N°45/ANNO 4 - SETTEMBRE 2022
L'EDITORIALE DI GIANFRANCO LO CASCIO
COME SI FA
IL PANE DEGLI INDIANI D’AMERICA
DAL SELVAGGIO E LONTANO WEST
Bacon fatto in casa, Cowboy steak con burro aromatizzato, Pagnotta farcita nel Dutch Oven, Chorizo e fagioli sandwich, Sloppy Popover, Spezzatino nel Forno Olandese, spiedini di manzo e patate, Top blade peperonato, Tortino con chuck roll e fagioli, Vaca Atolada
SCIENTIFICAMENTE PROVATO: ALLA SCOPERTA DI GASTRONOMICAMENTE
TACOS
LA RICETTA SCIENTIFICA
Direttore Editoriale Rossella Neiadin
Redattore Capo Michela Bongiorni
Redazione
Enio Berton Virgilio Brunetti Tommaso Buccafurri Nunzia Clemente Roberto Dal Bosco Salvatore Di Mento Luca Gallozza Marco Gerometta Mariangela Ibba Chiara Lo Cascio Gianfranco Lo Cascio Giancarlo Madonna Riccardo Meniconi Giovanni Minelli Emiliano Nencioni Elena Ninotti Francesca Pappacena Raffaele Persichetti Andrea Spaggiari Alessandro Trezzi Carlo Trono Paolo Tucci Alex Vasile Caterina Vianello Alberto Zonghetti Marco Zorzan
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Realizzazione Grafica Impaginazione Carlo Trono Illustrazioni di Eleonora Castagna e Ozzy Bellesi Fotografie di Rossella Neiadin, Luca Gallozza, Tommaso Buccafurri, Elisa Giuli, Emiliano Nencioni
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IN DI Rubriche
Editoriale - Scientificamente provato!
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Portfolio gastronomico - Il vecchio Far West, una cucina di frontiera
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Nice to meat you - Il Chuck Roll
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Ricette
La colazione del cowboy
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Cowboy steak e pannocchie abbrustolite
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Ne ho facoltà - Macaroni & cheese
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Pagnotta farcita
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Il panino di Bud Spencer
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Chuck Pot Roast
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Sloppy Popover
40
Lo spezzatino dei pionieri
44
Per un pugno di spiedini
46
Top blade peperonato
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La torta del West
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Vaca atolada
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Approfondimenti
Arte Bianca - Frybread, il pane degli Indiani d'America
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Across the pond - In USA, dove c'è burro di arachidi c'è casa
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From Zero to Hero - Dutch oven, cos'è e come si usa
68
Speciale - Guida ai tagli (errata corrige)
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La ricetta scientifica - Tacos
84
Seguo - Rimandare sempre le riunioni con gli idioti perditempo
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SCIENTIFICAMENTE PROVATO! Editoriale di Gianfranco Lo Cascio
Gastronomicamente è l’unica guida per cucinare e mangiare meglio “È COME LO FA NONNA”. “L’ABBIAMO SEMPRE FATTO COSÌ” “BISOGNA RISPETTARE LA TRADIZIONE”.
Quante volte vi è capitato di leggere frasi del genere? Di sentire quella distinguibile e intensa sensazione di fastidio provocata dalla retorica gastronomica dell’amatriciana-per-carità-senza-cipolla? Se anche voi come me non ne potete più del Medioevo dei fornelli, preparatevi a scoprire, imparare e semplificare il vostro modo di intendere il cibo grazie ad un nuovo strumento: Gastronomica-Mente. È un progetto editoriale nato proprio dall’immobilismo e dalla noia che il mondo della gastronomia raccontata sta vivendo negli ultimi anni. Se guardate Oltreoceano, su testate internazionali, potrete leggere di tutto e di più. Nel nostro paese invece? Esiste un esercito di testate e blog che parlano tutti delle stesse cose, nello stesso modo, con la stessa impronta. La verità diventa quella che i "giornalettai" vogliono raccontare e non quella che è realmente. I titoli degli articoli hanno tutti lo stesso tono. Le 10 cose migliori, la classifica della scarpetta fatta con la mano sinistra, tutta roba acchiappa clic. Vai su instagram e Tik Tok, e oltre a qualcuno che magari fa anche qualcosa di dignitoso, vedi questi "content creator" che 'nguacchiano cose a caso e hanno decine se non centinaia di migliaia di seguaci. C'è cibo dappertutto, se ne parla sempre più, ma non si capisce assolutamente nulla.
Come dicevano i greci, tutto si trasforma, perché ci ostiniamo a non accettarlo con la cucina? Il nostro obiettivo è creare un pubblico eterogeneo che, diversamente da quello che fanno gli altri poli di informazione (e formazione) gastronomica, è interattiva con voi e si “modella” su di voi. Avete presente le diecimila classifiche di “il miglior panino di Roma” oppure “il miglior panettone di Milano” o ancora “La migliore limonata di Napoli”? Bene, Gastronomicamente – in tutte le sue versioni – non replicherà nulla di tutto questo, e per una ragione molto semplice: così come ci è impossibile stabilire un criterio unico secondo il quale qualcosa è tutto bianco o tutto nero, allo stesso modo sarebbe un’impresa titanica e impraticabile poter stabilire qual è la migliore pizza, il miglior cioccolato, il vino più buono.
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Gastronomicamente (www.gastronomica-mente.it) è il network che ho voluto e che vi dirà no, no e NO a tutte le frasi fatte condite con olio EVO. Si propone come nuovo contenitore multimediale che si “adatta” alle nuove esigenze di appassionati attenti e curiosi come voi. Lì impareremo che non
esiste “la tradizione” ma “le tradizioni”. Ed ognuno di noi, nel piccolo o nel grande, le modella, rimodella ancora, ne crea di nuove, le mette in dubbio e poi le riafferma.
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Però, c’è un però, come in ogni cosa. Ed è su questo “errore del sistema” che andremo a costruire il nostro ragionamento. Ciò che la “critica gastronomica” nostrana non ha ben compreso, per nostra fortuna, è che non possiamo dividere gli avventori delle attività ristorative per macrocategorie: non c'è più, banalmente (oppure non c'è mai stato!), l’avventore che frequenta SOLO pizzerie, quello che frequenta SOLO ristoranti, SOLO trattorie. C’è bisogno, quindi, di una fine costumizzazione dell’ “avventore tipo”, così come dell’ “utente tipo”. Può esserci una selezione di migliori pizzerie, adottando criteri paradossalmente ancor più selettivi, restringenti MA andando a colpire una fetta di pubblico molto più interessata e reattiva. Per farla semplice, prendiamo il classico esempio del “panettone migliore d’Italia”. Concorsi, concorsi e concorsi. Ognuno con una verità incontrovertibile: il loro “primo posto” vale più di tutti gli altri “primi posti”. E non è possibile, per due ragioni: 1.
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La quantità di artigiani che, ogni giorno, produce ottimi lievitati ormai è incalcolabile e difficilmente individuabile senza l’aiuto - indovinate di chi? - degli utenti stessi e delle loro segnalazioni. Esistono troppi stili di panettone. Così come troppi stili di pizza. E via dicendo. Come si fa a decidere qual è il migliore uber alles?
Cosa si fa in questi casi, quindi? Quello che facciamo noi di Gastronomicamente.
Scegliamo dei prodotti, dei locali, delle esperienze in maniera differente. Ci sarà uno o più esempi di ogni stile di prodotto, locale, esperienza. Ognuno di questi potrebbe essere “il migliore” per qualcuno. Per un tipo di persona, per una occasione in particolare. Non il meglio in assoluto. Il meglio per voi. Per quello che cercate, per quello che potete investire in quel prodotto, locale o esperienza. Prendiamo la pizza: quante evoluzioni ci sono state negli ultimi 10 anni? Incalcolabili? Possibile stabilire IN ASSOLUTO quale pizza sia migliore di un’altra?No. Non possiamo, nemmeno nella stessa città. Troppe variabili. Possiamo però stabilire dei criteri: selezionare le maggiori espressioni di pizza contemporanea, di pizze storiche, i locali dove accoglienza e sala si esprimono al meglio e via discorrendo. I nostri lettori devono potersi rispecchiare nelle selezioni, trovando il proprio posto: il profilo gustativo di ciascuno di voi va valorizzato, non ammazzato nella logica del “migliore”. Semplicemente, perché non esiste una collocazione unica per tutti. La domanda che ci siamo posti all'inizio del nostro viaggio è stata questa: «Che cosa vogliono le persone quando si parla di cibo? Che cosa cercano, in che modo acquisiscono le informazioni?» Beh, per quanto sia ormai diffuso il gusto di riempirsi la bocca con parole tipo "social media manager" o "seo manager" la verità è che nessuno dei "creator" fa la cosa più semplice che invece dovrebbe essere fatta: ascoltare Papà Google per sapere davvero "cosa vogliono le persone”.
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Noi lo abbiamo fatto. E no, non è stato affatto semplice ed è frutto di un costante affinamento. Lasciate che vi mostri un risultato che ci conferma che Gastronomicamente sta viaggiando con il giusto vento nelle vele.
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Una delle domande in assoluto più diffuse su Google è "dove mangiare il gelato artigianale". Studiando - davvero molto a fondo - gli algoritmi di Google, la Search Console e la Machine Learning, si può risalire al modo in cui non solo le persone cercano ma nel modo in cui Google può "digerire" le pagine e
alle specifiche non solo dei motori di ricerca ma di ciò che vogliono davvero le persone, potrà crescere in popolarità e autorevolezza. Io credo moltissimo in questo progetto. Ci credo perché dentro c’è la mia visione. E credo nel progetto perché le persone che ci lavorano sono perfettamente integrate in questa visione, anzi, sono molto più avanti di me perché hanno la fortuna di essere nate già nel boom dell'espansione digitale. BBQ4All, dal canto suo, continuerà il suo percorso nel mondo della ciccia, della griglia e continuerà a fare bene ciò che sa fare bene.
QUALCOSA SU GASTRONOMICAMENTE LE GUIDE
mostrarle tra i primi risultati in ordine di pertinenza. La nostra mappa del gelato artigianale, su Gastronomica-Mente.it è stata pubblicata il 5 di Agosto. Dopo 3 giorni eravamo già in prima pagina tra i risultati organici della serp per le parole chiave "dove mangiare il gelato artigianale" e primo risultato, sempre sulla serp organica e non a pagamento, per le parole "mappa del gelato artigianale". Le keywords "dove mangiare il gelato artigianale" -come detto parole estremamente ricercate su Googlerestituisce 308.000 risultati; noi siamo entrati nella prima pagina dei risultati già dopo 3 giorni.
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E perché ve lo sto raccontando? Per dirvi una cosa molto semplice: mi rendo conto che al momento questo progetto, che volutamente abbiamo fatto partire in sordina, è stato poco compreso e lo sarà ancora per un po'. Ciò che però voglio condividere con voi è questo momento di inizio. In modo che, tra qualche tempo, un paio d'anni realisticamente, potrete rendervi conto di come un sito che nasce, per definizione, per DNA, per identità, aderente al 100%
Una faccia molto interessante di Gastronomicamente saranno le Guide. Guide per città, per territorio, per regioni. Facilmente consultabili perché saranno sempre lì, al loro posto, con indirizzi ed indicazioni necessarie per raggiungere la tua meta. Non necessariamente “la migliore” (ricordi? Non esiste “il miglior qualcosa” in assoluto), ma di certo la più rappresentativa. Se te lo stai chiedendo, sì: vogliamo essere la tua piccola guida Michelin a portata di mano. La tua “Viola” personalizzata, insomma. Ti piace questa sfida? Ti assicuriamo che non c’è un qualcosa di simile in giro per il web. Sulla carta stampata, peggio che andar di notte.
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RICETTE. DA GASTRONOMICAMENTE A SCIENTIFICA…MENTE La ricetta non è e non sarà mai più esecuzione di qualcosa di “già fatto”. Le ricette verranno provate e riprovate di volta in volta, fino a garantirvi un risultato certo, perfetto, e soprattutto replicabile. La nostra particolarità? Le ricette di Gastronomicamente avranno supporto scientifico e fotografico. Con una sezione apposita, spiegheremo i perché e i per come dei processi chimici che avvengono nei nostri alimenti e durante le nostre preparazioni, qualche volta addentrandoci di più nella materia, altre volte con contributi esterni di esperti del settore. Com’è che diceva Confucio? Dai un pesce ad un uomo e lo nutrirai per un giorno, insegnagli a pescare e lo nutrirai per tutta la vita. Noi non ci proponiamo solo di illustrarvi la ricetta: avrete a disposizione un metodo, da poter utilizzare all’infinito nelle vostre preparazioni. E il pesce di Confucio diventerà un’orata al forno da leccarsi i baffi.
ADESSO TOCCA A VOI! Gastronomica-Mente.it è un progetto by BBQ4All, che fa capo alla stessa azienda, che però tratta il cibo e la gastronomia nella sua interezza. Nasce per rispondere alle vere esigenze delle persone ed esiste per essere trovato dalle persone. Non sto a spiegarvi come faremo ma fidatevi, lo facciamo già. Siamo ancora piccolini e c'è tanto da fare, ma date un paio d'anni a questo nuovo alberello e presto potrete mangiarne i frutti. Nel frattempo, per non confonderci le idee, iscrivetevi a Il gruppo di Gastronomica-Mente. it in modo da far crescere la Community. Fatelo però! Dateci fiducia!
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Iscrivetevi qui https://www.facebook.com/groups/ gastronomica.mente
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Gianfranco Lo Cascio
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Il vecchio
Portfolio Gastronomico a cura di Alberto Zonghetti
FAR WEST una cucina di frontiera Settembre 2022
Per capire le origini della cucina “vecchio west” dobbiamo scavare, come sempre nella storia, nelle radici del popolo americano, andando indietro nel tempo di circa tre secoli.
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Parliamo di un periodo che inizia alla fine del Settecento e termina all’incirca un secolo dopo: sono gli anni delle grandi migrazioni verso il Far West (la traduzione letterale è Il Lontano Ovest), dove c'erano fertili pianure ancora libere e la speranza
di ricchi giacimenti d'oro. Intere famiglie di pionieri che solitamente provenivano dall'Est americano, dove erano immigrati dall'Europa (Germania, Inghilterra, Irlanda, Scozia, Olanda), partivano quindi ancora una volta con la speranza di trovare finalmente il paradiso che avevano sognato, con l’obiettivo di riuscire a costruirsi una vita nuova. Il viaggio, lungo e pericoloso, poteva durare anche
se vogliamo conoscere meglio alcune pietanze dobbiamo avventurarci soprattutto tra gli spaghetti western (ovvero il western all’italiana, pellicole e basso budget interpretate da attori nostrani poco conosciuti ) e le declinazione comiche o parodiche degli stessi. …I FAGIOLI, COMUNQUE, ERANO UNO SCHIFO! Questa celebre frase conclude la scena del film “Lo chiamavano Trinità” - divenuta ormai, leggenda, anzi mito - nel quale un giovane e affamatissimo Terence Hill divora una padella intera di fagioli. Basti pensare che l’attore rimase a digiuno 36 ore prima di girare, e questo spiega la voracità con la quale Trinità termina il pasto, accompagnato dal pane strappato con le mani, un bicchiere senza fondo e un tonante rutto. La visione di questo spezzone ha accompagnato le indescrivibili “fagiolate” che hanno scandito annualmente la mia esistenza dall’adolescenza fino all’età adulta, una sorta di rito annuale che si è protratto fino ad oggi, seppur con necessarie varianti. Infatti superati i trenta anni, non è più possibile ingurgitare un chilo di fagioli a testa; pertanto nel menu abbiamo introdotto chili e barbecue di ottima qualità.
sei mesi, coprendo distanze che sfioravano i 1.500 km. Mete frequenti erano la California e l'Oregon, ma anche il Texas e il New Mexico. Bene organizzati in carovane, capaci di difendersi da pellerossa e banditi, dopo migliaia di chilometri tra deserti, montagne, valli infuocate, fiumi privi di ponti e mille pericoli, si oltrepassava la mitica frontiera e si poteva prendere possesso delle nuove terre. Per affrontare un’esperienza così complessa era necessaria una gestione efficace e semplice del cibo. La cucina da bivacco dei mandriani si trasformò in qualcosa che sarebbe diventato il pilastro della cucina americana, quella mescolanza – definita “melting pot” - che è la forza e l’identità della tradizione alimentare statunitense.
Indimenticabile ed esilarante è la scena del bivacco dei cowboy nella parodia di Mel Brooks “Mezzogiorno e mezzo di fuoco”: pasto a base di legumi in grande quantità, con prevedibili conseguenze in termini di… emissioni di gas ed effetti sonori non proprio armonici ed eleganti. Anche la qualità dell’aria ne ha risentito… Attenzione però, perché l’equivoco è dietro l’angolo,
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La prima fonte da cui prendere spunto per iniziare a conoscere la cucina del Far West è sicuramente il cinema. Numerose pellicole – tra cui autentici capolavori - ci raccontano la vita dell’epoca, ma
Tornando a noi, chi è appassionato del genere non faticherà a ricordare numerosi film (inclusi gli “Spaghetti western”, declinazione italica) e parodie che includono mangiate colossali al pari di scazzottate e duelli all’ultimo sangue. Forse è poco conosciuto, ma non meno epico, il pranzo di Bud Spencer in “Occhio alla penna”. Il quale, nei panni di un sedicente “dottore”, inizia un pasto-duello con lo sceriffo antagonista a base di “tutto ciò che c’è in cucina”: non svelo tutto ciò che è stato divorato per non rovinarvi il finale sorprendente (andatelo a cercare per farvi qualche sana risata). Ma l’inizio del lauto banchetto non può che una pentola colossale di fagioli, mangiati dal corpulento e barbuto protagonista direttamente con un enorme mestolo.
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pronto ad aspettarci: sembra infatti che i fagioli fossero l’alimento principale di cowboy, pionieri, coloni. La realtà è però differente… Da qui nascono però due domande fondamentali: 1. Che cosa mangiavano i pionieri? 2. Ma soprattutto, viste le enormi distanze che percorrevano, dove e come cucinavano?
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CIBO IN CAROVANA Rispondiamo alla nostra prima curiosità con alcune premesse. L’alimentazione americana è stata influenzata fin dal Seicento, con la nascita delle colonie, dall'arrivo di nuove tradizioni con gli immigrati di ogni angolo della terra: un miscuglio di varie tradizioni etniche e ambienti naturali diversi. I primi coloni europei, principalmente francesi, inglesi, spagnoli, olandesi e schiavi dell' Africa occidentale, portarono con sé una varietà di tradizioni culinarie e materie prime, tra cui polli, maiali, bovini, ovini, caffè, riso, sesamo, zucchero e igname. I coloni trovarono inoltre nel Nuovo Mondo una quantità di cibi che non conoscevano, patate, mais, fagioli e zucca - che incorporarono gradualmente nella propria dieta. La carne e il pane furono i due alimenti di base nelle
prime fasi. Gli americani mangiavano molta più carne degli europei e le quelle più popolari erano manzo e maiale, soprattutto il secondo perché era facile conservarlo. Se in molti paesi europei, come la Francia e l'Italia, si preferiva il pane di grano, per i coloni il frumento costava troppo, sicché consumavano pane di mais, segale, avena e altri cereali. Con queste premesse, cerchiamo di immaginare quali prodotti facessero parte della dieta dei nostri coloni. Di sicuro gli insaccati stagionati e le carni affumicate o salate, che si prestavano bene ai lunghi viaggi. Non potevano mancare cibi facili da conservare come la patata, regina incontrastata della gastronomia dei coloni. E poi fagioli, patate, caffè, cipolle, lardo e farina per fare pane, biscotti e dolci. Poche le verdure, data la loro deperibilità, ma peperoni e mais erano piuttosto diffusi, assieme anche ai piselli. E poi carne, in grande quantità. Immagino che lettori di fumetti possano pensare subito a Tex Willer e alle famose bistecche di manzo con una montagna di patatine fritte. In realtà il consumo di maiale era più diffuso,
dato che si conservava meglio e i bovini erano più utili per altri scopi come il viaggi, i lavori pesanti, il commercio. Non mancava la selvaggina, frutto di battute di caccia durante il lungo viaggio: lepri, conigli selvatici, galline prataiole e, più rararamente, cervi e bisonti. Le tipologie di preparazioni che la facevano da padrone erano brasati, stufati e spezzatini, con qualche eccezione che vedremo. Tra i condimenti abbondante sale, melassa, spezie forti e pungenti. Decisamente comuni erano le uova, fritte o strapazzate e accompagnate dall’iconico bacon fritto. Il pane, la maggior fonte di carboidrati, era fatto con il lievito madre e cotto spesso nel forno olandese. Sappiamo inoltre che i pionieri amavano le Johnnycakes (o focaccine del cowboy, cotte all’aria aperta in pesanti padelle di ghisa, usando farina di mais, acqua e qualche rimasuglio di grasso recuperato da altri piatti). I dolci più famosi sono sicuramente quelli che ricordiamo anche grazie a film e sceneggiati come “La casa nella prateria”: le mele fritte, le frittelle slapjack, i crumble e cobbler cotti nel Dutch oven, le torte in teglia (usate come frisbee da Marty McFly in Ritorno al futuro 3). IL CHUCK WAGON La risposta alla nostra seconda domanda pare semplice: si cucinava nel carro del cuoco, il vero il
quartier generale di tutti i gruppi di pionieri durante le lunghe traversate. Ma quello del cuciniere non era un carro semplice, simile agli altri: era più robusto ed allestito alla perfezione per gestire la preparazione di notevoli quantità di cibo.
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La vera rivoluzione avvenne grazie al mitico Charles Goodnight: so che questo nome non ci dice nulla, ma per gli americani è una specie di eroe nazionale. Importante allevatore e commerciante di bestiame del Texas, il nostro protagonista acquistò nel 1866 un carro Studebaker, un mezzo militare abbastanza resistente e impiegato diffusamente nella Guerra Civile appena conclusa. In seconda battuta ricercò e assunse un valente cuoco, che lo aiutò ad equipaggiare in maniera adeguata il carro di tutto il necessario: un barile per l’acqua, una pesante cucina in metallo, un pianale dove venivano impilati i forni olandesi che potevano cosi “lavorare” durante il viaggio ed essere pronti al momento della sosta notturna; scatole, scaffali e cassetti per conservare utensili da cucina e rifornimenti; piano di lavoro posteriore che era il coperchio del carro ma scendeva all’occorrenza e si fissava terra. Inoltre, grazie agli assali di acciaio, questo rivoluzionario
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carro era anche in grado di resistere alle asperità del terreno. Non pensate a dimensioni enormi, si parla di circa 3 metri di lunghezza e uno di larghezza. La copertura era garantita da teloni impermeabili tenuti insieme da archi e stanghe coprivano il carro per mantenere l’interno sempre asciutto. Fu così che nacque il chuckwagon, cioè il carro da cucina del West; non che prima di allora non fosse mai esistita una qualche forma di cucina mobile nel West ma Goodnight indubbiamente lasciò il suo segno con questa innovazione. Grazie a questa invenzione il nostro mercante di bestiame riuscì a trasportare e vendere milioni di capi che, partendo dal Texas, arrivavano in Kansas, Missouri, Wyoming o Canada.
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IL FORNO OLANDESE Chi tra noi, adoratori della cucina al fuoco, non conosce il “Dutch oven”? Questo fantastico strumento fu protagonista dei pasti preparati dai pionieri e dai cow-boy, essenziale anche per la cucina domestica sul camino. Fu infatti importato nel nuovo mondo a inizio Settecento dagli olandesi, ed era perfetto per le esigenze della carovana. Quella pesante pentola di ghisa dotata di piedini e coperchio con le flange, era perfetta per essere sistemata direttamente su un letto di braci, con le quali si copriva anche il coperchio. Si potevano impilare più forni, uno sopra all’altro. Dato che la ghisa irradia il calore in maniera lenta
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e uniforme, consente cotture a basse temperature per tempi molto lunghi, motivo per il quale ancora oggi è estremamente diffusa e utilizzata. La carne che veniva stufata era grassa, spesso conservata nello stesso grasso dell’animale. Si aggiungevano patate, fagioli e, se si era fortunati, qualche verdura selvatica. La parte liquida era affidata prevalentemente al caffè, avanzato dal mattino, che teneva umido lo stufato ed evitava che si bruciasse. Oltre al forno olandese un accessorio indispensabile per la cucina da bivacco era la “Skillet Pan”, pesante padella di ghisa che veniva appoggiata direttamente sulle braci nel fuoco da campo. Era utilizzata per friggere e cuocere alimenti di ogni tipo: uova, carne, fagioli, focacce, frittelle. LA CUCINA DEL WEST OGGI Sono tantissimi i piatti che al giorno d’oggi che si gloriano di avere radici nel vecchio West. Oltre a quelli che ho già menzionato, vorrei segnalarne alcuni particolarmente interessanti. Partiamo dal dallo stufato del cowboy: chiamato in tanti modi e diversificato a seconda delle varie regioni, è essenzialmente uno spezzatino di manzo, a volte anche di cervo, più raramente di suino. Ben speziato (principalmente con pepe e peperoncino), cotto a bassa temperatura nel forno olandese con patate, fagioli e verdure che variano a seconda della disponibilità; innaffiato con caffè, birra o brodo.
Il Frybread è un piatto legato alla tradizione dei nativi americani e risale all’epoca della colonizzazione. Come suggerisce il suo stesso nome, si tratta di un pane fritto, preparato con pochi e semplici ingredienti, ovvero la farina, le uova, il latte e il burro, che poi viene condito con carne di manzo o di bisonte stufata, insalata e formaggio. È sicuramente un pasto ricco, gustoso e completo. Esiste persino una variante dolce, abbinato al miele o alla marmellata La Pitchfork Fondue consiste in un rito folkloristico nel quale la carne di manzo cruda viene infilzata su degli appositi forconi e immersa nell’olio bollente, in cui cuoce per qualche minuto. Viene servita solitamente accompagnata da patate e fagioli. I Chislic, tipici del South Dakota, hanno origini russe e vennero importati negli Stati Uniti dagli immigrati russi nel tardo Ottocento. Sono cubetti di agnello o montone, che vengono fritti e conditi con sale aromatizzato all’aglio e serviti si spiedini o stuzzicadenti a fianco di crackers. Oggi ne esistono diverse varianti che prevedono anche la cottura alla griglia e l’utilizzo di manzo o cervo. E che ne dite di una gustosa bistecca cotta in una skillet pan, la famosa padella in ghisa? Ho visto veramente tanti video di cuochi americani più o meno professionisti cuocere in mezzo alla natura queste carni con burro, aglio ed erbe aromatiche. Più che “vecchio West” direi molto “INto the wild”” Chiudo con un prodotto tipico, l’Huckleberry, ovvero il mirtillo selvatico, che cresce abbondante nelle zone boschive e, in particolar modo, nel Glacier National Park, in Montana. Viene utilizzato per la preparazione di deliziose marmellate e gelatine, liquori, sciroppi e dolci. Per gli abitanti dell’Idaho, il mirtillo selvatico è un vero e proprio tesoro e amano realizzare, tra gli altri manicaretti, la Huckleberry Cheese Pie, una sorta di cheesecake con una base crunchy, una farcitura di formaggio fresco e un abbondante topping di mirtillo selvatico.
Gli allestimenti, seppur pacchiani e a volte
Ma voglio condividere con voi, che ormai siete una famiglia, la delusione di chi non si aspettava pietanze da stella Michelin, ma neanche fagioli indegni, costine grigie, molli e marmellatose , hamburger succoso come compensato, atmosfera da fast food. Le patatine sì, erano dignitose, ma è troppo poco. Per finire, un vero e proprio calcio tra i gioielli di famiglia, il conto: salatissimo, come quello di un ristorante. Magari sono stato sfortunato, i locali nelle vostre città magari saranno più calorosi e suggestivi, maggiormente attenti al cibo. Ma la voglia di qualcosa che mi ricordasse le atmosfere del west mi era rimasta. (Durante la redazione finale dell’articolo, appena prima della consegna, ho trovato casualmente una recensione del nostro Emiliano Nencioni sul locale in questione. Molto dettagliata e ben fatta, abbastanza simile alla mia esperienza. No, non pensate male, non l’ho copiata, l’avevo già scritta!). E sapete come ho rimediato? Nel modo migliore, cucinando in prima persona. Per il compleanno di mia figlia ho affittato un’area di un maneggio, trasportato i miei fidati kettle, cucinando all’aperto tra cavalli, fienili, alberi. Certo, non è stato un menu filologico, né tutti gli invitati indossavano abiti tematici. Ma nessuno ha avuto da ridire, anzi; tra salsicce, cipolle e peperoni, panini, fagioli, diaframmi e pancette è nato un evento indimenticabile, più country che “vecchio West”, ma decisamente più evocativo del famigerato locale di cui sopra.
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VOGLIA DI “OLD WILD WEST” L’idea che è alla base della nota catena di ristoranti diffusi in tutta Italia ed Europa è molto divertente e piacevole: un locale che rievoca un periodo mitizzato e ci trasporta indietro nel tempo e a migliaia di chilometri di distanza.
decisamente kitsch, sono abbastanza efficaci: il menu è molto ricco e neanche lontanamente vicino all’effettiva alimentazione dei pionieri, ma non fa niente. A noi piace tuffarci nell’atmosfera del locale, che però è molto più simile a “Ritorno al futuro 3” che alle pellicole di Sergio Leone o Tarantino. Ma va bene lo stesso. Dell’accoglienza tipica delle locande viste in tanti film neanche l’ombra…dobbiamo infatti attendere un cameriere che ci accompagni, e questo non è un buon inizio. Ma il peggio deve ancora arrivare, e si fa attendere a lungo. Non commento ogni singola portata, dato che non sono un food hunter che recensisce un locale.
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IL CHUCK ROLL NICE TO MEAT YOU
Abbiamo visto spesso come nella classificazione americana, a dispetto di quella italiana, la suddivisione dei vari tagli della mezzena del manzo segua un protocollo molto rigido. La parte del Chuck presa in esame oggi, fa parte del Chuck Primal Cut, un gruppo anatomico situato nella mezzena anteriore dell’animale che viene divisa dal posteriore con un taglio netto tra la quinta e la sesta costola. Il Chuck Primal si ricava quindi dopo aver rimosso le Ribs, Short Plate, il Geretto anteriore ed il Brisket. Può essere poi lavorato in fase di macellazione in modo da dividerlo ulteriormente in porzioni più piccole, tra cui la spalla. Dal Primal Cut possono essere ricavati dei tagli molto saporiti e di gran lunga più economici, se rapportati a quelli che troviamo nella più prestigiosa zona del Loin (Lombata). Le fasce muscolari di quest'area della mezzena sono infatti divise da strati di connettivo particolarmente tenaci, che la fanno definire una zona di seconda categoria. I tagli ricavati dalla macellazione italiana in questa zona sono diversi. Un tempo, nella macellazione italiana, essi erano destinati solo a cotture in umido o al macinato mentre, nella nuova e cresciuta idea di macelleria che anche da noi sta perndendo piede, non è raro trovare dei tagli che si avvicinano al disciplinare americano, come la Copertina di Spalla (con il Flat Iron Steak, il Top Blade ) o il Fesone con le sue gustose bistecche di seconda, che possono essere ricavate pure dal Reale.
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Venendo al nostro Chuck Roll vero e proprio, questo può essere separato in due zone ben distinte. La prima maggiormente infiltrata di connettivo e la seconda, più spessa, maggiormente infiltrata di grasso. Sul banco di taglio le due zone vengono divise seguendo la naturale linea di separazione della fascia connettivale ben visibile: la parte superiore che si ricava è formata in parte dallo stesso muscolo che si ritroverà poi nelle Ribeye, il Longissimus Dorsi. Se il pezzo viene tagliato a fette, si ricavano delle bistecche che prendono il nome di Chuck Eye Roll Steak, il puro occhio del reale, un tempo chiamate anche Poor’s Man’s Ribeye per il costo nettamente inferiore rispetto alle più blasonate sorelle. Se invece viene lasciato intero, a seconda della lunghezza, esso prende il nome di Little o Big Pot Roast, destinato poi normalmente ad una cottura indiretta in stile Rib Roast.
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La parte inferiore invece è formata dal muscolo Serratus Ventralis da dove si ricavano le famose Denver Steak. Una volta separata dal Chuck Eye Log e tolta la Silverskin che ne avvolge la superficie, vediamo le fibre diramarsi a ventaglio e nella parte esterna laterale si trova una porzione dalla quale ricaviamo la Sierra Steak, bistecca che ricorda nella consistenza e nella sua fibra ben visibile la Flank Steak. Squadrata e rifinita la parte esterna (che potrà diventare dello Stew o dell’ottima carne per burger), tagliando rigorosamente controfibra, si ricavano delle ottime Denver Steak, le bistecche morbide e gustose che abbiamo imparato a conoscere ed apprezzare nel Megastore BBQ4All.
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immagine tratta dal libro Butchering Beef di Adam Danforth
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LA COLAZIONE DEL COWBOY
Bacon, uova e patate Immaginate di chiudere gli occhi e trovarvi nel Kansas; è il 1860, siete il quattordicenne Will Cody al suo primo giorno di lavoro come corriere Pony Express. Vi siete alzati prima dell’alba nel massimo silenzio per non svegliare nessuno e siete andati a preparare il vostro cavallo pensando quali terribili responsabilità comporti essere l’uomo di casa. Siete pronti a partire con un groppo in gola e già con un piede nella staffa del cavallo quando sentite la voce ferma di vostra madre che dalla cucina con un mestolo di legno in mano vi ammonisce severa: “Bill! Dove credi di andare senza aver fatto colazione?”. La mamma sa che la colazione è il pasto più importante della giornata per un cowboy: deve essere ricca di tutte le proteine, dei carboidrati e dei grassi necessari a fornire l’energia indispensabile per sostenere le lunghe giornate a cavallo. Ecco perché mamma cowboy consiglia sempre la presenza di uova fresche,della carne e di una buona dose di patate che, oltre a nutrire, saziano il giovane figlio.
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La colazione del cowboy a base di carne, uova e patate è sana e facile da preparare su un qualunque fuoco da campo, ma per chi ha il pallino del barbecue e non ha la mamma cowboy che gli prepara tutto, c’è del lavoro preliminare da fare.
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Partiamo dalla carne: probabilmente mamma Cody ha messo nella bisaccia del figlio della carne secca o della pancetta stagionata, ma per dei fortunati possessori di un frigorifero del ventunesimo secolo è possibile coccolare il palato con del buon bacon affumicato, morbido e ricco di grasso dolce e scioglievole. Lo Zio ha annunciato nel gruppo Facebook che presto arriverà del bacon firmato BBQ4All; nell’attesa vedremo come prepararlo in casa e, in omaggio ai pionieri del vecchio
west, lo aromatizzeremo con del bourbon. È riportata una ricetta base, potete ampliarla aggiungendo sapori e percezioni secondo i vostri gusti ma, dal momento che la carne dovrà subire una fase di salamoia di diversi giorni, fate in modo di lasciare sempre invariate le proporzioni di Pink Curing Salt #1: 2,2 grammi per kg di carne. Il Pink Curing Salt #1 è un ingrediente irrinunciabile nel fare il bacon: si tratta di un sale appositamente colorato di rosa per non essere erroneamente confuso con il classico sale da cucina; contiene una percentuale di nitrito di sodio, un conservante alimentare molto diffuso che trovate in praticamente tutti i salumi confezionati del vostro supermercato e nelle salsicce fresche con la sigla di E250. Il nitrito di sodio è fondamentale per limitare la proliferazione batterica nella carne proteggendola in particolare dal Clostridium botulinum, il botulino. Il nitrito di sodio opera inoltre come antiossidante, limitando l’ossidazione lipidica che porta all’irrancidimento del grasso e apporta il caratteristico sapore di salume alla carne. Un altro effetto del nitrito di sodio lo si ha nella colorazione della carne: com’è noto il colore rosso viene dato alla carne dalla mioglobina e in cottura scompare man mano che tale proteina comincia a denaturarsi sopra i 60°C. Il nitrito di sodio si lega alla mioglobina dando origine alla nitrosomioglobina e fissando il caratteristico colore rosso sulla carne. È un processo simile a quello che porta alla formazione dello smoke ring durante l’affumicatura della ciccia, quando è il monossido di azoto a legarsi alla mioglobina. Nel caso del bacon però il colore rosso si fissa su tutto il pezzo di carne e non solo sulla superficie, perché la salamoia avendo diversi giorni a disposizione penetra in tutto il pezzo di carne.
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Focus: bacon, come farlo in casa Settembre 2022 020
Ingredienti per il bacon
1 kg di Pork Belly Greedy’s Hog DUROC del Megastore / 30 g di Sal’s Seasoning – Microsphere salt / 30 g di zucchero di canna / 2,2 gr di Sal’s Seasoning – Pink Curing Salt #1 / 10 gr di Sal’s Seasoning - Ultimate SPOG oppure 5 g di pepe macinato grosso e uno spicchio di aglio non schiacciato / una foglia di alloro / un cucchiaio di Bourbon PREPARAZIONE DEL BACON 1.
Amalgamate l’Ultimate SPOG, il Microsphere Salt, lo zucchero e il Pink Curing Salt #1.
2.
Mettete il pezzo di pork belly all’interno di una busta sigillabile (una zip-bag o una busta da sigillare successivamente con la macchina del sottovuoto), aggiungete la foglia di alloro, distribuite uniformemente la salatura sulla pancetta, aggiungete il cucchiaio di bourbon, fate uscire l’aria, chiudete la busta e riponetela in frigo.
3.
Nei giorni successivi, massaggiate la carne per favorire la distribuzione della salamoia e giratela quotidianamente. Noterete che già dal secondo giorno la carne, per effetto disidratante del sale, perderà dei liquidi.
4.
Dopo otto giorni potete cominciare a predisporre la carne per il processo di affumicatura: toglietela dalla busta, sciacquatela in acqua fredda e lasciatela almeno una ventina di minuti in ammollo per dissalare gli strati superficiali.
5.
Settate il vostro dispositivo per un’affumicatura a 110° C.
6.
Affumicate la carne fino al raggiungimento dei 72°C al cuore e di tanto in tanto vaporizzatene la superficie con del bourbon. Si consiglia l’utilizzo di chunk di ciliegio per il tipico aroma dolce e intenso e l’effetto colorante.
7.
Raggiunta la temperatura target fatelo raffreddare su una grata e conservatelo in frigo fino al momento dell’utilizzo.
Ingredienti per 2 persone
qualche fetta di bacon / un paio di patate / due uova / Sal’s Seasoning Montreal Steak Rub q.b. / sale q.b. PREPARAZIONE 1.
Le patate devono essere cotte per prime. Probabilmente i cowboy le cuocevano nella cenere del fuoco da campo, voi potete scegliere se farle in ember roasting o, con molta meno fatica, bollite. In quest’ultimo caso ponetele con tutta la buccia in una pentola di acqua fredda salata, portate a ebollizione e lasciatele andare finché non saranno cotte. Attenzione a non stracuocerle, devono mantenere una buona consistenza.
2.
Fate raffreddare le patate, sbucciatele e fatele in fette alte circa mezzo centimetro.
3.
Mentre le patate si cuociono disponete il barbecue per una cottura diretta con la skillet di ghisa.
4.
Mettete il bacon in cottura nella skillet di ghisa.
5.
Lasciate che il grasso si sciolga e che la carne, friggendo nel proprio grasso, cominci a diventare croccante.
6.
Aggiungete le patate, fatele cuocere e insaporirsi nel grasso del bacon finché non hanno una bella crosticina all’esterno. In questa fase il trucco per fare in modo che non si sfaldino è evitare di girarle in continuazione: non toccatele finché non si crea la reazione di Maillard nella parte a contatto con la padella, solo allora giratele.
7.
Una volta cotte le patate spostatele su un lato della padella mentre nell’altro lato mettete un paio di uova a occhio di bue e friggetele nel grasso del bacon.
8.
Aggiustate di sale, date una spolverata di Sal’s Seasoning Montreal Steak Rub sulle uova e buon appetito!
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Ben fatto, cowboy! La mamma di Will Cody sarebbe orgogliosa di voi! Per la cronaca, non sappiamo cosa mangiasse in realtà Will a colazione, ma sappiamo con certezza che è cresciuto forte e sano: dopo aver fatto il pony express e il soldato nel settimo cavalleggeri del Kansas è diventato un famoso cowboy cacciatore di bisonti, ha sposato una ragazza italiana, è diventato un imprenditore circense e nel 1890 è anche venuto in Italia con il suo circo, il circo di Buffalo Bill.
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COWBOY STEAK
La bistecca più buona del West
Un grande classico della tradizione culinaria western è la bistecca accompagnata da una grande e bella pannocchia gialla di mais dolce e croccante, resa ancor più saporita dai fiocchi di burro aromatizzato, che sciogliendosi lentamente grazie al calore ne irrorano tutta la superficie. Oramai le pannocchie non sono più relegate al solo Far West, anzi oggi sono un tipico contorno della cucina statunitense, un elemento immancabile durante i barbecue in famiglia, per il pranzo del Ringraziamento e per il 4 Luglio. Alla diffusione così massiccia del mais all’interno della cucina tipica del West contribuirono i pionieri, che grazie agli insegnamenti dei nativi americani compresero che, rispetto al grano, il mais era più semplice da coltivare. Non solo: era anche meno costoso, di conseguenza divenne la coltivazione più diffusa. Divenne quindi un elemento cardine dell’alimentazione della popolazione più povera del West, come dimostrano le numerose ricette realizzate con questo ingrediente: zuppe, panini, dolci, pannocchie arrosto, bollite, per terminare con i famosi pop-corn e i corn flakes. In realtà il mais era un elemento importante anche per il sostentamento degli animali presenti nelle piccole fattorie. In Europa, il mais arrivò dopo la scoperta dell’America da parte di Cristoforo Colombo (1492), dopodiché si diffuse in Asia e in Africa. È una pianta che ama il caldo, che si adatta bene in situazioni climatiche caratterizzate da temperature medie tra 15°C e 45°C, con precipitazioni che variano da 300 mm a 4000 mm all’anno e un’esposizione alla luce solare tra le 12/16 ore al giorno; per tutti questi motivi possiamo definirla una coltura estiva. In Italia, la diffusione ebbe inizio dal Veneto nel 1530, poi si diffuse nel regno di Napoli ed infine nello Stato Pontificio, dove sembra acquisire il secondo nome di “granoturco” per sottolineare che proveniva da un popolo di senza Dio. Nel nostro paese ebbe molto successo, perché andò a sostituire il grano ed il miglio e divenne un elemento fondamentale dell’alimentazione povera dei contadini. Da noi l’uso del granoturco è per lo più macinato non rientra nel nostro costume mangiare la pannocchia intera. Perché questo modo non è arrivato anche da noi?Forse perché a differenza dei pionieri non abbiamo avuto l’insegnamento diretto degli indigeni.
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L’importanza della pannocchia sulla tavola americana è sottolineata anche dalle varie creazioni di utensili per evitare di mangiarla direttamente con le mani. La copywriter americana Lilian Eichler Watson nel suo libro dedicato alle buone maniere “Il libro standard dell’etichetta” affermò che “la pannocchia è senza dubbio uno dei cibi più difficili da mangiare con grazia... è del tutto lecito usare le dita nel mangiare... tenendolo leggermente alle estremità”.
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Nel tempo sono nati molti utensili adatti all’uopo, ma forse quello più ingegnoso fu pensato dalla Lily Industries del Michigan: un supporto da avvitare all’estremità del mais prima della cottura, che si raffreddava in pochi minuti una volta tolto dalla fonte di calore.
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Di supporti del genere ne sono stati inventati molti altri, ma alla fine l’unico modo educato per mangiare la pannocchia è quello indicato dalla signora Watson: usare un piccolo coltello affilato per staccare i grani e portarli alla bocca.
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Come riconoscere la pannocchia ideale? Alla vista deve risultare una bella pannocchia gialla avvolta da foglie verde, passato il test visivo dovete passare alla prova fisica, ovvero schiacciare con l’unghia un chicco. Se risulta troppo duro la pannocchia non è pronta; se incidendo fuoriesce una sostanza acquosa è acerba; se non esce nulla è troppa matura perciò i grani vanno macinati; se invece rompendo il chicco vedete uscire una sostanza biancastra è la pannocchia giusta per voi.
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Ingredienti per 2 persone: una Cowboy Steack del
nostro Megastore / 2 pannocchie / Ancho Habanero della linea Sal’s Seasoning q.b. / 300 g di burro / 100 g di burro chiarificato / il succo di mezzo limone / Pick a Pepper della linea Sal’s Seasoning a piacere / Olio d’oliva q.b. PREPARAZIONE 1. Lasciate il burro a temperatura ambiente in modo che si ammorbidisca. 2.
Una volta ammorbidito aggiungere il succo di mezzo limone e il rub a seconda del vostro gusto e lavorate il burro con le fruste elettriche.
3.
Assaggiate il burro, se lo ritenete necessario aggiungere il rub e mescolate di nuovo con le fruste
4.
Una volta terminata questa operazione mettete il burro in frigo.
5.
Pulite le pannocchie togliendo le foglie e i filamenti che le ricoprono e poi sciacquatele sotto l’acqua corrente.
6.
Tornando alla nostra ricetta, abbiamo deciso di accompagnare la nostra Cowboy Steak, la bistecca per eccellenza, che non può mancare nella grigliata (corrisponde alla nostra costata), con pannocchie croccanti arrostite ed esaltate nel gusto con burro aromatizzato con Ancho Habanero della linea Sal’s Seasoning.
Fate bollire dell’acqua salata, arrivata al bollore inserite le pannocchie e lessatele per 30 minuti circa. Nel frattempo togliete la bistecca dalla sua confezione e tenetela a temperatura ambiente avvolta nella carta assorbente.
7.
Scolate le pannocchie e ponetele su un canovaccio per eliminare l’umidità in eccesso
8.
Preparate il dispositivo per una cottura diretta. Ponete le pannocchie sulla griglia dalla parte delle braci adagiate sopra di esse dei fiocchetti di burro e lasciatelo sciogliere. Girate la pannocchie e mettete sulla sommità nuovamente un po’ di burro,lasciandole abbrustolire senza farle bruciare.
9.
Le pannocchie sono pronte quando avranno acquistato una bella doratura.
Essendo una bistecca molto marezzata, una volta cotta risulterà morbida al morso e molto gustosa grazie al grasso che, sciogliendosi, aromatizzatizzerà le carni. Il suo gusto deciso si sposa alla perfezione con la dolcezza della pannocchia il cui sapore è esaltato dalla p i c c a n t e z z a d e l l ’A n c h o Habanero presente nel burro.
10. Una volta pronte, toglietele dalla griglia e tenetele in caldo; cuocete la bistecca sulla griglia, in cottura diretta a temperatura alta, ungendola con un poco d’olio; raggiungete il grado di cottura desiderato e poi fatele fare un po’ di rest. 11. Nel frattempo, scaldate il burro chiarificato portandolo a una temperatura di 180° e, prima di servire la bistecca, versate il burro bollente sulla ciccia, per ravvivare la crosticina che potrebbe essersi un po’ bagnata o rovinata durante la fase di rest. La vedrete sfrigolare. 12. Servite a questo punto la bistecca ben calda con le pannocchie di mais abbrustolite.
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Ne ho facoltà – a cura di Chiara Lo Cascio
Addio estate, bentornata routine
MAC ‘N CHEESE IN VERSIONE FRITTATA? SÌ, MA COL CHORIZO! Le giornate sono ancora calde e la stagione estiva non sembra essersene andata del tutto. Si può ancora approfittare di qualche pomeriggio libero per andare al mare e prendere l’ultima tintarella. Eppure è evidente: le lezioni si stanno avvicinando e dentro di me sento già il bisogno di ripristinare tutta la routine necessario ad organizzare le sessioni di studio. Quest’anno ho un buon proposito: organizzare dei meal-prep di diverso genere che siano il più zero-sbatti possibile, che siano sazianti e che siano pratici da mangiare durante le pause pranzo prima di tornare in aula. Il pranzo zero-sbatti esiste dalla notte dei tempi: tutte le popolazioni nomadi, così come i cacciatori e i cowboy (per irmanere in tema con l’argomeno principe di questo numero del Magazine) cercavano di portare con sé dei cibi che non richiessero nessuna particolare elaborazione o cottura. Specialmente i cowboy mangiavano fagioli, chili, frittelle, pane e focacce, evidenziando la prevalenza nei loro pasti della cucina messicana, diretta conseguenza dei costanti scambi tra i due Paesi. Siamo circa a metà dell’800: il Texas era stato colonizzato dagli spagnoli e controllato dal Messico dopo la sua emancipazione. Dopo la guerra di Indipendenza Texana venne istituita la Repubblica del Texas, riconosciuta dagli Stati Uniti che lo annetterono poco dopo.
Radicandosi quindi le tradizioni estere con quelle locali, molti piatti europei diventano preparazioni tipicche americani: tra questi i famosi Macaroni and Cheese. Arrivarono in America grazie al presidente Thomas Jefferson, dopo un viaggio in Europa: l’origine della ricetta se la contendono Italia e Francia, ma esiste versione più vicina a quella americana che spopola in Inghilterra. L’origine reale del Mac and Cheese però è molto più antica di quanto si possa pensare: le prime pagine dedicate a questo piatto sono scritte sul libro “Liber de Coquina”, un manuale di cucina del quattordicesimo secolo. È nel Primo Dopoguerra che conosce la maggiore popolarità: i cartoncini blu fatti in casa Kraft permettevano con pochi dollari di sfamare famiglie intere, in balia della Grande Depressione. È incredibile pensare come adesso questo piatto sia considerato più un contorno che un pasto principale! È decisamente una preparazione che conforta, piacevole; e che può essere modificata a piacimento con aggiunte di qualsiasi genere. In questa versione, la ricetta subisce un twist da due tradizioni europee: la prima è l’aggiunta del Chorizo, salume tipico spagnolo dal caratteristico colore rosso donato dalla paprika, che incentiva il sapore del piatto e gli regala una nota di carattere non indifferente. La seconda ispirazione proviene dal piatto estivo più gettonato da tutto il Sud Italia,
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Il distacco politico dal Messico, ad ogni modo, non eliminò le sue tracce culturali in Texas; accadde lo stesso con tutte le potenze coloniali europee che arrivarono per prime, come l’Inghilterra e la Francia che influirono moltissimo nella cultura gastronomica del luogo. Per chi allevava
gli animali, era consuetudine sfruttarli per la propria alimentazione, sia per la carne che per il latte ed i suoi derivati, che venivano lavorati per poter essere conservati più a lungo possibile nel tempo, seguendo le ricette del proprio paese d’origine.
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da mangiare a pranzo, al mare ed anche come prêt-á-porter per le gite scolastiche: la frittata di maccheroni. È un piatto jolly da tenere in frigo, da fare la sera prima per il pranzo del giorno dopo. Ed è l’ideale per il back to school! Quasi non vedo l’ora di tornare a studiare solo per avere la scusa di mangiarne una quantità spudorata. Vi presento la mia versione.
Ingredienti per 4 persone: 300 g di pasta formato
sedanini / 300 g di Cheddar / 500 ml di latte / 60 g di burro / una noce di burro per ungere la teglia / 40 g di farina 00 / salame Chorizo del nostro Megastore a piacere / sei uova grandi / 100 g di Parmigiano Reggiano grattugiato / sale e pepe q.b. / noce moscata a piacere.
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PREPARAZIONE 1. Per la salsa bisogna far sciogliere del burro in una padella con della farina.Una volta creato il composto aggiungete il latte e appena sfiora il bollore, amalgamate il cheddar a pezzi.
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2.
Aggiustate di sale e di pepe, e aggiungete noce moscata a piacimento. La crema risulterà così liscia e morbida.
3.
Cuocete la pasta in abbondante acqua salata, lasciandola al dente.
4.
Riducete il Chorizo a dadini e tenetelo da parte.
5.
Sbattete le uova, aggiustatele di sale e aggiungete il parmigiano, continuando a sbattere.
6.
Una volta cotta la pasta, scolatela e conditela con la crema di formaggio. Date una mescolata. Poi aggiungete le uva sbattute e il Chorizo. Mescolate bene bene.
7.
Predisponete il vostro dispositivo per una cottura indiretta a circa 180°C. Ungete bene una teglia e versatevi dentro i maccheroni conditi.
8.
Mettete la teglia in cottura indiretta col coperchio chiuso e aspettate che la frittata si gonfi. Quando comincerà a dorare, aggiungete delle fettine di chorizo, richiudete il coperchio e portate a termine la cottura.
Servite calda (ma, ve lo dico, è buona anche tiepida!)
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PAGNOTTA FARCITA Cuociamola nella Dutch Oven!
Di solito siamo abituati a cuocere il pane nel forno di casa, ma oggi vi faremo preparare e assaporare una pagnotta come non avrete mai fatto prima, proprio per rimanere in tema col Vecchio West a cui abbiamo deidicato l’interno numero del Magazine. Imparare a cuocere il pane in una Dutch Oven è un passo che non viene in mente nemmeno ai più esperti griller ma, tralasciando i vari impasti possibili (noi qui faremo una lenta lievitazione con farina integrale), vi assicuriamo che seguendo alcuni passaggi importanti sarà un gioco da ragazzi. La cottura nella pentola in ghisa, il cosiddetto Forno Olandese o Dutch Oven, aiuta a imitare l’ambiente che molti fornai professionisti hanno in una panetteria: una camera a tenuta stagna con calore intenso e soprattutto radiante. Questa particolare pentola, con le sue spesse pareti in ghisa, offre un’ampia massa termica per garantire un ambiente di cottura stabile alla temperatura. Inoltre, l’interno sigillato e l’apposita conformazione del coperchio faranno sì che il vapore venga intrappolato. Il vapore che è un componente essenziale per cuocere il pane. L’umidità, durante la parte iniziale della cottura, consente al pane di lievitare completamente, approfondisce il colore della crosta, aumentandone lo spettro dei colori e, infine, aggiunge un livello di lucentezza, questo perché il vapore si deposita all’esterno dell’impasto, formando uno strato sottile che impedisce alla temperatura di alzarsi troppo. Questo aiuta a garantire che l’esterno della pagnotta non diventi scuro prima di aver finito di cuocere l’interno.
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La ridotta temperatura all’esterno della pagnotta consente all’attività enzimatica di continuare più a lungo. Questa attività, che è la stessa svolta durante l’intero processo di fermentazione, continua a “sbloccare” gli zuccheri che si aggiungono alla colorazione della crosta durante la cottura.
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Dopo aver cotto il vostro pane, farcitelo seguendo il nostro suggerimento o secondo quello che vi suggerisce la fantasia: sarà comunque un momento da condividere con amici e parenti, in una cena in perfetto stile Far West!
Ingredienti per una pagnotta
per la pagnotta: 250 g di manitoba / 250 g di farina di grano duro / 450 ml di acqua fredda / 1 g di lievito di birra secco / sale q.b. per la pagnotta: 150 g di formaggi fatti a fettine / 50 g di burro / un cipollotto / uno spicchio di aglio / un ciuffo di prezzemolo fresco / un mazzetto di erba cipollina / uno scalogno / 5 fettine fini di pancetta / 1 cucchiaino di Rub Montreal della linea Sal’s Seasoning / sale q.b. PREPARAZIONE 1. La prima cosa che dovrete fare per ottenere una bella pagnotta, facile, ma a lunga lievitazione è porre le vostre farine nel vaso della planetaria, oppure in un contenitore capiente. Sciogliete il lievito in 50 ml di acqua e aggiungetelo alle farine, azionate la planetaria con l’apposito accessorio (o impastate a mano), aggiungendo man mano la restante acqua a filo. L’impasto risulterà morbido e umido. Quando tutta la farina sarà amalgamata, aggiungete anche il sale e continuate a lavorare per una decina di minuti. 2. Essendo molto morbido, anche con l’impastatrice, in questa fase non arriva ad incordarsi completamente, cioè a staccarsi completamente dai bordi, quindi, spegnete l’impastatrice (o fermate di impastare a mano) e lasciate riposare per circa 15 minuti dopo aver spinto con una spatola gli estremi dell’impasto verso il centro. 3. Riprendete ad impastare finché l’impasto non si incorda, poi trasferitelo delicatamente su una spianatoia infarinata. 4. Effettuate le pieghe di riporto, poi girate il panetto con le pieghe verso il basso e arrotondatelo facendolo girare delicatamente fra le vostre mani, aiutatevi con una spatola e della farina. Ungete una ciotola capiente con un velo di Olio e riponete il composto al suo interno, poi coprite con della pellicola e riponete in frigorifero a riposare per almeno una notte intera. 5. Il mattino successivo, estraete la ciotola dal frigorifero e lasciatela acclimatarsi per almeno due ore, mantenendola con la pellicola.
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A questo punto, infarinate nuovamente la spianatoia e lasciate scivolare l’impasto lievitato in maniera delicata. Fate nuovamente le pieghe di rinforzo e ridate forma alla pagnotta, rigirando le pieghe verso il basso e facendo diventare bello tondo il panetto con le mani. Infarinate per bene la pagnotta e lasciate lievitare per altre tre ore circa. Nel frattempo cominciate posizionando la Dutch Oven all’interno del vostro dispositivo BBQ. Quindi preriscaldare per 1 ora a 250°C: questa è una fase molto importante. Dopo il preriscaldamento, usando dei guanti da forno, inserite il vostro impasto facendo attenzione a non bruciarvi; ma prima di fare ciò, vi sveliamo un trucco: preparate un pezzo di carta forno sagomata in maniera circolare, del diametro della pentola; sul fondo caldo spargete una manciata di Mais macinato grossolanamente (quello per fare la polenta), poi la carta forno e un’altra passata di mais: questo farà sì che il pane non sia a diretto contatto con il fondo molto caldo della ghisa stessa e quindi non bruci velocemente. Non vi scordate di creare una croce con un coltello affilato, sulla parte superiore della pagnotta, in modo superficiale, quindi chiudete il coperchio. A questo punto la temperatura del forno sarà a circa 230°C: e procedete con la prima fase di cottura mettendo anche il coperchio del dispositivo, per 20 minuti. Successivamente rimuovete il coperchio (sia quello del dispositivo che quello della Dutch Oven) aggiungendo in questa fase, alle braci, del legno aromatico (faggio, melo o legnetti di botte di Wisky) in modo da ottenere un pane profumato simile a quello delle cotture in forni a legna. Richiudete il tutto e terminate la cottura, andando avanti per altri 30 minuti circa. Dopo questo tempo, controllando la temperatura interna del pane, avrete la certezza che sia cotto quando avrà raggiunto una temperatura superiore a 97°C. Estraete il pane dalla pentola e lasciatelo intiepidire. È giunto il momento di andare a farcire la vostra pagnotta: per prima cosa fate cuocere in indiretta la pancetta in modo da renderla croccante, poi con un coltello da pane create 8 tagli quasi fino al fondo, nei due sensi in modo da creare dei cubotti di pane. Tritare finemente, il cipollotto, lo scalogno, l’erba cipollina, l’aglio e il prezzemolo. In un pentolino sciogliere il burro e una volta tolto dal fuoco unite il trito di sapori, allargate i tagli della pagnotta e versate il composto al loro interno in maniera omogenea, in modo da creare un condimento, poi spezzettate la pancetta e riducete il formaggio a fettine, andando a farcire tutti gli spazi. Una spruzzata di Rub e qualche pizzico di sale concluderanno la vostra farcita. Avvolgete in alluminio la pagnotta e prima del servizio riscaldatela intorno ai 50°C per circa un'oretta, perlomeno, fino allo scioglimento del formaggio. Non vi resta che servire il pane a centro tavola e scommettere su chi sarà il primo tra i vostri commensali a fiondarsi con le dita della mano, afferrare un cubetto di pane e ad estrarlo dalla pagnotta stessa con il formaggio filante esclamando “che bontà!”.
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IL PANINO DI BUD SPENCER Con fagioli in umido e Chorizo La generazione dei quarantenni di oggi ricorda sicuramente la famosa padellata di fagioli in umido di Lo chiamavano Trinità accompagnata da un filone di pane per fare la scarpetta. Probabilmente vi sarete accorti che in quel film il fratello del protagonista, Bambino, interpretato da Bud Spencer, rimaneva, per un motivo o per l’altro, sempre a bocca asciutta, ed era sempre Trinità, Terence Hill, a sbaffarserli tutti in un attimo. La ricetta servita sul set si basava su una vera ricetta storica: i fagioli alla messicana, preparati con sugo di pomodoro, fagioli, Chorizo e peperoncino, presenti nel Far West dal 1870 circa. Facevano venire l’acquolina a tutti! Per poter finalmente portare un po’ di giustizia, abbiamo deciso di dedicare questo panino proprio al povero Bambino che non riusciva mai a mangiare i suoi fagioli in santa pace. Insieme ai legumi in salsa, dentro il nostro panino finirà una grande novità del nostro Megastore: il Chorizo. Ma cosa è il Chorizo? È una salsiccia spagnola stagionata realizzata con carne e grasso di maiale iberico tritati grossolanamente e aromatizzati con erbe, aglio, vino bianco e abbondante paprika affumicata, che dona al salume il suo caratteristico colore rosso e il suo particolare sapore. Il Chorizo è un salume stagionato per diverse settimane, ha un diametro che varia tra i 30 e i 40 mm, ha una consistenza compatta e soda; ha un aspetto esterno ruvido ma al taglio la fetta risulta liscia. Risulta cedevole al morso e il suo sapore intenso nasce dal perfetto equilibrio tra la parte magra e la parte grassa del maiale, gli aromi usati e la paprika.
È presente in molte ricette di origine spagnola, una su tutte la paella. Esiste anche il Chorizo messicano che, a differenza di quello spagnolo, è una salsiccia fresca, anch’essa realizzata con il maiale iberico, il cui colore rosso è dato dall’uso del peperoncino e non dalla paprika affumicata. La nostra variante Abbiamo dunque deciso di creare una nostra versione del famoso salume spagnolo, ma senza usare il maiale iberico: è nato dunque il Chorizo realizzato con la selezione GLC Top Selection greedy’s hog di maiale Duroc. Le carni di suino Duroc Greedy Hogs vengono macinate grossolanamente e restituiscono al morso una consistenza rustica e un sapore intenso. La fetta è un po’ più grande rispetto al chorizo originale, ma a chi piacciono le fette piccoline? Spalla, coppa, gola e lardo incontrano le spezie tra cui la caratteristica paprika affumicata spagnola, il Pimenton De La Vera (paprika dolce affumicata) e l’aglio. Le erbe aromatiche come prezzemolo e origano ne fanno un salume originale e alternativo. No, in Spagna non lo fanno così. Vogliamo dire che il nostro è più buono? Non lo diremo, probabilmente lo farete voi. Per farcire il nostro panino utilizzeremo i famosi fagioli in umido alla Trinità che, insieme al Chorizo, vi stenderanno come un pugno del mitico Bud. Per esaltare ancora di più il gusto di questo panino da campioni, utilizzeremo i friggitelli; sono peperoni piccoli e lunghi, a forma di cornetto, dal sapore leggermente amarognolo che doneranno un bel contrasto al palato.
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Il Chorizo è stato è ed è un elemento importante della tradizione culinaria spagnola, come dimostra il suo inserimento (1726) nel Dizionario delle Autorità della Reale Accademia delle Lingue, dove viene definito: pezzo di budello
corto, pieno di carne, generalmente di maiale, tritata e marinata, che normalmente viene affumicata.
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Ingredienti per 4 persone
4 panini / un salame Chorizo del Megastore / un pugno di friggitelli (6/8) / olio di semi di arachidi q.b. / sale q.b. per i fagioli: 300 g di fagioli borlotti / mezza cipolla rossa / un gambo di sedano / una carota / 2 cucchiai di concentrato di pomodoro / 250 g di BBQ Sauce Original BBQ4All / 100 g di pancetta affumicata / 100g di aceto di mele / 4 cucchiai di zucchero di canna. PREPARAZIONE 1. Mettete a mollo i fagioli per una notte 2.
Lessate i fagioli in abbondante acqua salata, lasciandoli al dente.
3.
Preparate il dispositivo per una cottura diretta, togliete la parte centrale della griglia ed inserite la cocotte nell’apposito spazio.
4.
Quando la cocotte è calda, fate sfrigolare i cubetti di pancetta fino a quando non saranno belli dorati e croccanti.
5.
Togliete la pancetta dalla pentola e metteteli da parte.
6.
Soffriggete nel grasso della pancetta gli odori tritati (cipolla, sedano e carota).
7.
Quando il soffritto è imbiondito aggiungete la salsa bbq, il concentrato di pomodoro e la paprika dolce; lasciate cuocere il tutto per un’oretta a fuoco basso.
8.
Aggiungete i fagioli con un po’ di acqua di cottura e lasciate andare per un'altra oretta con il coperchio chiuso, avendo cura di controllarli e girarli ogni tanto. Se lo ritenete necessario potete aggiungere al bisogno altra acqua di cottura dei fagioli.
9.
Dopodiché aggiungete l’aceto di mele e lo zucchero di canna.
10. Quasi alla fine della cottura inserite la pancetta e mescolate bene. 11. In un padellino mettete a scaldare l’olio da friggere, arrivato alla giusta temperatura di 170° C friggete i peperoni con tutto il picciolo. Sono pronti quando sono ben dorati. Toglieteli, scolateli e salateli leggermente. 12. Aprite i panini e tostateli in griglia. BBQ4All Magazine
13. Mettete una generosa porzione di fagioli, inserite le fette di Chorizo a vostro piacimento e i friggitelli. Chiudete il panino e addentatelo con gusto, in onore al grande e compianto Bud Spencer!
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CHUCK POT ROAST lo stufato del Far West
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Nello slang americano con il termine Chuck si vuole indicare generalmente il cibo. La particolare zona del manzo da cui viene ricavato il pezzo di carne che useremo per riproporre una ricetta tipica del Far West, porta lo stesso nome. Questa preparazione era immancabile nel menù del Chuckwagon: il carro da cucina del Far West, vero e proprio antesignano del moderno Food Truck. Qui i coloni e i cowboy trovavano conforto sostando per rifocillarsi e per riposarsi dalle fatiche dei loro viaggi che, per coprire distanze di migliaia di chilometri, potevano durare anche molti mesi. Il cuoco del Chuckwagon, una vera propria autorità nel tessuto sociale dell’epoca (di fatto era pure dentista, barbiere, banchiere), preparava il Chuck Pot Roast usando della materia prima che, per la facilità di conservazione, era sempre disponibile nel carro. Nella dispensa non mancavano quindi mai: fagioli, patate, cipolle, peperoncini, farina e carne di manzo, che un buon cuoco del Chuckwagon sapeva sempre valorizzare al meglio. Per la preparazione di questo stufato e per molte altre ricette del carro, veniva usata una pentola in ghisa massiccia chiamata Dutch Oven (nome di origine Olandese), un utensile che ben si adattava alla condizioni di cucina da campo. Usata per bollire, cuocere, friggere, stufare, questa pentola era (ed è ancora) dotata di gambe che permettevano di posizionarla sopra le braci ardenti e, con un bordo sul coperchio, era possibile mantenere anche delle braci sopra di essa. Uno strumento realmente prezioso a quel tempo, al punto che puntualmente veniva inserito nei testamenti, come bene da tramandare agli eredi designati.
Roll USA CreekStone da 450 g / 2 cipolle / Rub Ultimate SPOG BBQ4ALL q.b. / Peperoncini piccanti Jalapeno o Chipotle / Olio extravergine d'oliva Sicilia Riserva GLC q.b. / 125 g di burro salato / farina q.b. / brodo di manzo q.b. PREPARAZIONE 1. Settate il dispositivo esterno a carbone o a gas per una cottura diretta a 110/120°. 2.
Mettete la Dutch Oven nel supporto per la griglia Gourmet GBS e lasciare scaldare dolcemente la ghisa a coperchio chiuso per almeno una decina di minuti.
3.
Togliete la carne del Chuck Roll dalla confezione, tamponando e asciugando accuratamente con carta. Passare un leggero velo d’olio in superficie e poi applicare una dose generosa di Rub Ultimate SPOG BBQ4All.
4.
Sbucciate e tagliate a spicchi le cipolle.
5.
Versate un po d’olio nella Dutch Oven e poi adagiare la carne, premendo per fare aderire bene ricercando la Maillard nei due lati. Appena raggiunto l'aspetto visivo ricercato, togliere e tenere da parte al caldo.
6.
Sciogliere metà del burro ridotto a fiocchetti, cercando di deglassare le pareti dai residui di rub attaccato. Appena il tutto risulterà omogeneo, aggiungete due cucchiai da cucina di farina lasciando tostare per un minuto.
7.
Aggiungete un mestolo di brodo per fare in modo che il composto non si attacchi al fondo e aggiungere poi le cipolle a spicchi, mescolando.
8.
Adagiare le fette di Chuck sopra le cipolle, aggiungete il restante burro e i peperoncini a pezzetti.
9.
Aggiungete il restante brodo fino a bagnare la carne.
10. Chiudete e lasciare andare per almeno 3 ore o fino a quando la carne non avrà raggiunto i 92°C/94°C. Verificare la consistenza con il “fork test”: infilando una forchetta nella carne e ruotando non dovrete avvertire nessuna resistenza; nel caso la sentiate, lasciate cuocere ancora. 11. Servite sul piatto con un fondo di polenta morbida e un trito di prezzemolo fresco sopra.
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Per il “Mississippi Chuck Pot Roast“ oltre alla citata Dutch Oven, useremo del Chuck Roll USA Creekstone Prime Angus del Megastore BBQ4All, pezzo di manzo dal gusto pieno e persistente, perfetto per questa ricetta in puro “Old Far West Style”.
Ingredienti per 4 persone: 2 confezioni di Chuck
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SLOPPY POPOVER
non chiamateli tortini!
Gli americani, rispetto agli inglesi, sono un po’ come dei figli adolescenti. Assomigliano ai genitori, si sentono della famiglia ma sono sempre in contrasto su tutto, sono convinti di essere invincibili e parlano un linguaggio tutto loro ma, nonostante tutto, li ami comunque. Come i paninari negli anni 80 o i millennial con il corsrivœ, la Giovane America ha iniziato ad ostentare la sua diversità dalla Vecchia Inghilterra anche con il linguaggio. Così ha iniziato a chiamare i biscuits, cookies; le chips, french fries; minced è diventato ground e lo Yorkshire Pudding… un popover. A conferma di tutto ciò va detto che i budini dello Yorkshire, che comunque budini non sono, esistono fin dal 1300, anche se la prima testimonianza scritta di qualcosa che assomigli a un Yorkshire Pudding è arrivata solo nella prima metà del ‘700 con il moderno ed assolutamente emancipante “The Whole Duty of a Women - un’infallibile guida per il Gentil Sesso” (non siamo noi a dirlo, è il sottotitolo!), probabilmente scritta da un uomo, tra le cui pagine possiamo trovare una ricetta che descrive come una pastella da pancake, versata in una teglia posizionata in forno, sotto una gocciolante spalla di montone, possa diventare un ottimo sformato. Verso la fine del IX secolo i coloni inglesi in America, come bravi post-adolescenti che vanno a vivere da soli, presero la ricetta dei budini dello Yorkshire, la adattarono agli ingredienti che avevano in casa e la ribattezzarono popover perché notarono che, con il calore del forno, la pastella si gonfiava fino quasi a scoppiare. Agli inizi del 1800 divenne popolare in tutto il New England e, con le nuove migrazioni dei pellegrini verso il profondo ovest, riuscirono a conquistare tutti gli Stati Uniti. È un po’ quello che hanno fatto gli universitari fuori sede italiani con la pasta al tonno durante gli anni ’80.
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I popover sono estremamente versatili, mancando la parte “drip”, tipica dello Yorkshire pudding, possono accompagnare arrosti oppure essere serviti come dolci, conditi con frutta, pasta al burro o panna montata; o a colazione con burro e marmellata; oppure, con il tè pomeridiano Noi li abbiamo utilizzati per creare uno pseudo muffin, perfetto per accompagnare il tè delle cinque dei veri Cowboy, ripieno di manzo e “glassato” con cheddar.
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La spinta definitiva è arrivata dagli Original Burger, un mix perfettamente bilanciato tra materia grassa e magra e con il giusto quantitativo di collagene per dare sapore senza però rinunciare alla tenerezza, visti i tempi abbastanza brevi necessari alla cottura.
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Ingredienti per circa 12 popover: 3 Original Burger BBQ4All / Olio extravergine di oliva Sicilia GLC Top Selection q.b. / 100g di cipolla dorata / 100g di peperone verde / 1 spicchio d’aglio / 80g di passata di pomodoro / 50ml di salsa barbecue / cheddar grattugiato q.b. / cipolle croccanti q.b. 135g di Farina 00 / un pizzico di sale / 5 uova medie a temperatura ambiente / 250ml di latte a temperatura ambiente / 1 cucchiaio di Dallas Mild Rub della linea Sal’s Seasoning / olio di semi q.b.
PER LA GROUND BEEF SAUCE 1. Preparate per una cottura diretta a temperatura moderata e fate scaldare una padella dal fondo spesso. 2.
Creare un soffritto con la cipolla, l’aglio e il peperone, mettetele nella padella e fatele appassire leggermente.
3.
Aggiungete gli Original Burger BBQ4All e sgranate bene la carne.
4.
Continuate a cuocere fino a quando non iniziate a vedere la crosticina data dalla reazione di maillard.
5.
Aggiungete il pomodoro e fate tirare circa 10 minuti facendo attenzione a non bruciare nulla.
6.
Quando sarà abbastanza asciutta, aggiungere la salsa barbecue e lasciate andare ancora 5 minuti.
7.
Fate intiepidire
8.
Prelevate i popover, riempiteli con la carne e copriteli con abbondante cheddar grattugiato
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Metteteli di nuovo in caldo per circa 10 minuti in modo da sciogliere il cheddar e creare una bella crosticina.
PER I POPOVER 1. Ungete l’interno del forno olandese per evitare che, in caso di fuoriuscita dell’impasto crudo dalle formine, lo stesso non si attaccarsi alle pareti o al fondo Mettete all’interno del dispositivo il suo supporto o una griglia con lo stesso diametro interno in modo che i pirottini non tocchino direttamente la base.
3.
Preriscaldatelo per 10 minuti circa appoggiandolo sulle braci e coprendolo con le stesse.
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In una ciotola sbattete leggermente le uova, aggiungete gli ingredienti liquidi e successivamente quelli solidi evitando di creare grumi e cercando di non sbattere troppo il composto. Il risultato sarà una pastella abbastanza liquida.
5.
Versate un cucchiaino d’olio circa in ogni pirottino ed ungete anche i bordi.
6.
Riempite per circa la metà gli stampi per muffin.
7.
Inseriteli CON ATTENZIONE nel forno caldo e cuocete dai 25-35 minuti senza sollevare il coperchio a seconda della temperatura che riuscirete a far raggiungere al forno.
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LO SPEZZATINO DEI PIONIERI
Un’altra ricetta tipica della cucina western, mangiata dai pionieri durante il viaggio o dai mandriani nel corso del trasporto del bestiame, ma anche dai contadini e dagli allevatori, è lo stufato; si tratta di una preparazione a base di carne, patate o fagioli, il tutto cotto all’interno di un liquido (brodo, o semplice acqua), e servito con l’intingolo formatosi durante la cottura. A quel tempo, la sua preparazione poteva prevedere perfino verdure fresche, anche se erano una vera e propria rarità. La cottura avveniva all’interno del Dutch Oven un accessorio fondamentale della cucina americana nel West, insostituibile durante le lunghe traversate. Il chuckwagon, che vi abbiamo presentato qualche ricetta fa, era molto presente nelle carovane di pionieri ben organizzate. Era un carro militare dalla struttura rinforzata con gli assali in ferro, dove venivano caricati la dispensa, un barile d’acqua, una cucina in metallo e un pianale dove il cuoco cucinava usando il Dutch Oven - chiamato anche forno olandese. In questo modo quando il convoglio arrestava il suo avanzare la sera per riposare era tutto quasi pronto. La carne cucinata era molto grassa e conservata nel lardo. Molto spesso, per evitare lo spreco dell’acqua, per irrorare la preparazione durante la cottura veniva usato il caffè avanzato dalla colazione del mattino. La cottura lenta era necessaria affinché la carne si ammorbidisse creando di conseguenza anche un intingolo molto saporito. Per creare il nostro spezzatino utilizzeremo una prelibatezza del nostro Megastore: lo Stew Usa Blue OX Prime Black Angus. I cubotti di carne che compongono il nostro Stew sono caratterizzati da un’importante marezzatura che dona alla carne morbidezza, succosità e gusto intenso. Per non discostarci troppo dalle ricette tipiche del vecchio West, arricchiamo il nostro spezzatino con un ingrediente tipico della cucina americana: la patata dolce. Grazie sapore delicato si adatta bene sia a preparazioni salate, sia a preparazioni dolci.
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Contrariamente a quanto il nome ci possa indurre a pensare, le patate dolci non non appartengono alla famiglia delle Solinacee ma alla famiglia delle Convulvacee. Sono radici tuberose ricche di amido; hanno una buccia di un rosso aranciato che vira verso il marrone; la parte interna è di un bel colore arancio dovuto alla presenza di carotenoidi.
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Cuoceremo prima la carne insieme a un bel soffritto, al pomodoro e al brodo, facendo uno stufato classico: la cottura sarà lenta affinché la carne acquisti una consistenza burrosa e il grasso sciogliendosi insaporisca il sugo; dopodiché metteremo il tutto in una pirofila e ricopriremo la carne con fette sottili di patate dolci, in modo che il sapore del tubero non venga coperto dal sapore intenso dello spezzatino. La cottura in forno renderà le patate delle chips croccanti, la cornice perfetta del nostro piatto.
Ingredienti per4 persone: 500 g di Stew
Usa Blue OX Prime Black Angus- una cipolla rossa / un gambo di sedano /uno spicchio d’aglio /una carota /4 patate dolci /Olio extravergine di oliva Sicilia GLC Top Selection q.b / sale q.b /100 g di burro chiarificato / Ultimate SPOG q.b. PREPARAZIONE 1. Pelate le patate e ponetele in acqua fredda, arrivati al bollore sbollentate per 5 minuti Togliete le patate dell’acqua e avvolgetele in un canovaccio per togliere l’umidità in eccesso
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Una volta fredde, con l’uso di una mandolina tagliate le patata a fette sottili.
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Preparate il dispositivo a carbone per la cottura diretta.
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Se avete a disposizione il forno olandese ponetelo direttamente sulle braci, se non lo avete togliete la parte centrale della griglia usata ed inserite la cocotte. Togliete lo Stew dalla confezione e rubbatelo con lo SPOG.
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In abbondante olio fate soffriggere la cipolla, il sedano, l’aglio e la carota tritati finemente.
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Una volta che il soffritto è imbiondito aggiungete la carne e fate insaporire, poi il concentrato di pomodoro e il brodo e lasciate andare, avendo cura di controllare ogni tanto, mescolando lo spezzatino. Aggiustate eventualmente di sale.
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Trascorsa circa un’ora e mezza, prendete una pirofila, ungetela con un po’ di burro, versateci all’interno lo spezzatino e ricopritelo con uno strato di patate dolci, insaporite con l’ultimate SPOG e qualche fiocchetto di burro chiarificato, poi mettete tutto nel vostro dispositivo in cottura indiretta a 180°C circa.
9.
Quando le patate al tocco risulteranno abbrustolite e croccantine lo stufato sarà pronto.
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Per un pugno di...
SPIEDINI
Una preparazione tipica della faticosa vita nel West è lo spiedino, ovvero la cottura di piccoli pezzi di carne, di pesce o di verdure infilzati su stecchi, posti intorno al fuoco in posizione obliqua e ruotati spesso per arrostire alla perfezione tutti i lati dell’alimento. In special modo questa preparazione era un classico degli spostamenti dei pionieri alla ricerca di una terra fertile dove stabilirsi o dei cowboy nel corso delle transumanze del bestiame. Lo spiedino era una preparazione che ben si adattava ai viaggi, quando ci si fermava solo al calar del sole per mangiare e riposare, poiché prevedeva una cottura veloce ed individuale: ognuno doveva pensare alla propria razione. In realtà questo tipo di cottura è antichissima e accompagna l’uomo fin dalla scoperta del fuoco. Infatti, la cottura del cibo sul falò tramite bastoni o lame appuntite era una caratteristica molto versatile dei popoli nomadi e dei soldati, che usavano le stesse lance usate per cacciare, per infilzare il cibo da cuocere. Già Omero, nel primo libro dell'Iliade, descrive un banchetto dove è presente la cottura allo spiedo I Romani furono i primi ad inserire questo tipo di cottura su fuoco all’interno dei banchetti: tutto ciò è dimostrato da piccoli bracieri ritrovati all’interno delle case romane, muniti di supporti per gli spiedini. Venivano posti vicino ai triclini (una sorta di divano), dove gli ospiti solevano mangiare semi- sdraiati, facendo diventare la preparazione degli spiedini parte integrante del convivio.
Che cosa sono gli spiedini, nel dettaglio? Non sono altro che cubetti di carne, di pesce
Questo succede perfino quando lo spiedino è composto dalla stessa tipologia di carne, figuriamoci se è misto. Vi abbiamo spiegato proprio in quello speciale sopracitato come cuocere alla perfezione praticamente qualsiasi tipo di spiedino. Oggi facciamo un passo in più, e vi sveliamo come utilizzare la ciccia, che voi credete sia fatta solo per realizzare lo spezzatino, per servire spiedini deliziosi alla tipica maniera dei cowboy. Utilizziamo dunque lo Stew Usa Blue OX Prime Black Angus del nostro Megastore. Sono cubettoni da circa 2/3cm di lato, e sono in buona sostanza i residui di quando vengono tagliate le nostre bistecche super buone e super marezzate. Coi pezzi che restano fuori peso, si realizza lo Stew. La cottura è velocissima perché si devono lasciare rosati al cuore. Il segreto dunque è: fuoco diretto e feroce e girandoli spesso. Si possono anche marinare prima, ma in quel caso dovete ricordarvi di asciugarli bene prima di cuocerli e di ungerli a dovere. Serviremo i nostri spiedini di Stew con degli spiedini di patate, che saranno cotte a parte per ottenere una crosticina gustosa e saporita e poi rimontate sullo spiedino prima del servizio. Ecco a voi la ricetta
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Possiamo comunque affermare che tutti i popoli hanno padroneggiato questa tecnica, perché è nata dalla necessità di avvicinare il cibo il più possibile al calore del fuoco senza scottarsi. Paese che vai, spiedino che trovi, come vi abbiamo mostrato nel numero 9 del BBQ4All Magazine (novembre 2019).
e/o di verdure infilzati su uno stecco di legno o di metallo, cotti direttamente sulla fonte di calore. Sono sicuramente tra le pietanze tipiche di una grigliata tra amici. Cuocere gli spiedini può sembrare la cosa più semplice del mondo: spennellate la carne con un po’d’olio, buttate tutto in griglia direttamente sulla fonte di calore rigirandoli ogni tanto. Ed è proprio qui che si nasconde la difficoltà. Infatti, molto spesso, per cuocere tutti i singoli pezzi, vi siete ritrovati a servire spiedini con parti carbonizzate ed altre non propriamente cotte.
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Ingredienti per 4 persone: 450 g di Stew del nostro Megastore / olio di oliva q.b. / 500 g di patate / Ultimate Spog a piacere / sale q.b.
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PREPARAZIONE 1. Togliete lo spezzatino dalla confezione, asciugatelo bene con carta assorbente, ungetelo con un poco d’olio e rubbatelo con lo SPOG. 2. Lavatele e pelate le patate, poi immergetele in acqua in una pentola con acqua salata. 3. Dopo circa cinque minuti dal bollore scolatele e lasciate raffreddare all’interno di un canovaccio di cotone. 4. Una volta raffreddate, tagliatele a spicchi più o meno tutti della stessa grandezza. 5. I n u n a c i o t o l a ve r s a t e abbondante olio a cui aggiungerete lo Spog e mescolate per ottenere un composto omogeneo. 6. Immergete gli spicchi nella mistura facendo in modo che aderisca bene alla superficie delle patate. 7. Disponete le patate in una teglia senza sovrapporle. 8. Preparate il dispositivo per una cottura indiretta a 180°C. Saranno pronte quando raggiuneranno un colore dorato e una buona crosticina. 9. Predisponete a questo punto il dispositivo per una diretta feroce, scaldate una padella in ghisa e cuocete i cubetti di carne facendoli cauterizzare da tutti i lati. Toglieteli dal fuoco, e a questo punto montate gli spiedini con la sola carne e quelli con le sole patate il più velocemente possibile. Ripassate infine sia gli spiedini di carne che quelli di patate al calore diretto delle braci e servite il tutto ben caldo, accompagnato da una salsa a vostro piacimento.
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TOP BLADE PEPERONATO
Cina e Far West: gli estremi si incontrano
Sapevate che, durante la corsa all’oro che ha dato vita al mito del Vecchio West, il 25% dell'intera forza lavoro impegnata nell’Ovest Californiano era cinese? Alcuni storici addirittura ipotizzano che, nelle miniere delle Montagne Rocciose, questa percentuale possa aver raggiunto addirittura il 70%. Se questo fosse vero, sarebbe stato più storicamente corretto vedere Trinità ripulire un wok di pollo alle mandorle piuttosto che una pentola di fagioli.
La storia del West, anche se abbastanza ben documentata, è estremamente articolata, quindi non possiamo sapere con certezza se questi numeri siano veri ma sicuramente possiamo affermare che fin dalla scoperta dell'oro californiano, nel 1849, i cinesi hanno avuto una solida presenza nel Far West americano. Come la maggior parte dei cercatori d'oro, anche numerosi cinesi arrivarono in California rincorrendo il Sogno Americano e, proprio come la maggior parte di loro, in pochi riuscirono a realizzarlo. Si trattava principalmente di contadini che avevano lasciato casa per problemi economici e politici in Cina; la loro intenzione era di lavorare sodo, fare un sacco di soldi e poi tornare nella terra di origine, dalla famiglia ed al proprio villaggio come uomini ricchi. In questo non differivano certo da molti immigrati giunti negli Stati Uniti da altri paesi; ma gli americani, purtroppo per loro, consideravano i cinesi oltre che culturalmente anche “razzialmente” inferiori.
Nel 1886, una legge Federale diede lo stop all’immigrazione cinese e questo tipo di restrizione restò in vigore fino al 1943 quando gli Stati Uniti e la Cina divennero alleati durante la Seconda Guerra Mondiale. Bisognerà comunque aspettare il 1965 per vedere totalmente abrogati 79 anni di discriminazione razziale di Stato contro i cinesi. Sta di fatto che parte del Far West parlava cinese così come questa ricetta che unisce il Top Blade di manzo USA alla cottura rapida del wok. Il Top Blade corrisponde al nostro cappello del prete o copertina di spalla, caratterizzato da una vena di tessuto connettivo che la attraversa longitudinalmente, è un taglio incredibilmente versatile e dal sapore esplosivo. Possiamo cuocerlo intero arrosto o affumicato in low&slow, farci uno spezzatino, degli spiedini, oppure tagliarlo trasversalmente in bistecche o, con un po’ di pazienza, eliminare il connettivo centrale e ricavarne due bistecche chiamate Flat Iron che, in quanto a tenerezza e sapore, farebbero impallidire i molto più blasonati tagli di lombata. Ci siamo procurati una Top Blade Star Ranch di puro Black Angus USA da circa 2,5 kg del nostro Megastore, dai cui abbiamo tagliato le estremità, ricavandone degli straccetti da preparare rapidamente nel wok.
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Come tutti gli immigrati, tendevano ad aggregarsi vivendo in comunità, mantenevano la loro cultura e le abitudini. Forse proprio a causa del loro numero elevato arrivarono ad occupare, e certe volte addirittura creare, interi quartieri che furono denominati Chinatown, nome in uso ancora oggi ma che un tempo veniva utilizzato con tono dispregiativo. Gran parte degli americani, infatti, credeva che i
cinesi fossero troppo diversi per integrarsi nella loro cultura. Avevano una religione diversa, una lingua diversa, indossavano abiti diversi, mangiavano cibi diversi e, visto che la quasi totalità dei cinesi immigrati erano uomini che volevano solo tornare in Patria, non erano interessati a “metter su famiglia”. La diffidenza verso di loro era tale che in California venne creata una tassa per impedire ai cinesi di lavorare nelle miniere; essi allora si organizzarono offrendo e vendendo servizi ai minatori. Lo Stato a quel punto impedì dapprima l’immigrazione delle donne cinesi negli USA e, successivamente, anche la possibilità di sposare qualunque “bianco” che non fosse cinese.
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Ingredienti per 4 persone: 500 g di Top Blade / olio vegetale q.b. / ½ cipolla grande / 10 pomodorini ciliegino / 1 peperone giallo / 20ml di vino Shaoxing (in alternativa sakè o vodka) / 1 cucchiaio di pasta di peperoncino / prezzemolo tritato per la marinata: 1 spicchi d'aglio schiacciato / 50 ml di salsa di soia / 50ml di Red Flesh Crash / 1 cucchiaio di aceto di vino rosso / ½ cucchiaino di origano secco / ½ cucchiaino di cumino macinato per la pasta al peperoncino: 1 cucchiaio di olio extravergine d'oliva / 100 g del peperoncino che più vi piace / 30 g di cipolla bianca / 1 spicchio d’aglio PREPARAZIONE 1. Tagliate la carne contro fibra a strisce spesse circa 2cm e successivamente tagliatele trasversalmente in modo da ottenere dei parallelepipedi di massimo 4-5 cm di lato. 2. Preparate la marinata unendo tutti gli ingredienti in un sacchetto a chiusura ermetica o un contenitore con coperchio, aggiungete la Top Blade tagliata e lasciate marinare per almeno un’ora. 3. Iniziate a tagliare il peperone a pezzetti, a spicchi o a losanghe grandi poco meno dei pezzi di carne. 4. Preparate un setup diretto sfruttando, se presente, il sistema GBS oppure, per un approccio più pionieristico, appoggiate il wok direttamente sulle braci. 5. Togliete la carne dalla marinata senza eliminare dalla superficie la salsa in eccesso. 6. Scaldate l’olio nel wok ed aggiungere i pezzi di Top Blade. 7. Appena vedrete i segni della Maillard aggiungete la cipolla e dopo 1 minuto anche il peperone e i pomodorini sempre mischiando. 8. Aggiungete la pasta di peperoncino, sfumate con il liquore e fate dealcolare. 9. Togliete dal fuoco, aggiungere il prezzemolo ed impiattate.
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PER LA PASTA DI PEPERONCINO 1. Pulite i peperoncini e privateli dei semi. 2. Tritate finemente tutti gli ingredienti. 3. Versate l’olio in una casseruola dal fondo spesso. 4. Aggiungete il peperoncino, la cipolla e cuocere a fuoco basso mescolando fino a che non si saranno ammorbiditi. 5. Aggiungere l’aglio e soffriggere ancora 5 minuti. 6. Gli ingredienti non dovranno prendere colore a causa della Maillard. 7. Appena diventati morbidi frullare il tutto in modo da ottenere una crema abbastanza liscia.
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LA TORTA DEL WEST facile ma esageratamente buona!
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Nell’immaginario collettivo si è spesso portati a pensare che l'alimentazione di Coloni e dei Cowboy, nel periodo d’oro del selvaggio West, fosse ridotta unicamente a carne e fagioli. Alimentata da romanzi e film, questa convinzione non corrisponde alla realtà storica. Il pane difatti, quasi mai menzionato, ricopriva un ruolo importantissimo nell’alimentazione del periodo. Era sempre presente nelle tavole del West, come anche nel Chuckwagon - di cui abbiamo parlato ampiamente in un’altra ricetta che trovate su questo stesso numero- e veniva puntualmente servito, assieme alle pietanze, a tutti gli avventori La farina infatti, come abbiamo visto, non poteva mai mancare nella dispensa del “carro” e per il cuoco era facile preparare dell’ottimo pane anche in mancanza di lievito: l’unica condizione imprescindibile era che fosse disponibile dell'acqua. Lo strumento più idoneo alla cottura era anche in questo caso la Dutch Oven, e l’abilità del cuoco stava nel riuscire a cuocere perfettamente le Hard Tacks (gallette del Cow boy) senza bruciarle sotto e lasciandole crude sopra. Erano delle semplici gallette preparate con farina, sale e acqua, poi stese sottili con la forma di una tortilla, che venivano farcite dai commensali con fagioli, peperoncini, manzo, pollo e con ogni altro ingrediente disponibile.
CreekStone da 450 g / 2 cipolle / fagioli rossi e neri in scatola già lessati / olive nere denocciolate / Rub Ultimate Spog BBQ4All q.b. / Ancho Habanero Chili Mex Rub BBQ4All q.b. / Formaggio Cheddar a piacere / Olio extravergine d’oliva Sicilia Riserva GLC Selection q.b. / 4 Tortillas del diametro di 30 cm max / prezzemolo o coriandolo tritato finemente a piacere / 150 ml di panna acida / 100 g di robiola / erba cipollina a piacere / 250 g di pomodorini Pachino / Sale q.b. PREPARAZIONE 1. Tagliate al coltello le fette di Chunk rendendolo simile a un macinato e tenetelo da parte in frigo. 2. Pelate e tritate la cipolla finemente. Tritate pure le olive. 3. Settate il dispositivo esterno per una cottura diretta a 170°C/180°C (ma se volete semplificare, potete usare anche il fornello di casa). Scaldate una padella in ghisa e aggiungetela carne, rosolando bene e mescolando spesso. Condite con un generoso giro di SPOG. Drenate il grasso in eccesso e tenete il tutto da parte. 4. Aggiungete in padella un filo d’olio e fate appassire la cipolla aiutandovi, se necessario, con un po d’acqua. Quando è traslucida aggiungete la carne, le olive e i fagioli scolati del liquido di cottura, dunque condite il tutto con l’Ancho Habanero Chili Mex Rub BBQ4All. Mescolate e cuocete per alcuni minuti in modo che il tutto si amalgami bene. Assaggiate e regolate di sale, se necessario. 5. Preparate la Dutch Oven inserendo delle strisce di alluminio doppie sul fondo in modo che aderiscano su tutta la superficie da lato a lato e sbordino di alcuni cm. Inseritele a raggiera, vi aiuteranno poi a estrarre la torta più facilmente da cotta. 6. Passate un velo d’olio sul fondo e versate un quarto del contenuto della padella una generosa manciata di formaggio cheddar grattugiato e una tortillas sopra. Ripetete per quattro volte . 7. Mettete il Dutch Oven chiusa con coperchio in cottura diretta a 110°C/120°C per almeno un’ora e 1⁄2 o almeno fino a quando il formaggio sarà completamente fuso. 8. Nel frattempo preparate una dadolata di pomodorini Pachino conditi con olio e SPOG. 9. Preparate la salsa alla panna acida mescolando in una terrina la panna acida, la robiola e l’erba cipollina tagliuzzata, regolando di sale. 10. Togliete la “Torta” dal Dutch Oven aiutandoti con le appendici d’alluminio e mettetela su di un piatto da portata cospargendola con prezzemolo tritato. 11. Servite con una dadolata di pomodorini Pachino conditi con olio e SPOG, con l’aggiunta di salsa alla panna acida.
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Nella ricetta di oggi per comodità useremo delle Tortillas di farina già pronte per comporre gli strati di questa insolita torta; useremo poi ancora dell’ottimo Chuck Roll USA Creekstone Prime Angus del Megastore BBQ4All, un pezzo di manzo dal gusto pieno e persistente, perfetto per questa ricetta in perfetto “Old Far West Style”, avvalendoci ancora per la cottura del nostro fidato Forno Olandese.
Ingredienti per 4 persone: 2 confezioni di Chuck Roll USA
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VACA ATOLADA il piatto tipico del tropeiro, il cowboy brasiliano.
Il tropeiro, come i suoi più famosi colleghi del Nord America, viveva on the road dedicandosi alla conduzione di mandrie di bovini e di animali da soma. In Brasile, dal XVII secolo in poi, il trasporto delle merci tra centri abitati in zone non servite da navigazione marittima o fluviale si svolgeva esclusivamente tramite bestie da soma grazie ai tropeiros. Il tropeiro, oltre che trasportare merci, era solito commerciare in generi alimentari e aveva un’importante funzione culturale, essendo l’unico veicolo di notizie tra villaggi e comunità lontane, in un’epoca in cui in Brasile non c’erano strade. La Vaca Atolada è un piatto che trova le sue origini a Minas Gerais, una regione rurale del sud-est, dove nel XVII secolo si è svolta la corsa all’oro del Brasile. Per raggiungere tale regione dalla costa, i tropeiros dovevano attraversare la Serra della Mantiqueira, una catena montuosa fredda con terreni impervi, irregolari e umidi che nella stagione delle piogge divenivano talmente paludosi da far impantanare il bestiame. L’impossibilità di procedere per il bestiame costringeva il tropeiro ad attendere condizioni migliori prima di proseguire il viaggio; durante queste pause forzate dal viaggio i mandriani si dedicavano alla preparazione di questo tipico piatto, la vaca atolada, che vuol dire appunto la vacca impantanata. Nella cucina mineira la vaca atolada viene solitamente fatta con le beef ribs, un taglio che al tempo dei tropeiros non era adatto per essere messo sotto sale o essiccato e veniva quindi cotto e conservato all’interno di contenitori sotto grasso. Per questa preparazione si può utilizzare una qualunque parte dell’animale ricca di collagene, come ad esempio lo stew. Il collagene che tiene unite le fibre muscolari, sciogliendosi durante la cottura, si trasformerà in morbida gelatina liberando le fibre muscolari che si ammorbidiranno. Altro ingrediente classico della vaca atolada è la manioca, un tubero molto diffuso in Brasile e facilmente reperibile in Italia nei grandi ipermercati o nei negozi etnici; qualora non riusciate a recuperarlo potete utilizzare delle patate dolci o patate classiche. Sappiate che ne esistono anche versioni dove al posto di tali tuberi si utilizza la zucca o la carota, è il classico piatto povero del viaggiatore, si fa con quello che si trova al momento. Di seguito è riportata una preparazione base in stile classico e sono indicate alcune piccole variazioni da apportare qualora vogliate introdurre una fase di affumicatura alle ribs. Sentitevi liberi di arricchire la ricetta con altre verdure a vostra disposizione come ad esempio pomodori e/o peperoni. BBQ4All Magazine 057
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Ingredienti per 4 persone 1kg di Stew di Black Angus del Megastore Per la marinata: 3 spicchi di aglio tritati / una cipolla grande tagliata fina / 15 g di sale / 30 g di succo di limone / una foglia di alloro spezzettata / un cucchiaio di olio / 2,5 litri di acqua bollente per finire la ricetta: Olio extravergine di oliva Sicilia GLC Top Selection q.b. / 1 kg di manioca o patate / 2 cipolle grandi tagliate a rotelle / peperoncini della varietà tabasco / sale e pepe q.b. PREPARAZIONE 1. Togliete dalla confezione lo spezzatino del Megastore. 2.
Marinate per almeno 12 ore la carne con la cipolla tagliata finemente, l’aglio, il sale, il succo di limone e l’alloro.
3.
Il giorno successivo, disponete il vostro dispositivo per una cottura diretta nella cocotte Weber. Mettete abbondante olio nella cocotte e fatelo diventare bollente.
4.
Aggiungete la carne e rosolatela fino ad avere una buona reazione di Maillard su tutti i lati.
5.
A questo punto, se volete, potete arricchirla con altre verdure a vostra disposizione, come ad esempio peperoni o pomodori tagliati a pezzetti. Fateli rosolare un poco insieme alla carne.
6.
Aggiungete gradualmente l’acqua calda e fate andare avanti piano la cottura girando di tanto in tanto finché la carne non diventa cedevole.
7.
Sbucciate e tagliate in pezzi di circa 5 cm le patate (o la manioca se l’avete trovata), aggiungetele alla pentola e proseguite nella cottura finché non diventano morbide.
8.
Verificare il sapore e aggiustate sale e pepe; se vi piace aggiungete il tabasco.
9.
Mettete la cipolla tagliata a rotelle sopra la carne, coprite con il coperchio la cocotte e fate cuocere ancora qualche minuto (il tempo di stufare le cipolle).
10. Togliete dal fuoco e servite direttamente nella cocotte o, per un migliore effetto scenico, in un coccio da portata mettendo sotto la carne, poi le patate e infine le cipolle.
12. Impiattate, aggiungete tagliata a fette non troppo sottili e condite con il succo di lime e la BBQ4All Honey Mustard.
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11. Servire accanto al classico arroz branco, il riso bianco cotto per assorbimento già trattato nel Magazine di maggio 2022.
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d a e r b y Fr
il pane degli indiani d'America
Settembre 2022
L'Arte Bianca a cura di Alessandro Trezzi
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Il pane è un prodotto senza terra e senza tempo. Siamo abituati ad averlo sulle nostre tavole, e spesso ci dimentichiamo di quanto abbia accompagnato l’uomo nella sua storia, in epoche lontane e nei popoli più insospettabili. Un esempio? L’immaginario collettivo dei nativi americani (i cosiddetti “indiani pellerossa”) trasmesso da oltre mezzo secolo dalla cara Hollywood è chiaro e lampante: tribù di temibili guerrieri a cavallo, armati di arco e frecce, che cacciavano i bisonti nelle vaste praterie degli odierni Stati Uniti. Un popolo nomade, accampato nei teepee (le tende coniche fatta di pelli e corteccia di betulla). Non è sempre stato così, purtroppo. Quando intorno al 1860 gli indiani furono confinati nelle riserve, ricevettero farina, latte in polvere, sale e strutto come razione, e furono quindi costretti ad adottare alcuni usi e costumi degli uomini bianchi. Furono proprio i Navajos, a Fort Summer, a inventare il Frybread, un lievitato basso e fritto nello strutto. Successivamente, altre tribù iniziarono a crearne versioni simili, con qualche piccola differenza; in alcune riserve era presente il lievito, in altre il bicarbonato, taluni condivano con diversi tipi di grasso o addirittura uova. È divenuto celebre a tal punto che il South Dakota lo ha designato come pane ufficiale nel 2005; è conosciuto anche come “pane squaw”, “chachanga” o “bannock”, e può essere condito con fagioli, manzo tritato o formaggio grattugiato e il piatto che si ricava da tale combinazione di ingredienti prende il nome di taco indiano o taco Navajo. Può anche essere addolcito o servito coperto da ingredienti dolci come miele o zucchero a velo. È un pane importantissimo per la cultura nativa. In genere lo si associa con i pawwows e i wacipis, eventi dove la gente si riuniva e i commercianti vendevano il cibo. Questi incontri iniziarono nella prima metà del XX secolo e continuano ad esistere ancora oggi, soprattutto nella stagione estiva, quando le temperature permettono di stare piacevolmente all’aperto.
Ciò che voglio fare oggi con voi è replicare una ricetta di stampo molto simile all’originale, sia per ingredienti che per forma. Cambieremo solo qualcosina dovuta alla reperibilità e al processo, per renderlo più comodo ed incastrarlo al meglio nelle esigenze moderne. Parliamo di un pane basso, diffusissimo in qualsiasi cultura (il flat bread per intenderci) ma fritto e croccante; verrà steso, fatto un piccolo buco al centro per non farlo gonfiare eccessivamente e poi fritto. Per quanto riguarda la farina, in quel periodo si facevano poche fisime: il tempo del grano “raffinato” arrivò più tardi, ed è probabile che si macinasse a tutto corpo, senza setacciare un granché. Per avere un risultato però più semplice e adattabile a qualsiasi farcitura (dolce o salata che sia) oggi useremo una 00 o 0 di grano tenero con forza medio-elevata (280-300 W massimo).
GLI ALTRI INGREDIENTI C’è chi ci infila il burro, le uova e altre goloserie. Noi tuttavia rimarremo fedeli quanto più possibile alla tipica razione Navajo: latte (in polvere, ai tempi), sale e strutto per friggere. Niente di più, niente di meno.
IL MIX DI FARINE Qui si apre un grosso dibattito: la frittura nello strutto è davvero così pesante? Dipende. Si tratta di un grasso con un punto di fumo molto elevato (250 °C) e che per tal motivo ha un grandissimo pregio: cuoce in tempi molto più ristretti, e se ciò che friggete ha uno spessore abbastanza piccolo impedisce all’impasto di assorbirne troppo, risultando in realtà molto più leggero. Credetemi quando vi dico che ne sono rimasto folgorato: ho visto con i miei occhi pezzi di pasta cuocere in una manciata di secondi, risultando perfettamente dorati, profumati, cotti e soprattutto asciutti. Il segreto è tenere sott’occhio la temperatura del grasso, che non dovrà mai scendere eccessivamente; procuratevi un termometro da frittura e utilizzatelo per controllare minuziosamente i gradi, e friggete un frybread alla volta.
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Vediamo insieme come crearne una nostra versione?
L’OBIETTIVO
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IMPASTAMENTO La realizzazione è molto semplice e può essere effettuata anche a mano; versate 600 g di latte in una ciotola, sbriciolate il lievito e aggiungete la farina. Mescolate finché non avrete ottenuto una massa, quindi mettete il sale, i 25 g rimanenti e chiudete quando il tutto sarà liscio e uniforme. PUNTATA Oliate un contenitore stretto e dai bordi alti o la vostra ciotola, metteteci l’impasto e chiudete ermeticamente con il coperchio o la pellicola. Dopo circa 30-45 minuti mettete il tutto in frigorifero a 6°C dalle 12 alle 18 ore. Durante questo periodo il glutine si rilasserà e il vostro semilavorato aumenterà il suo profumo grazie al processo di maturazione.
INGREDIENTI per circa 8 pezzi 1 kg di farina di grano tenero di tipo 00 o 0 (280-300 W) 625 g di latte intero; 15 g di sale fino; 10 g di lievito di birra fresco
STAGLIO Togliete il contenitore dal frigo circa 45-60 minuti prima di cuocere; dividetelo in 8 parti uguali e formate delle palline arrotolando l’impasto tra le mani. APPRETTO Lasciate il tutto sul tagliere o una teglia, senza infarinare, e coprite con pellicola. Lasciate riposare 45-60 minuti in modo che l’impasto recuperi estensibilità e sia possibile formarlo. FORMATURA Di nuovo, senza usare farina (che se eccessiva brucerebbe nell’olio restituendovi un gusto amaro e generando fumo), appiattite i panetti tra le mani fino a quando avranno uno spessore di 3-4 mm e un diametro tra i 12 e i 15 cm (a vostro gusto, secondo la farcitura o l’utilizzo finale). Praticate un piccolo foro al centro, che impedirà al pane di gonfiarsi come una mongolfiera, e rimettetelo sul tagliere finché non avrete steso tutti gli altri.
I vostri capolavori Navajo sono pronti, non vi resta che farcirli con del chili, fagioli e verdure croccanti!
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COTTURA Portate abbondante strutto (circa 500 g) a temperatura in un tegame, prendete il primo disco e aiutandovi con una schiumarola adagiatelo al centro della pentola. Con un cucchiaio o mestolo versate il grasso sulla parte superiore, in modo da portare avanti la cottura; dopo circa 1 minuto, quando la parte inferiore sarà dorata, ribaltate il frybread e procedete 30-45 secondi fino a doratura ultimata. Con la vostra schiumarola scolate il fritto e appoggiatelo in una teglia con carta assorbente, tamponando bene entrambi i lati.
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In USA, dove c'è
burro di arachidi c'è casa!
Across the Pond a cura di Elena Ninotti
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no egli alimenti più amati in assoluto dagli americani è il burro di arachidi. Al pari della nostra Nutella, questo alimento è il comfort food dei momenti bui, è lo snack al volo, è la merenda preparata dalla mamma al ritorno da scuola. Partite dal Sud America, dal Perù o dal Brasile -le origini sono incerte- le arachidi arrivarono in Spagna e, da lì, furono portate dagli esploratori in Asia e in Africa. Furono proprio gli schiavi africani, nel 1700, a introdurre nel Nord America quello che sarebbe diventato l’ingrediente principale dell’alimentazione di militari e bambini.
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In un primo tempo, le arachidi venivano coltivate solo in Virginia e utilizzate per produrre olio, ma anche come snack e come sostitute del cacao. Tuttavia la raccolta a mano, molto difficoltosa, ne limitava l’estensione commerciale. Piano piano, durante il 1800, la loro popolarità crebbe, grazie alla diffusione nelle fiere di paese, nei circhi e nelle partite di baseball; inoltre si sviluppò un metodo di coltivazione, di raccolta e di pulizia che ne permise una più facile commercializzazione.
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Tuttavia, la svolta avvenne nel 1900, quando il Dr. George Washington Carver introdusse il concetto di rotazione dei raccolti. Nato in schiavitù, in seguito alla sua liberazione gli fu permesso di studiare e divenne il primo afroamericano, nel 1894, ad ottenere una laurea in Scienze. Il Dr. Carver spese tutta la sua vita girando per le piantagioni e insegnando agli ex schiavi a coltivare in modo più efficiente i campi, affrancondosi dalla tirannia dei campi di cotone. Durante i suoi studi, si accorse che ruotare le coltivazioni, alternando cotone e arachidi, permetteva di non impoverire il suolo, di avere risultati migliori e di ottenere, nel contempo, sempre prodotti dal valore commerciale interessante.
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Nel frattempo, infatti, il Dr. Kellogg (sì, esatto, quello dei cereali) aveva brevettato un nuovo “alimento” da utilizzare nelle sue famose (o famigerate) cliniche della salute. Riprendendo una lavorazione tipica delle popolazioni precolombiane, bollì e tritò le arachidi, in modo da ottenere una pasta commestibile da servire presso il suo Battle Creek Sanitarium, una Spa in cui si promuoveva la pulizia del corpo e dello spirito attraverso una purificazione mentale e fisica ai limiti della tortura. (N.d.A. Se vi incuriosisce l’argomento, la storia del Dr. Kellogg ha ispirato un film del 1994 diretto da Alan Parker: Morti di salute, titolo originale The road to Wellville, con Matthew Broderick, Anthony Hopkins, John Cusack, Bridget Fonda, Colm Meaney) Grandi nomi passarono dalla clinica del Dr. Kellogg, portando alla ribalta la sua pasta di noccioline e, in breve tempo, anche le riviste per le casalinghe americane suggerirono di creare a casa il meraviglioso Peanut Butter del Dr. K. La stessa ingegneria industriale sviluppò macchine che permettessero la produzione di burro di noccioline su larga scala e l’industria alimentare si prodigò per migliorare la stabilità della pasta. Infatti, lasciato riposare, il burro di arachidi si separa in una fase solida e una fase oleosa; ma, nel 1921, si provò a adottare la pratica dell’idrogenazione dei grassi (già usata nelle margarine) con grandissimo successo. Il vero momento di gloria del burro di arachidi si ebbe durante la Prima Guerra Mondiale, quando razioni di Peanut Butter arrivarono a sostenere i militari americani in giro per il mondo e il suo contenuto di grassi e di proteine lo rendeva adatto a rinforzare l’alimentazione di tutta la popolazione. Anche perché, nel frattempo, nel 1920, un’altra invenzione aveva permesso al peanut butter di avere ancora più successo: il pane in cassetta confezionato a fette; adesso anche i bambini potevano preparare da soli il loro P&J sandwich, cioè due fette di pancarrè morbido con in mezzo gelatina di uva e burro di noccioline. Spesso l’unico cibo disponibile, il P&J sandwich aiutò i soldati americani durante la seconda Guerra Mondiale e nutrì i bambini durante la Grande depressione.
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Oggi è ancora il cibo preferito da tutti ed è il panino onnipresente nelle lunchbox di gran parte degli americani di tutte le età. Sugli scaffali, il peanut butter ha un ampio spazio: si trova morbido o crunchy (cioè con pezzi croccanti dentro), all’interno dei cioccolatini più amati, nei biscotti, nei gelati, in tantissime ricette della cucina Thai che qui amano particolarmente. È anche possibile prepararselo da soli al supermercato, utilizzando dei piccoli mulini messi a disposizione per i clienti, con cui macinare il proprio blend di arachidi, cioccolata e mandorle. Nessun altro popolo consuma così tante arachidi e, per gli americani, mangiare burro di arachidi significa “essere a casa”.
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Il burro di arachidi, oltre che consumato in purezza o nel P&J sandwich, è un ingrediente usatissimo in pasticceria e nei piatti salati. La ricetta che vi propongo oggi è un grande classico.
PEANUT BUTTER COOKIES Ingredienti
300 g di farina 0 / mezzo cucchiaino di bicarbonato / mezzo cucchiaino di lievito per dolci / mezzo cucchiaino di sale / 230 g di burro / 200 g zucchero di canna / 200 g zucchero bianco / 290 g di peanut butter (se possibile con pezzi di arachidi all’interno, altrimenti 250 g di PB più 40 g di arachidi spezzettate) / 2 uova grandi /una bustina di vanillina o 2 cucchiaini di estratto di vaniglia / 200 g di arachidi salate e tostate tritate grossolanamente al frullatore. PREPARAZIONE: 1. Accendete il forno a 180°C statico. 2.
Mescolate farina, lievito, bicarbonato e sale in una ciotola.
3.
Montate il burro morbido con gli zuccheri per circa due minuti, aggiungete il PB e la vaniglia e in un secondo tempo aggiungete le uova, una alla volta.
4.
Montate ancora 30 secondi, poi aggiungete le polveri e le arachidi tritate. Impastate velocemente e farsi appena si forma un composto omogeneo.
5.
Usando un porzionatore da gelato o due cucchiai fate delle palle da circa 5 cm. Con i rebbi di una forchetta tracciate una griglia sopra ogni biscotto.
6.
Cuocete per 10-12 minuti e fateli raffreddare completamente prima di toccarli. Volendo è possibile utilizzare metà arachidi salate e metà gocce di cioccolata, come sospensione.
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DUTCH OVEN FROM ZERO TO HERO
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COS’È E COME SI USA?
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a cura di Michela Bongiorni
Come si può ben capire dal nome, le origini del Forno Olandese (o Dutch Oven) sono da ricercarsi nei Paesi Bassi. In Inghilterra, nel XVII secolo, le pentole più apprezzate erano realizzate con materiali costosi, quali rame e ottone. Gli olandesi erano alcuni dei migliori artigiani dell'epoca: realizzavano, di fatto, gran parte delle migliori pentole del mondo.
l'utilizzo di materiali più economici come la ghisa. Il metodo di colata olandese utilizzava stampi in sabbia, che servivano anche per donare una particolare lucentezza al prodotto finale. Gli inglesi dell'epoca, invece, utilizzavano stampi fatti principalmente di argilla. Darby e il suo braccio destro, James Thomas, decisero di trovare un modo per fondere il ferro usando stampi di sabbia.
Fu così che un artigiano inglese di nome Abraham Darby, incuriosito dalle tecniche di produzione olandesi, pensò di poter costruire pentole altrettanto performanti ma meno costose, attraverso
I loro primi tentativi fallirono miseramente, poiché lavorare il ferro fuso era molto più complicato rispetto all'ottone a cui erano abituati. Alla fine, tuttavia, riuscirono a creare un metodo per
la fusione del ferro in stampi di sabbia, rendendo tutto il processo più economico e più efficiente. Comparirono dunque sul mercato inglese pentole più economiche e allo stesso tempo più resistenti e durevoli. Nel 1707 Darby registrò il brevetto per la produzione della pentola in ghisa, chiamadola “Dutch oven”. Come si può ben intuire, la resistente pentola in ghisa fece molto presto ad attraversare l’Oceano e ad approdare nelle colonie sorte in terra americana. Là, il Forno Olandese conobbe un grandissimo successo. Gli americani aggiunsero le gambe e disegnarono il coperchio piatto con un piccolo
bordo, adatto a reggere le braci. Questo permise di cominciare ad utilizzarle nel modo in cui ancora oggi fanno tutti i griller appassionati di braci e carbone: appoggiandole direttamente sopra il carbone acceso e ricoprendole con le braci. In base al numero di braci che si utilizzavano si poteva sapere in modo molto empirico e approssimativo la temperatura interna della pentola. I coloni, i pionieri, i minatori, gli agricoltori: tutti utilizzavano queste pentole per la loro versatilità e la loro resistenza. La usavano per bollire, stufare, friggere, arrostire, fare i dolci e cuocere qualsiasi cosa. Per farvi capire quando fosse preziosa
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la Dutch Oven, sappiate che entrava perfino nei testamenti: Mary Ball Washington (madre del presidente George Washington ) specificò nel suo testamento, datato 20 maggio 1788, che i suoi mobili da cucina in ferro sarebbero dovuti rimanere a a due nipoti. I coloni diretti a ovest portarono con sé i forni olandesi. Lewis e Clark lo portarono quando esplorarono il grande nord-ovest americano tra il 1804 e il 1806. Fecero lo stesso i pionieri mormoni che si stabilirono nell'ovest americano. In effetti, una statua eretta per onorare le compagnie mormoni che entrarono nella Salt Lake Valley dello Utah negli anni '50 dell'Ottocento mostra con orgoglio un forno olandese appeso alla parte anteriore del carretto. La Dutch Oven è la pentola ufficiale del Texas, dello Utah e dell’Arkansas. Anche gli uomini di montagna che esploravano la frontiera americana usarono i forni olandesi fino alla fine del XIX secolo. Nel 1896, Joseph Lodge fondò una fonderia di ghisa in Tennessee. Come ben sapete, ancora oggi la Lodge Company produce le famose Dutch Oven in ghisa.
COME SI USA?
Di fatto il Forno Olandese è una pentola coperta. Ma sarebbe semplicistico ridurla a una mera casseruola. È davvero molto di più. Come abbiamo visto, inizialmente era stata pensata per cucinare direttamente su fiamme libere, motivo per il quale doveva essere così robusta. Oggi ne esistono di tutti i tipi e sono un elemento base per la cottura al fuoco. Chiamate anche forno da campeggio o da cowboy, la struttura in ghisa le rende ideale per resistere alla cottura a contatto diretto con le braci.
Può essere utile proteggere il fondo foderandolo con l’alluminio o con la carta forno; oppure si può allontanare la pentola dalle braci qualora il contatto diretto ci esponga al rischio di far surriscaldare troppo il fondo della Dutch Oven col conseguente risultato di far bruciare tutto. Ancora, posizionando le grate all'interno del forno olandese, si possono di fatto creare due zone di cottura che consentono la preparazione di piatti più elaborati (e che necessitano di una certa esperienza in merito).
FONDO IN GHISA O IN CERAMICA?
In ogni caso, quando vorrete acquistare una Dutch Oven dovrete scegliere sostanzialmente tra comprare una pentola in sola ghisa o prendere quella rivestita in ceramica smaltata. Entrambe hanno vantaggi e svantaggi. Quella in sola ghisa è sicuramente più durevole e resistente ai graffi, si surriscalda in modo più uniforme e trattiene meglio il calore. Di contro, la sua pulizia e il suo mantenimento possono essere più difficoltosi. Per pulirla, è consigliabile far bollire l’acqua e poi utilizzare una spazzola o una spugna; è utile oliarla regolarmente e mettere della carta assorbente all’interno prima di riporla col coperchio, in modo che l’umidità residua venga assorbita. La Dutch Oven in ghisa smaltata, di contro, è molto più facile da lavare, perché può essere messa in lavastoviglie. Spesso è più leggera. Inolre il fondo chiaro e colorato permette di vedere meglio il grado di cottura dei cibi all’interno. Tuttavia, molti dicono che si surriscaldi in modo meno uniforme rispetto a quella in sola ghisa e che trattenga peggio il calore. E’ sicuramente meno resistente e più suscettibile ai graffi, per cui deve essere trattata con molta più delicatezza.
BBQ4All Magazine
Alcune Dutch Oven hanno il un coperchio attaccato, per facilitare il suo utilizzo e per scongiurare il rischio che le braci posizionate sopra finiscano nel cibo. Una cosa che forse non sapete è che si possono impilare l'una sull'altra durante la cottura. Il fondo di una pentola funge da coperchio a quella sottostante.
Ideale per stufati, zuppe e minestre, la Dutch Oven in realtà si può utilizzare come un vero forno: spazio dunque alla produzione di prodotti come pane, panini, dolci, torte. Bisogna sempre ricordare che c’è il rischio che il cibo si attacchi sul fondo, quindi è consigliabile l’utilizzo di tutta una serie di accortezze a seconda della preparazione specifica.
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Speciale
GUIDA AI TAGLI
Le pagine del BBQ4All Magazine di Luglio 2022 (dalla numero 86 alla 101 compresa) riportavano alcuni errori. Ce ne scusiamo con l'Autore e con i nostri lettori: l'articolo va inteso come corretto nella versione che segue. Che noi italiani abbiamo tanto da imparare dai cugini d’oltreoceano sulla carne è un dato oggettivo. La prova è il numero sorprendente di tagli per le sole bistecche di manzo made in USA: T-Bone, Porterhouse, New York Strip, Denver Steak, Ribeye. Questi sono solo alcuni delle decine di nomi diversi da pronunciare per ordinare una bistecca, contrariamente alle abitudini del suolo tricolore, dove al di là di fiorentina, tagliata e filetto c’è ben poco – e vi risparmio il pippone sul fatto che i primi due non siano tagli di carne, ma modi di cuocere e servire una bistecca – e che col tempo lo sono diventati in nome della “semplicità”. Non stupisce, quindi, che gran parte dei novizi che si affacciano al mondo del barbecue all’americana rimangano spaesati e scoraggiati per il forte uso di termini anglosassoni all’interno delle Community a tema.
Pensateci, avete appena scoperto la nostra Community BBQ4All, grazie alla quale realizzate che quello che avete sempre chiamato barbecue in realtà è una grigliata, e che il barbecue – quello vero – è una cosa completamente diversa. Correte a spolliciare su Facebook pieni di entusiasmo e voglia di imparare, e dopo un'oretta passata a scorrere i post vi viene il mal di testa a forza di leggere cose come “foil”, “ribs”, “minion method”, “brisket”. E dovete fare ricorso a tutta la vostra pazienza per non mollare tutto e tornare a buttare le salsicce sulla griglia come avete sempre fatto, perché tanto “gli ospiti fanno sempre i complimenti“. Per le tecniche di cottura più importanti siete già a posto, ne abbiamo parlato tante volte sul BBQ4All Magazine.
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Ma per i tagli di carne?
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Ecco a cosa servirà questo articolo: per capire cos’è una slab di ribs alla St. Louis, o cosa acquistare se avete voglia di cucinare un brisket. L’obiettivo di questa piccola guida è fornirvi alcune nozioni di base e fare finalmente il punto tra nomenclatura regionale e corrispondenze dei tagli tra Italia e Stati Uniti. Tutto chiaro, no?
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I tagli del bovino negli Stati Uniti
Sempre più spesso la confusione regna sovrana fra i griller quando entrano in macelleria, soprattutto nel momento in cui cercano di far capire al proprio macellaio quali tagli di carne italiani corrispondano a quelli americani. Consapevoli che in Italia non esiste una nomenclatura univoca dei tagli del bovino, per cui lo stesso identico taglio è conosciuto con nomi diversi in ogni singola regione (spesso all’interno della stessa provincia basta spostarsi di pochi km e trovare nomi completamente differenti per lo stesso pezzo di carne), ho cercato di fare un po’ di chiarezza, scrivendo un piccola guida c h e spiega a quali tagli italiani corrispondono quelli statunitensi, o almeno da quale parte della bestia vengano ricavati. Non è ancora la guida definitiva, torneremo senz’altro sull’argomento, ma siamo sulla buona strada.
Il Chuck inteso come “primal cut” è il collo del bovino, da noi corrisponde a reale, collo e spalla. Tra i tagli derivati dal Chuck più conosciuti ed usati in italia possiamo elencare il reale e il cappello del prete, (o copertina di spalla). Il Chuck primal è un gruppo anatomico, ricco di tessuto connettivo e grasso, ottimo per il bollito, per i piatti in umido, per la carne macinata e per bistecche considerate di seconda categoria. La cucina americana si spinge oltre e dal chuck ricava bistecche saporite, tenere ed economiche, le tre chuck steak, oltre ai tagli segreti della spalla:
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La Denver steak è una bistecca ricavata da un gruppo muscolare molto tenero del sottospalla, estremamente difficile da ricavare senza rovinare l’intero reale. La sua ricca infiltrazione di grasso dona alla carne sapore e morbidezza. La top blade steak si ricava dal cappello del prete; è un taglio abbastanza tenero, diviso in due per lunghezza da una spessa linea di
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cartilagine, eliminandola si ricavano due filetti chiamati flat iron steak, che di fatto sono bistecche a fibra lunga che vengono servite scaloppandole contro fibra per agevolare la masticazione; dall’inizio del ventunesimo secolo stanno avendo un buon riscontro nei ristoranti americani perché costano la metà di un filetto. La 7 bone steak è una bistecca molto saporita e ricca di collagene; si chiama così perché il suo osso ha la forma di un sette e perché è ricavata dalla parte del collo composta da sette fasci muscolari. In Italia questo taglio è completamente sconosciuto
perché considerato estremamente tenace, buono solo per i brasati, per la carne macinata per gli spezzatini. La Vegas strip steak una bistecca giovane, introdotta dallo scienziato Antonio Mata nel 2011; anch’essa ricavata
e
è
dalla zona sotto-scapolare del bovino, ha una buona infiltrazione di grasso che dona tenerezza e un sapore deciso alla carne. Le chuck eye roll o chuck roll, ricavate dalla porzione compresa tra la seconda/terza costola alla quinta del bovino, hanno generalmente uno spessore tra i 2/3 cm e peso variabile. La carne tra le costole è ricca di grasso, per cui risulta molto marezzata, saporita e tenera. ll brisket è la punta del petto del bovino, in Italia è semplicemente “il petto”. È un taglio di seconda categoria dalla carne dura e stopposa, e per questo trasformato nelle lunghe cotture (bollito, stracotto) o in carne macinata. Negli USA è iconico e cucinato al barbecue in low&slow, la tecnica che rende questa carne tenera e con un buon gusto di affumicato. Il brisket è composto da due gruppi muscolari:
è un taglio poco pregiato perché povero di carne ma ricco di tessuto connettivo e di tessuto osseo; rimane un taglio molto appetibile per gli amanti del midollo osseo. Le beef ribs corrispondono in Italia al biancostato e per i nostri macellai rappresentano un taglio misterioso perché considerato tenace e buono solo per il lesso o per gli spezzatini . Tra le altre sue caratteristiche, questo taglio ha una buona infiltrazione di grasso tra le fibre della carne. Anche gli americani si sono accorti che è carne dura, ma con una lunga cottura barbecue di circa 8 ore, a bassa temperatura e di circa 110 centigradi, la consistenza si trasforma. Il cuberoll/ribeye è ricavato dal costato del bovino, più precisamente dalla sesta alla decima costola e corrisponde alla nostra costata senza osso (negli USA dalla sesta alla dodicesima costa). Ha una buona marezzatura ed è perfetto per ricavare delle ottime bistecche. Il roast beef è un taglio molto amato dalla cucina inglese. Corrisponde alla nostra lombata bassa e viene ricavato tra la nona/decima vertebra dorsale e la quinta lombare. Il tenderloin e lo striploin sono il filetto e il controfiletto. Appartengono entrambi alla prima categoria dei tagli del bovino.
il point e il flat, uniti tra di loro da uno spesso strato di grasso. Il flat è la parte più magra, vicina al costato del bovino. Il point è la parte esterna del petto, ricoperta da uno strato chiamato fat cap.
La New York strip steak è un altro classico delle steakhouse statunitensi; è una bistecca di controfiletto, ha poco tessuto connettivo (se si elimina il legamento che corre sopra di esso) ed è morbida e saporita.
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Lo shank e l‘hind shank sono il geretto anteriore e il geretto posteriore (lo stinco del bovino, privo del polpaccio). Il geretto
La t-bone e la porterhouse sono due classici delle steakhouse americane, in Italia corrispondono entrambe alla fiorentina. Sono tutte e due ricavate dalla lombata dalla dodicesima dorsale alla quinta lombare, ma non si può dire che siano identiche: la porterhouse ha il filetto nella sua porzione più ampia, la t-bone ( si chiama così perché il suo osso ricorda una “t”, come la stessa porterhouse) ha una porzione più piccola di filetto.
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Il trip tip corrisponde a quello che noi chiamiamo spinacino (o la tasca del manzo), usata per preparare arrosti ripieni. È un taglio di forma triangolare, poco spesso e magro nelle razze di poco pregio, ma molto più marezzato nelle razze esclusive. Adatto a cotture veloci, si può anche marinare per rendere la carne più morbida e interessante o ad attente cotture indirette. Il taglio hanging tender per noi è il lombatello; è un pezzo sottile, povero di grasso, che vuole una cottura veloce, al sangue. Da questo taglio del costato gli americani ricavano la hanger steak, incredibilmente tenera sia cotta in velocità che “media”. La flank steak è la pancia del bovino, conosciuta da noi con il nome di bavetta bassa francese. È un taglio sottile, dalle fibre lunghe, povero di grasso ma ricco di tessuto connettivo che lo renderebbe immasticabile se non trattato nella maniera opportuna. È consigliabile infatti marinare per qualche ora la flank steak (ad esempio con salsa teriyaki) e poi cuocerla velocemente in diretta con il metodo flip&brush (gira e spennella), ricordandosi poi di tagliarla a fettine sottili e contro-fibra.
La skirt steak corrisponde al diaframma o al falso diaframma (trasverso addome, inside skirt), sottili pezzi di carne collegati al diaframma. È un taglio di carne sottile e tenace che la cucina italiana snobba alla grande, mentre negli USA, in Messico e nell’America Latina è molto apprezzato per il suo sapore intenso. Viene grigliato e servito a fettine, ed è ottimo con la salsa chimichurri (salsa a base di prezzemolo/coriandolo, aglio e peperoncino). La picanha è un taglio tipicamente brasiliano. Diventato molto popolare anche da noi in Italia, corrisponde al codone, punta della sottofesa o copertina dello scamone. Nella picanha è fondamentale che la copertina di grasso di 2/3 cm che la ricopre non venga tolta durante la cottura, perché il grasso, sciogliendosi, andrà a ungere e insaporire la carne magra. Il rump (scamone), è il gluteo del bovino, ha una percentuale di grasso molto bassa, ma rimane una carne morbida e saporita. Gli americani dal rump ricavano la rump steak. Il taglio “round” in Italia corrisponde alla coscia i cui tagli principali sono: 1. knuckle (noce) un taglio di prima categoria, privo di osso, molto magro ma comunque tenero. La cucina italiana lo destina a cotture veloci sotto forma di bistecche e carne macinata di elevata qualità. 2. top round (fesa), corrisponde alla parte interna della coscia del bovino, è un taglio a fibre lunghe, magro come tutti i tagli che compongono la coscia. In Italia si trasforma in fettine deputate a diventare scaloppine, involtini, cotolette. 3. bottom round (sottofesa) un taglio di prima categoria, magro, ricchissimo di connettivo e il più duro dell’intera coscia. “Da noi” diventa bistecche, carne macinata di alta qualità e arrosti.
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Anche gli americani lo trasformano in round steak, bistecche magre con poche infiltrazioni di grasso.
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I tagli del bovino in Italia
Cosa succede ai bovini quando vengono macellati? E come vengono sezionati nello stile della macelleria italiana?
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MEZZENA Dopo l’abbattimento, al corpo dell’animale vengono rimosse la testa, la coda, la pelle, le estremità delle zampe e nelle femmine anche le mammelle: ciò che rimane è la carcassa. Questa viene poi tagliata lungo la linea dorsale e si ottiene la mezzena, ovvero ciascuna delle due parti che formavano la carcassa. È durante questa operazione che si estrae il midollo spinale dalla colonna vertebrale. La mezzena è costituita da tredici costole, sette vertebre cervicali, tredici dorsali, cinque lombari e quindici/diciotto coccigee. La mezzena a suo volta viene suddivisa in quarti.
QUARTO ANTERIORE La mezzena viene quindi ulteriormente sezionata in quarto anteriore: generalmente viene tagliato a cinque coste con pancia e i primi tagli – che a loro volta verranno sezionati in parti più piccole – sono spalla, sottospalla, collo, punta di petto e pancia. SPALLA Con “spalla” si indica la zampa anteriore dell’animale. Ha una discreta marezzatura e una volta disossata può essere sezionata in vari pezzi. Tutti questi tagli si prestano a vari tipi di cottura. Trento Ancona Venezia Genova Perugia Roma L’Aquila Potenza Reggio Calabria
festone di spalla gioietta zogia / muscolo di spalla gallinetta dado pulcio lu pesciatt’ colardella spasciatura
BRIONE È un taglio dell’anteriore, in particolare della spalla. Non ha una forma ben definita.
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Torino Roma Bari Bologna Catania
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nocetta di spalla pulcio gamboncello polpa di spalla / passerotto ovo di spalla
CAPPELLO DEL PRETE Chiamato anche ala di spalla, copertina di spalla o “paletta”. Si tratta fondamentalmente del muscolo
infraspinato. Ha forma lunga e stretta ed è ricco di grasso, che varia dal 4% al 7%. Bologna, Roma Napoli Messina
polpa di spalla spalla spallone
FESONE DI SPALLA È un taglio dell’anteriore, situato nella spalla. Ha forma rettangolare e la carne è grassa e fibrosa (tricipite brachiale). Milano Venezia Genova Firenze Bologna L’Aquila Macerata Parma Napoli Palermo
fesone scapìn sopra paletta cotonetto o ciangolino polpa di spalla nosetto di spalla magro di spalla o gioietta polpone spalla piano di spalla
FUSELLO È un taglio dell’anteriore. Ha forma affusolata ed è molto magro. La carne risulta saporita e lievemente gommosa. Belluno Bologna Macerata Napoli Calabria Bari e Foggia Palermo Roma Catania
girellino di spalla polpa di spalla magro di spalla lacertiello spadda o ovu lacertino di spalla sfacciatura sbordone osso di spalla
TAGLIO REALE Il taglio reale è ricavato dai muscoli delle prime 5 vertebre dorsali anteriori (muscoli intercostali e gran dorsale). La carne è abbastanza magra. In Italia diventa quasi sempre bollito, stracotto e arrosto. Milano e Vicenza Bari e Foggia Venezia Napoli Trento Bologna Treviso
biancostato appiccatura bongiolo corazza costamozza costata fracosta
Palermo Reggio Calabria Messina Genova Firenze Macerata Padova
gabbia gabbia piatto di costa ossette o scaramella restringitura scadinata scorzadura
BRACIOLA REALE La braciola è il taglio ricavato dalla parte anteriore del dorso del bovino tra il collo e la lombata. Si presta a cotture al forno come arrosti e brasati e si addice per la realizzazione di spezzatini e cotolette. Macerata Padova Belluno Treviso Parma e Verona Roma Perugia Napoli Messina e Palermo Rovigo Bari e Foggia Potenza Mantova Genova e Torino Bologna Firenze Milano Venezia Reggio Calabria
bistecca di costa braciola di costa braciola di sottospalla braciola reale braciole costa costa fibrosa costale o coverta costata costata costate rigate costato di quarto coste doppie costola fallata di lombo polso roast beef schiena scorcia di spadda
SOTTOSPALLA È un taglio del quarto anteriore (la continuazione della lombata), per questo ha caratteristiche molto simili. Il suo prezzo tuttavia rimane più basso. Di forma rettangolare, può pesare fino a 10-12 kg. È un taglio pieno di ciccia, ma bisogna distinguere tra le due parti principali: una costituita da muscoli teneri (precisamente il prosieguo della costata), che si trasforma solitamente in bistecche e arrosti; l’altra costituita da muscoli duri (quelli verso il collo), che in Italia si usa per fettine e scaloppine. coi sottocoperta matamà polso collo
fracosta rosciale lattughello
PANCIA È un taglio poco pregiato e dal costo contenuto. Se l’animale è di stazza grossa, la sola pancia può arrivare a pesare 40 kg. I suoi muscoli vanno dall’obliquo interno dell’addome, che è tenero, ad altri più duri. Accanto alla pancia si trova il diaframma (detto anche “cartella”), muscolo respiratorio che diventa eccezionale per fare il ragù. La percentuale di grasso in questo taglio è alta per i più (per me no): va dal 7% al 10%. L’unica parte veramente magra è il “vuoto di pancia”, che si può cuocere in griglia o su piastra, per preparare una bistecca tenera e succosissima. Genova Bologna Bari Palermo
ossette doppione pancettone bruschetto
BAVETTA Si ottiene eseguendo un taglio triangolare sulla pancia del bovino, esattamente nella parte superiore in corrispondenza del filetto. È un taglio non particolarmente pregiato ma tenero, grasso e gustoso. È davvero popolare in Francia. PUNTA DI PETTO È propriamente una parte dell’anteriore. Consiste nel finale della spalla e l’inizio del sottospalla. La carne è dura e stopposa, ricoperta di grasso (che varia dal 4% all’8%). I due muscoli che lo compongono sono i pettorali profondi e i pettorali superficiali. Treviso Firenze Roma Ancona Reggio Calabria Cagliari Palermo
fiocco forcella petto grosso petto punta di pettu polpa di petto brischetto
GERETTO ANTERIORE Il geretto è lo stinco del bovino. Quello anteriore, costituito da una parte ossea, è la terminazione della spalla. I suoi muscoli sono flessori ed estensori delle falangi – questi ultimi simili a quelli delle dita, del carpo e del radiale. Si tratta quindi di un
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Aosta Vicenza Genova Firenze Macerata
Roma Bari Reggio Calabria
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taglio caratterizzato dalla presenza di ossa e tessuti connettivi. All’interno del tessuto osseo troviamo il midollo (grasso e saporito). I geretti interi vengono usati per fare l’ossobuco (ed essere poi porzionati) oppure disossati per fare i bolliti. Milano, Padova Trento Bologna L’Aquila Roma Bari Catanzaro Palermo
ossobuco stinco o ossobuco anterna lacerto muscolo gamboncello pisciuni piscione
QUARTO POSTERIORE La mezzena viene quindi ulteriormente sezionata nel quarto posteriore: viene tagliato a otto coste, che vengono poi sezionate in tre tagli principali, cioè coscia, lombo e pancia, successivamente tagliati in parti più piccole. SCAMONE È un taglio pregiato della coscia, magro (presenza di grasso fra il 3% e il 4%), tenero e di forma allungata. Posto nella parte posteriore della coscia vicino alla lombata, è formato da grandi masse muscolari. Caratteristica la sua tenerezza, in Italia si taglia sotto forma di bistecche. Trento Aosta Bologna L’Aquila Campobasso
straculo sottofiletto controfiletto scannello colarda
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NOCE Questo taglio è situato vicino allo scamone, ma nella parte posteriore della coscia. È composto da quattro muscoli e ha una forma rotondeggiante. È anche magro, con una percentuale di grasso che varia dall’1% al 4% a seconda della provenienza dell’animale.
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Torino Roma Bari, Potenza Catania
boccia grande rosa pezza a cannella vausa
Catanzaro
brusa
SPINACINO Detto anche piccione, è un taglio della coscia, situato sotto la noce e attaccato allo scamone. Presenta una forma triangolare. Generalmente sul suo italico ha due utilizzi: se proviene da carni di scottona viene trasformato in fettine di seconda scelta, mentre se è di vitellone si utilizza per fare lo spezzatino o il macinato. Genova Ancona Molise
fiocco fianchetto il dito
FESA È uno dei tagli più pregiati. Si trova nella parte interna della coscia, ha forma triangolare e grandi dimensioni. È formato da cinque muscoli tendenzialmente teneri, perciò viene usato per fare roast-beef e bistecche. Con una percentuale di grasso che varia dall’1% al 4%, rientra nei tagli magri. Bologna Roma Napoli Catania
scannello noce o scannello natica sfasciatura
SOTTOFESA È uno dei tagli più grandi e lunghi della coscia e mediamente pesa 7-8 kg; ha forma rettangolare. Occupa la parte esterna e inferiore della coscia. Il suo muscolo principale è il bicipite femorale, abbastanza duro. È un taglio magro: il contenuto di grasso varia dal 4% al 7%. Dalla parte finale lunga si ottiene la punta di sottofesa, detta anche picanha, tipico taglio cucinato nei paesi sudamericani. Milano Bologna Napoli Bari Reggio Calabria
nervetto mozzicone pescione piscione pisciuni
CODONE È un taglio della coscia e consiste nella parte finale della sottofesa (la picanha in pratica). In Italia si usa prevalentemente per stracotti o alla griglia. Verona Bologna
fesa culatta
Messina Torino Genova
contro lacerto coscia in fuori lacerto
MAGATELLO Il girello o magatello è un taglio di prima scelta. È formato da un solo muscolo ed è situato nella coscia, vicino alla fesa e alla sottofesa. Parliamo di un taglio poco grasso (dall’1% al 4%), con un peso variabile da 2 a 4 kg. Aosta Trieste Milano Torino Genova Bologna, Ancona Roma, L’Aquila Bari,Napoli Catania, Palermo
tondeun tajo bianco magatello coscia rotonda rotondino girello girello lacierto lacierto
CAMPANELLO È un taglio della coscia, situato per la precisione dietro la tibia: è il polpaccio dell’animale insomma. Di forma affusolata, contiene il tendine d’Achille e i flessori delle falangi. È un taglio magro con una percentuale di grasso fra l’1% e il 3%. Torino Firenze Bari Palermo
bocca piccola callo del campanello piscione imperatore
LOMBATA La schiena è composta, se ci riferiamo alle ossa, dalla zona che va dalla terza/quarta vertebra dorsale alla quinta lombare. Dalla quarta alla nona vertebra dorsale (dalla sesta costola alla decima) troviamo la costata alta dalla quale, disossando, ricaviamo il cuberoll o ribeye; dalla decima dorsale alla dodicesima (costale 10-11-12) troviamo il wing end, dalla tredicesima dorsale alla quinta lombare abbiamo la fiorentina o shortloin.
GERETTO POSTERIORE Il geretto è lo stinco del bovino. Quello posteriore è invece lo stinco stesso, che comprende la tibia. I suoi muscoli estensori sono quelli che permettono il movimento delle falangi e quelli flessori il movimento delle zampe. Si tratta quindi di un taglio caratterizzato dalla presenza di ossa e tessuti connettivi. All’interno del tessuto osseo troviamo il midollo (grasso e saporito). I geretti interi vengono usati per fare l’ossobuco (ed essere poi porzionati) oppure disossati per fare i bolliti. Trento Venezia Bologna L’Aquila Roma Bari Catanzaro Palermo
stinco geretto lanterna lacerto muscolo posteriore gamboncello pisciuni piscione
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CUBEROLL/ENTRECÔTE Il cuberoll è un taglio grasso (dal 6% a un massimo di 11%), ed è formato da nove muscoli. È uno dei tagli più pregiati in assoluto di tutto l’animale e da questo si ricavano le ribeye.
FILETTO È il taglio più pregiato e più costoso dell’animale. Essendo situato sotto la zona lombare, che consiste in un fascio di muscoli praticamente inattivi, la carne è molto tenera. Il suo peso varia a seconda dell’animale: si va dalla vacca a fine carriera (1 kg) fino al vitellone (5 kg). Si può staccare intero o lasciarne separare la testa dal resto lasciando la parte lunga nella sede naturale appoggiato alle vertebre. La parte restante – più propriamente detta testa del filetto – è la più grossa e viene venduta separatamente. In cucina è l’ideale per arrosti e tagliate. La denominazione in Italia è la stessa in tutte le regioni.
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USA
ITALIA
PIEMONTE
LOMBARDIA
Denver steak
Coperta di reale
Fondo del fermo di spalla
Sottospalla, parte anteriore della fesa di spalla
Top Blade
Cappello del prete
Arrosto della vena
Cappello del prete
Vegas Strip
Aletta di spalla
Aletta di spalla
Aletta di spalla
Brisket
Punta di petto
Punta di petto
Punta di petto
EMILIA ROMAGNA
Esterno del reale
Sottospalla
Cappello del prete
Ala di spalla
Copertina di sotto della spalla Punta di petto
Punta di petto senza osso
Scaramella in Costina con osso osso
Ossette
Costa da bollitto (3-6ª costa)
Ribeye
Reale con osso
Parte del controfiletto
Costigêua senza cuiga (copertina)
Costata scalzata
Cube roll
Sottofiletto spesso
Parte anteriore della lombata
Costigêua intera senza cuiga (copertina)
Parte del roastbeef
Lombata carrè
Parte del roastbeef
Lombata
Teres major
Parte del sotLombata tofiletto Falso filetto
Filetto dell'ebreo
Filetto dell'ebreo
Sezione della copertina di sotto
Punta di petto
Lombata lombo
Chuck roll
Reale
Tenerone
Reale
Matamà
Cuore del reale
Reale
Rump
Scamone
Primo taglio
Scamone
Cascia
Sottofiletto
Scanello
New York strip
Controfiletto
Parte del sot- Parte del tofiletto controfiletto
Lonza nel controfiletto
Controfiletto
Lombata
Trip Tip
Spinacino
Fiocco
Spinacino
Sottopesce
Spinacino
Piccione
Costello
Lombo
Lombatello
Lombatello
Bavetta
Sabrina
Vuoto di pancia
Bavetta o Tabarin
Codone
Sottocoscia - punta du belín
Punta di sottofesa
Traculo
Magatello
Rotondino di cascia
Girello di coscia
Girello
Diaframma
Cadea
Diaframma
Hanger steak Lombatello
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Sottopaletta
VENETO
Beef Ribs
Roastbeef
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LIGURIA
Flank steak
Bavetta
Picanha
Codone
Eye round
Girello
Skirt
Diaframma
Spider steak
Tasca
Rotonda
Scheneletto
TOSCANA
MARCHE
Copertina
LAZIO
MOLISE
CAMPANIA
PUGLIA
SICILIA
Copertina
Copertina di reale
Copertina di reale
Copertina di reale
Farfa superiore
Sorra
Gioietta o pietrata
Armone
Paletta
Palettina
Paletta
Cannolo di spalla
Sottopaletta
Sottopaletta
Filetto del povero
Coperta di spalla
Pettola di spalla
Copertina di spalla
Pala di spalla
Punta di petto senza osso
Punta di petto con fiocchetto
Punta di petto
Punta di petto
Soprapetto
Punta di petto
Sottospalla
Costole
Scalinata con Stecche osso
Copertella con osso
Corazza
Barraccone
Bollito
Bistecca nella costola o costata
Bistecca senz'osso
Filatura di arrosto
Prima costa
Bistecca nella costata senza osso Lombata disossata
Lombo
Lombo
Lombata
Lombata
Lombo
Costata con osso
Pescetto
Filetto del povero
Coperta di spalla
Pettola di spalla
Copertina di spalla
Filetto di spalla
Collo disossato
Reale
Arrosto disossato
Costata senza osso
Costata di collo
Bistecca di collo Culaccio
Culatta
Pezza
Scamone
Colardella
Colarda
Tenero di codata
Controfiletto
Lombo
Lombatina
Pezzo a cannella
Scorzetta
Scorzetta
Trinca
Tasca
Dado
Piccione di rosa
Fiocco
Primo taglio
Fiocco
Judisco
Lombatello
Pannicolo
Luntuorno
Cadduzzo
Testa di filetto
Diaframma Tasca
Tasca
Fianchetto
Fianchetto
Tasca
Panza/ falce lunga
Punta del lucertolo
Punta della finta
Attaccata allo scamone
Coperchio di scamone
Punta di dietrocoscia
Triangolo
Pala di codata
Girello
Girello
Girelllo
Girello
Lacierto
Girello
Lacierto
Pannicolo
Diaframma
Striscia di luntuorno
Pennela
Diletta
Diaframma Ragno
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Bavetta
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Tacos LA RICETTA SCIENTIFICA
A
lcuni Alcuni di voi lo sanno già da un po’, ma molti altri no. Io ho un'autentica passione per i tacos. È qualcosa che sta a metà tra l’amore sfrenato e l’ossessione pura. Per farvi capire il livello, probabilmente sarebbe l'ultimo pasto che sceglierei nel braccio della morte. E la “taquerìa” sarebbe l'unico tipo di locale che accetterei di aprire se non avessi altre priorità. Esatto: non una Steak House. Insomma, non è una cosa che tengo nascosta ma non ne faccio grande pubblicità perché ho dei progetti per i tacos in Italia. E prima o poi prenderanno vita. Questo però non mi impedisce di condividere con voi questa cocente passione che mi porto dentro, no?
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Dovete capire che il taco è radicato nel DNA dei messicani come la pasta in quello degli italiani. Ma è molto più forte, ha radici molto più profonde. I messicani adorano tramandare le ricette a voce alle nuove generazioni. Le nuove generazioni amano impararle e continuare a custodirle nella memoria. La differenza con il nostro mondo è che sono ricette talmente semplici ed essenziali, fatte con ingredienti talmente freschi e cotti per forza di cose in modo espresso, che alla fine dal taco non si può più togliere nulla: è semplicemente perfetto.
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So che è strano pensare che un dischetto (in realtà per il tacos si usano quasi sempre due tortillas per evitare che si sfaldi mentre si mangia) di farina di mais (ma anche di grano) con un po' di roba dentro possa appassionare così tanto. Eppure, conoscendolo a poco a poco, sono certo che vi resterà nel cuore. È arrivato il momento di aprire i cancelli del regno dei tacos.
La ricetta scientifica a cura di Gianfranco Lo Cascio
BBQ4All Magazine 085
TACOSTORY: SALSA ROJA
Memorizzate questa frase: Tacos = Cibo dei messicani.
Fate questo sforzo e provate ad immaginare il forte legame che il popolo messicano ha con questo piatto. Tutti i messicani mangiano tacos, realisticamente tutti i giorni o quasi. Capirete che, come per il barbecue, le variazioni sono moltissime a seconda delle regioni in cui vi trovate.
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I tacos non sono una ricetta, sono una filosofia alimentare. La stessa denominazione varia sempre, da città a città, da famiglia a famiglia, da taqueria a taqueria. A differenza dell'italiota medio che combatterebbe una guerra per difendere l'assenza di cipolla dalla carbonara, ogni messicano è invece orgoglioso di avere la propria versione del Taco del suadero o del Cabrito o della Cochinita pibil. Non ne proverete mai due uguali pur avendo lo stesso nome.
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Io penso che sia una cosa fantastica. Un modo perfetto di preservare appartenenza a un concetto accontentando anche il palato. Le uniche cose su cui i messicani sembrano essere tutti d'accordo sono salse e condimenti. Alcuni sono assolutamente obbligatori. Difficilmente troverete un taco senza cipolla e cilantro, a meno che non ne fate espressa richiesta. Anche le salse giocano un ruolo fondamentale nel taco. Non sono solo un complemento ma parte integrante. Salsa verde, salsa rossa e guacamole considerateli un must in tutto il paese; certo, anche queste in mille varianti. Di base c'è dentro peperoncino, pomodoro, spezie e aceto o succo di agrumi. Sia nella verde che nella rossa. Dire peperoncino in Messico non vuol dire nulla. Ne esistono davvero centinaia di varietà diverse, dai freschi, ai secchi, alle paste agli affumicati. Da quelli dolci a quelli così piccanti da trebbiare, arare e infine asfaltare la lingua anche in piccolissime quantità. La salsa rossa è sensibilmente più piccante di quella verde. Ma parleremo dopo della struttura della salsa. Adesso volevo focalizzare la vostra attenzione su un concetto preciso. Farne a meno vuol dire non sapere e non capire cos'è un taco. Ne sono consapevole, per molti italiani il cibo estremamente piccante non è tollerato. Non siamo abituati. Pensiamo che si perda il gusto del cibo. Questo è vero ma solo in parte. Si perde il gusto del cibo proprio perché noi non siamo abituati. E quasi non lo usiamo nella nostra dieta, figuriamoci anche solo immaginare di includere una salsa preparata con un’intera brocca di peperoncini.
Follia. Uno dei tanti peperoncini amati dai messicani è l'habanero. Non so se siete pratici. Molti sicuramente lo conoscono, la maggior parte credo di no. O se lo conoscono magari non l'hanno mai provato. Come si può descrivere? Immaginate di masticare un cavo attraversato dalla corrente e dovrebbe arrivarvi il senso di ciò che vi sto dicendo. L'habanero appartiene alla famiglia delle solanacee e alla specie Capsicum Chinense. Per capirci, il peperoncino di Caienna o quello lungo calabrese, sono capsicum annuum. I chinense hanno questa forma tondeggiante e arricciata. La differenza tra le specie è data anche dal contenuto di capsaicina, ovvero l'alcaloide responsabile del senso di piccantezza, che si misura in unità scoville. Per darvi un'idea, la salsa Tabasco, la classica, ha un valore di piccantezza di circa 30.000 unità scoville. L'habanero rosso arriva alle 350.000 unità scoville. La versione Red Savina dell'habanero, leggermente più piccolo e meno arricciato, è più incazzato che mai e supera le 800.000 unità scoville. L'ibrido più piccante, che non esiste in natura ma è stato creato in laboratorio, è il Carolina Reaper che raggiunge una disumana quota di 2.200.000 unità scoville. Ti si ustionano gli occhi se lo tieni aperto anche solo a 1cm di distanza. Questo per darvi un'idea di dove posizionare l'habanero. Il punto è che amare i tacos vuol dire prestarsi a delle cose che non conosciamo e cercare di capirle, sforzarsi di comprenderle. Dire da noi nessuno vende cilantro e allora ci metto il prezzemolo, beh, va bene, ma non stai mangiando un taco, non lo stai capendo. Stessa cosa per la salsa rossa o per l’habanero. E allora che si fa? Si fa come fanno i messicani con i loro bambini.
Occhio che questa è carina.
Bravi. Sono tutti alcaloidi. Compreso l'ultimo che, come detto, è l'alcaloide responsabile della piccantezza. Ed è esattamente così: la capsaicina crea dipendenza alla stessa stregua del tabacco. È una dipendenza blanda, ovviamente. Questo perché quando la mangiamo, in bocca si attiva un particolare recettore del dolore che viene attivato solo quando la temperatura del cibo è troppo alta. E suggerisce al cervello che ci stiamo scottando. Qui è la stessa cosa. Ma l'attivazione del recettore avviene per via chimica, tecnicamente chemestesica. Il punto è che il dolore genera adrenalina immediata e subito dopo endorfine. Ecco perché ci si sente benissimo dopo essersi "scottati" con i cibi piccanti. Ed ecco perché, sia ometti che femminucce, dopo una sbronza di capsaicina, migliorano le loro performance orizzontali. Quindi il segreto è tutto qui: 1. Non avere paura o timore di questi peperoncini super piccanti. 2. Iniziare ad includerli partendo da poche gocce. Dico sul serio. Il profumo dell'habanero è irresistibile. Non pensate che sia un comune peperoncino. Nient'affatto. Ha un gusto fruttato e agrumato allucinante. Potrei stare ore a sniffarlo. Anche le stesse polveri. Iniziare ad usarlo a piccole dosi vi permetterà di abituarvi a sentire tutte le sfumature di sapore oltre al piccante. Alzerà la vostra soglia di tolleranza permettendovi, piano piano, di aumentare la dose senza perdere in gusto. Insomma, ad ognuno il proprio "frizzichino" che piace e non invade. Ma che ci sia però. E vi garantisco che un po' alla volta, goccia dopo goccia, anche voi arriverete a mettere la salsa rossa di habanero, a cucchiaiate, sui vostri tacos. Il primo che commenta "ma a me non piace il piccante perché copre il gusto e sento solo il fuoco" vince un mese di vacanza su una crociera per vegani.
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Mi spiego meglio. Non pensate che il messicano medio sia tanto masochista da ustionarsi la bocca senza motivo. Il punto è che lui ha una soglia di tolleranza al piccante molto più alta della nostra. Perché, notiziona della madonna, è possibile sviluppare l'abitudine al peperoncino, perché il peperoncino crea dipendenza.
Avete presente tutte quelle sostanze che finiscono per -ina e che creano dipendenza? No? • Coca-ina • Morf-ina • Ero-ina • Anfetam-ina • Efed-rina • Capsaic-ina
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La ricetta della
SALSA ROJA
Ho scritta "la ricetta" ma vorrei che capiste che è una delle possibili ricette. A costo di dirvelo fino allo sfinimento, i messicani non funzionano come noi. Non esiste "la ricetta originale" per loro. Esiste "la mia ricetta che è migliore di qualunque altra". Spero che prima o poi possiate entrare in questa ottica. Anche per un messicano, fare una salsa di soli habanero è decisamente troppo. La salsa rossa contiene, in moltissime delle versioni che potrete incontrare, una buona quantità di pomodoro rosso maturo. I nostri San Marzano sarebbero l'ideale ma scegliete qualsiasi pomodoro carnoso e ben maturo. INGREDIENTI • 1 kg di pomodori (tipo S.Marzano) • 1 kg di peperoncini habanero • 2 spicchi di aglio in camicia • 1 cipolla • 1 cucchiaino di aceto di vino rosso • Olio extravergine di oliva q.b. • Sale q.b. • Cilantro q.b.
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Si parte con il tostare sia gli habanero che i pomodori sulla plancha. Va bene anche una padella. L'importante è che li tostiate a secco perché dobbiamo bruciacchiarli.In parti uguali in peso. Tanto peperoncino quanto pomodoro. Se avete gli habanero secchi, tostateli lo stesso e poi rinveniteli in acqua bollente. Stessa cosa se avete la polvere. Tostare, lasciare in acqua bollente.
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Tostate anche i due spicchi d'aglio, in camicia, sempre per abbrustolire. A questo punto siete quasi pronti. Prendete una cipolla e tagliatela a cubetti piccolissimi. Fatela ammalvire in una padella con un po' di olio. Non tantissimo, a fuoco basso, finché non diventa trasparente.
Nel frattempo, aprite gli habanero e togliete i semi. Risparmierete un po' di piccantezza. Tritate tutto nel mixer: pomodori, habanero, aglio e un pizzico di sale. Se serve aggiungete un goccio d'acqua bollente fino ad ottenere una consistenza semi-liquida. Mettete il trito nella padella con la cipolla stufata, aggiungete un cucchiaino di aceto di vino rosso, fate amalgamare per un minuto e la salsa è pronta. Vi raccomando di non togliere la pelle ai pomodori, perché daranno quel gusto di affumicato tipico di molte salse messicane. Mettete in un barattolo, fate raffreddare e, se volete, aggiungete un po' di cilantro tritato per dare freschezza e poi mettete in frigo. Non temete, si conserverà a lungo perché il peperoncino non si lascia aggredire facilmente dai batteri. Usatela a gocce. Non a cucchiaiate. Sentirete quella tipica violenza dell'habanero ma anche tutto il suo gusto fruttato e agrumato, assolutamente delizioso. Usate gli habanero che avete. Occhio con i chocolate: quando li tostate, è difficile distinguere il momento in cui li avrete fulminati con il calore. Iniziate ad usare la salsa roja dappertutto. Ovunque ci sia carne, qualche goccina ci sta benissimo. Vedrete che con il tempo inizierete, piano piano, a usarne sempre di più.
La ricetta della
SALSA VERDE Assieme alla rossa, è un’altra salsa irrinunciabile quando si parla di tacos. Quando leggete salsa verde dovete leggere acidità. E noi sappiamo bene quanto sia importante l’acidità nei piatti a base di carne grassa. È sensibilmente meno piccante della salsa rossa ma contiene comunque peperoncino. Mi tocca rimarcare l’ovvio ma è importante: Non esiste LA ricetta della salsa verde ma esistono un miliardo di variazioni che, di fatto, rende impossibile trovarne due uguali. Solitamente si usano peperoncini Serrano, ma anche lo jalapeño è molto comune. Rigorosamente raccolti verdi, non ancora al pieno della loro piccantezza ma con quella freschezza di peperone deliziosa. La base della salsa non è il pomodoro verde, anche se può essere un degnissimo sostituto qui in Italia, ma il tomatillo. Appartiene sempre alla famiglia delle solanacee ed è più simile all’alchechengi, il fruttino giallo esotico. È una sorta di pomodoro racchiuso in una foglia, acido a bestia.
plancia, come per la rossa. Poi si mette tutto nel frullatore e si crea la salsa aggiungendo un po’ d’acqua per aggiustare la consistenza. Nella versione cruda si trita tutto da crudo ed eventualmente si aggiunge acqua bollente per aggiustare la consistenza. Non so dirvi quale sia più buona, hanno consistenze diverse e sapori differenti. Visivamente è più bella quella cruda ma è, appunto, solo questione visiva. Come vi avevo annunciato, lo scopo di questa salsa è dare freschezza. E un taco non è un taco se da qualche parte nei paraggi non c’è la salsa verde. Mangiata da sola può sembrare un po’ blanda, ma unita ad un pezzo di carne con un po’ di grasso crea una sinfonia bestiale di goduria gastronomica. Ne esiste una versione che prevede anche l’aggiunta di un avocado, parliamo della terza e ultima ricetta della santissima trinità delle salse per tacos.
Non è raro trovare sia la versione cruda che cotta della salsa verde. Son due sapori diversi e due colori diversi. Quella cotta ha un tono un po’ più spento e un’acidità più mitigata. Quella cruda è di un verde brillante e molto più acida e piccante. INGREDIENTI • 600 g di tomatillo (o pomodoro verde) • 4 Peperoncini serrano (o jalapeño) • 1 cipolla bianca • 4 spicchi di aglio • Cilantro q.b. • Sale q.b.
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Gli ingredienti per la salsa sono pochissimi: Tomatillo (o pomodoro verde), peperoncino serrano (o jalapeño) cipolla, aglio, cilantro, sale. Nella versione cotta si mettono tomatillo e serrano a bollire in acqua oppure a tostare sulla
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SALSA TAQUERA DE AGUACATE E no, non è il guacamole. Un’altra immancabile salsa per i tacos è la salsa di avocado. C’è tanta controversia su questa salsa, anche fra i messicani. C’è chi si scommette la madre affermando che questa salsa è di fatto guacamole. C’è chi invece lotta per dimostrare che sono due cose diverse. C’è anche chi la fa, ma senza avocado. Insomma, un bel casino. La realtà dei fatti è che a seconda delle regioni in cui ti trovi salsa guacamole e salsa de aguacate non sono la stessa cosa. La verità è che le due varianti esistono e hanno una struttura e un sapore diverso. Il guacamole spesso contiene anche del pomodoro a cubetti, è più solida e si ottiene schiacciando gli avocado maturi nel mortaio. Accompagna quasi sempre le tortilla chips ed è più un dip che una salsa. Ovviamente è ottima anche per accompagnare i tacos. La salsa de aguacate è più liquida. È piccante, perché contiene spesso peperoncino jalapeno o serrano verde, ed è il tocco perfetto di acidità, pungenza e untuosità, ideale per accompagnare i tacos di carne che, notoriamente, contengono una grande quantità di grasso di cottura.
INGREDIENTI • 6 Tomatillo maturi • 4 peperoncini serrano • 12 mazzetti di cilantro • 1 cipolla bianca • 1 spicchio d’aglio • 1 Avocado maturo • Il succo di 1 lime • Acqua q.b. • Sale q.b. È molto diffusa nelle regioni centrali del Messico, quasi sempre la trovate nelle taquerie che servono i leggendario Tacos al Pastor, che ricorda un po’ il Kebab (ma poco). Personalmente adoro entrambe le versioni ma devo dire che per i tacos di carnitas, barbacoa e ovviamente al Pastor, questa salsa, più qualche goccia della rossa, è un must irrinunciabile. Provate a rifarla e cercate il vostro equilibrio sul piccante. È perfetta, tra l’altro, per il pulled pork o per un tacos di Pepper stout. Il mio consiglio personalissimo è di usarla con un taco di fegato e cipolle. Vi spacca davvero la faccia.
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Abbiamo già ampiamente discusso della ricetta del Guacamole. Ne abbiamo anche fatta una versione scientifica, il GianfraMole, che trovate nel BBQ4All Magazine di Agosto 2021.
La salsa de aguacate si fa con il tomatillo, il quasi pomodoro verde che abbiamo visto per la salsa verde, peperoncino, un po’ di cipolla, aglio, sale, cilantro, lime e chiaramente avocado. Si frulla nel mixer ed eventualmente si aggiusta per renderla un po’ più liquida e vellutata, a differenza del guacamole che ha struttura disomogenea, solida e grossolana.
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LA TORTILLA
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Per fare il Taco ci vuole la Tortilla. Per fare la tortilla ci vuole il Nixtamal. Per fare il Nixtamal ci vuole il mais.
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Lingua affascinante il nahuatl, l’antichissimo idioma parlato dagli aztechi. Per qualche motivo un po’ lungo da spiegare, alcune parole azteche sono ancora oggi nei vocabolari di molte altre lingue. Pochi sanno, per esempio, che la parola “cioccolato” deriva proprio dal nahuatl “xocolatl”. Esatto, in questa lingua la “x” si pronuncia come una “sh”. Nixtamal quindi si legge “Nishtamàl”.
La nixtamalizzazione è quel processo a cui viene sottoposto il mais. Una bollitura in una soluzione di calce che rende più facile la rimozione del pericarpo, l’involucro esterno, e rende il mais estremamente più digeribile, potenziandone le proprietà nutritive, producendo molti aminoacidi pregiati e proteine e riducendo i fitati. Nixtamal è quindi la pasta base per produrre una buona tortilla. La tortilla è un affare complicato, molto complicato
da spiegare. Lasciatemelo dire, alcune di quelle già pronte sono più che dignitose. Non è semplice farsi il nixtamal in casa, quindi molto spesso si usa la “masa harina” o “maseca”, la farina di mais già nixtamalizzata da impastare. Farsele da soli è un altro sport ovviamente. Se riuscite a trovare del mais come si deve potete tentare la nixtamalizzazione con l’idrossido di calcio, ma è una cosa che magari vi conviene imparare facendo un giretto didattico in Messico. Considerate un concetto importante: la tortilla non è una cosa banale. Può fare una grande differenza nella preparazione del taco. Ad onor del vero, in molte regioni si usano anche quelle di grano, ma il mais resta alla base di tutto. In Mesoamerica il cereale più antico è il granturco, utilizzato già dai Maya per le masa, e proprio dal 700 a.C. si iniziarono a produrre tortillas, così battezzate dai coloni spagnoli del XVI secolo. Solo 400 anni dopo, questi frisbee dorati sarebbero diventati un elemento importantissimo della cucina di quel territorio. Nel Nuovo Mondo gli spagnoli piantarono campi enormi di frumento e cominciarono ad allevare il bestiame, una novità che avrebbe portato successivamente alla nascita di un sacco di piatti tipici. È quindi scontato affermare che le tortillas a base di farina nacquero nel XVI secolo, e furono per ovvie ragioni consumate esclusivamente dai coloni europei fino al XIX secolo, quando poi furono adottate anche dalle comunità del Messico settentrionale. Preparare una tortilla è semplice, ma non tutti gli ingredienti necessari sono facilmente reperibili.
Ingredienti Per le tortillas di mais • 1 kg di masa harina • 1,2 kg di acqua • 30 g di sale Per le tortillas di farina di grano • 1 kg di farina 0 o 00 200-220W • 500 g di acqua • 50 g di sale Il procedimento è sempre lo stesso: mescolate l’acqua e 50 g di sale per ogni kg di farina, fino ad ottenere una consistenza liscia ed uniforme. Dividete l’impasto in parti uguali, dai 50 ai 100 g a panetto, secondo le esigenze, e lasciate riposare dai 20 minuti alle 2 ore coprendo con la pellicola; questo periodo di riposo renderà decisamente più facile l’operazione di stesura delle palline. Importante: utilizzate meno farina possibile nella stesura, o vi ritroverete a masticare polvere bianca bruciacchiata. Un trucchetto, se non si dispone della pressa specifica per schiacciare le palline, consiste nello stendere ogni disco con il mattarello mettendolo tra due strati di carta da forno, fino ad ottenere uno spessore di 2-3 millimetri. Le tortilla vanno quindi cotte su una piastra rovente, 3-4 minuti per lato, e conservate in un panno da cucina perché non si secchino. Il consiglio è quello di consumarle in fretta, non si conservano per molto. Nella cultura messicana questo pane basso viene farcito o servito in un sacco di modi, ognuno con il suo nome specifico. La tortilla viene abbrustolita sul fuoco (in casa potete appoggiarla su un fornello da cucina) e poi chiusa a mezzaluna su un mattarello in modo che, una volta freddatosi, prenda la forma di una conca, un guscio, utile ad accogliere il godurioso condimento
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L’originale messicana prevede, come vi ho detto prima, l’utilizzo della masa harina, la farina di mais bianco, che viene sottoposta ad un trattamento speciale: i chicchi vengono essiccati, cotti e messi in ammollo con acqua e ossido di calcio, in modo da far avvenire la decorticazione prima della macinazione e del successivo confezionamento. Questo processo rende disponibile all’assorbimento digestivo le vitamine PP e B, altrimenti non pronte per essere assimilate. Si tratta di una farina completamente diversa da quella classica di mais giallo, che non va per niente bene per essere impastata. In alternativa è possibile utilizzare della farina di grano tenero di tipo 00 o 0 e forza tra i 200 e i 220 W, con la quale si ottengono delle tortilla di grano.
È ovviamente da precisare che gusto e consistenza cambiano terribilmente in base alla materia prima utilizzata. Non dimentichiamoci mai che la farina di mais regala un gusto più marcato, dalle tipiche note tostate, e una croccantezza leggermente superiore, mentre la farina bianca restituisce un sapore più leggero, neutro ed equilibrato. Il grano tenero, peraltro, non è in grado di assorbire la stessa percentuale di acqua: mentre con il mais bianco viene utilizzata 1.2 kg di acqua per kg di farina, con il frumento la dose scende a 500g su kg.
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TACOS
ad ogni regione la sua versione
la marinatura della carne
I Tacos de Asador vengono preparati con carne alla griglia, che può essere di manzo, pollo, chorizo o tripita (trippa o stomaco); la salsa abbinata è in genere la guacamole, tipica soprattutto con le interiora per smorzarne il sapore.
La marinatura è un’emulsione composta da una sostanza acida (limone, aceto vino ecc), una sostanza grassa (burro, olio ecc), spezie, aromi e da una piccola percentuale di sostanze leganti o stabilizzanti (maionese, senape, lecitina di soia). Il rapporto tra la sostanza grassa e acida deve essere di 1:2 o 1:3. Per legare le due sostanze è necessario fare un’emulsione sbattendo il tutto con una frusta. Per evitare la separazione dei due elementi, nel composto è presente un piccola percentuale di stabilizzante che ha il compito di tenere unite la parte acida e grassa.
Nei Tacos de Cazo la carne viene cotta a fuoco molto basso e per un lungo tempo, fino a raggiungere una consistenza morbidissima, per poi compiere un passaggio sul comal (la piastra in ceramica) in modo da rendere l’esterno croccante e saporito; il ripieno più popolare è costituito dalla carnitas (spalla, trippa e gola), ma è possibile trovare una versione con la punta di petto di manzo. Interessantissima è la preparazione della carne di pecora o di capra per i Tacos de Cazuela, cotta secondo la tecnica del barbacoa (cottura di origine caraibica dalla quale deriva anche il moderno barbecue): la carne (un misto di testa e altre parti del muso, stufato di cervella o la guancia) viene avvolta in foglie d’agave e cotta in un forno aperto ricavato da una buca del terreno. I Tacos al Pastor (anche detti Tacos de Adobada) sono tortillas ripiene di carne di maiale conservata attraverso l’adobo, una marinatura a base di aglio, origano, paprika e aceto, che viene cotta in maniera similare al gyros greco, ovvero sminuzzata e compattata in lunghi arrosti cotti verticalmente. Questi tacos vengono spesso accompagnati da ananas, cipolle e pomodori. I Tacos al Carbòn sono tipici dello stato di Sonora, vengono riempiti da carne di manzo grigliata, dal tipico aroma di brace dato dalla carbonella; sono accompagnati da cipolle verdi piastrate, cetrioli e ravanelli. I Tacos de Canasta sono praticamente impossibili da trovare fuori dal territorio messicano; vengono farciti con chorizo, patate, cotenna di maiale e fagioli.
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Non mancano ovviamente i tacos di pesce, originari della penisola di Baja, diffusi ormai in tutta la bassa California; il pesce può essere fritto o alla griglia, accompagnato da julienne di cavolo verde e una salsa a base di panna acida, chipotle e lime.
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TACOS
Una gustosissima variante è costituita dai tacos di gamberi, che possono essere fritti o alla griglia.
Marinare i cibi, in passato, aveva lo scopo di mantenere e al tempo stesso rendere anche più gradevoli gli alimenti deperibili. Questa tecnica ha ovviamente perso un po’ della sua utilità con l’avvento del frigorifero e dei sistemi di refrigerazione in generale. L’effetto della miscela acida e aromatica ha lo scopo di migliorare le caratteristiche organolettiche di base degli alimenti, aromatizzando il prodotto e contestualmente modificandone la consistenza superficiale. Una marinatura modifica strutturalmente gli alimenti tramite una vera e propria aggressione chimica, che deve essere accuratamente calibrata e controllata attraverso il pH.
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FOCUS: MARINATA #01. Ingredienti e I loro effetti Ingrediente
Effetto
Esempio
Aromi
Aggiungono sapore
Aromi freschi, come cipolle o aglio, erbe, spezie essiccate, salse
Acidi
Ammorbidiscono il tessuto connettivo
Aceti, succhi di agrumi e vino
Migliorano la doratura superficiale e propaga gli aromi solubili in olio in modo più uniforme
Olio di oliva, olio di semi, ecc
Insaporisce e scompone le proteine dei muscoli per migliorare la ritenzione dei succhi.
Sale solido e salse salate come la salsa di soia o di pesce (colatura di alici)
Scompone enzimaticamente le proteine per renderle più tenere
Succo di papaya o di ananas, salsa di soia
Migliora la doratura e bilancia il sapore
Zucchero di canna o bianco e sciroppi come lo sciroppo d'acero o il miele
Oli
Sale
Proteasi
Zucchero
#02. I tagli ideali Hanger steak - lombatello Taglio grande e “manzoso”, con una bella consistenza grossolana e fibrosa, l’ideale per far penetrare le marinate. Flank steak - bavetta Facile da cuocere e da affettare grazie alla sua forma larga e piatta
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Tri-tip - spinacino Molto economico e ben infiltrato di grasso. Con un rapporto superficie/volume così basso, il sapore della marinata risulta però poco accennato.
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Short ribs - biancostato Sapore di manzo esplosivo e grasso che si scioglie in bocca. L'unico problema è che le costolette richiedono un taglio molto sottile e una lavorazione più accurata.
Flap meat - bavetta grande Ampia e ruvida, fatta apposta per assorbire e far aderire le marinate. È relativamente magra, ma la sua succosità e il suo grande sapore compensano il tutto. Skirt steak - diaframma Sapore più ricco e burroso, un ottimo rapporto superficie/volume che massimizza il sapore della marinata, e un sacco di bordi sottili e facili da rendere croccanti. Se cotta correttamente, ha una consistenza che si scioglie in bocca. Chuck roll steak - bistecca di reale Un taglio meno nobile, ma certamente più gustoso. Una volta ripulito da cartilagini e tessuto connettivo, è perfetto per stare in ammollo per almeno 1-2 ore.
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TACOS: la ricetta scientifica Dose per 6 persone
6 tortilla 500 gr di chuck roll già trimmato (ripulito)* 3 cucchiai di Marinata Red Flesh Crash 1 bicchiere di vino rosso 1 cucchiaino di Smoky Chipotle Chili Rub Sale q.b. Per il guacamole 3 avocado maturi 1/2 cipolla rossa piccola tagliata a cubetti 2 pomodori da insalata tagliati a cubetti 3 cucchiai di cilantro tritato 1 peperoncino jalapeño tritato (opzionale) 1 spicchio d’aglio tritato finemente Il succo di 1 lime 1/2 cucchiaino di sale Per il Pico de Gallo** 125 gr di pomodorini gialli 125 gr di pomodori cuori di bue 80 gr di cipolla rossa 1 jalapeño Il succo di 2 lime Sale q.b. Olio extravergine q.b. Per la salsa agria (panna acida) 200 ml di yogurt bianco con minimo 20%di grassi 10 ml di succo di limone 1 pizzico di sale Per il servizio Coriandolo fresco q.b. Succo di lime q.b.
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* sostituibile con hanger steak, flank steak, tri tip, flap meat, skirt steak ** Potete sostituire i pomodorini gialli con 125 grammi di ananas fresco a cubetti
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PROCEDIMENTO Ripulite il taglio dal tessuto connettivo e dalle membrane, tagliate in piccoli pezzi e pesate. Trasferite la carne in un recipiente dai bordi alti e aggiungete la marinata Red Flesh Crash, il vino, il rub Smoky Chipotle Chili e il sale. Coprite con pellicola e lasciate riposare in frigo per 1-2 ore. Intanto dedicatevi alla preparazione del pico de gallo. Tagliate tutti gli ingredienti in cubetti molto piccoli e condite con l’olio, il succo del lime e il sale. Mettete da parte in frigorifero. Per preparare la salsa agria, unite lo yogurt cremoso (senza zucchero) con il succo di limone e il sale, e lasciate riposare in frigorifero per un’oretta circa. Dovrà risultare densa e cremosa. Per preparare il guacamole invece, vi basterà schiacciare gli avocado e unirli agli altri ingredienti. Potete scegliere se fare una purea o lasciarli a pezzettoni, pestandoli al mortaio o con una forchetta. State cercando una tecnica per non far annerire questi magnifici frutti? Metteteli sottovuoto, rimarranno intatti. Trascorse le due ore, scaldate un wok o una piastra e saltate la carne scolata dalla marinatura, fino a renderla dorata. Non esagerate con la cottura, i pezzi sono piccoli e vi occorreranno pochi minuti. IL SERVIZIO Prendete una padella e scaldate le tortillas fino a renderle flessibili e morbide, ricopritele poi con un canovaccio umido per evitare che si induriscano. Mettete un cucchiaio di carne in ogni tortilla, seguito da un cucchiaio di pico de gallo e un cucchiaio di guacamole o salsa agria. Finite con un po' di coriandolo e una spruzzata di succo di lime.
Gianfranco Lo Cascio
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E dopo tutto questo cucinare, volete sapere qual è il segreto di una dieta bilanciata? Un taco nella mano destra e uno nella sinistra, ovvio!
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Rimandare sempre le riunioni con gli idioti perditempo. Seguo.
a cura di Emiliano Nencioni
Viste le recenti nuove necessità di smart working e il proliferare incontrastato di video call e didattica a distanza, questo potrebbe sembrare l’ennesimo consiglio non richiesto, supponente e arrogantello. Invece no, è il titolo di un libro. Quante volte negli ultimi due sanitariamente nefasti anni avete pensato “questa call poteva essere benissimo una mail”? Quante volte adducendo provvidenziali degradamenti nella qualità della connessione avete interrotto audio e video in uscita e vi siete dedicati all’appuntamento mattutino con la fisiologia umana e alla cura del vostro corpo, ascoltando distrattamente gli altri partecipanti dibattere e barcamenarsi con ripetuti “scusa, se condividi lo schermo ti salta la voce”, e sottolineando con epiteti irripetibili e fanciulleschi gne gne gne i motteggi dell’aiuto-sotto-vice-assistente manager intento a scalare la catena alimentare aziendale? Quante volte ohimè avete distrattamente riattivato il video in uscita, ma fortunatamente la telecamera inquadrava solo il rotolo di carta igienica, e quante volte avete esposto opinioni inconfessabili sulla chat “con tutti” pensando di sfogarvi col vostro collega complice e parimenti ribelle?
Scott Adams (e qui ho aperto Wikipedia, ma solo per un veloce ripasso, non troverete mai copia e incolla selvaggi qui sulle ultime due pagine della rivista) è un fumettista americano, ex impiegato, ex programmatore, ex analizzatore di budget, ex manager aziendale, filosofo (circa) e ipnotista; noto principalmente per le strisce comiche di Dilbert, vendute e pubblicate in mezzo mondo, dove in maniera assolutamente esilarante e amara si fa una regolare satira sui più comuni ambienti aziendali e si demolisce ogni dignità di qualunque corporazione basata sull’Information Technology.
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Sono tutte domande retoriche. Non mi aspetto che mi rispondiate sulla community con post tipo “Sedici” o altri numeri interi. Sarebbe tra l’altro la prima volta, pigri. Era per dire che, in questo periodo special-
mente, la cosa sarebbe altamente condivisibile, banalmente frequente, relatable per dirla con la solita efficacia della lingua inglese. Essere platealmente relatable è - a mio personalissimo avviso - la caratteristica più lampante e sicuramente vincente di Scott Adams, il protagonista di questa rubrica Seguo di settembre. Un settembre che voi leggerete a settembre nella comodità di un certo frescuccello ma che l’autore ha scritto a fine agosto, fatto da tenere presente per svariate implicazioni.
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Guadagnando dapprima un grande seguito presso la comunità dei programmatori, impiegati nelle telecomunicazioni, nerd e geek vari, Dilbert si è fatto molto velocemente conoscere da qualsiasi impiegato, sottoposto, lavoratore a vario titolo demansionato nell’ambito dell’informatica fino a diventare negli ultimi anni 90 un vero fenomeno di costume. Riconoscersi nell’esausto e socialmente zoppicante Dilbert risultava molto facile, e fin troppo facile trovare paralleli lavorativi con l’incapace Pointy Haired Boss o con l’illuminato ma cinico Dogbert. Fin troppo facile, appunto. Come se lo facesse apposta. Ma ritorneremo su questo più avanti. La consacrazione del fumetto di Adams a vero fenomeno mediatico è avvenuta con la formulazione del Principio di Dilbert, affermazione geniale, accattivante e sicuramente un po’ ruffiana secondo la quale in una qualsiasi organizzazione gerarchica le persone sono promosse, sollevandole dal loro ruolo per porle in una posizione superiore, via via sempre più in alto fino a raggiungere il loro livello di incapacità assoluta. Livello nel quale inesorabilmente rimarranno, impestando di incompetenza il lato di micro-management ma fortunatamente salvaguardando la catena produttiva.
“La leadership è il modo che la natura ha di rimuovere gli stupidi dal processo produttivo” Dogbert, 1995 La stessa cosa, indubbiamente, capita nelle gerarchie delle grigliate. La grigliata è un ambiente competitivo; come in ogni sistema che si rispetti, gli esemplari meno estroversi hanno bisogno che un componente atto al comando prenda le redini del tutto, in un survival of the fittest da manuale. L’appassionato di cottura su fiamma partirà prima come il prediletto per la grigliata brutta, quella bruciacchiata e fatta come viene, per poi essere investito della carica di “quello bravo a fare le bistecche”. Inevitabile sarà la successiva promozione a Grill Master, spesso autoproclamata vista la non padronanza del termine presso gli altri invitati al banchetto, corredata di immancabile “sì sì bravo, chiamaci quando è cotta” e risatine. Da qui all’olimpo del Pit Master il passo è breve, anche perché l’appassionato si sarà liberato dalle sue primitive vestigia di bucasalsiccie e con esse anche di tutti i precedenti commensali, finendo per frequentare solo altri impallinati di pari livello, con i quali potrà sfoggiare gergo e termini tecnici quali foil, carry over, butcher paper, senza rischiare offensive e per lo più oscene rime canzonatorie.
L’appassionato verrà poi promosso capo gruppo (vuoi che non si siano fatti un gruppetto su un social ormai in via di demolizione?), gran visir degli allegati “inoltrati molte volte” su WhatsApp, successivamente Team Leader di un piccola congregazione senza scopo di lucro (principalmente perché la rimessa è certa) dotata di furgoncino, smoker sovradimensionati e tanta voglia di fare piazzamenti importanti alle gare di barbecue. Già come team leader il nostro appassionato scricchiola, e dall’esterno si possono intravedere le prime crepe (intendo crepe, non crêpe) nella glassatura di inadeguatezza, ma ormai l’inarrestabile ascesa verso la totale incapacità è lanciata verso il suo traguardo di amarezza e possibili querele. È a questo punto che si compie l’irreparabile: trasformarsi in servizio di catering. “Siamo bravi, siamo fortissimi, tutti ci acclamano, elargiamo i nostri servigi a caro prezzo in occasioni mondane di elevata importanza”. (matrimoni e cresime principalmente) La quantità di danni alle persone, al patrimonio e alla pubblica decenza che si possono fare improvvisandosi servizio di catering a un matrimonio è sorprendente. Mi limiterò a solo tre esempi, che potrebbero essere o non essere successi realmente. • Litigare senza quartiere con lo sposo, ingaggiando uno scontro verbale su chi realizzi il migliore pulled pork • Portare esattamente n piatti quando n è il numero degli invitati (nonostante le 5 portate) • Bere per combattere l’ansia e finire disfatti e impresentabili a metà cena, additati come pessimo esempio anche dall’immancabile zio ubriaco che si diverte a tagliare le cravatte.
Scott Adams, dicevamo. Estremamente relatable nella sua produzione. Il principio di Dilbert lo ha fatto conoscere a tutti. Principio di Dilbert che, però, è pericolosamente simile al Principio di Peter, tesi paradossale formulata nel 1969 dallo psicologo Laurence Peter. Il principio di Peter afferma che in una organizzazione un impiegato sarà promosso sempre più in alto fino alla propria soglia di incapacità; derivazioni satiriche e aggiunte comiche a parte, le due tesi differiscono di molto poco. Plagio? Chi può dirlo. Sicuramente Adams, studiando per diventare ipnotista, avrà incontrato tra le sue letture il libro di Peter. Altra cosa molto sicura è che Adams è bravissimo a far ridere, ed è bravissimo a trovare materiale con cui far sicuramente ridere le persone. Almeno fino al citato “Rimandare sempre le riunioni con gli idioti perditempo”, per quanto mi riguarda.
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Nel frattempo, nel mondo reale, le originarie grigliate domenicali col vicinato, dopo la defezione di “quello bravo”, sono tornate alla grigliata brutta: nessuno armeggia con ter-
mometri e rub, tutti si accontentano della rosticciana clamorosamente bruciata, nessuno disserta di temperature target, e il divertimento e la convivialità sono tornati. Anche questo è un sistema che, in un tempo sufficientemente lungo, tende all’autoconservazione. Come le erbacce che si ripresero mezza carreggiata nelle strade deserte nella Prima Pandemia.
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Settembre 2022
Poi da fumettista prodigio si è evoluto in fenomeno di massa, in imbonitore di folle, in opinionista, in consulente, in imprenditore, e qualcosa ha iniziato a scricchiolare. Ha creato Adams Food e ha lanciato lo snack Dilberito, un flop vegetariano. Ha messo su un ristorante vegano, un disastro. Non si è perso d’animo però, e ha scritto “Come fallire in praticamente tutto e cavarsela alla grande” (How to fail at almost everything and still win big), ricavandone l’ennesimo profitto.
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Rimandare sempre le riunioni con gli idioti perditempo è come accennavo l’ultimo suo libro che ho trovato divertente, accurato, geniale, relatable. Qualcosa si è incrinato quando il suo lato da consulente - celebrità - miracolato businessman ha preso il sopravvento, e ha iniziato a pubblicare libri di auto aiuto dove afferma con totale sicurezza che scrivendo quindici volte su un pezzo di carta un desiderio appena svegli, prima o poi il desiderio si avvererà in qualche misura. Non sto facendo ironia, ha scritto questo. C’era qualcosa di strano nel suo modo di scrivere, che nei primi anni 2000 non riuscivo a comprende-
re: vent’anni dopo ci ho ripensato e mi si è chiarito tutto. Adams aveva sempre scritto in copy. Ogni striscia sui quotidiani era una sales letter per un libro in pubblicazione, ogni tema trattato era qualcosa di estremamente condivisibile, relatable, per far identificare ogni impiegato e ogni informatico in Dilbert; non c’era amministratore delegato che non potesse essere identificato in Pointy Haired Boss, e tutto diventava una grande gratificazione del lettore. Adams era sicuramente un eccellente venditore di se stesso: è riuscito a salire fino a fenomeno letterario, a far raccomandare i propri testi in diverse università americane, fino ad arrivare inevitabilmente alla propria soglia di incapacità. Ci ha provato, a fare l’ipnotista a distanza, ma non era più il ghepardo di una volta. Ha fatalmente e ironicamente verificato il Principio di Dilbert. O il Principio di Peter, diciamo la verità.
Emiliano Nencioni
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