BBQ4All Magazine numero 16 - Aprile 2020

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N°16/ANNO 2 - APRILE 2020

SPECIALE GRIGLIATE

picanha, asado, flank steak, beer can chicken

la ricet ta scientifica di Gianfranco Lo Cascio

CRO QU ETA S DE JAM ÓN

MAGAZINE COME SI FA

PIZZA ROMANA fatta in casa

LA GUIDA DEFINITIVA AL

MAIALINO SARDO



D I R E T TO R E E D I TO R I A LE

Rossella Neiadin

R E D AT T O R E C A P O

Michela Bongiorni REDAZIONE

Enio Berton, Virgilio Brunetti, Roberto Dal Bosco, Tommaso Di Gregorio, Salvatore Di Mento, Luca Gallozza, Mariangela Ibba, Gianfranco Lo Cascio, Nicola Marotti, Riccardo Meniconi, Emiliano Nencioni, Andrea Spaggiari, Alessandro Trezzi, Carlo Trono. REALIZZAZIONE GRAFICA

Carlo Trono S TA M PA

Graphic Master s.r.l. - Perugia magazine@bbq4all.it instagram.com/bbq4allmagazine/

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EDITORIALE di GIANFRANCO LO CASCIO

TAPAS una cena sotto copertura

L'attesa del piacere è essa stessa il piacere? Oppure è ansia, che diventa paranoia e si trasforma irreparabilmente in insuflaggio di gonadi? Io non vorrei mai mettere alla prova il vostro sistema nervoso né soppalcarvi i cabbasìsi, per questo ve lo spiattello senza girarci troppo intorno, e con buona pace del filosofo: sì, questo numero del BBQ4All Magazine contiene la ricetta delle attesissime croquetas de jamón. Ve lo avevo promesso e ho realizzato la mia versione. Ma per chi non avesse seguito la discettazione nella Community Facebook, mi riferisco alle istruzioni per costruire senza intoppi le famose crocchette spagnole ripiene di besciamella e pepite di prosciutto iberico. Non esiste taperìa spagnola che non le proponga, magari accompagnate da un buon bicchiere di vino. Cos’è una taperìa? È un ristorante che serve tapas, oggettini che La Real Academia Española definisce “piccole porzioni di un qualsiasi alimento che funge da completamento di una bibita”. La tapa, al plurale tapas, è un accompagnamento minuto e gastronomico che viene servito in tutti i locali spagnoli assieme alla bevanda ordinata: succo analcolico, sangrìa, bicchiere di vino, di birra (caña) o di vermut rosso, che in Spagna viene proposto alla spina e solleticato con la soda. La basic tapa è gratuita, generalmente compresa nel prezzo del bicchiere di alcolico scelto. Parliamo di una ciotolina di olive, spiedini di verdure sottaceto, bruschette con prosciutto o chorizo, filetti di acciuga, non di più. Ma da qualche anno gli chef più rinomati innovano e si scervellano per crearne versioni più saporite e sofisticate, e i turisti di tutto il mondo si guardano bene dal non lasciare la Spagna senza averle provate.

TAPAS: DEL MITO E ALTRE ÙSTORIE IMMAGINIFICHE

L’etimologia sostiene che il termine “tapa” derivi dal verbo “tapár”, che semanticamente non diverge molto dal corrispondente italiano “tappare”. In origine, infatti, pare che le tapas fossero semplici fette di pane o di carne (prosciutto o chorizo, il salame piccante) utilizzate dai bevitori di sherry dell’Andalusia per coprire i bicchieri, nel tentativo di impedire ai moscerini di suicidarsi nel vino liquoroso spagnolo. Un’altra teoria, per meglio dire una leggenda, racconta che nel XVI secolo un taverniere della regione di Castilla-La Mancha pensò bene di coprire (“tapár”) il sapore di un vinaccio ingannando le papille dei propri clienti e offrendo pezzi di formaggio gratuiti, particolarmente odorosi, da accompagnare alla bevanda. Si racconta infine che il Re di Spagna Alfonso XIII sostò un giorno a Càdiz (Cadice) per sorbire un bicchiere di vino. L’oste servì il bicchiere al monarca coprendolo con una fetta di prosciutto, per impedire che la sabbia della vicina spiaggia,

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sospinta dal vento capriccioso e tipico della zona, finisse nel drink reale. Il Re gradì tantissimo la trovata e ordinò, almeno così pare, un secondo bicchiere con tanto di coperchio.

TAPEÁR È PARTECIPAZIONE

Quando ne parliamo non ci riferiamo solo agli stuzzichini mediterranei e colorati che ci fanno sbavare come i lama, ma anche, e soprattutto, a quel modo tutto ispanico di intendere il pasto. La potremmo definire “tapasofìa”: piccoli piatti, ciotoline di coccio, finger food da consumare direttamente al bancone, magari in piedi, chiacchierando e rilassandoci con gli amici. È proprio questo l’obiettivo degli spuntini iberici: stimolare la conversazione e le interazioni sociali. Quei contatti che in questi giorni ci mancano così tanto, e che torneranno, date retta allo Zio. L’idea dietro alle tapas è radicalmente opposta al concetto italiano del “pranzo domenicale”, con le porzioni gargantuesche e le maratone di cibo inaffrontabili che si protraggono fino a sera. In Italia abbiamo qualcosina che alle tapas ci somiglia: l’antipasto, solitamente caratterizzato dalla presenza di salumi, sottaceti, crostini e pesce all’insalata. C’è una differenza sostanziale e bella importante però: se l’antipasto è solo una parte del pranzo o della cena, studiata per precederli, le tapas rappresentano l’intero pasto, come dei tasselli a formare un mosaico. Parlottare, sorseggiare, ridere e contemporaneamente spiluccare, in piedi o al massimo appoggiati a muri e banconi di qualche bar, tutta questo è tapéo. Da tapear, compartir, condividere. E chi non mangia in compagnia… 6 - BBQ4All MAGAZINE

LE TAPAS PIÙ FAMOSE

Partiamo con quelle tradizionali e più conosciute, facendo le dovute distinzioni in base all’ingrediente portante. A BASE DI SALUMI: jamón: prosciutto crudo lacón: prosciutto cotto chorizo: salame piccante a grana grossa morcilla: insaccato di maiale realizzato con sanguinaccio di maiale al riso e speziato alla cannella lomo: arrosto di maiale cecina: insaccato ricavato dal posteriore del bovino A BASE DI FORMAGGI: queso manchego: il pecorino spagnolo più famoso cabrales: l’erborinato spagnolo tetilla: formaggio di latte vaccino pastorizzato delle razze galiziane. Sì, si chiama così perché la sua forma ricorda una “tetta” zamorano: formaggio ovino di Zamora, grasso, piccante e a pasta dura A BASE DI PANE: pinchos: somigliano alle nostre bruschette, ovvero fette di pane condite con gli ingredienti più disparati (peperoni, prosciutto, olive, formaggi) montaditos: paninetti in formato mignon lunghi circa 5 cm, farciti con la qualunque empanadas e empanadillas: di origine sudamericana, sono dei fagottini di pasta ripieni di carne e spezie, verdure oppure tonno


A BASE DI PATATE: patatas bravas: patate selvagge da mangiare con le mani e da affogare con le salse; si tagliano a cubetti, si friggono a due temperature diverse e poi si saltano in padella a fuoco alto. Tassativo riempirle di tabasco e paprica. patatas aioli: ricetta catalana, condita con una salsa a base di succo di limone, olio d’oliva e tanto aglio pestato al mortaio croquetas: crocchette di patate fritte con dentro cabrales (formaggio erborino molle) o salmone tortilla: la frittata altissima e soffice con le patate e le cipolle A BASE DI VERDURE E ORTAGGI: ensaladilla: simile all’insalata russa nostrana, talvolta con un’aggiunta di tonno pimientos del padron: piccoli peperoni verdi fritti interi pimientos del piquillo: peperoni rossi ripieni di baccalà pimientos rojos asados: peperoni rossi cotti al forno e conditi con olio, aglio e prezzemolo aceitunas: olive condite con aglio ed erbe aromatiche banderillas: spiedini con cetrioli, peperoni e cipolline sottaceto salmorejo: non c’entra nulla col salmoriglio, è una crema a base di pomodori e cipolla servita con uovo sodo sbriciolato sopra revuelto: uova strapazzate e condite

prezzemolo e una piccola aggiunta di salsa di pomodoro. Si servono con pane croccante. pescado a la plancha: tranci di pesce semplicemente scottati sulla piastra salpicón de mariscos: mix di frutti di mare conditi con una “vinagreta” e prezzemolo berberechos: tipici della costa galiziana, i cardidi appartengono alla famiglia dei molluschi bivalvi forniti di conchiglia a forma di cuore brandada de bacalao: una crema calda di baccalà al latte percebes: la peduncolata. Sono degli stranissimi crostacei tipici galiziani, generalmente costosi e apprezzati da molti (tranne che da me) A BASE DI CARNE: pinchito moruno: uno spiedino di carne di manzo, ne abbiamo parlato nel numero di Novembre 2019. albondigas: le polpette in umido di manzo o maiale, tuffate in una salsa a base di pomodoro e ricchissima di aglio pollo al ajillo: pezzi di pollo fritti nell’olio addizionato con aglio (tanto)e sfumati con il vino orejas a la plancha: orecchie del maiale scottate sulla piastra LE MIE CROQUETAS DE JAMÓN Ho apportato le consuete modifiche alla lista degli ingredienti ed ai protocolli da disciplinare iberico, trovate tutto descritto con dovizia di particolari nella rubrica “La ricetta scientifica”, tutti i passaggi spiegati e soprattutto motivati da buon senso e applicazioni delle leggi chimico-fisiche. Non fate il salto con l’asta da picanha però, perché vi vedo. C’è davvero tanto da setacciare e da studiare in questo numero del BBQ4All Magazine. (Segue a pagina 80)

A BASE DI PESCE: anchoas: filetti di acciughe boquerones: alici marinate con aceto e condite con olio d’oliva, aglio e prezzemolo calamares a la romana: anelli di calamari marinati nel limone, immersi in una pastella arricchita da lievito e zafferano e poi fritti sardinas: sardine fritte pulpo a la gallega: pietanza tipica della Galizia, per prepararlo bisogna bollire il polpo e poi utilizzare la sua acqua di cottura per lessare le patate a fettine. Su ogni fetta si disporranno poi i bocconcini di polpo ben conditi con prezzemolo e paprica dolce. gambas al ajillo: i gamberi (gambas) devono essere saltati in padella a fuoco altissimo con aglio, olio, peperoncino, APRILE 2020

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INDICE APRILE 2020 - NUMERO 16 ANNO 2

RUBRICHE

5 . L ' E D I TO R I A L E D I G I A N F RA N CO LO CASC I O

TAPAS: una cena sotto copertura 10. ARTE BIANCA

LA PIZZA IN TEGLIA ALLA ROMANA 1 6 . S P E C I A L E G R I G L I AT E

IL GIRO DEL MONDO IN CINque grigliate 22. TRADIZIONI

IL MAIALINO SARDO

2 8 . LO S P E Z I A L E D E L BA R B EC U E

il MIRTO

RICETTE DI APRILE SPECIALE GRIGLIATE 32. CHURRASCO DI PICANHA 35. ASADO DE TIRA 40. FLANK IN FLIP&BRUSH 47. BEER CAN CHICKEN 52. CARCIOFI ARROSTITI 54. PATATE ARROSTO 56. BAGNèT VERD 58. CHUTNEY DI MANGO 60. CROSTATA AL CIOCCOLATO

APPROFONDIMENTI 70. THE CHEMICAL GRILLER

ADDENSARE UNA SALSA - PRIMA PARTE 72. COSTUME

SONO VEGANO! 7 7 . C U R I O S I TÀ MORFOLOGIA DELLA CARNE VEGETALE

8 0 . L A R I C E T TA S C I E N T I F I C A D I G I A N F R A N C O L O C A S C I O

CROqUETAS DE JAMÓN 85. SEGUO

seguo, ma a un metro di distanza

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PIZZA IN TEGLIA ALLA ROMANA - L'ARTE BIANCA a cura di ALESSANDRO TREZZI

FARE LA

in casa P izza è la cosa più bella del mondo! 10 - BBQ4All MAGAZINE


È proprio così: è gratificante, riempie le giornate e genera una soddisfazione a dir poco unica. Vedere acqua e farina unirsi, crescere, svilupparsi e imbrunire all’interno del forno è sempre un’emozione. Ve lo assicuro, ogni volta che inizio o termino una sessione di impasti e di sfornate, non posso fare a meno di ripercorrere ogni singolo attimo trascorso con questa passione stupenda. Non si arriva mai alla vetta, c’è sempre qualcosa da imparare, da scoprire e da migliorare, è uno stimolo continuo. Farina, acqua, sale e lievito: da questi semplici ingredienti è nata una delle preparazioni più fortunate al mondo. Figlia del pane, simbolo di artigianalità gastronomica e della cultura italiana, la pizza è ormai un piatto fortemente globale, consumato in lungo in largo e soggetto ad un’evoluzione che pare senza fine. E il più delle volte, quando un appassionato torna a casa da un’esperienza incredibile presso uno dei tanti maestri della pizza, il desiderio di poter replicare quella meraviglia anche in ambito domestico è forte, sincero e passionale. Soprattutto oggi, con le moderne scoperte tecnologiche, il miglioramento della strumentazione e la diffusione di concetti e competenze, fare un’ottima pizza in casa non solo è possibile, ma è anche molto più facile e accessibile che in passato. E vi dirò di più: potete raggiungere risultati entusiasmanti anche senza disporre di attrezzatura da maniaci della farina. Certo, è necessario adattare la tecnica al contesto e individuare la tipologia più consona a una cottura in forno di casa, ma la vera discriminante sta nel comprendere il metodo, senza basarsi sulla sola ricetta. Volete sapere di quale tipologia stiamo parlando? Vediamolo insieme.

LA PIZZA PERFETTA FATTA IN CASA

Analizziamo insieme un classico contesto casalingo? Abbiamo un forno a incasso, che raggiunge i 250 °C massimi di temperatura; spesso non disponiamo nemmeno di un’impastatrice da banco e men che meno di una planetaria, ma solo di una ciotola capiente e delle nostre mani. C’è una tipologia, tra tutte, che ben si presta ad essere realizzata in questi termini: la pizza in teglia alla romana. Nata nel dopoguerra, quando ai panettieri venne l’idea di prendere l’impasto del pane e cuocerlo in teglia dopo averlo condito, la teglia romana si caratterizza oggi per la sua base croccante e la mollica morbida, alveolata e scioglievole al morso. Negli anni ’80, l’esigenza di mantenere la pizza al taglio sul bancone per alcune ore e farla tornare croccante dopo averla riscaldata spinse alcuni professionisti romani, primi fra tutti Angelo Iezzi e successivamente Gabriele Bonci, a lavorare con impasti molto idratati, farine di forza e maturazioni/lievitazioni a temperature controllate. L’impasto viene realizzato con farine ad alto assorbimento di acqua, poco lievito e sale, e lunghe maturazioni (24/72 ore) in cella frigorifera. Viene cotta per circa 15 minuti a 280-330 °C in forno statico. Perché è la miglior pizza replicabile in casa? Perché anche in mancanza di forni professionali, un risultato ottimo e sorprendentemente vicino all’originale può essere APRILE 2020

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ottenuto anche in un classico forno domestico con temperature tra i 250 e i 300 °C. C’è una cosa tuttavia che la rende ancora più gratificante: l’enorme attitudine al rinvenimento. Una pizza in teglia romana può dirsi perfetta quando la mollica è distanziata dalla crosta, quando la friabilità è alle stelle, quando l’interno è asciutto e leggero, ma soprattutto quando la croccantezza permane anche dopo il raffredamento. Se sarete in grado di raggiungere un simile risultato, vi basterà riscaldare anche a distanza di ore (o giorni, nel caso decidiate di congelarla) il vostro trancio di pizza per pochi minuti a 200°C; non solo recupererete pienamente le caratteristiche iniziale, ma potreste persino migliorarle. Ci pensate? La vostra pizza potrebbe diventare l’arma segreta per inviti a cena, ospiti a casa, aperitivi o picnic. I due concetti fondamentali che dovete sempre tenere a mente sono la comprensione del metodo e l’attenta selezione delle materie prime, per garantire la realizzazione di un prodotto unico, standardizzabile e fortemente replicabile. LA FARINA Prima o poi ce lo metteremo in testa, soprattutto in ambiente 12 - BBQ4All MAGAZINE

domestico: la farina è e sarà sempre l’ingrediente principe su cui si basa la realizzazione di ogni panificato. Potrebbe sembrare un concetto scontato, eppure l’errore commesso nel 90% dei casi è quello di generalizzare, utilizzando una materia prima non adatta allo scopo. La colpa, purtroppo, è anche del mezzo trilione di ricette presenti ovunque, tra web e libri, che riportano la dicitura “farina” e la sua dose, senza specificarne la tipologia, come se ne esistesse una sola o fossero tutte perfettamente sostituibili. Motivo per cui l’utente medio legge le quattro righe riportate sul testo, si reca al supermercato, compra la prima cosa che gli capita a tiro, mischia a un po’ d’acqua e attende il miracolo. Purtroppo non funziona proprio così, e anzi, se le cose fossero così semplici saremmo tutti pizzaioli, non credete? Anzitutto, sebbene sia nata con l’utilizzo di farine di forza, oggi è opinione sempre più diffusa che la pizza in teglia alla romana abbia il suo rendimento ottimale con l’utilizzo di farine di grano tenero semi-integrali macinate a pietra naturale, con forza medio/alta (300-330 W); il risultato è un prodotto profumato, con sapori marcati, perfetti per una pizza di questo tipo dove la sezione è abbastanza importante. Facciamo chiarezza su un paio di concetti: la normativa italiana distingue per il solo grano tenero cinque tipologie di farina, in relazione al grado di abburattamento (un setacciamento particolare del prodotto svolto durante il processo) e quindi


alla resa della farina. Ne avrete sicuramente sentito parlare: 00, 0, tipo 1, tipo 2 e integrale. Badate bene, non si parla di salubrità o meno della farina, di presunti veleni, di miracoli dovuti al consumo di integrale o altro; il quantitativo di fibre presenti all’interno della materia prima determina (se il prodotto è stato macinato con professionalità, rispettando il grano) un sapore marcato e caratteristico, e spesso aiuta anche l’assorbimento dei liquidi. Di contro, un prodotto integrale tenderà a sviluppare meno, e a dare una sensazione di leggerezza inferiore. Tra le proteine presenti nel vostro pacchetto, due svolgono una funzione importantissima. Miscelandosi con l’acqua, la gliadina e la glutenina formano un complesso proteico fondamentale per tutto il processo: il glutine, che concorre alla formazione della cosiddetta maglia glutinica, un reticolato fitto ed elastico che trattiene le bolle di anidride carbonica sviluppate durante la lievitazione, facendo gonfiare il panificato. Il comportamento della farina e del glutine è ben sintetizzato dal valore W presente nelle schede tecniche dei prodotti, che denota (seppur impropriamente) la forza della farina stessa in funzione di tenacità ed estensibilità della maglia. Solitamente, più il W è alto, più l’impasto reggerà sia lunghe maturazioni che lievitazioni, e sicuramente un quantitativo superiore di acqua. Il tutto dipende dalla qualità della farina utilizzata: mettetevi in testa che, 90 su 100, se una farina non riporta il W è da considerarsi un prodotto non tecnico, scarsamente utilizzabile per i panificati. E non è nemmeno sintetizzabile al 100% dal quantitativo di proteine, perché non tutte formano il glutine. L’ACQUA Seconda sola alla farina, l’acqua è una componente fondamentale di tutta la ricetta, e la sua quantità elevata è una delle caratteristiche principali della pizza in teglia alla romana.

IL SALE Ingrediente fondamentale è poi il sale, non solo per conferire sapidità, ma soprattutto per garantire un miglior assorbimento dell’acqua e per rafforzare la maglia glutinica. Non va mai aggiunto a contatto con i lieviti perché ne distrugge la parete cellulare, sottraendo per osmosi acqua alla cellula. IL LIEVITO La classica pizza in teglia alla romana viene poi realizzata mediante l’utilizzo di lievito di birra (Saccharomyces Cerevisiae) fresco (acquistabile solitamente in cubetti da 25gr) o secco (in rapporto di 1/3 rispetto al fresco). La funzione dei lieviti è quella di nutrirsi degli zuccheri dell’impasto, producendo fra le altre l’anidride carbonica che fa gonfiare il semilavorato. La sua quantità dipende da diversi fattori, come il tipo di lievito, la sua freschezza, l’idratazione dell’impasto, temperatura e umidità esterne e la presenza di grassi. Perché non il lievito madre? Perché utilizzarlo in casa non è così semplice come si possa pensare: anzitutto, la sua gestione richiede continui rinfreschi, in mancanza dei quali il lievito non è produttivo al 100% e comprometterebbe la struttura della pizza. Secondariamente, i bonus conferiti dal lievito madre (struttura, sapore e “shelf-life”) sono inutili in un prodotto dalla sezione non importante come nel pane e nel panettone, coperto di ingredienti e che vi magnate seduta stante. E no, il lievito di birra non è indigesto, nella maniera più assoluta. Smontiamo questa malsana credenza. I GRASSI Per la pizza in teglia alla romana, sono facoltativi. Nonostante infatti la ricetta originale preveda l’utilizzo di olio extravergine di oliva nella misura del 3% sul peso della farina, il suo contributo è praticamente irrisorio, e se non aggiunto con cautela rischia di rovinare la struttura del semilavorato.

Durante l’impastamento, l’energia cinetica ceduta alla maglia glutinica fa in modo di rafforzare e trasformare i legami delle proteine che la compongono, creando una struttura estesa, omogenea e tenace, che conferirà la struttura finale del prodotto, trattenendo l’aria liberata durante la lievitazione. Un quantitativo di acqua superiore alla norma (tra il 75 e l’85% sul peso della farina) contribuisce ad agevolare la maturazione e a incrementare la leggerezza del prodotto, che a parità di peso (per ovvie ragioni) sarà meno calorico rispetto a una pizza meno idratata. L’acqua tuttavia può essere un’arma a doppio taglio, perché se non correttamente gestita e assorbita rimane “libera” nell’impasto, compromettendo la lievitazione ma soprattutto la cottura, e di conseguenza la digeribilità del prodotto finito. APRILE 2020

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LA RICETTA

Apprese le nozioni fondamentali, vediamo insieme gli step per realizzare una teglia romana fumante e profumata. E quale modo migliore di gustarla, se non sfornando una Margherita fatta con criterio, la pizza italiana più rappresentativa? Leggenda narra che venne preparata nel Giugno 1889 dal cuoco Raffaele Esposito in onore della regina Margherita di Savoia in visita a Napoli. La dolcezza dei pomodori pelati schiacciati a mano, la cremosità della mozzarella fiordilatte, la freschezza balsamica del basilico e il gusto intenso e avvolgente dell’olio extravergine di oliva l’hanno resa famosa in tutto il mondo. Per l’impasto (dosi per 3 teglie 30×40): – 1 kg di farina di grano tenero di tipo 1 macinata a pietra naturale (320 W); – 750 gr di acqua (75% sul peso della farina); – 20 gr di sale fino o integrale (2% sul peso della farina); – 5-10 gr di lievito di birra fresco (5 in estate, 10 in inverno). Per la farcitura: - Pomodoro San Marzano DOP dell’Agro Sarnese-Nocerino; - Mozzarella fiordilatte; - Basilico fresco; -Olio extravergine di oliva. IMPASTAMENTO Sia che stiate lavorando a mano, con una planetaria o per mezzo di un’impastatrice, l’ordine e le modalità di inserimento degli ingredienti non cambiano. Sciogliete il lievito in un bicchiere d’acqua e aggiungi la restante acqua nella farina man mano, solo quando la precedente è perfettamente assorbita. Dopo aver immesso circa i 2/3 dell’acqua è il momento di aggiungere il sale, per poi continuare fino ad aver esaurito l’acqua prevista. Terminato l’impastamento, trasferite sul piano e chiudetelo fino a formare una pagnotta, ripiegandolo su sé stesso 3 o 4 volte ogni 10-15 minuti finché non si sosterrà da solo. Il risultato deve essere una forma liscia, uniforme, asciutta e ad una temperatura di almeno 24 °C. Riponetelo in un recipiente unto di olio e chiuso ermeticamente, lasciandolo a temperatura ambiente (20-24 °C) per circa 2 ore, finché la lievitazione non sarà partita. PUNTATA Trascorse le 2 ore, ripiegate nuovamente l’impasto e riponetelo con il contenitore in frigorifero a 6 °C per 24 ore. In questa fase l’impasto matura, cresce verso l’alto e la maglia glutinica si stabilizza. STAGLIO Trascorsa la puntata, riprendete l’impasto e porzionatelo nei pesi desiderati, adatti alla misura delle teglie dove verranno cotti. Posizionate le pagnotte in recipienti unti e chiusi ermeticamente o in una cassetta di lievitazione. Vengono solitamente calcolati mezzo grammo per ogni cm² di teglia; per una classica 30×40 quindi si tiene conto di circa 600 gr di impasto. APPRETTO Durante lo staglio l’impasto viene manipolato, i lieviti ridistribuiti e la maglia glutinica rinforzata. 14 - BBQ4All MAGAZINE


Lo scopo dell’appretto è quello di rendere possibile l’ultima lievitazione e la maturazione, oltre a permettere l’estensibilità necessaria alla stesura. L’impasto viene quindi riposto a temperatura ambiente (20-24 °C) per 4-6 ore. STESURA La stesura si effettua ribaltando il panetto su una superficie cosparsa di semola rimacinata di grano duro, che diminuisce l’attrito con il piano di lavoro e in cottura tosta conferendo sapore. Dopo aver infarinato anche la parte superiore della massa, premete delicatamente con l’ultima falange delle dita, spingendo l’aria che allargherà piano piano l’impasto. Procedete prima sui bordi poi nella sezione centrale, fino a quando la forma non sarà indicativamente larga circa i 2/3 della superficie della teglia; a questo punto caricate la massa sull’avambraccio, scrollate la farina in eccesso e adagiate l’impasto sulla teglia stessa precedentemente spennellata con dell’olio. Allargate poi tutti i lembi, portandoli adiacenti al bordo, fino a stesura ultimata. Per la margherita, è sufficiente stendere un velo di pomodoro su tutta la base, anche sui bordi (la teglia romana non prevede il cornicione), stando attenti a non toccare la teglia in quanto potrebbe risultare poi difficile staccare la pizza una volta cotta. Non esagerate con il pomodoro all’inizio, meglio assicurare lo sviluppo in cottura per poiaggiungerlo in un secondo momento. Un filo d’olio e siamo pronti per infornare.

COTTURA Nei forni casalinghi è necessario preriscaldare al massimo in modalità statica, per poi passare preferibilmente alla ventilata in modo da asciugare nel minor tempo possibile sia la crosta che la mollica. Infornate la teglia a contatto con il pavimento per avere la giusta spinta dal basso; una volta che la base è ben colorata, sfornate la pizza, aggiungete il pomodoro rimanente, trasferitela sotto la resistenza superiore fino al raggiungimento della doratura superficiale. Negli ultimi due minuti mettete del fiordilatte tagliato a listarelle e lasciatelo fondere; deve rimanere cremoso, non bruciare, mi raccomando. A cottura ultimata, sfornate definitivamente e completate con una generosa dose di basilico fresco e di olio extravergine di oliva. Adagiate quindi il vostro capolavoro su una griglia rialzata per farla asciugare e raffreddare, impedendo il raffermamento (processo che causa il deterioramento dei panificati). Tagliate rigorosamente con le forbici per valorizzare al massimo i frutti del vostro lavoro, rispettando la struttura aperta e voluminosa e la crosta croccantissima. Buona pizza!

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SPECIALE GRIGLIATE DAL MONDO - PORTFOLIO a cura di ANDREA SPAGGIARI

il giro del mondo in cinque g rigliate

I n q uesto peri odo di confin am e n t o fo r z at o v i re g al iam o una panora mi ca – per ora solo v ir t ual e – de l g r ig l iare in g iro p e r il m ondo. Un a boccata d’ar ia fre s ca e , p e rché n o , un o s p un t o pe r u n prossimo vi ag g io al l ’ in s e g n a de l l a g r ig l ia ARGENTINA Cominciamo la nostra carrellata, non a caso, dall’Argentina. Una curiosità prima di tutto: se vi ritenete grandi mangiatori di carne, sappiate che molto probabilmente l’argentino medio vi batte a mani basse. Viene infatti stimato che il consumo procapite nel paese sudamericano sia attorno ai 60 kg l’anno. Facile intuire quindi che la carne non sia solo considerata come un alimento ma un vero e proprio fenomeno sociale. In Argentina ogni avvenimento e festa comandata sono buone occasioni per riunirsi attorno a una grigliata, in aggiunta ovviamente ai normali weekend. Sciogliamo anche il nodo del vocabolario: la grigliata, in Argentina, si chiama Asado e il griller Asador. Non bisogna lasciarsi ingannare dal fatto che Asado è anche il nome della tecnica che viene usata per cuocere animali interi all’aperto. In questo caso la carcassa viene aperta, le due mezzene dell’animale sono issate su grandi spiedi di ferro conficcati nel terreno (sembrano quasi aquiloni) e inclinati in direzione di un letto di braci di carbone. L’effetto è una cottura dolce e lenta nella quale gli unici ingredienti sono la carne, il sale, il vento e il fuoco. Questa tecnica 16 - BBQ4All MAGAZINE

molto scenografica è però ovviamente praticabile solo in grandi spazi aperti e richiede una certa maestria. Quindi, se non possedete un ranch e non avete accesso con facilità a manzi interi, è molto più probabile che dobbiate ripiegare sulla parilla. La parilla identifica, dal canto suo, sia lo strumento usato per grigliare sia la steak house dove questo tipo di griglia la fa da padrone. Ogni argentino DOC ne possiede una in giardino: è molto solida, con listelle a sezione a V per indirizzare i grassi verso una canalina di raccolta e evitare che questi cadano sulle braci provocando fiammate. Le più raffinate hanno anche un sistema di sollevamento che permette di regolare con precisione la distanza dalla fonte di calore, ma quasi tutte son costruite in modo da avere una sorta di rastrelliera – un vero e proprio firebox – dove impilare legna o carbone per favorirne la completa accensione. Le braci sono pronte mano a mano che cadono sul piano sottostante e vengono stese con cura per garantire un fronte di calore tenue e uniforme. Se l’asado descritto sopra è l’equivalente del low&slow, la parilla è una cottura diretta che rientra appieno nella definizione di grilling anche se non prevede l’uso di un calore estremamente intenso.


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Aspettatevi, anche in questo caso, una carne piuttosto cotta, tendenzialmente ben salata e assolutamente succosa. Merito, ovviamente, delle materie prime ma anche delle competenze dell’asador. Come ogni tradizione che si rispetti, ogni famiglia ha i suoi segreti: legna o carbone (apprezzatissima la varietà Quebracho blanco), taglio di carne, tipo di sale e anche, relativamente a quest’ultimo, tempistica nell’uso.

Completano il quadro le immancabili salse, regina delle quali è la conosciutissima Chimichurri, e il vino rosso preferibilmente locale come bevanda. Come avrete capito, l’Asado è molto più di una semplice occasione per mangiare e gli argentini, da buoni latini, non perdono occasione per discutere, festeggiare e fare tardi, molto tardi.

I tagli meritano un paragrafo a sé. Sappiamo che ogni paese ha le sue consuetudini – Italia in primis – in fatto di lavorazione degli animali e l’Argentina non costituisce di certo un’eccezione. In generale i macellai sudamericani preferiscono tagliare attraverso ossa e fasci muscolari anziché assecondarne la direzione: un esempio emblematico sono i tranci ricavati dalla cassa toracica in cui le coste sono visibili in sezione (asado de tira). Non si creda, però, che un Paese che rispetta a tal punto la carne bovina da farne un simbolo si limiti a consumare i pezzi più conosciuti. Un asador che si rispetti è infatti capace di preparare un grande repertorio di pietanze con le interiora, spesso trattate con salse e marinature per renderle croccanti e giocare con le consistenze. Gli organi come cuore e fegato sono in genere cotti interi e serviti porzionati, non mancano preparazioni come le salsicce di sangue e ci si spinge a consumare anche stomaco, lingua, cervello e addirittura i capezzoli. Se volete cambiare sapore dal manzo, non è difficile trovare del pollo aromatizzato al limone, del maialino da latte e della spalla di agnello.

Rimaniamo in America del Sud e occupiamoci dell’altro pezzo da novanta in tema di carne sul fuoco, il Brasile. Come solito, ha una caratteristica che da sola spiega la varietà di tradizioni e usanze – impossibili da riassumere – che si incontrano in questo paese: la sua estensione. Il Brasile ha una superficie maggiore dell’intera Australia, si affaccia sul mare e gran parte del suo territorio è coperto da spazi verdi in cui si alternano foreste e praterie. La tradizione del Churrasco – questo il termine con cui si definisce la cottura della carne al fuoco - nasce nello stato del Rio Grande do Sul, collocato nella parte meridionale del paese e confinante, guarda caso, con l’Argentina. Qui i gauchos, i mandriani, infilavano grossi pezzi di carne in enormi spiedi che servivano da supporto per rosolare la carne sul fuoco da accampamento. Ognuno a turno asportava una fetta con il proprio coltello e lasciava che il pezzo principale continuasse a rosolare. Questa procedura consentiva di consumare un pasto e al tempo stesso affumicare un grosso trancio di carne per favorirne la conservazione; è stata, lo avrete riconosciuto, l’ispirazione per la grande varietà

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BRASILE


di ristoranti che hanno fatto di questo tipo di servizio un elemento scenografico di grandissimo richiamo. La Churrascaria, oggi, è animata quindi da una processione ininterrotta di camerieri che portano grandi pezzi di carne ancora sullo spiedo e ne porzionano abbondanti fette direttamente nel piatto dei clienti. Tipicamente si alternano tagli di manzo, salsiccia arrotolata, coppa di maiale, kebab di agnello e addirittura cuori di pollo. Ma il churrasco è prima di tutto tradizione famigliare da consumarsi tra le mura domestiche, soprattutto la domenica a pranzo. Ovviamente anche in questo caso la carne è infilata negli spiedi e messa a cuocere sospesa su un letto di carboni ardenti. Viene girata più volte a mano, a intervalli regolari, e viene servita come nei ristoranti tagliando le fette dallo spiedo direttamente nel piatto dei commensali. Non esiste una regola precisa per la preparazione in quanto ogni capofamiglia porta avanti la propria tradizione: come si taglia e come si infila la carne sullo spiedo, come si prepara il fuoco e, ancora una volta, quando è il momento giusto di salare la carne. Se non è azzardato paragonare il Rio Grande do Sul al Texas in quanto a tradizione di carne al fuoco, allora la Picanha è senza dubbio la preparazione omologa del Brisket. Preparare questo taglio è un vero e proprio rituale, partendo soprattutto dal macellaio che deve essere bravo a isolarlo correttamente dal resto del retro dell’animale e soprattutto deve lasciare un adeguato strato di copertura di grasso. Il risultato è un pezzo di forma vagamente triangolare che raramente supera due chilogrammi anche sugli animali più grandi, e se non credete che i brasiliani

abbiano addirittura un’ossessione per questo taglio, cercate su Youtube i tutorial dei macellai locali e vi renderete conto di quanta cura viene posta nella sua lavorazione. Prima di andare in cottura viene tagliato in fette spesse circa tre dita che vengono infilate nello spiedo e prendono la forma di una “C” oppure vengono grigliate direttamente, avendo cura di conservare un pezzo del grasso di copertura per ogni boccone. Piccola nota di colore, i più esperti tra i lettori sanno che un altro taglio “famoso” di forma triangolare è il tri-tip. Anche questo viene ovviamente cotto e consumato, cosi come si fa ovviamente anche con il filetto, la bavetta e chi più ne ha più ne metta, ma è considerato il cugino povero (e troppo magro) della Picanha. Anche il pollo ha la sua dignità nel churrasco: le carni bianche vengono marinate e si procede poi a creare degli spiedini in cui, separatamente, si cuociono cosce, ali e i già citati cuori. Non manca nemmeno il maiale, preparato non solo sotto forma di salciccia ma anche con le apprezzatissime ribs, che ovviamente vengono lasciate intere. Si griglia allo stesso modo pure la frutta, con grande protagonista l’ananas che prima di finire allo spiedo viene fatta macerare con zucchero e cannella, restituendo una crosta caramellata e un interno succosissimo. Nella carrellata finale citiamo il contorno per eccellenza: si chiama farofa ed è un piatto composto da farina di manioca arricchita con olive, cipolle, erbe, noci e anche bacon. Se pensate possa essere leggermente “asciutto”, non esitate ad attingere alle bevande ma fate attenzione: quella tipica da associare al churrasco è la Caipirinha! APRILE 2020

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COREA Cambiamo continente e spingiamoci di nuovo verso Oriente. Dopo Cina e Giappone una menzione speciale, almeno nel contesto del BBQ, lo merita sicuramente la Corea. Dimenticate, in questo caso, scenografiche griglie dalle superfici spropositate o imponenti spadoni: lo strumento è una griglia portatile o addirittura incassata al centro del tavolo, a maglie molto strette, alimentata a gas o a carbone, sulla quale i commensali provvedono a cuocere la propria porzione di carne a piacere. Mettete da parte anche velleità “misuratorie” di spessore e di superficie: manzo, maiale e pollo sono tagliati in straccetti o quadrati di piccole dimensioni in modo da poter essere cotti molto rapidamente e da massimizzare la parte di carne che potrà godere della reazione di Maillard. Tradizione vuole che la carne si giri una volta sola e si usino le forbici per ridurre alle dimensioni di un boccone i pezzi troppo grandi. Il gioco di consistenza – crosta croccante e grasso scioglievole – e sapori è il centro dell’esperienza, oltre ovviamente alla convivialità di cucinare tutti insieme. In alcuni casi, naturalmente riservati ai ristoranti, si può trovare un’isola centrale con una grande griglia e uno chef che cucina per le persone sedute attorno. Due ricette della cucina bbq coreana sono particolarmente conosciute: la prima è il Bulgogi appena descritto e la seconda è il Galbi. In quest’ultimo caso ad essere marinate in una salsa 20 - BBQ4All MAGAZINE

agrodolce a base di soia sono specificamente le short ribs, che possono essere di manzo, di maiale e talvolta anche di pollo. Esistono diverse varianti di ricette per queste due specialità, ma grossomodo la tendenza è di non marinare i pezzi di manzo provenienti da tagli di prima scelta, usare una marinatura leggera e piuttosto neutra per i tagli meno raffinati e più tenaci e spingere un po’ più forte sugli aromi e gli zuccheri quando si marina il maiale, in modo da ottenere le glasse agrodolci così famose nella cucina orientale. Nel caso del pollo, le varianti sono spesso orientate verso il piccante. Definire accompagnamento, o contorno, tutto il bendiddìo che si può trovare a complemento della carne è assolutamente riduttivo. Si chiama Banchan e raggruppa cetrioli sottaceto, vari tipi di verdura fermentata (il cavolo chiamato kimchi è quella più diffusa), spinaci marinati, acciughe soffritte, omelette e altro ancora. Vengono spesso usate foglie di una pianta simile alla menta per riunire in un solo boccone carne, verdura e salsa, un po’ come si usa fare per il sushi. Per i più coraggiosi, a fine pasto si può prepare un piatto composto dagli avanzi del riso di accompagnamento e della carne: si chiama Bokkeumbap e permette di chiudere anche l’ultimo buco eventualmente rimasto nello stomaco. Per accompagnare un banchetto così copioso i coreani prediligono il soju, un vino prodotto dalla fermentazione del riso che molto somiglia al sake.


AUSTRALIA

Spingiamoci un (bel) po’ più a Sud e diamo uno sguardo down-under. In Australia il bbq viene chiamato affettuosamente Barbie ma viene considerato una cosa seria: non è solo un’occasione per un ritrovo saltuario tra famiglie di amici ma una vera e propria istituzione. Complice il clima “sottosopra” anche il Natale è spesso festeggiato attorno alla griglia, oltre ovviamente alla Pasqua e alla festa nazionale. Due particolarità che distinguono l’Australia dai paesi europei sono la stragrande preponderanza di dispositivi a gas in confronto a quelli alimentati da altri combustibili e l’abbondanza di parchi pubblici nei quali sono installati bbq a disposizione di tutti. E, badate bene, non stiamo parlando di una costruzione in muratura sulla quale installare una sgangherata griglietta arrugginita, bensì di imponenti strutture metalliche ancorate al terreno, con tanto di coperchio e tutti i crismi. Sono tanti anche i griller che preferiscono rimanere fedeli alla propria attrezzatura e non perdono occasione di caricare in auto bombole e dispositivi portatili per un picnic fuori porta. Le alternative insomma non mancano, ma un filo comune esiste in ogni caso: il Barbie, che sia in prossimità della spiaggia o in una bella radura piena di verde, è sinonimo di informalità. Ma veniamo, è il caso di dirlo, al piatto forte. Chi dice Australia dice manzo, specialmente di razza Black Angus, ma non solo. Le alternative più o meno “esotiche” sono pecora, maiale, pollo, emu (simile allo struzzo) e addirittura il canguro. Questi ultimi due animali sono particolarmente apprezzati per le carni e sono considerati un alimento molto sano dai locali. Nota di colore, gli australiani hanno una vera e propria passione per le salsicce e si rivelano estremamente creativi sia nel tipo di carne sia negli ingredienti che arricchiscono la farcia. Non stupitevi quindi di poter scegliere tra salsicce di manzo con pomodori secchi e basilico, pollo e formaggio o pollo e lime, maiale al miele e altre ancora. Se siete invitati a un bbq australiano e non volete andare a mani vuote, non esitate a portare un po’ di birra locale. È la bevanda per eccellenza per le grigliate e non potete sbagliare.

SUD AFRICA

Rimaniamo nell’emisfero australe e chiudiamo la nostra carrellata con il Sud Africa. Qui la grigliata si chiama Braai e questo termine – derivato dalla lingua Afrikaans – è talmente utilizzato da essere diventato un verbo, sinonimo appunto di "grigliare". Il sudafricano tipo, un po’ come il lettore medio di questo magazine, griglia più volte a settimana per la sua famiglia o per grandi gruppi di amici. La consuetudine vuole che si usi una superficie di grandi dimensioni, le cotture sono quasi sempre dirette e a calore piuttosto forte. Difficile trovare un Braai Master (sì, si chiama così) che utilizzi carbone: il combustibile per eccellenza è la legna e la preparazione del letto di braci è un rituale affidato al padrone di casa. Gli altri uomini del gruppo lo aiuteranno poi a sorvegliare la cottura mentre alle donne è in genere affidata la preparazione delle insalate di accompagnamento. È perfettamente normale, inoltre, che l’organizzatore comunichi agli invitati cosa portare, sia in termini di carne – precisando addirittura quali tagli procurarsi e in che quantità – sia di bevande. A tal proposito, se non stupisce che sia la birra a farla da padrone, va detto che anche il vino è particolarmente apprezzato, ma sorprendentemente è quello bianco ad essere prediletto per il Braai. Sulla griglia trovano posto diverse varietà di legumi, pannocchie di mais, carne e pesce al tempo stesso. Relativamente alla carne si spazia dal pollo al manzo, dall’antilope allo struzzo per arrivare fino al coccodrillo, ma il posto d’onore lo occupano ancora una volta le salsicce, chiamate boerewors. È consueto, indipendentemente dal tipo di carne scelta, farle marinare un minimo prima del passaggio in griglia: le varianti di formule ovviamente non mancano, ma spesso vengono usate versioni che affidano alla cola l’apporto zuccherino e a una salsa agrodolce quello acido. Come in Australia, l’usanza di grigliare anche fuori casa è davvero diffusa. Barbecue più o meno portatili o dispositivi pubblici a disposizione sono una presenza costante nei parchi, in spiaggia, in montagna e addirittura nei parcheggi degli impianti sportivi. E ora, a voi la scelta. Avete deciso quale sarà la vostra prossima meta, quarantena permettendo? APRILE 2020

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IL MAIALINO SARDO - APPROFONDIMENTO a cura di LUCA GALLOZZA

i l m a i alin o sa r do la guida definitiva

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Da quanto tempo aspettavate un articolo definitivo che desse le linee guida di quello che è il piatto riconosciuto da tutti come il simbolo della Sardegna? Ecco, è finalmente arrivato il momento. Parliamo di maiale e più specificatamente di maialino da latte. Che non si chiama porceddu. Levatevelo dalla testa. Potete chiamarlo porcetto, termine molto italianizzato, puscheddu nel Sassarese e polcheddu nel territorio di Olbia-Tempio Pausania; oppure ancora proxeddu, porcheddu, proceddu, copieddu, in altre zone della Sardegna. Sentirlo chiamare porceddu mi infastidisce come quando Carlo Cracco gridò durante una puntata di Masterchef: devi bucare la cotenna! Più o meno equivale ad andare a bestemmiare in chiesa. Così come la cotenna non si buca MAI, allo stesso modo il maialetto non si chiama in quel modo. Appurate le basi, passiamo alla storia. Il suo allevamento ha origini antichissime, con documenti che risalgono ad età preistoriche documentate da numerose testimonianze, così come per la lavorazione delle sue carni. Gli studi archeologici effettuati in Sardegna hanno fatto risalire la presenza del maialetto, grazie al rinvenimento di ossa di animali domestici e non, fin dal neolitico antico, intorno al VI millennio a.C. Nel periodo nuragico, tra il 1800 e il 238 a.C., invece abbiamo testimonianza della sua presenza anche grazie alle rappresentazioni figurative in statuine di bronzo che ritraggono marcatamente sia il maiale che il cinghiale. Nell’epoca romana, ci fu addirittura una crescita dell’allevamento del maiale, essendo utilizzato come moneta per il pagamento dei tributi da parte della Sardegna. Più avanti nel periodo medievale, intorno al XIV sec., erano il Codice Rurale di Mariano IV-Giudice di Arborea e la Carta de Logu della Giudicessa Eleonora D’Arborea a regolamentare gli allevamenti suini, con capitoli interamente dedicati al mammifero rosa, denominati ”De su porchu mannali”, “Porchus de gamma” e “De Porchos”. In particolare, il primo dei capitoli citati faceva riferimento al suino da ingrasso per uso familiare, il secondo delineava le sanzioni da attuare contro gli allevatori che facevano sconfinare il branco in territori altrui (vigne e orti), e il terzo vietava l’introduzione dei suini al pascolo e nel maggese nel periodo invernale. Ancor oggi, sopratutto nell’entroterra e nelle zone in cui l’economia è basata sull’agro-pastorale, l’allevamento del maiale ha notevole importanza e diffusione. Infatti ogni famiglia che conduce uno stile di vita di quel tipo alleva su mannale, il maiale, al fine di soddisfare le esigenze familiari con provviste di salumi, carne e lardo. L’allevamento di questa tipologia, proprio grazie a diversi fattori intrinsechi, come gli aspetti fisici e geografici del territorio, permette di ottenere dal suino sardo prodotti peculiari e unici. Questo ed altre caratteristiche hanno permesso alla razza suina sarda di essere riconosciuta ufficialmente attraverso il decreto DM n° 21664 dl’08/06/2006 (successivamente modificato dal DM n°24089 del 18/12/2006). Essa viene infatti inserita in quel gruppo di razze autoctone italiane come la Cinta Senese, la Mora Romagnola, il Nero Siciliano, la Casertana e la Calabrese. APRILE 2020

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Quali sono gli aspetti unici che permettono un risultato di così alta qualità e di bontà distinguibile e difficilmente replicabile? La caratteristica principale del classico maialino sardo è quella legata al peso e all’età dell’animale. Esso deve rigorosamente avere un peso che va dai 5 kg circa sino a massimo 7/8 kg e un’età compresa tra i 30 e i 45 giorni. Si parla di post svezzamento, pertanto la nutrizione dell’animale sarà principalmente a base di latte materno per le prime 2/3 settimane, integrata poi con cereali, erbe o ghiande. L’allevamento deve essere allo stato brado o semi-brado. Non è consuetudine infatti per il sardo che vive in zone extra urbane andare ad acquistare il maialino sotto casa dal macellaio di fiducia. Anche se a volte non se ne può fare a meno, la normale fornitura avviene principalmente tramite allevatori certificati e in regola con le vaccinazioni. La particolare alimentazione dona alle carni un sapore specifico e difficilmente reiterabile con maiali da allevamenti intensivi e con alimentazioni differenti. La parte grassa, ad esempio, è maggiore nei suinetti di razza sarda allevati en plein air, così come è maggiore lo spessore della cotenna. Questo perché il tipo di allevamento permette a questi animali di crescere in salute e di raggiungere un peso di macellazione in più giorni, rispetto ad altri tipi di suinetti allevati in semi-intensivo o in intensivo. Dal punto di vista culinario il fattore principe che rende riconoscibile un maialetto sardo è la cottura. Questa può avvenire con varie tecniche e ora le analizzeremo una per una.

Il nostro obiettivo, in ogni caso, deve essere sempre e solo uno: la buona riuscita della cotenna. PREPARAZIONE DEL MAIALINO: PRE COTTURA. La preparazione parte dalla macellazione. Dopo aver sacrificato il nostro suino, questo va appeso per le zampe anteriori. Tramite un’incisione nella giugulare, viene fatto lo sversamento del sangue. Questo stesso sangue in passato veniva raccolto e utilizzato successivamente per essere spennellato sulla cotenna. Sembrerebbe un rito macabro e ancestrale ma le donava un gusto distintivo e unico. Ora non è più praticabile per comprensibili norme igienico sanitarie. Il sangue veniva utilizzato anche per la produzione del sanguinaccio. Dopo aver effettuato questa pratica di sversamento, il maiale viene spanciato ed eviscerato, lavato e lasciato pulito internamente e totalmente intero, compreso di testa, coda e piedini. Vengono successivamente realizzati due intagli all’altezza dei reni che faranno da tasche in cui infilare le zampe. Quindi si procede all’eliminazione delle setole mediante il bruciatore a cannello. Qui si ferma la preparazione di ogni singolo capo. Successivamente, prima della cottura, si decide se dividerlo in due mezzene o aprirlo a libro. TIPOLOGIE DI COTTURA. Sono principalmente tre le tipologie di cottura di questo prelibato suino. - a carraxu - a schidonadura - in furru A CARRAXU Non si hanno fonti certe sulle origini di questo tipo di cottura. Essa viene perlopiù attribuita alla necessità di bracconieri, ladri di bestiame o latitanti durante il periodo del banditismo, i quali, oltre a dover nascondere la refurtiva, avevano bisogno di cibarsi senza farsi scoprire. Potremmo immaginare i fuochi accesi nel pieno della notte, tra lentischi e sugheretti, rituali quasi primitivi, all’ombra di un nuraghe dove ripararsi o sotto il fusto di un ulivo. Potremmo sentire i profumi di mirto bruciato e dei carboni ardenti che scoppiettano, col fumo che sale davanti ad una silhouette di montagne granitiche e fredde, circondati da una natura selvaggia e aspra. Di sicuro c’è da dire che questo tipo di cottura che in alcuni rari casi viene ancora praticata, si propone quasi esclusivamente nella Barbagia e nell’Ogliastrino. La pratica prevede: - un Maialetto Sardo di circa 6-7Kg; - erbe aromatiche, in prevalenza mirto e rosmarino in quantità abbondanti; - una buona qualità per la brace, con legna di olivastro, ginepro e lentisco. Poi procedete in questo modo: preparate un bel fuoco in terra, vicino a dove volete realizzare la fossa. Scavate una buca di quasi un metro di profondità che contenga ampiamente il maialetto. All’interno di quest’ultima, preparate un bel fuoco che rilasci almeno uno strato di brace di 20/25 cm. Salate il maialetto esternamente e internamente e preparategli un “abito” di erbe. Il vestito si fa ricoprendo interamente il maiale con rami di mirto e di rosmarino, quasi fosse un bozzolo. Se neces-

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sario, si legano i rami attorno al maialetto con spago o con filo metallico. Con la brace ormai pronta all’interno della buca, eliminate la cenere in eccesso. Fate un letto di erbe aromatiche sopracitate e adagiatevi sopra il maialetto vestito. In questa fase potete legarlo con due spezzoni di circa un metro di fil di ferro per facilitarne l’estrazione dalla buca dopo la cottura. Quindi sovrapponete un altro strato di erbe sopra. Spostate la brace realizzata all’esterno della buca sulle erbe aromatiche. Coprite con uno strato di pietre e successivamente con uno strato di 10 cm di terra. La rimanenza della brace rimasta fuori va spostata ora sulla buca. Fate cuocere per circa 6/8 ore. Passato il tempo, aprite con attenzione e tirate su il maialetto. Ripulitelo dalle erbe e suddividetelo a pezzi, ben caldo. Questo tipo di cottura restituisce un prodotto molto umido e succoso, ma ahimè con una cotenna che non è il risultato che vorremmo ottenere. D’altronde, la finalità di questa metodologia, come detto prima, non era quella di ottenere un maialino con tutte le caratteristiche di un piatto stellato, bensì quella di nutrirsi. Inoltre, in questo caso, come possiamo notare è inevitabile basarsi solo sull’esperienza, sia con le temperature che coi tempi. È pur vero che questa sepoltura fa in modo che si crei una camera di vapore tale a riprodurre le condizioni ottimali per cuocere la carne in modalità L&S e a mimare quelle che sono abitualmente le condizioni di un foil (foglio di alluminio). Perché è andata in disuso tale metodologia? Intanto, per la grossa mole di lavoro che serve per creare un vero e proprio dispositivo di cottura, alquanto rurale e primitivo. Oltre a questo, per un risultato non del tutto convincente dal punto di vista gustativo. So di sfatare un mito e so benissimo quanto possa affascinare l’idea di una cottura così primordiale ma, onestamente, se dobbiamo ragionare in ottica di maialetto to perfection questo metodo non conviene né in termini di tempo né a vantaggio dei sapori. La cotenna perfetta e croccante di cui parlavamo all’inizio non sarà nemmeno minimamente avvicinabile. Ci troveremo con un porcheddu veramente troppo saporito e molto probabilmente anche sovraffumicato, che avrà certamente una carne umida ma la cui cotenna sarà alquanto flaccida e gommosa. Senza la dovuta maestria, inoltre, il rischio di ritrovarsi con un maialino che sa di bollito è molto alto. A SCHIDONADURA Schidonadura, da spidu, ispidu, schidoni, schironi a seconda della zona; in due parole: allo spiedo. Questa tecnica prevede due modalità di cottura: una verticale (più tradizionale) e una orizzontale (più pratica). Modalità verticale Solitamente realizzata all’aperto, prevede un’indiretta con braci di legna. Gli arrostitori preparano la zona di cottura realizzando una base con sabbia. Se bisogna cuocere numerose mezzene, ci si può servire di una struttura realizzata in ferro per il sostegno degli spiedi. L’area delle braci può essere rettangolare e abbastanza lunga se supera le 50 mezzene (nel caso di sagre o feste paesane) oppure circolare. Sa brexa (la brace) è in posizione centrale e distante da sa petha (la carne). La brace deve essere costante e forte. La cottura lenta e omogenea,

per questo ogni tanto va aggiunta legna grossa che alimenti il fuoco. Non bisogna apprettare sa petha (mettere fretta alla carne), ma essere abili nel tenere il fuoco alla giusta intensità. Se troppo forte, tenderebbe a bruciare l’esterno lasciando cruda la parte interna. La sacralità di questa cottura prevede diverse accortezze. Innanzitutto, bisogna saper schidonare, ovvero saper spiedare il maialetto nel giusto modo per bilanciare perfettamente il peso al fine di gestire meglio la cottura e la sistemazione dello spiedo. Ci sono due modi per schidonare il maiale: utilizzando una mezzena del suino oppure lasciandolo intero e aperto a libro. In entrambi i casi, lo spiedo viene inserito dalla parte del cosciotto posteriore, facendo un entra ed esci almeno due volte nelle carni, e fatto passare poi dal costato fino ad arrivare alla testa e fatto uscire dal grugno. I più abili utilizzano questo metodo riuscendo a non bucare mai la cotenna. Altri per praticità realizzano almeno un foro di uscita e uno di entrata. Nel caso si decida per il maialetto intero a libro, si utilizzano due spiedi di lunghezza inferiore all’altezza degli arti e perpendicolari a quello centrale, a formare una sorta di H per evitare il chiudersi della carcassa verso l’interno. Un’altra accortezza è quella di saper valutare quando sia il caso di girare lo spiedo per rendere la cottura pressoché identica in entrambi i lati del suino. Un terzo elemento importante è la salatura che avviene verso metà cottura. Molto dipende dalla pezzatura del maiale e dal gusto personale. Le parti più grosse come coscia e spalla andranno salate maggiormente rispetto ai fianchi più sottili. Infine è importantissima la cottura della cotenna. Non va mai bucata. Mai. Ve l’avevo già detto? La sua croccantezza è determinante per una cottura perfetta. Grazie alla fonte di calore molto alta, la cotenna subisce la cristallizzazione gradualmente. A contribuire all’effetto friabile APRILE 2020

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e fragrante si può ricorrere all’uso del lardo: un bel quadrotto spesso, infilzato in un ramo scortecciato di ulivo, che viene utilizzato per ungere la cotenna e veicolare il calore. Molto spesso un insieme di ramoscelli di mirto viene utilizzato a mo’ di pennello per spargere il lardo fuso su tutta la cotenna. Oltre a fare da mopping, il mocho di mirto rilascia sulla cotenna i propri oli essenziali anche a causa del calore ricevuto durante lo sfregamento. Per capire se il suinetto è cotto, si utilizzano modalità empiriche che permettono di sapere quando la carne è pronta. Una di queste prevede di bucarlo nelle parti più spesse mediante la punta di un coltello o di uno spiedino e di stabilire in base alla sensazione di calore sul polso l’avvenuta cottura della carne. Un altro modo è quello di verificare il distaccamento dell’orecchio mediante tiratura. Essendo fatto di cartilagine il suo distacco corrisponde ad uno scioglimento del collagene e quindi ad una temperatura interna della carne sicuramente superiore ai 65° C e prossima o maggiore ai 90°C. È sicuramente un range molto ampio per definire con certezza la cottura, ma si riduce se abbiniamo questa prova al raggiungimento della perfetta croccantezza della cotenna, che avviene a temperature superiori ai fatidici 72°C (target minimo per il maiale, secondo i manuali). Quando è pronto il maiale viene spiedato e trasferito in sa maizzoba, un vassoio di sughero dove si adagiano alcuni ramoscelli di mirto sul fondo; a questo punto si procede al taglio. Il maialetto viene servito così com’è: nessuna spezia aggiuntiva, soltanto il sale a gusto personale. Accaparrarsi le parti migliori diventa una sfida. Tra i tagli più ambiti, ci sono per primi i piedini e le orecchie, poi la testina che contiene come uno scrigno un gran tesoro, il cervello. A seguire le costolette. 26 - BBQ4All MAGAZINE

Molto apprezzate la parte della pancia e la parte della coppa con l’osso .Diciamo che è difficile che ne rimanga un solo pezzo. Ma non temete. Se avanzerà sarà comunque ottimo anche da freddo . Modalità orizzontale Vale quanto detto per quella verticale, per quanto riguarda la preparazione del maiale e la schidonadura. È un sistema utilizzato principalmente con girrarrosto e in molti casi è fatto anche all’interno delle abitazioni, nei grandi camini a legna o sui dispositivi in muratura aperti. È sicuramente il più pratico e il più adatto per suinetti di razza sarda di dimensioni tra i 5 e gli 8 kg. IN SU FURRU È il metodo di cottura più ampiamente diffuso, sia a casa che nei ristoranti sardi, perché prevede una modalità più semplice e veloce rispetto a quelle già descritte. Se ancora negli agriturismi e in qualche paese dell’entroterra si possono trovare realizzazioni di cotture a carraxu (molto raro) o a schidonadura (molto frequente in località turistiche), la cottura al forno è quella che risolve il problema a tutti coloro che abitano in città e vogliono godere della bontà del maialino con tutte le sue connotazioni distintive: sapore e succosità delle carni e croccantezza della cotenna. Qui si semplifica davvero il tutto e ci si attiene sopratutto a tempistiche e temperature precise per raggiungere un risultato ottimale. Si saltano tutte le parti prima elencate di pre cottura, perché la fornitura avviene principalmente dal macellaio di fiducia o addirittura attraverso la GDO di zona. Quindi ci si porta a casa un prodotto finito e pronto per la preparazione. A causa della carenza degli spazi e degli strumenti utilizzati, si


tende a dividere la mezzena in tre parti (anteriore, posteriore e centrale ) e a cuocerla in teglia. Ripeto ancora una volta che il vostro obiettivo è ottenere una cotenna croccante, quindi procedete in questo modo: appena togliete dal frigorifero il maialetto, asciugate bene la cotenna e preriscaldate il forno in modalità ventilato a 160° C. Predisponete in una teglia il maialetto con la cotenna verso la parte alta e infornate. Ancor meglio se utilizzate una griglia dove appoggiare la carne . Lasciate cuocere per 40 minuti senza mai girare la carne poiché in caso contrario la fragranza e la croccantezza verrebbero compromesse se la cotenna entrasse in contatto continuo con i suoi liquidi. Innalzate successivamente la temperatura a 180° C. Ungete con dello strutto la cotenna e salatela, poi dimenticatevelo per un’ora buona. Quando dopo un’ora a 180° C inizierà ad essere bella dorata, alzate la temperatura del forno a 220° C. Tenete quella temperatura per circa 10/15 minuti, dopodiché testate la cotenna con la punta di un coltello. Battendola, dovrà essere tostata e dovrà produrre un rumore sordo e vuoto. A queso punto non resta che sfornare il tutto e servire caldo. Non sarà così rilevante la sua temperatura interna perché avrà sicuramente superato i 72°C , ma la carne sarà comunque succosa, grazie alla percentuale di grasso sottocutaneo che la terrà umida. Bene, quelle appena descritte sono le tre tipologie più comuni in Sardegna per cuocere il maialetto. Ovviamente possiamo adattare anche la sua cottura anche al nostro dispositivo. Come avrete capito, quella migliore sembra essere proprio quella a schidonadura. Quindi potremmo prendere ad esempio questa tecnica per ottenere nel nostro dispositivo a carbone o a gas un risultato simile grazie all’uso dello spiedo.

ad un allevamento di tipo brado (solo in alcune zone centro orientali dell’isola, sopra i 500 m.s.l.m) e semi-brado. Il prodotto che deriva da questo tipo di cure è qualcosa di unico, genuino e legato direttamente al territorio. Purtroppo ogni medaglia ha il suo rovescio: tale tipologia di crescita facilita la persistenza del virus della Peste Suina Africana (PSA), rendendone problematica l’estinzione. Ci sono quindi dei protocolli molto rigidi da seguire per scongiurare il rischio che questa malattia dilaghi in modo incontrollato sul territorio (la malattia non è trasmissibile all’uomo ma decima la popolazione suina). Tornando alle nostre cotture, come potete ben immaginare, non si svolgono in maniera passiva e silenziosa. Tutt’altro. Sopratutto per quella a schidonadura, tra le più diffuse, tradizionali e folkloristiche, sono coinvolti diversi gruppi di persone che si divertono un casino. Solitamente agli uomini è affidata la cottura sulle braci all’esterno, mentre la donna diventa regina tra le mura domestiche per tutte le altre preparazioni. Tra gli arrostitori non si hanno compiti specifici. Tutti si approntano allo spostamento delle braci, ad alimentare il fuoco, a girare gli spiedi. Questo nel massimo della convivialità. Infatti l’arrostitore, per quanto lavori duramente per tutte le fasi pre, durante e post cottura, sarà assistito da altri amici, con casu, inu e civraxu ( formaggio, vino e pane tipico). Di solito non manca nemmeno la distribuzione di prodotti simbolo dei vari allevatori come la sartizza a loriga (tipica salsiccia stagionata a forma di U ) e sa musteba (salume tipico stagionato artigianalmente e ottenuto dal lombo o dalla lonza). Il tutto viene digerito a fine pasto con un buon bicchierino di filù e ferru o liquore al mirto. Insomma, come potete capire, non si tratta di una semplice cottura. Quella della preparazione del maialino è una vera propria arte che inizia dall’allevamento, passa dal rispetto per il sacrificio dell’animale, e si conclude con tutte le fasi che ci permettono di gustarlo al meglio. I sardi vanno fieri e orgogliosi del loro prodotto e di tutta la ritualità che lo circonda. Voi non potete far altro che provarci e sentirvi parte di tutto questo.

Sino a metà del secolo scorso, poter consumare carne e sopratutto sacrificare un capo di bestiame così giovane era un lusso che la gente si concedeva solo in occasioni particolari, quali ricorrenze sacre o matrimoni; solo raramente quindi ci si poteva permettere di rinunciare ad un grosso investimento per soddisfare un vizio e dare importanza alla festa. Oggi, grazie ad un miglioramento delle condizioni di vita e ad una produzione più alta del bestiame, questa preparazione è divenuta una tradizione isolana, e viene eseguita con maggior frequenza anche per accontentare i turisti. La qualità dei suini autoctoni e delle loro carni è dovuta, come dicevamo all’inizio, APRILE 2020

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LO SPEZIALE DEL BARBECUE a cura di LUCA GALLOZZA

IL MIRTO ...piove sui pini scagliosi ed irti, piove sui mirti divini... Gabriele D'Annunzio La pioggia nel pineto

Quando parliamo di mirto la prima cosa a cui pensiamo è la Sardegna, regione dove questa pianta si diffonde nella macchia mediterranea locale, soprattutto perché i più riconosciuti liquori sono prodotti proprio lì. È una pianta aromatica sempreverde, della famiglia delle myrtaceae, comprendente un centinaio di specie originarie delle regioni calde del vecchio e nuovo mondo; in Italia è presente una sola specie, il Myrtus Communis, che cresce spontanea in tutto il bacino del Mediterraneo. Solitamente spunta in zone costiere, ma non è raro trovarlo anche a poco più di 500 metri sul livello del mare. È un arbusto cespuglioso che può raggiungere anche i 2,5 mt di altezza e che matura tra Novembre e Gennaio, ha foglie opposte ovate e fiori ascellari a petali bianchi e profumati, con bacche a contorno vario 28 - BBQ4All MAGAZINE

grosse più o meno come i piselli, di colore blu nerastro. Conosciuto da tempi antichissimi, fu una pianta sacra a Venere e quindi simbolo dell’amore e della poesia sentimentale; per questo motivo si usava cingere con corone di mirto il capo dei partecipanti ai conviti amorosi. Durante le feste in onore della dea dell’amore, le donne che ne prendevano parte usavano adornarsi le braccia, il capo e le caviglie con la pianta aromatica, reputandola un potente afrodisiaco capace di stimolare il desiderio e agevolare gli incontri. La corona di mirto, simbolo del matrimonio, chiamata “coniugalo” veniva usata per imbellettare la sposa il giorno delle nozze. Inoltre i rami di questo arbusto durante il solstizio d’estate veni-

vano utilizzati dagli amanti per concordare un patto di fedeltà reciproca. Da Dante a D’Annunzio, da Monti a Foscolo sono numerosi i rimatori che hanno celebrato il mirto, rimasto simbolo della gloria poetica. L’impiego fitocosmetico della pianta risalirebbe invece al Medioevo, quando con Acqua degli angeli s’indicava il liquido distillato dai fiori con cui venivano fatte abluzioni per conservare la bellezza. Tutt’oggi l’olio di mirto, un liquido giallo di odore aromatico ricavato per distillazione dalle foglie, è ancora usato come balsamo, sedativo e antisettico. Il profumo dell’arbusto risvegliava non solo l’eros ma anche la gola, e proprio in campo alimentare, prima dell’arrivo del pepe, le sue bacche erano molto diffuse


come ingrediente per esaltare i sapori della carne. Con questo aroma i Romani insaporivano un insaccato che si chiamava myrtatum, l’antenato della nostra mortadella. L’uso massiccio del mirto in cucina arrivò fino al Medioevo, poi le sue qualità vennero dimenticate, per tornare ad essere considerate in tempi più recenti. LA CLASSIFICAZIONE BOTANICA Dominio : Eukaryota Regno : Plantae Divisione : Magnoliophyta Classe : Magnoliopsida Ordine : Myrtales Famiglia : Myrtaceae Genere : Myrtus Specie : M. communis La pianta di Myrtus Communis in tenera età si presenta con una corteccia di colore rossastro, che tenderà ad assumere sfumature scure di grigio con gli anni. Nel portamento tipico dell’arbusto, i rami sottili si infittiscono tantissimo. Le sue dimensioni variano in altezza da 50 cm sino ai 2,5 mt. Tuttavia ci sono alcuni esemplari che possono arrivare anche a 7 mt con andamento verticale. I rami sono eretti. Le foglie sono coriacee, persistenti, opposte e talvolta incrociate su quattro file, di colore verde intenso, lucide e brillanti sulla parte superiore, più chiare in quella inferiore. La loro lunghezza si aggira sui 5 cm circa, la forma è ovale. Sono ricche di ghiandole aromatiche e strofinandole rilasciano i profumatissimi oli essenziali, grazie ai loro costituenti principali: mirtolo, geraniolo, alfa-pinene, limonene, cineolo e tannini. Ha fiori bianchi, con stami dorati ed evidenti, solitari, lungamente peduncolati e molto profumati. Sbocciano da Giugno a Settembre, periodo della loro caduta e della loro raccolta. Le foglie invece durano tutto l’anno, mentre le bacche sono presenti solo nel periodo autunnale. Queste ultime sono ovoidali, di colore nero-blu violaceo e carnose, molto gradite agli uccelli. Più raramente sono biancastre, con numerosi semi reniformi bianchi e lucenti privi di albume, dal sapore astringente. Ogni bacca ne contiene in numero da 1 a 8. La buccia è pruinosa, sottile, facilmente separabile dalla polpa, che è bianca crema. sostenuta, di sapore acidulo ed astringente nei frutti non completamente maturi, aromatica con retrogusto resinoso in quelli maturi.

Una migliore conoscenza delle proprietà nutraceutiche delle bacche di mirto potrebbe rappresentare un incentivo per il loro futuro sfruttamento nelle industrie alimentari, farmaceutiche e cosmetiche. Sono ricche di composti fenolici, tra cui acidi fenolici (acido gallico, acido ellagico), flavonoli (miricetina glicosidi con piccole quantità di quercetina e gliceridi kaempferol), flavan-3-oli (epigallocatechina, epigallocatechina 3 -O- gallato, EGCG, ed epicatechina 3 -O- gallato) e antociani. IL SUO UTILIZZO Il mirto è un arbusto che si presta a molteplici usi. Ha caratteristiche importanti per il recupero e la rivegetazione di aree degradate, come mangime per bestiame e come pianta ornamentale da esterno e da interno. In cucina è largamente usato

come aroma per insaporire piatti di carne e pesce e, come abbiamo visto, è l’ingrediente principale nella realizzazione del maialetto sardo. Di largo uso anche nel settore cosmetico e medicinale, in particolare per le caratteristiche antisettiche e balsamiche dei suoi oli essenziali, benèfici per la cura delle malattie respiratorie. In cosmesi, la sua essenza è ottima come tonico per la pelle e per la cura della caduta dei capelli. La parte legnosa invece viene spesso utilizzata nell’artigianato locale per la creazione di cestini e nasse per il pesce, in quanto molto resistente. In Sardegna, le bacche sono ampiamente utilizzate nell’industria alimentare, e principalmente in quella dei liquori per

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rativa. Secondo studi effettuati presso l’Università di Sassari le potenzialità dei polifenoli di mirto sono notevoli poiché agirebbero sia nella prevenzioni di infiammazioni cutanee, sia nel miglioramento dell’efficacia dei farmaci nella cura delle psoriasi. Per ora queste ricerche sono tutte in fase di studio e devono vedere la loro applicazione sull’uomo, sperando in risultati efficaci. A noi non resta che continuare a consumare del buon mirto al fine di aumentare la quantità di scarti di produzione e aiutare la ricerca.

VOLETE PRODURVI IN CASA UN BUON MIRTO DA CONDIVIDERE CON GLI AMICI? Ecco la ricetta per farlo in casa.

Vi occorre un litro di alcol etilico per dolci a 95°, 800g di zucchero semolato e 300/400 g di bacche di mirto appena raccolte. Mettete in infusione le bacche nell’alcol per 40 giorni in un capiente contenitore ermetico di vetro. Dopodiché filtrate l’essenza alcolica dalle bacche e preparate uno sciroppo con un litro di acqua e tutto lo zucchero. Quando sarà freddo unite allo sciroppo l’essenza alcolica, mescolate bene e poi fate riposare. Le bacche rimaste dall’infusione possono essere passate in un torchietto per estrarre ancora parte dei succhi. L’estratto ricavato va aggiunto al liquore, questo permetterà di ottenere un sapore più intenso. Lasciate riposare per 30 giorni la vostra bottiglia di liquore e poi gustatevelo. Siamo arrivati alla fine del racconto e non ve la prendete se vi sfato un mito. produrre il famoso Mirto di Sardegna, riconosciuto come indicazione geografica dell’isola della Sardegna, secondo il Reg. CE.no.110/2008. L’infusione idroalcolica può essere di bacche mature, nel caso del mirto rosso, o di foglie nel caso di quello bianco. La produzione annuale di Mirto di Sardegna è di circa quattro milioni di bottiglie tra quelle di tipo industriale e quelle artigianali. Con lo scopo di proteggere la produzione, data la sua importanza economica nel settore agricolo sardo, dal 1998 sono state stabilite specifiche di produzione sulla base di uno studio approfondito della composizione chimica della bacca e del processo di preparazione del liquore. La popolarità sempre crescente di questo prodotto tipico ha suggerito la necessità di una ricerca agronomica per addomesticare le piante spontanee, e il risultato è stato l’impianto di circa 200 ettari di piante di mirto in Sardegna. Sfortunatamente, i produttori di liquori preferiscono i frutti delle piante selvatiche, disponibili in quantità sufficienti; pertanto, la domanda di mercato per prodotti realizzati con piante non spontanee è scarsa. Per questo motivo, c’è un forte interesse nel cercare applicazioni in settori diversi dall’industria dei liquori. Uno di questi settori è proprio quello della medicina rigene30 - BBQ4All MAGAZINE

Se vi chiedessi a che temperatura bere il mirto, voi tutti mi rispondereste: rigorosamente ghiacciato! Niente di più sbagliato. Se è vero che bevendolo freddissimo si ha tutta la piacevolezza del fresco, è anche vero che si perdono tutti i profumi e gran parte del gusto. La temperatura di servizio ideale è compresa tra i 15- e i 20° C. Versatelo nel bicchiere giusto, come il Napoleon da Cognac, con non più di due/tre dita di prezioso nettare. E tando no lu cumbidamus s’amigos ? Ello, ponide a buffare a tottus (E allora non li invitiamo a bere gli amici ? Certo, mettete da bere a tutti)


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SPECIALE GRIGLIATE - RICETTA a cura di MICHELA BONGIORNI

IN GREDIENTI

P ER 4/6 P ER S O N E • una Picanha intera Black Angus Star Ranch del BBQ4All Megastore • sale Kosher q.b. • pepe q.b. • due pomodori grossi • una cipolla bianca • uno spicchio d’aglio • un mazzetto di prezzemolo • mezza carota • un gambo di sedano • peperoncini jalapeño piccanti q.b. • sale e pepe q.b. • olio extravergine di oliva q.b. • 350/400 g di riso

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dal Brasile

CHURRASCO DI PICANHA con arroz branco Pensate al Brasile. Qual è la prima cosa che vi viene in mente dopo il calcio, i fondoschiena delle ragazze del luogo e il carnevale? Considerando che state leggendo il nostro nostro Magazine, mi pare ovvio che la risposta sia la Picanha. Conoscete già bene questo meraviglioso taglio, se siete assidui della nostra community: proviene dalla parte posteriore dell’animale, in corrispondenza dei glutei, ed è conosciuta in Italia come codone, punta di sottofesa o copertina dello scamone; è di forma triangolare, ha un peso massimo di poco più di un kg ed è caratterizzato da una copertura di grasso, presente su uno dei due lati, alta un cm. Uno strato di puro sapore, fondamentale per un risultato in griglia che, come diciamo spesso, non deve mai essere una tacca sotto allo stupefatto “wow!” dei commensali (e anche vostro, s’intende). In Brasile, la picanha è generalmente la preparazione regina del Churrasco, ovvero una grigliata mista di vari tipi di carne che possono essere tagliati a pezzettoni o lasciati interi, di solito marinati e poi cotti alla griglia a temperatura altissima, quasi a contatto diretto col fuoco. Si può assaggiare il churrasco nelle churrascarias o churrasquerias molto diffuse in tutta l’America Latina. Se vogliamo parlare del modo migliore di cuocere la picanha alla brasiliana, non possiamo certo dimenticare le spade: la carne va tagliata in tre o quattro fette spesse due/tre dita, poi ripiegata lasciando il grasso all’esterno, infine infilzata su una spada da posizionare direttamente sopra le braci, ad una distanza di circa trenta cm. La spada deve essere a questo punto girata continuamente in modo che il grasso si sciolga e coli sulla carne (ecco il sapore puro di cui parlavamo all’inizio) formando una crosticina. A quel punto si comincia ad affettare la carne dalla parte più esterna e a servirla, fino a che non si raggiunge lo strato ancora crudo. Si rimette lo spiedo in cottura, si ricomincia a girare e si procede via via in questo modo. Si serve con un pizzico di pepe e di sale grosso, ma volendo può essere salata prima della cottura, come spesso fanno in Brasile. APRILE 2020

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E se non si hanno a disposizione le spade? Niente paura, la soluzione c’è. Oggi, per esempio, abbiamo cucinato questa splendida Picanha del nostro Megastore applicando prima il Revit come lo Zio comanda (sapete benissimo di cosa stiamo parlando, a meno che...griller fai da te? No Mail Class? Ahiahiahi! Iscrivetevi!); poi abbiamo grigliato il pezzo intero per non più di trenta secondi sul lato senza grasso, facendo venire una splendida crosticina esterna, infine lo abbiamo tagliato a pezzi e abbiamo rimessi ancora i pezzi in griglia, in modo che il grasso si sciogliesse un po’ e rosolasse bene. Lo abbiamo servito con arroz branco (riso bianco) tipico accompagnamento di carne, verdure e uova, onnipresente sulla tavola dei brasiliani. Noi però non lo abbiamo portato in tavola proprio bianco-bianco, ma “sporcato” con un trito di verdurine piccanti che hanno reso tutto il piatto completo e dai sapori pieni e soddisfacenti. L’effetto wow è stato perfettamente raggiunto. Ora provateci anche voi. Preparazione: 1. Accendete il forno a circa 52 gradi e inserite la carne, dopo averla tenuta avvolta nella carta assorbente a temperatura ambiente per qualche ora. 2. Tenete la picanha in forno il tempo necessario affinché raggiunga la temperatura al cuore di 52 gradi e la superficie si disidrati completamente; dopodiché, se possibile, prolungate il tempo di permanenza della carne a quella temperatura. 3. Nel frattempo, preparate l’arroz branco: sciacquate il riso sotto l’acqua corrente a lungo, poi soffriggere mezza cipolla e lo spicchio aglio, ben tritati, nell’olio. Aggiungete il riso lavato e scolato, salate e soffriggete per un minuto. 4. Coprite il riso con acqua bollente, mescolate per l’ultima volta e cuocetelo a fuoco basso per circa 10 minuti; quando l’acqua si sarà asciugata, controllate che sia cotto. Se necessario aggiungete un po’ d’acqua e lasciate cuocere ancora 1 o 2 minuti. Poi copritelo e lasciatelo riposare così. 5. Tritate finemente il sedano, la carota, la cipolla e il prezzemolo, tagliate i pomodori a dadini insieme ai peperoncini: condite il tutto con sale, pepe e olio extravergine di oliva. 6. Accendete il vostro dispositivo per una cottura diretta e fate scaldare bene la griglia, meglio ancora se avete una 34 - BBQ4All MAGAZINE

piastra di ghisa che appoggerete in corrispondenza delle braci per farla diventare rovente. 7. Quando la carne sarà pronta per essere messa in griglia, spennellatela con un filo d’olio e poi buttatela sulla griglia rovente (o sulla piastra di ghisa) per 30 secondi (non dal lato del grasso, ovviamente). Occhio che in questa fase, se non avete la piastra, potrebbero alzarsi le fiamme a causa del grasso che cola sulle braci: siate sempre pronti con le pinze a spostare la carne nel lato “freddo” della griglia. 8. Si formerà una crosticina perfetta e la carne dentro sarà perfettamente rosata e calda al punto giusto. A questo punto tagliate la picanha in fette alte circa due/tre dita e rimettetele in griglia in cottura diretta, cercando di far rosolare il grasso che sciogliendosi andrà a investire la carne e darà sapore. 9. Tagliate a fettine sottili la picanha e, se la preferite più rosolata, continuate a farla cuocere velocemente in griglia in questo modo girando spesso le fette; se avete le spade, o anche degli spiedi lunghi, questa operazione sarà molto più veloce e comoda. 10. Servite le fettine di picanha condendole con sale kosher e pepe, e accompagnatele con l’arroz branco condito con il trito di verdure piccanti.


SPECIALE GRIGLIATE - APPROFONDIMENTO a cura di VIRGILIO BRUNETTI

dall' Argentina

ASADO

essenziale, primordiale senza compromessi

In Argentina l’asado dei gaucho è essenzialmente carne di manzo cotta lungamente davanti ad un muro di brace di legna appesa a supporti di metallo fissati nel terreno; nella sua espressione più ancestrale i tagli del bovino non venivano neanche scuoiati, parte della pelle veniva lasciata al fine di trattenere una maggiore succosità visto che le pezzature sono sempre piuttosto grandi e vengono cotte per molte ore. Inoltre in Argentina la carne non viene consumata mai al sangue. L’asado è un metodo di cottura, lento, primitivo, faticoso che richiede esperienza, metodo e buone capacità di adattamento. Si cucina all’aperto, esposti ai capricci del vento; vi assicuro che in quel modo far arrivare correttamente il calore indiretto di una brace di legna sulla carne non è affare da poco. Ho provato di persona: la cottura di un agnellone intero di appena 10 kg in una torrida giornata d’Agosto mi ha letteralmente distrutto. La fatica però è stata proporzionale solo alla soddisfazione di aver cotto un così grande pezzo alla perfezione, dalla pelle al midollo osseo. Carne tenera e succulenta, intrisa di grasso e succhi e con quell’aroma di fumo che solo la brace può dare, niente bruciature, solo puro godimento carnivoro. Vi dico una cosa: non sarete mai veri amanti della cucina al fuoco se non avete mai provato l’esperienza dell’asado alla crux. Per spiegare cos’e la vera cottura al fuoco del Sud America bisogna descrive i singoli elementi che la caratterizzano. APRILE 2020

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FUOCO

L’asado è una cottura generalmente indiretta che non prevede l’uso di dispositivi chiusi; la fonte di calore è unicamente una brace di legna fumante che deve essere preparata e alimentata in modo che il calore sia sempre intenso e costante. L’asador deciderà caso per caso, in base al tipo di carne, la grandezza del taglio e le condizioni ambientali, se condurre la cottura esponendo la ciccia al calore della brace o alla fiamma della legna in combustione; quindi, di fatto, la sua capacità sarà quelle di saper modulare manualmente l’intensità del calore e la quantità di fumo talora aggiungendo o togliendo brace o legna. La scelta dei legni è fondamentale: duri, sufficientemente integri, secchi e con alto potere colorifico.

METALLO

La cottura a la cruz è il metodo più tradizionale, e prende il nome dalla forma del supporto metallico che sorregge l’animale o il taglio di carne; viene fissato nel terreno in obliquo, a una distanza dal fuoco corretta affinché anche enormi pezzi cuociano uniformemente e profondamente, ma senza carbonizzare la superficie. Il taglio più tipico e spettacolare dell’asado a la crux è la costilla ovvero un grande pezzo di costato bovino. In Patagonia e in Cile, per la preparazio36 - BBQ4All MAGAZINE

ne dell’agnello e del maiale interi viene fatta in modo simile ma la crux viene sostituita dal palo, un metodo ancora più primitivo ed impegnativo perché richiede che il palo e la carne vengano mossi spesso rispetto alla fonte di calore. Il grande spiedo viene fatto ruotare e può essere anche posto in orizzontale sulla brace o la fiamma viva. Nella cottura al fuoco argentina non manca quella sulla griglia ovvero la parrilla, ma non aspettatevi nulla di simile a quello che siete abituati a usare a casa. La parilla argentina è enorme, pesante e viene movimentata da sistemi di carrucole per distanziare la massiccia struttura dalle braci. È caratterizzata dall’uso abbondante di sale non solo sulla carne ma anche sulla griglia, che ha un caratteristico colore bianco proprio perché spesso irrorata con una soluzione concentrata di sale da cucina che, evaporando, lascia un fine strato sul metallo. Il sale ha sia la funzione di condimento sia quella di evitare in questo modo che la carne si attacchi e si bruci a contatto col metallo rovente. Nell’assetto da campo la parilla può essere sostituita da materiale di fortuna: non di rado vitelli interi vengono arrostiti su una vecchia rete da letto. Nei ristoranti argentini la parillada è un must e su queste griglie si arrostisce di

tutto, soprattutto i tagli manzo che richiedono cotture più brevi ovvero i tagli del collo, della lombata, della pancia e le frattaglie.

CARNE

La cottura al fuoco argentina è legata strettamente alla cultura pastorale e trova nel bovino la sua massima espressione. L’eccellenza della carne argentina ormai è riconosciuta in tutto il mondo. L’allevamento del bovino da carne fu introdotto nelle pianure delle Pampas più di un secolo e mezzo fa. Il bestiame pascola nelle praterie allo stato semibrado, tecnicamente in sud America l’allevamento dei bovini e di tipo estensivo. In queste aziende il pascolo è la principale fonte di sostentamento del bestiame, i capi sono tenuti all’aperto per tutto l’anno o per lunghi periodi, quindi le spese in strutture di ricovero e mangimi sono ridotti al minimo. Dal punto di vista produttivo gli allevamenti sudamericani sono caratterizzati dal bassissimo incremento medio giornaliero dei capi e per la lunga durata dei cicli di ingrasso. Sono generalmente specializzati su razze di origine britannica, e principalmente Angus, ma nelle aree tropicali e sub tropicali del continente vengono allevate le razze zebuine (taurus indicus) poiché tollerano bene il clima caldo. Questi fattori determinano una differenza di qua-


lità abissale tra la carne bovine argentina e quella brasiliana. I tagli di manzo argentino non sono troppo differenti da quelli Italiani; ovviamente la denominazione è differente. Quelli della lombata sono praticamente uguali: il controfiletto (bife de chorizo), il filetto (bife de lomo), la rib eye (ojo de bife) e la costata (costilla). Ma i tagli che rendono veramente unico e caratteristico l’asado sono quelli del costato e della pancia: le coste (costillas) e la parte bassa del costato (asado de tira), la parte addominale ricca di grasso (matambre e vacìo). Anche la carne di maiale è apprezzata: la salsiccia, che farcisce sempre il pane (choripan), le costicine (costillas), la morcilla, un particolare insaccato di piccole dimensioni a base di sangue, con un impasto cremoso e spalmabile, il petto di maiale (pechito de cerdo) e il matambre a la pizza, il sottopancia di suino condito con pomodoro e formaggio. Oltre alle porzioni appena citate, tipiche soprattutto della zona di Buenos Aires e dell’Argentina centrale, nel Nord e lungo le Ande si possono trovare più spesso anche l’agnellone (cordero), la capra e il lama, che prima della cottura vengono marinati con olio ed erbe aromatiche. Nel Sud e in Patagonia si usa anche il cordero patagonico, un altro ovino caratteristico della zona. Fra gli animali meno diffusi c’è anche il potro, un cavallo selvatico, mentre la choriceata e la polleada sono grigliate a base di salsiccia

o di pollo. La parrillada mista, invece, prevede carne di manzo, maiale (cerdo), pollo, ovino, e interiora di vacca, capra o pecora, che possono essere la portata principale o l’antipasto dell’asado.

SALE

Il sale è il condimento numero uno e spesso l’unico utilizzato, tuttavia non

manca l’uso delle erbe aromatiche. La carne prima di essere cotta viene trattata con una salatura a secco con solo sale grosso. Gli effetti del sale sulla carne sono potenti; utilizzato a secco o in soluzione ma anche successivamente in cottura, penetra profondamente nella carne modificando le proteine e generando un importante effetto di ritenzione di liquidi: maggiore tenerezza, maggiore succosità. Questa la base scientifica sul perché è vantaggioso salare la carne prima della cottura. Il fatto di esserne consapevoli è un altro paio di maniche, sappiamo benissimo che molti sono ancora convinti che salare prima delle cotture sia un sacrilegio. Nella cottura al fuoco argentina si sala in maniera estensiva: attraverso la salamoia insieme alle erbe per irrorare la carne durante le lunghe cotture a la crux, attraverso il seasoning della parilla e ovviamente durante la preparazione del chimichurri. Sale, olio, aceto, origano fresco, sono la base della salsa più famosa abbinata all’asado; a questi ingredienti si aggiungono quantità variabili di prezzemolo peperoncino, pomodoro, alloro... probabilmente ogni famiglia argentina ha la sua ricetta. APRILE 2020

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ASADO DE TIRA L’INCUBO DEL GRILLER.

Fase 1: dry brining, si potrebbe osare una wet brining al 5% di sale ma visto che siamo in Argentina perché non seguire la tradizione? Applicate il 2% di sale sul peso della carne vale a dire 20 grammi su ogni kg. Approssimativamente un cucchiaino di sale grosso su un pezzo da circa 500 grammi. Distribuitelo uniformemente e lasciate riposare in frigo per almeno una notte. Fase 2: allestite un kettle per un cottura indiretta; Fase 3: asciugate la carne e passate un sottile strato d’olio. Fase 4: utilizzate il calore diretto del grill per imbrunire uniformemente la carne, rosolate bene, evitando bruciature e fiammate. Fase 5: stabilizzate il kettle tra i 120 e i 140°C

Questo taglio, se non trattato con i giusti accorgimenti, sarà sempre duro e secco come un pezzo di gomma vulcanizzata. Intanto dieci e lode per chi, qui in Italia, riesce ad andare in macelleria a farsi confezionare uno dei tagli più famosi dell’asado argentino. Sebbene qui da noi la cultura della carne sia in netto miglioramento, spiegare al macellaio medio come farsi sezionare un taglio che non ha mai pensato di fare nella sua carriera è piuttosto complicato anche se non impossibile. Gli altri problemi che avrete con questo taglio è il livello di frollatura, di marezzatura e di presenza di collagene. Il termine "tira" si riferisce alla parola "costilla" e in pratica significa striscia di costola. È infatti un taglio che individua le prime 3 o 4 costole del manzo, tagliate in modo trasversale e con i muscoli della pancia ancora attaccati. Se avete superato il problema del procurarvi la carne, l’unica maniera per cucinarla cor-

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rettamente è applicare il metodo giusto per affrontare il problema. La tecnica consiste in una cottura ibrida con alcuni passaggi in cottura indiretta.

Fase 6: passate la carne al calore indiretto, aspettate, saggiate la temperatura, quando la temperatura interna sarà vicina ai 65°C Fase 7: mettete i singoli tagli in un doppio strato di foil, e posizionateli al calore indiretto; non vogliamo che il nostro asado de tira diventi pullabile quindi portiamo la temperatura della carne a appena sotto i 90°C. Fase 8: tirate fuori la carne dal foil, asciugate l’eccesso di umidità e ripassate con olio, potete spennellare la carne con del chimichurri. Fase 9: rifinite la carne sul calore diretto e servite immediatamente con salsa chimichurri e insalata di patate.


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SPECIALE GRIGLIATE - LA RICETTA a cura di MICHELA BONGIORNI

FLANK

IN FLIP&BRUSH T’amo, pia bavetta! Sottovalutata e bistrattata in Italia, la bavetta, taglio di pancia o più precisamente del fianco che noi appassionati di griglia conosciamo come Flank Steak, è sorprendente sia per il sapore che per la consistenza. È sottile, dalle fibre lunghe, ricca di tessuto connettivo. Avrete anche letto un po’ ovunque che, se non viene tagliata in striscioline sottili, può diventare difficile da masticare una volta cotta. Questo non è assolutamente vero per quello che riguarda la Flank Steak del nostro Megastore. Quella che abbiamo usato per questa ricetta è di pregiato Black Angus, la gemmazione americana dell’Aberdeen Angus. Un bovino che vive anche in Brasile, in Argentina e in Australia, oltre che negli Stati Uniti, ed è certamente famoso per la sua carne delicata, con quella generosa marezzatura che la rende saporita ed ambita a livello 40 - BBQ4All MAGAZINE

internazionale. Insomma, parliamo di una garanzia assoluta se si vogliono ottenere risultati eccezionali in griglia. Spesso questo taglio viene fatto marinare in salsa teriyaki, poi cotto e infine ridotto a striscioline sottili per condire i tacos. Noi abbiamo invece voluto dimostrare che anche tagliato a fette più spesse e consumato senza troppi intingoli o condimenti dà grandissime soddisfazioni. Abbiamo deciso di marinarlo, dandogli un sapore più orientale, poi di cuocerlo in flip&brush. Infine lo abbiamo servito con una salsa profumata alla menta. Se siete abbonati dalla prima ora, o se avete frequentato uno dei nostri corsi, sapete sicuramente cosa sia il flip&brush, ma permettetemi di ripeterlo per tutti quei lettori che si sono avvicina-

ti adesso all’affascinante mondo della griglia. E comunque un ripassino non fa mai male a nessuno! Questa tecnica è sicuramente la migliore per cuocere una bistecca sottile. Letteralmente significa “gira e spennella”: si accende il carbone, si aspetta che la griglia sia rovente, vi si appoggia sopra la bistecca (o nel nostro caso la flank) e poi la si cuoce girandola ogni 30 secondi, spennellandola contemporaneamente sul lato esterno con una riduzione della stessa marinata in cui l’abbiamo tenuta per qualche ora. E via così. Spennella e gira, spennella e gira, finché la crosticina esterna sarà uniforme e bella brunita (ma non carbonizzata!) e l’interno sarà rimasto rosa e succulento. Sono principalmente due le cose a cui


dovete fare attenzione: innanzitutto, nel caso utilizziate una marinata contenente zucchero per spennellare la vostra flank, siate accorti e lesti, poiché gli zuccheri, quando sottoposti a calore elevato, tendono a caramellare molto in fretta e il rischio carbonizzazione (con conseguente sapore amarognolo e terribile) è molto elevato. In secondo luogo, dovete fare molta attenzione, una volta cotta, a tagliare la flank nel modo giusto, ovvero controfibra. Per fortuna, la sua struttura evidenzia palesemente la striatura delle fibre che corrono per il lato lungo del pezzo. Il taglio migliore è quindi quello perpendicolare. Come abbiamo detto, la nostra flank vi permette di poterla tagliare anche in fette un po’ meno sottili di quelle a cui potete pensare: anche con fette spesse un dito la troverete estremamente morbida e gustosa. Ok, adesso siamo pronti per entrare nel dettaglio. Preparazione: 1. Grattugiate finemente lo zenzero nella salsa di soia. Aggiungete due spicchi d’aglio schiacciato, il saké e qualche foglia di menta. Infilate la flank in un sacchetto con la marinata, sigillatelo e poi lasciatelo in frigo per qualche ora. 2. Preparate la salsina di accompagnamento, tritando finemente la menta, il prezzemolo, i pomodori secchi e la cipolla. Condite il tutto con sale, pepe e olio, poi aggiungete la maionese e mescolate. Lasciate riposare la salsa. 3. Togliete la flank dalla marinata raccogliendo quest’ultima in un pentolino; avvolgete la carne nella carta assorbente tenendola a temperatura ambiente, accendete il carbone e mentre aspettate che sia pronto riducete sul fuoco la marinata. 4. Preparate il vostro dispositivo per una cottura diretta, aspettate che la griglia sia ben calda, spennellate la carne con un filo d’olio e buttatela in griglia: a questo punto, aiutandovi con un pennello alimentare, spennellate la riduzione sulla carne e poi giratela con una pinza. Continuate a fare questa operazione finché la crosticina esterna non sarà uniforme e di color marrone scuro. Occhio a non carbonizzarla! 5. Una volta cotta, adagiatela su un tagliere e affettatela controfibra. Conditela con sale e pepe e servitela insieme alla maionese profumata di menta, che darà quel tocco di freschezza e si sposerà benissimo con lo zenzero della marinata.

I N G RED I EN TI

PER 4 PER SONE • una flank di Black Angus del BBQ4All Megastore • 50 g di zenzero • 5/6 cucchiai di salsa di soia dolce • 3 spicchi d´aglio • 4 cucchiai di saké • un mazzetto di menta fresca • olio extra vergine di oliva • tre cucchiai di maionese • un mazzetto piccolo di prezzemolo • due pomodori secchi • mezza cipolla rossa • sale e pepe q.b.

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SPECIALE GRIGLIATE - MENĂ™ a cura di NICOLA MAROTTI

una grigliata... ...per due A pril e e Magg i o sarebbero s t at i i m e s i de l l e s cam p ag n at e co n g li am ici e con le g randi comi t iv e chias s o s e , m a l a q uaran t e n a e la c o nv iv enza obbli gata con i l no s t ro p ar t n e r ci co s t r in g o n o a t o rna re a i tempi d ella passione e dell a s e duz io n e : t e m p i n e i q ual i, an ch e i n g riglia, si faceva di t ut t o p e r as s e co n dare l e v o g l ie del n ostro c o m m e n s al e de l cuo re . Ăˆ d unq ue ar r ivato il mom e n t o di o rg an iz z ars i p e r un a s e rat a a due che regali al nost ro p ar t n e r co cco l e e t e n t az io n i. 42 - BBQ4All MAGAZINE


è una cena fatta e pensata per qualcun altro che però vi consenta di stare insieme, al tavolo, per un momento più lungo di 20 minuti. Chi legge questo Magazine normalmente mangerebbe sempre e solo carne. A volte i nostri partner ci assecondano ma preferirebbero anche altro. Trovate una mediazione e dimostrate che sapete fare di più e considerate la presenza di un antipasto o di un dolce, o di entrambi. Cotture lunghe ma non eterne. Non date l’impressione di iniziare a cucinare solo per evitare la noia del momento. Devono vedervi operosi ma non fermi a fissare un termometro, magari wireless seduti sul divano e con una bottiglia di birra. Niente brisket e pulled pork. La serata è per lei\lui ma anche per voi e dunque niente cotture dirette. Quando sarà il momento di sedersi a tavola dovrete poterlo fare anche voi insieme al partner e senza profumo di affumicato sulla pelle. Tiriamo le somme. Io sono un fortunato, ho seguito i corsi GTP ed ho visto i coach organizzati e capaci, in 6 ore, di fare lezioni teoriche, cucinare, insegnare a cucinare, farmi godere come un riccio. Perché non scavare a man bassa in quelle esperienze e provare ad organizzare una serata?

Antipasto con melanzane in ember Costine all’italiana (rosticciana) accompagnate da salsa con verdure sempre in ember Dolce al cucchiaio cucinato al barbecue

GLI INGREDIENTI

Per le melanzane in ember-roasting vi occorrono: due melanzane, mandorle sottili e croccanti, o altri tipi di frutta secca come nocciole, pistacchi o arachidi non salate, formaggio caprino, aglio, menta, succo di limone, Olio extravergine di oliva. Per la salsa di accompagnamento alle costine: due peperoni, un pomodoro ramato, un aglio intero, una cipolla rossa di tropea, salsa Worcestershire, tabasco ed olio evo. Prezzemolo e, quando sarà possibile, origano fresco. Per le costine di maiale: un costato intero ben rifilato, olio, sale, pepe e limone. Un goccio di aceto di mele. Per il dolce: Due mele renette, cannella, miele, muesli croccante o biscotti digestive. Nessun ingrediente è stato o sarà pesato. Come amiamo dire al sud le dosi sono “a sentimento”.

IL MENÙ

“La guerra è di somma importanza per lo Stato: è sul campo di battaglia che si decide la vita o la morte delle nazioni, ed è lì che se ne traccia la via della sopravvivenza o della distruzione. Dunque è indispensabile studiarla a fondo.” - Sun Tzu Non possiamo affrontare una grigliata per riconquistare o riscaldare il cuore di chi ci sopporta ogni giorno senza una strategia ed una perfetta pianificazione. La base di tutto è il menù. La scelta delle portate è fondamentale e si devono tener presente aspetti che non siano necessariamente solo culinari. Iniziamo dalle basi: non sporcate molto. Cercate di organizzarvi con un tagliere, due coltelli e qualche ciotola. Fatevi bastare un set ridotto di attrezzi. Non esagerate con le portate, ma ricordatevi che APRILE 2020

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COTTURA E PREPARAZIONE

Se siete bravi ed organizzati in meno di quattro ore porterete tutte le pietanze a cottura e sarete pronti, previa doccia ristoratrice e profumatrice, al vostro incontro galante. Preparate il vostro kettle con una ciminiera quasi piena di bricchetti, metteteli da un lato e poggiate sui carboni ardenti le tre melanzane e le altre verdure; un po’ distanti, in una teglietta piccola che le contenga, mettete le due mele renette. Chiudete con il coperchio e lasciate andare con le vent-in a metà corsa. Nel frattempo preparate tre ciotole di vetro o di acciaio nelle quali metterete una volta pronti le melanzane, gli altri ortaggi, le due mele. Girate gli ortaggi durante la cottura e controllate le mele che devono ammorbidirsi. Non esiste un tempo preciso ma in circa 30 minuti dovreste averle ben cotte: le melanzane saranno cedevoli, i peperoni saranno raggrinziti e le mele si presenteranno disidratate e morbidine. Non aspettatevi che tutto sia pronto allo stesso momento, quindi pazientate finché non avrete raggiunto l’obiettivo.

Aglio, cipolle e pomodori richiedono pochissimo tempo. Sarà poi il momento della cipolla e del peperone. Melanzane e mele saranno le ultime ad essere pronte.

Mettete gli ingredienti nelle ciotole e copriteli con dell’alluminio in modo che non fuoriesca il vapore. Continueranno lentamente la cottura.

Mentre le verdure erano nel grill avrete avuto moto di rifilare le costine, pulendole dalla pleura. Un goccio di olio per massaggiare, abbondante sale e pepe per condire. Nessuno vi vieta l’uso di un ancor più classico SPG: Salt, Pepper and Garlic; personalmente uso una parte in volume di sale, una di pepe e mezza di aglio. Assaggiate per verificare che sia tutto ben equilibrato. Fate fare una bella crosticina in modalità diretta alle vostre costine. Dopo che avrete ottenuto la reazione di Maillard ricercata, inserite la baffa di costine tra due fogli di alluminio con un cucchiaio di aceto di mele. Verificate che il pacchetto sia ben chiuso e speditelo nel kettle a 150°/160° C. Torniamo alle mele. Liberatele dalla buccia e raccogliete la polpa priva di

semi nel bicchiere alto del frullatore ad immersione. Aggiungete un po’ di cannella, qualche goccia di limone come antiossidante ed un po’ di miele. Il miele, soprattutto se di mono floreale vi donerà degli aromi aggiuntivi. Preferisco quello di coriandolo con una bella nota vanigliata, castagno o acacia vanno bene comunque. Se non avete trovato il miele usate dello zucchero di canna. Omogenizzate con un frullatore ad immersione. Dividete in due coppette. Prima di servire ricordatevi di aggiungere dei biscotti digestive sminuzzati o meglio ancora del mesli croccante. Passiamo alle verdure. Pulitele ed inseritele in un’altra ciotola. Potete utilizzare anche quella precedentemente usata per le mele, è pulita, basta asciugare il

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vapore che si è generato mentre si raffreddavano. Ricordatevi di non sporcare troppo! Eliminate i semi dal pomodoro, le foglie esterne della cipolla e la pelle al peperone. Pulite 3-4 spicchi d’aglio. Dopo aver pulito le verdure sminuzzatele con un coltello sul tagliere. Non dovete ricercare un effetto frullato ma tutte le verdure devono essere ben tritate. Condite con tanto olio extravergine di oliva e del prezzemolo. Un goccio di salsa Worcestershire e del tabasco. Questa sarà la salsa che accompagnerà le vostre costine. Tornate alle melanzane: pelatele e raccogliete la polpa nel bicchiere del frullatore che avrete sciacquato. Scolate la polpa. Salate, pepate, unite aglio, succo di limone e menta e frullate il tutto. Assaggiate ed aggiustate di sale e pepe se necessario. Antipasto pronto all’85%. Andate a controllare le costine. A questo punto dovranno stare nel foil ancora pochi minuti. Verificate di essere giunti al punto di cottura ottimale. Con la pinza afferrate tre costole. Se le ribs si piegheranno formando un angolo superiore ai 30° siete arrivati in cottura altrimenti lasciatele nel kettle ancora qualche minuto. Giunti in cottura aprite il foil, fate un passaggio in diretta per far asciugare il bark; mettete le costine in una teglia coperta nel forno a 70°C. Andate a farvi la doccia velocemente e non usate molto profumo per non coprire quelli che si sprigioneranno dalle vostre pietanze.

tamente al tavolo, infine spennellate la ciccia. Servitene tre non di più. Cercate di controllare il cowboy texano che è in voi. Pucciate amabilmente il pane nella salsa ember che avete preparato. Indugiate nei ricordi e nei programmi per il futuro. Questo è il momento di stupire con il dolce. Aggiungete il muesli sulle coppet-

te di composta di mele. Un limoncello gelato e/o un altro liquore dolce saranno il completamento della cena. A questo punto il risultato ed il proseguimento della serata dipendono da voi e da quanto siete stati coccolosi e convincenti con il partner. Consigli per il dopo cena? Non penso ne abbiate bisogno.

LA MISE EN PLACE E IL SERVIZIO

Preparate una bella tavola. Nessun tovagliolo o bicchiere di carta. Aprite il vino. In due ciotoline dividete la crema di melanzane dove avrete aggiunto qualche pezzetto di caprino, delle mandorle tostate al volo in un padellino e qualche foglia di menta. Accompagnatele con tortillas chips. Versate il vino. Quando avrete finito è il momento delle costine. Dividete in due ciotole la salsa di verdure in ember. Prendete le costine e poggiatele sul tagliere in legno più bello che avete. Mi raccomando niente plastica. L’unica cosa plastica sarà la vostra posa mentre vi concederete ad una foto mentre porzionate la rosticciana. Spremete un limone, aggiungete dell’olio ed emulsionate con fare sicuro diretAPRILE 2020

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SPECIALE GRIGLIATE - RICETTA a cura di EMILIANO NENCIONI

I L PO L LO

adagiato sull'anfora di cervogia Una lattina della migliore birra è un piedistallo perfetto per la cottura di un’elegantissima preparazione del ruspante gallinaceo. Questo è quanto scriverei se volessi soltanto compiacere i lettori, rendendomi complice di una delle più durature mistificazioni dell’universo barbecue. Partiamo dall’inizio: quasi tutti noi, appena finito di togliere dalla scatola il nostro primo kettle, abbiamo pensato “finalmente anch’io potrò cimentarmi in quella cottura di cui tutti parlano”. Si tratta, eliminando ogni giro di parole e ogni eufemismo pietoso, dell’arcinoto “Pollo con la lattina di birra in culo”. Si chiama così, ed è quello che è. Il tredicenne che alberga in ognuno di noi ha riso di gusto alla visione di uno di quei tanti video in cui la preparazione in oggetto, camuffata pudicamente dagli anglofoni con il nome “beer can chicken”, viene narrata con voce suadente e ammiccante e sottolineata da una colonna sonora lounge, o con quel tipico funky erotico anni ‘70 caratterizzato dalla chitarra che ripete ci ci kà cìca cìca cikà. Non c’è niente da fare, niente raggranella views e condivisioni come il tag “culo”. Perché tutta questa agitazione per un pollo arrosto? Semplicemente perché il pollo viene tenuto “in piedi” sulla griglia, e non appoggiato su petto o schiena, tramite un banalissimo stratagemma: una lattina di birra, piena per metà per essere più pesante e stabile, viene conficcata nella cavità addominale del pen-

nuto, assumendo funzione di (precario in verità) piedistallo. Tutto qua. Questo è sufficiente per scatenare una quantità infinita di motteggi spiritosi di elevata qualità e cachinni che trovano nei social il loro habitat naturale. Aggiungiamo a questo due fattori molto rilevanti e non trascurabili: - La preparazione è economica ma altamente didattica (per i rudimenti di cottura indiretta e di affumicazione) e viene proposta in qualsiasi corso di cottura barbecue. - Il pollo sulla lattina di birra, lepidezze a parte, quando è cotto bene è buono. A che scopo parlarne allora, se è una cottura tanto diffusa, semplice e collaudata? Il motivo è che proprio l’ampia diffusione del metodo e la detonante accoppiata “goliardia più birra” ci ha portato a un germogliare incontrollato e indisturbato di miti, false credenze e leggende varie. Un po’ come è successo per il “sigillare i pori” della carne o per “ridistribuire i succhi”, ma con l’aggravante del contributo di una categoria sociale appassionata e riottosa: gli appassionati di birre artigianali. Vediamo, innanzitutto, come farlo bene. Ancor prima di comprare la gallina, fissiamo bene in mente un traguardo: la carne dovrà essere succosa, non secca, e la pelle dovrà essere al contrario asciutta e croccantina. La pelle del pollo molliccia fa schifo in bocca - nessuno finga il contrario - e visto che di solito è coperta di spezie diventa un peccato doverla togliere. APRILE 2020

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Preparazione: 1. Preparate il kettle per una cottura indiretta, stabilizzata a 110°C: combustibile da un lato, pietanza dall’altro; il coperchio andrà chiuso per innescare i ben noti moti convettivi che scalderanno uniformemente il cibo. Ormai lo sapete benissimo. Attenzione, certi kettle modello “compact”, con il coperchio un po’ bassino e con poco spazio in altezza sulla griglia non andranno bene, il volatile non avrà abbastanza posto per stare in verticale. In alternativa, un forno ventilato può darvi comunque buoni risultati. 2. Con una pinzetta, o con un cannello se avete poca pazienza, togliete la peluria rimasta sulla pelle del pollo: trovare resti di piumaggio nel piatto è molto fastidioso. 3. Come rub è estremamente indicato il BBQ4All Tennessee mild rub, al quale però aggiungerei una buona dose di paprika dolce, al solo scopo di renderlo più colorante e di far apparire quindi più vivacemente brunito il pollo una volta cotto; se puntate al piccantino invece miscelate secondo il vostro gusto con la paprika piccante. 4. Prendete una lattina di birra, apritela, bevetene un sorso se vi va; fate attenzione in fase di acquisto, perché una 48 - BBQ4All MAGAZINE

cosa fondamentale è che la lattina non sia di quelle lunghe, da 66cl. É un errore che abbiamo commesso tutti le prime volte: “è più lunga, ci va più birra, sarà più stabile!” E invece no: è troppo lunga, o sfonda il pollo o lo tiene troppo in alto, alzando pericolosamente il baricentro e rendendo improbabile quell'equilibrio già precario. 5. Mettete un po’ di rub all’interno della cavità addominale del pollo, e convincetelo a sedersi in maniera decisamente penetrativa sulla lattina, accertandovi che sia possibile una certa minima stabilità. Se siete più smaliziati, procuratevi l’apposito accessorio in commercio, che altro non è se non una teglia circolare con un cilindretto cavo che protrude dal centro. 6. Ungete la pelle del pollo usando olio d’oliva, ammorbando gli eventuali astanti con la nota filastrocca di Apelle, e spolverate una robusta ma non eccessiva quantità di rub. 7. Mettete l’instabilissimo accrocchio polliforme nel kettle in cottura indiretta, o nel forno già caldo; la temperatura target della carne sarà di circa 72 - 75°C, ma attenzione: con un termometro istantaneo a spillo vi accorgerete che la temperatura al petto non sarà uguale a quella rilevata alla coscia. Cercate un

compromesso accettabile, ricordando che il pollo crudo è disgustoso e sanitariamente non raccomandabile (aspettate che raggiunga almeno gli 83°-85°C nelle cosce). 8. Se state usando il kettle potete affumicare sin dall’inizio della cottura, facendo carbonizzare delle chips (scaglie) o chunk (tocchi) di legna aromatica: molto appropriato il melo, il ciliegio, l’ontano o l’acero. Raggiunta la temperatura desiderata togliete la lattina dal pollo, gettate la birra, e dividete in pezzi il pollo. Potete anche scegliere di sfilacciare la carne, unendo poi la pelle croccante tagliata in piccole strisce, ottima servita dentro un panino o una piadina arrotolata. Fin qui tutto bene: procedimento tradizionale, divertente, molto facile, risultato molto probabilmente gustoso. Questo è il punto però in cui io vengo scelto, tra tutta la redazione, per rompere gli idilli. Dopo la lotta contro i Bagnatori di Chips (Magazine BBQ4All, annata 2019) vedrò di inimicarmi anche parte del movimento brassicolo italiano.


Una buona birra dal sapore deciso aggiunge sapore al pollo. FALSO. Per una questione abbastanza banale di temperature, il liquido all’interno della lattina, rivestito di pollo, non supera i 100°C visto che è schermato dalla carne che, si è detto, arriverà al massimo a 73-85°C. Il liquido può evaporare, certo, ma quel poco vapore che esce dalla lattina va comunque ad impattare con la carne subito circostante, e ovviamente solo con l’interno dell’animale, una porzione minima rispetto al peso totale della pietanza. Una buona birra dal sapore veramente deciso aggiunge sapore al pollo. FALSO. Più che altro state sprecando una birra particolare, o costosa. Volete togliervi un dubbio? Pesate la lattina prima e dopo la cottura. Il 97% del poco peso perso è evaporato sotto forma di acqua (insapore) e alcol (insapore). La parte aromatica è davvero, davvero minima. Una buona birra mischiata ad un sacco di spezie aromatiche versate dentro la lattina aggiunge sicuramente sapore al pollo.

FALSO. State insaporendo una birra che poi butterete. Molto più saggio cospargere di spezie direttamente il pollo, anche nella cavità interna: ma lo abbiamo già scoperto nel procedimento poco sopra. Il metallo della lattina fa cuocere meglio l’interno del pollo. FALSO. L’interno del pollo cuocerebbe meglio se il flusso d’aria calda potesse fluire libero, invece di venir bloccato da una lattina metallica che sottrae calore (con tanto di liquido all’interno che agisce da volano termico). Ecco perché un accessorio “supporto per pollo”, forellato, porta a risultati migliori. Con la lattina inserita invece la parte interna dell’animale si cuoce solo con il calore propagato dalla parte esterna della carne, e inevitabilmente per arrivare ad una temperatura sufficiente al cuore si tende a stracuocere l’esterno. Ovviamente di maillard nella parte interna, se c’è la lattina di mezzo, neanche a parlarne. La lattina tiene comunque il pollo in una posizione vantaggiosa ed è molto comoda come supporto. Mmmm, INSOMMA. É vero che la posizione è vantaggiosa, perché tiene gli

arti separati in modo che tutta la superficie venga investita dal calore, dorando la pietanza e rendendo gustosa la pelle; è vero che tenere il petto lontano dalla griglia fa in modo che questa parte del pollo, più magra, arrivi alla temperatura target in ritardo rispetto alle cosce, con meno rischio di stracuocere ed asciugarsi. Ma non mi pare che la lattina sia un supporto molto comodo, e non ditemi che non avete mai passato un brutto momento di dense profanità quando il pollo è caduto dal suo scranno cilindrico, o quando per togliere a fine cottura la lattina incastrata vi siete rovesciati la birra caldissima sulle scarpe o avete frantumato il pollo stesso cercando di fare in qualche modo leva sull’alluminio. Io sono comunque veramente veramente esperto di birra, e ti posso assicurare che la differenza si sente, eccome, certo se usate quelle birre commerciali da supermercato... E allora mi sa che tanto tanto esperto non sei. Insomma, traendo le debite conclusioni, beer can’t chicken.

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INGREDIEN TI

P ER 4 P ERSO N E • Un pollo • 6 cucchiai di BBQ4All Tennessee rub • 2 cucchiai di paprika (opzionale) • Olio d’oliva q.b. • 1 lattina di birra da 33cc

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I N G RED I EN TI

PER 4 PER SONE • • • • • • •

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4 carciofi 2 spicchi d’aglio Un mazzetto di prezzemolo Pangrattato q.b. Sale q.b. Pepe q.b. Olio extravergine di oliva q.b.


SPECIALE GRIGLIATE - RICETTE a cura della REDAZIONE

ode al

CA RC I O FO Ed ecco sul più bello arriva Maria con la sua sporta, sceglie un carciofo, non lo teme, lo esamina, l’osserva contro luce come se fosse un uovo, lo compra, lo confonde nella sua borsa con un paio di scarpe, con un cavolo e una bottiglia di aceto finché, entrando in cucina, lo tuffa nella pentola. Così finisce in pace la carriera del vegetale armato che si chiama carciofo, poi squama per squama spogliamo la delizia e mangiamo la pacifica polpa del suo cuore verde. Così concludeva Pablo Neruda la sua Ode al carciofo. Per la ricetta di oggi abbiamo scomodato un così grande autore per rendere grazia e giustizia a un ortaggio che spesso passa in secondo piano. Ma che in realtà dà grandissime soddisfazioni, anche a noi griller. Il termine comune Carciofo viene dall’arabo al-kharshuf che significa letteralmente pianta spinosa. Le spine, che caratterizzano questa pianta, vengono a volte considerate ostiche e non è infrequente che per questo motivo altri ortaggi siano preferiti al nobil carciofo.

In realtà quest’ultimo è da annoverarsi tra i vegetali più ricchi di fibre, molto utile al buon funzionamento dell’intestino; è inoltre una buona fonte di vitamina B, C e K. A causa del suo gusto amaro, come ci insegna l’antica teoria secondo la quale le piante presentano segni che ci indicano le loro proprietà utili per la vita dell'uomo, il carciofo è sempre stato collegato per analogia alla bile e di conseguenza classificato fra i rimedi epatici. Di sicuro sappiamo che è ricco di sali minerali quali ferro e magnesio. Il suo particolare sapore tannico, responsabile degli effetti tonici e astringenti, ci delizia da secoli, tant’è che le prime coltivazioni risalgono ai tempi dei romani. Oggi in Italia è la Sardegna la prima regione produttrice di carciofi, ma anche Liguria, Lazio, Campania e Sicilia presentano importanti coltivazioni di questo prelibato ortaggio. Si trova da Novembre fino a Maggio inoltrato e per tradizione è uno dei contorni più utilizzati nelle varie festività di primavera. Chi non ha assaggiato il carciofo fritto in vita sua, non ha mai vissuto davvero; tuttavia, se ci seguite da un po’, sapete anche quanto sia buono cotto in ember roasting (a contatto diretto con le braci). Oggi, però, andremo a sfruttare una ricetta tradizionale tipica della sicilia occidentale e la reinterpreteremo in pieno stile BBQ4All: i carciofi a pignateddu.

Preparazione: 1. Accendete il kettle per una cottura indiretta stabilizzandolo sui 160°C. 2 Tagliate il gambo dei carciofi quanto più in alto possibile e in modo più regolare possibile. Questa sarà la base su cui poggerà il carciofo ed è necessario che sia fatta a regola d’arte 3. Togliete adesso le foglie più esterne del carciofo se non hanno un bell’aspetto. 4. Tagliate infine l’estremità con le spine a circa 1/3 dell’altezza del carciofo 5. Tritate aglio e prezzemolo finemente 6. In una ciotola create un composto con aglio, prezzemolo, sale, pepe, olio e il pangrattato. Passate il tutto al mixer per rendere il composto più uniforme. 7. Usate adesso questo composto per condire i carciofi prestando attenzione a farlo penetrare tra le foglie 8. Disponete infine i carciofi in verticale in una teglia dai bordi alti adagiandoli gli uni con gli altri 9. Ponete la teglia a cuocere in cottura indiretta aggiungendo un filo d’olio e mezzo bicchiere d’acqua. 10. Coprite con il coperchio e lasciate cuocere per circa un’ora. Se volete, in questa fase potete anche affumicare con chips di legno aromatico. 11. Saranno pronti quando, alla prova con uno stuzzicadenti, risulteranno cedevoli. Serviteli caldi.

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Q UA N T O C I P I A C E

L A PATATA

arrosto!

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SPECIALE GRIGLIATE - RICETTE a cura della REDAZIONE

INGREDIENTI

P ER 4 P ERSO N E • 1 kg gr circa di patate a polpa gialla • tre rametti di rosmarino • due spicchio d’aglio • Sale e pepe q.b. • Olio d’oliva q.b. • tabasco a piacere • mezzo bicchiere di aceto di vino bianco

You like potato and I like potahto You like tomato and I like tomahto Potato, potahto, tomato, tomahto! Let’s call the whole thing off! Così cantavano Louis Armstrong e Ella Fitzgerald nel brano Let’s Call the Whole thing Off (oppure Homer e Marge Simpson in base alle versione che preferite). Sicuramente cantare rende più piacevole l’esperienza in cucina, ma non trasforma magicamente il cibo. E uno dei piatti apparentemente tra i più banali ma in realtà tra i più ostici dell’intero panorama dei contorni sono le patate arrosto. Troppo morbide, troppo cotte, troppo secche, troppo bruciate. Un dilemma che spesso ci ha fatto rassegnare alla monotonia delle patate precotte. In questo articolo ci concentreremo su due aspetti fondamentali per rendere fenomenali le vostre patate arrosto: la varietà di patate da scegliere per la migliore resa in cottura, e la tecnica migliore per esaltarne il sapore. L’E.A.P.R. (associazione europea di ricerca sulla patata) suddivide i preziosi tuberi in quattro diverse tipologie, in funzione della valutazione visiva del loro comportamento dopo la cottura a vapore: Tipo A (polpa soda): comprende le patate destinate alla preparazione di insalate e minestroni. Questo tipo rimane sodo anche dopo la cottura, non è farinoso e ha la grana molto fine; Tipo B (polpa abbastanza soda): comprende le patate per ogni uso. Questo tipo si apre poco durante la cottura, ha media resistenza, è scarsamente farinoso e ha la grana abbastanza fine; Tipo C (polpa farinosa): comprende le patate per purè. Dopo la cottura sono molto aperte, farinose, hanno la polpa tenera e la grana piuttosto grossolana; Tipo D (polpa molto farinosa): comprende patate che non sono adatte al consumo alimentare. Sono assai farinose e dopo la cottura si sfaldano completamente. Un’ulteriore divisione avviene in base al colore della polpa, avremo quindi varietà a pasta gialla, bianca e rossa. A complicare il tutto le varie cultivar non sono sempre univocamente ascrivibili a una sola tipologia e, considerando che solo in Italia ce sono circa 50, la scelta diventa sempre più complessa. In linea di principio, e senza addentrarsi in troppi tecnicismi, le migliori patate da fare arrosto sono quelle con la buccia

rossa e la polpa gialla. Da noi la varietà più diffusa è la Monnalisa. Chiarito dunque quale tubero scegliere è opportuno anche capire come cucinarle nel migliore dei modi. Lo scopo è quello di ottenere una polpa tenera e una crosticina croccante il tutto esaltato da un buon equilibrio tra i condimenti. Per arrivare a questo risultato sarà necessario prestare attenzione a più passaggi: 1. Il taglio: deve essere regolare, quanto più uniforme possibile in maniera che tutte le patate cuociano alla stessa velocità. 2. La cottura: questa avverrà in due fasi, la prima per cuocere l’interno e la seconda per rendere croccante la crosta 3. I condimenti: sarà opportuno prestare attenzione all’ordine in cui verranno aggiunti seguendo una linea di principio generale che prevede prima le spezie e gli aromi, poi eventuali componenti acide e in ultimo la componente grassa. Cominciamo quindi a cantare e prepariamo le nostre patate arrosto! Preparazione: 1. Accendete il kettle e settatelo per una cottura indiretta a circa 180°C. 2. Lavate le patate e se preferite levate la buccia. 3. Tagliatele adesso il più uniformemente possibile. 4. Sciacquatele fino a quando l’acqua non sarà completamente trasparente. 5. In una pentola portate a ebollizione abbondante acqua salata e aggiungete l’aceto 6. Quando l’acqua avrà iniziato a bollire fate lessare le patate per 5 minuti. 7. Scolatele e fatele sgocciolare su una griglia in maniera che perdano i liquidi senza ristagnarvici sopra. 8. Quando le patate avranno finito di sgocciolare e si saranno raffreddate ponetele in una ciotola e conditele con rosmarino tritato grossolanamente, sale, pepe, tabasco e infine olio d’oliva. 9. Ponetele in una teglia e aggiungete l’aglio in camicia. 10. Cuocetele nel kettle in cottura indiretta finché non avranno fatto una bella crosticina.

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SPECIALE GRIGLIATE - RICETTE a cura della REDAZIONE

L'

AGLIO E OLIO SCIENTIFICA INCONTRÒ IL

bagnèt verd e fu subito amore Il bagnèt verd, ovvero la salsa verde piemontese, è una ricetta facente parte dei PAT (prodotti agroalimentari tradizionali). Perfino Pellegrino Artusi dava delle indicazioni sulla preparazione di questa salsa verde già nel 1891, nel libro “La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene”. Le origini di questo piatto sono anche più antiche in realtà e vanno ricercate nelle cucine di casa Savoia. È a Vialardi che si attribuisce la paternità di questa preparazione. Lo chef, al servizio prima di Carlo Alberto e successivamente di Vittorio Emanuele II, creò questa salsa ispirandosi a delle preparazioni tipiche dell’area Savoia. Preparazioni simili, infatti, erano state descritte dall’Ordine dei Cavalieri del Tartufo e dei Vini d’Alba già nei primi anni dell’800. Rispetto a queste versioni Vialardi preferì eliminare il limone e dare maggiore consistenza al tutto aggiungendo delle acciughe e dei tuorli, ottenendo così una salsa più omogenea, ottima per accompagnare il bollito misto alla piemontese. Per una ricetta così sontuosa era assolutamente necessario un intingolo che sostenesse ed esaltasse il piatto. Per la pietanza dei Re niente doveva essere lasciato al caso. Negli anni la ricetta si è evoluta ed è stata

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reinterpretata da vari chef. Così come la caponata in Sicilia anche il bagnetto verde ha quindi una sua personale versione su ogni pianerottolo piemontese. Anche la redazione del BBQ4All Magazine voleva contribuire a questa sperimentazione ed è così che è stato deciso di far conoscere al bagnetto verde l’aglio e olio scientifica di Gianfranco Lo Cascio creando un nuovo connubio “regale”. Provatela con le costine, con la picanha o con la flank e non ve ne pentirete. Diamo ovviamente per scontato che sappiate di cosa stiamo parlando, quando nominiamo l’aglio e olio scientifica. In caso contrario vi tocca una tiratina d’orecchi e un immediato corso di recupero da affettuare sulla nostra community Facebook. Seguite intanto questa procedura e cominciate a scardinare le vostre vecchie convinzioni. Un consiglio spassionato? La prossima volta che cuocete la pasta, tenetevi da parte un bicchiere di acqua di cottura. Fidatevi. Preparazione: 1. Ponete le lame del mixer in freezer. 2. Pelate tutti gli spicchi e metteteli a cuocere nell’olio in un tegame piccolo dai bordi alti. 3. Mettetelo sul fornello a fuoco bas-

sissimo e lasciate che l’aglio si ammorbidisca senza mai soffriggere. Se avete il termometro, stabilizzate l’olio a 65°C. 4. Quando l’aglio si sarà sgonfiato, mettetelo insieme all’olio nel bicchiere del mixer, aggiungete un pizzico di sale e il succo di limone ed emulsionate aggiungendo l'acqua di cottura della pasta poco alla volta, fino ad ottenere una salsa liscia e vellutata dal colore bianco/ giallognolo. Pulite le lame del mixer e rimettetele in freezer. 5. In una ciotola mettere la mollica e l’aceto. 6. Sciacquate sotto l’acqua corrente i capperi e i filetti d’acciuga. 7. Tritate grossolanamente il prezzemolo (anche i gambi!). 8. Adesso mettete nel mixer, il prezzemolo, la mollica, le acciughe e i capperi. 9. Accendete il mixer, con le lame fredde, a velocità molto bassa e andate ad aggiungere a filo la salsa aglio e olio appena fatta, in maniera da incorporarla uniformemente al resto degli ingredienti. Quando avrete ottenuto la consistenza desiderata, fermatevi. Se vi è avanzata l’aglio e olio, fatevi uno spaghettino al volo e fate merenda!


I N G REDI EN TI

PER 4 PER SONE • una testa d’aglio • un bicchiere di olio d’oliva • un bicchiere di acqua di cottura della pasta • sale q.b. • un cucchiaio di succo di limone • 150 gr di mollica di pane raffermo • mezzo bicchiere di aceto di vino • 400 gr di prezzemolo • un cucchiaio di capperi sotto sale • 4 filetti di acciuga

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SPECIALE GRIGLIATE - RICETTE a cura della REDAZIONE

CHUT NORRIS Chuck Norris non piange suda dagli occhi

INGREDIENTI

P ER 4 P ERSO N E • • • • • • • • • • • •

una cipolla bianca un mango 2 pomodori una radice di zenzero fresco un lime un peperoncino un mazzetto di coriandolo 2 cucchiaini di zucchero di canna mezzo bicchiere di aceto di mele 2 cucchiaini di senape in polvere 2 cucchiaini di curcuma 1 cucchiaino di cardamomo

Che voi siate o meno il leggendario attore, dopo avere mangiato questo chutney non potrete fare altro che sudare dagli occhi. Oggi parliamo di un piatto particolare, esotico, dal gusto agrodolce, di origini indo-pakistane. Già il nome di per se è significativo; infatti, in hindi caṭnī sostantivo femminile del verbo cāṭnā significa letteralmente leccare. Di fatto parliamo di una salsa vegetale molto densa, usata spesso come condimento che si accompagna bene a piatti a base di carne, riso, verdure o crostacei (come per esempio alcuni tipici del mazarese, avete presente?). Esistono diverse versioni di chutney e si può preparare praticamente con ogni tipo di frutta e verdura esistente. Ad esempio, con il mango ne esistono ben quattro tipi diversi e tutti tipici: - L’avakkai mangai: il più diffuso. - Il chunda: un chutney di mango dolce. - Il mangga thuvial: un chutney di mango verde. - Il chanti khasa: un chutney molto piccante su una base di crema di mango. In questa ricetta, che come sempre contraddistingue lo stile BBQ4All, ne andremo a preparare una versione dal gusto a dir poco esplosivo. Sarà importante calibrare soprattutto la quantità e la qualità del piccante in base al piatto che il chutney andrà ad accompagnare. Nel caso in cui decideste di usarlo come rifinitura per dei piatti di carne, come ad esempio la picanha o l’asado, è preferibile utilizzare dei peperoncini forti, dal gusto deciso e marcato come degli scotch bonnet o un habanero chocolate.

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Se invece la scopo del chutney è quello di accompagnare un pesce, o qualche crostaceo potrebbe essere più indicato utilizzare un peperoncino meno aggressivo come il serrano, oppure il classico calabrese. Se volete invece osare, un ottimo abbinamento è quello con il naga morich, peperoncino dolce e dal gusto acidulo che però è estremamente piccante. Qualunque sia la varietà che decidiate di utilizzare ricordatevi poi di non toccarvi la faccia con le mani. Voi non siete Chuck Norris! Preparazione: 1. Pelate pomodori, mango e cipolla e fatene una dadolata. 2. Ponete adesso gli ingredienti in una ciotola capiente. 3. Aggiungete il peperoncino tritato e lo zenzero tagliato a fettine sottili. 4. Aggiungete ora la buccia del lime grattugiato e il suo succo, lo zucchero, il cardamomo, l’aceto e una parte del coriandolo tritato finemente. 5. Lasciate marinare almeno un paio d’ore. 6. Accendete il kettle per una cottura diretta con braci non troppo alte e ponete sulla griglia una casseruola adatta, in modo che il fuoco sia delicato. 7. Trasferite dalla ciotola alla casseruola il composto che avete fatto marinare. 8. Aggiungete adesso la senape e la curcuma e lasciate cuocere per un’oretta o due, se il composto si secca troppo aggiungete un po’ d’acqua. 9. Lasciate raffreddare e infine aggiungete il coriandolo per guarnire.


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DULCIS IN FUNDO - RICETTA a cura della REDAZIONE

L A T O R TA SENZA i bischeri

INGREDIENTI

P ER 4 P ERSO N E PER LA PASTA FROLLA • 300g di farina • 120g di burro • 130g di zucchero a velo • 1 uovo • la scorza grattugiata di un limone biologico • un pizzico di sale PER IL RIPIENO • 100 g di riso originario • 2 uova • 60 g di pinoli • 80 g di cioccolato fondente al 60% • 150 g di zucchero • 50 g di cacao amaro • 50 g di uvetta • liquore Strega q.b. PER LA DECORAZIONE • 300g di fragole • zucchero semolato bianco q.b.

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Che cosa sono i bischeri, o sarebbe meglio dire CHI sono i bischeri? In Toscana, sono persone povere di furbizia, ricche di ottusità, inclini alla stupidità e a fare quasi sempre le scelte sbagliate nel corso della loro esistenza. Questa parola è tipica del dialetto locale, in particolar modo della parlata fiorentina in cui affonda la propria origine. Nel 1279 a Firenze, con la posa della prima pietra, ebbe inizio la costruzione della Cattedrale di Santa Maria Del Fiore (attuale Duomo della città). L’unico ostacolo alla realizzazione di quest’opera monumentale erano le proprietà di una delle famiglie più facoltose di tutta la città, i Bischeri, che sorgevano proprio sul sito dei lavori. Visto il grande sacrificio richiesto, fu offerta ai proprietari terrieri un’ingente somma di denaro per comprarne tutti i possedimenti; il capostipite Giannozzo Bischeri rifiutò l’offerta, forse nella speranza di ottenere molto di più. Ebbe allora inizio un corteggiamento serrato per far capitolare i Bischeri, ma più la cifra promessa lievitava, più granitico diventava il loro no. Tutto ebbe fine una notte, quando le proprietà della famiglia bruciarono in un misterioso incendio. Nessuno ha mai saputo dire con certezza a chi appartenesse la mano che appiccò il fuoco, in molti sostengono che fossero stati gli stessi committenti dell’opera stanchi del tira e molla infinito, ma fra le varie ipotesi alcuni sostengono siano stati proprio i Bischeri ad incendiare i loro palazzi non sopportando che fossero abbattuti per fare spazio alla futura Cattedrale. In ogni caso, dopo l’incidente la famiglia fu costretta a vendere le proprie terre per due soldi e ad abbandonare la città per sfuggire allo scherno generale. Infatti a Firenze il nome diventò presto un aggettivo e con bischeri venivano indicati tutti coloro che si comportavano in maniera poco sensata. Da lì a diventare sinonimi dei genitali maschili fu un attimo. Dunque se un toscano vi urla di non fare il bischero, vi sta dicendo di non comportarvi da c… beh, ci siamo capiti. Ma veniamo adesso al nostro dolce: cosa c’entra tutto questo preambolo? In Toscana esiste una crostata che viene chiamata la torta co’ bischeri, farcita con una lussuriosa crema di riso e cioccolato, arricchita con uvetta, liquore e pinoli rigorosamente del Parco di San Rossore. A differenza delle crostate classiche il bordo di questa preparazione è deco-

rato con dei beccucci, ottenuti con una speciale ripiegatura della pastafrolla. Insomma i bischeri. La forma allusivamente fallica dei becchi della decorazione portò il popolo a battezzarla proprio in questo modo. Ora, dovete sapere che esiste un disciplinare di produzione della Torta co’bischeri”. In 5 pagine sono elencati i requisiti e le condizioni che un dolce deve possedere per essere definito tale, per cui se osaste riprodurla senza formare quei bischeri benedetti, ci sarebbero rivolte cittadine e paesane. Dato che, però, è buonissima, gustosissima e il ripieno è eccezionale, e che non volevamo offendere nessuno, abbiamo ben pensato di fare le crostatine senza i bischeri. Ovvero con la farcia esattamente identica a quella originale, ma con un procedimento più facile per la base. Non contenti, ci abbiamo messo sopra le fragole. L’abbinamento cioccolato e fragola è un grande classico della pasticceria. La fresca acidità del frutto, mitigando il gusto deciso del cioccolato, ne amplifica al contempo il sapore, mentre la nota amara del cacao esalta la delicata dolcezza della fragola. In questo caso il gusto più marcato delle fragole grazie alla caramellatura nel dispositivo a carbone (il calore secco eliminando l’acqua in eccesso ne concentra la dolcezza), aggiunge una leggera nota aromatica in più al già ricco e profumato ripieno, avvolto in un guscio croccante di pasta frolla al burro, rendendolo un’esplosione di sapore e calorie. Preparazione: 1. In una ciotola capiente versate la farina e lo zucchero a velo (entrambi setacciati), aggiungete l’uovo sbattuto e il burro freddo tagliato a cubetti. Lavorate gli ingredienti con le mani fino ad ottenere un panetto liscio e compatto. 2. Avvolgete l’impasto ottenuto nella pellicola alimentare e lasciatelo riposare per almeno 60 minuti in frigorifero. 3. Fate bollire il riso in acqua completamente priva di sale. 4. Nel frattempo ammollate l’uvetta in una tazza di acqua tiepida. 5. Quando il riso è pronto scolatelo e, mentre è ancora caldo, unite il cioccolato tritato grossolanamente, mescolando fino a quando non si sarà completamente sciolto. 6. Aggiungete al composto prima il cacao in polvere, poi l’uvetta strizzata, i pinoli ed infine il liquore. Ogni volta che

incorporate un nuovo elemento dovete amalgamarlo al composto prima di passare al successivo. 7. Lasciate riposare il ripieno, a temperatura ambiente, fino a quando non sarà completamente freddo. Dopodiché aggiungete un uovo e mescolate. 8. Su una spianatoia spolverata di farina stendete la pasta frolla sottilmente con il matterello e ricavate dei dischi che abbiano un diametro più grande degli stampi che andrete ad utilizzare. Imburrate e foderate le piccole tortiere con la pasta e bucherellate la base con una forchetta. 9. Riempite le crostatine con la farcia, lasciando lo spazio per fare il bordo. Con la pasta in eccesso fate delle sottili strisce, per formare il tipico reticolato delle crostate e poi chiudete il bordo. 10. Infornate a 180°C per 30 minuti circa. 11. I dolci sono pronti quando la frolla ha acquistato un bel colore dorato e il ripieno un bel colore brunito. 12. Una volta cotti, lasciateli leggermente intiepidire e poi sformateli con delicatezza. 13. Preparate il dispositivo per una cottura indiretta, mezza ciminiera sarà più che sufficiente. Una volta versato il combustibile al suo interno, chiudete il coperchio perché raggiunga la temperatura di 180°C. 14. Nel frattempo lavate le fragole sotto l’acqua corrente e asciugatele in un canovaccio. 15. Eliminate con un coltello la parte del picciolo, senza esagerare, per creare una base. Spolveratele con lo zucchero e disponetele su un teglia foderata di carta forno e poi posizionatela dalla parte opposta delle braci finché non saranno caramellate. Mi raccomando il coperchio deve rimanere chiuso. 16. Quando sono pronte toglietele dal dispositivo e lasciatele raffreddare, poi decorate le crostatine secondo il vostro gusto.

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VINI VINIABBINATI ABBINATIa acura curadidiENIO ENIOBERTON BERTON

MAIALINO, PANE E VINO Maialetto sardo, una cottura che viene tramandata di generazione in generazione dove ogni famiglia ha il suo segreto e la sua ricetta particolare. Ho chiamato Luca (Gallozza, autore dell’articolo sul maialetto) e per scrupolo professionale gli ho chiesto se avesse usato spezie particolari o marinature della carne; la sua risposta è stata secca, semplice e concisa: “nessuna marinatura né spezie strane, se non il classico mirto e un po’ di rosmarino, ed ovviamente il sale in cottura”. Col senno di poi ho pensato: cavolacci è vero, il segreto del maialino sta tutto nella scelta della carne, maialini da latte allevati allo stato brado o semibrado nei querceti e nei boschi della bella Sardegna, e del suo metodo di cottura. E qui cominciano le distinzioni e le tradizioni, ma parliamo sempre di cotture indirette dove l’obiettivo è mantenere la succosità della carne e di trasformare la cotenna in una croccante patatina che dà sapore e sapidità alla ciccia. Altro ingrediente importante, e ulteriore prodotto tipico dell’isola, è il mirto che dona aromi e profumi intensi. Ma la Sardegna dal punto di vista vinicolo offre molto e non tutti la conoscono. Le zone di produzione dell’unica DOCG e delle diciassette DOC dell’isola spaziano dai vini bianchi o rossi, fermi o spumantizzati, secchi o dolci. Ricordo ancora come, ad uno dei miei primi Merano Wine Festival, il primo contatto con un produttore di Vermentino mi abbia affascinato e ammaliato per la passione con la quale parlava della sua

terra e dei suoi vigneti. La produzione nel 2019, da fonti ISTAT, è stata di 626.000 ettolitri di vino su una superficie vitata di circa 28.000 ettari. A farla da padrone è il Cannonau seguito a distanza dal Vermentino. Fino al 2002 si pensava che il Cannonau fosse stato introdotto dagli aragonesi attorno al 1400, ma il ritrovamento di vinaccioli nel complesso archeologico di Duos Nuraghes fanno propendere la sua introduzione, nell’isola, a cura dei Fenici. Le sue caratteristiche organolettiche sono simili al vitigno Tocai Rosso, prodotto nei colli Euganei in provincia di Padova, alla Grenache francese, alla Garnacha spagnola ed alla Vernaccia nera di Serrapetrona in provincia di Macerata. La DOC Cannonau di Sardegna è stata istituita nel 1972 divisa in quattro sottozone che comprendono le province di Cagliari, Oristano, Sassari, Nuoro, Ogliastra, Olbia-Tempio e Sud Sardegna (ex Carbonia-Iglesias e Medio Campidano). Oltre alla DOC altre zone producono vini IGT con una forte prevalenza di uve Cannonau. Penso che abbiate capito che, per gustare appieno il nostro maialino, dobbiamo privilegiare un vino del territorio, anche se nulla vieta di spaziare tra i vitigni internazionali quali merlot, cabernet sauvignon o cabernet franc. La cosa importante è la presenza di un tannino maturo, aggraziato che possa contrastare la grassezza e succulenza del piatto ma che non sia troppo violento da spegnere, in bocca, la dolcezza della carne giovane e tenera del maialino.

TURRIGA Vino: Cantina:

Turriga IGT 2015 Argiolas

Dalla zona IGT Isola dei Nuraghi, arriva questo vino prodotto dalla cantina Argiolas su vigneti vecchi radicati in zona calcaree a 230 metri slm, accarezzati dalla brezza mediterranea. La cantina Argiolas è un riferimento nel panorama vitivinicolo sardo. È stata fondata nel 1938 da Antonio, trisavolo degli attuali proprietari, sui terreni su cui aveva iniziato a piantare viti al posto degli ulivi e frutteti. Attualmente, l’azienda si estende su 230 ettari di proprietà tra cui spicca un vigneto con oltre 560 biotipi diversi di varietà autoctone sarde. La cura del vigneto e del prodotto in cantina è demandata all’enologo Mariano Murru, un’autorità nel campo vitivinicolo italiano, che fu chiamato dal grande Giacomo Tachis (enologo del Sassicaia e Tignanello) nel 1991. Prodotto da uve raccolte a mano tra ottobre e novembre, dopo la pigiatura prosegue la fermentazione a temperatura controllata con macerazione sulle bucce per circa 16-18 giorni con la tecnica del delestage (estrazione del mosto da sotto le bucce e successivo riversamento sopra di esse). Viene affinato per 24 mesi in barrique nuove di rovere francese per poi continuare la maturazione in bottiglia per altri 12-14 mesi. Dal colore rosso rubino intenso con riflessi granati, al naso si presenta con un bouquet di macchia mediterranea con note di frutti rossi maturi seguiti da sentori di mirto e malva. Al palato risulta di grande struttura, caldo, rotondo con tannini aggraziati che, fondendosi con le note di spezie, dona un sorso potente e persistente. Fin di bocca notevole. Da servire a 16/18 gradi in ampi ballon. Uve: 85% Cannonau, 5% Carignano, 5% Bovale, 5% Malvasia Nera Zone produzione: Selegas (SU) Grado alcolico: 14,50% 62 - BBQ4All MAGAZINE


PASSITO O MUFFATO? QUESTO È IL PROBLEMA L’abbinamento di un vino ai dolci, almeno per me, è sempre difficile e amletico. Proporne uno dolce diventa abituale e scontato, anche se si potrebbe continuare per anni proponendo vini italiani ed esteri sempre diversi. Proporre un vino liquoroso, a volte può essere azzardato e oltretutto personalmente preferisco berlo come vino da meditazione con un buon cioccolato. Scegliere un liquore tipo rum o whiskey può essere talora la soluzione... ma vuoi mettere il piacere di accompagnarlo con un buon sigaro o toscano? E allora cosa facciamo, beviamo un’aranciata? Direi proprio di no, ma prima di tutto facciamo chiarezza nei termini e capiamo cosa vogliamo abbinare ai nostri dessert. Quando parliamo di vini dolci dobbiamo distinguere tra vini passiti o muffati. Altra categoria sono quelli liquorosi. Per vini passiti intendiamo quelli prodotti da uve raccolte tardive, cioè lasciate in vigneto fino ad una sovramaturazione degli acini o raccolte e poste in appassimento in aree ventilate per un periodo, in modo che l’acqua contenuta negli acini evapori e rimanga lo zucchero. Da tale tecnica derivano vini quali il Passito di Pantelleria, Il Recioto di Soave, Il Vin Santo toscano, ma l’elenco è lungo ed articolato (nella sola Italia se ne contano circa una cinquantina). Non sempre passito vuol dire dolce (l’Amarone della Valpolicella ne è un esempio lampante).

Se l’acino viene attaccato dalla muffa nobile, la botrytis cinerea o botrite (in italiano), che, depositandosi sulla buccia, la fora nutrendosi di alcuni componenti della polpa, allora abbiamo i vini muffati. Tale attacco richiede un clima tendenzialmente continentale con mattine umide e pomeriggi assolati e secchi. Famosi sono i Sauternes francesi, la Selection de Grains Nobles Alsaziani o i Beerenauslese e Trockenbeerenauslese tedeschi (dei quali abbiamo parlato nel numero di febbraio); oppure il Tokaji ungherese, considerato da molti, purtroppo per i produttori friulani del tocai fermo, il capostipite di tutti i vini muffati. In Italia la produzione di vini muffati è rara, il clima non aiuta in questo caso, ma ci sono realtà importanti come il Muffato della Sala di Antinori o il famoso Acini Nobili ed il Torcolato di Breganze prodotto da Maculan; altre piccole produzioni si trovano in Umbria (oltre ad Antinori), Lazio e Toscana. Continuiamo il prossimo mese parlando dei vini liquorosi. Intanto pensiamo all’abbinamento di questo mese: abbiamo una crostata abbastanza impegnativa, con sapori intensi e strutturati di frutta secca e cioccolato.

M U F FATO D E L L A S A L A Vino: Cantina:

Muffato della Sala 2015 Castello della Sala

Fra i muffati, questo è, in assoluto, il più conosciuto ed apprezzato oltre i confini nazionali. La tenuta umbra di Castello della Sala si trova vicino ad Orvieto, copre una superficie di circa 500 ettari di cui 140 a vigneto, tutti dai 250 ai 400 metri slm. Di proprietà della famiglia Antinori, fu, in questa azienda che nacque il rapporto tra i Marchesi Antinori e Renzo Cotarella, attuale amministratore delegato del gruppo, nonché enologo affermato. La produzione della cantina spazia da vitigni internazionali, come chardonnay, sauvignon blanc, pinot nero, semillon e traminer, a vitigni locali quali il grechetto ed il procanico. La vendemmia avviene, a mano, ai primi di novembre in modo che la nebbia mattutina consenta il proliferare della muffa nobile; lasciato fermentare per almeno 18 giorni in vasche di acciaio viene poi fatto affinare in barrique di rovere francese per 6 mesi fino al suo imbottigliamento. Prodotto dal 1987 solo nelle annate che, climaticamente, consentono la proliferazione della muffa nobile. Dal colore giallo dorato acceso, poco fluido nel bicchiere (nota positiva per un vino dolce), preparatevi ad una bomba di sensazioni odorose che coinvolgono il vostro naso. Le noti di aromi floreali e mielosi lasciano con il tempo lo spazio a sentori agrumati freschi e coinvolgenti. Al palato una nota speziata iniziale viene subito ammorbidita da intensi profumi di fiori e agrumi. Fin di bocca persistente. Da servire a 14/16 gradi in calici piccoli. Uve: 60% Sauvignon Blanc, 10% Grechetto, 10% Riesling, 10% Sémillon, 10% Traminer Zone produzione: Orvieto Grado alcolico: 12,00%

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BIRRE CONSIGLIATE a cura di RICCARDO MENICONI

CON LA GRIGLIATA PER DUE

B E E R B E RA

Tutti abbiamo iniziato la nostra strada per...diventare Grill Master (cit.) su una griglia scassata, con spiedini, salsicce, bracioline, costine e qualche fetta di pancetta. Poi abbiamo incontrato BBQ4All. Probabilmente ancora oggi ci troviamo a volte nella stessa situazione, sicuramente più preparati e attenti a cosa e come lo facciamo, ma la magia di stare con gli amici tutti intorno alla griglia è la cosa più bella del mondo. La grigliata all'italiana, se fatta bene -e si può fare bene, fidatevi- è motivo di orgoglio, di romantica nostalgia e porta bandiera dell'italica convivialità. Solitamente si accompagna con litri di vino rosso, almeno a casa mia, qui in Umbria. Certo questo non è esattamente il periodo giusto per organizzare un ritrovo con gli amici, ma niente vieta di sognare e di programmare quel momento tanto atteso in cui potremo tornare alle nostre vite. Sappiate che la mia proposta si abbina benissimo comunque alla cenetta per due che vi proponiamo su questo numero. Tutti conoscono il vino in Italia, parecchi sono anche appassionati di birra, pochi sanno però che c'è un anello di congiunzione tutto italiano: le Italian Grape ale, abbreviate in IGA sono infatti il primo stile brassicolo riconosciuto dal BJCP nato nella nostra penisola che prevede l'utilizzo di una percentuale variabile di mosto di vino, uva o Saba. Uno degli esempi, secondo me meglio riusciti, è la BeerBera di Valter Loverier del birrificio Loverbeer (TO). Ci delizia con questo "ibrido" a base di mosto Barbera. Facile intuire il perché del nome.

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Altra particolarità del birrificio e della birra in questione è la fermentazione spontanea che le dona un carattere inimitabile. "Una semplice spremuta di frutta, pigiata e diraspata, tanta ... tanta quanto basta, non come semplice aromatizzante ma con il preciso intento di accendere la fermentazione in legno di questa birra, senza aggiungere alcun lievito. La sua ricetta è un risultato armonico affinato negli anni. La mia non è una moda ma una precisa intenzione." – Valter Loverier Nel bicchiere si veste di un incredibile colore ramato, con riflessi rubino, leggermente velata. La schiuma, bianca e fine è estremamente evanescente; e lascia al naso il piacere di scoprire le splendide note vinose con sentori di frutta rossa e legno, un ricordo di cantina, e di quello che la fermentazione spontanea porta con sé. Si percepisce, infatti, la nota "sour" di acido lattico. In bocca entra a gamba tesa, con forte predominanza di frutta, e un leggero sapore di malto. L'acidità è importante ma ben bilanciata dalla carbonazione e da un'elevata secchezza che fa aumentare la salivazione, e pulisce bene la bocca. Una birra importante, di grande impatto, ma se siete amanti del genere vi lascerà a bocca aperta. Sopratutto quando, leggendo l'etichetta, vi accorgerete che può vantare ben 8°, che mai avreste potuto immaginare solamente bevendola. Vi consiglio di servirla ad una temperatura di 10/12°C in uno snifter.


IL COCKTAIL CONSIGLIATO a cura di RICCARDO MENICONI

CON IL CHURRASCO DI PICANHA

LA CAIPIRINHA

Il churrasco è il tipico modo di grigliare brasiliano e consiste nel cuocere vari pezzi di carne alla brace infilandoli in speciali spiedi a forma di spada in modo da poter girare la pietanza ed avere una cottura uniforme. Si può grigliare di tutto, dalle alette di pollo al lombo di maiale, passando per il codone di manzo, chiamato più propriamente Picanha, il pezzo più rappresentativo e gustoso della grigliata sudamericana. La carne solitamente è marinata e tagliata in pezzi più o meno gran-

di, la particolarità di questa cottura è che la carne essendo abbastanza lontana dalla fonte di calore cuoce lentamente e acquisisce un leggero sentore di affumicato. Famosa come la carne brasiliana c'è solo la Cachaca, il distillato nazionale del Brasile che si ricava dalla fermentazione della canna da zucchero, processo simile a quello utilizzato per il Rum, ma al quale non può essere accostato per una sostanziale differenza organolettica. Si distingue infatti la nota dolce della canna da zucchero, ma è solitamente sgraziata e accompagnata da una forte nota eterea che lo rende molto difficile da bere liscio. Trova però posto all'interno di cocktail come la Caipirinha o nelle batidas di frutta. La Caipirinha è il drink brasiliano per eccellenza, creato probabilmente per rendere potabile questo distillato povero tipico delle favelas, con-

sumato principalmente dalla gente che lavorava nei campi per alleviare la fatica. Il nome infatti sembra che derivi dalla parola caipira, che viene usata per indicare gli abitanti delle zone rurali. Essendo un cocktail povero è molto semplice da realizzare, e anche se non è facilissimo reperire la Chacaca, è possibile trovarla in negozi specializzati (o magari valutare una delle tante varianti come la Capiroska a base di vodka o la Caipirissima a base di Rum bianco). Si parte con 2 bar spoon di zucchero di canna bianco in un bicchiere old fashioned precedentemente raffreddato, mezzo lime tagliato in 4 e pestiamo velocemente per farne uscire il succo; si aggiunge poi il ghiaccio, tritato o in cubetti, e per finire 5cl di Cachaca. Mescoliamo e serviamo con uno spicchio di lime e due cannucce corte.

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THE CHEMICAL GRILLER a cura di VIRGILIO BRUNETTI

ADDENSARE UNA

SALSA parte 1

La preparazione delle salse è una macro area assolutamente complessa nell’ambito del seasoning. Nei precedenti capitoli abbiamo visto come, già nell’antichità, queste preparazioni gastronomiche rivestissero un ruolo fondamentale e come si siano evolute in maniera indipendente nella cultura delle popolazioni di tutto il mondo. Abbiamo fatto inoltre una panoramica delle salse e dei condimenti che dalla tradizione asiatica, europea ed americana si sono evolute in prodotti inimitabili e brand diffusi a livello planetario. Una tale complessità ha generato nei secoli una codifica rigorosa che si è andata man mano perfezionando e ha trovato nella cucina Francese la massima espressione; non a caso nelle grandi cucine è presente la figura dello chef-saucier, che deve garantire l'eccellenza delle salse preparate ed in particolare dei fondi. Gli accademici della cucina d’oltralpe individuano come base i fondi di cucina (bianchi e scuri) e i roux; da questi vengono preparate prima le salse madri (besciamella, vellutate, olandese, fondi legati e salse di pomodoro) e successivamente quelle dette base (cioè a base di, ovvero generate dalle salse madri); dalle salse base vengono preparate quelle derivate. A queste si aggiungono le emulsionate a freddo e a caldo, le neutre, le marinate e i condimenti. Da notare che le salse possono essere ulteriormente separate in altre due categorie, ovvero da cucina e da pasticceria. Tutte hanno una comune definizione: sono preparazioni culinarie liquide e semiliquide utili a migliorare, accompagnare e completare altri alimenti.

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In un approccio più moderno e scientifico si possono definire le salse in base alle proprietà fisico-chimiche correlate alla tipologia degli ingredienti impiegati e alle modalità di preparazione. Oltre ai sapori e agli aromi che stimolano i recettori del gusto e dell’olfatto, devono dare uno stimolo corretto anche sui recettori tattili, per questo motivo sono caratterizzate oltre che dal colore (appearance), sapore e odore (flavour), anche dalla consistenza (texture); apparence, flavour e texture sono tutti considerati fattori di qualità. La scienza che studia e caratterizza la texture degli alimenti è una branca specifica della fisica che si chiama Reologia (degli alimenti). L’importanza della texture nel giudizio di accettabilità varia notevolmente a seconda degli alimenti. Soprattutto per l’industria alimentare è molto importante poter misurare la consistenza di questi ultimi per avere una misura di qualità; tuttavia è necessario definirla esattamente, cioè bisogna precisare ciò che viene misurato e ciò che viene percepito. La texture è la risposta sensoriale ad uno stimolo prodotto dalla manipolazione di un alimento. Una delle definizioni maggiormente accreditate riguardo il significato di texture è quella data da Sherman (1970). Essa mette in rilievo le sue tre caratteristiche essenziali: • è una qualità sensoriale • è propria della struttura di un alimento; • è un complesso delle diverse proprietà dell’alimento. Tutti gli attributi meccanici di un cibo sono percepibili attraverso recettori meccanici, tattili e, quando appropriato, visivi e uditivi. Con proprietà della texture si intendono le caratteristiche fisiche che derivano da elementi strutturali dei cibi: sono percepite principalmente attraverso il tatto, sono correlate alla deformazione, alla disintegrazione e al flusso dell’alimento sotto una forza, e sono misurate oggettivamente da funzioni di massa, tempo e distanza. Le proprietà maggiormente studiate e conosciute sono quelle meccaniche. Quando andiamo a misurare queste ultime, non misuriamo la consistenza in toto poiché essa dipende anche da fattori legati alla masticazione, a meno che non siamo in grado di valutare delle correlazioni fra proprietà meccaniche misurate e consistenza percepita attraverso i sensi (tatto, senso cinestetico, vista e udito). Tecnicamente in una cucina professionale supertecnologica si potrebbero caratterizzare le salse misurando la loro viscosità mediante strumenti scientifici dedicati quali viscosimetri e reometri. Tuttavia il nostro apparato buccale è uno strumento di sensing molto più sofisticato rispetto ad un viscosimetro ed è in grado di percepire non solo la viscosità assoluta di un alimento liquido ma anche una serie di caratteristiche più fini quali granulosità, untuosità, scorrevolezza, collosità, astringenza; se provassimo a saggiare con un viscosimetro dell’ olio d’oliva, dello sciroppo d’acero o una bisque legata, probabilmente si otterrebbero valori numericamente molto simili, ma se provassimo ad assaggiare gli stessi alimenti si noterebbe sicuramente un’enorme diversità. Non c’è in italiano un termine breve per definire la serie completa delle sensazioni che un alimento liquido o semiliquido trasmette al nostro palato; in inglese questo concetto si esprime con mouthfeel. La viscosità e le sensazioni tattili correlate sono difficili da definire se non con il linguaggio della fisica, tuttavia c’è un esempio banale che ci può venire in aiuto per capire cosa si intende quando si parla di elevata viscosità: pensate di dover attraversare una folla di persone, maggiore sarà il numero di persone maggiore sarà la forza necessaria per poter passare.

Questo è quello che succede alle particelle di un fluido quando si trovano in una condizione di viscosità elevata.

SENSAZIONI TATTILI

Si potrebbe definire il tatto il senso più intimo e primordiale dell'uomo. Gli scienziati lo considerano fondamentale, perché è l'unico in grado di percepire gli stimoli meccanici. Esso è il primo senso che si sviluppa negli esseri umani: già dopo pochi mesi di vita il feto risponde a stimoli tattili. Le sensazioni che dipendono dall'apparato sensoriale del tatto sono molteplici e possono essere distinte in diverse categorie, sulla base del tipo di stimolazione coinvolta. Ci sono quelle che si basano su una sollecitazione fisica dei meccanorecettori, molto presenti sui polpastrelli delle dita, ma anche sul volto e in bocca. In quest'ultimo caso si parla di mouthfeel per indicare specificamente le sensazioni tattili come l'astringenza, la viscosità orale e l'untuosità (tenete conto che anche un alimento solido con il lavoro dell’apparato masticatorio diventa una sostanza fluida deglutibile che approssimativamente può essere considerata alla stessa stregua di una salsa). Si parla di cinestesia quando toccando o masticando un prodotto alimentare abbiamo delle sensazioni che dipendono dalla reazione della materia alle pressioni esercitate dai muscoli (per esempio della mandibola), che ci permettono di percepire le caratteristiche relative alla consistenza come la durezza (croccantezza), l'adesività e l'elasticità. Con chemestesi si intende invece quel gruppo di percezioni indotte chimicamente che non implicano l'attivazione dei recettori gustativi e olfattivi, causando invece l'attivazione di quelli sensibili agli stimoli fisici. Si intendono quindi tutte le sensazioni di irritazione o di caldo/freddo indotte da certe sostanze, come avviene per il piccante e il rinfrescante. Mentolo e capsaicina sono due molecole che simulano la sensazione di calore-dolore o freddo ingannando di fatto i recettori termici.

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VISCOSITÀ E REOLOGIA

La viscosità è una grandezza fisica che rappresenta l'attrito interno nei fluidi ed esprime la maggiore o minore facilità di scorrimento di uno strato rispetto a un altro adiacente. Provate a miscelare con una frusta un impasto molto liquido di acqua e farina o a far colare uno sciroppo sul dorso del cucchiaio; pensate per esempio alla naturale tendenza a far scorrere la lingua (superficie mobile) sul palato (superficie fissa) quando assaggiamo una salsa (fluido). Dal punto di vista microscopico la viscosità è legata all'attrito tra le molecole del fluido. Quando esso è fatto scorrere dentro una tubatura, le particelle che lo compongono generalmente si muovono più velocemente sull'asse della tubatura e più lentamente vicino alle sue pareti; per questa ragione, uno sforzo, che si traduce in una differenza di pressione, è necessario per contrastare l'attrito tra gli strati di particelle e mettere in movimento il fluido. Lo sforzo da applicare è proporzionale alla viscosità. Essa viene solitamente indicata con la lettera greca μ (mi) o più raramente con la lettera η (eta) per richiamare il collegamento con il coefficiente di attrito della meccanica classica. Viene detta spesso viscosità dinamica per distinguerla da quella cinematica, che è una grandezza simile ma dimensio-

FLUIDO

nalmente differente. Si definisce inoltre fluidità la grandezza reciproca della viscosità. La viscosità dinamica si misura nel Sistema Internazionale in poiseuille (simbolo Pl) e nel sistema cgs in poise (simbolo P). Il millipoiseuille (o centipoise) continua comunque a essere molto utilizzato in quanto esprime approssimativamente la viscosità dinamica dell'acqua a temperatura ambiente (1,001 mPl a 20 °C). Quando misuriamo le proprietà meccaniche degli alimenti non misuriamo la consistenza in toto, che dipende anche da fattori legati alla masticazione. Il comportamento meccanico dei cibi va valutato con strumenti che forniscano misure oggettive e ripetibili e in unità di misura standard. La branca della fisica che studia la deformazione e lo scorrimento della materia si chiama reologia; in food science le sostanze che modificano le caratteristiche meccaniche e di scorrimento degli alimenti vengono chiamati modificatori reologici.

CAOS CREMOSO FLUIDI NEWTONIANI E NON-NEWTONIANI

Se mescoliamo una tazza di the, di latte o di caffé, oppure facciamo la lavatrice al calice di vino per fare i fighi, per quanto vorticosamente agitiamo questi fluidi essi rimangono tali in

COMPORTAMENTO

VISCOSITÀ IN CENTIPOISE

azoto liquido

newtoniano

0,2 (a -196°C)

acqua

newtoniano

1

latte

newtoniano

2

sangue

newtoniano

10

panna liquida

newtoniano

20-40

olio vegetale

newtoniano

2000-3000

miele

newtoniano

5000-10000

melassa

newtoniano

10000-25000

sciroppo al cioccolato

newtoniano

25000

yogurt

tixotropico

50000-70000

ketchup

pseudoplastico

100000-120000

impasto di acqua e maizena

dilatante

1000000-120000

burro d'arachidi

plastico

150000-250000

sugna

plastico

1000000-2000000

TABELLA 1: VISCOSITÀ DI ALCUNI FLUIDI DI USO COMUNE

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termini di viscosità. Sono quelli che hanno un comportamento “normale”, newtoniano, in cui gli sforzi sono direttamente proporzionali alla velocità di deformazione (la velocità di flusso aumenta proporzionalmente alla forza applicata). Molti fluidi invece hanno comportamenti diversi a seconda di come li mescoliamo, li agitiamo, li colpiamo, li accarezziamo; di volta in volta cambiano comportamento. Questi “psicopatici” hanno la caratteristica di variare la loro viscosità a seconda delle forze che interagiscono con essi ovvero, se sottoposti alle forze di taglio, evidenziano un flusso di scorrimento che può essere: plastico, pseudoplastico, tixotropico, dilatante. Maionesi, grassi solidi, panna e bianchi d’uovo montati sono fluidi non newtoniani con comportamento plastico. Sono sostanze che iniziano a scorrere solo se lo sforzo applicato supera un valore limite detto sforzo di snervamento ovverosia che si tratti di emulsioni o schiume questi fluidi si comportano in maniera ordinaria, come quelli newtoniani, solo dopo uno sforzo iniziale. Nella pratica sapete bene come si come comportano l’albume d’uovo montato a neve ferma e la panna montata o la margarina, è abbastanza intuitivo: per farli scorrere è necessario applicare un certo sforzo all’inizio. Il ketchup è un fluido non-newtoniano con comportamento pseudoplastico. Conoscete benissimo questa salsa burlona: finché e ferma nella sua bottiglia rimane lì allo stato semisolido ed è necessario qualche colpo per iniziare a farla muovere. La forza applicata modifica la viscosità del ketchup facendolo uscire dalla bottiglia spesso in maniera rovinosamente abbondante. Questo accade perché le fibre della salsa si agganciano l’una all’altra finché non si somministra una forza, allorché si sganciano (di colpo) e il ketchup fluisce dalla bottiglia perché si abbassa la viscosità ma si ricompatta istantaneamente sul piatto, sull’hamburger, sulle patate fritte, sul tavolo, sulla giacca e sulla cravatta. Lo yogurt è un fluido non newtoniano con comportamento tissotropico ovvero, se lo maltrattate frullandolo e frustandolo, perde struttura e compattezza nel tempo: man mano che lo stressate passa da una viscosità più alta a una più bassa in modo abbastanza lento. I tixotropici sono fluidi che quando sottoposti a sforzi di taglio vedono diminuire la viscosità al passare del tempo. Per questo motivo quando fate il vostro Tzatziky mai frullare ma spatolate il composto con gentilezza. Questi comportamenti sono caratteristici anche di altri fluidi non newtoniani; questi cambi di viscosità sono osservabili sul dentifricio, quando compatto esce dal tubetto e poi lo spalmiamo sui denti, sul muco nelle vie aeree quanto tossiamo, sul sangue di San Gennaro quando accade il prodigio. Gli impasti a base di acqua e maizena comprese alcune creme sono esempi di fluido non newtoniano con comportamento dilatante. Applicando forze più deboli, come il lento inserimento di un cucchiaio nel fluido, esso si manterrà nel suo stato liquido. Se invece riempite una piscina di acqua e maizena potete correre sul liquido a patto che lo facciate velocemente. Quindi i fluidi dilatanti rispondono diversamente se si applicano forze di taglio lente o veloci. Si ha questo comportamento per sospensioni altamente concentrate di materiale solido in un liquido. A riposo dominano le forze intra particellari. All’aumentare dello sforzo applicato le particelle si aggregano. APRILE 2020

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FASE DISPERDENTE

FASE DISPERSA

TIPOLOGIA

ESEMPIO

gas

liquido

aerosol liquido

nebbia, spray liquidi

gas

solido

aerosol solido

fumo

liquido

gas

schiuma

panna montata

liquido

liquido

emulsione

latte, maionese, sangue

liquido

solido

sol

dentifricio, metalli colloidali

gas

solido

schiuma solida

poliuretano espanso, aerogel

solido

liquido

gel

formaggi

solido

solido

sospensione solida

vetro, leghe metalliche

TABELLA 2: CLASSIFICAZIONE DELLE SOLUZIONI COLLOIDALI

Tecnicamente molte salse possono essere definite soluzioni colloidali (o colloidi). Quelle di interesse culinario e gastronomico si possono distinguere a seconda dello stato di aggregazione (solido, liquido, gassoso) della fase dispersa e del mezzo disperdente e possono essere classificati secondo la nomenclatura riportata in Tabella 2. Le particelle dei colloidi sono sempre molto piccole e hanno dimensioni tra 1 nanometro e 1 micron. Queste particelle possono avere geometria globulare (ovoalbumina, emoglobina) o lineare e ramificati (polisaccaridi). I sistemi colloidali con mezzo disperdente liquido vengono generalmente distinti in liofili e liofobi a seconda del comportamento fisico-chimico della fase dispersa nei riguardi del mezzo disperdente (se è acqua, si parla di colloidi idrofili e idrofobi). A seconda della somiglianza delle particelle disperse nella fase disperdente i sistemi colloidali possono essere distinti in: • colloidi liofobi, caratterizzati da scarsa affinità tra la fase dispersa e quella disperdente, per cui risultano instabili e tendono a separarsi nel tempo (colloidi irreversibili); • colloidi liofili, che mostrano un’elevata affinità tra fase dispersa e fase disperdente. Messi in soluzione acquosa si rivestono di uno strato di molecole di solvente (solvatazione) e diventano così “pseudo-solubili”, ovvero sembrano solubili (per esempio, amido, latte e sangue). I colloidi liofili si suddividono a loro volta in molecolari e micellari. Le particelle nei primi sono macromolecole, nei secondi, vengono chiamate micelle e sono composte da più molecole, in genere di piccola massa, tenute insieme da legami deboli.

Fra le sostanze più comuni che si trovano allo stato colloidale vi sono le proteine, i polisaccaridi, le gomme (colloidi liofili molecolari), i saponi (colloidi liofili micellari), i sol dei metalli (colloidi liofobi). Una delle proprietà caratteristiche che serve a distinguere i sistemi colloidali dalle soluzioni vere è l’effetto Tyndall, per cui quando un raggio di luce attraversa un liquido puro o una soluzione vera il suo percorso rimane praticamente invariato perché le particelle in soluzione sono troppo piccole per diffondere la luce (appare quindi trasparente). Nei sistemi colloidali invece le dimensioni delle particelle sono in grado di diffondere la luce quindi il percorso luminoso risulta modificato. Un’altra caratteristica dei sistemi colloidali è che spesso la fase dispersa assume strutture di organizzazione di tipo micellare, ossia si formano aggregati di molecole particolari (con parti polari o ioniche e parti non polari) che si dispongono lasciando le parti polari verso l’esterno, mentre le parti non polari sono lasciate all’interno In pratica, la parte interna di una micella, formata da lunghe catene non polari, è rappresentata dalla goccia di olio o di benzina dispersa nell’acqua. Nel caso in cui la fase disperdente sia apolare e la fase dispersa sia di tipo acquoso, le micelle che si formano sono di tipo inverso, perché la situazione è capovolta rispetto alla precedente (è il caso dell’acqua dispersa nella massa grassa del burro). La lunghezza della coda apolare, la natura e la dimensione della testa polare o ionica, l’acidità della soluzione, la temperatura e la presenza di sali aggiunti sono i fattori più importanti che determinano il tipo di aggregato che si forma. Se si variano questi parametri, è possibile variare la forma e le dimensioni delle micelle ottenute. Le strategie per modificare la texture delle salse sono sia di tipo fisico che strumentale, quali cottura, raffreddamento, abbattimento, utilizzo combinato di strumenti di miscelazione come fruste, spatole, frullatori a lame, omogeneizzatori rotore-statore, sonicatori. Ma ci sono anche strategie di tipo chimico ovvero l’uso di additivi alimentari naturali e di sintesi, quali addensanti e altri modificatori reologici . Semplicemente cuocendo o raffreddando un alimento possiamo già ottenere delle modificazioni importanti sulla texture perché la temperatura genera processi reversibili e irreversibili sulla struttura stessa delle macromolecole degli alimenti, quali proteine, grassi e carboidrati. Nella pratica addensare una salsa può sembrare un processo banale ma c’è veramente tanta scienza e tecnologia e il controllo e la conoscenza di queste procedure può fare realmente la differenza.

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ADDENSARE MEDIANTE RIDUZIONE

Gli addensanti sono una categoria piuttosto varia di composti, tuttavia prima di introdurli vale la pena ricordare che uno dei metodi più semplici per addensare una salsa è la restrizione, ovvero semplicemente cuocendo quindi somministrando calore in maniera controllata. Le salse che vengono addensate per restrizione sono quelle cotte, che vengono dunque ristrette (ridotte di volume da cui il sinonimo riduzione) e concentrate; di conseguenza tutti i soluti presenti nella miscela risulteranno disciolti in un volume minore. Le percezioni di dolce, salato e umami nelle salse ristrette saranno fortemente potenziate e andranno gestite correttamente. Restrizioni a base di succhi di frutta e ortaggi, aceti di mosto e salse di soia o brodo danno origine a liquidi viscosi con un’impronta gustativa veramente potente. Le tecniche di riduzione vengono già citate da Apicio nel De re coquinaria e sono basilari in molte preparazioni della Nouvelle cuisine. Gli attori principali, come in qualsiasi alimento, sono gli zuccheri (semplici e complessi), i grassi e il sale. Ognuno di queste composti reagisce in maniera peculiare al calore ma sappiamo anche che una salsa è ben più complessa. Somministrando calore ad una soluzione l’effetto più evidente sarà la graduale perdita di volume e la concentrazione dei soluti dovuti all’evaporazione dell’acqua, ma anche delle eventuali frazioni volatili qualora presenti (per esempio le molecole alcooliche e aromatiche e altre a basso punto di ebollizione). Inoltre concentrando i soluti in miscele ad elevato contenuto di grassi e zuccheri, le temperature di ebollizione possono tranquillamente salire oltre i 100 C°; a temperature elevate gli zuccheri possono aumentare notevolmente la viscosità del preparato o concentrarsi, così come accade negli sciroppi, aumentando la percezione del gusto dolce; se sono presenti zuccheri riducenti e proteine, possono innescarsi le reazioni di Maillard che come noto producono composti aromatici, saporiti e scuri. La natura polimerica dei prodotti di Maillard modifica inevitabilmente la viscosità del preparato, e questo ad esempio è il processo fondamentale nella preparazione di fondi di cottura. Sebbene le restrizioni non richiedano necessariamente l’aggiunta di addensanti dobbiamo sempre mettere in conto i limiti della tecnica, ovvero la perdita delle componenti aromatiche volatili e la modificazione irreversibile dei nutrienti per via della cottura. Abbiamo finito la prima parte, ma non voglio lasciarvi a bocca asciutta. Provate queste due salse per cominciare a mettere un pratica quanto studiato fino a qui. Ci vediamo il prossimo mese.

RIDUZIONE DI CILIEGIE AFFUMICATE (Smoked Cherry Reduction)

Questa salsa è perfetta sugli arrosti di tagli magri del maiale quali filetto e lonza, ma se siete amanti della cacciagione la troverete eccezionale anche su arrosti di cervo e cinghiale. Un grande classico che strizza l’occhio alla cucina barbecue. Ingredienti: - 150 grammi di ciliegie snocciolate - 150ml di porto secco o cherry - 15ml di aceto balsamico, -15 grammi di burro. Preparazione: Allestite il kettle in setup di cottura indiretta con 5-7 bricchette accese, stabilizzate la temperatura tra i 70 e gli 80 gradi, disponete le ciliegie in una leccarda di alluminio; posizionatela lontana dalla brace e aggiungete un chunk di legno di ciliegio. Chiudete con coperchio e affumicate in continuo per circa 40 minuti. In una piccola padella, unire le ciliegie affumicate, il porto e l'aceto balsamico. Posizionare a fuoco medio-alto e cuocere a fuoco lento, mescolando. Quando la salsa si addensa e si riduce leggermente, toglietela dal fuoco e aggiungete il burro mescolando energicamente. Sconsiglio vivamente di frullare questa salsa, piuttosto prima della fase di restrizione potete recuperate la polpa e i succhi delle ciliegie affumicate utilizzando uno chinoise in modo da escludere le bucce. L’aggiunta di spezie è a vostra discrezione ma in quantità veramente millesimali: pepe di Giamaica, pepe lungo del bengala, cannella o chiodi di garofano. Queste spezie soprattutto cannella e chiodi di garofano possono devastare qualsiasi preparazione. Il burro darà un aspetto opaco e vellutato alla salsa.

SALSA TERIYAKI AL MIELE

La Teriyaki tradizionale di base è composta da 3 ingredienti: salsa di soya, mirin (un sake leggermente dolce) e zucchero. Può essere utilizzata come condimento, come marinata o come salsa di glassatura, in questo caso sarà necessario applicare un po' di calore affinché si addensi perdendo volume. Il mio consiglio è partire da una salsa di soia leggera in modo che restringendosi non diventi troppo sapida. Nella nostra variante barbecue il miele, l’aceto e il concentrato di pomodoro giocano un ruolo fondamentale nel bilanciamento della dolcezza e dell’acidità della salsa che di base è potentemente umami. Le fibre del concentrato di pomodoro daranno un contributo determinate nella struttura della salsa. Ingredienti: - 120 ml di salsa di soia low salt - 30 ml di mirin 30 ml - un cucchiaio di miele d’acacia - 15 ml di aceto di riso 15 ml - un cucchiaio di triplo concentrato di pomodoro Preparazione: Combinate gli ingredienti in un pentolino e scaldate la salsa finché non assume una consistenza sciropposa e lucida.

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COSTUME a cura di ROBERTO DAL BOSCO

SONO VEGANO! is the new Allah akbar!

Quel l o dei vegan i n on è un o s t il e di v it a. N o n è un in s ie m e d i creden ze. Non è u n co m p l e s s o di s ce l t e al im e n t ar i. Quella dei vegan i è un a re l ig io n e: e o ra fin al m e n t e l o r iconoscon o an che i t r ibun al i.

Londra, primi giorni del 2020. Un vegano licenziato dal suo datore di lavoro sta portando un caso legale di riferimento a un tribunale britannico, sperando di cambiare la legge per garantire che il veganismo sia considerato una credenza filosofica con una protezione simile a quella di cui gode la religione. Jordi Casamitjana, un signore che si definisce ethical vegan, afferma di essere stato licenziato ingiustamente dal suo datore di lavoro. Lavorava presso un’associazione benefica per il benessere degli animali (cioè, un ente animalista) a nome League Against Cruel Sports, che lo avrebbe mandato via perché egli avrebbe informato i colleghi che il fondo pensione dell’associazione investiva in società che sperimentano sugli animali e in “fondi non etici”, riporta la CNN. Tale accusa è respinta dall’ente benefico. I vegani etici non solo seguono una dieta vegana, ma si oppongono anche all’uso di animali per qualsiasi scopo, dalle pellicce ai test medici in vivo. Il caso è complesso, così il signor Casamitjana decide di preparare il terreno in modo strategico: prima di sfidare il suo ex datore di lavoro in merito al suo licenziamento, si lancia in un tentativo di provocare un cambiamento all’Equality Act, la legge britannica che protegge le persone dalla discriminazione, dalle molestie o dalla vittimizzazione sul lavoro. L’idea è quella di includere il veganismo nell’alveo delle convinzioni filosofiche, quindi di fornirgli protezione dalla discriminazione. Secondo la legge del Regno Unito, tali convinzioni filosofiche devono essere «sinceramente credute; essere una convinzione e non un’opinione o un punto di vista basato sullo stato attuale delle informazioni disponibili; essere convinto di un aspetto pesante e sostanziale della vita e del comportamento umano; raggiungere un certo livello di cogenza, serietà, coesione e importanza; ed essere degno di rispetto in una società democratica, compatibile con la dignità umana e non in conflitto con i diritti fondamentali degli altri». 72 - BBQ4All MAGAZINE

L’azzardo paga. Il tribunale di Norwich, nella persona del giudice Robin Postle, dichiara che il veganesimo etico professato da Casamitjana rientra nell’ambito dei diritti garantiti dall’Equality Act. Gli animalisti in tutto il mondo fanno festa. In un secondo tempo verrà deciso della sua causa contro il datore di lavoro, ma per il momento si è ottenuto un cambio di paradigma non da poco: la Giustizia riconosce il veganismo come sistema di credenza, cioè al pari di una religione.

EVANGELIZZAZIONE E CROCIATA

Era ora, direte voi. Già. Che il veganismo fosse una religione – e di stampo integralista – lo sapevamo tutti da mo’. Con pochissime, virtuose eccezioni, è quasi impossibile imbattersi in un vegano che non ti sommerga con il suo zelo etico-alimentare, e talvolta con il suo disprezzo. «Quella vegana non è una scelta che si limita al piano individuale, ma ha l’ambizione di cambiare lo status quo, la società, il mondo» scrive Luca Avoledo nel libro “No Vegan” (Sperling&Kupfer). «La condanna del consumo di carne, pesce, uova e latte non resta confinata nell’ambito astratto e teorico: è destinata a concretizzarsi in azioni reali, di natura e portata sì diversa, ma che in definitiva mirano tutte alla conversione del non vegano». C’è una meccanica umana ovvia dietro al fatto che non vi lascino stare. «Se il fine ultimo del manifesto vegan è l’affermazione di una realtà in cui gli animali vivano liberi, indisturbati e soprattutto non destinati ad essere utilizzati dall’uomo, il cambiamento personale non basta: ci vuole il proselitismo, ci vuole l’evangelizzazione, e, se ancora non fosse sufficiente, ci vuole la crociata».


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La religione infatti, checché paia agli spiriti moderni, non può mai essere un fatto privato, individuale: è la parola stessa che implica la moltitudine di esseri umani che vanno uniti, secondo alcuni proverrebbe dal latino relegĕre, raccogliere, o ancora religare, cioè rilegare, tenere insieme gli uomini. Prima della recentissima sentenza inglese, già l’idea del veganismo come opzione religiosa trovava spazio presso le istituzioni. L’Università di Padova fece uno studio in cui descrisse della cultura vegana «l’enfasi protoreligiosa» e «una pervasività che va ad investire ogni aspetto della vita quotidiana con le forme, spesso, della coercizione». Il proprio senso di identità è riformulato nell’ottica della propria scelta filosofica-alimentare, la quale orienta anche scelte famigliari delicatissime come il cibo da dare ai figli: così come il cattolico battezza il figlio, il vegano trasmette la sua fede alla prole privandola delle pietanze di derivazione animale. Vorremmo portare più in là quest’idea. Perché ci è davvero difficile non vedere le similitudini non solo con le religioni, ma più propriamente con i fondamentalismi che pervadono il nostro mondo.

CENNI DI STORIA DEL FONDAMENTALISMO ISLAMICO E VEGANO

Prendiamo ad esempio l’integralismo islamico, che qualcuno chiama anche jihadismo. Tracciare la storia della radicalizzazione dell’Islam – fenomeno esacerbatosi soprattutto nella seconda metà del XX secolo – sarebbe lungo e fuorviante, tuttavia vale la pena di ricordare che, come ammette pure il manuale dell’ISIS, il gruppo che ha dato la scintilla iniziale al fondamentalismo per Allah è quello dei Fratelli Musulmani, ovvero quello da cui proviene l’attuale capo di Al Qaeda, Mohammed Al Zawahiri (la telespalla di Bin Laden, quello con la barba canuta). Nati in Egitto, i Fratelli Musulmani (che avevano preso il potere con il Presidente Mohamed Morsi, poi defenestrato da Al-Sisi) furono lanciati da un uomo, Sayyid Qutb, che trasferitosi negli USA ebbe una reazione di rigetto profondo per il mondo moderno – nota bene, noi riteniamo che se fosse stato debitamente esposto alla cultura del BBQ, oggi la storia avrebbe preso una piega differente. I Fratelli Musulmani intrapresero quindi una serie di attentati culminati con lo spettacolare assassinio del presidente egiziano Sadat (1981). La convinzione dei fondamentalisti era che, alla morte del presidente, il popolo si sarebbe alzato e avrebbe preteso l’instaurarsi di uno Stato coranico. Invece non successe nulla. Anzi, i fratelli finirono in galera a bizzeffe. È qui che subentra il concetto che ben descrive anche la religione vegana: la jāhiliyya. La parola si può tradurre in Italiano con ignoranza, ed è il termine con cui i musulmani indicano il periodo precedente la missione profetica di Maometto del VII secolo. Il mondo, si convinsero i Fratelli al gabbio, è piombato in uno stato di totale mancanza di consapevolezza, e la massa ignorante – coloro che non conoscono la rivelazione profetica – può meritare il trattamento che si meritano i barbari. Tale pippone di microstoria del terrorismo ve lo abbiamo sparato perché possa sembrare anche a voi evidente come il veganismo sia di fatto un fondamentalismo che considera noi carnivori annegati nella jāhiliyya, nella tenebra dell’ignoranza, 74 - BBQ4All MAGAZINE


lontani dalla salvezza, e anzi esseri corrotti e pericolosi per il bene della società. Alzi la mano chi non abbia mai sentito questo senso di superiorità del vegano nei vostri confronti; alzi la mano chi non ha mai percepito quel sottile disprezzo, e financo l’inquietante desiderio di rettificarvi. Non che la cosa sia priva di logica: ritenendo, secondo l’ideologia antispecista (la base biofilosofica dell’animalismo), la vita di un animale pari alla vita di un essere umano, è chiaro che il vegano può considerarvi come dei mostri assassini, divoratori di povere creature per giunta indifese, oltre che inquinatori dell’ambiente (soprattutto chi mangia manzo) nonché della biochimica del proprio corpo (chi mangia carne si ammala) e quindi abusatori della Sanità pubblica. Il carnivoro vive nella jāhiliyya lontano dalla luce della rivelazione vegana; e tu grillmaster che stai leggendo sei il sommo sacerdote di questo paganesimo anteriore al Verbo veg – se ti va bene. Se ti va male, sei da considerare come una sorta di Eichmann del Weber.

COMPLOTTISMO VEGANO

Altro elemento che unisce la religione vegana con il fondamentalismo è certamente il ricorso alla teoria di cospirazione. Le Brigate Rosse, a loro modo una setta apocalittica, credevano nel SIM, lo Stato Imperialista delle Multinazionali, cioè che il potere delle aziende dei ricconi fosse in grado di controllare la politica mondiale. Parimenti, oggi non è raro vedere anche il conversatore vegano tirar fuori dal cilindro il mega complotto dei poteri forti carnivori, sia sanitario che farmaceutico, perché le multinazionali ti vogliono far mangiar carne così ti ammali e consumi i loro farmaci. Un complotto alimentare ed accademico, perché gli studi che dimostrano quanto sia stupendo fare a meno di proteine animali vengono ingiustamente silenziati; chimico, perché i grandi produttori di cibo mettono nella sbobba che ci fanno comprare nei supermercati porcherie sintetiche mai viste; economico, perché se mangiassimo tutti verdure sarebbe un risparmio assoluto che manderebbe in fallimento interi comparti economici; infine morale, perché qualcuno vuole tenere la popolazione mondiale all’oscuro dall’assoluta, raggiante verità del comunismo transpecifico, quello per cui tutte le creature viventi si equivalgono e non devono soffrire in alcun modo. Non riconoscere anche solo un elemento di questa vasta macchinazione cosmoplanetaria ti può far guadagnare, immediatamente, l’accusa di essere ignorante e disinformato, e ciò vale anche quando con evidenza su taluni argomenti ne sai di più dell’interlocutore. In via sperimentale, il carnivoro disinibito prova con il vegano una ri-simmetrizzazione del conflitto: davanti all’ennesima ipotesi di complotto contro i Vegan, tenta di ribattere che essi stessi potrebbero essere involontariamente parte di una terribile cospirazione. L’idea è portata avanti sul serio da vari gruppi negli Stati Uniti e non solo; in particolare, vi è chi, statistiche endocrinologiche alla mano, ritiene che i vegani facciano parte di un processo di femminilizzazione della società occidentale. È il caso del vasto movimento di maschi americani postosi in totale antagonismo con il femminismo, ritenendo che una dieta a base di soia aumenti gli estrogeni, cioè gli ormoni femminili, nel corpo degli uomini, devirilizzandoli. L’insulto più tremendo per questi ragazzi è soyboy, ragazzo-soia. APRILE 2020

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Il termine soyboy, scrive l’Urban Dictionary, «descrive i maschi che mancano completamente e totalmente di tutte le qualità maschili necessarie. Questo stato patetico è di solito raggiunto da un’eccessiva indulgenza di prodotti e/o ideologie che cancellano la virilità. L’origine del termine deriva dagli effetti negativi che il consumo di soia avrebbe sul fisico maschile e sulla libido». Cos’altro è il veganismo se non un culto basato sul consumo di soia? Cos’altro è il veganismo se non la religione del soyboy?

RELIGIONE ORGANIZZATA

Il veganismo, come ogni religione, ha il suo testo sacro: il volume – controverso è dir poco – chiamato The China study, dove si annuncia che per vivere bene bisogna evitare ogni cibo di origine animale. Non manca certamente una particolare forma di ascetismo: non è raro imbattersi in vegani che conducono vite sempre più ritirate, in crescente dissociazione con famiglia e amici rimasti nel paganesimo carnivoro. Inoltre il veganismo basa la sua etica sulla dinamica del peccato: in questo caso, peccare significa ovviamente mangiar carne, e la conseguenza è un inferno medico in vita, perché la carne fa venire il cancro! (quella grigliata di più), fa venire l’osteoporosi, la carne e il latte sono responsabili dell’obesità che affligge la popolazione terrestre, delle patologie cardiocircolatorie, dei tumori tutti quanti. Le motivazione salutistiche, si badi bene, sono uno strumento efficacissimo nel proselitismo vegan, perché è chiaro che le ragioni etiche sul benessere animale (quelle propagate con immagini sbiadite di macelli ed esperimenti vari) coinvolgerebbero solo una parte minima degli individui da convertire. Il veganismo, come altre religioni, prevede la beatitudine e la santità: anche qui, in mancanza di un paradiso dedicato (si tratta, in fondo, di una religione propriamente materialista) le promette nella vita terrena, anzi è il caso di dire carnale. Ecco che la sigla più potente dell’animalismo USA, la PETA (People for Ethical Threatment of Animals), l’associazione che ogni tanto fa spogliare la quasi sessantenne Pamela Anderson e qualche altra divetta, dirama urbi et orbi un video educazionale in cui si rivela che i vegani a letto durano di più – i sessuologi che si sono dati pena di stare a sentire, hanno ovviamente smentito. La beatitudine vegana fa anche compiere miracoli, e guadagna pure ascensioni, in senso letterale: ecco Maria Strydom, signora che nel 2016 tentò di scalare l’Everest per provare che i vegani non sono deboli come si crede; è solo un dettaglio da niente che la sudafricana sia morta nell’impresa. La religione vegan, che abbiamo capito essere fortemente organizzata, ha poi come noto la sua ostinata, ineludibile crociata: l’onnivoro è definito nel gergo interno mangiacadaveri, e va messa in discussione ogni sua tradizione, ogni sua attività anche solo vagamente connessa alla carne. Ad opera del mondo veg-animalista si sono registrati negli anni attacchi ai camion di bestiame, molestie a pescatori e cacciatori, assalti ai McDo76 - BBQ4All MAGAZINE

nald’s, lanci di liquidi contro pelliccerie e signore impellicciate, vetrine rotte, sagre interrotte (tolsero la corrente ad una festa dell’arrosticino, ma a volte incasinano anche le feste delle Pro Loco a base di rane e lumache) e poi minacce ed insulti al limite dell’insopportabile, come quando alcuni ultrà animalisti dissero che Gessica Notaro, showgirl riminese sfregiata dal fidanzato, si era meritata l’acido – la sua colpa era quella di essersi battuta per il delfinario cittadino. Lo stesso Gary Yourofsky, grande attivista americano a lungo sostenuto da PETA, ha ammesso che in effetti un attivismo vegan che sia anche pacifista non può esistere, perché chi non ha compassione non ne merita e quindi le persone cattive talvolta devono morire: «Io spero che cose cattive accadano a persone cattive, mi dispiace ma non posso portare nel cuore alcuna empatia o amore per le persone malvagie – dice il calvo attivista in una intervista – non è piuttosto irrazionale, illogico e scorretto che le persone violente condannino una risposta violenta alla loro violenza?». Siamo davanti alla giustificazione della ferocia tipica delle religioni fondamentaliste? Parrebbe proprio di sì.

FATEVENE UNA RAGIONE

Possiamo solo dirvi, in conclusione, che se proprio dovete parlare con un vegano, c’è un consiglio principale da seguire: spostate il registro. Cercherà prima di parlarvi della vostra salute e della sua (magari senza accorgersi che le spalle gli si sono rattrappite), poi passerà alla questione etica dell’amore per le creature animali. Voi non fatevi fregare e spostate subito il discorso sul vero terreno di scontro: la religione. E dite che voi un credo ce l’avete già o, se non ce l’avete, grazie ma siete a posto; se siete atei non avete rifiutato millenni di cultura religiosa per poi convertirvi di colpo al monoteismo del tofu. Qualora invece la religione ce l’abbiate, ricordiamo che per lo meno da queste parti, si è celebrato a lungo un Dio che mangiava agnello e che del nutrirsi insieme ha fatto la base della Sua fede – anzi, pensateci, il cristianesimo è religione talmente carnalista che Dio stesso si è fatto carne. Se non siete così mistici, potete ricordare quantomeno il Vangelo secondo Matteo, capitolo 15 versetti 10-11: «Ascoltate e intendete! Non quello che entra nella bocca rende impuro l’uomo, ma quello che esce dalla bocca rende impuro l’uomo!». Qualcuno può leggerla così: mangiate quel che volete, ma attenti a quello che dite: il contrario esatto di quanto fanno i vegan. Il vostro interlocutore vuole entrare in questa discussione? Ha argomenti a sufficienza? Si rende conto del fatto che il suo fare proseliti ci fa rimpiangere quando ci suonano il campanello i Testimoni di Geova o i Mormoni? Il veganismo è una religione: aiutiamo i vegani a farsene una ragione. Magari questa semplice consapevolezza rappresenterà il primo passo per uscire dal loro tunnel di rabbia e soia.


APPROFONDIMENTO a cura di ROBERTO DAL BOSCO

Morfologia della

carne vegetale Dopo averne parlato già nel numero di Marzo 2020, continuiamo il nostro viaggio nel (terribile) mondo della «carne vegana», come la chiamano. Essa è prodotta principalmente da due aziende, Impossible Foods e Beyond Meat, che non stanno con le mani in mano. Il loro prodotto si sta evolvendo. E molto. «Fino a poco tempo fa, le opzioni a base di carne sintetica – alternative a base vegetale progettate per replicare il sapore, la consistenza e l’aspetto della carne – erano spaventose» dice lo scrittore-chef J. Kenji López-Alt, ristoratore ed autore del recente bestseller The Food Lab. «Tutto è cambiato quando due società, Beyond Meat e Impossible Foods, hanno introdotto una nuova generazione di sostituti della carne vegana sviluppata con decine di milioni di dollari di finanziamenti e anni di ricerca scientifica».

Impossible Foods, nata nel 2011, ha sede a Redwood City, a Sud di San Francisco. Dall’anno scorso potete assaggiare la sua carne-non-carne da Burger King anche in Italia: basta che ordiniate il Rebel Whopper. Beyond Meat ha aperto a Los Angeles nel 2009. A luglio del 2019 valeva in borsa 11,7 miliardi (billions) di dollari, nonostante l’anno prima non arrivasse a fatturare 90 milioni. Ne abbiamo parlato il mese scorso, ma continueremo a parlarne in futuro. Perché a tavola troverete sempre più spesso quelli che «ma la carne vegana...». All’inizio saranno i vostri commensali marziani. Poi sarà il turno di amici, parenti, vostra moglie… e poi voi? Cerchiamo di non arrivare a quel punto. Dobbiamo capire una cosa: l’investimento scientifico ed economico per sostituire la carne è immane.

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Centinaia di milioni di euro, se non miliardi. Scienziati che scompongono il nostro pasto preferito per ricostruirlo sinteticamente da zero. Insomma: la carne surrogata è qui per restare; almeno fino a che qualcuno non troverà un modo per abbatterla: in genere, queste cose succedono con gli scandali alimentari. Qualche tempo fa, ovviamente sempre a partire dalla Silicon Valley, vi fu il caso di Soylent: una bevanda in polvere che avrebbe dovuto sostituire caloricamente e nutritivamente un intero pasto. Dietro al nome macabro (il soylent è la sostanza di cui si cibava la società distopica del film con Charlton Heston 2022 i sopravvissuti, che era ricavata dai cadaveri riciclati) dicevano che c’era tutta la scienza possibile. I problemi di Soylent iniziarono nel 2017 quando dovettero fermare la vendita di barrette a causa di segnalazioni di malattie gastrointestinali, tra cui nausea, vomito e diarrea. Attualmente non ho amici che si dicono entusiasti di volersi nutrire così. Per la carne finta è diverso: non si tratta di una startup nata con il crowdfunding. Si tratta, ripeto, di uno spostamento massivo di capitale e di scienza, una liberazione di energie enormi atte a far fare all’umanità un paradigm shift, un salto di paradigma, fuori dall’alimentazione a base di bovidi. Chi si è avventurato a provare questa novità tecnoalimentare – tipo lo scrivente – ha notato che il gusto del burger è differente, ma non ci si allontana. L’aspetto, pure: una tranquilla svizzera cotta a mouse ring totale, mediocre ma capace di ingannare il palato. Ciò succede perché per la ciccia sintetica i biotecnologi (e certamente gli esperti di marketing, più orde di tester) hanno lavorato per la più dettagliata mimesi possibile: consistenza (quella che chiamano texture), aspetto e sapore. Le tre dimensioni della carne che Impossible Foods e Beyond Meat hanno deciso di replicare. Talvolta riuscendoci, talvolta no: ad ogni modo, il prodotto è in tavola. Il dado vegano è tratto. 78 - BBQ4All MAGAZINE

LA CONSISTENZA

Nella carne macinata, le proteine animali forniscono una consistenza elastica e consentono alla carne di legarsi a se stessa. Grazie a questo fenomeno i burger esistono e non si sbriciolano solo a guardarli. La difficoltà incontrata dalla tecnologia vegetale dunque era dovuta alla differenza tra animali e piante: tutti i muscoli animali per necessità sono elastici, le fibre vegetali no. Per muovere i loro corpi, gli animali devono essere in grado di cambiare facilmente la forma e la tensione della loro carne senza danneggiarla. Al contrario le cellule vegetali vengono da creature piuttosto sedentarie, statiche. «Per dirla semplicemente, le piante sono croccanti e la carne è gommosa» ha scritto in un saggio pubblicato sul New York Times López-Alt. «Questo è il motivo per cui gli hamburger vegetariani possono spesso sentirsi friabili o molli nella consistenza, senza il morso e l’elasticità delle proteine animali». Per risolvere questo problema, i ricercatori hanno trascorso anni isolando e catalogando una vasta gamma di fonti proteiche a base vegetale. Il miglioramento della texture della carne vegana ora è fornito dalle proteine del grano o dei piselli. L’altro fattore principale nella consistenza del manzo è il grasso animale, che – come sa ogni seguace di BBQ4All – fornisce ricchezza e succosità al boccone. Infatti tende a sciogliersi lentamente, in un ampio intervallo di temperature. Questo lento rilascio di grasso provoca succosità che si prolunga durante la masticazione. Su questo aspetto si è giocata l’altra vertiginosa scommessa dei Frankenstein della non-carne: la differenza tra grassi animali e vegetali è abissale. Il punto di fusione di un grasso è legato al suo livello di saturazione, cioè, in termini scientifici, al numero di legami singoli rispetto ai doppi legami nella sua catena di acidi grassi. Nel caso degli animali i grassi tendono ad essere più saturi di quelli vegetali (di solito indicati come oli), motivo per cui quello di manzo e maiale è solido a temperatura


ambiente mentre gli oli di oliva e mais sono liquidi. È qui che entra in gioco il tanto vituperato olio di cocco. Esso, infatti, costituisce un’eccezione: è altamente saturo, quindi diventa solido a temperatura ambiente. Ecco allora che sia Impossible Foods che Beyond Meat utilizzano l’olio di cocco come grasso primario, producendo una consistenza avvolgente simile al grasso animale. Ci sono delle controindicazioni: l’olio di cocco si scioglie a una temperatura molto più bassa molto più velocemente. In bocca, questo si traduce in bocconi che iniziano ricchi e corposi, ma la cui succosità svanisce molto più rapidamente. «In questo ambito, le carni di origine vegetale hanno ancora molta strada da fare» sostiene J. Kenji López-Alt. Da un punto di vista sostanziale, Impossible Foods costruisce la sua texture con proteine di soia e patate, mentre Beyond Meat usa proteine di piselli, riso e fagioli verdi.

L’ASPETTO

I tecnologi si sono concentrati, e con un certo successo, a replicare il colore rosso che associamo alla carne di manzo. Nel caso del bovino, quel colore deriva dalla mioglobina, un composto che trasmette ossigeno dal flusso sanguigno alle cellule muscolari. La mioglobina, detta anche deossimioglobina, studiata per la prima volta dal Nobel Kendrew nei capodogli (avete presente: le balene con il testone) è quella proteina globulare che quando entra in contatto con l’ossigeno dell’aria diventa ossimioglobina, e di conseguenza il colore della carne passa da rosso scuro a rosso vivo. Si tratta insomma di un processo non facilissimo da riprodurre. Beyond Meat utilizza estratti di barbabietola come colorante, mentre Impossible Foods si basa su un altro composto contenente ferro chiamato leghemoglobina, una molecola di trasporto dell’ossigeno presente nelle radici dei legumi, come la soia. Nell’articolo su BBQ4All Magazine dello scorso mese abbiamo accennato ai rischi ormonali inerenti al consumo di derivati di questo tipo. Secondo James Stangle, un medico di medicina veterinaria del Sud Dakota, i prodotti con la leghemoglobina contengono 18 milioni di volte più estrogeni (ormoni femminili) in comparazione alla carne bovina normale, cosa che potrebbe portare, in alcuni, fenomeni come la ginecomastia (cioè, la crescita delle tette nei maschi). Come la mioglobina, la leghemoglobina è di colore rosso e, secondo Impossible Meat, ha un sapore che ricorda la carne. Ulteriore problema per i vegetariani amanti del bio: è oramai noto al pubblico il fatto che l’azienda produce la leghemoglobina per i suoi prodotti con l’aiuto di lieviti geneticamente modificati. Insomma: hamburger finti creati da esseri OGM. L’olio di cocco viene in aiuto anche per il look. Ambo i produttori lo impiegano incorporandolo in piccoli pezzi che imitano l’aspetto del grasso animale. Ma è l’unica fonte di grasso vegetale in gioco: gli Impossible burger sono progettati anche con l’olio di girasole, quelli di Beyond con l’olio di canola. «Quando mordi un burger Impossible o Beyond medium rare, la somiglianza con la carne macinata di colore e consistenza è sorprendente» confessa López-Alt.

IL SAPORE

Sul come abbiano ottenuto un gusto che inganna le papille gustative facendogli percepire qualcosa di prossimo alla carne ci sono solo supposizioni, perché le regole di etichettatura

della Food and Drug Administration (FDA) non impongono alle aziende di divulgare gli ingredienti aromatizzanti esatti; è bastevole la dicitura «aromi naturali» oppure «aromi artificiali». Entriamo quindi nel campo del segreto industriale, e nessuna delle due aziende – come tutte le altre, in realtà – indica di cosa si tratti. Di per sé anche questi termini possono essere fuorvianti. Gli aromi naturali e artificiali possono essere chimicamente identici tra loro, ma in USA solo quelle sostanze chimiche derivate da una fonte naturale possono essere etichettate dalla FDA come «naturali», indipendentemente da quanto siano raffinate o trasformate: un discorso scivoloso, ma stiamo parlando del resto di un miracolo di ingegneria inventato per evitare una polpetta normale. C’è poi un altro problema sugli aromi: come abbiamo visto succedere con la succosità, la propensione dei grassi di origine vegetale a sciogliersi rapidamente fa sì che i composti aromatici liposolubili si disperdano in bocca più rapidamente rispetto alla carne bovina. C’est-à-dire, come molte cose deludenti nella vita, il sapore della carne finta dura poco.

MENÙ CALIFORNIANO

J. Kenji López-Alt ha alle spalle due anni e mezzo di sperimentazione nella cottura di miscele proteiche a base vegetale progettate per assomigliare alla carne macinata e ingannare palato, occhio e lingua. «Anche prima di aprire il mio ristorante, Wursthall, un paio di anni fa, sapevo che prendere sul serio le opzioni vegane e vegetariane – con cibi tradizionalmente vegani e moderne alternative a base di carne – sarebbe stato un elemento centrale del suo successo». Il Wursthall è uno dei ristoranti che Kenji (che viene da una dinastia di veri scienziati premiatissimi, sia da parte di madre che da parte di padre) ha aperto. Sta a San Mateo, sempre sotto San Francisco: la California, ribadiamo, è per tante ragioni l’epicentro dell’assalto alla carne. «Sebbene le salsicce costituiscano la spina dorsale del menu, io e il mio team abbiamo creduto che le persone che non mangiano carne dovessero essere in grado di cenare in compagnia mista senza sentirsi cittadini di seconda classe o che il loro pasto consistesse in una serie di contorni, come fanno spesso nei ristoranti» Dopo il biennio di studi sperimentali per il suo menu californiano, López-Alt ne ha tratto qualche conclusione: con la carne vegetale puoi fare un cheeseburger; puoi fare un kebab, ma l’uso più alto della carne macinata vegana ritiene sia in quei piatti in cui lo sparpagli in una padella calda, come nel chili, che gli ha dato particolare soddisfazione. Come un buco nero, l’uso dei surrogati si espande e inghiotte le ricette circostanti, fino – sostiene lo scrittore chef – addirittura al ragù alla bolognese, che non riusciamo ad immaginare nelle mani di un californiano che utilizza vegetali che mimano la carne. La formula depositata in camera di commercio a Bologna è diversa, sì. E anche quella, fresca di stampa, del ragù scientifico di BBQ4All. Siamo veramente lontani, ad ogni modo, dalla possibilità che la carne sintetica si avvicini ai tagli del barbecue – anni luce. Non è che ci vergogniamo a pensare che la cosa rimanga così. La nostra galassia carnivora vive benissimo distante dai buchi neri. APRILE 2020

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LA RICETTA SCIENTIFICA - a cura di GIANFRANCO LO CASCIO

Croquetas

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LA RICETTA SCIENTIFICA

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Cada maestrillo tiene su librillo, ogni maestro ha i suoi trucchi dicono gli spagnoli. Sì perché le crocchette le hanno inventate in Francia, ma ogni Paese ha adattato la ricetta in base ai propri usi e costumi. In Europa esistono decine di versioni del bocconcino fritto e croccante, solitamente a base di purè di patate e pastella. Il termine crocchetta è onomatopeico, deriva da “croc”, lo scricchiolio che la panatura fritta produce quando la azzanniamo di gusto. Il nome cambia a seconda del territorio in cui lo cuciniamo: croquette in Francia, kroket in Olanda, krokett in Ungheria, korokke in Giappone, croquete in Portogallo e in Brasile, kroketten in Germania, croqueta in Spagna. È qui che diventa una pietanza molto saporita e ricca, spesso a base di besciamella e condita con pesce (bacalao, marisco, merluza, gambas), queso azúl (formaggi erborinati) e insaccati ( jamón, cecina, chorizo). Le croquetas de jamón, l’avrete senz’altro intuito, sono le mie preferite: pepite di besciamella cremosa e sapida, farcite con prosciutto iberico ridotto in piccoli pezzi, ricoperte di pangrattato e poi tuffate nell’olio bollente, da mangiare ancora incandescenti, a costo di fulminarsi il palato. Visti i recenti viaggi in terra spagnola ho deciso di mettere a punto una mia versione; vi avevo solleticato anche in Community ed eccomi qua, pronto a mantenere la parola data. Prima di iniziare e scomporre la ricetta, partiamo sempre dai trattati di gastronomia e, in questo caso specifico, dalla salsa madre che sta alla base delle croquetas de jamón: la besciamella.

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LA BESCIAMELLA LA STORIA.

Rinnegata dagli chef causa livelli di figaggine molto bassi, la besciamella regna e sopravvive all’inanellarsi dei secoli nel tepore della cucina di ogni italiano rispettabile. Appartiene alla categoria delle “salse madri”, ufficialmente creata tra i fuochi dello chef francese François Pierre (de) La Varenne (1615 – 1678) cuoco di Nicolas Chalon du Blé, in onore del marchese di Nointel Louis de Bechameil. Voci di corridoio sostengono invece sia nata col nome toscano di “salsa colla” all’epoca di Caterina De’ Medici. Pellegrino Artusi ci mette del suo e la chiama simpaticamente balsamella, ne “La Scienza in cucina e l’Arte di mangiar bene” la indica come “il segreto principale per una cucina fine”. Una besciamella perfetta deve essere setosa, brillante e totalmente priva di grumi. Questi si possono formare se non abbiamo mescolato in modo appropriato il burro e la farina, nella prima fase, e se abbiamo aggiunto il latte caldo, che gelatinizza all’istante la parte esterna dei granuli di farina e raggruma rovinosamente ogni speranza di una buona riuscita.

LE VARIANTI

La ricetta è facilmente adattabile alla destinazione d’uso, possiamo regolare la densità della besciamella aumentando la quantità di farina e burro, ma sempre mantenendo un rapporto costante tra i due ingredienti (burro e farina in pari peso). Per una salsa piuttosto densa useremo la più classica delle ricette: • 500ml di latte intero freddo o a temperatura ambiente • 50g di burro • 50g di farina debole Per una salsa più fluida, da utilizzare in timballi o lasagne, vireremo su questa: • 500ml di latte intero freddo o a temperatura ambiente • 25g di burro • 25g di farina debole

LA TECNICA

Ma come preparare la besciamella? Requisiti fondamentali: un pentolino dal fondo spesso, una frusta da cucina. 82 - BBQ4All MAGAZINE

Sciogliere lentamente il burro in un pentolino dal fondo spesso; trattandosi di burro non chiarificato comincerà a schiumare dopo qualche secondo. Lasciar evaporare la parte acquosa, non vogliamo che questa si leghi alla farina e trasformi la nostra salsa in una ignobile colla per manifesti. Aggiungere in un solo colpo la farina setacciata e girare velocemente con una frusta per amalgamare i due ingredienti. Lasciar cuocere per qualche minuto a fiamma dolce e far raffreddare leggermente prima di addizionare il latte. Il “roux” appena ottenuto può essere conservato in frigorifero ed utilizzato per addensare diverse tipologie di salse. Versare il latte a filo, freddo o a temperatura ambiente, nel pentolino, amalgamare velocemente al resto degli ingredienti con dei repentini giri di frusta e portare ad ebollizione. Prolungare la cottura della besciamella di qualche minuto e lasciar addensare, sempre mescolando. Coprire con pellicola a contatto o con un coperchio per evitare la formazione della fastidiosissima “pellicina”.

I TRUCCHI

Non puoi considerarti un cuoco se non padroneggi le salse madri - e come ogni preparazione culinaria che si rispetti - la pratica e un po’ di ingegno rendono perfetti. Per realizzare una besciamella priva di difetti dovete fare due cose: 1 Evitare i grumi Aggiungendo latte al roux gradualmente, permettete al roux stesso di incorporare la parte liquida in maniera uniforme e a un ritmo controllabile. Mai e ripeto mai aggiungere latte caldo, rischiereste di far partire la gelatinizzazione degli amidi contenuti nella farina. 2 Aggiungete altro roux Se la vostra besciamella risulta troppo lenta, anche dopo averla cotta per il tempo necessario, potete sempre fare un secondo batch veloce di roux e rimetterla a posto. Saprete che la besciamella è pronta, e della giusta consistenza, quando riuscirà a nappare il retro di un cucchiaio di legno.


LA RICETTA SCIENTIFICA - a cura di GIANFRANCO LO CASCIO

APPROFONDIMENTO: LA SALSA MORNAY LA STORIA DELLA SALSA MORNAY Troppo spesso scambiata per sua madre, la besciamella appunto. In realtà, nonostante le similitudini, le salse hanno una formulazione leggermente diversa. La salsa Mornay è una besciamella a cui viene aggiunto formaggio, tuorli d’uovo e talvolta panna fresca. Generalmente si utilizza il più pop dei formaggi, il Parmigiano Reggiano, ma ci si può concedere anche il Pecorino, l’Emmentaler, il Gruviera o persino un buon Cheddar artigianale.

secolo, il locale in cui la salsa è comparsa per la prima volta in via ufficiale. Nella Parigi dell’epoca, quella di Carlo X, il nome Mornay apparteneva soltanto a due uomini: il marchese di Mornay e suo fratello, il conte Charles. Queste persone vengono citate nelle memorie di Lady Blessington che ricostruiscono la vita nella capitale francese tra il 1828 e il 1829.

Come avviene per molte preparazioni, c’è un dibattito infuocato sulla paternità della ricetta. Mater (la besciamella) semper certa est, del resto. Alcuni sostengono che l’inventore sia il Duca di Mornay, eppure c’è chi dissente. Filippo di Mornay visse tra il 1549 e il 1623 e fu governatore e signore della tenuta di Plessis-Marly, oltre che scrittore e apprezzato diplomatico. Il fatto che sia vissuto a cavallo tra il XVI e il XVII secolo, però, ci pone di fronte a degli interrogativi importanti. Anzitutto, in una tavola imbandita del ‘600 una salsa di quella risma poteva essere solamente una vellutata, dato che la besciamella non aveva di certo l’aspetto e le caratteristiche della versione che conosciamo tutti. Della salsa Mornay non vi è traccia nemmeno nella decima edizione de “Le cuisinier Royal” (1820), una enciclopedia gastronomica molto autorevole. Inoltre, questa preparazione non dovrebbe essere più antica de Le Grand Véfour, storico ristorante parigino sorto nel XIX

LA RICETTA • 500g di besciamella • 100g di panna fresca • 100g di formaggio grattugiato (Parmigiano Reggiano, pecorino ma anche Emmentaler, Gruviera, Gouda o Cheddar) • 60g di tuorli • 30g di burro

La storia è quindi controversa e manca sicuramente qualche pezzo.

Alla besciamella calda unite i tuorli, la panna fresca ed il burro. Completate con il Parmigiano grattugiato, profumate con una macinata di pepe e regolate di sale (fate attenzione perché il formaggio è già salato di suo). Amalgamate accuratamente con una frusta fino a ottenere una composto omogeneo. Usate la salsa mornay versandola sopra l’ingrediente che volete gratinare, già precotto, bollito o saltato, e sistemato su una teglia. Si sposa alla grande con patate, cavolfiori, asparagi, capesante, uova, ostriche, cozze, ma anche con la pasta come gnocchi, lasagne o timballi.

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LA RICETTA SCIENTIFICA - a cura di GIANFRANCO LO CASCIO

ANATOMIA DELLA BESCIAMELLA Latte, farina, burro. Il grasso per dare sapore, il latte per dare corpo, la farina per addensare. Ma siamo proprio sicuri che la farina sia l’ingrediente giusto? Sono anni che non la uso più per fare salse e creme, meglio utilizzare gli amidi puri, molto più diligenti in cottura e soprattutto dal sapore meno invadente. AMIDO

AMILOSIO %

AMILOPECTINA %

patata

21

79

tapioca

17

83

mais

28

72

mais "ceroso"

0

100

frumento

28

72

TABELLA 1: STRUTTURA DEGLI AMIDI

COSA SONO GLI AMIDI: LA STRUTTURA

L’amido è un polisaccaride costituito da lunghe catene di molecole di glucosio collegate tra loro sotto forma di amilosio (che è composto principalmente da molecole lineari) o amilopectina (le cui molecole sono altamente ramificate).

Le proporzioni di amilosio e amilopectina che si trovano negli amidi variano a seconda della fonte vegetale dell’amido, ma la maggior parte di essi contiene circa il 75% di amilopectina e il 25% di amilosio. È il contenuto di amilosio variabile a causare differenze di consistenza negli alimenti: amidi e fecole con livelli più alti di amilosio tendono a gelificare, mentre quelli con un contenuto più elevato di amilopectina ci daranno un prodotto “gommoso”.

LE CARATTERISTICHE DEGLI AMIDI

Gli amidi subiscono quattro processi: gelatinizzazione, gelificazione, che è la formazione del gel, retrogradazione e destrinizzazione. Sono queste capacità che li rendono così preziosi nella preparazione dei cibi, anche se alcuni sono più utili di altri. La concentrazione di amilopectina e amilosio determinano e fissano il range di temperature entro i quali questi fenomeni hanno luogo. Gli amidi possono anche essere modificati chimicamente o fisicamente per meglio servire a scopi specifici (vedi amidi ibridi o pre-gelatinizzati), ma di questi parleremo un’altra volta.

Tipologia di amido

Temperatura critica

Caratteristiche dell'amido cotto

Radici e tuberi (patate e tapioca)

56-70°C

viscoso, pasta semi-trasparente, gel poco stabile

Cereali (mais, sorgo, riso, frumento)

62-75°C

Viscoso, pasta opaca, gel stabile

Ibridi cerosi (mais e sorgo)

62-74°C

Molto denso, pasta chiara, resistente alla gelificazione in fase di raffredamento

Ibridi ad alto contenuto di amilosio (mais)

100-160°C

Rigido, pasta opaca, gel molto stabile

TABELLA 2: CARATTERISTICHE DEGLI AMIDI COTTI

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LA GELATINIZZAZIONE

Avviene quando i granuli di amido vengono riscaldati all’interno di un liquido. L’acqua, il latte o il brodo sale di temperatura, i legami di idrogeno che tengono insieme l’amido si indeboliscono, permettendo alla parte acquosa di penetrare nelle molecole di amido, causandone il rigonfiamento fino al raggiungimento del picco di densità. I granuli di amido si idratano progressivamente, gonfiandosi e perdendo la struttura cristallina, amilosio e amilopectina entrano in soluzione con l'acqua, formando legami con essa, di conseguenza l’acqua in forma libera diminuisce e la viscosità della soluzione aumenta. Per capire questo concetto, immaginate di avere una piscina piena di acqua e di palloncini vuoti: si potrà ancora nuotare in mezzo ai palloncini, ma se li gonfiamo con l'acqua della piscina, il liquido nel quale possiamo nuotare verrà intrappolato, e se il numero di questi è sufficiente, ci troveremo nell'impossibilità di sguazzare perché non ci sarà più acqua in forma libera. Così, se scaldiamo una quantità sufficiente di granuli d'amido in un litro di latte, quando questi si saranno gonfiati avranno sottratto gran parte dell'acqua libera, che si sarà trasformata in una soluzione densa e viscosa. L'aumento del volume e della “gommosità” associato alla gelatinizzazione cambia radicalmente la consistenza di molti alimenti. Pasta, riso, avena, patate e la maggior parte delle salse, minestre e budini sono molto diversi in termini di consistenza prima e dopo la cottura. La gelatinizzazione dipende da diversi fattori: quantità d’acqua, temperatura, tempi di cottura, agitazione e presenza di acidi, zuccheri, grassi e proteine. ACQUA Deve essere disponibile in quantità sufficiente per l'assorbimento da parte dell'amido. La percentuale di liquido necessaria dipende dalle concentrazioni di amilosio e amilopectina nell'amido. Quando si preparano alimenti amidacei come i cereali o la pasta, l’acqua non viene aggiunta solo per coprire l’alimento, ma anche per consentire l’evaporazione e l’espansione in termini di volume. TEMPERATURA Gli amidi non si dissolvono in acqua fredda o a temperatura ambiente. Nei liquidi riscaldati, i granuli di amido si gonfiano e scoppiano, rilasciando più particelle di amido nel liquido. L'intervallo di temperatura entro il quale la gelatinizzazione può verificarsi varia a seconda del tipo di amido. L'ispessimen-

to inizia di solito a circa 60°C. Alcuni amidi derivati da radici, come la tapioca, hanno alte concentrazioni di amilopectina, e questo innesca l'ispessimento a temperature più basse. La maggior parte degli amidi gelatinizza quando la temperatura raggiunge i 56°C-75°C. Più grandi sono i granuli di amido (vedi quelli della patata) più gelatinizzeranno a temperature più basse, mentre i granuli più piccoli, come quelli del grano, gelatinizzeranno a temperature più elevate. TEMPI DI COTTURA Il riscaldamento oltre la temperatura di gelatinizzazione riduce la viscosità. I granuli di amido si rompono quando il riscaldamento continuo sollecita i legami che li tengono insieme. L’AGITAZIONE È necessario mescolare durante la formazione precoce della pasta di amido o della miscela di amido gelatinizzante al fine di garantire una consistenza uniforme e di evitare la formazione di grumi. Un rimescolamento continuo o troppo energico, tuttavia, provoca la rottura prematura dei granuli di amido, con il risultato di una pasta di amido scivolosa e meno viscosa. Questo vale anche per l’utilizzo del frullatore ad immersione o del colino. Quindi vi è concesso qualche colpetto di minipimer, ma poi rimettete tutto sul fuoco per ristabilire la densità necessaria. ACIDI Gli acidi, come il succo di limone, il vino e l'aceto, indeboliscono la capacità degli amidi di addensarsi. In particolare, un pH inferiore a 4,0 diminuisce la viscosità di un gel di amido. ZUCCHERI Lo zucchero compete con l'amido per l'acqua disponibile, ritarda l'insorgenza della gelatinizzazione e rende necessaria una temperatura di esercizio maggiore. Gli zuccheri che hanno più impatto, in ordine da minimo a massimo, sono: fruttosio, glucosio, lattosio e saccarosio. Altri fattori che contribuiscono al rallentamento della gelatinizzazione causata dagli zuccheri sono il ridotto rigonfiamento granulare e le ridotte interazioni amido-zucchero e amido-acqua. GRASSI/PROTEINE I grassi o le proteine ritardano la gelatinizzazione poiché rivestono con una “patina” i granuli di amido e gli impediscono di assorbire l’acqua.

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LA RICETTA SCIENTIFICA - a cura di GIANFRANCO LO CASCIO LA GELIFICAZIONE

La gelatinizzazione deve avvenire prima della fase successiva, la formazione del gel, chiamata anche gelificazione. Una pasta di amido fluido è un sol, mentre una pasta semisolida è nota come gel. Non tutti gli amidi gelificano, ma tra quelli che lo fanno, il gel si forma dopo che il sol gelatinizzato è stato raffreddato, di solito a meno di 38°C. La formazione del gel dipende dalla presenza di un livello sufficiente di molecole di amilosio, perché l'amilosio gelificherà e l'amilopectina no. Le molecole di amilosio lineari formano legami forti, mentre le molecole di amilopectina altamente ramificate formano legami troppo deboli per contribuire alla densità del prodotto finale. I legami che si formano tra le molecole di amilosio creano una rete tridimensionale che intrappola l'acqua e aumenta la rigidità della massa d’amido.

LA RETROGRADAZIONE

Quando l'amido gelatinizzato si raffredda, avviene un fenomeno chiamato retrogradazione (o ricristallizzazione) dell'amido, un processo che tende a far tornare l'amido in una confi-

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gurazione simile (sebbene mai identica, la gelatinizzazione è un processo irreversibile) a quella iniziale. Quello che avviene con la retrogradazione è un riarrangiamento delle catene di amilosio e amilopectina, con conseguente esclusione di una parte dell'acqua che era stata inglobata dalla struttura. La retrogradazione è un processo reversibile, nel senso che fornendo calore al prodotto l'amido gelatinizza nuovamente.

LA DESTRINIZZAZIONE

Un altro processo caratteristico degli amidi è la destrinizzazione, che si traduce in un aumento della dolcezza. L’effetto collaterale è che gli amidi destrinizzati perdono molto del loro potere addensante poiché sono stati scomposti in unità più piccole; quindi, è necessario più amido per addensare la salsa se la farina è stata rosolata con un grasso (vedi roux bruno per esempio).


COSTRUZIONE DI UNA SALSA L'AGENTE ADDENSANTE

Quello più utilizzato è senz’altro la farina di frumento, specialmente in Nord America e in Europa, mentre nei paesi asiatici si fa largo utilizzo di amido di riso o mais. Gli amidi pre-gelatinizzati o istantanei accelerano il processo poiché si addensano immediatamente e a freddo, ma preferisco parlarne in un’altra occasione perché sono difficili da reperire. Uno dei primi passi nella preparazione di una salsa è quello di aggiungere un addensante amidaceo sotto forma di roux, beurre manié (pomata di burro e farina 1:1), o roux freddo (mix di acqua e farina). Il roux “classico” si prepara come descritto prima: il burro fuso ricopre i granuli di farina, che in questo modo rimarranno separati e non si appiccicheranno tra loro formando dei grumi. Il liquido freddo viene aggiunto gradualmente alla farina cotta con il burro, e questa combinazione viene scaldata fino a raggiungere la consistenza desiderata, a seconda del tipo di salsa che si sta preparando. Esistono tre tipi di roux: bianco, biondo e bruno. Man mano che il roux cuoce, diventa più scuro (la cara e vecchia reazione di Maillard): il suo sapore inamidato diminuisce, ma anche il suo potere addensante si riduce (le molecole di amido vengono scomposte dal calore). Così, più scuro è il roux, più dovrete utilizzarne per ricavare una salsa densa e vellutata.

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LA CROQUETA DE

JAMÓN

Abbiamo ripassato la teoria, sappiamo tutto sugli amidi e possiamo procedere con la parte divertente della faccenda: la costruzione della crocchetta. Prima di passare alla preparazione della besciamella, la massa principale, dobbiamo “affinare” e trasformare l’ingrediente chiave: il prosciutto spagnolo, noto ai più come “Pata Negra”. Facciamo un passettino indietro e spendiamo un po’ di inchiostro per approfondire: il nomignolo “Pata Negra”, letteralmente “unghia nera”, sta a differenziare i prosciutti di maiali spagnoli con gli zoccoli scuri. Volete sapere la novità? È un denominazione che non ha nessun senso . Non tutti i maiali iberici hanno l’unghia nera né l’unghia nera è un’esclusività di questa razza, sono altre le caratteristiche che distinguono un prosciutto spagnolo di qualità. A tutelare produttori e consumatori ci pensa un decreto che riconosce solo tre tipi di denominazioni di prosciutto iberico, tutte stabilite in base al tipo di alimentazione dei maiali durante la fase di ingrasso: Prosciutto Iberico De Cebo, alimentato con mangimi a base di cereali e leguminose. Prosciutto Iberico De Cebo De Campo, allevato a regime semi brado e combinato di mangimi, foraggi e risorse campestri. Prosciutto Iberico De Bellota: durante la Montanera, il periodo che va da ottobre a dicembre, il maiale vive allo stato brado e si ciba esclusivamente di ghiande di leccio, sughero o rovere. Ed è proprio questo il prosciutto che andremo ad utilizzare noi. Parliamo di una materia prima nobile e dal sapore sbalorditivo: assaporando la fibra tenera ed untuosa, scioglievole come nessun prosciutto al mondo potrà essere, si possono cogliere note stagionate che ricordano le erbe selvatiche, il fungo, il tartufo, che aumentano di intensità e complessità a seconda della stagionatura. Tornando alla nostre crocchette, gli spagnoli estraggono il sapore dal prosciutto schiaffandolo in padella insieme all’olio o al burro e la farina, preparando un roux aromatizzato da allungare con il latte. Tened paciencia ma io soffro solo all’idea di dover friggere un prosciutto crudo così prezioso. È per questa sensazione di disagio che mi sono inventato una soluzione più efficace e meno truculenta.

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IL BURRO "PROSCIUTTATO" In pratica consiste in una chiarificazione del burro con un’infusione di prosciutto in pezzi. Si fa così: INGREDIENTI • 250 gr di burro (materia grassa minimo 82%) • 125 gr di jamón de bellota 100% iberico PROCEDIMENTO Riducete il prosciutto in piccoli pezzi o cubetti. Io avevo a disposizione del prosciutto spagnolo sottovuoto “cortado” (affettato) a mano. Inseritelo in un sacchetto per il sous vide e 90 - BBQ4All MAGAZINE

aggiungete il panetto di burro, avviate il roner impostando la temperatura a 65°C e dimenticatevelo per due ore. Potete effettuare questa operazione in un pentolino a bagnomaria oppure in un gingillo simil-Bimby, l’importante è non sfondare la soglia dei 65°C. Una volta fuso, trasferite in una contenitore e piazzate in frigo per almeno 12h. Trascorsa la mezza giornata, scaldate il tutto e separate i pezzetti di prosciutto, vi serviranno in un secondo momento per “condire” la besciamella. Lasciate solidificare nuovamente in frigorifero: otterrete un burro chiarificato e prosciuttato a dovere, con uno strato di siero e gelatina depositato sul fondo (guai a voi se lo buttate!).


LA BESCIAMELLA SCIENTIFICA Okay, okay, lo spiegazzo è stato lungo, lo ammetto. Ma adesso possedete tutti gli strumenti per spignattare la vostra pozione, senza grumi o retrogusto di gesso. Avete fondamentalmente due strade: partire da un roux di amido di frumento e burro oppure dall’amido mescolato nel latte freddo. L’importante è tenere sotto controllo la temperatura, poiché sforando i 75°C rischiate di sabotare la salsa. So a cosa state pensando. Posso usare il Bimby/Kenwood Chef? Certo che sì. Posso preparare la besciamella sous vide? Ni, perché agitare il composto durante la cottura è importante, come detto qualche paragrafo fa. INGREDIENTI • 1 litro di latte intero • 100 g di amido di frumento • 100 g di burro “prosciuttato” • 125-200 g di jamón de bellota 100% iberico (125 gr usati per l’infusione più 75 gr a “a crudo”) • 20 g di gelatina di prosciutto (il fondo del burro chiarificato) • Noce moscata q.b. • Pepe nero macinato fresco q.b. • Sale q.b. PROCEDIMENTO 1 Acchiappate un tegame, aggiungete il burro (la parte gialla) e l’amido di mais. Riscaldate delicatamente ed avrete un roux bianco, liscio e con i grassi completamente disciolti. Il passo successivo nella preparazione della salsa è quello di combinare il liquido, il latte nel nostro caso, rigorosamente a tempe-

ratura ambiente o appena tiepido, versandolo a filo sul roux caldo e lavorandolo con una frusta. Per eliminare del tutto il sapore amidaceo bisogna raggiungere i fatidici 75°C. Continuate a cuocere la besciamella a fuoco dolcissimo, fino a quando non raggiunge una densità pari a quella del purè di patate, mescolando di continuo. A questo punto aggiungete i cubetti di prosciutto, la gelatina, il pepe e la noce moscata. Assaggiate e aggiustate di sale se serve. Lasciate raffreddare con la pellicola a contatto e fate rassodare in frigorifero. PROCEDIMENTO 2 Potete saltare il passaggio del roux e partire dal latte freddo miscelato con l’amido. Disperdete con cura la polvere nel liquido e mettete sul fuoco. Portate delicatamente a temperatura (75°C), lasciate addensare e aggiungete il burro e la gelatina. Continuate a lavorare con la frusta e ultimate la salsa unendo il prosciutto, il pepe, la noce moscata. Assaggiate e regolate di sale, potrebbe essere già abbastanza salata per via dello jamon. Lasciate raffreddare con la pellicola a contatto e fate rassodare in frigorifero. L'ALTERNATIVA AL FORMAGGIO In Spagna non si utilizza, ma i più golosi sono liberi di sperimentare. Una volta preparata la besciamella, mettetene da parte 500 grammi e aggiungete a caldo una miscela fatta con 60 grammi di tuorli 100 grammi di panna fresca. Mescolate con una frusta e unite 30 grammi di burro e 100 grammi di formaggio grattugiato (Parmigiano Reggiano 18 mesi). Controllate la consistenza e se necessario riportate sul fuoco (basso), la salsa deve essere molto densa. Ultimate con il prosciutto e le spezie, omettete il sale. Coprite con pellicola e lasciate rassodare in frigorifero. APRILE 2020

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LA FORMAZIONE DELLE CROCCHETTE PER LA PANATURA • Pangrattato o panko • 4 uova PROCEDIMENTO Una volta raffreddata la massa, trasferitela in una sac à poche (diametro della punta: 2 cm) e dressatela nell’albume leggermente sbattuto, come in foto. Il composto a base di besciamella deve essere abbastanza denso da non perdere la forma. Tagliate dei cilindretti con le forbici e passateli nel pangrattato o panko. Fatta questa prima panatura, rimettete la crocchette in frigorifero per almeno 15 minuti, per far aderire bene. Nel frattempo sbattete i tuorli negli albumi, sfrutterete il loro potere legante e apporterete grasso e sapore. Passate le crocchette già panate nell'uovo e poi subito nel pangrattato (o nel panko*). Disponetele su un unico strato su di un vassoio e trasferite in congelatore per venti minuti. *Non riuscite a trovare il panko? Procuratevi un filone di pane in cassetta, tagliatelo a fette di 1 cm e scaldatele in forno ventilato a 160°C per 5-10 minuti, il tempo di disidratarlo leggermente. Quindi tagliate via la crosta, tritatelo al mixer o meglio ancora grattugiatelo con una grattugia a fori larghi. Nel frattempo scaldate l’olio, quando avrà raggiunto i 190°C friggete le crocchette in immersione, poche alla volta, per non fare abbassare la temperatura all’interno del tegame. Cuocete fino a quando non si colorano esternamente, dovete solo far dorare la panatura perché la besciamella all’interno è già cotta. Servite le croquetas de jamón caldissime, quasi ustionanti: schioccheranno in bocca come le nacchere, farete un viaggio sensoriale e lisergico al pari di Gaudì. Bene, siamo arrivati in fondo all’articolo e di cose ne abbiamo imparate parecchie. Ora procuratevi gli ingredienti necessari e ricordate:

"el que sigue la consigue." (Chi segue i consigli raggiunge i risultati) Gianfranco Lo Cascio

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SEGUO - RUBRICA a cura di EMILIANO NENCIONI

SE G U O ,

ma ad un metro di distanza Al m omen to in cu i scr iv o l ’ I t al ia, m a o r m ai an che m e z z o mondo, è in co m p l e t o l o ckdo w n . Spiego per i posteri, per chi ci leggerà fra anni, ritrovando il magazine in qualche cassetto abbandonato o tra i residui della piattaforma digitale Issuu: c’è stato un periodo, alla fine dell’anno 2019, in cui alcune eco distanti di brutte sindromi influenzali in qualche posticino della Cina generavano risatine e facezie su quanto fosse poco igienico mangiare pipistrelli, e allora via libera ai meme su Ozzy Osbourne, allegria a denti stretti, cose del genere; nelle prime settimane del 2020 in Cina in molti iniziavano a preoccuparsi e a registrare i primi decessi, ma lo stivale era completamente assorbito - io per primo - dalle vicende entusiasmanti del Festival di Sanremo: non è tanto la radio che ti pugnala con il festival dei fiori, quanto l’incredibile fruibilità social di una lite in diretta entrata nella storia della TV generalista. Una canzone modificata lì per lì, in piena gara, diventa un violento dissing fra i componenti di un malassortito duo; è un capolavoro mediatico: si registra un’anomalia nella produzione di meme, gif e tormentoni, cover, reinterpretazioni, il web impazzisce. Le notizie di una città mai sentita prima, Wuhan, in cui gli abitanti sono costretti all’isolamento domiciliare forzato, interrompono fastidiosamente gli agognati aggiornamenti sugli sviluppi della faida tutta italiana: è stato bullismo? È stato un momento di creazione estemporanea di arte? È stata una mancanza di rispetto? Anche alla RAI parlano di rispetto quando semplicemente qualcuno fa una cosa che a loro non piace? E basta con ‘sti cinesi, che non ci interessa. Al massimo, smettiamo di andare all’ All You Can Eat.

La prima conseguenza sul suolo italico è stata proprio questa: ristoratori, parrucchieri, riparatori di telefonini, piccoli imprenditori asiatici in difficoltà economiche: la reazione dell’italiano è stata pronta e efficacissima: un hashtag! Scriviamo tutti #abbracciauncinese continuando a canticchiare “le tue brutte intenzioni, la maleducazione…” Poi è arrivato il primo caso in Italia, e per lo più la reazione è stata “ma chissà cosa ci sarai andato a fare in Cina”. Poi c’è stata una seguitissima partita di calcio allo stadio, e Bergamo si è riempita di casi positivi. Poi alcuni Stati hanno deciso di non accettare aerei o navi provenienti dall’Italia. Ci siamo affrettati a scrivere su tutti i nostri profili social che era una comunissima influenza, che tutti gli anni c’è qualche vecchietto che muore. Poi il comune di Codogno è diventato improvvisamente famosissimo in Italia solo per il denso focolaio d’infezione, “un po’ come Domodossola per la D”, ho letto da qualche parte. Ma #Milanononsiferma, la gente scriveva. Nel frattempo, si registrano sempre meno critici musicali e sempre più virologi e immunologi dilettanti, in attività sui social. Poi… Poi ci sono stati dei decessi di personale ospedaliero, gente giovane, gente sana. Ma era sempre un problema di qualche posticino al Nord. Era sempre una brutta influenza gestita male dallo Stato. APRILE 2020

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Attualmente abbiamo tutti i capelli incolti, l’automobile sporca, la pelle delle mani screpolata dai furiosi e frequenti lavaggi a scopo sanitario - e non voglio tirare in ballo i problemi economici che sono sopraggiunti per tantissimi di noi.

Una mattina ci siam svegliati, e invece dell’invasòr abbiamo trovato il silenzio. Negozi chiusi, strade deserte. “Tutta l’Italia è zona rossa, #restateacasa, #andràtuttobene” La situazione era ben diversa, pesante, restrittiva, un grosso cambiamento per le nostre abitudini, ma ci erano stati forniti ben DUE hashtag. Certo, per qualche giorno non avremmo lavorato, non saremmo andati a scuola, niente bimbi dai nonni, niente cinema, ristoranti vuoti, ma che sarà mai: “state a casa, è così bello, riscoprite la famiglia!”. Ok, facciamolo. Divano, serie televisive in streaming, la geniale mossa del sito per adulti più famoso del mondo che regala l'abbonamento premium a tutti gli italiani. Spuntano lenzuoli bianchi, con arcobaleni disegnati e hashtag istituzionali, appesi ai balconi: sarà uno spasso, stiamo per un po’ a casa! E il tempo è passato; a un certo punto, parecchio tempo è passato. L’appuntamento irrinunciabile è diventato l’AperiCovid, il report giornaliero della Protezione Civile, alle 18; il momento della suspance è invece il discorso del Presidente del Consiglio, che volta per volta ci chiede ancora uno sforzo in più. I lenzuoli bianchi sono diventati grigi, sporchi, le scritte a tempera si sono slavate, colando come i titoli di testa dei film dell’orrore, diventando una specie di simbolo per un ottimismo forzato che inizia a mostrare il suo retrogusto amaro. Anche i flash mob dal balcone, incoraggiati dai media i primi giorni, ci sono venuti ampiamente a noia: va bene cercare di tirare su l’umore, ma se sei stonato e fai solo per riprenderti col selfie stick e raggranellare due views sul tuo profilo, allora dai fastidio già alla terza volta. Al momento in cui scrivo, dicevo, abbiamo imparato a prendere il dato di 700 morti in 24 ore come un deciso miglioramento che ci fa ben sperare. Anche i più accaniti sostenitori del “solo una banale influenza” hanno cambiato registro, spostandosi per lo più sulla critica politica. 96 - BBQ4All MAGAZINE

In tutto questo bel clima di serenità, disteso, sono chiamato a scrivere la rubrica Seguo. Una rubrichetta dove si dovrebbe parlare di “pittoresca fauna da social”, che spesso sfora nella filosofia spicciola per ironizzare sui parallelismi nel comportamento dei troll, o che con l’abusata scusa del “sembra proprio il metodo BBQ4All!” finisce per raccontare una storia insolita su qualche fisico stralunato, o su una matematica discriminata per il suo essere donna, o su un’attrice del cinema muto che getta le basi per le trasmissioni Wi-Fi. Una rubrica, diciamolo finalmente, che fa arrabbiare la gente, quando non cerca disperatamente di farla divertire con due trovate originali; una rubrica che avrebbe potuto far arrabbiare molte più persone, se solo la gente leggesse oltre il quarto rigo. Ho pensato a lungo sull’opportunità di scriverla, la rubrica, o se al contrario saltare un mese. Troppo facile, al momento, pestare un nervo scoperto e risultare sciacallo o inadeguato; poi chi mai, dopo trenta giorni di isolamento sociale, ha ancora voglia di paragonare l’esistenzialismo di Heidegger al rigore dei 52 gradi del Revit? Però poi ho fatto mente locale a quei famosi “sei lettori” della Seguo. È veramente uno sfizio vedere come si cerchi, diffusamente, di far capire agli altri lettori che si è letta la Seguo, postando alcune cose in Community, ma senza dichiararlo chiaramente:


riferimenti, paroline in codice, allusioni che solo i lettori di vecchia data possono capire, una specie di gergo carbonaro spontaneo, dovuto forse agli iniziali rimbrotti che i vari estimatori della rubrica si sono beccati dopo un coraggioso “è la cosa che leggo per prima!”. Da qui il consueto adagio “non fate complimenti”, inteso stavolta non come “sentitevi completamente a vostro agio”, ma proprio come ...non scrivete complimenti in pubblico, non per la Seguo, per il bene stesso della Seguo! Però vi siete ingegnati, avete scritto cose sibilline pur di recapitare il messaggio, incuranti del rischio, e in tutto questo come potrei essere così ingrato da lasciarvi un mese senza Seguo? Non me la sono sentita. Un episodio della nota sitcom “ossessioni in griglia”, magari? Il manoscritto dell’anonimo è sempre qui, pronto alla consultazione. No, farvi leggere i litigi di uno stereotipato gruppo di grigliatori in conflitto, privi di distanziamento sociale e non #rimastiacasa, mi pare indelicato. Ma la soluzione è sotto gli occhi di tutti, lampante! Ricorrerò ad uno dei famosi confronti della Seguo: da una parte un esecrabile e inflazionato comportamento da troll, e dall’altra una lucida dissertazione su una teoria scientifica, un capolavoro letterario, una corrente filosofica del ’900. È praticamente inevitabile un lesto paragone fra le angosce del griller in lockdown da pandemia e i monatti del Manzoni, la Storia della colonna infame e le nuovissime denunce lanciate da un cortile all’altro per grigliate abusive senza mascherina. Inizio sicuramente con un toccante raffronto fra le paure e le

sensazioni di vulnerabilità, il degenerare del risentimento della gente che finisce nella caccia all’untore - o a chi fa jogging, poi per completezza tiro in ballo anche Boccaccio ed i noti tre ragazzi e sette ragazze che, in isolamento volontario, si intrattenevano con racconti un po’ bucolici e un po’ scollacciati, invece di fare scorta di lievito e mettersi a cuocere focacce su focacce, invece di produrre gel disinfettanti inefficaci secondo tutorial condivisi da youtube, ...e sono già a tre pagine di contenuto discutibile, pronto per chi fa finta di non leggere, per chi non legge e per chi legge ma non lo può dire a nessuno. Nel finale, inevitabile, un rimando alla scena della morte di Cecilia dei Promessi Sposi, che però non rovinerò con battutine cretine o rimandi cinici al bulletto facebookiano del mese, dal momento che è una pagina di letteratura sublime e non può essere toccata in nessuna maniera, specie per i turpi scopi mensili della Seguo. Passaggio memorabile, il sopradetto, che vi esorto a rileggere da adulti se non ne avete memoria o se l’avete affrontato solo alle scuole medie, con le dita nel naso, svogliati, distratti e generalmente maleodoranti. Invece, a quanto pare, questo non è successo. Non ho scritto una Seguo giustapponendo le due timeline peste/covid o Manzoni/Facebook. Per quale motivo? Perchè ogni blogger, ogni youtuber, ogni influencer, ogni grafomane l’ha già fatto: era troppo invitante. Anche i giornalisti “veri”, quelli che scrivono sul giornale che si compra in edicola (ma si può ancora comprare un giornale in edicola? Mi sa di no), si sono decisamente sprecati in arditi raffronti sulla falsariga di quello che pensavo di fare io. Per cui va bene che sono prosciugato dalla carenza di stimoli causa blocco domiciliare forzato, va bene il malumore generalizzato, va bene l’impossibilità di trattare alcuni argomenti, ma anche mettere lì la cosa banalotta trita e ritrita, condivisa da qualunque blogghettino acchiappaclick, no, quello proprio no. Per non farmi mancare il consueto incremento nella curva degli hater però ho lasciato qualche easter egg nell’articolo sul pollo assiso sulla lattina, andatevelo a rileggere con occhio critico per poi fare commenti criptici che capiamo in cinque o sei. Emiliano Nencioni Distanziato socialmente ben prima che diventasse mainstream.

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NEW YORK

SLIDERS 200g (4x50g)

Un piccolo hamburger che andrà letteralmente a ruba nelle occasioni di festa. Particolarmente adatto ai bambini per le dimensioni ridotte, è perfetto per aperitivi, cene informali, serate in famiglia. Un vero e proprio boccone di puro sapore, che si presta ad essere declinato in mille versioni e abbinato a un’infinità di sapori, ma sorprendentemente gustoso e succulento anche da solo.

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ORIGINAL

BURGER 200g

Diventa il re della griglia durante le giornate in compagnia di amici e familiari grazie a questo hamburger da 200 grammi. Il perfetto bilanciamento del gusto, dato dall’equilibrio ideale di parte grassa e parte magra nella composizione del patty, lo rende un prodotto di cui non potrai più fare a meno. Dimentica gli hamburger sottili e insapori e preparati a un’esplosione di gusto, senza rinunciare alla praticità di un prodotto confezionato in skin.


BURGER

STEAK 300g

Trecento grammi di carne macinata, condita e ricompattata in una polpetta dallo spessore consistente. Questo Burger Steak unisce le due cose fondamentali che tutti cercano in cucina: qualità ottima e velocità di preparazione. In pochi minuti potrai servire un piatto ricco, bello da vedere, con un sapore esplosivo e una qualità indiscussa. Un hamburger alto, saporito, soddisfacente, che si presta a essere servito in mille modi diversi, mai asciutto e stoppaccioso. Scalda bene la griglia prima di mettere il Burger Steak in cottura, rigiralo spesso per creare la crosticina esterna senza rischiare di bruciarlo, cuocilo per pochi minuti e servilo come una tagliata, aggiungendo il tuo condimento preferito. Un sicuro successo. Un vero salva-cena di altissima qualità.

DOVE TROVARCI puoi trovare la mappa interattiva di tutti i punti vendita costantemente aggiornata all’indirizzo http://products.bbq4all.it/dove-trovarci/


CLUB

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