BBQ4All Magazine - numero 14 - Febbraio 2020

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N°14/ANNO 2 - FEBBRAIO 2020

MAGAZINE

L'EDITORIALE DI GIANFRANCO LO CASCIO

perché ho smesso di

trimmare il

brisket LE INTERVISTE

MOI L'UNICO RISTORANTE giapponese omakase IN ITALIA

il giappone SPECIALE CUCINA ORIENTALE

DAL WAGYU AL SUSHI DAL RAMEN AL TEMPURA

LA RICETTA SCIENTIFICA

il katsu sando



D I R E T TO R E E D I TO R I A LE

Rossella Neiadin

R E D AT T O R E C A P O

Michela Bongiorni REDAZIONE

Enio Berton, Giovanni Bolzonella Virgilio Brunetti, Michele Chipa, Roberto Dal Bosco, Tommaso Di Gregorio, Salvatore Di Mento, Luca Gallozza, Mariangela Ibba, Gianfranco Lo Cascio, Riccardo Meniconi, Emiliano Nencioni, Andrea Spaggiari, Alessandro Trezzi, Carlo Trono. REALIZZAZIONE GRAFICA

Carlo Trono S TA M PA

Graphic Master s.r.l. - Perugia magazine@bbq4all.it instagram.com/bbq4allmagazine/

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EDITORIALE di GIANFRANCO LO CASCIO

perché ho smesso di

TRIMMARE il

BRISKET O l’arte di fregarsene dello smoke ring

Divenire è più che vivere e quello che non scorre è morto. Se fossi rimasto l’uomo di qualche anno fa ci avrei lasciato la pelle trimmando brisket. Metaforicamente parlando s’intende. Per i lettori che non conoscono questa preparazione, il brisket è in assoluto il piatto più complesso fra i classici dell’American Barbecue: punta di petto di manzo strofinata con sale, pepe e aglio e cotta a lungo, a bassa temperatura, accarezzata da un afflato di fumo di legna. Ed è pure protagonista indiscusso delle gare di barbecue KCBS (Kansas City Barbecue Society), il circuito di competizioni in cui ci si sfida anche a colpi di ribs, pulled pork e chicken. La punta di petto è sicuramente la preparazione più tosta e insidiosa da sottoporre a un giudice. Se si osserva uno score qualsiasi di una qualunque competizione KCBS, i team che finiscono tra i primi 10 in classifica sono quasi sempre gli stessi. Il brisket è intimidatorio, in assoluto il pezzo di carne più grande e duro che si possa cuocere, e le variabili che ne determinano la cottura perfetta sono di gran lunga in numero maggiore rispetto a quelle delle altre categorie. Ma cosa si intende per brisket da manuale? Una scossa di sapori che solo il manzo può regalare. Manzo che in questo caso deve essere tenero, succoso, incredibilmente saporito e con una gradevole, ma non predominante, nota affumicata. Per centrare questo obiettivo è necessario individuare il Flavour Profile, ovvero il quadro gustativo entro i cui confini dobbiamo far ricadere le caratteristiche del pezzo di carne, una sorta di principio di coerenza da rispettare.

Gli step canonici per preparare il brisket sono: 1. Trimming - Un’operazione che consiste nel ripulire la carne dal grasso superficiale in eccesso e da eventuali brandelli. 2. Injection - Si inocula ripetutamente un liquido (nel caso specifico un ottimo brodo di manzo) all’interno della carne con una siringa alimentare: dovete ricreare un reticolo, distanziando di 3 o 4 cm ogni punto d’ inserimento. 3. Rubbing - Si cosparge la carne con una miscela di spezie, la cui base è sempre il sale. Per il brisket in stile texano il rub è un esaltatore naturale del manzo e non contiene spezie che possano alterare il suo gusto naturale. Si distribuisce sulla superficie del pezzo in maniera omogenea, dopo la fase di injection. 4. Setup del dispositivo e cottura a bassa temperatura, fino al raggiungimento dei fatidici 93-95°C al cuore. Quando ho concepito lo Smoke to Perfection, il primo volume scritto più di qualche anno fa sulla Holy Trinity del BBQ (brisket, pork ribs e pulled pork), venivo da un momento in cui ero visceralmente legato al circuito competitivo. Come sono arrivato a quello? Avvicinandomi inizialmente alla KCBS. Ho seguito il corso di certificazione per diventare giudice in Germania, poi sono stato negli Stati Uniti, ho fatto training con il leggendario Pit Master Jim Johnson (78 volte Grand Champion), ho gareggiato prima in Italia e poi al Jack Daniel’s Invitational, probabilmente l’agóne più famosa e ambita di tutte. Avevo quindi associato la preparazione del brisket americano a quello che si prepara sul campo gara. Il Flavour Profile di riferimento era quello dei giudici, non il mio. Vi ricordate i 6 segreti per il brisket perfetto di cui parlo nel libro? FEBBRAIO 2020

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Facciamo un ripasso per sicurezza. 1. Il sapore del brisket è frutto del bilanciamento perfetto tra carne, spezie e fumo. 2. Il bark deve essere robusto, corposo, croccante ma sostanzialmente fatto di carne, non di spezie. 3. La nota affumicata del brisket deve essere intensa ma solo un arricchimento del morso finale, non il sapore preponderante. 4. Una volta affettato, il brisket deve essere umido, morbido e succulento. Consistente ma tenero. Tenero ma non “pullabile”. Per ottenere questo risultato bisogna portarlo ad una temperatura interna compresa tra i 93 e i 95 gradi centigradi. 5. In un morso di brisket dovremo percepire nell’ordine: sapore di carne, nota affumicata, bark, pungenza tipica. Poi un leggero retrogusto di fumo e un’effervescente sensazione di piccantezza e sapidità. 6. La fetta di brisket dev’essere consistente e non cedevole, il bark compatto ma non duro e la sezione deve evidenziare uno smoke ring netto e marcato. Rimaniamo proprio su quest’ultimo punto. Lo smoke ring, quell’aureola rosata che si crea sotto il bark di tutte le preparazioni sottoposte ad affumicazione lenta con temperatura controllata, non era conteggiato ai fini del punteggio di gara, eppure chiunque abbia mai partecipato ad una competizione KCBS sa bene quanto sia importante per ottenere il perfect score. Il trimming compulsivo del “vecchio me” nasce proprio da quello: se il grasso superficiale della punta di petto è troppo spesso lo smoke ring non si forma, quindi per vincere e fare bella figura lo rasavo a zero. Col tempo e la maturità di chi la carne la studia e la mangia, ho

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capito che il grasso è quell’elemento che dà morbidezza al brisket, oltre al sapore, e che se lo rimuovi completamente tutta questa morbidezza viene a mancare. Ma cosa faceva quindi Gianfranco Team Leader per preservare la succosità del suo brisket, ormai rovinosamente pelato a vivo? Adesso ve lo spiego. I due fasci muscolari del brisket che si sovrappongono, il flat (pectoralis profundus o fiocco ) e il point (pectoralis superficialis o punta), hanno fibre completamente diverse. Nonostante il trimming selvaggio, nel point rimane una grande quantità di grasso infiltrato e di collegene, non a caso è considerato la parte buona del brisket. Il flat di grasso ne ha poco e di connettivo pure, quindi durante la cottura Low&Slow si rimpicciolisce e si rinsecchisce di brutto. A peggiorare la situazione esiste anche quel virtuosismo di separarli: i due pezzi vengono cotti con due tempi e modalità diverse, proprio perché il flat deve spiccare per questo alone quasi fucsia particolarmente marcato, mentre il point viene tagliato a cubetti e servito come burnt ends. In mezzo alle due sezioni muscolari ci sono strati di collagene e grasso che durante la separazione vengono spazzati via senza pietà. Dunque in gara il flat era zero “fat”, il point veniva comunque stra-trimmato e l’unica frazione di grasso che rimaneva era quella interna. Per compensare la mancanza della parte lipidica si iniettava l’injection con una concentrazione di sale al 5%, che agisce come un fosfato “trattenendo” l’acqua all’interno delle fibre muscolari. Le injection liquide sono praticamente inefficaci, non cambiano la resa del prodotto, e quindi si cercava di addizionare la salamoia con ingredienti che trattenessero umidità all’interno: è a quel punto che sono passato alle siringone di emulsioni di grasso per aumentare la viscosità.


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Tutto questo processo macchinoso per accontentare un giudice che avrebbe assaggiato solo un pezzetto di quel benedetto brisket. L’omino che degusta, tenetelo sempre a mente, assaggia un singolo morso di ogni piatto, non è che si mette lì e sbrana tutta la porzione. O alla fine della gara mangerebbe chili di roba. È impossibile giudicare lucidamente da sazi; per questo si limita a mangiare un boccone di flat e una burnt end e dà i voti a tutta la tua preparazione. Ora se devo fare un brisket in gara, aldilà del metro di giudizio che può essere più o meno fallace, faccio un brisket da gara: trimmato ferocemente, super-sapido e con lo smoke ring che si vede al buio. Ma se devo farlo a casa, oltre a gestire il mio tempo in maniera più assennata, conservo quello strato di grasso del brisket che me lo rende morbido, succoso e profumato. Non sono per lo zero trimming, sia chiaro. Basta conoscere bene l’anatomia del pezzo e andare a tritare l’eccesso inutile - io non mangerei mai un morso di grasso spesso tre dita - lasciando un centimetro di grasso sopra il flat, che ci permetterà di preservare morbidezza e succosità. Volete fare un lavoro di fino e ottenere il massimo dalla vostra punta di petto? Fate una salamoia al 4% (acqua e sale), iniettatela e mettete a bagno il pezzo di ciccia nella stessa soluzione salina per 24-36h. Dopo le prime 24h ci sarà una sensibile variazione della struttura cellulare e il tessuto connettivo contenuto nel point comincerà a degradarsi. Ve ne dico un’altra? Tutta questa umidità in cottura potrebbe anche annientare quello spauracchio che è lo stallo. Che cos’è lo stallo? Il peggior incubo del Pit Master. È quel momento in cui la temperatura interna del pezzo di ciccia si ferma, si inchioda. Si blocca per quattro o più ore e a malapena si alza di una tacca. A volte scende anche di alcuni gradi. Si tratta di un processo di raffreddamento evaporativo, una semplice conseguenza del raffreddamento per evaporazione dell’umidità dalla carne rilasciata lentamente nel tempo attraverso fibre e cellule. All’aumentare della temperatura della carne fredda, il tasso di evaporazione aumenta fino a quando l’effetto di raffreddamento equilibra l’input di calore. Quindi la carne resta in stallo fino a quando l’ultima goccia di umidità disponibile sarà evaporata. Nel nostro caso, per evitare la parte dello stallo basterà semplicemente innalzare la temperatura a 140°C-150°C. I liquidi interni del nostro brisket iniettato e “marinato” si scalderanno e la temperatura salirà ferocemente. “Sì sì, tutto bellissimo, ma lo strato di grasso sciolto mi lava via il bark” Non è assolutamente vero, il bark si forma eccome e per due motivi. Il primo è il peso specifico del rub, che lo fa mantenere ben saldo alla superficie esterna, il secondo è la presenza di sale che col calore cristallizza e si fissa, fino a formare una crosta spessa. Il “fat cap”, la calotta lipidica, scivola solo se fate un trimming irregolare, magari lasciando delle sacche, degli avvallamenti al centro del pezzo in cui si andranno inevitabilmente a formare delle piscinette di grasso fuso. E anche lì, vi basterà mettere un cuneo sotto, una pallottola di stagnola che costringa la ciccia a mantenere una forma convessa. Questa è la tecnica corretta per preparare un brisket da servire a casa. Il brisket che mangeranno i vostri amici o i vostri familiari, che non vi daranno un voto, o forse sì. Ma almeno ne mangeranno una bella fetta, invece che fermarsi al primo boccone. Gianfranco Lo Cascio

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INDICE FEBBRAIO 2020 - NUMERO 14 ANNO 2

RUBRICHE

5 . L ' E D I TO R I A L E D I G I A N F RA N CO LO CASC I O

Trimming del brisket 1 2 . PO R F TO L I O

La cucina giapponese 1 6 . I N T E RV I ST E

chef francesco preite del Moi Omakase 2 4 . D I S POS I T I V I E ACC E SS O R I

la griglia giapponese 2 6 . C U R I O S I TÀ

IL GALATEO A TAVOLA 3 2 . G LOSSA R I O

vocabolario dei piatti giapponesi

S T O R I A E T E C N I C A D I U N A P R E PA R A Z I O N E

34. la tempura 38. il sushi a casa 44. il ramen

RICET TE DI FEBBRAIO SPECIALE GIAPPONE

50. ramen 52. gyudon 54. burger di wagYu 56. polpettine di wagyu 58. SPECIALE CARNEVALE 60. chiacchIere 62. castagnole 64. sas ORIGLIETTAS 66. Krapfen E CIAMBELLE 68. abbinamenti consigliati

APPROFONDIMENTI 72. THE CHEMICAL GRILLERS

le salse, capitolo 2 76. LE RAZZE

BLACK ANGUS

8 2 . L A R I C E T TA S C I E N T I F I C A D I G I A N F R A N C O L O C A S C I O

IL katsu sando

94. SEGUO

l'utente è deiezione FEBBRAIO 2020

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PORTFOLIO a cura di ROBERTO DAL BOSCO

和食

la cucina giapponese un patrimonio dell'umanità Nel febbraio 2012, l’Agenzia per gli affari culturali – un ramo del Ministero della Cultura di Tokyo – ha raccomandato l’aggiunta all’elenco dei patrimoni orali e immateriali dell’umanità UNESCO il washoku e le culture dietetiche del Giappone. Il 4 dicembre 2013, l’UNESCO ha accettato: la voce “Washoku, culture dietetiche tradizionali dei giapponesi”, in particolare per la celebrazione del nuovo anno, è stata aggiunta al tesoro culturale intangibile dell’umanità. In pratica, quando mangi giapponese – quello vero, beninteso – mangi un pezzo di patrimonio UNESCO.

FENOMENOLOGIA DEL WASHOKU

Innanzitutto, chiariamo cosa è il washoku. La parola è composta da due caratteri, 和食. Il primo lo conoscete già – è il 和 wa di wagyu, e sta a significare, estesamente, il Giappone. Shoku, invece, significa «cibo», «alimentazione», «mangiare». Quindi il washoku è il cibo giapponese in tutte le sue sfumature tradizionali. Tali sfumature sono innumerevoli. Pesce, carne, verdure, riso: i ryōri (tipi di cucina) accumulatisi lungo i millenni di storia nipponica sono tanti e tutti perfettamente normati, 12 - BBQ4All MAGAZINE

comprese le acquisizioni più recenti. Prendete, per esempio, il ramen, quella sorta di tagliolini in brodo che avrete visto sicuramente in tanti anime (i cartoni giapponesi che la Generazione X in Italia si è sciroppata in un numero vicino alle 200 serie). Ritenuto originario della Cina (dove è servito ancora oggi come lāmiàn), il ramen divenne popolare in Giappone dopo la seconda guerra sino-giapponese (1937-1945), quando molti studenti cinesi furono trasferiti in Giappone. Come avviene per la lingua giapponese, che importa e rende proprie quantità improbabili di parole straniere (chiamate gairaigo), anche la cucina del Sol Levante assorbe ed assimila quello che arriva da fuori, in ispecie, dal periodo della Restaurazione Meiji in poi (1868-), il seiyōshoku, ossia la cucina occidentale. Grazie a questo potere culinario al contempo tradizionale e mercuriale, nel 2011 il Giappone ha superato la Francia come nazione con il maggior numero di ristoranti Michelin a 3 stelle. La capitale Tokyo dal 2018 è la città più stellata al mondo. Ma il washoku non è l’unico termine per designare la cucina giapponese. Se saliamo di livello c’è il kappō, parola composta dagli ideogrammi per tagliare e bollire, con riferimento possibile


munque un accompagnamento del riso. Il pasto può quindi essere accompagnato da una zuppa chiara (miso) e dagli tsukemono, cioè i sottaceti. È importante memorizzare l’espressione sopracitata ichijū-sansai («una zuppa, tre piatti») come composizione tipologica-base di un pasto. A ciascuno dei tre okazu vengono applicate diverse tecniche di cottura. Gli okazu possono essere crudi (sashimi), grigliati, bolliti, al vapore, fritti, in salamoia o conditi. Uno degli aspetti da non sottovalutare è il ruolo delle stagioni nella cucina giapponese. La stagionalità del cibo ha una sua parola in giapponese, shun. Nella pienezza della tradizione, i piatti sono progettati secondo le quattro stagioni o persino dei mesi di calendario. Per sfruttare appieno la stagione bisogna considerare gli yama no sachi (letteralmente «generosità delle montagne»), cioè i «frutti montani» come i germogli di bambù in primavera e le castagne in autunno; gli umi no sachi (letteralmente, generosità del mare) invece, sono «frutti del mare» che piano piano entrano nella stagione. Per esempio, la prima cattura di tonnetto striato (hatsu-gatsuo) è un evento culinario importante. Il primo raccolto o cattura precoce riveste quindi un grande valore, e prende il nome di hashiri. I piatti giapponesi possono essere decorati con foglie e rami di albero. Le foglie di bambù vengono tagliate in forme e poste sotto o utilizzate come separatori dei piatti. La cucina giapponese, generalmente, rifiuta l’idea di mettere più sapori all’interno di uno stesso piatto.

alla carne. Usato per definire i ristoranti nell’era Meiji e Taisho (cioè dal 1869 al 1926), ora sta ad indicare quei luoghi dove magari ci sono chef molto preparati. Salendo ancora di livello, troviamo il kaiseki, cioè letteralmente «pietra calda», che è una forma di pasto legata alla cerimonia del tè giapponese. Il kaiseki è considerabile come un rito di ospitalità per tramite della cucina, con un’estetica wabi-sabi (la complessa, agrodolce visione del mondo come «bellezza imperfetta, impermanente e incompleta»). Come la cerimonia del tè, l’apprezzamento delle stoviglie e dei vasi fa parte dell’esperienza stessa. Nel kaiseki moderno in forma standard, il primo piatto è composto da ichijū-sansai (una zuppa, tre piatti), e di seguito sakè ed altre pietanze disposte su piatti speciali.

FONDAMENTI DI CUCINA GIAPPONESE

La cucina giapponese si basa sulla combinazione di quello che è considerato il cibo base, cioè riso bianco al vapore (gohan), che va accompagnato da uno o più okazu, cioè i piatti principali e i contorni: è un po’ controintuitivo, quello che per noi è il main course, per l’architettura dell’alimentazione giapponese è co-

Mangiare in Giappone significa imparare a sedersi. Dal XX secolo, molti locali come le case private si sono dotati di sedie e tavoli in stile occidentale. Tuttavia sono ancora molto diffusi anche i tavolini e i cuscini giapponesi tradizionali disposti sul tatami (la tradizionale pavimentazione giapponese). Essendo i tappetini di paglia per tatami facilmente danneggiabili e difficili da pulire, le scarpe o qualsiasi tipo di calzatura vengono sempre tolte. In una cena tradizionale è comune stare seduti sul pavimento. In un ambiente informale, gli uomini di solito si siedono con i piedi incrociati e le donne siedono con entrambe le gambe su un lato – solo agli uomini in teoria è concesso di sedere a gambe incrociate. Il modo formale di sedersi per entrambi i sessi è noto come seiza. Per sedersi in posizione seiza, ci si inginocchia sul pavimento con le gambe piegate sotto le cosce e le natiche appoggiate sui talloni.

NON MANGIATE NULLA TRANNE LA BALENA

Tra il 300 e il 100 a.C., il riso – si dice – fu importato in Giappone, terra di cacciatori-raccoglitori, dalla Cina. Gli altri due elementi base della dieta giapponese, il grano e la soia furono introdotti poco dopo. Quando il buddismo divenne la religione ufficiale del paese cominciarono i divieti di mangiare carne e pesce. Nel 675 d.C., l’imperatore Tenmu proibì di mangiare cavalli, cani, scimmie e galline. Nell’VIII e nel IX secolo, diversi imperatori continuarono a vietare di uccidere molti tipi di animali. Il numero di carni aumentò fino a mettere al bando tutti i mammiferi tranne la balena, che è stato classificato come pesce. Ora capite bene da dove deriva la tanto dibattuta passione dei giapponesi per i cetacei. Alcuni studiosi sostengono addirittura che la consumazione di carne fosse scarsa già prima della buddistizzazione dell’arcipelago. Con l’arrivo del Budda, che ricordiamo non necessariamente è adorato da vegetariani, il consumo di yotsuashi FEBBRAIO 2020

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(«creature a quattro zampe») venne tabuizzato, ma la balena era ritenuta un pesce e anche la tartaruga d’acqua dolce veniva permessa: le tartarughe, che si trovano facilmente fra i banchi del titanico Tsukiji (il mercato ittico di Tokyo, un’attrazione turistica se sei disposto a svegliarti alle 3 di notte), vengono considerate afrodisiache. Nonostante tutto questo, la carne rossa non sparì. Per esempio, era tollerato il mangiare selvaggina, come la lepre, bizzarramente associata nella grammatica giapponese al quantificatore wa (羽), un quantificatore normalmente riservato agli uccelli (i quantificatori o classificatori sono uno degli incubi di chi vuole imparare il giapponese – e pure il cinese – ogni cosa ha la sua parola diversa per contarla). Quando il Paese nella seconda metà del XIX secolo ricominciò ad aprirsi al mondo – e all’Occidente - ecco che la carne rossa tornò in abbondanza tra i giapponesi. Il bando sulla ciccia fu tolto dall’Imperatore Meiji in persona. Ma ogni epoca ha i suoi vegani: la rimozione del divieto incontrò una certa resistenza fra i religiosi e un commando di monaci inferociti tentò di irrompere nel Palazzo Imperiale. I monaci affermarono che, a causa della perniciosa influenza straniera, un gran numero di giapponesi aveva iniziato a mangiare carne e che questo stava «distruggendo l’anima del popolo giapponese». Durante questo strambo «putch della ciccia» ordito dai buddisti, diversi bonzi furono uccisi, e quelli che non furono ammazzati furono arrestati. La carne era libera di tornare nello stomaco del Sol Levante. L’imperatore Meiji il grande, sovrano da pochi anni, nel 1872 organizzò una festa di Capodanno progettata per abbracciare il mondo e i paesi occidentali. Durante la festa si serviva cibo europeo ed è considerato l'episodio finale della liberazione nippocarnivora: per la prima volta in mille anni, alla gente era per-

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messo di consumare carne in pubblico. Da qui è cominciata la risalita che ci ha portato, come visto in una puntata precedente, alla meraviglia del wagyu.

NIENTE SPEZIE SIAMO GIAPPONESI

Il cibo tradizionale giapponese è in genere condito con una combinazione di dashi (brodo di pesce), salsa di soia, sake e mirin (il sake dolce), aceto, zucchero e sale. Questi sono in genere gli unici condimenti utilizzati per grigliare; anche in cottura in Giappone si è parchi di spezie, che sono da utilizzare solo per dare una nota (pensate al wasabi: e che nota!) o neutralizzare odori come quello di pesce. Questo uso limitato delle spezie ha un suo motivo storico pure derivante dai secoli senza carne. La mancanza di proteine di animali terrestri fece sì che i giapponesi ridussero al minimo l’utilizzo di spezie, che divennero (con l’eccezione di modeste quantità di pepe e di sale) un bene raro. Fu così che il pesce, abbondante in un Paese insulare, divenne la principale fonte di proteine per la popolazione. Già dal IX secolo, quello alla griglia e quello crudo a fette erano molto popolari.

LA VERITÀ, VI PREGO, SUL SUSHI

Così nacque il mito, oggi celebrato internazionalmente, del sushi. Esso nacque come mezzo per conservare il pesce fermentandolo nel riso bollito. I pesci che vengono salati e poi messi nel riso vengono preservati dalla fermentazione dell’acido lattico, così da prevenire la proliferazione dei batteri che provocano la putrefazione. Una rivoluzione non differente da quella avvenuta con l’introduzione in Europa dello stoccafisso, che permetteva la lunga conservazione del cibo. Nel XV secolo, il sushi era arrivato, grazie al controllo della fermentazione, a rimanere edibile per 7-14 giorni; ciò lo rese uno


spuntino popolare e un antipasto principale. Durante il periodo Edo (metà del XV secolo) fino alla fine del XIX secolo veniva ancora consumato senza fermentazione. E’ bene dirlo: il sushi oggi non è il principale alimento della dieta giapponese, e al ristorante di sushi ci si va solo in determinate occasioni. Tuttavia, come sanno le narici di chiunque sia uscito dalle megalopoli giapponesi almeno una volta per andare in campagna, c’è un altro pesce che si consuma in modo casual, specie nei tramonti del dopolavoro: l’unagi, l’anguilla, grigliata da carretti di legno con il classico bancone coperto da bandierine, insaporita da salsa di soia in un piatto chiamato kabayaki e servita nell’unadon, la scodella di riso ed anguilla. Una festa per l’odorato e per il palato.

DON CIBO

L’unadon ci porta a dover scrivere di quello che è uno dei modi precipui della cucina giapponese se vissuta in rapidità, il donburi. Significa in semplicità «scodella», ed indica quei piatti dove con il

riso possono essere serviti carne, pesce verdure. I don, come vengono abbreviati, sono tantissimi. Oltre all’unadon (riso e anguilla), c’è il tamagodon (riso e uovo strapazzato con salsa dolce), gyudon (carne di manzo – cominciate a riconoscere quel gyu di wagyu!), il tendon (con tempura di gamberetti) e il fatidico katsudon. Nel katsudon finisce, con riso, cipolla e uova, una cotoletta di maiale impanata, che si chiama tonkatsu – e qui in genere gli italiani ridono, perché non sanno che katsu è un gairaigo (parola di importazione) abbreviazione di katsuretsu, dal francese côtelette, cotoletta. Il tonkatsu usa il filetto di maiale o la lonza.

I FRITTI DEI BARBARI

Parlando di fritto, in generale, la cucina tradizionale giapponese utilizza tendenzialmente poco olio da cucina, ma fa eccezione la frittura introdotta durante il periodo Edo a causa dell’influenza della cucina occidentale: è bene ricordare che i giapponesi la chiamavano nanban-ryōri, «cucina dei barbari del sud» nonché del-

la cucina cinese. Emerse così il tempura, che ora è considerato propriamente washoku, tuttavia si dice che la parola abbia origine portoghese. Il deep-frying è coinvolto anche nell’abura-age (tofu fritto) e nel satsuma-age, cioè nelle torte di pesce tipiche di Kagoshima, città dell’estremo meridione giapponese detta anche «la Napoli del mondo asiatico». Di fritto troviamo anche il ganmodoki che è una frittella di tofu fritta a base di verdure come carote, radici di loto e bardana, più qualche volta, tamago, cioè uovo. Ganmodoki, spesse volte abbreviato in ganmo, significa pseudo-oca in quanto si dice che il ganmodoki abbia il sapore dell’oca, un po’ come la mock turtle soup, quel piatto inglese fatto con cervella ed organi di vitello che riprodurrebbe il sapore della zuppa di tartaruga.

CONCLUSIONI

È stato un articolo lungo ma non abbiamo nemmeno iniziato a parlare della cucina giapponese, la cui vastità è inimmaginabile quanto goduriosa. Ci prudono le mani per non aver parlato di okonomiyaki, dei soba, udon, pan. Non abbiamo nemmeno iniziato a parlare di teriyaki, e alzi la mano chi non ha condito la carnazza almeno una volta con questa deliziosa salsa di soia. E perché non hai scritto dei puzzolentissimi ma sanissimi fagioli natto? E il sukiyaki e tutto lo stile in pentola (nabemono)? Perché non hai trattato di dolci con l’hanko, la salsa di fagioli rossi? I capi di imputazione, ammettiamo, sarebbero tantissimi. Se vorrete, faremo altri capitoli, più specifici. Tanto la cucina giapponese non va da nessuna parte: è patrimonio culturale dell’umanità.

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INTERVISTA a cura di MICHELA BONGIORNI

La convivialità della cucina sartoriale

Ne l cuo re di P ra t o , c i tt à t o sc a n a n o t a so p ra t t u t t o p e r il se t t o re t e s s i l e e p e r l a c o m u n i t à c i n e se p i ù g ra n d e d’It a lia, F rances co P re i te g e st i sc e i l Mo i O mak a se, l’un ico v e ro ri s t o ra nt e tra d i z i o n a l e g i a p p o n e se d ’ I t a l i a. Arroganza. Secondo la definizione della Treccani, significa: insolenza e asprezza dei modi di chi, presumendo troppo di sé, vuol far sentire la sua superiorità. La usiamo con accezione perlopiù negativa, dunque. Se qualcuno che conosciamo ci definisce arroganti, lo prendiamo come un insulto. Ebbene, dopo che avrete letto questa intervista, avrete quello che i linguisti chiamano un mutamento semantico con estensione del significato in senso migliorativo. In altre parole, quell’epiteto vi sembrerà un bellissimo complimento. Ma partiamo dall’inizio: è un freddo e assolato lunedì di Gennaio quando Francesco Preite, 36 anni, ci apre le porte del suo locale che si trova nel cuore di Prato, città toscana che in maniera irrispettosa alcuni abitati del luogo chiamano PLato, ad indicare l’enorme sviluppo della comunità cinese avvenuta proprio qui negli ultimi 30 anni. In un comune di circa 195.000 abitanti, il 20% della popolazione, impiegato sopratutto nel ramo tessile, che costituisce un quarto dell'industria locale e corrisponde al 27% del fatturato totale nazionale di questo settore, è cinese. Insisto su questo aspetto, perché il luogo in cui sorge il locale di Francesco non è esattamente il centro di Parigi: è un posto in cui sei letteralmente circondato da miriadi di All you can eat 16 - BBQ4All MAGAZINE

e ristoranti pseudo giapponesi che fanno leva su quello che noi italiani crediamo di sapere sul Giappone; cosicché, dentro a locali che sembrano usciti dai fumetti o dai cartoni animati anni ‘80, ti propinano cibo spazzatura facendoti credere di mangiare il vero sushi a un costo ridicolo. In un mondo in cui tutto ciò che ci interessa è apparire e pubblicare foto sui social a colpi di #sushitime (lo ammetto, l’ho fatto anch’io in passato), perché mai dovremmo farlo pagando 70 euro per una cena, quando al modico prezzo di 12,90 euro possiamo ingurgitare tutto quello che vogliamo, fotografarci vicino al maneki neko, assaggiare cose che hanno la simpatica e accattivante forma di quelle viste in Kiss me Licia e sentirci molto cosmopoliti e moderni? Il perché ce lo spiega Francesco. Abbiamo appuntamento con lui alle 9,30, ma già alle 8,40 mi scrive chiedendomi se confermiamo l’orario di arrivo e mi fa sapere che è già nel suo locale per preparare il riso. Sono molto attenta a questi dettagli, perché spesso sono portatori di messaggi ben più veritieri rispetto a gesti eclatanti e plateali. Questo comportamento è già un assaggio di ciò che conosceremo di lui: precisione, professionalità, affidabilità e una buona dose di riservato distacco dal mondo dell’ostentazione.


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Ci apre la porta del suo Moi Omakase situato nel centro di Prato, proprio davanti al Castello dell’Imperatore, opera architettonica costruita a metà del 1200 per ordine dell’imperatore Federico II di Svevia (Prato in realtà è ben più di quella Chinatown italiana a cui la maggior parte delle persone oggi l’associa); si presenta in jeans, camicia, occhi azzurri, capelli ricci un po’ afro e un sorriso appena accennato. Il ristorante è elegante, i colori sono sobri, l’ambiente è accogliente e lussuoso ma non sfarzoso. Niente fuochi d’artificio, qui, niente effetti speciali per ingannare l’avventore con ciò che sembra ma non è. Anzi, qui è esattamente il contrario. Diciamolo subito, con Francesco non esistono le mezze misure: non può starti un po’ simpatico, non puoi trovarlo leggermente odioso, non riesci a definirlo abbastanza affabile: o lo odi o lo ami. O apprezzi questo suo totale disinteresse nel cercare di piacerti a tutti i costi, oppure non lo sopporti. Noi l’abbiamo adorato da subito; d’altronde siamo abituati a questo tipo di personalità all’interno di BBQ4All, e onestamente abbiamo avuto l’impressione che la cosa sia stata reciproca. Va a cambiarsi e torna da noi, pronto per una chiacchierata che durerà due ore e alla quale non avremmo mai voluto porre fine. Parlaci di come hai iniziato Il ristorante Moi nasce da una semplice passione per tutto ciò che è giapponese. Sono partito interessandomi alle armi da taglio e ho cominciato a fare i primi viaggi in Giappone; dalle armi sono passato ai coltelli da cucina e da lì è nata la passione vera e propria per il cibo e i vari modi di cucinarlo. Prima del locale che vedi oggi ho avuto un’altra esperienza con un ristorante, sempre di mia proprietà, dove il menù era più “commerciale”, passami il termine. Dopo otto anni ho deciso di chiuderlo, e ho fatto un passo indietro e due avanti aprendo il Moi che al momento è l’unico vero ristorante tradizionale giapponese presente in Italia. Unico? Davvero? Sì, perché gli altri ristoranti lavorano sui tavoli, mentre la vera cultura giapponese pre-

vede di lavorare esclusivamente al bancone, per avere interazione diretta coi clienti e per preparare le pietanze davanti a loro, senza dover passare dalla cucina alla sala con inutili sprechi di tempo e soprattutto importanti perdite di temperature. Quindi hai studiato in Giappone? No, la mia esperienza in Giappone è stata a spot: in 22 anni sono andato là circa tre/ quattro volte all’anno. Fra circa quindici giorni ci andrò per la settantesima volta. Quando vado là, lo faccio quasi sempre per lavorare appoggiandomi a più ristoranti in modo da apprendere le tecniche da tutti. Il miglior modo per imparare è lavorare. Quanto è falsata la percezione che ha l’italiano medio, abituato agli All you can eat, rispetto al vero sushi che prepari tu?

Intanto, se parliamo di cucina tradizionale, parliamo di Nigiri, Sashimi e a volte i maki, cioè il rotolino con l’alga nera esterna. Tutto ciò che è Huramaki, ovvero ciò a cui è abituato il 99% delle popolazione italiana, non è Giappone. Già solo i nomi, il California, il Philadelphia, che sono quelli che vanno per la maggiore, ti fanno capire che arrivano da un’altra parte del mondo. Cosa ci stai servendo adesso, dunque? Questo – appoggia il Nigiri sul bancone- è fatto semplicemente con il riso, a cui viene data la pressione necessaria affinché il pesce sfilettato vada a disegnarsi sopra di lui. Ogni Nigiri cambia a seconda della tipologia di pesce che ci viene appoggiato sopra e soprattutto a seconda della pressione che viene data al riso. Non possiamo dargli la stessa pressione per tutte le tipologie di pesce. Ma soprattutto è fondamentale la temperatura con cui va servito. Assolutamente non freddo: riso a 37-39 gradi e pesce a temperatura ambiente. La legge marziale non scritta dice che, dal momento in cui appoggio il Nigiri sul bancone, non debbano passare più di 15 secondi prima che il cliente lo porti alla bocca. Capiamo benissimo il tuo linguaggio, lottiamo da anni per insegnare alla gente quanto è importante la temperatura. Come fai a servirlo sempre a 39 gradi? Il recipiente che vedete accanto a me ha la facoltà di tenere il riso tra i 60 e i 70 gradi per sei ore. Nel momento in cui lo lavoro, la temperatura scende e raggiunge il target

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ranti italiani anche quotati e leggiamo sul menù “vera grigliata di pesce locale”, ma poi ci ritroviamo nel piatto prodotti argentini, del Mozambico, indonesiani, magari trattati con l’ammoniaca, perché così non ingialliscono e rimangono all’apparenza freschi per più giorni. Tu quando scegli di andare a mangiare fuori, dove vai?

ideale. La cultura è fondamentale: così come noi italiani non andremmo mai in un posto che ci serve un piatto di spaghetti freddi, allo stesso modo non dovremmo accettare di mangiare il sushi ghiacciato che ci servono nei vari ristoranti All you can eat. Ma dato che non abbiamo idea che stiamo mangiando della vera cacca, non ce ne accorgiamo nemmeno. Questa è mancanza di cultura.

dico sempre: meglio un McDonald’s in più, perché è un posto super controllato a livello di pulizia, piuttosto che un ristorante cinese - senza nulla togliere alla vera cultura gastronomica cinese, che però in Italia non conosciamo- in cui rischi veramente di mangiare cibo non solo di scarsa qualità, ma anche pericoloso.

Bella domanda. Tendenzialmente vado solo da colleghi e amici che conosco bene e so come lavorano. Altrimenti, non mi faccio troppe aspettative né troppe domande. Parlaci di come funziona il tuo ristorante. Posso ospitare 14 persone in un gruppo unico, oppure al massimo 10-12 persone in

Il sushi in Italia è ancora qualcosa di sconosciuto. Purtroppo siamo attirati dal prezzo basso. Ma pensa una cosa: andresti mai a mangiare una pizza margherita con una mozzarella di bufala di Battipaglia a 0,50 centesimi? Non lo faresti. Andresti mai a mangiare una bistecca da un chilo a 1,50 euro? E allora perché andare a mangiare una quantità illimitata di pesce crudo a 14,90 euro? Gli avventori di questi locali dovrebbero capire che è molto meglio andare a mangiare qualche volta in meno fuori, pagando una cifra maggiore quando si decide di andare, piuttosto che ingurgitare roba a basso costo che si va a ripercuotere sulla salute. Ripeto: tu parli la nostra lingua. Certo. Quando tu mangi roba a basso costo, forse lì per lì al palato ti piace anche, ma è ciò che accade nel tuo corpo nei giorni successivi che dovrebbe preoccuparti. Io comunque lo

La consapevolezza del cliente, quindi, è la parola chiave. Esatto: se scegli consapevolmente di mangiare cibo spazzatura, va bene. Il problema è che ancora molti italiani sono convinti di poter mangiare cibo di qualità a basso costo. E lì, però, dovrebbe esserci anche l’onestà di chi lo serve. Troppe volte andiamo in risto-

singole coppie. Il menù è per tutti uguale. Iniziano e finiscono di mangiare tutti alla stessa ora. E’ di fatto una cena su appuntamento. Il cibo è cultura alla cui base c’è la convivialità. Iniziare il percorso di degustazione insieme, mangiando le stesse cose, favorisce lo scambio di opinioni e stimola il dialogo fra le persone che in quel momento sono sedute tutte allo stesso bancone. Mi è capitato di vedere persone che sono rimaste amiche tra di loro, dopo aver mangiato da me, anche se prima non si conoscevano affatto. Oggi perlopiù si va a mangiare fuori perché ci ritroviamo col frigo vuoto e abbiamo bisogno di soddisfare velocemente la fame, magari in posti dove il cliente rifugge l’interazione con gli altri avventori e con il ristoratore. La cultura giapponese, che io sto cercando di portare avanti ormai da 10 anni, è invece improntata a farti capire cosa stai mangiando, perché lo stai mangiando e soprattutto che il boccone deve essere in simbiosi con la tua persona. FEBBRAIO 2020

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perché la loro vita e la loro alimentazione non sono state esattamente le stesse. Io lavoro molto con le percezioni, le consistenze, le persistenze: guardo alla forza muscolare del pesce, alla pressione del riso, al tempo di masticazione, alla temperatura di servizio. Hai qualcuno che ti aiuta? Mi occupo io di tutto. Lavoro da solo partendo dagli acquisti che faccio personalmente: tre volte a settimana vado al mercato del pesce la mattina presto, all’arrivo dei pescherecci, e compro tutto in loco senza farmelo spedire. Poi mi occupo della preparazione e del servizio della cena, tenendo in piedi tutta la serata e interagendo coi clienti. C’è solo mia moglie che mi aiuta per tutto ciò che è il servizio al di là del banco, quindi servendo le bevande. Ma la cucina è il mio regno. Voglio essere da solo.

In che senso? Quando ho tutte quelle persone davanti divento uno psicologo: il Nigiri che servo all’omòne da 150 kg non potrà avere le stesse proporzioni di quello servito alla signorina che ne pesa 48. Quindi devo creare una vera e propria cucina sartoriale alla cui base c’è la convivialità: il mio obiettivo è quello di far finire di mangiare nello stesso momento sia l’omone che la signorina, il che vuol dire che devono finire di masticare insieme. Ciò è fondamentale alla digestione: se uno dei due finisce di mangiare molto prima, tende a girarsi per parlare con chi ancora deve finire il boccone. Questo crea pressione psicologica che va a interagire con la digestione. A quel punto, io creo il boccone su misura a seconda della persona che ho davanti: per aumentare il tempo di masticazione dell’omone, aumento la quantità di riso, per facilitare la signorina invece metto più pesce e meno riso. Questo è il motivo per cui lavoro con poche persone alla volta. Avrai clienti fissi, ma ne avrai tanti che arrivano qui la prima volta, immagino: qual è la reazione del cliente che non è abituato a questi sapori? Qui non vige la democrazia. Nel momento in cui entri, devi sapere che ti lascerai portare da me in questo percorso in cui io ti metterò in condizioni di capire cosa stai mangiando: se stai per assaggiare una ricciola, ti dirò che stai per mangiare “un pesce che sa di pesce”, perché magari il boccone precedente è stato molto più delicato e hai bisogno di ritorna20 - BBQ4All MAGAZINE

re su sapori più forti. Uso un po’ di salsa di soia, per ammorbidire ma non per nascondere il sapore. Tu devi farti trasportare: se non sei in grado di farlo, io mi impongo. Se mi fai una domanda del cazzo, te lo dico. Poi ti spiego il motivo. Sono arrogante? Sì, perché so quello che faccio e sono molto sicuro del risultato. Qui comando io, proprio perché mi stai pagando. Da me il cliente non ha ragione: sarebbe così se dovessi pagare io per farlo mangiare. Tu, nel momento in cui entri qui, ti lasci trasportare: poi magari scopri che questa esperienza non fa per te, che ci sei venuto solo perché ti piace dire agli amici di essere andato a mangiare il vero sushi per tirartela un po’, oppure scopri che il pesce crudo è la tua ragione di vita. Ne ho convertiti tanti, in questi anni, a dire la verità. Il menù è fisso? Viene cambiato a seconda del pescato, a volte in modo giornaliero, a volte stagionale (è il mare che decide, sempre). La Capasanta giapponese (sono l’unico in Italia ad averla, la faccio arrivare direttamente dal Giappone) e il Gambero Rosso di Mazara del Vallo sono le uniche due presenze fisse sul menù. Non le cambio mai. Non uso il salmone, ve lo dico subito, a parte le rarissime volte in cui riesco a trovare quello selvaggio. A volte uso il luccio del lago di Garda, che ha una forza muscolare da brivido. Il percorso che faccio è basato quindi non tanto, o meglio, non solo sul sapore del pesce, che è fine a se stesso. Per fare un esempio, se ho una cassetta di 50 Gamberi Rossi di Mazara so che non avranno tutti lo stesso identico sapore

Un’ultima domanda: che tipo di clienti hai? Un buon 50% viene qui perché mi conosce. Ho clienti che arrivano da tutto il mondo: alcuni vengono qui da Oslo apposta per mangiare da me, si fermano un paio di notti e se ne vanno. Ho anche diversi clienti giapponesi. Ci sono anche coloro che decidono di venire perché hanno sentito dire in giro che sono arrogante e me la tiro, e sono incuriositi da questo. E tu, lo hai già detto, sei davvero arrogante. So quello che faccio, sono sicuro della qualità di ciò servo, sono un professionista e l’ho dimostrato coi fatti. Perché non dovrei essere arrogante? Io dimostro ciò che sono e me la tiro, perché sono in grado di poterlo fare. Se non lo fossi, mi chiuderei nel guscio, ma non ho nessun motivo di farlo. E comunque troppa gente scambia per arroganza la schiettezza di chi, sapendo esattamente ciò che sta facendo, ha il coraggio di dirti che sei un coglione quando sbagli. Siete avvisati. Se decidete di entrare al Moi, per una serata in cui, per una cena del genere, pagherete 70 euro (e se ci pensate è davvero poco) lasciate fuori tutto ciò che credete di sapere sul sushi. E non fate domande del…


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DISPOSITIVI E ACCESSORI rubrica a cura di MICHELE CHIPA

siamo in Giapp one

oltre al sushi c'è di più!

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In Giappone la cottura su griglia fa da sempre parte della vita quotidiana: in ogni casa tradizionale non può mancare un irori, ovvero un focolare che ha sia la funzione di riscaldare l’ambiente per renderlo confortevole, che quella di cucinare il cibo. In passato, anche la consumazione dei pasti da parte di tutta la famiglia avveniva intorno all’irori, abitudine che favoriva il rafforzamento dei legami familiari. Provate a chiudere gli occhi e ad immaginarvi la scena e le sensazioni: il calore del fuoco davanti a voi, l’affetto dei vostri cari che vi avvolge e l’aroma del cibo appena cotto che invade l’aria. Cosa c’è di più bello? I tempi moderni, con la loro velocità e la loro frenesia, purtroppo non permettono più queste tradizioni quotidiane, ma in ogni festa che si rispetti il focolare riveste sempre un ruolo da protagonista. In maniera molto semplicistica si può identificare il bbq giapponese come una cottura diretta su un particolare dispositivo portatile. Ma, ovviamente, c’è molto di più. Nel linguaggio comune ci sono diversi termini per questo tipo di cottura, ma spesso vengono utilizzati in maniera impropria. In questo articolo cercherò di fare un po’ di chiarezza. Robatayaki Usualmente abbreviato in robata, e rappresenta l’attuale metodo di cottura, ovvero una diretta ad alta temperatura di piccoli o sottili pezzi di cibo su una griglia o un dispositivo portatile disposto al centro del tavolo. Il robatayaki è originario nella regione di Hokkaido, dove i pescatori cuocevano i propri pasti di pesce fresco direttamente sull’imbarcazione. La cottura avveniva su piccole griglie in pietra alimentate a carbone Binchotan (bincho). La pietra aveva la triplice funzione di contenere il carbone, convogliare il calore verso la griglia ed evitare incendi. Questo tipo di cottura estremamente efficiente prese piede anche sulla terraferma e ben presto nell’intero Giappone. Negli ambienti urbani il pesce era una materia prima costosa e quindi si iniziarono a grigliare anche vegetali e carni povere come pollame, maiale e tagli meno pregiati di manzo. Poiché le dolci temperature necessarie alla cottura del pesce non erano sufficienti per la carne, si dovette anche variare il materiale costruttivo dei dispositivi: si passò, infatti, dalla pietra e dall’argilla all’acciaio rinforzato. Si inventò, quindi, l’Higoshi o Shichirin: un barbecue portatile da utilizzare direttamente sulla tavola. Oggi con robatayaki si può identificare anche il particolare tipo di ristorante che utilizza questo metodo di cottura, ovvero un piccolo locale accogliente dove il cliente viene servito direttamente dallo chef. Yakiniku Questa parola significa letteralmente carne alla griglia, ma nel suo senso più ampio è riferibile alla cottura della ciccia sulla griglia. Di fatto, lo Yakiniku non è altro che il robatayaki a base di carne e frattaglie. I commensali procedono alla cottura in autonomia di piccoli pezzi di carne direttamente sulla griglia posta al centro del tavolo che poi immergeranno in una salsa a base di funghi shiitake, zenzero, salsa di soia, sake, mirin ed aglio (salsa tare). Per lo yakiniku vengono utilizzati molti tagli di carne. Vediamo i più comuni, dividendoli per tipologie: FEBBRAIO 2020

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1. Manzo: Tan (lingua), Harami (diaframma e carne circostante), Karubi/Baraniku (short ribs), Misuji (muscoli della spalla), Rebā (fegato), Rōsu (lombo), Hatsu (cuore), Mino/Hachinosu (trippa) e Tēru (coda); 2. Maiale: Butabara (pancetta), Tetchan/Horumon (intestino), P-toro/Tontoro (guancia e collo), Gatsu (stomaco) e Kobokuro (utero); 3. Pollo: intero animale comprese le frattaglie. Ogni tipo di carne ha una propria marinatura, necessaria ad incrementarne sapore e tenerezza. Questa cottura è diventata talmente importante in Giappone da far proclamare il 29 agosto Yakiniku Day. Yakitori Yakitori significa pollo alla griglia, quindi si può intendere come uno yakiniku a base di pollo, che viene ridotto a piccoli pezzi e poi infilzato in spiedini per favorire l’omogeneità e la facilità di cottura. Gli yakitori hanno una forma rotonda oppure rettangolare con un’estremità molto appuntita; la loro lunghezza varia in base alla dimensione della griglia. Del volatile vengono utilizzati praticamente tutti i pezzi, compresi cuore e pelle. Una volta cotto a puntino, lo spiedino viene spolverizzato con un po’ di sale oppure immerso in salsa tare. Tuttavia, nell’uso comune Yakitori ha ampliato il suo significato andando a comprendere anche altri tipi di spiedini cotti alla griglia (pesce, altri tipi di carne e verdure). 24 - BBQ4All MAGAZINE

Carbone Binchotan Sia che si parli di Robatayaki che di Yakiniku, il combustibile che viene utilizzato per queste cottura è tradizionalmente il carbone Binchotan (bincho). È ottenuto da ciocchi molto densi e pesanti di querce di 20/30 anni di età, ed è disponibile sia in pezzi che in ovuli ottenuti dalla pressatura della polvere proveniente dalla lavorazione. Ma quali sono le caratteristiche che lo rendono così apprezzato per queste cotture? La prima particolarità del Binchotan è che non produce fumo. Pensate che il suo utilizzo originario è stato quello di riscaldare i palazzi aristocratici i cui abitanti non sarebbero stati evidente-


mente molto felici di puzzare costantemente di fumo. Successivamente è stato adattato all’utilizzo nelle griglie di cottura, aumentandone la purezza e diminuendone le pezzature. La seconda caratteristica peculiare è l’intensità del calore infrarosso: la sua portata permette di mantenere i cibi succosi creando contemporaneamente una croccante crosticina esterna. Ciò è dovuto al fatto che la temperatura di combustione del Binchotan raggiunge anche gli 800°C contro i 400°C di un carbone ordinario. Mi raccomando: ricordatevelo quando vorrete utilizzarlo nel vostro dispositivo! Dispositivi e metodo di cottura Come ho già detto in precedenza, la cottura avviene in dispositivi portatili posti al centro del tavolo e costruiti in acciaio resistente (più raramente in ceramica o in argilla). Il carbone, acceso prima in apposite ciminiere che hanno il compito di velocizzare l’incremento della temperatura, viene successivamente collocato nel dispositivo. Quando la griglia è ben calda, il cibo viene posizionato in cottura diretta e girato molto spesso: lo spessore e la dimensione permettono una veloce cottura, anche grazie al fatto che, come abbiamo appena scoperto, il Binchotan raggiunge temperature

importanti. Spesso i pezzi di cibo vengono infilzati in spiedini, un po’ per facilitare le operazioni di spostamento in griglia e un po’ perché si riesce in questo modo ad addentare più facilmente il gustoso boccone direttamente a fine cottura. Il condimento può essere realizzato con spezie o con immersione in salse particolari (principalmente la salsa tare). È un metodo di cottura sicuramente molto semplice ed elementare, ma conserva un grande fascino e rappresenta la massima espressione della convivialità. Di fatto, è molto riduttivo parlare di bbq giapponese come una mera cottura alla griglia. Seppur di recente affermazione, essa rappresenta una pietra miliare della tradizione culinaria del Paese del Sol Levante. Ora siete pronti alla vostra prima grigliata alla giapponese: non vi resta che procurarvi un carico di Binchotan, un dispositivo resistente alle altissime temperature, gli alimenti giusti (ma in questo caso noi di BBQ4All potremmo essere adatti all’uopo) e una bella comitiva di parenti e amici con cui condividere un’esperienza decisamente affascinante. FEBBRAIO 2020

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SPECIALE GIAPPONE - CURIOSITÀ a cura di MICHELA BONGIORNI

Paes e ch e vai buone maniere che trovi D i e c i s e mp l i c i reg o l e p e r n o n fa re f i g u ra c c e ne l P a e se d e l S o l L e va n t e

Chiunque si interessi un po’ di Galateo, sa che in Italia è assolutamente vietato augurare ai commensali buon appetito così come tirar su rumorosamente i liquidi col cucchiaio; fatelo e vi ritroverete ad essere guardati con aria imbarazzata e schifata. Parlando del Giappone, abbiamo tutti, chi più chi meno, l’idea di un popolo attento alle buone maniere, al bello, alle tradizioni, alle cerimonie. Tuttavia, una cultura così distante dalla nostra spesso potrebbe portarci a imbatterci in situazioni in cui la figuraccia è dietro l’angolo. Certo, i giapponesi sono molto ospitali, e non vi faranno mai notare un gaffe, tuttavia è bene conoscere le basi del loro galateo prima di avventurarsi in Giappone, in modo da sapere quali cose vadano fatte e quali debbano essere assolutamente evitate. Le buone maniere nipponiche sono ben diverse dalle nostre, per cui una piccola guida può esservi utile, anche solo per conoscere usi e costumi tanto distanti da noi.

1. TOGLIERSI LE SCARPE PRIMA DI SEDERSI A TAVOLA

Esatto. So che è una cosa che a molti di voi fa storcere il naso e fa subito pensare al terribile odore degli spogliatoi delle palestre dopo un allenamento intensivo, ma in Giappone è assolutamente imperativo, nella maggior parte dei ristoranti e quando si è ospiti a casa di qualcuno, togliersi le scarpe prima di sedersi a tavola per una cena tradizionale giapponese. Già, sedersi a tavola: per noi potrebbe essere difficile perché non siamo abitua26 - BBQ4All MAGAZINE

ti a stare seduti secondo la loro usanza. Il tavolo basso impone di inginocchiarsi in stile seiza (inginocchiati e seduti sui talloni) sul tatami (pavimento usato nell’arredamento tradizionale giapponese, ovvero una stuoia di paglia di riso pressata, rivestita di giunco intrecciato). Conosco persone che, una volta raggiunta quella posizione, non riuscirebbero più ad alzarsi nei secoli a venire. Ma tant’è. Se volete partecipare a una cena tradizionale, cominciate ad allenarvi (e a tenere puliti e profumati i piedoni).

2. MAI VERSARSI DA BERE DA SOLI. Il padrone di casa serve gli ospiti, poi uno degli ospiti deve servire lui. Inoltre, durante il pasto è buona regola servire i commensali ed aspettare che qualcuno di loro vi versi da bere; in quest’ultimo caso è molto gentile ricambiare il gesto e servire ancora il commensale. Insomma, è un continuo scambio di gentilezze e di attenzioni, che mette da parte l’individualismo e favorisce l’interazione fra i commensali. Lasciare un bicchiere vuoto significa che si vuole ancora da bere, al contrario se non si desidera più essere serviti basta lasciarlo pieno. Insomma, non continuate a svuotare il bicchiere pensando di fare un favore ai padroni di casa, perché continueranno a versarvi sakè, e la cosa a un certo punto potrebbe diventare difficile da gestire. Quando sentite di essere prossimi al coma etilico, smettete.


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3. FARE RUMORE MANGIANDO

Veniamo a una delle cose che più incontrano le nostre resistenze: avete presente il risucchio di vostro nonno quando mangia la minestrina col formaggino, quel rumore che ha su noi lo stesso effetto delle unghie sulla lavagna? Ecco, in Giappone è considerato un segno di apprezzamento del pasto, per cui è un rumore graditissimo. A loro discolpa, possiamo dire che spesso le zuppe ed i brodi serviti caldissimi possono essere, in quel modo, raffreddati e quindi consumati senza che i poveri nipponici si ustionino la lingua e il palato, ma vi accorgerete che lo fanno anche con le vivande fredde, proprio perché quei rumori slurpeggianti stanno a significare un estremo gradimento. Va bene, se andate in Giappone potete anche adattarvi a questi modi, ma in Italia, vi prego, non fatelo mai. Vi prego. Basterà un semplice è squisito e vi crederanno sulla parola.

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4. USARE LE BACCHETTE IN MODO CORRETTO

E qui entriamo in un argomento delicato. Nei vari All you can eat si vedono spesso persone che, per darsi un tono, tengono le bacchette un po’ come viene, tirando su il cibo con gesti ineleganti e goffi. Per farlo correttamente, si deve usare un paio di bacchette con una sola mano, tra il pollice e il resto delle dita, per tirare su qualsiasi tipo di cibo, compresi gli spaghetti tradizionali. Esistono diversi tipi di bacchette: quelle particolarmente lunghe, chiamate saibashi, vengono usate perlopiù per cucinare e per friggere, quelle più corte per mangiare. Ci sono anche quelle più appuntite, che sono molto comode per tirare su il riso e per togliere le lische di pesce. Le bacchette possono essere fatte in bambù e in legno, in metallo, in materiali preziosi come la giada, l’avorio, l’argento o l’oro e anche in plastica. Devono essere riposte sempre in parallelo sul piattino o sul portabacchette, perché appoggiarle sulla tavola è considerato non elegante e non igienico. Devono essere impugnate in modo che le dita siano distanti dal cibo. Quando si prende del cibo dai piatti di portata bisogna usare la parte posteriore delle bacchette, non quella che si porta alla bocca. Potete offrire un assaggio a qualcuno, però prendendo il boccone e mettendolo nel suo piatto, non passandolo direttamente dai vostri bastoncini ai suoi. È anche considerato un gesto portasfiga. Specie quando si mangia il sushi, il pezzo deve essere messo in bocca tutto intero, senza essere frazionato o addentato, quindi non usate le bacchette a mo’ di coltello: se non siete in grado di usarle, sappiate che non è affatto sconveniente usare le mani,


anzi. Tanto, avrete a disposizione le oshibori, ovvero le apposite salviette di spugna, servite spesso inumidite e calde, che servono proprio a pulirsi le mani (non la bocca, non il viso, non la fronte!) tra un boccone e l’altro, e che vanno poi riposte in modo ordinato nella posizione in cui le avete trovate.

5. USARE CON PARSIMONIA SALSA DI SOIA, ZENZERO E WASABI

Ecco un altro punto dolente: in Italia si vedono persone che, sedute al tavolo in attesa di scofanarsi sushi fino a scoppiare, versano nel piattino un lago di salsa di soia e ci sciolgono dentro il wasabi, mescolando forte “...come se facessero la calcina per tirare su un grattacielo!” (cit. di Francesco Preite, cuoco di cui leggerete l’intervista più avanti). Assolutamente non si fa! La salsa di soia dovrebbe essere usata solo per intingere appena il boccone di sushi (dalla parte del pesce e non da quella del riso, altrimenti si sbriciola), in modo che il suo sapore delicato non venga coperto. Il wasabi dovrebbe essere apposto con molta parsimonia direttamente sul boccone. Lo zenzero non dovrebbe essere abbinato al sushi, ma usato per pulirsi la bocca tra un boccone e l’altro. Punto e a capo. Smettete di impastare la calcina. Ora.

zione genuina di gradimento. Ecco, adesso però non prendetela come una sfida: tutto ciò che riesci a mettere in bocca.

7. MAI SOFFIARSI IL NASO

A onor del vero, anche in Italia non è esattamente la cosa che si insegna ai bambini: ehi, quando ti devi soffiare il naso, fallo pure a tavola davanti a tutti e possibilmente in modo rumoroso! Anche da noi, sarebbe buona regola alzarsi e allontanarsi dai commensali che non devono essere costretti a sentire i rumori del muco che esce dalle nostre narici. Tuttavia, in Giappone è considerato maleducatissimo soffiarsi il naso in pubblico in generale, figuriamoci a tavola. Se ne sentite la necessita, dunque, non dovete solo alzarvi e allontanarvi, ma andare a nascondervi in bagno. È paradossale, ma è accettato che, sentendovi colare il naso, voi continuiate a tirar su con le narici, piuttosto che tirar fuori il fazzoletto e dare una bella soffiata.

6. PORZIONI NON ESAGERATE

E anche in questo caso, gli avventori degli all you can eat potrebbero avere un mancamento. La poraccitudine umana che si vede in questi luoghi è sconvolgente, specie se c’è il nastro. Gente che nemmeno si siede per mangiare, prende il piattino e ingolla il pezzo lì sul posto mentre con le manacce sudice subito si avventa sul piattino dopo; gente che rincorre la roba sul nastro facendola cadere nel tentativo di accaparrarsela per rubarla agli altri avventori, gente che prendilo anche se non lo mangi, prendilo che poi non passa più! C’è chi diventa verde ed è sul punto di scoppiare, eppure continua a ordinare roba, perché vive come una sfida la frase tutto quello che riesci a mangiare ed è disposta a rischiare la lavanda gastrica. Di fatto, esagerare con le porzioni è considerato maleducato in Giappone esattamente come da noi. Inoltre, se si è ospiti a casa di qualcuno, è vietato cominciare a mangiare prima che tutte le portate siano state servite. Non è maleducato, invece, mangiare con la guance gonfie di cibo, perché è considerata una dimostra-

8. ITADAKIMASU

Se da noi dire buon appetito prima del pranzo è diventato un po’ cafone perché è come augurare ai commensali di avere più appetito del dovuto e quindi un suggerimento a strafogarsi, non è così per l’Itadakimasu detto prima di un pasto nel paese del Sol Levante; tuttavia non ha lo stesso significato. La parola giapponese significa letteralmente prendo con gratitudine questo cibo. Anticamente era una piccola preghiera per ringraziare il dio del cibo, gli animali e le verdure che avevano sacrificato la loro vita per noi, per ringraziare chi aveva allevato le bestie o coltivato la terra, e infine chi aveva preparato il pasto. Era quindi una vera e propria professione di umiltà di fronte a chi tanto si era prodigato per mettere sulla tavola le cibarie. Adesso è una frase di cortesia, che esprime i princìpi di armonia, convivialità e gratitudine che sono alla base del washoku, la cucina giapponese. Non ditelo, quindi, se non state per mangiare anche voi, perché non è un augurio ma un ringraziamento che state facendo. FEBBRAIO 2020

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9. SOLLEVARE DAL TAVOLO LE CIOTOLE

Le zuppe vengono consumate senza cucchiaio, bevendo direttamente dalla ciotola (rumorosamente, come abbiamo visto poco sopra). Anche se state mangiando il riso, è buona regola sollevare la ciotola dal tavolo, in questo modo: prima abbiate cura di sollevarla con entrambe le mani, quindi passatela sulla sinistra, che la sorreggerà da sotto. A quel punto, con la mano libera, cioè la destra, potete iniziare a mangiare con le bacchette di legno. Quando invece mangiate da un piatto grande, non sollevatelo dal tavolo. A questo punto immaginatevi la scena. Siete seduti in ginocchio, poggiando il sederino sul talloni, avete in una mano la ciotola, nell’altra le bacchette che dovete usare per mangiare gli spaghetti dopo aver bevuto (rumorosamente) il brodo caldo, che però vi ha fatto cominciare a colare il naso: anche volendo non potreste soffiarvelo, ecco perché potete tranquillamente continuare a tirar su con le narici. Tutto torna.

10. UN GRANDE SOSPIRO A FINE PASTO

Appena si è finito di mangiare, è buona educazione fare un grande sospiro per far capire che si è molto gradito il pasto. Anche in questo caso c’è una frase di cortesia da pronunciare, ovvero Gochisousama deshita che suona più o meno come era tutto buonissimo, ma che in origine era detto, di nuovo, per ringraziare chi si era dato tanto da fare per preparare il pasto. L’uso di Gochisousama è stato per molte generazioni considerato come sacro, come se fosse un rituale insieme a Itadakimasu. Entrambi i termini sono usati obbligatoriamente in situazioni formali, ma spesso vengono impiegati anche in momenti colloquiali e informali perché sinonimo di buona educazione. Tuttavia, sembra che l’uso di Itadakimasu si stia un po’ perdendo (specie al ristorante, in molti pensano di non aver nulla di che essere riconoscenti, dato che stanno pagando), mentre resiste meglio Gochisousama, forse perché sopravvive questa forma di cortesia o perché si è perso, nella memoria collettiva, il significato originale che è sempre quello di essere grati. 30 - BBQ4All MAGAZINE


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SPECIALE GIAPPONE - GLOSSARIO a cura di MICHELA BONGIORNI

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ASA GOHAN: è la tipica colazione nipponica. Comprende cibi dal sapore forte, come verdure sottaceto, polpo, pesce secco. Non può mai mancare il riso, cotto per assorbimento e privo di qualsiasi condimento, servito in una scatola laccata con coperchio che lo mantiene caldo.

BENTO: (anche obento) è uno stile di cucina dove diverse

vivande vengono servite in un vassoio o in una scatola, molto utile per le gite fuori porta, durante i viaggi in treno o durante i pic nic.

DOBIN MUSHI: zuppa che viene servita nella teiera (dobin), solitamente accompagnata da mezzo limone per essere insaporita.

DONBURI: è il tipico piatto unico casalingo, preparato in

SAKE: vino ottenuto dalla fermentazione del vino. Per condire o marinare, di solito si usa il mirin, che è un sake più leggero.

SUKIYAKI: simile allo shabu shabu; fettine sottili di manzo cotte in brodo di salsa di soia, zucchero e sake. Sono cotte direttamente al tavolo e poi vengono accompagnate da verdure e tofu.

SUSHI: polpettine di riso cotto tcon aceto di riso, zucchero

e sale, guarnite con pesce crudo o ripiene con pesce e verdure. Esistono maniere diverse di costruire il sushi, indipendentemente dal ripieno. Eccole: Futomaki: polpetta cilindrica con alga nori all'esterno, spessa due o tre centimetri e fatta con tre ripieni all’interno.

molte varianti. Spesso prevede pollo cotto in brodo dashi, poi versato sul riso caldo.

Gunkanzushi: pugnetto di riso avvolto a mano in una striscia di nori, non ripieno ma con gli ingredienti sopra.

KATSUDON: piatto simile al Donburi, fatto con riso, uovo

Hosomaki: polpettina cilindrica con alga nori all’esterno, spessa due centimetri e con un solo ripieno all’interno.

e tonkatsu, cioè cotoletta di vitello o di maiale panata e fritta.

MISOSHIRU: zuppa che prende il nome dal suo ingrediente

principale, il miso. Il miso è una pasta di soia fermentata, ed è utilizzata molto spesso per marinare. Questa zuppa è fatta col brodo dashi, fatto con scaglie di tonnetto essiccato (katsuobushi) e un’alga (konbu), nel quale viene sciolto il miso.

MOCHI: dolce tradizionale giapponese, fatto con pasta di

riso appiccicosa e morbida, tipicamente di forma tondeggiante.

OKONOMIYAKI: piatto tipico di Osaka, fatto con un im-

pasto di farina e cavolo e poi cotto sul teppan, cioè la piastra di ferro calda. Significa letteralmente cucina tutto ciò che vuoi, infatti può essere fatto con moltissimi ingredienti aggiuntivi, dalla carne al pesce, dalle uova alle verdure.

ONIGIRI: involtini a base di riso e alga cruda, di forma triangolare. Possono poi essere farciti con carne e pesce. Molto diffusi sono quelli con all’interno l’umeboshi, una prugna giapponese essiccata con sale.

RAMEN: zuppa con carne, spaghetti di grano, uova e alghe crude. Esistono molte varianti.

SASHIMI: pesce o molluschi freschissimi, tagliati in fettine sottilissime e serviti con una salsa in cui intingerli appena.

Makizushi: polpettina cilindrica formata con l'aiuto di un tappeto di bambù detto makisu. E’ quella più conosciuta dagli occidentali. Nigirizushi: sushi modellato a mano, fatto con una piccola polpettina di riso e pesce crudo appoggiato sopra, fermato a volte con una striscia sottile di alga. Oshizushi: blocco di riso fatto usando una forma di legno detta oshibako. Una volta guarnito e formato, il blocco viene rimosso dalla forma e tagliato in pezzi delle dimensioni di un boccone. Temaki: polpetta a forma di cono, con il nori all'esterno e gli ingredienti che sporgono dall'estremità larga, si mangia con le mani. Uramaki: polpetta cilindrica di dimensioni medie con due o più ripieni. Differisce da altri maki perché il riso è all'esterno ed il ripieno è al centro circondato da un foglio di nori.

TAKOYAKI: polpettine di polpo tipiche della cucina popolare di Osaka.

TEMPURA: tipica frittura mista giapponese. UDON: spaghetti di grano tenero piuttosto grossi, serviti spesso in brodo.

SHABU SHABU: fettine di carne di vitello e di maiale molto sottili che vengono cotte direttamente sul tavolo in un brodo leggero, accompagnate spesso da salse.

YAKINIKU: sottili fettine di carne cotte direttamente sulla

SOBA: spaghetti sottilissimi di grano saraceno, serviti sia

YAKITORI: spiedini di pollo.

griglia.

freddi che caldi, in brodo o asciutti.

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STORIA E TECNICA IN UN PIATTO: IL TEMPURA a cura di ALESSANDRO TREZZI

l'arte di frigge re

TEMPURA

CROCCANTE ASCIUTTO LEGGERISSIMO

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Oggi più che mai l’oriente ha un fascino innegabile in cucina. E nel complesso e variegato mondo asiatico, riveste un ruolo importantissimo il Giappone. Il Paese del Sol Levante è un simbolo indiscusso di quiete, di ricerca del perfezionismo, di disciplina e precisione. La filosofia del Samurai, atta a ricercare la perfezione in ogni gesto, si riversa anche nella vasta cultura gastronomica. Tra i piatti più conosciuti, specie in occidente, c’è il Tempura, ovvero un misto di pesce e/o verdura impastellati separatamente e fritti.

DA DOVE HA ORIGINE?

Quante tipologie ne esistono? E quali sono i segreti per prepararlo al meglio? Scopriamolo insieme. Da Oriente a Occidente, da Occidente a Oriente Ci pensate? Uno dei più celebri piatti della cultura giapponese possiede una forte influenza europea. In origine i fritti venivano preparati senza pastella, con una leggera panatura di farina di riso; fu nella Nagasaki del XVI che, grazie ad alcuni mercanti e missionari portoghesi della regione dell’Alentejo, un intruglio di farina e uova venne acquisito anche dagli abitanti della regione. Il Tempura nasceva per soddisfare una forte esigenza di carattere religioso, dato che all’inizio di ogni stagione i cristiani si astenevano dal mangiare carne per tre giorni (mercoledì, venerdì e sabato). Questi quattro periodi, durante i quali i missionari si cibavano solo di pesce e verdure, erano chiamati in latino Quattro Tempora. Da qui l’etimologia della parola. All’inizio del XVII secolo, intorno alla baia di Tokyo, ingredienti e preparazione del Tempura subirono notevoli cambiamenti, proprio nel momento in cui la cultura Yatai (ovvero quella degli stand gastronomici) acquistava popolarità. In sostanza, si cercava di sfruttare e di valorizzare al meglio le proprietà nutritive e i sapori dei frutti di mare freschi, cercando di preservarne il gusto delicato. Nasceva così il Tempura moderno, una tecnica rimasta invariata fino ad oggi, conosciuta come Stile Tokyo o Stile Edo. Le ricette tempura erano popolari soprattutto nelle bancarelle di cibo che persistevano lungo il fiume, dove l’abbondanza dei prodotti del mare era decisamente più elevata. Anche tale diffusione ha una motivazione ben precisa: durante il periodo Edo era vietato servire cibi fritti in casa, perché l’olio utilizzato per il Tempura rappresentava un pericolo di incendio nell’edificio tipico giapponese, fatto di carta e legno. Ecco perché tali preparazioni hanno guadagnato popolarità come fast food, consumato tra i banchi di cibo all’aperto, infilzato con uno spiedino di legno e mangiato accompagnato dall’immancabile salsa. Il termine Tempura ha ormai guadagnato popolarità soprattutto nel sud del Giappone, dove viene ampiamente utilizzato per riferirsi a qualsiasi tipo di cibo preparato usando olio caldo. FEBBRAIO 2020

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LA PASTELLA PERFETTA

Dimenticatevi qualsiasi impanatura a cui siate abituati. Nel Paese del Sol Levante hanno tecniche precise e secolari per rendere i fritti croccanti, asciutti e leggerissimi. Per quanto sia opzionale e molto comune l’uso dell’uovo, per le motivazioni già citate la pastella più diffusa è composta solo da farina debole e acqua molto fredda (in rapporto di 2:3), il tutto mescolato minimamente per mezzo di bacchette di legno. Questo evita la viscosità tipica di un impasto, causata dalla formazione del glutine del grano data dall’unione tra gliadina e glutenina (due proteine contenute nella farina), che impedisce di raggiungere il grado di croccantezza desiderato, perché renderebbe il prodotto morbido e simile ad una frittella. L’utilizzo di acqua frizzante può agevolare il raggiungimento di una consistenza più ariosa, in quanto l’anidride carbonica contenuta fa gonfiare maggiormente la pastella nella fase di cottura. Altri ingredienti, come bicarbonato di sodio, lievito, amido di mais, olio e spezie per aromatizzare la pastella sono previsti in varie versioni, ma vanno contro l’obiettivo principale della preparazione: esaltare il gusto docile e pacato dei frutti di mare.

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Vi stupirà sapere che i grumi sono volutamente lasciati nella miscela. Saranno proprio quei grumi, insieme allo sbalzo termico dovuto all’immersione di una massa fredda nell’olio molto caldo, a condurre all’esclusiva struttura soffice e croccante del Tempura. Per accentuare tale differenza di temperatura, la pastella viene spesso mescolata all’interno di una ciotola precedentemente conservata nel congelatore. Contrariamente a quanto qualcuno potrebbe pensare, il Tempura giapponese non utilizza pangrattato (o Panko, il tipico preparato orientale) per il rivestimento. I fritti ricoperti vengono denominati Furai, ovvero cibi in stile occidentale inventati in Giappone, come ad esempio il Tonkatsu (maiale impanato e fritto) e l’Ebi Furai (un piatto composto da gamberi fritti).

LA FRITTURA PERFETTA

Fondamentale, come in tutti i fritti, è tenere a mente tre condizioni necessarie e sufficienti: 1. Lo spessore degli ingredienti deve essere quanto più similare possibile, per evitare differenze di cottura; 2. friggere pochi pezzi alla volta impedisce alla temperatura dell’olio di calare rapidamente, mantenendo stabile il tempo di cottura ed evitando quindi che la pastella possa assorbire olio e risultare pesante; 3. rispettare il punto di fumo dell’olio utilizzato per la cottura impedisce a quest’ultimo di bruciare e di conferire un gusto amaro al fritto, oltre a non generare acrilammide e a ridurre il rischio di cibi cancerogeni. Oltre a tali nozioni di base, c’è da dire che i giapponesi tradizionalmente friggevano nei più comuni (per loro, si intende) olio di sesamo o olio di semi di tè, sebbene nei Quattro Tempora si utilizzasse principalmente lardo. Siamo onesti, da noi queste tipologie d’olio non sono poi così diffuse e costano uno sproposito. Meglio lavorare piuttosto con un buon olio di semi di arachide (punto di fumo 230 °C), mantenendo la temperatura intorno ai 170-180 °C. Se non si dispone di un termometro (anche se sono sicuro che, da amante del BBQ, ne avrai a tonnellate) puoi fare una prova semplicissima: immergi un pezzettino di pastella, e se va in fondo al tuo Wok per poi subito risalire significa che l’olio è pronto. Gocce di pastella vengono letteralmente gettate sui pezzi durante la frittura, in modo da formare le classiche increspature croccanti e saporite. Quel che rimane nell’olio (noto come tenkasu) viene recuperato con un piccolo cucchiaio denominato Ami Jakushi (non preoccuparti, puoi benissimo usare un comune ragno o una schiumarola), e servito anche in piatti dedicati.

leggero di pesce della cucina giapponese), una parte di mirin (sakè dolce) e una di shoyu (salsa di soia). In alternativa, il Tempura è cosparso da sale marino o ancor più da un misto di sale e tè verde in polvere. È possibile trovarlo in combinazione con altri alimenti, come sopra il Soba (la pasta di grano saraceno), oppure come piatto Donburi, dove gamberi e verdure vengono serviti sopra del riso al vapore, o ancora sopra la zuppa di Udon (la pasta di grano tenero molto lunga e spessa).

DI TEMPURA IN TEMPURA

Esistono, neanche a dirlo, svariate tipologie di Tempura, definibili in base all’ingrediente principale che viene fritto in pastella. Si parte dagli immancabili Ebi (gamberi e gamberetti), popolarissimi in ogni piatto tempura, per passare ai Sakana (pesce), filetti o piccoli pesci come il merlano giapponese, i bianchetti, il ghiozzo o lo sweetfish (Ayu o Plecoglossus altivelis) Dalle proteine più comuni si arriva alle componenti vegetariane. Le Nasu sono melanzane giapponesi, che a seconda della dimensione possono essere tagliate a rondelle, o a metà, o ancora a ventaglio per intento coreografico. Diconsi Kinoko i funghi fritti, popolarissimi anch’essi per il Tempura, specialmente i maitake o i celeberrimi shiitake. Quando è stagione, trova spazio nei piatti anche la Kabocha, una varietà di zucca del Sol Levante dalla pelle sottile tipicamente verde scura, che viene lasciata anch’essa in cottura insieme alla polpa color arancio. Le Satsumaimo sono patate dolci giapponesi con una pelle violacea e la pasta gialla. Vengono tagliate finemente e ne viene conservata la buccia, e richiedono qualche minuto più di cottura a causa della loro consistenza. Se fritte da sole, è consigliabile cuocerle a temperatura più bassa, intorno ai 150-160 °C. Ingrediente molto tipico delle fritture è lo Shiso, foglie dai sentori molto simili alla menta che vengono utilizzati come guarnizioni insieme al sashimi, ma che trovano spazio per arricchire di sapore anche il Tempura. Last but not least, non è raro trovare il Kakiage nei menu Tempura: un impasto vero e proprio, realizzato pressando delle varietà di verdura tagliate a julienne e qualche frutto di mare tenuti insieme dalla pastella, e fritto ovviamente a temperature inferiori. Può esser servito come aperitivo, contorno o come topping in una ciotola di riso o di noodles.

Il servizio perfetto Una volta cotto, il Tempura viene consumato insieme a una salsa nella quale si immerge rapidamente pezzo dopo pezzo, oppure utilizzato per assemblare altri piatti. Viene comunemente accompagnato al Daikon, una varietà di ravanello bianca e allungata, e consumato caldo. La salsa più tipica è la Tentsuyu, composta da tre parti di dashi (il tipico brodo FEBBRAIO 2020

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STORIA E TECNICA IN UN PIATTO: IL SUSHI a cura di CARLO e GIUSY TRONO

AMORE T I VA I L S U S H I ? Prepariamocelo da soli!

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Ormai è ovunque, più invadente degli alieni di Mars Attacks Tutti lo propongono: i giapponesi (pochi), i cinesi (troppi!), gli italiani (in genere sposati con un orientale o quelli che si sono fatti un viaggio nel Sol Levante e sono tornati in patria con l’ideona imprenditoriale del secolo), probabilmente anche qualche egiziano che si è stancato di infornare pizze. Lo si trova a tutti i livelli della ristorazione: c’è quello realizzato dallo Chef così importante da potersi permettere di rimandare al mittente le celebri Tre stelle Michelin, passando per il localino gastro-romantico-fighetto per coppiette innamorate (l’ideale per farsi perdonare qualcosa), fino ad arrivare al temibile all-you-can-eat a 14,90€ bevande escluse, dove tutti noi, anche se non l’ammetteremo mai, siamo andati almeno una volta nella vita, cercando di segnare un nuovo record nella sfida tra uomo e cibo. Senza sapere che dopo il trentesimo piatto di nigiri ordinato al tavolo, in cucina iniziano ad impastare il riso con cemento, ghiaia e sabbia. La popolarità e la capacità di penetrazione di questo alimento nelle diverse fasce di reddito ricorda molto quello dell’hamburger, anch’esso reperibile sul mercato con prezzi che vanno da 1€ fino ad assurde cifre con tre zeri. In effetti, il sushi e la celebre polpetta di manzo hanno una matrice comune: entrambi nascono come preparazioni fast food. Ma facciamo un passo indietro. Il pesce è sempre stata la principale fonte di proteine per i popoli affacciati sul pescosissimo Oceano Pacifico; in attesa che qualcuno inventasse l’elettricità e i frigoriferi, in antichità erano necessarie delle tecniche che permettessero la conservazione degli alimenti a lungo. I cinesi già duemila anni fa conservavano per diversi mesi il pesce (eviscerato, squamato, salato e fatto precedentemente fermentare in una pressa per un periodo da dieci giorni ad un mese) all’interno di barili di riso bollito freddo; la produzione di acido lattico modificava il gusto del pesce e permetteva la sua conservazione anche per un anno. All’apertura dei barili, il riso era ridotto ad una poco invitantemelma viscosa, quindi veniva scartato. I giapponesi iniziarono ad importare e replicare questo prodotto nel periodo Nara (710-784 d.C.), chiamandolo narezushi, (sushi stagionato) che possiamo ritenere essere la forma primordiale di sushi. E qui scatta la prima sorpresa: il sushi l’hanno inventato i cinesi, non i giapponesi. Nei secoli successivi, il popolo del Sol Levante modificò la preparazione originale al fine di consumare il prezioso riso insieme al pesce. Nel periodo Muromachi (tra il 1336 e il 1573 d.C.), una delle epoche di maggiore fioritura culturale nella storia del Giappone, era divenuto molto diffuso il namanare-zushi (sushi crudo), il quale veniva consumato entro massimo dieci giorni dalla produzione, quindi molto prima che i processi di fermentazione intensificassero il gusto rendendolo particolarmente complesso e distante da quello che conosciamo oggi. Nel periodo Edo comparve il vero precursore del sushi come lo conosciamo oggi, ovvero l’haya-zushi (sushi veloce). In questa preparazione il riso bollito veniva condito con aceto di riso, ricreando in maniera rapida l’acidificazione provocata dall’acido lattico durante la lunga fermentazione, ma ottenendo al contempo un gusto molto diverso. Questo cibo era concepito per essere realizzato e consumato rapidamente, avendo perso la necessità di conservazione dei suoi predecessori. Di questa tipologia di sushi ne furono create numerose varianti (sugata-zushi , bo-zushi, oshi-zushi), ma quello di maggior successo commerciale fu senza dubbio il nigiri-zushi, inventato nel FEBBRAIO 2020

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1820 dallo chef Hanaya Yohei (per gli amici Yoshi, come l’amico di Super Mario). Questa polpetta allungata di riso sormontata da un filetto di pesce divenne l’equivalente dell’hamburger o dell’hot-dog per i giapponesi: un cibo facile e veloce, almeno per la concezione dei nipponici, da consumare con una mano sola, prima di entrare a teatro o nel dopo lavoro, seduti a sorseggiare sakè nelle celebri bancarelle ambulanti con le tendine che abbiamo visto milioni di volte da piccoli nei cartoni animati. Nel dopoguerra iniziarono a diffondersi anche in Giappone i sistemi di refrigerazione; aumentarono le varianti con aggiunta di altri ingredienti (ai nigiri si affiancano i vari makizushi, sushi arrotolati con riso, verdure, alga nori essiccata), comparvero le prime forme di asporto, con box prima in legno e successivamente in polistirolo, ed infine, ci fu il boom dei celebri

kaiten-zushi (sushi su nastro trasportatore), o sushi-bar, locali fast-food nei quali le varie tipologie di sushi vengono posti dai cuochi su un nastro trasportatore che corre lungo il bancone dove sono seduti i commensali . Negli anni sessanta, il sushi sbarca negli States ad opera di alcuni chef giapponesi emigrati, i quali, per vincere l’avversione degli americani per il pesce crudo, pensarono bene di aggiungere ai maki ingredienti come il surimi, la polpa di granchio, il formaggio spalmabile, l’avocado, dando vita ai vari Philadelphia Rolls (ve la ricordate Kaori nella pubblicità degli anni ’90?), California Rolls, Tiger Rolls e via dicendo. Da lì, il passo per invadere l’intero globo terrestre fu facile, con una infinità di varianti e contaminazioni, tra le quali possiamo trovare delle vere eccellenze, ma anche degli assoluti orrori gastronomici. Ad esempio il sushi-pizza, che ovviamente non è stato inventato da un italiano ma da canadesi, i quali prima o poi dovranno rendere conto a qualche divinità per questo crimine.

COME SI PREPARA IL SUSHI?

Il sushi è un cibo facile e veloce. Ma quando mai? Forse per la concezione dei nipponici, ma per noi occidentali la preparazione di questo cibo costituisce un notevole impegno. Ci sono molti passaggi da eseguire con attenzione maniacale per evitare di rovinare il risultato finale. La chiave è l’attenzione ai dettagli. Disgustati dai pessimi all-you-can-eat, un bel giorno abbiamo deciso di fare un corso serio per poterci preparare il sushi a casa, in modo da mangiarlo ogni volta che volevamo senza diventare macchine sparabolle per una settimana. Ecco ciò che abbiamo imparato.

IL RISO

Il sumeshi (riso all’aceto) è la base fondamentale per la realizzazione di un buon sushi. Per fare un parallelo con la cucina italiana, ha la stessa importanza della sfoglia di pasta fresca nella preparazione dei tortellini. Deve avere una consistenza tale da poter essere raccolto in palline, ma al contempo si deve sgranare immediatamente in bocca senza sembrare col-

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loso al palato; il sapore deve essere una perfetta combinazione agrodolce, che accarezzi il pesce crudo accompagnandolo senza sovrastare il suo gusto delicato. I cuochi giapponesi devono superare un apprendistato di due anni solo sulla preparazione dei riso, prima di passare alle fasi successive. Il riso perfetto è ovviamente quello di alta qualità, con chicchi corti e bianchi. La varietà più pregiata è il Koshihikari, coltivato in Giappone ma anche in Australia e in California. Altre varietà derivate da incroci sono Akitakomachi, Hitomebore e Hinohikari. Da non usare assolutamente il riso Mochigome, caratterizzato da un altissimo tenore di amido e utilizzato per questo motivo per la realizzazione del gelatinoso dolce mochi. Dobbiamo necessariamente usare del riso giapponese? No! Possiamo utilizzare un comunissimo, italianissimo e facilmente reperibile riso Originario (purché sia di buona qualità). Questo riso infatti è anch’esso una cultivar facente parte della subspecie japonica, caratterizzato da chicchi piccoli, tondi e con un discreto quantitativo di amilopectina al suo interno. In parole più semplice, il nostro Originario è un cugino di primo grado del Koshihikari. Anche l’Arborio, il Vialone Nano e il Carnaroli fanno parte della subspecie japonica, ma rispetto all’Originario sono meno tondeggianti, hanno una maggiore quantità di amilopectina e soprattutto tengono maggiormente la cottura, per questo sono più adatti a sontuosi risotti. Un aspetto importante: il riso deve essere stagionato da 6 a 12 mesi dalla raccolta. Risi più vecchi richiedono una maggiore quantità di acqua, e potrebbero rivelarsi inadatti alla preparazione. La quantità di riso necessaria è pari ad una tazza ogni 3 roll. Da ogni roll si ricavano dai 6 agli 8 pezzi di sushi, ed in genere si calcolano almeno due roll per ogni persona (lasciate perdere per un attimo le quantità che ingurgitate negli all-you-can-eat). Prima di essere cotto, il riso va accuratamente sciacquato in un filtro a maglia fine sotto l’acqua corrente, oppure delicatamente lavato in un contenitore cambiando più volte l’acqua fino a che questa non diventa da torbida a trasparente. Lo scopo è eliminare più amido possibile, in modo da evitare l’effetto colloso. Questo passaggio è fondamentale, ed è necessario ripeterlo anche dalle quattro alle sette volte. Dopo aver completato questa operazione, il riso va tenuto a riposo per qualche minuto all’asciutto prima di procedere alla fase successiva. Per cuocere il riso correttamente bisogna considerare un rapporto tra riso e acqua che va da 1:1,1 a 1:1,2 nel caso di un riso più stagionato. Questo vuol dire che, per un riso di sei mesi dalla raccolta, ogni 3 tazze di riso, avremo bisogno di 3 tazze più 1/3 di acqua. Il modo più semplice per cuocere il riso è utilizzare l’apposito cuociriso a vapore, dove è sufficiente accendere

la macchina, inserire riso e acqua e dimenticarsene fino a che non scatta il timer preimpostato. In mancanza di questo elettrodomestico, il riso può essere preparato per assorbimento: si fa bollire l’acqua su una pentola dal fondo spesso, si aggiunge il riso e si attende la ripresa del bollore, dopo di che si abbassa la fiamma al minimo e si fa sobbollire per 15 minuti con un coperchio pesante ed ermetico. Al termine di questo tempo si spegne la fiamma e si lascia il tempo necessario affinché il riso assorba tutta l’acqua (ci vorranno all’incirca altri 10 minuti). Mentre il riso cuoce, è possibile preparare il sushizu, ovvero il condimento: per ogni tazza di riso va messo in una casseruola 1/4 di tazza di aceto di riso, 3 cucchiai di zucchero e 1 cucchiaino di sale. Volendo dare maggiore sapidità al condimento, si può mettere in infusione anche una strisciolina di alga nori. Il composto va scaldato e mescolato fino a che sale e zucchero saranno disciolti. Le proporzioni del sushizu possono variare in base al gusto personale, ed è anche possibile utilizzare quello già pronto facilmente reperibili nei supermercati ben forniti. Se non troviamo questo prodotto e nemmeno l’aceto di riso, è possibile ottenere un buon compromesso utilizzando dell’aceto di mele e bilanciando l’acidità con una quantità lievemente maggiore di zucchero. Una volta cotto, il riso va riversato in una teglia di materiale inerte e va formato uno strato di massimo cinque cm di altezza, utilizzando una paletta in legno e stando accorti a non schiacciare i chicchi. Il condimento va aggiunto a caldo versandolo direttamente sul riso mentre con la paletta in legno si mescolerà il tutto senza schiacciare o impastare, ma eseguendo dei “tagli” longitudinali. Contemporaneamente, mentre versate con una mano il condimento e con l’altra manipolate la paletta di legno, con la terza mano dovrete agitare un ventaglio per raffreddare rapidamente il riso. Se siete la dea Kalì, non avrete problemi in questa operazione; se siete invece dei comuni mortali, obbligate il vostro compagno ad aiutarvi. Se siete single, andrà benissimo un discreto ventilatore. Continuate l’operazione fino a che il riso smetterà di emettere vapore e i chicchi assumeranno un aspetto lucido, quasi laccato. Provate a formare una pallina con una lieve pressione: se si tiene insieme ma si sgrana con altrettanta facilità avrete fatto un buon lavoro. Proteggete il vostro sumeshi così faticosaFEBBRAIO 2020

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fettua un momento in uscita, tirando a sé l’utensile facendo scorrere la lama verso la punta. Oltre a tanto allenamento, per ottenere questo risultato è consigliabile utilizzare un coltello estremamente affilato e dalla lama lunga; l’ideale è lo Yanagi-ba, il coltello tradizionale giapponese ottenuto con le stesse tecniche artigiane delle spade dei samurai. Nei makizushi il taglio può essere effettuato più tranquillamente, per quanto mantenere l’inclinazione a 30°-45° rispetto al tagliere renda sempre il risultato migliore al palato, accorciando le fibre di connettivo che rendono spiacevole la masticazione dell’alimento. I makizushi, così come nei temaki (realizzati dando all’alga nori la forma di un cono, dove infilare di tutto a mo’ di cuoppo napoletano), sono ideali per sfruttare gli avanzi che rimangono dal taglio delle fette. mente realizzato conservandolo a temperatura ambiente (se lo mettete in frigo fate un disastro) con un canovaccio bagnato e strizzato sopra, e passate agli altri ingredienti.

IL PESCE E GLI ALTRI INGREDIENTI

Una volta realizzato il sumeshi, il più dovrebbe essere fatto, vero? E invece no. Adesso bisogna cacciare le lame. Qui c’è da fare una scelta in base alla propria capacità manuale: se siete bravi con il coltello, allora potete cimentarvi nella realizzazione dei nigiri. Se non siete capaci di ottenere delle belle fette, allora conviene nascondere il tutto all’interno dei makizushi. Se non riuscite ad ottenere i rotolini, potete optare per un chirashizushi (riso servito in una ciotola o in una scatola laccata, con pezzi di pesce sparsi sopra). Se non sapete fare nemmeno questo, andate all’all-you-can-eat. Nei nigiri, il taglio del pesce deve avvenire in modo tale da agevolare al massimo la masticazione ed esaltare la tenerezza quasi scioglievole di questa proteina. Per ottenere questo risultato, è necessario tagliare ortogonalmente alle linee del tessuto connettivo, mantenendo al contempo una inclinazione della lama di 45° rispetto al tagliere; a metà del taglio, la lama va inclinata ulteriormente per ottenere una fetta con maggiore superficie e con una forma a conchiglietta, utile per aderire alla quenelle di riso che caratterizza il nigiri. Questo taglio va effettuato in un unico movimento, senza intoppi o strappi, per ottenere una fetta di pesce dalla superficie perfettamente liscia, senza segni di taglio o seghettature; la lama non va spinta verso l’alimento, ma si appoggia il tagliente alla superficie e, senza applicare alcuna pressione, si ef42 - BBQ4All MAGAZINE

Che pesce utilizzare? Qualsiasi! I sushi-bar giapponesi sono caratterizzati da una varietà incredibile di tipologie, che scaturiscono dalla grande diversità di pesci che popolano (probabilmente ancora per poco) il Mar del Giappone. Chiaramente i pesci più grandi sono più semplici da lavorare, quindi per chi inizia è opportuno utilizzare dei filetti di tonno, salmone o sgombro. Se si utilizzano delle materie prime crude, è importante verificare qualità e salubrità: per stare tranquilli, è opportuno scegliere solo prodotti correttamente abbattuti, per ridurre il rischio da contaminazione di anisakis o da altri parassiti. Oltre al pesce crudo, potete utilizzare gamberi crudi o cotti, filetti di pesce affumicato o scottato sulla piastra, dei ritagli di frittatina, o addirittura della carne: vi abbiamo già parlato dei


Per realizzare i maki, si utilizza la classica stuoietta di bambù (consigliabile avvolgerla completamente con la pellicola) o di silicone. Sulla stuoietta viene appoggiata un quadrato o un rettangolo di alga nori, sul quale viene distribuito uno strato sottile e omogeneo di riso, facendo attenzione a non schiacciare i chicchi. E’ importante lasciare una striscia finale di alga libera, che ci sarà utile per richiudere il sushi. Gli ingredienti vengono posizionati entro il terzo più vicino a noi del quadrato di alga nori, percorrendo tutta la larghezza del rotolino. A questo punto, aiutandosi con la stuoia, viene chiuso progressivamente il maki, procedendo un terzo alla volta e compattando accuratamente ad ogni giro con polpastrelli e palmo di entrambe le mani, partendo dal centro verso le due estremità del cilindro. Chiuso il rotolino, va pressato lievemente ai lati per evitare che il riso fuoriesca durante il taglio.

nigiri di wagyu nel numero di dicembre 2018, il mitico numero zero del BBQ4All Magazine. In genere nei nigiri, gli alimenti cotti vengono contraddistinti da un anello di alga nori che li lega come una cintura intorno alla polpettina di riso. Nei nigiri non si includono altri ingredienti oltre al riso e alla proteina. Nei maki invece c’è ampio spazio all’utilizzo di alga nori, di semi (sesamo, papavero), di verdure, di ortaggi (cetrioli, porri), di frutta (avocado), di formaggi spalmabili e di qualsiasi altro ingrediente suggerito dall’unione delle diverse culture (no, la pizza NO!). Verdure e frutta devono essere tagliate a bastoncini, sottili ma sufficientemente lunghi per percorrere buona parte della lunghezza del rotolino. Bisogna fare particolare attenzione alla scelta dell’alga nori: in commercio si trova sotto forma di fogli conservati sottovuoto. Se il colore del foglio è tendente al marrone, vorrà dire che l’alga è troppo vecchia e si spezzerà durante la formazione dei maki; se invece è verde scuro, allora può essere utilizzata senza problemi.

DARE UNA FORMA

Una volta preparati il riso e gli altri ingredienti, è arrivato il momento di assemblare il tutto. Per manipolare il riso, è necessario avere le mani bagnate da acqua o da una miscela di acqua e aceto di riso, per questo è conveniente avere a portata di mano una vaschetta piena. Se avete effettuato correttamente i passaggi precedenti, realizzare i nigiri sarà a questo punto abbastanza semplice. Basterà dare al riso la forma di una polpetta allungata, senza comprimere eccessivamente i chicchi nella mano, per poi sormontare il tutto con l’ingrediente abbinato. Se vogliamo utilizzare un ingrediente cotto sul nigiri, avvolgeremo riso e proteina con una strisciolina di alga nori, inumidita in modo da essere plasmabile ad anello e sufficientemente appiccicosa. Fate attenzione alle dimensioni: il nigiri va consumato in uno o massimo due morsi, quindi evitate di dare forma ad un’arancina palermitana!

La distribuzione degli ingredienti, nonché la dimensione del rotolo, determinano le principali varietà di maki. I rotoli sottili con un singolo ingrediente sono chiamati hosomaki (rotoli magri); i due più classici esempi di questa categoria sono il tekkamaki (involtini di tonno) e il kappamaki (involtini di cetriolo, spesso mangiati come intermediario per la pulizia del palato tra le diverse varietà di pesce). I rotoli spessi con più ingredienti (generalmente tre) sono chiamati futomaki (rotoli grassi); il California Roll è un classico esempio americano di questo stile, mentre in Giappone i ripieni sono in genere un mix di verdure e sottaceti, scelti per i colori e i sapori complementari tra loro. Disponendo il riso all’estero e l’alga all’interno, a contatto con gli ingredienti aggiuntivi, otteniamo gli uramaki. Un caso a parte è il già citato temaki, costituito da un mezzo foglio di nori avvolto in una forma a cono attorno al sumeshi e ai vari ripieni, che vanno da una vasta scelta di verdure e sottaceti al pesce crudo e cotto, in filetti o in tartare battute finemente, spesso a base di tonno piccante o salmone. Una volta formati, i rotolini vanno lasciati riposare per qualche minuto, idealmente fino a pochi istanti prima del servizio. In questo modo l’alga assorbe parte dell’umidità del riso, diventando più cedevole al taglio e alla masticazione. I rotoli vanno tagliati prima in due parti e successivamente ogni parte va divisa in altre tre o quattro parti, in modo da ottenere da ogni rotolo dai sei agli otto pezzi. Per tagliare più agevolmente il rotolino è consigliabile mantenere bagnata la lama.

COME SI SERVE E COME SI CONSUMA

Il sushi viene comunemente accompagnato con una ciotolina di salsa di soia, una punta di wasabi e delle fette sottili di gari, ovvero dello zenzero marinato in una soluzione di acqua, zucchero e aceto. Quest'ultime, così come i kappamaki a base di cetriolo, vanno utilizzate per pulire il palato tra una tipologia di sushi e l’altra. Vi raccomandiamo di ripassare le regole del galateo a tavola già indicate nell'articolo dedicato. A questo punto, non ci resta che augurarvi itadakimasu! FEBBRAIO 2020

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STORIA E TECNICA IN UN PIATTO: IL RAMEN a cura di ALESSIA MORABITO

U N A STO R I A DI RAMEN

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Noi cuochi siamo animali strani e, prima che scoppiasse la bolla mediatica, ci aggiravamo indisturbati e piuttosto solitari, con ambizioni realistiche, nascondendoci tra le cucine di mezzo mondo, mischiandoci per nazionalità e scambiandoci qualche parola in inglese. Le case erano condivise, sgraziate, vuote mentre scorrevano le nostre interminabili giornate di lavoro. Il giorno di chiusura del ristorante ci sorprendevano il disagio, la spossatezza fisica e una specie di “paura del vuoto”, un misto di solitudine e nostalgia che facevamo tutti fatica a riempire di parole… lo riempivamo di musica e di cibo, a turno, preparando i nostri comfort food. Non ricordo Hisashi di dove fosse originario e dove possa essere adesso, son passati più di 15 anni e nonostante i social ci siamo persi di vista, ma il mio primo Ramen è il suo. E’ pomeriggio, ho il cappotto sopra il pigiama, sono sul retro del cucinotto di casa, carico l’asciugatrice col bucato di lavoro e mi sorprende un buon profumo di brodo, intenso, confortevole. Vado in cucina, lui sorride, il lavandino che ricordavo stracolmo di tazze è sgombero e pulito, sul fornello a piastra c’è una pentola, in forno una teglia, sul tavolo un’insalatiera di vetro con dentro uova sode senza guscio immerse in un liquido scuro. Hisashi sorride. - Cup of tea? - Yes thanks - Wait for you at 19. Eat together. Eat all together… - lo dice facendo un segno circolare col dito come a dire tutti quelli di casa, un gesto imparato in cucina- Thanks Hisashi Esco dalla cucina con la mia tazza mug fumante, allegra di non dover decidere cosa mangiare per cena e pensando che dovrei proprio comprare delle birre. Nella giornata non incontro gli altri, forse dormono, forse sono usciti; fuori è freddo, io passo la giornata a leggere, in pigiama, poi mi vesto e vado a prendere le birre, in bottiglia. Siamo in cucina, siamo in 5, tutti in piedi, fuori è già buio, forse piove, non siamo in pigiama ed ognuno sorseggia una birra; sul tavolo una coppia di bacchette ciascuno e un cucchiaio, uno di noi, ovviamente Hisashi, è di fronte a 5 ciotole/tazze/insalatiere. Di schiena, con grazia ma con ritmo, lo vedo mettere cose dentro le ciotole, dalla prima all’ultima, di seguito, molte volte di seguito. Nell’ultimo passaggio mette un grosso mestolo di brodo e tappa ogni ciotola con un piatto rovesciato - Wait 3 minutes! - facendo tre con le dita della mano destra. Controlla l’orologio ed uno ad uno toglie i piatti da sopra le ciotole e ce le porge. Noi siamo silenziosi, appoggiamo la birra sul tavolo e prendiamo la scodella con entrambe le mani, sprofondando il viso sulla nuvola di fumo. Silenziosi e ipnotizzati ci sediamo. Il nostro viso, allontanato dalla nuvola di vapore, mette a fuoco ciò che si trova dentro la ciotola: brodo, pasta lunga, uovo non troppo sodato diviso a metà, carne, il verde del cipollotto, germogli di soya e un cerchietto bianco e rosa che sembra una moneta di plastica. Gli spaghettini in brodo con il lesso sfilacciato erano un classico invernale di mia madre, riconosco questo cibo, familiare eppure diverso; qualcuno lo ha cucinato per me ed io gli sono grata, lo guardo, gli sorrido, sorrido forte, si vede che sono felice. Hisashi ha gli occhi che ridono e accenna un piccolo inchino con la testa, prende il cucchiaio e ci esorta ad iniziare partendo dal brodo. A quel punto io torno bimba. FEBBRAIO 2020

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È questo il mio primo ricordo legato al ramen, da allora è il cibo che cerco, e che funziona, per curare la malinconia. Ma se sei una cuoca malata cronica di malinconia, non basta mangiare il ramen per stare meglio, ti applichi per impararlo. Di preciso, il piatto che chiamiamo Ramen cos’è? E’ un piatto unico composto di 4 elementi di base: brodo, pasta, tare, topping. Il brodo da ramen è la combinazione di 2 brodi diversi: quello di base (Assari o Kotteri) e il brodo Dashi. Il brodo Assari si distingue per la limpidezza: è chiaro, ottenuto da carne, pesce e/o verdura cotti per poco tempo (4 ore circa) e a bassa temperatura, ha l’aspetto simile al nostro brodo italiano. Il brodo Kotteri è denso, opaco, ricco di grassi, minerali e proteine, è quasi sempre il risultato di carne spesso grassa, bollita molto a lungo e fuoco sostenuto. Il popolare Ramen Tonkotsu ha di base un brodo bianco e denso ricavato dalla cottura di ossa di maiale per circa 48 ore. Il brodo Dashi è ciò che distingue il ramen giapponese dalle altre preparazioni di pasta in brodo presenti in tutta l’Asia. È ricavato dall’infusione di un’alga bruna di profondità, la kombu, e fiocchi di tonno essiccato, fermentato e leggermente affumicato, il katsuobushi. La combinazione di questi due ingredienti caratterizza la cucina giapponese; la percezione del gusto ricca ed avvolgente, l’umami, è un vero e proprio sesto gusto (gli altri sono acido, amaro, dolce, piccante, salato) che, invece di sollecitare solo alcune aree specifiche delle papille gustative, le accende tutte ed è in grado di far risaltare al massimo il sapore degli altri ingredienti, riducendo in tal modo l’uso di sale e di grassi aggiunti. Spesso gli ingredienti del Dashi vengono cotti direttamente nel brodo di base. Spesso brodo Assari e brodo Kotteri vengono mixati assieme. Come spesso avviene nella gastronomia nipponica, il Ramen è un piatto importato e naturalizzato giapponese nel secondo ‘800, ma è la pasta l’ingrediente che rivela la sua vera origine. Farina di grano duro, sale e acqua alcalina del lago Kan, l’acqua kansui che contiene carbonato di sodio e carbonato di potassio: questi gli ingredienti dei noodles più tipici per il ramen che, infatti, sono comunemente chiamati men. Il kansui fa sì che vengano rilasciati dei pigmenti che conferiscono appunto la tipica sfumatura gialla ai noodles; inoltre li rende elastici e aumenta la loro capacità di assorbire l’acqua e il brodo senza scuocere. Nel primo dopoguerra il governo giapponese, tra effetto nucleare e pessime, scarse raccolte di riso, fu costretto a importare grano e farina dal governo degli Stati Uniti. Gli spaghetti di frumento divennero un’integrazione fondamentale della dieta 46 - BBQ4All MAGAZINE

nazionale nipponica. Con un’intuizione geniale, alla fine degli anni ’50 Momofuku Ando, fondatore dell’azienda Nissin Food, inventò e commercializzo i noodles istantanei. L’introduzione del ramen istantaneo in un contenitore termico di polistirolo, pronto a ricevere l’acqua calda per reidratarlo e la divertentissima campagna pubblicitaria degli anni ’80 ne hanno decretato l’incredibile successo popolare e internazionale. Come nota di costume, sono il cibo consumato spessissimo dall’ispettore Zenigata nel cartoon Lupin. Secondo il sondaggio effettuato nel 2000 dall’ormai mitica rivista “Lucky Peach”, i giapponesi hanno decretato il ramen istantaneo come la loro migliore innovazione del ventesimo secolo. I tipi di men sono fondamentalmente tre: dritti sottili, arricciati di medio spessore e arricciati spessi. Altri tipi di pasta che si possono trovare nel ramen sono: Udon: spaghettoni realizzati con farina di grano tenero, acqua e sale, sono quelli che vengono tirati a vista in molti ristoranti. Si servono anche saltati. Somen: lo stesso impasto degli udon ma in spaghetti sottili; si mangiano prevalentemente freddi. Soba: sono spaghettini di grano saraceno, il loro uso è prevalente nelle zuppe fredde ma si usano anche caldi. Shirataki: letteralmente significa cascata bianca, sono ricavati dalla radice di konjak (una specie di calla), hanno apporto calorico molto basso e praticamente non contengono carboidrati.


Il Tare è l’aromatizzazione predominante, ciò che definisce il tipo di ramen anche nel nome, e lo caratterizza a seconda della zona di provenienza, dello stile del ristorante e dello stile personale dello Chef. La classificazione ufficiale ne prevede tre: shio ovvero sale, shoyu con l’aggiunta di salsa di soya, miso con l’aggiunta di un fermentato in crema di soia, riso, orzo etc... Ogni tipologia è poi accompagnata da un ulteriore personale mix di spezie e di ingredienti aromatici (aglio, mirin, sake, spezie, zenzero, olio di sesamo, shishimi togarashi , buccia di yuku o mandarino, olio di crostacei…). I Topping, infine, determinano l’aspetto estetico del Ramen, oltre che il suo gusto. Eccone alcuni: Chashu: pancetta di maiale arrostita, bollita o stufata, ma anche guancia, spalla, lingua etc etc e di vari animali. Ahi Tamago: uovo, col cuore morbido; oppure ajitsuke tamago, uova marinate nella soia e mirin. Kamaboko: un panetto di surimi (pasta di pesce bollito) che, affettato, possa mostrare un disegno. Il più frequente è la spirale che prende il nome di Naruto. A proposito, sapete che l’omonimo manga Naruto nella sua prima stesura, avrebbe dovuto avere come uno dei temi dominanti il cibo ed in particolare il Ramen perché il suo autore, Masashi Kishimoto, ne è letteralmente ossessionato, ma la produzione bocciò la prima stesura della storia e lo esortò a ridimensionare questa sua fissazione? Altri topping del ramen sono fungo shitake, fungo enoki, erba cipollina, negi (ovvero il verde del cipollotto), germogli di soia, germogli di bambù (menma), cavolo cinese, shiso, sesamo, cipolla fritta, alga nori, alga wakame, burro, Tonkatsu ( la cotoletta fritta tanto iconica nella cucina giapponese), mais e molti altri. Il ramen è un piatto con una forte identità regionale e locale oltre che personale del ristorante o dello chef, per questo motivo le ricette codificate e standardizzate sono tante ma si sviluppano in maniera indipendente anche lontano dall’ispirazione iniziale. Si parla spessissimo di ramen di pollo e maiale e meno spesso di ramen di manzo che, in realtà, sono altrettanto diffusi; in questi spesso la carne di manzo, di solito un taglio prestigioso, è servita a lato per poter essere intingolata nel brodo bollente solo all’ultimo momento. I ramen di manzo, meno diffusi ma più tradizionali, sono quelli ottenuti con le frattaglie come trippa o lingua. A meno che non vogliate rivolgerti al prodotto liofilizzato, fare il ramen in casa è un lavoro piuttosto impegnativo in termini di tempo e reperibilità di alcuni ingredienti ma estremamente gratificante. Come si mangia il Ramen? Alcuni partono dal brodo, altri dagli spaghetti. Il risucchio degli spaghetti deve essere rumoroso per consentire all’aria di entrare ai lati della bocca e raffreddare la pasta. Per il resto, il ramen non è un cibo conviviale, ma è anche un cibo che si consuma spesso in solitaria, al bancone, voi e la vostra ciotola fumante.. è un momento intimo e non sarò certo io a dirvi come dovete vivere la vostra intimità. Mi sento però di lasciarvi con le frasi del film sul Ramen più bello che al momento sia stato fatto, un ramen western (si, non ridete, è il corrispettivo di un italianissimo spaghetti western) uscito nel 1985. Vi esorto a cercarlo e a guardarlo: Tampopo di Juzo Itami.

(…)un vecchio che aveva studiato il ramen per 40 anni mi insegnò il modo corretto di mangiare il ramen: “Prima la zuppa o gli spaghetti?” “Innanzitutto osserva attentamente la ciotola nel suo insieme” “Si maestro” “apprezza la sua foggia, inala gli aromi osserva, piccole perle di grasso luccicano sulla superficie.. le radici dei germogli di bambù brillano, le foglie d’alga affondano leggermente, le rondelle di erba cipollina che galleggiano. Concentrati sulle tre fette di arrosto di maiale: queste ultime giocano un ruolo decisivo, ma restano modestamente nascoste. Innanzitutto accarezza gentilmente con le bacchette la superficie del Ramen.” “A cosa serve?” “ A esprimere il tuo sentimento d’amore verso il ramen” “ Capisco...” “Poi spingi giù l’arrosto di maiale” “Si mangia prima l’arrosto?” “No, devi solo accarezzarlo con la punta delle bacchette, prendilo gentilmente e affondalo nella zuppa nella parte destra della ciotola. Ciò che è veramente importante a questo punto è scusarsi col maiale dicendogli: a presto. Finalmente si può iniziare a mangiare: prima gli spaghetti. Ah dimenticavo, mentre tiri su rumorosamente gli spaghetti tieni gli occhi fissi sull’arrosto” “Sì...” “Con gli occhi di un innamorato.” Il vecchio mangiò un pezzo di germoglio di bambù e lo masticò per un pò, poi prese una manciata di spaghetti, poi mentre stava ancora masticando gli spaghetti prese un altro pezzo di bambù, dunque, per la prima volta, assaggiò la zuppa. Tre volte. Si tirò su, sospirò; sollevato prese una fetta di arrosto come se dovesse prendere una decisione di vitale importanza e diede un colpetto leggero sul bordo della ciotola “Maestro, questo a cosa serve?” “Solo per asciugarla”. FEBBRAIO 2020

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UCHIMOMO DI WAGYU GLC TOP SELECTION

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ZABUTON DI WAGYU GLC TOP SELECTION

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SPECIALE GIAPPONE - RICETTE a cura della REDAZIONE

KAME-HAME RAMEN D ragon Ball Naruto O ne Piece Shokugeki no Soma M ob psycho 100 Per chi non fosse pratico stiamo parlando delle arti figurative nipponiche più comunemente conosciute come manga. Tutti questi fumetti hanno un denominatore comune: i protagonisti sono ghiotti di Ramen. Questa pietanza, resa famosa anche grazie ai manga e agli anime è di origine cinese e fu introdotta in Giappone solo all’inizio del ‘900. In questo periodo i cuochi cinesi presenti sull’isola nipponica offrivano dei semplici piatti di ramen di tagliatelle con guarnizioni e brodo ai lavoratori dell’isola: molti di questi cuochi erano proprietari di piccoli chioschi mobili e vagavano vendendo il loro prodotto dove la presenza di lavoratori e operai più alta. Per farsi pubblicità in maniera più efficace erano soliti ricorrere all’utilizzo di un corno musicale che richiamasse l’attenzione degli operai e identificasse la loro presenza. Terminata la seconda guerra mondiale molti soldati giapponesi rientrarono in patria e, a causa dell’evento bellico, si ritrovarono senza un impiego. Di necessità virtù molti di questi ex-soldati, grazie all’esperienza maturata in Cina durante la guerra, iniziarono ad aprire i propri ristoranti di ramen creando una corrente giapponese che si andava ad affiancare alla già presente corrente cinese sull’isola.

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Mangiare ramen, benché fosse ormai largamente diffuso come alimento, restava comunque un’occasione speciale. Questo era dovuto principalmente alla lunga lavorazione necessaria e alla poca praticità ad essa legata. Nel 1958 però si ha una svolta epocale per la cucina nipponica. Grazie a Momofuku Ando si ha l’invenzione dei noodles istantanei, e il ramen, da pasto occasionale diventa un piatto pratico che si diffonde in tutto il paese. Con l’arrivo degli anni ’80 e l’avvento dei primi anime (cartoni animati) il ramen diventa icona culturale e si diffonde in tutto il mondo. Con l’ampia diffusione nascono anche diversi tipi di ramen. La varietà è molto ampia e le differenze possono essere sia geografiche che legate al venditore. La principale differenziazione prevede una distinzione tra ramen di tagliatelle e ramen in brodo. La versione che vi proponiamo oggi è quella in brodo con i noodles, abbinandola anche alla cottura in griglia: attenzione, non è quella originale, è semplicemente la nostra. Preparazione: Per il brodo 1.Mettete tutti gli ingredienti tagliati grossolanamente in una pentola con acqua fredda 2.Portate a bollore e lasciate andare a fuoco lento per circa 6 ore, meglio se per una notte intera 3.Filtrate il brodo e mettetelo da parte Per la salsa a base di soia 4.Unite gli ingredienti e lasciate cuocere a fuoco lento per almeno un’ora 5.Terminata la cottura filtrate la salsa e lasciatela raffreddare

Per le uova morbide 1.Portate l’acqua a bollore 2.Immergete le uova per 6 minuti 3.Trascorso il tempo necessario passare l’uovo nel ghiaccio per fermare la cottura N.B.: se si salta il passaggio nel ghiaccio l’uovo procederà nella cottura e avrà la consistenza tipica di un normale uovo sodo! Per la carne 1.Mettete a marinare la carne nella salsa teriyaki per almeno 4 ore 2.Predisponete il kettle per una cottura indiretta 3.Cuocete la carne col coperchio chiuso fino alla temperatura di circa 75 gradi al cuore (potete affumicare con chips di melo in questa fase) 4.Lasciatela poi riposare in rest per un paio d’ore. 5.Affettatela molto sottilmente Per comporre il piatto 1. Cuocete i noodles 2.Versate nella ciotola in cui verrà servito il ramen la salsa a base di soia 3.Aggiungete un mestolo abbondante di brodo precedentemente scaldato 4.Aggiungete i noodles appena scolati 5.Tagliate adesso l’uovo in due e disponetelo nella ciotola 6.Aggiungete qualche fettina sottile di carne a piacere 7.Guarnite con cipollotto e peperoncino a piacere


I N G REDI EN TI

PER 4 PER SONE Per il brodo • mezza carcassa di gallina (o di pollo) • mezza cipolla • mezzo porro • uno spicchio d’aglio • una fetta di zenzero • 30 g di katsuobushi • 5 g di alga kombu • 3 l di acqua Per la salsa a base di soia • 25 g di acqua • 180 g di salsa di soia • 7,5 g di sale • 7,5 g di mirin • 7,5 g di aceto di riso • 5 g di katsuobushi • 5 g di alga kombu • 1 spicchio di aglio • 1 fetta di zenzero • mezzo porro Per le uova morbide • 4 uova • ghiaccio q.b. Per la pasta • 300 g di noodles Per la carne • 300 g di lonza di maiale in un unico pezzo • Salsa teriyaki q.b. Per guarnire • Cipollotto fresco q.b. • Peperoncino fresco q.b.

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SPECIALE GIAPPONE - RICETTE a cura della REDAZIONE

GYUDON the beef bowl

I N GREDIENT I

PER 4 P ERSO NE • 250 gr di Uchimomo GLC Top Selection • mezza cipolla rossa • 200 gr di riso cotto al vapore Per la salsa: • 80 cc di Dashi • 3 cucchiai di salsa di soia • 2 cucchiai di Sakè • 2 cucchiai di zucchero Per guarnire: • Benishoga • Erba cipollina q.b. • una grattugiata di zenzero fresco

McDonald's, Burger King, Kfc, sono tra le più grandi catene di franchising per il fast food a livello mondiale. Yoshinoya, Nakau, Matsuya sono, invece, a livello internazionale meno famosi ma popolarissimi in Giappone. Queste sono, infatti, le più grandi catene di fast food giapponesi, celebri per il loro Don buono, economico e veloce. Il Don, cibo che ha reso grandi questi ristoranti, è un piatto tipico nipponico. Con questo nome si intende una ciotola di riso cotto al vapore condito con salsa di soia e poi coperto con gli ingredienti più vari. Il gyudon, nello specifico, è quello con il manzo (ricordate il numero uno del magazine in cui si spiegava che gyu significa manzo?). Le origini di questa pietanza, inizialmente chiamata Gyunabe, sono da ricercare nel periodo Meiji. Questo imperatore, in carica dal 1867 al 1912, è noto soprattutto per avere dato il permesso al popolo di mangiare il manzo. Fino a prima della sua incoronazione infatti ai giapponesi era proibito mangiarlo; questo divieto cessò il 18 febbraio 1872, data in cui l’imperatore in persona mangiò della carne di manzo per rompere questo tabù. Con l’arrivo del prelibato cibo sulle tavole dei nipponici nacquero i primi esperimenti e le prime ricette, tra cui il gyunabe, predecessore del gyudon. Questa ricetta, nata a Yokohama, prevedeva di scottare il manzo con la cipolla e poi mangiarlo accompagnandolo con del riso. Dal primo esperimento culinario la diffusione fu rapida e Kahei Nakagawa aprì al gyunabe le porte della ristorazione vendendolo per primo nel suo ristorante di Tokyo. Inizialmente questo piatto non fu molto apprezzato per via del sapore forte a cui i giapponesi non erano abituati, ma col tempo venne migliorato questo aspetto e si diffuse rapidamente. Nel corso degli anni la ricetta venne poi modificata con l’aggiunta di salsa di soia, zucchero, miso e successivamente anche verdure. Divenne inoltre usuale, una

volta finita di mangiare la carne, versare i succhi sopra la ciotola di riso, usata come companatico. Da questa abitudine nacque l’idea di servirlo direttamente come piatto unico e il gyunabe si trasformò nel gyudon. L’insieme di queste caratteristiche permise il rapido diffondersi di questo piatto su tutto il territorio nazionale. Il principale ristorante che cavalcò questo momento fu Yoshinoya che monopolizzò il mercato fino alla metà degli anni sessanta del ‘900. Nel 1966 per contrastare l’egemonia di Yoshinoya la concorrenza provò a investire fondi e fu così che vennero fondati i principali rivali come Nakau e Matsuya. Oggi, dopo quasi due secoli dalla sua comparsa, il gyudon rappresenta il fast food giapponese per eccellenza. La ricetta che vi proponiamo in questo articolo è la versione più diffusa e comune. Preparazione: 1.Cuocete il riso al vapore, o in alternativa in maniera tradizionale e lasciatelo raffreddare 2.Accendete il kettle e predisponetelo per una cottura diretta 3.Mettete a scaldare la padella in ghisa sopra il kettle 4.Tagliate finemente la cipolla e fatela rosolare con un filo d’olio 5.Quando la cipolla si imbiondisce aggiungete il brodo dashi, la salsa di soia, il sakè e lo zucchero facendo attenzione a fare sciogliere bene quest’ultimo 6.Infine aggiungete la carne una fetta per volta e cuocetela fino a quando non si imbrunisce 7.Nel frattempo ponete il riso in una ciotola 8.Quando la carne sarà cotta aggiungetela alla ciotola di riso 9.Guarnite a piacimento con il benishoga, l’erba cipollina e lo zenzero

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I N G REDI EN TI Per la maionese al rafano: (dose per 400g circa) • 60g di tuorli, tiepidi • 150ml di olio di semi di girasole • 150ml di olio extravergine di oliva • 10ml di succo di limone • 10ml di aceto di vino bianco • 3g di sale • 1g di pepe • rafano q.b. Per il burger • un hamburger di wagyu • 30 g di cavolo cinese tagliato a listarelle • 50 g di maionese • 150 ml di salsa di soia • un bicchiere di sake’ • 3 cucchiaini di zucchero

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SPECIALE GIAPPONE - RICETTE a cura di EMILIANO NENCIONI

L'ASSE K YOTO - N A S H V I L L E hamburger con cavolo cinese e maionese al rafano

Hamburger: pensi agli USA, agli stivali, ai diner e ai juke box. Wagyu: pensi al Giappone, all’impegno, alla dedizione nell’aderire a certe pratiche di allevamento, alle rigorose cerimonie nel servire e preparare il cibo. Hamburger, di nuovo: pensi che la città di Amburgo, in Germania, crei un trittico un po’ strano dal retrogusto di sincretismo amaro da Seconda Guerra Mondiale, in questo panino. Qualcuno deve averci pensato prima di me, visto che negli anni ‘20, in USA, preferivano riferirsi alla polpetta di manzo macinato come Bistecca Salisbury, da James Salisbury, un dottore e proto- nutrizionista americano che propugnava una dieta a base di manzo macinato, privato di ogni grasso o tessuto connettivo (posso immaginarmi la consistenza arida e il sapore ingrato). La parola hamburger venne erroneamente interpretata come ham-burger, e per meglio identificare i vari tipi di carne sono nati i relativi neologismi beef burger, chicken burger, tofu burger e via discorrendo. Il termine burger è invece un neologismo frutto di una retroformazione, evento linguistico nel quale una parola (inesistente) viene ritenuta base di derivazione di una parola già esistente. Pensi di non esserti mai imbattuto in una retroformazione, nell’italiano corrente? Sbagli. Usufruire, esercente, latticino ne sono tre insospettabili esempi. L’hamburger di wagyu pare proprio una neoformazione geniale: hai la possibilità di goderti il sapore indimenticabile del wagyu senza funambolici trucchetti in fase di cottura, senza spendere una somma di tutto rispetto, senza dover pianificare ore prima, semplicemente usufruendo di un prodotto comodamente conservabile nel suo packaging. Chiunque abbia accesso a una fonte di calore e

una padella può tecnicamente prepararsi una cena lussuosa a base della carne più saporita del pianeta, e la probabilità di commettere errori e comprometterne la riuscita è quantomeno risibile. La mia intenzione adesso è quindi quella di proporti una maniera incredibilmente semplice, ma efficace, di preparare questa bontà: qualcosa che valorizzi e non mascheri assolutamente la carne (che sarebbe criminale sotterrare sotto litri di salse, sapori forti e coprenti, almeno per le prime esperienze) e contemporaneamente rimandi, in una sorta di coerenza filologica, ai sapori dell’oriente, terra di provenienza della proteina in esame. Preparazione della maionese al rafano: Potete comprare della maionese già pronta e aggiungere un po’ di rafano, oppure potete divertirti a farla da soli: nel numero del Magazine di gennaio c’è un articolo lungo, dettagliato e interessante su come farla al meglio, anadate a rileggerlo. Vi riassumo qui i passaggi fondamentali, saltando tutte le giustificazioni chimico-fisiche. 1.Sbattete i tuorli e versate lentamente l’olio, aiutandovi con uno squeezer nel quale avrete mescolato quello di semi e quello d’oliva. 2. Continuate a sbattere con regolarità. A un certo punto, inglobando aria, il composto diventerà denso e sarà il momento di aggiungere limone, aceto, sale e pepe (aggiusta secondo i tuoi gusti). 3.Per far evolvere una semplice maionese in una maionese al rafano non dovete far altro che raschiare con un coltellino un pezzetto di radice di rafano, grattugiarla fino a raccoglierne un cucchiaino e incorporarla alla maionese mescolando con cura.

Preparazione dell'hamburger 1.Tagliate a striscioline il cavolo e conditelo, in una scodella, con la maionese al rafano. 2.Mescolate in un pentolino la salsa di soia, lo zucchero ed il sakè. 3.Ponete il pentolino sul fuoco e portatelo ad ebollizione fino a far ridurre la salsa. 4.Preparate il kettle per una cottura diretta molto calda, o se volete prendete la tua padella in ghisa e scaldatela sul bruciatore. 5.Tagliate i panini in due e tostateli un po’. Il mio consiglio è di recuperare del pane molto buono, che sia meglio di quello “finto” del supermercato: nei passati numeri del Magazine vi abbiamo anche insegnato a farli da soli. 6.Estraete il patty dalla confezione e asciugatelo bene; non servirà inumidirlo con l’olio, visto che il grasso dell’impasto, sciogliendosi, sarà sufficiente a lubrificare e a veicolare il calore. 7.Mettete la carne sulla griglia, o in padella, spennellatela con la riduzione di salsa di soia e aiutandovi con una spatola giratela ogni trenta secondi fino alla formazione della reazione di Maillard, una bella crosticina bruna (non nera!) saporita e molto profumata. 8.Mettete la carne nel pane, spennellatela di nuovo con un po’ di riduzione, condite con il cavolo cinese e la maionese al rafano. Confesso timidamente che, per una componente di opulenza extra, non resisto all’impulso di fare la scarpetta intingendo la parte superiore del panino nei succhi di wagyu rimasti nella padella in ghisa.

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SPECIALE GIAPPONE - RICETTE a cura di EMILIANO NENCIONI

M U LT I V E R S O BURGER

la realtà alternativa della polpetta

Immagino siamo tutti quanti d’accordo nel considerare possibile la teoria del multiverso: non un universo, ma un multi-verso, la coesistenza di un insieme iperfinito e numerabile di universi molto simili ma con realtà alternative, generati a seguito del Big Bang. Dopo la Botta Grossa (che non è un tipico evento sociale del venerdì sera) si sono susseguite una serie di ondate di processi di espansione, detti inflazione cosmica, che hanno costituito una struttura frattale di universi-bolla, ognuno con la propria raltà e linea temporale. Le leggi fisiche dovrebbero essere, si suppone, molto simili in ognuna delle bolle; questo ci è sufficiente, con buona approssimazione, per affermare che in almeno un altro universo parallelo a noi si apprezzi la carne di Wagyu. Vi chiedo questo sforzo di soppressione dell’incredulità per potermi seguire in questo articolo: immaginate infatti che i nostri alter ego paralleli abbiano reso usuale e socialmente accettabile divorarsi il prezioso wagyu non sotto forma di fettine, neanche in dischi compatti chiamati hamburger, ma in piccole sfere irregolari. Polpettine di wagyu. Voglio darvi la possibilità di introdurre nella nostra linea temporale un alimento tipico di almeno una realtà parallela, auspicabilmente senza ledere il tessuto spaziotemporale, creare anomalie, collassarti in un unico punto di massa infinita o risolvere degli antipaticissimi integrali. Voglio farvi portare le polpette di wagyu in questa realtà. E voglio farvi preparare una salsa di accompagnamento.

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Procedimento quantico per far trascendere le polpette nella timeline corrente: 1.Prendete un hamburger di wagyu BBQ4All, toglietelo dal suo involucro 2.Scomponetelo in un recipiente e aggiungi all’impasto un pizzico di pepe 3.Formate delle polpettine roteando un po’ di impasto tra i palmi delle mani, riducendo il macinato ad un solido sferoidale. 4.Adesso, contrariamente ad ogni previsione, avete delle polpette sferiche partendo da un solo hamburger. 5.Pesate su una bilancia di precisione le polpette: se la massa totale (a stesse condizioni di altitudine e pressione atmosferica) è esattamente uguale alla massa originaria dell’hamburger saprete di non aver causato disastrosi e fatali squarci nell’universo. 6.Passate ogni polpetta nella farina, poi nell’uovo sbattuto, poi cospargetele uniformemente di panko. 7.Friggete le polpette impanate in olio di semi, fino a una gradevole doratura.

sario potete anche ridurre ancora un po’ il succo in un pentolino sul fuoco basso. 3. Aggiustate di sale e pepe. 4.Con il succo ancora caldo aggiungete olio o un po’ di burro (dipende dai vostri gusti, in questa fase l’importante è aggiungere la parte grassa) e accanitevi a emulsionare il composto con il frullatore a immersione, fino a raggiungere una certa densità. Vi accorgerete che la salsa è diventata di un color arancio molto acceso, tanto che dovrete faticare per convincere gli astanti che non avete utilizzato la panna. Per gusto, consistenza e colore avrete un bel da fare a convincere gli increduli, pronti all’inflazionatissima battuta sull’uso della panna dove non serve. Vendicatevi, obnubilando le loro fragili menti con la teoria del multiverso composto da bolle di universi- tasca a mollo in un oceano inflazionario. Desisteranno.

Accompagnate le polpette con la salsa di pomodoro scientifica, come vi ha insegnato Gianfranco Lo Cascio. Procedimento per la salsa di pomodoro: 1.Mettete i pomodori, in una teglia, a cuocere nel forno. Non è necessario aggiungere acqua o olio o sale, anzi: sarebbe controproducente. 2.Passate al setaccio i pomodori ben appassiti dopo il trattamento nel forno, togliendo con cura bucce e semi. Se neces-


I N G RED I EN TI • • • • • • • •

un hamburger di wagyu 100 g di panko un uovo olio di semi q.b. un kg di pomodori maturi pepe q.b. sale q.b. olio extravergine di oliva o burro q.b.

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SPECIALE CARNEVALE - INTRODUZIONE a cura di MARIANGELA IBBA

a Carnevale O G N I S C H E R Z O VA L E ?

no, dai, fa schifo come titolo

Scrivere un articolo sul Carnevale non è stato facile, perché voglio essere sincera con voi: a me non piace. Inizialmente, ho pensato di esordire con una breve e variopinta descrizione di tutti gli elementi classici di questa festa: il profumo dei dolci fritti, i coriandoli lanciati in aria dai bambini, le risate scaturite dagli scherzi, i cortei mascherati, bla, bla, bla. Poi ho pensato che sarebbe stata una stucchevole farsa, degna del manierismo più becero. Diciamo la verità, il Carnevale della mia infanzia è stato tutt’altro. Innanzitutto è stato per me l’incubo ricorrente- ancora oggi mi sveglio in preda all’ansia- degli inseguimenti fino a casa da parte dei compagni di scuola armati di bombolette di schiuma, più di una volta sono rientrata assomigliando ad una meringa pronta da infornare. In secondo luogo, per me il Carnevale ha un unico, terribile sinonimo: il costume da ungherese. All’età di sette anni volevo mascherarmi da principessa, avevo supplicato non so quante volte mia madre di regalarmi la maschera vista nella vetrina dell’unico negozio di giocattoli in centro. Era così bella, rosa e luccicante. Fu allora che conobbi la vera crudeltà: dopo avermi promesso il vestito scintillante, la mia cara genitrice mi comprò un orripilante gonnellone fiorato, con bretelle nere e un cappellino di carta celeste a forma di tamburello. L’etichetta riportava la scritta vestito ungherese. Vi assicuro, non aveva niente a che vedere con la bellezza del costume tradizionale d’Ungheria. Per mettere la ciliegina sulla torta, tutta giuliva mia madre mi disse: l’ho preso un po’ più grande, così lo metti per qualche anno. Ho indossato quella meraviglia per la prima volta durante una recita scolastica: salita sul palco la gente ha cominciato a ridere, io mi sono dimenticata la mia battuta e la maestra mi ha fatta uscire dalla porta di servizio per evitare le uova marce. Insomma, sì, il Carnevale è proprio un bel ricordo per me. Tuttavia, al cuore non si comanda ma alla gola nemmeno: nonostante l’odio profondo per questa festa, aspetto questo periodo dell’anno per strafogarmi dei dolci tipici del periodo. E’ per questo che ho accettato di scrivere l’articolo: ho potuto riassaggiare una notevole quantità di leccornie al solo scopo di rende58 - BBQ4All MAGAZINE

re il testo il più esauriente possibile. Quindi, bando alle ciance, parliamo del Carnevale e di come nasce questa festa. Tutti sapete che si svolge dopo l’Epifania e prima della Quaresima, ma quanti di voi, senza chiedere aiuto a Siri, saprebbero indicare il periodo esatto? Per eliminare ogni imbarazzo, la consuetudine popolare ha arbitrariamente incoronato Febbraio il mese del Carnevale, triplicando la durata dei festeggiamenti. Il motivo per cui ogni anno la festività corre su e giù tra Gennaio, Febbraio e Marzo è racchiuso nel nome stesso. Il termine Carnevale deriva dall’espressione latina carnem levare (togliere la carne), poiché durante la Quaresima come sappiamo dovremmo mangiare di magro, per rievocare i quaranta giorni di digiuno e penitenza di Gesù nel deserto. Dunque, per rendere sopportabile ai fedeli il lungo periodo di privazioni, la Chiesa nel Medioevo istituì dieci giorni di baldoria nei quali potersi mascherare, fare scherzi, bere e mangiare a sazietà. I festeggiamenti hanno inizio la nona domenica prima di Pasqua (detta settuagesima) e toccano il culmine il Giovedì e il Martedì Grasso (ultima giornata). In realtà questa festività affonda le proprie origini nel paganesimo. Quando fu proclamato religione ufficiale dell’impero romano (Concilio di Nicea 325 a.C.) il cristianesimo, a fine di rendere meno doloroso il passaggio tra il culto politeista e quello monoteista, adattò al proprio credo alcune celebrazioni molto amate dal popolo. E’ successo sia per il Natale che per la Pasqua, come tutti sappiamo. Ed è successo anche per il Carnevale. Saturno, divinità di origine italica, era molto importante all’interno del mondo romano, perché protettore dell’agricoltura, della pastorizia e delle sementi (ricordiamoci che gli abitanti del Lazio, prima di essere i conquistatori del mondo, erano contadini e pastori). Secondo la mitologia, sotto il regno di Saturno gli uomini vissero un’età dell’oro, in pace e nell’abbondanza. Dunque, in epoca imperiale per rievocare l’atmosfera spensierata e rilassata di quel periodo, dal 17 al 23 dicembre a Roma la vita politica e l’attività bellica cessavano, le distinzioni di classe cadevano, ognuno poteva fingere di essere quello che non era,


camuffando il proprio aspetto esteriore. Nel Medioevo, Il Cristianesimo, religione costruita perlopiù sul sacrificio, decise comunque di mantenere la festa spostandola nel tempo (poiché mal si conciliava con il valore del Natale) disponendo che avvenisse prima della Quaresima, in modo da rallegrare i fedeli in vista del lungo periodo di penitenza che li aspettava. Però, se i saturnali improntavano quasi tutto il divertimento al chiuso, durante i banchetti a base di vino, sesso e gioco d’azzardo, il carnevale cristiano lo concentrò sul travestimento, lo scherzo e la risata, e lo trasportò nelle strade e nelle piazze. Il compito dei saltimbanchi e dei giullari, con acrobazie e declamazione di racconti e barzelette irriverenti, era far dimenticare al popolo la povertà e la fame.

la durata della sfilata lanciano peluche sul pubblico, per la gioia dei bambini. Il giovane (è nato solo nel 1873) Carnevale satirico di Viareggio, in provincia di Lucca, si apre con tre colpi di cannone che annunciano l’arrivo dei carri. E’ una sfilata monumentale, considerata l’altezza delle costruzioni mobili di cartapesta che percorrono il lungomare versiliese: 30 metri di altezza, per 15 metri di lunghezza e 40 tonnellate circa di peso. Ogni carro ha la propria musica e il proprio corteo di maschere. Il Carnevale di Venezia è uno dei più antichi d’Italia, le prime documentazioni scritte risalgono alla fine dell’anno 1000. E’ tutt’oggi una festa elegante e sontuosa, in cui maschere ricche e dettagliate percorrono le calle veneziane rievocando i fasti settecenteschi della Serenissima.

Verso la metà del ‘500, con l’esordio della commedia dell’arte il panorama carnevalesco si arricchì di nuove maschere. I servetti furbi del bergamasco Arlecchino e Colombina, l’avaro di Venezia Pantalone, lo sfrontato chiacchierone Pulcinella, il saccente avvocato bolognese Balanzone, il domestico poltrone fiorentino Stenterello, il bonaccione milanese Meneghino, lo spaccone ligure Capitan Fracassa: tutte rappresentano le caricature dei difetti e dei pregi degli abitanti delle varie città e degli individui appartenenti alle classi sociali, con le quali si mettevano in scena storie divertenti basate sull’inganno e sull’equivoco. Nel corso dei secoli sono state migliaia le manifestazioni carnevalesche che hanno animato il paese da Nord a Sud; oggi molte sono scomparse, alcune sono rimaste semplici feste di quartiere, mentre altre hanno conosciuto la fama internazionale. Il Carnevale di Cento, in provincia di Ferrara, risalente agli inizi del ‘600, come testimoniano alcuni affreschi del Guercino (1591-1666) che immortalano l’evento, è diventato celebre in tutta Europa solo nel 1993, quando c’è stato il gemellaggio col carnevale di Rio De Janeiro (tant’è che ogni anno una creazione mobile centese partecipa alla passerella carioca nel Sambodromo davanti a circa 400.000 spettatori). La grande particolarità del Carnevale di Cento è che le maschere sopra i carri, per tutta

Tornando ai dolci, durante il Carnevale tutte le regioni propongono le proprie specialità. Molto spesso si tratta della stessa preparazione che varia per un solo ingrediente, oltre che nel nome. Tutto questo, come saprete, crea le consuete discussioni durante le quali ogni parte afferma che la propria ricetta sia la migliore. Però su una cosa sembrano tutti concordare: le golosità carnevalesche sono preparazioni semplici (realizzate con farina acqua, burro e zucchero), buonissime mangiate calde appena tolte dall’olio di frittura ed impanate nello zucchero. Ve lo dico subito, cuocerle nel forno è un’eresia. Una festa basata sulla trasgressione non può avere dolci light. Sicuramente, il trascorrere dei secoli non ha intaccato minimamente lo spirito libero, giocoso ed irriverente del Carnevale, però a differenza del Natale e della Pasqua, sembra aver perso totalmente la sua funzione liturgica rimanendo solo una bellissima festa dove svagarsi. In un’epoca in cui non siamo certamente più legati alle imposizioni religiose e ci è concessa totale libertà, il Carnevale ha ancora un senso? Certamente sì, perché eliminarlo significherebbe perdere una parte importante della nostra storia e delle nostre tradizioni. Con buona pace di mia madre e del costume ungherese. FEBBRAIO 2020

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SPECIALE DOLCI DI CARNEVALE - RICETTE a cura della REDAZIONE

Poche parole, molte

C H I ACC H I E R E Sono dei nastri sottili di pasta fritta croccante, ricoperti con abbondante zucchero, sono diffuse in tutta Italia e hanno mille nomi; Cenci in Toscana, Fiocchetti in Emilia, Meraviglias in Sardegna, Bugie in Piemonte, Cioffe in Abruzzo, Cunchielli in Molise, Lattughe a Brescia e a Mantova, Frappe a Roma, Sfrappole a Bologna. Ma il nome con il quale tutti voi le conoscete, da Nord a Sud, è senza dubbio Chiacchiere. Nonostante i molti appellativi, la ricetta rimane più o meno sempre la stessa: farina, latte, uova, zucchero e liquore per aromatizzare. Secondo alcune ipotesi, questa preparazione sarebbe nata alla fine dell’800 dalla fantasia del cuoco napoletano Raffaele Esposito alla corte dei Savoia, per esaudire una richiesta della regina Margherita. Mentre stava intrattenendosi con alcuni ospiti, alla sovrana sopraggiunse un leggero languorino e, non avendo Ambrogio a disposizione, ordinò al cuoco una merenda per tutti i presenti. La sfiziosa novità piacque talmente tanto a sua maestà che decise di battezzarla con l’appellativo di chiacchiere in onore dell’occasione per cui era stata creata. In realtà, altri fonti sostengono che la preparazione avesse origini molto più antiche risalenti ai saturnali romani, durante i quali si gustavano i frictilia: sfoglie di pasta fritte nel grasso del maiale.

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E’ una preparazione molto semplice, ma non è facile da realizzare, perché basta non saper stendere bene la pasta per compromettere il risultato finale. Preparazione: 1. Sciogliete il burro in un pentolino a fiamma bassa 2. Dopo averla lavata bene, grattugiate la buccia del limone. 3. Versate all’interno di un recipiente capiente tutti gli ingredienti, compreso il burro fuso e la scorza del limone, ed iniziate ad amalgamarli prima utilizzando una forchetta e poi con le mani. Lavorateli fino ad ottenere un panetto liscio e compatto. 4. Lasciate riposare l’impasto in una ciotola ricoperta con della pellicola alimentare, per 30 minuti circa. 5. Stendete la pasta (con un mattarello o con la macchinetta apposita): lo spessore deve essere di 2 mm circa. 6. Ritagliate con una rotella dentata la sfolgia ottenuta, riducendola in strisce. Decidete voi la lunghezza e la larghezza; volendo potete fare un fiocco. 7. Scaldate l’olio di semi in un’ampia padella; quando avrà raggiunto la giusta temperatura iniziate a friggere le chiacchiere. 8. Quando saranno dorate da entrambi i lati, asciugatele dall’olio in eccesso sulla carta assorbente e spolverizzatele con lo zucchero.


I N G RED I EN TI

PER 4 PER SONE • 300g di farina forte 300-320W • 2 uova • 30g di burro • 40g di zucchero • zucchero a velo q.b. • 2 cucchiai di rum • la scorza di un limone biologico • olio di semi per frittura q.b.

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una

C A S TA G N O L A tira l'altra

Le castagnole sono un’antica specialità carnevalesca di fine ‘600, tipiche della Liguria, dell’Emilia-Romagna, del Veneto, del Lazio, dell’Abruzzo, delle Marche e dell’Umbria. Contrariamente a quello che si può pensare, non sono realizzate con la farina di castagne. Infatti le morbide palline fritte (preparate con farina, burro, uova e zucchero) si chiamano così perché nella forma e nella grandezza ricordano le caldarroste. In Veneto sono conosciute anche col nome di favette e vengono consumate anche il 2 di Novembre, in occasione del giorno dei morti. Hanno sicuramente origini antiche: esistono ben quattro ricette diverse che portano il nome di Castagnole in un manoscritto di fine ‘700, trovato negli

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Archivi di Stato della città di Viterbo. Facendo un passo indietro, nel 1684 il Nascia, cuoco della Casa dei Farnese, e nel 1692 il Latini, cuoco della casa reale dei D’Angiò, preparavano gli struffoli alla romana (termine che è usato spesso, ai nostri giorni, come sinonimo di castagnole) la cui descrizione corrisponde perfettamente a quella dei deliziosi dolcetti. Ovviamente questa leccornia ha molte varianti: con o senza ripieno, fritte o cotte al forno, con o senza liquore, con scorza d’arancia o di limone, ricoperte con miele o con zucchero. Dunque, non esistendo nessuna ricetta ufficiale abbiamo deciso di proporvi una versione semplice e veloce da realizzare.

Preparazione: 1. In una ciotola versate tutti gli ingredienti ed amalgamateli. Inizialmente aiutatevi con una forchetta e poi continuate ad impastare con le mani fino ad ottenere un panetto compatto e omogeneo. 2. Coprite l’impasto ottenuto con un canovaccio e lasciatelo riposare per 30 minuti circa. 3. Tagliate un pezzo di pasta e, facendola scorrere avanti e indietro tra le vostre mani e la superficie di lavoro infarinata, dategli una forma cilindrica e allungata. 4. Con un coltello, sezionate in tocchetti il filoncino. 5. Arrotondate ogni pezzetto di pasta tra le mani per formare delle palline grandi come una castagna. 6. Scaldate l’olio di semi in una padella, quando sarà caldo al punto giusto, iniziate a friggere le castagnole poco per volta, avendo cura di girarle spesso per ottenere una doratura e cottura omogenea. 7. Quando sono pronte, con una schiumarola, toglietele dall’olio. Passatele prima velocemente nella carta assorbente e poi nello zucchero bianco semolato, per far sì che si attacchi bene alla superficie esterna. 8. Continuate fino a quando le castagnole non saranno tutte fritte. Servitele calde.


SPECIALE DOLCI DI CARNEVALE - RICETTE a cura della REDAZIONE I N G RED I EN TI

PER 4 PER SONE • • • • • • •

200g di farina 40g di burro 50 g di zucchero a velo zucchero semolato bianco q.b. un cucchiaio di rum 2 uova mezzo cucchiaino di lievito per dolci • la scorza di un limone biologico • Olio per frittura q.b.

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SPECIALE DOLCI DI CARNEVALE - RICETTE a cura della REDAZIONE

S A S O R I G L I E T TA S il dolce del carnevale Sardo

I N G REDIENT I

P ER 4 P ERSO NE • • • •

500 g farina di semola 100 g di strutto 100g di zucchero 5 uova

• • • • •

un’arancia 500 g miele un litro d’olio per frittura 100 ml acqua sale q.b. foto di LUCA GALLOZZA

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Tutto ha origine col fuoco. Stiamo parlando della Sardegna, dove spettacolari falò illuminano le vie dei paesi nel cuore di quest’isola magica, che non è solo macchia mediterranea, distese di spiagge dalla sabbia candida e finissima che si tuffano in un mare splendido. No, la Sardegna è sopratutto tradizioni millenarie, riti agropastorali e rurali tuttora rispettati. Il Carnevale, in special modo, in Sardegna è una festa molto vissuta: inizia il 16 Gennaio, con il falò di Sant’Antonio Abate su Carrasecare, termine che significa “carne viva da smembrare” per poi continuare tra sacro e profano, con danze di personaggi e di maschere ancestrali, sia antropomorfe che zoomorfe, ricoperte di pelli animali, orbace e campanacci che rappresentano il profondo legame tra uomo e animale e la continua lotta con la natura. I campanacci di Mamunthones e Ishoaddores di Mamoiada, le percussioni dei Tumbarinos di Gavoi, le sfilate di maschere dei Thurpos a Orotelli, Boes e Merdules a Ottana, Mamutzones e Urtzu a Samugheo, i carri allegorici di Tempio Pausania e Bosa, le pariglie e le sartiglie di Bonorva e Oristano e tantissime altre manifestazioni in decine e decine di paesi della Sardegna: un festeggiare lungo sino alla Quaresima. Due mesi di eventi che si susseguono, in un coinvolgimento del popolo sardo senza sosta. In tutto questo rincorrere di feste, ciò che invade le stradine di paese in un'isola intera che si lega alla tradizione e al costume, è un profumo unico e inconfutabile: l’odore denso di olio di frittura, unito al profumo dolce dello zucchero. Non c’è casa, non c’è donna che non riempia una padella d’olio per realizzare prelibatezze uniche, da condividere in famiglia o da portare in piazza per contribuire alla festa. Mani sapienti, che tirano l’impasto, di donne attorno a sa banca (il tavolo), e che intrecciano, tagliano, ricamano la sfoglia e compongono, cuociono e decorano i dolci mentre gli uomini intrattengono qualche amico con un cicchetto dell’ultima vendemmia. Tra le varie bontà isolane realizzate durante il Carnevale, trova un posto d’onore tra zippule e li frijori longhi, il dolce indiscusso del carnevale sardo, Sas origliettas. Pochi ingredienti, sapientemente miscelati, dai quali prende forma un delicato ghirigori di pasta leggerissima che diventa un dono dorato da regalare ai più piccini. Appiccicaticce quanto basta da leccarsi le dita e friabili da accarezzar l’udito ad

ogni morso, le origliettas prendono un nome diverso a seconda della zona dove vengono realizzate. La storia non ci rivela un’origine definita di questo dolce. L’unica cosa che sappiamo è che si accomuna ad un altro di origine catalana chiamato orelletes, piccole orecchie. Probabilmente è una contaminazione avuta durante la dominazione spagnola in Sardegna risalente alla fine del XV secolo. Il dolce spagnolo, seppur costituito dagli stessi ingredienti e dallo stesso tipo di cottura, si differenzia dalle origliettas sarde per forma e decorazione finale. Nella versione catalana, sono piccole sfoglie fritte con l’ausilio di un bastoncino che gli dà la caratteristica forma ad orecchio; nella versione sarda, sono strisce di pasta dai bordi sagomati (o arricciata a piccole spirali) che si susseguono, ricoperte di miele aromatizzato con scorze di agrumi. Nel territorio sardo, anche la forma di questo dolce ha la sua tipicità a seconda della zona di produzione. La sua forma tipica prevede un piccolo cerchio centrale del diametro di qualche centimetro; attorno ad esso, vengono realizzati 4 petali, all’interno di un ulteriore cerchio che racchiude l’intero fiore. Stessa forma assumo sas origliettas di Orune, che però prendono il nome di montecadas, mentre in Gallura vengono dette trizzas o trezzitas, e sono realizzate come treccine, con una pasta stesa a grissino, ripiegata in due e arrotolata su se stessa, poi chiusa a goccia sulle due estremità. Infine ci sono quelle di Bono e Benetutti, tipicamente a forma di fisarmonica. Una volta fritte, vanno fatte asciugare e colare dall’olio su carta assorbente e successivamente arricchite della nota dolce del miele. Quest’ultimo viene scaldato in un pentolino, con una minima parte di acqua calda per diluirlo e con la scorza di agrumi (arancia o limone ) per aromatizzarlo. Le origliettas vengono quindi immerse nel pentolino di miele e sono pronte ad essere consumate e apprezzate sia da grandi che dai bambini. Scaldate l’olio e iniziate a lubrificare i gomiti, c’è da impastare. Preparazione: Origliettas tradizionali 1. In una ciotola, inserite le uova e aggiungete lo zucchero. Con una frusta, sbattete il composto sino ad amalgamare bene gli ingredienti. 2. Inserite pian piano a pioggia la farina

precedentemente setacciata e impastate. 3. Aggiungete lo strutto, un pizzico di sale e continuate ad impastare sino ad ottenere un impasto omogeneo, compatto e liscio. 4. Stendete la pasta, sino ad ottenere una sfoglia di circa 2 mm di spessore. 5. Con una rotella o un pantografo, realizzate le strisce da circa 2/3 cm di larghezza. 6. Iniziate formando un cerchio di qualche centimetro di diametro. 7. Realizzate quattro petali attorno al cerchio centrale, incollandole con l’ausilio di qualche goccia d’acqua. 8. Create un cerchio esterno con una striscia di pasta incollandolo ai petali e racchiudete il fiore appena realizzato. 9. Procedete cosi per la restante pasta sino al termine per realizzare le successive origliettas. 10. Scaldate abbondante olio per friggere in una pentola e immergetevi una per volta le vostre origliettas. 11. Cuocete senza dorare eccessivamente. Le vostre origliettas dovranno rimanere piuttosto chiare e croccanti dopo la cottura. 12. Fate scolare e asciugare per bene l’eccesso d’olio su carta assorbente. 13. Sciogliete in un pentolino, il miele con l’acqua. Inserite all’interno la scorza di un’arancia. 14. Affondate nel pentolino ogni singola origliettas e fate attenzione che si ricoprano tutte con un leggero velo di miele. 15. Posizionatele su un vassoio per servirle. Origliettas a fisarmonica 1. Ripetete tutto come sopra dal punto 1 al punto 5 compreso. 2. Realizzate con una striscia di pasta una spirale a forma di goccia. 3. Continuate a formare le altre gocce, contrapponendole l’una all’altra e incollandole tra loro aiutandovi con una goccia d’acqua. 4. Procedete come sopra dal punto 9 sino al punto 15 compreso. Lasciate raffreddare prima di consumare. Si narra che dalla cottura delle origlietas venisse valutata la qualità della donna in cucina. Per meritare le lodi dei commensali, le origlietas dovevano essere servite chiare come la luna. Voi ci riuscirete?

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SPECIALE DOLCI DI CARNEVALE - RICETTE a cura della REDAZIONE

MorDo un

F R AT E

...se ne fa un altro?

In Toscana, non esiste Carnevale, festa per il Santo Patrono, fiera di paese o Luna Park in cui non sia presente un food-truck pronto a vendere bomboloni e frati caldi. Frati?! Niente paura, non stiamo parlando dei poveri monacelli, ma di deliziosi dolcetti fritti. Contrariamente al pensiero comune, nonostante molto spesso siano spesso realizzate con lo stesso impasto, le due preparazioni non nascono l’una dalla costola dell’altra, perché lontanissime tra loro sia temporalmente che geograficamente. Le ciambelle ricoperte di zucchero nascono in Sardegna; conosciute col nome di para frittus (letteralmente frati fritti) approdarono sul continente nel Medioevo grazie alla Repubblica Marinara di Pisa. La potenza pisana conobbe questa leccornia nel XI secolo, quando insieme a Genova difese l’isola dagli assalti musulmani provenienti dalla Spagna orientale. Quando il dolce approdò sulla costa toscana gli abitanti della città della Torre pendente ne rubarono di fatto la

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paternità al popolo sardo. Sicuramente adesso vi starete domandando perché si chiamano fratti fritti? Le risposte a quanto sembra sono due: la forma della ciambella ricorda la chierica dei confratelli e la fascia chiara centrale richiama il saio stretto in vita dal cordone. I Bomboloni o Bombe derivano dal Krapfen, un dolce austriaco nato alla fine del’600 per festeggiare il Carnevale. E' un dolce fritto fatto di pasta lievitata, farcito con marmellata o crema, e spolverizzato di zucchero. Già conosciuto nel '600 a Graz, si sarebbe diffuso a Vienna, per poi affermarsi anche nelle aree trentine. Questa golosa frittella conquistò l'Italia con varianti

tutte molte simili l’una all’altra: partendo dal Trentino arrivò fino in Romagna e in Toscana in cui divenne il bombolone farcito di crema pasticcera, passando da Modena dove venne chiamato crafen, fino ad arrivare a Roma, dove diventò la bomba alla crema, e a Napoli la graffe ripiena con marmellata di amarene. L’Artusi suggerisce di farcire l'impasto con la crema prima della cottura, per fare in modo che l’aroma si diffonda bene in ogni parte del bombolone. In ogni caso, come dicevamo all’inizio, in Toscana entrambe le preparazioni vengono realizzate con lo stesso impasto e poi spolverizzate con lo zucchero: il bombolone poi viene farcito con crema o cioccolato (o Nutella!) e il frate invece è la versione light, di solito accompagnato dalla tipica frase “no no, prendo ‘r frate, perché voglio sta’ leggero”.


IN GREDIENTI

P ER 6 P ERSO N E PER LA CREMA • 4 tuorli • 500 ml di latte intero • 100 gr di zucchero a velo • 30 gr di farina • una bacca di vaniglia PER L'IMPASTO • 200 ml di latte intero • 550 gr di farina 00 • 60 gr di zucchero a velo • 20gr di lievito di birra • 2 uova • 75gr di burro • la scorza di un limone non trattato • 1 l di olio di semi

Preparazione della crema 1. con la punta di un coltello incidete la bacca di vaniglia per tutta la lunghezza e grattate i semi all’interno. 2. In un pentolino versate il latte a temperatura ambiente, aggiungete i tuorli, la farina, lo zucchero e la vaniglia. Ogni volta che aggiungete un ingrediente, mescolate il tutto con una frusta per evitare la formazione di grumi in cottura. 3. Ponete la pentola su una fiamma medio bassa girando continuamente il composto con un cucchiaio. Quando la crema inizia a sobbollire, mescolatela con più vigore e toglietela dal fuoco appena si addensa. Preparazione dell'impasto 1. Sciogliete il lievito di birra in un bicchiere di latte tiepido.

2. In un recipiente capiente versate prima gli elementi liquidi, il latte, le uova, il burro fuso e amalgamateli tra loro. Unite lo zucchero, la scorza del limone, il latte rimanente con il lievito e mescolate bene. 3. Iniziate a lavorate l’impasto, aggiungendo poco per volta la farina, fino a che non diventerà liscio ed elastico. 4. Ponetelo in una ciotola e copritelo con la pellicola trasparente per 2/3 ore fino a quando non sarà raddoppiato di volume. 5. Quando la pasta sarà lievitata lavoratela per qualche minuto con le mani e poi stendetela con un mattarello. Deve avere uno spessore di circa un cm e mezzo. 6. Con un coppapasta realizzate i dischetti e posizionateli su una teglia foderata con della carta forno. Copriteli con la pellicola alimentare e lasciateli riposare per circa 30 minuti circa, fino a quan-

do- di nuovo - non saranno raddoppiati di volume. 7. Se invece volete realizzare i frati, con un coppasta più piccolo create dei buchi al centro del disco creando delle ciambelline. 8. Mettete a scaldare l’olio in una padella, quando è caldo al punto giusto iniziate a friggere i dolci. 9. Quando saranno dorati da entrambi i lati, con una schiumarola toglieteli dall’olio e asciugateli nella carta da cucina. 10. Mentre sono ancora caldi passateli nello zucchero, in modo che si attacchi bene sulla superficie. 11. Bucate delicatamente i bomboloni col manico del coltello e con una sac à poche riempiteli di crema

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VINI ABBINATI a cura di ENIO BERTON

È ORA DI

BERE! abbinamenti consigliati

CON IL SUSHI

Il sushi ed, aggiungo, il sashimi sono piatti che si perdono nella notte dei tempi, come ampiamente spiegato nei nostri articoli, ma la cosa più importante è che rappresentano, in maniera indiscutibile, la cultura e la tradizione della civiltà nipponica. Queste preparazione non possono essere ridotte ad un’alternativa di un fast food, ma devono essere apprezzate e gustate come ottimi piatti preparati da chef esperti e certificati che tramandino la tradizione. L’abbinamento del vino deve tener conto degli elementi gustativi che ci troviamo nel piatto: di sicuro c’è il pesce, sia magro che grasso (branzino, orata, tonno, anguilla) tendenzialmente crudo; troviamo, come base, il riso bollito con presenza di aceto di riso e, per chiudere in bellezza, una quantità di verdure, erbe, alghe che proprio neutre, al gusto, non sono. A complicare ancora un pochino la nostra scelta ci sono la salsa di soia e il wasabi, se decidiamo di dare una leggera o una media piccantezza al nostro boccone. Comunque parliamo prevalentemente di pesce, per cui possiamo escludere da subito i vini rossi strutturati e maturi, che coprirebbero i sapori uccidendone il gusto, per cui scartiamo anche i vini rosati o i vini rossi giovani. A questo punto ci restano solo i vini bianchi, che con la loro freschezza e il loro profumo possono accompagnare ed esaltare il nostro piatto. Tra fermo o bollicine è una scelta personale, sicuramente dobbiamo scegliere un vino elegante e fine che sappia far risaltare le componenti aromatiche del piatto, per cui possiamo spaziare tra vini fermi come il Sauvignon, il Pinot Grigio, lo Chardonnay ma non disdegniamo il Soave, il Gavi, la Passerina, la Falanghina, il Verdicchio. Scegliamo un vino con una buona sapidità e una buona acidità, dal colore giallo paglierino sia giovane che più strutturato e maturo. Per le bollicine le alternative possono essere un metodo classico italiano come il Franciacorta od il Trento Doc, o altre produzioni come quelle dell’Oltrepo pavese, e ancora un metodo classico francese come Champagne o Cremant d’Alsazia; oppure possiamo stappare un vino charmat quale il Prosecco rigorosamente brut.

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A LTO A D I G E C H A R D O N N AY Vino: Cantina:

Alto Adige Chardonnay DOC Tschaupp 2016 Tenuta Schweitzer

Viene coltivato in collina a 450 metri slm vicino a Merano, in una posizione meravigliosa, panoramica e soleggiata sotto le cure dell’enologo Martin Aurich premiato a livello nazionale ed internazionale. La raccolta avviene a maturazione dell’uva e, dopo la diraspatura, la fermentazione prosegue in parte in botti di acacia ed in parte in tini di acciaio a temperatura controllata. Dal colore giallo paglierino brillante, al naso presenta subito le note di mela golden che vengono accompagnate con dei sentori di frutta esotica passando per sensazioni floreali e minerali. Al palato risulta pieno con una buona acidità e altrettanta sapidità. Fin di bocca persistente. Da servire a 8/10 gradi in calici tulipano. Uve: 100% Chardonnay. Zone produzione: Tenuta Schweitzer Merano (BZ). Grado alcolico: 12,50%.

C H A M PA G N E B R U T Vino: Cantina:

Champagne Brut Millésimé 2008 Laurent -Perrier

Nella Maison Laurent-Perrier solo le annate migliori possono essere imbottigliate da sole e non con vini di altre annate; la stagione vitivinicola 2007 è stata, per la zona dello Champagne, un anno spettacolare. Questo millesimato vede la presenza alla pari di uve Chardonnay e Pinot Noir che donano eleganza e freschezza al vino. Dal colore giallo paglierino chiaro, con un perlage fine e persistente, riporta, al naso, note ampie e complesse che spaziano da sentori agrumati e esotici a note di tostatura e leggeri ricordi di lieviti. Al palato i sentori agrumati sono accompagnati da note di albicocca e richiami alla frutta secca. Fin di bocca persistente e gradevole. Da servire a 8/10 gradi in calici tulipano. Uve: 50% Chardonnay 50% Pinot Noir Zone produzione: Champagne. Grado alcolico: 12,00%

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CON I DOLCI DI CARNEVALE I dolci di carnevale sono, generalmente, fritti con presenza di creme e decorazioni zuccherine che ti portano ad appagare il palato con la loro nota dolce e a saziare lo stomaco con la loro pesantezza. La pasta con cui sono fatti, tendenzialmente, contiene degli ingredienti aromatici che spaziano dalla vaniglia alla cannella, passando per componenti agrumati più o meno alcolici (anche se l’alcolicità con la cottura tende a svanire). Ma tra frati, bomboloni ripieni, chiacchiere e castagnole magari ripiene di cioccolato, cosa possiamo abbinare? Cerchiamo di identificare le componenti aromatiche che abbiamo di fronte. Troviamo il gusto del fritto, la dolcezza del ripieno o della decorazione, le possibili note agrumate o liquorose; a questo punto dobbiamo prendere una decisione: vogliamo contrastare queste note o cerchiamo un vino o liquore che si avvicini per analogia alla nostra pietanza? Se vogliamo contrastare il gusto, possiamo andare sulle classiche bollicine con un leggero residuo zuccherino, quindi un dry se il residuo zuccherino è tra i 17/32 grammi per litro, oppure un extra dry se il residuo zuccherino è tra i 12/17 grammi per litro; anche una grappa barricata da uve aromatiche o semiaromatiche (gewurztraminer, riesling, moscato) può andar bene. Tra i vini fanno parte di questa categoria il Prosecco DOCG ed il Moscato d’Asti nella versione Dry, fra le grappe la scelta può spaziare tra le tradizionali etichette storiche nazionali quali Poli, Bonaventura Maschio, Domenis, Nonnino, Berta Distillerie, Marzadro. Se, invece, vogliamo abbinare un vino o un liquore che accompagni il gusto del nostro dolce carnevalesco, dobbiamo distinguere tra i dolci secchi e quelli con la presenza di creme o ripieni di frutta; nel primo caso possiamo abbinare un Moscato d’Asti tradizionale o un Recioto di Soave, mentre con la presenza di creme o ripieni di frutta possiamo provare un vino passito o da raccolta tardiva, quindi un Passito di Pantelleria o un Brachetto d’Acqui. Se, invece, vogliamo osare ed oltrepassare il confine andando in Germania possiamo gustare un Riesling Auslese. La differenza tra vino passito e vino prodotto da raccolta tardiva non è banale. Il vino passito viene prodotto da uve raccolte a maturazione e successivamente fatte passire in graticci in locali aerati; solo dopo un certo periodo, quando le uve si sono leggermente disidratate facendo aumentare il loro grado zuccherino, si effettua la spremitura e si inizia la vinificazione. Il vino prodotto da raccolta tardiva, come dice il nome, proviene da grappoli raccolti dopo la maturazione fisiologia e fatti appassire direttamente sulla pianta in modo che, preferibilmente, abbiamo subito l’attacco di muffe nobili (prodotte dalla botrytis cinerea), le quali donano il caratteristico sentore di affumicato. Se invece vogliamo abbinare un liquore o un vino fortificato possiamo pensare ad un Porto o ad un Marsala o, perché no, un rum giamaicano. Provate e fatemi sapere. 70 - BBQ4All MAGAZINE


R I E S L I N G AU S L E S E Vino: Cantina:

Mosel Prädikatswein Ürzige Würzgarten Riesling Auslese 2014 Dr.Loosen

Viaggiamo con la mente fino in Germania nella zona della Mosella regina dei Riesling. I vini che vengono prodotti in questa zona sono longevi e con profumi molto intensi. I costi non sempre sono accessibili, ma dobbiamo fare una distinzione sul tipo di vino che stiamo stappando. La classificazione dei vini Prädikatswein o QmP indica anche il livello di grado zuccherino presente nel mosto ed anche il metodo di vendemmia. Avremo quindi, ordinati per grado di maturazione crescente: - Kabinett: vino con contenuto zuccherino del mosto non inferiore a 70 gr/lt. - Spatlese (“vendemmia tardiva”): vino prodotto con uve da vendemmia tardiva la cui data di inizio è stabilita ufficialmente ogni anno. Minimo 76 gr/lt. - Auslese (“vendemmia selezionata”): vino prodotto con raccolta manuale di grappoli accuratamente selezionati in vendemmia, anche attaccati da muffa nobile (botrytis cinerea). Minino 83° gr/lt. - Beerenauslese (“vendemmia selezionata di acini”): vino di grande concentrazione ottenuto con la vendemmia manuale di acini selezionati surmaturi e/o attaccati da botrytis. Minimo 110 gr/lt. -Trockenbeerenauslese (“vendemmia selezionata di acini disidratati”): prodotti con la stessa concezione dei beerenauslese, si presentano più concentrati e devono ottenere almeno 150 gr/lt. -Eiswein: uve vendemmiate ad una temperatura non superiore ai -7° con concentrazione non inferiore a 110 gr/lt. Per semplicità ho trasformato i gradi oechsle in gr/lt con conversioni 1 a 1, anche se il disciplinare tedesco parla di gradi oechsle, che però tralascio per non scendere nei concetti di vinificazione. Capite bene che una raccolta dei singoli grappoli, o meglio ancora acino per acino, di base aumenta il costo di acquisto del prodotto finale per cui non stupitevi dei prezzi che potete trovare. Il vino proposto lo considero un giusto compromesso qualità/prezzo; viene raccolto quando i grappoli hanno subito, almeno per il 50%, l’attacco della muffa nobile. Dal colore giallo dorato con un densità accentuata nel bicchiere (provate a far girare il bicchiere e vedrete la massa del vino girare compatta)al naso si presenta con un ventaglio aromatico intenso con sentori di frutta matura a polpa gialla e con note agrumate che piano piano lasciano il posto a sottili ma intense note mielate. In bocca risulta pieno, con un giusto compromesso tra sapidità, che consentirà una lunga vita alla bottiglia, e le note dolci; emergono ulteriori note speziate ed il caratteristico sentore da “idrocarburi” tipico dei Riesling. Da servire a 10/12 gradi in calici tulipano. Uve: 100% Riesling Zone produzione: Mosella (Germania). Grado alcolico: 8,00%.

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BIRRE CONSIGLIATE a cura di RICCARDO MENICONI

CON L'HAMBURGER DI WAGYU

OUDE GEUZE

Dell'hamburger abbiamo già parlato qualche numero fa, ma oggi parleremo di una variante, speciale, incredibile, quasi illegale. L'hamburger di Wagyu, un concentrato di umami, un proiettile di gusto, un disco di piacere, perfettamente cauterizzato sulla superfice, incredibilmente croccante fuori e scioglievole dentro. Un concetrato di sapori, strutturato e complesso da gustare in purezza o in un godurioso panino. Ma cosa possiamo bere per esaltare e sostenere tutta questa potenza? Mmmh... Una bock? Sì, ha l'alcool giusto ma probabilmente risulterebbe troppo dolce, allora una ipa? Meglio di no, la luppolatura troppo spinta potrebbe rovinare l'equilibrio della carne. Meglio cercare qualcosa di diverso, in grado di equilibrare tutta questa opulenza ed invogliare ancora il morso. Se penso ad una birra che mi renda qualcosa ancora più appetibile,che aumenti la salivazione e pulisca il palato mi viene in mente subito una Gueuze (o Geuze in fiammingo). Nello specifico la Oude Geuze di 3Fonteinen. Quando, nel 1953, Gaston Debelder decise di fondare 3Fonteinen divenne subito famoso per il suo incredibile olfatto, strumento indispensabile per assemblare questo tipo di birre. Dovete sapere, infatti, che fino al 1998 lì venivano assemblate lambic* provenienti da altri birrifici, ma non si brassava nessuna birra in loco. Anche questa Geuze è un blend, ottenuta dalla miscelazione di una parte di lambic di un anno, una di lambic vecchio 2 anni e una di 3. Naturalmente le percentuali variano di anno in anno, a seconda delle qualità organolettiche delle birre prese in considerazione e così anche il prodotto risultante è sempre diverso. Il bello di questo stile è che anche la stessa bottiglia, se bevuta in momenti differenti della sua vita, può essere diversa. Difatti l'attività dei lieviti non si interrompe mai, neanche una volta finita la rifermentazione in bottiglia. Essendo un prodotto vivo a tutti gli effetti è possibile osservarne l'evoluzione di anno in anno. È importante, per salvaguardarne la qualità, tenere le bottiglie coricate in cantina al buio. Vi racconterò ora della bottiglia che ho bevuto per scrivere questo articolo (è un duro lavoro, lo so). Ma per quello che dicevo poco sopra non prendetelo come standard.

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Una volta tolto il tappo in sughero l'esplosione di aromi selvaggi ci pervade. Versandola nel bicchiere noteremo una schiuma bianca, dal perlage fino ed irregolare, molto evanescente. Sotto una birra dorata, torbida e con leggeri riflessi ramati, troviamo subito al naso aromi di frutta bianca e acerba che fanno da preambolo ai classici sentori di animale, polvere, legno e crosta fiorita di formaggio. Il corpo è di media intensità, brioso, con sentori netti di acido lattico e un leggero acetico, con note aspre di limone e uva bianca. Nel finale chiude secca, rustica ma pulita, con una leggera nota amarognola. Dissetante e divertente. Da servire ad una temperatura di 8° nel tipico bicchiere da Geuze. *lambic è uno stile di birra caratterizzato dalla fermentazione spontanea, prodotta nella regione del Payottenland, a sud ovest di Bruxelles, in Belgio. Il mosto di birra viene esposto in vasche di rame ai lieviti e batteri che si trovano nell'aria. Fermentando solamente con questi lieviti, il prodotto finale è secco, acido con sentori di vino o sidro.


CON IL TEMPURA

ZO N A C E SA R I N I La tempura è una tecnica di frittura Giapponese che consiste nel tuffare gli alimenti in una pastella fredda e friggerli velocemente in modo da creare una corazza croccante fuori e lasciare umido l'interno. Quando parliamo di tempura, parliamo di verdure a julienne e pesce, il più delle volte gamberi, spesso accompagnti da una salsa agrodolce. Questa volta andremo a creare un abbinamento per contrapposizione, con una birra abbastanza amara ma leggera, che ci permetterà sia di sgrassare il palato sia di bilanciare i sapori agevolando (come se ce ne fosse bisogno!) il boccone successivo. Non tutti sanno che il Giappone non è famoso solo per il sushi, gli anime e il nostro amato waguy. Nel mondo della birra è celebre per essere la terra natia di un luppolo molto particolare chiamato Sorachi Ace.

sente nelle pilsner di quella zona). I risultati non furono però soddisfacenti e venne messo da parte fino a quando, nel 2006, alcuni Mastri birrai americani lo rivalutarono per i suoi aromi citrici. Oggi viene coltivato solo in america ed è uno dei luppoli utilizzati nella Zona Cesarini, la pacific Ipa del birrificio Toccalmatto. Ancora prima di stapparla mi vorrei soffermare un attimo sull'etichetta, per me una delle più belle mai stampate. I colori del sol levante la fanno da padrone incorniciando un’onda marina ispirata a quella del Maestro giapponese Katsushika Hokusai, dalla quale si stagliano le sagome di tre aerei da guerra a monito della potenza di questo piccolo capolavoro. Ma veniamo alla birra.

E’ stato sviluppato per l'appunto in Giappone alla fine degli anni 70, per cercare di creare qualcosa di simile al ben più famoso Saaz (tipico della Repubblica ceca, e onnipre-

La schiuma è bianca, quasi pannosa e molto persistente, il colore è di un dorato carico tendente all'arancione. Il naso è prepotente, le sensazioni olfattive sono nette: frutta tropicale, ananas, mango, mandarino pompelmo e lime con un tocco di resina. In bocca l'amaro è piacevole ed elegante, molto coerente con il naso, ritroviamo infatti tutta la frutta e gli agrumi, insieme ad ottimi sapori maltati di crackers e crosta di pane. Qui la nota resinosa si fa sentire di più, rendendo la bevuta ancora più piacevole e dissetante, il corpo è pieno, ma agile. Nel finale le note balsamiche e una leggera secchezza chiudono in bellezza. I 6,6 gradi abv sono quasi un incentivo a berne ancora e ancora. Vi consiglio di servirla ad una temperatura di 8-10° in una pinta Americana.

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LIQUORI CONSIGLIATI a cura di TOMMASO DI GREGORIO

S U N TO RY T I M E !

For relaxing times, make it Suntory Time!

I più appassionati di cinema avranno subito associato il titolo dell’articolo al film da cui la citazione è tratta. Questa è infatti una frase pronunciata da Bill Murray in Lost in translation, dove Murray interpreta un attore in declino che vive in Giappone e per cercare di sopravvivere sponsorizza diversi prodotti, tra cui lo Yamazaki 12 anni prodotto dalla Suntory. La scena è paradossale, e sembrerebbe la classica marchetta a un prodotto scadente. Ma così come il film nel 2003 ha vinto 4 oscar anche lo Yamazaki ha fatto incetta di premi. Nel 2003 infatti il whisky prodotto dalla Suntory è stato il primo maltato giapponese a conquistare il primo premio all’International Spirit Challenge. Da quel momento per la Suntory è stato un susseguirsi di riconoscimenti, culminati poi nel premio “miglior Whisky al mondo” nel 2015. Il percorso per arrivare a questo 74 - BBQ4All MAGAZINE


riconoscimento è stato lungo ed è cominciato nei primi anni del ‘900 quando Masataka Taketsuru di ritorno dalla Scozia, dove aveva studiato per 5 anni le arti della distillazione, incontra l’imprenditore Shinjiro Torii che stava aprendo la sua prima distilleria a Yamazaki. Il percorso intrapreso dai due coraggiosi non è semplice e la loro visione non è sempre la stessa. Torii è alla ricerca di un gusto più morbido, adatto ai palati giapponesi, mentre Taketsuru vuole mantenere una linea più pura con uno stile più simile a quello scozzese. Le diatribe tra i due portano a un’inevitabile divisione e a intraprendere strade differenti. La Suntory rimane in mano a Torii mentre Taketsuru qualche anno dopo fonda la sua distilleria che ora è diventata l’attuale Nikka. Oggi troviamo ancora le due aziende che si contendono la leadership del mercato nipponico anche se negli ultimi anni si sono affacciate altre aziende, come la Kirin, e piccoli produttori come la White Oak. E’ una filiera di successo e in rapida espansione che deve il merito soprattutto alla purezza dei corsi d’acqua e al clima, nettamente distinto nelle quattro stagioni, che consente un invecchiamento più fluido e permette al whisky di affinarsi ulteriormente. Altra particolarità della filiera è che in alcune distillerie ogni singolo alambicco usato per la distillazione è diverso dall’altro. Questo sistema permette di ottenere da ognuno di essi un whisky leggermente diverso. L’offerta di maltati nipponici è molto differenziata non solo come varietà ma anche per i prezzi. Quello che vi proponiamo oggi è appunto quello citato nel film Lost in translation: il Suntory Hibiki Harmony. Questo whisky è una miscela invecchiata in 5 tipi diversi di legno, tra cui il rovere, lo sherry e il Mizunara, raro legno giapponese che caratterizza molto questo prodotto. La linea Hibiki della Suntory è molto giocosa al palato, caratterizzata da un’ampia profondità di sapori che si percepisce molto lentamente su tutta la lingua. Le prime sensazioni che si avvertono sono quelle del malto e della quercia, entrano quindi le note floreali che sono arricchite da sensazioni agrumate. È un whisky estremamente piacevole da bere, occhio a non finire la bottiglia però! FEBBRAIO 2020

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THE CHEMICAL GRILLER a cura di VIRGILIO BRUNETTI

SALSE

CA P I TO LO D U E

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IL KETCHUP E IL MAGICO DESTINO DI HENRY Ai più verrà da pensare che il ketchup sia una salsa di origine statunitense, il prodotto americano per eccellenza. In realtà (e incredibilmente) l’origine di questa salsa è orientale. Infatti il termine ketchup è preso in prestito dal malese kecap, che in origine fu una salsa a base di pesce fermentato. Quando nel 1600 questa salsa sbarcò in Europa, i cuochi iniziarono a personalizzarla utilizzando svariati ingredienti tra cui ostriche, funghi, noci, limone. La ricetta del ketchup inizia a svilupparsi come la conosciamo alla fine del 1700, quando in America alcuni cuochi iniziano ad utilizzare il pomodoro per produrla: nasce quindi il primo tomato ketchup, prodotto nel 1812 da James Mease, di Philadelphia. Ma fu solo nel 1872 che Henry John Heinz sviluppò la ricetta che la sua azienda utilizza ancora oggi. In contrasto con le consuetudini di allora, Heinz aumentò la quantità di aceto e di zucchero, aggiunse la cipolla e un mix di spezie. Questa combinazione vincente di sapori divenne talmente famosa che gli americani identificarono ben presto il termine ketchup solo ed esclusivamente con la salsa di Heinz, e da allora nulla è cambiato in buona parte del mondo, Italia compresa. C’è un antico detto che identifica alla perfezione la storia di Henry J. Heinz: homo faber fortunae suae (Appio Claudio Cieco 350–271 a.C.), ogni uomo è artefice del proprio destino. Per alcuni uomini audaci l’America ha rappresentato il substrato sul quale coltivare opportunità e idee. Senza dubbio uno di questi audaci fu Henry J. Heinz, nato nel 1844 a Pittsburgh in Pennsylvania da una famiglia di immigrati tedeschi. La sua prima idea commerciale arrivò quando era giovanissimo: confezionare il rafano che la madre coltivava nell’orto e venderlo per le strade della città. La sua formazione religiosa, il college e il lavoro presso l’azienda del padre lo fanno crescere come uomo ed imprenditore ma sarà la madre ad avere un ruolo fondamentale nella sua corsa verso il successo. Capisce subito che il settore delle conserve vegetali è un ottimo affare, quindi nel 1869, assieme all’amico L. Clarence Noble, fonda la Heinz Noble Company: l’azienda rifornisce di rafano, sottaceti e crauti i ristoranti e i negozi di Pittsburgh. Erano anni in cui sempre più persone si trasferivano dalla campagna alla città, dove mancava lo spazio per coltivare frutta e ortaggi. La Heinz Noble cresce e la vecchia casa di famiglia diventa il suo laboratorio dove due casalinghe tedesche lavano e conservano gli ortaggi, usando i metodi di conservazione tradizionale grazie ai quali i prodotti si conservano bene e a lungo, inoltre il confezionamento in barattoli facilita il trasporto.

HENRY J. HEINZ

Nel 1875 l’azienda fallisce a causa di una crisi improvvisa, e le banche negano il credito al giovane Heinz il quale non riesce a far fronte ai debiti verso i fornitori di ortaggi. La FEBBRAIO 2020

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profonda delusione fa sì che Henry maturi un nuovo spirito imprenditoriale. A risollevare l’azienda ci pensa la madre che con i suoi ultimi risparmi fonda una nuova società, la Heinz Food Company. La nuova azienda a conduzione familiare cresce in maniera lenta ma costante ed Henry non si risparmia lavorando nei campi, nel magazzino, nelle vendite. Il fallimento è un’onta che gli pesa molto e si impegna a saldare i suoi debiti fino all’ultimo centesimo anche se non è tenuto a farlo. Continua inesorabile a sfornare nuovi prodotti, tra questi una portentosa salsa rossa a base di pomodoro. I processi di conservazione a quei tempi erano basati su prove empiriche, lunghe cotture e ingredienti

lore al Brand e alla fiducia del consumatore, a considerarli mattoni su cui costruire un’azienda moderna. La Heinz Company è stata una manifestazione del suo pensiero che si può riassumere nel motto “fai del bene, nonostante gli altri”. Oggi la Heinz è uno dei principali marchi internazionali. Con trentatremila dipendenti ed un fatturato di 8 miliardi di dollari, è leader del mercato in molte zone del mondo. Negli Stati Uniti ha una quota di mercato del ketchup del 98%. Il Ketchup Heinz è una delle salse che nonostante i semplici ingredienti, resta assolutamente inimitabile; inoltre è indiscutibilmente una delle basi fondamentali di molte salse barbecue e accompagnamento imprescindibile di preparazioni con diffusione globale come hamburger e patatine fritte

di uso comune come zucchero, spezie, aceto. Heinz intravede il potenziale della sua salsa rossa ma capisce che la gente ha anche bisogno di vedere ciò che acquista, così usa vasetti e bottiglie di vetro trasparente; Heinz nota inoltre che la parte della salsa che viene a contatto con l’aria nel collo della bottiglia, diventa più scura e gelatinosa perché si ossida, non avendo più un bell’aspetto. Decide così di utilizzare dei collarini per le bottiglie che nascondono l’inconveniente. Henry Heinz di fatto reinventa il ketchup trovando una formula micidiale che sbaraglia la concorrenza di quelli già presenti sul mercato. In tutti gli anni a seguire continua la sua marcia verso il successo non tradendo i suoi obiettivi commerciali, i suoi collaboratori e i suoi clienti. Anche se non è stato lui ad inventare il ketchup è sicuramente quello che lo ha venduto meglio. E’ stato senza dubbio un genio del marketing ed uno dei primi a dare va78 - BBQ4All MAGAZINE


LA SALSA SRIRACHA E IL SOGNO AMERICANO Quella della salsa Sriracha è un’altra storia di imprenditoria americana che ruota intorno ad un uomo eccezionale, noto per aver creato un brand colossale basato su una salsa “non autentica” o meglio fuori dai canoni della maledetta e beneamata tradizione. Il consumo di questa salsa in Italia è limitato, probabilmente patisce il fatto di avere una forte impronta asiatica con un livello elevato di piccantezza e una quantità di spezie non affine ai nostri palati; tuttavia molti griller curiosi e attenti probabilmente conoscono bene la bottiglia di salsa piccante con il gallo sull’etichetta ed il tappo verde. Il suo crea­tore grazie a questo prodotto è diventato leggenda, la perfetta personificazione del sogno americano. David Tran impara a preparare salse piccanti a casa sua in Vietnam. Tran è un umile e geniale agricoltore di peperoncini; nel 1975 inizia a produrre la Pepper Sa-te. La confeziona in barattoli di vetro di omogeneizzati per bambini e in bicicletta la consegna e la distribuisce presso amici e parenti. Poco dopo, nel ’79, fugge dal Vietnam comunista e si imbarca su un mercantile taiwanese registrato a Panama, di nome Huey Fong. Il nome di quella nave diventerà il nome della sua grande azienda, la Huy Fong Foods. Negli Stati Uniti Tran viene accolto come rifugiato politico e qui inizia a fare ciò in cui riesce meglio: preparare salse piccanti. In quel momento non esistono in USA salse abbastanza piccanti da soddisfare il palato della grande comunità asiatica americana; così, in un magazzino della Chinatown di Los Angeles, inizia a produrre la sua salsa al pepper Sa-te ma anche Sambal Oelek, Chili Garlic, Sambal Badjak e Sriracha Hot Sauce. Utilizza materie prime locali come gli jalapeño freschi, d’altronde non ha a disposizione i tradizionali e micidiali peperoncini asiatici. Tuttavia Tran svuota sistematicamente i suoi magazzini invadendo con suoi nettari infuocati i mercati ed i ristoranti asiatici di Los Angeles, di San Francisco e di San Diego. Eppure in quel momento Tran non ha ancora idea dell’enorme potenziale dei suoi prodotti ed in particolare della sua Sriracha. Beh, In 40 anni la Huy Fong Foods cambia sede più volte cre-

DAVID TRAN scendo e modernizzando di volta in volta gli impianti e soprattutto mantenendo segreta la formula della salsa. Attualmente la sede produttiva a Irwindale, California, converte annualmente oltre 100 milioni di libbre di peperoncini freschi in centinaia di migliaia di bottiglie di Sriracha, per un fatturato di 80 milioni di dollari all’anno. Il successo globale della Sriracha Hot Sauce non è privo di intoppi: la Huy Fong ha appena perso una grande battaglia legale con la Underwood Farms, da tempo fornitore di peperoncini freschi, mentre i media hanno messo in dubbio l’autenticità della Sriracha di Tran. I puristi della tradizione colpiscono in ogni compartimento della gastronomia mondiale e la competizione con altri brand è feroce. Il mercato delle salse asiatiche è un business colossale e la stoccata da parte dei produttori tailandesi non è tardata ad arrivare accusando Tran di produrre una salsa che non è altro che una “americanizzazione” della salsa tradizionale. La questione che un cibo etnico popolare sia solo un imbastardimento della versione tradizionale è un argomento che ci sta sempre molto a cuore, sapete bene cosa succede quando ad un italiano tocchi la carbonara, la cacio e pepe o l’aglio-olio e peperoncino. Così accade anche in altri contesti come la cucina italo-americana o asiatica-americana. Spesso, soprattutto sui social, queste discussioni diventano un pantano di pregiudizi culturali che poco hanno a che fare con la cucina. È quello che è accaduto con la Sriracha di Huy Fong, che è “americanizzata” perché è nata per una comunità molto specifica, ovvero la comunità asiatica residente negli Stati Uniti. Proprio negli States il criterio di “autenticità” di un prodotto è sempre il vero punto della questione, ovvero l’abilità di molti cuochi ed altrettanti imprenditori di riadattare in maniera assolutamente geniale i cibi tradizionali in una nuova e autentica forma. In un’intervista rilasciata al New York Times nel 2001, Tran stesso ha riassunto il proprio processo di personalizzazione e di adattamento in una frase emblematica: non è Sriracha thailandese. È la mia Sriracha.

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LE RAZZE rubrica a cura di ROBERTO DAL BOSCO

BLACK ANGUS

i l ne ro c he s ta ben e s u tu tto Cloquet odiava la realtà, ma realizzò che era l’unico posto dove mangiare una buona bistecca, scrive Woody Allen in un racconto comparso sulla rivista New Yorker nel 1977. È molto facile che, da buon americano (cioè: toccato dalla magia del Barbecue) e da buon newyorkese (cioè: avvezzo alla cultura della Steak House) egli stesse scrivendo con in mente il sapore di una razza bovina in particolare. Tale carne ha un posto fisso nella classifica universalmente condivisa delle migliori razze di manzo, e anche nella top-list dei pezzi di ciccia più agognati dal carnivoro di livello. Il nome poi ricorda l’irrefrenabile chitarrista degli AC/DC vestito da scolaretto, Angus Young (1955-). Noi carnivori disinibiti abbiamo sempre in testa la variante Black. La cosiddetta Black Angus è la gemmazione americana

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dell’Aberdeen Angus. Un bovino cosmopolita, perché vive anche in Brasile e in Argentina, oltre che negli Stati Uniti. La Black Angus è la razza più comune di bovini da carne negli USA, dove arriva a toccare quota 332.421 bovini registrati (dato 2017). Essa prende originariamente nome dalle contee nordorientali scozzesi dell’Aberdeenshire e di Angus (ma la razza è allevata anche nella contea di Kincardine), ed è stata ingrassata per secoli da quell’erbetta di laggiù. Prima del XIX secolo, i bovini senza corna nell'Aberdeenshire e Angus erano chiamati «Angus Doddies». Nella sua Bibbia del Barbecue, il M° Steve Raichlen dice che il «manzo Wagyu è in cima alla lista» tuttavia «il manzo Black Angus ha un sapore ricco. In più, la crescita e l’ingrasso sono rapidi, e ciò fa del Black Angus una delle razze più diffuse e conosciute negli Stati Uniti».


GENEROSITÀ MARMORIZZATA

L’Aberdeen Angus è resistente e precoce: essa matura più velocemente rispetto ad altre razze britanniche come Hereford e North Devon. L’Angus sviluppa una taglia media, 800-1000 chilogrammi nel maschio, 650-700 chilogrammi nella femmina, la cui carcassa pesa dai 340 ai 380 chili. Eccezionale la resa al macello, che raggiunge in tranquillità il 70%. È l’Angus a detenere il record mondiale, con il 76% della resa al macello. Anche da morta, insomma, l’Angus ha questa generosità notevole, che si riflette anche sulle papille gustative: la sua carne è delicata, con quella venatura di grasso che la rende saporita ed ambita internazionalmente. Apprezzata dal punto di vista e quantitativo e qualitativo, negli animali ingrassati a dovere si ha una carne marezzata con depositi adiposi perimuscolari e sottocutanei non molto accentuati: c’est-à-dire, la ciccia Angus è grassa nei posti giusti. È apprezzato anche lo spesso strato di black fat, che non solo protegge la carne dai batteri ma anche assicura la succulenza quando messa sul fuoco. I vitelli di solito nascono più piccoli di quanto non sia accettabile per il mercato, quindi per la produzione di carne di vitello è necessario l’incrocio con bovini da latte. Sebbene le mammelle possano essere bianche, l’Angus è nera (colore nativo) o rossa (come emerso di recente, a metà dello scorso secolo), acorne (senza corna), con il pelo raso, , scrivono i manuali di zootecnica bovina «sincipite prominente ed elevato», dove sincipite è la sommità del cranio. Il tronco è cilindrico, lo scheletro è poco pesante. Gli arti dell’Angus sono corti, e ciò impressiona pensando al peso che può raggiungere l’animale. Il Regno Unito registra entrambi i colori nella stessa linea genealogica, ma negli Stati Uniti invece sono considerati due razze separate: Red Angus e Black Angus.

STORIA GLOBALE DELL’ANGUS

Nel 1824, il signor William McCombie of Tillyfour (1805-1880), deputato del South Aberdeenshire detto anche «The King of Graziers» («Il Re degli allevamenti»), iniziò a migliorare la specie. McCombie può essere considerato il vero padre della razza Angus. La corona è meritata: nel 2014, il British Cattle Movement Service ha determinato che è l’Angus la razza di manzo autoctona più popolare del Regno Unito. Il bestiame aveva ottenuto l’accettazione del mainstream alimentare già a metà del XVIII secolo, quindi è con un certo ritardo che il primo libro genealogico fu creato nel 1862. Il bestiame si sparse nelle isole britanniche a metà del XX secolo. Il libro genealogico britannico indica il 1879 come l’anno in cui Don Carlos Ortega importò in Argentina due mucche ed un toro per la sua Estancia (parola dello spagnolo sudamericano con cui si indica una tenuta dove si alleva il bestiame) in provincia di Buenos Aires. Il toro, dal nome bellissimo – «Virtuoso» – era stato allevato da tale Colonnelo Ferguson. Le vacche si chiamavano «Zia Lee 4697» e «Cenerentola 4968». Sono i capostipiti di tanta ciccia argentina. L’Angus arrivò quindi anche agli antipodi, dapprima in Tasma-

nia nel 1820 e in seguito nel sud dell’Australia nel 1840. Come in Argentina, la discendenza è stata numerosa: nel 2010 erano registrati in Australia 62.000 capi. La svolta tuttavia arrivò con l’intraprendente scozzese George Grant. Il 17 maggio 1873, Grant portò a Victoria, nel Kansas, quattro tori Angus e nessuna vacca. Mossa inusuale: in USA come il bestiame consisteva normalmente in Shorthorn e Longhorn, non era abituale vedere tori senza corna. Cionondimeno, gli allevatori locali videro subito che si trattava di tori di grandi qualità, e chiesero di importare anche le mucche. Neanche un decennio dopo fu fondata a Chicago l’American Angus Association che nel 1885 pubblicò il primo libro genealogico dell’Angus a stelle e strisce. Come avviene ancora nel Regno Unito, a quel tempo negli USA entrambi le varianti rosse e nere erano registrate senza distinzioni. Dal 1917 l’Associazione vietò la registrazione di animali rossi e di altri colori per promuovere la razza nera. Ciò portò alla reazione degli scissionisti della Red Angus Association of America, fondata nel 1954 da allevatori di Angus purpureo. Gli Stati Uniti non accettano il bestiame Red Angus nei loro registri genealogici, mentre Gran Bretagna e Canada sì. Fatta eccezione per i geni del colore, è opinione comune che non vi sia alcuna differenza cromosomica tra Angus nero e rosso, anche se sono considerati propriamente razze diverse dalle autorità degli Stati Uniti. È stato comunque affermato che l'Angus Nero regge meglio il freddo, ma potrebbero essere illazioni.

BLACK ANGUS PRIMA DI MORIRE Le bistecche sono davvero una di quelle cose che rendono questa spirale mortale [metafora scespiriana per indicare la vita, ndr] tollerabile – scrive Mimi Sheraton nel suo apocalittico libro 1,000 Foods To Eat Before You Die: A Food Lover's Life List («1.000 cibi da mangiare prima di morire: una lista vitale per gli amanti del cibo») – specialmente quando è una bistecca di Black Angus». La Black Angus rimane una delle razze più ricercate come base dei decadenti superhamburger che tutti noi bramiamo, scrive la Sheraton, che nella sua guida mortale mette un ristorante dove andare a mangiarla in Scozia (da Champany, nel borgo reale di Linlithgow) e un’azienda per il mail order: Creekstone Farm. Conoscete? FEBBRAIO 2020

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LA RICETTA SCIENTIFICA - a cura di GIANFRANCO LO CASCIO

LA RICETTA SCIENTIFICA

KATSU SAND O Per fare un tavolo ci vuole il legno, per fare il katsu sando ci vuole… la cotoletta!

Esistono vari tipi di katsu in Giappone, di cotolette intendo. Quella di manzo si chiama Gyu katsu, quella fatta con il pollo Chicken katsu, quella di spalla di maiale non poteva che essere Hamu katsu. Stavolta vi voglio parlare del Tonkatsu (豚カツ, とんかつ o トンカツ), la cotoletta di maiale fritta giapponese che fa parte della categoria degli “agemono”, i cibi fritti del Sol Levante. Si prepara partendo da una fetta di carne di maiale spessa 1-2 centimetri, si immerge in una pastella di acqua e farina, si arrimìna nel panko (il pan grattato nipponico) e si glorifica friggendola in immersione in abbondante olio. A cottura ultimata si taglia a striscioline e si serve con cavolo cappuccio affettato sottile e zuppa di miso. Oppure si schiaffa tra due fette di pane morbido, il famoso pane al latte giapponese, lo shokupan, insieme al cavolo cappuccio tagliato a chiffonade e abbondante salsa agrodolce. Una goduria di morsi salsati incredibili, la lingua solleticata da quei crick rock della panatura che crépita come una carta di caramella. Ebbene, ho deciso di condividere con voi, cari lettori, la mia personalissima versione del sandwich più stiloso del globo terraqueo, ovviamente ragionata, ovviamente scientifica. Potevo mai proporvi una ricetta fatta a katsu?

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IL PANE

Alla base di un buon panino c’è sempre lui, il pane. Questa volta al latte, morbido come una nuvola, con la mollica fitta e scioglievole. Lo Shokupan, il famoso pane al latte di Hokkaido, si prepara con il metodo tangzhong, uno starter di nuova concezione fatto di acqua e farina cotti come un roux. Trovate un approfondimento e una ricetta qui accanto, ma se non avete voglia di impastare esistono degli ottimi pani in cassetta, spessi e spugnosi, che potrebbero fare al caso vostro. Importante: ricordate di imburrare il pane dal lato della farcitura e di tostarlo sulla piastra in ghisa prima di confezionare il sandwich. Montate il katsu sando molto alto per agevolare il colpo d’occhio, ma ricordate di tagliarlo lungo il perimetro della cotoletta e soprattutto n-o-n s-c-h-i-a-c-c-i-a-t-e-l-o!

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LO SHOKUPAN: IL PANE AL LATTE COL METODO TANGZHONG È il pane al latte preparato con il metodo tangzhong, anche conosciuto come water roux, una tecnica nata a Taiwan nel 2003 che prevede la preparazione di uno starter liquido costituito da 1 parte di farina e 5 parti di acqua scaldate a 65°C. Si tratta dunque di amido gelatinizzato: durante la cottura in forno i granuli di amido assorbono acqua, si gonfiano e formano una struttura rigida intorno all’anidride carbonica. Quando l’espansione delle bolle si arresta, l’acqua contenuta all’interno di queste evapora, creando una rete di fori comunicanti. Che poi di fatto è la mollica. Nel tangzhong gli amidi sono già idratati prima che avvenga l’impastamento. Questo significa che non devono gareggiare con le altre proteine presenti nella pasta per assorbire acqua. Nel momento in cui si mescolano gli ingredienti, gli amidi idratati perforano gli strati di glutine. La rigidità di questi granuli di amido è responsabile della struttura spugnosa e chiusa della mollica tangzhong, poiché l'impasto con una maglia glutinica meno perforata forma bolle più grandi e una mollica più aperta.


COME SI PREPARA IL TANGZHONG INGREDIENTI: • 25 gr di farina forte 280-300W • 125 ml di acqua o latte (o acqua e latte in parti uguali) PROCEDIMENTO: 1. Misurare e mescolare bene la farina in acqua senza grumi. 2. Cuocere a fuoco medio-basso e portare a 65°C, mescolando costantemente con un cucchiaio di legno, una frusta o una spatola per evitare che si attacchi e bruci sul fondo. L'impasto si addenserà abbastanza rapidamente. 3. Rimuovere dal calore. Trasferire il tangzhong in una ciotola pulita e coprire con pellicola aderente sulla superficie, per evitare che si secchi. Lasciare raffreddare a temperatura ambiente prima dell'uso. NOTA: Il tangzhong può essere usato subito una volta raffreddato, quello avanzato può essere conservato in frigorifero fino a pochi giorni. Se diventa grigio, buttatelo! Questo starter può essere usato in tutte le ricette di pane, pizza o lievitati a cui volete conferire leggerezza e morbidezza, considerando che per il water roux va usata una quantità di farina compresa tra il 5 e il 10% del totale.

SHOKUPAN: LA RICETTA INGREDIENTI: • 270 g di farina 300 W • 95 g di tangzhong • 45 g zucchero semolato • 1 uovo intero (45g) • 30 g di panna fresca (o latte intero) • 25 g di latte intero • 25 g di burro morbido • 15 g di lievito di birra fresco • 4 g di sale PROCEDIMENTO: 1. Preparare il tangzhong come da istruzioni mescolando i 25 grammi di farina con 125 ml di acqua. Cuocere a fiamma bassa mescolando continuamente fino a raggiungere la temperatura di 65°C. Trasferire in una contenitore, coprire con pellicola a contatto e lasciar raffreddare. 2. Mettere in una ciotola la farina, aggiungere il lievito di birra sbriciolato, 95 grammi di tangzhong, lo zucchero, l'uovo e gradualmente il latte e la panna. Lavorare l'impasto in planetaria o a mano: sarà piuttosto morbido e leggermente appiccicoso. 3. Una volta incordato, aggiungere il burro a pezzetti e il sale e lasciar assorbire. 4. Trasferire l'impasto in un contenitore e lasciar lievitare fino al raddoppio in un luogo tiepido (28°C), ci vorrà circa un’ora. 5. Pesare l'impasto e dividerlo in tre parti uguali. Stendere con il matterello, arrotolare l'impasto su se stesso per il lato corto, appiattire con le mani, riallungare con il matterello e riavvolgerlo. Trasferire ogni rotolo in uno stampo da plumcake imburrato delle dimensioni di 21x12x7,5, con la chiusura verso il basso. Lasciar lievitare fino a che l'impasto non avrà raggiunto la superficie dello stampo. 6. Preriscaldare il forno a 180°C e inserire un pentolino con dell’acqua, per saturare la camera di cottura con del vapore. 7. Spennellare la superficie del pane con uovo sbattuto e mescolato a qualche goccia di latte o panna. Rimuovere il pentolino con l’acqua e cuocere in forno statico a 180°C per 30 minuti circa.

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LA CARNE

In Giappone per il tonkatsu si utilizza il filetto (ヒレ hire) o la lonza (ロース rōsu) di maiale. La carne viene di solito condita con sale e pepe prima di essere infarinata leggermente; successivamente viene immersa nell'uovo sbattuto e ricoperta di panko prima di essere fritta in abbondante olio di semi. Ma cosa succede quando prendiamo un taglio magro, come il filetto appunto, e lo friggiamo in olio bollente a 180°-190°C? La temperatura al cuore sale, le fibre si strizzano e la carne diventa secca come un materassino da yoga. È per questo motivo che noi useremo la coppa e cuoceremo la cotoletta in maniera completamente diversa. La coppa comprende una parte del collo e, rifilata dalle prime cinque costole, si presenta come in foto. (foto del pezzo di carne) È un taglio molto saporito perché ricco di grasso, proprio quello che ci serve per mantenere la nostra cotoletta morbida e succosa, ed è caratterizzato anche da una piccola parte di connettivo, che andrà necessariamente cotta a lungo e a bassa temperatura per poterla tramutare in gelatina. Avete capito bene: vi sto dicendo di cuocere la coppa intera sottovuoto e, solo a cottura ultimata, tagliare le fette e panarle per la frittura. Siete curiosi di sapere perché, giusto?

VANTAGGIO NUMERO 1

Cuocere la coppa intera in sous vide significa fondere le parti grassi e convertire il connettivo in gelatina. Sappiamo con certezza assoluta che per intenerire la carne di maiale possiamo intervenire su due proteine: la miosina e l’actina. Dobbiamo denaturare la prima, intervenendo sulla struttura proteica e portando la temperatura interna a 60°C, e non superare i 75°C, range in cui si va a intaccare la struttura della seconda. E il collagene? Il collagene comincia a sciogliersi a partire da 55°C, a 60°C registriamo la scomparsa degli agenti infettivi, oltre i 65°C le fibre si contraggono sempre più e iniziano a strizzare fuori liquidi. Noi cuoceremo la nostra bella coppa a 65°C per 7h, in questa finestra temporale la carne si scalderà e perderà liquidi; anche il collagene si scalderà e si trasformerà in gelatina. E magia della scienza, la gelatina riassorbirà tutta quell’acqua come una spugna. Contemporaneamente il grasso si scioglierà con il calore dolce e costante, mescolandosi con gli zuccheri, gli amminoacidi e i glucidi: insieme creeranno un numero incalcolabile di molecole che produrranno una serie di reazioni gustative a catena.

VANTAGGIO NUMERO 2

Vi è mai capitato di mangiare una cotoletta con contorno di pangrattato? Di perdere un pomeriggio a infarinare e friggere, con le dita inguacchiate di uova e calcestruzzo, per poi assistere alla separazione dell’olio e della panatura come novelli Mosé del grasso saturo? Vi vedo, lo so come ci si sente. È successo perché non avete mai preparato una cotoletta con un pezzo di ciccia già cotto. Rifletteteci un attimo: cosa fa staccare la crosta dal pezzo di carne? 1) Il rimpicciolimento della carne. La carne cruda, a contatto con l’olio caldo, si contrae e si restringe sensibilmente. 2) L’evaporazione dei liquidi. La carne cruda immersa in un grasso bollente strizza fuori buona parte dei liquidi che contiene, generando il vapore che stacca la panatura.

LA COTTURA DELLA CARNE

Una volta recuperato un bel pezzo di coppa intero, trimmate leggermente la superficie, per eliminare gli eccessi di grasso e generare attrito tra carne e pastella, per farla aggrappare meglio; massaggiate con poco sale e cuocete sottovuoto per 7h a 65°C. A cottura ultimata abbattete la temperatura immergendo il sacchetto in acqua e ghiaccio e lasciate in frigorifero per almeno qualche ora. Dovete tagliare la carne a fette di 1,5 cm, meglio se rettangolari, rigorosamente a freddo.

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LA DOPPIA PANATURA

Adesso passiamo alla preparazione della pastella, gli ingredienti sono questi: • • • •

120 gr di farina di riso 90 g di amido di riso 6 gr di sale 500 ml di acqua (dose indicativa)

Il glutine, quella grossa molecola proteica che si forma quando si impasta la farina con l’acqua e gliadine e glutenine si dispongono a formare una rete, in frittura, non serve. Noi non vogliamo un composto elastico e gommoso ma una soluzione colloidale che renda la nostra cotoletta croccantissima e friabile. Useremo la farina e l’amido di riso perché questo cereale non riesce a formare il glutine, poiché le prolammine (proteine dei cereali) contenute in esso sono in bassissima concentrazione.

E ORA ANDIAMO A FRIGGERE!

Una volta preparata la pastella, seguite questi step: 1. Immergete la carne nella pastella e poi subito nel panko. Fatta questa prima panatura rimettete la carne in frigorifero per almeno 15 minuti, per farla aderire bene

2. Nel frattempo sbattete 4 uova in un terrina, sfrutterete il loro potere legante e apporterete così grasso e sapore. 3. Passate le fette già panate nell'uovo e poi subito nel panko (o nel pangrattato)*. 4. Disponete le cotolette su un unico strato su di un vassoio e trasferite in congelatore per venti minuti. Nel frattempo scaldate l’olio. 5. Quando l'olio avrà raggiunto i 190°C friggete le fette in immersione, devono sprofondare completamente. 6. Cuocete fino a quando non si colorano esternamente, dovete solo portare a cottura la panatura perché la carne è praticamente già cotta. *Nel vostro supermercato non vendono il panko? Niente paura, vi dico come prepararlo. Vi basterà procurarvi un filone di pane in cassetta, tagliatelo a fette di 1 cm e scaldatele in forno ventilato a 160°C per 5-10 minuti, il tempo di asciugarlo un po’. Quindi tagliate via la crosta, tritatelo al mixer o meglio ancora grattugiatelo con una grattugia a fori larghi. Quindi ripassate le briciole nuovamente in forno, sempre a 160°C, e lasciate che si colorino leggermente. Lasciate raffreddare e riponete il panko fatto in caso in un contenitore a chiusura ermetica.

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LE SALSE

Maionese o Salsa Tonkatsu, la cosiddetta salsa barbecue giapponese? Avete l’imbarazzo della scelta, io preferisco la prima di parecchi lustri e la personalizzo con una puntina di wasabi grattugiato. Una botta di vita.

TONKATSU

Fa parte del triumvirato delle salse giapponesi, che si differenziano tra loro in base a viscosità e consistenza. La salsa Usuta (ウスターソース), simile per gusto ma più fine e liquida. La salsa Chuno (中濃ソース) di consistenza media. La salsa Tonkatsu (とんかつソース) la più densa e corposa delle tre, considerata dai più la salsa barbecue giapponese. Tutte e tre sono perfette per accompagnare takoyaki, okonomiyaki, yakisoba e katsu. LA RICETTA (dose da 150g) Ingredienti • 60 gr di ketchup • 70 gr di Worcestershire sauce • 1 cucchiaino di zucchero semolato (5 gr) • 2 cucchiaini di salsa di soia (10 ml) Procedimento Mescolare tutti gli ingredienti e conservare in frigorifero in un contenitore sigillato fino a due mesi.

MAIONESE SCIENTIFICA

La maionese è un’emulsione di olio, senape e una parte acida tenuta insieme dall’uovo che fa da agente emulsionante. Se preparata con cura, è l’unico elemento di contrasto che permette di bilanciare perfettamente l’untuosità della cotoletta fritta e la dolcezza del cavolo cappuccio saltato: il segreto si chiama acidità. LA RICETTA (dose da 400g) Ingredienti • 60 g di tuorli (3-4 tuorli grandi) pastorizzati, ancora tiepidi • 150 ml di olio di vinaccioli/noce/semi di girasole • 150 ml di olio extravergine delicato • 10 ml di succo di limone (fino a 20ml) • 10 ml aceto di vino bianco (fino a 15ml) • Opzionale: 15 g di senape di Digione (1 cucchiaino) • 3 g di sale • 1 g di pepe di Timut Procedimento Miscelare i due oli in un contenitore con beccuccio. Sbattere i tuorli pastorizzati ancora tiepidi (aggiungere ora la senape) e versare a filo l’olio, continuando a sbattere con le fruste. Una volta ottenuta un composto denso, aggiungere la nota acida del limone e dell’aceto e aggiustare di sale e pepe. Utilizzare la salsa ben fredda, si conserva in frigorifero fino ad una settimana. FEBBRAIO 2020

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IL CAVOLO CAPPUCCIO

Molecolarmente affine al maiale, è il classico abbinamento orientale, ma pure italiano se vogliamo. Prendete un cavolo cappuccio, verde o rosso, tagliatelo sottile sottile e passatelo velocemente in padella con olio, 200 ml di aceto di vino bianco o mela e 20 grammi di zucchero semolato. Fatelo appassire leggermente e mettetelo da parte. Ci farcirete il panino solo quando si sarà raffreddato. Sarà l’elemento agrodolce di contrasto che andrà ad equalizzare la parte grassa del tonkatsu.

L'ASSEMBLAGGIO DEL SANDWICH

Abbiamo tutta linea pronta, gli ingredienti sono disposti sul piano di lavoro, le cotolette sono ancora roventi e non ci resta che assemblare il tutto. Prendete una fetta di pane, già imburrata e scaldata, spalmatela con la salsa e aggiungete il cavolo cappuccio acidulato, la cotoletta bella calda, un altro pochino di salsa e chiudete con l’ultimo strato di pane. Tenete a freno le manacce e non schiacciate niente, avvolgete delicatamente in un foglio di carta oleata il rettangolo farcito e tagliatelo a metà, quindi servitelo in un vassoio con la parte del taglio rivolta verso l’alto. E filate subito a prepararne un altro perché i vostri commensali ne vorranno ancora. Gianfranco Lo Cascio

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SEGUO - RUBRICA a cura di EMILIANO NENCIONI

SEGUO L 'UTENTE È

DEIEZIONE “Captatio malevolentiae palese”, mi sono detto pensando al titolo della Seguo di questo mese, inventandomi lì per lì una figura retorica banalmente ispirata alla più nota captatio benevolentiae. Diligentemente, come sempre per evitare figure barbine davanti ai miei sei lettori superstiti, ho tentato una veloce ricerca e… delusione: non ho inventato io questa espressione. Non volendo, rischiavo di far passare per farina del mio sacco il frutto della creatività altrui, in questo caso del professor Umberto Eco, che nel suo libro “A passo di gambero” ne parla divertito. Divertito perché anche al professore è successa la stessa cosa, proprio sulla stessa captatio di cui sopra: evidentemente anche Eco, oltre al sottoscritto, aveva i suoi brevi momenti di banalità. Con un colpo di reni di ingegno e fantasia però svicola e giustifica questo involontario furto con una digressione sulla poligenesi 94 - BBQ4All MAGAZINE

letteraria, fenomeno che si ha quando la stessa idea viene a persone diverse, in luoghi diversi, nello stesso tempo. Spiego meglio, per quelli dell’ultimo banco: la captatio benevolentiae è un diabolico espediente retorico usato per cercare di ingraziarsi velocemente i lettori, con lusinghe neanche troppo velate, non lontane dalle odierne tecniche di copywriting seduttivo di cui sarete stati vittime qualche volta pure voi (“Solo i clienti più esperti e di classe come te potranno davvero comprendere la qualità di questo prodotto e la fenomenale portata di questa offerta a tempo limitatissimo”, tanto per fare l’esempio più banale che si possa pensare). La captatio malevolentiae menzionata nel titolo invece tende, in maniera del tutto controproducente e inutile (non mi sono


mai serviti stratagemmi e sofismi per rimanere sulle scatole alla maggioranza di voi) a irritare il lettore e a porlo da subito sul piede di guerra; è tuttavia proprio quello che in questo momento mi serve per farvi intraprendere la lettura di questa Seguo un po’ difficilotta e cervellotica ma che, mi auguro, chiarirà e giustificherà l’irriverente esordio mensile, posto in alto a caratteri sfrontatamente cubitali dal nostro grafico Carlo, che come ogni volta si ricorderà di rispettare le mie indicazioni su impaginazione, corsivo e grassetto per non incorrere in feroci reprimende. Sì, sono esigente e per la Seguo esigo un certo impatto visivo. Per comprendere, o tentare di farlo, dobbiamo ripassare brevemente i fondamentali sul filosofo Martin Heidegger, noto anche come “quello tedesco che non si sa dove va l’accento”. Per prima cosa, Heidegger, che era un esistenzialista, preferiva indicare l’essere umano come l’esserci, nel senso di esser-ci, essere-nel-mondo, in continua relazione e interazione con gli altri; questa situazione (mondo) di costrizione all’agire insieme e per causa degli altri è riassunta nel concetto di gettatezza, visto che l’esserci è gettato nel mondo indipendentemente dalla sua volontà. Anche l’utente del social network è gettato nel calderone di interazioni con sconosciuti. A parte non rari ma esecrabili casi di utenti-silenti iscritti solo per pubblicare foto di portaceneri, tramonti, bicchieri di birra e piedi al mare, con la foto profilo scattata in auto durante l’ennesima pausa semaforica, ogni utente in un gruppo di interesse è inevitabilmente forzato a interagire, a presentarsi, a dare un’immagine (non necessariamente veritiera) di sé e a difendere le proprie posizioni: indipendentemente dalla sua volontà di mostrare come è stato in grado di cuocere una bistecca o di ri-

MARTIN HEIDEGGER

elaborare una aglio olio e peperoncino, dovrà interconnettersi con domande, accuse e richieste dei suoi pari. Un utente completamente silente, afono e che presentasse solo foto e scarne didascalie, senza una descrizione, un confronto con gli altri, un’attitudine al contraddittorio, sarebbe ben poco piacevole in una community come quella di BBQ4All, tant’è vero che abbiamo deciso di non approvare affatto la pubblicazione di post muti o irrilevanti ai fini di uno scambio di idee. So bene che per alcuni lettori essere privati del piacere di postare il gatto accanto al kettle o il figlio con la pinza da griglia in mano (“piccoli griller crescono”, e giù reactions di cuoricini) possa rappresentare una cocente delusione; provate a prenderla un po’ come lo scotto da pagare per l’adesione a un gruppo con un certo livello di contenuti. L’esserci, l’ente che nel nostro caso in esame si è iscritto a Facebook, incontra, nella sua gettatezza, le prime rogne nel raffrontarsi al mondo: “si è sempre fatto così, non si dice, non si fa, si deve mettere il guanciale, sotto le quattro dita non si chiama bistecca”: la dittatura del Si. Non del sì con l’accento che si contrappone a no, ma di quel si impersonale e irresponsabile, la particella pronominale garanzia di inautenticità e omologazione. Come si fa ad obiettare, se si fa così? Se non si deve mettere, lo dice Coso, un motivo ci sarà. Molto comodamente, il si decide per noi, con la tranquillità di non doversi prendere nessuna responsabilità personale. Ah beh, Verfallenheit! E’ questo che succede al nostro povero esserci non ancora iscritto alla Mail Class di BBQ4All: il si dice tipico della quotidianità anonima domina sulla chiacchiera, sul sapere inconsistente, sull’equivoco e sui falsi miti; la gettatezza in questa dimensione inautentica trasforma l’esistenza - sempre secondo Heidegger, io non mi permetterei mai di insinuare, figuriamoci - in deiezione, traduzione/adattamento dal tedesco Verfallenheit. Ed è nella deiezione, quando proprio siamo nella Verfallenheit fino al collo per intenderci, che non c’è un’autentica comprenFEBBRAIO 2020

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sione (dei fatti, dei motivi, della verità), ma solo un adeguamento alle convenzioni (si è sempre fatto così!), portate avanti dalla chiacchiera, dall’equivoco. Questo è quanto di più lontano alla mission storica della Community BBQ4All: abbiamo sempre lottato per darvi un metodo, per farvi capire le cose giustificando il tutto con basi scientifiche, dati alla mano, risultati tangibili e replicabili ogni volta. Non abbiamo mai propugnato il nostro inautentico “si fa così perchè si deve fare” alzando la voce, usando toni super testosteronici, indossando occhiali a specchio sempre più grandi per aumentare il coolness factor, carisma e sintomatico mistero, non abbiamo mai detto “è così e zitti”. Quindi, tornando al titolo, sì, l’utente è deiezione: almeno fino a quando non abbandona la dimensione inautentica della chiacchiera e la dittatura del si. - “Ieri ho messo il bacon nella carbonara” - “Guai a te! non si fa! Non è carbonara!” - “Ma a me pareva proprio carbonara” - “Non si deve mettere il bacon, serve il guanciale!” - “Ma questo in base a cosa? - “Si è sempre fatto così!” - “Ma chi te l’ha detto?” - “Si è sempre detto e scritto che ci va il guanciale!” - “Tu sei innegabilmente deiezione.” - “Devi portare rispetto alla mia esperienza ventennale di denigratore di bacon! Nessuno può permettersi di contestarmi in pubblico! Adesso perlustro il tuo profilo e cerco una foto o un comportamento da stigmatizzare qui davanti a tutti, per testimoniare a tutti gli iscritti che non accetto di essere smentito e ristabilire il mio ruolo autorevole!” - “Intendevo solo dire che il tuo esserci soffre la dittatura del si e sguazza nella Verfallenheit.” - “Stai citando l’ultima puntata di Neon Genesis Evangelion, adattamento italiano a cura di Gualtiero Cannarsi?” - “No, l’ho letto sulla Seguo.” * Denigratore di Bacon ha lasciato la chat *

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C’è un rimedio? Possiamo sperare di recuperare i nostri amici griller sprofondati nella deiezione, o quanto meno non pestarla noi stessi? Bella domanda. Martin Heidegger non è di molto aiuto in questo campo, anche perché essere un filosofo tedesco negli anni ‘40 poteva avere implicazioni politiche diciamo “inducenti distrazione”, ma il baffuto esistenzialista ci indica il concetto di Cura, inteso come il prendersi cura e l’aver cura, come conseguenza dell’essere-nel-mondo. La Cura è la preoccupazione verso il contesto in cui si realizza il proprio essere: restringendo il campo al nostro modestissimo “mondo di griglie”, possiamo facilmente dire che possiamo combattere la gettatezza e non sprofondare nella deiezione solo allontanandoci dal sentito dire, dai metodi della nonna, dalle tradizioni regionali incistite, dalle chiacchiere, e dedicandoci all’approfondimento, allo studio, all’approccio critico e ripulito da pregiudizi e sovrastrutture inutili. Insomma, Martin Heidegger consigliava a tutti di iscriversi alla Mail Class di BBQ4All. Non proprio, ok. Credo tuttavia che basarsi su uno studio dall’approccio scientifico e sperimentale sia un’occasione di crescita personale molto più ricca dal seguire i precetti di una persona perchè “ha tanta cenere alle spalle” (sbagliare innumerevoli volte non fa di te un esperto), perchè ha la barba più lunga, i toni più aggressivi, lo stipendio più alto o i dispositivi più costosi. Fare e cose alla bell’e’meglio, ogni tanto, può essere un passatempo piacevole o un modo per rilassarsi, ma mi sentirei di diffidare di chi (e la cosa può essere facilmente estesa fuori dal mondo del grilling), sistematicamente, spinge a non studiare, a non documentarsi, a non evolversi, a non chiedersi il perché delle cose e ad andare beceramente dietro a chi urla più forte, a chi mette più emoji nei post, a chi fa leva sulle caratteristiche più esecrabili di tutta ‘sta gran gettatezza di deiezione. Emiliano Nencioni


MAIL CLASS LA SERIE DI EMAIL DIDATTICHE DI GIANFRANCO LO CASCIO

Cercare informazioni, metterle in fila, filtrarle e poi farne un compendio presume una grande voglia di mettersi in gioco, ma soprattutto una grande disponibilità di tempo.

TEMPO CHE SPESSO, PURTROPPO, NON HAI. La buona notizia è che possiamo aiutarti. Non solo a mettere ordine alle informazioni, ma soprattutto a rendere la conoscenza semplice ed immediata attraverso una serie di mini-lezioni che ti permetteranno, già dalla prima, di cambiare totalmente il tuo approccio alla scelta e alla preparazione della carne. L’obiettivo di BBQ4All è mettere nelle tue mani lo strumento che ti permetterà di scegliere, selezionare e cuocere al meglio qualunque pezzo di carne, e meglio di chiunque altro. Tutto questo potrai ottenerlo, a partire da subito, dedicandoti per 5 minuti alla lettura di una breve mail che ti invieremo ogni giorno, gratuitamente.

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ISCRIVITI


NEW YORK

SLIDERS 200g (4x50g)

Un piccolo hamburger che andrà letteralmente a ruba nelle occasioni di festa. Particolarmente adatto ai bambini per le dimensioni ridotte, è perfetto per aperitivi, cene informali, serate in famiglia. Un vero e proprio boccone di puro sapore, che si presta ad essere declinato in mille versioni e abbinato a un’infinità di sapori, ma sorprendentemente gustoso e succulento anche da solo.

ORIGINAL

BURGER 200g

Diventa il re della griglia durante le giornate in compagnia di amici e familiari grazie a questo hamburger da 200 grammi. Il perfetto bilanciamento del gusto, dato dall’equilibrio ideale di parte grassa e parte magra nella composizione del patty, lo rende un prodotto di cui non potrai più fare a meno. Dimentica gli hamburger sottili e insapori e preparati a un’esplosione di gusto, senza rinunciare alla praticità di un prodotto confezionato in skin.


BURGER

STEAK 300g

Trecento grammi di carne macinata, condita e ricompattata in una polpetta dallo spessore consistente. Questo Burger Steak unisce le due cose fondamentali che tutti cercano in cucina: qualità ottima e velocità di preparazione. In pochi minuti potrai servire un piatto ricco, bello da vedere, con un sapore esplosivo e una qualità indiscussa. Un hamburger alto, saporito, soddisfacente, che si presta a essere servito in mille modi diversi, mai asciutto e stoppaccioso. Scalda bene la griglia prima di mettere il Burger Steak in cottura, rigiralo spesso per creare la crosticina esterna senza rischiare di bruciarlo, cuocilo per pochi minuti e servilo come una tagliata, aggiungendo il tuo condimento preferito. Un sicuro successo. Un vero salva-cena di altissima qualità.

DOVE TROVARCI puoi trovare la mappa interattiva di tutti i punti vendita costantemente aggiornata all’indirizzo http://products.bbq4all.it/dove-trovarci/


CLUB

Dire tta m e n t e da lla com m uni ty d i maes tri d i barb ecu e p iù gran d e d ’Ita lia, na s c e i l pre st i gi oso c lub ch e ti offre la p o s s ibilità d i avere: accesso p riorita rio a l meg a store, dove pot ra i fa re ra zz i e men tre tu tti gli altri “s o no in coda”; u na p rogram mazi o ne intellig ente dei tuoi a cquisti gra z i e a l c re di to m e ns ile p rep agato (s cegli tu quan to ); u n coach priva to che ti g uiderà ne l fa r t i vi ve re l’ e sperien za p iù eccitan te d i s emp re con la pre parazio n e d ei tu oi p iatti; e molto a ltro a ncora... Av ra i tu tto que sto solo se t i i sc rivi s u bito al MEGASTO RE CLU B, l’u n ico luogo r i s e rvato a una c e rc hi a r i st re tta d i as p iran ti grill mas ter ch e d es id era no a ppre n de re pi ù ve loc e m e n te e n el modo p iù accu rato p o s s ibile, la sublime arte d el grill. Puoi di si s criverti quan do vu oi e i l tu o cred i to sa rà sempre disponibile.

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H T T PS : / / C LU B M E G ASTO R E . B BQ 4 A L L. I T e c hi e di i nfo rmazio n i p iù d ettagliate, pr i ma c he i coac h fin is cano e le is crizio n i ch iu dano .


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