato di pomodoro e aggiustate di sale. Trasferite tutti gli ingredienti, peperoni compresi, in un mixer e frullateli tutti insieme, aggiungendo l’olio a filo. Aggiustate eventualmente di sale, poi ponete la salsa in frigo per farla riposare bene. Sempre il giorno prima, preparate la marinata mescolando insieme la salsa bbq, il succo del limone, la salsa Worcester e l’olio. Poi tenetene da parte due cucchiai e nel resto della marinata immergete le braciole di maiale, chiuse in un contenitore che metterete in frigo per l’intera notte. Il giorno successivo, togliete le braciole dal frigo, asciugatele un po’ dall’eccesso di marinata e ponetele in forno ventilato a circa 60°C per almeno due ore. Devono asciugarsi ma non cuocere. Una volta trascorso questo tempo, predisponete il vostro dispositivo per una cottura diretta, attendete che la griglia sia ben calda e poi spennellate le braciole con un po’ di marinata che vi eravate tenuti da parte. Cauterizzate a questo punto le vostre braciole, facendo attenzione a non stracuocerle (al cuore non dovrebbero superare i 62°C). Togliete le braciole dalla griglia, spolverizzatele con un po’ di sale e di rub Ancho Habanero Chili MEX a piacere; se volete anche un po’ di prezzemolo tritato. Servitele calde insieme alla salsa harissa.

271 - BBQ4All Magazine

Preparazione:


ALLA SALSICCIA

NON SI DICE MAI DI NO!

... e se c'è qualcuno che sostiene il contrario: NON-FIDATEVI! Vi ricordate qual è la prima regola del GLC Club? Esatto, sappiamo che siete preparati: mai bucare le salsicce. La cosa è ormai talmente nota che è perfino nato un neologismo per identificare il griller inesperto, definito spesso bucasalsicce da quelli più scafati. Confidiamo che in pochi anni possa entrare nel dizionario Devoto Oli. Probabilmente, è destino che in questo numero venga messa a dura prova la pazienza dello Zio, perché anche in questo caso, come in quello dell’hamburger che troverete a qualche pagina di distanza andremo, ahimè, a sbudellare le salsicce come se non ci fosse un domani. Ma anche in questo caso esiste una spiegazione ragionevole. Zio, perdonaci. Ne varrà la pena.

272 - Almanacco 2021

Per questa ricetta utilizzeremo l’impasto di vari tipi di salsicce; come sapete, ogni regione d’Italia ne ha almeno un paio di tipologie, ma la nostra scelta è ricaduta su due: una con un impasto fresco e l’altra con uno stagionato e affumicato, in modo da conferire al nostro piatto un sapore forte e allo stesso tempo succulento. Chiaramente, potete benissimo associare anche un impasto piccante, utilizzando ad esempio le Chorizo Pork Sausages del BBQ4ALL Megastore. Tecnicamente, quindi, non possiamo definirci bucasalsicce, perché di fatto non le bucheremo, ma le useremo per creare un impasto da cuocere in crosta. Questo è un secondo piatto che non rivela subito il suo contenuto peccaminoso, poiché avvolto dalla friabile pasta sfoglia. Si può preparare anche in forno, ma dato che vogliamo togliere un po’ di polvere accumulata nel nostro dispositivo

durante il lungo Inverno, noi la prepareremo accendendo il carbone, magari aggiungendo una nota di affumicatura di legno di faggio. La temperatura al cuore dell’impasto che andremo a cuocere è sempre quella di 82°C e la preparazione non ci porterà via tanto tempo, poiché il settaggio del kettle sarà su una temperatura decisamente elevata, sui 220°C. Il nostro obiettivo è quello di ottenere un panetto croccante, rifinito con dei semi di sesamo, al cui interno scopriremo il gustoso e inebriante ripieno. Il profumo avvolgerà letteralmente tutti coloro che si siederanno alla vostra tavola e, fetta dopo fetta, nel piatto di servizio resteranno solo le briciole. All’interno non può mancare un bel po’ di cipolla tritata, parecchio formaggio e un mix di spezie che conferiranno un sapore davvero strong. La salsa di accompagnamento donerà al piatto una nota agrodolce: useremo infatti una salsa chutney agli agrumi. Si tratta di una salsa (di solito piccante) dalla consistenza densa usata come condimento nella cucina indiana e pakistana. Il cui nome deriva dal verbo indiano catna, lett. leccare. Ne esistono moltissime tipologie, a seconda del mix di spezie, frutta e/o ortaggi che si usano. Può essere dolce o salata, a base di yogurt, limone o aceto. Molto diffusa è quella fatta col mango, ma si può preparare con molti altri ingredienti diversi, dalle mele alle albicocche, dalla menta al cocco. La versione agli agrumi si sposa benissimo con la grassezza dell’impasto contenuto nelle nostre sfoglie. Andiamo a vedere come si prepara questo delizioso e rifocillante secondo piatto.


273 - BBQ4All Magazine


274 - Almanacco 2021


1.

2.

INGREDIENTI 4 persone

per il ripieno 500 g di impasto di salsiccia (metà affumicata a freddo/ metà fresca) mezza cipolla grande o una piccola

3.

un cucchiaino di Timo mezzo cucchiaino di Sal’s Seasoning Montreal Steak Rub

4.

mezzo cucchiaino di Sal’s Seasoning Smoky Chipotle Chili mezzo cucchiaino di Sal’s Seasoning Memphis Dry Rub un cucchiaio di Grana Padano grattugiato

5.

per la salsa chutney: 500 g di mandarini cinesi 500 g di zucchero

6.

mezzo l di acqua un cucchiaino di peperoncino piccante essiccato mezzo bicchiere di vino nero per completare

7.

un rotolo di pasta sfoglia un tuorlo d’uovo mezzo cucchiaio di semi di sesamo un cucchiaino di senape.

8.

9.

Tagliate a spicchi i mandarini cinesi e metteteli a bagno in acqua, facendo il ricambio con acqua fresca per due o tre volte (togliendo in questo modo il sapore troppo amaro dagli agrumi). Mettete mezzo litro di acqua in un pentolino insieme allo zucchero e ai mandarini, tenete il fuoco basso e lasciate caramellare; otterrete così una marmellata dal gusto leggermente amaro). Aggiungete il vino e il peperoncino piccante e fate ridurre la salsa. Togliete le salsicce dai budelli e mischiate per bene i due impasti, unendo la cipolla tritata, il formaggio, il timo, le spezie di BBQ4ALL e un po’ di chutney. Stendete la pasta sfoglia e tagliatela a metà longitudinalmente (in maniera da ottenere 2 fogli). Spennellateli all’interno con della senape e mettete al centro il ripieno di salsiccia. A questo punto arrotolate la pasta sfoglia sul ripieno, sigillando per bene i bordi. Spennellate del tuorlo d’uovo sulla parte superiore e cospargetelo con un po’ di semi di sesamo. Poi create dei tagli distanziati tra loro sulla parte superiore. P r e r i s c a l d a r e i l vo s t r o dispositivo sui 220°C, posizionando della carta forno dalla parte opposta delle braci. Appoggiate i rotoli ripieni sulla carta forno, chiudete il coperchio e cuocete per circa 20 minuti, facendo attenzione a non farli bruciare. Tagliateli a fette e serviteli con l’accompagnamento della salsa chutney piccante agli agrumi.

275 - BBQ4All Magazine

Preparazione:


hT e te a m i lU t

r e g r uB

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un panino... in carne a cura di Michela Bongiorni


24 Giugno 2020: Gianfranco Lo Cascio scrive un post sul Facebook sui panini mangiati nei vari locali in giro per il mondo. Testualmente: “(…) quando assemblate panini a montagnella lo fate per me o mi avete scambiato. per un ippopotamo seduto al tavolo? Ma come vi viene in mente? Ma poi perché? Cosa dovrei fare? Come lo mangio? Devo andare in iper estensione mandibolare e far vedere le mie otturazioni alla signora del tavolo di fronte? Ma non ci arrivate che è impossibile da mangiare senza spataccarlo e farlo diventare una poltiglia inguardabile?” Ben consci di questa dichiarazione lapidaria, in redazione ci siamo guardati negli occhi e ci siamo detti: e mo’ chi glielo dice che abbiamo fatto un panino mostruoso?

doppio hamburger, per sfidarvi a mangiarlo tutto senza stramazzare al suolo. Nulla vieta, in realtà, che possiate comunque servirlo dividendolo in due comodi burger da consumare in modo più confortevole. Per il resto, abbiamo rispettato le regole dello Zio, a parte quella dell’altezza: questo panino non ha milioni di ingredienti dentro, non ha decine di salse abbinate in modo discutibile, non presenta fette di bacon o di altro salume messe di taglio praticamente impossibili da mordere a meno che non si abbiano i denti affilati come una katana (cit.), ad ogni morso si sentono tutti i singoli elementi e il pane non si disfa in mano. In pratica, volevamo solo stupirvi con effetti speciali e fotografare una cosa che vi facesse dire mmmmaaaaamma miiiiaaaa! Secondo me, ci siamo riusciti.

Ok, ok: niente panico, possiamo spiegare.

MA! C’è sempre un ma dietro l’angolo. Noi, con questa ricetta, ci rivolgiamo a voi, o poveri griller chiusi in lockdown o semi lockdown da oltre quattro mesi, che avete voglia di cuocervi un hamburger e di mangiarvelo spatasciati sul divano in tuta e ciabatte, con birra e rutto libero. Non ci siamo quindi posti il problema del galateo, che invece è d’obbligo rispettare quando si esce a cena fuori. A meno che non siate Csaba Della Zorza, quando siete a casa vostra sicuramente siete più sciolti e meno attenti alla patacca sulla felpa. Avete accesso ai tovaglioli in enorme quantità, potete assumere posizioni improbabili addentando qualcosa e avete la possibilità di farvi la doccia immediatamente. E poi, noi siamo del partito macchia sulla maglia is sexy. Se ben portata. Bando alle ciance: non abbiamo resistito alla tentazione di proporvi il panino con

Dici hamburger, corrono poi in gran carriera le patatine fritte. Ma un panino del genere non poteva accontentarsi di una porzione di sempliciotti bastoncini croccanti e salati. Quindi noi le abbiamo rinforzate un po’, grigliando due salsicce e mettendole sopra a coprire, con un velo di salsa bbq. Insomma sì, la salsiccia è il contorno. Ora che sapete cosa vi aspetta, non vi resta che cominciare ad accendere il carbone e a preparare le vostre griglie, seguendo pedissequamente la ricetta step by step.

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In quel famoso post lo Zio parlava di serate fuori, di signore o signorine ben vestite per una cena in dolce compagnia che non avrebbero nessuna voglia di macchiarsi il vestitino alla moda addentando un panino alto sei metri, di disagio nel mangiare fuori casa una pietanza onestamente inaffrontabile.

Andando nello specifico, siamo tornati alle origini per questo Hamburger dei Campioni: niente padella, piastre o ammennicoli vari ma solo fuoco e griglia. La carne eccezionale dei nostri Burger Blue Ox fa da sola buona parte del lavoro. Poi, dato che per noi non esiste hamburger senza bacon e cipolle, ma dato che dovevamo pur rispettare la famosa regola che chiameremo non sono una katana, abbiamo creato una composta di cipolle caramellate CON bacon dentro, in piccoli pezzettini croccanti. ‘Na roba dietetica con tanto grasso e burro. Abbiamo poi inserito una sola salsa per sgrassare un po’, un formaggio fondente, due foglie di insalata e due fette di pomodoro (giusto perché le verdure sono importanti in una dieta bilanciata – *emoticon che ride*).


Preparazione: 1.

INGREDIENTI

per 2 persone incoscienti o 4 normali

2.

per i panini due bun per hamburger (o quattro) quattro hamburger Blue Ox USA Black Angus burro q.b. insalata a piacere qualche fettina di pomodoro

3.

qualche fetta di provola affumicata Per la composta di cipolle al bacon: due cipolle rosse

4.

150 g di bacon tagliato a dadini burro q.b. mezzo bicchiere di aceto di mele sale e pepe q.b. Per la maionese allo yogurt: 60 g di tuorli, tiepidi 150 ml di olio di semi di girasole 150 ml di olio extravergine di oliva 10 ml di succo di limone

5.

10 ml di aceto di vino bianco 3 g di sale 1 g di pepe un cucchiaio di yogurt greco Per il contorno: mezzo kg di patate a pasta gialla due salsicce Pork Sausege Cheddar Jalapeno salsa bbq q.b. sale e pepe q.b.

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olio di semi di arachidi q.b.

6.

Cominciate dalla maionese: sbattete i tuorli e versate lentamente l’olio, aiutandovi con uno squeezer nel quale avrete mescolato quello di semi e quello d’oliva. Continuate a sbattere con regolarità. A un certo punto, inglobando aria, il composto diventerà denso e sarà il momento di aggiungere limone, aceto, sale e pepe. Una volta formata la maionese, aggiungete il cucchiaio di yogurt greco, aggiustando eventualmente di sale, e mescolate il tutto con cura. Tenetela in frigo. Passate poi alla composta di cipolle: in un pentolino tostate bene il bacon- senza aggiungere altro grasso- finché non risulterà ben dorato e croccante; a quel punto affettate le cipolle grossolanamente, aggiungetele al bacon insieme a una noce di burro, salate e pepate, poi coprite e fate cuocere a fuoco lento per 40 minuti circa. Aggiungete quindi un po’ di aceto di mele e continuate la cottura a fuoco un po’ più vivace e senza coperchio finché le cipolle non risulteranno morbidissime e di un bel color nocciola, leggermente caramellate. Accendete il vostro dispositivo e predisponetelo per una cottura indiretta, stabilizzandolo alla temperatura di circa 150°C. Appoggiate le salsicce sulla griglia dalla parte opposta dei carboni, chiudete il coperchio e cuocete per circa 30-40 minuti o comunque finché non raggiungeranno il grado di cottura desiderato. Una volta cotte tenetele in caldo. Nel frattempo dedicatevi alle patatine fritte: pelate e tagliate a bastoncino i tuberi, poi lavateli con acqua corrente e infine teneteli in una ciotola con acqua fredda. Lasciateli quindi asciugare bene su un telo di cotone poi scaldate l’olio a circa 150°C e friggeteli per 5 minuti; toglieteli dal fuoco, scolatele bene su un foglio di carta assorbente e riponeteli in congelatore per circa 5 minuti: quando i bastoncini saranno completamente freddi, procedete alla seconda frittura con olio a 180°C/190°C. Fateli dorare, poi toglieteli dall’olio, metteteli su un foglio assorbente. Salate e pepate, poi tagliate le salsicce a rondelle e appoggiatele sulle patate fritte; condite infine con la salsa bbq. Il contorno è pronto. Mentre aspettate di fare la seconda frittura alle patatine, cuocete l’hamburger in cottura diretta sulla griglia ben calda, avendo cura di ungerlo leggermente. Fate attenzione che non si alzino le fiammate, e giratelo spesso finché non avrà raggiunto il grado di cottura desiderato: a quel punto prendete la composta di cipolle, adagiatene un cucchiaio su ogni hamburger, poi coprite con le fette di formaggio, spostate l’hamburger in cottura indiretta e chiudete il coperchio affinché il formaggio si sciolga. Nel frattempo avrete anche preparato il pane: se volete il panino a due piani, tagliate il bun in tre strati, imburrateli e tostateli mentre cuocete l’hamburger, altrimenti tagliate il panino in due, imburrate le due metà e tostatele alla maniera classica. Siete pronti per assemblare il panino: se avete optato per quello a due piani, mettete sul fondo una dose generosa di maionese, poi un po’ di insalata, la ciccia con la composta di cipolle e il formaggio fuso, coprite con lo strato intermedio di pane tostato, poi di nuovo la maionese, l’hamburger con composta di cipolle e formaggio, infine qualche fettina di pomodoro. Se invece volete panini umanamente più affrontabili, farciteli allo stesso modo ma formando un solo strato; poi serviteli caldi e con il loro contornino.


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Pulled pork, cheddar, droga rossa.

ZITTI E BUONI DAVANTI ALLA

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PIZZA COI CORNICIONI... RIPIENI !


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Dato che l’Unesco nel 2017 ha dichiarato l’arte del pizzaiolo napoletano patrimonio dell’umanità, potete capire il caos che si è scaturito dopo quei tweet. Per la maggior parte dei napoletani due cose vengono prima di tutto: Maradona e la pizza; e ovviamente in molti non hanno perso l’occasione per dare risposte piccate e simpatiche, suggerendo agli americani di ordinare l’unica vera buona pizza al mondo, facendosela arrivare direttamente da Napoli. Sarà perché siamo italiani, o forse perché siamo temerari, ma ci siamo voluti mettere in mezzo alla questione proponendovi una versione nostra, realizzando una bella pizza col cornicione ripieno, tanto in voga negli ultimi anni, farcita però con ingredienti dell’american bbq. Giusto per farli stare tutti zitti e buoni (cit.). Sul mondo della pizza c’è da dire tanto e noi stessi abbiamo affrontato l’argomento più volte in questo Magazine. Oggi realizzeremo una versione tonda. Una Napoletana? No. Una napoletana è tonda, ma una tonda non è necessariamente napoletana.

Quest’ultima, detta anche verace, ha caratteristiche specifiche sia nel metodo di preparazione che nella cottura. Necessita di un forno che permetta di raggiungere tra i 400°C e i 500°C circa, che cuocia tra i 60 e i 90 secondi e che abbia specifiche caratteristiche. Il risultato da ottenere prevede un impasto molto elastico in stesura, grazie ad una fase ampia di appretto che permetta al panetto di rilassarsi a dovere, e che da cotto permetta di avere un prodotto morbido e leggero, ripiegabile su stesso e con quasi assenza di croccantezza. Deve inoltre avere una maculatura superficiale, con cornicione bel rilevabile e rialzato, e base sottile centrale ricoperta da farcitura. Su tutto, ciò che più potrebbe essere di ostacolo è la cottura, per via di quei 400°C minimi che sono impossibili da raggiungere in un forno casalingo. Soprattutto perché è un elemento fondamentale per definire una napoletana. Ovvieremo anche a questo, spiegandovi il metodo e fornendovi comunque una variante per realizzare una tonda NON napoletana. Per la realizzazione di questa pizza non ci limiteremo a darvi una ricetta, ma vi insegneremo il metodo per realizzarla, in modo da farvi capire i vari passaggi e mettervi in condizioni di riparare a errori per migliorarne la riuscita, volta per volta. Le fasi del metodo principalmente sono 6: impasto, puntata, staglio, appretto, stesura e cottura. Tra queste, altrettanto importanti sono le fasi di riposo e quella del topping, ovvero della farcitura.

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È

È di questi giorni la diatriba USA vs Italia, che riguarda uno dei capisaldi della nostra cucina: la pizza. Da un tweet sulla pagina ufficiale della città di Chicago parte quella che poi diventa polemica. Il governatore di Chicago dichiara: “siamo fieri di essere la capitale della pizza nel mondo”; segue un ulteriore cinguettio del Governatore del New Jersey che, anche in questo caso, proclama la sua città la capitale della pizza nel mondo. Tutto questo nel giorno del World Pizza Day.


L’IMPASTO E’ la fase più importante dell’intera realizzazione. Una partenza fatta male si ripercuoterà inevitabilmente su tutte le fasi successive. E’ in questa fase che si forma la maglia glutinica e che gli enzimi iniziano le proprie azioni. La proteasi favorisce l’idrolisi delle proteine. Le amilasi scindono la molecola dell’amido. Poi lipasi, isomerasi, maltasi e zimasi fanno il resto, trasformando lipidi, zuccheri, maltosio e dando vita alla fermentazione alcolica. Quindi diciamo pure che qui si dà vita al tutto.

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Iniziamo sempre dalla farina, perché dobbiamo conoscere il suo potere di assorbimento e in base a questo aggiungere la giusta quantità d’acqua. Viceversa sarebbe solo fare a caso e non secondo regole precise, aggiungendo farina sino al completo assorbimento. Oltretutto, per via dell’azione degli enzimi, la farina deve avere il tempo di far partire le reazioni chimiche e ciò non sarebbe possibile se inserissimo tutta l’acqua in una volta sola. Questo metodo poteva avere un senso cento anni fa, quando non c’era la necessità di fare valutazioni tecniche o confrontare la qualità di prodotti diversi; e quando, soprattutto, si cucinava per sfamarsi senza troppe pretese a livello organolettico. Ora le farine escono dalla molitura con caratteristiche specifiche e differenti tra loro ed ognuna di esse ha una reazione diversa rispetto all’assorbimento dell’acqua. Questo dunque è il motivo per cui si inizia dalla farina e non dall’acqua. Ora che lo sapete, potete iniziare a versare la vostra quantità di farina nella ciotola o in planetaria. Consideriamo, per comodità, un chilogrammo di farina e lavoriamo sulle quantità percentuali degli altri ingredienti. Questo vi favorirà qualora vogliate ricalcolare le dosi.

aggira intorno ai 250°C/280 °C di un forno casalingo. Tralasciando dunque l’utilizzo di forni professionali, possiamo dire con certezza che un’alta idratazione se non gestita nei modi dovuti in tutte le fasi di lavorazione (impasto, maturazione e appretto), non permette al prodotto di asciugare la propria struttura, con la conseguenza di un prodotto finale umido, che non sviluppa in maniera corretta e che tenderà a mantenere una parte cruda al suo interno con conseguente mancanza di scioglievolezza al morso. Avete presente le chewing gum? Questo non vuol dire che non è possibile effettuare anche idratazioni più spinte, con consapevolezza e gestione degli impasti e delle farine. Ma non è il nostro caso. Noi la facciamo semplice e ci attestiamo su un risultato ottenibile da tutti. Con l’esperienza voi stessi potrete sperimentare altro ed uscire dalla comfort-zone. Da qui partiamo con le dosi di acqua, lievito e sale per circa sei pizze. Impasto diretto circa 12h • 1 kg di farina 00 / tipo 1 (290/310W) • 650 g di acqua (65%) • 25 g di sale (2,5-2,8%) • 6/12 g Lievito di birra fresco (6 g estate / 12 g inverno) Farina Vi consigliamo di utilizzare un ottimo prodotto che riesca ad assorbire bene l’acqua, che riporti sull’etichetta una percentuale di proteine tra 11,5-12,5% che corrispondono alla forza indicata nelle dosi. Queste vi permetteranno di avere un grado adeguato di tenacità e di elasticità dell’impasto.

Per quanto riguarda l’idratazione, per agevolare la buona riuscita della vostra pizza, ci attestiamo sul 65%. Questa è l’idratazione classica di una napoletana, ma è anche il valore di partenza per l’idratazione di una tonda in teglia cotta in forno casalingo. Non servono iper idratazioni per la riuscita di una buona pizza. I motivi principali sono due: il tempo e la temperatura.

Acqua E’ l’ingrediente fondamentale per la panificazione. I suoi sali minerali e le sue caratteristiche organolettiche contribuiscono e aiutano la formazione del glutine e aumentano la rigidità dell’impasto. La sua percentuale, come già accennato, varia da un 60% ad un 70% di norma, ma si arriva anche ad idratazioni spinte che su certi prodotti vanno a toccare un'idratazione dell'80%

Se nella pizza napoletana abbiamo una temperatura di cottura molto alta in un tempo molto ridotto, nella pizza tonda in teglia abbiamo tempi abbastanza lunghi (circa 10/15 minuti), e una temperatura che si

Altro punto fondamentale è la temperatura. Per una buona gestione dell’impasto, l’acqua deve avere una temperatura variabile a seconda di altri fattori che andranno ad influire sull’impasto: la temperatura


ambiente, quella della farina, la temperatura che produrrà la macchina impastatrice o il nostro braccio. Il tutto affinché l’impasto finito non superi i 24°C. Pertanto l’acqua dovrà essere freddissima d’estate e non superare i 20°C d’inverno. Una regola empirica che vi permette di regolare la temperatura dell’acqua sulla base di altre temperature fisse è la regola del 70, secondo la quale la somma delle tre temperature (ambiente, farina, e acqua) debba dare 70 come valore finale. Da qui se ne deduce che conoscendo le temperature di farina e aria, per sottrazione abbiamo il valore di quanto deve essere la temperatura dell’acqua.

Lievito Infine il lievito. Ci sarebbe da parlare per giorni di questo ingrediente. Diciamo che si divide in 3 tipologie: • Lievito di birra • Lievito secco disidratato • Lievito naturale o pasta madre. Noi ci soffermeremo unicamente sul lievito di birra, che è di più facile attivazione e utilizzo. Qualora però ci trovassimo senza lievito di birra, potremmo utilizzare il secco, facendolo rinvenire in acqua tiepida sui 28°C circa, con l’aggiunta di poco zucchero. Le quantità da utilizzare in caso di lievito secco sono in proporzione di 1:3 rispetto al lievito fresco. Per capirci, 3 grammi di lievito fresco corrispondono a 1 grammo di lievito secco disidratato.

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Sale Anche questo ingrediente è importantissimo ai fini dell’impasto. Agisce sulle proteine e sulla formazione del glutine, donando stabilità e resistenza all’impasto. Però è un nemico del lievito, in quanto ne ritarda l’attivazione e ne distrugge le cellule. Infatti in fase di impasto è sempre consigliato l’inserimento dei due prodotti in tempi diversi l’uno dall’altro. Altra caratteristica importante del sale è quella di agire sulla colorazione della crosta, poiché permette di formare più maltosio. Possiamo variare la sua quantità nelle percentuali riportate sopra, ricordandoci che il sale apporta umidità all’impasto.


IL PROCEDIMENTO IMPASTAMENTO Per una esecuzione a regola d’arte, sarebbe il caso di fare un passo indietro e dire che l’impastamento ha inizio con una linea degli ingredienti già pesati e disponibili davanti a voi prima di effettuare le operazioni. Detto questo, potete decidere di impastare a mano o a macchina mediante l’ausilio di planetarie o macchine professionali. Versate tutta la farina e iniziate ad impastare aggiungendo da prima il lievito e successivamente l’acqua sino ai 2/3 del totale, pian piano e man mano che la farina l’assorbe. Quando l’impasto avrà assorbito i 2/3 di acqua, inserite il sale e continuate a impastare, aggiungendo a filo la restante acqua. Continuate così sino alla formazione della maglia glutinica e all’assorbimento completo dell’acqua. Se la vostra farina fa difficoltà ad assorbirla, potete fare un fermo macchina di 10/15 minuti per agevolare l’azione del glutine. Una volta terminato l’impasto, fatelo riposare per 15 minuti, in una ciotola o su un piano, coperto. Trascorso il tempo, iniziate il primo giro di pieghe. Ripiegate su se stesso il panetto per 3-4 volte e lasciate riposare per 10/ 15 minuti sul piano di lavoro senza coprire. Servirà ad asciugarlo bene. Ripetete successivamente questa operazione, fino a che non avrete un panetto liscio e asciutto e che non collassi su se stesso. PUNTATA Prendete un contenitore abbastanza capiente che possa contenere 3 volte il volume del vostro impasto. Ungetelo leggermente,ponetevi il panetto a riposare per 2/3 ore a temperatura ambiente (20°C-24°C), e chiudetelo ermeticamente. In questa fase, l’impasto avrà modo di sviluppare e crescere grazie all’azione dei lieviti, stabilizzando la maglia glutinica.

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STAGLIO Trascorso il tempo di puntata dell’impasto e dopo che la sua massa avrà quasi raddoppiato, rovesciate il contenitore su un piano. Fate un giro di pieghe e lasciate riposare, coperto, per almeno 15 minuti. Ora procedete allo staglio, ovvero alla formazione dei panetti. Dovrete realizzare delle pizze tonde, quindi dividete i panetti in pezzature da 250/300 g ciascuno. Chiudete i panetti su se stessi, facendo un giro di pieghe, e metteteli in un contenitore o cassetta di lievitazione, affiancandoli senza attaccarli l’uno all’altro. APPRETTO In questa fase, che durerà sei ore, si ha una ridistribuzione dei lieviti, dovuta alla manipolazione dell’impasto. È qui


che si verifica l’ultima lievitazione. Durante l’appretto la maglia glutinica si rinforza e permette successivamente al panetto di rilassarsi contribuendo ad un’estensibilità maggiore nella fase successiva. STESURA Passate le sei ore di appretto, si passa alla fase di stesura. Ribaltate ogni panetto su un bel mucchio di farina di semola. Ricopritene la superficie e iniziate a premere delicatamente dal basso verso l’alto. Con l’ultima falange delle dita spostate i gas contenuti nel panetto, allargandolo in maniera circolare. Allargate fino ad un diametro di circa 33 cm. Lasciate un bordo bello largo, che vi servirà in seguito. FARCITURA E COTTURA Qui viene il bello, perché in questa fase affronteremo la farcitura della pizza, la parte più golosa di tutto il processo, quella dove viene fuori la creatività di ognuno di noi. Abbiamo pensato a qualcosa di speciale per voi, in versione BBQ. La pizza che vi proporremo sarà con cornicione ripieno di pulled pork BBQ4All del Megastore e con Cheddar di qualità, una base al pomodoro, qualche pachino droga rossa, delle cime di rapa ripassate in padella e delle quenelle di nduja al cucchiaino. Il tutto spolverato da un ottimo Smoke Chipotle Chili della linea Sal’s Seasoning. Niente di più laido. Quindi, procuratevi dal Megastore una porzione di pork affumicato in tutta regola. Rigeneratelo, pullatelo e tenetelo da parte. Prendete il cheddar, riducetelo a tocchetti e tenete anche questo da parte. Lavate, pulite e cuocete al vapore le cime di rapa per 10 minuti. Ripassatele quindi in padella, con olio, aglio fresco, e due o tre acciughe fatte sciogliere in cottura. Preparate la vostra drogarossa (sul sito di BBQ4All trovate la ricetta per questi strepitosi pomodorini). Avrete bisogno anche dei pomodori pelati. Ci siamo, iniziamo a preriscaldare il forno di casa alla massima temperatura. Dai 250°C ai 280°C in modalità statico. Dopo aver allargato la pizza, rovesciatela sul vostro braccio e scuotetela dalla semola in eccesso, quindi, con l’ausilio di una pala, portatela all’interno di una teglia di ferro blu, precedentemente unta d’olio. Iniziate a farcire partendo dal bordo:fate una corona intorno al perimetro, ricordandovi di lasciare almeno 1 cm di bordo esterno che vi servirà per chiudere il

cornicione. Successivamente, distribuite il cheddar a tocchetti sul pulled pork. Fatto questo, con delicatezza, ripiegate il bordo su se stesso dall’esterno verso l’interno, per chiuderlo e creare un anello ripieno. Quando avete chiuso tutto il bordo, potete passare alla stesura del pomodoro. Versatene al centro un cucchiaio e mezzo e stendetelo in maniera uniforme e circolare. L’ideale è un pomodoro pelato da schiacciare a mano e lasciare un po’ rustico sulla pizza. Siete pronti per la cottura. Adagiate la teglia nella parte inferiore del forno, a contatto con il piano. Lasciate cuore almeno 9 minuti o finché la base non sarà dorata e si riuscirà, alzandola con una paletta da cucina, a tenerla dritta senza che ceda. Finita questa prima fase di cottura, togliete la pizza dal forno per il tempo sufficiente a inserire le cime di rapa e qualche pomodorino droga rossa. Rimettete in forno ancora qualche minuto nella parte superiore della griglia, vicino al grill per completare la cottura superficiale. Quindi togliete e rifinite con piccole quenelle di nduja sulla superficie calda, che si scioglieranno al contatto, rilasciando aromi e sapori all’interno della pizza e nell’aria. Spolverate leggermente con lo Smoke Chipotle Chili. Lasciate la vostra pizza per qualche minuto su una griglia, per permettere l’evaporazione dell’umidità in eccesso. Ora potete tagliare e servire. La domanda che ci poniamo tutti, dopo aver realizzato la nostra pizza è sempre la stessa. Avrà le caratteristiche giuste per una pizza tonda? Bella domanda da porsi. Se la vostra pizza regge al taglio e non vi scarica tutto il condimento nel piatto, avrete già raggiunto un buon risultato. Se al morso avrete qualcosa che assomiglia più a un cuscino fragrante e leggero piuttosto che ad un chewingum, tenace e per nulla piacevole, allora l’obiettivo sarà raggiunto, avrete un bel cerchio di acqua, farina e poco altro, che si gonfia sotto il calore costante in maniera uniforme e che al taglio presenta una struttura quasi eterea, ”sparendo” piacevolmente un morso dietro l’altro. Non vi resta che affiancarle un’ottima birra, ma non disdegnate un buon rosso.

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HASSELBACK una patata a senso unico

(Disclaimer necessario: questa parte dell’articolo è stata censurata a causa delle ovvie e scontate battute sulle patate svedesi alle quali il simpatico redattore, redarguito con severo cipiglio e parole di disapprovazione, si era lasciato andare facendosi prendere un po’ troppo la mano n.d.r.) L’argomento del giorno è il nostro tubero preferito. Parliamo di patate, per la precisione patate Hasselback, un piatto caratteristico svedese nato circa tre secoli fa nell’isola di Djurgården, al centro di Stoccolma, nell’omonimo ristorante. Si tratta di piatto piuttosto semplice che ha come ingrediente principale, e pressoché unico, la patata. Più comfort di così. La particolarità di questa preparazione, diventata nel tempo un classico della cucina svedese e un ottimo contorno internazionale, è dovuta al taglio del tubero. Esso deve subire una precottura che lo renda, successivamente, morbido internamente e croccante all’esterno. Vedremo tra poco questi passaggi, ora concentriamoci sulla patata. Come sapete, ne esistono diverse varietà. Ognuna di esse ha caratteristiche e conformazione diverse. In questo caso sicuramente non potremo utilizzare una patata novella, di fresca raccolta e solitamente di pezzatura minuta, poi ché abbiamo bisogno di un calibro leggermente più grosso, a causa della lavorazione che andremo ad effettuare.

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Considerando che le cultivar di patate sono molto simili tra loro, vediamo di distinguerle in tre tipologie differenti che le raggruppano in maniera più esaustiva: a pasta bianca, a pasta gialla e rosse a pasta gialla. PATATE A PASTA BIANCA Tra quelle a pasta bianca spiccano le Kennebec e le Majestic, hanno una polpa chiara e farinosa e già quest’ultima caratteristica ci fa capire che non sono adatte alla nostra preparazione, poiché il prodotto deve rimanere integro a fine cottura, senza sfaldarsi.

Ottime sicuramente per contorni o sformati, per preparare gnocchi e dolci, sono anche particolarmente indicate per il purè perché ci permettono di non incorrere nella formazione di grossi grumi. PATATE A PASTA GIALLA Quelle a pasta gialla, per esempio Monnalisa, Agata, Liseta, Vivaldi, Primura, Almera, presentano una colorazione più intensa rispetto alla pasta bianca, dovuta alla maggiore concentrazione di beta caroteni, peraltro molto importanti per il nostro organismo. Questi tuberi hanno una polpa molto compatta, e tendono a non sfarinarsi. Poco utilizzabili per le preparazioni descritte poco sopra, sono patate ottime da friggere e da fare al forno. Perfette da lessare, perché etengono egregiamente la cottura, grazi alla loro compattezza. PATATE ROSSE A PASTA GIALLA Saltiamo a pie’ pari le patate dolci americane ed arriviamo alle patate rosse a pasta gialla. Anch’esse sono molto compatte e apprezzate nelle cucine di alto livello, perché ricche di sostanze nutritive. Ricordiamo che appartegono a questo gruppo quella IGP Rossa di Colfiorito e quella Rossa di Cetica. Da questa analisi veloce, si può facilmente intuire che sia le patate rosse sia quelle a pasta gialla, più facili da reperire, possono andar bene per la nostra preparazione svedese. Come dicevamo prima, la particolarità della patata Hasselback sta proprio nel taglio che potremmo definire a fisarmonica. Viene lamellata per tutta la sua lunghezza con dei tagli verticali e ravvicinati, al punto da renderla sfogliabile come fosse un piccolo libro. Vedremo poco più avanti il procedimento passo per passo. La versione originale prevede pochi condimenti: burro, sale e un trito di erbe aromatiche (timo, salvia, rosmarino). Noi, come sempre accade, l’abbiamo reinterpretata a modo nostro.


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Preparazione: 1.

INGREDIENTI 4 persone

4 patate a pasta gialla di media grandezza 50 g di burro chiarificato 50 g di pangrattato 30 g di Parmigiano Reggiano 8 fette di bacon 200 g provola fresca sale q.b. pepe nero q.b. erbe aromatiche (timo, rosmarino, salvia) q.b. Lime Pepper della linea Sal’s Seasoning Steak Booster q.b.

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il vostro rub preferito della linea Sal’s Seasoning (facoltativo) q.b.

Tagliate una fetta sottile dal lato lungo di ogni patata e create una base d’appoggio per tenerle ferme sulla teglia 2. Munitevi di uno spiedo di metallo. Non consigliamo il legno perché, se la patata è molto compatta, farete fatica sia ad infilarlo che a sfilarlo, con la possibilità che si si spezzi e vi rimangano tracce di legno all’interno del tubero. Infilatelo per il lungo a circa un cm sopra la base della patata, trapassandola interamente. 3. Ora, appoggiando la patata su un piano, tagliate perpendicolarmente la patata in tante fettine sottili, incidendo sino ad arrivare allo spiedo, per tutta la sua lunghezza. 4. Ora immergete le patate in acqua fredda, per cercare di sfogliarle leggermente e far perdere loro l’amido. Questo vi permetterà di aprire i tagli in maniera semplice per poterle condire facilmente. 5. Dopo aver lasciato per mezz’ora le patate in acqua fredda, toglietele e scolatele, asciugandole al meglio che potete senza rompere le sottili fette. 6. Appoggiatele su una teglia ricoperta da carta forno. Sciogliete in un tegamino il burro chiarificato, unite le erbe aromatiche tritate finemente e spennellate le patate, cercando di irrorarle al meglio tra le fettine. 7. Preparate una sabbia con pane grattugiato, parmigiano reggiano, sale e pepe nero. Spolveratela abbondantemente sopra le patate, cercando di farla penetrare anche all’interno delle fettine. 8. Preparate il forno o il vostro dispositivo per una cottura indiretta. Mediamente cuoceranno per circa un’ora, a seconda delle dimensioni delle patate ad una temperatura di 200°C. 9. Nel frattempo preparate le fette di bacon. Dividete in tre parti ogni fettina e piastratele sino a renderle croccanti. Lasciate assorbire l’unto su carta assorbente e tenetele da parte. 10. Quando le patate saranno ben dorate e con la crosticina croccante, provvedete a far fondere il formaggio in una padella e versatelo pian piano su ogni singola patata, cercando di farlo filtrare tra le fette. Ora inserite le fettine di bacon tra le fette, mettendone sei pezzi per ogni patata. 11. Spolverate il tutto con il vostro rub preferito della linea Sal’s Seasoning GLC TOP SELECTION. Noi consigliamo un mix di Dallas e Smoke Chipotle Chily. Unite anche qualche cristallo di Lime Pepper della linea Sal’s Seasoning Steak Booster. 12. Siete pronti a servire a tavola, accompagnandole volendo con verdurine croccanti e con una porzione salsa a base di senape.


TORTA SACHER Sì, ma non per fighetti!

In realtà sembra che una buona parte dei viennesi consideri migliore la Sacher prodotta dalla storica pasticceria Demel, famosa per aver addolcito la vita della corte imperiale Asburgica con le proprie creazioni, dove lo strato di confettura è posto sotto la glassa, mentre i maestri pasticceri dell’Hotel lo pongono al centro. Entrambi si sono contesi la proprietà del marchio “Original Sacher Torte” attraverso una battaglia legale durata quasi trent’anni (1938-1963). Per concludere la disputa infinita, le parti arrivarono ad un accordo extragiudiziale: l’Hotel Sacher avrebbe posto sulle proprie torte un sigillo di cioccolato rotondo con impressa la dicitura “Original Sacher Torte”, mentre a Demel fu concesso di mettere sulle

torte un sigillo triangolare, sempre in cioccolato, riportante la scritta “Eduard Sacher Torte”. E così, tutti vissero felici e contenti. Il trionfo del cioccolato tanto conteso nasce nel Luglio del 1832 durante la stagione viennese, su esplicita richiesta del principe Metternich, diplomatico e politico austriaco, che il giorno stesso della cena da lui organizzata scese in cucina chiedendo la creazione di un nuovo dessert, tanto buono da non farlo sfigurate. Ad accontentare la richiesta del padrone di casa, rendendo di fatto il banchetto un successone, fu il giovane apprendista cuoco Franz Sacher, da cui la torta prende il nome stesso. Il dolce fu perfezionato nella forma che conosciamo oggi dal primogenito Edward nella pasticceria Demel, dove svolse l’apprendistato. Ma la golosa creazione conobbe la fama quando divenne la specialità di punta dell’Hotel Sacher, fondato dallo stesso giovane nel 1876. Quando l’hotel incontrò delle difficoltà economiche, poco prima della vendita, il nipote di Franz Sacher inizio a lavorare da Demel e di fatto cedette loro la ricetta del nonno. In seguito, i nuovi proprietari della struttura alberghiera vollero avvalersi in esclusiva del marchio perché la Sacher era una specialità del loro cafè e loro ne erano anche i principali fornitori. Di fronte alla paura di un danno economico ebbe inizio la disputa legale finita come ben sappiamo. Ma quindi le centinaia di versioni che abbiamo assaggiato fino ad ora, fatte da pasticceri anche molto famosi, sono da considerarsi non omologabili? Vi stiamo forse dicendo: non chiamatele Sacher? Giammai. Se ci conoscete un po’, sapete che abbiamo fatto della battaglia contro i gastrofighetti una delle nostre missioni. Forse non riuscirete ad ammetterlo, ma lo facciamo noi per voi: in certi casi le varianti sono perfino più buone dell’originale, che qualche golosone esperto di dolci giudicherebbe un po’ troppo asciutta (tant’è che a Vienna è imperativo consumarla con la panna montata che aiuta un po’ a bagnare il boccone). Ovviamente grandi maestri pasticceri come Iginio Massari e Ernst Knam ne hanno fatto una loro versione. La nostra sarà quella per i NON fighetti.

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Sulla Sachertorte negli anni sono stati spesi fiumi di parole, sono state formulate un’infinità di congetture e consumate quantità spropositate di latte, di farina, di cioccolato, di uova e di confettura di albicocche nel vano tentativo di riprodurre la ricetta segreta. La maggioranza di noi crede che basti ordinarla in pasticceria per assaporarla, mentre in realtà tutte le torte rivestite con glassa al cioccolato e decorate con la leziosa scritta in corsivo Sacher, che vediamo esposte nelle vetrine delle pasticcerie sparse nel mondo, sono delle imitazioni per quanto spesso di altissima qualità. L’unica originale Sachertorte viene preparata dai pasticceri dell’Hotel Sacher (catena alberghiera di lusso, presente a Vienna, Salisburgo, Innsbruck e Graz) e servita all’interno dei loro Cafè. La ricetta, che sembra prevedere 34 passaggi e l’uso di tre tipi di cioccolato per la glassa, oltre a chissà quali altri misteri, è custodita gelosamente nella cassaforte dell’albergo viennese (fondato da Edward, figlio dell’ideatore Franz Sacher). I pochissimi dipendenti che ne conoscono la preparazione hanno firmato un contratto di segretezza in cui si impegnano a non rivelarla a terzi. A Bolzano abbiamo la fortuna di avere l’unico punto vendita in tutta Europa in cui si possono acquistare i prodotti originali dell’Hotel Sacher di Vienna: si tratta del punto Sacher Shop. Chiunque di voi sia passato da quelle parti, dunque, sa benissimo che la versione originale spesso ha veramente poco a che fare con le torte vendute nelle pasticcerie nostrane.


Quelli non così esperti, non così precisi, non così fissati ma che vogliono fare comunque una bella figura. Quella che andiamo a proporvi è una ricetta estremamente semplificata che non aspira alla perfezione estetica, ma all’appagamento dei sensi del vero goloso. Abbiamo pensato che su un numero così carico di calorie, anche il dolce volesse la sua parte e non potesse essere da meno. Rispettando il galateo del vero griller potrete mangiare la torta con le mani e leccarvi le dita sporche di glassa, sognando le prossime grigliate con gli amici, perché torneremo presto a farle.

Preparazione: 1.

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INGREDIENTI 6 persone

500 g di albicocche sbucciate e private del nocciolo 370 g di zucchero semolato 30 g di zucchero a velo

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il succo di mezzo limone 90 g di burro (più burro per la teglia) 4 uova

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90 g di farina 00 (più la farina per la teglia) una bustina di vanillina 300 g di cioccolato fondente di buona qualità

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130 ml di panna fresca per dolci

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Partiamo dalla confettura. Lavate le albicocche, sbucciatele privandole anche del nocciolo e tagliatele in dadini molto piccoli: la vostra confettura non deve avere pezzi grossi. Mettete la frutta in un pentolino, aggiungete 250 g di zucchero, il succo di mezzo limone e mescolate bene. Cuocete la frutta su un fuoco medio alto per circa mezz’ora, avendo cura di girarla spesso. Quando avrà ottenuto la tipica consistenza gelatinosa toglietela dal fuoco e lasciatela raffreddare completamente. Passiamo alla base del dolce. Sciogliete 100 g di cioccolato fondente spezzettato grossolanamente con 2 cucchiai di panna a bagnomaria. Appena sarà sciolto togliete il tutto dal fuoco e lasciate raffreddare. Prendete una ciotola capiente e con le fruste elettriche montate lo zucchero a velo con il burro tagliato a dadini. Ottenuto un bel composto spumoso, aggiungete i tuorli, il cioccolato fuso, la farina setacciata e la bustina di vanillina. Importante: prima di aggiungere un nuovo ingrediente, il precedente deve essere amalgamato perfettamente al resto. Montate a neve gli albumi con 120 g di zucchero semolato e incorporateli nell’impasto mescolando delicatamente dal basso verso l’alto. Imburrate la teglia e poi spolverate con la farina, togliendo l’eccesso; versate il composto ed infornate a 170°C forno statico per 30-35 minuti. Una volta pronta la torta, (verificate sempre la cottura infilando uno stecchino nella parte centrale, se il legno è asciutto ci siamo), sformatela subito e mettetela a raffreddare sottosopra su una griglia. Infatti la base diventerà la parte superiore della nostra Sacher. Una volta fredda, dividetela in due (orizzontalmente), farcite con la confettura senza esagerare e chiudete con l’altro strato. Rivestite con un velo di confettura di albicocche la parte superiore del dolce e il bordo. Arriva il momento della glassa. Prima di tutto, tritate il cioccolato restante finemente con un coltello. Riscaldate la panna su un fuoco medio alto e quando arriva al bollore toglietela dal calore e aggiungete il cioccolato. Mescolate di continuo fino a che non si è completamente sciolto. Appoggiate la torta su una griglia, con sotto un recipiente per recuperare il cioccolato e versate la glassa sulla torta. Con l’aiuto di una spatola distribuitela bene su tutta la superficie. Preparate un cono con la carta forno, riempendolo del cioccolato caduto, poi chiudete. Tagliate la punta con una forbice e scrivete Sacher, imitando l’originale (ma non troppo, siamo pur sempre NON fighetti). Riponete la torta in frigo 15 minuti solo per far rapprendere la glassa; infatti si conserva benissimo a temperatura ambiente.


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L'Arte Bianca a cura di Alessandro Trezzi illustrazioni di Ozzy Bellesi pitaLa va riempita!

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Del resto potete davvero dire di non amare alla follia della succulenta carne speziata, succulenta, tagliata sottile e avvolta nel vostro pane basso preferito insieme a salse e verdure croccanti?

La cultura dello spiedo verticale Diamo a Cesare quel che è di Cesare: sappiamo benissimo quanto sia facile, con l’avvento delle mode, far ricadere un’intera famiglia di prodotti nel baratro del low cost – low quality; pensate al sushi all you can eat, al cibo cinese e al kebab, la cui immagine nel nostro paese è spesso quella di un piatto da hangover senza infamia e senza lode, la classica pietanza da mangiare per riempire lo stomaco, non certo per godere. In realtà, i veri kebab, gyros e pastor sono delle esperienze gastronomiche illustri di tutto rispetto. Vi basti pensare alla loro enorme diffusione nei paesi dotati di forte influenza islamica, come la penisola ellenica, l’Albania, il Messico e la Germania. Eh già, perché spesso si dimentica che il concetto “moderno” di kebab nacque e si sviluppò proprio a Berlino tra il 1971 e il 1972, ad opera di due immigrati turchi: Mehmet Aygün e Kadir Nurman. Furono proprio loro in quel periodo a rivoluzionare il mondo con due idee geniali; mentre Mehmet decise di usare il kebab (che in turco sta per “grigliato, arrostito”) per farcire i panini e concorrere al currywurst, Kadir ebbe l’intuizione di cambiare lo spiedo su cui cuocevano la carne ponendolo in verticale per recuperare la carne in maniera più agile. Era nato il döner (in turco “rotante”) kebab che tutti noi conosciamo.

Un piatto che ha origini ben radicate, derivanti dalla lontana Persia; leggenda narra che i soldati persiani erano soliti cuocere le carni di montone sulle loro spade in epoca medievale. Si trattava di pezzi non particolarmente grandi, un’usanza curiosa ma necessaria per le truppe che dovevano spostarsi spesso e velocemente, e che consentiva di utilizzare meno combustibile possibile. Da quello stesso concetto nacque poi l’odierno e celebre shish kebab, oggi servito con riso, pane naan o pane azzimo. Del resto che companatico sarebbe senza pane? Come dice Aralyn Beaumont nel bellissimo libro “Il tuo cibo è il mio cibo”, “Ovunque viaggiate su questa terra, trovate la carne (o un’altra fonte di proteine base) avvolta nell’amido, e gente che fa la coda per comprarla”. Quindi diamoci da fare, e troviamo un nostro pane Nerd per avvolgere qualsiasi delizia cotta al barbecue.

Pita o khubz? Si lo so cosa state per dirmi, tradizionalisti che non siete altro. “Il vero kebab si mangia con il pane arabo, e con nient’altro”. Ebbene, abbiamo in realtà appena visto quanto la cultura del magico spiedo rotante assuma diverse sfaccettature a seconda del territorio, degli usi e dei costumi locali, quindi spiegatemi un po’ perché dovremmo limitarci dal fare ciò che riteniamo più giusto, soprattutto in casa nostra. Ma tralasciando i tradizionalismi, ciò che conta per me è la sostanza e il risultato finale, che devono servire ad un unico scopo: trovare il pane basso definitivo per raccogliere qualsiasi vostra preparazione spiedinata, pullata o dadolata. Chiariamoci, con quel pane potrete poi farci quel che vi pare, ma sarà sempre un’esperienza atomica, ve lo posso garantire. Ma arriviamoci con calma e per definizione; abbiamo già lavorato su tortillas e tacos in un numero dedicato del Magazine, quindi li escluderemo dal contesto in quanto vanno a costruire un piatto completo dal carattere differente. Escludiamo anche il naan, su cui lavoreremo con tutta probabilità in futuro, anche qui per scopi diversi. A darsi battaglia rimangono pita e khubz; analizziamoli brevemente insieme. La pita è un pane piatto, rotondo, a base di farina di

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in dalla notte dei tempi, c’è un gesto che ha sempre accomunato il mondo intero, un gesto del quale sono follemente innamorato: avvolgere della carne in un pane basso, anzi che dico, bassissimo. Se ci pensate è una cosa meravigliosa, poetica ed affascinante: interi continenti uniti da una tradizione gastronomica condivisa. Non solo, la stessa cosa si può dire di una delle specialità più celebri dell’odierno street food, e che nei secoli ha fatto il giro del mondo mutando, entrando di diritto nelle diverse culture toccate; lo shawarma libanese, il kebab turco, il gyros greco e il pastor messicano tracciano una linea tra Asia, Europa e America definendo i paradigmi di uno dei piatti più amati della Terra.


grano, che possiamo immaginare come un ibrido ben riuscito tra pane, piada e focaccia, lievemente croccante da un lato, morbido dall’altro. Il khubz (o khobez) è il nome libanese per intendere il pane arabo, un pane basso schiacciato, tradizionalmente poco cotto, che in forno si gonfia lasciando una naturale tasca nella quale racchiudere gli ingredienti. Una tradizione senz’altro di tutto rispetto, ma che nel nostro essere nerd appassionati di pani e di sapori ci porta ad un’inevitabile problema di fondo: quella tasca vuota, senza un minimo accenno di mollica, una volta riempita di quintalate di ingredienti risulterà completamente assente per le nostre papille gustative, fungendo all’unico scopo di mero contenitore. Ma sapete qual è la cosa più divertente? Se fate gonfiare una pita in forno, ottenete un pane arabo. Se non fate gonfiare un khubz, ottenete una pita. Per cui, di fatto, stiamo parlando della stessa identica cosa, solo cotta in maniera differente; per chiara associazione visiva lavoreremo sul primo concetto, e mettiamoci per una volta il cuore in pace davanti ad inutili campanilismi. Ma quindi perché arrotoleremo la carne? Perché per me, che ho nel DNA anni di test e studi su pizze, focacce e pani bassi in generale, giocare con una pita di nuova generazione risulta ben più divertente e soprattutto di grande soddisfazione. E se ancora non siete convinti seguitemi, vi assicuro che da oggi in poi non cucinerete più nient’altro per accompagnare i vostri barbecue quotidiani.

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La pita Più di quattromila anni fa in Mesopotamia si preparava un impasto modellato come un disco basso e schiacciato, con poca mollica; la stessa preparazione si trasferì poi in Grecia con il nome di pita (tradizionalmente chiamata “pitta”), poi diffusa nel resto del mediterraneo. La stessa pizza e la piadina devono il loro nome e la loro origine a questa preparazione del vicino oriente, dimenticata per molto tempo e oggi riscoperta grazie alla già menzionata diffusione del kebab in Europa. Ora come sempre, da bravi nerd panificatori, focalizziamoci sul risultato finale che vogliamo ottenere e arriviamoci passo dopo passo. Ci serve una sorta di piadina più spessa e dal

diametro inferiore, morbida e che si possa arrotolare mantenendo la forma senza problemi; dobbiamo, di fatto, trovare un perfetto compromesso tra una consistenza piacevolissima e scioglievole al morso, una gran tenuta che permetta di racchiudere la farcia fino all’ultimo morso, e soprattutto l’immancabile sapore all’impasto che dovrà accompagnare la carne conferendo identità al vostro panificato. Come lavorare su questa idea? Semplice, ci rifaremo alla definizione a grandi linee che abbiamo conferito alla pita nel paragrafo precedente, e che ripetiamo: un ibrido ben riuscito tra pane, piada e focaccia, lievemente croccante da un lato, morbido dall’altro. Per cui costruire un nuovo metodo per la Pita Nerd è apparentemente facile: impasteremo come se stessimo facendo una focaccia, stenderemo come se stessimo stendendo una piadina, e cuoceremo il tutto come se fosse un pane arabo o un naan. Si, sono sicuro di avervi incuriosito. Proviamo a dare corpo all’idea insieme, passo dopo passo.

L'impasto Impasto della focaccia quindi, ma che focaccia? Siamo abituati a consigliare 0 e 00 per molliche soffici, leggere e asciutte senza ostacoli nella formazione del glutine. E tuttavia, abbiamo già affermato quanto fosse importante per una Pita Nerd avere un suo carattere, un suo bel sapore rustico e acceso che contrasti l’incredibile farcia. Per altro dovremo stendere tutto in maniera sottile con il mattarello, quindi non datevi troppa pena: con il processo giusto e i miei consigli non avrete nessun problema nel creare il vostro bellissimo disco di pasta. Come lavoriamo quindi? Scegliamo un mix di farine di grano tenero di tipo 1 e 2 macinate a pietra lavica, allo scopo di mantenere comunque una grandissima leggerezza e sofficità della poca ma presente mollica, ma al tempo stesso di mediare con umidità e grandissimo profumo. Niente olio, non ci serve, né per la consistenza né per il sapore; tutto ciò di cui avremo bisogno ce lo daranno le ore di riposo, la maturazione, le farine selezionate e la cottura millimetrica. Nell’impasto l’olio ha la funzione di qualsiasi altro grasso: se usato almeno intorno al 6-8% sul peso della farina rende l’impasto più estensibile, malleabile


Come già anticipato, saranno le reazioni enzimatiche che avvengono durante la maturazione a conferire tutti gli aromi di cui il nostro impasto necessita per essere sul serio nerd come lo intendiamo noi.

La cottura Per una pita profumata, con esterno croccante da un lato e morbido dall’altro, possiamo usare metodi di cottura diversi. Tradizionalmente la pita viene cotta in padella, una per volta, girandola spesso fino a cottura ultimata. Dal mio punto di vista questa metodologia porta a grandissimi limitazioni tecniche, in particolar

modo sul risultato finale: anzitutto ci mettete 6 anni per finirle tutte, rischiando per altro di far seccare le prime se non opportunamente conservate, ma soprattutto faticherete parecchio a cuocerle uniformemente soprattutto all’interno, considerando che la pita (a differenza di una piadina o di una tortilla) avrà uno spessore più elevato. Per cui niente padella per voi, si va di forno. Si lo so, non è tradizionale, ma non importa: è e rimane il metodo migliore per garantire un risultato degno. Per lavorare come si deve, la soluzione migliore è disporre di una superficie refrattaria che grazie all’inerzia termica vi consenta generare una spinta dal basso equilibrata e costante, ottenendo una pita asciutta, sviluppata, con la base croccante ma soprattutto uniforme. Soprattutto, questa operazione vi consentirà di sfornare e infornare nuovamente senza sosta, grazie alla sua naturale capacità di mantenere la temperatura per parecchio tempo. Nel caso in cui non disponiate di una pietra refrattaria, potete usare una teglia rovesciata che andrà opportunamente riscaldata insieme al forno; si tratta di una soluzione meno efficace perché il metallo disperde rapidamente il calore, ma è comunque un ottimo compromesso in mancanza di altro.

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e, avvolgendo le bolle di anidride carbonica che si formano durante la lievitazione, le stabilizza. L’alveolatura diventa così più omogenea e la struttura della mollica molto soffice. E tuttavia, in concomitanza con l’evoluzione dei prodotti moderni e della ricerca di una leggerezza sempre più accentuata, il suo utilizzo può essere tralasciato senza particolari conseguenze. Ma poi chiariamoci, dovremo buttar dentro alla nostra pita dosi generose di carne, salse e verdure, è preferibile quindi non esagerare con l’apporto di grassi per evitare di appesantire eccessivamente (e inutilmente) l’esperienza.


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IMPASTAMENTO

L’impasto è molto semplice e può essere realizzato facilmente a mano o in una classica planetaria. Sciogliete il lievito nell’acqua, dopodiché aggiungetene l’80% circa alle farine che avrete precedentemente miscelato in una ciotola o nella vasca della vostra impastatrice. Una volta ottenuta una certa consistenza versate il sale e l’acqua rimanente a filo, sempre aspettando che la dose precedente venga completamente assorbita. Ottenuta una massa liscia e asciutta, a una temperatura di circa 21°C/22°C, datele una forma tonda e riponetela in un contenitore ermetico stretto e dai bordi alti, che ne possa contenere almeno il triplo in volume. Abbiate sempre l’accortezza di ungere lo stesso recipiente e l’impasto di olio per evitare la formazione dell’odiata crosta.

PUNTATA

Lasciate partire la lievitazione a temperatura ambiente per circa 1 ora, dopodiché riponete il contenitore in frigorifero per 18-24 ore a 6°C, in modo da consentire alla maturazione di compiere il suo corso. per circa 30 pani pita 700 g di farina di grano tenero di tipo 1 (270-280 W); 300 g di farina di grano tenero di tipo 2 (270-280 W); 600 g di acqua fredda; 15 g di lievito di birra fresco; 20 g di sale fino o integrale;

STAGLIO, FORMATURA E APPRETTO

Trascorso il tempo richiesto dalla puntata, togliete l’impasto dal frigorifero e porzionatelo in porzioni da 50 g l’una, formando delle palline perfettamente chiuse e lisce, che andranno poi riposte a 26°C/28°C in una cassetta per alimenti con chiusura ermetica per circa 2 ore, o fino al raddoppio. In questo modo recupererete l’estensibilità persa durante la lavorazione e terminerete la lievitazione, raggiungendo il volume finale necessario.

STESURA E FARCITURA

Spolverate leggermente i panetti con della semola da entrambi i lati e allargate ogni panetto usando il mattarello, formando dei dischi di pasta larghi circa 20 cm e spessi qualche millimetro, per ottenere uno strato omogeneo e privo di gas della prima lievitazione. Il disco sarà molto malleabile, quasi “plastico”, e uniforme in tutta la sezione; bucatelo con una forchetta o una spatola per evitare un effetto “carasau”, ovvero che il glutine si strappi e che il vostro prodotto si gonfi come un palloncino. Oliate leggermente la pita sulla parte superiore (quella che non andrà a contatto con il supporto) e preparatevi all’ultimo, magico step.

COTTURA

Stabilizzate il forno tra i 250°C e i 270°C (ove possibile) avendo cura di riscaldare insieme la pietra refrattaria (riposta su una griglia da forno) o la teglia rovesciata. Potete poi prelevare la griglia con la pietra o la teglia e adagiarli sul banco da lavoro, in modo da adagiare i dischi in maniera più agile. Con una pala in legno (o con le mani se avete appoggiato pietra/ teglia sul piano) posizionate i dischi sul supporto di cottura e rimettete il tutto in forno in modalità statica e nella parte centrale. La pita andrà mantenuta sempre da un solo lato, senza esser girata, in modo da diversificare le consistenze come già accennato. Quando

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INGREDIENTI


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risulterà ben bruna nella parte inferiore e dorata in quella superiore, sfornatela e fatela raffreddare sulla solita griglia rialzata, in modo che la condensi non rovini la spettacolare consistenza appena ottenuta. Prima del servizio datele una leggera riscaldata su una piastra o a 180 °C nel forno stesso, pochi minuti per far riprendere il tepore, dopodiché date sfoggio alla fantasia e farcitele come meglio credete. Qualche idea? Realizzate un gyros con fette di coppa di maiale marinate con succo d’arancia, olio e il vostro migliore pork rub, infilzatele sullo spiedo e cuocetele al barbecue, conferendo un’immancabile nota affumicata con del ciliegio.

Farcite la vostra pita con la carne affettata, cipolle, peperoni e indivia cotte in ember roasting e della salsa tzatziki, rigorosamente posta come ultimo livello per fare da collante e mantenervi il rotolo ben saldo. Altro? Realizzate il vostro miglior brisket o delle stupende e goliardiche beef ribs, tagliate delle piccole burnt ends e adagiatele sulla pita insieme a carote, zucchine, germogli di soia e pak-choi saltati nella wok e sfumati con salsa di soia; un tocco di maionese leggera miscelata con aceto di mele e zenzero e il gioco è fatto. Forza, la pita BBQ4All aspetta soltanto voi!


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DAGLI STATES Across the Pond a cura di Elena Ninotti No BBQ, no Tailgate party! Mi sono resa conto solo oggi, nel mettermi alla scrivania per il nuovo articolo del Magazine, che forse varrebbe la pena dire due parole su chi sono io. Sono Elena, vivo in Florida e ogni mese cerco di raccontarvi un pezzetto della vita in USA, dove vivo e lavoro ormai da un bel pezzo. Posso dire di conoscerli bene, eppure gli States sono ogni giorno una nuova scoperta, una nuova tradizione. Cambiamento, allo stato puro. Questo ci aiuta anche a capire che non tutti gli americani hanno le stesse abitudini. Gli States sono circa il doppio dell’Europa; sarebbe sciocco pensare che tutti facciano le stesse cose, allo stesso modo poi. Esistono stati densamente popolati, con una mentalità progressista, ed esistono quelli basati su una economia rurale, con una densità abitativa di 2 persone per km2. Con questi presupposti, è abbastanza ovvio che le abitudini sociali di un avvocato della Grande Mela non siano uguali a quelle di un rancher del Montana. Come vi dicevo, io vivo in Florida e, ovviamente, posso portarvi la mia visione di cosa significa vivere qui, giusto 50 km a nord di Miami, in un posto dove la temperatura scende sotto i 15°C solo una decina di giorni l’anno, mentre supera i 35°C per buona parte del tempo restante. Il South Florida è una terra di confine e, come tutti i territori di questo tipo, risente dell’influenza dei moltissimi immigrati che, negli anni, si sono trasferiti qui, in cerca di fortuna oppure, semplicemente, in fuga da regimi politici che non abbracciavano. Se i latini (cioè le persone provenienti dal centro America) sono tra i più presenti tutto l’anno, da ottobre ad aprile, invece, c’è un’altra comunità che si trasferisce a passare l’inverno da queste parti: gli snowbird. Ovvero, i ricchi americani degli Stati del Nord o canadesi, che vengono a passare i rigidi mesi invernali in un clima più mite. Ognuna di queste comunità porta con sé la propria cultura, fatta di abitudini, cibi e profumi, ma tutte hanno una caratteristica comune: quella di cercare di godere il più possibile del clima caldo e della vita all’aria aperta. Perché, diciamocelo, qui si può fare grilling 365 giorni l’anno (stagione degli uragani permettendo). Sì, lo so che state scalpitando e vorreste raggiungermi. Vi capisco. Vi dirò di più: qui, nessuno si tira indietro. Tutti i parchi pubblici sono dotati di aree ristoro con bracieri, tavoli e panche. Il Paradiso del griller. Qualunque compleanno di qualsiasi bambino finisce con la cottura alla brace di hamburger o würstel, e l’amore degli americani per le grigliate raggiunge livelli da veri professionisti. Ogni occasione, anche una partita di football, è buona per portarsi dietro il proprio Weber Genesis, per dare vita a un Tailgate party. Quando si parla di Tailgate party, dobbiamo intendere eventi sociali che si svolgono attorno al bagagliaio (tailgate) di un’auto, nelle ore precedenti o successive a una partita sportiva, un car show o un concerto. Per evitare di

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arrivare troppo tardi o rimanere imbottigliati nel traffico, i supporter delle varie squadre arrivano molto presto e occupano il tempo mangiando e bevendo. Non aspettatevi una cosa tristissima, seduti sull’asfalto con un panino, perché qui sono davvero molto organizzati. Intanto, quasi tutti possiedono (almeno) un truck, ossia un pick-up. Il quale diventa davvero comodo quando si deve trasportare una ghiacciaia e un grill a gas, o addirittura uno smoker. Senza contare, ovviamente, le tende, le sedie, i tavoli per apparecchiare e mangiare in compagnia. Non è strano vedere anche spillatori per la birra, macchine per il ghiaccio, blender per i cocktail e, ovviamente, un generatore per far funzionare tutto, mica sono sprovveduti da queste parti! Contrariamente a quello che succederebbe in Italia, non si è rivali finché la partita non comincia. Questo significa che al Tailgate party tutti sono benvenuti e a tutti viene offerto del cibo, anche se si è della squadra avversaria.

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Se il tailgating è parte principale dei raduni prepartita, certamente non è l’unico caso in cui gruppi di persone ben organizzate si radunano per un pranzo all’aperto. La classica giornata in spiaggia, ad esempio, prevede tutta la stessa organizzazione che abbiamo visto precedentemente. I parchi con accesso al mare sono dotati di aree ristoro di tutto rispetto, con padiglioni, tavoli, corrente elettrica, bracieri a carbone e cesti per la spazzatura. Neanche una gita in barca ferma l’americano dal grigliare. Qui sono facilmente disponibili dei dispositivi a gas portatili, da inserire nei fori porta canna del pozzetto, che permettono di arrostire hamburger, wurstel e quanto necessario per uno spuntino in mare. Una cosa che non mancherà mai, in ognuno di questi eventi, sarà la musica a palla. Perché nessun americano o latino-americano che si rispetti esce mai di casa senza la propria cassa personale, che è di dimensione variabile tra una bottiglia da 2 litri e una cassetta per la frutta. A voi lascio le conclusioni sul livello di “rumore” che queste installazioni possano produrre. In pieno stile Tailgate, vi lascio due ricette da abbinare alla ciccia grigliata, facilmente trasportabili e di sicuro successo, anche in previsione di un barbecue primaverile

MAC&CHEESE

Ingredienti per 8-10 persone: 500 g di pasta corta/ una lattina di latte evaporato (o 400 ml di un mix al 50% di panna liquida e latte intero)/ 2 grosse uova/ un cucchiaino di salsa piccante (a vostro gusto)/ un cucchiaino di senape in polvere (o una punta di senape normale)/ 500 g di formaggio cheddar grattugiato/ 250 g di American Cheese grattuggiato (o fontina, asiago, casera, taleggio senza crosta)/ un cucchiaio di Maizena/ 115 g di burro tagliato in 4 pezzi/ pangrattato (opzionale) tostato i padella con 20 g di burro Preparazione: 1. Cuocete la pasta decisamente al dente, scolate e lasciate asciugare intanto che preparate la salsa. 2. Mescolate latte, salsa piccante, senape, e uova in una ciotola. 3. In un’altra ciotola, mescolate il formaggio grattato con l’amido di mais. Rimettete la pasta nella pentola, e, a calore basso, aggiungete il burro, un pezzo alla volta, mescolando finché non sarà sciolto. 4. Aggiungete il mix di latte e quello di formaggio, mescolando costantemente, finché il formaggio non sarà ben fuso e ricoprirà, cremoso, la pasta. Fate attenzione affinché il calore resti sempre sotto la temperatura di ebollizione. 5. Assaggiate, regolate di sale e eventualmente aggiungete un po’ di salsa piccante; versate in un contenitore adatto al trasporto. 6. Coprite con pangrattato tostato con un cubetto di burro, oppure, passate in forno sotto il grill per qualche minuto Non è necessario servire bollente, anzi, molto spesso viene mangiato a temperatura ambiente. Varianti: potete aggiungere broccoli e cavolfiore, oppure prosciutto cotto e piselli. Non è un piatto light, le dosi sopra sono almeno per 8-10 persone. Contrariamente a quanto siamo abituati a pensare noi, si tratta di un contorno! Questo significa che non se ne deve mangiare una fondina, ma di solito accompagna la grigliata servito con un porzionatore da gelato, quindi attorno ai 50/80 g a porzione.


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POTATO SALAD

Ingredienti per 8-10 persone: 2 kg di patate farinose, tagliate a cubetti di 2,5 cm per lato/ sale grosso q.b./ 50 g di zucchero/ 6 cucchiai di aceto di riso/ 3 gambi di sedano tritati/ una cipolla rossa fresca media, tritata/ 4 cipollotti freschi, solo le parti verdi tritate finemente, o, in alternativa, erba cipollina/ una manciata di prezzemolo tritato (opzionale)/ 4 cetriolini marinati agrodolci, tipo tedeschi (opzionali)/ 2 cucchiai di senape con i grani/ 250 g di maionese/ pepe q.b.

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Preparazione: 1. Mettete 2 litri di acqua in una pentola capiente, aggiungete le patate, 2 cucchiai di sale, 2 cucchiai di zucchero e 2 cucchiai di aceto; portate a ebollizione a fuoco alto. 2. Abbassate la fiamma e cuocete, mescolando di tanto in tanto, fino a quando le patate non saranno completamente tenere, circa 10 minuti. 3. Scolate le patate e trasferitele su un’ampia teglia in uno strato uniforme, quindi cospargete con altri 2 cucchiai di aceto. Lasciate raffreddare a temperatura ambiente, circa 30 minuti. 4. Mescolate in una grande ciotola i 2 cucchiai rimanenti di zucchero, i 2 cucchiai rimanenti di aceto, il sedano, la cipolla, il verde del cipollotto, la senape e la maionese. Se decidete di usarli, aggiungete anche prezzemolo e sottaceti tritati. 5. Mescolate con una spatola di gomma o una frusta per amalgamare. Incorporare le patate e aggiustare di sale e pepe. Non preoccupatevi se parte delle patate si sbricioleranno, questo

6.

contribuirà alla cremosità della salsa. Coprite e lasciate riposare in frigorifero per almeno 1 ora, e fino a 3 giorni, prima di servire.

Note • Cuocere in acqua salata e acidulata, invece di aromatizzare alla fine, permette di avere bocconi che hanno assorbito gli aromi fino all’interno. L’uso di aceto nell’acqua, inoltre, riduce l’effetto della pectina, la quale rassoda, favorendo invece lo sbriciolamento degli amidi. • Nonostante la presenza di zucchero, patata e maionese, è un’insalata molto fresca che si accompagna bene a grigliate di carne o di pesce • Se non avete aceto di riso, è possibile usa anche quello di mele. Io non amo quello di vino, lo trovo troppo invadente. Se vi piace dare un gusto più accentuato, potete comunque usarlo. Quello di riso, tuttavia, è perfetto per non sovrastare gli altri sapori.


Il raclette

L'Arte Casearia a cura di Giovanni Minelli

Il formaggio che non deve mai mancare per... la raclette

Si tratta di una preparazione nota sin dal Medioevo e all’epoca, la superficie di taglio del formaggio veniva scaldata vicino al fuoco e la parte fondente veniva raschiata per condire del pane, le patate arrivarono qualche secolo dopo. Proviamo a conoscere meglio l’omonimo formaggio, che va declinato al maschile e quindi avremo IL raclette, poi non perdiamo l’occasione per vedere insieme come cimentarci nella sua produzione. Identikit di un raclette Il raclette di norma si presenta in forme dai 5 ai 7 chilogrammi, con scalzo dritto di circa 10-12 centimetri. Il colore della crosta va dal bruno

al rossiccio, colorazione tipica delle croste lavate, ad opera del Brevibacterium linens. Come si può intuire dalla forma, bassa e larga, stiamo parlando di un formaggio pressato in fascera. Inoltre, si tratta di un formaggio semicotto e semiduro, la pasta di norma paglierina scarica presenta un’occhiatura di media dimensione, poco presente ma ben distribuita. La sua caratteristica principale vi è a dir poco nota: si fonde con enorme facilità. Di norma, si consuma entro i tre mesi di maturazione. Come si fa il raclette A differenza de gli altri formaggi che abbiamo fatto finora, avremo bisogno di una fascera. Come si può vedere dalle fotografie si tratta di una forma senza fondo che può essere stretta facendo scorrere il gattello (quel tassello di legno nel quale passa il cordino). In pratica la pressatura, come per molte altre tipologie di formaggi dell’arco alpino, avviene sia sulle facce sia sullo scalzo.

Ipotizzando la resa media del 10% avremo bisogno di 50 litri di latte per ottenere una forma da 5 chilogrammi, dunque avremo bisogno anche di un bel pentolone per contenerli. Utilizzeremo caglio liquido di vitello 1:10000 e fermenti mesofili, i soliti Lactobacillus bulgaricus e Streptococcus thermophilus. Avremo anche bisogno della tela di lino per l’estrazione della cagliata e per la successiva pressatura in fascera. Come sempre, l’occorrente: • una pentola abbastanza grande per i 50 litri di latte • un termometro per alimenti • un coltello • una frusta • una fascera • dei pesi • una tavola di legno o un tagliere che copra la fascera • un pHmetro o delle cartine tornasole • una siringa per dosare il caglio • tela di lino

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Ad un allevatore di montagna due cose sicuramente non mancano: formaggio e patate. Questi sono i protagonisti della raclette, piatto iconico originario del Canton Vallese, celebre ormai in tutta Europa. Oggi trova posto anche nei menù invernali nel nostro arco alpino e spesso, il grill da raclette, fa bella mostra di sé nelle sale dei ristoranti, diventando sinonimo di buon mangiare e convivialità.


E gli ingredienti: • 50 litri di latte intero, fresco pastorizzato o crudo da distributore automatico • caglio liquido di vitello 17,5 ml, 1:10000 • fermenti mesofili • sale e acqua per la salamoia

Avendo premura di sistemare i lembi della tela, posizionate tutto nella fascera e cominciate a stringerla finché la massa non superi di almeno un paio di centimetri i suoi bordi. A questo punto ci posizioniamo sopra la tavola di legno con dei pesi, almeno 2,5 kg per ogni chilogrammo di formaggio. Dopo 30 minuti togliamo i pesi, apriamo la fascera e liberiamo il formaggio prima di effettuare la seconda pressatura che avverrà in maniera un po’ diversa dalla prima.

Come sempre partiamo con il latte in caldaia e lo portiamo alla temperatura di 34°C/36°C. Aggiungiamo i fermenti mesofili e, lentamente, teniamo in agitazione il latte per 30 minuti. Sempre nell’intervallo di temperatura 34°C/36° C aggiungiamo 17,5 ml di caglio, o comunque 3,5 ml ogni 10 litri di latte. La cagliata dopo 30 minuti sarà pronta per il taglio e procederemo realizzando dei cubi 10x10 centimetri. Dopo 5 minuti di sosta procederemo con il secondo taglio per arrivare alla dimensione della nocciola. Iniziamo la semicottura, che sarà e dovrà essere molto lenta, l’obiettivo è raggiungere la temperatura di 42°C in 30 minuti.

Se fino a questo momento cagliata e tela erano nella fascera ora solo il formaggio sarà all’interno, mentre la tela rimarrà esterna. Sul piano di lavoro stendiamo la tela, immaginiamola come le pagine del Magazine che stiamo leggendo, al centro della pagina di sinistra posizioniamo la fascera con dentro il formaggio e la stringiamo, ci passiamo sopra la pagina di destra e a questo punto sopra riposizioniamo la tavola di legno, o il tagliere, e di nuovo sopra il peso, che questa volta aumenterà fino ad almeno 3 kg per ogni chilogrammo di formaggio. Dopo 2 ore liberiamo il formaggio dalla tela e dalla fascera per lasciarlo a temperatura ambiente per 12 ore.

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Durante la semicottura terremo in agitazione, lenta e costante, il latte, alternando, se necessario, momenti di fiamma accesa a momenti di fiamma spenta. A questo punto attendiamo 10 minuti nei quali la massa cagliata si depositerà sul fondo. Cominciamo a togliere il siero in eccesso con il mestolo fino a lasciarne una quantità che lambisca la massa depositata sul fondo e dopo altri 20 minuti estraiamo la cagliata con la tela. Mi raccomando vivamente di non lavare la tela con detersivi profumati o ammorbidente se non volete un formaggio al sapor di sapone.

A questo punto possiamo procedere con la salatura in salamoia come avevamo già fatto con il Monterey Jack nel numero di Luglio 2020 del Magazine. Vediamo le caratteristiche di questa salamoia: la temperatura rimane in ogni caso di 15°C, pH 5,1 e per la concentrazione


Ricapitolando: 00:00 aggiungo al latte a 34°C i fermenti mesofili 00:30 aggiungo al latte 17,5 ml di caglio 01:00 taglio 10x10 cm 01:05 taglio a nocciola e inizio la semicottura agitando lentamente 01:35 raggiungo la temperatura di 42°C e lascio depositare la cagliata 01:45 tolgo il siero in eccesso e attendo 02:05 estraggo la cagliata e la metto a pressare in fascera 02:35 rivolto il formaggio e continuo la pressatura 04:35 libero il formaggio e lo lascio a temperatura ambiente 16:35 immergo il formaggio nella salamoia 40:35 rivolto il formaggio nella salamoia 64:35 estraggo il formaggio dalla salamoia e lo lascio asciugare

Per ottenere la caratteristica colorazione rossastra, tipica delle croste lavate, occorre procedere con delle spugnature: al comparire delle prime muffe le rimuoveremo utilizzando una spugna imbevuta di salamoia. Questa operazione verrà ripetuta almeno una volta alla settimana e comunque sempre alla comparsa di eventuali muffe. Siete pronti a fare Monsieur raclette per Madame raclette? processo non è dei più veloci, ma seguendolo dettagliatamente non commetterete errori. Come sempre, aspetto di vedere le vostre creazioni nella nostra community Facebook Gastronomicamente.

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di sale stiamo sui 180 grammi per litro d’acqua. Il rapporto acqua/ formaggio è sempre 4:1 quindi per i nostri 5 kg di formaggio utilizziamo 20 litri d’acqua. Anche in questo caso per portare la salamoia al pH desiderato ci aggiungiamo del siero fino a raggiungere l’obiettivo. Lasciamo il formaggio in salamoia per 24 ore, lo giriamo e poi altre 24 ore a prendere sale. A questo punto possiamo estrarlo dalla salamoia, metterlo a sgocciolare e farlo asciugare per poi metterlo a maturare, dai 60 ai 90 giorni ad una temperatura di circa 12 gradi e umidità relativa dell’85%.


Vecchia Wagyu...

sta bene nel piatto

Conosciamo la Mother Wagyu, altrimenti detta Aged Wagyu. De Gustibus a cura di Paolo Tucci

Bentornati nel nostro piccolo salotto di rarità alimentari. Oggi vi voglio presentare una cosa totalmente nuova, ma per fare ciò ho bisogno che voi vi sleghiate dai canoni occidentali per abbracciare quelli orientali. Parliamo di Aged Wagyu, altrimenti detta Mother Wagyu. Il nome è sibillino, può trarre in inganno. Per questo vi chiedo di rivedere alcuni vostri concetti, ad esempio quelli che date per assodato. In particolare, dovrete rivedere il vostro concetto di frollatura della carne.

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Per noi occidentali, solitamente la frollatura – e le carni aged, invecchiate – consiste nel far sostare la carcassa dell’animale ad una temperatura controllata per un certo lasso di tempo, affinché si attivino quanto più possibili reazioni enzimatiche di proteolisi. Queste reazioni modificano il sapore, il gusto della nostra carne, arricchendolo e donando profondità e persistenza aromatica. Per quanto riguarda l’Oriente, la faccenda è un bel po’ diversa: quindi prendiamo questo concetto e chiudiamolo in un cassetto, per ora non ci serve. Certamente: in Giappone praticano il dry aging, ma ora non è quello che andremo a guardare da vicino, parlando di Aged Wagyu. Perché i giapponesi non “invecchiano” la carne dopo aver macellato l’animale… ma invecchiano la vacca da viva!

Dicevamo Aged Wagyu, quindi: letteralmente tradotto “Wagyu invecchiato”, ma chiamata anche Mother Wagyu per delle caratteristiche che vedremo poi. Iniziamo a collocarle nello spazio e nel tempo: sono vacche giapponesi, che hanno partorito e che hanno dai tre ai dieci anni. C’è qualcosa che non torna, almeno secondo i nostri canoni occidentali (non è facile sbarazzarsene e vi comprendo): vacca che ha partorito, invecchiata, con più di tre anni. Vi aiuto ad entrare di più nella dinamica. Solitamente, nel nostro mondo occidentale, una vacca – dopo aver partorito un certo numero di volte – è pronta per andare al macello. La sua funzione biologica finisce lì, dopo aver generato per il proseguimento della specie, dopodiché inizia la sua funzione “alimentare” per noi umani. Per quanto riguarda l’Aged Wagyu, l’animale di partenza è sicuramente molto diverso da quello solitamente a noi destinato. Parliamo di bovini dalla genetica 100% Wagyu giapponese, un abisso rispetto a quelli presenti in qualsiasi allevamento occidentale. Il Wagyu solitamente si colloca, a buon diritto, nella fascia altissima e pregiata dei consumi di carne; esiste però l’Aged Wagyu, che ci viene in soccorso con un prezzo più consono al mercato occidentale e con delle sfumature di gusto davvero interessanti. Dopo aver concluso il loro ciclo riproduttivo, le vacche destinate a diventare Aged Wagyu non vengono macellate, bensì


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destinate ad un programma particolare di re-feed, cioè di re-ingrasso, totalmente diverso rispetto alla Wagyu tradizionale. Questa è, a dir poco, una trovata geniale: si ottiene così una carne con un rapporto qualità-prezzo sensazionale, mettendo sul piatto un’esperienza gastronomica apparentemente meno ricca di grassi ma ugualmente generosa e stimolante in termini di umami, grazie alla lunga permanenza con alimentazione ad hoc per il reingrasso. Ogni animale ha una storia diversa, un’alimentazione diversa studiata su misura. Per quanto dura questo processo? Parecchi anni, con alcune Mother wagyu che possono arrivare fino a 100 mesi di permanenza totale nella fattoria. Questo porta ad avere una concentrazione di sapore più ricca, una infiltrazione di grasso leggermente inferiore ad una Wagyu A5, un punto di fusione del grasso leggermente più alto. Il sapore è a dir poco esplosivo. L’Aged Wagyu o Mother Wagyu ha una sua peculiarità, un sapore avvolgente, unico e distinto rispetto a carni australiane o americane. Come viene alimentato l’Aged Wagyu? Partiamo dall’orzo, dal riso, dalla crusca,fino ad arrivare al mais,

paglia di lino e particolari grani fermentati utili al microbiota dell’animale. Solo 1200 animali al momento sono stati selezionati per diventare Aged Wagyu, unico modo per poter seguire ogni capo con la precisione e dedizione che contraddistingue la cultura giapponese. Così come ogni essere umano ha una storia differente, in maniera del tutto speculare è così per gli animali. Il pedigree degli animali è studiato con la lente d’ingrandimento. L’alimentazione agisce ed interagisce di concerto con la genetica dell’animale.

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Come abbinare l’Aged Wagyu? Bisogna ricordare che il punto di grasso sarà meno pervasivo, a favore dell’umami. Quindi, dovremo giocare poco sul bilanciamento grasso/acidità, concentrandoci principalmente su contorni golosi e non smettendo mai di sperimentare nuovi abbinamenti, anche arditi, che possano avvicinare questa pietanza squisita alle tavole occidentali.


Mâitre Pâtissier - il nostro corso di pasticceria 10 oggetti indispensabili a cura del MaestroPasticcierePasqualeBevilacqua per iniziare la propria avventura di pasticceria casalinga FONDAMENTI DI PASTICCERIA: PRIMA PUNTATA Pasquale Bevilacqua, insieme a suo padre Giuseppe, conduce con successo la Pasticceria Mamma Grazia di Nocera Superiore, Salerno. Maestro pasticciere della nouvelle vague campana, si destreggia abilmente tra il mantenimento della tradizione classica campana di alta qualità ed altissime lievitazioni, di ispirazione italiana e francese. I grandi lievitati delle feste, con firma Pasquale e Giuseppe Bevilacqua, portano ogni anno a casa molti premi nelle rispettive categorie con prevedibili sold out. “L’arte di preparare dolci è molto più che saper eseguire ricette alla perfezione: è un vero e proprio gesto d’amore.” Il famoso Ernst Knam, pasticciere di gran valore e famoso volto televisivo, ha sicuramente ragione: condivido con onore della mia categoria – quella dei pasticcieri – e mi permetto di aggiungere un’altra cosa: la pasticceria è scienza, tanto quanto tutto il resto del mondo culinario. E questo piace ai lettori del Magazine, giusto? Come ogni scienza, avremo bisogno di strumentazioni adatte anche se si tratta banalmente di “giocare” in casa, sul tavolo della cucina, nella nostra taverna. Dovremo essere bravi nel dosare l’emotività irrinunciabile del dolce “del cuore” e la scientificità data dallo studio. Unendo queste due cose – la ricetta del cuore magari trasmessa da mammà + tutti i miglioramenti del caso – avremo un dolce perfetto. Vi accompagnerò passo dopo passo in questa rubrica dedicata ai fondamenti di pasticceria: essendo lettori di questo Magazine, ben sapete che il cuore (cioè il dosare e verificare ricette “a sentimento”) può essere soltanto l’avvio di una ricetta perfetta. Il resto è fatto dallo studio certosino. Per questo motivo – prima di iniziare a studiare – vi farò una breve disamina dei dieci oggetti indispensabili per iniziare la propria avventura di pasticceria casalinga.

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Leccapentola (detta anche marisa): il primo attrezzo che vi consiglio è quello che vi accompagnerà in diverse fasi della preparazione del vostro dolce, fino alla decorazione finale. Si tratta solitamente di una spatolina in silicone adatta al contatto con gli alimenti. La si può usare per emulsionare una crema in pentola, per recuperare panna o altro dalla nostra ciotola, per trasferirla altrove oppure per creare effetti decorativi ad onda sulla superficie di una torta. Termometro digitale: il termometro digitale ad oggi è I-N-D-I-S-P-E-N-S-A-B-I-L-E anche nelle preparazioni casalinghe, incluse le preparazioni di pasticceria. Il termometro sarà un amico insostituibile sia per verificare temperature positive ma anche temperature negative. L’esempio più pratico di utilizzo di un termometro digitale è la possibilità (anzi: la necessità). Se poi ci si vuole cimentare nell’arte della cioccolateria, il termometro sarà indispensabile nelle operazioni di temperaggio. Altri esempi pratici dell’utilizzo di un termometro (in cui sicuramente, voi novelli pasticcieri, vi ritroverete) sono la realizzazione di una crema inglese alla vaniglia ad esempio, per la quale occorre una temperatura precisa di 38°C, per ottenere una Bavarese delicata. Frustino: utile ed inseparabile amico. Vi occorrerà per montare la panna, emulsionare la crema, oppure renderla sottile.

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Carta forno: parliamo di qualcosa di vostra conoscenza, vista la vostra pratica in cucina. In pasticceria è decisamente importanti sia nelle preparazioni basic che in quelle più avanzate. Pan di Spagna, pastafrolla, pastasfoglia: la carta forno ci sarà utile nel processo di doratura e soprattutto eviterà che la parte grassa si attacchi sulle teglie, evitando spiacevoli sorprese nella fase di raffreddamento. Sac à poche: dovete decorare una torta? Nessun problema: la sac à poche vi renderà artisti. Si tratta in pratica di un sacchetto triangolare a punta, ove la punta viene “tagliata” e diventa una bocchetta decorativa. La sac à poche può essere di diversi materiali e non mancano quelle “autoprodotte” in casa al momento del bisogno

Setaccio a maglie fini o medie: il setaccio è utile per eliminare grumi ed imperfezioni nella farina, come ad esempio durante la realizzazione di un Pan di Spagna; o ancora, occorre per decorare un delizioso dolce con zucchero a velo, in questo caso avrete per forza bisogno del setaccio a maglie fini. Spatola: utile per livellare e rendere uniforme la superficie di una torta, per il temperaggio del cioccolato ove si necessita di un movimento continuo di questa materia sul banco, oppure per effettuare il decoro di un dolce dove la spatola è necessaria per una specifica tecnica. Coltello a lama liscia: parlare con gli adepti di BBQ4All di coltelli potrebbe sembrare superfluo e invece è quanto di più pertinente possibile, perché i coltelli servono anche in pasticceria. Quello a lama liscia soprattutto occorre per lavori di precisione, come intagli di un decoro in cioccolato o il taglio preciso di un frutto. Inoltre, ci occorrerà nel taglio di alcune preparazioni, come il taglio del pastello per la pasta da cornetto. Bilancia o bilancino di precisione: elemento di base nella pasticceria, indispensabile per la realizzazione di un prodotto di qualità e con solide basi scientifiche, come vogliamo che sia. Il bilancino di precisione è necessario per dosare le grammature piccole, come le spezie o ancora la vaniglia e il sale, caratterizzanti del nostro dolce e che necessitano di dosature molto precise perché vanno ad incidere sul carattere del nostro dolce. Alcuni esempi: la dosatura della cannella nella farcitura di una sfogliatella, o ancora la vaniglia Bourbon in una crema inglese per una mousse. Frullatore ad immersione: necessario per emulsioni, come in una crema che deve essere resa ancora più sottile al palato, oppure per rendere così sottile un confit di frutta da sciogliersi sulla lingua come zucchero nel caffè. Necessario usarlo nella fase finale della realizzazione di una glassa a specchio per eliminare eventuali bolle d’aria e per evitare separazione di acqua al suo interno nella fase di stoccaggio della nostra torta, portando così ad una veloce opacizzazione della glassa.


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Ristoranti:

Acquerello di Fagnano Olona e la sua ricetta del

kimchi a cura di Paolo Tucci

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In Italia, esistono moltissime realtà premiate dalla Guida Michelin. Se proprio dobbiamo dirla tutta, da una punta all’altra dello Stivale sono ben pochi i luoghi che non sono stati battuti o ancora riconosciuti dalla Guida. Quelli che valgono, s’intende. E in questi luoghi, si trova un po’ di tutto: la Michelin ha cercato di fare un percorso coerente con la storia del nostro Paese; primeggia senza dubbio la cucina classica italiana contemporanea, ma non mancano i ristoranti che propongono sperimentazioni nel solco della tradizione. Insomma, quello che vogliamo dire è che se si è open minded, ci si diverte, a provare stellati Michelin. Ovviamente, bisogna avere i cordoni della borsa ben disponibili: ma se siete da queste parti, lo Zio vi ha ben istruito. La qualità ed il talento sono cose che si pagano. Raramente, si resta delusi, se ci si rivolge a professionisti riconosciuti del settore. C’è un caso più unico che raro in Italia, riguardo le tavole Michelin: parliamo del Ristorante Acquerello, in quel di Fagnano Olona, in provincia di Milano. Silvio Salmoiraghi e Choi Cheolhyeok è una coppia ben conosciuta dagli amanti di un certo tipo di cucina, cioè quella che si definisce cucina italiana contemporanea. Alla base, c’è un grande rispetto delle materie prime, sia che provengano dal territorio d’origine, sia di altre regioni; su queste materie prime, inizia il ragionamento culinario e gastronomico. Defilato rispetto ai mass media, Silvio

Salmoiraghi è un tutt’uno con la ricerca gastronomica ed i fornelli. La cucina è segnata principalmente da quattro Paesi, a diverse latitudini: Italia, Francia, Korea e Giappone. Due in Europa, due in Asia: due roccaforti agli antipodi, ma che nella cucina di Salmoiraghi e Cheolhyeok riescono ad accompagnarsi e a creare un’unica identità che ha il sapore del futuro gastronomico… perché d’altronde, chi di voi immagina un futuro uguale ad ora? Il futuro sarà per forza diverso; Silvio, poi, ce lo fa immaginare anche migliore. In esclusiva per i lettori del Magazine BBQ4All, avremo tra le nostre pagine una ricetta pregiata, e ci auguriamo possiate cimentarvi per riprodurre tra le vostre mura domestiche e per portare un po’ di “modernità” tra le vostre cucine tradizionali. Parliamo del rinomato Kimchi Acquerello di Choi Cheolhyeok. Si tratta di uno dei piatti iconici del ristorante; ci sentiamo molto fieri di avere la ricetta in esclusiva e ringraziamo Silvio e Choi per la gentilissima concessione. Speriamo di esserne all’altezza nel riprodurla!


KIMCHI ACQUERELLO di Choi Cheolhyeok Ingredienti: 3,5 kg cavolo cinese (porre sotto sale grosso e utilizzare dopo 5 ore)/ 1 daikon intero (tagliare a bastoncini lunghezza 5-6 cm)/ 80 gr cipollotti (tagliare a bastoncini lunghezza 5 -6 cm) Preparazione: 1. Lavate il cavolo cinese asciugandolo con un canovaccio o torcione, tagliatelo a metà, cospargetelo di sale grosso strofinando per far penetrare il sale tra le foglie, mettetelo in una bastardella/ ciotola sotto un piatto e appoggiate un peso (va benissimo anche una pentola colma d’acqua) e lasciatelo due ore a scolare. 2. Lavate e pulite la parte verde dei cipollotti e tagliate a bastoncini.

CREMA DI RISO ACQUERELLO Ingredienti: 30 g farina di riso glutinoso/ 250 g acqua a temperatura ambiente Preparazione: 1. Incorporate la farina di riso e l’acqua, mescolate energicamente con la frusta per evitare la formazione di grumi; nel frattempo portare a bollore. 2. Otterrete così una crema di riso; spegnete subito e fate raffreddare.

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SALSA KIMCHI ACQUERELLO

Ingredienti: 2 cup polvere peperoncino coreano/ ½ cup gamberetti fermentati sotto sale/ ½ cup salsa di pesce coreana/ ¼ cup succo concentrato di prugne/ ¼ cup cipolla frullata/ 30 g aglio tritato/ 10 g zenzero tritato/ ½ cup pera frullata Preparazione: 1. Mescolare insieme la salsa e la crema di riso. 2. Mescolare la salsa piccante così ottenuta con daikon tagliato e cipollotti tagliati. Distribuire il composto tra le foglie di cavolo e coprire il cavolo con la salsa rimasta. 3. 2/3 giorni nel fermentatore ed è pronto.

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Una volta pronto potete mangiarlo crudo, saltato, bollito o come contorno con riso bianco al vapore o come utilizzarlo come ripieno. La salsa rimanente può essere usata anche in preparazioni bbq per chi gradisce un tocco più orientale ai propri lavori. Ad esempio, potete accompagnarlo a delle ribs.


BBQ4All: FROM ZERO TO HERO Capitolo III - a cura di Emiliano Nencioni

Myth busting

Sfatiamo i miti del barbecue punto per punto

F

ino a pochi anni fa, e sovente ancora oggi in replica, era possibile vedere in un TV un divertentissimo show: MythBusters, un programma di divulgazione scientifica in cui i conduttori Adam Savage e Jamie HynemanIl mettevano alla prova leggende e miti urbani. Poco più di 40 minuti conditi con scienza, fine umorismo, un po’ di sagacia, esplosioni e detonazioni come se non ci fosse un domani. Insomma, un programma adatto a tutta la famiglia Con un po’ di immaginazione, possiamo tranquillamente fare un parallelismo tra le leggende urbane e i miti del barbecue. Oggi proviamo a sfatare alcuni tra quelli più comuni, che tutti gli amanti dell’american bbq hanno sentito almeno una volta. Ci sono alcune convinzioni dure a morire (5 minuti sull’osso, il sale solo dopo la cottura, mi raccomando la fettina bella magra!) che possono seriamente ostacolare il progredire e il migliorarsi. Riuscire a distinguere in maniera precisa e accurata fatti inventati da realtà scientifiche è ciò che distingue il bucasalsicce della domenica dal perfetto grill master.

Mito 1: la conversione del collagene, lo scioglimento del grasso o la denaturazione delle proteine provocano “lo stallo”. La frustrazione di ogni grigliatore inesperto (e non solo) è lo stallo. Questo fenomeno lo si può osservare dopo circa una o due ore dall’inizio della cottura: la temperatura interna del pezzo di carne rimane ferma - a volte scende anche un po’ - e provoca parecchio panico in coloro che devono servire il pasto alla famiglia o agli amici e vedono avvinarsi pericolosamente l’ora del servizio. Ogni pitmaster ha la sua teoria, che di solito coinvolge la conversione del collagene. ovvero la reazione in cui il calore e l’acqua sciolgono le molecole di collagene in gelatina. Alcuni credono che invece sia lo scioglimento del grasso il responsabile dello stallo. In altri casi la denaturazione delle proteine viene additata come responsabile. Sebbene sia vero che tutti questi processi richiedono energia termica, nessuno di essi ne richiede abbastanza da causare lo stallo. In realtà il colpevole è un fenomeno noto come raffreddamento evaporativo. Questo processo dissipa enormi quantità di calore e interrompe l’aumento di temperatura interna nella carne. Fondamentalmente, la carne suda: l’umidità evapora e raffredda la superficie della carne, rallentando la cottura.

La maggior parte di questi liquidi di ammollo nei quali immergiamo il legno reagiscono, se riscaldati, per formare vapori che hanno una composizione completamente diversa. Immergere quindi chunks o chips in un liquido ridurrà la velocità combustione e danneggerà la qualità del fumo. Entrambe le reazioni, sicuramente, non lo renderanno più saporito.

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Mito 2: usare chunk e chips di legno immerse in liquidi saporiti (birra, vino, whiskey) renderà più saporita la carne.


Mito 3: smoke ring = sapore. Lo smoke ring è forse una delle perversioni più ricercate tra i grillers. Appena sotto il bark ci si aspetta di vedere uno strato di carne dal colore rosa, tratto distintivo, secondo molti, di un barbecue ben fatto. Questo variazione cromatica della carne è il risultato della reazione che avviene tra la mioglobina (una proteina globulare) e i gas della combustione (protossido di azoto e monossido di carbonio). Il risultato di questa reazione chimica è chiaramente visibile ma non apporta sapore alla carne. Ciò non significa che non sia importante, infatti previene l’irrancidimento derivante dallo sviluppo e dallo stabilizzarsi della tonalità rosa della mioglobina. E poi, sicuramente rende il pezzo di ciccia più bello alla vista.

Mito 4: le membrane nel cibo bloccano la penetrazione del sapore.

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Le membrane biologiche possono bloccare alcuni liquidi, ma i vapori le attraversano dissolvendosi nella carne umida sottostante. Alcuni pitmaster insistono per rimuovere la membrana nelle costolette di maiale prima di cuocerle; altri non prenderebbero mai in considerazione una cosa del genere. La scelta è soggettiva, ma la presenza di membrane non impedirà al fumo, o al sapore, di penetrare nella carne.

Mito 5: il fumo di qualità proviene solo da pezzi solidi di legno: la segatura e il pellet dovrebbero essere evitati. Si possono ottenere ottimi risultati usando segatura e il pellet per affumicare il cibo. Il problema eventualmente può sorgere qualora venga chiusa eccessivamente la canna fumaria. Scarseggiando l’apporto di ossigeno si avrà una combustione incompleta e la conseguenza sarà un fumo di scarsa qualità.

Mito 6: i catrami e le goccioline d’olio nel fumo creano una skin e cambiano il colore nel cibo. Sia il sapore che il colore delle carni affumicate derivano tra le reazioni tra il cibo e le sostanze volatili gassose presenti nel fumo (non il fumo osservabile a occhio nudo, che è già una combinazione tra goccioline liquide e solidi fuligginosi). Una scintillante pellicola è il risultato dato da una combinazione di resine create quando i carbonili e i fenoli nel vapore interagiscono con proteine, zuccheri e amidi sulla superficie del cibo, non dai catrami e dalle goccioline di olio che possono cadere sul cibo. Ma cosa è esattamente questa pellicola? Quando le proteine della carne sotto le spezie si legano e si aggregano, formano un complessa matrice legata di composti chiamati polimeri che


Mito 7: più la carne è grassa maggiore sarà il sapore di affumicato che si otterrà. Il contenuto di grassi nella carne e nei frutti di mare ha un forte impatto sulla capacità di assorbimento del sapore proveniente dal fumo sul cibo. Questo è dovuto al fatto che i fenoli saporiti nel

fumo aderiscono più facilmente al tessuto adiposo. Il grasso nel cibo quindi raccogli aromi che sarebbero meno evidenti (o in alcuni casi del tutto assenti) se non fosse presente. Di contro però un eccesso di grasso sulla superficie impedirà ai sapori di penetrare nella carne e diffondersi uniformemente su di essa.

Mito 8: solo i cibi crudi possono assorbire il sapore. Questo mito probabilmente è nato a causa del case-hardening (indurimento della skin), una conseguenza legata ad un’affumicatura errata. A causa di ciò sul cibo si sviluppa una skin indurita che blocca la penetrazione del sapore. Tuttavia, finché la superficie del cibo è umida, i vapori aromatici continueranno a essere assorbiti per poi diffondersi nel cibo. La dimostrazione di questo fenomeno è ad esempio osservabile nei cibi che vengono precotti sottovuoto. Una volta sul barbecue riescono comunque ad assorbire il fumo.

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formano uno strato chiamato skin (pellicola sulla superficie) appena sotto la crosta di spezie. La skin è solitamente spessa meno di un millimetro, come ad esempio l’etichetta sopra una lattina. Una volta che i polimeri si sono formati, sono permanenti e il loro legame non può essere sciolto. In effetti, nei locali del Southern Barbecue senza fronzoli, dove i pitmaster usano solo sale sulle costine low&slow, il bark è talmente ridotto da essere assimilabile alla skin. Questo potrebbe rappresentare una complicazione perché la skin può diventare dura se non c’è sufficiente rub e se l’umidità nella camera di cottura e troppo bassa. Farlo bene è un’arte.


La ricetta scientifica a cura di Gianfranco Lo Cascio

Lo spezzatino

Certo che è incredibile.. Cosa?

Pensavo a quanto è difficile oggi mangiare dell'ottima carne in umido. Brasato, spezzatino, stracotto. Mi ricordo da bambino, alla domenica, quando andavo da nonna, c'era un profumo che invadeva casa e non vedevi l'ora di sederti a tavola per mangiare. Che fame mi veniva. E le tagliatelle al ragù. Eh si, anche quelle. Ma il profumo dello spezzatino, non so perché, resta quello che più manca. Era complesso, rotondo. Poi quando lo mangiavi sentivi questa carne sciogliersi in bocca. Il sugo era denso, non so che intrugli facesse lei. Saranno state le patate o forse le carote, non so. Resta che quel sugo era denso, brillante, potente. Forse perché da bambino gli odori e i sapori ti restano più impressi ma ti giuro, senza campanilismo, che uno spezzatino buono così non l'ho mai mangiato. Si si, ti capisco. Io ho lo stesso ricordo ma con il ragù. Nonna mi faceva sempre pucciare un po' di pane nel tegame ma di nascosto altrimenti mamma si arrabbiava. Che buono quel ragù. Ma raccontami di questo spezzatino, mi hai incuriosito. Come lo faceva? Ma che ne so. Ricordo bene che c'erano le patate e le carote tagliate a cubettoni grossi. Avevano un colore scuro, erano morbide ma integre, tenere al punto giusto. La carne non la tagliava a pezzi. Mamma lo faceva così. Nonna te la metteva nel piatto a fette, poi metteva le verdure attorno e le bagnava con questo sugo denso. Io raccoglievo il sugo con le patate ma anche col pane.

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Da noi c'era quasi sempre la polenta. Eh ma qui non si usava. Nessuno la cucinava mai. Ma c'era il pane di grano duro, quello bello tosto. Lo inzuppavi che era una meraviglia. Quello che mi ricordo era la carne. Buona, tenera. Ogni tanto arrivava qualche pezzo di cartilagine ma era talmente morbida che mi piaceva masticarla. Anche qualche pezzetto di grasso. Ma poco, il grosso lo toglieva sempre. Il pane lo scaldava con cura in forno prima di metterlo a tavola. Anche quello, che profumo. Mamma, mentre te la racconto sto sbavando, riesco a sentire di nuovo quegli odori che sentivo a tavola.


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Ma quindi dovresti conoscere la sua ricetta. Perché non te la fai a casa. Ma in realtà non è mai saltata fuori. E poi come faccio, mica ho tempo di star lì a cuocere per ore. Ci ho provato qualche volta ma non viene mai come quello lì. Quello di Nonna era sempre uguale, sempre perfetto, sempre lui. Beh ma guarda che le tecniche per farlo esistono, basta imparare quelle e con qualche tentativo si riesce eh. Come ti dicevo, io avevo una predilezione per il ragù di Nonna. Ho imparato a farlo e tutte le volte mi viene uguale. Te lo giuro, mi fa tornare bambino. Quanto me lo godo quando lo preparo.

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Mi hai fatto ritornare la voglia di fare lo spezzatino. Cos'è che devo fare per avere lo stesso risultato secondo te? Ma guarda, non è così complicato. Per prima cosa ti servono dei tagli “di scarto”. Li fai tostare, in tegame o in forno, finché diventano scuri. Poi fai un soffritto di sedano, carote, cipolla e patate tagliate a cubettini, aggiungi un po' di vino rosso e con un cucchiaio di legno stacchi dal fondo tutti gli umori rappresi. Lasci evaporare il vino, aggiungi un po' di brodo e fai cuocere finché i ritagli di carne non si sfaldano. Aggiungendo acqua se serve.

E poi? Che ne faccio dei ritagli? Eh, aspetta, ti sto spiegando. Quando vedi che il fondo è bello scuro e marrone lo filtri e togli tutti i ritagli di carne, ma la verdura no, la frulli. Il fondo lo tieni da parte per dopo. Ma che carne devo farmi dare dal macellaio? Per i ritagli ti fai dare un po' di ossa, cartilagini, carnetta, roba che non può vendere insomma. La userai per il fondo. Per la ciccia vera e propria puoi chiedere del biancostato o un reale o la punta di petto. Anche il garretto volendo, viene molto potente però. E poi? E poi prendi un altro tegame, aggiungi la carne tagliata come preferisci e la fai rosolare bene, inteso che deve colorarsi, fare una bella crosta. Questa crosta è il prodotto delle Reazioni di Maillard e sono quelle reazioni secondo cui proteine e zuccheri riducenti, quando sottoposti a calore, formano molecole profumatissime e gustosissime. Pensa alla crosta del pane, alla pelle del pollo arrosto. Ecco, tutte Reazioni di Maillard. Questo è il momento in cui lo Zio interrompe il racconto per approfondire il primo step. Vi prometto che poi riprendiamo col dialogo.


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LE REAZIONI DI MAILLARD C

he non sono le faccine che il dott. Maillard sceglierebbe per i vostri post su Facebook. Parliamo di reazioni, che avvengono in tre fasi separate, fra gli zuccheri riducenti e gli amminoacidi. Ma affacciamoci per un istante sul passato. Louis Camille Maillard è un medico francese nato nel 1878. Dopo la maturità, conferitagli a sedici anni, si laureò a soli diciannove anni in Scienze. E credetemi quando vi dico che non aveva proprio niente a che fare con la cucina: studiava le malattie dei reni. Fu proprio durante le sue ricerche in campo medico che scoprì alcune reazioni tra zuccheri e amminoacidi, che da lui prendono l’altisonante nome. Sfortunatamente, però, le sue ricerche furono sepolte dall’oblio fino alla Seconda Guerra Mondiale, quando alcuni ufficiali dell’esercito americano cercarono di capire perché il cibo disidratato dei soldati si scurisse con il tempo. Ma in cosa consistono queste reazioni? Scaldandosi, gli zuccheri detti riducenti e gli amminoacidi contenuti nella carne si legano e creano centinaia di nuove molecole, perdono acqua e producono immine (il gruppo aldeidico o chetonico dello zucchero e il gruppo amminico dell'amminoacido formano un ponte tra i due composti organici, dando luogo quindi a nuovi composti). Continuando a scaldarsi, il legame fra zuccheri e amminoacidi degenera, la perdita d’acqua accelera e l’insieme forma i composti di Amadori e di Heyns. Segue la degradazione di Strecker che produce composti scuri e aromi caratteristici.

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Detto con parole più semplici? Le Reazioni di Maillard si traducono nei profumini della bistecca dorata, del pollo arrosto e della crosticina croccante del pane. Contrariamente a quello che si sente dire spesso, le Reazioni di Maillard iniziano a prodursi già a temperatura ambiente, molto lentamente, senza cottura. E ritorniamo alla faccenda dei soldati di cui sopra.


Quando il calore aumenta, le reazioni si moltiplicano: la temperatura aumenta di 10°C? Le reazioni si moltiplicano per 100. Passando dai 20°C della temperatura ambiente ai 130°C dell’esterno della bistecca, il numero di reazioni si moltiplica di 10 trilioni. Incredibile vero? Quando la carne si è un po’ asciugata e la temperatura esterna supera i 130°C, le reazioni avvengono molto velocemente. A 180°C (mi riferisco alla temperatura della carne e non della padella o del forno) queste reazioni lasciano il posto alla pirolisi. La carne si brucia insomma. Cosa succede quando si adagia un pezzo di carne di manzo su una piastra rovente? Con il calore, zuccheri e amminoacidi si legano, ma la reazione è invisibile a occhio nudo. Il legame inizia a perdere acqua, ve ne accorgete quando inizia a risalire quel leggero fumicciatolo bianco. Con l’aumentare della temperatura, l’acqua continua ad evaporare e il fumo bianco aumenta. I profumi cominciano a pervadere la cucina. Il lato della carne a contatto con la piastra comincia a cambiare colore, da rosso ad ambrato. Col tempo l’esterno si fa più scuro e marroncino.

Reazioni di Maillard: cosa bisogna fare per favorirle 1. CALORE Innanzitutto, serve calore, molto calore: per innescare rapidamente le prime reazioni servono una padella, una piastra o un grill ad almeno 180°C. 2. GRASSO Servono zuccheri, amminoacidi e acqua, tutti già presenti nella carne. Ma se si aggiunge un elemento grasso, si aumenta la trasmissione di calore e quindi la rapidità delle reazioni. È per questo motivo che una carne unta si rosola molto meglio, più velocemente e in modo molto più uniforme rispetto a una carne non unta. 3. ASCIUGARE, ASCIUGARE, ASCIUGARE! La carne contiene fra il 70% e l’80% d’acqua mentre le reazioni di Maillard si producono in modo più efficace quando l’acqua contenuta nella carne è fra il 30% e il 60%. Perciò, ecco due cose importanti da fare: asciugare la carne con della carta assorbente prima di cuocerla oppure togliere la carne dal frigorifero con largo anticipo e asciugarla in forno. Ma riprendiamo con il racconto.

Dopo aver ottenuto la crosticina croccante, prendi i tuoi pezzetti di carne rosolata e mettili in un sacchetto, sottovuoto. Imposti la temperatura e lasci andare. In questo momento la carne inizierà a rilasciare liquidi dentro al sacchetto. Questo accade perché il calore fa contrarre le fibre e questa contrazione fa espellere i liquidi. Ma a te va bene perché te li ritrovi comunque nel piatto. E le patate quando le metto? Le patate le cuoci in un sacchetto a parte. Cominciano a perdere struttura quando superano i 90°C di temperatura. Anche la carne inizia ad intenerirsi a quella temperatura. Perché avviene l'idrolisi del collagene cioè il tessuto connettivo che prima rendeva la carne dura adesso è diventata gelatina. Ed è quella che genera la succulenza che ti piace tanto, quel gusto rotondo, pieno, succoso. Ma pensa te. Ecco cos'era. Esatto. Facciamo una pausa in modalità Alberto Angela.

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Prendiamo il prosciutto crudo: avete presente quando, tenuto all’aria, si scurisce? Quel cambiamento cromatico è dovuto, fra le tante cose, alle Reazioni di Maillard.


IDROLISI DEL COLLAGENE

I

l collagene è strutturato come una corda: all’inizio ci sono 3 fili attorcigliati insieme. Poi si arrotolano insieme più gruppi di fili attorcigliati, e poi ancora più gruppi di fili e così via, fino a ottenere una corda resistentissima. Una volta assemblate, le corde formano una guaina che circonda le fibre della carne, per tenerle incollate. Questa guaina circonda le fibre ma anche i fasci di fibre muscolari, i fasci dei fasci e così via, fino a circondare l’intero muscolo. Scaldandosi, le guaine di collagene si restringono, si contraggono ed espellono i succhi contenuti nelle fibre.

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A 60°C - Il collagene si irrigidisce ma non si contrae ancora. Espelle pochi succhi. A 68°C - Quanto più si alza la temperatura, tanto più si contrae. A 100°C - Quanto più si contrae, tanto più le fibre espellono una grande quantità di liquidi. Quando il collagene è sottile e poco resistente, una cottura breve è sufficiente per scioglierlo e rendere la carne tenera. Al contrario, quando è spesso e

coriaceo è necessaria una cottura lunga in un ambiente molto umido per riuscire a scioglierlo. Si trasforma allora in una gelatina che assorbe l’acqua. Risultato: la carne ritorna succosa. È per questa ragione che anche con una cottura molto lunga le carni dure rimangono morbide. TAGLI TENERI VS TAGLI DURI Ci sono muscoli che lavorano molto e altri un po’ pigri, che lavorano meno. Non hanno tutti la stessa struttura e questa è la ragione principale che determina le carni tenere e le carni dure. UNA QUESTIONE DI GRANA Avete già sentito parlare della grana della carne? I professionisti si esprimono così per definire la struttura e la dimensione delle fibre, cioè la tessitura. Quanto più un muscolo è sottoposto a sforzi prolungati e/o sostenuti, tanto più le sue fibre sono spesse e corte. Al contrario, quanto più un muscolo è pigro, tanto più le sue fibre sono lunghe e sottili. Le fibre spesse dei muscoli lavoratori sono molto, molto più dure da masticare rispetto alle fibre dei muscoli pigri.


Questa è la ragione principale della durezza o della tenerezza della carne. Muscolo pigro = grana fine Muscolo lavoratore = grana grossa Grana fine = collagene sottile = carne tenera Grana grossa = collagene spesso = carne dura IL COLLAGENE, ANCORA E SEMPRE LUI… Le fibre dei muscoli pigri sono avvolte da un collagene sottile e tenero, mentre quelle dei muscoli attivi sono avvolte da un collagene spesso e duro. Ecco perché si adottano cotture brevi o lunghe a seconda che le carni siano tenere o dure.

CARNI TENERE... CHE TENERE DEVONO RESTARE Ottenere carni tenere sarebbe semplice se risultassero tutte “al sangue” o ben cotte alla stessa temperatura. Madre Natura però ci ha smantellato un po’ i cabbasisi. Affinché un pezzo di ciccia resti succoso, alcune proteine devono modificarsi, altre no, altrimenti la carne diventa dura come una mensola IKEA. Per semplificare, è necessario che la miosina si denaturi (cioè cambi la struttura proteica) ma anche che l’actina non si modifichi troppo. E le temperature a cui avvengono questi cambiamenti sono diversi per ogni animale. Per quanto riguarda il manzo, l’actina si denatura dai 65°C ai 75°C, mentre la miosina si denatura dai 50°C ai 60°C.

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CARNI DURE Si definiscono dure le carni che contengono molto collagene, come quelle per il bollito o lo spezzatino, per l’appunto. Per renderle tenere, occorre sciogliere il collagene, azione che si produce a partire da una temperatura di 65°C. In realtà, accade una cosa buffa: la carne si scalda e perde dell’acqua; anche il collagene si scioglie e si trasforma in gelatina. E ta-dà! Ecco che accade la magia! La gelatina, come una carta assorbente, riassorbe l’acqua. Insomma, in poche parole, durante la cottura dello spezzatino la carne si asciuga e poi riassorbe l’acqua che ha perso, ritornando succosa. Incredibile, no? 1. La carne si scalda, perde dell’acqua, si asciuga e il collagene si scioglie. 2. Sciogliendosi, il collagene si trasforma in gelatina. 3. La gelatina assorbe l’acqua che la carne aveva perso. E si ottiene una carne morbidissima e scioglievole.


Ma ritorniamo all’amabile dialogo pregno di amarcord.

Ma con quel fondo di prima? Che ci devo fare? Quando vedi che la carne è ben tenera e le patate sono della consistenza giusta, togli carne e patate dai sacchetti, metti tutto in un tegame e versa il fondo. Poi sciogli un cucchiaio di amido di mais in un bicchiere d'acqua fredda e mescola bene. Che sia fredda però, altrimenti ti vengono i grumi. Quando tutto è a bollore versa poco alla volta la miscela di acqua e amido e vedrai che il sugo inizierà ad addensarsi. Ma posso metterci anche le carote? Nonna lo faceva con patate e carote. A volte ci trovavo anche del sedano. Certo ci puoi mettere quello che vuoi, anche cipolle. Ma l'amido a che serve? L'amido ha la capacità di far gelatinizzare i liquidi. Ecco perché il sugo di tua nonna era così denso: usava l'amido. A partire dai 75°C l'amido fa gelatinizzare il liquido di cottura e lo addensa creando questa salsa brillante e viscosa. Il racconto si interrompe di nuovo, ma giuro che è l’ultima volta!

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COSA SONO GLI AMIDI

LA STRUTTURA L’amido è un polisaccaride costituito da lunghe catene di molecole di glucosio collegate tra loro sotto forma di amilosio (che è composto principalmente da molecole lineari) o amilopectina (le cui molecole sono altamente ramificate). Le proporzioni di amilosio e amilopectina che si trovano negli amidi variano a seconda della fonte vegetale dell’amido, ma la maggior parte di essi contiene circa il 75% di amilopectina e il 25% di amilosio. È il contenuto di amilosio variabile a causare differenze di consistenza negli alimen-


Amido

Amilosio %

Amilopectina %

Patata

21

79

Tapioca

17

83

Mais

28

72

Mais "ceroso"

0

100

LE CARATTERISTICHE DEGLI AMIDI Gli amidi subiscono quattro processi: gelatinizzazione, gelificazione, che è la formazione del gel, retrogradazione e destrinizzazione. Sono queste capacità che li rendono così preziosi nella preparazione dei cibi, anche se alcuni sono più utili di altri. La concentrazione di amilopectina e amilosio determinano e fissano il range di temperature entro i quali questi fenomeni hanno luogo. Tipologia di amido

Temperatura critica

Caratteristiche dell'amido cotto

Radici e tuberi (patate e tapioca)

56°C - 70°C

Viscoso, pasta semitrasparente, gel poco stabile

Cereali (mais, sorgo, riso, frumento)

62°C - 75°C

Viscoso, pasta opaca, gel stabile

Ibridi cerosi (mais e sorgo)

63°C - 74°C

Molto denso, pasta chiara, resistente alla gelificazione in fase di raffreddamento

Ibridi ad alto contenuto di amilosio (mais)

100°C - 160°C

Rigido, pasta opaca, gel molto stabile

LA GELATINIZZAZIONE Avviene quando i granuli di amido vengono riscaldati all’interno di un liquido. L’acqua, il latte o il brodo sale di temperatura, i legami di idrogeno che tengono insieme l’amido si indeboliscono, permettendo alla parte acquosa di penetrare nelle molecole di amido, causandone il rigonfiamento fino al raggiungimento del picco di densità. I granuli di amido si idratano progressivamente, gonfiandosi e perdendo la struttura cristallina, amilosio e amilopectina entrano in soluzione con l'acqua, formando legami con essa, di conseguenza l’acqua in forma libera diminuisce e la viscosità della soluzione aumenta. Per capire questo concetto, immaginate di avere una piscina piena di acqua e di palloncini vuoti: si potrà ancora nuotare in mezzo ai palloncini, ma se li gonfiamo con l'acqua della piscina, il liquido nel quale possiamo nuotare verrà intrappolato, e se il numero di questi è sufficiente, ci troveremo nell'impossibilità di sguazzare perché non ci sarà più acqua in forma libera. Così, se scaldiamo una quantità sufficiente di granuli d'amido in un litro di latte, quando questi si saranno gonfiati avranno sottratto gran parte dell'acqua libera, che si sarà trasformata in una soluzione densa e viscosa. L'aumento del volume e della “gommosità” associato alla gelatinizzazione cambia radicalmente la consistenza di molti alimenti. Pasta, riso, avena, patate e la mag-

gior parte delle salse, minestre e budini sono molto diversi in termini di consistenza prima e dopo la cottura. FATTORI CHE INFLUENZANO LA GELATINIZZAZIONE La gelatinizzazione dipende da diversi fattori: quantità d’acqua, temperatura, tempi di cottura, agitazione e presenza di acidi, zuccheri, grassi e proteine. Acqua Deve essere disponibile in quantità sufficiente per l'assorbimento da parte dell'amido. La percentuale di liquido necessaria dipende dalle concentrazioni di amilosio e amilopectina nell'amido. Quando si preparano alimenti amidacei come i cereali o la pasta, l’acqua non viene aggiunta solo per coprire l’alimento, ma anche per consentire l’evaporazione e l’espansione in termini di volume. Temperatura Gli amidi non si dissolvono in acqua fredda o a temperatura ambiente. Nei liquidi riscaldati, i granuli di amido si gonfiano e scoppiano, rilasciando più particelle di amido nel liquido. L'intervallo di temperatura entro il quale la gelatinizzazione può verificarsi varia a seconda del tipo di amido. L'ispessimento inizia di solito a circa 60°C. Alcuni amidi derivati da radici, come la tapioca, hanno alte concentrazioni di amilopectina, e questo innesca l'ispessimento a temperature più basse. La maggior parte degli amidi gelatinizza quando la temperatura raggiunge i 56°C-75°C. Più grandi sono i granuli di

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ti: amidi e fecole con livelli più alti di amilosio tendono a gelificare, mentre quelli con un contenuto più elevato di amilopectina ci daranno un prodotto “gommoso”.


amido (vedi quelli della patata) più gelatinizzeranno a temperature più basse, mentre i granuli più piccoli, come quelli del grano, gelatinizzeranno a temperature più elevate. Tempi di cottura Il riscaldamento oltre la temperatura di gelatinizzazione riduce la viscosità. I granuli di amido si rompono quando il riscaldamento continuo sollecita i legami che li tengono insieme. L’agitazione È necessario mescolare durante la formazione precoce della pasta di amido o della miscela di amido gelatinizzante al fine di garantire una consistenza uniforme e di evitare la formazione di grumi. Un rimescolamento continuo o troppo energico, tuttavia, provoca la rottura prematura dei granuli di amido, con il risultato di una pasta di amido scivolosa e meno viscosa. Questo vale anche per l’utilizzo del frullatore ad immersione o del colino.

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Acidi Gli acidi, come il succo di limone, il vino e l'aceto, indeboliscono la capacità degli amidi di addensarsi. In particolare, un pH inferiore a 4,0 diminuisce la viscosità di un gel di amido. Tenetelo presente quando lavorate con le riduzioni di vino. Zuccheri Lo zucchero compete con l'amido per l'acqua disponibile, ritarda l'insorgenza della gelatinizzazione e rende necessaria una temperatura di esercizio maggiore. Gli zuccheri che hanno più impatto, in ordine

da minimo a massimo, sono: fruttosio, glucosio, lattosio e saccarosio. Altri fattori che contribuiscono al rallentamento della gelatinizzazione causata dagli zuccheri sono il ridotto rigonfiamento granulare e le ridotte interazioni amido-zucchero e amido-acqua. Grassi/Proteine I grassi o le proteine ritardano la gelatinizzazione poiché rivestono con una “patina” i granuli di amido e gli impediscono di assorbire l’acqua. LA GELIFICAZIONE La gelatinizzazione deve avvenire prima della fase successiva, la formazione del gel, chiamata anche gelificazione. Una pasta di amido fluido è un sol, mentre una pasta semisolida è nota come gel. Non tutti gli amidi gelificano, ma tra quelli che lo fanno, il gel si forma dopo che il sol gelatinizzato è stato raffreddato, di solito a meno di 38°C. La formazione del gel dipende dalla presenza di un livello sufficiente di molecole di amilosio, perché l'amilosio gelificherà e l'amilopectina no. Le molecole di amilosio lineari formano legami forti, mentre le molecole di amilopectina altamente ramificate formano legami troppo deboli per contribuire alla densità del prodotto finale. I legami che si formano tra le molecole di amilosio creano una rete tridimensionale che intrappola l'acqua e aumenta la rigidità della massa d’amido. LA RETROGRADAZIONE Quando l'amido gelatinizzato si raffredda, avviene un fenomeno chiamato retrogradazione (o ricristallizzazione) dell'amido, un processo che tende a far tornare l'amido in una configurazione simile (sebbene mai identica, la gelatinizzazione è un processo irreversibile) a quella iniziale. Quello che avviene con la retrogradazione è un riarrangiamento delle catene di amilosio e amilopectina, con conseguente esclusione di una parte dell'acqua che era stata inglobata dalla struttura. La retrogradazione è un processo reversibile, nel senso che fornendo calore al prodotto l'amido gelatinizza nuovamente. LA DESTRINIZZAZIONE Un altro processo caratteristico degli amidi è la destrinizzazione, che si traduce in un aumento della dolcezza. L’effetto collaterale è che gli amidi destrinizzati perdono molto del loro potere addensante poiché sono stati scomposti in unità più piccole; quindi, è necessario più amido per addensare la salsa se la farina è stata rosolata con un grasso (vedi roux bruno per esempio). COSTRUZIONE DI UNA SALSA: L’AGENTE ADDENSANTE Quello più utilizzato è senz’altro la farina di frumento, specialmente in Nord America e in Europa, mentre nei paesi asiatici si fa largo utilizzo di amido di riso o mais. Gli amidi pre-gelatinizzati o istantanei accelerano il processo poiché si addensano immediatamente e a freddo, ma preferisco parlarne in un’altra occasione perché sono difficili da reperire. Uno dei primi passi nella preparazione di una salsa è quello di aggiungere un addensante amidaceo sotto forma di roux, beurre manié (pomata di burro e farina 1:1), o roux freddo (mix di acqua e farina).


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LO SPEZZATINO SCIENTIFICO Ingredienti per 8 persone Per la carne • 1,5 kg di flap meat/top blade/chuck roll/brisket/boneless beef ribs (Io ho usato flap meat di Wagyu F1 grado di marezzatura 5+ Crimson Crest del Megastore) • olio extravergine di oliva q.b.

LO SPEZZATINO

Ci sono le verdure, c’è la carne e c’è il suo fondo di cottura. Questi tre elementi verranno ancora divisi.

Per il fondo • 500 g di chuck roll (potete usare ritagli, ossa, cartilagini) (Io ho usato chuck roll di Wagyu F1 3+ Crimson Crest) • 1 cipolla (60 g) • 2 carote (60 g) • 30 g di sedano • 2 foglie di alloro • 2 rametti di rosmarino • 2 spicchi d’aglio • 2 bacche di ginepro • 1 chiodo di garofano • 150 ml di vino rosso • 1 l di brodo di carne o pollo • 1 cucchiaio di triplo concentrato di pomodoro • amido di mais q.b.

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Per le verdure (ogni sottogruppo indica il contenuto della singola busta) • 200 g di carote • 25 g di burro • 3 rametti di timo • sale e pepe q.b. • • •

60 g di sedano olio extravergine di oliva q.b. sale e pepe q.b.

• • •

250 g piselli freschi o surgelati olio extravergine di oliva q.b. sale e pepe q.b.

• •

1 cipolla (rossa, bianca o dorata) sale q.b.

• • •

1 kg patate a pasta gialla 100 g di burro sale q.b.

Per la finitura • Pane tostato o polenta grigliata

01. LE VERDURE

Cuoceremo separatamente le carote, il sedano, le cipolle, le patate e i piselli.


03. LA CARNE Cuoceremo la carne, prima tostandola e poi aggiungendo le verdure e il brodo. 02. IL FONDO Prepareremo il fondo con carni ricche di connettivo, perché contiene un elemento importante che darà un gusto esplosivo alla preparazione.

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01. LE VERDURE LA CIPOLLA

Qui niente sous vide. Non so se vi è mai capitato, ma se cuocete la cipolla sottovuoto rischiate di far scoppiare il sacchetto a causa dei gas che sviluppa in cottura. In questo caso userete il forno. Cuocete la cipolla intera a 230°C fin quando non si bruciacchia all’esterno e diventa morbida all’interno (65°C al cuore). Sfogliate i petali come se fosse un fiore e mettete da parte.

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LE PATATE

Sous vide a 90°C per 80 minuti. Tagliate le patate (pelate) a cubetti e aggiungete due noci di burro e un pizzico di sale. Lasciate raffreddare e mettete da parte


I PISELLI

Sous vide a 84°C per 60 minuti. Solito cucchiaio di olio extravergine e pizzico di sale e pepe. Cuoceteli per un’ora, raffreddate con acqua e ghiaccio e lasciate in frigo.

IL SEDANO

Sous vide a 84°C per 60 minuti. Pelate le coste di sedano con un pelapatate per rimuovere i filamenti. Tagliatelo della stessa dimensione delle carote. Aggiungete un cucchiaio d’olio e un pizzico di sale e pepe. Cuocetelo per un’ora. Poi raffreddate con acqua e ghiaccio e conservatelo in frigo senza aprire il sacchetto.

Un suggerimento utile: per piselli, sedano e carote potrete ottimizzare i tempi usando tre sacchetti nello stesso bagno termostatico, durante la stessa ora di cottura.

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LE CAROTE

Sous vide a 84°C per 60 minuti. Tagliate le carote a cubetti non troppo piccoli, due o tre centimetri di lato. Nel sacchetto aggiungete un pezzetto di burro, rametti di timo, delle dimensioni di un pollice. Un pizzico di sale e pepe. Tenete il sacchetto nel bagno termostatico per un’ora. Poi raffreddatelo immediatamente con acqua e ghiaccio e conservatelo in frigo, senza aprirlo


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02. IL FONDO Riducete la carne in pezzi o recuperate dei ritagli, ungete con olio extravergine di oliva e tostate a temperatura infernale, in padella o in forno a 230°C. Una volta formata la crosta brunita, aggiungete una mirepoix di sedano, carota, cipolla, bagnate con il vino e lasciate ridurre (oppure versatelo nella teglia e trasferite tutto in un tegame con la dadolata di verdure), aggiungendo un cucchiaio di triplo concentrato di pomodoro, per colorare un po’ il sughetto. Dealcolate (il calore farà evaporare la parte alcolica) e fate ridurre della metà. Raffreddate il più velocemente possibile e filtrate, rimuovendo tutta la carne.

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Raccogliete il liquido e le verdure che saranno rimaste intrappolate nel colino e frullate con il mixer ad immersione. Mettete da parte.


03. LA CARNE Ovviamente vi do i parametri da tenere in considerazione per la mia carne, perché è la mia e la conosco come le mie tasche di manzo. La mia prima scelta è la flap meat (bavetta grande), poi il top blade (cappello del prete). Va bene il chuck roll (reale). Vanno bene le beef ribs (biancostato). Va bene il brisket (punta di petto). Decidete voi. Se serve, eliminate il grasso in eccesso e tagliate la carne a cubi da 3cm per lato. Asciugatela bene. Spalmate di olio e scatenate una massiccia reazione di Maillard cuocendo in forno preriscaldato, con il grill sparato a 230°C e posizionando la teglia al centro del forno. Lasciate lo sportello leggermente aperto per permettere al vapore di fuoriuscire. Oppure tostatela in padella o perché no, friggetela! Ormai sapete come funziona, vero? La reazione di Maillard è quella reazione chimico-fisica che si manifesta quando proteine e zuccheri riducenti, in totale assenza di acqua, vengono esposti ad una fonte di calore. Queste molecole si riallineano e formano nuove molecole, non esistenti in natura, molto profumate, gustose e dal colore ambrato. E come otteniamo una crosta di cauterizzazione perfetta? 1. In totale assenza di umidità. 2. A temperatura della superficie di contatto di alme- no 140°C. 3. In presenza di zuccheri riducenti. Ce l’avete tutte e tre. Con ogni probabilità, la carne inizierà a buttar fuori dei liquidi. Non buttateli via ma toglieteli dalla teglia; per i motivi che ho già spiegato sopra. Versate il liquido nel tegame con il fondo attraverso un colino. Aggiungerà sapore. A queste punto non vi resta che rigirare i cubetti di carne e lasciar rosolare l’altro lato, sempre a 230°C, a grill andante. Vi starete chiedendo il perché del forno. Ebbene, rosolando la ciccia in pentola si sarebbe sviluppato un grande quantitativo di vapore, che avrebbe sicuramente lessato la carne. Mettete i pezzi di carne belli arruscati in un sacchetto e preriscaldate il sous vide a 75°C. Quando sarà arrivato a temperatura, immergete il sacchetto della carne e cuocete per 4 ore. Avete più tempo a disposizione? Cuocete a 65°C per 24 ore.

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Una volta pronta la carne, rimettetela nel tegame con i succhi che vi ritroverete nel sacchetto e con il fondo di cottura. Fate ridurre a fuoco moderato finché non vela il cucchiaio. Dovrà essere molto viscoso. Fidatevi perché ci sarà dentro tutto il connettivo rilasciato dalla carne che tenderà a gelificare. Quando il fondo sarà pronto potrete assemblare gli elementi. Aggiungete le patate, i petali di la cipolla e tutte le verdure preventivamente scolate dal loro liquido prodotto nel sacchetto. Mescolate e amalgamate bene. A questo punto preparate una miscela di acqua e amido di mais, a saturazione. In parole povere prendete un bicchiere d’acqua fredda e aggiungete l’amido, agitate e continuate ad aggiungere la polvere fin quando non si deposita sul fondo. Aggiungete la miscela nel tegame, un cucchiaio alla volta, aspettate che raggiunga i 75°C: a quel punto comincerà a gelatinizzare e ad addensare la salsa. Spegnete quando il sughino avrà raggiunto la consistenza che vi piace. Servite con delle fette spesse di pane tostato o con della polenta appena grigliata. Ma quante ne sai! Spettacolo. E alla fine? E alla fine niente, lo servi e lo mangi così. Grazie mille. Mi hai fatto una lezione di cucina pazzesca. Posso tornare ad assaporare lo spezzatino di mia Nonna. Non so come ringraziarti, sei davvero un amico! Ringrazia tua Nonna. Gianfranco Lo Cascio

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Bello, ma lo fanno anche da uomo?

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Seguo a cura di Emiliano Nencioni

La lampada filosofica (particolare) Renè Magritte


Siete stati bravi: ce l’avete fatta a dimenticare “ciaone proprio”, avete relegato la terribile “<qualcosa> ne abbiamo??” a pochi sparuti utenti demodè, ignari del continuo divenire del mondo attorno a loro, e persino “chiedo per un amico” non viene quasi più usata come invincibile catalizzatore di risate, ma come elemento parodistico per sottolineare l’intento volontariamente cringe (altra parola di cui liberarci non appena ci metteremo d’accordo per un decente sostituto italiano) dell’intervento. Per cui, le potenzialità le avete - come vi dicevano alle medie usando una pietosa bugia - è che vi impegnate troppo poco. Ho cercato, per dovere di cronaca, di risalire alle origini di questo tormentone seriale, pensando che, come spesso succede, fosse un ricalco infinito di qualche uscita comica particolarmente apprezzata in una cerchia ristretta: giusto per fare un esempio “ciaone proprio” fu lanciato, in un trailer cinematografico, da una incolpevole Caterina Guzzanti. La ricerca mi ha alquanto deluso, non portandomi a risultati certi: la via più plausibile è quella di una trasmissione indisturbata, un rimpallo continuo fra i canali degli appassionati di birre, frequentemente tormentati da un notevole tasso di machismo: “la birra piccola la fanno anche da uomo?”. Disponibili, per i più pigri, meme già confezionati, non di altissima qualità. Non sono rimasto soddisfatto: non “torna”. Sicuramente le radici sono da cercarsi in qualche critica contro un capo d’abbigliamento, magari mossa in un film comico: ammetto di aver inizialmente ipotizzato di trovare qualcosa nella filmografia di Checco Zalone, ma non ho avuto fortuna. Se qualcuno di voi lettori ha una buona pista da seguire, me lo faccia subito sapere contattandomi attraverso i soliti canali. Perché usate questa frase? Perché siete misogini, sciovinisti, bombardati di testosterone? No, assolutamente no, neanche per idea. Sicuramente non i lettori (siamo a nove secondo le ultime statistiche) di questa rubrica,

vi avrei esasperato e fatto sentire inadeguati molto, molto prima di questo numero. Lo fate per il solito motivo: perché “si fa”, perché lo avete visto fare dagli avatar digitali dei vostri micro-eroi sui social, dei quali cercate costantemente approvazione; perché omologarsi, ricalcare e adeguarsi fa immancabilmente placare quella fame di sentirsi parte dell’InGroup. “Ok”, dice l’utente consapevole e con pensiero critico, puntando l’ossuto indice accusatore, “ma per quale motivo dovremmo smettere di usare una frase così versatile, ìlare, che si adatta ad ogni occasione, riducendo di un buon 70% il nostro repertorio di simpatia preconfezionata?” Dovere esplicitare il motivo un po’ mi amareggia, un po’ mi stanca, un po’ sinceramente mi mette in difficoltà, come quando bisogna spiegare ad un bambino concetti come il tempo, la morte, il fuorigioco, il numero di Avogadro. Davvero siete così a disagio con la vostra percezione di mascolinità da voler rimarcare che una cosa, un bene, un oggetto, un servizio, esista specificatamente “da uomo”? Qualsiasi cosa ricordi una dimensione più delicata, meno assertiva, più attenta alle necessità altrui, appare ad alcuni “poco da uomo”: alcuni esempi famosi possono essere il monopattino elettrico, la sigaretta elettronica, la birra piccola, i pantaloni con l’orlo eccessivamente alto. “Molto da uomo” sembra configurarsi, da una veloce ricerca, il menefreghismo, la mancanza di attenzioni verso l’ambiente o le minoranze, l’”ignoranza” (in questo contesto intesa come genuina rozzezza e mancanza di scrupoli) e una serie di atteggiamenti satelliti tipici da sitcom americana dei primi anni 60. Non si capisce poi perché tutto questo sia da uomo, molto da uomo, francamente: io personalmente posso dire di non riconoscermi dentro questo incasellamento, ognuno farà le proprie valutazioni personali. “Quindi”, ripete sempre quel tizio con l’indice ossuto di poco sopra, “ci dici perché non dovremmo usare ‘sta frase, o no?” In definitiva, no. Per due motivi: per prima cosa, chi ha bisogno di una spiegazione molto probabilmente non capirebbe comunque il senso della necessità

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Scusate, ve lo scrivo subito senza neanche un elegante e giornalistico cappello introduttivo, proprio a bruciapelo: bisognerebbe fare uno sforzo e far sparire quest’espressione.


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di questa rinuncia, non lo percepirebbe, non abbraccerebbe completamente il senso della presa di posizione. In secondo luogo, perché alla fine non ho nessuna intenzione di dirvi cosa fare, non sono una persona da “seguire” (tralasciando l’assonanza con il titolo della rubrica) e non voglio creare nessun microscopico ingroup. Mi basterebbe solo instillare un minimo di consapevolezza, affinché questa ed altre espressioni subdolamente offensive fossero usate, se non ci si vuol rinunciare, con un minimo di cognizione di causa. Esatto, proprio così: si usa “perché si usa”: Per imitazione, spesso con nessuna o pochissima volontà di nuocere o screditare qualcuno. Ne ho le prove: svariate volte, lamentandomi dell’uscita poco felice, mi sono visto rispondere “ma lo dico solo come una battuta fra noi, lo diciamo sempre”, “ma quel tizio lo scrive e riceve vagonate di like” e ovviamente il passepartout della vita digitale “ma fattela una risata ogni tanto”. Ancora una volta non siete i cattivi dei fumetti, entità malvagie per il gusto del malvagio. In media siamo tutte persone molto normali e ordinarie. Le cose si fanno tanto per fare, e pazienza se qualcuno si risente o decide di eclissarsi per il forte disagio provato. Siete avatar digitali. Rappresentazioni di voi stessi non esattamente fedeli al vero, spesso molto distaccate dall’essere biologico in quanto ad atteggiamenti e sicumera. Ogni piattaforma ha un suo avatar: vi siete creati un personaggio profondo e riflessivo per Instagram, uno ligio e impeccabile per LinkedIn, uno spietato, battagliero e cinico per Facebook, e non mi addentro in ulteriori precisazioni per ovvi motivi. Dovete portare avanti il personaggio, lo facciamo tutti, è capibile. Passando sempre più tempo online, colpevole anche il lockdown oltre all’innegabile progresso, la situazione si configura in maniera pericolosamente schizofrenogena, e lo sforzo di “apparire pur non essendo” si fa sempre più lampante e palpabile. É una crisi tecnoesistenziale. Per apparire al meglio su Instagram o per avere più engagement su YouTube ci sono guide chilometriche: corsi e tutorial infiniti, masterclass, tomi da leggere capaci di rivaleggiare con il testo d’esame di Diritto

Privato. Tutto è attraente, studiato per catturare, patinato, psicologicamente avvincente, e chi non si adegua al format è penalizzato e condannato all’oblio delle venti views al mese. Ovviamente questo crea una gigantesca casa degli specchi, dove per ore e ore di navigazione giornaliera riceviamo immagini distorte, ingigantite, ritagliate ad arte per offrire, al posto della consueta realtà, una rappresentazione iperreale. Il vero, l’esistente nel piano della realtà, diventa una noia terribile, quindi impersoniamo. E siamo tutti una versione on steroids di quello che saremmo se solo non avessimo i nostri freni e le nostre paure, le nostre insicurezze e debolezze. Occhio però che a volte debolezze e insicurezze sono il nostro miglior salvagente per impedirci di essere quello che non siamo strutturati ad essere, o ad apparire. Dovreste solo capire, o più che capire esperire il fastidio che talvolta date. Che talvolta diamo. Tutti, nessuno escluso, capita anche ai benintenzionati. “Si fa per scherzare” non esclude che la cosa dia fastidio, offenda, secchi, stufi, irriti, in moltissime occasioni di cui, beninteso, la sconsiderata “lo fanno anche da uomo” funge solo come esempio e capro espiatorio. Chi non è cattivo volontariamente è solo fastidioso inconsapevole. Dice cose, scrive cose, e non capisce quanto stia irritando o adombrando il prossimo. Ed ecco che ancora una volta giunge a noi in aiuto la deflagrante sconquassante e megatonica arma della disapprovazione, micidiale presso qualsiasi avatar digitale in piena crisi tecnoesistenziale. Niente commenti, niente like, niente strizzatine d’occhio o gomitate complici. Solo “smetti”. “Hahaha ma che signorine che siete, lo fanno anche da uomo? Ridete tutti con me!” Smetti. “ma… due risate…” Smetti.

Emiliano Nencioni


N°28/ANNO 3 - APRILE 2021

L'EDITORIALE DI GIANFRANCO LO CASCIO

Assaggiare la carne: una guida completa

RICETTE

Il brivido dell'ibrido:

Rosticciana al pastor Sovracosce di pollo ai 5 pepi Panino con roast beef e agretti, Tagliatelle verdi di basilico al gambero rosso e burrata Pepper stout beef Aragoste gratinate Coscia di agnello marinata DA CUBA ALLA FLORIDA

El puerco asado con mojo criollo SEGNALI DI FUMO

Come nasce l'affumicatura ARTE BIANCA

La pizza in doppia cottura

LA RICETTA SCIENTIFICA

Guancia brasata


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Editoriale di Gianfranco Lo Cascio

Assaggiare la carne: una guida completa

Perché non devi acquistare carne di Wagyu se non hai mai mangiato carne di Wagyu Titolo altisonante? Vi suona come una boutade senza senso? Credetemi, ne ha più di quanto crediate. Faccio un paio di parallelismi così mi spiego meglio. Siete degli esperti di sigari? La vostra esperienza, il vostro set di conoscenza attuale non è nemmeno lontanamente paragonabile a quello che avevate quando avete fumato il primo sigaro. Siete esperti di champagne? Stessa cosa. La vostra capacità di intuire, di cercare le sfumature nelle diverse annate di una stessa Maison è frutto di anni di degustazioni e decine di bottiglie scolate. Vogliamo prendere ad esempio il rum? Il whiskey? La birra? Il principio è esattamente lo stesso. È tutto partito da una scintilla, uno start, una costante ricerca e applicazione, un processo evolutivo all'interno della vostra passione. Ed è per questo che siete diventati esperti. Vi faccio un esempio spostando l’attenzione su di me. Mi sono da poco avvicinato alla "fumata lenta" e al rum. Non mi aveva mai "preso" e non la consideravo una prospettiva interessante. Nel frattempo sono cambiate le mie opinioni e percezioni su queste esperienze e ho deciso di provare ad avvicinarmi. La domanda che mi sono posto all'inizio è stata "come faccio a riconoscere un sapore complesso se prima non conosco il sapore banale, quello di base, quello facile?" Ho fatto anche un paio di post in Community. E al netto dei soliti so tutto io che sparavano sentenze a casaccio sulla banalità dei prodotti che avevo scelto, sapevo di dover cominciare con i sapori essenziali. Perché è esattamente quello il punto di partenza che mi avrebbe permesso di scavare, di andare a fondo, di evolvere, di conoscere, di ritrovare le esperienze più complesse. Sarebbe inutile spiegare a questi signori che potrei andare in qualsiasi negozio super fornito e sventagliare qualche colpo da mille euro per portarmi

a casa mezza bottega. A che servirebbe? Il mio è un palato da niubbo, da novellino, non si è ancora evoluto nella direzione dell'esperto. Questo è consolidato anche da un altro aspetto focale: io non sono abituato ai sigari complessi, maturati e fermentati a lungo. La mia bocca non è pronta a riceverli. Perché alla prima boccata mi si anestetizza tutto il cavo orale e sento solo pungere. Se quindi iniziassi, invece che col toscanello aromatizzato con un Ambasciator Italico Superiore, resterei deluso e avrei sprecato un gran sigaro che magari un cultore al posto mio si godrebbe beatamente. Esiste una sorta di cerimoniale nel fumo lento che io sto ancora imparando. E non ha alcun senso spingermi sui sigari complessi ignorando a piè pari tutto ciò che c'è in mezzo; compresi i sigarelli banali e dolciastri. Molti non riescono a comprendere questo passaggio fondamentale e quindi mi prendono in giro per sentirsi migliori. Io però non voglio fare lo stesso errore con voi e quindi vi metto in guardia. Le mie selezioni carni non sono solo un mucchio di nomi stampati su etichette e messi alla rinfusa. Dovete considerarle come una sorta di “quest”, di percorso da completare. E per farlo è necessario procedere con un tempo fisiologico che non si può accelerare in nessun modo. C'è poi un altro aspetto da tenere in considerazione: che ciò che vi propongo io non assomiglia a nulla di quello che trovate in giro e moltissimo di ciò che vedete nei banchi frigo non è mai stato incluso nelle mie selezioni. Ci sarà un motivo, no? Se avete comprato Wagyu fuori dal mio Megastore, con moltissima probabilità, non sapete ancora quale sia il vero sapore e la vera consistenza del Wagyu. Il Wagyu è un prodotto di nicchia, per intenditori. Va consumato con un certo criterio, va abbinato, esiste una sorta di cerimonia nel consumo. Soprattutto per quello che riguarda il mio, di Wagyu. E se non siete esperti, se non siete nella condizione di valo-

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rizzarlo al meglio perché vi manca l’esperienza, sono io il primo a dirvi di non comprarlo. Perché sprechereste il denaro e attribuireste alla carne i difetti dovuti all’inesperienza. Se avete solo sentito nominare la carne "Dry Aged" e avete scelto di iniziare con una costata di Vacca Rossa Galiziana di 20 anni frollata 3 mesi ne resterete delusi. Perché c'è troppa complessità in quelle note di sapore. Se siete degli esperti sapete che quella carne resterà comunque tenace. Non si cerca la morbidezza in quella specifica razza. Si cercano altre note: di erba, di latte, a volte sì, anche di stallatico. È una carne complessa per palati complessi, allenati, a cui piace quel tipo di sapore. Se volete iniziare il vostro percorso per diventare un esperto di carne provate a seguire i miei consigli, e per due motivi. Primo motivo. Vi guiderò nel vostro lungo percorso spiegandovi bene che cosa aspettarvi e che cosa cercare nel sapore di una bistecca.

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Secondo motivo. Vi garantirò la piena soddisfazione o il rimborso totale, di ogni centesimo che spenderete per fare i vostri test. So che state pensando: "Dov'è la fregatura?" Beh, non c'è. La fregatura è dove c'è qualcuno che vuole vendervi qualcosa e basta. Qui si inizia un percorso "Zero to Hero" con garanzia del risultato. Ma c'è dell'altro. Ciò che imparate qui è applicabile ovunque. E quando avrete consolidato il vostro mindset, strutturato le vostre competenze, guadagnato la capacità di scegliere e valutare, vi renderete anche conto che la differenza tra noi e il mondo delle carni pregiate è ancora più abissale di quanto pensavate all'inizio. Ok, siete neofiti e a questo punto vi state chiedendo da cosa dovresti iniziare. La risposta è: Irlanda o Argentina.


Qualità della carne: erogata, percepita e attesa

Uno degli obiettivi di questo piccolo appuntamento editoriale è fornire a tutti gli elementi per parlare con più chiarezza della qualità nella carne. E lo scopo principale, quello per cui si ricorre all’analisi sensoriale, è fornire un linguaggio comune per spiegarsi i bisogni di chi la carne la mangia e in che maniera ogni carne può venire incontro a quelle specifiche esigenze. È chiaro, infatti, che se vendo una carne che richiede molti sforzi produttivi dovrò farla pagare congruamente: e in questo settore troverò una fascia di fan disposti a pagare senza remore. Ma se questi estimatori comprano aspettandosi certe caratteristiche, e invece ne trovano altre, difficilmente torneranno a comprare, o quantomeno non vorranno più pagare così tanto.

Generalmente chi vende carne ha un’idea poco chiara di cosa vogliano veramente i clienti. Fino a poco tempo fa la voce del popolo acclamava la tenerezza e il colore rosso vivo della fettina sgrassata, ma dai dati di consumo in mio possesso, e anche grazie all’attività di divulgazione in cui mi spendo da anni, risulta invece che è il complesso aromatico a condizionare la scelta del consumatore. È vero, l’italiano medio si aggira ancora confuso tra i banconi in cerca di carni magre; ma quello che desidera sono carni grasse, più gustose e succose. Però senza grasso visibile, per sentirsi a posto con la coscienza. Esiste poi una geolocalizzazione delle preferenze, gli italiani non sono mica tutti uguali. A Sud si prediligono cotture lunghe, che richiedono carni molto più grasse, dall’odore marcato, ricche di tessuto connettivo. A Nord, dove è tradizione mangiare carne cruda, è la carne magra e rosata a farla da padrone. C’è poi un dato anagrafico che fa ben sperare: i più giovani comprano volentieri carni marezzate, frollate e aromatiche, possibilmente da sbattere sulla griglia e mangiare “al sangue”.

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Vale la pena fare un passo indietro e chiarire che la famigerata “qualità” è solo un aspetto di un triangolo aureo che ha tre vertici inscindibili: • la qualità erogata, cioè l’insieme delle risorse messe in atto per ottenere le caratteristiche del prodotto; • la qualità percepita, cioè il livello di qualità realmente percepito dal consumatore; • la qualità attesa, cioè il livello di qualità che il consumatore si attende di trovare nel prodotto.


Gli attrezzi per l’assaggio: l’ambiente e il momento Assaggiare la carne è una faccenda complessa, ma potrete padroneggiarla facilmente se seguite questo procedimento passo per passo. L’analisi sensoriale ci aiuta proprio in questo senso: separare le fasi e adoperare i relativi accorgimenti. Il tutto inizia con la scelta del contesto adeguato per assaggiare: è di fondamentale importanza che il luogo sia tranquillo e silenzioso, illuminato da luce bianca di buona intensità, meglio se naturale, e pervaso da odori neutri. La temperatura dovrebbe essere compresa tra i 20°C e i 24°C, senza trascurare l’umidità relativa, meglio tra il 50% e il 70%. Non ci crederete ma i momenti ideali per assaggiare sono nella fascia oraria che va dalle dieci del mattino a mezzogiorno, mentre al pomeriggio si assaggia meglio dalle sedici alle diciotto. In ogni caso gli assaggiatori devono essere riposati, sereni e tranquilli.

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La preparazione dei campioni Preparare campioni della carne da assaggiare può farsi complesso per la grande quantità di variabili e la difficile standardizzazione. Infatti, non solo ogni taglio è diverso dall’altro: anche all’interno della stessa famiglia della bestiola o dello stesso animale non è inusuale riscontrare differenze nello stesso prodotto, a seconda della sezione da cui proviene il campione, di come viene tagliato o di come viene cotto. Per dirla tutta, le differenze all’interno dello stesso campione si riscontrano fondamentalmente a vista: difficilmente due ribeye avranno lo stesso aspetto. Di conseguenza le fasi di cottura, taglio, porzionamento e servizio sono molto delicate e


importanti: se non si servono pezzi di ciccia il più possibile identiche ai diversi assaggiatori, sarà difficile ottenere valutazioni attendibili. A parte quei casi in cui l’assaggio si basa sulla carne cruda, le modalità di cottura sono già riconosciute parte del processo di produzione che ci porta alla trasformazione finale. Per qualche motivo, però, si attribuisce meno importanza alle tecniche di taglio della carne cotta. Emblematico se si pensa che già nel Rinascimento esisteva un professionista specializzato nel taglio delle carni, l’equivalente del coppiere per il vino, denominato “trinciante”. Con il tempo questa figura si è evoluta nel maître di sala, mentre per “trinciante” oggi si intende il coltello a lama sottile e lunga (Il trinciante è anche un trattato sull'arte rinascimentale di trinciare i piatti di ogni genere, scritto da Vincenzo Cervio e pubblicato presso gli Eredi di Francesco Tramezzino a Venezia nel 1581).

È diventata un oggetto talmente di culto che anche io ne ho comprata una: una Berkel rossa e lucente che in questo momento fa bella mostra di sé sul piano cottura di casa mia. L’invenzione dell’affettatrice si attribuisce proprio a Wilhelmus Van Berkel, padre dell’omonima azienda, che progettò la prima

macchina in quel di Rotterdam nel 1898. L’idea di questo macellaio appassionato di meccanica era proprio quella di creare uno strumento in grado di tagliare le carni e i salumi in modo preciso e veloce: la prima affettatrice era fornita di lama concava posta perpendicolarmente a un piatto mobile in grado di scorrere avanti e indietro, grazie alla spinta di una ruota movimentata a braccio. Le attrezzature presenti in commercio oggi funzionano in base allo stesso principio, con le proverbiali migliorie che la modernità si porta dietro: l’alimentazione a energia elettrica e la possibilità di cambiare lo spessore della fetta regolando la distanza della lama dal supporto metallico. Nell’assaggio, l’affettatrice è uno strumento indispensabile per la standardizzare i campioni. Tuttavia bisogna stare molto attenti quando si taglia, perché quando si affetta a macchina, la velocità eccessiva e lame piccole possono riscaldare la carne, in particolare la parte grassa, rovinandola sia a livello visivo, sia olfattivo. Ecco il motivo per cui non mancano nel settore dei degustatori i puristi del coltello. Ma di lame e mappe sensoriali ne parleremo la prossima volta. Ora rilassatevi e godetevi il numero di Aprile del BBQ4All Magazine.

Gianfranco Lo Cascio

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L’affettatrice


Segnali di fumo: come nasce l'affumicatura Portfolio gastronomico a cura di Emiliano Nencioni Illustrazioni di Eleonora Castagna

A

ffumicare è un rito irrinunciabile per qualsiasi appassionato di griglia che tenti di staccarsi almeno un po’ dalla classica cottura fatta giusto per bruciacchiare un po’ di carne. Investire il cibo col fumo e impreziosirlo di note aromatiche palatabili, senza devastarne il sapore con retrogusti amari e pesantezze indigeribili è uno dei primi banchi di prova del grigliatore in corso di evoluzione. Essendo una manovra facilmente ripetibile su analoghi tagli di carne, la pratica diventa un vero e proprio benchmark, dove l’appassionato può verificare la propria crescita personale tramite sperimentazioni e assaggi ripetuti nel tempo. Pur avendo infatti origini pressappoco preistoriche, l’affumicatura può risultare difficile da padroneggiare, elusiva, ingannatrice e (a conti fatti) spesso frustrante: buttare ore di tempo, somme di denaro di tutto rispetto, carne, combustibile e legname per poi ritrovarsi l’aroma di carbon coke nel piatto non è mai una grossa soddisfazione. Il vostro Magazine preferito è qui per questo: anche questo mese potrete aggiungere un tassello alla vostra cultura culinaria leggendo queste paginette e prestando attenzione ai concetti in esse espressi.

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L’affumicatura è uno dei metodi di conservazione degli alimenti più antichi in assoluto, diventando giocoforza uno degli aspetti più importanti di molte tradizioni culinarie in moltissime parti del mondo. Oltre a scongiurare attacchi di batteri e muffe, infatti, si è capito ben presto che il sapore del cibo veniva arricchito e migliorato. Il fumo, ottenuto di solito dalla combustione di legna, ha un’azione essiccante sulla superficie del cibo, e i composti fenolici sospesi nelle nuvole profumate prevengono l’irrancidimento dei grassi, la formazione di muffe, aumentano la possibilità di conservazione della pietanza già cotta e ne virano il colore verso tinte più lucidi e appetibili, rosse e non grigiastre-verdognole. Possiamo dividere le tecniche di affumicatura in tre grandi macrogruppi:


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Affumicatura a freddo Usata normalmente per prolungare la vita utile della pietanza ma anche per migliorarne il sapore, questa tecnica prevede che il cibo venga investito dal fumo a temperature comprese tra 25°C e 45°C: in questo caso non si ha una cottura, e il processo può durare da diverse ore fino ad alcuni giorni. Il cibo viene prima essiccato per favorire il formarsi di uno strato superficiale proteico detto pellicola, che consente al fumo di aderire meglio e di comunicare gli aromi alla pietanza, ma che soprattutto funge da barriera protettiva contro aggressioni batteriche durante l’affumicatura stessa. I cibi tipicamente coinvolti in questo trattamento sono salmone, formaggio, manzo e petti di pollo: non prevedendo cottura, gli alimenti affumicati a freddo devono precedentemente essere doverosamente conciati e speziati.

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Affumicatura a caldo Il cibo in questo caso viene avvolto dal fumo e dal calore, in un ambiente chiuso e controllato, in temperature comprese tra i 60°C e gli 85°C, espediente che assicura la cottura delle proteine oltre a una corretta affumicatura. La precisione è

cruciale: a temperature troppo alte si perde troppa umidità, le proteine si “strizzano” troppo presto e il sapore non penetra. Tipicamente, oltre al summenzionato breve essiccamento preventivo, si è soliti cospargere la superficie della pietanza con sale, zucchero e altre spezie: il “rub” che ben conoscete.

Smoke-roasting Fumicarrostare? Arrosfumacchiare? Non è altro che la cottura barbecue vera e propria. Quella che andiamo con atteggiamento pedante a spiegare ai neofiti ogni volta che sproloquiano di barbecue riferendosi a qualche veloce grigliata raccattaticcia. Lo smoke-roasting, o barbecue, è una cottura a bassa temperatura, per tempi lunghi, con presenza di fumo. Nel barbecue la combinazione smoke-roasting è data dalla sommatoria dell’arrostitura, proveniente da una sorgente di calore (tipicamente carbone o legna) e della generazione di fumo derivante dalla combustione incompleta e priva di fiamma di frammenti di legname aromatico, in camere chiuse e controllate a temperature superiori a 85°C. Pur accompagnandoci sin dalle nostre prime scorribande da Homo Sapiens fuori dalle caverne, via


via fino ai nostri primi traguardi da Homo Faber (l’uomo artefice, capace di creare e trasformare l'ambiente e la realtà in cui vive, adattandoli ai suoi bisogni), l’affumicatura ha subìto un sensibile declino sin dalla prima metà del ventesimo secolo, quando i conservanti chimici e le norme sanitarie sempre più precise e stringenti ne hanno fatto decadere di molto l’utilità squisitamente pratica. Rimane comunque un eccellente metodo per insaporire carne, pesce e formaggi, e molte economie locali fioriscono proprio grazie al consumo su larga scala di specialità tipiche, come il pesce affumicato della Scandinavia o tutti i salumi e insaccati affumicati tipici dell’Europa degli Stati Uniti.

Prima della rivoluzione industriale, nei paesi anglosassoni il bacon era prodotto esclusivamente su base familiare e casereccia, un po’ come le conserve di pomodoro delle nonne (ormai bisnonne?) italiane.

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Esiste una pietanza affumicata che ha il potere di stare bene ovunque: sulle uova, con il manzo, con la selvaggina, nelle patatine, nei biscotti, sui popcorn, anche nel dentifricio: il bacon. Antichissimo e diffuso (in varie declinazioni) in ogni popolazione mondiale che abbia un buon rapporto col maiale, già nel dodicesimo secolo si inizia a parlare di bakkon nella zona teutonica, di bakken spostandosi verso i Paesi Bassi, e di bako in francia, tutte parole dalla radice comune e atte a indicare il dorso del maiale; solo nel diciassettesimo secolo la parola bacon iniziò a riferirsi esclusivamente alla pancia del maiale salata, conciata e affumicata.


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Nel 1770 John Harris, ritenuto il precursore della commercializzazione su larga scala di bacon, fece diventare la contea di Wiltshire la capitale mondiale del bacon: situato in un provvidenziale “punto di smistamento” per i maiali importati dall’Irlanda e diretti in tutto il Regno Unito che garantiva una presenza costante e massiccia di capi di bestiame, Harris aprì il primo stabilimento di concia e affumicatura del bacon su stampo industriale, con un suo processo segreto e ben definito, diventato noto come la “Wiltshire Cure”. Altra inevitabile specialità di cui per una volta possiamo sentirci autarchicamente orgogliosi è il salame affumicato. Non v’è dubbio che l’inglese salami ma anche gli europei salam, szalami e salàma derivino tutti dal latino salumen, sostantivo collettivo per indicare “ciò che debba essere sottoposto a salagione”. La facilità di lunga conservazione di un alimento conciato, salato, speziato e affumicato,

nonché l’indubbio ottimo sapore, ha decretato nei secoli un successo pressoché totale della pietanza; la possibilità di personalizzare la composizione, la grana del macinato e le spezie ha contribuito anche ad una massiccia differenziazione dei sapori, per cui se con il termine “salame” andiamo a indicare un generico insaccato stagionato con macinato di carne e spezie, innumerevoli sono le varianti mondiali. Provate a pensare alle differenze macroscopiche, solo per l’Italia, fra finocchiona, cacciatorino, ciauscolo e ’nduja. Una verità scomoda Seguendo l’antico adagio “se una cosa è buona, fa male e fa ingrassare”, l’affumicatura può portare diverse problematiche non trascurabili, specie quando è realizzata male o quando se ne abusa in termini di quantità. E’ ovvio che affumicare porti a incorporare diverse sostanze tipiche del fumo nel cibo, con tutte le conseguenze negative

che certi allarmistici pacchetti di sigarette ci hanno portato a conoscere bene. La pietanza può essere contaminata da idrocarburi aromatici policiclici, benzopireni e N-nitrosammine, che sono prodotte da alcuni comuni composti per la concia pre-affumicatura, quali nitrati e nitriti. Non c’è solo la remota possibilità di danni all’apparato digerente in caso di continue e insensate abbuffate di pietanze affumicate: c’è anche il rischio, sempre remoto ma molto più terra terra, di infezioni gastriche dovute a contaminazioni batteriche causate da affumicature non perfette: l’Escherichia Coli e la Listeria monocytogenes possono portare listeriosi, mal di testa e indimenticabili diarree. Motivi in più per studiare a fondo ogni dettaglio riguardante l’affumicatura, per lasciar perdere ogni tentativo maldestro di conservazione “alla buona”, e per preferire informazioni serie e dettagliate a tutorial approssimativi trovati in giro per la rete.


Cibo affumicato (non tanto) famoso

CHOURIÇO GRIGLIATO PORTOGHESE Simile al chorizo spagnolo, è una salsiccia di maiale affumicata, speziata con paprika e aglio; viene servita in maniera coreografica, a fette su un piatto contenente brandy che viene incendiato: le fiamme rendono immediatamente croccante il budello e fanno sfrigolare le parti di grasso. OSCYPEK DI ZAKOPANE, POLONIA Formaggio in forma cilindrica e finemente intagliato e decorato a mano, fatto con il 60% di latte di pecora, è considerato uno dei formaggi affumicati più buoni al mondo. Pare che sia una via di mezzo fra la mozzarella e la scamorza, ma con affumicatura al pino. PESCE OMUL, LAGO BAIKAL, SIBERIA Della famiglia dei salmoni, l’Omul è un pescetto bianco endemico del lago Baikal. La piccola città

di Listyvanka affumica tradizionalmente questo pesce, principalmente perché è quasi l’unica forma di sostentamento. Diventato per forza di cose lo street food russo, è perfetto per uno spuntino al volo. SALMONE AFFUMICATO, ALASKA A differenza del salmone atlantico, che è allevato, quello dell’Alaska è pescato in piena libertà. Il sapore, dicono gli appassionati, non è minimamente paragonabile. Viene affumicato a freddo per diversi giorni e servito a fette sottili su bagel (ciambelle salate) assieme a crema di formaggio. ANGUILLE AFFUMICATE, OLANDA La passione degli olandesi per le anguille è tale che negli ultimi 50 anni, a forza di affumicare, queste ultime sono entrate di diritto tra le specie in pericolo di estinzione. La conseguenza è che la quasi totalità delle anguille vendute proviene da un allevamento, con una particolarità: la sfuggente bestiola non si riproduce in cattività, per cui gli esemplari selvatici vengono prima catturati e poi allevati e nutriti in allevamento. A Volendam, nei Paesi Bassi, l’anguilla affumicata è considerata uno snack da street food, servita in un toast. La scarsità del pescato la rende una pietanza piuttosto costosa.

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MONTREAL-STYLE SMOKED MEAT, QUEBEC Brisket di manzo conciato secondo le regole kosher, presente in ristoranti tradizionali ebrei presenti in tutto il Canada. La carne viene tagliata grossolanamente a mano, bagnata con mostarda e messa generosamente su pane di segale, assieme ai cetriolini, accompagnata da patatine fritte ricoperte di sugo e scaglie di formaggio.


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Il taglio del mese

CHUCK ROLL STEAK O

Ammesso che la ribeye sia la regina del barbecue , il chuck roll è esattamente il pretendente al trono, discendente per linea diretta. Oppure, se ci piacciono gli intrighi, l’usurpatore. Sappiamo benissimo che solo alcune genetiche della specie Bos Taurus (Angus, Hereford, ecc.), affiancate a metodi di allevamento superiori possono dare una carne dal sapore esplosivo e una morbidezza senza pari: il nostro chuck roll non fa eccezione e conferma i nostri studi. In Italia questo taglio è davvero poco apprezzato. Il motivo? Il chuck roll ricavato dalle razze più commerciali di origine francese (Charolaise, Limousine) o incroci, ma anche in quelle autoctone ugualmente diffuse in Italia è scarsamente marezzato e non adeguatamente frollato: tradotto in termini gastronomici, non ha abbastanza sapore né morbidezza. E cosa fa con questo taglio, il macellaio che magari non ha voglia di educare

il cliente? Svende il reale come fettina, o ancora come carne trita.

Noi di BBQ4All abbiamo selezionato razze che ci garantiscono bistecche di chuck roll (o pezzature importanti) dalla marezzatura sbalorditiva e sapore unico. Dal Black Angus al Wagyu, passando per gli incroci: vi sfidiamo a preparare uno spezzatino da capogiro, magari scientifico (lo trovate sul numero di Marzo), altro che polpette in umido.

Il chuck roll: anatomia Il chuck roll è il continuum della lombata verso il collo, a volte sgrassato e squadrato, trovato in commercio sia intero che porzionato, il quale insieme alla spalla (dove troviamo Flat iron, Top Blade, Vegas strip, Teres Major, ecc) forma quello che viene chiamato Chuck Primal. Come sempre, secondo le guide dei nostri amici americani troviamo una moltitudine di utilizzi per il nostro taglio: ad esempio, se disossato nelle sue componenti più piccole può magicamente cambiare forma e nome, regalandoci bistecche fantastiche come la Denver Steak. Per spiegarvi meglio la sua versatilità siamo costretti ad annoiarvi con i soliti tecnicismi. Vi giuriamo che poi ci facciamo perdonare a dovere. Come dicevamo poco più su,

il chuck roll è parente della ribeye, taglio da cui si separa solitamente alla quinta costa e con cui condivide una piccola parte di Ribeye filet o Longissimus dorsi (nelle prime 2/3 bistecche), insieme ad altri gruppi muscolari come Complexus, Multifidus dorsi, Spinalis dorsi, Serratus ventralis, Splenius, Rhomboideus e Subscapularis. Potete acquistare il vostro chuck già porzionato in fette dello spessore perfetto per un esperienza zerosbatti come direbbero i nostri Coach, ma se siete cosi nerd e proprio avete voglia di sezionarlo da soli il modo migliore di dividerlo è (inizialmente) in due, tagliando lungo la venatura naturale fino ad avere il Chuck eye roll (composto da Longissimus dorsi, Spinalis dorsi, Complexus e Multifidus dorsi ) e l'Under blade separati; qui è dove il nostro Serratus Ventralis (Chuck Flap) può diventare una Denver steak, se porzionato, non prima di aver tolto la cosidetta scoronatura o squadratura (Rhomboideus). Arrivati a questo punto, non è piu consigliabile continuare in ambito casalingo, perché dopo una divisione completa con trimming eccessivo potremmo ritrovarci con parecchio scarto. Tuttavia, se proprio siete curiosi di continuare a separare i muscoli, troverete lo Spinalis sotto il nome di Sierra steak, che può egregiamente sostituire una Flank steak (hanno la stessa forma, ma lo Spinalis è più

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ggi parliamo di chuck roll (o reale, per gli amanti della lingua italiana a tutti i costi): pur essendo considerato uno dei tagli di seconda categoria, consiste invece in una porzione di ciccia che consente di avere delle bistecche eccezionali, alcune tra le preferite dai veri amanti della marezzatura. Bisogna avere però le giuste competenze per poterla apprezzare: siamo qui per fornirvi tutto ciò di cui avete bisogno.


tenero); allo stesso modo il restante Chuck Eye puo essere porzionato come Delmonico steak, ricavando dei medaglioni simili al filetto. Nel registro linguistico italiano (ed anche regionale italiano), oltre al già citato reale troveremo i rispettivi cuore di reale, fracosta, collo, braciola.

Chuck roll: cosa ci facciamo? Possiamo dire con certezza che non esista preparazione che il nostro chuck possa temere: tecniche di cottura come smoking, braising o roasting calzano a pennello per il nostro pezzo di carne, grazie alla grane presenza di tessuto connettivo e all’elevata marezzatura.

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I tagli sopra elencati come Denver o Sierra ci dimostrano che è possibile, se non consigliabile alle volte, cucinarlo anche con tecnica pan fry (saltato in padella con piccole quantità di grasso) o sul grill, con o senza marinatura e/o rub . Dall’altra parte , il Chuck eye filet, oltre ad essere eccezionale in cotture dirette come nel caso delle Delmonico steak, è uno dei tagli preferiti degli asiatici per quello che è chiamato instant-boiled beef e si adatta benissimo anche ad un Baltimora Pit Beef, quasi meglio del originale Eye of Round, dal nostro punto di vista. Ma niente vieta di consumarla come gustosissima e nutriente tartare. Insomma, il chuck roll saprà accontentare tutti, ovviamente se trattato a dovere. Impossibile stabilire il taglio perfetto del chuck roll: come detto sopra, abbiamo la possibilità di usarlo sia intero che porzionato in svariati modi. Sta a noi trovare la modalità di taglio migliore per il pezzo che ci troviamo davanti, in base a come abbiamo intenzione di cucinarlo e di consumarlo.


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Toglieteci tutto ma non le costine!

ROSTICCIANA "AL brasata PASTOR" al sidro di mele Se c’è un taglio di carne che simboleggia più di tutti la grigliata, è sicuramente la rosticciana (o rostinciana a seconda della zona). Un gustoso costato di maiale, speziato in maniera semplice e cotto alla brace. Tipica della gastronomia toscana e dell’alto Lazio viene generalmente condita con un velo d’olio, sale, pepe, aglio ed erbe aromatiche come il rosmarino. In questa versione abbiamo fatto un salto gastronomico in Messico, mantendendo l’anatomia del taglio classica della rosticciana e traendo ispirazione dalla marinatura “al pastor”, solitamente usata per insaporire delle fette di spalla di maiale che finoscono dentro gustosi tacos. Sfruttando la nostra amata cottura ibrida riusciremo ad ottenere, in maniera veloce e poco impegnativa, dei tocchetti di maiale tenerissimi, gustosi e super saporiti, con cui riempiremo delle fantastiche tortillas fatte in casa. Nella prima parte della cottura sfrutteremo il calore per convenzione generato dal setup indiretto, affumicando il nostro costato con l’essenza che ci è più gradita: nel nostro caso un blend di quercia rossa e ciliegio. Quando la superficie sarà asciutta e di un bel colore mogano, sposteremo il tutto in una vaschetta di alluminio o in una pentola in ghisa. Per la seconda parte della cottura, infatti, sfrutteremo un liquido, nel nostro caso il sidro di mele, per brasare le costine. Il sugo di cottura che ne verrà fuori vi farà fare i salti mortali sul posto. Garantito. Come accompagnamento noi abbiamo utilizzato i classici elementi del tacos “al pastor”: cipolla di Tropea cruda e ananas fresco. Nulla però vi impedisce di sbizzarrirvi con i condimenti che più preferit, dal guacamole alla salsa roya, dal queso fresco ai fagioli: non mettete limiti alla vostra immaginazione.

Per una versione più mediterranea condite la rosticciana nella maniera classica, con il Rub Ultimate Spog di Sal’s seasoning addizionato con rosmarino secco, e infine utilizzate del buon vino bianco per la seconda fase della cottura.

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Le tortillas fatele in casa, fa tutta la differenza del mondo. Noi abbiamo utilizzato farina di grano, ma si possono realizzare anche con un’ottima farina di mais bianca (masa harina).


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PREPARAZIONE 1.

Il giorno prima preparate la marinatura; dopo aver tostato le spezie unitele in un frullatore con il resto degli ingredienti e frullate fino ad ottenere un composto omogeneo e profumato con cui coprire interamente il costato di maiale, dopo averlo privato della pleura. La pleura è la membrana che ricopre le ossa, basta far leva con il manico di un cucchiaino ed entrare delicatamente con un dito, poi strapparla via aiutandosi con un foglio di carta assorbente.

2.

Dopo almeno cinque ore in marinatura, settate il dispositivo per una cottura indiretta stabilizzando la temperatura sui 160°C/170°C.

INGREDIENTI

3.

Affumicate con l’essenza scelta fino ad ottener un risultato visivo soddisfacente e una superficie color mogano.

2 slab di Ribs Duroc del Megastore

4.

Trasferite il tutto in una teglia di alluminio o una pentola in ghisa, aggiungete il sidro e coprite con il coperchio o con un doppio strato di alluminio.

5.

Alzate la temperatura anche sui 180°C/200°C e cuocete per almeno 40 minuti.

6.

Dopo 40 minuti fare un check della rosticciana, utilizzando il toothpick test: infilando uno stuzzicadenti tra due costine, dovrà affondare come entrasse nel burro.

7.

Se con il toothpick test avete raggiunto il risultato indicato, togliete il coperchio e fate ridurre la salsa.

8.

Eliminate le ossa con cura e tagliate la carne in tocchetti irregolari, che andrete poi a mescolare con il sugo di cottura ridotto.

9.

Per le tortillas unite tutti gli ingredienti in una bowl fino ad ottenere un impasto liscio e omogeneo.

6 persone

mezza cipolla di Tropea 4 fette di ananas 200 g di panna acida Coriandolo fresco q.b. Peperoncino fresco (facoltativo) Per la marinatura: 3 fette di ananas mezza tazza d’acqua 2 cucchiai di paprika affumicata 2 cucchiaini di sale 1 cucchiaino di pepe nero 1 cucchiaino di origano 1/2 cucchiaino di cumino 1/2 stecca di cannella 1/4 cucchiaino di chiodi garofano il succo di due arance un cucchiaio di olio extravergine d’oliva 2 spicchi d’aglio 1/4 di cipolla dorata Per le tortillas di farina (12 pezzi): 30 ml olio extravergine di oliva o di strutto 10 g sale 250 g farina 120 g acqua tiepida

10. Porzionate in palline da 35 g circa e lasciate riposare almeno 15/20 minuti. 11. Se avete la classica tortillera è tempo di tirarla fuori e, aiutandovi con della carta forno, modellare le tortillas. Altrimenti, matterello e olio di gomito fino a stendere le palline dello spessore di circa 2 mm. Il trucco in questo caso è di usare la carta forno o poca farina, per non ritrovarsela in bocca dopo la cottura. 12. Cuocete le tortillas in padella di ghisa o antiaderente a fiamma medio-alta fino a che non saranno dorate da entrambi i lati. 13. Una volta cotte avvolgetele impilate in un tovagliolo di stoffa, così da mantenerle calde e umide. Consumatele in fretta perché tendono a seccarsi rapidamente. 14. Tritate la cipolla di Tropea finemente e lasciatela almeno 30 minuti a mollo in acqua fredda, poi scolatela e riducete l’ananas a cubetti. 15. Mescolate lo panna acida con un cucchiaio di latte così da allentarla un po’ e renderla squeezy. 16. Guarnite ogni tortilla con abbondante rosticciana brasata, l’ananas, la cipolla cruda, la panna acida e del coriandolo fresco tritato. Servite spruzzando sopra del lime e preparatevi agli applausi del pubblico famelico. Consiglio non richiesto ma gradito: preparate in abbondanza.

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300 ml di sidro di mele


Anche il pollo vuole la sua parte

SOVRACOSCE

AI CINQUE PEPI con glassa ai mirtilli

La cottura ibrida trova una delle sue più grandi applicazioni con il pollo, permettendoci di ottenere una carne tenerissima e succulenta e una pelle profumata e super croccante come un biscottino. Non c’è niente di peggio della pelle di un volatile pallida e molliccia. La carne di pollo è altamente versatile, nutrizionalmente validissima, ottima per chi non può eccedere in colesterolo o altro per diversi motivi. Tutto giusto, ma: dobbiamo saperla fare. E noi di BBQ4All siamo qui per voi con questo articolo dedicato, appunto, al pollo. Di più: vi daremo tutti gli strumenti per creare una ricettina niente male: sovracosce di pollo ai cinque pepi con glassa ai mirtilli. Vi assicuriamo che così convincerete anche i più scettici, quelli che “la coscetta sbiancata” manco morti. Per la cottura del pollo, dicevamo, la cottura ibrida è quella che si presta meglio: è importante che la temperatura di esercizio sia non troppo alta, perché questa condizione evita che ci sia una forte contrazione delle fibre della carne ma allo stesso tempo garantisce il necessario calore secco per disidratare al meglio la pelle delle sovracosce in poche ore, così da ridurre al minimo il tempo di permanenza in cottura diretta scongiurando spot bruciacchiati e fiammate fastidiose. La laccatura dolce e spessa si sposa benissimo con l’interno piccante e pepato. Il basilico con la sua nota balsamica si congiunge in maniera inconsueta ma gustosa con l’aceto presente nella glassa: questi sapori sono entrambi ricchi di percezioni retronasali interessanti. I mirtilli, volendo, possono essere sostituiti con altre varietà di frutti di bosco, così da creare sfumature infinite di gusti e profumi.

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Passiamo ai cinque pepi: vista la “numerosità” vale la pena spenderci qualche parola in più. La tostatura dei pepi è importantissima. Ne esalta i sentori, ravvivandoli e aumentandone notevolmente aroma e percezione. Fatelo separatamente, basterà tenerli su giusto il tempo di riempire la cucina di profumo. Per questo vi suggeriamo di pestarli al mortaio delicatamente lasciando una grana grossolana, così da distinguerli bene sotto i denti. Conta anche questo, in un’esperienza gastronomica seppur casalinga. Il Pepe Nero Tellycherry è il re del pepe. Il suo sapore caldo riporta sentori terrosi e di legno pregiato, risultato di una lunga maturazione. Si tratta forse del pepe nero più diffuso e utilizzato in Europa. Prende il nome dalla regione di Thalassery, nello stato del Kerala in India dove viene coltivato. La grandezza delle bacche determina la concentrazione di piperina nella polpa essiccata e quindi la qualità. La macinatura a grana grossa permette di mantenerne intatto l’aroma.

Il Pepe Lungo del Bengala proviene dal Sudest asiatico. I piccoli frutti sono contenuti in un'unica struttura che ha l'aspetto di una piccola pigna. Nonostante l'aspetto completamente differente dal pepe nero, esso fa parte della famiglia botanica delle Piperacee. La sua piccantezza leggera si accompagna ad un complesso bouquet di aromi che vanno dalla noce moscata, alla resina, ai sentori di agrumi con un finale di anice selvatico. Si tratta di grani di pepe molto duri, ottimi da grattugiare sulle pietanze. Si abbina bene alla carne ma anche ai dessert. La zona di Muntok si trova nell’isola isola di Bangka in Indonesia ed è il luogo d’origine di quello che è considerato il miglior Pepe Bianco in assoluto. Talmente pregiato che è il valore di riferimento nella borsa delle spezie di New York. Sebbene l’odore sia molto deciso, perché le bacche arrivano a fine maturazione, è meno piccante del pepe nero perché perde tutta la polpa. Il Pepe della Jamaica, più somigliante nell'aspetto alle bacche di ginepro piuttosto che al pepe nero con cui è stato confuso al momento della sua scoperta, è il frutto essiccato di un albero della famiglia delle Myrtacee originaria della Jamaica. Racchiude nel suo complesso bouquet il profumo della noce moscata, del chiodo di garofano e della cannella con un pizzico piccante che richiama il pepe nero. È una spezia versatile e interessante, molto usata nella cucina caraibica e centroamericana, ma anche in quella del Nord America. Le


bacche intere si conservano a lungo, tuttavia il Pepe della Jamaica dà il meglio del suo aroma se polverizzato, in questo caso però si conserva per un tempo più breve perché l'aroma si disperde più rapidamente. ll Pepe di Sichuan (o di Szechuan, dipende dalla traslitterazione dei caratteri cinesi in pinyin) è un falso pepe originario della provincia di Szechuan, nella zona sud-occidentale della Cina. Le bacche rosse, una volta giunte a maturazione e seccate. si aprono in due rivelando un piccolo seme nero al loro interno. L'aroma del pepe di Sichuan è pungente e rinfrescante, con note di agrumi e di canfora. Il sapore è forte con un retrogusto che lascia lievemente anestetizzata la lingua. Poiché si utilizza in cucina solo l'involucro esterno del frutto (il seme risulta lievemente amaro, con una consistenza "sabbiosa" se masticato), dopo la fase di disidratazione le bacche sono passate attraverso dei setacci in movimento per consentire al seme interno alla capsula di fuoriuscire.

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Ecco: una volta passati in rassegna per benino tutti gli ingredienti, c’è la ricetta vera e propria. Da gustare tutta, dalla glassa aromatica, ai chicchi di pepe macinati grossi, al così bistrattato pollo.


INGREDIENTI 4/6 persone

6 sovracosce di pollo 2 cucchiai di sale 1/2 cucchiaino di pepe nero tellycherry 1/4 cucchiaino di pepe lungo del Bengala 1/4 cucchiaino di pepe del Sichuan 1/4 cucchiaino di pepe bianco Muntok 1/4 cucchiaino di pepe della Jamaica 1/4 cucchino di semi di coriandolo 4 foglie di basilico fresco 1 Peperoncino fresco (facoltativo) Per la laccatura: 100 g di mirtilli freschi 30 g di zucchero di canna 40 g di aceto balsamico 36 g sciroppo d’acero 40 g salsa barbecue un pizzico di sale un cucchiaino di salsa di soia un cucchiaino di salsa Worchestershire Per servire: basilico a piacere

370 - Almanacco 2021

peperoncino a piacere


1.

Per la laccatura unite lo zucchero, i mirtilli e l’aceto balsamico in un pentolino e cuocete a fiamma bassa per almeno 25 minuti.

2.

Aggiungete tutti gli altri ingredienti a fuoco spento e assaggiate per correggere eventualmente di sale o di aceto balsamico. Il sapore dovrà essere dolce con un finale acidulo ma gradevole.

3.

Per una consistenza più liscia frullate la salsa e passatela al setaccio, oppure lasciate i pezzi di mirtillo per un risultato più rustico.

4.

Stabilizzate il dispositivo sui 160°C/170°C e predisponetelo per una cottura indiretta.

5.

Disossate le sovracosce; con un po’ di manualità è facile farlo anche in casa, scalzando la carne e seguendo l’unico osso presente con un coltello molto affilato e dalla punta sottile. Se non siete pratici fatele disossare dal vostro macellaio.

6.

Condite l’interno delle sovracosce con il rub composto dal sale e dal mix di pepi tostati in padella e macinati grossolanamente con un mortaio.

7.

Legate le sovracosce, stabilizzate il vostro dispositivo ad una temperatura di circa 130°C, mettete la carne in cottura indiretta e affumicate con legno di ciliegio fino ai 75°C al cuore.

8.

Una volta raggiunta la temperatura target spostate le sovracosce in cottura diretta per far diventare croccantissima la pelle, basteranno davvero pochi minuti.

9.

Ottenuto un risultato soddisfacente laccatele con un leggero strato di glassa ai mirtilli. Lasciate asciugare in indiretta per qualche minuto e servite con abbondante basilico tritato, con il peperoncino e con il resto della salsa come dipping.

371 - BBQ4All Magazine

PREPARAZIONE


IL PANINO CON IL

ROAST BEEF Che caratterino!

372 - Almanacco 2021

Nonostante la voglia che ci prende talvolta di voler essere creativi in cucina, molto spesso finiamo per rifare esattamente gli stessi piatti e le medesime preparazioni. I weekend e le festività sono di solito le occasioni ideali per le nostre sperimentazioni, ma solitamente lasciano strascichi dati gli avanzi che abbondano a fine giornata. Nella cucina contemporanea, concetti come sostenibilità e eliminazione degli sprechi sono tenuti molto in considerazione. È così che prende vita un processo creativo atto al riutilizzo degli avanzi. A portare avanti questa filosofia sono stati i grandi chef stellati, come Massimo Bottura e Igles Corelli, Daniele Oldani e Claudio Sadler, che hanno fatto reinventato nuovi piatti partendo proprio da ciò che avanzava o addirittura dagli scarti di precedenti preparazioni: una buccia di pomodoro che diventa polvere per condire un impasto, foglie di sedano che insaporiscono un sale, croste di formaggio che realizzano un ottimo brodo. Ma non era già così una volta? Ciò che oggi viene chiamata sostenibilità prima era semplicemente esigenza di risparmiare e di dare un po’ di sapore ai piatti poveri. Nulla poteva essere buttato e tutto veniva riciclato. Ai giorni nostri, nella vita quotidiana che conduciamo, il più delle volte abbiamo la necessità di riciclare i nostri avanzi proprio per quell’idea - giusta - di non sperperare il cibo e il denaro spesso per acquistare le materie prime. Cosicché anche noi abbiamo voluto dare il nostro contributo sostenibile e creativo per reinventare, con gli avanzi giusti, qualcosa di goloso, senza eccedere nell’estro dei più celebri stellati, ma rimanendo nella semplicità di qualcosa di relativamente facile ed eseguibile da tutti. Vi sarà capitato sicuramente di realizzare a casa un buon roast beef. Magari con un Eye

Round ben marezzato e frollato del nostro Megastore. Voi, che conoscete le qualità di quella carne eccelsa, sapete benissimo quanto ne debba andarne sprecato anche un solo pezzo. Per questo abbiamo pensato ad un panino davvero appetitoso, dove il roast beef affettato finemente possa essere accompagnato da elementi che lo rinvigoriscano e lo esaltino nell’aspetto e nel sapore. Nel nostro panino pieno di fantastico roast beef, abbiamo abbinato verdure lessate, verdure grigliate e un formaggio dal gusto deciso e carico di umami. Ci siamo affidati a due verdure: gli agretti (o barba di frate) e i peperoni. Gli agretti, con quel sapore leggermente acre e la consistenza croccante, apportano note di terra. I peperoni, ormai son reperibili tutto l’anno, cotti in ember roasting apportano invece una nota affumicata che i nostri lettori ben conoscono e amano Il nostro roast beef invece sarà un avanzo di Eye Round, da cui abbiamo ricavato delle sottilissime fette che si sfaldano letteralmente in bocca. Il tutto accompagnato da tocchetti di ricotta forte, un prodotto dal gusto pungente e deciso che apporta la giusta nota di piccantezza. Sappiamo che non tutti possono apprezzarlo, per cui è giusto dirvi che potete sostituire questo ingrediente con un formaggio spalmabile più dolce e assicurante nel gusto. Ma fidatevi di noi, provatelo così come ve lo proponiamo, perché merita almeno un assaggio. Ovviamente, dato che siamo qui per spiegarvi la ricetta passo dopo passo, vi daremo anche la procedura per fare il roast beef, che potrete servire anche al piatto, con le medesime verdure o con le classiche patate arrosto. Questa è la versione comfort cena, che vi mettiamo sempre a disposizione.


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1.

Accendete mezza ciminiera di bricchette e predisponete il vostro dispositivo per una cottura indiretta, stabilizzandolo ad una temperatura di circa 130°.

2.

Togliete la carne dal frigorifero un paio d’ore prima della cottura, Trimmatela se sono presenti eventuali brandelli di carne che si bricerebbero in cottura, spennellatela con poco olio e spargete il rub composto dallo SPOG e dal Montreal che avrete prima rimacinato un pochino per renderlo più sottile.

3.

Fate aderire bene il rub alla carne e quando il dispositivo avrà raggiunto la temperatura target mettetelo in cottura indiretta: ricordatevi di utilizzare un termometro a sonda per rilevare la temperatura interno del pezzo di ciccia. Potete, se volete, inserire al livello della griglia carboni una vaschetta con poca acqua per aumentare il livello di umidità all’interno della camera di cottura a per aiutarvi nella stabilizzazione del dispositivo, qualora siate alle prime armi.

4.

Chiudete il coperchio (se volete, potete anche affumicare il vostro roast beef con un blend di legni che preferite) e attendete che la tamperatura interna raggiunga i 50°C/52°C. A quel punto chiudete il roast beef in cottura diretta (se c’è bisogno, accendete ancora carbone, la temperatura del essere alta) e terminate la cottura per qualche istante, in modo che si formi la crosticina. Cercate di non superare i 55°C/58°C al cuore o la carne sarà troppo cotta. Tenetela da parte e lasciatela raffeddare lentamente.

5.

Pulite e lavate molto bene gli agretti, asportando le parti dure e legnose. Portate ad ebollizione una pentola d’acqua e cuocete gli agretti per 15 minuti. Scolateli, immergeteli in una ciotola con acqua e ghiaccio e abbatteteli. Scolateli bene di nuovo, poi conditeli con un filo d’olio, con sale e con qualche goccia di limone.

6.

Lavate i peperoni, preparate mezza ciminiera di braci e spargetela sulla base del vostro dispositivo. Adagiate i vostri peperoni interi sulla griglia e lasciateli cuocere, finché non si sgonfieranno e tenderanno a cedere. Lasciateli raffreddare e poi spellateli, avendo cura di eliminare i semi all’interno. Divideteli in strisce.

7.

Prendete il roast beef raffreddato e affettatelo in maniera molto sottile.

8.

Procedete ad assemblare il panino. Aprite il panino stesso, inserite alla base una dose generosa di agretti, sovrapponete il roast beef per tutta la lunghezza del panino riempiendolo abbondantemente. Stendete i filetti di peperoni arrostiti, su tutta la carne e finite il panino con delle quenelle di ricotta forte.

INGREDIENTI 4 persone

2 kg di Eye Round Aus Black Market 5+ Rangers Valley Black Angus due cucchiai Ultimate SPOG della linea Sal’s Seasoning due cucchiai di Sal’s Seasoning Montreal Steak Rub olio q.b. per i panini 4 panini integrali 100 g di agretti 2 peperoni rossi e verdi ricotta forte q.b. olio extravergine di oliva q.b. limone q.b. sale e pepe q.b

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PREPARAZIONE


UN RISO SPECIALE

OSTRICHE, CARCIOFI E PARMIGIANO REGGIANO

si-può-fare!

Tra le prime esperienze che facciamo quando ci approcciamo alle griglie sicuramente c’è l’ember roasting: la pratica di cuocere gli alimenti (tipicamente verdure) a contatto diretto con le braci. Questo perché non servono particolari attitudini o premi. Anche sbagliando il massimo che possiamo ottenere è proprio il risultato che stiamo cercando, ovvero bruciarne la parte esterna. L’ember roasting, traducibile in “cottura nella cenere”, è adatta a tutti i tipi di ortaggi duri e tenaci.

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Con questa tecnica si ricerca quel sentore dovuto alla carbonizzazione della parte esterna che rilascia verso l’interno una stratificazione di sapori e profumi complessi. La gestione è piuttosto facile: prevede il contatto con le braci dell’alimento che vogliamo cuocere. Tra gli ortaggi più indicati per questa tecnica troviamo i peperoni, le patate, le zucche e i carciofi. Proprio con questi ultimi abbiamo realizzato per voi un primo piatto intenso e raffinato, abbinando ai carciofi, un mollusco pregiato come l’ostrica e un tocco di umami dato dal Parmigiano Reggiano con stagionatura superiore ai 40 mesi. Tutti gli ingredienti li potete trovare facilmente sul nostro Megastore: un solo accesso, zerosbatti e avete tutto il necessario. Parliamo dunque di un riso e non di un risotto, per quelli che storcono il naso se non fa l’onda. Ovviamente tratteremo i vari elementi singolarmente, al fine di esaltare ogni loro aspetto. Vediamo nei dettagli come l’abbiamo eseguito.

Riso La cottura del cereale è stata fatta per assorbimento. Pertanto procediamo con questa tecnica che ci permette, grazie alla quantità corretta dell’acqua, di ottenere il giusto grado di cottura del chicco. La varietà utilizzata è il riso Roma, dal chicco lungo e affusolato che assorbe ottimamente i liquidi. Carciofi Di questo tipo di ortaggio ne esistono diverse varietà: il violetto di Sicilia, il tondo di Pasteum, e vari tipi di spinoso tra cui quello di Sardegna. Abbiamo optato per quest’ultimo che possiede una consistenza carnosa, tenera e croccante insieme. Il profumo è intenso e floreale. Sarà l’ideale per la nostra ricetta. Ostriche Sappiamo quanto sia importante la freschezza di questo prodotto, per ciò non potevamo affidarci alle prime ostriche trovate in un qualsiasi supermercato. Infatti la scelta è caduta su una selezione GLC Top Selection, la Maison d’Huîtres Amélie Spéciale de Claire: abbiamo ritenuto che fossero ideali per questo piatto, grazie alla sua consistenza carnosa, sapida e iodata. Parmigiano Potevamo semplicemente puntare ad un Parmigiano con 30 mesi, solitamente usato da grattugiare. Invece abbiamo voluto alzare l’asticella, e siamo andati su prodotto con stagionatura superiore a 40 mesi della Riserva Parmigiano Reggiano Dop GLC Top Selection, che presenta un saporericco e bilanciato, con note piene e burrose, ideali per la nostra preparazione. Non ci resta che svelarvi come eseguire questo piatto.


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INGREDIENTI per 4 persone 320 g di riso varietà Roma 2 carciofi 20 ostriche Amélie Spéciale de Claire un litro di brodo vegetale 100 g di Parmigiano Reggiano 40 mesi mezza cipolla olio extravergine di oliva q.b burro q.b. vino bianco q.b Sal’s Seasoning Smoke Chipotle Chili q.b

PREPARAZIONE 1. Iniziate con la cottura dei carciofi. Accendete mezza ciminiera di carbone o di bricchette e rovesciatela nel vostro dispositivo. 2. Dopo aver eliminato solo un giro di foglie esterne di carciofi, tagliate loro la punta. Immergeteli in una ciotola d’acqua e limone per 15 minuti, dopodiché toglieteli e strizzateli per eliminare l’eccesso d’acqua. Cercate di aprirli leggermente dal centro verso l’esterno. 3. Irrorateli di olio extravergine di oliva e conditeli con sale e pepe. 4. Ora poneteli tra le braci ardenti e lasciateli cuocere per circa 30 minuti. 5. A cottura avvenuta, lasciateli raffreddare, poi asportate la parte più esterna ormai carbonizzata. 6. Tagliateli in 2 parti e metteteli in un mixer. Aggiungete, a filo, poco brodo vegetale e realizzate una crema non troppo densa. Lasciatela rustica. 7. Aprite le ostriche e conservatene l’acqua. 8. Mediante un dispositivo per sous vide (roner), inseritene ben 12, già sgusciate, in un sacchetto con la loro acqua precedentemente filtrata. 9. Cuocete a 68°C per 25 minuti. 10. Prendete le 8 ostriche rimaste e tritatele finemente. Rovesciatele all’interno di un guscio e tenetele in frigo sino all’utilizzo. 11. Sciacquate il riso in un colino sotto l’acqua fredda per eliminare l’eccesso di amido. 12. Versate in un pentolino 650 ml di brodo caldo, inserite il riso e alzate la fiamma. Attendete che raggiunga l’ebollizione, mettete il coperchio e lasciate cuocere a fiamma bassa per il tempo necessario, finché il brodo non sarà assorbito. 13. In una padella, con poco olio extravergine di oliva fate appassire mezza cipolla tritata finemente e sfumatela con vino bianco. 14. Fuori dal fuoco versate il riso già cotto all’interno della padella. Aggiungete le ostriche tritate. Inserite anche la crema di carciofi in ember. 15. Mantecate con una noce di burro e il Parmigiano Reggiano 40 mesi. 16. Adagiate il riso sul piatto e guarnitelo con qualche ostrica cotta in sous vide. 17. Finite spolverando con del Sal’s Seasoning Smoke Chipotle Chili.

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Riso : t’imballo o meglio…

TIMBALLO! Timballini di riso con ragù di pesce e siam tutti felici Timballo, che bella parola! Semicitando Totò, il Principe della risata, siamo sicuri di non fargli un’ingiustizia. Il timballo è una preparazione tipica di tutto il Mediterraneo: è lussuria pura in Italia ma anche in Spagna, in Grecia, sulle coste dell’Africa nostre dirimpettaie. Solitamente, si usa mettere gli ingredienti in uno stampo (di varia foggia, solitamente sono quadrati o circolari) o ancora in un guscio di pastasfoglia o pastafrolla, per poi cuocere in forno. Ovviamente, Paese che vai, timballo che trovi: se in Italia i timballi sono di pasta e riso con aggiunta di svariati ingredienti, all’estero è comune trovare timballi fatti di pastafrolla e pastasfoglia ripieni di carne e spezie varie. Antipasto, primo piatto, piatto unico? Un timballo può essere tutto, un timballo è per sempre. Come si dice al Sud, “quello che metti, quello trovi”: declinato in campo gastronomico, se metterete ingredienti “leggeri” in un timballo, sarà un simpatico spezzafame in attesa della portata principale; viceversa, se pieno-pieno, potrà praticamente prendere la scena e farvi dimenticare tutto il resto. Di timballi, ce ne sono per tutti i gusti: c’è da dire che il riso è un ingrediente molto versatile per preparare timballi. Ad esempio, a Napoli (noto posto di mangiafoglie e mangiamaccheroni, come dicono alcuni storici), uno dei piatti storici è appunto il sartù di riso, che sarebbe un maxi-timballo ripieno di qualunque cosa, tra le quali carne e pomodoro.

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Nella nostra sortita a Mazara del Vallo, non abbiamo potuto fare a meno di assaggiare dei deliziosi timballini di riso, ovviamente declinati secondo le usanze e gli ingredienti locali: in questo numero del Magazine vi proponiamo dei simpatici timballini di riso con ragù di gamberi, pesce spada e polpa di granchio. Perfetti per la bella stagione che si avvicina e, si spera, per le scampagnate. Da mangiare in accompagnamento ad un bel vino fresco ed aromatico, in attesa delle “portate sostanziose”. Vi diamo anche un piccolo suggerimento: dite per benino tutti gli ingredienti ai vostri amici, ci fate una gran bella figura.

INGREDIENTI 8 timballini

300 g di riso varietà Roma 1 kg di pesce misto tra gamberi, pesce spada e polpa di granchio 350 ml di passata di pomodoro (potete andare a gusto: se preferite il ragù un po’ più “liquido”, fate di più; viceversa, più asciutto, questa è la dose indicata); 80 g /100 g di burro pepe nero q.b. cipolla, carota e sedano per soffritto olio extravergine d’oliva q.b. 8 formine per timballi, la foggia la scegliete voi. Possono essere anche di alluminio, usa e getta


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PREPARAZIONE 1. Il procedimento da seguire è molto simile se non identico a quello delle arancine siciliane dello Zio proposte sul numero del Magazine di Ottobre 2020. Si prepara il riso esattamente con le stesse modalità: sciacquatelo, cuocete con il burro, fate raffreddare e stendetelo su una teglia per poi livellarlo. Fate raffreddare ancora in frigo. 2. Nel frattempo, preparate il ragù di pesce: procedimento standard anche in questo caso. Soffritto leggero con cipolla, carota e sedano, olio extravergine d’oliva. Poco alla volta, inserire gamberi, pesce spada e polpa di granchio. 3. Inserire la passata di pomodoro a filo: lasciate cuocere lentamente, liberate il naso ed inspirate questa bellissima sensazione di Mediterraneo, di Sicilia, di Italia tutta. 4. Okay, momento romantico finito: quando deciderete di compattare i timballini, tirate fuori il riso dal frigo un’oretta prima. Lasciate raffreddare il ragù. 5. Ora prendete le formine per i timballi: le foderate ben bene con il riso, premendo accuratamente affinché non si stacchi; ponete un cucchiaio o due di ragù nel cuore del vostro timballino, dopodiché sigillate per bene e riponete in frigo. 6. METODO ALTERNATIVO: se non volete il “cuore” di ragù, potete miscelare le due preparazioni (riso+ragù) rigorosamente A FREDDO e lasciare riposare in frigo per compattare. Dopodiché, formare i timballini con apposita forma. 7. Sia che abbiate seguito il passaggio 5 che il passaggio 6, arriverete a questo. Dopo alcune ore, i timballini dovrebbero essere ben sigillati o compattati. 8. Se avete seguito tutti i passaggi alla lettera, dovreste riuscirli a staccare facilmente dallo stampo. Nel caso siate dalla parte di quelli che non ci riescono in nessun caso a staccare qualcosa da uno stampo senza distruggere, nessun problema: vi abbiamo suggerito quelli usa e getta di alluminio. Mangiate direttamente da lì. Zerosbatti, tanto godimento.

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L'impavido, irlandese

PEPPER STOUT BEEF

a cura di Emiliano Nencioni

Se vi dico Pepper Stout Beef, a cosa pensate? Pepper, non c’è bisogno di tradurlo; stout, per chi è appassionato della terra dei Lepricani, saprà benissimo di cosa parlo; e beef… beh, siamo o no su BBQ4All? Le origini del Pepper Stout Beef sono – molto, ma davvero molto realisticamente - prevalentemente irlandesi. Per quanto oggi possa essere considerato un sontuoso comfort food, il piatto è una chiara deriva di un umile stufato: conseguentemente, una formulazione in grado di sfamare una tavola numerosa con una spesa moderata.

La presenza della iconica birra stout aggancia irrimediabilmente la pietanza all’Irlanda, ai suoi pub, al marchio Guinness, a sterminati tappeti di prati verdi e ai pascoli: il vero stufato irlandese primigenio infatti è l’Irish Mutton Stew, proprio per la maggiore reperibilità (e in parallelo sacrificabilità) di montoni e pecore rispetto al manzo.

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Lo stufato di carne è un piatto presente in molte regioni del mondo, impersonandosi in varianti rimaste più o meno note come il francese Boeuf Bourgignon, il goulash ungherese o altri ancora; su queste pagine cercheremo di codificare uno stufato di manzo in birra Stout, focalizzandoci solo su questa declinazione ben precisa e riproducibile anche con i comuni dispositivi di cottura outdoor su fiamma. Abbiamo citato già almeno tre volte la birra stout. Per dovere di cronaca vi spiegherò anche cosa si intende per questa tipologia di birra, fingendo per un attimo che nessuno dei lettori ne abbia mai sentito parlare ma rimanendo consapevole - in tutta onestà - di essere probabilmente letto da un pubblico molto esperto in materia. Ma è nostro compito informare anche chi, magari, non se ne è mai fregato prima, di ‘sta benedetta birra.

Una Stout Beer è una birra scura, più densa e più forte, ricavata dalla fermentazione di malto, orzo e luppolo; questo da “definizione da manuale”, ma come è lecito aspettarsi dalla iniziale birra Porter del diciottesimo secolo si sono generate una pletora di differenti interpretazioni, dalla chocolate stout a una improbabile e francamente sconcertante oyster stout, dove nel processo di fermentazione vengono adoperate nientemeno che… le ostriche. L’unica invariante attorno alla quale probabilmente gira tutto il concetto di birra stout è proprio il significato, ampiamente interpretabile, della parola stout: il termine inglese è traducibile con impavido, robusto, forte, solido, ma anche grasso, denso, viscoso, rotondo (al gusto), in una serie di sfumature che richiamano più l’aspetto di un guerriero barbuto e corazzato che un dinoccolato uomo d’affari. Ma vi assicuriamo che tra i vicoli del Temple Bar, zona iconica di Dublino, alla fine della giornata lavorativa donne ed uomini di ogni fascia sociale si affollano per consumare le loro Kilkenny e le loro Guinness: siamo nel posto dove davvero una birra mette d’accordo proprio tutti. Consapevoli di storia e tradizioni, pub affollati, montoni e birre scure, procediamo alla scelta del pezzo di carne più adatto per questa ennesima incarnazione del Pepper Stout Beef: il chuck roll. Le differenze tra i vari tagli tra collo e spalla del bovino li abbiamo già visti nell’articolo dedicato, mi limiterò soltanto a ricordarvi che in italiano è il taglio che viene chiamato reale. Per non incorrere in incomprensioni, errori fatali o macellai simpatici che fanno la battuta dei eeali di Spagna e Regno Unito (mi è successo), potete saggiamente ricorrere al Megastore BBQ4All, dove tutto ha il giusto nome.


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Preparazione:

2.

3.

4.

INGREDIENTI 4 persone

2 fette di Chuck Roll AUS BlackOnyx 3+ Black Angus da mezzo kg l’una 4 peperoni

5.

3 cipolle rosse una carota 2 lattine di birra Guinness (o altra Stout Beer di vostro gusto) due cucchiai di salsa Worcestershire tre cucchiai di olio extravergine d’oliva Tabasco q.b. Una quantità sufficiente a ricoprire la carne di Rub Ultimate SPOG della linea Sal’s Seasoning addizionato di un cucchiaino di paprika

6.

Ispezionate la carne e rifilate via eventuale grasso in eccedenza nella parte esterna delle fette, senza voler togliere tutto e soprattutto conservando la presenza della vena di connettivo all’interno della fetta. Bagnate il manzo con la salsa Worcestershire e fate aderire alla superficie umida il rub, con la solita accortezza di non esagerare: la carne deve essere cosparsa di spezie, non deve fare delle sabbiature. Configurate il vostro dispositivo di cottura per una indiretta a 110°C ben stabili, affumicando gradevolmente con una miscela di legni a voi congeniale, ad esempio con mesquite e mogano. La carne dovrà raggiungere i 75°C misurati al cuore, e raggiungere la formazione del bark, la crosticina saporita di spezie, ben indurita e fragrante. Affettate peperoni, cipolle e carota a listarelle e mettete tutto in una cocotte a soffriggere per una buona mezz’ora assieme al tabasco, alla Worcestershire sauce rimasta e all’olio. Aggiungete successivamente la birra. A bark ben formato trasferite la carne nella cocotte, chiudete il coperchio e arrivate senza fretta fino allo sfilacciamento della carne, presumibilmente intorno ai 96°C-98°C al cuore. Servite verdura, sfilacci di manzo e sughetto su sostanziose fette di pane tostato: non lesinate, fate fette belle spesse. Il “trucco”, in questo caso, sta tutto nella consistenza della carne (che si deve sfilacciare, non indurire) e nella viscosità dei succhi di cottura, che non devono mai seccarsi, ridursi troppo o, al contrario, risultare troppo acquosi, infradiciando inutilmente la carne. Aggiungere mezzo bicchiere d’acqua può essere d’aiuto se sospettate che la carne stia iniziando ad attaccarsi alla cocotte.

E se non ho una cocotte? Con le sue spesse pareti in ghisa la cocotte è lo strumento ideale per questa preparazione, ma con qualche accortezza, molta attenzione in più e un occhio vigile potrete rimediare alla mancanza con una pentola molto capiente, dotata di un coperchio pesante che chiuda bene, e proseguire se necessario la cottura sul fornello di casa, una volta formatosi il bark sulla carne. Niente pentole? Assicuratevi di avere almeno una leccarda di alluminio, di saper fare un buon Texas Crutch (la “caramella” di foglio di alluminio attorno alla leccarda), di avere impostato una perfetta cottura indiretta e... accontentatevi del risultato.

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1.


Lussureggianti e appaganti, anche al bbq.

ARAGOSTE

GRATINATE CON MOLLICA AL BASILICO

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Forse è il più pregiato tra i crostacei, associato all’idea di lusso e spesso consumato in occasioni speciali. L’aragosta è un alimento ricco di proteine e di sali minerali, le cui carni dalla consistenza tenera e dal gusto delicato sono apprezzate da milioni di consumatori in tutto il mondo. Talmente appagante che si porta dietro la nomea di cibo afrodisiaco. Oltreoceano sono famose quelle del Maine, che però anticamente erano così abbondanti da essere utilizzate addirittura come cibo per i maiali e solo agli inizi del novecento divenute cibo per ricchi. In Italia consumiamo l’aragosta mediterranea (Palinurus elephas) e per essere certi di trovarci di fronte a un prodotto di qualità dobbiamo assicurarci che il prezioso crostaceo venga pescato nella zona FAO 37. Essa delimita tutta l’area mediterranea nazionale, dalla Liguria alla Sicilia passando per tutta la costa adriatica sino a Trieste; è quindi sinonimo di freschezza. Ovviamente, come sapete, sul nostro Megastore potete trovare aragoste pescate nel mare siciliano, le cui acque presentano un eccellente equilibrio tra salinità e abbondanza di plancton, che rendono i crostacei qui pescati dei prodotti dalle caratteristiche organolettiche uniche. I pescherecci che operano in questo tratto di mare garantiscono sistemi innovativi di prelievo nel rispetto e nella salvaguardia degli stock ittici, e utilizzano a bordo sistemi di conservazione naturale dei crostacei, in

modo da escludere qualsiasi impiego di conservanti (ne abbiamo parlato in modo approfondito nel numero del BBQ4All Magazine di Dicembre 2019). Tornando alla ricetto che vogliamo presentarvi oggi, quando ci troviamo ad avere a che fare in cucina con l’aragosta dobbiamo sapere almeno due cose: la prima è che non dobbiamo confonderla con l’astice (altro crostaceo pregiato ma molto diverso); la seconda, e qui ahimé non tutti sono in grado di poter affrontare la questione, è che deve essere cucinata viva. Per quanto riguarda il primo punto, è molto facile riconoscere i due animali: l’astice ha infatti delle chele ben visibili, inesistenti invece nell’aragosta, che presenta delle specie di “lunghe antenne”. Sul secondo punto, è impossibile aiutarvi: o avete il coraggio di affrontare l’animale vivo oppure dovete necessariamente acquistare un prodotto surgelato. Fortunatamente noi possiamo aiutarvi: il Megastore vi garantisce un prodotto di altissima qualità e al contempo vi solleva dal problema, dato che vi arrivano a casa prodotti surgelati dal peso di 300 g o 500 g l’uno, già pronti per l’uso, con una spedizione garantita a – 22°C per 72 ore. Non vi resta quindi che procurarvi i deliziosi e pregiati crostacei e seguire questa ricetta facile e veloce ma di sicuro effetto.

INGREDIENTI 4 persone

2 aragoste da 500 g l’una olio extravergine di oliva q.b. per la mollica al basilico 500 g di pangrattato 50 g di basilico un pizzico di sale olio extravergine di oliva q.b.


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Preparazione: 1.

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2.

Preparate l’aragosta prima facendola scongelare e poi tagliandola in due nel senso della lunghezza, utilizzando un coltello ben affilato: siate decisi, senza paura, e praticate un taglio netto. Inserite la lama nel punto in cui lo stomaco e la coda si incontrano e poi premete con forza usando l'intera lunghezza del coltello per tagliare l'addome e la testa. Tostate in una padella antiaderente il pangrattato e poi bagnatelo con uno o due cucchiai d’olio: Quando sarà raffreddato, tritate finemente il basilico e unitelo insieme al pangrattato con un pizzico di sale.

3.

4.

5.

Condite le aragoste cospargendo la mollica al basilico sui crostacei, e non aggiungete sale, poiché presentano già la giusta dose di sapidità. Aggiungete un filo di olio extravergine di oliva. Predisponete il vostro dispositivo per una cottura indiretta a circa 160°C. Appoggiate i crostacei sulla griglia dalla parte opposta delle braci e fateli cuocere senza superare i 62°C al cuore, onde evitare che la carne si indurisca e si secchi. Una volta cotte le aragoste, servitele ancora calde e gustate insieme ai vostri ospiti queste prelibatezze esaltate dal gusto della mollica al basilico.


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La cernia che invoglia!

INVOLTINI RIPIENI CON CONTORNO DI CIPOLLOTTI SALTATI

Ricco di acidi grassi Omega 3, i preziosi alleati della salute, di potassio, di selenio, di sali minerali, di amminoacidi, di vitamine, di proteine… no, non siamo stati improvvisamente impossessati dallo spirito della Lambertucci. Stiamo semplicemente elencando le cose che si sentono dire ogni volta che si nomina un pesce come la cernia. Ah, quanto è salutare! Ah, quanto fa bene! E’ perfetto nelle diete a basso contenuto calorico! Il consumo di cernia migliora il sistema immunitario e il metabolismo osseo grazie alla presenza di fosforo. È perfetta in e tutti i regimi alimentari, soprattutto in quelli dimagranti, che necessariamente devono essere normo-lipidici e ipocalorici.

INGREDIENTI per 4 persone

per gli involtini 8 filetti di cernia già puliti 100 g di gamberetti sgusciati e puliti 50 g di pinoli la scorza di un limone una mozzarella

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Sono tutte affermazioni giustissime. Ma dite la verità: leggendo tutto questo preambolo la prima cosa che vi viene in mente è davvero ”mamma mia, avrei così voglia di un bel filetto di cernia salutare e ipocalorico”? Purtroppo è un grande classico: dici che un cibo è salutare e matematicamente colui che ti ascolta pensa con tristezza alla dieta che fa patire la fame, con quei piatti magri e insapori con poco olio e pochi condimenti, cucinati al vapore. E mi raccomando a metà mattinata una bella mela o lo yogurt magro! Non sentite l’eco della voce del vostro medico curante? E’ dunque impossibile parlare di cernia, pesce pregiato del panorama ittico del Mar Mediterraneo, e al contempo farsi venire l’acquolina in bocca e una voglia pazza di mangiarne a quintali? Con la ricetta che vi presentiamo oggi possiamo affermare senza ombra di dubbio che siamo riusciti nell’impresa. O meglio ci sono riusciti i cuochi del Ristorante Altavilla di Mazara del Vallo che gentilmente hanno regalato questi involtini speciali – dietetici ma non troppo - a tutti i lettori del BBQ4All Magazine. Ovviamente, prima di presentarveli ci siamo immolati per la causa e li abbiamo assaggiati per voi, giusto quei due o trecento involtini per essere sicuri che fossero proprio buoni-buoni. Fra l’altro, considerata l’alta digeribilità della cernia non abbiamo fatto nemmeno fatica e abbiamo aiutato la mente, il cuore e le ossa. Non ci resta che raccontarvi il piatto per filo e per segno.

due spicchi d’aglio un ciuffo di prezzemolo semi di girasole q.b. erba cipollina q.b. 200 g di pistacchi per la mollica al basilico 400 g di pangrattato 50 g di basilico un pizzico di sale olio extravergine di oliva q.b. per il timo in pasta 20 g di timo fresco due cucchiai di olio extravergine di oliva per i cipollotti 4 cipollotti interi olio extravergine di oliva q.b. sale e pepe q.b.


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Preparazione: 1. 2.

3.

4.

5. 6.

7. 8. 9. 10.

11. 12.

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Battete i filetti di cernia con un batticarne per renderli più sottili. Tostate in una padella antiaderente il pangrattato e poi bagnatelo con uno o due cucchiai d’olio: quando sarà raffreddato, tritate finemente il basilico e unitelo insieme al pangrattato con un pizzico di sale. Tenete il timo fresco a bagno nell’olio per qualche ora, poi frullatelo ad immersione: avrete ottenuto una pasta di timo fresco. Tritate i gamberetti, l’aglio, 100 g di pistacchi, il prezzemolo, l’erba cipollina e la mozzarella poi una boule unite tutti gli ingredienti tritati, aggiungendo i pinoli interi, i semi di girasole, la scorza grattugiata del limone, due cucchiai di mollica al basilico e uno o due cucchiai d’olio. Mescolate il tutto molto bene, salate e pepate (foto A). Con un cucchiaio distribuite il ripieno su ogni filetto, senza esagerare (foto B): chiudete il filetto a fagottino (foto C) e poi passatelo bene nella mollica al basilico, facendola aderire su ogni involtino. Tritate i restanti pistacchi e fate passare ogni involtino nella granella (foto D, E, F). Tenete gli involtini in frigorifero per un’oretta in modo che la panatura aderisca bene. Pulite i cipollotti tenendo anche la parte verde, poi tagliateli a listarelle per la lunghezza. Accendete il vostro dispositivo stabilizzandolo ad una temperatura di circa 150°C: adagiate gli involtini sulla griglia su cui potete posizionare un po’ di carta forno, in cottura indiretta. Chiudete il coperchio e cuocete per circa 20-30 minuti, o comunque finché non saranno cotti. Potete mettere nel dispositivo anche una vaschetta con un po’ d’acqua al livello della griglia carboni, in modo da rendere la camera di cottura più umida e in modo da non rischiare di seccare troppo gli involtini. Quando saranno pronti, toglieteli dal fuoco e teneteli in caldo. Predisponete quindi il dispositivo per una cottura diretta e posizionate il wok nell’apposito spazio in griglia o comunque sopra la griglia in corrispondenza delle braci. Fate scaldare bene la pentola, poi saltate i cipollotti velocemente con un po’ d’olio, di sale e di pepe, lasciandoli croccanti. Servite gli involtini caldi col contorno di cipollotti saltati.

A

D


E

F

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B C


Il triangolo no, non l'avevo considerato!

LA TAGLIATELLA AL BASILICO, GAMBERO ROSSO E LA BURRATA

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Probabilmente molti di voi non lo sanno, ma esiste un’associazione italiana che si chiama “Apostoli della Tagliatella”: è ovviamente bolognese e ha come fine quello di salvaguardare la regina indiscussa delle preparazioni emiliane. Tipo religione dei pastafariani, insomma. Tutti conoscono e pressoché amano questo formato di pasta all’uovo che nasce da una sfoglia sottile tagliata a listarelle. La nascita di questo tipo di pasta è molto difficile da collocare, non essendo giunta a noi nessuna testimonianza scritta che ne attesti l’origine certa. Sappiamo che già nel 35 a.C. il poeta Orazio parlava di lagane con i ceci: una pasta fatta da strisce larghe di sfoglia a base di grano, molto simili alle odierne lasagne. Tuttavia la sfoglia, intesa come la conosciamo oggi, è diventata una prerogativa della cucina italiana solo nel Medioevo. Nel 1931 il pittore e caricaturista italiano Augusto Majani racconta una storiella che cerca di nobilitare l’origine della tagliatella: secondo lui nel 1487, Giovanni II di Bentivoglio signore di Bologna chiese al cuoco di corte Mastro Zefirano di preparare una ricetta speciale, al fine di celebrare Lucrezia Borgia che era in viaggio verso Ferrara per sposare il Duca Alfonso d’Este. Il cuoco cucinò così una nuova pasta, tagliando le tradizionali lasagne bolognesi in lunghe strisce dorate, in onore ai biondi capelli della bella Lucrezia, dando così forma alle tagliatelle. Tuttavia, sappiamo che prima della fine dell’800 questa deliziosa pasta veniva declinata al maschile, tagliatelli, e solo l’Artusi ne consacrò definitivamente l’identità al femminile, scrivendo: Conti corti e tagliatelle lunghe, dicono i bolognesi, e dicono bene, perché i conti lunghi spaventano i poveri mariti e le tagliatelle corte attestano l’imperizia di chi le fece e, servite

in tal modo, sembrano un avanzo di cucina Devono essere lunghe, dunque, e fatte secondo la tradizione: la ricetta originale delle tagliatelle è stata depositata nel 1972 alla Camera di Commercio Industria Artigianato e Agricoltura di Bologna, dove si può trovare un campione in oro di questo delizioso formato di pasta all’uovo. Fin qui abbiamo parlato della tradizione e della storia; ma, come sempre accade, sia l’una che l’altra (specie in cucina) vengono spesso rivoluzionate. Esistono, infatti, infinite varianti di tagliatelle, sia nella preparazione dell’impasto che nel condimento: ogni regione, ogni famiglia e ogni cuoco hanno una loro versione. Ufficialmente la tagliatella deve avere una larghezza di cinque millimetri: se è meno alta si parla di tagliolino, se è più alta di pappardella. Tradizionalmente servite col ragù in Emilia Romagna, sono invece spesso condite con i frutti di mare nel Sud Italia, col tartufo in Piemonte, con un sugo di selvaggina in Toscana. All’impasto viene spesso aggiunto un altro ingrediente che le colora e dona loro tante sfumature diverse di sapori: spinaci, pomodoro, nero di seppia, zucca e così via. Regione che vai, tagliatella che trovi. E dunque veniamo alla nostra versione; o per meglio dire alla versione che Gianfranco Lo Cascio ha preparato in nostro onore in quel di Mazara del Vallo: tagliatelle al lime e basilico, condite con assoluto di gamberi (bisque), gambero rosso di Mazara, burrata, olio al basilico e pepe rosa. Una bomba: non sapremmo come descrivere questo piatto in un altro modo. Fresco, gustoso, appagante, godurioso, lussurioso: alla fine nessun aggettivo riesce a descriverlo davvero fino in fondo, va soltanto provato per capire di cosa stiamo parlando. Parafrasando una famosa pubblicità: silenzio, parla Lo Cascio. E, soprattutto, parlano le sue tagliatelle!


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Preparazione: 1.

INGREDIENTI 4 persone

Per le tagliatelle 1/2 kg di pasta di semola di grano duro la buccia grattugiata di due lime 200 g di basilico fresco ghiaccio q.b. un uovo Per la bisque di gamberi: due cucchiai di trito di sedano, carote e cipolle due cucchiai di olio extravergine di oliva le teste e i carapaci dei gamberi rossi di Mazara mezzo bicchiere di cognac mezzo cucchiaio di concentrato di pomodoro mezzo lime abbondante ghiaccio Per l’olio al basilico: 50 g di basilico fresco 250 ml di olio extra vergine di oliva Per finire: 12 Gamberi Rossi Mazhara GLC Top Selection 400 g di burrata

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pepe rosa q.b.

Pulite i gamberi e tenete da parte le teste e i carapaci; a questo punto potete cominciare a preparare la bisque che noi abbiamo chiamato Assoluto di gamberi (il procedimento dettagliato è riportato nel numero di Dicembre 2019 del BBQ4All Magazine); 2. In una padella, fate soffriggere il trito di verdure e poi spadellate tutte le rimanenze dei gamberi a fiamma alta. Sfumate col cognac. 3. Evaporato l’alcol, aggiungete il concentrato di pomodoro, la spremuta di mezzo lime e il ghiaccio, in modo che i carapaci e le teste non si brucino in cottura. 4. Fate ridurre il tutto, frullatelo con un mixer a immersione e filtratelo con un colino cinese, ottenendo un concentrato molto denso. 5. Sbollentate i 200 g di basilico in acqua per pochi istanti, poi raffreddatelo subito con acqua e ghiaccio. Strizzatelo bene e poi frullatelo con un po’ di ghiaccio in modo da ottenere un composto non troppo liquido e molto freddo. 6. Formate la fontana con la farina su una spianatoia e aggiungete le scorze grattugiate di lime e il basilico frullato col ghiaccio. Cominciate a lavorare l’impasto e dopo poco aggiungete un uovo, in modo da renderlo più legato e malleabile. Formate una pallina, copritela con pellicola trasparente e fatela riposare per mezz’ora in un luogo asciutto. 7. Tirate le sfoglie, a mano o con la sfogliatrice: dovranno avere circa 1,5 mm di spessore. A questo punto tagliatele per formare le tagliatelle, che dovranno essere alte circa 5 mm, mettendole poi ad asciugare su uno stendipasta. 8. Portate ad ebollizione circa mezzo litro d’acqua e fate bollire il restante basilico per cinque secondi, poi mettete immediatamente il basilico in una ciotola con acqua e ghiaccio. 9. Scolate le foglie di basilico, spremendole bene con le mani e mettetele nel frullatore con l’olio extravergine d’oliva. 10. Frullate fino ad eliminare completamente la presenza delle foglie di basilico. Con un panno, filtrate il composto dentro un altro contenitore. Tenete l’olio aromatizzato da parte. 11. Sbollentate appena i gamberi rossi in acqua leggermente salata oppure riduceteli a tartare e lasciateli crudi. 12. Cuocete la pasta in abbondante acqua salata e nel frattempo, in una padella, scaldate la bisque di gamberi, aggiungendo un po’ d’olio se necessario; scolate la pasta e fatela saltare nella bisque, poi impiattatela con la burrata e i gamberi. Terminate con olio al basilico e una generosa macinata di pepe rosa. Lo Cascio ha parlato. Godrete, siamo sicuri almeno la metà di quanto abbiamo goduto noi a Mazara, riscaldati dal sole primaverile che in Sicilia sa quasi d'estate.


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Fame da lupo? Fatti...

L'AGNELLO SUL BBQ

Sul Megastore, non poteva mancare una rappresentanza dell’agnello: probabilmente la carne più raccontata del mondo, dall’antichità sino ad oggi. Noi abbiamo deciso di proporvi delle bellissime cosce di agnello disossate direttamente dalla Nuova Zelanda e garantite da Silver Fern Farms. Cosa? Non le avete mai comprate? Forse la colpa è nostra: non vi abbiamo mai dato una ricetta come si deve. Ecco, siamo qui per rimediare. La carne da noi proposta per questa ricetta proviene da agnelli che vivono in spazi aperti e si cibano della miglior erba del pianeta Terra, garantendo struttura e sapori molto particolari.

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La ricetta che andiamo a proporvi prevede una marinata di parecchi giorni, quindi, onde evitare problemi, aggiungeremo alla preparazione il Curing Pink Salt, che ci garantirà una certa sicurezza. Utilizzeremo inoltre la tecnica del basting: senza scendere troppo nello specifico perché avremo modo di parlarne molto approfonditamente, nelle cotture barbecue esistono varie tecniche per creare quello strato profumato e croccante che ci piace tanto; per ottenere quella gustosa crosticina di solito utilizziamo il Rub, ma esistono anche il basting, il mopping e lo spritzing. Ognuna di queste tecniche serve ad applicare un liquido aromatizzato sulla carne che andremo a cucinare, sia per una grigliata veloce in cottura diretta ad alta temperatura, sia per una cottura indiretta e lenta a temperature inferiori. Il basting di solito viene fatto con il pennello e con una marinata molto molto densa, che chiaramente non sarà quella preparata per andare ad insaporire la carne, onde evitare il rischio di aggiungere i batteri della carne cruda al cibo. Lo sappiamo, abbiamo visto per anni i nostri padri ungere la carne con un improvvisato pennello creato con rametti di rosmarino e salvia; pennello che veniva intinto nello stesso liquido in cui precedentemente era stata lasciata la carne a riposare per un certo periodo. È pur vero che utilizzando una cottura diretta e di solito ad altissima temperatura la proliferazione batterica veniva in gran parte eliminata, ma se vogliamo fare le cose nel migliore dei modi la marinata da utilizzare

in cottura andrà assolutamente preparata appositamente per questa fase, gettando le salamoie e le marinature dove avremo fatto insaporire la ciccia nelle ore precedenti. Lo scopo, banale dirlo, è quello di aggiungere sapore, amplificarlo per toccare tutte le corde metaforiche del nostro palato. Per il mopping viene effettuato un accessorio che si chiama “mop” che serve a distribuire la marinata, di solito molto più liquida rispetto a quella utilizzata per il basting col pennello, sulle carni affumicate. Lo sprintzing è più o meno la stessa tecnica, ma per realizzarlo viene utilizzato un flacone spray che nebulizza il liquido sulla carne. Naturalmente in questo caso la miscela da utilizzare deve essere molto liquida e senza spezie, onde evitare che lo spray possa occludersi.

Tutte e tre queste tecniche, che in effetti sono molto simili tra loro, aiuteranno le nostre preparazioni a trattenere l'umidità e ad attirare il fumo sulla carne. Il nitrito di sodio si scioglierà sulla superficie dell’alimento che staremo affumicando e si legherà alla mioglobina, contribuendo a creare lo smoke ring, ovvero quell’anello colorato di un bel rosa intenso che si trova appena sotto la crosticina (bark). Tutte e tre le tecniche aiutano anche nella caramellizzazione, poiché di solito sono presenti nel liquido zuccheri che rispondono al calore e che favoriscono la nostra cara reazione di Maillard. Una cosa fondamentale da ricordare è quella di non esagerare con la quantità di marinata che andremo ad applicare fin da subito alla carne; inoltre, specie quando si fanno cotture lunghe come in questo caso, è bene optare per temperature di settaggio dei nostri dispositivi intorno ai 110°C, almeno per la prima fase di affumicatura, cioè fino ai 50°C più o meno. Come legno aromatico consigliamo di sceglierne uno fruttato, melo o ciliegio per esempio. Ma niente vieta che possiate utilizzare un blend che più vi aggrada. Andiamo dunque a vedere step by step la preparazione proposta da BBQ4All di questo cosciotto di agnello.


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INGREDIENTI

1.

6 persone

2 kg di coscia di agnello Silver Fern Farms Per la marinata: 2 cucchiai di Rub Sal’seasoning Montreal

2.

1 cucchiaino di Rub Sal’seasoning Coconut 100 g di Salt Microsphere Kosher, 100 g di zucchero di canna muscovado la scorza di un limone non trattato 3 bacche di ginepro 1/4 di cucchiaino di anice stellato

3.

un cucchiaino di coriandolo un cucchiaino di cumino selvatico montano 2 foglie di alloro un cucchiaino di foglie di timo

4.

2 scalogni 4,4 g di Pink Curing Salt 5/6 fili di erba cipollina 5/6 foglie di menta piperita 5/6 foglie di salvia

5.

3/4 rametti di rosmarino 5 spicchi di aglio 10/15 foglie di prezzemolo

6.

2 gambi di sedano 2/3 cucchiai di olio extravergine di oliva un cucchiaino di senape di Digione 2 l di acqua 1/2 tazza di vino liquoroso Marsala Per il basting: una tazza di yogurt greco la scorza di un limone 2/3 spicchi di aglio

7.

uno scalogno un cucchiaio di olio extravergine di oliva un cucchiaino di cumino un cucchiaino di foglie di timo macinate un cucchiaino di senape in polvere 1/2 cucchiaino di pepe 1/2 cucchiaino di maggiorana un chiodo di garofano macinato un cucchiaino di curcuma un cucchiaio di Sal’Seasoning Mount Nimba

8.

Mettete le spezie per la marinata: portate a bollore 1 litro di acqua (dei due che andrete a utilizzare, l’altro l’avrete messo in freezer) e aggiungete i rub, il sale e zucchero precedentemente preparati, mescolando per alcuni minuti. Spegnete la fiamma e aggiungete tutti gli altri ingredienti, compreso il Pink Curing Salt, e mescolate ancora per bene; successivamente aggiungete l’altro litro di acqua molto fredda, in modo da raffreddare il più velocemente possibile la marinata. Una volta raffreddato per bene il liquido, immergete completamente la carne nella marinata, copritela bene lasciatela in frigorifero per circa quattro giorni. Trascorso il tempo necessario, preparate il basting, mescolando per bene tutti gli ingredienti ed eventualmente aggiungendo altro olio extravergine di oliva per ottenere un composto di una consistenza densa e spalmabile. Settate il disp ositivo ad una temperatura intorno ai 110°C a tre zone, con una leccarda al centro. Sarebbe bene utilizzare il girarrosto, ma se non lo possedete, potete tranquillamente appoggiare la carne sulla griglia in cottura indiretta, avendo cura di girarla voi ogni tanto durante la preparazione. È comunque importante infilare la sonda del termometro nella ciccia. In modo da monitorare la temperatura interna. Cominciate quindi ad affumicare l’agnello, spalmando il basting di tanto in tanto sulla carne. Passate un paio d’ore dovreste essere arrivati intorno ai 50°C, al cuore; a questo punto accendete ancora carbone o bricchette e innalzate la temperatura sui 170°C/180°C. Continuate la cottura fino ai famigerati 60°C al cuore del vostro bellissimo e profumato cosciotto di agnello. Qualche minuto di rest e potrete affettarlo e servirlo con delle buone patatine… suggerimento aggiuntivo: patatine piccantine, perché non ne abbiamo mai abbastanza

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Preparazione:


POTATOES OF THE GOLD DIGGER

Oh, Susanna non piangere perché… ho nascosto le patate nel taschino del gilet! Probabilmente i più nostalgici di voi (e forse i più nerd) quando sentono nominare i cercatori d’oro pensano a Zio Paperone nel Klondike. In realtà, il fenomeno denominato come corsa all’oro (o febbre dell’oro) ha riguardato diverse aree del mondo (inclusa la nostra Italia), ma non si può negare che la faccenda si sia svolta perlopiù negli Stati Uniti d’America. Volendo scendere nel dettaglio, è nella regione del Klondike che molti tra film, fumetti ed altre opere d’arte visiva si sono svolti, ambientati e ci hanno fatto sognare.

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Oltre a quella nel Klondike, iniziata nell'agosto del 1896, ricordiamo anche la corsa all’oro della California, iniziata qualche anno prima, nel 1848, quando James W. Marshall, che lavorava per John Sutter, un immigrato svizzero che sperava di creare un impero agricolo in California, aveva scoperto un filone d’oro mentre stava ispezionando un canale presso la segheria di Sutter sul South Fork del fiume American. Quando Marshall raccontò a Sutter di aver trovato l’oro, Sutter gli fece giurare di mantenere il segreto. Se la massa fosse venuta a conoscenza del segreto, la gente sarebbe arrivata a fiumi da ogni dove e l’impero di Sutter sarebbe stato distrutto. Ma a poco a poco la notizia si diffuse e migliaia di avventurieri in cerca di fortuna accorsero in zona da tutto il mondo. In California sorsero in breve numerose città, con banche, officine, sceriffi e naturalmente i celebri saloon. Ma cosa mangiavano i febbricitanti cercatori d’oro? Per lo più fagioli, qualche stufato e le immancabili patate, che per poter durare di più venivano preparate in questo modo. Ne diventerete dipendenti e vi accorgerete che, in fin dei conti, le vere pepite d’oro sulle vostre tavole saranno questi deliziosi tuberi croccanti e piccanti. Molto piccanti. Magari, se volete servirle ai bambini o se siete nemici dei cibi hot, limitate un poco l’elemento spicy, questo è il nostro consiglio. Ma se siete dei veri temerari, buttatevi a capofitto in queste patate.

INGREDIENTI 4 persone

1 kg di patate 70 g di lardo 20 g di ‘nduja (in alternativa tabasco o pepe di Cayenna) 50 g di salsiccia fresca un cucchiaino di Sal’s Seasoning Montreal Steak Rub un cucchiaino di Sal’s Seasoning Ancho Habanero Chili qualche rametto di rosmarino sale q.b.

Preparazione: 1. 2. 3.

4. 5. 6. 7. 8.

Pelate le patate e tagliatele a dadini ci di circa 1 cm per lato. Tagliate a listarelle il lardo, e sbriciolate la ‘nduja e la salsiccia. Predisponete il vostro dispositivo per una cottura diretta e scaldare per bene una padella in ghisa (in alternativa potete scaldare una padella anti aderente sul gas) Soffriggete il lardo, poi aggiungete le patate e iniziate a mescolare per bene Aggiungete la ‘nduja e la salsiccia, mescolate il tutto e poi aggiungere il rosmarino. Con un cucchiaio in legno girate e rigirate, alternando periodi di fermo in maniera che le patatine a contatto con il calore formino una crosticina croccante. Dopo circa 30/40 minuti testatene la consistenza ed a questo punto aggiungete i rub e il sale: mescolatele ancora una volta e servitele ben calde.


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MUFFIN AL CIOCCOLATO Quando le dimensioni (e il contenuto)... contano. Da svariati anni, accanto alla proposta di colazione tradizionale italiana, nei bar trovano spazio anche questi piccoli e graziosi tortini: i muffin. Spesso sono prodotti semi-lavorati e fatti rinvenire in fornetti di fortuna appoggiati in ogni dove, ma vi sfidiamo: almeno una volta vi sarete fatti tentare e avete preso un muffin, magari avendo anche la fortuna di affondare qualche volta i denti in una pasta “ben fatta” e calda. Il muffin è una piccola torta le cui caratteristiche distintive sono la morbida compattezza, l’umidità dell’impasto e la cupola crepata priva di qualsiasi ornamento.

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Ne esistono moltissime varianti: ai mirtilli, all’uvetta, alla frutta secca, allo yogurt, al cioccolato, al mais, alle mele, ecc. Senza dimenticarci delle versioni salate, i cornbread muffin: anche di questi esistono diverse ricette, ad esempio con il formaggio, con le zucchine, con i funghi… e così via. Insomma, esiste un muffin per tutti i gusti. Per questo piacciono a tutti. Annoverato tra le leccornie tipiche della colazione negli States, è talmente amato che tre Stati lo hanno eletto dolce ufficiale del proprio territorio: il Massachusetts, che ha il muffin al mais, il Minnesota, che ha quello ai mirtilli ed infine lo stato di New York, il quale non poteva

non scegliere quello alle mele. Tuttavia, questa preparazione così amata e conosciuta nel mondo non affonda le proprie radici negli USA, come molti possono pensare, bensì nella vecchia Inghilterra. Infatti esistono due tipi di muffin: il British muffin (meno noto al di fuori dell’isola britannica), e il famosissimo statunitense. Mettendo le due versioni a confronto, sembra quasi impossibile che una sia l’evoluzione dell’altra, perché quello inglese ricorda più una focaccina tonda e alta, dalla consistenza molto più panosa rispetto al suo corrispettivo americano, con delle crepe in superficie causate dalla cottura su piastra. Non a caso la parola muffin dovrebbe derivare dal francese moufflet (pane molto morbido). Inoltre, l’evidente differenza di altezza tra le due ricette è determinata dall’uso del lievito di birra nella versione inglese e del lievito chimico nella versione americana, che comporta due crescite della pasta notevolmente diverse. Il prototipo del muffin nacque nel Medioevo, ma non come dolce; infatti a quel tempo erano un elemento tipico dello scarno pasto dei contadini del Galles, una sorta di focaccina insomma. Fu nei secoli successivi che in Inghilterra, dove la ricetta si diffuse, divennero dolcetti. Nel ‘700 i cuochi delle famiglie nobili

anglosassoni le preparavano solo per il consumo della servitù con gli scarti delle torte, dei biscotti, del pane e delle patate schiacciate. Il goloso segreto fu scoperto ben presto dai padroni e, in età vittoriana (1837-1901), questa focaccina conobbe una tale popolarità da diventare un elemento immancabile del té delle cinque. Era talmente ricercata che nacque la figura del muffin man: si trattava di un venditore ambulante che vendeva i gustosi dolcetti in strada portandoli sulla testa o su dei vassoi attaccati al collo. Verso la metà del XVIII secolo, la specialità attraversò l’Oceano Atlantico ottenendo un grande consenso; e come accade in tutti i cibi famosi che fanno la storia viaggiando per il mondo, il nostro muffin subì una forte trasformazione che la allontanò dalle sue origini nell’aspetto e nel gusto, ma decretò al contempo il successo mondiale. Le sue dimensioni – grazie all’utilizzo del lievito chimico - quadruplicarono, il sapore fu notevolmente amplificato dall’aumento della percentuale di zucchero usata e dagli alimenti che arricchivano l’impasto (cioccolata, uvetta, mirtilli, frutta secca). La versione americana è sicuramente una gioia non


solo per la gola, ma anche per gli occhi: gli intensi sapori degli ingredienti utilizzati e le dimensioni generose del dolce sicuramente non possono lasciare insoddisfatti.

La ricetta che andiamo a proporvi è super collaudata e golosissima: muffin al cacao con scaglie di cioccolato fondente. La preparazione è molto rapida, bisogna solo rispettare due piccoli accorgimenti: gli elementi secchi e quelli liquidi vanno mescolati separatamente e poi miscelati insieme, ma solo per i pochi secondi necessari allo scioglimento delle polveri all’interno del composto: il segreto per ottenere degli ottimi muffin è lavorare poco l’impasto.

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La prima ricetta ufficiale appare, appunto, in terra americana: infatti compare nel 1796 sull’American Cookery di tale (benedetta donna) Amelia Simmons (forse di mestiere collaboratrice domestica di origini olandesi, residente nella valle dell’Hudson). Questo libro, il primo ricettario di cucina statunitense, conobbe un tale favore di pubblico da essere ristampato nei trent’anni successivi, perché a differenza delle altre raccolte era stato composto su suolo statunitense e non britannico. Nel volume per la prima volta si consigliava l’utilizzo del pearlash il precursore del lievito moderno, per la preparazione dei muffin. Lo stesso anno fu inventata anche la teglia per muffin: essendo il composto più liquido, rispetto a quello inglese, esso aveva bisogno di sostegno per non perdere la forma durante la cottura in forno.


Ingredienti per 12 muffin: 250 g di farina 00/ 20 g di cacao amaro/ 10 g di lievito per dolci/ 3 g di bicarbonato di sodio (1⁄2 cucchiaino raso)/ 150 g di cioccolato fondente/ 250 g di latte intero/ 175 g di zucchero/ 80 ml di olio di semi di arachide/ 1 uovo intero/ 1 cucchiaino di estratto di vaniglia/ 1 pizzico di sale Preparazione: 1. 2. 3.

4.

5.

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6.

Preriscaldate il forno a 200°C in modalità statica. Tritate il cioccolato grossolanamente con l’aiuto di un coltello. Prendete due ciotole, in una mettete gli ingredienti liquidi (latte, olio, uova, estratto di vaniglia) e nell’altra quelli secchi setacciati (farina, lievito, cacao, bicarbonato, zucchero, cioccolato a pezzi e sale). Mescolate prima entrambi i composti separatamente (facendo particolare attenzione alle polveri), dopodiché miscelateli insieme con un cucchiaio per pochi secondi, il tempo necessario per dissolvere le polveri. Riempite i pirottini per 2/3. Se usate quelli di carta dovete porli all’interno di una teglia per muffin, se invece usate quelli di alluminio ricordate di imburrarli. Infornate a 200°C per 20 minuti.

Per gustare pienamente il sapore del muffin. È buona norma mangiarlo dopo un paio d’ore, quando è completamente freddo. Il giorno dopo sarà ancora meglio. Se avete un bar, proponetene di vostri. Altrimenti, quando sarà possibile, invitate quanti più amici possibili per belle colazioni a base di muffin. E pensate a noi, ogni tanto.


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L'Arte Bianca a cura di Alessandro Trezzi illustrazioni di Ozzy Bellesi

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a r u oc tt


Pensate alla bollitura più forno del bretzel teutonico, alla frittura più forno della montanara napoletana, fino a declinazioni innovative come il metodo vapore, fritto e forno di Francesco Martucci de I Masanielli a Caserta. Ci sono poi personalità che sulla doppia cottura hanno costruito un business, come Renato Bosco e le sue Arie di Pane e Mozzarella di Pane o Simone Padoan con il padellino, specialità radicate nel mondo professionale al punto da definire delle nuove tipologie di pizza vere e proprie, con caratteristiche predefinite e (nei primi due casi) addirittura brandizzate e registrate a marchio. Del resto in un laboratorio è tutto più semplice: si lavora in linea, con carrelli, teglie adatte, camere per la lievitazione a temperatura e umidità controllate, abbattitori per le basi e forni a convezione per lavorare su più prodotti. In casa il gioco si complica, ma nel mio modo di vedere è ancor più stimolante; si tratta di comprendere e adattare un metodo fino in fondo, in modo da ottenere un risultato più performante possibile con gli strumenti a disposizione, nel proprio contesto abituale e incastrando il tutto nei ritmi quotidiani. L’esempio della doppia cottura è calzante: inutile imbastire friggitrici, pentole e forni per fare una pizza sola, ha senso piuttosto lavorare di quantità minime e abbattere/congelare per un rigenero successivo. Ma anche con questo presupposto, le cose potrebbero farsi complicate e i limiti casalinghi farsi sentire: le dimensioni sono quello che sono, un forno a incasso domestico può faticare a raggiungere determinate temperature o a mantenerle, e per di più può ospitare solo per una teglia alla volta. Eppure, conoscendo il modo giusto di approcciare ad una doppia cottura i risultati non possono essere che lampanti e gratificanti a dismisura. Volete vedere come si fa? Perfetto, prendete acqua e farina e seguitemi.

La miglior doppia cottura in casa Questa volta facciamo un ragionamento diverso, analizzando prima i bonus regalati da una doppia cottura, selezionando la migliore da replicare in casa e arrivando quindi a definire il risultato finale e il metodo più indicato per raggiungerlo.

Con una duplice (se non triplice) cottura il beneficio primario è quello di distinguere in modo marcato la consistenza interna da quella esterna, localizzata sulla crosta. Prendete ad esempio la tecnica più diffusa utilizzata per realizzare le patate fritte: si lava via l’amido in eccesso, si fanno sbollentare per ammorbidire il cuore, si pre-friggono a bassa temperatura per raggiungere un grado ottimale al centro, e infine si friggono a temperatura maggiore per enfatizzare la croccantezza esterna. Qualsiasi espediente simile, utilizzato in ogni preparazione gastronomica, ha la medesima funzione; la montanara napoletana viene fritta per ottenere un interno vaporoso e una crosta saporita, e poi passata in forno perché asciughi e l’esterno risulti ancor più friabile. Il problema è che la frittura, in casa, spesso e volentieri è una brutta gatta da pelare, specialmente per grandi numeri; lo è ancor di più se dopo aver fritto dovete passare in forno, sporcando più e più teglie e contenitori vari. Senza tralasciare l’inveire dei partner di vario genere che dovranno aiutarvi ad arieggiare e disincrostare superfici. C’è un altro modo ben più pratico di ottenere un ottimo risultato casalingo facendo per altro un’ottima economia domestica: la cottura vapore più forno. Con la prima fase, realizzata in forno impostato a 100°C in modalità vapore (o con un pentolino colmo d’acqua all’interno) otterremo un interno soffice e vaporoso, un incantevole effetto cuscino. Con la seconda fase, realizzata sempre in forno a massima temperatura (250°C-270°C) lavoreremo invece sulla crosta esterna, facendola esplodere fino a renderla estremamente croccante. E fidatevi di me, non c’è niente di meglio di un contrasto simile per un qualsiasi panificato moderno. La comodità è poi duplice: potete preparare tutte le basi prima a vapore, tenerle da parte e infornarle una dopo l’altra quando il vostro bolide avrà raggiunto la temperatura finale; inoltre, le basi ben si prestano per essere congelate o conservate sottovuoto, per essere poi rigenerate in pochi minuti a 180°C-200°C, con farcitura a caldo o a crudo. In poco tempo potete completare un arsenale incredibile e dalle caratteristiche spaventose, che farà letteralmente sbalordire i vostri ospiti, e può essere preparato in anticipo in totale sicurezza.

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L

a doppia cottura, nel mondo dell’arte bianca, è un concetto ancora poco esplorato per questioni di praticità, e che tuttavia se ben realizzata può regalare enormi soddisfazioni.


Anzi, come per la maggior parte dei prodotti di arte bianca, il rinvenimento permetterà un’asciugatura ancor più evidente della parte superficiale, facendovi esplodere ancor di più la crosta.

Il riposo Sì, lo so: stiamo facendo tutto al contrario rispetto al solito, ma c’è un motivo ben preciso: anziché partire da un risultato certo, lo stiamo costruendo a cominciare dalla tecnica di cottura, agganciando pezzo dopo pezzo perché tutto risulti armonico ed esplosivo. La domanda a questo punto è: come accentuare l’aspetto soffice della nostra pizza, rendendo la base equilibrata e mantenendo la comodità come prima regola? Come raggiungiamo un’alveolatura uniforme ma aperta nel modo più semplice ed efficace possibile? Esatto, con una terza lievitazione in teglia. Struttureremo la base come se stessimo realizzando una focaccia, dando un primo riposo in massa, poi un secondo in forma ed infine un terzo in teglia, precedente alla cottura iniziale a vapore. Per rendere il tutto ancor più semplice, lavoreremo come fanno tanti professionisti, procurandoci delle tegliette tonda usa e getta in alluminio da 16 cm di diametro, in modo da poterne infornare due alla volta nel nostro abituale forno domestico; nulla vi vieta ovviamente di salire a 18-20 se le dimensioni della vostra camera di cottura ve lo permettono.

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L'impasto Lo ripetiamo: l’obiettivo è ottenere una mollica scioglievole, vaporosa, morbida e soprattutto aperta; si tratta di una base perfetta per lavorare a crudo sulla farcitura, facendo sciogliere della mozzarella per creare un collante con ingredienti di rilievo, oppure dando una passata di una qualsiasi crema ottenuta con verdure di stagione. E a questo punto, perché non giocare con i sapori, creando un contrasto tra la base tostata e profumata e una farcitura fresca ed equilibrata? Il padellino gourmet è stato creato e portato in auge da Simone Padoan, e per omaggiarlo non potevo che scegliere uno dei cereali al quale sono più legato: un mais integrale, il migliore che riusciate a trovare. Per di più, sarà importante bilanciare il mix con una piccola parte di farina debole, in modo da enfatizzare l’altra importantissima caratteristica della base, la croccantezza ottenuta con l’ultima fase di cottura. Ci siamo? Forza allora, sotto con il metodo definitivo!

INGREDIENTI

per 14 padellini da 16 cm o 11 da 18cm 700 g di farina di grano tenero di tipo 1 da 300-320 W; 100 g di farina di grano tenero di tipo 00 o 0 da 160-180 W; 200 g di farina di mais integrale; 700 g di acqua; 25 g di sale; 10 g di lievito di birra fresco.


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Bagel Pizza di Renato Bosco foto tratta dal sito lacucinaitaliana.it


IMPASTAMENTO

Versate tutte le farine nella ciotola o nella vasca della vostra impastatrice e miscelatele fra di loro; aggiungete il lievito sbriciolato, circa i 3/4 dell’acqua e cominciate ad amalgamare il tutto. Una volta che il glutine si sarà formato, aggiungete tutto il sale e a filo l’acqua rimanente, solo quando la precedente sarà stata perfettamente assorbita. Chiudete l’impasto quando risulterà liscio, uniforme e a una temperatura di 24°C; formate una pagnotta e lasciatela riposare circa 15 minuti sul banco.

PUNTATA

Oliate un contenitore che possa contenere il triplo del volume dell’impasto, date una piega alla massa e posizionate all’interno. Chiudete ermeticamente e lasciate partire la lievitazione per 1 ora a temperatura ambiente, per poi posizionare in frigo per 18 ore a 6°C.

STAGLIO E FORMATURA

Trascorso il primo riposo, togliete l’impasto dal frigorifero e formate dei panetti da 120 grammi per padellini da 16 cm, 150 g per padellini da 18 cm.

APPRETTO

Oliate i padellini e posizionate un panetto per ogni teglia, sporcando d’olio anche la parte superiore; coprite con pellicola e lasciate lievitare per circa 2 ore.

TERZA LIEVITAZIONE IN TEGLIA

Muniti dei vostri inseparabili polpastrelli stendete l’impasto fino a coprire tutta la teglia, per poi coprire nuovamente con la pellicola.

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Lasciate lievitare per 1-2 ore a temperatura ambiente, dando modo all’impasto di svilupparsi in altezza di almeno il doppio rispetto al volume iniziale.

PRIMA COTTURA: VAPORE

Preriscaldate il forno in modalità vapore

a 100°C, oppure in modalità statica alla medesima temperatura inserendo un pentolino con abbondante acqua bollente sul fondo. Praticate 4 impronte con le vostre dita in 4 punti opposti sull’impasto, per assicurarvi che sviluppi in maniera omogenea. Infornate due padellini per volta per 10-12 minuti l’uno, finalizzando la prima cottura e dando modo all’interno di risultare soffice e scioglievole. Sfornate e togliete l’impasto dal padellino, lasciandolo raffreddare per bene su griglie rialzate.

SECONDA COTTURA: FORNO

Una volta terminati tutti i padellini, togliete il vapore o il pentolino e pre-riscaldate a 250°C-270°C in modalità ventilata. In questa fase l’impasto dovrà tostare e divenire estremamente croccante, quindi sarà ancor più utile lavorare con una pietra refrattaria o, in sua mancanza, con una teglia rovesciata; in entrambi i casi posizionate il supporto scelto immediatamente nel forno, in modo che prenda calore insieme alla camera. Ci siamo, date un giro d’olio e infornate 2 basi per volta per circa 4-6 minuti, fino a quando la parte superficiale non risulterà estremamente dorata e friabile. Sfornate e portate su griglia rialzata per evitare il raffermamento a causa della condensa. Le basi così pronte possono essere utilizzate in un’infinità di modi: potete congelarle, oppure conservarle sottovuoto, o ancora finirle con uno strato di mozzarella fatta sciogliere per 2 minuti, divise in fette e condite con il vostro miglior salame tagliato a listarelle, qualche cima di rapa spadellata e della crema di pecorino adagiata con un biberon. Last but not least, l’alternativa a crudo: base bianca tagliata a spicchi, una crema di spinaci adagiata a quenelle, la bresaola migliore che possiate procurarvi e delle scaglie di ottimo Parmigiano Reggiano, magari quello stagionato oltre i 40 mesi dello Zio.


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DA CUBA ALLA FLORIDA

El puerco asado con mojo criollo Across the Pond a cura di Elena Ninotti

U

I territori americani sono stati "scoperti" solo 500 anni fa: è ovvio che, a meno di non considerare la cucina dei nativi o dei precolombiani come americana, non possiamo trovare origini antecedenti. Quello che è successo, invece, è che le popolazioni arrivate qui in seguito hanno portato con loro il proprio bagaglio culturale e alimentare. Prima dell’avvento di Internet, quanti di questi piatti conoscevate: pepperoni, salsa Alfredo o marinara, lasagna con la ricotta, spaghetti con le polpette? Probabilmente uno o due. Ebbene, qui tutte queste preparazioni vengono considerate “cucina italiana”. Ma, ne converrete con me, non sono certamente piatti che possiamo trovare in una qualsiasi trattoria casalinga nostrana. Lo stesso esempio può essere fatto con

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no dei luoghi comuni più frequenti che si sentono dire sugli Stati Uniti riguarda il fatto che non esista la “cucina americana”, intesa nel senso più letterale di “gastronomia americana”, yankee, o come volete chiamarla voi. Se siete tra coloro che la pensano così, mi dispiace contraddirvi, ma non è per niente vero. La cucina “americana” esiste, anche se ha storia e caratteristiche differenti da quella europea.


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le cucina degli altri paesi. Per San Patrizio, patrono dell’Irlanda, è comune fare il Corned Beef, che si tratta di un brisket “cured”, bollito e servito con cavolo e patate. Ma se questi ultimi due ingredienti sicuramente erano parte della dieta degli irlandesi fuggiti dalla carestia alla metà dell’Ottocento, ben difficilmente poteva esserlo il succulento manzo. Come tutti gli altri immigrati, anche loro si trovarono di fronte alla disponibilità di alimenti a cui non avevano accesso nella loro precedente vita, e ne fecero le basi della loro rinascita. NUOVE TRADIZIONI AMERICANE Le aree dove sono nate le nuove tradizioni alimentari sono, ovviamente, quelle di confine. In primis New York e l’area circostante. Non è strano sentire un americano del Nord lamentarsi che non si riesce a mangiare un cinese decente/ un buon bagel/ una vera cucina italiana qui in South Florida! In modo analogo si sente spesso ripetere che se vuoi mangiare un buon cibo messicano, devi andare assolutamente in Texas. Non ho la presunzione di pensare che possano alterare solo la nostra cucina, quindi ho imparato a non considerare proprio come oro colato la tanto strombazzata fedeltà alla cucina originale. In realtà,

questo miscuglio di culture differenti è di fatto la cucina americana. Partendo da ricette di famiglia, adattandosi ai prodotti locali e modellandola sui gusti dei clienti, i ristoratori hanno creato piatti che si sono diffusi in tutto il territorio statunitense, acquisendo una propria identità. La Florida del Sud non poteva rimanere fuori da questa meccanica. Qui la popolazione più presente, in assoluto, è quella cubana. Cuba dista da Key West 170 km. Poco più della distanza che separa la Toscana dalla Corsica, per farvi un paragone. In seguito alle crisi politiche ed economiche di Cuba, moltissimi cubani sono fuggiti e sono stati accolti negli USA. La prima ondata arrivò nel 1956-59, in seguito all’ascesa al potere di Fidel Castro. I ricchi, seguaci di Batista, fuggirono dal governo castrista e vennero accolti a braccia aperte da quello americano, tanto da far avere loro trattamenti speciali, con vie preferenziali per la cittadinanza. Si trattava infatti di professionisti, politici, imprenditori. Ricchi ai quali erano stati espropriati gli averi e che a Miami trovarono una città in cui stabilirsi. Altre due migrazioni massicce avvennero nel 1980


Attualmente, la popolazione di Miami è composta per circa il 70% da ispanici, principalmente cubani, con punte del 98% in quartieri come Little Havana. La maggior parte di queste persone vive tutta la sua vita senza parlare una parola di Inglese. Miami è una città assolutamente bilingue. I cartelli pubblicitari, le insegne delle principali catene americane, i menù dei ristoranti: sono tutti declinati in entrambe le lingue, se non esclusivamente in spagnolo. Anche in questo caso, tuttavia, la cucina cubana si è “americanizzata”. Miami e Tampa, infatti, si

contendono i natali del famoso “panino cubano” (di cui ha parlato Gianfranco Lo Cascio nel Magazine n.17 Maggio 2020). Sconosciuto a Cuba, qui è una istituzione: shredded pork, prosciutto cotto, cetriolini, mostarda e formaggio. Cinque strati di farcitura in un panino semidolce, friabile e morbido, molto diverso dal pan brioche dell’hamburger. Per farlo, spesso vengono utilizzati gli avanzi del Mojo Pork cubano, una succulenta spalla di maiale cotta in forno (ma nulla vi vieta di metterla in un kettle) con una marinatura a base di succo di arance amare. In mancanza di quello, potete usare un mix di agrumi (arancia, pompelmo, lime) che simula la freschezza del succo della naranja agria. El puerco asado con mojo criollo è il piatto tipico quando i cubani si ritrovano per una festa sulla spiaggia, per un party di compleanno oppure solo per una festa a bordo piscina. A un certo punto, appare lui: 3-4 kg di Boston butt, a grossi pezzi, da mangiare con moros y cristianos (riso bollito e fagioli neri), yucca o manioca bollita (potete trovarle facilmente nei negozi etnici), il tutto accompagnato da fiumi di birra ghiacciata.

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e nel 1994, in seguito alle grosse crisi economiche causate dal crollo del governo sovietico che, di fatto, permetteva a Cuba la sopravvivenza in seguito all’embargo degli Stati Uniti del 1969. In questo caso si trattava, ovviamente, non più di persone della media e alta borghesia, ma di gente in cerca di un futuro migliore. Fu proprio in seguito alla fuga del 1994 che venne promulgata la legge “piede asciutto-piede bagnato”, tradotto: se il clandestino viene intercettato in acqua, viene riportato a Cuba; se riesce a raggiungere la spiaggia, può restare negli Stati Uniti.


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CUBAN PORK CON MOJO

Ingredienti per 8 persone: Per il Mojo: 4 spicchi di aglio / 2 cucchiaini (8 g) di cumino / 2 cucchiaini (8 g) di pepe / una tazzina da caffè di origano (meglio fresco) / 120 ml di succo di arancia / 60 ml di succo di lime (oppure 180 ml di succo di arance amare che si può sostituire 60 ml di succo di arancia con 60 ml di succo di ananas / 50 ml di olio di oliva / un cucchiaio di senape di Dijone

Per il Pork: una pezzo di spalla da circa 3-3,5 kg / una tazzina da caffè di foglie di menta tritate (facoltativo) / una tazzina da caffè di origano / un cucchiaino (4 g) di cumino /2 spicchi di aglio tritati o 2 cucchiaini secco / un cucchiaino di origano / la buccia degli agrumi privata del bianco e tritata / 3 cucchiai di zucchero di canna / 4 cucchiaini di Steak booster lime pepper della linea Sal’s seasoning, tritati in modo da farli diventare una polvere.

Preparazione: 1. Trimmate la spalla lasciando circa mezzo cm abbondante di grasso. Incidetelo a losanghe e spolverate la carne col resto degli ingredienti previsti nella sezione “pork” . Mettetelo in una busta per alimenti o avvolgetelo nella pellicola, lasciandolo marinare per tutta la notte, senza superare le 24 h. 2. Per la salsa Mojo: scaldate olio e aglio fino alla formazioni di bollicine per 5 minuti a fuoco dolce. Fate raffreddare per altri 5 minuti. Aggiungete i restanti ingredienti e sbattete con una frusta 3. Accendete il forno in modalità statico a 160° o settate un dispositivo per una cottura indiretta a 150°C; mettete il maiale in un Dutch Oven o in una grossa teglia, con la parte del grasso verso l’alto. 4. Aggiungete un bicchiere di acqua e uno di mojo. Se usate una teglia, copritela con un foglio di carta da forno doppio e successivamente sigillatela con un foglio di alluminio. Non usate una teglia di alluminio, a causa dell’acidità della marinatura. 5. Cuocete da circa 3 ore, fino a che la carne non raggiungerà gli 80°C al cuore. 6. Scoprite la carne e cuocete ancora per altre due 2 ore, finché la carne non arriva a 90°C ed è cedevole. Lasciare in fase di rest per 45 minuti 7. Servire la ciccia a fette o pullata in grossi pezzi, coperta da croccanti anelli di cipolla crudi. Accompagnate con riso lesso mescolato con fagioli neri e spruzzate il tutto con succo di lime.

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Per servire: cipolle ad anelli a piacere / spicchi di lime a piacere / riso bianco e fagioli neri a piacere.


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L'Arte Casearia a cura di Giovanni Minelli

Yogurt H

come non l'avete mai mangiato

o fatto le scuole elementari negli anni ’90; sono cambiate molte cose nella pubblica istruzione, ma allora era abbastanza comune che in terza elementare, tra i vari quaderni e libri scolastici, facesse la sua comparsa il sussidiario. In questo volume erano trattate materie nuove rispetto ai due precedenti anni, e oltre alle scienze naturali e alla geografia si cominciava a trattare la storia. Durante la prima lezione l’arco temporale viene diviso in due dalla scrittura. Tutto ciò che è documentato fa parte della storia, tutto quello che precede è preistoria. Perdonate questo divagamento nostalgico, che ogni tanto serve ad ognuno di noi: in questo caso, mi serviva solo per dire che se vogliamo parlare dell’origine dello yogurt bisogna proprio proiettarci in quella dimensione, cioè la dimensione storica “da sussidiario”. Ad esempio, lo yogurt è citato nella Bibbia e poi descritto da Aristotele, Senofonte, Erodoto e Plinio ma fa la sua comparsa, come reperto archeologico, 8000 anni fa nei villaggi neolitici dell’Asia Centrale. Le popolazioni dell’attuale Turchia poi hanno provveduto ad esportarne la cultura nelle regioni balcaniche e nel bacino del mediterraneo. Cenni storici a parte, siamo qui per capire meglio di cosa si tratta e come produrlo in casa. Forse è il prodotto più semplice in assoluto da produrre a livello casalingo, tuttavia non dobbiamo dare nulla per scontato.

I lettori più attenti si saranno già fatti un’idea, abbiamo già incontrato più volte questi batteri e già li abbiamo sfruttati per i nostri scopi. Sappiamo già che si tratta di termofili, quindi che l’intervallo di temperatura alla quale proliferano più facilmente e meglio lavorano per noi è tra i 38°C e i 45°C. Quindi mantenendo il latte inoculato in questo intervallo di temperatura per un certo numero di ore otterremo il nostro yogurt. Prima di entrare nel dettaglio della preparazione bisogna ancora ragionare su un paio di cose. La tecnologia che abbiamo a disposizione ci permette di dividere lo yogurt in due categorie: a coagulo intero e a coagulo rotto. In

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Il latte sottoposto a fermentazione lattica da parte di Streptococcus thermophilus e Lactobacillus delbruekii subsp. bulgaricus è tecnicamente yogurt. Lo yogurt è un latte fermentato, non tutto il latte fermentato è yogurt, come ad esempio il kefir, prodotto tramite una fermentazione alcolica. Si tratta di un prodotto cremoso, più o meno compatto, dal gusto acidulo.


entrambe le tecniche partiamo da un latte a 45°C nel quale vengono inoculati i fermenti, dopodiché per il coagulo intero, si procederà con l’invasettamento al quale seguirà incubazione, raffreddamento e maturazione, mentre per il coagulo rotto si procederà dapprima con l’incubazione, poi con la rottura del coagulo, raffreddamento, riempimento dei vasetti e maturazione. In commercio ci sono molte yogurtiere casalinghe che ci aiutano nel processo di incubazione, ma com’è avvenuto in precedenza, potremmo utilizzare una cassetta di polistirene espanso o il forno, l’importante sarà riuscire a mantenere il composto a temperatura costante per 5/12 ore (chiamatemi Mister Precisione, grazie). Il tempo dipende da diversi fattori, quali la concentrazione di batteri vivi e la velocità di proliferazione, quindi ci orientiamo come al solito con il l’acidità, obiettivo 4,5 ± 0,1 pH. Io in questo caso ho impiegato 5 ore e mezza, tuttavia se avessi lasciato in incubazione per più tempo non è che avrei ottenuto qualcosa di non buono, ma sicuramente più acido. Veniamo ai fermenti, possiamo utilizzare quelli liofilizzati oppure, in una vera ottica casalinga, utilizzeremo uno yogurt commerciale, ma che sia bianco al naturale, niente frutta e niente zuccheri aggiunti. Quando scegliamo uno yogurt commerciale da utilizzare come starter, facciamo attenzione ad acquistarne uno il più possibile lontano dalla data di scadenza. Più si avvicina alla scadenza meno batteri vivi troveremo all’interno.

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Per quanto riguarda il latte va bene praticamente qualsiasi tipo di latte, di qualunque specie animale e con qualunque contenuto di grassi, va da sé che più il latte è grasso più lo yogurt sarà cremoso. In questo caso l’unica accortezza è quella di non utilizzare latte crudo, o meglio, se si ha a disposizione del latte crudo sarà importante pastorizzarlo e durante il raffreddamento ci fermiamo ai 45° C che ci servono. Quindi, gli ingredienti: • Latte • Yogurt bianco al naturale (5% del latte)

Strumenti: • Pentola • Yogurtiera (o forno) • Frusta da cucina • Mestolo Ed ecco il mio yogurt a coagulo rotto: Ho cominciato col portare a 45°C ½ litro di latte, ho aggiunto 250 g di yogurt, ho mescolato e lo ho mantenuto a temperatura per 30 minuti. Così ho creato il mio starter. Aggiungo questo composto ad altri 4,5 litri di latte a 45°C, mescolo delicatamente e passo la pentola nel forno. Dopo 5 ore ho testato l’acidità per la prima volta e dopo un’altra mezz’ora ho raggiunto il pH 4,5. Con la frusta ho delicatamente rotto il coagulo per omogeneizzare la struttura e la cremosità del composto. Con il mestolo lo ho travasato in barattolini di vetro che ho posizionato in frigorifero a raffreddare. Dopo 8 ore è pronto da consumare e si presenterà con una leggera velatura superficiale di siero. Ricapitoliamo: 00:00 preparazione dello starter 00:30 inoculazione dello starter nel latte a 45°C e inizio incubazione 06:00 rottura del coagulo 06:05 invasettamento e raffreddamento 14:00 pronto al consumo Dopo questa preparazione lo yogurt conservato in frigorifero andrà consumato entro 3 settimane e se ne conservate un po’ lo potrete utilizzare nuovamente per produrre lo starter per le future preparazioni. Se il vostro obiettivo fosse uno yogurt più compatto, in stile greco per intenderci, dopo la rottura del coagulo potremmo travasare il composto all’interno di un colino foderato con una tela e lasciarlo sgrondare per una mezz’ora. Chiaramente possiamo fare delle variazioni in funzione del nostro gusto personale: potremmo aggiungere dello zucchero in fase di omogeneizzazione per un prodotto più dolce; del sale per un prodotto mortalmente buono sulle patate al bbq; della confettura per un prodotto alla frutta.


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Dieci indispensabili piccoli

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ELETTRODOMESTICI per tutte le vostre avventure di cucina casalinga


I

n Futurama – altro capolavoro socioculturale di Matt Groening, accanto alla "famiglia gialla" che tutti conosciamo – c’è una puntata che si intitola “Il nonno di se stesso”. Groening – sfruttando la teoria del paradosso temporale di Albert Einstein – catapulta il protagonista Fry a Roswell, New Mexico, nel 1947. Obiettivo: salvare “suo nonno” e quindi… se stesso. Non vi spoilero troppo, perché è una puntata gustosissima e di acume raro. Recuperatela, se potete.

SECONDA LEZIONE

Piccola parentesi videoludica terminata, che mi occorreva per portarvi a questo: quanto è cambiata la nostra vita grazie agli elettrodomestici? In modo non quantificabile. Rendono più piacevole la nostra giornata, ci aiutano in piccole azioni quotidiane che altrimenti avremmo rimandato a momenti più facili. Ancora, ci aiutano nell’autostima: quanti tra noi si sentono piccoli chef grazie ad una preparazione ben riuscita, utilizzando gli elettrodomestici giusti? Questo mese, sul Magazine, vi portiamo una panoramica dei dieci piccoli elettrodomestici indispensabili da avere in casa se si vogliono affrontare preparazioni leggermente più complesse della media. Vi riportiamo anche i prezzi “minimi” di mercato che trovate online nel mese di Aprile 2021, così da farvi un’idea, magari per un regalo a voi stessi oppure al partner.

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Alla Fiamma il nostro corso di cucina pratica

Ricordo una scena che mi colpì molto: mi riferisco a quella del professor Fansworth (pro-pro-pro… e ancora pronipote di Fry) che, insieme a Leela, entra in un negozio di elettrodomestici cercando un forno a microonde (per estrarne un circuito che gli avrebbe permesso di comunicare con Fry, disperso nel passato). Il venditore, dicendo “non conosco quella marca!”, cerca di vender loro una cucina con quattro fornelli e un asse da stiro incluso. Vi lascio immaginare – per chi conosce il personaggio – l’indignazione di Leela.


1. FRULLATORE AD IMMERSIONE Il frullatore ad immersione è un oggetto super utile e super interessante da avere in cucina. Generalmente, occupa poco spazio ed è facilmente smontabile; grazie ad esso infatti possiamo sminuzzare, frullare e compiere azioni diverse senza l’ausilio di mezzi più ingombranti; il materiale ideale per i frullatori ad immersione è l’acciaio, per la durabilità e facilità di pulizia delle varie componenti. I prezzi vanno dai 35,00 euro a salire. 2. MACCHINA MANUALE PER LA PASTA Lo sappiamo che in fondo ad ognuno di voi si nasconde una piccola sfoglina in attesa di nascere: ecco, non fatevi mancare la macchina manuale per la pasta. Chiamata anche sfogliatrice, vi permette – da un impasto adatto – di creare pasta per primi piatti ma anche sfoglie per le vostre creazioni di pasticceria. Anche in questo caso, l’acciaio è il materiale fondamentale. I prezzi sul web vanno dai 50,00 euro a salire. 3. IMPASTATRICE PLANETARIA Croce e delizia, chiamata volgarmente anche solo “planetaria”. Senza di essa, molti tra voi non riuscirebbero a riprodurre le nerdissime ricette del nostro Trezzi e dovrebbero affidarsi al vecchio, caro olio di gomito e sudore della fronte. Esistono tantissimi modelli di impastatrice planetaria, anche con potenze differenti: si consigliano planetarie con una potenza abbastanza elevata, versatili, con una capacità che va dai 3 ai 5 litri. Parliamo di un elettrodomestico che può costare anche una bella cifra; il prezzo più basso attualmente reperibile è sui 170,00 euro.

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4. CUTTER Con cutter intendiamo in lingua italiana il classico frullatore a bicchiere. Ne esistono di svariate tipologie, persino con il contenitore a vasca, con molteplici accessori per fare creme o altro. Di solito è di materiale combinato, plastica/acciaio. Si parte da un minimo di 29,00 euro a salire. 5. THERMOMIX Quando diciamo Thermomix, ricordiamo il Bimby: è sicuramente il modello (o la serie di modelli) che più ha inciso nella storia di questo elettrodomestico. Si tratta di robot da cucina che aiutano sensibilmente i cuochi della situazione. In tantissime cucine stellate se ne vedono: semplifica il lavoro e, se ben utilizzato, può dare risultati niente male. L’impegno


economico per questo tipo di dispositivo è senza ombra di dubbio uno dei più grossi per la cucina casalinga: parliamo di svariate migliaia di euro, ma esiste anche un notevole mercato dell’usato (di modelli precedenti) che può essere agevole per molti. 6. COLTELLO ELETTRICO Il coltello elettronico è l’oggetto che sarà il migliore amico che non sapevi di avere: permette di mantenere la precisione nel taglio, magari di fette di pane molto morbide e di non rovinare lo stesso. Per un coltello elettrico, dovrete sborsare dai 20,00 euro a salire. 7. BILANCIA DIGITALE DI PRECISIONE Abbiamo già affrontato il tema bilancino di precisione nei nostri Fondamenti di Pasticceria: facile rendersi conto come sia praticamente irrinunciabile per tutto. Ci sono ricette dove c’è necessità di dosare al milligrammo gli ingredienti ed è impossibile fare ad occhio. Per una bilancia digitale di precisione, il prezzo base attuale è di 11,00 euro. 8. CENTRIFUGA Negli ultimi anni, abbiamo avuto la rivoluzione della centrifuga: pressoché ignorata per circa tre decadi, dal 2010 circa è stata utilizzata fortemente in svariati regimi alimentari per centrifughe, frullati, che siano essi di frutta che di verdura, alleati del fitness e del “mangiar sano”. Dal canto nostro, ogni tanto non disdegniamo un bell’estratto con apposito estrattore. I prezzi vanno dai 50 euro a salire.

10. GRATTUGIA ELETTRICA Il tempo è poco e non c’è tanta forza? La grattugia elettrica fa al caso vostro, per grattugiare formaggi o altri alimenti. Si va dai 40,00 euro per grattugie non molto resistenti, per finire a quelle in acciaio e con potenza maggiore che arrivano fino ai 200 euro.

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9. TERMOMETRO Siete su BBQ4All Magazine, quindi lo saprete già: il termometro è il nostro grande alleato. Lo utilizziamo per misurare temperature di camera, ma anche al cuore. Ci risulterà sempre utile in cucina. Si parte dalla decina di euro dei termometri più “convenzionali” fino anche ai cento euro per quelli professionali, che daranno giuste soddisfazioni.


La cucina dei coltelli volanti

Non esiste buona cucina senza buoni coltelli, disse il saggio

Alla Fiamma

il nostro corso di cucina pratica TERZA LEZIONE

P

artiamo dalle basi: tra le primissime cose da acquistare per la vostra cucina perfetta, adatta quasi ad ogni preparazione (con un po’ di ingegno e qualche trucchetto, la renderemo una cucina adatta davvero a tutto-tutto), ci sono i coltelli. Dici coltelli, dici un mondo: è facile confondersi tra ceppi, lame, impugnature e quant’altro. Soffro ancora a vedere utilizzati coltelli totalmente inadatti al loro utilizzo. Il cibo stramazza sotto la lama che, a lungo andare, a sua volta si rovina. Anche il taglio del cibo è un rituale, così come la sua preparazione. Perché sminuire questo momento dandogli dozzinalità? BBQ4All è qui per questo, per aiutare a districarvi in questo ulteriore, complicato mondo e magari invogliarvi a studiarne di più.

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COLTELLO: BREVE STORIA DI UN OGGETTO ANTICHISSIMO I coltelli sono tra i primi utensili utilizzati nella storia dell’uomo di cui abbiamo testimonianza. Gli antropologi sostengono che, grazie alla nascita del coltello, l’essere umano abbia potuto affrontare i pericoli della natura e dei propri simili, moltiplicarsi e, quindi, evolversi fino allo stato attuale. Parliamo di coltelli apparsi almeno due milioni e mezzo di anni fa, con la comparsa dell’homo habilis e della sua capacità di interagire con l’ambiente che lo circondava. Inizialmente i coltelli erano composti da pietra, nella fattispecie selce oppure ossidiana; successivamente, con l’avvento dei metalli e delle


tecniche di fusione man mano sempre più avanzate, si passò a coltelli in rame, in bronzo, poi ai coltelli dalle lame in ferro ed al contemporaneo acciaio. Non esiste civiltà nel mondo che non abbia i suoi coltelli: questa diffusione praticamente a livello globale la dice lunga sull’evoluzione. Esistono veri e propri collezionisti che vanno a caccia dei coltelli di questa o quella civiltà. Il coltello è un simbolo di lavoro, un simbolo agreste, marittimo, di manovali. Eppure, allo stesso tempo, il coltello è un simbolo di potere: dipende da chi lo impugna, dal materiale, dalla foggia. COLTELLI: TIPOLOGIE ED IDENTIKIT DI QUELLI COMUNI In questo pezzo tratteremo di coltelli composti da lama in acciaio e – in un secondo momento – coltelli in ceramica. Parleremo solo di quelli che dovreste avere in casa: ovvio che esistano anche coltelli damascati, molto belli ed utili, nonché coltelli giapponesi per i più viziosi.

Dopo questo brevissimo excursus, affilate le lame: conosciamo i coltelli!

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Un buon coltello in acciaio dovrà avere queste caratteristiche: • Essere resistente quanto basta all’erosione e all’ossidazione a contatto con i cibi più acidi; • Mantenere il filo della lama quanto più a lungo possibile; • Avere una impugnatura agevole e soprattutto SICURA: la sicurezza della persona viene prima di ogni altra cosa in cucina; • Essere facilmente lavabile in ogni sua parte.


DA PROSCIUTTO/SALMONE

DA CHEF

DA PANE

SFILETTO

MANNAIA

DISOSSO

UNIVERSALE

ARROSTO

PER SBUCCIARE

DA BISTECCA

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SPELUCCHINO (di diverse forme)

FORMAGGI MORBIDI FORMAGGI DURI


1. Coltelli da cucina per carne e pesce Dovremmo sul serio averne tutti in casa: i coltelli da cucina per carne e pesce ci impediscono di maltrattare la nostra materia prima, cosa fondamentale. Da appassionati di bbq, siete perfettamente a conoscenza di quanto sia importante il taglio fatto in un certo modo, per permettere l’adeguata cottura. Questi coltelli sono adatti per tagliare salumi, per sfilettare il pesce, spezzare ossa. Sono di varia foggia: alcuni sono piccoli e maneggevoli, piacevoli anche a guardarsi; altri, sono con lame lunghe e sottili adatte per affettare ed altri ancora sono adatti per i grossi pezzi. I principali coltelli da cucina per carne e pesce sono: il coltello per disossare (chiamato anche “scannino”); coltello per sfilettare; coltello da arrosto; coltello da prosciutto; coltello da cuoco; mannaia (sì, proprio quella); coltello alveolato. 2. Coltelli da cucina per frutta e verdura Frutta e verdura spesso hanno bisogno di un intervento “di coltello” per essere utilizzate come ingredienti; molti prodotti della terra possono tranquillamente essere affettati con un coltello comune/universale, mentre altri hanno bisogno del coltello chiamato spelucchino, che aiuta ad incidere, scolpire ma anche sbucciare. Ciò che abbiamo detto riguardo il “buon trattamento” della carne e pesce vale altrettanto per la frutta e la verdura, a maggior ragione che ci troviamo di fronte a materia con una capacità di decomposizione abbastanza rapida.

4. Coltelli da cucina in ceramica I coltelli da cucina in ceramica costituiscono un plus non indifferente nella nostra pratica quotidiana o periodica. I coltelli in ceramica sono composti principalmente da ossido di zirconio, lo stesso materiale delle protesi dentali, per intenderci. Quali sono i vantaggi di questi coltelli? Innanzitutto, mantengono il filo di lama più a lungo; altro dettaglio non trascurabile, il loro utilizzo non implica l’ossidazione di ciò che stiamo tagliando. Oltre ciò, non contengono nichel: quindi, le persone che soffrono di allergia al nichel non devono preoccuparsi di come è stato tagliato il cibo che stanno mangiando.

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3. Coltelli per formaggio I coltelli per il formaggio non dovrebbero essere una sciccheria riservata soltanto al tagliere apposito o al carrellino da ristorante. Ogni appassionato dovrebbe averne: essi sono studiati sia per la conformazione e lunghezza della lama sia per l’impugnatura. L’obiettivo è tagliare in maniera precisa e pulita e porzionare il vostro formaggio; cosa che solitamente non accade, utilizzando coltelli inadatti. I coltelli per formaggio più comuni sono: coltello a due manici (per il taglio di tome e pezzi grossi); coltello per formaggio a gomito (per favorire una posizione migliore nel taglio); coltelli per formaggi da tavola, a loro volta divisi in taglio per formaggi teneri, a due punte per raccogliere porzioni, a lama forata per formaggi di media durezza, a picca per incidere le forme.


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BBQ4All: FROM ZERO TO HERO

Capitolo IV

Le cotture ibride

T

Let’s BBQ time!

orna la bella stagione, non ci sono scuse: dovrete conoscere tutte le tecniche di bbq. Per questo ci proponiamo, oggi, di darvi una panoramica generale delle principali cotture ibride che sono sicuramente quelle che andrete sicuramente ad utilizzare maggiormente. Per padroneggiare le cotture bbq e grill è fondamentale capire come il fuoco e, di conseguenza, il calore agiscono nei confronti del cibo. Il primo passo per districarsi tra carboni e fiamme è quello di fare una netta distinzione tra i vari tipi di cottura. Ne esistono di tre tipi: • Ember roasting • Cottura diretta • Cottura indiretta

La cottura diretta, o direct grilling, è una tecnica che permette di cuocere il cibo per irraggiamento. L’alimento viene posto sopra la fonte di calore e, sfruttando il calore trasmesso appunto per irraggiamento, il cibo si cuoce. È la classica cottura su griglia, facile da organizzare, con una semplice reperibilità degli strumenti di cottura, spesso a basso costo. Ci siamo passati tutti: griglie raffazzonate, fiamme ingestibili, birra ghiacciata, cibo bruciacchiato. Questa tecnica di cottura, se vista come unica soluzione, è solo un impedimento e al massimo una scusa per bere in solitudine di fronte le fiamme. Per il griller del futuro la cottura diretta è uno step. È solo un passaggio per ottenere il risultato prefissato.

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L’Ember roasting è quella chiamata anche cottura su braci. Il cibo viene appoggiato direttamente sui carboni e il calore diffuso per conduzione cuoce il cibo. Questa tecnica è uno dei metodi più antichi di cottura su fiamma, e ha dei pregi notevoli. Ad esempio, permette di conferire ai cibi una complessità aromatica difficilmente ottenibile con altri metodi. Questo sistema si presta ottimamente per la cottura delle verdure quali ad esempio carciofi, patate, cipolle ed innumerevoli altri ortaggi e verdure. È una tecnica semplice che non richiede particolari accorgimenti: si accende il fuoco, si appoggia il cibo sulle braci e si aspetta che il cibo sia cotto. L’azione combinata di calore e fumo esalterà alcuni aspetti aromatici del cibo. La parte esterna, bruciata, andrà rimossa e all’interno otterremo un vegetale perfettamente cotto e gustoso. Il dover rimuovere la parte esterna bruciata per le verdure rappresenta un vantaggio, mentre per altri tipi di alimenti è un limite insormontabile.


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Ultima, ma non meno importante, tecnica di cottura e l’Indirect grilling, o cottura indiretta. Questo sistema sfrutta il calore diffuso per convezione dalla fonte di calore. Prerequisito fondamentale per potere cuocere con questo sistema è quello di avere un dispositivo che si possa chiudere. La fonte di calore andrà posta da un lato e il cibo dall’altro. Attraverso i moti convettivi il calore cuocerà il cibo in maniera più lenta e uniforme evitando di bruciacchiarlo. I vantaggi offerti da questa tecnica sono innumerevoli: primo fra tutti, quello di potere controllare la temperatura della camera di cottura. Esattamente come accade con un forno sarà possibile settare il nostro dispositivo a una determinata temperatura.

Per ottenere il miglior risultato possibile, bisogna anche confrontarsi con il dispositivo che utilizziamo per cuocere: ad esempio su un barbecue a gas dovremmo imparare a regolare i bruciatori, su uno elettrico andrà regolata la potenza delle resistenze, mentre su uno a carbone sarà fondamentale la gestione delle ventole di ingresso e di uscita dell’aria. Di recente, sul mercato si iniziano a vedere anche dei dispositivi a pellet che gestiscono il tutto attraverso dei controller digitali. In ogni caso, a prescindere dal dispositivo che voi utilizziate, la fisica della cottura rimane invariata. Solo la conoscenza dello strumento che utilizziamo ci permetterà di aumentare la nostra precisione e accuratezza nella gestione delle temperature.


Una volta acquisita e fatta propria la necessaria conoscenza dei vari tipi di cottura ci si avvicina sempre di più all’obbiettivo finale. Bisogna però ancora fare un piccolo sforzo per ottenere dei veri e propri piatti gourmet. L’utilizzo di una sola tecnica di cottura spesso è insufficiente per ritenere il piatto completo e bisogna destreggiarsi e alternare le varie tecniche fin qui descritte. In base al tipo di carne da cuocere e al risultato atteso, utilizzare un mix delle tecniche appena viste permetterà anche ai neofiti di raggiungere la meta desiderata. Da questa necessità nasce quindi il concetto di cottura ibrida, in cui il connubio di due o più tecniche permette di avere un risultato eccezionale. Il principale motivo per cui si ricorre alla cottura ibrida è quello di ottenere una carne che sia tenera e succosa (tender&juicy) all’interno e che abbia una crosta croccante (crispy) all’esterno. Il modo più classico per gestire queste tecniche è quello di fare cuocere inizialmente un taglio di carne a cottura indiretta (o affumicandolo) e, successivamente una volta raggiunta la temperatura target, passare a una cottura diretta per ottenere una crosticina sapida e saporita. Se venisse utilizzata solo la cottura indiretta il risultato sarebbe sì succulento e tenero, ma il risultato finale potrebbe risultare incompleto poiché potrebbe venire a mancare la componente

croccante, fondamentale nella composizione di un piatto ben riuscito. Al contrario, utilizzando solo una cottura diretta, si otterrebbe una taglio fin troppo croccante, secco e tenace. L’esempio didattico per eccellenza sulle cotture ibride è rappresentato dalle costolette di maiale. Ci siamo trovati tutti la domenica alle grigliate selvagge, quelle dove le costine arrivano nel piatto in due versioni: o troppo cotte, dure e secche più del Sahara oppure arrivano crude, rosa al centro che già alla vista si capisce che la salmonella è dietro l’angolo. Sfruttando la cottura ibrida è possibile ottenere, invece, il risultato perfetto. A titolo di esempio vi spieghiamo adesso una delle diverse tecniche ibride per cuocere delle costine di maiale. Senza addentrarci troppo nella ricetta vera e propria vi riassumiamo i principali step da seguire per ottenere delle ottime costine di maiale e soprattutto per permettere anche ai meno esperti di avvicinarsi alle cotture ibride. 1.

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3.

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5.

Il primo passo da fare è quello di settare il vostro dispositivo per un’indiretta, cercando di tenere la camera di cottura in un range che va dai 110°C ai 130°C. Una volta settato il dispositivo ponete le costine lontane dalla fonte di calore e lasciate cuocere lentamente la carne. Indicativamente ci vorranno quasi 5 ore. Dopo circa 3 ore di cottura, aiutandovi con un nebulizzatore, spruzzate un po’ di acqua (o aceto di mele) sulla carne. Ripetete l’operazione dopo circa un’ora. Ciò farà aumentare l’umidità nella camera di cottura e renderà il maiale più succoso. Dopo circa 5 ore aumentate la temperatura del kettle e passate le costine sopra i calore diretto per formare la crosta. Ci vorranno circa 5 minuti per lato. Una volta che si è formata la crosta potete servire le costolette.

Come abbiamo detto questa è solo una delle varie tecniche ibride che si possono utilizzare per cuocere non solo le costine ma anche molti altri alimenti, ricordandovi che, in fin dei conti, il nostro amato Revit è di fatto una cottura ibrida.

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L’affumicatura è una tecnica che si sposa perfettamente con le cotture indirette: tramiti appositi dispositivi, è possibile cuocere il cibo sfruttando esclusivamente il fumo scaturito dalla combustione e l’umidità da esso creata nella camera di cottura. Il vantaggio principale di questo tipo tecnica è legato ai lunghi tempi e alle basse temperature; gli anglofoni chiamano queste cotture L&S (Low and Slow). Questo sistema veniva sfruttato sin dall’antichità per impreziosire tagli di carne meno nobili. L’azione del fumo e del calore per lungo tempo permette infatti al tessuto connettivo di sciogliersi lentamente e insaporire la carne. Il risultato finale è quindi una carne tenera e succosa, arricchita dal fumo che ne ha esaltato i pregi. La “Holy trinity” del barbecue (brisket, pulled pork e ribs) fonda i propri principi base sul fumo e sulle lunghe cotture. Tutte e tre le pietanze vengono infatti cotte low&slow e impreziosite con spezie e fumi derivanti da legni pregiati.


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gburancia asata

Se è vero che per essere un buon cristiano bisogna porgere l'altra guancia, è anche vero che Gesù Cristo, con molta intelligenza, di guance ce ne ha date soltanto due. E così come l’essere umano, allo stesso modo il sacro bovide, l’animale disceso sulla terra per sollazzare il nostro palato, presenta ai lati del muso due masse cicciose che danno il meglio di sé quando sposate con un buon vino. Sin dai tempi in cui la cottura sottovuoto ha messo uno stinco tra gli stipiti delle cucine professionali, la guancia brasata cotta a bassa temperatura è diventata il lasciapassare per una cena essenziale e sofisticata. Quando cucinata a dovere ovviamente, seguendo gli step che sto per snocciolarvi di seguito

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Lo

La ricetta scientifica a cura di Gianfranco Lo Cascio


IL TAGLIO

Partiamo principale.

dall’ingrediente

Le guance, note anche come muscolo massetere, si trovano in tutti gli animali e sono le dirette responsabili della masticazione. Generalmente presenziano fieramente nella lista dei tagli pregiati. Parliamo di muscoletti che lavorano duramente sul campo, triturando costantemente l’erba e, come tali, sono eccellenti se cotte lentamente, per permettere al tessuto connettivo, ai tendini e al grasso di disintegrarsi e rilasciare il loro sapore. Le guance di manzo hanno l'ulteriore vantaggio di essere di dimensioni maneggevoli, pesano generalmente 300g/350g (ciascuna), e possono essere facilmente cotte intere fino a quando non diventano morbide e succose. Potrebbe essere necessario rimuovere lo strato di silver skin (membrana esterna ed argentea) dalla parte superiore della guancia prima della cottura. Fate semplicemente scivolare il coltello tra la “pellicina” e la carne e, angolando la lama verso l'alto, fatela scorrere lungo la membrana per rimuoverla.

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Peso del taglio: 300-400 g Cottura consigliata: brasato


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CUCINARE CON L'ALCOL I cuochi usano vini, birre e distillati come ingredienti in un florilegio di piatti, da zuppe e salse salate e stufati a creme e torte dolci, soufflé e sorbetti. Contribuiscono a sviluppare sapori distintivi, spesso includendo acidità, dolcezza e sapidità (note che derivano dagli acidi glutammico e succinico) e la dimensione aromatica fornita dall'alcol e da altre sostanze volatili. Alcune peculiarità possono costituire una vera sfida per il cuoco, come l'astringenza dei vini rossi e l’anima amaricante della maggior parte delle birre. L'alcol stesso fornisce anche un terzo tipo di liquido - oltre all'acqua e all'olio - in cui le molecole di sapore e colore possono essere estratte e dissolte, così come le molecole reattive che possono combinarsi con altre sostanze nel cibo per generare nuovi aromi e maggiore profondità di sapore. Mentre grandi quantità di alcol tendono a intrappolare altre molecole volatili nel cibo, piccole tracce aumentano la loro volatilità e quindi intensificano l'aroma.

In sostanza, cucinare con l’alcol può essere un’opportunità, ma anche un rischio. Il vino, la birra, i distillati hanno le loro note pungenti, leggermente medicinali, e queste caratteristiche vengono accentuate fino a far emergere coloriture aspre nei cibi caldi. Sta a noi, quindi, far sobbollire le salse per un po' di tempo, per far evaporare quanto più alcol possibile. Nella pirotecnica preparazione chiamata flambé, dal francese “fiammeggiare", si incendiano i vapori riscaldati di liquori e vini ad alta gradazione e si trasformano in fiamme blu tremolanti e scenografiche, che conferiscono un sapore leggermente bruciato al piatto. Tuttavia, nessuna di queste tecniche elimina del tutto l’alcol dal cibo. Test clinici hanno dimostrato che i brasati trattengono circa il 5% dell'alcol aggiunto inizialmente, i piatti cotti brevemente dal 10% al 50% e i flambé fino al 75%.

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Focus #01 L'ASTRINGENZA Il gusto di un vino è in gran parte una questione di astringenza e di viscosità. L'astringenza - la parola deriva dal latino adstringere, "legare insieme" - è la sensazione che percepiamo quando i tannini nel vino “tanninizzano” (passatemi questo neologismo), conciano le proteine lubrificanti nella nostra saliva come fa con il cuoio: legano le proteine in modo incrociato e formano piccoli aggregati che rendono la saliva ruvida piuttosto che liscia. Questa sensazione di secchezza e allappamento, insieme alla morbidezza e alla viscosità causata dalla presenza di alcol e altri componenti (nei vini dolci lo zucchero) creano l'identità del corpo del vino, dell’aroma e della gradazione. Nei vini rossi giovani, i tannini possono essere abbastanza palpabili che alcuni li definiscono”masticabili”.


CUCINARE IN UN LIQUIDO

Come mezzo di cottura della carne, l'acqua ha diversi vantaggi. Trasmette il calore rapidamente e uniformemente, la sua temperatura è facilmente regolabile in base alle esigenze del cuoco di turno, e può trasportare e impartire sapori e diventare una salsa. A differenza dell'olio, non può scaldarsi abbastanza per generare sentori di rosolatura sulla superficie della carne; ma le carni possono essere pre-maillardizzate e poi rifinite in liquidi a base d'acqua. Ci sono diversi nomi che descrivono il semplice e versatile metodo di cottura della carne in un liquido, che può essere brodo di carne o di verdure, latte, vino o birra, purea di frutta o verdura. Le varie tecniche comportano differenze nel liquido di cottura usato, nella dimensione dei pezzi di carne, nelle proporzioni relative di carne e liquido, e nella precottura iniziale. Ad esempio, brasati e arrosti implicano tagli più grandi e meno liquido rispetto agli stufati. In tutte quante le metodologie, comunque, la variabile chiave è la temperatura, che dovrebbe essere mantenuta ben al di sotto dell'ebollizione, intorno agli 80°C. Molti brasati e stufati vengono cotti in forno a bassa temperatura, ma le temperature usuali specificate (intendiamo 165°C/175°C) sono abbastanza alte da portare il contenuto di una pentola coperta all'ebollizione. A meno che la pentola non venga lasciata scoperta, il che permette l’evaporazione da raffreddamento (e concentra e crea sapore sulla superficie del liquido), la temperatura del forno dovrebbe essere mantenuta sotto i 93°C. Il braisier originale in Francia era una pentola chiusa seduta e sormontata da alcuni carboni ardenti, da qui il termine “brasare”.

Focus #02 Le parole sono importanti: CUOCERE IN CAMICIA, BRASARE, STUFARE

Questi vari termini per lo stesso processo di base hanno origini molto diverse. L’espressione “in camicia” ha origine medievale; deriva dal francese e indica il "vestito" di albume che avviluppa il tuorlo quando immerso in acqua bollente. Brasare e stufare sono entrambi prestiti del XVIII° secolo, il primo termine viene da “braciere” e si riferisce alla pratica dell’epoca di mettere i carboni sotto e sopra le pentola di cottura, il secondo viene da étuve o stufa, poiché il cibo veniva cotto in stufe o recipienti speciali.

La capacità del tessuto della carne di trattenere l'acqua aumenta quando questa si raffredda, ne consegue che riassorbirà parte del liquido che ha perso durante la cottura

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Le carni cotte in un liquido dovrebbero essere lasciate raffreddare in quel liquido, e migliorano se servite a temperature ben al di sotto della temperatura di cottura, a circa 50°C.


CARNI TENERE:

cottura sorprendentemente rapida. L'acqua calda è un trasmettitore di calore così efficace che cuoce molto rapidamente i tagli di carne sottili e teneri. Braciole, petti di pollo, bistecche e filetti di pesce sono generalmente tutti pronti in pochi minuti. Se vengono rosolati prima in una padella per sviluppare la famosa crosticina brunita, potrebbero aver bisogno solo di un minuto o due per finire la cottura. La prassi suggerisce di portare il liquido di brasatura a ebollizione, aggiungere la carne per distruggere i batteri presenti in superficie, e dopo pochi secondi aggiungere del liquido freddo per riportare la padella a 80°C, in modo che le porzioni esterne della carne non si surriscaldino e ci sia una finestra di tempo più ampia durante la quale il cuore può arrivare alla temperatura target. Se il liquido deve essere bollito per concentrare il sapore o per rendere più densa la salsa, si toglie prima la carne.

TAGLI DURI E GRANDI: più lento significa anche più umido.

Le carni con una quantità significativa di tessuto connettivo duro devono essere cotte ad un minimo di 70°C/80°C per sciogliere il loro collagene in gelatina, ma questo intervallo di temperatura è ben al di sopra dei 60°C/65°C, range di temperatura in cui le fibre muscolari strizzano via i loro succhi. Quindi rendere succulente le carni dure diventa una sfida. La chiave è cucinare lentamente, quanto basta per innescare la dissoluzione del collagene o appena sopra, per minimizzare l’asciugatura delle fibre. La carne deve essere controllata regolarmente e tolta dal calore non appena risulta tenera: dovreste riuscire a tagliarla con una forchetta. Il tessuto connettivo stesso può aiutare, perché una volta sciolto, la sua gelatina trattiene una parte del dei succhi spremuti dalle fibre muscolari e quindi conferisce una sorta di succulenza alla carne. Gli stinchi, le spalle e le guance degli animali sono ricchi di collagene e con questi tagli si preparano dei brasati da applausi.

Cuocere i tagli duri oltre il ben cotto

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I tagli di carne “duri” non devono per forza risultare sgradevoli. Possono diventare teneri e fondenti, ma solo se cotti a puntino. Questo sembra, sulle prime se guardato da lontano, in contraddizione con la maggior parte delle cose che sentite dire sulla carne, in base alle quali più tempo questa trascorre in ambiente caldo, più diventa incartapecorita e immasticabile.


linee guida per

BRASATI E STUFATI SUCCULENTI

Un brasato o uno stufato umido e tenero è il risultato dell'attenzione cumulativa del cuoco ai diversi dettagli della procedura. La regola più importante? Mai lessare la carne.

Uno degli ingredienti più importanti nei brasati e negli stufati è il tempo - un'ora o due - durante il quale il cuoco gestisce attentamente l'aumento della temperatura della carne fino ad accompagnarla in una cottura a fuoco lento. Il tempo che la carne passa sotto i 50°C equivale a un periodo di “invecchiamento” accelerato che indebolisce il tessuto connettivo e riduce il tempo necessario all’asciugatura delle fibre. Un segno che la carne brasata o stufata è stata riscaldata molto delicatamente e gradualmente è il colore rosato al cuore, anche se si presenta ben cotta: lo stesso riscaldamento lento che permette agli enzimi della carne di intenerire e insaporire la carne permette anche alla maggior parte del pigmento della mioglobina di rimanere intatta.

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Poi ce ne sono altre sette. 1. Mantenere la carne il più possibile intatta per minimizzare le superfici di taglio attraverso le quali i fluidi possono fuoriuscire. 2. Se la carne deve essere sezionata, tagliarla in pezzi relativamente grandi, almeno 2,5 cm per lato. 3. Rosolare la carne molto velocemente in una padella calda in modo che al cuore si scaldi solo leggermente. Questo abbatte la carica batterica superficiale della carne e crea il sapore. 4. Avviare la pentola o il tegame con la carne e il liquido di cottura in forno freddo, con il coperchio socchiuso per consentire un po' di evaporazione, e impostare il termostato sui 93°C, in modo che riscaldi lo stufato a circa 50°C lentamente, in circa due ore. 5. Alzare la temperatura del forno a 120°C in modo che lo stufato si riscaldi lentamente da 50°C a 80°C. 6. Dopo un'ora, controllare la carne ogni mezz'ora e fermare la cottura quando riuscite a trafiggerla agilmente con i rebbi di una forchetta. Lasciate raffreddare la carne nel tegame, dove riassorbirà un po' di liquido. 7. Il liquido dovrà probabilmente essere ridotto ad alta temperatura per migliorare il sapore e la consistenza. Rimuovere prima la carne, però.


COME FUNZIONA LA SCIENZA DEI BRASATI

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La carne consiste principalmente di quattro componenti: fibra muscolare, tessuto connettivo, grasso e molta acqua. Le fibre, che sono lunghe, sottili e raggruppate in fasci allungati, creano la "grana" della carne. Anche se piccole negli animali giovani, le fibre muscolari crescono sia con l'età che con l'esercizio. Sono generalmente tenere a causa del loro alto contenuto d'acqua, che si aggira intorno al 75%.

In cottura, i filamenti delle fibre muscolari cominciano a ridursi a temperature differenti: prima in diametro tra i 40°C e i 63°C, e poi in lunghezza sopra i 63°C gradi, espellendo l'umidità mentre si contraggono, come quando si strizza un asciugamano bagnato. Il tasso di perdita di umidità diventa significativo intorno ai 60°C, tuttavia, quando il tessuto connettivo che circonda le fibre muscolari inizia a contrarsi, comprime i fasci ancora più saldamente. Questo è il motivo per cui i tagli teneri sono molto più buoni quando cucinati “al sangue” o a media cottura, prima che questo processo abbia inizio. Il tessuto connettivo che circonda i fasci di fibre è una membrana traslucida che consiste di cellule e filamenti proteici e fornisce struttura e supporto ai muscoli. Il collagene è la proteina predominante nel tessuto connettivo e si trova in tutto l’animale, dai tendini dei muscoli agli zoccoli. In contrasto con le fibre muscolari, il collagene è composto da tre catene proteiche strettamente avvolte in un'elica a triplo filamento e, quindi, risulta immangiabile quando è crudo. In cottura, questa robusta proteina rimane in gran parte inalterata quando viene

riscaldata a temperature inferiori ai 60°C. È solo quando la carne supera questa temperatura che il collagene comincia a rilassarsi, srotolandosi in singoli sfilacci. Se tenuto a questa temperatura - o, idealmente, a una un po' più alta (preferibilmente 71°C/82°C) per un lungo periodo di tempo, la tripla elica del collagene si srotola per formare gelatina, una proteina a singolo filamento in grado di trattenere fino a 10 volte il suo peso in umidità, intenerire la carne e conferire densità e ricchezza alla salsa del brasato. La conversione del collagene in gelatina dipende sia dalla temperatura che dal tempo; più a lungo il cibo viene tenuto nel range di temperatura ideale, più il collagene si scompone. La cottura prolungata distrugge i tagli magri con poco collagene (come il filetto di maiale) perché, man mano che le fibre muscolari si contraggono, cedono costantemente i loro succhi e diventano più secche e dure. Pertanto, i tagli con poco collagene dovrebbero essere cucinati tenendo conto del mantenimento dell'umidità, con una temperatura finale al cuore non più alta di 54°C per il manzo o 66°C per il maiale. Ma i tagli ricchi di collagene sono troppo duri da mangiare se cotti al sangue o medi. La cottura prolungata migliora effettivamente la consistenza dei tagli duri con molto collagene (come la punta di petto di manzo), perché permette a questa componendte, presente in maniera invadente, di trasformarsi in gelatina, trattenendo significativamente più umidità, e alle fibre muscolari tese di rilassarsi un po un po', richiamando l'umidità all'interno della ciccia.


Focus #03:

DAL COLLAGENE ALLA GELATINA: IL MELTING DOWN

A temperature superiori ai 60°C, la tripla elica del collagene si srotola per formare tre filamenti di gelatina. Ma date un’occhiata alla tabella che segue per capire cosa succede alla carne quando esposta a determinati range di temperatura. G L I E F F E T T I D E L C A L O R E S U L L E P R O T E I N E, S U L CO L O R E E S U L L A S T R U T T U R A D E L L A C A R N E Livello di cottura

Aspetto della carne

Soffice al tocco, liscia, umida, traslucida, colore rosso brillante.

Attività degli enzimi proteolitici

Fibre muscolari

Attivi.

Iniziano a sbrogliarsi.

Rare

Inizia a rassodarsi e diviene opaca.

Molto attivi.

La miosina inizia a denaturare e coagulare.

Medium rare

Elastica al tocco, meno liscia, più fibrosa. Rilascia succhi quando tagliata. Colore rosso chiaro, opaca.

Denaturati, diventano inattivi e coagulano.

Miosina coagulata.

Medium

Inizia a restringersi e perdere elasticità. Trasudano i succhi. ll colore rosso sfuma a rosa.

Medium well

Continua a restringersi, poca elasticità. Pochi succhi liberi. Il rosa vira al grigliomarrone.

70°C

Well

Continua a restringere. Solido. Pochi succhi. Colore grigio-marrone.

75°C

Well

40°C

Raw

45°C

Bleu

50°C

55°C

60°C

65°C

80°C

Well

85°C

Well

90°C

Well

Connettivo e collagene

Intatto.

Acqua legata alle proteine

Inizia a separarsi dalle proteine e accumularsi nelle cellule.

Mioglobina

Normale.

Separazione e l'accumulo accellerano.

La guaina di collagene inizia a contrarsi.

Le altre proteine Il collagene si delle fibre contrae, strizzando denaturano le cellule. e coagulano.

Inizia a dissolversi.

I succhi fuoriescono dalle cellule per la pressione del collagene.

Inizia a denaturare.

Il flusso cessa.

Denaturata e coagulata.

L'actina denatura e coagula. Il contenuto delle cellule diventa compatto. Le fibre si separano facilmente una dall'altra.

Si dissolve rapidamente.

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Temp.


LA GUANCIA BRASATA SCIENTIFICA Ingredienti per sei persone

Per la carne • 2 guance Crimson Crest 5+ Wagyu F1 Crossbreed (da circa 360 g) • Olio extravergine di oliva q.b. • 2 spicchi d’aglio • Bacche di ginepro • Sale q.b. • Pepe q.b. • Qualche cubetto di ghiaccio (almeno 4) Per il fondo • 800 g di stew Blue Ox Prime di Black Angus (potete usare ritagli, ossa, cartilagini) • 2 rametti di timo • 2 bacche di ginepro • 1 chiodo di garofano • 1 l di vino rosso (Amarone, Primitivo, Barolo) • 160 g di carote • 180 g di cipolle rosse • 100 g di sedano

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Per la finitura • Purè di patate o polenta • Peperoni cruschi • Riduzione di vino rosso


01. LA PROCEDURA

C’è la carne e c’è il suo fondo di cottura a base di Amarone. Contrariamente alla preparazione tradizionale, che nessuno vi vieta di fare, questi due elementi verranno divisi e cotti separatamente. Prepareremo il fondo col vino in un tegame, insieme allo stew, e la guancia sottovuoto insieme ai suoi condimenti. Questo per assicurarci di cuocere le guancette a puntino, evitare di insacchettare il vino (la busta si gonfierebbe) e stratificare i sapori, unendo i cubetti di carne alla nappatura aromatica, ricca di gelatina e corroborante di vino.

02. LA CARNE

Cuoceremo la carne sottovuoto, prima condendola e poi aggiungendo poco ghiaccio. Ovviamente vi do i parametri da tenere in considerazione per le mie guancette, perché sono le mie e la conosco bene. Prendete le guance e rifilatele, eliminando il grasso esterno e la silverskin (la membrana argentea esterna). Ungete ben bene con olio, aggiungete sale, pepe, aglio, ginepro e qualche cubetto di ghiaccio. Mettete i pezzi di carne in un sacchetto e preriscaldate il sous vide a 82°C.

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Quando sarà arrivato a temperatura, immergete il sacchetto della carne e cuocete per 8 ore. Avete più tempo a disposizione? Cuocete a 70°C per 24 ore.


03. IL FONDO

Prepareremo il fondo con carni ricche di connettivo, perché contiene un elemento importante che darà un gusto esplosivo alla preparazione. Recuperate lo step o riducete la carne in pezzi, ungete con olio extravergine di oliva e tostate a temperatura infernale, in padella o in forno a 230°C. Ormai sapete come funziona. La reazione di Maillard è quella reazione chimico-fisica che si manifesta quando proteine e zuccheri riducenti, in totale assenza di acqua, vengono esposti ad una fonte di calore. Queste molecole si riallineano e formano nuove molecole, non esistenti in natura, molto profumate, gustose e dal colore ambrato. E come otteniamo una crosta di cauterizzazione perfetta? 1. In totale assenza di umidità. 2. A temperatura della superficie di contatto di almeno 140°C 3. In presenza di zuccheri riducenti. Le avete tutte e tre.

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Una volta formata la crosta brunita, aggiungete una mirepoix di sedano, carota, cipolla, bagnate con il vino e lasciate ridurre (oppure versatelo nella teglia e trasferite tutto in un tegame con la dadolata di verdure). Dealcolate (il calore farà evaporare la parte alcolica) e fate ridurre della metà, a fuoco dolcissimo: in questo modo la carne avrà il tempo di scaricare tutta la gelatina. Raffreddate il più velocemente possibile e filtrate, rimuovendo tutta la carne. Raccogliete il liquido e le verdure che saranno rimaste intrappolate nel colino e frullate con il mixer ad immersione. Mettete da parte.


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04. ASSEMBLAGGIO

Una volta pronta la carne, rimettetela nel tegame con i succhi che vi ritroverete nel sacchetto e con il fondo di cottura. Fate ridurre a fuoco moderato finché non vela il cucchiaio. Dovrà essere molto viscoso. Fidatevi perché ci sarà dentro tutto il connettivo rilasciato dalla carne che tenderà a gelificare. Quando il fondo sarà pronto potrete assemblare gli elementi. Il sughino vi sembra troppo lento? Preparate una miscela di acqua e amido di mais, a saturazione. In parole povere prendete un bicchiere d’acqua fredda e aggiungete l’amido, agitate e continuate ad aggiungere la polvere fin quando non si deposita sul fondo. Aggiungete la miscela nel tegame, un cucchiaio alla volta, aspettate che raggiunga i 75°C: a quel punto comincerà a gelatinizzare e ad addensare la salsa. Spegnete quando il sughino avrà raggiunto la consistenza che vi piace. Tagliate le guance a cubetti, nappate col fondo e servite con quenelle di polenta o puré di patate, il tutto sormontato da peperoni cruschi sbriciolati e poche gocce di riduzione di vino. Per ottenerla vi basterà ridurre il vino in un pentolino, fino a quando non avrà ottenuto una consistenza sciropposa. Come disse il vate Guzzanti, se ti do uno schiaffo, porgi l'altra guancia, se no pure la stessa che cambio io la mano. Per mangiarla, mica per schiaffeggiarvi.

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Gianfranco Lo Cascio


Di rancore vive il mondo del grilling.

Seguo a cura di Emiliano Nencioni

454 - Almanacco 2021

Frecciatine, ripicche, diffide, vendette, schieramenti, paranoie, complotti, infiltrati, odio sproporzionato. Al momento in cui scrivo la situazione del grilling italiano è questa, con un continuo, sotterraneo e strisciante botta e risposta fra appartenenti a “circoli” diversi, singole entità rancorose e macrogruppi ben definiti. Sarebbe forse possibile metterci una pietra sopra, appianare, accettare le varie differenze di metodo e convinzioni, e semplicemente andare avanti con maggiore armonia, per una sorta di “bene del grilling”?


455 - BBQ4All Magazine

Forgive Thy Brother (particolare) Scott Erickson


Probabilmente no. Non è così immediato come può sembrare ad un primo approccio, per complicazioni quasi antropologiche, radicate più di quanto si pensi nella cultura occidentale. Seppellire l’ascia di guerra, per quanto si possa parlare di guerra in un ambito che tratta di bistecche e pulled pork, comporta una serie massiccia di azioni, prese di consapevolezza e riflessioni non banali: riassumendo in maniera fin troppo veloce e ingrata, per chi se lo fosse perso, il mondo del grilling tricolore è flagellato da divisioni e tormenti interiori che, trascendendo la comune tifoseria, voglia di identificarsi con un gruppo e una forse pallidamente giustificabile goliardia, sono arrivati alla palese ingiuria, voglia di odiare, voglia di ridicolizzare, voglia di far perdere credibilità, nel nome di un’aderenza a questo o quel “partito” braciante. “Partiti”, va detto, che a parte piccole eccezioni ormai sono aziende, partite IVA, negozi, associazioni che di fatto non alimentano più questi scontri, ma si limitano a coltivare in maniera plausibile il proprio business. Tuttavia l’odio interpersonale e la voglia di scrivere cattiverie persistono, sia come iniziativa del singolo, sia come pratica velatamente “non troppo osteggiata” dai vari capi schieramento. Questa è la situazione, da anni. Sarei curioso di sapere se la stessa cosa succede fuori dallo Stivale, o fuori dall’Europa: prima o poi dovrò verificare con una piccola inchiesta.

456 - Almanacco 2021

Ogni linea di confine accettabile è stata oltrepassata talmente di lunga misura che per tornare ad una situazione decentemente pacifica sembra indispensabile uno degli atti più faticosi della struttura

mentale umana: il perdono. Perdonarsi, resettare, ricominciare con strategie migliori. Ma chi perdona chi? Chi perdona per primo? Come posso accettare il tuo perdono se penso che TU debba accettare il mio, casomai? E qui son dolori. Nell’intero corpus freudiano non si parla delle meccaniche del perdono se non una manciata di volte, e mai in termini tecnici: in generale negli studi occidentali si presta più attenzione ai lati più oscuri e problematici dell’animo umano, scervellandosi maggiormente a cercare di capire i motivi dell’aggressività, delle azioni che rechino danno, male, svantaggio, e molto meno peso si è, storicamente, assegnato ai comportamenti che possano portare a uscire, di fatto, da violenze, sopraffazioni e traumi. L’enorme caratterizzazione spirituale dell’atto di perdonare tipica delle maggiori religioni monoteistiche ha poi reso tutto meno affrontabile dal lato strategico, comportamentale e “materiale”, ricoprendo tutto con una pesante coltre morale, con aspettative e obblighi tipici di ogni convinzione teologica. In maniera strettamente analitica, materiale e deterministica potremmo sforzarci ad affermare che il perdonare implichi il definire la situazione e il rapporto tra due o più persone in termini in cui i torti e le ragioni sono chiari e accettati da ambo le parti. Già qui, i più navigati avranno subito compreso, andiamo a gambe all’aria.

Keith Haring


“No, avete iniziato voi” “No, io l’ho detto solo perchè i tuoi sfottevano sempre” “No, siete voi che dite le cose fra le righe” “No, è sempre lui che va a commentare i post più in vista per denigrarci” “No, sono anni che non ci date pace, e allora reagiamo” “No, siete voi ad avere la denuncia facile per un po’ di sana goliardia” “No, avete iniziato voi a tirare in ballo famiglie, madri, stipendi” “No, in realtà è lui che scrive sempre quelle cose irritanti su quella rubrica lì” “Si, ma infatti lui non si sopporta” “Ok, allora su di lui siamo d’accordo” ...Mi sono lasciato un attimo trasportare dagli esempi, ma credo che ci siamo capiti. Insomma, siamo sempre fra noi sette o otto lettori, dai. In una situazione così caotica, indecisa e sorretta da innumerevoli ripicche, perdonarsi non è esattamente l’atto più intuitivo e spontaneo. Anzi, l’iniziativa di una sola delle parti che pensi di partire a spron battuto con una campagna di perdono potrebbe essere vista molto molto male, fraintesa e sicuramente stigmatizzata. Ora che ci penso, qualcosa del genere è stata già tentata, tempo addietro, con risultati scoraggianti. Il rischio è che il perdono venga visto come un atto non dovuto. Di fatto, un’ulteriore violenza, finemente camuffata. Si incapperebbe molto probabilmente in una

presa di posizione percepita come un perdono vendicativo, un ossimoro abbagliante ottenuto quando il “perdonante” esprime i propri sentimenti negativi tramite un loro apparente, forzato, forse pianificato superamento. “Da oggi noi di questo gruppo facciamo pace con quelli dell’altro gruppo, che saranno i benvenuti qua, anche se hanno tanto sbagliato in passato” “Lo fai solo per avere più potenziali clienti!” “Basta con queste continue lotte, da oggi siamo aperti a qualsiasi idea sulla cottura della bistecca, anche a quelli lì” “Lo fai solo per vendere più padelle!” E via e via di questo passo. Irrealizzabile. La questione del perdono come dilemma morale è stata trattata - certamente con pesi, implicazioni e meriti ben diversi da queste due paginette di pseudo-gossip attorno alla brace - da Simon Wiesenthal nel libro “Il Girasole - le possibilità e i limiti del perdono”. Wiesenthal, superstite dell’olocausto, ebreo, scrittore, dedicò la seconda parte della sua vita all’investigazione, per portare a processo quanti più nazisti latitanti possibile: di fatto fu il primo, originale “Nazi Hunter”, prima di supereroi e serie TV. Ne “Il Girasole” tuttavia, pone al lettore, e all’umanità a lui contemporanea, un quesito profondissimo, che cercherò di illustrare senza fare troppi spoiler: un soldato nazista, ormai morente, chiede a Wiesenthal stesso, come rappresentante di un intero popolo, il perdono per le atrocità commesse in guerra; Wiesenthal non risponde, ritirandosi dalla battaglia introspettiva e morale, e porgendo il dilemma al lettore: è giusto perdonare? In una civiltà ormai abituata alla giustizia retributiva, dove ci si aspetta una sanzione proporzionale all’entità del crimine, il perdono è di fatto un’ingiustizia? É quindi solo una forma partecipata di giustizia l’unica veste tollerabile di perdono? Probabilmente il principale precursore di un perdono sensato è il pentimento. No, non parlerò di aspetti mistici o morali. Quando una parte annuncia un pentimento, l’altra parte può perdonare senza che si sospetti di perdono vendicativo; a questo punto l’atto può essere ripetuto anche a parti inverse, portando a una dissoluzione reale e (ottimisticamente par-

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lando) definitiva del torto e del sentimento di vendetta. Senza pentimento non c’è ammissione di colpa, e il perdono è in questo modo imposto, diventando di fatto l’ennesima soverchieria, l’ennesimo sopruso di cui lagnarsi in interminabili commenti ripetitivi, reiterati, pleonastici, mortalmente noiosi. É quasi inevitabile che l'unica reazione “digitalmente attuabile” e minimamente avvicinabile al perdono, in un contesto di social network, di continui copia incolla e screenshot che riportano a galla vecchie ferite, sia l’ignorarsi. Continuare così a scrivere, a leggere, a sperimentare tecniche e convinzioni, mantenendo la ferrea volontà di non rispondere, non immischiarsi, non continuare ad alimentare la fornace delle ripicche e dell’odio; passare oltre, rendersi impermeabili, ignifughi. Un isolamento che è l’antitesi perfetta di quello che dovrebbe essere un “social” network, mi rendo conto. Ma se avete soluzioni più facili o più immediate, dite pure, proponete.

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Per Hannah Arendt, più volte citata in contesti variamente faceti qui nella Seguo, il perdono “può essere un antidoto prezioso contro l’angoscia dell’irreversibilità dell’esistenza”. Non è escluso che torni a parlare della faccenda, stavolta dal punto di vista della Arendt, approfondendo il concetto dell’illusione di poter essere individui autarchici. Appena trovo una maniera di fare parallelismi stiracchiati col mondo del grilling, ovviamente!

Emiliano Nencioni Mattina a Cape Cod (particolare) Edward Hopper


N°29/ANNO 3 - MAGGIO 2021 L'EDITORIALE DI GIANFRANCO LO CASCIO Assaggiare la carne: una guida completa PARTE II

Picnic STORIA E COSTUME DI MANGIARE AL FRESCO LA DISPENSA AMERICANA Diffidate dalla farina FROM ZERO TO HERO Il bello della diretta

LA RICETTA SCIENTIFICA Pasta al pomodoro


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Editoriale di Gianfranco Lo Cascio

Assaggiare la carne: una guida completa

PARTE II Buòno (pop. bòno) agg. [lat. bŏnus] (premesso al sostantivo, si tronca in buon davanti a vocale e davanti a consonante seguita da vocale o da l o

da r). In particolare, gradito ai sensi del palato o dell’olfatto: buon sapore,

buon odore; gli piacciono i b. bocconi; saper di b., mandare buon odore; lasciare

la bocca b., di cibi o bevande che lasciano in bocca un sapore gradevole.

Se c’è una cosa che non sopporto è quando mi dicono che un cibo è buono. Buono riferito ad un piatto non significa nulla, non descrive nessuna dominante di sapore, non sottolinea nessuna sfumatura gustativa. Buono è l’aggettivo caro agli ignavi, a chi ha paura di esprimere un concetto, a chi teme di deludere l’artefice dell’oggetto protagonista della degustazione. Se mi dicessero che le bistecche GLC Top Selection sono soltanto “buone” un po’ mi incazzerei. Nessuno cerca, sceglie, cuoce bistecche che possono aspirare soltanto ad un laconico “buono”, magari pronunciato a fil di voce, con lo sguardo puntato verso il basso. Tutti vogliono e si meritano una bistecca eccezionale, scioglievole, goduriosa, sapida, succosa. Non buona. E come si fa a capire se quella che abbiamo nel piatto è una bistecca da strapparsi i vestiti di dosso? Io una risposta ce l’ho, è dispiegata proprio qui, tra le parole di questo articolo. Se volete iniziare il vostro percorso per diventare esperti di ciccia stellare, seguite attentamente i miei consigli, e per questi due motivi. PRIMO MOTIVO Vi guiderò in un serie di appuntamenti, spiegandovi bene che cosa aspettarvi e che cosa cercare nel sapore di una ribeye o di una fiorentina. SECONDO MOTIVO Vi garantirò la piena soddisfazione, o il rimborso totale di ogni centesimo che spenderete per fare i vostri esperimenti. Siete pronti per la seconda parte della guida all’assaggio di una bistecca? Bene, iniziamo.

Attrezzi del mestiere: il coltello Nel numero del Magazine di Aprile 2021 abbiamo parlato di qualità della carne (erogata, percepita e attesa), di strumenti necessari per l’assaggio e nello specifico di affettatrici. In questo numero ci concentreremo su altri utensili coinvolti nella delicata fase della degustazione, a partire dal coltello. È lo strumento che ci accompagna da più lustri, rimane imbattuto per pulire, sezionare e servire la carne. C’è della poesia nascosta tra la lama e l’eleganza della mano che lo impugna: tagliare fettine regolari, più o meno sottili e senza difetti, è un’abilità che si acquisisce dopo anni di esercizio e pratica. Il taglio di carne deve risultare quanto più preciso possibile, chirurgico oserei dire. Ma i coltelli ideali per l’operazione si differenziano in base allo stile di taglio da realizzare. Un coltello è formato da più parti, tutte contribuiscono ad accrescerne l’efficacia: il filo è responsabile della capacità di taglio; punta, costola e tallone lo rendono pratico e tagliente; l’impugnatura è ciò che ne fa uno strumento facile da impugnare. La lama deve essere rigorosamente liscia, la dimensione può variare in base all’applicazione finale. Per quanto riguarda i materiali di fabbricazione, l’obsoleto ferro è stato sostituito dall’acciaio inox, poiché non trasferisce alcun aroma e si può sanificare in totale sicurezza. Le lame moderne, come quelle selezionate da me, vengono stampate in leghe con una finissima granulometria dei carburi, che le rende affilate e affidabili. Oltre al coltello destinato al pre-trattamento della carne, è fondamentale fornire al commensale la

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lama giusta, tagliente e comoda da impugnare. Non trovate che i coltelli da ristorante medio, quelli spessi, pesanti e con la punta arrotondata, siano chincaglie forgiate dal demonio? Il carnivoro gourmet sa che per gustare una bistecca nella sua interezza c’è bisogno di un coltello dedicato, piacevole da impugnare, guardare o soltanto possedere. Il coltello da bistecca è piccolo, tagliente come un bisturi e col manico in osso/corno.

Scegliere piatto e forchetta Vi sembrerà banale, ma colore e materiale di piatti e stoviglie influenzano sensibilmente la degustazione di un qualsiasi piatto o ingrediente. Per questo motivo vi consiglio di utilizzare piatti bianchi e in ceramica (o qualsiasi materiale inerte, che non assorba odori o sapori). La forchetta rigorosamente in acciaio e coi rebbi belli appuntiti, per fendere e infilzare la carne al primo colpo.

A tavola: il servizio Chi meglio di noi griller sa che la ciccia, cruda o cotta che sia, ha una temperatura oscillante e si ossida se esposta all’aria. Per quanto riguarda la tartare, è importante servirla immediatamente, mentre la bistecca ha bisogno di quel suo breve periodo di riposo (il rest), che scongiura la formazione dell’acquitrino da scena del crimine sul tagliere. La carne va sempre conservata sotto i 4°C, preferibilmente a 0°C o negli scomparti carne di cui sono dotati i frigoriferi moderni. Vi sconsiglio, in ogni caso, di tenerla stipata lì troppi giorni. Perché tutte le volte che i vostri figli aprono lo sportellone per prendere il Kinder Pinguì, la temperatura interna del refrigeratore si alza, compromettendo la qualità delle vostre preziosissime bistecche. In quel caso è sempre preferibile congelare o passare in abbattitore e poi in freezer. Avete appena aperto la confezione di una ribeye? Tenetela a temperatura ambiente o sciacquatela sotto l’acqua corrente (fredda), per eliminare l’eventuale miosina presente nella vaschetta.

Marco, Giuseppe e Francesco sono seduti allo stesso tavolo e stanno per addentare la stessa ribeye Blue Ox di Black Angus. Sebbene si tratti di fette dello stesso muscolo e della stessa mucca, quella bistecca racconterà tre versioni differenti della stessa storia. La carne è una materia prima complicata, che muta nei profumi e nelle consistenze in base all’esposizione all’aria e alla temperatura di servizio. Volubile e capriccioso è anche il palato di chi assapora, poiché le percezioni nasali e le emozioni cambiano in base agli eventi pregressi e circostanti.

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L’analisi sensoriale


Valutare una bistecca in 5 mosse come un Pro

STEP N.1: OSSERVATE LA CARNE CRUDA Premessa: questo è quello che fa un assaggiatore di carne professionista. Guardate con attenzione il lato del taglio della carne, che dovrà essere rigorosamente contro-fibra, possibilmente sotto una luce naturale di media intensità. Potrete osservare la disposizione dei fasci, il grasso e la quantità di tessuto connettivo, oltre al colore. La superficie può essere più o meno brillante, nel caso di carni poco frollate potreste notare delle piccole gocce d’acqua che affiorano. Ma quello che deve catturare la vostra attenzione è la marezzatura, ovvero il quantitativo di grasso intramuscolare, responsabile di consistenza e sapore. Un altro parametro da non trascurare è la plasticità del taglio: è denso o si piega con facilità? Ovviamente la compattezza conclamata determinerà una morbidezza minore. STEP N.2: ANNUSATE LA CARNE CRUDA Il naso è senza’altro l’organo che fa da filtro, che preannuncia attraverso la percezione olfattiva quella che potrebbe essere una degustazione memorabile o una disfatta gastronomica. Accostate la carne alle narici, aspirando per qualche secondo, per evitare che l’adattamento olfattivo appiattisca ogni sensazione. In questo modo potrete registrare la potenza dell’aroma, le sue peculiarità ed eventuali puzzette anomale. Vi torneranno alla mente odori e profumi che con la carne non hanno proprio nulla da spartire (fieno, miele, metallo ecc…) STEP N.3: OSSERVATE LA CARNE COTTA La bistecca cotta su griglia avrà delle grill marks evidenti, le righe brunite che compaiono in corrispondenza dei fili di metallo arroventati, testimonianza di una avvenuta reazione esotermica. La bistecca cotta su piastra di ghisa, meglio se liscia, presenterà una crosta di cauterizzazione più estesa e uniforme, di color caramello, più o meno brunito, frutto delle reazioni di Maillard. All’interno, la bistecca dovrà essere di colore rosato intenso, quasi magenta. La tecnica per realizzare una cottura uniforme la conoscete, munitevi di termometro e non superate i 52°C (al massimo 54°C) interni.

STEP N.4: ANNUSATE LA CARNE COTTA Il processo di decodificazione degli odori comincia con la cottura, quando i primi odorini iniziano a spargersi per la cucina. Il profumo di “arrostito” è uno stimolante potentissimo dell’appettito, così come quello della crosta di pane e del caffè tostato. In questa fase è importante avvicinare al naso la carne ancora calda, per evitare che l’intensità aromatica si riduca. Accostate un pezzetto di bistecca all’altezza delle labbra, come se voleste assaggiarla, e aspirate profondamente. Tramite questa olfazione iniziale, riuscirete a capire il mix di odori presenti ed eventuali difetti di struttura/cottura. La superficie e l’interno della carne avranno profumi differenti e dall’intensità variabile (profumo di tostato e di eventuale affumicatura). STEP N.5: ASSAGGIATE! Col taglio, tasterete anche consistenza e morbidezza della carne. Per una valutazione completa, però dovrete aspettare l’assaggio: ritagliate un boccone e mordetelo, solo affondando i denti potrete rilevare il livello di tenerezza. Durante questa fase, potrete registrare e valutare la succosità della bistecca, poiché col morso si libererà la parte acquosa. Continuando a macinare coi denti, noterete delle frazioni lievemente più tenaci, dovuta alla presenza del tessuto connettivo. Fate una stima della quantità e misurate anche la quantità e la fibrosità della parte muscolare. Vi assicuro che la carne dello Zio si scioglie in bocca come un sorbetto. Solo alla fine, stimate l’untuosità rilasciata dalla parte grassa, insieme agli aromi in essa contenuti. Perché sapete che il sapore è tutto racchiuso nel grasso, vero? Nei lipidi sono contenuti aromi percepibili anche dopo la deglutizione. Vi è piaciuto il panel test? Fatelo e poi raccontatemi come è andata in Community, su Facebook. Prima di salutarvi, vi lascio la mappa sensoriale della carne cruda e cotta, vi servirà. Gianfranco Lo Cascio

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Chi da sempre sfrutta questo tipo di antagonismo e di livore da qualche settimana batte la fiacca. I numeri sono impietosi e visibili ad un occhio un po’ attento.

ciclica), a basso costo e a basso impegno, in un espediente ormai praticamente inutile. Tutto viene a noia. Jennifer Lopez è stata mollata per la babysitter. Per esempio.

C’è chi fa contenuti, chi fa contenuti e “lardella” (per rendere tutto più succulento) con la polemica, chi fa polemica leggermente marezzata di contenuti, e chi, privo di contenuti, cita e ricalca le polemiche dei gruppi più seguiti, cercando di splendere maldestramente della luce riflessa altrui, baluginando erraticamente come un’insegna al neon con lo starter guasto. Il clickbait non seduce più, l’engagement disengaggia.

Figuratevi i toni sensazionalistici, le chiamate alle armi di qualche funambolo del congiuntivo.

"Guarda come un griller maldestro è diventato campione condominiale di bistecca usando questo vecchio trucco!" “Non ne possiamo più” “Vorrei scrivere qualcosa contro l’uso del forno ma ci sono tramonti da vedere, marciapiedi da calpestare...” “Anche basta però” “Sono già due lockdown consecutivi che passo a leggere i vostri tentativi di flame” “So’ Lillo” (sostituibile eventualmente con l’ultimo tormentone in auge)

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Pochi commenti, svogliati. Niente più muse invocate per meglio descrivere le ire funeste. L’abuso reiterato e la sovrabbondanza hanno trasformato la risorsa più comoda (sto parlando ancora della polemica

Chi aveva qualcosa da dire, prodotti da vendere, contenuti da offrire, sta andando avanti, auspicabilmente correggendo il tiro; a qualcun altro invece si sta rompendo il giochino in mano, e forse si starà meravigliando di come le sue infallibili frecciatine parassitarie non abbiano più il consueto riscontro in termini di numeri, di click, di ramificatissimi commenti. Il venire a noia è il potere autorigenerante e autopreservante degli strumenti sociali: quando una cosa prende troppo piede, si inflaziona, rischia di diventare preponderante e invasiva come una specie in un ecosistema non proprio, lentamente tutto attorno ad essa muta e si adatta, in maniera da rendere superfluo, esecrabile o disdicevole il fenomeno in questione. Dopo tutto, non si è più visto chiosare sagacemente con “trooooppo giuuuusto” o citare Gianfranco D’Angelo. Solo pochi amanti del vintage resistono alle dotte citazioni sull’epopea del sarchiapone. Ambrose Bierce, uno scrittore americano dell’inizio del secolo scorso, ben poco conosciuto nella vecchia Europa, era soprannominato “Bitter”, l’amaro, l’aspro, per il suo eccessivo

e incessante sarcasmo; l’ironia e la mancanza di riguardo, sottomissione e rèmore sociali lo avevano reso un giornalista molto prolifico ma, e ci sono poche delicate parafrasi per spiegarlo, stava proprio sulle scatole a tutti. Un ospite perfetto per la Seguo, la rubrica più di nicchia e divisiva del Magazine. L’affabile Ambrose, che se volete potete gustarvi nel suo famoso “Dizionario del diavolo”, si ritrovò a dire: “Volubilità: reiterata sazietà di un affetto incostante” Trovo che stia tutta qui la chiave: l’affetto flebile e scricchiolante dei fan. Dei fan, della base utenti, dei militanti, a seconda del caso specifico. Fan convinti, ma non convintissimi, proprio perché non direttamente votati alla causa, che periodicamente e ciclicamente si saziano; si saziano e si disgustano, un po’ come quando da piccoli abbiamo fatto indigestione di qualcosa che ci piaceva tanto e poi non l’abbiamo più voluta mangiare per mesi. Un annetto abbondante di lockdown quasi continuativo, con relativa impennata del tempo trascorso online nella sconsiderata lettura bulimica di qualsiasi contributo, ha certamente agito da catalizzatore e accelerato fortemente tutto il processo di saturazione e di disgusto: per il futuro, ricordarsi di centellinare tormentoni e pratiche acchiappacitrulli.

Emiliano Nencioni



c i cPi n 468 - Almanacco 2021

storia e costume di mangiare "al fresco"

Portfolio gastronomico a cura di Nunzia Clemente Illustrazioni di Eleonora Castagna


“Al fresco”: il picnic è un atto sociale Sì, sì, lo so: molti di voi avranno dei ricordi traumatici di picnic aziendali imposti. È la forma di socialità più facile da applicare fuori dalle aziende. Perlopiù si tratta di tristi ritualità da adempiere una volta all’anno, con tavoloni ammassati di roba. Ma sono altrettanto sicura che – e no, non nascondete il sorrisino! – custodite gelosamente le foto del vostro capo ubriaco; oppure, avete avuto l’opportunità durante un picnic di fare la bella scoperta che il vostro collega dell’altro reparto è un bravissimo grill master seguace di BBQ4All. Al di fuori dell’Italia, il picnic è ritenuta un’occasione sociale al pari di feste, cerimonie e quant’altro. Basti pensare che Barack e Michelle Obama, la coppia presidenziale più fotogenica nella storia degli States, ha una vera e propria passione per i picnic. In cosa consiste, in pratica, un picnic? In buona sostanza, possiamo definire picnic l’atto di mangiare fuori dalle mura domestiche, nella natura, con pietanze spesso preparate appositamente per l’occasione e nell’immaginario comune trasportate nell’iconico cestino. Spesso si mangia direttamente sull’erba, poggiandosi su tovaglie colorate e, in generale, circondadosi di cose che danno un senso

di rilassatezza. Non di rado, protagonista del picnic è il barbecue. Le origini del termine picnic sono da ricercare nelle parole francesi pique e nique, che unite (piquenique) davano vita appunto “fare qualcosa di poca importanza”, con prima registrazione nei dizionari di usi e costumi francesi sul finire del Seicento. Insomma, pique-nique era qualcosa tipo “prendersela con comodo”, rilassarsi e nel frattempo mangiare. Avete presente il famoso quadro Le déjeuner sur l’herbe di Édouard Monet? Ecco, l’idea che mi faccio io del picnic (e quella che presumibilmente doveva essere all’epoca!) è esattamente quella, magari non proprio svestita. Ma il caro Monet rende bene l’idea di mollezza e rilassatezza dei costumi dell’epoca. Il picnic – altrimenti chiamato al fresco dining dagli inglesi, proprio con le parole italiane – si diffuse a partire dal XVIII secolo. Facile intuire perché: l’urbanizzazione e l’industrializzazione andavano a mano a mano erodendo gli spazi verdi e si iniziava a ricercare la campagna. Le fêtes champêtres, feste campestri, iniziarono a diffondersi in Francia dopo la Rivoluzione, quando i parchi reali divennero pubblici. A questo, bisogna aggiungere che città come Parigi, durante l’Ottocento, ebbe una radicale e profonda trasformazione che l’hanno resa molto simile a ciò che è oggi. Charles Baudelaire descrive molto bene questo cambiamento nei suoi Tableaux Parisiens, sezione del capolavoro Les fleurs du mal: la città cambiava radicalmente, diventava “metropoli” del suo tempo e le persone ricercavano sempre più la natura. Non è un caso che durante l’Ottocento nacquero diverse correnti, tra arte e letteratura, ove la ricerca della natura regnava incontrastata: l’Impressionismo verso gli anni 1860-1870 ed il Decadentismo in letteratura, che durò per tutto il secolo attraversando varie fasi. E a tutti questi illustri personaggi, ci posso mettere la mano sulla griglia, piaceva tantissimo mangiare e fare picnic. Anzi, come si dice in lingua inglese, picknicking.

Galateo del picnic perfetto Non fate facce brutte: anche il picnic prevede un proprio personale “galateo”, un insieme di buone maniere e piccoli accorgimenti che, se rispettati, renderanno la nostra esperienza molto piacevole e rilassante.

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on fa ancora troppo caldo. Certo, le giornate soleggiate vivono qualche mezzogiorno di fuoco, ma verso le due del pomeriggio l’aria si fa fresca, concilia il sonno. Maggio e giugno sono “quei mesi là”: i mesi del mangiar fuori (e il nostro Governo ha deciso che dobbiamo ‘mangiare fuori’ in tutti i sensi), del picnic insomma. Nel nostro Paese, il picnic è sempre stato associato alla “scampagnata”, ovvero, il recarsi in un posto più o meno campestre e bivaccare. O ancora, il picnic è associato alle festività comandate. Oltre ad una discreta quantità di cibo e vino, nei picnic italiani non manca mai una cosa: il pallone. L’addetto al Super Santos ha quasi la stessa importanza dell’addetto alla griglia. Il picnic in realtà è molto di più: citato spesso nell’arte, utilizzato anche modo per socializzare e rilassare gli animi tra Paesi, è un atto sociale molto importante prima ancora che pure bivacco. Andiamo a scoprire insieme quali sono le origini e le usanze del picnic, un “rito” diffuso in maniera globale molto più di quanto possiamo immaginare. Vi lascerò, inoltre, un nutrito elenco di buone norme per il perfetto buongustaio amante dell’aria aperta.


Cerchiamo di riassumere insieme le regole da galateo per un picnic, almeno quelle imprescindibili. 1.

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Portare una tovaglia/telo molto grande: questo vi aiuterà ad avere molto più spazio “igienico” e pulito a disposizione. Scegliete un tessuto dai toni sgargianti: il picnic è un’occasione di festa e va valorizzata come si deve, anche con il colore. Non lesinate sulle quantità, ma non esagerate nemmeno. Siete in sei? Cucinare per otto non sarà un problema, così come portare otto tramezzini. Il pic nic rilassa e la socialità stimola naturalmente la fame. Porzioni piccole, ma di tutto: che tu sia la sola persona a cucinare oppure che siate in due o tre addetti alla cambusa, meglio fare porzioni piccole di molte pietanze. Il che non significa che tu debba stancarti inutilmente: via libera quindi a piccoli panini, piccoli timballi, piccole insalate di pasta. In modo tale che si possa assaggiare di tutto un po’, senza mettere in soggezione chi vuole assaggiare tutto oppure chi vuole restare più “sobrio”. Insomma, avete presente il finger food? È arrivato il suo momento. Ricordatevi sempre di aggiungere una pietanza

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6.

senza carne: non siamo a casa nostra, presumibilmente siamo tra amici e potrebbe essere presente qualcuno di cui non conosciamo i gusti. Vegetariano non significa con poco gusto, quindi via alle insalate di cereali (che vi impiegheranno poco tempo e vi faranno fare una splendida figura!) e verdure grigliate a dovere con le nostre tecniche. Cercate di portare con voi stoviglie (piatti, bicchieri, posate) di materiale compostabile o almeno riciclabile in gran parte. Attenzione al luogo che ci ospita: la natura va rispettata. Che sia esso un parco privato o pubblico, una spiaggia, un rifugio di montagna con spazi esterni dove godere di panorama. Non lasciare tracce del proprio bivaccare è una regola fondamentale di civiltà. Se ne avete la possibilità, differenziate tutto al momento (se avete bambini con voi, fatelo con loro: si divertiranno e vi daranno una mano!) e portate via con voi i sacchetti in auto. Se il bivacco è avvenuto dopo una bella scarpinata in montagna, differenziate e portate con voi i sacchetti fino al primo punto di raccolta rifiuti utile.


Partecipare ad un picnic: cosa si porta?

Adesso è il momento di fornirvi un po’ di regole generali, valide per tutti. Le ricette sul “cosa portare”, ve le daremo fra qualche pagina. Nel frattempo, alcuni consigli non guastano mai.

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Calcolare bene gli spazi all’interno del vostro cestino/borsa. Se vi aspetta una bella scarpinata prima di raggiungere il luogo eletto, dovrete PER FORZA fare una selezione di alimenti e vettovaglie varie ed una borsa comoda, con i vari scomparti può solo aiutarvi. Attenzione a non caricarvi troppo, quindi. 2. La sera prima, organizzate ciò che potete: ad esempio le salse e gli oli (da mettere in apposite bottigline ben chiuse), oppure i dolci, o ancora le torte salate. Ricordate di portare con voi anche della pellicola da cucina, così da imballare gli eventuali avanzi. 3. Se siete appassionati o conoscete appassionati di picnic e in generale dell’aria aperta, non farebbe male chiedere se vi possono prestare sedie e tavolini da campeggio: sono pieghevoli e perfetti da mettere in auto. Vi torneranno utili quando dovrete appoggiarvi per porzionare cose. 4. Dispositivi antizanzare: non saranno mai troppi. In commercio esistono creme e spray da applicare direttamente sul corpo, oppure dei dispositivi a batteria che coprono una discreta

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Quelli “poco abituati” potrebbero ritrovarsi in pieno panico: cosa si porta ad un pic nic? Vi immaginiamo già, carichi di vettovaglie perlopiù inutili o difficili da mangiare e trasportare, per non dire di contenitori da smaltire e/o riportare a casa per sottoporre ad accurato lavaggio… Così come immaginiamo lo “scavato” del picnic, che però sottopone sempre lo stesso tramezzino ormai bagnato di umidità dei suoi stessi succhi; così come – di SICURO – c’è il personaggio grigliatore che puntualmente sta accanto al dispositivo ore ed ore, salvo poi propinarvi costine durissime e bistecche dalla consistenza di suole per le scarpe. Da ora in poi sarete animali da picnic perfetti: su questo numero del Magazine vi diamo tutte le informazioni per non essere banali, scontati e soprattutto per grigliare alla perfezione in mezzo a un prato verde, su una montagna o dove preferite.


area. Non dimenticate una piccola borsetta con qualche cerotto, disinfettante (visti i tempi che corrono, è una voce decisamente importante!) ed antistaminico d’emergenza. 5. Prima di lasciarvi alle ricette da picnic, è necessario mettere delle cose in chiaro: non tutte le preparazioni “portatili” oppure da preparare alla griglia al momento, sono adatte a tutti i picnic. Esistono anche i picnic tematici (quindi, se il tema è “cibo americano” magari non presentatevi con una moussaka, sì gustosa ma fuori ambito); quindi, drizzate le orecchie e non fate i tipi da ultimo minuto ed interventi in calcio d’angolo. Esistono poi pietanze più adatte a picnic in luoghi dal clima mite (tipo il mare) e pietanze che invece vi risveglieranno l’appetito e i sensi in zone collinari e montuose. 6. Capitolo beverage: tasto dolentissimo se non sapete come organizzarvi. Borse termiche e tavolette ghiaccio vi aiuteranno moltissimo, soprattutto se porterete con voi vino o birra che hanno necessità di fresco; non dimenticate anche una discreta dose d’acqua e succhi di frutta. Congelate qualche bottiglia d’acqua in modo tale che serva anche da ulteriore ghiacciolo. 7. Non sottovalutate il potere della frutta: portatene, fate dolci, macedonie e quant’altro. Spesso la natura circostante permette un risveglio interiore e voglia di cose naturalmente zuccherine.

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Il taglio del mese

LO STINCO O

ggi parliamo di un nostro insostituibile amico di brace, cioè il maiale. La carne di maiale è una tra le più consumate al mondo (laddove culti e società lo permettono) e, di conseguenza, lo stinco – taglio su cui ci soffermeremo oggi - ha trovato velocemente utilizzo nelle cucine di ogni Paese, poiché è considerato da sempre un taglio povero ed economico. Essendo uno dei pezzi migliori del maiale (in termini di consistenza e sapore), esso è un ingrediente essenziale per numerosissime ricette; i cuochi di tutto il mondo hanno saputo apprezzarne le caratteristiche creando piatti che sono diventati simbolici in diversi Paesi. Ad oggi lo si vede protagonista di numerose preparazioni culinarie, dallo street food all’alta cucina. Anche l'Italia ha adottato questo saporitissimo taglio e un po’ in tutta la penisola troviamo preparazioni tipiche che prevedono questo ingrediente.

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Cosa è, esattamente, uno stinco Per analizzare meglio questo taglio bisogna prima di tutto precisare che di stinchi ce ne sono due tipi: quello anteriore (in inglese, shin) e quello di posteriore (in inglese, shank); ciononostante, le caratteristiche dei pezzi non cambiano molto, se non il fatto che anteriore è piu piccolo e dalla forma irregolare rispetto alla sua controparte posteriore, che si presenta migliore alla vista e di solito è venduto senza cotenna. Parliamo dunque di quest’ultimo.


Inoltre, se troviamo il nostro stinco con la cotenna sopra e molto probabile che ci siano altri muscoli come Gastrocnemius e Flexor Superficialis (che insieme formano il cosiddetto Heel muscle ma anche Pike's Peak Roast, Horseshoe Roast, Gracilis, Semitendinosus, Biceps Femoris). Sulla spalla invece troviamo un altro stinco dalla forma un pochino piu irregolare, spesso venduto con la cotenna perché dalle dimensioni piu ridotte rispetto a quello di quello di prosciutto. Si divide sempre dal gomito mediante un taglio attraverso l'articolazione, separando cosi le ossa (Tibia/Tarsale) con i gruppi muscolari annessi.

Stinco: come si pulisce e si prepara Lo stinco, in genere, è uno di quei pezzi di carne che non richiede alcun pretrattamento di pulizia particolare, dato che si è soliti acquistarlo già pronto per essere cucinato, con o senza la cotenna. Si adatta perfettamente a numerose tecniche di cottura come il roasting e lo smoking. Sono migliaia le ricette preparate con questo pezzo in giro per il mondo e quasi tutte fanno leva sui suoi principali punti di forza: grasso e tessuto connettivo che, tradotti, significano sapore e morbidezza. Può essere cucinato con tecniche di cottura anche ibride, ricor-

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Come già il nome suggerisce, lo stinco si trova nella parte inferiore della coscia, tra l’articolazione omero ulnare (che alcuni siti chiamano impropriamente “ginocchio”) e il piedino, sia anteriore che posteriore (Hindquarter/Forequarter). Shank/HindShank: dal prosciutto, seguendo la linea di taglio dell’articolazione omero ulnare possiamo ricavare uno stinco dalla forma allungata e abbastanza omogenea che comprende ossa come tibia/ fibula e i gruppi muscolari flessori ed estensori ad essi attaccati (Deep Digital Flexor, Flexor Digitorum Superficialis, Soleus, Lateral Digital Extensor, Extensor Digiti Primi Longus, Tibialis Cranilis, Peroneus Tertius).


dandoci sempre che il nostro obiettivo principale e quello di scogliere il collagene all’interno dello stinco, per permettere alla carni di staccarsi dall’osso senza alcuno sforzo.

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Che abbiate scelto il vostro nuovo slow cooker, un forno, un pentolino o il barbecue, la cosa importante da ricordare è che solo raggiungendo 95°C/98°C internamente, impiegando un tempo molto lungo, lo stinco diventerà tenero e succulento in modo spropositato. Come abbiamo già detto prima, preparazioni che hanno lo stinco di maiale come ingrediente principale sono popolari in quasi tutti i Paesi del mondo. Se nella cucina asiatica lo troviamo spesso preparato in umido, accompagnato il più delle volte con riso al vapore o dalle verdure, gli americani e altri abitanti di Paesi anglofoni lo preferiscono low&slow, cotto nello smoker, per servirlo intero insieme ad un purè di patate o con lenticchie, o per infilarlo

nei panini dopo averlo pullato (sfilacciato). Anche i Paesi del Sud America rendono lo stinco protagonista di numerose ricette in cui si usano anche molte spezie e altrettanti aromi. In Europa, lo stinco si mangia abitualmente in quasi tutti i Paesi e tanti lo hanno inevitabilmente inserito tra le ricette locali tradizionali, preparate solitamente in autunno e in inverno; tuttavia possiamo dire con certezza che lo stinco è principalmente simbolo della cultura tedesca. Solitamente qui è accompagnato dai classici crauti, sia semplici che ripassati, oppure con altre verdure fermentate; l’accoppiata più semplice ma non meno goduriosa è fatta da stinco e patate arrosto.

Stinco: la ricetta perfetta In realtà è sempre una questione

di gusto personale, motivo per cui il nostro consiglio e di assaggiarlo in tutte le salse prima di decretare un vincitore assoluto. Senza tirarla troppo per le lunghe, dobbiamo ammettere che lo stinco è abbastanza facile da preparare. Spezie come il pepe, la cannella, peperoncino, anice stellato, alloro, cardamomo e finocchietto selvatico possono essere aggiunte al nostro stinco per avvicinarci ai sapori asiatici, ma basterebbe modificare le proporzioni e aggiungere più finocchietto e pepe per ritrovarci con sapori a noi piu conosciuti, come quelli siciliani. La cottura, in questo caso, è semplice grazie alla tecnica del braising che ci permette di non sbagliare (dato che vogliamo la nostra carne fall of the bone, cioè che si stacchi completamente dall’osso). In una casseruola fate rosolare il vostro stinco (meglio se con la cotenna) e aggiungete un soffritto classico oppure optare per sapori più asiatici con


Non appena il soffritto è pronto aggiungete vino o aceto di riso, salsa di soia e acqua per continuare con i sapori orientali, oppure due semplici bicchieri di vino e un po’ di brodo per farlo con uno stile più italiano. Nel liquido che avete scelto (e

che dovrebbe ricoprire per 3/4 la carne) aggiungete anche le spezie, prima di coprire e far andare a fuoco lento per almeno un paio d’ore o fino a che raggiunge il punto di morbidezza desiderato. Quando è pronto, il pezzo di carne deve essere messo da parte per poter far restringere il fondo di cottura.

Po t e t e t r a n q u i l l a m e n t e affiancare allo stinco qualunque verdura, a patto che vi possa sgrassare il palato. Amara o acida che sia, essa deve far fronte a tutto quel grasso e a quel collagene sciolto, e a quel sapore esplosivo. Altrimenti optate per patate, riso o legumi e godrete comunque moltissimo.

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zenzero, tanto aglio, cipollotto e peperoncino.


È UN POLPO AL CUORE questa bruschetta con

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‘nduja, stracciatella e limone


Per quanto riguarda il nome molto particolare, molte fonti concordano sul fatto che la parola ‘nduja derivi dal francese andouille, termine utilizzato in Francia sin dal Medioevo per indicare prodotti di salumeria ricavati dalla trippa e dalle interiora del maiale. È opinione diffusa che questa primissima versione della ‘nduja, ancora non perfezionata e soprattutto priva della sua incredibile piccantezza, sia stata portata in Calabria da Gioacchino Murat, re di Napoli ai tempi delle guerre napoleoniche, che la fece distribuire per ingraziarsi il popolo. I calabresi, ovviamente, se ne innamorarono e la reinventarono aggiungendo carne di maiale e abbondante peperoncino, facendola diventare parte integrante della propria identità gastronomica. La ‘nduja è così diventata un prodotto tipico dell’altopiano del Poro ed in particolare di Spilinga, piccolo borgo situato in provincia di Vibo Valentia. Naturalmente la zona di produzione è molto più estesa, soprattutto sul versante tirrenico calabrese, dove la produzione di questo semplice salume è diventato il vero e proprio motore dell’economia locale. Come da tradizione calabrese, la ‘nduja viene prodotta solitamente durante i mesi invernali con le parti più grasse della carne di maiale, quali il guanciale, la pancetta ed il lardello, che vengono tritate e poi impastate insieme ad un abbondante quantitativo di peperoncino piccante calabrese e del sale. Questi due ingredienti fondamentali,

oltre a dare alla carne un colore rosso ben definito, ne permettono una lunga conservazione. Al peperoncino si devono inoltre gran parte delle proprietà nutritive e benefiche della buonissima ‘nduja, che, in quantità moderate, fa molto bene sia all’apparato digerente che a quello cardiocircolatorio. Una volta che l’impasto assume una consistenza sufficientemente omogenea e cremosa, esso viene insaccato nel budello naturale del maiale per poi venir sottoposto ad una leggera affumicatura con erbe aromatiche. Infine viene lasciato stagionare in modo del tutto naturale per un tempo che non deve superare i sei mesi. Trascorso questo tempo, il prezioso prodotto piccante viene messo in commercio come un classico insaccato sottovuoto o in vasetti di vetro, molto pratici, utili a mantenere inalterati per lunghi periodi sapore e gusto. Ma veniamo al dunque: in quanti modi può essere mangiato e apprezzato questo piccantissimo salume di Calabria? Il modo più comune (ma non per questo meno gustoso!) è quello di spalmare la ‘nduja su una fetta di pane casareccio, tostato o appena sfornato. Tuttavia è molto utilizzata anche come base per i primi piatti. La pasta con la ‘nduja, che si tratti di fileja (un formato di pasta calabrese, diffuso soprattutto in provincia di Vibo Valentia), scialatielli o spaghetti, è infatti un must della cucina calabrese che chiunque deve provare almeno una volta nella vita. Il salume piccante può essere poi usato come ingrediente per condire la pizza o come ripieno per polpette, arancini e panzerotti. Ottimo anche su fette di formaggi semi-stagionati o per delle squisite frittate. A chi preferisce un’esperienza più pratica e che possa coinvolgere direttamente i sensi, consigliamo tuttavia di fare un viaggio in Calabria, e più precisamente a Spilinga. Ogni anno l’8 agosto si svolge infatti la tradizionale "Sagra della ‘Nduja"speriamo che venga organizzata anche quest’anno! - una giornata interamente dedicata al salume calabrese più famoso al mondo, che ne consente la degustazione nei modi più svariati possibili. In molti sostengono che la ‘nduja stia bene un po’ su tutto. Questo mese, sul Magazine, ve la proponiamo anche sul polpo. Pensate sia un’eresia? Siamo qui per dimostrarvelo coi fatti. Beccatevi ‘ste bruschette, vah. Ne parliamo dopo.

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Regina indiscussa dei salumi calabresi, prodotto dalle origini povere e umili, ma che da qualche anno a questa parte protagonista incontrastato sulle tavole di tutti: la ‘nduja. Si tratta di un particolare tipo di insaccato: piccante, cremoso e spalmabile, dal colore rosso acceso dovuto all’altissima presenza del peperoncino piccante calabrese. Di origini presumibilmente contadine, anche considerata l’elevata presenza di grasso, esistono tanti racconti sulla sua nascita e sul processo di lavorazione. Come ben sappiamo nelle società rurali ai nobili, ai proprietari terrieri e, più in generale, alle persone benestanti spettavano le parti migliori e più pregiate della carne del maiale, ai contadini non rimanevano altro che gli scarti come le interiora e le parti più grasse. Tuttavia non preoccupatevi, la ‘nduja che mangiamo oggi non è prodotta con gli scarti dell’animale ma con le sue parti più grasse, come il guanciale e la pancetta.


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2.

Trasferite in una pentola senza aggiungere nulla, né acqua, né grassi. Settate il vostro dispositivo per una cottura indiretta e cuocete ad una temperatura che non superi i 150°C. A temperatura troppo elevata rischiereste di rovinare la pelle del polpo.

3.

La cottura e il riscaldamento dolce del polpo farà rilasciare una quantità di umori sufficienti a mantenere umidità e morbidezza.

4.

Una volta testata la cottura con uno spiedino lasciate raffreddare il polpo nella sua pentola mantenendo il coperchio chiuso.

5.

Una volta freddo tagliatelo in tocchetti della dimensione che preferite e tenete da parte un mestolo della sua acqua.

6.

In un tegame fate tostare bene due spicchi d’aglio tritati, devono essere uniformemente dorati. Aggiungete i tocchetti di polpo e sfumate con il vino bianco fino a dealcolizzarlo per bene. A questo punto inserite i pelati spezzati con le mani, un mezzo mestolino di acqua di cottura del polpo e regolate di sale e pepe.

7.

Dopo circa 10/15 minuti di cottura spegnete il fuoco e lasciate intiepidire leggermente. Inserite solo adesso la ‘nduja e le erbe aromatiche, che in questo modo sprigioneranno molto di più il loro profumo e la ‘nduja avrà calore sufficiente per sciogliersi senza cuocere.

8.

Tostate le fette di pane alte circa 1 cm e condite con un filo d’olio extravergine d’oliva coratina, servite con un bel cucchiaio di ragù di polpo, la stracciatella fresca e la scorza abbondante del nostro limone non trattato.

INGREDIENTI 4 persone

1 filone di pane casereccio olio extravergine di oliva coratina 300 g di stracciatella di bufala scorza di un limone non trattato Per il ragù di polpo alla ‘nduja un polpo da 1 kg 2 spicchi d’aglio 600 g di pomodori pelati 50 ml di vino bianco secco 60 g di ‘nduja di Spilinga basilico fresco a piacere timo fresco a piacere sale q.b. pepe q.b.

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1.

PREPARAZIONE Per la pulizia del polpo: lavatelo abbondantemente ed eliminate le interiora dalla testa. Se avete difficoltà chiedete di farlo al vostro pescivendolo di fiducia.


Ti va uno spuntino?

SMOKED

BEEF JERKY C’è uno snack, negli Stati Uniti, incredibilmente comune: stiamo parlando del beef jerky, che in buona sostanza è uno sfilaccio di carne secca, conservata con moltissimo sale. Viene utilizzata come spuntino da moltissime persone negli USA e, anche nel nostro Paese, si sta facendo pian piano strada, però con un fine differente: infatti, si stanno diffondendo sempre di più beef jerky per spuntini proteici, con pochissimi grassi e molte proteine. Le molte proteine sono qualcosa che in questo Magazine non mancano mai, quindi: non poteva mancare un “nostro” beef jerky!

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Forse vi sembrerà strano scegliere la carne secca invece delle patatine per un break a metà pomeriggio, eppure questo tipo di spuntino è molto apprezzato in tutto il mondo e non soltanto negli Stati Uniti. Parliamo di un settore con ricavi stimati per 2,5 miliardi di dollari negli Stati Uniti, con profitti che continuano a crescere insieme al numero degli sfegatati amanti di questo particolare tipo di snack. UN BEEF JERKY, DA VICINO Il jerky è un alimento costituito da carne (e qui daremo già un colpo al cuore ai nostri lettori abituali) tendenzialmente magra, tagliata a piccole fette spesse circa 2 millimetri che successivamente vengono fatte essiccare; ai bastoncini di ciccia viene poi aggiunto del sale, delle spezie o delle marinature per arricchirne il gusto e favorirne la conservazione. La parola jerky deriva dallo spagnolo charqui, che significa bruciare e che a sua volta deriva dalla parola quechua ch'arki. Proprio al popolo quetchua vanno attribuiti, infatti, i natali dell’ante-

signano beef jerky; fu inventato intorno alla metà del XVI secolo, in Sud America, luogo d’origine di questo popolo. Lo scopo era quello di realizzare un cibo ricco di proteine che si potesse portare nei lunghi viaggi senza correre il rischio che andasse a male. Preparata in questo modo, dunque, grazie all’essicazione e al sale la carne (principalmente degli animali diffusi in alta quota, cioè di alpaca e lama) resisteva per lunghi periodi, anche in condizioni climatiche difficili. L’origine pare sia legata ai tampu degli Inca: oggi li definiremmo dei veri e proprio magazzini dislocati lungo le vie commerciali dell’impero andino, utilissimi perché avevano lo scopo di fornire viveri e offrire un riparo ai viaggiatori. Il ch’akri era sempre abbondante nei tampu degli Inca, anche perché la carne di lama era un prezioso alimento proteico che cucinato in questo modo poteva conservarsi per mesi nel clima non proprio confortevole delle Ande. Tuttavia la carne secca non è solo tipica del Nuovo Continente. In Sud Africa, nello Zimbabwe e in Namibia, ad esempio, si produce il biltong, una versione del jerky che prevede l’utilizzo di carne di selvaggina tagliata in strisce sottili. In Nepal esiste il sukuti, che viene realizzato ricoprendo fette sottili di carne con una mistura di sale, cumino, pepe e polvere di peperoncino. I cavalieri mongoli di Gengis Khan si nutrivano per mesi interi di borts, strisce di carne essiccata all’ aria spesse 2-3 centimetri e molto tenaci. Non possiamo poi tralasciare una preparazione nostrana: le coppiette di


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IL BEEF JERKY OGGI Il jerky moderno viene normalmente marinato in una salsa piccante o nelle spezie, lasciato essiccare oppure affumicato a freddo o a caldo. Alcuni produttori usano ancora il metodo tradizionale di salatura ed essiccatura al sole; altri invece tritano finemente la carne, la mescolano ai condimenti e la pressano in piccole fettine prima dell'essiccatura, così da ottenere un prodotto esteticamente più simmetrico e invitante. Esistono innumerevoli varianti fatte con diversi tipi di carne: manzo e maiale, soprattutto, ma anche capra, montone, agnello, cervo, renna, bisonte, canguro; e non dimentichiamoci quelle di tacchino, struzzo, salmone, alligatore, tonno, cavallo e cammello. La ciccia deve essere essiccata velocemente per limitare la proliferazione batterica durante questo momento critico. La carne fresca è infatti un terreno di coltura ideale per i batteri. Nelle fabbriche attuali, i forni per l'essiccazione del jerky sono fatti di pannelli isolanti al cui interno sono stati posti diversi radiatori e ventole; ci sono anche delle aperture per portare aria fresca dentro la camera di cottura. Grazie al calore basso e allo scambio d'aria si riesce ad essiccare la carne in poche ore. L’uso dei nitriti in ambito industriale favorisce sicuramente una conservazione migliore della sola salatura. L’affumicatura invece dà il gusto caratteristico ai jerky. Dopo essere stato essiccati i bastoncini di ciccia vengono raffreddati e impacchettati sotto vuoto o sotto atmosfera inerte. Spesso, per evitare l'ossidazione del grasso, la confezione contiene piccole quantità di elementi, come il ferro, capaci di reagire con l'ossigeno ed ossidarsi al posto delle parti grasse. La maggior parte del grasso viene comunque rimossa prima dell'essiccamento perché altrimenti irrancidirebbe con facilità. Tra le marinate più in voga utilizzate per i jerky sicuramente sono protagoniste la famosa teryaki e quelle a base di salse piccanti. Essendo un cibo ricco di proteine e povero di grassi è particolarmente apprezzato anche dagli sportivi, E dagli astronauti: la NASA infatti fornusce dagli anni ‘90 una bella dose di carne secca ai sui uomini nello spazio. Ma esiste un modo per prepararli a casa? Ovviamente sì e non siamo qui apposta per insegnarvelo

INGREDIENTI PER 4 PERSONE: 500 g di Flap Meat Steak Usa BlueOx Prime Black Angus / Due cucchiai abbondanti di Sal’s seasoning Ultimate SPOG

PREPARAZIONE: 1.

Trimmate per bene il vostro pezzo di carne da tutto il grasso in eccesso che rischierebbe di irrancidire. Eliminate anche la silver-skin, se presente.

2.

Tagliate la Flap Meat con un coltello affilato; il taglio va effettuato andando contro fibra e in fette spesse circa 2 mm, con un coltello affilato in modo che le fette restino più integre possibile. Un trucco, se non avete dimestichezza con questo tipo di taglio, se non possedete un coltello ben affilato, è quello di riporre il pezzo di carne in congelatore per circa 20/25 minuti. Se invece siete in possesso di una comoda affettatrice è il momento di tirarla fuori.

3.

Passate un leggero strato di rub da entrambi i lati delle fettine di carne e stabilizzate il vostro dispositivo per una cottura indiretta a circa 80°C/90°C.

4.

Affumicate i jerky con le essenze che preferite per circa 4/5 ore. Il jerky è pronto quando è rigido ma non così fragile da spezzarsi facilmente. Dovrebbe produrre crepe quando viene piegato, ma non sbriciolarsi come un cracker; se pressato, non deve fuoriuscire liquido. Per l’affumicatura, in questo caso abbiamo utilizzato un blend di ciliegio e quercia rossa.

5.

Se volete una nota affumicata meno intensa potete affumicare per circa 30/40 minuti e poi trasferire in un essiccatore fino alla consistenza desiderata

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maiale romane, prodotti tipici laziali fatte a base di carne di suino essiccata, che hanno un gusto leggermente piccante a causa del peperoncino o della paprika utilizzati nella loro preparazione, e allo stesso tempo fresco perché spesso aromatizzate con anice stellato. In passato, le coppiette erano prodotte con carne di cavallo; ad oggi, lo scarso consumo in Italia (scarso rispetto a prima, visto che il Belpaese è comunque ai primi posti per consumo di carne equina!) di questa tipologia di carne ha fatto sì che la tradizione si “evolvesse” verso il suino senza perdersi. Per fortuna della nostra golosità, ci viene da dire.


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Ho riso fino alle lacrime TROPPO BUONI I POMODORI RIPIENI ALLA ROMANA Ufficialmente, la storia documentata del pomodoro in Italia inizia il 31 ottobre 1548 a Pisa, quando Cosimo de’ Medici ricevette dalla tenuta fiorentina di Torre del Gallo un cesto di pomodori nati da semi donati alla moglie Eleonora di Toledo, dal padre, Viceré del Regno di Napoli. Come tutti sappiamo, è stato l’incontro tra il Vecchio e il Nuovo Mondo a regalarci, grazie a quello che viene chiamato lo scambio colombiano, questo prezioso oro rosso insieme a tante altre specie vegetali e animali come il mais, il peperoncino piccante e altre varietà di peperoni, la manioca, il fagiolo, l’arachide, la patata, alcune varietà di zucca, il girasole, molti frutti tropicali, il cacao, la vaniglia, il tacchino (solo per citarne alcuni). LA LUNGA STORIA DEL POMODORO Il pomodoro apparve in Europa nella prima metà del’500 ma non trovò subito fortuna. Secondo alcune teorie, le prime varietà introdotte nel Vecchio Continente contenevano solanina (una sostanza tossica, prima molto più presente nei pomodori ed altra frutta/verdura) in quantità così elevata da risultare indigeste. Per questo inizialmente fu utilizzato come pianta ornamentale o medicinale e a scopo di studio negli orti botanici. Solo successive selezioni varietali portarono il pomodoro alla sua completa commestibilità Anche in Italia, il secondo Paese europeo dopo la Spagna a conoscere questo frutto, la diffusione del pomodoro fu assai lenta: la diffidenza iniziale verso il nuovo frutto, che non fu non associato a nessun cibo già conosciuto, ne mortificò a lungo le potenzialità gastronomiche. Solo nel ’700, iniziò il periodo della sperimentazione gastronomica che sfociò nell’ ‘800 nella diffusione più ampia che noi oggi conosciamo. E che ha reso il pomodoro uno degli ingredienti simbolo della nostra cucina in tutto il Mondo. Nella lingua azteca, pomodoro si chiamava tomatl (vi ricorda qualcosa?). Dovrebbe chiamarsi pomodoro proprio perché ci arrivo dorato, pomo d’oro per l’appunto. I NUMERI DEL POMODORO ITALIANO Attualmente, Italia ci sono circa sessantaquattromila ettari dedicati alla coltivazione del pomodoro per un totale di circa cinque milioni di tonnellate di pomodori trasformati. Oggi il nostro Paese è leader nella produzione di conserve e trasformati di pomodoro: il 13%

dell’intera produzione mondiale proviene dall’Italia, e all’interno dell’Europa la metà circa della produzione è fatta proprio qui. Sarebbe praticamente impossibile elencare tutte le ricette della nostra tradizione culinaria in cui compare il pomodoro, così come sarebbe inutilmente lungo e noioso elencare tutte la varietà di pomodori esistenti in Italia (fra le più famose, ricordiamo il Kiros 3 che poi diventa San Marzano DOP dopo la trasformazione, il pomodorino ciliegino, il Cuore di bue, il pomodoro del piennolo). In Italia, abbiamo numerosi pomodori con certificazioni DOP, IGP, DeCo (Denominazione Comunale), proprio a segnalare la vastità del comparto e delle filiere coinvolte. POMODORI RIPIENI La bella stagione è alle porte e sarebbe un vero peccato non sfruttare i suoi frutti rossi più belli per una ricetta carica di sostanza. Parliamo di polposi e per nulla parchi pomodori ripieni. Si tratta di una ricetta davvero molto semplice, ma saporita, una pietanza popolare composta da ingredienti poco costosi e quindi accessibili a tutti, perfetta per la stagione calda, quando si ha voglia di cibi freschi e sfiziosi, che non richiedano troppa fatica ai


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fornelli. I pomodori ripieni col riso sono una specialità della cucina del Lazio da gustare anche come piatto unico. Secondo un’affascinante ipotesi l’origine di questa ricetta sarebbe da ricercarsi nella cucina ebraico-romanesca: ancora oggi, compaiono sulle tavole della comunità giudaica nel periodo della Pesach, la Pasqua Ebraica, quando, in ricordo della fuga dall’Egitto, si osserva il divieto di mangiare cibi lievitati ed è ammesso soltanto il consumo di riso e pane azzimo. La preparazione è semplicissima: basta tagliare la calotta superiore dei pomodori grandi rossi e sodi (ottimi quelli a grappolo) poi svuotarli e unire la polpa con il riso e un trito di prezzemolo, basilico e origano, facendo macerare il ripieno per una mezz’oretta. I pomodori devono essere poi riempiti con il miscuglio di riso e polpa, richiusi con la loro calotta e cotti in forno (ma nel nostro caso useremo il kettle) ricoprendo il tutto con olio extravergine d’oliva. Possono essere consumati sia caldi che tiepidi, ma non si disdegnano freddi, per questo motivo potete anche prepararli il giorno precedente per un bel pranzo all’aperto o un classico picnic. Ovviamente, questo tipo di pietanza, negli anni, ha visto nascere numerose varianti cotte o crude, calde o fredde: col cous cous, con la quinoa, col tonno e la maionese, con il farro, con il pesto, con le acciughe, con la mozzarella, con vari tipi di formaggio e via dicendo.

PREPARAZIONE 1.

Lavate bene i pomodori, tagliate la calotta superiore e svuotateli internamente; conservate polpa semi e acqua di vegetazione. Salate leggermente i pomodori al loro interno e posizionateli a testa in giù in modo che perdano l'acqua di vegetazione in eccesso.

2.

Sbucciate l’aglio e aggiungetelo, insieme al sale, al pepe e a quattro cucchiai d’olio, alla polpa dei pomodori che avete tenuto da parte. Frullate il tutto con un mixer.

3.

Tritate finemente basilico e menta e aggiungeteli alla crema ottenuta, insieme all’origano.

4.

Aggiungete a questo punto il riso crudo alla crema, amalgamate bene il tutto e tenetelo in frigorifero per un paio d’ore.

5.

Accendete il vostro dispositivo stabilizzandolo per una cottura indiretta ad una temperatura di circa 180°C.

6.

Su una leccarda ricoperta di carta forno, disponete i pomodori in modo che siano ben distanziati tra loro e riempiteli con il riso che avete lasciato insaporire in frigo. Irrorate bene di olio extravergine di oliva e poi richiudete ogni pomodoro con la propria calotta.

7.

Mettete a cuocere i pomodori in cottura indiretta chiudendo il coperchio del kettle. Ci vorrà circa un’oretta. Quando i pomodori saranno pronti, e il riso sarà cotto a puntino, lasciateli intiepidire e serviteli.

INGREDIENTI 4 persone

8 pomodori tondi e molto sodi 200 g di riso Carnaroli uno spicchio d'aglio un ciuffo di menta un mazzetto di basilico un cucchiaio di origano 5/6 cucchiai di olio extra vergine di oliva

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sale e pepe q.b.


TONNO DI MANZO così tenero che

non serve nemmeno il grissino

Sia il tonno di coniglio alla piemontese che quello del Chianti, ricetta toscana fatta col maiale, si chiamano così perché nell’aspetto, ma soprattutto nella consistenza, ricordano il tonno sott’olio; quello, per intenderci, che si spezza con un grissino. Entrambe le ricette nascono in ambito contadino, nei tempi passati in cui certo non esistevano celle frigorifere per conservare la carne. Era uno dei vari metodi per fare in modo che si potesse mangiare ciccia anche nei mesi estivi, grazie al potere conservante dell’olio. Le preparazioni originali, sia per il coniglio che per il maiale, prevedono una lenta e lunga, lunghissima bollitura della carne, che deve arrivare a sfaldarsi senza però diventare poltiglia per essere successivamente messa in contenitori di vetro, insieme a spezie e olio, e andare a insaporirsi fino al momento della consumazione. Lo Zio, nel suo libro Diventare Grill Master, ci ha già insegnato come evitare di bollire il coniglio preparandolo in griglia, con una cottura low&slow che favorisca lo sfaldamento della ciccia ma che le dia anche un boost di sapore grazie all’affumicatura. Noi, oggi, facciamo un ulteriore passo verso la ribellione

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L’idea di questa ricetta ci è venuta durante un’assolata mattina di marzo, in Sicilia, con la voglia di tuffarci nelle chiare, fresche et dolci acque di quel meraviglioso mare. Acque fresche, sì, in quel momento decisamente troppo per un bagnetto fuori stagione, tuttavia già evocative. Cosa proporre ai nostri lettori, ci siamo chiesti, che possa essere un piatto fresco, adatto alla bella stagione in arrivo, mai così agognata come quest’anno, ma che al tempo stesso coniughi la voglia di cuocere la carne al bbq e un certo divertimento, fatto di birre e cose-da-griller, durante la sua preparazione? Ecco quindi l’associazione mentale che si è palesata nei nostri cervelli al lavoro: ci vorrebbe qualcosa tipo il tonno! Ah, esiste il tonno di coniglio alla piemontese, ma lo ha gia scritto Gianfranco Lo Cascio nel suo libro... facciamolo col manzo! Ed eccoci qua.


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Quale pezzo? Le Beef Ribs. Le conosciamo bene, no? Quante volte in questi anni vi abbiamo parlato di questo splendido taglio, che negli Stati Uniti ha un’importanza pari al Brisket, tanto difficile da reperire in Italia – ma c’è il Megastore per questo, non disperate - quanto buono oltre ogni aspettativa? Le costole del manzo sono fantastiche, lussureggianti, appaganti e molto più saporite delle Pork Ribs. Le avete sempre preparate in perfetto stile Texas, con il bark spesso e sapido, e la carne tenerissima. Vi è mai presa la voglia di portarvele in spiaggia o a un picnic? Allora usatele per preparare il vostro Tonno di Manzo, che stupirà tutti. Per la cottura delle Beef Ribs, useremo un wet mode, ovvero una costante idratazione della carne con una mop sauce e un passaggio in foil, il tutto a favore di una tenerezza estrema. Chiaramente, il bark sarà sacrificato un po’ con questo metodo, ma alla luce del fatto che la carne finirà sott’olio in un vasetto, la cosa non deve destare alcuna preoccupazione.

PREPARAZIONE 1.

Prendete il costato e eliminate eventuali cartilagini in eccesso.

2.

Tamponate la carne con della carta assorbente, spennellate un velo d’olio extravergine su tutta la superficie e applicate uniformemente lo SPOG, senza mai esagerare.

3.

Preparate la salsa mop: in un pentolino mescolate gli elementi secchi a quelli liquidi e mescolate la salsa finché non si sarà disciolto lo zucchero, fatela ritirare un poco e toglietela dal fuoco. Deve rimanere molto liquida.

4.

Preparate il dispositivo per una cottura indiretta e stabilizzate a 110°C. Posizionate le Ribs con il lato delle ossa in basso, e ammucchiate un po’ di chips di hickory, melo o ciliegio sulle braci accese.

5.

Aspettate che le vostre ribs abbiano raggiunto la temperatura al cuore di circa 65°C e poi cominciate a bagnarle con la salsa mop, aiutandovi con l’apposito piccolo mocho, ogni dieci minuti.

6.

Quando avranno raggiunto la temperatura di circa 75°C al cuore, mettete le ribs in un doppio strato di foil, con un po’ di liquido all’interno (va benissimo l’acqua) e rimettetele in cottura, assicurandovi che la sonda sia ben infilata nella ciccia.

7.

Continuate la cottura finché la carne non raggiungerà i 95°C/96°C al cuore. A quel punto aprite il foil, lasciate uscire il vapore, poi richiudetelo e tenete le ribs in rest (mantenimento) per un’ora circa.

8.

Tagliate le ribs e staccate la carne tenerissima dall’osso. Riducetela a pezzetti irregolari, anche stappandola con le mani, e poi infilatela nei vasetti di vetro sterilizzati, alternando la carne con il peperoncino e la salvia. Se assaggiando la carne trovate che sia poco sapida, aggiungete un po’ di sale nei vasetti.

9.

Chiudete bene i vasetti e lasciateli maturare in frigo per almeno un paio di giorni; prima di servire il vostro Tonno di manzo, riscaldatelo un poco a bagnomaria direttamente nel barattolo aperto.

Ok, possiamo anche cominciare, tanto vi avevamo già convinto al “Beef Ribs” (semicit.)

INGREDIENTI 4 persone

1,2 kg di Beef ribs wagyu f1 del Megastore 2 cucchiai di Sal’s Seasoning Ultimate SPOG un cucchiaio d’olio extravergine di oliva Per la salsa mop 2 cucchiai di paprika 2 cucchiai di peperoncino in polvere 3 cucchiai di zucchero di canna un cucchiaino di pepe nero un cucchiaio di origano in polvere un cucchiaino di sale mezzo cucchiaino di pepe di Caienna 4 cucchiai di aceto di mele 4 cucchiai di salsa di soia 4 cucchiai d'acqua due cucchiai di salsa Worcestershire per il Tonno di manzo olio extraverfine di oliva q.b. un peperoncino habanero qualche foglia di salvia fresca sale q.b.

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alle regole della tradizione e, invece di una carne bianca, utilizziamo il manzo.


Un panino per le domeniche a tutta griglia!

PULLED PORK SHANK

Lo stinco di maiale è una preparazione che gode di una lunga, gloriosa storia. Conosciuto come piatto povero, sostanzioso, caldo, facilmente reperibile, è diffuso in Trentino così come in Austria, così come in Baviera. Non dite le bugie: almeno una volta avete sognato di sedervi in una birreria di Monaco di Baviera ed ordinare un grosso stinco con crauti e patate, innaffiato da una delle birre locali. Per chi come noi è appassionato di ciccia cotta al bbq, lo stinco rappresenta spesso uno dei primi tagli con cui cimentarsi in griglia, perché ha tutte le caratteristiche necessarie a renderlo la preparazione perfetta per i neofiti: carne saporita, tempi di preparazione non eccessivamente lunghi ma abbastanza da poter passare dei pomeriggi in compagnia di amici e bibite alcoliche, risultato praticamente assicurato. Uno stinco ben fatto è saporito, succulento, tenero e saziante. Insomma, da solo riassume tutte le caratteristiche che nella mente del vero grigliatore sono associate alla parola bbq. Siamo quindi sicuri che questa ricetta vi piacerà molto.

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Smettendo un attimo di essere eurocentrici, vediamo che lo stinco è una preparazione tipica anche delle cucine orientali, in special modo quella thai, dove rappresenta un fast food molto richiesto. Quando viene servito con riso bollito prende il nome di khao kha mu (o anche khao kha moo nella versione diversamente translitterata). Si tratta di una goduria: prima viene fatto cuocere nel wok per lungo tempo (sappiamo che il taglio ricco di tessuto connettivo ha bisogno di tempi lunghi per ammorbidirsi e gelatinizzarsi), insaporite con molte spezie come d’uopo in quei posti e poi servito col riso, of course, insieme cavolo cinese, aglio e l’immancabile peperoncino. A questo giro, lo cucineremo nella maniera classica sul bbq, per rendere felici tutti voi ossessionati dalle domeniche a tutta griglia - con birra e rutto libero - e poi lo sfilacceremo (nel nostro gergo, lo pulleremo) per infilarlo dentro un appagante e lussureggiante panino. Poi non dite che non vi vogliamo bene!

INGREDIENTI 4 persone

Per la salamoia 1 l di acqua 20 g di sale kosher 10 g di miele millefiori 120 g di aceto di mele 3 foglie di alloro 2 bacche di ginepro 2 scorze di arance non trattate una bacca di anice stellato mezza stecca di cannella per i panini 2 stinchi di Maiale Pork Duroc del Megastore Sal’s Seasoning Tennessee Mild Dry Rub q.b. 8 fette di pane integrale per toast a lenta lievitazione per la Coleslaw tiger mezzo cavolo verza (o cappuccio) prezzemolo fresco q.b. mezzo cipollotto una mela varietà Granny Smith 2 carote un peperone 100 g di maionese 100 g di yogurt greco 100 g di panna liquida 2 cucchiai di zucchero di canna Muscovado mezzo bicchiere di aceto un cucchiaio di Kren un cucchiaino di senape di Digione mezzo cucchiaino di Cannella un cucchiaino di Sal’s Seasoning Tennessee Mild Dry Rub 1 cucchiaino di sale


493 - BBQ4All Magazine


494 - Almanacco 2021

PREPARAZIONE 1.

Eliminate il più possibile dagli stinchi il grasso in eccesso.

2.

Preparate la salamoia, fondamentale quando si vuole impartire sapidità alla carne in profondità. Mettete tutti gli ingredienti in una pentola e portatela ad ebollizione; mantenete con il coperchio per alcuni minuti e poi lasciate raffreddare.

3.

Immergete gli stinchi in un contenitore della misura adatta a mantenerli sommersi interamente nella salamoia, da mettere in frigorifero con un coperchio per 24/36 ore. Questo processo farà in modo di far assorbire alla carne una quantità di acqua supplementare, ma allo stesso tempo porterà all’interno anche sale e sapori aromatici.

4.

Una volta tolti dalla salamoia, passate gli stinchi sotto acqua corrente fredda in modo da eliminare parti di spezie, poi asciugateli per bene, cospargeteli con un velo di senape e fate aggrappare alla carne il Rub (non in maniera eccessiva). Settate il dispositivo per una cottura indiretta sui 120°C e ponete gli stinchi in cottura indiretta, con una leccarda sotto alla griglia. In questa fase quello che dovrete ottenere è una bella reazione di Maillard con un aspetto scuro, quasi mogano, intenso e uniforme. Assenza di umidità, zuccheri riducenti e calore secco per lunghi tempi vi aiuteranno in questo passaggio che si protrarrà fino a circa 70°C al cuore o comunque fino a quando il vostro mix di spezie secche si sarà ben aggrappato alla carne. Chiaramente questo è il momento di posizionare le sonde del termometro sul piano di cottura e nella carne, facendo attenzione a non toccare l’osso o strati di grasso.

5.

Potete in questa fase anche procedere all’affumicatura; I chunck di legno fruttato, melo o ciliegio, contribuiranno a darvi lo Smoky Flavor. Li dovrete porre fin dall’inizio sulle braci accese. Se avete un kettle girate il coperchio in modo che la presa di scarico sia posizionata dalla parte opposta.

6.

Trascorse un paio di ore dall’inizio della cottura, lo stinco dovrebbe avere un bel colore rosso intenso, e la carne avrà cominciato a ritirarsi dall’osso. Rendere succoso uno stinco senza bollirlo non è facilissimo, specie se siete alle prime armi, ma voi invocherete l’aiuto del Texas Crutch (doppio involucro di alluminio) e vi armerete di tutta la pazienza necessaria (qualche ora) a far degradare tutto il tenace tessuto connettivo e a non innalzare troppo la temperatura per non strizzare via i liquidi della carne. All’interno dell’involucro non scordatevi di aggiungere del liquido (aceto di mele, birra, acqua) magari unito a spezie. Per questa preparazione dovrete spingervi verso i 98°C in modo da garantire il totale scioglimento del collagene. Quando l’allarme del vostro termometro inizierà a suonare, sarà il momento di testare con uno stecchino il risultato, aprirete l’involucro e il tutto dovrà risultare morbido e cedevole, se non fosse così, dovrete richiudere e proseguire con la cottura. Quando saranno pronti, dovrete togliere gli stinchi dal Texas crutch, tenere da parte i succhi, tamponare delicatamente la carne, spruzzarci sopra un velo di olio e porla in cottura indiretta, in modo da rigenerare la croccantezza.

7.

É il momento di sfilacciare i nostri stinchi con l’aiuto di due forchette, vedrete che le ossa vi resteranno praticamente pulite dalla carne: unite tutto ai succhi filtrati e il gioco è fatto.

8.

Nel frattempo avrete preparato l’accompagnamento, mettendo in una ciotola tutte le verdure (cavolo verza, prezzemolo, carote, cipollotto, peperone) e la mela tagliate finemente. In un’altra ciotola avrete messo il condimento (yogurt greco, panna liquida, maionese, zucchero di canna, aceto, kren, senape, cannella, rub e sale) e mischiato il tutto unendolo alle verdure.

9.

Ponete le fette di pane sopra la griglia, in modo da ottenere una parte calda e croccante, poi mettete su una fetta lo stinco sfilacciato e la coleslowtiger, chiudete in panino e buon appetito.


Non un sogno, ma una golosa realtà

PANINO CON

POLPO GRIGLIATO

CREMA DI PATATE E CIALDE DI CORALLO Chiudete per un attimo gli occhi: siete in un posto caldo ma ventilato, durante l’ultimo fine settimana di Luglio, il mare è a due passi, si fa sera e le vie si riempiono di persone gioiose; oltre al profumo dei bracieri accesi, ad un tratto sentite iniziare un susseguirsi di classiche cantilene pugliesi da sagra: u paninu cu pulp arsteut! A questo punto, nel vostro sogno, siete già seduti a tavola a gustarvi il panino con il polpo accompagnato da una bella birra ghiacciata. Si siamo in Puglia, a Mola di Bari per la precisione, dove fin dal 1964 si tiene la Sagra del polpo e dove, grazie alla presenza di numerosi stand enogastronomici dei pescatori locali presso il lungomare del paese, possiamo gustare delle vere e proprie leccornie. Molte persone non si cimentano a cucinare il polpo pensando sia una cosa difficile, invece vi assicuriamo che ci vuole davvero poco: seguendo alcuni piccoli consigli che vi daremo sarà semplicissimo. Ovviamente stiamo parlando di un polpo verace, freschissimo, preso direttamente dai banchi dei pescatori e magari appena sbattuto sugli scogli per la tradizionale arricciatura, pratica che permette anche di spezzare le fibre ed intenerire le carni dei tentacoli. Tuttavia non sempre si ha la possibilità di reperire l’alimento fresco, e quindi la soluzione è quella di ricorrere ai polpi congelati.

Ai più snob potrebbe sembrare che il panino col polpo sia una cosa per palati meno esigenti, ma in realtà si tratta di un’esperienza superlativa. Un fast food che rivendica il suo carattere gourmet ed elegante, capace di conquistarvi al primo morso.

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Il freddo infatti ammorbidisce le carni spezzando le fibre del mollusco, proprio come avviene in maniera meccanica con la battitura. Le dimensioni ideali per questa ricetta, sono rappresentate da polpi medio-piccoli, che rappresentano anche la porzione perfetta per farcire il panino.


Siccome anche l’occhio vuole la sua parte, così come le papille gustative, per un ottimo panino utilizzeremo del polpo prima cotto alla maniera di BBQ4All, poi marinato e infine grigliato. In questo modo risulterà ancora più gustoso. Aggiungeremo poi ma una crema di patate sul fondo del panino, unendo il tutto con un tocco croccantino da chef: delle cialde di corallo.

INGREDIENTI 4 persone

Per il panino un pane di segale da circa un kg un polpo da circa 2 kg 3/4 cucchiai di liquido di polpo olio extravergine di oliva q.b. 4/5 spicchi di aglio un pezzo di zenzero fresco Sal’s Seasoning Cool Coconut Rub a piacere qualche rametto di foglie di timo fresco o un cucchiaio di timo secco un cucchiaino di sale grosso dell’Himalaya per i pomodorini drogarossa una confezione di pomodorini di Pachino con i rametti mezzo cucchiano di tabasco un cucchiaino di Worcestershire un cucchiaino di aceto di mele un cucchiaino di aceto balsamico un cucchiaino di zucchero di canna per la crema di patate 5/6 patate Sal’s Seasoning Dallas Mild Rub a piacere 2 uova per la cialda di corallo 30 g di olio di semi di girasole 496 - Almanacco 2021

13 g di farina 00 un cucchiaino di curry Thai giallo hot, oppure curcuma sale e pepe q.b.


PREPARAZIONE Per prima cosa pulite il polpo, aiutandovi con la punta di un coltello: eliminate gli occhi e facendo una leggera pressione con i pollici togliete il becco situato tra i tentacoli, rigirate sottosopra la testa del polpo ed espellete le interiora, lavatelo interamente in acqua fredda corrente e il gioco è fatto.

2.

Mettete sul fuoco a temperatura media una casseruola adatta, ponete all’interno il polpo e mettete il coperchio, senza aggiungere altro. Lasciate tutto così com’è per circa 20 minuti e vedrete che pian piano il fondo della pentola si riempirà con del liquido abbastanza scuro che sobbollirà assieme al polpo stesso; andrete solo a testare con uno stecchino il momento giusto per spegnere la fiamma e questo sarà quando sentirete penetrare il bastoncino nei tentacoli senza impedimenti.

3.

Lasciate raffreddare un pochino e togliete dalla pentola il polpo sgocciolandolo; o porzionatelo con un coltello in pezzetti di 2/3 centimetri, tenendo solo i tentacoli un pò più lunghi. Filtrate il liquido rimasto con un colino e, oltre a versarlo in appositi sacchetti per ghiaccioli, tenetene una parte che poi vi servirà (il resto andrà in freezer e alla prima pastasciutta con sugo di vongole vi tornerà utile).

4.

5.

6.

Mettete i pezzi di polpo in una ciotola assieme ad abbondante olio extravergine di oliva, 4/5 spicchi di aglio leggermente schiacciati con la parte piatta del coltello, un bel pezzo di zenzero fresco sbucciato e tagliato a pezzetti, un cucchiaio di timo, un cucchiaino abbondante di sale grosso dell’Himalaya e un cucchiaino abbondante di Sal’s Seasoning Cool Coconut, lasciando il tutto anche 24 ore in frigorifero. Prendete una confezione di pomodorini pachino, dopo averli lavati per bene (tenete i rametti) metteteli in una leccarda, assieme ad abbondante olio extravergine di oliva, qualche goccia abbondante di tabasco, altrettanta salsa Worcestershire, una stilla di aceto di mele e una passata di aceto balsamico, una bella spruzzata di zucchero di canna, sale e pepe: date una bella mescolata e ponete sopra questo intongolo i rami con i pomodorini. Prendete 5/6 patate, pulite per bene la buccia sotto acqua calda corrente, magari

aiutandovi con una spazzolina,tagliatele a pezzetti e mettetele in una leccarda assieme ad abbondante olio extravergine di oliva e un bel po' di Sal’s Seasoning Dallas Mild Rub. 7.

Ora potete prendere le due leccarde e metterle nel vostro dispostivo in cottura indiretta sui 200°C per 25/30 minuti.

8.

Nel frattempo rassodate un paio di uova, delle quali vi servirà solo il tuorlo. E’ ora di preparare la crema di patate: mettete in un contenitore per mixer ad immersione le patate, assieme ai tuorli, ad un pò di olio rimasto sul fondo della leccarda, ad un paio di cucchiai di gelatina di polpo, 3/4 di pomodorini confit (solo la polpa), un filo di aceto e una spruzzata di sale, mixate per bene eventualmente aggiustando l’acidità e la consistenza con altra gelatina e dei pomodorini, fino ad ottenere la cremina desiderata.

9.

Adesso è il momento del tocco scenico: il corallo alla curcuma. Mettete in un bicchiere da mixer, 100 g di acqua, 30 g di olio di semi di girasole, 13 g di farina, un paio di cucchiaini di curry thai giallo hot (oppure di curcuma) e andate ad emulsionare molto bene.

10. Nel frattempo pre riscaldate a fiamma media una padellina antiaderente, dove andate a versare un pò dell’emulsione girando la padella in modo da coprirne il fondo con uno spessore di un paio di millimetri; dopo pochi minuti, inizieranno a crearsi tante piccole bollicine e, monitorando la temperatura, dopo 5/6 minuti potete staccare il corallo con l’aiuto di una paletta. 11. Tagliate il pane a fette alte un paio di centimetri, e tostate solo la parte esterna. 12. Togliete dalla marinatura i pezzi di polpo e i tentacoli e, utilizzando una piastra in ghisa oppure direttamente sulla griglia, croccantizzate il polpo con un veloce passaggio in cottura diretta a fiamma moderata. 13. Finalmente è arrivato il momento di assemblare i panini: una fetta di pane tostato, una base di corallo, una bella passata di crema di patate abbondante, il polpo (e volendo un po’ di insalata): chiudete e create una composizione con uno stecchino e il corallo. Morso dopo morso, sentirete il profumo del mare e della terra di Puglia baciata da un sole caldo.

497 - BBQ4All Magazine

1.


RISO...

E VAI CON L'INSALATA! Abbiamo passato almeno un decennio col jingle di Ivana Spagna di una nota marca di riso: in realtà, la nota marca di riso sponsorizzava una delle più famose ricette con questo ingrediente, cioè il riso all’insalata. C’è poco da fare: il riso all’insalata l’ha inventato una Divinità Gastronomica in persona. La ricetta estiva per eccellenza, declinabile praticamente in cento versioni e varianti a seconda delle necessità e dei gusti. Il riso all’insalata fa parte di quel grande bagaglio di insalate di stampo mediterraneo dove si uniscono cereali, varietà di riso ma anche la pasta. Almeno una volta vi sarete imbattuti nelle insalate di quinoa, di bulgur, di farro o orzo: ehi, non necessariamente devono essere dietetiche. Se fatte bene, possono essere molto gustose e fresche. RISO: QUALE VARIETÀ SCEGLIERE PER FARLO ALL’INSALATA? Ecco, la domanda più annosa probabilmente è questa: qual è la varietà migliore per fare il riso all’insalata? La caratteristica principale che dovrà avere la varietà di riso da noi scelta è la tenuta in cottura. Un riso che tende ad essere colloso non è molto indicato per fare il riso all’insalata. Il riso di varietà parboiled (che è quello che utilizzeremo anche noi) è la varietà più diffusa ed indicata per questa preparazione; esso tende a non scuocere, essendo trattato con un processo idrotermico che lo rende molto resistente. Inoltre, non contenendo molto amido, i chicchi di questa varietà restano ben separati tra di loro.

498 - Almanacco 2021

Anche il riso Ribe tiene bene la cottura ed è un ottimo compromesso qualità/prezzo, soprattutto per chi deve badare alla quantità. I risi neri, rossi ed aromatici sono particolarmente indicati per la preparazione del riso all’insalata. Tengono bene la preparazione, la

cottura e soprattutto sono molto profumati anche a giorni di distanza. COME LO PREPARIAMO NOI Nel nostro modo di ragionare, esistono tre ricette per fare il riso all’insalata, tutte e tre gustose ed intercambiabili. Ve ne presenteremo solo una (cioè quella che tutti potrete applicare, ça va sans dire), ma per dovere di cronaca le cito tutte. RICETTA UNO: il riso all’insalata veloce, quello fatto con il barattolino del condimento già pronto, un po’ tristino e dall’odore forte di agrodolce ma confortante quando, dopo una giornata di lavoro d’estate, torni a casa e vuoi soltanto il condizionatore ed un piatto stracolmo e fresco. Non importa quale riso vai a calarci: andranno bene tutte le varietà del mondo. RICETTA DUE: il riso all’insalata sporco, godurioso, dove ci va tutto-tutto: dal prosciutto ai wurstel, passando per le uova sode e la maionese. Di insalata, canonicamente parlando, non ha nulla. Ma si tratta di un altro comfort food ideale. Anche qui, la varietà del riso non è importante. RICETTA TRE: il riso all’insalata quellolà-un-po’-fighetto, fatto tutto per benino, con gli ingredienti appositamente cucinati per esso (BANDITO il barattolino già pronto), perfetto per le cene d’estate che ci apprestiamo a tenere con tutte le norme anti-Covid del caso. Anche il chicco qui acquista – giustamente – la sua importanza: andremo a scegliere una varietà di riso che non “incolla”, che si mantiene integro e ben sgranato pur unendosi agli ingredienti. Ovviamente, stiamo per presentarvi ingredienti e procedimento della Ricetta Tre. Poi, in privato, possiamo anche scambiarci foto e ricette le nostre insalate di riso guilty pleasure.


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INGREDIENTI PER 6 PERSONE: 300 g di riso varietà parboiled (ma potete scegliere una delle varietà delle quali abbiamo parlato sopra) / 100 g di scamorza / 100 g di Emmenthaler (o altro formaggio a vostra scelta) / 3 oppure 4 uova sode / 200 g di filetti di tonno in olio extravergine d’oliva (da scolare secondo proprie esigenze) / 100 g di carciofini sott’olio di buona qualità (ne trovate di ogni prezzo allo scaffale del supermercato) / 500 g di olive taggiasche denocciolate / 100 g di mais / qualche pomodorino fresco / olio extravergine d’oliva / sale / a piacere, maionese veloce fatta in casa; senape di Digione.

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PREPARAZIONE: 1. Per prima cosa, preparate le uova soda; appena possibile, sgusciatele e mettetele da parte. 2. Mettete a bollire l’acqua per il riso, stando bene attenti a scolare appena sarà cotto. Mettete sotto l’acqua fredda corrente per evitare che la cottura vada ulteriormente avanti. Lasciate freddare il riso in frigo, altrimenti si "smollerà" tutto a contatto con gli altri ingredienti. 3. Prendete le olive taggiasche, controllate siano tutte denocciolate (ne va dei vostri denti!), tagliatele a pezzetti. 4. Prendete i filetti di tonno all’olio extravergine d’oliva; scolateli bene, tratterranno comunque una certa quantità di olio. Dopodiché, fateli a straccetti. 5. Cubettate Emmenthaler e scamorza. 6. Cubettate i carciofini sott’olio ed i pomodorini. 7. Cubettate anche le uova sode; scolate bene il mais dalla sua acqua. 8. Ora, il momento divertente: l’insalata si forma! Mettete tutto insieme e mescolate con moderata energia, aggiungendo sale ed olio quanto basta. Visto che abbiamo utilizzato già ingredienti contenenti una certa quantità di olio extravergine d’oliva, magari non vi servirà. 9. Mettete il tutto in una ciotola abbastanza capiente, copritela e mettete un’oretta in frigo prima di servire. 10. Al momento del servizio, ricordatevi della maionese o della senape di Digione, da aggiungere al momento. In frigo, potete conservare la vostra insalata di riso anche per due o tre giorni: dipende sempre dalla qualità del riso e dagli ingredienti utilizzati. Qualcuno ci ha anche raccontato di personaggi leggendari che l’hanno insaporita con uno dei Rub della linea Sal’s Seasoning. Vedete un po’ che riuscite a combinare, dando sfogo alla fantasia (non sentite quella vocina lontana che sussurra Ancho Habanero Chili Mex?)


Se hai preso un granchio... griglialo!

CATALANA DI GRANSEOLA “Sacre bleu, what is it? How on earth could I miss Such a sweet, little succulent crab?” Louis il cuoco - The Little Mermaid

I crostacei alla catalana sono un piatto tipico della Catalogna. FALSO! Probabilmente troverete molti siti e altrettanti ricettari che riportano questa affermazione, che però non corrisponde a verità. Cucinare un crostaceo alla catalana, molto spesso l’aragosta ma si possono cucinare così molte altre specialità, è una tradizione sarda, in particolar modo di Alghero. Perché allora si chiama in quel modo se è un cibo caratteristico della Sardegna? Nel 1323 una spedizione catalano-aragonese inizia l’operazione di conquista del territorio sardo: nel 1353 raggiunge Alghero e pochi anni dopo tutta la Sardegna è sotto il controllo della corona d’Aragona. Sarebbe lecito affermare che da quel momenti i sardi abbiano cominciato a mangiare alla catalana? In realtà sono molti i dubbi. Sicuramente la cucina contemporanea sarda ha ingredienti e nomi di ricette che provengono dalla lingua catalana, ma l’origine di quei nomi nella maggior parte dei casi è araba e le preparazioni erano esistenti ancor prima della conquista spagnola. Molte specialità della cucina di Alghero sono in lingua catalana, ma non si può assolutamente affermare che quelle preparazioni provengano dalla Catalogna. Tutto farebbe pensare, piuttosto, a un’influenza linguistica più che gastronomica: una cucina algherese fatta di numerose contaminazioni che però, grazie alla dominazione spagnola durata fino al 1700, ha dato i nomi alle sue ricette in catalano antico. Fra l’altro, la cucina catalana viveva sotto l’influenza gastronomica islamica presente in terra iberica fin dal 711 d.C. Prima ancora, nel periodo antecedente la conquista araba in Spagna, essa traeva le sue origini da quella latina sulla quale poi aveva sovrapposto usanze mediorientali. Capite quindi quanto è difficile stabilire chi abbia influenzato cosa?

La ricetta originale prevede l’utilizzo dell’aragosta, che deve essere fatta bollire, poi lasciata raffreddare, infine tagliata a pezzetti e servita con un’insalata di cipolle rosse e pomodori condita da una vinaigrette fatta con olio, sale, pepe macinato e limone. Il tutto va mescolato insieme e lasciato raffreddare in frigo per 4-5 ore prima di essere servito. Come abbiamo detto, però, si può cambiare tipo di crostaceo. In questo caso abbiamo deciso di utilizzare il granchio, termine che viene usato per riferirsi a specie diverse che formano alcune famiglie appartenenti all’ordine dei decapodi. Attualmente, vengono classificate oltre 4.000 specie di granchi, divisi in due gruppi: quelli di fiume (Astacoideos) e quelli di mare

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In ogni caso, questo modo di cucinare i crostacei è ormai una tradizione consolidata ad Alghero ed è assolutamente un errore dire che sia una specialità tipica della Catalogna.


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(Brachyura). Questi crostacei non sono di solito nuotatori, ma si spostano sul fondo dei corpi d’acqua in cui vivono: hanno quindi zampe potenti con chele affilate che servono loro sia per difesa che per catturare le prede.

PREPARAZIONE

La granseola è un granchio diffuso in tutto il bacino del Mediterraneo, e vive sia su fondali sabbiosi fino a 100 m di profondità che sugli scogli, dove è molto spesso mimetizzata con le alghe e le rocce.

Intanto, mettetevi comodi e cominciate a sognare con questa catalana. Ah, ovviamente noi il granchio lo griglieremo, perché siamo dei fissati. E anche voi, lo sappiamo benequesta ricetta facile e veloce ma di sicuro effetto.

Scongelate le granseole e poi preparate il vostro dispositivo per una cottura diretta a medio-alta temperatura.

2.

Disponete i granchi in cottura diretta e grigliateli per qualche minuto da ogni lato: saranno pronti quando avranno cambiato colore; non stracuoceteli. Prestate particolare attenzione alle chele, che probabilmente necessiteranno di qualche minuto in più di cottura. La temperatura interna non dovrà superare i 60°C-62°C.

3.

Lasciate raffreddare le granseole prima di maneggiarle e poi apritele, togliendo tutta la polpa, facendola a pezzetti e tenendola da parte. Non dimenticate le chele!

4.

Affettate sottilmente la cipolla e affettate anche il pomodoro.

5.

Preparate la vinaigrette emulsionando velocemente tutti gli ingredienti.

6.

Unite il granchio alle cipolle e i pomodori, aggiustate di sale e di pepe, poi condite il tutto con la vinaigrette. Mescolate bene e riponete e in frigo a riposare. Servite la catalana di king crab dopo un paio d’ore. Addio Sebastian, au revoir!

INGREDIENTI 4 persone

2 granseole di media grandezza (circa 800 g di peso in tutto) del nostro Megastore o granciporri 2 cipolle di Tropea fresche 3 pomodori maturi e sodi sale e pepe q.b. per la vinaigrette: 6 cucchiai di olio extra vergine di oliva il succo di un limone un cucchiaino scarso di senape 2 cucchiai di aceto di mele un pizzico di sale qualche fogliolina di basilico tritata finemente

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E’ la qualità di granchio tra le più grosse per dimensioni ed una delle più prelibate, al pari dell’aragosta. Può raggiungere infatti i 25 cm di lunghezza, i 18 cm di larghezza e oltre un kg di peso. La sua forma assomiglia a quella di un ragno. Le sue carni hanno un gusto delicatissimo e vanno consumate solo dopo l’adeguata pulitura e generalmente la bollitura: prima va raschiato il carapace per eliminarne i peli e le alghe e poi il crostaceo va bollito per intero senza romperlo. Solo successivamente si può servire spolpato. Probabilmente solo alcuni fortunatissimi fra voi lettori sono riusciti ad accaparrarsi questa deliziosa prelibatezza all’interno del nostro Megastore: se dovesse capitarvi di trovare le granseole siate pronti a lottare per averle sulle vostre tavole. Fate come Louis, il cuoco de La Sirenetta: non fatevi sfuggire il succulento bijou!

1.


TARTARE DI MANZO CON PEPERONI IMBOTTITI ...sì, ma al bbq!

Per la serie piatti estivi e gustosi, non può mancare la tartare di carne: le origini di questo piatto sono ben identificabili già dal nome, ma andremo a dire due righe di approfondimento appena più giù. Certo che una tartare, per quanto buona possa essere, da sola può sembrare un po’ “triste” nel piatto. Attenzione: noi siamo cannibali, ma qualcosa accanto ci piace metterlo eh. Siccome la preparazione della tartare non prevede la cottura della carne, beh, perché non utilizzare il nostro amato dispositivo per cuocere qualcos’altro, che ne so, un bell’ortaggio di stagione? E perché proprio il peperone? Perché il peperone è laido. Grazie al fatto di essere cavo, può essere riempito. Riempito e cotto. E a noi le cose ripiene piacciono un casino. Se poi le possiamo imbottire e cuocere al bbq, impazziamo proprio. Di seguito, andiamo a presentarvi la preparazione di un piatto con cui andrete avanti tutta l’estate: tartare di manzo accompagnata da peperoni imbottiti con mollica di pane e spezie, cotti al bbq. Anzi, come dicono al Sudde: puparuoli ‘mbuttunati, così suona anche meglio, li mangi già soltanto a menzionarli. Però prima urge la presentazione della tartare di carne, perché porta con sé una bella storia ricca di aneddoti. TARTARE: COME NASCE? Ad oggi, la tartare è solitamente di carne bovino fresca e cruda insaporita con sale, olio extravergine d’oliva; a piacere, poi, è possibile inserire altri ingredienti come cipolla, sedano, salsa tartara o salsa Worcestershire o tuorlo d’uovo sulla sommità. Diciamo “solitamente” di carne bovina perché esistono anche tartare di carne equina, nei posti dove ne è diffusa l’usanza. Nel nome, l’origine: tartare (o ancora, bistecca alla tartara) viene dal popolo dei Tartari, che pare ne facessero un gran consumo. Questo popolo bellicoso e nomade aveva l’abitudine di mettere la carne da mangiare sotto le selle dei cavalli, prima di partire,

in modo da trovarla “ammorbidita” all’arrivo a destinazione. Un punto a favore di questa tesi – sicuramente poco igienica – lo dà lo storico Ammiano Marcellino che, nelle sue Storie (risalenti circa al IV secolo d.C.), attribuiva questa pratica anche ad altri popoli nomadi. Un’altra ipotesi molto probabile è che la tartare fosse tipica della città di Amburgo, dove la carne veniva tritata ed aromatizzata al fine di conservarne il gusto… da qui ad hamburger, è un attimo. Ad oggi, sappiamo bene che la tartare è molto diffusa in Piemonte, ma anche in molte altre regioni dell’Italia settentrionale. Ma non è una specialità soltanto italiana: infatti, anche i francesi rivendicano la tradizionalità della tartare nelle loro preparazioni, grazie all’influenza della cucina, degli usi e dei costumi sovietici tra Ottocento e Novecento. Quale taglio preferire per la tartare? Il taglio perfetto per la tartare di manzo è il filetto ricavato da un cuberoll (sostituibile con Teres Mayor, Tri Tip o Flank del Megastore). Di seguito, conosciamo già la domanda: va battuta al coltello o possiamo usare il tritacarne? Non abbiamo dubbi: la tartare va battuta al coltello. E deve essere quello giusto. Nel numero di Aprile 2021 del Magazine vi abbiamo consigliato una serie di coltelli che non può mancare nella cucina di un appassionato: per la tartare domestica, potete utilizzare tranquillamente la mannaia da macellaio piccola oppure il coltello multiuso da chef, che si presta bene a tagliare i tagli che vi abbiamo consigliato sopra. Perché non preferire il più rapido tritacarne? Le lame ed il calore prodotto dal macchinario possono rovinare la struttura della carne, aggiungendo poi il rischio dell’ossidazione che è dietro l’angolo. E poi, la carne al tritacarne è carne tritata per burger. Andiamo ora a preparare la nostra tartare di manzo con peperoni imbottiti al bbq. Andremo a condire in maniera non eccessiva la carne, ricordandoci che abbiamo anche i peperoni che reclamano il loro posto in prima fila!

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INGREDIENTI per 4 persone 600 g di Cuberoll, Teres Mayor, Tri Tip o Flank del Megastore 4 cucchiaini di olio extravergine d’oliva 15 g di capperi 20 g di prezzemolo da tritare 10 g di senape 25 ml di succo di limone 1 cipolla non troppo grande pepe nero q.b. sale q.b. Per i peperoni imbottiti 4 peperoni rossi 500 g di mollica di pane 4 uova 500 ml di latte 250 g di formaggi misti grattugiati 200 g di Emmentaler 20 g prezzemolo tritato sale q.b. pepe q.b.

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PREPARAZIONE DELLA TARTARE DI MANZO: 1.

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Prendete il vostro Sirloin. Posizionatevi in maniera comoda rispetto al piano di lavoro e, con la mannaia o il coltello comune da chef, iniziate a sminuzzare. Prima pezzi grossolani, poi sempre più piccoli. Ricordatevi sempre che è tartare, non carne trita e per questo non usate il tritacarne. Sotto i denti volete sentire la carne e non la pastosità che, invece, vi darebbe l’utilizzo del macchinario. Trasferite l’embrione della vostra tartare in una ciotola più capiente. Iniziate a tritare finemente i capperi, il prezzemolo ed il cipollotto. Nella ciotola contenente la carne, aggiungete il succo di limone e il trito di capperi, il prezzemolo e il cipollotto. Aggiungete anche la senape. In ultimo, aggiungete l’olio extravergine d’oliva. Amalgamate per bene tutti gli ingredienti, in maniera tale che la carne assorba in maniera uniforme il tutto. Lasciate riposare fino a che non dovrete impiattare. La tartare si può facilmente impiattare grazie all’aiuto di un coppapasta.


1.

Innanzitutto, svuotate i peperoni e puliteli per bene dai semini, i piccioli e le nervature varie. Le cavità vi servono ben pulite per essere riempite.

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Preparate ora l’impasto per l’imbottitura: ammorbite il giusto la mollica di pane (quel tanto che vi permetta di poterla lavorare) ed immergetela in una ciotola molto capiente (ricordate: molto capiente), dove avrete già messo il latte. Lasciate che la mollica assorba il latte.

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Aggiungete le uova ed i formaggi misti grattugiati.

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Aggiungete il prezzemolo tritato, aggiustate di sale e pepe a vostro gradimento e quello dei commensali.

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Ora si lavora di braccia. Amalgamate l’impasto fino ad ottenere una profumatissima palla. Lasciatela riposare in frigo per circa 15 minuti.

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Tagliate i 200 g di Emmentaler in 4 listarelle, vi serviranno.

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Dopodiché, prendete i vostri peperoni già puliti e farciteli con generose cucchiaiate di impasto, fino a che non saranno pieni.

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Fatevi strada nell’impasto e ficcate una listarella di Emmentaler al centro di ogni peperone.

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Ora sono pronti per la cottura nel kettle. Andrete ad utilizzare la vostra amata cottura indiretta, quindi predisponete il vostro attrezzo da lavoro per questo tipo di cottura, con mezza sacchetta di bricchette ed una temperatura media di 180°C.

10. Disponete i peperoni ripieni in due vaschette di alluminio (andranno a perdere molta acqua e quindi le vaschette vi serviranno), due per parte, così avrete maggiormente il controllo della situazione. 11. I vostri peperoni saranno pronti quando col termometro misurerete una temperatura al cuore di circa 85°C.

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PREPARAZIONE DEI PEPERONI IMBOTTITI AL BBQ


TAGLIATA DI MANZO CON PARMIGIANO REGGIANO

...non esistono cibi tristi. Esiste solo cucinarli in modo non appropriato. Si avvicina l’estate. Per qualcuno significa prova costume: ci sono quelli dell’anno scorso, quasi nuovi, ancora da sfoggiare. E vorremmo rientrarci, visto che quest’anno al netto delle chiusure le mascelle non hanno mai smesso di lavorare e lo stomaco di digerire… e sì, lo sappiamo: il Magazine in questo ha dato un grande aiuto, fornendovi ogni mese spunti nuovi per metter su un po’ di pancetta.

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E lo sappiamo: è lì, si nasconde tra noi. Tra i menu domenicali fatti di griglia veloce, tanti amici e qualcuno tra noi che – per il motivo di cui sopra, o per altri motivi di salute o scelta personale – sceglierà di sicuro la tagliata di manzo (o qualsivoglia dire, straccetti di manzo) con il sempiterno Parmigiano Reggiano, la rucola tristissima ed olio in quantità discutibili. Se servita male, è un vero mappazzone: la carne si incastra tra i denti perché è stracotta, il Parmigiano Reggiano lamellato troppo sottile diventa quasi grattugiato, la rucola… beh, la rucola diventa erbetta per capre al pascolo. L’unica cosa rinfrancante sarà fare la scarpetta nell’olio residuo, magari con i residui di bruciacchiati, rubacchiando una fetta di pane da qualche parte. Ci siete o siete svenuti causa

eccessiva bruttezza? Sveglia, che in questo numero del Magazine vi forniamo tutte le indicazioni necessarie per fare la tagliata di manzo definitiva. Mettiamo la mano sul grill che la mangeranno anche i detrattori delle preparazioni healthy. IL TAGLIO Il taglio prediletto è la Rump Steak. Abbastanza fibroso, va cotto adeguatamente. Noi utilizzeremo la cottura stir-fry, cioè una cottura velocissima che necessita di alcuni passaggi fondamentali da mandare bene a mente, onde evitare di rovinare irrimediabilmente la nostra Rump Steak: il fuoco dovrà essere altissimo, atto ad avere una padella rovente con zero umidità. Avremo bisogno di una percentuale di grasso per veicolare al meglio il calore rovente; noi utilizzeremo olio extravergine d’oliva.

INGREDIENTI per 4 persone

1 kg di Rump Steak del Megastore 250 g di Parmigiano Reggiano stagionatura 40 mesi GLC Top Selection 3 cucchiai di olio extravergine d’oliva un pomodoro insalataro non troppo maturo Sal’s Seasoning Steak booster lime pepper a piacere per l’olio alla rucola: 100 g di rucola olio extravergine di oliva q.b

IL PARMIGIANO REGGIANO Qui non bisogna lesinare: c’è bisogno di una decisa nota di umami e sapidità; queste vi saranno date dal Parmigiano Reggiano con stagionature elevate, tipo quello oltre i 40 mesi GLC Selection del Megastore. Avete tutte le informazioni? Siete pronti? Iniziamo. E vi assicuriamo che la tagliata non vi sarà mai sembrata così gustosa.


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PREPARAZIONE: Prendete la padella o il wok e mettetela sul fuoco, insieme ai 3 cucchiai di olio extravergine d’oliva. Ricordate il mantra appreso poco più su: cottura super veloce stir-fry, padella rovente, zero umidità, grasso per veicolare il calore. 2. Prendete la Rump Steak; eliminate (se lo ritenete necessario) il grasso in eccesso. 3. Tagliate in maniera perpendicolare, grazie all’ausilio di un coltello da chef adatto, la vostra Rump Steak a striscioline. È importante la posizione del taglio: il nostro obiettivo è non rompere le fibre della carne. 4. Quando la padella (o il wok) sarà rovente, mettete le striscioline di carne in padella. Ricordate: cottura veloce e ad altissima temperatura. Non importa se non sarà uniforme, andremo a condirla ed insaporirla ulteriormente dopo. 5. Sistemate la carne nei piatti. 6. Prendete il Parmigiano Reggiano GLC Top Selection e, con un coltello da formaggio, fate cascare abbondanti fiocchi di Parmigiano su ciascun piatto. Vi assicuriamo che a contatto con il calore della carne, l’odore sarà irresistibile anche per il più impenitente. 7. Nel frattempo, in un frullatore a immersione frullate insieme rucola e olio, poi prendete l’olio extravergine d’oliva ormai aromatizzato alla rucola e condite i vostri piatti. 8. Tagliate il pomodoro insalataro a fette sottili. Posizionate qualche fetta di pomodoro su di un lato di ogni piatto. 9. Aggiungete il rub. 10. Visto che ve lo chiederanno, anche se formalmente carbs-free: tostate qualche fettina di pane sul dispositivo e fornitela come “appoggio” per la scarpetta finale tra l’umami del formaggio, l’olio extravergine d’oliva ed i succhi della carne. La tagliata di manzo vi sembra ancora una cosa tristissima?

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1.


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Intramontabile, semplice, irresistibile

CHEESECAKE ALLE FRAGOLE

Questa versione si impone tra fine ’800 ed inizio ‘900 con la creazione del famoso cream cheese, il formaggio spalmabile. Nato nel 1872 dal tentativo fallito di un lattaio newyorkeese William Lawrence di riprodurre il Neufchâtel (formaggio francese a pasta molle, prodotto esclusivamente con latte di vacche della Normandia), nonostante il prodotto ottenuto fosse ben lontano dall’obbiettivo, il risultato fu ugualmente strabiliante tanto che la formula fu acquistata qualche anno dopo dalla Kraft. Il resto della storia lo conosciamo tutti, compresa Kaori (citazione che riconosceranno solo i più appassionati della pubblicità italiana anni ‘90). Piccolo inserto linguistico, per appas-

sionati. Stiamo parlando al femminile, LA cheesecake; va ricordato che inizialmente il termine è stato inserito nel Dizionario italiano Garzanti come IL cheesecake; attualmente, Zingarelli riporta sia la versione maschile che quella femminile. A tradurlo in italiano, verrebbe fuori “torta di formaggio”, quindi ci potrebbe sembrare più consono usare il femminile. Ad ogni modo, vi sono concesse entrambe le versioni. Insomma, un dolce adatto davvero a tutti, anche ai linguisti più fluidi. La cheesecake nell’ultimo ventennio ha conquistato anche noi italiani, grazie ai numerosi e malmostosi programmi di cucina anglo-americana, trasmessi h 24 sui vari canali del digitale terrestre. Ci siamo sentiti tutto molto più cool nel preparae i cup cake oppure quelle torte al burro ricoperte da sculture di pasta di zucchero, talmente elaborate e complicate che Michelangelo ce spiccia casa. La che ese cake, comunque, è sicuramente un dolce di facile preparazione che nasconde un’insidia: se la proporzione di burro e biscotto sbriciolato per la creazione della base è sbagliata o se la base è troppo alta (perché si è usata una tortiera più piccola rispetto alle indicazioni), quest’ultima acquista la consistenza di una lastra di granito, diventando praticamente impossibile da spezzare se non esercitando una forza che potrebbe non rispettare esattamente quanto dettato dal Galateo. Il che potrebbe diventare alquanto spiacevole, sia per l’incolumità delle stoviglie sia per la salvaguardia della dentiera della nonna.

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Torta al formaggio: la fate facile, voi. Come se ne esistesse una sola, di un solo tipo. Di torte al formaggio e di formaggio, ne esistono di tantissimi gusti e varietà: possono essere dolci o salate, cotte al forno e senza cottura, con basi di pastafrolla o di biscotto, ma anche di cracker sbriciolati, sempre ben amalgamati col burro. Tutto questo perché l’ingrediente principale per il suo carattere neutro si abbina facilmente a molti sapori ed è buono sia fresco che cotto. Esistono dunque molte ricette della torta cheesecake, quasi ogni Paese ha la propria, ma sicuramente quella più conosciuta e amata nel mondo è la versione fredda statunitense: una base di biscotto sormontata da un generoso strato di crema fresca al formaggio, resa ancor più soffice dall’uso della panna e ancor più gustosa dall’ingrediente usato per arricchirla, di solito frutta, cioccolato, caffè, frutta secca.


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PICCOLE TRACCE DI TORTA AL FORMAGGIO Le prime tracce della torta al formaggio risalgono alle Olimpiadi svolte sull’isola di Delos nel 776 a.C., dove si usava rifocillare gli atleti con una sostanziosa torta di ricotta di pecora e miele. Come sempre, gli esportatori della delizia furono i romani che crearono la placenta, dolce tipico dei banchetti. Era un dolce ripieno di ricotta ovina e miele, fatto con diversi strati sottili di sfoglie di farro. Da lì in poi, l’usanza di servire dolci col formaggio non si è più arrestata e nei secoli sono nate molte declinazioni di quella prima idea. In Italia, possiamo dire di avere cheesecake sia dolci che salate praticamente in ogni regione dello Stivale. La ricetta che andiamo a proporvi è diventata ormai un grande classico: la cheesecake alle fragole. Infatti, il sapore del latte unito alla piacevolezza del frutto rosso è un connubio intramontabile. In questa preparazione la leggera acidità della frutta smorza il carattere burroso della crema esaltandone il gusto, mentre il morbido sapore neutro del formaggio, avvolgendo la fragola, ne amplifica la dolcezza. A rendere il tutto più delizioso e armonioso è la croccantezza della base e la leggerissima salinità tipica dei biscotti usati, che contribuisce ad esaltare e a intensificare il carattere dolce degli ingredienti, senza che uno surclassi l’altro. Per rendere la torta più sfiziosa alla vista, invece di presentarla nella sua forma classica tonda, prepariamo tante piccole monoporzioni in vasetto, facili da trasportare, quindi ottime per un picnic.

PREPARAZIONE 1.

Lavate le fragole sotto l’acqua corrente, tagliatele in piccoli pezzi e aromatizzatele con lo zucchero a velo e il succo del limone. Lasciatele macerare in frigo per un’ora circa.

2.

Passate alla preparazione della crema: in una ciotola capiente lavorate insieme il formaggio e lo zucchero con la frusta elettrica.

3.

A parte montate la panna e poi unitela al formaggio mescolando dall’alto verso il basso con delicatezza per non smontare il composto.

4.

Preparate la base: sbriciolate i biscotti nel mixer fino a ridurli in polvere.

5.

In un pentolino sciogliete a fiamma bassa il burro - non deve friggere - dopodiché unitelo ai biscotti sbriciolati e mescolate bene.

6.

Prendete i vasetti: prima inserite i biscotti sbriciolati, facendo una base non uniforme senza premere troppo, in modo da non renderla troppo compatta. Fate un primo strato di crema, mettete le fragole, ricoprite con la crema e guarnite con le fragole.

7.

Riponete in frigo per almeno 4 ore.

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Prima di servire decorate con 2-3 foglioline di menta fresca.

INGREDIENTI per 8 monoporzioni

200 g di biscotti (tipo Digestive, o comunque biscotti secchi) 120 g di burro 130 g di zucchero 50 g di zucchero a velo il succo di mezzo limone 400 g di formaggio spalmabile 200 g di panna liquida per dolci 400 g di fragole fresche

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qualche fogliolina di menta fresca


L'Arte Bianca a cura di Alessandro Trezzi illustrazioni di Ozzy Bellesi

e t a z z a ravgastronomia

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isic liana


Ovunque si vada, per le strade delle piccole e grandi città, è possibile trovare i fantomatici “pezzi”, uno dei tanti cibi da strada siculi al pari di arancini, sfincione, pane ca’ meusa, cannoli e panelle: i rollò con i würstel, le cartocciate (o calzoni) con mozzarella e prosciutto crudo, crocchè di patate, le pizzette e le meno diffuse ravazzate. Tipico street food palermitano, la forma di queste ultime potrebbe trarre in inganno: all’esterno sono molto simili alle classiche brioches da colazione, che i siciliani sbranano insieme a granita o gelato, ma il cuore è ben diverso, fatto da quel medesimo ragù di carne e piselli tipico dell’arancino. Un pan brioches golosissimo, il più delle volte cotto al forno ma che trova un avido posto sui banconi anche in forma fritta, con il nome di rizzuola. Il termine “ravazzata” in Sicilia non è utilizzato soltanto per la specialità palermitana: con la stessa parola, ad Alcamo (nel trapanese) si indica un dolcetto composto da un involucro di pastafrolla senza uova, ripieno di ricotta e gocce di cioccolato. Non a caso, nel Dizionario Siciliano-Italiano pubblicato a Palermo nel 1840, “ravazzata” è tradotto semplicemente con “specie di torta”, senza alcun riferimento alla farcitura di carne e piselli, mentre con il diminutivo “ravazzatina” si intende una “specie di pagnotta piena”. Oltre alla versione classica con il sugo e il macinato, nelle abitazioni palermitane è diffusa anche la ravazzata con gli spinaci e la ricotta di pecora, una ricetta delicatissima più adatta alla stagione estiva.

Tipicamente invernale, invece, è la variante con cimette di cavolfiore lesse, salsiccia, formaggio primo sale e olive nere, riportata dalla gastronoma Alba Allotta nel volume “La cucina siciliana in 1000 ricette tradizionali”. Che dite, vogliamo vedere come si fa?

Il metodo e la scelta della farina Di fatto le ravazzate nient’altro sono che dei similbrioche bun ricolmi di saporitissimo ragù; lavoreremo quindi sul nostro metodo standard, sostituendo tuttavia il latte all’acqua per alleggerire leggermente l’insieme e godere di un’esperienza meno collassante ma ugualmente viva. Inutile ricordarvi che la farina è l'ingrediente più importante di ogni lievitato, e che ogni prodotto dell'arte bianca non può prescindere da una farina selezionata consapevolmente e in maniera specifica. Perché la vostra brioche risulti leggera, ben sviluppata ed equilibrato nel gusto, la scelta migliore ricade su una tipo 00 o 0 con una forza di 280W-300W ed un'ottima percentuale di assorbimento minimo. Tenete presente che tra gli ingredienti figura una quantità consistente di grassi ed elementi di peso; a tal scopo, una maglia glutinica salda sarà in grado di sostenerne perfettamente il carico, oltre a trattenere i gas della lievitazione e conferire struttura, solidità ma anche morbidezza.

Uova e grassi Il burro è molto importante per rendere l’impasto più estensibile, malleabile, e avvolgendo le bolle di anidride carbonica che si formano durante la lievitazione le stabilizza. L’alveolatura diventa così più omogenea e la struttura della mollica molto soffice; tali fattori aumentano notevolmente la shelf-life del prodotto finito. Le proteine dell’uovo hanno invece proprietà schiumogene e coagulanti nell’albume ed emulsionanti nel tuorlo. La combinazione di questi elementi è la via più semplice e utilizzata per realizzare una brioche eterea, di colore ambrato, sapore dolciastro e morbidezza irresistibile; non è certo l’unica strada per le nuvole, ma è sicuramente la più efficace.

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n una delle nostre isole più belle e calde c’è un mondo magico, fatto di profumi, colori e schiamazzi, e che porta l’intrepido nome di rosticceria siciliana. A piantare le radici di questo rituale furono i Greci, che sbarcati sul litorale ionico nel 735 a.C. portarono con loro ulivi, farro ma soprattutto conoscenze, come le prime tecniche di vendemmia. Il farro fu particolarmente importante per la creazione della cucina locale: veniva macinato e utilizzato per preparare pane, pasta e le prime basi dolci simili alla pasta frolla, oppure veniva usato intero in chicchi per arricchire le zuppe. A dare vita alla maestosa tradizione sembra sia stato Federico II di Svevia, grande amante della buona tavola e mecenate della cultura gastronomica, che era solito organizzare banchetti sontuosi, integrando molti elementi della cucina araba da cui l’isola ha ereditato l’arte della frittura, l’uso del sesamo, dello zucchero di canna e della cannella.


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PREPARAZIONE DEL RAGÙ

per 15 ravazzate

1 kg di farina 00 di grano tenero (300 W); 500 g di acqua; 170 g di burro morbido; 1 uovo intero (a temperatura ambiente); 1 tuorlo (a temperatura ambiente); 50 g di zucchero semolato; 5 g di malto diastasico; 25 g di sale fino; 10 g di lievito di birra fresco (4 g se secco).

per il ripieno 250 g di manzo tritato; 250 g di maiale tritato; 150 g di piselli freschi; 300 ml di salsa di pomodoro; una cipolla bianca; una carota; una costa di sedano; mezzo bicchiere di vino bianco; olio extravergine d’oliva; sale e pepe q.b.

In una pentola fate un soffritto con olio e un trito di sedano, carota e cipolla; dopo circa dieci minuti aggiungete la carne macinata e fatela rosolare, sfumate con il vino e unite i piselli. Aggiungete infine la salsa di pomodoro, diluendo con un po’ d’acqua calda e fate cuocere il ragù per un’ora circa, infine salate e pepate. Versate il ragù in una pirofila, e una volta freddo coprite con pellicola e mettete in frigorifero.

IMPASTAMENTO

Rovesciate in un recipiente ampio (o nella vasca della vostra impastatrice) tutta la farina, il 75% dell’acqua, il lievito sbriciolato e il malto; dopo averli amalgamati bene aggiungete l’acqua rimanente poco alla volta, attendendo che sia ben assorbito prima di aggiungerne un ulteriore quantità. Burro e uova devono necessariamente essere a temperatura ambiente, il primo per agevolarne l’assorbimento, le altre perché l’emulsione possa avere luogo senza problemi di natura fisico-chimica; un’ottima idea è amalgamare i due ingredienti separatamente utilizzando una frusta, aggiungendo poi il composto a poco a poco nell’impasto. Aggiungete anche lo zucchero poco alla volta in quanto, contribuendo ad aumentare in modo sostanziale l’umidità dell’insieme, va amalgamato lentamente per non compromettere la formazione della maglia glutinica. Aggiungete infine il sale (necessariamente lontano dal lievito, o potrebbe inibirne l'azione) e terminate l’impastamento quando l’insieme risulterà liscio, asciutto e setoso e la maglia glutinica si sarà formata. La temperatura interna dovrà essere di almeno 24°C per permettere a tutti i processi fermentativi e alla maturazione di avere inizio senza particolari ritardi. Lasciate riposare nella ciotola per circa 15 minuti, poi fate alcune pieghe di rinforzo per rafforzare e stabilizzare il glutine e di conseguenza la struttura dell’impasto.

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INGREDIENTI

Il miglior consiglio è, come accade per gli arancini, di preparare il ripieno con un giorno di anticipo facendolo raffreddare in frigorifero, in modo tale da poterlo gestire meglio in fase di farcitura.


PUNTATA

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Posizionate il tutto in un recipiente dai bordi alti ben oliato (soprattutto nella parte superiore, per evitare la formazione della pelle) e lasciate a temperatura ambiente per almeno un’ora per dar modo alla lievitazione di partire, e infine mettete in frigorifero per 18-24 ore a una temperatura di 6°C.

STAGLIO E FORMATURA

Circa 4 ore prima della cottura togliete dal frigorifero e dividete l’impasto in panetti da 120 g l’uno. Operazione fondamentale, dopo aver pesato i singoli pezzi di impasto, è di schiacciare per bene facendo uscire l’aria formatasi durante la prima lievitazione, in modo da ridistri-

buire i gas sviluppatisi durante l’appretto e rendere la mollica omogenea, senza bolle d’aria indesiderate e dislocate. A questo punto inumiditevi le mani con dell’acqua, prendete una porzione di ragù e posizionatela al centro del fazzoletto di pasta; dopodiché richiudete, avendo cura di sigillare i bordi. Adagiate su una teglia con della carta forno, con la chiusura


Il consiglio è di non posizionare più di 6 panetti per ogni teglia 30x40, per ottenere un prodotto finito che abbia circa 10-11 cm di diametro.

APPRETTO

In questo frangente potete dare un tocco di personalità con dei classici semi di sesamo, ma anche papavero, zucca, girasole, oppure delle erbe aromatiche, per rendere la vostra ravazzata ancora più accattivante. Dopo circa 4 ore a 28°C-30°C le vostre bombe a mano saranno pronte per essere infornate

COTTURA

Stabilizzate la temperatura del vostro forno a 215°C e cuocete per 15-18 minuti; per verificare l’avvenuta cottura del ripieno bucatele con uno stuzzicadenti e assicuratevi che l’interno sia ben caldo. Sfornate su griglia rialzata, lasciate intiepidire un paio di minuti e preparatevi ad azzannarle ferocemente.

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verso il basso e i panetti ben distanziati uno dall’altro, coprite con un panno umido e lasciate in appretto a una temperatura di 28°C-30°C.


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LA DISPENSA AMERICANA

Diffidate della farina! Across the Pond a cura di Elena Ninotti

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no dei primi traumi del trasferirsi all’estero è spesso rappresentato dal cibo e dagli ingredienti reperibili nel Paese che ci accoglie. A volte è proprio un limite per molte persone, così forte da indurre queste ultime a non volersi trasferire! Può capitare di trovare, nel Paese di arrivo, cibi ed ingredienti con un nome differente ma, molto spesso, succede il contrario.

Giusto per raccontarvene una, qualche mese fa, una giornalista americana di nome Rachel Handler ha fatto scoppiare il Bucatini Gate. Sia lei che i suoi amici, tutti amanti dei bucatini di una precisa marca, si sono accorti un bel giorno che con l’inizio del lockdown questo formato di pasta era sparito dagli scaffali. Interpellata l’azienda responsabile, la prima risposta è stata che, a causa del fatto che quello specifico

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Un paio di esempi classici: l’arcinoto biscotto Oreo al primo assaggio estero sbriciola le nostre certezze, con un gusto completamente differente; oppure la Nutella, molto meno fluida e cremosa di quella che si trova nel Belpaese. Le normative americane in materia di additivi alimentari sono molto diverse e, non lo nego, fanno rimpiangere le stringenti regole europee.


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formato era meno richiesto, c’era stata una riduzione della produzione dei bucatini a favore di altri formati più utilizzati in USA. Tuttavia, di quel tipo di pasta non si vedeva nemmeno l’ombra. Alla fine è venuto fuori che, per un qualche motivo produttivo, i bucatini di questa marca non rispettavano lo standard richiesto di 13-16.5 mg di ferro per 500 g. Attualmente sembra che l’azienda italiana abbia provveduto a sistemare il problema e che i bucatini siano pronti a tornare sugli scaffali. Può sembrare una storia assurda, ma tanti prodotti basici sono arricchiti di vitamine o sali minerali. Il latte è arricchito di Vitamina D, le farine di niacina, di ferro, di acido folico, i cereali di tutte le vitamine dell’alfabeto. Insomma, a noi europei fa davvero uno strano effetto. Di sicuro ci sono scelte storiche e sociali del perché questo avvenga, non è solo fatto per incrementare il fatturato delle industrie farmaceutiche. Prima di trasferirmi negli Stati Uniti, mi dilettavo di cucina internazionale e quindi ero già abbastanza pratica di ingredienti oltreoceano. Ad esempio, sapevo che la farina americana ”media” veniva definita “all purpose”; tradotto, ” per tutti gli usi”. Mi bastava, tanto io potevo spaziare tra farina per dolci e “antigrumi”, farina con W certificati, semola di varie granulometrie, e altre meraviglie del genere. Le marche disponibili in Italia sono ampiamente sufficienti a panificare come il nostro Alessandro Trezzi vuole, o ancora per permettere anche ai meno avvezzi di avere dolci che siano una nuvola. Arrivata qui, sono caduta nello sconforto più totale.

Intanto, ho capito cosa significava davvero, nei libri di ricette americane, setacciare la farina (magari anche un paio di volte). Non so se sia stata l’umidità della Florida, se sia stata una scelta infelice del brand acquistato o altro, ma la mia prima farina si presentò tutta a grumi come il cemento del muratore. Mi veniva da piangere. Da questa prima esperienza infelice, ho capito che dovevo studiarci un po’ su. Chiedendo in giro, la risposta era unanime. Più o meno tutti usano lo stesso brand di farina, che garantisce risultati accettabili. E sottolineo accettabili, perché la farina “all purpose” non è altro che la farina 0, cioè un prodotto leggermente meno raffinato della 00 italiana. Per avere la 00, devi andare su marche italiane o comprare una tipologia espressamente “cake flour” e sperare che non sia solamente farina 0 addizionata di maizena. Questo permette alla pasticceria americana di essere quello che è: fatta di dolci pesanti, farciti di creme al burro o al formaggio Philadephia e similari, ricca di biscotti pieni di zucchero di canna e burro, o di frittelle. È difficile trovare pastafrolla e dolci soffici che richiederebbero, appunto, prodotti più raffinati. In realtà il problema della scelta delle farine è molto più complesso, perché non coinvolge solo la qualità dei prodotti finali, ma anche la salute del consumatore. Le farine americane, infatti, presentano delle diciture strane, agli occhi di noi europei. Bleached e unbleached, bromated flour, enriched… (sbiancata e non sbiancata, bromata, arricchita di... )


Conosciamo insieme questo mondo di farine addizionate. La farina bromata, con aggiunta di bromato di potassio, è una farina che permette una maggior elasticità e una miglior lievitazione dell’impasto. E’ proibito in quasi tutto il mondo, ma non negli USA. In teoria, infatti, dovrebbe degradarsi completamente nella cottura ma, se questa avviene in modo imparziale, ne possono rimanere tracce ed è un additivo che figura nella categoria dei sospetti cancerogeni. La farina bleached, invece, si ottiene utilizzando il cloro come sbiancante. Di norma, una volta prodotta la farina, questa deve essere fatta maturare per diversi mesi, durante i quali diventa più ricca di glutine e più saporita, dando origine a impasti più elastici e profumati, ma mentre questa è la prassi europea, qui in USA viene “candeggiata” (bleach è la candeggina, appunto) per velocizzarne la messa in commercio e ridurre i tempi di stoccaggio (che

potrebbe portare a deperimento del materiale). Ricordiamoci che la “all purpose” è una farina 0, quindi si presenta più grigia delle 00. Sbiancandola, dà l’impressione di essere più raffinata, permettendo quindi di avere una farina dall’aspetto più pregiato a un prezzo popolare (d’altronde, è un prodotto che deve coprire ampi strati di popolazione, e la forbice sociale qui è ampissima). Queste lavorazioni chimiche portano, inevitabilmente, a impoverire la farina di nutrienti, soprattutto di ferro e di vitamine del gruppo B. Ecco che quindi si provvede a reintegrare tali sostanze mediante un’aggiunta successiva, che trovate come ”enriched flour”. Con questi trattamenti, in pratica, si tratta di aggiungere alcune sostanze che portano lo stesso risultato dell’invecchiamento naturale abbassando i prezzi e riducendo i tempi. Con buona pace della salute del consumatore. Sebbene alcuni autori di libri di cucina trovino un senso alla bleached, sfruttandone la maggior acidità e quindi la maggior reattività verso gli agenti lievitanti chimici (baking powder), vi consiglio di passare oltre. Meglio un po’ di latticello (buttermilk) o dello yogurt, secondo me. Considerate che farine “speciali” come quella autolievitante, sono quasi sempre bleached.

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Sinceramente, in tanti anni, mai avevo letto queste diciture su un pacco di farina. Tanto per iniziare, vi spoilero che non le avete mai lette neanche voi, visto che in Italia tali trattamenti sono vietati, figuratevi pubblicizzarli sull’etichetta.


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Anche trovare farine particolari, come la Manitoba o la farina per dolci non è semplice. In commercio si trovano le Bread Flour, sulla carta buone per panificare ma, a mio avviso, non sono neanche simili a quelle che trovavo in Italia nella grande distribuzione (figuratevi nei canali specializzati). Durante la quarantena, visto che anche questa è diventata introvabile, ho imparato ad aggiungere 1 cucchiaio di glutine sfuso (che qui si trova comunemente) alla farina commerciale. Il risultato è buono e la pasta è bella elastica. Faccio la stessa procedura per ottenere farine buone per i dolci. Aggiungo un cucchiaio di fecola di mais a una farina povera di proteine. D’altra parte, leggendo gli ingredienti, ho scoperto che alcuni brand famosi vendono proprio questo mix, quasi al doppio della farina normale, sotto la dicitura Cake flour... e mi sono sentita un po’ presa in giro. L’avvertenza che mi sento di suggerirvi, in caso di un viaggio in USA, è di leggere gli ingredienti dei prodotti confezionati, perché spesso queste farine “sofisticate” non vengono commercializzate sui banchi del supermercato, ma utilizzate come materia prima per prodotti confezionati. Dopo un periodo di assestamento e prove, si impara quali siano le marche che danno più affidabilità dal punto di vista della qualità e diventa più semplice ma, all’inizio, si fa davvero tanta fatica, soprattutto perché sono cose a cui noi non abbiamo mai dovuto pensare. Non nego che, quando vedo farine appetibili nei negozi forniti di brand italiani, queste finiscono rapidamente nel carrello, nonostante il prezzo da gioielleria! Vi lascio la ricetta di un dolce tipico del picnic americani. Si tratta di un classico dessert per i festeggiamenti del 4 luglio ed è davvero adatto ai primi caldi. In questo caso, è di pesche. Ma nulla vi vieta di usare un mix di frutta, come albicocche e pesche, o aggiungere dei frutti di bosco freschi o surgelati al ripieno.

PEACH COBBLER Ingredienti Per il ripieno: 10 pesche a pezzi grossi, con o senza buccia / 2 cucchiai di zucchero / 2 cucchiai di Maizena o farina Per il biscotto: 250 g farina / mezza bustina di lievito per dolci / 40 g di zucchero / 50 g burro / 1 uovo / 125 ml di latte / un pizzico di sale Preparazione: 1. Mescolate pesche, zucchero e maizena. Lasciate riposare il ripieno in una ciotola e preparate la crosta. 2. In una ciotola mescolate il burro freddo a pezzetti con la farina, sale, lievito e zucchero fino ad avere un impasto a grossi fiocchi. Potete lavorarlo anche in un mixer con funzione pulse. 3. Aggiungete il latte con l’uovo sbattuto e lavorate con una spatola, ottenendo un composto a grossi pezzi: non aggiungete tutto il liquido se vedere che non è necessario. 4. Versate il composto di pesche in una pirofila da 2 litri e coprite con l’impasto a grossi fiocchi. 5. Spolverate con zucchero e coprite con un foglio di alluminio. 6. Cuocete in forno caldo a 180°C per 30 minuti, poi levate l’alluminio e fate dorare per altri 15 minuti, o fino a che non è bello colorato. Si serve freddo o tiepido. Potete preparare le basi il giorno prima e assemblare e cuocere qualche ora prima di servire. Servite con gelato alla vaniglia in accompagnamento.


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L'Arte Casearia a cura di Giovanni Minelli

Dell'assaggio di un formaggio, cosa si dice? M angiare sazia la fame; assaggiare sazia la curiosità. L’assaggio ci predispone o meno al mangiare, o magari all’acquistare. Io sono sempre molto curioso quando si parla di formaggi e, oltre le spese dai miei produttori e dettaglianti di fiducia, mi capita spesso di acquistare online. Non posso sapere prima dell’acquisto se quel prodotto sarà di mio gradimento ma sono contento e con animo curioso. All’assaggio, alla degustazione, voglio dare il giusto tempo. Si perché in effetti non parlo dell’assaggio davanti al banco della gastronomia per capire se un prodotto fa al caso mio, parlo di una vera e propria degustazione per capire cosa mi piace di quel prodotto, cosa mi colpisce, e dove, nella mia personalissima classifica si andrà a posizionare. Chiaramente più formaggi assaggerò, più avrò un campione vasto in testa, aumenterà la variabilità. Non va considerato come un mero esercizio di stile, ma come uno strumento da adottare per entrare in intimità con il formaggio, capirlo e saperlo scegliere in base alle necessità.

Quando degustiamo un qualsiasi prodotto, di fatto lo stiamo sottoponendo ad una valutazione delle qualità organolettiche, una valutazione sensoriale che quindi terrà in considerazione tutte le percezioni che ci restituisce. Terremo in considerazione l’aspetto visivo, quello tattile, quelli olfattivi con gli odori e gli aromi, quello gustativo con i sapori e quello uditivo. Per parlare in maniera puntuale di questi argomenti si dovrebbe scrivere un libro anziché un articolo, quindi prendiamo queste righe come fossero un punto di partenza, una base per ulteriori approfondimenti.

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Quando ci troviamo difronte qualsiasi cosa, il primo senso coinvolto è la vista e partiamo da qui. Con cosa ho a che fare, come si presenta? Si tratta di un formaggio che già conosco e che ho già assaggiato? Ho una idea riguardo cosa aspettarmi? Si tratta di una forma intera o di una porzione? Da quanto tempo sarà aperto, come sarà stato conservato? Questa serie di domande attende risposte ma il bello viene quando mettiamo in ballo l’olfatto ed è proprio su questo senso che vorrei concentrami maggiormente. Faccio alcune considerazioni random a riguardo prima di entrare nel vivo della questione. L’olfatto agisce seguendo due vie distinte: quella ortonasale e quella retronasale. La prima via riguarda l’insieme dei sistemi cerebrali coinvolti quando annusiamo un alimento, mentre la seconda utilizza i sistemi coinvolti quando il cibo transita nella cavità orale e le molecole volatili dell’alimento sono portate all’epitelio olfattivo grazie ai movimenti di masticazione e deglutizione.


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Molte delle persone che hanno contratto il SARS-CoV-2 hanno riscontato la perdita temporanea dell’olfatto e del gusto. Questo ha reso per loro indistinguibile il cibo, se avessero mangiato ad occhi chiusi avrebbero potuto confondere una mela per una pera.

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Posso riconoscere solo ciò che conosco e questa ovvietà vale anche per odori ed aromi. Questo per dire che più elementi assaggiamo, più variabilità avremo nel nostro personale database, insomma, è un invito alla curiosità. Sul davanzale della finestra che ho in cucina tengo una piantina di menta che uso per il mojito. Se mi avvicino con il naso per sentirle il profumo delle foglie, non dico che sia impercettibile ma è molto flebile. Nel momento in cui scuoto le foglioline il profumo diventa molto più intenso: particelle volatili. Col formaggio faremo la stessa cosa, libereremo queste molecole, non scuotendo un pezzo di formaggio, bensì fratturandolo. Abbiamo osservato il campione ed abbiamo estrapolato da esso delle informazioni: forma, facce e scalzo; la tipologia di superficie esterna e il suo aspetto, il colore e la presenza di eventuali fioriture. Aprendo la forma ed osservando all’interno potremo valutare il colore della pasta, se è presente occhiatura e di che tipo. Avremo avuto modo di osservare se è presente erborinatura, di quale colore e com’è distribuita. Avremo avuto modo di valutare la struttura della pasta, sia alla vista che al tatto. Ora prendiamo in mano la fetta, o la scaglia che sia, ed otteniamo delle prime informazioni olfattive. Portando la porzione al naso procederemo a fratturarla per saggiarne gli odori, sia lontano dalla crosta sia sulla crosta, se presente ed edibile. Si può procedere con lo scomporre i vari odori percepiti e se necessario si ripete l’operazione dopo una decina


di secondi. Ripetere l’operazione troppe volte può essere controproducente poiché si va incontro a fenomeni di assuefazione.

Scalderemo il campione tra lingua e palato per poi procedere con la masticazione lenta, facendo entrare aria in bocca che espelleremo dal naso per la restituzione degli aromi, che potrebbero essere in linea con gli odori riscontrati prima o restituirci sensazioni diverse o più dettagliate. I sapori di norma sono presenti tutti, quindi dolce, salato, acido ed amaro, ma con intensità e persistenze differenti. L’amaro specialmente, può essere un difetto, ma anche una caratteristica peculiare di alcuni formaggi o di alcuni processi caseari. Vediamo però come predisporsi all’assaggio, o meglio, come metterci nella condizione di essere più oggettivo ed efficiente possibile. Non si assaggia solo con i sensi ma con la mente: occorre concentrazione, calma

e benessere. Tutte le fonti di stress sono da considerarsi antagoniste di un corretto assaggio. Occorre liberare la testa da eventuali pregiudizi ed essere in un ambiente neutro: temperatura ambientale confortevole, luce naturale ed aria pulita, quindi sono al bando anche i profumi per la persona. La bocca pulita e libera da essenze aromatiche è fondamentale, bisognerà quindi evitare il fumo, il caffè, la liquirizia ma anche le paste dentifricie, tutto ciò che è invasivo e persistente. Il formaggio stesso dovrà essere a temperatura, quindi tolto dal frigorifero con un paio d’ore di anticipo, per poterlo saggiare tra i 15°C e i 18°C. La porzione da assaggiare dovrà essere rappresentativa, quindi con una quota di buccia o crosta, anch’essa è parte del formaggio. Altra piccola regola: non strafare. Assaggiare in una sola sessione tanti formaggi diversi non servirà a nulla, perderemo la capacità di comprendere le diversità e peculiarità dei formaggi. Ci possiamo orientare sui 3 o 4 formaggi e procederemo con l’assaggio dal più dolce

o delicato verso i più sapidi e persistenti, o dai più freschi ai più stagionati, come facciamo ad esempio in una verticale, nella quale assaggiamo la stessa tipologia di prodotto a diversi gradi di maturazione. Per convenzione si dispongono i formaggi nel piatto come fossero i numeri sull’orologio, così da procedere in senso orario dal primo fino all’ultimo. Se stiamo assaggiando dei formaggi dagli aromi decisi e persistenti, come degli erborinati, sarà necessario pulire la bocca tra un formaggio e l’altro. A tale scopo possiamo utilizzare la classica mela verde, acquosa ed acidula, sarà perfetta per sgrassare il palato e prepararci al campione successivo. Col tempo avremo modo di approfondire molti di questi aspetti, ma tengo a precisare che questo sistema di valutazione dei formaggi, i descrittori e il metodo, sono stati catalogati e d imp ostati da ONAF, Organizzazione Nazionale Assaggiatori Formaggi. ONAF promuove la cultura casearia e forma gli assaggiatori in tutta Italia.

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Gli odori, come gli aromi, possono essere distinti utilizzando dei descrittori principali, che potranno essere ulteriormente scomposti in descrittori sempre più specifici. Quelli principali sono: lattico, vegetale, floreale, fruttato, tostato, animale e speziato. A questo punto possiamo portare alla bocca il nostro campione, che dovrà essere piccolo, tra i 5 e gli 8 grammi, come un’unghia per intenderci. In bocca avremo modo di valutare sia gli aromi, i sapori e la consistenza oltre che le percezioni trigeminali come la piccantezza, l’astringenza o i sentori metallici, tanto per citarne alcuni.


Consumi di carne bovina: un mercato che non ha paura del Covid-19

Questo è un Magazine che parla e vive di carne. Alla luce di quanto siano cambiate le nostre abitudini durante l’annata 2020-2021, sarebbe il caso di fare “due conti” al rapporto tra gli italiani ed il consumo di carne, che ha subito una notevole oscillazione al rialzo. Il consumo di carne complessivo in Italia supera il 20% della spesa totale degli italiani (Inea, 2004) ma negli ultimi anni ha subito delle notevoli oscillazioni; spesso queste ultime non sono derivate da un reale riscontro di gradimento delle famiglie, quanto da cambiamenti legati agli scenari socio-economici. La carne è infatti uno degli alimenti più simbolici dal punto di vista sociale e molto spesso il suo consumo riflette l’andamento di un Paese, soprattutto di uno ricco come l’Italia. Il consumo di carne, soprattutto bovina, è infatti iniziato a crescere in corrispondenza del boom economico degli anni Ottanta e ha subito molte oscillazioni durante gli ultimi dieci anni, principalmente per motivi salutistici e culturali.

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Il consumo di carne bovina in Italia Durante i primi mesi del 2020, a dispetto della pandemia e dei profondi sconvolgimenti sociali che il mondo ha subito, in Italia si è registrato un aumento del 7,3% nei consumi di carne bovina (fonte Ismea - Istituto di Servizi per il Mercato Agricolo Alimentare 2020). La carne bovina rimane quindi, a dispetto delle ristrettezze economiche, tra i pasti preferiti degli italiani, e rappresenta il 33% del totale di carni scelte - superata solo da quella avicola (35%) ma avanti a carne suina (17%). La variazione è importante soprattutto se si considera che nel 2019 il consumo di carne bovina era in realtà sceso del 3,5% (variazione 2018/2019 - fonte: Commissione Europea) seguendo una tendenza


A trainare gli acquisti domestici sono le carni di bovino adulto, che rappresentano circa il 60% dell’offerta, per cui gli acquisti in volume sono cresciuti del 5,7%. Molto richiesta la carne di scottona, nonostante rappresenti ancora un mercato di nicchia: i prezzi medi al dettaglio continuano a salire (+8,2%). Il prodotto che invece soffre di più è la carne di vitello, per la quale la domanda al consumo non ha mostrato grande interesse, solo +0,9% i volumi. I dati parlano di un’effettiva inversione di tendenza che, una volta ancora, si dimostra sociale: nonostante negli ultimi anni gli italiani abbiano sempre cercato un’alternativa al bovino, spinti da nuove tendenze più salutiste o da una ricerca sempre più impellente della novità, in una fase importante come quella del COVID ci si è rifugiati di nuovo sulla carne rossa, privilegiando un prodotto di qualità e conosciuto dalle nostre tavole.

La carne in Europa e nel mondo Nel resto del mondo la situazione non è dissimile, anche se il trend non è mai cambiato. Una volta ancora i consumi di carne continuano a salire, in una crescita che non ha ancora trovato un punto di frenata. Dagli anni ‘60 agli anni ‘90, il consumo di carne nelle diverse parti del mondo è

aumentato di 5 volte, passando dai 45 milioni di tonnellate nel 1950 agli attuali 300 milioni. Questi numeri sono destinati a raddoppiare entro il 2050 (fonte: Fao). Ancora una volta le ragioni di questo aumento sono da ricercarsi nella condizione economica e sociale dei diversi paesi, che crea degli squilibri mondiali piuttosto importanti. Il consumo di carne di un paese segue principalmente due fattori: il benessere economico e la crescita della popolazione. Non stupisce quindi che i principali paesi consumatori di carne bovina siano USA, Brasile e Cina. Segue l’Argentina, il cui rapporto con la carne bovina è storicamente consolidato, e l’India, tra i paesi più popolati al mondo. Nel complesso il consumo di carne bovina è aumentato del 1,6% totale, con una variazione 2018/2019 diversa per ogni paese: negli Stati Uniti si è verificato un aumento dell’1,5%, in Brasile dello 0,2%, in Cina del 2,1%, in Argentina del 1,4% e in India del 1,9% (Fonte: Fao). Quando si tratta di mangiare carne però, l’Argentina vince su tutto il mondo: si stima infatti un consumo di circa 39.9 kg all’anno per ogni abitante.

E il futuro? Difficile prevedere cosa ci

riserverà il futuro; la situazione è molto incerta e gli equilibri mondiali sono stati sconvolti nell’ultimo anno, rendendo quasi impossibile fare delle previsioni. La stessa Fao stima per il decennio 2020/2030 un’ulteriore crescita soprattutto nel mercato asiatico, in corrispondenza con la crescita economica (la stima è di un consumo fino a cinque volte superiore), ma non si sbilancia con dati più precisi. Una cosa, però, possiamo facilmente prevederla: sempre di più nel mondo si avrà voglia di una buona bistecca.

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simile in tutta Europa, che nello stesso anno aveva registrato un calo di consumi del 2,3% totale. In Italia ha contribuito anche l’aumento in volumi (+4,9%) probabile conseguenza delle restrizioni che hanno costretto i consumatori a privilegiare i pasti in casa.


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Arroganti e mediocri: gli chef della realtà instagrammata

“Ancora la descrizione miracolistica di uno chef? No basta, per favore, ne abbiamo i monitor pieni (…) Lo chef non è un Dio, non cammina sulle acque. No, lui cucina."

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C

ito il nostro Gianfranco Lo Cascio per iniziare questo articolo, estrapolando questo discorso da un pezzo che scrisse qualche anno fa e che aveva come argomento la tendenza ormai dilagante a considerare gli chef come gente “che dovrebbe salvare le sorti del pianeta” con descrizioni

De Gustibus a cura di Michela Bongiorni

entusiastiche e sensazionalistiche, che però poi si rivelavano “fuffa in pompa magna”. Quell’articolo, ovviamente, fece indignare chef e giornalisti, ma diceva una grande verità: negli ultimi quindici anni abbiamo assistito alla vera e propria santificazione, in tv e sui giornali, di una professione che da mestiere faticoso è diventato uno status symbol. Gli chef hanno smesso i panni da cuochi e sono diventati star. Opinionisti, nuovo filosofi, influencer, storici, politici, scrittori, artisti, musicisti: non c’è praticamente un solo argomento su cui non si ascolti la loro opinione e non la si prenda come oro colato. E, ad un certo punto, anche loro hanno cominciato a crederci.

La polemica Sia chiaro, non voglio fare una polemica contro quelli che ormai vanno in tv e che sono diventati famosi, ma che hanno raggiunto certi traguardi grazie a obiettive capacità dimostrate lavorando duramente in cucina negli anni. No, non è a loro che sto pensando. Il problema è che grazie a questa costante santificazione degli chef, e al loro assurgere all’Olimpo dei vip, anche molti di coloro che in realtà non hanno dimostrato nulla e non hanno raggiunto nessun traguardo, se non quello di lavorare in qualche ristorante più o meno fighetto, si prendono così sul serio da comportarsi come star capricciose immortalate sul red carpet della cerimonia degli Oscar. Andiamo al sodo, finalmente, perché questo articolo ha un motivo: nasce proprio per “tappare il buco” che ci ha lasciato l’ennesimo chef che si era proposto come redattore e che poi ci ha lasciati letteralmente a bocca asciutta. Non dico che siano tutti così, ci mancherebbe. Anzi, ne abbiamo conosciuti di quelli competenti e preparati, talora anche con un filo di arroganza che comunque era giustificata da un’oggettiva bravura. Ma ce ne sono tanti che, per il solo fatto di saper cucinare qualcosa di buono, se la tirano come se ce l’avessero solo loro. Il talento. E a volte, in realtà, non hanno neanche quello.

Spacciatori di fuffa Ed è così che ho pensato di alzare il velo, di raccontarvi alcune delle nostre esperienze con sedicenti chef altolocati che poi, alla fine dei conti, si sono rivelati spacciatori di fuffa aggravata. Vi dirò i peccati, non i peccatori; ma non preoccupatevi, nonostante ciò che queste persone credevano di essere, anche se scrivessi i loro nomi non li conoscereste, a dimostrazione di quanto tutta l’importanza di


Non provate a chiamarli per chiedere qualche informazione sulla carne che loro stessi hanno messo in menù: uno, tempo fa, è riuscito a dirmi questa bistecca è di razza scottona. Non sanno cucinare, non hanno nemmeno mai assaggiato, e talvolta mai visto, una carne molto marezzata. Davanti alla foto di una Sirloin Steak Jap Kyoto Miyabi uno Chef Fuffo mi ha risposto: troppo grasso secondo me non fa bene al sapore. Eh, ma sui profili Instagram poi è tutto un fiorire di fotografie di piatti elaborati, con creme, cremine e cialde di abbellimento, con inutili sciccherie e ingredienti forzatamente ricercati per il solo gusto di potersi vantare nel regno

dove conta ciò che sembra e non ciò che è. Ci sono quelli che non sanno spiegare perché hanno usato un certo tipo di patata rispetto ad un’altra, perché proprio l’aceto di champagne e non quello di mele, perché hanno scelto di cuocere in sous vide per 35 minuti una bistecca dopo averla messa in marinatura per un’ora, e poi l’hanno lasciata sette minuti per lato in padella, servendo così una carne cruda dentro e fuori bolliticcia...ma ehi, accanto ci sono le chips di patate viola e le cialde di prosciutto crudo con crema allo zafferano acido e senape all’arancia! Ormai è assodato, più si danno arie e meno sono preparati: non è così per tutti (non è mai un discorso assolutistico) ma lo è per molti. Dicono di aver studiato moltissimo e di aver collaborato con chef stellati e

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cui si ammantavano fosse solo nella loro testa. Partiamo da quelli “esperti di carne”, quelli col menù del ristorante pieno di nomi esotici e termini tecnici; quelli che si presentano snocciolando tutti posti in giro per il mondo in cui hanno lavorato, dal Brasile all’Australia, dal Giappone al Guatemala. Poi chiedi una ricetta con la Picanha e ti rispondono: questa non l’ho mai cucinata, devo studiarci qualcosa. Ma come, non sei stato anni in Brasile? Sì, ma laggiù lavavo i piatti.


poi sono ancora fermi alla sigillatura dei pori per non far uscire i succhi, alla cottura senza termometro (ma perché io mi baso sulla mia grande esperienza), al non avere nessuna idea di cosa siano le temperature di cottura (ah, ma davvero una bistecca al sangue va servita a 55°C al cuore? Non era 65°C?). Non sanno spiegarti una ricetta: è così perché è così, ma l’ho studiata IO per te! Pretendono di dettarti la lista degli ingredienti in un messaggio vocale su whatsapp e poi la ricetta la scrivi tu, mica posso perderci tempo io! Credono di poter dare consigli sull’impaginazione o sul contenuto editoriale del Magazine, perché hanno collaborato con una nota casa editrice e poi scopri che hanno stilato una lista della spesa per il libro di ricette di un comico di Zelig. Vedi i loro social pieni di hashtag #oggisperimentiamo #gourmet #michelinstar ma non sanno spiegarti quale sia il ragionamento dietro a certi accostamenti, ammesso e non concesso che il ragionamento ci sia. Ci sono quelli cui magari devi fare delle foto mentre sono al lavoro e si preoccupano più delle loro sopracciglia ad ali di gabbiano che degli abiti adatti. Ormai non sanno quasi più cosa significhi indossare un paio di scarpe da lavoro, sembrano tutti testimonial della Nike. E se casomai volessi fare un’intervista a uno di loro? Siori e siore: ci sono anche i complottisti! Non ti lascio messaggi, è meglio una chiamata su Telegram, potrebbero intercettarci: quando la differenza tra l’inventare (o copiare) un piatto e trattare di cooperazione internazionale non è forse molto chiara.

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Instagrammazione della realtà Potrei continuare all’infinito. La verità rimane dunque una e una soltanto: abbiamo imparato a nostre spese che questa voglia di stupire a tutti i costi, di scioccare con effetti speciali, di falsificare la verità pubblicando sui social l’infinita ombra di una realtà instagrammata e solo immaginata ha portato alcuni cuochi a sentirsi arrivati prima ancora di cominciare, li ha spinti a credersi divinità incontestabili, e a trasformare il loro mestiere (perché di questo dovrebbe trattarsi) in una religione fatta di dogmi. Ma, poi, tutti si scontrano prima o dopo con la dura verità - e anche con le dure donne a capo di questo Magazine che ha come mission proprio la lotta alla fuffa dilagante: tolti i post su Instagram, le collaborazioni sbandierate, i premi millantati e le medaglie lucidate, se non studi e non ti evolvi, partendo dalle basi, non sarai mai degno di entrare in redazione. Meglio un onesto e umile autodidatta, però bravo, di un arrogante, convinto, mediocre chef.


BBQ4All:

Capitolo V

FROM ZERO TO HERO Andiamo

in diretta!

Si fa presto a dire cottura diretta. Un tempo in realtà la questione era molto semplice: i vecchi griller, e per vecchi intendiamo i grigliatori della domenica nell’era pre-BBQ4All, non si facevano troppe domande. Accendevano il carbone, di solito in quantità abnormi, e riempivano completamente il loro dispositivo, buttando poi la ciccia insieme agli altri alimenti sulle griglie roventi, lasciando infine bruciacchiare e indurire il tutto. I nostri ricordi sono disturbati da salsicce secche, rosticciane dure, bistecche crude dentro e bruciate fuori. Poi è finalmente arrivata l’epoca in cui il griller illuminato ha sentito il bisogno di evolversi e ha cominciato a cercare informazioni, trovando noi pronti ad accoglierlo e a indicargli la via. Ed è così che sono entrati nella sua mente i concetti di cottura diretta e indiretta, di affumicatura, di set up del dispositivo; il griller sulla via della consapevolezza e della redenzione ha imparato a distinguere fra i dispositivi diversi, a usare quella strana boa col coperchio chiamata kettle, a gestire i flussi d’aria e a grigliare più felice. Bene, con questa rubrica, come già abbiamo specificato più volte, siamo tornati volutamente alle origini, in modo da risvegliare chi ancora dorme sonni tranquilli pensando di non dover imparare nulla su questo mondo, ma anche per aiutare tutti gli altri con un ripassino generale. Parliamo dunque di cotture dirette. Che cosa sbagliano i griller inconsapevoli? Quando si pensa a una griglia calda, spesso si fa l’errore di immaginare il dispositivo pieno di carbone, con le fiamme che lambiscono la griglia, oppure un dispositivo a gas con tutti i

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ZONA CALORE INTENSO

ZONA CALORE MEDIO

ZONADI SICUREZZA

bruciatori al massimo della potenza in modalità altoforno. Supponendo di avere a disposizione della carne marezzata, o comunque ricca di grasso esterno, con un set up del genere non appena ci si avvicina alla griglia e si fa il gesto di appoggiare la ciccia sul metallo, il grasso inizia a sciogliersi e a colare copiosamente. Le fiamme e il fumo divampano e il malcapitato griller è costretto a spostare le bistecche...sì ma dove? Sulla griglia infatti non è rimasta una sola zona fredda, ovvero una zona di sicurezza su cui spostare l’alimento senza che il grasso coli sulle braci accese. Non che la situazione migliori con i grill a gas. Il grasso che si incendia toccando la struttura in metallo caldissima scende bruciando fino alla vasca di raccolta. L’unica soluzione, dunque, rimane in entrambi i casi utilizzare un tavolino su cui spostare fuori dalla griglia le bistecche a rischio carbonizzazione. Dopodiché il danno è fatto, il pranzo è rovinato e il divertimento pure. Ma la soluzione c’è.

Il set up a tre zone Esatto, letteralmente tre zone differenti di calore che ci permettano di gestire gli alimenti sulla griglia senza difficoltà e senza doverli spostare su supporti esterni. Si deve dividere la griglia in tre parti e in ognuna di esse predisporre una quantità di brace differente.

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Come si fa coi dispositivi a carbone? Normalmente si inizia da una delle aree esterne, a sinistra o a destra, e si versano due terzi del carbone che si preparerebbe per una grigliata in cottura diretta, poi si procede a versare il restante terzo nella seconda zona, quella centrale, lasciando completamente libera la terza. Nel caso di dispositivo a gas, allo stesso modo, si posiziona l’erogatore del primo bruciatore alla massima potenza, il secondo a metà, mentre il terzo rimane spento. Con questo set up non si fa altro che creare delle aree a calore variabile che saranno indispensabili per gestire le cotture dirette senza rischiare disastri irreparabili.


Cottura diretta ad alta temperature

Per troppo tempo abbiamo sentito parlare di T-Bone (le classiche Fiorentine) alte non meno di quattro dita da cuocere sette minuti per lato e poi da lasciare per quindici minuti in piedi sull’osso. Il risultato è spesso stato deludente, come abbiamo ripetuto ormai innumerevoli volte. Vi abbiamo dunque insegnato come usare carne frollata e marezzata sia fondamentale per rag-

giungere l’eccellenza, ma anche quanto sia importante asciugare e precondizionare la ciccia in modo adeguato. Solo così tagli abbastanza spessi sottoposti a calore diretto ad alta temperatura risulteranno cotti alla perfezione, con una crosticina gustosa all’esterno e una carne bella rosata all’interno e non fredda. Ma come si fa con quelli più sottili, tipo Inside e Outside skirt, Flank steak, Vegas strip? Si deve capovolgere molto repentinamente la bistecca, con una permanenza media in griglia che può essere compresa tra i 15 e 30 secondi: la bistecca viene girata più volte, la superficie cotta viene portata sopra in attesa che si cuocia l’altro lato e così si riduce il picco di temperatura accumulato in superficie evitando un’eccessiva conduzione e la conseguente disidratazione dell’interno. Risultato, una reazione di Maillard correttamente eseguita, senza carbonizzazioni, e cottura interna più uniforme tra gli strati esterni e il centro. Questa tecnica si chiama Flip&Brush. Ne parleremo ancora.

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Di solito è quella che serve per cuocere alimenti come una bella bistecca (ovviamente precedentemente precondizionata col Dry Brining e/o col Revit, come Zio comanda). Si utilizza quindi la parte del set up a tre zone con più calore, ricordando che in questo modo si accorciano molto i tempi di permanenza dell’alimento sulla griglia; inoltre si può fare affidamento alle zone più fredde qualora si dovessero alzare le fiamme durante la cottura. Capire quali tagli possano essere adatti a far parte della categoria bistecche ed essere dunque predisposti al grilling ad alte temperature non è sempre così semplice e non tutti i tagli possono essere trattati allo stesso modo.


Cottura diretta a media temperatura

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Quando abbiamo a che fare con tagli a fibra spessa e grossolana, che necessitano di raggiungere qualche grado in più internamente o, all’opposto, piccoli tagli molto delicati che devono rosolarsi esternamente evitando di cuocersi eccessivamente all’interno, non va più bene utilizzare la diretta ad alta temperatura. Il calore molto violento può infatti non essere la scelta vincente per ottenere il miglior risultato di crosta e succulenza specie quando siamo in presenza di spessi strati di grasso, utili a mantenere morbidezza e insaporire il taglio, ma che possono innescare rovinose fiammate a causa del continuo gocciolamento. L’esempio più classico è dato dalla Picanha cotta sulle spade. In questo caso è bene sfruttare la zona mediana del nostro set up dove il calore è ottimale per at-

tivare la reazione di Maillard in tempi abbastanza rapidi ma non è eccessivamente elevato per compromettere irreparabilmente la cottura. Con gli spiedi o le spade da churrasco, nello stile sudamericano, si riesce ad alternare la temperatura sulla carne infilzata, così da permettere al calore più basso di penetrare dolcemente, sciogliendo il grasso in modo da non scaturire fiammate ingestibili, e passando se necessario al calore più alto per velocizzare la cauterizzazione superficiale. Anche nel caso di tagli con presenza di osso, come le costolette di agnello, è un ottimo stratagemma alternare la carne tra il calore elevato per attivare una rapida reazione di Maillard e transitare poco dopo sul calore moderato per proseguire la cottura interna in attesa di una crosticina perfetta.


Cottura diretta a bassa temperatura

Questo ci agevola per rosolare alimenti delicati come piccoli molluschi, seppioline e calamaretti, cubetti di verdura mista o tagli, come le braciole di maiale, che necessitano di una rosolatura lenta per consentire una cottura più avanzata all’interno. In questi casi, se utilizzassimo calore ed irraggiamento ad alte o medie temperature sarebbe un disastro: si avrebbero troppe bruciature esterne e una cottura incompleta.

Dunque non ci resta che utilizzare una diretta a bassa temperatura, agevolando il trasferimento termico agli alimenti con l’utilizzo di accessori in acciaio come basket forati o graticole a doppia maglia. Questi supporti vanno prima riscaldati in modo da far accumulare loro un calore tale da consentire un’ immediata cauterizzazione nei punti di contatto con la materia prima; successivamente potranno essere mantenuti sufficientemente caldi con il protrarsi della cottura, e si potrà agevolare la rosolatura dei cibi mediante grassi aggiunti. Anche la griglia in ghisa è molto utile in questi casi. Non essendoci calore eccessivamente alto, il metallo non avrà una temperatura sufficiente per riscaldare in modo violento i punti di contatto ma, al contrario, darà la possibilità di gestire al meglio tutta la superficie agevolando una reazione di Maillard meno pronunciata ma più uniforme.

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Abbiamo dunque imparato come il set up a tre zone sia una scelta vincente per il griller consapevole: grazie a questo particolarissimo settaggio, possiamo sfruttare una fascia di calore intermedio davvero molto utile senza sprecare troppo carbone o troppa potenza di bruciatori a gas. Ma possiamo spingerci oltre e andare a utilizzare anche l’ultima zona, spostandoci sul limite in cui sono ancora presenti un minimo irraggiamento e una convezione, che arrivano dalla fonte di calore sottostante l’alimento.


pastaal

La ricetta scientifica a cura di Gianfranco Lo Cascio

La

pomodoro

“È indispensabile che tutti gli esseri e tutti i popoli saggi della terra capiscano che pane e pomodoro è un paesaggio fondamentale dell'alimentazione umana. Piatto peccaminoso per eccellenza perché comprende e semplifica il peccato rendendolo accessibile a chiunque”

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Manuel Vázquez Montalbán, Ricette immorali, 1988

Quante versioni di pasta al pomodoro esistono? Centinaia, migliaia forse. Tutti i Paesi, i distretti, i condomíni hanno una loro versione. La guerra dei pianerottoli tra chi la fa meglio inizia di domenica con le zaffate arroganti di pomodoro e basilico che, affamate d’aria, scappano via dai balconi.

Questo apporto cromatico potrebbe infatti non bastare. Ho deciso quindi di inserire tra gli ingredienti della pasta il colorante in gel (o pasta), di quelli che si usano generalmente in pasticceria per colorare la pasta di zucchero o la ghiaccia reale.

La mia pasta al pomodoro scientifica non vuole scuotere la sequoia dei ricordi a cui vivete abbracciati, ma è un pretesto per concentrare il gusto del pomodoro che, oltre a conferire un’importante impronta aromatica, riesce a dipingere sfumature di rosso molto intense.

Il mio intento è quello di fondere i due elementi, la pasta e il pomodoro, non di destrutturare, fabbricando una vera e propria granata umami.

A volte.

Perché accontentarsi di una pasta al pomodoro quando si può preparare una pasta DI pomodoro?


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IL POMODORO NELLA STORIA Parliamo dell’emblema dell’italianità, del frutto (sembra strano, ma botanicamente è considerato tale) che trascende le distinzioni regionali e sociali, uno degli alimenti più diffusi in tutto il mondo: basti pensare alla pizza, alla pasta, ai sughi, alla caprese e così via.

Furono le classi popolari che cominciarono a degustarlo per prime, friggendolo nell’olio con sale e pepe, allo stesso modo delle melanzane e dei funghi. Sulle tavole dei ricchi, ancora alla metà del ‘600, il pomodoro compariva soltanto come elemento di decoro.

Il suo ingresso nella cucina italiana è stato tardivo e faticoso: giunse in Spagna dalle Americhe ad inizio del ‘500, ma non ebbe un gran successo, forse proprio perché era una pianta radicalmente nuova, che colpiva ma anche sconcertava per la forma e per il colore rosso acceso. Veniva considerata velenosa in quanto presentava affinità con specie tossiche come l’erba morella e la mandragola.

Solo alla fine del Seicento riemerge nell’alta cucina grazie al ricettario napoletano Lo scalco alla moderna di Antonio Latini (1692/4), nel quale troviamo la «salsa di pomadoro”.

L’Italia fu il primo Paese europeo, dopo la Spagna, a conoscere questo frutto, grazie agli stretti rapporti esistenti tra i Borbone e le famiglie regnanti dell’epoca, e ai domini spagnoli su territorio italiano. Ma la sua diffusione nel nostro Paese fu tuttavia assai lenta: la diffidenza iniziale verso il nuovo frutto, non associabile a nessun cibo già conosciuto, ne mortificò a lungo le potenzialità gastronomiche.

Anche per questo il pomodoro trova piena accoglienza nella cucina italiana del Sette-Ottocento: il toscano Panunto, il romano Leonardi e il napoletano Vincenzo Corrado lo includono ormai senza remore nei loro ricettari. Troviamo le prime testimonianze di associazione con la pastasciutta e con la pizza nel Cuoco maceratese del 1779 di Antonio Nebbia e poi in Cucina casereccia pubblicato nel 1839 da Ippolito Cavalcanti. Il matrimonio con la pasta segna dunque nell’Ottocento, dopo tre secoli dal suo arrivo in Europa, il trionfo del pomodoro: la versione moderna della salsa e dei suoi usi ci è data da Pellegrino Artusi nel 1891.

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I primi pomodori erano presumibilmente piuttosto piccoli, tanto è vero che venivano scambiati per grosse ciliegie; alcune specie erano gialle e per questo, sembra, gli italiani li battezzarono pomi d’oro (mela d’oro, pomodoro). “Al mio gusto è più presto bello che buono”, dichiarò un medico modenese dell’epoca.

Questa diffusione è facilitata dal fatto che il suo utilizzo come salsa di accompagnamento rientra nella modalità d’uso che in un certo senso favoriva l’accettazione del nuovo prodotto, riconducendolo ad una tradizione gastronomica consolidata, quella antica, medievale, rinascimentale.


BIOLOGIA DEL POMODORO Lycopersicon esculentum I pomodori sono spuntati come piccole bacche amare che crescevano sui cespugli nei deserti della costa occidentale del Sud America. Oggi, dopo la loro domesticazione in Messico (il loro nome deriva dal termine azteco per "frutto carnoso", tomatl) e un periodo di sospetto europeo durato fino al XIX secolo, vengono divorati in tutto il mondo in una grande varietà di dimensioni, forme e colori screziati di carotenoidi.

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A cosa dobbiamo il loro grande fascino? E perché questi frutti agrodolci vengono trattati come una verdura? Le risposte risiedono senz’altro nel loro sapore unico. Oltre ad un contenuto di zuccheri relativamente basso per un frutto (3%), simile a quello di cavoli e cavoletti di Bruxelles, i pomodori maturi racchiudono una quantità insolitamente grande di acido glutammico salato (fino allo 0,3% del loro peso), così come composti aromatici di zolfo. L'acido glutammico e gli aromi di zolfo sono più comuni nelle carni che nella frutta, e questa caratteristica li predispone a completare il sapore delle proteine, o a sostituire quel sapore, e certamente ad aggiungere profondità e complessità a salse e altre preparazioni miste. Questo potrebbe anche essere il motivo per cui, a differenza di molti frutti che da marci hanno un piacevole odore di fermentazione, i pomodori deteriorati puzzano da morire. Ad ogni modo, i pomodori sono un alimento buono e giusto, un super cibo da assumere più volte alla settimana. Sono ricchi di vitamina C e le varietà rosse standard forniscono un'eccellente dose di licopene, un carotenoide antiossidante che è presente in dosi massicce nel concentrato che compriamo in tubetto.


Quando i pomodori freschi vengono cotti per preparare una bella salsa densa, guadagnano alcune sfaccettature di sapori - in particolare sfumature di rosa e viola dei carotenoidi - ma perdono le fresche note "verdi" fornite da frammenti instabili di acidi grassi e da un particolare composto di zolfo (tiazolo).

strettamente alle molecole di colesterolo nel nostro sistema digestivo, così che il corpo non assorbe né l’uno né l’altro. In parole povere, i pomodori abbassano l’apporto netto di colesterolo (anche i pomodori verdi contengono tomatina e hanno lo stesso effetto). Va bene, quindi, rinfrescare il sapore delle salse di pomodoro con le loro foglie.

Poiché il raspo ha un pronunciato aroma di pomodoro fresco grazie ai suoi enzimi fogliari e alle ghiandole oleifere aromatiche prominenti, alcuni cuochi aggiungono alcune foglie alla salsa, verso la fine della cottura, per ripristinare le note fresche.

I pomodori freschi si cuociono facilmente fino ad ottenere una purea liscia, ma questo non accade con molti pomodori in scatola. Le ditte conserviere spesso aggiungono sali di calcio per rassodare le pareti cellulari dei frutti (preservando l’integrità dei pezzi) e questo può interferire con il loro disfacimento durante la cottura. Se volete preparare un piatto dalla struttura fine con i pomodori in scatola, controllate le etichette e scegliete un marchio che non elenchi il calcio tra i suoi ingredienti.

Le foglie di pomodoro sono state a lungo considerate potenzialmente tossiche perché contengono un alcaloide difensivo, la tomatina. Studi recenti hanno scoperto, però, che la tomatina si lega

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I POMODORI COTTI


LA CONSERVAZIONE DEI POMODORI I pomodori provengono da zone a clima caldo e dovrebbero essere conservati a temperatura ambiente. Il loro sapore fresco risente in maniera massiccia della refrigerazione. I pomodori allo stadio verde maturo sono particolarmente sensibili al raffreddamento a temperature inferiori a circa 13°C: subiscono danni alle loro membrane, che si traducono in uno sviluppo minimo del sapore, una colorazione a mac-

chie e una consistenza molle e farinosa quando riportati a temperatura ambiente. I pomodori completamente maturi sono meno sensibili, ma perdono sapore a causa dell’indebolimento dell'attività enzimatica che produce sapidità. Parte di questa attività enzimatica può essere stimolata nuovamente, in questo modo: lasciate recuperare i pomodori refrigerati a temperatura ambiente per un giorno o due prima di mangiarli.

SALSA DI POMODORO: ENZIMI E TEMPERATURE La passata di verdura più familiare in Italia, e forse nel mondo, è la conserva di pomodoro. I solidi nei pomodori sono per circa due terzi zuccheri saporiti e acidi organici, e il 20% carboidrati della parete cellulare che hanno un certo potere addensante (10% di cellulosa e 5% di pectina ed emicellulosa). Le passate di pomodoro commerciali possono includere tutta l'acqua presente nei pomodori originali, o solo un terzo. Il concentrato di pomodoro è la passata di pomodoro cotta in

modo da contenere meno di un quinto dell'acqua del vegetale crudo. Il concentrato di pomodoro è quindi una fonte concentrata di sapore, colore e potere addensante (è anche un efficace stabilizzatore di emulsioni). Ci sono diverse variabili nella preparazione delle puree che possono influenzare consistenza e sapore finali.

LA CONSISTENZA DEL POMODORO

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La consistenza finale di una passata di pomodoro dipende non solo da quanta acqua è stata rimossa, ma anche da quanto tempo la purea trascorre a temperature moderate o alte. I pomodori maturi hanno enzimi molto attivi il cui compito è rompere la pectina e le molecole di cellulosa nelle pareti cellulari del frutto, e quindi dare al pomodoro la sua consistenza morbida e fragile. Quando i pomodori vengono schiacciati per la prima volta, gli enzimi e le loro molecole bersaglio si mescolano a fondo e i primi enzimi iniziano a rompere le strutture delle pareti cellulari. Se la purea cruda viene tenuta a temperatura ambiente per un po’, o riscaldata ad una temperatura inferiore alla temperatura di denaturazione degli enzimi della pectina, circa 80°C, allora gli enzimi romperanno molti dei rinforzi della parete cellulare e queste molecole liberate daranno una consistenza notevolmente più spessa alla purea.

Tuttavia, quando la purea viene poi riscaldata per rimuovere l'acqua e concentrarla, le alte temperature rompono le molecole già danneggiate dagli enzimi in pezzi più piccoli che sono addensanti meno efficienti, e la purea richiede una riduzione molto maggiore per ottenere lo spessore desiderato. Se invece la salsa cruda viene cotta rapidamente in prossimità dell'ebollizione, il risultato è una passata più densa, che richiede una minore riduzione successiva. Gli enzimi di pectina e cellulosa vengono denaturati e diventano inattivi, mentre allo stesso tempo le pareti cellulari vengono distrutte dal calore. Le pectine delle pareti cellulari che fuoriescono nella fase fluida durante la concentrazione (e relativo riscaldamento) sono molecole più lunghe e addensanti più efficienti.

parte solida, % su peso totale

pectina e emicellulosa, % su peso totale

pomodori crudi

5% - 10%

0,5% - 1,0%

passata di pomodo in scatola

8% -24%

0,8% - 2,4%

40%

4%

concentrato di pomodoro


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ENZIMI DEL POMODORO E SAPORE Oltre agli enzimi di pomodoro che influiscono sulla consistenza, ci sono enzimi che influenzano anche il sapore: nel caso del gusto, una certa attività enzimatica iniziale può essere desiderabile. Le molecole fresche dall'odore "verde" (esanale ed esanolo) che sono un elemento importante nel sapore del pomodoro maturo, sono generate dall'azione degli enzimi sugli acidi grassi quando il tessuto del frutto viene schiacciato, sia in bocca che nella pentola. La cottura rapida fino all'ebollizione riduce al minimo questo elemento di sapore fresco, mentre lasciare la purea cruda a temperatura ambiente (per una salsa messicana, per esempio) o riscaldare la salsa lentamente porterà ad un accumulo di queste molecole di sapore nella purea. Il metodo più efficace da seguire è quello di dimezzare o dividere in quarti i pomodori, poi cuocerli in un forno a bassa temperatura per rimuovere l'acqua e infine cuocerli velocemente in un tegame. Questa tecnica minimizza il mescolamento di enzimi e obiettivi, quindi le

cellule rimangono relativamente intatte e si sviluppa poco aroma erbaceo. Poi c'è la preparazione tradizionale italiana chiamata estratto: inizia con pomodori freschi cotti fino a un certo punto, che poi vengono mescolati con un po' di un po' di olio d'oliva fino ad ottenere una pasta, che viene stesa su tavole per farla asciugare ulteriormente al sole. Questo è spesso descritto come un processo relativamente "delicato" rispetto alla cottura, e probabilmente risparmia qualche danno alle molecole di pectina. In verità sottopone un certo numero di molecole sensibili, tra cui il licopene del pomodoro e gli acidi grassi insaturi nell'olio d’oliva, a una potente e dannosa luce ultravioletta, che conferisce all'estratto un caratteristico sapore forte e di “cotto”. POMODORO % in peso in zuccheri % in peso in acidi rapporto zuccheri/acidi

3% 0,5% 6

IL CONCENTRATO DI POMODORO

Doppio concentrato di pomodoro: per legge deve avere un residuo secco non inferiore al 28%, al netto del sale eventualmente aggiunto. Occorrono circa 6 kg di pomodori freschi per ottenere 1 kg di doppio concentrato. Triplo concentrato di pomodoro: per legge deve avere un residuo secco non inferiore al 36%, al netto del sale eventualmente aggiunto. Occorrono circa 7 kg di pomodori freschi per ottenere 1 kg di triplo concentrato. Esiste una varietà, detta elioconcentrato la cui concentrazione avviene tramite l’esposizione diretta ai raggi del sole. Processo di concentrazione del sugo di pomodoro totalmente naturale, l’Elioconcentrato è prodotto in minori quantità rispetto al concentrato “classico” di cui si serve l’industria alimentare.

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È una salsa ottenuta dalla concentrazione a diversi livelli del succo di pomodoro (residuo secco compreso tra il 12% ed il 36%) e si ottiene dal succo di pomodoro riscaldato a cui viene sottratta una quantità di acqua tale da determinare tre categorie di prodotti finiti: il concentrato, il doppio concentrato ed il triplo concentrato, che differiscono tra loro per il diverso livello di concentrazione degli zuccheri contenuti. In base al tipo di pomodoro il concentrato può essere ottenuto con due tipi di lavorazione, Cold Break o Hot Break. Il primo metodo è solitamente utilizzato per la produzione di triplo concentrato di pomodoro, tramite il quale il pomodoro fresco viene triturato e riscaldato a basse temperature, che vanno dai 65° ai 75°C. Il metodo Hot Break utilizza invece pomodori triturati e riscaldati a temperature che variano dagli 85°C ai 100°C, ottenendo salse più simili al ketchup.


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POMODORO: L'ESTRAZIONE IN OLIO

Grassi e oli stessi sono creati e immagazzinati da animali e piante come una forma concentrata e compatta di energia chimica, che contiene il doppio delle calorie rispetto allo stesso peso di zuccheri o di amido. Oltre a grassi, oli e fosfolipidi, la famiglia dei lipidi comprende betacarotene e pigmenti vegetali simili, vitamina E, colesterolo e cere. Sono tutte molecole prodotte da esseri viventi e consistono principalmente di catene di atomi di carbonio, con atomi di idrogeno che sporgono dalla catena. Ogni atomo di carbonio può formare quattro legami con altri atomi, quindi un dato atomo di carbonio nella catena è solitamente legato a due atomi di carbonio, uno per lato, e due idrogeni. Questa struttura a catena di carbonio ha una conseguenza fondamentale: i lipidi non possono sciogliersi in acqua. Sono sostanze "idrofobiche" o "che temono l'acqua". Il motivo è che gli atomi di carbonio e idrogeno esercitano una forza simile sui loro elettroni condivisi. Quindi, a differenza del legame ossigeno-idrogeno, il legame carbonio-idrogeno non è polare e la catena idrocarburica nel suo insieme è non polare. Quando acqua polare e lipidi non polari si mescolano, le molecole di acqua polari formano legami idrogeno l'una con l'altra, le lunghe catene lipidiche formano un tipo di legame più debole tra loro (legami di van der Waals), e le due sostanze si separano. Gli oli minimizzano la superficie di contatto con l’acqua coalescendo in grossi blob ed oppongono resistenza alla divisione in goccioline più piccole.

I lipidi condividono altre due caratteristiche. Una è la loro consistenza appiccicosa, viscosa e oleosa, che deriva dai molti legami deboli formati tra le lunghe molecole di carbonio-idrogeno. Quelle stesse molecole sono così voluminose che tutti i grassi naturali, solidi o liquidi, galleggiano sull'acqua. L'acqua è una sostanza più densa grazie al suo intenso legame idrogeno, che impacchetta le sue piccole molecole più saldamente tra loro

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Grazie alla loro parentela chimica, lipidi diversi possono dissolversi l'uno nell'altro. Ecco perché i pigmenti carotenoidi - il beta-carotene nelle carote, il licopene nei pomodori - e la clorofilla (intatta), la cui molecola ha una coda lipidica, colorano i grassi in cottura molto più intensamente dell'acqua di cottura. Ricordatevi di questo passaggio più tardi…


LE CULTIVAR IDEALI PER LA SALSA

Anche se il San Marzano fa la parte del leone nell’orto, l’Italia conta moltissime tipologie di pomodoro ideali alla cottura. Spesso si tratta di prodotti locali praticamente sconosciuti fuori dalle zone in cui vengono coltivati. Antico pomodoro di Napoli È l’ecotipo Smec 20, riconosciuto da Slow Food come il clone più vicino al San Marzano, coltivato nell’Agro Sarnese-Nocerino, dal 2000 Presidio Slow Food.

Cuore di bue Pomodoro da insalata costoluto, grosso e irregolare, con buccia liscia e sottile, polpa carnosa, povera di acqua e con pochi semi, sapore ricco, dolce e poco acido.

Camone Pomodoro insalataro liscio e tondeggiante, piuttosto piccolo, con “spalla” verde e sfumatura rosso-arancio nella parte inferiore, polpa carnosa, consistenza croccante. Non è una varietà antica ma un ibrido coltivato in serra, soprattutto in Sardegna; sul mercato da dicembre a giugno.

Datterino Deve il nome alla forma, piccola e allungata, e al sapore dolcissimo e intenso che ricorda il dattero. Ha polpa consistente, buccia sottile, pochi semi, capacità di conservarsi a lungo.

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Ciliegino Piccolo e tondo, noto anche come cherry, è uno dei pomodori più apprezzati per la dolcezza e la succosità. Coltivato soprattutto in Sicilia, sia in campo che in serra, è in vendita tutto l’anno. Corbarino Pomodorino appena allungato di colore rosso carico, carnoso e dal sapore intenso e agrodolce, coltivato in aridocoltura nei terreni vulcanici dei Monti Lattari, in particolare nella zona di Corbara, Salerno. A rischio d’estinzione, è stato recuperato negli ultimi anni e oggi rappresenta un’eccellenza campana. Da consumo fresco, da conserve e da serbo, si intrecciano i rametti dei grappoli di pomodorini, da usare durante l’inverno.

Fiaschetto Pomodorino dolce e succoso, di forma ovale con la tipica codina e buccia sottile. È una storica varietà pugliese con la quale da sempre a fine estate si faceva la passata. Il fiaschetto di Torre Guaceto, piccola enclave del Brindisino baciata da un ecosistema favorevole, è oggi tutelato da un Presidio Slow Food. Marinda Pomodoro costoluto di dimensioni medio-grandi e dalla forma appiattita, con “spalla” verde, ha profumo fresco, gusto intenso molto dolce, sapido e persistente, polpa soda e croccante. È un pomodoro invernale e si raccoglie tra il tardo autunno e la primavera. Viene coltivato soprattutto in Sicilia. Pera d’Abruzzo Pomodoro autoctono abruzzese, molto rustico, di forma grande e costoluta, con gu-

sto dolce e vellutato, polpa abbondante e pochi semi. Da poco è stato salvato dall’estinzione grazie un lavoro di recupero del seme “sanificato” realizzato dall’assessorato all’Agricoltura della Regione Abruzzo in collaborazione con il CRA. La nuova varietà è stata denominata Saab-Cra (Sapore Antico Abruzzo). Pizzutello Pomodorino dolce-acidulo, ovale e con la caratteristica puntina nella parte inferiore, da cui il nome. È coltivato nella zona del Vesuvio in aridocoltura e in Sicilia. Pomodoro di Pachino Non “Pachino”, ma di Pachino, paesone del Siracusano che ha legato il suo nome a questo pomodoro diffuso ormai ovunque. Ma solo quello proveniente dalla zona intorno al piccolo centro della Sicilia sud-orientale è Igp. Quattro le tipologie: costoluto, ciliegino, tondo liscio e a grappolo. Pomodoro di Villa Literno Varietà tonda convenzionale, da salsa, coltivata sulla creta in aridocoltura nella zona di Villa Literno, nel basso Casertano. È in corso la richiesta di Igp per la passata di questo pomodoro trasformato secondo le tradizioni delle famiglie liternesi. Pomodoro giallo Erano gialli i primi pomodori che gli europei videro nel XVI


Pomodoro siccagno Non una sola varietà ma diverse. Prende il nome dal tipo di coltivazione: neanche una goccia d’acqua bagna le sue radici. È molto concentrato nella consistenza, nel sapore e nella dolcezza. Straordinario quello ottenuto da cultivar autoctone siciliane e in montagna. Prunill Antica varietà autoctona pugliese, un piccolo pomodoro leggermente oblungo simile alla susina selvatica (da cui il nome), dal gradevole sapore asprigno. Non ha bisogno d’acqua. Dà il meglio di sé trasformato in passata. Regina Pomodoro autoctono pugliese, da serbo e adatto a crescere in aridocoltura, coltivato nell’alto Salento in terreni salmastri lungo la costa adriatica tra Fasano e Ostuni. Di forma rotonda, ha sapore dolce-acidulo e buccia spessa. Deve il nome alla forma del picciolo, che crescendo diventa una sorta di coroncina verde. Il pomodoro Regina di Torre Canne è un Presidio Slow Food. Riccio di Parma Antica varietà autoctona che ha fatto grande l’industria

conserviera parmigiana. La coltivazione, quasi abbandonata negli anni ’50-’60, è stata ripresa grazie a un progetto di recupero della biodiversità rurale emiliana. Ha forma grande, tondeggiante e leggermente depressa, costolature irregolari, buccia molto sottile color rosso scarlatto, polpa carnosa, sapore dolce e delicato. Roma Pomodoro lungo, corrispettivo ibrido del San Marzano, di cui condivide la destinazione. È la varietà preferita dall’industria grazie alla buccia dura, che lo rende più resistente a malattie e attacchi di parassiti, e al fatto di essere adatto alla conservazione, alla raccolta e alla lavorazione meccanizzate.

ros e le linee migliorate, le uniche si possono fregiare della Dop “pomodoro San Marzano dell’Agro Sarnese-Nocerino” (ma solo per il pelato). Ma quali caratteristiche deve avere un vero Pomodoro San Marzano? •

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• Torpedino Pomodoro piccolo e allungato appartenente alla categoria dei mini San Marzano, figlio di un progetto legato alla piana di Fondi e prossimo a diventare il primo pomodoro a marchio del Lazio. È una tipologia a doppia attitudine, da insalata quando è verde, da sughi freschi e conserve quando viene raccolto rosso a piena maturazione. San Marzano Forma a lampadina allungata, pelle sottile, due fossette laterali, una codina appuntita alla base, polpa delicata, gusto rotondo con un’amabile nota aspra, è il re dei pomodori, sinonimo di pummarola. Il suo habitat è la Valle del Sarno, alle falde del Vesuvio, tra Napoli e Salerno. È tutelato da un Consorzio che riconosce solo le varietà San Marzano 2, ki-

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la dimensione è medio-grossa, con una lunghezza compresa tra i 60 e gli 80 mm. La forma è cilindrica e allungata Non è presente il peduncolo. Il colore è rosso brillante, uniforme e tipico. La buccia, sottile e consistente, si stacca facilmente dalla polpa quando la maturazione è completa. La polpa è soda ed elastica, poco acquosa e quasi priva di semi. L’acidità è scarsa e il pH massimo è 4,50. Infine, il sapore è tipicamente agrodolce, fresco e intenso.

Se potete, scegliete questo pomodoro per la vostra salsa.

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secolo: il nome, “pomo d’oro”, lo conferma. Ne esistono di diverse forme e dimensioni, piccoli e medi, tondi e allungati, a lampadina tipo mini San Marzano, varietà bionde di ciliegino, di datterino, di pomodorino del piennolo. Vengono coltivati ovunque, in particolare in Campania. Hanno sapore delicato, dolce e poco acido.


LA RICETTA SCIENTIFICA

PASTA AL POMODORO

INGREDIENTI per la pasta 500 g di semola rimacinata di grano duro 170 g di triplo concentrato di pomodoro 110 g di uova intere (circa 2) 15 g di colorante alimentare rosso in gel 35 g di acqua per il sugo di pomodoro 1,5 kg di pomodori maturi (io ho usato metà camone e metà Piccadilly) 350 ml di olio extravergine di oliva (io ho usato un 100% nocellara del Belice) sale per la finitura

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foglie di basilico fresco q.b.


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01. LA PASTA

Fate la classica fontana con la semola e metteteci dentro le uova intere, il concentrato di pomodoro e il colorante disciolto nell’acqua. Sbattete con una forchetta e pian piano incorporate la farina dai bordi, fino ad avere un impasto grezzo. Lavorate l’impasto sul piano di lavoro e modellatelo in una pallina. Coprite con pellicola e lasciatela riposare almeno 30 minuti, per permettere alle maglie di glutine di rilassarsi. Riprendete l’impasto, dividetelo in piccole porzioni e passatelo nella sfogliatrice. Una volta ottenuti dei lenzuoli spessi dai 3 ai 7 mm (lo spessore lo stabilite in base ai vostri gusti) ricavate delle tagliatelle, fettuccine, spaghetti o perché no, bucatini! Questo impasto si presta anche ad essere estruso dall’apposita macchinetta.

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Disponete i vostri spaghetti sullo stendi pasta o a nido in una teglia, previa infarinatura e vigoroso scuotimento. Lasciate asciugare per qualche ora.


02. IL SUGO

Per preparare un sugo carico di sapore dovete concentrare gli aromi. Tagliate i pomodori a metà in senso verticale e disponeteli in una teglia da forno bassa, in modo da facilitare l’evaporazione dei liquidi di vegetazione. Impostate la temperatura del forno sui 70°C e lasciate asciugare per bene. La polpa dovrà risultare ben asciutta al tatto. Prendete i pomodori parzialmente essiccati e passateli nel passaverdure, manuale o elettrico non fa differenza. Ripetete il procedimento più volte per estrarre quanta più polpa e succo possibile, ma non buttate le bucce, vi serviranno più tardi. Trasferite la salsa cruda in un tegame e versate a filo l’olio extravergine di oliva. Lasciate restringere a fuoco basso, per preservare tutte quelle sostanze volatili che vengono annientate dalle temperature troppo violente. Man mano che la salsa cuoce, schiumatela con cura ma non buttate cioè che sarà affiorato: quella cremina densa ha un sapore incredibile ed è ricca di licopene.

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A cottura ultimata, lasciate decantare il sugo per qualche ora, a temperatura ambiente. Vi accorgerete che tutto l’olio sarà emerso in superficie e sarà facilissimo separarlo dalla polpa cotta.


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03. GLI SCARTI

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Avete presente le pellicine accartocciate, i semini frantumati e i piccioli legnosi che sono avanzati? Scrostateli dal passaverdure, disponeteli su una teglia bassa foderata di carta forno e lasciateli asciugare a 70°C per 7/8 ore, oppure schiaffateli nell’essiccatore a 40°C per 12/24 ore. Scartate i semi, che potrebbero conferire note amarognole, e riducete il tutto in polvere finissima. Potrete usarla per aggiungere un tocco umami al piatto.


04. IL SERVIZIO

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Lessate la pasta in abbondante acqua salata e non preoccupatevi se diventa rossa: è il colorante che sta cedendo del pigmento. La pasta, invece, non lascerà aloni di colore nel piatto. Non appena sale a galla, scolatela e conditela con l’olio al pomodoro, che avrete separato dalla salsa. Mettete una mestolata di sugo nel piatto, aggiungete ciò che sarà affiorato dalla salsa e formate un nido di pasta al pomodoro condita con l’olio. Ultimate con piccole foglie di basilico e, se vi piace, con il pulviscolo di pomodoro ricavato dalle bucce.


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Keith Haring


05. LA VARIANTE ALL'AMATRICIANA

La mia pasta al pomodoro sa di pomodoro a bestia. Ma se la carica glutammica del pomo infuocato risultasse poca roba per voi, potete proiettare il piatto nell’iperuranio dei sensi aggiungendo del guanciale caramellato, ovvero spadellato nel suo grasso e poi sfumato con aceto di mele, pecorino a scaglie e pepe nero macinato al momento, a grana grossa. Ora siete pronti a gustare la pasta al pomodoro più pomodorosa che abbiate mai assaggiato. E mentre masticate e godete, ricordate: conoscenza è sapere che il pomodoro è un frutto, saggezza è non metterlo in una macedonia.

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Gianfranco Lo Cascio


Sono stanco e stufo di essere stanco e stufo

(Ozzy Osbourne)

Seguo

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a cura di Emiliano Nencioni

Nella Seguo dello scorso mese di Aprile ci eravamo addentrati timidamente nel concetto di perdono, con immancabili e obbligatori parallelismi sulla vita online, sulle lottarelle fratricide fra griller, sull’opportunità di potersi fermare e deporre l’ascia di guerra. Il concetto poi è apparso talmente vasto che - non volendo rubare spazio ad un’infografica o a un lussurioso scatto ravvicinato di formaggio filante - ho pregustato la possibilità di dividere l’argomento in due puntate consecutive. Tuttavia pare che il mondo si evolva mio malgrado, ignorando i miei progetti editoriali, e dai comportamenti delle masse twittanti, postanti e commentanti, emerge prepotente una nuova reazione. Il venire a noia.


Giove rimproverato da Venere (particolare) olio su tela, 1618 - Abraham Janssens

L’espressione è evocativa, dinamica, cinematica, è quasi un quadro: il fenomeno stesso di venire a noia è un moto, un’escalation, il raggiungimento di un (nefasto) traguardo, uno spannung circostanziale. Il venire a noia non è semplicemente una constatazione di fastidio, un immediato senso di sgradevolezza, no, è molto più subdolo, è un sentimento mutevole: è una precedente probabilmente innocua sazietà che, eccessivamente alimentata, si trasforma in disgusto. É “Ok, bravo, ma basta così” che si trasforma in “Sinceramente, hai rotto”. Era inevitabile, siete venuti a noia. Siamo venuti a noia, un po’ tutti. Non abbiamo saputo fermarci in tempo e i nostri tormentoni sono diventati stantii come una barzelletta di Gino Bramieri (sicuramente eccellente a suo tempo non lo metto in dubbio), le nostre uscite spassosissime si sono evolute in immancabili appuntamenti con l’imbarazzo. Una puntualizzazione: sto forse dicendo che è venuto a noia il commentatore di professione, col repertorio “frizzante” ormai gradevole come una lattina di chinotto lasciata aperta cinque giorni? Mi riferisco al trollone privo di argomenti, che copia-incolla frasine e frasette riconducibili al suo guru personale ad ogni piè sospinto, in un drammatico tentativo di contare qualcosa, avere peso e riconoscibilità, ingraziarsi il boss? Sì, certo, anche. Ricorderete (oppure no, lettori disattenti e caciaroni) su queste pagine l’iniziativa che vi incoraggiava a rispondere “Smetti.” a personaggi ripetitivi e petulanti. Ma c’è di più, ed è un fenomeno che sta diventando avvertibile proprio nelle ultime settimane: sono venute a noia pagine intere. Gruppi interi. Probabilmente, per quanto sia rassicurante e appagante sentirsi parte di un movimento, schierarsi e agire da indomito soldatino, sulla lunga distanza combattere la guerra di altri stanca. Probabilmente dopo l’entusiasmo iniziale dell’affiliazione militante, al comune griller nostrano sarà tornata anche la voglia di mangiarsi il frutto delle proprie tribolazioni senza onorare una bandiera, o quella di scorrere il proprio feed di notizie senza dover spiegare perché l’utilizzo del reverse searing non renda automaticamente meno virili.

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Chi da sempre sfrutta questo tipo di antagonismo e di livore da qualche settimana batte la fiacca. I numeri sono impietosi e visibili ad un occhio un po’ attento.

ciclica), a basso costo e a basso impegno, in un espediente ormai praticamente inutile. Tutto viene a noia. Jennifer Lopez è stata mollata per la babysitter. Per esempio.

C’è chi fa contenuti, chi fa contenuti e “lardella” (per rendere tutto più succulento) con la polemica, chi fa polemica leggermente marezzata di contenuti, e chi, privo di contenuti, cita e ricalca le polemiche dei gruppi più seguiti, cercando di splendere maldestramente della luce riflessa altrui, baluginando erraticamente come un’insegna al neon con lo starter guasto. Il clickbait non seduce più, l’engagement disengaggia.

Figuratevi i toni sensazionalistici, le chiamate alle armi di qualche funambolo del congiuntivo.

"Guarda come un griller maldestro è diventato campione condominiale di bistecca usando questo vecchio trucco!" “Non ne possiamo più” “Vorrei scrivere qualcosa contro l’uso del forno ma ci sono tramonti da vedere, marciapiedi da calpestare...” “Anche basta però” “Sono già due lockdown consecutivi che passo a leggere i vostri tentativi di flame” “So’ Lillo” (sostituibile eventualmente con l’ultimo tormentone in auge)

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Pochi commenti, svogliati. Niente più muse invocate per meglio descrivere le ire funeste. L’abuso reiterato e la sovrabbondanza hanno trasformato la risorsa più comoda (sto parlando ancora della polemica

Chi aveva qualcosa da dire, prodotti da vendere, contenuti da offrire, sta andando avanti, auspicabilmente correggendo il tiro; a qualcun altro invece si sta rompendo il giochino in mano, e forse si starà meravigliando di come le sue infallibili frecciatine parassitarie non abbiano più il consueto riscontro in termini di numeri, di click, di ramificatissimi commenti. Il venire a noia è il potere autorigenerante e autopreservante degli strumenti sociali: quando una cosa prende troppo piede, si inflaziona, rischia di diventare preponderante e invasiva come una specie in un ecosistema non proprio, lentamente tutto attorno ad essa muta e si adatta, in maniera da rendere superfluo, esecrabile o disdicevole il fenomeno in questione. Dopo tutto, non si è più visto chiosare sagacemente con “trooooppo giuuuusto” o citare Gianfranco D’Angelo. Solo pochi amanti del vintage resistono alle dotte citazioni sull’epopea del sarchiapone. Ambrose Bierce, uno scrittore americano dell’inizio del secolo scorso, ben poco conosciuto nella vecchia Europa, era soprannominato “Bitter”, l’amaro, l’aspro, per il suo eccessivo

e incessante sarcasmo; l’ironia e la mancanza di riguardo, sottomissione e rèmore sociali lo avevano reso un giornalista molto prolifico ma, e ci sono poche delicate parafrasi per spiegarlo, stava proprio sulle scatole a tutti. Un ospite perfetto per la Seguo, la rubrica più di nicchia e divisiva del Magazine. L’affabile Ambrose, che se volete potete gustarvi nel suo famoso “Dizionario del diavolo”, si ritrovò a dire: “Volubilità: reiterata sazietà di un affetto incostante” Trovo che stia tutta qui la chiave: l’affetto flebile e scricchiolante dei fan. Dei fan, della base utenti, dei militanti, a seconda del caso specifico. Fan convinti, ma non convintissimi, proprio perché non direttamente votati alla causa, che periodicamente e ciclicamente si saziano; si saziano e si disgustano, un po’ come quando da piccoli abbiamo fatto indigestione di qualcosa che ci piaceva tanto e poi non l’abbiamo più voluta mangiare per mesi. Un annetto abbondante di lockdown quasi continuativo, con relativa impennata del tempo trascorso online nella sconsiderata lettura bulimica di qualsiasi contributo, ha certamente agito da catalizzatore e accelerato fortemente tutto il processo di saturazione e di disgusto: per il futuro, ricordarsi di centellinare tormentoni e pratiche acchiappacitrulli.

Emiliano Nencioni


N°30/ANNO 3 - GIUGNO 2021 L'EDITORIALE DI GIANFRANCO LO CASCIO Assaggiare la carne: una guida completa PARTE TERZA

Cucina indiana pollo tandoori, beef korma, riso al curry, samosa Estate d’animo: in vena di accendere il bbq Tagliatelle di gamberi al burro e limone, Lomo al trapo con chimichurri, Coxhinas di manzo, Insalata sette strati, Gelato fatto in casa FROM ZERO TO HERO L'affumicatura

LA RICETTA SCIENTIFICA L'insalata di riso


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Editoriale di Gianfranco Lo Cascio

Assaggiare la carne: una guida completa

Q

Il codice visivo della carne

uanta realtà può esistere in un'illusione e quanto un'illusione può essere reale? Concedetemi un solenne momento marzulliano: vi garantisco che il ragionamento è applicabile anche e soprattutto alla carnazza che mettiamo nel piatto. Quando parlo di illusione non mi riferisco alla falsa speranza, badate bene, ma al fenomeno fisico di falsata percezione della realtà. Il tema dell'illusione così intesa, pone al centro del dibattito un interrogativo che per secoli ha agitato le menti dei più grandi filosofi della storia dell'umanità, da Platone a Schopenhauer. Vediamo realmente ciò che è fuori di noi? Ciò che i nostri occhi vedono corrisponde realmente ad un mondo oggettivo che vive oltre e al di là del nostro sguardo? Quanto i nostri sensi filtrano il rapporto tra noi ed il mondo esterno? Quanto, di ciò che vediamo, è vero, reale, esistente? E quanto di questo è illusione?

Per dare risposta a queste domande, il neuroscienziato statunitense Beau Lotto ha di recente pubblicato un libro dal titolo Percezioni - come il cervello costruisce il mondo (Bollati Bolinghieri, 2017). Lo scienziato lavora presso l'University Collage di Londra e svolge le sue ricerche tra Stati Uniti e Gran Bretagna. Originalità e sorprendenti doti comunicative hanno fatto di lui un apprezzato divulgatore e un popolare speaker ai Ted Talks, le celeberrime conferenze che hanno come tema ideas worth spreading (idee che val la pena di diffondere). Proprio durante uno delle sue convention, Lotto sottopone il pubblico ad una serie di illusioni visive che hanno a che fare con il mondo dei colori: lo stesso colore posto su sfondi diversi verrà percepito allo stesso modo? Con la medesima curiosità e arguzia d'ingegno, in Percezioni Lotto ripercorre l'evoluzione del nostro apparato sensoriale, ne scandaglia modalità e

possibilità percettive, lo sottopone a dure prove di resistenza perché ciò che vuole rendere evidente è che il nostro sguardo elabora innanzitutto illusione: noi non vediamo ciò che è, non vediamo la realtà. Non esiste una "percezione pura" slegata da tutto il resto; l'informazione che riceviamo dai nostri occhi e dai nostri sensi, l'informazione sensoriale, è di per sé priva di significato. E allora come facciamo a vedere e dare un significato al mondo che ci circonda? "Prima dei cervelli non c'erano colori o suoni nell'universo, né c'erano sapori o aromi e probabilmente poco senso e nessuna sensazione o emozione", sosteneva Roger Sperry, neuroscienziato statunitense, premio Nobel per la medicina nel 1981. Parafrasando un noto dilemma, ci si potrebbe chiedere se sia nata prima la realtà o il cervello. La risposta all'enigma è come al solito al di fuori della strada tracciata: il nostro cervello non si è evoluto per guardare la realtà, ma per fare altro. "Di fatto, in termini di pura e semplice quantità di connessioni neurali, solamente il dieci per cento delle informazione che il nostro cervello utilizza per vedere deriva dagli occhi, il resto proviene da altre regioni del cervello ed è proprio quell'altro novanta per cento ciò di cui tratta principalmente questo libro". Lotto, dunque, usa l'illusione per svelare i meccanismi di percezione della realtà, una percezione che è innanzitutto "contestuale", poiché il significato attribuito al medesimo stimolo sensoriale è il frutto di un'interconnessione di informazioni che vengono dal contesto. Costruiamo il mondo che ci circonda non per fedeltà, ma per utilità, e il nostro cervello si è evoluto in questa direzione. Il fine dell’osservazione non è la visione; non vediamo per vedere, ma vediamo per comprendere, per dare senso a ciò che ci circonda. A questo proposito, facciamo un giochino.

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PARTE III


Provate a leggere questa frase:

N I CRE MO I GNIF ATO Riuscite a leggere? Se la visione fosse una semplice addizione di stimoli percettivi non potremmo mai riuscire a dar senso alla frase, perché mancano delle lettere. Al contrario, riusciamo comunque a comprendere perché il nostro cervello è capace di interpretare quelle informazioni anche sulla base del nostro campo esperenziale. "La percezione - dunque - è simile alla lettura di una poesia: siamo noi che ne interpretiamo il significato, perché potrebbe anche non significare nulla". E di fronte alla novità? All'imprevisto? Come ci comportiamo? Come suggerito da Beau Lotto, seguiamo l'esempio di Alice nel Paese delle Meraviglie: scivolando dentro la buca del coniglio, che rappresenta la nostra realtà, incappiamo in situazioni bizzarre e nuove, che inizialmente fatichiamo ad interpretare, ma all'interno delle quali tentiamo di districarci, alle quali tentiamo di adattarci, alla ricerca di risposte utili. A Beau Lotto va dunque il merito di restituirci uno sguardo esterno sulla nostra visione e di insegnarci che nel Paese delle Meraviglie della percezione, l'illusione maggiore nasce proprio dalle nostre certezze.

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Cosa c’entra tutto questo con l’analisi sensoriale di una bistecca? Pian pianino vi spiegherò tutto, partendo dall’analisi visiva. L’ambiente genera degli stimoli che sono raccolti dal nostro sistema sensoriale attraverso gli organi di senso, ognuno preposto a rilevare un particolare tipo di energia fisica o chimica. Quando l’agente esterno (stimolo distale) giunge a contatto con un recettore è trasformato in segnale elettrico (stimolo prossimale) attraverso la trasduzione. La nuova forma di energia raggiunge il cervello che lo decodifica

e lo organizza attraverso processi cognitivi di base e processi psicologici dinamici: ecco la percezione. In funzione di questa viene pianificato il comportamento e si ha quindi la risposta allo stimolo. La vista è un organo di senso di tipo fisico che consente la percezione dell’ambiente esterno attraverso una forma di energia elettromagnetica: la luce. L’organo di senso preposto alla rilevazione dei segnali è il sistema visivo il cui elemento primario è costituito dagli occhi. La luce attraversa la cornea e il cristallino per finire sulla retina dove trovano sede due tipi di cellule sensibili: • •

coni: sensibili ai colori e ai dettagli, sono preposti alla visione diurna; bastoncelli: danno una visione più approssimata, necessitano di una minore quantità di energia e sono preposti soprattutto alla visione crepuscolare.

Dai coni e dai bastoncelli il segnale viene trasmesso attraverso cellule bipolari e gangliari (cellule che partecipa alla costituzione di un ganglio nervoso) al cervello dove viene elaborato. Le onde elettromagnetiche comprese nel campo del visibile hanno una lunghezza variabile tra 400 e 760 nanometri (milionesimi di millimetro) e a seconda della lunghezza d’onda dell’energia catturata dal senso della vista si ha la percezione del colore, determinato quindi dalla lunghezza d’onda dell’energia riflessa. In poche parole: una carne è rossa perché assorbe tutte le lunghezze d’onda tranne quella che noi decodifichiamo come rosso.

Il codice visivo della carne La valutazione qualitativa dei tagli di carne passa sicuramente attraverso l’analisi delle caratteristiche sensoriali visive della carne a crudo, tramite queste è possibile verificare gli attributi qualitativi legati alla genetica, al tipo di allevamento e alimentazione, alla frollatura e allo stato di conservazione delle carni. Diversamente, la valutazione delle caratteristiche della carne cotta ha lo scopo di valutare il risultato del metodo di cottura utilizzato e quindi l’andamento di tali trasformazioni.


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IL CODICE VISIVO DELLA CARNE CRUDA

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INTENSITÀ DEL COLORE Definizione Misura la saturazione del colore rosso percepibile sulla superficie della fetta in corrispondenza della parte muscolare; il minimo di scala corrisponde a un rosato molto pallido, il massimo a un rosso cupo. Qualora il taglio sia composto da più fasci muscolari, il colore si misura all’interno del fascio muscolare principale; qualora il colore di questo muscolo sia disomogeneo, si misura quello prevalente sulla superficie, in ogni caso senza fare la media tra le parti. Correlazione di filiera Il colore rosso della carne pu essere più marcato a seconda della razza, del sesso, dell’età dell’animale, nonché dello stile di allevamento (intensivo o estensivo); varia inoltre a seconda del muscolo interessato dal taglio. In linea generale, il rosso è tanto più intenso quanto più quel muscolo è stato sottoposto a sforzo e ha svolto movimento nel corso della vita dell’animale: un muscolo locomotore più “allenato” tende infatti a sviluppare più mioglobina. Composti responsabili Il rosso dipende dalla presenza e dalla concentrazione nel muscolo della mioglobina, nonché dal suo stato fisico. La mioglobina è la metalloproteina (proteina contenente ferro) responsabile della contrazione del muscolo e quindi del movimento dell’animale; l’altra metalloproteina di colore rosso che irrora il muscolo durante il movimento, l’emoglobina (componente dei globuli rossi), viene normalmente eliminata col sangue in fase di macellazione. Il colore della mioglobina cambia con lo stato fisico, cioè è rosso vivo in presenza di intensa ossigenazione del taglio di carne (per esempio in vetrina frigorifera; si parla allora di ossimioglobina) mentre diventa di un bruno verdastro in assenza di ossigeno (in questo caso si definisce metamioglobina). La transizione da ossimioglobina a metamioglobina non è peggiorativa in senso salutistico o sensoriale ed è sempre reversibile con l’ossigenazione, per cui il colore brunastro in questo caso non va inteso come un segno di deterioramento. Tutt’altra cosa è l’imbrunimento non reversibile dovuto ad alterazioni di origine enzimatica o microbica.


OMOGENEITÀ DEL COLORE Definizione Misura l’uniformità del colore su tutta la superficie muscolare del taglio, indipendentemente dall’intensità; in pratica, il valore misurato sarà tanto più alto quanto più il colore della parte rossa è omogeneo.

Composti responsabili Mioglobina: può essere più o meno concentrata nelle diverse parti muscolari che compongono il taglio; emoglobina del sangue nel caso di ematomi; umidità di conservazione, in quanto se a bassa concentrazione comporta l’asciugamento delle parti superficiali più esterne del taglio, con la formazione di incrostazioni più scure date dalla concentrazione degli altri costituenti.

LUCENTEZZA Definizione Misura la proprietà della superficie del taglio di riflettere la luce nella parte muscolare: il valore sarà massimo quando la luce si riflette a specchio, minimo quando il muscolo si presenta spento e opaco. Per una misurazione ottimale occorre che la carne sia presentata all’analisi immediatamente dopo il taglio o l’estrazione dalla confezione, senza che abbia il tempo di asciugarsi all’aria o di formare affioramenti acquosi. Correlazione di filiera La lucentezza è fortemente correlata alla presenza e alla tipologia di lipidi nella carne, dipendente da fattori genetici (razza) ma anche dall’alimentazione e dal tipo di allevamento (che preveda o meno il movimento). Anche le fasi di conservazione dopo la macellazione influenzano l’umidità presente nella carne: man mano che si perde il contenuto in acqua libera, la lucentezza diminuisce. Composti responsabili Acqua presente all’interno del muscolo; componente lipidica intramuscolare che contribuisce a trattenere l’umidità interna; talvolta, grasso intermuscolare e cutaneo lasciato al taglio, che nell’affettare crea un film superficiale a protezione del muscolo.

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Correlazione di filiera Fattori che riducono l’omogeneità del colore della carne possono dipendere da fasi differenti della filiera. Non è detto che sia da considerare sempre un difetto, dobbiamo infatti distinguere le discromie dovute alla presenza di macchie anomale, ematomi, imbrunimenti, croste esterne. Un primo fattore discriminante può essere la presenza di fasci muscolari che lavorano in misura diversa all’interno di alcuni tagli (ad esempio nei muscoli della coscia o delle spalle). Di conseguenza, negli stessi tagli l’omogeneità del colore sarà maggiore in quegli animali che si sono in generale mossi poco, come nel caso del vitellone (a causa della giovane età) o nell’allevamento intensivo. In altri casi la disomogeneità può essere dovuta a macchie createsi nel corso del trasporto dell’animale al macello, come ematomi, oppure a fenomeni legati ad asciugamento superficiale durante le fasi di conservazione.


VENATURE DI GRASSO

FINEZZA DELLA FIBRA Definizione Misura la sottigliezza delle fibre muscolari visibili dal taglio, immaginando il muscolo come un cavo o una corda composta da più filamenti intrecciati. Il valore è massimo quando i filamenti sono estremamente sottili, al punto da essere difficilmente visibili; minimo quando le fibre si presentano molto grosse. L’analisi si compie idealmente sul taglio perpendicolare alle fibre, ma è possibile fare un’osservazione anche sulla sezione longitudinale del muscolo. Nel caso in cui il taglio di carne in esame sia composto da più fasci muscolari, la misurazione si compie sul muscolo principale, in ogni caso senza fare la media tra i diversi muscoli presenti. Correlazione di filiera La fibra diventa tanto più grossa quanta più potenza il muscolo deve sviluppare nel corso della vita dell’animale; la dimensione è quindi correlata positivamente all’età, al sesso maschile, all’allevamento estensivo e alla portanza del muscolo incluso nel taglio (se ad esempio è responsabile della locomozione). La dimensione della fibra muscolare cambia inoltre a seconda dell’altezza a cui il muscolo viene sezionato: è più grossa verso il centro del muscolo, più sottile vicino all’estremità connessa al tendine. Data questa elevata variabilità, per un confronto tra animali è necessario confrontare sezioni simili dello stesso taglio.

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Composti responsabili Sono responsabili le proteine che costituiscono le fibre muscolari e il tessuto connettivo, in particolare l’elastina. La fibra muscolare più grossa contiene maggior tessuto connettivo intramuscolare, il quale si presenta anche di maggior spessore e resistenza, rendendo le carni più dure.

Definizione Quantità di grasso intramuscolare, cioè visibile sulla superficie del taglio all’interno dei fasci muscolari. Tecnicamente si parla spesso di marezzatura, ma con una scala semantica a seconda dell’intensità: dalla venatura alla marezzatura fino alla prezzemolatura, in ordine crescente della dimensione dei depositi adiposi (venatura quando si presentano striature simili a quelle del marmo; prezzemolatura quando alcuni punti si estendono con macchie ramificate simili nella forma a foglie di prezzemolo). Questo descrittore non prende in considerazione: • il grasso invisibile comunque presente all’interno delle fibre muscolari; • il grasso intermuscolare, disposto tra un muscolo e un altro; • il grasso adiposo presente nell’addome e sotto-cute, che potete scegliere di lasciare intorno al taglio per dare alla carne maggiore aroma, caramellizzazione esterna in cottura e umidità interna e che può essere rimosso alla fine. Correlazione di filiera La quantità di grasso intramuscolare aumenta, su esemplari con tratti genetici specifici, con determinati tipi di alimentazione (specialmente cereali) e di allevamento (stabulazione), praticati in particolare negli ultimi sei mesi della vita dell’animale. Questa caratteristica è tipica della carne di Wagyu, frutto della cultura culinaria giapponese che celebra carni e pesci molto grassi, al punto da sciogliersi in bocca. Composti responsabili La parte di grasso nella carne include i gliceridi, i fosfolipidi (lecitine, cefaline, sfingomieline) e gli steroli, composti con struttura derivata da squalene. I fosfolipidi sono costituiti da glicerolo esterificato con due acidi grassi e un composto con fosfato come la fosfatidilcolina. I composti base sono gli acidi grassi, catene di atomi di carbonio in numero da 2 a 24; generalmente in numero pari da 12 a 20 unita di carbonio. Gli acidi grassi saturi principali sono: miristico, palmitico, stearico; i grassi monoinsaturi principali sono il palmitoleico e l’oleico; i principali polinsaturi sono il linoleico, il linolenico e l’arachidonico.


ATTRAENZA Definizione Grado di piacevolezza visiva del taglio crudo nel suo insieme e capacità di risultare appetibile nei confronti dell’osservatore, specialmente nella fase di acquisto. Correlazione di filiera I fattori oggettivi dell’attraenza visiva di un taglio di carne differiscono molto da regione a regione: nella stessa Italia, Nord e Sud hanno notoriamente gusti diversi. Questo appare anche correlato alle usanze culinarie regionali: cottura più lunghe al sud, più brevi al nord, con consumo tradizionale di carne cruda in Piemonte e Veneto. Anche il grado di conoscenza tecnica della carne nell’osservatore incide sulla preferenza, specialmente per quanto riguarda il grasso intramuscolare. Da sempre combatto contro la carne rossa e magra della Sciura Maria, più grasso significa intensità aromatica e maggiore scioglievolezza. Composti responsabili Tra i correlati positivamente possiamo citare senz’altro l’ossimioglobina, che è in grado di conferire al muscolo il rosso brillante; tra quelli correlati negativamente possiamo annoverare il grasso ossidato tendente al colore giallo e, spesso, il tessuto connettivo bianco ove nettamente visibile. Questo aspetto viene influenzato anche dalla quantità di lipidi, la loro distribuzione (marezzatura) e l’umidità delle carni.

Avete preso nota? Ci rivediamo il mese prossimo con il codice olfattivo e l’analisi dei profumi sprigionati dalla carne.

Gianfranco Lo Cascio

579 - BBQ4All Magazine

Buona lettura!


a i nI d

Metti unpo'di

nel tuo piatto

Cucina indiana: una gastronomia millenaria e globale

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Portfolio gastronomico a cura di Nunzia Clemente Illustrazioni di Eleonora Castagna


Q

uanto ci manca viaggiare? Tantissimo. La cucina proveniente da ogni parte del mondo, però, è sempre rimasta a nostra disposizione – anche nei momenti più bui di quest’ultimo anno e mezzo – permettendoci anche lunghe sessioni di “divagazione” pur restando tra le quattro mura di casa. Ho avuto molto tempo per ripensare a come la mia vita sia cambiata nell’ultimo anno e mezzo. Prima, un paio di viaggi all’estero al mese non me li toglieva nessuno. Perlopiù giravo per le capitali europee e, dopo il lavoro, amavo perdermi tra i quartieri più densi di cultura internazionale. Tra i miei ricordi, nitido, l’odore del curry: quello che io chiamo “odore di estero”, insomma. E dove c’è curry, nel 99% dei casi c’è cucina indiana. E resterete molto stupiti nell’apprendere che proprio il curry non è un’invenzione di chissà quanti secoli fa. Ma procediamo con ordine. Pensateci: samosa, pane naan, pollo tandoori, riso korma, lassi al mango e vari frutti. La cucina indiana, dalla gigantesca penisola, ha viaggiato tantissimo. Possiamo dire che – sia per numero di persone che abitualmente la praticano, sia per la diffusione su scala globale – è una delle cucine più famose del mondo, insieme a quella cinese. E proprio come quella cinese, dire “cucina indiana” significa definire tutto e nulla. La cucina indiana è un argomento vastissimo, impossibile da racchiudere in un articolo solo, anche se corposo come quelli del nostro Magazine. Proviamo a tracciare alcune linee guida, saltellando qua e là per la storia della cucina indiana ed alcune cucine regionali degne di nota anche fuori dal Paese d’origine.

La cucina indiana è varia, colorata, seducente e soprattutto antica: parliamo infatti di una delle identità culinarie più antiche del mondo, con ben 8000 anni di storia. È il risultato delle interazioni che i popoli, nel corso dei millenni, hanno avuto modo di avere attraverso tutto il Subcontinente. Il motore trainante di questa cucina è stato, quindi, la sua incredibile diversità: diversi luoghi danno vita a diversi ingredienti, diverse cotture, diversi climi, diverse abitudini. Il mix esplosivo tra queste ha contribuito a creare gran parte della cucina indiana che oggi ricerchiamo nei ristorantini tipici o ancora di riprodurre a casa. Grande influsso sulla cucina del Subcontinente è stata esercitata dalla religione e dalla filosofia: non una sola, ma tante. Il Subcontinente indiano, la sua posizione e la fecondità della sua cultura hanno giocato un ruolo fondamentale negli scambi. Non a caso, troviamo il Buddhismo indiano, l’Induismo con le sue divinità, la presenza forte dell’Islam ed anche del Cristianesimo nelle varie confessioni. Questi culti spesso si sono mischiati a loro volta (non senza difficoltà e guerre intestine, anche ai giorni nostri), dettando a mano a mano legge anche da un punto di vista alimentare. Nel mondo occidentale, si sono diffuse principalmente le cucine tipiche delle regioni del Nord dell’India: queste sono sintesi delle cucine punjabi e kashmire, a loro volta influenzate dalle tradizioni persiane e dalle invasioni islamiche.

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Una cucina con 8000 anni di storia


La cucina più speziata al mondo Curry a parte, ci sono ben pochi dubbi: la cucina indiana è tra le più speziate al mondo. Siamo nella terra d’origine del pepe, della cannella, del cardamomo. I chiodi d garofano sono coltivati in queste zone da tempo immemorabile: la cucina indiana ha sulle spalle una storia di almeno 6500 anni, favorita da un clima godibile e adatto all’agricoltura da campo. In questo clima si sono sviluppate le colture della noce moscata, del macis, dello zenzero e del cumino. Il peperoncino, abbondantissimo nella cucina indiana, pare abbia fatto capolino soltanto nel XVI secolo.

Brevissima storia della cucina indiana

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6500 anni di storia gastronomica sono abbastanza per costruire non una, ma tantissime identità culinarie. Decine di volte sono cambiati i confini, la politica, le influenze: tutto ciò ha contribuito a creare molteplici identità gastronomiche e molta

confusione sulla materia. Parlare di una cucina indiana univoca è davvero impossibile e, mentre ci sono regioni che si battono per una coesione culturale, ce ne sono altrettante che sono ferme sulla propria indipendenza. Dal 3000 a.C. abbiamo segni più consistenti delle coltivazioni, come sesamo, melanzane, cardamomo, pepe nero, curcuma e senape. Nella Valle dell’Indo era già comune la pratica dell’allevamento degli zebù. Gran parte del corpus delle ricette di ispirazione indiana conosciuto all’estero risale al periodo Vedico (cioè con la civiltà vedica, XV secolo a.C. ): a quel tempo l’India era molto diversa, ricca di foreste e di acqua e con una spiccata propensione alla cacciagione. La dieta, al tempo, era ricca di frutta, verdura, cereali, miele e latticini. Con l’avvento del Buddhismo indiano si diffuse rapidamente il vegetarianesimo: questo fu favorito anche dal clima delizioso, che aiutava molto le coltivazioni a campo aperto. Un grande impulso alla fioritura della cucina indiana fu dato durante il periodo chiamato “Epoca d’oro dell’Arte indiana”: i viaggiatori si avvicendavano


Il periodo delle invasioni islamiche apportò ulteriori modifiche alla dieta tipica indiana: i musulmani, infatti, mangiavano quantità ingenti di carne a dispetto dei buddhisti e degli induisti. L’influsso islamico portò anche nuove tecniche di cottura, come quella nel “dum”, che sarebbe una sorta di casseruola sigillata e ad un grande utilizzo di zafferano e noci. Il XVIII secolo vide l’arrivo dei colonialisti britannici: ed è proprio qui che ha inizio la prima “internazionalizzazione” della cucina indiana. I britannici tentarono di ingentilire i gusti e gli odori della cucina dei loro ospiti. Ed è in questo periodo che nacque il curry: i colonialisti acquistavano dai loro schiavi dei mix di spezie con i quali insaporire le loro pietanze. Hanno inventato anche il pollo tikka masala, una delle preparazioni più in voga nei ristoranti

indiani d’oltrefrontiere: non a caso, è definito il “vero piatto anglosassone” tout court, espressione di un determinato periodo storico dai risvolti spesso non troppo piacevoli. Nel XX secolo, con le diaspore migratorie, diverse forme della cucina indiana hanno attecchito in tutto il mondo, per poi modificarsi secondo gli usi e i costumi dei Paesi ospitanti. Una grande versatilità ha sicuramente contribuito alla sua diffusione. Principalmente, sono molto diffuse le tradizioni gastronomiche delle regioni del Nord: molta carne e spezie, ma ultimamente non è disdegnato nemmeno il filone tutto vegetale.

Alimenti base della cucina indiana Gli alimenti alla base della cucina indiana sono molti: abbiamo molte varietà di riso e legumi (ad esempio, i “masoor”, lenticchie rosse, i “toor”, ceci gialli” e i mung, ceci verdi). I legumi vengono utilizzati sia interi che sgusciati e, insieme alle farine, formano dei sostanziosi piatti unici.

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in lunghissimi viaggi verso le Indie, per conoscere da vicino la dinastia regnante Gupta, avvolta da mistero e fascino. Grazie a questo incessante e fruttuoso scambio culturale e di merci, la cucina indiana si arricchì di nuove spezie e prodotti. Ad esempio, il tè: la sua storia in India inizia da ora e si diffonderà poi con le monocolture con l’avvento del colonialismo.


Ad oggi, l’80% della popolazione indiana segue un regime dietetico vegetariano.

Alcune delle cucine regionali indiane più famose al mondo

Per quanto riguarda l’ampio ramo delle spezie, ai primi posti per utilizzo abbiamo i peperoncini, il cumino, il fieno greco, la curcuma, i semi di senape nero, l’aglio, coriandolo e zenzero. Posto d’onore per il mix di spezie conosciuto come garam masala: si prepara utilizzando una quantità variabile di spezie tostate e macinate. Tra queste spezie, non possono mancare la cannella, i chiodi di garofano, il cumino, il cardamomo, baccelli di coriandolo; poi, a discrezione, vi si possono aggiungere ingredienti più costosi come peperoncino, aglio, zenzero, senape e finocchio.

Cercherò di dividere qui la cucina indiana in grandi macroaree: divertitevi a cercare la “vostra” cucina indiana di riferimento!

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Ogni baburchi (lo chef, ndr) ha la propria ricetta per il garam masala e la custodisce gelosamente. Il mix può essere aggiunto sia durante la cottura delle ricette, sia a piatto ultimato.

CUCINA INDIANA DEL NORD: probabilmente la cucina più conosciuta al di fuori del Paese. Si caratterizza per un forte utilizzo del latte e suoi derivati: formaggi a pasta molle e fermentati, come lo yogurt e salse a base di questo, ma anche il ghee, il famoso burro chiarificato. Alla cucina del nord appartiene il pane naan così come le samosa (i fagottini fritti e ripieni di patate), ma anche il korma. Molto utilizzato è anche il tamarindo, CUCINA INDIANA OCCIDENTALE: parliamo ora di un grande pezzo d’India che comprende almeno tre Stati. Lo Stato costiero del Maharashtra è famoso


soprattutto per i suoi piatti di pesce e per l’utilizzo dell’onnipresente latte di cocco. Il Gujarat è prevalentemente caratterizzato da una cucina vegetariana e, tra le righe, ha molto subito la vicinanza dell’Impero Cinese, che vi ha trasmesso qui una dolcezza atipica al resto dell’India. Molto diffusi, qui, i chutney. La cucina dello Stato di Goa è famosa prevalentemente per l’utilizzo massiccio della carne, soprattutto maiale e manzo. Lo stato di Goa è quello più vicino al mondo occidentale, visti gli intensi scambi politici e commerciali avuti con il Portogallo in epoca coloniale.

CUCINA INDIANA MERIDIONALE: non particolarmente diffusa all’estero e in Occidente, la cucina indiana meridionale si caratterizza per golosi piatti fritti e alla griglia (e noi, da estimatori griller, non possiamo che apprezzare questa espressione del fuoco). Troviamo, qui, molte versioni del kebab, nonché dolci pregevoli con le albicocche.

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CUCINA INDIANA O R I E N TA L E : q u e s t o ramo è famoso per la sua produzione notevole di dolci. Non vi sarà insolito, infatti, trovare dolci di tradizione indiana orientale sulle tavole dei ristoranti indiani in Occidente. Tra questi, degno di nota è sicuramente il rasgulla: una sfera di semola e formaggio, cosparsa di uno sciroppo di zucchero caldo.


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Il taglio del mese FLAP STEAK /FLAP MEAT


Pur essendo apparentemente un taglio dall’aspetto e dal nome poco invitante, la Flap Meat è il cavallo di battaglia di griller più o meno esperti e di tutti quegli appassionati che hanno avuto la fortuna di incontrare questo taglio. Negli ultimi anni, grazie ai nuovi sviluppi tecnologici, alle ricerche scientifiche di vario tipo, a un’attenta selezione delle razze e al miglioramento dei sistemi e dei metodi di allevamento con conseguente incremento di marezzatura e peso del bestiame di oltre il 25% dal 1970 ad oggi (riferito agli Stati Uniti) è stato possibile dar vita a tante nuove bistecche tra cui anche la nostra Flap Steak. DA DOVE PROVIENE E COSA È ESATTAMENTE Dall’ aspetto molto simile alla Flank o alla Skirt steak, tagli dalle caratteristiche simili con cui confina all’interno della pancia, la Flap Meat o Obliquus Iternus Abdominus è una bistecca abbastanza sottile con le fibre ben accentuate, moderatamente marezzata. Facendo parte del Flank Primal, protetta ma anche un

po’ nascosta da alcuni strati di grasso, possiamo dire che è un estensione della T-bone, motivo per cui spesso in italia, per paura non tagliare troppo corte le bistecche, molti macellai erroneamente lasciano una buona parte della Flap attaccata lungo la lombata fino alla testa del filetto. Come al solito, nelle razze dalla taglia piu piccola e magra, come la maggior parte di quelle allevate in Europa, un taglio come il Flap non e adatto ad essere cucinato a mo’ di bistecca, essendo troppo piccolo, tenace e poco marezzato: spesso nemmeno lo si riesce a trovare in commercio, perché venduto come spezzatino o carne trita. Insieme alle sue “sorelle”, ovvero alla Skirt, alla Flank e qualche volta anche alla Hanger steak (lombatello), con cui a volte viene confusa (molti macellai, un po’ per sbaglio un po’ per comodità le chiamano Flap Meat tutte) è diventata una bistecca molto apprezzata e ricercata negli ultimi anni, anche grazie al suo sapore beefy inconfondibile e al prezzo minore rispetto ad altri tagli. Un errore simile nel nome lo incontriamo se guardiamo la versione francese, dove i medesimi tagli elencati sopra possono essere trovati in vendita chiamati semplicemente Bavette, che tradotto sta per pettorina/bavaglio. Il termine viene usato spesso per le bistecche sottili, ma per essere sicuri che sia l'Obliquus Iternus Abdominus bisogna chiamarla Bavette D'aloyau. Nomi piu comuni : Flap Meat,

Flap Steak, Sirloin Tip, Sirloin Flap, Sirloin Butt Flap, Bistro Steak, Bavette, Bavette D'aloyau, Vacio, ecc. PREPARAZIONE Grazie alla sua diffusione e alla sua più recente popolarità in giro per il mondo, la Flap Steak vanta una grande collezione di ricette e di preparazioni da Paesi e culture gastronomiche diverse. La versione argentina prevede l’uso della Flap per una cottura indiretta abbastanza lenta; quella americana invece prevede una semplice cottura diretta per una medium-rare, oppure una versione asian con una marinatura in stile teriyaki, per uno stir fry indimenticabile. Nel 99% dei casi troverete la Flap steak in vendita da sola, già sezionata dalla pancia. Per preparare il nostro pezzo di carne per la cottura dobbiamo inizialmente capire che taglio abbiamo davanti, se intero o porzionato, e decidere che tipo di ricetta o tecnica di cottura vogliamo usare. Se il taglio è coperto da parecchio grasso e da silverskin (tessuti connettivi esterni) è consigliabile usare un coltello molto affilato per pulire delicatamente la carne onde evitare il rischio che si deformi durante la cottura. Al contrario, se si vuole tenere il silverskin, basta inciderlo leggermente prima di cucinarlo. COTTURA Cuocere una bistecca come la Flap richiede, il piu delle volte, un minimo di accortezza e di esperienza davanti ai fornelli; la tecnica consigliata per questo

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C

osì come la capacità di controllare il fuoco è stata fondamentale per gli uomini fin dalla preistoria, essenziale per la sopravvivenza e per lo sviluppo culturale, allo stesso modo questa rubrica vuole aiutare tutti coloro che hanno una forte passione per la carne e per la buona cucina in generale, arricchendo il loro bagaglio di conoscenze con tecniche, metodi e consigli per migliorarsi.


taglio dipende molto anche dalla marezzatura e dalla frollatura. Un classico della cucina francese, che vede molte volte come protagonisti i tagli della pancia, è la Steak Frites, ricetta che vogliamo proporvi con una contaminazione messicana.

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Dopo aver pulito e porzionato in bistecche da 6/8 cm di larghezza una pezzo intero di Flap, preri-

scaldate il vostro dispositivo; dopo aver preparato dei recipienti con cavolo cappuccio tagliato sottilissimo, avocado, delle olive a pezzetti o altre verdurine croccanti che piu vi piacciono, buttate la vostra carne sulle fiamme roventi pochi minuti per lato cercando di non superare i 55°C/57°C a cuore. Lavate e mondate delle patate e tagliatele tipo paglia per poi

friggerle in abbondate olio di semi e aggiungetele nelle tortillas precedentemente riscaldate insieme alla carne cotta e tagliata a striscioline sottili (sempre controfibra) insieme alle verdure che preferite ed una salsina acidula rinfrescante fatta con olio di oliva, lime, panna acida, delle erbe aromatiche fresche e un pizzico di sale.


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POLLO TANDOORI ...ed è subito India


Il pollo tandoori è una delle preparazioni tipicamente attribuite alla grande cucina indiana ormai esportata in tutto il mondo, grazie alla presenza di ristorantini un po’ ovunque. In realtà, il pollo tandoori ha una storia abbastanza recente. La tradizione vuole che la nascita del pollo tandoori risalga a Kundan Lal Gujral, un indiano che decise di aprire un ristorante, il Moti Mahal a Peshawar, prima che l'India fosse colonizzata dalla Gran Bretagna. Nella fattispecie, la storia sarebbe andata così. Gujral avrebbe provato a cuocere il pollo in un forno tandoor, usato generalmente per la cottura del pane naan, altra preparazione tipica indiana ed immancabile sulle loro tavole e nei loro street food. I tandoor sono particolari forni in argilla, a forma di campana rovesciata ed interrati, alla cui base brucia un fuoco di legna o carbone che può raggiungere temperature infernali anche di 500°C. Gurjal per primo sarebbe stato capace di cuocere il pollo in questo tipo di forno, rendendo croccante l'esterno del pezzo di carne e mantenendo morbido e succulento l'interno. Dopo la decolonizzazione dell'India, il Punjab venne diviso e le zone a est dello stato divennero parte dell'India, mentre le zone ad ovest divennero parte del Pakistan. La città di Peshawar passò quindi sotto il governo pakistano e Gujral, come molti altri profughi, si allontanò dai disordini scappando in India e spostando quindi il suo ristorante a Delhi. Il pollo tandoori impressionò a tal punto il Primo Ministro indiano che lo rese una delle portate regolari dei banchetti ufficiali. La sfilza di personaggi famosi in visita presso il governo indiano che ha provato il famoso pollo tandoori è lunga: tra questi, ritroviamo i presidenti degli Stati Uniti Richard Nixon e John F. Kennedy, il leader sovietico Nikolai Bulganin e Nikita Khrushchev, il Re del Nepal e Mohammed Reza Pahlavi, scià dell’Iran. Come spesso succede, la fama del piatto ha portato a molte varianti, tra cui il pollo tikka e il pollo tikka masala, solitamente presenti nei menu dei ristoranti indiani di tutto il mondo. La carne, che siano ali o cosce, viene marinata nello yogurt e condita con un misto di spezie chiamato tandoori masala. La tipica colorazione rossa della carne viene ottenuta utilizzando la polvere di peperoncino rosso, paprika, pepe di Caienna o peperoncino del Kashmir, mentre una grande quantità di curcuma produce la tipica colorazione arancione. Il pollo tandoori è tradizionalmente cotto ad alte temperature nei forni sopra menzionati; può tuttavia essere preparato anche su un barbecue a carbone sfruttando la nostra amata cottura ibrida, così da ottenere un pollo perfettamente croccante, succoso e cotto a puntino. Nel nostro caso, lo abbiamo accompagnato con il classico pane naan, tipico della gastronomia indiana e diffuso nella quotidianità di gran parte dei Paesi dell’Arabia, così come nei ristoranti di ispirazione indiana diffusi in tutto il mondo. Solitamente, per rendere il naan ancora più goloso, lo si cosparge di burro all’aglio prima del servizio. In questo numero del Magazine abbiamo ben due ricette di pane naan: una è questa, l’altra è dell’immancabile Nerd della Pizza. Avete solo l’imbarazzo della scelta!

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1.

4/6 persone

2.

In una bowl unite lo yogurt, il succo di lime, la paprika, il coriandolo, il garam masala, la curcuma e il pepe nero. Create una pasta con lo zenzero e l’aglio grattugiati e aggiungetela insieme all’olio, quindi mischiate il tutto con una frusta fino ad ottenere un composto omogeneo.

3.

Salate la carne uniformemente e cospargete con la marinatura massaggiando bene tutti i pezzi.

4.

Lasciate marinare in frigo almeno 12 ore.

5.

Per il pane naan unite il lievito, il latte e l’acqua a 30°C e lo zucchero in un bicchiere e mescolate per qualche secondo.

6.

In una bowl impastate la farina con lo yogurt e il composto lievitante preparato in precedenza.

7.

Aggiungete il sale e continuate a lavorare fino ad ottenere un impasto liscio ed omogeneo.

8.

Lasciate raddoppiare in massa a temperatura ambiente, poi stagliate in panetti di circa 80 g.

9.

Al raddoppio stendeteli con un matterello e cuocete su una piastra rovente in ghisa fino a quando non saranno croccanti e bruciacchiati da ogni lato.

6 cosce di pollo 200 g yogurt greco 1 cucchiaio di paprika affumicata 1 cucchiaino di coriandolo in polvere 1/2 cucchiaino di cumino 1/2 cucchiaino di garam masala Peperoncino essiccato(facoltativo) 2 spicchi d’aglio 25 g di zenzero 1/2 cucchiaino di pepe nero Sale q.b. Succo di 1/2 lime 1/2 cucchiaino di curcuma 3 cucchiai di olio di semi Per 12 naan all'aglio 500 g di farina 00 190 g di yogurt greco 10 g di lievito di birra fresco 10 g di sale 60 g di acqua 180 di g latte 10 di g zucchero 2 spicchi d’aglio 100 g di burro coriandolo fresco o cumino

10. Al termine spennellate con abbondante burro fuso e aglio tritato o grattugiato. 11. Per la cottura del pollo predisponete il dispositivo con un setup indiretto e stabilizzatelo sui 180°C/200°C. 12. Affumicate a piacere con le essenze che preferite per un tocco aromatico in più fino ai 72°C al cuore. 13. Trasferite in cottura diretta fino ai 76°C/78°C dando così una crosticina gustosa al pollo. 14. Servite con coriandolo e accompagnate tutto con il naan caldo.

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INGREDIENTI

PREPARAZIONE Rimuovete la pelle dalle cosce e dalle sovracosce di pollo e preparate la marinatura a base di yogurt.


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BEEF KORMA Avete voglia di viaggiare, ma proprio di quelle voglie che vi prendono per mano per portarvi tra i mercatini di street food più buoni del pianeta? Vi capiamo perfettamente: purtroppo il periodo permette ancora poco, ma la cucina ci è d’aiuto. Andiamo in India con un bel beef korma ed il suo sapore intenso e deciso, vi va? Il korma o qorma è una pietanza di origine mediorientale composto da carne (generalmente manzo, pollo o agnello) o verdure brasate con yogurt (dahi) o panna, acqua e spezie per produrre una salsa spessa e corposa. Il nome inglese è un'anglicizzazione della parola qorma in Urdu, che significa "brasare". Si riferisce alla tecnica di cottura utilizzata nel piatto. Nomi come ghormeh (in persiano) o qovurma (o kavarma) in lingua azera, derivano da una parola turca qawirma, che significa "cosa fritta". Il korma indiano non è però correlato in senso culinario al moderno kavurma turco o ad altri piatti che utilizzano la stessa radice, poiché impiegano tecniche e ingredienti molto diversi. Nato come piatto delle grandi occasioni, il sapore di un korma si basa su una miscela di spezie, tra cui i semi di coriandolo macinati e il cumino, unite a yogurt mantenuto al di sotto della temperatura di cagliatura e incorporato lentamente e con attenzione per non far separare la salsa. Spezie e piccante sono tra gli elementi imprescindibili del korma; tra gli ingredienti principali agnello, pollo, capra, manzo, svariati tipi di selvaggina. Non di rado, i korma combinano carne e verdure; tra le preferite, rape e spinaci. Si parla di korma Shahii quando c’è intenzione di “nobilitare” questo piatto, ponendolo sulle tavole aristocratiche. C'è un'ampia variazione tra il classico korma e altre ricette "al curry".

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Si usano spesso peperoncino e zenzero, ma il metodo preciso di preparazione si delinea in sapori molto diversi tra loro. Possono essere aggiunte foglie di alloro indiano, anacardi, mandorle o cocco essiccato, quest'ultimo è un aroma prevalentemente dell’India meridionale. Una variante curiosa è il navratan korma, un korma vegetariano a base di verdure e paneer (un formaggio indiano) o noci; talvolta, vengono inseriti entrambi. Va da sé che non esiste un korma unico per tutto il Subcontinente indiano; il korma dell'India settentrionale è diverso dal Korma indiano meridionale, ma godono entrambi di ottima fama, reputati entrambi decisamente deliziosi. Nell'India settentrionale il korma è un curry bianco poco piccante; nell’India meridionale il korma è costituito da una salsa a base pomodoro molto intensa e piccante. Il servizio del korma avviene solitamente in una grossa zuppiera centrotavola; gli ospiti, seduti per terra, accompagnano il korma con naan, chapati o riso. I tagli migliori da utilizzare sono quelli ricchi di collagene come il reale, la spalla, la punta di petto o comunque sono da preferire le parti anatomiche dell’anteriore.

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Pronti a catapultarvi in India, a modo nostro? Bene, partiamo!

INGREDIENTI 4 persone

600 g di Chuck Roll Steak Usa BLUE OX PRIME Black Angus 1 cucchiaio di concentrato di pomodoro 3 spicchi d’aglio 30g zenzero fresco 1 cipolla dorata 100 g yogurt greco 1 cucchiaino di semi di coriandolo 2 cucchiaini di curcuma 1 cucchiaino di garam masala 1 cucchiaino di peperoncino in polvere 1/2 cucchiaino di cumino 30 g di anacardi un mazzetto di coriandolo burro chiarificato q.b. olio di semi di arachide per friggere


2.

In una casseruola portate l’olio di semi di arachide a 180°C e friggete la cipolla tagliata a julienne fino a che non risulti croccante e dorata.

3.

A questo punto unitela allo yogurt e frullate il composto con un mixer a immersione.

4.

Disponete il vostro dispositivo per una cottura in cocotte di ghisa. Fate risolare la carne tagliata in cubi da 2/3 cm di lato nel burro chiarificato che avrete fatto sciogliere in precedenza.

5.

Salate e quando si è formata la reazione di Maillard aggiungete la pasta aromatica e coprite con acqua calda a filo.

6.

Mettete il coperchio e lasciate cuo cere fino a quando tutto il connettivo si sarà trasformato in goduriosa gelatina.

7.

A questo punto togliete il coperchio e fate ridurre il sugo di cottura. Unite lo yogurt e lasciate cuocere un altro minuto.

8.

Servite con gli anacardi tostati e del coriandolo fresco.

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1.

PREPARAZIONE In un blender preparate la pasta aromatica unendo l’aglio, il concentrato di pomodoro, lo zenzero pelato e tagliato in pezzi, le spezie tostate in padella e frullate fino ad ottenere un composto omogeneo e profumato.


Curry curry… uaglio’

RISO AL CURRY

Il riso al curry è una specialità del Sud Est asiatico; negli ultimi trent’anni – cioè il lasso di tempo durante il quale ci siamo trasformati in una succursale di Bollywood, ovviamente in maniera positiva – è diventato praticamente un piatto onnipresente anche nelle cucine di ogni giorno, delle nostre case. Il riso al curry è un piatto facile, profumatissimo e probabilmente – visto l’utilizzo del riso – lo riteniamo anche poco calorico e quindi si tende ad inserirlo in regimi alimentare anche “più particolari”. La qual cosa è decisamente sbagliata, visto che il riso al curry viene condito un bel po’.

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Andiamo a vedere da vicino cos’è il riso al curry, sfatiamo alcuni miti ed ovviamente vi diamo la ricetta definitiva che userete per sempre. Non ringraziateci, ma pensateci ogni tanto. IDENTIKIT DEL RISO AL CURRY Siamo stati imprecisi nel presentarvelo: il riso al curry è una specialità diffusa in tutto il Subcontinente indiano, che non comprende solo l’India ma anche Sri Lanka e Bangladesh. Profumi, odori e sapori di queste cucine si confondono inducendoci una… gran fame. Esistono tanti tipi di riso al curry, laddove il curry non è soltanto la spezia famosa che tutti noi conosciamo, ma una vera e propria preparazione a sé. Il curry può essere vegetariano, di carne, di pesce: è una preparazione effettuata a parte che


1.

Per prima cosa, mettere in una padella dai bordi alti due cucchiai di olio extravergine d’oliva, schiacciate le capsule di cardamomo e i chiodi di garofano. Dopo aver lasciato rosolare qualche istante a fuoco lento, inserite le foglie di curry (o di alloro, qualora non le abbiate trovate), e la curcuma.

2.

Pian piano, potete inserire il riso basmati. Abbiate cura di mescolare con energia e velocemente, in modo che il riso abbia modo di assorbire gli ingredienti.

3.

Inserite l’acqua a filo, in modo da coprire il composto; aggiungete sale quanto basta e, a pentola coperta e fuoco dolce, portate a termine la cottura del riso con le spezie.

4.

Nel frattempo, in un’altra padella, versate i due cucchiai di olio extravergine d’oliva che ci sono rimasti.

5.

Tagliate il pomodoro a listarelle, la cipolla e schiacciate l’aglio e la radice di zenzero

6.

Inserite nella padella le listarelle di pomodoro, la cipolla a fettine, l’aglio schiacciato, lo zenzero, la curcuma e la cannella. Lasciate soffriggere tutto per qualche minuto, stando bene attenti che non si bruci nulla altrimenti il sapore amarissimo non ve lo toglierà nessuno dalla testa.

7.

Regolate di sale, se ne sentite il bisogno. Con tutte quelle spezie, probabilmente non ce ne sarà bisogno.

8.

Arriva il momento del latte di cocco: aggiungetelo a filo.

9.

Dopodiché, riversate tutto il composto nella padella contenente il riso. Qui vi toccherà mescolare con una certa energia, affinché il latte si incorpori bene con il riso.

appunto prevede carne, pesce e mix di spezie (cardamomo, cumino, coriandolo, zenzero tra gli altri). Il riso viene servito a parte, solitamente bollito in acqua oppure in latte di cocco. Talvolta, può anche essere servito come riso fritto. È un piatto completo: questo significa che spesso viene servito come piatto unico. Solitamente, è servito in ciotole piccole che vengono subito rimpinguate non appena queste si svuotano. Il riso al curry che andremo a preparare insieme è una variante diffusa principalmente in Sri Lanka, dove viene appunto servita come modalità “salvapranzo”: facile da fare e poco dispendioso. C’è solo da prestare attenzione alla preparazione del riso e del condimento. Zerosbatti, insomma.

INGREDIENTI 6 persone

500 g di riso basmati 1 pomodoro ben maturo 20 grammi di zenzero fresco 1 cipolla ½ aglio 4 chiodi di garofano 4 capsule di cardamomo 1 cucchiaino ben colmo di curcuma 2 g di cannella 1 cucchiaino di peperoncino in polvere 5 foglie di curry essiccato (se non le trovate, 5 foglie di alloro secco andranno benissimo) 200 mi di latte di cocco 4 cucchiai ben colmi di olio extravergine d’oliva sale q.b.

10. Trasportate il vostro riso al curry ormai pronto su un piatto da portata centrale, oppure in ciotoline singole per ogni commensale.

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PREPARAZIONE


Se non possiamo viaggiare, è lo street food orientale che viene da noi!

SAMOSA

Siamo in astinenza da viaggi: su questo non ci piove. Ci manca provare cucine di altri Paesi, perderci nei mercati delle capitali del mondo oppure nell’ultimissimo villaggio, alla ricerca di quel food-truck-là consigliato dall’addetto alla reception del vostro b&b, per provare il “vero” panino della zona. In attesa che il mondo si riorganizzi per bene a questa nuova normalità, che ci permetterà nuove e fantastiche avventure gastronomiche, portiamo il mondo a casa nostra. Ci proviamo, in questo pezzo, con i samosa: gustosissimi snack tipici dell’India, facili da fare e che avranno la capacità di catapultarvi direttamente in un’altra dimensione. Quando pensiamo alla cucina indiana, dobbiamo innanzitutto fare due distinzioni principali.

individuale, cosa da non sottovalutare in questo periodo – in attesa delle portate principali. Passiamo ora alla migliore ricetta per i samosa che possa capitarvi sotto mano. La versione originale prevede che siano vegetariani; noi vi possiamo suggerire (a vostra discrezione) un po’ di punta di petto per insaporire, magari qualcosa avanzato da precedenti preparazioni. Insomma, a vostra discrezione.

La cucina indiana del Nord: qui si usa principalmente più carne e meno spezie, anche grazie alle influenze provenienti dai Paesi confinanti come Cina, Pakistan e Nepal. La cucina indiana del Sud: ritroviamo, qui, una maggiore concentrazione di spezie ed una prevalenza di cucina vegetariana, probabilmente anche a causa delle varie correnti buddhiste che qui hanno avuto modo di nascere (e qualcuna anche di essere importata da Paesi come la Cina, tipo). Nei ristoranti – soprattutto quelli occidentali – non c’è distinzione tra cucina del Nord e del Sud, ma quasi senza saperlo c’è una netta prevalenza di piatti provenienti dal Sud, con la presenza di piatti carichi di spezie e spesso a base di riso.

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Ma torniamo ora ai nostri samosa. Che forma hanno e come sono fatti? Sono letteralmente dei piccoli finger food triangolari di pasta fillo (oppure con una pastella di farina, olio e sale), variamente farciti e successivamente fritti. Sono popolarissimi nel loro Paese natio e – dobbiamo dire – godono di buona popolarità anche nelle rappresentanze ristorative indiane nel nostro Paese. Pare che i samosa siano originari dell’Asia Centrale. Abbiamo testimonianze di fagottini ripieni e fritti già a partire dall’anno Mille: facile pensare come una bontà del genere si sia diffusa rapidamente in tutta l’Asia e – con le opportune varianti – in tutto il Mediterraneo. Qui su BB4All le cose farcite e fritte ci piacciono tantissimo. Poi amiamo gli antipasti. Poi amiamo il finger food. Poi amiamo mangiare insieme agli altri. I samosa potrebbero rappresentare un modo divertente di viaggiare attraverso il cibo, nonché uno spezzafame ideale – ed

INGREDIENTI 8 persone

per l'impasto 500 g di farina 00 200 ml di acqua 50 ml di olio di semi di arachidi sale marino q.b. per la farcitura dei samosa 700 g di patate 200 g di piselli 1 cucchiaino di peperoncino ½ cucchiaino di curcuma 30 grammi di zenzero fresco cumino a piacere coriandolo a piacere 1 cipolla intera 1 aglio intero olio di semi di arachidi q.b. (per la frittura) sale q.b.


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IMPASTO

ASSEMBLAGGIO

1.

Per i samosa, faremo l’impasto più facile del mondo. Mettete in una ciotola molto capiente la farina opportunamente setacciata, olio di semi d’arachidi e sale.

14. Tirate fuori la palla di impasto dal frigo e disponetela sul piano di lavoro. Attendete per circa 20 minuti prima di iniziare a stenderla con un matterello.

2.

Successivamente, mentre la pasta inizia pian pian ad amalgamarsi, unire l’acqua a filo ed iniziare a lavorare più energicamente.

15. Stendete bene la pasta con il mattarello.

Quando gli ingredienti saranno ben amalgamati tra di loro, formate una palla di impasto liscia.

17. Prendete il ripieno ormai freddo.

3.

4.

Lasciatela nella ciotola, copritela bene con pellicola e lasciatela riposare in frigo per circa un’ora.

FARCITURA 5.

Per prima cosa, lessate le patate in acqua salata. Ci vorrà una mezz’oretta abbondante, in modo tale da potervi dedicare con calma a tutti gli altri ingredienti.

18. Riempite ogni quadrato con un cucchiaio abbondante di ripieno (abbondate pure, abbondate pure…) 19. Chiudete i samosa in questo modo: uno spigolo del quadrato dovrà “baciarsi” con quello opposto. Schiacciate per bene i bordi, onde evitare la fuoriuscita (e quindi, successiva bruciatura) del ripieno. COTTURA E SERVIZIO

6.

Preparate il vostro mix di spezie: peperoncino e curcuma in questo caso. Tritate finemente lo zenzero.

20. Prendete una casseruola di quelle adatte alle fritture e riempitela con abbondante olio di semi d’arachide. Non lesinate: meno olio ci sarà, più facile sarà bruciare i nostri samosa.

7.

Non dimenticatevi delle patate: dopo averle lasciate raffreddare, schiacciatele in maniera uniforme.

21. Quando l’olio sarà a temperatura, calate nella casseruola un samosa alla volta, aiutandovi con la schiumarola per girarlo.

8.

In una padella, aggiungete l’olio di semi di arachidi; tritate l’aglio e mettetelo a rosolare.

22. Il samosa è pronto quando sarà dorato su tutti i lati.

9.

Affettate la cipolla sottilmente.

23. Servite caldissimi, a prova d’ustione, magari accompagnando il tutto con una bella birra lager gelata a testa.

10. A fuoco bassissimo, iniziate ad aggiungere lo zenzero tritato, il peperoncino e la cipolla. 11. A questo punto, aggiungete le patate precedentemente schiacciate ed iniziate a mescolare tutto energicamente per circa 6 minuti. 12. In ultimo, aggiungete i piselli e mescolate ancora finché il composto non vi sembrerà omogeneo in ogni suo punto; per questo, occorrerà lavorarci almeno una decina di minuti. A fuoco spento, aggiungete cumino e coriandolo a piacere (andateci piano però, ché speziano parecchio). Dopodiché. dovrebbe essere abbastanza aromatico e, quindi, non necessitare di ulteriore sale. 600 - Almanacco 2021

16. Formate dei quadrati di circa 10 cm per lato. Dovranno essere otto.

13. Lasciate il ripieno a raffreddare fino all’assemblaggio dei samosa in una ciotola coperta.

CONSIGLI ULTERIORI Come potuto notare, i samosa sono pressoché personalizzabili in qualunque modo. Vi abbiamo suggerito anche di usare del brisket avanzato da qualche ricetta, che va in quel caso inserito nel momento in cui andate a rosolare patate e piselli in padella. Si può anche personalizzare la varietà delle verdure desiderate: c’è chi ad esempio offre samosa con ceci e lenticchie, oppure con un bouquet di spezie più forte. Ad esempio, c’è chi aggiunge il famoso garam masala, il miscuglio di spezie indiano formato (tra gli altri) da cardamomo, cumino, cannella, aglio e zenzero adeguatamente tostato e tritato in proporzioni differenti. Se non avete voglia di prepararlo da soli, solitamente è in vendita in bustine nei negozi di alimentari, settore cibo del mondo.


Le zucchine sono zucche piccole, e questa non è una battuta.

ZUCCHINE TONDE DI NIZZA

RIPIENE ALLA LIGURE

Cucinare con le zucchine è facilissimo, ma per valorizzarle sul serio occorre saperle distinguere. Noi abbiamo catalogato almeno 16 varietà: Ci sono le zucchine tonde semplici da cucinare ripiene, Tonde di Nizza (gusto particolarmente dolce), zucchine di Piacenza (sembrano implorarci di farle ripiene), di Firenze (perfette per un ripieno di riso), ci sono le classiche nere di Milano (molto tenere, perfette anche crude), il Zucchino Romanesco (saltate in padella rendono il massimo), Zucchino ortolano di Faenza (fantastiche per creme vellutate), Zucchine lunghe fiorentine (dal gusto molto saporito, ottime fritte o trifolate), Zucchino Siciliano (consistenza della polpa spugnosa, adatte a stufato o in umido), Zucchina striata di Napoli (perfetta per antipasto o contorno), le bianche di Trieste (sapore delicato, anche cruda o per una crema aromatizzata), Zucchina Pugliese (piena di gusto e versatile), Zucchina trombetta di Albenga (dolcissima, deliziosa a dadini e rosolata), le pâtisson che sembrano dei piccoli dischi volanti (bellissime ripiene o cotte a vapore), Zucchino giallo (polpa estremamente dolce, magnifiche per una vellutata), Zucchino giallo friulano (sapore particolarmente dolce e delicato) e le Crookneck, dall’aspetto vagamente inquietante (molto dolci) Non solo verdi e di forma allungata dunque: il mondo delle zucchine è quanto mai variegato, insomma ad ognuno la sua zucchina.

INGREDIENTI 4 persone

4 zucchine tonde di Nizza 2 patate una cipolla bianca 100 g di prosciutto cotto un uovo Sal’s Seasoning Montreal Rub q.b. Parmigiano grattugiato q.b. olive taggiasche a piacere pinoli a piacere sale e pepe q.b. un bicchierino da caffè di birra

601 - BBQ4All Magazine

Nonostante quelli che chiameremo “tipi di zucchine” siano tantissimi, assai differenti tra loro per aspetto e gusto, appartengono (quasi) tutti alla specie Cucurbita pepo dalla tenera polpa. Quelle che noi chiamiamo zucchine, insomma, sono nella maggior parte dei casi Cucurbita pepo, talvolta cucurbita moschata: zucchine, nel vero senso della parola, perché raccolte prima che si facciano grandi (e magari insipide) o perché caratterizzate dalla forma oblunga, magari dal colore verde. Nel vostro supermercato di fiducia probabilmente sono lisce, spesse e di colore verde scuro. Se abitate a Roma è più facile trovarle corte, striate e con un bel fiore all’estremità. Se sei un coltivatore avventuroso infine, nel vostro orto potrebbero inavvertitamente crescere gialle, rugose e di forma bizzarra. I tipi di zucchine sono davvero tanti, ma la sostanza è sempre quella.


602 - Almanacco 2021

PREPARAZIONE 1.

Per prima cosa accendete un letto di braci in modo da porre la cipolla in ember roasting (20/30 minuti rigirandola); stessa sorte per le patate, ma in questo caso avvolgetele in un cartoccio di alluminio ben chiuso con un bicchierino di birra all’interno; passato il tempo (circa mezz’ora) aprite un involucro e testate con uno stecchino se la consistenza è morbida, altrimenti continuate con la cottura.

2.

In una casseruola piena di acqua salata andate a portare ad ebollizione le zucchine per circa 15 minuti, facendo attenzione a non farle stracuocere: devono rimanere di una consistenza compatta. Successivamente, con un coltello tagliate il cappello delle zucchine e aiutandovi con un cucchiaino scavate l’interno delle cucurbitacee, mettendo la polpa in una ciotola per il mixer e scolate il liquido in eccesso.

3.

Sbucciate le patate e la cipolla, eliminando le parti bruciate. Aggiungete alla polpa delle zucchine le patate, la cipolla, il formaggio grattugiato, il prosciutto tagliato a pezzetti, un cucchiaino di Rub Montreal, sale, pepe, olive e pinoli insieme a un uovo; con il mixer tritate finemente il tutto fino ad ottenere un composto omogeneo.

4.

Farcite le zucchine decorandole con dei pinoli e delle olive.

5.

Settate il dispositivo per una cottura indiretta sui 180°C e cuocete per circa 45 minuti a coperchio chiusi, affumicando leggermente con legno al whisky.


603 - BBQ4All Magazine


TORTA SALATA la ricetta del griller perfetto

Lunga vita al pasticium: a partire dal XIII secolo che il pane cominciò a riempirsi di ogni sorta d'ingredienti, carne, pesce, ortaggi erbe, uova, formaggi, secondo la stagione e l'offerta del mercato, le possibilità e i gusti di ciascuno, le tradizioni e gli usi locali. Da qui in poi, abbiamo una vastissima letteratura riguardante le torte ripiene, sia dolci che salate. Ci concentreremo, qui, su quest’ultime, gusci ripieni di ogni prelibatezza carnivora e non. Il pasticium in latino sta infatti ad indicare una torta salata ripiena di carne o verdure preparata partendo da farina, acqua e strutto. Bartolomeo Scappi, il più grande cuoco italiano del Rinascimento ha lasciato nel suo ricettario del 1570 una vastissima raccolta, quasi un'antologia di ricette locali. Queste ricette erano diffuse più o meno lungo tutto lo Stivale, con il nome di «torte rustiche» oppure ancora «torte salate ». Volete altri nomi? Pastelli, pasticci, coppi: ogni zona ne aveva uno, insomma. L’anatomia della torta salata non è stata sempre uguale nel tempo. Nel Medioevo la crosta esterna si preferiva dura e non veniva mangiata; più tardi la si rese commestibile, usando diversi tipi di impasti per realizzare la pasta delle torte salate in base alle tradizioni regionali. Ad oggi, esistono diversi “impasti” che fungono da ottimi involucri per i ripieni delle nostre torte salate: la pasta matta, la pasta brisée, la pasta sfoglia e la pasta frolla, le potete fare da voi oppure trovarne già pronte e con diverse qualità di farine e forme.

INGREDIENTI 4 persone 1 rotolo di pasta sfoglia tonda 600 g di mix di carne: 1 Burger Blue OX, 2 Chorizo Casero, 1 Pork Sausage Cheddar Jalapeno. 25 listelli sottili di speck 250 g di prosciutto cotto affumicato una scamorza affumicata 4 peperoni una cipolla 4 zucchine 2 patate un mazzetto di asparagina un uovo 2 cucchiai di salsa BBQ 3 cucchiai di pangrattato 1 cucchiaio di Sal’s Seasoning Rub Mount Nimba sale q.b. un cucchiaino di birra un cucchiaino di aceto di mele un cucchiaino di Brandy

Generalmente, la torta salata può costituire un piatto unico in quanto è completa di ogni nutrimento. Di solito, però, viene servita come antipasto o contorno durante un buffet o una cena in compagnia. Quante volte uno “spicchio” di torta salata ci ha salvato la giornata fuori, la gita al mare, il picnic improvvisato? E ancora, grazie alla loro versatilità, costituiscono un salva cena quando non si sa bene come impiegare un certo ingrediente o cosa preparare in tempi ristretti, in definitiva è un piatto versatile e possiamo farcirla come più ci fa piacere. C’è la versione foodporn della torta salata, quella bon ton e poi c’è la torta salata del griller: l’ingrediente principale sarà un bel mix di carne dal nostro Megastore.

604 - Almanacco 2021


605 - BBQ4All Magazine


PREPARAZIONE 1.

2.

Pulite le verdure, utilizzando ovviamente solo le parti non bruciate.

3.

Mettete in un mixer le zucchine e le patate a pezzetti, il prosciutto, un po’ di cipolla qualche asparago e il peperone, il rub tostato nel pangrattato e l’uovo: tritate finemente fino ad ottenere un composto omogeneo.

4.

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Per prima cosa prendete le verdure e andatele a cuocere in ember roasting (direttamente sulle braci accese): i peperoni e la cipolla così come sono, le patate in cartocci di alluminio con birra all’interno, le zucchine in cartocci di alluminio con aceto di mele all’interno, gli asparagi in cartoccio di alluminio con Brandy all’interno.

Adagiate la pasta sfoglia sulla padella da grill (chiamata anche bastarda) in ghisa e aggiustatela per bene; prendete le fette di speck e

mettetele tutto in torno ai bordi della padella, lasciandole sbordare quanto basta per riuscire a richiuderle sul ripieno. Mettete all’interno il mix di carne macinata, create sopra uno strato di peperoni, fette di cipolla e asparagi. 5.

Versate sopra a tutto la crema di verdure e concludete con dei pezzi di scamorza affumicata.

6.

Ripiegate le fette di speck verso il centro in modo da ricoprire il ripieno della vostra torta, chiudete i bordi della pasta sfoglia e spennellate lo speck con la salsa BBQ.

7.

Settate il dispositivo per una cottura indiretta ad una temperatura di 180°C, posizionate la padella e affumicate per i primi minuti con legno di faggio, chiudendo il coperchio del dispositivo. Dopo circa 45 minuti la vostra torta salata sarà pronta e potrete servirla ai vostri ospiti.


Sapore di mare, sapore di Rosso

DA MAZARA

TAGLIATELLE DI GAMBERO 4 persone

Per l’Assoluto di Gambero due cucchiai di trito di sedano, carote e cipolle due cucchiai di olio extravergine di oliva le teste e i carapaci dei Gamberi Rossi di Mazara mezzo bicchiere di cognac mezzo cucchiaio di concentrato di pomodoro mezzo lime abbondante ghiaccio Per le tagliatelle mezzo kg di pasta di semola di grano duro 5 uova 250 g di polvere di gambero Per finire un cucchiaio o due di Assoluto di Gambero 300 g di burro la scorza di un limone sale e pepe q.b.

Allo Zio l’idea è venuta perché voleva esaltare il sapore inconfondibile del Gambero Rosso in un primo piatto che fosse condito con pochissimi ingredienti: solo burro, al massimo un cucchiaio di bisque, per portare in tavola una preparazione gourmet e raffinata, bella da vedere, essenziale e al tempo stesso perfettamente rotonda e appagante. Una bella mattina, quindi, Gianfranco Lo Cascio ha preso ciò che rimaneva dei gamberi dopo la bisque (che vi ricordiamo noi abbiamo chiamato Assoluto) e ha pensato bene di seccare nel forno tutti gli scarti; successivamente li ha resi una polvere e con quella ha realizzato delle tagliatelle. La delegazione del BBQ4All Magazine era presente all’assaggio. Già solo il colore era uno spettacolo per gli occhi. Il sapore, indescrivibile. Come se il mare avesse vivesse in una tagliatella. Non vi aspettate un sapore esplosivo, di quelli che detonano in bocca, quanto piuttosto un gusto delicato che si rivela piano piano e a ogni boccone si intensifica. Probabilmente troverete un po’ di difficoltà nel lavorare la pasta, poiché la polvere la renderà meno elastica di ciò che vi aspettate e dovrete ripassarla più volte nella sfogliatrice. Non demordete, e otterrete delle tagliatelle uniche sia nell’aspetto che nel sapore. Nel frattempo tenete a portata di mano il vostro Assoluto di Gambero Rosso, il burro e l’immancabile limone. Vi ritroverete la Sicilia nel piatto, prima, nel cuore e nei ricordi, dopo. Come è successo a noi. Non provateci con un altro tipo di gambero: non avrebbe senso.

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INGREDIENTI

Parliamo ancora di tagliatelle, che ultimamente sono molto amate dallo Zio. E’ facile infatti arrivare a casa sua ed essere accolti da un Gianfranco sorridente – credeteci, è così- intento a sperimentare, impastare, tirare e stendere kg e kg di pasta. Oggi, dunque, siamo qui a parlarvi di un nuovo, felice e riuscito esperimento: le tagliatelle di Gambero Rosso di Mazara del Vallo. Occhio ai dettagli e soprattutto alle preposizioni: non al, ma di. Vi abbiamo illustrato più volte quanto il nostro amatissimo amico crostaceo mazarese sia un cibo prelibato di cui non si butta via praticamente nulla, ma stavolta andiamo oltre, facendovi vedere come poter usare lo scarto dello scarto.


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PREPARAZIONE Pulite i gamberi e tenete da parte le teste e i carapaci; a questo punto potete cominciare a preparare la bisque che noi abbiamo chiamato Assoluto di Gamberi (il procedimento dettagliato è riportato nel numero di Dicembre 2019 del BBQ4All Magazine);

e le uova. Cominciate a lavorare l’impasto e poi formate una pallina, copritela con pellicola trasparente e fatela riposare per mezz’ora in un luogo asciutto. 7.

Tirate la pasta con la sfogliatrice; probabilmente serviranno più passaggi affinché le sfoglie raggiungano la consistenza adatta per formare le tagliatelle. Le sfoglie alla fine dovranno avere circa 1,5 mm di spessore. A questo punto tagliatele per formare le tagliatelle, che dovranno essere alte circa 5 mm. Mettetele infine ad asciugare su uno stendipasta in modo che non si sovrappongano tra loro.

2.

In una padella, fate soffriggere il trito di verdure e poi spadellate tutte le rimanenze dei gamberi a fiamma alta. Sfumate col cognac.

3.

Evaporato l’alcol, aggiungete il concentrato di pomodoro, la spremuta di mezzo lime e il ghiaccio, in modo che i carapaci e le teste non si brucino in cottura;

4.

Fate ridurre il tutto, frullatelo con un mixer a immersione e filtratelo con un colino cinese, ottenendo un concentrato molto denso.

8.

5.

Prendete le parti solide della rimanenza della bisque, schiacciatele e mettetele in forno ad asciugare a una temperatura di circa 70°C, in modalità ventilata. Quando tutto sarà perfettamente secco, riducetelo ad una polvere, macinandolo.

In una padella scaldate il burro, aggiungete l’assoluto di gamberi e nel frattempo fate cuocere le tagliatell in abbondante acqua salata, tenendovi poi da parte un po’ dell’acqua di cottura.

9.

Fate saltare le tagliatelle nel burro e nella bisque, rigirandole con energia e eventualmente aggiungendo un poco d’acqua di cottura. Aggiustate di sale e di pepe, completate con una generosa grattugiata di scorza di limone e servite.

6.

Formate la fontana con la farina su una spianatoia e aggiungete la polvere di gambero

609 - BBQ4All Magazine

1.


Love me tender... loin

LOMO AL TRAPO

TENEREZZA SOTTO LA CROSTA Viene presentata ufficialmente come una ricetta colombiana ma, in realtà, facendo qualche breve ricerca l’origine del lomo al trapo non è così certa. C’è chi dice Colombia, chi Argentina, chi Uruguay. Sappiamo comunque, di sicuro, che si tratta di una preparazione tipica dell’America latina. Il nome, letteralmente, significa filetto alla stoffa, e già da questo si capisce più o meno dove si vada a parare: un pezzo di ciccia, tendenzialmente il filetto, condito con pochi ingredienti (sale e qualche spezia) poi avvolto dalla pezza di cotone dentro la quale viene cucinato. Va messo a contatto diretto con le braci, e i cuochi latinoamericani non transigono su questo: dimenticatevi di poterlo fare nel forno, o sul gas! tuonano- perché la stoffa di cotone deve bruciarsi e il sale deve formare una crosta.

610 - Almanacco 2021

No, se vi state preoccupando che il vostro panno di cotone prenda fuoco, state tranquilli: prima di avvolgere la carne nella stoffa, quest’ultima deve essere inumidita, in modo che si annerisca senza fare fiammate. La carne comunque sarà protetta all’interno sia dal cotone che dallo strato di sale, quindi non avete di che preoccuparvi. COSA VI SERVE? In realtà, sia gli ingredienti che gli accessori per questa ricetta sono davvero ridotti; tuttavia la sua preparazione è scenografica e fa sempre un certo effetto sui commensali. Procuratevi un bel pezzo di ciccia che sia di ottima qualità. Ok, dai, sappiamo già dove

potete trovarlo. Noi abbiamo optato per un Filetto irlandese Emerald Green Crossbreed del Megastore. Conosciuto anche come tenderloin o grande psoas, poggia sul quarto posteriore dell’animale, è tenero e saporito, anche grazie perché si tratta di un muscolo che rimane totalmente a riposo, conferendo alla carne una morbidezza estrema. Dopo aver quindi deciso quale sarà il tipo di ciccia che finirà sulle braci, dovete procurarvi una tela di cotone abbastanza grande da avvolgere il Tenderloin, il sale grosso e una sonda. Praticamente il gioco è fatto. CHE FINE FA LA REAZIONE DI MAILLARD? Stiamo parlando di un pezzo di carne avvolto nel sale e successivamente nella tela di cotone: probabilmente vi starete chiedendo cosa succeda alla tanto agognata crosticina della quale vi abbiamo parlato fino allo sfinimento. Nella ricetta originale non è presente, come probabilmente avrete intuito: una volta cotto, il filetto viene tolto dalla crosta e affettato subito. Sappiamo che vi stiamo chiedendo molto, ma in questo caso dimenticatevi la Maillard e cercate di accettare lo strato di mouse ring (lo strato di carne grigia intorno al cuore rosato) che molto probabilmente avrete. Abbiamo deciso di cuocerlo come tradizione latinoamericana comanda e quindi ce ne siamo proprio fregati. E poi magari, chissà, abbiamo lanciato il guanto di sfida al nostro Zio, che forse in futuro tirerà fuori dal cappello una delle sue ricette scientifiche per insegnarci come fare un perfetto lomo al trapo.

INGREDIENTI 4 persone

Filetto Irlanda Emerald Green Crossbreed da circa 1,5 kg sale grosso q.b. 1 litro di vino bianco o di birra origano a piacere un pezzo di stoffa (cotone) abbastanza grande per poter avvolgere il filetto spago da cucina


611 - BBQ4All Magazine


PREPARAZIONE 1.

Cospargete il filetto di sale grosso e origano, in modo da formare uno strato uniforme.

2.

Bagnate bene il pezzo di stoffa nel vino o nella birra (o se volete va bene anche la sola acqua), strizzatelo bene e poi avvolgetelo intorno alla carne legando il tutto con lo spago da cucina, bagnato anch’esso nel liquido scelto.

612 - Almanacco 2021

3.

Accedente il carbone nel vostro dispositivo e poi appoggiate il vostro fagotto direttamente sulle braci: abbiate cura di rilevare la temperatura al cuore della carne, servendovi di un termometro a sonda. Rompete la stoffa e infilzate la ciccia. C’è chi dice che si possa andare anche “a braccio”, senza usare il termometro visto che la carne è avvolta dalla pezza: leggenda vuole che ci

vogliano circa 20 minuti per ogni kg di carne (10 per lato) ma come abbiamo detto siamo nella sfera delle leggende e non delle notizie certe. 4.

Dopo qualche minuto, quando vedrete che il panno a contatto con le braci si è completamente annerito, girate il fagotto dalla parte opposta: continuate la cottura fino a quando non avrete raggiunto i 55° al cuore (non superateli se siete amanti della ciccia cotta bene e non ben cotta!)

5.

Togliete dal fuoco il fagotto, liberate il filetto dal panno di cotone e poi rompete la crosta di sale.

6.

Affettate la carne e gustatevi questa preparazione così affascinante e scenografica. Potete servirla con una salsa piccante, con una chimichurri o con delle semplici patate.


Un porco al cuore

COXINHA Vengono presentati spesso come gli arancini brasiliani (sulla diatriba arancino-arancina ci siamo espressi in passato, quindi sarebbe più giusto dire le arancine brasiliane, ma non saremo così puntigliosi): si tratta della coxinha, un tipico antipasto del Brasile che, data la forma, ricorda una coscina di pollo. Popolarissimo, gustosissimo, frittissimo, questo piatto è realizzato di solito proprio con la carne economica del pennuto che ben conosciamo. Alcuni storici datano la nascita della coxinha de frango nel diciannovesimo secolo, durante l’industrializzazione di San Paolo: sarebbe nata per essere consumata e servita come alternativa più economica delle cosce di pollo. Secondo altri, invece, questi simil-arancini sarebbero nati da un capriccio del piccolo erede al trono della famiglia reale brasiliana, che voleva mangiare le cosce di pollo anche quando non erano disponibili: il cuoco di corte avrebbe studiato questo piccolo inganno per far felice il pargolo pretenzioso. Come ogni preparazione al mondo, anche questa conosce delle varianti: preparata di solito farcendo con un ripieno di carne e verdure una pasta a base di burro, farina e uova che poi viene passata in pastella e fritta, in realtà può contenere, oltre alla carne di pollo, anche altri ingredienti come patate, piselli, funghi e talora formaggio cremoso. Sorvoliamo sulla versione vegetariana (non è un posto per veg, questo Magazine) e concentriamoci su quella in stile BBQ4All.

Ma sappiamo anche quanto tempo serva per cucinarlo. Parliamo di una decina di ore. Spesso è un’occasione di divertimento estremo, da condividere con gli amici, ma anche di sfida con se stessi alla ricerca della perfomance sempre più professionale in griglia.

613 - BBQ4All Magazine

Abbiamo parlato spesso di pulled pork, sia qui che sulla Community Facebook, che su nostro sito. Sappiamo ormai tutto di lui: da dove nasce, quali siano i parametri per farne uno perfetto; conosciamo tutti i passaggi per cuocerlo alla perfezione e per servirlo succoso e morbidissimo.


614 - Almanacco 2021


Il problema di questo tipo di prodotto, però, è che spesso è deludente: ti ritrovi nel piatto o nel panino una pappetta insapore che ha solo un vago, vaghissimo, ricordo del pulled pork spaziale che sei abituato a mangiare. Ebbene: noi abbiamo la soluzione spaziale e comoda: il pulled pork già pullato. Di cosa si tratta?

PREPARAZIONE 1.

In un tegame versate due cucchiai di olio extravergine di oliva, aggiungete 40 g di cipolla tritata e lo spicchio di aglio tritato. Lasciate rosolare per cinque minuti poi aggiungete il pulled pork, il prezzemolo e la passata di pomodoro; fate cuocere per altri cinque minuti. Aggiustate eventualmente di sale e lasciate raffreddare.

2.

In un tegame versate il brodo vegetale e aggiungete il burro, poi portate a bollore; quando compariranno le prime bollicine aggiungete la farina a pioggia mescolando energicamente con una frusta fino a ottenere un composto molto denso; continuate a mescolare per far asciugare un po’ l’impasto. A questo punto versate il composto su una spianatoia, appiattitelo, copritelo con la pellicola trasparente a contatto e lasciatelo raffreddare.

3.

Tirate il composto col matterello fino a uno spessore di mezzo cm e tagliatelo con un coppapasta circolare del diametro di circa 8 cm, per ottenere circa 30 g di impasto a disco.

4.

Schiacciate con le mani l’impasto per allargarlo un po’ e mettete all’interno un cucchiaio di ripieno, poi richiudete la pasta dandole una forma a goccia. Procedete così fino a terminare gli ingredienti.

5.

Passate ogni pezzo nell’uovo sbattuto e poi ricopritelo di pangrattato, procedendo allo stesso modo per impanarli tutti.

6.

Scaldate l’olio di arachide fino a una temperatura di 175°C, poi immergetevi 2-3 coxinhas alla volta e friggetele fino ad avere una bella doratura; scolatele su dei fogli di carta assorbente da cucina e gustatele ancora calde.

Sono strisce da tre buste termoformate da due porzioni, per rendervi la vita davvero semplice semplice. Basta prendere un pentola con acqua fredda, infilarci dentro la busta con tutta la plastica, portare il tutto a bollore e segnere il fuoco non appena inizia a bollire. A quel punto basta aprire la busta "apri" ed è già pronto da mangiare, oppure da utilizzare come in questo caso per una ricetta super gustosa. Fidatevi, è – davvero - spaziale. Ne diventerete dipendenti. Adesso non ci resta che preparare insieme queste coscine di porco, totalmente a modo nostro!

INGREDIENTI 4 persone

una busta da 300 g di Smoked Pulled Pork del Megastore uno spicchio d’aglio olio extravergine di oliva q.b. 40 g di cipolla 60 g di passata di pomodoro prezzemolo tritato q.b. sale q.b. per l’impasto brodo vegetale 500 g 300 g di farina 80 g di burro sale q.b. per friggere 2 uova medie pangrattato q.b. olio di semi di arachide q.b.

615 - BBQ4All Magazine

Eppure molte volte, complice la vita frenetica, ci ritroviamo con una voglia pazza di pulled pork senza avere il tempo di poterlo preparare. Le soluzioni a quel punto sono due: dobbiamo sperare che, ravanando nel freezer riusciamo a riesumare qualche porzione avanzata che avevamo messo da parte, oppure acquistare un prodotto già pronto.


Buttati, che è goduriosa!

SEVEN LAYERS SALAD SETTE STRATI DI PURO PIACERE

Leggi insalata e pensi a una punizione. Cosa ho fatto di male per meritarmela? Non negate, perché lo sappiamo che è così per tutti, o almeno per tutti voi lettori di questo Magazine. Non a caso, anche cercando in rete qualche informazione su questa "insalata sette strati", troverete tutti gli aggettivi che devono per forza essere usati quando si nominano le insalate: è fresca, è leggera. Ideale per un pranzo veloce, non appesantisce.

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Poi però vai a leggere gli ingredienti: iceberg, pomodori, cipolle, piselli, uova sode, formaggio cheddar e bacon. Il tutto condito ovviamente da salse di vario tipo, come la ranch, ma anche da salse a base di yogurt o di panna acida, insieme all’immancabile maionese. Insomma, non sappiamo cosa ne pensiate voi, ma noi la definiremmo proprio dietetica. D’altronde, non dimentichiamoci che l’origine è statunitense e, anche se i tempi moderni ci imporrebbero di stare attenti agli stereotipi, non dovrebbe ssere un considerato un crimine affermare che molte delle ricette provenienti dagli USA siano caloriche e goduriose. Alcune fonti dicono che questa preparazione - negli anni Cinquanta del secolo scorso - abbia contribuito alla pessima reputazione delle insalate; in pratica, sarebbe successo l’esatto contrario di ciò che abbiamo dichiarato a inizio articolo: dicevi salad e la gente pensava ommioddio,

no grazie devo stare attento alla salute e alla linea! In ogni caso, vi abbiamo spiegato il motivo per cui la Seven Layers Salad, ben lontana dalla tristezza che spesso aleggia sulle insalate a cui siamo abituati, si è conquistata il diritto di entrare nel nostro BBQ4All Magazine (ma non lo dite allo zio, che odia i piselli!). Servita spesso come accompagnamento di altre preparazioni, spesso bbq, è ideale per essere consumata nei picnic o in spiaggia, e può anche essere considerata un piatto unico, specie da noi italiani con stomaci un po’ meno “a prova di bisonte” rispetto a quelli americani. Ovviamente nel corso degli anni sono nate numerose varianti, che devono però rispettare due parametri fondamentali: la struttura “alta”, che prevede ingredienti impilati in modo che si vedano bene i sette piani, e il colore variegato. Ed ecco dunque che sono nate anche insalate sette strati più salutari, dove la frutta esotica ha sostituito la pancetta e il cheddar, in cui le salse sono state sostuite da vinaigrette, il bacon con il polli, il tonno o i gamberetti. Alcuni la servono dentro alle tortillas in stile tex mex, aggiungendo anche fagioli neri, ceci e peperoni. In effetti, si presta ad essere manipolata un po’ a nostro piacimento. Noi vi daremo la versione originale, ma voi consideratela una base di partenza per elaborarla a seconda di cosa vi suggeriranno la vostra fantasia e il vostro gusto.


617 - BBQ4All Magazine


PREPARAZIONE 1.

Preparate il vostro dispositivo per una cottura diretta a fuoco abbastanza alto; grigliate le fette di bacon direttamente sulla grigia oppure appoggiando utiizzando una piasta in ghisa, senza aggiungere grassi. Quando le fette saranno diventate croccanti, spezzettatele grossolanamente e tenetele da parte.

2.

Fate rassodare le uova in un pentolino, fatele raffreddare, sgisciatele e taglietele a spicchi, condendole con un pizzico di sale.

3.

Lavate, asciugate e affettate l’iceberg, affettate le cipolle, lessate i piselli in acqua e sale, affetate i pomodori in fettine abbastamza sottili, che poi condirete con un po’ di sale di olio extravergine di oliva. Riducete le fette di cheddar in listarelle.

4.

Tenete tutto da parte e preparate la salsa ranch, partendo da un ingredeinte fondamentale, il latticello: mescolate 60 g di yogurt col latte

INGREDIENTI 4 persone

per l’insalata 300 g di bacon a fette spesse 4 uova un cesto di insalata iceberg 200 g di piselli piccoli 200 g di cheddar a fette sale e pepe q.b. olio extravergine di oliva q.b. il succo di un limone due cipolle rosse tre pomodori da insalata di media grandezza per la salsa ranch: 120 g di yogurt bianco 60 g di latte scremato un cucchiaino di succo di limone 120 g di maionese un cucchiaino di aceto di mele un cucchiaino di prezzemolo tritato, un cucchiaino di erba cipollina, mezzo cucchiaino di aglio in polvere

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mezza cipolla sale q.b. pepe e origano a piacere

scremato e col succo di limone. Lasciate che gli ingredeiti si amalgamino bene tra loro e lasciate riposare il tutto il frigo per circa mezz’ora. 5.

Tritate la cipolla finemente e fate lo stesso con l’erba cipollina e il prezzemolo.

6.

Mescolate lo yogurt con la maionese, il latticello che avete preparato, la cipolla, l’aglio in polvere, le erbette, l’aceto, il sale, il pepe e l’origano. Lasciate riposare la salsa in frigo per qualche ora.

7.

Componete quindi la vostra insalata: in una ciotola di vetro molto capiente, distribuite sul fondo i pomodori conditi, poi i pisellini, il cheddar, l’iceberg condita con un’emulsione di olio, sale e limone, la cipolla, il bacon e le uova. Una bella grattugiata di pepe e l’insalata è pronta per essere servita con una generosa colata di salsa ranch.


o t lge a

Il

un lusso democratico per tutti E’ una domanda strana da fare, è la domanda che non si fa mai. Solitamente si chiede “andiamo a prendere un gelato?”, perché è veramente raro conoscere una persona che non lo mangia, possono non piacere alcuni gusti, si può preferire una gelateria a un’altra, ma è impossibile non amarlo.

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Pensateci bene, avete mai chiesto a un amico, a un familiare o a una persona conosciuta da poco “Ti piace il gelato?”


Per i numerosi sapori proposti e le varietà (sempre più presenti oggi), senza glutine, senza lattosio, senza zucchero e vegane: il gelato è il dolce che mette d’accordo tutti. In media in Italia ne consumiamo all’anno quasi 10 kg a testa (6,4 kg artigianale/3,6Kg industriale). Infatti da Nord a Sud, dalla grande metropoli al piccolo borgo non esiste centro abitato sprovvisto di rivenditori (bar, alimentari, supermercati) del prodotto confezionato e di gelaterie artigianali. La differenza più grande tra il gelato industriale e il gelato artigianale oltre gli ingredienti usati, l’aspetto estetico (che per il primo è rimasto è più o meno immutato cono o coppetta con ciuffo di panna incoronato da una cialdina, mentre per il secondo varia a seconda dei dettami della moda), è a livello tecnico: l’aria presente nel prodotto. Infatti, la versione commerciale ne contiene in media tra un +50% fino ad arrivare a un più +200%, quindi una vaschetta da un litro contiene circa 300 grammi di gelato, mentre nell’altra versione l’aria contenuta all’interno dell’alimento oscilla tra un 25-30%, perciò una vaschetta da un litro contiene un buob 700-800 grammi di prodotto.

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Il gelato nell’età contemporanea è diventato un bene accessibile a tutti, disponibile tutto l’anno ( la filiera industriale ha contribuito molto a tutto ciò), anche se i periodi di maggior consumo rimangono la primavera e l’estate. In special modo, durante la calura estiva è buono sempre a colazione, pranzo, merenda e cena. Perché ci concede quei 10 minuti di pausa dall’afa. Qualità molto apprezzata anche dai turisti che torneranno ad riempire le nostre città e spiagge. La fresca golosità è l’evoluzione di un’antica squisitezza (ghiaccio, miele e frutta), risalente al 300 a.C. apprezzata dai greci e dai romani, riportata in auge nel Medioevo dai saraceni sbarcati in Sicilia nella forma del sorbetto ( la ricetta è presente numero 26 del Magazine). Il sorbetto era una prelibatezza riservata ai ricchi vista la limitata quantità di ghiaccio disponibile per tutto l’anno, infatti dal XII secolo divenne una portata immancabile nei banchetti dei signori. Il gelato moderno nasce a Firenze presso la corte medicea nel ‘500 dove si distinsero due sorbettieri: il Ruggeri e il Buontalenti. Il Ruggeri era un umile pollaiolo vincitore del concorso (indetto dalla futura regina di Francia Caterina de’

Medici), “Il piatto singolare che si sia mai visto” presentando un “dolcetto gelato”: un nuovo sorbetto con acqua zucchero e frutta. La preparazione fu talmente apprezzata dalla nobildonna che nel 1533 lo reclutò nella squadra di cuochi da portare con sé in Francia presso la sua nuova corte. Qui il Ruggeri conobbe un grande successo pari alle malversazioni subite dagli chef francesi. Dopo un agguato in cui prese una scarica di legnate, decise di regalare la ricetta alla regina e di tornare a Firenze, nella speranza di essere dimenticato velocemente. Bernardo Buontalenti era un uomo di cultura allievo del Vasari (pittore, architetto e storico dell’arte nel ‘500). Alla corte della famiglia Medici era un architetto, un ingegnere e uno scenografo a cui la Famiglia aveva affidato l’incarico di organizzare gli eventi. I banchetti erano una dimostrazione garbata della propria potenza agli ospiti, ogni aspetto dalla presentazione delle portate, alla musica e alla scenografia avevano l’unico obbiettivo di lasciare a bocca aperta i commensali. In particolar modo, per la visita della delegazione spagnola gli fu chiesto di organizzare un banchetto indimenticabile. Per l’occasione ideò una crema a base uova, latte miele e vino, gettando le basi del gelato moderno: per la prima volta si raffreddano le materie grasse. Nasce la crema fiorentina battezzata Buontalenti in onore del suo ideatore, ancora oggi presente nelle gelaterie della città. Esistono anche altre figure importanti nella storia del gelato, come Francesco Procopio e Francesco Lenzi. Il primo aprì a Parigi nel 1686 il Café Procope frequentato da molti artisti (Voltaire, Victor Hugo, Balzac, Diderot) diffondendo al di fuori della penisola migliorandola l’arte della sorbetteria siciliana; il secondo Filippo Lenzi contribuì all’esportazione nel nuovo mondo della fredda bontà aprendo nel 1777 a New York la prima gelateria. Dopo tutto questo parlare penso sia chiarissimo che il gelato è una golosità tutta italiana. E’ un baluardo della nostra tradizione culinaria nel mondo ed è molto amato al pari della pizza e degli spaghetti al pomodoro. Quando i turisti vengono a visitare il “bel paese” oltre a fare un giro in gondola, gettare una monetina nella fontana di Trevi, fare una foto accanto alla torre pendente mentre la sorreggono con un dito la torre, vogliono soprattutto gustare le specialità tanto decantate.


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Lo stesso presidente americano Bill Clinton chiese di assaggiare pizza, pasta e gelato, durante il G7 del 1994 a Napoli. Nel corso degli anni i turisti di ogni nazionalità hanno contribuito in maniera consistente al consumo del gelato. Tant’ è che per soddisfare la domanda soprattutto nelle mete turistiche è stato tutto un fiorire di gelaterie, portando alla nascita del “finto gelato artigianale” di cui non sono vittime solo gli stranieri di passaggio, ma anche noi abitanti del luogo.

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Ebbene sì, esiste il vero gelato artigianale e quello che sembra ma non lo è. Per comprendere al meglio questa differenza abbiamo fatto qualche domanda a Beppe Flamigo del brand Don Peppinu - Gelato Originale Siciliano e componente del direttivo dell’Associazione Gelatieri per il gelato. Beppe ci fa una panoramica completa sulle criticità e sui punti di forza del mondo del gelato italiano. "Tutto sembra dipendere dalla mancata regolamentazione dell’alimento. Nonostante la produzione di gelato incida fortemente sulla nostra economia ancora non è stato sancito a livello ministeriale (come nel caso del panettone e del cioccolato puro), quali ingredienti possono essere usati e in quale percentuali e quali elementi non devono essere assolutamente presenti per poter definire artigianale il gelato. Quando le gelaterie erano poche se non rare e il gelato si mangiava solo la domenica pomeriggio o in occasioni speciali, il gelatiere come tutti gli artigiani andava a recuperare le materie prime da usare latte, uova, panna il gusto aromatizzante. Oggi a quanto sembra la maggioranza delle gelaterie non segue più questa procedura, perché sono diventate la lunga mano dell’industria. Ovvero realizzano il gelato con i semi-lavorati industriali (un mix di polveri): aprono una busta e mischiano il contenuto nell’ acqua o nel latte. Quindi solo perché usano macchinari professionali si definiscono artigiani del gelato anche se non lo sono. In realtà tutto questo dipende molto dal fatto che in Italia (detto in parole povere), se una ditta non supera un tot di dipendenti (per alcuni settori come quello alimentare), fa parte dell’artigianato e di conseguenza il suo prodotto è definito tale.

Perciò come si può capire se un gelato è artigianale oppure no? Il colore può essere un indicatore perché in natura non esistono i colori fluo, accessi; la presenza di alcuni gusti nel banco frigo di derivazione industriale (Kinder, Ferrero) potrebbero indicare l’utilizzo di semilavorati anche per gli altri sapori esposti. Un altro parametro molto utile per capire a cosa siamo davanti è il libro degli ingredienti. Per legge tutte le attività alimentari devono esporlo e renderlo fruibile ai clienti, nelle gelaterie si trova raramente. Chi lo espone vuole dimostrare che lavora nella correttezza delle norme, ma soprattutto vuole mostrare l’alta qualità e la genuinità delle materie prime usate nel suo laboratorio. Se un gusto è composto da 20/30 ingredienti potete essere sicuri che sono tati usati i semilavorati. Per esempio, il fior di latte fatto dal principio alla fine senza aiutini è composto da 4 o 5 ingredienti fino a un massimo di9. Inoltre, il vero gelato artigianale non deve contenere né aromi, né coloranti perché non ha senso usare ingredienti freschi come il latte e la panna per mixarli con elementi pronti. Un altro campanello d’allarme è la presenza dei grassi idrogenati. Un’altra grande truffa in queste luoghi è la panna, perché molto spesso non è animale ma vegetale. Quindi creata montando una miscela di grassi vegetali, zuccheri e altri elementi, totalmente priva di un grammo di latte. Per tagliare la testa la toro è semplice capire se un gelatiere è un vero artigiano o no, portateli una cassettina di frutta e chiedeteli di trasformarlo in gelato. Un vero artigiano vi dirà di sì senza nessun problema. Negli anni 2000 in Italia è approdata un gelateria famosa per il suo gelato cremoso che fu vista da molti come il male in terra; in realtà nonostante appartenesse al settore industriale, rispetto alle finte gelaterie artigianali produce il suo gelato dall’inizio alla fine con una lavorazione genuina delle materie prime. Il gelato artigianale è un prodotto molto semplice ma al contempo molto complesso che richiede una bilanciatura perfetta tra gli ingredienti secchi e liquidi e altri parametri come la tecnologia


del controllo del freddo e delle curve trioscopiche, quindi a differenza di altre preparazioni è impossibile riprodurre una migliore versione a casa migliore della gelateria come invece accade in altri ambiti della cucina un esempio è la cottura della carne. Una gelatiera professionale costa circa 70.000 euro e non ha niente a che fare con le varie gelatiere casalinghe in vendita sul mercato, perché non riusciranno mai a riprodurre la cremosità e la setosità tipica di questo alimento. Ma se in casa avete una gelateria e volete provare a fare un buon gelato ecco a voi una ricetta facile per voi."

INGREDIENTI 680 ml di latte fresco intero / 100 g di pasta di pistacchio / 2 g di sale / 190 g di zucchero di canna / 5 g di farina di semi di carrube

2.

3. 4.

5. 6.

Sciogliamo a freddo lo zucchero nel latte Accendiamo la gelateria e versiamo il liquido nella gelateria Dopo pochi minuti inserite il pizzico di sale Quando il latte inizia a montare inserire la granella di pistacchio. Lasciate lavorare la macchina per una ventina di minuti Dopodiché servite il gelato in coppette e servitelo o riponetelo nel congelatore.

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PREPARAZIONE: 1.


L'Arte Bianca a cura di Alessandro Trezzi illustrazioni di Ozzy Bellesi nIl aan

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Benissimo, facciamo questo fanatico viaggio verso l’Estremo Oriente!

Storia e definizione Il naan viene menzionato per la prima volta nel 1300 a.C. dal poeta e musico indiano Amir Khusrow, ma le sue origini sono senz’altro più antiche e collegate all’arrivo del lievito in India dall’Egitto. Per quanto in persiano antico la parola “naan” si riferisse al generico pane, oggi con il termine intendiamo una specifica tipologia, nata tra l’India e il Pakistan per poi diffondersi in svariate regioni dell’Asia e nel Golfo Persico grazie ai flussi migratori. Di norma si tratta di un panificato preparato con farina, acqua, yogurt, lievito e sale, lasciato lievitare e cotto nel tradizionale tandoor, l’antichissimo forno indiano ispirato probabilmente ai modelli egiziani; un mostro infernale, composto da una campana rovesciata e un cilindro di argilla, alimentato a carbone o a legna, e che può raggiungere temperature di oltre 480°C. La cottura del naan, del chapati o di qualsiasi pane piatto è molto scenografica (per quanto pericolosa) e avviene appiccicando in verticale i dischi alla parete del forno incandescente, fino a cottura ultimata.

Esistono, oltre alla classica, parecchie varianti del pane basso indiano, come quella all’aglio, al formaggio o alle patate.

La versione nerd Viaggiando insieme nella magica India e conoscendo lo storico naan avrete certamente identificato i primi problemi dovuti ad un’eventuale replica casalinga. Anzitutto lo strumento dedicato alla cottura, non solo per la temperatura in sé ma per la particolare distribuzione di calore che consente una resa perfetta del panificato. Secondo, parliamo di una terra dove si lavora di norma con le materie prime immediatamente reperibili, e il concetto di “lavorare a occhio” è portato all’estremo; trovare un metodo empirico su cui basare una replica non è complicato, è a dir poco impossibile. Dal canto mio quindi, l’unico modo per cominciare la pratica di “nerdizzazione” di una ricetta inesistente è stato quello di assaggiarlo una volta prodotto dalle mani di tradizionalisti fidati, per comprenderne al meglio le caratteristiche e le possibilità di evoluzione. Sarà diretto, il naan è un grandissimo prodotto, che soffre tuttavia di un problema evidente: la cottura a 480°C in un tandoor è difficilissima da standardizzare, e spesso alcuni dei prodotti usciti sono crudi o bruciati e presentano fin troppa farina ancora attaccata alla base che rovina l’esperienza gustativa. Non mi stancherò mai di dirlo: l’unico modo di godere a pieno di un prodotto da forno non è solo fare attenzione all’impasto, alla selezione di materie prime o alla maturazione, ma di condurre la fase in forno come si deve al fine di rendere il tutto digeribile e perfetto ad ogni morso. D’altro canto, la riproposizione occidentale si scontra con una grandissima scomodità: cuocere in padelle di ghisa obbliga non solo a controllare a vista il pane mentre cuoce, ma soprattutto a farne uno alla volta perdendo tantissimo tempo. Partendo da un’idea di prodotto finito, l’obiettivo è stato quindi quello di ripercorrere le varie fasi al fine di re-interpretare, standardizzare e rendere ripetibile anche con comuni strumenti un pane legato a tradizioni e usanze completamente differenti; ho testato farine, più miscele di acqua e yogurt in percentuali variabili, ripartizioni diverse di riposo e di cottura, fino ad arrivare a un risultato strabiliante. Curiosi di scoprirlo?

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O

rmai le pagine dedicate all’Arte Bianca del nostro Magazine hanno un rito solenne: di tanto in tanto spunta un nuovo, entusiasmante e goliardico esemplare di pane basso. Se non siete nuovi sapete quanto adori questa tipologia, principalmente per la sua incredibile capacità di unire tutto il mondo con acqua e farina. Girando in lungo e in largo per i vari continenti, è possibile trovare gemelli diversi di pane basso, uno più curioso ed interessante dell’altro, legato indissolubilmente dalle tradizioni del luogo e adattatosi per coesistere insieme a succulente farciture. Il protagonista dell’articolo di oggi è il naan, una specialità che ho avuto l’onore di conoscere grazie ad alcuni colleghi indiani e a non poche cene tipiche. Ve lo assicuro, mi ha stregato a tal punto da obbligare il mio spirito Nerd a svilupparne una versione totalmente adattata, scientifica e come mio solito replicabile in contesto domestico, standardizzata, fortemente ripetibile ma soprattutto divertente e buona a livelli cosmici. Curiosi di scoprirla?


Il metodo Analizziamo le prerogative che ci portano alla concezione del nostro naan nerd: vogliamo un pane basso soffice, incredibilmente profumato e fragrante, perfetto per accompagnare carne e salse speziate tipiche dei paesi asiatici, ma soprattutto comodo da preparare nonostante la logica applicata. Il modo migliore per rendere semplice ma terribilmente funzionante un processo è quello di avere un impasto che non deve riposare una volta steso, ma nemmeno dover essere ammaccato volta per volta al mattarello litigando a causa della tenacità residua. In questi casi i parametri da seguire sono due: • Avere un impasto plastico ma che cominci ad avere l’elasticità tipica della formazione del glutine, in modo da poter lavorare correttamente anche durante l’espansione in forno; • Garantire una fase di riposo corretta e duratura per poter lavorare senza litigare con i panetti. • Cuocere in un classico forno per poter preparare più naan nello stesso momento. Il tutto presuppone una corretta gestione delle dosi, dei tempi e un equilibrio delle fasi.

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I protagonisti Di ricetta in ricetta, la schiera degli ingredienti prevista per il naan cambia vertiginosamente. C’è chi introduce lo zucchero, chi il miele, chi l’olio, chi altri grassi, chi usa lo yogurt greco e chi il bianco intero. L’unico modo per uscire da questo tunnel infinito è ragionare sullo scopo di ogni protagonista, valutando se il suo inserimento abbia senso oppure no. Cominciando dalla farina, in India viene utilizzata una generica farina bianca di grano. Per enfatizzare il sapore del nostro naan la scelta migliore ricade invece su una tipo 1 macinata a pietra, che possa far esplodere i profumi durante la maturazione e caratterizzare ancor più il prodotto; ovviamente, le caratteristiche di forza e assorbimento sono fondamentali per consentire riposo e lavorazione corrette durante tutto il processo. Uno degli aspetti chiave, tuttavia, è senz’altro il bilanciamento tra yogurt e acqua, per un motivo molto semplice: aumentando l’acqua il prodotto risulta più leggero e la mollica aperta, ma il sapore diminuisce e la somiglianza al classico naan si perde un po’. Aumentando troppo il contenuto di yogurt al contrario, il prodotto finito diventa pesante e fatica addirittura a cuocere; come spesso accade, la verità sta nel mezzo. Il quantitativo totale di sale e di lievito leggermente più alto del normale è invece utile a mantenere una lievitazione prolungata e stabile; non utilizzeremo nessun additivo come malto o altri tipi di zucchero, e nemmeno l’olio: la morbidezza e la struttura tipica del Naan sarà garantita dallo yogurt che basta e avanza. Detto questo, veniamo al dunque con la nostra ricetta finale.

INGREDIENTI per 8 naan

500 g di farina di grano tenero di tipo 1 (270 W); 100 g di acqua; 250 g di yogurt bianco naturale; 10 g di sale; 5 g di lievito di birra fresco.


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IMPASTAMENTO

Cominciate sbriciolando il lievito nella farina, aggiungete tutto lo yogurt e metà dell’acqua. Verso la fine inserite il sale e l’ultima parte di acqua, poco alla volta. Lavorate fino ad ottenere una massa liscia e uniforme, che non dovrà superare i 22°C.

PUNTATA

Formate la massa, datele una forma sferica e posizionatela in un contenitore stretto e dai bordi alti (ovviamente a chiusura ermetica) ben oliato; lasciate riposare l’impasto 1 ora a temperatura ambiente finché la lievitazione non sarà partita, dopodiché mettetelo in frigorifero per 18 ore.

STAGLIO E APPRETTO

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Circa 4-5 ore prima di cuocere, tirate fuori l’impasto e formate 8 panetti ben chiusi, dal peso di circa 100 grammi l’uno; metteteli quindi a riposare in una cassetta per l’ultima fase di lievitazione.

STESURA

Prendete la vostra teglia classica del forno di casa (la canonica da 30x40 ) e oliatela leggermente; ribaltate 4 panetti in un letto di semola e stendeteli leggermente con le mani, fino ad ottenere un diametro di 13-15 centimetri. A questo punto, togliete la semola in eccesso e appoggiateli ai 4 angoli della teglia; bucateli con una forchetta in modo da garantire una crescita uniforme e preparatevi per la cottura.

COTTURA

Pre-riscaldate il forno al massimo (250°C-270°C), dopodiché posizionate la teglia sulla base del forno; dopo 4-5 minuti, ribaltate i panetti e pressateli leggermente con una spatola, in modo da rendere la cottura uniforme anche dall’altro lato. Dopo altri 3-4 minuti sfornate, mettete su una griglia rialzata e completate la cottura degli altri 4 panetti. Serviteli nel modo che più vi aggrada, con della carne di agnello, del curry di pollo e cavolfiore o una favolosa crema di patate e spinaci.


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4

luglio IL MENU DEL

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Across the Pond a cura di Elena Ninotti


Ma cosa ricorda questa data? Il 4 luglio (che ricorda i fatti del 4 luglio 1776) rinnova l’orgoglio nazionalistico americano, celebrando la firma dell’indipendenza delle prime 13 colonie americane nei confronti della madre patria britannica. Questa presa di posizione americana non piacque agli inglesi, che stavano per perdere le loro preziose colonie oltreoceano e, da questo, scaturì la Guerra di Indipendenza. Le truppe, comandate da George Washington, dovettero combattere per i loro ideali per ben 5 anni e per ottenere l’indipendenza definitiva si dovette aspettare il 1783 con il Congresso di Parigi. Le celebrazioni per il 4 luglio sono diventate famose anche da noi in Italia e, in generale, in Europa. Soprattutto le "vecchie città" legate per storia e costumi al continente, come Boston, New York, Washington DC, Philadelphia (che fanno parte delle prime colonie), comunque sono strettamente legate alla storia americana, prevedono parate in costume, letture integrali della dichiarazione d’Indipendenza, rievocazioni storiche e concerti. A NY c’è un altro evento particolarmente conosciuto: sulla

spiaggia di Coney Island prende vita la gara dei mangiatori di Hot Dog da Nathan’s (Nathan’s Hot Dog Eating Contest). In questo caso, i contendenti si sfidano a chi mangia più hot dog in 10 minuti. E, incredibile a dirsi, qualcuno riesce a mangiarne anche più di 70! Tuttavia, anche chi non abita nelle grandi città storiche non manca di festeggiare in maniera adeguata. Tutti i centri cittadini organizzano aree con parate, fiere, giochi per bambini, concerti; le spiagge sono prese d’assalto con grill, tende, ghiacciaie fin dalle prime ore dell’alba. In generale qui in Florida i festeggiamenti domenicali sono a Potluck o a BYOF/B. Nel primo caso, significa che ognuno deve portare un piatto da condividere con gli amici. Nel secondo caso, più frequente nelle feste condominiali o di quartiere, significa Bring Your Own Food/Beverage: porti il tuo cibo e lo mangi in compagnia degli altri. Di solito è riferito solo al beverage, quindi ognuno si presenterà con il suo bicchierone di liquido non ben indentificato (e probabilmente alcolico). Se vi fa piacere provare l’esperienza di festeggiare un 4 luglio come in USA, visto che quest’anno cade esattamente di domenica, vi lascio un menù a tema, cercando di darvi una tabella di marcia per ottimizzare i tempi e, soprattutto, lo spazio in frigo/freezer. Quelle che vi propongo, sono le classiche ricette del barbecue dinner americano. L’orario classico di invito è attorno alle 2:00/3:00 pm, ma nulla vi vieta di vedervi a mezzogiorno o alle 5:00 pm (sugli orari dei pasti americani vi prometto che scriverò un articolo prossimamente). Le preparazioni che vi propongo sono parte delle classiche ricette da barbecue domenicale, quindi sentitevi liberi di arricchire il vostro buffet con delle alette di pollo, del pulled pork, o delle ribs, ma non sentitevi obbligati: di solito, questi festeggiamenti sono “zerosbatti” e prevedono cotture veloci, economiche e, soprattutto, da fare secondo i gusti personali.

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F

inalmente, in questo numero tutto dedicato all’estate, mi trovo a parlare delle feste americane. Rispetto a noi italiani, in USA hanno molte meno festività “rosse”. Ci sono diversi giorni semi-festivi, ma solo pochi vengono festeggiati dalla maggior parte delle aziende. Tra quelle più sentite troviamo Natale, Capodanno, Thanksgiving e, soprattutto, il 4 Luglio. Mentre le altre non hanno bisogno di presentazioni e prevedono molti festeggiamenti domestici, il 4 luglio è una festa molto sentita e conosciuta anche fuori dagli States grazie a film e serie tv che ne parlano. Il 4 luglio è una festa che coinvolge tutta la popolazione con parate nelle grandi e piccole città, scampagnate, picnic, torte a tema USA e fuochi d'artificio. Giusto per menzionare qualcosa. Potremmo assimilarla a un nostro italiano 25 aprile (Liberazione dal Nazifascismo) o a un 2 giugno (Festa della Repubblica italiana).


MENU DEL

4 LUGLIO Dip con nachos, crostini, focaccia e pinzimonio Grilled corn dip, salsa guacamole*, spinach artichok dip Jalapeno pepper with cream cheese and bacon Insalata di Pasta (Pasta Salad) Burger-hot dog bar, con funghi stufati, cipolle caramellate, formaggio, verdure grigliate* Mac&cheese*, coleslaw*, insalata di patate, baked beans*, pannocchie grigliate* Peach Cobbler with vanilla Ice cream* Limonata Tè freddo

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Sangria con frutta grigliata* Per i piatti con * è possibile trovare la ricetta sui numeri arretrati del Magazine o sulla Community BBQ4All. Qui di seguito trovate le ricette per implementare il vostro menu.

Vi conviene comprare dei dispenser per bibite da 5 litri che ormai si trovano in tutti i negozi di casalinghi. Attrezzatevi anche con ghiacciolini di plastica per bibite e preparate molto ghiaccio per mettere a bagno birre e bibite nella ghiacciaia, in modo da avere il frigo libero. Se avete un amico barista, potete chiedere un secchio di ghiaccio: mettetelo in una ghiacciaia di plastica e conservate al fresco DA FARE IL GIORNO PRIMA: • Sciroppo di limonata • Funghi trifolati, cipolle caramellate, baked beans, insalata di patate, condimento per i mac&cheese • Grigliare le pannocchie per il corn dip • Preparare la base per la torta e conservarla coperta con pellicola per alimenti in un luogo fresco. • Preparare la crema con cui farcire la torta e conservarla in frigo (vi consiglio dentro a una sac a poche usa e getta o a un sacchetto per surgelati a cui taglierete un angolo per facilitarvi nella stesura sulla base) • Preparare le basi per il Cobbler e conservarle in frigo separate • Assemblare la Salsa mexicana • Impastare il burro aromatizzato con aglio e paprika per le pannocchie • Preparare i peperoni ripieni • Preparare lo spinach dip, metterlo nella pirofila da forno e conservarlo coperto di pellicola (levarlo dal frigo un’oretta prima di cuocerlo, in modo da non provocare uno shock termico alla pirofila) DA FARE IL GIORNO STESSO • Mettere su un vassoio carote baby, sedano, spicchi di mela, cimette di broccolo, pomodorini per il pinzimonio, coprire con pellicola e conservare al fresco • Preparare l’infuso di tè • Cuocere i mac, mescolarli con la salsa e gratinare • Assemblare la Coleslaw • Preparare l’insalata di pasta • Preparare gli ingredienti scelti per gli hamburger • Mettere in infusione la frutta della sangria • Preparare il grilled corn dip DA FARE ALL’ULTIMO • Decorare la torta • Gratinare lo spinach dip • Procedere alla cottura del cobbler (si serve tiepido) • Preparare la Guacamole • Scaldare i baked beans • Gratinare lo spinach artichoke dip • Cuocere i peperoni ripieni


GRILLER CORN DIP

Ingredienti per 4 persone:

4 pannocchie / un pacchetto di formaggio fresco spalmabile da 220g / 150 g di panna acida o yogurt greco full fat / 4 cipollotti freschi / 120 g di cheddar / 120 g Monterey (potete sostituire i due formaggi con provolone, Asiago, Emmental in pari quantità) / 120 g di feta, o primosale / un cucchiaino di cumino / 1⁄2 cucchiaino di paprika / un pizzico di peperoncino a piacere /Succo di lime q.b. / sale e pepe q.b. / Tabasco a piacere / Coriandolo in foglie o jalapeno tritato per guarnire (opzionali)

2.

2. In un’ampia ciotola, mescolate il formaggio spalmabile, la panna acida, le spezie e i cipollotti tritati. Lavorate il composto con delle fruste elettriche.

3.

3. Aggiungete i formaggi grattugiati e la feta (o il primosale) sbriciolata, mescolate con cura, spremete il succo di lime, aggiungete qualche goccia di tabasco e regolate di sale e pepe.

4.

Mescolate accuratamente i chicchi di mais col composto di formaggio, coprite e lasciate riposare almeno 2-4 ore. Servite con chips, tortillas, crostini

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Preparazione: 1. Predisponete il vostro dispositivo per una cottura diretta e grigliate le pannocchie poi, con un coltello affilato, tagliatele per il lungo in modo da staccare i chicchi. Mettete da parte


SPINACH ARTICHOK DIP

Ingredienti:

50 g di burro / uno spicchio di aglio tritato / 150 g di spinacini novelli / 800 g di carciofi / 20g di farina / 200 ml di latte intero / 120 g di philadelphia / 2 cucchiai di feta sbriciolata / 2 cucchiai di Parmigiano Reggiano grattugiato / 100g di Pepper Jack cheese, o altro formaggio tipo gouda / 1 cucchiaino di pepe tritato al mulinello /sale, pepe, peperoncino e olio q.b.

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Preparazione: 1. Predisponete il vostro dispostitivo per una cottura a contatto diretto con la braci, pulite i carciogi togliendo loro solo la punta e lasciando un pezzo di gambo. 2.

Condite i carciofi con un filo d’olio e poi appoggiateli dalla parte del gambo sulle braci accese. Aspettate che l’esterno si bruci e poi testate la cottura con uno stecchino; quando sono cedevoli sono pronti. Puliteli ricavando solo i cuori e tene teli da parte.

3.

Saltate gli spinaci con 1/3 del burro, e metteteli da parte.

4.

Nella stessa padella, saltate i carciofi e metteteli nella ciotola con gli spinaci.

5.

Sciogliete nella padella il restante burro e la farina. Tostate leggermente e aggiungete il latte freddo tutto in una volta. Quando la salsa si è addensata, aggiungete il formaggio philadephia a tocchetti e il resto dei formaggi, conservando 2 cucchiai di Jack cheese. Se risulta troppo denso, potete allungare con un goccio di brodo vegetale o altro latte. Salate, pepate e aggiungete le verdure tritate grossolanamente al coltello. Mettete il tutto in un piatto che possa andare in forno, spolverate col Jack cheese tenuto da parte, coprite e conservate in frigo fino al momento di cuocere.

6.

Passate in forno ( o nel vostro dispositivo in cottura indiretta) a 200°C fino a che la superficie non si colora e la salsa non fa le bolle, circa 20 minuti.


SALSA MEXICANA

Ingredienti:

una tazza di pomodori rossi tritati a cubetti e sgocciolati / una tazza di cipollotto e cipolla rossa tritati / mezza tazza di coriandolo in foglie tritato al coltello / mezza tazza di jalapeno tritato (o peperone verde a cubetti, più peperoncino) / 2 lime / sale q.b. Preparazione: 1. Mescolate tutti gli ingredienti, salate e spremete il lime. Coprite e lasciate riposare: migliorerà col passare del tempo: prima di servire assaggiate e regolate di sale e di peperoncino.

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2.


JALAPENO PEPPER WITH CREAM CHEESE AND BACON

I ngredienti per 4 persone: 20

peperoncini jalapeno / 200 g di formaggio spalmabile / 150 g di cheddar / 40 fette di bacon / sale e pepe q.b. Preparazione: 1. Mescolate in una ciotola il formaggio spalmabile, il cheddar tritato frossolanamente, sale e pepe. Si può usare anche un formaggio spalmabile alle erbe.

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2.

Tagliate a metà i peperoncini. Farciteli con il composto, avvolgete intorno ad ognuno una fetta di bacon e grigliateli in cottura diretta, meglio su un cesto forato. In realtà si possono usare anche peperoncini misti colorati, piccanti e dolci, in modo da venire incontro ai gusti di tutti.


LIMONATA

Ingredienti:

2.

Scaldate un litro e mezzo di acqua con lo zucchero, finché non si scioglie. Potete conservare lo sciroppo fino al momento di usarlo

3.

Spremete i limoni in una caraffa e filtrate il succo

4.

Mettete il succo nel dispenser da 5 litri, aggiungendo 3⁄4 dello sciroppo freddo

5.

Riempite il dispenser di ghiaccio e aggiungete due litri di acqua fredda. Mescolate e assaggiate. A seconda dei limoni, potrebbe essere necessario aggiungere lo sciroppo da parte, o ancora un po’ di acqua.

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750 g di zucchero / 24 limoni Preparazione: 1. Predisponete il vostro dispositivo per una cottura diretta, tagliate i limoni a metà e grigliateli con la parte tagliata rivolta in giù. Quando saranno caldi e dorati toglieteli dalla griglia: questo piccolo accorgimento renderà più dolce il succo, che riuscirete a ricavare con più facilità e in abbondanza.


Il Quinto Quarto a cura di Virgilio Brunetti

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È tutta una questione di


Non fartene una colpa, nessuno è perfetto: esiste anche chi mangia zero carne e si definisce vegano. Ecco, dopo di questa ti sentirai di sicuro meglio. Così come sono sicuro che la passione per il consumo di visceri animali e altre parti ignobili dell’animale, qualsiasi esse siano, arrivi da una innata forma di rispetto verso l’animale stesso del quale è giusto consumare ogni sua parte, ma se tu proprio non ci riesci… tranquillo, ne sarà di più per un altro che le apprezza. L’abitudine al consumo delle interiora animali ci è stato infuso dalle generazioni precedenti, dove il consumo di tali parti era dettato anche dalla necessità di dover mettere nel piatto cibi super nutrienti. Inoltre, tutte le frattaglie (tranne rare eccezioni) non si prestano assolutamente alla lunga conservazione quindi vanno consumate freschissime. Così, il cosiddetto quinto quarto è l'insieme di tutto ciò che non fa parte dei quattro tagli anteriori e posteriori del bovino: si tratta quindi delle interiora e di tutte le parti meno nobili, come testa, coda, zampe, lingua del bovino e ogni scarto che sia commestibile dalla punta del muso alla coda, senza dimenticare il sangue. Da tradizione, le frattaglie vengono distinte in bianche e rosse. Quelle bianche sono cervello, animelle (timo), trippa (stomaci), granelli (testicoli), mammella, intestini, midollo. Nel novero delle frattaglie rosse, invece, abbiamo: fegato, cuore, rognone (reni), milza, polmoni, lingua. A dover essere molto precisi, le frattaglie in realtà sono molte di più: testine varie, creste, ventrigli, zampe di pollo, zampetti di maiale o di bovino, guance e addirittura ossa tendini legamenti e cartilagini trovano il loro posto in un qualche tipo di cucina o preparazione legata alla sfera meno abbiente della società e successivamente rivalutata nel mondo della cucina, compresa quella d’autore.

Una storia... di frattaglie Come detto poco più su, le frattaglie sono utilizzate fin dall'antichità per la preparazione di moltissimi piatti della nostra cucina popolare, da nord a sud la nostra tradizione è ricca di ricette che utilizzano parti del quinto quarto: il fegato alla veneziana, fritto misto alla milanese, coda alla vaccinara, panino con la milza siciliano, lampredotto toscano sono solo le più popolari alcune dei quali sono diventati veri must dello street food regionale. Marco Gavio Apicio (De Re Coquinaria nel I secolo) dedica molte ricette al consumo di visceri di animali; il fegato, ad esempio era un organo utilizzato dagli aruspici per interpretare gli auspici divini, ma era anche considerato un cibo prelibato. A tale riguardo è importante ricordare l’etimologia stessa del vocabolo italiano: il termine fegato infatti non proviene dall’equivalente latino iecur né dal greco epar, ma piuttosto da un aggettivo, ficatum, che proviene a sua volta dalla parola ficus e indica il fegato di animali ingrassati coi fichi o anche cucinato coi fichi. Nonostante un così ricco ricettario, così radicato nella nostra cultura culinaria, l’utilizzo delle frattaglie ha subito un preoccupante declino. Questo cambiamento è da imputare ad una devastante perdita di identità culturale aggravata dalla necessità e dello stile di vita dei nostri giorni; molte persone appena sentono parlare di frattaglie hanno una discutibile reazione di disgusto, ma se ti soffermi e chiedi loro perché non gradiscono, non hanno una vera risposta, anzi spesso emerge che non le hanno mai nemmeno assaggiate. Le frattaglie sono alimenti ipernutrienti, ingiustamente additati come pericolosi per la salute. In realtà le frattaglie posseggono ottime caratteristiche organolettiche e nutrizionali e, se cucinate correttamente, creano dei piatti strepitosi alcuni dei quali hanno pochissimi grassi e contengono un’elevata quantità di proteine nobili. Ritengo che la migliore medicina per combattere il nichilismo in ambito enogastronomico sia quindi riscoprire una conoscenza e maggiore consapevolezza delle materie prime e della loro consapevolezza nelle tecniche di cottura; anche la cucina d’autore, dicevo prima, ha rivalutato e sta ampiamente riutilizzando frattaglie e preparazioni prima relegate soltanto al mondo contadino. È una tendenza che va dalla cucina nordica a quella nostrana, senza tralasciare nulla.

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I

l consumo delle interiora animali, comunemente dette frattaglie, è ciò che distingue il vero carnivoro da un consumatore di carne ordinario. Non ci si può definire carnivori al 100% se non si è pronti con le preparazioni, il palato ed in generale la giusta mentalità per affrontare le frattaglie.


Quinto quarto e il CUORE della questione Da ora, vi parlerò del quinto quarto bovino; questa “serie” di frattaglie, proprio per l’abbondanza dei visceri dovuta alla stazza dell’animale, è sicuramente da considerarsi una fonte preziosa di nutrienti delizie. Certamente non da meno sono le frattaglie derivanti dalla macellazione di suini, ovini, equini, avicoli e.. sì, anche quelle ricavate da pesci e dai molluschi. Si narra che mia nonna gallipolina, negli anni settanta, quando la tonnara e la pesca del tonno rosso era ancora attiva, facesse degli involtini (gnummareddi, turcinieddri) di interiora di tonno straordinari, una leccornia che solo i pescatori potevano gustare ed apprezzare. Difatti il motivo principale per il quale ho deciso di parlarvi di frattaglie è di ordine etico, ovvero il rispetto delle materie prime: trovo importante e doveroso raccontarvi come utilizzare tutte le parti dell’animale non solo la carne.

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Il riscontro etico del nostro discorso lo ritroviamo da tempo anche nel nostro Megastore, dove proponiamo tagli non nobili delle nostre migliori selezioni di bovino: troviamo la lingua ed il guanciale. L’unico nostro cruccio è quello di non potervi proporre anche il quinto quarto del pregiato bovino giapponese, in primo luogo perché vietato per legge e in secondo luogo, perché quei golosoni dei giapponesi se lo tengono tutto per loro. Dopo queste necessarie premesse per presentarvi l’argomento, mi concentrerò sulle frattaglie rosse quali cuore, fegato e rognone. Il cuore è una frattaglia; tecnicamente però è un muscolo involontario estremamente potente ed è proprio per questo che si differenzia dagli altri muscoli - non solo a livello funzionale ma anche a livello microscopico. Infatti il cuore è un organo cavo che funziona come una pompa pulsante atta a

muovere attraverso l’apparato circolatorio un tessuto connettivo fluido detto sangue. Le cellule muscolari cardiache hanno una struttura molto diversa dalle altre cellule muscolari. Sappiamo che variazioni strutturali a livello molecolare posso cambiare radicalmente la texture della carne ed infatti il cuore ne è un esempio lampante. Dal punto di vista nutrizionale è un alimento ricco di proteine, di vitamine ( se lo mangiate crudo o quasi crudo) ed ha un basso contenuto di grassi; questo è dovuto ad una questione anatomico funzionale del cuore. Infatti, il muscolo cardiaco trae energia dal metabolismo degli acidi grassi che non si accumulano tra le fibre muscolari come accade nei muscoli volontari (si pensi alla marezzatura delle nostre bistecche), ma in una sorta di cappottino di grasso detto appunto tessuto adiposo epicardio proprio perché avvolge il cuore senza inficiarne la mobilità e garantendo una scorta di energia sempre disponibile. Le parti del cuore gastronomicamente interessanti sono quindi le pareti muscolari che generano le cavità del cuore (atri e ventricoli) rafforzate da tenaci strutture connettivali interne ricche di elastina che costituiscono le valvole cardiache. Particolarmente interessante è il cuore di animali grandi come i bovini, dai quali con un po’ pazienza ed accurato lavoro è possibile ottenere delle vere e proprie bistecche o grossi cubi di tessuto omogeneo che si prestano a cotture rapide ad elevata temperatura. Il muscolo cardiaco è irrorato da una fitta rete di vasi sanguigni (coronarie) che ne avvolge la superficie e trasmette nutrienti alle cellule muscolari con un efficace sistema diffusivo per cui tutte le parti anatomiche del cuore sono fatte di puro tessuto muscolare, in particolare in prossimità dell’apice


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Cristina Bowerman chef presso Glass Hostaria a Roma - 1 stella Michelin

È poi possibile ricavare un vero e proprio “filetto” ovvero un taglio piuttosto grande di tessuto omogeneo che costituisce la porzione più nobile del cuore. In questo caso tratteremo la cottura del pezzo come una vera e propria bistecca, ma, non avendo infiltrazione di grassi e non potendo conservare a lungo il taglio, dovremmo correggere il tiro sulla consistenza applicando una salamoia a 5% o un dry brining. Il sapore sarà sempre molto minerale e sanguigno, con una nota dolce che deve essere equilibrata da un opportuno contesto. Un esempio calzante è l’idea della chef Cristina Bowerman a tal proposito, con il suo “Cuore di manzo con purè di patate affumicate, salsa di habanero e maionese di caffè”; mi sono innamorato subito di questa preparazione, perché richiede un rapporto intimo con la materia prima e sono sicuro che nessun macellaio probabilmente avrebbe la pazienza di dedicarsi ad un trimming così accurato, volto a tirare fuori letteralmente il cuore dal cuore di manzo. Armati di un coltello sfiletto flessibile affilato, meglio di un bisturi, bisogna procedere all’eliminazione di tutte le fibre connettivali, ed è comprensibile come questo sia un lavoro certosino, un po’ da chirurgo, ma anche molto zen.

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L’obiettivo della preparazione è ottenere una sorta di tagliata accompagnato da una parte amidacea e due salse molto strong: una salsa amara a base di caffe ed una piccante a base di peperoncino habanero. Salse e purè sono il coronamento di una ricetta a base di cuore bovino secondo me assolutamente perfetta. La cottura del cuore è sicuramente l’aspetto più critico della preparazione, ma, se ricordate gli insegnamenti dello Zio e siete già dei ninja della bistecca, questa non la potete sbagliare. Griglie o padella in ferro, temperature alta, reazione di Maillard come se non ci fosse un domani e portare a temperatura al cuore di 54°C utilizzando un forno o il grill in set up di cottura indiretta.


"Cuore di manzo con purè di patate affumicate, salsa di habanero e maionese di caffè" di chef Cristina Bowerman - foto tratta da scattidigusto.it

Per preparare la Maionese al caffè bisogna lavorare una maionese delicata e cremosa frullando un uovo, con olio, mezzo bicchiere di acqua, un pizzico di sale e un cucchiaino di caffè solubile e poi bisogna farla riposare in frigo. Per la preparazione della Salsa Habanero: stufare una grande cipolla con zucchero di canna, un pizzico di bicarbonato (il pH basico incrementa la reazione di maillard), mezzo peperone rosso, il peperoncino habanero e del sale (volendo, si potrebbero sostituire con le spezie di Sal), poi frullare, regolare di aceto e passare il composto in un colino per togliere eventuali grumi.

Consigli per impiattare: con la sac à poche, aggiungere la maionese di caffè e adagiare sopra il cuore manzo, infine aggiungere a fianco la salsa di habanero. Ma del resto del cuore? Alternativa alle cotture veloci, è la preparazione del cuore stufato, che richiede una cottura umida a bassa e costante temperatura con elementi acidi e solfurei come vino rosso e cipolla bianca in grande abbondanza così come fareste per una Genovese. La mancanza di grassi e la consistenza del connettivo quasi indistruttibile per l’abbondante presenza di elastina rende necessario l’uso di una certa abbondanza di grassi e l’aggiunta di un amido al fine di ottenere in chiusura di cottura una maggiore cremosità di uno stufato che spesso può presentarsi untuoso e slegato. Solo con una cottura lunga e con un trimming delle strutture connettivali calcificate si potrà ottenere una carne che manterrà sempre il suo carattere piacevolmente consistente. Uno stufato ricco e opulento da accompagnare con un purè classico ricco e abbondante tartufo tagliato a lamelle. Tenete d’occhio questa rubrica: abbiamo iniziato dal cuore, ma nei prossimi numeri parleremo di fegato e rognone, altre due prelibatezze da non perdere o almeno da conoscere nella propria vita da griller.

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Il purè di chef Bowerman ha una impostazione scientifica e basata su di un lavoro svolto a quattro mani con Dario Bressanini. Le patate vengono sottoposte ad una doppia cottura: precottura sous vide a 64°C x 30 (gelificazione parziale degli amidi), abbattimento in positivo (retrogradazione degli amidi) e cottura in acqua salata ad 80°C (idratazione). Le patate nuovamente raffreddate e schiacciate con lo schiaccia patate avranno una consistenza molto simile ad un purè classico, ma assolutamente privo di materia grassa. Le patate non vanno mai frullate. L’aroma di fumo sarà somministrato mediante una breve affumicatura fredda con una smoking gun.


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Maître Pâtissier - corso di pasticceria a cura del Maestro Pasticciere Pasquale Bevilacqua Pasticceria Mamma Grazia, Nocera Superiore (Salerno)

La crostatina va bene sempre! Con crema limone e frutti di bosco Con l’avvicinarsi del caldo estivo, diventa sempre più difficile offrire ai propri ospiti un dolce gustoso, che non appesantisca, che sia versatile. Il capitolo dolci invernali è decisamente più pingue, così come la nostra voglia di metterci alla prova con doppie e triple lievitazioni. Ma un pranzo o una cena non possono dirsi completi senza un dolce che ne valga la pena come conclusione.

Pasta frolla classica: non sono presenti amidi e si parte da una base di burro molto morbido, zucchero semolato ed uova intere e tuorli.

Per nostra immensa fortuna, ci corre in soccorso la pasta frolla; in particolare, ci soccorrono le crostate: relativamente semplici (se sai come farle!), è possibile farcirle con ingredienti più o meno calorici e saporiti. Si va dalle crostate farcite con composte di frutta, a quelle con creme spalmabili. La crostata è un dolce versatile e sempreverde che piace proprio a tutti. In ogni pasticceria che si rispetti, in vetrina c’è sempre una selezione di crostate, declinate secondo l’estro del pasticciere. La pastafrolla è una base ampiamente personalizzabile nella sua composizione, dando vita a dei veri propri stili e “scuole” di frolla. Noi andremo a preparare delle crostatine monoporzione, ma prima andiamo a conoscere insieme i vari tipi di pasta frolla.

Pasta frolla tipo Milano: questo tipo di frolla è molto equilibrato. Burro e zucchero sono nelle stesse quantità, cioè il 50% del peso della farina. Le uova sono pari al 10% della somma di burro, zucchero e farina.

Pasta frolla sabbiata: prevede una certa velocità e dimestichezza nel farla. Il burro deve essere lavorato velocemente con la farina, creando una “sabbia” che va a rendere impermeabile il nostro strato. C’è chi preferisce lavorare il burro a 10°C e poi aggiungere uova e zucchero, e chi invece preferisce lavorarlo a temperatura ambiente. Pasta frolla sucrée: si tratta di una base francese, molto simile alla frolla tradizionale con gli ingredienti montati a velo. Spesso, viene arricchita con farina di mandorle o nocciole.

Pasta frolla montata: molto scenica la pasta frolla montata. Non viene stesa al mattarello ma estrusa con la sac à poche, grazie ad una morbidezza eccezionale. È tutta una questione di temperatura: le uova dovranno essere alla stessa temperatura del burro. Pasta frolla Napoli: la pasta frolla “povera” per eccellenza, guscio dei nostri dolci tradizionali, spesso chiamato “pittolo”. Ideale per farciture molto umide, come quella della pastiera napoletana.

La nostra versione sarà una crostatina fatta di pasta frolla classica con una freschissima crema limone, guarnita con frutti di bosco e decorazioni di cioccolato. Ho scelto per voi questa versione molto estiva, che fungerà da “pulisci bocca” senza appesantirvi, lasciando una piacevole sensazione di freschezza, di brezza estiva.

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Pasta frolla bretone: una pasta frolla morbidissima, per crostate che non si tengono in mano. Spesso c’è l’aggiunta di amido. Si usa prima montare uova e burro a crema, per poi aggiungere il resto degli ingredienti. Non è inusuale trovare anche agenti lievitanti nella ricetta della frolla bretone.


Ingredienti per la pasta frolla: 500 g farina per pasta frolla (potete scegliere: farina di tipo 0 per una pasta frolla più tenace, invece una con W 150-180 se preferite una frolla più friabile) / 250 g burro con grassi all’82% minimo / 190 g di zucchero a velo / 1 g di sale / 1 g di vaniglia Bourbon in bacca oppure pasta di vaniglia / la buccia di un 1 limone non trattato / la buccia di 1 arancia non trattata / 1 uovo intero / 25 g di albume Preparazione: 1. In una impastatrice, unire il burro a temperatura ambiente con lo zucchero a velo, il sale, la vaniglia, la buccia di arancia e la buccia di limone. Lavorare a velocità bassa/ media fino ad ottenere un composto omogeneo. Unire la parte di idratazione in due volte e terminare in ultimo con la farina. 2. Una volta ottenuta la vostra palla di pastafrolla, stendetela con cura tra due fogli di carta forno. Dovrà avere uno spessore di 4/5 mm. Dopodiché, lasciare raffreddare in frigo per un’ora. 3. Quando la frolla vi sembrerà bene assestata, tirare fuori dal frigo e foderare gli anelli di acciaio con cura, premendo sui bordi. 4. A questo punto, è necessario far riposare ancora in frigo per qualche ora. 5. Successivamente, cuocere in forno ventilato a 160°C per 20 minuti. La vostra frolla sarà pronta quando la vedrete di un color nocciola scuro, bello uniforme.

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I ngredienti per la crema limone: 500 g di latte intero fresco / 200 g di zucchero semolato / 100 g di tuorlo d’uovo / 50 g amido di riso oppure farina / 1 bacca di vaniglia Bourbon / 1 g di sale / la buccia intera di un limone non trattato

2.

Successivamente, versate in un pentolino, posizionate su un fornello e portate questo primo preparato a 40°C. Dovrete essere abbastanza precisi, quindi dovrete aiutarvi con un termometro.

3.

Dopodiché, avendo regolarizzato la vostra infusione, coprite bene con pellicola per alimenti e lasciate riposare tutto in frigo per almeno un’ora.

4.

Trascorsa quest’ora, potrete filtrare e procedere con la preparazione, riportando la crema sul fornello.

5.

Unite lo zucchero e l’amido, avendo cura di versare una parte del latte. A questo punto, dovrebbe iniziare a crearsi la nostra cremina.

6.

Pian piano, mescolando, unite il resto del latte e il sale.

7.

Portate la crema ad 82°C: a questa temperatura, dovrebbe essere liscia e vellutata. Quando sarete soddisfatti del risultato, raffreddate in frigo fino al momento della guarnizione.

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Preparazione: 1. Versare il latte in una ciotola ed unire la vaniglia e la buccia di limone grattugiata.


Assemblaggio: 300 grammi di frutti di bosco / fili di cioccolato per decorazione a piacere (facoltativo) Preparazione: 1. Lavare con delicatezza i frutti di bosco. Eventualmente, tagliare in due o più parti quelli grandi. 2. In una sac à poche, inserite alcune cucchiaiate generose della crema, che ormai si sarà stabilizzata di temperatura e sarà diventata cremosa e lavorabile. 3. Disponete i vostri gusci di frolla sul tavolo da lavoro, in modo tale da poterli guarnire senza faticare troppo o con spazi eccessivamente ristretti. 4. Con la sac à poche, riempite i gusci di frolla in maniera generosa. Non lesinate con la crema, è la nostra co-protagonista: una volta “infranto” il muro friabile della frolla, i nostri commensali dovranno gustare pienamente la crema limone, che fungerà da “pulisci bocca” di tutte le portate principali. 5. Guarnite con i frutti di bosco e, eventualmente, le decorazioni di cioccolato. 6. Il consiglio è di conservare a temperatura di frigo e di tirarle fuori giusto 10 minuti prima del servizio, per permettere a tutti i sapori di assestarsi ma non di rovinarsi a causa delle ormai alte temperature.

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BBQ4All: FROM ZERO TO HERO

a cura di Emiliano Nencioni

Affumicatura

Q

uesto mese, nella rubrica che si sobbarca la responsabilità di farvi diventare dei maestri di cottura su fiamma, parleremo di uno step fondamentale nelle cotture barbecue e nelle tecniche che prevedano una permanenza in griglia ben più lunga del solito “pochi secondi per lato”: l’affumicatura. I più lesti di voi lo avevano già intuìto dall’indice o dal titolo. L’affumicatura è un passaggio tanto fondamentale quanto controverso, malinteso, mistificato e in buona sostanza spesso raccontato male. In queste pagine proveremo ad affrontare la pratica in termini squisitamente operativi, senza buttare opinioni a caso, avvalendoci di dati sperimentali, quantificabili e scientifici. Nello specifico in queste pagine verrà trattata una particolare nicchia dell’affumicatura, quella a caldo, eseguibile sui normali dispositivi amatoriali in possesso della maggior parte dei grigliatori: niente affumicatura a freddo, niente processi industriali da eseguire in enormi camere a temperatura e umidità controllata, nessun distillato di fumo liquido: pura e semplice affumicatura durante la cottura della pietanza, tramite combustione incompleta di legno aromatico.

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Cosa vi serve Le uniche cose che dovete giocoforza procurarvi sono un dispositivo di cottura da esterno (no, non vi insegneremo come affumicare uno stinco di maiale in salotto, e sì, sappiamo che qualcuno in passato ha sostenuto di farlo regolarmente) con una camera di cottura chiusa e una sufficiente quantità di legni aromatici. Come dispositivo andrà bene il classico kettle a forma di boa, o un più lussuoso e dispendioso outdoor cooker con i bruciatori a gas: probabilmente troverete più facile iniziare con un kettle normalissimo, di buona fattura e alimentato a carbone. Per la legna è tassativo escludere ogni essenza resinosa (pino, abete, insomma niente conifere e sempreverdi in genere) e tutti i tagli troppo “verdi” e non stagionati: una buona scelta, specie quando si è all’inizio, è comprare la legna aromatica già imbustata e selezionata alla bisogna, reperibile ormai anche al supermercato tramite i marchi più noti della scena BBQ. I due formati principali di legna aromatica in commercio sono le chips, scaglie di legno sottili e dalla breve durata, presenti in qualsiasi centro commerciale, e i chunk, pezzi grandi poco meno di un pugno, più efficaci ed efficienti ma al momento reperibili solo online o in pochi negozi specializzati.


Le basi Non avrete mica pensato di imbattervi in una nostra guida senza un doveroso paragrafo pieno di dati, temperature, composti chimici e nomenclatura IUPAC? Figuriamoci. Possiamo dividere il generico processo di combustione del legno in quattro fasi: Fino a 260°C: il legno inizia ad essiccarsi, rilasciando vapore e diossido di carbonio. La combustione è priva di fiamma e non produce calore (assorbendolo in realtà dal combustibile, nel nostro caso dal carbone o dal bruciatore a gas).. Tra 260°C e 360°C: il legno inizia a rilasciare gas infiammabili e liquidi oleosi; iniziano a vedersi alcune fiamme. Tra 360°C e 500°C: emissione di monossido di azoto e di alcuni composti tra i quali siringolo (2-idrossi-1,3-dimetossibenzene) e guaiacolo (2-metossifenolo). Proprio questi ultimi sono i responsabili dell’aroma affumicato. Il guaiacolo si trova in commercio come principale componente del cosiddetto “fumo liquido”, un additivo alimentare per insaporire “di fumo” ogni pietanza. Sopra i 500°C - 550°C: del legno rimane solo cenere o carbonio, del tutto inutile dal punto di vista aromatico. Siringolo e guaiacolo hanno il ruolo da protagonisti in questa delicata giostra dell’affumicatura: proprio loro, investendo e inondando le pietanze, fanno percepire al palato umano quel gradevole aroma. L’immancabile dispetto della natura beffarda è che sono anche dei micidiali irritanti di tutto il tratto digerente, responsabili di quella sovrastante sensazione di pentimento che vi assalirà il mattino seguente ad una incauta sovraffumicatura. E ti pareva. Quell'elusivo fumo azzurrino... Avrete probabilmente già fatto una veloce ricerca sui siti più specializzati, e riguardo all’affumicatura tutti si concentrano sull’irrinunciabile meta della produzione di thin blue smoke, un sottile fumino azzurro. Esiste chi è pronto ad affermare di averlo visto. In realtà, non è affatto blu, o azzurro: è solo un modo ormai accettato per far intendere che i migliori risultati si hanno quando il fumo non è né bianco né nero. Grigio o incolore, forse; blu, con un po’ troppa fantasia: ma il mondo del barbecue lo chiama così e noi ci allineeremo a questo. Tutto questo ha un suo senso molto preciso: Non lo vogliamo bianco: il bianco indica vapore, fa sicuramente un sacco di scena e conquista gli astanti, incanta gli inesperti, ma no, il vapore non affumica. Al massimo, il vapore bagna.

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Non lo vogliamo nero: il fumo è ceruleo (grigiastro, azzurrino, insomma thin blue smoke) quando le particelle in sospensione sono grandi nell’ordine del micron; particelle più grosse compongono fumo molto più scuro, ma sono la parte amara, sporca e disgustosa del fumo. L’unico modo di avvicinarsi all’optimum del fumo sottile quindi è bruciare con combustione incompleta del legname aromatico asciutto. Parlando terra terra, l’essenza deve bruciare piano piano, annerendosi lentamente senza grosse fiammate. Vediamo come.

Modalità operative Ecco la parte dell’articolo da fotografare col cellulare e salvare nei preferiti, per avere pronta all’uso una guida passo passo.

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Nel kettle a carbonella: procedendo come per il setup di una cottura indiretta, versate le bricchette già precedentemente arroventate con il cesto

accenditore su metà della griglia carboni, in maniera da dividere la griglia pietanze in una zona “calda” e in una zona non direttamente investita del calore del combustibile. Mettete una manciata di chips o un paio di chunk sulle bricchette, la pietanza ben adagiata sul lato opposto della griglia e chiudete il coperchio, avendo l’accortezza di posizionare la vent out (la bocchetta di sfiato presente sul coperchio) dal lato opposto rispetto al carbone, così da favorire la formazione di moti circolari che aiutino il cibo ad essere investito dal fumo. Regolate come al solito la temperatura giostrandovi con le bocchette di entrata ed uscita l’afflusso del comburente. Attenzione, aprire il coperchio “per vedere come va” vanificherà gran parte dei vostri sforzi, e porterà a una repentina combustione delle chips dovuta a una brusca introduzione di ossigeno in camera di cottura. Nei dispositivi a gas: molti prodotti in commercio hanno un’area o un recipiente apposito dove collocare la legna aromatica, usate quella. Se il vostro dispositivo ne fosse sprovvisto potete


l’uso di materiale piccolo come le chips, perchè i volumi di aria, di cibo e di carbone in gioco sono ben maggiori che in un kettle) sulla griglia carboni assieme alle bricchette o al carbone arroventato, destreggiatevi nella stabilizzazione della temperatura regolando le bocchette e con il tempo fisica e chimica faranno tutto il lavoro al posto vostro.

Nei bullet smoker: questi dispositivi cilindrici sono dei prodotti super specializzati per l’affumicatura e la cottura barbecue, e presentano alcuni accorgimenti per facilitare tutta la procedura. Di solito le griglie pietanze sono due (o più), e entrambi completamente utilizzabili per ospitare il cibo, senza dover porzionare in zona irradiata e non irradiata dal carbone: un deflettore metallico atto a contenere una certa quantità d’acqua (waterpan) si interpone infatti fra combustibile e pietanze in cottura, bloccando l’irraggiamento diretto e disponendo tutto per una cottura indiretta. L’acqua eventualmente presente nel waterpan funge anche da volano termico, assicurando una temperatura più stabile. Per l’affumicatura disponete un buon numero di chunk (qui ha molto meno senso

Epilogo A qualcuno, anni fa, venne in mente di scrivere sulla busta delle chips di legna più vendute al mondo “tenere in ammollo per 90 minuti prima di affumicare”, e questo ha generato una serie di falsi miti. Ci siamo spesi molte volte in una piccola guerra personale contro questa abitudine, e per lo scopo di questo articolo vi basterà sapere che no, non serve bagnare la legna per l’affumicatura; quel fumo più denso e più appagante che si può apprezzare affogando le chips nei liquidi più disparati è -alla fine- in gran parte solo inutile vapore. Vi rimando alla lettura di “Tanto fumo e niente fumo”, presente su queste stesse pagine nel numero di Settembre 2019.

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comprare per pochi euro una sorta di scatolina metallica forellata, da mettere in vicinanza del bruciatore, per far scaldare la legna aromatica senza creare pericolose fiammate all’interno della camera di cottura. La disposizione delle pietanze sarà quella solita delle cotture indirette, con le stesse modalità della cottura con kettle.


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La ricetta scientifica a cura di Gianfranco Lo Cascio

di

L'

insalata

riso

Okay, okay, il proverbio non dice proprio così, ma il passaggio sulla maionese è verissimo. Io preparo l’insalata di riso solo per abbracciarla con una ricca e voluttuosa dose di salsa. Dopo avere ingegnerizzato con scrupolosità la ricetta, ovviamente. L’insalata di riso, lo dice il nome, è il piatto estivo per antonomasia: un mix di ingredienti (cotti e crudi) che impreziosiscono il pallido cereale, troppo spesso paludato dagli esecrabili condimenti in barattolo. Dire “insalata” non identifica veramente un cibo,

bensì un modo di prepararlo, di condirlo. Gli antichi latini la chiamavano acetaria, spostando il focus su un altro condimento che ritenevano essenziale, ovvero l’aceto. La parola insalata è presente nel nostro vocabolario con il suo significato attuale dal 1342. Il nome proviene dal participio passato femminile del verbo insalare, oggi desueto ma presente in Dante (“dove l’acqua di Tevere s’insala”), formato dai termini “in” e “sale”. L’insalata è quindi “ciò che si sala”, o per meglio dire “la verdura che si condisce con sale”. Anche in francese il termine salade è a sua volta un sostantivo preso dal participio passato femminile del verbo provenzale salar.

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"L’insalata di riso vuole il sale da un sapiente, l’olio da un prodigo, essere mescolata da un matto, mangiata da un affamato e riempita di maionese da me.”


IL MIX PERFETTO

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Per assemblare una vera insalata di riso coi controcapperi basta seguire poche fondamentali regole. Fate attenzione a queste quattro macro-categorie: 1. Sensoriale. La nostra insalata può dare stimoli chimici, termici, meccanici, dolorosi, chemestesici ed emozionali. Gli stessi elementi che veicolano il senso dell’UMAMI. 2. Salutistica. La nostra insalata di riso fornisce fibre, vitamine, sali minerali e antiossidanti. 3. Nutrizionale. La nostra insalata di riso è equilibrata nel rapporto tra carboidrati, proteine e grassi. 4. Gourmet. La nostra insalata di riso è prima organoletticamente buona, poi tutto ciò che vogliamo rappresentare.


GLI INGREDIENTI

L’insalata di riso nasce tradizionalmente come piatto unico, spesso svuota-frigo, dove il riso viene amalgamato ad altri ingredienti (salumi, formaggi, uova sode, sottoli, sottaceti e vegetali) e alle salse. Una ciotola unica, da parcheggiare nella parte alta del frigorifero per troppe albe e troppi tramonti d’estate. Ma perché non provare a costruire e servire le mescolanza di Oryza sativa in maniera diversa, lasciando al commensale la libertà e il divertimento di assemblare e personalizzare la propria porzione? Immaginate un cuore candido di riso, leggermente sgranato con poco olio extravergine di oliva, e intorno tutti gli ortaggi e le prelibatezze con cui infarcirlo. Meglio dello scodellone con chicchi mollicci, pezzetti verdognoli e trucioli di materiali edili, no? Consiglio di partire dai componenti fondamentali, per poi aggiungerne altri, magari inconsueti.

ORTAGGI Sono tantissimi, hanno sapori decisi e consistenza perlopiù croccante. I diversi tagli permettono di variarne la percezione al palato. A FOGLIA Erbe aromatiche. Inutile elencarle tutte, aggiunte all’insalata, basilico, prezzemolo, origano fresco e maggiorana danno aroma e sapore. DA FRUTTO Pomodori, melanzane, peperoni, zucchini, cetrioli e avocado. Crudi, alla piastra, al vapore o appena sbianchiti e poi raffreddati. Hanno un sapore spiccato e distintivo. DA FUSTO Sedano. Gusto deciso e consistenza croccante, oltre a una componente aromatica molto forte.

DA TUBERO Patata, patata dolce, topinambur, zenzero (che è un rizoma, più tubero che radice). Estremamente versatili.

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DA RADICE Carote, barbabietole, rape, ravanelli, daikon e sedano rapa. Vagamente dolci, aggiungono croccantezza, sapore e note pungenti (soprattutto ravanello e daikon).


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FRUTTA Aggiunta all’insalata di riso, la frutta dà un tocco di stile. Fresca, in piccoli pezzi, affettata o tagliata a fiammiferini, aggiunge dolcezza e acidità. UMAMI Alcuni ingredienti apportano una forte carica di sapore, potremmo dire che parlano ad un “volume" molto alto. Anche in piccole quantità fanno godere le papille gustative, controparti utilissime per i vegetali meno gustosi. Ce ne sono tanti, ma possiamo provare a classificarli. FORMAGGI STAGIONATI O ERBORINATI Gorgonzola, Roquefort, Feta, Caprini, Parmigiano Reggiano 48/72 mesi, pecorini, tome, primosale. Stimolano la salivazione e non soverchiano gli altri sapori. Sbizzarritevi anche con la forma: briciole, petali, scaglie o fiammiferi. SALUMI Selezionate il meglio: speck, culatello, il migliore prosciutto crudo o cotto, mortadella a pezzettoni. Qualche etto concentra gusto e sapidità come poco altro. LEGUMI Fagioli, ottimi quelli di Controne, i borlotti e i bianchi di Spagna, ceci,

fave, lupini, piselli. Cotti ma ancora un po’ tenaci. Scolati, asciutti e sgranati aggiungono sapore e consistenze diverse. SOTTOLI E SOTTACETI Funghi, olive, peperoni, melanzane, carciofini, ortaggi grigliati, tonno e pomodori secchi. Cercate il prodotto giusto, anche di nicchia se serve, ne basta poco per ricavare una potenza gustativa unica. PRODOTTI CONSERVATI NEL SALE Olive nere e verdi, capperi. Aroma e picco sapido, da aggiungere interi o tagliati a piccoli pezzi. ELEMENTO CROCCANTE Serve a fornire percezioni meccaniche di contrasto. Vivacizzano l’insalata di riso e la rendono golosa. FRUTTA SECCA Mandorle, nocciole, noci, pistacchi, anacardi, semi di sesamo, eccetera. Carica energetica per aggiungere sapore e contrasto. DRESSING Definirlo condimento sarebbe riduttivo. Il dressing è un concentrato di tecnica e conoscenza che decreta il successo di un’insalata di riso.


Partiamo dalla base dell’insalata, dall’elemento portante: la scelta e la cottura del riso. Dal punto di vista commerciale, il riso si classifica in quattro gruppi: comune originario, semifino, fino e superfino. Questa distinzione si basa su forma e dimensioni del chicco. Il comune è tondeggiante mentre il superfino è lungo e ha dimensioni maggiori.

I RISI COMUNI Hanno chicchi piccoli e tondi, cuociono velocemente (in 12-13 minuti) e sono molto indicati per minestre e dolci. Le varietà che appartengono a questa tipologia sono il Rubino, il Bali, il Ticinese, il Selenio, il Pierrot, il Razza 253, l'Americano 1660, l'Elio, l'Auro, il Raffaello, il Cripto e il riso Originario. IL RISO ORIGINARIO Chiamato anche riso Comune o Balilla, è una cultivar molto antica e già classificata negli anni '20 del Novecento. Si tratta di un prodotto molto economico e saziante, la prima scelta delle famiglie meno abbienti del ventennio. Ha chicchi corti e tondi e un'elevata capacità di assorbimento dei liquidi, i tempi di cottura sono molto brevi, tra i 13 e i 15 minuti, ed è perfetto per preparare anche torte e dolci, minestre e minestroni I RISI SEMIFINI Hanno chicchi tondi di lunghezza media. La cottura si aggira intorno ai 13-15 minuti. Perfetti per condimenti in bianco, timballi e antipasti. Fanno parte di questa categoria il Titanio, il Monticelli, l'Italico, il Maratelli, il Piemonte, il Padano, l'Argo e il Vialone Nano. Ma anche varietà più ricercate come il Lido, il Romeo e il Rosa Marchetti.

I RISI FINI I chicchi dei risi fini sono lunghi e affusolati e hanno tempi di cottura non inferiori ai 16 minuti. Tengono molto bene la cottura e sono quindi adatti alla preparazione di risotti e insalate, dove i granelli devono restare ben separati tra di loro. Fanno parte del gruppo l'Europa, il R.B., il Ringo, il Romanico, il P. Marchetti, il Radon, il Veneria, il Rizzotto, il riso Ariete, il Bonnet, il Loto, il Molo, il Riva, il Cervo, il riso Drago, il riso Smeraldo, il Vialone nero, il pregiato Sant'Andrea e il Ribe. I RISI SUPERFINI Sono il meglio del meglio, si distinguono per i chicchi grossi e molto lunghi. La loro cottura non è inferiore ai 17-18 minuti, ma in alcuni casi può arrivare anche a 20. Perfetti per i risotti, grazie alla quantità di amido che rilasciano in cottura e alla loro capacità di assorbimento di acqua e contorni. Fanno parte di questa categoria: il Redi, l'Arborio, il Volano, il Roma, il Razza 77, l'Ilapatna, il Silla, il Gritna, il Koral, l'Onda, il riso Strella, il Miara, il Panda, il riso Vela, il riso Star, il riso Baldo e il più pregiato di tutti, il Carnaroli. IL RISO ROMA La varietà Roma è il compromesso ideale. Un riso a chicco lungo, affusolato e perlato (quest’ultima caratteristica lo distingue dal riso Baldo, a prima vista molto simile). Molto versatile in cucina, anche grazie ai suoi tempi di cottura contenuti, assorbe bene i liquidi grazie al chicco corposo, caratteristica fondamentale per la riuscita di un buon timballo, sformato o riso in bianco. Nato nel 1931, si coltiva in tutte le terre da riso del nostro Paese: dalla prevedibile Lombardia, passando per il Piemonte e finendo con la Sardegna. Anche il riso Baldo e il Carnaroli si prestano allo scopo.

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IL RISO


RISO: LA COTTURA PER ASSORBIMENTO Cuocere il riso è facile, ma cuocerlo bene non lo è affatto. Può attaccarsi alla pentola, scuocere, diventare appiccicoso. Per fronteggiare tutti gli incidenti culinari del caso si sono inventati il riso parboiled, dall’inglese partially boiled, parzialmente bollito. Dopo essere stato posto in ceste metalliche e lasciato immerso in acqua calda a 50°C, questo riso “truccato” viene trattato con getti di vapore sotto pressione che indurisce l’amido presente in superficie. Successivamente viene “sbramato” ed essiccato. Il chicco del riso parboiled non scuoce e assorbe meno grassi, non si ammassa e risulta particolarmente digeribile e indicato per piatti freddi, pilaf e timballi. Detta così sembra un’invenzione geniale, ma vi assicuro che c’è la fregatura, nello specifico nella cremosità e nel sapore. Il riso parboiled, non liberando amido durante la fase di cottura, non si amalgama e richiede giocoforza l’aggiunta di altri ingredienti per renderlo commestibile. Come se non bastasse, avendo la superficie molto liscia, il chicco trattiene poco condimento.

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“Sì ma mia mamma fa l’insalata di riso con quello parboiled da una vita e viene un bijoux!” Non lo metto in dubbio, ma la mia insalata di riso non nasce per essere mescolata, non necessita di un chicco che rimanga turgido a contatto con ingredienti ricchi di umidità. Per questo vi sconsiglio di utilizzarlo, con il beneplacito delle vostre mamme. Come con le patate o la pasta, la sfida principale quando si cucina

il riso è capire come controllare gli amidi. Mentre le prime sono spesso cotte in molta acqua per lavare via l'amido in eccesso, il riso richiede un metodo di cottura più preciso. Se si fa bollire e si scola, si finisce per lavarne via il sapore delicato e per inzuppare eccessivamente i chicchi. Quindi si cuoce meglio con una quantità misurata di acqua in una pentola coperta, per scongiurarne l’evaporazione. II granuli di amido, che sono il componente primario del riso, tendono a non assorbire liquidi a temperatura ambiente. Mentre si riscalda il riso in acqua, invece, l'energia delle molecole del fluido in rapido movimento comincia ad allentare i legami tra le molecole di amido, permettendo all'acqua di penetrare. Questo a sua volta causa il rigonfiamento dei granuli di amido, i quali rilasciano alcune molecole gommose che poi agiscono come una colla per tenere insieme i chicchi. Il riso, a questo punto, si ammorbidisce e diventa appiccicoso o “inamidato". Come i nostri tuberi preferiti, il riso contiene due tipi di molecole di amido: l'amilosio e l'amilopectina. La quantità di amilosio e il contenuto proteico dei granuli di amido determinano le proprietà strutturali del riso - da sgranato e tenero ad appiccicoso e gommoso - quando è cotto. Eccezioni permettendo, il riso con un più alto contenuto di amilosio e proteine (come il riso a chicco lungo), una volta cotto, si presenta in grani separati, leggeri e teneri. Al contrario, il riso con un basso contenuto di amilosio e proteine (come l’Arborio) risulta piuttosto umido e cremoso, con chicchi che tendono ad appiccicarsi l’un l’altro. A causa delle differenze nel contenuto di


amilosio e proteine, i granuli di amido nel riso a chicco lungo si gonfiano e gelatinizzano a una temperatura molto più alta (70°C) rispetto ai granuli nel riso a chicco medio (62°C). I granuli di amido che gelatinizzano ad una temperatura più bassa rilasciano più amilosio, anche anche se ne contengono meno. Questo fa sì che i chicchi si attacchino tra loro. Il riso a chicco lungo contiene circa il 22% di amilosio e l'8,5% di proteine, e i grani sono da quattro a cinque volte più lunghi di quanto siano larghi. Necessita di più acqua per cuocere e, una volta cotto, rimane in grani separati che si induriscono man mano che si raffreddano (a causa del più alto contenuto di amilosio, sempre lui).

Il chicco corto contiene circa il 15% di amilosio e il 6% di proteine ed è quasi rotondo. Si cuoce in quantità d'acqua ridotte e può essere abbastanza appiccicoso e tenero da cotto. È l’ideale per piatti come sushi, in cui i chicchi devono rimanere praticamente incollati.

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Il riso a chicco medio contiene circa il 18% di amilosio e il 6,5% di proteine, e i grani sono da due a tre volte più lunghi di quanto siano larghi. Questo riso ha bisogno di un un po' meno acqua per cuocere rispetto al riso a chicco lungo e risulta tenero e leggermente appiccicoso.


LA RICETTA DEL RISO COTTO PER ASSORBIMENTO Dose per 8 persone

INGREDIENTI • 1 kg di riso (Roma / Baldo / Carnaroli / Ribe / Jasmine) • 2 l di acqua PROCEDIMENTO 1. Mettete il riso in uno scolapasta o in un colino a maglie fini e sciacquatelo abbondantemente con acqua fredda. Servirà ad eliminare l’amido in eccesso. 2. Trasferite il riso in un tegame e versate l’acqua a temperatura ambiente, mescolando continuamente fino a quando i chicchi diventano “gessosi” e opachi (da 1 a 3 minuti). Alzate la fiamma e portate ad ebollizione.

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3. Abbassate la fiamma, coprite con il coperchio e cuocete a fuoco lento fino a quando tutto il liquido non sarà stato assorbito.


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PRESERVARE IL COLORE VERDE Cos’hanno in comune i fagiolini, i piselli e le fave? Esatto, il colore verde. Una connotazione cromatica difficile da preservare in presenza di calore. Per fortuna noi conosciamo il metodo scientifico per risolvere il problema. L’ossidazione è un processo noto ed è causato da un complesso di enzimi che si chiamano polifenolossidasi. Vi basterà immergere l’ingrediente per 10 secondi nell’acqua bollente, poiché l’enzima si disattiva tra gli 80°C e i 95°C, e poi immediatamente in acqua e ghiaccio per ottenere verdurine quasi fosforescenti. Piccolo segreto dello chef: per preservare la brillantezza in maniera ancora più efficace potete aggiungere un pizzico di acido citrico o in alternativa un cucchiaino di succo di limone.

Piselli, fagiolini e fave Per verdurine ancora croccanti, impostate il bagno termostatico a 84°C. Cuocete 500 grammi di ogni ingrediente, sempre per 8 commensali. PER I PISELLI Inserite i piselli sbianchiti (o surgelati) in un sacchetto con poca scorza di limone, olio extravergine di oliva, un pizzico di aglio in polvere, sale e pepe. Cuocete per 20 minuti (fino ad un’ora).

PER I FAGIOLINI Fagiolini sbianchiti nel sacchetto, filo d’olio, sale, pepe e buccia di lime. Cuocete per 20 minuti.

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PER LE FAVE Come sopra, ma condendo con olio, sale, pepe e qualche foglia di basilico (anch’esso sbianchito). Cuocete per 20 minuti (fino ad un’ora).


Peperoni,melanzane e zucchine Conoscete l’ember roasting? Non è un incantesimo di Dungeons&Dragons ma la cottura a contatto diretto con le braci. Gli alimenti più idonei a questa tecnica sono senza ombra di dubbio le verdure: la loro buccia è perfetta per schermare il calore delle braci e proteggerne il cuore. Inoltre, data l’importante presenza di acqua di vegetazione, la cottura della polpa interna avverrà grazie al vapore generato dal calore. La procedura da seguire è semplice: assicuriamoci che il carbone sia ben acceso e con un leggero velo di cenere bianca, poi prendiamo l’alimento e lo posizioniamo sulle braci. Più volte andremo a girarlo, più il sentore di affumicato della polpa sarà intenso, grazie alla maggiore quantità di buccia interessata dalla carbonizzazione superficiale.

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Una volta che il nostro ortaggio sarà cedevole al tatto e avvizzito andante alla vista sarà pronto per essere tolto dalla cottura, pulito dalle parti carbonizzate e utilizzato per altre preparazioni. Provateci coi peperoni, per l’insalata ve ne baste-

ranno 4: vanno girati più volte in modo da carbonizzare più pelle possibile, in questo modo sarà più facile eliminarla dopo la cottura. Per capire quando sono pronti è sufficiente bucarli con uno stuzzicadenti o con la punta di un termometro per alimenti. La punta dovrà entrare senza incontrare resistenza ma senza sfilacciare la polpa. I peperoni dovranno essere spellati e andranno rimossi semi e filamenti interni prima del successivo utilizzo. Provate a tagliarli a listarelle e a condirli semplicemente con olio, aglio e un trito di erbe aromatiche. Lasciate che si insaporiscano per un paio d’ore e poi serviteli col riso. Se volete, potete spruzzare qualche goccia di limone per donare una punta di acidità. Non potete accendere il dispositivo o siete a secco di carbone? Sfiammate il peperone con un cannello, come ho fatto io. Una volta fiammeggiato a modino, grattate via la pelle bruciacchiata con il dorso di un coltello, eliminate i semini e tutto il resto e tagliate a listarelle, come descritto sopra.


scaldatelo a 84°C. Tagliate le carote a filetti, in senso verticale. Nel sacchetto aggiungete un pezzetto di burro, rametti di timo delle dimensioni di un pollice, mezzo cucchiaio di scorza di limone, un pizzico di sale e pepe. Tenete il sacchetto nel bagno termostatico per un’ora. Poi raffreddatelo immediatamente con acqua e ghiaccio e conservatelo in frigo, senza aprirlo.

Fate la stessa cosa con le zucchine, 4 saranno sufficienti. Tagliatele a rondelle spesse 3mm e sistematele su una teglia forata. Lasciatele essiccare a 50°C per mezzo’ora e friggetele in olio di semi di arachidi bollente (160°C-180°C). Una volta freddate, conditele con abbondante basilico e aceto balsamico.

PATATE. I nostri tuberi preferiti vanno nel sous vide a 90 gradi per 90 minuti. Tagliate 1kg di patate (pelate) a cubetti o a fette spesse e lasciate cuocere con una nocina di burro, sale e pepe macinato grossolanamente. Raffreddate e mettete da parte.

Patate, carote e legumi Per ottenere la sfumatura di cottura ideale affidatevi al sous vide. CAROTE Ve ne basteranno 6. Preparate il sous vide e preri-

LEGUMI SECCHI (FAGIOLI, CECI, CICERCHIE) Immergete 200 grammi di legumi secchi in un litro di acqua per 16 ore, parcheggiateli in frigorifero. Quindi trasferiteli nei sacchetti, aggiungete 400 grammi di acqua e cuoceteli a 90°C per 75/90 minuti. Fate raffreddare e conditeli con olio extravergine di oliva, sale, pepe e una cipolla di Tropea affettata finemente e sbianchita in acqua fredda e aceto di mela in rapporto 1:1.

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E le melanzane? Prendetene due, di grosse dimensioni (lunga viola, napoletana o violetta palermitana), tagliatele a fette spesse 5mm o a striscioline e fatele asciugare in forno ventilato a 50°C per 3060 minuti. Il passaggio a contatto con il calore secco servirà ad asciugare la superficie e favorire la formazione della crosta di cauterizzazione. Quindi friggete le melanzane in olio di semi di arachidi a più non posso e tenetele da parte.


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CIPOLLOTTI MARINATI Bilanciare un’insalata di riso con più elementi acidi è fondamentale. Il topping che manca al nostro piatto freddo del cuore è il cipollotto marinato, che si fa così: INGREDIENTI • 4 cipollotti freschi • 3 parti di aceto di vino rosso • 1 parte di succo di arancia • Sale q.b.

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PROCEDIMENTO: Liberate i cipollotti dalla parte verde apicale, tagliateli a filetti e immergeteli in una miscela di aceto di vino rosso e succo d’arancia appena spremuto. Lasciate ammalvire e scolate il tutto, risciacquate velocemente sotto un getto di acqua freddissima e condite con olio extravergine di oliva, chiffonade di basilico (tagliato in filamenti) e sale.


LE SALSE Partiamo con il classico dei classici, l’invenzione del secolo, il cibo degli dei. Iniziamo con la mia salsa (e cosa) preferita al mondo: la maionese. Ma prima un doveroso recap sulle emulsioni, per gli abbonati dell’ultima ora.

Che cos’è un’emulsione? Per spiegare cos'è, partiamo dalla maio­ nese: è un’emulsione di olio, senape e una parte acida tenuta insieme dall’uovo che fa da agente emulsionante. Olio e acqua non si mescolano, lo sanno proprio tutti. Eppure pochi sanno perché. Le molecole d'acqua sono elettricamente sbilanciate, o polari: ognuna ha una leggera carica positiva intorno all'atomo di ossigeno e cariche negative parziali intorno ai due atomi di idrogeno. Le molecole d'acqua tendono quindi a legarsi tra loro perché l'estremità negativa di una attrae l'estremità positiva di un'altra. Ma le molecole di olio, essendo apolari non interagiscono così bene con l'acqua come l'acqua si mescola con se stessa. Infatti, gli scienziati si riferiscono ai grassi come molecole idrofobe, ovvero che “temono” l'acqua.

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Se mescoliamo molto forte acqua e olio, questo si frammenterà in goccioline piccole piccole, che tuttavia non si scioglieranno mai veramente nell'acqua. A occhio nudo può sembrare che si mescolino perché le goccioline sospese hanno la capacità di diventare microscopiche. Le emulsioni sono meta-stabili, significa che, trascorsa una frazione di tempo, si separano negli elementi che le compongono. Ma questo non vuol dire che non si possa fare nulla per legare più a lungo queste componenti. Le goccioline d'olio o le bolle d'aria sospese in un liquido sembrano e si comportano come particelle solide. Queste particelle influenzano la capacità

dell'acqua di muoversi e quindi conferiscono alla miscela proprietà distintive. In qualsiasi emulsione, sono due gli elementi imprescindibili: olio (o grasso liquido) e acqua (o qualsiasi liquido a base d'acqua). Uno di questi elementi svolge il ruolo della fase continua (detta anche fase disperdente), che è la porzione che sospende le goccioline dell'altro elemento, detta fase dispersa o discontinua. Se la fase continua è acqua e la fase dispersa è olio, questa viene chiamata emulsione olio-acqua, o emulsione O/A. Il latte, allo stato naturale, è un'emulsione O/A con particelle di grasso di latte disperse in tutta la fase acquosa continua. Anche la panna e la maionese sono emulsioni O/A. Per quanto riguarda il rovescio della medaglia, il burro è un esempio di un'emulsione acqua-in-olio, o A/O. Qui un elemento oleoso (grasso del burro) sospende uno stato disperso dell'acqua dalla panna. Una parte del grasso del burro si solidifica in minuscoli cristalli che aiutano a stabilizzare l'emulsione. E come facciamo per rendere stabile un’emulsione? ridurre le goccioline alla dimensione più piccola possibile aiuta a creare un composto relativamente stabile per sua natura. Ma per far sì che l’emulsione duri a lungo è necessario aggiungere un emulsionante, un agente che aiuti a creare o a rompere un’emulsione. Di base, le miscele di emulsionanti funzionano meglio di un emulsionante solo. Una regola generale è che il volume di un emulsionante O/A deve essere circa il 5% del volume della fase oleosa. Uno tra gli emulsionanti più potenti ce l’avete in cucina, è il tuorlo d’uovo, ricchissimo di lecitine. Detto questo, passiamo alla parte divertente.


LA MAIONESE CLASSICA

dose per 400gr circa

INGREDIENTI: • 1 uovo intero (56 g) • 2 tuorli (36 g) • 20 g di senape • 125 g di olio di semi • 125 g di olio extravergine d'oliva • 10 g succo di limone • 10 g di aceto distillato di alcol (o aceto bianco) • 3 g di sale PROCEDIMENTO Prendete 3 uova e sistematele in un bagno termostatico a 57°C per 1 ora e 15 minuti. Questa è una tecnica di pastorizzazione molto rapida ed affidabile di cui non vi avevo mai parlato, provatela. Terminata la pastorizzazione, versate nel bicchiere del mixer i tuorli e l'uovo intero, il succo di limone, la senape e il sale. Iniziate ad emulsionare con il mixer ad immersione (se non si emulsiona subito il tuorlo tende a coagulare). Versate a filo, molto lentamente, l'olio continuando sempre a frullare. Proseguite con l'olio extravergine d’oliva versato sempre a filo. Terminate con l'aceto continuando ad emulsionare ancora un attimo, vedrete che entro pochi minuti acquisirà la consistenza giusta.

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Questa maionese si conserva in frigo per due settimane


LA MAIONESE DI POMODORO dose per 400gr circa

INGREDIENTI: • 4 tuorli (145g circa) pastorizzati (come sopra) • 145 g di polpa di pomodoro • olio extravergine d’oliva q.b. o olio al pomodoro (vedi ricetta scientifica del numero di Maggio 2021) • 3 g di sale PROCEDIMENTO Prendete dei pomodori da insalata, quelli tondi andranno benissimo. Privateli della polpa e dei liquidi di vegetazione e tenete da parte le coste, per fare una concassé (una dadolata insomma).

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Filtrate la polpa con un colino ed eliminate tutti i semi, quindi emulsionate con il frullatore ad immersione con il sale. Aggiungete l’olio al pomodoro (o l’olio extravergine di oliva) a filo ed emulsionate fin quando la maionese non diventa come in foto.


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L'INSALATA DI RISO SCIENTIFICA Se avete svolto tutti i compitini, vi ritroverete con tutta questa sfilza di ingredienti già belli che pronti. Facciamo l’elenco di rito INGREDIENTI dosi per 8 persone • • • • • • • • • • • •

6 carote a filetti già cotte 8 fettine di limone fresco 100 g di cucunci (frutti del cappero) 200 g di olive verdi in salamoia 2 ravanelli tagliati a fettine sottilissime 300 g di prosciutto crudo a listerelle 300 g di mortadella tagliata a tocchetti 4 peperoni già pronti 4 zucchine fritte 500 g di fagiolini al lime Concassé di pomodori avanzati dalla maionese 200 g di olive nere sott'olio

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4 cipollotti marinati 500 g di piselli pronti 1 kg di patate lesse e condite 2 melanzane già fritte 500 g di fave o fagioli/ceci 1 mela verde tagliata a fettine 250 g di frutta secca mista e tostata (noci, anacardi, mandorle, pistacchi, noci di macadamia, arachidi, noci brasiliane ecc..)

da accompagnare con • Maionese classica • Maionese di pomodoro

PER IL SERVIZIO Predisponete un piatto piano bello spazioso per ogni commensale e impiattate 150 grammi circa di riso cotto (leggermente sgranato con poco olio), giusto nel mezzo. Divertitevi a disporre a raggiera tutti i topping, lasciando agli ospiti la libertà di dosarli in base ai propri gusti. Non vi scordate di accompagnare l’insalata di riso con due ciotoline o due piccoli squeezer riempiti di maionese e maionese di pomodoro. Sedetevi con i vostri compagni di desco e godetevi lo spettacolo delle menti creative e affaccendate ad assemblare l’insalata di riso più bella e più buona. Subito dopo, con piglio da strateghi delle padelle, riflettete sulla frase che segue.

“Fare una buona insalata di riso vuol dire essere un diplomatico brillante, il problema è identico in entrambi i casi: sapere esattamente quanto olio bisogna mettere assieme all’aceto.”

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Gianfranco Lo Cascio


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Aspettative, delusioni, allegorie.

[Non è un refuso] Seguo

a cura di Emiliano Nencioni

Aveta mai rovinato una grigliata? E non intendo dire “resa non esattamente ottimale”, ma proprio rovinata, devastata, resa un brutto ricordo per tutti i presenti.

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Parliamo di gente che se ne va sbattendo le porte, bambini che piangono, indici puntati, suocere/ nonne col mento all’insù intente ad emanare giudizi insindacabili, persone care che vorresti vicine, o alleate, che trovano nuovi ed elaborati modi di esprimere la loro delusione verso di voi. Uno psicodramma in miniatura dove la piccola porzione del mondo visibile ai vostri occhi percepisce come generatore di caos e sventura proprio voi, eleggendovi di fatto a supercattivo di livello planetario.


in queste pagine, particolari da Ferdinand Hodler - Disappointed Souls (1892) Succede. Almeno, secondo me succede, può succedere, è già successo e ipoteticamente succederà. Investiamo centinaia di pagine ogni mese per dirvi come diventare i migliori griller del globo terracqueo, come affinare ogni risultato da “ottimo” a “perfetto” ma, si sa, le cose vanno anche male. O non vengono apprezzate. Vi diamo i mezzi per essere i migliori, ma forse non ci siamo concentrati troppo sullo strutturarvi ad affrontare il fallimento: nutriamo il vostro ego, fabbrichiamo senza sosta gli esperti di fiamma più (legittimamente?) tronfi d’Italia isole comprese, e mai una parola su come non farsi sopraffare dal naufragio e dal tracollo dei vostri gloriosi propositi.

Per un discorso di mera probabilità, succede (può succedere!) che uno dei novellini, potenziali futuri appassionati, sia amico o parente di uno dei lettori del Magazine che, essendo preparatissimo e

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É di nuovo quel periodo dell’anno: sole, lockdown (quasi) finito, coprifuoco mitigato, ma soprattutto saldi e grandi svendite di grigliette brutte, kettle di ogni prezzo, pinze, forchettoni, ciminiere e bricchette. Un’ennesima generazione di nuovi appassionati di cottura su fiamma sta nascendo e, nella loro incarnazione fetale, i nuovi virgulti saranno per qualche tempo dei principianti totali con un’incrollante fede nella loro memoria genetica. “Io ne so a pacchi, grigliavo sempre con mio padre” “Aaah, come griglio io… è una tradizione in famiglia!” Hanno ricordi d’infanzia ingentiliti dal tempo, quindi sono grigliatori provetti: strane implicazioni elette a verità indiscutibili. Inoltre, “Ho degli occhiali da sole molto grossi e mi faccio foto davanti alla griglia col forchettone e la sigaretta all’angolo della bocca, quindi non vedo come possa essere meno che eccellente in questo campo” (Street credibility declinata su Instagram).


volenteroso di fare nuovi proseliti, in uno sprazzo di generosità e indubbia voglia di protagonismo si offra di condurre in prima persona il debutto della nuova griglia, diventando il gran ciambellano della bricchetta, il maestro di cerimonie del forchettone, nume tutelare del neofita, insomma “ci penso io che sono bravo, faccio i corsi, leggo la rivista, faccio polemica online, ho un sacco di like, sono pit master, sono tutto io”. Beh, è vero o no? Il divario fra il carbonizza-proteine medio e un grigliatore consapevole è immenso. Non c’è storia. “Ci penso io, ti svolto la grigliata, fai un figurone”. Ecco, il disastro in questo momento è già avvenuto, solo che, non pensando quadrimensionalmente, ancora non lo vediamo. Vorrei proporvi un’analogia con la caduta dei gravi: affacciatevi alla finestra, lasciate cadere il cellulare; nell’istante in cui lasciate la presa sapete già che nei prossimi momenti della vostra vita avrete a che fare con uno schermo in frantumi, con la necessità di ordinare un telefono nuovo, con la seccatura di dover temporaneamente utilizzare un Motorola a conchiglia almeno per le telefonate, con la sensazione stranamente soddisfacente di togliere la pellicola protettiva allo schermo nuovo e con l’imbarazzo di dover spiegare che avete distrutto un telefono ragionevolmente ancora valido per verificare un esperimento mentale sulla quadrimensionalità suggerito su una rivista di carne alla brace.

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Paragonando lo scorrere del tempo alla forza di gravità (e non è neanche una cosa così azzardata - fate le vostre ricerche se vi interessa) vedete bene che la grigliata, appena dopo la vostra offerta di collaborazione, è già rovinata: avete impostato tutti i presupposti per il disastro, non avete predisposto nessuna rete di salvataggio; gli eventi si succederanno immancabilmente e inevitabilmente verso le più funeste conseguenze. Mi rendo conto possa risultare modicamente pessimistico come ragionamento, e siamo d’accordo, le cose potrebbero anche andare bene, ma solo con i giusti presupposti. Faccio un esempio. -“Mi raccomando non fare come tuo solito, non causare ritardi, se devi fare una procedura lunga come tuo solito inizia prima, anzi non la fare proprio: siamo lì per passare una giornata, non è una gara, non vivere tutto con ansia e competizione!”


Vi presentate con un’ora di ritardo, perché la salamoia perfetta nella quale avevate lasciato il pollo aveva bisogno di esattamente quel tempo di immersione; vi cimentate in una veloce lezioncina di chimica organica, argomentando di osmosi, percentuali di parte acida e parte grassa, e alle vostre spalle una ragazzina vestita con troppa autostima vi fa il verso. Iniziano a chiamarvi “professorone”. Dopo ventotto minuti di filippica contro la griglia arcaica del patriarca e un paio di inconsapevoli sacrilegi, vi accingete a mettere le bricchette nel kettle: un stormo minaccioso di adulti affamati vi circonda in attesa di rosticciana dura, scamerite annerite e maledetti zucchini carbonizzati, ma con ampio gesto annunciate che il kettle sarà settato per una cottura indiretta di un magnifico magatello di Black Angus affumicato al Pecan, pronto in neanche due orette. Alla disperata supplica di “almeno qualcosa per i bambini”, interpretabile spesso come “qualcosa per fare stare zitte queste diaboliche sirene antiaereo”, poco prima delle due del pomeriggio un ospite avrà reagito andando a recuperare in una botteguccia poco distante delle salsicce di maiale, da fare aperte a libro adagiate su un carrello del Conad rovesciato su un falò. Vi sarete subito opposti, che fra pochino la bistecca è quasi pronta, rimangono solo due ore di reverse searing. La prozia autarchica tuonerà contro le vostre “americanate moderne, col ketchup e l’ananas (?) messi sopra qualsiasi cosa, mentre con la carne italiana basta un filo d’olio”; la fame e la rabbia avrà fatto saltare i freni inibitori a molti invitati altrimenti accomodanti, e inizierà a serpeggiare

una certezza: “la colpa è sua, fa sempre così”. I pochi bambini ancora presenti otterranno di essere accompagnati ad un salvifico fast food, alcuni amici avranno imbastito una chat segreta su WhatsApp dove scambiare vostre buffe foto accompagnate da didascalie oltraggiose. Nel frattempo, è ormai certo che il magatello sarà pronto per cena, il pollo marinato tenuto fuori dal frigo puzza di labrador bagnato, i più intransigenti sono fuggiti quando avete parlato di “bistecca in forno”. Ecco l’inevitabile sconfitta, il marciapiede che arresta fragorosamente la caduta del telefono dell’esempio fatto poco sopra. Una sconfitta che potrebbe succedere o non succedere, ma che può essere devastante se non avete i mezzi giusti per provare ad affrontarla. “Perchè tu sei così, sei sempre così, non si può fare affidamento su una tua promessa di normalità, devi strafare, primeggiare, quando non riesci neanche a calcolare i tempi, e fai aspettare, aspettare, sempre aspettare, ti aspetti che il mondo rallenti per soddisfare i tuoi giochini” - sarà l’ipotetica dura reprimenda di una persona a caso fra quelle a voi più care. Avrete un bel da fare a cercare di spiegare che non è così, che vorreste sempre le cose belle, perfette e venute bene, ma che è successo questo e quell’altro impedimento, che in linea teorica tutto avrebbe dovuto risolversi in tempo, in un borbottio affannato simile agli sforzi di Don Abbondio alle prese con un imbestialito Renzo Tramaglino. Da autorità incontrastate della griglia, beniamino delle folle e dei commensali che volevate essere, vi ritrovate ad essere il rovinatore di pomeriggi, l’indignatore di zie, il piangitore di bambini, la delusione incarnata. “Come al solito non…” C’è sempre un punto, nelle accuse che vi verranno mosse, in cui salta fuori quel “come al solito”. Quindi non è cosa nuova, questa delusione che stanno coralmente manifestando. É duro partire con le migliori intenzioni e poi ritrovarsi (come al solito?) invischiati in un malcontento generalizzato, prendere una iniziativa e poi pentirsene amaramente, e la cosa può destabilizzare anche il più granitico e tetragono di voi.

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-“Nessun ritardo! Tutto calcolato, promesso! Lo faccio per dare a tutti un’esperienza sensoriale irripetibile, altro che quella carnaccia dura!” -“Non è che ti presenti con quei tagli che capisci solo tu, con i sapori che piacciono a te, e poi fai storie se nessuno nota la tua grande padronanza della materia? Cerca di fare cose comprensibili a tutti, anche alla prozia ottuagenaria. E non ripetere come un mantra che le tue abilità sono di gran lunga superiori, che si arrabbiano” -“Ma, beh, le mie abilità, grazie anche a un continuo studio e al mio abbonamento, ..:” -“Cerca di non essere te stesso se puoi, ok?” Da qui, una valanga inarrestabile di eventi concatenati.


“Ecco ma potevo starmene a casa mia a grigliare, no? Mi compravo la mia carne costosa, me la grigliavo come pareva a me, e poi mi dicevo anche bravo. Invece no, voglio fare la cosetta perfetta, salta un dettaglio, lascio tutti a digiuno e… se la prendono con me” Scatta un meccanismo perverso: l’ipotesi della fuga. Spiego meglio: “Basta, chi me lo fa fare, quasi quasi smetto con queste cotture, tanto non vengo apprezzato, smetto anche di grigliare, partecipo solamente alle grigliate di altri, borbottando in un angolo” Buone notizie! Se avete questa reazione non avete voglia di farla finita con le grigliate, avete solo voglia di farla finita con le delusioni. É una cosa che ricorda molto il comportamento “fight or flee” (combatti o fuggi), tipico di ogni specie animale davanti alle avversità: dopo aver combattuto tanto (studiando, leggendo il magazine, impegnandovi, investendo somme di tutto rispetto in carne e combustibile per raggiungere una certa esperienza, ma anche cercando di far capire ad un pubblico un po’ ingrato il motivo dei vostri sforzi), stanchi e sfiduciati, potreste sentire il bisogno di fuggire. Ma la fuga non è dalla grigliata, la fuga non è dalla passione della cottura scientifica, e accorgersi di questo particolare è di fondamentale importanza. La fuga che il vostro animo vi implora di attuare è quella dalle reazioni tossiche. Volete che a sparire nel più breve tempo possibile siano gli sguardi di disapprovazione, non quei tre chili di Denver Steak in congelatore.

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Ripetete ad alta voce: non è voglia di farla finita con le grigliate, è la stanchezza, è la voglia di vincere; non volete smettere di grigliare, volete smettere di grigliare “non capiti”. Non è una resa, è una fuga! E, visto che non è ammissibile una Seguo senza l’aneddoto storico minimamente attinente, ecco a voi l’aneddoto storico a proposito di “figura cara che si rivela delusa e ci rimani talmente male che smetti”: Avrete sicuramente sentito parlare di Nikola Tesla, inventore di origini Croate, genio senza paragoni degli inizi del 1900, ritenuto “inventore dello stesso XX secolo”; darò anche per scontato che abbiate almeno fatto una breve ricerca su Wiki-

pedia e che già sappiate che non era proprio un individuo facile, dal comportamento lineare e specchiato, simpatico o socialmente accettabile. Il giovane Tesla nonostante una mente più che brillante abbandonò prematuramente gli studi, ossessionato dall’idea di realizzare un motore a corrente alternata, per poi perdersi completamente nel gioco d’azzardo in un baretto malfamato di Maribor, dilapidando ogni soldo suo e della famiglia. La signora Tesla, madre del più grande genio della storia, pieno di fissazioni e idiosincrasie, decise ad un momento di presentarsi dal figlio brandendo tutti i contanti rimasti e affermando amaramente: “prendili tutti, tanto non sei capace di fermarti: prima li avrai finiti, prima smetterai”. Nikola ci rimase malino ed effettivamente prese le distanze dal gioco d’azzardo, riprese lentamente le redini della sua vita e diventò quello che oggi sappiamo essere stato: il genio più fecondo e più turlupinato della storia dell’ingegneria. Se l’inventore della corrente alternata e capostipite assoluto di ogni geek disadattato può ricevere una mazzata simile e andare avanti probabilmente potete anche farlo voi, se si sono imbestialiti perchè ad una grigliata pensata per pranzo tutti sono stati capaci solo di bere la Cola finta del discount e di rubare mezza salsiccia cruda a causa della vostra imperizia e ostinazione. So bene che saprete benissimo che hanno ragione loro, e che questo al vostro ego fa solo più male. So anche che vi aspetterete, in chiosa di rubrica, una soluzione: un escamotage brillante per non essere la delusione planetaria del barbecue, per non dover ancora una volta ascoltare la spiegazione dettagliata di come le vostre ripicche infastidiscano persone che volevano solo una bistecchina di maiale e una costina in carbonio puro. Ma, vi dirò: Nikola Tesla dopo gli eventi di Maribor raccontati sopra si trasferì negli Stati Uniti, dove si fece soffiare ogni brevetto possibile, dove si fece sfruttare prima e sfottere ferocemente poi dal tremendo Thomas Edison, e dove, fatalmente… riprese a giocare d’azzardo, perché solo in quei momenti era minimamente felice. E vi aspettate una soluzione geniale dalla Seguo?

Emiliano Nencioni


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N°31/ANNO 3 - LUGLIO 2021

L'EDITORIALE DI GIANFRANCO LO CASCIO

Assaggiare la carne: una guida completa PARTE QUARTA

Insalata? si ma di pasta Pasta al nero di seppia e gamberi, pasta coi ricci, pasta alla trapanese

E-state al bbq

Mandorle affumicate, Baguette e Black Angus, Crostone con salsiccia di Wagyu, insalata bavarese di Franks Würst, banane al bbq COSTUME E SOCIETÀ

Cinque regole d’oro per sopravvivere alla grigliata estiva COME SI FANNO

kaiser roll

LA RICETTA SCIENTIFICA

Tabuleh


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Editoriale di Gianfranco Lo Cascio

Assaggiare la carne: una guida completa PARTE IV

Il codice olfattivo della carne

“Non solo sono convinto che senza la partecipazione dell’odorato una complessa degustazione è impossibile, ma sarei addirittura propenso a credere che l’odorato e il gusto formano un unico senso, di cui la bocca rappresenta il laboratorio e il naso il camino. Più esattamente, l'uno serve alla degustazione dei corpi tattili e l'altro alla degustazione dei corpi gassosi […] Ogni corpo sapido è necessariamente odoroso, il che lo fa rientrare sia nel campo dell'odorato che in quello del gusto. Non si mangia nulla senza annusare più o meno consapevolmente; nei confronti dei cibi sconosciuti, il naso ha sempre la funzione di una sentinella avanzata che gridi: Chi va là?” Jean Anthelme Brillat-Savarin Avvocato, politico e gastronomo

La via ortonasale è quella che inizia con le narici, che sono due come le cavità nasali, divise a loro volta in tre “coane”, le cavità che mettono in comunicazione naso e bocca. L’aria passa attraverso le cavità nasali, viene filtrata, umidificata e resa turbolenta dalle coane. La via retronasale parte dalla faringe ed è in comunicazione con la via olfattiva diretta, in modo da creare una vera corrente d’aria. La via sanguigna è generata dai vasi che irrorano il sangue dell’epitelio olfattivo, generando principalmente interferenze nella percezione.

L’epitelio è costituito dalle ghiandole del Bowman che producono muco destinato a mantenere costantemente umidificata la superficie e le cellule di sostegno, che ne supportano altri due tipi: quelle basali, destinate a sostituire le cellule sensoriali quando invecchiano, e quelle sensoriali attive. Queste sono veri e propri neuroni (nell’uomo sono da 6 a 9 milioni) collegati da una parte al bulbo olfattivo, e dall’altra, verso l’esterno, con una vescicola olfattiva. Ogni vescicola porta una trentina di villi olfattivi, che sono dei filamenti finissimi. Dunque l’homo sapiens ha da 180 a 300 milioni di questi villi, la cui superficie è attiva per intero. Quando una molecola olfattivamente attiva giunge a contatto con il villo olfattivo, l’energia chimica è trasdotta (trasformata) in segnale elettrico che, attraverso il bulbo olfattivo, giunge al cervello. Il segnale elettrico interessa innanzitutto la corteccia prepiriforme e l’amigdala. Da entrambe raggiunge il talamo dorso mediale e l’ipotalamo per poi interessare diverse regioni della corteccia orbitofrontale. Passiamo ora alla rassegna di tutti i parametri degli odori associabili alla carne cruda e cotta.

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N

on so voi, ma io la penso esattamente come lui. Avete mai provato a mangiare qualcosa tappandovi il naso? Fatelo e capirete quanto quest’organo giochi un ruolo fondamentale nell’analisi gustativa di un cibo. L’olfatto ricopre un ruolo da protagonista quando mangiamo. È un organo di senso di tipo chimico, i suoi recettori si trovano su una mucosa di circa due centimetri quadrati, che si trova alla base del naso. Le molecole odorose raggiungono questa parte passando per tre vie: ortonasale, retronasale e sanguigna.


INTENSITÀ OLFATTIVA Via olfattiva diretta, carne cruda Definizione Misura il volume complessivo delle sensazioni che arrivano dalla carne cruda per via olfattiva diretta, da valutare alla prima annusata; l’intensità si analizza indipendentemente dal fatto che gli odori siano positivi o negativi, di conseguenza il valore minimo viene attribuito solo se la carne non presenta alcun odore. Correlazione di filiera Sono fattori importanti di comparsa di odore nella carne cruda: frollatura o maturazione, oltre che i principali processi di deterioramento che producono dei marker. Tuttavia possono essere fattori di caratterizzazione olfattiva anche il sesso, l’età dell’animale (specialmente maschile), il tipo di alimentazione e di conseguenza anche la tipologia di allevamento.

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Composti responsabili Tutti i componenti volatili che si generano per via enzimatica durante la frollatura o residui nella parte grassa. Inoltre sono responsabili anche gli ormoni e acido lattico presenti nel muscolo.

ODORI ANOMALI Via olfattiva diretta, carne cruda Definizione Misura il volume complessivo delle sensazioni che giungono dalla carne cruda per via olfattiva diretta, e che evidenziano problemi sopraggiunti nel processo di lavorazione, trasporto o conservazione. Possono essere indice evidente di difettosità: odori di rancido, solforati, o ancora sentori di natura chimica o di origine microbiologica. Molti odori anomali della carne non sono soggetti ad adattamento olfattivo molto rapido, perché sono legati a fattori di pericolosità nei confronti dell’organismo umano; tuttavia è consigliabile valutare l’intensità complessiva nel corso delle prime olfazioni. Correlazione di filiera Vi rimando alle voci specifiche relative ai singoli odori anomali, riportate più avanti. Composti responsabili Vi rimando alle voci specifiche relative ai singoli odori anomali, riportate più avanti.

CARNE FRESCA Via olfattiva diretta e indiretta, carne cruda e cotta Definizione Misura l’intensità delle sensazioni aromatiche tipiche della carne fresca sana, così come percepibili in una battuta o carpaccio ben lavorati o all’interno di una carne cotta “al sangue”. Correlazione di filiera La presenza e la permanenza di questi aromi dipendono principalmente dalle fasi di frollatura, conservazione e nel caso della carne cotta dalla tipologia di cottura: le cotture “rare” o “medium rare” tendono a conservarne di più, mentre le cotture più spinte (lesso, arrosto ecc.) trasformano la carne dal punto di vista aromatico. Composti responsabili Tutti i componenti volatili residui nella parte grassa o generati per via enzimatica durante la frollatura.


ODORE FERROSO

Definizione Misura l’intensità delle sensazioni aromatiche tipiche del sangue, in grado di suscitare in bocca per sinestesia l’accostamento alla sensazione metallica. Correlazione di filiera Il sentore tipico di ferro, inteso come nota olfattiva e aromatica, risulta più evidente in tre casi: in caso di frollatura o cottura avanzata, che permette attraverso la proteolisi (il processo di degradazione delle proteine) ai composti contenenti ferro di svincolarsi dalla mioglobina del muscolo; in caso di allevamento al pascolo, che fa sviluppare più mioglobina, e nelle stesse condizioni di cui sopra permette di liberare più composti contenenti ferro; oppure in caso di errori durante la macellazione, che lasciano nella carne parte del sangue il quale, attraverso la proteolisi, libera i composti di ferro dall’emoglobina. Composti responsabili Eme (o gruppo eme) che si libera attraverso la proteolisi delle emoproteine (mioglobina dei muscoli ed emoglobina del sangue); ione ferroso (Fe2+) allo stato libero.

AROMA DI GRASSO Via olfattiva diretta e indiretta, carne cruda e cotta Definizione Misura l’intensità delle sensazioni aromatiche tipiche del grasso fresco della carne, che in alcuni casi può avere sfumature paragonabili al miele. Non considera l’odore del grasso rancido. Correlazione di filiera Dipende innanzitutto dalle caratteristiche genetiche dell’animale, dal tipo di allevamento e dall’alimentazione, ma sono fondamentali anche le fasi di frollatura e conservazione. Le eccessive ossidazioni, infatti, non solo portano all’evaporazione di questi componenti volatili, ma reagendo con i lipidi portano alla formazione dell’odore rancido. Nelle carni cotte, la tipologia di cottura influenza ulteriormente gli aromi della parte grassa. Composti responsabili Componenti volatili bloccati nella parte grassa e definiti dal tipo di alimentazione oppure ottenuti per via enzimatica dalla frollatura.

CARNE Via olfattiva diretta e indiretta, carne cruda e cotta Definizione È l’insieme di tutte le percezioni aromatiche legate alla carne in generale descritte nei precedenti paragrafi: carne fresca, odore ferroso e aroma di grasso. Non è detto che sia la somma dei tre elementi in quanto uno di questi aromi potrebbe prevalere attenuando o annullando gli altri. Correlazione di filiera Vi rimando alle voci specifiche relative ai singoli odori anomali, riportate più avanti. Composti responsabili Vi rimando alle voci specifiche relative ai singoli odori anomali, riportate più avanti.

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Via olfattiva diretta e indiretta, carne cruda e cotta


VERDURE ERBA

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Via olfattiva diretta e indiretta, carne cruda e cotta

CEREALI Via olfattiva diretta e indiretta, carne cruda e cotta

Definizione Sentori di erba fresca, prato falciato (che ricordano i pascoli e la montagna), odori di fieno.

Definizione Sentori che ricordano i cereali, malto in particolare.

Correlazione di filiera Questi aromi sono fortemente collegati alla modalità di allevamento, in particolare all’alimentazione negli ultimi 6 mesi prima della macellazione; la loro intensità è legata anche alla composizione e alla quantità di grasso dei tagli.

Correlazione di filiera Questi aromi sono strettamente legati alla modalità di allevamento, nello specifico all’alimentazione negli ultimi 6 mesi prima della macellazione; La composizione e alla quantità lipidica dei tagli ne determina l’intensità.

Composti responsabili Componenti volatili, principalmente terpenici, presenti negli alimenti e bloccati nella frazione lipidica dell’animale.

Composti responsabili Componenti volatili presenti negli alimenti e bloccati nelle parti grasse dell’animale.

Via olfattiva diretta e indiretta, carne cruda e cotta Definizione Sentori che ricordano i vegetali cotti: verdure lesse, brodo vegetale, minestrone ecc. Correlazione di filiera Tenendo in considerazione, come per i sentori erbacei, l’allevamento e in particolare l’alimentazione degli ultimi 6 mesi prima della macellazione, nelle carni cotte i processi di trasformazione enzimatici e termici legati alla degradazione delle proteine portano allo sviluppo di sentori di verdura cotta. Composti responsabili Componenti volatili presenti negli alimenti e bloccati nella frazione lipidica dell’animale, in seguito alle trasformazioni legate ai processi di cottura.


VEGETALE

ARROSTO

Via olfattiva diretta e indiretta, carne cotta

Via olfattiva diretta e indiretta, carne cotta

Definizione Misura l’intensità di quel complesso di sensazioni aromatiche che rinviano all’esperienza olfattiva dell’erba, del fieno, del pascolo e della montagna, fino ai cereali e, nella carne cotta, alle verdure cotte o al brodo vegetale.

Definizione Sentori di carne arrosto, grasso cotto, caramello, tostato, tipicamente prodotti nelle reazioni di Maillard e Strecker.

Composti responsabili Componenti volatili presenti negli alimenti e bloccati nella frazione lipidica dell’animale, prima o in seguito alle trasformazioni legate ai processi di cottura.

Via olfattiva diretta e indiretta, carne cotta Definizione Sentori di carne lessa, brodo, amminoacidi. Correlazione di filiera Determinato dalla tipologia di cottura, che induce determinate degradazioni nelle proteine e nei lipidi. È tipico di cotture in presenza di elevata umidità, di liquidi o ad alta pressione. Composti responsabili Componenti solforati volatili generati dalla degradazione lipolitica e proteolitica.

Correlazione di filiera Si genera con tutte le cotture ad alte temperature, sia con aria molto calda (come nel caso del forno) sia per contatto (padella, griglie ecc.). L’elevata temperatura innesca le reazioni tipiche di Maillard e le degradazioni di Strecker, coinvolgendo carboidrati e componenti azotati (proteine, peptidi, amminoacidi) che portano alla formazione di numerosi precursori aromatici. Queste reazioni sono molto influenzate anche dai coadiuvanti di cottura utilizzati: olio, burro, spezie, vino, birra, miele ecc. Composti responsabili Componenti volatili ottenuti dal complesso delle reazioni di Maillard, tra cui pirazine e composti policiclici aromatici.

691 - BBQ4All Magazine

Correlazione di filiera La presenza di odori che rinviano alla sfera del vegetale è influenzata dall’alimentazione dell’animale, in grado a volte di lasciare traccia aromatica specialmente, come già detto, nel grasso. Di conseguenza vi è differenza data dallo stile di allevamento (intensivo o estensivo) e dalla provenienza dell’animale (luogo di allevamento degli ultimi 6 mesi).

LESSO


GRIGLIA Via olfattiva diretta e indiretta, carne cotta Definizione Percezione legata al riscaldamento violento della carne, con formazione di composti bruni dall’odore di “grigliato” ed eventualmente cessione di odori da parte dei materiali di cottura o di combustione (nel caso del sentore di ghisa, legno bruciato, carbone ecc.). Correlazione di filiera I fattori determinanti sono la tipologia di cottura e lo stato dei materiali usati. Le cotture dirette sbagliate, con temperature eccessive, possono portare all’estremo le reazioni di Maillard, con formazione di composti bruni e odori di bruciato. I composti utilizzati per la combustione possono emanare aromi poi assorbiti dalla fase lipidica durante la cottura.

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Composti responsabili Componenti volatili ceduti dai materiali o dai combustibili utilizzati.

AFFUMICATO Via olfattiva diretta e indiretta, carne cotta Definizione Odore di fumo, a volte con riferimento a un legno specifico. Correlazione di filiera Dip ende principalmente dalla tipologia di cottura e dai materiali di combustione utilizzati. Noi lo sappiamo bene: l’utilizzo di legni aromatici comporta, con le dovute tecniche, l’assorbimento degli aromi del legno da parte del prodotto. Composti responsabili Principalmente pirazine, idro carburi aromatici e composti policiclici aromatici generati dai materiali utilizzati per la combustione. Notate bene: tenendo in considerazione le quantità di cibo affumicato assunte pro capite, i rischi per la salute sono nulli.

GRASSO BRUCIATO Via olfattiva diretta e indiretta, carne cotta Definizione Percezioni di olio bruciato, grasso fritto, olio esausto. Correlazione di filiera Principalmente correlato a errori di cottura, cattiva pulizia dei materiali di cottura e ai coadiuvanti di cottura utilizzati (oli, burro ecc.). Temperature alte e contatti prolungati delle parti grasse sul materiale conduttore delle temperature possono generare bruciature con la formazione di odori anomali. Anche l’utilizzo di grassi di cottura oltre il punto di fumo per lunghi periodi può determinare odori indesiderati. Composti responsabili Formazione di idrocarburi aromatici dalla degradazione dei lipidi.


RANCIDO Via olfattiva diretta e indiretta, carne cruda e cotta

Correlazione di filiera L’ossidazione del grasso del bovino, specie esterno, si può verificare in momenti diversi dopo la macellazione: nel corso della frollatura, del mantenimento del taglio esposto in vetrina frigorifera, della conservazione operata dal consumatore prima della cottura (se il pezzo non viene coperto) oppure anche dopo la cottura; in ogni caso, quando la carne resta a lungo non protetta dal contatto con l’ossigeno dell’aria. Le temperature aumentano la velocità di reazione: se la carne è conservata a temperatura ambiente o superiore, le ossidazioni avvengono più velocemente. Composti responsabili Idrocarburi, esteri, aldeidi, chetoni, alcoli, acidi, polimeri e altri composti prodotti dalla degradazione dei lipidi e dal loroirrancidimento ossidativo, che consiste in una serie di reazioni a catena, scatenate dal distacco di un atomo di idrogeno dalla catena di un acido grasso con la conseguente formazione di un radicale libero. Questa reazione di autossidazione è tanto più prolungata quanto più ossigeno è disponibile.

SOLFORATI Via olfattiva diretta e indiretta, carne cruda e cotta Definizione Odori tipici della carne bovina quando è intervenuta un’alterazione delle proteine, tale da ricordare in crescendo l’uovo sodo, il cavolfiore, lo zolfo, l’uovo marcio. Correlazione di filiera La formazione di tali aromi dipende principalmente dalla degradazione proteica, che può avvenire per eccesso di frollatura, per temperature troppo alte di conservazione o anche in funzione delle tecniche di cottura. Il lesso in particolare tende a formare un maggior numero di amminoacidi liberi che, ad alte temperature, danno origine nelle reazioni di Maillard ai composti solforati. Composti responsabili Peptidi e amminoacidi solforati derivanti dalla degradazione delle proteine.

CHIMICO Via olfattiva diretta e indiretta, carne cruda e cotta Definizione Sentori anomali che ricordano la plastica, la saponetta, i medicinali o i conservanti. Correlazione di filiera Può essere ricondotto a coadiuvanti tecnologici utilizzati nel processo di conservazione, ai gas utilizzati per le atmosfere modificate o anche al contatto con materiali non idoneamente puliti o con residui riconducibili alle fasi di macellazione o sezionamento Composti responsabili Vari tipi di composti, dagli idrocarburi a composti inorganici.

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Definizione Misura l’intensità delle sensazioni aromatiche tipiche del grasso ossidato, che si ingiallisce se lasciato a lungo esposto all’aria; può ricordare l’odore dell’esterno della cotenna del prosciutto o della prima fetta del salame quando il taglio è rimasto per lungo tempo scoperto senza involucro protettivo, arrivando fino all’odore di vecchio dell’olio che ha preso aria.


MICROBIOLOGICO Via olfattiva diretta e indiretta, carne cruda e cotta Definizione Sentori collegati a principi di fermentazioni microbiche (freschino, inacidito ecc.). Correlazione di filiera È legato principalmente a condizioni ambientali non idonee di frollatura e, soprattutto, di conservazione, con contaminazione e proliferazione microbica.

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Composti responsabili Composti intermedi ottenuti dalle degradazioni proteolitiche e lipolitiche a opera di microorganismi

BIOCHIMICI DIVERSI Via olfattiva diretta e indiretta, carne cruda e cotta Definizione Sintesi delle percezioni legate ad alterazioni negative della carne descritte precedentemente: rancido, solforati, chimico e microbiologico. Correlazione di filiera Diverse per i singoli descrittori, come abbiamo detto nei precedenti paragrafi. Composti responsabili Diversi composti per i singoli descrittori, come trattato nei paragrafi precedenti.

PERSISTENZA Via olfattiva diretta e indiretta, carne cruda e cotta Definizione Misura il tempo di permanenza delle percezioni aromatiche percepite per via retronasale dopo la deglutizione. Correlazione di filiera Legata alle caratteristiche intrinseche della carne stessa, alla presenza di lipidi e alla tipologia di cottura. Composti responsabili I lipidi, inglobando e bloccando molte delle molecole volatili, quando si distribuiscono sul palato rilasciano lentamente questi aromi, aumentandone la persistenza in bocca.


Via olfattiva diretta, carne cotta Definizione Descrittore soggettivo di piacevolezza che esprime l’appetito che la carne è in grado di indurre in chi ne percepisce l’odore. Correlazione di filiera Legata alla presenza di aromi positivi dati dalla frollatura e dall’assenza di odori negativi. Composti responsabili Tutta la parte aromatica relativa alla carne cruda escludendo i composti responsabili del biochimico.

RICCHEZZA Via olfattiva diretta e indiretta, carne cruda e cotta

LIVELLO EDONICO Via olfattiva diretta e indiretta, carne cruda e cotta

Definizione Valuta la complessità aromatica della carne, in pratica la numerosità dei toni aromatici positivi presenti.

Definizione Giudizio finale sulla piacevolezza aromatica della carne.

Correlazione di filiera Tutte le fasi collegate alla formazione di composti volatili, dall’allevamento alle tecniche di cottura..

Correlazione di filiera Tutte le fasi collegate alla formazione di composti volatili, dall’allevamento alle tecniche di cottura.

Composti responsabili Tutta la parte aromatica escludendo i composti responsabili del biochimico

Composti responsabili Tutta la parte aromatica escludendo i composti responsabili del biochimico.

Vi è piaciuta la carrellata di profumini associati alla carne? Ci vediamo il mese prossimo con il capitolo conclusivo del nostro percorso di degustazione carnivora, che tratterà due argomenti importantissimi: sistema somestesico e gusto. Buona lettura!

Gianfranco Lo Cascio

695 - BBQ4All Magazine

APPETIBILITÀ


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Costume e società a cura di Michela Bongiorni


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ualche anno fa è stato lanciato uno degli hashtag che personalmente più detesto al mondo: sto parlando del famigerato #tuttomoltobello. Onestamente non ricordo se sia nato prima l’hashtag o il film omonimo, ma in un batter d’occhio i social furono invasi da post molto intensi e da foto ispirate che riportavano quell’odiosa, quanto falsa, dicitura. Mi è venuta in mente oggi perché è la prima cosa a cui penso di fronte alle grigliate estive, instagrammate come se non ci fosse un domani, in cui si vedono persone molto felici di grigliare a 45° all’ombra e tanto sorridenti in costume ma che in realtà non sono consapevoli che la loro vera, o solo simulata, felicità è fortemente a rischio, data l’insidia dietro l’angolo. Insomma, tutto molto bello, il mare, la piscina, il gommone a forma di fenicottero, la birra ghiacciata e la musica a tutto volume; ma siete consapevoli degli errori che state commettendo? Ecco, dunque, una piccola guida per uscirne incolumi.

La temperatura Il primo errore che vedo commettere dal tipico grigliatore a bordo piscina è quello di non tener conto della temperatura esterna, che in questa stagione può raggiungere vette inarrivabili. É dunque fondamentale esserne consapevoli, sia per quanto riguarda l’aspetto strettamente tecnico (non è esattamente la stessa cosa cosa grigliare d’estate a Palermo e farlo d’inverno a Bolzano, e quindi il vostro dispositivo, per quanto altamente performante, non potrà avere la medesima resa), sia per quanto riguarda il cibo che andate a preparare. Dovete per forza dotarvi di una ghiacciaia: ho visto molte volte gente che preparava con cura ogni dettaglio, dalla marinata alla salsa di accompagnamento, magari a base di maionese. e poi teneva il tutto per ore sul tavolo in attesa del servizio. Non credo che servano spiegazioni scientifiche al riguardo, penso che il buon senso già possa venirvi in soccorso: tenere un pollo in marinata, o un gambero sgusciato, per delle ore all’aperto a una temperatura esterna di 38°C, in attesa di essere cotti all’ultimo minuto così i bambini mangiano la roba appena fatta! non è esattamente ciò che vi suggerirebbe Studio Aperto durante uno dei suoi leggendari servizi estivi. Tuttavia, non è consigliabile neanche cuocere prima alcuni alimenti, come ad esempio insalate di pasta o di riso, e poi lasciarli in qualche luogo all’ombra; la cosa ci espone al rischio di disturbi gastroenterici causati da batteri che, proprio a causa del caldo, proliferano più facilmente nei cibi.

E qui veniamo alla vera nota dolente: l’abbigliamento. Siete in piscina, è caldo, tutti intorno a voi sono in costume e infradito: mi rendo conto che vogliate adeguare il vostro outfit all’ambiente. Tuttavia, è sconsigliabile farlo se state grigliando davanti a un dispositivo a carbone. Qualche anno fa ho commesso anch’io questo imperdonabile errore: stavo preparando una paella in costume e infradito quando un incauto commensale mi ha avvicinato ai piedi un cesto accenditore colmo di bricchette roventi. Nel girarmi, la mia gamba si è incollata al cesto. Risultato? Ustione di terzo grado e una cicatrice che ancora sta lì a ricordarmi di quanto sia stata incosciente. Fate tesoro di questa mia esperienza e ricordatevi sempre che state giocando col fuoco. Letteralmente. Possono cadervi anche banalmente dei corpuscoli roventi sui piedi mentre state versando le bricchette sulla griglia. Se può sembrarvi una tortura armeggiare davanti alle griglie coi jeans e le scarpe

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Le infradito


da tennis, sappiate che una ferita da ustione può rovinarvi la giornata e molte di quelle a seguire. Dovete proteggervi e possibilmente fare in modo che i parenti, gli amici, i familiari, i bambini in costume non si avvicinino mai al dispositivo a carbone. Se proprio non volete rinunciare alle infradito, optate per un barbecue a gas.

La copertura adeguata

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Grigliare all’ombra è d’obbligo. Comprendo che voi amanti della tintarella siate dei temerari e vi convinciate che mettersi al sole mentre grigliate una bistecca possa unire l’utile al dilettevole; e poi “tanto ho la crema protezione 50!”. C’è da dire che anche tutte le pubblicità che si vedono in giro, sui giornali o sui vari siti che vendono dispositivi non aiutano: ci sono sempre persone tranquille, che non sudano mai, felici di starsene al sole a grigliare centinaia di bistecche e a guardarsi con serenità. Le donne sono sempre tutte perfettamente truccate e con la messa in piega, gli uomini hanno camicie inamidate e magliette bianchissime. Tutti ridono come dopo un trattamento di sbiancamento dentale.

La realtà è un tantino diversa. Davanti al barbecue d’estate si suda. Forte. Già grigliare in una zona ombreggiata porta inevitabilmente a innalzare la temperatura corporea e di conseguenza a perdere liquidi. Farlo al sole è da incoscienti.

Bere molta acqua Stavamo appunto dicendo che grigliare con la capoccia al sole non è affatto una buona idea. Farlo al sole bevendo alcolici... beh, che ve lo dico a fare? So che molti di voi avranno un rigurgito di ribellione, che “la birra è il vero e unico motivo per cui vale la pena grigliare!” ma anche, “bere acqua non è da maschi-h!” e via discorrendo. Purtroppo, la verità, seppur dura da accettare, è che l'alcol è un vasodilatatore periferico, quindi aumenta la vasodilatazione cutanea e provoca una maggior sudorazione. Inoltre l'alcol inibisce la vasopressina, l'ormone antidiuretico. Cosa vuol dire? Che l'acqua filtrata dai reni viene direttamente eliminata e di conseguenza la quantità di liquido espulso sarà maggiore di quello assunto. Insomma, se pensate di dissetarvi bevendo una birra fresca, vi sbagliate alla


La doccia Qui si sottolinea l’ovvio ma sembra che ultimamente sia utile farlo. Dopo che avete sbuffato, sofferto, e sudato tutto il sudabile, mettersi a tavola completamente fradici e puzzolenti non è una buona idea. Mi rendo conto che possiate sollevare un problema di non poco conto: se vado a fare la doccia dopo aver servito in tavola il pranzo, non faccio in tempo a ritornare fresco e pulito che non è rimasto niente

per me. In effetti l’obiezione è accolta. Le soluzioni però possono essere molteplici, in modo da salvare capra e cavoli: 1. far presente ai commensali che non è educato mettersi a mangiare senza che tutti siano seduti a tavola; 2. preparare quantità smisurate di cibo in modo da essere praticamente certi che non verrà consumato tutto; 3. cuocere delle preparazioni che necessitano di rest e che di conseguenza vi diano il tempo di spegnere tutto, di lasciare il cibo in mantenimento e di andare a rinfrescarvi con tutta calma prima di sedervi a tavola. In ogni caso, cercate di prevedere il momento per la doccia, fatelo per voi stessi e per chi vi siederà accanto. Vi prego. Il famoso slogan “più sudi più sai di fresco” è ingannevole, siatene consapevoli. 699 - BBQ4All Magazine

grande. Inoltre, secondo uno studio tedesco condotto su donne e uomini sani, nelle persone che bevono alcool la quantità di luce UV necessaria a bruciare la pelle è significativamente inferiore rispetto a coloro che non bevono nulla. In poche parole: bere alcool mentre si è esposti al sole aumenta il rischio di bruciarsi. Ricordate dunque di trovare sempre delle zone regolarmente ombreggiate e, ahimè tocca dire una grande banalità, bere molta acqua. Lasciate la birra, il vino, i cocktail al momento della convivialità, quando vi sarete seduti a tavola e vi sarete rilassati. Certo, un cocktail leggero, magari leggermente alcolico e alla frutta, ghiacciato e rinfrescante, potete concedervelo, ma non esagerate.


INSALATA? Si, ma di PASTA

Tra le pagine del BBQ4ALL Magazine, vi abbiamo insegnato come l’insalata è quell’insieme di ingredienti non più triste, moscio, senza senso. Le insalate sono gustose, fresche, scientifiche, salvavita. Soprattutto d’estate: l’insalata è l’amica perfetta per il mare, le passeggiate nella natura, i pasti fuori casa. E l’insalata può essere anche di pasta: l’insalata di pasta fredda, ad esempio. Questa è la delizia di chi non ha voglia di stare ai fornelli con temperature superiori ai 30°C e umidità da giungla pluviale, croce di chi cerca un pasto dignitoso sotto l’ombrellone o comunque al riparo dalla calura estiva. L’insalata di pasta fredda è vista come un necessario compromesso tra comodità, poco sbattimento e la sacrosanta esigenza di relax che ci meritiamo. Siamo tra amici, però, quindi possiamo dirci la scottante verità che non diremo mai di fronte ad altri. La pasta fredda, non piace. Perché spesso è fatta male. Ripudiata e denigrata da molti, vista come un male necessario dai più. Quali, tra noi, ricorda con golosa eccitazione questa pietanza quando ci veniva presentata in vacanza, estratta dalla borsa frigo delle nostre madri? Nessuno credo, tranne qualche raro caso di piatto avanguardistico portato avanti da qualche genitore pioniere. Sulla rete fioccano quelli che noi chiamiamo le “Wikipastafredda”: consigli più o meno autorevoli per realizzare questo ricetta in maniera (secondo loro) perfetta, evitando errori grossolani. L’insalata di pasta deve essere innanzitutto instagrammabile, poco importa se equilibrata o meno. Giusto? Per qualcuno, sì. Non per noi, ovviamente.

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Facciamo un passo indietro: quando è nata la nostra insalata di pasta fredda? Sappiamo dalla storia che la pasta nasce per essere consumata calda, con vari condimenti, meglio se boglientissima, come racconta Franco Sacchetti alla fine del 1300 in una sua novella. Tale usanza non muta nei ricettari dei secoli successivi, infatti non ne troviamo la versione “fredda” nemmeno all’interno dei testi sacri della nostra tradizione gastronomica diffusi tra la fine dell’Ottocento ed inizio del Novecento. Al di là dei cuochi di corte, la memoria storica delle nostre cucine sono le nostre nonne. Quindi, andiamo a pescare tra i ricordi che ci hanno trasmesso. Esse, tra gli anni ’30 e ’50 del secolo scorso, non erano avvezze alla preparazione della pasta fredda.

Dovremo attendere almeno il decennio che va dai Sessanta ai Settanta per vedere recipienti di insalata di pasta. La nascita di questo piatto (se nascita la possiamo chiamare), la si deve sicuramente all’Italia vacanziera, con la borghesia e il proletariato che si incamminano in lunghe colonne di auto verso le località di mare, portando con sé le vettovaglie e i viveri da casa per risparmiare qualcosina sul budget risicato. Ad onor del vero, erano ancora più comuni le teglie di pasta al forno e parmigiana di melanzane, ma questa è altra storia… Piccolo excursus storico a parte, torniamo a noi ed al nostro quesito fondamentale: è possibile dare dignità a questa pietanza? Vi proponiamo tre riflessioni, che abbracciano diversi ambiti e il loro “concetto” di insalata e relativa realizzazione. La prima riflessione ci porta in Asia, dove i piatti freddi a base di noodles sono molto diffusi ed apprezzati senza essere affatto un sacrilegio. Insalata di pasta fredda? “Si – può – fare!” (citazione da Frankestein Junior di Mel Brooks, da leggere con enfasi e a voce alta). La seconda notazione è forse superflua ma doverosa (da leggere con tono bellicoso, a mo’ di Filippo Tommaso Marinetti e del suo Manifesto Futurista): Noi proclamiamo l’abolizione assoluta dei condipasta industriali che galleggiano in olio di semi, dei formaggi sintetici, dei wurstel di plastica; noi aborriamo gli affettati usciti furtivamente dalle confezioni a lunga scadenza, gettati ad affogare tra i liquidi generati dalle scatolette mal sgocciolate. Noi vogliamo inneggiare all’utilizzo di prodotti freschi, qualitativamente eccellenti, assemblati in corretta armonia. L’ultima riflessione, la più importante e la


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più seria, ci conduce alla cultura gastronomica, allo studio, alla storia della nostra cucina: Gualtiero Marchesi, il fondatore della cucina d’autore italiana. (Da leggere in tono ossequioso) […] “Maestro, qual è il suo cibo preferito in estate? Ci offre un consiglio su una ricetta che possa coniugare gusto e freschezza?”. “Il mio cibo estivo - racconta Marchesi - rinfrescante e rinfrancante, sono le paste fredde, che mangio volentieri anche d’inverno.” Ed ecco nascere, negli anni ’80, le tre famose insalate di spaghetti di Gualtiero Marchesi: al caviale ed erba cipollina, ai ricci di mare, alle vongole crude ed alghe. E no, non copieremo le idee del Maestro, ma sul solco da lui tracciato vi proporremo, come è costume del nostro Magazine, una doppia rivisitazione per deliziare il palato dei nostri commensali e per stupirli: iniziamo dall’insalata di pasta, a seguire tra poche righe; continueremo poi con gli spaghetti ai ricci di mare. INGREDIENTI 4 persone 250 g di pasta corta (penne rigate, mezze maniche, fusilli…) 1 barattolo piccolo (circa 200 g) di nero di seppia 750 g di frutti di mare (vongole, cozze, gamberi) 2 gambi di prezzemolo 1 pezzetto di zenzero fresco sale q.b. olio extravergine d’oliva q.b. il succo di un limone intero mezzo limone

PREPARAZIONE 1. Pulite con cura i frutti di mare, preparandoli per la cottura. 2. Predisponete una bacinella di acqua ghiacciata salata considerando 1 litro d'acqua e 10 grammi di sale ogni 100 g di pasta. 3. Ponete cozze, vongole e gamberi in una padella con olio, aglio, gambi di prezzemolo, il mezzo limone tagliato in due parti, un pezzetto di zenzero spellato, coprite con un coperchio e aspettate che si aprano. Poi sgusciate e immergete in una ciotola nel prezioso liquido di cottura che avrete filtrato con un colino a maglie fini. 4. Cuocete la pasta in acqua bollente salata, scolatela e versatela subito nella bacinella: l’obiettivo è raffreddarla del tutto. 5. Mettete la pasta scolata in frigo per qualche ora, lasciandola rapprendere per bene. 6. Scolate nuovamente la pasta e versatela in una zuppiera ampia, aggiungete il nero di seppia in barattolo e i frutti di mare sgusciati. 7. A parte, create un’emulsione di olio extravergine d’oliva, sale e limone. 8. Aggiungete l’emulsione a filo alla vostra pasta fredda.


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SPAGHETTONI CON I RICCI DI MARE Salino, amido, terra e mare… tutto insieme!


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Molti di noi condividono il ricordo di un’esperienza simile, quella del riccio di mare mangiato sugli scogli, appena pescato. L’iniziale diffidenza, la curiosità mista a ribrezzo, il timore; poi l’esplosione di un sapore così unico, marino e terreno insieme, affilato e morbido, secco e allo stesso tempo umido. Il mare nel palato, le persistenti note iodate, i brividi sul corpo, l’appagamento che segue l’adempimento di un rito dal sapore arcaico e pagano. Immersi nell’estasi sensoriale, quasi ci si dimentica che la parte commestibile del riccio, quella che si può mangiare è costituita dalle gonadi… in altre parole, l’apparato riproduttore!

a.C – 8 a.C). I ricci li troviamo nella Satira VIII, libro II: descrivendo una cena a casa del ben ricco Nasidieno, racconta che un certo Curtillo consigliava di “[...] fare una salsa con le uova di riccio non lavati, spaccati in due, perché il loro liquido è migliore di qualsiasi salamoia”. Allontanadoci dai poeti ed entrando nel mondo culinario, è d’obbligo citare l’esperienza di Apicio, il cuoco simbolo della Roma imperiale (vissuto a cavallo fra il I secolo a.C. e il I secolo d.C.): “[...] Prendi una pentola pulita e fai bollire un po’ di olio, garum, vino dolce, pepe in polvere. Quando ha bollito, versa su ciascun riccio questa salsa. Mescola e fai bollire per tre volte. A cottura ultimata, condisci con pepe e servi”.

Numerosi scrittori e artisti di ogni secolo celebrano il sapore la magica capacità evocativa che solo lui, l’Echinoidea, è capace di suggerire. Gli archeologi ci confermano che già in epoca Neolitica (intorno al 6.000 – 3.000 a. C.) gli abitanti delle grotte consumavano ricci di mare; abitudine confermata anche dai ritrovamenti all’interno dei nuraghi sardi (1.100 a.C.).

Nel Medioevo perdiamo un po’ di vista il nostro puntuto protagonista, che però ricompare nel successivo Rinascimento. Bartolomeo Scappi, celebre cuoco famoso anche per essere il prediletto di Carlo V, re di Spagna, lo preparava in questo modo “Il riccio marittimo è animaletto di statura ritondo, […] Si cuoce tale animaletto quando è netto su la graticola ponendoli un poco d’oglio, e pepe nel buco, e cotto che sarà servasi caldo… Si può anco empire di varie composizioni dapoi che sarà ben netto come di sopra, facendosi poi cuocere su la graticola sotteflato a beneplacito…”.

Ma è con il mondo greco prima e quello romano poi, che troviamo chiarissime testimonianze scritte e preparazioni che, con qualche accorgimento, possiamo anche riadattare ai nostri palati, usanze ed abitudini. Il mondo greco, soprattutto, ci ha lasciato innumerevoli testimonianze del riccio di mare come cibo singolo o ingrediente di preparazioni più o meno complesse. Ippocrate, il padre della medicina, (460 a.C. - 377 a.C.), riporta questa testimonianza preziosa: “Alcuni mangiano i ricci di mare sia nel vino mielato, sia nella salsa di pesce. Queste usanze erano praticate prima del pranzo, per purgare il ventre”. Il filosofo e poeta Archippo (400 a.C.) racconta: “I ricci sono teneri, succosi, dal cattivo odore, saziano e sono di facile digestione; mangiati con aceto e miele, sedano e menta sono appetitosi, dolci e di buon sapore”. Poco dopo, il poeta Nicostrato (IV sec. a.C) scrive: “Il primo vassoio che introduce alla cena, comprenderà un riccio di mare, un po’ di pesce affumicato, capperi, una focaccia al vino, una fetta di pane ed un lampacione in salsa acida”. La notazione più vicina a noi è però quella di Orazio, poeta e scrittore del mondo romano (65

Oggi la pasta con i ricci di mare ha un posto fisso nel menu di molti ristoranti delle località marine più famose; la procedura di preparazione è simile con poche variazioni, ma noi ci siamo permessi di slegarci dalle convenzioni e di riflettere. Può essere migliore? Qualche purista afferma che la preziosa polpa va consumata pura, senza mediazioni. Quindi è meglio senza pasta? Gualtiero Marchesi ci è venuto in aiuto, con la sua insalata di pasta fredda ai ricci di mare. Da questa idea abbiamo iniziato a sperimentare, concordando che, per nostro gusto personale, il calore forse rovina i ricci. Essi diventano una materia prima irritabile, non rendono al palato, c'è troppa intensità, troppa aromaticità, troppi effluvi, troppi spigoli, troppo umami. La migliore espressione dei ricci si ha quando questi sono freddi, tranquilli e beati. Perché ben si prestano ad amalgamarsi e plasmarsi ad altri ingredienti. Quindi pasta fredda. Riccio freddo. Semplice, no?


INGREDIENTI 4 persone

250 g di spaghettoni trafilati al bronzo (spaghetti spessi) 1 kg di ricci di mare 60 ml di vino bianco 4 spicchi di aglio olio extravergine d’oliva q.b. erba cipollina q.b. sale q.b. il succo di 1 limone intero pepe in grani da macinare q.b.

2. 3.

PREPARAZIONE Predisponete una bacinella di acqua ghiacciata 6. Una volta aperto il riccio, con l’ausilio di un salata considerando 1 litro d'acqua e 10 grammi cucchiaino, scavate la parte arancione: quelle di sale ogni 100 g di pasta. sono le uova e l’apparato riproduttore, la nostra parte edibile. Prendete tutto il possibile col Nel frattempo, preparate una emulsione con cucchiaino e versate la polpa in un recipiente. sale, limone, olio extravergine d’oliva. Cuocete gli spaghettoni in acqua bollente salata, scolateli e versateli subito nella bacinella: l’obiettivo è raffreddarli del tutto.

4.

Lasciateli riposare in frigo a circa 4°C per qualche ora, in modo tale da freddarli ancora.

5.

Nel frattempo, pulite i ricci. Con l’aiuto di un tagliaricci (che vi sarà indispensabile) incidete dal lato della bocca, che è anche il lato superiore del nostro riccio.

7.

Prendete gli spaghettoni dal frigo, scolateli nuovamente e versateli in una zuppiera ampia.

8.

Conditeli con l’emulsione e mescolate energicamente. Aggiungete la polpa dei ricci fredda, il pepe macinato al momento, un trito di erba cipollina a finire.

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1.


PESTO ALLA TRAPANESE Una ricetta che sa d’Oriente! Per parlare della mitologica pasta alla trapanese, corre l’obbligo chiudere gli occhi e catapultarci, almeno con la fantasia, a qualche secolo fa. Lasciamoci trasportare dall’idea (almeno!) dei profumi mediorientali, dei racconti fantastici di viaggiatori che si incontravano in questo crocevia di Mediterraneo. Siamo al porto di Trapani. Drepanum in latino, Drepanon in greco antico. Il nome significa “falce”, appunto dato dagli ellenici. Qui, luogo di scambio ed incontro tra culture, transitano diverse navi mercantili, soprattutto quelle genovesi che, cariche di prodotti, erano dirette ad Oriente. Tra le tipicità liguri che sbarcavano in Sicilia si racconta che ci fosse l’agliata genovese, un pesto preparato con basilico, aglio e noci; il nome stesso rivela origini antiche e un legame diretto con la salsa medievale appunto chiamata agliata, che si poneva a metà tra l’alimento e il medicamento – per via delle proprietà benefiche riconosciute all’aglio.

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Pare che i trapanesi (o meglio, le donne di tale città), avessero adattato la salsa genovese utilizzando i prodotti caratteristici del loro territorio: mandorle, pomodori, basilico, aglio, olio extravergine di oliva. Il risultato era l’agghiata trapanisa, un pesto prelibato dal sapore intenso e inconfondibile: se non l’avete mai mangiato è un’esperienza magnifica (nulla a che vedere con i noti sughi degli ipermercati che ne portano la dicitura), che ci trasporta all’interno di quel mondo magico e ricco di contaminazioni che è la cucina siciliana (per un breve ripasso, recuperate lo Speciale all’interno del Magazine di Ottobre 2020). Insomma, l’autentico territorio dentro un piatto. Si dice che il pesto trapanese trovi la sua massima esaltazione in abbinamento con le busiate o busiati, una tipologia di pasta fresca molto diffusa Sicilia occidentale: questo formato è molto simile ai maccheroni e realizzata solo con acqua e grano duro, senza uova. Vengono attorcigliati intorno

ad una cannula, per dare la forma di un giunco di Ampelodesmos mauritanicus, l’erba locale dalla quale prendono il nome. Le busiate con il pesto alla trapanese sono una preparazione decisamente importante in Sicilia e per i siciliani, tanto che la Regione si è giustamente adoperata per far inserire la ricetta tra tra i Prodotti Agroalimentari Tradizionali (PAT) della regione Sicilia, una lista ufficialmente riconosciuta dal Ministero delle Politiche Agricole per la tutela delle tradizioni dei prodotti alimentari tipici e relative trasformazioni in deliziosi piatti della tradizione. Per quanto questa ricetta debba essere giustamente tutelata, i nostri lettori ormai ci conoscono: troviamo diverse strade per gustare al meglio una ricetta, sempre rispettandola ma al contempo cercando di esaltare i punti forti, di renderla versatile. Il pesto trapanese, infatti, non si abbina benissimo soltanto con le busiate: ma ci sta da Dio con qualsiasi formato di pasta. Ed è quello che abbiamo fatto in questo numero del Magazine. Ma non solo, eh, attenzione. Il pesto alla trapanese è davvero formidabile. Può essere utilizzato anche in accompagnamento alla carne (un po’ di bbq non guasta mai, lo sappiamo) al pane (per una bruschetta atomica), alle melanzane (grigliate o al forno) addirittura al pesce (soprattutto fritto, ma anche pesce spada o calamaro). Se siete audaci, abbinatelo ai babbaluci cu l'agghia, lumachine di terra bollite e poi condite con questa salsa fredda. Dopo tutti questi possibili abbinamenti, potrete ben capire perché viene definito un piatto di terra e di mare, amato in tempi antichi sia dai contadini che dai marinai. È il momento di passare alla pratica, con il nostro pesto alla trapanese declinato con le trenette, un formato di pasta capace di trattenere bene i sughi e che non vi farà rimpiangere le busiate trapanesi!


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PREPARAZIONE 1.

Per prima cosa sbucciate le mandorle. Mandate a bollore un pentolino d'acqua, calate le mandorle per due o tre minuti e poi scolate. Tenendo una mandorla tra il pollice e l'indice, e muovendo le dita, la mandorla abbandona la buccia facilmente, ma attenzione che schizza. Ci vuole solo un po' di pazienza a farle una ad una.

2.

È il turno dei pomodori: praticate il classico taglio a croce sul fondo e tuffateli in acqua bollente per uno o due minuti. Una volta raffreddati, procedete alla spellatura.

3.

Grattugiate il formaggio pecorino, sbucciate e spezzettate lo spicchio di aglio rosso, lavate e asciugate il basilico.

4.

Ora è il momento del pesto. Qui avete due strade: se usate il mortaio, iniziate a lavorare insieme l’aglio, il basilico e le mandorle aggiungendo un filo di olio. Passate quindi il composto in una ciotola e aggiungete il pecorino.

5.

È il turno dei pomodori, che vanno pestati nel mortaio, aggiunti agli altri ingredienti aggiustando di sale, olio, pepe macinato al momento. La via più semplice prevede (ovviamente) di passare tutti gli ingredienti nel mixer aggiungendo sale, olio, pepe macinato al momento.

6.

Lessate la pasta in abbondante acqua salata; scolatela, versatela nella zuppiera con il pesto, aggiungete eventuale olio e mescolate bene.

7.

L’ultimo passaggio è il più poetico. Inalate il profumo sprigionato dal piatto, gustate e avrete visioni di coste frastagliate, mare cristallino, mulini, saline, torri d'Oriente.

INGREDIENTI 6 persone

300 g di pomodori freschi (ciliegini, pizzutelli, Piccadilly) 50 g di mandorle non pelate 50 g di formaggio pecorino stagionato un mazzetto di basilico olio extravergine d’oliva q.b. sale q.b. pepe q.b. 2-3 spicchi d'aglio rosso di Nubia

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400 g di trenette


Racconti di bresaola... e che bresaola!

WAGYU MIYABI A5

CON GELATO ALL'AGLIO IN EMBER ROASTING

La carne è carne. Dopo un fisiologico periodo di frollatura che può benissimo stare nell'arco dei 120 giorni, frollare diventa un esercizio inutile in ottica di costi/benefici. Altro conto è decidere di fare gastronomia di alto livello. Ed è quello si è deciso di fare nel Megastore. Chiaramente, una cosa è la bresaola tradizionale, altra cosa è quella proposta sul Megastore. Che cosa dovete aspettarvi dalla Bresaola di Wagyu Miyabi A5? Chiaro: un’esperienza completamente diversa. Prendete la vostra idea di bresaola tradizionale. Mettetela in un cassettino e lasciate la vostra immaginazione gastronomica libera per questa nuova esperienza. Cercheremo di riassumerla in pochi punti efficaci. Punto uno, il grasso. Qui siamo ben oltre il 75% di grasso rispetto al magro. Un prodotto esclusivo, ricco di grassi buoni. Punto due, il punto di fusione del grasso. Si scioglie in mano grazie all'incredibile quantità di acido oleico presente. L’acido oleico è importantissimo: aiuta a tenere sotto controllo il colesterolo, ma ricordate che per indicazioni precise sui vari regimi

alimentari da adottare, è sempre utile sentire un nutrizionista. Occhio, quindi.

Punto tre ma non ultimo, la consistenza. È impossibile affettarla e consumarla in modo sottile come la bresaola tradizionale perché si scioglie letteralmente, lasciandovi con le mani ben unte ma… vuote. Questa bresaola va consumata a fette belle cicciotte, piene piene. Solitamente, la bresaola convenzionale trova larghissimo impiego nelle preparazioni che necessitano di un apporto calorico limitato e dal contenuto proteico alto. La bresaola, solitament,e è un alimento passe-partout: la si usa per colazioni, spuntini, pranzi e cene. Gli abbinamenti con la bresaola sono svariati: con formaggi freschi, spalmabili o stagionati, erbe aromatiche, spezie in prima battuta. Ortaggi e verdure come pomodorini, peperoni, zucchine, si prestano benissimo a condire insalate con bresaola e ad arricchirne l’apporto vitaminico. Si presta benissimo ad essere ultimata con qualche goccia di aceto balsamico oppure emulsioni di vino rosso. La sapidità e l’aromaticità di questa preparazione è riconosciuta e rendono la bresaola particolarmente pregiata, giustificandone di fatto i prezzi decisamente sostenuti. Per presentarvi le infinite possibilità della bresaola di Wagyu abbiamo optato per dei fagottini ripieni di stracciatella e rucola, gherigli di noci, un pizzico di Sal’s Rub Mount Nimba, legati con filo di erba cipollina, leggermente spennellati con emulsione di olio e limone e accompagnato con del gelato all’aglio, lavorato con la tecnica dell’ember roasting, perfetta per gli ortaggi e le verdure.

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Vi ricordate quando Gianfranco scherzava sulle bistecche frollate centinaia di giorni dicendo che diventavano bresaole? Beh, non era difficile immaginare che prima o poi avrebbe mostrato cosa intendeva dire. BBQ4ALL ha permesso a pochi eletti di mettere in tavola la prima produzione di Bresaola Wagyu Miyabi A5. Terminato il suo periodo di stagionatura, adesso è pronta per essere portata in tavola.


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2.

3.

Sbattete 2 tuorli d’uovo con lo zucchero a velo, ottenendo un composto abbastanza chiaro e denso.

4.

Portate a bollore la panna assieme al latte, aggiungete la polpa d’aglio e lasciate sobbollire a fiamma bassa per 15 minuti circa.

INGREDIENTI 6 fagottini

1 confezione di bresaola Wagyu Miyabi del Megastore 1 vaschetta di stracciatella Un mazzettino di rucola 10 gherigli di noci (da tostare).

5.

To g l i e r e d a l f u o c o e aiutandovi con una frusta, aggiungete il composto con le uova.

6.

Riportate a fuoco basso mescolando continuamente fino a che il composto non diventa setoso.

1 cucchiaino di Mount Nimba qualche filo di erba cipollina 15 ml di olio extravergine d’oliva qualche goccia di Limone 4 spicchi di arancia 1 aglio intero 2 tuorli d’uovo

7.

Aggiungete altra panna, un pizzico di sale e far raffreddare 2 ore in frigorifero.

8.

Il composto così ottenuto è buono già da solo, ma il vostro scopo sarà quello di ottenere un gelato da accompagnare la carne. Quindi, se siete in possesso di una gelatiera, utilizzatela normalmente seguendo le istruzioni in essa contenute. L’altro metodo, per chi non ha la gelatiera, consiste nel mettere in freezer per 3 ore il composto, poi frullatelo con un minipimer e rimettetelo altre 4 ore in freezer. Eventualmente, aggiungete un po’ di maizena.

50 g di zucchero a velo 250 ml di panna 125 ml di latte parzialmente scremato Alcune gocce di miele

Dopodiché, prelevate la polpa dall’aglio intero e frullatela.

1.

PREPARAZIONE FAGOTTINI Tritate la rucola; dopodiché, versate la stracciatella in una ciotola capiente, aggiungete il trito di rucola, il Rub e i gherigli di noce tostati in precedenza e successivamente tritati leggermente al coltello.

2.

Prendete una fetta di bresaola; stendetela su un piano con carta alluminio.

3.

Mettete un cucchiaio di stracciatella condita con rucola, Rub e noci tritate al centro della fetta.

4.

Arrotolate in maniera stretta la fetta di bresaola, creando così il ripieno.

5.

Prendete un filo di erba cipollina e legate il fagottino. Dopodiché, lasciate riposare in frigo.

6.

Al momento del servizio, prendete gli spicchi d’arancia e privateli della buccia. Prendete il gelato d’aglio e un paio di gherigli di noce come decorazione. Aggiungete qualche goccia di miele. Preparatevi a godere con i fagottini di bresaola Wagyu Miyabi!

711 - BBQ4All Magazine

1.

PREPARAZIONE GELATO ALL'AGLIO Mettete sulle braci per 20 minuti un aglio intero bello grosso, poi formate un cartoccio di alluminio con 10 ml di olio e lasciatelo in cottura indiretta per altri 15 minuti.


Le mandorle? Provatele affumicate!

SALTY SMOKED ALMONDS Chi di voi andando ad una sagra paesana non si è mai soffermato a guardare e successivamente a comprare un sacchetto di mandorle tostate, da sgranocchiare passeggiando? Quel profumo inebriante è un richiamo fortissimo, specie se unito al chiassoso urlo del venditore. Perché non provate a prepararle per ingannare l’attesa dei vostri commensali, aspettando la cottura delle vostre pietanze al bbq? Saranno anche un grane aiuto per fermare quel certo languorino dei vostro amici affamati. Anzi, a un certo punto dovrete obbligarli a smettere di mangiare mandorle, per non compromettere il resto del pranzo. Le mandorle non sono altro che il seme della pianta del mandorlo, originaria del Medio Oriente. Ad oggi, tuttavia, il maggior produttore e consumatore di questo seme sono gli Stati Uniti d’America. In una manciata di mandorle troviamo, in quantità discretamente apprezzabili: fibre, proteine, vitamina E, fosforo e grassi. Tutto questo con pochissime calorie e carboidrati digeribili. Le mandorle sono ricche di antiossidanti, concentrati sopratutto nelle bucce. Insomma, non solo sono incredibilmente salutari, ma sono di una delizia croccante: una tira l’altra. Ottime per essere consumate dolci, danno il meglio anche in versione salata. E in questo caso avranno una marcia in più, dato dalla nota affumicata. Il momento migliore per trovare delle belle mandorle fresche per la nostra ricetta è la fine dell'estate. Vi diamo un suggerimento: questa ricetta riesce benissimo anche con noci, nocciole oppure pistacchi. O ancora, arachidi o mais. Insomma, se non avete mandorle fresche a disposizione non sarà un problema!

712 - Almanacco 2021

Le mandorle affumicate sono ottime non solo manguate da sole, ma anche per guarnire delle insalate, oppure assieme a piatti a base di riso, tartare di pesce e, perché no, sul gelato. Ultima cosa: anche se nulla vieta di mangiarsele calde calde, sono ottime lasciate raffreddare e addirittura tolte dal frigorifero.

INGREDIENTI 500 g di mandorle fresche pelate un litro di salamoia al 25% aceto di mele q.b. olio extra vergine di oliva q.b. una confezione di Rub Montreal della linea Sal’s seasoning


PREPARAZIONE

2.

Prima di metterle nel vostro dispositivo di cottura, dovrete immergere le mandorle in acqua salata per almeno 45 minuti: lasciarle troppo a lungo creerebbe solo un loro rigonfiamento. Aggiungete alla salamoia anche un po di succo di limone o aceto di mele, questo solo per impedire che l’acido fitico (presente nelle mandorle) blocchi del tutto l’assorbimento dei minerali. A vostro gusto, potreste usare altri agenti bagnanti: la salsa di soia, la salsa di teriyaki, l’aceto di mele, le bibite o i succhi. Oppure andare ad annaffiarle una seconda volta con un vino dolce, tipo Moscato o spumante, Marsala, cognac e, perché no, anche una buona birra di tipologia Stout. Togliete le mandorle dalla salamoia e asciugatele per bene con la carta assorbente Ora dovrete solo andare a lubrificarle con un aggrappante che servirà a far attaccare il rub. L’olio extra vergine di oliva va più che bene. In alternativa potete montare dell'albume d'uovo con l’aggiunta di un cucchiaio di acqua. Ma anche salsa di soia

unita a olio di cocco fuso e tabasco. Oppure, salsa Worcestershire e burro fuso. 3.

Una volta lubrificate, cospargete le mandorle con il rub. Noi abbiamo scelto il nostro Montreal, ma voi potete optare per una scelta diversa, adattandovi ai vostri gusti personali. Potete anche combinare più rub tra loro senza problemi, usare spezie orientali o nostrane, versioni dolci, salate o piccanti: assaggiate e calibrate a piacere.

4.

Settate il vostro dispositivo sui 150°C per una cottura in indiretta. Il tempo massimo di permanenza in griglia sarà di un’oretta circa. Posizionate le mandorle su una teglia forata e mettetele in cottura, affumicandole: saranno pronte quando le vedrete bene asciutte e il rub si sarà caramellizzato: non fatele annerire troppo Per quanto riguarda la presenza aromatica data dai legni, scegliete il blend che più vi piace e andate tranquilli: il sentore di fumo non sovrasterà quello del rub.

713 - BBQ4All Magazine

1.


CREMA DI MELONE IN EMBER CON

SALAMINI AFFUMICATI Evoluzione di un grande classico Qualche giorno fa, in una trasmissione radiofonica molto nota, è partita la “domanda-ammazza-noia-per-coinvolgere-gli-ascoltatori”: per voi, quando inizia davvero l’estate? Fra le molteplici risposte, una andava per la maggiore:”l’estate inizia davvero quando si comincia a cenare con prosciutto e melone”. In molti associano alla cucina degli anni ‘80 questo famoso - per non dire famigerato - abbinamento, un periodo in cui in effetti veniva servito come antipasto un po’ ovunque:il piattp aveva anche quell’aria un po’ esotica e un po’ rivoluzionaria perché “ehi, serviamo la frutta dolce con un cibo così salato: che trasgressione!” In realtà questa semplicissima ricetta pare che abbia origini molto antiche e risalga ai tempi di Galeno di Pergamo, un famoso medico greco vissuto nel II secolo d.C. Secondo Galeno, medico personale di Marco Aurelio, era fondamentale tener conto della natura che ogni cibo ha e che è legata ad uno dei quattro elementi: acqua, aria, fuoco e terra. Ognuno di loro presenta in natura due fra questi quattro attributi: caldo, freddo, secco e umido; l’uomo, al fine di preservare la propria salute, dovrebbe bilanciarli perfettamente tra loro. Il melone era considerato un cibo umido e freddo; il prosciutto, invece, era visto come un cibo caldo ed asciutto, perché subisce un processo di stagionatura. Prosciutto e melone era quindi un abbinamento davvero perfetto.

714 - Almanacco 2021

Tornando a noi, sicuramente questo accostamento presenta molti punti a suo favore. Dal punto di vista nutrizionale, è ricco di nutrienti molto utili all'organismo nel periodo estivo, quando abbiamo bisogno di combattere spossatezza e perdita di liquidi. Grazie al prosciutto ci riforniamo di proteine e di sali minerali, grazie al melone introduciamo acqua e vitamine. Non è da sottovalutare il fatto che un pasto così completo sia anche velocissimo da preparare. E, soprattutto, non richiede cottura. D’altra parte, siamo onesti, è un po’ demodé e banalotto. Volendo servire un pranzo estivo agli amici non si fa una grande figura con prosciutto e melone, ammettiamolo. Per questo motivo oggi vi presentiamo una sua evoluzione, forse un po’ meno veloce da preparare visto il piccolo passaggio in cottura richiesto, ma che sicuramente diventerò una preparazione molto scenografica e originale. Insomma, varrà la pena perderci un po’ di tempo per un risultato molto più soddisfacente. Il melone sarà cotto in ember roasting: i lettori storici si ricorderanno che avevamo già presentato una ricetta col melone cotto direttamente sulle braci, nel numero di Luglio 2019. Quella volta avevamo trasformato la polpa succulenta in un ghiacciolo allo yogurt. Stavolta la trasformeremo in una crema fredda, aromatizzata con lime e menta, che serviremo insieme ai nostri splendidi salamini affumicati. Visto? Anche noi abbiamo rispettato l’abbinamento caldo-secco e freddo-umido, ma con un pizzico di fantasia e di inventiva; non abbiamo perso neanche stavolta l’occasione di accendere un po’ di carbone, poi sempre per bilanciare possiamo buttarci in piscina.

INGREDIENTI 4 persone

Un melone di grandi dimensioni due lime qualche foglia di menta a piacere un pizzico di sale ghiaccio q.b. tre confezioni di Slim Beam Salami snack by Crimson Crest


1.

Accendete mezza ciminiera di bricchetti e versateli nel dispositivo sulla griglia carboni. Appoggiateci sopra il melone e chiudete il coperchio. Dopo circa venti minuti giratelo dall'altro lato. Sarà pronto quando lo vedrete bruciacchiato fuori e lo sentirete cedevole al tatto. Potrebbe essere una buona idea praticare un foro nella buccia, al fine di evitare che la pressione interna lo faccia esplodere. La cottura in ember dona al melone una lievissima, non invadente, nota affumicata e caramellata.

2.

Togliete il melone dalle braci, apritelo a metà facendo molta attenzione a non bruciarvi e lasciatelo raffreddare.

3.

Una volta raffreddato, con un cucchiaio privatelo dei semi, poi scavate bene la polpa e mettetela in una bowl con sotto il ghiaccio: frullatelo a immersione insieme al succo dei due lime e a un pizzico di sale.

4.

Ponete la crema ricavata in frigo a raffreddare, anche per una notte intera, e il giorno dopo servitela insieme ai salamini affumicati, formati all’80% da Wagyu F1 Crimson Crest, e al 20% da maiale Duroc Greedy’s Hog. Decorate il tutto con foglioline di menta fresca e gustatevi questa delizia: un salamino e mezzo cucchiaino di crema, un salamino e mezzo cucchiaino di crema e così via… fino alla fine.

715 - BBQ4All Magazine

PREPARAZIONE


LA BAGUETTE È PIÙ BUONA CON IL BLACK ANGUS

La fame estiva va saziata con cose pratiche, fresche e che non facciano rinunciare al gusto. Ad esempio, in estate diventiamo tutti massimi esperti di panini. Il panino è pratico, goloso, svuotafrigo oppure gourmet all’occorrenza.

716 - Almanacco 2021

Oggi vi presentiamo un panino d’autore sì, ma di una semplicità estrema anche. Parliamo di una fragrante baguette farcita con roast beef di Black Angus, salsa al formaggio cheddar e peperoncini jalapeño. La baguette ha davvero bisogno di ben poche presentazioni: tutti noi conosciamo l’iconico sfilatino di pane di semola spesso preso come simbolo (oppure bonario sfottò) della Francia e dei francesi. Viene chiamato anche francesino o pane francese. Questo formato di pane ha delle caratteristiche ottime, che lo rendono uno dei pani preferiti per essere farciti. La baguette in realtà ha origini viennesi; successivamente, quando nel 1920 una legge francese vietò ai fornai di Francia di lavorare prima delle ore 4 del mattino, questo pane lungo e pratico si diffuse grazie alla velocità con il quale poteva essere cotto e, quindi, proposto ai clienti più mattinieri. Può fregiarsi del titolo di “pane della tradizione francese” se presenta solo questi ingredienti: acqua, farina, lievito di birra (o lievito madre) e sale. All’interno della nostra baguette, faremo alternare strati di tenero e burroso manzo cotto al sangue

ed affettato finemente e croccantissime cipolle dorate insaporite dal basilico fresco. Il tutto sarà innaffiato da una dose generosa e opulenta di salsa al cheddar e jalapeño.

Per il roast beef abbiamo utilizzato la testa di filetto ma nulla vi vieta di utilizzare grandi classici come l’Eye-Round o sbizzarrirvi con tagli più particolari come ad esempio una flap meat. Il peperoncino jalapeño, con la sua piccantezza mite e il sapore fruttato, è la spalla perfetta per insaporire la salsa al cheddar cremosa ed avvolgente. Se preferite una versione più piccante aggiungete il peperoncino che più gradite, in caso contrario sostituitelo con una brunoise di peperone rosso.

INGREDIENTI 2 persone

2 pani formato baguette da circa 120 g l’uno 1 filetto di Black Angus Creekstone Farms da 250 g Sal’s seasonings Ultimate SPOG a piacere olio extravergine d’oliva q.b. 2 cipolle dorate basilico fresco q.b Per la salsa al cheddar: 1 l di panna fresca 30 g vino bianco secco

Per il pane, vi abbiamo consigliato la baguette, per la sua fragranza e la capacità di catturare i condimenti. Ciò non vieta di poterne usare un altro tipo. Sceglietene una tipologia che sia consistente per racchiudere e sostenere tutti i nostri ingredienti ma che al morso si strappi con facilità ed eviti che fuoriesca tutto sbrodolandovi miseramente. Anche varianti arricchite con semi o frutta secca si prestano benissimo a questo tipo di preparazione. Non vi resta che mettervi all’opera per poi chiamare a raccolta gli amici, i parenti, i colleghi e anche i nemici e offritegli un pezzo di paradiso. Vi ringrazieranno, vi ameranno ancora di più e la capriola sulla sedia sarà assicurata, garantito!

600 g formaggio cheddar 1 cucchiaino di paprika 1 cucchiaino di curcuma 5 peperoncini jalapeño rossi sale q.b. pepe q.b. 1/2 cucchiaino di gomma di xantano


PREPARAZIONE Condite il filetto con uno strato generoso di Ultimate Spog dopo averlo uniformemente massaggiato con un velo di olio extravergine d’oliva. Chiudete il filetto in un sacchetto sottovuoto e cuocetelo in bagno termostatico a 52°C per 55/60 minuti.

2.

Abbattete in positivo o immergete in una bowl piena di acqua e ghiaccio il filetto, così da interromperne la cottura in tempi brevissimi.

3.

Una volta raffreddato e privato del sottovuoto, asciugate il filetto in maniera accurata; dopodiché rosolatelo in padella rovente o su una griglia temperatura inferno pochi minuti per lato, girandolo spesso, fino ad ottenere una crosticina profumatissima e saporita. È importante fare questo passaggio con il filetto il più freddo possibile così da ottenere una perfetta cauterizzazione esterna e mantenere l’interno rosato e succoso.

4.

In un termomixer fate scaldare la panna, il cheddar tagliato in cubetti, la curcuma, il vino e la paprika ad una temperatura compresa tra

i 50°C e i 60°C, a velocità media per un tempo di circa 6/7 minuti, così da essere sicuri di aver sciolto tutto il cheddar nella massa. 5.

Aggiustate a questo punto di sale, pepe e fate andare alla massima velocità aggiungendo la piccola dose di gomma di xantano.

6.

Tagliate i peperoncini a tocchetti piccolissimi e completate la fonduta, una volta che quest’ultima sarà diventata tiepida.

7.

Per le cipolle invece vi basterà tagliarle à la julienne e farle saltare in una padella rovente per pochi minuti, condendole con poco sale e pepe.

8.

Eliminate le punte delle baguette e tagliatele in tranci comodi da mangiare. Tostateli leggermente in padella con un filo d’olio extravergine d’oliva e disponete a strati nel panino una dose generosa di salsa al cheddar, uno strato di cipolle, un doppio strato di carne affettata molto sottile e un tocco di basilico fresco tritato per dare aromaticità. In ultimo, spruzzate con succo di limone.

717 - BBQ4All Magazine

1.


CROSTONE M'hai provocato? E io me te magno!

Crostoni o bruschette, due preparazioni molti simili declinate anche al diminutivo, crostini e bruschettine, che nell’immaginario collettivo sono sinonimi di antipasto o di aperitivo. Avete presente quelle tipiche situazioni in cui vi trovate a dover mangiucchiare qualcosa prima della cena per stuzzicare l’appetito - come se non foste giù affamati come lupi - e vi trovate di fronte vassoi interi di queste deliziose fette di pane condite nei più svariati modi? Alzi la mano chi non si è trovato almeno una volta nella vita a riempirsi di bruschette e a rovinarsi il resto della cena. Il neologismo molto cool “apericena” è probabilmente nato per colpa di questi deliziosi stuzzichini: una volta finito l’aperitivo non rimaneva più posto per il resto. Fra le millemila declinazioni dei crostoni di pane conditi e farciti, certamente uno che va per la maggiore è quello con la salsiccia. Specialmente in estate, un succoso salsicciotto servito su fette di pane croccanti e calde può essere considerato un veloce salvacena: e se lo facessimo con una materia prima di altissima qualità? Noi abbiamo provato a farlo con la salsiccia di Wagyu F1 Crimson Crest del nostro Megastore, già cotta e affumicata. In Texas è molto comune consumare le "Smoked Hot Links": salsicce di manzo speziate e affumicate. Eh sì, di manzo, che non è esattamente come quella di maiale: parliamo di un prodotto un poco più ostico da cuocere e da mantenere succoso. Per questo motivo noi di BBQ4All abbiamo pensato che proporla cruda sarebbe stato limitante, perché è l'affumicatura a renderla così speciale. Per facilitare la vita dei nostri clienti, abbiamo quindi deciso di affumicarle noi, in modo che potessero trovare un prodotto praticamente già pronto. Abbiamo preso il Wagyu e l'abbiamo tritato al cutter. Abbiamo aggiunto solo un 20% di tagli secondari di maiale (un po' di grasso e un po' di collagene), sale e pepe, budello e via nel forno affumicatore con ciliegio e hickory fino alla temperatura perfetta e per il tempo necessario. A questo punto sono già pronte, sono cotte: vanno solo fatte rinvenire e poi servite. Davvero facile, no?

718 - Almanacco 2021

Essendo già esplosive da sole, siamo andati sul minimal: per questa ricetta abbiamo arrostito il pane e fatto una salsa di accompagnamento davvero passe-partout: la salsa tiger. Il risultato è spettacolare: in dieci minuti servirete in tavola un piatto gourmet che vi farà fare un figurone, anche solo per il nome affascinante ed evocativo della materia prima. Vi piace questa nostra idea di apericena? Sì, ma anche apericolazione, aperipranzo, aperimerenda: troverete sempre una scusa per mangiare questa delizia.

INGREDIENTI 4 persone

una confezione di Smoked Hot Links un filone di pane casereccio per la salsa tiger: 300 g di maionese 150 g di senape 2 cucchiaini di succo di limone 1 cucchiaino di aglio in polvere sale e pepe q.b.

PREPARAZIONE 1.

Fate rinvenire le salsicce nella confezione immergendole in acqua bollente.

2.

To g l i e t e l e d a l l a confezione e grigliatele sul vostro dispositivo in cottura diretta, oppure piastratele velocemente.

3.

Tagliate il pane a fatte alte circa un centimetro e poi abbrustolitele, sempre sul vostro dispostivo o in una padella con un filo d’olio.

4.

Tagliate le salsicce in rondelle e adagiatele sul pane caldo.

5.

Conditele con la salsa tiger che avrete preparato mescolando tutti gli ingredienti.


719 - BBQ4All Magazine


La patata come non l’avete mai mangiata!

KARTOFFELSALAT E WÜRSTEL

Torniamo a parlare di un’insalata che, come abbiamo già potuto appurare in qualche numero passato, non è sempre sinonimo di dietetico, leggero e fresco. Anzi, moltissime volte mangiare un’insalata si trasforma in un’esperienza soddisfacente e completa, molto distante da quella specie di triste punizione riservata a chi segue una dieta particolarmente rigida. Rientra nella categoria insalate soddisfacenti anche quella che vi presentiamo oggi.

Si tratta della Kartoffelsalat, la tipica insalata di patate bavarese. Il nome parla chiaro: è consumata principalmente in Germania, ma anche in Alto Adige. È una pietanza gustosa e ad altro contenuto calorico, che si può servire sia calda che fredda. Secondi alcuni le origini di questa ricetta sarebbero polacche; certamente si tratta di un piatto povero, che vede l’utilizzo di uno degli ingredienti principali della cucina tedesca. La Germania è nota per essere uno dei Paesi che ama di più la patata, oltre a produrne davvero in quantità gigantesche: per decenni è stata la base della loro cucina, preparata in svariati modi. Si dice che negli anni ‘50 ogni tedesco mangiasse circa 200 chilogrammi all’anno di patate. Anche se oggi i consumi dello squisito tubero sono calati, la patata rimane sempre un cibo molto amato da quelle parti. E, onestamente, anche dalle nostre.

720 - Almanacco 2021

Abbiamo pensato di rivisitare - come sempre a modo nostro - questo classico della cucina tedesca. In realtà in Germania esistono vari tipi di insalate di patate, che di solito vengono suddivise in due gruppi: insalata di patate condita con maionese o con sale olio e aceto. Noi abbiamo scelto quella più famosa e goduriosa: con maionese , ça va sans dire. Di solito, le patate vengono bollite e successivamente condite con una salsa a base di maionese, sostituita a volte con panna o yogurt. Noi invece abbiamo cotto i tuberi sotto la cenere, in ember roasting, poi li abbiamo conditi con una salsa a base di senape e maionese e infine serviti, come da tradizione, coi würstel: con i nostri meravigliosi Franks Würst, fatti di sola carne Black Angus americana Blue Ox. Anche se in Germania la Kartoffelsalat non ha stagione, e viene servita per ogni occasione, dal Natale alle grigliate estive, ci è sembrato giusto presentarvi adesso questa ricetta, perché per noi i cibi serviti freddi richiamano subito l’estate anche se, come in questo caso, non rispettano esattamente le direttive della TV: quando fa molto caldo uscite solo nelle ore serali e mangiate leggero, preferibilmente frutta e verdura.

INGREDIENTI 4/6 persone

1 kg di patate novelle 2 cipollotti sale q.b. pepe q.b. prezzemolo (o erba cipollina) due confezione di Franks BLUE OX per la salsa 2 cucchiai di senape 2 uova 400 ml di olio di semi due cucchiai di succo di limone o aceto un pizzico di sale


1.

Predisponete il dispositivo per una cottura a contatto con le braci.

2.

Avvolgete le patate nel foil con tutta la buccia e appoggiatele sul carbone, ricoprendole con cenere e carbone. Fatele cuocere finché non riuscirete ad infilzarle con la forchetta senza nessuna difficoltà. Toglietele dalla cenere, lasciatele leggermente raffreddare e poi pelatele.

3.

Tagliate adesso le patate a cubetti, il più regolari possibili. Teneteli da parte in una ciotola.

4.

Preparate la maionese in versione super veloce, frullando insieme con un frullatore a immersione le uova fredde, l’olio, il sale e l’aceto. Una volta fatta, aggiungete alla maionese la senape e il cipollotto tritato finemente. Aggiustate di sale e di pepe e tenete da parte.

5.

A questo punto, condite le patate con la salsa ottenuta, giratele delicatamente e tenetele in frigorifero fino al momento del servizio. Questa operazione può anche essere fatta il giorno prima: le patate assorbiranno buona parte della salsa e saranno ancora più gustose.

6.

Rigenerate i würstel in acqua calda senza toglierli dalla busta. Quando saranno caldi, passateli velocemente in piastra o in cottura diretta sulla griglia del vostro dispositivo.

7.

Servite la vostra Kartoffelsalat a temperatura ambiente o appena tolta dal frigo, condendola un po’ con prezzemolo o con erba cipollina, insieme ai würstel ancora caldi.

721 - BBQ4All Magazine

PREPARAZIONE


INGREDIENTI 6 persone

2 rotoli di pasta sfoglia rotonda 3 würstel Franks Würst Blue Ox 1 formina di Brie da 150g 1 uovo semi di sesamo

722 - Almanacco 2021

Smoky chipotle Sal’s Seasoning


BRIE

AFFUMICATO E WÜRSTEL

I girasoli di pasta sfoglia ripieni di formaggio brie e Franks Würst BLUE OX possono essere l’idea più divertente delle feste... ed anche la più golosa! Non solo perché è esteticamente accattivante ma perché contiene al suo interno i miglior würstel in circolazione. Un girasole di pasta sfoglia dorata e croccante, che racchiude nei petali i Franks Würst, i würstel definitivi fatti al 100% di carne di Black Angus americana Blue Ox. Sono già cotti, già affumicati con metodo tradizionale: cioè esposti a vero fumo di legna con essenza di ciliegio e hickory. Al centro del nostro girasole, una formina di formaggio brie dolcemente affumicata in precedenza e condita con il nostro Smoky Chipotle. Ciò che fa la differenza sostanziale in questa preparazione è sicuramente la tecnica del planking applicata al formaggio. Il planking prevede di grigliare le vostre pietanze a contatto con una tavoletta di legno (solitamente di cedro), in precedenza scaldata per qualche minuto utilizzando la cottura diretta. In questo modo il fumo prodotto e gli oli essenziali doneranno alla preparazione un’aroma molto particolare, delicato e gustoso. A differenza del Camembert, molto più intenso e dal sentore di tartufo, il formaggio brie con la sua delicatezza si presta molto bene in questo piatto. La tecnica è fondamentale: si stacca un pezzo di sfoglia con una leggera torsione , si intinge con ingordigia nel formaggio fuso e poi in una salsa a scelta. Si presta perfettamente una salsa dal sentore acidulo, leggermente piccantina o un chutney di frutti rossi.

PREPARAZIONE 1.

Stabilizzate il vostro dispositivo con un setup indiretto e scegliete una tavoletta di legno dell’essenza che preferite.

2.

Dopo averla tenuta a bagno per circa mezz’ora, sistematela in cottura diretta con il brie ed aspettate che inizi a fumare. Successivamente, potrete spostare l’intera tavoletta sul lato indiretto e lasciare affumicare per 10/15 minuti.

3.

Sovrapponete i due dischi di pasta sfoglia senza schiacciarli ed al centro di quello inferiore inserite il brie precedentemente raffreddato, avendo cura di sigillarlo bene con il disco superiore.

4.

I lembi restanti di pasta andranno divisi in quattro quadranti a loro volta suddivisi in tre sezioni così da ottenere un totale di 24 petali del nostro girasole. È importante lavorare sempre in ambiente fresco aiutandosi con il frigo,al bisogno, viste le temperature estive.

5.

Dividete ogni würstel in otto pezzi uguali ed avvolgere con ogni sezione di pasta il singolo pezzo di würstel; poi richiudetelo attorno al brie come se fosse la corona di un girasole.

6.

Una volta terminati i würstel, spennellate con l’uovo leggermente sbattuto e cospargere con un leggero strato di semi di sesamo senza esagerare.

7.

Cuocere a 200°C per circa 30/35 minuti, avendo cura di controllare le parti più spesse in cui si uniscono i lembi di sfoglia.

8.

Una volta pronto il nostro girasole, scoperchiare con cautela brie e liberarlo dalla crosta fiorita superiore. Cospargete con un velo leggero di Smoky Chipotle e servite ancora caldo!

723 - BBQ4All Magazine

E come un girasole giro intorno a te!


PIZZA FRITTA con ricotta, provola e salame affumicato GLC Top Selection Portfolio gastronomico a cura di Nunzia Clemente

UNA STORIA DORATA, UNTA E PROFUMATA CON BARICENTRO A NAPOLI Fino a qualche anno fa, c’era un alone di sospetto nei suoi confronti. Lei, proprio lei, la biondissima e profumosa pizza fritta. Additata come calorica, non esportabile in un posto che non fosse Napoli, imbibita di chissà quali proprietà malefiche a causa della frittura breve a temperature sostenute: ecco, ci spiace dirlo, ma vista la diffusione a macchia d’olio (sic!) i detrattori farebbero bene a mangiarne e stare zitti. La pizza fritta è diventata un’icona di street food, perlopiù associata alla vita napoletana, città dove questo alimento ha una vita ben prospera. Personalmente, ho bei ricordi della pizza fritta, pur non vivendo a Napoli da un po’. Una volta di un bel po’ di anni fa, ormai, io e una-bravissima-fotografa-in-servizio-qui-al-Magazine abbiamo assaggiato e fotografato almeno una ventina di pizze fritte. Ebbe la capacità innata di renderle belle e sensuali.

724 - Almanacco 2021

Loro, le pizze fritte. Noi invece accettammo di buon grado di metter su qualche chilo e basta, senza colpo ferire. Sicuramente parente prossima di calzone, panzerotto e gnocco fritto in giro per l’Italia, ma ho pochi dubbi: anche voi la considerate regina fritta tra i fritti. La conosciamo un po’ meglio insieme, vi va? Vi prometto di non farvi salivare troppo. Beh, dico bugie: in ogni caso, fra qualche pagina, dovreste trovare un ottimo metodo per rimediare alla voglia compulsiva di pizza fritta. Così vi scottate le dita a dovere.


PIZZA FRITTA: NASCITA DI UNA LEGGENDA Di frictilia abbiamo molto parlato, qualche numero fa del Magazine: per sommi capi, la pizza fritta può essere paragonata ad una grossa frittella, in questo caso salata (ma che i pizzaioli contemporanei declinano sovente anche in versione dolce). Nell’antichità, era spesso guarnita dopo cottura e ripiegata con in mezzo il condimento, talvolta dolce (fichi, miele, uva), talvolta salato (salse di pesce come il garum). Al giorno d’oggi potremmo dire che questa sia diventata la contemporanea montanara, cioè un pallone di pasta fritta con un topping di ingredienti sia crudi che preparati (come ad esempio, il ragù o la genovese). Un dato di base ed incontrovertibile, prima di narrarvi citazioni e leggende, c’è: la pizza fritta è la parente povera della pizza al forno, su questo non ci piove; né sembrano esserci pareri fortemente contrari. Da sempre e di gran lunga è stato più semplice possedere e trasportare un pentolone colmo d’olio, non un forno a legna. Famosa è la teoria secondo la quale la pizza fritta sarebbe nata dall’ingegno delle donne napoletane, durante il Secondo Dopoguerra, vista appunto la penuria di forni a legna. Una testimonianza di ciò ci è stata lasciata dal film film di Vittorio de Sica “L’oro di Napoli”, datato 1954, con una magica Sofia Loren a fare la parte della pizzaiola in uno degli episodi chiamato “Pizze a credito”. Sicuramente, per i motivi citati prima, la pizza fritta ebbe una risonanza maggiore nei periodi di fame del popolo napoletano. Ma esistono numerose citazioni del nostro unto disco di pasta, anche di un certo pregio. Ad esempio, le “zeppulelle” – cioè tocchetti di pastacresciuta fritti, antesignani e parenti della nostra pizza fritta, la tsippola – sono ampiamente citate in un componimento in versi del marchese Giovanni Battista del Tufo. Il Marchese è a Milano e descrive con malinconia un venditore ambulante napoletano di zeppole con le mele. Ancora, qualche secolo più in là – precisamente, durante il XIX secolo – fu il Duca di Buonvicino, Ippolito Cavalcanti, a descrivere nella sua

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La grande giornalista e storica napoletana Matilde Serao, autrice de Il ventre di Napoli, ci descrive ancora le zeppole e l’usanza del popolo napoletano di comprare – per un solo soldo! – dai venditori ambulanti dei “panzerotti” ripieni con un torsolo di cavolo, o ancora un’alice o ancora qualche foglia di carciofo. Avanzi, insomma. Queste testimonianze – ho applicato una selezione – ci dimostrano che la zeppola/pizza fritta era un cibo profondamente radicato nella mentalità del popolino, grandemente versatile, facilmente reperibile e, soprattutto, disponibile a poco prezzo. Non tutti potevano permettersi i grandi pentoloni ricolmi di maccheroni, i sughi prelibati dei monsù (i cuochi della corte borbonica E quindi, viva la zeppola (pizza) fritta, cibo comunitario. COS’È, OGGI, UNA PIZZA FRITTA? Non è ben chiaro il passaggio da zeppola (tsippola) a pizza quando sia avvenuto: vi basterà sapere che in provincia di Napoli e nelle altre province campane la pizza fritta è ancora chiamata così. Zeppola. Ho provato a chiedere spiegazioni a zeppolari del mio paese. Spiegazioni abbastanza esaustive, devo dire. La zeppola, almeno in provincia, si distingue per l’impasto molto veloce e lasciato lievitare per pochissime ore: questo impasto ultra-veloce era, molti decenni fa, quello preferito dagli zeppolari – non dai pizzaioli – perché dava la possibilità agli ambulanti di non gettare impasto superfluo, magari per una giornata di lavoro andata male a causa del clima nefasto. La pizza, invece, beneficiava di qualche ora di impasto diretto in più. Nerd della pizza, non ti sconvolgere. Lascio a te tutte le spiegazioni del caso. Torniamo a noi. Facile immaginare come le cose, nel magma fluido della società cittadina borbonica, zeppola e pizza siano andate praticamente a

confluire, a mischiarsi, a beneficiare dei rispettivi punti forti – come la praticità, la velocità, la goduria del fritto, la possibilità di farcirla in mille modi diversi – complice anche la distruzione della guerra. I pizzaioli – e le pizzaiole, numerose a Napoli prima! – dovevano pur industriarsi e tirar fuori qualcosa Oggi, la pizza fritta è un disco di pasta lavorato con le dita per accogliere un ripieno di vario tipo: solitamente vi è ricotta, pepe, provola, ciccioli (ritagli di grasso e parti meno nobili del maiale) oppure salame. Successivamente, la pizza viene ripiegata su se stessa e chiusa battendo forte sulle estremità, scutuliata (ndr, scossa) per assestarne il condimento all’interno e successivamente immersa nell’olio bollente. Aiutati da una schiumarola, la pizza si frigge e si gonfia in una danza di bolle finché non diventa dorata. Quello appena descritto è il procedimento della pizza fritta “da passeggio”. Esiste anche quella tonda, sovente ricavata con due panetti di pasta: uno come base, l’altro come “coperchio” del ripieno fumante. Le farciture possono essere innumerevoli. Salumi, prosciutto ma anche alici e pescetti di vario tipo. Tra le verdure, gettonata è la scarola ripassata in padella, soprattutto con olive e pinoli, ricetta classica napoletana. La parte dei latticini è quasi sempre affidata alla ricotta ed alla provola, raramente al fiordilatte e alla mozzarella, in quanto troppo cariche di siero e quindi andrebbero a corrompere la struttura “fragante” della pizza fritta. Ve la lancio lì: provate una vostra pizza fritta casalinga, unendo i latticini della tradizione napoletana come ricotta e provola, aggiungendo un tocco di classe con il salame GLC Top Selection... noi l'abbiamo fatto. Senza dubbio, tra le nostre versioni preferite. PESCITIELLO, BATTILOCCHIO, COMPLETA, MONTANARA. VOCABOLARIO DELLA PIZZA FRITTA. La pizza fritta è un universo. Ne esistono infinite varianti e tipologie, vista la sua capacità adattiva. Certo: alcune versioni, con determinate farciture, sono decisamente migliori delle altre. Ma vi sfido: una pizza fritta svuotafrigo della domenica sera sarà oltremodo soddisfacente, come poche altre cose al mondo.

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opera magna “Trattato di cucina teorico-pratica” a fornire altre due ricette per le “zeppulelle”, da fare durante la settimana di Pasqua. Il martedì era dedicato alle zeppulelle di baccalà, da fare “dinto a na tiella chiena d’uoglio, e jon, jonne, e asciutte l’accuonce dinto a lo piatto sujo” (da friggere in una padella piena d’olio, asciugare e poi sistemare per bene nel piatto); mentre per il Giovedì Santo le zeppole erano da fare “mbuttunate d’alice”, cioè ripiene di pescetti piccoli, di minuzie.


COMPLETA. La pizza fritta denominata Completa è solitamente farcita con ricotta vaccina, pepe, provola, ciccioli di maiale o salame (oppure insieme). Opzionale, una “macchia” di pomodoro, per dare colore. Ma molte pizzerie storiche e di quartiere hanno la loro versione della “Completa”, che spesso prevede ingredienti altamente caratterizzanti e che veicolano il flusso di mangiatori professionisti proprio “in quella pizzeria lì” per assaggiarla. BATTILOCCHIO (pescitiello). Un singolo panetto di pasta viene lavorato, riempito ed infine ripiegato su se stesso per poi essere cotto. Di solito il panetto è di dimensioni ridotte ed è la pizza fritta che, tipicamente, viene mangiata per strada, vista la “comodità” nelle dimensioni. MONTANARA: La montanara probabilmente è la forma più antica di pizza fritta. Oggi viene proposta essenzialmente come antipasto (quindi in versioni molto piccole, dei bonbon di pasta fritta), ma ciò non vieta di renderlo un piatto completo ed unico in alcune pizzerie storiche. La Montanara viene dapprima fritta e poi guarnita, sia con preparazioni che con ingredienti a crudo. Per questo abbiamo montanare con sugo di genovese oppure caldo ragù napoletano, ma anche con pomodorini freschi, rucola e mozzarella di bufala a crudo. COME SI MANGIA LA PIZZA FRITTA? Dicevo, all’inizio di questo portfolio gastronomico di Luglio, che la pizza fritta è uno street food, cioè qualcosa da tenere tra le mani e mangiare serenamente tra un impegno e l’altro. Sì, ma non solo. Con il passare degli anni – e soprattutto nell’ultimo decennio – la pizza fritta si è imposta come un prodotto “da tavola”, da consumare comodamente seduti e non soltanto appoggiandosi a tavolini di fortuna in piedi, pulendosi alla bell’e meglio la bocca dopo aver ingollato bocconi con la temperatura dell’inferno. Esistono sostanziali differenze tra le pizze fritte dans la rue e quelle servite a tavola. Mangiarla per strada. Ecco, converrà non toccare direttamente con le mani la pasta bollente ma proteggersi con la carta oleata. Poi, dare morsi piccoli ma precisi: l’effetto geyser bollente è dietro l’angolo ed è meglio che coli a terra anziché su magliette, visi o barbe provocandovi fastidiose

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ustioni. Solitamente, la pizza fritta da consumare per strada è il pescitiello. Mangiarla a tavola. La pizza fritta diventa XXL size, in una sorta di priapismo alimentare. Indifferentemente si trova sia tonda che a forma a di pescitiello. Ancora fumante, la superficie viene bucherellata con i rebbi della forchetta, facendo fuoriuscito il vapore magmatico. COME SI RICONOSCE UN’OTTIMA PIZZA FRITTA? Pochi parametri ben necessari potranno aiutarvi a riconoscere una pizza fritta fatta a mestiere e a goderne. COLORE. La pizza fritta ben fatta ha un colore biondo, uniforme. Diffidate di pizze fritte che presentano zone più scure delle altre. PROFUMO. La vostra pizza fritta dovrà avere un bell’odore – beh! – di fritto. Dovrà essere lieve e predominante, con qualche nota lievitata ad amplificare il tutto. Diffidate di puzza di olio rancido: si riverserà tutta sul vostro bottino. PESO. Soppesate la vostra pizza fritta. Non dovrà essere eccessivamente pesante, cattivo segnale di pasta non perfettamente stesa (deve essere sottile come un velo!) oppure di condimento eccessivo (e quindi temperatura vulcanica). TEXTURE. Superficie croccante e bollente. C’è altro da dire? Tenetevi lontano da consistenze mollicce e freddine. VINO, BIRRA. COSA ABBINARE ALLA PIZZA FRITTA? La pizza fritta richiama un pairing alcolico. C’è poco da fare. La pizza fritta è perfetta per essere abbinata con vini spumanti. La presenza massiccia di CO2 e la maggiore acidità di questi vini ben aiutano a bilanciare la frittura, rendendola piacevole e pulendo il palato dalla grassezza eccessiva.

Per quanto riguarda il lato birre, c’è da sbizzarrirsi: ci si può concedere Geuze, Lambic e English Barley Wine. L’idea di base è quella di pulire il cavo orale con una acidità spinta ed una buona carbonazione di base.

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Ma il vino che meglio si abbina alla pizza fritta è, storicamente, il marsala, ancora ad oggi servito in bicchierini in talune friggitorie. Il residuo zuccherino di questo vino ben aiuta a bilanciare le note grasse e a smorzarle.


Che io sia jalapeño!

PEPERONCINI

RIPIENI CON SALSA AL TONNO

Folgorati da un peperoncino, è proprio il caso di dirlo: è quello che accadde agli esploratori spagnoli capitanati da Hernán Cortés.. Anno Domini 1517: i conquistadores, arrivati in Messico, furono immediatamente colpiti da una pianta dai frutti peculiari che venivano utilizzati dagli indigeni in tantissime pietanze e dalle più svariate forme. Senza paura alcuna, vien da dire.

La pianta in questione produceva peperoncini, nella fattispecie gli ormai arcinoti peperoncini jalapeño. Il nome è un toponimo: infatti, la stragrande maggioranza di questi peperoncini era coltivata nei dintorni della città di Jalapa, capitale dello Stato di Veracruz. “Chile gordo” è l’altro nome del peperoncino jalapeño, grazie al suo diametro consistente e alla semplicità con la quale può essere farcito, dando via a ricette golosissime: dal formaggio al prosciutto, fino al riso.

INGREDIENTI 4 persone

8 peperoncini jalapeño belli grossi e non troppo maturi 1 confezione di filetto di salmone affumicato 1 rotolo di pasta sfoglia 100 g di formaggio spalmabile tipo Philadelphia, meglio se aromatizzato (alle erbe o al salmone) 1 tuorlo d’uovo 25/30 grammi di semi di sesamo per la salsa al tonno 125 g di filetti di tonno all’olio extravergine d’oliva di alta qualità 12 olive verdi

Che sapore ha il “Cuaresmeno”, altro appellativo del nostro peperoncino? Ha un sapore deciso, ma non eccessivamente piccante, soprattutto nelle prime fasi della sua maturazione (cioè quando è ancora verde). Verso il mese di agosto, il suo colore cambia dal rosso al marrone e la sua piccantezza diviene più accentuata. Questa sua caratteristica lo rende appetibile anche a chi non è appassionato ai gusti estremi della scala di Unità Scoville, cioè la scala che misura la “piccantezza” degli alimenti, cioè la capsaicina (la sostanza responsabile) contenuta.

12 olive nere 12 cetriolini sottaceto 5 cipolline sottaceto 6 filetti di peperoni grigliati sottaceto 50 grammi di funghi 5 cucchiaini di maionese * per la maionese: 1 tuorlo d’uovo 50 g di olio extra vergine di oliva

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50 g di olio di semi

Come useremo questo peperoncino godibilissimo, apprezzato e conosciuto anche dai meno avvezzi alla cucina? Ne faremo degli antipasti piccantini, farcendoli come da tradizione sudamericana con una salsina però a modo nostro, fatta con tonno e sottaceti. Dopodiché chiuderemo i peperoncini con una fettina di salmone, per dare un po’ di freschezza. Avete l’acqua a portata di mano? Iniziamo!

il succo di mezzo limone sale e pepe q.b.


PREPARAZIONE

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Per prima cosa preparate la maionese. Avendo cura di usare ingredienti a temperatura ambiente, mettete il tuorlo in una ciotola per minipimer, aggiungete un pizzico di sale e pepe. Aggiungete anche il mix di olio extravergine e olio di semi a filo, rullando in modo continuativo ed omogeneo fino a che il composto sarà ben incorporato. A questo punto aggiungere il succo di limone, ottenendo una salsa ben montata. Ora preparate la salsa al tonno. Sgocciolate i filetti di tonno con cura per poi metterli in un minipimer, assieme alle olive ed alle verdurine sottaceto. Aggiungete la maionese e frullate il tutto. Attenzione, questa salsina semplicissima crea una certa dipendenza: abbiate cura di farla arrivare al tavolo dei vostri ospiti, non spalmatela su crostini prima del tempo! Prendete i peperoncini e dopo averli lavati, tagliate il calice dove è attaccato il picciolo, eseguite un taglio perpendicolare ed estraete la

placenta ed i semi. Se volete essere più tranquilli, usate dei guanti in lattice e una mascherina. 4.

Farcite i peperoncini jalapeño con un mix di salsa al tonno e formaggi spalmabili, poi coprite il taglio con un sottile pezzo di filetto di Salmone affumicato.

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Tagliate a listarelle la pasta sfoglia e avvolgete per bene il peperoncino, partendo dal fondo con un pezzetto quadrato in modo da chiudere l’estremità più larga.

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Spennellare la parte superiore con il tuorlo d’uovo e far aderire i semi di sesamo.

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Settare il dispositivo sui 200°C e predisporre il dispositivo per la cottura indiretta. Dopodiché, predisporre i peperoncini jalapeño sul dispositivo, affumicando con legno di cedro per circa 20 minuti.

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Dopo i 20 minuti, sarete pronti per servire un antipasto sfizioso e… piccante!

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GALLETTO VALLESPLUGA MARINATO ALLE ERBE CON SALSA HONEY MUSTARD

Sgombrando il banco da lavoro di ogni possibile dubbio, abbiamo quindi deciso di provare per voi il Re dei Galletti, anche per andare sul sicuro utilizzando un prodotto che non possa essere accusato di scarsa qualità. Le aziende, quelle di un certo peso, spesso arrivano ad essere identificate con il loro prodotto di grido. Anche in Italia, ne abbiamo un discreto numero, nate durante il Novecento e perfezionate durante il Secondo Dopoguerra. Tra queste, troviamo la Valle Spluga: nata negli anni Sessanta in provincia di Sondrio (precisamente, in Valchiavenna), si è imposta a livello nazionale ed internazionale per l’allevamento e la messa in commercio del galletto: una vera e propria icona, destinato a diventare il più famoso d’Italia (e forse forse, tra i più conosciuti al mondo). Oggi andiamo a conoscerlo un po’ più da vicino; poi proveremo a metterlo in griglia, secondo gli insegnamenti BBQ4All, vi va? GALLETTO VALLESPLUGA: STORIE DI GALLI, STORIE D’ITALIA Com’è fatto un galletto Vallespluga, nella sua sostanza? Proteine nobili, vitamina B12, ferro e grassi contenuti fanno del Galletto un prodotto dalle carni pregiate, ricercate, di qualità. Nutrizionalmente, il Galletto Vallespluga si presenta molto valido sia per regimi alimentari standard, sia per chi ha bisogno di ridurre i grassi per svariati motivi.

Grazie al ridotto contenuto di grassi, il sapore del galletto è raffinato, non copre il sapore degli altri ingredienti. Una carne così versatile è ottenuta grazie all'utilizzo di mangimi di alta qualità, formulati esclusivamente da ingredienti naturali. Lo stato di salute degli animali è un aspetto molto importante: il responsabile di allevamento verifica e si assicura di ridurre tutti i fattori di stress, che potrebbero compromettere il benessere generale dei Galletti. In ultimo, ma non in ordine di importanza: la filiera di produzione è al 100% di proprietà italiana, mica poco per il nostro orgoglio nazionale. LA PROVA DEL FUOCO Potevamo mai farci scappare la prova di un galletto così succulento e pieno di buoni propositi? Vi dimostreremo ancora una volta che la qualità della materia prima è fondamentale ai fini del risultato finale. Ma non solo: bisogna anche avere la conoscenza per saperlo trattare. IL GALLETTO: STORIA DI UN CIBO BUONO, MA MALTRATTATO Non nascondetevi dietro un dito: almeno una volta, durante l’infanzia, vi hanno propinato il galletto. Perché è buono, perché è sano, perché si fa prima, perché non è troppo costoso. Tutti motivi molto validi, ma tra questi non ce n’è uno che ne giustifichi la cattiva riuscita: carne che al morso risultava gommosa, pelle gelatinosa ed aliena. Perché accadeva ciò? Perché i nostri grigliatori improvvisati non conoscevano le tecniche giuste per la cottura. Il Galletto, lanciato violentemente in griglia a temperature altissime, ne usciva decisamente malconcio: la pelle non aveva modo di disidratarsi a dovere, le fibre della carne subivano uno shock termico non indifferente. Insomma, adios galletto cucinato bene.

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C’è qualcuno a cui non piace il galletto grigliato? Vi sfidiamo: non esiste persona a cui non piaccia. Si tratta di un grande classico della cucina italiana, onnipresente in tutte le grigliate estive. Immaginate quanti galletti vengono ogni giorno messi su griglia: ma quanti tra questi saranno davvero buoni? Il problema risiede appunto nella cottura: la stragrande maggioranza dei griller della domenica non ha idea di come cuocere un galletto e spesso lo serve asciutto e stoppaccioso, nonché corredato di pelle flaccida.


Un galletto cotto a puntino, invece, dà soddisfazioni grandi: è una preparazione passe-partout adatta a tutti: ti salva con gli ospiti schizzinosi della carne al sangue, è adorato dai bambini, possibilmente con un bel cartoccio di patate come contorno, per non parlare poi dei partner e delle partner perennemente a dieta. Partendo da una materia prima di ottima qualità, abbiamo già un plus per ottenere un prodotto perfetto. Ma, non avendo le giuste conoscenze in materia, anche un galletto altamente performante può diventare un vero disastro in griglia. Non abbiamo intenzione di sprecare un’occasione così promettente, vero? UNA QUESTIONE DI CALORE Iniziamo col dire che l’errore più comune commesso dai griller di famiglia era – ed è ancora – sicuramente, una cattiva trasmissione del calore al nostro galletto. Detto in parole più semplici: si cuoceva male. Questo significa che cuocere un galletto è complicato? No, anzi: avendo i giusti riferimenti scientifici, che vi daremo noi, sarà una passeggiata. Ricordate il calore per convezione? Sarà quello che trasmetteremo al nostro galletto predisponendo il nostro dispositivo per una cottura indiretta, con coperchio chiuso e temperatura moderata.

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SKINCARE: COME CAMBIA LA PELLE Cambia il modo di cuocere il Galletto, cambierà anche la sua pelle. Potete tranquillamente cancellare dai ricordi quell’ammasso gelatinoso, malsano, di pelle bianchiccia. La pelle, già opportunamente trattata con olio e spezie, cotta con calore dolce per convezione, inizierà a disidratarsi man mano. Ci fermeremo a 140°C, una temperatura di esercizio inferiore rispetto al solito, per provocare la reazione di Maillard. Ma non preoccupatevi: questa temperatura ci darà una pelle croccante, asciutta, profumatissima. E la carne all’interno? Le fibre si contrarranno grazie alla temperatura moderata, mantenendo una elevatissima succosità che resterà anche nel piatto, fino all’ultimo boccone. Boccone che – ve lo assicuriamo – arriverà prestissimo. Nessuno resiste al galletto cucinato bene, ma proprio nessuno. LA RICETTA Per dare un sapore “esplosivo” ed accattivante alla carne del galletto, la scelta migliore ricade sulla

marinatura; nel caso di galletti particolarmente cicciotti, c’è da affiancare anche una salamoia. La particolarità della marinatura è che ci permette di dare una caratterizzazione del tutto personale al prodotto finito semplicemente cambiando gli ingredienti o variandone le quantità a piacimento. La nostra cara marinatura non è altro che un’emulsione tra una componente acida ed una grassa, tenuta insieme da uno stabilizzante e arricchita da sale, aromi e spezie, nella quale inserire il cibo da insaporire e intenerire, spesso tagliato in piccoli pezzi o inciso. La si utilizza spesso anche per quei tagli poveri di gusto e che hanno bisogno di sostegno. Inoltre è un valido aiuto per preservare morbidezza e succosità. In una carne come quella del Galletto, capirete che questa è la condizione necessaria per avere un’ottima esperienza gastronomica. Una delle caratteristiche delle sostanze acide è di riuscire facilmente a penetrare la membrana cellulare degli alimenti. Di contro, quelle grasse trovano difficoltà nel permeare, poiché le loro molecole tendono per natura ad agglomerarsi. Il grasso però è un grande veicolante di sapore; quindi attraverso uno stabilizzante riusciamo ad ottenere i benefici di entrambe le sostanze anche nel lungo periodo. Aggiungete un soffio di senape nella citronette, vi cambierà la vita. Oppure pensate alla maionese, l’emulsione stabile per eccellenza. Lì, spesso sono sufficienti le lecitine contenute nel tuorlo a fare da stabilizzante, ma è comune anche l’aggiunta della senape. Le proporzioni tra gli ingredienti possono essere variabili in funzione dello scopo da ottenere, e di quale influenza si cerca di raggiungere da ciascuno. Indicativamente, il rapporto tra sostanza grassa e sostanza acida si aggira su una proporzione da 1:3 a 1:2. Le due caratteristiche principali da ricercare sono, quindi, la pelle croccante e la carne con una elevata succosità. La pelle croccante è il boccone più goloso; ci sono due passaggi da seguire per ottenere questo risultato imprescindibile, che cambierà aspetto e consistenza dell’intero galletto. Dobbiamo ottenere una certa brunitura superficiale: questa è possibile grazie alla reazione di Maillard, che renderà la crosta profumata e saporita.


Prima di mettere sul fuoco, sarà necessario asciugare la carne per bene. Anche quando vi sembrerà ben asciutta, dovrete asciugarla ancora, e ancora. L’umidità andrebbe a vanificare il nostro processo, quindi tenderemo ad eliminarla del tutto. La reazione di Maillard avviene con una temperatura di esercizio pari a 160°C. Questa volta, però, utilizzeremo temperature più basse, perché oltre a limitare la fuoriuscita di liquidi e quindi trattenere il più possibile l’umidità tra le fibre, vogliamo disidratare la pelle fino a quando ogni singola particella di acqua sarà evaporata. A quel punto sarà molto semplice rendere la pelle croccante. Settiamo quindi il nostro disp ositivo intorno ai 130°C/140°C. Questa temperatura ci permetterà di disidratare l’epidermide mentre si fonde il grasso al di sotto. Il risultato sarà una pelle asciuttissima e perfettamente staccata dalla polpa, che invece resterà umida e terribilmente succosa.

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Seguendo queste piccole regole e dividendo in step semplici tutto il processo, il risultato sarà sbalorditivo. Garantito!


INGREDIENTI 4 persone

2 Galletti Vallespluga dal peso di 500 g circa l'uno Per la marinatura: 100 g di burro 2 spicchi d’aglio 2 rametti di origano fresco 2 rametti di maggiorana 2 rametti di timo limone 50 g di vino bianco secco 20 g senape 1 peperoncino fresco sale q.b. pepe nero q.b. Per la salsa honey mustard: 100 g maionese 60 g miele d’acacia o millefiori 20 g senape di Digione 20 g senape in grani all’ancienne 10 ml di aceto di mele 1 cucchiaino di aglio in polvere

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1/2 cucchiaino di paprika dolce


PREPARAZIONE: Per la marinatura sciogliete il burro in un pentolino con i due spicchi d’aglio tritati, aggiungete poi a quest’ultimo il vino bianco e fate dealcolare bene. 2. Trasferite il composto nel bicchiere di un mixer a immersione e frullate alla massima velocità aggiungendo la senape, che farà da emulsionante e stabilizzerà la marinatura. 3. A questo punto sfogliate le erbe e tritatele al coltello, aggiungetele alla marinatura e cospargete sul galletto che avrete preventivamente salato e pepato. Se gradite potete aggiungere in questa fase il peperoncino tagliato a rondelle. 4. Lasciate marinare da un minimo di 2 ore a un massimo di 24 ore in frigorifero. 5. Per la salsa honey mustard unite in una bowl la senape, il miele e la maionese ed emulsionate con una frusta. 6. Solo a questo punto unite l’aceto, la paprika e l’aglio in polvere e mescolate fino al completo assorbimento. 7. Lasciate riposare in frigo almeno 24 ore per dare modo alla salsa di maturare. 8. Dopo 24 ore togliete il galletto dalla marinata. Eliminate l’eccesso e asciugate bene con della carta da cucina. 9. Lasciatelo poi scoperto per almeno 2 ore. In questo modo si asciugherà ulteriormente e la temperatura interna sarà prossima a quella ambiente. 10. Stabilizzate il vostro dispositivo sui 130°C/140° C e ponete in cottura indiretta il galletto, meglio se su un supporto dedicato. 11. Affumicate leggermente con le essenze che preferite, ottimi il melo e il pesco, fino a che l’interno coscia non segnerà un temperatura di circa 78°C/80° C. 12. A quel punto aprite tutte le bocchette, spennellate la pelle di burro chiarificato oppure olio caldo e date un boost di temperatura alta, così da finalizzare il processo di crisp (“croccantizzazione”). Se avete fatto tutti i passaggi correttamente basteranno pochi minuti. Servite il vostro galletto croccante e drizzate le orecchie per sentire la pelle scrocchiare sotto i denti dei vostri commensali.

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E IL DOLCE?

FRUTTA AL BBQ Banane, carboni, chi c’era con te… Sulla banana si sprecano canzoni. Ne abbiamo scelta una, giusto per farvela canticchiare e per presentarvi il frutto più versatile che ci sia, che al barbecue rappresenta una vera potenza. La frutta al barbecue è un dolce sfizioso e di sicuro effetto, soprattutto durante l’estate. La preparazione è ridotta al minimo, si può preparare quasi subito ed anche in calcio d’angolo quando ci si è dimenticati del dolce. Vi presentiamo la banana al bbq e guarnita con il meglio che ci sia in circolazione, vi va?

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Perché abbiamo scelto la banana, oltre che per la musicalità e per la versatilità? Perché la banana è un frutto molto diffuso e consumato in tutto il mondo, grazie ai commerci internazionali conosciuto a tutte le latitudini: si tratta della bacca del banano, una delle piante erbacee più grandi, appartenente alla famiglia delle Musaceae di origine africana. Il viaggio della banana nel mondo è stato abbastanza tortuoso: furono i conquistadores portoghesi che, dall’Africa, portarono la falsa bacca nelle Americhe, circa a metà del Cinquecento. Soltanto agli inizi del Seicento, il frutto iniziò ad essere conosciuto anche in Europa. I caschi di banane sono letteralmente grappoli di frutto e possono arrivare a pesare anche 50 (!) kg. Sappiamo bene che la buccia esterna non è commestibile; si presenta ai nostri occhi abbastanza dura e, a seconda del grado di maturazione, ha un colore che va dal verde chiaro al giallo; la polpa invece è biancastra e con un sapore dolce che tende a svilupparsi con la maturazione. La polpa della banana è praticamente adattissima ai dolci, sia in versione crema che smoothie, ad esempio. I bananeti sono diffusi più o meno in tutto il mondo; è un frutto facilmente reperibile in ogni periodo dell’anno, dal costo contenuto e medio (dipende dalla qualità e dalla tipologia delle banane), quindi non vi sarà difficile trovarne per farne il vostro dolce al bbq. La nostra versione di banana al bbq prevede delle banane sufficientemente mature, ripassate sul nostro dispositivo e guarnite con cioccolato, panna e granelle golose. Vi assicuriamo che sarà un dolce gradito da tutti i vostri ospiti, sia grandi che bambini.

INGREDIENTI 4 persone

4 banane non troppo mature 200 g di cioccolato fondente di ottima qualità. Se potete, privilegiate quello con spiccate note acide e fruttate. 50 g di biscotti amaretti Granella di frutta secca q.b. (noci, nocciole, pistacchi…) zucchero a velo Guarnizioni al gusto di cioccolato o caramello in tubetto Panna fresca spray a piacere Miele q.b. Stecchini di legno abbastanza lunghi (quelli per gli spiedini).


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Dovete prendere delle banane e lasciarle maturare, questo è molto importante per ottenere la massima dolcezza di questa preparazione, non preoccupatevi dell’aspetto esteriore, in quanto in ogni caso andranno ad annerirsi esteriormente durante il processo di cottura nei vostri dispositivi. Prendete un coltellino (meglio uno spilucchino) e partendo dal manico iniziate ad incidere fino al picciolo, con un taglio a forma di V profondo circa 2,5 cm. senza staccare la buccia dal lato del manico. A questo punto si staccherà dalla buccia un po’ di polpa che andrete a mettere da parte per altre preparazioni. Iniziando dal picciolo, avvolgete il lembo intagliato a mo’ di involtino, fino al manico. Per mantenerlo fermo e inoltre creare dei piedini alla banana, infilate due stecchini in diagonale contrapponendoli, regolandoli poi a piacere in maniera che appoggiando sulla griglia la banana stessa non vada a ribaltarsi da un lato.

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Sminuzzate il cioccolato fondente; successivamente, incastrate i pezzetti nell’incavo creato.

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A questo punto settate il dispositivo sui 150°C e ponete le banane in cottura indiretta per circa 15/20 minuti, magari affumicando con del legno dolce. In alternativa, potete tranquillamente usare il forno di casa. Il risultato da ottenere è quello di far sciogliere il cioccolato all’interno dell’incavo e ottenere una buccia scura.

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Prendete le banane e posizionatele sul piatto di servizio, prendete la panna spray e riempite per bene l’incavo. Sbriciolate uno o due biscotti amaretti sopra la panna.

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Come sopra, compiete la stessa operazione per la granella, senza aver paura di sbordare; una passata a zig zag di miele e poi la stessa cosa per il cioccolato da guarnizione, per completare il tutto spolverate di zucchero a velo. La presentazione è una cosa importantissima per un dolce, per questo abbiamo abbondato in guarnizioni.

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Non vi resta che servire i piattini, così ben guarniti, cantando: banane, carboni…

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PREPARAZIONE


L'Arte Bianca a cura di Alessandro Trezzi illustrazioni di Ozzy Bellesi

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r e s i Karoll


Prendete ad esempio la michetta milanese, uno dei pani più famosi e amati del Nord Italia, dal quale la precedente generazione ancora fatica a staccarsi. Rotondo, piccolo formato, l’interno vuoto, acquistato e sbranato entro poche ore, rigorosamente farcito di abbondante mortadella; un’usanza tipica del Nord già ai tempi del dopoguerra, quando i pendolari lo recuperavano quotidianamente prima di andare a lavoro, allo scopo di utilizzarlo come pranzo, e che si differenzia dalla pratica del Sud di comprare grandi formati per sfamare tutta la famiglia nelle settimane di lavoro nei campi. Ebbene, la nascita della michetta è da ricercarsi nell’Ottocento, durante l’occupazione del milanese dall’impero austro-ungarico. I funzionari dell’Impero, infatti, non amavano la locale micca, un pane diffuso in tutta la zona del Nord Italia e che produceva moltissime briciole quando veniva spezzato (dal latino mica, ossia briciola): per questo motivo importarono il loro tradizionale kaisersemmel (che letteralmente significa “pane dell’imperatore”), un piccolo panino a forma di rosa, del peso di circa 50-90 grammi, caratterizzato da una morbida mollica che però sul suolo lombardo, nel quale è presente maggiore umidità rispetto a quello austriaco, non conservava la sua fragranza, diventando invece molle e dalla spiacevole consistenza gommosa. Per questo motivo i panettieri dell’epoca decisero di togliere la parte interna, quella della mollica, in modo da lasciare il nuovo pane cavo all’interno e dunque fresco e croccante più a lungo. Nacque così una prima versione della michetta, da una storpiatura del termine tedesco kaisersemmel e dal diminutivo della tradizionale micca lombarda.

Al termine della seconda guerra mondiale, grazie alle misure di aiuto previste dal Piano Marshall gli americani diedero agli italiani (depositandoli presso l’aeroporto militare di Malpensa) oltre un milione di quintali di grano e diverse centinaia di migliaia di quintali di una farina molto speciale, allora sconosciuta in Europa: la farina manitoba, prodotta in Canada occidentale da un grano parti-

colarmente forte, caratterizzato da un’estrema resistenza al clima rigido tipico del luogo. I panettieri milanesi (chiamati anche prestinai) iniziarono dunque a realizzare e diffondere la michetta così come la conosciamo ancora oggi, friabile e fragrante, croccante ma non eccessivamente dura, perfetta da farcire. Un pane sicuramente celeberrimo nel nostro bel paese, ma quindi profondamente differente dal suo pro-genitore straniero; il kaiser roll è composto da farina bianca, lievito, malto, acqua e sale, con il lato superiore solitamente diviso in uno schema simmetrico di cinque segmenti, separati da tagli superficiali curvi che irradiano dal centro verso l'esterno o piegati in una serie di lobi sovrapposti che ricordano una corona. I kaiser roll esistono in una forma riconoscibile almeno dal 1760. Si pensa che siano stati nominati in tal modo per onorare l'imperatore (Kaiser) Francesco Giuseppe I d'Austria (nato nel 1830, regnò dal 1848 al 1916). Nel XVIII secolo una legge fissava i prezzi al dettaglio dei semmeln (panini) nella monarchia asburgica; presumibilmente, il nome Kaisersemmel divenne di uso generale dopo che la corporazione dei fornai inviò una delegazione nel 1789 all'imperatore Giuseppe II, e lo convinse a deregolamentare il prezzo dei panini. Con la loro connotazione monarchica, i panini Kaiser si distinguevano dai comuni panini conosciuti come Mundsemmeln ("involtini di bocca") o Schustersemmeln ("involtini da ciabattino"). Si trovano tradizionalmente in Austria, ma sono diventati popolari anche in altri paesi dell'ex impero asburgico austriaco, come la regione della Galizia in Polonia e in seguito l'intero paese, Croazia, Slovenia e Serbia, Ungheria, Repubblica Ceca e Slovacchia, nonché in Germania, negli Stati Uniti e in Canada. Esistono molteplici varianti del rotolo comune, diverse per dimensione, tipo di farina utilizzata e condimenti; per quanto tradizionalmente siano semplici, è possibile trovarli oggi conditi con semi di papavero, semi di sesamo, semi di zucca, semi di lino o semi di girasole. Il Kaiser Roll è la parte principale di una tipica colazione austriaca, solitamente servita con burro e marmellata; non solo, spesso viene utilizzato per panini popolari come gli hamburger, oppure wurstel a fette e cetriolini sottaceto. Un’altra variante chiamata kummelweck, condita con sale kosher e

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Quello del pane è un mondo fantastico, fatto di intrecci, di tradizioni tramandate e mescolate, di usanze diffuse e riadattate.


L’obiettivo è quindi quello di mettere d’accordo i due paesi, facendo una michetta del Kaiser, che possa conservare una crosta croccante seppur con un cuore tenero, ma senza che la nostra umidità caratteristica ne asciughi l’interno rendendola immangiabile. Da amanti del barbecue, dovrà diventare la nostra alleata migliore quando prepareremo il Pit Beef, raccogliendo i succhi della carne, ed evitando di prestare resistenza al morso danneggiando l’esperienza complessiva. Vogliamo vedere come si fa?

Il metodo (indiretto)

cumino, e negli Stati Uniti è un componente essenziale di una specialità della zona di Buffalo, il Pit Beef Sandwich. In gran parte dello stato orientale di New York e in tutto il New Jersey, i panini Kaiser sono conosciuti come hard roll; la varietà Wisconsin di hard roll presenta una consistenza soffice su l'interno con una crosta sulla parte superiore del panino, ed è stata creata nel corso dei decenni dai panifici di Sheboygan per essere abbinata alla specialità locale del bratwurst.

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Il kaiser roll da veri Nerd Analizzato il pregresso, come possiamo realizzare un Kaiser Roll da veri Nerd, in grado di far dimenticare ai nostri avi l’occupazione della nostra amata patria? Dal mio punto di vista, il miglior pane è sempre quello in grado di combinare le due consistenze: croccante fuori, morbido dentro.

Oggi diventiamo grandi, e lavoriamo con la biga; si tratta di un pre-impasto asciutto e tutto italiano, evoluto negli anni dal grande Piergiorgio Giorilli, il padre dei panificatori moderni. Tecnicamente, un impasto che la utilizza è definibile come indiretto, ossia un processo nel quale la fase di miscelazione e unione dei vari ingredienti è divisa in due parti: • Un pre-impasto, in cui si mescolano di solito acqua, farina e lievito; • Un re-impasto successivo alla prima maturazione, in cui si aggiungono gli ingredienti mancanti. Una tecnica nata per la panificazione, e approdata oggi con una diffusione spasmodica anche nel mondo pizza, spesso senza nemmeno avere motivazioni valide per giustificare il suo utilizzo. La biga classica, didattica, come Piergiorgio Giorilli ce l’ha insegnata codificandone il metodo prevede da manuale dosi, temperature e tempi di maturazione ben precisi: • Farina 00 o 0 (W > 300); • 44% di acqua sul peso della farina; • 1% di lievito sul peso della farina.


I vantaggi più evidenti di tale tecnica riguardano la fermentazione lattica che ha luogo durante la maturazione dell’impasto finito: con la produzione di acidi organici a beneficiarne sono gusto, profumo e sviluppo della struttura e degli alveoli, i piccoli fori che si formano nella pasta. Migliora anche la conservabilità, e la maggiore acidità dell’impasto garantisce più resistenza contro i microrganismi patogeni cui si deve la crescita delle muffe. Last but not least, i tempi di lievitazione si riducono sensibilmente, aiutandoci a dare all’impasto finale una struttura migliore. Tuttavia, tale tecnica è sono consigliabile solo in presenza di ambienti (o di strumenti) adatti alla maturazione, con temperature e umidità costanti. Inoltre, un impasto indiretto gestito male, con punte di acidità importanti e un pH sballato (impastato troppo o lasciato a maturare per un tempo eccessivo) vi restituirà risultati per lo più scadenti per i rischi legati alla maturazione eccessiva del preimpasto, che provoca la rottura della maglia glutinica e un lievitato pessimo. Infine, sciogliere una biga a mano nell’impasto finale è molto difficoltoso, perché a

causa della bassa idratazione richiede un’energia cinetica e una costanza assicurate solo da movimenti meccanici come quelli di planetarie e impastatrici. Di norma potete attenervi a questa regola generale: sorella biga vi aiuta ad avere alveoli grossi e irregolari, oltre a una struttura salda e sviluppata, una maggiore spinta verso l’alto e una maglia glutinica solida, grazie alla prevalenza di acidi organici. La mollica sarà più “ariosa”, morbida e aromatica, con un sapore pieno dovuto alla produzione di acido lattico durante la fermentazione. Caratteristiche che la rendono preferibile per pizze in teglia alla romana, focacce morbide, grandi lievitati e pagnotte dalle dimensioni sostenute. Tenete però presente che la biga porta molta tenacità nell’impasto finale, che se non spezzata a dovere con farine più deboli nel re-impasto si ripercuotono inevitabilmente sul morso. Per la nostra preparazione utilizzeremo una farina di forza al fine di stabilizzare la biga durante la fermentazione; una 00 o 0, che ripercorra la tradizione instaurata con l’innesto della Manitoba nel nostro territorio. Tuttavia, per evitare di svuotare completamente la mollica, non lavoreremo con un 100% biga come nel caso della michetta ma con un 50%, in modo da conservare comunque un interno sviluppato ma morbido. Infine, spezzeremo nel re-impasto con una materia prima più debole, per evitare la tenacità nel prodotto finito ed il conseguente morso lungo nel nostro amato panino.

INGREDIENTI per 10 kaiser roll

per la biga 250 g di farina di grano tenero 00 o 0 (W 360); 125 g di acqua; 2.5 g di lievito di birra fresco

per l'impasto La biga matura 250 g di farina di grano tenero di tipo 00 o 0 (W 270); 200 grdi acqua; 10 g di sale fino; 2.5 g di malto diastasico.

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In base al tempo di riposo distinguiamo due tipologie distinte e conseguenti temperature di esercizio: • Biga corta, con maturazione di 16 ore a una temperatura di 18-20 °C; • Biga lunga, con maturazione di 24 ore in cella frigorifera a 4-5°C e le successive 24 a 18-20°C.


PRE-IMPASTO

In una ciotola versate l’acqua, sciogliete il lievito e immergete tutta la farina, mescolando qualche minuto con le mani fino ad idratarla completamente; il composto dovrà risultare grezzo, spezzettato e asciutto, non assolutamente impastato, ricordando un crumble.Chiudete ermeticamente e lasciate fermentare a 18°C per 16 ore; la vostra cantina potrebbe andare benone.

IMPASTAMENTO

Spezzettate la biga matura in metà dell’acqua, aggiungete qualche cucchiaio di farina e iniziate a lavorare a macchina per sciogliere la biga. Dopodiché aggiungete tutto il malto, la farina e l’acqua a filo, fino a quando il glutine non si sarà formato. A questo punto aggiungete il sale e l’acqua rimanente, chiudendo a una temperatura di almeno 24-25°C; formate una palla liscia e lasciate riposare circa 1 ora a temperatura ambiente.

FORMATURA E RIPOSO FINALE

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Spezzate l’impasto, formando palline da circa 80 grammi l’una; mettetele su una teglia, coprite con un panno umido e lasciate riposare ancora 1 ora, fino al raddoppio. Trascorso il tempo, stampate i panini con l’apposito strumento per kaiser roll o per michetta; in sua mancanza, procedete in questo modo: pressate

con una mano i panini formando dei dischi, per poi praticare dei tagli a mezzaluna partendo dal centro verso l’esterno. Girateli e metteteli ancora su un telo leggermente infarinato per un’altra ora, fino al raddoppio.

COTTURA

Pre-riscaldate il vostro forno a 250°C con al suo interno una pietra refrattaria appoggiata centralmente sulla griglia o, in sua mancanza, una teglia rovesciata. Una volta raggiunta la temperatura, portate la teglia o la pietra sul banco e posizionate i panini; infornate per circa 10 minuti con abbondante vapore (generato con uno spruzzino e un pentolino colmo d’acqua). Trascorsa la prima parte della cottura, togliete il vapore, lasciate il forno leggermente aperto e terminate di cuocere per altri 5 minuti. Sfornate, e posizionate su una griglia rialzata fino al completo raffreddamento.

RINVENIMENTO E SERVIZIO

Il Kaiser Roll non è un panino che si mantiene per giornate intere; se non lo consumate in giornata, una volta raffreddato potete congelarlo in pezzi. Prima del servizio mettetelo ancora intero nel forno a 200°C per circa 5-6 minuti, in modo da farlo tornare perfettamente fragrante e pronto per essere farcito.


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La dispensa americana 2: strani ingredienti Across the Pond a cura di Elena Ninotti Tira le cose che sono cambiate maggiormente, grazie all'arrivo di Internet, c'è sicuramente il nostro approccio con la cucina. Se fino a 20 anni fa, per preparare una ricetta, ci si affidava al passaparola con le amiche o a vecchi ricettari tramandati di generazione in generazione, adesso basta un click per poter avere a portata di mano l'ultima ricetta dello chef stellato oppure le indicazioni per preparare un piatto etnico di cui difficilmente i nostri genitori conoscevano l'esistenza. Grazie ai forum e alle pagine Facebook e Instagram è possibile preparare cibi messicani, indiani, e americani. Sebbene attraverso i principali shop online sia possibile avere in breve tempo ingredienti introvabili nella grande distribuzione vicino casa, alcune cose restano quasi introvabili o, se si riescono a reperire, spesso hanno costi proibitivi. Io stessa mi sono scontrata con questo problema: dapprima volendo replicare ricette americane in patria e, successivamente, volendo fare una cucina il più possibile vicina a quella vera italiana; proprio per questo, quando do una ricetta cerco sempre di mettermi nei panni dell'esecutore e suggerisco sostituzioni che non snaturino il piatto ma che lo rendano comunque replicabile praticamente ovunque. Dopo aver girato settimane alla ricerca di cacao unsweetened e sherry per cucinare, o essermi arrovellata il cervello sulle istruzioni della macchina del pane che riportava rapid yeast, ho dovuto trasferirmi per rendermi conto dell'inutilità di tutto questo. È per questo che vi voglio raccontare cosa si nasconde dietro ai termini “light or brown sugar”, dutch processed cocoa, wafer cookies, graham cracker, and so on.

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Biscotti

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Nelle cheesecake o nei dolci freddi spesso vengono menzionati i vanilla wafer o i graham cracker. Non sono né wafer (nella nostra accezione) né cracker. I vanilla (o chocolate) wafer sono dei frollini semplici: potete sostituirli con dei biscotti da colazione non particolarmente burrosi o con biscotti tipo Oreo o Ringo privati della farcia. Anche dei semplici biscotti da colazione sono perfetti. I Graham cracker, invece, fanno storia a sé. Assieme alla granola e ai cereali Kellogg’s, sono il retaggio di un’ondata salutista e vegetariana che iniziò in America nella seconda metà dell’800 e che persiste ancora adesso. Non è un mistero l’amore degli americani per integratori, vitamine, cibi arricchiti. Le manie alimentari sono nate 150 anni fa, con la bistecca tritata di Salisbury, i cereali di Kellogg e, appunto, i biscotti di farina integrale di Graham. I Biscotti del reverendo Graham erano di farina non raffinata, con crusca, che aiutava a “pulire”, e non prevedevano la fermentazione (che veniva vista come una putrefazione), in quanto avevano baking powder e non yeast. In un certo qual modo, venivano spacciati come biscotti “che pulivano l’animo”. Non è un caso che questi siano gli stessi anni in cui nasce l’idroterapia e in cui Kellogg fa fortuna con le sue cliniche visionarie e affamatrici (affiliate agli avventisti del settimo giorno). In realtà, al giorno d’oggi, i biscotti Graham non sono altro che biscotti sottili, dolci, arricchiti di

crusca e miele, gradevoli, poco grassi e ottimi per la merenda dei bimbi. Potete evitare di cercare ricette per farli da soli. Usate delle Digestive, dei Grancereale o dei biscotti Misura, e avrete ugualmente la vostra base, senza modificare o stravolgere il gusto della ricetta.

Latticini Cominciamo subito chiarendo che il buttermilk non è il siero che resta dalla lavorazione del burro. Se fate il burro in casa, potete usare il siero nei panificati, ma non è neanche simile. E’ più simile a uno yogurt da bere. Si produce come sottoprodotto della lavorazione del burro, dopo aver sgrassato il latte. Si prende il latte scremato e si fa fermentare con batteri, tra cui il Leuconostoc citrovorum che digerisce l’acido citrico trasformandolo in diacetile che, appunto, dà l’aroma al burro. Il latticello, o buttermilk, dà acidità agli impasti, ne migliora il gusto e aiuta le carni, che vi sono state marinate, a essere più morbide e saporite. Il classico pollo fritto americano è lasciato a bagno in buttermilk e spezie per qualche ora, poi sgocciolato, passato in una miscela di farina e spezie e fritto in immersione in olio (deep fried). Vi assicuro che anche dei semplici bocconcini di petto di pollo vengono valorizzati da questo procedimento. Si consiglia di usarlo anche nei muffin e nei pancake per dare l’acidità giusta a reagire con il bicarbonato


che viene aggiunto. In Italia non esiste praticamente in commercio, si trova solo in certi negozi naturali a prezzi esorbitanti. Potete sostituirlo con una buona approssimazione con del Kefir di latte, che ormai trovate ovunque nel banco frigo dove sono gli yogurt. Tenete solo presente che il kefir ha un contenuto proteico maggiore, quindi tende a scurire un pochino di più e che è leggermente più liquido: nel caso dovesse far parte degli ingredienti di una torta dovreste regolare leggermente le polveri. La panna acida fa parte, soprattutto, delle ricette Tex Mex, ma è comunque amatissima da tutti. E a ragione. É una specie di yogurt poco acido, cremoso, denso. Spesso nelle ricette “tradotte” si parla di inacidire la panna fresca da montare con un cucchiaio di limone (versione accreditata anche da Cook’s Illustrated). In realtà, se volete avere un'esperienza quanto più simile alla vera panna acida, vi consiglio di creare una specie di yogurt con la panna fresca. 500 ml di panna a 40°C, un cucchiaio di yogurt greco e lasciare riposare almeno 6 ore, meglio in un thermos o in una yogurtiera. Diciamo che entrambi i metodi sono accreditati, a voi la scelta di quello che vi dà il risultato migliore.

Cacao

Il cacao europeo, invece, è figlio dell’innovazione di Van Houten, un commerciante olandese (Dutch) del primo ‘800. Si trattano i semi di cacao con una miscela basica (alcalinizzazione) che rende il colore della polvere più scuro, il sapore

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A fare il paio con la mia ricerca dello sherry, ci fu quella del cacao dutch processed. Questo tipo di cacao viene correntemente riportato nelle ricette americane, opponendolo allo unsweetened cocoa powder, e di cui mai si fa menzione nei ricettari europei, neanche quelli Inglesi. Poi, un giorno, la rivelazione. In Europa non si parla di Cacao Dutch processed semplicemente perché tutto il cacao in Europa, praticamente, lo è. Avete presente il sapore del Nesquik? Ha un retrogusto leggermente polveroso, poco “cacaoso” e un colore pallido. Quello in realtà è il cocoa powder. In USA esiste in versione dolcificata e non dolcificata. Sa meno di cacao (come lo intendiamo noi) e ha un sapore più terroso.


meno aspro e favorisce la dispersione nei liquidi della polvere che si ottiene. Un trucco. La polvere di cacao (se non miscelata precedentemente ad amidi) si scioglie meglio in acqua bollente, e questo vi spiega perché qui fanno la cioccolata calda con l’acqua. In USA il Dutch processed cocoa è difficile da trovare, nonchè carissimo. Diciamo anche 3 volte il costo un semplice barattolo di cacao. Molte ricette ne riportano uno o l’altro e modificano gli ingredienti sulla base di quello che viene utilizzato: variando l’acidità della ricetta, nonché avendo una diversa “disperdibilità”, le ricette hanno infatti una resa diversa. Per quanto mi riguarda, i dolci fatti con l’unsweetened cocoa mi hanno talmente delusa che preferisco correre il rischio e continuare ad usare il dutch che trovo online o che mi portano i visitatori italiani.

I vini da cottura Anni fa mi misi alla ricerca del vino Sherry per cucinare, trovandolo riportato in tantissime ricette. Dopo estenuanti ricerche, finii per trovarlo in una enoteca. A 60 Euro.

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Ovviamente lo lasciai lì, visto che il destino di una bottiglia pregiata non è certo quello di finire a sfumare i funghi per la zuppa e, in casa mia, non avrebbe avuto una fine degna. Solo dopo il trasferimento ho scoperto l’esistenza dei cooking wine, che sono “liquidi” aromatizzati usati per cucinare. In pratica, il nostro Tavernello in brick è il Veuve Cliquot dei vini da cucina. Hai voglia a leggere nelle ricette “Sherry, Marsala, vino bianco, rosso” o, ancora, “aceto balsamico bianco” o “aceto di champagne”. Per carità: sicuramente esiste qualche aceto balsamico bianco originale e, sicuramente, questo è molto pregiato; ma, altrettanto sicuramente, non è neanche simile a quello che si trova sullo scaffale del supermercato americano: questo è un prodotto comune, di cui non discuto il sapore, ma assolutamente commerciale. Nel caso dei cooking wines, lasciate perdere la sostituzione. Questi sono prodotti pieni di zuccheri, coloranti, aromi (lo vedete anche dai prezzi, meno di un decimo del famoso sherry dell’enoteca). Io qui ho trovato dei vini bianchi a basso costo, un po’ come il nostro Tavernello, da usare in cucina. E me li faccio andare bene.

BROWNIES

I ngredienti: 115 g burro / 200 g

zucchero / 30 g cacao amaro in polvere / 60 g farina autolievitante (o farina 0 con una punta di lievito per dolci) / 2 uova intere / vaniglia q.b. / un pizzico di sale / Gocce di cioccolata a piacere Preparazione: 1. Mescolate farina, cacao e sale, setacciate bene. 2.

Montate con le fruste il burro con lo zucchero e l’estratto di vaniglia.

3.

Aggiungete le uova una alla volta e continuate a montare.

4.

Aggiungete le polveri e mescolate bene.

5.

Versate in uno stampo 20x20 imburrato o ricoperto di carta forno, bagnata e strizzata. Livellate bene e cospargete uniformemente di gocce di cioccolato.

6.

Infornate a 170°C statico o 150°C ventilato per 18-20 minuti. Il centro deve essere fermo ma non troppo secco. Se necessario, prolungate di qualche minuto la cottura.

7.

Fate raffreddare e tagliate in 9 cubotti.

Si possono aggiungere gelato, nocciole tritate, noci pecan, o pezzetti di pera fresca per un risultato più gourmet.


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Racconti: come nasce il mio

il mio viaggio in Giappone senza stress


Forse vi starete chiedendo di cosa parlo, cari i miei dodici lettori del Magazine. Parlo della mia prima esperienza in Giappone, la mia prima volta con il mondo dell’allevamento della Kuroge, la Nera Giapponese, la Madre di tutto il Wagyu. Vivere quei momenti, respirare quell’aria, rimanerci immerso per giorni, cambia totalmente la prospettiva delle cose. E adesso vi spiego subito perché. Il primo motivo è che sei totalmente, miseramente, indiscutibilmente impreparato. Per quanto tu possa aver ingurgitato quintali di carne di Kobe o Kagoshima, per quanto tu sia stato a contatto con esponenti commerciali asiatici, non sarai mai pronto ad “affrontare” il Giappone, i giapponesi e la loro quasi “fastidiosa” ricerca della perfezione in ogni singolo gesto. Non so se siete mai stati in un allevamento di bovini. Io sì, moltissime volte. Ma la mia prima volta in Giappone mi ha fatto capire moltissimo. Di certo che molti dei nostri allevamenti avrebbero tanto da imparare. Fermi tutti, non c’è bisogno di sguainare le spade. Non sto dicendo che nessuno degli allevamenti in Italia sia tenuto a regola d’arte. Sto dicendo che la media degli allevamenti ha uno standard che è molto lontano da quello Giapponese. Già dal momento in cui entri all’interno di una struttura ti rendi conto che c’è qualcosa di completamente diverso dal solito: non c’è alcun odore di ammoniaca o di letame o di liquami in genere. Non è che si avverte appena, non c’è proprio, non si percepisce, nemmeno stando nelle immediate vicinanze dei

recinti. Non c’è una mosca che una, nemmeno a cercarla col microscopio. Ma com’è possibile? Sono tutte domande che ho personalmente fatto alla gente del posto. La risposta è sempre arrivata sotto forma di sorriso e non di parola. Continui ad osservare, iniziano a spiegarti la filosofia che scandisce il tempo e inizi a comprendere. Tutta l’intera vita della Kuroge deve essere vissuta in totale assenza di stress. Prendetelo come un mantra perché loro non ci scherzano nemmeno un po’. Partiamo allora dalle cose più semplici. Il recinto è spazioso, molto spazioso. E non è per niente affollato. Si percepisce subito che i capi stanno più che comodi. Solitamente da 2 a 4 capi. O femmine o maschi castrati. Poi c’è una fontanella dove l’acqua scorre in continuazione, non ristagna mai. E proviene da una sorgente che sgorga dalle colline poco distanti. Ogni volta che vogliono bevono acqua purissima, è sempre lì a disposizione. Ogni “gruppo” di bovini è dotato di due recinti affiancati, ma ne occupano uno alla volta. Il suolo è cosparso di trucioli di legno aromatico che ai bovini piace moltissimo. Ogni 2 o 3 giorni, a seconda delle necessità, viene aperto il recinto a fianco, già pulito e con il letto di trucioli soffice e ben distribuito. I capi, senza alcun tipo di input, entrano nel nuovo recinto pulito. Quello sporco viene ripulito immediatamente. Tolti i trucioli, lavato bene, sanificato e disinfettato. Solo poco prima di cambiare nuovamente recinto vengono disposti i nuovi trucioli. E così via per tutta la durata. I capi possono nascere nella farm, visto che c’è anche una nursery, oppure possono essere acquistati all’asta. Quando nascono i vitellini nella farm, non vengono mai separati dalla madre sempre per perseguire l’obiettivo di annullare lo stress sia alla madre che al figlio. Non subiscono alcuna terapia medica preventiva di antibiotici o steroidi. Un giapponese non si sognerebbe mai di violare la propria etica nemmeno sotto tortura. La classificazione del Wagyu è molto stringente in Giappone. L’agognato A5, il livello massimo di valutazione di una carcassa, deve arrivare solo per reali meriti. Sanno che un capo stressato o

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sistono finestre temporali in cui vivi esperienze che spostano il baricentro della tua maturità emotiva. Ma non te ne accorgi subito. Inizialmente scegli di viverle sulla scia dell’entusiasmo e della scoperta, poi ti immergi completamente e ti conformi all’ambiente e al modo in cui scorrono i flussi in quello specifico frangente. Poi le concludi, forse con un po’ di nostalgia, ma a cose concluse. Quando cioè metabolizzi che non è stato solo un viaggio, ma hai vissuto un frammento della vita di un paese, di alcune persone che lo abitano, del modo in cui plasmano la realtà che li circonda. E comprendi che, nonostante le distanze misurate in chilometri e cultura, senti quell’ambiente vicino, molto più vicino di quello in cui vivi.


maltrattato non diventerà mai un A5. Gli allevatori di Wagyu non vogliono solo ottenere una carne molto marezzata. Non è il motivo che spinge e determina il protocollo di allevamento. Il vero focus è “allevo un capo nella sua migliore espressione possibile, così diventerà un vero A5”.

di nocciole tostate. Profumato. Che fonde già con il calore della tua mano. Che consumato in quantità ragionevoli è ottimo per la nostra salute. Insomma, sembra che questa farina di olive sia per il Wagyu ciò che le ghiande sono per il Cerdo Iberico dello Jamon de Bellota (il prezioso prosciutto spagnolo).

Non è solo grasso. Non è quello. Per questo, tutte le volte che vi dico di non guardare solo alla marezzatura, vi sto dando un ottimo consiglio.

Esiste una prefettura che non fa segreto di questo metodo ma sembra che in realtà sia una pratica molto più diffusa di quanto non si sappia.

È evidente che qualsiasi capo bovino che subisce un’integrazione di cereali ha molta più probabilità di sviluppare grasso intramuscolare rispetto a quelli che mangiano solo erba. Non è più un segreto da tempo. Ma è la composizione di questo grasso a fare un’enorme differenza.

I capi vivono serenamente per 36 mesi. Diventano enormi, sono dei veri e propri giganti. Spesso sono venduti all’asta, non in un mercato libero. Sono dei veri e propri capolavori.

La parte lipidica di questi capi bovini contiene acidi grassi monoinsaturi, acido oleico e acido linoleico. Per capirci, sono i grassi che fanno bene. Quelli che dobbiamo ingerire nella dieta. L’olio d’oliva, per capirci, è di base un grasso monoinsaturo. La quantità di acido oleico contenuto nel grasso dei nostri capi è secondo solo all’olio di oliva: 58% di acido oleico, l’olio ne ha il 62%. Ma c’è di più. La ratio di acidi omega 3 e omega 6 è perfetta. È una carne che fa bene. Chiedetelo al vostro nutrizionista.

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Ora non dovrei dirvi questa cosa ma ve la dico. Sono voci non ufficiali ma esistono ragionevoli dati a conferma. Uno dei “segreti” per il raggiungimento di questi risultati è dato, non si sa quando, né per quanto tempo, dall’integrazione della sansa di oliva. Avete presente, no? Ciò che resta della spremitura delle olive. In realtà ci hanno provato anche in Italia ma con scarsi risultati: i bovini non lo amano. Quindi come fanno i giapponese a integrare la sansa nell’alimentazione? Sembra che esista un processo di disidratazione e tostatura di questa polpa di olive. È un processo molto particolare e segreto, nessuno è ancora riuscito ad aprire la bocca ad un giapponese. Il risultato è una specie di farina che somiglia molto al caffè, almeno nell’aspetto. Il sapore però è tendente al dolciastro e pare che non solo non sia nocivo per i capi ma anche che faccia bene alla loro salute. La risultante è un grasso fitto, setoso, che profuma

La vita dell’allevatore è durissima ma si sente tutta la passione che ci mette. Questi animali vivono in un ambiente pacifico, costantemente coccolati e amati davvero, pur sapendo quale sarà la loro destinazione finale. Non vengono mai maltrattati, non sono mai sporchi, se si ammalano vengono subito spostati e curati amorevolmente. Se muoiono non vengono commercializzati. Sono immersi in un luogo magico, dove l’aria è fresca e la vita scorre lenta. Passeggiare per quei sentieri vi fa sentire come a Okinawa, fianco a fianco al Maestro Miyagi in Karate Kid 3. Solo che vicino a voi, invece del Miyagi c’è il Miyabi. E anche se sapete che prima o poi finiranno sulla griglia, in quel momento vi accorgete che non è necessario far vivere una vita miserabile ad un bovino. Vi prenderete la sua vita ad un certo punto, è corretto onorarlo in vita e in ogni modo possibile. Prendervi cura di lui perché lui possa poi prendersi cura di voi. È uno scambio più che accettabile, non credete? Ecco perché il nostro Wagyu è molto costoso. Perché si porta dietro un grande valore morale e intellettuale. E auspico che questa profonda convinzione da parte del popolo giapponese possa diventare uno standard, essere d’esempio per cambiare le cose. Da questo forse si capiscono tante cose. Una su tutte è che non basta vedere carne marezzata su un banco per stabilirne la qualità. E che una carne marezzata può costare poco, ma non può essere di qualità. Ora lasciatemi parlare di una di un’altra zona, un luogo in cui si compie una magia ancora più straordinaria.


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soprattutto il sapore unico di questo tipo di wagyu. Come vi annunciavo, il protocollo di allevamento varia da animale ad animale. Si cambia la quantità di alimento a seconda di ogni singolo capo perché le diverse “keisan-gyu” (vacca wagyu che ha partorito 7/8 volte per generare nuove wagyu A4/A5) che selezionano in tutto il Giappone sono state allevate ognuna in un ambiente differente e provengono da prefetture diverse, quindi hanno una biologia e stili di alimentazione non uniformi e velocità sfalsate in fatto di digestione. Ricordate bene il discorso dello stress, vero? Keisan-gyu è il nome che in Giappone viene dato alla vacca wagyu che ha partorito. Le femmine sono di solito divise in bestiame destinato all'allevamento per essere macellato e bestiame di particolare pregio con caratteristiche genetiche superiori. Che possono quindi dare vita a vitelli con marezzature elevate.

Siamo nelle prefetture di Shimane e Yamaguchi, a sud del Giappone. Lì è dove selezioniamo i nostri capi che diventeranno Shimofuri Farm. Abbiamo iniziato con una selezione incredibile che rischia di avere un basso mercato sia in Giappone ma anche all’estero.

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La fattoria Jukuho seleziona per noi madri che hanno partorito, provenienti da tutto il paese. Hanno a disposizione tutto il database del sistema digitale wagyu giapponese del ministero dell’agricoltura, i risultati di marezzatura del bestiame acquistato sul mercato interno e il pedigree del bestiame di almeno tre generazioni. Questo gli consente di tarare il protocollo di allevamento capo per capo, cambiando le tecniche a seconda dei parametri. Questo consente di ottenere una marezzatura superlativa e raggiungere un peso adeguato della carcassa, che permette di centrare obiettivi di economicità e qualità del prodotto. Nella Farm producono il loro foraggio grezzo originale che contiene non solo paglia di riso e trebbie di birra, ma anche microorganismi quali lievito, bacillus subtilis e batteri che producono acido lattico. Per ottenere un mangime concentrato mescolano a mangimi convenzionali crusca di riso e mais con lo scopo di migliorare sia le sfumature aromatiche umami ma

Parlando di manzo giapponese, la carne di un animale castrato e la giovenca (o meglio sorana, scottona, manzetta, cioè il bestiame che non ha partorito) sono considerate preziose; se è caratterizzata da una qualità elevata della carne e da un grasso delizioso, riceve l'autorizzazione ad essere chiamata Wagyu, con le suddivisioni di provenienza e categoria note. D'altra parte, Keisan-gyu, la madre che ha partorito, ha una reputazione più appannata, l'immagine di un animale dalla carne di qualità inferiore rispetto ad un castrato o una giovenca. Per questo motivo viene trasformata solitamente in semilavorati o destinata alla produzione di macinato, dopo aver dato alla luce almeno 7-8 vitelli in media per ogni capo di bestiame. Tuttavia, con Shimofuri/Jukuho abbiamo dimostrato che il Keisan-gyu reingrassato bene è in grado di produrre carne dal gusto ricco e grasso aromatico, tanto quanto castrati e giovenche. Il numero di vacche madri wagyu è piccolo rispetto alle giovenche wagyu. Tra questi pochi bovini, la Jukuho sceglie per noi le mucche madri che sono adatte al refattening. L’aging è spesso suddiviso in “dry aging” " e "wet aging", ma questo termine può essere utilizzato anche in riferimento al refattening del bestiame che ha partorito. Reingrassando le keisan-gyu, la qualità della carne cambia e la carne, anche se “invecchiata”, grazie ad una precisa alimentazione con ingredienti


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selezionati, aumenta la quantità di aminoacidi nella carne, precursori del forte gusto umami che caratterizza Shimofuri . Man mano che l'età avanza e il processo di ingrasso prosegue, gli acidi grassi insaturi del wagyu aumentano e il punto di fusione del grasso diventa più basso (aumentando la qualità del prodotto). Questo darà anche alla carne un sapore molto più ricco e, infine, man mano che la concentrazione di aminoacidi aumenta, la ciccia diventerà profondamente aromatizzata.

versione delle cose a cui siamo abituati e in cui pochissimi occidentali sono riusciti ad andare così in profondità. Stiamo lavorando ad un modello che ancora si fa fatica a comprendere fino in fondo, ma sappiamo che la strada è quella giusta e riusciremo a spiegarlo sempre a più persone. Perché capire il vero concetto di qualità e rispetto ci permetterà di cambiare davvero il mindset e individuare qual è l’unica versione di allevamento sostenibile e quanto questo non può rivolgersi a un mercato di massa.

“Aged Wagyu" è il manzo Wagyu che è stato raffinato per un lungo periodo di tempo e ha un gusto e un sapore diverso dal manzo Wagyu giovane. Consideratelo al pari della Vaca Vieja ma con una grandissima differenza. Il lavoro di recupero delle vacche spagnole è assolutamente eccezionale perché non svilisce quei capi che hanno poco mercato. Anzi, in Spagna ne hanno fatto una prelibatezza ricercata per molti cultori. Parliamo però di vacche a fine carriera, sono una diversa dall’altra e raramente sono sottoposte a tecniche di reingrasso.

Resta ad ognuno di noi la scelta: meglio 100 kg di manzo a 1€? Oppure meglio 1 kg a 100€? Come si può pensare ad allevamenti sostenibili se si consuma sempre più carne a prezzi sempre più bassi? Forse è il caso di riflettere. E noi non smetteremo di farlo.

Gianfranco Lo Cascio

La Aged Wagyu di Shimofuri Farm continuerà nel suo consolidamento. Sceglieremo sempre più capi di spiccate doti e continueremo ad affinare il metodo di reingrasso. Ma non sarà l’unica selezione. Nella prefettura di Nagano stiamo lavorando anche ad una F1 dove tori Wagyu vengono ibridati con vacche di diversa estrazione. Questo per ottenere capi con una struttura grassa estremamente aderente al modello occidentale, pur preservando la disciplina e le note aromatiche tipiche del protocollo giapponese (ve ne parlerò in seguito). È straordinario lavorare gomito a gomito con realtà che vivono all’altro capo del mondo, fuori da ogni

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Le Keisan-gyu vengono vengono recuperate nel momento in cui hanno dato se stesse alla prole. Non possiedono grandi marezzature perché sono state in parte “asciugate” dalla gravidanza e dall’allattamento. Quando non verranno più usate per generare nuovi Wagyu, verranno trasferite nella Farm e sottoposte a un periodo di reingrasso in assenza totale di stress. Per ricostituire una struttura sana e una giusta quantità di grasso interno. Il risultato, se avete provato la selezione Shimofuri, sapete bene che è di straordinaria tenerezza e aromi soavi. Se non l’avete provata, beh, vi siete persi un’esperienza formidabile.


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Maître Pâtissier - corso di pasticceria a cura del Maestro Pasticciere Pasquale Bevilacqua Pasticceria Mamma Grazia, Nocera Superiore (Salerno)

Il tiramisù

secondo il pasticcere Per non accontentarsi di un banale savoiardo bagnato nel caffè

Sebbene sia un dolce non registrato nei manuali di cucina prima degli anni Sessanta del secolo scorso, il tiramisù gode di una fama smisurata sia in Italia che all’estero. Vi assicuro che uno dei dolci più presenti nei menu di tutti i ristoranti italiani del mondo è proprio questo blocchetto di biscotti inzuppati nel caffè, crema al mascarpone, cacao. Negli ultimi anni – diciamo pure, negli ultimi vent’anni – il tiramisù ha subito tutte le svariate trasformazioni che abbiamo visto nella pasticceria: è stato scomposto, messo in bicchiere, ricomposto in altre forme. Per la mia esperienza, posso assicurarvi che il tiramisù più buono di tutti potete farlo da soli. Proprio da soli.

Troppo spesso – per velocità, per poco tempo, per presunta “scarsa capacità” – il tiramisù diventa un dolce bistrattato, raffazzonato. Savoiardi di dubbia qualità vengono inzuppati a più non posso in litri di caffè, il mascarpone duro come uno zoccolo messo a cucchiaiate selvagge, il cacao amaro come una specie di diluvio estivo. Volete cimentarvi in un tiramisù che sembrerà ai vostri ospiti come appena uscito da una pasticceria? Non vi resta che seguirmi passo dopo passo. Vi darò tutti i suggerimenti ed i passaggi utili per costruire praticamente il vostro tiramisù da zero: imparerete a fare dei savoiardi gustosissimi, friabili e “da pasticceria”; il mascarpone – avete già una ricetta, fornita dal Mastro Formaggiere del Magazine, ma vi fornisco anche la mia – sarà una crema, non duro come quello del supermercato e sarà avvolgente, grasso ed irrinunciabile. Il tiramisù così preparato potrete conservarlo in frigo per circa 3 giorni, ad una temperatura di +5 °C. Se avete in mente di conservarlo più a lungo sarà opportuno surgelarlo negli appositi ripiani del congelatore. Basterà tirarlo fuori un’oretta prima del servizio e portarlo a temperatura di frigo. Siete pronti? Andiamo a preparare insieme il più grande classico italiano!

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Questo Luglio 2021 ha risvegliato in noi italiani una grande voglia di festeggiare il nostro Paese: abbiamo portato a casa un bel po’ di successi agonistici e questo si tramuta automaticamente in cene e reunion tricolori, con il meglio che la nostra cucina possa offrire. Per quanto riguarda i dolci squisitamente italiani, sulle tavole non può mancare il tiramisù. Tra le pagine del Magazine è già apparsa una ricetta di questo dolce, mangiato praticamente da tutti. Ma non vi è stata ancora data la versione del tiramisù del pasticciere, con i biscotti fatti da voi, il mascarpone artigianale, la bagna al caffè calibrata al millilitro delle vostre golosità.


Ingredienti per circa 12/16 savoiardi: 250 g Farina 00 / 300 g Albumi d’uovo / 200 g Zucchero semolato / 140 g Tuorli d’uovo / 6 g di buccia di limone non trattato (sfusato amalfitano, se lo trovate) / 0,5 g di pasta di vaniglia Bourbon Preparazione: 1. Per prima cosa, montare a neve ferma albume con lo zucchero per circa 10 minuti. 2. Successivamente, unire la buccia del limone grattugiata (ben lavata) e la pasta di vaniglia Bourbon. 3. Versare i tuorli d’uovo a filo e far miscelare per un minuto a velocità media. 4. Prendete la farina ed unitela a mano, fino ad ottenere un composto liscio e molto liquido. 5. Con una marisa, iniziamo ad emulsionare il composto. 6. È il momento di prendere una sac à poche. Create una bocchetta che sia ampia circa 14 mm, per estrudere i nostri savoiardi. 7. Preparate una teglia ampia con un foglio di carta forno. 8. Nel frattempo, impostate il forno in modalità ventilata e fate raggiungere la temperatura di 220°C . 9. Riempite la sac à poche con cucchiaiate di impasto ed estrudete con calma e sangue freddo i vostri savoiardi. Dovrete avere la pazienza e la fermezza di estruderli uno ad uno con un colpo unico, altrimenti tenderanno a creparsi e spaccarsi. Abbiate cura anche di conservare un discreto spazio tra i biscotti, diciamo tre dita di spazio tra un savoiardo e l’altro. 10. Infilate la teglia in forno e cuocete per massimo 15 minuti. 11. Per circa 8 minuti di cottura, la valvola del forno (quella che permette all’umidità di fuoriuscire) dovrà essere chiusa, per la restante parte della cottura dovrà essere aperta, per permettere ai savoiardi di asciugarsi. 12. I savoiardi saranno pronti quando la loro superficie sarà brunita. Se avete lavorato bene, il savoiardo sarà integro e non collassato.

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Ingredienti per mascarpone e crema:

1 l di panna fresca con il 35% di grassi / 2 g di sale / 80 g succo di limone / 250 g di tuorli d’uovo / 250 g di zucchero semolato / 6 g di buccia di limone non trattato (sfusato amalfitano se disponibile)

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Preparazione del mascarpone: (Il mascarpone va preparato necessariamente il giorno prima) 1. Realizzate una infusione con il litro di panna, i 2 g di sale e gli 80 g di succo di limone. 2.

Portate ad ebollizione il composto.

3.

Togliere dal fuoco e lasciar freddare per circa 30 minuti.

4.

Dopo aver lasciato raffreddare, trasferite il composto su un canovaccio a sua volta poggiato su un setaccio.

5.

Coprite con pellicola per alimenti e trasferite in frigo a circa 5°C.

6.

A questo punto, il mascarpone dovrà riposare in frigo per l’intera giornata (24 ore complete).

Preparazione del mascarpone: 1. Montare in planetaria i 250 g di zucchero semolato con i 250 g di tuorli d’uovo. 2.

Quando saranno ben montati a neve, versare all’interno il nostro mascarpone.

3.

Far montare tutto insieme per qualche minuto a velocità media. Vi renderete conto che il processo sarà ultimato quando il composto assumerà una consistenza cremosa. Questo accade perché la cremosità del nostro mascarpone andrà a sostituire la componente ariosa degli albumi e dello zucchero montati a neve.


g acqua / 50 zucchero / 100 g di cacao amaro / decorazioni di cioccolato a piacere Assemblaggio: 1. Iniziamo la costruzione del nostro tiramisù. Creiamo una bagna al caffè espresso con i 100 g di caffè, i 50 g di acqua e i 50 g di zucchero in un bicchiere abbastanza capiente.

abbiamo scelto per presentare il nostro dolce. 4.

Riempiamo una sac à poche di crema al mascarpone.

5.

Estrudere uno strato consistente di crema al mascarpone sulla porzione di savoiardi.

6.

Imbibire ancora due savoiardi per coprire lo strato di crema mascarpone.

7.

Sulla sommità, estrudete qualche altro ciuffo di crema mascarpone.

2.

Ad uno ad uno, imbibiamo i nostri savoiardi con delicatezza nella bagna.

8.

Con l’aiuto di un setaccio, spolverate il cacao amaro come decorazione.

3.

Posizioniamo uno o due savoiardi sul piatto che

9.

Decorate con i fili di cioccolato.

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Ingredienti per la bagna e per l'assemblaggio: 100 g caffè espresso napoletano / 50


a cura di Emiliano Nencioni

BBQ4All: FROM ZERO TO HERO

La cottura indiretta sul kettle

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olti di voi, lo sappiamo, si trovano alle prese con un problema che li assilla e che li costringe a stare svegli di notte; ma non stiamo parlando di quelle nottate che, almeno sulla carta, sono considerate divertenti overnight dedicate alle lunghe cotture tipiche dell’American bbq, parliamo invece di quelle brutte notti assillate dai dubbi che costringono a girarsi e rigirarsi nel letto, senza trovare una posa: ma riuscirò a fare una bella cottura indiretta, magari un pulled pork, anche se possiedo un kettle e non uno smoker? Rispondiamo subito con la versione veloce, in modo da salvare il vostro sonno: sì, la cottura indiretta, anche molto lunga, è fattibilissima su un kettle. Ci sono però delle cose a cui dover fare attenzione e che è bene sapere prima di iniziare.

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Le dimensioni contano Può sembrare scontato dirlo, ma quando si parla di cottura indiretta su un kettle si deve sempre tener conto che la principale differenza fra questo dispositivo e uno smoker è la porzione della griglia utilizzabile per la cottura degli alimenti. Come ben sapete, sul kettle ci sono due tipi di cottura indiretta: a due zone, in cui le braci vengono poste su un lato del braciere e la carne viene adagiata, sulla griglia di cottura, sul lato opposto rispetto al carbone; a tre zone, in cui il carbone viene posto su due lati del braciere e la carne viene posizionata in griglia nel corridoio centrale. In entrambi i casi, è evidente che lo spazio utile per poter cuocere un alimento in indiretta è esattamente la metà rispetto a uno smoker in cui, invece, si può utilizzare l’intera griglia. Va da sé che ripiegare su un kettle che abbia


un diametro più grande diventi una scelta vincente se si vuole affrontare una cottura bbq di un grosso pezzo di ciccia. Al momento dell’acquisto, dunque, è meglio optare per un dispositivo più grande: spenderete qualche euro in più ma sarete ripagati in soddisfazione. Low e Slow La caratteristica tipica della cucina BBQ è appunto il low e slow: stiamo parlando di cotture di molte ore (dalle 4 in su) a temperature inferiori ai 130°C. Sarebbe ottimale rimanere sui 110°C. Per ottenere questo risultato, è fondamentale utilizzare lo Snake Method: si realizza un serpentone di bricchette spente che corre lungo il bordo del kettle, avendo l’accortezza che queste siano a contatto tra loro, leggermente sovrapposte. Una delle formazioni migliori è di due bricchette sotto e una sopra. Ad uno degli estremi del serpentone si aggiungono le bricchette accese, così da innescare una combustione a catena, a cui verranno sovrapposte le prime chips di affumicatura. Questo metodo vi permetterà di mantenere la temperatura costante, mentre la lunghezza dello “snake” determinerà la durata. Regolando le bocchette di aerazione inferiori, avrete anche modo di regolare la temperatura all’interno della camera di cottura. Mentre con la bocchetta superiore gestirete la permanenza del fumo, e quindi la fase e l’intensità dell’affumicatura. Water pan Spesso, al livello della griglia carboni, è consigliabile aggiungere una vaschetta con acqua calda, chiamata in gergo water pan, il cui scopo è quello di aiutare la stabilizzazione della temperatura all’interno della camera di cottura, e a produrre umidità (non vi dimenticate che, a differenza di ciò che pensano in molti, una cottura indiretta su un kettle riproduce l’effetto di un forno in modalità ventiliato e un ambiente talora molto secco). Tuttavia, non sempre è necessario introdurre umidità in camera di cottura: se per esempio abbiamo in griglia una grossa quantità di carne, che produce già parecchia umidità, l’inserimento del water pan potrebbe essere superfluo. Per questo motivo, è sempre bene provare e riprevare e poi, in base alla propria esperienza decidere se utilizzarlo o meno. È comunque vero che, in ogni caso, una vaschetta con acqua posta sotto la carne in cottura raccoglie i grassi che colano e protegge le griglie sottostanti dalla sporcizia, con grande felicità di chi poi è addetto alla pulizia post-grigliata.

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La ricetta scientifica a cura di Gianfranco Lo Cascio

: a c i f i t n e i c s a t t e c i r La

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h e l u b aT


La cucina libanese è “strana”. Perché per quanto sia un Paese a dominanza araba non conserva le caratteristiche tipiche dei piatti tipici del Medioriente. Il Libano è limone, menta, freschezza. Quasi totale assenza di piccante. Sumac, cetriolo, aglio, pochissime spezie invadenti. È una cucina rinfrescante, molto mediterranea, più vicina a quella greca che a quella tipicamente mediorientale fatta di spezie e sentori piccanti. La prima volta è stato complesso mangiare il Tabbouleh. Perché non ero abituato a quella dominante di prezzemolo. Ma la freschezza che restava alla fine era deliziosa. A fare da spalla c’era sempre il bulgur, che è semplice grano spezzato e cotto al vapore. Nella versione libanese, la massa presente in maggiore quantità non è il bulgur ma il prezzemolo. Poi c’è il cipollotto, i cubetti di pomodoro, una generosa manciata di menta, una generosissima dose di olio extravergine e tantissimo succo di limone. Quando di stagione, si mettono anche dei cubetti di cetriolo. Che personalmente adoro oltremisura. Sovente si mangia con il cucchiaio. Accompagnata dall’immancabile pita e due piattini: uno di Labneh, yogurt colato con aglio, menta e olio extravergine, e l’altro con cre-

ma di aglio da strofinare sul pane. Non credo di aver passato un giorno senza mangiare il Tabbouleh durante tutta la mia permanenza in Libano. E per quanto io non lo prepari spesso, sento di avere una profonda connessione con questo piatto. Prenderò in considerazione questa versione quindi. Perché quella siriana e palestinese hanno più bulgur che prezzemolo. Non è certo cattiva ma è un altro piatto, con altre sfumature di gusto. Come si può migliorare un piatto che sembra già essere perfetto di per sé? Forse non tantissimo, ma ritengo che ci sia sempre qualcosa che si può migliorare, quantomeno in cucina. E dove davvero non si riuscisse a migliorare, si potrebbe sempre rendere un piatto molto più aderente al nostro gusto personale, no? Nella mia esperienza il Tabbouleh era quello che chiamavo “apri fame”. Veniva sempre servito come pietanza di apertura insieme alla pita e alla crema di aglio, il toum, un classico immancabile nelle tavole libanesi. Il toum non è altro che aglio crudo emulsionato con olio, sale e succo di limone. Si ottiene una crema bianca dal gusto incredibilmente potente. Se amate l’aglio non potete non adorarla. Per il mio palato, alternare bocconi di insalata di prezzemolo a pezzi di pita con crema di aglio era un connubio di goduria perfetto. A tal punto che se per caso, qualche volta, non c’era il toum in tavola, preferivo aspettare prima di iniziare il mio rituale. Ed è quindi in questa direzione che ho voluto proiettare le cose.

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Il Tabuleh, Tabbouleh o anche taboleh o tab(b)uli è un’insalata a base di prezzemolo. Lo confesso subito, così togliamo di mezzo ogni possibile fraintendimento. Io amo la versione libanese. Anzi non la amo, la adoro con sentimenti profondi. Questo perché ho vissuto un lungo periodo in Libano ed è un posto magico che mi è rimasto nel cuore. Soprattutto la sua cucina.


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GLI INGREDIENTI PORTANTI

#01 IL PREZZEMOLO Petroselinum crispum

Le erbe della famiglia delle carote hanno ghiandole oleifere difensive all'interno delle loro foglie, non sulle superfici. Le ghiandole si raggruppano

#02 IL LIMONE

Gli agrumi sono tra i più importanti frutti arborei. Dal loro luogo di nascita nella Cina meridionale, nell'India settentrionale e nel Sudest asiatico si sono diffusi in tutte le zone subtropicali e temperate miti del mondo. Il commercio antico portò il cedro nell'Asia occidentale e nel Medio Oriente prima del 500 a.C., e i crociati medievali ritornarono in Europa con un bel po’ di arance aspre; i commercianti genovesi e portoghesi introdussero le arance dolci intorno al 1500 e gli esploratori spagnoli le esportarono nelle Americhe. Perché gli agrumi sono così popolari? Offrono un'insolita serie di virtù. Le loro bucce hanno aromi distintivi e forti, è questo che li ha resi attraenti dal principio, ben prima che la selezione da parte dell’uomo sviluppasse cultivar dal sapore più amabile. Le varietà migliorate hanno un succo rinfrescante, da aspro a dolce, che può essere estratto anche da poca polpa. La buccia è ricca di pectine che creano gel. Gli agrumi sono anche abbastanza robusti. Sono non climaterici, quindi mantengono la loro qualità per un po' di tempo

intorno a lunghe venature e le riempiono di olio essenziale. Il prezzemolo è originario dell'Europa sudorientale e dell'Asia occidentale; il suo nome deriva dal greco e significa "sedano di pietra". È una delle erbe più importanti nella cucina europea, forse perché il suo sapore caratteristico (che deriva dal mentatriene) è accompagnato da sentori freschi, verdi e legnosi che sono un po’ ruffiani e quindi completano molti cibi. Quando il prezzemolo viene tritato, la sua nota distintiva svanisce, le note verdi diventano dominanti e si sviluppa una connotazione leggermente fruttata. Esistono varietà a foglie ricce e piatte con caratteristiche diverse; le foglie piatte hanno un forte sapore di prezzemolo quando sono giovani e solo in seguito sviluppano una nota legnosa. Le foglie ricce, invece, all’inizio presentano un sapore dolce e legnoso e sviluppano il carattere “prezzemolato” quando sono più mature.

dopo il raccolto, e la buccia carnosa offre una buona protezione contro i danni fisici e l'attacco di microbi guastafeste.

ANATOMIA DEGLI AGRUMI Ogni segmento di un agrume è un compartimento dell'ovario ed è pieno di piccole sacche allungate chiamate vescicole, ognuna delle quali contiene molte cellule di succo, microscopiche e individuali, che si riempiono di acqua e sostanze dissolte man mano che il frutto si sviluppa. Intorno agli spicchi c'è uno strato spesso, bianco e spugnoso chiamato albedo, solitamente ricco sia di sostanze amare che di pectina. E sopra all'albedo c'è la buccia, uno strato sottile e pigmentato con minuscole ghiandole sferiche che creano e conservano oli volatili. Flettendo un pezzo di buccia di agrumi le ghiandole oleifere scoppiano e proiettano uno spruzzo visibile, aromatico - e infiammabile - nell’aria.

COLORE E SAPORE DEGLI AGRUMI Gli agrumi devono i loro colori giallo e arancione ad una complessa miscela di carotenoidi, di cui

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Anche se la famiglia delle carote ha dato meno piante aromatiche in Europa rispetto alla famiglia della menta, ne include comunque diverse che forniscono potere aromatico sia come erba che come spezia (alcune anche come verdure). I membri della famiglia delle carote crescono in condizioni meno estreme rispetto alle mentine mediterranee, sono generalmente tenere biennali piuttosto che arbustive o legnose perenni, e hanno sapori che sono generalmente più miti, a volte anche dolci. I semi (in realtà piccoli frutti secchi) possono contenere difese chimiche - sono quindi spezie - perché sono abbastanza grandi e allettanti per insetti e uccelli. La miristicina, un terpene condiviso da aneto, prezzemolo, finocchio e carote, e che dà loro una comune nota legnosa e calda, è probabilmente una difesa contro le muffe.


solo una piccola parte è disponibile come vitamina. Le bucce dei frutti sono inizialmente verdi e ai tropici spesso rimangono tali anche quando il frutto matura. In altre regioni, le temperature fredde innescano la distruzione della clorofilla nella buccia e i carotenoidi diventano visibili. I frutti in commercio vengono spesso raccolti verdi e trattati con etilene per migliorarne il colore e ricoperti con una cera commestibile per rallentare la perdita di umidità. I pompelmi rosa e rossi sono colorati dal licopene e le arance dolci rosse da una miscela di licopene e betacarotene e dalla criptoxantina. Il rosso porpora delle arance rosse deriva dalle antocianine.

SAPORE DEGLI AGRUMI Il sapore degli agrumi è creato da una manciata di sostanze, tra cui l'acido citrico (così chiamato perché è tipico di questi frutti), zuccheri e alcuni composti fenolici amari, che di solito sono concentrati nell'albedo e nella buccia. Gli agrumi sono sorprendentemente ricchi dell'aminoacido glutammato, rivaleggiando con il pomodoro (le arance raggiungono 70 milligrammi per 100 grammi, i pompelmi 250). Contengono poco amido e quindi non si addolciscono molto dopo la raccolta. Di solito l'estremità del frutto in fiore contiene sia più acido che più zuccheri, e quindi ha un sapore più intenso dell'estremità attaccata al ramo. I segmenti vicini possono variare significativamente nel gusto. L'aroma degli agrumi è prodotto sia dalle ghiandole oleifere nella buccia che dalle goccioline d'olio contenute nelle vescicole del succo. Generalmente gli oli delle vescicole contengono più esteri fruttati e l'olio della buccia più aldeidi verdi e terpeni agrumati/speziati. Alcuni composti aromatici sono condivisi dalla maggior parte degli agrumi, tra cui il limonene genericamente agrumato e piccole quantità di idrogeno solforato. Nel succo appena fatto, le goccioline di olio del sacco si aggregano gradualmente con i materiali polposi e questa mescolanza riduce l’intensità dell'aroma, specialmente se parte della polpa viene filtrata.

TIPI DI AGRUMI Gli alberi del genere Citrus sono meravigliosamente vari e inclini a formare ibridi tra loro, il che complica la determinazione dei rapporti di parentela da parte degli scienziati. Attualmente si pensa che i comuni agrumi addomesticati derivino tutti da tre soli “genitori”: il cedro Citrus medica, il mandarino Citrus reticulata e il pomelo Citrus maxima. Almeno un discendente è relativamente giovane: il pompelmo ha apparentemente avuto origine nelle nelle Indie Occidentali nel 18° secolo come incrocio tra il pomelo e l'arancia dolce.

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I limoni potrebbero aver avuto origine come ibrido in due fasi, la prima iniziata nella zona dell'India nordoccidentale e del Pakistan, la seconda nel Medio Oriente. Arrivarono nel Mediterraneo intorno al 100 d.C., furono piantati nei frutteti della Spagna moresca entro il ‘400, ed ora sono coltivati principalmente nelle regioni subtropicali. Sono apprezzati per la loro acidità e il loro aroma fresco e brillante. Il succo di limone ha un pH estremamente basso (2,3 – 2,5) e proprietà altamente antiossidanti, caratteristiche che lo rendono ideale non solo in cucina, ma anche in cosmesi, farmacia e pulizia. È ricco di vitamina C, potassio e flavonoidi e vanta benefici anti-praticamente in tutti i campi (anticolesterolo, antibatterico, antinfiammatorio, antisettico, antianemico …), mentre è sconsigliato a chi soffre di gastrite. Forse avrete notato che i limoni sono sempre disponibili, e il merito non è solo della Grande Distribuzione. I frutti infatti giungono a maturazione in diversi periodi dell’anno a seconda delle fioriture. La prima, tra marzo e giugno, dà origine ai primofiore e ai limoni invernali, che maturano rispettivamente a settembre-ottobre e tra dicembre e aprile. La seconda fioritura (maggio-luglio) produce i bianchetti, i meno pregiati sul mercato che maturano tra marzo e maggio. Infine, la terza fioritura (agosto-ottobre) dà origine ai verdelli, frutti di giugno e luglio tra i più usati per la produzione di limoncello.


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FOCUS: LE CULTIVAR DI LIMONE ITALIANO LIMONE FEMMINELLO COMUNE

LIMONE COSTA D’AMALFI IGP

Il femminello è la cultivar italiana di limone in assoluto più diffusa. Il nome fa riferimento alla notevole fertilità con ben cinque fioriture annuali che danno origine, da settembre in poi, a primofiore, bianchetti, marzani, verdelli e bastardi. Il femminello viene coltivato soprattutto in Sicilia orientale e Calabria meridionale e vanta numerose selezioni clonali. Tra le più pregiate troviamo Zagara bianca dalla fruttificazione costante e produttiva, Siracusano o masculuni caratterizzato da vigoria e alta qualità dei frutti, Apireno Continella senza semi, Santa Teresa apprezzato per i verdelli, Dosaco a basso contenuto di semi e alta concentrazione di succo, Sfusato amalfitano ricco in olii essenziali. Ulteriori cloni sono Incappucciato, Lunario, Sfusato di Favazzina, Quattrocchi e Scandurra. Ce n’è per tutti i gusti, sia che vogliate utilizzare la buccia per profumare la casa, sia per il succo da spremere copioso sull’insalata e nell’impasto di una torta.

Il limone da cartolina è proprio lui, affacciato sulle terrazze a picco sul mare della Costiera più famosa. Il limone Costa d’Amalfi Igp appartiene alla varietà Sfusato amalfitano, caratterizzato da forma ellittica e affusolata, polpa priva di semi e un profumo molto intenso, ricchissimo di olii essenziali. Recenti studi scientifici hanno addirittura dimostrato che il Costa d’Amalfi contiene almeno il doppio di composti aromatici rispetto a qualsiasi altro limone. Non sorprende dunque che pochi pezzettini di buccia uniti a ghiaccio tritato diventino un dessert fenomenale: cercate questa “grattachecca” artigianale nei chioschetti ambulanti a Positano, Ravello, Tramonti e tutti gli altri comuni di questo splendido pezzettino d’Italia.

LIMONE INTERDONATO Questo ibrido è diffuso quasi esclusivamente sul versante ionico messinese e a quanto pare è reduce di una storia avventurosa. Le sue origini si fanno risalire al veterano di guerra Giovanni Interdonato, già colonnello garibaldino il quale, ritiratosi a vita privata, pensò bene di darsi all’agrumicoltura. Da un incrocio “fortuito” tra cedro e il limone locale ariddaru spuntò questo ibrido di forma allungata e carattere decisamente poco agguerrito. Il succo infatti è delicato e poco acidulo e anche la buccia è più dolce che amara.

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LIMONE MONACHELLO Terminiamo la triade delle cultivar italiane “di base” con il monachello, limone utilizzato specialmente per la produzione di verdelli. Si distingue per la sua resistenza alle malattie, prima fra tutti il mal secco di origine fungina; tuttavia la pianta è poco produttiva e fruttifica piuttosto lentamente. I frutti hanno forma allungata e buccia liscia, hanno poco succo e sono generalmente meno acidi dei femminello.

LIMONE DI SORRENTO IGP Aggrappato ai classici pergolati, il limone di Sorrento Igp è il tesoro giallo oro e profumatissimo della Penisola Sorrentina. L’ecotipo Ovale di Sorrento ha forma ellittica e dimensioni medio-grandi, ha succo abbondante e scorza intensamente aromatica. Il suo utilizzo più famoso è sicuramente nel limoncello.

LIMONE DI SIRACUSA IGP Il limone di Siracusa Igp è un femminello portentoso: le sue fioriture consentono una produzione costante durante tutto l’anno e ogni frutto presenta caratteristiche ben precise. I primofiore di ottobre sono medio-grandi, ellittici e succosi; i bianchetti o maiolini di aprile sono grandi, gialli e di forma ovale; i verdelli di giugno sono sferici e caratterizzati dalla buccia verde chiaro. Oltre ai piatti tipici come ricotta infornata e arancine, il Siracusa Igp è ideale per i dolci.

LIMONE DELL’ETNA IGP Non solo vite e vino: la fertilità del vulcano più alto d’Europa dà vita anche al limone dell’Etna Igp nelle varietà femminello e monachello. Entrambi producono frutti primofiore, bianchetto e verdello caratterizzati da colore giallo-verde, forma ellittica e succo aspro e abbondante. Per gustare appieno la “sostanza” del limone Etna


non potete esimervi dal rituale dei chioschi di Catania, ovvero il seltz sale e limone per placare la sete estiva.

LIMONE INTERDONATO MESSINA IGP L’Interdonato di Messina Igp è una specie sui generis, lo abbiamo già detto. Questo ibrido locale giovane e vigoroso (classe 1875, non ha ancora duecento anni di vita) si distingue per la buccia sottile, la forma ellittica dalle estremità verdoline e il basso contenuto in acido citrico che lo rende particolarmente dolce. Definito “il migliore da accompagnare al tè” per gli amanti del genere.

LIMONE DI ROCCA IMPERIALE IGP Ci spostiamo in Calabria nella provincia di Cosenza per questa cultivar di femminello davvero speciale. Il limone di Rocca Imperiale Igp ha forma allungata, buccia dai colori tenui e polpa quasi priva di semi. Il suo sapore delicato, né acido né amaro, lo rende ideale per aromatizzare dolci e creme.

LIMONE FEMMINELLO DEL GARGANO IGP Grazie a lui anche i pasticciotti acquistano (incredibilmente) una marcia in più. Il limone Femminello del Gargano Igp è una specialità pugliese della provincia di Foggia derivata dall’ecotipo di femminello comune detto Limone nostrale. La sua forza sta nell’intensità del profumo: la buccia è infatti particolarmente ricca di olii essenziali. La varietà si presenta con forme diverse (ellittica, ovoidale, globosa) a seconda della fioritura, ha polpa succosa e sapore citrino poco amaro.

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LIMONE DI PROCIDA L’Arca del Gusto Slow Food recupera questa varietà isolana di femminello ovale. Grosso, spesso e tutto da mangiare, il limone di Procida è anche detto “limone di pane” per via dell’albedo che in questo caso si rivela poco amaro e decisamente appetitoso.


GLI INGREDIENTI PORTANTI

#03 IL COUS COUS Di origine maghrebina, primordiale e leggero, viene servito con carne, pesce o verdure. In passato, l’ingrediente base del cous cous era principalmente la semola di grano, Triticum durum, quella farina granulosa frutto di una macinatura grossolana, ottenuta da macchine primitive. Oggi con questo nome ci si riferisce anche ad alimenti preparati con cereali diversi, come orzo, miglio, sorgo, riso, o mais. Il cous cous può essere fine, medio o grosso, bianco o bruno, e può essere cucinato con burro, olio, speziato o no, salato o dolce.

L’ORIGINE Il cous cous affonda le sue radici nel Maghreb, terra dei berberi, la popolazione indigena dell’Africa Settentrionale. Il processo di cottura tipico del cous cous, la cottura a vapore sul brodo in una pentola speciale, potrebbe avere avuto origine prima del decimo secolo in un'area dell'Africa Occidentale che comprende gli attuali Niger, Mali, Mauritania, Ghana, e Burkina Faso. Il cous cous ha viaggiato nell'Africa subsahariana, dal Ciad al Senegal, per raggiungere i paesi mediorientali e diventare uno dei piatti più diffusi in Francia, in Grecia e in tutto il bacino mediterraneo, soprattutto in Sardegna (Carloforte), nel livornese e nel trapanese (San Vito Lo Capo).

LE RICETTE COL COUS COUS

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Questa semola si presta a una varietà infinita di piatti: da quello più semplice con lo smen, un burro “fermentato", e un bicchiere di latte cagliato, ai ricchissimi cous cous delle feste di matrimonio serviti con broccoli, carne di maiale o preparati nella versione dolce, con cannella, uva passa, fichi, mandorle e pistacchi. Il condimento classico del cous cous è quello con la carne di montone, di agnello, di pollo o anche di manzo a cui possono essere aggiunti altri ingredienti a piacere. Anche gli aromi possono variare. Si può per esempio unire in cottura alla zuppa di pesce una bustina di zafferano, o sedano, oppure alcune foglie di alloro.


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FOCUS: GLI UTENSILI DEL COUS COUS 01. CUSCUSSIERA

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È la pentola speciale per cuocere il cous cous a vapore. In Sicilia è spesso di terracotta smaltata, ma viene realizzata anche in rame e alluminio. In mancanza di questo accessorio è possibile utilizzare uno scolapasta di metallo appoggiato su una pentola in cui far bollire l'acqua o il brodo con le verdure, la carne o il pesce.


02. MAFARADDA Apposito contenitore siciliano di terracotta verniciata a pareti ricurve e fondo piatto, in cui vengono legati i granelli di semola.

03. LEMMO Chiamato anche lemmu in Sicilia, è il recipiente di terracotta verniciata svasato che serve a contenere la semola già lavorata.

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LA LAVORAZIONE TRADIZIONALE DEL COUS COUS MACINATURA

MODALITÀ DI COTTURA

Il lavoro comincia con la macinatura del grano al mulino e con la setacciatura della semola dividendo il grosso dal fine. Durante questa fase viene recuperato anche lo spezzato utile a preparare il burghol o il Tabuleh.

Dovrebbe essere passato al vapore due o anche tre volte. Quando è cotto come si deve è morbido e leggero, non dovrebbe essere gommoso né formare grumi. Il cous cous va cotto a vapore in un tegame simile ad uno scolapasta: la cuscussiera. È costituita da due parti, quella inferiore, e quella superiore forata tipo scolapasta. Come si usa la cuscussiera? •

L’ultimo setaccio divide il cous cous grosso dalla "mazlouga" che è in tutto e per tutto simile alla fregola sarda e si usa nelle minestre invernali.

L’INCOCCIATURA La Mafaradda Siciliana è l'antico e tradizionale piatto largo e basso, a pareti svasate, di legno o di terracotta, utilizzato anche come piatto di portata, in cui si versa la farina di semola, un bicchiere d’acqua, un grosso pizzico di sale e, in qualche regione, piccole quantità di farina. Si spruzza dell’acqua salata, e si inizia a "incocciare", ossia a lavorare la semola con le mani, con le dita leggermente aperte e il palmo sollevato, con movimenti circolari, sempre nella stessa direzione, fino a ottenere delle palline non più grandi di una capocchia di spillo. Si continua a lavorare la semola fino ad ottenere delle palline piccolissime che vengono versate in un piatto fondo di vimini, per essere separate le une dalle altre. Vengono lasciate asciugare un quarto d’ora in un cestino e poi si ricomincia a lavorare , a”rotolare" il cous cous per farlo passare attraverso setacci di diverse dimensioni. Deve essere lasciato asciugare per tre ore su una tovaglia e conservato in un luogo molto asciutto o in giare di terracotta ermeticamente chiuse.

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Nella parte bassa si mette abbondante olio d’oliva, qualche spicchio d’aglio, spellato o in camicia, e un piccolo peperoncino. Si rosola a fuoco vivo con qualche spezia e si aggiunge un brodo di carne, o di pesce o di verdure. Quando dalla couscousiera usciranno dei fumi vorrà dire che l'acqua (o brodo) bolle. A questo punto si adagia lentamente il cous cous inumidito e sgranato. Si regola il fuoco ad intensità media e si sistema un canovaccio di cotone sopra la cuscussiera per non disperdere il vapore. Dopo cinquanta minuti circa si rovescia il contenuto in un grande piatto, largo abbastanza per continuare a sgranare e inumidire la semola lentamente e a piccole quantità con due bicchieri d'acqua e mezzo bicchiere d’olio. Poi si aggiusta di sale. Se l'acqua dentro la cuscussiera si dovesse asciugare troppo se ne aggiunge altra e mentre si sgrana il cous cous si aspetta che riprenda il bollore. Appena bolle si rimette la pentola con i buchi e si riadagia sopra il cous cous. Si aspettano altri 50 minuti e si rifà lo stesso lavoro senza aggiungere olio ma solo un po' d'acqua. Alcuni fanno quest'ultima sgranata con il brodo cotto nella cuscussiera.

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Le dimensioni dei granelli determinano l'uso. • Il cous cous più grande, chiamato m’hamas, è della dimensione di granelli di pepe. • I granelli di dimensione media sono quelli utilizzati più comunemente • Il cous cous fine si usa nei dolci o col pesce.


IL COUS COUS PRECOTTO Se non si ha tempo o manualità, si può utilizzare il cous cous precotto che si trova facilmente anche nei supermercati. È solitamente passato al vapore una prima volta e poi essiccato, e le istruzioni sulla confezione consigliano di aggiungervi un po' di acqua bollente per poterlo servire. Questo metodo è semplice e rapido: basta mettere il cuscus in una ciotola e versarvi sopra l'acqua o il brodo bollente, coprendo poi la ciotola. Il cous cous si gonfia e nel giro di pochi minuti è pronto da servire, dopo averlo però sgranato con una forchetta. Diversamente da come indicato sulle confezioni, potete cucinarlo anche a vapore. Cuocendolo così per un’ora e più, mescolando spesso per evitare i grumi, si ottiene una semola più soffice.

COME SI MANGIA Nella tradizione africana il cous cous viene consumato seduti tutti insieme attorno a un grande piatto rotondo con la carne o il pesce e le verdure al centro. Il brodo viene servito in una ciotola a parte, e ogni commensale può aggiungerlo a piacere.

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Prima di iniziare il pasto a base di cous cous viene sussurrato "Biss’mi Allah" ("in nome di Dio"), una preghiera di benedizione per la mensa. Poi si procede affondando le tre dita della mano destra nel cous cous, come precisa il corano, poiché con un dito mangia il diavolo, con due il profeta e con cinque l’ingordo. Si forma con le mani una pallina di semola sgranata attorno a un pezzetto di verdura o carne o pesce utilizzando le mani, ognuno attinge alla porzione davanti a sé nel piatto. Per servirsi non si utilizzano posate ma pane non lievitato. In una ciotola a parte viene servita l’harissa, una salsa molto piccante a base di peperoncino rosso fresco, aglio, olio d’oliva e tipica del Nordafrica. L'harissa ha la consistenza di una pasta.


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FOCUS: IL COUS COUS NEL MONDO AFRICA Questo piatto è l'alimento tradizionale di tutto il Nordafrica (Algeria, est del Marocco, Tunisia, e Libia). In Algeria, Tunisia e Marocco, il cous cous viene generalmente servito con verdure (carote, rape, ecc.) lessate in un brodo più o meno piccante, e qualche tipo di carne (di solito, pollo, agnello o montone); in Marocco, si può trovare anche del pesce in salsa agrodolce con uvetta e cipolle; in alcune regioni della Libia si usano pesce e calamari. Il brodo della carne in Tunisia è rosso, fatto con pomodoro e peperoncino, mentre in Marocco di solito è giallo Oltre che nel Maghreb, è molto diffuso anche nell' Africa Occidentale.

ISRAELE

Conosciuto anche come cous cous in perle, è una versione a grani più grossi, che viene servito in modi diversi.

EUROPA In Francia è il secondo piatto preferito dai francesi. È molto consumato anche in Belgio e in Grecia.

SICILIA A San Vito Lo Capo e in tutta la costa Trapanese, da Mazara del Vallo a Marsala sino alle isole Egadi, il cous cous si è sposato con la tradizionale zuppa di pesce, la "ghiotta", sostituendo il pesce alla carne, ingrediente tradizionale dei Berberi. Quello preparato nel trapanese è cotto a vapore in una speciale pentola (cuscussiera) di terracotta smaltata (vedi sopra). Un'altra fondamentale differenza tra cous cous siciliano e tunisino sta nel modo di incocciare, cioè lavorare a mano la semola, che è più grossa nel Trapanese per la tipologia delle macine dei mulini locali.

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SARDEGNA

Il cascà o cashcà è una variante del cous cous, rappresentava un piatto povero ed era condito con cavolo cappuccio, cavolfiore o ceci. Col tempo il piatto si è evoluto, ed alla ricetta base si sono aggiunte le verdure di stagione e la carne suina. Il piatto si è trasformato in cibo della festa in epoca recente, preparato soprattutto in occasione della festa patronale di San Carlo. La lavorazione con le mani è un po' diversa da quella siciliana o nordafricana. Inoltre in Sardegna viene lavorato su un tagliere piano (quello di Carloforte è tipico)


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LA RICETTA SCIENTIFICA INGREDIENTI dosi per 6-8 persone • 500 g di cous cous • 500 ml di acqua • 1 kg di prezzemolo • Un mazzetto di menta • 250 g di pomodori da insalata • Il succo di 3-4 limoni • 2 cipollotti freschi • Olio q.b. Per la salsa di aglio • 1 aglio intero • Olio extravergine di oliva • Succo di 2 limoni • Sale q.b. • Pepe q.b.

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Opzionale: yogurt intero


Il bulgur non è sempre facile da reperire e si presta poco al procedimento a cui dovremo sottoporlo. Un perfetto sostituto, più semplice da acquistare e più adatto alla tecnica è il cous cous. Anche un buon cous cous precotto andrà benissimo. La prima cosa da fare è metterlo in padella con dell’olio e tostarlo a modino. Bisogna farlo diventare ben scuro e croccante. Questo processo è tecnicamente ciò che viene definito destrinizzazione. Una valida alternativa consiste nel tostarlo in forno. Va bene l’uno e l’altro modo. In padella si fa più in fretta ma bisogna rimestarlo in continuazione per non farlo bruciare. È qui che stiamo aggiungendo un po’ di scienza alla nostra preparazione. Il cous cous, l’abbiamo detto, non è altro che semola di grano duro. È grano spezzato e ridotto in granuli. La grana è più fine rispetto al bulgur ma più grossolana se pensiamo alla polenta. Essendo semola sappiamo che al suo interno ci sono amidi, ovviamente, amilosio e amilopectina, ma c’è anche una buona quantità di glutine, quindi di proteine. Ricordiamo che per produrre la pasta si usa proprio la farina di grano duro per la sua quantità di proteine. Che succede durante il momento di tostatura a secco? Beh, sostanzialmente due cose. La prima è ciò che viene individuata come destrinizzazione dell’amido, come detto. Avviene quando l’amido viene sottoposto a calore secco. Gli zuccheri presenti si trasformano in destrine. Le destrine hanno il tipico colore bruno e tendono a fornire una nota dolce e profumata. Ma non è tutto. Che succede se abbiamo calore secco, zuccheri riducenti e proteine? Esatto, avviene la Reazione di Maillard. Nel cous cous ci sono proteine (glutine) ci sono zuccheri riducenti (destrine derivanti dalla tostatura) e se quindi diamo abbastanza calore di certo si catalizza la reazione di Maillard. Che vuol dire più sapore. Dopo la tostatura il cous cous avrà una dominante più dolciastra e il tipico sentore di crosta di pane appena sfornato.

Se il vostro cous cous è precotto (e di base lo sono tutti) ha subito (aiutato anche dalla tostatura) quella che si chiama retrogradazione. La retrogradazione non è altro che una parziale ricristallizazione degli amidi gelificati. Non tornano allo stato iniziale ma quasi. Vi faccio un esempio. Avete presente il pane raffermo? Ecco, quello è un amido retrogradato. Quando il pane viene cotto in forno, in presenza di umidità, gli amidi gelatinizzano. La mollica di pane, per esempio, è amido gelatinizzato. Finché si trova dentro al pane è soffice e umida. Ma se lo lasciamo all’aria per un po’ si asciuga, si secca ed assume una consistenza croccante. Questo è proprio il fenomeno di cui vi parlavo, la retrogradazione dell’amido. La ricristallizazione delle molecole di amido che formano il gel. La cosa interessante è che il processo è reversibile. Basta reidratare l’amido per tornare in condizione di gel. Stessa cosa con il cous cous. Dopo la tostatura sarà molto scuro e croccante. Ma basterà fargli assorbire acqua per renderlo nuovamente commestibile ma con queste sfumature di sapore e colore assolutamente deliziose. Una volta tostato lo idratiamo con acqua bollente, come si fa di solito. Una parte di acqua bollente per una parte di cous cous. Lo si lascia coperto per dieci minuti e l’acqua verrà completamente assorbita. Anche se l’amido è retrogradato a causa della tostatura, in men che non si dica, grazie all’acqua bollente, tornerà a gelatinizzare idratando e cuocendo la semola. Sgranatela bene e lasciatela da parte. Che sia ben sgranato, mi raccomando. Adesso tocca ai pomodori. Privateli dei semi, tagliate in quarti e ricavate una concassé. Facile facile. Mettete da parte. Se ne avete e vi piacciono e sono in stagione, fate anche una concassé di cetriolo. Passiamo al cipollotto. Di norma andrebbe tagliato crudo. Va bene anche una cipolla rossa o comunque che non sia troppo carica di vapori sulfurei. Se avete particolari criticità nella digestione della cipolla potete usare il solito modo per eliminare gli enzimi responsabili.

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Ci sono pochissimi ingredienti, soprattutto verdure da consumare crude. È scontato dire che bisogna trovare quelle di qualità superiore.


E cioè?

Lì si può certamente procedere per gusto.

Prendete le cipolle così come sono, senza nemmeno pelarle, sistematele su una teglia rivestita di carta forno e mettetele in forno a 230°C fino quando non arrivano a 65°C interni. Per misurare la temperatura, utilizzate una cipolla “spia”, che infilzerete con la sonda e scarterete una volta pronta.

Se ai vostri ospiti non piace il cipollotto potreste virare sull’erba cipollina e metterne una bella manciata. Insomma, l’aroma di cipolla è caratterizzante del Tabbouleh.

Adesso possiamo pensare al prezzemolo. Non si butta nulla. Si usano sia i gambi che le foglie. Separate i gambi e tritateli molto, molto, molto finemente. Per le foglie potete usare un trito un po’ più grossolano. Considerate che il modo migliore di mangiare il piatto finito è con il cucchiaio, quindi fate in modo da non avere pezzi troppo grandi da masticare. La menta è imprescindibile. Per dare freschezza e per dare la tipica aromaticità alla ricetta. Usatene una bella manciata, non lesinate. Ci sta benissimo. Tritatela finemente in modo che possa nascondersi e amalgamarsi bene insieme alle foglie.

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Darvi delle dosi precise sarebbe complicato. Il mio consiglio è di trovare il vostro equilibrio. Ma per indicarvi la strada giusta vi illustrerò le giuste proporzioni di base. Per ogni “tazza” di prezzemolo, immaginate orientativamente 250ml in volume, dovreste usare un cucchiaio di cous cous, uno di menta, uno e mezzo di limone e due cucchiai di olio. Quella è la partenza. Poi aggiungete uno o due pomodori a seconda della dimensione. Uno o due cipollotti a seconda di quanto ti piace sentirlo. Un quarto di cetriolo? Mezzo? Non è fondamentale.

Il Kick finale è il dressing ma ricordate che è un plus. Il tabbouleh va comunque condito con olio e succo di limone, a prescindere se poi si usi il dressing oppure no. È il voler risentire quell’aroma un po’ scarico di aglio che il toum mi lasciava in bocca nei miei soggiorni libanesi. Si procede quindi al cuocere una testa d’aglio in forno a 100°C/130°C. Sappiamo perché intera, lo abbiamo detto moltissime volte. Negli spicchi d’aglio si trova l’allina (S-allil-cisteina-solfossido) che è una sostanza inattiva e inodore che vene convertita nell’allicina (estere allilico dell’acido alliltiosolfonico) dall’enzima alliinasi, che viene liberato per rottura dei vacuoli che lo contengono quando si frantumano o si tritano gli spicchi d’aglio. Cuocendoli senza toccarli sappiamo che l’allina si disattiva e quindi non può più trasformarsi in allicina. Quindi non ha quel tipico sapore pungente ed è più digeribile. A questo punto liberiamo gli spicchi dalla buccia, mettiamo nel mixer e mettiamo tanto olio quanto aglio e succo di limone pari alla metà della quantità di olio. Una manciata di sale e pepe ed emulsioniamo il tutto fino ad ottenere una consistenza cremosa. Il risultato dev’essere una salsa abbastanza liquida. Nel caso non lo fosse potete allungare con un po’ d’acqua o di yogurt intero.


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PER IL SERVIZIO Non mischiate tutto subito. Condite prima il cous cous, ben sgranato, con l’olio. Assaggiate e regolate di sale. Condite poi il prezzemolo con l’olio e il limone assieme a tutte le verdure, tranne il cous cous. Regolate di sale e pepe anche qui. A questo punto potete aggiungere il cous cous condito. Mescolate molto bene perché tende a depositarsi sul fondo. Assaporate il Tabuleh e sorridete alla vita. Ma prima controllate di non avere del prezzemolo tra i denti.

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Gianfranco Lo Cascio


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Too good is to be Gamma, to be Gamma is to be good!

Seguo

a cura di Emiliano Nencioni

“Un tempo eravamo eroi su bicilindrici aste e bilancieri, adesso questi vogliono il monopattino elettrico!” “ Cottura in sous vide? La fai perché piace al tuo fidanzatino?” “Eh cari sodàli, l’imbarbarimento dei costumi! Cose che non collimano con le abitudini di noi maschi alfa! I maschi alfa sui social network, una categoria completamente autoreferenziale di cui si può comodamente entrare a far parte con il solo sforzo di scrivere “maschi alfa come me” o “noi maschi alfa” commentando un’altra persona in odore di alfosità. Categoria a cui suppongo si potrà appartenere a vita, visto che non si è mai visto nessuno ritirare un tesserino da alpha male, e nessuno si è mai preso la briga di considerare se azioni, propositi, atteggiamenti fossero effettivamente omologabili e afferibili a questa élite di virile socialità.

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Ce ne fosse mai uno onestamente fiero e soddisfatto di appartenere all’invidiabile classe beta, o a proprio agio nel dichiararsi un rispettabile gamma. E, sì, lo ammetto subito, questa è una di quelle rubriche Seguo consistenti in un monolitico grido di esasperazione contro un’usanza online, con annesso parallelismo letterario.

Mi risulta impossibile infatti leggere di individui alfa senza pensare agli avvenimenti narrati in Brave New World di Aldous Huxley, romanzo decisamente poco noto qui da noi, non fosse per qualche illuminato insegnante d’inglese che lo fa leggere (obbligatoriamente, e quindi sciupando ogni gusto personale) in qualche liceo. Brave New World fa parte del filone dei romanzi distopici, come 1984 di Orwell o Fahrenheit 451 di Bradbury, e narra di un mondo futuro che, a prima vista, non è poi così male. Huxley doveva essere rimasto colpito dall’efficienza e dalla spersonalizzazione della produzione in serie, tanto da far cominciare il conteggio degli anni del suo mondo nuovo dal 1908, anno della messa in produzione della Ford T, prima auto realizzata in catena di montaggio, dividendo la storia dell’umanità in un'epoca pre-Ford ed in un'epoca Post-Ford. Il concetto di produzione in serie e catena di montaggio si espande a tan-


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Ruben Cukier - Caste (2019)


tissimi aspetti della vita biologica e sociale, fino a diventare elemento cardine dell’umanità: la stessa riproduzione umana diventa un processo industrializzato, con l’abolizione degli affetti e il passaggio alle gravidanze extrauterine, con lo sviluppo di feti in catena di montaggio, e controllando meccanicamente, già durante lo sviluppo dell’embrione, la divisione in caste della società. Tramite somministrazione o carenza di ossigeno infatti è già nelle incubatrici che si decide il ruolo del mondo del “lotto” di nuovi virgulti (non si parla mai di genetica: per forza, il DNA fece capolino solo venti anni più tardi). Gli Alfa, intellettuali, scienziati e governanti, saranno la casta al comando, individui belli, intelligenti, privi di difetti fisici, destinati a detenere il potere in ogni ambito. I Beta, tecnici, amministrativi, funzionari, esteticamente sempre gradevoli e un po’ frivoli, sono l’emanazione operativa degli Alfa, e da questi ultimi sempre bonariamente apprezzati.

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I Gamma, tarchiati, rubizzi, ingenui, sono gli operai, commercianti, lavoratori in genere, e costituiscono la massa produttiva della società. Non esattamente degli Adoni e sicuramente snobbati dalle classi più alte, compensano con una perenne allegria positiva. I Delta, magrolini, un po’ gobbi, apatici e idioti, sono la manovalanza spicciola, detestano tutto quello che non è Delta e trovano appagamento solo nel loro lavoro. Gli Epsilon, subumani irrimediabilmente deformi,

hanno subito la sorte peggiore durante l’incubazione: sono capaci solo di eseguire compiti basilari, non hanno un proprio pensiero ed esistono solo per effettuare compiti che risulterebbero intollerabili agli altri. Il motto mondiale di “Comunità, Identità, Stabilità” viene perseguito attraverso l’eliminazione della tristezza, delle guerre, dell’infelicità sociale: ogni momento di tristezza viene sistematicamente abbattuto con l’assunzione di una specie di “droga di stato”, il soma, una sorta di antidolorifico, antidepressivo altamente energizzante, talmente osannato e venerato da diventare quasi un “culto del prodotto”. Interessante notare come da “religione, oppio dei popoli” qui si sia astutamente ribaltata la situazione con “oppio, religione dei popoli”; bravo Huxley, un easter egg che non avevo notato al liceo. Insomma, come accennavo all’inizio dell’articolo, questo mondo distopico pare un po’ meno terribile degli altri grandi classici: nessun fratello maggiore che ti osserva sempre, nessuna fire brigade che ti appicca fuoco alla casa con la nonna dentro, solo promiscuità, felicità, appagamento sociale, pace perenne. Ma, figuriamoci, c’è un piccolo prezzo da pagare. Tanto per cominciare, i libri e la cultura sono tassativamente vietati, banditi, inesistenti. É un po’ buffo notare come tutti questi scrittori di metà ‘900, dovendo pensare alla privazione principale, più severa, più lancinante, abbiano tutti pensato al “togliere i libri”. Un po’ l’eco del nazismo, sicuramente, un po’ anche il pensiero “e io poi come campo, che scrivere è il mio mestiere?”.


Il piccolo me sedicenne in quarta liceo si prese un brutto voto ad un compito in inglese che prendeva in esame proprio Brave New World. L’inglese era perfetto, ma al contrario di quanto l’insegnante si aspettasse scrissi con convinzione che forse sì, rinunciare all’arte e alla filosofia, dividersi in caste e rinunciare all’amore angelicato poteva essere un prezzo equo da pagare per una garanzia di felicità a vita, assenza di guerre, appagamento totale e in definitiva per la totale mancanza di rogne e ansie. In maniera molto superficiale e poco “da bimbo bravo” avevo completamente mandato a spigare la filosofia in favore di una allegra promiscuità, e avrei scelto ad occhi chiusi la felicità obbligatoria piuttosto che il concetto di famiglia o di memoria storica. Con un poco opportuno gesto teatrale chiusi l’elaborato con il motto della classe Gamma, che aveva completamente rapito la mia fantasia di adolescente incasinato: Too good is to be Gamma, to be Gamma is to be good! (si traduce, rovinandolo, pressappoco con “Troppo bello essere Gamma, essere Gamma è essere ganzi!”). Gamma, la terza classe: magari non proprio il primo della lista, ma neanche l’ultimo degli Epsilon (quasi cit). Perché avere le responsabilità e le noie di un Alfa, o i compiti sensibili di un Beta, con tutta la consapevolezza di essere dei “capi” con una massa da guidare, quando puoi essere un Gamma, non fare niente di che, ricevere il tuo condizionamento ipnopedico ed essere graniticamente convinto di vivere la migliore delle vite possibili? Quei Gamma sempre gentili, ironici, strafelici di non avere le gatte da pelare delle caste superiori, con mai un pensiero, mai un dramma, mai una giornata storta. Alle accuse di essere superficiale risposi che la mia riflessione era comunque più interessante del resto delle opinioni bovine e preconfezionate della classe, riuscendo solo a peggiorare la faccenda.

Invece qui, oggi, sui social, ma anche fuori dai social, vogliono tutti essere Alfa. Gente che, a parer mio, poi tanto alfa non è, anzi: ricordano più i Delta quando si incattiviscono con le caste superiori. Non sono neanche sedicenni alle superiori che rispondono alle loro immediate esigenze con una fantasia su un romanzo distopico, svaccano il compito di proposito e si pigliano un quattro e mezzo, solo per palesare il proprio malessere. Sono tutti ben adulti, quasi vecchiotti. Magari, forse, dico forse, c’è dietro una mamma che ha affermato per anni “sei bello sei bravo tu sì che puoi fare tutto quello che vorrai”, e allora li vedi tutti convinti di far parte di una casta superiore, per poi coniugare i verbi con procedure non deterministiche - anzi direi altamente stocastiche. Vogliono essere Alfa, ma non tanto per il prestigio: è più una cosa virile, pseudo-sessuale, c’entra più l’arroganza, una strana voglia di allontanarsi dalla sensibilità, dalla delicatezza e dalla sincerità. Viene premiato l’insulto, l’ostentazione (di cosa?), la costruzione di una stage persona piena di autocompiacimento. La giustificazione sta nel branco. Fanno gruppo, e si giustificano l’un l’altro l’attribuzione dell’etichetta Alfa: più che una casta, un organismo-alveare, una coscienza collettiva autoalimentata e autoverificata, potente in massa e insignificante nei termini del singolo individuo. Se fossi un influencer e avessi il terribile dono di saper spingere gli altri a fare quello che dico, sicuramente - dopo aver già chiesto a tutti di scrivere “Smetti.” sotto ai commenti fuori luogo, fastidiosi o imbarazzanti - suggerirei di aggiungere, sotto a quei capolavori di cringe (“doloroso disagio”) che sono i discorsi “ah noi maschi alfa”, un bello slogan “too good is to be gamma, to be gamma is to be good”. Bello poi stare lì a godersi la scena di loro che non capiscono, chiedono, si inalberano, googolano. Sorpresa: Google, vai a capire perchè, non restituirà risultati per quella frase. Provate.

Emiliano Nencioni

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Non solo: in Brave New World sono banditi anche gli affetti, l’idea di famiglia, la filosofia, l’arte e il pensiero critico. La felicità è obbligatoria, così come è tabù la monogamia.


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N°32/ANNO 3 - AGOSTO 2021

L'EDITORIALE DI GIANFRANCO LO CASCIO

Assaggiare la carne: ultima parte

La situazione si fa piccante

Jambalaya, Spaghetti con drogarossa e 'nduja, Zuppa piccante Thai, Chili con carne, Salmone con zenzero, peperoncino e limone, Calamari ripieni al sugo piccante, Taquitos di pulled pork, Bacon pepper twist, Batate piccanti ARTE BIANCA

Sicilian Pepperoni Pizza IL QUINTO QUARTO

Fegato e rognone INFOGRAFICA

I tagli giapponesi del manzo LA RICETTA SCIENTIFICA

Spaghetti all'assassina


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Editoriale di Gianfranco Lo Cascio Assaggiare la carne: una guida completa ULTIMA PARTE Il codice tattile e gustativo della carne

“Non c’è uomo che non possa bere o mangiare, ma sono in pochi in grado di capire che cosa abbia sapore”. Confucio

Lo so che le caratteristiche che ci dividono dai primati sono altre, ma io faccio veramente fatica a considerare Homo Sapiens chi non conosce l’alfabeto del sapore. Quando diventerò una personaggio di spicco proporrò l’introduzione scolastica di un patentino del gusto, perché imparare il linguaggio dei sapori è importante quanto leggere o scrivere. Non siete d’accordo? Ebbene, proprio per rimarcare il ruolo insindacabile del cibo e della degustazione, terminiamo il nostro percorso sull’assaggio della carne. Il SISTEMA SOMESTESICO Il sistema somestesico è così chiamato perché riguarda la sensibilità del corpo e più precisamente: • sensibilità tattile; • sensibilità termica; • sensibilità dolorifica; • sensibilità profonda (propiocettiva); • sensibilità viscerale. Gli stimoli vengono trasdotti (cioè trasmessi e trasformati) da diversi tipi di sensori e, attraverso le terminazioni nervose, giungono al cervello raggiungendo prima il talamo e poi la corteccia cerebrale. Lì, le regioni corticali differenti elaborano contemporaneamente i diversi aspetti dell’esperienza, per darle un significato più completo possibile. La sensibilità tattile assume due connotazioni

distinte: da una parte, registra percezioni di tipo fisico (volume, viscosità, forma ecc.) e dall’altra di tipo chimico. Queste ultime, a livello didattico si classificano in: astringente (tipiche del caco acerbo), pungente (aceto), piccante (peperoncino), metallico (cucchiaio sulla lingua) e pseudo-calore (freddo come la menta, caldo come l’alcol). IL GUSTO Il gusto è l’organo di senso che definisce la qualità di molecole disperse in un liquido in base al sapore, e ha sede nel cavo orale. La lingua è la casa delle papille gustative. Ogni papilla contiene uno o più bottoni gustativi (o gemme gustative) composte da cellule che terminano con microvilli sensibili alle sostanze dotate di sapore. Quando una di queste sostanze raggiunge un microvillo si origina un segnale elettrico che attraverso il nervo gustativo raggiunge il cervello dove viene elaborato. IL CODICE TATTILE E GUSTATIVO DELLA CARNE Nell’analisi sensoriale le percezioni tattili e gustative vengono valutate insieme, perché si alternano formando l’insieme delle percezioni ottenute in bocca durante la masticazione, escludendo la parte aromatica di cui abbiamo parlato nel Magazine di Luglio 2021. Passiamo ora alla rassegna di tutti i parametri delle percezioni tattili e dei sapori associabili alla carne cruda e cotta.

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TENEREZZA (tattile) Definizione Misura il grado di morbidezza della carne durante la masticazione, valutando lo sforzo compiuto dagli incisivi per affondare in un boccone la carne in analisi: sulla base di questo primo morso, tanto minore sarà lo sforzo, tanto maggiore sarà la tenerezza. Correlazione di filiera La struttura della carne e quindi la sua morbidezza è influenzata da tutta la filiera: partendo dalle caratteristiche morfo-funzionali dell’animale, per arrivare al sistema di allevamento e di alimentazione e le tecniche di macellazione, di lavorazione e di sezionamento, la frollatura, la durata e la temperatura di conservazione e infine le modalità di trasformazione e di cottura. Composti responsabili Sono quelli che compongono la struttura del tessuto muscolare e definiscono la qualità del tessuto connettivo. Sono di fondamentale importanza la costituzione dei corpi muscolari, i rapporti e lo stato biochimico delle proteine muscolari (sarcoplasmatiche, connettivali, miofibrillari) e il loro grado di contrazione. Anche l’età dell’animale influenza la struttura e la tenerezza delle carni: con l’invecchiamento diminuisce il collagene solubile in soluzioni saline neutre o acide, mentre aumentano i legami intramuscolari e intermuscolari tra le catene polipeptidiche (legami peptidici tra amminoacidi). Dato che questi legami diventano più resistenti al calore, sono meno sensibili all’azione enzimatica, quindi alla frollatura.

SAPIDITÀ (gustativa) Definizione Intensità del sapore sapido o umami, tipico del glutammato di sodio. Correlazione di filiera Razza, alimentazione, frollatura, tecnica di cottura. Composti responsabili Intensità di sapore significa, come detto, presenza dei sali sodici dell’acido glutammico o glutammato. Il glutammato si forma naturalmente in risposta al lavoro di trasformazione delle proteine a carico degli enzimi, come nella frollatura. SUCCOSITÀ (tattile) Definizione Quantità di liquido presente nella carne percepita durante la masticazione. Correlazione di filiera Tipologia di taglio, frollatura, conservazione, additivi e tecniche di cottura. Composti responsabili Umidità e liquidi presenti nella carne, additivi tecnologici eventualmente utilizzati e tecniche di cottura.

GRASSO (tattile) Definizione Percezione tattile di untuosità percepita immediatamente dopo la deglutizione e data dalla patina lasciata in bocca dagli acidi grassi Correlazione di filiera La presenza del grasso è legata agli aspetti genetici di predisposizione della razza, ma anche alle tecniche di allevamento e alimentazione. Composti responsabili Acidi grassi e trigliceridi di deposito nella carne. FIBROSITÀ (tattile) Definizione Sensazione meccanica percepita durante la masticazione che rivela la presenza di parti coriacee difficili da ciancicare. Quando la carne è molto fibrosa, la masticazione si allunga per permettere di deglutire il residuo elastico finale; la fibrosità minima si ha per quelle carni che “si sciolgono in bocca”. Avete presente mia selezione presente sul Megastore? Correlazione di filiera La fibrosità delle carni è legata alla tipologia di taglio, oltre che alla genetica, all’allevamento e all’alimentazione, ma anche alle fasi di frollatura e lavorazione delle carni. Composti responsabili Tendini e parti connettive coriacee.


AMARO (gustativo)

Definizione Intensità del sapore amaro nella carne dopo circa uq alche secondo dall’ i nizio della masticazione. Correlazione di filiera La formazione di composti con percezione amara è legata prin cipalmente alla fase di cottura, ma anche frollature spinte con eccessiva proteolisi possono portare alla formazione di composti amari. -

Composti responsabili Prodotti della reazione di Maillard e amminoacidi.

PIACEVOLEZZA (tattile/gustativo)

Correlazione di filiera Tutte le fasi della liera no alla cottura conferiscono caratteristiche gustative e tattili determinanti per la piacevolezza. Composti responsabili Tutti i componenti percepiti a livello tattile e gustativo.

-

Vi è piaciuta questa serie di appuntamenti sulla degustazione della carne? State tranquilli, perché il mese prossimo ci sarà un nuovo capitolo che riguarderà la ciccia e le sue trasformazioni. Buona lettura!

Gianfranco Lo Cascio

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Definizione aV lutazione soggettiva della carne in relazione all’equili brio delle percezioni tattili e gustative.


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GRILL & SMOKE

TO PERFECTION

MASTERCLASS IL FUTURO È QUI!

G

Anteprima a cura di Michela Bongiorni

li italiani, si sa, sono un popolo di santi, poeti e navigatori; secondo molti, tuttavia, accanto a queste caratteristiche ne mancano altre, decisamente fondamentali. Ve ne sarete accorti anche voi, leggendo i social, che l’italiano medio ha una preparazione da tuttologo e all’occorrenza diventa esperto in qualsiasi argomento: da CT della Nazionale a virologo, da schermidore a veterinario, da esperto di linguistica ad astronauta. Non fa eccezione il mondo del bbq.

Forte di questa convinzione, che spesso sconfina nel campanilismo regionale (la cucina siciliana è migliore, il pesto alla genovese è la cosa più buona che esista, il ragù alla bolognese è il cibo degli dei!) e familiare (mia nonna era la più brava a fare le lasagne, le polpette di mia mamma non sono eguagliabili!) l’italiano medio è convinto di non dover prendere lezioni sulla cucina da chicchessia; nemmeno da chef famosi e universalmente riconosciuti come i migliori del globo terracqueo, che invero infama ad ogni buona occasione, scagliandosi contro l’innovazione a difesa della tradizione della cucina italiana. Che, forse non l’abbiamo ancora detto, è la migliore del mondo e non ha bisogno di essere perfezionata!

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L’italiano è convinto di saper grigliare, e di saperlo fare meglio di chiunque altro al mondo, perché si fregia di far parte della cultura gastronomica migliore del pianeta: la cucina italiana non ha eguali! Nessuno sul pianeta Terra mangia bene come nel Bel Paese!... e via discorrendo.


I CORSI

Tutti voi, che fate parte della nostra Community di illuminati, sapete bene quale sia la verità. Sull’onda delle convinzione di saper grigliare meglio di chiunque, gli italiani sono stati capaci di presentare sulle loro tavole preparazioni orrorifiche per anni e anni: rosticciane bruciate, polli secchi, bistecche immasticabili. E mi fermo qui, perché la lista sarebbe lunga.

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In questo clima non proprio rilassante, per niente accogliente e pieno di pericoli come l’Arena degli Hunger Games, Gianfranco Lo Cascio - ormai diversi anni fa - ha deciso che doveva dire basta e che doveva insegnare agli italiani cosa voglia dire fare grilling e fare bbq come si deve. Il resto è storia nota: dopo la nascita di BBQ4All, prima come forum, poi come community Facebook - che è ad oggi la più grande community italiana dedicata a questo mondo - sono arrivate le pubblicazioni (i libri, il Magazine), la divulgazione costante e quotidiana, la lotta per conquistare credibilità,

per abbattere le convinzioni ormai radicate e dure a morire, per convincere le persone che non c’è nulla di male ad ammettere che, pur vivendo all’interno di una cultura gastronomica eccezionale, non si può essere esperti in tutto e magari in altri Paesi mangiano carne alla griglia migliore della nostra. Sull’onda di questa neonata consapevolezza sono nati poi slogan destinati a diventare dei tormentoni: da è cotto quando è cotto per finire a se lo puoi cuocere, lo puoi grigliare. Tuttavia, questo percorso faticoso e difficoltoso per portare i grigliatori italiani verso una nuova visione della cottura alla brace sarebbe stato vano se accanto a tutta la teoria non fossero stati affiancati i corsi in presenza. Per questo motivo, è nata la BBQ4All University, che ha cominciato ad organizzare corsi in tutta Italia: lo sapete bene, perché molti di voi hanno partecipato a questi eventi che negli anni sono cambiati e si sono perfezionati.


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Dopo un po’ di tempo, però, ci siamo accorti che non riuscivamo a sopperire a tutte le richieste che crescevano in modo esponenziale: i nostri coach correvano su e giù per l’intera penisola, sacrificando ogni week end con la famiglia, per andare a insegnare di persona a orde di griller che avevano scelto di svegliarsi dal torpore e di ingerire la pillola rossa, ma non bastava mai. Ad ogni corso finito c’erano sempre più persone che ne chiedevano un altro. Era perfino nato il tormentone in Sardegna quando?, in Molise quando?... e via dicendo.

ed ha cominciato a sostituirlo con quello percorso: ovvero accompagnare le persone per mano in un mondo fantastico per far vivere loro un'esperienza a tutto tondo e totalizzante. Questa è stata l’idea di base per cui è nato il progetto Grill & Smoke to Perfection - Masterclass.

L’idea di lanciare un video corso, dunque, è nata proprio per sopperire a questa richiesta sempre più pressante, ed è nata ben prima della pandemia che ha stravolto tutte le nostre abitudini.

Certo, è molto facile dire facciamo un video corso, realizzarlo sul serio è tutt’altra faccenda. O meglio, mi correggo: realizzarlo bene è tutta un’altra faccenda. Sarebbe superfluo specificarlo, ma voglio farlo lo stesso: noi volevamo farlo… proprio to perfection! Volevamo lanciare un prodotto che facesse storia, esattamente come è successo per tutto quello che abbiamo fatto negli anni, Magazine compreso.

Inoltre, in tutti questi anni di conduzione della più frequentata scuola di Grilling & Barbecue, Gianfranco Lo Cascio ha capito che frequentare un singolo corso non è sufficiente a trasferire il mare di informazioni necessarie a trasformare il griller della domenica in un vero ninja delle griglie.

Probabilmente, se ci fossimo accontentati dell’accettabile, la Masterclass sarebbe uscita già da qualche anno. Ma Gianfranco Lo Cascio non è un tipo che si accontenta. Voleva l’eccezionale, l’inarrivabile. Ed ecco spiegato il motivo per cui ci abbiamo messo un po’ di tempo.

Da quel momento ha superato il concetto di corso

Ma credeteci, è valsa la pena attendere.

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LA MASTERCLASS


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PARTIRE DA ZERO La pandemia, ovviamente, ci ha dato la spinta finale: dovendo sospendere del tutto i corsi in presenza, ci siamo resi conto che non potevamo lasciare i nostri corsisti, (passati e futuri) senza una didattica. Giunti a quel punto, la decisione è stata presa: il 2021 sarebbe stato l'anno della svolta. Per riuscire a consegnarvi questo prodotto eccezionale, siamo partiti letteralmente da zero. Intendiamo dire che non abbiamo cercato una location adatta: l’abbiamo letteralmente costruita esattamente come la immaginavamo. Grazie al supporto di ingegneri, architetti e tutte le maestranze migliori per costruire la nostra location perfetta, Gianfranco Lo Cascio - aiutato dal Direttore della BBQ4All University, Daniele Faresin - ha prima ideato e poi reso realtà il Paradiso del BBQ: il posto in cui ogni griller vorrebbe svegliarsi dopo la morte. Stiamo parlando di 84 mq di area bbq, più una cucina esterna completa di tutto, immersi in un contesto da sogno: due piscine, due vasche idromassaggio, un complesso residenziale che prevede appartamenti con ingresso indipendente e una villa padronale. Insomma, come spesso ci è piaciuto definirlo, questo posto è una specie di Disneyland degli appassionati di cottura su fuoco. Una volta costruita la location, ovvero la sede della nuova scuola di cucina GLC Academy, eravamo solo all’inizio: un conto è decidere di girare una serie di video, un altro è trovare qualcuno che abbia l’attrezzatura adatta e che lo sappia fare bene. Il rischio di trovarsi tra le mani un prodotto triste, imbarazzante e brutto da vedere è altissimo. Dopo tante ricerche, abbiamo scoperto i ragazzi di Ownidea Studio: un’azienda di videomaking decisamente all'avanguardia, nella quale lavorano dei ragazzi preparatissimi e con una esperienza mostruosa alle spalle, nonostante la giovanissima età.

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UN PROGETTO GRANDIOSO

Niente doveva essere lasciato al caso: a partire dai dispositivi più ingombranti, fino ad arrivare all’ultimo granello di pepe, abbiamo studiato tutto nei minimi dettagli, lo abbiamo messo nero su bianco, lo abbiamo prima visualizzato nelle nostre menti e poi lo abbiamo reso realtà. Il mese di Luglio 2021 rimarrà nella storia di BBQ4All: 20 giorni di totale full immersion, di nottate passate a registrare, di ciack si gira, di trucco e parrucco, di riprese spettacolari, di ribs mangiate all’alba, di salse piccanti al posto del caffè.

Sarebbe impossibile riassumere in poche righe le tre settimane in assoluto più faticose ma insieme più soddisfacenti che abbiamo mai vissuto. Il risultato di tutto ciò, lo potrete vedere presto. Siamo sicuri che riuscirete a capire tutto lo sforzo, tutto l'impegno contenuto in questo lavoro mastodontico. Probabilmente solo in quel momento riuscirete anche a comprendere la differenza che intercorre tra semplice e facile: il corso sarà fluente, sarà semplice da comprendere, sarà chiaro per tutti, anche e sopratutto per chi comincia da zero. Ma credetemi, niente di ciò che vedrete è stato facile. Lo sforzo, l’impegno, la serietà, la professionalità servono proprio a questo: a rendere fruibile e leggero un prodotto in realtà molto complicato da realizzare. Senza dimenticare l’entusiasmo; e noi, dopo tutti questi anni, ne abbiamo ancora tanto. E siamo solo all’inizio, la rivoluzione è appena cominciata.

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Scelti i nostri "compagni di viaggio", eravamo ancora a metà strada: avevamo fondato la GLC Academy, costruito la sede, scelto chi ci avrebbe aiutato a rendere il materiale video unico. Dovevamo scrivere la sceneggiatura, immaginarci le inquadrature; e poi pensare ai tempi di registrazione, alle luci, alle riprese minuto per minuto, agli ingredienti, agli attrezzi, al set.


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Intervista a cura di Michela Bongiorni

#CHIEDIALCOACH: L'INTERVISTA

DANIELE FARESIN

sono i dettagli a fare la differenza

I

n azienda lo chiamiamo simpaticamente “lo svizzero” e già da questo dovreste capire molto del suo carattere: preciso, sempre puntuale, non si lascia andare alle emozioni, dimostra sempre molta competenze e sicurezza. Sto parlando di Daniele Faresin, vicentino, classe 1979, già Direttore della BBQ4All University e attualmente Rettore della neonata GLC Academy: colui tra i Coach che ha all’attivo in assoluto più corsi tenuti in giro per l’Italia. Per molti di voi è una figura quasi mitologica e un po’ sfuggente (non ama i riflettori), per cui ho pensato che sarebbe stata un’ottima idea intervistarlo per farvelo conoscere meglio. D’altronde, è anche uno dei maggiori ideatori ed esecutori del grandioso e innovativo progetto Grill & Smoke To Perfection - Masterclass , che vi ho presentato nelle pagine precedenti. Dopo qualche insistenza, sono riuscita a farlo stare seduto per almeno mezz’ora durante le riprese dei video corsi e l’ho costretto a rispondere a qualche domanda. Ecco cosa ne è uscito.

Come hai iniziato il tuo percorso e cosa ti ha spinto a interessarti all’argomento?

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Passione. Spesso le passioni ti prendono dopo un'esperienza entusiasmante, in modo chiaro, dove ti dici fin dai primi momenti che quelle sensazioni devono far parte della tua vita in maniera costante. Altre volte invece dopo delle esperienze, più o meno intense, vissute anche con un leggero distacco e senza essere "folgorati" ti entrano dentro come un tarlo, piccolo ma che lavora piano piano cercando e costruendo una sua locazione. Nella tua testa e nel tuo cuore. Passa del tempo. A volte trascorrono anni, ma poi quel qualcosa, difficile da spiegare, che ti ha colpito che ti ha emozionato inconsciamente rispunta fuori facendoti sentire l'esigenza di riprendere un discorso lasciato in sospeso, una passione che era rimasta sopita e che si riaccende d’improvviso. In questo caso diventa una smania, che non ti fa dormire la notte,


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che ti fa pensare e sognare a come sviluppare, progredire, migliorare. Nel mio caso, quando da ragazzino vedevo mio padre armeggiare con le "griglie-sgabello"con un suo stile, basato solo su alcuni consigli appresi qua e là, riuscendo comunque ad ottenere risultati soddisfacenti, io ero contento e mi piaceva l'esperienza del "combattere" col fuoco cercando di non bruciare quello che era sulla griglia. Ma, essendo esp erienze sporadiche relegate più che altro al periodo estivo, poi me ne dimenticavo. Molti anni dopo, quando ormai ero adulto e avevo la mia famiglia, ho iniziato a sentire il bisogno di riprendere un "discorso" mai chiuso, lasciato temporaneamente in un angolo. Volevo avere una mia griglia e rivivere quelle esperienze in prima persona. Ovviamente sono partito da zero con una "griglia-sgabello" che mio padre mi regalò dopo una conversazione nella quale esponevo il desiderio di grigliare come faceva lui.

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Un paio di cotture ed il fuoco invece di crescere sulla griglia iniziò a crescere dentro di me facendomi capire che non era abbastanza ciò che stavo portando avanti. La griglia che avevo era limitante e le informazioni che avevo erano scarse. Così iniziai a girare fra i negozi e dopo aver adocchiato i primi kettle (primi per me ovviamente) ne presi uno, perché mi sembravano degli strumenti più performanti. Stiamo parlando comunque di un periodo abbastanza acerbo per il grilling italiano, il 2008. Bene, con il nuovo grill iniziai a cimentarmi nei classici che conoscevo trovando dei miglioramenti nei risultati ma rimanendo sempre con quel senso di blocco. Capii il problema, il blocco era solo mio: necessitavo di maggiori informazioni e di basi sulla cottura e sulla cucina. Mi buttai su internet cercando varie informazioni capitando in qualche forum che trattava la cottura

alla brace. Uno di questi era proprio BBQ4All con i suoi condottieri, in primis Gianfranco Lo Cascio.

E cosa successe? Iniziai a leggere, a studiare, a provare e riprovare, a chiedere e a condividere. Avevo trovato la via per sviluppare quella passione che in quel momento mi aveva letteralmente folgorato. Loro erano il gruppo giusto. Lui era il Bianconiglio da seguire. Capii subito il potenziale e notai il modo libero, aperto, di condividere le informazioni. Qualità che apprezzai molto e che raccolsi. E che porto con me ancora oggi. Mi feci coinvolgere a tal punto che mi misi a sperimentare di tutto e a condividere nel forum dell’epoca fino a quando loro non fecero il passo successivo, quello di comunicare con il mondo in maniera più diretta, di persona, organizzando eventi, partecipando a manifestazioni e creando il primo corso teorico-pratico serio sull'argomento. Non ci pensai 2 volte e appena venne pubblicizzato il corso mi iscrissi, sparandomi 700 km a sessione fino a Torino per poterli incontrare e apprendere tutto quel che si poteva. Grande esperienza il corso che mi fece capire cosa


E poi? Da lì in avanti seguii con grande attenzione tutte le nuove attività del gruppo, iniziai a leggere e mettere in pratica tutte le nuove informazioni che Gianfranco e i suoi primi seguaci condividevano, e a provare le ricette pubblicate nel sito. Grazie a questo ero riuscito ad evolvere in un approccio più maturo, con quegli elementi fondamentali dominanti nella cottura alla griglia, anche se li compresi realmente molto dopo. Ovviamente questo rapporto era maturo solo se confrontato con il mio passato, perché più avanti si va e più la strada si restringe, e solo lì si capisce quanto c'è ancora da imparare e da condividere con chi viene dopo di noi, con chi si affaccia a questa passione e vuole imparare Inaspettato ed entusiasmante fu il momento in cui venni chiamato a partecipare attivamente alle attività di show-cooking e di insegnamento di BBQ4All. Era una grandissima opportunità di condividere e trasmettere ad altri quello che io stesso avevo imparato. Quando si entra attivamente in BBQ4All, quando si

conoscono le persone che lo compongono si capisce la grandezza di questo gruppo, per le competenze impareggiabili, l'altruismo, per il senso di fratellanza, per il rispetto. Entrare nel gruppo significa prendere parte ad un progetto, un viaggio verso una consapevolezza inaspettata, significa essere convinti della scelta fatta e di non voler più accettare compromessi o farsi trascinare dove spinge in quel momento la marea. Di strada ce ne sarà da fare ancora parecchia, ma la passione aumenta costantemente.

Quando c’è stata la svolta, ovvero da coach a Direttore della University? Come già detto, non mi sono fatto ripetere due volte la domanda di voler partecipare alle attività. Ero smanioso di mettermi in gioco, ho partecipato alla prima importante formazione per coach e sono stato uno dei primissimi coach lanciati sul territorio nazionale a coprire le richieste di appuntamenti sempre più capillari. Sono sempre stato un po’ meticoloso e con una predisposizione all’organizzazione e mi sono trovato subito a mio agio nel gestire in prima persona il territorio che avevo in supervisione in quel momento, tanto che da lì a un paio d’anni mi sono sentito proporre di coordinare il comparto corsi sull’intero territorio nazionale. Quanto ci avrò pensato, secondo voi? Zero secondi. Netti. Era una sfida entusiasmante che non mi sono lasciato sfuggire. Coordinamento, supervisione, formazione di nuovi coach e affiancamenti sono stati il pane quotidiano degli ultimi anni, un periodo veramente sfidante ed emozionante.

Quanti corsi hai all’attivo? Tra il 2013 e il 2019, prima del blocco dovuto alle restrizioni a causa della pandemia da Covid-19, ho avuto la fortuna di presenziare a oltre un centinaio

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significasse il nome che veniva portato avanti con orgoglio, BBQ4All.


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di corsi, tra quelli tenuti da me e quelli in cui ho affiancato i nuovi coach in erba. Calcolando che, tranne poche eccezioni, i corsi sono sempre stati svolti nel weekend (in giorni singoli o doppi) mi è capitato di girare anche per oltre 20 weekend l’anno, da Torino a Udine, da Parma a Lecce. Incontrare persone in tutto il Paese è stata un’esperienza veramente importante e che mi dà entusiasmo ancora oggi. Ti ho sentito affermare più volte che il corsista di oggi è più avanti dei coach degli albori: vuol dire che negli anni anche il grigliatore della domenica si è evoluto. Secondo te grazie a chi e a che cosa? Si, è esatto, ma bisogna fare una precisazione sull’affermazione. Lungo gli anni Gianfranco e tutto il team media e marketing di BBQ4All hanno lavorato molto per coinvolgere i potenziali interessati, facendo capire loro l’importanza della formazione personale anche nel contesto del grilling casalingo. Sono stati creati percorsi super basici, non tanto per gli argomenti ma per il modo di comunicare le informazioni, così

da permettere a più persone possibili di entrare in modo graduale in questo mondo. Centinaia di migliaia di persone di tutta Italia sono passate nei nostri canali multimediali in una decade e moltissimi di questi, decine di migliaia, hanno intrapreso la formazione strutturata ai corsi della BBQ4All University. Questo cosa significa? Che agli albori, ai corsi, capitavano persone con competenze sicuramente scarse o basiche, mentre adesso un coach trova degli appassionati già con molte informazioni pre-acquisite, che hanno anche iniziato ad approfondire personalmente gli argomenti e che vogliono migliorarsi significativamente. Il coach di oggi, quindi, deve essere un professionista preparatissimo e altamente competente, non solo nella materia grilling e barbecue ma ad un livello molto più profondo, ambito che a Gianfranco è sempre stato molto a cuore. Da qui, il nostro celebre stile di approcciare ogni argomento con un piglio scientifico. Parlaci di questo progetto grandioso: la Masterclass. I corsi BBQ4All University negli anni si sono diffusi molto, hanno raggiunto gli appassionati in gran parte del territorio nazionale. Questa attività ha avuto riscontri ottimi ad ogni appuntamento ma, com’è ovvio, per problemi logistici, temporali o impossibilità a conciliare date, moltissime persone interessate non sono riuscite a partecipare a un corso dal vivo. Questo è sempre stato un fattore che conoscevamo e l’idea di arrivare a tutti, in modo che tutti potessero beneficiare della nostra didattica e della tecnica, è un obiettivo che ci siamo prefissati un po’ di tempo fa: volevamo creare un percorso, sviluppato a moduli strutturati verso l’alto, dalle fondamenta fino ad acquisire tutte le tecniche possibili, che potesse essere fruito in maniera fluida e secondo la disponibilità


di tempo che ciascun aspirante griller avesse a disposizione. Ed ecco nata, appunto, la Grill & Smoke To Perfection - Masterclass. Si sa, da sempre teniamo molto a realizzare i progetti che ci prefissiamo. Lo facciamo in modo maniacale, senza compromessi e senza accontentarci di velocizzare una produzione a discapito della qualità. Stesura del format, costruzione della location, ingaggio dello staff e della video company, coinvolgimento di partner di altissimo livello: sono tutti elementi del progetto che possono essere gestiti in modo superfluo con un risultato mediocre o analizzati e sviluppati con la massima cura per un risultato eccezionale. Alla dine sono i dettagli a fare la differenza. Non ci siamo accontentati, ci siamo tirati su le maniche, abbiamo fatto tutto il necessario per creare un percorso di altissimo livello che avrà, oltretutto, uno sviluppo molto interessante nel tempo e che veramente nessuno si vorrà lasciar sfuggire.

della pausa forzata, la didattica della BBQ4All University aveva iniziato un’evoluzione lasciandosi alle spalle il concetto di corso per sviluppare quello di percorso, dove un partecipante aveva la possibilità di immergersi completamente nei concetti, nelle tecniche e nell’esperienza gastronomica insieme al coach. Questo è stato il definitivo giro di boa: adesso tutti potranno vivere un’esperienza a 360° in modo sempre più profondo e performante. Strutturato in livelli adatti alle capacità e conoscenze di ciascun partecipante, il lungo percorso didattico darà la possibilità a chiunque di acquisire tutte le informazioni utili sul mondo della griglia, in modo che l’esperienza sia - davvero - “form Zero to Hero”.

Qual è il primo passo che un appassionato deve fare, dunque?

Ci saranno ancora i corsi in presenza?

Si parte proprio dal percorso Essential: una serie di video introduttivi e gratuiti che consente a tutti di mettere in ordine le prime idee sparse e a fare posto a una consapevolezza chiara di quello che è il grande mondo della cottura alla griglia. Tutti hanno le potenzialità per partecipare ad un corso Essential.

Tralasciando questo periodo che ci ha impedito di organizzare attività dal vivo, le esperienze di

Avete sentito il Direttore? Iscrivetevi tutti, la pillola rossa è là che vi aspetta.

Come si evolverà la didattica in futuro? Già nell’ultimo anno, prima

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confronto tra corsisti appassionati e i coach saranno sicuramente importanti, come lo sono sempre state. Con l’introduzione del nuovo percorso Masterclass ci sarà un’evoluzione anche in ambito di corsi ed experience dal vivo, che definiranno una nuova “stagione” per la BBQ4All University. Oltretutto, come già anticipato da Gianfranco Lo Cascio con una serie di post sulla Community Facebook, la nuova sede della GLC Academy sarà una location particolarmente attrattiva per lo sviluppo di questi nuovi format.


Ricetta a cura di Michela Bongiorni

LA MITICA

JAMBALAYA un mix esplosivo di culture e tradizioni La mia ricetta nel cassetto si chiama Jambalaya ed ormai la preparo ad ogni ricorrenza utile. Sono ormai passati diversi anni da quando ne sentivo parlare distrattamente; poi me ne sono interessata ed ho perfezionato una mia "ricetta". Ricapitolando: da queste parti, quando si parla di Jambalaya, propongo la MIA Jambalaya. Ho messo la definizione ricetta tra virgolette, poco più su, perché questo piatto tipico della cucina creola fa parte di quelle preparazioni per le quali è molto difficile (se non impossibile) parlare di un procedimento standard e codificato.

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La Jambalaya è un un mix di colori e di sapori, un piacere per gli occhi e una goduria per il palato. Si tratta di un piatto composto da riso, verdure, carne e pesce che molto spesso viene confuso con la Paella, dalla quale di fatto nasce. Non è un caso se, per far comprendere ai miei commensali di cosa si tratti, di fronte ai loro sguardi un po’ smarriti quando dico loro “ho preprarato la Jambalaya!”, la mia spiegazione breve sia appunto: “è una specie di paella, ma più saporita!” La preparazione americana nasce proprio da quella spagnola e i due piatti alla vista risultano molto, molto simili tra loro. In realtà il piatto creolo è molto diverso da quello spagnolo e io oggi sono qui proprio per raccontarvelo. La Jambalaya nacque in Louisiana, nella città di New Orleans, dopo la metà del XVIII secolo, durante il dominio spagnolo. È il caso di fermarci un attimo per fare una fotografia della situazione storica di quel tempo: gli Stati Uniti, prima dell’indipendenza ottenuta nel 1789, hanno avuto quasi trecento anni di storia in cui sono stati sul serio una terra selvaggia e poco esplorata, nonostante la presenza degli europei. In questi secoli, gran parte di quei territori erano dominati dagli spagnoli, soprattutto il sud e l’ovest, e dai francesi (l’attuale Canada e buona parte delle Grandi Praterie); si trattava generalmente di colonie povere, in cui la popolazione viveva di caccia, agricoltura e commercio di pelli e canna da zucchero. Soprattutto nelle zone più a sud, erano ancora numerosi gli “indiani”, ma erano numerosissimi

anche gli schiavi deportati dall’Africa. Insomma, il miscuglio di popoli e di stnie, in quelle zone, era davveero importante. Proprio da qui nasce la definizione di creoli: una popolazione nuova che aveva assorbito l’identità e le caratteristiche di tutte queste culture senza, in realtà, rappresentarne nessuna in particolare. Quelli erano anni di guerre continue che avevano lo scopo di conquistare la supremazia su quei terrotori: la Guerra dei Sette Anni (1756 – 1763), tra Francia e Gran Bretagna, combattuta anche nei possedimenti coloniali, fu una di quelle più determinanti. La vittoria britannica fu netta e rappresentò l’inizio del loro dominio sul continente; al contrario, l’esperienza francese nel Nuovo Mondo si chiuse definitivamente qui, dato che i territori rimasti furono via via ceduti o persi nei decenni successivi. In Acadia, una regione sull’Oceano Atlantico ed attualmente territorio canadese, vivevano dei discendenti dei coloni francesi che si opposero fino all’ultimo ai nuovi dominatori inglesi, anche dopo la conclusione della guerra; per punizione, furono espulsi dalla loro terra ed obbligati ad una migrazione forzata di migliaia di chilometri fino a quella che sarebbe dovuta diventare la loro nuova casa, ovvero l’attuale Louisiana, ed in particolare le zone paludose intorno a New Orleans: città che nel frattempo era passata sotto il dominio spagnolo . Erano loro i cajun (pronuncia keigiàn) che, insieme ai creoli, gettarono le basi di una delle culture gastronomiche più spettacolari esistenti al mondo, di cui vi ho già parlato in passato. Dicevamo, dunque: la Louisiana in quel momento storico era una zona complessa, caldissima, paludosa, selvaggia, abitata da genti diverse ed era dominata dagli spagnoli. Come è sempre accaduto, i nuovi conquistatori sia per affermare la propria forza, sia per placare un po’ la nostalgia delle terre natìe, imposero la propria cultura sul nuovo territorio. Tuttavia incontrarono notevoli difficoltà in ambito culinario nel riproporre i sapori tipici delle proprie ricette: molti degli ingredienti erano irreperibili. Nel caso specifico della paella, non


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furono certo il riso e le verdure ad essere un problema, ma certamente fu determinante la mancanza dello zafferano: provenendo dall’Oriente, era in quella zona rarissimo a causa degli esorbitanti costi di importazione. Fu dunque sostituito con il pomodoro, pianta autoctona, facile da trovare ed economica, in grado di dare un po’ di colore e di gusto deciso al piatto. Successe la stessa cosa anche per i gamberi, di cui quel mare è pieno ancora adesso, che resero di fatto superflui gli altri frutti di mare. Ovviamente, gli abitanti autoctoni scoprirono questo piatto economico e gustoso e lo arricchirono con gli ingredienti a cui erano abituati: carne di alligatore, di tacchino, di scoiattolo. Per quanto riguarda le spezie, cominciarono ad usare quelle coltivate nel Mar dei Caraibi, quindi peperoncino di Cayenna, zenzero e pepe bianco. Nel 1800, con l’arrivo dei cajun, fu introdotta nella preparazione la salsiccia affumicata, ingrediente che loro consumavano in grandi quantità. Per non parlare dell’importante influenza degli schiavi africani che misero a disposizione la loro conoscenza sulla coltivazione del riso. Nacque così la Jambalaya: un piatto sorprendente, di cui, come dicevo all’inizio, non può esistere una preparazione originale o tradizionale, essendo nato da tutti i popoli che convivevano in quella zona e che hanno apportato ognuno una modifica, adattandolo ai propri gusti e alle proprie tradizioni. Per esempio,

i francesi a differenza dei creoli non amavano il pomodoro e abbondavano con le cipolle. Ognuno ha la sua ricetta, dunque. Come anticipato all'inizio di questo pezzo, qui vi propongo la mia versione di Jambalaya. Partiamo dagli ingredienti: non ci sono veti sui tipi di carne e di pesce che possono essere presenti nella Jambalaya (tacchino, alligatore, anatra, ostriche, gamberi, aragosta...) anche se i più usati rimangono il pollo, la salsiccia di maiale affumicata e i gamberi. È imperativo che sia presente la Holy Trinity (la Santa Trinità), ovvero un soffritto realizzato con cipolla, sedano e peperoni verdi. Esistono fondamentalmente due metodi per preparare la Jambalaya, al netto della varietà infinita degli ingredienti utilizzati: il metodo creolo (Jambalaya rossa, con più pomodoro) e quello cajun (Jambalaya bruna, quella con più cipolle e pochissimo pomodoro di cui vi ho parlato prima). Per il resto, potete sbizzarrirvi con gli altri ingredienti secondo il vostro gusto. Personalmente, preferisco di più la versione creola, quindi con abbondante pomodoro. Sul grado di piccantezza lascio piena libertà, dipende tutto dai gusti personali. Se vi piace tanto mangiare piccante e volete provare qualcosa di veramente esplosivo, aggiungete al tutto un po’ di ‘nduja: mi ringrazierete.


PREPARAZIONE 1.

Tagliate il pollo a pezzi piccoli o a striscioline e conditelo con olio, il succo di mezzo lime, una puntina di curry, una puntina di paprika dolce e un cucchiaino di Smoky Chipotle Chili. Tenete in frigo a marinare per qualche ora.

2.

Pulite e sgusciate i gamberi, ma lasciatene alcuni col guscio.

3.

Affetate le zucchine, tagliate il peperone rosso a listarelle.

4.

Fate un soffritto tritando finemente il sedano, la cipolla e il peperone verde.

INGREDIENTI

5.

Tagliate il salame piccante in cubetti

500 g di riso

6.

Predisponete il dispositivo per una cottura diretta; adagiate il wok al centro della griglia con in carobe sotto e fatelo scaldare bene.

7.

Versate abbondante olio nel wok e poi mettete il soffritto: siate accorti a non farlo bruciare. Aggiungete la salsiccia sbriciolata e fate insaporire bene. Subito dopo aggiungete il pollo, facendolo rosolare. Infine aggiuntete il salame piccante a dadini.

8.

È il momento del riso: aggiungetelo agli altri ingredienti, fatelo tostare e poi bagnatelo con il brodo caldo. Aggiustate di sale e di pepe.

9.

Aggiungete a questo punto le verdure e il concentrato di pomodo. I gamberi saranno messi per ultimi.

120 g di petto di pollo 20 gamberi rossi di Mazara del Vallo Mazhara 100 g di smoked pepperoni salami del BBQ4All Megastore 2 salsicce un cipolla bianca un peperone verde una costa di sedano due zucchine un peperone rosso un cucchiaio di concentrato di pomodoro olio extravergine di oliva q.b. sale e pepe q.b. una confezione di Sal’s seasoning Smoky Chipotle Chili un cucchiaino di curry un cucchiaino di paprika dolce due lime due litri di brodo vegetale o di pollo

10. Sempre aggiustando di sale, continuate a bagnare il riso finché non sarà circa a più di metà cottura: a quel punto aggiungete i gamberi, aggiugerete l’ultima mescolata di brodo e poi smetterete di bagnarlo. Questo passaggio è fondamentale perché il riso si attacchi un po’ al wok e crei quella crostina saporita che prende il nome di soccarrat. Non ci sono modi e tempi precisi: dovete accorgervene dall’odore; certamente l’esperienza verrà in vostro aiuto quindi è possibile che inizialmente troviate difficoltà a creare il soccarrat, ma che riusciate a perfezionarlo nel tempo. Certamente dovete stare molto attenti a non far bruciare tutto, quindi non esagerate con le braci accese. Per mia esperienza, mezza ciminiera di braci è sufficiente. 11. Una volta che il riso sarà cotto, aggiungete a vostro gusto olio extravergine di oliva, lime e volendo un cucchiaino di Smoke Chipotle chili: staccate il riso dal wok e includete la crosticina nella Jambalaya, mescolando il tutto. Grigliate i gamberi rimasti interi e servite.

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4 persone


QUESTI

SPAGHETTONI SONO UNA VERA DROGA! Con 'nduja di Spilinga, ricotta

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salata e pomodorini drogarossa


Originariamente la 'nduja era un alimento povero: era preparato usando le parti meno nobili del maiale come interiora, trippa e polmoni. Al giorno d'oggi, invece, vengono destinate alla produzione della 'nduja le parti migliori della bestia, impastate con sale e peperoncino. Il tutto viene poi insaccato in budello naturale. Il salume morbido che ne deriva viene poi leggermente affumicato prima di essere stagionato per alcuni mesi. È fondamentale che anche la qualità del peperoncino sia elevata, oltre ovviamente a quella della carne utilizzata. Non di rado può accadere che il peperoncino, tra l'altro di dubbia qualità, venga usato per mascherare il sapore di cibi abbastanza scarsi. Nella 'nduja non solo viene usato peperoncino di qualità, ma viene usato anche in quantità. Una bocca non abituata a gusti tanto piccanti potrebbe avere un approccio difficile a questo ingrediente. Ma noi stiamo parlando di cibi piccantissimi in questo speciale estivo del Magazine, quindi vi tocca abituarvi a questo fuoco. In ogni caso, può aiutare preparare la 'nduja scaldandola un po' in un pentolino e mischiandola alla ricotta, che ammorbidirà il piccante della 'nduja. Oppure si può usare per condire la pizza, oppure per un sugo con cui servire la pasta. Ed è esattamente quello che abbiamo fatto oggi con questi spaghettoni. Squisitamente piccanti, avvolgenti e irresistibili, gli spaghettoni con sugo di 'nduja e pomodorini drogarossa (non hanno bisogno di presentazione, vero? Li conoscete tutti i nostri ormai famigerati pomodorini arrostiti... e se non li conoscete, beh, cercate di rimediare il prima possibile!) diventeranno un must soprattutto in estate, quando i pomodori danno il meglio di sé! Certo... forse non aiutano a stare freschi, ma fidatevi: varrà la pena soffrire un po’ il caldo. Se poi ci aggiungete una nevicata di ricotta salata farete sicuramente centro. Il contrasto agrodolce dei pomodorini si sposa alla perfezione con il gusto intenso e piccante della 'nduja: il tutto viene armonizzato dalla nota lattica e affumicata della ricotta salata stagionata. L’unico consiglio che possiamo darvi e di considerare il bis perché il risultato finale è veramente strepitoso!

Ingredienti per 4 persone: 400 g di

spaghettoni / 80 g 'nduja di Spilinga / 250 g di pomodorini drogarossa e il loro succo / 50 g di cipolla di Tropea / sale q.b / olio extravergine d’oliva q.b / basilico fresco / 100 g di ricotta salata affumicata

PREPARAZIONE 1.

In un saltapasta capiente scaldate quattro cucchiai di olio d’oliva extravergine, aggiungete la cipolla tritata molto finemente e lasciate appassire per circa 3/4 minuti a fuoco molto dolce.

2.

Nel frattempo stemperate la 'nduja in una ciotolina lavorandola con una forchetta.

3.

Aggiungete in padella i pomodorini droga rossa interi o leggermente schiacciati insieme al loro condimento. Se preferite una versione meno rustica, potete passare i pomodorini in un passaverdure e ottenere una buonissima passata affumicata di droga rossa, eliminando così i semi e le bucce.

4.

Dopo 2/3 minuti aggiungete la Nduja e spegnete il fuoco, utilizzando il calore residuo della padella fate in modo che si sciolga per benino rimestando con un mestolo di tanto in tanto.

5.

Scolate gli spaghettoni al dente E lasciateli insaporire nella padella con il sugo alla Nduja per qualche minuto inserendo alla fine abbondante basilico.

6.

Completate il piatto con una pioggia di ricotta salata affumicata.

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Tutta la conoscono, tutti la amano. Parliamo della ‘nduja, il più famoso prodotto alimentare calabrese che negli ultimi anni ha conosciuto e vero e proprio boom. È tipica del Monte Poro: Spilinga (in provincia di Vibo Valentia) è il comune d'elezione, ma l'area di produzione è estesa a molti comuni del vibonese. Anche se in molti dicono che vera nduja è solo quella di Spilinga (da anni è in corso una lotta per la difesa della ‘nduja di Spilinga e per il riconoscimento IGP). Il nome deriva dal francese andouille, che vuol dire salsiccia, anche se in nostro piccantissimo nettare degli dei non ha nulla a che vedere con quest’ultima.


PICCANTE SÌ, PICCANTE NO… DECIDILO TU!

TOM KHA GAI tradotto per voi: zuppa di pollo e latte di cocco Lo sappiamo: questo numero del Magazine è dedicato al piccante. Chi mal sopporta questa caratteristica, oppure per un motivo qualunque non può mangiarne, potrebbe trovare difficoltà con le ricette proposte. Per questo motivo abbiamo deciso di inserire un piatto thailandese molto famoso che però, a differenza di altre preparazioni thai, non è piccante. Stiamo parlando della famosa Tom Kha Gai, una zuppa di pollo fatta con una base di latte di cocco e una decisa nota agrumata. Uno degli ingredienti principali di questa zuppa è il galanga, ovvero lo zenzero thailandese, che a dire la verità una leggerissima nota piccante (ricorda il rafano) la dà. Ma è talmente leggera che è praticamente impercettibile. Originario del Sud-Est asiatico, il galanga è una officinale erbacea tropicale che appartiene alla famiglia delle Zingiberaceae. Nella cucina tailandese ed indonesiana è utilizzata come spezia per dare sapore a piatti di pesce, zuppe, salse, pollo, carne rossa e verdure: insomma, per loro è un po’ come il nostro prezzemolo. Gli altri ingredienti fondamentali per questa zuppa sono: le foglie di kaffir, (un albero che produce una specie di piccolo lime chiamato combava) che hanno un aroma di limone e clorofilla molto intenso e pungente; il lemongrass, chiamata da noi citronella, dal sapore agrumato intenso e un po’ pungente; la salsa di pesce, che si ottiene da un lungo processo di fermentazione del pesce e si pone come ingrediente base di numerose ricette orientali.

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Ovviamente, può non essere facile reperire tutti questi ingredienti in Italia, specie se non abitate in zone in cui siano presenti negozi etnici o reparti dedicati nei supermecati. Quindi, potete sostituire questi ingredienti con altri più “di casa nostra”: il galanga con lo zenzero “nostrano”, le foglie di kaffir con la scorza del lime, la salsa di pesce con la salsa di soia (dai, ce l’avete tutti un all you can eat vicino casa, no?). Sul discorso piccantezza, come abbiamo specificato questa zuppa ha più che altro un sapore vellutato e abbastanza salato, molto agrumato. Ma nulla vieta che possiate aggiungere al tutto un po’ di peperoncino, per rendere questa zuppa più simile alla Tom Yam Kung, una preparazione molto simile negli ingredienti, ma fatta coi gamberi e i frutti di mare, e fortemente piccante. Non abbiamo la pretesa di presentarvi la ricetta “originale”: sappiamo bene che ci saranno alcuni tra di voi che sono stati in Thailandia e hanno mangiato questa zuppa cucinata direttamente da una signora di 120 anni che ha passato la vita a prepararla. No, questa non avrà lo stesso sapore. Probabilmente anche il pulled pork che preparate il sabato con gli amici non ha esattamente lo stesso sapore di quello mangiato in Carolina, perché magari per prepararlo usate dei rub diversi da quelli usati nel sud degli Stati Uniti, delle injection calibrate sul vostro palato e così via... eppure vi piace, vero? Ecco, vi piacerà anche questa zuppa. Garantito.

INGREDIENTI 4 persone

500 g di petto di pollo 250 ml di latte di cocco 2 cucchiai di salsa di pesce (o salsa di soia) mezzo litro di brodo di pollo o brodo vegetale 2 cucchiai di olio di sesamo 2 cucchiaini di zucchero 6 fettine di galanga (o di zenzero) due gambi di lemongrass (oppure la scorza di un limone biologico) 4 foglie di kaffir lime (oppure la scorza di un lime) peperoncino a piacere (facoltativo) sale e pepe q.b


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PREPARAZIONE 1.

Tagliate il petto di pollo a pezzetti e marinatelo nella salsa di pesce (o in quella di soia) per circa un’ora tenendolo in frigo

2.

In una pentola capiente mettete l'olio di sesamo e rosolate leggermente le foglie di kaffir (o la scorza del lime), i gambi di lemongrass (o il limone), il peperoncino (se volete) e il pollo scolato dalla marinatura. Salate leggermente e lasciate andare.

3.

In una pentola a parte, scaldate il brodo, aggiungete il latte di cocco, il galanga (o lo zenzero) e portate a ebollizione.

4.

Versate il bro do così ottenuto nella pentola col pollo, lasciate che riprenda a bollire, aggiustate di sale, coprite e lasciate andare a fuoco medio finché il pollo non sarà pronto (occhio a non farlo cuocere troppo, perché si indurisce).

5.

Una volta pronta, lasciate che zuppa riposi per qualche minuto e prima di servirla aggiungete a piacere un po’ di soia o di salsa di pesce, il succo e la scorza del lime e, se vi piace, qualche germoglio di soia.


CHILI CON CARNE Lo stufato tex-mex amato in tutto il mondo!

Odore di saloon, di speroni sulla terra arsa, di sguardi sprezzanti e di duelli: entrate nel vostro saloon preferito (almeno, quello dei vostri film preferiti!), andate al banco ed ordinate il vostro piatto di chili con carne, guardandovi intorno con circospezione. Il chili con carne è un piatto fusion ante litteram: sebbene il solo nominarlo ci porti istintivamente a pensare a scene desertiche del genere, soprattutto ambientate nel Texas, questo piatto nasce in Messico. Sì, sì: pensate pure a mariachi, maracas e sombrero. Il chili è l’autentico piatto tex-mex, impossibile definirlo in una cornice unica, visto che viaggia da secoli su e giù tra gli States ed il Centro America, declinandosi in più versioni ma mantenendo sempre la robustezza dei sapori e… il piccante, ovvio. Il chili, come dicevamo, può declinarsi in decine di varianti. Nel pentolone fumante, si incontrano diversi tipi di peperoncino, di carne, di spezie, di fagioli ed anche noodles in alcune versioni più fusion e contemporanee.

Da questi contatti, portò la prima ricetta del chili con carne. La datazione di tutto ciò è circa il 1600. Gli ingredienti previsti erano peperoncini freschi, carne di cervo, pomodori e cipolle. Poi furono aggiunti anche peperoni ed altri ortaggi locali. Una leggenda più verosimile può essere quella attribuita ai conquistadores: tra il XV e il XVII secolo, durante le loro sortite guerrigliere, essi notarono che gli indigeni preparavano questi giganteschi pentoloni bollenti pieni di uno stufato con pomodori, peperoncini e cipolla. Con il passare dei secoli, i coloni portarono la loro impronta al piatto, aggiungendo carne di vario tipo ed aromi. Una figura emblematica del chili con carne è la reina de chili, la venditrice ambulante di chili: dobbiamo a queste figure il perfezionamento e la diffusione ulteriore della ricetta. Nei calderoni, la carne cuoceva lentamente per ore, amalgamandosi agli altri ingredienti e letteralmente sciogliendosi. I soldati e gli avventori dei mercati ne compravano in grande quantità.

Questo piatto ha una storia davvero molto densa e variamente raccontata. Percorriamo insieme i vari passaggi. Mille storie per un piatto leggendario... La storiella più popolare prevede la presenza di una figura mitologica, un indigeno, che ad un certo punto avrebbe messo tutto insieme in un calderone, inventando di fatto il chili. Esistono numerose varianti, addirittura con figure ben identificate. Tra queste, una storia vede come protagonista una religiosa e mistica spagnola - Maria de Agreda – che ebbe contatti (di tipo sovrannaturale, dice la leggenda) con i nativi americani. Era chiamata dagli spagnoli “La Dama de Azul”, la signora vestita di azzurro.

I monaci spagnoli avevano un rapporto ambivalente con il chili. Per alcuni, la presenza del peperoncino la rendeva una pietanza afrodisiaca; per altri, era considerato il “piatto del diavolo”, a causa della piccantezza e del colore. Secondo noi, lo mangiavano volentieri. Eccome, se erano ghiotti di chili! Una versione moderna del chili, intesa come zuppa piccante, è apparsa in Texas; di questo, ne abbiamo documentazioni abbondanti grazie a Everett de Golyer, un ricco imprenditore di peperoncini. Dai suoi studi, emerge che i primi inventori di un mix di peperoncini per il chili furono i viaggiatori della corsa all’oro e i cowboy texani. Questi avevano bisogno di cibo nutriente e sostanzioso durante le loro

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Verso il 1860, anche i prigionieri delle carceri del Texas iniziarono a rivendicare il loro ruolo nella creazione del chili. Pare che il rancio consistesse appunto in una zuppa di pane, acqua, pochi ortaggi ed insaporita con abbondante peperoncino; tanto che le carceri iniziarono ad essere valutate dai detenuti proprio in base alla qualità del peperoncino proposto durante i pasti. Tanto che i detenuti delle carceri, dopo essere stati rilasciati, raccontavano che spesso ciò che a loro mancava era una ciotola di buon chili, ben piccante. Il peperoncino utilizzato per questi primi chili probabilmente era quello chiamato chilipiquo, che cresceva spontaneamente in Texas.

Ingredienti per 4 persone: 800 g di Stew AUS CRIMSON CREST 5+ Wagyu F1 Crossbred / 400 g di fagioli neri o rossi già lessati / un confezione di rub Sal’S Seasoning Tennessee / un cucchiaino di curry / una costola di sedano / un peperone verde / un peperoncino rosso / un peperoncino verde / due peperoncini jalapeno / 200 g di polpa di pomodoro / un cucchiaio di concentrato di pomodoro / sale e pepe q.b. / olio extravergine di oliva q.b. / riso bollito a piacere (facoltativo) / un avocado (facoltativo).

PREPARAZIONE 1.

Insaporite la carne con il rub Tennessee a cui avrete aggiunto il curry. Lasciatela da parte per qualche minuto e intanto tritate finemente la cipolla, il peperone verde e il sedano.

2.

In un tegame (volendo potete usare la cocotte sul vostro dispositivo in cottura diretta), fate soffriggere la santa trinità (cipolla, sedano e peperone verde), insieme a un trito dei peperoncini (rosso, verde e jalapeño).

3.

Aggiungete a questo punto la carne e fatela insaporire. Aggiungete la passata di pomodoro e il concentrato di pomodoro, insieme a mezzo bicchiere di acqua calda. Aggiustate di sale e di pepe, poi coprite il tutto e lasciate cuocere a fuoco molto dolce per circa un’ora e mezzo.

4.

Facendo sempre attenzione che la carne non si asciughi troppo, mascolatela ogni tanto ed eventualmente aggiungete un poco di acqua o brodo caldo. Trascorsi i 90 minuti, aggiungete i fagioli, mascolate bene e lasciate cuocere per un’altra mezz’ora o comunque fincé la carne non comincerà a sfaldarsi.

5.

Una volta pronto il chili, servitelo come più vi aggrada: farcite le tortilla, servitelo con i nachos oppure con riso bianco, avocado, pomodorini e succo di lime. Eliminate le punte delle baguette e tagliatele in tranci comodi da mangiare. Tostateli leggermente in padella con un filo d’olio extravergine d’oliva e disponete a strati nel panino una dose generosa di salsa al cheddar, uno strato di cipolle, un doppio strato di carne affettata molto sottile e un tocco di basilico fresco tritato per dare aromaticità. In ultimo, spruzzate con succo di limone.

...ma anche mille versioni! Impossibile stabilire quale sia la versione ufficiale del chili con carne. La bellezza e la leggenda di questo piatto, dopotutto, sta anche nella sua versatilità estrema. Molti chef creano la propria versione di questa gustosa preparazione, personalizzandola fino all’estremo e rendendola riconoscibile. L’obiettivo? Creare il chili con il sapore più intenso, che domande. I chili più comuni sono quelli che utilizzano differenti tagli di carne (pollo, tacchino, manzo, bufalo e cervo quelli preferiti), ma anche chili vegetariani (dove la carne è sostituita da ulteriori ortaggi molto saporiti), e i chili aromatizzati con le spezie più varie. Solitamente si usa combinare diversi tipi di peperoncino per ottenere la speziatura, la piccantezza e la nota fruttata desiderata. Il chili con carne si mangia solitamente accompagnato dalle iconiche tortillas, i sottili dischi di “pane” di mais. Un altro abbinamento tipico è il chili con carne accompagnato da riso saltato alla messicana. Il servizio del chili con carne può essere sia nelle tortillas (farcendole, insomma), oppure in ciotoline con fettine di avocado, peperoncini jalapeno, panna acida e riso. Anhe noi abbiamo la nostra versione. Avevate dubbi?

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traversate. Quindi, i cuochi inventarono uno stufato con carne secca, pepe, sale, cipolla, peperoncino e li assemblarono in forma di blocchi. Per mangiarlo, bisognava reidratare.


Di pozioni d’amore e altri rimedi

FILETTI DI SALMONE CON ZENZERO,

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PEPERONCINO E LIMONE

Ingredienti per 4 persone: 4 filetti di

salmone da circa 150 g l’uno / un pezzetto di radice di zenzero o zenzero in polvere q.b. / due peperoncini rossi / il succo di un limone e la sua scorza / due cucchiani di Sal’s Seasoning Smoky Red / olio extravergine di oliva q.b.

Se esiste un ingrediente che negli ultimi anni ha preso sempre più piede nelle cucine degli italiani, questo è senza ombra di dubbio lo zenzero. Ve ne sarete accorti anche voi: fino a pochi anni fa si faceva molta fatica a trovarlo, mentre adesso e onnipresente praticamente in tutti i supermercati, piccoli o grandi, e declinato in varie versioni: fresco, in polvere, caramellato, marinato in stile giapponese.

per la salsa di peperoncini :100 g di peperoncini rossi freschi / uno spicchio d’aglio / mezzo cucchiaino di sale / 50 ml di olio extravergine di oliva

Di fatto, in molti hanno scoperto questa spezia grazie all’avvento (potremmo dire l’invasione) dei ristoranti pseudo-giapponesi che sono spuntati come funghi nelle nostre città. In realtà questa radice, utilizzata in cucina in qualità di spezia, ma anche in medicina per le sue proprietà antibiotiche e antinfiammatorie, vanta secoli di storia alle spalle. Tutti sanno che lo zenzero fa bene! Hai mal di gola? Prendi lo zenzero. Hai mal di stomaco? Prendi lo zenzero. Pare che Enrico VIII lo consigliasse addirittura come rimedio contro la peste. Originario dell’India e della Cina, sembra che a portarlo in Europa sia stato Alessandro Magno: si diffuse dalla Grecia all’Impero Romano e poi grazie agli arabi arrivò in Africa. Fu subito amato da tutti. Si dice che Pitagora lo consigliasse come antidoto per il morso dei serpenti, che gli arabi lo considerassero un afrodisiaco e che la Scuola Medica salernitana – fondata nell’Alto Medioevo , proprio a Salerno come ci indica il nome - lo suggerisse come elemento principale per le pozioni d’amore.

PREPARAZIONE 1. In una busta per il sottovuoto mettete i filetti di salmone, il peperoncino tritato, lo zenzero tritato o in polvere e la buccia grattugiata di un limone. Tenete il salmone così in marinata per tutta la notte in frigo. 2.

Indossando i guanti, lavate i peperoncini sotto acqua corrente, tamponateli, eliminate i piccioli, tagliateli pezzetti e frullateli nel mixer insieme all’aglio e al sale. Mettete il tutto in un colino e fategli perdere l’acqua di vegetazione aspettando circa 4 ore. Rimettete poi la polpa nel mixer con e frullatela con l’olio fino ad ottenere un composto omogeneo.

Non sappiamo se abbia mai funzionato per questo tipo di intrugli, ma sappiamo con certezza che vi innamorerete di questi filetti di salmone, marinati proprio con la spezia magica. Conoscete tutti il pesce dalla carni rosa e dal sapore burroso e delicato: immaginate di volergli dare un boost di sapore, ma che non sovrasti troppo il gusto dell’ingrediente principale. Lo zenzero è perfetto. E poi, sempre per dar retta alla leggenda che lo considera un cibo afrodisiaco, noi ci abbiamo aggiunto anche il peperoncino per renderlo... decisamente più porno! E dato che siamo dei viziosi, lo abbiamo servito con una salsa piccantissima. Poi però lo abbiamo presentato con un’insalata, per dare un po’ di sollievo alle vostre papille in fiamme. Fateci sapere che ne pensate… e anche se funziona come filtro d’amore.

3.

Preparate il vostro dispositivo per una cottura diretta e posizionate una piastra in ghisa in corrispondenza delle braci. Togliete il salmone dalla marinata, spennellatelo con l’olio e poi piastratelo sulla ghisa ben calda. Toglietelo quando avrà raggiunto il punto di cottura desiderato.

4.

Assemblate l’insalata e servite i filetti di salmone, conditi con olio extravergine di oliva, succo di limone e una generosa spolverata di Smoky Red, insieme alla salsa di peperoncini da aggiungere a piacere secondo il grado di piccantezza desiderato.

per l’insalata: 200 g di misticanza / pomodorini ciliegini a piacere / sale e olio q.b.


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CALAMARI RIPIENI CON SUGO PICCANTE AI POMODORI SECCHI E SCAMORZA

La ricetta dei calamari ripieni è un classico della cucina mediterranea e qui vi proponiamo una versione tanto semplice quanto appetitosa: vi serviranno solo un po’ di pane, parmigiano, acciughe e prezzemolo per realizzare un ripieno morbido e corposo, che rivelerà all’assaggio un’esplosione di sapori! Dovrete solo avere l’accortezza di non cuocerli troppo a lungo in padella, in modo da non rovinare la delicata consistenza di questi molluschi. Bastano veramente pochi minuti. La scamorza affumicata e i pomodori secchi daranno un twist di sapore molto interessante che andrà a bilanciare la delicatezza dei calamari. Ad accompagnare i nostri calamari in questo viaggio di golosità e unto un sughetto piccante a base di datterini e peperoncino. Fresco e gustoso. Da farci scarpetta, d'obbligo!

calamari grandi / 120 g di mollica di pane bianco / 30 g di Parmigiano Reggiano grattuggiato / 6 filetti di acciughe sott’olio / 2 spicchi d’aglio / 40 g di vino bianco secco / 1 uovo / 120 g di scamorza affumicata / 200 g di passata di pomodorini datterini / 70 g di pomodori secchi / olio extravergine d’oliva q.b / basilico fresco / prezzemolo fresco / origano secco / la scorza di un limone / 2 peperoncini piccanti

PREPARAZIONE 1.

Per la pulizia dei calamari sciacquateli sotto l’acqua corrente, staccate delicatamente la testa dal corpo con le mani e tenetela da parte. Estraete la penna di cartilagine trasparente che si trova all’interno della tasca del calamaro, poi sciacquatelo e rimuovete le interiora con le dita. Eliminate la pelle esterna incidendo un’estremità con un coltellino e tirando delicatamente. Riprendete la testa e separatela dai tentacoli incidendo poco sotto gli occhi,poi aprite i tentacoli e spingete verso l'alto la parte centrale per eliminare il rostro.

2.

Tritate al coltello i tentacoli e fateli saltare in padella con un filo di olio extravergine d’oliva, l’aglio tritato finemente e le acciughe per circa 2/3 minuti.

3.

Sfumate con metà del vino bianco e una volta evaporata la parte alcolica aggiungete la mollica di pane tagliata a cubetti e schiacciatela delicatamente in modo tale da farle assorbire tutto il condimento.

4.

Quando il liquido sarà stato assorbito, trasferite il composto in una ciotola e lasciatelo raffreddare, dopodiché unite il parmigiano grattugiato, il prezzemolo e il basilico tritati, l’uovo leggermente sbattuto, sale e pepe.

5.

Ricavate dalla scamorza dei cubetti da 1cm di lato ed aggiungeteli al ripieno insieme ai pomodori secchi tritati e la scorza di un limone.

6.

Impastate con le mani per compattare bene tutti gli ingredienti , poi trasferite il composto ottenuto in un sac-à-poche e tagliate la punta a uno spessore di circa 1 cm.

7.

Riempite i calamari con il composto, avendo cura di lasciare liberi un paio di cm dal bordo e chiudete l’apertura con uno stuzzicadenti.

8.

In una padella, scaldate un filo d’olio con uno spicchio d’aglio tritato, poi adagiate all’interno i calamari ripieni e cuocete per qualche istante a fiamma alta fino a rosolarli.

9.

Sfumate con il vino bianco, lasciate evaporare e prelevate momentaneamente i calamari scottati.

10. Nella stessa padella aggiungete la passata di datterini, l’origano e il basilico a piacere e i peperoncini tritati secondo il vostro gusto, cuocete il condimento piccante per circa 6-7 minuti. 11. Inserite nuovamente i calamari e cuocete a fiamma media per 5-6 minuti a seconda della grandezza; i vostri calamari ripieni sono pronti per essere serviti!

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Belli da vedere e buoni da mangiare, i calamari ripieni sono un secondo d’effetto per fare un’ottima figura anche con gli ospiti più esigenti. In qualsiasi modo li prepariate,fritti o alla griglia, i calamari infatti danno sempre grandi soddisfazioni! Sono immancabili nei menù dei ristoranti di pesce, da quelli più popolari a quelli più raffinati.

Ingredienti per 4 persone: 600 g di


Taco o Burrito?

DAMMI UN

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TAQUITO


Nello speciale “piccante” del Magazine non poteva certo mancare la cucina tex-mex, della quale vi abbiamo già dato un assaggio presentandovi il nostro chili con carne. Ma di cosa si tratta? Probabilmente sarete stati colpiti dalle foto, e avrete già capito, ma vi diamo lo stesso la spiegazione: sono piccole tortillas di mais , farcite con un ripieno sostanzioso (che può variare, dalla carne di manzo al pollo, dalle verdure al formaggio), per poi essere arrotolate e fritte. Anche se in molti lo confondono con le flautas messicane - vedremo dopo le differenze - i taquitos sono originari degli Stati Uniti. Nello specifico la loro nascita è attribuita da molti a un proprietario di una fabbrica di tortillas nella zona di San Diego, di nome Ralph Pesqueria Jr. che li avrebbe inventati negli anni ‘40 del ‘900. In realtà pare che il Sig. Pesqueria si sia impropriamente attribuito l’invenzione del termine e di conseguenza del piatto poiché, già nel 1917, nel Glossario preliminare del Nuovo Messico spagnolo era apparso il termine taquito. E ancora, nel 1929 appare, in un libro per ragazzi che racconta storie di persone messicane residenti negli Stati Uniti, la definizione moderna di taquito, inteso dunque come tortilla arrotolata. In ogni caso, la popolarità di questo delizioso “cannolo” ripieno di ciccia si deve anche al fatto che è diventato in poco tempo una specialità dello street food. Ed è stato uno dei primi cibi della cucina Tex-Mex ad essere venduto surgelato. Tornando alla diatriba flautas o taquitos, le due preparazione possono essere difficili da distinguere, essendo di fatto molto simili. Entrambe sono tortillas ripiene e arrotolate che vengono fritte fino a renderle croccanti e poi condite. Ma ci sono alcuni dettagli che le distinguono l'una dall'altra. La differenza principale tra flautas e taquitos è nella lunghezza. Una flauta è molto lunga e sottile, ed è fatta con una tortilla di farina o di mais delle dimensioni di un burrito. I taquitos, invece, sono le versioni più corte, fatte con tortillas di mais o di farina di dimensioni molto più piccole, dato che spesso vengono serviti come antipasto. Proprio grazie alle loro piccole dimensioni i taquitos sono di forma regolare e vengono fritti in poco olio rispetto alle flautas, che spesso sono a forma di cono. A complicare ulteriormente le cose, tuttavia, molte bancarelle di street food, nel Messico centrale e meridionale, vendono un articolo molto simile che si chiama quesadilla fritta, di solito ripiena di formaggio, che però risulta molto meno croccante al morso. Ok, bando alle ciance e veniamo a noi: dovendoli riempire di ciccia, abbiamo subito pensato che i nostri taquitos sarebbero stati perfetti ripieni di pulled pork. Visto però il caldo asfissiante di questa giornate estive, non avevamo molta voglia di metterci a prepararlo, stando ore e ore a bdare un dispositivo fumante. Per fortuna il nostro Megastore ci viene sempre in soccorso: era questo il momento di utilizzare lo Smoked Pulled Pork già pronto. E così abbiamo fatto: facile, veloce, gustoso. Goduria infinita in poco tempo. Cosa volete di più dalla vita?

Ingredienti per 4 persone: 12

tortilla di piccole dimensioni, di mais o di farina / 250 g di panna acida / un peperoncino verde / un peperoncino rosso / 300 g di Smoked Pulled Pork del Megastore / pomodorini ciliegini a piacere / salsa guacamole a piacere / un litro di olio di semi per friggere PREPARAZIONE 1.

Prendete una pentola con acqua fredda, infilateci dentro il pulled pork ancora imbustato, portatelo a bollore e poi spegnete il fuoco. Aprite la busta e il pulled pork è già pronto. Tenetelo da parte.

2.

Prendete le tortillas, la panna acida e il pulled pork: stendete un po’ di panna acida sul bordo, poi mettete il pulled pork sempre sul bordo, conditelo con qualche fettina di peperoncino e poi arrotolate la tortilla e chiudetela aiutandovi con altra panna acida.

3.

Procedete così con tutte le tortillas, poi scaldate l’olio di semi e preparatevi a friggere: immergete nell’olio bollente i vostri deliziosi cannoli e girateli spesso in modo che non si brucino. Quando saranno ben dorati da tutti i lati, scolateli su carta assorbente.

4.

Servite i taquitos caldi condendoli a piacere con peperoncini, pomodorini, salsa guacamole e panna acida.

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Se esiste una cosa di cui non potrete più fare a meno è questa: il Taquito. Sì, è esattamente ciò che pensate voi, una cosa a metà tra il taco e il burrito. Ma fritto. E lo sapete che noi, oltre a essere griller convinti, siamo anche frittariani: mangiamo qualsiasi cosa purché fritta.


BACON PEPPER TWIST Uno snack da urlo Il bacon, spesso, ha un destino difficile in Italia: spesso viene confuso con la nostrana pancetta, ugualmente buona ma del tutto diversa. Ancora una volta, prima di affrontare la nostra preparazione del mese, ci tocca fare un po’ di chiarezza. La pancetta, come dice il nome, viene ricavata dalla pancia del maiale: a meno che non ci siano altre indicazioni particolari, è quello l’unico taglio d’origine. Stop. Manco a dirlo, per il bacon non è così. Per produrre il bacon è utilizzata ANCHE la pancia del maiale, ma non solo: c’è il prosciutto, il collo e la schiena. Dipende. Questi tagli vengono messi insieme e successivamente trattati in salamoia ed essiccati. Dopodiché, il bacon viene cotto ed affumicato. Et voilà. Cambiano anche di consistenza e sapore. La pancetta ha un sapore generale più morbido, mentre il bacon è più aggressivo. La pancetta risulta, di consistenza, più cedevole. Il bacon è bello scrocchiarello, soprattutto dopo il passaggio in grill. Esiste una moltitudine di ricette da fare con il bacon. Una tra queste è quella dei bacon pepper twist.

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I bacon pepper twist sono lo snack di carne che avete sempre desiderato, ve lo garantiamo. Delle succose fette di bacon, condite ed arrotolate e poi fatte rosolare sul bbq. Adatte per essere servito come spezzafame o aperitivo alternativo… ovviamente, visto il tema di questo mese, la nota piccante non dovrà mancare.

INGREDIENTI 4 persone

12 strisce di bacon spesse circa 1/2 dito l’una 2 cucchiai di zucchero di canna 1-2 cucchiai di rosmarino fresco tritato (in sostituzione: il vostro rub preferito) sale kosher e pepe nero (20 gr.). 1 rotolo di pasta sfoglia 1 tuorlo d’uovo 50 g di formaggio Cheddar grattugiato (in sostituzione, la stessa quantità di un mix di formaggi grattugiati a vostro piacere) 2/3 peperoncini jalapeño tritati 1-2 cucchiaini di pepe di Cajenna Olio extravergine d’oliva q.b.


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PREPARAZIONE 1.

2.

In una ciotola poco profonda, unite lo zucchero di canna, il rosmarino e un pizzico di sale e pepe, oppure un mix di Rub a vostra scelta.

3.

Mettete il foglio di pasta sfoglia su un piano leggermente infarinato. Spennellate la superficie con il tuorlo d’uovo. Cospargete uniformemente circa 25 grammi di Cheddar grattugiato sulla sfoglia, quindi aggiungere il pepe di Caienna e peperoncino fresco tritato. Spolverate leggermente un mattarello con la farina e passare il mattarello sul formaggio, premendo delicatamente il formaggio nella pasta. Piegate la pasta a metà, quindi tagliare ciascuna in strisce larghe 12mm. Pizzicate le estremità per sigillare, quindi attorcigliate delicatamente ogni striscia più volte per racchiudere il formaggio. C’è il rischio che parte del formaggio cadrà, ma non vi preoccupate: dovreste averne messo abbastanza.

4.

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Preriscaldate il forno o il vostro dispositivo a 200°C. Rivestite una teglia con un foglio di carta alluminio e posizionate una griglia sopra, oppure posizionate una leccarda sotto la griglia in indiretta per raccogliere i grassi sciolti. Strofinate leggermente la griglia con extravergine d’oliva.

Prendete un pezzo di pancetta e avvolgetelo intorno alla pasta ritorta. Ripetere con i restanti Pepper bacon twists. Passate i bastoncini sopra

il mix di zucchero di canna, mescolando per ricoprire, posizionate i twists sulla teglia. 5.

Cuocere fino a quando saranno belli dorati e croccanti, ruotandoli di tanto in tanto.

6.

A questo punto, non vi resta che servirli. Belli caldi caldi vi faranno impazzire, ma saranno gustosissimi anche tiepidi o a temperatura ambiente. Si tratta di una preparazione jolly: infatti, potete tranquillamente prepararli in anticipo. Una soluzione – se dovete prepararli, ma non cuocerli – sarebbe quella di far raffreddare i bastoncini non cotti in frigorifero su delle teglie con carta forno finché non si rassodano. Rimuoveteli dalle teglie e conservateli in un sacchetto di plastica richiudibile nel congelatore per un massimo di 1 mese. Per cuocerli, adagiateli sulla griglia e cuoceteli come indicato

Qualche consiglio utile: lo spessore del bacon che si compra varia da marca a marca. L’ideale è prendere un pezzo di pancia di maiale scotennata e dopo averlo marinato e affumicato a freddo o a bassa temperatura. Tagliate le fette con una bella lama, oppure con una affettatrice valida. Se vi avanzano delle strisce di bacon, arrotolatele su se stesse, cospargendole di rub. Con il dispositivo a 200°C, dovrebbero cuocere in una ventina di minuti. Una nota fruttata nel dispositivo non vi dispiacerà.


PATATE... O BATATE? Dolci e un po’ piccanti Se siete convinti che esista un solo tipo di patate, vi sbagliate di grosso. Di tanto in tanto – a dire il vero, sempre più spesso negli ultimi anni – nei reparti frutta e verdura di molti supermercati ben forniti fanno capolino dei tuberi diversi, di un colore insolito , molto accattivanti nella loro diversità. Sono patate, sì, ma patate americane. Ci troviamo di fronte alle batate – eh no, cari ragazzi, non è un errore di battitura. Se non volete chiamarla batata, va benissimo anche patata dolce, riconducendoci al suo gusto particolarmente zuccherino rispetto agli altri tuberi da noi conosciuti. Beh, che sapore hanno le batate, ci chiederete voi? Sostanzialmente, sono dolci; la consistenza è quella dei classici tuberi che conosciamo da sempre, con un’aggiunta però di un sapore riconducibile alla zucca. Questo accento decisamente dolce le rende perfettamente versatili in cucina, adatte a mille e più preparazioni. La patata dolce (ops, la batata!) ha un oceano di potenzialità. Appartiene alla famiglia delle Solanaceae, cioè quella dei pomodori, delle melanzane e dei peperoni. Con questi ortaggi, condivide le notevoli proprietà antiossidanti, di acido folico (importantissimo per le donne incinte), garantisce un apporto di carboidrati per i diabetici, ha vitamine e sali minerali in quantità tali da essere definita lo “starter” del sistema immunitario. Originaria del Sud America, la batata è diffusissima in Giappone (nella prefettura di Kagawa, le popolazioni locali la mangiano cruda e praticamente in abbinamento a tutto). Ma in tutto il mondo, la batata gode di ottima popolarità, declinandosi bene nelle ricette locali, Italia compresa. E proprio con una ricetta italiana abbiamo voluto omaggiare la batata: l’accompagneremo ai peperoncini verdi, chiamati anche friggitelli, quelli diffusi nella bella stagione e saporitissimi appena saltati in padella. Per rendere onore al Magazine di Agosto, ci sarà la nota piccante, costituita dai nostri immancabili jalapeño.

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Ingredienti per 4 persone: 4 patate dolci

(circa 1,3 kg) / 10 peperoncini verdi (chiamati anche friggitelli) / 2 peperoncini jalapeño / paprika q.b. / sale q.b. / olio extravergine d’oliva q.b.

1.

Settate il vostro dispositivo per una cottura indiretta, stabilizzando la temperatura a 170°C/200°C circa.

2.

Lavate per bene le batate, tagliatele a cubotti da 4/5 cm; non c’è bisogno di essere troppo precisi. Posizionate i cubotti in una casseruola e ricopriteli di acqua, mettetele a cuocere a fuoco medio fino a portarle ad ebollizione. Da questo momento, calcolate 5 minuti per poi iniziare a testare la consistenza con uno stecchino appuntito. La consistenza giusta non dovrà essere troppo cedevole, lo stecchino non dovrà trapassare i cubotti.

3.

Scolate i cubotti e posizionateli su una teglia.

4.

Tagliare a fettine i peperoncini verdi di fiume i e i peperoncini jalapeno; successivamente, unirli alle patate, condire con sale e pepe e abbondante olio, infine una spolverata di paprika piccante o affumicata, dipende da voi.

5.

Nel vostro dispositivo già settato, posizionate la vaschetta in indiretta e affumicate i primi 10/15 minuti con un legno fruttato.

6.

Un’oretta di questa operazione è più che sufficiente, ma l’obiettivo è quello di far rilasciare ai peperoncini le loro essenze nell’olio e di conseguenza irrorare le patate dolci di note piccanti.

Le patate dolci piccanti con peperoncini verdi sono perfette come contorno, magari accompagnate da una salsina con base di formaggio.

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PREPARAZIONE


SEI PROPRIO UN BUDINO! Come nobilitare l’escluso tra i dessert.

Nella decade che va tra il 2000 e il 2010 (ma sommiamo anche qualche annetto dopo, vah), la nostra vita è stata affollata di vari medical drama, tutti eredi del ben famoso E.R. – Medici in prima linea. Al di là dei vari intrecci amorosi, i medical drama ci insegnano tutti le stessa cose: il camice dei medici non si sgualcisce mai neanche dopo un turno di 120 ore, che non è mai lupus, che anche un banale singhiozzo può trascinarci nella bara e che un bruciore di stomaco potrebbe preannunciare una dissecazione aortica o un’altra patologia mortale ricca di atroci sofferenze. Ma i medical drama ci hanno soprattutto insegnato che l’ospedale è la fonte e il ritrovo di un dolce che difficilmente sceglieremmo altrove: stiamo parlando del budino, che in questi sceneggiati diventa la fonte primaria di sostentamento dei giovani specializzandi squattrinati. Scherzi a parte: il budino, sin dai suoi esordi, è stato considerato un cibo ricostituente adatto ai malati, ai bambini e alle persone in là con gli anni (magari con difficoltà di masticazione). Questi utilizzi erano soprattutto dettati dalle alte proprietà nutritive e dalla poca tenacia al morso. Di fatto, questa vita "in ospedale" e anche... "medicale", ha tolto al budino la sua dignità di dessert, a conclusione di un fine cena tra amici, decretando che fosse un dolce da mangiare direttamente nel vasetto di platica in mensa, in ospedale o in solitudine tra le pareti domestiche.

Cos’è un budino, nella sua essenza? Il budino è un dolce al cucchiaio morbido ma allo stesso tempo sostanzioso realizzato con latte, zucchero, leganti (farinacei, uova e colla di pesce) e vari ed eventuali altri ingredienti per aromatizzarlo. A seconda della ricetta utilizzata, ha una sola cottura sul fuoco per poi passare subito alla fase di raffreddamento suddiviso in formine; in alternativa, ha due cotture prima sul piano cottura, poi in forno a bagnomaria all’interno di stampi ed infine in frigo. Quindi, contrariamente al pensiero comune che identifica con la parola budino solo tre/ quattro versioni (al cacao, alla vaniglia, al latte e al riso), esistono in realtà moltissime altre varianti, chiamate con molti nomi differenti. Infatti, a questa categoria appartengono il creme caramel, la bavarese, il flan, il pudding, la panna cotta, la crema catalana. Ci pensate? Questi dessert – dai nomi molto altisonanti, c’è da dire – hanno tutt’altra dignità rispetto al bistrattato budino. Vengono serviti in graziosi piatti di porcellana e finemente presentati, eppure appartengono alla medesima famiglia di dolci. Le creme dolci hanno una storia antichissima e ricca di trasformazioni. La prima testimonianza di una crema del genere a base di uova, zucchero e latte ci viene data dall’imprescindibile Marco Gavio Apicio bel suo De Coquinaria. Qui, viene descritta la preparazione di un budino di latte, uova, miele e pepe.

In realta, come vedrete tra poco, non è esattamente così. Demerito anche, purtroppo, della facilità di reperimento del budino in polvere, da comprare al supermercato, che agli occhi dei più è sembrata una forzatura “artificiale”.

Le corti medievali, amanti dei ricostituenti, eleggono il budino a loro dolce preferito. Testimonianza di ciò, il De Honesta Voluptate dell'umanista e gastronomo Bartolomeo Sacchi detto Il Platina. Questo tomo fu il primo ricettario diffuso a mezzo stampa in Italia, in lingua latina.

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Quando si è passati a chiamare queste preparazioni “budino”? Ritroviamo lo stesso termine in due preparazioni salate, le boudin blanc (salsiccia a pasta molto fine e morbidissima) e le boudin noir (sanguinaccio). Budino deriva, quindi, dal francese boudin che a sua volta è l'evoluzione della parola latina botellinus, ovvero budello di salsiccia. Molti sostengono che la scelta sia derivata con molta probabilità dalla somiglianza nella consistenza. Sicuramente il budino è riuscito a sopravvivere allo scorrere del tempo grazie alla sua semplicità, e alla sua grande capacità di adattamento alle esigenze del tempo come testimoniano le molte varianti: oggi esistono versioni vegane e vegetariane realizzate senza uova con latte di cocco, mandorla o soia. Qui vi proponiamo una delle ricette più classiche: il budino al latte.

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Per renderlo ancora più goloso lo abbiamo arricchito con succose albicocche e mandorle tostate. La frutta renderà ancora più fresco il sapore del dolce, perché l’acidità del frutto – che smorza la dolcezza del latte - esalterà il connubio di sapori mantenendoli distinti. Al contempo, la masticabilità apportata dalle mandorle croccanti renderà il dolce ancor più gradevole al palato. Inoltre, visto che soprattutto nell'arte dolciaria anche l'occhio vuole la sua parte, il bianco della crema rassodata ravvivato dall'arancio brillante dell'albicocca vi farà venire l'acquolina in bocca ancor prima dell'assaggio.


PREPARAZIONE 1.

Lavare sotto l’acqua corrente le albicocche, sbucciatele, privatele dei noccioli e tagliatele a dadini regolari.

2.

Accendete il forno a 180°C in modalità statica

3.

Disponete su una teglia foderata con carta forno le mandorle e infornate avendo cura di girarle almeno una volta o due. Quando sono belle dorate toglietele dalla fonte di calore e lasciate raffreddare. Una volta fredde frantumatele grossolanamente.

4.

In un pentolino versate il latte, lo zucchero, la fecola di patate (ogni volta che aggiungete un elemento, mescolate bene con una frusta per evitare la formazione di grumi), e la bacca di vaniglia

5.

Fate cuocere la miscela su un fuoco medio basso avendo cur di mescolare costantemente, arrivato al bollore togliete la bacca lasciate andare il composto ancora per due minuti perchè si addensi continuando a girare il tutto energicamente. Dopodiche spegnete il fuoco e lasciate intiepidire

6.

Prendete gli stampini, versate nell'ordine un po' di mandorle tritate, la crema poi inserite la frutta, ancora delle mandorle e ricoprite il tutto con il composto.

7.

Riponete in frigo per almeno 8 ore.

8.

Sformateli poco prima di servire.

9.

Se volete potete decorarli con una o due fettine di albicocca e foglioline di menta.

INGREDIENTI

4/6 budini (in base alla dimensione degli stampi)

500 ml di latte intero fresco 130 g di zucchero a velo 40 g di fecola di patate una bacca di vaniglia Bourbon

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200 g di mandorle pelate 250 g di albicocche private dei noccioli


Le salse N piccanti Porfolio Gastronomico/01 a cura di Nunzia Clemente

on è del tutto scontato il perché ci piacciano così tanto le salse piccanti. Pensateci, ne esistono davvero di ogni tipologia, con una base comune: parlo della discreta quantità di capsicina, che è la sostanza contenuta nel peperoncino, e che provoca la famigerata sensazione che molti amano e altrettanti fuggono. Le popolazioni del mondo che beneficiano di climi mediterranei, umidi e tendenzialmente caldi e/o tropicali, vedono nella loro dieta la presenza del peperoncino; nome tecnico di questa pianta, Capsicum (e relative nomenclature particolari). Di conseguenza, gli abitanti di questi posti sono stati capaci di inventarsi una gran quantità di intingoli che vedono come protagonista il frutto piccante. Certo, non è proprio da tutti – e tutti i giorni! – consumare peperoncino e avere vasi sanguigni dilatati, lacrimazione, talvolta battito accelerato. Eppure è un ottimo cardioprotettore, anticolesterolo e migliora l’ossigenazione del sangue. Insomma: a meno che non siate divoratori di peperoncino, i popoli del mondo hanno imparato a mettere il peperoncino poco poco nelle ricette per avere quanti più benefici possibili. Insomma, creando delle salse con ANCHE il peperoncino. In questo modo, gli esseri umani - che davvero, stupidi non siamo - ottengono un doppio beneficio: il peperoncino c'è comunque, ma non in quantità allarmanti. Sembra che non riusciamo a farne a meno? Pare vero, sì.

Paul Rozin e i suoi studi piccanti Lo psicologo Paul Rozin, esperto in comportamento e storia dell’alimentazione, spiega in maniera molto semplice perché, secondo lui, gli esseri umani di qualunque latitudine amano il cibo piccante. “Agli esseri umani piace godere delle situazioni in cui il loro corpo manda segnali d’allarme, mentre sanno che in realtà è tutto ok.”

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Gli scienziati dell’alimentazione hanno iniziato a studiare il rapporto tra esseri umani e cibi piccanti sin dagli anni Settanta, basandosi sulle teorie evoluzionistiche. Per farla breve, ha giocato un ruolo fondamentale la tendenza alla sperimentazione di nuovi cibi, a partire dai primati. Gli umani sono esseri onnivori: quindi, si mangia di tutto un po’. Una “apertura mentale” del genere ha portato l’evoluzione a farci trovare gradevoli anche cibi che, convenzionalmente, non lo sono. Tipo il peperoncino, la base delle nostre salse piccanti. Rozin viaggiò a lungo in Messico, alla scoperta delle origini dell’amore per il peperoncino e i cibi piccanti. Rozin considerò che, nel cervello umano, le aree che si occupano del piacere e del


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dolore si trovano molto vicine tra di loro. Quando entrano in funzione, si attivano parti del cervello chiamate della coscienza superiore. Anche queste, sono molto vicine tra loro. Lo studioso pervenne, quindi, alla conclusione che l’amore per il cibo piccante sia semplicemente il frutto dell’interazione e dello scambio di informazioni intenso e continuo tra queste aree del cervello. La sensazione di piacere si mischia con quella del pericolo in un ping pong intenso e – solitamente! – molto rapido. A questo, si accompagna la consapevolezza (data dall’esperienza) che la sensazione “pericolosa” andrà via molto presto. So cosa state pensando: un’esperienza masochista. Ovviamente, ci sono diversi gradi di tolleranza del piccante, con persone che traggono piacere-dolore da cibi che, per altre persone, sono soltanto sgradevoli. Va da sé che ingerire un Carolina Reaper, attualmente il peperoncino più piccante del mondo, provocherà un mare di impulsi spiacevoli. Perchè proprio le salse piccanti? Insomma: piccante sì, ma nelle dosi giuste. Per questo, le salse – che solitamente, prevedono un utilizzo delle stesse limitato a qualche cucchiaino per ogni porzione al massimo – “soddisfano” in qualche modo il nostro bisogno di piccante ed ecco uno dei motivi per cui esistono così tante salse piccanti. E poi, diciamoci la verità: nel corso dei secoli le salse piccanti hanno avuto molteplici ruoli, come quello di insaporire cibi un po’ piatti, oppure cibi di scarsa qualità. Ancora, alcune salse piccanti sono fatte in maniera tale da fungere come conservante ante litteram, insieme ad altri ingredienti come l’olio. Oltre che per gli ingredienti caratterizzanti utilizzati, le salse piccanti differiscono (ovviamente!) per il grado di piccantezza del peperoncino utilizzato. Il grado di piccantezza dei peperoncini viene indicato con la scala di Scoville. Mediamente, in una salsa piccante, ci vanno peperoncini freschi (o secchi, o ancora reidratati a dovere), dal le tonalità fruttate ed aromatiche, solitamente non troppo forti (ma con molte e documentate eccezioni). Insomma, il peperoncino spesso è il nerbo portante della preparazione ma non dovrebbe coprire altri ingredienti che ne devono amplificare il gusto: spezie in primis, spesso cumino, coriandolo, origano. Ogni Paese del mondo che ha il peperoncino tra le coltivazioni “tipiche” ha una qualche salsa che lo vede come co-protagonista di tutto rispetto. Facciamo un po’ il giro del mondo conoscendo le salse piccanti di svariati angoli del globo, vi va?

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MESSICO Messico, altrimenti detto Regno del peperoncino jalapeño; abbiamo già avuto modo di parlare del magico frutto della città di Jalapa, scoperto dai conquistadores, amato per la sua rotondità e per la sua piccantezza non eccessiva. Così gradevole che è adattissimo ad essere farcito ed è l’ingrediente principale della salsa messicana. Solitamente, è a base di pomodori, peperoni e pepe nero. Viene chiamata anche salsa ranchera (non dobbiamo spiegarvi i motivi, vero?) e viene spesso proposta come condimento di nachos e tortillas. Ma potremo dire anche che è davvero – ma davvero – onnipresente. Una variante della salsa messicana è la salsa al peperoncino chipotle, che sarebbero i nostri Jalapeño però preventivamente affumicati.

I peperoncini chipotle sono così più carnosi e consistenti. Questa salsa si prepara con chipotle ammorbiditi in acqua, con aggiunta di passata di pomodoro ed un ulteriore intingolo chiamato “adobo”, fatto con peperoni crudi, aceto, aglio, origano e sale. La salsa ottenuta ha un sapore decisamente forte e viene utilizzata per marinare e condire preparazioni a base di carne.

SALSA ACHAAR

INDIA Meglio essere chiari: la salsa achaar, con origine nel Sud Est Asiatico, può essere sia dolce che piccante. Noi vi riportiamo la versione piccante. La salsa achaar è una salsa di consistenza particolare, una sorta di mousse oleosa a base di sottaceti. Il mix di frutta e verdura viene messo sott’olio, con aggiunta di spezie varie. Questa salsa particolare non prevede l’utilizzo di zuccheri: infatti, tutti quelli necessari provengono dalla frutta utilizzata. Si usa in accompagnamento a piatti di carne e verdure ma, non di rado, viene anche utilizzata per la conservazione degli stessi per periodi medi o lunghi.

SALSA AJI

PERÙ Il Perù è il produttore di peperoncini più antico del Sud America: di un bellissimo verde brillante, sono inconfondibili. Le popolazioni

indigene del Perù commercializzavano ed utilizzavano nelle loro ricette questi frutti ben prima dell’avvento degli europei, che provvidero ad inglobarne nei loro commerci le produzioni e a portarli nel Vecchio Continente. La salsa aji è la somma della conoscenza del “piccante” peruviano. Alla base c’è il peperoncino omonimo e molte altre spezie che conferiscono una certa freschezza, tra le quali il coriandolo. Presenti anche pomodoro, cipolla e succo di limone. Si utilizza per condire salsicce e piatti a base di carne.

SALSA HARISSA

MAGHREB E TUNISIA (E TUTTO IL MONDO MEDIORIENTALE) Chiunque abbia frequentato almeno una volta un ristorante mediorientale si sarà imbattuto nella versione locale della salsa harissa, tanto famosa quanto apprezzata. Possiamo

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SALSA MESSICANA


collocarne i natali in Tunisia ed è una salsa densissima, simile ad un concentrato di pomodoro come consistenza, a base di peperoncino fresco, aglio ed olio d’oliva. La consistenza pastosa vi darà l’idea di quanto peperoncino ci sia all’interno: praticamente l’80% del totale. Presenti anche coriandolo, cumino e carvi. L’harissa (il cui nome, tradotto, è qualcosa di simile a “pesto”, vista la consistenza degli ingredienti) viene utilizzata sia come ingrediente base di alcune preparazioni, sia come accompagnamento a cous cous, kebap e minestre varie.

CHIMICHURRI

ARGENTINA Ci spostiamo in uno degli Stati più grandi del mondo, l’Argentina: clima e popolazioni variegate, ma accomunati tutti dall’amore per il piccante. Si utilizza ad ogni latitudine del

Sudamerica, fino a d a r r i va r e i n Nicaragua. La salsa chimichurri è composta da peperoncino, prezzemolo e d aglio, oli vegetali va r i e d a c e t o bianco. Una volta fatta la base, è possibile aromatizzare il chimichurri come più aggrada: via lib era alle spezie come paprica, origano, cumino, coriandolo, limone e alloro. Il colore verde è dato, ovviamente, dall’abbondante presenza del prezzemolo. La salsa chimichurri di sicuro è molto conosciuta dai griller amanti delle grigliate tipiche dell’Argentina, visto che essa è uno dei condimenti tipici dell’asado.

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PICCANTINO CALABRESE

ITALIA La silenziosa Calabria, produttrice instancabile di peperoncini (qualcuno ha forse detto ‘nduja?) tiene banco con il suo intingolo chiamato proprio Piccantino c a l a b r e s e , commercialmente conosciuto anche come Bomba calabrese. Il Piccantino, dal nome eloquente, è un intingolo

decisamente forte a base di pomodoro, peperoncino, prezzemolo, aglio ed olio di semi. La consistenza del Piccantino calabrese è densa, così densa da poter sembrare quasi solida. La si utilizza in Italia (e nel mondo!) più o meno per condire qualsiasi cosa.

GOCHUJANG

COREA Le salse fermentate sono un must della cucina orientale, in special modo quella giapponese e coreana. Da qualche anno a questa parte, la cucina coreana è uscita fuori dai suoi confini e si sta conquistando la sua fetta di appassionati in giro per il globo grazie a sapori e preparazioni molto peculiari. Il gochujang, la salsa fermentata a base di riso glutinoso, fagioli di soia e peperoncino, sta avendo un ottimo successo tra gli appassionati e non. Si ipotizza che nell’antichità, al posto del peperoncino, fosse utilizzato il


Con aceto, zucchero e semi di sesamo si ottiene la chogochujan; mischiando la gochujang con pasta di soia, cipolle tritate e altri ingredienti piccanti, si ottiene la ssamjang. Queste varianti sono molto utilizzate come dressing per variopinte insalate.

SALSA SRIRACHA

THAILANDIA Siamo ancora in continente asiatico, per la precisione in Thailandia. Anche qui, la

è ampiamente rispettata e praticata grazie alla salsa sriracha, un intingolo locale utilizzato per condire essenzialmente il pesce, ma anche noodles ed involtini primavera. Questa salsa è a base di peperoncini, aceto di vino, aglio, zucchero e sale. Si tratta di una salsa molto conosciuta fuori dai confini thailandesi, tanto che negli Stati Uniti viene addirittura commercializzata su larga scala, in tubetti. Negli States, la salsa sriracha prodotta per il commercio prende il nome di “rooster sauce”. Anche importantissime catene di fast food hanno inserito nei loro menu pietanze accompagnate da questa salsina thailandese.

SCOTCH BONNET

peperoncino tipico dei Caraibi, protagonista di una “hot sauce” che è praticamente onnipresente come accompagnamento dei piatti caraibici. Lo Scotch Bonnet è praticamente una sorta di peperoncino habanero, la cui coltivazione è molto diffusa. Si tratta di una salsa molto – ma davvero MOLTO – piccante: infatti, si calcola che una porzione di Scotch Bonnet Hot Sauce può essere anche 40 volte più piccante di una banale salsa messicana. La Scotch Bonnet Hot Sauce è fatta con l’omonimo peperoncino, cipolla e carote. Dove la potete mettere? Praticamente ovunque, ma c’è una predilezione innata per la carne essiccata, magari da intingere.

CARAIBI (STATI UNITI)

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pepe del Sichuan. Ad oggi, solitamente, si utilizza per insaporire dei sostanziosi stufati coreani, per marinare la carne e per le insalate. Si possono ottenere delle varianti, a seconda degli ingredienti utilizzati per insaporire il gochujang.


Dal Salento con ardore

Cunserva mara Porfolio Gastronomico/02 a cura di Virgilio Brunetti

“F

rate focu” è il nomignolo che in alcuni comuni del basso Salento hanno affibbiato ad una crema di pomodori, peperoni e peperoncini piccanti. La maggior parte dei salentini la conosce come Cunserva mara ovvero conserva amara. Amara, per i salentini, non indica esattamente il sapore amaro bensì il piccante, che a ben vedere non è neanche un sapore ma una sensazione chemestetica indotta dagli alcaloidi del peperoncino, che simulano su specifici recettori nervosi una sensazione di dolore e calore soprattutto sulle mucose della bocca e degli occhi.

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La crema piccante Salentina di cui parliamo è un prodotto di origine seicentesca: pomodori e peperoni sono piante tropicali e sub tropicali provenienti dalle Americhe e lentamente sono state introdotte come alimenti base nella cultura gastronomica mediterranea. Peperoni, peperoncini e pomodori inoltre sono solanacee, piante notoriamente velenose al pari del tabacco, belladonna e stramonio. Nella “cunserva mara” l’unico ingrediente nativo del bacino del mediterraneo è l’olio d’oliva. Secondo il protocollo dei prodotti tipici di Puglia le percentuali tra peperone e pomodoro devono essere rispettivamente 70% e 30%, ma non v'è proferito verbo sulla divisione tra pipe russu (peperone rosso dolce) e piparrussu (peperoncino), due ingredienti simili solo nel nome: il primo è dolce come una carota mentre il secondo arriva tranquillamente al centinaio di migliaia di Scoville, soprattutto se maturato al sole del Salento. Diciamo che una proporzione 70% 30% tra dolce e piccante genera una salsa alla quale tutti si possono approcciare. Andando sul 50% - 50% comincia a diventare la sua variante più minacciosa, detta “Frate Focu”.


Quando la salsa si è essiccata la si pone in un vaso profondo (limmu o limbu) sempre di creta vetrificata, la si copre con un telo di lino e la si lascia al fresco per due o tre giorni; la cunserva si ammorbidirà assumendo una certa pastosità. È tempo della “spatolatura”: poco alla volta si aggiunge olio extra vergine di oliva e con una “cucchiara” di grandi dimensioni si mescola l'olio alla cunserva. In dieci-dodici giorni avremo una crema densa , molto cremosa e spalmabile che può essere trasferita in vasetti di vetro sterili e coperta con un filo di olio extravergine. La cunserva mara sarà compagna inimitabile di friselline, sagne 'ncannulate e, fidatevi, di arrosti alla brace e formaggi semistagionati. La Cunserva Mara e Frate Focu (la versione hot) sono festeggiati appositamente e rispettivamente nei comuni salentini Spongano e Scorrano. Da salentino e da uomo di scienza non posso esimermi dal descrivervi una variante studiata e sperimentata dal mio collega e amico Gabriele Maiorano, biologo appassionato di cucina,

originario di un piccolo paesino chiamato Cerfignano a pochi passi da Santa Cesaria Terme. Partiamo dalla premessa che la cunserva mara non è una banale cremina piccante a base di pomodoro ma è un autentico concentrato di umami. I lunghi passaggi produttivi, la lunga soleggiatura della crema, contribuiscono a concentrare in maniera straordinaria i sapori e gli aromi dei pochi ingredienti base. Il licopene (carotenoide antiossidante) presente nei peperoni e nel pomodoro impedisce che si instaurino processi di ossidazione mentre l’acidità e la sapidità impediscono alcuni pericolosi processi fermentativi soprattutto nelle prime fase del soleggiamento. La produzione della cunserva non è scevra da problemi in quanto affidata alle condizioni meteo che spesso possono essere sfavorevoli, quindi saltuariamente è necessario aggiungere dei conservanti. Gabriele ha avuto la geniale idea di aggiungere una variazione alla tradizionale Cunserva: tutti gli ingredienti prima di essere assemblati in una crema non vengono direttamente bolliti: prima vengono puliti, tagliati e sistemati in grandi teglie di ferro ed esposti al calore dolce del forno di pietra alimentato con legna d’olivo. La temperatura del forno viene mantenuta lungamente per ore intorno ai 100°C in un’atmosfera secca e fumosa. I pomodori e i peperoni si disidratano lentamente acquisendo un lieve aroma di fumo e solo successivamente vengono stufati e trasformati in una salsa densa grazie alla macchinetta per la salsa, quella che estrae semi e bucce. La crema così ottenuta sarà disidratata lentamente al sole del Salento ma sarà già più ricca e concentrata. L’olio d’oliva anche in questo caso viene aggiunto durante la fase di spatolatura in modo da ottenere una fine emulsione che rende la crema adatta alla lunga conservazione. Per conservare questa prelibatezza, l'olio Sicilia Selezione Gianfranco Lo Cascio, presente sul nostro Megastore, è quanto di meglio si possa avere. Il risultato è una crema piccante, affumicata e super umami, un prodotto da capriole sulla sedia (cit.).

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Vi riporto di seguito la preparazione della cunserva mara così come la riporta il mio amico professore Pino De Luca, uomo enciclopedico e autentico gourmet. Il materiale da utilizzare per la cunserva mara è dunque costituito da peperoni rossi dolci, peperoncini rossi piccanti e pomodorini fiaschetti. Tutti questi ingredienti devono essere ben lavati, privati del picciolo e dei semi e sminuzzati. Dovranno essere posti quindi in una grande pentola, allungati con un fondo di acqua fresca e una manciata di sale, coperti per bene e lasciati a bollire a fuoco lentissimo per 4/5 ore, fino a quando i pomodori non si saranno spappolati completamente. Quando la marmellata è bella cremosa è necessario passarla con una macchinetta per fare la salsa e successivamente dovrà essere posta in ampie terrine di terracotta per alimenti. É necessario che queste ultime siano molto ampie e poco profonde poiché vanno esposte al sole, protette da zanzariere a trama sottilissima per evitare il contatto con gli insetti e la polvere. L'esposizione avverrà tutti i giorni dall'alba al tramonto fino a quando la “cunserva Mara” non assumerà un colore mogano scuro e sarà abbastanza dura.


L'Arte Bianca a cura di Alessandro Trezzi illustrazioni di Ozzy Bellesi

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n a i l iSpecpi peroni

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Sapreste dirmi qual è la pizza più iconica e rappresentativa al mondo? No, non è la napoletana, e nemmeno la generica margherita. Basta guardare le immagini raffigurative, le emoticon sui social o qualsiasi altro strumento di diffusione mondiale per comprendere che in realtà, ad oggi, la pizza viene rappresentata in lungo e in largo con il Pepperoni. Tanto che la pizza con tale ingrediente viene chiamata proprio Pizza Pepperoni. Se il nome di questo salame piccante (perché a quello possiamo ricondurre IL Pepperoni) è stato associato al sounding di "pepper" , la controproposta in lingua italiana è stata a dir poco fallimentare. Quanti di noi, nelle approssimative sceneggiature tradotte dall'inglese dei film anni Ottanta e Novanta, hanno sentito ""hey, di chi è la pizza ai peperoni?" Almeno tutti quelli che ad oggi hanno dai trent'anni a salire. La pizza pepperoni è la pizza delle Tartarughe Ninja, nonché una delle più amate negli Stati Uniti. Così tanto amata che occupa il terzo posto tra quelle più ordinate in tutto il Paese, con una produzione più alta di quella dei salami italiani, per un totale di 113 milioni di kg annui. Tra i vari stili di pizza diffusi negli States, la pizza pepperoni più celebre ed evocativa è sicuramente la Pepperoni New York Style, una tonda di dimensioni generose e più spessa delle nostre, dalla crosta estremamente croccante e carica nella farcitura. Il cliente la sceglie al banco (come avviene nei nostri panifici o pizzerie al taglio) e viene servita in fette riscaldate, che con il rinvenimento recuperano friabilità e fragranza; le più consumante sono senza ombra di dubbio la margherita con origano e la nostra pepperoni. Il salame viene tagliato finemente e posto sopra un abbondante strato di mozzarella; complice la cottura più prolungata (nell’ordine dei 3-4 minuti circa) rispetto alla napoletana, il salame si arriccia, divenendo croccante alle estremità e concentrando la saporitissima colata di grasso nella zona centrale. Chi dice che la pizza non può essere considerata tradizione statunitense, è vittima del classico campanilismo italiano da quattro soldi, che ad oggi è tremendamente retrogrado e di pessimo gusto. Una tradizione nient’altro è che, per definizione, “il

complesso delle memorie, notizie e testimonianze trasmesse da una generazione all'altra”. E se la pizza viene ampiamente consumata, riprodotta e adattata in America sin dal 1905 (anno in cui fu aperta la prima pizzeria a Little Italy, New York), come può non essere considerata tradizione? Ci dimentichiamo, forse, che la pizza deriva dall'emigrazione dei compatrioti? Sì, ciò non toglie che ad oggi, negli USA, si siano sviluppati una decina di stili famosi (più altre sotto-categorie), ben più delle alternative italiane ed ognuna con la propria identità ben precisa: New York, New Jersey, New Haven, Detroit, St. Louis, Chicago, California ed infine l’amatissima Sicilian. Ed è proprio su quest’ultima tipologia che ci focalizzeremo oggi per la nostra Pepperoni Pizza. Sicilian Style Pizza Vi ricordate il nostro amato sfincione palermitano, di cui abbiamo parlato qualche numero fa? Ebbene, oltre ad aver dato vita alla pizza al trancio alla milanese, venne esportato nel secolo scorso anche in America, qui rivisitato come Sicilian e diffusosi specialmente a New York, città oggi molto fornita di tale tipologia. Si tratta di una pizza in teglia rettangolare, molto morbida e con la crosta estremamente croccante e dorata, realizzata con l’impasto e il metodo tipico della focaccia; rispetto allo sfincione tuttavia, l’idratazione è più alta, al fine da aprire la mollica maggiormente ed agevolare il distacco della base dalla mollica ed aumentare l’effetto “crunch” della parte inferiore. Un'altra particolarità, usatissima negli States, risiede nell’ordine degli ingredienti per la guarnizione della pizza: viene spesso posizionata prima la mozzarella e poi una salsa cotta di pomodoro, in modo da insaporire l’impasto e al tempo stesso rendere sempre più evidente la grande friabilità della base, una caratteristica amatissima in USA. Fondamentalmente, non ci sono mezze misure: la Sicilian perfetta deve essere estremamente croccante e intensamente aromatica. Vi ho incuriosito? Perfetto, vediamo insieme come si fa.

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L'impasto Come anticipato, il processo della Sicilian ha molte similitudini con quello della focaccia e ancor di più dello sfincione; per avere un’apertura maggiore tuttavia, lavoreremo con un quantitativo di acqua più alto, e avremo quindi bisogno di una farina in grado di reggere adeguatamente l’assorbimento minimo e la maturazione accelerata dall’ambiente più umido. Qui niente fronzoli: lavoreremo con una 00 o 0, in modo da non avere rogne con la maglia glutinica a causa della crusca. Dal momento che la farcitura risulterà bella carica di sapore, avere caratteristiche aromatiche anche nell’impasto ci interessa relativamente poco, in quanto verrebbero in ogni caso ampiamente sovrastate. Fondamentale tuttavia che il P/L non risulti troppo

elevato, o complice l’idratazione più elevata faticheremo a stendere il panetto arrivando a fine teglia. Il riposo Come per ogni focaccia che si rispetti, l’equilibrio delle fasi di riposo riveste un ruolo importantissimo, ancor più dell’impastamento stesso. I nostri panetti dovranno arrivare alla stesura con la giusta estensibilità, al fine da esser stesi agilmente in teglia senza problemi, e agevolando la lievitazione finale che conferirà le giuste caratteristiche alla struttura della nostra Sicilian. Poca puntata, lungo appretto e fase finale in teglia: sono queste le caratteristiche di una focaccia perfetta. Questa volta lasceremo da parte anche il mattarello,


La farcitura Tenete ben presente una cosa: il 90% delle pizze Americane non ha bordo. In realtà, a parte la napoletana di nuova concezione, quasi nessuna tipologia ne ha in abbondanza; la pratica di dover necessariamente lasciare 3-4 cm di crostone è una smania esagerata, che deriva dalla diffusione incontrollata della napoletana, spesso erroneamente considerata come l’unica vera pizza al mondo. Dovete sempre considerare in realtà che, specialmente le pizze in teglia, nascono per essere tagliate in tranci e servite al banco; in casa, per altro, le condividerete con amici e parenti, dal momento che le dimensioni sono generose. Qual è quindi il senso di eliminare una porzione importante di condimento, se non quella di privare il povero malcapitato del godimento della farcitura? La verità è questa, chi si becca il bordo della teglia, piange. La farcitura di una Sicilian segue i dettami della pizza al trancio alla milanese, e prima ancora dello sfincione palermitano: farcitura corposa, abbondante ma ben distribuita e uniforme.

Faremo quindi un trito di mozzarella, di primissima qualità ma asciutta, e la posizioneremo sull’impasto dopo la lievitazione in teglia, non prima di aver cosparso il tutto con pepe e origano, che protetti dal primo strato eviteranno di bruciare; prepareremo quindi una salsa di pomodoro, e la posizioneremo a strisce diagonali sullo strato di formaggio. Infine, le nostre fette sottilissime di salame Pepperoni si arricceranno, diventando croccanti ed intensificando il loro incredibile profumo.

Le teglie Le migliori teglie in assoluto per la cottura di questa specialità sono il rame stagnato e l’alluminio professionale; il primo tuttavia è sempre più raro, e comunque di difficile manutenzione e dal costo elevato. Il secondo non è semplice da reperire per i privati, e non è da confondersi con l’alluminio tradizionale, spesso di bassa qualità e che quindi non cuoce correttamente il fondo, lasciandolo molle e poco cotto. La scelta verte quindi sul ferro alluminato, sull’acciaio o sul ferro; ricordatevi tuttavia che il bordo deve essere alto almeno 3-4 cm, per consentire all’impasto di crescere correttamente.

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in quanto un contributo maggiore di aria ci darà una mano ad aprire maggiormente la mollica ed enfatizzare l’effetto croccante tanto desiderato.


INGREDIENTI

per due teglie 30x40 cm

per l'impasto 1000 g di farina di grano tenero di tipo 00 o 0 (320 W) 700 g acqua 10 g lievito di birra fresco 25 g malto d’orzo in sciroppo oppure 5 g di malto diastasico in polvere 25 g sale fino

per la salsa 800 g di pomodori pelati in succo 2 spicchi d’aglio 2 acciughe ben dissalate sale fino q.b. pepe nero q.b. origano essiccato q.b. olio extravergine d'oliva q.b.

per la farcitura 800 g di mozzarella quanto più asciutta possibile 500 g di smoked Pepperoni del Megastore origano q.b.

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pepe nero q.b. olio extravergine d'oliva q.b.


Cominciate sciogliendo lievito e malto nell’acqua e aggiungete il tutto alla farina; verso la fine mettete il sale e terminate l’impastamento.

PUNTATA

Una volta ottenuta la massa liscia e asciutta, a una temperatura di almeno 22°C, posizionatela in un contenitore stretto dai bordi alti chiuso ermeticamente e lasciatela puntare per circa mezz’ora a temperatura ambiente, al fine da consentire alla lievitazione di partire.

STAGLIO E APPRETTO

Ricavate due pagnotte di egual peso, chiudetele bene e posizionatele in altrettanti contenitori ben oliati, per poi riporre tutto in frigorifero a circa 6°C per 18 ore.

STESURA

Al termine di questa fase l’impasto sarà quasi triplicato; ungete bene due teglie e rovesciateci i panetti. Appiattite i panetti leggermente con il palmo della mano, schiacciate bene i bordi e poi stendete con i polpastrelli; a questo punto oliate leggermente la superficie e coprite la teglia con pellicola, non a contatto.

TERZA LIEVITAZIONE IN TEGLIA

Completata la stesura, lasciate lievitare per circa 90 minuti in un ambiente caldo, preferibilmente a 28-30 °C. Se non possedete una cella non preoccupatevi, andrà benissimo il vostro forno spento con la luce accesa.

PREPARAZIONE DELLA SALSA E FARCITURA

Tritate l’aglio e schiacciatelo sotto la lama del coltello, fate soffriggere lentamente sul fuoco in un tegame con un filo d’olio e le acciughe. A questo punto aggiungete i pomodori

pelati frantumati a mano, aggiustate di sale e di pepe e lasciate cuocere per circa 30 minuti a fuoco minimo, evitando di far ridurre eccessivamente il tutto. Spostate dal fuoco, aggiungete abbondante origano e lasciate raffreddare. Non appena l’impasto sarà lievitato, cospargete di origano e pepe nero, poi create uno strato uniforme di abbondante mozzarella tritata; andare sui bordi non è un’opzione, ma un ordine! Colando sulla teglia, formerà uno strato croccante amatissimo dagli americani, che spesso enfatizzano grattandoci del parmigiano. Con un mestolo, create delle strisce diagonali di salsa spesse sulla vostra teglia, dopodiché aggiungete abbondante Pepperoni tagliato sottilissimo (in affettatrice o mandolina

COTTURA

Nel caso utilizziate un classico forno casalingo, preriscaldate il forno a 250°C e, per agevolare la cottura del fondo, posizionate la teglia sul pavimento nella prima fase per rendere la base croccante al pari della parte superiore. Se doveste invece avere a disposizione un forno elettrico professionale, preriscaldate sempre a 270°C, utilizzando però il 100% della potenza della platea (il piano inferiore) e solo il 20-25% di potenza del cielo (la parte superiore), più che sufficiente per una doratura uniforme della mozzarella. Dopo circa 15-20 minuti controllate che il formaggio sia ben sciolto ma non bruciato e il fondo ben croccante; sfornate e lasciate raffreddare su una griglia rialzata per evitare che la condensa rovini la friabilità della base, e irrorate con un ultimo filo di olio extra vergine, una spolverata di pepe e origano, in modo che il calore faccia sprigionare tutti i profumi. Tagliate, servite e godete verso l’infinito e oltre.

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IMPASTAMENTO


We are going to the restaurant! Consigli per star bene al ristorante Across the Pond a cura di Elena Ninotti

V

iolete sapere cosa colpisce tantissimo gli americani che numerosi (almeno, prima della pandemia da Covid-19!) affollavano il nostro Bel Paese? Oltre la qualità del cibo di cui sono ghiotti, s’intende. Quello di cui gli americani non finiranno mai di stupirsi sono, indubbiamente, i rigidi orari di apertura dei locali addetti alla ristorazione in Italia. Dopo tre anni negli States, lo ammetto: lo stupore è reciproco. Ancora mi riesce incomprensibile vedere la gente in fila al ristorante alle 16.30, in attesa di un tavolo. Qui è una cosa normalissima. Di contro, loro non si capacitano del come sia possibile che il ristoratore gli neghi un tavolo alle 19.00, o alle 15.00.

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Se, quando la situazione sarà tornata alla normalità, avete in programma di fare un giro negli Stati Uniti vi accorgerete di come sia facile mangiare fuori. A molti americani piace mangiare: tanto, sempre e anche bene. Nonostante i luoghi comuni li dipingano come poco attenti a quello che mangiano, questo non corrisponde spesso alla realtà. Giusto per chiarire, gli Stati Uniti sono molto grandi e hanno tantissime differenze culturali e sociali. Basti pensare che tutte le diete che prendono piede da noi, quasi certamente sono nate in California e similari. Allo stesso modo, esistono i Food Desert, di cui vi parlerò in qualche altra puntata del nostro viaggio americano, cioè aree dove al massimo puoi comprare cibo in scatola presso la stazione di servizio del carburante. In mezzo a queste realtà, ci sono tante persone


che amano mangiare fuori e lo fanno più volte a settimana. Io stessa faccio parte di un gruppo Facebook di eaters locali e, vi assicuro, vi stupirebbe leggere la qualità della maggior parte dei commenti. I ristoranti sono generalmente di 2 tipi: i diners, che servono colazione e pranzo, aprono alle 7,30 am e chiudono attorno alle 2 pm; e i ristoranti veri e propri, che servono lunch e dinner. Aprono alle 11-12 e chiudono con un orario variabile dalle 8 pm alle 11 pm. Durante questi orari, è possibile mangiare senza restrizioni. Anzi: spesso, tra le 3 pm e le 6 pm, c’è una fascia oraria da “happy hour” in cui appetizers (antipasti) e cocktail sono proposti a metà prezzo.

Mangiare fuori negli States è un concetto totalmente differente da quello a cui noi siamo abituati. Non esiste fare “serata” al tavolo del ristorante. Ci si siede, si ordina, si mangia e, quando il cameriere viene a chiedere del dolce, ci sono due opzioni. Se si desidera il dolce, il cameriere va, porta il dolce e poi il conto. Si decide di saltare il dessert? Il cameriere, prontamente, porge il conto. A proposito di camerieri: la loro paga è data per oltre il 50% dalle mance dei clienti, quindi è nel

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Talvolta, anche il menu completo ha forti sconti in questa fascia pomeridiana. Se doveste visitare aree meno turistiche e internazionali, state attenti. In queste zone la cena viene servita fino alle 9 pm e, la domenica, possono tranquillamente chiudere alle 7 pm.


suo interesse che siate soddisfatti del suo servizio, ma anche che liberiate il tavolo il più velocemente possibile. Al momento di pagare il conto, è anche possibile dividere l’importo su più carte di credito, a seconda dei commensali. Se proprio volete fare le cose precise, potete avvertire il cameriere al momento dell’ordine. Questi dividerà la comanda in modo nominale e porterà direttamente due conti. Nessuno si stupisce e non c’è bisogno di avere dietro il contante.

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QUESTIONE DI MANCIA A seconda del posto in cui siete a mangiare, vi consiglio di stare attenti alle voci del conto. Grandi città, luoghi turistici o comunque ristoranti frequentati da stranieri, tendono ad addebitare già la mancia del personale, nella misura di un 15-20% del totale (al netto della tassazione locale). Quindi controllate e, eventualmente, evitate di aggiungere di nuovo la mancia. Nel caso vi sfuggisse e, ops!, la aggiungeste due volte, sarà sufficiente una telefonata alla banca per togliere la transazione dal totale.

DIRITTO DI TAPPO Un’altra parcolarità della ristorazione americana è l’abitudine diffusa di portare il proprio vino o champagne da bere al tavolo, esercitando di fatto quello che in Italia sarebbe il cosiddetto diritto di tappo. Alcuni Stati hanno una normativa stringente sulle licenze per alcolici e quindi i ristoranti non possono vendere alcol, mentre altri hanno alcool nel menu, ma ammettono comunque la pratica di portare il proprioa fronte del pagamento della corkage fee, cioè un contributo (in media da 5 a 50 dollari) per farvelo bere, ma non vi faranno storie.

MENU Le prime volte che si ordina, è facile rimanere spiazzati dalle quantità del cibo servito. Qui non esiste la sequenza “antipasto-primo-secondo”. Il menù è diviso in appetizers generalmente piatti da condividere tra i commensali, ed entrée, cioè piatti principali. L’entrée è generalmente costituita dal piatto principale, accompagnato sempre da un contorno abbondante e carboidrati costituiti da riso, pasta, pane tostato. Un piatto unico a tutti gli effetti,


a differenza degli appetizers che arrivano semplici. Personalmente ho impiegato un po’ di tempo ad abituarmi a questa modalità di pasto. Preferirei sempre avere porzioni minori ma poter assaggiare più piatti... invece finisce che prendiamo un appetizer e una o due entrée in tre, ma, anche così, spesso ci portiamo gli avanzi a casa. Quando resta del cibo sul tavolo, infatti, il cameriere arriva con i contenitori per l’asporto e impacchetta tutto. Per gli americani è normalissimo ordinare più del necessario, proprio per avere il pasto pronto l’indomani. Devo ammettere che anche io mi sto abituando a questa pratica, che effettivamente è davvero comoda, mi permette di assaggiare più varietà e, magari, lasciarmi un pochino di spazio per assaggiare il dessert. Una cosa molto utile è che tutti i menu sono visionabili su Internet. Difficile, invece, che siano riportati all’esterno del locale, ma certamente sono presenti nella pagina web, dalla quale si può fare anche la prenotazione del tavolo o del take out, cioè l’asporto.

Adesso passo a fornirvi la ricetta di un piatto che si trova davvero spesso nel menu americano, almeno da queste parti, è il pesce blackened: altro non è che un trancio di pesce, o gamberi, spolvera di spezie cajun e poi passato sotto il grill fino a doratura. Si tratta di un modo veloce e saporito di valorizzare un pesce bianco.

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Così è possibile evitarsi imbarazzi o brutte soprese all’ultimo: si verifica se cibo e prezzi sono di nostro gradimento e, solo a quel punto, si prenota.


FILETTI DI PESCE BLACKENED Ingredienti per 4 persone: 4 filetti di pesce bianco, abbastanza spessi ( benissimo dentice, ricciola, orata) / 2 cucchiai di olio extravergine d’oliva Per il mix di spezie cajun: 1 cucchiaino di paprika / 1 cucchiaino cumino in polvere / 1 cucchiaino di cipolla in polvere / 1 cucchiaino di aglio in polvere / 1 cucchiaino di timo essiccato / 1 cucchiaino di senape in polvere / 3/4 cucchiaino di sale fino / la punta di un cucchiaino di peperoncino piccante / una bella macinata di pepe Per i contorni: verdure ed ortaggi di stagione in grandi quantità

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PROCEDIMENTO: 1. Mescolare tutte le spezie. Se avete un macina spezie o un mortaio, potete far fare un giro per avere una miscelazione perfetta. 2.

Spolverare accuratamente il pesce con le spezie

3.

In una padella di ferro (cast iron skillet), mettere i due cucchiai di olio aspettare che diventi bello caldo.

4.

Mettere il pesce in padella dalla parte della carne. La pelle, dal lato opposto, aiuterà la polpa a restare integra quando si andrà a girare. Mettendolo prima dalla parte della pelle, questa non avrà successivamente la forza di mantenere la carne integra. Dopo 2-3 minuti, girare il filetto dalla parte della pelle e far finire la cottura.

5.

Servire con un contorno di verdure (broccoli, fagiolini o asparagi) appena scottate e una cupoletta di riso al vapore, con un purè di patate aromatizzato all’aglio arrostito, oppure come ripieno per dei fantastici tacos.


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Il quinto quarto a cura di Virgilio Brunetti

Nella vita ci vuole

ro

ma anche 872 - Almanacco 2021

o t a g fegnone


Tecnicamente il fegato non è carne: è un organo interno che ha una struttura lontanissima dal tessuto muscolare. È un organo parenchimatoso, il che significa che per la maggior parte del suo volume ha la stessa struttura cellulare. Le cellule del fegato si chiamano epatociti, cellule di forma cubica con due caratteristiche gastronomiche importanti: accumulano zucchero sotto forma di glicogeno e grassi sotto forma di goccioline. Il fegato è presente in tutti i vertebrati, ma troviamo organi analoghi anche in molti invertebrati, come i crostacei (quello chiamato epatopancreas). Parliamo di una grande ghiandola endocrina, un organo vitale con numerose funzioni: non essendo questo il posto giusto per un trattato sull’anatomia e la fisiologia del fegato, vi basti sapere che è un organo estremamente vascolarizzato che svolge un ruolo chiave nel metabolismo degli zuccheri e dei grassi. Anche per questo motivo la sua struttura è fortemente influenzata dalla specie, dalla salute dell’animale, dallo stato generale e dal tipo di alimentazione. La maggior parte degli animali di interesse culinario ha il fegato, ed essendo un organo di grandi dimensioni ha esso stesso una enorme importanza gastronomica. La sua texture è estremamente interessante e la gestione di questa caratteristica in cottura segue la regola delle temperature similmente ad una comune bistecca. Il fegato allo stato crudo presenta una consistenza molle, poco elastica, tendenzialmente fragile che tuttavia cambia progressivamente se esposto

al calore. Sono presenti delle membrane, i vasi sanguigni, che essendo ricchi di connettivo ed elastina interrompono la struttura uniforme, dando qualche problema in cottura. La quantità di grasso presente nel fegato è determinante nella scelta della cottura e nella preparazione. Un fegato grasso è di per sé molto più appetibi le di un fegato “sano”, ma ciò non toglie che in alcune preparazioni non possa essere reso ugualmente appetibile aggiungendo dei grassi saporiti in fase di preparazione. In generale quelli che odiano il fegato come alimento sicuramente sono stati traumatizzati da cotture e preparazioni errate ma... diciamoci la verità: il fegato è uno di quegli alimenti che o si ama o si detesta per cui la domanda è: perché il fegato fa schifo? IL FEGATO MI FA SCHIFO PERCHÉ È SECCO. Otteniamo una texture sabbiosa quando le componenti proteiche del tessuto sono completamente denaturate dal calore; il fegato è un parenchima costituito appunto da epatociti, cellule cubiche distribuite con una geometria piuttosto uniforme. Così come succede con la carne (il muscolo), in cottura le proteine del parenchima perdono integrità e quindi la capacità di trattenere acqua. Inoltre i grassi presenti nel tessuto epatico fondono e difficilmente vengono trattenuti. Se stracuocete una fettina di foie gras cru in una pentola vi ritrovate con una bella pozzanghera di grasso fuso ed un reticolo di proteine di fegato fritte, un disastro! Alla stessa maniera se stracuocete una scaloppina di fegato suino di bovino il risultato sarà una orribile “cosa” piuttosto difficile da deglutire. Cuocete il fegato il giusto: vi suggerisco una temperatura compresa tra i 54 e 58 gradi per il fegato bovino; riservate invece le altre tipologie di fegato per cotture prolungate come paté, terrine e preparazioni in umido come la veneziana. IL FEGATO MI FA SCHIFO PERCHÉ È GOMMOSO. Anche in questo caso abbiamo un problema serio di texture che si risolve con un trimming accurato delle membrane e dei grossi vasi che irrorano il parenchima epatico; potrebbe essere necessario eliminare anche i dotti biliari. Ripulito il fegato da tutte le membrane e i vasi potete facilmente

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N

el precedente articolo abbiamo visto come già nell’antichità ci siano testimonianze scritte dell’uso delle frattaglie in cucina. Marco Gavio Apicio (De Re Coquinaria nel I secolo) dedica molte ricette al consumo di visceri di molti animali sia allevati sia selvatici; Il fegato ad esempio era un organo utilizzato dagli aruspici per interpretare il volere delle divinità, ma era anche considerato un cibo prelibato. A tale riguardo è importante ricordare l’etimologia stessa del vocabolo italiano fegato: il termine fegato infatti non proviene dall’equivalente latino iecur né dal greco epar, ma piuttosto da un aggettivo, ficatum, che proviene a sua volta dalla parola ficus e indica il fegato di animali ingrassati coi fichi o anche cucinato coi fichi.


affettarlo o cubettarlo per poterlo poi marinare o metterlo in salamoia per eliminare l’eccesso residuo di sangue.

Cotture rapide

IL FEGATO MI FA SCHIFO PERCHÉ È AMARO. L’amaro del fegato può essere anche molto marcato è ciò è dovuto ad errori di macellazione e ad un mancato o insufficiente drenaggio del sangue o di una sostanza terribilmente amara chiamata bile. Un fegato contaminato da bile è per sé un alimento da non consumare ma un minimo di quel sapore caratterizzerà anche in casi normali l’alimento. Esistono numerosi metodi per abbassare significativamente il sapore amaro del fegato: alcuni sono metodi della nonna, altri sono squisitamente seasoning ed hanno lo scopo di restituire succosità modificare il gusto base del fegato e favorire le reazioni di Maillard.

Questa è una ricetta della tradizione leccese e chiamata “figatu cu la zippa” ma è diffusa nella tradizione gastronomica di quasi tutte le regioni italiane.

Il metodo tipico utilizzato dalla tradizione è bel bagno nel latte; il latte è una emulsione naturalmente basica di grassi, proteine e zuccheri, e, sebbene non ci sia nessuna evidenza scientifica che il latte elimini il gusto amaro caratteristico del fegato, sicuramente costituisce un potentissimo booster della reazione di Maiallard quando si utilizza nelle cotture ad alta temperatura proprio perché il latte abbonda di zuccheri riducenti ed ha un pH leggermente basico.

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Alcune fonti parlano anche di bagno nel tè dolce, e sicuramente questo potrebbe essere il metodo d’elezione della tipica nonna orientale; anche in questo caso il tè arricchito di zucchero e i tannini dell’infuso potrebbero avere ricadute positive sulla preparazione, ma sicuramente la salamoia rimane il metodo più efficace nel trattamento di alimenti proteici, fegato compreso. Sia nel trattamento con latte, con soluzione salina, o col tè zuccherato, molto del decremento del gusto amaro sarà ascrivibile all'eliminazione di eventuali eccessi di sangue nel tessuto epatico e solo in maniera marginale all’eccesso di bile che di fatto se presente rende immangiabile il fegato. IL FEGATO FA SCHIFO... PERCHÉ NON SO CUCINARLO. Siamo arrivati al vero problema. Risolviamo subito.

FEGATO ALL'ALLORO ARROSTITO NELL'OMENTO

Si preparano dei grossi cubi di fegato di bovino (ma si può usare anche il maiale), poco più grandi di un boccone. Potete marinarli nel latte o metterli in salamoia: personalmente a me piace una marinatura breve in un’emulsione di olio d’oliva, salsa di soia e aceto balsamico, prezzemolo, pepe nero e cipolla. Lasciate marinare i cubi di fegato almeno un paio d’ore; estraeteli dalla miscela, infarinateli leggermente con un velo di maizena e avvolgeteli in un doppio strato di omento di maiale. Infilate i cubotti in due spiedini in modo che non ruotino in cottura ed alternate ogni pezzo con una foglia intera di alloro secco o una di alloro fresco, vedrete che l’impatto dell’alloro secco e fresco sul fuoco sarà diverso. Nella fase di cottura a fuoco vivo le foglie di alloro secco bruceranno dando un caratteristico sapore affumicato mentre quelle fresche distilleranno con il calore gli olii aromatici che andranno ad insaporire il grasso dell’omento. Cercate di ottenere una Maillard uniforme esponendo gli spiedini ad un calore intenso ma non estremo: potete anche utilizzare una skillet, l’importante è non bruciare l’alimento e tantomeno lessarlo, in entrambi i casi si amplificherebbe il sapore amaro. Terminate la cottura in indiretta fino a raggiungere una temperatura al cuore di massimo 56°C per il fegato bovino; se avete usato il maiale o cinghiale dovete superare i 63°C. Potete sostituire l’alloro con la salvia, mirto, scorze di agrumi private dell’albedo, lardo di colonnata, cipolla sbianchita, fichi, prugne o albicocche; potete usare come spiedini rami di alloro, rosmarino o ginepro oppure delle stecche di cannella appositamente lavorate; non dimenticate di preparare una salsa degna: io suggerisco di accompagnarla con una composta agrodolce di cipolle al merlot, senape al miele e crostini di pane di segale.


Cotture in umido:

Il fegato alla veneziana è ovviamente uno dei piatti veneti più famosi, combinazione perfetta di fegato e cipolle bianche in una lunga cottura in umido coadiuvata da brodo e burro. Il vino rosso non compare nella ricetta ma sarà il degno accompagnamento di questa preparazione povera ma ricca di sapore e storia. Nella ricetta tradizionale la quantità di cipolla è pari in peso a quella del fegato che deve essere freschissimo e di vitello, tuttavia vi stupirà sapere forse che la cottura lunga riguarda quasi esclusivamente la cipolla. Tritate un mezzo prato di prezzemolo e un pallet di cipolle bianche, mi raccomando sottili così piangete, soffriggete le cipolle in olio e burro (per quanto mi riguarda dovreste scegliere solo uno dei due) e cuocete la cipolla a fiamma bassa per il tempo necessario che diventi cremosa, dolce, e buonissima. Solo a questo punto aggiungete il fegato (io prima lo infarinerei e “maillardizzarei” a parte in un tegame

con abbondante grasso) poi aggiungete alle cipolle cotte con un del brodo di carne. Il fegato sarà cotto quando sarà cotto, ma non ci vorrà molto tempo perché avrete ormai capito che se lo stracuocete sarà come ingoiare una manciata di sabbia grumosa e amarognola; spegnete la fiamma e servite caldo con un purè scientifico o un’ottima polenta (io adoro la polenta taragna cotta con quantità di grassi incompatibili con la vita e poi grigliata). Se vi distraete e il fegato sarà veramente troppo cotto non sarà comunque tutto perduto. Il fegato stracotto nella crema di cipolle può diventare la base perfetta per un patè di fegato da spalmare sui vostri crostini; dovrete solo frullare tutto aggiungendo quantità smodate di burro perché solo così la sua texture ritornerà ad essere accattivante e golosa.

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FEGATO ALLA VENEZIANA


Il rognone, invece, rappresenta tra le frattaglie una vera sfida gastronomica e solo i veri estimatori hanno le idee chiare su come trattare questo alimento. Similmente al fegato non andrebbe stracotto e mai lessato, perché la sua texture inevitabilmente diventa elastica ed arcigna e il gusto tende a diventare anonimo. Il rognone è in realtà nient’altro che i reni, organi deputati alla filtrazione del sangue dei mammiferi; il risultato di questo processo sono le urine che vengono convogliate dai reni in una struttura cava ed elastica detta vescica. Capirete che un rognone non proprio fresco e trattato in maniera non adeguata avrà un forte odore urina di animale e se cotto in maniera errata avrà una consistenza veramente poco piacevole.

via della forte vascolarizzazione di questi organi).

Il rognone è un organo pari, estremamente vascolarizzato che ha una forma tipica “a fagiolo” negli ovini e nei suini, fa eccezione quello bovino che ha una struttura lobulata. In tutti i casi i reni sono organi incapsulati in uno strato di grasso che fa da ammortizzatore; particolarmente interessante il grasso di rognone di bovino che può avere diversi utilizzi gastronomici, si tratta un grasso bianco, aromatico e solido, ricchissimo di acidi grassi saturi tanto da avere una consistenza compatta più dura della cera stearica delle candele.

Se non lo si acquista già pulito dal macellaio, bisogna tagliarlo in senso verticale, lavarlo con molta cura in acqua corrente, poi con un coltello affilato come un bisturi bisogna pelarlo e privarlo della parte interna bianca, grassa e fibrosa. Capsula, collettori, grasso e grossi vasi sono le strutture che vanno eliminate con una paziente operazione di trimming. La cottura deve essere breve una volta tagliato a pezzetti oppure a fettine non troppo sottili.

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Non ve lo dovrei dire ma una volta lo Zio Gianfranco mi confidò di aver fritto le patatine nel grasso di rognone fuso e di aver avuto una sorta di crisi mistica. Brevemente vorrei suggerirvi le linee guida su come trattare questo alimento che vi ricordo fa parte delle frattaglie rosse (per

Deve essere sempre freschissimo. La struttura interna microscopica del rene consiste in una ripetizione ordinata di tubuli e capillari che di fatto costituiscono le unità filtranti. Sezionando longitudinalmente il rognone possiamo distinguere: Una zona corticale più esterna di colore rosso chiaro ove troviamo i nefroni, le unità funzionali del rene. Una zona midollare, più interna di colore rosso scuro, organizzata in strutture coniche dette piramidi renali, distinte tra loro da estensioni delle corticali dette colonne renali. Le piramidi sono formate principalmente dai condotti per il trasporto dell’urina, i dotti collettori.

Alcune fonti suggeriscono di effettuare, prima di realizzare la preparazione, una precottura, cioè far saltare brevemente le fettine di rognone in un tegame con un filo d’olio affinché perdano il siero e il sangue residui, e poi di farle sgocciolare in un colino per circa trenta minuti. Il rognone può essere ripassato in padella di ferro o in ghisa oppure può essere cotto alla griglia.


Un grande classico è il rognone di vitello al cognac: la preparazione prevede che i rognoni tagliati sottili vengano saltati velocemente in burro chiarificato, si aggiungono poi degli scalogni tritati preferibilmente già stufati anch’essi nel burro. Si aggiunge della senape e subito dopo si fa fiammeggiare con del cognac. Se la salsa è ancora poco densa potete arricchirla con poca panna. Il piatto va servito caldo con abbondante salsa. Per quanto riguarda la cottura alla griglia vi racconterò il piatto preferito della prima colazione di Leopold Bloom (dall’“Ulisse” di James Joice):

Procuratevi i rognoni di castrato più freschi che potete, tagliateli in due ed eliminate tutte le parti grasse fibrose, rendete il boccone più uniforme possibile, lavate con abbondante acqua corrente e asciugate le frattaglie. Fondete del burro, meglio se chiarificato, e nappate i rognoni. Mettete in cottura diretta su di una brace matura con calore non troppo violento, ritirate dalle braci e finite la cottura in indiretta avendo cura di spennellare ancora i rognoni con del burro. Finite la cottura del rognone quando la temperatura sarà compresa tra i 54°C e 56°C. Consumate i rognoni di castrato ancora molto caldi, su una fetta di pane bianco arrostito e imburrato.

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"[…] Mr Leopold Bloom mangiava di gusto le interiora di animali in genere e di volatili in particolare. Gli piaceva mangiare dense minestre di rigaglie, gozzi ripieni dal sapore pastoso, cuore farcito arrosto, fette di fegato impanate e fritte, uova di merluzzo fritte. Soprattutto andava matto per i rognoni di castrato alla griglia, che gli lasciavano sul palato un fine sapore di urina lievemente aromatica […]" (traduzione di Gianni Celati)


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infografica i tagli di carne giapponesi


a cura di Emiliano Nencioni

BBQ4All: FROM ZERO TO HERO

La cottura indiretta sul bullet smoker

E così avete fatto il grande passo, avete investito un piccolo capitale di tutto rispetto nell’acquisto di uno smoker verticale, un bullet smoker, in una delle sue varie incarnazioni commerciali. Avete fatto spazio in veranda, o in garage, sacrificando scatoloni di ricordi, la bicicletta che vide muovere difficoltose pedalate al vostro primogenito, l’attrezzatura da hockey e il flicorno tenore del nonno che suonava in banda. Un cacciavite a stella, una chiave da tredici, e quel siluro un po’ sbilenco è presto montato. E adesso? E adesso bisognerebbe imparare ad usarlo, con quello che costa, con tutto il posto che prende. Niente paura, come sempre siamo qui noi, quelli del Magazine, che puntuali (abbastanza) districhiamo i nodi gordiani più cruciali nella vostra esistenza sotto forma di griller. Bando ai cappelli introduttivi quindi, e procediamo con una più prosaica e utile guida alla cottura indiretta su bullet smoker, qualcosa da fotografare e salvare nei preferiti del vostro album sullo smartphone.

Anatomia di un bullet smoker Potreste vedere lo smoker verticale come un kettle nel quale sia stato inserito un cilindro cavo alto 80 cm fra fondo e coperchio: non è esattamente così, ma è un buon punto di partenza.

Appena sopra si appoggia il fusto, ospitante il supporto per il waterpan e due griglie alimenti su due differenti altezze: spesso è presente un qualche tipo di oblò di ispezione, usato per rabboccare il carbone, aggiungere acqua nel waterpan o in generale ficcanasare un po’ durante la cottura.

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Cominciando dal basso abbiamo il braciere, quasi una semisfera cava nell’interno della quale andremo a posare il combustibile, carbone o bricchette, sull’apposita griglia carboni; tre bocchette circolari parzializzabili (vent in) permettono la regolazione del flusso d’aria in entrata.


Il waterpan è una grande scodella di metallo, di diametro poco inferiore a quello del fusto, utile a separare la zona carboni dalla zona pietanze, di fatto impedendo l’irraggiamento diretto del calore proveniente dal bruciatore; la forma a scodella permette di contenere qualche litro d’acqua, che agirà da volano termico e introdurrà ulteriore umidità in camera di cottura qualora ce ne fosse bisogno. Chiude il tutto un bel coperchio semisferico, dotato di maniglie, bocchetta circolare parzializzabile per regolare il flusso d’aria in uscita (vent out), e di un termometro analogico integrato, non lo strumento più attendibile del mondo ma comunque molto comodo per farsi un’idea della temperatura in camera senza arrabattarsi con mille sonde di ultima generazione.

Funzionamento e gestione di un bullet smoker Aver fatto i primi passi usando un kettle sicuramente aiuta molto la comprensione della termodinamica e fluidodinamica dentro lo smoker, ma cercando di non dare niente per scontato vediamo come poter spiegare la faccenda un po’ a tutti. Dovreste già aver ben presente la differenza fra: • cottura diretta: il calore viene maggiormente trasmesso per irraggiamento; • cottura indiretta: il calore viene maggiormente trasmesso tramite moti convettivi. In pratica, è la stessa differenza tra tenere una mano trenta secondi sopra un bruciatore e tenere una mano tre ore in un forno ventilato a 120°C: al pronto soccorso dovrete fornire giustificazioni molto molto diverse.

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Bene, nello smoker si fanno cotture indirette. Scordatevi la bella bistecca, il petto di pollo e le melanzane grigliate: per quelle potrete usare sempre il fido kettle. Niente cotture dirette, a meno che, in situazioni d’emergenza, non vi ritroviate a grigliare sul solo bruciatore, privato del resto della struttura (è successo, sì). Cosa sarebbero questi moti convettivi, e per quale motivo avete dovuto comprare un dispositivo dedicato solo a questo tipo di cotture? In terza media, con l’esperienza dei fogli di carta

velina sopra il termosifone, avete scoperto e verificato che l’aria calda sale; in un sistema pressoché chiuso, come per praticità vogliamo considerare lo smoker, il combustibile scalda l’aria circostante che sale verso le pietanze soprastanti, circondandole di calore; nel frattempo il vuoto creatosi in basso verrà colmato da altra aria che verrà prontamente scaldata e che inevitabilmente salirà, spingendo via l’aria salita un istante prima e che cedendo calore al cibo si è raffreddata e tenderà a voler tornare in basso, innescando un circolo continuo di salite e discese atto a irrorare continuamente di aria asciutta e calda le pietanze. Inutile aggiungere - ma lo aggiungo - che perché il fenomeno abbia luogo è necessario un coperchio, meglio se di forma pensata per “incoraggiare” il suddetto vorticare: ecco perchè il bullet smoker ha la tipica forma a proiettile (o supposta, più realisticamente). La possibilità di un riscaldamento per irraggiamento è scongiurata dal waterpan metallico, che fa da barriera poco sotto il livello più basso delle griglie pietanza. Questo tipo di trasmissione del calore è molto utile per la cottura di pezzi di carne di grandi dimensioni, nella quale l’abbrustolirsi troppo rapido della superficie, tipico della cottura diretta, porterebbe a zone interne troppo crude o addirittura ancora fredde. É per questo che la cottura indiretta è il metodo d’elezione per la cottura barbecue, che come ormai abbiamo ripetuto fino allo sfinimento implica la cottura di grandi pezzi di carne per lungo tempo - e in presenza di affumicatura. In assenza di controller digitali per la temperatura, la gestione del calore è demandata alla parzializzazione di vent in e vent out: come per gli eroici kettle, le bocchette in basso determinano quanta aria (e quindi comburente per la fiamma) potrà entrare, e quella in alto determina come, per effetto camino, l’aria che esce farà sì che altra aria fresca e ossigenata possa entrare. Più aria, più calore, come sempre. Dopo qualche decina di minuti dalla sua accensione un buon kettle allestito con un buon setup tenderà a stabilizzarsi: in base alla regolazione delle bocchette e aiutato dalla propria inerzia termica (e vento permettendo), la camera di cottura rimarrà a una certa temperatura, con oscillazio-


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ni tollerabili. Un buon aiuto a questa inerzia termica è dato dal waterpan: l’acqua in esso contenuta, lo sappiamo bene, non potrà mai superare i 100°C, risultando in duetre chili di materia che assorbe e restituisce energia, di fatto smorzando eventuali picchi di calore o tamponando improvvisi raffreddamenti.

Setup di un bullet smoker Uno dei vantaggi di uno smoker verticale è il non dover perdere la testa a predisporre le bricchette a formare uno snake, l’unico modo di sperare in una cottura di lunga durata usando un kettle: non serve più dedicare quaranta minuti di tempo nella costruzione di un perfetto opus reticulatum, è sufficiente gettare il carbone nell’apposito ricettacolo e poi depositare poco meno di mezzo cesto accenditore di bricchette ben accese in una porzione della griglia carboni.

Coperchio chiuso, e il setup è pronto, senza la necessità di troppi virtuosismi. Potete comodamente usare l’oblò di ispezione presente sul fusto per aggiungere legna aromatica per la doverosa affumicatura (dopotutto si chiama smoker), semplicemente gettando i chunks della vostra essenza preferita sul bruciatore. Tecnicamente potreste usare anche le chips, quelle schegge un po’ minuscole che si trovano facilmente al supermercato, ma avranno una durata ancora minore di quella nell’uso nel kettle.

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Successivamente si dovrà caricare il waterpan con almeno un paio di litri di acqua pulita, inserirlo nel fusto e successivamente sovrapporre il fusto al braciere; volendo usare entrambi i piani a disposizione delle griglie pietanze bisognerà avere l’accortezza di inserire prima il livello inferiore, con eventuali sonde conficcate nella carne, e poi il livello superiore, cercando se possibile di non sovrapporre il cibo per evitare sgocciolamenti e contaminazioni di sapori. Se questa avvertenza vi sembra superflua, aspettate di dover mettere velocemente in foil un brisket alle quattro del mattino nel cuore di una cottura overnight, e mi rammenterete.


La ricetta scientifica a cura di Gianfranco Lo Cascio

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In molti casi, il cucinare è una forma di omicidio colposo. C’è chi ammazza con il pollo crudo, chi assassina con l’uovo bavoso, chi soffoca con la torta asciutta. Esiste però un primo piatto pugliese che di criminale ha solo il nome: gli spaghetti all’assassina. Il delitto vero sarebbe non assaggiarli almeno una volta nella vita. Cosa ha di così straordinario questa ricetta da meritare una rivisitazione scientifica? Ve lo spiego subito.

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Nella pietanza barese di cui sto per svelare ogni segreto, gli spaghetti non vengono lessati in acqua bollente e salata, ma cotti nella salsa di pomodoro e una dose importante di peperoncino, direttamente nella padella di ferro. In questo modo il condimento si restringe per bene e gli spaghetti soffriggono e si sbruciacchiano pure un po’, creando una crosticina paradisiaca. Buoni da morire.


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LA STORIA

Gli spaghetti all’assassina nascono poco più di una cinquantina di anni fa, esattamente al 1967, in una piccola trattoria della città di Bari. Felice Giovine, demologo, storico della città di Bari, Direttore del Centro Studi Baresi, dell’Archivio Storico delle Tradizioni Popolari Baresi e dell’Accademia della Lingua Barese “Alfredo Giovine”, è l’intellettuale che ha ripercorso la storia della ricetta attraverso ricerche fatte su documenti storici di sua proprietà e intervistando l’inventore degli spaghetti in questione: un foggiano. Il suo nome è Enzo Francavilla. Riporto parte dell’intervista.

“Ero un giovane cuoco – racconta Francavilla – e avevo fatto la gavetta al Sarti di Foggia, ma sono venuto a lavorare a Bari insieme ad altri due amici di Cerignola, perché assunto alla “Sirenetta”, locale in via Melo, di proprietà della storica famiglia Vincenti. Alla “Sirenetta”, ho lavorato per una decina d’anni, ma poi ho deciso di mettermi in proprio e di rilevare dai Fusaro “Il Sorso preferito”. Contemporaneamente lavoravo anche alla “Sirenetta a mare”, sul lungomare che da San Giorgio porta a Torre a Mare, poco dopo il lido “Il Trullo”. Il mio aiuto era necessario soprattutto in quelle serate in cui venivano ad esibirsi i grandi cantanti di quegli anni, come Mina, Fred Bongusto, Peppino di Capri, Patty Pravo, Bruno Martino, Gianni Morandi e popolari attori dell’epoca come Gino Bramieri e Renato Rascel.

Poi, sicuramente riferendosi a quanto erano stati graditi ma soprattutto alla piccantezza, ha aggiunto sorridendo:” Sei un assassino”. Così ho deciso che il nome perfetto era proprio “Spaghetti all’assassina” e, da quella sera, il piatto è diventato una richiestissima specialità del ristorante Al Sorso preferito.”

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Appena ho aperto il “Sorso”, solo un paio di giorni dopo, sono entrati due signori provenienti dal Nord Italia e mi hanno chiesto di preparare loro un primo piatto che fosse gustoso e sostanzioso. Mi sono inventato così un piatto di spaghetti con una salsa di pomodoro e una generosa dose di peperoncino, preparati direttamente nella padella di ferro, facendo “stringere” bene il condimento e creando così una gustosa crosticina esterna. Li ho serviti consigliando loro di bere soltanto a fine piatto e così hanno fatto. Poi mi sono avvicinato per chiedere se avessero gradito e uno di loro mi ha detto soddisfatto:”Buonissimi davvero”.


GLI OBIETTIVI

Quando ho scoperto questa ricetta, ho erroneamente pensato che si trattasse di un piatto di recupero di pasta avanzata. Alla luce di cotanta ricostruzione storica fatta attraverso la testimonianza del suo stesso inventore, possiamo sancire che mi sono sbagliato di brutto. Non si tratta, quindi, di un piatto di recupero ma - genesi altrettanto frequente dei piatti popolari - del frutto dell’ingegno di un cuoco colto alla sprovvista dalla richiesta di un cliente. Enzo Francavilla non ha fatto altro che mettere insieme alcuni concetti, arrangiandosi con quei pochi ingredienti che aveva a disposizione e sfruttando al meglio le attrezzature modeste del suo ristorante. Si è senz’altro ispirato a quella pasta avanzata che la domenica sera si “arrusca” o “sfrigge” in tutte le case meridionali, o, ancor più semplicemente, alla crosticina superficiale della pasta al forno. Negli anni ’60 e ’70, sia in casa che nei ristoranti, per ripassare i cibi si usava frequentemente la padella di ferro, ormai bandita in tutte le cucine. Era completamente nera perché non veniva mai lavata, bensì strofinata con carta di giornale per rimuovere i residui solidi. In questo modo si favoriva la formazione di una patina oleosa che impediva alla ruggine di formarsi. A Bari quella padella si chiama “sartàscene” e ancor oggi è possibile acquistarla in qualche mercatino. Oggi si preferisce usare la “lionese”, una padella molto più pesante e spessa, ma sempre in ferro, e soprattutto a norma. Ma quali sono gli obiettivi degli spaghetti all’assassina perfetti? 1. 2.

Gli spaghetti devono assorbire il sapore di pomodoro tramite una “risottatura” con passata diluita con acqua Gli spaghetti devono essere tostati e croccanti, formando una crosticina, frutto della caramellizzazione del pomodoro e delle proteine e degli zuccheri presenti nella pasta.

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E qual è il difetto di questa e tante altre ricette della tradizione? Il metodo. È totalmente empirico. Dobbiamo buttare tutto nella padella, calcolando i tempi un po’ a occhio e pregare San Nicola che la pasta risulti perfettamente al dente ma sbruciacchiata e ovviamente con la giusta dose di salsa. Un assassinio del nostro sistema nervoso, e potenzialmente pure dei commensali. Cosa ho fatto per migliorare la tecnica e renderla replicabile sempre, tutte le volte? Ho preparato un consommé di pomodoro, estraendo la parte liquida del frutto e usandola come acqua di cottura, e ho tostato gli spaghetti prima di buttarli in padella. Risultato? Spaghetti perfettamente cotti, belli salsati e pomodorosi al massimo, con una crosticina croccante ed ambrata (non nera bitume come mi è capitato di vedere spesso), frutto della combinazione tra pomodoro caramellato e pasta tostata. Siete pronti a scoprire come si fa?


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CHIARIFICARE IL POMODORO

IL CONSOMMÉ

È una delle zuppe più interessanti: un liquido chiaro dal sapore intenso e con un corpo distinto ma delicato. Il nome deriva dal francese "consumare", " utilizzare", e si riferisce alla pratica medievale di cuocere il brodo di carne fino al raggiungimento della giusta consistenza. Il consommé più diffuso, quello di carne, è fatto preparando un brodo di base principalmente di ciccia, non di ossa o pelle povere di sapore, che viene poi chiarificato. È una sorta di doppio brodo fatto espressamente per la zuppa; per produrre una porzione possono servire anche 500 grammi di carne. Il consommé di pomodoro, che è quello che interessa a noi, si può ottenere in tre modi.

01. CONSOMMÉ E CHIARIFICAZIONE CON ALBUMI D’UOVO La chiarificazione del consommé si può ottenere mescolando il pomodoro passato o ridotto in purea nell’estrattore insieme a diversi albumi d'uovo leggermente sbattuti. La miscela viene portata lentamente a ebollizione e lasciata decantare per circa un'ora. Man mano che la passata si riscalda, le abbondanti proteine dell'albume iniziano a coagulare in un reticolato fine simile ad una tela fittissima, ed essenzialmente filtrano il liquido dall'interno. La parte solida del pomodoro viene facilmente intrappolate dal reticolato di albume, gradualmente la rete proteica sale in cima alla pentola per formare una "zattera", che continua a raccogliere le particelle portate in superficie dalla convezione del liquido. Quando la cottura è terminata, la zattera viene scremata e tutte le particelle rimanenti vengono rimosse con un filtraggio finale. Il liquido risultante è molto chiaro. La chiarificazione con l'albume rimuove sia parte delle molecole di sapore che gli agenti addensanti contenuti nel pomodoro (cellulosa, pectina, emicellulosa).

02. CONSOMMÉ E CHIARIFICAZIONE CON ALBUMI D’UOVO

Si sbatte l'agar agar nei 250 grammi di passata di pomodoro fredda, per poterlo disperdere, poi si scalda il tutto e si porta ad ebollizione, mescolando e lasciando sobbollire un paio di minuti, per idratare il gelificante. Mentre si sbatte vivacemente la soluzione di agar bollente si aggiungono a filo i 500 grammi di passata di pomodoro, sempre fredda. È importante evitare che la miscela scenda sotto i 35°C o la pre-gelificazione potrebbe rovinare il risultato finale. A questo punto

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Si preparano 500 grammi di passata di pomodoro fredda, altrettanti 250 grammi di passata di pomodoro fredda e 1,5 grammi di agar agar, un agente gelificante che si ricava dalle alghe (0,2% del peso totale del succo) e che servirà ad acchiappare e separare le frazione solida del pomodoro.


si mette su un bagnomaria di ghiaccio per solidificare il composto. Una volta solidificata, la “cagliata” di agar agar va rotta con una frusta, come se si trattasse di formaggio. Quindi si trasferisce in uno chinois foderato di garza finissima, la mussola che viene usata nei caseifici insomma. Si solleva e si spreme, attorcigliando il panno molto delicatamente, per evitare che il gel di pomodoro contamini il consommé. Con questo metodo si ottengono 500 ml circa di acqua di pomodoro. 03. CONSOMMÉ E CRIOFILTRAZIONE La criofiltrazione sembra un affare complicato, almeno a giudicare dal nome. In verità è molto semplice e non richiede alcuna attrezzatura costosa. La parte migliore? I risultati sono sorprendenti con quasi tutti i brodi, con la frutta e con la verdura. E poiché non richiede alcun riscaldamento, preserva il sapore e gli aromi originali della preparazione. Consiste semplicemente nel congelare il vostro prodotto (potete farla con qualsiasi cosa - brodi, frutta, verdura…) e poi scongelarlo in frigorifero su una teglia con i buchini, con un contenitore sotto che raccolga i liquidi. Il supporto ideale è la teglia forata per la cottura a vapore, appositamente foderata con 4 strati di garza. Il risultato sarà un’acqua di pomodoro cristallina con un sapore impressionante di pomodoro fresco. Come si fa? Mo ve lo spiego. Procuratevi 3 kg di pomodori. Per pelarli rimuovete il peduncolo e con attenzione fate un paio di tagli a croce alla pelle partendo dall’estremità. Metteteli in acqua bollente per 10-15 secondi e trasferiteli in un recipiente con acqua fredda e ghiaccio. Aspettate un paio di minuti e pelateli con le mani, lo shock termico vi aiuterà nel processo. Rimuovete i semi.Tagliate i pomodori in piccoli pezzi e passateli al passaverdure o al mixer. Mettete la passata di pomodoro in un contenitore piatto nel congelatore. Assicuratevi che la mattonella ghiacciata entri poi nella teglia forata. Foderate la teglia con i buchini con 4 strati di garza e mettetela dentro una teglia non forata delle stesse dimensioni. Trasferite la passata di pomodoro congelata sopra la garza e conservatela in frigorifero per 24 ore. Raccogliete l'acqua di pomodoro limpida che sarà filtrata sul fondo e utilizzatela nelle vostre ricette.

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04. CONSOMMÉ E FILTRAZIONE A CALDO Di tutte le tecniche è di gran lunga la più facile. È un ottimo compromesso tra semplicità di esecuzione, rapidità e spreco di materie prime. Ed è per questo che la utilizzeremo nella nostra ricetta degli spaghetti all’assassina. Vi serviranno: • • • •

3 kg di pomodori da sugo (o anche pomodorini) Sale q.b. 1 panno di cotone pulito Estrattore di succhi, passapomodoro o passaverdura a maglia finissima

Prendete i vostri pomodori (o pomodorini), lavateli, tagliateli a pezzi grossolani e passateli nell’estrattore di succhi o nel passapomodoro. Se proprio non avete questi strumenti, utilizzate un passaverdure manuale con la maglia molto stretta, per schiacciare bene le bucce ed evitare di far cadere nella polpa i semini.

A quel punto foderate una ciotola di vetro con un panno in cotone spesso, sterilizzato. Versate all’interno la passata ormai separata e fate decantare per qualche minuto. Sollevate il panno e stringete con delicatezza, vi ritroverete con una sorta di concentrato di pomodoro nel panno (usatelo per fare il sugo della pasta!), e l’acqua di pomodoro nella ciotola (circa 2,5 litri). Conservate il liquido per le vostre preparazioni, si presta a tantissimi utilizzi.

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Trasferite la purea di pomodoro fresco in una pentola e lasciate sobbollire per qualche minuto. I moti convettivi del liquido porteranno in superficie tutta la parte solida (pectina, cellulosa, emicellulosa, licopene), vi basterà scansare la polpa galleggiante per vedere il liquido giallo semitrasparente sul fondo.


LA PASTA

Io ho una passione viscerale per la pasta di Gragnano. Mi piace l’aspetto, la rugosità, la sua capacità di addensare tutti i sughetti, il gusto, i formati tipici della zona. L’ho scelta per questa ricetta perché: 1. La adoro; 2. Le sue caratteristiche organolettiche ci daranno tanta soddisfazione in cottura. Ma prima di vedere come si cuoce, vediamo cosa rende la pasta di Gragnano così speciale: 1.

Il fattore Gragnano. La pasta si ottiene impastando la semola di grano duro con l’acqua delle falde locali. I pastifici sono concentrati nell'area di Gragnano e circostante; qui, l'acqua è meno calcarea, il clima perfetto per l'essiccazione naturale. Sono iconiche le grandi foto dei viali di Gragnano con la pasta letteralmente "appesa" ad asciugare, grazie al vento che saliva dalla vicina Castellammare di Stabia.

2.

Superficie rugosa. Sebbene i formati siano tutti diversi, prodotto della fantasia dei pastai gragnanesi, la superficie è sempre rugosa, perfetta per trattenere sughi e condimenti. Merito delle basse temperature di essiccazione, delle quali vi parlo tra un po'

3.

Trafilatura in bronzo. Se è così ruvida e porosa è perché le trafile che lavorano la pasta di Gragnano sono tutte in bronzo. Intendiamoci, anche una trafilatura in teflon ben eseguita garantisce una pasta gialla ambrata, levigata e dal buon sapore. Ma quelle in bronzo o in oro rendono migliore la finitura della superficie, ruvida e biancastra. Oltre ad assimilare meglio il condimento, una maggiore porosità facilità l’assorbimento dell’acqua durante la cottura, per questo la pasta di Gragnano dev’essere cotta al punto giusto per essere al dente.

4. Essiccazione lenta e a bassa temperatura. A seconda del formato, la pasta di Gragnano viene essiccata a una temperatura compresa tra i 40°C e gli 80°C, per un tempo che va dalle 6 alle 70 ore, in dei tunnel dove circola aria calda o in celle statiche celle statiche (molto più diffuso ed economicamente vantaggioso ad oggi). Per avere un termine di paragone: l’essiccazione delle paste comuni dura 4-7 ore a 75°C o anche di più. Che effetti produce l’essicazione lenta a bassa temperatura? La risposta difficile è che consente alla struttura proteica di restare inalterata. Per farla semplice, una pasta ben essiccata difficilmente si spezzerà durante la cottura, anzi, conserva un corpo elastico e tenace sin dopo la mantecatura in padella. 5. La materia prima. Dal tipo di grano utilizzato derivano il sapore della pasta, la capacità di tenere la cottura e quella di assorbire il condimento. Il metodo di coltivazione influenza la qualità del chicco di grano, un grano che subisce forti trattamenti chimici nel campo ne porta le tracce sin dentro il piatto. 6. Semola di grano duro. È il simbolo della pasta di qualità per un motivo molto semplice: la ricchezza proteica del grano duro, superiore rispetto a quella del grano morbido. Da una percentuale di proteine superiore al 13,5% deriva un elevato indice di glutine e il relativo “dente” durante la cottura.

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7. Il confezionamento. Da disciplinare può avvenire nel solo comune di Gragnano e a distanza di 24 ore dal termine della essiccazione. 8. L’esperienza insegna. La relazione tra l’arte bianca della pasta e l’area di Gragnano dura da almeno 500 anni, la cittadina del napoletano è riconosciuta capitale della pasta dalla metà del 1800.


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LA TOSTATURA DEGLI SPAGHETTI

La prima cosa da fare è mettere gli spaghetti in una teglia bassa foderata con carta forno, ungerli con poco olio, che servirà a veicolare il calore, e metterli in forno a 170°C. Bisogna farli diventare color miele, non troppo scuri. Questo processo è tecnicamente ciò che viene definito destrinizzazione. È qui che stiamo aggiungendo un po’ di scienza alla nostra preparazione. La pasta non è altro che semola di grano duro. Sappiamo che al suo interno ci sono amidi, ovviamente, amilosio e amilopectina, ma c’è anche una buona quantità di glutine, quindi di proteine. Nella pasta di Gragnano in particolare. Che succede durante il momento di tostatura a secco? Beh, sostanzialmente due cose. La prima è ciò che viene individuata come destrinizzazione dell’amido, come detto. Avviene quando l’amido viene sottoposto a calore secco. Gli zuccheri presenti si trasformano in destrine. Le destrine hanno il tipico colore bruno e tendono a fornire una nota dolce e profumata. Ma non è tutto.

Dopo la tostatura, gli spaghetti avranno una dominante più dolciastra e il tipico sentore di crosta di pane appena sfornato. Questo ci permetterà di controllare meglio la cottura, conferendo sì il sapore di tostato, ma evitando di prolungare troppo la cottura, evitando la formazione di quegli agglomerati neri di pomodoro bruciato.

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Che succede se abbiamo calore secco, zuccheri riducenti e proteine? Esatto, avviene la Reazione di Maillard. Negli spaghetti ci sono proteine (glutine) ci sono zuccheri riducenti (destrine derivanti dalla tostatura) e se diamo abbastanza calore di certo si catalizza la reazione di Maillard. Che vuol dire più sapore.


LA PADELLA LIONESE La padella in ferro, detta anche “lionese” dall’aggettivo francese lyonnaise, di Lione, ha tantissime virtù. La forma di questo strumento è così antica che un attrezzo simile è stato ritrovato negli scavi di Pompei; l’attuale padella, rotonda con manico, dovrebbe risalire al XVII secolo, e già allora era realizzata in ferro battuto a martello.

I PLUS DELLA LIONESE 01. La sua particolarità principale, dovuta alle proprietà del ferro, è quella di favorire la Reazione di Maillard. Per questa ragione, la lionese è indispensabile per rosolare la carne o il pesce. Perfetta anche per la cottura al salto: dal riso alla pasta a vari tipi di verdure; in più, funziona benissimo per tostare frutta secca e semi tipo il sesamo.

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02. Il ferro consente di raggiungere velocemente alte temperature e di mantenerle costanti. Un aspetto essenziale che rende le padelle in ferro ideali per friggere – l’olio si scalda in fretta e in modo uniforme, e la temperatura rimane costante, evitando sbalzi termici improvvisi quando s'immerge il cibo. Preferitene una dal fondo spesso, la termoregolazione sarà ottimale. Inoltre, è un materiale adatto a qualsiasi tipo di riscaldamento (tranne il forno a microonde!): mentre il ferro è molto utilizzato per i classici piani cottura, a gas o elettrico, è ideale per la cottura a induzione e può essere messo tran-

quillamente in forno. In quest’ultimo caso, non mettetela fredda nel forno già caldo perché non sopporta forti sbalzi di temperatura; lasciatela raffreddare nel forno per la stessa ragione. Controllate che il manico - se non è di ferro - sia adatto alla cottura in forno. Ricordate di utilizzare sempre la padella su un supporto e un fuoco adeguato alla dimensione, per non rischiare che il fondo si pieghi. 03. Cucinare nel ferro non rilascia sostanze dannose nel cibo 04. Il suo smaltimento non reca alcun danno all’ambiente circostante. 05. La padella in ferro ha un costo relativamente basso e una durata nel tempo ottimale. Se poi avete la fortuna di avere tra le mani la fedele padella in ferro della nonna e ancora non la state usando, qualche attenzione e cure speciali la riporteranno all’antico splendore. Se la usate già, sappiate che le sue prestazioni migliorano man mano che viene utilizzata, purché ci si prenda cura di lei.


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LA CORRETTA MANUTENZIONE DELLA PENTOLA DI FERRO I nemici principali di questa padella sono l‘ossidazione e la ruggine che ne consegue: ecco cosa fare per evitare che si formino. 01. Condizionamento di una nuova pentola. Quando è nuova o leggermente arrugginita, la padella in ferro va “condizionata”. L’operazione si chiama brunitura e la pulirà, rendendola antiaderente. A. Il procedimento consiste nell’immersione della lionese nuova in acqua molto calda e poco detergente per piatti per 10 minuti; sfregatela bene con una spazzola per piatti, risciacquatela e asciugatela bene. B. Ungetela poi con olio di semi di arachidi (anche le pareti interne) – gli oli vegetali hanno un alto punto di fumo - e trasferitela nel forno a 200°C fino a quando la superficie interna avrà preso una colorazione grigio-blu. C. Quando è ancora calda (attenti a non scottarvi), passatela con carta assorbente da cucina unta di olio di semi prima e asciutta poi; rimarrà comunque un po’ unta. D. Versatevi uno strato di sale grosso e rimettetela in forno qualche minuto, fino a quando il sale inizia a imbrunire. Smuovete il sale ogni tanto. E. Versate il sale nel lavandino (si scioglierà con l’acqua) e passate nella padella un foglio di carta da cucina asciutto per levare i residui. Appena si sarà raffreddata, ungete tutto l’interno con carta da cucina. La padella sarà pronta e potrete utilizzarla subito. 2. Utilizzo in cucina Qualunque sia il tipo di cottura, con la lionese si dovranno sempre utilizza-

re grassi come olio, burro chiarificato o strutto; man mano che si utilizzerà la padella, il ferro si velerà e si ungerà, e sarà possibile diminuirne la quantità usata. Bisogna evitare che i cibi vi sostino a lungo; cercare di trasferirli prima possibile in modo che si formino poche incrostazioni nella padella e la pulizia risulti più facile. Una volta brunite, le padelle in ferro non vanno mai lavate con detersivo e mai messe in lavastoviglie. Dopo la cottura, aspettate che la lionese sia tiepida; se del cibo si fosse attaccato al fondo, grattatelo pure con una spatola. Per pulirla poi basterà passare fogli di carta da cucina all’interno, tre o quattro passate; poi ungetela di nuovo con poco olio di semi e carta assorbente e mettetela via. Se volete essere sicuri di non trasferire gli odorini fra una cottura e l’altra, ripetete l’operazione con il sale grosso al passaggio D prima di ungerla - oliate accuratamente sia l’interno sia l’esterno - e riponetela in un luogo asciutto. Il sale pulisce bene ed esercita un’azione anti-muffa. 03. Manutenzione ordinaria e straordinaria. Deve rimanere sempre leggermente unta al tatto e va riposta in un luogo fresco e asciutto, lontana dall’umidità. Se impilate più padelle, separatele con fogli di carta assorbente. Nel caso di padelle molto arrugginite: eseguite il passo A, mescolando all’acqua la stessa quantità di aceto di vino bianco e immergetevi la lionese; l'intera padella dovrà essere coperta dal mix di acqua e aceto. Lasciatela immersa diverse ore (il tempo dipenderà dallo strato di ruggine), ma controllate spesso: una volta sciolta la ruggine, l’aceto intaccherà il ferro. Proseguite poi con le successive operazioni di brunitura (da B a E).

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LA RICETTA SCIENTIFICA

SPAGHETTI ALL'ASSASSINA INGREDIENTI dosi per 6 persone • 500 g di spaghetti o spaghettoni di Gragnano • 750 ml di acqua di pomodoro • 1 l di passata di pomodoro (usate il concentrato ottenuto dalla preparazione del consommé) • olio extravergine di oliva • 1 spicchio d’aglio • peperoncino fresco o secco q.b. PROCEDIMENTO Preparate un sugo ristretto con la passata di pomodoro e il concentrato ottenuto dal filtraggio del consommé. Tegame, olio extravergine, spicchio d’aglio a soffriggere. Versate la passata e fate cuocere fin quando non diventa bella densa. Salate e aggiungete foglie di basilico spezzate con le mani. Mettete sul fuoco una padella antiaderente o una padella tipo lionese, è importante che il diametro sia maggiore della lunghezza degli spaghetti, così che la pasta cuocia comodamente e bella distesa. Coprite gli spaghetti con l’acqua di pomodoro e portate a metà cottura. Quando gli spaghetti avranno riacquistato elasticità, aggiungete una mestolata di sugo di pomodoro pronto e spadellate. A questo punto spostate gli spaghetti sui bordi della padella, affinché stiano ben a contatto con la superficie riscaldante, fate un giro d’olio sui bordi (tra gli spaghetti e la padella si intende) e fateli sfrigolare per bene. Al centro aggiungete la salsa avanzata, basteranno un paio di mestolate. Tenetene un po’ da parte da usare nella fondina. Servite gli spaghetti in questo modo: mestolata di sugo sul fondo del piatti, spaghetti croccanti e fogliolina di basilico ribelle (nella ricetta originale non è prevista). Mettete a tavola il peperoncino, lasciando la libertà ai commensali di vivere un’esperienza gastronomica sbalorditiva, o di morire per colpa della capsaicina.

Gianfranco Lo Cascio

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Li farete secchi in ogni caso.


Non fare caso al disordine Seguo

a cura di Emiliano Nencioni

Benvenuti alla Seguo più bollente dell’anno, la rubrica Seguo estiva, quella di Agosto! Bollente non per l’audacità dei temi trattati, per le controversie che per sua natura normalmente attirerà: tutt’altro, l’appuntamento estivo, scritto quest’anno sotto la morsa dell’anticiclone Lucifero e una dirompente canicola, è tradizionalmente quello più all’acqua di rose, mite, redatto tenendo i piedi in un catìno di acqua gelata, scritto con un dito solo sullo smartphone da una ripida scogliera del litorale livornese. Si ma quindi?

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E quindi mi erano venute in mente tutta una serie di cose odiose o semplicemente inducenti livore e frustrazione, legate all’usanza di “andare in vacanza sui social”, un fenomeno di massa per cui in abbinamento ai momenti di svago personali si percepisce l’esigenza di urlare in testa a tutti i propri follower che sì, adesso è il tuo momento di mandare al diavolo tutti i problemi (pare ci siano persone abili nel farlo - non ne conosco), stai alla grande, te la godi, alla faccia di chi ti vuole male (sei un dittatore di un piccolo stato? Sei in regime di 41bis?). É la versione millennial delle funeste diapositive del matrimonio. Una variante con puntuale consegna porta a porta, con diffusione in streaming, delivery immancabile e personalizzato di queste diapositive: scorri il feed del tuo social preferito per goderti un po’ di cagnolini e gattini e trac, ti arriva la foto dell’amministratore delegato in piscina col drink ghiacciato galleggiante su apposito salvagentino da bicchiere. Cerchi le foto on stage di una rockstar, ma ti suggeriscono di gu-

starti il reel della tua parrucchiera, che invece di darti un appuntamento per sistemarti il taglio è fuggita nella villetta in montagna, perché “abbiamo avuto tanti pensieri quest’anno”. Tutti contenuti, irrimediabilmente, con un retrogusto di “alla facciazza vostra”, come se uno si rilassasse per fare un dispetto agli altri, o come se gli altri fossero minimamente interessati al benessere o alla temporanea spensieratezza degli sconosciuti. Le diapositive venivano proiettate al buio, e anche le agghiaccianti VHS da 240 minuti con il viaggio a Malta dei nonni richiedevano un po’ di penombra, e non era richiesta interazione: potevi metterti lì e semplicemente annullare la tua esistenza corporea per qualche oretta, mettendoti il cuore in pace e aspettando con rassegnazione la fine (un po’ quello che mi capita quando una persona fuori dal mio entourage pretende di parlarmi di un argomento a sua scelta per più di quindici secondi), oppure schiacciare un salvifico pisolino. Adesso no, i microcontenuti frazionati, in realtime e con montaggio frenetico, te li becchi tutti, pro-


Sean Norvet - Waiting For The Pizza Delivery Man (2014)

É narcisismo, o una sua forma tecnicamente avanzata figlia dei tempi. Nessuno si prenda la briga di criticare il narcisismo, che è un atteggiamento sano, autoconsolatorio e gratificante: la cosa più problematica forse è questo narcisismo iniettivo, che ti arriva porzionato in dosi ben intervallate tuo malgrado, senza aver mai accettato un simbolico invito alla messa in onda della VHS del compleanno del nipotino. Tocchiamo a mio avviso il fondo quando il narcisismo iniettivo di cui sopra diventa anche competizione paranoica (il mio relax è meglio del tuo!) e voglia di indispettire gli astanti ostentando benessere, ricercando l’invidia di chi guarda - per poi far sentire tutti in colpa per questo verdastro sentimento. L’omologo, in termini di coefficiente di odiabilità, della orrenda “foto dei miei piedi al mare” nel mondo del grilling è stata per molti anni la foto, ormai caduta un po’ in disuso, della fetta di brisket talmente morbido e cotto così bene da piegarsi attorno a un dito.

Alla milionesima reiterazione è diventata antipatica a tutti: era un momento di narcisismo, di auto incensamento, di amichevole sfida verso gli altri patiti di barbecue, ma aveva un gran pregio: non era polemica. Non attaccava, non cercava la rissa o l’umiliazione: affermava solo di aver conseguito un certo risultato. E adesso che come quasi ogni mese siamo arrivati all’adempienza contrattuale con il “parallelismo tra vita quotidiana e mondo del grilling”, giungo al punto cardine della rubrichina conclusiva del numero di Agosto. Da pochi anni a questa parte il consueto e sacrosanto post di narcisismo grigliatorio si è spostato pericolosamente da un “guardate di cosa sono stato capace io” a un deprecabile “guardate di cosa sono stato capace io e voi no”. Un po’ come le foto delle vacanze sbattute sui social prese in esame qualche riga più su: il pacifico “vedete un po’ che bella ciccia mi mangio” adesso ha un’irritante chiosa che suona sempre un po’ come “alla facciazza vostra”. Battutine, frecciatine, asserzioni passivo-aggressive a contorno. Mi risulta difficile fare degli esempi perché ogni individuo ha le sue idiosincrasie e le sue “chiose irritanti”, e il mio è un discorso del tutto sociologico e generale che non ha nulla a che spartire con il particolare e la persona singola: finirei per buttare

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prio quando sei più vigile, e almeno un pietoso like all’amministratore delegato glielo devi mettere, altrimenti che figura ci fai, poi, mica vuoi sentirti ripetere per tutto l’autunno che tu “eri lì a rosicare invece che divertirti a commentare come tutti gli altri”.


lì dei riferimenti fin troppo precisi, ed è quanto di più lontano dalle mie intenzioni. Usare una rubrica per accanirsi tramite complicatissime allegorie contro qualcuno: figuriamoci. Zero, proprio. Come siamo arrivati a questo ennesimo abbrutimento di un semplice e innocentissimo post di condivisione di risultati? Ho qualche teoria. •

l’imitazione del personaggio popolare: lo fa tizio, si becca i like, e allora ricalco l’usanza la voglia di sentirsi parte di un’élite illuminata da contrapporsi a un vasto gregge di grigliatori inconsapevoli le reazioni inutilmente incollerite e a vario titolo rosicanti dei commentatori davanti a ottime tavolate e a risultati degni di nota

Proprio il terzo punto ha scatenato una specie di allerta preventivo, una partenza prevenuta che ha reso molto più antipatici e polemici i post: diamo per scontato che qualche perdigiorno vorrà dedicare dieci minuti del suo tempo ad un commento seccante, e ce lo immaginiamo subito assiso sul trono, pantaloni alle caviglie, intento a scovare qualche debolezza da evidenziare, per farci fare -sia mai, come si permette!- brutta figura. Una carne così bella, e poi servita in quei piatti… A me sembra un po’ secca

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Hai completamente sbagliato l’annata del vino, rovescerei nel lavandino qualsiasi cosa dell’annata 2012! Troppo cibo sprecato E via. Succede, sì sì, succede, effettivamente. Chi posta allora si premunisce con mille premesse un po’ ironiche un po’ strafottenti, cerca di prevenire il commentatore noiosetto compiendo tutti i possibili spoiler sulle battute che potrebbero essere fatte. Autodifesa. Alla fine del post, eccola lì, appare tragicamente la chiosa irritante. Qualche motteggio, una breve massima, ed è subito sapore di

“alla facciazza tua”. Che fastidio. Ma mangia tranquillo, che ti leggiamo tutti scrollando lo schermo con una velocità che non ti immagini. Naturalmente, facendo così, i commenti sarcastici e polemici sono assicurati. Un po’ come quando entra qualcuno in casa, o arriva il tecnico dell’ADSL, svogliato e col tablet marcio in mano, e sentiamo quel bisogno impellente di avvertire: “Non fare caso al disordine eh, sai, scusa, è proprio che è una mattinata… guarda quanto disordine - ma non farci caso, non farci caso” E il tecnico dell’ADSL, o l’amico inaspettato, è in questo modo costretto a rendersi conto del disordine, a notare le mutande lasciate sul divano, le magliette da stirare appoggiate al monitor 55” UHD, la trousse di chiavi a brugola aperta sul cuscino. Stessa cosa con i post con le premesse strafottenti e le chiose irritanti. É come servire la polemica su un piatto d’argento: “non solo sono conscio che il mio post ha queste debolezze e che questo aspetto potrebbe farti ironizzare, ti sbeffeggio già prima che tu pensi di intervenire, e mi rendo in qualche modo irresistibilmente insopportabile ai più”. Ed è così che si compie un piccolo disastro. Il commentatore (che pure lui, via, non ce la fa proprio a tenersela) abbocca, innesca la questione, si creano due schieramenti, e avanti fino a che il primo moderatore chiude tutto. Il grosso bisogno di imitazione fa tutto il resto. Ancora una volta, evidenzio un problema ma non ho modo di portare nessuna plausibile soluzione: ma ve l’ho detto dall’inizio, è una Seguo estiva, non fateci caso.

Emiliano Nencioni


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Anna Reshetnikova - Clean up the mess (2020)


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N°33/ANNO 3 - SETTEMBRE 2021

L'EDITORIALE DI GIANFRANCO LO CASCIO Glicolisi e frollatura della carne

SPECIALE CUCINA FRANCESE Gratin dauphinois, Ratatouille, Soup à l’oignon, Bœuf bourguignon, Bouillabaisse, Coq au vin, Quiche Lorraine, Foie Gras, Tournedos, Saint Honoré

NICE TO MEAT YOU Hanger steak

COME SI FANNO Croissant

LA RICETTA SCIENTIFICA Cacio e pepe

Gricia, Mac and Cheese, Nacho cheese sauce


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Editoriale di Gianfranco Lo Cascio

Conoscere la lavorazione della carne per scegliere quella più buona:

Q

GLICOLISI E FROLLATURA

uante probabilità ci sono di sfregare la monetina sul gratta e vinci giusto e farselo fregare agilmente dal tabaccaio? Sicuramente, ci sono più possibilità di trovare in giro una bistecca succulenta, saporita ma soprattutto tenera.

Via con le dichiarazioni: quante volte vi è successo di assistere a questa scena? O di viverla in prima persona, addirittura. La notizia fantastica che sto per darvi è che potete smettere immediatamente di mangiare carne dura, semplicemente imparando a riconoscere quella tenera. Il grado di tenerezza di una bistecca è direttamente proporzionale al suo grado di frollatura. La frollatura della carne è il tempo di permanenza in cella frigo che intercorre tra l'abbattimento dell'animale e la sua vendita sul banco. PIÙ LUNGO È IL PERIODO DI FROLLATURA, PIÙ TENERA E SAPORITA SARÀ LA CARNE. Ma facciamo un passo indietro per capire cosa succede al suo interno prima del processo di frollatura. I muscoli vanno infatti incontro a una serie di cambiamenti biochimici e fisici molto importanti. La prima cosa da chiarire è che, specie per il bovino, parlare di carne freschissima non ha senso. Dopo

alcune ore dalla morte dell’animale compare l’irrigidimento o post-mortem: quindi la carne appena macellata è letteralmente immangiabile. Come mai i muscoli si irrigidiscono? Non arrivando più l’ossigeno e le altre sostanze portate dal sangue, si esaurisce l’ATP, la sostanza che permette all’animale vivo di muoversi, facendo contrarre i muscoli. Ma allora come mai i fasci muscolari non si induriscono subito? Facile, perché l’ATP non finisce subito: in una prima fase si rigenera dalla fosfocreatina (una molecola che agisce come accumulatore di energia) e dalla glicolisi anaerobica (processo del metabolismo durante il quale una molecola di glucosio viene scissa al fine di generare molecole a più alta energia), ma man mano le riserve di glicogeno, i depositi di glucosio, finiscono, e non si ricreano perché la glicolisi si arresta in seguito all’abbassamento del pH. L’aumento del livello di acidità è infatti un altro fenomeno che interessa le carni in questa fase: il pH da 7,3-7,5 passa nel giro di poche ore a 5,3-5,5 per accumulo di acido lattico; ma solo temporaneamente, perché poi torna su fino a stabilizzarsi a valori di 5,6-5,8. A cosa serve questo pistolotto di biologia animale? Serve a capire che la velocità del processo descritto incide sulle caratteristiche finali della vostra bistecca! Infatti, se durante la fase di macellazione non c’è sufficiente glicogeno nei muscoli, questo condiziona l’inizio del rigor mortis e impedisce il raggiungimento del pH acido, con la formazione di difetti visibili sulla carne, a livello di colore e struttura.

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Eppure, il concetto che sta alla base del processo è molto semplice: compro la carne, la porto a casa, la cucino e la mangio di gusto. Ma è davvero sempre così? Di solito, l’iter è il seguente: recupero la carne, mi dirigo verso il domicilio, la schiaffo in padella e la bastarda invece di cuocere, comincia a sobbollire mestamente nella sua malmetta grigia. Quando poi inizio a degustarla, mi accorgo che devo lussarmi le mascelle per poterla masticare e buttare giù.


I motivi che portano l’animale a consumare troppo glicogeno muscolare possono essere diversi e tutti riconducibili allo stress in fase di macellazione: i fattori sono la temperatura dell’ambiente in cui vive, lo stato di nutrizione dell’animale e il grado di affaticamento. Le carni che ne risultano hanno difetti di aspetto e struttura, generalmente descritti con due acronimi: PSE e DFD. PSE (dall’inglese pale, soft, exudative) sta per pallida, molle ed essudativa (che rilascia liquidi); la struttura della carne è in pratica crollata, così come la sua capacità di trattenre l’acqua all’interno. Pensate che danno può fare quando si tratta di carne per produrre insaccati. DFD (dall’inglese dark, firm, dry) sta per scura, dura e asciutta; la carne al contatto con l’aria è rosso porpora scuro anziché rosso brillante, ha un pH superiore a 6.0 e si contamina rapidamente poiché la bassa acidità favorisce una crescita batterica molto rapida.

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Le carni PSE e DFD sono certamente commestibili,

ma tremende da mangiare: le prime rilasciano acqua in cottura, la famosa melma grigia di cui parlavamo all’inzio; mentre le seconde ha un sapore molto debole e risultano insipide, sia cotte che trasformate in salumi.

FROLLATURA Immaginiamo quindi che in fase di macellazione tutto vada liscio e la carne risulti perfetta: la carne non è ancora pronta per essere consumata perché, finché persiste la rigidità, è troppo dura. Ricordatevelo quando vorranno propinarvi la fettina fresca fresca e rossa rossa. Il muscolo si può quindi chiamare carne solo dopo la frollatura, un processo che conferisce aroma, tenerezza e succosità. Il giusto grado di frollatura, anche detta maturazione, è un requisito qualitativo fondamentale. LA STORIA La frollatura della carne non è certo un’invenzione dei tempi moderni. Già nel Medioevo si lasciava frollare la carne per renderla tenera e darle sapore.


WET AGING e DRY AGING Si può frollare la carne in due modi: sottovuoto, in ambiente umido, o a secco, oppure in una cella frigorifera, con una temperatura e un grado igronometrico (umidità) controllati. L’aumento di tenerezza raggiunta è identico in entrambi i casi, ma la carne sottovuoto è sicuramente più pratica e facile da conservare. LA SCIENZA Come abbiamo detto prima, durante la fase di rigidità del capo abbattuto, le cellule della carne consumano il glicogeno (uno zucchero) contenuto nei muscoli e producono acido lattico: questo modifica

il pH della carne, che diventa acida. In seguito alcuni enzimi, le calpaine e le catepsine, iniziano a frammentare la struttura contrattile delle fibre muscolari, e avviene la proteolisi (degradazione delle proteine). Segue la lipolisi, che ossida i lipidi e sviluppa il sapore. Entrando nel dettaglio, nel processo di frollatura intervengono due meccanismi fondamentali: enzimatici e fisico-chimici. Gli enzimi, rilasciati da particolari strutture nelle cellule chiamate lisosomi, sono responsabili della scomposizione delle fibre muscolari. Questa scomposizione permette ai muscoli non solo di recuperare l’estensibilità che avevano durante la vita dell’animale, ma di aumentarla, rendendo la carne tenerissima. Tutte le proteine vengono attaccate e parzialmente disgregate dagli enzimi: prima quelle sarcoplasmatiche (proteine di membrana), poi le contrattili (actina, miosina) e per ultimo le proteine dello stroma (collagene, elastina). Queste ultime fibre connettive, se non ammorbidite a sufficienza,

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Alla fine del XIX secolo, l'ingegnere francese Charles Tellier mise a punto delle celle frigorifere in cui si poteva regolare la temperatura in maniera precisa. Acquistò e adattò una nave, installò al suo interno le celle frigorifere e riuscì a trasportare un carico di carne di manzo da Rouen a Buenos Aires in 105 giorni. La carne, conservata fra -2°C e 0 °C, arrivò in perfetto stato.


risultano particolarmente ostiche da masticare (i cosiddetti “nervetti”). Ma non finisce qui: gli enzimi attaccano anche i grassi. La lipolisi (scissione) che i grassi compiono inizialmente a bassa temperatura conferisce aroma e sapore, idrolizzando i trigliceridi insaturi e gli acidi grassi saturi a catena corta. È solo col passare del tempo o con temperature non sufficientemente basse che può iniziare anche l’ossidazione dei grassi, che però va evitata in quanto responsabile dell’irrancidimento. Avete presente l’ingiallimento esterno delle parti grasse? Ecco, quello è un indizio di irrancidimento. Questa attività enzimatica è strettamente collegata al pH (che, abbiamo detto, è correlato alla quantità di glicogeno inizialmente presente nel muscolo) e alla temperatura: la riduzione dell’intensità di raffreddamento nei locali di frollatura accelera infatti l’attività delle proteasi (enzimi). Anche l’età dell’animale influisce sulla maturazione, in base al carico di collagene: per questo motivo è più veloce e intensa nei capi giovani.

IL METODO DI SOSPENSIONE INFLUENZA LA FROLLATURA

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Dopo la macellazione, le carcasse vengono sospese con un gancio inserito nel tallone di Achille. SOSPENSIONE DAL TALLONE D’ACHILLE Questo tipo di sospensione è effettuato per guadagnare spazio,


ma i muscoli del dorso che sostengono tutto il peso della carcassa vengono compressi durante il rigor mortis. Muscoli compressi significa lieve aumento della tenerezza della carne. Alcune realtà praticano invece la sospensione pelvica. SOSPENSIONE PELVICA In questo caso si sospende la carcassa per l’osso iliaco del bacino: è la colonna vertebrale che sostiene la carcassa appesa al gancio, i muscoli sono in posizione di stiramento e diventano molto più teneri. In questo tipo di aggancio, i muscoli del dorso acquisiscono una forma diversa dal solito. Per esempio, la bavetta è molto più lunga e sottile, sicuramente migliore. I muscoli stirati apportano grande tenerezza alla carne. FROLLATURA: PERCHÉ È COSTOSA? - Ci vuole del tempo per realizzarla. - Ci vuole spazio, molto spazio, per metterla in pratica. - Nel caso del dry aging, si verifica una considerevole perdita di peso: una parte dell’acqua contenuta dalla carne evapora e si taglia via la parte di carne asciugata all’esterno. Insomma, si perde fra il 40% e il 50% del peso iniziale.

PERCHÉ LA CARNE FROLLATA È PIÙ BUONA? La carne ben frollata è più tenera e succosa perché le proteine frammentate hanno una struttura che conferisce masticabilità e consente alle fibre di mantenere i succhi durante la cottura. Questa carne offre un ventaglio di sapori ben più ricco di una carne normale: il sapore è più concentrato e al suo interno si sono sviluppati nuovi aromi. La carne frollata è destinata ad un'utenza consapevole, che sa cosa vuole e ne riconosce il valore. La frollatura è uno dei parametri fondamentali necessari a stabilire, con precisione, il livello di qualità di una data partita di carne. Ed è importantissimo conoscerla per poi avere almeno la libertà, la facoltà e la possibilità di scegliere quale prodotto comprare. Cosa abbiamo mangiato fino ad oggi e cosa mangeremo domani, dipende dalle nostre scelte, non dalle nostre possibilità. E ora sapete tutto, ma proprio tutto, sulla frollatura. Gianfranco Lo Cascio

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La bistecca del mese

HANGER STEAK


“Hanger is The New Rib Eye”, potrebbe affermare qualche fortunato che abbia avuto modo di assaggiare questa prelibatezza cucinata a dovere. Parliamo di un taglio unico ed inconfondibile, abbastanza sconosciuto fino a poco tempo fa, che sta lentamente spopolando in tutto il mondo negli ultimi anni. Il connubio perfetto tra il sapore beefy intenso che lo caratterizza e una morbidezza spropositata, data dalla marezzatura presente in abbondanza tra le enormi fibre, lo rendono un taglio davvero formidabile.

Deve la sua fama anche all’utilizzo sempre piu massiccio dei social e alla curiosità delle persone: la voglia irrefrenabile di assaggiare qualcosa di diverso, di migliore. In effetti il suo sapore è davvero intenso e la sua morbidezza fa impazzire gli amanti delle bistecche. Anni fa la si poteva trovare occasionalmente sul menu dei pochi ristoranti che sapevano cucinarla, ma nella grande maggioranza dei casi diventava carne trita o spezzatini. Ad oggi, in alcuni casi costa più dei tagli di prima scelta ed è addirittura difficile da reperire.

DESCRIZIONE Considerato parte del diaframma, insieme all'Inside e all’Outside Skirt, il nostro taglio (Crus del Diaframma) è situato nella zona lombare, dove finiscono le ultime costole

all’interno della cavità toracica, appesa- come il nome suggerisce “to hang” “appendere”- in prossimità dei reni sulle prime vertebre lombari. Pende letteralmente dalla pancia.

aperti. Nella carcassa ce n’è uno solo e lo trovate tra la dodicesima e la tredicesima costola, decentrato sul lato destro. Per quale motivo? Perché a sinistra c’è il rumine.

Per Hanger si intendono i pilastri del diaframma, ogni pilastro è composto da una parte destra e una parte sinistra. In mezzo passa proprio l’aorta. I pilastri sono la continuazione del diaframma, che si apre per far passare l’esofago, e si collegano alla colonna vertebrale.

È ricoperto da una membrana relativamente traslucida (la stessa che copre l'inside e l’outside skirt), e pesa in media dai 400 g ai 900 g. Apparentemente si presenta come un pezzo unico ma sotto la membrana si notano effettivamente due muscoli ben distinti (crus sinistrum diaphragmatis, crus dextrum diaphragmatis), uniti da un tendine spesso e bianco, che il più delle volte viene eliminato prima della cottura. Quando viene tagliata in singole bistecche, presenta una parte

La Hanger è un taglio molto irrorato di sangue, per questo molto saporito, ed è caratterizzato da una forma (quasi a V, o addirittura) a X quando entrambi i lombi sono un po’

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Conosciuta anche come: Lombatello (Italia), Onglet (Francia), Butcher’s steak, Bistro steak (USA) Entraña, Fajitas arracheras (Sudamerica)


un po’ più bassa, per questo è difficile cuocerla in maniera omogenea. Le sue fibre mostrano una struttura molto “lenta” una volta trimmata (ripulita), con una grana particolarmente marcata, simile alla Skirt o Flap, ragion per cui a volte viene confusa con i tagli menzionati. Inizialmente era collocata nella cosiddetta categoria delle “Butcher's Steak”: difficilissima da reperire proprio perché il macellaio non la metteva proprio in vendita, tenendola per sé.

PREPARAZIONE Per un’accurata e opportuna pulizia dela Hanger serve sopratutto sapere che risultato finale si vuole ottenere, o in

che tipo di ricetta la si vuole utilizzare. I fattori che possono influenzare radicalmente il modo in cui trimmiamo il nostro pezzo sono il quantitativo di grasso intramuscolare e superficiale e la grandezza effettiva del pezzo. Un taglio di Black Angus cucinato intero sarà pulito/ sgrassato diversamente da uno di Wagyu cotto in stile Yakiniku. Ipotizzando che il nostro taglio non abbia subito alcun trattamento di pulizia, possiamo iniziare il trimming armati di un coltello ben affilato e, con molta attenzione, possiamo rimuovere prima di tutto il grasso superficiale in eccesso, per poi proseguire rimuovendo la membrana che lo ricopre.

Il passo successivo è dettato, come abbiamo già detto, dalla scelta della ricetta che vogliamo preparare. In questo caso, immaginando di volerlo cucinare intero ma diviso in due parti, procederemo nel rimuovere il tessuto centrale con cautela, dato che in cottura le elevate temperature potrebbero farlo accorciare con conseguente deformazione della bistecca. Dopo aver eseguito i passaggi sopra elencati a dovere, la nostra Hanger Steak dovrebbe essere porzionata perfettamente e pronta per la griglia.

COTTURA Fortunatamente la cottura ideale per la Hanger Steak è anche la piu semplice, ed è senza ombra di dubbio una diretta su calore più feroce che potete alimentare, con l'accortezza di non andare mai oltre i 50°C 52°C al cuore.

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Che voi usiate una padella in ghisa oppure la griglia, il risultato sarà eccezionale se la cauterizzazione avverrà nel modo giusto: non dimenticate di asciugare bene prima la carne e di ungerla con olio o burro chiarificato, per sviluppare una migliore crosticina. Potete anche sbizzarrirvi con le marinature (la fibra lassa e larga è perfetta per essere marinata), con cotture veloci ma anche lente, che possono aggiungere una nuova dimensione al taglio. La sua elevata morbidezza, rispetto ad altri pezzi più nobili, è dovuta al fatto che, pur facendo parte del diaframma, è principalmente un muscolo di sostegno, che si contrae ben poco durante la vita dell’animale.


Tuttavia, non bisogna sottovalutare il modo in cui affettiamo il pezzo prima del servizio. Come sempre è molto importante tagliare contro fibra e fare delle fette sottili non prima di averlo fatto riposare per almeno cinque minuti.

CONSIGLI PER IL SERVIZIO

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Potreste accostare una salsa al gorgonzola con erba cipollina per contrastare le forti note manzose della Hanger, e servire con una spadellata di cavolo nero con aglio, uvetta e pinoli. Allo stesso modo, potete usare la Hanger per riempire delle Fajitas insieme ai condimenti e alle verdure che più preferite.


e l l e v u on cuisine

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La

L’evoluzione della cucina classica Portfolio gastronomico #1 a cura di Nunzia Clemente


La nouvelle cuisine è, molto semplicemente, un movimento di pensiero e di azione gastronomico che ha rivoluzionato il mondo delle cucine (a tutti i livelli, dai ristoranti alle case dei privati cittadini) a partire dalla Francia, per poi estendersi in tutto il mondo. La teorizzazione di questo movimento (ma dire movimento è riduttivo) la dobbiamo a due critici gastronomici che almeno la metà del pubblico non conosce. Nella fattispecie, parlo di Henri Gault e Christian Milau. Ma la storia della nouvelle cuisine non può che partire, appunto, dalle cucine. La guida ne è solo la teorizzazione, ma la messa in pratica è altra cosa.

Nouvelle cuisine. Un po’ di nomi. Difficile è stabilire quando, effettivamente, sia nato il termine nouvelle cuisine; se già il filosofo Voltaire ne attesta l’utilizzo dai suoi contemporanei. Già dagli anni Sessanta del ‘900, i giovani cuochi francesi trovano strette le maglie della cucina tradizionale: per cucina tradizionale s’intende quella codificata dalle grandi scuole classiche che fanno capo a Marie Antoine Carême (1784-1833) e Auguste Escoffier (1846-1935). Carême, possiamo dire con una certa tranquillità, fu il codificatore di una cucina borghese, democratica, alla portata di tutti; è figlio della Rivoluzione francese, dopotutto. Ed è anche il primo chef ad essere universalmente riconosciuto in quanto tale. Per quanto riguarda Escoffier, le sue eco arrivano sino ad oggi, influenzando ancora una buona fetta di cucina. Il fine dining deve a lui un certo tipo di codificazione dello stesso, che è ancora usato oggi in moltissime cucine. Se lo stile sfarzoso di Carême

è molto più semplice da minare e, in un certo senso, da mettere da parte, Escoffier capì che la strada che gli si parava davanti era quella di iniziare ad eliminare il superfluo, di “ridurre all’essenziale”. C’è da dire che ci aveva visto giusto. Nella Parigi degli anni Sessanta – bisogna ricordarlo, una Parigi in pieno fermento, con tantissimi movimenti culturali in atto, uno tra tanti quello cinematografico della nouvelle vague, che tanto ha segnato per più di mezzo secolo la cultura europea e mondiale, ma anche il movimento del Noveau roman, della nuova letteratura – iniziarono ad agire questi nuovi chef e ristoratori (quindi, anche imprenditori) che proponevano un nuovo modello ristorativo. Tre sono i nomi che hanno maggiormente influenzato e diffuso il concetto di nouvelle cuisine: Paul Bocuse, Michel Guérard e Fernand Point. Sì, ma: in cosa consiste la nouvelle cuisine? Come ogni movimento nuovo che si contrappone a quello già esistente (e la Francia, in tal senso, insegna!), c’è un momento di “rottura” e successivamente di affermazione. Non si esime la nouvelle cuisine. Gault e Milleau teorizzarono che la nouvelle cuisine fosse la cucina dei giovani cuochi dell’epoca che andava in contrapposizione alla grande cucina classica allora ampiamente diffusa. Gli chef volevano prendere il loro momento di ribalta proponendo ricette nuove, che andassero oltre al numero limitato delle grandi preparazioni della tradizione francese, come ad esempio i Tournedos à la Rossini, Canard au sang, Poisson au beurre blanc. Inoltre, si notò che l’utilizzo di intingoli, salse e fondi – preparati molte e molte ore prima del servizio – andava limandosi in questo nuovo tipo di cucina. Gli ingredienti erano perlopiù freschi, di stagione e – per quanto possibile – preparati al momento per il commensale. In estrema sintesi, l’idea era quella di semplificare il più possibile tutti i processi per la creazione di un piatto, con un occhio alla dietistica, scienza che stava diventando sempre più importante. Nel 1973, Gault e Milleau – in piena contrapposizione con la critica gastronomica classica – fecero circolare il Manifesto della nouvelle cuisine, che ebbe da subito un effetto prorompente tra la nuova guardia di cuochi francesi.

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H

o sentito una quantità di battute imbarazzante sulla nouvelle cuisine. Che fa spendere molto, che non riempie, è cotto puoi scolare, eccetera. Almeno nella nostra fetta di mondo, l’atto del mangiare si è (per fortuna!) “scollato” dal mero bisogno fisico di saziarci. Certo è che la memoria gustativa, la famosa madeleine di Proust che ci farà sembrare sempre il sugo della nonna più buono di qualunque ragù scientifico, resterà sempre. Ma non deve essere, necessariamente, l’unico modo di leggere e di fruire della gastronomia.


IL DECALOGO DELLA

NOUVELLE CUISINE Con piccole note didattiche e culturali a cura della sottoscritta.

1.

Tu ne cuiras pas trop. Non cuocerai troppo le pietanze. Finalmente, si stava iniziando a prendere in considerazione ciò che noi pratichiamo ormai come un mantra: un cibo è cotto quando è cotto. Complici, all’epoca, l’avvicendarsi di cibo più sicuro (e quindi, che necessitava di meno cottura) e di nuove tecnologie.

2.

Tu utiliseras des produits frais e de qualité. Utilizzerai prodotti freschi e di qualità. La stagionalità e la ricerca del prodotto iniziano a far capolino. Temi che, nei decenni successivi, terranno letteralmente banco.

3.

Tu allégeras ta carte. Alleggerirai il tuo menu. Una diretta conseguenza di un menu che segue la stagionalità è un menu con una scelta considerevolmente ridotta. Poche proposte, studiate e calibrate secondo gli ingredienti di stagione.

4. Tu ne seras pas systématiquement moderniste. Non sarai sistematicamente modernista. 5. Tu rechercheras cependant ce que t’apportes les nouvelles techniques. Ricercherai tuttavia il contributo di nuove tecniche. 6. Tu éviteras marinades, faisandages, fermentations, etc. Eviterai marinature, frollature, fermentazioni, ecc. Beh, possiamo dire che questo punto al giorno d’oggi è stato abbondantemente sorpassato. Non credete? 7. Tu élimineras les sauces riches. Eliminerai le salse e i sughi ricchi. L’eliminazione dei condimenti particolarmente ricchi è sicuramente un atto molto grande di ribellione nei confronti della cucina tradizionale francese, di gran lunga tra le grandi cucine del mondo più ricche di sughi, salse e fondi di cottura.

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8. Tu n’ignoreras pas la diététique. Non ignorerai la dietetica. Negli anni a venire, l’impatto sul corretto regime alimentare avrà sempre più peso. Possiamo dire che, in tal senso, Gault e Milleau sono stati dei veri e propri anticipatori. 9. Tu ne truqueras pas tes présentations. Non truccherai la presentazione dei tuoi piatti. 10. Tu seras inventif. Sarai inventivo. … mica poco, per concludere!


Le cose nascono quando è il momento giusto di nascere. Nulla capita per caso: una nouvelle cuisine nell’Ottocento sarebbe stata impraticabile oppure relegata ai pochi, fortunatissimi fruitori. Gli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso furono quelli del boom economico nel mondo Occidentale: i vari piani di ripresa economica varati nel Secondo dopoguerra stavano dando i frutti, spinti anche da una eccezionale voglia di primeggiare da parte dei Paesi appartenenti all’orbita NATO rispetto a quelli orientali.

Questo vagare di persone, merci ed idee favorì notevolmente e velocemente la diffusione della nouvelle cuisine: da non dimenticare l’importanza primaria dei mezzi di comunicazione in questo frangente. Ormai, grazie al benessere diffuso, in ogni casa c’era un televisore. Il momento propizio per portare gli chef in tv era giunto e, con essa, la nouvelle cuisine. Non mancarono certo i detrattori, così come gli accademismi sterili in cui questa tendenza cadde. Ma, a quasi cinquant’anni dalla creazione del Manifesto da parte di Gault e Milleau, possiamo dire che alcuni principi cardine della nouvelle cuisine sono rimasti: l’utilizzo di prodotti freschi e di stagione, tempi di cottura precisi, salse leggere e presentazione studiata, non pacchiana.

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Com’è che la nouvelle cuisine si è diffusa in tutto il mondo?


LA CUCINA

FRANCESE

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elle città e persino nei paesi si trovano fornai e rosticceri che vendono ogni sorta di piatti pronti, o quanto meno già preparati che si devono solo cuocere. I capponi, le pernici e le lepri costano meno lardellati e arrostiti che ad acquistarli vivi al mercato fuori Parigi. I prezzi degli alimenti non sono alti, perché non vi è cosa per cui i francesi spendono più volentieri il loro denaro che per il buon cibo. Per questo vi sono talmente tanti beccai, rosticceri, rivenditori e osti che non ci si raccapezza letteralmente più. I rosticceri e i fornai in meno di un‘ora preparano un pranzo o una cena per dieci, o anche per cento persone. Il rosticcere fornisce la carne, il fornaio le sfogliate ripiene, le torte e gli antipasti, mentre il cuoco prepara le gelatine, le salse e i condimenti." Così scriveva nel 1577 l’ambasciatore di Venezia presso la corte francese: e dire che doveva intendersi di cibo, in quanto la città lagunare, a quel tempo, era considerata la Mecca dei buongustai. Tuttavia, la Francia e la sua capitale stavano iniziando a diventare protagonisti dell’universo culinario. Oggi associamo la cucina francese a ricchezza, varietà, raffinatezza, secondo un immaginario ben diffuso tra gli intenditori stranieri: champagne, caviale, foie gras, tartufi, ostriche sono spesso associati al lusso della tavola transalpina e della sua capitale. Ma, si sa, stereotipi (per quanto spesso si avvicinino per certi versi alla realtà), diventano riduttivi; anche nel nostro caso, tale immagine non rende affatto l’idea della straordinaria complessità dell’universo gastronomico d’Oltralpe. Difatti sono pochi i Paesi che durante i secoli hanno dimostrato tanta creatività e varietà in cucina, oltre all’esaltazione delle “sensualità gustative”; ancora meno, sono quelli che hanno sviluppato uno spirito di assoluta eccellenza riguardo al vino. Certo, la rivalità con il nostro Paese – che perdura ancora oggi allargandosi anche ad altri ambiti, si pensi ai recenti contest musicali o agli Europei di calcio – non sempre aiuta ad osservare con distacco ed equilibrio le vicende culinarie dei nostri cugini, soprattutto in materia di enogastronomia. Ma, ormai lo sapete, noi siamo soliti superare ogni pregiudizio in materia: pertanto iniziamo il nostro viaggio.

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AGLI ALBORI: DA… ASTERIX AL MEDIOEVO I Galli erano una popolazione, così chiamata dai Romani, che abitava l’odierna Francia; ma altro non erano che i Celti, i quali dalla Britannia si erano spostati verso Sud. Quindi, a scanso di equivoci, Celti e Galli sono lo

Portfolio gastronomico #2 a cura di Alberto Zonghetti Illustrazioni di Eleonora Castagna

stesso popolo. Chi ha superato le quaranta primavere ricorda sicuramente il fumetto e poi i cartoni animati - ma anche i film, purtuttavia di minore rilevanza - di Asterix. Oltre alle vicende molto divertenti, che vedevano impegnato un villaggio sperduto della Gallia contro l’invasione dei Romani, memorabili sono i banchetti con i quali terminavano gli episodi: enormi fuochi con spiedi monumentali e decine di cinghiali arrostiti, innaffiati da birra a fiumi. Ma cosa mangiavano veramente i nostri GalliCelti? Sicuramente carni cotte su grandi spiedi, maiali e cinghiali, e qui il nostro fumetto si dimostra storicamente coerente. Ma non dobbiamo dimenticare che sul focolare bolliva sempre un calderone, oggetto principale e quasi sacro della cucina: base dell’alimentazione quotidiana era la zuppa. Brodo caldo, fatto con ossa e parti di scarto, lardo salato, selvaggina minuta, erbe di campo, cavolo, rapa, lenticchie, fave, piselli. Il calderone non si svuotava quasi mai, ma quando accadeva si recuperava il fondo per realizzare delle polpette particolarmente saporite. Insomma, stiamo parlando dell'antenato di una vivanda basilare per l’alimentazione europea, ovvero il bollito con


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verdure preparato con numerose varianti nazionali: la petite marmite o il pot-au-feu francesi, l’olla potrida iberica, il lesso misto italiano. I Galli erano anche abili allevatori, per cui troviamo abbondanza di burro e di formaggi; la loro bevanda era la cervogia, birra ottenuta con orzo e frumento. Nei secoli successivi alla caduta dell’Impero romano, tutta l’Europa medievale, pur con qualche differenziazione, condivideva l’usanza – presso i nobili e i signori - di indire fastosi banchetti dominati principalmente da carni sontuose fortemente speziate, simbolo di benessere e di prestigio, accompagnate da salse ricche, grasse e dense, consumate portando il cibo direttamente alla bocca senza posate. Nel XIV secolo in Francia si distinse un tal Guillaume Tirel, soprannominato Taillevent per il gran naso con il quale sembrava fendere il vento e per l’olfatto

leggendario, considerato il primo cuoco transalpino di professione e uno tra i più importanti d’Europa. Ricevuta nel 1381 dal re Carlo VI la nomina di Maestro di cucina, ci ha tramandato la sua arte culinaria attraverso un’opera manoscritta, Le Viandier redatto in forma poetica pare nel 1380, contenente quarantasei ricette raffinate e non comuni. Ma per la Francia erano tempi duri: la peste, le carestie, la guerra dei Cent’anni (1337-1453) avevano decimato la popolazione e messo a dura prova le risorse della nazione. Dobbiamo attendere la seconda metà del Quattrocento per


assistere ad una rinascita: nei celeberrimi mercati coperti di Parigi era possibile acquistare in abbondanza tutti i prodotti che il paese offriva grazie all’ampliamento – per decreto reale – delle vie commerciali: grano, verdure, carne e pesce. Erano maturi i tempi per il Rinascimento dell’arte culinaria: fu tradotto il testo fondamentale della cucina italiana ad opera di Mastro Martino, il Liber de arte coquinaria; i sovrani iniziarono ad occuparsi personalmente di gastronomia (a tal proposito, si dice che Carlo VIII, dopo l’invasione in Italia e la ignominiosa ritirata, si fosse consolato

recenti tendono a ridimensionare questa narrazione). Pare che Caterina eliminò l’usanza di servire tutte le portate assieme, introducendo la sequenza dei piatti e distinguendo il dolce dal salato. Ma l’ambiziosa regina, dotata di vorace appetito e gusti molto raffinati, si servì dell’arte culinaria per aumentare il proprio potere: faceva allestire banchetti che valevano più di centomila monete d’oro, suscitando le critiche dei suoi numerosi detrattori, ma anche lodi incondizionate per le prelibatezze che faceva servire agli invitati: polpettine di pollo, carciofi ricoperti di salse raffinate, prelibate creste di gallo, salsicciotti di fegato di vitello o di maiale. Nel 1549 la città di Parigi diede un pranzo di gala in onore della regina. Tra le altre cose vennero serviti “33 arrosti di capriolo, 33 lepri, 66 conigli e 6 maiali, 9 gru, 21 pavoni, 33 aironi grigi e 33 aironi argentati, 99 tortore, 66 galline da brodo, 66 tacchini, 66 fagiani, 30 capponi e 99 galletti marinati nell’aceto, 3 staia di fagioli, 3 staia di piselli e 12 dozzine di carciofi”. Niente male, neanche per poco meno di mille invitati. Naturalmente, in onore della cattolicissima e superstiziosa Caterina, tutti i cibi dovevano essere divisibili per tre. il numero perfetto.

LA GRAND CUISINE INIZIA… DALL’ITALIA La giovane Duchessa di Urbino, educata a Firenze, culla del Rinascimento, andò in sposa ad Enrico II Re di Francia attraverso un’intricata ed elaborata operazione diplomatica. Al seguito della sovrana, grande appassionata di cucina, giunsero alla corte parigina numerosi cuochi toscani e italiani (anche se in verità studi più

Le testimonianze letterarie ci raccontano con precisione questi cambiamenti avvenuti lungo tutto il Cinquecento, nei quali si riconoscono gli influssi della cucina toscana. Le spezie, rispetto al Medioevo, venivano usate con più parsimonia, a vantaggio delle erbe aromatiche che esaltavano il sapore dei singoli

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affermando di avere portato con sé “parmigiano e maccheroni”). Mancava però un impulso dall’esterno che proiettasse la gastronomia francese verso l’eccellenza: spinta che arrivò da una persona, guarda a caso, italiana: Caterina de’ Medici.

Al di là degli aneddoti, con l’arrivo della principessa italiana cambiò anche l’aspetto della mensa: non più pesanti boccali ma delicati bicchieri in vetro ad imitazione di quelli di Murano; piatti e scodelle in terracotta smaltata per non usare sempre costose stoviglie in oro e argento. E, grande rivoluzione, Caterina introdusse l’utilizzo di un oggetto che a Firenze era stato da tempo utilizzato: la forchetta. Avviò, insomma, un vero e proprio rinnovamento all’interno della cucina francese del Cinquecento, proprio mentre un altro notevole impulso venne ricevuto dal Nuovo Mondo: nuovi prodotti vennero introdotti nelle tavole di tutta Europa (si veda il Magazine n. 19/luglio 2020), soprattutto il grano spagnolo – ovvero il granturco - e il pollo indiano, cioè il tacchino, particolarmente amato dai buongustai e che non mancò mai nei banchetti di Parigi.


alimenti. Non mancavano affatto, intendiamoci, le sontuose piramidi di carni e di arrosti volte a celebrare il prestigio di coloro che organizzavano i banchetti, ma il tutto risultava più leggero. Non ci si limitava più solo a bollire e ad arrostire: ora si stufava, si cuoceva a vapore, si marinava. Il sugo degli arrosti iniziò a sostituire come base le salse piccanti e speziate, l’insalata e il melone erano serviti come antipasti. I cuochi iniziarono a utilizzare la frutta per rendere le salse più delicate, la minestra francese si stava avvicinando a ciò che oggi intendiamo, mentre dal minestrone si sviluppò il pot-au-fe apprezzato ovunque Grande interesse destarono i dolci italiani; soprattutto vennero elaborate tecniche, per preparare marmellata e frutta candita, da un certo Michel de Notre-Dame (questo nome vi dice qualcosa? Si, è proprio lui, Nostradamus… quello delle profezie e dei misteri!).

DALL’ANCIEN REGIME ALLA NOUVELLE CUISINE Nella seconda metà del Seicento, la cucina francese subisce un’ulteriore impulso di rinnovamento e di ampliamento, divenendo sempre più varia e ricercata. Da questo momento in poi troviamo il periodo dei grandi cuochi e del fiorire dei testi gastronomici: il primo protagonista fu Pierre de la Varenne (1618-1678), autore de Le cuisinir francois, capace di compendiare la cucina rinascimentale diventando, di fatto, il padre della gastronomia moderna.

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La sua luce fu oscurata da giovani cuochi più creativi di lui: Béchamel (1630-1703), chef di Luigi XIV, inventore della salsa che prese il suo nome; Vatel (1631-1671), cuoco del Principe di Condè, la cui intensa storia è ben raccontata dall’omonimo film. Segue poi Anthelme Brillat Savarin (1755- 1826) autore de La fisiologia del gusto, fondatore della figura dell’intellettuale gastronomo. La Rivoluzione francese vede la nascita dei primi ristoranti ad opera dei rinomati cuochi precedentemente al servizio di Corti e famiglie aristocratiche: decisero, giustamente, di reinventarsi dopo che i loro datori di lavoro ben pensarono di fuggire in esilio all’estero. Marie Antoine Careme (1784-1833), autore dell’Art de la Cuisine francaise in cinque tomi e figlio

della rivoluzione borghese, è il fondatore dell’Haut cuisine (alta cucina) e padre della cucina francese moderna. Ma l’Ottocento è anche l’epoca della tradizione che, facendo leva sulle regionalità, pone le fondamenta dell’odierna cucina francese. All’inizio del secolo scorso, in piena Belle Epoque, troviamo Auguste Escoffier (1836-1945), geniale capocuoco ed imprenditore, inventore di ristoranti mitici nonché padre, insieme a César Ritz, del concetto stesso di ristorazione alberghiera di lusso. Il dopoguerra vede la trasformazione della Francia da paese rurale a nazione industrializzata; l’avvento dei nuovi mezzi di comunicazione di massa sembra dare un colpo fatale alla campagna e alle tradizioni. Tuttavia, la morte programmata delle usanze alimentari locali non ha avuto pieno compimento, poiché le identità hanno resistito all’invasione del cibo già pronto; gli eccessi della globalizzazione hanno addirittura provocato il risveglio delle regionalità, e lo scadimento della alimentazione industriale ha ridato smalto e importanza ai prodotti del territorio. La semplicità è tornata a essere un valore culinario, quale espressione di schiettezza e di autenticità, mentre il discorso gastronomico ha enfatizzato volentieri le virtù delle cucine del territorio. Questa evoluzione ha portato alla cucina francese che conosciamo oggi, passando da una tappa importante che ha definitivamente rivoluzionato e decretato la fama della cucina francese conosciuta in tutto il mondo: la Nouvelle cuisine, ultima frontiera dell’egemonia francese teorizzata da Alain Ducasse e Paul Bocuse. Era basata su quattro regole fondamentali: prodotti freschissimi, e di qualità; tempi di cottura brevi e precisi; salse leggere; l’estetica della presentazione, tanto importante quanto il sapore e la leggerezza.

DI REGIONE IN REGIONE Un aspetto che accomuna la cucina della Francia e quella dell’Italia è il fatto che ogni regione possieda una tradizione culinaria propria, differente da quella delle altre, la cui base sono materie prime naturali e stagionali . Ogni ricetta ha origine dallo studio attento delle caratteristiche degli ingredienti, sapientemente abbinati per creare un equilibrio di sapori straor-


La composizione delle portate è solitamente orientata in questa modo: un piatto unico (entrée) che svolge il ruolo di antipasto e primo contemporaneamente; l’assenza del primo piatto in stile italiano, dato che la pasta o il riso sono usati spesso senza condimento come contorno od accompagnamento; l’importanza delle zuppe; il piatto principale, carne o pesce; grande utilizzo di insalate accompagnate da salse (spesso all’inizio del pasto); enorme importanza dei formaggi; presenza fissa del dessert. Il vino ha un posto di assoluta preminenza tra le bevande alcoliche, ma non sono affatto trascurabili le birre o, nelle regioni settentrionali, il sidro. Per vivere un’esperienza gastronomica appagante è d’obbligo consumare i propri pasti, a pranzo o a cena, almeno una volta nei tipici e famosi bistrot: l’atmosfera di casa che si crea con le luci soffuse,

gli arredamenti classici, i piatti della tradizione popolare parigina, un servizio informale e simpatico (e un’ampia scelta di vini) rendono il tempo passato all’interno del locale indimenticabile. Anche le brasserie sono un’altra tappa fondamentale della cultura culinaria francese: nacquero come luoghi di produzione e consumo della birra ma sono diventate posti dove si cucinano i piatti tipici della tradizione, e alcuni sono diventati locali piuttosto raffinati.

LE SPECIALITÀ Il mio primo approccio con la Francia risale alla gita dell’ultimo anno di Liceo, però… in Germania. Mi spiego meglio: eravamo ospitati proprio al confine con l’Alsazia, vicino a Strasburgo, e una sera i nostri amici tedeschi ci portarono a varcare la frontiera per mangiare qualcosa di speciale dai nostri cugini transalpini. All’interno di una locanda che ci portava indietro nel tempo, ci servirono una pietanza che sembrava una pizza, sottile, croccante, farcita con carni di qualche tipo: all’epoca non mi preoccupai di cosa fosse, ne mangiammo una quantità che definirei incomprensi-

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dinario. Per accompagnare tutti i tipi di carne (dal maiale al manzo), le varietà di pesce, le insalate e la maggior parte delle portate, la cucina francese offre una vasta gamma di salse, differenti da zona a zona, con ingredienti sapientemente combinati per esaltare le specialità tipiche stagionali.


bile dato che era deliziosa ma, lo scoprimmo la notte, un pochino indigesta. Era la famosa Flammenkuche, ossia torta flambé, un piatto popolare di antiche origini: una sorta di pizza guarnita con un soffritto di cipolle e di panna, e disseminata di dadini di lardo e di pancetta affumicata. Non volendo e senza saperlo, avevo incontrato la cucina alsaziana, famosa per la sua robustezza e per la generosità nonché per la caratteristica di sfiorare diversi registri culinari, dal più semplice e rustico al più elaborato.

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Terra di incontro e di mescolanza, l’Alsazia ha coltivato la sua doppia identità fin nella sua cucina, che partecipa tanto del mondo germanico che della cultura francese. Il suo piatto emblematico, molto consistente e decisamente invernale, è la choucroute, cavolo sottoposto a fermentazione lattica (crauti) guarnito con carne di maiale salata e lardo affumicato, il tutto cotto a fuoco lento per alcune ore. Troviamo anche gli spatzle, di orgine tedesca, e alcune varietà di tagliatelle; ma è sua maestà, il foie gras, che domina la gerarchia gastronomica alsaziana . E’ la città di Strasburgo che lo ha fatto conoscere ai parigini sotto forma di pâté en crozte (paté in crosta) alla fine del secolo XVIII. Il paté e la terrina di foie gras sono i piatti tradizionali dei pranzi dei giorni di festa, ed è raro che non siano presenti nei cenoni di Capodanno. Inoltre non è affatto un caso che l’Alsazia sia, dopo Parigi, la regione che conta il maggior numero di ristoranti a tre stelle Michelin; i cuochi spesso propongono rivisitazioni di alcune grandi specialità regionali. La seconda esperienza in terra d’oltralpe mi vede di ritorno da una crociera sul Mediterraneo occidentale: sbarcato al porto di Genova, decisi di visitare un paio di giorni la Costa Azzurra, zona che di fatto fa parte della Provenza. La cucina di questi luoghi, sapiente mescolanza di aromi e di sapori decisi, è un trionfo dei nobili prodotti dell’orto - pomodori, peperoni, melanzane, zucchine, aglio - e delle erbe aromatiche: timo, alloro, rosmarino, santoreggia, anice, menta, salvia, basilico. E’ la terra dell’olio dato che, ricordiamolo, esiste una dicotomia tra Francia dell’olio d’oliva e quella del burro, distinzione culturale già presente fin dal XVII secolo. Per intenderci, il primo è l’ingrediente grasso tradizionale delle regioni mediterranee, mentre il secondo esercita un predominio quasi assoluto sul resto del paese, con una preponderanza nelle regioni dell’Ovest.

Ho avuto poche occasioni, purtroppo, per sperimentare la cucina del luogo, ma sufficienti per assaporarne l’emblema, ovvero la ratatouille, un contorno a base di verdure tipico della città di Nizza, molto profumato e saporito. Il nome del piatto vi dirà certamente qualcosa: è il titolo di un celebre film di animazione nel quale un topo particolarmente amante della cucina si troverà, dopo divertenti e curiose peripezie, a diventare un vero chef. Orto e cucina mediterranea, ma non dimentichiamoci il mare: la celebre bouillabaisse marsigliese, zuppa di pesce profumata con zafferano, spesso accompagnata da una salsa che ha come base la aioli – ovvero l’aglio ridotto in pasta e montato con l’olio d’oliva sino a raggiungere la consistenza della maionese - con aggiunta di peperoncino e zafferano (viene chiamata in questo caso rouille, letteralmente ruggine). I n f i n e voliamo a Parigi, viaggio che mi ha consentito di vivere l’esperienza di un tour gastronomico che ha abbracciato tutta la Francia: la capitale racchiude il cuore della cultura culinaria offrendo varietà e qualità veramente incredibili. Prima della partenza, i racconti dei miei suoceri, fieri tradizionalisti tutti d’un pezzo che scelsero Parigi come meta del loro viaggio di nozze, erano orrendi: niente spaghetti e pasta, lasagne affogate nella panna, salse dappertutto, aglio a volontà… insomma non c’era da stare tranquilli. Ma il benvenuto dato dal profumo di pane e dolci nell’aria


Ora passiamo agli assaggi. Per iniziare, i prodotti delle boulangerie (i nostri forni) e delle patisserie, poi il cibo di strada per un pasto veloce o una merenda gustosa: baguette, croissant, pan ou chocolat. crepes, quiche, pommes frites (molte volte servite con le cozze, come accade in Belgio con le moules frites). E poi, via con i pasti principali. La soupe à l’oignon, la zuppa di cipolle, diffusa in tutta la Francia, è una sorta di evoluzione rivisitata delle minestre contadine. Se vi capita sottomano, due consigli: è servita caldissima in ciotole di terracotta, quindi il rischio ustione di mani e palato è altissimo, mentre la sua digeribilità non è proprio agile, consideratelo se pensate di accompagnare il pasto con altre leccornie ipercaloriche. Le classiche escargots à la bourguignonne, saporite lumache di terra farcite con un burro aromatizzato

da un trito di prezzemolo e aglio, sono originarie della Borgogna, con i suoi vigneti di grandi cru e la sua tradizione culinaria: è una specialità decisamente per stomaci forti (anche se mia figlia, all’epoca intorno ai sette anni, ne mangiò di gusto una quantità non trascurabile). Questa regione offre una cucina “carnivora” e consistente, se pensiamo anche al Baeuf bourguignon, magnifico spezzatino al vino rosso, o la robusta Potée bourguignonne, carne di bue lessata con lardo e verdure, eredità della cucina contadina; così come le Beursades, preparazioni di avanzi di grasso di maiale cotto che si trovano in questa regione sotto nomi diversi e che danno il loro tocco rustico alle frittate e alle insalate alla maniera borgognona. In compenso il Saupiquet, salsa

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mattutina, poetico e mai invasivo, mi ha accolto con sontuosa delicatezza, rassicurandomi.


fatta con il sugo di carne arrosto e soffritto di cipolla, bagnata di vino rosso, legata con mollica di pane tostata e fortemente speziata, rappresenta un lascito della cultura medievale. Prima di partire, una delle mio ossessioni era quella di gustare il confit, carne di pollame salata e cotta nel suo grasso a fuoco dolce e conservata in vasi sterilizzati. Senza esitazioni ho assaggiato l’anatra, non conservata in barattolo ma cotta in casseruola di rame, affiancata da patate e senape di Digione. Nel menù era specificata la provenienza del volatile, ovvero il Périgord, secondo i francesi la regione più gastronomica della Francia. Questa reputazione si deve certamente alla sua cucina abbondantissima e saporita - priva di burro ma ricca di grasso di oca e di anatra, di strutto e di olio di noci - ma soprattutto al tartufo e al foie gras. Quest’ultimo è un vero e proprio “boccone del re”, cucinato in modi differenti – saltato, in court boullion, in terrina, ma tutti appaganti e gustosi. La regione ha mantenuto anche l’usanza medievale dell’agresto, succo di uva verde che viene tuttora prodotto e il cui sapore acidulo e l’aroma delicatissimo conferiscono un tocco originale a taluni piatti perigordini, tra i quali in particolare l’ormai classico pollo all’agresto.

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E per quanto riguarda il pesce? Dalla Normandia e dalla Bretagna giungono profumi di aringa grigliata, di prodotti dell’Atlantico e le suggestioni del plateu royal, ormai diffusissimo anche in Italia: piatti a castello sovrapposti, cosparsi di ghiaccio tritato, sul quale vengono adagiati i coquillages, ovvero ostriche, frutti di mare, molluschi, crostacei, tutti rigorosamente crudi, accompagnati da salsine, pane e burro. In queste zone , con buona pace dei gastrotalebani italici, è molto usata la panna, diffusa poi in tutta la nazione, e si beve molto il sidro, usato con sapienza anche in cucina.

Non può mancare una menzione per l’altra capitale gastronomica, ovvero Lione, famosa per le mères lyonnaise, una leggendaria dinastia di donne che si sono succedute ai fornelli dei ristoranti della città e delle locande della regione per tutto il ventesimo secolo. Si dice, a mo’ di battuta, che Lione è bagnata da tre fiumi: il Rodano, la Saona e il Beaujolais, vino che scorre a fiotti nei popolari locali della città. In effetti, Lione è particolarmente ben servita grazie alla vicinanza con i grandi vigneti di Borgogna e della Valle del Rodano, e per essere posizionata al centro dei territori nei quali l’allevamento di carne bovina (la famosa razza charolaise) e di pollame è una tradizione. Il bouchon lionese, piccola trattoria di quartiere è diventato celebre grazie al suo abbondantissimo machon, un insieme di piatti consistenti in specialità a base di trippa e stomaco bovino accompagnate da un pot di vino (all’incirca mezzo litro), generalmente di Beaujolais. Siamo arrivati alla fine del pasto: non può mancare la vastissima selezione di formaggi, dei quali i celebri e graditi sono sicuramente il Brie, il Camembert e il Roquefort, che risultano esaltarsi maggiormente quando abbinati a vini bianchi o rosé. E’ usanza concludere servendo una torta o dolci esclusivi tipici della pasticceria francese come ad esempio il croquembouche, composto da tanti bignè assemblati a forma di piramide, riempiti di crema e ricoperti di caramello o i petit four, piccole paste a base di farina e cotte al forno ideali da gustare insieme a un ottimo champagne. Ma anche tra i dolci la tradizione francese lascia il segno con i deliziosi macarons, con le torte tradizionali come la tarte tatin, la Saint Honoré, la Tarte tropézienne o i profiteroles, dolci che fanno del design e della raffinatezza il loro punto di forza. Ma questo è un capitolo a parte.


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GRATIN DAUPHINOIS La patata? Gratinata! Il Delfinato era un’antica provincia della Francia, oggi corrispondente ai quattro dipartimenti di Isère, Drôme, Hautes-Alpes e parte del Rodano: le saremo per sempre grati perché, dalla sua tradizione culinaria, abbiamo il gratin dauphinois. È un piatto unico, consolidato nella cucina francese; si tratta di un gratin di patate con aggiunta di formaggio Gruviera ed una tipica, morbidissima salsa a base di latte e panna. L’origine del piatto è probabilmente è legata alla diffusione della coltura della patata in Europa dopo la seconda metà del ‘500, ma il piatto è mensionato, così come lo conosciamo oggi, in uno dei giorni fondamentali per la Rivoluzione francese: il 7 giugno 1788. Il duca di Clermont-Tonnerre, comandante in capo del Delfinato, ritirò le truppe contro gli insorti per evitare un massacro, e per l’occasione offrì un pasto agli ufficiali: fu servito appunto il gratin dauphinois. Sappiamo cosa state pensando: è ideale per il periodo invernale, per i bei pasti ristorativi in locande di posti che non conosciamo, magari mentre sorseggiamo un buon vino locale. Che dire: avete ragione. Sappiate però che il gratin dauphinois (o gratin savoyard, se si utilizzano formaggi diversi dalla gruviera) è un vanto dei francesi tanto quanto è difficile reperire la ricetta che la maggior parte reputa “autentica”. Esistono mille e più versioni di questa preparazione: quella più antica prevede la presenza di sole patate e panna acida. Con il tempo,il piatto si è arricchito con il formaggio.

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Chi siamo noi per non offrirvi la nostra ricetta del gratin dauphinois? Vi basterà mettere in gioco il kettle al momento giusto ed utilizzare una lieve affumicatura al legno di pecan. Questo piatto è perfetto per accompagnare la polenta o dei sostanziosi piatti di carne.

Ingredienti per 4 persone: 750 g

di patate / 350 ml di latte fresco intero / 175 g di formaggio Gruviera / 175 g di panna fresca / 3 uova / 25 g di burro / 1 spicchio di aglio / sale q.b. / pepe q.b. / noce moscata q.b. PREPARAZIONE 1. Lavate e sbucciate le patate e tagliatele con una mandolina a fette molto sottili, non lavatele dopo il taglio, in quanto perderebbero l’amido che favorisce l’addensamento della pietanza. 2.

Scaldate il latte in un pentolino e, non appena sarà caldo, aggiungete l’aglio, il sale il pepe e la noce moscata.

3.

Settate il dispositivo per una cottura indiretta a 180°C.

4.

Lasciate insaporire per qualche minuto, togliete il pentolino dal fuoco ed eliminate l’aglio, lasciando raffreddare il composto. Sbattete le uova in una ciotola, unite la panna fresca e aggiungete il latte aromatizzato e mescolate per bene.

5.

A questo punto, imburrate la pirofila e cominciate con il primo strato di patate, ricoprite con il composto di latte, panna e uova, aggiungete il formaggio Gruviera grattugiato e continuate con gli strati fino a terminare gli ingredienti.

6.

Aggiungete per ultimo il formaggio grattugiato e qualche fiocco di burro e cuocete nel dispositivo già caldo a 180°C per circa 90 minuti. Il risultato sarà di avere le patate morbide e la superficie dorata, lasciate raffreddare per qualche minuto fino ai 70°C e il vostro gratin dauphinois è pronto per essere servito.


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Il buon cuoco si vede dalla

RATATOUILLE!

Ci sono film d’animazione contemporanei che sono riusciti a diventare grandi classici. Tipo, ve ne facciamo capire uno senza nominarlo. Quel-film-lì del topino che, in barba a tutto e tutti, inizia a cucinare in uno scantinato diventando dannatamente bravo, così bravo che riesce nell’intento di servire un piatto umilissimo della cucina francese ad un temibile critico gastronomico. Parliamo di Ratatouille, l’avrete capito, no?

e super conosciuto della cucina è ratatouille niçoise.

Ecco, sì: un nome di un piatto, che è il nome di un film d’animazione ed entrambi sono decisamente famosi in tutto il globo terracqueo. Anche se quello proposto nel film, non è proprio la ricetta originale ma una rivistazione diventata famosa tanto quanto quella storica.

La nostra ratatouille nasce dalle grandi tradizioni contadine che si sono codificate, a mano a mano, a partire dal Settecento. I contadini provenzali si ritrovavano, a fine stagione, una grande quantità di verdure da smaltire nel modo più utile possibile. Ed ecco qui, fresche fresche, le grandi zuppe e le grandi minestre arrivate fino ai giorni nostri.

Oggi, la ratatouille è riconoscibile al naso grazie al ricco bouquet aromatico dato dalle cosiddette herbes de Provence, un misto di erbe aromatiche composto (in percentuali differenti) da rosmarino, timo, finocchio, salvia, maggiorana, santoreggia e menta. Sebbene le herbes de Provence siano state messe a punto (come ricetta definitiva) soltanto negli anni Settanta del Novecento, già sono entrate fortemente nella cultura gastronomica tradizionale francese. La ratatouille poi , con il tempo, è passata a rappresentare l’intera cucina francese, ma è tipica della regione provenzale, in particolare di Nizza e dintorni. Infatti, il nome completo di questo piatto bellissimo

Dal Sud della Francia ai confini spagnoli, il passo è stato breve: la ratatouille, ben presto, entrò a far parte anche degli usi e dei costumi baschi e in Catalogna. Ad oggi, viene ancora servita in questi territori ed altri ancora, sia come portata principale sia come accompagnamento a piatti di carne oppure a del riso. Come anticipato, la versione del film d’animazione non è quella classica provenzale: dopotutto – e noi lo sappiamo bene! – le ricette vivono di interpretazioni e rivisitazioni, per fortuna. La ricetta di Ratatouille è una variante della turca zeytinyağlı, parente molto prossima della nostra caponata e con ingredienti del tutto sovrapponibili. In particolare, la versione per il film è quella dello chef Thomas Keller: un mosaico di verdure lamellate, che è ben più di un piatto “solo” provenziale; infatti, sembra abbracciare l’intero bacino del Mediterraneo, grazie alla presenza di differenti tipi di ortaggi che nella versione classica non dovrebbero esserci.

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La ratatouille è un piatto tipico francese, diventato negli anni iconico. Si tratta di una minestra di verdure di estrazione popolare, prevalentemente estiva e a base di zucchine, peperoni, pomodori e cipolla. Va da sé, poi, che l’estate e le sue primizie permettono di arricchire la ratatouille con ciò che di meglio c’è a disposizione.

La Provenza è un territorio meraviglioso della Francia, dove gli influssi mediterranei si fondono a meraviglia con quelli dell’entroterra, dando vita a ricette dai profumi e colori spettacolari. Qui hanno dimora tantissime erbe aromatiche, così come una moltitudine di verdure. L’ideale, appunto, per creare zuppe e minestre cariche di sapore.


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I ngredienti per 4 persone:

3 peperoni (gialli, rossi e verdi) / 2 pomodori / una cipolla / 2 zucchine / una melanzana / misto di erbe provenzali q.b. / una cipolla / 3 cucchiai di olio extravergine di oliva / basilico a piacere / 2 cucchiai di aceto di mele / sale e pepe q.b. / Smoky Red della linea Sal’s Seasoning a piacere

2.

Lavate affettate con cura tutte le verdure, poi mettetele in un ciotola. Conditele con un olio, poco sale, pepe, il misto di erbe provenzali tritato e l’aceto di mele. Girate bene le verdure, poi versate il tutto nell’apposito basket forato che posizionerete sulla griglia in cottura diretta. Potete, se volete, chiudere il coperchio, ma fate attenzione sempre che le verdure non si brucino. Giratele di tanto in tanto.

3.

Quando le verdure saranno pronte e avranno raggiunto il grado di cottura desiderato, toglietele dal fuoco, date un’altra girata e poi servitele con lo Smoky Red, che darà loro un retrogusto affumicato più accentuato molto piacevole. (Nulla vi vieta di cuocerle nelle classiche terrine, ponendole in cottura indiretta)

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PREPARAZIONE 1. Predisponete il dispositivo per una cottura diretta.


SOUPE D’OIGNON La zuppa di cipolle, a prova di lacrime!

La soupe d’oignon (o ancora, soupe à l’oignon), cioè la zuppa di cipolle, è un piatto molto povero diffuso praticamente in tutto il continente europeo e che gode di un’ottima fama. Saporito, saziante e poco costoso, facile immaginare come abbia avuto una gloria eterna praticamente dalla sua nascita. L’origine - ci credereste? - è controversa. Alcuni studiosi affermano che provenga dall’antica Roma quando i plebei potevano nutrirsi solamente di cipolle, ortaggi e poco altro. Intorno al XVIII secolo venne modificata, quando i francesi inserirono il brodo di carne e i crostini. La tesi più accreditata sull’origine di questa zuppa afferma che essa derivi dalla carabaccia toscana, importata in Francia da Caterina dei Medici sposa di Enrico II d'Orléans. Secondo una leggenda – onestamente inverosimile - questa zuppa sarebbe un’invenzione di Luigi XIV: pare che il sovrano una sera,non avendo nulla in dispensa da cucinare se non cipolle, burro e champagne, li mise insieme e ne fece una zuppa. Voi ce lo vedete Luigi XIV a cucinare in prima persona? La versione ordinaria della soupe d’oignon pare sia stata codificata nel XVIII secolo. In ogni caso, fu la celeberrima Julia Child, (a proposito, la stiamo citando tantissimo in questo numero del Magazine, ma voi l'avete visto il film con Meryl Streep?), a proporla nel suo libro e rilanciarla definitivamente. Julia Child nel suo Mastering the Art of French Cooking suggerisce di cuocere le cipolle “a fuoco lento, in abbondante olio e burro e poi di continuare a cuocere in una dose generosa di brodo, da mescolare delicatamente“.

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Anche in Italia, ovviamente, abbiamo diverse versione di questa zuppa: due su tutte, la versione piemontese – chiamata zuppa mitonata, con brodo di gallina e formaggi grattugiati – nonché appunto la toscana carabaccia, sia con cipolle bollite e servite su fette di pane (versione povera), sia fatta con cipolle di Tropea (versione “ricca”). Profumata, calda, sostanziosa: la soupe d’oignon godrà sempre di ottima fama grazie al costo contenuto ed alla facilità di reperimento degli ingredienti. Ora, per avere la vostra soupe d’oignon, non vi resta che armarvi di un buon coltello. Zero lacrime, piangerete al massimo dalla felicità.

Ingredienti per 4 persone: 1 kg

abbondante di cipolle dorate / 50 g di burro / 8 cucchiai di Parmigiano Reggiano grattugiato / 2 cucchiai di farina / 1 litro di brodo di carne / sale q.b. / Sal’s Rub Mount Nimba q.b. / 4 fette di pane casereccio belle spesse / 100 g di formaggio gruviera PREPARAZIONE 1.

Tagliate le cipolle a fettine e mettetele in una padella con il burro, cuocere a fuoco basso per 10 minuti.

2.

Iniziate ad aggiungere un mestolo di brodo e la farina. Dopo qualche minuto versate tre cucchiai di Parmigiano nella pentola e lasciate cuocere a fuoco basso per altri 20 minuti, aggiungendo il brodo quando la zuppa diventerà troppo asciutta.

3.

Giunti a questo punto, versate lentamente la zuppa in 4 terrine e copritele di nuovo con il formaggio gruviera.

4.

Predisponete il vostro dispositivo per una cottura indiretta a circa 180°, ma prima tostate in diretta le fette di pane. Provate a sagomarle a forma di terrina, per appoggiarle in modo che vadano a coprire la zuppa. Ricoprite tutto di formaggio gruviera grattugiato grossolanamente e una spolverata di rub Mount Nimba.

5.

Mettete per qualche minuto in cottura indiretta, fino a quando il formaggio si sarà sciolto creando una crosta dorata.

Non vi resta che godere della vostra soup d’oignon. Ah, e se vi resta un po’ di brodo, via subito ad un bel risotto!


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BŒUF BOURGUIGNON Lo stufato, tra gli stufati! Julia Child: se non la conoscevate, la state conoscendo ora, tra le pagine del nostro Magazine. È stata uno dei personaggi di spicco della gastronomia (televisiva e narrativa) americana, nonché fautrice della grande conoscenza e diffusione della cucina francese negli States. La Child, moglie di funzionario di ambasciata, visse in Francia per decenni, lavorando ed intrattenendo relazioni con personaggi di spicco. Definì così il boeuf bourguignon: “[…] è lo stufato di carne più stufato di carne tra tutti. Una delle preparazioni più deliziose mai concepite dalla mente umana”.

Ecco, ora noi ammetteremo la grandissima conoscenza culinaria di Julia Child, ma ovviamente non possiamo tirare conclusioni così semplici. Però ve lo presentiamo a dovere, questo bœuf bourguignon, nel nostro speciale numero dedicato alla cucina d’Oltralpe, con qualche nostro suggerimento. Prima un po’di carta d’identità di questo piatto, vi va? Perché come ogni piatto che si rispetti, porta con sé un bel carico. Pensate voi se poi questo è uno dei piatti sul serio più cari ai cugini francesi, una di quelle preparazioni con le quali si coccolano nei lunghi fine settimana invernali. Come diceva la Child, con il nome bœuf bourguignon ci riferiamo ad uno stufato tipico – forse, davvero il più tipico – di carne della cucina francese. È originario della Borgogna, come ci dice il nome e, come buona parte dei piatti tradizionali, lo si cucina in occasioni di festa, ad esempio il pranzo domenicale. Lo stufato è composto da carne, vino rosso di Borgogna, sovente accompagnato da molteplici varietà di funghi (anche se i più presenti sono quelli champignon), piccole cipolle e pancetta di maiale. Ovviamente, non mancano le varianti: l’accompagnamento spesso varia e vira su carotine, patate oppure altri ortaggi tipici della zona in cui lo si cucina, visto che è diffuso non solo in Francia ma anche in altri territori francofoni, con declinazioni squisitamente locali.

INGREDIENTI 4 persone 1,2 kg di Chuck Roll del nostro Megastore una bottiglia di Pinot Grigio Batic 2019 del Megastore Ultimate SPOG della linea Sal’s Seasoning q.b. una carota un gambo di sedano una cipolla 3 spicchi di aglio un rametto di timo 150 g di burro 150 g di lardo 300 g di funghi champignon 1 l di brodo di carne due foglie di alloro prezzemolo q.b. mezzo bicchiere di brandy 15 cipolle borettane

La carne viene solitamente brasata in cocotte, con una salsa a base di vino rosso; i tagli preferiti sono il reale, il collo, ma anche quello che in Italia è noto come cappello del prete. Tradizionalmente, lo si serve caldo (se non bollente!) con dei crostini o delle fette di pane grigliate ed aromatizzate all’aglio.

Le origini di questo piatto sono facilmente rintracciabili: i contadini hanno da sempre bisogno di piatti sostanziosi e caldi per sopportare le lunghe giornate di lavoro e i duri inverni. Gli stufati nascono per questo e, quindi, si cerca di renderli più appetibili, più deliziosi possibile. Grazie a queste caratteristiche, questi piatti cambiano letteralmente ruolo e diventano pietanze… di festa!

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Prepariamoci dunque ad assaggiare questo stufato più stufato di tutti!


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1.

Riducete la carne a pezzetti, poi insaporitela con un po’ di SPOG. In un sacchetto o in una ciotola, infilate la carne, l’aglio e il timo. Bagnate tutto con mezza bottiglia di vino, sigillate il sacchetto (o chiudete la ciotola con pellicola trasparente) e mettete a marinare in frigo per circa 8-10 ore.

2.

Predisponete il vostro dispositivo per una cottura diretta, adagiate una cocotte in ghisa nell’apposito spazio in griglia, fate un soffritto con sedano, carota e cipolla utilizzando il burro, poi affettate finemente il lardo e lasciate che si sciolga nel soffritto. Aggiungete la carne prima sgocciolata dalla marinata, poi infarinata. Bagnate con un po’ di brandy e lasciate evaporare l’alcol, staccando l’eventuale crosticina che si sarà formata nella cocotte. Togliete la carne e tenetela da parte.

3.

Pulite le cipolline, affettate i funghi e mettete tutto nella cocotte; lasciate che funghi e cipolle si appassiscano bene, poi unite la carne, ricopritela col vino, aggiungete un po’ di brodo, aggiustate di sale e di pepe, aggiungete il timo e l’alloro, e lasciate che il tutto riprenda il bollore, coprendo la cocotte col suo coperchio.

4.

Una volta che lo stufato avrà ripreso a bollire, spostate la cocotte in cottura indiretta alla temperatura di circa 150°C, chiudendo ovviamente il coperchio del vostro dispositivo. Lasciate che la cottura continui per un paio d’ore, o comunque finché la carne non sarà diventata morbidissima. Controllate di tanto in tanto che non si asciughi troppo e, nel caso dovesse essere necessario, bagnatela con un po’ di brodo. Servite il vostro Bœuf bourguignon con il prezzemolo tritato.

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PREPARAZIONE


BOUILLABAISSE Lo stufato di pesce perfetto, se a farlo sono i francesi… o no? Bouillabaisse. Lo sappiamo, sembra uno scioglilingua; infatti partiamo dalla pronuncia, che dovrebbe essere qualcosa di simile a boo-yuh-bès, tutto attaccato e con una suadente cadenza francofona, ovviamente. Questa dorata zuppa di pesce è, probabilmente, uno dei piatti più iconici di Francia, con origini in Provenza: dorata, profumata, si è prestata benissimo lungo i secoli ad essere descritta e decantata (oltre che mangiata, ovviamente): da Emile Zola a William Thackeray, tutti sono rimasti conquistati dalla difficoltà e dalla bontà della bouillabaisse. Proprio Thackeray, scrittore britannico di epoca vittoriana e gran viaggiatore, compose addirittura una Ballad of Bouillabaisse, dove descriveva i vicoletti sordidi ed il piacere di mangiare la zuppa di pesce in una taverna tipica. Andiamo a conoscere un po’ più da vicino origini, leggende e storie di questo stufato, prima di proporvi la nostra ricetta.

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BOUILLABAISSE = MARSIGLIA Come dicevamo poco più su, le origini della bouillabaisse sono collocate in Provenza, con precisione a Marsiglia. Data la vicinanza con la Liguria, questo piatto si è diffuso con il tempo anche in Italia con il nome italianizzato di boiabessa. Il nome bouillabaisse trova etimologia nella lingua occitana e letteralmente significa “bollire, cuocere a fuoco lento”. Le origini della bouillabaisse si perdono nel tempo: possiamo rintracciare una zuppa di pesce molto simile fatta dai Focesi, una popolazione greca che si stabilì sulle coste dell’odierna Francia intorno al VI secolo a.C. e che soleva preparare la katavia, una zuppa di pesce particolarmente condita e fatta con il pesce che restava invenduto al mercato.

Una ricetta imparentata è anche la Quatara, la zuppa di pesce fatta con le pezzature minime ed invedute dei pescatori di Porto Cesareo, nel Salento. La bouillabaisse è composta da almeno quattro pesci: scorfano, gallinella, grongo e triglia, ma ovviamente non vengono disdegnate aggiunte e sostituzioni del caso, come l’aggiunta di dentice, rombo, nasello e similari. Trovano posto anche i mitili, nonché polpo ed aragosta nelle versioni ancora più elaborate (e come potrete immaginare, esistono mille e una versione della bouillabaisse… più la nostra). Basti pensare che, già nel 1789 (una data che vi ricorda qualcosa?) il ristorante parigino “Les Trois Frères Provencaux” includeva appunto l’aragosta. Chissà che tra una presa della Bastiglia e l’altra, non ci fu tempo anche per una bouillabaisse tutta borghese! Questa gustosa zuppa di pesce viene successivamente servita con la rouille, una gustosa e piena salsa d’accompagnamento fatta con pangrattato, aglio, fumetto di pesce, uovo, zafferano, scorza d’arancia e peperoncino. Ha un colorito tra il dorato e l’arancione, con brodo ristretto. Il profumo sprigionato è inconfondibile: lo zafferano e la scorza d’arancia esaltano il profumo del pesce. Si dice che nessuno sappia cuocere bene una bouillabaisse come i francesi. Magari ci sarà qualche nostro lettore del Magazine con progenitori francofoni, ma la versione che vi proporremo oggi non avrà nulla da invidiare, se seguirete alla lettera tutti i passaggi. Pronti per sentirvi come tra i vicoli di Marsiglia, e forse ancora di più? Via!


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Ingredienti per 4 persone: 3 kg di pesce (tra cui scrofano,

gallinella, gronco triglia, ma anche pesce San Pietro, rombo, dentice) / 1 kg di Gamberi di Mazara GLC Top Selection / 2 porri / 3 cipolle / 2 spicchi d’aglio / una costa di sedano / 350 g di pomodori pelati / un cucchiaio di concentrato di pomodoro / una bustina di zafferano / mezzo cucchiaino di semi di finocchio / un mazzetto di prezzemolo / olio extravergine di oliva q.b. / sale e pepe q.b. Per l’assoluto di gamberi (bisque): due cucchiai di trito di sedano, carote e cipolle / due cucchiai di olio extravergine di oliva / le teste e i carapaci dei Gamberi Rossi di Mazara / mezzo bicchiere di cognac / mezzo cucchiaio di concentrato di pomodoro / mezzo lime / abbondante ghiaccio.

2.

In una padella, fate soffriggere il trito di verdure e poi spadellate tutte le rimanenze dei gamberi a fiamma alta. Sfumate col cognac.

3.

Evaporato l’alcol, aggiungete il concentrato di pomodoro, la spremuta di mezzo lime e il ghiaccio, in modo che i carapaci e le teste non si brucino in cottura;

4.

Fate ridurre il tutto, frullatelo con un mixer a immersione e filtratelo con un colino cinese, ottenendo un concentrato molto denso. Tenetelo da parte.

5.

Pulite il pesce e mettete gli scarti (lische e teste) in un tegame ampio. Tostate bene gli scarti del pesce e poi ricoprite tutto con il ghiaccio. Preparate il brodo di pesce portando il tutto a ebollizione e schiumate di tanto in tanto. Lasciate sobbollire per mezz’ora, poi filtrate il brodo e mettetelo da parte.

6.

Affettate finemente la cipolla e il porro e lasciateli rosolare in una pentola ampia, insieme a un filo d’olio, agli spicchi d’aglio sbucciati e schiacciati e al sedano tagliato a rondelline.

7.

Sciogliete lo zafferano in acqua tiepida, poi schiacciate i pomodori pelati con una forchetta e aggiungeteli al fondo di verdure. Unite il concentrato di pomodoro, i semi di finocchio, il brodo di pesce e lo zafferano. Aggiustate di sale e di pepe, poi lasciate andare a fuoco dolce per una quarantina di minuti.

8.

Unite i pesci puliti, tagliati a piccoli tranci e accuratamente spinati e fate cuocere per 5 minuti.

9.

Fate rosolare i gamberi in padella con un po’ d’olio e aggiungete la bisque. Saltateli bene poi unite i gamberi alla zuppa. Fate insaporire il tutto per qualche minuto e poi servite il vostro stufato di pesce con abbondate prezzemolo tritato e con delle fette di pane tostato.

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PREPARAZIONE 1. Pulite i gamberi e tenete da parte le teste e i carapaci; a questo punto potete cominciare a preparare il vostro Assoluto di Gamberi.


Un pollo per ogni pentola! Si, ma solo se è

COQ AU VIN!

Di leggende è piena la gastronomia. In questo nostro speciale sulla cucina francese, non poteva mancare una ricetta dedicata al Coq au vin, piatto iconico dei cugini francesi. Per darvi l’idea di quanto siano importanti i galletti per i francesi, si narra che Enrico IV di Francia, in un discorso con il Duca di Savoia, avrebbe sentenziato così: “Vorrei che nel mio regno, per ogni lavoratore ci fosse un pollo in ogni pentola la domenica”. Come molte degli auspici dei potenti, anche questo fu difficile da mantenere, ma i francesi continuarono ad amare molto il pollo, fino ad inventarsi molteplici ricette che poi – grazie alla pollicultura e in generale al benessere – si sono diffuse a tutto tondo e non solo durante le occasioni di festa soprattutto durante il Ventesimo secolo.

Sono diverse le regioni che vedono il Coq au vin, il galletto brasato nel vino, un piatto tipico delle loro tradizioni: tra queste, annoveriamo l’Alsazia, l’Alvernia, la Champagne e la Borgogna tra quelle più caldeggiate.

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Il polletto di solito viene lasciato marinare una notte intera nel vino, per chi preferisce un sapore meno intenso, soltanto alcune ore. Successivamente, la cottura viene ultimata con pancetta, carote, cipolle ed altri aromi. Incerte le origini, ça va sans dire. Sicuramente, fin dall’antichità si sarà brasato un polletto (così come un miliardo di altre cose) insieme ad altri ingredienti sostanziosi, primo tra i quali il vino (e in generale, altri tipi di alcolici). Si dice che anche Giulio Cesare fosse ghiotto di polletto al vino, e che egli stesso lo servì durante i banchetti di festeggiamento per la conquista della Gallia.

In tempi più recenti e verificabili, prime testimonianze di un poulet au vin blanc (polletto cotto nel vino bianco) si trovano nel Cooking for English Households, edito nel 1864 e che in pratica era una guida alla cucina francese agli stranieri, scritto da un’anonima “French Lady”. Ma il Coq au vin divenne realmente famoso grazie all’opera immensa di Julia Child, dilvugatrice della cucina francese negli Stati Uniti grazie ad innumerevoli pubblicazioni ed apparizioni in trasmissioni a tema. Proprio questa ricetta era uno dei simboli della Child, che ne codificò una ricetta propria ed adatta ai gusti dei lettori e spettatori (e soprattutto… mangiatori!) del XXesimo secolo. Gli ingredienti base del Coq au vin sono – manco a dirlo – un polletto e del vino. Questo, tutto sommato, non lo rende molto dissimile da un’altra preparazione che vi presentiamo questo mese, cioè il boeuf bourguignon. Il vino d’elezione per il Coq au vin dovrebbe essere un vino di Borgogna; ma, visto che diverse regioni si contendono la maternità della ricetta, teoricamente tutti i vini potrebbero andare bene. Ad esempio, in Alsazia, c’è l’usanza di utilizzare i riesling locali. Noi abbiamo usato un vino presente nella selezione del nostro Megastore: il Brol Grande - Le Fraghe (2018). un Bardolino che si presta perfettamente a sostituire un Borgogna, perché ha la stessa raffinezza, la stessa eleganza e la stessa fragranza. Non ci resta che tuffarci nella ricetta e cucinare il polletto alla moda dei francesi, ma col nostro stile da griller incalliti.


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Ingredienti per 4 persone: uno o due galletti (in tutto circa un kg e mezzo) / 100 g di pancetta a cubetti / 200 g di funghi champignon / 200 g di cipolline borettane / una carota / uno spicchio d’aglio / due foglie di alloro / sale e pepe q.b. / burro q.b. / olio extravergine di oliva q.b. / 2 cucchiai di farina / prezzemolo q.b.

Per la marinata: due bottiglie di Brol Grande - Le Fraghe / Ultimate SPOG della linea Sal’s Seasoning q.b. / due rametti di timo / qualche chiodo di garofano

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PREPARAZIONE 1.

Fiammeggiate il galletto per eliminare penne e piume residue; spuntategli il collo e le zampe, poi tagliatelo in pezzi che metterete a marinare per una notte nel vino rosso aromatizzato con un due cucchiai dello SPOG, il timo e i chiodi di garofano.

2.

Preparate il vostro dispositivo per una cottura diretta e adatta all’utilizzo della cocotte in ghisa. Fate quindi rosolare la pancetta tagliata a cubetti fino a renderla croccante.

3.

Eliminate la pellicola esterna delle cipolline, pulite bene i funghi champignon, e tagliate le carote a rondelle. Poi trasferite il tutto nella cocotte con la pancetta. fate cuocere insieme per un paio di minuti. Togliete poi le verdure dalla cocotte e tenetele da parte.

4.

Sempre nella stessa pentola in ghisa, fate sciogliere una o due noci di burro e fate soffriggere uno spicchio d’aglio schiacciato. Trasferite i pezzi di galletto nel tegame dopo averli fatti sgocciolare dalla marinata, e fateli rosolare. Eliminate l’aglio.

5.

A questo punto aggiungete le verdure e la pancetta tenute da parte e cospargete la superficie del galletto con la farina.

6.

Bagnate con la seconda bottiglia di vino, aggiustate di sale e di pepe, mettete due foglie di alloro e coprite la cocotte con il suo coperchio.

7.

Fate cuocere il galletto controllando di tanto in tanto che non si asciughi (nel caso aggiungete acqua calda) e a fine cottura (quando sarà morbidissimo e avrà raggiunto i 78°C-84°C, non prima di un’ora) fate ridurre il sughetto se dovesse risultare troppo liquido. Servite con un pizzico di prezzemolo tritato.


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C’è quiche e

QUICHE LORRAINE!

La quiche Lorraine è una variante che – come ci suggerisce il nome – si diffuse nella regione della Lorena, Francia. Tradizionalmente, è una torta salata con base di pasta brisé, aperta e guarnita con spessi strati di ingredienti golosi, come formaggio Gruviera, cipolla, pancetta e noce moscata.

Come sempre, quando si parla con piatti popolari, ricercare l’origine e l’esatta paternità è veramente difficile. Nel caso della quiche, dobbiamo innanzitutto cambiare epoca e catapultarci nel Medioevo. Ci siete? Ecco. Giunti nel Medioevo, calatevi nella modalità Europa Universalis (gli amanti dei giochi di strategia per pc, intenderanno al volo) e immaginate Francia, Germania, Austria e parte dell’odierna Polonia (che allora, si chiamava Prussia) come un mosaico di piccolo staterelli, ognuno (o quasi) con il suo sovrano e le proprie leggi, in pace e guerra continua. Da un momento all’altro, questi Stati cambiavano governo e governanti, spesso per accordi presi sottobanco, altrettanto spesso per guerriglie.

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In questo clima di sostanziale “incertezza”, le popolazioni non potevano far altro che adattarsi e familiarizzare con i vicini di casa, che talvolta diventavano conquistati o conquistatori. Il clima, pertanto, era particolarmente fertile: gli scambi culturali e culinari erano all’ordine del giorno, quindi il passamano di ricette e preparazioni era praticamente la prassi. Detto ciò, ci tocca distruggere il mito: la quiche – così famosa in Francia – sembra essere nata in territorio tedesco. Cioè, ci spieghiamo meglio. I primi esempi di

quiche – al tempo, chiamata kuchen, cioè “torta” – si hanno ai tempi del piccolo regno di Lothringen, nome tedesco della Lorena. Andando a consultare una cartina, potrete facilmente notare che la Lorena è una bellissima regione di confine e che, quindi, gli influssi culturali giocavano facilmente a ping pong, stimolando continuamente la fantasia e la necessità degli abitanti di questi posti. Persino in Italia, già dal XIII secolo, abbiamo notizie di torte cotte con uova, quindi risulta ancora più complicato capire dove sia iniziato il tutto. Possiamo, però, capire dove sia stata codificata la ricetta e pare che la Lorena sia proprio la madre designata. La ricetta più antica di quiche Lorraine vede come protagonista la panna, la pancetta e le uova. Il fondo era composto da uno spesso strato di pastafrolla salata, sostituita in tempi più recenti con la più leggera, unticcia e golosa pasta brisé. Dato che in rete si trova di tutto, dalla quiche Lorraine fatta al Bimby fino a quella fatta col microonde, probabilmente la nostra versione fatta al bbq vi piacerà di più. No, anzi, togliete il probabilmente. Ne siamo più che certi. Dato che siamo dei ribelli, ma anche viziosi, abbiamo messo nella farcia, al posto della pancetta, il nostro mitico salame affumicato. E dato che abbiamo cotto la quiche nel dispositivo a carbone, l’abbiamo anche affumicata un po’. Non ditelo ai francesi, che sono leggermente permalosi: è probabile che rispolvererebbero la ghigliottina per l’occasione, ma solo perché non l’hanno assaggiata. Vi diamo anche la ricetta per la pasta brisée; ovviamente voi potete scegliere di usare quella già pronta.


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Per la pasta brisè: 300 g di farina / 150 g di burro / 1 cucchiaino di sale. Per la farcia: 150 g di salame affumicato del norcino del nostro Megastore / 3 uova / 130 ml di latte / 130 ml di panna fresca / 100 g di formaggio Gruviera / noce moscata q.b.

PREPARAZIONE 1. In una ciotola unite la farina con il burro freddo tagliato a pezzetti e il sale. Lavorate fino a ottenere un composto di briciole, poi aggiungete 80 ml di acqua e continuare a impastare con le mani fino a formare una palla. Cercate di lavorare il meno possibile la pasta, perché in caso contrario acquisterebbe un’elasticità eccessiva e si deformerebbe nel corso della cottura. 2.

Fatela riposare per un quarto d’ora in frigo e nel frattempo preparate la farcia: fate rosolare il salame ridotto a listarelle in una padella. In una ciotola sbattete le uova con il latte, la panna, la noce moscata e il groviera grattugiato grossolanamente.

3.

Per stendere la pasta mettetela fra due fogli di carta da forno e appiattitela con il matterello, girandola più volte, fino ad arrivare a uno spessore di circa 4 millimetri.

4.

Con la pasta brisée foderate una tortiera imburrata e procedete alla precottura del guscio in bianco, aiutandovi con la carta forno e i legumi; bucherellate il fondo della pasta e infornate a 200°C per circa 15 minuti, che dovrebbero bastare per una precottura.

5.

Distribuite sul fondo del guscio precotto il salame, aggiungete il composto preparato e cuocete nel vostro dispositivo predisposto per una cottura indiretta a 180°C, per 25 minuti circa. In questa fase potete anche decidere di affumicare con chips di legno aromatico.

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Ingredienti per una quiche


FOIE GRAS Tanto discusso quanto buono Dibattuto, vietato, oggetto di litigi e quant’altro: non possiamo negare che, a noi peccatori, il foie gras piace davvero parecchio. Nel rispetto dell’animale, ovviamente. Il foie gras è una preparazione che vede come protagonista principale il fegato – opportunamente “ingrassato” – di oca o di anatra. Il foie gras è periodicamente messo sotto la lente d’ingrandimento di animalisti ed esperti di etica: l’accrescimento della ghiandola avviene attraverso la tecnica del gavage, cioè dell’iper-alimentazione forzata degli animali. Molte legislazioni del mondo stanno man mano vietando questa tecnica di alimentazione di oche ed anatre, di fatto cambiando il mondo del foie gras. Il costo elevatissimo per la produzione, nonché il suo intenso gusto umami, lo eleggono uno dei cibi più richiesti e desiderati di sempre. Tanto oggetto di lusso quanto con una vita difficile: in alcuni Paesi del mondo (come l’Argentina) è vietato o fortemente limitato; alcune catene di supermercati, hanno varato divieti per la vendita dei foie gras negli scaffali e nei banchi frigo. La questione è spinosa, come sempre quando entra di mezzo l’etica e il buon trattamento dell’animale.

DOVE NASCE IL FOIE GRAS?

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Se avete letto con attenzione il numero di Agosto del Magazine, saprete già che il fegato degli animali (insieme ad altre interiora e parti nobili e meno nobili) è utilizzato fin dall’antichità dagli aurispici (figure di connessione tra il terreno e il presunto divino) per leggervi presagi ed interpretare il futuro. Erano abitudini diffuse più o meno in tutto il globo, dall’antica Cina degli imperatori della mitologica dinastia Han, fino all’Egitto dei faraoni. Proprio l’Egitto, precisamente l’Egitto del V millennio a.C. , sembra essere l’habitat naturale per oche ed anatre. Il fiume Nilo ha rappresentato un bacino importante per lo sviluppo della civiltà del Mediterraneo e la fauna che lo popolava non fa eccezione. La fertilità delle rive del Nilo è cosa risaputa: basti pensare alla presenza del limo, un fango fertilissimo che permetteva la crescita delle piante di papiro ed altro tipo di flora. Grazie a questa

eccezionale fertilità, era un passaggio obbligato per oche ed anatre in migrazione. Qui, si fermavano durante il lungo viaggio, facendo scorte di prede che riuscivano a pescare, per poi proseguire verso le zone ancora più calde. Gli egiziani, notori gourmand, ebbero l’occasione di assaggiare il fegato di questi animali e lo trovarono a dir poco delizioso. Non ci misero molto a capire che il fegato era ingrossato e delizioso a causa della sovra-alimentazione; quindi, iniziarono a praticarla sulle oche. Ben presto, l’abitudine di ingrassare anatre ed oche si diffuse in tutto il bacino del Mediterraneo, grazie agli scambi culturali, commerciali e alle migrazioni periodiche. Le popolazioni elleniche ed, ovviamente, quelle dell’Impero romano furono grandi fan del foie gras. Plinio il Vecchio rendiconta bene, nel suo De Naturalis Historia, chi fu l’inventore del foie gras per i romani: il celeberrimo cuoco Marco Gavo Apicio sarebbe colui che ha iniziato la pratica dell’alimentazione a base di noci e fichi secchi (molto calorici) per alimentare le oche e le anatre da foie gras. Da qui, il nome iecur ficatum, “fegato alimentato a fichi”, letteralmente. Come ben si può immaginare, il foie gras è stato per moltissimi secoli un cibo per ricchi, un vezzo culinario parecchio costoso. Le scoperte geografiche facilitarono l’andirivieni delle merci tra il Nuovo e il Vecchio Continente e, in generale, un benessere alimentare più diffuso. Grazie all’influenza della comunità ebraica in Francia, qui abbiamo il nucleo più grande di tradizioni ed estimatori di foie gras. Dobbiamo aspettare il XVIII secolo affinché si abbia una diffusione più capillare. Infatti, durante questo secolo, si hanno le prime massicce importazioni e coltivazioni di mais in Europa, soprattutto nel Sud-Ovest della Francia; coltivazione che, ben presto, diviene il perno principale dell’alimentazione di oche ed anatre. Successivamente, l’ingegno di Nicolas Appert permise la conservazione e la diffusione del foie gras in tutto il mondo. Infatti, a lui si deve l’invenzione del metodo per la conservazione ermetica dei cibi. Certamente, distributori di cibi gourmet hanno


TIPOLOGIE DI FOIE GRAS In Francia, Paese dove il foie gras ha una legislazione ben precisa, esistono diverse tipologie di foie gras, dal più costoso al più economico. Foie gras entier: è il più pregiato, tutto intero e si trova cotto, semicotto oppure fresco. Foie gras: costituito da diverse parti del fegato, compattate insieme. Bloc de foie gras: si tratta di un blocco, composto almeno dal 98% di puro foie gras cotto. A seconda delle diciture, può contenere diverse percentuali di foie gras di oca e di anatra. Come “sottoprodotti”, esistono il patè de foie gras, la mousse de foie gras (entrambi, con almeno il 50% della materia), il parfait de foie gras (con almeno il 75%). Inoltre, esiste una varietà di prodotti

come oli, creme ed altro per le quali non esiste una legislazione precisa in merito. Il foie gras solitamente si degusta a temperatura ambiente. Se intero, viene servito come portata principale. In caso ci si trovi davanti un foie gras porzionato (o ancora, un paté di foie gras), lo si può spalmare sul pane (le baguette francesi andranno benissimo), accompagnato con vini francesi leggeri, frizzanti o ancora vini secchi, come quelli dell’Alsazia. Viene a volte aromatizzato con il tartufo o ancora con liquori, come l’armagnac. Gli americani sono grandi consumatori di foie gras, ma di anatra, che per il palato locale è più accessibile. Durante il XX secolo, i consumi di fegato d’anatra da parte degli americani ha fatto sì che una grande quantità di nuove ricette fosse importata in Francia, con un conseguente florilegio di letteratura culinaria sul genere.

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favorito largamente la “diffusione” di questo cibo tra le mura domestiche e non solo ai ristoranti, anche soltanto tra curiosi e i fruitori occasionali.


Ingredienti per 4 persone: un foie gras intero / 250 g di lamponi / 50 g di zucchero / sale q.b. / un cucchiaio di aceto di mele

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PREPARAZIONE 1. Tagliate delle scaloppe (medaglioni) di foie gras dello spessore di un paio di centimetri e cuocetele in una piastra in ghisa rovente a temperatura feroce per 30 secondi per parte. Il grasso contenuto all’interno fonderà istantaneamente e, rimanendo nella piastra, aiuterà a veicolare il calore favorendo le reazioni di cauterizzazione esterne. 2.

Lasciate riposare il foie gras per un minuto dopo la cottura per permettere all’interno di diventare morbido ma soprattutto di mantenerlo ben caldo.

3.

Mettete i lamponi in una padella, cospargeteli con lo zucchero e con un pizzico di sale, spruzzateli con l’aceto di mele. Mescolate con cura e appena la salsa si sarà un po’ addensata (i frutti non devono rompersi) servitela calda con il foie gras.


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TOURNEDOS À LA ROSSINI

Col Revit è molto meglio! Letteralmente, i tournedos o tournedò (in qualche libro dell’alberghiero, li troverete ancora scritti così!) vengono tradotti come “giradorso”: sono dei medaglioni di carne di manzo, ricavati dalla parte centrale del filetto ed alti circa 2-3 cm. Anche se solitamente ci riferiamo a carne bovina, in realtà il territorio può essere più vasto: possono essere di maiale, di pollame o ancora di pesce. Le origini dei tournedos sono, manco a dirlo, francesi: ed è in Francia che hanno le idee più chiare di cosa sia, perché appena al di fuori dei confini si dice tutto e il contrario di tutto. Negli Stati Uniti, un nome molto più comune per i tournedos è filet mignon, anche se questo genera un po’ di confusione e si legge un po’ ovunque che le due preparazioni non siano esattamente la stessa cosa. In ogni caso, il filet mignon viene proposto anche in ristoranti fine dining o di chiara ispirazione francese, con questo nome, attirando di fatto una gran fetta di popolazione che non sa cosa siano i tournedos.

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Solitamente, i tournedos vengono prima avvolti in pancetta o similari per conservarne una elevata succosità, per poi essere gettati in griglia. Come contorno, si preferiscono verdure e pane grigliati, ma anche jus e salse varie. Una ricetta molto famosa sono i tournedos à la Rossini, intitolati al celebre compositore Gioacchino Rossini. La leggenda narra, infatti, che fu proprio il compositore a suggerirne la ricetta allo chef del celebre Cafè Anglais di Parigi. I tournedos à la Rossini vedono come protagonista, oltre i medaglioni di carne, anche il foie gras: questo li rende un autentico piatto della tradizione gastronomica d’Oltralpe. Ecco la nostra versione della famosa ricetta francese.

Ingredienti per 4 persone: un tenderloin Emerald Green Crossbreed del Megastore / 200 g di foie gras / 100 g di burro / sale e pepe q.b. / 4 fettine di pancarrè o 1 kg di patate bollite e tagliate a fettine / due tartufi neri / mezzo bicchiere di liquore Madeira PREPARAZIONE 1.

Preriscaldate il forno a 52°C e tenete in Revit il filetto intero finché non avrà raggiunto al cuore i 50°C circa e fuori sarà perfettamente asciugato.

2.

Quando sarà pronto, tagliate il tenderloin a medaglioni altri circa 3 cm.

3.

In una padella, sciogliete il burro, poi ricavate dal pancarrè delle fette tonde grosse quanto i medaglioni di carne e friggetele nel burro da entrambi i lati.

4.

Ricavate delle fettine di foie gras, dello stesso numero dei medaglioni, e fatele cuocere su una piastra in ghisa a fuoco feroce. Toglietele dal fuoco.

5.

Nella stessa padella, mettete a cuocere i medaglioni di filetto (se volete, potete legarli con uno spago da cucina per farli rimanere compatti), 30 secondi per lato. Toglieteli dal fuoco, salate pepate e poi adagiateli sopra le fettine di pane. Mettete poi, sopra la carne, le fette di foie gras e infine delle fettine di tartufo nero

6.

Nella padella in cui avete cotto la carne e il foie gras versate il Madera, deglassate i sughi rimasti, poi fate addensare la salsa per qualche istante, aggiungendo il tartufo tritato che vi è rimasto da parte. Versate la salsa ottenuta sui tournedos.


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SAINT HONORÉ

La torta Saint Honoré è tra i dolci più monumentali non soltanto della pasticceria francese, ma di tutta la pasticceria mondiale. Necessita di molta attenzione, di pazienza e di una discreta dose di tempo: non a caso, vi proponiamo di seguito una ricetta che necessita non di uno, non di due, ma di TRE GIORNI. Ma tra voi ci saranno molti griller smaliziati, quindi il tempo per voi non sarà un problema, giusto?

Parliamo di un dolce sontuoso, che vede come protagonisti diverse preparazioni cardine della pasticceria francese: bigné, gli éclairs, pasta sfoglia, crema chantilly e crema pasticciera. Oltre ad un costo che può variare dal medio all’elevato, dipende da quello che deciderete di usare. Ovviamente, le vie facili esistono: dischi di sfoglia (o pan di Spagna, nelle varianti), bigné già pronti et voilà, ci vogliono 30 minuti e un po’ di astuzia. Ancora, possono essere mille le versioni della torta Saint Honoré: noi vi proponiamo, di seguito, quella con pasta sfoglia, che è anche la più diffusa in Francia. In Italia, lo sappiamo bene, è molto più diffusa quella che utilizza il pan di Spagna.

Non ci perdiamo troppo in chiacchiere, ché abbiamo tre giorni di dolce da preparare. Siete pronti? Via!

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La torta Saint Honoré ha anche un inventore (per una volta! Notizie precise!) riconosciuto: si tratta di Chiboust, che creò anche una crema omonima fata di crema pasticciera e meringa. Egli inventò il dolce nella propria pasticceria parigina che si trovava in Rue Saint Honoré.


01. PASTA SFOGLIA DA INIZIARE TRE GIORNI PRIMA DEL MONTAGGIO FINALE Ingredienti per una torta per circa 10 persone (19x25 cm) per il pastello di burro: 150 g di farina 00 / 25 g di burro morbido / 60 g di acqua / 10 g di aceto di riso o bianco per il panetto: 125 g di burro plastico (morbido, non sciolto né che si spezza ancora, malleabile) GIORNO 1 1. Impastate gli ingredienti per il pastello; fate attenzione datele la forma di una palla leggermente schiacciata, avvolgetela in un foglio di pellicola alimentare e mettete in frigorifero per una notte. 2. Prendete ora il burro, adagiatelo su di un foglio di carta forno, copritelo con un altro foglio e con un mattarello schiacciatelo fino ad ottenere un quadrato di circa 14 cm per lato. Lasciatelo coperto con la carta forno e mettetelo in frigorifero (che avrete a temperatura bassa) per una notte GIORNO 2 1. Incidete il pastello con un coltello facendo una croce abbastanza profonda, in modo tale da ricavare quattro ali che aprirete a formare un quadrato. Abbassate la pasta con un mattarello in modo da ottenere un bel quadrato grande circa il doppio del quadrato di burro. 2. Prendete il burro freddo ma già un po’ plastico (lasciatelo fuori dal frigo 5 minuti circa) e appoggiatelo al centro del pastello mettendolo a forma di rombo le cui punte toccano il centro di ogni lato del quadrato del pastello. 3. Risvoltate verso il centro i quattro angoli (quelli ancora visibili del pastello) e otterrete nuovamente un quadrato dove all'interno avete messo il burro. 4. Ora bisogna fare il primo giro di pasta: stendete il quadrato di sfoglia per il lungo senza mai cambiare verso e stendetelo fino ad ottenere un rettangolo lungo almeno 3 volte il quadrato iniziale. Ora piegate un'estremità della sfoglia (uno dei lati più corti del rettangolo) per due terzi e sovrapponete l'altra estremità. Questo è il vostro primo giro semplice. 5. Ora girate la sfoglia di 90° così da avere il lato della piegatura sempre sul vostro fianco. Mettete la sfoglia in un foglio di pellicola, ponetela su di un vassoio e mettetela 5 minuti in freezer. 6. Togliete e lasciate riposare in frigo freddissimo per 55 minuti. Passata la prima ora date nuovamente un altro giro e procedete così per un totale di sei giri semplici da un ora di riposo ciascuno (5 minuti di freezer e 55 minuti di frigo) . 7. Terminati tutti i giri potete cuocere la sfoglia, dopo aver atteso 2-3 ore, o rimandare il passaggio al giorno successivo.

968 - Almanacco 2021


2.

Prendete un foglio di carta forno, ponetelo sulla placca da forno e inumiditelo con acqua fredda. Mettete sopra il rettangolo di sfoglia, bucherellatela con una forchetta, spolveratela con un velo di zucchero semolato e infornate abbassando la temperatura a 190°C. Lasciate cuocere per 8 minuti.

3.

Aprite ponetevi sopra una griglia, schiacciate delicatamente, chiudete e lasciate cuocere ancora 5 minuti.

4.

Togliete poi la sfoglia. Giratela e adagiate la parte che prima era sopra su un altro foglio ci carta forno spolverate il lato ancora non zuccherato con zucchero a velo setacciato. Rimettete in forno a 250°C per 5-7 minuti al massimo. Attenzione, perché la sfoglia brucia facilmente! Questo sarà il lato su cui voi poi costruirete il dolce.

5.

Sfornate e rifilate con un coltellino la sfoglia, così da ottenere le misure indicate o da voi desiderate. Successivamente, lasciate riposare su carta forno.

969 - BBQ4All Magazine

COTTURA DELLA SFOGLIA 1. Preriscaldate il forno a 230°C. Stendete la pasta sfoglia su di un piano poco infarinato a circa 3 mm di spessore, ritagliare un rettangolo poco più grande di 19x25 (noi l’abbiamo fatto di circa due dita in più per lato).


02. PASTA CHOUX PER ÉCLAIRS E BIGNÈ

Ingredienti: 125 g di latte parzialmente scremato / 125 g di acqua / 110 g di burro / 145 g di farina 260 W / 1 cucchiaino raso di sale / 2 cucchiaini di zucchero semolato / 250 g di uova (circa 4 uova)

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PROCEDIMENTO 1.

Preriscaldate il forno a 170°C. Versare il latte, l'acqua, il sale e lo zucchero in una casseruola. Aggiungere il burro tagliato a piccoli pezzetti e portare al primo bollore il burro. Calcolate bene i tempi, perché quando il composto sarà a bollore, il burro dovrà essere del tutto sciolto.

2.

Spostate quindi la casseruola dal fuoco, unire tutto d'un colpo la farina precedentemente setacciata. Rimettete sul fornello e far asciugare la pasta rimestandola con una spatola. La pasta è pronta quando il fondo sfrigola e la pasta sarà diventata una palla liscia e omogenea che si stacca completamente dalle pareti.

3.

Una volta pronta, toglierla dal fuoco e mettete la pasta nella ciotola della planetaria con gancio a foglia. Impastate fino a far diminuire la temperatura. Sbattete le uova e unitele poco per volta all'impasto, avendo cura di non aggiungerne altro fino a quando i primi non siano stati completamente assorbiti.

4.

Mettete l'impasto in una sac à poche con bocchetta liscia di circa 13 mm. Imburrare a velo una placca da forno, e create delle strisce regolari lunghe 25 cm (o lunghe quanto la misura del lato lungo del vostro rettangolo di sfoglia). Su un'altra teglia formare dei piccoli bignè di circa 2,5 cm con una bocchetta da 10mm. Infornare per circa 30 minuti senza mai aprire il forno. Osservate solo la superficie degli éclairs che dovrà risultare dorata.

5.

Togliete dal forno disponetele su di una griglia e infornate ancora qualche minuti per farli asciugare bene. Toglierli dal forno e disporli su di un piatto a raffreddare per tutta la notte senza coprirli.


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03. CREMA PASTICCIERA ALLA VANIGLIA

Ingredienti: 450 g di latte intero fresco

/ 50 g di panna fresca liquida / 1/2 baccello di vaniglia Bourbon / 4 tuorli (circa 90 g) / 90 g di zucchero semolato / 50 g di burro morbido / 30 g di amido di mais / 10 g di amido di riso / 8g di gelatina in fogli da 2 g ciascuno / 30 g di mascarpone / 30 g di burro di cacao o burro classico

972 - Almanacco 2021

PROCEDIMENTO 1. Far bollire il latte con la panna e il baccello di vaniglia privati dei semi e poi lasciare in infusione per circa 30 minuti. 2.

Mettete a bagno la gelatina in acqua fredda. Prendete una casseruola capiente, unite i tuorli, mescolare, unire la polpa della vaniglia e lo zucchero. Aggiungete l'amido di mais e di riso e setacciate.

3.

Riportate a bollore il latte e la panna e unirli in tre tempi al composto di uova. Rimettete il tutto sul fuoco e portare a bollore e cuocere per un minuto circa.

4.

Togliere il composto dal fuoco, aggiungere la gelatina strizzata, il burro di cacao e il burro e mescolare energicamente fino ad ottenere una crema setosa.

5.

Far raffreddare in frigorifero su di una teglia e coprendola con pellicola a pelle. Il giorno dopo mettere la crema nella planetaria e far montare per 5 minuti. Unite il mascarpone a temperatura ambiente a piccole cucchiaiate. Mescolare ancora un poco ed è pronta all'uso.


04. CARAMELLO

PER I BIGNÈ DI DECORAZIONE

Ingredienti: 150 g di zucchero semolato

/ 37 g di acqua / 1 cucchiaio di glucosio PROCEDIMENTO 1. Prendete una casseruola con il fondo spesso. Mettete tutti gli ingredienti e posizionare su un fuoco medio-basso sino a doratura color miele. Prendete i mini bignè non ancora riempiti, forarli sulla base ed intingere la parte superiore nel caramello. Porli a testa in già su un tappetino di silicone o un foglio di carta forno.

05. CREMA CHANTILLY

Ingredienti: 600 g di panna liquida

/ 180 g di zucchero a velo / 1 baccello di vaniglia Bourbon PROCEDIMENTO 1.

Mettere la ciotola della planetaria e la frusta in freezer per almeno 15 minuti.

2.

Nel frattempo, con un coltellino affilato (tipo spelucchio) incidere il baccello di vaniglia Bourbon ed estrarne i semi.

3.

Trascorsi i 15 minuti, estrarre dal freezer la ciotola fredda, posatela sulla planetaria, aggiungere la panna e la vaniglia. Iniziate a montare.

4.

Aggiungete poco alla volta lo zucchero a velo setacciato e montare sino a quando non avrà assunto una consistenza morbida e setosa. Attenzione ad avere una velocità lenta e costante nel montare e di non eccedere, onde evitare l’effetto “burro”.

973 - BBQ4All Magazine

2.


06. ASSEMBLAGGIO

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PROCEDIMENTO 1.

Per prima cosa prendere i tre eclairs forarle nella parte inferiore in 5 punti. Farcire gli éclairs con la crema pasticcera alla vaniglia e poi farcire anche i bignè intinti nel caramello.

2.

Prendere la base di sfoglia, adagiarla su di un piatto fissandola alla base con delle gocce di gelatina o miele. Adagiare due eclairs sui lati lunghi del rettangolo ed una al centro fissandole sempre con delle gocce di gelatina o miele.

3.

Con la stessa sac à poche usata per riempire i bignè farcite le parti rimaste vuote tra gli éclairs formando così un piano uniforme composta da crema ed éclairs.

4.

È il momento di passare alla crema chantilly. Riempite una sac à poche munita di beccuccio per Saint Honoré e decorare la parte centrale della torta.

5.

Prendete i bignè caramellati e fissarli con la gelatina o il miele sugli éclairs laterali rimasti scoperti.

6.

Lasciate in frigorifero fino al momento del servizio.


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L'Arte Bianca a cura di Alessandro Trezzi

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t n a s s i o Cr


Secondo dei racconti popolari, tramandati anche ai giorni nostri, origine e forma del croissant sarebbero legate alla celebrazione della sconfitta dell’Impero ottomano nell’assedio di Vienna del 1683, o in quello di Budapest del 1686. La leggenda narra che per due mesi i turchi, abbiano assediato l’impero Asburgico, senza riuscire a sorpassare le difese. Decisero quindi di provare a raggiungere l’obiettivo scavando delle gallerie sotterranee da percorrere durante la notte, per creare un effetto sorpresa e abbattere più facilmente le sentinelle. Quello che gli ottomani non tennero in conto, è che i fornai lavorano proprio nelle ore notturne. Furono proprio gli instancabili artigiani ad avvertire le sentinelle, salvando la città e l’intero Occidente dall’egemonia turca. In particolare, si parla di un pasticcere di nome Vendler, che ricevette il diritto esclusivo di produrre qualcosa di speciale per commemorare l’evento; sarebbero nati così i cornetti, con quella forma di mezzaluna che ricordava il logo della bandiera turca. Ben diversa è ovviamente la storia ufficiale ed accreditata; le origini del croissant vanno ricercate nel kipferl austriaco, una specialità dolce o salata a forma di mezzaluna preparata con farina, burro, uova, acqua e zucchero e tuorlo d’uovo in superficie. Questa pietanza è documentata ampiamente almeno fino al XIII secolo. Tra il 1838 ed il 1839, l’ufficiale di artiglieria austriaco August Zang, in congedo, fondò la Boulangerie Viennoise (“Pasticceria viennese“) in Rue de Richelieu 92 a Parigi. La data è estrapolata da una fotografia del 1909 della pasticceria, ma sembra che la sua esistenza sia ancora più antica e documentata precedentemente. L’intento del locale era vendere specialità viennesi, incluso il kipferl; fu così che nacque la viennoiserie, distinta dalla semplice pasticceria per una focalizzazione ai dolci da forno ripieni di creme (una distinzione che in Italia non esiste, poiché i fornai sono tradizionalmente

autorizzati alla produzione di pani e dolci secchi da forno). Il successo fu pressoché immediato, tanto che la piccola impresa artigianale cominciò ad essere imitata dai francesi, dando vita anche a versioni “alternative” dei dolci; il kipferl francese fu quindi ri-battezzato croissant per la sua forma a mezzaluna. La parola, infatti, letteralmente vuol dire “crescente“, alludendo alla luna crescente e alla forma del tipico dolce. Alcune fonti, tuttavia, sostengono che il primo riferimento al termine “croissant” si ritrovi nel libro, datato 1853, “Des substances alimentaires”. Per avere la prima ricetta si dovrà attendere il 1906, con la “Nouvelle Encyclopédie culinaire”.

Il croissant Le caratteristiche del croissant sono spesso confuse, a causa dell’interpretazione del termine nel nostro bel paese. Il croissant ha una superficie molto friabile e un interno sfogliato, quasi vuoto, con strati alternati e concentrici di pasta che donano una leggerezza e una morbidezza unica; l’esterno è dorato e sottile, la mollica quasi assente e di un bianco tendente al giallo. Si realizza con un impasto molto semplice di farina, pochissimo zucchero, sale, lievito di birra e acqua; una volta lasciato riposare, viene steso e ripiegato più volte insieme ad un panetto di burro, in modo da alternare gli strati ed ottenere una spettacolare ed invitante sfogliatura. Viene spesso confuso con il cornetto all’italiana, che nell’impasto ha uova, burro e più zucchero, e che per tal motivo si presenta meno friabile, più morbido e con un rapporto vuoto/pieno molto più basso del gemello francese. Tutt’altra cosa è poi la brioche, termine genericamente utilizzato per intendere un dolce da forno dorato e con una mollica piena ma soffice, che nel sud Italia viene realizzata con il “tuppo”. Farlo in casa può sembrare complesso, ma è in realtà un’impressione dovuta al lungo processo di sfogliatura richiesto, fondamentale per ottenere il risultato sperato. Vediamo insieme come si fa?

977 - BBQ4All Magazine

D

a qualsiasi parte del mondo veniate, è altamente improbabile che non abbiate mai fatto colazione con un caldo croissant sfogliato, classico o ripieno di crema, cioccolato o confettura. Si tratta indiscutibilmente del re del mattino, e che se immerso nel cappuccino può regalare gioie indimenticabili e farvi partire con il piede giusto.


978 - Almanacco 2021

Il burro La scelta del burro giusto è essenziale perché il tutto si svolga correttamente. Si tratta di un ingrediente che deve conservare la sua plasticità e la sua forma solida fino alla cottura; in caso contrario, sciogliendosi si unirà agli strati adiacenti di pasta, impedendo la sfogliatura stessa. Dev’essere un burro di panna centrifugata, mai da affioramento, e con una buona percentuale di grassi; purtroppo, oggi non è facile trovare delle materie prime di qualità nel nostro paese, perché il burro è considerato un prodotto di scarto della produzione di formaggi pregiati, come il Grana Padano e il Parmigiano Reggiano. All’estero, invece, è considerato un vero e proprio alimento, soprattutto in Francia e in Germania. Non fatevi problemi quindi ad acquistare ingredienti stranieri, nemmeno se i parenti vi accusano di non dare soldi ai vostri compatrioti; si ricrederanno una volta assaggiati i vostri splendidi croissant La sfogliatura Questa volta ci concentreremo ben poco sull’impasto, in quanto riveste la parte meno importante di tutto il processo. La vera discriminante è invece il particolare processo di sfogliatura, ossia la tecnica per ottenere il caratteristico interno a strati sottili e concentrici, che ne evidenzia l’estrema friabilità. La sfogliatura è un processo di per sé semplice e lineare, ma durante il quale la precisione e l’attenzione alle temperature è d’obbligo. Una volta rovesciato l’impasto sul piano (non infarinato, mi raccomando), viene pressato al fine da ottenere un quadrato, e coperto dal burro per metà lunghezza ma uguale spessore. L’impasto viene quindi ripiegato in modo da coprire il burro con i bordi e racchiuderlo a fagottino; a questo punto, con un mattarello il tutto viene spianato fino ad ottenere un rettangolo di 1 cm di spessore, che viene ripiegato a 3 (il bordo inferiore verso il centro, il superiore a coprire l’inferiore), coperto da pellicola e riposto in frigo 20 minuti. I riposi al freddo sono fondamentali per evitare che il burro si sciolga e rovini il lavoro; potete anche utilizzare una sfogliatrice per pasta fresca se ne disponete, ma non è fondamentale. Spianatura e pieghe vanno ripetute altre due volte, per poi avvolgere il tutto nella pellicola e riporre in cella 40 minuti; dopodiché, sarete pronti per realizzare i vostri croissant. Sotto con la ricetta completa!

INGREDIENTI circa 8 croissant per l'impasto 250 g di farina di grano tenero 00 o 0 di media forza (260 W); 20 g di zucchero semolato; 5 g di sale fino; 10 g di lievito di birra fresco; 125 g di acqua; per la sfogliatura 150 g di burro per la copertura 1 uovo medio; Un pizzico di sale.


979 - BBQ4All Magazine


IMPASTAMENTO

In una ciotola o nella vasca della vostra impastatrice versate la farina, tutto lo zucchero e il sale; a parte sciogliete il lievito nell’acqua, e poi versate il tutto insieme alla farina e iniziate ad impastare. Una volta ottenuta una massa liscia e uniforme a 22°C, mettetela in un recipiente a chiusura ermetica e lasciatela riposare 10 minuti; dopodiché, effettuate 3 giri di pieghe ogni 10-15 minuti al fine di rafforzare la maglia glutinica.

PUNTATA

Riponete l’impasto a 6°C in frigorifero per 12 ore, lasciandolo raddoppiare di volume; se in casa vostra fa troppo freddo, fate partire 30 minuti l’impasto fuori dal frigorifero prima delle 12 ore, in modo che la lievitazione possa avere il suo corso.

SFOGLIATURA

Riponete l’impasto sul piano da lavoro e procedete con la sfogliatura, come descritto nel paragrafo dedicato: create un quadrato di 12 cm, appoggiateci sopra un panetto di burro in diagonale (di metà lunghezza ma egual spessore), e ripiegate i 4 lembi dell’impasto al centro, chiudendolo a fagottino.

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A questo punto con il mattarello o la sfogliatrice spianate l’impasto, fino a raggiungere 1 cm di spessore, poi chiudete con piega a libro (la parte inferiore verso il centro, la superiore sulla inferiore), coprite con pellicola e riponete in frigorifero 20 minuti. Ripetete spianatura e pieghe 2 volte, poi fate riposare 40 minuti in frigorifero.

FORMATURA

Una volta tolto l’impasto dal frigo, stendetelo in un rettangolo di circa 24x38 cm, e ritagliatelo in 8-9

triangoli lunghi e sottili; arrotolate ogni triangolo partendo dalla punta e tirando leggermente, in modo da formare i croissant.

APPRETTO

Disponete i croissant su una teglia 30x40 cm, meglio se in alluminio, ricoperta da carta forno; lasciate un po’ di spazio tra l’uno e l’altro in modo che possano lievitare senza toccarsi. Attendete circa 1-2 ore fino al raddoppio; un segnale molto evidente da tener presente è che le pieghe della pasta devono iniziare a separarsi.

COTTURA

Pre-riscaldate il forno a 240°C, e riponete una teglia sul fondo all’interno della quale versare una tazza d’acqua per generare vapore, impedendo ai croissant di seccare. Spennellate i vostri capolavori con l’uovo (precedentemente sbattuto e addizionato di sale), molto delicatamente; infornate nella parte centrale bassa, abbassando il forno a 220°C, e attendete per 15-20 minuti fino a completa doratura. Non preoccupatevi se durante la cottura vedrete il burro fuoriuscire, in quanto verrà riassorbito durante il raffreddamento. Fate raffreddare i croissant su griglia rialzata, e sbranateli ancora tiepidi, meglio se inzuppati in un buon cappuccino. Vi sconsiglio di congelarli una volta pronti; l’alternativa è quella di congelarli una volta formati, prima dell’appretto. Riponeteli coperti da un panno con la teglia, e una volta induriti potete riporli in un sacchetto per alimenti. Per riportarli in vita, vi basta toglierli dal freezer, riporli sulla teglia con carta forno e attendere che dopo lo scongelamento riparta la lievitazione. Bon appétit!


981 - BBQ4All Magazine


Feste a stelle e strisce

It’s

Halloween,

be afraid!

982 - Almanacco 2021

Across the Pond a cura di Elena Ninotti


L

o o sappiamo che è il Magazine di Settembre, ma ci portiamo avanti con il lavoro: ci tengo a farvi assaporare un autentico Halloween a stelle e strisce, per cui è bene pensarci per tempo! Le serie tv americane hanno fatto molto, nell’inculcarci l’idea dell’Halloween, tipica festa a stelle e strisce. Ad esempio, uno dei primi incontri con i festeggiamenti della zucca lo ebbi da ragazzina, guardando una puntata di Dawson’s Creek. Ricordo tutto: l’allestimento della casa, ragnatele finte e zombie in giardino... insomma, con le mie poche conoscenze dell’epoca riguardo il mondo americano, il tutto mi sembrò una forzatura cinematografica. Poi sono arrivata negli States e... ho scoperto che la realtà è ancora più estrema. Durante il mese di ottobre, gli esterni delle ville diventano SUL SERIO dei set allestiti come una vera casa degli orrori con manichini semoventi, proiettori, tombe e scheletri. Non ci si risparmia, da queste parti! Un mio vicino, ad esempio, per diverse settimane parcheggia un furgoncino del vialetto di casa con due scheletri dentro. Altri ancora lasciano penzolare gli scheletri, oppure li impiccano ai rami degli alberi del giardino. Negli Stati Uniti, celebrare Halloween è una cosa davvero seria! Prima di tutto, c’è da decidere il costume. A parte alcune località (come, ad esempio, a New Orleans, dove si dà ogni anno una magnifica parata il giorno del Mardi Gras), negli States non si festeggia il Carnevale, per cui questa è l’unica occasione di travestimento.

Lo dia de los Muertos anche è molto diffusa, una sorta di variazione sul tema Halloween. È molto conosciuta come festa anche in Europa grazie alla mediazione del film Coco, che l’ha portata sul grande schermo. In questo caso, si va direttamente a festeggiare sulla tomba dei defunti con banchetti, mascherea

983 - BBQ4All Magazine

Non solo scheletri e morti, ma anche principesse, draghi, pompieri, ogni personaggio della fantasia (o poco più in là) viene impersonato da bambini ed adulti. Non tutti i travestimenti sono ben accetti, però: ad esempio, meglio evitare tutte le maschere che possono essere cultural appropriation. Qualche esempio? No Black Face, no travestimenti di nativi americani, no asiatici. Insomma, le nostrane mascherine di Toro Seduto o di Bruce Lee, non sopravvivrebbero ad Halloween.


tema, musica. Si tratta di una festa prettamente messicana e non viene celebrata con la stessa portata di Halloween, ma si iniziano a vedere sempre di più decorazioni e parate che rimandano a ciò. Anche in questo caso, tuttavia, appropriarsi di una festa così intima, di un’altra cultura, non è sempre ben visto. Non c’è festa da scuola il giorno di Halloween, ma il 31 i bambini sono invitati a presentarsi in classe indossando il costume del loro personaggio letterario preferito per parlarne di fronte alla classe.

984 - Almanacco 2021

Sebbene per tutto il mese vengano organizzate feste a tema, in parchi, musei e location varie, il culmine dei festeggiamenti si ha la sera del 31 Ottobre. A partire dalle 6 pm, le strade si riempiono di bambini e adulti, tra le strade dei quartieri si organizzano banchetti, allestimenti, proiezioni cinematografiche nei giardini e inizia la processione del “dolcetto o scherzetto”. Una cosa molto particolare, che si fa spesso nei parchi delle scuole o delle comunità, è il Tailgate Party. Le automobili sono parcheggiate in un’area adibita e i bagagliai aperti vengono decorati come una casa infestata: da qui il nome, visto che “tailgate” significa appunto “bagagliaio”. I bambini passeggiano tra le auto e partecipano a giochi, prendono le caramelle, i gadget...

Verso le 8 pm si rientra a casa e si continuano i festeggiamenti con un buffet a tema. Per questo, questo mese vi lascio qualche idea per poter organizzare in anticipo un menù di Halloween attuabile anche in Italia: laddove mi sono resa conto che potrebbe essere complicato recuperare gli ingredienti originali, mi sono ingegnata per trovare delle sostituzioni. Il menù dovrebbe essere a buffet, già pronto per quando si rientra in casa. Di solito, ci sono sempre le seguenti preparazioni (fra tutte le altre): • • • •

Lasagne cimitero Mummie Devil eggs coi ragnetti Crema al cioccolato con vermi

Per le lasagne, avete più opzioni. Potete farle col ragù scientifico dello Zio, o ispirarvi alla ricetta del Numero del Magazine di Dicembre 2018. In ogni caso, cospargetele con pangrattato abbrustolito (in modo da simulare il terriccio) e decorate con “lapidi” create con una piadina tostata e scritta con un pennarello nero alimentare.


MUMMIE Ingredienti: un rotolo di pasta sfoglia / 4 salsicce cheddar jalapeño del Megastore / un pacchetto di occhi di zucchero (si trovano nei negozi di cake design e simili) o dei grani di pepe nero. PROCEDIMENTO: Srotolate un foglio di pasta sfoglia e tagliatelo a sottili tagliatelle. Avvolgete le salsicce con la pasta sfoglia, lasciando un piccolo spazio scoperto per gli occhi, Cuocete in forno a 200°C fino a doratura della pasta e fate raffreddare. Mettete un goccio di maionese sulla“faccia” e incollate gli occhietti di zucchero o i grani di pepe.

985 - BBQ4All Magazine


DEVIL EGGS

Ingredienti: 4 uova / un cucchiaio di

maionese / 50 ml di panna acida oppure yogurt greco / 5 g di senape / un cucchiaino di tabasco Memphys dry rub / il succo di mezzo limone / 3 o 4 olive verdi per decorazione

986 - Almanacco 2021

PROCEDIMENTO: Bollite le uova, tagliatele a metà per poi estrarne i tuorli. Mescolateli in una ciotola con un cucchiaio di maionese, uno di panna acida (o yogurt greco), una punta di senape e un goccio di tabasco,. Insaporite con il Memphis dry rub e regolate con succo di limone. Mettete la crema ottenuta negli albumi tenuti da parte e decorate con mezza oliva per fare il corpo del ragnetto e con spicchi di oliva per fare le zampette


CREMA AL CIOCCOLATO CON VERMI Ingredienti: 2 uova / 180 g di zucchero bianco semolato / 50 g di maizena / 250 ml di latte intero / un cucchiaio di cacao amaro / 50 g di cioccolato fondente / un pacchetto da 6 di biscotti tipo Oreo PROCEDIMENTO: Preparate in una ciotolina una pastella con le uova intere, lo zucchero, il cacao e la maizena. Portate a bollore il latte. Versare a filo il latte bollente e riportare sul fuoco, fino a nuovo bollore, mescolando continuamente in modo che non attacchi al fondo del pentolino. Quando la crema si è addensata, levare dal fuoco e aggiungere il cioccolato a pezzetti. Assaggiare la crema ottenuta e regolare di zucchero o di cioccolato (a seconda del cioccolato utilizzato può essere necessario più o meno zucchero). Versare in bicchieri di vetro e far raffreddare, poi conservare in frigo almeno 3 ore. Per servire, sbriciolate un paio di biscotti Oreo privati della crema centrale e usateli come terriccio sopra al vasetto. Decorare con vermi di gelatina. Se prevedete di assemblare il dolce in un luogo diverso, potete conservare la crema raffreddata in un sac à poche e creare i bicchierini in un secondo momento, spremendo la crema dalla sacca.

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a cura di Emiliano Nencioni

BBQ4All: FROM ZERO TO HERO

La cottura indiretta sul dispositivo a gas

SI. PUÒ. FARE!

Spesso i griller alle prime armi, o comunque non ancora ammanicati a dovere, guardano con sospetto i dispositivi a gas, perché sono convinti che non siano vero bbq. Altrettanto di frequente, di fronte a un macchinario di questo tipo, la domanda che ci si sente porre è: ma darà davvero alla ciccia il sapore tipico della grigliata? Riuscirò ad affumicare? Riuscirò a cuocere un Pulled Pork, oppure lo bollirà? La risposta a tutte queste domande è sì. Certamente, bisogna avere un po’ di esperienza e ci vogliono alcuni accorgimenti. Ma vi possiamo assicurare che, quando questo tipo di dispositivo è usato bene, è molto difficile distinguere un cibo cotto sul carbone da uno cotto sul gas. In ogni caso, i vostri amici o i vostri parenti che non sono del mestiere non sapranno proprio riconoscerli. Garantito. Come abbiamo spesso ripetuto, scegliere questo tipo di macchinario porta diversi vantaggi, uno su tutti la praticità. E’ infatti il dispositivo preferito per chi ama le grigliate ma non ha tempo, voglia o capacità di gestire quello a carbone. Ma conosciamolo meglio nel dettaglio.

Com’è fatto un dispositivo a gas?

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È costituito da una camera di cottura che può essere di diverse dimensioni, realizzata con materiali refrattari, come ghisa o acciaio, resistenti alle alte temperature. La camera può essere chiusa durante la cottura grazie a un coperchio fissato con due perni laterali. All’interno della camera di cottura sono posizionate le griglie. In alcuni casi, possono esserci supporti laterali fissi o mobili che servono ad appoggiare i condimenti o altri ingredienti. Il funzionamento del dispositivo è semplice: basta aprire il rubinetto della bombola e schiacciare un pulsante per accendere il fuoco, che può uscire da due o più bruciatori.


Setup di un dispositivo a gas In realtà il metodo è molto simile a quello visto per il carbone, ma con le opportune varianti. Come abbiamo detto, i grill a gas possono avere un numero variabile di bruciatori indipendenti. A parte quelli con un solo bruciatore, che sono ovviamente adatti alle cotture dirette e basta, quando si hanno due o più bruciatori non si devono temere le indirette. Se un grill è da due o tre fuochi, se ne accenderà solo uno di quelli presenti ad una delle estremità. Se è un grill da quattro fuochi in su, si accenderanno solo i due presenti alle due estremità. In entrambi i casi, l’intensità di calore dopo il riscaldamento dovrà essere ridotta al minimo. Lo spazio della griglia in prossimità dei bruciatori accesi verrà lasciato vuoto, mentre sullo spazio in prossimità dei bruciatori

spenti si disporrà il cibo. Chiudendo il coperchio e lasciando qualche minuto di assestamento avremo ottenuto il nostro setup indiretto. Se il dispositivo a gas è molto grande, la porzione d’aria sopra i bruciatori spenti è maggiore rispetto a quella sopra la fonte di calore. Abbiamo poi l’aria che penetra dall’area sottostante che, investendo la pietanza in cottura, la mantiene più fredda, o in ogni caso la raffredda leggermente rallentando la cottura. Per ovviare a questo inconveniente, basta utilizzare la tecnica del drip pan: una teglia, messa sotto la griglia in corrispondenza dell’alimento e posata sulle barre dei bruciatori spenti, che raccoglie i succhi in caduta. In questo modo l’aria che entra da sotto verrà convogliata verso i bruciatori accesi alle estremità e si ridurrà l’interferenza di aria fredda all’interno della camera di cottura, migliorando la stabilità. Importantissimo: solo le barre dei bruciatori spenti possono essere coperte. Quelli accesi necessitano di flusso d’aria costante e libertà di sfogo per i gas di combustione. La cottura indiretta in un dispositivo a gas sarà un gioco da ragazzi con questi accorgimenti. A questo punto non resterà che regolare l’erogatore di flusso del combustibile e la temperatura rimarrà stabile facilmente.

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La fiamma può essere regolata dalle manopole, esattamente come si fa con i fornelli di casa. I bbq a gas più avanzati includono le cosiddette barre aromatizzanti: i liquidi della carne o dei cibi in cottura cadono su queste barre e si trasformando in vapore che torna su e investe di nuovo l’alimento, che a quel punto prende il tipico sapore di bbq! Ma anche coi modelli che non montano le barre di aromatizzazione, niente panico: è possibile inserire fra la griglia e le fiamme una lastra di pietra che trasforma i liquidi di cottura in vapore aromatico.


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d e k o m Spepperoni


P

epperoni. Nella nostra lunga vita a guardare e leggere storie made in USA, l’abbiamo incontrato un mare di volte. E, ad onor del vero, l’abbiamo spesso confuso con i nostrani peperoni. Tutto ciò, fino all’avvento di internet: solo allora abbiamo capito che non si trattata della nostra bacca ben conosciuta, bensì di un salame a macina fina, “codificato” nella New York di inizio Novecento e da allora ampiamente utilizzato dagli americani per condire cibi. In particolare, la pizza. La pizza pepperoni , di cui avrete sentito parlare, è una delle specialità riconosciute della città di New York, ma non solo: questa pizza occupa quasi un terzo delle vendite totali delle pizze negli States. Tutto merito, pare, di questo salame tagliato a rondelle e sfrigolante sulla pizza calda, che ha iniziato a destare sempre più curiosità nei palati nostrani. Il Pepperoni sembrerebbe derivare dalle salsicce essiccate del Sud Italia, portate negli States dagli emigranti: una cosa molto simile alla salsiccia napoletana piccante, oppure alla schiacciata calabra. Rispetto a queste due tipologie, il Pepperoni ha una grana molto più sottile. Più simile ad un salame di tipo Milano, per intenderci.

e affumicato come non l'avete mai provato

De Gustibus a cura della redazione

Sì, ma: com’è questo Smoked Pepperoni Premium Charcuterie? La cosa più facile sarebbe chiedere a “qualcuno dei nostri” che ne ha presi sei in un colpo solo per farci le pizze (Trezzi, non stiamo parlando di te, proprio no).

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Piccante

Smoked Pepperoni è il "salamino piccante" presente sul nostro Megastore. Nome americano, qualità e gusto scelti da noi. A dire il vero, definirlo “salamino” sarebbe assolutamente riduttivo. La migliore norcineria che vi possa capitare a tiro, l’abbiamo scelta per voi e messa sul nostro Megastore. Così non dovrete sbattere troppo per trovare ingredienti di altissima qualità in giro per il web. Qualche clicco sul Megastore e siete a posto.


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Ci abbiamo messo tanta cura ed attenzione per proporvi il nostro Smoked Pepperoni. Per offrirvi un’esperienza nuova, senza preconcetti o pregiudizi. Tu che leggi il nostro Magazine, sarai sicuramente un buon cultore della carne lavorata in Italia; insomma, avrai provato tantissimi insaccati. Forse forse, sei anche un esperto di norcineria della tua zona o di quelle limitrofe. Spogliati di qualunque pregiudizio ed abbraccia quello che, molto probabilmente, diventerà il tuo prodotto preferito da tagliare sulle pizze, o da mettere tra due fette di pane ben tostate. Anche perché, vogliamo dire: in Italia, sebbene il nostro Paese pare gli abbia dato i natali (in maniera diretta ed indiretta), non esiste nessun Pepperoni in Italia. Il Pepperoni proposto sul Megastore è morbido, speziato, leggermente piccante. Ovviamente, affumicato. Poteva mai mancare questa nota? Possiamo dirlo ad alta voce: proprio no. Ovviamente, potete chiamarlo salame. Ma non è quella la sua natura. È Pepperoni, dal primo all’ultimo morso. Oltre la selezione maniacale della carne, il tocco GLC è dato appunto dall’affumicatura, con delle deliziose note di ciliegio. Ma un tocco lo troverete anche nella concia. Ha paprika e chipotle.

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Dicevamo. Il Pepperoni si presta benissimo ad essere cotto, come ingrediente per succulente focacce, pizze, torte rustiche. Un’altra cosa con cui riesce dannatamente bene è la pizza americana. Sì, abbiamo detto pizza americana. Provate a farla con gli ingredienti giusti. Un impasto studiato appositamente per essere farcito con un buon fiordilatte, un buon formaggio, un buon pomodoro. Ed ovviamente, il nostro Pepperoni. Come sempre, soddisfatti o rimborsati. Garantiamo noi. Anche con il Pepperoni.


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La ricetta scientifica a cura di Gianfranco Lo Cascio Ceacpioepe

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Da quando è nata la cucina, è abitudine dare un "nome ai piatti" per individuarli e incasellarli in una categoria. Il nome di un piatto, però, ha sempre determinato un concetto e non una pietanza specifica. Mi spiego meglio. Cosa vuol dire cacio e pepe? A quale cacio ci riferiamo? Quale pepe? E anche quando diciamo Pecorino romano, fatto da chi? Quando? Da quali pecore? Cosa hanno mangiato questi animali? E in quale stagione? Pensate davvero che esista un'unica sfumatura di pecorino? Perché la ricetta "originale" della cacio e pepe sarà stata prodotta con uno specifico formaggio. E per quanto impegno ci possiate mettere, voi, la prima cacio e pepe del mondo non l'avete mica assaggiata. Se facessi una cacio e pepe e, per esempio, mi venisse voglia di sbriciolarci dentro mezza salsiccia, quella non sarebbe più una cacio e pepe? Sarebbe una cacio e pepe con salsiccia, semplice. La cacio e pepe non è un piatto, è un concetto. E su questo non ci sono dubbi. Perché due "cacio e pepe" identiche è materialmente impossibile farle, soprattutto se realizzate in due finestre storiche diverse. Se alla cacio e pepe aggiungiamo il guanciale otteniamo la gricia. Quindi la gricia non è più una cacio e pepe perché c'è il guanciale? Con quale guanciale poi? Fatto da chi? E dove? Quanto stagionato? Esistono due gricie identiche a diverse latitudini? La risposta è una sola: no. Se aggiungessi del radicchio stufato alla gricia smetterebbe di essere una gricia? O sarebbe una cacio e pepe con guanciale e radicchio? E se aggiungiamo il pomodoro alla gricia? Diventa amatriciana, giusto. Quindi se volessi un'amatriciana senza pomodoro dovrei chiedere una gricia, o una cacio e pepe col guanciale? L'amatriciana è un concetto. Posso aggiungere dei broccoli spadellati con l'aglio e chiamarla amatriciana ai broccoli? Per me sì. E se alla gricia, invece del pomodoro, aggiungessimo l'uovo? Si otterrebbe la carbonara. Ma quindi posso chiedere una cacio e pepe col guanciale e l'uovo invece della carbonara? Posso ordinare una carbonara senza uovo e guanciale o devo per forza dire cacio e pepe? Il punto focale è che la nomenclatura può essere qualcosa di "comodo" da sfruttare, che non ha alcun bisogno di essere difeso. Perché combinare ingredienti, da quando esistono le pentole, è la cosa più naturale del mondo. Mettere, togliere e sostituire è la base della cucina. E il concetto che voglio affrontare con voi, stavolta, è proprio quello che si cela dietro la pasta cacio e pepe. Ci giro intorno da molto tempo e quando ho iniziato a sperimentare ero solo stuzzicato dall'idea di questo boccone di pasta formaggioso e avvolgente. Lo so bene che intorno a voi ci sono centinaia se non migliaia di “pro” della cacio e pepe perfetta "che a Roma so secoli c'a famo mo te ce voi nzegnà a caceppèpe a noi che so dici nartra vorta t'arèstano."

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Ma voi, come sempre, ve ne fregherete altamente e andrete avanti per la vostra strada. Ce ne sono due in realtà, di strade: una facile e una un pochino più rognosetta. Iniziamo con quella semplice e fissiamo l'obiettivo: ottenere una crema densa di formaggio, senza grumi e che non fila mai.

La versione semplificata Come si fa ad ottenere una crema calda di formaggio senza che si metta a filare? La scienza ci aiuta a trovare la risposta, ma ci infila in un tunnel molto tortuoso che io vorrei aiutarvi ad esplorare. Prendete un pentolino, mettetelo sul fuoco con 300 ml di vino bianco. Portate a bollore e fate ridurre. Mentre il vino è sul fuoco, grattugiate con una microplane (la grattugia lunga) 250 grammi di Pecorino Sardo semi stagionato e 150 grammi di Pecorino Sardo Vecchio. Aggiungete un cucchiaio di amido di mais al Pecorino e mescolate bene, a secco, per amalgamare il più possibile. Quando il vino si è ridotto a 1/3 del suo volume, aggiungete un cucchiaio di succo di limone, abbassate il fuoco e iniziate ad aggiungere il composto di formaggio e amido al vino dealcolato, girando con una frusta. Continuate ad aggiungere, una manciata alla volta, e fermatevi quando la crema si sarà perfettamente addensata. Scolate la pasta, rigorosamente di Gragnano, e spadellatela con la salsa e un po’ di acqua di cottura. Impiattate e aggiungete una generosa manciata di pepe nero.

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Che cosa abbiamo fatto con questa operazione? L'acidità del vino ha rotto le scatole al calcio che è la colla che "tiene legate" le proteine (caseina). Quando sono legate tra loro, le proteine non vanno molto d'accordo con il grasso. Ma visto che in questo caso il calcio si è sciolto, le proteine si ritrovano a dover dividere la stanza con

l'acqua e il grasso in una specie di "brodo" strano. La maizena ad un certo punto dice: "Ma che è sto casino? Dai, su, mettetevi in riga!”. E si mette lì ad unire proteine, acqua e grassi tutti insieme e fa in modo che nessuno si muova. In sostanza stabilizza l'emulsione creata sbattendo con la frusta. Ve la spiego ancora meglio: Il vino contiene acido tartarico, malico e citrico. I sali di questi acidi, specialmente di quello citrico, legano il calcio e allentano i legami delle proteine. In questo modo si crea il "brodo" di caseina, acqua e grasso. Il movimento con la frusta emulsiona questi elementi e l'amido fa da stabilizzante, restituendoci una bella crema. Senza questi "sali di fusione" il calcio impedisce alle proteine di rompersi (denaturazione) e queste, col calore, continuano ad allungarsi ma senza rompersi. Ecco perché il formaggio fuso fila. La mozzarella scaldata fila perché contiene molta acqua e poca acidità. Il calcio non si lega e le proteine si allungano. Quando sentite che basta solo un po' d'acqua di cottura e "la cremina della cacio e pepe si forma lo stesso" è vero. Perché l'acqua di cottura contiene amido e quindi fa da stabilizzante. Ma se continuate a mescolare sul fuoco e denaturate le proteine, cioè se andate troppo in alto con la temperatura, vedrete che il formaggio tenderà di nuovo ad aggregarsi e tornerà a filare. In questa versione "facile" c'è ovviamente una componente aromatica lasciata dal vino e un'acidità presente. Ma il punto è che abbiamo iniziato a capire qual è il processo che ci permette di non far filare il formaggio per ottenere una crema. Volendo andare allo step successivo bisognerà necessariamente iniziare a lavorare con i soli sali di fusione, che vi assicuro non avranno ripercussioni aromatiche. Il citrato di sodio, appunto, aprirà le porte a mondi e modalità di cottura fino ad ora impensabili per voi.


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LA RICETTA CON IL CITRATO DI SODIO

Il citrato di sodio è un comune sequestrante che agisce come stabilizzante e migliora la qualità del cibo. Con l'aggiunta di un po' di citrato di sodio possiamo fondere perfettamente quasi tutti i formaggi esistenti sul globo terraqueo. COS'È IL CITRATO DI SODIO? Il citrato di sodio, comunemente conosciuto anche come sale acido, sale citrico o citrato trisodico, è un sale cristallino che si trova naturalmente negli agrumi. Prodotti da una reazione chimica durante la fermentazione dell'acido citrico, questi cristalli bianchi hanno un sapore salato e leggermente aspro, che viene spesso utilizzato come agente aromatizzante in bevande come succhi, soda e bevande energetiche. QUALI SONO GLI UTILIZZI DEL CITRATO DI SODIO? Il citrato di sodio è l'ingrediente segreto di tutte le salse al formaggio presenti in commercio. È molto facile da usare: basta sbatterlo in un liquido e poi mescolarlo al formaggio sul fuoco et voilà, salsa al formaggio liscia e fluida. Riduce l'acidità del formaggio, rende le sue proteine più solubili e impedisce che si separi. Le salse di formaggio preparate col citrato possono essere raffreddate e riscaldate, modellate o tagliate a mo’ di sottiletta. Il citrato di sodio è anche un ingrediente comune della cucina molecolare e viene integrato nella tecnica della sferificazione. Viene spesso aggiunto a liquidi altamente acidi per aiutare a neutralizzarli e promuovere la gelificazione. Inoltre riduce il contenuto di calcio (che previene la gelificazione precoce) in altri liquidi. Nell’industria alimentare viene utilizzato come emulsionante, conservante e come tampone. È un ingrediente chiave nelle comuni bevande a base di soda e previene la coagulazione dei grassi nel gelato.

COME SI AGGIUNGE IL CITRATO DI SODIO AL LIQUIDO? Il citrato di sodio si disperde e si idrata facilmente a qualsiasi temperatura del liquido, tuttavia si dissolve più velocemente e più facilmente quando viene riscaldato. Una frusta da pasticceria è sufficiente per mescolarlo a dovere, ma il frullatore a immersione aiuta molto a emulsionare il formaggio.

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DOVE SI ACQUISTA IL CITRATO DI SODIO? Online, sugli e-commerce specializzati, oppure nella vecchia e cara farmacia.


COME SI PREPARA LA CREMA DI FORMAGGIO CON IL CITRATO DI SODIO? Ci sono tre componenti principali per fare una salsa di formaggio fuso con citrato di sodio: il formaggio, il liquido e il citrato di sodio. Variando la quantità di formaggio e di acqua utilizzata cambierà lo spessore risultante del formaggio fuso. Per preparare le vostre salse al formaggio, individuate prima quale sapore debba avere la preparazione. Poi scegliete un formaggio o due che si adattino a quel profilo gustativo. Ricordate, qualsiasi formaggio che non sia super-stagionato andrà benone. Poi, scegliete un liquido che completerà il formaggio: birra, vino, sidro, brodo, latte o succhi di frutta. A seconda della consistenza finale desiderata, potete usare il 35% di liquido, per un formaggio da affettare, fino al 120% per una salsa sottile e fluida. QUANTO CITRATO DI SODIO BISOGNA USARE PER LA SALSA DI FORMAGGIO? Lo spessore della salsa dipenderà dal rapporto tra liquido e formaggio. 0% al 35%

di liquido sul peso del formaggio darà un formaggio sodo, da tagliare a fette

35% - 85%

di liquido sul peso del formaggio darà una salsa di formaggio densa e fluida

85% - 120% di liquido sul peso del formaggio darà una salsa di formaggio sottile, ideale per condire la pasta 120%

di liquido o più darà una salsa molto lenta e acquosa.

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L’ingrediente finale da aggiungere è il citrato, grazie al quale il formaggio rimane unito mentre si scioglie. Di solito viene utilizzato in un rapporto tra il 2,0% e il 3,0% del peso totale del liquido, più il formaggio. Dal momento che il citrato di sodio apporta un sapore salato e aspro, è importante usarne una quantità appropriata, tenendo presente il sapore finale del piatto.


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GLI INGREDIENTI DELLA CACIO E PEPE


IL PECORINO SARDO Il Pecorino Sardo Dop (denominazione di cui beneficia dal 1996, nemmeno poi tanto tempo) è prodotto unicamente con latte di pecora intero proveniente dalla zona di origine, ovvero la bella e selvaggia Sardegna. L’alimentazione degli ovini è a base di erba, quella dei pascoli naturali, prati ed erbai. Esistono due tipologie differenti di Pecorino Sardo per tecniche di lavorazione, stagionatura, caratteristiche: il DOLCE e il MATURO. LA LAVORAZIONE DEL PECORINO SARDO Il disciplinare di produzione prevede che il latte intero di pecora, eventualmente pastorizzato, debba essere inoculato con colture autoctone di fermenti lattici e successivamente coagulato con caglio di vitello ad una temperatura compresa tra 35°C e 39°C. Successivamente la pasta viene sottoposta a rottura fino al raggiungimento di granuli di cagliata delle dimensioni di una nocciola per la tipologia dolce, e di un chicco di mais per la tipologia maturo. La cagliata viene quindi semi-cotta ad una temperatura non superiore a 43°C e successivamente posta in appositi stampi di forma circolare, diversi per le due tipologie. Il formaggio così ottenuto è sottoposto a stufatura e/o pressatura in condizioni di temperatura e per tempi tali da consentire l’acidificazione e lo spurgo ottimali.

Tutte le fasi del processo produttivo, dalla produzione della materia prima alla stagionatura del prodotto finito, devono rigorosamente avvenire in Sardegna.

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Ultimato lo spurgo del siero, il formaggio viene salato per via umida o a secco, con tempi distinti per le due tipologie. Segue la fase della maturazione – stagionatura che avviene in appositi locali a temperatura ed umidità controllate.


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IL PECORINO ROMANO

Il Pecorino Romano è un formaggio a pasta dura, cotta, prodotto con latte fresco di pecora intero, proveniente esclusivamente dagli allevamenti della zona di produzione. Si presenta con una crosta sottile di colore avorio chiaro o paglierino naturale, talora cappata con appositi strati protettivi per alimenti di colore neutro o nero. La pasta del formaggio è compatta o leggermente occhiata e il suo colore può variare dal bianco al paglierino più o meno intenso, in rapporto alle condizioni tecniche di produzione. Il gusto del formaggio è aromatico, lievemente piccante e sapido nel formaggio da tavola, piccante intenso nel formaggio da grattugia. Le forme sono cilindriche a facce piane, con un’altezza dello scalzo compresa fra i 25 e i 40 cm e il diametro del piatto fra i 25 e i 35 cm. Il peso delle forme può variare tra i 20 e i 35 kg; queste riportano impresso su tutto lo scalzo il marchio all’origine (un rombo con angoli arrotondati e contenente al suo interno la testa stilizzata di una pecora) con la dicitura Pecorino Romano. Il Pecorino Romano può essere venduto con una stagionatura minima di 5 mesi come formaggio da tavola e di 8 mesi nella tipologia da grattugia. LA LAVORAZIONE DEL PECORINO ROMANO La lavorazione del Pecorino Romano, limitata alle regioni del Lazio, della Sardegna e alla provincia di Grosseto in Toscana, è il frutto di secoli di esperienza. I passaggi fondamentali sono affidati ancora oggi alla mano dell’uomo, in particolare a quelle esperte del “casaro” e del “salatore”. Il latte fresco di pecora, proveniente da greggi allevate allo stato brado e alimentate su pascoli naturali, viene trasferito nei centri di lavorazione con moderne cisterne refrigerate. Al suo arrivo nel caseificio il latte viene misurato, filtrato e lavorato direttamente crudo o termizzato ad una temperatura massima di 68°C per non più di 15 secondi.

Aggiunto l’innesto, il latte viene coagulato ad una temperatura compresa tra i 38°C e i 40°C utilizzando il caglio di agnello in pasta. Accertato l’ottimale indurimento del coagulo, il casaro procede alla rottura dello stesso fino a quando i coaguli di cagliata non raggiungono le dimensioni di un chicco di grano. Dopo il raffreddamento, le forme sono sottoposte alla marchiatura.

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Vengono così riempite le vasche di coagulazione dove viene aggiunto un fermento detto “scotta innesto”, preparato giornalmente dal casaro secondo una metodologia che si tramanda da secoli. L’innesto è uno degli elementi caratterizzanti del Pecorino Romano ed è costituito da un’associazione di batteri lattici termofili autoctoni.


IL PEPE

La pianta del pepe è una liana legnosa tropicale originaria dell’India sud-occidentale. Le liane si arrampicano intorno a pali di legno (spesso si tratta di altri alberi) alti 2 metri, che servono da sostegno. Crescono ad una temperatura costante compresa fra 20°C e 30°C. Il pepe matura in grappoli lungo le liane, e ha un colore diverso (verde, nero, bianco o rosso) a seconda del grado di maturazione. Il sapore e l’aroma del pepe si concentrano al centro del grano, mentre la piccantezza si trova sul pericarpo, cioè all’esterno. Quanto più la macinatura è fine, tanto più prevarrà la piccantezza e coprirà il sapore. Per esaltare le sue caratteristiche, macinate il pepe con il mortaio o regolate le lame del macinapepe sulla macinatura più grossa. Macinatura molto fine: prevarrà la piccantezza. Macinatura media: otterrete un mix fra piccantezza e sapore. Macinatura grossa: privilegerete il sapore.

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TIPOLOGIE DI PEPE PEPE VERDE Il primo colore dei grani di pepe è il verde. Estremamente fragile nel momento in cui viene colto. Si trova essiccato, in salamoia e talvolta liofilizzato. Ha un sapore fresco, vegetale e poco piccante, che ricorda il chiodo di garofano.

PEPE ROSSO Se si lascia maturare il pepe ancora di più, i grani diventano di colore rosso scuro. Si immergono quindi nell’acqua calda per fissare il colore prima di essiccarli. Si lascia il pericarpo. Il vero pepe rosso è raro, dal sapore caldo e rotondo.

PEPE NERO Se viene lasciato maturare, il pepe verde diventa giallo chiaro. Allora si raccoglie, si fa essiccare e il suo pericarpo, cioè la parte esterna, diventa nero. Il sapore è più intenso, legnoso e piccante. Offre un ventaglio aromatico complesso.

PEPE BIANCO DEGLI UCCELLI In Cambogia, gli uccelli beccano i grani più maturi direttamente sulle liane. Quando il pepe raggiunge il gozzo dei volatili, una reazione enzimatica ne modifica il sapore. Dopo aver consumato il pericarpo (l’involucro), gli uccelli rigurgitano i grani, che verranno raccolti a mano dal suolo. Il prezzo di questo pepe è quindi molto alto.

PEPE BIANCO Se il pepe matura ancora, i grani diventano arancioni. A questo punto si lasciano macerare nell’acqua piovana per circa 10 giorni, si lasciano essiccare e si elimina il pericarpo, scoprendo la parte bianca. Il pepe bianco è un po’ più aromatico e dal sapore meno intenso.

PEPE DI KAMPOT (IGP) Il pepe di Kampot, in Cambogia, è stato il primo, nel 2009, a godere della classificazione IGP (Indicazione Geogra-

fica Protetta). Praticamente scomparso quando i Khmer vi preferirono la coltura del riso nel 1975, il pepe di Kampot è riapparso gradualmente da una ventina d’anni. Viene coltivato sulle coste e risulta fresco ed elegante. PEPE NERO DI KAMPOT Un pepe dal sapore floreale, leggermente dolce, intenso, caldo e dalla lunga persistenza in bocca. PEPE BIANCO DI KAMPOT Ha note vegetali del sottobosco (mentolo, eucalipto) e anche di arachidi tostate. PEPE ROSSO DI KAMPOT Colto quando giunge a maturazione, è un pepe caldo, dal sapore dolce, elegante e piccante. PEPE SELVATICO DI VOATSIPERIFERY Questo pepe cresce selvatico nella parte meridionale dell’i-


sola del Madagascar, su liane che spuntano in cima ad alberi alti fino a 20 metri. La forma ricorda quella del pepe di Java (a coda). Comparso in Europa solo qualche anno fa, è un pepe ancora molto raro. Da degustare intero o leggermente macinato. PEPE SELVATICO NERO DI VOATSIPERIFERY Dal sapore intenso di terra fresca con note legnose, fruttate, agrumate e con una piccantezza decisa, persistente. PEPE SELVATICO ROSSO DI VOATSIPERIFERY Vanta le stesse caratteristiche del pepe nero ma con un sapore più caldo. PEPE LUNGO ROSSO Cresce in diversi Paesi (Indonesia, Cambogia ecc.) ma il più sorprendente si trova in Giappone, sull’isola di Ishigaki-Jima. A forma di spiga, questo pepe sviluppa

un sapore di cacao, di caffè, di burro e persino di pomodori essiccati. PEPE NERO DEL MADAGASCAR In Madagascar, il pepe è stato introdotto all’inizio del XX secolo dal francese Émile Prudhomme. I suoi piccoli grani sprigionano un sapore dolce di brioche, di pinoli, persino di cacao e di pan di spezie, bilanciato da note di frutti verdi aciduli. Molto piccante. PEPE DI MALABAR Originario della costa di Malabar, a sud-ovest dell’India, fra Goa e il capo Comorin, questo pepe approfitta di due monsoni per sprigionare un sapore molto delicato e persistente in bocca: muschio e legno bruciato. È anche leggermente dolce e con una lieve acidità.

PEPE DI TASMANIA (FINTO PEPE) Questo “pepe degli Aborigeni” è un falso pepe che cresce selvatico in Tasmania, a sud-est dell’Australia. I suoi grani, inizialmente gradevoli e poi più caldi, sviluppano un sapore di alloro, di noci verdi e poi di frutti neri (more, mirtilli e ribes). PEPE DI TIMUT (FINTO PEPE) Si tratta di un altro falso pepe, che cresce selvatico in Nepal. Sviluppa note agrumate (limone e pompelmo), pur essendo dolce e persistente in bocca. Attenzione, questa bacca risulta leggermente anestetizzante sulla lingua e sulle labbra!

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LA RICETTA SCIENTIFICA

CACIO E PEPE

INGREDIENTI dosi per 6 persone • 500 g di spaghettoni di Gragnano • 200 g di Pecorino sardo semi stagionato grattugiato • 100 g di Pecorino sardo stagionato grattugiato • 300 g di acqua • 40 g di vino bianco • 9 g di citrato di sodio (3%) • 2,5 g di pepe Tellicherry Extra Bold • 2,5 g di pepe nero lungo del Bengala • 2,5 g di pepe di Timut • 2,5 g di pepe del Malabar

PROCEDIMENTO Versate l’acqua (300 grammi) e il vino in un pentolino, aggiungete il citrato di sodio e mescolate con una frusta fin quando non si dissolve completamente. Quindi spostatevi sul fuoco (basso) e aggiungete il formaggio grattugiato, un cucchiaio alla volta. Sciogliete a calore moderato e tenete al caldo su un bagnomaria, oppure fate deaolcolare il vino sul fuoco, inserite tutti gli ingredienti in un sacchetto per il sottovuoto e far sciogliere a 75°C per una quindicina di minuti. Emulsionate con il mixer solo se necessario.

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Lessate la pasta in acqua senza sale, mi raccomando, scolatela al dente e tenete da parte due mestoli di acqua di cottura. Spadellate la pasta in una padella ampia con la crema di formaggio e un mestolo di acqua di cottura. Amalgamate con cura e servite con una spolverata generosa dei 4 pepi, che avrete schiacciato o macinato poco prima.


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LA RICETTA SCIENTIFICA LE VARIANTI #01

GRICIA

INGREDIENTI dosi per 6 persone • 500 g di spaghettoni o mezze maniche di Gragnano • 200 g di Pecorino sardo semi stagionato • 100 g di Pecorino sardo stagionato • 300 g di acqua • 150 g di guanciale • 40 g di vino bianco • 9 g di citrato di sodio (3%) • 5 g di pepe Tellicherry Extra Bold • Aceto di mele q.b PROCEDIMENTO Preparate la crema di Pecorino come sopra. Nel frattempo tagliate il guanciale a cubetti o petali e mettete sul fuoco una padella. Fate soffriggere il guanciale nel suo stesso grasso, a fiamma flebile, lentamente, fin quando non avrà assunto un bel colore ambrato e la consistenza dei corn flakes. Deve suonare quando lo rimestate. Quindi spruzzatelo con poco aceto di mele e fatelo caramellare.

Spadellate la pasta con la crema di pecorino e una mestolata di acqua di cottura. Aggiungete il guanciale croccante e tenetene un po’ da parte da spolverare sopra. Servite la pasta con una pioggerella di guanciale e uno sbuffo di pepe macinato fresco.

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Lessate la pasta in acqua senza sale, scolatela al dente e tenete da parte due mestoli di acqua di cottura.


LA RICETTA SCIENTIFICA LE VARIANTI #02

MAC AND CHEESE

INGREDIENTI • 300 g di pasta tipo cavatappi • 12 g di citrato di sodio (4%) • 280 g di latte intero o acqua • 300 g di Cheddar di qualità (potete sostituirlo con una Groviera) VARIANTI PER LA SALSA DI FORMAGGIO Con Cheddar stagionato e formaggio svizzero • 270 g di Cheddar stagionato • 30 g di formaggio svizzero Con Gorgonzola e Fontina • 60 g di Gorgonzola dolce • 260 g di Fontina Con Gouda e Cheddar di capra • 150 g di Gouda di capra • 150 g di Cheddar di capra PROCEDIMENTO Versate l’acqua e il citrato di sodio in un pentolino, dissolvete la polvere aiutandovi con una frusta e portate tutto sul fuoco. Aggiungete il formaggio (o i formaggi) grattugiato finemente, un cucchiaio alla volta, mescolando continuamente. Non vi fermate fin quando la salsa non risulta perfettamente liscia ed emulsionata. Potete eventualmente utilizzare un mixer ad immersione. Conservate la salsa a bagnomaria o comunque al caldo, perché raffreddandosi si addenserà troppo.

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Trucchetto: se notate che il grasso comincia a separarsi dall’acqua (se l’emulsione si rompe in pratica) portate il composto a bollore e emulsionate a caldo con il mixer ad immersione. Se anche questa operazione non dovesse risultare efficace, barate e aggiungete un cucchiaio di panna fresca e mescolate. Lessate la pasta in acqua poco salata, scolatela bella al dente e conditela con la crema di formaggio. Servitela immediatamente con una grattugiata di formaggio fatta al momento, oppure ripassatela in forno ricoprendola con uno strato di formaggio grattugiato e passandola al grill fin quando non si sarà formata una bella crosticina.


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LA RICETTA SCIENTIFICA LE VARIANTI #03

NACHO CHEESE SAUCE

INGREDIENTI dosi per 600 g • 200 g di Emmenthal • 100 g di Cheddar • 300 g di latte intero • 10 g di citrato di sodio

PROCEDIMENTO Preparate il bagno termostatico per il sous-vide impostando una temperatura di 75°C. Grattugiata i formaggi, unite il latte e il citrato e chiudete il sacchetto. Fate sciogliere per circa 15 minuti, o quando il formaggio sarà completamente fuso. Trasferite in una ciotola, poggiatela su un pentolino riempito di acqua calda ed emulsionate a bagnomaria con un mixer ad immersione. Servite immediatamente con una carriola di nachos, magari guardando la vostra serie preferita.

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Gianfranco Lo Cascio


Una questione di -ismi desueti Seguo a cura di Emiliano Nencioni Un gran numero di idiomatismi, continuamente, si intrufolano e sgattaiolano via dal nostro parlato quotidiano, dapprima insediandosi e raccogliendo un certo favore della “base utenti” (chiunque parli una determinata lingua, in questo caso), poi con molta probabilità diventano ingombranti, vengono strumentalizzati, stufano, e a fine carriera vengono rigettati dalle masse e visti come modo demodè e non up-to-date di esprimersi. Sono modi di dire, frasi codificate in maniera non necessariamente letterale, espressioni che aiutano a veicolare, con estrema sintesi, un pletora di stati d’animo o di stratificazioni successive di significato. Non mi pare nessuno voglia più sfoggiare in conversazione il nefasto “ciaone proprio”, reso super popolare da un trailer cinematografico nel 2014, con l’irresistibile presenza di Caterina Guzzanti e Pietro Sermonti - ma diventato ben presto stantìo e banalotto. Sopravvive in alcune frange estremiste l’uso sbagliatissimo e avversativo di “piuttosto che”, stigmatizzato però da una nutrita schiera di illuminati pronti a fare polemiche infinite sotto ogni commento. Combatto fieramente questa barbarie almeno dal 2010, e qualche risultato inizia a vedersi. Certamente l’era del digitale non limita più la provenienza di molte espressioni idiomatiche o locuzioni a certi fenomeni molto italiani, come potevano essere in passato Carosello o l’intervista a qualche calciatore un po’ ingenuo: non penso proprio che nessuno si arrischi più a impreziosire i propri contenuti con “non sei nero, sei soltanto sporco” (Calimero, per il detersivo Ava) o “e che, c’ho scritto Joe Condor?” (Nutella). Si rischia di passare per boomer per molto molto meno. Alcune espressioni dei fertilissimi e social-issimi Stati Uniti però non fanno a tempo ad arrivare da noi e a prendere piede che diventano già, in patria, obsoleti, strumentalizzati, connotati diversamente dalle intenzioni originali e, in linea di massima, deprecabili. Prendiamo ad esempio Virtue Signalling.

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Rafał Olbinski - The Superiority of Consequences

Intendiamoci: schierarsi dalla parte dei “buoni” (entriamo nel campo della soggettività, ovviamente) e manifestare il proprio sdegno per qualcosa di brutto, o il cordoglio per qualche disgrazia, non è certo una cosa brutta o stigmatizzabile di per sé. Si sfocia tuttavia nel Virtue Signalling quando l’oggetto delle proprie preoccupazioni

e delle proprie attenzioni non è più il fenomeno sociale o di costume che stiamo evidenziando, quanto l’imperiosa voglia - e di certo il gusto - di fare bella figura. Quanto è italiano il concetto, ma anche il suono stesso, di Bella Figura? Gareggia ad armi pari con mamma mia, pizza margherita, spaghetti bolognese e altre tipiche interiezioni di ogni personaggio stereotipato italiano dei cartoni animati d’oltreoceano. Proprio l’espressione “bella figura” suscitò un mezzo scandalo negli States, rimasto abbastanza sconosciuto da noi, quando comparve in un carteggio della Corte D’Assise in relazione al delitto Meredith Kercher, dove le forze dell’ordine italiane

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Nasce per indicare chi, per il solo gusto di mostrarsi “dalla parte giusta della controversia”, moralmente elevato o in definitiva meglio di voialtri, compie facili e assolutamente inutili azioni di pura visibilità, come mettere un piccolo banner sul proprio avatar, ripubblicare contenuti impegnati o schierati, in generale prendere gratuitamente e senza sforzo o rischio una posizione di comodo o di prestigio.


raccomandavano ai loro investigatori di fare bella figura con i colleghi americani. Ma non voglio divagare, vi consiglio solo una rapida googolata. Il frizzante mondo del grilling ha avuto i propri inevitabili momenti di Virtue Signalling. Ricordo cose abbastanza disturbanti nei tempi in cui le gare di barbecue KCBS andavano per la maggiore e congratularsi con i vincitori delle varie specialità era un atto dovuto e irrinunciabile. Suonava tutto piuttosto spiazzante se la sera prima avevi udito, nella risicata privacy di un gazebo di PVC del campo di gara, anetemi, grida e stridor di denti contro lo stesso team definito poi enfaticamente “fatto da amici veri”, “nel nome della passione che ci unisce”, “giustamente trionfanti” e compagnia bella. Poco tempo dopo, una semplice temperatura di cottura è diventata un simbolo di affiliazione: “in reverse fino a 52°C!” e tutti sapevano che eri un accolito di BBQ4All, ma non un semplice lettore bensì un assimilato, capace di rispettare (almeno, a parole) i dettami di mail class, corsi e dispense fino nei dettagli più sottili. Anche solo - volendo volontariamente rimanere in ambito BBQ4All - il continuo riferirsi a Gianfranco Lo Cascio come “lo Zio” o il continuo commentare con cuoricini e fiammelle ogni contributo del proprio Coach assegnato in Club è, al di là di una ripetitiva dichiarazione d’affetto e di appartenenza, un voler segnalare a chiare lettere di essere “dei nostri”, di essere tra quelli bravi, di essere un eccellente cliente da coccolare, di essere un supporter in perenne contrapposizione con i detrattori, con “quelli là”.

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Ed è un male? Non necessariamente. É una forma di vanità, ricoperta da uno strato glassato di altruistico impegno sociale. Come dicevo all’inizio della rubrica, negli Stati Uniti il termine Virtue Signalling è già “cosa brutta”, indica un atteggiamento disprezzabile ed è strumentalizzato specie da una corrente politica, un po’ come è accaduto in italia con “buonismo”, un vocabolo di per sé

innocentissimo ma ormai ahimè simbolo di ipocrisia e scomodo altruismo. Da noi, l'attività di Virtue Signalling non ha mai preso veramente piede, quindi per adesso possiamo vivercelo senza tutti i risvolti negativi e politicizzati. Insomma, è troppo facile additare e sbeffeggiare chi si schiera, o chi rende nota la propria affiliazione, solo per il fatto di averlo fatto in pubblico. Sì, ogni tanto è esibizionismo; sì, ogni tanto è un gesto completamente vuoto e privo di una vera partecipazione interiore o fattiva. E non è forse come la grandissima maggioranza dei gesti, post, esternazioni, commenti presenti in rete dai tempi di MySpace in poi? Da un certo lato anche l’esibizionismo è bello, perché offre ai voyeur telematici e ai commentatori compulsivi qualcosa di fresco e nuovo da sbirciare e di cui godere indisturbati. Il problema è ancora una volta relativo a un cattivo sillogismo. • Marco scrive qualcosa di giusto e illuminato; • Chi scrive qualcosa di giusto e illuminato sui social spesso lo fa per apparire migliore e fare Virtue Signalling; • Ergo Marco fa Virtue Signalling. Che sarebbe un po’ come dire: • Luca e Nicola fumano; • Tutti i camini fumano; • Luca e Nicola sono due camini.

Emiliano Nencioni


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Rafał Olbinski - So Close To Satisfaction


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N°34/ANNO 3 - OTTOBRE 2021

L' HAMBURGER

PIÙ BUONO? CHIEDILO AL COACH

15 ricette originali + una davvero speciale Arte Bianca: BBQ4All Potato Roll Una patata non ci basta: French Fries, Tostones, Sedano Rapa, Yuca, Yam e Taro

LA RICETTA SCIENTIFICA DI GIANFRANCO LO CASCIO

Risotto al Parmigiano Reggiano 40 mesi


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Editoriale di Gianfranco Lo Cascio

Come si fa

L'HAMBURGER PERFETTO IN MOSSE

Com’è possibile preparare un hamburger impeccabile ed evitare che il figlio maggiore chiami Glovo di nascosto? Con poche e semplici regole che hanno l’unico scopo di assicurarci un risultato eccezionale, ogni volta. Bando alle ciance e partiamo subito.

1. UTILIZZARE IL PANE GIUSTO Il panino usato per l’hamburger nel gergo si chiama bun. Il bun non deve essere un pane di tipo normale: dobbiamo utilizzarne uno che si integri perfettamente con la polpetta di carne. Un pane troppo duro, che richiede propulsione nella masticazione e per lo strappo, non è per niente adatto; ci costringe, inevitabilmente, a imprimere troppa forza che farebbe sgusciare fuori tutta la preziosa farcitura. Il bun dev’essere simile ad una brioche, molto morbido e abbastanza friabile. Questo non significa buttarsi sulla prima confezione di pagnottelle incartapecorite del supermercato. Premesso questo, vi propongo due panini per hamburger, entrambi con la stessa personalità, appartenenti ai lati opposti dello spettro. Il primo è un panino da slider, con una tessitura eccezionale, l’ideale per i vostri smashed burgers; Il secondo è una brioche molto ricca e morbida, che ricorda la scuola francese. Esistono tantissimi altri tipi di panini

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(in Italia ne abbiamo più di 250), queste due ricette rispondono ad alcuni dei quesiti più interessanti della panificazione: possiamo creare una brioche che non sia troppo stopposa e non troppo burrosa? Possiamo fare un panino soffice in stile fast-food che abbia un sapore complesso? Possiamo farlo senza ricorrere ad additivi difficili da reperire? Sì, sì e sì. E potete farlo anche voi.

2. SCEGLIERE CON CURA IL PATTY E CUOCERLO ALLA PERFEZIONE Il patty, la polpetta di carne insomma, è il centro focale di tutta la preparazione, il sapore dominante del nostro panino. L'hamburger non deve sapere di pane, di salsa e di sottaceti. Deve avere il gusto di carne. Il primo parametro di degustazione della carne è che il sapore specifico, tipico di una particolare razza, è contenuto principalmente nel grasso, non nella polpa. È importante quindi stabilire il giusto bilanciamento tra massa magra e grasso nell'impasto del nostro burger. Una polpetta fatta di solo muscolo, a fine cottura, risulterà asciutta e stoppacciosa. Quella con un minimo di grasso all'interno risulterà di gran lunga più saporita e succosa. IL RAPPORTO MAGRO:GRASSO Pesate la carne magra a cubetti e il grasso a cubetti. Potete provare qualsiasi rapporto a partire da 50:50 (molto grasso, ma ha un senso) e fino a 100:0 (molto magro, anche questo ha il suo perché). Generalmente si propende per un rapporto tra il 60:40 e il 90:10 tra magro e grasso (a seconda del metodo di cottura finale) per ottenere l’equilibrio ideale di sapore, tenerezza e consistenza.

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Sì, lo confesso: sono un fanatico dell’hamburger ma non di una qualsiasi polpetta rotonda stretta fra due strati di pan brioche, no. L’hamburger deve avere dei tratti caratteristici che i nostri fratelli americani hanno delineato per noi. Non sto parlando di ricette o di condimenti, mi riferisco alle migliori tecniche per ottenere i migliori risultati. E cosa c’è nella vita di un mangione compulsivo di più utile e salvifico della scienza?


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Per capire il vostro rapporto magro:grasso preferito, dividete il vostro taglio di manzo in due gruppi separati. Carne magra da una parte, grasso bianco pulito dall’altra. Per esempio, in un rapporto 60:40 di grasso, peserete 600 grammi di carne magra e 400 grammi di grasso. Tagliate a cubetti i vostri pezzi e mescolateli insieme prima di macinarli. Il rapporto magro:grasso si calcola in base alla tecnica di cottura. Volete cuocere il vostro burger in sous vide? Optate per una polpetta più magra nel range 90:10 o 100:0. Forse vi sembrerà eccessivamente magra, ma cuocendola in sous vide

tratterete l'umidità che normalmente perdereste sulla griglia o su piastra. State pensando di grigliare il vostro hamburger? 80:20 è il rapporto ideale per evitare le fiammate. Cuocete l'hamburger in padella o su piastra in ghisa? Buttatevi su un 60:40! Tutto quel grasso aiuta la rosolatura e crea un hamburger super umido. Alla fine della fiera, potete macinare quello che volete e come volete, ma un burger composto all'80% di magro e al 20% di grasso è l’ideale. Fatte queste doverose premesse, è il momento di mostrarvi le quattro macro-categorie di burger.


HAMBURGER SOUS VIDE La cottura sous vide vi restituirà il più succoso (e magro) patty di carne che potete desiderare. Otterrete una polpetta soda ma tenera, succosa all’interna per via dell’umidità trattenuta, oltre a una perfetta cottura da parte a parte che solo il sous vide può garantire. Potete mantenere alto il rapporto tra magro e grasso perché la cottura uniforme e a bassa temperatura non lo asciugherà mai.

Rapporto magro-grasso: 80:20 fino a 100:0. Grana: 4,5 mm. Tipo di lavorazione: rapida. Aggiunte: Un tuorlo d'uovo per mezzo chilo di carne. Formatura: utilizzare uno stampo ad anello o una pressa. Temperatura di cottura consigliata: 55°/75°C per 30 minuti/1 ora.

SMASH BURGER aka BURGER SPIACCICATO Lo smash burger è tutto un equilibrio perfetto di consistenza e sapore. La croccantezza della cottura perfetta, la succosità che deriva da una percentuale di grasso elevato e il suo sapore e quello dei liquidi che si caramellano sotto la polpetta. Mescoliamo leggermente la carne e poi aggiungiamo tuorlo d'uovo e gelatina in polvere (la colla di pesce per intenderci) per trattenere l'umidità. Si può scottare velocemente e a temperatura elevata, e ottenere comunque una polpetta perfetta.

Rapporto magro-grasso: 60:40. Grana: 4,5 mm. Tipo di lavorazione: la carne va emulsionata spremendola tra le dita per cinque volte. Aggiunte: Un tuorlo d'uovo per mezzo chilo di carne, 1,5% di gelatina, 1% di sale. Formatura: No patty, basta formare una palla. Temperatura di cottura consigliata: Calda da paura! Utilizzare una piastra in ghisa o una padella antiaderente.

SLIDER Sono polpettine che cuociono velocemente, delle piccole bombe di sapore, sviluppato grazie a una cottura intensa su piastra piatta. Aroma intenso, mini burger super teneri - il tutto tenuto insieme dalla speranza e da una bella fettona di formaggio - cosa si può chiedere di più?

Rapporto magro-grasso: 80:20. Grana: 4,5 mm. Tipo di lavorazione: rapida. Aggiunte: Un tuorlo d'uovo per mezzo chilo di carne. Formatura: No patty, basta formare una palla. Temperatura di cottura consigliata: Calda da paura! Utilizzare una piastra liscia in ghisa o padella antiaderente.

Spesso e succoso. Una macinatura fine e l'aggiunta di gelatina ti assicureranno un patty sodo, pronto per essere affettato come una bistecca.

Rapporto magro-grasso: 70:30. Grana: 3 mm. Tipo di lavorazione: la carne va mescolata rapidamente schiacciandola tra le dita. Aggiunte: 1,5% di gelatina, 1% di sale. Formatura: Modellare a mano una bistecca oblunga, spessa circa un 2,5 cm. Temperatura di cottura consigliata: 70 minuti a 55°C con 30 minuti di riposo, poi griglia o piastra in ghisa.

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STEAK BURGER


MACINARE LA CARNE: I TAGLI IDEALI Il macinato confezionato è realizzato con ritagli di carne provenienti da tutta la carcassa, schiacciati attraverso dispositivi di macinatura con fori uniformi che garantiscono una consistenza omogenea “all’impasto”. Si divide in fasce a seconda della composizione. Il macinato può essere magro (85% di carne e 15% di grasso), extra magro (90% carne e 10% di grasso), o grasso (80% di carne e 20 per cento di grasso). A casa puoi diventare un cliente ancora più pignolo e tarare le tue percentuali in base al taglio di carne.

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Prendi nota: Flank Steak con rapporto magro-grasso di 90:10 Chuck Eye Steak con rapporto magro-grasso di 80:20 Rib Roast senza osso, alias "Ribeye" con rapporto magro-grasso di 75:25 Boneless Chuck Short Rib con rapporto magrograsso di 70:30 Brisket Primal, alias "Packer Brisket" con rapporto magro-grasso di 65:35

La punta di petto aka brisket: perché è il re degli hamburger Questo taglio è generalmente disponibile ovunque ed è anche relativamente economico per quello che si può ottenere da esso. Il costo sarà maggiore rispetto all'acquisto di carne per hamburger pre-macinata, ma non c’è paragone a livello gustativo. La maggior parte delle persone ha provato la punta di petto solo in alcuni modi. Il corned beef, il brisket affumicato e il pastrami sono le principali trasformazioni di questo meraviglioso taglio. E in tutte queste ricette, è necessario un prolungato tempo di cottura a bassa temperatura per sciogliere tutto il tessuto connettivo. Ma quando lo usate per la carne macinata, il tritacarne vi facilita il compito. Inoltre, ho scoperto attraverso le mie prove che in genere da un brisket raggiungo un rapporto magro-grasso di circa 62:38 - il rapporto perfetto di grasso per i nostri smash burger e steak burger. CAPIRE GLI AGENTI LEGANTI Una volta che il manzo è bello che macinato, che si fa? Frulliamo la carne e il grasso insieme o lo mescoliamo con le uova? Che funzione ha il tuorlo? E quando si sala la ciccia?


Leganti - Questi agenti vengono utilizzati per tenere insieme il più possibile il grasso e il sapore esistenti, rispettando la carne di manzo. Tuorlo d’uovo - Conferisce morbidezza al burger e aiuta a trattenere più grasso e succhi nella polpetta. Sale - Okay, il sale può rovinare il vostro hamburger se lo salate troppo presto, va aggiunto poco prima della cottura. Il rapporto è dell’1% tra sale e carne. Se non potete aggiungerlo poco prima di andare in griglia, strofinate l'esterno della polpetta. Gelatina - Aiuta a intrappolare l'umidità e forma una crosta super vetrosa sull'hamburger. MA - c’è un grosso MA - la vostra ghisa deve essere ben condizionata o si attaccherà tutto alla piastra. Il rapporto è l'1,5% di gelatina sul peso totale della nostra carne macinata, va aggiunta dopo che la carne è stata mescolata con il tuorlo d'uovo e il sale, proprio prima di finire sul fuoco.

PREPARAZIONE E IMPASTO Miscelazione o Creaming: varia a seconda di come cucinerete il vostro hamburger. Se vi apprestate a cucinare il burger in una padella, mantenete la carne sgranata e non la manipolate troppo, con la cottura sous vide bisogna stare nel mezzo, la cottura alla griglia invece richiede un impasto più cremoso. Porzionamento: gli smash burger e gli slider devono essere appallottolati e poi schiacciati, i burger in sous vide devono essere pressati in uno stampo ad anello dopo una leggera mantecata. Gli hamburger grigliati devono essere lavorati e poi pressati in una polpetta sottile e uniforme. Come funziona il tritacarne Il tritacarne è una semplice attrezzo con una trivella che spinge i pezzi di carne più grandi contro una lama e poi attraverso uno stampo che può variare di dimensione. La carne viene triturata mentre viene forzata attraverso la trafila dalla coclea. I componenti sono quattro: il corpo, la coclea, la lama e la trafila. Il tritacarne può essere elettrico o manuale e le sue parti funzionano così:

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Adesso ve lo spiego.


Il corpo tiene insieme tutte le parti. La coclea spinge la carne verso la lama e la trafila. La lama taglia la carne contro la trafila. La trafila controlla la dimensione della grana.

grasso di 60:40, pesate 600 grammi di carne magra per 400 grammi di grasso pulito. Per un rapporto 80:20 calcolate 800 grammi di carne magra e 200 grammi di grasso e così via.

Cominciamo a macinare Suddividete la vostra carne e separatela in magra e grassa. Procuratevi un paio di ciotole o vassoi grandi e separateli per colore. Mettete la parte bianca (il grasso) in una ciotola e la parte rossa (la carne) in un'altra ciotola. Tenete la carne al freddo e lavorate su un pezzo alla volta se pensate di metterci parecchio tempo.

Raffreddate gli strumenti Lavorate con gli strumenti ben freddi, vi basterà tenerli nel ghiaccio per una mezz’oretta. Ricordate che fino a quando non si è pronti per cuocere, il calore è il nemico mortale della carne macinata. Il grasso del manzo inizia a sciogliersi a circa 26°C e il calore della vostra mano è certamente al di sopra di questa soglia. Ricordate, tutto il grasso che rimane attaccato ai taglieri, alle mani e ai recipienti, mancherà alla carne. Inoltre, la temperatura ambiente, favorisce lo sviluppo della carica batterica e l’ossidazione della ciccia. Da evitare assolutamente. Macinate la carne Le dimensioni della trafila più comuni sono: 3 mm, 4,5 mm e 10 mm. Se la macinatura è troppo fine, la carne rischia di diventare gommosa poiché la miosina appiccica tutto. Quando la grana è troppo grossolana la carne in cottura si sgrana tutta e diventa e dura. La dimensione perfetta per gli hamburger si assesta tra i 3 (in particolare per gli steak burger) e i 4,5 mm (per gli smash burger e gli hamburger grigliati). PREPARAZIONE E PORZIONATURA Una volta macinata, rimettete la carne di manzo in frigorifero per mantenerla bella fredda fino a quando non sarete pronti a mixarla e porzionarla. Poi aggiungete gli ingredienti e mescolate (o non mescolate) a secondo della vostra ricetta. E il peso? Io preferisco un patty da 200 grammi se mi accingo a preparare un panino, gli smash li faccio sempre da 115 grammi e gli slider da 50 grammi. Voi fate come più vi aggrada.

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Il taglio Tagliate la carne in piccoli cubetti di circa due centimetri per facilitare la macinatura. Questo vi impedirà di finire con del tessuto connettivo più lungo di due dita. Stabilite la vostra proporzione Selezionate il vostro rapporto magro-grasso e mixate in modo che il grasso sia distribuito uniformemente. Per farla semplice, per ottenere un rapporto magro-

Allineate la carne per un hamburger tenero Vi avverto: avrete bisogno di un partner per fare questa operazione. Introdotti nella cucina sperimentale del ristorante Fat Duck di Heston Blumenthal, gli hamburger a grana allineata vengono realizzati semplicemente raccogliendo i filamenti di carne che escono dal tritacarne, che devono rimanere distesi. Funziona così: mentre voi girate la manovella, al vostro amico toccherà raccogliere la carne assicurandosi che i filamenti rimangano allineati. La ciccia va poi arrotolata nella pellicola a mo’ di caramella e messa in frigorifero, a solidificare. L'idea è che se


GLI ERRORI PIÙ COMUNI E COME RIMEDIARE Problema: Il burger rilascia troppi succhi Soluzione: Cuocere ad una temperatura più bassa. Cuocere a calore meno intenso. Aggiungere il tuorlo d’uovo. Problema: Polpette dure e compatte Soluzione: Cuocere a una temperatura di cottura più bassa. Aumentare la percentuale di grasso. Fare una polpetta con un impasto più allentato. Problema: Polpette sbriciolate e asciutte. Soluzione: Cuocere a una temperatura più bassa. Macinare più finemente. Problema: Le polpette sono troppo morbide. Soluzione: Cuocere ad una temperatura più alta.

Risoluzione definitiva dei problemi Non vi va di comprare un brisket, di trimmarlo (ripulirlo dal grasso), di porzionarlo, di pesarlo, di separarlo e tritarlo e di aggiungere una serie di ingredienti per tenere tutto insieme? Allora ho la soluzione più veloce al vostro problema: fiondatevi sul Megastore di BBQ4All e fate scorta dei miei burger Blue Ox di Black angus. Ogni patty pesa 200 grammi, la porzione ideale per ogni occasione. Volete un’esperienza diversa e fuori dalla grazia divina? Accaparratevi i nuovissimi burger Shimofuri Farms. Sono fatti con carne Wagyu Full Blood, Kuroge nera, 100%. Disciplinare di allevamento giapponese, nata, cresciuta e macellata in Giappone, con un grado di marezzatura più vicino al gusto occidentale. COME CUOCERE IL BURGER ALLA PERFEZIONE L'obiettivo è chiaro: crosticina croccante fuori, interno morbido e succoso. Per giungere a questo risultato è vietato ragionare per secondi e minuti. Il tempo di cottura è un'ipotesi. Non è possibile specificarlo con precisione, in nessuna preparazione. Quello che invece possiamo stabilire con accuratezza millimetrica è la temperatura finale della nostra polpetta. Gli effetti del calore sulla carne sono noti. La scienza ci dice esattamente a quale temperatura target

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tutti i grani rimangono allineati nella stessa direzione, l'hamburger finirà per essere più morbido, con una tessitura "aperta" che si sfalda con lo sguardo. Anche se questi hamburger restituiscono un'esperienza di degustazione davvero incredibile, sono molto difficili da manipolare, dato che non c’è agente legante che tenga i filamenti di carne insieme.


dobbiamo arrivare per ottenere una data cottura: 55°C, patty poco cotto o “al sangue”, anche se sangue non è. A 65°C, cottura media. 75 °C ben cotto ma anche cotto bene. La migliore temperatura per l'hamburger, cioè quella che permette di conservare umidità interna e succulenza, si aggira intorno ai 65°C. Meglio poco meno che poco più. A quel grado di cottura il grasso è fuso e i liquidi sono ancora “intrappolati” nella trama. Cuocerlo oltre significa strizzare via liquidi, quindi succosità, quindi sapore. Importante: la sonda o il termometro a penna vanno inseriti al centro del burger e sempre dai lati (mai pungerlo dalla parte superiore!).

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Per ottenere la crosticina esterna, invece, è buona norma rigiralo molto spesso. Questo permetterà alla crosta di formarsi, mentre il calore penetrerà con più difficoltà, aiutandoci a non stracuocere la carne. Due regole semplicissime da tenere a mente: rigiratelo spesso e fermate la cottura a 65 gradi interni. La polpetta in padella o alla griglia Meglio cuocere la polpetta sulla piastra, in padella o in griglia? Dipende.

La piastra o la padella, avendo una superficie più ampia a contatto con la polpetta, ci consentono di ottenere una crosticina più estesa. Visto che crosta = sapore, il risultato sarà maggiore croccantezza e gusto. Con la griglia possiamo ottenere un risultato diverso. Gli spazi tra una griglia e l'altra permettono ai liquidi di cadere sopra le braci o sopra i bruciatori. Questi liquidi, a contatto con le superfici roventi, si vaporizzano all'istante e risalgono in forma di fumo aromatico. Questi fumi di risalita investono la polpetta e conferiscono quel sapore di affumicato che ci piace tanto. Inoltre, la parte di griglia a contatto, contribuirà a formare le famose “grill marks” le righe di cauterizzazione, anche quelle portatrici sane di sapore. In definitiva, piastra=tanta crosticina, griglia=sentore di affumicato. È semplice scelta personale, non c'è un meglio o un peggio, c'è quello che ci piace.

3. PREPARARE DA SOLI LE SALSE La salsa è un altro elemento spesso sottovalutato o sovrastimato. Nella stragrande maggioranza dei casi ci si affida alla triade ketchup, maionese e senape.


Lo scopo della salsa è quello di aggiungere umidità oltre che sapore. Spesso si usa in accordo al topping come interscambio tra gli elementi. Se uso un topping acido, per esempio i sottaceti, la maionese mi aiuta a controbilanciare l'acidità. Se uso un formaggio filante, il ketchup bilancerà con la sua spalletta acida il grasso del formaggio. Topping e salse si supportano a vicenda. Il primo è solitamente un ingrediente solido, la salsa è invece un fluido. Il topping aggiunge sapore e consistenza, la salsa sapore e umidità. Insieme bilanciano i contrasti. 4. PREPARARE I TOPPING Il topping è proprio l'elemento che aggiungiamo al burger per potenziarne, arricchirne e variarne il sapore. Nelle ricette tradizionali possiamo trovare cetrioli sottaceto e fette di pomodoro. La funzione del topping è di aggiungere varietà e potenza al gusto.

5. AMPLIFICARE IL GUSTO: IL RUOLO DEL GRASSO, DELL'ACIDITÀ E DELLA CROCCANTEZZA A questo punto abbiamo inquadrato gli elementi che caratterizzano l'hamburger perfetto. Pane, polpetta, topping e salsa. Adesso è necessario mettere gli elementi in equilibrio ricordando questa semplice regola: aggiungere sempre un po' di grasso, una punta di acidità e degli elementi croccanti. Un cheeseburger con il classico ripieno di formaggio cheddar accoglierà la freschezza dell'insalata iceberg e l'opulenza agrodolce di un buon ketchup, oltre alla croccantezza e alla sapidità di un buon bacon. Queste semplici regole non tradiscono mai: grasso, acidità e croccantezza come complementi al vostro hamburger perfetto. Gianfranco Lo Cascio

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L'

HAMBURGER?

Un equilibrio di sapori sopra la follia di abbinamenti Portfolio gastronomico a cura di Emiliano Nencioni

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i sono cose che, bontà loro, ci si presentano già perfette, nella migliore incarnazione possibile, compiute, risolte e mature: volerne andare a modificare l’equilibrio, la composizione o la natura intrinseca è un atto che può presumibilmente portare solo al pentimento, al fallimento o al rimpianto. Se per il motore a scoppio con distribuzione ad aste e bilancieri, che pure ha una assoluta dignità e poesia tutta sua, una ricerca tecnica è stata cruciale verso un perfezionamento, una maggiore efficienza e un funzionamento più regolare ed affidabile, produrre un reboot in chiave moderna di Una poltrona per due avrebbe con molta probabilità solo effetti nefasti sulle carriere di registi e attori protagonisti. La ruota è stata un colpo di genio che ha accompagnato per secoli i traffici dell’Homo habilis, ma la camera d’aria, il pneumatico radiale, la ruota fonica per il sistema antibloccaggio sono state innovazioni cruciali e irrinunciabili; tuttavia girare Ritorno al futuro con ragazzini molto social e montaggio frenetico tiktokeriano farebbe inquietare tutti.

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In cucina capita essenzialmente la stessa cosa. Ci sono delle pietanze diventate indiscutibilmente dei capolavori, ma resistere alla tentazione di fare i baffi alla gioconda è un’impresa titanica: spinti da una sacrosanta voglia di innovare, o più prosaicamente dalla necessità di mettersi in mostra e farsi notare, legioni di aspiranti anticonformisti, dissacranti o provocatori hanno dedicato i loro sforzi a un certo progresso futurista. In un tripudio di carbonare scomposte, tiramisù molecolari, pizze reinterpretate o chiare e semplici inutilità irrilevanti, il mondo culinario non si è quasi mai arrestato a meditare sugli allori o a gioire pigramente dei fasti del passato. Qualche volta è andata bene, qualche volta non benissimo, ma in linea di massima un generoso e provvidenziale oblio è stato sufficiente a

disinfettare la nostra linea temporale da tentativi maldestri e incaute digressioni. Uno dei piatti più sensibili alla sperimentazione irresponsabile? L'hamburger, insieme alla pizza, si contende il trono degli horribili visu più in voga sulla scena. Nato come una semplice e comoda formulazione per poter mangiare carne a basso costo e in mobilità, è diventato prima simbolo di standardizzazione, globalizzazione e riproducibilità, poi frontman e immagine di catene commerciali, megacorporazioni e di opere di occidentalizzazione (americanizzazione?) del mondo; successivamente icona del “mangiar male”, poco sano, dozzinale, massificato, additato come responsabile del dilagare di obesità e disturbi alimentari. Ha vissuto un periodo di riscossa con l’esplosione dei cuochi-superstar e dei social chef, declinato più o meno forzosamente in numerose varianti gourmet, bio, vegane (la finta carne vi dice qualcosa?), light o spudoratamente eccessive per il solo gusto di fare notizia, affiancando sempre questa continua mutazione nel costume e nella percezione presso le masse con un popolarissimo, sempreverde e intramontabile processo di corsa all’estremo, all’opulenza sfacciata, all’ammonticchiare piuttosto insensato di ingredienti e sapori inconciliabili, per appagare quel senso trasgressivo e pseudo rivoltoso del voler creare “il panino più laido e corrotto del mondo”. É per questo che, e non me lo sto inventando, negli States si vendono hamburger con nomi tipo “Burger del triplo bypass”, “infarto del miocardio” e altre simpatiche formule che, lungi dall’evocare ricercatezza, gusto e bilanciamento, puntano tutto sul parossismo,


sull’eccesso, sulla mancanza di regole, fino a sembrare nella quasi totalità dei casi dei panini inventati da un adolescente annoiato lasciato solo a casa con il frigorifero pieno e nessun passatempo digitale. Non di rado, si trascende anche il concetto del “panino con tutto” nei quali molti di noi si sono imbattuti in certi pomeriggi di noia devastante trascorsi in un sottovuoto pneumatico di solitudine: per avere un’idea, pensa al panino più idiota e insensato che tu si sia mai costruito per ripicca, coprilo di pastella, friggilo, bardalo di bacon e rotolalo nella confettura di albicocche. Una roba simile. Alcuni ristoranti hanno creato una certa loro fama proponendo, oltre all’ovvia presenza di cheddar, bacon, cetriolini e uovo sopra due o tre patty di carne, un bel paio di waffle glassatissimi di zucchero e sciroppo in luogo del pane, alimento probabilmente troppo scontato, salubre e insapore. Ha senso? C’è una ricerca di complessità nel gusto? Sicuramente no, ma probabilmente appaga quel piccolo tarlo autodistruttivo e facinoroso degli acquirenti.

Il panino al tutto è come la famigerata pizza maialona, con otto tipi diversi di salumi e formaggi, che sul menù pare sontuosa e godereccia, e una volta sul piatto è solo un mattone poco gastroamichevole dal sapore indefinito, utile solo al pizzaiolo per svuotare le vaschette degli ingredienti a fine serata.

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Quando al patty di manzo si sovrappone un paio di etti di pastrami e una fetta alta un pollice di formaggio erborinato, semplicemente i sapori si perdono: non si gustano, non c’è alternativa, non esiste una formulazione per cui tre, quattro, cinque ingredienti completamente diversi per sapore e “direzione gustativa”, proposti in dosi così massicce, quasi litigassero per avere il ruolo da attore protagonista, risultino gradevoli ed esperibili in maniera ragionata.


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disgustati dal sapore di questo panino, troppo adulto (?) per i loro palati delicati. Tralasciando l’ovvietà per cui sviluppando un “gusto adulto” si inizia anche a fare a meno di spendere per happy meal e gadget da due soldi, oltre a scacciare la propria clientela tradizionale la megaditta dei due archi dorati si rese conto che anche gli adulti, al pari dei pargoli, rimanevano disgustati da questa nuova trovata. Chissà che sapore avrà avuto, quel flop di panino non ha mai attraversato l’oceano: si sa solo che l’unica differenza col paninazzo regolare era una mostarda marrone amarognola e poco palatabile.

Se aggiungere ingredienti su ingredienti, grasso su fritto, glassato su tempura è un compito facile e limitato dalla sola mancanza di gusto, misura e senso civico, lavorare sul “togliere” è a volte un’incombenza dai tratti mefistofelici e autolesionistici. Lo avranno capito a loro spese due dirigenti McDonald's in due differenti ere: la volta che provarono a cercare di massimizzare i ricavi del venerdì, quando negli anni sessanta sembrava che le famiglie di certe aree cattoliche, molto osservanti delle tradizioni, rinunciassero alla carne in quel giorno della settimana, e ben pensarono di offrire l’Hula Burger, con una bella fettona d’ananas a rimpiazzare la carne. O la volta in cui, nei più inquieti anni novanta, provarono a convincere i clienti a comprare “l’hamburger dal gusto adulto”, corredato da una coraggiosa campagna pubblicitaria sbandierante bimbetti vari

Quando la drammatizzazione non è sugli ingredienti, sulle calorie, sui grassi o sugli accostamenti impavidi, è spesso sulle dimensioni. Ma esagerare in larghezza è probabilmente troppo facile, scontato, di banale realizzazione e di scarso impatto sul pubblico: ecco quindi che in pieno stile metropolitano si cresce in altezza, rinunciando ad una più comoda espansione di superficie. Obelischi di hamburger, torreggianti opere di incolonnamento di patty,

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Non molti anni fa, in una momentanea ricerca del design e del cool, una catena di fast food propose un panino completamente nero: pane al nero di seppia, salse nere, patty di carne e verdure, nero, verdurine nere. Quanto fosse nero di seppia e quanto fosse colorante alimentare non ci è dato saperlo, ma l’esperimento ebbe breve durata, limitato in pratica solo al franchise dell’estremo oriente e con una minuscola riproposizione con annesso “spooky marketing” per il periodo di Halloween. L’unica nota memorabile di questa parentesi cromatica fu la sorpresa e lo sbigottimento dei primi avventori, quando quello che entrava nero e lucido usciva inaspettatamente verde smeraldo. Per giorni.

Negli anni vari ristoranti innovatori hanno sostituito il pane con mezzo cetriolo, o con delle tavolette di cioccolato, o con il fin troppo presente ananas, che inspiegabilmente appare a rotazione in diversi cibi tradizionali a sparigliare le carte e a procurare travasi di bile ai puristi o ai meno propensi all’innovazione. Chissà perché è sempre l’ananas: sulla pizza, sul pollo, sugli hamburger, nel fritto, perfino nelle diete last minute, sembra la carta shock da giocarsi per ogni dissacramento low-cost.


formaggi, pane e verdure, alternati con scopi variamente giustificabili, instabili composizioni dalle fondamenta instabili, baricentri altissimi su basi risicate, continue scommesse contro l’equilibrio, lo scarico di forze e i momenti torcenti. Fatte per lo più di pseudo-visualizzazione freudianamente falliche e di facile reperibilità di ingredienti, in realtà queste creazioni vanno palesemente contro lo scopo primario ed originario di un panino: essere qualcosa di mangiabile comodamente con le mani, in mobilità, senza posate. Proporre un panino alto mezzo metro pieno di ingredienti scivolosi e di formaggi fusi, salse, verdure che schizzano fuori e carne che gocciola è un chiaro invito a sporcarsi e a sprecare il cibo: puoi provare a schiacciare tutto, sbrodolando le salse in ogni dove, fino ad arrivare alla soglia di ogni ulteriore comprimibilità. Più strategicamente puoi scomporre la tremenda pila in diverse sub-unità dalla geometria più affrontabile: in questo modo però hai un isolamento temporale dei componenti, visto che li gusterai in tempi diversi e con risultati quindi del tutto lontani dal mix originario: soprattutto viene a mancare la presenza del pane nel suo ruolo di “maniglia edibile” per il cibo. Alzi la mano chi non ha già pensato alla favola di Esopo della volpe e della cicogna.

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In questo macello di proposte insensate, ricette da Guinness World Record, provocazioni social da diecimila like al giorno e decadenti sprechi di valido cibo, arriva la rivista più lungimirante

del panorama grigliesco italiano a suggerire uno sfacelo di idee per gli hamburger party dei suoi lettori: sono i nostri hamburger preferiti, collaudati, saporiti, soprattutto sensati e gustosi, senza la ricerca dell’oltraggio e dell’incredibile a tutti i costi. Tanti panini onesti, affrontabili, con una composizione dei sapori ragionata e strutturata, assolutamente lontana dal concetto di pietanza svuotafrigo. E dato che sappiamo che alcuni di voi sono comunque sensibili al fasciono del panino alto, con doppio patty, troverete anche un paio di versioni di questo genere, ma studiate apposta per rimanere addentabili e affrontabili senza sforzi sovrumani. Sono gli hamburger dei nostri coach, provenienti dalle diversi parti della penisola e latori di sapori diversi, locali, regionali, internazionali o contaminati da un approccio più “fusion”. Senza l’ambizione di slogare nessuna mandibola o causare occlusioni coronariche, hanno l’innegabile vantaggio di essere buoni, gradevoli, sensati e maneggiabili Quanto al clamore social, siamo sicuri che anche senza sovrabbondanze e provocazioni lipidiche questi panini diventeranno il contenuto virale del tuo feed. Ammesso che tu stia ancora pensando al feed, e non al food, vedendo queste fotografie a tutta pagina.


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Semplice e complesso, come lo Zio! AUBER BURGER con bistecca di melanzana, salsa grezza e double cheese 1. È un Burger semplice ma dai sapori complessi. Il patty che ho scelto è il nostro Shimofuri com Wagyu giapponese. Ovviamente cotto alla perfezione. Dentro c’è una bistecca di melanzana, una salsa grezza, che è una via di mezzo tra pesto e gremolada, e due formaggi in due consistenze diverse: una cialda di pecorino croccante e due fette di Gruyere. Realizzare la cialda di pecorino è molto semplice. In una padella antiaderente piccola mettete del pecorino romano grattugiato. Uno strato da 3/4 millimetri uniforme. Mettetela sul fuoco basso e lasciatela fondere del tutto finché non vedi le bolle. A quel punto spegnete e lasciate raffreddare. 2. Per la bistecca di melanzana, tagliate una fetta molto consistente. Dovrà avere almeno uno spessore di 3 cm; due dita abbondanti. Cospargetela uniformemente di olio, senza lesinare, attendete qualche secondo finché non sarà completamente assorbito. Ripetete l’operazione dall’altra parte. Mettetela sulla piastra rigata o sulla griglia e create delle belle righe di cauterizzazione molto marcate: non preoccupatevi di cuocerla internamente. In questa fase vi serve solo come elemento visivo. Quando avete ottenuto le righe di cauterizzazione mettete la fetta di melanzana grigliata su una placca e passatela in forno alto, 170/180 gradi, finché non si ammorbidisce e si intenerisce. Testate la cottura dopo 20 minuti con uno stuzzicadenti. Non deve incontrare alcuna resistenza. Quando è cotta toglietela da forno e lasciatela intiepidire. 3. Nel frattempo preparate la salsa con due bei ciuffoni di basilico, tre spicchi d’aglio, il succo di mezzo limone e quanto basta di olio. Frullate al minipimer a impulso. Dovete ottenere una consistenza grossolana. 4. A questo punto tostate il pane. Serve un buon morbido, tipo pane alle patate o brioche. Apritelo, spennellatelo di burro e tostate entrambe le superfici. 5. Cuocete il patty di Wagyu, sul vostro dispositivo o in padella, e poco prima di toglierlo aggiungete il gruyere, lasciandolo fondere. 6. Montate il panino con questa sequenza: cialda di pecorino, melanzana, una cucchiata generosa di salsa, seconda cialda di Pecorino, patty con formaggio. A piacere, potete terminare con qualche goccia di tabasco chipotle o sriracha.

Gianfranco Lo Cascio Pane Bun per hamburger alle patate o tipo brioche Patty Shimofuri Farms Wagyu Jap Kuroge GLC Top Selection Altri ingredienti una melanzana / due fette di Gruyere / 100 g di Pecorino Romano grattugiato / burro q.b. / sale e pepe q.b. / olio extravergine di oliva q.b. Salse per la salsa grezza: un mazzetto di basilico / 3 spicchi di aglio / il succo di mezzo limone / un pizzico di sale / olio extravergine di oliva q.b. Tabasco chipotle o sriracha a piacere

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Emanuele Bardini

Vietato ai minori!

HOT BURGER con wagyu, uova e bacon

Mettete in una bottiglietta o in un contenitore di vetro dell’aceto di mele, quindi delle lamelle di zenzero sbucciato e la scorza del Pane lime. Lasciate in infusione 24 ore: il risultato sarà un aceto con le Bun artigianale o homemade note profumate e pungenti dello zenzero e l’aroma del lime. 2. Cuocete il bacon in padella, rendendolo super croccante, oppure in griglia con una diretta iniziale per disidratarlo e poi in diretta, deve diventare talmente croccante da sbriciolarsi toccandolo. Patty Shimofuri Farms Wagyu Jap Kuroge 3. Dopo averlo fatto riposare qualche minuto sbriciolatelo in pezzetti GLC Top Selection piccoli e mettetelo da parte. 4. Cuocere le uova in camicia o poché: dovranno essere freschissime, il più possibile. Predisponete l’uovo sgusciato già in una tazzina Altri ingredienti (questo agevolerà l’operazione), quindi portate a bollore l’acqua 2 uova freschissime / spinacino novello, dopo aver aggiunto mezzo cucchiaino di aceto. Consiglio di utilizzare in assenza spinaci con foglia piccola / una fetta di bacon / aceto di mele un pentolino contenuto, non troppo largo. Una volta giunta a q.b. /zenzero fresco q.b. / un lime / olio bollore l’acqua, con un cucchiaio o un frustino create un vortice extravergine di oliva q.b. / sale e pepe q.b. nel pentolino e spegnete la fiamma, quindi versate delicatamente l’uovo: inizierà a roteare e ad avvolgersi su se stesso, se necessario aiutatevi leggermente con il cucchiaio. Attendete che “la camicia” Salse dell’uovo, quindi l’albume esterno, sia compatto. Il tempo varia a Trito di smoky chipotle in salsa oppure Tabasco smoky chipotle q.b. seconda delle dimensioni dell’uovo, ma è comunque un'operazione breve. 5. Prelevate l’uovo con un cucchiaio o con una schiumarola, in maniera delicata; quando l’albume è compatto ma al tatto l’uovo presenta comunque morbidezza (significa dunque che il tuorlo è rimasto fluido) è pronto. Per i più’ virtuosi si puo’ procedere anche con la cottura a bassa temperatura con un roner. 6. È ora di cuocere il patty. Tenetelo in frigo fino all’ultimo momento, questo vi permetterà di averlo bello sodo quando andreto in cottura, senza far colare il prezioso e nobile grasso tra le maglie della griglia. 7. Sviluppate la Maillard e quindi spostatelo in cottura indiretta (mettetelo in forno se non state utilizzando un dispositivo che lo permetta) fino a raggiungere una temperatura di 45°C/48°C interni al massimo. Qualora non foste pronti con il resto degli ingredienti, lo potete lasciare in mantenimento in forno a 45°C o sotto una leccarda, ma solo dopo qualche minuto di riposo per fermare l’eventuale carry over. 8. Solo all’ultimo momento condite leggermente lo spinacino con pochissimo olio, un goccio di aceto di vino o di mele, il migliore che avete in casa, un pizzico di sale e pepe senza farlo appassire. 9. Montate il burger nel seguente ordine, dal basso verso l’alto: base del bun spruzzato con l’aceto aromatizzato, letto di spinacino (bastano poche foglie) patty di Wagyu, le due uova, quindi a chiudere le briciole di bacon che dovranno dare sapidità e croccantezza. Aggiungete a piacere la salsa tabasco habanero o habanero in salsa sminuzzati a dare la nota leggermente aromatica e piccante. Quindi chiudete con la parte superiore del bun.

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Non sono abbinate salse in quando l’uovo poché, nel momento in cui si andrà ad addentare il panino sisi romperanno rilasciando il tuorlo denso che darà la parte cremosa sugli altri ingredienti. È caldamente consigliato di consumare seduti o con un bel tovagliolo, chè l'uovo è solito fare scherzetti! Può essere abbinato ad una birra o a un vino con una nota spiccatamente acida per contrastare gli elementi estremamente burrosi della composizione. Come contorno, consiglio una julienne di verdure, carote, zucchine e sedano rapa, o similari alla scapece.


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I funghi: buoni da seccare, buoni da... grigliare!

FRIUL BURGER con porcini e la nostra drogarossa

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Prendete una leccardina monouso e sistemate i pomodori, non asportate rami e peduncoli, mi raccomando. Irrorate generosamente con l’extravergine, condite con sale, pepe e zucchero di canna, spruzzate alcune gocce di Worcestershire, aceto e tabasco. Metteteli nel vostro dispositivo in cottura indiretta a circa 150°C e lasciateli prima appassire e poi letteralmente esplodere. Ci vorrà un po’ di tempo. Se avete la testa del porcino, mettetelo sulla griglia dopo averlo spennellato con olio, sale, prezzemolo tritato e pepe, e cuocetelo in cottura diretta fino a quando diventa morbido.Nel caso usiate le fette di porcino congelate, scongelatele e poi usate lo stesso procedimento. La pitina o pituccia: si tratta di una polpetta di carne affumicata originaria della Val Tramontina. Nel nostro caso, va tagliata a fette e fatta scaldare in griglia su una piastra in ghisa o di porcellana finchè non prende un po di colore (attenzione a non cucinarla troppo). Fondete Il formaggio Montasio utilizzando i succhi di cottura della pitina; fate lo stesso per cuocere l’uovo. Poi grigliate il vostro burger in cottura diretta. A questo punto non vi resta che montare il panino; tagliate il bun in due e procedete così: fetta di iceberg, testa di porcino, uovo, burger, pitina, Montasio, pomodorini.

Enio Berton

Pane

Bun per hamburger

Patty

Black Angus Emerald Green GLC Top Selection

Altri ingredienti

una testa di fungo porcino intera o in alternativa delle fette di fungo porcino / formaggio Montasio dop 60 mesi q.b. / pitina o pituccia della Val Tramontina / insalata iceberg q.b. / un uovo

Salse

per la drogarossa: 500 g di pomodorini ciliegini / un po’ di zucchero di canna grezzo / olio extravergine di oliva q.b. / tabasco q.b. / alcune gocce di salsa Worcestershire / una stilla di aceto di mele (meglio se barricato) / sale e pepe nero q.b.

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Abbinamo pure un buon pinot grigio o un rosso non troppo maturo.


Michela Bongiorni

Ribs o hamburger: perché scegliere?

BABY BACK RIBS BURGER

con spinaci saltati e Roquefort

Prima di tutto preparate la salsa mop. Unite tutti gli elementi in un pentolino, intiepidite fino a far sciogliere lo zucchero e una volta Bun artigianale o homemade fredda lasciate maturare la salsa in frigo almeno 24 ore. 2. Per il rub miscelate tutte le polveri per bene fino a ottenere un condimento perfettamente omogeneo. 3. Trimmate la slab, ripulitela da brandelli e parti che potrebbero Patty bruciare in cottura ed eliminate la membrana bianca che copre le slab di ribs baby backs di Duroc del Megastore / uno o due cucchiai di ossa aiutandovi con un cucchiaino: inseritelo al di sotto e poi infilate salsa bbq un dito fino a staccarla. Aiutandovi con un po’ di carta da cucina verrà via senza problemi. 4. Cospargete la slab con un sottile strato di olio di semi e applicate con un setaccio a maglie fini un cucchiaio di rub per lato. Altri ingredienti per il rub: 15g di paprika affumicata o 5. Stabilizzate il vostro affumicatore a 110°C (10 in più o in meno non dolce / due cucchiaini di Ultimate SPOG faranno la differenza) e mettete in cottura indiretta la slab con il Sal’s Seasoning / 12 g zucchero di canna / un pizzico di cumino / 5 g di senape lato delle ossa rivolto verso il basso affumicando con l’essenza che in polvere. più gradite. Gli alberi da frutto, come melo o ciliegio, si sposano a per la salsa mop: 100 g di aceto di mele / meraviglia con il maiale. 20 g di Worcestershire / 5 g di zucchero di 6. Chiudete in coperchio e dimenticatevela li per almeno un’ora. Dopo canna / 25 g di senape gialla americana un’ora date una generosa spennellata di salsa mop e richiudete per per il panino: 500 g di spinaci freschi / 150 un’altra ora. g di pinoli / mezzo peperoncino piccante 7. Quando il bark sarà asciutto e di un bellissimo color mogano, avvolgere / sale e pepe q.b. / olio extravergine di oliva q.b. / uno spicchio d’aglio / 100 g di le ribs in un doppio strato di foil e rimettetele in cottura. formaggio Roquefort / Smoky red della 8. In questo caso, dovete dimenticarvi del perfect bite: le nostre ribs linea Sal’s Seasoning. devono pullare. Dovete quindi prolungare la cottura finché non raggiungerete, esattamente come succede per il pulled pork, fino ai 98°. Una volta raggiunta la temperatura target, aprite il foil, fate uscire il vapore, e poi richiudete il tutto, tenendo le ribs in rest per un’oretta. 9. Nel frattempo preparate gli spinaci: lavateli bene togliendo le coste più grosse. Buttateli in padella insieme allo spicchio d’aglio, all’olio e al peperoncino. Aspettate che perdano volume, poi aggiustate di sale e di pepe (unite anche un pizzico di Smoky Red, per dare il sentore di affumicato) prolungate la cottura per qualche minuto aggiungendo infine 40 g di pinoli, dopo averli fatti tostare a parte. Fate tostare un po’ anche il resto dei pinoli, poi tritateli grossolanamente. 10. Siete adesso pronti a pullare le vostre ribs: staccatele dall’osso e procedete a sfilacciarle bene. 11. Aggiungete alle ribs pullate un po’ di salsa bbq e poi, aiutandovi con un coppapasta, create il patty di ribs. Passatelo nei pinoli tritati e poi in padella per farlo dorare leggermente. 12. Aprite il bun in due, scaldate le due parti interne del panino e poi farcitelo in questo modo: un generoso cucchiaio di spinaci con i pinoli, adagiate poi sopra con delicatezza il patty di ribs e terminate con il formaggio Roquefort. Il vostro Baby Backs Ribs Burger è pronto.

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Pane

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Le dimensioni contano!

THE BEAST BURGER

Virgilio Brunetti

con capocollo di Martina Franca e cialda di Parmigiano Reggiano 2.

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Come bun, utilizzate la tipica brioscia siciliana da tostare in piastra sulle superfici di taglio. Usate il grasso del burger di manzo per accelerare la tostatura. Di questo hamburger si possono fare due versioni: una imponente (che ha dato il nome al panino, essendo una vera e propria bestia), l’altra più umana, e a prova di mascella. La differenza è data da ciò che si sceglie come patty. Se utilizzerete quelli giù pronti del nostro megastore, inevitabilmente il panino risulterà più alto e grandioso, sicuramente più difficile da mordere e forse meno adatto a una cena con qualche signorina ben vestita. In alternativa potete crearvi da soli il vostro patty, utilizzando il point di un brisket del nostro Megastore e aggiungendo il grasso solido. Se scegliete questa seconda ipotesi, preparare la carne e il grasso (al 10%) in cubetti circa di 3 cm e aggiungete 1% sale e 1% di Smoky chipotle; lasciate in frigo una notte prima di macinare (questo passaggio agevolarà la tenuta del patty in cottura). I patties saranno cotti in smashed style per massimizzare la reazione di Maillard, quindi la macinatura del patty dovrà essere adeguatamente fine e l’impasto compatto in modo che non si vada a sbriciolare in cottura. Vi consiglio la piastra in acciaio con, appunto, la tecnica smashing: in inglese to smash vuol dire distruggere ed è eattamente ciò che succede in questo caso. Il patty deve essere messo su una padella rovente e schiacciato con forza. Se invece scegliete la via più facile ma anche più rischiosa per le vostre mascelle, grigliate i vostri hamburger Blue Ox (oppure utilizzate una piastra) avendo cura di girandoli spesso. Preparate la salsa aggiungendo alla vostra maionese aglio nero tritato e pepe tellycherry Grigliate il capocollo di Martina Franca rendendolo croccante (si prepara uguale al bacon croccante) Preparate due cialde croccanti di Parmigiano Reggiano GLC top utilizzando una padella antiaderente. Preparate le cipolle al vino: pulite e affettate finemente le cipolle, fatele rosolare nell’olio e poi sfumatele con l’aceto e il vino. Salate e pepate e lasciatele cuocere finché non saranno ben stufate. Assemblaggio del panino: base brioscia tostata, primo patty, mayo al pepe e aglio nero, cipolle stufate, cialda al parmigiano, secondo patty, capocollo croccante, di nuovo mayo al pepe e aglio nero, top della briscia tostata. Buon appetito!

Pane

Brioscia siciliana col tuppo usata come bun

Patty

2 Black Angus Blue OX GLC Top Selection se volete formare da soli il patty: Smoky Chipotle della linea Sal’s Seasoning / il point di un brisket / sale / grasso solido

Altri ingredienti

50 g di capocollo di Martina Franca / 150 g di Parmigiano Reggiano GLC Top Selection / sale q.b. per le cipolle caramellate: due cipolle rosse / olio extravergine di oliva q.b. / 2 bicchieri di vin:o rosso fermo / un cucchiaio di aceto di mele / sale e pepe q.b.

Salse

per la mayo aglio e pepe: 50 g di maionese / aglio nero q.b. / pepe thellicherry q.b.

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Con la cipolla non si sbaglia!

Alessandro Colusso

TROPEA BURGER

con fonduta di cheddar e salsa bbq Pane

Bun artigianale o homemade

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Patty

Black Angus Emerald Green GLC Top Selection

Altri ingredienti

una cipolla di Tropea / lattughino q.b. / due fette di bacon / olio extravergine di oliva q.b. / sale e pepe q.b. / origano a piacere / qualche goccia di aceto di mele

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Salse

per la fonduta al cheddar: 100 g di cheddar / 100 g di acqua / 15 g di vino bianco / 3 g di sodio citrato / 15 g di Jalapeno

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salsa bbq q.b.

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Iniziate dalla cipolla, la rossa di Tropea col suo sapore dolce leggero e raffinato. Tagliatela e mondatela ricavando delle fette dello spessore di 1/1,5 cm. Spennellatele d’olio e mettetele nel vostro dispositivo in cottura diretta sino a quando non saranno appassite. Una volta cotte, conditele con un goccio di aceto di mele, un filo d’olio, sale pepe ed origano. Per la fonduta mettete in un pentolino l’acqua ed il vino, aggiungete il cheddar spezzettato e il citrato di sodio, mescolate e cuocete fino a che il cheddar non è completamente sciolto, poi spegnete la fiamma e aggiungere il jalapeno tritato. Preparate il bacon: preriscaldate una padella, adagiate le fette di bacon e cuocete fino a che non diventino croccanti. Preparate la griglia per la cottura del patty, nel frattempo condite il lattughino con olio, sale, pepe e aceto di mele. Cuocete il patty in cottur diretta girandolo spesso in modo da avere una cottura più uniforme possibile e una bella maillad allesterno Componete ora il vostro hamburger adagiando il lattughino sulla base, poi il burger, le fette di cipolla grigliate, infine versando la fonduta e sbriciolandoci sopra il bacon.


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Two is megl’ che one! DOUBLE SHIMOFURI BURGER con maionese all’aglio 1. Arrostite l’aglio in ember roasting, avvolgendolo con un po’ di stagnola dopo averlo condito con un filo d’olio, e tenendolo sotto le braci finché non sarà morbido.Una volta pronto, spremete l’aglio in un bicchiere, aggiungete l’olio d’oliva e quello di semi di sesami, poi aggiungete l’uovo a temperatura ambiente e il succo di limone. Aggiungete infine la salsa di soia e frullate il tutto, formando la vostra maionese. 2. Prendete lo scalogno o il cipollotto tagliato in quartini per lungo, in modo che rimangano attaccate le foglie per il peduncolo radicale. Cuocetelo in Sous Vide a 85°C per 30 minuti, dopo averlo condito con una noce di burro e Montreal a piacere. 3. Qui ci vuole il tarassaco possibilmente raccolto in primavera, prima sbollentato, poi raffreddato e scolato e infine conservato in congelatore. Tutti dovrebbero averlo come scorta! E’ giunto il momneto di sconglarlo e di ripassarlo in padella per asciugarne un po l’umidità, senza esagerare per non seccarlo troppo. Scaldatelo con il classico velo d’olio. l’aglio intero e un po’ di Ancho Habanero. 4. Preparate il vostro dispositivo per una cottura diretta e grigliate i patty; grigliate anche lo scalogno tolto dal sous vide, spalmate sul bun tagliato a metà del burro (o se ce l’avete del grasso di Wagyu!) e scaldate il panino. 5. Montate il panino così: una base di maionese all’aglio in ember, semi di sesamo, patty di Wagyu, cipollotto grigliato, il secondo patty di Wagyu, infine il tarassaco ripassato. Chiudete il panino e preparatevi alla deflagrazione!

Salvatore Di Mento Pane bun per hamburger con semi di sesamo Patty 2 Shimofuri Farms Wagyu Jap Kuroge GLC Top Selection Altri ingredienti uno scalogno o un cipollotto / uno spicchio d’aglio / burro q.b. /olio extravergine di oliva q.b. /sale e pepe q.b. / 30 g di foglie di tarassaco / Rub Montreal della linea Sal’s Seasoning q.b. / Ancho Habanero Chili Mex della linea Sal’s Seasoning q.b. / semi di sesamo a piacere Salse per la maionese all'aglio: una testa d’aglio / un cucchiaino di salsa di soia di qualità / un uovo / 150 ml di olio d’oliva / 50 ml di olio di semi di sesamo /il succo di un limone

1053 - BBQ4All Magazine


1054 - Almanacco 2021

Simone Dieci Pane Bun artigianale o homemade Patty Black Angus Blue OX GLC Top Selection Altri ingredienti 70 g di funghi porcini o in sostituzione funghi champignon / 30 g di parmigiano GLC Top Selection 48 mesi / 5 g di Dallas Mild Rub della linea Sal’s Seasoning / 20 g di burro / olio extravergine di oliva q.b. / sale q.b. / aceto di mele q.b. Salse salsa thousand island : 120 g di maionese / 30 g di ketchup /15 g di aceto balsamico tradizionale / 8 g di zucchero / 8 g di cetrioli gurken / 15 g di cipollotto / sale q.b. / pepe q.b.

Gusto impeccabile! UMAMI BURGER con cialda di Parmigiano e salsa Thousand Island 1. Per la preparazione del vostro burger iniziate dalla salsa. In una ciotola unite insieme il ketchup, la maionese, l’aceto balsamico tradizionale, lo zucchero. Tritate finemente il cetriolo e la parte verde del cipollotto ed aggiungeteli al composto. Regolate di sale e di pepe, coprite con pellicola e lasciate riposare in frigorifero. 2. Per la cialda di Parmigiano reggiano riscaldate bene una padella antiaderente. Versateci il formaggio precedentemente grattugiato e iniziate a distribuirlo per tutta la padella, schiacciandolo leggermente. Una volta dorata la base, aiutandovi con una paletta, girate la cialda e terminate la cottura anche dall’altro lato. Una volta pronta trasferitela su carta da forno e lasciatela raffreddare. 3. Passate ora alla preparazione dei funghi. Dopo averli adeguatamente puliti, ricavate delle fette da circa un cm di spessore, spennellatele con d’olio d’oliva e fatele cuocere sulla skillet in ghisa precedentemente riscaldata. Dopo circa un minuto girate le fette di fungo, conditele con una generosa spolverata di Dallas Mild rub e ultimate la cottura. 4. Preparate la skillet in ghisa o la griglia per la cottura del Patty Blue Ox,e nel frattempo condiamo la misticanza con olio, sale, aceto di mele. 5. Cuocete il patty girandolo spesso in modo da avere una cottura più uniforme possibile. Dopo aver sciolto il burro a fuoco basso, tagliate il pane a metà, spennellatelo con il burro fuso e mettetelo a tostare in griglia o in ghisa facendo attenzione a non bruciarlo. 6. Componete ora il vostro hamburger adagiando la misticanza sulla base, il burger, i funghi porcini, la cialda di parmigiano e 2 cucchiaini di salsa Thousand Island.


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1056 - Almanacco 2021


E che cavolo!

FIÒL BURGER

Daniele Faresin

con broccolo fiolaro e bacon glassato 2.

3.

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6.

7.

Preparate in anticipo i buns seguendo la ricetta del Magazine di giugno 2019, aggiungendo il 10% di formaggio grattugiato sul peso della farina (50 g su 500 g di farina o 100 g su un kg). Permettetemi una digressione sul broccolo fiolaro di Creazzo: è una varietà di broccolo coltivata sulle colline che sorgono appunto a Creazzo in provincia di Vicenza. Il nome fiolaro deriva dalla presenza di germogli inseriti lungo il fusto della pianta, conosciuti con il termine dialettale di “fiòi” (figli): la parte migliore del broccolo per l’utilizzo in cucina. Di solito si consuma dopo le prime gelate quando i caratteri organolettici dell’ortaggio migliorano, aumenta la concentrazione di sali e di zuccheri, il sapore è più intenso e la tenerezza è maggiore. Per la vostra salsa, cercate di accaparrarvi la crema di broccolo fiolaro (o di friarielli o di cime di rapa in sostituzione), che è molto simile a un pesto, e mescolatela con metà quantità di maionese (es. 100 g crema con 50 g di maionese); aggiungete per ogni 50 g di salsa mezzo cucchiaino di Spicy rub Smoky Chipotle e mezzo di rub Ancho Habanero. Mettete la salsa almeno una mezz’ora a riposare in frigorifero. Preparate le fette di bacon sulla piastra, fino a renderle croccanti ma nappandole negli ultimi giri con uno shot di aceto di mele e uno di sciroppo d’acero per glassarle leggermente. Prendete e scolate qualche “fiól” (gambo) di broccolo in agrodolce e mettetelo da parte. Per una cottura più rapida del patty, e per una migliore gestione del servizio, è possibile stemperare l’hamburger in forno statico a 50°C per una mezz’ora circa, dopo averlo scongelato in frigo. In questo tempo si possono preparare agevolmente le salse, il bacon, la linea di montaggio. Quando sarete pronti per il servizio, tostate leggermente le metà superiori e inferiori dei panini e piastrate o grigliate il medaglione di carne BLUE OX già stemperato in forno. Abbiate l’accortezza di ungerlo con dell’olio di semi, oppure potete ungere la piastra) rigirandolo spesso fino a ottenere una ottima Maillard superficiale, ed evitando di cuocerlo eccessivamente all’interno: attestatevi sui 60°C- 62°C al cuore. Montate il panino partendo dalla salsa al broccolo e distribuendola sia sulla base che sul top del bun. Poi adagiate il pattie di carne, aggiungete un paio di fette di bacon e un paio di “fiói” agrodolci di broccolo. Chiudete e servite.

Pane

bun al parmigiano 40 mesi GLC Top Selection

Patty

Black Angus Blue OX GLC Top Selection

Altri ingredienti

aceto di mele q.b. / sciroppo d’acero q.b. / 50 g di bacon a fette / broccolo fiolaro in agro intero

Salse

Smoky Chipotle della linea Sal’s Seasoning q.b. / Ancho Habanero della linea Sal’s seasoning q.b. / 100 g di crema di broccolo fiolaro / 50 g di maionese

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1.


Emiliano Nencioni

Coppa dei campioni!

CHAMPION’S BURGER

con stracchino e pesto di pomodori secchi

Pane

1.

Bun artigianale o homemade

2.

Patty

Black Angus Blue OX GLC Top Selection

Altri ingredienti

3.

4.

un porro / sale q.b. / olio q.b. / farina q.b. / olio di semi per friggere q.b. / 50 g di stracchino / 2 fette di Coppa piacentina tagliate un po’ spesse

Salse

per il pesto di pomodori secchi : 40 g di mandorle / uno spicchio d’aglio / sale e pepe q.b. / qualche foglia di basilico / 4 cucchiai di olio extravergine di oliva / 100 g di pomodori secchi sott’olio / 50 g di Pecorino Romano

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1058 - Almanacco 2021

7.

In un mixer, mettete tutti gli ingredienti per il pesto e frullate bene fino ad ottenere un composto abbastanza granuloso e rustico. Aggiustate di sale e di pepe e tenete da parte. Tagliate le fette di coppa in striscioline sottili e fatele sfrigolare in padella (con un poco d’olio) per qualche minuto. Il vostro obiettivo è quello di renderle dorate e croccantine, quindi andateci decisi con la temperatura, sempre evitando di superare il punto di fumo dell’olio. Tagliate i porri sottilmente e infarinateli, poi friggeteli, facendo molta attenzione perché la malvagità dell’ortaggio è proverbiale: tendono a bruciare molto facilmente. Preparate il dispositivo per una cottura diretta e cuocete l’hamburger, avendo come meta una generosa reazione di maillard esterna, raggiunta in breve tempo per non asciugare troppo l’interno. Occhio alle fiamme: il retrogusto di creosoto è raramente il benvenuto in un panino. Ricordatevi la salvifica “safe zone”, una porzione di griglia non raggiunta dal calore dove appoggiare temporaneamente la carne in caso di fiammate causate dal grasso che cola. Aprite il bun in due e grigliatelo leggermente nele due parti interne. Poco, non dovete inaridire il pane. Farcite il panino seguendo rigorosamente questo ordine, partendo dal basso: pesto di pomodori, hamburger, stracchino, striscioline di coppa piacentina e porri fritti. Il panino deve essere gonfio e lussurioso, ma con un’altezza massima tale da poter essere inserito in una bocca umana di dimensioni e potenzialità standard. Servitelo montato ma con la fetta di pane “coperchio” appoggiata mollemente di fianco, senza coprire la pila di ingredienti e senza schiacciare nulla.


1059 - BBQ4All Magazine


1060 - Almanacco 2021


HONEY JALAPENO BURGER con cheddar e cipolle fritte 1.

2.

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5.

Preparate la pastella con uovo, farina e un pizzico di sale e poi tagliate la cipolla ad anelli; infarinate gli anelli e passateli nella pastella; potete, se volete, aromatizzare quest’ultima come vi più vi aggrada, oppure lasciarla “in purezza”. In una padella scaldate l’olio di sei e friggete gli anelli di cipolla, scolandoli poi su un foglio di carta assorbente. Teneteli in caldo. Tritate mezzo jalapeno verde crudo, nel frattempo predisponete il vostro dispositivo per una cottura diretta e tostate il bun tagliato a metà. Poi grigliate l’hamburger dopo averlo spennellato con un filo d’olio, una volta cotto, spostatelo in indiretta, conditelo col Montreal e chiudete il coperchio del dispositivo; se, invece, preferite usare la padella in casa, mettete il patty al centro e create una bella Maillard girandolo spesso, poi spegnete il fuoco, aggiungete sempre il rub e coprite la padella: questo vi permetterà di mantenere succulento il patty fino al servizio. Dopo qualche minuto mettete sulla carne il jalapeno tritato e le fette di cheddar, in modo che fondano piano piano. Adagiate una fetta di lattuga sulla metà tostata del pane, aggiungete il patty con il formaggio fuso, poi mettete gli anelli di cipolla e infine guarnite con della salsa honey; richiudere con l’altra meta del bun tostata. Servite in un piatto accompagnato magari con una bella porzione di patate fritte e spolverate con della paprika. Mangiate e godete!

Guli Pontiggia

Pane

Bun per hamburger

Patty

Black Angus Emerald Green GLC Top Selection

Altri ingredienti

una cipolla / un uovo / farina q.b. / un peperoncino jalapeno / cheddar q.b. / qualche foglia di lattuga / Sal’s Seasoning Montreal Rub q.b. / olio di semi per friggere q.b. / olio extravergine di oliva q.b. / sale q.b.

Salse

Honey BBQ Sauce a piacere

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Dolce e un po' piccante!


Chic&Shock, raffinato e travolgente!

Dario Salbego

LOBSTER BURGER

con salicornia e maionese rosa Pane

1.

Bun di pane scuro di farina di grano integrale

Patty

una coda di aragostella / un lime / amido di mais q.b. /l’albume d'uovo

2. 3. 4.

Altri ingredienti

una noce di burro / 100 g di farina di riso / 100 g di acqua frizzante / olio di semi per friggere q.b. / cetrioli sottaceto a piacere / 50 g di salicornia / uno spicchio d’aglio / sale e pepe q.b. / olio extravergine di oliva q.b.

5.

Salse

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per la maionese rosa: la testa dell’aragostella / la punta di un cucchiaino di concentrato di pomodoro / olio extravergine di oliva q.b. / il succo di un lime / due cucchiai di maionese

6. 7.

Riducete a tartare la coda dell’aragostella unendo zest di lime, l’albume d’uovo e l’amido di mais in modo da rendere la polpa del crostaceo compatta e per riuscire a darle una forma. Posizionatela sopra della carta forno e con il coppapasta formare il patty, che poi metterete in congelatore. Tostate il pane con un po’ di burro precedentemente posizionato sulla piastra. Preparate la pastella con farina di riso e acqua frizzante fredda, poi immergetevi il patty ancora congelato. Scaldate l’olio a 170°C, friggete il patty ( non preoccupatevi se è ancora congelato, è giusto così) fino ad ottenere l’ esterno ben dorato. Scolatelo dall’olio e mettetelo a raffreddare brevemente sopra una gratella. Preparate il vostro dispositivo per una cottura diretta e grigliate la testa dell’aragostella. Poi scavatela, frullatela e mettetela in un pentolino con un po’ di concentrato di pomodoro e un pizzico di sale. Dopo qualche minuto spegnete il fuoco, lasciate raffreddare e poi emulsionate il tutto con olio e lime. Dovete ottenere un composto omogeneo e denso che aggiungerete alla maionese. Pulite la salicornia e saltatela leggermente con aglio, olio, sale e pepe. A questo punto non vi resta che comporre il vostro panino. Partendo da sotto: pane, salicornia, patty in tempura, maionese all’aragosta, cetrioli e di nuovo bun. Un hamburger gourmet coi fiocchi che vi farà fare un figurone!


1063 - BBQ4All Magazine


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Cucinare è anche rilassarsi

ZEN BURGER

Vincenzo Santoro

con Gambero Rosso di Mazara e salsa Remoulade Preparate il giorno precedente i bun al tè matcha, aggiungendo all’impasto della ricetta che trovate nel Magazine di Giugno 2019 o alla ricetta che trovate sul sito di BBQ4All 6 g di the matcha. Successivamente preparate una tartare di gambero rosso, poi copritela con la pellicola trasparente e riponetela nel frigo. 2. Versate in una boule la farina di mais insieme al burro ammorbidito. Incorporate a questo punto gli altri ingredienti aggiungendo: gli albumi, la panna acida, il prezzemolo, il succo di limone, la salsa Worcester, la paprika, il peperoncino di Cayenna, il sale. 3. Amalgamate bene tutti gli ingredienti e unite la tartare di gambero 4. Frullate il pane per i tramezzini ed unitelo all’impasto 5. Lavorate l’impasto delicatamente con le mani; se la consistenza dovesse risultare troppo morbida, aggiungeye dell’altro pangrattato ottenuto dal pane per tramezzini: l’impasto dovrà essere adatto per creare dei patty. 6. Suddividere l’impasto in 6-7 parti uguali e dare a ciascuna la forma di un hamburger. Infine passateli nella farina di mais. 7. Tagliate in modo molto sottile i pomodori secchi. Lavate e asciugate l’insalata di erbette e unitevi i pomodorini tagliati, condite con sale, pepe, olio extravergine di oliva e le arance pelate a vivo. 8. Preparate la salsa Remoulade frullando insieme tutti gli ingredienti. 9. Scaldate l’olio di semi di mais in una padella a fuoco medio. Cuocete i patty finché non diventano croccanti e dorati. Toglieteli con una schiumarola e metteteli su carta assorbente a perdere l’olio. 10. E arrivato il momento di comporre il vostro burger: Disponete sul fondo del bun l’insalata con le arance. Adagiate sopra la polpetta di gambero e infine la salsa Remoulade. Servite immediatamente.

Pane

Bun per hamburger al tè matcha

Patty

450 g di Gambero rosso Mazhara GLC Top Selection / 200 g di mollica di pane per tramezzini / 60 g di farina di mais / 30 g di burro / 3 albumi / 2 cucchiaini panna acida / mezzo limone / olio extravergine di oliva q.b. / sale e pepe q.b. / prezzemolo q.b / mezzo cucchiaino di salsa Worcester / mezzo cucchiaino peperoncino di Cayenna in polvere

Altri ingredienti

insalata di erbette miste / 30 g di pomodori secchi / un’arancia

Salse

per la salsa Remoulade: 200 g di maionese / 40 g di cetriolini / 40 g di capperi / 1 cucchiaino di senape / 1 cucchiaino di pasta di acciughe / 1 cucchiaino di aceto di vino bianco / un pizzico di aglio in polvere / prezzemolo q.b.

1065 - BBQ4All Magazine

1.


Pie Spazio

Pane

Bun artigianale o homemade

Se famo du’ spaghi? No, meglio un hamburger!

CARBO BURGER

con zabaione salato, guanciale e cialda di Pecorino 1.

Patty

Black Angus Emerald Green GLC Top Selection

Altri ingredienti

3-4 fette sottili di guanciale da circa 15 g l'una / pepe Tellicherry Extra Bold q.b. / 15-20 g di pecorino per la cialda croccante / aceto di mele q.b.

2.

Salse

per lo zabaione salato delicato: 120 g di tuorli (6 tuorli grandi) / 15 g di Parmigiano Reggiano stagionato 30 mesi GLC Top Selection / 10 g di Pecorino Romano

3.

4.

5.

1066 - Almanacco 2021

6.

Preparate in anticipo lo zabaione salato come da ricetta dello Zio. Io, quando lo preparo, ne faccio sempre in quantità superiori in modo da poterlo conservare in frigorifero o in freezer e utilizzare all'occorrenza. Stiamo parlando dello zabaione salato ingentilito, dato che presenta una quantità inferiore di formaggi rispetto allo zabaione salato classico. Se non lo avete da parte, procedete così: mettete i tuorli in una ciotola d’acciaio e cominciate a sbatterli con una frusta. Aggiungete il pecorino e continuate a sbattere, quando è tutto ben amalgamato aggiungete il parmigiano. Mettete a questo punto la ciotola a bagnomaria con l’acqua scaldata a 90°C. Continuate a sbattere e a incorporare aria finché il composto non ha raggiunto i 62,5°C. Rimanete per almeno 5 minuti in quella finestra di temperatura, poi togliete dal fuoco e continuate a mescolare. Mettete infine la ciotola in acqua e ghiaccio e il gioco è fatto. Passiamo alla cialda croccante di Pecorino: molto semplicemente, potete usare una padella antiaderente; basta scaldarla a fuoco medio, inserire al centro un coppapasta e inserire il Pecorino grattugiato. Questo servirà ad avere una forma circolare quanto più precisa. Appena inizierà a prendere forma, a croccantizzare e a cambiare leggermente colore, togliete il coppapasta e, facendo attenzione, capovolgere la cialda finendo di cuocerla per qualche secondo (basta poco) dopodiché posizionatela su di un foglio di carta da cucina. A questo punto, prendete le fette di guanciale e posizionatele nella padella fino a farle diventare croccanti, dopodichè, tolto il guanciale dalla padella, spruzzateci sopra - senza esagerarel’aceto di mele, in modo da caramellare il guanciale rendendolo più croccante e lucido. Tagliate il bun e tostatelo bene: questo passaggio risulterà fondamentale per il montaggio e la tenuta del nostro panino. Mettete da parte. E’ giunta l’ora di cuocere il vostro burger: che sia griglia, ghisa o padella è vostra la scelta; io ho optato per la griglia rovente, girandolo spesso fino ad ottenere una maillard fotonica e una temperatura al cuore di 50°C. Non vi resta che montare il vostro panino. Versate sulla base del bun tostato un bel cucchiaio di zabaione salato, posizionate il patty e copritelo con altri due cucchiai abbondanti di zabaione salato, poi date una spolverata di pepe Tellicherry, aggiungete le fette di guanciale e infine la cialda di pecorino croccante. Chiudete la parte superiore del bun e mangiate con gusto!


1067 - BBQ4All Magazine


Oh-oh Cavallo, oh-oh!

Carlo Trono

MURGESE BURGER con rucola, crema di pomodori

Pane

secchi e caciocavallo

Bun di semola

Patty

1068 - Almanacco 2021

150 g di macinato equino, preferibilmente diaframma o reale di cavallino (pony) / prezzemolo tritato finemente a secco / 25 g Parmigiano reggiano 48 Mesi GLC Selection, grattugiato; / 15 g grammi di Pecorino Sardo o Pecorino Romano, oppure un cucchiaino di ricotta ascuant’ (ricotta forte) stemperata in qualche goccia di latte / 1-2 % di Sal's Seasoning Ultimate SPOG / pangrattato q.b. / olio Extravergine d’oliva siciliano GLC Selection q.b.

Uno dei primati della Puglia è quello del consumo di carne equina. La mia regione da sola copre il 40% del consumo nazionale e il 30% delle importazioni. Particolarmente interessante è la carne di cavallino, da non confondere con quella di puledro. Per cavallino infatti non si intende il cucciolo del cavallo, bensì il pony. Questo equino viene allevato per ottenere una carne particolarmente infiltrata di grasso. Ed è proprio quella che useremo per questo burger 1.

Formazione del patty: amalgamate il macinato equino con il parmigiano (avendo cura di lasciarne una parte per la panatura esterna), il pecorino o la ricotta forte, il prezzemolo e il rub SPOG. Il patty deve essere già particolarmente saporito a crudo: se volete dargli un ulteriore spinta, potete aggiungere una piccola noce di crema di aglio cotto in ember. Una volta formato i pattis Altri ingredienti foglie di alloro, grandi e intere / origano vanno passati delicatamente nella panatura, che darà un notevole secco q.b. / olio Extravergine d’oliva contributo alla Maillard superficiale. La panatura sarà composta siciliano GLC Selection q.b. / rucola selvatica / sale q.b. / Sal's Seasoning da una pari quantità di pangrattato e di parmigiano e per favorire Montreal Steak Rub / un limone verde l’adesione alla carne si aggiungerà qualche goccia di olio Extravergine con buccia edibile. d’oliva. 2. Passiamo alla crema di aglio in ember roasting. Disponete le teste d'aglio intere, senza sbucciarle, direttamente sopra i bricchetti o il carbone acceso e lasciatele bruciare per circa 5 minuti. Salse Successivamente, spostate le teste d'aglio ad una trentina di cm per la crema di pomodori secchi e aglio: 30 g Olio Extravergine d’oliva siciliano dalle braci e lasciatele ad arrostire ancora per circa 40 minuti. GLC Selection / 50 g di pomodori secchi L'aglio sarà cotto quando sarà molto morbido al tatto. Una volta / una testa di aglio intera lasciato raffreddare basterà rimuovere le parti carbonizzate, per la fonduta di caciocavallo: 100 g di togliere la cenere residua, liberare la polpa degli spicchi d’aglio caciocavallo podolico, 50 g di panna, 50 g di latte, 4 g di citrato di sodio. ed omogeneizzarla con un mixer ad immersione. 3. Preparate la crema prendendo una manciata di pomodori secchi e metteteli a reidratare in acqua tiepida per una 20 di minuti, strizzateli e metteteli nel bicchiere del frullatore ad immersione, aggiungete poco peperoncino fresco, aglio arrostito e olio extravergine d’oliva siciliano GLC a filo fino ad ottenere una crema. Umami a badilate. 4. Essendo di puro equino il patty non ha una grande tenuta in cottura, quindi non vanno stracotti. Il grasso equino, inoltre, se cotto troppo, può dare il tipico odore e sapore di grassi insaturi omega 3 (per intenderci, quello del pesce azzurro). La panatura dovrà dare la crosticina, i formaggi aggiunti nell’impasto dovranno fondere e il prezzemolo non dovrà risultare arcigno. Consideriamo pertanto una temperatura target di 54°C al cuore. Procedete con una cottura diretta, raggiunta la brunitura superficiale su entrambe le parti spostate i patties in cottura indiretta e proseguite fino al raggiungimento della temperatura target. Se state utilizzando una skillet e non disponete di una zona a cottura indiretta, potete proseguire nel forno poggiando i patties su foglie di alloro. 5. È il momento di aggiungere il Caciocavallo podolico. Sarebbe meglio se impiccato. Dopo aver rimosso il fondo della parte più larga al fine di ottenere una base piatta, viene appeso (da qui l’espressione


panna e 50 g di latte. Mettete tutto in una busta per sous vide e lasciate sciogliere a 60°C per un ora. Versate tutto in un mixer e date una frullatina finale per amalgamare. Lasciate stemperare qualche minuto per ri-addensare la crema. Se non avete un roner ma un thermomix (tipo Bimby) potete benissimo utilizzarlo per realizzare la fonduta, impostando le stesse temperature e lasciando girare le lame a velocità media. Un tocco scientifico alla fonduta? Aggiungete il 2% del peso complessivo del formaggio più il liquido in sali di fusione (citrato di sodio). Per le quantità sopra indicate basteranno 4 grammi. Questo impedirà al formaggio di risolidificare mantenendo la crema in forma liquida. 7. Assemblaggio finale: prendete un bun misto semola, tostatalo in griglia o in piastra dopo aver irrorato le superfici di taglio con olio Extravergine d’oliva siciliano, mantenetelo in caldo e spolverate con il miglior origano secco esistente in natura. Base del bun, rucola freschissima (possibilmente selvatica, più amara e lievemente piccante rispetto alla coltivata) appena condita con olio e sale, patty di cavallino, crema di pomodoro secco, una spatolata di caciocavallo podolico rovente, una spolverata di Montreal Steak Rub, zeste finissime di limone verde estivo, top del bun. Mordete e nitrite forte.

1069 - BBQ4All Magazine

6.

impiccato) tramite una corda o una catena ancorata ad un supporto sospeso sopra delle braci abbastanza forti, ad una distanza adeguata per ricevere calore intenso ma senza bruciare. Il formaggio dopo poco tempo inizierà a fondere e basterà utilizzare un coltello a lama larga o una spatola per raccogliere la pasta semisciolta da quella ancora solida per poi riportarla su una bruschetta. Il formaggio fuso, caldo, in parte caramellato e che avrà raccolto anche sentori di affumicato. Nel nostro caso, non metteremo la pasta di caciocavallo sul pane, ma direttamente sul nostro patty di cavallo, sfruttando una seconda spatola per far colare il formaggio sulla carne. Non avete la possibilità di impiccare il caciocavallo sulle braci perché ci manca un supporto adeguato? Non c’è problema: abbiamo due soluzioni possibili. Usare un barbeclette: si tratta di una vassoio antiaderente con i bordi lievemente rialzati, concepito per essere posizionato sulle braci. Al suo interno è possibile sciogliere il formaggio. Se avete spazio in griglia, questa soluzione vi permetterà di fondere il formaggio mentre terminiate la cottura dei patties. Fare una fonduta: tagliate a dadini il caciocavallo. Per 100 g di formaggio, aggiungete 50 g di


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Marco Zorzan Pane Bun al latte e burro con semi di sesamo Patty Black Angus BLUE OX GLC Top Selection Altri ingredienti una mela Granny Smith / spinacino fresco q.b. / gorgonzola Dolce DOP q.b. / olio extravergine di oliva q.b. / sale e pepe q.b. / il succo di un limone Salse per la salsa alla mostarda: una cipolla di Tropea / 4 cucchiai di mostarda di frutta / 250 ml di maionese / 4 cucchiai di senape di Digione / un cucchiaio di aceto di mele / un cucchiaio di zucchero / un cucchiaino di sale

Griglia la prima mela-a! GRANNY SMITH BURGER con Gorgonzola Dop e salsa alla Mostarda 1. Mettete la Cipolla di Tropea intera a contatto diretto con le braci e lasciatela per alcuni minuti a coperchio chiuso, poi iniziate a girare spesso in modo che risulti bruciata in maniera omogenea. Controllate con uno stuzzicadenti: se entra con facilità senza incontrare resistenza togliete la cipolla dal fuoco. Pulitela della parte esterna e tagliatela a metà. 2. Mettete una metà da parte e l’altra in un bicchiere a immersione dove aggiungete: quattro cucchiaini di mostarda di frutta già frullata, 250 ml di maionese, quattro cucchiai di senape di Digione, un cucchiaio di aceto di mele, un cucchiaio di zucchero e un cucchiaino di sale. Frullate tutto con cura fino ad avere una salsa morbida e vellutata; mettete in frigo fino al momento dell’uso. 3. Togliete il torsolo della mela aiutandovi con un togli-torsolo o con un coltellino affilato; senza sbucciarla, tagliatela a fette dello spessore di almeno un cm. Mettete le fettine a bagno in acqua a cui aggiungerete del succo di limone per non farle annerire . 4. Preparate il kettle per la cottura diretta versando un cesto pieno di bricchette ben accese, lasciando scaldare bene la griglia con il coperchio chiuso. Grigliate le fette di mela, dopo averle tamponate bene per togliere l’eccesso d’acqua con carta assorbente. 5. Condite lo Spinacino con un pizzico di sale, pepe macinato al momento, alcune gocce di succo di limone e un giro di ottimo olio extravergine d’oliva. 6. Togliete le fette di mela grigliate e tenete da parte. Grigliate il burger e nel frattempo scaldare leggermente il pane. 7. Montate il panino partendo dalla base con lo spinacino condito su cui andrete ad appoggiare le fette di mela grigliate, a seguire dei fiocchetti di gorgonzola dolce, poi il patty Blue OX su cui adagerete la cipolla che avete tenuto da parte ed infine sopra a tutto una generosa dose di salsa alla mostarda. Per una sensazione più fresca e pungente potete usare, al posto della cipolla cotta da mettere sopra il patty, della cipolla fresca tagliata al momento in fettine molto sottili. Bon appétit!


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L'Arte Bianca a cura di Alessandro Trezzi

L’hamburger è una cosa seria, a partire dal pane

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Parliamo di un piatto talmente cosmopolita, da aver generato un’attenta ricerca (inizialmente solo negli States) anche per il particolare pane utilizzato per racchiudere la succulenta polpetta di carne. Sì, lo so che vi sembra strano, ma vi assicuro che fino alla scorsa decade nessuno in Italia si sognava di spendere tempo e soldi per attribuire dignità al bun, come pure all’hamburger stesso; tralasciando fast food (e junk food), quello che oggi è il panino più famoso al mondo ha avuto il suo momento di massima esplosione solo da una decina di anni. In America, dove il piatto è nato e dove ancora oggi co-esistono esempi incredibili di ricerca e ossessione per i dettagli, lo stesso burger bun è difficilmente lo stesso, specialmente da stato a stato, da cultura a cultura. Tra i più celebri, insieme al brioche bun, c’è senza dubbio il Martin’s® Potato Roll dell’iconica catena, oggi fornitrice di alcune delle più importanti catene, come Shake Shack o l’Hard Rock Cafe. La storia comincia nel 1955 nel cuore della Pennsylvania olandese, ad opera degli olandesi Lois e Lloyd Martin. Usando una ricetta tramandata dalla tradizione culinaria di famiglia (e grazie all’esperienza che Lloyd aveva acquisito lavorando nel forno del suocero) i Martin realizzarono ben presto di aver messo a punto un prodotto che sarebbero stati fieri di commercializzare. Iniziarono a venderlo nei mercati del paese, conquistando il primo pubblico con un sapore dolce, burroso, la consistenza soffice e il colore giallo dorato. Nel corso dei successivi 20 anni, la domanda non fece che crescere, spingendoli a trasferire il forno di produzione dalle mura domestiche a quello che divenne il Martin’s Family Restaurant. A partire dal 1978, fu costruito un edificio che prese il nome di 1000 Potato Roll Lane, nella località di Chambersburg (Pennsylvania) dove ancora oggi si continua a produrre il pane alle patate di Lois e Lloyd. In parallelo alla crescita della produzione, la distribuzione del Martin’s® Potato Roll si era estesa ben oltre i mercati locali, conquistando dapprima angoli dedicati nei negozi alimentari e approdando in tutti i supermarket della Pennsylvania, poi intere corsie specializzate.

Oggi, la Martin’s Famous Pastry Shoppe, Inc.® è una società tutta americana, a conduzione familiare, con una seconda sede di produzione è nata anche a Valdosta, in Georgia; entrambi i forni operano con macchinari e processi appositamente studiati ed esclusivi. La famiglia Martin, ormai alla terza generazione, conduce la produzione continuando a tenere d’occhio il livello della qualità, che resta eccellente grazie alla selezione di ingredienti di prima scelta nella produzione. Potevamo noi non rendere omaggio ai Martin, con una versione del Potato Roll 100% BBQ4All Style?

Il BBQ4All Potato Roll Al solito, partiamo focalizzando prima il risultato nella nostra testa: un disco tondeggiante e di un caldo giallo dorato, dal gusto tostato e tendente al dolce, morbidissimo al tatto e che se sottoposto a pressione torna senza fatica allo stato originale. La nostra replica non potrà che avere tuttavia un carattere speciale, e qualche piccola deviazione di percorso che lo renda superbo e perfetto per l’abbinamento con le carni intense del Megastore. Daremo le indicazioni necessarie perché il pane, spesso complicato alla formatura, risulti invece estremamente facile da preparare, e lo aromatizzeremo con della paprika dolce affumicata, in modo che il suo incredibile profumo possa rincorrere le salse, il patty speziato e gli ingredienti della farcitura. Cominciamo? IL MILK ROUX Questa volta ho deciso di farvi provare una versione differente del Thangzhong orientale, con il latte al posto dell’acqua; l’obiettivo è sempre lo stesso, estremizzato tuttavia in modo da ottenere una sofficità ed una shelf-life senza pari. Grazie all’utilizzo del Milk Roux inoltre, riusciremo ad abbassare l’idratazione in fase di impastamento, arrivando però al medesimo risultato. Si tratta di una semplicissima tecnica di derivazione cinese che consiste nell’utilizzare farina e latte (o acqua) in proporzione di 1:5, dove la farina deve essere il 6% del peso totale utilizzato. La preparazione è molto simile a quella del roux preparato per la besciamella, un addensante naturale: il composto viene riscaldato in un pentolino fino al raggiungimento dei 65°C (stando attenti

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Il mondo è pieno di hamburger e di persone che hanno fatto dell’hamburger la loro vita.


a non incorrere nella formazione di grumi) e poi fatto raffreddare con pellicola a contatto prima di aggiungerlo al resto degli ingredienti.

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L’unione del Milk Roux freddo all’impasto darà incredibili benefici: 1. l’impasto risulterà più morbido e idratato; 2. la sua particolare azione emulsionante consente di raggiungere risultati ottimi in termini di conservabilità e sofficità, eliminando l’uso di grassi soprattutto in caso di intolleranze alimentari; 3. la shelf-life guadagna punti, consentendo di mantenere intatte le caratteristiche del prodotto per 3-4 giorni in frigorifero. In più, come è già avvenuto in passato, approfitteremo dell’azione emulsionante del composto per aggiungere in questa fase delle spezie (la miglior paprika dolce affumicata che riusciate a trovare), che si mescoleranno meglio e grazie al calore sprigioneranno ancora più profumi. LA FARINA Al solito, perché il vostro potato roll risulti leggero, ben sviluppato ed equilibrato nel gusto, la scelta migliore ricade su una tipo 00 o 0 con una forza di 320-340 W e un’ottima percentuale di assorbimento minimo. In questo caso utilizzeremo non solo grassi, ma

anche le patate, un elemento di grande peso che necessita di una maglia glutinica salda che sarà in grado di sostenerne perfettamente il carico, oltre a trattenere i gas della lievitazione e conferire struttura, solidità ma anche morbidezza. Per semplificare la ricetta, ottenendo però un grande beneficio, spezzeremo inoltre la dose di patate prevista con della farina di patate o, in sua mancanza, della più comune fecola. L’EFFETTO MORBIDEZZA Latte e burro rendono l’impasto più estensibile, malleabile, e avvolgendo le bolle di anidride carbonica che si formano durante la lievitazione le stabilizzano. L’alveolatura diventa così più omogenea e la struttura della mollica molto soffice; tali fattori aumentano notevolmente la shelf-life del prodotto finito. Le patate sono invece un ingrediente che, miscelandosi e “aggrappandosi” alla maglia glutinica, la rendono incredibilmente soffice e spugnosa, ma anche più umida e pesante; è quindi necessario avere una farina in grado di assorbire l’eccesso e di creare una maglia forte ed elastica. A differenza di altre “sospensioni” aggiungeremo le patate schiacciate e in crema all’inizio, sostituendole a gran parte dell’idratazione complessiva, in modo che il glutine si possa formare piano piano


La combinazione di questi elementi è la via più semplice e utilizzata per realizzare un grandissimo potato roll, etereo, di colore giallo dorato, sapore dolciastro e morbidezza irresistibile. Al contrario dei brioche buns (e della versione originale) i nostri potato rolls non contengono uova; basteranno le patate ed il Milk Roux ad enfatizzare le caratteristiche strutturali del nostro prodotto finito, oltre ad attribuirgli un’eccezionale shelf-life. LA DOLCEZZA Ennesimo cambio di rotta per la ricetta: a differenza della versione originale non utilizzeremo zucchero, bensì del malto diastasico, in grado di darci un doppio beneficio in termini di colorazione e sviluppo della mollica, oltre che a un leggero retrogusto dolciastro, ma che non vogliamo risulti un elemento preponderante nel prodotto finito. Come spesso abbiamo ricordato, le cellule del lievito si nutrono infatti di zuccheri la cui abbondanza nell’impasto favorisce la fermentazione. Lo zucchero classico (il saccarosio) aggiunto all’impasto viene consumato immediatamente; la sua utilità è attribuibile solo a questioni di maturazione e sapore. Diversamente, lo zucchero prodotto continuamente dalla saccarificazione (il processo che trasforma i carboidrati in zuccheri semplici) dell’amido contenuto nella farina con l’aiuto delle amilasi e dalle diastasi (enzimi presenti nella farina come nel malto stesso), fornisce nutrimento continuo ai lieviti. Considerando i lunghi tempi di maturazione previsti dal metodo, è fondamentale che il quantitativo di zuccheri sia sempre presente sia per mantenere attiva la lievitazione, sia per colorare e rendere saporito il potato roll grazie alla reazione di Maillard. In commercio esistono diversi tipi di malto, differenti per potere diastasico e quantità di zuccheri; il malto diastasico in polvere è da preferire nella panificazione in quanto è addizionato da enzimi (le diastasi, appunto) che accelerano il processo di saccarificazione. In alternativa potete utilizzare del malto in sciroppo, in proporzione di 4:1.

INGREDIENTI per circa 18 panini

per il water roux 60 g di farina di grano tenero di tipo 00 o 0 (320-340 W) 300 g di latte intero 10 g di paprika dolce affumicata

per l'impasto 740 g di farina di grano tenero di tipo 00 o 0 (320-340 W) 50 g di acqua presa dalla cottura delle patate 200 g di farina (o fecola) di patate 200 g di patate rosse e/o dolci 150 g di burro morbido 20 g di sale fino o integrale; 5 g di malto diastasico in polvere o 20 gr di malto in sciroppo) 10 g di lievito di birra fresco (4 g se secco)

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incorporando la crema stessa nella fitta rete di sostegno. Sulla scelta delle patate, vi lascio carta bianca a meno di alcuni doverosi consigli: più la patata è naturalmente asciutta, più sarà agevole la realizzazione della ricetta, in particolar modo della formatura. Il mio primo consiglio è di usare le patate rosse, meno acquose e quindi più semplici da lavorare; un’alternativa gustosa è quella di introdurre patate dolci, asciutte e farinose, che regalano un retrogusto niente male. E perché no, potete sempre fare un mix di entrambe le varietà!


PREPARAZIONE DEL WATER ROUX Posizionate un pentolino sul fuoco e versate il latte, poi la paprika e la farina a pioggia. Mescolate energicamente con la frusta per impedire la formazione di grumi, e attendete il raggiungimento dei 65°C. Il Milk Roux sarà pronto quando la consistenza sarà simile a una gelatina e comincerà a vedersi il fondo del pentolino, ma non dovrà mai divenire troppo denso. Togliete dal fuoco, lasciate intiepidire leggermente, poi coprite con pellicola a contatto e lasciate raffreddare dalle 12 alle 48 ore in frigorifero. Il composto non può essere aggiunto all’impasto da caldo, in quanto provocherebbe la morte dei lieviti.

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IMPASTAMENTO Rovesciate in un recipiente ampio o nella vasca della vostra planetaria le farine, il Milk Roux, il lievito, il malto e le patate precedentemente bollite, schiacciate e fatte raffreddare. Cominciate ad impastare a velocità bassa, fino a che l’impasto non inizierà ad acquisire consistenza; dopo averli amalgamati bene aggiungete l’acqua rimanente poco alla volta, utilizzando quella di cottura delle patate che avrete tenuto da parte (e lasciata ovviamente raffreddare).

Una volta che anche l’acqua sarà stata perfettamente assorbita, attendete la formazione di una maglia elastica e cominciate ad aggiungere il burro morbido a pezzetti, attendendo che la quantità precedente sia stata assorbita prima di mettere la successiva. Aggiungete infine il sale e terminate l’impastamento quando l’insieme risulterà liscio, asciutto e setoso e la maglia glutinica si sarà formata; la temperatura interna dovrà essere di almeno 24°C-25°C per permettere a tutti i processi fermentativi e alla maturazione di avere inizio senza particolari ritardi. Lasciate riposare nella ciotola per circa 15 minuti, poi ripiegate l’impasto in forma di pagnotta in modo che sia in grado di crescere verso l’alto. PUNTATA Trascorsa la prima parte del riposo, riponete l’impasto in un recipiente dai bordi alti ben oliato e chiuso ermeticamente, e lasciate a temperatura ambiente per almeno un’ora per dar modo alla lievitazione di partire. Posizionatelo infine in frigorifero per un tempo tra le 12-18 ore a una temperatura di 6°C, durante il quale triplicherà di volume.


APPRETTO Durante lo staglio l’impasto viene manipolato e i lieviti ridistribuiti uniformemente; l’appretto (o seconda lievitazione) consente al semilavorato di svilupparsi al fine di ottenere la sua forma finale. Dopo circa 4 ore a 26°C-28 °C i vostri potato rolls saranno pronti per essere infornati.

COTTURA Stabilizzate la temperatura del vostro forno a 230°C e cuocete per 10-11 minuti; per verificare l’avvenuta cottura dei potato rolls è necessario un doppio controllo: la temperatura interna, misurabile con un termometro a sonda, deve essere di 90 °C, e la mollica deve risultare completamente asciutta. RAFFREDDAMENTO, MANTENIMENTO E SERVIZIO Una volta sfornati i potato rolls, lasciateli raffreddare su una griglia rialzata, evitando in tal modo la formazione di condensa che rovinerebbe il duro lavoro svolto finora. Grazie alla presenza delle patate, i potato rolls possono durare decisamente più dei classici brioche buns, fino a 5 giorni in frigorifero se chiusi in un sacchetto ermetico. Io in ogni caso vi consiglio di congelarli, per non perdere nulla della loro incredibile fragranza. Prima di farcire il vostro meraviglioso hamburger, tostateli interamente in forno a 180°C-200°C, pretagliandoli a metà: si formerà una crosticina croccante e saporita in corrispondenza della parte esterna, conferendo all’insieme una piacevolissima nota croccante in netta contrapposizione alla morbidezza interna. Sciogliendosi, il quantitativo di burro presente donerà una lucentezza esterna senza eguali, che potete enfatizzare spennellandone una leggera noce prima di farli rinvenire

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STAGLIO E FORMATURA Circa 4 ore prima della cottura togliete dal frigorifero e dividete l’impasto in panetti da 100 g l’uno. Operazione fondamentale, dopo aver pesato i singoli pezzi di impasto, è di schiacciare per bene facendo uscire l’aria formatasi durante la prima lievitazione, per poi arrotolare e formare una pallina ben chiusa; in tal modo, i gas sviluppatisi durante l’appretto risulteranno uniformemente distribuiti e la mollica avrà una struttura omogenea, senza bolle d’aria indesiderate e dislocate. In più, darete forza maggiore ad una massa che risulterà più umida di altre preparazioni. Una raccomandazione: non utilizzate mai farina durante la fase di formatura, o potreste avere difficoltà nella chiusura e soprattutto avere farina libera dopo la cottura; se faticate, inumiditevi le mani o sporcatele con un filo d’olio. Adagiate su una teglia con della carta forno, ben distanziati uno dall’altro, coprite con un panno umido e lasciate in appretto a una temperatura di 26°C-28°C (come il forno spento con la luce accesa). Il consiglio è di non posizionare più di 6 panetti per ogni teglia 30x40 cm, per ottenere un prodotto finito che abbia circa 10-11 cm di diametro.


The Chemical Griller a cura di Virgilio Brunetti LA FAI FACILE patata! A DIRE

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nte, croccanti, deliziosamente comfortevoli: se fatte bene, le patatine fritte sono il passepartout gastronomico delle serate perfette.

Ma perché ci piacciono così tanto? Beh, la scienza ha provato a spiegare la nostra ingordigia di tuberi fritti. Pare che aiutino la produzione di endocannabinoidi, una molecola che dimora nell’intestino, avente il ruolo di indurre un costante senso di fame. Taaac. Ecco spiegato perché non riusciamo a fermarci ad una-sola-patatina-giuro-una-sola. Ma la facciamo facile a dire patata: sebbene questo tubero sia di gran lunga il più diffuso sulle nostre tavole, non è mica l’unico e il solo capace di sortire delle vere e proprie razzie gastronomiche. Sono molteplici – tra frutti, tuberi e radici – i prodotti che possono essere fritti a puntino e presentati accanto al nostro hamburger perfetto. Se mi seguirete, scoprirete un mondo di tuberi, frutti e radici adattissimi ad essere tagliati a fiammifero o fettine ed essere fritti una, due o tre volte. Garantito. Iniziamo proprio dal tubero preferito, cioè la patata: esiste un metodo scientifico per sceglierle e per friggerle.

forno. Ovviamente la cultivar ha un enorme perso nella selezione della patata “giusta”; siccome in moltissimi casi non ci sarà data l’opportunità di scegliere, sarà necessario basarsi sulla valutazione dello stato d’idratazione della singola patata misurandone la densità mediante il principio di Archimede. La patata giusta per la frittura deve avere un contenuto equilibrato di amidi e umidità, quindi deve presentare densità intermedia tra una patata giovane e fresca (ricca d’acqua di vegetazione) e una patata vecchia conservata al lungo (ricca di amidi e fortemente disidratata). Per selezionare patate con questa caratteristiche dobbiamo ricorrere ad un semplice ma ingegnoso metodo. Prepariamo due soluzioni saline a differente densità: la prima a bassa densità al 9% di sale (90 grammi di sale disciolti in 1 kg di acqua); la seconda ad alta densità al 12% di sale (120 grammi di sale in 1kg d’acqua). Le soluzioni vanno preparate in due contenitori che devono essere sufficientemente

Le patatine con il metodo Blumenthal

COME SELEZIONARE LE PATATE PERFETTE PER LA FRITTURA I lettori di questo Magazine, cuochi smaliziati, sapranno già che in cucina esiste un metodo scientifico per fare più o meno qualsiasi cosa. Non si esime da ciò la scelta della patata perfetta per la frittura, per il purè, per gli gnocchi o le patate al

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TRIPLE COOKED FRIES Il metodo della tripla cottura ormai è una tecnica ben consolidata e conosciuta ed è attualmente l’unica per ottenere da zero una patatina fritta perfetta: morbida e cremosa all’interno, croccantissima all’esterno e mai unta. Il procedimento parte dalla selezione delle patate e si completa in tre passaggi di cottura. Tutta la procedura converge nell’ultimo passaggio di cottura in olio controllando alla perfezione tutte le variabili che governano la reazione di Maillard: alta temperatura, pH basico, presenza di zuccheri riducenti e soprattutto totale assenza di umidità superficiale.


capienti, al fine di valutare la spinta idrodinamica delle due soluzioni a differente densità sulle singole patate.

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Le patate che galleggiano nella soluzione a bassa densità vanno messe da parte perché troppo ricche di acqua, quindi da utilizzate per altri scopi. Le patate che affondano nella soluzione a bassa densità vincono la prima selezione e passano allo step successivo. Le patate selezionate vanno testate nella soluzione salina più forte: le patate che affondano anche in questa soluzione vanno scartate perché sono troppo disidratate e ricche di amido mentre quelle che troverete a galleggiare sono quelle con il giusto equilibrio di acqua e amido e quindi perfette per la nostra frittura scientifica. COTTURA IN ACQUA Pelate e tagliate in stick le patate, avendo cura di fare fiammiferi con la testa quadrata e di diametro di circa un centimetro. Dopo aver selezionato le patate, queste vanno sbollentate. Attenzione, però! Ho detto sbollentare, non lessare. Come capire se sono pronte? Utilizzare un termometro a sonda: una patata cotta avrà una temperatura al cuore di 90°C e avrà una consistenza sufficientemente soda da poter essere maneggiata Dopo la cottura le patate vanno asciugate raffreddate il più velocemente possibile.

L’alternativa? La cottura in sous vide: pelate le patate e tagliatele in stick con un profilo quadrato della dimensione di 1 cm; preparate una soluzione miscelando: • 1 kg di acqua • 15 g di sale • 2.5 g di zucchero semolato • 2.5 g di bicarbonato di sodio Questa soluzione vi darà una crosta superficiale incredibile alzando il pH e fornendo una dose di zuccheri riducenti accelerando la reazione di Maillard nelle successive fasi di frittura. Imbustate le patate aggiungete la stessa quantità in peso di salamoia (300 grammi di patate più 300 grammi di soluzione). Sigillate la busta eliminando tutta l’aria possibile e cuocete 15 minuti a 90°C. Successivamente abbattete o raffreddate il più rapidamente possibile, scartate la salamoia e asciugare le patate; anche in questo caso cercate di non andare in overcooking (cioè, di cuocere oltre il tempo necessario): le patate devono essere cotte ma non devono disfarsi. PREFRITTURA La prefrittura è necessaria per generare uno strato asciutto e solido sulla superfice delle nostre patatine. Questo strato - denominato protocrust - farà da primer per l’ultima e definitiva cottura in olio. Questa


fase eviterà che l’olio si infiltri in profondità ed eliminerà dalla superfice quasi tutta l’umidità. Le patatine prefritte sono ora stabili sebbene ancora fragili, a questo livello potete interrompere la procedura e surgelarle. Per la prefrittura riempire una pentola grande a metà con olio adatto alla frittura con un alto punto di fumo, riscaldate l’olio fino a 130° C. Utilizzare olio a sufficienza per garantire che la temperatura non scenda troppo quando si aggiungono le patatine, cuocete sempre piccole quantità per volta e cercate di mantenere immerse le patatine durante la frittura aiutandovi con un mestolo forato. È necessario friggere per circa cinque minuti, o fino a quando la superficie inizia ad essere asciutta e soda al tatto. CONGELARE LE PATATINE FRITTE Rimuovere le patatine dall’olio e stenderle su una gratella e lasciarle raffreddare e asciugare. Surgelate o meglio ancora abbattete in negativo. Per evitare fenomeni di ossidazione ed imbrunimento, potete confezionare sottovuoto le patatine fritte dopo averle congelate, facendo attenzione a non schiacciarle. A questo punto, le patatine possono essere conservate per diversi mesi nel vostro surgelatore.

Questo è indice che la disidratazione superficiale è completa. In parallelo vedrete un rapido imbrunimento dal giallo dorato fino al bruno chiaro. Scolate le patatine su carta assorbente per eliminare qualsiasi eccesso di unto e semplicemente condite con sale.

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FRITTURA FINALE Preparate una pentola con abbondante olio e riscaldate fino a 190°C; prendete le vostre patatine prefritte (anche surgelate) e immergetele in olio per esattamente 1 minuto e 45 secondi. Il risultato sarà sorprendente perché, a patto di aver lavorato bene, la quantità di umidità superficiale sarà molto bassa per cui vedrete ridursi gradualmente e drasticamente le bollicine che circondano le patatine in frittura.


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Le "patatine" con altri ortaggi, tuberi o radici SWEET POTATOES FRENCH FRIES Le patate dolci (o americane, o anche chiamate batate) e le “patate zuccherine” sono tuberi che non hanno nulla a che fare con le patate propriamente dette. Le patate, Solanum tuberosum, appartengono alla famiglia delle solanacee, come pomodori, melanzane, peperoni e altre essenze tossiche come tabacco, belladonna, stramonio e mandragora. Le patate dolci, nome scientifico Ipomoea batata, sono ascritte alla famiglia delle Convolvulaceae. A parte il fatto di essere tuberi, le patate dolci dal punto di vista botanico e nutrizionale sono molto differenti dalle normali e ovviamente hanno proprietà organolettiche proprie; sono spiccatamente più dolci, collose e fibrose. Possono essere a polpa bianca, gialla o arancione in base alle cultivar. Si prestano tipicamente alla cottura nella cenere, in forno, fritte e c’è anche chi le apprezza crude infatti potranno essere consumate così come ingredienti extra in una comune insalata senza particolari problemi di tossicità. Anche la buccia è commestibile. In tutti i modi vi consiglio di scegliere patate dolci più stagionate, perché gli amidi presenti nella polpa avranno il tempo di decomporsi arrivando ad avere un contenuto in zuccheri semplici svariate volte superiore alle patate americane fresche. Le reazioni di brunitura delle patate dolci, sottoposte a cotture ad alta temperatura, saranno estreme, proprio per l’abbondanza di zuccheri. In alcune cultivar largamente diffuse e coltivate nel mio Salento, il clima caldo e i terreni calerei, salmastri e argillosi strappati alle paludi costiere fanno assurgere la normale patata dolce a patata “zuccherina” proprio per l’estrema e naturale dolcezza. Non è raro che questi tuberi cucinati interi al calore dei nostri forni a legna inizino a stillare un liquido dolcissimo e sciropposo che le rende piacevoli accompagnamento di altri prodotti tipicamente autunnali con le castagne della Calabria e il vino rosso novello. Ma come possiamo ottenere delle patate dolci fritte perfette utilizzando la patata zuccherina? Intanto essendo sempre di grossa pezzatura possiamo sbizzarrirci nelle tecniche di taglio per ottenere chips, fiammiferi, paglia o sticks.

Se volete fare un salto carpiato dalla sedia, provate a gustarle con una goccia di aceto balsamico tradizionale di Reggio Emilia Selezionato da Gianfranco Lo Cascio e prodotto in Acetaia San Giacomo del mio amico acido Bez. Volendo, potreste friggerle anche nel nostro fantastico olio extravergine d’oliva, lo trovate sul Megastore.

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Per delle perfette Sweet Potatoes French Fries potete applicare il metodo della tripla cottura, avendo cura di sovradimensionare gli stick per una migliore tenuta della patatina. Non usate nella fase di precottura zuccheri o bicarbonato: infatti, nelle cotture successive dovete fare attenzione alle reazioni di brunitura che saranno largamente più rapide per il maggior contenuto di zuccheri, moderate per tanto la temperatura dell’olio da frittura di una decina di gradi in meno rispetto alle patate normali (170°C-180°C). Il risultato sarà una patatina fritta con una superficie piuttosto scura ed una intrigante, dolce cremosità interna che si presta molto bene ad essere accompagnata con salse cremose e burrose con un carattere forte. Qui, in Salento, molti apprezzano le patate zuccherine fritte come chips molto spesse e cosparse di zucchero semolato oppure un cucchiaino di cotognata, o ancora mosto.


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TOSTONES, LE BANANE FRITTE IN DOPPIA COTTURA Il platano è un frutto tropicale ricco di amido del genere Musa, dalla forma affusolata e leggermente ricurva, di massimo 40 cm, dalla buccia spessa e dall’interno color crema tendente al giallo. Lo riconoscete perché sembra una brutta, grossa banana. E infatti, appartiene alla stessa famiglia delle banane, tanto che i due frutti sono spesso scambiati. Originario delle Filippine, Australia e Indonesia, è consumato principalmente nel Sud-Centro America e utilizzato come fonte di amidi al pari di pane, pasta e riso, oltre che alle ovvie patate. Le foglie di questo frutto, grandi, fibrose e verdi, sono utilizzate anche come piatto o, dopo essere tagliate a strisce fini, intrecciate per dar vita a borse o a stuoie. I tostones sono una specialità sud americana, ovvero dei pezzi di platano in doppia frittura che ricordano le patate fritte. Nei paesi di origine vengono preparati con un attrezzo chiamato tostonera (una sorta di pressa) e usati come contorno in alcuni piatti a base di maiale e pollo, sono ottimi anche per accompagnare diverse salse come ad esempio guacamole, maionese all’aglio, salsa al formaggio.

Fate attenzione quando comprate i platani perché ce ne sono di tre diversi colori: verdi, gialli (sembrano banane) e neri; differiscono tra loro per lo stato di maturazione. Per fare i tostones è preferibile utilizzate quelli verdi perché sono più compatti e tengono meglio la doppia cottura, se li scegliete più maturi avranno uno sapore dolce, più spiccato e un simpatico aroma fruttato tipico di banana. Come si fanno i tostones? Si sbucciano i platani aiutandosi con uno spelucchino e si tagliano a tocchetti di circa 2-3 cm che vanno immersi in acqua fredda in acqua per evitare che si ossidino all’aria. Scaldate abbondante olio di arachidi, asciugate le fette di platano e friggetele a 180°C finché non si forma una patina compatta e dorata. Scolate e asciugate le fette con la carta da cucina. A questo punto, formare i tostones: fateli riposare 1 minuto e schiacciate le fette di platano aiutandovi con un batticarne, riducendoli ad un disco di circa mezzo cm di spessore; friggeteli ancora una volta a 190°C, fino a quando all’esame visivo non risulteranno bruniti e croccanti. Scolate, asciugate su la carta da fritto e polverate con il sale kosher di Sal. I tostones sono da consumateli sempre caldi.


YUCA FRITA La manioca è una pianta della famiglia delle Euphorbiaceae, originaria del Sudamerica. Ha una radice tuberizzata commestibile, molto ricca di amido. Viene coltivata in gran parte delle regioni tropicali e subtropicali del mondo. La radice di manioca è la terza più importante fonte di carboidrati nell’alimentazione umana mondiale nei Paesi tropicali, assieme all’igname e all’albero del pane.

In cucina, il sedano rapa può portare grandi soddisfazioni: è infatti estremamente versatile, perché ha un sapore delicato. Nello specifico, se non lo avete mai assaggiato, ricorda la patata con sentore di finocchio e di sedano. Potete cucinarlo in moltissimi modi ma potete anche friggerlo per ottenere delle fries alternative; il sedano rapa contiene circa un quarto di calorie per ettogrammo rispetto alle patate ma contiene una percentuale di amido sufficiente da reggere una tripla cottura (precottura-frittura-frittura) e ottenere uno stick croccante in superfice e cremoso all’interno. Usate delle spezie per condire queste finte patatine oltre ad un ottimo sale aromatizzato.

Manioca, cassava o yuca, è una radice ricca di proprietà nutritive largamente usata come contorno o un piatto unico. La manioca è un altro tubero tropicale perfetto per ottenere delle patatine fritte alternative. La yuca si trova ormai facilmente al supermercato e si riconosce facilmente per la sua scorza marrone spesso protetta da un leggero strato di paraffina. Non dovete confonderlo con l’igname ma soprattutto col taro che non va mai consumato crudo. Ingrediente perfetto per dolci e torte, la manioca si può usare anche per vellutate fresche di verdura ma la yuca rende al massimo se fritta.

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FINTE PATATINE DI SEDANO RAPA IN TRIPLA COTTURA. Il sedano rapa è una varietà botanica di sedano, tuttavia molto diverso rispetto ai suoi cugini, cui noi tutti siamo abituati: è grosso e di forma tonda, irregolare; in altre parole, è una brutta grossa radice bitorzoluta. Risulta praticamente inodore e va consumato privo della scorza; Il sedano rapa è anche chiamato sedano di Verona.


Ecco come prepararla: per prima cosa pulite la manioca; tagliate la testa e la coda del tubero, tagliate la buccia (con un coltello o con un pelapatate) fino a quando non rimane solo la polpa bianca e dividete in tre o parti grossolane e poi in sticks mai troppo sottili per una migliore tenuta alla tripla cottura. Il momento cruciale è sempre la precottura che determinerà la texture finale della “patatina”. Ricordate che il risultato perfetto sarà quando otterrete una crosta croccante che, come un guscio, racchiude un cuore cremoso. Il prodotto moscio e unto è un prodotto venuto male. La yuca frita accompagna tradizionalmente salse piccanti e carni stufate di maiale o pollo, a loro volta sempre molto speziate. LO YAM, IL GRANDE TUBERO AFRICANO Lo yam - o igname - è un tubero molto ricco di amido prodotto dalle piante del genere Discorea. La parola igname deriva dal portoghese inhame o dallo spagnolo ñame. Cresce soprattutto in presenza di terreni rocciosi e desertici, con particolare frequenza in Messico, Texas, Africa Centrale e Cina orientale. La sua coltivazione avviene anche nei Caraibi, in America Latina e in Oceania. Esistono molte varietà di igname che possono differire a seconda della regione in cui vengono coltivate. A differenza della cassava (nota anche come tapioca o manioca), la maggior parte delle varietà di yam non contiene sostanze tossiche. Esistono però alcune eccezioni. Dalle varietà amare di yam le sostanze potenzialmente tossiche vengono eliminate lasciando i tuberi in ammollo in acqua salata.

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Il consumo dello yam è molto diffuso in Africa, dove questo tubero rappresenta anche una fonte di proteine. Di tutti i tuberi e radici il contenuto proteico dello yam è il più elevato, visto che rappresenta circa il 2% del peso del prodotto fresco. Lo yam, però, non contiene tutte le proteine necessarie per il nostro organismo, dunque dovrebbe essere comunque abbinato ad altri alimenti per una nutrizione completa. In Niger e in Africa Occidentale lo yam ha un ruolo chiave nell’alimentazione locale e la coltivazione è molto diffusa soprattutto nelle aree più povere dell’Africa. Si tratta di una pianta molto resistente e disponibile tutto l’anno, a differenza di altre

coltivazione stagionali meno affidabili. In Africa il tubero dell’igname viene cotto prima di essere mangiato. Lo yam si può bollire, friggere o arrostire. Viene servito con delle salse saporite ma anche utilizzato per preparare dei dolci. In Nigeria lo yam viene essiccato e ridotto in una polvere che viene impiegata per preparare zuppe e budini, mentre una varietà di igname nelle Filippine è alla base della preparazione di un dolce locale, chiamato halo-halo. Avete mai assaggiato questo tubero? Provate ad applicare anche in questo caso il metodo della della tripla cottura mettendo in conto che la tenuta del prodotto sarà molto influenzata dalla preponderanza di amidi e lo stato di conservazione del tubero. IL TARO Il taro è un tubero quasi del tutto sconosciuto in Italia e rappresenta uno degli ingredienti esotici rintracciabili in qualsiasi supermercato del mondo mentre dalle nostre parti la sua presenza è relegata agli shop di prodotti alimentari etnici al pari di igname, platani, e yuca. Ma che cos’è questo taro? Il taro è un tubero commestibile di una pianta tropicale il cui nome botanico è Colocasia esculenta. La buccia è marrone chiaro, ruvida, come una corteccia sottile, mentre la polpa è solitamente bianca, anche se può essere caratterizzata da riflessi violacei. Probabilmente, la specie è originaria della sud-est asiatico e da qui si è diffusa in varie zone della area del Pacifico e non solo. Secondo alcuni, la Colocasia esculenta è stata una delle prime piante a essere coltivate al mondo. Sia la radice che la parte area sono commestibili, a patto che siano sempre cotte. Come molti prodotti a base amidacea è considerato uno alimento base nella cultura gastronomica di molte popolazioni proprio per l’alto valore nutrizionale e la versatilità in cucina. Se vi approcciate a questo prodotto, fate attenzione: non è commestibile crudo, perché contiene ossalato di calcio, ovvero un sale tossico per il nostro organismo che viene distrutto dalle alte temperature in cottura. Abbiate cura di usare guanti quando lo maneggiate ed evitate il contatto con gli occhi. Il taro era molto diffuso nell’antichità: pare infatti che nell’antica Roma fosse onnipresente sulle tavole, un po’ come la nostra patata. Facile capire come il taro


sia stato utile per la sopravvivenza della popolazione dell’isola greca Icaria durante la Seconda Guerra mondiale, tanto che ancora oggi in Grecia il tubero bollito viene servito in insalata, condito con olio e succo di limone. Sempre in Grecia, le belle e maestose piante di taro adornano giardini e parchi privati. In Cina, per esempio, il taro è usatissimo cotto al vapore, bollito, saltato in padella oppure stufato con carne di manzo o di maiale. A Taiwan, il tubero è un apprezzato ingrediente per dessert servite semplicemente con lo sciroppo oppure con pudding di tofu (douhua) o il famoso gelato grattugiato taiwanese (bao bing).

Alle Hawaii ha ancora un ruolo fondamentale nella alimentazione di tutti i giorni. Il poi hawaiano, che accompagna l’alimentazione dei locali fin dall’infanzia, non è altro che purea di taro cotto. In Thailandia i cubetti bolliti sono venduti come street food per le strade e nei mercati ma soprattutto viene utilizzato in tutto il mondo per preparare dei bastoncini di taro fritti che potrete provare a riprodurre anche voi seguendo il metodo della tripla cottura. Il risultato saranno delle fries dal sapore intrigante e dall’aspetto piuttosto singolare, a volte screziate di viola e che accompagneranno bene il vostro hamburger più esotico e le la vostra salsa barbecue preferita.

In India è aggiunto ai piatti di curry o agli stufati di lenticchie (sambar), fritto in pastella per la colazione (come se fossero dei pancakes).

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In Giappone è fatto sobbollire nel dashi e salsa di soia; nei momenti di carestia, il taro veniva utilizzato come sostituto del riso.


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De Gustibus a cura della redazione

è buono

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Guida ai miniburger perfetti


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sistono alcune condizioni impre scindibili affinché un burger sia perfetto: ad esempio, è necessario che sia facile da prendere con due mani (senza che tutto il condimento se ne vada per fatti suoi), che sia facile al morso (cioè che in un morso solo si abbia la possibilità di assaggiare tutto ciò che c’è nel bun (senza che ci siano morsi di “solo” pane o “sola” carne o “solo” condimento… come capita in molti burger senza criterio!), ma soprattutto che la nostra polpetta di carne sia il centro di tutto, visto che è la farcitura portante del panino. In questo numero del Magazine, la maggior parte dei nostri coach si è riunita in una amichevole “battaglia” all’ultimo burger, presieduta dallo Zio. In realtà, è stata soltanto l’occasione giusta per sfoderare le ricette migliori e metterle qui, a disposizione di tutti i nostri appassionati lettori.

Il miniburger, se ci pensate, è una cosa tanto fantastica quanto malefica: quanti sareste capaci di mangiarne? Noi andiamo nell’ordine dei quattro o cinque… per iniziare. Ma volete mettere la comodità nella presa, la bellezza di poter scegliere la farcitura desiderata e – qualora abbiate poco appetito, oppure che il menu della giornata preveda altre portate più sostanziose! – la possibilità di poterne mangiare solo un paio come aperitivo e provare svariate combo?

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I nostri coach hanno giustamente “ragionato” in ottica Normal size: polpette di carne di taglia e grana normale, per panini “normali”. Ma cosa succede se il burger da Normal diventa… Mini?


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REGOLE PER UN MINIBURGER IMPERDIBILE Ci sono poche regole, semplici e facilmente attuabili, per un miniburger perfetto. 01. SIATE ACCATTIVANTI. Ad un buon party, solitamente, sono tante le proposte gastronomiche sul tavolo. Nachos, insalate di pasta, cous cous, fritti vari, pizza. Perché dovrei scegliere proprio un miniburger? Giocate le vostre carte migliori, siate accattivanti. Un bun colorato (piccole aggiunte di barbabietola o ancora di farine integrali, rendendolo più “rustico”), qualche salsina accanto in monodose per pucciare il vostro morso. Insomma: sfoderate le vostre capacità per impedire che i vostri miniburger siano ingiustamente ignorati dai più. 02. SIATE FANTASIOSI. Una volta reso “bello” il vostro miniburger, dovrete renderlo interessante. Una serie di verdurine sabbiate oppure in ember roasting, salsine fatte in casa come il guacamole, il ketchup o la maionese, o ancora formaggio filante. Insomma: è un miniburger, ma lo dovete rendere esplosivo quanto un burger normal size. Anzi, forse anche di più: è un boccone solo, potete sbizzarrirvi anche nel creare abbinamenti insoliti e stuzzicanti!

Il punto 3 vi mette in crisi? Per questo esistono i nostri Burger presenti sul Megastore: se non li trovate in versione già mini, niente panico: prendete quelli grandi e sporzionateli in minipolpette che andrete a pressare con la mano (in attesa che poi tornino disponibili anche quelli delle dimensioni che vi occorrono): il risultato sarà strepitoso. Che sia una serata da passare sul divano a guardare un film in compagnia, oppure una piccola festa in famiglia o con amici, un boccone (o due, per chi vuole andarci piano!) saporito, da accompagnare con gli ingredienti e le ricette che più vi ispirano, sarà un vero toccasana per il vostro palato. Se non avete grandi idee sugli abbinamenti, ne troverete un bel po’ in questo numero del Magazine tutto dedicato ai burger!

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03. ANCHE SE PICCOLO, LA CARNE DEL NOSTRO MINIBURGER ESSERE BUONA. Purtroppo è un errore che fanno in molti: essendo un bocconcino, pensano che nel mini burger la qualità degli ingredienti e soprattutto della ciccia possa passare in secondo piano. Sbagliato! Chi ha provato il mini burger di Wagyu a una cena che BBQ4All ha organizzato in quel di Vicenza qualche anno fa può confermarlo: in quell’occasione vennero serviti dei mini panini contenenti solo carne, pane e una lacrima di wasabi. Eppure il sapore era esplosivo, proprio grazie all’eccezionale qualità della ciccia del mini patty.


Il

Feste a stelle e strisce

TACCHINO del Ringraziamento

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Across the Pond a cura di Elena Ninotti


T

ra le (poche) festività celebrate dagli Americani, il Thanksgiving Day è sicuramente quella più sentita, nonché la più conosciuta e festeggiata anche dagli americani oltre nazione. Non essendo legata a motivazioni religiose o etniche, è una festa celebrata da tutti con lo stesso trasporto. Io, provenendo dall'Italia, dove ogni comune ha una propria storia, tradizione, cucina, stupisce tantissimo come in tutti gli USA (che sono molti più grossi dell’Europa) si possa festeggiare con modalità simili, se non identiche: profumi, cibo, parate, sono analoghi in tutto il territorio. Pazzesco per noi dove, tanto per fare un esempio, celebrare il Natale comporta avere più personaggi a distribuire regali (santa Lucia, San Nicola, Babbo Natale, Gesù Bambino), tanti menù e tante diverse tradizioni. Il Thanksgiving, invece, è una festa comunitaria. Contrariamente a quello che si può pensare, non è una festa commerciale, ma è più ricca di tradizioni e simbolismi autentici di molte feste nostrane. Non prevede regali e si festeggia in casa e in famiglia. La maggior parte dei ristoranti e supermercati è chiusa: dopo aver consegnato i menu prenotati, effettuano orario ridotto. Il Thanksgiving si festeggia in tutto il Nord America: origina dalla celebrazione di una festa del raccolto del 1621 condivisa dai coloni inglesi (Pilgrims) di Plymouth e dal popolo nativo Wampanoag.

Poiché Plymouth non aveva ancora sufficienti strutture, la maggior parte delle persone mangiò all'aperto seduta per terra o su botti con piatti sulle ginocchia in un clima festoso e comunitario. Si cercò di comunicare in modo stentato, tra l’inglese e il linguaggio dei Wampanoag. Questa amicizia suggellò un trattato tra i due gruppi che venne preso come esempio da Lincoln per istituire una festa che promuovesse l’unità nazionale.

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Il Ringraziamento di Plymouth è iniziato con alcuni coloni che uscirono "a caccia di uccelli", probabilmente tacchini ma ancor più probabilmente prede più semplici da catturare come oche e anatre. Ne presero molti e organizzarono una celebrazione per ringraziare il signore di tale abbondanza. Successivamente, circa 90 Wampanoag fecero un'apparizione a sorpresa alle porte dell'insediamento, preoccupando i circa 50 coloni che vi risiedevano. Tuttavia, nei giorni successivi i due gruppi socializzarono senza incidenti. I Wampanoag portarono carne di cervo alla festa, che già includeva il pollo e probabilmente il pesce, le anguille, i crostacei, gli stufati, le verdure e la birra.


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La festa era stabilita nell’ultimo giovedì di Novembre. Tuttavia, il Presidente Theodore Roosvelt, nel tentativo di allungare la stagione natalizia (che iniziava dopo il Thanksgiving), la spostò al quarto giovedì del mese dalla cui mezzanotte parte per l’appunto la stagione dello shopping, con il Black Friday. La festa ha perso qualsiasi carattere religioso di Ringraziamento (a Dio), per simboleggiare oggi la pace interculturale, l'opportunità americana per i nuovi arrivati e il calore della casa e della famiglia. Se avete visto festeggiare il ringraziamento in un qualsiasi film, la famiglia si riunisce già dalle prime ore della mattina per cucinare assieme. Non è un pranzo, o una cena. Ci si siede a tavola attorno alle 2 pm oppure 3 pm e si fa un unico pasto a base di tacchino al forno, una terrina di ripieno di pane,

patate, fagiolini in salsa di funghi, salsa di mirtilli rossi e torta di zucca. Questo sia che viviate al nord che al sud: il menù è praticamente lo stesso e lascia poco spazio alle innovazioni, anche se devo ammettere che spesso si ricorre a terribili scorciatoie, per esempio limitarsi ad assemblare salsa di funghi Campbell’s con fagiolini in lattina o altri alimenti precotti di dubbia qualità... Se volete cimentarvi nel classico pasto del Ringraziamento, dovete partire qualche giorno prima, scongelando il tacchino lentamente in frigo. Su internet trovate facilmente le tabelle coi tempi, a seconda del peso del vostro volatile. Ecco la ricetta per il vostro Tacchino del Ringraziamento:


THANKSGIVING SPATCHCOCKED TURKEY Ingredienti: un tacchino di 5/6 kg, aperto a farfalla

Per la bagna con cui spennellare in cottura: 500 ml di aceto bianco leggero, di riso o di mele / 80 g di zucchero / 2 fette di limone / un cucchiaio (circa 10 g) di pepe nero / 2 cucchiaini (circa 8 g) di peperoncino in polvere

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Per il rub: circa 60 g di Ultimate Spog della linea Sal’s Seasoning /un cucchiaio (circa 10 g) di glutammato /un cucchiaio (circa 10 g) di pepe nero / tre cucchiaini (circa 30 g) di Ancho Habanero della Linea Sal’s Seasoning


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Preparazione: 1. Preparate la bagna: cuocete tutti gli ingredienti per due minuti, finché lo zucchero si è sciolto, fate raffreddare e estraete le fette di limone. Conservate in frigorifero. 2. Per il rub: mescolate tutti gli ingredienti in una ciotola 3. Per il tacchino: spolverate il tacchino con il rub. Preparare il dispositivo con lo snake, lasciando il posto lateralmente per mettere la teglia di alluminio sottostancte con lo scopo di raccogliere i succhi e mantenere umido il tacchino. 4. Appoggiate i chunk di legno aromatico per affumicare sopra al carbone, distanziandoli leggermente in modo che si accendano in sequenza. Appoggiate la teglia di alluminio dal centro dello snake fino al bordo della camera di cottura e versateci circa 1,5 l di acqua all’interno 5. Accendete con la ciminiera 20 bricchette e, una volta pronte, dividetela tra le due estremità dello snake, vicino alla teglia di alluminio 6. Sistemate la griglia di cottura e ungetela leggermente con un pennello. Appoggiate il tacchino, con la pelle verso la brace e le cosce verso il carbone. Cuocete con la ventola aperta (la ventola deve essere sopra al tacchino, non sopra allo snake) e cuocete per due ore senza toccarlo. 7. Dopo due ore spennellatelo con la bagna e giratelo con la pelle sopra, mantenendo le cosce verso lo snake. Sistemate la sonda di un termometro dentro il petto e continuate a cuocere per circa 1-1,30 h, fino a che la temperature al centro del petto non registra 62°C e le cosce 70°C 8. Trasferite il tacchino su una grossa teglia e lasciartelo riposare 30-40 minuti, dopodiché si può porzionarlo e servirlo in tavola Tra i contorni tradizionali: Fagiolini verdi lessi. Cavoletti di Bruxelles lessi, spadellati con burro e bacon, oppure semplicemente arrostiti in forno Purè di patate dolci e di patate tradizionale. Stuffing (un tortino di pane secco a cubetti mescolato con spezie, bacon, formaggio e dorato in forno). Per la salsa di mirtilli, è molto difficile che troviate i mirtilli rossi, ma è possibile sostituirla con la confettura presente nella nota catena di arredamento svedese, allungata con un cucchiaio di acqua e uno di succo di arancia per ogni due cucchiai di confettura di mirtilli rossi sciolta a fuoco basso.


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Nice to MEAT you TENDERLOIN / FILETTO


Sono davvero pochissimi i tagli di carne che una persona comune sa riconoscere a occhio nudo senza difficoltà. Possiamo tranquillamente affermare che il filetto è uno di questi, se non proprio il più popolare. Classificato indiscutibilmente come il taglio più tenero in assoluto di tutta la carcassa, è evidente la ragione per cui sia uno tra i più desiderati pezzi di carne di sempre. Grazie alle sue caratteristiche uniche, chef di tutto il mondo hanno creato piatti iconici che in alcuni casi hanno segnato la storia della cucina mondiale, come il Filetto alla Rossini, il Filetto alla Wellington o il Filet au Poivre (l'italiano filetto al pepe, che sa un po' di anni Ottanta).

Se nella ristorazione viene solitamente scelto per creare piatti di lusso, nell’ambito casalingo, nella maggior parte dei casi, è una scelta necessaria per poter far mangiare la carne a bambini o anziani, grazie alla sua morbidezza elevata, al sapore leggero e all’assenza di grassi, caratteristiche per cui spesso viene abbinato a salse o fondi concentrati in piatti più

complessi. Tuttavia dobbiamo assolutamente ricordare che, indipendentemente da quanto sia tenero il nostro pezzo, una cottura sopra i 52°C/55°C potrebbe risultare in un boccone asciutto, poco piacevole da mangiare, specialmente se non fosse presente una buona marezzatura. COS'È, ESATTAMENTE Come molti già sanno, il filetto è situato nella parte lombare di tutte le specie animali a quattro zampe, dette anche quadrupedi. È un muscolo dalla forma oblunga, simile ad una “penna” che si estende dalla zona pelvica, lungo la spina dorsale fino all'ultima costola. Dimensione e peso possono variare di molto in base a genetica ed età dell'animale, e in alcuni casi puo raggiungere anche i 4 kg (intero) e una lunghezza attorno ai 65 cm. Principalmente è composto

dal cosiddetto Psoas Major (il muscolo principale e maggiormente desiderato), Psoas Minor (la catena) e Iliacus (Wing muscle). A volte può capitare di trovare una piccola parte del Sartorius o di Obliquus abdominis interni (Flap) attaccati alla testa del filetto (la parte più spessa) nel caso in cui lo acquistate intero da qualche macellaio locale che vi fa il “prezzo buono”. ALTRE DENOMINAZIONI Intero, viene chiamato anche Tenderloin Roast; porzionato in bistecche può prendere il nome di Tenderloin Steak, Fillet, Tenderloin Filet. Dal filetto si ricavano i tagli maggiormente conosciuti, con nomi come Filet Mignon, Chateaubriand o Turnedos; allo steso tempo può diventare parte integrante di bistecche come la Fiorentina (Porterhouse o T-Bone) quando è lasciato sull’osso.

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Pur essendo un pezzo molto ambito, molti griller appassionati o esperti solitamente lo evitano perché ritengono il prezzo troppo alto, considerando anche il sapore beefy poco presente in confronto ad altri tagli meno pregiati della stessa carcassa. Pare evidente che genetica e metodo di allevamento facciano, anche in questo caso, una grande differenza per quanto riguarda sia il sapore che la morbidezza della nostra bistecca.


immagine tratta dal sito https://jesspryles.com/

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PREPARARE/PULIRE È un evento abbastanza raro persino nella vita di un esperto griller (a meno che non lo faccia come lavoro), avere un filetto intero per le mani, da dover pulire ed affettare a proprio piacimento. Come già detto, si tratta di un pezzo abbastanza costoso: supponiamo che avendo deciso di fare colpo sui suoceri ne abbiate acquistato uno intero, ma nel tentativo di risparmiare un po’ vi ritrovate con parecchio lavoro da fare. Ovviamente grasso e cartilagine (pellicola) se presenti, vanno assolutamente eliminati, come sempre con molta attenzione. Per proseguire con la pulizia e (nel caso) il taglio, bisogna prima decidere come lo si vuole utilizzare: “ne avete bisogno intero, tagliato, pulito bene o solo un po’ sgrassato?” È possibile lasciare la “Catena” e il “Wing muscle” semplicemente legando con uno spago il pezzo prima di tagliarlo o cucinarlo, ma nel caso vogliate eliminarla potete farne uno spezzatino o addirittura farne stir fry fenomenali con gli avanzi del trimming. Se avete deciso di eliminare la catena potete tagliare anche una piccola parte della punta e eventualmente aprirla a farfalla per cucinarla a bistecca o aggiungerla allo stir fry summenzionato, eliminando così il rischio di cottura non uniforme del vostro Tenderloin Roast.

Arrivati a questo punto il pezzo restante è perfettamente trimmato per diventare, con il Butt Tender (la parte che sporge fuori dalla lombata) un super Roast beef o l'intramontabile Wellington Beef, e con la restante parte fare delle perfette Filet Mignon. Alcuni chef dividono “l'Iliacus” dal “Psoas major” per cucinarlo separatamente come una bistecca o utilizzarlo per altre ricette crude o cotte. TECNICHE DI COTTURA Possiamo dedurre che essendo il taglio più morbido in assoluto si trova in una moltitudine di preparazioni diverse, e smoking, roasting, grilling o pan fry sono solo alcune delle tecniche di cottura a cui si presta benissimo il Filetto. Va fatta però attenzione sempre alla quantità di grasso e/o collagene, genetica, età e frollatura, prima di decidere la ricetta/cottura migliore. Nel caso in cui le nostre bistecche siano troppo magre meglio optare per una padella in ghisa dove aggiungere un buon grasso/olio e degli aromi come erbe, spezie e/o aglio per migliorare sia la cauterizzazione che l'aroma complessivo del pezzo. Sul barbecue, per avere un ottimo risultato, potete abbinarlo al vostro rub preferito e dargli anche una leggera affumicatura con una manciata di chips.


SERVIZIO Servite il vostro aperitivo come bruschette, con pane appena arrostito sul bbq, ma anche in padella o forno. Adagiateli sopra cime di rapa saltate con aglio e peperoncino, alcune fettine sottili della vostra bistecca e chiudete con mezzo pomodorino confit e uno stuzzicadenti se necessario. Non dimenticate una goccia del vostro olio migliore (meglio se infuso con qualche erba aromatica) e una macinata abbondante di pepe nero.

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LA RICETTA PERFETTA Indubbiamente, se avete fatto un acquisto importante come questo, un'idea di ricetta già ce l'avete, e in questo caso ci limiteremo a consigliarvi una preparazione simpatica per gli avanzi del trimming da utilizzare come antipasto. Lo Psoas minor o la Catena, dopo la dovuta pulizia, va arrotolato e fermato con due spiedini in diagonale. A questo punto potete cucinare il pezzo come un'unica bistecca su padella o griglia e marinarlo o speziarlo come più vii piace.


La ricetta scientifica a cura di Gianfranco Lo Cascio

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osa succede quando l'amido del riso gelatinizza a causa della somministrazione di calore legando i chicchi tra loro in un composto setoso e vellutato? Esatto, quel riso diventa risotto. Esiste un protocollo per creare il risotto perfetto e suggellare la sublimazione dell'Oryza sativa? Non ho nessun dubbio nell’affermare che sì, esiste e passa attraverso quattro variabili ben precise: 1. 2. 3. 4.

scelta del riso; tostatura del riso; cottura del riso; mantecatura del riso.

SCELTA DEL RISO Commercialmente parlando, il riso si classifica in quattro gruppi: comune originario, semifino, fino e superfino. Questa distinzione si basa su forma e dimensioni del chicco. Il comune è tondeggiante mentre il superfino è lungo e ha dimensioni maggiori. I RISI COMUNI Hanno chicchi piccoli e tondi, cuociono velocemente (in 12-13 minuti) e sono molto indicati per minestre e dolci. Le varietà che appartengono a questa tipologia sono il Rubino, il Bali, il Ticinese, il Selenio, il Pierrot, il Razza 253, l'Americano 1660, l'Elio, l'Auro, il Raffaello, il Cripto e il riso Originario. Il riso Originario , chiamato anche riso Comune o Balilla, è una cultivar molto antica e già classificata negli anni '20. Si tratta di un prodotto molto economico e saziante, la prima scelta delle famiglie meno abbienti del ventennio. Ha chicchi corti e tondi e un'elevata capacità di assorbimento dei liquidi, i tempi di cottura sono molto brevi, tra i 13 e i 15 minuti, ed è perfetto per preparare anche torte e dolci, minestre, minestroni e talvolta (non questa volta) arancine.

I RISI FINI I chicchi dei risi fini sono lunghi e affusolati e hanno tempi di cottura non inferiori ai 16 minuti. Tengono molto bene la cottura e sono quindi adatti alla preparazione di risotti e insalate, dove i granelli devono restare ben separati tra di loro. Fanno parte del gruppo l'Europa, il R.B., il Ringo, il Romanico, il P. Marchetti, il Radon, il Veneria, il Rizzotto, il riso Ariete, il Bonnet, il Loto, il Molo, il Riva, il Cervo, il riso Drago, il riso Smeraldo, il Vialone nero, il pregiato Sant'Andrea e il Ribe. I RISI SUPERFINI Sono il meglio del meglio, si distinguono per i chicchi grossi e molto lunghi. La loro cottura non è inferiore ai 17-18 minuti, ma in alcuni casi può

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I RISI SEMIFINI Hanno chicchi tondi di lunghezza media. La cottura si aggira intorno ai 13-15 minuti. Perfetti per condimenti in bianco, timballi e antipasti. Fanno parte di questa categoria il Titanio, il Monticelli, l'Italico, il Maratelli, il Piemonte, il Padano, l'Argo e il Vialone Nano. Ma anche varietà più ricercate come il Lido, il Romeo e il Rosa Marchetti.


arrivare anche a 20. Perfetti per i risotti, grazie alla quantità di amido che rilasciano in cottura e alla loro capacità di assorbimento di acqua e contorni. Fanno parte di questa categoria: il Redi, l'Arborio, il Volano, il Roma, il Razza 77, l'Ilapatna, il Silla, il Gritna, il Koral, l'Onda, il riso Strella, il Miara, il Panda, il riso Vela, il riso Star, il riso Baldo e il più pregiato di tutti, il Carnaroli. D’accordo, ma quale tipologia di riso ci darà un risotto perfetto? Superfino Carnaroli e semifino Vialone nano, due varietà che rilasciano un tipo particolare di amido, ad alto contenuto di amilopectina e basso di amilosio. Ma cosa sono questi due polisaccaridi? Amilopectina e amilosio sono due componenti dell’amido che danno risposte diverse ai liquidi e al calore. A differenza dell’amilopectina, l’amilosio non è solubile in acqua ma forma una dispersione gelatinosa quando viene a contatto con i liquidi tiepidi. Un po’ come il brodo che magicamente si addensa con il roux, sapete, l’addensante ottenuto mescolando farina e burro. L’amilosio attenua la tendenza dell’amilopectina a cristallizare, in altre parole la indebolisce, permettendo ai liquidi di permeare i chicchi. Sembra complicato ma non lo è: due risi con basse quantità di amilosio “tengono” la cottura grazie a un modesto rilascio di amido, che tuttavia è ancora in grado di gelatinizzare. Ovviamente, comprendere quando fermare il rilascio dell’amido fissandone così la cremosità, è compito nostro, di noi che stiamo cuocendo il risotto, ecco. ANATOMIA DEL CHICCO Il riso è un seme della pianta nota come Oryza sativa. Quando viene raccolto, è coperto da una lolla protettiva, una specie di buccia insomma. Dopo che la lolla viene rimossa si ottiene il riso integrale, che è composto da tre parti: la crusca (che racchiude uno strato di cellule chiamato strato di aleurone, ricco di olio e di enzimi), il germe, e l'endosperma. Per diverse migliaia di anni, il riso integrale è stato prima “parzialmente bollito” (parboield) e poi macinato per rimuovere la crusca e il germe, lasciando solo l’endosperma, ricco di amido.

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TOSTATURA DEL RISO: SÌ O NO? Prima di iniziare, si fa con burro, olio extravergine di oliva o entrambi? È in gran parte una questione di gusto personale. Potreste anche utilizzare entrambi, non ve lo vieta nessuna. Ricordate però: una miscela di burro e olio continuerà a bruciare alla stessa temperatura del burro. Sono le proteine del latte nel burro che bruciano e non importa se sono riscaldate nell'olio o nel burro puro. Ma qual è lo scopo della tostatura del riso? L’aggiunta di sapore. Aggiungendo i chicchi di riso crudi ad una padella con un grasso caldo si sviluppano intensi aromi di nocciola e tostatura. Ma cos'altro succede quando si tosta il riso? Provate a fare un esperimento. Prendete due quantità identiche di riso. La prima porzione la cuocerete in maniera tradizionale, la seconda la tosterete per 3 o 4 minuti prima di aggiungere il liquido, durante i quali avrà acquisito una leggera tonalità dorata e un aroma di nocciola. Alla fine giungerete a questo risultato:il riso non tostato restituirà una salsa più cremosa del riso tostato. Ma al contempo avrà un sapore meno intenso. E come si ottiene un risotto sia cremoso che saporito? Semplice. Si rimuove l'amido prima di tostarlo e si aggiunge di nuovo prima di idratarlo.

MANTECATURA DEL RISO l risotto ideale è dunque ancora al dente, né troppo liquido né troppo poco, con una sgranatura dei chicchi evidente, una generosa quantità di grassi per dare nerbo e, fate attenzione, una parte acida accuratamente bilanciata.

L’importante è non eccedere, proviamo a bilanciare il tono acre in modo da livellare la sensazione di unto che, se da una parte amplifica la percezione del gusto, porta con sé il difetto di una consistenza fastidiosa.

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Chi ha gusti un po’ omologati tende ad azzerare la componente acida del sapore, eppure, vi assicuro che maggiore è la quantità di recettori attivati, più intensa sarà l’esperienza sensoriale. La percezione acida smorza i toni del grasso producendo una maggiore armonia.


IL RISOTTO IDEALE Il risotto ideale è dunque ancora al dente, né troppo liquido né troppo poco, con una sgranatura dei chicchi evidente, una generosa quantità di grassi per dare nerbo e, fate attenzione, una parte acida accuratamente bilanciata. Chi ha gusti un po’ omologati tende ad azzerare la componente acida del sapore, eppure, vi assicuro che maggiore è la quantità di recettori attivati, più intensa sarà l’esperienza sensoriale. La percezione acida smorza i toni del grasso producendo una maggiore armonia. L’importante è non eccedere, proviamo a bilanciare il tono acre in modo da livellare la sensazione di unto che, se da una parte amplifica la percezione del gusto, porta con sé il difetto di una consistenza fastidiosa

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COTTURA Come con le patate o la pasta, la sfida principale quando si cucina il riso è capire come controllare gli amidi al millimetro. Tuttavia, mentre le patate o la pasta sono spesso cotte in molta acqua per lavare via l'amido in eccesso, il riso richiede un metodo di cottura più preciso. Se si fa bollire e si scola, si finisce per lavarne via il sapore delicato e per inzuppare eccessivamente i chicchi. Il riso, fidatevi, si cuoce meglio con una quantità misurata di acqua in una pentola coperta, per scongiurarne l’evaporazione. II granuli di amido, che sono il componente primario del riso, tendono a non assorbire liquidi a temperatura ambiente. Mentre si riscalda il riso in acqua, invece, l'energia delle molecole del fluido in rapido movimento comincia ad allentare i legami tra le molecole di amido, permettendo all'acqua di penetrare. Questo a sua volta causa il rigonfiamento dei granuli di amido, i quali rilasciano alcune molecole “gommose” che poi agiscono come una colla per tenere insieme i chicchi. Il riso, a questo punto, si ammorbidisce e diventa appiccicoso o “inamidato”.

LA COTTURA TRADIZIONALE Istruzioni di base per un risotto vecchia scuola: scaldare una grande pentola di brodo e tenerlo caldo. Tostare brevemente il riso nel burro e/o nell'olio d'oliva, poi aggiungere un solo mestolo di brodo (o vino per questa prima aggiunta) e mescolare lentamente con un cucchiaio di legno fino a quando il brodo non verrà assorbito. Aggiungere un altro mestolo e ripetere. Continuare fino a quando il brodo è stato assorbito tutto e il riso risulta cremoso. Togliere dal fuoco e aggiungere il burro freddo e/o Parmigiano mescolando vigorosamente per fermare la cottura e sviluppare cremosità. Per carità, è una tecnica che funziona, ma è comunque piena di pecche. Prima di tutto, non c'è bisogno di riscaldare il brodo in una pentola separata. Certo, si risparmia qualche minuto sul tempo di cottura del riso, ma ne starete sprecando dell’altro per riscaldare il brodo, per non parlare del lavaggio di due pentole invece di una. Fate una prova. Preparate un risotto col brodo tirato fuori dal frigorifero e non noterete alcuna differenza percettibile nel prodotto finale. E aggiungere il liquido tutto in una volta? Si può? Basta usare una padella larga e poco profonda. In questo modo il riso forma uno strato sottile abbastanza omogeneo sul fondo, il che si traduce in una cottura molto più uniforme. Usando un fuoco molto basso magari, dopo aver inizialmente portato il liquido ad ebollizione. Insomma, si ottengono risultati perfetti aggiungendo il riso e quasi tutto il liquido in una volta sola, coprendo la padella e cuocendo a fuoco molto basso, mescolando solo una volta durante il processo. Oppure si può cuocere il riso per assorbimento.


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LA RETROGRADAZIONE DELL’AMIDO La retrogradazione non è altro che una parziale ricristallizazione degli amidi gelificati. Non tornano allo stato iniziale ma quasi. Vi faccio un esempio. Avete presente il pane raffermo? Ecco, quello è un amido retrogradato. Quando il pane viene cotto in forno, in presenza di umidità, gli amidi gelatinizzano. La mollica di pane, per esempio, è amido gelatinizzato. Finché si trova dentro al pane è soffice e umida. Ma se lo lasciamo all’aria per un po’ si asciuga, si secca ed assume una consistenza croccante. Questo è proprio il fenomeno di cui vi parlavo, la retrogradazione dell’amido. La ricristallizazione delle molecole di amido che formano il gel. La cosa interessante è che il processo è reversibile. Basta reidratare l’amido per tornare in condizione di gel. Capita la tecnica potrete preparare delle porzioni di risotto a metà cottura e rigenerarle al momento, impiegandoci la metà del tempo.

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Comodo, no?


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LA RICETTA SCIENTIFICA DEL

RISOTTO PER ASSORBIMENTO

AL PARMIGIANO REGGIANO 40 MESI

Per la cialda di Parmigiano: 150 g di Parmigiano Reggiano 40 mesi GLC Top Selection

Procedimento Mettete il riso in uno scolapasta o in un colino a maglie fini e immergetelo in una ciotola piena d’acqua fredda. Servirà ad eliminare l’amido in eccesso. Sollevate il colino e mettete da parte l’acqua “inamidata”, potrebbe servirvi in fase di mantecatura (vi basterà farla ridurre sul fuoco e aggiungerla alla manteca per addensare). Versate in una pentola 500 ml di brodo o acqua, che avrete preparato con i classici sedano, carota e cipolla, e aggiungete il riso, mescolando continuamente fino a quando i chicchi diventano “gessosi” e opachi (da 1 a 3 minuti). Alzate la fiamma e portate ad ebollizione. Abbassate la fiamma, coprite con il coperchio e cuocete a fuoco lento portando il riso a metà cottura. Noterete che il liquido verrà totalmente assorbito. Trasferite il riso su una placca da forno, meglio se forata, spandetelo e sgranatelo bene. Lasciate che si raffreddi e si asciughi completamente (potete coprirlo con una retina), mettetelo da parte. Se avete intenzione di prepararlo per il giorno dopo, conservatelo in un contenitore a chiusura ermetica, in frigorifero. Preparate la cialda grattugiando finemente il formaggio. Scalda-

te una padella antiaderente, disponete il formaggio sul fondo e aspettate che si sciolga e si formi la cialda. Ci vorranno pochi minuti, il formaggio si solidifica e acquisisce un colore ambrato. Quando ls cialda si è rassodata, trasferitela su un piatto e lasciatela raffreddare. La sbriciolerete al momento di servire. Mettete sul fuoco una padella ampia con bordi alti. Versate 500 ml di acqua o brodo, aggiungete il sale e portate ad ebollizione. Aggiungete il riso e il burro e cominciate ad agitare il tutto con una spatola. Quando il riso è quasi cotto, aggiungete il formaggio stagionato grattugiato e rimestate in modo vigoroso, per creare le famose onde nella padella. Servite in una fondina o su una piatto piano, battendolo leggermente per farlo spandere. Finite con la cialda di Parmigiano sbriciolata al momento e una macinata grossolana di pepe bianco. Oppure aprite il frigo, prendete una delle 4 o 5 ciotoline di riso precotto, mettetele in padella, seguite questo metodo e con due carote, un radicchio, un pezzo di porcino e una salsiccia nel congelatore, un pezzo di formaggio, un quello che vi pare, in 5 minuti di orologio avrete un risotto cotto alla perfezione in tavola. Impossibile da distinguere da un risotto espresso.

Gianfranco Lo Cascio

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Ingredienti per 6 persone: 500 g di riso Carnaroli o Vialone Nano / 1 l di acqua (o brodo vegetale) / 150 g di burro (meglio se di centrifuga) /150 g di formaggio grattugiato (Parmigiano Reggiano 40 mesi GLC Top Selection) / pepe bianco q.b.


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Jack Vettriano - Discovered (particolare)


Concedersi un fiasco

Seguo

a cura di Emiliano Nencioni

Chi scrive si è precedentemente impegnato, nella stesura dell’articolo introduttivo dello Speciale Hamburger presente su questo stesso numero, a non nominare direttamente il brand globalmente più riconoscibile e riconducibile all’universo dei panini da fast food: non per qualche timore di querele o dispute legali, dubito infatti che una holding plutocratica possa interessarsi a due paginette lette da pochi impavidi curiosi, ma proprio per non banalizzare il tutto all’ennesima contrapposizione del “noi bravi virtuosi contro loro insensibili porta vessillo del colesterolo”. La lotta degli hamburger gourmet contro i panini più normali e iperglobalizzati della storia sa di stantìo e di Ancien Régime persino quando la scoviamo nei menù, redatti con MsWord97 e stampati a matrici di punti, tipici di qualche panineria un po’ hippy un po’ eco-consapevole insediatasi ai margini di una città storicamente studentesca.

E vedete bene, per quanti giri di parole, virtuosismi semantici, fughe nella sineddoche o pavidi sottotesti possiamo cercare di adottare, non si può scrivere McDonaldizzazione senza scrivere McDonald’s. Perché quello è.

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Fatto sta che l’occasione è troppo ghiotta: parlare, proprio nel numero pieno zeppo di ricette e dottissime disquisizioni sugli hamburger, della McDonaldizzazione della Società secondo George Ritzer.


The McDonaldization of Society è un libro del 1993, relativamente molto giovane, scritto non da un austero filosofo tedesco col monocolo, i baffoni, la faccia accigliata nelle dagherrotipìe e un paio di poco perdonabili derive sulla teoria della razza, ma da un tranquillissimo e contemporaneo professore dell’Università del Maryland, George Ritzer (New York City, 1940). Data la modernità del caso letterario, su YouTube si trovano facilmente alcune interessanti interviste al sociologo, rigorosamente in qualità VHS e aspect ratio 4:3, che vi consiglio di guardare per qualche approfondimento se questa rubrica riuscirà a farvi nascere un minimo di curiosità o interesse. Volendo spiegare in termini semplici e senza annoiare più del consueto e abituale tedio mensile che vi propongo coscientemente, l’idea è che la strategia produttiva alla base del successo mondiale di McDonald’s sia una pesante razionalizzazione dei processi del modus operandi, ripresa e ricalcata poi su moltissimi altri aspetti della società contemporanea.

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Le premesse alla base del successo commerciale di una catena di ristoranti a basso costo avrebbero, negli anni successivi, guidato l’evoluzione dell’intera civiltà occidentale, e non solo. Secondo Ritzer, tutto si ricondurrebbe a: • Efficienza: un grande sforzo organizzativo per ridurre al minimo gli sprechi di tempo e risorse, nella creazione fino alla distribuzione del bene o servizio • Calcolabilità: obiettivi e traguardi devono avere un indice di successo numerabile e quantificabile. Non più “siamo andati benino”, ma “123 panini all’ora”, per intenderci. • Prevedibilità: è la standardizzazione. Un consumatore sa che quel panino o quella specifica salsa avrà lo stesso identico sapore e sarà presente in uguale percentuale in ogni paesino raggiunto dal franchise. • Controllo: una consistente pressione sui dipendenti e sugli addetti alla confezione del prodotto affinché tutto sia svolto nei tempi e con i metodi imposti dalla direzione; deriva da questo anche la preferenza alla sostituzione dell’intervento umano con qualcosa di automatizzato o comunque deterministico, nell’ottica di avere sempre più coerenza e stabilità possibile. Ad esempio, un dosatore è molto più controllabile di una più soggettiva cucchiaiata di salsa da parte di un addetto, un nastro trasportatore ha tempi più calcolabili della camminata di un cameriere.


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Lesley Oldaker - Non Conformist Painting


Le conseguenze sono banalmente intuibili e, partendo dal successo delle più note catene di fast food di stampo McDonaldiano, sotto gli occhi di tutti. Grandissima efficienza, controllo ossessivo dei costi e dei tempi, massimizzazione delle quantità e in generale dei “numeri” (ergo, profitto) a scapito della qualità generale; aspettative del cliente soddisfatte in ogni parte del globo (state per ordinare un panino sciapo, ma sapete che sarà esattamente quel panino sciapo) e una generale disumanizzazione della forza lavoro, incoraggiata a non prendere iniziative o dare contributi personali, in cambio di più occupazione seppur a salario basso.

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La tesi di Ritzer, ormai consolidata e supportata dalla maggior parte dei sociologi, è che questi aspetti si sono ripercossi a catena in moltissimi aspetti della vita sociale, su scala mondiale. Di pari passo con il costante processo di occidentalizzazione, le megacorporazioni con vastissimo potere economico tendono ad omogeneizzare ed appiattire le preferenze, i gusti, le aspirazioni, le relazioni sociali. Per fare un esempio banalotto ma di facile comprensione citerei l’ingerenza della Disney, che negli ultimi vent’anni ha comprato praticamente tutto nel campo dell’entertainment (e del relativo indotto di merchandising), buttando palate di milioni nella produzione di film grandiosi ma tutti un po’ asserviti ai canoni e ai paletti imposti dal topastro più irritante dai tempi delle animazioni in passo-uno. Film divertenti, senza troppe tragedie, senza turpiloquio, senza troppe riflessioni, adatti al bambino in età prescolare ma che non facciano addormentare il padre che paga il biglietto e la madre che comprerà l’obbligatorio gadget o action figure legato al lungometraggio (per gender equality potete liberamente scambiare i ruoli dei due genitori o sostituirli con figure non binarie). Per carità, guardo tutti i film della Disney. In realtà non me ne perdo uno. Così come indugio nel piacere colpevole di un Crispy McBacon, ogni tanto, consapevole della digestione laboriosa e del dispetto al mio già recalcitrante metabolismo. Ma non vorrei mai si perdesse l’opportunità di godersi un film lento, introspettivo e emotivamente devastante, o di mangiare una specialità regionale che richiede ore di cottura e piace a pochissimi.

Non dovete neanche pensare che un professore nel Maryland si sia messo a scrivere libri e teorie su una catena di fast food: la penetrazione del modello produttivo è arrivata alla maggior parte delle grosse firme mondiali, influenzando e contaminando la quotidianità di un numero enorme di lavoratori, e quindi di famiglie, in tutto il mondo: catene di arredamento “pret-aporter”, assemblamento di cellulari e altri device, ipermercati, praticamente quasi qualsiasi cosa più grande della botteguccia dell’artigiano è inevitabilmente costretta ad adeguarsi per ri-


Julian Peters -The Temptations of Fast Food

I risvolti più evidenti sono visibili nella grande svalutazione del lavoro, sempre meno qualificato e sempre più assimilabile alla ripetizione ossessiva di compiti e movimenti incasellati e codificati, non molto lontana dall’ingenua visione proto-distopica di Tempi Moderni di Chaplin (del 1936!). Il lavoratore non deve essere qualificato, non deve essere istruito e soprattutto creativo, perché l’apporto di fantasia personale è quanto di meno auspicabile per il McDonaldismo.

Taciturno, decerebrato, ubbidiente, è meglio di capace, intelligente, innovativo e propositivo. É la cosa agghiacciante che avviene giornalmente nei call center, ed è la cosa che mi spinge sempre a rispondere con empatia e tolleranza alle migliaia di telefonate che avvertono del passaggio al mercato libero di gas e luce: probabilmente è un laureato con lode in Filosofia della Scienza che ogni giorno “aspetta che passi”, prendendosi insulti e scortesie fino alla fine del suo turno.

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manere rilevante e concorrenziale.


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Juan Sánchez Cotán - Hunting, Vegetables and Fruits (particolare)


Anche nell’istruzione certi test a risposta multipla sono un omaggio alla McDonaldizzazione: quantificabili, numerabili, senza espressioni creative personali da interpretare, senza soggettività, valutabili in tempi ridottissimi (anche istantaneamente se eseguiti online) senza l’incombenza certamente massacrante di dover leggere traballanti elaborati dai costrutti avventurosi o dover interpretare grafìe irricevibili. Basta pensarci un po’, guardarsi un minimo attorno e quest’andazzo si può trovare un po’ ovunque, dalla smart TV che invece di creare un palinsesto fa scegliere da un mucchio di programmi, per poi profilare l’utente tramite preferiti e consigliati, ai supermercati che offrono il barcode scanner per trasformarsi in cassieri di se stessi. E il vostro magazine iperproteico mensile che fa? Vi restituisce il privilegio del rischio. Vi propone di creare hamburger complessi, diversi, dagli accostamenti non immediati; hamburger

che sono l’antitesi del fast, che richiedono in molti casi un sacco di tempo per essere preparati, fin troppe stoviglie da mettere in giro, ore di cicli di lavastoviglie e flaconi interi di sgrassatore per porre rimedio ai tumulti avvenuti in cucina. Il rischio è quello tipico della mancanza di banalità e di standardizzazione: potreste imbattervi nel pargolo schizzinoso che sputa i broccoli, nella nonna polemica che detesta i formaggi erborinati, nello zio pesante che attacca ad agitare le folle perché “chissà cosa c’è dentro!”: il classico fuoco amico dato dall’innovazione e dalla sorpresa. In contrasto a questo portiamo un po’ di regionalità, di gusti soggettivi ed esperienze personali, ricette dettagliate da accogliere come suggerimenti ragionati, utili, se necessario, per piegare ogni preparazione ai gusti della vostra tavola e delle vostre abitudini. Dopotutto, anche McDonald’s, nell’ottica di riuscire ad attirare qualche consumatore in più, ha proposto in italia l’hamburger di chianina, le scaglie di parmigiano DOP, e sono convinto di aver visto la ‘nduja da Burger King (ma era sempre terminata). Prendete quindi tutto questo numero come una colossale forma di esperimento sociologico, volto ad allontanarvi dalla consuetudine, dall’omologazione, dalla comodità del già visto, per proiettarvi con effetto fionda nelle lande dell’incerto, del provocatorio, di un romantico sturm und drang. Oppure prendetelo come un bel numerone pieno pieno di ricette, che va bene lo stesso.

Emiliano Nencioni

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I lavoratori McDonaldizzati sono facilmente sostituibili, e questo toglie ogni potere contrattuale; sono rapidamente addestrabili e non v’è necessità di capacità o talenti innati. La stessa muta obbedienza nel frattempo è richiesta anche al consumatore, che diventa cameriere del suo stesso tavolo, tenuto anche a creare l’ordinazione, effettuare il pagamento e pulire e sgomberare il desco, con impeccabile raccolta differenziata. Stessa cosa accade con l’acquisto dell’inevitabile armadio a basso costo, consegnato nel famigerato pacco piatto, chiedendo al cliente di trasformarsi in abile installatore.



N°35/ANNO 3 - NOVEMBRE 2021

SPECIALE RIBS L'EDITORIALE DI GIANFRANCO LO CASCIO Beef Ribs per principianti LE RICETTE Beef Ribs, Ragù di pork ribs, Ribs fritte, Giant Rib Sandwich, Tacos di beef ribs, Ribs e fagioli, Ribs e zuppa di funghi

ARTE BIANCA La ciabatta IL QUINTO QUARTO Le frattaglie bianche LA RICETTA SCIENTIFICA Frittata di patate


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Editoriale di Gianfranco Lo Cascio

Back to Basics

SHORT RIBS al FORNO e NON PER PRINCIANTI

Ci sono due cose durevoli che possiamo sperare di lasciare in eredità: le radici e le ali. E cosa affonda con le sue estremità nel mio cuore se non le preparazioni del barbecue tradizionale americano, magari per principianti? Ho iniziato anche io da lì, ed è proprio in quel posto che voglio portarvi. Alle ali, poi ci arriveremo.

Le costine di maiale alla griglia sono un classico intramontabile in ogni regione italiana. Chiamiamole puntine, costicine, rosticciana o rostinciana, il punto è esattamente lo stesso. Anatomicamente parlando si tratta delle costole di maiale, cotte intere o separate, sopra un fuoco di legna o carbone. Se volessimo fare un salto al di là dell'oceano e fare un parallelismo tra quella che è la nostra cultura italiana e quella degli stati del Sud degli USA, ci accorgeremmo che la faccenda è parecchio diversa. Lì, le costicine di manzo sono un piatto tipico, profondamente radicato all'interno di quel tipo di tradizione gastronomica. È indubbio che da noi manca la cultura del cuocere i tagli di bovino a fuoco lento utilizzando le braci. La stessa cosa non si può dire per l’Asado in America Latina. Lì questi costatoni di bovino vengono cotti su dei supporti di metallo, in piedi, ben distanti dal fuoco di legna acceso. Il fuoco poi pian piano cuoce lentamente questa carne rendendola estremamente succosa e saporita. Se ci soffermiamo sulle differenze tra le tecniche di cottura del costato di manzo e quello del maiale, si aprono degli scenari secondo me molto interessanti. Sono proprio queste criticità dovute alla tecnica che hanno impedito alla cottura del costato di manzo di prendere posto sulle nostre tavolate. Il Texas è una delle regioni più rappresentative del vero barbecue Low&Slow americano. In quei posti il costato di manzo è quasi una religione. Rispetto all’Asado sudamericano, il taglio utilizzato negli Stati Uniti, è più piccolo e più squadrato e prende

il nome di short ribs. Non perché siano corte, ma perché anatomicamente parlando prendono il nome da un taglio situato all'interno della cassa toracica del bovino chiamato appunto short plate. Il modello di cottura texano è quello che prenderemo in esame, perché secondo me molto aderente a quello che è il palato italiano. Sono quasi certo che prenderà piede nel nostro paese al pari dell'hamburger e del pulled pork. Vediamo quali sono le criticità di questo straordinario pezzo di carne, e una volta elencate individuiamo il metodo di cottura ideale per cuocerlo alla perfezione. Che cosa hanno in comune le pork e le beef ribs? In realtà poco o niente. Le costine di marzo rispetto a quella di maiale sono: primo, molto più ricche di grasso, secondo, molto più ricche di tessuto connettivo e terzo molto più dure da masticare. Ma la chiave di volta è che, se cotto alla perfezione, questo mattone di fibre bovine, quasi impossibile da masticare, diventa un budino gelatinoso e succulento dal sapore di carne realmente dirompente. La tecnica di cottura al barbecue delle short ribs, per chi non è pratico di cotture lunghe, affumicatura e stabilizzazioni dispositivi per tempi prolungati, non è semplice da applicare. Per questo, miei cari lettori golosoni, ho pensato di dividere la cottura di questo pezzo di carne in due parti: nella prima cercherò di aiutare chi si cimenta per la prima volta alla cottura delle costole di manzo, semplicemente spiegando la tecnica di cottura in forno. Una volta comprese le malizie, le difficoltà di questo particolare tipo di taglio di carne, vedremo come applicare il processo al dispositivo di cottura sulla brace.

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Beef Short Ribs al forno


Partiamo subito col dire che le short ribs non si mangiano né al sangue, né a cottura media né ben cotte. Per ottenere il risultato perfetto dobbiamo andare molto oltre il ben cotto. Questo perché, come dicevo prima, il taglio è molto ricco di grasso intramuscolare e di tessuto connettivo. Considerate che l'eccesso di frazione grassa, se non quasi completamente sciolta, potrebbe dare la sensazione di masticare una candela della Pentecoste. Per quanto riguarda invece il tessuto connettivo, la faccenda è ancora più complicata, perché davvero si rischia di slogarsi le mascelle se non riusciamo a scioglierlo del tutto. Come si fa a trasformare il tessuto connettivo in gelatina? Serve calore moderato, tempo e tanta pazienza. Non esiste nessuno stratagemma e nessuna scorciatoia per velocizzare questa fase, serve davvero tanta tolleranza e un bel po’ di tempo.

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Vediamo quindi molto brevemente come cuocere le nostre prime short ribs nel forno di casa. Mettiamo a fuoco un attimo il risultato: vogliamo una crosta esterna croccante, profumata, saporita e sapidina, mentre all'interno vogliamo che la polpa sia molto tenera, molto succosa e molto gustosa. Per arrivare a questo, il grasso intramuscolare deve liquefarsi e il tessuto connettivo deve convertirsi in gelatina. Adesso che abbiamo visualizzato qual è il risultato

a cui vogliamo arrivare, proviamo a capire qual è la tecnica migliore da applicare per giungere a questo traguardo. Abbiamo cinque momenti di cottura distinti da prendere in seria considerazione: primo momento, ripulitura del taglio o quello che gli americani chiamano trimming. Il taglio Short ribs è solitamente quadrato e può contenere tre o cinque ossa. Ha uno strato di grasso più o meno spesso da una parte e le ossa esposte dall’altro lato. La carne si trova sia tra un osso e l’altro, sia sopra l’osso. In mezzo allo strato di carne compreso tra lo strato di grasso e l'osso c'è una membrana chiamata silver skin, che ha l'aspetto del nastro telato che si vende in ferramenta, quello grigio per capirci. Questa silver skin in cottura non si scioglie, quindi se vogliamo evitare di avere questa pellicola fastidiosa dobbiamo avere l'accortezza di rimuovere tutto il grasso superficiale e poi, con un coltellino da disosso, rimuoverla tutta. Si tratta di una scelta personale che può variare in base a mille fattori, dal tipo di carne o anche in base al gusto di ognuno. Siete liberi di scegliere, personalmente preferisco lasciare la silver skin semplicemente perché non voglio rimuovere tutto il grasso in superficie. Per due motivi: perché è molto saporito


Il secondo momento di cottura è il condimento. Io vi consiglio un misto di sale, pepe e aglio. Due cucchiai di sale, un cucchiaio di aglio in polvere e mezzo cucchiaio di pepe nero. Non metterei altre spezie in questa finestra temporale per evitare di farle bruciare in forno. Questo mix è quello utilizzato di base anche in Texas ed è perfetto perché dà un equilibrio di sapore ideale senza coprire il gusto della carne. Il terzo momento di cottura è il riposo del guerriero. Mettiamo la nostra carne in una terrina di vetro, spolverizziamo con il nostro mix di spezie, copriamo con pellicola e la mettiamo in frigo dalla sera prima. Questa tecnica chiamata dry brining serve ad aumentare la ritenzione idrica della carne e ci aiuterà a mantenere succulenza in cottura. Lo so, in giro è pieno di gente che dice di non salare la carne prima, perché favorisce la dispersione dei liquidi. In realtà l’applicazione della tecnica dà il risultato opposto, cioè mantiene molta più succulenta la ciccia. Il quarto momento della cottura delle nostre short ribs è la cottura vera e propria. Accendiamo il nostro forno di casa a 130°C-140°C, modalità statica o modalità ventilata è assolutamente la stessa cosa, e pre-riscaldiamo per bene. Quando il forno è caldo, prendiamo le nostre short ribs e le mettiamo direttamente sopra la griglia, al di sotto mettiamo una leccarda con un dito d’acqua, che servirà a raccogliere i grassi disciolti in caduta. Chiudiamo il nostro forno e le lasciamo lì, ce le dimentichiamo. Non dobbiamo fare altro che aspettare. Gli effetti che il calore ha sulla carne sono noti: nelle primissime fasi della cottura la carne inizierà a bagnarsi, quasi a sudare, e questo è un fenomeno assolutamente normale. Ad un certo punto questi liquidi spariranno e inizierà a formarsi la crosticina che desideriamo tanto. Proseguendo con la cottura questo strato esterno croccante diventerà sempre più scuro e saporito. Nel frattempo, la polpa all'interno entrerà in una

fase che è quella che ci interessa parecchio, ovvero quella dello scioglimento del tessuto connettivo. Come facciamo a sapere qual è la sfumatura di cottura perfetta? Semplicemente utilizzando un termometro a lettura istantanea. Possiamo certamente avere un'idea vaga del tempo che ci vorrà a cuocere le costine, ma individuare il punto di cottura ideale è possibile solo grazie a questo strumento. Il nostro traguardo, cioè la temperatura al cuore alla quale dobbiamo portare il nostro pezzo di carne, è 95°C. L’unica cosa che dobbiamo fare è inserire la sonda del termometro ogni tanto nella carne e verificare la temperatura. Quando arriviamo ai 95°C al cuore, quello è il momento in cui abbiamo raggiunto lo stadio di cottura ideale. Fino a quando non li abbiamo raggiunti dobbiamo semplicemente continuare a cuocere. Una volta arrivati alla temperatura target dobbiamo compiere un'operazione che fa tutta la differenza del mondo ed è quella che ci permette di compiere la magia. Sto parlando del nostro quinto e ultimo momento di cottura: la fase di rest, di riposo. È la parte più semplice di tutto il processo ma quella più importante. La cosa da fare è spegnere il nostro forno e dimenticarci la carne al suo interno. Per inerzia termica, la ciccia lasciata nel forno, anche spento, inizialmente tenderà a salire di un paio di gradi, dopodiché inizierà a raffreddarsi e a scendere di temperatura. Ovviamente il forno caldo rallenterà il processo. Questo è il momento in cui il tessuto connettivo pian pianino si scioglie e si trasforma in gelatina, è una fase fondamentale. Ricapitoliamo: carne pulita, condita con sale, pepe e aglio, lasciata in frigo dalla sera prima. Il giorno dopo accendiamo il forno 130°C-140°C, mettiamo dentro la carne e la lasciamo andare fino a quando raggiungiamo i 95°C al cuore. Una volta raggiunti i 95°C al cuore spegniamo il forno, ce la dimentichiamo lì dentro e facciamo abbassare la temperatura fino a raggiungere i 65°C. Poco prima di servire le short ribs, andiamo a verificare nuovamente la temperatura. Se ci accorgiamo che è scesa al di sotto dei 50°C, non facciamo altro che riaccendere il forno e scaldare le costine per riportarle alla temperatura di servizio di 50°C-60°C-65°C. Semplice, no? Un taglio di short ribs della mia selezione verrà pronto in quattro/cinque ore, ma vi assicuro che l'attesa vale veramente la pena. Provateci e vi garantisco che mangerete le migliori Short ribs (al forno) della vita.

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e perché mi aiuta a schermare il calore. Dall’altra parte, sopra l’osso, c'è solitamente uno stato di grasso abbondante e un’altra membrana, chiamata pleura, che serve a tenere insieme il tutto. Anche lì potete decidere se rimuoverla o lasciarla, io preferisco conservarla perché da quella parte, di solito, non c'è carne commestibile. Senza contare che, nel caso dovessi andare un po’ lungo con la cottura, mi consentirebbe di tenere insieme tutto il resto.


Vediamo subito come si preparano le short ribs nel kettle. Come vi dicevo, useremo il kettle solo per la prima parte della cottura. La seconda parte continueremo a effettuarla in forno. Quindi, useremo il dispositivo a carbone per ottenere i due benefici che vi accennavo prima. Una volta raggiunto il risultato, termineremo la cottura in forno, che serve a sciogliere il tessuto connettivo della carne.

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Beef Short Ribs nel kettle (+forno) In questa seconda parte proveremo a spostare la tecnica di cottura dal forno al dispositivo a carbone. Prenderò in esame il dispositivo di cottura più diffuso in italia che è il Master Touch 57 di Weber. Da questo momento in poi lo chiamerò kettle, pentolone. Per i pochi che non lo conoscono, il kettle è un dispositivo di cottura a carbone molto robusto e facilissimo da adoperare. Vi spiego come si usa: sul fondo si posizionano le braci, in mezzo c'è la griglia di cottura e sopra il coperchio. Sul coperchio c’è integrato un termometro che rende agevole la lettura della temperatura interna del dispositivo. Sul fondo del braciere c'è un sistema di raccolta rapida della cenere, molto comodo. Insomma il kettle è il dispositivo di cottura dei veri griller, un must have, non si può non avere. Esistono tantissimi benefici che lo testimoniano, ma in questo caso ne dico due: il primo è che possiamo affumicare le nostre costine (il metodo lo vedremo tra un attimo), il secondo è che il calore secco del dispositivo a carbone ci permetterà di ottenere una crosta molto più evidente. E più crosta uguale più sapore.

Accendiamo subito la griglia e concentriamoci sul risultato: l’idea è quella di somministrare calore dolce per non bruciare le costine, per innalzare lentamente la temperatura, e per dare questa nota affumicata molto lieve. Ricordiamoci che il nostro dispositivo a carbone non ha manopole e manovelle. Quindi per stabilizzare la temperatura, per tenere cioè il kettle a 130-140°C (proprio come il forno di prima), dovremo usare degli stratagemmi. Dobbiamo tenere il nostro pentolone con le gambe incollato su quella soglia per almeno un paio d’ore, se non tre. Ma come? Esiste un metodo molto semplice da applicare, si chiama snake. Prima di passare allo snake vi dò una dritta sul tipo


Torniamo allo snake, vi mostro una foto così è più semplice da capire. Apriamo il coperchio e togliamo la griglia di cottura, lasceremo solo la griglietta in fondo sul braciere. Sul bordo di mezzo braciere disponiamo due file di bricchetti spenti su due livelli, ripeto solo su mezzo braciere. Dalla parte opposta posizioniamo una

leccardina monouso in alluminio con due dita d'acqua dentro. Questa leccarda ci aiuta in due modi: per prima cosa evita che i liquidi in caduta sporchino il braciere e producano un fumo puzzolente, poi l'umidità prodotta ci aiuterà a stabilizzare la temperatura interna del dispositivo. Mentre posizioniamo i bricchetti per lo snake, accendiamo un cesto con una ventina di bricchetti. Questa quantità è più che sufficiente per arrivare alla temperatura che ci interessa. Anzi, probabilmente saranno anche troppi. Una volta che i bricchetti sono completamente accesi, facciamo un'operazione semplicissima: li versiamo solo su uno dei due estremi del nostro serpentello di bricchetti spenti. Questo innescherà il classico effetto domino, cioè i bricchetti accesi, pian pianino, accenderanno quelli spenti. Quelli accesi da più tempo si esauriranno e in questo modo avremo sempre la stessa quantità di bricchetti accesi nella camera di cottura, senza dover toccare nulla. A questo punto ci organizziamo per dare la nota affumicata alla carne. Una volta che abbiamo messo all'interno i brichetti accesi, prendiamo una manciata di trucioli per affumicare (chips) e li gettiamo direttamente sopra le braci accese. Sono petali di legno che vengono venduti proprio allo scopo di affumicare i cibi, li trovate un

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di combustibile da acquistare. Al posto della normale carbonella, possiamo utilizzare dei bricchetti di carbone. Si tratta di carbone polverizzato legato con acqua e amido, poi compresso e infine asciugato in forno. Il risultato è una pastiglia molto compatta senza aria all’interno, che consente di ottenere una temperatura costante del dispositivo per tempi molto lunghi. Maggiore la quantità di bricchetti, più alta sarà la temperatura, e viceversa. Il metodo più semplice per accendere i bricchetti è quello di utilizzare una ciminiera di accensione come questa in fotografia. È una sorta di cestino forato che viene riempito di bricchetti, si accende un cubetto di paraffina sul fondo e dopo 15-20 minuti abbiamo il nostro combustibile pronto per essere utilizzato. Quando i bricchetti saranno completamente accesi fino alla sommità, basterà versare il contenuto del cesto dentro un braciere e il gioco è fatto


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po’ dappertutto. Per questa fase vi do il consiglio di usare dei trucioli di melo, perché hanno una nota affumicata molto delicata e non si corre il rischio di sovraffumicare la carne. Una volta acceso il kettle e posizionate le chips, rimettiamo la griglia di cottura e ci prepariamo a cuocere le short ribs trimmate e condite nello stesso identico modo che abbiamo visto nella prima parte. L’unica accortezza sarà quella di posizionare le short ribs non in corrispondenza del combustibile, ma in corrispondenza della leccarda, braci da una parte e ciccia dall’altra. Questo è quello che in gergo viene chiamato metodo di cottura indiretto. È in realtà una normalissima cottura per convezione, ma con il valore aggiunto dell’affumicatura, che è praticamente impossibile da ottenere in casa. Rimettiamo il coperchio e facciamo cuocere, questo è tutto. Dobbiamo lasciare andare la carne fino a quando non avremo ottenuto la profumatissima crosta che ci piace tanto.

In questa fase non ci occupiamo tanto della temperatura, il nostro risultato deve essere semplicemente visivo. Occhio all'errore però, potrebbe succedere che per qualche motivo la temperatura del kettle vada o troppo su o troppo giù. In quel caso si risolve così: dobbiamo prima di tutto verificare che le bocchette d'aria superiori e inferiori siano chiuse per metà. Se la temperatura dovesse essere ancora troppo alta dobbiamo fisicamente togliere bricchetti accesi, 1, 2, 3, 4, 5, quelli che servono, fino a quando la temperatura non va a posto. Chiudiamo il coperchio, aspettiamo cinque minuti e verifichiamo nuovamente la temperatura. Se è ancora alta dobbiamo continuare a togliere bricchetti, se invece è troppo bassa dobbiamo aggiungere bricchetti accesi. Il nostro obiettivo è stabilizzare il kettle ad una temperatura compresa tra 130 e 140°C, ricordate? Dobbiamo far cuocere le short ribs per almeno due ore, prima di verificare il risultato. Quando saranno trascorse, apriamo il coperchio e diamo un’occhiata. Se il risultato ci soddisfa, allora


Mi raccomando poi il passaggio più importante, la famosa fase di rest che è quella che compie l’incantesimo, cioè far sciogliere il tessuto connettivo in gelatina. Seguite passo passo le mie istruzioni e potrete sfilare le ossa dalla mattonella di ciccia come Artù con Excalibur. Breve riepilogo: kettle, togliamo il coperchio e la griglia, componiamo lo snake su mezzo braciere, due file di bricchetti su due strati. Dall’altro lato mettiamo la leccardina monouso con due dita d’acqua. Accendiamo 15 o 20 bricchetti con il cesto accenditore e poi, una volta accesi, li versiamo solo su uno dei due estremi del nostro serpentello

di carbone. Gettiamo una manciata di chips di melo direttamente sopra le braci, riposizioniamo la griglia di cottura e le short ribs, già trimmate e condite (con lo stesso identico mix di spezie). Ricordiamoci che le short ribs vanno posizionate non in corrispondenza del combustibile, ma in corrispondenza della leccarda. Cottura indiretta, chiudiamo il coperchio, ci assicuriamo che le bocchette d'aria superiori e inferiori siano chiuse e lasciamo cuocere e affumicare fino a quando non avremo ottenuto visivamente il risultato che ci siamo prefissati, cioè quando compare la crosta scura e profumata. Contiamo almeno un paio d’ore, forse tre, una volta ottenuta la nostra crosta togliamo la carne dal kettle, infiliamo nel forno e procediamo nello stesso identico modo che abbiamo visto prima, cioè aspettiamo il raggiungimento dei 95°C al cuore. Ricordiamoci poi della fase più importante, che è quella del riposo, il momento in cui il tessuto connettivo si scioglie in gelatina . Provateci e sarete pronti a spiccare il volo.

Gianfranco Lo Cascio

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è il momento di passare alla seconda fase. Se il risultato non ci soddisfa, richiudiamo il coperchio e le lasciamo andare. Una volta raggiunto l’obiettivo, cioè la formazione di questa crosta scura e saporita, tiriamo fuori le ribs dal kettle e le finiamo nel forno di casa, continuando a cuocere come nella prima parte. Dobbiamo arrivare, come prima, a 95°C al cuore.


Nice to MEAT you

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BEEF RIBS


Le costole di manzo sono molto popolari negli USA, ma sono particolarmente difficili da reperire nelle macellerie tradizionali italiane, proprio per la caratteristica della lavorazione che individua le prime 3-5 costole del manzo tagliate trasversalmente, con i muscoli della pancia ancora attaccati. Rispetto alle ribs di suino sono incredibilmente più saporite

ed intense. Un taglio dall’aspetto a prima vista primitivo, potrebbe spaventare i meno esperti. Se trattato a dovere, però, può regalare delle emozioni ineguagliabili. Indifferentemente dalla preparazione a cui vengono sottoposte (che sia barbecue, forno o persino una pentola) le beef ribs saranno sempre fra i tagli piu goduriosi in assoluto in termini di sapore e consistenza, questo grazie al loro abbondante contenuto di collagene e grasso intramuscolare. Nomi • Beef Short ribs, Beef Back ribs , Chuck Short ribs, Plate Short ribs • Costato, pancia con osso

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Le beef ribs sono iconiche: le nomini, e subito è un susseguirsi di stereotipi (giusti e sbagliati) riguardo gli Stati Uniti, Paese dove hanno una considerazione così alta pari soltanto a quella che si ha nei confronti del Brisket. Anzi, vi diremo di più: molti cultori e Pit Master d’oltreoceano le preferiscono di gran lunga alla punta di petto.


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DESCRIZIONE Come già accennato sopra, le Beef ribs sono le costole del bovino. Ce ne sono 13 per ogni lato dell'animale, che partono dalla colonna vertebrale e si uniscono allo sterno. Da queste, si possono ricavare principalmente due tagli: Back ribs e Short ribs. Le Back ribs sono l'equivalente delle baby back del suino, cioè sono ricavate dalla la parte iniziale delle costole, vicino alla spina dorsale. Guardandole da un altro punto di vista, non sono altro che le ossa della bistecca di costa, motivo per cui i macellai preferiscono lasciare la carne sulla ribeye piuttosto che sulle Back ribs.

Le beef short ribs sono la continuità delle Back ribs fino allo sterno equivalenti alle St. Louis del maiale. Possono essere ulteriormente divise in due (Chuck short ribs e Plate short ribs), in base a come è stata divisa la carcassa, separando anteriore e posteriore con 3 e 10 costole o 5 e 8 costole. La sola dicitura Beef Short ribs di solito rappresenta le Plate Short ribs. Le Chuck Short ribs, grazie ad un contenuto maggiore di tessuto connettivo e marezzatura, possono risultare più saporite; tuttavia le pecche non mancano, di fatti si presentano più piccole, con meno carne e una superficie solitamente non uniforme .

Bisogna ricordare che nella macellerie italiane è difficile reperire le Chuck Short ribs perché il sezionamento del bovino viene fatto diversamente, e solitamente le prime 3/5 costole che rimangono attaccate alla spalla (anteriore) vengono lavorate come spezzatino o carne trita, dopo averle segate quasi a metà per separare il reale con osso. P U L I R E , TA G L I A R E E PREPARARE LE BEEF RIBS La pulizia o trimming delle Beef ribs si effettua come sempre con un coltello ben affilato dalla lama non troppo lunga, eliminando il grasso in eccesso e -in base alla ricetta sceltaa volte anche la membrana


e alla cottura impegnativa è stato considerato per molto tempo un taglio di seconda categoria, motivo per cui è protagonista di migliaia di ricette in giro per il mondo.

Supponendo che abbiamo un pezzo bello grande e abbiamo deciso di porzionarle singolarmente, possiamo effettuare, senza troppa difficoltà, un taglio verticale in mezzo alle costole. Al contrario, se vogliamo le nostre ribs ancora piu “short” in stile “asado”o per dirlo alla coreana “galbi”, dobbiamo pensarci prima in quanto bisogna segare le ossa, cosa un po’ difficile da fare a casa. È meglio quindi decidere di acquistarle già tagliate, e per questo ci viene in aiuto il nostro Megastore.

Consapevoli del fatto che il nostro taglio è molto tenace, dobbiamo armarci di tanta pazienza. Se vogliamo cucinare le nostre ribs intere, tipo “fall off the bone” in una cottura lenta, che sia forno o bbq, la temperatura da raggiungere sarà 98°C al cuore. Potrebbero servire anche 8 o più ore per essere perfette. In questo tipo di preparazione e consigliato il Texas Crutch (tranquilli: troverete un approfondimento nella rubrica From Zero to Hero) per poter sciogliere il più alto quantitativo di connettivo all’interno della carne, per mantenerla tenera e succosa.

TECNICHE DI COTTURA Le Beef ribs possono essere cucinate sia intere che tagliate a pezzi più grandi, e persino piccolissimi, utilizzando molteplici tecniche di cottura come smoking o braising. Grazie al grasso in abbondanza

Indipendentemente dalla ricetta da voi scelta, che sia all’americana o con sfumature fusion, ricordatevi che un tempo prolungato vi darà il miglior risultato.

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sottostante. Girando il nostro pezzo con le ossa in su, possiamo eliminare la pleura sollevandola con un coltello a punta tonda o il manico di un cucchiaio. È consigliato sciacquarle sotto acqua corrente se presentano frammenti di ossa dovuti al taglio.


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BEEF RIBS

Le mie costine son più grosse delle tue, pappappèro.

Portfolio gastronomico a cura di Emiliano Nencioni

Un tipico pomeriggio di autunno, nella redazione itinerante del BBQ4All Magazine:

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“Allora questo mese l’articolo grosso lo fai tu, è sulle beef ribs.” “Perfetto, ma grosso in che senso?” “Grosso. Un sacco di roba. Devi dire tutto, più di dodicimila caratteri. Lo firmi tu, quindi puoi inserire anche considerazioni personali, aneddotica, informazioni storiche.” “Benissimo, ma quindi posso anche…” “Niente digressioni sulla tua infanzia, nessun tentativo di trovare similitudini fra il ponte di Einsten-Rosen e uno smoker verticale, non tentare di spiegare i presocratici, non servirti di complicatissime metafore per vendicarti di gente che ti ha fatto innervosire anni fa.” “Ecco.” “Parla solo di carne.” “E che problemi ci sono.” “E consegna in tempo.” “Come sempre!” “No, in tempo, non come sempre. In tempo.” Beef ribs, cari lettori, beef ribs! Sedetevi sulla vostra poltrona più comoda, o su qualunque oggetto riesca a stimolarvi la voglia di informarvi e di lasciarvi pervadere da consapevolezza e conoscenza: sarà una lunga lettura, ma densa di preziose informazioni. Personalmente ricordo di essere venuto a contatto con il mio primo morso di beef ribs “in età avanzata”: partecipavo già alle gare KCBS di American barbecue, e per qualche motivo il mio interesse non si era mai soffermato su questa preparazione; dovete sapere che in queste gare una cosa che non manca mai è il tempo libero, o il tempo da perdere. Lunghissime giornate in attesa di qualcosa che avverrà “fra poco”: l’ispezione della carne, il tizio noto che passa a salutare, il brisket da mettere in

foil, la premiazione, il momento di andarsene, tutti eventi chiave che avvengono semplicemente quando vorranno avvenire. È consuetudine, per passare il tempo e per far passare -ad ogni costo!- questo concetto di convivialità e di grande amicizia, che ogni team nei tempi morti prepari qualche specialità da offrire agli altri iscritti alla tenzone. Notando che una buona parte delle squadre presenti fa anche catering, o fa capo ad un ristorante, o è a vario titolo sponsorizzata da chi vende carne, l’altruismo e la convivialità ben si sposano con una certa auto promozione. Proprio approfittando di questa gratuita e generosa manifestazione di convivialità (la ripetizione è voluta) ho accettato con piacere l’offerta di un assaggio di beef ribs, magistralmente preparate da un concorrente. Lo scetticismo iniziale - a volte si accetta solo per la mancata prontezza nell’inventarsi una scusa - si è dissolto rapidamente nelle mille stimolazioni sensoriali del primo boccone, prorompendo in una sorpresa di un sapore deflagrante che, lo ammetto, potrebbe aver costruito un ricordo più roseo di quanto in realtà potesse obiettivamente essere. Inoltre, avevo pure una fame bestia. Il sapore di manzo più complesso, equilibrato e gradevole mai sentito, secondo solo a quella volta in cui mangiai la mia prima ribeye che un certo Gianfranco Lo Cascio mi aveva appena insegnato a grigliare alla perfezione. Da allora una delle mie (tante!) ossessioni è stata quella di ricreare quel gusto, quella sorpresa e quel colpevole senso di appagamento trovato in quell’assaggio sul campo gara. Fallendo, non lo nego, il più delle volte. Una volta erano troppo dure. O poco sapide. A un certo punto iniziarono ad avere un sapore di lesso vecchio. Diverse volte erano così grasse che non si trovava la carne, e sono arrivato a bombardarle


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così tanto di glutammato per esaltarne il sapore che pareva di ciucciarsi una caramellina di Dado Star: una delizia, senza dubbio. Questo perché? Perché non avevo letto il Magazine. Non avevo letto il Magazine con i consigli e gli accorgimenti che il me stesso del futuro avrebbe dato, dopo l’esperienza dei tanti fallimenti. E se non avessi fallito così sonoramente, leggendo l’articolo del me stesso del futuro, sarei mai stato in grado di scrivere, anni dopo, l’Articolo Grosso sulle beef ribs sul magazine? Questi e altri lancinanti interrogativi assillano la mente di un grigliatore con la spiccata tendenza a impelagarsi in riflessioni fuori contesto e castelli in aria. Il lettore più curioso si documenterà in autonomia googolando “Il paradosso del nonno”.

Back on topic, quindi, e andiamo più prosaicamente a parlare di: Flavour profile: i vostri obiettivi Fosse ancora necessario ribadirlo, lo ribadiamo: ogni preparazione “tipica” ha il suo flavour profile, il suo “obbligato” in termini di esecuzione e gusto. Se siete abbastanza assennati da non servire in tavola spaghetti lessi annegati nel ketchup e polenta con la maionese comprenderete come questi piatti, radicati nella tradizione texana più sacra, dovranno avere un gusto e una filosofia di base coerente con le loro origini. Quello che dovete ricercare sarà:


Smoky Flavour: una lieve ma percepibile nota di affumicato, non invadente, ottenuta dalla combustione incompleta di legna aromatica. Bark: lo sapete benissimo, è la corteccia duretta e croccantina data dalla cristallizzazione delle spezie durante la lunga cottura. Ho detto corteccia, non panatura. Non intonaco. Avere un bark pallido, molle e umido è un errore micidiale, e può rovinare “sensorialmente” ogni morso, dando una sensazione tattile leggermente ripugnante. Aspetto a parte, se volete rimanere nel filologicamente corretto avete poche alternative nella sperimentazione dei rub: la tradizione comanda solo sale, pepe, aglio. Non ci sono evidenze tuttavia di sanzioni a carico di chi volesse trasgredire, per cui se nei vostri gusti rientra l’aggiunta di una punta di paprika sentitevi liberi: promettete soltanto di non esagerare e di non lanciarvi in improbabili contaminazioni etno-inclusive con cumino, coriandolo, curcuma e altri sapori sovrastanti che potrebbero portavi estremamente fuori strada. Aspetto: indovinate un po’, dovranno essere belle. Cerchiamo di codificare la soggettività del Bello ricercato in un costato di manzo stabilendo

che dovranno avere un colore mogano scuro uniforme, un bark privo di buchi e chiazze e, se possibile, uno smoke ring ben visibile al taglio. Dello smoke ring abbiamo parlato innumerevoli volte su queste pagine, soffermandoci ogni volta sull’inutilità pratica di questo anello rossiccio, testimone più di una reazione chimica che di un certo sapore: in questo momento però stiamo concentrandoci sulla bellezza, sull’aspetto, e lo smoke ring è un po’ come gli addominali scolpiti della carne. Poco utili funzionalmente, ma responsabili di molti abbonamenti semestrali in palestra. Consistenza: questo taglio è molto ricco di connettivo, ragion per cui nessuno si sogni di pensarlo “al sangue” o “bello duro come piace a noi che ci facciamo le foto profilo a braccia incrociate e fiorentine da 5kg in mano”. Tutto il contrario, la carne deve essere talmente morbida e il connettivo talmente gelificato che deve essere possibile morderlo solo con le labbra, senza l’aiuto dei denti. Completamente dentiera-friendly, cari eventuali lettori senior.

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Il taglio Tutti abbiamo quell’amico brillante e contrario ai poteri forti con il gusto di dare a tutti il consiglio giusto: “dai retta a me, lascia perdere quelle schifezze online impacchettate nella plastica, vai da Coso, dì che ti mando io, fatti mettere da parte un bel biancostato!” E vi ritrovate con un pezzaccio da brodo, ingrato e rancoroso, lavorato con l’attenzione che si riserva ad un prodotto di terza scelta. Buttate soldi, tempo, carbone e credibilità presso gli invitati. In questo caso ricorrere ad un prodotto commercialmente destinato per questo tipo di preparazione è cruciale, visto che le costole del manzo che ci interessano sono, tra le tredici paia disponibili per capo di bestiame, le back ribs: si ricavano partendo proprio dalla colonna vertebrale dell’animale e condividono guarda caso molta carne con il pezzo da cui si ricavano le ribeye, ragion per cui si rischia che il macellaio “generalista” abbia interesse a lasciare ben poca carne attaccata all’osso. Il metodo: il bivio iniziale Due sono i metodi a tutt’oggi codificati e facente parte di un certo canone e di una celebrata ortodossia: wet e dry. • Wet: “bagnato”. Prevede la costante idratazione della carne in cottura tramite spruzzate di liquidi e spennellate (con un sospetto pennellone tipo lavapavimenti in miniatura, praticamente impossibile da lavare bene) di salsa, con ricorso al cartoccio d’alluminio (texas crutch) nella parte finale della cottura. L’obiettivo è quello di rendere la carne il più idratata e saporita possibile, con il compromesso di ritrovarsi necessariamente un bark un po’ meno cristallizzato. • Dry: “asciutto”. Metodo texano fino al midollo, niente spennellate e niente texas crutch: si va avanti così, piano piano, senza particolari interventi, fino a cottura ultimata. Niente foil, niente spruzzatine, tutto bello asciutto fino in fondo, per un bark clamoroso. Certamente, avere un enorme affumicatore pieno di altri pezzi di manzo che stai cuocendo per il tuo ristorante di successo aiuta, aiuta molto, in termini di “umidità in camera di cottura”. Sono gusti, e ognuno ha il suo. In questo articolo

proseguiremo parlando del metodo che ha portato risultati migliori al sottoscritto, una minuscola variante che potrei definire abbastanza wet. Ecco la parte che stavate aspettando: prendete i vostri guantini neri che fanno tanto American barbecue, qui iniziamo a sporcarci le mani. Trimming Osservate bene la carne a vostra disposizione e individuate eventuali brandelli o zone troppo sottili, che saranno da rimuovere. Rifilate per bene il pezzo in maniera che abbia un aspetto ben squadrato e “ordinato”. A questo punto, sono due le scuole di pensiero che si sono fatte largo: c’è chi preferisce togliere la pleura e chi invece preferisce lasciarla. Se siete fra quelli che preferiscono toglierla, fate così: facendo leva con il manico di un cucchiaio o qualcosa di stondato, alzate la pleura, quella membrana dura presente nella parte interna delle costole. Sollevate un lembo, infilate un dito, tirate, sollevate un altro lembo, dito, e così via, cercando di strappare meno volte possibile la pleura e provando per quanto possibile a fare un lavoro pulito. Scoprirete quanto questa operazione sia la versione “pro” della rimozione del coperchio dello yogurt. Impugnate il vostro coltellino preferito e procedete al trimming del grasso, entrando però in modalità conservativa: non dovete togliere tutto tutto, anzi, il grasso vi aiuterà in cottura e avrà una parte preponderante nel sapore del piatto. Togliete grumi, parti dallo spessore sproporzionato al resto, zone in eccedenza, brandelli e agglomerati anomali. Il trucco è cercare di bilanciare la presenza e il gusto del grasso con la possibilità, assolutamente non remota, che in cottura, fondendo, l’ammasso lipidico si porti via troppo del vostro agognato bark. Un fattore da tenere ben presente è che a spessori più elevati corrispondono velocità di cottura minori, con l’ovvia conseguenza di poter stracuocere le parti più sottili per portare al giusto obiettivo i punti più ricchi di carne: a voi la facoltà di giudicare quanta preziosa proteina eventualmente sacrificare sull’altare dell’omogeneità di cottura. A trimming ultimato è una buona idea dare alla carne una bella lavata sotto acqua corrente, per eliminare eventuali frammenti di osso.


Per quanto il verbo “to rub” significhi letteralmente “strofinare”, io preferisco limitare l’azione massaggiante a un primo approccio con solo olio d’oliva (vi aspettavate che scrivessi olio EVO? Solo a me porta alla mente la classica ampolla di olio sintetico per motori due tempi? E poi, davvero sprechereste “l’olio buono” per questo compito meramente adesivo?), giusto per depositare uniformemente il film che farà da collante. Successivamente preferisco deporre il rub, rigorosamente l’Ultimate SPOG della linea Sal’s Seasoning, provando a formare uno strato il più possibile

uniforme: evitando di frizionare con le mani la polvere in questa fase, impedirete la formazione di grumi. Credo che in ogni ricetta trovata in tre anni di Magazine abbiate letto “un velo sottile, non una panatura!” quindi, sì, anche stavolta vale la stessa raccomandazione. Coperto di rub, non affogato. Un velo, non una sabbiatura. Temete che lesinare sul rub porti a uno scarso bark? Tranquillizzatevi: questo metodo prevede una seconda fase di speziatura, nella parte iniziale della cottura. Lo vedrete poco più avanti.

Cottura Supporrò che intendiate cuocere le beef ribs in un

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Stesura del rub


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Setup del bullet smoker: 1. Seguendo il Minion Method, versate il combustibile spento, carbone o bricchette, nel braciere; versate al centro mezzo cesto accenditore di combustibile acceso e ben arroventato. Durante la cottura, il calore si propagherà e accenderà il carbone circostante, provvedendo ad una cottura lunga e stabile. 2. Nel waterpan, per agire da volano termico, provate a mettere sale grosso in luogo dell’acqua: l’umidità in camera di cottura sarà

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fornita dalle ribs stesse. Tecnicamente potreste anche mettere della sabbia, ma ho constatato una cosa che nessuno sembra evidenziare: la sabbia, quando si scalda, puzza. Ma tanto. A meno che non abbiate accesso ad una qualche varietà di sabbia depurata, sterilizzata e inodore, consiglierei di evitare questa soluzione. Aggiungete dei chunk di legna aromatica, o al limite fatevi bastare delle chips, quei frammentini di legno che non durano niente ma che hanno l’innegabile pregio di essere facilmente e velocemente reperibili in moltissimi supermercati in caso di emergenza. La scelta dell’essenza è prettamente personale, e francamente sostengo che la differenza maggiore si senta nella qualità dell’operazione di affumicatura piuttosto che nel legno usato. A parità di tecnica però ho sempre trovato impareggiabile, sul manzo, l’aroma dato dal mogano: vista la scarsa reperibilità commerciale di quest’ultimo e affinché nessuno si precipiti a dare alle fiamme l’armadio fin de siècle di nonna, vi consiglio l’hickory. O, in definitiva, quello che vi pare, visto che dalle

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bullet smoker verticale, a mio avviso il setup più efficace ed efficiente fra le soluzioni abbordabili in ambito amatoriale - casalingo. Se aveste necessità di usare un normale kettle le istruzioni non cambiano di molto, basterà adottare un setup per la cottura indiretta e fare attenzione che, essendo la pietanza relativamente grande, la parte più vicina alla fonte di calore non finisca per arrostirsi completamente ben prima che la cottura sia ultimata. In questo caso un paio di rotazioni delle beef ribs durante la cottura saranno d’aiuto.


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nostre parti è già manna se si trova qualcosa “fuori stagione”. 4. Mettete le beef ribs (se possibile non fredde, non appena tolte dal frigorifero) sulla griglia alimenti e inserite non troppo vicino all’osso una sonda per misurare la temperatura. 5. Chiudete il coperchio e stabilizzate il dispositivo, servendovi del bilanciamento fra vent in e vent out, a 120°C circa. L’attesa Per tenervi occupati e ingannare il tempo potete adoperarvi in alcuni gloriosi propositi: • Spruzzate di tanto in tanto, con aceto di mele, le estremità delle ossa che mano a mano inizieranno a sporgere durante la cottura: eviterete che possano bruciarsi e nel contempo raffredderete minimamente il rub, in modo che disponga di più tempo per trasformarsi in crosta. • Dopo circa due ore aprite il coperchio, correggete eventuali problematiche di setup, ispezionate la carne facendo scolare via eventuali pozze di liquido formatesi in superficie e deponete altro rub sul costato di manzo, per una extra croccantezza e sapidità. Quando la sonda del termometro indica 85°C, e comunque non prima che il bark si sia formato, preparate tutto il necessario per la cruciale fase comunemente detta “andare in foil”: con delle pinze molto robuste togliete le beef ribs dalla griglia e appoggiatele su un provvidenziale tavolino allestito nei paraggi. Qui, con abbondante quantità di foglio di alluminio costruite il Texas Crutch, un sacchettino triplo strato simile all’incarto di una caramella o di un cioccolatino ripieno. Volendo fare i salutisti, per non far stare la carne per troppo tempo a contatto dell’alluminio sottoposto a temperature effettivamente non bassissime, potete interporre un velo di carta da forno fra costato e metallo. Non dimenticatevi di infilzare di nuovo la sonda e di far passare il cavo dal Texas Crutch, e riportando la carne sulla griglia fate attenzione: le ossa potrebbero rompere l’alluminio e sarà tutto da rifare. Diversamente dal brisket, le beef ribs non hanno esattamente una loro temperatura target, alla quale poter terminare la cottura così, alla cieca:

similmente alle pork ribs infatti una attenta ed esperta valutazione fisica conduce a risultati migliori. Difficile anche poter dire con sicurezza di quanto tempo avrete bisogno, perché a grandezze e soprattutto spessori diversi corrispondono tempi diversi. Mettete in conto quindi di dover eseguire più volte il “test della sonda”, in cui servendovi della sonda del termometro punzecchierete la carne in profondità: quando affonda senza sforzi e senza ostacoli, il collagene si è sciolto, la carne è morbida e la cottura può essere arrestata. Il feedback tattile e la vostra esperienza vi daranno molte indicazioni. Il Rest Il riposo è fondamentale. Anche qui. Una volta raggiunta la morbidezza necessaria e la temperatura al cuore di almeno 95°C, lasciate il costato (in texas crutch aperto per far uscire il vapore e successivamente richiuso) in un forno tiepido o in un isobox pulito e ben chiuso per quanto più tempo potete. In questo lasso di tempo i liquidi della carne riprenderanno leggermente viscosità, il collagene residuo continuerà a gelificarsi e, in linea di massima, tutto l’aspetto tattile / palatale / gustativo ne gioverà. Se avete, in maniera molto lungimirante, lasciato la sonda termometrica inserita, la soglia dei 65°C indicherà un buon momento per interrompere il rest e procedere al servizio. Il banchetto Ormai è fatta. Avete le vostre bellissime beef ribs da servire e un sacco di aspettative da soddisfare, probabilmente anche qualche scettico da zittire. Personalmente ritengo questo un piatto da consumare in purezza, così come esce dallo smoker, al limite solo aggiustato di sale. Tuttavia proporre anche un chimichurri preparato di fresco potrà essere un modo per rendere il vostro trionfo culinario ancora più evidente agli occhi di tutti: preparatene quindi una ciotolina pro capite, per dar modo ad ogni partecipante di inzuppare in libertà il proprio boccone senza anti-igieniche e promiscue condivisioni. Potete tagliare le ribs in fettine oppure dare generosamente “un osso a testa” per sortire l’immancabile effetto “dinosaur ribs” che farà ridere grandi e piccini, yippee-ki-yay.


prezzemolo / 40 g di origano / 4 spicchi di aglio / 60 g di cipollotto / 1 peperoncino / 6 cl di succo di limone / 4 cl di aceto di mele / 120 g di olio extravergine d’oliva / 6 g di sale / 4 g di pepe in grani

PREPARAZIONE 1.

Inserite in una ciotola il prezzemolo lavato e tritato insieme all'aglio precedentemente pulito e tritato.

2.

Pulite il peperoncino, eliminate i semini, tagliatelo finemente e aggiungetelo alla ciotola con il cipollotto e l'origano tritati, salate e pepate, unite l'aceto di mele, il succo di limone e l'olio.

3.

Mescolate bene, amalgamando tutti gli ingredienti. Una volta pronto, lasciate riposare il Chimichurri in frigo fino al momento del servizio.

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Ingredienti per il Chimichurri: 60 g di


RAGÙ DI PORK RIBS è il nuovo nero... sta bene con tutto! Riguardo le origini del ragù si è detto di tutto: popolazioni intere se ne contendono la paternità, ma ficcarsi in faccende del genere non ci è mai piaciuto e mai ci piacerà. Con il nome ragù, sin dal Sedicesimo secolo, si identificano delle ricche preparazioni con protagonisti animelle, carne di coniglio, punta di petto di manzo, finanche ragù di uova e gamberi, con molte spezie e condimenti vari. Le descrizioni principali le ritroviamo ne Il Cuoco Galante, l’opera omnia del gastronomo napoletano Vincenzo Corrado, che racchiude bene o male buona parte della storia della cucina della penisola. Attenzione, però: con il termine ragù – italianizzato dal francese ragout, a sua volta da ragouter – non si intendeva un “condimento” delle tagliatelle o dei maccheroni, bensì una sorta di salsa d’accompagnamento, di intingolo, o ancora una salsa da utilizzare come sostanzioso ripieno: niente a che vedere con la pasta, cui l’associamo oggi, se non molto più in là nel tempo.

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In un primo momento, non era prevista nemmeno l’immissione del pomodoro, da poco arrivato sulle tavole europee. Fu Francesco Leonardi, gastronomo ed autore de L’apicio moderno (pubblicato nel 1790 e altro grande compendio di storia della gastronomia della penisola italiana), ad introdurre sia la possibilità di inserimento del pomodoro, sia a considerare il ragù (codificato in questa versione) come condimento per i maccheroni. Di versioni del ragù ne esistono, ovviamente, a centinaia nella sola penisola italiana: basti pensare alle sostanziali differenze tra ragù napoletano e ragù bolognese, per non parlare delle derive locali presenti ovunque con il ragù di lepre, di cinghiale o altra selvaggina, o ancora di coniglio. Viene normale, quindi, considerare il ragù come una ricetta univoca, così come si perviene facilmente alla conclusione che il ragù

autentico, non esiste. Viene fatto quotidianamente con la scelta degli ingredienti dello stesso: se tra napoletani e bolognesi la sfida si sposta sul piano del formato della carne (i napoletani tassativamente utilizzano carne in pezzi, mentre i goderecci bolognesi preferiscono carne trita), la scelta della tipologia di carne spesso non è felice. Soprattutto il popolo napoletano, ha una vera e propria venerazione per la scelta di tagli di carne poveri. Tagli che spesso, con la cottura prolungata, si rivelano del tutto inadatti ad un ragù saporito. Carne di manzo e maiale viaggiano a braccetto, nella scelta e preparazione del ragù. I napoletani preferiscono la loro colarda, conosciuto in Italia come scamone e da noi come rump steak, insaporendo poi il tutto con le tracchie di maiale, cioè le spuntature; altri aggiungono anche dei fagotti di cotica di maiale ripieni di pinoli, uvetta, prezzemolo ed impasto per le polpette. Fermiamoci un attimo. Abbiamo detto tracchie? Spuntature? Be’, a questo punto, noi del Magazine non possiamo far altro che distinguerci: perché non preparare un goloso, sostanzioso ragù aggiungendo le nostre Smoked Duroc Baby Back Ribs accuratamente selezionate dal Megastore? Le Smoked Duroc Baby Back Ribs, tuffate in un sugo di pomodoro e poi cotte lentamente ed insaporite, vi daranno un ragù eccezionale, restando deliziosamente tenere. Fedeli alla nostra italianità, ve lo abbiamo presentato con la pasta, ma fidatevi di noi quando vi diciamo che, sul serio, sta bene proprio con tutto: sui crostini, nella piadina, nei tacos, nei panini o per presentare piatti dal sapore più esotico con riso in bianco, verdure e avocado… insomma, è davvero il nuovo nero.


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Ingredienti per 4 persone: due slab di

Smoked Duroc Baby Back Ribs / una cipolla / mezza carota / un gambo di sedano / 2 spicchi d’aglio / un cucchiaino di tabasco / un cucchiaino di salsa di soia / un cucchiaino di aceto di mele / olio extravergine di oliva / vino bianco q.b. / pepe q.b. / 100 g di passata di pomodoro / un cucchiaino di concentrato di pomodoro / mezzo litro di brodo vegetale

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PREPARAZIONE 1.

Aprite la confezione delle ribs e mettetele nel forno di casa (modalità statica) o nel vostro dispositivo ad una temperatura di circa 80°C; dopo circa mezz'ora passate a 110°C (se usate il forno di casa, andate in modalità ventilata) per far asciugare il bark. Una volta asciugato il bark, non è finita qui: avvolgete le ribs in un doppio strato di alluminio con un poco di liquido all’interno e lasciatele cuocere ancora finché non vi accorgerete che si staccano completamente dall’osso (ci vorrà circa un’ora e mezza). A quel punto potete toglierle dal forno o dal vostro dispositivo.

2.

Togliete le ossa dalle slab e togliete la pleura. Spezzettate la carne delle ribs col coltello in modo grossolano. Preparate un soffritto con sedano, carota, cipolla e aglio e poi aggiungete la carne. Lasciate insaporire per qualche minuto poi sfumate con vino bianco. Non è necessario aggiungere sale, poiché le ribs sono già salate al punto giusto.

3.

Aggiungete la passata di pomodoro, la salsa di soia (non esagerate), il tabasco e il concentrato di pomodoro. Aggiungete all’occorrenza mezzo bicchiere di brodo vegetale, lasciate che lo stufato prenda il bollore, poi abbassate i fuoco, coprite e lasciate andare per un paio d’ore. Se dovesse asciugarsi troppo in cottura, aggiungete ogni tanto un poco di brodo.

4.

Quando il ragù sarà pronto, lasciatelo ritirare qualora risultasse troppo liquido e poi servitelo condendo la pasta o, come dicevamo in precedenza, nel modo in cui più vi piaccia (suggerimento: con una fetta di pane fresco direttamente dalla pentola è la morte sua!)


A tutto fritto!

FRIED PORK RIBS WITH MASHED POTATOES

Avete presenta l’hashtag #foodporn che tanto spopola sui social? Ebbene, se dobbiamo pensare a un piatto che possa rappresentare perfettamente questa categoria, sicuramente le Pork Ribs Fried - ovvero prima affumicate alla maniera classica e successivamente fritte - sono ai primi posti. Se, come dice il noto proverbio, anche una suola di scarpa è buona se viene fritta, immaginate cosa può succedere alle succulentissime ribs di maiale Duroc che ben conoscete. Esatto, succede proprio quella cosa là che state pensando: croccanti al morso, succose all’interno e con quel gusto affumicato tanto amato da tutti noi griller. State già sbavando, vero? Abbiamo scelto di servirle con un contorno che fosse alla loro altezza, sia nel gusto che nel divertimento nel prepararlo: le mashed potatoes. Parliamo di patate che, di solito, vengono lessate, poi schiacciate grossolanamente, condite con burro, sale e latte, infine insaporite con altri ingredienti, secondo il proprio gusto. Oltreoceano va forte la versione con – che strano, non ce lo saremmo mai aspettati! – cheddar e bacon. E’ un contorno molto simile al nostro purè, insomma, ma con un plus di sapore. Noi, come potete ben immaginare, aggiungiamo un ulteriore passaggio, cuocendo le patate in ember roasting.

Bando alle ciance, tuffiamoci in questa preparazione deliziosa e di sicuro effetto sui vostri ospiti. Noi vi daremo il procedimento partendo dalle ribs crude, in modo che possiate vivervi un’esperienza completa in griglia, ma se volete prendere una scorciatoia, le ribs precotte del nostro Megastore fanno al caso vostro. A voi la scelta.

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Abbiamo parlato spesso di questa tecnica. Le patate si prestano benissimo ad essere preparate in questo modo: molti di voi, anche prima di sapere cosa volesse dire cottura a contatto diretto con le braci, da bambini avranno visto i loro nonni cuocere le patate sotto la cenere del camino. Bene, noi lo faremo con il kettle, ma il risultato non cambia. Dovremo cuocere a lungo i nostri tuberi, in modo che raggiungano il punto in cui sarà facilissimo scavarle e schiacciarle senza che oppongano resistenza alla nostra forchetta. A quel punto, il gioco sarà fatto.


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Ingredienti per 4 persone: per le pork ribs: due slab di Pork Ribs di Maiale Duroc (Baby Back o St. Louis) / tre cucchiai di Ultimate SPOG della linea Sal’s Seasoning / olio extravergine di oliva q.b. / due cucchiaini di paprika / due uova / farina q.b. / panko q.b. / un litro di olio di semi di arachide per le mashed potatoes : 800 g di patate a pasta gialla / 100 g di burro / 100 ml di panna fresca / sale q.b. / a piacere del prezzemolo e un Rub della linea Sal’s Seasoning per servire PREPARAZIONE RIBS 1.

Preparate il vostro dispositivo per una cottura indiretta a circa 110°C. Stabilizzatelo: se utilizzate un dispositivo a carbone, per aiutarvi potete inserire una vaschetta d’acqua al livello della griglia carboni.

2.

Trimmate e ripulite le slab di ribs da eventuali accumuli di grasso. Togliete la pleura, poi spennellatele con un filo d’olio e spolverizzate il rub ottenuto mescolando lo SPOG con la paprika. Ricordate di non esagerare mai col Rub, per evitare l’effetto fettina panata.

3.

Mettete in cottura le vostre ribs, affumicandole con chips di legno fruttato, e chiudete il coperchio del dispositivo.

4.

Quando il bark sarà ben formato, avvolgetele in un doppio strato di alluminio con un poco di liquido (acqua, aceto di mele) e rimettetele in cottura finché non avranno raggiunto il grado di cottura che preferite (anche se in questo caso vi sconsigliamo di portarle al punto che si distacchino completamente dall’osso). Dovranno essere cedevoli ma ancora di una certa consistenza.

5.

Tenetele in rest mentre preparate la pastella con uova, farina e un pizzico di sale. Tagliate le ribs e poi passatele prima nella pastella e poi nel panko.

Scaldate l’olio di semi e friggete le vostre ribs velocemente: appena il panko si dorerà, toglietele dall’olio e passatele su un foglio di carta assorbente. Servite le ribs con le masched potatoes. PREPARAZIONE MASHED POTATOES

1.

Avvolgete le patate in un doppio strato di fogli di alluminio e appoggiatele in cottura direttamente sotto le braci.

2.

Chiudete il coperchio del vostro dispositivo e attendete il tempo necessario per cui i tuberi risultino completamente cedevoli infilando uno stecchino. A quel punto togliete le patate dalle braci.

3.

Lasciate che si raffreddino leggermente, poi apritele e scavatele, ricavando la polpa morbida.

4.

Schiacciatela grossolanamente con una forchetta, poi in un pentolino sul fuoco aggiungete il burro, il sale e il latte. Lasciate che il tutto si insaporisca, poi servite le patate così preparate con un poco di prezzemolo, un cubetto di burro e uno dei Rub della linea Sal’s Seasoning che preferite.

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6.


GIANT RIB SANDWICH Mostruosamente buono! Gli americani, si sa, hanno la mania di fare le cose sempre più grandi del resto del mondo. Nel 2018, in Minnesota, hanno realizzato un panino da più di quattro metri di diametro: si sono serviti di una gru per spostarlo. Ma, come giustamente alcuni fanno notare, grandezza non è certo sinonimo di bontà. Anzi, spesso, andando alla ricerca del “sempre più grande”, si perdono di vista i dettagli e si finisce per realizzare qualcosa di enormemente mediocre. Ve la ricordate la geniale pubblicità del famoso pennello Cinghiale? Meglio un pennello grande o un grande pennello? Ebbene, quando abbiamo preso spunto da qualche ricetta americana per questo panino, ci siamo posti il problema: non è che, cercando di fare qualcosa di eccessivo, perderemo di vista il gusto e ci ritroveremo con una preparazione meravigliosamente instagrammabile ma allo stesso tempo immangiabile? Non sarebbe meglio proporre mille mini-panini super fighi piuttosto che uno solo ma così-così? Beh, la risposta forse può sembrare scontata, ma è l’unica possibile: meglio un panino enorme e anche superfigo. O no? Perché dovremmo scegliere tra l’una e l’altra opzione? È nato così questo Giant Rib Sandwich, un panino fatto con una ciabatta - che il buon Alessandro Trezzi ha studiato appositamente per noi - e una slab intera di pork ribs. Esatto. Intera. La ficchiamo dentro il pane così com’è (o quasi). Poi, ovviamente, avremmo potuto eccedere con salse, formaggi, contorni più o meno caramellati e piccanti, facendo sette o otto strati di ingredienti improbabili abbinati tra loro solo per il gusto di vedervi fare “wow”! E invece no. Abbiamo voluto rimanere sul sobrio e pensare davvero all’abbinamento perfetto, senza cercare di stupirvi con effetti speciali; d’altra parte, mettere una slab intera in una ciabatta è già un effetto speciale. Un fuoco d’artificio. Un colpo da maestro.

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Per questo motivo abbiamo scelto di farcire il panino con soli altri due ingredienti: i cavolicelli tanto amati dallo Zio (e provenienti dalla sua riserva personale) e un formaggio fondente dal sapore non troppo invasivo, proprio per esaltare e accompagnare il gusto della ciccia, che rimane l’unica vera attrice protagonista. Il risultato è quello che vedete in foto: un panino grande ma, ve lo assicuriamo, è anche un grande panino. Equilibrato dal primo all’ultimo morso, facilmente porzionabile, facilmente addentabile, bello da vedere, bello da portare in tavola per un effetto wow e da fotografare per i vari post sui social, ma anche mostruosamente buono. Provatelo e fateci sapere!

Ingredienti per 6 persone: Una slab

di Smoked Duroc Baby Backs Ribs del Megastore / una ciabatta da circa 1 kg / BBQ4All Barbecue Sauce Original q.b. / 300 g di cavolicelli già lessati / 300 g di formaggio Asiago tagliato in fette sottili / sale e pepe q.b. / tre spicchi d’aglio / 100 g di pomodori secchi sott’olio / olio extravergine di oliva q.b. PREPARAZIONE 1.

Togliete le ribs dalla confezione e fatele rinvenire nel vostro dispositivo o in forno statico a 80°C circa per un’ora. Poi alzate la temperatura a 110°C per circa mezz’ora (se usate il forno, passate in modalità ventilata). Dopo che il bark sarà asciugato, chiudete la slab in un doppio strao di foil, con un po’ d’acqua all’interno, e rimettetela in cottura per un paio d’ore.

2.

Nel frattempo saltate i cavolicelli in padella con l’aglio, i pomodori secchi tritati grossolanamente, sale e pepe.

3.

Una volta che la carne sarà completamente cedevole e tenderà a staccarsi dalle ossa, tirate fuori la slab, privatela della pleura e togliete tutte le ossa sfilandole, ma lasciando la slab intera. Spennellatela con la salsa bbq, poi rimettetela per qualche minuto in cottura per farla asciugare.

4.

Aprite la ciabatta in due e tostate le due metà. Adagiate la slab intera laccata con la salsa bbq sulla base del panino, poi appoggiate sopra la carne i cavolicelli e infine le fette di Asiago. Rimettete il panino così “scoperto” nel vostro dispositivo o in forno, in modo da far sciogliere il formaggio. Una volta che l’Asiago sarà fuso, chiudete il panino con la parte superiore della ciabatta e servitelo caldo


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TACO Tu mi hai provocato? E io ti faccio con le BEEF RIBS

Diciamo che il taco ha avuto lo stesso destino della pizza: come quest'ultima che, ovunque la si esporti, prende le connotazioni degli usi e costumi locali, diventando quasi sempre una bomba di sapore, gusto e nuove tradizioni, di quelle che ci piacciono tantissimo perché rispecchiano le abitudini di ognuno, tante tecniche di cottura differenti e anche un po’ di ingegno. I taco sono fatti di morbide tortillas di mais, ripiene di ingredienti tipici, che variano da zona a zona. In Messico, predomina sicuramente la cucina piccante con relative farciture, oltre a carne, spezie e fagioli. Il taco non è da confondere con il burrito: con quest’ultimo condivide, infatti, il guscio fatto dalla tortilla di mais. Mentre il taco viene soltanto parzialmente arrotolato, il burrito invece viene completamente arrotolato.

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L’origine del taco è spesso collocata in Messico: sarebbe più opportuno pensare che, laddove era diffusa la coltivazione e l’utilizzo di mais e relativa farina, ci fosse una qualche versione della sottile sfoglia giallina farcita. Ci sono in ogni caso ampie testimonianze che le popolazioni autoctone del Messico avessero come cibo tipico dischi di pasta fatti con farina di mais e farciti con ingredienti freschi, come pesce appena pescato, oppure interiora di animali opportunamente cucinate. Il nome “taco”, in realtà, è una invenzione recente. Ne abbiamo traccia soltanto a partire dal XVIII secolo grazie alle testimonianze dei minatori. Il “taquito” era, in pratica, della carta arrotolata con della polvere da sparo all’interno, inserita nelle rocce prima delle detonazioni. Per questo motivo, è stato subito associato ad un cibo povero, adatto alla classe operaia, anche grazie alla facilità di trasporto. L’altro nome del taco è, appunto, “taco de minero”, cioè “del minatore”. Come spesso abbiamo visto nella cucina del Centro-Sud America, il piccante fa da protagonista: non si esime da questa regola non scritta il taco, che era spesso farcito con ingredienti piccantissimi e sostanziosi, che inducevano anche una facile sazietà.

IL TACO NEGLI STATES Abbiamo addirittura una data per l’arrivo del taco negli Stati Uniti e, quindi, della fama che si diffonderà in tutto il mondo. Siamo nel 1905: i messicani, in cerca di lavoro, vennero impiegati nella costruzione di una nuova e potente rete ferroviaria. Questi, ovviamente, portarono con sé la tradizione dei tacos da mangiare direttamente sul posto di lavoro. La prima città statunitense ad accogliere e promuovere il business dei tacos fu Los Angeles: qui, nacquero i primi chioschi, gestiti da donne messicane che erano chiamate “chili queens”: infatti, il ripieno dei tacos all’epoca era quasi esclusivamente piccante, come da tradizione. Quindi, questo li rendeva non particolarmente apprezzati dagli americani. Dobbiamo aspettare il 1920 per intravedere la commistione di ingredienti messicani e americani per la farcitura dei tacos. Le interiora piccanti iniziarono ad essere sostituiti con ingredienti più appetibili e vicini ai palati statunitensi, come ad esempio manzo, pollo, insalata fresca, pomodori di stagione e formaggio cheddar. Insomma, una sorta di fusion taco, che è anche un po’ quello che ai giorni nostri conosciamo. Con il tempo, diverse catene sono diventate sinonimo di tacos; l’invenzione che di sicuro ha rivoluzionato il mondo e il modo di concepire questo gustoso cibo è il guscio di farina di mais precotto: senza alcun dubbio, questo è stato il boost della sua diffusione in tutto il mondo. Preso il guscio iconico, resta solo da farcirlo con gli ingredienti facilmente reperibili, nonché quelli che più incontrano i gusti dei commensali. Ad oggi, il taco è diffuso a livello mondiale: è quasi impossibile rintracciare farciture originarie, visto la sua natura così mimetica, si adatta facilmente ai gusti e ai costumi delle persone che decidono di consumarlo. Certo: i messicani sentono molto la pressione dell’”americanizzazione” del loro cibo iconico, quindi cercano di ritornare ai loro gusti primigeni, quando possibile. I tacos messicani sono


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spesso farciti con carni fortemente aromatizzate, coriandolo, radicchio in fette, cipolle grigliate e una discreta quantità di salse piccanti e di queso fundido (formaggio fuso). Le salse più tipiche in aggiunta sono la panna acida (chiamata crema) e il guacamole. Vi elenchiamo alcuni tipi di taco, giusto per farvi un’idea della quantità di personalizzazioni possibili su questo cibo. TACO AL PASTOR. Protagonista principale di questo taco è la carne di maiale cotta con il metodo portato dai migranti libanesi, cioè la shawarma di agnello (in altre parole, il kebap di agnello). TACO DE ASADOR. Sono i tacos alla piastra, cioè farciti e poi buttati a grigliare. TACO DE BARBACOA. Farciti con manzo, agnello oppure maiale alla griglia. TACO DE CABEZA. È il taco farcito con la carne proveniente dalla testa di un animale (solitamente maiale), preventivamente grigliata. TACO DE CAMARONES. Qui il taco è farcito con gamberi alla griglia e svariate salse. TACO DE CARNITAS. Farcito con carne di maiale cotta per lungo tempo e decisamente speziata. TACO DE LENGUA. Il guscio qui è farcito con lingua di manzo e relative salse. TACO DE PESCADO. Diffuso soprattutto in California, è un taco farcito con filetti di merluzzo freschissimo. TACO DORADO. Fritto è buono tutto. Quindi friggiamo un taco dopo averlo farcito, no? TACOS DE CANASTA. Il taco da street food per eccellenza. Ripieni di chorizo, fagioli e altro. Vengono subito avvolti nella carta dopo la cottura, venduti bollenti. TACOS MISSION. Tipici della zona di San Francisco. Sono ripieni di fagioli e formaggio.

Ingredienti per 4 persone: 4 tortillas di mais

/ 400 g di Beef Ribs gia cotte e tagliate in piccoli pezzi / due cipolle rosse / un cucchiaino di tabasco / mezzo cucchiaio di concentrato di pomodoro / un cucchiaio di aceto di mele / fettine di peperoncino Jalapeño sottaceto a piacere / 100 g di fagioli rossi / un peperone rosso / sale e pepe q.b. / olio extravergine di oliva q.b. / BBQ4All Burger Sauce Masterpiece q.b. / prezzemolo q.b. PREPARAZIONE 1.

Affettate finemente le cipolle e poi mettetele a soffriggere in un tegame con l’olio. Quando saranno appassite, aggiungete la carne e lasciate insaporire. Dopo qualche minuto sfumate con l’aceto di mele e poi aggiungete il tabasco e il concentrato di pomodoro e mezzo bicchiere d’acqua. Coprite e lasciate andare lo stufato per un’oretta circa. Nel caso dovesse asciugarsi troppo, bagnatelo con del brodo.

2.

Una volta pronto, togliete lo stufato dal fuoco e lasciatelo intiepidire. Affettate i peperoni e uniteli ai fagioli rossi scolati dalla loro acqua. Condite il tutto con olio, sale e, a piacere, le fettine di peperoncino.

3.

Tritate finemente il prezzemolo

4.

Scaldate le tortillas e poi piegatele in due dopo averle farcite con la carne, i fagioli, i peperoni e una generosa quantità di salsa; terminate col prezzemolo e servitele ancora calde.

Vista la versatilità dei tacos, per questo numero del Magazine abbiamo deciso di farcirle con un gustoso ripieno a base di Beef Ribs del nostro Megastore. Pronti a lanciare la sfida al taco definitivo?

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Altamente instagrammabile, dal click facile così come la salivazione, il taco è ormai è una specialità esportata letteralmente in tutto il mondo, con le più svariate farciture: da quelle tradizionali a quelle più irriverenti e poco convenzionali, un taco si adatta facilmente alle esigenze alimentari di tutti e non si nega ad alcuno.


Le chiamavano

RIBS ALLA TRINITÀ

Se vi diciamo Bud Spencer e Terence Hill, il cuore di voi romantici e nostalgici degli anni ‘70-’80 ha un sussulto. Lo sappiamo. Fra le tante cose che tornano alla mente dei film con i due mitici e amatissimi attori, sicuramente la scena di Lo chiamavano Trinità..., in cui Terence Hill mangia voracemente i fagioli al sugo nella padella, è fra i primi posti. Pare che per girare quella sequenza il buon Terence abbia digiunato per 24 ore (ma alcuni dicono addirittura 48): fatto sta che faceva venire una fame incredibile. Abbiamo sentito tutti l’urgenza impellente di assaggiare quei fagioli. Alcuni leccavano lo schermo della tv, in barba alla battuta del terribile Trinità: e comunque i fagioli erano uno schifo! Eh, no, caro mio! Non ci freghi. Lo sappiamo, lo abbiamo sempre saputo che erano squisiti. La pellicola, diretta da E.B. Clucher, è un western all’italiana in versione commedia, una specie di parodia dei famosi spaghetti western. Essendo la storia ambientata nel far west ed essendo i protagonisti dei buontemponi squattrinati, i piatti che venivano presentati nel film erano ovviamente poveri. Ma noi ci siamo chiesti: se avessero potuto, Trinità e Bambino (e la loro pittoresca mamma) con cosa avrebbero accompagnato quei piccanti fagioli al sugo? La risposta è ovvia e potete vederla già nelle foto. Le ribs. Voi ce lo vedete Bud Spencer a mangiarle con le mano, buttandosi le ossa dietro la schiena? Noi sì.

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Abbiamo scelto di fotografare questo delizioso secondo piatto ancora nella padella proprio per evocare quelle atmosfere, e poi diciamolo chiaramente: lo stufato davvero buono, quello che ti fa venire l’acquolina mentre sta ancora sobbollendo sul fuoco va mangiato direttamente dalla pentola con una fetta di pane alta cinque dita (altrimenti è un crostino); tutto il resto sono sovrastrutture. In questo caso abbiamo usato le ribs precotte del nostro Megastore, ma come detto in altre occasioni, se volte vivere un'esperienza completa di barbecue potete partire dalle ribs crude. Su questo stesso numero trovate il metodo per prepararle, in altre ricette.


Ingredienti per 4 persone: Una slab di Smoked Duroc Baby Backs Ribs del Megastore /250 g di fagioli rossi già lessati / 250 g di fagioli borlotti già lessati / un gambo di sedano / una cipolla rossa piccola / una carota / due spicchi d’aglio / un cucchiaio di salsa di soia / mezzo cucchiaio di aceto di mele / peperoncino a piacere (molto bene se Habanero Chocolate o Jalapeño) / 200 g di passata di pomodoro / un cucchiaio di concentrato di pomodoro / sale e pepe q.b. / olio extravergine di oliva q.b. / prezzemolo a piacere PREPARAZIONE 1. Togliete le ribs dalla confezione e fatele rinvenire nel vostro dispositivo o in forno statico a 80°C circa per un’ora. Poi alzate la temperatura a 110°C per circa mezz’ora (se usate il forno, passate in modalità ventilata). Dopo che il bark sarà asciugato, tenetele in rest. 2. Preparate i fagioli, sgocciolandoli dalla loro acqua, poi fate un soffritto con sedano, carota, cipolla e aglio. 3. Aggiungete al soffritto la passata di pomodoro, la salsa di soia, il peperoncino, il concentrato di pomodoro e l’aceto di mele. Lasciate cuocere per qualche istante poi regolate di sale (senza esagerare) e di pepe. 4. Aggiungete al sugo i fagioli e lasciateli insaporire per qualche istante. Poi tagliate le ribs e aggiungetele ai fagioli. Aggiungete un po’ d’acqua calda, chiudete e lasciate stufare il tutto a fuoco molto dolce per circa 45 minuti. Servite la vostra Trinità con prezzemolo tritato e tanto, tanto pane!

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RIBS CON ZUPPA DI

FUNGHI E PATATE

ed è subito comfort food!

Ci sono abbinamenti che sono perfetti, specie in cucina: formaggio e pere, speck e fontina, pomodoro e mozzarella, mele e cannella. Potremmo continuare per ore, ma una cosa è certa: sarà anche banale, sarà anche trito e ritrito, sarà demodé, sarà tutto ciò che volete, tuttavia buttarsi sull’abbinamento perfetto quando si ha poco tempo o non si ha voglia di lanciarsi in esperimenti è una mossa vincente. Vi sarà capitato di vedere sedicenti cuochi che propongono sui social piatti tipo: tortello di zucca su base di broccolo affumicato, con copertina di caprino, noci tostate, sferificazione di pomodoro, olio al basilico, salvia fritta e un goccio di balsamico... che al mercato mio padre comprò (cit.). Ecco, per intenderci: è molto meglio una pera - intendiamo, il frutto - col gorgonzola. Ebbene, uno degli abbinamenti vincenti di cui sopra è senza ombra di dubbio quello fra funghi e patate. Tempo fa abbiamo dedicato uno speciale al comfort food: il piatto che vi presentiamo oggi ci sarebbe entrato di diritto. Cosa c’è di meglio, in una fredda serata autunnale, quando fuori piove e tira il vento, di sedersi accanto al camino con in mano una bella ciotola di zuppa con funghi e patate, accompagnarla con… pane tostato? Ma nemmeno per sogno. Pork Ribs affumicate. Essì! Banali, ok. Prevedibili, mai.

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La zuppa di funghi e patate è un piatto autunnale che spopola nel nostro Paese, specie nelle zone montane del nord. Ognuno ha una sua versione, ma nasce dalla tedesca Kartoffelsuppe, un piatto tedesco originariamente fatto con le sole patate, che poi nel tempo si è arricchito e ha dato vita a numerose varianti: coi funghi, con la salsiccia, lo speck, la pancetta… La nostra variante, quindi, prevede le ribs di maiale, non solo perché siamo fissati con le griglie, ma anche perché odiamo le diete e i piatti leggeri ci mettono tristezza infinita. Quali funghi usare? Beh, sempre per andare sul sicuro coi porcini non sbagliate mai, ma se volete un gusto meno invasivo potete usare gli champignon, o optare per un misto. Se non li conoscete o non li avete mai usati, provate ad aggiungere al misto anche i funghi pioppini o piopparelli. In molti li confondono coi chiodini, ma non sono affatto la stessa cosa: il pioppino, di cui solitamente viene utilizzata solo la cappella intera, è un fungo molto apprezzato in cucina, sia per il profumo che per il sapore, ma soprattutto per la consistenza carnosa e “croccante”, che tiene molto bene in cottura. Ok, siamo pronti per il comfort food a prova di griller!


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Ingredienti per 4 persone:

per le pork ribs: una slab di St Louis Pork Ribs di Maiale Duroc del nostro Megastore / 5 g di paprika affumicata o dolce / due cucchiaini di Ultimate SPOG Sal’s Seasoning / 12 g zucchero di canna / un pizzico di cumino / 5 g di senape in polvere / 100 g aceto di mele / 20 g di salsa Worcestershire / 5 g di zucchero di canna / 25 g senape gialla americana / olio di semi q.b. per la zuppa di funghi e patate : un gambo di sedano / una cipolla piccola / una carota / due spicchi d’aglio / 500 g di misto di funghi (porchini, champignon, pioppini) / 400 g di patate / un litro e mezzo di brodo vegetale / sale e pepe q.b. / mezzo cucchiaio di concentrato di pomodoro / prezzemolo q.b. / olio extravergine di oliva q.b.

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PREPARAZIONE 1.

Preparate la salsa mop unendo tutti gli elementi in un pentolino, intiepidite fino a far sciogliere lo zucchero e una volta fredda lasciate maturare la salsa in frigo almeno 24 ore.

2.

Per il rub miscelate tutte le polveri per bene fino a ottenere un condimento perfettamente omogeneo.

3.

Trimmate la slab, ripulitela da brandelli e parti che potrebbero bruciare in cottura ed eliminate la membrana bianca che copre le ossa.

4.

Cospargete la slab con un sottile strato di olio di semi e applicate con un setaccio a maglie fini un cucchiaio di rub per lato.

5.

Stabilizzate il vostro affumicatore a 110 gradi circa (10 in più o in meno non faranno la differenza) e mettete in cottura indiretta la slab, affumicandola con chips di legno aromatico.

6.

Chiudete in coperchio e dimenticatevela lì per almeno un’ora. Dopo un’ora date una generosa spennellata di salsa mop e richiudete per un’altra ora. Quando il bark sarà asciutto e di un bellissimo color mogano, avvolgere le ribs in un doppio strato di foil, rimettetele in griglia e aspettate che raggiungano il grado di cottura desiderato. Una volta pronte, tenetele in rest.

7.

Mentre aspettate le ribs, preparate la zuppa di funghi e patate: pulite i funghi e tagliateli a fettine, lasciando quelli più piccoli interi; sbucciate le patate e tagliatele a dadini.

8.

Preparate un soffritto con sedano, cipolla, carota e aglio, poi unite i funghi e lasciateli insaporire, così come le patate. Salate e pepate, poi aggiungete metà del brodo e i concentrato di pomodoro. Portate a ebollizione e lasciate cuocere la zuppa, aggiungendo del brodo qualora doveste vedere che si sta asciugando troppo. A noi piace che sia molto densa.

9.

Una volta pronta, servite la zuppa con pepe nero, un filo d’olio extravergine di oliva, il prezzemolo tritato e le ribs tagliate. Se volete esagerare, tostate del pane, ma non vorremmo che poi il piatto divenisse troppo pesante… buona serata d’autunno!


Usiamo la cocotte per il

Voglia di un piatto rustico in grado di riunire tutta la famiglia come si faceva una volta? Avete comprato una cocotte in ghisa, ma non sapere come usarla? Questa volta vi proponiamo il coniglio in cocotte assieme alle verdure, con immancabile affumicatura!

di coniglio? Solitamente, viene accompagnata con gentilezza dalle verdure che donano una nota di colore e rendono il tutto più appetitoso, oltre a sfumare il gusto che in alcuni casi potrebbe sembrare più forte.

Il coniglio è un animale da cortile dalle caratteristiche davvero uniche. Ci ritroviamo una carne prelibata, sicuramente molto magra ma allo stesso tempo tenera e succosa: basta utilizzare i giusti tempi e la giusta cottura. La carne di coniglio ha quasi 20 g di proteine su 100 g di materia edibile, con pochissimi grassi e quasi zero colesterolo.

La lenta cottura in cocotte permetterà al profumo intenso degli aromi mediterranei di sprigionarsi in tutta la loro potenza, così da invogliare tutti i commensali, anche i più restii alla carne di coniglio. Inoltre, la preparazione non richiede una presenza assidua ai fornelli e questo vi permetterà di trascorrere del tempo in compagnia dei vostri commensali, senza trascurarli. Anzi: c’è tutto il tempo per fare un paio di giri di Monopoli!

Cosa mettere come accompagnamento alla carne

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CONIGLIO ALLA CACCIATORA


Ingredienti per 4/6 persone: per la salamoia: 1,5 l di acqua / 30 g di sale grosso / 500 ml di vino bianco / rosmarino q.b. / timo q.b. / bacche di ginepro q.b. / la buccia edibile di un’arancia / chiodi di garofano q.b. / alloro q.b. Sal’s Seasoning Mount Nimba q.b per il coniglio : 1 coniglio (circa 1,5 kg) / 1 cipolla bianca / 3 scalogni / 3 carote / 3 zucchine / 3 peperoni / 3 spicchi d’aglio / 3 patate / 1 porro / 3 rametti di rosmarino fresco / Sal’s Seasoning Ultimate Spog q.b. / Sal’s Seasoning Montreal Steak rub q.b. / Sal’s Seasoning Mount Nimba q.b. / 2 bacche di ginepro / 2 foglie di alloro / 2 chiodi di garofano / 500 ml di vino bianco / 100 g di burro / olio extravergine d’oliva q.b. PREPARAZIONE 1. Fate bollire l’acqua, aggiungete il sale le spezie i sapori e le scorze di arancia, mescolate per bene e fate raffreddare. Dopodiché, aggiungete il vino. 2. Tagliate a pezzi il coniglio e poi immergetelo del tutto nella salamoia. Fate riposare in frigo a 4°C per tutta una notte. 3. Stabilizzate il vostro dispositivo di cottura sui 150°C. 4. Tagliate le verdure a cubotti grossi. 5. Togliete il coniglio dalla salamoia; sciacquatelo velocemente, asciugatelo e massaggiare le carni con una leggera passata di Mount Nimba, Montreal Steak e Ultimate SPOG. 6. Mettete sulla griglia i pezzi di carne e affumicateli per circa 30 minuti. 7. Togliete i pezzi dalla griglia e poggiatevi invece la cocotte in ghisa. 8. All’interno della cocotte, aggiungete olio extravergine e gli spicchi d’aglio in modo da farli rosolare leggermente, poi metterle la cipolla e a seguire il resto delle verdure. 9. A questo punto disponete i pezzi di coniglio tra le verdure, le spezie, i rub, il burro e il vino. 10. Chiudete il coperchio del dispositivo e affumicate per altri 30 minuti, dopodiché mettete il coperchio alla cocotte e assicuratevi di sentire sobbollire leggermente. 11. Lasciate in cottura per circa tre ore, controllando di tanto in tanto con un mestolo di legno il grado di cottura, quando le ossa del coniglio si staccheranno in maniera pulita dalla carne sarà il momento di servire, magari assieme ad una buona polenta morbida.

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Che inverno sarebbe senza la

ZUCCA ...BRUCIATA?

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Il periodo autunnale e prenatalizio si riconosce anche dal fatto che, un po’ ovunque, si moltiplicano i piatti a base di zucca: nel risotto, nella pasta, nei dolci, nel pane, nei minestroni, nelle vellutate; stufata, fritta, frullata o arrostita, la cucurbitacea arancione è la vera protagonista della stagione corrente. Anche noi vi abbiamo proposto preparazioni a base di zucca più di una volta nel corso degli anni, in questo stesso periodo. E anche nel 2021 non vogliamo rinunciare alla tradizione e abbiamo scelto di abbinarla alle noci e ai fichi secchi: più autunnale di così non si può! Torniamo a una delle tecniche che tanto ci piacciono quando dobbiamo cucinare i vegetali e vogliamo usare il carbone a tutti i costi: l’ember roasting. Come sapete, la zucca si presta benissimo a questa modalità di preparazione; grazie alla buccia spessa, può essere adagiata sui carboni senza il rischio che la polpa si carbonizzi. Per cuocerla all’interno ci vuole un po’ di tempo, ma il risultato è sicuramente eccezionale. Può essere appoggiata sulle braci a pezzi o intera: una volta cotta, si preleva la polpa morbida, la si frulla per ottenere una crema e, come ci insegna Gianfranco Lo Cascio, le si dà una nota acida per bilanciare la sua dolcezza e rendere più brillante il sapore. A quel punto, si può utilizzare la crema di zucca bruciata per svariate preparazioni (se cercate un po’ fra i vecchi post in community troverete tre ricettine dello Zio, di quelle da leccarsi i gomiti!). In ogni caso, si fa presto a dire zucca, ma sapete che ne esistono moltissime

varietà? Prima di passare alla ricetta dei nostri tortini di pasta fillo, facciamo una piccola panoramica delle cinque zucche più diffuse in Italia: Zucca Mantovana: polpa densa, dolce e farinosa dal colore arancone brillante, buccia verde e rugosa, dalla forma a turbante. E’ perfetta per realizzare il ripieno dei tortelli e per le vellutate. Zucca Delica: parente stretta della mantovana, è diffusa molto in Veneto, in Lombardia e in Emilia Romagna. Buccia verde scuro e polpa asciutta, questa zucca si presta benissimo ad essere arrostita. Zucca Tonda padana: con striature pronunciate, la forma tondeggiante e un robusto peduncolo legnoso. I semi sono saporiti, la polpa soda è adatta a ripieni e mostarde. Zucca di Chioggia: ha una scorza bitorzoluta, che va dal verde scuro al verde ramato, e una forma tipicamente schiacciata; la polpa è molto saporita ed è adatta alla preparazione di gnocchi, ripieni e risotti. Zucca lunga di Napoli: può arrivare la metro e superare i 20 kg di peso, per questo motivo è generalmente venduta a tranci. Il colore è arancio intenso, è adatta alla preparazione di zuppe e sughi ma è altrettanto perfetta per la griglia. Detto ciò, non vi resta che scegliere dunque la varietà preferita (o disponibile) di cucurbitacea e preparatevi a cucinare questi deliziosi tortini salati con noi.


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Ingredienti per 8 tortini: una confezione di pasta fillo / un trancio di zucca da circa 500 g / 50 g di burro / il succo di un limone / 150 g di cubetti di speck / parmigiano reggiano q.b. / sale e pepe q.b. / olio extravergine di oliva q.b. / un pizzico di noce moscata / un uovo / noci a piacere / fichi secchi a piacere

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PREPARAZIONE 1.

Accendete le braci e versatele nel vostro dispositivo togliendo le griglie: appoggiate dunque la zucca direttamente sui carboni, chiudete il coperchio e lasciatela lì per almeno un’ora, finché la pola non sarà completamente cedevole.

2.

Una volta pronta, togliete la zucca dalle braci, pulitela, ricavatene la polpa morbida, mettetela nel frullatore e frullatela con olio, un pizzico di sale, un pizzico di noce moscata e un poco di succo di limone (la percentuale è: per ogni cup di zucca, 5 g di succo di limone).

3.

Una volta pronta la purea di zuppa, tenetela da parte e saltate in padella i cubetti di speck.

4.

Aggiungete dunque alla purea lo speck, il parmigiano reggiano a piacere, l’uovo, un poco di sale, e il pepe. Mescolate bene e mettete il tutto in frigo.

5.

Sciogliete il burro e passatelo su ogni foglio di pasta fillo, poi tagliate dei quadrati e create dei fazzoletti di pasta sovrapponendo più strati (circa tre), che metterete negli stampini imburrati: riempite i fazzolettini con la crema di zucca che avete tenuto in frigo, poi metteteli a cuocere in forno (oppure, se preferite, nel vostro dispositivo in cottura indiretta) a circa 180°C per 30 minuti. Controllate che siano ben cotti anche sotto e se doveste vedere che si cuociono troppo sopra, copriteli con la carta forno e spostateli in modo che la parte sottostante sia più vicina alla fonte di calore.

6.

Una volta cotti, servite i tortini con noci sbriciolate e fichi secchi tritati.


LE CALDARROSTE PERFETTE AL BBQ Aka: la guida per non sprecare i vostri beni autunnali così preziosi

Questo nostro beneamato fruttino cresce in autunno: ed è proprio l’autunno, con il suo clima fresco, solitamente piovoso, con le giornate più corte, il periodo ideale per mangiarne in grosse quantità, accompagnando con un buon vino rosso strutturato. Sebbene le castagne si prestino a molteplici preparazioni, la ricetta più diffusa in territorio italico riguarda senz’ombra di dubbio le caldarroste: vale a dire, le castagne cotte lentamente su fuoco con l’ausilio di una padella bucherellata. Ma siete davvero sicuri di saper cuocere le caldarroste alla perfezione? Nel corso degli anni, nelle nostre famiglie, ne abbiamo viste di ogni: tagli asimmetrici, perforazioni inutili di castagne innocenti, padelle inadatte, fuochi alla Mangiafuoco. Altro nodo da sciogliere, la scelta delle castagne: avete mai notato la confusione tra castagne e marroni? Ma sono davvero la stessa cosa? Sono davvero interscambiabili nelle ricette? Sciogliamo un po’ di dubbi, prima di presentarvi le nostre caldarroste al bbq. CASTAGNE VS MARRONI Appartengono alla stessa famiglia, ma sono diversi: le castagne e i marroni presentano delle sostanziali differenze tra di loro. Sono due frutti molto diversi, così tanto che il Regno d’Italia aveva addirittura un Regio decreto che ne stabiliva i criteri.

Le castagne sono i frutti selvatici: sin dall’antichità, le castagne hanno rivestito un ruolo importantissimo nell’alimentazione delle popolazioni silvestri e rurali, tanto da guadagnarsi l’appellativo di “pane dei poveri”: il loro alto potere saziante, grazie alla presenza degli amidi, era letteralmente un salvavita durante i rigidi inverni. Le castagne diventavano, quindi, ingrediente per le più svariate preparazioni: zuppe di castagne oppure triturate per essere utilizzate come ripieno, oppure ridotte in polvere per altre preparazioni. I marroni, invece, provengono da una pianta coltivata, risultato di secoli e secoli di innesti tra varie piante. Esistono inoltre svariate altre differenze che rendono immediatamente riconoscibili, ai più avvezzi, una castagna da un marrone. • Il riccio. Un riccio di marrone contiene al massimo 3 frutti, mentre un riccio di castagna può contenerne fino a 7. • La buccia. Quella del marrone tende al rossiccio, mentre la buccia della castagna tende al colore scuro oltre ad essere più dura e resistente. • Forma e dimensioni. I marroni sono grossi e tondeggianti, quasi a forma di grosso cuore (la forma del marron glacé, presente?); le castagne risultano, di contro, decisamente “schiacciate” e piccole: poverette, si son dovute far spazio all’interno del riccio. I marroni non dovranno essere inferiori a numero 90 frutti per ogni kg di prodotto. • Sapore. La castagna è decisamente meno saporita e dolce del marrone. Viene utilizzata per consumi più “popolari”, mentre il marrone è privilegiato per un utilizzo in pasticceria. • Prezzo. Il capitolo prezzi è dolentissimo in entrambi i casi: sappiate che, in media, un chilo di castagne costa la metà di un chilo di marroni. Da questa disamina, avrete capito che preferiremo di gran lunga scegliere le castagne, sia per una questione di resa che per prezzo. Sì, ma quali?

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L’internet è, ormai, pieno di meme riguardante l’esorbitante costo delle castagne. Chi più, chi meno, ha letto oppure pubblicato un post riguardante il prezzo al rialzo di questi gustosi frutti autunnali. Non so voi, ma sulle nostre bacheche Facebook e tra i nostri feed di Instagram, nel periodo che va da fine settembre a dicembre sono strapieni di “Baratto un chilo di castagne con una tredicesima” oppure “Ho due chili di castagne: sono ricco” o ancora “Per otto castagne ho dato mezzo stipendio”.


CASTAGNE CUNEO IGP. Gli ecotipi di questa IGP sono, nella fattispecie, la Frattona e la Gabbiana. Tra la valle del fiume Tanaro e la valle del Po, le castagne trovano l’ambiente ideale per la crescita. I frutti sono molto piccoli, si stimano i 110 frutti per ogni kg di castagne di Cuneo IGP. La polpa è dolce, mediamente fruttata e croccante: queste castagne sono l’ideale per un contorno, tipo per accompagnare una maestosa faraona ripiena.

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CASTAGNE DEL MONTE AMIATA IGP. Tra Siena e Grosseto, questa castagna toscana vanta una lunga coltivazione con secoli di storia. Comprende tre genotipi: la Bastarda Rossa, la Marrone e la Cecio. Ci troviamo di fronte ad una castagna grossa, con circa 80 frutti per 1 kg di prodotto. Dal sapore gradevole e delicato, sono adatte ad essere trasformate in conserve oppure in farina: da qui, la polenta di castagne, piatto tipico della Maremma. CASTAGNE DI MONTELLA IGP. L’Irpinia è una zona della Campania con centinaia di varietà vegetali e animali. Una eccellenza tra queste è sicuramente rappresentata dalla castagna di Montella, IGP dal 1992. Di pezzatura media, sono praticamente adatte ad ogni scopo: croccanti, dolci e dalla polpa chiara, invogliano a mangiarne a quintalate. Lei sarebbe la castagna perfetta per le nostre caldarroste.


Ingredienti per 6 persone: 1 kg abbondante di castagne

di Montella IGP (circa 90 castagne). In alternativa 1 kg di castagne italiane comuni (circa 100 castagne)

1.

La prima cosa da fare è selezionare accuratamente le castagne: dopo un esame visivo (controllate non ci siano buchetti e/o vermi fastidiosi), controllate al tatto che non ci sia aria tra la buccia e la polpa del frutto: la sentirete facilmente al tatto e noterete come delle bolle sotto la buccia.

2.

Fatta la selezione, lavate e asciugate con cura le castagne.

3.

Si passa al momento del taglio, che è quello cruciale: forse più della cottura. Importantissima è l’incisione sulla castagna. Il taglio deve essere fatto rigorosamente sulla parte curva della castagna e andrà a percorrere tutto il lato, da parte a parte, in perpendicolare alle striature di colore. Fate molta attenzione: il taglio deve incidere la buccia, non intaccare la polpa. Tagli imprecisi o fatti nel posto sbagliato contribuiranno ad una riuscita maldestra delle nostre caldarroste.

4.

Nel frattempo, preparate il vostro dispositivo per una cottura diretta, stabilizzando la temperatura a circa 160°C.

5.

Prendete una padella forata e posizionate all’interno le castagne opportunamente intagliate.

6.

A questo punto, una volta posizionata la padella forata con le castagne, chiudete il coperchio del dispositivo e lasciate sul fuoco per una decina di minuti.

7.

Trascorso questo tempo, potete dare un’occhiata: le castagne dovrebbero aver iniziato ad aprirsi e colorarsi piacevolmente, oltre a diffondere il loro profumino invitante.

8.

Armati di un guanto ignifugo e di una pinza lunga, provate a girare tutte le castagne: operazione rognosa, che però può garantirvi un risultato uniforme.

9.

Coprite il dispositivo per un’altra decina di minuti con il coperchio.

10. Sempre stando ben attenti alle dita, prendete una castagna e provate a sbucciarla: se la buccia viene via facilmente, senza troppe rogne, il risultato è stato raggiunto. La polpa della castagna si deve presentare ben colorata, soda. 11. Servite immediatamente, calde, magare innaffiate con un buon Lambrusco.

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PREPARAZIONE


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CUBETTI DI

MORTADELLA

AFFUMICATA CON CREMA DI PISTACCHI

Alzi la mano chi non ci ha pensato nemmeno una volta, passando davanti al bancone della salumeria o del banco freschi del supermercato: l’odore della mortadella, in amicizia “mortazza”, fa venir voglia di portar via l’intera forma. Bene, con questa ricetta mettiamo a serio rischio la vostra fermezza, perché dovrete prendere qualche fetta bella spessa e… se non riuscite a resistere, non vi recrimineremo nulla! I cubetti di mortadella affumicata con crema di pistacchi rappresentano un antipasto sfizioso, facile e che richiede davvero poco tempo.

Il fatto che la mortadella venga chiamata anche Bologna è un chiaro indizio sulle origini di questo delizioso insaccato rosa. Alcuni vogliono porre la sua nascita addirittura all’età romana, ma sappiamo con cetezza che la ricetta della Mortadella è stata gelosamente custodita dall’Arte dei Salaroli, dal 1242. In ogni caso, se anche vogliamo accettare l’ipotesi della sua nascita nell’antichità, di certo durante il Medioevo la ricetta fu arricchita delle nuove spezie venute dall’Oriente quali pepe, cannella, noce moscata, cumino, chiodi di garofano. Nel 1667 un agronomo di Bologna, Vincenzo Tanara, rese pubblica la prima vera ricetta della Mortadella diffondendo indicazioni per la sua lavorazione decisamente attendibili. Intorno al 1800 la Mortadella, considerata fino ad allora un cibo nobile e di elevata qualità, cambiò completamente status e cominciò ad essere un insaccato di scarsa qualità, prodotto con carni scadenti. Oggi per fortuna, grazie al Consorzio italiano Tutela della Mortadella, la sua qualità non viene più messa in discussione. Le origine del nome sono incerte: c’è chi sostiene venga da mortarium, ad indicare la carne finemente tritata, e chi invece pensa che venga da myrtatum, ovvero mirto, un aroma utilizzato in un tipo di insaccato chiamato farcimen myrtatum. In ogni caso, è deliziosa. Ma siamo abbastanza sicuri che non l’avete mai fatta al bbq. E credeteci, sarà davvero “la morte sua”.

Ingredienti per 4 persone: 1 fetta di

mortadella tagliata spessa (150 g) / 50 g di pistacchi sgusciati / 40 g di olio extravergine d’oliva / 35 g di acqua / 10 foglie di basilico / 40 g di ricotta vaccina fresca / 8 g di pasta di Wasabi / il succo di un limone intero / sale e pepe q.b. / salse Barbecue o Smoke & Fire del Megastore PREPARAZIONE 1.

Iniziate a preparare la vostra crema di pistacchio salata. Prendete i pistacchi sgusciati e senza pellicina (eventualmente togliete i gusci e sbollentateli in acqua per 5 minuti per eliminare facilmente la buccia) e frullateli con un po’ di succo di limone, olio extravergine d’oliva, un pizzico di sale e pepe, le foglie di basilico. Dopodiché, aggiungete la ricotta e continuate a frullare.

2.

Aggiungete l’acqua fino a raggiungere una crema uniforme. A questo punto unite del wasabi un poco alla volta fino a trovare il giusto mix di umami e piccantezza, idem con il succo di limone rimanente.

3.

Prendete la vostra bella fetta di mortadella spessa e tagliatela a cubetti grossolani, poi mettete i cubetti in marinatura per un’ora con succo di limone e Montreal Steak, Mount Nimba, Smoky Chipotle Chili ed un trito di polvere di rosmarino.

4.

Settate il vostro dispositivo di cottura per una indiretta a 150°C.

5.

Scolate i cubetti e dopo averli messi su un basket affumicateli sul dispositivo girandoli spesso, per poi aggiungere una passata di salsa Barbecue o Smoke&Fire e della granella di pistacchio tritata finemente.

6.

Componete l’antipasto con i cubetti di mortadella affumicati, sopra un po’ di crema ai pistacchi a ciuffetto e guarnite con un mix di buon pepe Tellicherry oppure Sal’s Montreal o Mount Nimba.

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La mortazza? Affumicata!


MOUSSE ALLA RICOTTA

Un dolce che fa perdere la testa!

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Spumosa, soffice, ariosa, compatta, dai molteplici sapori, farcia golosa racchiusa in scrigni di pastafrolla, tra strati di Pan di Spagna o di sfoglia caramellata croccante; o ancora goloso dolce al cucchiaio se servita in coppette adornata con sbuffi di panna, di frutta o di biscotti sbriciolati: stiamo parlando della mousse. Come ci indica il nome stesso, è un dolce di origine francese: il nome letteralmente significa schiuma o spuma e ne descrive alla perfezione la consistenza. Infatti, la mousse è una preparazione che racchiude dentro di sé delle microscopiche particelle d’aria che le permettono di avere una texture morbida e molto piacevole al palato, poiché nel momento in cui la spumosa solidità si scioglie in bocca rilascia lentamente il suo sapore. L’effetto si ottiene inserendo un elemento che ha incamerato aria (panna o albumi montatati), con gli altri ingredienti. Se sulla nazionalità non vi sono dubbi, la stessa cosa non si può affermare per la paternità. Ci sono due schieramenti: alcuni sostengono che la mousse nacque (nella sua versione più famosa), nella cucina reale di Luigi XVI ad opera di Charles Fazi, cuoco svizzero che, come il suo datore di lavoro, finì per perdere la testa sul patibolo nel 1793. Dopo l’esecuzione fu diffusa la notizia che le sue ultime parole, prima che la lama gli tranciasse il collo, pare siano state: “mais j n’ai pas finis ma mousse de chocolat!” (ma non ho ancora finito la mia mousse al cioccolato). In effetti, è decisamente un dolce per cui perdere

la testa. Altri studiosi attribuiscono la creazione della straordinaria leccornia a un tale passato alla storia come Mastro Menon. Maestro Menon. Costui è considerato uno dei più importanti cuochi francesi del XVIII secolo, che nel 1749 pubblicò La science du maître d'hôtel cuisinier (le tecniche del capo cuoco), in cui si trovano quattro tipologie di mousse: al cioccolato, alla crema, allo zafferano e al caffè. Nonostante fosse un dolce di semplice preparazione, gli ingredienti utilizzati da Maestro Menon ci fanno capire subito come inizialmente fosse riservato solo alla classe benestante, che non solo aveva la possibilità di acquistare ingredienti importati dalle Americhe e dall’Oriente, ma aveva altresì la possibilità di accedere al ghiaccio, indispensabile per il rassodamento del prelibato composto. Sicuramente la ricetta ha riscosso molto successo nel corso dei secoli, in special modo nella sua versione più famosa, ovvero quella al cioccolato; tutto ciò è testimoniato dalle numerose varianti che sono nate e continuano ad essere create, sia dolci che salate. La variante che noi vi presentiamo è alla ricotta, arricchita e decorata con scorza d’arancia caramellata, scaglie di cioccolato fondente e briciole di biscotto saltate nel burro. Utilizziamo la panna per esaltare il gusto della ricotta e per dare ariosità. La croccantezza sarà data dal biscotto, la dolcezza dalla frutta candita e l’amaro dal cioccolato.


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Ingredienti per 6 persone: 500 g di ricotta vaccina, magari di un giorno o due prima, correttamente conservata / 150 ml di panna fresca per dolci / 2 cucchiai di zucchero a velo / cioccolato fondente di alta qualità q.b. / 250 g biscotti secchi tipo digestive / 125 g di burro chiarificato / la buccia di 1 arancia non trattata / zucchero q.b. PREPARAZIONE 1. Partite dalla preparazione più lunga:le arance candite. Sbucciate l’arancia cercando di non spezzattare troppo la buccia, rimanendo in superficie per non tagliare la parte bianca perché amara. Bollite il tutto in acqua per 10 minuti. Scolate le scorze e ripetete il procedimento per altre due volte. Alla terza lasciatele nell’acqua per almeno 8 ore. 2. Passato questo tempo, scolatele, asciugatele e suddividetele in strisce non troppo sottili. Pesate il tutto e mettetelo in un pentolino con lo stesso peso di acqua e di zucchero, su un fuoco medio basso. Lasciate andare fino a quando il liquido non sarà quasi del tutto evaporato. 3. Con l’aiuto di pinze da cucina, togliete le bucce dallo zucchero caldo, poi fatele raffreddare sopra una gratella. 4. Prendete i biscotti e sbriciolateli grossolanamente all’interno di una busta alimentare, aiutandovi con un mattarello. 5. Sciogliete il burro in una piccola padella, unitelo ai biscotti, mescolate bene e poi versate il tutto in un recipiente lasciando raffreddare. 6. Con un coltello tagliate il cioccolato a scaglie grossolane. 7. Setacciate la ricotta per renderla più morbida. 8. Lavoratela con lo zucchero. 9. Montate la panna ed unitela al composto con delicatezza, mescolando dall’alto verso il basso per non perdere l’aria incamerata. 10. Fate riposare la crema così ottenuta per almeno 4 ore in frigo. 11. Adesso siete arrivati alla fase di montaggio: prendete una coppetta e inserite i biscotti sbriciolati senza pressarli, mettete un bello strato di crema e decorate a vostro piacimento con scorze d’arancia e con le scaglie di cioccolato. 12. Prima di servire vi consigliamo di mettere anche sulla superficie una bella spolverata di biscotti.

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L'Arte Bianca a cura di Alessandro Trezzi

a t t a b cia 1184 - Almanacco 2021

Ah, se la mamma ci avesse tirato questa


Un prodotto tutto italiano, nato nella città di Adria in tempi relativamente recenti; negli anni ’80 del secolo scorso il Sig. Arnaldo Cavallari, dopo una carriera nel mondo del Rally, segue le orme familiari dedicandosi a pieno al mondo della panificazione. Durante una forte crisi economica dei molini adriesi, Cavallari dedicò tutte le sue energie per salvare l’azienda di famiglia. Spinto da questo importante obiettivo, tra il 1976 e il 1977 si dedicò a girare l’Italia e l’Europa per imparare i segreti della panificazione. Il suo interesse si concentrò quindi sul Pane nero tedesco e sulla Baguette francese. Proprio durante questi viaggi scoprì, a Sesto San Giovanni in Lombardia, quella che ritenne come “la versione della baguette”: la michetta. Iniziò a cercare quindi una miscela di farina che valorizzasse al meglio questo tipo di pane. L’idea di produrre una michetta insuperabile grazie ad una farina innovativa spinse Arnaldo a fare vari tentativi ed esperimenti, creando infine la sua miscela e iniziando a girare tra i fornai d’Italia per farla conoscere. All’epoca, c’era un grande forno bolognese considerato da molti come il tempio del pane, gestito da Liciano Zanella, rinomato sostenitore della baguette. Cavallari riuscì a vendere la farina a Zanella, creando i marchi registrati “Doppio Zero SSS” e “Tre esse”. Questo importante traguardo segnò il salvataggio dal punto di vista economico del molino di Cavallari. In seguito, furono registrati altri tre marchi di pane: “Il Filone Polesano”, “La Pagnocca Polesana” e “La Stella Polesana” . Nel 1982, Arnaldo si trovava a pranzo con presidente nazionale dell’associazione panificatori Antonio Marioni, nella “Trattoria Toscana”; assaggiando la tipica "sciavata toscana" (cioè, un panificato a metà tra una pizza ed uno sfincione), il panificatore ebbe un’illuminazione e si pose come nuovo obiettivo la creazione di una farina che superasse la soglia dell’assorbimento del 65% di acqua, allora raggiunta solo dalla baguette francese. Seguì una sessione di prove, e arrivò infine la nuova miscela per il 70% di assorbimento nei molini adriesi,

madre di un iconico pane: la “ciabatta polesana”, considerata da Arnaldo il pane migliore del mondo. Il problema di questo pane era tuttavia che (come marchio e prodotto) funzionava molto bene in Italia, ma non all’estero; creò quindi la “Ciabatta Italia”, ottenuto con farine semi-integrali in grado non solo di assorbire fino al 75% di acqua, ma anche di conferire incredibili componenti aromatiche a crosta e mollica. Oggi, la ciabatta italiana è conosciuta e diffusa in circa 56 stati, ed è da molti considerata il pane perfetto: è un veicolo ideali per ripieni e condimenti, piattaforma suprema di panini definitivi. In formato maxi, si affetta e offre grandi superfici spalmabili; impossibile che non l’abbiate assaggiata ricolma di profumatissimi affettati e formaggi morbidi, con tanto di crunch ad ogni minimo morso. Eppure, esistono tantissime altre applicazioni per questo versatilissimo pane, che può benissimo prestarsi a farciture in linea con le preparazioni abituali di un guru del barbecue. Polpette al sugo, Beef Stew e perché no, un succulento ripieno di costine sfilacciate; l’areata mollica si occuperà di trattenere i corposi succhi di cottura, e la crosta croccante accompagnerà ogni morso senza sfaldarsi durante l’esperienza. Vogliamo vedere come si fa?

La ciabatta perfetta Nella mia zona c’è un panificio famosissimo, fondato da uno dei più grandi esperti che il nostro paese abbia avuto la fortuna di avere. Massimo Grazioli (e oggi il figlio Nicolò), anni fa diede vita a uno dei pani per me più buoni al mondo: “Il Paesano”. Si tratta, sostanzialmente, di un ciabattone a dir poco enorme, una forma lunghissima dai 3 ai 5 kg, larga 28-30 cm, alta 10-15 e lunga 1-2 metri; l’idratazione tocca l’80%, e viene usata una farina di tipo 1 macinata a pietra ad alto assorbimento. Un pane profumatissimo, dall’aspetto quasi romantico. L’idea che voglio proporvi, ovviamente in formati ridotti, trae spunto da quell’incredibile filone: una ciabattona della dimensione più grande che il vostro forno possa sostenere (circa 1 kg), e che farcirete di ogni ben di Dio. La mollica dovrà essere ariosa ma scura, grazie all’utilizzo di ottime farine di tipo 1; la crosta sarà altrettanto croccante, sfrigolante e ben staccata dalla parte interna, e dovrà mantenere tutta la sua friabilità morso dopo morso.

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redo sia difficile che non conosciate la ciabatta. Stiamo parlando di uno dei pani più diffusi e apprezzati, specialmente nel Nord Italia; la crosta è sottile e friabile, la mollica cremosa, alveolata e soffice.


L’impasto (indiretto)

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Generalmente, la ciabatta viene realizzata con la biga, un pre-impasto asciutto che conferisce una grande spinta verticale, alveoli grossi e ottimi profumi e conservabilità. La maggior parte delle versioni hanno inoltre un 100% di pre-fermento, ovvero vengono re-impastate solo con acqua e sale; in questo modo i tempi di realizzazione vengono accorciati, e la spinta sulla mollica è ancora più elevata, svuotando quasi completamente l’interno. La nostra ciabatta, invece, sarà con il gemello poolish; sempre un pre-impasto, ma liquido, con pari peso di acqua e farina. I suoi pregi sono, oltre ad un profumo più pungente, il conferimento di una grande estensibilità della maglia glutinica e alveoli più fini e uniformi; questo, unito ad un rinfresco con una parte di farina, ci garantirà una struttura leggermente meno alveolata ma ugualmente ariosa, perfetta per sostenere il peso di quei ripieni più pesanti che il barbecue ci offre. Sarà comunque sempre necessaria una farina di forza, specialmente per il poolish; l’ideale è una tipo 1 da almeno 340-360 W, in modo che possa sostenere le ore necessarie per la maturazione del pre-fermento senza sviluppare acidità indesiderate. Per il rinfresco, useremo una farina più debole per spezzare la tipica tenacità degli impasti indiretti; potete usare un’altra farina di tipo 1, oppure della

semola rimacinata per ottenere un gusto più rustico e una mollica più spugnosa, perdendo tuttavia un po’ della croccantezza sulla crosta. Io vi consiglio di non abbandonare il buon vecchio grano tenero; lavorate con una tipo 1, una tipo 2 o perché no, dell’integrale, scendendo con la forza sui 260-280.

Il riposo Le fasi di riposo di una ciabatta sono molto particolari, e si suddividono in 3 fasi distinte: • Dapprima, il nostro poolish dovrà compiere il processo fermentativo e divenire maturo, pronto per essere rinfrescato; occorranno, con le nostre dosi, circa 16 ore; • Dopodiché, impasteremo con gli ingredienti rimanenti, faremo partire la lievitazione e lasceremo quindi l’impasto a temperatura ambiente per 2-3 ore, e in frigorifero per altre 2-3; ciò ci consente di lavorare l’impasto da freddo, sarà più asciutto e più manovrabile; • A questo punto, dovremo spezzare le nostre ciabatte e lasciarle riposare in un telo di lino o in un canovaccio, ripiegandolo tra un filone e l’altro come già avete visto nel caso delle baguette. Altre 2- 3 ore, e le ciabatte sono pronte per essere infornate.


La cottura Per la cottura in casa avete diverse opzioni; nel caso di forno a legna, a gas o elettrico professionale, vi basta pre-riscaldare a 240°C, portare le ciabatte sulla pala e cuocere con vapore per 16-18 minuti, poi per i rimanenti 10-12 dopo aver fatto fuoriuscire il vapore. Con un forno domestico, potete replicare lo stesso concetto disponendo di una pietra refrattaria, che riscalderete insieme al forno, e di un pentolino e/o vaporizzatore per i primi minuti. In sua mancanza, pre-riscaldate una teglia rovesciata, che fungerà da ripiano per le ciabatte.

INGREDIENTI

per un ciabattone da 1.2 kg, o per tre ciabatte da 400 grammi Per il poolish 512 g di farina di grano tenero di tipo 1 (340-360 W); 512 g di acqua;

I tempi, ovviamente, sono indicativi, e dipendono dal peso della ciabatta; con la ricetta che vedremo a breve potrete ottenere una ciabatta grande da 1.2 kg, oppure tre ciabatte medie da 400 grammi, perfette per la cottura in pentola.

0.5 g di lievito di birra fresco per l'impasto 1.024 g di poolish pronto e maturo; 128 g di farina di grano tenero di tipo 1 o di tipo 2 (260-280 W); 32 g di acqua (fino all’85% di idratazione); 16 g di sale fino.

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Un’ottima cottura può essere condotta anche in pentola di ghisa; in questo caso pre-riscaldate il recipiente insieme al forno a 250°C, posizionate la ciabatta, cuocete per 16-18 minuti con coperchio, togliete il coperchio e terminate per i rimanenti 10-12 abbassando la temperatura a 200°C.


PREPARAZIONE DEL POOLISH Versate tutti gli ingredienti in una ciotola (l’ordine, in questo caso, non ha importanza), e mescolate con un cucchiaio o una spatola fino a che tutta la farina non sarà stata completamente assorbita. Coprite con pellicola e lasciate riposare a 20°C-22 °C per 16 ore; il poolish è pronto quando profuma di yogurt e inizia a collassare, con crepe ben visibili sulla superficie. IMPASTAMENTO Considerata l’alta idratazione, impastatrice o planetaria sono caldamente consigliate per questi impasti. versate il poolish e la farina in vasca e cominciate ad amalgamare a bassa velocità; quando l’impasto comincerà ad incordarsi e ad asciugarsi, versate il sale e a filo, pochissimo alla volta, l’acqua rimanente. Se doveste lavorare per forza a mano, non utilizzate l’acqua rimanete e fermatevi all’80% di idratazione; lavorate energicamente l’impasto per circa 10 minuti, dopodiché unite il sale e lavorate ancora per altri 5.

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Fate riposare senza coprire il tutto per 20 minuti, poi effettuate qualche piega di rinforzo; attendete altri 10 minuti, fate un’altra piega, poi l’ultima

dopo ulteriori 10 minuti. Chiudete l’impasto ad una temperatura di almeno 24°C-25°C, per poter dare il via alla fermentazione. PUNTATA Oliate abbondantemente un contenitore a chiusura ermetica o una ciotola, che possano contenere il triplo del volume del vostro impasto; trasferitelo al suo interno, e lasciate puntare per 2-3 ore a temperatura ambiente. Dopodiché, trasferite in frigorifero per altre 2-3 ore, fino ad un massimo di 12; in questo modo il vostro impasto si asciugherà e sarà più semplice da maneggiare. FORMATURA E APPRETTO La formatura della ciabatta è molto semplice, ma dovete prestare attenzione alle misure; si tratta infatti di un pane che non va lavorato, o rischiereste di chiudere i preziosi alveoli. Se il vostro obiettivo è fare un unico ciabattone singolo, le cose si fanno semplici: prendete un telo in lino o un canovaccio pulito, sporcatelo di abbondante farina, fate lo stesso sulla superficie dell’impasto e rovesciatelo al di sopra, per poi spolverare di farina anche il dorso.


COTTURA Avete scelto la modalità di cottura? Perfetto, allora non dovete fare altro che seguire i tempi indicati ed essere sicuri che il vostro ciabattone cuocia a dovere. Per la forma da 1.2 kg, è fondamentale avere una pala sufficientemente larga; il mio consiglio è quello di rivestirla sopra e sotto con uno strato di carta forno, sporcarla di farina, e rovesciare velocemente l’impasto su di essa. Aprite il forno, tirate lo strato di carta forno inferiore facendo scivolare l’impasto sulla pietra refrattaria o teglia, come se fosse un telaio professionale. Cuocete quindi con vapore per 18 minuti, poi togliete

il vapore e terminate la cottura a 220°C per 12 minuti. Nel caso di ciabatte singole, infornatele tutte insieme sulla pala/telaio, e cuocete per 12-14 minuti con vapore, e 10 senza; con la pentola sarete costretti a cuocerne una alla volta, quindi fate scivolare sulla pala con carta forno un filone alzando la piega laterale, poi portate sul piatto della pentola, coprite e infornate a 250°C per 14 minuti, senza coperchio per i restanti 10. In ogni caso, affidatevi sempre a questi indicatori: • Bussando sulla base, il suono deve essere vuoto; • La crosta deve essere estremamente croccante, e premendo leggermente con le dita deve • sfrigolare; • Il colore deve essere dorato tendente al bruno; • La temperatura interna deve essere di almeno 95°C. Perfetto, ora siete pronti: sfornate la vostra ciabatta e lasciatela raffreddare su una griglia rialzata; una volta farcita, riportatela in forno a 200°C per 5 minuti, e gustatevela ben calda. Buon ciabappetito!

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Coprite con un altro telo e lasciate riposare per 2-3 ore. In caso dobbiate dividere, dopo aver rovesciato l’impasto sul telo e averlo cosparso di farina, con un tarocco spezzate l’impasto in 3 parti e separatelo, senza lavorarlo; create una piega con il telo tra un filone e l’altro in modo che lievitando non si uniscano nuovamente, e coprite con un altro telo, lasciando riposare per 2-3 ore.


Strani ingredienti americani il ketchup Across the Pond a cura di Elena Ninotti Quando sono venuta a conoscenza del tema del mese di Novembre, mi è subito venuto in mente che ancora non vi avevo parlato del Ketchup e del ruolo chiave che ha avuto nella istituzione di un organo importantissimo per definire la qualità di quello che compare sulle tavole americane, l'organo di controllo arcinoto come FDA (Food and Drug Administation) Il ketchup, contrariamente a ciò che si possa pensare, non è un prodotto recente: le origini di questa deliziosa salsina risalgono a migliaia di anni fa e hanno base nell'Estremo Oriente. Con i traffici commerciali del 18°secolo, gli inglesi portarono in patria una salsa conosciuta in Cina fin dal 300 a.C.: la “ge-thcup” or “koe-cheup” (trad. Salsa di pesce sottaceto), una salsa a base di soia e pasta di carne e pesce fermentati. Ovviamente non conteneva pomodori né peperoncini, questi ultimi nel Vecchio Mondo solo in seguito alla scoperta delle Americhe (e oltretutto, a lungo malvisti), ma era comunque una salsa di accompagnamento per carne e pesce. Furono gli inglesi ad innamorarsi del ketchup, al punto tale da elaborarne uno proprio, partendo dalle basi più disparate: ostriche, funghi, frutta e verdura venivano cotte a lungo per ottenere salse ricche di umami, con cui mascherare il gusto di carni non proprio freschissime: siamo dopotutto in un tempo in cui il frigorifero doveva ancora entrare nelle case. La prima menzione al pomodoro nel ketchup si trova nel 1812, per mano di un orticoltore di Philadelphia, conosciuto ad oggi come Mr. Mease, la cui salsa conteneva pomodoro, spezie e brandy, ma a cui ancora mancavano aceto e zucchero. Un indiscusso vantaggio di questa salsa era il fatto che permetteva di conservare i pomodori prodotti in eccesso. Tuttavia, il ketchup commercializzato era ricco di

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batteri e muffe: non era affatto più salubre dei prodotti che andava a condire, tanto da portare alla necessità di introdurre nell’industria alimentare i conservanti. Borace, formadeide e sodio benzoato erano i conservanti ritenuti non pericolosi e permettevano di mantenere “sicuri” i prodotti di dubbia qualità, spesso adulterati con gesso, polvere, piante, e anche... farina di insetti. Non tutti però erano favorevoli agli additivi chimici per mascherare le falle dei prodotti. Un produttore di Ketchup delle Pennsylvania, Henry J. Heinz, inizio a collaborare con il dottor Harvey Washington Wiley, un paladino della lotta agli additivi nel cibo. Infatti, il dottor Wiley riteneva che per la conservazione del ketchup sarebbero state più che sufficienti buone pratiche produttive unite all’alta qualità dei prodotti. Heinz decise che avrebbe voluto essere trasparente, corretto e rispettoso del consumatore. Per sottolineare questa sua posizione, il suo ketchup, a differenza di quelli dei concorrenti, sarebbe stato - e viene ancora oggi - venduto in bottiglie trasparenti. Nel frattempo, le condizioni della carne commercializzata erano sempre peggiori, tanto da diventare protagoniste del racconto di denuncia “The Jungle” di Upton Sinclair, e tanto da rafforzare l’impegno di Wiley nella lotta ai conservanti (accusati di mascherare la putrefazione) e alla qualità scadente dei molti prodotti simili al ketchup di Heinz, venduti a prezzi irrisori. Le preoccupazioni di Wiley e di Heinz sulla qualità dei prodotti concorrenti e sulla salute pubblica andavano controcorrente alle posizioni degli altri produttori, ma questo non impedì loro di portare il problema davanti al Presidente Roosvelt e ad attivare l’attenzione dei grandi politici in tema di salute alimentare. Il prodotto di Heinz conteneva pomodori molto maturi (ricchi di pectina) e molto più aceto delle ricette precedenti, dando così origine a una salsa senza conservanti e completamente “naturale” Fu un successo. Iniziato a essere commercializzato nel 1876, già nel 1905 aveva venduto più di 5 milioni di bottiglie, forte del claim Recognized as the standard by Government pure food authorities (la dicitura formale di accettazione e controllo da parte delle autorità americane, quelle che oggi cadono sotto l'FDA).

Secondo questa legge, il dipartimento di Chimica doveva vigilare sulla sicurezza dei prodotti commercializzati, sulla corrispettività degli ingredienti/contenuto e sulla salubrità dei farmaci. Venivano inoltre proibiti additivi che avessero scopo di alterare la malconservazione, le adulterazioni e le false etichettatura. Alcuni ingredienti, come alcool, morfina, cocaina dovevano essere riportati in etichetta, se presenti. La personale crociata di Wiley proseguì verso la salute pubblica in campo alimentare e portò alla fondazione, nel 1907, di un proprio ente regolamentativo, il Board of food and drug Inspection (che poi

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Grazie a loro, il 30 Giugno 1906 il President Roosevelt firmò il Food and Drugs Act, che prese il nome di Wiley’s Act: un evento che ha segnato l’era moderna dell’industria alimentare.


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Dopo la morte di Wisley, il cui impegno era incentrato principalmente verso le sofisticazioni del cibo, il FDA si dedicò a combattere un’altra mal pratica che si stava diffondendo e di cui si era occupato troppo poco: quella dei farmaci “miracolosi”, tra cui Banbar, una cura per il diabete, totalmente inefficace; il Lash-Lure, un eye liner a base di anilina che portava a cecità le donne che lo utilizzavano; il Radithor, una miracolosa crema illuminate (sic!) a base di radio, un

metallo radioattivo, disponibile anche come tonico da bere, che portava a morte lenta e dolorosa; uno sciroppo per bambini edulcorato con glicole etilenico, un veleno molto potente. Proprio da queste battaglie condotti negli anni 50-60 si può dire che nasca la coscienza critica dei consumatori. L’attività del FDA continua anche oggi. Non male, per essere iniziato tutto con un prodotto emblema del Junk food. Per celebrare il ketchup, vi lascio una ricetta di polpette glassate in salsa BBQ, tratta dal libro Jubilee, di Toni Tipton-Martin e leggermente rivisitata.

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divenne il FDA) a cui si affiancò il comitato di esperti scientifici di riferimento. Il ruolo del FDA divenne presto un faro, nel XX secolo.


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MEATBALLS IN MOLASSES BARBEQUE SAUCE


Ingredienti per 6 persone:

per la Salsa Barbeque alla Melassa: 40 g di burro / uno spicchio d'aglio, sbucciato e tritato fine / 2 cucchiai di cipolla tritata (mezza cipolla media) / 125 ml di di acqua / 140 g di di ketchup / 60 g di aceto di mele / 60 g di melassa / 1 cucchiaio di Worcestershire sauce / 1 cucchiaio di succo di limone (spremuto fresco) / 2 cucchiai di zucchero di canna scuro / 2 cucchiaini di senape dolce / 1 cucchiaio di Sal’s Seasoning Tennessee / 1/4 di cucchiaino di pepe nero Per le polpette: mezzo kg di macinato di manzo / mezzo kg di macinato di maiale / 1 cipolla intera, piuttosto grossa, tritata / 2 spicchi d'aglio, sbucciati e tritati / 1 cucchiaino di Sal’s Seasoning Tennessee / 100 g di panko (o pangrattato) / 2 uova piccole, leggermente sbattute / sale q.b. Per le polpette: 2 bicchieri di Salsa BBQ alla melassa / 1 cucchiaino di miele

2.

Unite tutti gli altri ingredienti, date una bella mescolata e portate a bollore, sempre a fiamma medio alta.

3.

Proseguite la cottura al minimo per 20 minuti fino a che la salsa non si inspessisce e diventa densa e lucida

4.

In un'ampia terrina, mescolate i due tipi di macinato con la cipolla tritata, l'aglio e le spezie. Unite poi l'uovo e tanto pangrattato quanto basta a rendere il composto facilmente malleabile. Potete fare questo impasto anche il giorno prima, lasciando poi insaporire la carne una notte in frigo.

5.

Formate poi tante piccole polpette con le mani leggermente umide.

6.

Per la cottura, usiamo la versione veloce: mentre preparate le polpette, accendete il forno o il vostro dispositivo per una cottura indiretta a 160°C. Disponete le polpette su una teglia rivestita di carta da forno e infornatele per 15 minuti. Sfornate ed eliminate l'eventuale liquido fuorisucito in cottura. Alzate la temperatura a 180°C.

7.

Versate la salsa e un cucchiaino di miele in una pirofila o in un dutch oven e condite le polpette, in modo che siano ben coperte dalla salsa. Infornate nuovamente per altri 15 minuti o fino a quando la salsa si sarà leggermente rappresa.

8.

Potete anche abbassare la temperatura a 130°C e lasciarle andare coperte per 3 ore.

9.

Servite immediatamente, raccogliendo il condimento in una salsiera. servite con riso bianco di accompagnamento o corn brea

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PREPARAZIONE: 1. Fate fondere il burro, in una pentola abbastanza capiente e fatevi soffriggere a fiamma medio bassa l'aglio e la cipolla, mescolando spesso, fino a quando la cipolla non diventerà traslucida (circa 3-4 minuti).


Il quinto quarto a cura di Virgilio Brunetti

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Mi domando cosa ne pensasse di questa particolare cucina partenopea il Pibe de Oro, nel suo lungo soggiorno a Napoli; alcuni riferiscono che fosse amante di sapori semplici e forti. Non so se fosse appassionato di ‘o père e ‘o musso, ma sicuramente nella sua Argentina le stesse parti molli sfrigolano sulle tradizionali griglie arroventate; la parillada di achuras è di fatto la versione alla brace di ‘o pere e ‘o musso. Troviamo infatti le mammelle, dette umbre, insieme a chinchulines (intestino tenue), molleja (animelle), creadilla (testicoli), tripa gorda (parte finale dell’intestino crasso), morcillas (sanguinaccio) e altri tipi di salsiccia. Le frattaglie bianche rappresentano quindi un capitolo piuttosto forte del quinto quarto, sebbene alcune di queste frattaglie, per rarità e prelibatezza, sono state ampiamente rivisitate nell’ambito dell’alta cucina da numerosi chef più o meno stellati. Si distinguono nettamente da quelle rosse non solo per il colore, ma soprattutto per la totale assenza del caratteristico gusto e del particolare aroma ematico, caratteristico soprattutto dei fegati, ma che ritroviamo anche in cuori, polmoni, rognoni e milze. Anche la texture delle frattaglie bianche è singolare: la consistenza è quella tipica delle viscere e, ad eccezione di stomaci vari (trippa bovina e

stomaci di maiale), risulta particolarmente fragile, morbida, grassa e vagamente gelatinosa; tuttavia come tutte le frattaglie diventano granulose e stoppose quando si eccede con la cottura. L’aroma potente di sangue delle frattaglie rosse si contrappone a quello delicato latteo delle frattaglie bianche. Essendo per la maggior parte ghiandole ed organi ematopoietici, esse sono costituite da cellule molto ricche di enzimi e di grassi che si degradano molto rapidamente, dando spazio prima a fenomeni autodigestivi seguiti rapidamente da una inesorabile rapida putrefazione. Ne consegue che il consumo delle frattaglie, in particolare quelle bianche, deve essere immediato e molto a ridosso della mattazione degli animali. La trippa (gli stomaci del bovino) e gli stomaci di altri animali di interesse gastronomico, per ragioni di ordine anatomico, strutturale e fisiologico, giocano un campionato a sé: essendo costituiti essenzialmente da collagene richiedono trattamenti di pulizia, precottura e cottura totalmente diversi dalle altre frattaglie. Ne riparleremo in un articolo specifico. FRATTAGLIE GOURMET: LE ANIMELLE La vera animella è il timo, un organo linfatico presente nei mammiferi giovani; quella più interessante dal punto di vista culinario è di bovino. Nella cultura gastronomica regionale laziale viene attribuito il nome di animella anche ad altri organi, quali le ghiandole salivari ed il pancreas di bovino ma soprattutto di agnello. Capirete che pochi etti di tessuto estratti dalla macellazione di un vitellone fanno delle animelle un ingrediente raro e molto ambito. La chef Cristina Bowerman, forse più di altri maestri di cucina, ha saputo declinare questo ingrediente in alcune preparazioni con soluzioni a livello di food pairing veramente entusiasmanti come le sue animelle glassate ai datteri con broccoli, brodo di tuberi e cipolla bruciata e tartufo; oppure, in versione predessert, le animelle in salsa dolce di soia, torcione di foie gras, visciole di Stivali all’Armagnac. Le animelle trovano però la migliore collocazione, nelle nostre menti carnivore, nella tradizionale versione alla griglia, senza disdegnare la versione

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ontinuiamo il nostro viaggio alla scoperta del quinto quarto parlando delle frattaglie bianche. Vengono definite così proprio per il loro colore pallido, biancastro, tutt’al più lievemente rosato; dal punto di vista anatomico parliamo di ghiandole, dell’apparato digerente e di alcune parti del sistema nervoso degli animali di interesse gastronomico. Per comprendere veramente quanto sia hardcore la preparazione e il consumo di questo particolare quinto quarto dobbiamo fare un salto a Napoli sui banchi e nelle vetrine dei ventraiuoli; qui troviamo ‘o pere e ‘o musso al sale e limone, ovvero un’incredibile panoramica di organi lessati di animali. Che si parli del bovino, del capretto o del maiale, a Napoli non si butta via niente e quindi si consumano normalmente trippe, piedini, zampetti, grugni, muselli e altre parti della testa ma anche mammelle, intestino retto e utero. In un cuoppo di queste gelatinose prelibatezze, condite con solo sale olio e limone, accompagnate da lupini e olive in salamoia, potremmo gustare le parti più intime della vacca.


schienali invece, estratti dalla lombata del bovino, raramente vengono consumati in purezza ma sono parte di alcune ricette tradizionali come la Cima alla genovese, insieme (facoltativamente) ad animelle e cervella di vitello.

fritta. In tutti i modi. l’animella freschissima deve essere sbollentata e privata delle membrane superficiali; per me la migliore espressione è la cottura alla spada tipica del fornello della Valle D’Itria, dove minuscoli bocconcini di animella di agnello avvolti con l’intestino dello stesso animale, similmente ai classici gummereddi o gnummareddi, vengono arrostiti sulla spada al calore indiretto della brace di leccio. CERVELLA, SCHIENALI E MAMMELLE: BOCCONI DA INCUBO PER ALCUNI, PRELIBATEZZE PER ALTRI Devo confessarvi che, per via paterna, ho passato il mio gene carnivoro a mia figlia che ora ha 5 anni; quest’anno non sapevo se essere orgoglioso o preoccupato quando. durante le ricorrenze pasquali, la mia piccola con una certa prepotenza ha privato me e il nonno del boccone di cervello delle nostre ambitissime testine di agnello alla griglia. Speravo mi lasciasse l’occhio ma purtroppo non è stato così.

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Cervella e schienali non sono altro che il sistema nervoso centrale dell’animale, rispettivamente l’encefalo e il midollo spinale. Anche queste frattaglie devono essere estratte in fretta e consumate freschissime. Per lungo tempo sono rimaste nell’oblio per via della BSE, di conseguenza molte famiglie hanno dimenticato l’uso di questo alimento molto nutriente e dalla consistenza singolare. Il cervello è ingrediente fondamentale di alcuni piatti tradizionali della cucina del nord Italia, come il fritto misto piemontese o le cervella alla milanese. Gli

La mammella di bovino è un altro tipo di frattaglia piuttosto hardcore, la troviamo in ‘o pere e ‘o musso, essendo un piatto tipico della cucina napoletana; molto più a nord troviamo il teteun, un singolare salume valdostano ottenuto dalla lavorazione delle mammelle di vacche di razze autoctone: le ghiandole vengono spurgate dai residui di siero e di latte e poi salate lungamente in una concia liquida a base di sale ed aromi. Dopo due settimane di salagione le fette di mammella vengono cotte a vapore raffreddate, poi conservate per il consumo; l’abbinamento tipico sono salse a base di aceto e frutti. GRANELLI, OVVERO I TESTICOLI Dalla castrazione del bestiame si ricavano prelibatezze denominate granelli; quelli di pollo, ovviamente più piccoli, vengono chiamati fagioli e sono parte indispensabile di un singolare e saporito intingolo toscano detto Cibreo di Rigaglie, del quale la più famosa estimatrice fu Caterina de’ Medici.


Negli States le palle di toro a fette, panate e fritte, vengono chiamate simpaticamente ostriche delle montagne rocciose: il sapore è ricco e la consistenza un po’ elastica viene persa in cottura. Tuttavia, come quasi tutte le frattaglie di una certa consistenza, i granelli di bovino si prestano alle cotture umide. Poco tempo fa ho preso appunti e vi riporto il suggerimento dello Zio Gianfranco: uno dei modi per cucinarli è in umido nel sugo dopo averli soffritti con sedano, carota, cipolla, e varie erbe e spezie per mitigare il sapore molto intenso e selvatico. Il mio consiglio è di provare a farli almeno una volta nella vita. Ma con una piccola aggiunta: gratinateli in forno dopo la cottura nel sugo, aggiungendo un po’ di mozzarella sopra, una spolverata di origano, un giro di olio extravergine e mollica tostata. Non ho capito ancora se quando l’ha pubblicata scherzasse o meno.

IL MIDOLLO OSSEO E’ un tessuto molto speciale, particolarmente abbondante nelle ossa lunghe dei bovini; si tratta di un tessuto ematopoietico strettamente associato a tessuto adiposo giallo. Nella cucina tradizionale questo alimento è piuttosto apprezzato, tipicamente consumato negli ossibuchi, nel bollito misto di carne della cucina piemontese, oppure come ingrediente di ripieni insieme al cervello, come nella Cima alla genovese. Viene utilizzato inoltre nella ricetta originale del risotto alla milanese. Il giornalista e critico gastronomico Luca Iaccarino, in uno dei suoi articoli, scrive giustamente: “ci sono piatti che d’improvviso conquistano il mondo. Fino al giorno prima, nessuno li considerava. Poi li trovi nelle carte di tutti i ristoranti. Non c’è niente di male. È giusto: le cose buone sono contagiose. A pieno titolo rientra in questa categoria il midollo alla brace: si tratta di una tibia tagliata in due per il lungo e cotta in forno o, ancor meglio, sui carboni ardenti”. Quello che vi consiglio io è consumarlo come un lussurioso intingolo per crostini: conditelo semplicemente con olio, senape di alta qualità e poco pepe.

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I testicoli più corpulenti di agnello e di vitello devono essere veramente molto freschi e devono essere lavorati rapidamente, privati dalle membrane esterne, sbollentati e spellati per essere destinati, come le animelle, alla griglia rovente o alla frittura con una opportuna panatura.


Dispositivi e accessori a cura di Daniele Faresin

I COLTELLI

che tutti dovremmo avere in casa

C

hi ci segue lo sa. Prova a tagliare qualcosa con un coltello sbagliato: nel caso della carne le fibre rischiano di rovinarsi, le verdure? Adios. Il cibo letteralmente stramazza sotto lame dozzinali, sbagliate, che non hanno il filo. Prova invece a tagliare con i coltelli giusti: la ciccia, il pesce, le verdure tenderanno a cedere amorevolmente sotto la lama, senza alterarne la struttura. Ti proponiamo dei grandi coltelli da usare tutti i giorni: li ha selezionati personalmente Gianfranco Lo Cascio dai migliori produttori. Maneggevoli, con impugnatura sicura, la giusta durezza.

tipo di lama che li renderli conoscibili. Sono simboli del potere, di capacità. Anche in cucina dopotutto. Il materiale migliore per un coltello è ovviamente l’acciaio. Un ottimo coltello in acciaio dovrà avere le seguenti caratteristiche: •

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• Sono quei coltelli “quotidiani”, come li chiamiamo noi, perché ogni giorno ti ritrovi a compiere operazioni molto simili e anche facili in cucina, per le quali ti saranno di indispensabile aiuto.

LE CARATTERISTICHE DI UN OTTIMO COLTELLO

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I coltelli sono tra gli utensili più antichi mai creati dall’umanità. Lo scopo, lo puoi immaginare da solo: procacciarsi il cibo, poterlo tagliuzzare per meglio strappare coi denti, o ancora conservare e trasportare più agevolmente. Meglio tagliare parti grandi di carne in pezzi più piccoli anziché caricarsi un montone addosso, non trovi? I primi coltelli erano in pietra. Selce o ossidiana, che erano le più facili da reperire per l’homo habilis ma anche le più semplici da modellare. La scoperta dei vari metalli ha permesso all’uomo di creare dei capolavori di coltelleria. Pensaci: tutti i popoli del mondo hanno avuto oppure hanno ancora un qualche

Essere resistente quanto basta all’erosione e all’ossidazione a contatto con i cibi più acidi; Mantenere il filo della lama quanto più a lungo possibile; Avere una impugnatura agevole e soprattutto sicura: la sicurezza della persona viene prima di ogni altra cosa in cucina; Essere facilmente lavabile in ogni sua parte.

Il coltello che ho selezionato per te ha tutte queste caratteristiche. Più qualcuna in più, che ti sto per svelare. Non esistono solo i coltelli da bistecca. Tutti i cibi hanno il diritto di essere trattati a dovere. I coltelli da cucina, ad esempio, sono i coltelli che tutti dovremmo avere per casa. Ci impediscono di maltrattare la nostra materia prima, cosa fondamentale. Sei perfettamente a conoscenza di quanto sia importante il taglio fatto in un certo modo, per permettere l’adeguata cottura. Questi coltelli sono adatti per tagliare salumi, per sfilettare il pesce, spezzare ossa. Possono essere di varia foggia: alcuni sono piccoli e maneggevoli, piacevoli anche a guardarsi; altri, sono con lame lunghe e sottili adatte per affettare ed altri ancora sono adatti per i grossi pezzi.


o chef

Il trinciante è il classico coltello da cuoco, infatti l’altro suo nome fa proprio riferimento a questa mansione. Si tratta del coltello più classico che ci sia e le sue mansioni sono le più disparate. Lo puoi usare per sezionare alcuni tipi di carne. Le verdure. Un trinciante classico deve avere delle caratteristiche ben precise. Ricorda che lo devi usare quotidianamente. Quindi oltre la resistenza deve essere sicuro. Un buon trinciante ha una lama rigida e appuntita, un tallone pronunciato che ti permette un’impugnatura comoda e sicura, affilatura precisa. Il trinciante non si dovrà flettere in alcun modo: il suo obiettivo è quello di darti fette o porzioni precise, di uguale spessore, dall’inizio alla fine. Un Trinciante ti permette di sminuzzare, tritare, tagliare, formare, prelevare. Ecco il COLTELLO TRINCIANTE, o CHEF, selezionato personalmente da Gianfranco Lo Cascio. Il Trinciante che ti proponiamo ha una lama lunga 22 cm: una misura intermedia, adatta sia a chi ha conoscenze e praticità avanzate che a chi si approccia per la prima volta.

Il Coach della GLC Academy utilizza il trinciante/Chef per le lavorazioni principali

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Trinciante


2 Santoku Comepuoibenimmaginare,haorigini giapponesi. Ma è diffuso ormai nelle cucine di tutto il mondo. Il suo nome significa “tre utilizzi”, adesso ti spiego perché.

Un coltello santoku ha una lama generalmente molto larga. Viene utilizzato per sminuzzare, disossare e sfilettare: tre operazioni molto comuni nella cucina giapponese, non trovi?

Il pesce presenta insidie

diverse dalla carne: grazie allo spessore della sua lama, un coltello santoku permette al pesce di non attaccarsi, di sfilettare con facilità anche pezzi complicati.

Un santoku deve essere comodo da impugnare, di ottima qualità e che duri nel tempo.

Il Santoku della nostra selezione ha una lunghezza della lama pari a 180 mm. Anche in questo caso, ci collochiamo ad una lunghezza intermedia, adatta a chiunque voglia fare un salto di qualità nella gestione quotidiana della propria cucinapraticità avanzate che a chi si approccia per la prima volta.

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Il Coach della GLC Academy utilizza il Santoku per sminuzzare con precisione


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Utility A completare il tris c’è il fantastico Utility. Se non hai mai incontrato e usato un coltello Utility, fidati di noi: da ora in poi non potrai farne a meno. Come l’amico che non pensavi di avere e che una volta scoperto ti sarà insostituibile.

Un coltello utility è indispensabile per il trattamento di pezzi di piccole dimensioni. Pomodorini, cipolle, mondare con precisione la verdura e la frutta. Serve per la rifilatura del cibo, per l’affilatura e la cubettatura.

È uno dei coltelli più versatili che potrai trovare in circolazione, senza ombra di dubbio. Il coltello Utility che ti proponiamo ha una lama 124 mm, sempre adatto a chi sta iniziando una nuova esperienza in cucina e ai più navigati.

Il Coach della GLC Academy utilizza l'Utility per rifilare la carne senza sbavature

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PERCHÈ QUESTO TRIS È MIGLIORE? Esistono ovviamente centomila Trincianti, Santoku ed Utility in giro. Di ogni prezzo. Davvero per ogni esigenza. Solo che dopo qualche settimana iniziano immancabilmente a deluderti. PERCHÉ QUELLI CHE TI PROPONIAMO NOI SONO MIGLIORI DEGLI ALTRI? La tipologia di acciaio, Acciaio Böhler N690 specifico per coltelleria, in combinazione allo speciale trattamento termico extra duro HRC 60, rendono i coltelli di questo tris praticamente eterni. Ma la resistenza senza la flessibilità è praticamente inutile. Te ne accorgerai appena tirati fuori dalla confezione, toccandoli, grazie anche alle impugnature ergonomiche in tecnopolimero grigio con codolo interamente passante fissato con tre rivetti in acciaio inox. E continuerai a rendertene conto anche anni dopo. La flessibilità dei coltelli di questo tris impedirà alla lama di perdere il filo, nonché ti eviteranno quelle noiose microfratture nell’acciaio che praticamente tutti i coltelli in circolazione hanno. Un set di coltelli tuttofare, da poter usare ogni giorno senza il timore che si rovini il filo, che puoi mostrare per fare bella figura.

Ehi, guarda quello! Utilizza un gran coltello anche per le cose di tutti i giorni.

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Coach Vincenzo Santoro della GLC Academy utilizza i coltelli del " The ultimate GLC Chef’s knives set" durante le riprese del percorso MASTERCLASS


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BBQ4All: FROM ZERO TO HERO

IL FOIL

questo sconosciuto FACCIAMO CHIAREZZA a cura di Emiliano Nencioni

Vi sarà capitato di imbattervi in qualche discussione sui vari gruppi a tema bbq, in cui ci si chiedeva se la fase di foil fosse davvero necessaria al fine di ottenere un risultato eccezionale per le vostre cotture indirette. Probabilmente alcuni di voi non sanno nemmeno cosa sia la fase di foil, o comunque non hanno ben chiara la sua funzione. Facciamo dunque un po’ di luce sull’argomento, in modo da districarci nella marea di informazioni che si trovano in rete. COSA È IL FOIL? La parola deriva da aluminium foil ed indica la pratica di avvolgere la carne, a un certo punto della cottura in griglia, in uno o più strati di alluminio - aggiungendo prima una componente liquida- in modo da creare un ambiente caldo e molto umido con lo scopo di intenerire i tagli più grandi e in generale più tenaci. Si può avvolgere la carne senza nessun altro supporto, oppure utilizzare una vaschetta realizzando quello che in gergo tecnico si chiama Texas Crutch: ovviamente nata in Texas, questa tecnica è stata resa famosa dal circolo delle competizioni BBQ.

COSA È LO STALLO? Cerchiamo di spiegarvelo in modo semplice: quando mettete la carne nel vostro smoker, inizialmente è fredda e umida. L'aria calda e il fumo riscaldano lentamen-

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A COSA SERVE? Usando il foil o più specificatamente il Texas Crutch si previene il raffreddamento per evaporazione sulla superficie della carne, che a sua volta riduce il tempo di cottura totale pur mantenendo l'umidità. Pezzi di carne abbastanza grandi e con molto tessuto connettivo (brisket, beef ribs, pork ribs, pork butt) hanno bisogno di tanto tempo per cuocersi. In questo lungo tempo di cottura, spesso attraversano una fase chiamata stallo. Grande nemico dei pitmaster di tutto il mondo, lo stallo allunga tantissimo i tempi di cottura e fa impazzire i commensali che aspettano ansiosi.


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Ad un certo punto, l'umidità al cuore cerca di uscire attraverso la superficie. In tal modo, incontra il calore che sta cercando di entrare. Parte dell'umidità fuoriesce e si trasforma in vapore, raffreddando l'esterno della carne, mentre parte del calore continua a penetrare lentamente più in profondità. Ma dato che nessuno dei due vuole “cedere il passo” umidità e calore si incontrano nel mezzo e rimangono così per molto tempo. Ecco perché lo stallo può andare avanti per 4 ore o più. Se lasciate andare avanti la cosa senza intervenire, tutta l'umidità alla fine fuoriesce, il calore prende il sopravvento e la temperatura interna della carne riprende a salire. Ma con tutta l'umidità ormai fuoriuscita, la carne diventa secca. È qui che entra in gioco la fase di foil: avvolgendo la carne dopo averla affumicata per alcune ore, intrappolate tutto il calore e l'umidità all'interno del cartoccio. Ciò a sua volta aiuta la carne a superare lo stallo e a rimanere umida e succosa.

pericoloso se viene usato per cucinare cibi acidi e che il consumo eccessivo di cibi cotti con fogli di alluminio può comportare un rischio per la salute. Ovviamente la parola chiave è appunto “eccessivo”: come spesso accade, è la quantità a fare la differenza. Tuttavia, la soluzione - soprattutto per chi è più ansioso- c’è e si chiama Butcher Paper. COSA È LA BUTCHER PAPER Come il nome suggerisce, si tratta della carta con cui tradizionalmente, negli USA, i macellai impacchettano la carne. La sua funzione è esattamente la stessa del foglio di alluminio ma, essendo molto più porosa, ovviamente presenta delle differenze in termini di risultato e tempi di cottura. Innanzitutto, è traspirante quindi la carne continua a prendere fumo anche in fase di foil; in secondo luogo, la butcher paper può assorbire buona parte dei succhi di cottura, ungendo in modo uniforme la carne mentre si cuoce, mentre con l’alluminio il pezzo di ciccia si ritrova in una pozza di liquido. Il bark, in questo caso, ringrazia. I tempi di cottura però si allungano rispetto al classico foil.

PRO E CONTRO Sono ovviamente numerosi i pro di questa tecnica: oltre a velocizzare il tempo di cottura e a rendere la ciccia più succosa, usare il foil aiuta a proteggere la carne dalle temperature più alte e a risparmiare il combustibile (per ovvie ragioni, se si accorciano i tempi di cottura, si risparmia sul carbone). E’ però assolutamente necessario che, prima di andare in foil, il bark (la crosticina saporita che tanto vi piace) sia ben formato, altrimenti si corre il serio rischio di trovarsi a mangiare una “pappetta” umida e appiccicosa.

FOIL SÌ O FOIL NO? Nessuno riuscirà a darvi una risposta definitiva. La verità è che ogni pitmaster deve trovare il suo proprio metodo, quello col quale si trova meglio, e per farlo deve necessariamente provare tutte le tecniche. Ci sono quelli che usano il foil solo per i grandi pezzi di carne, come il brisket, ma preferiscono non usarlo per altre preparazioni come le ribs. Ci sono quelli che per accorciare i tempi di cottura lo usano sempre, quelli che preferiscono la butcher paper (è il caso, ad esempio del famoso Aaron Frankling, proprietario del famigerato Frankling BBQ) e quelli che sono fedeli all’alluminio. C’è chi proprio si rifiuta di usarlo.

Non possiamo poi non affrontare l’annosa questione: quanto è rischioso per la salute l’utilizzo dell’alluminio in cucina? Sono stati fatti numerosi studi in merito, che dimostrano, per dirla in modo molto sintetico, che la migrazione dell'alluminio sugli alimenti dipende da diversi fattori, quali ad es. la durata della cottura, la temperatura di esercizio, il pH degli alimenti e la presenza di eventuali altre spezie o sostanze. Sappiamo con assoluta certezza che l’alluminio è più

A tal proposito, qualche anno fa usare il foil era diventato, in Italia, sinonimo di debolezza: per i detrattori, usarlo significava utilizzare una scorciatoia e di conseguenza secondo loro non eri degno di essere chiamato pitmaster. Per fortuna questa idea ormai è ampiamente superata. La verità è che il foil può essere davvero un grande alleato, specie se si sanno sfruttare le sue potenzialità e non si incappa in errori grossolani.

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te l'esterno della ciccia e si fanno strada fino al cuore. Questo spiega perché la carne all'inizio aumenta di temperatura.


La ricetta scientifica a cura di Gianfranco Lo Cascio

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a t a iFdri tt tate pa


Frittata s. f. [der. di fritto]. – 1. Pietanza a base di uova frullate o sbattute, gettate in padella con olio o burro bollente finché acquistano una determinata consistenza: frittata semplice (a un foglio), ripiegata (a due fogli), arrotolata o avvolta (omelette), ripiena; spesso mescolata, prima o durante la cottura, con verdure o altri ingredienti: frittata con i carciofi; frittata di spinaci, di asparagi, di zucchine; frittata verde, in genere, a base di erbe tritate; frittata col prosciutto, col formaggio. (fonte: www.treccani.it ) Con le patate. Quante volte l’avete mangiata ancora bollente, magari in un bel panozzo, davanti alla tv? Scommetto che la mia versione non l’avete mai provata, però.

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Ma prima di passare alla ricetta, aggiungiamo ancora qualche tassello su uno dei miei ingredienti preferiti: l’uovo.


Il sapore delle uova: una questione di chimica Le uova fresche hanno un sapore molto delicato, oggettivamente difficile da decifrare. Quello che sappiamo per certo è che l’albume conferisce la tipica nota sulfurea, mentre il tuorlo quella dolce e burrosa. L'aroma prodotto da un uovo appena deposto è debole, e diventa più forte quanto più a lungo viene conservato prima della cottura. In generale, l'età delle uova e le condizioni di conservazione hanno un impatto sul sapore maggiore rispetto alla dieta della gallina e alla sua libertà di movimento. Tuttavia, sia la dieta che la razza dell’animale possono fare la differenza. Le razze che producono uova di colore marrone non sono in grado di metabolizzare un componente inodore delle farine di colza e soia (colina o vitamina J), e i loro batteri intestinali lo trasformano in una molecola dal sapore sgradevole di pesce (trietilamina) che finisce nelle uova. I mangimi a base di farina di pesce e alcuni pesticidi possono causare lo sviluppo di sapori sgradevoli. La dieta imprevedibile delle galline veramente ruspanti produrrà uova stravaganti, mai costanti.

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Nell'aroma delle uova cotte sono stati identificati qualcosa come 200 composti. Il più caratteristico è il solfuro di idrogeno, H2S. In grandi dosi - ad esempio in un uovo avariato o in alcuni scarti industriali - l'H2S è molto sgradevole. Si forma prevalentemente nell'albume, quando le proteine cominciano a dispiegarsi e a liberare i loro atomi di zolfo per reagire con altre molecole, a temperature superiori a 60°C. Più a lungo l'albume rimane a queste temperature, più forte sarà l'aroma di zolfo. E più invecchia e più ne produce. Poiché l'idrogeno solforato è volatile, può fuoriescire dalle uova cotte durante la conservazione, che in questo modo perdono quella “puzzetta” tipica. Durante la cottura poi, si sviluppano anche piccole quantità di ammoniaca, che danno un contributo subliminale al sapore delle uova.


La struttura interna dell'uovo MEMBRANA VITELLINA Questa membrana contiene e protegge il tuorlo e si indebolisce man mano che l'uovo invecchia. Questo è il motivo per cui le uova fresche sono più facili da separare rispetto a quelle vecchie. TUORLO La maggior parte delle vitamine e dei minerali dell'uovo, così come tutti i grassi e metà delle proteine, si trovano nel tuorlo. Contiene anche la lecitina, un potente emulsionante. Il tuorlo è più sodo quando è freddo, ricordatevelo quando dovete separarlo dall’albume. CAMERA D'ARIA Il vuoto all'estremità larga dell'uovo è il risultato della contrazione dovuta al raffreddamento dell'interno dopo la deposizione dell'uovo. Questo spazio aumenta di dimensioni man mano che l'uovo invecchia e l'umidità all'interno dell'uovo evapora attraverso il guscio. CHALAZA Questi cordoni biancastri si estendono da ogni estremità del polo e centrano il tuorlo. Man mano che un uovo invecchia, i chalazae si indeboliscono e il tuorlo può diventare fuori centro. Spesso filtriamo le salse e le creme (come la Crème Brûlée) in modo che i chalazae non ne rovinino la consistenza e l'aspetto.

ALBUME DENSO INTERNO E ALBUME LIQUIDO ESTERNO Il bianco, chiamato anche albumina, è fatto di proteine e acqua ed è diviso in strati spessi e sottili, con lo strato più spesso più vicino al tuorlo. Una leggera torbidezza indica un'estrema freschezza. Con l'invecchiamento delle uova, il bianco diventa più sottile e chiaro.

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GUSCIO Il guscio e la membrana interna mantengono il contenuto al suo posto e tengono fuori i batteri. Il guscio è permeabile e col tempo il contenuto di un uovo può evaporare. Non usare mai un uovo con il guscio rotto o spaccato.


Etichettatura e qualità delle uova Sull’etichetta delle uova devono essere riportate per legge: 1. Data di consumo preferibile (per le uova fresche è considerata superata il ventottesimo giorno dalla deposizione, ma devono essere ritirate dal commercio sette giorni prima della scadenza). 2. Categoria di qualità e peso. 3. Numero di uova confezionate. 4. Nome e ragione sociale, oppure il marchio commerciale del centro di imballaggio. 5. Raccomandazioni per una corretta modalità di conservazione. Sull’etichetta possiamo trovare: data di deposizione, indicazione del miglior uso dell'uovo (ad esempio uova per pasta gialla), sistema di allevamento (a terra, con metodo biologico ecc.) ed alimentazione della gallina (dieta esclusivamente vegetale ecc.).

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CATEGORIE DI QUALITÀ Categoria A. Uova fresche, non lavate, né refrigerate o sottoposte a trattamenti di conservazione,

camera d'aria di altezza inferiore ai 6 mm, meno di 28 giorni dall’imballaggio. Uova extra fresche, come le precedenti, ma con camera d'aria inferiore ai 4 mm e meno di 7 giorni dall'imballaggio o di 9 dalla deposizione. Categoria B. Uova di seconda qualità o conservate. Sono refrigerate a temperatura inferiore a 5°C o conservate in miscela diversa da quella atmosferica. Camera d'aria inferiore ai 9 mm. Categoria C. Uova declassate destinate all'industria alimentare; non possiedono i requisiti delle uova di categoria A e B. CATEGORIE DI PESO (solo per uova di categoria A) XL L M S

grandissime, da 73 grammi e più grandi, da 63 a 73 grammi medie, da 53 a 63 grammi piccole, meno di 53 grammi


La conservazione delle uova

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per l'allevamento biologico per l'allevamento all'aperto per quello a terra per quello in gabbia (o batteria)

Segue una sigla che specifica il Paese di produzione (IT per l'Italia, SP per la spagna, FR per la Francia e così via). Un altro numero di tre cifre segnala il comune di provenienza; viene inoltre riportata la sigla della provincia di allevamento (MI per Milano, BO per Bologna, NA per Napoli ecc.). Le ultime tre cifre identificano l'allevamento dal quale provengono le galline, tramite una sequenza numerica che viene assegnata dalle autorità sanitarie locali dopo i controlli sull'idoneità dell'azienda.

IN FRIGORIFERO Se il vostro frigorifero ha il classico vassoietto per le uova sullo sportello, buttatelo. Le uova dovrebbero essere conservate sul ripiano, dove la temperatura è inferiore ai 4°C. Le uova si conservano più a lungo nella loro scatola protettiva; quando vengono scartate possono assorbire gli odori di altri alimenti. Il cartone aiuta anche a mantenere l’umidità corretta, idealmente intorno al 70-80%, rallentando l'evaporazione del contenuto delle uova. IN FREEZER Gli albumi, che avanzano sempre, possono essere congelati, tenendo presente però che perdono le loro proprietà lievitanti. I bianchi congelati sono perfetti per lucidare i prodotti da forno o in ricette in cui non serve montarli. I tuorli, tuttavia, non possono essere congelati così come sono; l'acqua forma dei cristalli di ghiaccio che stracciano la rete proteica. Possiamo aggiungere però dello sciroppo di zucchero (2 parti di zucchero per 1 parte di acqua), mescolando un ¼ di cucchiaino di sciroppo per tuorlo prima di mettere il composto in freezer.

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CODICE ALFANUMERICO Come si interpreta il codice alfanumerico ad undici caratteri impresso sul guscio? È molto semplice. All'inizio del codice è presente un numero che indica il sistema di allevamento delle galline ovaiole:


Le patate nella frittata si friggono due volte La patata fritta perfetta? È tutta una questione di temperatura dell'olio. Quando friggiamo il cibo, generalmente lo facciamo in olio tenuto tra i 160°C e i 190°C gradi. Mettiamo le patate nella padella e la loro umidità superficiale si trasforma immediatamente in vapore. (Avete presente le bolle che spiccano non appena immergiamo il cibo nel grasso caldo? L’olio non sta bollendo, è l'umidità che fuoriesce).

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Anche se sembra controintuitivo, la frittura è un metodo di cottura a calore secco. Mentre il vapore scappa via dal cibo che frigge, lasciando piccoli crepe nella sua scia, una piccola quantità di olio si muove per prendere il suo posto. E mentre il cibo cuoce, il suo rivestimento esterno di amido (perché generalmente friggiamo cibo amidaceo, o cibo non amidaceo pastellato nell'amido) si asciuga, diventando poroso e croccante, con un sacco di olio che aderisce alla crosta appena formata.

L'alta temperatura è fondamentale: se l'olio non è abbastanza caldo, l'umidità non si trasformerà in vapore, la superficie esterna non si asciugherà e la caratteristica crosticina dorata e crunchy non si formerà. Dopo tutto, le reazioni che producono sapore, come la caramellizzazione e la reazione di Maillard, non avvengono rapidamente fino a quando non si raggiungono certe temperature. E se la crosta croccante non si materializza, non c'è nulla che impedisce all'umidità del cibo fritto di migrare verso i bordi esterni. Il risultato? Fritto molle e unto. Questo è il motivo per cui spesso friggiamo un po’ alla volta. Calare tre kg di patate nell'olio caldo abbassa significativamente la temperatura dell'olio e ci restituisce patatine fritte mollicce. Una crosta croccante non è solo più saporita, ma anche più asciutta. Che ci crediate o no, la temperatura dell'olio durante la frittura è solo una parte del motivo per cui il cibo può risultare unto. Infatti, più caldo è l'olio, maggiore è la perdita di umidità e la quantità di olio assorbita.


Occhio anche a non esagerare con il calore. Quando la temperatura dell'olio sale oltre i 205°C gradi, l'esterno del cibo può bruciare prima che l'interno sia cotto. E anche se l'interno si cuoce, il calore violento può causare un'eccessiva perdita di umidità, che indurisce la nostra pietanza. Anche se i termini sono spesso usati in modo intercambiabile, per definizione, un grasso è solido a temperatura ambiente mentre un olio è liquido. L'olio fresco per friggere è composto da più del 98% di trigliceridi, che sono composti da tre acidi grassi legati chimicamente a una molecola di glicerolo. I trigliceridi che sono ricchi di acidi

grassi saturi, come quelli della carne, sono solidi a temperatura ambiente, mentre quelli che sono ricchi di acidi grassi insaturi, come quelli dei vegetali, sono liquidi. Quando i grassi e gli oli vengono riscaldati e poi messi a contatto con il cibo, possono succedere due cose: I trigliceridi possono reagire con l'acqua del cibo per formare altri acidi grassi liberi e glicerolo e gli acidi grassi insaturi possono essere ossidati dall'aria. Entrambe queste reazioni limitano la vita utile dell’olio, facendolo fumare ad una temperatura sempre più bassa. Questo punto di fumo, o la temperatura alla quale l'olio inizia ad emettere fumo sgradevole, cambia da olio a olio, a seconda di quanto velocemente si scompone in acidi grassi liberi. La quantità di questi acidi grassi liberi nell'olio è un'indicazione dell'idoneità alla frittura ad alta temperatura. Ogni olio alla fine inizierà a fumare, e più lo usi, più il punto di fumo diventa basso.

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La maggior parte dei cibi fritti assorbono il grasso DOPO la cottura, quando l'olio in superficie riesce a penetrare nella crosta. Una bella crosta croccante non vieta a una patata di assorbire olio, ma le impedisce di diventare flaccida e grassoccia.


Per fare il fritto ci vuole l'olio PUNTI DI FUMO DI GRASSI E OLI Olio di cocco 195°C Olio di vinaccioli 200°C Olio extravergine d’oliva* 210°C Olio di sesamo 210°C Olio di arachidi 220°C Olio di mais 230°C Olio di semi di girasole 230°C Olio di canola 2 0 5 240°C

ma non si è mai formata una crosta e sono diventate mollicce e flosce. La temperatura magica è 170°C: Il calore è abbastanza alto da trasformare immediatamente l'acqua nella patata in vapore, da asciugare lo strato esterno e formare una crosticina marrone e croccante, il tutto mentre il cuore del tubero rimane umido e cremoso. MA L’OLIO SI PUÒ RIUTILIZZARE?

Grasso di anatra Sego bovino Strutto di maiale

190°C 230°C 240°C

* Il punto di fumo degli oli d'oliva filtrati può essere più alto, anche se tutti variano ampiamente in base alla fonte.. E COSA SUCCEDE QUANDO UNA PATATA TOCCA L'OLIO CALDO? A crudo - Prima di toccare l'olio, la patata trattiene l'umidità in modo uniforme al suo interno. Durante la frittura - Mentre frigge nell'olio caldo, l'umidità si trasforma in vapore ed esce, lasciando dei “buchi” sulla sua scia.

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Dopo la frittura - I crateri sulla superficie delle patate si riempiono di olio, aiutando la formazione della crosticina croccante e ambrata. La quantità di olio assorbita è direttamente proporzionale alla quantità di acqua persa. La temperatura dell'olio fa una grande differenza. Ho fatto un esperimento cuocendo tre porzioni di patatine a 200°C, 135°C e 170°C. Le patatine fritte cotte a 200°C si sono dorate troppo velocemente, rasentando la bruciatura prima che l'interno della patata potesse cuocersi del tutto. Le patatine fritte cotte a 135 gradi, invece, si sono cotte completamente,

In parte sì. Conservate una tazza di olio usato e unitela all'olio fresco prima di friggere. Il cibo fritto diventerà più croccante e svilupperà una doratura più uniforme. Perché? L'olio “nuovo” non riesce a penetrare la barriera di umidità che circonda il cibo mentre frigge. Nel tempo, man mano che l'olio continua a rimanere esposto al calore, si scinde, producendo composti scivolosi e simili al sapone che possono penetrare la barriera d'acqua. Questo maggiore contatto tra olio e cibo favorisce la doratura e la croccantezza. (Durante il “riciclo”, il livello di acido grasso libero aumenta da circa lo 0,03-0,05% nell’olio “fresco” all’8-10% nell’olio “usato”). Quindi conservate un bicchiere o due di olio usato da mescolare con quello fresco la prossima volta che friggete (il rapporto ideale è di 1 parte di olio usato per 5 parti di olio fresco). Una volta che l'olio si è raffreddato, filtratelo attraverso un colino foderato con carta assorbente e mettetelo in frigorifero, in un contenitore ermetico. Conservato in questo modo, l'olio dovrebbe durare per due o tre usi. Ricordate però che l'olio di frittura può trasferire sapori da cibo a cibo. Di regola, buttate via l'olio in cui è stato fritto il pesce


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SPECIAL TRICK

GRATTATE LA SUPERFICIE PER PATATINE PIÙ CROCCANTI

Strofinare le patate, rigarle con una forchetta o creare una superficie irregolare, favorisce l'evaporazione dell'umidità e la formazione di una crosticina più croccante e consistente. La spiegazione? È tutta una questione di texture. La rosolatura o la croccantezza non può svilupparsi prima che l'umidità superficiale evapori. I pezzi di patata “raspata” hanno più superficie esposta rispetto a fette o pezzi crudi e lisci (e quindi più vie di fuga per l’umidità).

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Mi sono spiegato male? Immaginate allora 100 km² della regione montuosa del Trentino Alto Adige. Avranno molta più superficie esposta rispetto a 100 km² della Pianura Padana, giusto?


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FRITTATA DI PATATE

LA RICETTA SCIENTIFICA

Ingredienti per 6 persone: 6 uova grandi / 30 g di burro non salato / 350 g di patate / 1 rametto di rosmarino / olio di arachidi per la frittura / 2 g di sale/ pepe q.b.

Procedimento Incidete le patate con la buccia, dividendole in pezzi irregolari (non devono essere lisci o precisi). Sciacquatele brevemente in acqua fredda e asciugatele con cura, questo passaggio servirà a scaricare l’amido in eccesso. Versate l’olio di arachidi in una padella ampia o nella friggitrice, aggiungete il rametto di rosmarino e friggete le patate a 170°C-180°C, fin quando non si forma una crosticina sottile. Scolate le patate e schiacciatele col dorso di un cucchiaio, per formare una superficie ruvida e irregolare. Friggete di nuovo fin quando non diventano ambrate e croccanti. Fate raffreddare e salatele. Ora dedicatevi alla preparazione delle uova. Tagliate il pezzo di burro a metà e tagliate una metà in piccoli pezzi, come per le omelette. Nel frattempo, scaldate l'olio in una padella antiaderente (26 cm di diametro) a fuoco basso, per 10 minuti. Deve essere una padella con manico in ferro o acciaio, perché dovrete ripassare la frittata in forno. Rompete 4 uova in una ciotola media e aggiungete due tuorli. Aggiungete 2 grammi di sale e due pizzichi di pepe. Mescolate con una frusta fin quando tuorli e albumi non saranno perfettamente miscelati. Unite i cubetti di burro freddo e le patate fritte ormai raffreddate.

Trasferite la frittata in forno preriscaldato a 180°C, azionando solo le resistenze superiori. Lasciate cuocere lo strato superficiale della frittata fin quando il cuore non avrà raggiunto i 70-75°C. Servite ancora calda.

Gianfranco Lo Cascio

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Quando la padella è completamente riscaldata, usate della carta assorbente per pulire l'olio, lasciando un sottile strato sul fondo e sui lati. Aggiungete circa 10 grammi di burro nella padella e scaldatelo fino a quando non si scioglie. Spargete il burro con cura, aggiungete il composto di uova e patate e cuocete a calore a medio-alto.


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Il mito della caverna di Platone Seguo

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a cura di Emiliano Nencioni


Poche settimane fa, grazie ai miei soliti canali privilegiati, sono riuscito a far cadere nelle mie grinfie una copia del libro “Codice Lo Cascio”, uno degli ultimi prodotti editoriali made in GLC, un bel tomo voluminoso, un librozzo di tutto rispetto con copertina rigida, contenente una succosa raccolta di ricette scientifiche frutto di mesi e mesi di continua ricerca e curiosità di Gianfranco, coadiuvato strettamente da Rossella. Li chiamo per nome, non potrei fare diversamente. Anche per voi, lettori cari, saranno ben familiari: chi legge queste ultime pagine è sicuramente un lettore affezionato. Insomma dicevamo, mi arriva questo bel libro, e la prima cosa a cui ho pensato è stata di farne dono a una persona a me vicina, sia come gesto cortese, sia con lo scarsamente dissimulato proposito di affinare le prodezze culinarie del destinatario del regalìno. Chi dovrà cimentarsi nella lettura dell’incunabolo in questione è, facendo due rapidi conti, una specie di destinatario ideale per questo libro: curioso, incurante della “ortodossia della tradizione”, buona forchetta e, non ultimo, sempre lieto di ricevere qualche complimento per le pietanze prodotte. Un po’ casinista, va detto. Forse appena una tacca sopra un po’. Non esattamente uno rispettoso delle raccomandazioni stechiometriche, pensavo, ma che potrà gradire l’approccio scientifico, metodico, non “magico” o piovuto dal cielo.

Grande è stata la mia sorpresa quando già dal pranzo del giorno successivo mi ritrovo nel piatto il frutto della prima sperimentazione di una ricetta scientifica: nel più comune linguaggio verbale di persone consuete, potrebbe essere una cosa riconducibile a “grazie, lo provo subito”.

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La nostra regola non scritta è di lasciare l’oggetto da recapitare direttamente sulla poltrona preferita del destinatario, in assenza del medesimo: mai “ti ho preso questo, ti piace?”, ma un più silenzioso, sottinteso, poco cerimoniale e sicuramente emotivamente blindato “toh”.


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La cucina, un disastro. Uno sconvolgimento sicuramente assai maggiore alla apparente deflagrazione quotidiana: teste d’aglio, quattro tipi di mixer a immersione sfoderati e ancora attaccati ad una prolunga che attraversava in diagonale la stanza, tutti i pensili aperti (perché nella trance agonistica è fuori discussione fermarsi a chiudere uno sportello basculante), una chiave a tubo da tredici millimetri e una trousse di punte da trapano sulla tovaglia, intenso odore d’aglio tipo esalazioni sulfuree di dantesca memoria, una Alaskan Malamute di quarantacinque chili che, per smaltire lo stress accumulato in febbricitanti quarti d’ora di tribolazioni fra le stoviglie, si stava ciucciando un rotolo intero di carta assorbente da cucina. “Ti ho fatto la aglio e olio scientifica!”, mi fa. “Ma sa di pasta lessa col limone, che ti sei inventato?” “Oh, ci ho messo una testa d’aglio, ma poi… ma davvero un bicchiere intero d’olio bisogna usare? La cremina… era venuta una cremina ma poi, lo vedi, si è sfatta tutta.” “Ma hai fatto esattamente come nel libro, o non hai resistito a introdurre qualche variante personale, qualche tocco originale, qualche reinterpretazione?” “Via, dai, una testa d’aglio intera? Ho provato con mezza. Ma poi, ma davvero deve essere tutto così complicato?” “Beh vedi, quelle sono ricette scientifiche: devono essere complicate perché sono anche un po’ didattiche, tirano in ballo la chimica, le reazioni che avvengono, la degradazione delle proteine. Devi vederle come esercizi di stile.” “Sì ma a voi chi ve lo ha detto che è così? Che prove fate? Quelli che fanno in maniera diversa cosa sono, scemi?” “Le ricette sono frutto di robusta e costante ricerca: probabilmente cose simili si possono fare in maniera diversa, questo è solo un modo di procedere che arriva all’obiettivo passando da una metodologia giustificata e ripetibile, tendente se possibile al miglior risultato ottenibile” “Però la aglio e olio che ho sempre fatto era più buona, sii onesto!” “Perché questa l’hai sbagliata, e l’hai sbagliata basandoti sullo scetticismo o sulla voglia di tirar via.” “D’altronde, non mi convinceva.”

È a questo punto che mi si è attivato il processo sempre latente in background “trova un argomento per la Seguo del mese prossimo”: la conoscenza attraverso le ombre del mito della Caverna di Platone! Spiego brevemente per chi non dovesse ricordare molto lucidamente “La Repubblica” di Platone (un testo fondamentale per tutto lo sviluppo successivo del pensiero occidentale, niente di serio insomma!). Per questa profondissima allegoria, Platone (non metterò data di nascita e di morte, non spiegherò chi sia, ma Google è gratis) chiedeva di immaginare una caverna all’interno della quale si trovassero delle persone, incatenate dalla nascita, disposte in modo da poter soltan-


Raffaello -La scuola di Atene (particolare) “Io una cosa sola vorrei sape’...”

to guardare le pareti della spelonca; la percezione degli eventi del mondo esterno è, per i prigionieri, limitata all’osservazione delle ombre proiettate sull’unica parete raggiungibile con lo sguardo, e all’ascolto dell’eco delle voci esterne che rimbalza sulle mura interne. Per gli ignari reclusi le voci provengono dalle ombre, e ogni manifestazione di realtà si appiattisce su una silhouette monocromatica proiettata sulla roccia; sarebbe per loro follia l’idea della presenza di una vita esterna, più profonda e più definita delle ombre. Il riferimento, logicamente, è alla verità e alla conoscenza. Mettiamo il caso, si accanisce Platone, di voler liberare parzialmente un prigioniero, consentendogli di guardare fuori dall’ingresso della grotta, verso il mondo esterno: inizialmente accecato

dalla luce proverebbe solo dolore e fastidio, e la scarsa familiarità con le forme e con la verità aliena alla grotta lo porterebbero a non comprendere nessuna delle rappresentazioni degli oggetti visti direttamente. Solo gradualmente, dapprima attendendo la penombra, poi passando dalle ombre ai riflessi sull’acqua prima di rivolgersi alle cose e alla verità vera, il dolore e il fastidio della luce viva potrà essere sopportato, e la manifestazione del mondo compresa e associata al sottinsieme grossolano ma precedentemente conosciuto delle ombre. Qui arriva la vera fregatura: l’ex detenuto, ormai “illuminato” e abituato alla luce, potrà voler convincere i suoi vecchi compagni di tenebra a compiere il suo stesso percorso, ma si troverà dapprima ostacolato e disagiato dal buio perenne

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a cui il suo occhio non è più abituato, mal riuscendo a comunicare e a comportarsi normalmente nella grotta; dopodichè dovrà anche scontrarsi con la disapprovazione degli individui ancora incatenati, che non riterranno opportuno dover intraprendere un percorso lungo e doloroso solo per vedere delle cose che non sono come si è sempre pensato, per poi ritrovarsi oltretutto incapacitati a vivere normalmente nella più rassicurante oscurità. Non viene anche a voi immediato pensare a tutte le volte in cui vi siete ritrovati invischiati fra i commenti delle Pagine Facebook acchiappaclick dove in migliaia sfottono “quello che mette la bistecca in forno” o chi adopera felicemente tecniche sous vide invece di “fuoco, fiamme e birra in mano” dei gradassucci alpha-male-overthe-network? Voglio dire, Platone questa cosa l’aveva pensata tra le altre cose per parlare del processo di Socrate, che dopo aver trovato la Verità (o quello che poteva essere un pensiero illuminato al tempo) fu ucciso per aver tentato di farla conoscere agli uomini “incatenati” suoi contemporanei, d’accordo, ma cerchiamo di abbassare un attimo il livello e le aspettative.

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Quando abbiamo visto i primi post che parlavano della possibilità di una bistecca perfetta, di una carbonara perfetta, di risultati ripetibili e motivati chimicamente, ci siamo staccati dalla nostra prima catena, e abbiamo volto lo sguardo dalle ombre verso la luce esterna; dolorosamente abbiamo dovuto accettare che togliere l’anima dell’aglio non ha nessun senso, che scaldare una bistecca prima di grigliarla non influisce sul corretto funzionamento della prostata, abbiamo imparato che la carne infiltrata di grasso, ogni tanto, è più buona della fettina magra magra e che se al ristorante ci rispondono che è di “razza scottona” è buona norma ripiegare su una frittura di pesce. Con qualche sacrificio e un sacco di fiducia abbiamo mosso i primi passi, abbiamo verificato i benefici del dry brining e abbiamo smesso di costellare di buchetti il bu-

dello di una salsiccia in cottura, ma i nostri “pari” di un tempo son rimasti spesso lì, al palo, come prima, a bruciare le bistecche o a mangiarle ghiacce marmate di frigo nel nome della cottura maschia, a fare la carbonara con gli straccetti di frittata ma, mi raccomando, col guanciale, e altre ingenuità che ricordiamo con imbarazzo nel nostro stesso passato. Abbiamo provato, a vario titolo, chi diventando coach, chi cercando di aiutare amici e conoscenti, a spiegare, a chiarire, a illuminare, e abbiamo trovato ostilità. Ostilità, ma anche scetticismo, dileggio, qualche derisione, nei casi peggiori veri e propri attacchi di branco. Ma chi ce lo fa fare di tirarli fuori dalla grotta in fretta e furia? “Oh, guarda che di là c’è luce. Ou, ti muovi?” E poi faranno con i loro tempi. Non c’è molto da fare il tiro alla fune per poi sentirli solo lamentarsi del dolore agli occhi abbagliati, poi va a finire che ci tocca trangugiare la cicuta digitale dei mille commenti cattivi e pieni di becera, inutile, dozzinale, ripetitiva banalità. Chi di voi non prova ormai lancinante imbarazzo per chi crede di fare la gag dell’anno scrivendo “sotto quattro dita è carpaccio”? Buttatela lì. Suggerite, non forzate. Indicate con sobrietà un’altra via. Prendete un libro di ricette scientifiche e appoggiatelo sulla poltrona preferita del destinatario, senza dire una parola. Se succede, succede. Personalmente, proprio oggi a pranzo ho ricevuto con stupore una carbonara fatta alla perfezione. Coi suoi tempi, dopo averla fatta una volta con una purea di piselli e una volta con un frullato di funghi, così, quasi per protesta, per non voler accettare il cambiamento. Ma che il mio minuscolo regalo del libro era stato letto e finalmente applicato è ormai innegabile. A ognuno i suoi tempi. Io, per esempio, sono sempre in ritardo.

Emiliano Nencioni


N°36/ANNO 3 - DICEMBRE 2021

L'EDITORIALE DI GIANFRANCO LO CASCIO

Cucinare per molti, ma senza stress

IL MENU DELLE

FESTE

LE RICETTE Tutto sul brodo di manzo, Agnolotti con guancia di manzo affumicata, Paccheri al ragù napoletano, Spezzatino di Wagyu con funghi, Linguine al limone e caviale, Busiate con pesce spatola, Risotto agli scampi, Aragosta alla catalana, Orata e sarde grigliate, Giardiniera ARTE BIANCA

Il pandoro ACROSS THE POND

L’arrosto americano di Natale

LA RICETTA SCIENTIFICA

Omelette


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Cucinare stress

Editoriale di Gianfranco Lo Cascio

Un piccolo manuale di sopravvivenza per arrivare sereni alle tavole delle feste

senza

Quest'anno ricominciamo finalmente a respirare quell’arietta piacevole che sa di convivialità natalizia. L’odorino del sughetto coi crostacei, il profumo impregnante di frittura, l’aroma caramellato di arrosto e il solletico frizzante dei mandarini sbucciati. Negli ultimi due anni certe fragranze le abbiamo dovute mettere da parte, ci siamo dovuti accontentare di tavolate ridotte, salotti meno rumorosi e cuori debitamente distanziati. Quest’anno è diverso, perché potremo finalmente tornare a goderci le festività, a mangiare vicini, magari rinunciando al servizio da 24, ma senza scendere sotto quello da 12. Anche se, pensandoci bene, cucinare per una tavolata di parenti e amici affamati non è soltanto calore ed effluvi di manicaretti.

Non si può nemmeno ripiegare sulla pizza a domicilio, che in quei giorni la pizzeria è chiusa. Per questo motivo, e per preservare la vostra stabilità emotiva, ho pensato di stilare un piccolo manuale di sopravvivenza salva-stress, frutto di anni e anni di banchetti luculliani preparati dal sottoscritto per le persone care. Che si cucini per pochi o per una folla, tenete a mente queste poche e semplici regole, e arriverete a fine pasto senza aver detto nemmeno una parolaccia: Pianificate, pianificate, pianificate: non saltate questo passaggio e vi risparmierete sorprese e musi lunghi. Prima di iniziare a cucinare dovete avere tutto sotto controllo. Per prima cosa fate una lista degli invitati e prendete nota delle necessità alimentari dei vostri ospiti. Chi

di noi non ha in famiglia una persona intollerante al glutine o allergica ad un particolare ingrediente? Siate accorti e premurosi. E sforzatevi di creare dei piatti equivalenti o quanto più simili tra loro, perché è spiacevole sentirsi esclusi a tavola e magari desiderare il piatto del vicino. Sono gesti d’amore sempre apprezzati, abbiate cura di chi siede alla vostra tavola. Non vorrete mica rovinare tutto per delle di tracce di frutta secca? Dividete il menu in portate e determinate quanti piatti preparerete - un piatto per portata andrà benissimo. Quattro piatti fatti bene sono meglio di 8 fatti così così. Evitate di strafare, che poi i parenti se la legano al dito. Fate una lista della spesa intelligente: dividete gli ingredienti da acquistare in base alla disposizione degli scaffali del vostro supermercato o gastronomia di fiducia. In modo da poter riempire il carrello in un unico giro, piuttosto che andare avanti e indietro come i pesci rossi, e magari scordarsi quell’ingredienti fondamentale per la riuscita della pasta.

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Fare il cuoco di famiglia, a Natale, significa andare spesso in iperventilazione, bruciare l’arrosto e cannare miseramente il dolce, specialmente dopo due anni di riposo gastronomico forzato.


La pratica rende perfetti: suddividete ogni piatto del menu in una tabella con gli step di preparazione. Non dovete tagliare, pesare o cucinare tutto il giorno di festa, perché combinereste senz’altro qualche casino. Potete tranquillamente fare in anticipo gli impasti per torte e biscotti e avviare le cotture in sous vide (sottovuoto in un bagno termostatico). Mondate le erbette e le verdure, pesate e miscelate le spezie, tagliate tutto a cubetti o a listarelle e spremete il succo degli agrumi per tempo. Usate la carta gommata e un pennarello per etichettare i contenitori in frigorifero e per mantenere la mise en place bella organizzata. Vi garantisco che gli ingredienti puliti e porzionati sembrano tutti uguali, e voi non volete mettere la crema pasticciera nell’insalata russa.

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Scegliete i piatti da portata in anticipo: se state cucinando molte pietanze diverse, assicuratevi di aver scelto in anticipo le porcellane, i piatti, i vassoi o le ciotole. Sinceratevi che ogni stoviglia sia pulita e pronta per essere usata, nessuno vuole vedervi con la testa nella credenza mentre il sugo sta bruciando sul fuoco. Rimanete lucidi e non fatevi prendere dall’ansia. Il segreto per la buona riuscita di un pranzo o una cena è anche arrivare rilassati a tavola e divertirsi insieme agli ospiti. Come si fa? Seguendo le semplici regole che avete appena letto. Se arrivate cotti a cena rischiate di guastare la festa a tutti, la suocera se lo ricorda e lo racconta alle amiche del burraco.

La pianificazione step by step •

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DURANTE IL MESE DI DICEMBRE Fate scorta di carne e pesce. Tagli specifici e carni pregiate, pesce selezionato, ingredienti che trovate solamente online. Considerate sempre quei due-tre giorni per la consegna e non abbiate paura di tenere tutto al fresco in congelatore. Cominciate a fare scorta di vini e liquori, in modo tale da avere una riserva consistente per le serate alcoliche. Preparate o acquistate dei piatti salva-cena e metteteli in freezer, nel caso dovessero piombarvi in casa degli ospiti a sorpresa (pulled pork, costine già pronte, stinchi). UNA SETTIMANA PRIMA DEL NATALE O CAPODANNO Andate al supermercato e in gastronomia ad acquistare tutti gli ingredienti secchi, la pasta, le farine, le spezie, le cose che potete tenere in dispensa. Meglio fare le provviste con calma che prendere a gomitate la vicina per l’ultima pacco di lenticchie. Assicuratevi di avere tutte le pentole e le padelle necessarie, recuperate gli utensili che vi occorrono e soprattutto controllate di avere abbastanza piatti, bicchieri (soprattutto calici) e posate. Non mi fate vedere qui boccali che vi hanno regalato col 3x2. Se avete surgelato grossi tagli di carne, scongelateli due giorni prima del pranzo o della cena in frigorifero. In questo modo torneranno a temperatura in maniera graduale. Individuate uno spazio dedicato in cucina, uno scaffale o una credenza, per stoccare le quantità extra di cibo che inevitabilmente comprerete (occhio a non buttare niente che mi arrabbio!). Il 23 dicembre uscite a comprare tutti gli ingredienti freschi che vi occorrono: uova, latticini, salumi, verdura e frutta. Le uova “vecchie” sono più difficili da trattare e i tuorli più delicati, le verdure mosce e rovinate dal frigorifero non piacciono a nessuno, la frutta avvizzita andante, nemmeno. IL GIORNO PRIMA DEL PRANZO O DELLA CENA Preparate tutti gli step iniziali e intermedi dei vostri piatti: impasti, ripieni, sughi, salse. Bollite, pelate e schiacciate le patate in anticipo, potete conservarle coperte in frigorifero. Preparate tutto il preparabile: se avete ortaggi o verdure che si anneriscono, potete conservarli in acqua acidulata con del succo di limone. Se invece il vostro menù prevede verdure a foglia, sbollentatele per pochi secondi, tuffatele in acqua e ghiaccio e conservatele in un contenitore a chiusura ermetica. Conserveranno consistenza e colore e saranno pronte per essere saltate in padella con un filo d’olio e gli aromi che più vi piacciono. Stilate una lista delle cose da fare il giorno dopo, con accanto gli orari, per non arrivare impreparati al momento clou.


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E adesso l'antipasto LA

TARTARE DI MANZO PERFETTA

Un classico delle festività sempre apprezzato e appagante. La tartare di manzo mi piace moltissimo perché è un piatto perfettamente bilanciato tra condimento, aroma, consistenza e acidità, oltre a prestarsi ad un numero infinito di personalizzazioni. Prepararne una perfetta, però, è tutt’altro che un compito semplice. Gli errori più comuni sono tutti legati alla scelta della carne. Taglio sbagliato ricco di connettivo e cartilagini, poco frollato, poco marezzato, spesso troppo lavorato o scondito. Non preparate mai una tartare col primo pezzo di ciccia fetente che vi capita a tiro, perché avrà un sapore deludente, ve lo garantisco. Mangiare qualcosa nella sua forma più schietta, più sincera, fa trasparire le sue caratteristiche senza filtri. E se questi tratti caratterizzanti sono tutti difetti, mangerete senz’altro una pessima tartare. La materia prima, quando si assaporano i crudi, deve essere tassativamente di qualità. Quando serviamo una tartare dobbiamo assicurarci di avere sotto le mani la carne migliore, per ragioni di sicurezza sì, ma anche di gusto. Prediligete tagli teneri e privi di tessuto connettivo. Trattandosi di ciccia in purezza, non possiamo affidarci al calore né per renderla più morbida, né per trasformare il connettivo in gelatina. Scegliete carni marezzate, mi raccomando, perché il gusto sta sempre nel grasso e non altrove.

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Tenderloin (filetto), Sirloin (controfiletto) e Eye of Round (girello) sono i tagli più utilizzati, ma io vi suggerisco di provare anche con il Teres Major (filettino di spalla), che è tenerissimo e molto saporito.

INGREDIENTI 1 filoncino di pane o una baguette 8 uova freschissime 400 g di Eye Round o Teres Major 80 g di senape 16 g di scalogno tritato 16 g di capperi dissalati 12 g di erba cipollina 8 g di sale 4 g di pepe macinato Cetriolini sottaceto q.b. Succo di limone fresco q.b.


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QUI TROVI LA MIGLIORE CARNE DI MANZO PER LA TUA TARTARE PERFETTA


#01. PREPARATE I CROSTINI I crostini serviranno per raccogliere la tartare e creare il mix di consistenze perfetto. Per ottenere delle fette piatte e perfettamente tostate, mettete il pane in congelatore per facilitare il taglio e poi tostatelo tra due teglie da biscotti. Il peso della teglia superiore impedirà al pane di imbarcarsi, di fare la cupoletta insomma, e il calore si propagherà in maniera uniforme, favorendo una tostatura dorata e omogenea. 1. 2. 3.

4.

Iniziate avvolgendo il filone di pane nella pellicola e mettendolo in freezer. Preriscaldate il forno a 200°C. Tagliate le fettine di pane ad uno spessore di 5mm, non fatele troppo sottili o potrebbero spezzarsi se usate come “cucchiaio”. Psst! Vi svelo un segreto: io uso l’affettatrice. Prendete una leccarda, capovolgetela e foderatela con della carta forno. Sistemate le fettine di pane sulla teglia capovolta, coprite con un secondo foglio di carta forno e poggiateci sopra la seconda leccarda. Dovete preparare un sandwich di teglie con del pane nel mezzo in pratica. Sulla teglia superiore poggiate qualcosa di pesante che possa resistere al calore.

A dire il vero a me piacciono anche i crostini ondulati, potete tranquillamente evitare la cottura a strati se non avete la necessità di ottenere delle fettine perfettamente piatte. 5. 6. 7.

#02. PREPARATE I TUORLI IN SOUS VIDE La tartare viene generalmente servito con il tuorlo crudo, ma perché rischiare di beccarci un’intossicazione quando possiamo portarlo a 62°C-65°C col sous vide? Questo passaggio non solo renderà il piatto totalmente sicuro da mangiare, ma migliorerà sapore, consistenza e aspetto del rosso d’uovo, riuscendo anche a preservare la sua forma originaria. 1.

2.

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Tostate per 4-7 minuti, in base alla potenza del vostro forno di casa. Sfornate il pane e fatelo raffreddare, scoperto, finché non diventa croccante. Servite immediatamente oppure conservate in un contenitore a chiusura ermetica.

Preparate il bagnetto termostatico del sous vide scaldando l’acqua, in base alla consistenza che volete ottenere: a 62°C il tuorlo risulterà più liquido, a 65°C più denso. Procuratevi un piccolo contenitore dal fondo


piatto che potrete sistemare all’interno della vaschetta con l’acqua, largo abbastanza per farci stare i tuorli belli comodi e distanziati (almeno 2 cm l’uno dall’altro). Riempite il contenitore con 5 cm di olio extravergine di oliva, di semi di girasole, di arachidi, di riso, quello che preferite. L’olio servirà solo per distanziare e proteggere i tuorli e per veicolare il calore in maniera uniforme. 3. Separate I tuorli dagli albumi usando le mani come “colini”, facendo attenzione ad eliminare la calaza, quel tessuto filamentoso che sospende il tuorlo all’interno dell’uovo. Fate scivolare i rossi nel contenitore con l’olio, facendo attenzioni a non romperli e mescolando delicatamente, per ricoprirli in maniera uniforme. 4. Immergete il contenitore nella vasca, facendo attenzione che il livello dell’acqua superi quello dell’olio ma non finisca nei tuorli. Coprite con un coperchio, un tappo o della stagnola. Cuocete per un’ora. 5. Terminata la cottura potete servire i tuorli fino a due ore dopo. Trascorso quell’intervallo di tempo, diventeranno troppo densi e collosi. Se siete parecchio in anticipo, abbassate la temperatura a 60°C e teneteli in cottura per un massimo di due ore.

#03. PREPARATE LA CARNE Per prima cosa ripulite la carne, se necessario, dalla silver skin, la membrana argentea che fascia i muscoli. Vi basterà togliere quel velo che vedete all’esterno del pezzo. Finita il trimming (la pulizia), mettete la carne in freezer, per compattarla leggermente; potrebbero volerci 30 minuti fino a due ore, dipende dalla potenza del vostro congelatore. L’obiettivo è ottenere un tocco di ciccia che sia congelato esternamente e ben freddo internamente (non duro fino al cuore, solo in superficie). Questa operazione serve per effettuare un taglio più veloce, pulito e semplice. Molto spesso le persone si sottraggono all’assaggio di carne cruda perché hanno paura di beccarsi un brutto mal di pancia, o qualcosa di più fastidioso. Volete un trucchetto per convertire anche i più scettici? Cambierà leggermente la consistenza finale della pietanza, ma sono sicuro che farete breccia nel cuore della zia più riluttante. Fate così: prendete il pezzo di carne da utilizzare per la tartare, asciugatelo e ungetelo con un velo d’olio extravergine di oliva. Scaldate molto bene una padella antiaderente o in ghisa e metteteci

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dentro la carne, scottandola leggermente su ogni lato. Toglietela dal fuoco e mettetela in freezer per 30 minuti/2 ore prima di tagliarla. In questo modo avrete abbattuto completamente la carica batterica esterna, oltre ad aggiungere una nota tostata al piatto. Se invece amate la carne completamente cruda, l’importante è utilizzare strumenti puliti e avere a portata di mano una ciotola a bagnomaria in acqua e ghiaccio dove trasferire la carne appena battuta al coltello. Per sterilizzare le lame e il tagliere, che devono essere lavati ed asciugati, utilizzo molto spesso l’alcol alimentare a 90°, quello che si usa per fare i liquori. Lo verso in uno flacone spray e lo spruzzo sulle superfici all’occorrenza. Facile, no? Ma torniamo alla preparazione della ciccia, che a questo punto si sarà raffreddata per bene. 1. 2. 3.

Tagliate il pezzo di carne in fette da 0.5 cm, poi tagliate ogni fetta in striscioline da mezzo centimetro e quindi a cubetti. Trasferite in una ciotola sistemata su un bagnomaria di acqua e ghiaccio Fate questa operazione 20 minuti/un’ora prima del pranzo o della cena. In questo modo darete il tempo alla mioglobina di legarsi con l’ossigeno e diventare ossimioglobina, quella sostanza che conferisce il colore rosso rubino alla carne.

Volete qualche alternativa per ottenere una grana della carne più fine o rustica? Per una grana medio/fine: tagliate la carne in fette sottili, poi a striscioline e quindi in piccoli pezzi da 3-4mm senza badare alla forma, non devono essere dei cubetti precisi. Avrete la classica tartare battuta al coltello, il taglio tipico da bistrot francese o americano. Per una grana fine: Tagliate la carne in cubi da 2-3 cm per lato e mettetela in freezer. Prendete il tritacarne e trasferite anche questo in congelatore, deve essere ben freddo. Passate la carne una sola volta, o rischiereste di preparare un omogeneizzato. Mettete il trito nella consueta ciotola a bagnomaria in acqua e ghiaccio.

#04. CONDITE La vostra carne è nella boulle con il fondo a mollo in acqua e ghiaccio. Aggiungete l’olio extravergine di oliva ed il pepe. Non mettete ancora il sale ed il succo di limone, perché sale e acidi denaturano le proteine della carne, rendendola grigia, gommosa e umidiccia. Fatelo poco prima di servire il piatto, oppure mettete il succo di limone in una piccola ciotolina, che gli ospiti potranno versare in base ai propri gusti.

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#05. IMPIATTATE E SERVITE Sistemate la carne al centro del piatto e disponete tutto intorno, a raggiera, uno spicchio di limone o un piccolo bricchetto con del succo di limone fresco, l’erba cipollina tritata, lo scalogno sminuzzato, i cetriolini battuti al coltello, il tuorlo cotto in sous vide, il sale, il pepe, i crostini di pane, la senape e i capperi. Semplice, vero?


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Spazio alla fantasia

MILLE TARTARE ED UNA

Facciamo un riassunto per rinfrescare la lista degli ingredienti e individuare altri cibi perfetti per questo piatto. CARNE DI MANZO Filetto - Tenderloin : È il taglio più magro, costoso e tenero di manzo che possiate trovare. Controfiletto - Sirloin : meno costoso ma più beefy, più “manzoso” del filetto, perfetto per lo scopo. Eye Round - girello : morbido, facile da ripulire, non avrete nemmeno un briciolo di scarto. Oltre ad avere (per natura) la forma perfetta per essere tagliato a cubettini. Teres Major - filettino di spalla: tenerissimo, al pari del filetto, e poco conosciuto. È praticamente perfetto per essere gustato crudo. PESCE E CROSTACEI La pancia dei pesci da lisca sarà la parte più grassoccia, la coda quella più gommosa e fibrosa e il dorso quella più morbida e pregiata. Prediligete quei pesci che hanno dei bei filetti, come il tonno, il salmone, la ricciola, l’orata, lo scorfano (ma pure la triglia, anche se è piccina).

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I crostacei sono perfetti per la tartare, che sia Gambero Rosso di Mazara o scampo, sarà il piatto che rimarrà impresso nella memoria della tavolata. Potete provare anche con polpo, calamaro o seppia, dovete però sbianchirli prima in acqua bollente per pochi secondi e poi raffreddarli in acqua e ghiaccio FUNGHI Porcini (Boletus), Ovoli (Amanita

caesaria), Prataioli (Agaricus hortensis), Cardoncelli (Pleurotus eryngii) tartufo nero o bianco. Si possono mangiare crudi e sono perfetti anche come complemento alla carne di manzo VEGETALI Rape, carote, radici in generale, si prestano ad essere trattate come la carne. Certo, l’aroma di terriccio caratteristico non riuscirete ad annientarlo manco con la magia del Natale. FRUTTI Quelli densi come la banana, il lychee, la fragola e il mango sono l’ideale per una tartare di frutta. Immaginate un pre-dessert coloratissimo con crema inglese, Lime o Lemon curd, qualche meringhetta o biscotto di frolla. Ho già l’acquolina. PER ACCOMPAGNARE Crostini di pane, nachos, chips di patate, grissini, pane carasau. La parte croccante non deve mai mancare. Insomma, l’antipasto è al sicuro, ora non vi resta che preparare le liste degli invitati, quelle con i quadratini da spuntare della spesa e le scorte di carne e pesce da fare online. Più avanti trovate tante altre idee e spunti per i vostri piatti delle feste, ma sbrigatevi a fiondarvi sulle selezioni del Megastore, il calendario dell’avvento è iniziato e gli invitati hanno già fame!

Gianfranco Lo Cascio


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QUI TROVI LA SELEZIONE MAZHARA CON I MIGLIORI INGREDIENTI PER LA TUA TARTARE PERFETTA


IL

BRODO Cos'è e come si fa

Il brodo è amico di tutti: in tante cucine stellate, da qualche parte, c’è un pentolone di brodo che borbotta, così come nelle cucine domestiche di – più o meno! – tutto il mondo. Il brodo, infatti, è un alleato insostituibile per tantissime preparazioni di cucina e, sovente, costituisce anche la base per un buon piatto unico, spesso consumato in inverno. Purtroppo il brodo è spesso collegato al famoso dado, con il quale si può ottenere molto ma molto velocemente: il concentrato di glutammato monosodico più diffuso delle case dal secondo Dopoguerra in poi ci permette di ottenere un brodo puramente aromatico, senza alcuna distinzione. Il brodo è diffuso grossomodo a tutte le latitudini: laddove c’è la possibilità di far borbottare un pentolone ficcandoci dentro, indistintamente, verdure, pesce o carne, c’è brodo. Qualche anno fa, ci fu anche un curioso fenomeno di isteria collettiva: tutti volevano il brodo, in particolare Brodo (marchio registrato!) Bone Broth, cioè il “brodo da passeggio” di ossa che per molti mesi impazzò tra le strade statunitensi. Un sacco di star amavano farsi paparazzare con un cup bello ricolmo di brodo. Ad esso, sono state attribuite fantastiche proprietà. Di sicuro, un brodo fatto bene apporta ottimi elementi nutritivi all’organismo. Nel caso del brodo di carne, questo diventa una miniera di sali minerali importantissimi per l’organismo come il ferro, il selenio, lo zinco e il potassio. Questi, grazie alla solubilità in acqua, rendono il brodo un cibo difficilmente sostituibile ed altamente nutriente.

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Ma cos’è un brodo? In buona sostanza, un brodo è un liquido in cui sono stati disciolti degli aromi liberati da alcuni ingredienti, uniti ad alcune verdure, erbe e spezie. Viene da sé, quindi, che il brodo è un qualcosa di declinabile secondo i propri desideri, le voglie e i bisogni. Brodi di verdure (usati sia come fondi per altre preparazioni, sia come piatto unico), brodi di carne come quelli con manzo, con carne di gallina, con cappone. E come “funziona” un brodo? Prendiamo l’esempio a noi più vicino: il brodo di carne. Il brodo di carne e null’altro che un liquido composto dagli aromi rilasciati dalla carne, dopo lunga ed adeguata cottura, aromatizzato con spezie varie.


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Va da se che esistono brodi e brodi. Il nostro obiettivo del mese è fare un brodo che sia al massimo delle sue possibilità, che non sia mortificante, carico di sapore, che ci ristori magari dopo una lunga giornata. SCEGLIERE BENE LA CARNE Scegliere i tagli “giusti” per il brodo è il primo passo necessario. Coda, punta di petto, garretto, sono tutti tagli duri molto giusti per il brodo. La cottura prolungata di tagli del genere permette una buona estrazione del collagene. Vi lasciamo qualche idea per i tagli di carne di manzo da utilizzare. I tagli di spalla. Per alcuni si tratta di tagli bovini di seconda categoria, ma non per noi: Chuck Flap, Chuck Eye, Chuck Roll, Top Blade, Denver steak o le stesse Short Ribs andranno benissimo. Shank/Geretto. Un taglio ricco di sapore, utilizzato anche per l’ossobuco, che comprende ossa, muscolo e tendini. Ossa. Le ossa sono un jolly da non sottovalutare. In cottura, rilasciano sali minerali e sapore come poche altre cose. Brisket/Punta di petto. Noi l’adoriamo e voi lo sapete bene. Comprende i muscoli pettorali, adiacenti allo sterno. Potremmo dire, il taglio più indicato per il nostro scopo.

Chuck roll. Il Reale di bovino, che voi lettori del Magazine conoscerete, è un taglio ricco di ossa e grasso. GLI ODORI Tra i più usati: gambi di prezzemolo, sedano, carote, cipolle, pepe. Tra i più particolari, i chiodi di garofano, l’alloro. Tutto ciò ha qualcosa in comune: vanno a braccetto con la carne e sono perfetti per i brodi. Inoltre, sono gettonatissimi anche nella cosiddetta cucina di recupero: infatti, i gambi di alcuni ortaggi sono addirittura più saporiti delle foglie. LA PREPARAZIONE DEGLI INGREDIENTI Per quanto riguarda le verdure, come dicevamo, spesso vengono utilizzate quelle parti che altrimenti finirebbero nel cestino dell’umido. Un taglio grossolano ai gambi darà buone soddisfazioni. La carne va tagliata in modo accurato, sgrassata ed eliminata PARTIRE DA ACQUA FREDDA Partire dall’acqua fredda permetterà una buona estrazione dei sapori, in combo con la cottura prolungata. Per ogni chilo di carne avrete bisogno di circa tre litri d’acqua. Certo: la carne del brodo non sarà saporita come quella del lesso e – viceversa – il


UNA QUESTIONE DI TEMPERATURE E TEMPO La capacità di estrazione degli aromi da un ingrediente dipende dall’equilibrio tra temperature e tempo. Solitamente, un brodo viene lasciato a sobbollire per 4 o 5 ore ad una temperatura che raramente supera i 100°C. Più è alta la temperatura, minor tempo servirà al brodo per arricchirsi degli aromi rilasciati dagli ingredienti. Molti utilizzano anche una pentola a pressione per ottimizzare tempi e temperature. ATTENZIONE AL SALE Il sale potrebbe rovinare una buona preparazione. Per questo motivo, sarebbe opportuno unirlo a cottura quasi ultimata, quando il nostro brodo si sarà quasi del tutto ristretto.

Ingredienti per 8 persone: 1,2 kg di carne di

manzo (tra ossa, brisket e chuck roll)/ 2 carote / 2 cipolle rosse intere/ 2 pomodori tondi interi / 1 costa di sedano / 1 patata / pepe in grani q.b./ sale q.b./ olio extravergine d’oliva q.b. / 5 chiodi di garofano PROCEDIMENTO 1.

Per prima cosa, pulire e lavare le verdure. Ricordate che nel brodo potete utilizzare anche parti di verdure che solitamente non utilizzereste. Quindi, tagliate a tocchetti grossolani le verdure prescelte.

2.

Nel frattempo, prendete anche la carne che avete scelto e riducetela in pezzi grossolani, ma delle misure adatti per ficcarli in pentola e coprirli di acqua poi.

3.

In un tegame basso e ampio, con un filo d’olio extravergine d’oliva, fate tostare le verdure tagliate a tocchetti, non più di una trentina di secondi per lato.

4.

Dopodiché, trasferite in una pentola i tocchetti di verdura, aggiungete ancora olio extravergine d’oliva, i chiodi di garofano e i grani di pepe.

5.

È giunto il momento di aggiungere la carne e le ossa.

6.

Dopo aver aggiunto la carne, è il momento di aggiungere l’acqua fredda, ricordando la nostra proporzione di carne:acqua di 1:3. Per il nostro 1,2 kg di carne dovremo aggiungere circa 3,5 litri di acqua ben fredda.

7.

Dopo aver aggiunto l’acqua, controllate che la temperatura del vostro brodo si stabilizzi sui 95°C/100°C e lasciate sobbollire per circa 2 ore e mezzo.

8.

Stabilizzando a questa temperatura, trascorse circa due ore e mezzo, il brodo dovrebbe essersi ridotto a quasi la metà della quantità di partenza.

9.

Lasciate sobbollire per un’altra ora.

Fatte tutte le dovute premesse, non ci resta che fornirvi una nostra ricetta di brodo: utilissima di questi tempi come piatto unico.

10. Dopo questo tempo, in superficie, sarà affiorata la schiuma: si tratta di grasso ed impurità. 11. Con l’aiuto di un chinois, potrete filtrare il brodo, che risulterà così più chiaro e ristretto. 12. A questo punto, potete decidere se servirlo, in accompagnamento, oppure congelarlo per utilizzarlo con altre preparazioni.

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brodo del bollito non sarà saporito come questo. È una questione di scelte nella vita.


AGNOLOTTI

CON GUANCIA AFFUMICATA

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Buon Natale, da veri griller! Tortellini, ravioli, agnolotti, tortelloni, cappelletti: di tutte le forme, di tutte le grandezze, con svariati ripieni, in brodo o asciutti, con condimenti tradizionali o alternativi… in qualunque modo vogliate prepararla la cosa certa è che non può esistere un Natale senza che la pasta ripiena faccia bella mostra di sé sulle tavole italiane, specie della zona centro-settentrionale.

pasta ripiena non è facile. A dar retta, dovremmo dedicare un numero intero solo a questo argomento, e forse non basterebbe. C’è però un’annosa questione che dobbiamo affrontare: considerando che agnolotti e ravioli hanno la stessa forma, che differenza sostanziale c’è tra l’una e l’altra preparazione? Possono di fatto essere considerati sinonimi?

Parliamo tradizionalmente di una sfoglia di pasta, perlopiù all’uovo, che viene riempita con un composto a base di carne, di pesce, di verdura o di formaggio (ma ormai le varianti sono molteplici e non mancano quelle con la frutta o addirittura quelle dolci). Questo modo di cucinare la pasta, nato con il duplice scopo di contenere e cuocere un ripieno, risale al Medioevo. La pasta ripiena nacque come cibo per benestanti e signori (e chi altri poteva permettersi una cosa simile?); le prime notizie certe che si hanno su questa preparazone riguardano il raviolo, comparso sulle tavole dei nobili tra il XII e il XIII secolo e citato anche dal Boccaccio, nel Decameron (VIII giorno, III novella “Calandrino e l'elitropia”): i protagonisti del racconto arrivano nel Paese di Bengodi dove “ (…) eravi una montagna tutta di formaggio parmigiano grattugiato, sopra la quale stavan genti che niuna altra cosa facevan che far maccheroni e raviuoli, e cuocergli in brodo di capponi, e poi gli gittavan quindi giù, e chi più ne pigliava più sen’aveva (...) ”.

Abbiamo appurato che i primi a vedere la luce sulle tavole siano stati i ravioli, dato che la loro nascita viene datata ai primi del 1200, e fino al 1800 nei ricettari esiste solo ed esclusivamente la parola raviolo. Il termine agnolotti debutta per la prima volta nel 1814 e a farne menzione è Vincenzo Agnoletti, chef di Maria Luigia d’Austria duchessa di Parma e Piacenza, che li cita (chiamandoli agnellotti) in La nuovissima cucina economica. Agnolotti, agnellotti e agnoletti. Ci rendiamo conto che la faccenda diventa difficile. In ogni caso, per farla breve, sono nati prima i ravioli. In Piemonte poi li hanno chiamati agnolotti (non ci addentriamo sull’etimologia del nome, perché altrimenti festeggiamo qui il Capodanno). Secondo il Dissionari piemontèis (Sergio Seglie,1972) L’agnolotto è “essenzialmente di carne”, mentre il raviolo viene definito “pezzetto di pasta con ripieno di verdura o ricotta”.

Nel tempo, la bontà della pasta ripiena è stata riconosciuta un po’ ovunque e la sua popolarità è cresciuta velocemente, tanto da essere presente nei ricettari di quasi ogni regione già nel XV secolo. Le paste ripiene più diffuse in Italia (con le relative varianti nei condimenti e nei ripieni, non solo a livello regionale, non solo a livello locale, ma anche a livello familiare) sono tortellini e tortelloni, cappelletti, agnolotti, ravioli e casoncelli. Ognuna con una propria storia legata alle vere origini, spesso motivo di litigi fra le varie città che ne rivendicano le paternità. AGNOLOTTI O RAVIOLI? Districarsi fra i nomi, le forme e i condimenti della

In pratica, sempre per amore della sintesi, la differenza sostanziale riguarda il ripieno: se è di sola carne (specie arrosto) siamo mangiando un piatto di agnolotti; se è di verdura, di carne e verdura, di verdura e formaggio (specie ricotta) e infine di pesce, stiamo gustando un piatto di ravioli. I nostri, considerato il ripieno di carne cucinata alla maniera del vero serial griller, sono dunque da considerarsi agnolotti, ma chiamateli pure ravioli, anzi, chiamateli come volete. Avrete una sola certezza: più buoni di così sarà difficile che ne troviate. Noi li abbiamo presentati in brodo (considerato anche il lungo articolo su come preparare il brodo perfetto), ma provateli anche col ragù scientifico dello Zio (ce l’avete tutti il Codice Lo Cascio, vero? No? Ahi ahi ahi!) e vi emozionerete.


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Ingredienti per 4 persone:

per la guancia brasata: 2 guance di manzo del nostro Megastore / 2 cucchiai di Ultimate SPOG Sal’s Seasoning / 1 l di vino rosso / una cipolla rossa / una carota grossa / due gambi di sedano / due foglie di alloro / olio extravergine di oliva q.b. per la pasta : 400 g di farina / 4 uova / un pizzico di sale per il ripieno : 80 g di Parmigiano Reggiano 40 Mesi GLC Top Selection / un uovo / sale e pepe q.b.

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PREPARAZIONE 1.

Ripulite la carne eliminando gli eventuali brandelli e la membrana che la riveste. Tamponate con carta assorbente per eliminare l'eccesso di umidità.

2.

Spennellate con olio extravergine e condite con il rub .

3.

Preparate il setup del vostro dispositivo per una cottura indiretta a 170°C, poi adagiate le guance in griglia, affumicando con l’essenza di legno che preferite, chiudendo il coperchio del dispositivo.

4.

Una volta formato il bark mettete la carne in cottura diretta, installate la cocotte in ghisa nell’apposito spazio in griglia oppure adagiatela sulla griglia in corrispondenza delle braci o della fonte di calore, versate l'olio extravergine di oliva e rosolate le cipolle, le carote ed il sedano tagliati grossolanamente. Aggiungete il vino e trasferite le guance affumicate all'interno del tegame. Coprite con il coperchio e terminate la cottura della carne portandola a 95°C al cuore. Recuperate i succhi di cottura e filtrateli.

5.

Tagliate la carne a fette e mettetele nel mixer, aggiungete un cucchiaio di salsa del brasato, il parmigiano e l’uovo. Eventualmente aggiustate d sale.

6.

Amalgamate bene il composto ottenuto e mettetelo da parte.

7.

Preparate la sfoglia: disponete 400 g di farina nella classica forma a fontana, unite le uova e un pizzico di sale. Lavorate bene il composto, fino a quando non otterrete una palla omogenea e compatta (aggiungete farin se vi sembra troppo molle). Trasferite la vostra palla in frigo per un’oretta.

8.

Tirate la sfoglia con il mattarello o con una macchina per tirare la pasta, prendete il ripieno e disponetelo a mucchietti non troppo grossi, distanziandoli fra loro di circa due cm.

9.

Ripiegate la sfoglia sui mucchietti di ripieno, fate uscire l’aria aiutandovi con le dita e poi tagliate gli agnolotti, chiudendoli bene.

10. Cuocete gli agnolotti nel brodo di manzo oppure serviteli asciutti con il ragù.


IL NATALE

ieri e oggi Portfolio gastronomico a cura di Alberto Zonghetti

22 dicembre di qualche anno fa, ore 18, saluto i miei colleghi uscendo dall’ufficio. Collega: Allora ciao Alberto, stammi bene, riposati! Io: Sì certo, lo farò sicuramente. Ti auguro di cuore un felice Natale e… Collega: (stizzito) Ah no, niente Natale, non sono credente… Io: vabbè dai, è una nostra tradizione, è bello… Collega: no, dai, non iniziare con ‘sta roba qua: tutti buoni, i parenti, la messa, i pranzi lunghi inutili non li sopporto. Vado che devo finire ‘sti regali, che palle! Ci si vede tra quindici giorni, se c’è necessità di rientrare in ufficio prima fammi sapere che tanto a casa mi stufo presto di tutto questo.

N

Oggi è molto strano il rapporto che noi, in questa ipertecnologica società globalizzata e secolarizzata del XXI secolo, abbiamo con questa ricorrenza. Oltre ad essere vissuto, giustamente, secondo la storia e la personalità di ognuno, da una parte sembra costituire la coda delle feste consumistiche che iniziano con Halloween, proseguono con il Black Friday e sfociano appunto con le vacanze, che iniziano il 24 dicembre e terminano con la festa dell'Epifania; dall’altra, lo spettro del politicamente corretto lo sta trasformando in una anonima quanto generica festività dell’in-

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Storie e tradizioni

atale: da una parte, alcuni si gettano con entusiasmo nel clima della festa, altri lo subiscono con passività, come una ricorrenza inevitabile; c’è anche chi lo detesta e lo ignora, lo boicotta arrivando addirittura a proporsi per turni straordinari di lavoro.


verno, della neve o di non so cos’altro nella quale la parola “Natale” sembra essere quasi un’offesa. Entrambe le direzioni tendono a svuotare in maniera insensata il senso, la storia, la tradizione. Non serve essere credenti o devoti per comprendere ed apprezzare il significato di questa festività; potrebbero bastare il buon senso, il rispetto per le tradizioni e la conoscenza delle fonti storiche. Io amo il Natale e non lo nascondo, ma non per questo voglio convincervi ad apprezzarlo di cuore, ci mancherebbe. Mi interessa ricostruirne brevemente i frammenti che costituiscono le origini, le simbologie, i valori universali che trascendono le esperienze e il credo religioso di ognuno.

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LE ORIGINI Il Natale, come lo conosciamo noi oggi in Italia, è la risultante delle numerose stratificazioni culturali occorse in oltre duemila anni di storia ma, dal punto di vista storico, si tratta di una festa cristiana nata tra III e IV secolo d.C. per celebrare la nascita di Gesù Cristo avvenuta a Betlemme di Giudea circa 2000 anni fa. Non è propriamente corretto affermare che il cristianesimo abbia “rubato” questa festività ai pagani: semplicemente è stato istituito all’interno di un arco temporale nel quale erano festeggiati in precedenza i Saturnali e, successivamente, la celebrazione del solstizio d’inverno e del Sol Invictus. Non sappiamo se Gesù sia effettivamente nato il 25 dicembre – anche se alcuni studiosi, nelle loro ricerche, hanno stabilito che possono esserci delle ragioni storiche in questa datazione - ma non è

importante ai fini della comprensione di quanto è accaduto. È interessante sapere invece che in età imperiale i romani, tra il 17 e il 23 di dicembre, celebravano i Saturnali, festività in onore di Saturno, il dio dell’agricoltura e del raccolto. Tali eventi, che per le loro caratteristiche ricordano da vicino il nostro carnevale, si svolgevano in concomitanza con il solstizio d’inverno, il periodo più oscuro dell’anno, quando il sole sorge più tardi e tramonta prima. In quel periodo i lavori nei campi venivano interrotti e i contadini e gli schiavi potevano godersi un po’ riposo dalle fatiche quotidiane. Gli antichi romani di tutte le classi sociali approfittavano per celebrare grandi banchetti pubblici, per far visita a familiari e agli amici e per scambiarsi dei regali, proprio come succede al giorno d’oggi durante le festività natalizie. Nel 274 d.C. l’imperatore romano Aureliano istituisce, il 25 dicembre, la festività del Sol Invictus, un culto monoteistico di origine orientale che celebrava la vittoria della luce sulle tenebre in onore al dio del sole Helios; tale usanza è riscontrabile fondamentalmente in tutti i popoli antichi, i quali, per scongiurare paure primordiali legate alla morte e alle calamità, celebravano una serie di festività annuali e stagionali legate al ciclo della natura. Fra i loro timori maggiori, c’era quello che il Sole non sorgesse più, dato che in inverno il suo corso nell’orbita celeste si riduce. Da questo si avvertì la necessità di celebrare diversi riti propiziatori, connessi anche con la fertilità e la riproduzione, volti a scongiurare il pericolo che il mondo sprofondasse nelle tenebre, essendo il sole un elemento indispensabile per la vita. Il Sol Invictus, va detto, si inseriva all’interno di un Impero in decadenza, in forte crisi di valori etici, politici, morali; molti culti orientali e intimistici si stavano diffondendo, e un tentativo per risollevare la situazione da parte degli imperatori fu quello di istituire un culto monoteistico.


DA SAN NICOLA A BABBO NATALE Il mito di Babbo Natale nasce dalla leggenda di San Nicola, vissuto nel IV secolo in Turchia, che si festeggia il 6 dicembre. Secondo la tradizione, San Nicola è legato principalmente a due episodi: regalò una dote a tre fanciulle povere perché potessero andare spose invece di prostituirsi e - in un’ altra occasione - salvò tre fanciulli. Tra VII e VIII secolo, San Nicola diventò il punto di riferimento dei marinai bizantini e divenne il loro protettore, trasformandosi da santo locale a santo internazionale. Il suo culto si espanse lungo le rotte marittime del Mediterraneo, arrivando a Roma e a Gerusalemme, poi a Costantinopoli, in Russia e nel resto dell’Occidente. Nel Medioevo si diffuse in Europa l’uso di commemorare questo episodio con lo scambio di doni nel giorno del santo (6 dicembre). L’usanza è ancora in diffusa nei Paesi Bassi, in Germania, in Austria e in Italia (nei porti dell’Adriatico, a Trieste e nell’Alto Adige): la notte del 5 dicembre in groppa al suo cavallino San Nicola fa concorrenza a Babbo Natale. I bambini cattivi se la devono vedere con il suo peloso e demoniaco servitore, mentre il pio uomo lascia doni, dolciumi e frutta nelle scarpe dei più meritevoli. Nei Paesi protestanti San Nicola perse l’aspetto del vescovo cattolico ma mantenne il ruolo benefico col nome di Samiklaus, Sinterclaus o Santa Claus. La devozione a San Nicola sarebbe poi stata

“esportata” dai protestanti che s’imbarcarono per gli Stati Uniti. L’omone con la barba bianca e il sacco pieno di regali, infatti, nacque proprio in America dalla penna di Clement C. Moore, che nel 1822 scrisse una poesia in cui lo descriveva come ormai tutti lo conosciamo. Questo nuovo Santa Claus ebbe molto successo, grazie anche all’illustratore americano Haddon Sundblom che nel 1930 ne codificò l’abito biancorosso. Lo fece per la Coca-Cola, che usò Santa Claus come testimonial fisso della sua bibita. Dagli anni Cinquanta conquistò anche l’Europa diventando, in Italia, appunto Babbo Natale. L’ALBERO E IL PRESEPE I Celti rispettavano la tradizione di decorare le querce con frutta e candele durante il solstizio d’inverno. Era un modo di riportare alla vita l’albero e, così facendo, di assicurarsi che, dopo l’inverno, il sole e la vegetazione avrebbero fatto ritorno. Anche allora infatti, l’albero era considerato il simbolo di fertilità e di rigenerazione per eccellenza. Il cristianesimo adottò e trasformò queste usanze, collegandole alla propria simbologia. Secondo la leggenda, nell’VIII secolo, nella regione di Hesse nel centro della Germania, esisteva un’enorme quercia consacrata al dio Thor. Ogni anno, durante il solstizio d’inverno, le veniva offerto un sacrificio. Ma, davanti agli sguardi attoniti degli abitanti del posto, un missionario di nome Bonifacio abbatté l’albero e, dopo aver letto alcuni passi del vangelo, offrì in cambio un abete, un albero di pace che «rappresenta la vita eterna perché le sue foglie sono sempre verdi» e perché la sua cima «indica il cielo».

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Dopo il riconoscimento del Cristianesimo nel 313 d.C. da parte dell’imperatore Costantino, la Chiesa scelse la data del 25 dicembre sulla base dell’antica data solstiziale, per coglierne il significato spirituale primigenio. Il Sole diventa dunque la Luce di Cristo, il quale si è definito Luce del mondo egli stesso, così come la simbologia solare è presente nella letteratura profetica. Si tratta, in sintesi, del normale fenomeno di assimilazione e sostituzione che troviamo frequentemente negli incontri tra diverse culture, chiamato sincretismo. Nulla di sconvolgente.


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Due città baltiche si contendono il primato di aver posto il primo albero di Natale in piazza: Tallinn (Estonia) nel 1441 e Riga (Lettonia) nel 1510. In questa seconda località il primo albero di Natale venne decorato con rose artificiali da un gruppo di commercianti, che scelsero di porlo nella piazza del mercato. Grandi e piccini ballarono intorno all’albero e poi gli diedero fuoco, ma ormai la tradizione natalizia più magica era penetrata nella cultura popolare. Il presepe, invece, è la rappresentazione scenografica in tre dimensioni della Natività di Betlemme. Secondo la tradizione si crede che l’inventore del presepe sia stato San Francesco d’Assisi che per primo lo realizzò nel 1223 a Greccio: non fu un modellino con le statuette, quanto una celebrazione liturgica allestita dentro una grotta, con la mangiatoia, la paglia, l’asino e il bue, le fiaccole…e i personaggi. Un presepe vivente, insomma. Il primo presepe con le statuette risale invece al 1283 ed è opera di Arnolfo di Cambio, celebre scultore che realizzò otto statuette in marmo rappresentanti i personaggi della Natività e i re Magi. A partire da questi avvenimenti la tradizione si diffuse dapprima nelle chiese e, successivamente nelle case, dando origine ad un fenomeno di grande interesse artistico e devozionale.

L’IMPORTANZA DELLE FESTIVITA’ In tutte le culture, il cibo è la prima espressione della festa, nell’insolita abbondanza e nelle specialità particolari che si preparano per l'occasione. I motivi? Il cibo è l’espressione della vita, gli alimenti rituali identificano la festa, l’abbondanza propizia la fertilità e allontana lo spettro della fame, paura atavica ed ancestrale degli uomini. Pertanto non può esserci festa senza banchetto, dato che la tavola è l’immagine della socialità, della convivialità; e poiché storicamente la religione è stata l’occasione per scandire il calendario con le sue maggiori e minori festività, il sacro si mescola inevitabilmente al profano. Le feste sono ricorsive all’interno della concezione ciclica del tempo e si celebrano sia con rituali che con il cibo, che deve essere specifico dell’evento e consumato con le giuste tempistiche e modalità. Prendetemi in giro, ma io il panettone e il pandoro che ho acquistato per la festa non li apro prima del 24 dicembre. Intendiamoci, se sono ospite in casa d’altri, soprattutto con i figli, non mi sognerei mai di sottrarre loro il prezioso dolce in nome di un dogma ritual-culinario. E’ un segno per ricordare la festa, un modo per distinguere i giorni speciali da quelli ordinari. Siamo abituati, nell’era che viviamo,


MANGIARE A CREPAPANCIA Il Natale era una delle feste più trasgressive in una società costretta, per necessità, a essere morigerata. Si lavorava per un intero anno per consumare il “peccato” a tavola. Il rito iniziava il 24 dicembre, la Vigilia, giorno “di magro”che doveva preparare all’abbuffata del giorno dopo, quando sulla tavola sarebbero transitate solo bombe caloriche. Queste festività erano, nei secoli passati, un’occasione per un meritato riposo dalle fatiche quotidiane e per socializzare ai pranzi di famiglia, quando il tipico menù frugale e triste dei poveri veniva sostituito da rarità come la carne e il pesce, mentre sulle tavole dei ricchi si potevano trovare cibi esotici e ancora più insoliti , ricercati, scenografici. Prevaleva, insomma, la soddisfazione di poter mangiare a crepapancia. Abbiamo detto che il cibo e la tavola sono parte fondamentale in ogni festa; l’abbondanza, la ricchezza ed addirittura lo spreco servono a propiziarsi un anno favorevole. La profusione delle carni farcite e dei dolci mielati - che in una situazione di penuria rappresentavano anche una parentesi agli stenti quotidiani – si contrappone alla normale frugalità dei farinacei e sottolinea la separazione fra alimento rituale e cibo nutritivo. I pranzi di Natale o di Capodanno non si risolvono con un semplice elenco di portate; ciò che li rende speciali è l’insieme delle attenzioni che si rivolgono loro. Cucinare i piatti dettati dalla tradizione, apparecchiare curando dettagli insignificanti in altri momenti (nell’Est Europa, ad esempio, si mette della paglia sotto la tovaglia), fermarsi a tavola più

a lungo del solito trasforma il pasto in banchetto rituale. Anche i tempi dell’assunzione del cibo non seguono i ritmi che il nostro corpo ha imparato a considerare come naturali; sono dilatati, surreali, cosicché la percezione delle pause tra i banchetti risulta un tempo al di fuori dell’ordinarietà nel quale si alternano giochi in famiglia, visione di cartoni animati o film tematici, necessarie pennichelle ristoratrici, salutari passeggiate digestive. I caratteri di un cibo per la festa non sono legati solo all’extra-ordinario e all’opulenza, ma a volte riprendono quelli di un cibo quotidiano che viene sublimato, come ad esempio, il panettone: grande pane a cui si aggiungono degli ingredienti speciali: zucchero, uvetta, candidi, burro. Alimenti simbolici come legumi, granaglie e frutta secca indicano invece il desiderio di prosperità e fecondità e, se ci pensiamo bene, si ritrovano in tutti i menu tradizionali. Ultima curiosità: che ne pensava San Francesco, il poverello di Assisi, celebre anche per la frugalità dei suoi pasti? Raccontano le fonti che, una volta, i suoi discepoli discutevano se, capitando il Natale di venerdì, bisognava festeggiarlo come grande festa (e con la consueta mangiata di carne, cibo festivo per definizione) o praticare l’astinenza e la penitenza tipiche del venerdì. Gli chiesero un parere e lui si infuriò: “Ma come? - disse - voi vorreste fare penitenza nel giorno in cui è nato il nostro Signore? In un giorno come questo - continuò - vorrei che non solo gli uomini, ma anche tutti i nostri amici animali godessero l’abbondanza del cibo, e anche questi muri, se potessero mangiare, dovremmo rimpinzarli... ma poiché questo non è possibile, almeno spalmiamoli di lardo.” Un grande banchetto universale, a cui uomini, animali, perfino i muri delle case partecipano. Ecco l’immagine della festa secondo Francesco, interprete di un sentire comune che ha sempre attraversato la cultura degli uomini. NOI E IL NATALE Ognuno festeggia l’evento attraverso una serie di cerimonie e riti vissuti con parenti stretti e, a volte, anche lontani: la preparazione del presepe e dell’albero addobbato l’8 dicembre, la cena della Vigilia, solitamente “di magro”, la Messa di mezzanotte per chi è credente, il sontuoso pranzo del 25 dicembre, lo scambio dei regali, la tombola e i vari giochi con le carte.

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a rendere fluido e spesso impercettibile lo scorrere dei giorni, delle settimane, delle stagioni, come un eterno presente nel quale possiamo ottenere tutto ciò che vogliamo. Eppure il senso delle feste è quello di ricordarci che l’esistenza ha un tempo ciclico, una sua sacralità. Per questo, ogni cultura mette in atto alcune strategie e la festa è la principale di esse. Suo scopo è rassicurare e proteggere, funzionare da valvola di sfogo e contenitore delle aspirazioni mai realizzabili nel tempo ordinario. In questo senso, la festa assume i connotati di un”non tempo”una sospensione in cui tutto può accadere. Al termine di questo periodo, la vita della comunità può riprendere il suo corso normale, riappropriandosi dei tempi e dei ruoli che le sono usuali.


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Ora che ho superato da qualche anno la soglia dei quaranta, ai fornelli me la cavo decisamente bene (preparo circa cinquecento pasti all’anno per la mia numerosa famiglia, e mi aggiorno di continuo grazie allo Zio e al nostro Magazine). Ebbene, mai mi sono proposto come cuoco per la Vigilia o il giorno di Natale, sostituendomi a mia madre o a mia suocera. La mia casa e i miei servigi culinari sono a disposizione di parenti ed amici dal 26 dicembre in poi. Perché? Non solo perché si arriva verso queste date stanchissimi a causa dei ritmi frenetici della nostra quotidianità e, banalmente, non si hanno tempo e voglia di dedicare così tante energie alla organizzazione e realizzazione dei banchetti natalizi. No, non è questo il punto. Spesso mi accade, ispirato dalla lettura del nostro amato Magazine, di vagheggiare menu festivi particolari ed innovativi; riflessione che, alla fine, mestamente trascolora e svanisce. La risposta risiede nell’amore verso le tradizioni, nella voglia di ripercorrere un rito antico. Ma cosa cerchiamo noi, davvero, nel cibo di Natale? Alla fine, nonostante le differenze che caratterizzano gli esseri umani, in questa ricorrenza le persone cercano ciò che conoscono, ciò che le rassicura: la tradizione.

Anche i più rivoluzionari quel giorno, soltanto quel giorno, vogliono essere rassicurati e sapere che nulla è cambiato. Che ritroveranno ciò che conoscono. Alcuni psicoterapeuti affermano che i loro pazienti ricercano nel Natale momenti di pace dagli eccessi, dall’incerto, dalla tempesta esteriore. Sono a caccia di punti fermi per ritrovare se stessi, anche a tavola, nei cappelletti e persino in quel brodo di cappone uguale a quello della mamma, della nonna, della zia. Oggi, per molti, il Natale è diventato una tradizione interiore che si esprime allontanandosi dalle visioni pantagrueliche da banchetto dei signorotti, con piatti elaborati e stoviglie pretenziose che affollano le tovaglie. Lo vedo anche nella mia esperienza: gli anni’80 e nei primi ’90 vedevano alla Vigilia una partecipazione parentale massiccia, ci si riuniva dopo la cena, consumata intorno alle 18.30, per giocare, festeggiare, scambiarsi i regali: eravamo oltre cinquanta persone. Oggi siamo sempre più affini a piccole tavole dove convivono ricordi, sapori e gusti, in modo meno caotico ma più misurato ed intenso.


In Canada, a Labrador City, si svolge la gara della casa meglio decorata con l’utilizzo di luci e la presenza di statue di ghiaccio in giardino. In Nova Scotia, le tradizioni natalizie prevedono il consumo di aragosta e frutti di mare al posto del classico tacchino. In Germania la tradizione dei mercatini è ormai così famosa che sono diventati meta turistica primaria di molti viaggi tra novembre e dicembre; cosa si mangia? Tante pietanze, tra le quali ricordiamo l’oca arrosto ma, soprattutto, la carpa di Natale. In Russia invece c’è una tradizione che riguarda la cena della vigilia. La tavola viene preparata rigorosamente dopo il tramonto, con una copertura di paglia e grano. Sopra questo primo strato viene stesa la tovaglia, poi si ripone ad ogni angolo uno spicchio d’aglio, che si pensa sia un rimedio e protezione contro le malattie. In Slovacchia e in Ucraina, nel periodo delle festività natalizie, viene acquistata o preparata la loksa, un liquore invernale piuttosto forte. Secondo la tradizione, il capofamiglia riempie un cucchiaio di loksa e lo lancia ai commensali. I presenti a tavola devono rimanere fermi a ricevere la cucchiaiata, ma c’è un lato positivo: chi si bagna di più avrà fortuna garantita per tutto l’anno nuovo! Anche in Giappone, una delle culture più distanti dalla nostra, il periodo natalizio è però

abbastanza sentito anche se in modo differente rispetto all’occidente. Il Natale è visto come un periodo di felicità diffusa piuttosto che una celebrazione religiosa, destinata principalmente agli innamorati e alle famiglie con bambini piccoli. Si mangiano pollo fritto e la famosa Christmas Cake, ossia una semplice torta di pan di spagna con panna montata e decorata con fragole e immagini di Babbo Natale. Nei Paesi africani la coesistenza di culture religiose differenti e la massiccia presenza di Missioni Cattoliche, ha fatto sì che anche in un continente apparentemente così lontano da quello che consideriamo Natale si sviluppasse una vera e propria tradizione natalizia. In Africa centrale la festività coincide spesso con la fine della raccolta del cacao ed i lavoratori delle piantagioni hanno la possibilità di tornare dalle famiglie per festeggiare. La notte viene trascorsa in compagnia di parenti ed amici fino a quando, il giorno dopo, iniziano i preparativi per il pranzo di Natale; è anche consuetudine lasciare la porta di casa aperta in modo che chiunque si senta il benvenuto. L’usanza vuole che ci si scambino regali consistenti in cibi, sia crudi che cotti, con un’abbondanza che è considerata di buon auspicio. In Polonia, nella cena della Vigilia, una tradizione antichissima vuole che ci sia un posto vuoto per qualcuno che può arrivare all’improvviso, per uno sconosciuto; segno dell’accoglienza di chi si trova nel bisogno. Non abbiamo pensato all’altro emisfero del globo: mentre nella maggior parte del mondo il Natale è associato alla stagione invernale, al freddo, alla neve, alle stufe e al caminetto, che faranno in Australia? Laggiù è estate, quindi.. auguri in spiaggia e si festeggia con un barbecue sotto al sole! Carne, pesce, verdure alla griglia e, per finire, il pavlova, famoso dolce a base di meringa, panna e frutta estiva. Siamo giunti al termine, con la speranza che non vi mostrerete risentiti o indifferenti se dal nostro Magazine vi diremo Buon Natale e buone feste! Concludiamo la nostra lettura con un sonetto del Grande Giuseppe Gioacchino Belli, poeta che scrisse indimenticabili componimenti in vernacolo romanesco:

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TRADIZIONI E STRANEZZE DAL MONDO Il Natale negli Stati Uniti meriterebbe un capitolo a parte, nel quale non oso addentrarmi, dato che la nostra Elena Ninotti ci illuminerà in questo stesso numero in maniera piacevole ed esaustiva. Ma, lo confesso, ho trascorso le festività Oltreoceano, in visita alla sorella di mia moglie temporaneamente domiciliata tra Philadelphia e New York! Non dimenticherò mai l’atmosfera magica che regnava nelle strade, soprattutto nelle vie secondarie appena lontani dalla Downtown: la neve, le luci suggestive, le decorazioni dei giardini – veri e propri allestimenti artistici, le musiche dolci e nostalgiche diffuse nell’aria, le celebrazioni liturgiche in inglese con i cori gospel…sembrava veramente di vivere dentro ad un film!


LA VIGGIJA DE NATALE Ustacchio, la viggija de Natale Tu mmettete de guardia sur portone De cuarche mmonziggnore o ccardinale, E vvederai entrà sta priscissione. Mo entra una cassetta de torrone, Mo entra un barilozzo de caviale, Mo er porco, mo er pollastro, mo er cappone, E mmo er fiasco de vino padronale. Poi entra er gallinaccio, poi l’abbacchio, L’oliva dorce, er pessce de Fojjano, L’ojjo, er tonno, e l’inguilla de Comacchio. Inzomma, inzino a nnotte, a mmano a mmano, Tu llí tt’accorgerai, padron Ustacchio, Cuant’è ddivoto er popolo romano. Giuseppe Gioacchino Belli Roma, 30 novembre 1832

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LA VIGILIA DI NATALE Eustachio, la vigilia di Natale mettiti di guardia sul portone di qualche monsignore o cardinale, e vedrai entrare una processione. Ora entra una cassetta di torrone, ora un barilotto di caviale, ora il maiale, ora il pollastro, ora il cappone, e ora il fiasco di vino padronale. Poi entra il gallinaccio, poi l’abbacchio, le olive dolci, il pesce di Fogliano, l’olio, il tonno, e l’anguilla di Comacchio. Insomma, fino a notte, a poco a poco, tu lì ti accorgerai, padron Eustachio, quanto è devoto il popolo romano.


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IL RAGÙ NAPOLETANO Storia, miti e ricetta della salsa regina di Napoli Voi, lettori del Magazine, sapete benissimo che il tempo è un ingrediente fondamentale per la riuscita di un buon piatto. Il ragù napoletano, poi, di tempo ne necessita parecchio: una delle parole più belle, in riferimento al ragù napoletano, è proprio peppiare (oppure pippiare, dipende dalla zona). Il ragù deve peppìare, si dice. Il ragù deve sobbollire a fuoco lento, per ore ed ore. Tra queste pagine del Magazine, cercheremo di darvi una ricetta per il ragù napoletano che vi porti via il tempo giusto, adoperando gli ingredienti giusti.

un antenato illustre: stiamo parlando del “Daube de boeuf”, cioè lo stufato di carni di bue con parti molto coriacee, lasciato sobbollire per lunghissime ore con l’aggiunta di verdure in tocchetti in un grosso recipiente di creta. Siamo nel XIV secolo all’incirca: questo sostanzioso piatto unico era nutrimento gustoso dopo lunghe giornate nei campi provenzali. Il “ragout”, molto posteriore al Daube de boeuf, era uno stufato di verdure, però con carne di montone. Ma come ci arriva il ragù, in qualche modo, sulle tavole del popolo napoletano?

RAGÙ, RAGOUT, RAGOUTANT La lingua napoletana è magnifica: ha una pronuncia propria per tutte le parole importate da altre lingue e – fidatevi – queste ultime sono parecchie. Dal francese, poi, hanno preso a piene mani: ragù è solo la pronuncia di ragout; molti vocaboli francesi importati a Napoli hanno pronunce simili: si veda, ad esempio, il gattò, il sartù di riso, il purè. Il termine “ragù” deriva dal medio francese “ragoutant”, che significa allettante, appetitoso, stuzzicante.

Spostiamoci nel XVIII secolo: i rapporti commerciali e diplomatici tra il Regno delle Due Sicilie e la Francia erano quanto mai floridi. La capitale, Napoli, era tutto un fiorire di caffetterie e pasticcerie di stampo francese, a segnalare la grande influenza che i cugini d’Oltralpe avevano sui sudditi borbonici. La corte borbonica, appunto, molto affascinata dagli usi e costumi differenti, non tardò a chiamare le maestranze francesi per arricchire la propria cucina. Fu così che a Napoli approdarono i monsù (adattamento di monsieur, signore), cioè i cuochi francesi che apportarono sensibili novità alla cucina partenopea, finora scarna di condimenti e salse. Il ragù – che, al momento della sua apparizione a Napoli, non prevedeva ancora l’utilizzo del pomodoro – si limitò a comparire nelle mense ricche, in

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Dopo questa piccola parentesi linguistica, andiamo al sodo con la storia: da dove nasce, questo benedetto ragù? Ci converrà spostare i nostri pensieri, per un po’, in Francia: siamo all’incirca in Provenza. Il ragù napoletano ha


Una prima citazione del ragù napoletano l’abbiamo a metà del Settecento, nell’arcinoto Il cuoco galante del gastronomo Vincenzo Corrado. Corrado, nella sua opera, si limita a citare appunto lo stufato di carni pregiate. Chi va un po’ più a fondo nella questione è Ippolito Cavalcanti, Duca di Buonvicino, nel suo trattato Cucina teorico-pratica, pietra miliare della gastronomia italiana, apparso nei primi decenni dell’Ottocento e aggiornato di volta in volta. Qui, Cavalcanti non cita soltanto lo stufato di verdure e manzo, ma anche dei maccheroni conditi con sugo di manzo e formaggio; addirittura nelle ultime edizioni del trattato compare finalmente la parola ragù, in particolare: “...li frammezzerai in zuppiera con once 12 di parmigiano grattuggiato e sugo di carne ovvero brodo di ragù”. Non abbiamo ancora, però, la certezza matematica che ci fosse il pomodoro. Certezza che ci viene data soltanto dalla lettura di Carlo Dal Bono che, nella sua opera “Usi e costumi di Napoli” (datata 1857), parla appunto del ragù come condimento dei maccheroni. “Talvolta poi dopo il formaggio si tingono di color purpureo o paonazzo, quando cioè il tavernaio del sugo di pomodoro o del ragù (specie di stufato) copre, quasi rugiada di fiori, la polvere del formaggio”. I conti tornano: infatti, il periodo è coevo alle altre prime attestazioni del pomodoro in accoppiata con la pasta, soprattutto con gli spaghetti.

La nostra salsa di ispirazione francese era, ormai, alla portata di tutti: da un bel po’ ormai i tagli pregiati erano stati sostituiti con tagli più popolani, con tutte le variazioni del caso: dal vitello al maiale, dal diaframma alla cotica. IL RAGÙ IERI, IL RAGÙ OGGI Dobbiamo prendere atto di una cosa: poche altre città hanno una tradizione di salse e sughi così forte come Napoli, anche al giorno d’oggi, dove la sovrabbondanza lascia spazio a ben altra tendenza gastronomica. Il ragù resta la salsa regina delle tavole partenopee, dividendosi la tavola con la genovese ma… vincendo di gran lunga per testimonianze storiche, odorino invitante, spettacolarità della preparazione e fama. Di ragù scientifico il nostro Zio ha abbondantemente parlato nel suo nuovissimo libro, Codice Lo Cascio: lì vi proponiamo una ricetta magniloquente, con ben tre giorni di preparazione. Qui, andremo a proporvi una ricetta “condensata” nel tempo, ma di buona efficacia e con altrettanti consigli mirati per un’ottima riuscita. Partiamo dalle basi. La scelta del pomodoro per il vostro ragù è fondamentale: solitamente, ci si butta sulla scelta di un’ottima passata di pomodoro, unita a del doppio o triplo concentrato di pomodoro, per aggiungere sapidità e colore. Qualora possibile, scegliete delle passate di pomodoro lavorate dal pomodoro fresco; non tutti hanno a disposizione scorte di passate da

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lauti banchetti dove era previsto l’utilizzo di carni bovine di alta qualità.


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pomodoro San Marzano, ma la GDO in tal senso non delude e mette a disposizione buoni prodotti, a patto di spendere un po’ (ma nemmeno tanto). Con foglioline di basilico? Massì, crepi l’avarizia. La scelta della carne è, ovviamente, tassello fondamentale: e non solo perché siamo BBQ4All Magazine, ma anche perché una scelta di tagli troppo poveri, secchi e duri darà irrimediabilmente risultati lontani dall’essere ottimi, figurarsi buoni. Nelle macellerie partenopee (notoriamente avvezze ai tagli più poveri, nonché alle interiora) è tutto un fiorire di “annecchie”, “colarde”, “locene” et similari. Una giusta proporzione tra tagli grassi (ricchi di tessuto connettivo che, sciogliendosi, daranno la “base” grassa al sugo) e tagli magri (che servirà a “rimpolpare” il sugo) di bovino è la scelta migliore da adoperare. Di “contorno”, i napoletani usano mettere anche le cosiddette “cotiche” (cioè cotenna suina) imbottite con prezzemolo, impasto per le polpette, uvetta passa e pinoli. Più grasso metterete, più grasso troverete. O ancora, troverete le “tracchie” di maiale, cioè le costine. Un leggero soffritto di verdure iniziale vi conferirà una nota erbacea, rustica e casalinga che non guasta. Il ragù è, a tutti gli effetti, una portata principale: ma che pasta caliamo nella pentola, visto che siamo a Napoli e senza primo piatto non sappiamo stare? Voce di popolo vorrebbe le candele, opportunamente spezzate, come pasta perfetta per il ragù. Probabilmente, i frammenti delle candele depositati sul fondo e pieni di sugo ingolosiscono molto i napoletani; per noi andrebbe bene anche un più semplice pacchero liscio, trafilato al bronzo ed essiccato a basse temperature in celle statiche, in modo tale da conservare alto valore proteico e favorire il rilascio di amido durante la cottura nella pentola casalinga. Insomma, fate un po’ voi: però la pasta corta riesce molto meglio; se è di Gragnano IGP, un plus da non sottovalutare. Ma ormai in qualunque punto d’Italia è possibile tirar fuori dell’ottima pasta, che sia ad alta quota o a livello del mare.

Ingredienti per 4 persone: 1 kg di Brisket GLC Top Selection

/ 800 g di Eye Round del Megastore / 1,5 l di passata di pomodoro (da pomodori freschi) / 1 cucchiaio ben colmo di triplo concentrato di pomodoro / 1 cipolla rossa di media grandezza / 1 carota / 500 g di paccheri lisci / olio extravergine d’oliva q.b. / sale q.b. / pepe q.b. / Parmigiano Reggiano 30 mesi GLC Top Selection Tagli di carne alternativi: Picanha GLC Top Selection, Top Blade SRF 6+, Stinco Irlanda Emerald Green, Denver Black Angus Blue Ox PREPARAZIONE 1.

Preparate un soffritto leggero tagliando la cipolla a tocchetti e la carota, unendoli all’olio extravergine d’oliva. Scegliete un tegame molto ampio, perché dovrà contenere anche la carne.

2.

Preparate la carne: tagliate il brisket in tocchetti grossolani, all’incirca in cubi di 3x3 cm e tritate al coltello l’eye round.

3.

Poco per volta, aggiungete tutti i pezzi di carne e abbiate cura di farli rosolare su tutti i lati.

4.

Quando la carne è ben rosolata su tutti i lati, aggiungete il cucchiaio di triplo concentrato di pomodoro. Rimestate e fate sciogliere completamente nel tegame.

5.

Quando il triplo concentrato si è sciolto, aggiungete la passata di pomodoro a filo.

6.

Regolate di sale. Da ora in poi, entra in gioco il fattore tempo che noi griller conosciamo molto bene. Aggiustate la fiamma: a fuoco basso, il ragù dovrà cuocere lentamente, permettendo alla carne più grassa di sciogliersi, al collagene di arricchire il sugo di pomodoro e alla carne più magra di dare “struttura” al nostro ragù. In questo frangente si svolge il “peppiare” tanto caro ai napoletani, quel pop-pop del sobbollire che tanto li fa impazzire.

7.

Socchiudete con un coperchio il vostro tegame e lasciate così per circa sei ore. Di tanto in tanto, vi converrà controllare che tutto vada bene, aiutandovi con un mestolo. Munitevi di tozzetto di pane da intingere.

8.

Passate le sei ore, il vostro ragù dovrebbe avere una patina di grasso sulla superficie e dovrebbe aver cambiato tonalità di rosso: mentre il grasso in superficie è più chiaro, tendente all’arancio, il sugo sotto dovrebbe essere molto scuro, quasi caramellato.

9.

Una mezz’oretta prima del servizio, iniziate a portare a bollore l’acqua per la vostra pasta selezionata. Abbiamo scelto, nel nostro caso, paccheri lisci. Una riscaldata al ragù, mescolando con cura, non fa male. Scolate la pasta, impiattate e condite con una dose generosa di ragù fumante.Grattugiate a piacere del Parmigiano Reggiano 30 mesi GLC Top Selection.


LO SPEZZATINO DI WAGYU CON FUNGHI

... piace anche alla nonna!

Il nostro piatto oggetto d’esame è diffuso trasversalmente nella cucina di quasi tutte le regioni d’Italia, con ovvie declinazioni territoriali, sia negli ingredienti che nella nomenclatura, e con una decisa presenza nelle regioni del Centro-Nord Italia. Possiamo affermare che lo spezzatino di carne italiano sia un parente più o meno prossimo del gulash consumato nei Paesi dell’Est Europa, anche se quest’ultimo presenta un carico di spezie notevole, rispetto alle ricette diffuse nel Belpaese. L’origine del nome è abbastanza intuitiva: la carne viene ridotta in tocchetti grossolani, pezzi grossi, per essere calati nella pentola e sottoposti a cotture prolungate. Si può prevedere l’aggiunta di pomodoro, oppure lasciarlo in bianco. Le carni utilizzate sono le sopracitate manzo e suino, ma ciò non vieta di trovare in giro degli spezzatini con carne di cinghiale o altra selvaggina varia, come la lepre o il più domestico coniglio.

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La nostra memoria gustativa, lo sappiamo, è un mezzo potentissimo. Influenza praticamente gran parte della nostra vita a tavola (e anche fuori). Quanti, tra di voi, ricorderanno lo spezzatino di carne della propria famiglia come il migliore – e forse, anche l’unica tipologia – mai assaggiato? Lo spezzatino è, solitamente, una tipologia di stufato composto da tagli non molto pregiati di manzo e suino, lasciati cuocere senza molte tecniche sopraffine in brodo e con accompagnamento di verdure varie, a loro volta lessate o al massimo saltate in padella.


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01. Scegliere la carne sbagliata. Quante volte vi sarà capitato di trovare pezzi duri, o troppo molli, o con un saporaccio? L’errore, spesso, è a monte. Una selezione sbagliata delle carni per lo spezzatino darà spesso risultati decisamente dimenticabili. Una selezione giusta, invece, con le proporzioni adatte di grasso:magro, vi darà risultati più che soddisfacenti. 02. Metodi di cottura non adatti. L’altro tasto dolente, dopo la selezione non accurata della carne, è utilizzare metodi di cottura non adatti al nostro scopo. Lo spezzatino si deve letteralmente “sfaldare” sotto la lingua, non deve attaccarsi ai denti, deve essere caldo ed avvolgente, non essere stoppaccioso tipo foglio di cartone. 03. Calcolare male i tempi. Questa è la diretta conseguenza (e qualche volta, anche la causa) del nostro spezzatino venuto male: carni lasciate stracuocere, nel tentativo di renderle morbide e succose allo stesso tempo, senza criterio alcuno. Ora: prendete questi errori e DIMENTICATELI, perché qui sul Magazine vi daremo la ricetta per lo spezzatino definitivo. Faremo uno spezzatino di Wagyu, utilizzando la carne del nostro Megastore, accompagnandolo con funghi. Siete pronti ad assaggiare la nostra versione dello spezzatino? Siamo certi che la porterete a tutte le cene di famiglia. Garantiamo noi.

Ingredienti per 4 persone: 500 g di Stew AUS

CRIMSON CREST 5+ Wagyu F1 Crossbred del Megastore / 1 l di brodo di manzo / un cucchiaio di rub Tennessee della linea Sal’s Seasoning / un gambo di sedano / una carota / una cipolla / un gambo di sedano / mezzo bicchiere di passata di pomodoro / un cucchiaio di concentrato di pomodoro / 500 g di funghi misti / due spicchi d’aglio / prezzemolo a piacere / sale e pepe q.b. / olio extravergine di oliva q.b Tagli di carne alternativi: Top Blade SRF 6 o Flat Iron SRF 6+ ; Top Blade o Flank Shimofuri Farms

PREPARAZIONE 1.

Asciugate bene i cubi di carne, poi ungeteli bene e cospargeteli col rub, poi preparate il vostro dispositivo per una cottura diretta, utilizzando il wok o la cocotte. Versate poco olio anche nel tegame scelto, poi rosolate la carne in modo che si formi un po’ di crosticina ma dentro rimanga completamente cruda. Togliete la carne dal tegame e. con un po’ di brodo caldo, togliete i residui, che terrete da parte insieme alla carne.

2.

Tritate sedano, carote e cipolla e nello stesso tegame in cui avete cotto la carne versate un filo d’olio e soffriggete le verdure tritate. Aggiungete a questo punto i cubi di ciccia, poi il pomodoro, il concentrato e un poco di brodo caldo. Aggiustate di sale e di pepe e poi coprite il tegame e lasciate che prenda il bollore. Fate attenzione a non usare calore troppo elevato perché lo stufato deve sobbollire e non cuocere in modo troppo violento. Lasciatelo andare. Se dovesse asciugarsi troppo in cottura, continuate a bagnarlo con un po’ di brodo.

3.

Pulite i funghi e riduceteli a fettine e a pezzetti. Tritate bene i due spicchi d’aglio e poi, in un pentolino a parte rosolate i funghi, con aglio e olio. Salate, pepate e lasciateli cuocere per circa venti minuti.

4.

Quando la carne sarà tenera (impossibile darvi i tempi, ma ricordate che stiamo parlando di ciccia extra marezzata che ridurrà significativamente iI tempo di cottura, poiché la carne è già morbida in partenza), aggiungete al tegame con lo spezzatino anche i funghi, lasciate che il tutto si amalgami bene, poi se è necessario fate ritirare un po’ il sugo e servite lo spezzatino caldo con tanto pane tostato e abbondate prezzemolo tritato.

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Sì, lo sappiamo cosa state pensando: è il classico comfort food da impiattare in un bel piatto fondo, da mangiare piano piano, magari con qualche fetta di pane casereccio. Cosa si potrà mai sbagliare, in uno spezzatino? Beh, in realtà molte cose. Ve ne elenchiamo tre, che sono gli errori più comuni che potete commettere nel fare uno spezzatino, così da derubricare definitivamente il nostro dai piatti “semplicioni”, così da ottenerne uno a regola d’arte


Un primo semplice e raffinato?

TAGLIOLINI

CON LIMONE E CAVIALE

Proporre un primo piatto durante le festività non è proprio una faccenda semplicissima: spesso i pasti sono lunghi e mal si potrebbe sopportare la presenza di un primo piatto invadente. Come accontentare, poi, gli irriducibili dei primi? Solitamente, serve una soluzione che permetta a tutti un assaggio, senza appesantire in vista dei secondi piatti, sovente ancora più ricchi. Bisogna trovare una soluzione che non sacrifichi il gusto: i tagliolini al limone e caviale potrebbero fare al caso nostro. La preparazione non è delle più complesse, ma non sarete tacciati di essere frettolosi e poco attenti. Inoltre, la selezione e l’aggiunta del giusto caviale renderà questo assaggio prelibato e raffinato.

I tagliolini sono un formato di pasta che vede l’aggiunta di uovo tra gli ingredienti. Tipici di gran parte delle regioni italiane, in Molise e Piemonte sono così diffusi da aver guadagnato un posto tra i Prodotti Agroalimentari Tipici, su apposito registro. I tagliolini sono, solitamente, di diametro molto piccolo: non dovrebbero superare i 3 millimetri. Non di rado, si fanno in casa: chi in famiglia ha un provetto pastaio non si esime dal cimentarsi nel “tirare” i tagliolini più sottili possibili. In ogni caso si trovano tranquillamente sugli scaffali dei supermercati, prodotti sia da pastifici su larga scala che dai piccoli produttori locali. L’abbinamento di questa tipologia di pasta con il limone è molto comune, poiché si presta bene per sughi leggeri: in questo caso, la cremosità e l’acidità data dal succo e scorza di limone sono perfetti.

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Visto che non andremo ad utilizzare il solo succo di limone ma anche la sua scorza, è importante che i limoni abbiano la buccia edibile, cioè non trattata con farmaci che potrebbero arrecare danni alla salute. Per quanto riguarda la tipologia, sarebbero perfetti i limoni di Sorrento, con la polpa non troppo tenace, il profumo medio e il gusto non troppo acido. Per quanto riguarda la nota amplificatrice, cioè il caviale, grazie ai rivenditori di eccellenze abbiamo l’imbarazzo della scelta… scelta che, ad onor del vero, non è sempre così semplice. Al di là di quegli invitanti barattolini da pochi grammi che spesso si trovano nei banchi frigo dei supermercati, esiste un mondo sommerso di commercio e conoscenza del caviale. Queste piccole uova di storione, lavorate e salate, sono state da sempre oggetto di scambio molto pregiato. Senza scendere particolarmente nel dettaglio (ne avremo modo), vi lasciamo sei facili consigli su come scegliere il caviale: che vi rivolgiate ad un rivenditore di specialità gastronomiche oppure in un punto vendita gourmet, queste indicazioni potrebbero aiutarvi nell’amena attività dello spendere al meglio i vostri soldi.


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01. Prezzo Il caviale rosso può costare anche dai 5€ / 100 g, a salire. Si tratta, come intuibile, della varietà meno pregiata, ottenuta dalle uova della famiglia Salmonidae, cioè dei salmoni rosa. Il caviale nero (cioè quello ottenuto dalle uova di storione), decisamente più pregiato, parte da un prezzo di circa 60 € / 100 g. Diffidate da prezzi che si discostano molto da questo range, a meno che il venditore non sappia darvi sufficienti e comprovate motivazioni riguardo ai prezzi troppo alti oppure ingiustificatamente al ribasso. La qualità si paga – e voi lettori del Magazine lo sapete bene – e il sottocosto ci piace sempre poco. 02. Data di produzione. Sulla vostra confezione di caviale, troverete sia la data di lavorazione che quella di confezionamento. Tra queste due, sarà necessario un intervallo di massimo sei mesi. Se notate anomalie, desistete ed andate altrove a spendere i vostri soldini per il caviale. 03. Il caviale nero non va a peso. Sorpresa! Non potete rovinarvi le finanze acquistando mezzo chilo di caviale nero così, come se fosse una spigola. Viene venduto in vetro oppure in barattoli di latta. Meglio rivolgersi a rivenditori o brand di comprovata fiducia. 04. Quello rosso, invece, va a peso. Ma occhio: spesso è salato e pieno di conservanti, quindi la probabilità di essere fregati c’è. Anche stavolta, c’è da affidarsi a brand e rivenditori di fiducia. 05. L’occhio vuole la sua parte. Beh, come deve essere il caviale? I granuli (le uova, insomma) possono differire leggermente le une dalle altre, tondeggianti ed elastiche. Sul caviale “autentico” deve esserci il cosiddetto occhiolino, cioè un puntino di colore leggermente più scuro rispetto al resto. 06. Sapore e odore. Dopo aver acquistato, si passa alla prova gustativa. Un buon caviale non deve avere retrogusto di pesce; al contatto con le mucose della bocca, deve letteralmente scoppiare per poi sciogliersi. Ora che sapete come scegliere un buon caviale, passiamo alla preparazione dei nostri tagliolini!

Ingredienti per 4 persone: per i tagliolini: 400 g di farina / 4 uova / un pizzico di sale per il condimento: 50 g di burro / 3 limoni grandi / 3 cucchiai di panna fresca liquida / sale e pepe q.b. per terminare: 4 cucchiaini colmi di caviale (o più, secondo i vostri gusti) PREPARAZIONE 1. Versate la farina su una spianatoia, formate la fontana e unite le uova. Mescolate prima con la forchetta, quindi proseguite con le mani, fino ad ottenere un impasto liscio, sodo e compatto. 2. Mettete l’impasto in frigo per un’ora circa, poi stendete la pasta con il matterello in una sfoglia molto sottile (oppure utilizzate il tirapasta): la sfoglia non dovrà superare i 5 mm. 3. Una volta che la sfoglia avrà raggiunto la grandezza giusta e il giusto spessore, arrotolatela su se stessa con l’aiuto di un canovaccio infarinato. Poi con un coltello con la lama lunga e liscia affettate il rotolo senza superate i 3 mm di spessore. Una volta pronti i tagliolini, spolverizzateli con altra farina e srotolateli, infine fateli asciugare sullo stendi pasta. 4. Tagliate a listarelle le scorze dei limoni ben lavati, poi mettetele in un pentolino con un po’ di acqua fredda, portatele ad ebollizione e fate cuocere per cinque minuti con coperchio; ripetete l’operazione due volte. 5. In un tegame largo, fate sciogliere il burro, poi untule le scorze del limone, la panna, il sale e il pepe. 6. Cuocete i tagliolini, scolateli al dente e fateli saltare nel sugo al limone con un po’ della loro acqua di cottura. Aggiungete anche il succo del limone e mescolate bene. Aggiustate di pepe e poi servite i taglioni con uno o due cucchiaini di caviale.

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A signurina du mari

BUSIATE CON LA SPATOLA CAVOLICELLI, POMODORINI E PINOLI

Non si può tornare da un viaggio nel trapanese senza qualche pacco di busiate in valigia. Chi le ha assaggiate non può più farne a meno! Si tratta di un formato di pasta fatta solo con farina, acqua e un pizzico di sale, una sorta di maccheroni attorcigliati su se stessi, con la tipica forma a spirale cava al centro. Questo fa sì che la pasta cuocia alla perfezione e che trattenga benissimo il condimento. L’origine del nome è incerto: secondo alcuni deriva da un particolare ferro da maglia detto buso, che veniva utilizzato nel trapanese per lavorare lana e cotone, col quale si dava la forma a spirale alla pasta; secondo altri, il nome deriva dalla busa, ovvero lo stelo molto sottile dell’Ampelodesmos mauritanicus, graminacea tipica della macchia mediterranea, che veniva utilizzato sia per legare i fasci di spighe che per realizzate le busiate. In ogni caso, per preparare questi maccheroni basta avvolgere l’impasto intorno al ferro e poi dargli la forma desiderata attraverso la pressione col palmo della mano. Se non si possiede il ferro adatto, si può utilizzare anche uno spiedino di legno. Di solito vengono condite con il pesto alla trapanese, di cui vi abbiamo già parlato in passato, ma si prestano ad essere condite nei più svariati modi.

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Come sapete amiamo tantissimo la Sicilia e non potevano certo mancare mancare nel nostro menù delle feste perfetto! Questa volta abbiamo pensato di condirle con il pesce spatola, conosciuto anche come pesce sciabola e pesce bandiera. E’ inconfondibile, con quel corpo lungo e nastriforme, il colore argentato e la tipica espressione “arcigna”. Chiamato nel Messinese “a signorina du mari”, viene pescato soprattutto tra Campania, Calabria e Sicilia. Le sue carni sono gustose, delicate ma compatte, facilmente separabili dalla pelle e dalle lische, che comunque sono poche. E’ un pesce magro, ricco di proteine e, essendo appartenente alla famiglia del pesce azzurro, ricco di Omega 3. La nostra signorina si è trovata bene a braccetto coi cavolicelli, i pomodori ciliegini e i pinoli, per questo primo piatto ricercato e raffinato, che vediamo bene per il cenone di Capodanno.

Ingredienti per 4 persone: 500 g di busiate

corte / 350 g di pesce spatola gia sfilettato / 200 g di pomodori ciliegini / 100 g di pinoli / 150 g di cavolicelli già lessati / 2 spicchi d’aglio / sale e pepe q.b. / olio extravergine di oliva q.b. PREPARAZIONE 1.

Scaldate in una padella l'olio con i due spicchi d'aglio schiacciati. Lavate e tagliate i pomodorini a metà. Non appena l'aglio inizia a sfrigolare, unite i pomodorini alla padella e lasciateli soffriggere a fiamma alta fino a quando non saranno appassiti e avranno formato il sughetto.

2.

Tagliate i filetti di spatola in pezzetti piccoli, poi uniteli al sughetto, insieme ai cavolicelli. Aggiustate di sale e di pepe e lasciate cuocere il sugo per qualche minuto. Fate tostare i pinoli in una padellina a parte.

3.

Lessate le busiate in acqua salata e poi saltatele in padella col sugo ottenuto, aggiungendo alla fine i pinoli tostati.

4.

Servite immediatamente il vostro primo piatto e buon 2022!


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Un comfort food d’autore

RISOTTO AGLI SCAMPI

Il risotto agli scampi è un piatto delizioso e d’effetto. Semplice da preparare, si presta benissimo sia alle serate da passare in casa senza troppi impegni, sia alle cene più impegnative, come primo piatto non molto costoso. La ricetta può prevedere più varianti: quella classica prevede gli scampi per intero, ma esiste anche la versione con crema di scampi; altre versioni prevedono l’inserimento di vino nella ricetta o anche di cognac, rievocando gli anni Ottanta. Per quanto riguarda il riso, un’ottima scelta è rappresentata dal Vialone Nano: è un riso molto pregiato, uno dei nostri preferiti quando si tratta di preparare risotti. Infatti, grazie alle sue caratteristiche, si presta molto bene alle cotture dolci e prolungate, “catturando” i sughi e permettendo una buona cremosità del risultato finale. Originario del Veneto, ha guadagnato anche la denominazione IGP “Vialone Nano Veronese”. Per ottenere questa denominazione, il riso deve essere coltivato nelle zone bagnate dal fiume Tartaro. Per quanto riguarda la scelta e la cottura degli scampi, dovrete sceglierli molto freschi, visto che deperiscono subito. Per essere buoni, dovranno essere belli lucidi e rigonfi, la testa ben attaccata al corpo e essere privi di odore di pesce: l’odore giusto è quello dell’acqua di mare, salino. Qualora doveste affidarvi agli scampi surgelati, ne esistono di ottima qualità che garantiscono un piatto a base di crostacei gustoso e senza sacrificare troppo il portafogli. Tenete ben presente che la parte edibile è sensibilmente inferiore rispetto a quella acquistata: togliendo il carapace e le parti da eliminare, resta poco. Ad esempio: da un chilo e mezzo di scampi vi resterà, grosso modo, circa 600 grammi di cibo edibile. Gli scarti, però, possono essere utilizzati per un brodetto molto saporito.

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E da abbinare ad un buon risotto agli scampi? Un bel vino bianco: la scelta potrebbe ricadere su un Vermentino di Sardegna, mediamente strutturato e con note fruttate molto piacevoli.


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Ingredienti per 4 persone: 500 g di riso Vialone

Nano / 300 g di scampi sgusciati e puliti / una cipolla bianca / 8 scampi grandi interi / prezzemolo q.b. / succo di limone q.b. / olio extravergine di oliva q.b. / sale e pepe q.b. per la bisque: due cucchiai di trito di sedano, carote e cipolle / due cucchiai di olio extravergine di oliva; / le teste e i carapaci degli scampi; / mezzo bicchiere di cognac; / mezzo cucchiaio di concentrato di pomodoro; / mezzo lime; / abbondante ghiaccio per il brodo di pesce: una cipolla / tre spicchi d’aglio / un mazzetto di prezzemolo / 5 g di sale grosso / pepe in grani a piacere / 400 g di pesce (gallinella di mare, scorfano, triglie, sgombri ecc…) / mezzo cucchiaio di concentrato di pomodoro / olio extravergine di oliva q.b. / 2 litri di acqua

1274 - Almanacco 2021

PREPARAZIONE 1.

Pulite gli scampi. In una padella, fate soffriggere il trito di verdure e poi spadellate tutti gli scarti dei crostacei a fiamma alta. Sfumate col cognac.

2.

Evaporato l’alcol, aggiungete il concentrato di pomodoro, la spremuta di mezzo lime e il ghiaccio, in modo che i carapaci e le teste non si brucino in cottura.

3.

Fate ridurre il tutto, frullatelo con un mixer a immersione e filtratelo con un colino cinese, ottenendo un concentrato molto denso.

4.

Preparate il brodo di pesce: fate un soffritto con aglio, cipolla e prezzemolo, fate insaporire i pesci e poi aggiungete il concentrato di pomodoro. Unite l’acqua, il sale e il pepe e fate sobbollire il tutto per circa tre ore. Infine frullate i pesci e filtrate il tutto con un colino a maglie fini.

5.

In un tegame aggiungete un filo d’olio e due o tre cucchiaini di bisque, mettete il riso e cominciate a banarlo col pesce. Aggiustate eventualmente di sale e di pepe.

6.

In un altro tegame, con altri due o tre cucchiaini di bisque e mezzo cucchiaio d’olio, saltate gli scampi puliti. Aggiungeteli al riso quando sarà a fine cottura. Nel frattempo grigliate gli scampi interi sul vostro dispositivo o piastrateli.

7.

Servite il riso caldo con due scampi interi per ogni piatto e aggiungete prezzemolo tritato a piacere, insieme al succo di limone per dare brillantezza al sapore.


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ARAGOSTA ALLA CATALATANA Così bella, così mediterranea.


L’aragosta alla catalana è un piatto che, quando presente, catalizza letteralmente tutti gli ospiti del pasto. Monumentale, invitante, colorata: impossibile non notarla. Sovente, viene sacrificato il cuginetto astice al posto dell’aragosta, in quanto meno costoso e facilmente più reperibile. Il nome potrebbe facilmente suggerirci che le origini di questo piatto siano da collocare in Spagna: ma lo sappiamo bene, in un bacino così fertile di scambi culturali come il Mar Mediterraneo, che le ricette fanno viaggi immensi fin quasi a perdere le tracce della propria origine. L’aragosta alla catalana, in realtà, vedrebbe origine in Sardegna: durante il XIV secolo, infatti, gli spagnoli occuparono l’isola. In particolare, la città di Alghero assorbì così tanto gli usi e i costumi spagnoli da essere chiamata Barceloneta, cioè piccola Barcellona. Gli ingredienti locali si mischiarono piacevolmente per secoli, portando queste gustose ricette ai giorni nostri. Che sia aragosta oppure astice, l’impiattamento tradizionale di questo piatto è molto scenico: infatti, viene utilizzato il mezzo carapace del nostro prescelto beniamino come piatto di portata per contenere la polpa e i condimenti. Oltre al nostro crostaceo, gli ingredienti fondamentali sono olio extravergine d’oliva, cipolla bianca, pomodori, pepe, sale e succo di limone. Per l’aragosta e l’olio extravergine d’oliva, date piuccheunosguardo (semi-cit) al nostro Megastore: la linea Mazhara propone delle aragostelle mediterranee deliziose (o se volete esagerare, utilizzate una bestiola da 2 kg e mezzo, come abbiamo fatto noi per lo shooting di questo meraviglioso piatto!); la nostra selezione di olio extravergine d’oliva da sole olive siciliane, poi, parla da sola.

L’aragosta alla catalana è perfetta come antipasto principale all’inizio di un pranzo o di una cena elaborati; senza troppe forzature, potrebbe essere anche un secondo piatto leggero, se lo prevedete in combo con altre pietanze più ricche. E per l’abbinamento vino? Un buon Greco di Tufo sarebbe da manuale; anche se, visto pink trend, cioè il trend dei vini rosati, potreste concedervi qualcosa di più modaiolo ma di sicura qualità.

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Come non mai, è molto importante che gli ingredienti siano di qualità eccezionale: il crostaceo deve subire una lavorazione minima (deve essere soltanto sbollentato), quindi freschezza e qualità degli ingredienti giocano un ruolo determinante. Per quanto riguarda le cipolle, qualora fosse possibile, scegliete quelle di Giarratana: sono cipolle bianche molto grandi, croccanti, dal gusto medio non particolarmente persistente, amato anche da chi non ne mangia abitualmente. Per ciò che riguarda i pomodori, comprendiamo che non sia esattamente la stagione, ma cercate di scegliere quelli tondi da insalata non troppo maturi.


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I ngredienti per 4 persone: 1

aragostella del Mediterraneo Mazhara (circa 1 kg) / 1 cipolla di Giarratana abbastanza grande / 8 pomodori tondi insalatari non troppo maturi / olio extravergine d’oliva q.b. / il succo di 2 limoni interi / pepe nero in grani q.b. / sale q.b.

1.

P r o c u r a t ev i u n a p e n t o l a abbastanza capiente, riempitela di acqua e salatela. Poi, portate a bollore.

2.

Una volta giunta a bollore l’acqua, calate all’interno della pentola l’aragosta. Dovrà sbollentare per circa 25 minuti.

3.

Una volta sbollentata l’aragosta, lasciarla raffreddare nel liquido di cottura.

4.

Una volta ben raffreddata, prelevate l’aragosta e tagliatela in due parti, incidendo con decisione il carapace per il senso della lunghezza.

5.

Prelevate con cura la polpa dell’aragosta, tagliatela a tocchetti e riponetela in un’insalatiera. Conservate un mezzo carapace per il servizio.

6.

Prendete la cipolla. Dopo averla sfogliata degli strati superficiali, tagliatela a rondelle grosse.

7.

Fate la stessa cosa con i pomodori, tagliati a rondelle grosse.

8.

In una ciotola, preparate un’emulsione di olio extravergine d’oliva, il succo dei due limoni, sale e pepe.

9.

Versate l’emulsione nella ciotola, insieme ai pomodori e le cipolle a rondelle. Mescolate bene.

10. Con l’ausilio di un cucchiaio, “riempite” il mezzo carapace che avevate messo da parte con l’insalata di polpa di aragosta. 11. Servite su un piatto da portata MONUMENTALE, da mettere al centro tavola.

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PREPARAZIONE


ORATE E SARDE ALLA PIASTRA Non il solito pesciolino triste! Lo sappiamo, lo sappiamo: i pesciolini alla piastra hanno il sapore e il ricordo dell’ospedale. Ma solo perché ve li hanno sempre cucinati senza criterio! In questo numero del Magazine, vi proponiamo due pesci che, cotti sulla piastra, danno il meglio di sé: parliamo di orate e di sarde. L’orata è un pesce medio, non particolarmente grande: raramente raggiunge i 50 cm di lunghezza, con un massimo di mezzo chilo di peso. Il suo nome scientifico è Sparus aurata; vive generalmente lungo le coste del Mar Mediterraneo e dell’Oceano Atlantico, ma non è raro trovarlo stanziato in prossimità di laghi oppure alle foci dei fiumi. Sia il suo nome comune che il suo nome scientifico fanno riferimento alla sottile linea dorata che si trova fra gli occhi. Dal corpo ovale e compresso, ha il muso tozzo, e gli occhi grandi.

L’orata è un pesce dalle notevoli proprietà nutrizionali. La sua carne è magra e saporita, ricca di Omega3, fonte di proteine e ad alto contenuto di amminoacidi essenziali. Tutte queste caratteristiche rendono l’orata un pesce ideale per le diete a regime ipocalorico. Per quanto riguarda le sarde, invece, si tratta di uno dei pesci più diffusi nei nostri mari, soprattutto il Mar Mediterraneo. Il nome scientifico è Sardina plichardus. Se un occhio poco esperto può scambiarle con le sorelle alici, i più avvezzi ne riconosceranno subito le differenze. La sarda ha un corpo più tozzo e meno slanciato rispetto alle alici, ma sono più lunghe e generalmente più grandi. Per quanto riguarda le proprietà nutrizionali, le sarde sono una vera e propria miniera d’oro: ogni 100 grammi di sarde hanno ben 64 grammi di proteine, vitamine in quantità notevoli (tra le quali, la vitamina B12), notevole dose di calcio e fosforo. Inoltre, il basso tenore di carboidrati e colesterolo, le rendono perfette per regimi dietetici particolari. Le sarde rappresentano da secoli un notevole introito per chi ne commercia: infatti, agli albori delle industrie conserviere, furono tra i primi cibi ad essere inscatolati e venduti. Nel 1822 nacquero le famose sardine in latta di Nantes, cibo esportato in tutto il mondo e noto per l’abile manifattura.

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Sarde ed orate alla piastra rappresentano un secondo piatto completo e senza troppi intoppi: se trattate nel modo adeguato, le carni di questi pesci non diventeranno secche e bruciacchiate, ma riusciranno a conservare morbidezza e gusto. E’ una ricetta velocissima, semplicissima, con ottimo rapposto velocità/rendimento. Gli ingredienti sono essenzialmente due: il pesce e il limone (più olio e sale a piacere). Ma l’esplosione di sapore che avrete, una volta assaggiato il pesce in tutta la sua purezza, non potete nemmeno immaginarlo.


Ingredienti per 4 persone: due orate di circa un kg l’una / un kg di sarde / due limoni / sale e pepe q.b. / olio extravergine di oliva q.b.

per la maionese rosa: la testa di un’aragostella / la punta di un cucchiaino di concentrato di pomodoro / olio extravergine di oliva q.b. / il succo di un lime / due cucchiai di maionese PREPARAZIONE 1.

Pulite i pesci, senza desquamarli.

2.

Scaldate la piastra, affinchè sia davvero rovente.

3.

Asciugate bene i pesci, poi metteteli sulla piasta rovente facendoli rosolare qualche minuto per lato. Togliete i pesci dalla piastra e serviteli su un letto d’insalata e con abbondante limone da spremere.

4.

P r e p a r a t e i l vo s t r o d i s p o s i t i vo p e r u n a cottura diretta e grigliate la testa dell’aragostella. Poi scavatela, frullatela e mettetela in un pentolino con un po’ di concentrato di pomodoro e un pizzico di sale.

5.

Dopo qualche minuto spegnete il fuoco, lasciate raffreddare e poi emulsionate il tutto con olio e lime. Dovete ottenere un composto omogeneo e denso che aggiungerete alla maionese.

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Potete abbinare una salsa di accompagnamento: noi vi suggeriamo una maionese rosa


Ma quanto è bona la GIARDINIERA No, non la signora che cura le vostre piante, ma quel contorno fatto da un assortimento di verdure in agrodolce, fresco, croccante e sgrassante. È il simbolo della conservazione del cibo, un grande esempio di non spreco degli alimenti, o di sostenibilità, coma va di moda dire oggi. La giardiniera nasce principalmente in tempi antichi come metodo di conservazione per salvare la materia prima dei campi in eccesso al raccolto e per consentire al cibo più fragile di durare nel tempo, in modo che nei periodi invernali, quelli in cui si faceva più fatica a reperire alimenti, si avesse una scorta sicura di verdure in dispensa. Inizialmente pare venisse realizzata con le verdure crude in agrodolce, senza olio, solo con aceto e salamoia. La ricetta poi venne perfezionata nelle corti aristocratiche del Rinascimento. Era un metodo in uso già nei secoli X-XII nei monasteri e nei conventi della pianura padana, principalmente piacentini e cremonesi, ma anche mantovani, ferraresi e piemontesi. Questo delizioso insieme di verdure in agrodolce era considerato uno degli alimenti più salutari di tutto il Medioevo. Come veniva fatta? Prima si lavavano accuratamente le verdure in acqua preventivamente bollita e acidificata, poi si asciugavano bene ben asciugate. Si lasciavano appassire su canovacci (non espsosti direttamente al sole) per qualche giorno in modo che perdessero consistenza e si ammorbidissero, infine venivano tagliate a pezzi piccoli, messe nei vasetti e coperte abbondantementedi salamoia, aceto di vino bianco, zucchero e con varie erbe e spezie tipo cannella, chiodi di garofano e foglie di alloro. I vasi poi venivano conservati in un luogo fresco e buio, chiusi con tappi di legno e stracci. Fino al XVI-XVII° secolo non vi era altra sterilizzazione o creazione di sottovuoto: la colmatura e l’aceto dovevano bastare. La giardiniera era amatissima anche da figure illustri della cultura italiana, come Giuseppe Verdi e Giovanni Guareschi: rispettivamente, l'abbinavano a spalla cotta e cotechino lesso. Certamente non può mancare una nostra versione, perché è perfetta come antipasto ma anche come abbinamento ai cibi tipici delle tavole natalizie, quando vengono serviti i vari capponi ripieni o i bolliti misti, specie sulle tavole del centro-nord Italia. Anzi, invece di una versione ve ne diamo due: una classica e una in cbt del coach Virgilio Brunetti. Poi non dite che non siamo generosi! Vediamo dunque come realizzarle entrambe

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GIARDINIERA IN CBT

Ingredienti per 4 persone

Ingredienti per 4 persone

per le verdure: 2 peperoni rossi e gialli / 2 zucchine grandi / 2 cipollotti / 2 carote / 4 coste di sedano / 300 g di fagiolini / 4 litri di acqua / 200 g di aceto di vino bianco.

per le verdure: 500 g di verdure miste (peperoni, zucchine, rape rosse, carote, cavolo cappuccio, sedano rapa...).

per il liquido di conserva: 1,5 l di acqua / 115 g di glucosio / 0,5 l di aceto / 50 g di sale (grosso) / 5 foglie di alloro / grani di pepe a piacere / chiodi di garofano a piacere.

per il liquido di conserva: 100 g di acqua / 100 g di aceto di mele / 100 g di vino bianco / 30 g di zucchero / 20 g di sale

PREPARAZIONE

PREPARAZIONE

1.

Per realizzare una giardiniera a regola d’arte, è fondamentale ricordare che l’acidità del prodotto deve essere inferiore a pH 4,5. E’ dunque altresì fondamentale dotarsi di cartine tornasole, in grado di misurare con precisione il pH.

1.

ll vino bianco deve essere di ottima qualità e deve essere dealcolato per bollitura prima di assemblare il liquido di conserva. Dopo aver dealcolato il vino, preparate dunque il liquido di conserva.

2.

Selezionate le vostre verdure, eliminando quelle troppo acerbe e quelle troppo mature. Date insomma la preferenz a quelle freschissime e turgide. Lavatele accuratamente e pulitele, poi tagliatele cercando di formare pezzi che si eguaglino in grandezza.

2.

3.

Scottate le verdure in acqua acidulata (50 g/l) un tipo per volta: fatele bollire per pochi minuti (non più di 4) e poi fermate la cottura in abbondante ghiaccio.

Tagliate tutte e verdure e poi dividetele con qualche accorgimento: i peperoni devono essere cotti a parte, perché altrimenti il loro sapore coprirebbe tutte le altre verdure; le rape rosse, il cavolo viola e altre verdure colore rosso devono essere cotte anch’esse in una busta separata altrimenti tutta la giardiniera si colora di viola.

4.

Preparate il liquido di conservazione facendo bollire tutti gli ingredienti per un quarto d’ora.

3.

5.

Sterilizzate i vasetti facendoli bollire per mezz’ora in abbondante acqua (che deve ricoprirli completamente), insieme ai loro coperchi. Poi metteteli ad asciugare a testa in giù, su uno strofinaccio pulito.

6.

Una volta che le verdure saranno tutte sbollentate e raffreddate col ghiaccio, mettetele nei vasetti insieme al liquido di conserva, riempiendoli fino al collo ( non andate oltre) e aiutandovi con un pressino per fare in modo che nessun ortaggio rimanga scoperto.

Una vota tagliata la verdura e separata come consigliato, mettetela nelle buste (non è necessario possedere una macchina per il sottovuoto a campana, basta saldare le buste con una macchina ad estrazione) insieme al liquido di governo. Se non avete le buste, potete metterle nei vasetti.

4.

7.

Chiudete bene i vasetti, poi avvolgeteli negli stracci e copriteli interamente con l’acqua fredda, mettendoli in un pentolone capiente. Portete il tutto a ebollizione e fateli bollire per mezz’ora.

Cuocete a 82° per due ore in acqua, suddividendo però la fase di cottura in due parti: 60 minuti a 82°, poi abbattete con ghiaccio e cuocete di nuovo per altri 60 minuti, sempre 82°.

5.

8.

Trascorso il tempo necessario, il sottovuoto si dovrà essere formato: a quel punto estraete i vasetti, verificate che il centro del coperchio, una volta premuto, non si muova e non faccia alcun rumore, e mettete i vasetti a raffreddare a temperatura ambiente a testa in giù.

Alla fine del processo il prodotto sarà conservabile a 4° per sei mesi, sarà perfettamente acidificato e pastorizzato. Questa Giardiniera è ottima per il consumo dopo una settimana dalla cottura: può essere mangiata così, come accompagnamento di bolliti e arrosti, ma anche scolata e fatta saltare nel wok con poco olio e servita come contorno sfizioso in agrodolce.

Dal giorno successivo la vostra giardiniera sarà pronta e potrete conservarla in frigo (consigliamo di non superare un anno di conservazione).

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GIARDINIERA CLASSICA


Con le mani nella

MARMELLATA Sì, ma di ARANCE e poi spalmata sul PANETTONE GRIGLIATO

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Mettiamo subito le carte in tavola: marmellata e confettura non sono la stessa cosa. E’ vero che entrambe sono prodotti a base di zucchero e frutta, ma la prima è il risultato dell’unione tra l’elemento dolce e i soli agrumi (limone, arancia, bergamotto, pompelmo, mandarino, e cedro), mentre la seconda utilizza la restante vasta gamma fruttifera. Questa differenza è sancita ufficialmente dalla direttiva europea 79/693 del 1979, recepita in Italia tre anni dopo con il DPR n. 401 del 1982, dove si stabilisce che possono definirsi (in parole povere e brevemente) marmellate tutti i prodotti a base di zucchero e agrumi dove la polpa superi il 20% del totale e che possono definirsi confetture tutti prodotti a base di zucchero e frutta la cui polpa superi il 35% del totale.


Questa informazione sembra non aver mai oltrepassato la cerchia degli addetti ai lavori, visto l’uso indiscriminato della parole marmellata e confettura, considerate l’una il sinonimo dell’altra. In parte questa confusione ha una sua giustificazione: il metodo di cottura di entrambe è praticamente identico se non per qualche piccola variazione.

La ricetta conobbe la sua svolta nel Medioevo con l’arrivo dello zucchero di canna, rendendo di fatto la realizzazione dell’epoca non molto dissimile dall’attuale. Ovviamente era un prodotto dedicato alla classe privilegiata, visto l’elevato costo degli elementi dolcificanti.

1285 - BBQ4All Magazine

L’arte di conservare in questo modo gli alimenti, nata dalla necessità di preservare i raccolti fruttiferi per l’alimentazione invernale (momento dell’anno più scarno di colture), ha origini molto antiche: il Faraone Ramses II il Grande apprezzava le composte realizzate con frutta miele ed erbe aromatiche; i greci le realizzavanodi mele cotogne, cuocendole lentamente con il miele, mentre i romani aggiunsero al processo di preparazione il vino (per amore della precisione, ad oggi la composta si differenzia dalla confettura per il minor quantitativo di zucchero e per la maggior presenza di frutta).


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Nello specifico la marmellata di arance quando è nata? Secondo una leggenda cantata dai menestrelli nelle corti europee nacque nel rinascimento per curare una grave carenza di vitamina C della regina Maria de’Medici (sposa di Enrico IV re di Francia). Dopo che il medico emise la diagnosi furono inviati degli uomini in Sicilia per recuperare le arance, ma durante il lungo viaggio di ritorno i frutti iniziarono a deperire, per cui furono trasformati in un dolce composto. Sempre secondo la leggenda, su ogni vasetto fu posta l’etichetta “pour Marie malade”, da cui si dice nasca la parola marmellata associata alle preparazioni con gli agrumi. Secondo altri invece il termine viene dal portoghese marmelada, con cui si indicava un preparato a base di mele cotogne. Dal latino melimēlu(m), derivato a sua volta dal greco melímēlon: miele e mele. Questo, ovviamente, prima che la Comunità Europa facesse la distinzione rigorosa di cui parliamo all’inizio. Sicuramente, la marmellata è un alimento molto versatile (come la confettura): ottima come farcitura di biscotti, crostate e brioche, ma anche mangiata sul pane imburrato e, perché no, spalmata su una bella fetta calda di panettone appena grigliato. Sì, avete letto bene, grigliato. Per mangiare al meglio il panettone si consiglia di scaldarlo in forno: noi vi proponiamo di andare oltre grigliando sul fuoco ogni singola fetta. Il calore diretto creerà sulla superficie una deliziosa e dorata crosticina croccante (grazie alla sempre nota reazione di Maillard); inoltre amplificherà il profumo del panettone e ,ammorbidendo il burro, renderà la pasta sofficissima. Il tutto sarà incorniciato dalla dolcezza della marmellata di arance che, sposandosi alla perfezione con i sapori dell’uvetta, della frutta candita, della vaniglia e delle nocciole, renderà meravigliosa l’esperienza gustativa.

Ingredienti per 4 persone: 1 Panettone Classico alle Nocciole GLC Top Selection per la marmellata: 1 kg di arance Navel già pulite / 500 g di zucchero semolato / il succo di un limone PREPARAZIONE 1. Sbucciate le arance rimanendo il più possibile in superficie, evitando di tagliare la parte bianca (perché amara). Tenete da parte solo la buccia di 2 arance. 2. Terminate di sbucciare l’agrume e poi suddividetelo in tanti tocchetti. 3. Pesate le arance, ricordate per ogni kg di frutta ci vuole mezzo kg di zucchero. Mettete gli agrumi, lo zucchero e i succo di limone in una padella ampia e capiente e lasciate cuocere a fiamma medio bassa per 45 minuti, ricordandovi di mescolare spesso. 4. Nell’attesa prendete le bucce messe da parte e tagliatele a striscioline sottili, dopodiché bollitele per due volte in acqua calda per tre minuti, in modo che perdano in parte il loro sapore amaro. 5. Terminato questo passaggio inseritele nel composto sul fuoco. Fate molta attenzione all’ultima fase di cottura, perché il composto potrebbe attaccarsi sul fondo e bruciarsi. 6. Prendete dei vasetti precedentemente sterilizzati, versate la marmellata all’interno, chiudete e capovolgete il tutto, in questo modo si creerà il sottovuoto. Se volete però essere ancora più sicuri, dopo aver proceduto con la sterilizzazione potete effettuare la pastorizzazione dei vasetti già riempiti, avvolgendoli in panni di cotone e mettendoli in una pentola. Riempite con dell’acqua non calda (a temperatura ambiente va benissimo) fino al raggiungimento del tappo. Portate sul fuoco e dal momento della bollitura calcolate 25 – 30 minuti di pastorizzazione. Passato il tempo spegnete il fuoco e lasciateli nella pentola fino al raffreddamento, in cui dovrete sentire il tipico “clack” del coperchio: vuol dire che la pastorizzazione è andata a buon fine. 7. Preparate il vostro dispositivo per una cottura diretta, mezza ciminiera di bricchette sarà più che sufficiente. 8. Tagliate il panettone a fette e grigliatelo qualche minuto per lato, deve solo acquistare una leggera doratura. 9. Servite la fetta calda agli ospiti, fornendo ad ognuno una coppetta di marmellata. Non solo la finiranno ma vi chiederanno anche il bis.

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L'Arte Bianca a cura di Alessandro Trezzi

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Di guerre e di campanilismi il nostro Paese è fin troppo pieno, anche quando non è necessario. Sebbene ammetta di preferire l’incredibile complessità del panettone, il pandoro non è certo un dolce banale, anzi; semplicemente, non è comparabile in quanto a celebrità, ed è quindi ben più stretta la differenza tra una versione buona e una meno buona. Come tutte le cose “semplici e non banali”, tuttavia, un pandoro perfetto può farvi letteralmente cappottare dalla sedia.

Storia e leggenda L’origine certa del pandoro è commerciale. Il signor Melegatti, allora proprietario di una drogheria nel centro di Verona, richiede ed ottiene l’attestato di privativa industriale (il brevetto dell’epoca) dal Ministero di Agricoltura e Commercio del Regno d’Italia per la sua nuova invenzione dolciaria, il pandoro. Era il 14 ottobre 1884. Per realizzarlo aveva perfezionato una ricetta secolare delle famiglie veronesi, un dolce a cui spesso si dava la forma di una stella a otto punte. Melegatti affidò la realizzazione di un disegno per uno stampo ad un amico, il pittore impressionista Angelo dall’Oca Bianca, che aveva partecipato diverse volte alla Biennale veneziana ed era stato premiato all’Esposizione universale di Parigi. Melegatti si impegnò così tanto per il lancio commerciale che propose addirittura un concorso con in palio mille lire (una discreta somma per l’epoca) che sarebbe andata da chi fosse riuscito a riprodurre il dolce perfetto in casa. Fu l’inizio di qualcosa di grande; oggi, nella vecchia sede veronese della sua pasticceria, c’è lo storico

palazzo Melegatti-Turco-Ronca, e sopra la balaustra delle terrazze laterali due pandori in tufo. La leggenda vuole che l’etimologia sia nata da un grido di stupore di un garzone dell’allora drogheria Melegatti alla vista di questo dolce, dal colore dell’impasto simile all’oro: “L’è proprio un pan de oro!” Sebbene di storie si tratti, il nome “pandoro” fa chiaramente riferimento al colore di questa pasta lievitata molto gialla. Il riferimento al Pane d’oro era però già stato utilizzato commercialmente anni prima rispetto all’anno del brevetto: nel 1871 un certo Cesare Capri di Verona lo aveva portato ad un’esposizione regionale descrivendolo come “un panettone di pasta dolce”. Il nome pandoro potrebbe anche derivare dal pan de oro della Serenissima, di cui non abbiamo tuttavia notizie certe; sembra che nelle case dei patrizi veneziani si consumasse, durante le feste, un pane ricoperto da una foglia d’oro. In ogni caso, il riferimento all’oro deriva sicuramente dal colore del pane: il consumo di pane bianco era di norma destinato solo ai più ricchi, e lo stesso lievitato bianco appariva come cibo lussuoso. Moltissimi fanno discendere il pandoro dall’antico dolce veronese chiamato Nadalin; si tratta di un lievitato ricoperto da un impasto di pinoli lavorati con lo zucchero (la pignocada) e granella di mandorle. Secondo gli studi di Andrea Brugnoli, si trovano menzioni di questo dolce già a partire dalla metà del Settecento nei documenti delle corporazioni dei festari o scalettéri, ovvero le corporazioni dei produttori di dolci che potevano preparare una

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eam pandoro o team panettone? Sicuramente, almeno una volta nella vita, vi sarete trovati davanti a questo enorme dilemma, a dover scegliere tra l’uno e l’altro per qualsiasi motivo. Amici e parenti vi avranno chiesto cosa avreste preferito per cena, e avrete magari partecipato a qualche insulsa battaglia per gridare il vostro insindacabile parere sul vostro grande lievitato preferito.


versione di pane dolce ricoperta di pinoli e zucchero. Ai pistori (i panettieri) era invece permesso solo aggiungere zucchero alla pasta lievitata. Il Nadalin viene considerato un antenato del pandoro non tanto per la sua ricetta (che prevede anche la frutta secca) ma perché era confezionato a forma di stella ad otto punte, pur trattandosi di un dolce molto meno sviluppato del pandoro, a pasta dura, con le punte formate a mano prima della lievitazione. Se dal Nadalin il pandoro ha tratto la forma, la ricetta probabilmente deriva dal pane di Natale del monastero femminile di San Giuseppe a Fidenzio. Analizzando i registri di spesa della casa veronese Del bene, il 21 dicembre del 1790 si acquistarono 500 uova oltre a una grande quantità di burro e di zucchero per la realizzazione dei pani di natale (la farina, probabilmente, era già presente nella dispensa del monastero). La trasformazione dei dolci di Natale antichi nel pandoro avvenne probabilmente verso la metà dell’800. Dal 1814 Verona cadette sotto il dominio austriaco; e a partire dagli anni ’50 iniziarono a registrarsi cambiamenti nei dolci tradizionali di Natale, che cominciarono a lievitare molto più di quello a cui erano abituati i veronesi in accordo con le peculiarità della pasticceria viennese.

Il pandoro perfetto

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Con il termine “pandoro” oggi intendiamo un dolce lievitato di forma alta e tronco-conica, con basamento circolare e forma del corpo a stella a otto punte. All'esterno è color bruno, mentre all'interno

rimane giallo chiaro; la pigmentazione è uniforme e solo l'eventuale aggiunta di zucchero a velo ne modifica l'aspetto. Per la realizzazione del pandoro vengono generalmente impiegate farina bianca di grano tenero, lievito naturale, uova, zucchero e burro. Aspetto e consistenza sono i primi parametri di giudizio per valutare un buon pandoro: • La crosta esterna deve essere di color marrone chiaro, uniforme, senza segni di bruciatura; al tatto deve presentarsi morbida ed elastica; • La forma deve essere armonica, geometrica, perfettamente strutturata senza collassi e cedimenti; • La mollica interna deve presentare un’alveolatura fine e diffusa, uniforme, di un colore giallo chiaro tendente al dorato; strappandone un pezzo deve filare, risultare soffice e per nulla asciutta. Inoltre, al gusto il pandoro deve risultare fresco, intenso ed equilibrato, senza eccessi di note grasse, acide opulente. Un vero pandoro profuma e sa di uovo, burro, vaniglia e panna fresca. Vogliamo vedere come si fa?

Il lievito madre Come per il panettone, anche qui c’è poco da fare: potete fare un pandoro con il lievito di birra, ma non avrà mai la struttura e l’effetto cotone di un prodotto realizzato con un lievito madre dalle giuste caratteristiche. L’acidità apportata all’impasto grazie a questo particolare prefermento è in grado di conferire al glutine le caratteristiche necessarie per sostenere la massa durante tutte le fasi, per sorreggere il peso di ingredienti “tosti” come i grassi e le uova, per sviluppare una mollica filante, e per garantire infine una shelf life adatta allo scopo per cui il panettone è stato pensato: essere prodotto in anticipo e consumato anche un mese dopo. Tuttavia, farla troppo semplice è il più grande errore che possiate commettere. Il lievito madre è una coltura complessa di lieviti e batteri con


Ciò è fondamentale per mantenere il pH intorno al valore di soglia, ovvero 4.1, che tradotto significa avere un lievito madre dal profumo equilibrato simile a quello dello yogurt. Principalmente ne esistono due versioni, solida (con un’idratazione del 45-50%) e liquida (con un’idratazione del 100%). La forma liquida è la più utilizzata per il pane, in quanto non solo è immediata nel rinfresco e nella gestione quotidiana ma soprattutto perché l’elevata presenza di acqua accelera l’attività enzimatica regalando una maglia glutinica più estensibile e un sapore più pungente a causa della presenza di acido acetico e alcol; l’acidità pronunciata aiuta a far legare le proteine di cereali deboli come la segale e aumenta la croccantezza della crosta. Per quanto riguarda i grandi lievitati invece, si utilizza la versione solida per lo scopo: una struttura salda, spinta verso l’alto e una maglia glutinica ben sorretta grazie alla prevalenza di acidi organici, mollica morbida e aromatica grazie all’acido lattico. Per questi prodotti tuttavia la vostra pasta madre deve essere in perfetto equlibrio; non basta che un lievito raddoppi in 3 ore per essere considerato pronto, è fondamentale che sia bilanciato nei profumi e senza punte di acidità evidenti. Per questo motivo è importante una pratica di rinfresco serrato nel periodo precedente alla produzione.

Il lievito solido viene spesso avvolto in un panno e legato per rallentare la fermentazione, o lavato in una soluzione di acqua e zucchero per disperdere i microorganismi indesiderati che ne rallentano l’azione, ma se avete rinfrescato correttamente circa 3 volte al giorno non dovreste mai averne bisogno.

La strumentazione Se anche voi foste degli abili MacGyver tuttofare, difficilmente potrete scampare dall’obbligatorietà di quanto sto per dirvi: senza lo stampo adatto, non potrete realizzare un pandoro degno di nota. Il motivo pare piuttosto scontato: la forma di questo dolce è talmente particolare che difficilmente potrete replicarla a mani nude. Di importanza essenziale è inoltre il materiale dello stampo, un ottimo alluminio; conducendo il calore in maniera docile ed equilibrata, eviterà di bruciare il vostro capolavoro e donerà una colorazione più uniforme possibile alla crosta esterna. Detto questo, devo sconfiggere anche un’altra convinzione, per quanto sia abbastanza certo di spezzare parecchi dei vostri cuori: l’impasto per pandoro è molto complesso e richiede, per la perfetta riuscita, una maglia glutinica in perfetto stato. Motivo per cui è altamente sconsigliato impastare a mano, in quanto non avreste la forza e la costanza di una macchina che vi consentirebbe di andare sul sicuro. Lavorate con una planetaria o, se la possedete, con un’impastatrice a spirale/braccia tuffanti, e il vostro risultato sarà garantito.

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un delicatissimo ecosistema vivente, che cambia in continuazione ed è direttamente influenzato dalle operazioni fatte per il mantenimento. Di fatto, nient’altro si tratta che un impasto di acqua e farina lasciato maturare per un tempo più o meno lungo; durante questo periodo i lieviti e i batteri presenti nell’aria e nella farina avviano il processo di fermentazione. La sua gestione richiede una pratica di rinfresco costante a intervalli regolari, ovvero il nutrimento di questo organismo con nuova acqua e farina, e quindi nuovi zuccheri per i lieviti e un ambiente stabile per le reazioni enzimatiche.


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Il riposo Come il fratello panettone, anche il pandoro necessita di più fasi di riposo, necessarie per incorporare tutti gli ingredienti mantenendo l’impasto strutturato e carico, pronto per la crescita finale: 1. Si parte dal rinfresco del lievito, che deve mostrarsi in forma perfetta prima di essere inserito nel pandoro; anche in casa spendete non pochi spiccioli per ingredienti di massima qualità, quindi se non siete sicuri del vostro lievito non iniziate nemmeno ad impastare, o potreste dover buttare tutto. Una buona idea è quella di fare, lo stesso giorno, tre rinfreschi consecutivi: uno alle 8.00, uno alle 12.00, uno alle 16.00, per poi preparare il primo impasto alle 20.00; 2. Dopo la preparazione del primo impasto (fatto di lievito, zucchero, farina, uova e burro) si lascia lievitare per 10-12 ore, fino a che non avrà triplicato di volume; è fondamentale che questo requisito sia rispettato per non incorrere in ritardi nelle tempistiche del secondo impasto; 3. Si prepara il secondo impasto (con farina, sale, malto, tuorli e panna) e si lascia riposare per 30 minuti. Dopo le doverose pirlature, si lascia riposare altri 15-20 minuti perché si stabilizzi; 4. Si rovescia l’impasto nello stampo precedentemente imburrato, si copre con pellicola e si attende 4-6 ore che arrivi alla sommità, per poi cuocere. Il riposo non è un lusso, ma un ingrediente; fare di testa propria con i tempi e le temperature di fermentazione è il modo più facile per fallire, tenetelo bene a mente.

INGREDIENTI

per un pandoro da 1 kg Primo impasto 80 g di lievito naturale; 95 g di zucchero semolato; 260 g di uova; 110 g di burro; 315 g di farina 00 (320-350 W). secondo impasto 55 g di farina 00 320-350 W 5 g di sale 4 g di malto 55 g di tuorli 20 g di panna fresca emulsione 120 g di burro 55 g di zucchero semolato 25 g di burro di cacao grattugiato o micronizzato 10 g di miele 1 bacca di vaniglia


EMULSIONE Preparate l’emulsione la stessa sera del primo impasto, per poi conservarla a temperatura ambiente coperta da pellicola fino al giorno successivo. In una ciotola riunite il burro a pomata (tenendolo a temperatura ambiente per un paio d’ore) con tutti gli altri ingredienti e montate fino ad avere una crema omogenea. Coprite con pellicola e lasciate riposare.

PRIMA LIEVITAZIONE Ribaltate l’impasto sul piano e pirlatelo con un tarocco senza usare farina. A questo punto riponetelo in un contenitore stretto dai bordi alti e dritti, e segnate con un

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PRIMO IMPASTO Riunite nella ciotola della vostra macchina la farina, la pasta madre spezzettata e metà delle uova. Nel caso in cui la vostra macchina non sia dotata di gancio a spirale, evitate di usare l’uncino e lavorate con la foglia. Fate partire la macchina per circa 10/15 minuti fino a formare un impasto liscio, omogeneo ed elastico; a questo punto aggiungete poco alla volta le uova rimaste fino al completo assorbimento. Aggiungete lo zucchero in più riprese e successivamente sempre in più riprese il burro a pomata. Fate attenzione a non lavorare troppo l’impasto, misurate costantemente la temperatura con il termometro e se vi accorgete di avvicinarvi ai 26°C fermatevi, riponete il tutto in freezer per 10 minuti e tornate alla carica. Impastate fino ad ottenere un composto liscio, setoso, omogeneo ed elastico, a una temperatura di 24°C-25°C.


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elastico il punto di partenza; coprite ermeticamente e lasciate lievitare in un luogo con temperatura costante di 25-26 °C, come il vostro forno spento con luce accesa. L’impasto deve assolutamente triplicare (1+2), e se riusciamo ad avere un ambiente stabile sarà pronto in circa 10/12 ore. Se trascorso Il tempo l’impasto non risultasse pronto, attendere il completo sviluppo, in quanto anticipare i tempi significherebbe ottenere un prodotto finito con un alveolatura irregolare, oltre ad allungarvi le lievitazioni successive costringendovi a cucinare di notte. SECONDO IMPASTO Abbiamo realizzato il nostro impasto alle 20.00, e terminato il tutto intorno alle 21.00? Bene, intorno alle 8.00-9.00 di mattina sarà pronto. Se la vostra macchina tende a scaldare parecchio, riponete l’impasto in freezer per 20 minuti, in modo da partire con una massa più fredda. Inserite nella ciotola metà del primo impasto, la farina e il malto, fate partire a velocità minima e alzate successivamente e fate amalgamare bene il composto. Quando avrete una massa liscia aggiungete l’altra metà del primo impasto e il sale. Una volta che l’impasto sarà incordato, aggiungete in più volte i tuorli e lasciate lavorare fino al completo assorbimento; dovremo assolutamente ottenere un impasto liscio, elastico e asciutto A questo punto versate in 3-4 volte la vostra emulsione, senza mai perdere l’incordatura, ed infine regolate la consistenza dell’impasto con la panna, sempre aggiunta in 2-3 volte.

SECONDA LIEVITAZIONE (ed eventuale formatura) Avete impastato intorno alle 9.00 e finito verso le 10.00? To gliete l’imp asto dalla macchina, riponetelo in un contenitore a chiusura ermetica e lasciatelo riposare 30 minuti, a circa 26-28 °C. Dopo questo periodo, ribaltate la massa sul piano, e lasciatela puntare all’aria per circa 15 minuti perché si asciughi. La nostra ricetta ha le dosi esatte per 1200 grammi di impasto; tendenzialmente, per un dolce lievitato da 1000 grammi si calcola un 10% in più, contando il peso perso durante la cottura. L’eccesso è per essere sicuri che, perdendovi per strada delle quantità durante le lavorazioni, non finiate con l’avere masse di peso insufficiente. Se doveste aver bisogno di realizzare 2 o 3 pandori, vi basta moltiplicare ogni ingrediente per la dose desiderata. A questo punto quindi pesate bocce da 1100 grammi, e formate i panetti con il tarocco senza mai usare farina. Lasciate quindi puntare sul banco per altri 15 minuti o più, fino a che la massa non sarà asciutta. Pirlate nuovamente, attendete altri 15-20 minuti e sarete pronti per la fase successiva. TERZA LIEVITAZIONE Dopo circa 1 ora di riposo (tra contenitore e banco), sono le ore 11.00. Ponete il panetto nel vostro stampo precedentemente imburrato, con la chiusura (la parte che prima era appoggiata sul piano (su una faccia laterale; coprite con pellicola e lasciate a lievitare a 26°C-28°C per 4-6 ore. Il nostro pandoro è pronto per

la cottura quando è arrivato a 2 cm dal bordo dello stampo, non uno di più, non uno di meno. COTTURA Pre-riscaldate il forno a 150°C in modalità statica; nel frattempo, riportate il dolce a temperatura ambiente scoprendolo dalla pellicola per lasciare asciugare la base. Prima di infornare, con uno stecchino praticate dei fori sulla cupola per evitare la formazione di grosse bolle d’aria. Infornate in modo che il pandoro non sia né troppo vicino alla base o alla sommità del vano cottura. Ci vorranno circa 50/55 minuti, ma in ogni caso la temperatura al cuore dovrà essere di 9°C. Negli ultimi 10 minuti, socchiudete leggermente la porta del forno, magari aiutandovi con una pallina di stagnola, in modo da far uscire il vapore in eccesso e colorare la base. Se il vostro forno non è professionale e, anzi, fatica a tenere la temperatura, scordatevi di inserirne due alla volta; in quel caso il rendimento potrebbe calare drasticamente. RIPOSO E CONSERVAZIONE Una volta sfornato il vostro pandoro, dovrà rimanere nello stampo per almeno un’ora. A questo punto giratelo, liberatelo delicatamente dallo stampo e lasciatelo raffreddare almeno 10 ore prima di confezionarlo. Per conservarlo per lunghi periodi, nebulizzate all’interno di un’apposita busta alcool puro a 95°, che ridurrà il rischio della formazione di muffe.


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It’s

Across the Pond a cura di Elena Ninotti

Christmas

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... anche in Florida!

Il Natale, negli States, segue a ruota i festeggiamenti del Ringraziamento. Come avevo scritto un mese fa, le celebrazioni del Thanksgiving furono addirittura anticipate da Roosvelt al quarto giovedì del mese, in modo da allungare il periodo tra le due festività ed avere più tempo per lo shopping natalizio. Non so se sia perché viene subito dopo una festa così importante, o se dipenda dal fatto che, comunque, festeggiare sotto le palme con almeno 25°C non sia esattamente il mood giusto, ma ho l’impressione che il Natale qui sia commercialmente meno sentito. Meno corsa al regalo per amici e parenti - si preferisce di gran lunga fare i regali ai bambini e ai coniugi - meno assalto al ristorante per il pranzo celebrativo e, soprattutto, di certo non c’è la corsa al supermercato. Ci sono però molte piccole cose che accompagnano le giornate dei più piccoli (e non solo), dal Thanksgiving al 25 Dicembre.

Molte di queste tradizioni abbiamo imparato a conoscerle dai film, ma non pensavo che fossero davvero così diffuse.

Intanto, per preparare l’albero non aspettano la nostra data simbolo, l’8 Dicembre. L’albero (vero, non di plastica) viene preparato il pomeriggio del Thankgiving. Nei giorni precedenti, la famiglia si reca presso uno dei numerosi tendoni che spuntano lungo le strade, sotto cui ci sono migliaia di abeti, pronti per essere caricati sul tetto della macchina e portati a casa. La mattina seguente, fa la sua comparsa Elf on the Shelf. Un folletto dispettoso che combina un sacco di guai e si nasconde per casa, ogni giorno in un posto diverso. Anche la scuola di mia figlia ha un suo elfetto e i bambini, la mattina, fanno a gara a chi lo vede per primo.

Le decorazioni di Natale prendono il posto di quelle per Halloween, con la stessa intensità e lo stesso sfavillio. Ci sono strade e quartieri talmente decorati, da meritare veri e propri tour turistici a pagamento, magari in calesse guidato da Babbo Natale. Ogni quartiere organizza il proprio Light Up, durante il quale viene acceso l’albero nella

piazza principale, con giochi per bambini, palle di neve (nel mio caso, in Florida, viene portata dai camion e scaricata giusto poco tempo prima), bancarelle e accompagnamento musicale. Albero, decorazioni e quant’altro spariscono poi immediatamente il 26 dicembre, visto che qui non esistono né i Re Magi, né la Befana (di cui ignorano completamente l’esistenza). Gli americani prenotano poi un servizio fotografico, in cui tutta la famiglia (animali inclusi), è vestita uguale, in tema natalizio. Queste immagini vengono poi spedite ad amici e parenti con le Christmas Card per augurare buone feste. In genere è prevista anche la versione Christmas Pijiamas, in cui tutta la famiglia indossa il pigiama natalizio uguale. Un ulteriore esercizio di “stile” (ehm) è indossare l’Ugly Sweater, ossia il Maglione Brutto per la festa aziendale. Molti Christmas Party lo prevedono come dress code e vi assicuro che sono brutti per davvero. Dal filato, assolutamente acrilico, alle applicazioni luminose (che ne impediscono il lavaggio), alle palle dorate... per non parlare dei colori: tutto richiamano, meno che un minimo concetto di eleganza. Non è così per la Location delle


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In molte città americane si usa fare il caroling, cioè andare a cantare le canzoni di Natale in giro per la città. Mai visto qui in South Florida, ma sicuramente è una cosa che avete visto in tantissimi film. Un’altra cosa molto sentita è andare a vedere lo spettacolo di The Nutcracker (lo Schiaccianoci) e guardare in TV i film di Natale, mentre si preparano i biscotti. Babbo Natale arriva la notte del 24 Dicembre e mette i regali nelle calze appese sopra al camino. È buona educazione lasciare biscotti, latte e carote per lui e le renne. Se avete mai sfogliato un libro di cucina americano, alla voce Natale troverete moltissime ricette per brunch speciali. Casserole con bacon, uova e patate, pancake speziati, cinnamon rolls...mi sono sempre

chiesta come si potesse mangiare quella roba a colazione per poi affrontare il pranzo natalizio. La risposta l’ho avuta al mio primo invito da una famiglia italo-americana per passare il Natale assieme: orario di pranzo, le 3.00 p.m! In pratica fanno un pranzo/cena che permette di passare la mattina in rilassatezza, aprendo i regali, mangiando cose buone e bevendo cioccolata coi marshmallow. Per quanto riguarda il pranzo, ci sono due opzioni. Prendere tutto pronto al supermercato oppure cucinare in casa. Il pranzo di Natale richiama grossomodo quello del Thanksgiving: tacchino, spiral Ham o Prime rib roast. Ad accompagnare, Yorkshire pudding, cavoletti di Bruxelles, purè di patate. Vi lascio la ricetta del Prime rib Roast (non per niente, qui si chiama anche Holiday Roast) , fatto con il Closed Oven Method (ossia metodo del forno chiuso); vi lascio anche la ricetta degli Yorkshire Pudding.

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feste aziendali. Fancy restaurant, bistrot rinomati, sale dei musei, tutto può essere affittato per le feste, che prevedono musica, buffet e, soprattutto, tantissimo alcol.


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PRIME RIB ROAST Innanzitutto avrete bisogno di un trancio di Prime rib, ben marezzato (quindi tipologia Prime o Choice). E’ un taglio specifico che proviene dalla sezione anteriore della spina dorsale di un manzo, dalla prima costola in avanti. Si tratta di uno degli otto primi tagli di carne del manzo e comprende alcuni dei muscoli più teneri di tutto l'animale. Non essendo tipico della cucina italiana, dovrete prenotarlo in anticipo. Tre ribs (circa tre-quattro kg) servono circa 8-10 persone. Noi ne facciamo due per quattro, considerando che gli avanzi sono buonissimi anche il giorno dopo. Due kg di arrosto vi basteranno, con avanzi, per quattro-sei persone. Una volta deciso quanto arrosto volete preparare, staccate parzialmente le costole dalla carne e legatelo, dopo aver trimmato il grasso in eccesso. Lasciatelo fuori dal frigo almeno 3-4 ore, in modo da portarlo a temperatura ambiente.

Ingredienti per 6 persone:

2-2,5 kg di prime rib / 2 cucchiai di burro morbido / 2 cucchiai di Ultimate SPOG della linea Sal’s Seasoning / 4 patate

2.

Inserite il termometro all’interno della carne, lontano dai bordi e dall’osso.

3.

Tagliate le patate a fette di circa un cm e fatene un letto per l’arrosto.

4.

Calcolate il tempo di cottura. Moltiplicare il peso esatto (in kg) del vostro arrosto per 11. Se, ad esempio, pesa 3,58 kg, dovrete cuocerlo per (3,58*11min) 39 minuti. Cuocete l’arrosto a temperatura settata per esattamente il tempo stimato. Passato questo tempo, spegnete il forno e lasciate riposare per circa 2 ore Tutta questa prima parte della cottura deve essere fatta SENZA MAI APRIRE IL FORNO.

5.

Aspettate che il termometro raggiunga 53°C-56°C, a seconda del grado di cottura desiderato. Arrivati a 56°C, levate dal forno e lasciate in rest fino a 50°C.

6.

Tip - se il vostro forno ha una ventola per il raffreddamento, potrebbe essere un problema. Usate un termometro a doppia sonda e, se vedete che la temperatura interna della camera scende troppo, potete accendere il forno a 130°C per 5-6 minuti, in modo da riportare la camera alla temperatura di cottura. Non superate i 56°C, è un taglio che va servito rosato. Chi desidera la carne più cotta, può mangiare le estremità laterali.

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PREPARAZIONE: 1. Accendete il forno a 230°C se ventilato o 250°C se statico. Impastate il burro con il rub e spalmate abbondantemente il pezzo di carne.


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YORKSHIRE PUDDING

Ingredienti per 12 pezzi: 5 uova / 250 ml di panna liquida / 125g di farina / 2 cucchiaini di sale / sugo dell’arrosto filtrato (parte grassa)

2.

Recuperate il grasso dell’arrosto e versatene un cucchiaino abbondante negli incavi di una teglia per muffin.

3.

Mettete la teglia in forno caldissimo per 2 minuti.

4.

Versate la pastella fino a riempire l’incavo per 2/3. Infornate per circa 13/14 minuti finchè non si vedono scoppiati.

5.

Servite in un cestino, in accompagnamento al Prime rib roast e al restante sugo dell’arrosto sgrassato.

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PREPARAZIONE: 1. Accendete il forno a 220°C statico. Mescolate uova, sale e panna e poi setacciate il tutto dentro la farina, mescolando per avere una pastella liscia senza grumi.


BBQ4All: FROM ZERO TO HERO L'importanza del SEASONING

a cura di Emiliano Nencioni

Trattare un alimento da crudo, preparandolo nel modo migliore alla cottura, specie in griglia, ci aiuta ad avere piatti più complessi, interessanti ed in generale migliori. La serie di pratiche ed ingredienti per migliorare la nostra materia prima si chiama seasoning: tradotto, significa aromatizzare e modificare la struttura del cibo. L'utilizzo di elementi aromatizzanti o di accostamento, come le spezie, il vino rosso o una salsa, ci permettono di migliorare, di rendere più complesso e di equilibrato il gusto e la consistenza dei cibi, in special modo la carne, che vogliamo cucinare. Facciamo adesso un piccolo excursus tra i vari metodi coi quali si può condizionare e aromatizzare la carne che tanto amiamo cucinare in griglia. L’argomento sarà trattato in modo approfondito

dai nostri coach nei video della Grill & Smoke to Perfection Masterclass. ERBE E SPEZIE Possiamo utilizzare le erbe sia fresche che essiccate, ricordando però che hanno sapori completamente differenti. Normalmente, la differenza principale nell’utilizzo comune tra erbe e spezie sta nel fatto che cataloghiamo come erbe gli aromi a base di foglie verdi mentre come spezie gli elementi semi, bacche, gemme, foglie, corteccia o radici di piante commestibili, interi o macinati, quasi sempre essiccati. In ambito culinario, le erbe e le spezie sono ampiamente utilizzate fin dall’antichità per conferire al cibo un certo sapore e per attivare precisi stimoli tramite i nostri recettori olfattivi e gustativi.

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SALAMOIA Anche se nel pensiero collettivo è spesso associata al solo apporto di sapidità negli alimenti, è in realtà un'arma molto efficace per aumentare il contenuto di liquidi di un alimento a base di proteine e per migliorare la sua ritenzione idrica durante la fase di cottura. Si tratta di una soluzione di acqua e sale (a cui possono essere aggiunti anche altri aromi) in cui i prodotti alimentari, più comunemente le carni, vengono immersi per un dato periodo di tempo per migliorarne la struttura, per migliorarne il sapore (beneficiando non solo della sapidità ma anche dell'apporto fornito dagli aromi secondari) e infine per aumentare la ritenzione idrica di tagli magri o che devono essere cotti in modo prolungato, al fine di mantenerli umidi fino al termine della cottura.

MARINATURA È sicuramente la tecnica più conosciuta nell’ambito del seasoning e risulta familiare anche ai griller meno esperti. Si tratta di una miscela su base acida che modifica strutturalmente gli alimenti mediante una vera e propria aggressione chimica, che deve essere accuratamente calibrata e controllata mediante il pH. Se nella salamoia il principio attivo ed efficace è esclusivamente il sale, che di fatto è l’unica sostanza capace di generare un incremento di sapidità e un’importante ritenzione di liquidi, nella marinatura, invece, l’effetto principale che otteniamo è la modificazione della struttura delle proteine, mediante uno stress chimico basato principalmente sul pH della componente acquosa della marinata, circoscritto alla superficie dell’alimento; tutti gli altri componenti, come aromi e grassi, compartecipano solo alla funzio-


RUB Sembra una parola un po’ strana, ma alla fine con rub si intende un qualsiasi mix di aromi secchi che si distribuisce sugli alimenti da cuoceree e che, con il calore, si fissa a formare la classica crosticina saporita e speziata (in gergo chiamata bark). Già un misto di sale e pepe da distribuire sulla vostra ciccia può essere chiamato Rub. Tuttavia nell'uso comune si tende a considerare Rub un mix appena più complesso, composto da almeno tre o quattro ingredienti, con erbe e spezie saggiamente proporzionate. Ogni mix è adatto a specifiche preparazioni, a tagli e soprattutto a metodi di cottura.

SALSE Sono tutti portati a pensare che la salsa sia solo quella dei fast food, con cui si riempiono i panini allo scopo di mascherare il pessimo sapore di carni di scarsa qualità. In realtà si possono definire salse sia tutti i fondi di cottura opportunamente addensati, legati o emulsionati, sia moltissimi altri condimenti preparati separatamente, costituiti da alimenti vegetali o animali che vengono processati mediante la combinazione di tecniche di estrazione, cottura e fermentazione. Ora sapete dunque che l’intingolo addensato che utilizzava la nonna per accompagnare l’arrosto della domenica era a tutti gli effetti una salsa. Le salse hanno una grande capacità, come gli altri strumenti di seasoning, di equilibrare e migliorare la percezione di un alimento durante il consumo e, come negli altri casi, vanno ovviamente ben calibrate e utilizzate nei modi corretti.

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ne di insaporimento ed aromatizzazione del cibo. Dunque, solo le marinate che contengono sale apportano modificazioni sulla struttura profonda della carne con effetti sovrapponibili a quelli di una salamoia standard.


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La ricetta scientifica a cura di Gianfranco Lo Cascio

e t t e l e Om S

e delle buone uova strapazzate richiedono pazienza, una omelette perfetta richiede coraggio - una omelette di due o tre uova si cuoce in meno di un minuto.

Una chiave importante per una omelette di successo è contenuta nel nome del piatto, che dal Medioevo è passato attraverso varie forme - alemette, homelaicte, omelette (lo standard francese) - e deriva in definitiva dal latino lamella, " lastra sottile”. Il volume delle uova e il diametro della padella dovrebbero essere bilanciati affinché la miscela formi uno strato relativamente fine; altrimenti la massa strapazzata impiegherà troppo tempo a cuocere e sarà difficile da tenere insieme. La solita raccomandazione è tre uova in una padella di medie dimensioni, che dovrebbe avere una superficie ben oliata o antiaderente in modo che l’omelette si stacchi senza lasciare residui.

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Escoffier descrisse l'omelette come delle uova strapazzate tenute insieme in un involucro coagulato, una “pellicola” di uovo cotta che passa dallo stadio umido e soffice a quello asciutto e sodo, in modo tale da contenere e modellare il resto. La preparazione richiede una padella più calda di quella per le uova strapazzate. E una padella rovente, badate bene, implica una cottura veloce per prevenire il disastro.


La “pellicina” di un'omelette può essere formata sia alla fine della cottura, sia fin dall'inizio. La tecnica più veloce è quella di strapazzare vigorosamente le uova con un cucchiaio o una forchetta in una padella calda finché non iniziano a rapprendersi, poi spargere il composto in un disco grezzo, lasciare che il fondo si consolidi per qualche secondo, scuotere la padella per rilasciare il disco e ripiegarlo su se stesso. Si ottiene una massa più consistente e dall'aspetto più uniforme se le uova vengono lasciate indisturbate per un po' per permettere che la base si rapprenda. La padella viene poi scossa periodicamente per sollevare la superficie dello strato esterno, mentre la parte ancora fluida viene mescolata fino a renderla cremosa, e il disco infine piegato e fatto scivolare su un piatto.

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Un altro modo è quello di aspettare che il fondo del composto si solidifichi, poi si solleva un bordo con la forchetta e si inclina la padella per far scorrere sotto la parte liquida dell'uovo. Questo viene ripetuto fino a quando la parte superiore non è più fluida; la massa viene poi ripiegata. L’omelette soufflée, una versione dalla consistenza particolarmente leggera, si ottiene montando le uova fino a quando sono belle spumose, o montando gli albumi separatamente e unendoli delicatamente alla miscela di tuorli e aromi. Il composto viene versato in una padella riscaldata e cotto in forno a temperatura moderata.


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3 SEGRETI

per uova più soffici

Le uova strapazzate dei sogni dovrebbero essere un montino di fiocchi di uova soffici e cremosi. Dovrebbero essere abbastanza cotte da mantenere la loro forma quando vengono tagliate ma abbastanza morbide da essere mangiate con un cucchiaio. Un'omelette fatta a mestiere deve risultare abbastanza soda da poter essere arrotolata o piegata, ma le uova devono conservare tenerezza e cremosità. La realtà è che troppo spesso entrambi i piatti si rivelano asciutti, duri o gommosi. La cottura eccessiva è uno degli errori più comuni, ma le uova hanno bisogno di un aiutino - sotto forma di grasso - per rimanere cedevoli e goduriose, anche quando sono completamente cotte.

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Quando le uova vengono riscaldate, l'acqua che contengono si trasforma in vapore. Allo stesso tempo, i filamenti proteici si dispiegano, si attaccano l'uno all'altro e alla fine formano una maglia a reticolo. Idealmente, queste proteine formano un intreccio che è in grado di trattenere l'acqua, il che renderà le uova cotte umide e morbide. Tuttavia, con la cottura prolungata, queste proteine reticolate formano legami molto stretti che striz-

zano via il liquido. Il risultato finale? uova gommose e secche. La maggior parte delle ricette di uova strapazzate contengono un qualche tipo di latticino, di solito il latte. Il grasso del latte ricopre le proteine e rallenta il processo di coagulazione. L'acqua nei latticini fornisce un'umidità aggiuntiva che aiuta a mantenere le uova strapazzate morbide. Questo liquido aggiunto produce anche più vapore, che si traduce in uova strapazzate più soffici e leggere. La scienza delle omelette è simile ma la tecnica usata per prevenire l'eccessiva coagulazione è diversa. Mentre le uova strapazzate devono essere soffici, un'omelette è più compatta (deve essere arrotolata o piegata). Non c'è bisogno quindi di un liquido aggiuntivo o di vapore. Infatti il liquido extra prolungherebbe il tempo di cottura e renderebbe l'omelette più dura. Molto meglio utilizzare il burro, che contiene molto grasso e pochissima acqua. Il grasso nel burro ricopre le proteine dell'uovo e restituisce un'omelette soda ma ancora tenera.


Fate questo esperimento: preparate due omelette, una con il burro all’interno e una senza. Poi prendete due oggetti pesanti e poggiateli al centro di entrambe le omelette. Noterete che l’omelette che contiene burro verrà schiacciata senza pietà, mentre quella senza mostrerà solo una leggere depressione. Perché questa drammatica differenza? Dal momento che le uova nelle omelette senza burro contenevano poco grasso che interferiva con la coagulazione, la rete proteica reticolata era in grado di formare legami più stretti. Questi legami più stretti si sono tradotti in una frittata più dura e resistente, ottima per sostenere un sacco di peso, ma non per essere mangiata. Quando i cubetti di burro si sono sciolti nelle omelette fatte con il burro, il grasso ha impedito ai filamenti proteici nelle uova di formare legami più stretti. Il risultato è un'omelette che mantiene la sua forma ma risulta comunque molto soffice. #02. SALARE LE UOVA PRIMA DELLA COTTURA Non aspettare a salare le tue uova strapazzate. Salare prima della cottura ci dà una cagliata tenera e umida. Alcune fonti suggeriscono di aspettare a salare le uova strapazzate fino a poco prima di servire. Il pericolo, suggeriscono, è che il sale sbattuto nelle uova crude può renderle acquose. Per scoprire se questa idea è valida, abbiamo salato le uova sbattute un minuto prima della cottura e un altro lotto subito dopo averle strapazzate. Ai nostri assaggiatori non sono

piaciute le uova salate dopo averle strapazzate, trovandole gommose e sode. In confronto, le uova salate prima della cottura erano tenere e umide. (Con questi risultati in mano, ci siamo chiesti se salare le uova sbattute un'ora prima della cottura le avrebbe rese ancora più tenere. Non è successo; erano quasi identiche alle uova salate appena prima della cottura). La scienza qui è abbastanza semplice. Il sale influisce sulla carica elettrica delle molecole proteiche nelle uova, riducendo la tendenza delle proteine a legarsi tra loro. Una rete proteica più debole significa che le uova hanno meno probabilità di coagularsi eccessivamente e si cuoceranno tenere, non dure. #03. PRERISCALDARE LA PADELLA LENTAMENTE La modalità con cui preriscaldate la padella prima di aggiungere le uova è cruciale per ottenere un'omelette cremosa con un esterno uniformemente dorato. Invece di preriscaldare a fuoco medio-alto per due o tre minuti (come fanno tutti), preriscaldate la padella a fuoco basso per ben 10 minuti. Su un fornello a gas, la fiamma alta lambisce i lati della padella, creando punti caldi sui bordi esterni del fondo. Questi punti caldi, a loro volta, possono favorire la formazione di spot, di macchioline marroni bruciacchiate sul fondo della frittata. Preriscaldare a fuoco lento assicura che il calore sia distribuito più uniformemente e vi concede più tempo per aggiungere le uova. A fuoco alto, ci vogliono solo 30 secondi perché la padella passi da una temperatura di 120°C a una temperatura di 150°C gradi (che rassoda le uova). Per dimostrare l'importanza di preriscaldare alla giusta temperatura (bassa), ho distribuito uno strato di Parmigiano grattugiato sul fondo di due padelle, poi ne ho riscaldate una a fuoco medio-alto e l'altra a fuoco basso. Il formaggio riscaldato a fuoco medio-alto si è bruciacchiato sui bordi, mentre il formaggio riscaldato a fuoco basso si è sciolto e ha preso un colore uniforme.

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#01. CUOCERE LE UOVA CON UN GRASSO Ma cosa succede quando le uova cuociono con un grasso? • uova crude: i filamenti di proteine globulari sono aggrovigliati e intervallati da molecole d’acqua. • uova cotte senza grassi: la cottura fa sì che i filamenti proteici si allineino e si leghino insieme. La cottura continua strizza via le molecole d’acqua. • uova cotte con un grasso: i grassi rallentano questo processo, mantenendo le uova soffici e umide.


La ricetta scientifica delle

OMELETTE

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Dose per 2 omelette 6 uova grandi, fredde 30 gr di burro non salato, tagliato in 2 pezzi 1/2 cucchiaino di olio extravergine di oliva (2.5 ml) 2 cucchiai di formaggio Gruyère grattugiato (15 gr circa) 4 gr di erba cipollina fresca tritata Sale q.b. Pepe q.b. Procedimento 1. Tagliate il pezzo di burro a metà e fondetene una parte. Nel frattempo, scaldate l'olio in una padella antiaderente da 20 cm di diametro a fuoco basso per 10 minuti. 2. Rompete 4 uova in una ciotola media e aggiungete due tuorli; conservate gli albumi per altro. Perché togliamo gli albumi? Perché altrimenti dovremmo aggiungere più burro, e l’omelette risulterebbe pesante. Aggiungete 2 grammi di sale e due pizzichi di pepe. Rompete i tuorli con una forchetta, poi sbattete le uova a ritmo moderato, con circa 80 colpi, fino a quando i tuorli e gli albumi sono ben miscelati. Con una forchetta o una frusta, l’importante è non montarle troppo. Unite il burro fuso. 3. Quando la padella è completamente riscaldata, usate della carta assorbente per pulire l'olio, lasciando un sottile strato sul fondo e sui lati. Aggiungete circa 10 grammi di burro nella padella e scaldatelo fino a quando non si scioglie. Spargete il burro con cura, aggiungete il composto di uova e cuocete a calore a medio-alto. Usate 2 bacchette cinesi o il retro di un cucchiaio di legno per strapazzare le uova (la forchetta righerebbe la padella), facendo un rapido movimento circolare intorno alla padella, raschiando l'uovo cotto dai lati, fino a quando le uova sono quasi cotte ma ancora un po' liquide (ci vorranno dai 45 ai 90 secondi). Spegnete il fuoco, allontanate la padella dal fornello e appiattite le uova in uno strato uniforme usando una spatola di gomma resistente al calore. Cospargete l'omelette con il formaggio e l’erba cipollina. Coprite la padella con un coperchio ermetico e lascia riposare per 1 minuto. 4. Scaldate la padella a fuoco basso per 20 secondi, togliete il coperchio e usando una spatola di gomma, allentate i bordi della “frittata” dalla padella. A questo punto potete procedere in due modi: 5a. Tecnica facile Mettete un foglio di carta forno su un piatto riscaldato e fate scivolare l'omelette fuori dalla padella sulla carta in modo che l'omelette sia piatta e penda circa 2/3 cm dalla carta. Arrotolate l'omelette in un cilindro e mettete da parte. Riscaldate la padella a fuoco basso e scalda 2 minuti prima di ripetere le istruzioni per la seconda omelette, iniziando dal punto 2. Servite. 5b. Tecnica più difficile Sollevate il lembo dell’omelette sul lato sinistro e date un colpetto alla padella per aiutarvi ad arrotolare verso destra. Premete contro il fondo per dare all’omelette la forma di cilindro perfetto. Servite.


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VARIANTE #01

OMELETTE COUNTRY STYLE

Dose per 2 omelette 1 dose di miscela per omelette (vedi ricetta Omelette Scientifica) 100 gr di prosciutto cotto arrostito 100 gr di formaggio svizzero grattugiato

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Procedimento Realizzate la ricetta della Omelette Scientifica fino al punto 4. 5. Dividete idealmente l’omelette in due semicerchi e condite la metà superiore con il formaggio grattugiato ed il prosciutto. 6. Ripiegate l’omelette a mezzaluna e servite immediatamente.


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VARIANTE #02

TAMAGO YAKI aka l'omelette giapponese Dose per 2 omelette 4 uova 60 gr di dashi 10 gr di salsa di soia 7,5 gr di mirin 7,5 gr di zucchero semolato Q.b. di sale Q.b. di olio di semi di arachidi

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Procedimento Realizzate la ricetta della Omelette Scientifica fino al punto 4. 5. Con la mano destra, pizzicate l’omelette al centro con le bacchette, mentre con la sinistra ruotate la padella verso destra, avvitandola. Tenete la presa per 30 secondi e adagiate su una porzione di riso saltato.


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VARIANTE #03

OMELETTE TORNADO

Dose per 2 omelette 1 dose di miscela per omelette (vedi ricetta Omelette Scientifica)

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Procedimento 1. In una bacinella, amalgamate le uova con i condimenti. 2. Scaldate una padella quadrata e ungetela con olio di semi. Versate uno strato sottile di miscela d’uovo e distribuitela bene nella padella. 3. Arrotolate la frittata e spingete il rotolo in avanti. Verste altro composto per coprire nuovamente il fondo della padella, sollevando leggermente il primo rotolo in modo che il secondo strato possa aderire al precedente. Procedete fino al termine della miscela di uovo. 4. Avvolgete il rotolo ottenuto nel tappeto di bambù per sagomarne la forma. 5. Lasciate raffreddare a temperatura ambiente e tagliate a fette di 2 cm di spessore. Accompagnate con la salsa di soia e il daikon grattugiato.


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Clip Show! Seguo.

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a cura di Emiliano Nencioni


Una cosa analoga avveniva nelle sit-com fino agli anni ‘90, quando con la scusa di recuperare i ricordi dei protagonisti si costruiva un episodio intero con i ritagli della stagione trascorsa, il famigerato clip show.

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È di nuovo quel momento dell’anno: dicembre, la fine di un ciclo, il mese delle rese dei conti e dei progetti per l’anno nuovo, delle giornate corte e buie. Per chi come me va in forte ansia solo al sentire il tipico effetto sonoro di “il tuo contatto sta scrivendo” tipico dei servizi di messaggistica istantanea, è un momento tensivo, ricco di auto esami, come se il solo dover cambiare il calendario appeso alla parete implicasse lo scadere di qualche contratto inconscio. Tradizionalmente, per la rubrica Seguo è il momento di rileggere gli appuntamenti apparsi nei mesi precedenti e tirare le somme di evoluzioni, involuzioni, trend e ripensamenti.


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La rubrica Seguo (più precisamente “Seguo.” col punto) nasce assieme al Magazine, nel numero zero, con intenti prettamente canzonatori: è il momento leggero e dissacrante, due paginette a fine numero da utilizzare per prendere bonariamente in giro alcuni comportamenti o idiosincrasie degli utenti della Community che si fossero resi protagonisti di moderazioni particolarmente feroci o di reazioni spropositate. L’appuntamento sarcastico scritto da chi doveva dirigere la moderazione di un gruppo che stava esplodendo in fatto di dimensioni e di volume di post. Con le dimensioni del gruppo però si sono ingigantiti anche i fenomeni riscontrabili, e tutto è diventato un piccolo laboratorio di sociologia, un sottinsieme di sistemi più complessi, con i problemi relazionali che questo comporta. Anche la Seguo è diventata più complessa, in un tentativo continuo di comprendere e spiegare alcuni fenomeni tipici, spesso irritanti, riscontrabili nelle migliaia di interazioni quotidiane: rileggere tutto assieme, devo ammetterlo, “fa strano”, specie se, come ho fatto io poco prima di scrivere queste righe, lo si fa a ritroso.

Invece di procedere verso uno scioglimento della tensione, come succederebbe in una narrativa tradizionale, sembra di andare dal particolare al generale, con toni e insofferenza crescente. Se mai si prospettasse il progetto editoriale della pubblicazione di un Almanacco Delle Seguo, è proprio a ritroso che suggerirei di compilare la raccolta. (Calmi, non preoccupatevi: non avverrà.) A un certo punto abbiamo parlato di quelli che iniziano i post attaccando preventivamente eventuali commentatori sgradevoli, e che lo concludono inserendo, loro stessi, la sgradevolezza che inizialmente temevano: L’omologo, in termini di coefficiente di odiabilità, della orrenda “foto dei miei piedi al mare” nel mondo del grilling è stata per molti anni la foto, ormai caduta un po’ in disuso, della fetta di brisket talmente morbido e cotto così bene da piegarsi attorno a un dito. Alla milionesima reiterazione è diventata antipatica a tutti: era un momento di narcisismo, di auto incensamento, di amichevole sfida verso gli altri patiti di barbecue, ma aveva un gran pregio:


Stessa cosa con i post con le premesse strafottenti e le chiose irritanti. É come servire la polemica su un piatto d’argento: “non solo sono conscio che il mio post ha queste debolezze e che questo aspetto potrebbe farti ironizzare, ti sbeffeggio già prima che tu pensi di intervenire, e mi rendo in qualche modo irresistibilmente insopportabile ai più”. Ed è così che si compie un piccolo disastro. È una mia impressione, o di post così, costruiti con premessa strafottente - chiosa irritante, ne abbiamo visti molti molti meno? Che abbia colpito nel segno? Molto più realisticamente, si sono venuti a noia da soli, come precedentemente letto proprio sulla Seguo. Il venire a noia. L’espressione è evocativa, dinamica, cinematica, è quasi un quadro: il fenomeno stesso di venire a noia è un moto, un’escalation, il raggiungimento di un (nefasto) traguardo, uno spannung circostanziale. Il venire a noia non è semplicemente una constatazione di fastidio, un immediato sen-

so di sgradevolezza, no, è molto più subdolo, è un sentimento mutevole: è una precedente probabilmente innocua sazietà che, eccessivamente alimentata, si trasforma in disgusto. É “ok, bravo, ma basta così” che si trasforma in “Sinceramente, hai rotto”. Era inevitabile, siete venuti a noia. Siamo venuti a noia, un po’ tutti. Non abbiamo saputo fermarci in tempo e i nostri tormentoni sono diventati stantii come una barzelletta di Gino Bramieri (sicuramente eccellente a suo tempo non lo metto in dubbio), le nostre uscite spassosissime si sono evolute in immancabili appuntamenti con l’imbarazzo. [...] Probabilmente, per quanto sia rassicurante e appagante sentirsi parte di un movimento, schierarsi e agire da indomito soldatino, sulla lunga distanza combattere la guerra di altri stanca. Probabilmente dopo l’entusiasmo iniziale dell’affiliazione militante, al comune griller nostrano sarà tornata anche la voglia di mangiarsi il frutto delle proprie tribolazioni senza onorare una bandiera, o quella di scorrere il proprio feed di notizie senza dover spiegare perché l’utilizzo del reverse searing non renda automaticamente meno virili. Quella del volersi sentire parte di un gruppo, ma-

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non era polemica. Non attaccava, non cercava la rissa o l’umiliazione: affermava solo di aver conseguito un certo risultato.


gari di un gruppo “onorabile” come quello dei maschi alfa è un’altra problematica trattata su queste pagine, sempre con le molle, sempre in punta di piedi per non essere fraintesi o per non essere tacciati di demagogia a buon mercato.

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I maschi alfa sui social network, una categoria completamente autoreferenziale di cui si può comodamente entrare a far parte con il solo sforzo di scrivere “maschi alfa come me” o “noi maschi alfa” commentando un’altra persona in odore di alfosità. Categoria a cui suppongo si potrà appartenere a vita, visto che non si è mai visto nessuno ritirare un tesserino da alpha male, e nessuno si è mai preso la briga di considerare se azioni, propositi, atteggiamenti fossero effettivamente omologabili e afferibili a questa élite di virile socialità. Ce ne fosse mai uno onestamente fiero e soddisfatto di appartenere all’invidiabile classe beta, o a proprio agio nel dichiararsi un rispettabile gamma. Sono tutti ben adulti, quasi vecchiotti. Magari, forse, dico forse, c’è dietro una mamma che ha affermato per anni “sei bello sei bravo tu sì che puoi fare tutto quello che vorrai”, e allora li vedi tutti convinti di far parte di una casta superiore, per poi coniugare i verbi con procedure non deterministiche - anzi direi altamente stocastiche.

Vogliono essere Alfa, ma non tanto per il prestigio: è più una cosa virile, pseudo-sessuale, c’entra più l’arroganza, una strana voglia di allontanarsi dalla sensibilità, dalla delicatezza e dalla sincerità. Viene premiato l’insulto, l’ostentazione (di cosa?), la costruzione di una stage persona piena di autocompiacimento. La giustificazione sta nel branco. Fanno gruppo, e si giustificano l’un l’altro l’attribuzione dell’etichetta Alfa: più che una casta, un organismo-alveare, una coscienza collettiva autoalimentata e autoverificata, potente in massa e insignificante nei termini del singolo individuo. Che fatica stare sui social e doversi sempre comportare da persone di successo, arrogantelli, machissimi. Solo vittorie, solo successi, solo conferme di “avercela fatta”, una tensione agonistica dilaniante. Eppure, è matematico, se è sempre una gara e qualcuno vince, gli altri perdono: che fine fanno? Avranno i mezzi per elaborare la sconfitta? In un Giugno particolarmente intimistico e introspettivo la Seguo si è occupata anche di questo: Vi diamo i mezzi per essere i migliori, ma forse non ci siamo concentrati troppo sullo strutturarvi ad affrontare il fallimento: nutriamo il vostro ego, fabbrichiamo senza sosta gli esperti di fiamma più (legittimamente?) tronfi d’Italia isole compre-


La quantità di substrato e di allegorie presenti qui sopra è lasciata alla vostra libera interpretazione, e alla gravitas che pensate di poter attribuire a una rubrica scemotta che riempie le ultime le pagine di un bellissimo magazine che parla di cottura su fiamma. Il procedere a ritroso si fa sempre più interessante, illuminante e chiarificante, quando risalendo al mese precedente ci imbattiamo nel concetto di perdono e della sua parte soverchiante, il perdono vendicativo (ti perdono affinché tu possa sentirti in colpa in maniera più pesante, perchè perdonandoti implico che la colpa sia veramente tua), ovviamente con necessari parallelismi al mondo del grilling. Probabilmente il principale precursore di un perdono sensato è il pentimento. No, non parlerò di aspetti mistici o morali. Quando una parte annuncia un pentimento, l’altra parte può perdonare senza che si sospetti di perdono vendicativo; a questo punto l’atto può essere ripetuto anche a parti inverse, portando a una dissoluzione reale e (ottimisticamente parlando) definitiva del torto e del sentimento di vendetta. Senza pentimento non c’è ammissione di colpa, e il perdono è in questo modo imposto, diventando di fatto l’ennesima soverchieria, l’ennesimo sopruso di cui lagnarsi in interminabili commenti ripetitivi, reiterati, pleonastici, mortalmente noiosi. É quasi inevitabile che l'unica reazione “digitalmente attuabile” e minimamente avvicinabile al

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se, e mai una parola su come non farsi sopraffare dal naufragio e dal tracollo dei vostri gloriosi propositi. [...] Da autorità incontrastate della griglia, beniamino delle folle e dei commensali che volevate essere, vi ritrovate ad essere il rovinatore di pomeriggi, l’indignatore di zie, il piangitore di bambini, la delusione incarnata. Scatta un meccanismo perverso: l’ipotesi della fuga. Spiego meglio: “Basta, chi me lo fa fare, quasi quasi smetto con queste cotture, tanto non vengo apprezzato, smetto anche di grigliare, partecipo solamente alle grigliate di altri, borbottando in un angolo” Buone notizie! Se avete questa reazione non avete voglia di farla finita con le grigliate, avete solo voglia di farla finita con le delusioni. [...] Ma la fuga non è dalla grigliata, la fuga non è dalla passione della cottura scientifica, e accorgersi di questo particolare è di fondamentale importanza. La fuga che il vostro animo vi implora di attuare è quella dalle reazioni tossiche. Volete che a sparire nel più breve tempo possibile siano gli sguardi di disapprovazione, non quei tre chili di Denver Steak in congelatore. Ripetete ad alta voce: non è voglia di farla finita con le grigliate, è la stanchezza, è la voglia di vincere; non volete smettere di grigliare, volete smettere di grigliare “non capiti”. Non è una resa, è una fuga!


perdono, in un contesto di social network, di continui copia incolla e screenshot che riportano a galla vecchie ferite, sia l’ignorarsi. Continuare così a scrivere, a leggere, a sperimentare tecniche e convinzioni, mantenendo la ferrea volontà di non rispondere, non immischiarsi, non continuare ad alimentare la fornace delle ripicche e dell’odio; passare oltre, rendersi impermeabili, ignifughi.

1328 - Almanacco 2021

Che l’uso sconsiderato di tormentoni e espressioni inflazionate irriti i lettori superstiti della Seguo è ormai appurato, ma nella primavera passata mi sono particolarmente incistito su un motteggio che tardava troppo a diventare desueto e demodè: “ma lo fanno anche da uomo?” Davvero siete così a disagio con la vostra percezione di mascolinità da voler rimarcare che una cosa, un bene, un oggetto, un servizio, esista specificatamente “da uomo”? Qualsiasi cosa ricordi una dimensione più delicata, meno assertiva, più attenta alle necessità altrui, appare ad alcuni “poco da uomo”: alcuni esempi famosi possono essere il monopattino elettrico, la sigaretta elettronica, la birra piccola, i pantaloni con l’orlo eccessivamente alto. “Molto da uomo” sembra configurarsi, da una veloce ricerca, il menefreghismo, la mancanza di attenzioni verso l’ambiente o le minoranze, l’”ignoranza” (in questo contesto intesa come genuina rozzezza e mancanza di scrupoli) e una serie di atteggiamenti satelliti tipici da sitcom americana dei primi anni 60. [...]Si usa “perché si usa”: Per imitazione, spesso con nessuna o pochissima volontà di nuocere o screditare qualcuno. Ne ho le prove: svariate volte, lamentandomi dell’uscita poco felice, mi sono visto rispondere “ma lo dico solo come una battuta fra noi, lo diciamo sempre”, “ma quel tizio lo scrive e riceve vagonate di like” e ovviamente il passepartout della vita digitale “ma fattela una risata ogni tanto”. [...] “Si fa per scherzare” non esclude che la cosa dia fastidio, offenda, secchi, stufi, irriti, in moltissime occasioni di cui, beninteso, la sconsiderata “lo fanno anche da uomo” funge solo come esempio e capro espiatorio. Chi non è cattivo volontariamente è solo fastidioso inconsapevole. Dice cose, scrive cose,

e non capisce quanto stia irritando o adombrando il prossimo. Ed ecco che ancora una volta giunge a noi in aiuto la deflagrante sconquassante e megatonica arma della disapprovazione, micidiale presso qualsiasi avatar digitale in piena crisi tecnoesistenziale. Niente commenti, niente like, niente strizzatine d’occhio o gomitate complici. Solo “smetti”. Non cattivi dei fumetti in completino viola e guanti verdi, quindi, ma fastidiosi inconsapevoli. Nel nostro percorso a ritroso troviamo questo concetto trattato all’inizio dell’anno, dove si scandaglia la fauna, sorprendentemente banale e ordinaria, di un gruppo di “odiatori incalliti”. La fauna umana che ti aspetteresti di trovare in un gruppo facebook completamente dedito alla derisione e all’insulto continuo e reiterato non è esattamente quella che, all’atto pratico, in realtà si rivela. Al posto di disagiati e incattiviti personaggi ai margini della società, complottisti, diseredati, non è raro trovare paciosi commercialisti, pasticcieri, fustacchioni pseudobellocci con le sopracciglia ad ala di gabbiano, serafici padri di famiglia col profilo di coppia e gigantografie di prole adorata, analisti informatici competenti e di chiaro successo personale e lavorativo. Nessun volto emaciato e spigoloso alla Nosferatu di Murnau, nessun reietto abbrutito autocostrettosi davanti allo schermo a cibarsi solo di patatine e Nutella, in un trionfo di acne e barba tempestata di briciole. Gente normale, che al riparo da occhi indiscreti - e voglio sperare anche dalla moglie/madre della prole - si prende una breve e incolpevole pausa dalla dignità personale. Si esaurisce qui un anno di equilibrismi narrativi e funamboliche passeggiate sull’orlo del non detto, giocato, con alterne fortune, tra l’inaspettato e il sottinteso. D’altronde, come scrivevo nell’unica parte riutilizzabile della Seguo di Gennaio 2021, “Per sconfiggere il bullo serve una sorpresa.” (Alejandro Jodorowsky)

Emiliano Nencioni




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