BBQ4All Magazine numero 22 - Ottobre 2020

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N°22/ANNO 2 - OTTOBRE 2020

Babelica Sicilia come si preparano: Insalata di razza, Polpo e patate, Sugo di moscardini, Cous cous al pesto, Lasagne al pesce spada, Paella di Mazara del Vallo, Parmigiana di spada, Involtini e polpette di cavallo, Panino con la milza, Cotoletta alla palermitana, Iris fritte alla ricotta e cioccolato

Fuori dalla zona di comfort food: la Shepherd’s Pie l'editoriale di Gianfranco Lo Cascio

Chef’s Table BBQ: una recensione disallineata Come si fa: la ricotta

La ricetta scientifica:

le Arancine


Direttore Editoriale Rossella Neiadin

Redattore Capo Michela Bongiorni

Redazione

Enio Berton Virgilio Brunetti Tommaso Buccafurri Nunzia Clemente Roberto Dal Bosco Tommaso Di Gregorio Salvatore Di Mento Luca Gallozza Mariangela Ibba Gianfranco Lo Cascio Riccardo Meniconi Giovanni Minelli Emiliano Nencioni Stefania Pompele Andrea Spaggiari Alessandro Trezzi Carlo Trono Alberto Zonghetti

Realizzazione Grafica

Impaginazione Carlo Trono Illustrazioni di Eleonora Castagna e Ozzy Bellesi Fotografie di Rossella Neiadin, Luca Gallozza, Tommaso Buccafurri, Elisa Giuli

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I


IN DI Rubriche

Editoriale di Gianfranco Lo Cascio - La Shepherd's Pie

04

Diventare degustatore - il senso del TATTO 12

18 Introduzione 23

Dispositivi e accessori - Weber Smoke Fire Speciale Sicilia -

Speciale Sicilia

Introduzione alla Gastronomia Siciliana

24

Insalata di Razza 32

Insalata di Polpo 34 Sugo di Moscardini

36

Cous Cous al pesto di basilico

38

Lasagne al Pesce Spada

40

Paella di Mazara

42

Parmigiana di Spada

46

Caponata di Pesce Spada

48

Polpette e Involtini di Cavallo

50

Pani ca meusa

56

Cotoletta alla Palermitana

60

Iris alla ricotta con scaglie di cioccolato

64

Approfondimenti

Cultura - Arancino o Arancina?

68

74 Arte casearia - La ricotta 82 Recensioni - Chef's Table BBQ 86 La ricetta scientifica - Le arancine 90 Arte Bianca - La Mafalda siciliana

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Seguo - I pedanti vetrinizzati 102


Ottobre 2020 - 4 fotografie di Rossella Neiadin


Editoriale di Gianfranco Lo Cascio

Una ricetta perfetta per l'autunno:

la

Shepherd’s Pi e migliore del mondo Fuori dalla zona di comfort food

slegato dagli altri. Poi andremo ad assemblare il tutto.

Mantengo la mia promessa e vi svelo la ricetta completa che vi avevo anticipato tempo fa in Community: la Shepherd's Pie.

Ve lo dico, è una procedura rognosa da morire. E vi serve il sous vide. Se non lo avete, potrete cogliere gli spunti e applicare la tecnica utilizzando altri strumenti. Ma sarà un vero bagno di melma.

La ricetta classica è abbastanza semplice da preparare: si mettono a soffriggere in una padella di ghisa, in olio e burro, sedano, carote e cipolle; si aggiunge la carne e si fa brunire per bene. Dopo questa operazione si aggiunge il concentrato di pomodoro, un po’ di salsa Worcestershire, un po’ di farina e si allunga con il brodo. Infine, si lascia sobbollire finché la salsa non si addensa. Nel frattempo, si prepara il purè di patate a cui si aggiunge formaggio, latte e burro e si ricopre la padella tappando il ripieno. Si inforna per fare un po’ di crosta croccantella e il pasticcio è pronto. Niente di complicato. La versione che riporto qui, invece, vi farà drizzare i capelli in testa poiché richiede ben due giorni di preparazione. Ma voi lettori del magazine siete abituati alle mie elucubrazioni culinarie. In realtà è una ricetta scientifica a tutti gli effetti, ma soprattutto un pretesto per farvi rendere conto di quanto un piatto possa cambiare completamente identità semplicemente rivedendolo in chiave moderna, strizzando l’occhio alla scienza. Ciò che andremo a fare sarà cuocere ogni elemento per conto proprio,

Qual è l'idea Come anticipato, l'idea è quella di far esplodere a fondo scala il sapore di ogni singolo elemento della Shepherd’s Pie. E sono davvero tanti anche se non sembra. Ma quali sono i componenti della ricetta che andremo a separare? Intanto partiamo con i due macro elementi: la farcia e il topping. A loro volta, questi due macro elementi saranno costituiti dall’assemblaggio ragionato di altri sotto-elementi. Ognuno cotto con una filosofia precisa. Cominciamo? Partiamo dalla farcia e poi ci dedichiamo al topping di patate.

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È un classico piatto inglese di carne che ricorda un po’ la versione palermitana del “gattò di patate.” In realtà, quella che vi presento somiglia più ad una Cottage Pie, poiché prevede l’utilizzo del manzo al posto dell’agnello, anche se ormai si tende a usare i due nomi per indicare entrambe le preparazioni. È il piatto del pastore: pasticcio di carne e verdure, ricoperto da uno strato di purè di patate.


INGREDIENTI Per la carne 1,2 kg di top blade/chuck roll/ brisket/boneless beef ribs SPOG q.b. Per il fondo 2 foglie di alloro 2 rametti di rosmarino 2 spicchi d’aglio 2 bacche di ginepro 2 chiodi di garofano 500 ml di vino rosso 2 cucchiai di triplo concentrato di pomodoro Per le verdure 250 g di carote 25 g di burro 3-4 rametti di timo 3-4 scorze di limone 2 olive bianche 60 g di sedano La punta di cucchiaino di aglio in polvere 1 cucchiaino di aceto di vino bianco 125 g piselli 125 g cipolla 30 ml di salsa Worcestershire 1 cucchiaio di sciroppo d’acero Per il topping di patate 1kg patate 2 tuorli d’uovo 120 g burro 150 ml di panna fresca 15 ml di aceto di vino bianco Rosmarino q.b. Noce moscata q.b.

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Per la finitura 150 g Parmigiano Reggiano 30 mesi

Il Pasticcio di carne Ci sono le verdure, c’è la carne e c’è il suo fondo di cottura. Questi tre elementi verranno ancora splittati. Le verdure Cuoceremo separatamente le carote, il sedano, le cipolle e i piselli. La carne Cuoceremo la carne e andremo a recuperare anche i liquidi di cottura che ci serviranno per… Il fondo Prepareremo il fondo a cui aggiungeremo il liquido di cottura della carne, perché contiene un elemento importante che darà un gusto esplosivo alla preparazione. Ricordate una cosa importante: gli elementi aromatici nel sacchetto si amplificano e si propagano in modo molto arrogante. Quindi non preoccupatevi se qualche ingrediente vi sembrerà irrisorio. Vi garantisco che non lo è e farà una grande differenza. LE CAROTE Preparate il sous vide e preriscaldatelo a 84°C. Tagliate le carote a cubetti grossolani, non troppo piccoli, due o tre centimetri di lato. Nel sacchetto aggiungete un pezzetto di burro, rametti di timo, delle dimensioni di un pollice. La scorza di limone, poca, un mezzo cucchiaio, poi aggiungete anche un pizzico di sale e pepe. Tenete il sacchetto nel bagno termostatico per un’ora. Provvedete a raffreddarlo immediatamente con acqua e ghiaccio e conservatelo in frigo, senza aprirlo. IL SEDANO Sous vide sempre a 84°C. Pelate le coste di sedano con un pelapatate per rimuovere i filamenti. Tagliatelo della stessa dimensione delle carote. Aggiungete una punta di cucchiaino di aglio in polvere, due olive bianche, senza nocciolo, tagliate in quarti, un cucchiaino di aceto di vino bianco e mezzo di olio extravergine. Un pizzico di sale e pepe.


LA CARNE Ovviamente vi do i parametri da tenere a mente per la mia carne, perché è quella che conosco.

I PISELLI Ancora come sopra, sous vide a 84°C. Poca scorza di limone, punta di aglio in polvere, mezzo cucchiaino di olio extravergine. Un pizzico di sale e pepe. Cuoceteli per un’ora, raffreddate e lasciate in frigo. Potrete ottimizzare i tempi usando tre sacchetti nello stesso bagno termostatico, durante la stessa ora di cottura.

La prima scelta è il Top Blade (cappello del prete). Va bene il Chuck Roll (reale). Vanno bene le Beef Ribs (biancostato). Va bene il Brisket (punta di petto). Decidete voi.

LA CIPOLLA Qui niente sous vide. Non so se siete pratici, ma se cuocete la cipolla sottovuoto rischiate di far scoppiare il sacchetto a causa dei gas che produce. In questo caso usiamo la cara, vecchia padella. Tritate una bella cipolla, goccio d’olio in padella di ghisa, fate arroventare a dovere e soffriggetela. Quando sarà parzialmente caramellata aggiungete una tazzina di salsa Worcestershire e un cucchiaio di sciroppo d’acero. Fate tirare il liquido, togliete dalla padella e conservate in una ciotola coperta dalla pellicola, in frigo.

Tagliate la carne a pezzi da circa 200/300 grammi. Asciugatela bene. Spalmate di olio e fate tostare in forno a calore feroce fino a quando non avrà sviluppato una bella Maillard (crosta croccante) esterna. Fate raffreddare.

Mettete non più di due pezzi di carne per ogni sacchetto e versate dentro la salsa. Non ci dovete affogare tutto, basta che ricopra la carne per metà. Preriscaldate il sous vide a 75°C. Quando sarà arrivato a temperatura, immergete il sacchetto della carne e cuocete per 24 ore. Eh lo so, ma ci vuole il tempo che ci vuole. Dimenticatevi la carne fino al giorno dopo.

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Cuocetelo come per le carote, un’ora. Poi raffreddate con acqua e ghiaccio e conservatelo in frigo senza aprire il sacchetto.

IL FONDO Lasciate ridurre in padella mezza bottiglia di un buon vino rosso con due cucchiai di triplo concentrato di pomodoro. Dealcolate (il calore farà evaporare la parte alcolica) e fate ridurre della metà. Raffreddate il più velocemente possibile. Quando carne e riduzione si saranno raffreddati, iniziate ad insaccare ma non prima di aver condito la carne con un po’ di SPOG Sal’s Seasoning (sale, pepe, aglio e cipolle in polvere) Aggiungete alloro, un piccolo rametto di rosmarino, due bacche di ginepro, due chiodi di garofano.


Il topping È un purè di patate super ricco. C’è dentro formaggio, burro, panna e uova. Da questo elemento scorporeremo solo le uova che verranno cotte a parte e delle quali useremo solo i tuorli.

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LE PATATE Anche qui, le patate vanno nel sous vide a 90°C per 90 minuti. Tagliate le patate (pelate) a cubetti e aggiungete uno spicchio d’aglio intero, due noci di burro, un cucchiaio di aceto di vino bianco, un piccolo rametto di rosmarino.

LE UOVA Cuocete due tuorli a 62°C per 60 minuti. E raffreddateli. Dopo 90 minuti togliete le patate dall’acqua, togliete il rosmarino dal sacchetto e mettetelo da parte. Schiacciate le patate alla vecchia, con lo schiacciapatate. Non usate il frullatore altrimenti l’amido le farà diventare una colla (quello è il segreto per fare le crocchette di patate che non si spappolano con la frittura). Schiacciate anche l’aglio, se vi piace. Aggiungete il burro

a caldo, mescolando bene, quindi unite i tuorli d’uovo. Poi versate a filo la panna fresca, aggiustate eventualmente di sale e pepe e date una bella grattata di noce moscata. Deve avere una consistenza cremosa/solida. Non troppo asciutta né troppo liquida: se non dovesse essere sufficiente, aggiungete ancora un po’ di panna e burro. Lasciate raffreddare e mettete il composto di patate in una sac à poche con beccuccio per decorazioni floreali.


L'assemblaggio degli elementi Quando il fondo sarà pronto potrete assemblare gli elementi. Nel grande recipiente mettete la carne, la cipolla e tutte le verdure preventivamente scolate dal loro liquido prodotto nel sacchetto.

Rimettete il liquido di cottura della carne sul fuoco e fatelo ridurre. Lasciate restringere a fuoco moderato finché non vela il cucchiaio. Dovrà essere molto viscoso. Fidatevi, perché ci sarà dentro tutto il connettivo rilasciato dalla carne che tenderà a gelificare.

Continuate a mescolare e assaggiate per capire se dovrete aggiustare di sale e pepe. A questo punto disponete il tutto nella teglia o nel tegame di ghisa. Pareggiate lo strato e lasciate riposare disponendo uno strato di pellicola a contatto.

Mescolate e amalgamate bene. Aggiungete il fondo di cottura, non importa se ancora caldo, anzi meglio.

Lasciate a temperatura ambiente per qualche ora. L’ideale sarebbe averlo pronto al mattino per infornarlo la sera. Prima di andare in forno dressate dei fiori di patate con la sac à poche sopra il pasticcio, ovviamente dopo aver tolto la pellicola. Copritelo del tutto, non dovete lasciare alcuno spazio aperto. Mettetene uno strato bello consistente. Spolverizzate la superficie con del Parmigiano Reggiano 30 mesi. Preriscaldate il forno a 200 gradi, infornate e fate crispare le patate e scaldare il pasticcio. Direi che 20, 25 minuti saranno più che sufficienti.

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Quando la carne si sarà raffreddata aprite il sacchetto e recuperate il liquido. Filtratelo bene. Tagliate la carne a cubetti, della stessa dimensione delle verdure. Riducete le verdure in una brunoise e usatene 300 grammi, mettetela in una ciotola molto grande, vi servirà per assemblarla con gli altri elementi prima di andare in teglia o tegame in ghisa.


Lasciate intiepidire e gustatevi la perfezione. Ogni elemento sarà perfettamente valorizzato, ma il connubio totale risulterà come una specie di sinfonia. Da piatto povero, ve lo garantisco, diventerà un classico delle grandi occasioni. Ma non è tutto. Dopo questo sbattimento avrete imparato una cosa fondamentale: come esaltare le verdure per farle diventare un complemento irresistibile di ogni pietanza. Potrebbe sembrarvi fanatismo legato a un piatto povero, ma la verità è che dopo la Shepherd’s pie, il vostro approccio al sous vide cambierà radicalmente. Scoprirete potenzialità dello strumento che al momento non riuscite nemmeno a immaginare.

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Gianfranco Lo Cascio


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IL TATTO

il sistema somatosensoriale aka

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Illustrazioni di Eleonora Castagna

Diventare degustatore a cura di Stefania Pompele


Ingarbugliato, sparpagliato, corruttibile e peccaminoso. Ci avvolge, letteralmente, dentro e fuori. Alcuni lo definiscono il senso totale, dell’armonia e della conoscenza, il più intimo dei sistemi sensoriali, quello che ci fa sentire dentro. Il senso della reciprocità. Siamo soliti chiamarlo impropriamente tatto, probabilmente perché toccare (voce del verbo) ben descrive un’abilità che necessità di prossimità – anzi, di vero e proprio contatto - per potersi manifestare. In realtà le sensibilità somatiche sono molteplici, non solo quelle proprie del tatto, e rispondono a diversi stimoli sensoriali, tutti interconnessi e indispensabili per restituirci il mondo - o meglio, la nostra idea al riguardo - nella sua interezza. Insomma, nell’esperienza multisensoriale, zeppa di bias cognitivi e inghippi sinestesici che chiamiamo assaggio, l’intelligenza del sistema somatosensoriale assume un ruolo chiave. Non la pensavano così alcuni filosofi, lo sappiamo. Erano altre le sensorialità a cui era affidata la conoscenza del mondo. La svalutazione filosofica dei nostri sensi più carnali si era spinta al punto da definire il concetto stesso di arte, e di giudizio artistico, in quanto forma di conoscenza affidata ai sensi. Hegel sosteneva che “il sensibile” dell’arte si riferisse solo ai due sensi teoretici della vista e dell’udito, ed escludeva “dal godimento artistico” olfatto, gusto e tatto perché afferenti alla materialità in quanto tale, e alle sue qualità. E se pittura, scultura, musica, danza e poesia sono annoverate storicamente tra le arti per definizione, a quella culinaria si fatica ancora a dare analoga definizione. Anche Platone le aveva negato dignità artistica, la considerava una pratica empirica finalizzata solo al piacere più che a una forma di conoscenza. Evidentemente la caratteristica di scomparire, essere consumata e non lasciare apparentemente tracce, fa dell’esperienza col cibo qualcosa che appariva in antitesi con il concetto stesso di arte museale, quindi conservativa o replicativa.

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Ma sapere è toccare. Così almeno ci direbbe Aristotele, che considerava il tatto il più filosofico dei sensi in quanto prioritario ai pragmata (le cose, gli oggetti), quindi più generale e intimamente legato loro rispetto alla vista. Sosteneva, insomma, che fosse proprio attraverso questo tipo di sensibilità che la psiche individuava la cose identiche a sé, e toccando il particolare identificava l’universale. Chissà cosa avrebbero pensato tutti dell’opera di un “tale” di nome Cattelan e di una banana da 120 mila dollari esposta in una delle fiere di arte contemporanea più importanti del mondo, letteralmente divorata da David Datuna “affamato d’arte”.


Ma sto tergiversando, lo so. Raccolgo tutto il pragmatismo e lo scibile in mio possesso, ne prendo in prestito parecchio anche dal prossimo, e provo a sbrogliare questa matassa che ci fa godere delle consistenze cedevoli e burrose di un Wagyu 9+, delle libidinose croccantezze di una cotenna di maiale Duroc, le calde cucchiaiate di una ribollita oppure il fine perlage di uno champagne. Insomma quell’universo di sensori propri del sistema somatosensoriale.

Cenni di fisiologia e meccanismo percettivo

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Questo complesso sistema comprende, appunto, diversi tipi di telescopi. Questi telescopi sono distribuiti su tutto il corpo e sono associati a visceri, pelle, muscoli e articolazioni; sono responsabili della sensibilità tattile, termica, pressoria, propriocettiva (riguardante la postura, l’orientamento spaziale e la forza del movimento) e del dolore. Messe giù queste prime verità, ci rendiamo conto che è quindi improprio chiamarlo – semplicemente - tatto. Il tatto è appunto solo una piccola parte del puzzle. La faccenda è piuttosto aggrovigliata. Differenti tipi di sensori lavorano simultaneamente per restituirci l’esperienza nella sua complessità. In alcuni casi si tratta di recettori, come quelli tattili o termici ad esempio, in altri di terminazioni nervose libere, o ancora di sistemi misti. La strada che compie uno stimolo somatico dal sistema nervoso periferico a quello centrale e quindi al cervello, può essere grosso modo schematizzata cosi: recettore / terminazione nervosa libera > neurone

spinale o cranico > fascio nervoso spinale o cranico > cervello. Dalla periferia al cervello solitamente ci sono di mezzo un recettore e tre neuroni. Sì, è complicato e non è mia intenzione aggrovigliare di più la matassa, provo semmai a scomporla così: Tatto e Pressione I recettori tattili e pressori sono dei meccanocettori ampiamente distribuiti sulla pelle. Tre dei recettori coinvolti nel tatto e nella pressione sono: - Terminazioni nervose libere, importanti per la percezione degli oggetti che sono a contatto con la pelle, coinvolti anche nella percezione del dolore; - Corpuscoli di Meissner, sensibili alle sensazioni tattili localizzate e importanti nella percezione di leggeri stimoli tattili discriminativi; - Corpuscoli del Pacini,


Temperatura Si chiamano termocettori, sono localizzati immediatamente al di sotto della pelle e includono due tipi di terminazioni nervose per la percezione delle variazioni di temperatura. In breve, abbiamo due recettori specifici per il caldo e per il freddo, interconnessi con i recettori del dolore. Propriocezione È la sensorialità della postura e permette di percepire la localizzazione e la velocità del movimento di una parte del corpo rispetto ad un’altra. Responsabili di questo tipo di sensibilità sono gli organi tendinei del Golgi, che si trovano a livello delle giunzioni dei tendini con i muscoli, e i fusi muscolari localizzati nei muscoli scheletrici. Dolore Si chiamano nocicettori e sono terminazioni nervose libere stimolate da un danneggiamento del tessuti, anche in

questo caso li abbiamo sparpagliati sulla pelle, nei tessuti degli organi interni e svolgono (ça va sans dire) funzione protettiva. Possono venire attivati da stimoli meccanici, termici e chimici e sono gli unici che mancano di adattamento (anche se voi divoratori di peperoncino che mi leggete potreste avere qualcosa da ridire a riguardo). Trigemino (e i suoi fratelli) Manca un fondamentale tassello al puzzle. Saliamo in zona fauci e dintorni e quindi ci concentriamo su una sensorialità legata soprattutto all’esperienza con il cibo. È sempre parte del sistema somatosensoriale, è un senso chimico come olfatto e gusto, ed è quello che comunemente chiamiamo sistema trigeminale. Si tratta anche in questo caso di terminazioni nervose libere che vengono stimolate da sostanze presenti nel cibo (e non), eventualmente irritanti. In realtà, anche qui, la faccenda è un filo più ingarbugliata. Il complesso sistema sensitivo dell’estremità cefalica (capo e collo per intenderci) è costituito da diversi sensori: il trigemino appunto, che con le sue tre branche fornisce la sensibilità alla faccia e alle mucose oro-nasali, il nervo facciale - che con il suo ramo si unisce al trigemino per innervare i due terzi anteriori della lingua - il nervo glossofaringeo, che interessa la parte posteriore della lingua e il nervo vago che trasmette quanto rilevato dall’esofago, dalla regione orofaringea e dai polmoni. Chemorecettori Comprendono una vasta famiglia di sensori, vale a dire che ne esistono di vario tipo; quelli che mi interessa citare in questa sede sono quelli (semplifico) sensibili a sostanze ferrose, metalliche.

Le sensibilità proprie del tatto nella valutazione del cibo Alcune sono intuitive, le abbiamo elencate qui sopra e non serve approfondire la questione più di tanto. Si tratta di tutte quelle informazioni legate alla forma, struttura, consistenza e variazione di temperatura di un alimento. Quelle che alcune scuole di assaggio definiscono percezioni fisiche comuni. Mi preme invece approfondire un altro aspetto della sensorialità tattile (in questo caso si tratta di stimoli di tipo chimico), vuoi perché in alcuni casi viene erroneamente associata ad un sapore, vuoi perché non è chiaro come si manifesti. Cosa sto blaterando? È l’astringenza, baby Quella che ci lascia a bocca asciutta, ruvida e con lingua felpata: è la risposta sensoriale avvertibile a livello della

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circondati da diversi strati di tessuto connettivo, comuni nel derma profondo e nel tessuto sottocutaneo, nei tendini e nei legamenti e che sono stimolati da forti pressioni.


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mucosa del cavo orale (quindi lingua, palato, gengive e labbra) dovuta alla combinazione, coagulazione e precipitazione delle proteine dell’epitelio e/o delle proteine salivari in presenza di sostanze presenti in tutte le parti verdi e legnose delle piante che rispondono al nome di tannino. Un po’ come in un impasto (perdonami, Trezzi), le proteine della nostra saliva hanno, tra le altre, la funzione di renderla viscosa, ed è proprio la viscosità a svolgere funzione lubrificante. Quando consumiamo un alimento ricco di tannini (pensate ad un calice di nebbiolo o al carciofo crudo) questi composti si legano alle proteine producendo l’inizio di un processo di cuoificazione. Le proteine precipitano, la saliva diventa acquosa e perde il suo potere lubrificante ma non solo, i dotti salivari subiscono una contrazione e nel cavo orale affluisce meno saliva. L’astringenza è appunto una sensazione tattile indotta da questo legame tannino-proteina. La sensazione di secchezza e l’effetto carta vetrata non si manifestano immediatamente: la risposta sensoriale all’astringenza non è immediata, ma tende a lasciare un lungo ricordo di sé anche dopo la deglutizione. Le variabili sui tempi di latenza e intensità di percezione dipendono sostanzialmente da tre fattori: dalla natura della bevanda / alimento, dall’interazione con altre sostanze presenti nell’alimento stesso (pH, eventuale presenza di alcool, polisaccaridi) e dalla composizione e quantità di saliva durante l’assaggio. Non tutte le salive sono identiche,

non tutti percepiamo l’astringenza nello stesso modo.

Sensazioni chimiche comuni Come per l’astringenza, anche in questo caso i sensori coinvolti rispondono a stimolazioni chimiche. Largamente coinvolto il nervo trigemino – non a caso vengono definite anche sensazioni trigeminali - e più in generale tutte le terminazioni nervose libere associate di cui vi ho parlato un paio di paragrafi più su. Piccante È la sensazione irritante, focosa ed eventualmente dolorosa, provocata da composti quali capsaicina, piperina, isosolfocianato di allile (senape) e più in generale tutte le sostanze piccanti. Sono certa abbiate una certa confidenza con questo tipo di stimolazione sensoriale. Vi sarà di certo capitato di ingoiare, magari involontariamente (sottostimare è l’errore più comune di noi spavaldi) quantità considerevoli di peperoncino. Oltre alla bocca in fiamme, gradazioni cromatiche facciali in evoluzione, sudorazione e lacrimazione, avrete magari sperimentato una parziale intorpidimento della zona orofaringea associato ad una percezione gustativa alterata. La tendenza è solitamente quella di percepire un unico sapore dopo l’assunzione, alcuni avvertono tutto il cibo amaro, altri riescono a percepire solo il dolce. Essendo coinvolto il nervo trigemino e avendo quest’ultimo terminazioni nervose libere nelle vie nasali, l’azione irritante può interessare ovviamente anche

naso e occhi (lo starnuto per il pepe nel naso è la risposta sensoriale del trigemino irritato). I divoratori di peperoncini manifestano una soglia di percezione decrescente della piccantezza. Più vi strafogate di cibi piccanti, più dovrete aumentare la dose per avvertire la piccantezza con la stessa intensità. Ho il sospetto non serva spiegarlo a voi. Pungente È la risposta di tipo trigeminale in presenza di molecole a carattere irritante come acido acetico, ammoniaca, l’acido cloridrico e soda caustica. Sempre all’interno della famiglia che pizzica, meritevole di menzione è la CO2, che per azione di un enzima (anidrase) presente sulla saliva, viene trasformata in acido carbonico, responsabile della ben nota sensazione che titilla il palato quando sorseggiamo bevande gassate. L’azione irritante di queste (e altre) sostanze in zona olfatto, viene in gergo definita falso odore proprio perché diverso è il tipo di recettore coinvolto. Per farla breve, le sostanze elencate e gli stimoli ad asse associati non riguardano né olfatto né gusto. Non si tratta di odore, nemmeno di sapore. Burn baby burn: alcol inferno Questa cosa la spiego solo agli astemi, gli altri possono passare a quella successiva. Viene definita in gergo sensazione pseudo-calorica, ed è appunto la sensazione di calore associata ad alcune delle soluzioni idroalcoliche con cui noi diversamente astemi sollazziamo il palato. La percezione di calore tende a diminuire all’aumentare delle stimolazioni (insomma, il primo


Rifrescante Anche in questo caso si tratta di una pseudo variazione di temperatura, anche in questo caso è coinvolto il trigemino (and Co.) ed è causata da composti quali il mentolo, l’eucaliptolo e simili, ad effetto rinfrescante delle mucose nasali e gustative.

Metallico - Ferroso Ovvero la sensazione ferrosa, sanguigna, di p osateria d’argento, di “mazzo di chiavi ciucciato” e chi più ne ha più ne metta, che possiamo riscontrare in alcuni cibi e bevande. È la riposta sensoriale in cui sono coinvolti i chemorecettori che citavo qui sopra, sensori distribuiti su tutto il corpo e largamente presenti anche in bocca e naso. La sensazione può insomma manifestarsi mentre stiamo annusando una tartare, o addentandola. Anche in questo caso non si tratta di un odore, nemmeno di un sapore.

Sbrogliare la matassa sensoriale, capire chi fa cosa e acquisire un vocabolario condiviso è anche lo scopo fondante di un’associazione di professionisti che dal 2011 propone attività formative legale alla degustazione della ciccia. De Gustibus Carnis è nata per volontà di un gruppo di macellai in collaborazione con Good Senses (all’epoca Centro Studi Assaggiatori), società di ricerca e formazione in analisi sensoriale. Casomai vi avessi fatto venire voglia di approfondire queste faccende sensoriali applicare all’assaggio della carne, ora sapete a chi rivolgervi.

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cicchetto si fa sentire, il quarto meno). L’effetto vasodilatatorio dell’alcol - favorendo l’afflusso di sangue - genera un reale, seppur minimo, aumento della temperatura corporea. Le avete presenti le maniche corte a -10°C? Ecco.


immagini cortesia di Weber

Il p ellet

d a l l a s tuf a al b b q Dispositivi e Accessori rubrica a cura della redazione

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Da qualche anno sul mercato è disponibile una nuova tipologia di dispositivi per le cottura in griglia: quelli a pellet. Sono la combinazione perfetta fra la semplicità di uso dei bbq a gas e l’aroma tipico del carbone. Le specifiche caratteristiche li rendono appetibili sia per un principiante, per l’evidente facilità di utilizzo, che per un esperto , grazie alla possibilità di personalizzazione della cottura. In questo articolo vi chiarirò le idee sul loro funzionamento e vi presenterò la risposta di Weber per il 2020: lo SmokeFire.

lo

Smoke


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Fire


PUNTI DI FORZA E PUNTI DEBOLI DEI DISPOSITIVI A PELLET

COME FUNZIONA UN DISPOSITIVO A PELLET

Il sistema di cottura a pellet ha una struttura molto semplice. Il pellet, ovvero l'insieme di palline di segatura compressa, viene inserito in una tramoggia che funziona da serbatoio. Sul fondo della tramoggia è presente una coclea che permette il trasferimento del combustibile al braciere (firepot). Questo meccanismo ha una velocità variabile in base alla quantità di pellet necessario al mantenimento della temperatura di cottura. Una volta che il pellet ha raggiunto il firepot, viene incendiato per iniziare la combustione.

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Quasi tutti i dispositivi a pellet hanno la tramoggia posta di lato collegata al firepot, sito in zona centrale della camera di cottura, tramite una lunga coclea. In base alla qualità del prodotto potremo avere pareti più o meno spesse e sistemi di controllo temperatura più o meno efficienti. Sotto la griglia è posta una piastra che funge da deflettore in modo che i succhi in caduta dagli alimenti vengano convogliati verso la vaschetta di raccolta per rendere più agevole la pulizia ed evitare incendi. Sempre lateralmente, ma dalla parte opposta rispetto alla tramoggia, è di solito piazzato un camino che permette la fuoriuscita del calore e del fumo dalla camera di cottura. Il sistema di controllo della temperatura si compone di una sonda che va a monitorare la temperatura in griglia e di un PID che regola la combustione secondo le impostazioni dell’utente. I dispositivi più evoluti hanno anche una app per la gestione ed alcuni anche un collegamento wi-fi per il controllo da remoto.

Il primo elemento distintivo di questa tipologia di bbq è senz’altro la facilità di utilizzo: basta impostare la temperatura e il sistema di controllo agisce in autonomia sul suo mantenimento assimilandone il funzionamento a quello di un bbq a gas. Questo potrebbe farli sembrare sistemi banali ma in realtà la user experience può essere personalizzata ed essere adattata anche ad un esperto. Inoltre, quest’ultimo potrà concentrarsi sulla preparazione preliminare e la finalizzazione dei piatti piuttosto che sulla loro cottura. Un altro punto di forza è l’aroma conferito agli alimenti. Seppur meno efficace rispetto ai dispositivi a carbone, il fumo prodotto riesce a conferire un flavour profile complesso soprattutto se si creano dei blend con le tipologie di pellet presenti sul mercato. Parlando invece dei limiti, uno importante è la possibilità di grigliare esclusivamente in cottura indiretta. Indipendentemente dalla temperatura raggiungibile in camera, il deflettore inserito per la raccolta dei liquidi non permette un corretto irraggiamento al cibo e la sola aria, anche molto calda, non è sufficiente per creare una gustosa crosticina prodotta dalla reazione di Maillard. Un altro elemento negativo da considerare è sicuramente la dipendenza dall’elettricità: per garantire il funzionamento di tutto il sistema è necessario collegare il dispositivo ad una presa di corrente. Dovete tenerlo a mente quando deci-


dete dove posizionare il bbq in cottura. Anche il sistema di pulizia è da migliorare perché in quasi tutti i dispositivi è necessario smontare sia le griglie che il deflettore, per arrivare alla cenere che si deposita sul fondo della camera di cottura. E svuotare la cenere è di fondamentale importanza per evitare malfunzionamento del firepot.

WEBER SMOKEFIRE

FINALMENTE LA COTTURA DIRETTA!

Uno dei punti deboli dei dispositivi a pellet è, come detto poco sopra, la sostanziale impossibilità di effettuare

cotture dirette. In una cottura di questo genere non è tanto importante la temperatura della camera quanto piuttosto il calore irraggiato sotto all’alimento da cuocere. Come ha fatto Weber a superare questo problema? Semplice: ha creato un nuovo sistema di raccolta dei succhi in caduta eliminando la piastra disposta sotto alla griglia. Negli SmokeFire il firepot è protetto direttamente con un deflettore in modo da evitare incendi, mentre il resto del lavoro di raccolta grassi è compiuto da barre aromatizzanti,

tipiche dei dispositivi a gas ma perfezionate. Queste ultime convogliano i liquidi verso dei binari che li faranno cadere in una vaschetta. In questo modo è stato possibile mantenere delle aperture fra le barre permettendo un irraggiamento estremamente migliore rispetto ai competitor.

SISTEMA DI PULIZIA DELLA CENERE

I depositi di cenere sul fondo della camera di cottura rappresentano una delle più frequenti cause di malfunzionamento del dispositivo, e per arrivare alla loro rimozione è necessario rimuovere la griglia di cottura e il deflettore. Weber ha forato il fondo del firepot per far sì che la cenere prodotta dalla combustione cada istantaneamente in una vaschetta sita sotto al firepot stesso. In questo modo la pulizia del fondo della camera di cottura potrà essere effettuata più sporadicamente e senza avere problemi nella tenuta della fiamma per presenza

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Weber ha finalmente deciso di entrare nel mercato dei dispositivi a pellet creando la sua SmokeFire Series, che sarà disponibile entro il primo trimestre 2020. La lettura delle caratteristiche tecniche mette in evidenza il fatto che Weber ha fatto una lista di tutti i difetti dei dispositivi a pellet attualmente sul mercato e li ha eliminati. Vediamo insieme cosa ha deciso di inserire nei nuovi SmokeFire.


di depositi di cenere.

TRAMOGGIA E COCLEA

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La tramoggia è situata sul retro del dispositivo e centralmente in corrispondenza del firepot. Questo accorgimento permette di utilizzare una coclea corta che previene il rischio di inceppamento del pellet. Inoltre, nella tramoggia è presente un sensore collegato direttamente con il pannello di controllo che serve ad attivare una notifica se il livello del combustibile è troppo basso. Infine, nella parte inferiore è presente un pannello che, se aperto, permette di svuotare la tramoggia attraverso uno scivolo, in modo da poter cambiare tipologia di pellet in corso di cottura. Per evitare il rischio, seppur remoto, di “burn back” la coclea è inclinata verso l’alto e termina in uno scivolo, che a sua volta finisce nel bruciatore. In questo modo non c’è alcuna possibilità che un’eventuale fiammata possa far incendiare il pellet all’interno della coclea e che da lì arrivi alla tramoggia. Un altro accorgimento finalizzato alla eliminazione di questo rischio

è il processo di spegnimento del dispositivo, il quale prevede che la coclea, in un determinata fase, ruoti in senso inverso per ricoverare tutto il pellet non utilizzato all’interno della tramoggia.

C A R AT T E R I S T I C H E COSTRUTTIVE

Il corpo dello SmokeFire è costruito in acciaio smaltato a doppia parete: in questo modo si migliora la coibentazione dall’ambiente esterno e si ottimizza la stabilità di temperatura e il consumo di combustibile. Inoltre, a differenza degli altri dispositivi a pellet, Weber non ha inserito nello SmokeFire un camino ma ha aperto delle fessure sul retro della camera di cottura, che rendono più efficiente il moto convettivo all’interno della stessa. Le griglie sono delle medesime dimensioni di quelle della serie Spirit, di conseguenza quindi potrà essere utilizzato anche il Gourmet System in compatibilità.

WEBER CONNECT

Weber ha inserito nella sua app la possibilità di controlla-

re da remoto lo SmokeFire ma non si è fermata solamente a questa feature. Ha creato delle ricette interattive che comunicano all’utente, tramite notifiche sullo smartphone, la necessità di compiere una determinata azione (girare l’alimento, cambiare temperatura, caricare il combustibile, etc…); grazie al sistema di sonde integrato al pannello di controllo sono collegabili fino a 4 sonde, di cui una riservata alla temperatura di cottura. Ultima ma non ultima, è presente la presenza di un ETA che va ad indicare il tempo stimato di fine cottura, aggiornato in tempo reale in base alle risultanze delle analisi delle sonde. In conclusione, Weber sulla carta ha eliminato gran parte dei difetti presenti sui dispositivi attualmente sul mercato ed ha inserito alcune funzioni che rendono la user experience facile, intuitiva e smart. Non vi resta che testarlo per verificare la bontà di quanto descritto.


"Ăˆ in Sicilia che si trova la chiave di tutto. La purezza dei contorni, la morbidezza di ogni cosa, la cedevole scambievolezza delle tinte, l’unitĂ armonica del cielo col mare e del mare con la terra. Chi li ha visti una sola volta, li possederĂ per tutta la vita." J. W. Goethe

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Speciale Sicilia


La S c a leid os copi o d i sa p ori che so rge dal mare

fotografie di Rossella Neiadin

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Speciale Gastronomia Siciliana introduzione a cura di Michela Bongiorni


Fra i molti luoghi comuni che sentiamo ripetere sulla Sicilia, certamente uno dei più gettonati è “ah, ma come si mangia bene da quelle parti!”. Ebbene, pur non amando moltissimo gli stereotipi, trovo impossibile provare a smentire questa affermazione. Tipicamente mediterranea, la gastronomia sicula è basata principalmente su olio, pasta, pesce, frutta, ortaggi ed erbe aromatiche; il repertorio dei prodotti tipici è talmente ricco da rendere la cucina locale, secondo molti, non paragonabile a nessun altra realtà regionale italiana: sfarzosa, succulenta, ricca, goduriosa, variegata. Chiunque sia andato almeno una volta in Sicilia è tornato sicuramente con due cose più pesanti: la valigia, piena di prodotti locali, e il didietro, prima vittima dei peccati di gola. D’altronde, quando vai in un posto nuovo non puoi mica dire di averlo visitato davvero se prima non assaggi tutti i piatti tipici. Il fatto che molti siciliani cucinino davvero bene e sopratutto lo facciano per battaglioni interi, e che si offendano se non accetti una cosa che ti stanno offrendo, è del tutto secondario. O no?

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Sicilia


L’aspetto di quei babelici pasticci era ben degno d’evocare fremiti d’ammirazione. L’oro brunito dell’involucro, la fragranza di zucchero e cannella che ne emanava non erano che il preludio della sensazione di delizia che si sprigionava dall’interno quando il coltello ne squarciava la crosta: ne erompeva dapprima un vapore carico di aromi, e si scorgevano poi i fegatini di pollo, gli ovetti duri, le sfilettature di prosciutto, di pollo e di tartufi impigliate nella massa untuosa, caldissima dei maccheroni cotti cui l’estratto di carne conferiva un prezioso color camoscio. Così Giuseppe Tomasi Di Lampedusa, nel Il Gattopardo (1958) definisce uno dei pranzi a cui partecipano i protagonisti del romanzo, che può ben descrivere l’arte culinaria siciliana - quella dei nobili - complessa e barocca. D’altra parte, esiste anche la cucina povera e umile, quella dei pescatori, dei braccianti, degli zolfatari e dei pastori, che certo non potevano permettersi lo sfarzo delle corti. Due anime quindi, ma un unico sentire comune: quello di godersi la vita, di far bella figura, di soddisfare la propria famiglia e gli ospiti.

La storia Vi è una Sicilia “babba”, cioè mite, fino a sembrare stupida; una Sicilia “sperta”, cioè furba, dedita alle più utilitarie pratiche della violenza e della frode. Vi è una Sicilia pigra, una frenetica; una che si estenua nell’angoscia della roba, una che recita la vita come un copione di carnevale; una, infine, che si sporge da un crinale di vento in un accesso di abbagliato delirio …Perché tanti volti? Perché la Sicilia ha avuto la sorte di ritrovarsi a far da cerniera nei secoli fra la grande cultura occidentale e le tentazioni del deserto e del sole, tra la ragione e la magia, le temperie del sentimento e le canicole della passione. Soffre, la Sicilia, di un eccesso d’identità, né so se sia un bene o sia un male.

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Gesualdo Bufalino, scrittore, poeta e aforista italiano del ‘900 in Cento Sicilie

Eccesso di identità, proprio così. Anche e sopratutto in cucina. La gastronomia sicula, probabilmente la più antica d'Italia, è il risultato delle numerose culture che sono passate su quel territorio e vi hanno lasciato tradizioni e sapori. il primo libro di cucina della storia (essenzialmente una raccolta di ricette) fu scritto dal siciliano Miteco Siculo, vissuto a Siracusa nel V secolo a.C., che fu cuoco e scrittore. Grazie a lui, che soggiornò e conobbe anche Sparta ed Atene, la gastronomia dell'isola venne conosciuta anche in terra ellenica. Numerosi lavori di eruditi greci narrano le vicende dei Sicelioti (abitanti delle poleis greche di Sicilia) e le loro abitudini alimentari. I cuochi locali erano richiestissimi ad Atene e a Sparta, poiché considerati tra i più bravi in circolazione. Le due culture, quindi, si mescolarono: mentre i siciliani portarono la loro conoscenza in cucina, i greci


trasmisero agli abitanti della bella isola l’amore per la ricotta e insegnarono loro a migliorare i metodi di coltivazione delle vigne; inoltre, introdussero l’origano, i dolci di mandorle e di miele e soprattutto importarono l’ulivo.

Nell’827 d.C. i musulmani d’Africa sbarcarono a Marsala, dando inizio a quella che fu una vera e propria rivoluzione

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Durante la dominazione romana la situazione non cambiò molto: anche i patrizi si contendevano i cuochi isolani, a quel tempo ancora considerati abilissimi. Essendo ricca di grano, la Sicilia fungeva come granaio per la città di Roma. Con il tempo si svilupparono nuove preparazioni oltre al classico pane: per esempio si diffuse l’abitudine di cuocerlo e poi di intingerlo nel vino e nel miele. La comunità ebraica introdusse l’elaborata preparazione delle verdure, l’uso dell’aglio soffritto con olio d’oliva e l'utilizzo delle frattaglie come companatico, insegnando di fatto ai siciliani che di un cibo non si butta mai niente. Risale a questo periodo anche l’abitudine di rifocillarsi, dopo gli spettacoli negli anfiteatri, nelle taberne, consumando piatti veloci come fritture di pesce, focacce o frittelle. Probabilmente da questa consuetudine si evolverà la rosticceria spicciola, da strada, tipica dell’isola. I bizantini portarono la cannella, i chiodi di garofano e nuovi tipi di lavorazione dei formaggi: se prima ci si limitava a produrre ricotte salate e caci, da qui cominciarono ad essere prodotti anche formaggi piccanti e a pasta molle.


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culturale e gastronomica. Importarono le arance e i limoni, la canna da zucchero, il riso, il gelsomino, il sesamo, la cannella e lo zafferano. Abilissimi pasticceri, è proprio agli arabi che dobbiamo la Cassata e lo sharbat, progenitore del sorbetto, per il quale furono costruite in tutta l’isola le neviere: locali sotterranei realizzati per conservare la neve fino all’estate. Sono arabi anche il marzapane e la pasta di mandorle. Amanti delle essenze, gli arabi crearono dolci profumati alla frutta, alla cannella e al gelsomino. Inventarono i geli (di melone, di mosto, di cannella); crearono storte ed alambicchi per la distillazione della grappa che usavano solo per disinfettare le ferite, in osservanza del Corano.

A loro si devono altre famose preparazioni come le panelle, i ceci essiccati ed i fiori di zucca seccati e salati, nonché il panino con la milza. Il cous cous, invece, raggiunse l’isola secoli dopo la fine della dominazione araba, ma questo piatto di origine berbera è divenuto molto importante nella tradizione della fascia costiera trapanese. Secondo alcune teorie, è proprio agli arabi che si deve l’arrivo della pasta in Sicilia (se è vero che essa è nata in Cina, gli scambi con l’Oriente avrebbero favorito il diffondersi di questo alimento dapprima sull’isola e poi in tutta Europa) e ad un loro cuoco l’invenzione del primo piatto mari e monti della storia: secondo la leggenda, nel siracusano un cuoco arabo si trovò a dover sfamare l’esercito

accampato e dovette dunque arrangiarsi con ingredienti reperibili in zona. Nacque così una preparazione composta da pasta con le sarde, mescolata con finocchietto selvatico e pinoli. Quando gli Arabi vennero sconfitti dai Normanni nel 1063, la popolazione proveniente dal Nord Europa (perlopiù formata da cacciatori) rinforzò la gastronomia della selvaggina e introdusse lo stoccafisso, elemento diventato nel tempo fondamentale per alcuni piatti siciliani. Gli Svevi successivamente determinarono il consolidamento della cucina aristocratica, sviluppando nuove ricette per carni rosse e pesci di grossa


Merita una piccola digressione la caponata siciliana: essa è senza ombra di dubbio l’espressione più tipica della legge gastronomica secondo la quale i piatti partono da una base semplice e a seconda della disponibilità degli ingredienti si arricchiscono di sapori. Il prodotto che conosciamo oggi è sicuramente il risultato delle varie influenze subite nel corso dei secoli dalla gastronomia siciliana. Secondo una teoria, in verità molto discussa, il nome potrebbe derivare dalla caupona, parola con cui si indicavano la taverne degli antichi romani nelle quali si consumava una pietanza costituita da verdure condite con olio e aceto: un piatto parecchio semplice, consumato soprattutto dai ceti meno abbienti, molto diverso da quello attuale poiché le melanzane erano ancora sconosciute (non arrivarono prima del 1600) così come il pomodoro. È proprio durante la dominazione spagnola che la caponata divenne una portata

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taglia, prevalentemente rivolte ai ceti più elevati. Grazie all’influenza spagnola degli Aragonesi (fino al 1713), arrivarono in Sicilia le spezie della Indie Occidentali e sempre grazie agli iberici, che importarono il Pan di Spagna, ci fu l’importante evoluzione della cassata. Sono sempre di questo periodo le varie ‘mpanate (che come si può intuire dal nome derivano dalle empanadas), l’introduzione del pomodoro, del cacao e del mais importati dall’America insieme alla patata, al tacchino, ai peperoni; la melanzana invece arrivò dalle Indie.


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più ricca, talora quasi aristocratica poiché arricchita con crostacei e diversi tipi di pesce. Era comunque una preparazione ancora parecchio distante dalla ricetta che oggi conosciamo: ancora non aveva le melanzane e il protagonista era, spesso, il capone, pesce condito con una salsina agrodolce, da cui potrebbe anche derivare il nome del piatto. Troviamo una prima versione della caponata un poco (davvero un poco, a dirla tutta) più vicina alla nostra nel trattato culinario Cucina teorico-pratica (Napoli,1837) scritto dal cuoco e letterato Ippolito Cavalcanti. Egli però non parla minimamente del pesce capone, la qual cosa ci ripresenta inevitabilmente l’interrogativo precedente: qual è l’origine etimologica del termine “caponata”? Secondo l’Atlante Linguistico della Sicilia la radice del termine (quindi cap-) si riferirebbe allo sminuzzare delle verdure e degli ortaggi. In ogni caso l’unico elemento in comune tra la ricetta del Cavalcanti e tutte le versioni successive fino ad arrivare a quella attuale è la salsa agrodolce con cui all’epoca si condiva il pesce e con cui adesso s’insaporiscono le verdure e le melanzane. È molto probabile, dunque, che il cambiamento sia avvenuto in ambito popolare dove si cercò di riprodurre la


tocchetti regolari e le olive intere, schiacciate e denocciolate. Anche la ricetta trapanese è molto diffusa: fino a qualche anno fa si aggiungevano a questa variante le parti meno pregiate del tonno, prodotto facilmente reperibile in una città legata alla tradizione delle tonnare. Anche se nella maggior parte dei casi la presenza del pesce ai nostri giorni è stata eliminata, una variante molto diffusa attualmente è la cosiddetta caponata di spada, con i tocchetti di questo gustoso pesce aggiunti agli altri ingredienti. Immagino che siate curiosi di assaggiarla, e noi siamo qua per questo Torniamo alla storia della gastronomia siciliana per parlare della moda diffusasi nell’800: quella dei monsù (da monsieur), cuochi di origine francese (o presunta tale), esperti nella preparazioni di piatti ricchi e sontuosi. C’erano famiglie nobili che si sfidavano addirittura a duello per ottenere i loro servizi. Fu proprio grazie ai monsù che le due culture gastronomiche presenti sull’isola, cioè quella aristocratica e quella popolare, ebbero l'opportunità di incontrarsi e fondersi. Ciò che succedeva era più o meno questo: la servitù, che spesso abitava nello stesso palazzo dei nobili per cui lavorava, proponeva ai signori dei piatti poveri ma sfiziosi; a questo punto gli aristocratici chiedevano ai monsù di rielaborare le ricette in modo da renderle più ricche e raffinate. Di conseguenza, le popolane che lavoravano in cucina apprendevano queste modifiche e cercavano di ricrearle, dando vita una specie di circolo virtuoso, grazie al quale i piatti tradizionali della cucina siciliana possono essere preparati, a seconda delle disponibilità di ingredienti, in una versione più modesta e in una più ricca. Con l’unità d’Italia arrivarono sull’isola le usanze del Settentrione e via via, decennio dopo decennio, siamo arrivati a quella cucina eterogenea e ricca di sapori di cui ho parlato all’inizio: gioia per il palato, un po’ meno per i fianchi. Ma in fondo, chi se ne frega. Parafrasando la Regina di Cuori di Alice nel Paese delle Meraviglie, la dieta è sempre ieri o domani, mai oggi.

Mazara e la Boutique del Pesce Abbiamo già abbondantemente parlato nel numero di Dicembre 2019 di questa meravigliosa cittadina affacciata sul mare e della famiglia Giacalone, proprietaria dello stabilimento che ci fornisce i vostri (nostri!) amati gamberi rossi, gli scampi giganti e le tartare che tanto ci deliziano. Abbiamo anche parlato della Boutique del Pesce, chiamarla pescheria non le rende giustizia: un luogo dove acquistare pesce fresco e surgelato e dove il cuoco Nicola prepara ogni giorni i suoi manicaretti, aiutato dai ragazzi in cucina; manicaretti che la gente poi viene a comprare per ogni occasione: si va da una veloce pausa pranzo alla cena di Natale o di San Valentino. Dimenticatevi i piatti un po’ tristi delle rosticcerie e delle gastronomie a cui siete abituati, e pensate in grande: siamo nel cuore della vera Sicilia, siamo nel paese dei pescatori, siamo in un posto che non ha niente di turistico, finto oppure edulcorato. I piatti presentati da Nicola detto Colalavecchia non sono mai scontati: noi, dopo essere stati di nuovo a Mazara questa estate e averli assaggiati tutti, vogliamo proporvene una selezione, in modo che possiate ricrearli a casa e vantarvi con la famiglia e con gli amici. Mettetevi comodi: vi sazierete solo leggendo.

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pietanza delle classi agiate sostituendo il pesce con le ben più economiche e diffuse melanzane. Nel 1860 il vocabolario siciliano-italiano di Antonino Traina descrive la caponata così: “un manicaretto ov’entra del pesce, petronciani (una particolare tipologia di melanzane n.d.r.) o carciofi ed altri condimenti, e si mangia per lo più in freddo”. A completare il piatto l’insostituibile sapore agrodolce del sugo di pomodoro con l’aggiunta di aceto e zucchero. Una ricetta, dunque, molto più vicina a quella odierna. Tantissime sono le varianti che nei decenni si sono affermate a seconda delle località (e spesso a seconda dei quartieri e addirittura delle famiglie). Sicuramente, la più conosciuta al mondo è quella palermitana, con le melanzane tagliate a


Speciale Gastronomia Siciliana - Ricette a cura di Michela Bongiorni

INSALATA DI RAZZA PREPARAZIONE 1. Mettete le ali di razza su un vassoio e cuocetele in un forno a vapore. Se non siete in possesso di un forno che abbia questo tipo di funzione, potete utilizzare una pentola sul cui fondo si portare a ebollizione un po’ d’acqua. All’interno poi inserite un cestello o un colapasta di metallo in cuipotrete disporre le ali di razza. 2. Quando saranno morbide e cotte, ricavate la polpa e tenetela da parte, per farla raffreddare bene. 3. Nel frattempo pulite e affettate finemente i finocchi. 4. Affettate finemente anche il basilico.

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5. A questo punto mettete la razza in una ciotola, conditela con olio, sale, pepe, il succo di limone o l’aceto, aggiungete il finocchio e il basilico e mescolate. Aggiungete all’occorrenza sale e olio. Lasciate l’insalata così composta in frigorifero per due ore, poi servitela: è ottima come antipasto, ma anche come piatto unico leggero, gustoso e saporito. Potete anche sostituire il basilico con la menta, se amate il sapore più fresco di quest’ultima.

INGREDIENTI 4 persone 500 g di ali di razza sale e pepe q.b. olio extravergine di oliva q.b. due finocchi interi basilico a piacere il succo di due limoni oppure un cucchiaio di aceto di mele


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fotografie di Rossella Neiadin


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INGREDIENTI 4 persone un polpo intero da circa 800 g 500 g di patate Olio extravergine di oliva q.b. sale e pepe q.b.

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il succo di un limone prezzemolo q.b.


INSALATA DI POLPO grigliato con patate PREPARAZIONE

1. Procedete alla precottura del polpo pulito in un tegame, a secco, ovvero senza l’aggiunta di liquidi. A fuoco molto lento, coprendo con il coperchio, lasciatelo cuocere fino ad una consistenza tenera delle carni, che testerete con uno spiedino. 2. Una volta cotto e intenerito, lasciatelo raffreddare all’interno del tegame senza toccarlo e tenendo il coperchio chiuso. 3. Una volta raffreddato a temperatura ambiente, il polpo va conservato fuori dalla sua acqua di cottura, in un contenitore ermetico in frigorifero per almeno sei/ otto ore. Questo periodo di permanenza restituisce tonicità alla carne senza pregiudicarne la tenerezza al morso. 4. Nel frattempo pelate e bollite le patate in acqua e sale, poi lasciatele raffreddare.

6. Tagliatelo adesso a pezzetti di media grandezza e fate lo stesso con le patate: condite il polpo con olio, sale, pepe e limone, e le patate con olio, sale e pepe. Unite poi i due ingredienti e terminate il piatto con un po’ di prezzemolo tritato.

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5. Spennellate il polpo con un filo d’olio e grigliatelo sul vostro dispositivo, in cottura diretta per pochissimo tempo a temperatura molto alta, infilzandolo in uno spiedino. Questo passaggio serve a creare una crosticina profumata e croccante e a scaldarlo internamente.


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SUGO DI MOSCARDINI PREPARAZIONE

1. Pulite i moscardini oppure fateveli pulire dal pescivendolo. 2. Lasciate qualche tentacolo intero, poi tagliare il resto a pezzettini piccoli. 3. Preparare un soffritto con la cipolla, la carota e il sedano, unendo anche il un pezzetto di peperoncino. 4. In una padella fate scaldare l’olio, unite il soffritto e il pesce, facendolo insaporire a fiamma alta. Bagnate col vino bianco, lasciatelo evaporare e poi unire il concentrato sciolto in mezzo bicchiere d’acque e la passata. 5. Aggiustate di sale, coprite la padella, abbassate la fiamma e fatelo cuocere per circa 40 minuti o comunque fino a che il pesce diventerà morbido senza sciuparsi.

INGREDIENTI 4 persone 500 g di moscardini freschi mezza cipolla una carota piccola uno spicchio d’aglio mezzo bicchiere di vino bianco sale q.b. peperoncino q.b. due cucchiai di olio extravergine di oliva un cucchiaio doppio concentrato di

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pomodoro due cucchiai di passata di pomodoro


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COUS COUS

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AL PESTO DI BASILICO

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PREPARAZIONE 1. In una ciotola capiente aggiungete alla semola un cucchiaio di sale fino, poi il primo bicchiere d’acqua e mescolate con le dita, in modo da far assorbire uniformemente il poco liquido da tutta la farina. 4 persone Per il cous cous Un kg di semola di grano duro 3 bicchieri di acqua tiepida un cucchiaio di sale fino 3 bicchieri di olio extravergine di oliva mezza cipolla uno spicchio d’aglio

per il pesto di basilico 160 g di basiico italiano classico 140 g di Parmigiano Reggiano 60 g di pecorino sardo 60 g di pinoli tostati in padella 4 spicchi d’aglio 10 g di sale grosso 30 ml di succo di limone 160 ml di olio extravergine di oliva.

per condire Gamberi rossi di Mazara e frutti di mare a piacere. olio extravergine di oliva q.b. uno spicchio d’aglio

2. Una volta che il composto è asciutto, inserite il secondo bicchiere, mescolate e lasciate nuovamente asciugare all’aria. Ripetendo il processo tre volte raggiungerete una dimensione media dei grumi, la più classica, ma è bene dire che a seconda dei gusti più o meno passaggi consentono di variare lo stile del cous cous. 3. Nel mentre, preparate un’emulsione utile a condire il cous cous prima della cottura. Mettete l’olio, la cipolla e l’aglio in un bicchiere e riducete il tutto a crema con un frullatore a immersione, Poi aggiungetela ai grumi e mescolate il tutto ulteriormente a mano o tramite lo sbattitore elettrico. 4. Cuocete il cous cous utilizzando la couscoussiera, una doppia pentola a incastro in acciaio inox: la prima alta e la seconda più bassa, forata e con coperchio. Se avete un forno a vapore, potete utilizzare quello, mettendo il cous cus in una teglia forata. Qualsiasi sia il metodo utilizzato, per una grana media il tempo di cottura è di circa due ore. 5. Preparate il pesto come descritto nel numero del Magazine di Giugno 2020 utilizzando il mixer: fate prima appassire gli spicchi d’aglio in una pentolino con l’olio a coprire, senza mai superare i 65°C. L’olio non deve mai friggere e l’aglio deve risultare cedevole al tatto. 6. Mettete le lame e il bicchiere del mixer nel freezer. Sbianchite il basilico: fate bollire una pentola d’acqua e sale e poi immergetevi le foglie del basilico per dieci secondi; trasferitele poi velocemente in una boule con acqua e ghiaccio. 7. Quando l’aglio sarà pronto e raffreddato, passatelo al mixer coi pinoli tostati, quindi aggiungete il basilico ben asciugato, il sale grosso, il succo di limone e date qualche colpetto di mixer e poi aggiungete i formaggio grattugiati. Poi aggiungete a filo l’olio extravergine di oliva fino a ottenere un composto denso. 8. Pulite i frutti di mare e i gamberi rossi; fateli saltare in padella con olio, uno spicchio d’aglio e un pizzico di sale. 9. Condite il cous cous col pesto di basilico e aggiungete i frutti di mare e i gamberi rossi. Mescolate il tutto e servite freddo o a temperatura ambiente.

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INGREDIENTI


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LASAGNA DI PESCE SPADA PREPARAZIONE

INGREDIENTI 4 persone Per il ragù 400 g di pesce spada fresco mezza cipolla una carota un gambo di sedano

1. Setacciate la farina e create la fontana, formando al centro un incavo in cui romperete le uova. Aggiungete il sale e, aiutandovi con una forchetta, le uova e la farina, prendendone a poco a poco dai bordi. Continuate a impastare e alla fine formate un panetto di pasta liscia e omogenea. 2. Tirate le sfoglie con la macchinetta (o se siete particolarmente bravi, usate il mattarello). Le sfoglie alla fine devono risultare sottili ed elastiche. 3. Preparate il ragù facendo un soffritto con sedano, carota, cipolla e aglio; aggiungete il pesce spada tagliato a cubetti e poi sfumate col vino bianco. 4. Quando il vino sarà evaporato, aggiustate di sale e di pepe e unite la passata e il concentrato di pomdoro insieme a mezzo bicchiere d’acqua. 5. Lasciate che il ragù cuocia per qualche minuto in modo che gli ingredienti si amalgamino fra loro e poi spegnete il fuoco. 6. Preparate la besciamella: sciogliete il burro in un pentolino e unite la farina setacciata. Sempre mescolando con una frusta, fatela tostare senza lasciare che scurisca troppo. 7. Versate il latte, facendo attenzione che non si formino i grumi, portate il tutto a bollore, aggiungete sale e noce moscata e fate addensare.

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8. Siete pronti a questo punto ad assemblare le vostre lasagne, esattamente come quelle tradizionali: a strati, in una teglia imburrata, unendo ragù, besciamella e Parmigiano. 9. Infornate le lasagne a 180°C per circa venti minuti (oppure usate il kettle, predisponendolo per una cottura indiretta). Lasciatele poi riposare un attimo e servitele calde.

uno spicchio d’aglio due cucchiai di olio extra vergine di oliva mezzo bicchiere di vino bianco un cucchiaio di concentrato di pomodoro mezzo cucchiaio di passata di pomodoro

per la besciamella 50 gr di burro 40 gr di farina 500 ml di latte intero noce moscata q.b. sale q.b.

per le lasagne 300 g di farina 00 3 uova un pizzico di sale

per le lasagne Parmigiano Reggiano grattugiato a piacere


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PAELLA DI MAZARA

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Speciale Gastronomia Siciliana - Ricette a cura di Michela Bongiorni


PREPARAZIONE 1. Preparate il brodo vegetale e tenetelo da parte. 2. In un tegame largo fate aprire le cozze e le vongole, poi filtrate l’acqua di cottura e tenetela da parte. 3. Pulite i calamari, tenete da parte i tentacoli e tagliate il resto ad anelli. 4. Pulite i gamberi e tenete da parte le teste e i carapaci; a questo punto potete cominciare a preparare il vostro Assoluto di Gamberi. 5. In una padella, fate soffriggere il trito di verdure e poi spadellate tutte le rimanenze dei gamberi a fiamma alta. Sfumate col cognac. 6. Evaporato l’alcol, aggiungete il concentrato di pomodoro, la spremuta di mezzo lime e il ghiaccio, in modo che i carapaci e le teste non si brucino in cottura. 7. Fate ridurre il tutto, frullatelo con un mixer a immersione e filtratelo con un colino cinese, ottenendo un concentrato molto denso. 8. Fate un soffritto con mezza cipolla, una costa di sedano e mezza carota. 9. Preparate il kettle per la cottura diretta e posizionate il wok direttamente sopra le braci (se avete la griglia gourmet, posizionatelo nell’apposito spazio). 10. Versate nel wok un cucchiaio abbondante di olio extravergine d’oliva e poi subito il soffritto, lasciandolo imbiondire. 11. A questo punto aggiungete il riso e cominciate a farlo insaporire, poi cominciate a bagnare con brodo vegetale. 12. Aggiungete i calamari, le cozze e le vongole e bagnate con l’acqua di cottura dei molluschi che avevate tenuto da parte; aggiungete anche i peperoni tagliati a listarelle. 13. Sciogliete una bustina di zafferano in poco brodo e aggiungetela a tutto il resto insieme alla paprika dolce, aggiustate di sale e pepe. 14. Continuate per un po’ ad aggiungere il brodo, ma circa a metà cottura smettete e fate in modo che il riso cominci a tostarsi, senza bruciarsi: otterrete così il socarrat, ovvero la gustosa crosticina che rende la paella così buona.

16. Quando la paella sarà pronta aggiungete abbondante olio extravergine, un cucchiaio di succo di limone, due cucchiaini di Assoluto di Gamberi (il resto congelatelo e utilizzatelo per altre preparazioni) e date un’ultima mescolata, grattando bene la crosticina dal wok; infine, lasciate riposare il tutto. 17. Servite la paella insieme ai gamberi grigliati.

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15. Nel frattempo, usando un secondo dispositivo più piccolo (o se siete bravi organizzandovi lo spazio in griglia in modo da poter utilizzare la zona intorno al wok), grigliate i gamberi rossi.


INGREDIENTI 4 persone

Per la paella 500 g di riso arborio o carnaroli due coste di sedano una cipolla una carota due spicchi d’aglio un ciuffo di prezzemolo 1 kg di cozze pulite 500 g di vongole veraci 20 calamari un peperone giallo un peperone rosso 8 Gamberi rossi Mazhara GLC Top Selection olio extravergine d’oliva q.b. paprika dolce a piacere pepe q.b. una bustina di zafferano mezzo cucchiaio di concentrato di pomodoro succo di limone q.b.

Per l’assoluto di gamberi due cucchiai di trito di sedano, carote e cipolle due cucchiai di olio extravergine di oliva le teste e i carapaci dei Gamberi Rossi di Mazara mezzo bicchiere di cognac mezzo cucchiaio di concentrato di pomodoro mezzo lime abbondante ghiaccio per il brodo vegetale una costa di sedano una cipolla due ciuffi di prezzemolo una carota mezzo cucchiaio di concentrato di pomodoro

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olio e sale q.b.


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PARMIGIANA DI SPADA

fotografie di Rossella Neiadin


PREPARAZIONE 1. Tagliate le melanzane a fette abbastanza spesse per il lato della lunghezza. Mettetele in uno scolapasta con un pizzico di sale e lasciate che perdano l’acqua per almeno un’oretta. 2. Tagliate finemente la cipolla e fatela imbiondire in un pentolino a fuoco dolce. 3. Aggiungete adesso la passata e regolate di sale e pepe. Fate cuocere a fuoco lento per circa mezz’ora. 4. Infarinate le melanzane e friggetele in olio bollente. 5. Lasciatele raffreddare su carta assorbente. 6. Componete adesso la parmigiana alternando le fettine sottili di pesce spada insaporite con un pizzico di sale, il sugo, le melanzane e la mozzarella per tre strati. Nell’ultimo strato sostituite la mozzarella con il parmigiano.

INGREDIENTI 4 persone

7. Mettete a cuocere nel kettle in cottura indiretta o nel forno a 180 gradi per circa 30 minuti.

200 g di pesce spada tagliato a fette sottili 2 melanzane farina q.b. una mozzarella 200 g di Parmigiano Basilico q.b. Sale e pepe q.b. Olio per friggere q.b. 500 g di passata di pomodoro una cipolla rossa

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uno spicchio d’aglio


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CAPONATA DI PESCE SPADA PREPARAZIONE

1. Lavate le melanzane sotto l’acqua corrente e mantenendo la buccia tagliatele a dadini non troppo piccoli. 2. Prendete uno scolapasta, versate all’interno un primo strato di melanzane e salatele, poi un secondo strato e salatele nuovamente. Appoggiate sopra di esse un piatto con un peso, in modo che possano perdere il proprio liquido amaragnolo, per 30 minuti circa. 3. Sciacquate la dadolata di melanzane sotto l’acqua e asciugatela tra due canovacci. 4. Friggete le melanzane in abbondante olio di semi: quando saranno belle dorate, con l’aiuto di una schiumarola toglietele dalla padella e adagiatele su un piatto ricoperto con carta da cucina, per asciugarle dall’olio in eccesso. 5. In una casseruola versate un po’ di olio extravergine d’oliva e mettete a rosolare la cipolla e il sedano tagliati grossolanamente. 6. Quando il sedano e la cipolla saranno imbionditi, unite le olive - denocciolate e ridotte a rondelle - e i capperi. Lasciate insaporire per qualche minuto. 7. Aggiungete la passata di pomodoro, l’aceto e lo zucchero e mescolate bene; dopo una decina di minuti mettete anche le melanzane ed aggiustate di sale (e di pepe, anche se lo chef ne evita sempre l’uso, perché dice che tutti i suoi piatti devono essere consumati anche dai bambini). Lasciate cuocere il tutto finché le melanzane non saranno morbide. 8. Mezz’ora prima di passarlo sulla piastra, togliete il tonno dal frigo ed avvolgetelo con della carta da cucina per eliminare l’umidità in eccesso.

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9. Quando le verdure saranno quasi pronte, oliate il pesce spada e scottatelo su entrambi i lati. 10. Tagliatelo a cubetti e unitelo alle verdure affinché termini la cottura e si amalgami con gli altri ingredienti.


fotografie di Rossella Neiadin

INGREDIENTI 4 persone 200 g di pesce spada due melanzane una costola di sedano una cipolla 80 g di olive verdi denocciolate 30 g di capperi sotto sale mezzo bicchiere di aceto di vino bianco 100 g di passata di pomodoro 40 g di zucchero semolato olio extravergine d’oliva q.b.

sale q.b. pepe q.b.

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olio di semi q.b.


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fotografie di Tommaso Buccafurri

SIAMO A CAVALLO!

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le Polpette e gli Involtini catanesi Catania è la patria della carne di cavallo. Sebbene lo stemma della città raffiguri un elefantino porpora un rampante cavallino ci sarebbe stato altrettanto bene vista la quantità e la diffusione della carne equina tra le mura. Chi è stato in questa città sa quanto i catanesi amino i cavaddu, profondamente radicato da secoli nelle loro abitudini alimentari. Dicono che, nella cottura della carne di cavallo, come si può constatare nei rioni di via Plebiscito, il trucco stia nel buttare il salmoriglio non solo sulla carne, ma anche sulla brace. Per le piazze della splendida città siciliana aleggia sempre una nuvola di fumo e di profumo sprigionata dalle griglie, rigorosamente a carbone, di qualcuno pronto a soccorrere gli attacchi di fame

compulsiva dei visitatori o dei cittadini. I puppetti, cicciotti e sfrigolanti, riempiono le strade di un aroma che sa di profondo sud: non sono altro che polpette di carne equina spesso cotte ed avvolte nelle foglie di limone, insaporite con aglio, prezzemolo e del buon pecorino siciliano. Morbide all’interno e croccanti all’esterno, talora arricchite da un ingrediente segreto che ogni arrustituri custodisce fedelmente. E forse è anche questo mistero a renderle così uniche e così speciali. Altra preparazione tipica, invece, è rappresentata dagli involtini: questi vengono confezionati partendo dalle fettine di coscia del cavallo, panate una ad una e farcite con ingredienti semplici del territorio, tra i quali

solitamente la provola e l’aglio non mancano. Si aggiunge del prezzemolo e del pecorino e si chiudono i due capi. Una volta infilzati con due spiedini o con uno piatto gli involtini così ottenuti si possono cuocere alla griglia o in umido, con pomodoro e cipolle. Protagonisti indiscussi dello street food catanese, gustosi e saporitissimi, sono perfetti da gustare tra una viuzza e l’altra del centro città. Ancora una volta, Via del Plebiscito è il cuore pulsante di questa tradizione, dove si possono trovare numerose botteghe specializzate in tutte le declinazioni della carne di cavallo. Da un punto di vista nutrizionale, la carne equina possiede molte proprietà interessanti.


Il suo consumo viene pertanto spesso consigliato a chi soffre di anemia, ai bambini, alle donne in gravidanza, agli anziani, ai convalescenti e agli sportivi. Una carne che ha letteralmente fatto la storia: la carne di cavallo fu fin dal Paleolitico uno dei cibi più apprezzati dall’uomo; presso i Greci e i Romani era occasionale,

anche se ad Atene c’erano botteghe dove la si vendeva a chi era meno abbiente; per i tartari e i nomadi rappresentava il cibo della sopravvivenza e, infatti, i cavalieri mongoli per conservare la carne di cavallo , prima di partire per lunghissimi periodi, la tagliavano a lunghe strisce sistemandola tra il dorso e la sella, per far sì che il sudore salato diventasse una sorta di marinatura. Da cruda – difficilmente la cuocevano, poiché accendere fuochi li avrebbe esposti aò rischio di essere avvistati - veniva mangiata con l’aggiunta di bacche selvatiche e spezie: ciò che poi si è evoluto nella famosa tartare, che originariamente era ricavata dalle carni di animali più vecchi o feriti. Nei paesi del Centro-Nord Europa, sia per ragioni pratiche (nel medioevo i cavalli erano molto più utili da vivi che da morti) sia per ragioni religiose (mangiare carne di cavallo ricordava anctiche usanze pagane), il consumo

di questo alimento venne duramente condannato dalla Chiesa. Esiste una sanzione con bolla papale, mai revocata, del 732 secondo la quale la carne di cavallo re e rimane l’unico cibo proibito per i cattolici. Divieto mai applicato, però, nei paesi del sud Europa che erano cristiani già da parecchi secoli. Tra le curiosità ricordiamo che in Francia, a fine ‘800, venne rivalutata definitivamente quando venne servita in occasione di un grande banchetto organizzato al Grand Hotel di Parigi, con la partecipazione di grandi scrittori ed intellettuali quali Alexandre Dumas e Gustave Flaubert. Tornando alla nostra amata Sicilia, celebrata in questo speciale del Magazine, vi presentiamo appunto le due golosità di cui parlavamo all’inizio. Siamo sicuri che ci ringrazierete.

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È piuttosto magra e con un carattere marcato nel sapore: sapida, con retrogusto dolciastro. L'elevato contenuto di ferro è la sua principale peculiarità. Nella carne di cavallo, infatti, esso è presente in grande quantità in 100 grammi di carne cruda si trovano 3,9 milligrammi di ferro, ovvero più del doppio rispetto ai tagli bovini e più del triplo rispetto a pollo e tacchino. Inoltre, risulta essere altamente biodisponibile: viene cioè facilmente assorbito dal nostro organismo (in proporzioni tre volte maggiori, per esempio, rispetto a quello contenuto nei vegetali come gli spinaci).


INGREDIENTI 4 persone 12 fettine di cavallo spesse circa 3/4 millimetri un mazzetto di prezzemolo 3 spicchi di aglio 60 g di pecorino siciliano stagionato

INVOLTINI PREPARAZIONE

grattugiato Sale q.b. Pepe nero q.b. Olio extravergine d’oliva q.b. 300 g di pangrattato 200 g di provola semistagionata

1. Preparate Il mix di pane grattugiato, prezzemolo tritato, sale e pepe nero per le fettine avendo cura di panarle con attenzione,dopo averle unte leggermente con un filo d’olio. 2. All’interno di ognuna inserite nella parte bassa delle sottili lamelle di aglio, un cucchiaino di pecorino e della provola tagliata a listarelle (circa 1 cm di larghezza e un paio di millimetri di spessore). 3. Arrotolate stringendo bene la fettina attorno al ripieno. 4. Una volta preparati tutti gli involtini, rincalzate i lati e fermateli con degli spiedini di bambù lasciati a bagno almeno un’ora o ancor meglio uno spiedino piatto di acciaio. 5. Accendete mezzo cesto di carbonella e attendete la formazione di un sottile strato di cenere che indicherà il momento giusto per versare il carbone nel braciere. 6. Grigliare a calore diretto fino ad ottenere una gustosa crosticina all’esterno e a rendere filante la provola all’interno.

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7. Serviteli caldissimi, magari vaporizzandoli con un goccio di aceto di vino bianco.

Aceto di vino bianco q.b. (facoltativo)


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POLPETTE PREPARAZIONE

1. Tritate finemente gli spicchi d’aglio e il prezzemolo e uniteli al macinato equino amalgamando il tutto insieme alle uova sbattute, il pangrattato e il pecorino.

INGREDIENTI 4 persone

Per l'impasto 800 g di macinato equino un mazzetto di prezzemolo 3 spicchi di aglio 120 g di pecorino siciliano stagionato grattugiato Sale q.b. Pepe nero q.b. Olio extravergine d’oliva q.b. 2 uova 100 g di pangrattato La scorza di un limone 4 panini tipo mafaldina

per il salmoriglio 30 g olio

2. Aggiungete un filo d’olio extravergine d’oliva e la scorza di un limone, poi aggiustate di sale e pepe. 3. Lasciate riposare in frigo giusto il tempo di accensione del carbone. 4. Accendete mezzo cesto di bricchette e attendete la formazione di un sottile strato di cenere che indicherà il momento giusto per versarle nel braciere. 5. Durante il confezionamento delle polpette, preriscaldate la griglia al massimo della temperatura. 6. Formate delle palline da almeno 60/70 g e schiacciatele dando loro una forma leggermente allungata. 7. Passate un sottile strato di olio sulla griglia calda e ungete leggermente anche le polpette. Cuocete a calore diretto rivoltando la polpetta almeno ogni minuto fino al raggiungimento dei 55°C al cuore Devono rimanere rosa al centro e formare una deliziosa crosticina esterna. 8. Servitele caldissime in un mafaldina fragrante, condite con un tocco di salmoriglio che avrete preparato frullando gli ingredienti con un minipimer.

30 g succo di limone un cucchiaino di senape

uno spicchio d’aglio

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prezzemolo q.b.


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PANI CA MEUSA

il re dello street food siciliano

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Quando parliamo di pani cà meusa sappiamo perfettamente dove ci troviamo: casomai aveste bisogno di una traduzione, è il panino con la milza. La tipicità di questa pietanza è legata indissolubilmente alla Sicilia bedda. Si tratta di un piatto povero, ricavato dal quinto quarto, diventato un’eccellenza dello street food isolano e nazionale. Il pane è una pagnotta morbida ricoperta superficialmente di semi di sesamo, (detta vastella o guastedda) riempita di milza (mieviusa o meusa), polmoni e

fotografie di Luca Gallozza

trachea di vitello, tutto bollito e fatto sfrigolare nello strutto di maiale. U pani ca meusa ha origine nel X secolo, con l’arrivo a Palermo di alcuni macellai ebrei. Essi vivevano all’interno di un proprio ghetto e lavoravano nei vari mattatoi della città. Dato che la loro religione vietava i compensi in denaro per i lavori di macellazione, a titolo di regalìa, trattenevano per sè le interiora dell’animale escluso il fegato, ritenuto troppo pregiato.

Per tirar su qualche soldo, inventarono una pietanza: dopo aver bollito le frattaglie, vendevano il prodotto alle persone (non di fede ebraica, s’intende) che lo mangiavano per strada, unendo le frattaglie al pane e arricchendo il tutto con ricotta o formaggio. Quando la comunità ebraica venne allontanata dall’isola per intervento di Federico d’Aragona detto il Cattolico, verso la fine del 1500, gli ebrei vennero sostituiti dai caciottari


Oggi sopravvivono sempre le due versioni, schiettu e maritatu. La prima si riferisce alla vastella ripiena di frattaglie e condita con solo sale e succo di limone.

La versione maritata, invece, rispetto alla prima ha l’aggiunta di caciocavallo grattugiato (u cannistratu) messo dentro al panino a coprire le frattaglie. Ma come viene preparata la materia prima per la realizzazione di questo straordinario panino? Le parti del quinto quarto, meusa (milza), primuna (polmone) e attaccagghieddi o scannaruzzatu (cartilagini di trachea di vitello); vengono lavate e poi messe a bollire in abbondante acqua per almeno mezz’ora. Dopodiché si estraggono dall’acqua e vengono lasciate raffreddare un’altra mezz’ora, poi trasferite in frigo sino al completo raffreddamento. Fatto questo, le frattaglie sono pronte per essere affettate finemente al coltello. Il passaggio successivo prevede una cottura nello strutto di almeno 4 o 5 minuti. La particolarità di questo passaggio è data dallo strumento utilizzato. Non è una semplice padella, ma una sorta di mezzo fusto in acciaio che ha il fondo di cottura in pendenza. Questo permette allo strutto

di rimanere solo in un lato del dispositivo, dove vengono immersi i pezzi di carne. Nella parte alta di questa sorta di padella, si spostano le carni già cotte per essere scolate dallo strutto. Il pane utilizzato, come già accennato, è la vastedda, morbido come i bun per gli hamburger e con semi di sesamo; in alcuni casi si usa la mafalda. E’ tipico anche il modo di confezionamento del panino. Con una forchetta a due rebbi si infilzano i pezzi di carne immersi nello strutto e si adagiano velocemente sulla base del pane, sino al riempimento. Il tutto viene chiuso e strizzato leggermente per scolare l’eccesso di grassi. Su richiesta è possibile farsi preparare una favolosa scuccidda, una mafalda divisa in due parti e poi ancora suddivisa in due per creare quattro parti di pane poi condite con la milza a due a due, tipo sandwich. Non ci resta che illustrarvi i passaggi e gli ingredienti in maniera più precisa possibile, in modo che possiate eseguire a casa questo meraviglioso panino.

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palermitani. La vendita avveniva per strada (come ancor oggi si fa) tramite bancarelle ambulanti. Questi venditori proponevano un panino molto economico che veniva intriso di sola sugna e arricchito con un po’ di formaggio, generalmente caciocavallo. Anche nelle classi meno abbienti, c’era chi non poteva permettersi un cibo semplice come questo. Infatti i vastiddari, o più modernamente meusari, vendevano due tipi di panino. Il classico, intriso di sugna e formaggio che allora veniva chiamato schettu, oppure uno più ricco e costoso che comprendeva anche le frattaglie e che veniva detto maritatu, ovvero sposato nel senso di accompagnato da altro. In questo caso, maritatu con le frattaglie.


PREPARAZIONE 1. Lavate e pulite dalle impurità la milza, il polmone e la trachea, lasciandoli interi, e cuoceteli in abbondante acqua bollente salata. 2. Lasciate bollire per mezz’ora, poi scolate e fate raffreddare a temperatura ambiente per altri 30 minuti. 3. Trasferite il tutto in frigorifero e lasciate raffreddare per minimo un’ora. 4. Togliete le frattaglie dal frigo e tagliatele a fettine sottili. 5. Inclinate su un fornello, da un lato, una padella dai bordi alti nella quale scioglierete lo strutto a temperatura medio alta. 6. Immergete le fettine sottili di carne, e lasciatele cuocere per qualche minuto. 7. Tagliate i panini parzialmente a metà e svuotateli della mollica. 8. Con l’ausilio di un forchettone a due punte, infilzate la carne e adagiatela sulla base del panino. 9. Strizzate la carne con l’ausilio di una paletta forata, salate, aggiungete il limone a piacere o il caciocavallo.

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10. Servite i panini caldi avvolti dalla carta assorbente.

Se mangiate u pani ca meusa per strada, fate ben attenzione. Non è un’impresa facilissima riuscire a non macchiarsi gli indumenti, ma c’è un metodo sicuro: divaricate le gambe, tenete la schiena dritta e le braccia davanti a voi. Sporgetevi un po’ in avanti e tenendo ben saldo il panino tra le mani addentatelo con un morso deciso. Sentirete un gusto ricco, forte e caratteristico. Non ci sono mezze misure: è qualcosa che si ama o si odia. Ma voi lo amerete, noi lo sappiamo.


INGREDIENTI 4 persone

300 g di polmone di vitello 100 g di milza di vitello 8 g di trachea (solitamente attaccata al polmone) 300 g di strutto 150 g di caciocavallo 1 limone Sale q.b.

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4 panini al sesamo o mafalde


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COTOLETTA ALLA PALERMITANA

...non chiamatela fettina panata!

Mangiare male è una scelta. Mangiare male per risparmiare tempo è una perversione assurda. Si può mangiare benissimo usando lo stesso numero di padelle e nello stesso tempo. Cucinare bene o male richiede lo stesso tempo e con ogni probabilità lo stesso numero di stoviglie da pulire. Quindi cucinare male è una perversione dell’intelletto. Punto. E nel mio modo di concepire la cucina è, appunto, inconcepibile. Gianfranco Lo Cascio

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Qualche numero fa, abbiamo parlato della cotoletta alla milanese. Oggi vogliamo presentarvi una una delle sue mille varianti. La cotoletta alla palermitana. E di nuovo affrontiamo l’ostico argomento “fettina panata”, aggiungendo un ulteriore difficoltà: già, perché questa versione siciliana è addirittura light, senza uova e non fritta. Il che vi farà sicuramente salire la domanda più ovvia: ha senso di esistere? La risposta ve la dà la citazione qui sopra: dipende. Non è la fettina panata in sé a dover essere demonizzata, quanto piuttosto il tempo e l’impegno che mettete nel prepararla. Oltre, ovviamente, alla scelta degli ingredienti. Passiamo ora alla ricetta della cotoletta alla palermitana: questa ricetta chiamiamola tradizionale: prevede l’uso di una fettina – ovviamente- magra magra e fresca fresca di vitello (ma qualcuno usa anche il pollo) ripassata prima in olio extravergine d’oliva poi impanata con un pangrattato aromatizzato con prezzemolo, pecorino, foglioline di menta e pepe nero. Dopodiché, la fettina viene cotta, alla griglia, alla piastra, in padella o al forno. Come potete intuire da soli, di per sé la ricetta ha la potenzialità di diventare ‘na chiavica - scusate il francesismo- così come un piatto da capriole sulla

sedia. La differenza sta proprio in quell’impegno di cui parla lo Zio e che dovrebbe essere alla base di ogni preparazione. Noi ci abbiamo messo molto impegno e abbiamo scelto come taglio un Eye of Round Australiano AACo 3-5+ Wagyu F1 Crossbred. Quello che in Italia corrisponde al magatello, molto conosciuto e adottato per la realizzazione del Pit Beef. La nostra versione della panatura consiste in un mix di pane grattugiato leggermente spesso, formaggio, e Sal’s Seasoning Dallas rub e Sal’S Seasoning Smoke- Chipotle in parti eguali. Abbiamo inoltre inserito nel mix di pane alcune foglie di menta fresca, un po’ di prezzemolo e zeste di limone. Le note affumicate del jalapeno mixate con quelle della menta fresca sono amplificate dagli olii essenziali di quest’ultima e danno un boost di sapore. Il limone contribuisce a riequilibrare il tutto con la sua aromaticità fruttata. Come formaggio, abbiamo usato una miscela di caciocavallo e pecorino. Il risultato giudicatelo voi, che noi siamo troppo impegnati a mangiarcele tutte, ‘ste cotolette paradisiache!


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fotografie di Luca Gallozza


PREPARAZIONE 1. Ricavate dal pezzo di ciccia 8 belle fettine dello spessore di qualche millimetro. 2. Spennellate le fettine con olio extravergine di oliva e tenetele da parte. 3. Prendete la mollica di pane raffermo e sbriciolatela grossolanamente in una ciotola. 4. Aggiungete il formaggio, un pizzico di sale e di pepe, i Sal’s Seasoning Dallas e SmokeChipotle, il prezzemolo grattugiato e le zeste di mezzo limone. 5. Ora versate a filo ancora un po’ di olio extravergine d’oliva, per inumidire e amalgamare gli ingredienti. 6. Passate le fettine unte d’olio nella panatura, pressandole leggermente affinchè essa aderisca meglio alla carne. 7. Impostate il vostro dispositivo per una cottura indiretta sui 180°C in griglia. 8. Aiutandovi con uno spruzzino, ungete leggermente le fettine sopra la panatura, nebulizzando ulteriore olio extravergine. 9. Appoggiate le fettine sulla griglia - potete anche utilizzare la carta forno per aiutarvi a non far attaccare la panatura- e lasciatele cuocere a coperchio chiuso in indiretta sino a doratura. 10. Servitele ancora calde semplicemente con una spruzzatina di succo di limone.

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Il consiglio in più? Fate una salsa con olio extravergine d’oliva, due spicchi d’aglio tritati finemente, qualche ciuffo di prezzemolo tritato con tutti i gambi, ancora qualche zeste di limone ge un paio di foglioline di menta in infusione nell’olio. Potete preparare la salsa qualche ora prima e lasciarla maturare in frigo. Accompagnatela con un’insalata dolce come la lattuga romana, qualche pachino tagliato a spicchi, delle rondelle sottili di cipolla rossa di Tropea e alcune foglie di rucola. Per arricchire l’insalata, inserite qualche cappero dissalato e olive nere snocciolate, qualche pinolo tostato in padella e dell’uva passita rinvenuta dentro una tazzina di buon marsala e poi strizzata. Condite con il miglior olio extravergine d’oliva che avete, salate e pepate.


INGREDIENTI 4 persone

8 fettine di Eye of Round Australiano AACo 3-5+ Wagyu F1 Crossbred) 300 g di mollica di pane raffermo 70 g di caciocavallo grattugiato 30 g di pecorino 5/6 foglie di menta fresca olio extravergine di oliva q.b. un ciuffo di prezzemolo 15 g di Sal’s Seasoning Dallas 15 g di Sal’S Seasoning Smoke- Chipotle un limone sale q.b.

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pepe q.b.


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IRIS ALLA RICOTTA CON SCAGLIE DI CIOCCOLATO

...per ricordare gli Eroi.

Probabilmente molti di voi conoscono bene il film diretto e interpretato da Pif: La mafia uccide solo d’estate. Nella pellicola viene raccontata la vita del piccolo Arturo che, tra una partita di pallone, i compiti di matematica e i primi amori, cresce nella Palermo degli anni bui, quando Cosa Nostra la faceva da padrona e teneva sotto scacco la Sicilia e i suoi abitanti. Agli occhi del giovane Arturo la vita è come quella di ogni altro bambino, ma quello che lui non vede e che si nasconde agli occhi dei più è ciò che fa vergognare ogni siciliano degno di questo nome. A partire dalla metà degli anni ‘70, Palermo viene segnata da una violenza inaccettabile e incancellabile, che ha reso la città tristemente famosa nel mondo. Fama che certamente non le rende giustizia: Palermo non è mai stata solo mafia ma, fra i moltissimi “regalini” che Cosa Nostra ha lasciato ai suoi abitanti e ai siciliani in generale, dobbiamo anche contare tutte le battute (divenute negli anni addirittura barzellette, a peggiore se possibile la situazione) che vedono gli abitanti di questa splendida regione sempre accostati ai mafiosi.

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Violenti attacchi dinamitardi e sparatorie a cielo aperto devastano profondamente la città negli anni di piombo, e l’isola tutta. La mafia vuole espandere la propria influenza e vuole incrementare il suo potere. Lo Stato assegna molte risorse al fine di sconfiggere questa piaga e negli anni molti Eroi si espongono per contrastare l’egemonia de Cosa Nostra. Queste persone, con coraggio e determinazione, l’hanno affrontata con l’intento di sconfiggerla; persone che purtroppo in molti casi vengono ricordate attraverso i nomi delle vie, dei palazzi e delle scuole a loro intitolate post-mortem. Morti tragiche, violente, superflue. Stamo parlando di nomi come Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, Carlo Alberto Dalla Chiesa, Pio La Torre, Mario Francese, Rocco Chinnici e Boris Giuliano. Questi uomini hanno vissuto e amato la Sicilia fino alla fine, e come chiunque ami quest’isola, anche loro sono stati sicuramente conquistati dalla cucina e dalla pasticceria. Non sappiamo con esattezza quali piatti preferissero, ma nel film di cui parliamo ad inizio articolo viene raccontato un aneddoto divertente su Boris Giuliano. Egli aveva l’abitudine di fare colazione tutte le mattine al bar Lux, un locale storico del centro di Palermo. Purtroppo, quest’abitudine gli costò la vita perché proprio dentro quel bar subì l’attentato mafioso che gli costò la vita.

Ma perché Giuliano ogni mattina andava proprio in quel posto a fare colazione? Nel film vediamo il giovane Arturo Giammarresi, accompagnato dal padre a fare colazione al bar Lux, che mentre sta per fare la sua scelta davanti alla vetrina dei dolci, incontra proprio Boris Giuliano, seduto lì affianco, che suggerisce di mangiare l'iris: uno scrigno di morbida pasta brioche che custodisce un raffinato cuore di crema di ricotta e scaglie di cioccolato. Da quest’episodio nascerà poi l’amicizia tra Arturo e il commissario. Noi non abbiamo alcuna certezza che la storia sia vera, e che realmente Boris Giuliano fosse appassionato di Iris, ma a noi piace credere che lo sia e in questo numero dedicato alla gastronomia siciliana ci è sembrato giusto ricordare anche questa brutta pagina della storia millenaria della bella isola e celebrare gli Eroi che hanno lottato contro quell’immenso orrore, proprio attraverso uno dei dolci preferiti dai palermitani.


Paolo Borsellino

fotografie di Rossella Neiadin

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"Parlate della mafia. Parlatene alla radio, in televisione, sui giornali. Però parlatene."


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PREPARAZIONE 1. Versate la farina, dopo averla setacciata, in un ciotola poi aggiungete il lievito e lo zucchero. 2. Aggiungete a poco a poco il latte tiepido e iniziate a mescolare. 3. Aggiungete adesso l’uovo e lo strutto, e continuate a mescolare fino a ottenere un composto liscio eomogeneo.

per 12 iris

per l'impasto 280 g di latte intero 550 g di farina 00 25 g di zucchero un uovo 5 g di lievito di birra secco 50 g di strutto (o in alternativa burro) Per il ripieno di base 300 g di ricotta di pecora 100 g di zucchero al velo Da aggiungere al ripieno per la versione classica 50 g di ricotta vaccina 50 g di zucchero al velo Da aggiungere al ripieno per la versione al cioccolato 50 g di gocce di cioccolato fondente Per l’impanatura 2 uova 200 g di pangrattato Per la frittura Olio di semi di arachide

4. Una volta ottenuta la giusta densità del composto, formate una pallina e mettetela a riposare in un ciotola coperta da pellicola trasparente. 5. Lasciate riposare il composto per almeno 4 ore in un luogo fresco e asciutto a una temperatura di circa 25-30 gradi. 6. Nel frattempo ponete la ricotta sopra un colino e successivamente mettete il colino in una ciotola; riponetela adesso in frigo per farla sgocciolare dall’acqua in eccesso (circa 3-4 ore). 7. Mettete su un piatto le gocce di cioccolato e riponetele in freezer per farle congelare. 8. Una volta lievitato l’impasto, dividetelo in 12 pagnottelle di forma rotonda e fatele lievitare circa un’ora sopra una teglia ricoperta da carta da forno. 9. Nel frattempo in una ciotola preparate l’impasto per le due versioni. Mescolate la ricotta di pecora con lo zucchero al velo e dividetela in due parti uguali, in una aggiungete la ricotta vaccina, nell’altra invece non mettete nulla. Le gocce di cioccolato verranno aggiunte in un secondo momento. 10. Una volta lievitate le pagnottelle stendetele a formare dei cerchi, e ponete al centro un cucchiaio di ripieno. Per la versione classica usate il mix di ricotte, per la versione al cioccolato invece la ricotta semplice e le gocce di cioccolato congelate. 11. Chiudete ora i cerchi come se fossero un fagottino chiudendo il lembi e date loro una forma più possibile sferica. 12. Una volta formate le sfere passatele nell’uovo sbattuto e nel pangrattato. Per avere una panatura più croccante potete ripetere quest’operazione due volte, ma attenzione a non esagerare con il pangrattato. 13. Una volta panate tutte le iris è il momento della frittura: portate l’olio a temperatura e friggetele a immersione fino a quando non avranno un aspetto dorato. 14. Una volta fritte ponetele su un vassoio foderato di carta assorbente per drenare l’olio in eccesso. 15. Prima di servirle potete cospargerle di zucchero semolato o al velo, se lo gradite.

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INGREDIENTI


Aranci n oAranci

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Speciale Gastronomia Siciliana approfondimento a cura di Michela Bongiorni

fotografie di Rossella Neiadin

. . . M a in fondo c he c o s ’è u n nome?


Ebbene, la cosa si è ingigantita così tanto da aver attirato l’attenzione, qualche anno fa, nientepopodimenoché dell’Accademia della Crusca. La quale in realtà non ha dato una risposta definitiva. Scrive la Crusca: il gustoso timballo di riso siculo deve il suo nome all’analogia con il frutto rotondo e dorato dell’arancio, cioè l’arancia, quindi si potrebbe concludere che il genere corretto è quello femminile: arancina. Ma non è così semplice. Infatti, si vogliono far risalire le origini della polpettona alla dominazione araba in Sicilia (dal IX all’XI secolo) poiché gli arabi effettivamente avevano l’abitudine di appallottolare riso allo zafferano nella mano e condirlo con carne di agnello creando delle palline prendevano il nome della frutta a cui assomigliavano: piccole arance, quindi arancine. Tuttavia, non ci sono testimonianze di questa preparazione in Sicilia nelle cronache, nei dizionari, nei ricettari e in nessun altro posto prima della seconda metà del XIX secolo. Inoltre nel Dizionario siciliano-italiano di Giuseppe Biundi (1857) troviamo per la prima volta la forma arancinu, che però descriveva una pietanza dolce. La cosa farebbe dunque pensare che il delizioso timballo fritto non nasca dalla tradizione araba, ma da un piatto

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no ina?

Se lo chiedeva anche Shakespeare nell’indimenticabile scena tratta da Giulietta e Romeo: quella che chiamiamo rosa con un altro nome profumerebbe lo stesso. Vale la stessa cosa per queste piccole – si fa per dire - polpette di riso giallo (tonde o a punta) farcite perlopiù con ragù e piselli ricoperte da una panatura dorata, spessa e croccante. Potremmo chiamare queste polpette “Pierluigi” e vi assicuro che il loro irresistibile gusto non cambierebbe. Eppure la questione divide da sempre la Sicilia, in particolare le città di Catania e di Palermo. Nella prima il nostro Pierluigi viene chiamato Arancino, nella seconda cambia sesso e diventa Arancina. Non pensate di poter chiedere a un siciliano di risolvere la questione, magari durante una cena: ognuno vi dirà che il modo giusto di chiamare la polpetta di riso è quello che usano nella sua città o nella sua famiglia. Ma perché? Perché sì, sarà la risposta.


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nato nella seconda metà del XIX secolo come dolce di riso, trasformato quasi subito in pietanza salata, dato che il passaggio dolce-salato è abbastanza comune nella storia della gastronomia italiana. Ma allora perché arancino? Se assomiglia all’arancia, dovrebbe essere giusta la forma al femminile. In siciliano, però, così come in altre regioni italiane (anche in Toscana, ad esempio), a differenza dell’italiano standard che fa la distinzione tra il femminile per i nomi dei frutti e maschile per quelli degli alberi, si continua ad usare la forma al maschile arancio intendendo il frutto arancia. La prima attestazione nella lessicografia italiana di arancino si trova nel Dizionario moderno del Panzini (1942), che registra la forma maschile definendola dialettale siciliana. Questa forma è quella che poi è stata ripresa anche da diversi dizionari italiani (ad esempio, il GRADIT) e anche dal Ministero delle politiche Agricole, Alimentari e Forestali nella lista dei Prodotti Agroalimentari Tradizionali (P.A.T.). É dunque arancino la forma corretta? No, è solo accettata tanto quanto l’altra, secondo l'Accademia della Crusca; basta solo decidere se si vuole utilizzare la forma dialettale o quella dell’italiano standard. Certo, probabilmente in linea puramente teorica la forma al femminile è percepita come più corretta (specie nello scritto) perché l’opposizione di genere, tipica nella nostra lingua, a parte qualche rara eccezione, è usata per differenziare l’albero dal frutto. Ma non è poi così inaccettabile la forma al maschile, specie nel parlato (ricordiamoci inoltre che preservare le forme dialettali è importantissimo ed è diventata è una missione per molti linguisti). Parafrasando Shakespeare, quindi, possiamo tranquillamente affermare che l’arancino o l’arancina con un altro nome profumerebbe lo stesso e sopratutto farebbe sbavare tutti nello stesso modo.


LA RICETTA TRADIZIONALE

Io ne ho assaggiate due versioni. Una con il ragù, quella classica, e l’altra con prosciutto e formaggio. In poche parole, ero solita mangiare la prima come merenda e la seconda come colazione (solo perché devo ancora superare l’inutile sovrastruttura mentale che mi fa sembrare un azzardo troppo grosso mangiare il ragù alle 8 della mattina). Oggi proviamo a preparare proprio quest’ultima. La ricetta (io vi darò quella tradizionale, mentre più avanti Gianfranco Lo Cascio vi darà quella perfezionata a suo modo) ha tempi di realizzazione molto lunghi, almeno un giorno e mezzo: il ragù di carne e il riso, prima di essere assemblati insieme, devono riposare

almeno otto ore, in più ci sono da considerare le tempistiche di ogni singolo passaggio. Partiamo dal ripieno, la cottura più impegnativa: tutti voi sapete che un buon ragù deve cuocere lentamente come minimo quattro/cinque ore a fuoco bassissimo. Qui siete liberi di cucinare la ricetta della vostra nonna avendo cura di scegliere una carne tenera e ben marezzata, in modo da ottenere una farcitura ricca di sapore. Oppure per rendere le vostre arancine indimenticabili lasciando amici e parenti a bocca aperta, potete ricreare il ragù scientifico di Gianfranco Lo Cascio (che trovate nel numero di marzo 2020 del Magazine). In entrambi i casi, non dimenticate di aggiungere al sugo i piselli, ingrediente immancabile di questa preparazione. Il ragù dovrà essere ben ritirato: per eliminare anche gli ultimi residui di liquido al termine della cottura aggiungete un po’di amido di mais. Pronto il ripieno passate al riso. Preparate un buon brodo vegetale filtratelo più volte perché sia limpido e privo di residui. Per far sì che il riso (qualità arborio) sia gustoso ed abbia il suo tipico colore giallo, insaporite il brodo filtrato con un po’ di burro, qualche foglia di alloro e lo zafferano.

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Se siete stati in Sicilia – sono reduce dall’ennesimo viaggio a Mazara del Vallo in occasione del compleanno dello Zio- vi sarete accorti che questa icona dello street food siciliano, che io chiamerò da qui in avanti con il nome al femminile, è disponibile nei banconi dei bar, delle gastronomie, delle pasticcerie e dei locali a qualsiasi ora del giorno e della notte. Arrivi alle due del mattino e hai un certo languorino? No, scordati il cioccolatino: vai alla ricerca di un locale aperto e gustati questa bombetta di riso calda e goduriosa che ti rifocilla e ti consola, che ti lascia le mani unte e il cuore pieno di gratitudine.


Quando il riso (1 kg) ha assorbito tutto il liquido (2 l) versatelo su una placca larga e bassa per farlo raffreddare in modo omogeneo, perché diventi compatto e di conseguenza facilmente manipolabile. Trascorsa la notte è finalmente giunta l’ora di dare forma alle arancine. Suddividete il ragù in tante piccole palline. Quanto riso serve per formare una palla di riso grande come un’arancia? La risposta è molto semplice, dovete usare come unità di misura il palmo della vostra mano. Prendete il riso con la sinistra (o con la destra, se siete mancini): i chicchi devono ricoprirla tutta fino alla punta delle dita. Pressateli, mettete al centro del palmo la carne e chiudete la mano; se necessario aggiungete un po’ di riso. Dovete lavorare la sfera fino ad ottenere una superficie liscia. Se preferire potete dare al tutto la forma conica tipica della tradizione catanese. Esiste addirittura uno stampo chiamato arancinotto. Naturalmente andate avanti così fino a quando non terminate gli ingredienti. Preparate la pastella con acqua e farina, né troppo densa né troppo liquida. Immergete l’arancina nel composto facendolo aderire bene su tutta la superficie. Dopodiché passatela nel pangrattato.

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Tranquilli, state quasi per tagliare la linea del traguardo. In abbondante olio di semi di arachide e friggete le arancine: quando sono belle dorate toglietele dal fuoco e passatele sulla carta assorbente. Dopo averle fatte riposare qualche minuto sono pronte per essere mangiate. La sfida è farlo alle 4 di notte o alle 8 di mattina, ma sono sicura che la vincerete.


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IN SICILIA IL PANE È TUTTO

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L'Arte Bianca a cura di Alessandro Trezzi


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Ve ne accorgerete passeggiando per le vie di Palermo, invase dai profumi dei forni, dei panifici e delle rosticcerie: tutto è più buono dentro a due calde fette di pane, e i furbi isolani lo hanno sempre saputo.

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Del resto già alla fine del Medioevo nessuno mangiava pane diverso da quello di grano duro; nella cultura contadina della Sicilia pre-industriale era considerato un uomo vero chi mangiava pane travagghiatu, cioè ottenuto cioè con il sudore della propria fronte. La panificazione casalinga era un compito tipicamente femminile; il sabato pomeriggio il contadino tornava dalla campagna e trovava il pane caldo ad aspettarlo, oltre a qualche trancio di pasticcio o di pizza condita con olio e prezzemolo. Allora, il nostro contadino si sedeva e spezzava quel profumatissimo pezzo di artigianalità, spargendo briciole e sesamo su tutta la tovaglia. Da un punto di vista della tipicità, il pane casereccio più diffuso in Sicilia è e rimane quello realizzato con la semola di grano duro ed un’alveolatura fitta e minuta, a bassa idratazione ma a elevata conservabilità.


Il pane al sesamo più famoso

I semi di sesamo sono in ogni caso un ingrediente molto presente sia nella cucina araba che, per derivazione, in quella siciliana; la cubbàita (dolce a base di farina 00, farina di mandorle, zucchero, cannella, lievito, miele e semi di sesamo), la tahina (pasta di semi di sesamo utilizzata per la halva e altri dolci tipici dei Balcani) o la chebakia (dolce marocchino tipico del Ramadan) sono solo alcune delle preparazioni più celebri del Mediterraneo che fanno uso di questo versatilissimo prodotto.

Di tradizione in tradizione l pane rappresentava anticamente l’abbondanza produttiva, spesso utilizzato come elemento celebrativo di un buon raccolto, andando poi a fondersi nel tempo con le tradizioni cristiane o pagane. Neanche a dirlo, in tutta la Sicilia è pieno di storie di pane e di panificati di grano duro in generale. Il 17 Marzo, per San Patrizio, in molti centri siciliani è uso preparare delle sorte di altari, delle tavole imbandite arricchite di ogni alimento, compreso il noto pane di Ramacca (definita la capitale del pane), comune in provincia di Catania: è un prodotto realizzato con la semola di grano duro Senatore Cappelli e lievito madre, cotto poi in forni a pietra alimentati a legna. A spasso per l’isola, ci fermiamo a Monreale, comune celebre per la produzione dell’omonimo pane, inserito nel 1999 nelle liste dei prodotti agroalimentari tipici (P.A.T.). Il pane di Monreale è un prodotto da forno dalla crosta dorata e croccante, realizzato esclusivamente con la semola di grano duro, sale, acqua, sesamo e lievito naturale; viene sottoposto a una lievitazione di un paio di ore, al termine della quale le forme vengono depositate a riposare nei cosiddetti cannistri di giunco e poi cotte a legna a 300-320°C. Il risultato è un pane dalla mollica morbida e gialla, lavorato in diverse forme e dimensioni.

Il migliore pane di sesamo Qual è il risultato che vogliamo ottenere? Un pane dalla crosta spessa e dorata, non particolarmente croccante ma profumatissimo, dalla mollica morbida, spugnosa, l’alveolatura fitta e distribuita, e il colore giallastro, perfetto per accogliere i succhi della milza o l’olio delle panelle. Vi sta già aumentando la salivazione vero? Così detto sembrerebbe un risultato molto semplice; un pane chiuso e dalla crosta non croccante, praticamente l’errore più comune quando si prova a fare un pane casereccio e si è alle prime armi, cosa potrebbe andare storto? Attenzione, perché sono proprio le cose più semplici a nascondere maggiori insidie. Il pane non deve avere un’alveolatura eterogenea e aperta, ma ciò non significa che debba essere chiusa e compatta; la mollica deve SEMPRE respirare. Il segreto per lavorare nella giusta direzione è uno soltanto: condurre la lievitazione nel modo corretto e arrivare alla cottura con un impasto pronto e che non collassi per assenza di struttura.

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In Sicilia se dici pane al sesamo spesso dici mafalda. Si tratta di un pane dalla crosta dorata, dal delicato e caratteristico sapore dei semi di sesamo e sfornato in forme diverse tra cui le più celebri sono gli occhi di Santa Lucia (una sorta di serpentina) e la Corona, ottenuta tagliando in due punti il lato superiore di un panetto a forma di mezzaluna, che con lievitazione e cottura si apre a ventaglio nella parte incisa divenendo simile, appunto, a una corona. Tipica specialmente di Palermo e ideale per essere farcita con le golosissime panelle, pare che la Mafalda abbia origini arabe dato l’impiego della giuggiulena, termine siculo-arabo per definire semola e semi di sesamo, i due ingredienti principali di questa preparazione oltre alle rocce di arenaria locale, tipiche dei monti Iblei, e che si sfaldano in piccoli ciottoli ricordando i semi di sesamo. Più probabilmente tuttavia la storia di questo pane parte dall’Ottocento, in particolar modo da un maestro panificatore catanese che lo dedicò più avanti a Mafalda di Savoia.


L'impasto

Il grano duro è indiscutibilmente molto utilizzato nel nostro Sud, e il prodotto adatto alla panificazione è la cosiddetta semola rimacinata.

Poolish? Biga? Lievito madre? Niente di tutto questo. Per ottenere un risultato perfetto non abbiamo particolare bisogno di lavorare con dei prefermenti, che darebbero ben poco ausilio alla struttura di un pane piuttosto basso come la Mafalda; ma soprattutto, come già sappiamo, i prefermenti aggiungono variabili fin troppo dipendenti da una temperatura di fermentazione più stabile possibile e, se non gestiti nella maniera corretta, rischiano di compromettere un risultato di per sé già non così immediato. Il buon vecchio impasto diretto è sempre la soluzione più comoda quando si tratta di standardizzare un processo; tuttavia oggi, per la nostra rivisitazione Nerd della Mafalda prenderemo spunto dal metodo della focaccia genovese. Si, avete capito benissimo: lievitazione esasperata e utilizzo del malto saranno le chiavi per sfornare un prodotto da urlo. Senza dimenticare l’aiuto di un’amica di cui sentiamo parlare fin troppo spesso, e che oggi potrebbe darci una mano: l’autolisi.

Tra grani duro e tenero esistono differenze sostanziali. Il colore del grano duro tende al giallo per la presenza di carotenoidi; il glutine, corto e stretto, consente una maglia glutinica fitta e resistente, con alveoli piccoli e uniformemente distribuiti. In genere è in grado di assorbire e trattenere maggiori quantità d’acqua (60-68% contro i 50-60% del grano tenero) e ha una resa più elevata.

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Di contro, è meno stabile e più tenace: ragione per cui, con l’obiettivo di rendere le ore di riposo più equilibrate e soggette a minor rischio di collasso (oltre a spezzare la resistenza già citata), il grano duro s’impiega spesso insieme a quello viene tenero. Infine, visto che l’assorbimento mimino è maggiore, gli impasti di grano duro risultano di norma meno asciutti rispetto ai corrispondenti di grano tenero e somigliano ad un impasto per gnocchi. Questa volta, avendo un’idratazione molto bassa e ben pochi pericoli di trovarci di fronte ad impasti ingestibili, eviteremo tuttavia di miscelare il grano duro con quello tenero; fate solo attenzione che questo fantastico cereale potrebbe richiedere un po’ di tempo in più per la formazione del glutine rispetto al gemello.

Illustrazioni di Ozzy Bellesi

La farina


Ne avevamo già parlato in occasione dell’articolo sulla genovese, ma è utile rivangare ogni tanto per assicurarci di aver completamente dimenticato le false credenze: perché il malto e non il semplice (e più reperibile) zucchero da tavola? Partiamo dalle basi: le cellule del lievito si nutrono di zuccheri e producono anidride carbonica per la fermentazione. Per questo lo zucchero (maltosio e saccarosio) non va semplicemente aggiunto all’impasto in quanto verrebbe subito consumato, ma prodotto continuamente dalla saccarificazione (il processo che trasforma i carboidrati in zuccheri semplici) dell’amido contenuto nella farina con l’aiuto delle amilasi e dalle diastasi, enzimi presenti nella farina come nel malto stesso. L’uso corretto del malto velocizza fermentazione e lievitazione e - vista la maggiore presenza di zuccheri che caramellano durante la cottura migliora struttura e colore della focaccia, oltre ad accrescerne profumi e sapori. Il contributo del malto è fondamentale in presenza di farine con bassa attività amilasica, di solito inversamente proporzionale alla sua forza e all’abburattamento, cioè la setacciatura graduale del grano macinato per ottenere farina di diversa finezza. Le farine integrali e deboli hanno quindi maggiore potere enzimatico, detto anche diastasico. In commercio esistono diversi tipi di malto, differenti per potere diastasico e quantità di zuccheri; la soluzione migliore è l’estratto di malto concentrato in sciroppo e il malto diastasico in polvere, utilizzabili in proporzioni di 5:1. In sostanza, quando qualcuno vi dice “Potete sostituire il malto con il miele o lo zucchero”, giratevi dall’altra parte e datevela a gambe. Al di là della solfa appena che vi ho appena illustrato, l’utilizzo del malto si rende necessario nella Mafalda come nella focaccia genovese in quanto esaspereremo la lievitazione, al fine di rendere l’impasto profumato ma soprattutto l’alveolatura fine e uniforme; per tal motivo abbiamo bisogno di un ricarico di zuccheri che impedisca all’impasto di trovarsi senza sostentamento in lievitazione e in cottura, assicurandoci per altro quel magico colore dorato che stiamo cercando.

L'autolisi In biologia, autolisi è il processo di disintegrazione delle cellule che interviene dopo la loro morte per opera degli enzimi contenuti nei lisosomi. La tecnica dell’autolisi in arte bianca è stata sviluppata dal francese Raymond Calvel, ed è una sorta di pre- impasto che consente sostanzialmente di sfruttare l’autoevoluzione del glutine. Si sviluppa in tre fasi distinte: 1. miscelazione iniziale della farina con una parte dell’acqua; 2. riposo dell’impasto autolitico ottenuto; 3. impasto finale. Questa tecnica nasce sostanzialmente per agevolare l’assorbimento di acqua, lo sviluppo della struttura, i profumi e la shelf-life, oltre a ridurre i tempi di lavorazione

finale. Il grano italiano è infatti sempre stato debole, tenace, poco panificabile e in grado di formare ben poco glutine; si rendevano quindi necessarie pratiche di pre-impasto (come l’autolisi o la biga), utili ad agevolare l’assorbimento, la struttura e quindi la leggerezza del prodotto finito. Tuttavia oggi, con la grande offerta disponibile sul mercato per quanto riguarda le farine, i pregi di tale metodologia risultano decisamente superflui. Pare infatti inutile ricorrere a pre-impasti e pre-fermenti quando in realtà la materia prima consente di soddisfare alte percentuali di assorbimento senza alcun aiuto; oltretutto, ogni metodo in aggiunta alla tecnica più semplice non fa che aumentare il numero di variabili in gioco, rendendo il processo scarsamente standardizzabile e ripetibile. Per questo motivo l’autolisi, sebbene venga utilizzata in lungo e in largo senza logica, spesso e volentieri rappresenta un contributo praticamente nullo o irrisorio. Gli unici casi in cui è davvero utile si presentano con l’utilizzo di farine molto resistenti o con il grano duro, dotato (come già speficicato) di un glutine molto “più chiuso” e dall’assorbimento più lento e graduale; in questo caso infatti rende più morbida la maglia glutinica grazie alla proteolisi (scissione delle proteine in peptidi e amminoacidi liberi grazie agli enzimi proteasi). Ve lo state chiedendo? Vi do già la risposta: esatto, oggi vi do ufficialmente il permesso di utilizzare la vostra stramaledetta autolisi, siete contenti?

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Il malto


Preparazione dell'autolisi

Mescolate gli ingredienti in una ciotola, fermandovi non appena la farina risulterà completamente idratata. Non è necessario che formiate il glutine, dovete solo uniformare il composto. Coprite con pellicola e lasciate riposare a una temperatura di 20-22°C per 12 ore.

Impastamento

INGREDIENTI Per circa 6 mafalde Per l'autolisi 1000 g di semola rimacinata di grano duro (W 240-260); 450 g di acqua;

In una ciotola o nella vasca della vostra impastatrice o planetaria spezzettate l’impasto autolitico, sciogliete il lievito e il malto nell’acqua rimasta, poi versatene metà e iniziate a impastare, fino a ottenere una massa uniforme e asciutta. A questo punto aggiungete il sale, e proseguite mettendo l’acqua a filo, solo quando la precedente risulterà perfettamente assorbita. Chiudete l’impasto quando risulterà liscio, uniforme e ben incordato. Ripiegatelo sul banco per dargli una struttura, oliate un recipiente (possibilmente con i bordi alti e stretti per consentirgli di crescere in altezza), chiudete ermeticamente e mettete a lievitare a una temperatura di 24°C per un’ora.

Puntata

Ripiegate nuovamente l’impasto per dargli struttura, dopodiché riponete il recipiente in frigorifero a 6 °C per 24 ore.

Staglio e formatura Per l'impasto 1450 g di impasto autolitico 110 g di acqua; 18 g di sale fino; 5 g di malto diastasico in polvere o 15 g di malto in sciroppo; 15 g di lievito di birra fresco; Semi di sesamo q.b.

Recuperate l’impasto, ribaltatelo sul piano da lavoro e dividetelo in sei parti uguali, che peseranno circa 260 gr l’una; date a queste parti una forma a filoncino e lasciateli riposare per circa 30 minuti. Dopodiché, allungate i filoni ruotandoli con i palmi delle mani sul banco da lavoro, fino a raggiungere una lunghezza di 80-90 cm e un diametro il più possibile uniforme in tutta la sezione. Formate quindi delle curve ben attaccate tra loro, una sorta di “doppia S”, e ripiegate la parte rimanente del filone al centro accavallandolo alle S. Dopodiché vaporizzate abbondante acqua sul lato superiore della Mafalda e appoggiatela su un letto di semi di sesamo in modo da farli aderire per bene; dovrà risultarne ben piena.

Appretto

Foderate una teglia con della carta da forno e appoggiate i filoni ben distanziati; coprite con un canovaccio umido e lasciate lievitare per 1-2 ore a 26-28°C, o comunque fino al raddoppio del volume.

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Cottura

Preriscaldate il forno statico a 215°C e preparate un pentolino di acqua bollente. Appena le mafalde saranno pronte, infornate per circa 20 minuti con il pentolino nella parte bassa e la teglia in posizione centrale. Dopodiché, togliete il pentolino e cuocete per altri 10 minuti con la porta leggermente aperta per far uscire il vapore e asciugare la superficie in modo che diventi ben dorata. Sfornate, lasciate raffreddare su una griglia rialzata e preparatevi a farcire questo profumatissimo pane con milza e caciocavallo grattugiato.



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L'Arte Casearia a cura di Giovanni Minelli

fotografie di Elisa Giuli

LA RICOTTA


Si siete mai chiesti cosa hanno in comune i caseifici artigiani, i piccoli laboratori delle aziende agricole e gli stabilimenti produttivi delle grandi industrie lattiero-casearie? Se non vi siete ancora dati una risposta bene, ve lo dico io: tutti trasformano il latte in formaggi, magari ognuno ha il suo prodotto di punta o la particolarità per la quale diventa celebre, ma sicuramente la ricotta è sui banchi di tutti. La ricotta è forse è uno dei pochi prodotti che davvero troviamo senza eccezioni in tutta Italia, che unisce culturalmente tutto il nostro Paese e quelli del bacino del Mediterraneo, assumendo forme e sfumature gustative tipiche per ogni areale. Il suo gusto delicato e la cremosità l’hanno resa uno degli ingredienti più versatili nella cucina italiana. Mi stavo domandando: che mondo sarebbe quello delle paste ripiene se lo privassimo della ricotta? Forse un mondo a modo suo comunque bello ma che non vorrei mai vivere. E se pensiamo alle meraviglie gastronomiche siciliane, che ne sarebbe di Cassata e cannoli, solo per citare due delle preparazioni più celebri in tutto il mondo? Sto parlando di ricotta fresca, ma non dimentichiamo che da nord a sud ci sono infinite varianti di ricotte salate e stagionate; ve ne suggerisco tre che mi hanno rubato il cuore: dalle province lombarde di Sondrio e Bergamo, la mascherpa, ottenuta da siero di latte vaccino, o misto con quello caprino; dalla Carnia la scuete fumade, vaccina affumicata; dalla mia Umbria, la ricotta salata della Valnerina di siero ovino, al naturale o ricoperta di crusca. La ricotta si dimostra davvero facile da realizzare e molto versatile, vi invito a seguire alla lettera il processo produttivo ma anche ad osare, a volare con la fantasia. Vorrei vedere in Gastronomica-Mente le vostre creazioni più sfacciate: giocate con aromi, gusti e colori, pensatela come una tela bianca e da lì in poi siate creativi. Come al solito, capiamo bene di cosa si tratta, quali sono gli elementi distintivi da ricercare in un buon prodotto e come ottenerli.

L’aroma del latte di vacca è ben percepibile e del tutto caratteristico, la cremosità invece è la prima cosa che mi aspetto quando assaggio: non dovrebbe mai essere grumosa. Una buona materia prima di partenza, quindi il siero, deve avere delle caratteristiche ben precise: un valore di pH compreso tra 6,3 e 6,4, che possiamo valutare come al solito con un phmetro o almeno con le cartine tornasole. Questa informazione ce ne dà indirettamente un’altra che sicuramente non sarà sfuggita ai lettori più attenti: possiamo utilizzare solo il siero ottenuto

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Se i formaggi sono ottenuti dalla coagulazione delle proteine del latte, la ricotta è ricavata da quelle del siero: le proteine ivi contenute ammontano a circa un 11% tra albumine e globuline. Se vi siete già divertiti nel realizzare qualche formaggio, dopo l’estrazione della cagliata vi sarete ritrovati con una pentola piena di liquido da smaltire: ecco, prima di pensare a dove buttarlo, produrre ricotta è un obbligo morale per ogni buongustaio. Il latte di partenza può essere vaccino, ovino, caprino o bufalino: è indifferente, sarà sempre ricott,a ma le qualità organolettiche saranno differenti ed anche il processo produttivo sarà soggetto ad alcune variazioni. Di seguito, il processo che vedremo insieme sarà calibrato sul latte di vacca.


dalla lavorazione di formaggi presamici, cioè quelli in cui coaguliamo le proteine del latte tramite l’azione enzimatica del caglio. Questo perché nelle lavorazioni lattiche arriviamo a pH 4,7 (ne abbiamo parlato nel numero di settembre del Magazine). Per dare un riferimento medio accettabile, tendenzialmente quando eseguiamo il secondo taglio della cagliata, il siero è alla giusta acidità; in ogni caso, controllate sempre il pH come descritto sopra.

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La coagulazione delle sieroproteine è ottenuta per via acido/termica e la loro precipitazione è compresa in un intervallo di temperatura che va dagli 85° ai 95° C, quindi in questo frangente verrà a galla il reticolo che si è formato: quella è la nostra ricotta, la estrarremo con una schiumarola e la posizioneremo nelle apposite fuscelle. In questo caso non darò dei tempi di riferimento, è tutto guidato esclusivamente dalla temperatura. Possiamo mettere la pentola su fiamma diretta o procedere a bagnomaria (le prime volte mi sento di consigliare la seconda opzione per evitare il rischio di far attaccare il fondo e avere nel prodotto finito uno sgradevole gusto tostato). Procedendo a bagnomaria, inoltre, potremo evitare di mescolare e stressare il siero. Un’ultima informazione di servizio, giusto per farci due conti: possiamo aspettarci una resa media del 3-4% per siero da latte di vacca e fino al 7% per quello ovino. Vi renderete conto di quanto questa informazione ci tornerà comoda soltanto tra qualche riga. Procediamo ancora. Per prima cosa filtriamo il siero e lo pesiamo, magari all’interno è rimasto qualche piccolo pezzo di cagliata e non sarebbe gradevole trovarlo nella ricotta. Cominciamo ad innalzare la temperatura e a 63° Celsius aggiungiamo del sale, circa l’1,5% sul peso finale della ricotta (ecco a cosa ci serviva la resa media); lo sfrutteremo come coadiuvante per la flocculazione, e non lascerà alcuna traccia nel prodotto finito. Arrivati alla soglia dei 70°C, di solito io aggiungo dal latte intero in ragione del 10% sul siero che sto lavorando. Alcune note di servizio: aggiungere il latte è del tutto facoltativo, lo faccio per ottenere un prodotto più grasso e cremoso. Se si decide


Comincerà a formarsi un reticolo che ingloba grasso formando una massa dalla consistenza molto delicata. Un leggero sobbollire del liquido consentirà di inglobare anche

un po’ d’aria, elemento che facilita l’affioramento, ma occorre prestare molta attenzione poiché se bollisse con violenza distruggeremmo il coagulo e addio ricotta. Spento il fuoco, dopo una rapida sosta di 5 minuti possiamo trasferire la ricotta nelle fuscelle per farla spurgare e successivamente la piazzeremo in frigorifero a 4°C. Ricapitolo in breve tutte le temperature utili: • 63°C sale all’1,5% del peso finale della ricotta • 70°C latte al 10% • 85°C acido citrico allo 0,1% del siero • 95°C circa, o a fine affioramento spengo il fuoco e dopo circa 5 minuti estraggo la ricotta. Se volessimo produrre quella salata, dopo lo spurgo sarebbe il momento di passare alla fase di salatura, e potremmo procedere con la tecnica di salatura a secco. Davvero molto semplice; dunque, datevi da fare, provate e godetevela ma soprattutto divertitevi a creare la vostra ricotta speciale, mi aspetto grandi cose da voi.

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di fare questa aggiunta, ci si orienta tra il 5 e il 20%: può essere latte intero, panna o una miscela tra i due. Continuando ad innalzare la temperatura e giunti a quella minima di coagulazione, correggiamo l’acidità utilizzando acido citrico: siamo dunque intorno agli 85°C e vogliamo portare il pH a 5,6 quindi utilizziamo circa 1 grammo di sale di acido citrico disciolti in acqua per chilogrammo di siero.


CHEF'S TABLE BBQ una r e cens ion e di sal li neat a

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a cura di Emiliano Nencioni


Ecco una di quelle vicende che sembrano accadere per volontà di uno sceneggiatore pigro alle prese con una commedia degli equivoci con pochissimo budget, da girarsi per forza col solo scopo di riscuotere i fondi straordinari stanziati per il cinema italiano da questa o quella regione. Complice una serie di teaser trailer ben fatti e ammiccanti, nella realtà grigliante internettiana italiana inizia a serpeggiare una voce che, rimbalzando di condivisione in condivisione, diventa presto il grido di una folla: “Su Netflix fanno una serie sui migliori BBQ Joint e pitmaster! Una produzione seria, americana, non il solito format comprato e seviziato dall’Italia!” In breve tempo i profili social dei soliti appassionati si sono popolati di commenti, scambi di giudizi, con un topos ricorrente: “Ah, potessi essere il nipote di quella signora!” “Magari avere una nonnina così!” Curioso come una biscia, nonché patologicamente abbonato ad ogni servizio streaming disponibile, ho fatto quel che dovevo: un doveroso binge watching di tutta la Season di Chef’s Table BBQ.

Le istruzioni caporedattoriali mi sono giunte con la consueta irrinunciabile perentorietà: “Scrivi le tue solite cose e poi fammi anche la recensione di quello show sul barbecue di Netflix” “Aspetta, quello con la gara con gli smoker, condotto da Ruthledge Wood? Carino sì…” “No, l’altro. Quello con la signora anziana”. Non ho battuto ciglio. Procedo.

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Fatto questo, come ogni nerd di mezza età, ho compiuto l’inevitabile: un bel commento non richiesto, sul mio profilo personale. Tranchant, breve, senza fronzoli: un rapido riferimento a delle gonadi, presenti in numero di due. Dribblando la consueta indignazione di uno sparuto manipolo di contestatori, e cavandomela con un paio di commenti disinteressati, pensavo di essermi buttato il capitolo Chef’s Table BBQ alle spalle. Illuso.


Chef’s Table BBQ è una serie di David Gelb in esclusiva per Netflix, candidata agli Emmy per il 2020: porta agli occhi degli appassionati abbonati l’opera e la filosofia di quattro chef e pitmaster di successo del Messico, Stati Uniti e Australia. I quattro professionisti del settore, protagonisti delle attuali quattro puntate, sono Tootsie Tomanetz, Lennox Hastie, Rodney Scott e Rosalia Chay Chuc. Dal punto di vista tecnico, la serie è estremamente curata, pulita, raffinata e pettinata: la fotografia è eccellente, con riprese molto attente alla morbidezza della luce, alla costruzione delle inquadrature e alla gestione della profondità di campo, con una messa a fuoco cristallina che si contrasta con uno sfocato molto morbido degli elementi in secondo piano, per un bokeh molto studiato e perennemente presente. Si nota un deciso uso/abuso di riprese estremamente ravvicinate e di uno slow motion (molto fluido e realizzato perfettamente) per esaltare i momenti “emozionali”, di solito per caricare di pathos una faccenda tutto sommato ordinaria come soffiare sul fuoco, girare una bistecca in griglia o riempire di carbone rovente un dispositivo.

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Quello che posso sicuramente affermare di questo show è che, a differenza di molti altri documentari a tema culinario, verte molto molto meno sul concetto di eye-candy: non è una interminabile presentazione di pietanze succulente, è più una glorificazione della persona, dello chef, e delle idee alla base di tutto. Inevitabilmente si casca piuttosto spesso nella mitizzazione del fuoco, fino alla ben nota raffigurazione sotto forma di entità da domare e alla solita solfa dell’”averci il manico”, di riconoscere la temperatura ideale col solo tocco del dorso della mano, tutte cose che potresti sentir dire (e con quanta convinzione!) anche alla gara di quartiere più sgangherata. Il calcare la mano con deferenza quasi religiosa su aspetti decisamente quotidiani del lavoro in cucina, come la gestione delle temperature o la scelta della materie prime, è quello che ai miei occhi appesantisce irrimediabilmente l’intera opera, fino al rischio di far crollare l’interesse: slow motion esasperati, enfasi ridondante su concetti semplici, aggravati anche dal tono spesso troppo solenne, vibrante e introspettivo dei doppiatori italiani, sicuramente molto più teatrali ed eccessivi rispetto alle intenzioni dello chef in questione (che comunque continuiamo a sentire in sottofondo, in pieno stile “documentario anni 70 di David Attemborough”). Gli avidi studenti di metodi scientifici sempre in attesa di qualche nuovo procedimento da eseguire alla perfezione rimarranno delusi: niente tecniche, niente segreti, niente descrizioni di gesti collaudati e trucchi geniali. C’è tanta poesia - se così possiamo chiamarla - ma proprio niente di materiale.


Prendiamo ad esempio l’episodio più citato, quello di Tootsie Tomanetz: l’ottanta per cento dello screen time è usato per parlare delle sventure familiari, del marito, dell’impiego come bidella in una scuola superiore del Texas, poi ecco bellissime inquadrature del suo fantastico brisket, con super slo-mo e commento sonoro struggente. Nemmeno una parola sulla tecnica, che non sia “so quando uno smoker è alla giusta temperatura toccandone un’estremità con due dita”. Ecco. L’altro episodio di solito citato in giro per i social network è quello di Lennox Hastie: “è venuto via da Etxebarri!”, “ha grigliato il caviale!” sono le frasi ricorrenti. Non c’è molto più di questo, effettivamente: una bella storia (per chi ne fosse interessato) di come è arrivato a lavorare con Arguinzoniz e successivamente a piantarlo in asso al vertice del successo, un filmato al rallentatore di Lennox che guarda con occhio severo e ispirato una serie di pezzi di manzo durante un dry aging insolitamente lungo (“ha commosso Bottura!”, ripetono gli appassionati nei commenti), primissimi piani in HD. Pronti. Episodio finito. Ma fra appassionati dovrete sempre dire di avere apprezzato, sognando, questi due primi episodi, altrimenti sarete tacciati di superficialità e di scarso interesse per la materia. Gli altri due episodi non li cita nessuno. Mai. Il terzo episodio, su Rodney Scott, è probabilmente il più centrato in quanto a tematiche barbecue, ma non ha avuto l’eco mediatica de “l’episodio della nonna” o di “quello che griglia il caviale”: al massimo c’è una rara menzione per “quello che fa il maiale intero”. Ho una teoria: nel quarto episodio, incentrato su Rosalia Chay Chuc, sul mais, la cochinita pibil e l’antico retaggio Maya, la quasi totalità dei grandi appassionati si è addormentata. Non se ne fa parola, da nessuna parte. Qualora desideraste non farvi trovare impreparati agli occhi dei grigliatori più intransigenti, quelli che adorano il potere del fuoco, che lo considerano una forma di vita dispettosa e vendicativa, quelli che si beano delle scene al rallentatore con parecchio bokeh, vi basterà quindi guardare distrattamente i primi due episodi.

Non serve altro. L’importante è non farsi trovare impreparati, e non ammettere di averlo visto controvoglia, distrattamente, col cellulare sempre in mano, con la speranza di apprendere qualche trucco puntualmente delusa.

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Oppure potete sempre barare, giocandovi con maestria due frasi chiave: “Magari fossi stato suo nipote!” e “Ha grigliato il caviale e si è licenziato da Etxebarri!”


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La ricetta scientifica a cura di Gianfranco Lo Cascio

Le

arancine

Ve lo immaginate Giovanni Verga con un account Facebook il giorno di Santa Lucia? Il 13 Dicembre avrebbe scritto qualcosa del genere prima di onorare la festa col suo piatto tradizionale, citazione di Boris (la serie TV) compresa. A punta, a punta alta, tonda o ovale, per me l’arancina, come tutte le cose belle, è fimmina. Una palla di riso farcita e fritta, accarne (alla carne, con ragù) o abburro (al burro), mangiata in piedi a colazione o a mezzanotte sul divano.

Seguitemi con attenzione e fiondatevi a recuperare gli ingredienti, questa ricetta è stata perfezionata negli anni dal sottoscritto e testata da palati parecchio snob ed esigenti. Pensate che da quando l’ho messa a punto non faccio più raid notturni in rosticceria, ho sempre qualche pallina dorata in congelatore, pronta da friggere. E qualche amico che scrocca la cena.

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Ma come si fa a preparare l’arancina di riso perfetta, avvolgente ma coi chicchi ancora integri, il sughetto saporito e grassoccio e la crosta super croccante?


IL RISO

Partiamo dalla base: la scelta e la cottura del riso

Commercialmente parlando, il riso si classifica in quattro gruppi: comune originario, semifino, fino e superfino. Questa distinzione si basa su forma e dimensioni del chicco. Il comune è tondeggiante mentre il superfino è lungo e ha dimensioni maggiori.

I risi comuni

Hanno chicchi piccoli e tondi, cuociono velocemente (in 12-13 minuti) e sono molto indicati per minestre e dolci. Le varietà che appartengono a questa tipologia sono il Rubino, il Bali, il Ticinese, il Selenio, il Pierrot, il Razza 253, l'Americano 1660, l'Elio, l'Auro, il Raffaello, il Cripto e il riso Originario.

Il riso Originario

Chiamato anche riso Comune o Balilla, è una cultivar molto antica e già classificata negli anni '20. Si tratta di un prodotto molto economico e saziante, la prima scelta delle famiglie meno abbienti del ventennio. Ha chicchi corti e tondi e un'elevata capacità di assorbimento dei liquidi, i tempi di cottura sono molto brevi, tra i 13 e i 15 minuti, ed è perfetto per preparare anche torte e dolci, minestre, minestroni e talvolta (non questa volta) arancine.

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I risi semifini

Hanno chicchi tondi di lunghezza media. La cottura si aggira intorno ai 13-15 minuti. Perfetti per condimenti in bianco, timballi e antipasti. Fanno parte di questa categoria il Titanio, il Monticelli, l'Italico, il Maratelli, il Piemonte, il Padano, l'Argo e il Vialone Nano. Ma anche varietà più ricercate come il Lido, il Romeo e il Rosa Marchetti.

I risi fini

I chicchi dei risi fini sono lunghi e affusolati e hanno tempi di cottura non inferiori ai 16 minuti. Tengono molto bene la cottura e sono quindi adatti alla preparazione di risotti e insalate, dove i granelli devono restare ben separati tra di loro. Fanno parte del gruppo l'Europa, il R.B., il Ringo, il Romanico, il P. Marchetti, il Radon, il Veneria, il Rizzotto, il riso Ariete, il Bonnet, il Loto, il Molo, il Riva, il Cervo, il riso Drago, il riso Smeraldo, il Vialone nero, il pregiato Sant'Andrea e il Ribe.

I risi superfini

Sono il meglio del meglio, si distinguono per i chicchi grossi e molto lunghi. La loro cottura non è inferiore ai 17-18 minuti, ma in alcuni casi può arrivare anche a 20. Perfetti per i risotti, grazie alla quantità di amido che rilasciano in cottura e alla loro capacità di assorbimento di acqua e contorni. Fanno parte di questa categoria: il Redi, l'Arborio, il Volano, il Roma, il Razza 77, l'Ilapatna, il Silla, il Gritna, il Koral, l'Onda, il riso Strella, il Miara, il Panda, il riso Vela, il riso Star, il riso Baldo e il più pregiato di tutti, il Carnaroli.

Il riso Roma

La varietà Roma è quella perfetta per la nostra ricetta. Un riso a chicco lungo, affusolato e perlato, quest'ultima caratteristica lo distingue dal riso Baldo, a prima vista molto simile. Molto versatile in cucina, anche grazie ai suoi tempi di cottura contenuti, assorbe molto bene i liquidi grazie al chicco corposo, caratteristica fondamentale per la riuscita di un buon timballo, sformato o riso in bianco. Nato nel 1931, si coltiva in tutte le terre da riso della nazione: dai prevedibili Lombardia e Piemonte alla Sardegna.


La cottura per assorbimento Cuocere il riso è facile, ma cuocerlo a puntino non lo è affatto. Se non lo fate in maniera scientifica, ovviamente. Può attaccarsi alla pentola, scuocere, diventare appiccicoso. Per fronteggiare questi ed altri incidenti culinari ci hanno venduto il riso parboiled, dall’inglese partially boiled, parzialmente bollito. Dopo essere stato posto in ceste metalliche e lasciato immerso in acqua calda a 50°C, questo riso “truccato” viene trattato con getti di vapore sotto pressione che indurisce l’amido presente in superficie. Successivamente viene “sbramato” ed essiccato. Il chicco del riso parboiled non scuoce e assorbe meno grassi, non si ammassa e risulta particolarmente digeribile e indicato per piatti freddi, pilaf e timballi. Ma dove sta la fregatura? Nella cremosità e nel sapore! Il riso parboiled è sconsigliato per i risotti poiché, non liberando amido durante la fase di cottura, non si amalgama e richiede giocoforza l’aggiunta di altri ingredienti (panna, besciamella) per renderlo commestibile. Come se non bastasse, avendo la superficie molto liscia, il chicco trattiene poco condimento. Non compratelo per fare le arancine, date retta allo Zio.

Come con le patate o la pasta, la sfida principale quando si cucina il riso è capire come controllare gli amidi al millimetro. Tuttavia, mentre le patate o la pasta sono spesso cotte in molta acqua per lavare via l'amido in eccesso, il riso richiede un metodo di cottura più preciso. Se si fa bollire e si scola, si finisce per lavarne via il sapore delicato e per inzuppare eccessivamente i chicchi. Il riso, fidatevi, si cuoce meglio con una quantità misurata di acqua in una pentola coperta, per scongiurarne l’evaporazione. II granuli di amido, che sono il componente primario del riso, tendono a non assorbire liquidi a temperatura ambiente. Mentre si riscalda il riso in acqua, invece, l'energia delle molecole del fluido in rapido movimento comincia ad allentare i legami tra le molecole di amido, permettendo all'acqua di penetrare. Questo a sua volta causa il rigonfiamento dei granuli di amido, i quali rilasciano alcune molecole gommose che poi agiscono come una colla per tenere insieme i chicchi. Il riso, a questo punto, si ammorbidisce e diventa appiccicoso o “inamidato".

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Il riso è un seme della pianta nota come Oryza sativa. Quando viene raccolto, è coperto da una lolla protettiva, una specie di buccia insomma. Dopo che la lolla viene rimossa si ottiene il riso integrale, che è composto da tre parti: la crusca (che racchiude uno strato di cellule chiamato strato di aleurone, ricco di olio e di enzimi), il germe, e l'endosperma. Per diverse migliaia di anni, il riso integrale è stato parboiled e poi macinato per rimuovere la crusca e il germe, lasciando solo l’endosperma ricco di amido.


Come i nostri tuberi preferiti, il riso contiene due tipi di molecole di amido: l'amilosio e l'amilopectina. La quantità di amilosio e il contenuto proteico dei granuli di amido determinano le proprietà strutturali del riso - da sgranato e tenero ad appiccicoso e gommoso - quando è cotto. Eccezioni permettendo, il riso con un più alto contenuto di amilosio e proteine (come il riso a chicco lungo), una volta cotto, si presenta in grani separati, leggeri e teneri. Al contrario, il riso con un basso contenuto di amilosio e proteine (come l’Arborio) risulta piuttosto umido e cremoso, con chicchi che tendono ad appiccicarsi l’un l’altro. A causa delle differenze nel contenuto di amilosio e proteine, i granuli di amido nel riso a chicco lungo si gonfiano e gelatinizzano a una temperatura molto più alta (70°C) rispetto ai granuli nel riso a chicco medio (62°C). I granuli di amido che gelatinizzano ad una temperatura più bassa rilasciano più amilosio, anche anche se ne contengono meno. Questo fa sì che i chicchi si attacchino tra loro. Il riso a chicco lungo contiene circa il 22% di amilosio e l'8,5% di proteine, e i grani sono da quattro a cinque volte più lunghi di quanto siano larghi. Necessita di più acqua per cuocere e, una volta cotto, rimane in grani separati che si induriscono man mano che si raffreddano (a causa del più alto contenuto di amilosio, sempre lui).

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Il riso a chicco medio contiene circa il 18% di amilosio e il 6,5% di proteine, e i grani sono da due a tre volte più lunghi di quanto siano larghi. Questo riso ha bisogno di un po' meno acqua per cuocere rispetto al riso a chicco lungo e risulta tenero e leggermente appiccicoso. Il chicco corto contiene circa il 15% di amilosio e il 6% di proteine ed è quasi rotondo. Si cuoce in quantità d'acqua ridotte e può essere abbastanza appiccicoso e tenero da cotto. È l’ideale per piatti come sushi, in cui i chicchi devono rimanere praticamente incollati.


La ricetta del riso per le arancine Dose per 28 arancine da 135g • • • •

1 kg di riso Roma (o Originario o Bomba) 2 lt di brodo vegetale 0,3 - 0,4 gr di zafferano (3 bustine canoniche) 150 g di burro

Procedimento

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1. Mettete il riso in uno scolapasta o in un colino a maglie fini e sciacquatelo leggermente con acqua fredda. Servirà ad eliminare l’amido in eccesso. 2. Versate in una pentola il brodo, che avrete preparato con i classici sedano, carota, cipolla e il sale, e aggiungete il riso e lo zafferano, mescolando continuamente fino a quando i chicchi diventano “gessosi” e opachi (da 1 a 3 minuti). Alzate la fiamma e portate ad ebollizione. 3. Abbassate la fiamma, coprite con il coperchio e cuocete a fuoco lento fino a quando tutto il liquido non sarà stato assorbito. 4. Fuori dal fuoco, rimuovete il coperchio e mantecate con il burro, il grasso servirà ad apportare gusto e creare un film scivoloso attorno al riso. Quindi posizionate un canovaccio pulito piegato a metà sopra la pentola; rimettere il coperchio. Lasciate riposare per 10-15 minuti, il vapore verrà assorbito dal tessuto. 5. Rovesciate il riso su una teglia raffreddata in congelatore e foderata con carta forno. Livellate e fate asciugare i chicchi, coprite con della pellicola e fate riposare in frigorifero dalle 4 alle 12 ore.


IL RAGÙ SCIENTIFICO

VELOCE O una versione semplificata. Per questa preparazione, già laboriosa di per sé, apportiamo delle modifiche agli ingredienti e nei processi alla ricetta che già conoscete.

Il brodo vegetale 1,25 lt d’acqua 1 costa di sedano 1 carota 1 cipolla rossa 1 foglia di alloro Grani di pepe nero

Lasciate sobbollire gli ingredienti nell’acqua e salate solo alla fine. Mettete da parte e dedicatevi alla preparazione del ragù.

Il sugo

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Per ottenere un sugo bello sostanzioso ci occorrono due tagli di carne: • 1 ricco di tessuto connettivo, da cuocere insieme al triplo concentrato di pomodoro • 1 più magro, da macinare e con il quale dare struttura al sugo. Per arricchire la salsa con una buona dose di gelatina possiamo utilizzare uno dei seguenti tagli: • G e r e t t o a n t e r i o r e o posteriore, molto compatto e ricchissimo di collagene. • Biancostato, situato nella parte bassa delle coste e particolarmente carico di collagene; • Punta di petto, il muscolo della parete addominale,

arricchito di tessuto adiposo e del collagene delle costole;

E come facciamo ad estrarre questa gelatina e trasferirla direttamente nel sugo? Semplicissimo, basterà portare la carne ad una temperatura superiore a 68°C. È proprio in quel momento che il collagene si scioglie e si trasforma in un gel saporito. Ricapitoliamo, per preparare questo primo sugo ci occorre: •

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1 kg di polpa di stinco di manzo, biancostato o punta di petto 1 litro di brodo vegetale 500 gr di triplo concentrato di pomodoro 1/2 cipolla rossa 1 bicchiere di vino rosso Abbondante basilico Olio extravergine di oliva Sale Pepe nero

Mettete sul fornello una tegame di ghisa a bordi alti. In alternativa potete utilizzare una pentola ampia di coccio o di acciaio a fondo spesso. Tagliate la polpa dello stinco (o del brisket/biancostato) in grossi cubi e rosolateli a fiamma alta in un fondo di pochissimo olio. Aggiungete la cipolla tagliata a cubetti, fate imbiondire, deglassate il tutto con un vino rosso corposo e lasciate

evaporare l’alcol. Unite il triplo concentrato di pomodoro e diluitelo con il brodo caldo, aggiungete le erbe e le spezie e lasciate cuocere lentamente, su un soffio di calore, per almeno quattro o cinque ore. Lasciate pippiare il sugo con il coperchio ben collocato e controllatelo di tanto in tanto, spegnete solo quando l’acqua sarà evaporata del tutto e la carne si sarà sfaldata. Salate, filtrate e mettete da parte la carne, la mangerete a parte o la riutilizzerete in altre ricette.

La carne

Adesso si passa alla preparazione del macinato, l’ingrediente che serve a dare corpo al ragù e soprattutto sapore di tostato. Scegliete un pezzo “magro”, il girello è perfetto per questo scopo. Parliamo del taglio rotondeggiante e affusolato situato lungo il posteriore, una porzione di muscolo molto tenera e perlopiù utilizzata nella preparazione di carpacci o arrosti. Procuratevi un Eye Round GLC Top Selection di black angus del Megastore e andrete sul sicuro. Perché utilizzare carne relativamente magra? Perché il sugo sarà già bello carico di gelatina e la parte grassa la inseriremo successivamente, come avete già imparato a fare. Ingredienti • 1 kg di Eye Round (girello) GLC Top Selection • Olio extravergine di oliva q.b. Macinate o fatevi macinare la carne dal macellaio in


A queste punto non vi resta che rigirare il foglio di carta forno e lasciar rosolare l’altro lato, sempre a 230°C, a grill andante. Attenti a non far seccare troppo la carne, mi raccomando.

Perché rosoliamo il macinato in forno e non nella pentola? Perché nel secondo caso si sarebbe sviluppato un grande quantitativo di vapore, che avrebbe sicuramente lessato la carne. E lì dove si fosse riusciti a tostarla, sprecando tantissimo tempo, avremmo ottenuto dei granelli secchi e completamente privi di umidità. Ecco perché usiamo il metodo dello strato sottile in forno. Le due superfici cauterizzate ci daranno sufficiente Maillard. Ma la carne al centro conterrà ancora succosità e sapore.

Le verdure

Ora mettete da parte e dedicatevi alla preparazione del soffritto non soffritto.

Tagliate le verdure a cubetti di 2-3 mm, asciugatele con cura con della carta assorbente, ungete con olio, che veicolerà

Così come il macinato, le verdure tradizionalmente utilizzate per il soffritto ci serviranno per amplificare la nota tostata e per apportare dolcezza, nota erbacea e soprattutto freschezza. Non le abbiamo cotte insieme alla carne o al sugo per preservarne gusto, intensità e consistenza. A questo punto preparate una brunoise con: • 200 gr di cipolla rossa (40%) • 150 gr di carota (30%) • 150 gr di sedano (30%)

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maniera grossolana, distribuite il macinato su una teglia ricoperta di carta forno, asciugate con cura con della carta assorbente e ungete leggermente con poco olio. Scatenate una furibonda reazione di Maillard cuocendo in forno preriscaldato, con il grill sparato a 230°C e posizionando la teglia al centro del forno. Lasciate lo sportello leggermente aperto per permettere al vapore di fuoriuscire.


il calore, e distribuitele su una teglia ricoperta di carta forno. Cuocete in forno preriscaldato a 180°C posizionandole al centro del forno e rigirandole di tanto in tanto. Dovete ottenere dei cubetti di verdura caramellati, freschi, saporiti e sopratutto ancora intatti.

L’assemblaggio

Per dare corpo, struttura e leggerezza al ragù dovete emulsionare la salsa con un grasso. Non con la panna, il latte e derivati. È importante però che il sugo sia ben caldo per ottenere una crema densa e vellutata. A questo punto potete aggiustare di sale, pepe e quant'altro. Aggiungete 100 ml di olio extravergine di oliva, tuffate il minipimer nel tegame e via ad agitare finché non diventa densa e di un colore arancione brillante. Una volta raggiunti i 70°- 80°C “condite” la salsa emulsionata sgranando con le mani la carne macinata arrostita e le verdurie rosolate. Lasciate raffreddare e mettete da parte.

I PISELLI • • • • •

400 gr di piselli freschi o surgelati 50 gr di burro 1 scorzetta di limone Sale Pepe

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Io non ho particolare simpatia per questa leguminosa verde, però devo ammettere che nell’arancina ci sta da Dio. L’unico modo per non sciupare i piselli è cuocerli sottovuoto ad 84°C per un’ora e unirli al ragù una volta pronti. In questo modo eviterete di stracuocerli e ne preserverete gusto, dolcezza e consistenza. Versate nel sacchetto i piselli e aggiungete il burro, la scorzetta di limone, il sale e il pepe. Agitate e lasciate nel bagno termostatico. Rimarranno belli verdi e gonfi. Un volta cotti, aggiungeteli al ragù di carne e mettete da parte. Questa dose di condimento vi basterà per 60 arancine circa.


LA FORMATURA DELLE ARANCINE Esistono in commercio degli stampi modulari per la formatura delle arancine, sono accessori semplicissimi da utilizzare, io ce li ho di tutte le forme e misure perché sono veramente comodissimi. Per chi non avesse voglia di investire in un attrezzo specifico, che resta francamente una gran figata, si può sempre utilizzare uno stampo a semisfera in silicone o il palmo della mano. Bagnato, mi raccomando, altrimenti vi ritrovate con chicchi di riso pure nelle orecchie. Prendete il vostro stampo, riempitelo di riso, fate il buchetto per il ripieno e chiudete. Al ragù potete aggiungere cubetti di provolone o del formaggio semi stagionato che vi piace di più. Inumidite le mani leggermente, sistemate le arancine in fila come tanti soldati (con la panza) su una leccarda foderata di carta forno e riponete in frigo.

La pastella • • • •

120 gr di farina di riso 90 g di amido di riso (o mais) 6 gr di sale 500 ml di acqua (dose indicativa)

Il glutine (quella grossa molecola proteica che si forma quando si impasta la farina con l’acqua e gliadine e glutenine si dispongono a formare una rete) in frittura, non serve. Quello che ci occorre non è un composto elastico e gommoso ma una soluzione colloidale che renda la nostra arancina croccantissima e friabile, arricchita da una crosta sottile e asciutta. Useremo la farina e l’amido di riso perché questo cereale non riesce a

formare il glutine, poiché le prolammine (proteine dei cereali) contenute in esso sono in bassissima concentrazione. Una volta preparata la pastella unendo a freddo tutti gli ingredienti, seguite questi step: 1.Immergete le arancine nella pastella (aiutatevi con una schiumarola), che avrete sistemato in una ciotola profonda, e poi rotolate subito nel pangrattato. Impanate bene facendo aderire su tutti i lati e sistemate le arancine in una teglia foderata con carta forno. 2.Disponete le arancine su un unico strato su di un vassoio e trasferite in congelatore per venti minuti, o in frigorifero per un paio d’ore. Una volta raffreddate completamente, scaldate l’olio. 3.Quando l'olio avrà raggiunto i 190°C friggete le arancine in immersione, devono sprofondare completamente. Pochi pezzi alla volta o la temperatura dell’olio si abbassa e inzuppate la panatura. 4.Cuocete fino a quando non si colorano esternamente, dovete solo portare a cottura la pastella perché riso e ripieno sono già cotti.

L’ingrediente segreto

E facoltativo. Di tanto in tanto aggiungo alla pastella dell’amido di mais modificato, o E1420. Questa polverina arricchita in amilosio crea un film che in frittura si trasforma letteralmente in vetro croccante, proteggendo inoltre l’arancina da un assorbimento di olio incontrollato. La proporzione è 2,5%, 2,5 grammi per 100 grammi di pastella.

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Abbiamo tutta linea pronta, gli ingredienti sono disposti sul piano di lavoro e si sono raffreddati, non ci resta che assemblare il tutto.


Per ogni problema una soluzione Perché gli incidenti capitano anche nelle migliori famiglie.

1) L’arancina rimane attaccata allo stampo Cause: 1 Avete aggiunto uova al riso o formaggio. Disgraziati che non siete altro. 2 C’è troppo poco burro nel riso 3 Il riso è ancora troppo umido e caldo 4 Avete utilizzato una tipologia di riso poco adatta Soluzione: Provate a ungere leggermente lo stampo con dell’olio o burro, ma la prossima volta attenetevi scrupolosamente alla ricetta.

2) L’arancina si spappola, è troppo molle e non riuscite a friggerla Cause: 1 Il riso è ancora troppo umido e caldo Soluzione: Lasciate raffreddare e asciugare per bene il riso e fatelo riposare in frigorifero per qualche ora, anche una notte se necessario.

Conservazione e rigenerazione Con un kg di riso vi vengono fuori circa 28 arancine, ma nulla vi vieta di raddoppiare le dosi e farne di più (con tutto quel ragù ne preparate almeno una sessantina). Potete pre-friggerle, farle raffreddare e surgelarle. Quando ne avete voglia, potete tuffarle nuovamente nell’olio da surgelate, oppure ripassarle in forno ventilato a 190°C. E regalarvi sprazzi infiniti di godimento assoluto: mordere la crosta scrocchiarella e saporita, affondare nel riso profumato di burro e zafferano, arrivando fino al ripieno, aromatico e sapido, con le note balsamiche di basilico che si arrampicano sugli sbuffi di vapore.

Ottobre 2020 - 100

Sabbinirica!

Gianfranco Lo Cascio


BBQ4All Magazine - 101


I pedanti vetrinizzati Seguo - Rubrica a cura di Emiliano Nencioni illustrazione di Ozzy Bellessi

SEG Ottobre 2020 - 102

È ben diverso scrivere immersi nella solitudine fisica e mentale, attendere la pubblicazione del libro, la sua distribuzione, l’uscita delle recensioni e infine la reazione dei lettori - potrebbero volerci mesi, anche anni - o invece scrivere su un blog, Twitter o Facebook: lì ci sono un milione di follower che, nel momento esatto in cui mettiamo il punto finale a una frase, cominciano ad affannarsi sulla tastiera per inviarci le loro reazioni, critiche ed elogi, esponendo anche il proprio punto di vista. Si passa da un monologo al dialogo continuo. Sapere che la nostra frase, giocoforza breve, sarà letta da una moltitudine di follower nel momento esatto in cui la scriviamo accende in noi un’energia euforica che regala alle parole vibrazioni vitali. La letteratura da eremiti narcisisti giace nel mausoleo del Ventesimo secolo. Adesso la letteratura, e specialmente la poesia, nascono dalla collaborazione stretta tra lo scrittore e i suoi lettori: insieme creano l’opera. I lettori si connettono con te, ti seguono, ti rispondono, ma se quello che dici non è quello che vogliono sentirsi dire, ti chiudono la bocca con un ‘unfollow’ e ti abbandonano. Te li devi guadagnare giorno per giorno, devi sorprenderli, convincerli, coccolarli, accarezzarli. Tu sei la barca che li traghetta, navigando nell’oscuro mare dell’inconscio per arrivare alla Coscienza.


BBQ4All Magazine - 103

GUO


Citazione da un webinar dei Ferragnez? Ultimo tweet di Selvaggia Lucarelli? Video virale di Davie504? Non esattamente. È l’incipit di Metaforismi e Psicoproverbi di un geniale scrittore, poeta e sceneggiatore contemporaneo, Alejandro Jodorowsky (attualmente ancora in vita e quasi centenario). Il fatto che l’autore di Quando Teresa si arrabbiò con Dio, non certo un nativo digitale, influencer e web-oriented, abbia ritenuto necessario aprire la mente alle diverse meccaniche della comunicazione online può di fatto iniziare a convincerci della loro importanza. Non è forse quello che abbiamo sempre fatto qui nelle ultime paginette della Seguo, quelle lette proprio come ultima risorsa, quando neanche i video consigliati di YouTube riescono più a svagarci un attimo? Le reazioni sono importanti. Le reazioni della massa di utenti/lettori sono imprescindibili perché, sia che stiamo scrivendo per un famoso blog, sia che stiamo per inviare l’ultimo aggiornamento di status del profilo personale, lo facciamo per confrontarci con il responso, con l’accoglienza di chi legge. Certamente, c’è un gran fiorire di “io scrivo solo per me stesso/a, me ne frego di cosa pensano gli altri” - e credo proprio sia una balla colossale. Nessuno scrive i propri pensieri su un tovagliolo di carta per poi bruciarlo. Come accennato infatti nella scorsa e molto controversa Seguo (controversa nel senso che un lettore ha detto di averla trovata gradevole, l’altro restante lettore ha detto che -mamma mia- era troppo lunga) incentrata sul Panopticon, Bertrand Russel e George Orwell, prima o poi avrei voluto soffermarmi sul concetto di vetrinizzazione sociale. Non vi faccio aspettare neanche un mese, fedelissimi ed egregi (otto) lettori, e ne parliamo prendendo come espediente narrativo la devastante figura del…

Ottobre 2020 - 104

Commentatore Per Forza.

Ogni profilo è infestato da almeno uno di questi dolenti personaggi. Manifestano la loro esistenza e il loro peso nell’ecosistema producendo commenti superflui, spesso fuori contesto, svilenti, ma soprattutto hanno sempre qualcosa da aggiungere. Parli dell’estetica delle elettrosaldature? Dicono la loro, che ne sanno assai; rifletti sul senso della vita, e loro si trasformano in fini pensatori; metti una foto del tuo cane, ti rispondono con una foto del loro gatto; racconti un fatto spiacevole, mettono il like;

confessi di aver perso il lavoro, mettono il like; descrivi la tua ultima litigata in fila alle casse del discount, rispondono che sei una persona meravigliosa, vera, che sono estremamente fieri di avere una così bella amicizia con te (ma quando? Sei poco più di una notifica sui miei digital device, un’entità che posso disabilitare con uno swipe a sinistra). Molto probabilmente, e io fossi in voi farei una prova, criticando aspramente una delle loro perle letterarie non richieste i tristanzuoli reagiranno tirando in ballo il rispetto, spendendo numerose parole su come non volessero assolutamente mancarvene, su come per loro sia alla base di tutto, perché va bene scherzare ma oh, loro sono i primi a darne ed esigerne. Tradotto, come sempre, “ti prego di non contraddirmi in pubblico e io cercherò di fare lo stesso con te”. (No, non mi sto solo “ripetendo”: sto cercando di far passare e sdoganare una questione molto importante.) • •

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“Un filosofo, che non poteva camminare perché si pestava la barba, si tagliò i piedi.“ Ciao grande bellissimo post, sai, io uso sempre una cera da barba profumata al sandalo, la rende morbida e pettinabile. "Trionfare è imparare a fallire. Fallire è solo cambiare strada." Ma tu sei una Grande Persona! E solo le persone Vere come te troveranno sul loro Cammino la Gioia o almeno un grande Amico come me! (Esatto, i commentatori per forza abusano spesso di Maiuscole Superflue, e si ritrovano a premere shift all’inizio di qualsiasi parola che, per motivi ignoti ai più, intendano investire di un’aura mistica e di deferente rispetto - o Rispetto)

Affrontiamo quindi il nodo della Vetrinizzazione Sociale: Una prima vetrinizzazione è apparsa nella società occidentale nel 1700, col mutamento del rapporto fra bottega e strada: la comparsa di vetrine esterne, funzionali ad attrarre il cliente di passaggio, cambia anche la funzione e il ruolo di alcuni prodotti, che escono dall’anonimato dei retrobottega dei laboratori artigiani per diventare i protagonisti della contrattazione, modificati e pensati per attrarre lo sguardo del compratore: è l’inizio di una nuova fase di commercio, dove il bene venduto, e la sua capacità di seduzione, si arroga l’importanza centrale che prima era propria del rapporto artigiano - compratore.


Nella seconda metà dell’800 la comparsa dell’illuminazione elettrica, abbattendo i rischi di incendio delle lampade a gas, spettacolarizza ulteriormente l’esposizione in vetrina, illuminata con i criteri di un set teatrale. Tutto questo, arrivando al ventesimo secolo, porta ad un perfezionamento maniacale e sistematico dell’allestimento estetico della merce e si presta straordinariamente bene ad una metafora del modello di comunicazione prevalente nel ventunesimo secolo. Tutto è in vetrina, tutto deve essere bello, tirato a lucido, impeccabile, positivo, condivisibile, esperibile, “eye-candy”: perfino le cose non oggettivamente positive, come i lamenti esistenziali degli adolescenti incompresi e più dark, devono sottostare a un certo disciplinare e il minimo sindacale in questi casi è una citazione di un poeta sudamericano, una foto di tramonti caraibici e un font svolazzante. Giungiamo, secondo il sociologo Vanni Codeluppi, alla Vetrinizzazione Sociale. Vedo post di nonnine ottuagenarie che dopo aver fatto gli auguri alla nipotina allegano un efficace Call to Action, maturi imprenditori perdere il lume della ragione se uno sconosciuto qualsiasi li smentisce in un post molto visibile, machissimi autoproclamatisi maschi alfa precipitare nell’horror vacui

se si accorgono di non avere la desiderata street credibility all’interno di un sottogruppo di utenti. Perché, non me ne vorrà il prof. Codeluppi (che tanto figurati se mi legge, ma se mi legge lo saluto tanto caramente), oltre alla vetrinizzazione sociale ci siamo impantanati nella Terribilizzazione. Tutto è terribile e con conseguenze devastanti: un commento storto, un ban da un gruppo, un like non messo da un amico, un “condividi se hai un cuore” non rispettato. Quante volte dopo uno sgarro social ci è arrivato un messaggio privato pieno di insulti e con minacce tipo “un giorno ci incontreremo e me la pagherai”, “tu non sai chi sono io e il ruolo che ricopro”, o il più agghiacciante di tutti, “buona vita”? Mai? Buon per voi. A me capita quasi giornalmente. É evidente la sproporzione fra sgarbo e reazione, ma la terribilizzazione della vetrinizzazione porta anche a questo: pacate, stimate, docilissime persone che minacciano di morte o di tremenda vendetta altre innocue persone, in massima parte sconosciute, rovinandosi la serata, la digestione, spesso il sonno e sicuramente incasinandosi i livelli di cortisolo. Ed è qui che il nostro commentatore per forza torna in gioco!

BBQ4All Magazine - 105

immagine tratta dal film Poesia senza fine di Alejandro Jodorowsky


Egli commenta tutti. Vuole bene a tutti. Rispetta tutti. Ha, in verità, tonnellate di rispetto superfluo da elargire, perché non vorrebbe mai e poi mai dire qualcosa di sbagliato, di poco celebrativo, di non allineato, e diventare meno gradito. Per lui sarebbe sicuramente terribile perdere la stima (che crede di avere) della persona commentata, terribile non reagire ad un così bel post, terribile mancare quella ghiotta opportunità di farsi di nuovo vivo e contribuire alla conversazione. Mai e poi mai rimanere nell’ombra: il commentatore per forza si sente sempre in vetrina nella vetrina degli altri, in guisa di guest star, e non vuole certo sfigurare in questo featuring esclusivo. É ovunque, dispensa positività e daccordismi (pensala come vuoi, è sempre d’accordo con te), probabilmente sollevato da una certa idea di poter brillare per luce riflessa. O, molto più semplicemente, per quel senso di sollievo di quando eravamo bambini (negli anni ‘80, non so se si fa anche adesso) e l’amichetto diceva • Sono per la Juve! • Anch’io! • E guardo sempre l’Uomo Tigre su OdeonTV! • Siii pure io! • E l’arte marziale più bella di tutte è il karate! • Vero! KIAI!! • Anzi scusa volevo dire il Judo, ho sbagliato! • Anch’io volevo dire il Judo! Ho sbagliato! Il Judo! UATA’! Il commentatore per forza non si accorge di essere diventato un supplizio. Passa velocemente la voglia di rispondere a uno costantemente allineato, che fa sempre la battuta (trita) per sottolineare quanto tu sia in gamba e i tuoi detrattori siano dei cretini, che ripete a pappagallo cose dette precedentemente da te (vuoi far vedere che hai studiato?), che azzanna con violenza inutile e non desiderata chiunque, nei commenti successivi, provi a sminuirti o contraddirti. Diventa una macchietta. Non sa che ormai si collezionano i ritagli degli screenshot delle milioni di notifiche “ha commentato un tuo post” o “liked your photo” per scambiarli con gli amici in chat. Bisognerà che qualcuno, facendoci la parte dell’antipatico, renda consapevoli i commentatori per forza del loro appartenere alla nefasta categoria.

Ottobre 2020 - 106

Questo stesso articolo per me è una sorta di

espiazione. Sono stato, in passato, un commentatore per forza. Ma un commentatore per forza di quelli cattivi, non uno di quelli compiacenti e fastidiosetti. Un esemplare da sindrome post traumatica a ogni notifica, da attacco di panico. Non saprei dire DISTANZIATO perché, ma avevo preso lo “svilire SOCIALMENTE BEN DIVENTASSE MAINSTREAM tutto” come PRIMA una CHE missione. Mi accanivo particolarmente contro la poesia usata per abbellire certi post, distruggevo di sarcasmo ogni condivisione di traguardo sportivo (Tizio ha appena corso 3 km con la nuova applicazione! yuhu! fondamentale farlo sapere!), ogni esternazione di malessere, ogni volgare ostentazione di felicità. Sempre, puntualmente, una frasina cattiva per svilire. Io ridevo, tre o quattro persone ridevano, mi pareva di fare un grande servizio di milizia e ironia a tutto il web. In realtà tolte le tre o quattro persone non rideva nessuno, e la mia percezione presso le persone si aggravava con velocità preoccupante. Fino a che, fortunatamente, una persona mi ha fatto notare il mio errore di incauta gioventù, con calma, dignità e classe. Mi fece piacere? No, per niente. Negai tutto con ulteriore sarcasmo. Smisi però, credo, quasi del tutto.

Emiliano Nencioni

Questo è il nocciolo. Le persone moleste vanno avvertite. Un commentatore per forza, ci scommetto, è convinto di essere un leale e stimato sostenitore, un braccio destro, una persona schierata e allineata, una figura positiva. Non lo sa mica, che deve rallentare. Non se ne accorge, che ogni suo contributo è accolto con una pletora di “oh no ancora lui”. Bisognerebbe avvertirlo. Con calma, dignità e classe (cit.).

Emiliano Nencioni Approfondimenti: La vetrinizzazione sociale: il processo di spettacolarizzazione degli individui e della società Vanni Codeluppi Bollati Boringhieri, 2007 Metaforismi e Psicoproverbi Alejandro Jodorowsky Feltrinelli, 2017


CLUB

Dire tta m e n t e da lla co m m u n i ty di ma e s t ri di ba rbecue pi ù grande d’I tali a, nasce i l prest i gi oso club c h e ti offre la possi bi li tà di avere: a ccesso pr i or i tar i o al meg astore, dove pot ra i fa re ra zzi e ment re tutt i gli a lt ri “ sono i n coda ” ; u na p rogra m ma zi on e i n telli g en te dei tu oi acq u i sti gra zi e a l c re di to mensi le prepa gato (scegli tu quanto); u n coa ch pr i vato c h e ti g u i derà n e l fa rt i vi ve re l’ esperi enza

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BBQ4All Magazine - 107

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