N°18/ANNO 2 - GIUGNO 2020
MAGAZINE
l ' editoriale di gianfranco lo cascio
I FALSI MITI SULLA COTT URA SOTTOVUOTO SPIEG ATI BENE
LASCIATEMI GRIGLIARE
SONO UN ITALIANO:
alla genovese, alla milanese, alla veneziana, alla parmigiana, ma soprattutto alla griglia
LA RICETTA SCIENTIFICA
PESTO
IL DI BASILICO
FORMAGGIO FATTO IN CASA
COME SI FA IL CHEDDAR SPECIALE BISTECCA
non è la Fiorentina, è la
FIORENTINA PERFETTA
D I R E T TO R E E D I TO R I A LE
Rossella Neiadin
R E D AT T O R E C A P O
Michela Bongiorni REDAZIONE
Enio Berton, Virgilio Brunetti, Roberto Dal Bosco, Tommaso Di Gregorio, Salvatore Di Mento, Luca Gallozza, Mariangela Ibba, Gianfranco Lo Cascio, Riccardo Meniconi, Giovanni Minelli Emiliano Nencioni, Andrea Spaggiari, Alessandro Trezzi, Carlo Trono, Alberto Zonghetti. REALIZZAZIONE GRAFICA
Impaginazione a cura di Carlo Trono Le illustrazioni della rubrica “Lo speziale del barbecue” sono di Eleonora Castagna Le illustrazioni nelle ricette della "Focaccia genovese!” e del “Pane al Ramerino” sono di Ozzy Bellesi S TA M P A
Graphic Master s.r.l. - Perugia magazine@bbq4all.it instagram.com/bbq4allmagazine/ ©2019 BBQ4All è un marchio BBQ4All Consulting s.r.l. BBQ4All Magazine è un prodotto in concessione a ©2019 NetAddiction s.r.l. Tutti i loghi e marchi riportati, gli elementi grafici, le immagini e i materiali presenti nella presente pubblicazione sono soggetti alle norme vigenti sul diritto d’autore; è quindi severamente vietato riprodurre anche parzialmente ogni elemento delle pagine in questione. Nomi, marchi registrati e loghi eventualmente presenti su questa pubblicazione non possono essere utilizzati per alcuna forma di pubblicità o diversamente per indicare sponsorizzazione, patrocinio o affiliazione a prodotti o servizi senza previa autorizzazione scritta da parte della società che ne detiene i diritti. Tutto il restante materiale fotografico pubblicato è stato realizzato da BBQ4All e/o acquistato e/o licenziato allo stesso, con trasferimento dei diritti di utilizzazione economica salvo le immagini utilizzabili con licenza Creative Commons o GNU Free Documents Attribution. BBQ4All ha osservato le più ampie tutele affinchè non venisse violato il diritto d’autore altrui.
EDITORIALE di GIANFRANCO LO CASCIO
LA BISTECCA SCIENTIFICA i falsi miti sulla cottura sottovuoto spiegati dalla scienza
Lo scienziato non è l’uomo che fornisce le vere risposte, è quello che pone le vere domande. E siccome la scienza sta alla base del mio lavoro e, per quanto mi riguarda, dell’esistenza stessa, mi sono sempre chiesto a che diamine possa mai servire riscaldare un pezzo di ciccia per poi schiaffarlo in acqua e ghiaccio. Non potevo quindi limitarmi a chiarire a parole che raffreddare una bistecca è un esercizio di stile inutile, e per questo ho deciso di fare un esperimento documentato a supporto della mia tesi. Ma partiamo dalla teoria: perché abbattere in positivo una costata prima di cuocerla non serve a una cippa? L'argomento è stato affrontato molte volte ma le cattive abitudini sono dure a morire e fanno presto a diffondersi, come le malattie delle parti intime. È fondamentale, dunque, contestualizzare: 1. State cuocendo per poi conservare in frigo e rigenerare un'altra volta, per la cena di dopodomani? 2. State cuocendo/scaldando la bistecca per mangiarla subito dopo il passaggio in sous vide? Ve lo dico perché una cosa esclude l’altra, delle due bisogna sceglierne una. Se sto cuocendo un petto di piccione che però dovrò rigenerare sabato prossimo a pranzo con la famiglia, allora sì, devo tassativamente procedere al raffreddamento rapido dopo la cottura. Questo mi permette di controllare la proliferazione batterica e beneficiare della pastorizzazione ottenuta con il sous vide. Cuocio, raffreddo, conservo in frigo per 10/12/15 giorni, a seconda di ciò che c'è dentro il sacchetto. Se invece sto scaldando la bistecca per cuocerla in griglia o sulla piastra in ghisa subito dopo il passaggio in sous vide, non
devo raffreddare per nessuna ragione al mondo. Perché in questo caso sto vanificando il beneficio fondamentale e cioè avere una temperatura uniforme all'interno della mia fetta di carne. Raffreddare o abbattere una bistecca cotta/scaldata sottovuoto da grigliare subito è un non-sense, è come un fumetto di Sio ma che non fa ridere. Quindi non si fa. Quello che devo fare è invece cuocere/scaldare, aprire il sacchetto, asciugare e cauterizzare in padella o in griglia. Però "quelli di la", esperti professionali/isti di cottura a bassa temperatura, predicano assolutamente l’abbattimento sempre! E poi ti dicono "cottura classica su piastra" con i soliti svariati minuti (ovvio, altrimenti resta gelata al cuore) e assolutamente non rigenerare in roner, diretto da frigo al fuoco! Ho provato, educatamente argomentando, a fare le dovute contestazioni, ma per questo mi hanno "silenziato" per una settimana. Capisci che chi si approccia non sa a chi dare retta? Qualche giorno fa ho parlato di cottura sous vide in Community, nel nostro gruppo Facebook, chiedendo la cortesia agli utenti di non diffondere informazioni mendaci, che possono confondere le idee a chi si approccia per la prima volta a certe cotture. Il risultato, tra le tante espressioni di pensiero, è stato un commento talmente surreale che sento di doverlo riportare anche qui. Segue l’analisi del testo e la parte in cui vi spiego perché non ha credibilità scientifica. "La superficie della carne a 52°C messa sulla ghisa o sulla griglia a temperature estremamente elevate raggiungeranno la temperatura di 140°C (Maillard) praticamente nello stesso tempo (differenze di frazione di secondi o giù di lì) di una carne abbattuta in positivo ( anche solo qualche minuto per intervenire solo in superficie senza modificare sostanzialmente la temperatura interna)." GIUGNO 2020
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FALSO
La reazione di Maillard inizia a manifestarsi a temperature superiori ai 160°C, in assenza di umidità e in presenza di proteine e zuccheri riducenti. Se queste tre condizioni non si verificano, contemporaneamente, la Reazione di Maillard non avviene. Ora, una carne abbattuta in positivo parte da una temperatura sensibilmente più bassa. A contatto con la superficie rovente, inizia subito la trasmissione del calore dal metallo alla carne. Tutti sanno che i tempi di reazione di una carne fredda e non trattata con Revit (trattamento con salatura e asciugatura in forno a 52°C) sono sensibilmente più lunghi a causa del coefficiente di trasmittanza (la tendenza di un elemento allo scambio di energia, ovvero l'inverso della capacità isolante di un corpo) del calore carne su carne; in poche parole, il calore esterno scalda la superficie della carne e mano mano si trasmette verso il centro. In questo frangente ci sarà sufficiente calore per disattivare la mioglobina ma non sufficiente a far partire le reazioni di Maillard. Il risultato, a parità di crosticina croccante, è un mouse ring (un bordo grigiastro) più pronunciato.
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Quello che invece cambia è l’escursione termica che si ha da 52°C a 140°C e da 2/3°C a 140°C, chiaramente superiore nel secondo caso!
CORRETTO
Il differenziale termico comporta fondamentalmente due cose: Ovvero 1. molecole più contratte nei primi millimetri di superficie, (nozioni basilari della chimica fisica) che quindi messe in condizioni termiche estreme fanno si che gli amminoacidi e gli zuccheri sulla superficie più esterna (chiaramente asciugata maniacalmente) reagiscano tra di loro in maniera molto più efficace, in quanto appunto, essendo le molecole più contratte (fino e qualche millimetro sotto la superficie), tratterranno al loro interno più liquidi di quanto farebbero invece molecole più distese (52°C). 2. liquidi che andrebbero in parte a influire negativamente sulla Maillard che sta avvenendo nella parte più esterna ormai disidratata (decimi di millimetro).
FALSO
Le nozioni basilari della chimica e della fisica dicono esattamente il contrario,
mio giovane e confuso Padawan. E questo principio è alla base dell'invenzione del sous vide. Il sous vide nasce per aggirare la perdita di liquidi delle cotture tradizionali, proprio per denaturare il tessuto connettivo grazie a tempi lunghi e temperature più basse. È stato progettato per trattenere una percentuale significativa di umidità all'interno della carne proprio perché l'alta temperatura provoca contrazioni repentine che strizzano fuori l’acqua. Quando ad un pezzo di carne somministriamo calore, a Mazara del Vallo come ad Aosta, questo si contrare. Le fibre si accorciano quindi sia longitudinalmente che trasversalmente, si restringono e si compattano. Tecnicamente questo processo viene definito “coagulazione proteica”, anche se la definizione non è del tutto corretta. • Il range di contrazione trasversale, quello della miosina è 55°/60°C. • Il range di contrazione longitudinale, quello della actina è 70°/75°C. Per ipersemplificare il concetto: la particella fondamentale di una fibra di carne si chiama sarcomero, immaginiamolo come una lattina di Coca Cola. La lattina è l'actina, la Coca Cola sta a rappresentare le miofibrille. La mano è il calore. Se apro una lattina e la strizzo nel mezzo che succede? Esatto, esce fuori il liquido. Se poi faccio un piccolo twist alla lattina (alzo la temperatura) e mettendola su un piano do un colpetto sulla superficie che succede? Esatto, si schiaccia e implode. Questo è ciò che accade quando somministriamo calore ad un pezzo di carne: si contrae prima trasversalmente (miofibrille) e poi longitudinalmente (actina). Ma la carne non è metallo, la carne col calore si contrae. Il fenomeno che cosa comporta? L’espulsione dei liquidi intrappolati nella trama delle fibre. Qualsiasi pezzo di carne, messo in sous vide e portato a 55/60/70/75°C perde dei liquidi che si riversano nel sacchetto. E più la temperatura sale più liquido ci sarà nella bustina. Questa è ciò che le leggi della fisica e chimica affermano, non il contrario. E mi dispiace ma non le stabilite io. Quindi se qualche guru del sottovuoto blatera e dice cose del genere vuol dire che non sa di cosa parla. E non è colpa mia, basterebbe andare a consultare gli studi fatti in materia come ho fatto io e come può fare chiunque.
Dire che la carne fredda ha le fibre più contratte e quella calda invece più distese è un assolutamente fuori da ogni evidenza scientifica. È vero invece il contrario, prendendo in esame la naturale predisposizione delle fibre. Tecnicamente, se questa “efficacia” della reazione fosse davvero comprovabile, lo sarebbe al limite con la carne calda e non con quella fredda. Ma non è nemmeno così. E per un motivo ancora più evidente. Sottoporre a cottura, sia dentro che fuori da un sacchetto, un pezzo di carne vuol dire trasmettere energia. Questa energia si propaga dalle superfici più esterne verso l’interno. Allo stesso tempo, come abbiamo detto in precedenza, il calore fa contrarre le fibre. Calore che, ovviamente, è più intenso sulle superfici esterne e meno potente man mano che ci si avvicina al cuore, specialmente durante le fasi iniziali della cottura. Questo cosa comporta? Comporta che l'acqua ancora intrappolata nella bistecca viene letteralmente spinta verso il cuore della carne. Quindi allontanata dalla superficie la cui energia termica preme verso l'interno. Nel momento in cui vado a raffreddare
la carne, questa differenza di potenziale cessa e l'acqua torna a ridistribuirsi in modo uniforme. In soldoni, la superficie che prima, grazie alla spinta di energia, conteneva meno acqua rispetto agli strati interni, dopo il raffreddamento torna ad idratarsi per ristabilire l'equilibrio. Ne consegue che, al contrario di come affermato, una carne fredda, dopo l'abbattimento, ha: 1. Fibre distese e non contratte. 2. Più “liquidi” di una carne a 52°C. Ma aspettate, non ho ancora finito. Il tempo per reazione di Maillard è inferiore (qualche manciata di secondi) nonostante una temperatura iniziale più bassa, e quindi c’è un mantenimento eccellente delle condizioni ottenute col sous vide!
FALSO
Una carne fredda su una superficie rovente, con livelli di idratazione normale, crea immediatamente uno strato di condensa/vapore acqueo. Perché? Perché come abbiamo detto, la contrazione delle fibre espelle l'acqua, questa si riversa negli strati tra carne e padella
e, sempre come abbiamo detto, la Reazione di Maillard in presenza di vapore, non avviene. Non solo, la temperatura del vapore, circa 110°C, è più che sufficiente per disattivare la mioglobina. Il risultato è una carne grigia che si sta lessando nella sua acqua. Quanti di voi hanno messo una bistecca fredda da frigo in padella per poi vederla bollire miseramente nella sua melmetta brodosa? [Ho alzato la mano] Io non ho alcun interesse a denigrare o difendere una tecnica di cottura. Il mio compito è riportarvi esattamente la verità. È la verità è che abbattere un pezzo di carne da cauterizzare subito dopo è una stupidaggine, su tutta la linea. Non esistono benefici comprovabili. Uno che sia uno. Altro discorso se sei un ristoratore. Altro discorso se devi ottimizzare le preparazioni e devi tenerle pronte da rigenerare all'occorrenza. In quel caso, è assolutamente necessario procedere all'abbattimento. La carne cotta in sous vide, da finire in padella o in griglia immediatamente, non va abbattuta. E adesso ve lo dimostro anche con la pratica. GIUGNO 2020
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ESPERIMENTO N.1 RIBEYE SOUS VIDE
VS RIBEYE SOUS VIDE + ABBATTIMENTO IN POSITIVO Ho preso due ribeye Blue Ox di black angus, new entry della mia selezione, qualità Prime e dallo stesso peso (350 gr.). Messe entrambe sottovuoto e poi a bagno a 52°C per 3h, anche se con questa tipologia di carne, già frollata e marezzata, basterebbe una piccola scaldata solo per raggiungere la temperatura ottimale al cuore. Trascorsi i 180 minuti ho asciugato la prima ribeye con carta assorbente, più volte, ho velato con poco olio e ho cotto su piastra rovente in ghisa, misurando la temperatura con un termometro ad infrarossi (300°C). Ho tenuta la carne a contatto con la ghisa incandescente per pochi secondi per lato, il tempo necessario per ottenere una reazione di Maillard 6 - BBQ4All MAGAZINE
soddisfacente ed una temperatura di 52°C al cuore. Potete analizzare il risultato in foto: crosta accentuata, che tuttavia non raggiunge la croccantezza di una stessa bistecca asciugata in forno (mi occuperò di fare un confronto tra tecniche nel prossimo numero del BBQ4All Magazine), cottura uniforme e priva di mouse ring, l’antiestetico anello grigio che evitiamo come la peste.
rovellata come certi personaggi ostili, velo d’olio extravergine in superficie e via. Per ottenere una Maillard pari alla bistecca precedente, come sospettavo, ho impiegato più tempo, e non solo non ho notato miglioramenti sostanziali nella crosta di cauterizzazione, ma questa ha comportato una cottura disomogenea, con l’inevitabile comparsa dell’alone color topastro.
Passiamo alla seconda bistecca: l’ho sgocciolata dalla vasca del sous vide, con lesto movimento di mano l’ho trasferita in una boule piena di ghiaccio e sale. Ho atteso che la superficie si raffreddasse come da improvvide istruzioni, ho aperto il sacchetto e ho asciugato con cura.
Cosa scrivervi se non un proverbiale “Ve l’avevo detto?”
Nel frattempo la piastra in ghisa si è ar-
Gianfranco Lo Cascio
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INDICE GIUGNO 2020 - NUMERO 17 ANNO 2
RUBRICHE
3 . L ' E D I TO R I A L E D I G I A N F RA N CO LO CASC I O
i falsi miti sulla cottura sottovuoto 10. ARTE BIANCA
la focaccia genovese
RICETTE DI GIUGNO DALLA TRADIZIONE AL BBQ
16. IL gnocco fritto 18. melanzane alla parmigiana 21. ossobuco affumicato con risotto giallo 24. fregUla con le vongole 27. la fiorentina perfetta 34. la genovese 40. abbacchio a scottadito 44. cotoletta alla milanese 46. saltimbocca alla romana 48. fegato alla veneziana 50. il tiramisù dei ribelli 54. abbinamenti consigliati
APPROFONDIMENTI 62. ARTE CASEARIA
IL CHEDDAR FATTO IN CASA
6 8 . LO S P E Z I A L E D E L BA R B EC U E / 1
IL ROSMARINO 7 3 . LO S P E Z I A L E D E L BA R B EC U E / 2 il pan di ramerino 76. THE CHEMICAL GRILLER ADDENSARE UNA SALSA - PARTE III
8 0 . L A R I C E T TA S C I E N T I F I C A D I G I A N F R A N C O L O C A S C I O
il pesto di basilico 96. SEGUO la felicità è una cottura a fuoco lento
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L'ARTE BIANCA a cura di ALESSANDRO TREZZI
se dici
Genova
DICI
FOCACC I A
Simbolo indiscusso di una regione intera, tra mille varianti, colori, sapori e profumi, la focaccia genovese è entrata con forza nell’immaginario collettivo, al punto da esser spesso considerata come sinonimo di tutta la categoria. Come per tutti i prodotti di acqua e farina di storica tradizione italiana, le sue origini si perdono nella notte dei tempi. Sebbene nel XVI secolo venisse consumata in chiesa e durante i matrimoni, la “fügássa” si diffuse nell’800 nelle zone portuali, e più precisamente nelle “sciammade”, antiche friggitorie con il forno a legna necessario per cuocere una delle preparazioni più famose al mondo; veniva consumata alle 11 in punto assieme a un buon bicchiere di vino bianco di Coronata. La sensazione di sazietà che ne derivava permetteva ai camalli (gli scaricatori di porto), all’occorrenza, di saltare la pausa pranzo; una necessità tipica di ogni regione, di ogni terra, specialmente nelle aree e nelle famiglie più povere dove il pane, la pizza e la focaccia costituivano spesso l’unico pasto della giornata. Ma cosa si intende con il termine “focaccia”? È presto detto: mentre la pizza è un qualsivoglia prodotto lievitato steso e infornato al momento, la focaccia beneficia di un’ulteriore lievitazione in teglia, che consegna più morbidezza alla mollica, una struttura uniforme e un’alveolatura omogenea. La versione genovese si differenzia per un interno morbido e vaporoso, la crosta croccante, dorata e saporita, con in superficie i tradizionali buchi bianchi e cremosi, che grazie alla salamoia e all’olio distribuiti prima della cottura generano esplosioni di gusto a ogni morso. Le principali varianti alla liscia sono le farciture con olive, cipolle o pomodorini e origano, sebbene l’intera Liguria sia costellata da celebri focacce come la Recco ripiena di crescenza o stracchino o la Voltri, bassa e croccante. LA FARINA Facciamo un bell’esercizio: ragioniamo a ritroso, focalizzandoci sul risultato da ottenere e individuando la scelta migliore per quanto riguarda la materia prima e il processo. Vogliamo una focaccia sviluppata, morbida, vaporosa, dalla mollica aperta e non compressa, la struttura uniforme senza crateri o bolle eterogenee (che in questo prodotto sono un difetto da evitare). La genovese deve essere soffice e asciutta, l’interno equilibrato e la crosta croccante. Per questo motivo la farina consigliata è senza ombra di dubbio una 00 o una 0, in quanto crusca e fibre presenti nelle integrali e semi-integrali, nonostante il profilo nutrizionale migliore, trattengono l’umidità e ostacolano in parte la formazione del glutine. Ciò che otteniamo è un prodotto morbido e con una shelf-life più lunga grazie all’umidità residua, ma meno espansa e leggera in quanto le fibre conferiscono un senso di sazietà maggiore. Tradizionalmente la fügássa viene realizzata con farine medio-deboli e maturazioni corte a temperatura ambiente. Come tutti i prodotti da forno tuttavia, è necessario oggi più che mai rispondere alle esigenze moderne; se è vero che 10 - BBQ4All MAGAZINE
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le caratteristiche possano ritenersi perfette; se stendete troppo presto l’impasto tornerà indietro e non otterrete un prodotto rettangolare e della stessa altezza in tutta la superficie, se formate i buchi troppo presto torneranno su durante l’ultima lievitazione. Qui più che mai tenete i tempi come parametri puramente indicativi, in quanto pratica e capacità di osservazione sono fondamentali per standardizzare il vostro risultato.
un tempo era necessario sfamare la gente con un solo pasto, oggi mangiare è e deve essere un’esperienza. Nella versione aggiornata e proposta in questo numero useremo quindi farine medio-forti e una maturazione condotta in frigorifero, comoda da fare a casa e in grado di migliorare il profilo aromatico e le caratteristiche strutturali della focaccia. Esatto, ciò che imparerete a fare non è la vera focaccia genovese, ma la mia versione. IL PROCESSO Se nella pizza ogni fase è di cruciale importanza per la bontà del risultato finale, nella focaccia l’impastamento è la parte più semplice, effettuabile senza problemi anche a mano. Ciò dipende dall’idratazione tipicamente molto bassa, spesso inferiore all’assorbimento mi12 - BBQ4All MAGAZINE
nimo farinografico della materia prima, un parametro fondamentale per l’ottenimento di un impasto molto plastico che possa essere steso uniformemente e la cui mollica sviluppi in maniera equilibrata durante la lievitazione in teglia. Se è molto idratata, non è una genovese; risulterà elastica, con un’alveolatura eterogenea e una mollica meno asciutta. Attenzione, non significa che non possa essere un ottimo prodotto, semplicemente non sarà in linea con le caratteristiche ricercate. La fase fondamentale che pregiudica il 90% del risultato della fügássa è il riposo, diviso in quattro momenti distinti: una parte iniziale in massa, una in forma, una in teglia dopo la stesura e l’ultima dopo la formazione dei buchi. Ognuna di queste fasi dovrà essere condotta nel giusto momento perché
LA STESURA Volete la vera eretica rivelazione? Perché la struttura ottenuta sia il più possibile uniforme, sviluppata e aperta ma con un’alveolatura fine e distribuita, il modo migliore è stendere a mattarello. Lo so, siete caduti dalla sedia e vi state rotolando sul pavimento, piangendo e maledicendo il mio nome a gran voce. Ma è la pura e semplice verità, e va accettata a fin di bene per la bontà del prodotto finito. Potete fare i fenomeni stendendo a mano, e magari ottenendo qualcosa di realmente positivo, ma non potrete mai assicurarvi la certezza come con la stesura a mattarello, che consente alla vostra fügássa di eliminare i gas della prima lievitazione e di crescere uniformemente in teglia. E qui mi vorrete senz’altro chiedere, “ma perché faticare tanto con la puntata in massa se poi con questo arnese del demonio rovino tutto il lavoro svolto?” Semplice: perché dei gas della prima lievitazione non ve ne fate assolutamente nulla. Ciò che conta è l’ottenimento, tramite la maturazione, delle caratteristiche organolettiche, del volume e dell’estensibilità necessaria perché il tutto possa essere steso riempiendo la teglia, spezzando la tenacità dell’impasto e la sua elasticità. L’OLIO Non esiste focaccia genovese senza un buon olio extravergine di oliva; sono prodotti che vivono in simbiosi, come il pomodoro e la mozzarella. Se cercate un prodotto ipocalorico cambiate strada; sulla fügássa ne va, e tanto. Fate i bravi e procuratevi il miglior extravergine che potete permettervi: equilibrato, profumato, fruttato e delicato, senza essere troppo incisivo. Per ovvia associazione territoriale il consiglio migliore è un olio ligure, ma l’Italia ha tanti altri prodotti che ben si prestano all’utilizzo, come quello del
Garda o il Toscano, e tutte le produzioni che annoverano Casaliva, Frantoio, Leccino e Moraiolo tra le varietà di olive utilizzate. Nell’impasto l’olio ha la funzione di qualsiasi altro grasso: se usato almeno intorno al 6-8% sul peso della farina rende l’impasto più estensibile, malleabile e, avvolgendo le bolle di anidride carbonica che si formano durante la lievitazione, le stabilizza. L’alveolatura diventa così più omogenea e la struttura della mollica molto soffice. E tuttavia, in concomitanza con l’evoluzione dei prodotti moderni e della ricerca di una leggerezza sempre più accentuata, il suo utilizzo può essere tralasciato senza particolari conseguenze. I condimenti generosi e profumati del trancio rendono trascurabile l’apporto aromatico dell’olio, senza contare l’ingente risparmio economico che deriva dal suo non utilizzo. L’apporto fondamentale è in realtà la combinazione con la salamoia e lo spargimento in superficie, dove contribuisce a creare una crosta sottile, croccante, profumata ed esplosiva in corrispondenza dei buchi, la vera chicca che ha reso questa preparazione così famosa. IL MALTO Smontiamo uno dei miti più insistenti e fastidiosi nel mondo della panificazione, vi va? Lo stramaledetto zucchero nell’impasto. Partiamo dalle basi: le cellule del lievito si nutrono di zuccheri e producono anidride carbonica per la fermentazione. Per questo lo zucchero (maltosio e saccarosio) non va semplicemente aggiunto all’impasto in quanto verrebbe subito consumato, ma prodotto continuamente dalla saccarificazione (il processo che trasforma i carboidrati in zuccheri semplici) dell’amido contenuto nella farina con l’aiuto delle amilasi e dalle diastasi, enzimi presenti nella farina come nel malto stesso. L’uso corretto del malto velocizza fermentazione e lievitazione, e vista la maggiore presenza di zuccheri che caramellano durante la cottura, migliora struttura e colore della focaccia, oltre ad accrescerne profumi e sapori. Il contributo del malto è fondamentale in presenza di farine con bassa attività amilasica, di solito inversamente proporzionale alla sua forza e all’abburattamento (setacciatura graduale del grano macinato per ottenere farina di diversa finezza). Le farine integrali e deboli han-
I N G RED I EN TI
PER 3 TEG LIE 3 0X 4 0CM PER L’IMPASTO: • 1 kg di farina di grano tenero di tipo 00 (300 W); • 550 gr di acqua (il 55% sul peso della farina); • 25 gr di sale fino (2.5% sul peso della farina); • 5 gr di malto diastasico in polvere o 20 gr di malto d’orzo in sciroppo; • 10-15 gr di lievito di birra fresco (10 in estate, 15 in inverno). • 60 gr di olio extravergine di oliva (opzionale) PER LA SALAMOIA: • 225 gr di acqua calda; • 150 gr di olio extravergine di oliva; • 18 gr di sale fino.
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no quindi maggiore potere enzimatico, chiamato anche potere diastasico. In commercio esistono diversi tipi di malto, differenti per potere diastasico e quantità di zuccheri; la soluzione migliore è l’estratto di malto concentrato in sciroppo e il malto diastasico in polvere, utilizzabili in proporzioni di 5:1. In sostanza, quando qualcuno vi dice “Potete sostituire il malto con il miele o lo zucchero”, giratevi dall’altra parte e datevela a gambe.
LA RICETTA Le fasi da tenere in considerazione per la realizzazione del prodotto finito sono: 1. Impastamento; 2. Puntata o prima lievitazione; 3. Staglio o formatura dei panetti; 4. Appretto o seconda lievitazione; 5. Stesura; 6. Terza lievitazione in teglia; 7. Formazione dei buchi e condimento con salamoia; 8. Quarta e ultima lievitazione; 9. Cottura. L’IMPASTAMENTO La fase di impastamento, come già specificato, è di una semplicità disarmante e può essere condotta anche a mano. Cominciate sciogliendo lievito e malto nell’acqua, miscelando poi con la farina. Verso la fine inserite il sale e l’ultima parte di acqua; solo a questo punto aggiungete l’olio a filo, poco alla volta. Lavorate fino ad ottenere una massa liscia e uniforme, che non dovrà superare i 21 °C.
PUNTATA Una volta ottenuto l’impasto posizionatelo in un contenitore stretto dai bordi alti e lasciatelo puntare per circa un’ora, a temperatura ambiente in inverno o in frigorifero d’estate. STAGLIO E APPRETTO Trascorsa la puntata, riprendete il vostro impasto e porzionatelo nei pesi desiderati (in questo caso in tre parti uguali), da sistemare in altrettanti contenitori ben oliati; fate molta attenzione a distribuire l’olio su tutta la superficie, in quanto con una così bassa idratazione il rischio di formare la fastidiosa pelle è dietro l’angolo. Riponete quindi in frigorifero e lasciate maturare a 6 °C per circa 24 ore. STESURA Al termine di questa fase l’impasto sarà quasi triplicato. Utilizzate delle teglie in alluminio, le più adatte allo scopo, perché conducono meglio il calore ed essendo più spesse evitano che la base diventi croccante prima del tempo. Rovesciate dentro i panetti, appiattiteli leggermente con il palmo della mano e poi stendeteli uniformemente con il mattarello, per ottenere uno strato omogeneo e privo di gas della prima lievitazione; così facendo la focaccia sarà uniforme in tutta la sezione. L’impasto riuscito sarà molto malleabile, quasi “plastico”.
do, preferibilmente a 28-30 °C; il vostro forno spento con la luce accesa andrà benissimo. FORMAZIONE DEI BUCHI E SALAMOIA Utilizzando i polpastrelli, premete con forza per lasciare l’impronta su tutta la superficie, per poi distribuire gli ingredienti della salamoia (dividendola logicamente in tre parti uguali) mescolati in modo che finiscano nelle fossette appena formate. QUARTA E ULTIMA LIEVITAZIONE Lasciate lievitare nuovamente dai 90 ai 150 minuti, fino a quando i buchi saranno “sprofondati” nella struttura lievitata dell’impasto. COTTURA Preriscaldate il forno a 240 °C in modalità statica e cuocete per circa 14-15 minuti, fino a completa doratura. Il posizionamento della teglia dipende dal forno; in alcuni casi potrebbe essere necessario lasciarla sul pavimento per rendere la base croccante, per poi spostarla a metà altezza nella seconda parte della cottura. Sfornate e lasciate raffreddare su una griglia rialzata per evitare che la condensa rovini tutto il lavoro svolto; infine irrorate con un ultimo filo di olio extra vergine, in modo che il calore faccia sprigionare tutti i profumi di questo splendido capolavoro di panetteria moderna.
TERZA LIEVITAZIONE IN TEGLIA Completata la stesura, lasciate lievitare per circa 60 minuti in un ambiente cal-
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SPECIALE TRADIZIONI - RICETTE a cura della REDAZIONE
che gran pezzo di
GNOCCO!
INGR EDIE NTI
P E R D U E PE R S O N E • 250 g farina 00 • 110 ml acqua • 30 g strutto • 5 g lievito di birra fresco • 5 g sale fino
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Le fondamenta della cucina emiliana sono certamente i salumi nella più elevata ed ampia accezione del termine. Le lunghe stagionature in ambienti asciutti tipiche delle terre pre appenniniche hanno generato salumi sopraffini, opulenti e noti in tutto il mondo. In questo contesto si inserisce un alimento semplice, in grado di contenere e valorizzare le gemme proteiche del territorio: il gnocco fritto. Da mangiare rigorosamente ben caldo in modo da permettergli di accentuare i sapori e di sciogliere leggermente le immancabili parti grasse delle fette di prosciutto, di coppa e di culatello che avranno la fortuna di finirci dentro. Le sue origini sembrano risalire alle invasioni barbariche che portarono nelle cucine nostrane l'utilizzo dello strutto, all’epoca affronto culinario-culturale alla linfa vitale della cucina dell'impero romano: l'olio d'oliva. Pertanto diciamo sin d’ora che il gnocco emiliano va fritto obbligatoriamente nello strutto onde evitare movimentazioni e rigurgiti incontrollati all'interno dei loculi longobardi padani. Parliamo di un prodotto tipico delle province di Modena e Reggio Emilia. Da qui, percorrendo la via Emilia in direzione ovest, lo si può trovare sino alla periferia est di Bologna dove, però, cambia nome e diviene crescentina. Dall’altro verso, se percorriamo la strada maestra emiliana e ci si dirige verso la Lombardia, a Parma diventa torta fritta ed a Piacenza cambia pure lingua trasformandosi in chisulen. La sua natura di accompagnamento opulento ai salumi stagionati emiliani pedemontani è rimasta inalterata ed attualmente è re incontrastato dello street food del luogo. Per i veri appassionati del gnocco fritto emiliano, nel 2008 è stato fondata a Modena la Confraternita del Gnocco D’Oro. Un gruppo di estimatori e appassionati di tradizioni modenesi si è riunito in un’associazione culturale con l’obiettivo di tutelare il simbolo della più rigorosa tradizione gastronomica geminia-
na, da secoli cibo principe nelle tavole modenesi. Lo statuto dell’associazione prevede tra le sue finalità quella di mantenere la tradizione della delizia modenese e il coinvolgimento diretto dei pubblici esercizi, bar e ristoranti che somministrano gnocco fritto nei loro locali; creando una mappa dei luoghi d’eccellenza dove sia possibile gustare il migliore pezzo di Gnocco fritto modenese, magari abbinato a una fetta di superlativo Prosciutto crudo di Modena, ai Ciccioli e salame delle montagne emiliane, ad una scaglia del re dei formaggi il Parmigiano Reggiano. Il tutto innaffiato da Lambrusco di Sorbara o Salamino di Santa Croce, delle cantine più rappresentative della provincia. Nel territorio i locali inseriti nel circuito sono dotati di una targa di appartenenza, simbolo dell’alta qualità rappresentata, e ogni anno una commissione di saggi ed esperti proclama il “Gnocco d’Oro”, ovvero il miglior pezzo di Gnocco somministrato in quell’anno nei locali del circuito. Ma veniamo a una domanda fondamentale: lo abbiamo chiamato sempre IL gnocco fritto, ma siamo sicuri sia corretto? Mettiamolo subito in chiaro, onde evitare orde di grammar nazi indignati, la regola grammaticale riconosce una sola forma: LO. E su questo siamo tutti d’accordo. Tuttavia sappiatelo: se entrerete in un bar di Modena o di Reggio chiedendo lo gnocco fritto, probabilmente vi chiederanno di uscire e anche di corsa. C’è una cosa che va assolutamente salvaguardata nel panorama linguistico e culturale italiano: il dialetto. Ebbene, come sapranno gli appassionati della materia, ci sono molti studi secondo i quali in Italia il dialetto si distingue dal vernacolo perché, a differenza di quest’ultimo, non è una variante della lingua standard ma una vera e propria lingua a sé, con le sue regole grammaticali e un vocabolario di uso quotidiano tipico, non immediatamente comprensibile per chi non la conosce. Ed è così che il termine dialettale al gnoc frèt si “traduce” in italiano in IL gnocco
fritto. Grazie a quell’articolo “sbagliato” , questa specialità acquista una sua identità specifica e territoriale. Chiamandolo così, non state parlando di una qualsiasi preparazione simile a quella, ma specificatamente e solo DEL gnocco fritto modenese o reggiano. E infatti, come diceva Tullio De Mauro, importantissimo linguista italiano ed esperto di filosofia del linguaggio nonché incubo per tutti gli studenti di Lettere alle prese coi suoi manuali: “Talvolta un solecismo, una forma linguistica che la grammatica definisce scorretta, può essere giustificato se il suo uso risulta continuo e radicato in una determinata area geografica” PREPARAZIONE 1. Riscaldate leggermente l'acqua, versatela in una ciotola, aggiungete il lievito di birra sbriciolato e mescolate ben bene il composto. 2. Disponete su un ampio tagliere la farina, aggiungete al centro del "vulcano" lo strutto e il sale. Versate pian piano l’acqua e mescolate con una forchetta. 3. Impastate fino a rendere l’impasto sodo ed elastico, formate una palla e lasciatela lievitare in una ciotola coperta da pellicola trasparente fino al raddoppio del volume. 4. A lievitazione avvenuta stendete l'impasto sul piano da lavoro aiutandovi con un mattarello, fino a renderlo una sfoglia sottile (non più di 2 millimetri) 5. Tagliate l’impasto a rombi di 7/8 cm con un taglia pasta liscio 6. Riscalda lo strutto in una padella antiaderente. 7. È tempo di friggere il vostro gnocco girandolo spesso durante la cottura fino ad ottenere una doratura uniforme. Rimuovete il gnocco fritto con una schiumarola e fatelo asciugare su carta assorbente. 8. Servite subito i gnocchi ben caldi ed accompagnateli con i migliori salumi che riuscite a recuperare e formaggi teneri.
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SPECIALE TRADIZIONI - RICETTE a cura della REDAZIONE
Parmigiana di melanzane o
MELANZANE
A L L A PA R M I G I A N A ? Speck, speck delle mie brame, chi è la più buona del reame? Parlami vero, non dire panzane: “è la parmigiana di melanzane”. Oh parmigiana, parmigiana adorna che mi porta colui che prima inforna tu sei Silvia, Bea e Laura in una tu dai vita, girovita e gran fortuna. La natura tua divina ti fa infatti una e trina: melanzane, salsa bella Parmigiano & mozzarella. Via, si taccia ogni pudore: sei misura d’ogni amore. Quanto amo questo e quella? La famiglia e la mia bella? Una vita allegra e sana? Tale e qual la parmigiana. Così Luca Iaccarino, critico culinario di Repubblica (e alte testate giornalistiche), racconta di questo piatto ne “Il gusto delle piccole cose. Breve manuale di spensieratezza”- titolo che, nei giorni di quarantena, cadeva come si suol dire a fagiuolo-. La parmigiana è una pietanza che di recente è addirittura diventata patrimonio dell’Unesco. Con la calura estiva di certo è una di quelle prelibatezze che tutti amano mangiare. Poche sono le certezze sulla parmigiana. Non è, infatti, chiaro se sia un piatto originario della Sicilia, del napoletano o dell’Emilia. Dalle fonti storiche le uniche certezze che si hanno in merito ai principali ingredienti è che le melanzane vennero portate dagli arabi durante il basso medioevo in Sicilia; nel 1492 Colombo, 18 - BBQ4All MAGAZINE
di ritorno dalle Americhe, introdusse i pomodori tra le colture del Belpaese, e infine le prime fonti che parlano con certezza di Parmigiano Reggiano risalgono ai primi anni del 1600. Facendo quindi le dovute conclusioni è dunque ipotizzabile che la disponibilità degli ingredienti per realizzare la parmigiana di melanzane si sia avuta intorno al XVII secolo. Secondo alcune fonti il termine "parmigiana" deriverebbe dal siciliano parmiciana (dal latino parma, scudo) con cui vengono chiamate le lamelle di legno che compongono una persiana (la finestra). Sempre secondo queste fonti, il sovrapporre le fette fritte di melanzana richiamerebbe esattamente la disposizione a strati delle listarelle che compongono le persiane. Il fatto che in in quest’area geografica il piatto si chiami "parmigiana di melanzane" e non "melanzane alla parmigiana" sembra avvalorare questa tesi. Il nome di questo piatto potrebbe derivare dalla parola araba al-badingian (laddove la b si pronuncia p). Fra l’altro nella cucina araba esiste un piatto abbastanza simile che poi è diventato una preparazione greca, la Moussakà. Facile pensare che gli arabi l’abbiano trasmessa sia alla Grecia che alla Sicilia. C’è però chi sostiene che il piatto sia nato a Napoli. Secondo quanto scritto nel libro “Il cuoco galante" del 1773 di Vincenzo Corrado, cuoco e gastronomo pugliese al servizio di importanti famiglie aristocratiche di Napoli, sembrerebbe proprio così: nella sua versione egli usava le zucchine fritte nello strutto, condite con formaggio e burro e poi cotte in forno. Ci si avvicina di più Ippolito Cavalcanti, duca di Buonvicino, cuoco e
letterato italiano (esatto, discendente di Guido Cavalcanti, amico di Dante) nel suo Cusina casarinola co la lengua napolitana (1839) dove parla di melanzane tagliate a fette, fritte, montate a strati con formaggio, pomodoro, basilico, e poi stufate (ah, questo lo dobbiamo al nostro Direttore Rossella Neiadin, pena la crocifissione in sala mensa: le melanzane, nella versione campana, vanno pastellate con farina e uovo e non fritte “a nudo”). Certo l’utilizzo del Parmigiano – arrivato probabilmente in una fase successiva come alternativa al pecorino o alla mozzarella – è chiaro richiamo alla città emiliana (dove infatti il piatto si chiama Melanzane alla parmigiana) e può far pensare a una nascita di questa preparazione proprio a Parma. Pare che nel XV e XVI secolo il detto cucinare alla maniera dei parmigiani servisse ad indicare l’usanza di cuocere verdure a strati. Insomma, la questione è di difficile risoluzione. È certo che, così come molti alti piatti nazional popolari, anche la parmigiana ha le sue mille sfumature e ognuna è caratterizzata da ingredienti del territorio che le danno un’accezione caratteristica. C’è la versione siciliana, semplice e adatta alla calura estiva, composta esclusivamente da melanzane fritte, passata di pomodoro, formaggio e basilico. Tra le versioni tradizionali spicca pure la variante partenopea, che prevede le melenzane pastellate (vedi sopra!), l’aggiunta di mozzarella e un passaggio di finitura in forno. La ricetta che vi proponiamo oggi parla sicuramente con accento napoletano, non ci resta quindi che dire: jamm', appicciat' 'stu BBQ!
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PREPARAZIONE 1. Tagliate le melanzane in fette abbastanza spesse (5mm) per il lato della lunghezza. Mettetele ad affumicare con chips di legno aromatico nel kettle, con un pizzico di sale, ad una temperatura di circa 130°C in cottura indiretta, finché non saranno leggermente appassite (non devono cuocere) 2. Tagliate finemente la cipolla e fatela imbiondire in un pentolino a fuoco dolce.
3. Aggiungete adesso la passata e regolate di sale e pepe. Fate cuocere a fuoco lento per circa mezz’ora. 4. Preparate due contenitori per pastellare le melenzane, uno con la farina e uno con l’uovo leggermente sbattuto con un pizzico di sale. 5. Passate le fette prima nella farina, e poi nell’uovo. Friggete le melanzane in olio bollente (180-190°C) e lasciate raffreddare su carta assorbente 6. Aggiungete un po’ di carbone a quello già presente nel kettle e settate la
temperatura per una cottura indiretta a circa 180°C. 7. Componete adesso la parmigiana alternando sugo, melanzane e mozzarella per 3 strati. Nell’ultimo strato sostituite la mozzarella con il Parmigiano e coprite il tutto con delle foglie di basilico. 8. Mettete a cuocere nel kettle per circa 30 minuti.
I N G REDI EN TI
PER 6 PER SONE • 4 melanzane lunghe • 4 uova • farina 00 q.b. • 300 g di mozzarella di bufala o fior di latte • 100 g di Parmigiano • Basilico q.b. • Sale e Pepe q.b. • Olio di arachidi per friggere q.b. • 700 g di passata di pomodoro • una cipolla ramata
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SPECIALE TRADIZIONI - RICETTE a cura di MICHELA BONGIORNI
Bello e possibile!
OSSOBUCO A F F U M I C AT O
CO N R I S OT TO G I A L LO Forse non lo sapete ma, come spesso accade in Italia quando si cerca di salvaguardare i piatti della tradizione, anche l’Ossobuco alla milanese ha visto nascere, circa cinque anni, fa la sua Confraternita. Nata dalla collaborazione con l’Accademia delle cinque T (territorio, tradizione, tipicità, trasparenza, tracciabilità), l’Associazione di Òsbuss “Confraternita dell’Ossobuco alla Milanese” nasce al fine di “celebrare, tutelare, insegnare e gustare la cucina milanese in genere ma nel nome di un piatto, l’ossobuco, che ne è un po’ un compendio e un esempio”. Citato per la prima volta in modo ufficiale da Giuseppe Sorbiatti, cuoco richiestissimo da molte famiglie nobiliari milanesi nella seconda metà dell’800 -in un manuale dal nome lunghissimo, Il Me-
moriale della Cuoca, o il modo di preparare la Cucina di Famiglia coll’aggiunta di diverse vivande e bibite internazionali (1879) - l’Òss büs compare anche – e come poteva essere altrimenti- dopo il 1891 nel libro di Pellegrino Artusi La Scienza in Cucina e l’Arte del mangiare bene. Le due ricette, ovviamente, sono molto diverse tra loro. Il Sorbiatti fa rosolare gli ossobuchi solo nel burro, mentre l’Artusi prepara un soffritto con sedano carota e cipolla; il primo sfuma col vino bianco e mette il pomodoro, il secondo fa un roux per legare meglio il sugo e lo lascia in bianco. Infine, mentre il Sorbiatti lo serve con la gremolada, l’Artusi si limita a un po’ di prezzemolo e a un goccio di limone. Vale anche qui quello che ho scritto più avanti a proposito della Bistecca alla
Fiorentina: ci sarà fra i due un ossobuco meno milanese dell’altro? A leggere ciò che dice la Confraternita pare che la ricetta ufficializzata sia un misto tra le due sopracitate: sì al soffritto di cipolla e carote e al vino bianco, no al pomodoro (anche se è ammesso come variante), sì al limone e al prezzemolo, ma con l’aggiunta di aglio. È considerata invece blasfemia la cottura in forno. E noi che lo facciamo sul kettle e lo affumichiamo, cosa siamo? Chiamiamo Wanna Marchi Do Nascimento per sciogliere il sale e liberarci dal maligno che alberga in noi. In ogni caso, l’ideale accompagnamento per questo piatto è il risotto giallo (ris giald) ovvero allo zafferano con tanto parmigiano e tanto burro. Non tutti coGIUGNO 2020
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noscono la leggenda che ne spiega l’origine: all’epoca della costruzione del Duomo di Milano (1386) arrivarono in città artigiani da tutta l’Europa e fra questi anche un mastro vetraio proveniente dal Belgio, nella cui bottega lavorava un bravissimo garzone; pare che il ragazzo in questione riuscisse a ottenere spettacolari colori delle vetrate aggiungendo un pizzico di zafferano alle preparazioni. Quando la figlia del mastro vetraio si sposò, venne organizzato un banchetto per tutte le maestranze e quel garzone di bottega aggiunse al risotto un po’ di polvere gialla. Tutti pensarono a uno scherzo, ma assaggiandolo si accorsero di quanto fosse buono, tanto da rendere il garzone di bottega cuoco ufficiale della Fabbrica del Duomo e a proclamare quel risotto come specialità milanese per eccellenza. In realtà, come ormai sappiamo da varie fonti, pare che l’uso dello zafferano sia derivato dall’antica usanza medievale di servire i cibi ricoperti di finissima polvere d’oro (i medici sostenevano che facesse bene al cuore), poi sostituita con la spezia gialla per questioni di costo. E probabilmente a questa usanza si è ispirò anche Gualtiero Marchesi quando servì e rese celebre, nel 1981, il suo risotto zafferano e oro. In ogni caso, adesso entriamo in un altro vespaio. Come cuocere il riso? Sicuramente molti di voi ricorderanno un post in Community di Gianfranco Lo Cascio e l’editoriale nel numero di Settembre 2019 che ne seguì. Si parlava di risotto scientifico, e di un metodo che fece saltare sulla sedia coloro che portano scritto con orgoglio nella descrizione dei loro profili Facebook “re dei risotti, mia moglie dice che nessuno lo fa come me!”. Stiamo insomma parlando della cottura per assorbimento. Lascio a Gianfranco l’arduo compito di spiegarvela a livello scientifico per filo e per segno in una delle prossime uscite del BBQ4All Magazine (so che c’è in cantiere un numero dedicato interamente ai risotti… ma non ditelo a nessuno!) e mi limito a dirvi che con questo metodo di cottura il risultato è stato, a livello aromatico, molto più brillante. Burro e Parmigiano, due ingredienti chiave del risotto giallo, hanno apportato il loro contributo senza sovrastare sullo zafferano e sulla cipolla. I sapori perfettamente bilanciati tra loro, uniti all’esatto livello di cremosità che ho voluto dare alla preparazione e alla cottura ottima22 - BBQ4All MAGAZINE
le del chicco di riso, rendono il risultato pressoché perfetto e replicabile ogni volta che si vuole. Che tipo di riso ho usato? Un ottimo Carnaroli come vuole il disciplinare, ma andrebbe bene anche un buon Vialone nano, anche se mi è d’obbligo avvertirvi che “altre varietà di riso o altre varianti proposte devono essere approvate dal Consiglio dei Saggi”. E se voglio aggiungere funghi o tartufo? Posso farlo, con buona pace dei puristi e dei Confratelli. D’altronde, lo sostenne nel 1959 anche Carlo Emilio Gadda, scrittore e ingegnere milanese appassionato di cucina, sulla rivista Il gatto selvatico (pubblicazione sostenuta dal presidente di ENI Enrico Mattei, e dedicata all’azienda e al suo lavoro, ma con contributi culturali di importanti scrittori come, fra gli altri, Primo Levi e Leonardo Sciascia): Il risotto alla milanese non deve essere scotto, ohibò, no! solo un po' più che al dente sul piatto: il chicco intriso ed enfiato de' suddetti succhi, ma chicco individuo, non appiccicato ai compagni, non ammollato in una melma, in una bagna che riuscirebbe schifenza. Del parmigiano grattuggiato è appena ammesso, dai buoni risottai; è una banalizzazione della sobrietà e dell'eleganza milanesi. Alle prime acquate di settembre, funghi freschi nella casseruola; o, dopo S. Martino, scaglie asciutte di tartufo dallo speciale arnese affetto-trifole potranno decedere sul piatto, cioè sul risotto servito, a opera di premuroso tavolante, debitamente remunerato a cose fatte, a festa consunta. Né la soluzione funghi, né la soluzione tartufo, arrivano a pervertire il profondo, il vitale, nobile significato del risotto alla milanese. Carlo Emilio Gadda (E Gadda usava il Vialone nano, per dire.) A questo punto non ci resta che vedere nel dettaglio come si preparano questi ossobuchi affumicati con risotto alla milanese cotto per assorbimento. E se “le mie brutte intenzioni. la maleducazione, la mia ingratitudine e la mia arroganza” (cit.) nel voler a tutti i costi rivisitare una ricetta sacra vi spingeranno a dire “ok, però non chiamarlo ossobuco alla milanese!”, va bene, nessun problema. Chiamiamolo OssoBugo! - a Morgan piace questo elemento-
PREPARAZIONE 1. Accendete il kettle e settatelo in modo da potervi permettere una iniziale cottura diretta e poi in un secondo momento un’indiretta a coperchio chiuso. Poco più di mezza ciminiera di bricchette accese andrà bene: preparate comunque uno snake per prolungare la cottura per il tempo necessario affinché gli ossobuchi siano perfettamente cotti, senza rischiare di dover rabboccare il carbone in corso d’opera. 2. Tritate finemente il sedano, la carota e la cipolla, poi ponete il soffritto insieme al burro in un tegame (l’ideale sarebbe una cocotte in ghisa) adatto sia per la cottura diretta che indiretta. Infarinate gli ossobuchi. 3. Ponete la cocotte in cottura diretta e aspettate che il soffritto sia ben appassito, poi inserite gli ossobuchi e fateli rosolare bene da entrambe le parti. Sfumate col vino bianco e quando sarà evaporato spostate il tegame nella parte “fredda” della griglia. 4. Salate, pepate e bagnate con un goccio di brodo. A questo punto, prima di chiudere il coperchio e stabilizzare il dispositivo a una temperatura di circa 150/160 gradi, aggiungete chips di legno aromatico per affumicare. 5. Lasciate andare così per mezz’ora, poi aprite il coperchio, aggiungete un po’ di brodo e richiudetelo. Quando la carne avrà raggiunto la temperatura di circa 65° interni, e sarà brunita perfettamente, aggiungete un po’ di brodo nella cocotte e poi copritela col suo coperchio (nel case abbiate usato un diverso recipiente, fatelo con l’alluminio). Richiudete il kettle e continuate così, finché la temperatura degli ossobuchi non avrà raggiunto i 95/96°C. La carne dovrà essere tenera e tenderà a staccarsi dall’osso. Lasciate gli ossobuchi in caldo e preparate il risotto. 6. Mettete a bagno il riso nel brodo (come abbiamo detto, quest’ultimo dovrà essere il doppio del volume del cereale più una tazza). In questo modo si preleverà l’amido dalla superficie dei chicchi prima della tostatura. Tenetelo così per una decina di minuti, poi scolate il riso e tenete da parte il prezioso brodo. 7. Tostate il riso con una noce di burro, quando i chicchi saranno traslucidi aggiungete il brodo (tenendovene però da parte una tazza) con l’amido
tutto insieme, date una rimestata, aggiustate di sale e poi lasciate che si compia la magia. Non sarà necessario mescolare il riso continuamente. 8. Fate soffriggere a parte nel burro, a fuoco molto dolce, una cipolla bianca tritata finemente e quando sarà appassita aggiungetela solo a quel punto al riso. Date una seconda mescolata, coprite con un coperchio e aspettate ancora. 9. Grattugiate il Parmigiano e sciogliete lo zafferano nella tazza di brodo che vi siete tenuti da parte. Quando il riso avrà assorbito tutta l’acqua, e sarà perfettamente cotto, aggiungete a quel punto una noce di burro, il Parmigiano e il brodo allo zafferano. Mescolate energicamente. 10. Servitelo caldo con una bella macinata di pepe e adagiategli sopra gli ossobuchi con prezzemolo tritato, il succo del limone e una grattugiata della sua scorza.
I N G RED I EN TI
PER 6 PER SONE PER IL RISOTTO GIALLO • 320 g di riso Carnaroli • una bustina di zafferano • una cipolla bianca • Brodo di Manzo (il doppio del volume del riso più una tazza) • Parmigiano grattugiato fresco q.b. • sale e pepe q.b. PER GLI OSSOBUCHI • 4 ossobuchi di manzo alti almeno 4 cm con midollo • una cipolla bianca • una carota piccola • un gambo di sedano • 60 g di burro • farina q.b. • un bicchiere di vino bianco secco • brodo di manzo q.b. • sale e pepe q.b.• il succo e la scorza di un limone • un ciuffo di prezzemolo
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SPECIALE TRADIZIONI - RICETTE a cura della REDAZIONE
foto a cura di LUCA GALLOZZA
FREGULA
CO N L E VO N G O L E Il mare nel piatto! Spiagge, litorali e chilometri di coste. Non c’è niente di più bello e di sognato dai turisti che immergersi in acque cristalline, incontaminate e ricche di ogni tipo di fauna marina. Eppure, quando parliamo della cucina sarda, possiamo dire che di certo non brilli per i piatti di pesce. Questo non vuol dire che sull’isola non siano bravi a prepararlo, ma in un territorio prettamente legato allo sviluppo agropastorale, i piatti di questo tipo non sono tantissimi. O comunque non come ci si aspetterebbe. L’eccezione che conferma la regola è il piatto che abbiamo pensato di proporvi in chiave BBQ. Trattasi niente meno che di Sa fregula. Sì signori, fregula e non fregola. Perché ce ne “fregola” molto (come direbbe Lino Banfi) della pronuncia. E in Sardegna ci tengono particolarmente. 24 - BBQ4All MAGAZINE
Fregula, che deriva dal latino ferculum, significa sminuzzare, frammentare, sbriciolare. Questo è dovuto al particolare formato che si ottiene facendo ruotare manualmente l’impasto all’interno di un piatto piano e largo, ottenendo così delle piccole sfere rustiche e irregolari che vengono poi stese su un telo ad asciugare e infine infornate per circa 15 minuti. Questo processo di tostatura fa sì che la pasta assuma un bel colore tostato e dorato ed elimini tutta l’umidità residua. Ovviamente non vi diciamo di produrvi questa pasta caratteristica direttamente a casa ma se voleste provarci, vi consigliamo di fare un’asciugatura nel dispositivo, all’interno di una teglia, con un minimo di affumicatura leggerissima di un blend delicato. Un ulivo o un aran-
cio potrebbe andare benissimo al caso. Oltretutto non è un prodotto di difficile reperibilità in commercio, ma la sua provenienza è tipicamente sarda. Questa tipologia di pasta risale al X secolo d.C. Molto somigliante al cous cous, potrebbe essere stata importata dai popoli Fenici, Cartaginesi o Punici. Vista la forma, potrebbe sembrare un’imitazione del suo “cugino” orientale, ma non ci sono fonti accreditate che lo dimostrino. Pertanto la Fregula è ritenuta dai sardi un prodotto tipico autoctono: essi ne preservano l’identità cercando di riprodurla sempre fedelmente e con alti standard qualitativi. Come è facile capire, essa non può essere solo il frutto di un lavoro manuale. Infatti molto spesso ciò che ci viene ser-
vito nei locali, o anche nelle case private, è un prodotto industriale, che richiede comunque l’uso di trafilati di bronzo. I trafilati permettono a questa pasta una rugosità tale da trattenere bene i condimenti e al contempo di non rilasciare agglomerati di amido nel piatto. Di per sé, questo tipo di pasta si può facilmente abbinare a carne e verdure oppure a pesce. Molto dipende dalla zona in cui vi verrà servita. Sicuramente al Sud, nel cagliaritano, il più classico dei suoi abbinamenti è quello con pomodoro e vongole (o arselle): Fregula cun cocciula. Originariamente il piatto veniva eseguito con le tipiche vongole nere dello Stagno di Santa Gilla. Queste ultime, però, a causa della commercializzazione di specie più produttive son state nel tempo abbandonate a favore di vongole comuni dell’Adriatico e solo ultimamente si sta cercando di ritornare alle origini salvaguardando la specie.
Tra le prime cose da non trascurare è la pulizia profonda delle arselle. Non c’è bisogno che vi diciamo che vivendo negli arenili possono facilmente contenere sabbia. La tecnica migliore, tra le tante provate, per spurgarle è quella di riprodurre un habitat naturale per le vostre vongole. Andranno immerse in acqua salata per circa una giornata, ma non basterà salarla a piacere. Dobbiamo infatti riprodurre la salinità marina affinché queste si schiudano e rilascino i residui sabbiosi. Quindi faremo una soluzione salina al 3,5 %: esattamente 35g di sale su litro d’acqua. A questo punto, dovrete procurarvi due contenitori: uno che contenga tutta la soluzione salina e una più piccola che contenga le sole vongole. La seconda deve poter stare dentro l’altra e non deve toccare il fondo. È ottima per questo tipo di uso una fuscella per ricotta. Procedete al lavaggio delle vongole sotto acqua corrente mediante sfregamento l’una con l’altra per eliminare eventuali impurità esterne. Scartate quelle rotte o aperte.
Quindi immergetele nell’acqua salata per due -tre ore, durante le quali le risciacquerete almeno due volte sotto acqua corrente. Trascorso questo lasso di tempo, unite all’acqua un cucchiaino di farina. Le vongole si apriranno in presenza di cibo e favoriranno lo spurgo. Grazie alla fuscella, sarà possibile separare le vongole dal fondo dove si depositerà lo sporco. Rimettete in frigo per altre 3-4 ore e a questo punto estraete le vongole, ripulite la ciotola dai residui rilasciati e provvedete nuovamente a creare la soluzione salina. Immergete nuovamente le vongole e lasciate in frigo sino al momento della cottura. Prima della cottura effettuate preventivamente un ultimo risciacquo. Aggiungeremo le nostre tecniche e le nostre conoscenze a un piatto che esalterà i profumi e i sapori del mare, insieme alla bontà di questa pasta che è unica. In questo caso opteremo per una salsa realizzata con pomodoro e aglio in ember e una cottura in wok di ghisa.
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PREPARAZIONE 1. Lavate le vongole come spiegato precedentemente. 2. Preparate il dispositivo per una cottura diretta, con una temperatura intorno ai 200° C. Se il dispositivo è alimentato a carbone, disponete al centro le braci e utilizzate possibilmente una griglia gourmet. 3. Cuocete in diretta, per 5 minuti circa, i pomodori da circa 200 g ungendoli leggermente e girandoli spesso per bruciacchiare la parte esterna. 4. Tostate uno spicchio di aglio su una teglia per verdure o sul wok stesso, poi toglietelo e tenetelo da parte. 5. In un wok con poco olio, inserite le vongole già scolate. 6. Irroratele con poco vino e lasciatele dealcolizzare, fino all’apertura di tutte le vongole. 7. Lasciatele raffreddare, quindi sgusciatene almeno un buon 80%. 8. Tenete il restante 20% col guscio per guarnire i piatti. 9. Filtrare il liquido di cottura delle vongole, da utilizzare per la cottura della frègula. 10. Frullate i pomodori cotti alla brace, insieme all’aglio tostato, utilizzando poco liquido di cottura delle vongole.
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11. Soffriggete la cipolla tagliata finemente in poco olio extravergine di oliva insieme a un pizzico di peperoncino, e aggiungete la salsa di pomodoro ottenuta. 12. Aggiungete la frègula e procedete alla cottura come fosse un risotto, utilizzando come brodo il liquido rilasciato dalle vongole. Volendo si può allungare leggermente con del brodo vegetale. Lasciate cuocere per il tempo indicato dal produttore della frègula. 13. A metà cottura aggiungete le vongole sgusciate e lasciatele insaporire. 14. A cottura ultimata, cospargete di prezzemolo, abbellite il piatto con le vongole in guscio e servite. Giusto il tempo di inserire la prima cucchiaiata in bocca che verrete immaginariamente catapultati su un bellissimo yatch a largo di Villasimius. Profumi di ginepro e lentischio, la salinità del mare nelle narici, lo spumeggiare sulla battigia e i micro granelli di sabbia tra le dita dei piedi. Arriverete a grattare il fondo del piatto e vi sentirete, finalmente, appagati.
I N G REDI EN TI
PER 4 PER SONE • 1 kg di vongole veraci o arselle, • 400 gr di frègula • uno spicchio d’aglio • 2 pomodori ramati • ½ cipolla dorata • vino bianco secco q.b. • olio extra vergine di oliva q.b. • prezzemolo tritato q.b. • peperoncino a piacere
SPECIALE TRADIZIONI - APPROFONDIMENTIO a cura di MICHELA BONGIORNI
No, non è la Fiorentina. È la
FIORENTINA
PERFETTA
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Fu comunque Pellegrino Artusi, famoso scrittore e gastronomo, a far conoscere e a rendere un classico della cucina italiana questa bella fettona di carne alla griglia, nel 1800. Ecco cosa dice l’Artusi nella ricetta numero 556 del suo La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene:
(…) non è altro che una braciuola col suo osso, grossa un dito o un dito e mezzo, tagliata dalla lombata di vitella (…)
C’è stato un periodo nel 2017 in cui uno dei problemi maggiori per i frequentatori di Facebook e di social vari, prima di pandemie e di crisi economiche, era dimostrare come si cuocesse la vera Bistecca alla Fiorentina. Fu in quel periodo che scrissi un articolo, che ancora potete trovare sul nostro sito, intitolato: Bistecca alla Fiorentina e reverse searing: perché no?. La tecnica citata, che tutti noi adesso conosciamo come Revit da quando Gianfranco Lo Cascio ha ripreso e modificato a suo modo il metodo Finney, faceva andare fuori di testa orde di gastrotalebani toscani e non, che non sopportavano proprio l’idea di vedere- a loro dire- snaturata una preparazione così tradizionale e rappresentativa. Tenerla a 52 gradi per ore? Magari in forno? E icchell’è? Un arrosto? Il mio articolo voleva proprio dimostrare che non esiste un metodo certo e codificato per cuocere una T-Bone al modo dei toscani e che la frase cuocila come ti pare, ma se la vuoi chiamare Fiorentina va fatta solo in un modo era una vera sciocchezza. Vi faccio un breve riassunto di quanto scrissi allora. I MEDICI, L’ARTUSI E IL SANTINI Sappiamo con certezza che la parola bistecca comparve ufficialmente per la prima volta all’Esposizione di Parigi nel 1889, quando, esposta nel padiglione italiano, venne presentata come un piatto toscano (quindi fiorentino, poiché a quel tempo Toscana era più o meno sinonimo di Firenze, essendo quest’ultima la città più conosciuta). 28 - BBQ4All MAGAZINE
Tuttavia, la nascita della Bistecca alla Fiorentina non è certa: secondo alcune fonti nacque grazie alla famiglia de’ Medici, che governarono Firenze tra il 1400 e il 1700. Pare che fosse una tradizione, ogni 10 Agosto (per S. Lorenzo), offrire ai cittadini numerosi quarti di bue che venivano cotti direttamente sui falò disseminati per la città. Secondo alcune ricostruzioni, sembra che le fette di manzo che oggi identifichiamo come Fiorentine venissero chiamate carbonate, poiché cotte a contatto diretto con le braci. Secondo la leggenda, verso la metà del ‘500, alcuni inglesi che si trovavano a Firenze per affari economici, dopo aver assaggiato le carbonate, esclamarono Beef Steak! per averne ancora. Da qui sarebbe nato il nome. Alcuni sostengono che in realtà sia stata inventata a Livorno, il cui porto era uno degli scali più importanti e luogo in cui la comunità inglese era molto presente e ben inserita in città.
Mettetela in gratella a fuoco ardente di carbone, così naturale come viene dalla bestia o tutt’al più lavandola e asciugandola; rivoltatela più volte, conditela con sale e pepe quando è cotta, e mandatela in tavola. Non deve essere troppo cotta perché il suo bello è che, tagliandola, getti abbondante sugo nel piatto. Se la salate prima di cuocere, il fuoco la risecchisce, e se la condite avanti con olio o altro, come molti usano, saprà di moccolaia e sarà nauseante. Probabilmente, l’Artusi avrebbe sussultato di disgusto se avesse letto le parole che più di un secolo dopo scrisse Aldo Santini, scrittore e giornalista livornese purosangue, autore di numerosi libri sulla cucina toscana. Così leggiamo nel volume La cucina fiorentina: storia e ricette:
Carne rosa, dunque, e frollata a perfezione. Mi spiego: frollata nel suo quarto, sennò inaridisce. Cinque, sei giorni di ghiacciaia, meglio sette. E che non abbia filamenti. E tagliata con maestria, che la costata venga fuori dal quarto tutta intera, filetto e controfiletto. E che sia almeno di quattro etti, ma l’ideale è di sei. Ora ci vuole fuoco di brace e di legna. E una gratella. La bistecca non va lavata né salata. Olio niente. Quando si gira, un pizzico di sale grosso e pepe. I lettori più attenti avranno già capito dove voglio andare a parare; facendo una ricostruzione storica, fra leggende, ipotesi, dati certi e citazioni, in poche righe ho già descritto almeno due o tre diversi modi su come debba essere cucinata la Fiorentina e quali caratteristiche debba avere: i Medici la cuocevano direttamente a contatto con le braci, l’Artusi parla di una braciola alta un dito o un dito e mezzo che al taglio deve buttare abbondante succo, Santini parla di una costata che pesi dai quattro ai sei etti. Per l’Artusi va salata e pepata dopo la cottura, per il Santini durante. Per l’Artusi va lavata prima, per il Santini no. Per quest’ultimo deve essere ben frollata, l’Artusi invece non parla affatto di frollatura. Molti di quelli che scrivono indignati sui gruppi citati ad inizio articolo inorridirebbero di fronte al carpaccio dell’Artusi (e ancor di più davanti a quello del Santini) non troppo cotto e galleggiante nei suoi succhi nel piatto. L’ACCADEMIA DELLA CRUSCA E DARIO CECCHINI Ma andiamo avanti. Molti siti riportano questa citazione dell’Accademia della Crusca:
Perché poi – fuori di Toscana – un la sanno nemen tagliare: la fanno bassa, senza filetto… Basta tu guardi le bistecche disossate! Icché le sono: braciole! Ma pe’ noi la bistecca… arta tre diti! Ma un la sanno nemmen còcere… la bistecca: zàzzà! e via!
Già qualche anno fa notai che, andando sul sito ufficiale della Crusca (www.accademiadellacrusca.it), non c’era traccia di tale citazione, non si sapeva chi fosse l’autore, da quale testo fosse stata tratta e a quale epoca si riferisse. Si sapeva solo che veniva ripresa da molti siti, da pagine Facebook e da varie pubblicità di ristoranti con l’intento di affermare vedi, la Crusca ci dà ufficialmente ragione!, come se il Salviati in persona avesse dettato le regole per la cottura della bistecca. Stavolta ho pensato di contattare direttamente l’Accademia, attraverso il loro Ufficio Stampa, in modo da poter fare un po’ di luce su questa citazione. Mi hanno risposto con precisione, velocità e puntualità: il brano citato fa parte delle inchieste dialettologiche, svolte alcuni anni fa sotto forma di intervista, per il Vocabolario del Fiorentino Contemporaneo, progetto pluriennale dell'Accademia della Crusca. Tuttavia, questa specifica intervista non è attualmente consultabile nei materiali del database on line.
In pratica il lavoro svolto dalla redazione del Vocabolario, come si può leggere sul loro sito (www.vocabolariofiorentino. it), è quello di portare “progressivamente alla ribalta la realtà linguistica in cui si muove il parlante” al fine di “definire le caratteristiche di un aggiornato progetto di lessicografia dialettale”. La Crusca non si è affatto occupata, dunque, di dare le direttive sui metodi di cottura, avallando un metodo a discapito di un altro, quanto piuttosto di intervistare i parlanti “per dare una chiave di accesso e di lettura della specificità lessicale” del fiorentino. Come è giusto che sia, L’Accademia si occupa dell’aspetto linguistico. Appurato questo, e ringraziando sempre l’Accademia per la preziosa collaborazione, possiamo comunque notare una cosa: la persona che ha risposto all’intervista ha parlato di una bistecca “alta tre dita” (ma sempre meno delle famose quattro dita sotto le quali sarebbe carpaccio) cotta “zazzà e via”. E quindi diciamo addio ai cinque minuti per lato e ai quindici in piedi. Diciamo addio proprio ai tempi di cottura.
Anche perché vorrei che qualcuno ci spiegasse come farebbero la braciuola alta un dito dell’Artusi, quella che pesa quattro etti del Santini, quella alta tre dita citata dalla Crusca e quella alta non meno di quattro dita di certi puristi dei nostri giorni ad avere un tempo di cottura ben preciso e codificato. Ma la vera domanda che mi sono posta già tre anni fa e che vi ripropongo è: quale delle quattro diverse Fiorentine è meno Fiorentina delle altre? Deve essere solo di Chianina? Santini è stato uno che ha avvalorato molto questa tesi ne La cucina fiorentina: storia e ricette, paragrafo Il romanzo della Bistecca ci porta negli Stati Uniti. Peccato che Dario Cecchini, ad esempio, considerato da moltissimi il re di questa preparazione, non usi la Chianina. Ho scritto io stessa la recensione sull’Officina della Bistecca, e ho criticato più di un aspetto del percorso gustativo ideato del famoso macellaio, ma non ho mai affermato che il Cecchini non cucini comunque Fiorentine. Secondo voi potremmo dirgli chiamala solo costata, ma non Bistecca alla Fiorentina, come ho letto su qualche commento in cui si affermava che se non è di Chianina non può essere considerata pura? Direi di no. 30 - BBQ4All MAGAZINE
ACCADEMIA DELLA FIORENTINA Nel 1991, un gruppo di rappresentanti dell’Associazione Fiorentina Macellai insieme ad artisti, cuochi, gestori di ristoranti tipici della città e altri personaggi della scena politica e del giornalismo costituirono a Firenze, nel Salone de’ Dugento in Palazzo Vecchio, l’Accademia della Fiorentina con lo scopo di far apprezzare la bistecca “secondo i canoni della più autentica tradizione”, ovvero come appunto si legge sul loro sito, “cotta alla griglia sui carboni ardenti di rovere nel rispetto dell’arte gastronomica fiorentina”. In pratica al tempo cercarono di ufficializzare un solo e unico modo di cuocerla, senza però riuscirci. Sul sito infatti, sotto la voce “Disciplinare” non si trova assolutamente nulla e cercando un po’ online si legge molta confusione in merito: il metodo per capire quando è cotta dovrebbe essere ”a occhio”, perché “dipende da tanti fattori”; il sale prima? Forse sì, ma forse no (c’è ancora chi addirittura sostiene che il sale “asciughi il sangue” e dia problemi in cottura) , condirla dopo è “questione di gusti”, sui cinque minuti per lato e i quindici in piedi “non si sa, potrebbe volerci più tempo”; sul carbone poi non ne parliamo: solo
rovere come sostiene l’Accademia della Fiorentina? No, vanno bene anche ciliegio e noce, tuttavia non si disdegnano quercia e olivo. E poi l’apoteosi: il procedimento di cottura prevede che la carne “sudi sangue” nella parte superiore e solo a quel punto vada girata per farle “sudare sangue” anche dall’altra parte, in modo da capire in questo modo quando è cotta Capite adesso? Da anni portiamo avanti il concetto di scienza al servizio della cucina, abbiamo spiegato in lungo e in largo che quel liquido rosso che si vede grondare dalla ciccia non è sangue ma una proteina chiamata mioglobina, abbiamo combattuto contro il concetto di ricetta per innestare nella mente di tutti coloro che ci seguono quello di metodo scientifico, ovvero un modo per rendere sicuro e replicabile qualsiasi risultato. Ci siamo sgolati nello spiegare cosa sia e come avvenga la denaturazione delle proteine e cosa si intenda per Reazione di Maillard. E i difensori della tradizione sono ancora fermi al deve grondare sangue. Qui urge sottolineare l’ovvio: non solo non esiste un disciplinare di produzione di questo famoso piatto, ma non c’è nemmeno un metodo di cottura univo-
co, ognuno fa a modo suo, va a occhio, decide a seconda del proprio gusto, probabilmente interrogando le stelle o i tarocchi. In quest’ottica dunque possiamo dire di aver dimostrato, senza ombra di dubbio, che il Revit può essere abbinato a questa preparazione senza toglierle in nessun modo lo status di Fiorentina. Anzi, come sanno bene i nostri lettori, questo metodo collaudatissimo la rende più buona, più morbida, più succosa. Sicuramente è replicabile in modo perfetto ogni volta. Beninteso, ognuno a casa sua farà quel che vuole e accettiamo assolutamente che le persone decidano la propria metodologia anche in base al tempo che hanno a disposizione, alla fame che provano in quel momento, alla fretta, alla materia prima utilizzata. Ma non possiamo assolutamente più tollerare certe dimostrazioni – spesso molto maleducate- da parte di gastrotalebani dalla mentalità chiusa convinti di preservare la tradizione. Come diceva Mark Twain: “Il radicale inventa le opinioni; quando le ha sperimentate, interviene il conservatore e le adotta.” LA BISTECCA ALLA FIORENTINA Ancora in molti credono che la Fiorentina sia la razza bovina da cui ricavare bistecche. In realtà è il taglio. La schiena del manzo è composta da tredici costole. Nei tagli moderni si distingue tra le pri-
me cinque costole, dalle quali si ottiene la lombata con osso, e le restanti otto, dalle quali si ottiene il lombo. Quest’ultimo, a sua volta, viene suddiviso in due parti: dalle cinque costole finali si ricava la bistecca senza filetto, mentre dalle tre costole anteriori quella con filetto. Il tipico osso a forma di T è il segno che contraddistingue la Bistecca alla Fiorentina. Non a caso nei paesi anglossassoni lo stesso taglio viene chiamato T-Bone. A seconda delle dimensioni del filetto, negli Stati Uniti ha due nomi differenti: T-Bone, se ha il filetto più piccolo e Porterhouse se invece lo ha più grande. Questo perché la prima viene ricavata dalla parte centrale del taglio, mentre la seconda dalle estremità. Appurato questo, veniamo all’annosa questione: solo di Chianina? Come avete avuto modo di leggere sulla nostra Community, abbiamo più volte spiegato come frollatura e marezzatura siano fondamentali per ritrovarsi nel piatto una bistecca succosa, saporita e morbida invece di una simile a un copertone asciutto che sa di poco. La frollatura, ovvero quel periodo di tempo che intercorre tra l'abbattimento dell'animale e la sua vendita sul banco - e che deve avvenire in cella frigo a temperature controllate, affinché la carne perda progressivamente i liquidi in eccesso e il suo tessuto connettivo degradi – è la responsabile della concentrazione di sapore e della tenerezza.
La marezzatura invece è quel grasso infiltrato nella ciccia, che è l’elemento più saporito nel complesso strutturale della bistecca. Maggiore sarà la marezzatura, più potente sarà il sapore. La carne fresca, bella rossa, ricca d’acqua e poco marezzata non sarà, per forza di cose, tenera e saporita come quella ben frollata e marezzata. Per anni e anni in Italia si è portata avanti la convinzione, invece, che una carne rossa (quindi ricca d’acqua) e sopratutto molto magra fosse più buona. Ma come scrive Gianfranco Lo Cascio:
La predisposizione genetica di un animale gioca sicuramente un ruolo importante nella quantità di grasso infiltrato, tuttavia il metodo di allevamento fa molto di più la differenza. Ovvero, cosa mangia l’animale, quanto e come. La razza fine a se stessa non determina la qualità della carne e quindi non ha alcun senso dire che il Wagyu è il top e la Chianina fa schifo, o il contrario. Il punto è che, per assunzione di protocollo, alcuni allevamenti hanno precise filosofie di sviluppo dei bovini. Quindi chi alleva Chianina, di solito, ha l'obiettivo di mantenerla magrissima, e sulla base di questo va a tarare il metodo di allevamento. Chi alleva Wagyu ha l’obiettivo esattamente opposto. Inoltre la Chianina ha una bassa predisposizione allo sviluppo di grasso intramuscolare, che è il punto di partenza per ottenere carne magra, mentre per il Wagyu è il contrario. In Italia si ama la ciccia fresca e rossa, quindi si va ad allevare e a vendere carne magra e possibilmente poco frollata. Questa è però una percezione che genera una scelta tarata su un assunto di partenza che, di fatto, è scientificamente sbagliato. GIUGNO 2020
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Alla luce di tutto questo, cuocere una Bistecca alla Fiorentina, come abbiamo fatto noi, di Wagyu australiano, è fare una scelta ben diversa e molto più consapevole, ma soprattutto libera dai condizionamenti imposti da anni di convinzioni errate: questo tipo di manzo è il risultato di una selezione genetica di incroci fra bestiame Wagyu giapponese con razze continentali. La carne bovina australiana Wagyu è preziosa a causa della sua intensa marmorizzazione e dell'alta percentuale di grassi insaturi oleaginosi intramuscolari. Il risultato è stato un’esplosione di sapore che solo chi lo ha provato almeno una volta nella vita può capire. E sì, siamo assolutamente convinti di aver preparato LA Bistecca alla Fiorentina perfetta, senza temere di essere smentiti, soprattutto perché non di Chianina.
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MA ALLA FINE, REVIT SÌ O REVIT NO? DIPENDE. Ok, fermiamoci un attimo: dopo essere stati così precisi nel dimostrarvi che non c’è un unico modo di cuocere ‘sta benedetta Fiorentina, sarebbe disonesto dirvi che il Revit vale sempre e comunque. Sapete tutti come funziona questa tecnica, no? Prima teniamo la bistecca in Dry Brining poi la prendiamo, la asciughiamo bene bene, poi la asciughiamo ancora e poi di nuovo. La mettiamo su una gratella e la mettiamo in forno ventilato dopo averlo portato ad una temperatura di circa 52°C. A questo punto il nostro obiettivo è quello di farla scaldare lentamente in modo che al cuore raggiunga la temperatura di 52°C. Esternamente, la carne deve cominciare a disidratarsi e a ossidarsi, a causa degli iniziali processi di coagu-
lazione. Dentro non deve cuocere, ma deve scaldarsi. Quando raggiunge la temperatura al cuore, la bistecca deve rimanere in questa condizione fino al momento di andare sul grill, o in padella per il searing finale. Il lungo tempo di permanenza a bassa temperatura permetterà una corretta distribuzione del calore alla temperatura prevista, innescando di conseguenza i processi di degradazione del collagene. Al momento in cui andremo a cauterizzare la superficie, scopriremo che la ciccia rimarrà sul grill o in padella per pochissimi secondi per lato (non minuti, secondi!), formando - grazie alla reazione di Maillard, in cui proteine e zuccheri riducenti sottoposti a calore reagiscono fra di loro formando molecole nuove con il tipico sentore di arrostito - quella buonissima crosticina saporita e non
bruciacchiata. All’interno la bistecca sarà completamente rosata, da parte a parte, senza quell’orrendo anello grigio che in gergo chiamiamo mouse ring. Avremo dunque una Bistecca alla Fiorentina con le seguenti caratteristiche: cuore rosa intenso ma non freddo, quindi eviteremo quell’orribile sensazione di ciccia cruda, fredda e non masticabile della carne “che deve grondare sangue” dei gastrotalebani poc’anzi citati, crosticina perfettamente formata e saporita, tenerezza estrema, incredibile succosità, zero perdita di liquidi nel piatto. Cosa abbiamo fatto, dunque? Abbiamo concentrato il sapore della nostra ciccia, facendo in modo che si scaldasse all’interno, che formasse la Maillard molto velocemente, che rimanesse burrosa e succulenta.
Ebbene, ci sono carni che vi consentono di saltare il Revit. Ma come, direte voi, hai scritto tutto l’articolo cercando di convincerci che è il modo migliore di cuocere la bistecca! Sbagliato, ho scritto un articolo per dimostrarvi che non esiste un solo modo per cuocere la Fiorentina, che dire “solo Chianina!” è una baggianata e che il Revit, metodo che insegniamo da anni con convinzione anche ai nostri corsi, è il modo migliore per cuocerla, quando abbiamo a che fare con una bistecca frollata qualsiasi. Tuttavia, con le carni GLC Top Selection, già frollate e marezzate al punto giusto, non è assolutamente una tecnica necessaria: la T-Bone AUS WX 5+ by Rangers Valley Wagyu F1 Crossbreed che abbiamo cucinato per questo articolo, ad esempio, è già una concentra-
zione di sapore puro, è già burrosa, è già morbidissima, quindi il Revit può tranquillamente essere saltato (il che non significa che sia vietato farlo, ma che non è necessario) o essere sostituito con un pre-condizionamento più lieve: 25 minuti in sous vide a 52 gradi, per scaldarla all’interno, e poi il searing sulla ghisa rovente può essere un’ottima soluzione, ad esempio. Chiaro il concetto, dunque? Per cuocere la Fiorentina Perfetta dovete in ogni caso allontanarvi dalle vostre convinzioni, aprire la mente, evitare le frasi fatte e scegliere con consapevolezza (ad ogni carne la sua tecnica, non si scappa) perché avete davanti a voi il risultato ottimale da raggiungere, e che certamente non otterrete con una bella Chianina alta quattro dita, cinque minuti per lato e quindici in piedi!
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SPECIALE TRADIZIONI - RICETTA a cura di VIRGILIO BRUNETTI
la leggenda della
G E N OV E S E La Genovese che tutti conosciamo è un condimento della cucina tradizionale napoletana, un ragù bianco di cipolle e carne bovina e pochi altri ingredienti che vengono stufati lungamente fino a diventare un condimento cremoso da servire su pasta corta. Si distingue dal ragù alla napoletana per l’assenza del pomodoro e per il diverso tipo di carne impiegata. Sono state avanzate molte ipotesi per giustificare il nome di questo piatto. I genovesi, presenti nelle bettole del porto napoletano durante la dominazione aragonese del XV secolo, narravano di un fantomatico gastronomo partenopeo soprannominato “o’genovese” che avrebbe inventato la preparazione, mentre il celebre Ippolito Cavalcanti nel suo ricettario del 1837 riporta diverse vivande alla genovese. Proprio quest’ultima denominazione in realtà indica come nella gastronomia italiana dell’epoca ottocentesca si affermassero ricette o pietanze che venivano identificate a seconda della provenienza: alla napoletana, alla milanese, alla siciliana, alla romana; le quali, più che il luogo d’origine, indicavano per i cuochi del tempo un determinato stile di cucina, caratterizzato da tecniche di cottura ed ingredienti chiave. Con alla genovese si indicava l’uso dei fondi di cottura di carne; lo stesso Cavalcanti identifica con questo nome un sugo bianco ben ristretto ottenuto rosolando un taglio di manzo magro nel lardo, che veniva utilizzato per condire la pasta. In questa versione la cipolla non era contemplata. Durate il XX secolo, la diffusione di altri condimenti, alcuni dei quali ebbero un successo planetario (come il ragù alla bolognese) decretarono l’abbandono quasi totale del sugo di carne in cucina e con esso, lo stile alla genovese si estinse 34 - BBQ4All MAGAZINE
in tutta la penisola ma sopravvisse gloriosamente nella città di Napoli. Facciamo la radiografia a questo condimento: si tratta di un sugo ricco costituito da due elementi essenziali: cipolla e carne. Ingredienti variabili e facoltativi: strutto, lardo, lardelli di prosciutto, basilico, alloro, prezzemolo, pomodori pelati, formaggio Parmigiano o pecorino o addirittura entrambi. Qualunque metodo o ricetta utilizziate la cipolla rimane sempre l’elemento predominante, la texture deve risultare cremosa senza eccessive fibrosità, si deve sentire l’incastro perfetto tra i sapori e aromi estratti dalla carne di manzo, la gelatina, i grassi e la dolcezza vegetale e sulfurea della cipolla. Andiamo ad analizzare e radiografare singolarmente gli ingredienti. LA CIPOLLA È sicuramente l’ingrediente chiave, la protagonista indiscussa della Genovese. Solo in Italia esistono 20 varietà di cipolle di grandissima qualità, alcune sono molto famose e blasonate al centro di business corpulenti, altre sono invece relegate al consumo locale e di nicchia. Esistono inoltre cipolle da consumo fresco e altre da serbo; sono classificate per forma, dimensione e colore del bulbo, che può essere rosso, dorato-ramato e bianco. Anatomia di una cipolla: tutte le cultivar di cipolla sono tassonomicamente ascritte alla famiglia delle Liliacee (porro, scalogno e aglio appartengono alla stessa famiglia), la parte edibile nobile di Allium cepa è il bulbo, ovvero un fusto modificato che ha la funzione di accumulare sostanze nutritive utili alla sopravvivenza della pianta. Il bulbo è costituito dall’ingrossamento della parte basale delle foglie che si ispessi-
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scono, divengono carnose, bianche o leggermente colorate di rosso o violetto. Le guaine esterne si presentano invece sottili, cartacee, di colore variabile; dal bianco, al dorato, dal rosso al violetto, a seconda della varietà. Il clima, la granulometria del terreno e le cure agronomiche sono determinanti nella definizione della qualità di una cipolla. ll miglioramento genetico di questa specie ha avuto inizio di recente, la selezione operata dagli agricoltori in precedenza ha consentito di disporre di un certo numero di varietà e di tipi differenti per esigenze luminose, lunghezze del ciclo biologico (precoci, medie e tardive), destinazione del prodotto, forma del bulbo e colore delle tuniche esterne (bianche, rosse, gialle, viola, brune). A seconda della destinazione del prodotto, si distinguono varietà per il consumo fresco (in genere quelle precoci), da serbo, raccolte a fine estate-inizio autunno, da sottoli e sottaceti, a bulbo bianco come la Bianca di Baretta o la Borettana.
vengono danneggiate, ad esempio tagliando la cipolla con un coltello, si libera un enzima vacuolare chiamato allinasi che converte queste molecole solforate presenti nel citoplasma in acidi sulfenici. Nella cipolla l’isoallinina, chiamata anche precursore lacrimogeno, si trasforma in acido sulfenico che, grazie ad un secondo enzima scoperto nel 2002, si trasforma successivamente in una molecola chiamata propantial-S-ossido. Questa molecola è molto volatile e quando raggiunge i nostri occhi attiva i sensori presenti che scatenano la lacrimazione (da Scienza In Cucina di D. Bressanini “La cipolla lacrimogena”). Un’altra componente caratteristica e comune a molti ortaggi a bulbo (ma anche tuberi e rizomi) è la quota di carboidrati sotto forma di zuccheri complessi e semplici accumulati nelle cellule vegetali. I produttori di cipolle rosse di Tropea IGP fanno vanto dell’alta concentrazioni di zuccheri semplici quali glucosio, fruttosio e saccarosio tanto da riportare il grado zuccherino sulle confezioni.
Tutte hanno caratteristiche di base comuni, tra questi il particolare odore dovuto all’abbondanza di amminoacidi solfossidi. In breve, quando le cellule
Come in tutti i bulbi delle liliacee eduli è presente una quota rilevante di fibre solubili, ovvero elementi che in cottura contribuiscono a modulare la texture
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del preparato; le componente amidacea nella cipolla è assente. Essendoci una notevole abbondanza di zuccheri riducenti, la cottura della cipolla è un tipico esempio vegetale di come la reazione di Maillard sia un fattore chiave nell’esaltazione di tutte le preparazioni che hanno per protagonista questo antichissimo ortaggio. A tal proposito, vi ricordiamo che la Maillard è una reazione chimica tra zuccheri riducenti e aminoacidi, che ha come prodotto molecole polimeriche aromatiche, saporite e dal caratteristico colore bruno. Viene modulata da differenti condizioni dell’ambiente di reazione, quali umidità, temperatura e pH. Un pH neutro tendente al basico sarà un fattore che accelererà la reazione di Maillard da cui il “vecchio trucco” del bicarbonato che può essere usato in blanda soluzione per il lavaggio della cipolla una volta affettata. La scelta di una data cipolla appare quindi determinante per la riuscita di una specifica preparazione. Non parliamo di scegliere l’ormai diffusissima qualità rossa di Tropea rispetto a quella di Cannara o alla tradizionale Cipolla ramata di Montoro; queste sono solo denominazioni di appartenenza ad un
territorio che omologano un determinato ecotipo, il quale dovrebbe, e ripeto dovrebbe, rappresentare un disciplinare produttivo e uno standard qualitativo. La verità è che anche andando al mercato si potrà scegliere la cipolla giusta per la Genovese, senza la necessita di sbattersi per trovare necessariamente una IGP o un presidio Slow Food. Quindi così come una cipolla da consumo crudo deve avere caratteristiche tali da rendere piacevole la masticazione e la digestione, allo stesso modo occorre quella adatta per una specifica cottura. Le tipiche cipolle da consumo crudo sono cultivar rosse, fresche ricche di acqua di vegetazione, zuccheri: quindi la cipolla giovane di Tropea oppure la corpulenta cipolla rossa di Acquaviva. Ed è innegabile che in questo contesto la componente cromatica appaghi maggiormente la vista. Le cotture rapide tendono invece ad esaltare il caratteristico aroma sulfureo dell’ortaggio, la sua naturale dolcezza, la texture tendenzialmente croccante e moderatamente fibrosa. Le cotture dirette su brace richiedono cipolle con una minore quantità di acqua di vegetazione e una elevata quantità di zuccheri semplici; ovviamente la componente cromatica ha un ruolo importante, ma non fondamentale e quindi anche grandi cipolle bianche si adattano molto bene a tal scopo. La Maillard interessa maggiormente la superficie dell’ortaggio e necessita di una rilevante quantità di grasso di cottura e di una temperatura media che assieme evitino reazioni di carbonizzazione. Le cotture lunghe in umido invece sono un contesto ben diverso, nel quale la cromaticità dell’ortaggio non è rilevante ai fini gastronomici. A mio avviso, maggiore rilievo hanno la quantità di zuccheri semplici, di fibre - soprattutto quelle insolubili- e di acqua di vegetazione. Una buona cipolla infatti avrà sempre e comunque una sostenuta quantità di fattore lacrimogeno tale da farvi grondare di lacrime. Inoltre la quantità di carne prescritta nella ricetta è inferiore in peso rispetto alle cipolle. Su un kg di carne parliamo di circa 1,2-1,5kg di cipolla da tagliare con un coltello ben affilato, con un tagliere umido e una buona scorta di fazzoletti. Se proprio non ce la fate potete usare occhialini da piscina oppure raffreddare le cipolle intere in freezer per 15-20 minuti in modo da rallentare la velocità di propagazione della
reazione enzimatica. Un altro metodo interessante è l’inattivazione al calore degli enzimi precuocendo le cipolle intere in forno fino a temperatura di denaturazione delle proteine (gli enzimi sono proteine) a 60°C interni (personalmente non l’ho mai provato, ma con l’aglio della A.O.P. scientifica funziona benissimo). Anche quelle non estremamente dolci si adattano comunque bene visto che la lunga cottura della genovese andrà comunque a restringere il sugo e ne esalterà la dolcezza. La fibrosità della cipolla invece sarà determinante nella riuscita del composto: cipolle troppo ricche di fibre daranno al composto finale una texture disomogenea slegata con la percezione di prodotto semicrudo nonostante la lunghissima cottura. La cipolla ideale invece dovrebbe letteralmente fondersi in una crema ricca e leggermente agrodolce con una lontana sfumatura sulfurea. La cremosità della base di questo sugo lungamente stufato può essere arricchito (secondo tradizione) con l’aggiunta di ritagli di salumi, lardo o strutto che daranno una emulsione più ricca di sapidità, tuttavia sono dei metodi che non servono in sé per migliorare la base “cipollosa” ma per compensare la magrezza del manzo che di base rimane la fonte proteica nobile della ricetta.
La lunghissima cottura umida avrebbe ragione sulla consistenza di un copertone di Vespa, quindi nella saggezza popolare il recupero degli scarti grassi dei salumi, il lardo e lo strutto non facevano che compensare la qualità e tagli di un manzo a volte troppo magro. Certo, se andrete a usare, come abbiamo fatto noi, uno spezzatino di Black Angus, vi assicuro che non avrete bisogno di aggiungere nulla al vostro sugo. LA CARNE I tagli per la genovese sono quelli per la maggior parte adatti alle cotture in umido, tendenzialmente ricchi di collagene, ma ci sono eccezioni perché nella tradizione sono suggeriti anche tagli nobili come il girello e lo scamone: • Colarda: scamone • Gallinella e Gamboncello: stinco di-
sossato, garetto posteriore • Lacerto: girello • Lacertiello: girello di spalla • Locena, corazza: reale • Primo taglio di annecchia: ovvero
la punta dello scamone di vitello (o’ vaccariello).
La cottura della carne avviene a pezzi e a seconda della “nobiltà” del taglio utilizzato, la Genovese si presta sia come condimento per la pasta sia come secondo di carne da consumare a parte.
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Il fatto che la carne possa essere tenuta ancora compatta o sfaldata, servita come piatto unico o con portate separate, dipende dalla specifica occasione (dal contesto sociale; dalla la presenza di ospiti di riguardo, dalle festività) e porta ovviamente alla scelta di tagli più costosi del quarto posteriore, mentre in un contesto familiare le scelte possono essere differenti. Molte fonti riportano come lo chef Gennarino Esposito sia affezionato ai tagli di vitello (annecchia) il che contrasta un po’ con la logica di un taglio bovino che deve infondere sapore di carne ad un sugo sovrastato da un’immensità di cipolle. La realtà è che nella ricetta della Genovese la cipolla è sempre l’ingrediente numero uno, la carne è un complemento che deve infondere il sapore al preparato cedendo grassi e gelatina; il fatto di utilizzare un taglio nobile di vitello non è altro che un escamotage per rendere più adatto all’alta ristorazione un sugo popolare dove la carne viene sfruttata al massimo come si farebbe per un brodo. L’approccio dello Chef Esposito necessita di modifiche sostanziali della ricetta che evitino la disintegrazione di un taglio bovino giovane. Dall’altra parte sappiamo bene che tagli bovini come punta di petto, stinco, pancia, coda, guancia potrebbero dare un’impronta molto più incisiva e potente ma allo stesso tempo devastare l’identità di una preparazione che di fatto ha assunto questa struttura per questioni di reperibilità degli ingredienti e per il fortissimo legame con la tradizione culinaria partenopea. Tecnicamente la carne lasciata in pezzi abbastanza grandi viene rosolata in olio o strutto affinché le superfici dei pezzi assumano il tipico colore bruno, dopo di che con poco vino (lo chef Esposito usa il Brandy) si va a deglassare e a restringere prima di inserire una montagna di cipolle. La lenta e lunghissima cottura completa l’alchimia di questo sugo tradizionalissimo che ovviamente ha dei margini di miglioramento osando con un po’ di tecnica e di metodo scientifico. Come dicevo prima, usare un tipo di carne come quello della ricetta che vi andremo a presentare, ovvero lo spezzatino Stew AUS Black Market 5+ Rangers Valley Black Angus del Megastore, vi risolverà qualsiasi dilemma: sono cubi di carne extra marezzata che ridurranno significativamente iI tempo di cottura (la ciccia è già tenera) e che riverseranno 38 - BBQ4All MAGAZINE
nel sugo la giusta quantità di grasso – e quindi di sapore- necessario a rendere questo sugo un’esperienza orgiastica per le vostre papille. LA PASTA La cultura della pasta a Napoli ed in Campania è così potente che sarebbe impossibile smantellare il binomio. La genovese richiede una pasta corta di ottima fattura. La tradizione prevede filati quali ziti, mezzanelli, candele spezzate a mano, paccheri e poche altre variazioni. La caratteristica di questi filati richiede necessariamente una scelta di prodotti di qualità ed una certa accortezza nella cottura per non disfare la struttura di questi formati. Lo dico col cuore, non c’è nulla di più triste di un pacchero o zito scotto collassato su se stesso, se non siete in grado di gestire la cottura di questi filati usate le penne lisce. Scegliere una buona pasta secca non è un’impresa impossibile, indipendentemente dalla provenienza, dovete scegliere pastifici che espongano etichette chiare, dando il giusto peso alla provenienza della materia prima, visto che storicamente l’Italia non produce quantità sufficienti di grani di qualità tali da sostenere un’esportazione di prodotto finito su scala planetaria. Il processo produttivo della pasta è suddiviso nelle seguenti fasi: 1. Selezione delle semole. Quelle da usare per la pasta sono fondamentali per la produzione di un prodotto di alta qualità. Di norma, le semole si scelgono in base alle loro caratteristiche fisiche (peso specifico ed impurità) e tecnologiche (proteine, qualità del glutine e indice di giallo). Infatti una buona pasta viene valutata in base alla quantità di proteine presenti che seguono degli standard: il minimo quantitativo di proteine per i prodotti di semola di grano duro è del 10,5% e del 11,5% nel caso di paste integrali, ma più questo valore è alto più le semole sono superiori a livello qualitativo (il 14% è uno dei valori più alti). 2. Macinazione delle semole. Questo processo permette di trasformare le semole in prodotti “nobili” che verranno poi usati per la pasta. La macinazione delle semole a pietra o con altri materiali non costituisce di per sé un indice qualitativo della pasta.
3. Impasto e gramolatura. Una volta macinata, la semola è lavorata con l’acqua e dove necessario con altri ingredienti aggiuntivi. Questa fase che viene definita gramolatura, influisce sulla fattura finale dell’impasto. Una semola a gramolatura grossa (>450-500 micron) valorizza al meglio le qualità tecnologiche del grano donando all’impasto un aspetto compatto ed omogeneo. 4. Trafilatura. È l’operazione che permette di dare una determinata forma alla pasta. Quella ottenuta dalla trafilatura in bronzo ha una superficie ruvida e porosa mentre quella ottenuta da trafilatura in teflon è più liscia. 5. Essiccamento. È la fase più delicata del processo produttivo, quella che avrà un maggiore impatto (dopo la scelta della semola) sul risultato finale. La pasta viene fatta essiccare dentro appositi macchinari che rilasciano acqua calda per farla asciugare così da raggiungere massimo il 12,5% di umidità previsto dalla legge. Più basse sono le temperature di essiccazione meglio è: infatti se la pasta viene fatta essiccare a temperature troppo alte avrà caratteristiche organolettiche e nutrizionali inferiori, tipiche della pasta prodotta con metodiche industriali massive. Selezioniamo la nostra pasta in base ai seguenti parametri qualitativi, quindi: preferire pasta essiccata a basse temperature. Nonostante questa sia una delle informazioni di solito omesse dai produttori, è possibile desumere con certezza quasi assoluta che i produttori più piccoli e artigianali usino proprio questo metodo per garantire un prodotto più completo. Preferire pasta con un aspetto “sano” e ben conservato, con una superficie omogenea e un colore simile al grano senza frammenti o segni di aggressione di muffe o insetti, trafilata al bronzo perché la sua rugosità assorbe meglio il condimento e lo trattiene, con garanzia sulla tenuta di cottura. Infine scegliere una pasta con una percentuale di proteine tra il 12,5 e il 15%. Un valore di 13,5% indica che siamo in presenza di ottima semola. Le etichette non riportano quasi mai le % ma i grammi di proteine per 100 grammi di prodotto, che sono esattamente la stessa cosa.
LA RICETTA Ogni famiglia napoletana ha la sua. Come ho già specificato più volte, la scelta degli ingredienti è determinante per la resa finale del sugo. Ma adesso avete tutte le informazioni per non sbagliare un colpo. Questa è la versione di nonna Eliana, napoletana verace che mi dettò la ricetta diverso tempo fa, solo leggermente modificata.
PREPARAZIONE 1. Fate rosolare un po’ la carne in una casseruola pesante, potete farlo anche sul vostro dispositivo in una cocotte. 2. Sfumate col vino bianco e aggiungete le cipolle tagliate sottilmente e il soffritto di carota e sedano tritati finissimi insieme alla salvia. 3. Aggiungete il vino, poco per volta, e i due pomodori pelati tagliati a pezzettini. Lasciate quindi cuocere a fuoco lento per almeno tre ore e, se occorre, aggiungere un po’ di acqua calda. Le cipolle devono diventare una crema mentre la carne deve risultare morbida alla forchetta. 4. Cuocete la pasta e poi, aiutandovi con l’acqua di cottura, fatela saltare col sugo cremoso alla genovese. Conditela , se vi piace, con pecorino e Parmigiano secondo il vostro gusto.
I N G REDI EN TI
PER 4 PER SONE • 1 kg di spezzatino Stew AUS Black Market 5+ Rangers Valley Black Angus del Megastore • 1,5 Kg di cipolle dorate; • una carota • un gambo di sedano • qualche fogliolina di salvia • un paio di pomodori pelati • olio extra vergine di oliva q.b. • mezzo bicchiere di vino bianco • sale e pepe q.b. • a piacere pecorino e Parmigiano anche mischiati insieme • mezzo chilo di paccheri di buona qualità (o ziti spezzati)
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SPECIALE TRADIZIONI - RICETTE a cura della REDAZIONE
L ' A B BACC H I O Se non ti scotti le dita godi solo a metà
Forse è uno dei piatti più conosciuti del Lazio. Sicuramente è tra i piatti regionali più diffusi nell’intero territorio nazionale. L’abbacchio a scottadito è ormai un must nelle grigliate primaverili e estive, sia per la sua semplicità che per il sapore distintivo dell’agnello da latte. Facciamo però un po’ di chiarezza sul nome. Secondo il vocabolario romanesco di Filippo Chiappini, medico e poeta dialettale romano, “si chiama abbacchio il figlio della pecora ancora lattante o da poco slattato; agnello, invece, il figlio della pecora presso a raggiungere un anno di età e già due volte tosato”. Questo tipo di distinzione è in realtà riconosciuta solo a Roma e nel Lazio, nel resto d’Italia sia il primo che il secondo vengono riconosciuti solo come “agnello”. Potremmo dire dunque che l’abbacchio è l’agnello da latte, o, per usare un’espressione del poeta latino Giovenale, “vergine d’erba, più di latte pieno che di sangue”. L’etimologia del nome è incerta: alcuni sostengono venga dal latino ad bacùlum, "al bastone" in riferimento alla brutale modalità con cui l’animale veniva soppresso nell’antichità (da qui anche il termine abbacchiato, ovvero affranto, abbattuto). Secondo altre teorie il nome deriverebbe da abecula a sua volta derivato dal diminutivo latino ovecula (da ovis, pecora). Dal 2009 l’Abbacchio Romano ha ottenuto il riconoscimento di prodotto con Indicazione Geografica Protetta (IGP). Il Disciplinare di produzione ne definisce le caratteristiche, a partire dalla razza: con questa denominazione si intendono esclusivamente gli agnelli, maschi o femmine, nati e allevati allo stato brado e semibrado, di razza Sarda, Comisana, Sopravissana, Massese, Merinizzata 40 - BBQ4All MAGAZINE
Italiana. Sono legittimi anche gli incroci con altre razze e tra di esse. La carne può essere messa in commercio secondo differenti tagli (intero, mezzena, spalla e coscio, costolette, testa e coratella, ovvero le interiora dei piccoli animali) e deve presentare un colore rosa chiaro con una consistenza compatta e leggermente infiltrata di grasso. Tutti noi associamo questa preparazione al periodo pasquale, poiché l’agnello, nella tradizione cristiana, viene raffigurato come sacrificio a Dio. In antichità si macellavano principalmente pecora e montone e solo durante la Pasqua era concessa la macellazione della bestia giovane. In realtà a Roma la stagione degli agnelli dura tutta la primavera: comincia a Pasqua e finisce il 24 Giugno per San Giovanni. Certamente l’allevamento delle pecore è una delle forme più antiche di attività economiche, specie a Roma e nel Lazio, dove ha sempre permesso alla popolazione di cibarsi e di guadagnare, grazie alla produzione di carne, latte, formaggi e alla vendita stessa del bestiame. Non va dimenticata poi l’importanza della lana e delle stoffe derivate dalla tosatura e dalla concia. Non è un caso se proprio un romano, Marco Terenzio Varrone, vissuto nel I sec. a.C. , ci ha lasciato il trattato più completo sull’arte della pastorizia, il De re pecuaria secondo libro dell’opera didascalica De re rustica. E non è nemmeno un caso che l’etimologia del termine pecunia (denaro), derivi dal latino pěcus (bestiame, pecora). Naturalmente la tradizione culinaria e gastronomica laziale ha numerosissimi piatti con l’abbacchio. Già dai tempi antichi, in occasione dell’abbacchiatura (uccisione degli
agnelli da latte), i pastori banchettavano con la pagliatella, cioè la carne più grassa dell’intestino dell’abbacchio, cotta alla brace. Altri preparati tradizionali che vedono come ingrediente l’abbacchio sono le animelle, i granelli, la milza, il fegato e l’intestino tagliato a pezzi da cucinare in padella. Fra le varie preparazioni c’è di sicuro quella che vi presentiamo oggi: l’abbacchio a scottadito. Questo piatto vuole che venga cotto alla brace e la sua peculiarità prevede che si consumi mangiandolo con le mani, appena terminata la cottura: da qui il nome. Devono essere usate le costolette che si ottengono dalla lombata senza filetto. È importantissimo, per una cottura che sarà abbastanza veloce, tenere la carne fuori frigo almeno un’ora prima della messa in griglia, affinché non sia completamente fredda e agevoli una buona Maillard. Si effettua una marinatura delle costolette con aromi mediterranei, poi si passa ad un’asciugatura successiva, e infine a un seasoning con spennallata d’olio. Usualmente si tende a battere la carne della costoletta al fine di abbassarla e renderla più sottile, per una cottura più veloce. Noi sappiamo benissimo che questo metodo non ci porta alcun vantaggio, così come sappiamo che tenendole leggermente più spesse potremmo ottenere una maillard più efficace senza stracuocerle e con un mouse ring meno pronunciato. Si cuociono con la tecnica del grilling, lasciandole solo qualche minuto per lato per ottenere una buona Maillard, dopodiché vanno servite calde e mangiate a mani nude. L’osso della costoletta servirà per prenderle e portarsele alla bocca.
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foto a cura di LUCA GALLOZZA
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PREPARAZIONE 1. Create una doppia marinatura, con olio, succo del limone grigliato, aglio, rosmarino, timo e menta. Una per lapre cottura e una per il post cottura. 2. Versate la marinatura sulle costolette poste all’interno di una pirofila e lasciatele riposare in frigo un’ora circa. 3. Togliete dal frigo un’ora prima della cottura e procedete all’asciugatura della carne. 4. Spennellate le costolette per tutta la superficie con olio extra vergine di oliva. 5. Predisponete il dispositivo per una cottura diretta. 6. Adagiate le costolette sulla griglia e fatele cuocere per circa 3 minuti per lato, creando una bella crosticina e ricordandovi di cauterizzare la parte grassa. Tenete come riferimento la temperatura di cottura dell’agnello tra i 68° C e i 72° C al cuore. 7. Estraete le costolette dalla griglia, salatele e irroratele con qualche cucchiaio di marinata. 8. Servitele ancora caldissime: è la prerogativa di questo piatto. Devono, davvero, scottare le dita.
I N G REDI EN TI
PER 4 PER SONE • un kg di costolette di agnello • 4 cucchiai di olio extravergine di oliva • un cucchiaino di aglio in polvere • 2 rametti di rosmarino • 2 rametti di timo • 5/6 foglie di menta • 1 limone grigliato dalla parte del taglio • sale e pepe q.b.
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SPECIALE TRADIZIONI - RICETTE a cura della REDAZIONE
Una ricetta sconosciuta
C O T O L E T TA ALLA MILANESE
È un secondo piatto tipico della città di Milano, come sottolinea il nome stesso. Famosa in tutta Italia e all’estero è uno dei simboli della vivace e frenetica metropoli lombarda, al pari della Scala e della Madonnina, che dall’alto delle guglie del Duomo domina il centro cittadino. Infatti, non c’è ristorante meneghino, dal più economico allo stellato, che non la proponga nel suo menù. Per sottolinearne maggiormente l’importanza l’AIFB (associazione italiana food blogger) nel 2016 la inserì nel suo progetto “Il Calendario del Cibo italiano” -nato con lo scopo di promuovere e di diffondere la cultura gastronomica su tutto il territorio nazionale- proclamando il 17 Gennaio di quell’anno la giornata nazionale della cutuléta alla milanese. 44 - BBQ4All MAGAZINE
Questa scelta potrebbe risultarvi discordante rispetto all’introduzione appena letta; infatti che senso ha dedicare un giorno alla conoscenza di una pietanza già così famosa nel mondo? La risposta è semplicissima, perché è una notissima sconosciuta. Non solo la maggioranza degli italiani non l’ha mai addentata, ma non sa nemmeno come vada preparata. Nonostante il termine derivi dal francese cotôlette corrispondente alla parola italiana costoletta (fetta tagliata nel costato), secondo il pensiero comune corrisponde ad una fettina di carne sottile e magra (bovino, suino o pollame), impanata e fritta nel burro, ingrediente principe della cucina tradizionale del Nord-Italia. Vi assicuriamo che la vera milanese è tutt’altra cosa.
Per realizzarla serve una costoletta di lombata di vitello con osso ricavata dal carré, nello specifico dalle prime sei costole, che hanno la giusta percentuale di grasso. Lo spessore è di circa 2 cm circa e il peso si aggira sui 250 grammi. La carne viene prima battuta leggermente per uniformarne la superficie (ma noi non lo faremo mai!) dopodiché viene immersa nell’uovo sbattuto, poi passata nel pangrattato e alla fine cotta in abbondante burro, per ottenere una frittura asciutta e croccante. L’espressione oreggia d’elefant (orecchia di elefante) non è il secondo nome di questa preparazione, perché si riferisce a un piatto abbastanza diverso: la carne viene privata dell’osso e battuta con
il batticarne fino a renderla simile per grandezza all’orecchio del mastodontico pachiderma. Rispetto alla cotoletta dove c’è un sapiente equilibrio tra la croccantezza della panatura e la morbida succosità della lombata, qui il sapore del fritto predomina sugli altri, rendendola una preparazione molto amata soprattutto dai bambini. Come molte altre ricette, anche la cotoletta è al centro di una diatriba sulla paternità, nel caso specifico a contendersela sono Italia, Austria e Francia. Gli austriaci affermano che la Milanese sia la rivisitazione della Wiener Schinitzel, fetta sottile di carne di vitello o di maiale impanata privata dell’osso, cotta senza l’uso delle uova e fritta nello strutto. Per smentire questa affermazione, gli italiani hanno portato come prova una lettera scritta nei primi dell’800 dal maresciallo Josef Radetzky (a cui Strauss dedicò la famosa marcia militare); mentre egli era governatore del territorio lombardo-veneto, raccontava di aver gustato uno straordinario piatto a base di vitello impanato nell’uovo e fritto nel burro. Questa testimonianza dimostrerebbe che fu il creatore della Wiener Schinitzel ad ispirarsi alla milanese e non il contrario. A loro volta i francesi sostengono che la preparazione italica si è rifatta ad una ricetta d’Oltralpe nata intorno al 1750, importata con il nome di cotôlette rivoluzionarie (cotoletta rivoluzionaria) dai cuochi di Maria Luisa D’Asburgo, moglie di Napoleone, che dopo la sconfitta del consorte a Waterloo si era trasferita nel Bel Paese (1816). Anche in questo caso la procedura è molto lontana dalla nostra, infatti la carne viene marinata nel burro aromatizzato con delle erbe, poi impanata e infine fritta. Il punto definitivo all’interminabile discussione fu posto il 17 Marzo 2008 dal Comune di Milano, il quale con delibera della Giunta ha assegnato la denominazione comunale (De.Co.) alla Costoletta alla milanese, basandosi su un’importante fonte: questa pietanza semplice e gustosa, veloce da preparare ha allietato i banchetti dei ricchi o delle festività importanti fin dal lontano Medioevo, come testimonia Pietro Verri (massimo esponente dell’Illuminismo italiano) nella sua “Storia di Milano”, riportando che nel menù del pranzo organizzato dai canonici della Basilica di Sant’Ambrogio il 17 Settembre del 1134
per festeggiare l’onomastico di Satiro, (il quale aveva abbandonato la sua vita per aiutare il fratello, Sant’Ambrogio, durante la sua opera pastorale come vescovo della città meneghina) erano presenti i lombolos cum panitio ovvero gli antenati della cotoletta alla milanese. Pare che i medici medievali prescrivessero l’assunzione di oro pure come cura per le malattie cardiovascolari e che la borghesia milanese fosse solita cospargere di polvere d’oro le vivande. Questa pratica è testimoniata anche da Bernardino Corio, storico italiano, che descrisse il pranzo imbandito nel 1368 in occasione delle nozze di Violante Visconti, figlia di Galeazzo II, con Lionello Plantageneto duca di Chiarenza (banchetto al quale partecipò anche Francesco Petrarca), dove furono serviti pasci e carni ricoperti d’oro finissimo. Successivamente, però, complice anche il costo elevato del metallo, la polvere d’oro venne sostituita da due ingredienti che sono poi diventati gli elementi chiave della cucina meneghina: lo zafferano e il pangrattato. Fra le altre cose, su come impanare a regola d’arte Maestro Martino da Como, nel suo Libro de Arte Coquinaria del 1492, dà precise indicazioni: piglia un pane bianco, et grattogialo menuto, et con esso pane mescola tanto sale quanto te pare necessario per lo arrosto; poi gitta questa mescolanza de pane et de sale sopra lo arrosto in modo che ne vadi in ogni loco; poi dalli una bona calda de foco, facendolo voltar presto; et in questo modo haverai el tuo arrosto, bello, et colorito. Anche questa volta abbiamo vinto noi. La cotoletta è nostra., ma che ne sanno i francesi e gli austriaci...
ING REDI EN TI
PREPARAZIONE 1. Mettete a tostare i panini nel forno (o nel vostro dispositivo) alla temperatura di circa 180°C. Quando saranno belli tostati tritateli con un mixer. 2. In un recipiente capiente sbattete le uova con un pizzico di sale. 3. Versate in un piatto il pangrattato, il sale, il rub, il Parmigiano e mescolate bene bene. 4. Immergete la cotoletta prima nell’uovo e poi passatela nella miscela col pangrattato, premendo leggermente, in modo che il pane si attacchi bene alla superficie. Ripetete il procedimento una seconda volta. 5. Fate sciogliere il burro in una padella, la cottura non deve avvenire per immersione. Quando entrambi i lati della cotoletta sono belli dorati, toglietela dalla pentola e asciugate il grasso in eccesso con la carta assorbente. Oppure preparatela al barbecue! 6. Setup indiretto a calore molto vivace, circa 150°C; braci da una parte, carne dall'altra e coperchio chiuso. Con un vaporizzatore che andrete a riempire di olio extravergine, spruzzate sulla crosta poco prima di andare in cottura. L'olio è un eccellente conduttore di calore e pertanto aiuterà la formazione della crosta. Vaporizzate nuovamente quando andrete a rivoltare la bistecca. 7. Con il vostro inseparabile termometro controllate che la carne arrivi a 55°C per averla al sangue, 65°C per averla a cottura media, 75°C per averla ben cotta. Il contorno ideale per questo piatto potrebbe essere un’insalata condita con un’emulsione di olio extravergine e di limone; l’acidità dell’agrume rinfrescando il palato vi permetterà di apprezzare ogni singolo sapore della Milanese.
PE R 4 PER SONE • 4 Cowboy Steak Prime Black Angus del Megastore • 150g di burro chiarificato • 2 uova • due panini raffermi da 250 g l’uno • 50 g di Parmigiano • Rub Mount Nimba q.b • sale q.b.
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SPECIALE PANINI - RICETTE a cura della REDAZIONE
S A LT I M B O C C A ALLA ROMANA ...siamo sicuri?
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La pansa nò la gha orècie. La pancia non ha orecchie. Questo è il significato del detto bresciano. Sembra strano sentir parlare dialetto lombardo in un articolo che parla di un piatto che nel conoscer comune ha origini romane. Tanto buoni da sembrare di voler “saltare in bocca” (è chiaro il significato del nome, quindi) sulla loro origine c’è molto mistero: non si sa dove nascano precisamente. C’è chi dice Roma, c’è chi dice Brescia. Adolfo Giaquinto, chef, scrittore e poeta , nel suo “Manuale pratico di cucina” già nel 1899 menzionava i “saltimbocca alla bresciana” indicando un’origine nordica del piatto. Di contro l’Artusi, dopo averli mangiati in una trattoria romana chiamata “Le Venete”, li citava nel suo trattato “La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene” descrivendoli così: “sono bracioline di vitella di latte, condite leggermente con sale e pepe, sopra ognuna delle quali si pone mezza foglia di salvia (una intera sarebbe di troppo) e sulla salvia una fettina di prosciutto grasso e magro. Per tenere unite insieme queste tre cose s’infilzano con uno stecchino da denti e si cuociono col burro alla sauté; ma vanno lasciate poco sul fuoco dalla parte del prosciutto perché questo non indurisca. Come vedete è un piatto semplice e sano.” Il fatto che li avesse conosciuti a Roma, spingeva a pensare che il piatto avesse origini capitoline.
IN GREDIENTI
P ER 8 /1 0 P E R S O N E • un Eye of Round di circa un kg Usa Star Ranch Prime Black Angus • 2 etti di Prosciutto di Parma tagliato a fette • Salvia qb. • Pepe nero q.b. • Farina 00 q.b. • Montreal rub q.b. • Sale q.b. • 100 g di burro chiarificato
Restava quindi di difficile attribuzione la paternità di questo piatto, ma fece da paciere Giuliano Malizia che nel suo libro “La cucina romana ed ebraica” affermava che: “… per la lunga permanenza nella nostra città (Roma ndr), per la simpatia che li rende attraenti, per la semplicità così appetitosa…” siano da considerarsi ambivalentemente bresciani e romani. Forse non si scoprirà mai chi sia stato l’inventore di questo sfiziosissimo piatto, certo è che ormai è un “must” della cucina della Capitale e del Lazio in generale.
La ricetta che vi proponiamo oggi è una versione rivisitata in chiave bbq che aggiunge al sapore della tradizione un plus derivante dalla cottura su fuoco. Certamente non abbiamo snaturato la ricetta rispetto a come l’ha descritta l’Artusi, ma abbiamo apportato delle piccole variazioni. Una di queste è l’aver usato la carne del nostro Megastore, che come sapete non può deludere mai. Poi abbiamo insaporito il tutto con uno dei nostri meravigliosi rub (il Montreal) e infine abbaimo fatto una diretta veloce a fuoco alto. Sappiamo cosa state pensando: sì vabbè, capirai, il saltimbocca è proprio banale, lo dice anche l’Artusi! Ebbene vi sfidiamo: preparatevi perché se siete abituati a quelli della nonna, con le fettine sottili, insapori e cartonate, dovrete ricredervi. PREPARAZIONE: 1. Accendete il forno alla temperatura di circa 52 gradi in modalità ventilata e mettete il pezzo di ciccia ad asciugare, finché la superficie non si sarà disidratata bene. 2. Tagliate a fette non troppo spesse l’eye round, spennellatele con un po’ di burro chiarificato fuso, salatele, pepatele e cospargetele di rub (occhio a non esagerare col sale). 3. Adagiate sopra ad ogni fetta di carne una fettina di prosciutto, anche piegandola in due. 4. Ponete quindi al centro della carne una foglia di salvia. Fermate il tutto con uno stuzzicadenti. 5. Accendete il kettle e settatelo per una cottura indiretta ad alta temperatura. 6. Buttate in griglia i i saltimbocca con la foglia di salvia rivolta verso l’alto. Dopo pochi secondi, toglieteli dal fuoco e serviteli (il prosciutto non deve cuocersi ma solo sudare abbondantemente).
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SPECIALE TRADIZIONI - RICETTA a cura di MARCO ZORZAN
Il cuore a
VENEZIA e il F E G AT O nel piatto
Gli hèneti, questo gran popolo, avevano una volta la h al posto del v e il cambio alla lettera attuale sembra sia attribuito allo storico romano Tito Livio che, raccontando il grande aiuto che la gente della laguna fornì alle truppe romane nello scacciare i Galli, li battezzò veneti (“gens universa veneti appellati sunt”). Divenuti poi nel tempo cittadini della Provincia Romana che Cicerone amava definire “quel fiore dell’Italia, quell’ornamento del popolo romano…”, il legame dei veneti con Roma divenne fortissimo e incise nelle loro abitudini culturali e culinarie talmente a fondo che possiamo trovarne traccia anche ai giorni nostri. Nell’antica Roma il consumo delle frattaglie di carne, come ad esempio il fegato (iecur), era sempre accompagnato ai fichi (ficatum), di cui quel territorio era ricchissimo, espediente che serviva a mitigare il gusto troppo ferroso ed amaro tipico del taglio. Nel periodo del Sacro Romano Impero ricostruito da Carlo Magno, i veneti iniziarono a spostarsi dalla laguna e a coltivare nell’entroterra, producendo diverse specie di ortaggi e arrivando a modificare la ricetta romana iecur ficatum: i dolci fichi del Mezzogiorno vennero quindi sostituiti dalle sio’le, le cipolle, più facilmente reperibili nei loro terreni. Nacque quindi la ricetta del Figà àea venexiana con cipolla bianca di Chioggia, già largamente usata dai pescatori veneziani per la conservazione del pesce. Nella famosa ricetta delle sarde in saor, ad esempio, si fa un massiccio uso di cipolla e di aceto accompagnati da numerose spezie, di cui in quel tempo Venezia era in assoluto il più grande importatore europeo. Nel territorio veneto nacquero delle varianti con leggere differenze che sopravvivono tuttora. 48 - BBQ4All MAGAZINE
Dalle mie parti, nel vicentino, si prevede l’uso del vino bianco secco da sfumare all’imbiondire della cipolla; nel veronese la carne viene passata in pastella d’uovo, poi panata e cotta nel burro; in alcune zone si consiglia l’uso dell’aceto e in altre lo si sostituisce con del succo di limone. In ogni caso, tutte le numerose versioni ricercano sempre l’equilibrio tra i due ingredienti principali della ricetta, due attori dalla spiccata personalità e con distinti sapori agli antipodi: fegato e cipolla. La cipolla, rigorosamente Bianca di Chioggia, nota per la sua dolcezza, non tritata ma tagliata alla mezza veneziana cioè spaccata a metà e poi affettata il più sottilmente possibile. Il fegato, un tempo di maiale, è oggi sostituito da quello di vitello o di vitellone per il gusto leggermente più delicato. PREPARAZIONE: 1. Preparate il Kettle per la cottura diretta e posizionate il Wok direttamente sopra le braci, sempre che non abbiate la griglia Gourmet, in questo caso infilatelo nello spazio predisposto. 2. Tagliate come descritto le cipolle: prima a metà e poi affettate sottilmente. Prendete il Fegato: freschissimo mi raccomando! Dev’essere visivamente tendente al violaceo acceso. Ossidandosi assume una colorazione via via più scura acquistando al contempo toni sempre più amari. Asciugatelo benissimo e tagliatelo a listarelle sottili. 3. Versate nel Wok i cucchiai d’olio, aggiungete tutta la cipolla lasciando imbiondire leggermente, sfumate con il vino e fate evaporare. Lasciate stufare dolcemente, aggiungendo dell’acqua calda se necessario. Le cipolle sono pronte quando assumono una colorazione quasi trasparente. Regolate di sale e di pepe.
4. Toglietele dal Wok e tenetele da parte al caldo. Salate e pepate leggermente le listarelle di fegato e passateci una leggera spolverata di farina sopra (poca mi raccomando, come fareste con un rub) Pulite e riposizionate il Wok alzando la temperatura (aggiungendo ulteriori bricchette): dovrà risultare ben caldo. 5. Scottate velocemente le listarelle di fegato, ricercate la reazione di Maillard per una crosticina saporita. Non indugiate troppo nella cottura perché rischiate che, diventando troppo asciutto, risulti poi stopposo. 6. Aggiungete un cucchiaio di cipolla stufata, il prezzemolo tritato e fate sposare bene il tutto. Il piatto va servito caldissimo. Servitelo mettendo a disposizione dei commensali fette di pane abbrustolito, eventuali cipolle rimaste, della polentina morbida o in alternativa del purè di patate. Questo vi permetterà di avere, per dirla come il compianto Maestro Gualtiero Marchesi, “dei sapori distinti e precisi dove il fegato sa di fegato e la cipolla di cipolla”. Ognuno poi potrà trovare il suo perfetto equilibrio aggiungendo o meno altra cipolla. Nell’eventualità che dopo il convivio ve ne rimanga un po’, non buttatelo ma inserite fegato e cipolla in un bicchiere da immersione. Con il minipimer emulsionate il tutto aggiungendo a filo dell’olio EVO e del succo di limone, regolando di sale e di pepe. Realizzerete un gustoso paté rustico che potrete conservare in frigorifero per alcuni giorni.
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PER 4 PER SONE • 500-600 gr. di fegato di maiale o di vitello o vitellone • 2 cipolle bianche di Chioggia • 4 cucchiai di olio extravergine d’oliva • un bicchiere di vino bianco secco • un mazzetto di prezzemolo tritato finemente • sale q.b. • pepe q.b. • farina bianca q.b.
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SPECIALE TRADIZIONI - RICETTE a cura della REDAZIONE
IL TIRAMISÙ dei ribelli 50 - BBQ4All MAGAZINE
Il Tiramesù fa la sua prima apparizione nel 1970 nel ristorante “Alle Beccherie” di Treviso, ideato dal cuoco Loly Linguanotto che rielaborò una preparazione già molto conosciuta: “lo sbatudin” (preparazione povera a base di uova sbattute con zucchero e marsala, considerato un ricostituente da mangiare durante la convalescenza) La ricetta originale del tiramisù prevede strati alternati di savoiardi bagnati al caffè con crema al mascarpone, uova e zucchero, il tutto ricoperto da polvere di cacao. Nel corso degli anni, complici il grande successo e la facile realizzazione di questo dolce sono apparse tantissime varianti (con il pan di spagna, i biscotti secchi, col pandoro, con la bagna al latte, con la crema al pistacchio, con la fragola e così via); e su questo punto avremmo tanto da discutere. Tuttavia vale la pena ricordare ciò che è avvenuto un anno fa. Nel Maggio 2019 Carlo Cracco, famoso cuoco italiano che non ha bisogno di presentazioni e che ha scatenato più volte l’ira degli odiatori su internet (ricordate la pizza?), probabilmente non sapendo cosa fare si diverte a sconvolgere l’Italia dichiarando, durante un intervista al Messaggero: “Io il tiramisù lo faccio con la panna, perché la forma, per essere servito in pasticceria, deve essere perfetta. Non basta: ho tagliato la testa al toro e l’ho fatto anche al vapore tipo soufflé”. Apriti cielo. Il delirio nazionale che ne è seguito è durato per giorni, rimbalzando su ogni social esistente e arrivando perfino ai tg nazionali. Andando al bar la mattina, era facile sentire due signore attempate dare giudizi indignati sul tiramisùdicracco. I soliti gastrotalebani, contrari a qualsiasi tipo di evoluzione culinaria, hanno guidato la folla armata di torce e forconi contro lo stregone stellato. La grave colpa attribuitagli è di aver ufficializzato una pratica già nota in realtà da molto tempo: mettere la panna al posto degli albumi montati a neve. Infatti, se avete voglia di fare una veloce ricerca in rete , troverete tantissime ricette, antecedenti l’affermazione dello chef, nella cui lista degli ingredienti compare la terribile arma del delitto. Effettivamente, la presenza di un secondo elemento grasso unito al mascarpone crea una crema soda e compatta, ma al contempo ariosa, assicurando una maggiore stabilità allo struttura del dolce ed eliminando il rischio afflosciamento. Inoltre, ma forse i nostri anti-evoluzionisti della cucina non lo sanno, la panna di fatto è da sempre un ingrediente del tiramisù. Sapete cosa è il mascarpone? Panna scaldata e fatta coagulare con l’acido citrico. Quindi Cracco per preparare questa prelibatezza al cucchiaio, di fatto, è stato crocifisso per aver aggiunto panna... alla panna. D’altronde, la totale mancanza di un protocollo ufficiale depositato che sancisca quali caratteristiche debba rispettare il tiramisù per essere definito tale, toglie le castagne dal fuoco. GIUGNO 2020
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Certamente il nome allude a certune proprietà afrodisiache che gli vengono attribuite; il tiramisù sarebbe un aiutino, un viagra goloso che, secondo la leggenda sarebbe nato in una casa di appuntamenti di Treviso in cui la proprietaria del locale, la maitresse, era solita preparare il dolce e offrirlo ai clienti. Parliamo di una preparazione certamente calorica, quindi, che deve avere la funzione di “tirar su”. Ma dove sta scritto che, mantenendo la struttura stratificata tipica di questo dolce, non possano esserci variazioni sul tema e aggiunte di ingredienti diversi? Perfino nel d.m. 22 luglio 2005, in vigore dal 29 gennaio 2006, che definisce con precisione le caratteristiche e la composizione di famosi prodotti dolciari italiani tra cui il sacro panettone, leggiamo: “è in facolta' del produttore aggiungere al panettone farciture, bagne, coperture, glassature, decorazioni e frutta, nonché altri ingredienti caratterizzanti”, così come “l'impasto base del panettone può essere caratterizzato dall'assenza di uvetta o scorze di agrumi canditi o di entrambi” Se possiamo chiamare panettone il prodotto con le gocce di cioccolato in vendita a tre euro al supermercato, possiamo tranquillamente chiamare tiramisù la versione di Cracco. La ricetta che vi proponiamo, dunque, è una delle tante varianti, ovviamente con panna perché siamo ribelli da sempre e ci piace fare indignare i puristi. PREPARAZIONE: 1. Partiamo dal Pan di Spagna, che potete tranquillamente preparare anche la sera prima. Preriscaldate il forno a 180°C in modalità statica. 2. Rompete le uova e unitele con lo zucchero in una casseruola dal fondo spesso su fiamma dolcissima. Scaldate fino a 45°C, o in alternativa utilizzate uova a temperatura ambiente. Trasferite in una ciotola, unite la polpa della vaniglia e montate con le fruste elettriche a velocità moderata fino a quando il composto è freddo e scrive in superficie. Ci vorranno almeno 20-25 minuti. 3. Unite farina e fecola setacciate usando una spatola con movimenti delicati, per non smontare la massa, e ruotando contemporaneamente la ciotola. 4. Foderate una teglia da 28-30 cm con un foglio di carta forno e trasferitevi l’impasto facendolo scendere dall’al52 - BBQ4All MAGAZINE
to, senza battere la teglia. 5. Infornate a 180°C per 20 minuti circa. La torta è pronta quando bucandola con uno stecchino nella parte centrale risulterà asciutto. 6. Sformate la base e lasciatela raffreddare completamente su una griglia. 7. Preparate il caffè e versatelo in una ciotola capiente, zuccheratelo ed aromatizzato con il liquore secondo il vostro gusto. 8. È giunto il momento di fare la crema. Versate l’acqua in un pentolino d’acciaio, aggiungete lo zucchero semolato e munitevi di termometro. Nell’attesa, lo sciroppo deve raggiungere la temperatura di 121°, recuperate le fruste elettriche e fate schiumare leggermente i tuorli con la polpa della vaniglia. 9. Versate velocemente lo sciroppo nei tuorli, facendo scivolare il liquido sulle pareti della ciotola e a debita distanza dalle fruste (lo sciroppo è ustionante). Montate il composto fino a raffreddamento e mettete da parte. Vi consigliamo di prepararne una dose più generosa (raddoppiate le dosi), la base tiramisù può essere preparata in anticipo e stoccata in congelatore per 10/15 giorni. 10. Lavorate il mascarpone con una frusta, fino a renderlo una crema, e aggiungete una piccola dose di base tiramisù. Una volta amalgamati i due composti aggiungete il resto della base tiramisù e continuate a mescolare. 11. Aggiungete la panna “lucida”, montata ma non troppo, e mescolate delicatamente dal basso verso l’alto 12. Adesso siete pronti per imbastire il vostro tiramisù. Prendete il Pan di Spagna e sezionatelo in tre dischi. Tagliatelo a misura dei bicchieri o delle coppette che avrete scelto per servirlo. 13. Disponete sul fondo di ogni coppetta il Pan di Spagna e con un pennello alimentare bagnatelo con il caffè al marsala. 14. Versate una generosa dose di crema (meglio con una sac à poche), poi continuate in questo modo facendo un secondo strato. 15. Spolverizzate la superficie finale con la polvere di cacao amaro. 16. Riponete in frigo per almeno 6 ore prima di servire.
I N G RED I EN TI
PER 8 PER SONE PER LA BASE TIRAMISÙ: • 90 g di tuorli (4-5 circa) • 170 g di zucchero semolato • 50 g di acqua • 1/2 bacca di vaniglia Tahiti PER LA CREMA TIRAMISÙ: • 225 g di base tiramisù • 250 g di mascarpone • 250 g di panna fresca PER UN PAN DI SPAGNA DA 28/30 CM: • 250 g di uova intere • 175 g di zucchero • 150 g di farina 00 • 75 g di fecola di patate • 1/2 bacca di vaniglia Tahiti
PER LA BAGNA: • 400 g di caffè espresso lungo • zucchero q.b. (potete anche non zuccherarlo) • marsala q.b. PER IL MONTAGGIO DEL DOLCE • 500 grammi di crema tiramisù • 250 g di pan di Spagna • 400 g di bagna al caffè • 30 g di cacao amaro
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VINI VINIABBINATI ABBINATIa acura curadidiENIO ENIOBERTON BERTON
È ORA DI
BERE! abbinamenti consigliati
BACCO, ABBACCHIO E VENERE La carne dolce e tenera dell’agnello profumata da spezie fresche è una tradizione laziale che è stata sancita anche dalla denominazione geografica protetta per l’”Abbacchio Romano IGP” valida su tutto il territorio regionale. Ma, per rientrare nel regno di Bacco, la viticoltura laziale ha origine, come si può intuire, lontana nel tempo, ben prima che gli eserciti romani diffondessero la cultura della vite in tutti i territori conquistati, compresa la Francia. L’alchimia nata dalla commistione tra la cultura etrusca e quella greca sta alla base delle origini della viticoltura laziale. Dagli etruschi fu acquisita la coltura maritata, aggrappata, della vite ai pioppi, mentre dai greci fu acquisito il gusto di miscelare il mosto con acqua, spezie ed infusi per produrre il “mulsum”, una bevanda usata come aperitivo che veniva prodotta con tre parti di vino ed una parte di miele, in anfore lasciate a riposare per almeno un mese. Diverso era il vino mescolato con la resina di conifere e chiamato “vinum picatum” che Plinio elogia per le sue qualità benefiche per il corpo nel Naturalis Historia XXIII. Il nettare di Bacco era ad uso della sola popolazione ecclesiastica o nobile, mentre per il popolo e per gli schiavi il vino era una miscela di acqua ed aceto o una bevanda che, secondo Catone, veniva prodotta dalle vinacce spremute, a cui si aggiungeva acqua lasciandola a fermentare. I Romani furono abili viticoltori e le loro ricerche furono le base delle tecniche utilizzate fino al ‘700. La catalogazione delle varietà coltivate e le caratteristiche organolettiche dei vini ottenuti furono tramandate grazie ad autori quali Plinio e Columella. Finito l’Impero, la tradizione enologica fu raccolta dal monachesimo e coltivata poi dai papi del Rinascimento (come mostra la ricca varietà dei vini presi in esame da Sante Lancerio, bottigliere di Papa Paolo III Farnese, nello scritto del 1559 “Della qualità dei vini”). Nei secoli XVIII e XIX la coltura del vino nello Stato della Chiesa decadde, fino all’arrivo dei piemontesi. Alla fine dell’Ottocento, i vini più noti del Lazio erano il Castelli Romani, il Frascati, il Marino, l’Est! Est!! Est!!!, tutti ottenuti da vitigni autoctoni.
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Una peculiarità della regione, favorita dalle condizioni climatiche, è stata la diffusissima produzione vinicola familiare anche in aree non vocate per l’autoconsumo. La modernizzazione ha riguardato per lo più lo sviluppo delle cantine sociali, che si sono dotate di impianti di vinificazione di dimensioni industriali. L’area vitata del Lazio copre una superficie di circa 23.000 ettari per il 70% in zone collinari ed il restante 30% in zone pianeggianti. La produzione annuale si aggira intorno ai 1.500.000 di ettolitri dove i vini bianchi la fanno da padrone con il 75% sul totale prodotto. La regione ha 3 DOCG e 27 DOC dislocate in tutto il territorio regionale. Le DOCG sono il Cannellino di Frascati, il Cesanese del Piglio ed il Frascati Superiore. Tra le DOC mi permetto di citare, nella zona del Circeo, il Moscato di Terracina DOC sia amabile che secco che mi ha impressionato per i suoi profumi e i sentori di frutta bianca fresca. Ma torniamo al nostro abbacchio e per un abbinamento regionale lo degustiamo con una DOC legata alle uve Cesanese di Affile. Il Cesanese di Olevano Romano è catalogata come DOC dal 1973, la zona di produzione si trova in provincia di Roma, nell’alta valle del Sacco sulle pendici dei monti Simbruini tra i comuni di Olevano Romano ed in parte di Genazzano. La millenaria produzione vinicola della zona è documentata da numerosi documenti tra i quali gli “Statuti del Castro Olibana”, emanati il 15 gennaio 1364, che regolavano l’ordinamento della comunità olevanese su cui era basata la vita sociale, quella economica, quella religiosa, l’agricola e infine la pastorale. Diversi capitoli sono dedicati alla vite ed alla produzione del vino, a testimonianza dell’importanza che tale coltivazione avesse. Bene, adesso bando alle ciance e andiamo ad assaggiare un vino che sappia appagare il palato e che permetta all’abbacchio di esprimere tutte le sue note dolciastre e profumate. Oltre alla mia proposta potete accompagnarlo con un buon Cabernet Franc o un Sauvignon magari con qualche anno di affinamento, o andare decisi verso un Ripasso della Valpolicella o, se volete sconfinare, un Bordeaux non troppo giovane. Come al solito a voi la scelta.
CIRSIUM Vino: Cantina:
Olevano Romano Cesanese DOC Cirsium 2016 Damiano Ciolli
Cirsium è una selezione della cantina Damiano Ciolli che si trova a Olevano Romano, capitanata da Damiano dal 2001 che è alla quarta generazione di vignaioli di famiglia. Attualmente l’azienda consta di circa sette ettari dislocati tra i 300 e 450 metri slm con esposizione a sud e riparati sugli altri tre lati dalle colline. È un terreno tipicamente vulcanico con un clima temperato e baciato dalla brezza marina proveniente dal mar Tirreno. La selezione Cirsium, il cui nome trae ispirazione dal cardo campestre, proviene da un unico vigneto di circa un ettaro piantato nel 1953. Vendemmiato rigorosamente a mano con una accurata selezione degli acini, viene fatto macerare ad una temperatura non superiore ai 25°C per un periodo di 15 giorni per poi affinare sui propri lieviti per 18 mesi in botti di rovere francese con frequenti batonages. Imbottigliato, continua l’affinamento in cantina per altri 2 anni. Dal colore rosso rubino intenso, al naso sprigiona profumi di frutta rossa matura ma con un complesso richiamo a note di tabacco, liquirizia e pepe nero. Al palato risulta di corpo, armonioso con un tannino fine e non invadente. Fin di bocca persistente. Da servire a 14/16 gradi in calici Uve: 100% Cesanese di Affile Zone produzione: Olevano Romano DOC Grado alcolico: 13,50%
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CON LA FIORENTINA NIENTE È SCONTATO La Bistecca alla Fiorentina ha i suoi riti che, qualche volta, abbiamo cercato di dissacrare – anche in questo numero- ma che continuano imperterriti a perseverare nella cultura enogastronomica toscana. I minuti di cottura per lato, lo spessore, la presenza imprescindibile del filetto (magari mignon) sono le caratteristiche che accompagnano questo tipo di preparazione. Cosa mai potremmo abbinare a questa tipica portata della Toscana se non un Chianti o meglio ancora un Brunello o un Montepulciano o, se il budget lo permette, uno dei supertuscan quali il Massetto o il Sassicaia? Io voglio andare controcorrente e sconfinare nell’est dell’Italia, nella zona conosciuta in tutto il mondo per il suo vino bianco spumante. La provincia di Treviso o Marca trevigiana è parte importante della produzione vitivinicola della regione Veneto e, oltre al Prosecco, produce un’ottima scelta di vini bianchi e rossi. La storia della viticoltura veneta risale ai tempi della dominazione romana e prosegue nei tempi più bui grazie ai monaci che tramandarono le tecniche di coltivazione. All’epoca dei comuni, tra il 1300 e 1400, diversi editti emanati dai Podestà imponevano la tassazione alla produzione del vino, distinguendolo in due categorie e classificando come seconda scelta o primacqua il vino prodotto dalla prima torchiatura. La classificazione teneva conto anche delle zone; i vini dei Colli del Montello ed Asolani erano considerati i migliori e quindi soggetti a maggiore tassazione.
Dopo un periodo di relativa calma la Marca fu sconquassata da un lungo conflitto con la lega dei Cambrai ma, nonostante tutto, nel 1591 messere Giovanni Bonifaccio nella sua “Istoria di Trivigi” scrisse che il vino prodotto nella zona del Montello era buonissimo e che metà bastava alla popolazione locale mentre l’altra metà veniva portato a Venezia. La catalogazione dei vitigni fu fatta ad opera di Giacomo Agostinetti da Cimadolmo, che nel 1679 classificò i vitigni locali; verso la fine del ‘700 Domenico Zambenedetti presentò all’Accademia Agraria degli Aspiranti di Conegliano la distinzione tra Recaldina e Rabosa suggerendo per la prima la coltivazione sui terreni collinari. La coltivazione della Recaldina, o Recantina come attualmente viene chiamata, continuò soprattutto nella zona dei Colli Montelliani ed Asolani come dimostra una ricerca di Carpenè (nome storico della viticoltura trevigiana) pubblicata nel 1874. Possiamo ora assaggiare un vino proveniente da questa zona ma, se volete, potete rimanere con un abbinamento regionale e quindi aprire una bottiglia dei vini nominati all’inizio; oppure viaggiare verso il Piemonte o la Valtellina o sconfinare, come al solito, in Francia. L’importante è che sia un vino di corpo con tannini maturi e con una grossa carica olfattiva che permetta di digerire il corposo e succulento piatto. Come al solito a voi la scelta.
M O N T E L LO D O C Vino: Cantina:
Montello DOC Capo di Stato 2016 Loredan Gasparini
La storia di questo vino è strettamente collegato al fondatore dell’azienda, il conte Piero Loredan, diretto discendente del Doge di Venezia Leonardo Loredan, che negli anni 60 volle creare una riserva speciale, prodotta solo nelle annate migliori ed in quantità limitate. Il nome deriva dal fatto che il vino venne presentato durante una cena a Venezia a Charles de Gaulle, all’epoca Capo di Stato francese, che ne rimase entusiasta. Attualmente l’azienda possiede una sessantina di ettari divisi nelle due tenute di Venegazzù e Giavera. La produzione spazia da vitigni internazionali quali il Cabernet Franc e Sauvignon, il Merlot, il Malbec, la Glera ed il Manzoni Bianco. Il Capo di Stato fu prodotto la prima volta nel 1964 come frutto delle migliori uve provenienti dalla vigna più vecchia dell’azienda chiamata le “100 piante”. Particolare l’etichetta disegnata, nel 1967, dall’artista Tono Zancanaro e che raffigura la duplice anima dell’uva femminile che diventa vino maschile. La faccia femminile è utilizzata, attualmente, solo in particolari occasioni. Dal colore rosso rubino intenso con sfumature granate, al naso si presenta elegante e ricco di spezie con sentori fruttati. Al palato risulta caldo, profondo con una buona freschezza e tannini levigati e maturi. Fin di bocca persistente. Da servire a 14/16 gradi in calici a tulipano Uve: Cabernet Sauvignon, Merlot, Cabernet Franc, Malbec Zone produzione: Montello DOC Grado alcolico: 13,50% 56 - BBQ4All MAGAZINE
IL TIRAMISÙ SI SPOSA CON IL PASSITO Le teorie sulle origini del dolce italiano più conosciuto al mondo sono contrastanti; si parte dal XVII secolo e da Siena dove durante una visita di Cosimo III de’ Medici fu servito un dolce denominato la “Zuppa del Duca” con caratteristiche molto simili al tiramisù, anche se il mascarpone ed i savoiardi non rientrano nella cucina tipica senese. Altre fonti lo danno originario dell’Emilia dove nel 1891 Pellegrino Artusi ne descrisse la ricetta nel suo libro “La scienza in cucina e l’arte del mangiar bene”. Si parla anche del Piemonte dove un pasticciere torinese inventò un dolce per “tirare sù” Camillo Benso Conte di Cavour dalle sue fatiche per la riunificazione dell’Italia. Ma il vero duello, sancito anche da carte bollate, è stato fra Treviso e due comuni del Friuli Venezia Giulia e precisamente Tolmezzo in provincia di Udine e Pieris di San Canzian d’Isonzo in provincia di Gorizia che, al momento, risultano i vincitori. La tradizione popolare, però, narra che questo dolce fu creato da una maitresse di una casa di piacere ubicata in centro città a Treviso alla fine del 1800, che serviva ai suoi ospiti questo dolce corroborante dopo le “faticose” prestazioni fornite prima di ritornare al talamo coniugale, da qui il nome di Tiramisù.
Dolce molto sostanzioso che oltre a uovo e biscotti abbina mascarpone e panna, una bomba calorica che appaga immediatamente il palato con una dose di zuccheri, poco addomesticati dal sapore del caffè. L’abbinamento diventa quasi d’obbligo con un vino passito quali il Passito di Pantelleria, il Recioto, il Torchiato di Fregona (per rimanere in zona Treviso) o il Ramandolo di Nimis (provincia di Udine) oppure un vino frizzante quale un Moscato d’Alba o volendo esagerate un vino liquoroso sia italiano che estero. Io questa volta faccio capolino alla punta meridionale del nostro territorio.
PA S S I TO D I PA N T E L L E R I A Vino: Cantina:
Passito di Pantelleria DOC Ben Rye 2017 Donnafugata
Il nome della cantina fa ricordare una donna in fuga e fu precisamente la regina Maria Carolina, moglie di Ferdinando IV di Borbone che, fuggendo da Napoli dopo l’invasione delle truppe napoleoniche, si rifugiò nelle terre dove oggi si trova la tenuta. La cantina è conosciuta in tutto il mondo per i suoi vini bianchi freschi e sapidi e per i suoi rossi, che il sole siciliano rende sinceri ed eleganti. Dai vigneti situati al centro dell’isola di Pantelleria viene prodotto questo passito che nasce da una sapiente raccolta a mano delle uve in piena maturazione. Durante la fermentazione del mosto viene aggiunto l’uva passa sgrappolata a mano, che dona al vino la sua dolcezza e la sua freschezza. La maturazione avviene in vasche di acciaio per almeno sette mesi per poi continuare in bottiglia per altri dodici. Dal colore ambra brillante poco fluido, riporta al naso un ampio bouquet di arance candite ed albicocche passite con sentori di erbe aromatiche e balsamiche. Al palato risulta equilibrato con una fresca vena acida, fin di bocca persistente e prepotente. Da servire a 12/14 gradi in bicchierini da dessert Uve: 100% Zibibbo Zone produzione: Pantelleria Grado alcolico: 14,00%
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BIRRE CONSIGLIATE a cura di RICCARDO MENICONI
ALWAYS STANDING La Bionda Cotoletta se la fa con l’Always Standing: che viziosa! Profumata, abbronzata, alta, popola i sogni più spinti di ogni uomo. Parlo ovviamente della cutulèta a la Milanesa, la diva della cucina lombarda, la Sofia Loren del fritto nel burro, la Nemesi del Salutista e la lauta ricompensa della Buona Forchetta. Uno, due centimetri, non importa veramente – probabilmente alcuni illustri colleghi potrebbero essere contrari a questa affermazione – la cosa importante è che addentandola si sia avvolti dalla punta di sale nella crosta, dalla giusta grassezza della carne, e dalla morbidezza del burro. Semplice, ma da far perdere la testa. E mentre siamo al cospetto de "La Bela Madunina tuta dora e piscinina", con la nostra Bionda tutta burro e curve, per raggiungere la pace dei sensi manca solo una buona birra. Il motto di questo birrificio è "Bevi come un Toro", ed un po' come quando sentiamo una canzone alla radio, il cui testo ci sembra familiare, e ci sorprendiamo a pensare "ma sta parlando di me!?"; made in Piacenza (perché la birra è come un congiunto, e per Lei possiamo oltrepassare qualsiasi confine), il birrificio La Buttiga ha quello che fa per noi. Arriva l'estate, comincia a far caldo, e non credo che ci sia nulla di più dissetante (tranne l'acqua, ma quella è una materia che non mi compete) di una Blanche dai profumi di petali di rosa, coriandolo, agrumi: la Always Standing. Si presenta con un colore paglierino opalescente, ed una schiuma bianca e sottile, abbastanza persistente per lo stile. Al naso sentiamo chiaramente tutti gli ingredienti sopracitati, che convivono in modo estremamente elegante e, mentre la birra si scalda (se le darete il tempo di farlo!), potrete notare come le note di rosa e coriandolo comincino lentamente a lasciare il posto alla componente agrumata e leggermente citrica. Mentre la sorseggiamo pulisce il palato con una lievissima carbonazione per nulla fastidiosa; per niente amara, ma neanche stucchevole, con una leggera nota dolce che va piacevolmente a contrastare la salinità della cotoletta; ritroviamo in bocca i sentori floreali e speziati che hanno caratterizzato il naso, e vengono accompagnati molto bene dal malto d’orzo e dal frumento donando un buon corpo e una piacevole persistenza gustativa. Questa è una di quelle birre da bere a litri, e grazie ai suoi 4,2° non avrete niente di cui pentirvi il giorno dopo (se non del fatto che potevate berne di più). Vi consiglio di berla possibilmente con un\a congiunto\a davanti una cotoletta. E la notte è giovane. Temperatura di servizio 6°\8°
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DRAGO'N CELLA Saltimbocca alla Romana e Drago'n Cella: il binomio perfetto! Un piatto della cucina popolare romana, ma che probabilmente tutte le nonne d'italia conoscono e ci hanno preparato almeno una volta nella vita, è il Saltimbocca: fettina di vitello, prosciutto crudo e salvia. Rosolati nel burro e sfumati nel vino bianco. Stop. Così semplice, però capace di riportarci alla nostra infanzia in meno di un secondo. Ma ora, per fortuna o purtroppo, siamo adulti e possiamo quindi abbinare una birra a questo magnifico ricordo. Rimanendo nel Lazio c'è l'imbarazzo della scelta: nella culla della Birra artigianale italiana si distinguono diversi birrifici in grado di far impallidire la Germania e l' Inghilterra dei tempi d'oro. Però, tra tutti, oggi vi voglio raccontare una storia, che narra di un progetto che ho sempre ammirato: il birrificio "Vale la Pena" capitanato da Paolo Strano è un progetto della Onlus "Semi di Libertà"; nato nel 2014, è una realtà di inclusione dei detenuti del carcere di Rebibbia. Con l'aiuto dei più grandi Mastri Birrai Italiani “Val la Pena” è in grado di formare i ragazzi e di garantire una produzione stabile che auto sostenga il progetto. Tra le varie birre la "Drago 'n Cella" è, secondo me, la più adatta per questo piatto (e ha un nome fantastico). Si tratta di una Belgian Ale aromatizzata al dragoncello con buccie di bergamotto e limone nata dalla collaborazione con Luigi D'Amelio di Extraomnes. Nel bicchiere si presenta di un bel colore dorato carico, appena opalescente, con riflessi arancioni e una schiuma bianca, la perlage fine, compatta e abbastanza persistente. Al naso i sentori di dragoncello e agrumi sono in evidenza accompagnati da note erbacee e speziate. In bocca è coerente, leggermente amara con un finale non troppo lungo, secco ed elegante. La luppolatura leggera ma decisa rendono la bevuta avvincente, perfetta a tutto pasto. Grazie anche ai 5 gradi Abv. Vi consiglio di servirla in un tulipano ad una temperatura di 8°. Salute, e fate i bravi!
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COCKTAIL a cura di RICCARDO MENICONI
NEGRONI molto SBAGLIATO PER il GNOCCO FRITTO UN
"Quando sentii la prima volta nominare la crescente, credei si parlasse della luna; si trattava invece della schiacciata, o focaccia, o pasta fritta comune che tutti conoscono e tutti sanno fare, con la sola differenza che i bolognesi, per renderla più tenera e digeribile, nell'intridere la farina coll'acqua diaccia e il sale, aggiungono un poco di lardo." (Pellegrino Artusi, La scienza in cucina e l'arte di mangiar bene, 1891)" Il Gnocco fritto, crescentina, torta fritta, pinzino...Insomma, chiamatelo come volete, l'importante è che sia fritto, caldo e in compagnia dei migliori salumi e formaggi che si possano trovare. Se per caso passate nelle vicinanze di Modena, verso l'ora dell'aperitivo o poco prima di cena, sicuramente troverete sulle tavole cesti pieni di questa delizia e nei bicchieri litri di lambrusco. Vorrei però proporvi qualcosa di diverso. In questo pre Dinner un po' particolare il Lambrusco sostituisce il prosecco per dare vita ad un Twist del tutto nuovo del Negroni Sbagliato, chiamatelo simpaticamente se volete, Negroni Molto Sbagliato. Conoscete bene il Negroni, specie se frequentate da tempo la nostra Community. Sapete dunque cosa si intenda anche per Negroni sbagliato: nato nel bar Basso di Milano, differisce dal classico Negroni amaro fiorentino per la presenza dello spumante brut che sostituisce il gin in quello classico. Un Negroni più leggero, dunque. Noi siamo andati oltre. E lo abbiamo sbagliato ancora un po’. Per prepararlo ci servono: • 2,5cl di Campari Bitter • 2,5cl di Martini Rosso Antica Formula • 2,5cl di Lambrusco • Peel d'Arancia Procediamo così: In un tumbler colmo di ghiaccio versiamo il Campari e il vermouth, con un bar spoon mescoliamo vigorosamente in modo da diluire leggermente il composto e finiamo con il lambrusco e la scorza d'arancia. Da bere in buona compagnia preferibilmente tra le 17 e le 20.
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L'ARTE CASEARIA - IL CHEDDAR - approfondimento a cura di GIOVANNI MINELLI
il CHEDDAR spiegato agli italiani cosa è, come farselo in casa
foto a cura di ELISA GIULI
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Frequentando la community di BBQ4All e leggendo questo Magazine siamo diventati dei fuoriclasse del barbecue, abbiamo imparato tanto sulla carne e come trattarla. Il Megastore ci offre tagli pregiati e finalmente anche i burger. Abbiamo già imparato tutti i segreti per preparare in casa dei perfetti bun, dunque è giunto il momento di scoprire anche come possiamo creare il più fantastico dei cheddar da inserire nei nostri panini. Quello dei formaggi è un mondo vastissimo e dalle mille sfaccettature, fatto di eccellenze e di prodotti da battaglia. Spesso il cheddar è percepito dai più come uno di questi ultimi, in realtà si tratta di un prodotto incredibile, capace di esaltare le preparazioni nelle quali lo inseriamo o di stupirci se gustato al naturale. Viene prodotto in tutti i paesi d’influenza anglosassone, e assume peculiarità differenti regione per regione. Più che un formaggio potremmo quasi dire che si tratta di una tipologia di formaggi, perché dal West Country Farmhouse Cheddar, che è la DOP inglese, si sono evolute centinaia di produzioni, che ne condividono i processi tecnologici. Provo a spiegarmi meglio con un esempio: in Italia, se dico Parmigiano Reggiano DOP intendo proprio Parmigiano Reggiano DOP e nient’altro, niente di simile; intendo il prodotto caseario ottenuto nel rispetto del suo disciplinare di produzione, quindi con quel latte, in quel contesto geografico. Lo definiamo formaggio a pasta cotta per la temperatura alla quale viene portata la cagliata, pasta dura per la percentuale in acqua, semigrasso per l’utilizzo di latte parzialmente scremato. Fa parte, dunque, dei cosiddetti formaggi “grana”. Quando parliamo di Cheddar invece non necessariamente ci riferiamo alla DOP ma a tutti quei prodotti che condividono con la DOP il processo di cheddaring, vale a dire quella fase, del tutto peculiare, nella quale la massa cagliata viene fatta leggermente inacidire. Le tradizioni locali, il miglioramento dei processi produttivi e la sensibilità dei casari ci danno la possibilità di trovarlo sul mercato in vari formati e affinato in maniere molto differenti: almeno una volta lo avremo visto ricoperto di cera o avvolto in garze, spesso al naturale e frequentemente con la crosta nappata con oli vegetali. Lo troviamo in forme cilindriche o parallelepipede, da un chilogrammo fino ai sessanta chili per le produzioni destinate a lunga stagionatura. Si tratta di uno dei formaggi più venduti al mondo ma, purtroppo, la maggior parte di quello che arriva nei nostri supermercati si va ad inserire nelle fasce qualitative più basse; e non parlo neanche delle fette di formaggio fuso a base di cheddar perché non vorrei diventare volgare. Purtroppo il mercato è quello che è, i consumatori associano a questo prodotto immagini distanti dalla realtà, la percezione media è che si tratti di una americanata, quindi non è richiesto e, gioco forza, il livello qualitativo disponibile è tra i più bassi immaginabili. Direi che è arrivato il momento di aggirare l’ostacolo, rimboccarsi le maniche e cominciare a produrcelo in autonomia. Per capire come produrlo bisogna inquadrare quali caratteristiche vogliamo trovare nel prodotto finale. Se pensate al cheddar, cosa vi viene in mente? Un formaggio a pasta dura, dalla consistenza friabile, sapido e leggermente acidulo, che fonde se applichiamo calore. Odori al naso, ed aromi in bocca sono simili e si accentuano con la stagionatura, diventando più GIUGNO 2020
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Stabiliti i target vediamo quali ingredienti ci servono per la produzione casalinga di un chilo di formaggio: • 10 litri di latte, fresco pastorizzato o crudo da distributore automatico, intero • caglio liquido di vitello 3 ml, 1:10000 • fermenti mesofili • sale
persistenti. Percepiamo sentori lattici di burro fuso, vegetali di patata lessa e nocciola, e con stagionature prolungate ne percepiremo anche l’animalità. E il colore? Dal bianco avorio ad un arancio intenso: da cosa dipende? Il latte è bianco ma non tutto. Se avete mai osservato il colore del latte delle vacche in alpeggio forse sapete di cosa parlo, ma tanto ve lo dico comunque: vacche alimentate con erba fresca assumono una maggiore quantità di carotenoidi che vengono trasferiti al latte. Ma non è solo questo il motivo del colore del cheddar. Tradizionalmente veniva prodotto con il latte di bovine guernsey (dall’omonima isola nel canale della manica, molto vicina alla contea del Somerset, dove si trova Cheddar, il paese dove nasce questo formaggio), una razza lattifera di piccola taglia, che produce modeste quantità di latte ma ricchissime di grassi e proteine (il massimo per chi vuol caseificare) e, che ve lo dico a fare, di colore giallo. Oggi solo una piccola percentuale di questo formaggio viene ancora prodotta col latte di guernsey, dunque si utilizza un colorante alimentare: l’annatto (E160b per chi vorrà replicare anche il colore maggiormente evocativo).
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E quali strumenti bisognerà utilizzare: • una pentola abbastanza grande per i 10 litri • un termometro per alimenti • un coltello • una frusta • una forma per formaggi rigida, si chiama fuscella • una pressa casalinga (dei pesi possono comunque andar bene) • cartine tornasole (sarebbe meglio un pHmetro con sonda ma capisco che l’investimento al momento può sembrare prematuro) • una siringa per dosare il caglio • tela di lino Capiamo dove trovare le cose meno comuni: caglio e fermenti mesofili si possono reperire in tutte le farmacie. La forma e la pressa si trovano in tutti i negozi che vendono articoli per l’agricoltura. Il latte deve essere intero, abbiamo capito parlando di carne quanto sia importante il grasso: ecco, è importante anche per la resa e per il gusto dei prodotti caseari. Non possiamo utilizzare latte UHT, per intenderci quello che troviamo fuori frigo, perché l’elevatissima temperatura al quale viene pastorizzato lo rende quasi impossibile da cagliare. Ci possiamo orientare su un fresco pastorizzato che troviamo nel banco frigo o su un latte crudo da distributore automatico. Non vi annoio sulle rigide prassi igienico-sanitarie che permettono di rifornire giornalmente questi distributori, però deve essere chiaro che il latte crudo da distributore va bene, mentre quello crudo preso direttamente alla stalla senza una specifica licenza per la vendita di questo prodotto non lo posso consigliare. Detto ciò, credo di avervi annoiato abbastanza quindi veniamo al sodo.
Abbiamo accennato ai fermenti mesofili; altro non sono che colture batteriche il cui metabolismo lavora bene a temperature medie. Non ve la faccio troppo lunga: questi batteri fermentano il lattosio, ci danno acido lattico, si moltiplicano e “lavorano” bene a temperature comprese tra i 25° e i 40° Celsius, dunque più acido e valori di pH che scendono. Per questa preparazione li lasceremo indisturbati a riprodursi per 40 minuti a 31° C. Il primo passaggio è proprio riscaldare il latte in pentola a 31° C, aggiungere i fermenti, chiudere la pentola col coperchio e attendere 40 minuti. I fermenti sono prodotti seguendo processi tecnologici simili tra loro e normalmente sono venduti in sacchetti dentro ai quali si trovano in forma disidratata, già dosati per quantitativi di latte standard, ad esempio 10, 50 e 100 litri. Dopo questo periodo di incubazione del fermento, controlleremo la temperatura ed eventualmente la riporteremo a 31° C, che in questo caso è anche la temperatura di coagulazione, quindi inseriremo il caglio in ragione di 2,5/3 ml per i 10 litri di latte in questione. Questa quantità è riferita ad un caglio liquido di vitello 1:10000 che è anche uno dei più comuni che si trovano nelle farmacie. Il caglio va sempre diluito in poca acqua tiepida, bene in 50 ml a 36°C. In circa 40 minuti otterremo una cagliata della giusta consistenza, sarà una massa gelatinosa solida ma morbida. Come si vede dalla fotografia, appoggiando un cucchiaio sopra di essa rimane appoggiata senza sprofondare.
siamo alla frusta e continuiamo a rompere la cagliata, delicatamente, procedendo come se mescolassimo dal basso verso l’alto, fino ad ottenere delle parti omogenee di circa un centimetro e mezzo di volume. Rimettiamo la pentola sul fuoco, a fiamma bassissima, e cominciamo ad innalzare la temperatura molto lentamente. L’obiettivo è portare la massa, coperta di siero, alla temperatura di 39° C in 40 minuti e a pH 6/6,2. Durante questa semicottura della pasta mescoliamo quasi costantemente, poiché non bisogna far attaccare la cagliata al fondo e occorre che tutta la soluzione sia a temperatura omogenea. Il perché di questo riscaldamento lento consiste nel dare il giusto tempo affinché il processo di “spurgo” del siero da dentro la cagliata (tecnicamente si chiama sineresi) sia completo; qualora rimanga troppo siero all’interno della pasta si avrebbero delle fermentazioni che porterebbero il formaggio ad assumere sensazioni amaricanti tali da non renderne gradevole il consumo. Raggiunto l’obiettivo è ora di spegnere il fuoco e di lascir riposare per 15 minuti. La cagliata si depositerà sul fondo e tenterà a rassodarsi in un’unica massa. A questo punto, mani dentro al siero tiepido a formare delle fette grossolane che estrarremo e disporremo su di un tagliere, così, soggette all’aria e ad una temperatura di circa 30°C (le possiamo mettere in forno spento con una bacinella d’acqua tiepida). Questo è il processo di cheddaring, cheddarizzazione italianizzando un po’. Ogni 10/15 minuti rivoltiamo le fette fino al raggiungimento del valore pH 5,4, poi le trasformiamo in cubetti e aggiungiamo il 2% di sale fino, rispetto al peso del formaggio. Foderiamo la fuscella con la tela di lino, ci inseriamo la cagliata a cubetti, la copriamo con il resto della tela e cominciamo a pressare. Applichiamo 10 kg di pressione per 30 minuti. Ribaltiamo il formaggio sottosopra nella fuscella sempre foderata dalla tela di lino e applichiamo di nuovo 10 kg di
Ora è giunto il momento di tagliare la cagliata e procederemo col coltello, dapprima con un taglio a croce e poi con tagli paralleli alle due braccia della croce. Otterremo un reticolo a scacchiera. Dopo una sosta di appena 5 minuti pasGIUGNO 2020
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I requisiti che rendono idoneo un ambiente per la stagionatura sono umidità elevata e temperatura costante (in questo caso almeno 85% UR e T <15°C). Approfondiamo un po’ gli eventuali trattamenti, capiamone la ragion d’essere e poi decidiamo in autonomia qual è la scelta più indicata per noi, per i nostri obiettivi di maturazione, per la nostra cantina e per i nostri gusti. I trattamenti superficiali, sia con oli sia con cera, svolgono più di una funzione: in primo luogo rappresentano una barriera fisica contro le muffe e, seppur vero che certe muffe nobili apportano al formaggio sentori desiderabili, è altrettanto vero che altre ci portano ad una perdita di prodotto edibile e, a livello casalingo, è difficile stabilire e gestire quali delle due prendano il sopravvento. Una barriera fisica non è utile solo contro le muffe ma è anche
pressione per altri 30 minuti. Rovesciamo di nuovo e teniamo una pressione di 20 kg per 12 ore. La tela di lino lascia impressa la sua trama sul formaggio, e dove è più abbondante lascerà dei segni evidenti ma questi non sono un problema per la struttura. A questo punto la forma sarà ben soda, la estrarremo dalla sua fuscella e la posizioneremo su di un tagliere, rivoltandola una volta al giorno, fin quando sentiremo che la superficie sarà diventata asciutta. Mediamente occorrono quattro giorni per questo formato. Non dobbiamo tentare di velocizzare questo processo, l’asciugatura dovrà essere naturale e fatta in un ambiente umido, almeno all’80% di umidità relativa; diciamo che per questi quattro giorni potremmo tenerla nel forno, logicamente spento ed eventualmente con una bacinella d’acqua. Al momento di rivoltare la forma, rimuoviamo anche le eventuali muffe superficiali che si andranno a creare e, quando la superficie sarà perfettamente asciutta, possiamo decidere se trattarla con olio, cera o lasciarla al naturale prima di piazzarla in cantina a stagionare.
uno “schermo” contro l’aria, per far sì che l’asciugatura sia il più lenta possibile, cosicché la perdita di volume sia graduale e contrastata dall’elasticità della pasta, per evitare screpolature o fessurazioni che comprometterebbero l’integrità del prodotto. Lo strato di cera è maggiormente protettivo da questo punto di vista e potrebbe permetterci di stagionare un po’ più a lungo il formaggio. Io utilizzo appena una goccia d’olio per prevenire le muffe, ma si tratta di un gusto personale, ad ognuno libera scelta. Maggiore è la dimensione della forma che otteniamo, maggiori potranno essere i tempi di stagionatura del prodotto. Odori e aromi si sviluppano nel tempo grazie alle fermentazioni che avvengono nella pasta. Se vogliamo stagionare oltre l’anno, occorrerà fare forme più grandi per evitare una eccessiva perdita di umidità che renderebbe il formato da un chilo molto asciutto e poco appetibile. Capiamo meglio cosa vuol dire maturazione e stagionatura, o meglio quando è maturo e quando è stagionato. Se pensiamo 66 - BBQ4All MAGAZINE
alla frutta, una mela ad esempio, diciamo che è matura quando avviene una virazione del colore, la concentrazione degli zuccheri e il rammollimento della polpa. Se parliamo di formaggi, il concetto non è così dissimile: un formaggio arriva a maturazione ottimale quando, messo nelle condizioni idonee, riesce a sviluppare tutte quelle caratteristiche che ci eravamo dati come obiettivo all’inizio del processo. Ritorniamo all’esempio del Parmigiano Reggiano DOP: appena estratto dalla fascera è di colore bianco, già abbastanza consistente ma con una percentuale d’acqua molto più elevata rispetto a quando normalmente viene consumato; odori e aromi sarebbero limitati e meno persistenti, infatti bisognerà attendere un anno affinché questo diventi Parmigiano Reggiano DOP, venga marcato a fuoco e commercializzato. Ma cosa è avvenuto in questi dodici mesi? Va bene, sicuramente abbiamo perso umidità e peso, ma sono anche giunti a compimento quei fenomeni lipolitici e proteolitici che conferiscono al formaggio il suo aroma caratteristico e la consistenza alla quale siamo abituati. Bisogna quindi attendere almeno dodici mesi perché questo sia definito maturo, oltre questo tempo comincia invece la stagionatura vera e propria, ed è il tempo che diamo al formaggio per continuare a perdere umidità e per concentrare i sapori. Veniamo al nostro cheddar: una forma così piccola arriverà a maturazione in tempi brevi, a quattro mesi potremmo già consumarla, ma potremmo anche stagionarla un po’ ed arrivare a nove mesi. Oltre questa soglia non mi spingerei, perché con un volume così limitato l’eccessiva perdita di umidità ci porterebbe ad avere un prodotto troppo diverso da quello che avevamo in mente. Non dico cattivo, ma tecnologicamente perderà quelle caratteristiche che ce lo farebbero desiderare all’interno di un hamburger.
Ricapitoliamo il tutto fissando come ora 0 il momento in cui abbiamo messo il latte in pentola e lo abbiamo portato a 31°C: 00:00 00:40 01:20 01:25
aggiungo al latte a 31°C i fermenti mesofili latte a 31° e aggiungo il caglio primo taglio della cagliata a croce secondo taglio con la frusta fino alla dimensione di 1,5 cm e rimetto la pentola sul fuoco mescolando 02:05 la cagliata è arrivata a 39°C e pH 6/6,2 ora la lascio ammassare sul fondo 02:20 taglio la cagliata a fette e la dispongo sul tagliere per il processo di cheddaring, rigiro le fette ogni 10/15 minuti 05:20 la pasta è arrivata a pH 5,4 e la taglio a cubetti, la salo al 2% e la inserisco nella fuscella foderata di tela di lino e applico 10 kg di pressione 05:50 rivolto il formaggio e applico 10 kg di pressione 06:20 rivolto il formaggio e applico 20 kg di pressione 18:20 estraggo il formaggio dalla forma e lo metto ad asciugare Ora fate vostro questo processo, rileggete tutto anche più volte, soprattutto se è la prima volta che vi cimentate con la produzione di un formaggio, e quando sarete convinti di aver capito tutto rimboccatevi le maniche. Sicuramente non si tratta del prodotto più facile ed immediato da produrre, ma se rispetterete il procedimento alla lettera il risultato non potrà che essere più che soddisfacente e con un po’ di pratica chissà dove arriverete. Nella community risponderò ad eventuali dubbi o incertezze..
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LO SPEZIALE DEL BARBECUE - RUBRICA a cura di ALBERTO ZONGHETTI
rosmarino La rugiada del Mare
Il rosmarino è indissolubilmente legato ai miei ricordi d’infanzia, comuni – credo – a quelli di molte persone amanti della cucina: rivivo l’immagine di un ampio camino acceso, nell’ampia e spoglia sala della casa di campagna – più simile ad un rudere in verità - che la mia famiglia e quelle dei numerosi cugini affittavano d’estate; le persiane socchiuse per non permettere al sole d’agosto di riscaldare troppo l’ambiente; mio padre che brandiva fieramente un ramo di rosmarino intinto d’olio e dei grassi di caduta e “dava il pilotto alla carne”, ovvero spennellava fieramente le quaglie sul girarrosto a molla. Il profumo
dei volatili, succulento, si diffondeva per la stanza unitamente a quello, inebriante e balsamico, della nostra erba aromatica: carne arrosto e rosmarino, connubio indissolubile in cucina; ma, prima di analizzarne gli utilizzi, ci fermiamo in attimo e andiamo a conoscere meglio la nostra pianta aromatica. Il rosmarino appartiene al genere Rosmarinus, famiglia delle Lamiaceae ed il suo nome scientifico è Rosmarinus officinalis. Originario dei paesi del Mediterraneo, si ritrova spontaneo lungo la fascia costiera e fino ad una altezza di 1500 m sul mare. L’etimologia del suo nome è abbastanza controversa, secondo alcuni deriverebbe dal latino ros (rugiada) e maris (mare) vale a dire “rugiada del mare”, da intendersi anche in senso lato: rugiada come lacrime, stille, balsamo, aroma. Quindi balsamo marino, per le sue proprietà aromatiche e l’ambiente di crescita. Secondo altri deriverebbe dal latino rhus (arbusto), cioè “arbusto di mare” perché cresceva spontaneo sulle coste; oppure dal greco “rops” (arbusto) e “myrinos” (odoroso). E’ un arbusto legnoso, sempreverde, con fusto eretto o spesso sdraiato alla base e poi ascendente, molto ramificato, che raggiunge altezze di 50–300 cm. A partire dal secondo anno di vita la parte inferiore del tronco presenta una corteccia che si sfoglia in strisce longitudinali di colore marrone scuro. Le foglie, ricche di ghiandole oleifere, sono piccole, lunghe 2-3 cm e larghe 1-3 mm, resinose e aghiformi; presentano un colore verde scuro nella parte superiore che si presenta lucida e con i bordi ripiegati verso il basso, e di colore biancastro sulla superficie inferiore, leggermente vellutata. Sessili e riunite nei rametti più giovani, le foglie sono inserite a due a due nei nodi. I fiori sono piccoli e di colore azzurro o violetto chiaro a seconda delle specie; sbocciano in vari periodi dell’anno in relazione al clima, solitamente da marzo a ottobre. Una leggenda narra che un arbusto di rosmarino offrì riparo alla Vergine Maria durante la fuga in Egitto, e poiché Ella appese alla pianta il proprio manto, i fiorellini bianchi divennero azzurri. I frutti sono composti da quattro piccoli semi oleosi di
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colore bruno, racchiusi nel fondo del calice persistente. L’impollinazione è entomofila, ovvero avviene tramite insetti, tra cui l’ape domestica, attirati dal profumo e dal nettare prodotto dai fiori: avete mai sentito parlare del miele di rosmarino? Fra poco ve ne suggeriremo un utilizzo interessante in cucina. Nel genere Rosmarinus ritroviamo non solo l’officinalis ma numerose varietà che si differenziano per la maggiore o minore aromaticità e per il portamento. Tra di esse ricordiamo il Rosmarinus officinalis prostratus molto utilizzato come pianta ornamentale perché, come dice il nome stesso, ha un portamento prostrato. Presente spontaneamente in numerosi spazi verdi del nostro Paese, diffuso soprattutto in area mediterranea, essendo una pianta spontanea e molto rustica non necessita di particolari concimazioni periodiche. Viene comunemente coltivato nei giardini come pianta ornamentale, negli orti, anche in vaso. Che dite, vi è venuta voglia di tenere una pianta in casa? La cura è semplice; è molto comune difatti l’uso in vaso in ambito domestico, basta seguire alcune accortezze. Non fate come mia moglie quando, qualche anno fa, lo piantò sciaguratamente nella zona più in ombra del nostro minuscolo giardino, riuscendo nell’impresa di farlo seccare. Il rosmarino è una pianta che non dà problemi particolari, è molto resistente, non ha bisogno di innaffiature frequenti e l’unica cosa che richiede è un terreno sabbioso e ben drenato, onde evitare marcescenze alle radici, cosa che potrete facilmente ottenere mischiando una piccola quantità di sabbia (possibilmente di spiaggia) al normale terriccio reperibile nei negozi specializzati. Poi richiede un’esposizione soleggiata, poiché la pianta necessita di calore e luminosità per produrre in abbondanza l’olio essenziale che costituisce il principio attivo medicinale. E’ importante proteggerla dai venti freddi: è consigliabile quindi, in inverno, spostare il vaso in zona riparata dai venti (anche le piccole serre da terrazzo sono efficaci) ma esposta al sole. Se avete il “pollice verde” potete anche seminare la pianta, in serra se è primavera o all’aperto, in terreno ben drenato, d’estate. Per l’uso quotidiano potete raccoglierlo in piccole quantità durante tutto l’anno ma, per l’essiccazione, è opportuno prelevare i rametti freschi in periodo estivo o prima della fioritura. Vanno poi lasciati essiccare rapidamente all’ombra; le foglie devono essere tolte prima di riporle in recipienti di vetro o porcellana; per restituire l’aroma alle foglie essiccate, è opportuno sminuzzarle appena prima dell’uso. NOME COMUNE: Rosmarino NOME BOTANICO: Rosmarinus officinalis Lamiaceae FAMIGLIA: Lamiaceae ORIGINE: Europa meridionale e Africa settentrionale ad oggi diffusa in tutti i climi temperati ALTRI NOMI: EN: Rosemary ES: Romero FR: Romarin DE: Rosmarin IN ITALIA: Ramerino ,Rosamarina , Rumosino, Tresomarino
UN PO’ DI STORIA Nell’antichità il rosmarino veniva utilizzato soprattutto nella sua accezione rituale, come tramite tra la parte terrena e la componente divina. Soltanto col Rinascimento si valorizzò pienamente la sua valenza in cucina soprattutto nella cottura delle carni: oggi il suo uso alimentare è diffusissimo in area mediterranea, soprattutto in Italia. Ma qualche migliaio di anni fa come era considerato il nostro arbusto? I popoli antichi lo consideravano una pianta eccezionale per doti aromatiche e terapeutiche, soprattutto gli Egizi: il popolo del Nilo pensava fosse un elemento magico, i cui rametti erano in grado di procurare l’immortalità perché, anche se tagliati, si mantenevano freschi nel tempo. In Egitto infatti, questa pianta della famiglia delle labiate era uno degli ingredienti principali per la preparazione degli oli d’imbalsamazione dei defunti, procedura indispensabile per garantire all’anima la rinascita nel regno dei morti, ed era di conseguenza tenuta in grande considerazione. Il rosmarino, sempre per gli Egizi, era anche detto “l’erba del ricordo”, poiché una delle proprietà di questa pianta è di migliorare le capacità mnemoniche e di rinfrancare lo spirito, grazie alla presenza di sostanze blandamente psicoattive. La tradizione egizia gli attribuiva quindi la capacità di conservare nei trapassati la memoria dei loro cari rimasti ancora sulla terra, confortando il loro viaggio verso l’aldilà. I Greci lo utilizzavano, unitamente all’origano e alla la menta, tuttora le erbe più rappresentative di questo popolo, per massaggiare e frizionare i cadaveri con lo scopo di preservarli più a lungo. Fino al II sec. d.C. questa erba non era un ingrediente di cucina, poi Galeno, famoso medico di Pergamo, ne identificò la virtù digestiva, anche se per diversi secoli l’utilizzo come erba aromatica fu secondario. I Romani diedero al rosmarino numerosi e complessi significati: pianta dedicata a Venere, era ritenuto un afrodisiaco che se preso in dosi massicce poteva provocare l’aborto; simbolo quindi della morte e dell’amore. In onore degli dei ne bruciavano i rametti per purificare l’aria durante i sacrifici, e Orazio, sommo poeta, consigliava: “Se vuoi guadagnarti la stima dei defunti, porta loro corone di rosmarino e di mirto”. Inoltre i romani erano soliti usarlo per incoronare i Lari, figure della religione romana che rappresentano gli spiriti protettori degli antenati defunti e del focolare domestico, i quali vegliavano sul buon andamento della famiglia. Una delle numerose leggende dei romani raccontava come il rosmarino fosse nato dalle lacrime del dio Nettuno: la sposa del dio del mare, la ninfa Anfitrite, un giorno fuggì sulla terra, stanca delle intemperanze del marito, che oltre ad avere un carattere estremamente collerico non disdegnava, come il fratello Giove, qualche capatina sulla terraferma per sedurre le mortali. Nettuno, disperato, emerse dal mare e vagò a lungo per cercarla, e le sue lacrime, cadute sulla sabbia, fecero nascere questa pianta. Al momento della riappacificazione tra le due divinità, il rosmarino fiorì, conservando per sempre la memoria della pace ritrovata. Nel Medioevo i monasteri e i conventi diventarono i principali GIUGNO 2020
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riferimenti per lo studio e la coltivazione delle piante aromatiche, nonché luoghi di ristoro, ospitalità e cure, soprattutto per i pellegrini: il monachus infirmarius, una sorta di figura a metà strada tra il farmacista, il farmacologo ed il medico, era addetto a sorvegliare l’orto e la produzione dei preparati medicamentosi. Proprio da questo periodo nasce e si sviluppa la pratica, tuttora in uso, di coltivare le piante officinali o aromatiche negli orti, nei giardini, nei terrazzi. E il rosmarino? Ad esso venivano riconosciute numerose qualità, ma è segnalato primariamente come ottimo rimedio per attenuare il mal di stomaco. Molto nota è “l’acqua di San Giovanni” da preparare il giorno prima del 24 giugno, festa di San Giovanni, che corrisponde al solstizio d’estate. La tradizione vuole che si raccolgano varie specie di erbe (Ginestra, Iperico, Artemisia, Verbena, Timo, Salvia, Basilico, Maggiorana, Lavanda, Rosa e Rosmarino) da lasciare in acqua all’aperto durante tutta la notte del 24. Il mattino seguente ci si deve lavare con quest’acqua, che va poi gettata via, per purificare la pelle e per prevenire le malattie. Il legno veniva inoltre utilizzato per fabbricare cucchiai capaci di proteggere dall’avvelenamento – pratica assai diffusa all’epoca – e, addirittura, pettini contro le calvizie. Questa erba si credeva inoltre collegata alle mani e ai loro mali. Per questo motivo durante i riti di purificazione ci si lava le mani con il rosmarino, pena la non guarigione. Una delle leggende più suggestive sul mito dell’eterna giovinezza si intreccia con la nascita del primo profumo e ha come protagonista la Regina Isabella d’Ungheria. La leggenda narra che la regina Isabella d’Ungheria, che nel 1370 aveva settantadue anni, soffrisse di terribili dolori reumatici. La notizia si era diffusa ed era giunta alle orecchie di un alchimista, il quale si mise prontamente all’opera e creò un’acqua distillata di rosmarino e lavanda. Recatosi dalla regina, le presentò la miraco70 - BBQ4All MAGAZINE
losa fragranza, assicurandole che le avrebbe donato una singolare bellezza, guarendola dai suoi dolori. Sebbene scettica, la regina iniziò a cospargersi con l’acqua profumata tutti i giorni, accompagnando il rituale con accorate preghiere. Dopo poco tempo la sua salute migliorò, ma la cosa più sorprendente fu la ritrovata bellezza che le conferì un aspetto incredibilmente giovanile e avvenente. Il suo fascino era tale che il granduca di Lituania, Carlo Alberto, la chiese in sposa. Il potere della miracolosa fragranza si diffuse a corte ed ogni dama iniziò a farne uso per migliorare l’aspetto della pelle. Fu così che l’Acqua della Regina d’Ungheria iniziò ad essere usata per secoli per curare le affezioni cutanee e per donare bellezza al viso. Parlando di Medioevo, potevano mancare infine gli immancabili riferimenti ai Templari? Sappiamo che i Cavalieri dell’Ordine bevevano, come si usava all’epoca, sia birra che vino, al naturale o, come era consuetudine, aromatizzato all’anice, al rosmarino o bollito e speziato con cannella e chiodi di garofano o dolcificato con il miele. Nel Rinascimento, come già accennato, il rosmarino diventa protagonista della cucina: Maestro Martino, una delle figure di riferimento della storia culinaria italiana, nel suo “Libro de Arte Coquinaria” raccomanda un uso cauto e discreto delle pungenti spezie orientali che avevano dominato la cucina medievale, mentre sempre più spesso fa ricorso alle erbe odorose e alle essenze locali, come salvia, rosmarino, origano, menta, prezzemolo, maggiorana, in una concezione decisamente più moderna, verso una rinnovata cucina mediterranea. Da questo momento e nei secoli successivi, l’utilizzo della pianta odorosa in cucina diventa usuale e diffuso, iniziando quel percorso che lo porta a diventare uno degli aromi italiani per eccellenza.
Vincenzo Corrado, famoso cuoco del ’700, autore del fondamentale testo “Il cuoco galante”, scrive così: “Col rosmarino si condiscono vivande di carne in istufa , ed in arrosto, specialmente quei di agnello, e salvagiume [selvaggina]. Colle cimette tenere di Rosmarino si fanno frittelle in pastella. Con i fiori di Rosmarino si guarniscono lessi di carne, e di pesce , ed insalate diverse” In effetti, scorrendo il testo, si notano numerosi piatti nei quali è il gusto dominante della pietanza. Qualche esempio? Coscia di Castrato al rosmarino, Uccelletti fritti al rosmarino, Frittelle di rosmarino all’ uova, Arrosto [di capretto] al sapor di rosmarino, Pasticcio di lepre al rosmarino, e così via. Nel XVII sec. alla corte di Francia divenne di gran moda la famosa “Acqua della Regina d’Ungheria”, che abbiamo, già conosciuto nel Medioevo. Era considerata una panacea, re Luigi XIV la assumeva per curare la gotta, mentre Madame de Sévigné la portava in tasca per profumarsi la pelle. Dall’Ottocento, poco alla volta, l’Acqua della Regina venne sostituita da un’altra preparazione al rosmarino: l’Acqua di Colonia. Negli ultimi cinquant’anni si è assistito ad una interessante disputa sulla preparazione del Risotto all’isolana – piatto veneto tipico della cittadina di Isola della Scala. Tale diverbio traeva origine dall’impiego o meno di un rametto di rosmarino nella preparazione del soffritto: gli abitanti si sono divisi in due grandi fazioni, i sostenitori e gli avversari del famoso aroma. Il conflitto fu sanato dall’intervento di un grande cuoco, Pietro Secchiati, che decretò: “Mentre si soffriggono la carne di maiale e quella di vitello nel burro, si metta un rametto di rosmarino, il quale conferirà, con il suo olio essenziale, un aroma piacevole e gustoso”. Secchiati ricompose così la disputa trovando un perfetto compromesso: il rosmarino utilizzato per rosolare le carni è, infatti, eliminato quando queste risultano ben indorate.
Le sue proprietà antinfiammatorie sono impiegate per trattare diarrea, flatulenza e gonfiore addominale. Usato per applicazioni esterne è utilissimo come analgesico e antinevralgico, infatti la tintura calma il mal di denti, mentre le frizioni con l’olio essenziale o con il distillato alcolico attenuano il mal di testa. Sempre rimanendo nel campo delle applicazioni esterne, gli impacchi ed i cataplasmi ottenuti scaldando nell’olio d’oliva le foglie tritate sono efficaci contro slogature, distorsioni e contusioni. Recenti ricerche hanno dimostrato che il rosmarino contiene molte sostanze antiossidanti, pertanto il suo utilizzo abituale è utile al buon mantenimento della salute psicofisica in generale e a ritardare l’invecchiamento cellulare. L’acido carnosico contrasta gli effetti nocivi dei radicali liberi nel cervello. Questo significa che il rosmarino aiuta a prevenire l’invecchiamento cerebrale. Allo stesso tempo la pianta è anche stimolante delle funzioni cognitive: tonificante nervino, è un antistress, combatte la nausea e aiuta contro mal di testa e cefalea, oltre a essere indicato in caso di tensione nervosa, stanchezza e depressione: migliora la concentrazione, l’umore e la memoria. A questo proposito, Shakespeare nella celebre opera “Amleto", accenna proprio al rapporto tra il Rosmarino e la memoria: il dialogo tra Ofelia ed Amleto ci offre questi versi “…c’è il Rosmarino per la rimembranza. Ti prego, amore, ricorda “. Negli ultimi anni è arrivato anche nel mondo della cosmesi: il suo distillato, vaporizzato sulla pelle, previene e attenua le rughe. Utilizzato negli shampoo, rinforza i capelli e combatte l’eccesso di sebo nel cuoio capelluto, restituendo lucidità alle chiome opache o grasse.
PROPRIETÀ Grazie alla sua ricchezza in oli essenziali, tra cui il canforene (dalle blande proprietà psicoattive), illimonene e il pinene, il rosmarino è antisettico, con un effetto positivo sugli stati influenzali e febbrili, e con un deciso potere calmante su asma e tosse. Può essere utilizzato per rinfrescare l’alito e migliorare la salute della bocca. Tra le sue molteplici proprietà conta anche quella di facilitare la digestione, la produzione della bile e di prevenire l’ulcera da stress.
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Sia che il rosmarino provenga dalla vostra coltivazione personale, sia che venga acquistato dal fruttivendolo o dall’erboristeria, ricordate di usarlo sempre fresco e possibilmente non fiorito. La pianta essiccata infatti perde circa la metà dei suoi principi attivi, mentre le cime fiorite sono meno attive a causa della fioritura stessa. UTILIZZO IN CUCINA Parliamo di un’erba aromatica considerata “forte”, il cui aroma si sviluppa soprattutto in cottura cedendo il sapore a contatto con i grassi e dei liquidi dei sughi e dei fondi di cottura. Le sue note balsamiche, con sentore di eucalipto, note di pino e fiori, il gusto intenso e leggermente amarognolo, lo rendono molto versatile e perfetto per numerosissime preparazioni. E’ un’erba d’elezione nella nostra penisola e molto gradita anche nella Francia del sud, benché nelle cucine degli altri paesi del bacino mediterraneo non incontri lo stesso apprezzamento. Il rosmarino ha un ottimo sapore anche quando è essiccato, benchè si perda la complessità del fresco e si avvicini all’omogeneità delle altre erbe aromatiche essiccate. Fondamentale per confezionare i mazzetti aromatici assieme a salvia, alloro, timo, maggiorana, non manca mai nella cucina della nostra penisola: che provenga da un vaso posto nel nostro terrazzo, dal giardino (nostro o altrui – chi non ha mai sottratto, a volte furtivamente, un rametto che si affaccia oltre il cancello del vicino?), da profumatissime formazioni usati come pianta ornamentali negli spazi comuni dei condomini, o semplicemente da arbusti spontanei. E’ molto adatto, per le sue caratteristiche aromatiche, a preparazioni dal sapore deciso: carni arrosto, alla griglia, in padella, in umido. Quindi agnello, maiale (la porchetta ad esempio), 72 - BBQ4All MAGAZINE
pollo, selvaggina, manzo…a proposito, ricordate la Tagliata alla Robespierre? Ancora si vede nei menu di qualche locale vintage: un pezzo di carne tagliato alto e cotto “al sangue” aromatizzato con aglio, rosmarino e pepe verde. Aromi che, si dice, vennero messi nella cesta contenente la testa ghigliottinata del celebre rivoluzionario francese per identificarla come quella di un maiale. Il rosmarino è utilizzato anche per alcuni tipi di pesci, soprattutto quelli di grossa pezzatura e quelli più grassi. Non dimentichiamoci poi delle zuppe di legumi, dei funghi (eccezionale l’aroma di bosco che nasce da questa unione), delle svariate cotture in umido, degli olii e degli aceti aromatizzati, semplici da realizzare anche in casa. E che dire delle patate? Immancabile il matrimonio con il famoso tubero. E con la zucca? Straordinario in contrasto la polpa dolce della cucurbitacea. Io adoro ceci e rosmarino, in ogni declinazione: come condimento delle tagliatelle, nelle zuppe, con il baccalà, anche con le vongole. Permettetemi ora un altro ricordo: 24 dicembre, pranzo della vigilia di Natale, pasta e ceci in brodo. Protagonista assoluto, spande il suo aroma inconfondibile per tutta la casa. Anche i lumachini di mare in umido (da noi, nel pesarese, si chiamano bombolini), come da ricetta di mio nonno, erano cotti con oltre una dozzina di aromi tra i quali spiccava, deciso, il rosmarino. Non mi permetto poi di entrare nell’universo dei panificati: mi apro solo un piccolo spiraglio e vedo pani aromatizzati, focacce, pizze, ognuno declinata secondo la propria tradizione locale. Vorrei menzionare, dalla tradizione culinaria, il pane al Ramerino, con rosmarino e uvetta, dal sapore molto singolare, di origini medievali, di cui allego una ricetta.
Appartenente allo stesso ambito regionale è il più famoso castagnaccio, dolce tipico presente già nei ricettari del ‘500, preparato con farina di castagne e arricchito anche con uvetta, pinoli. E poi il miele di rosmarino, profumato e molto aromatico ottimo per gli abbinamenti con formaggi freschi e nelle marinature. Dimenticavo, le marinature: per noi, incalliti griller, è fondamentale per diverse tipologie di carni in eccellente combinazione con il limone. E per finire, il dessert! Ormai diffuso in molti locali è il tortino al cioccolato e rosmarino; oppure il gelato, assaggiato di recente in un ristorante stellato della mia città, abbinato ad un biscotto morbido di nocciole con crema di caramello: fresco e delizioso. E la frutta? Non può mancare! Prendete dunque un’anguria piccola, tagliatela a fette spesse circa 5 centimetri conservando la scorza, eliminate quanti più semi potete. Poi spennellate la superficie con un composto di 4 cucchiai di olio extravergine di oliva, un cucchiaio di rosmarino finemente tritato, sale e pepe, poi cuocetele sulla griglia fino alla formazione di una bella crosticina, circa 5 minuti per lato. Servite con spicchi di limone, meglio se grigliati: ottimo accompagnamento per carne di maiale alla griglia. Come digestivo, direi un ottimo liquore al rosmarino, dalle già citate proprietà benefiche, magari aromatizzato con agrumi e spezie digestive, cannella per esempio. E concludiamo con un viaggio all’interno di un mondo che amo molto - quella della birra – che conferma, se mai avessimo avuto necessità, la grande versatilità della nostra erba aromatica. In Spagna, più precisamente a Xativas, vicino a Valencia, un birrificio artigianale ha ideato un prodotto, Socarrada, che include tra gli ingredienti usuali, ovvero acqua, malto, luppolo, anche il rosmarino e del miele di rosmarino. L’idea è stata quella di collegare questa pianta aromatica, piena di mediterraneità e di calore spagnolo, con l’amaricante profumo e aroma del luppolo. Avrei voluto raccontarvi l’esperienza degustativa, iniziando la frase con “…l’analisi olfattiva rivela un predominio del rosmarino, il colore etc…”. La verità, mi spiace deludervi, è che non sono ancora riuscito a berla: ne ho solo sentito parlare, molto bene, visto che ha vinto numerosi premi internazionali.
Una ricetta antica per merende del nuovo millennio
I L PA N D I RAMERINO Il Medioevo è un periodo storico di grande ricchezza culturale, a dispetto del suo appellativo “Età di mezzo” che suona un po’ come un passaggio – un intermezzo - tra la grandezza dell’Impero Romano e gli splendori del Rinascimento. Non parleremo però degli studi storici per riabilitare “I secoli bui” – non credo d’altronde che i lettori apprezzerebbero, bisogna pur andare in griglia o in forno con qualcosa di commestibile, non con tomi polverosi – ma recupereremo alcune tradizioni medievali che ancora oggi permangono. Riallacciando dunque il nostro discorso all’approfondimento sul rosmarino, vivremo un breve viaggio indietro nel tempo di circa mille anni, destinazione Toscana. Ci troviamo all’interno della Settimana Santa, il periodo liturgico che precede la Pasqua: il Giovedì e il Venerdì Santo viene intensificata la produzione del Pan di Ramerino, prodotto sfornato durante tutto l’anno ma che, per i contadini del luogo (soprattutto per le province di Prato e Firenze), in questi giorni acquista valore devozionale. E’ un cibo semplice: i “ramerini”, piccoli panini aromatici con rosmarino e uva passa, hanno insaporito per secoli le merende dei bambini dell’Appennino, prima dell’arrivo delle merendine industriali. Questa ricetta, tramandata di generazione in generazione, è viva ancora oggi. Noi andremo a proporvela leggermente rivisitata, con l’obiettivo di creare un impasto di base al quale potremmo dare varie forme e ricavare diverse interpretazioni: dai bun alternativi, più compatti e saporiti di quelli ormai consacrati dal nostro Magazine, fino a veri e propri pani dolci. PREPARAZIONE: 1. Si prepara il cosiddetto “lievitino”, un impasto di base contenente per metà farina (100 g) e per metà birra (100 ml) al quale si aggiunge un cucchiaio di miele millefiori; in alternativa vanno bene anche malto di riso o malto d’orzo. La maturazione del lievitino dovrebbe durare una notte, circa 10 ore, nel forno spento, dentro ad una ciotola chiusa con una pellicola. 2. Aromatizziamo l’olio scaldandolo lentamente con dei rametti di rosmarino fresco: la quantità giusta è pari al 10% del totale della farina che metteremo nell’impasto definitivo. Lo filtriamo ed eliminiamo il rosmarino. 3. Prepariamo l’impasto: al lievitino aggiungiamo l’olio aromatizzato raffreddato (che non possiamo mettere a caldo perché uccideremmo i lieviti sviluppatisi), la farina (600 gr), il latte in quantità pari a circa il 40% il peso totale della farina, il sale. GIUGNO 2020
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4. Iniziamo ad impastare a mano (oppure in impastatrice o in planetaria) quindi a metà del procedimento aggiungiamo del rosmarino fresco tritato, a piacere, secondo il vostro gusto. 5. Lievitazione: riponiamo l’impasto dentro una ciotola all’interno del forno spento. A questo punto è difficile dare una tempistica, l’obiettivo è il raddoppio del volume: tutto dipende dall’ambiente dato che i lieviti operano sino ad una temperatura di 32 gradi, più l’ambiente è favorevole più velocemente lieviterà l’impasto. 6. Preparazione dei pani: in questo caso abbiamo realizzato dei panini da 90-100 g. Prima di dare forma al pane è possibile aggiungere diversi ingredienti che ne caratterizzeranno il sapore finale: l’uvetta, lasciata in ammollo in acqua fredda, per il ramerino tradizionale; oppure noci, pinoli, datteri, albicocche secche. 7. Cottura: su una placca da forno stendiamo i nostri panini, spennelliamoli con l’uovo (o del latte) aggiungiamo una spolverata di semi di sesamo; li inseriamo nel forno caldo, in modalità ventilato per avere una crosta leggermente croccante, alla temperatura di 180° C per circa 30 minuti.
IN GREDIENTI
P ER C I RC A 8 PAN IN I • 700 grammi di farina tipo 3 macinata a pietra (100 g per il lievitino, 600 g per l’impasto) • 70 g di olio evo extra vergine di oliva • 300 g circa di latte • un cucchiaio di miele millefiori • 3- 4 rametti di rosmarino fresco • 100 ml di birra • Sale q.b. • un uovo • semi di sesamo q.b. • ingredienti a piacere tipo: uvetta, pinoli, noci, datteri, albicocche secche• farina bianca q.b.
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Il risultato? Molto interessante. Noi abbiamo preparato dei panini per ospitare ricche farciture: la crosta esterna è bruna e croccante, l’interno morbido è più compatto dei classici bun, ma al morso risulta piacevole e non tenace. Il profumo di rosmarino è intenso e si sposa bene con la carne, ad esempio con un ottimo Burger bovino oppure – perché no? – di agnello. Lo dico sottovoce, ma è buonissimo anche senza carne: melanzane alla griglia, cipolla caramellata, pomodori secchi, burrata, origano, prezzemolo, basilico, salsa piccante ai peperoni gialli e aglio. Se aggiungiamo un po’ di uva passa possiamo stemperare l’aroma deciso del rosmarino, raggiungendo un equilibrio ottimo per il pollame; utilizzando le noci possiamo anche azzardare carni dal sapore più intenso (di Wagyu, vi dice nulla?). Ma ciò che rende questa ricetta interessante è la sua versatilità: una volta ottenuto l’impasto di base, potete sbizzarrirvi: aggiungete miele, più uva passa, noci e datteri, e otterrete degli ottimi pani dolci per una sfiziosa merenda.
THE CHEMICAL GRILLER a cura di VIRGILIO BRUNETTI
ADDENSARE UNA
SALSA parte III
AMIDI NATIVI E MODIFICATI Nella cucina moderna l’uso degli amidi puri, sia naturali che modificati, amplia lo spettro applicativo di questi addensanti nel campo della cucina, della pasticceria e della gelateria, al fine di ottenere risultati controllabili in termini non solo di texture ma anche di flavour e di appearance. Inoltre, alcuni di questi amidi sono solubili anche a freddo e il loro potere addensante rimane inalterato se sottoposti a congelamento. Nella tabella della pagina seguente potete vedere il comportamento e l’applicazione dei principali amidi naturali di interesse gastronomico. Le regole fondamentali per utilizzare gli amidi puri naturali di diversa origine botanica non sono molto differenti dalle strategie utilizzate per le farine. Per essere utilizzati efficacemente devono essere dispersi in acqua o in mezzo acquoso, idratati e riscaldati. Queste sono le procedure fondamentali affinché i granuli di amido si idratino e si compia il processo di gelatinizzazione (che ricordiamo essere un fenomeno completamente diverso dalla gelificazione, tipica di altre molecole polimeriche di interesse gastronomico dette idrocolloidi). Gli amidi modificati sono quelli naturali nativi processati con metodi chimici o fisici per ottenere molecole nuove con caratteristiche migliorate rispetto a quelle di partenza. Molti amidi 76 - BBQ4All MAGAZINE
modificati di interesse gastronomico sono utilizzati non solo come semplici addensanti ma anche come stabilizzanti ed emulsionanti. Cosa hanno di nuovo queste molecole? Sono stabili sia ad alte che a basse temperature, riescono ad addensare liquidi molto acidi, hanno un potere addensante più elevato; inoltre come gli amidi nativi si possono differenziare in base allo loro resa in termini di texture e di appearance mentre dal punto di vista del flavour spesso sono assolutamente neutri o insapori. Gli amidi possono essere modificati: 1. Chimicamente, sostituendo i gruppi alcoolici (-OH) con gruppi acetato (acilazione), idrossipropilici (idrossipopilazione) e gruppi fosforici. L’amido idrossipropilato è formato dalla reazione dell’amido con l’ossido di propilene. Ci sono anche quelli ottenuti mediante trattamenti con vari agenti funzionali che permettono la formazione di legami etere o estere con i gruppi idrossilici dell’amido, ottenendo una reticolazione della molecola (cross-linked starches) 2. Con trattamenti fisici, mediante azione del calore o per azione meccanica. 3. Con trattamento enzimatico: l’amido è sottoposto a idrolisi parziale con aumento della sua solubilità in acqua. Con questo trattamento si ottengono le maltodestrine.
amido
texture
appearance
flavour
uso quantitĂ
sensibilitĂ al calore
stabilitĂ al congelamento
no
instabile
si
instabile
no
instabile
si
instabile
si
instabile
si
stabile
no
stabile
si
stabile
brodi 1% arrowroot
cremosa
chiara
neutro
jus 2% gravies 2% brodi 1,5% creme 2-2,5%
mais
cremosa
opaca
forte
vellutate
2-2,5%
gravies 3-4% budini 5-6,5% gelatine ferme 9% brodi 2%
kudzu
gelatinosa
chiara
neutro
glasse 5-7% budini 12% brodi 1%
patata
collosa
chiara
delicato
jus 2% gravies 2% stir-fry sauce 2,5% glasse 3-3,5%
riso
collosa
opaca
delicato
zuppe 4-5% budini purees
7-8%
brodi 1,5-2%
tapioca
collosa
chiara
delicato
jus 2,5-3% gravies 2,5-3% creme di frutta 4-5% brodi 1%
mais ceroso
cremosa
opaca
delicato
dressing senza grassi
2,5%
gravies 4% vellutate
frumento
cremosa
opaca
forte
2,5%
creme 2,5% gravies 3-3,5% beschamel 4-5%
comportamento e lâ&#x20AC;&#x2122;applicazione dei principali amidi naturali di interesse gastronomico.
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Gli amidi modificati sono prodotti ormai indispensabili nell’industria del food, molto diffusi anche nei laboratori di cucina e pasticceria mentre restano poco conosciuti nell’ambito della cucina domestica. Ferran Adrià, lo chef ultrastellato di ElBulli, per primo ha immesso su mercato la sua linea di prodotti per la cucina molecolare ad uso anche delle più ardite casalinghe. Una linea completa di prodotti chiamati Texuras. Tra questi una serie di addensanti, emulsionati e gelificanti con confezioni di gram-
matura per uso domestico. In ambito professionale esistono numerosi brand con prodotti a base di amidi modificati che hanno caratteristiche molto interessanti. Dai volumi di Modernist Cuisine ho estratto una tabella sugli amidi modificati di maggiore interesse suddivisendendoli in base al nome commerciale e al brand, specificando da quale amido derivino, quali sono le tipiche % di utilizzo, l’aspetto, la texture (consistenza finale), la stabilità al calore e al raffreddamento (resistenza alla retrogradazione).
Brand
Derivato
Quantità
Aspetto
Texture
Sensibilità al contatto
Stabilità al congelamento
uso
N-ZorbitM
Ingredion
tapioca
20-100%
opaco
granulosa
instabile
instabile
terre e sabbie edibili
Ultra-Sperse 3
Ingredion
tapioca
0,2-8%
opaco
liscia
stabile
stabile
gravies
Ultra-Tex 8
Ingredion
tapioca
1-10%
opaco
cremosa
stabile
stabile
gravies, Jus creme
GPC
mais
0,2-20%
trasparente
liscia
stabile
instabile
succhi di frutta
Prodotto
Pure-Cote 8790
nomi commerciali degli amidi modificati di maggiore interesse
N-ZORBITM (by Ingredion) è una maltodestrina di tapioca ottenuta dalla modificazione enzimatica dell’amido di tapioca. L’uso di questo prodotto modificato non ha una particolare rilevanza nell’addensamento delle salse, in quanto instabile a temperature basse ed elevate, ma ha la capacitàeccezionale di assorbire grassi quindi si presta alla preparazione di sabbie, terre e sassolini edibili. Sebbene Zorbit abbia un’applicazione fuori dal contesto di questo articolo non riesco a trattenere l’entusiasmo di poter descrivere questo prodotto capace di trasformare condimenti o altri liquidi saporiti in solidi. In pratica avete una polvere leggerissima che, miscelata con un grasso liquido, genera un composto pastoso ma secco che può essere polverizzato o compresso in piccole masse simili a sassolini. Il peso del grasso deve essere la metà di quello della polvere, è possibile aggiungere altri aromi e condimenti purché in polvere possibilmente molto fine (sale e zucchero a velo) ma anche aceti disidratati. La maltodestrina è uno zucchero, il suo gusto base è solo leggermente dolce ed è inodore. Si dissolve facilmente in acqua, può assorbire una buona quantità di olio. Nella cucina molecolare e creativa, essa viene utilizzata principalmente come portatore di aromi. Quando una buona quantità di maltodestrina viene mescolata con ingredienti grassi, come ad esempio l’olio di nocciole, il grasso di pancetta o il cioccolato fuso, essa as78 - BBQ4All MAGAZINE
sorbe questo ingrediente pur mantenendo la sua forma polverosa. Il risultato è un’intera gamma di polveri saporite le quali possono essere cosparse su preparazioni alimentari e piatti. Variando le proporzioni di maltodestrina e ingrediente scelto, e mescolando meno, si possono ottenere dei “grumi” saporiti. Poiché essa è uno zucchero, i grumi possono essere riscaldati in una padella per caramellarne l’esterno e renderli croccanti. PURE-COTE® B790 (by GPC) è un amido di mais modificato a bassa viscosità, che forma pellicole chiare e flessibili senza richiedere idratazione o cottura. I prodotti addensati con Pure-Cote si asciugano in un film trasparente e croccante a temperatura ambiente. Forma pellicole chiare e flessibili con un’eccellente lucentezza ad asciugatura rapida e senza sapore. Funziona come un forte legante e come agente di rivestimento liscio e lucido. Può essere usato per formare pellicole di frutta. ULTRA-TEX® (by Ingredion) è un additivo per gastronomia molecolare e consiste in una linea di amidi alimentari modificati progettati per la creazione di salse e altre preparazioni cremose. Ultra-Tex si disperde e si idrata in liquidi freddi o caldi, senza grumi, e conferisce una migliore consistenza finale rispetto agli amidi tradizionali. Sono dispo-
nibili diversi tipi di Ultra-Tex: Ultra-Tex 3, 4 e 8. Molti amidi tradizionali formano grumi perché sono pregelatinizzati; l’amido nativo è pre-esposto a un liquido, poi seccato e confezionato. Gli Ultra-Tex sono buoni sostituti della gomma di Xantano (modificatore reologico ottenuto da fermentazione batterica), e possono essere utilizzati per addensare rapidamente salse e sughi. In concentrazioni superiori, è possibile produrre una texture sciropposa e simile al gel. I vari Ultra-Tex vanno scelti in base alle caratteristiche e alle temperature dell’alimento che vogliamo addensare. ULTRA-TEX® 8 è progettato per fornire una struttura più solida e più cremosa rispetto agli altri; è un amido alimentare derivato dalla tapioca. A fronte di un gusto molto neutro dona alle preparazioni una cremosità ricca. Questo prodotto ha una moderata tolleranza al riscaldamento e alle condizioni acide. Il vantaggio principale quando lo si utilizza è l’eccellente stabilità strutturale che possiede a basse temperature. ULTRA-TEX® 4 pur mantenendo le caratteristiche di texture di ULTRA-TEX® 8 è il migliore in condizioni di calore estremo ed è consigliato per prepara-
zioni molto acide. È un amido alimentare modificato derivato dal mais ceroso (simile a Crystal mais by Decorfood). Infine ULTRA-TEX® 3 ha le stesse prestazioni del 4 ma è derivato dalla tapioca. ULTRA-SPERSE® 3 (by Ingredion) è un amido pregelatinizzato naturale derivato dalla tapioca. È caratterizzato da un’eccellente dispersibilità e conferisce una consistenza morbida e liscia a un’ampia varietà di prodotti alimentari. Si disperde facilmente in acqua fredda e calda senza grumi inoltre si distingue per l’eccellente stabilità strutturale in tutte le condizioni, anche estreme, di calore; tollera la cottura al microonde, pH molto bassi, abbattimento e surgelazione. Ci vediamo il mese prossimo con un nuovo aritcolo di questa rubrica che amo molto e che spero vi sia davvero utile per farvi approcciare alla cucina con un metodo scientifico che, ormai lo avrete capito perché lo ripetiamo in ogni dove, è quello che BBQ4All ha scelto da tempo.
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Pesto
il di basilico LA RICETTA SCIENTIFICA
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LA RICETTA SCIENTIFICA - a cura di GIANFRANCO LO CASCIO
Luddismo s. m. [dall’ingl. luddism, der. dal nome di un operaio del Leicestershire, Ned Ludd, che nel 1779 avrebbe infranto per protesta dei telai per maglieria]. – Movimento operaio che in Inghilterra, all’inizio del sec. 19°, reagì violentemente contro l’introduzione delle macchine, ricorrendo, come metodo di lotta, alla distruzione delle macchine stesse, considerate la causa principale della crescente disoccupazione; il movimento luddista fu represso con numerose impiccagioni e deportazioni. Oggi con le macchine abbiamo fatto pace, ci conviviamo senza particolari acredini, a nessuno verrebbe in mente di sostituire il computer con il pallottoliere o la Lettera 22. Ma il luddismo sopravvive tra le frange oltranziste del fatto a mano a tutti i costi. Nelle nostre comunità, a volte anche in forma piuttosto sguaiata, possiamo comunque registrare un frequente biasimo dell’artificio meccanico, e di come si sostituisce alla manualità dell’uomo. E non mi riferisco solo al piglio oscurantista di alcuni, quanto a teorie su ciò che per vari motivi non può o non deve essere delegato ad una strumento: prendiamo ad esempio le rimostranze luddiste rivolte allo smartphone, o le critiche di quelli che vogliono liberare la produzione agricola da una solerzia sintetica e senza cuore, pensiamo infine a quelli che si rifiutano di preparare il pesto con il frullatore, perché il famoso condimento di basilico si fa solo nel mortaio di marmo. Ma perché insistere, perché farsi venire una tendinopatia del sopraspinato pur di rimanere aggrappati alla sottana della tradizione? Mistero. GIUGNO 2020
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LA RICETTA SCIENTIFICA - a cura di GIANFRANCO LO CASCIO
storia del
pesto alla genovese
Olio extravergine di oliva Riviera Ligure, basilico Genovese DOP, Parmigiano Reggiano stravecchio, Fiore Sardo, pinoli pisani, aglio di Vessalico, sale di Trapani: è questa la ricetta da disciplinare. L’antenato del pesto genovese che conosciamo tutti è probabilmente il moretum romano, ovvero un mix di erbe, pecorino, sale, olio d’oliva e aceto, ma le prime tracce scritte sulla nostra salsa risalgono all’Ottocento e compaiono nel volume “La vera cuciniera genovese” di Giobatta Ratto, anno di pubblicazione 1863. Ma c’è anche chi ritiene che si tratti di un’evoluzione dell’agliata (aggiada in dialetto genovese), fatta con aglio, mollica di pane, olio d’oliva, vino e aceto, solitamente utilizzata per accompagnare il pesce. Sulle origini del pesto è ancora buio (pesto).
IL BASILICO Ne esistono di diversi tipi, ma quello che preferisco usare per preparare il pesto è il cosiddetto Italiano Classico, uno delle 60 cultivar di Ocimum basilicum esistenti sul Pianeta Terra, coltivato un po’ dappertutto. Tra le altre tipologie troviamo basilico comune crespo, quello lattuga o anche noto come basilico napoletano, quello greco, thai, rosso, porpora o Dark Opal.
Il basilico Italiano Classico o Genovese ha foglie piccole, dalla forma ovale e convessa, di colore verde tenue. L’aroma ricorda il gelsomino, la liquirizia ed il limone. Non vi è traccia invece della nota mentolata tipica del basilico Napoletano o Siciliano. COME CONSERVARLO La cosa migliore, se non avete a disposizione le classiche piantine da davanzale, è conservare i mazzetti di basilico avvolti in fogli di carta assorbente bagnata, messi in una bustina di plastica non sigillata. Non fate mai l’errore di chiudere le erbe in una busta, poiché l’ambiente asfittico permetterebbe all’umidità di trasformare i vostri bei fasci di basilico in mazzetti flosci e neri.
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LA RICETTA SCIENTIFICA - a cura di GIANFRANCO LO CASCIO
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debunking: mortaio vs mixer Roberto Panizza è forse l’uomo più titolato al mondo per parlare di pesto genovese, ideatore del Campionato Mondiale del Pesto al Mortaio nonché titolare a Genova del ristorante Il Genovese e del Pesto Rossi, il pesto più buono mai messo in commercio. Questo è quello che dice sulla preparazione della salsa alla vecchia, cioè con il mortaio. “Prendete un bel grembiule pulito, meglio se di colore verde così non si vedranno gli schizzi della salsa. Poi un mortaio di marmo, rigorosamente, e un pestello di legno. Mai di ulivo, che è pieno di venature: lì si va ad annidare il pesto, irrancidendosi, e sarà poi difficile da pulire. Il legno invece deve essere di fibra compatta, come quello di pero o di altri alberi da frutta. Sulla sequenza degli ingredienti ci sono diverse scuole di pensiero. Io parto dall’aglio e lo schiaccio. Poi i pinoli e li schiaccio. Poi il basilico e il sale grosso, sempre insieme perché il sale aiuta la macinatura del basilico. Quando basilico e sale sono ridotti in crema aggiungo il Parmigiano e il pecorino grattugiati, e subito dopo l’olio extravergine. Un altro giro di pestello e il pesto è pronto. Se i formaggi sono a pezzi schiaccio anche loro e alla fine aggiungo l’olio. Un’altra tecnica è quella di schiacciare aglio e pinoli e di toglierli mettendoli da parte. Poi si procede con il basilico e il sale grosso, in seconda battuta con i formaggi aggiungendo alla fine i pinoli e l’aglio ridotti in crema in modo da dosarli meglio, soprattutto l’aglio! Qualcuno aggiunge i formaggi grattugiati contemporaneamente all’olio. Anche riguardo al movimento, al “pestaggio”, ci sono diversi metodi a misura di fisicità e di scelta. In genere all’inizio si batte e poi si ruota il pestello, le foglie di basilico vanno ammaccate con un movimento dall’alto verso il basso, una volta che sono pestate e già quasi ridotte in crema umida non si può battere altrimenti la salsa schizzerebbe, quindi si continua a schiacciarla ruotando il pestello lungo il mortaio” Eppure lo stesso Panizza, da uomo intelligente e illuminato qual è, prepara il suo pesto, il famosissimo Pesto Rossi citato pocanzi, nel mixer. Non ha mica un esercito di Umpa Lumpa che glielo preparano col pestello. E se lo fa lui, che nella vita avrà preparato tonnellate di condimento verde senza perdere la cittadinanza genovese, perché non potete farlo anche voi?
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LA RICETTA SCIENTIFICA - a cura di GIANFRANCO LO CASCIO
"il pesto si fa solo con il mortaio di marmo perché così rimane verde"
FALSO
L’ossidazione è un processo noto ed è causato da un complesso di enzimi che si chiamano polifenolossidasi e che vengono attivati sempre, mortaio o non mortaio. Solo che con il frullatore la faccenda diventa più evidente poiché l'attrito della rotazione scalda le lame e gli enzimi si attivano più velocemente. Ma qui ci viene in soccorso la scienza. Vi basterà immergere il basilico per 10 secondi nell’acqua bollente, poiché l’enzima si disattiva tra gli 80 e i 95°C, e poi immediatamente in acqua e ghiaccio. Per preservare la resa cromatica in maniera ancora più efficace potete aggiungere un pizzico di acido citrico o in alternativa un cucchiaino di succo di limone e il problema è risolto (trovate le dosi nella ricetta). E non c’è alcun bisogno di storcere il naso perché è garantito che l’acidità, a quelle grammature, non sarà minimamente percettibile, ma tuttavia sufficiente a evitare l'ossidazione e mantenere il pesto di un bel verde brillante.
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"L’aglio va messo categoricamente crudo"
FALSO
La ricetta del pesto prevede l’aglio crudo ma voi sapete che io me ne frego di quello che dice la tradizione. Il punto è che, per il mio palato, l’aglio crudo non ha assolutamente nulla che non va. Pesto scacciavampiri? Ci sto, mi piace. Ma non perché qualcuno ha deciso così 250 anni fa, ma semplicemente perché piace a me. Ci sono però tante persone che hanno una serie di problemi con l’aglio, ed è a queste che mi rivolgo con il mio pesto scientifico: invece del succedaneo senza Allium sativum proverete la mia versione, dove l’aglio ci sarà, ma non avrete nessun problema a digerirlo.
"Il Basilico dev’essere solo quello di Pra’ perché è più buono"
FALSO
Pra’ non è una città, è un quartiere di Genova, ed è grande quanto il salotto di casa mia. E per quanto basilico ci possa crescere, buono o no è un altro discorso, basterebbe probabilmente per un mese di consumo dei soli abitanti di quel quartiere circoscritto. Avete presente il Pistacchio di Bronte? Bronte equivale a 3 o 4 campi di calcio, ma intanto tutto il mondo mangia il suo pistacchio. Un buon basilico è un buon basilico, ovunque si coltivi. Può variare la forza aromatica, parlando sempre di Ocimum basilicum italiano classico, ma sfido chiunque a distinguere quello coltivato a Pra’ e quello che viene da un balcone di Sant’Ilario. Quindi no, non esiste “il basilico”, esistono i diversi tipi di basilico. E un buon basilico va benissimo per il pesto. Quello che invece è inappuntabile è il potere aromatico delle foglie giovani e piccoli, se avete a disposizione delle piante, scegliete solo quelle per preparare il pesto. GIUGNO 2020
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IL TEST stessa ricetta, tecniche diverse
Preparare il pesto perfetto non è un affare da poco, maneggiare il basilico è una faccenda spinosa e per due motivi: 1. Il basilico, come il prezzemolo, ha una parte aromatica volatile, che si disperde facilmente con il calore 2. Il basilico si ossida rapidamente e cambia nel colore Per dimostrare praticamente che si può preparare un ottimo pesto anche con il mixer, ho deciso di fare un test adoperando da una parte il mortaio e dall’altra un comunissimo frullatore. Ho utilizzato gli stessi ingredienti, seguendo la ricetta ufficiale del Campionato Mondiale del Pesto al Mortaio, apportando però delle piccole modifiche nel procedimento a macchina.
pestoal MORTAIO Ho raccolto le foglioline di basilico direttamente dalla pianta, le ho sciacquate delicatamente e le ho lasciate asciugare su un panno. Ho inserito pinoli e aglio crudo nel mortaio, pestato con cura fino a ricavare una pasta traslucida e senza grumi e messo da parte. Poi ho riempito l’incavo del mortaio con il basilico, aggiunto il sale grosso e ho cominciato a pestare, facendo roteare il pestello come si diceva prima. Quando il basilico ha cominciato a stillare un liquido verde smeraldo ho aggiunto i due formaggi grattugiati (Parmigiano e Pecorino) e la pasta di aglio e pinoli. Ho unito l’olio a filo, continuando a pestare, fino a quando non ho ottenuto una salsa piuttosto densa. Colore: verde intenso Odore: delicato di basilico, prepotente quello di aglio crudo (ma anche il Pecorino non scherza) Sapore: gradevole e fresco di basilico, umami a palla, ma l’aglio rimane comunque frizzantello sulla lingua 88 - BBQ4All MAGAZINE
pesto al MIXER Ho sistemato lame e bicchiere del mixer in congelatore, per raffreddare per benino il tutto. Ho raccolto un secondo batch di foglioline, ho messo su la pentola con l’acqua e il sale e ho aspettato che bollisse. Con un setaccio in acciaio piuttosto ampio ho immerso le foglie per dieci secondi nell’acqua bollente e poi le ho trasferite velocemente in una boule con acqua e molto ghiaccio. Quindi le ho asciugate delicatamente e le ho messe da parte. Nel frattempo ho versato l’olio extravergine in un pentolino, ho aggiunto l’aglio e ho lasciato che si sgonfiasse (dopo vi spiegherò meglio il perché). Quindi ho buttato nel mixer tutti gli ingredienti (basilico, aglio, pinoli, formaggi, sale e acido citrico), aggiungendo a filo l’olio. Con quattro o cinque pulsazioni ho ottenuto una salsa densa e quasi fosforescente. Colore: verde neon, alla faccia dell’ossidazione e della spondilite anchilosante Odore: piacevole di basilico, equilibrato Sapore: bilanciato, l’aglio è dolce e non schiaccia le note fresche ed erbacee del basilico Tirando le somme, il pesto fatto al mortaio è ottimo, la consistenza è pari a quella di un paté, ma richiede una certa manualità, velocità di esecuzione (potete notare l’accenno di ossidazione nelle foto comparate) e l’aglio crudo rimane per alcuni una mina vagante. Il pesto fatto al mixer è sicuramente più facile da preparare, con le dovute accortezze del caso, più verde, più veloce ed equilibrato. Ma si può fare di meglio.
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il pesto di basilico
SCIENTIFICO
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160 gr di basilico italiano classico ( Ocimum basilicum) 140 gr di Parmigiano Reggiano 60 gr di Pecorino sardo 60 gr di pinoli tostati in padella 4 spicchi d’aglio 10 gr di sale grosso 2 gr di acido citrico o 30 ml di succo di limone 160 ml di olio extravergine di oliva
Non scrivo Pesto alla genovese perché non ha nulla a che fare con la versione classica, ovviamente. Sarà migliore? Peggiore? Sono state combattute guerre per molto meno, non entrerò nel merito. Ha però 3 obiettivi precisi: 1. esaltare il gusto del basilico; 2. evitare l'ossidazione per mantenerlo verde brillante; 3. migliorare la digeribilità dell’aglio. Ribadisco: non sono in competizione con gli oltranzisti del pesto tradizionale, la mia versione è una normale evoluzione che smussa alcuni spigoli. Di certo è più pesto del pesto senza aglio, per dire. Adesso vi spiego come prepararlo.
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Per ricavare quella quantità di foglie ho fatto fuori quasi 3 piantine di basilico. A costo di sterminare tutta la flora del vostro terrazzo, vi consiglio di prepararne un bel quantitativo per volta, sia per ottimizzare i tempi che per assicurarvi un risultato perfetto. Non avete l’acido citrico in dispensa? Potete sostituirlo con il succo di limone. Considerate che in un litro di succo di limone ci sono 63,4 grammi di acido citrico, il 6%. Quindi 30 millilitri di succo corrispondono a 2,1 grammi di acido citrico puro. Prima di sbianchire il basilico, mettete l’aglio in una bustina per il sottovuoto aperta (potete fissarla alla vasca con una molletta) e versate nel sacchetto dell’olio extravergine d’oliva, fino a coprire il tutto. Lasciate scaldare a 65°C fino a quando gli spicchi non risultano cedevoli al tatto. Oppure utilizzate un pentolino, avendo però l’accortezza di tenere sotto controllo la temperatura dell’olio, che non deve mai friggere. A cosa serve questo passaggio? A rendere l’aglio più digeribile. L’aglio contiene alliina, una molecola che ha dentro dello zolfo. Quando la struttura si rompe, grazie ad un enzima chiamato alliinasi, l'alliina si trasforma in allicina, un complesso sulforganico che dà all'aglio il tipico profumo e gusto pungente. In uno spicchio integro, l'alliinasi è confinato in sacche (vacuoli) nella cellula, mentre l’alliina fluttua liberamente nel citoplasma. Frantumando e sminuzzando il bulbo di aglio, queste sostanze vengono in contatto e producono l’allicina, che ha quel distinguibile odore sferzante ed intenso. Imparato questo, vi è senz’altro chiaro il motivo per cui tagliare uno spicchio e rimuovere il germe per rendere l'aglio più digeribile è una stupidaggine, che però non ne vuole sapere di sparire per sempre, soprattutto nelle cucine di certi cuochi professionisti. Come mi piace dire, eliminando “l’anima” l’avete appena venduta al demonio, avete appena dato modo a due sostanze di produrre l'enzima che farà di voi dei pessimi baciatori. Ma non è finita qui: ad alte temperature, l'alliinasi si disattiva e non è in grado di produrre allicina. Produce invece disolfuro di allile, il composto che ha il confortante odore e aroma di "aglio cotto”, per niente aggressivo e più dolciastro. Quando l’aglio è pronto e si sarà raffreddato, passatelo al mixer con i pinoli tostati fino ad ottenere una crema. Quindi aggiungete il basilico ben asciugato (non lo stropicciate!), il sale grosso e l’acido citrico (o il succo di limone). Date qualche colpetto di mixer e aggiungete i formaggi grattugiati, poi aggiungete a filo l’olio extravergine di oliva, fino ad ottenere una pasta piuttosto densa. Se il vostro frullatore ve lo consente, una volta aggiunto il basilico poggiate il bicchiere in una ciotola con poco ghiaccio, per abbassare la temperatura del contenitore. A questo punto avrete un bel po’ di salsa per condire trofie, trenette, spaghetti, o la trafila di pasta che vi piace di più, magari con la collaudatissima accoppiata fagiolini e patate. Oppure potete usarla per arricchire un panino o una bruschetta. LA CONSERVAZIONE Il pesto scientifico si conserva in frigorifero per una settimana, travasatelo in un barattolo in vetro e copritelo con un velo d’olio. Oppure congelatelo, potete custodirlo in freezer per almeno due mesi. Sempre che vi avanzi, sia chiaro. Gianfranco Lo Cascio GIUGNO 2020
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SEGUO - RUBRICA a cura di EMILIANO NENCIONI
SEG U O la felicità è una cottura a fuoco lento
Tranquilli. Non sto cercando di fare uno slogan da pubblicitario anni ‘90, con scontatissimi motteggi tipo “la felicità è un boston butt che pulla” o “felicità è uno spinacino ben briskettato”, “il barbecue è convivialità” e altre espressioni stra abusate quanto un meme sui gattini. Non sto cercando di convincervi a buttarvi completamente sul Low&Slow, non sto cercando neanche uno dei soliti parallelismi della Seguo, del tipo “qui da noi ci comportiamo così, dai concorrenti si comportano in maniera diversa, e questo è straordinariamente simile ai battibecchi fra questi due scienziati”: voglio proprio parlare della felicità. O del suo perseguimento. La felicità è, ne sono sicuro, una cottura a fuoco lento: non è un oggetto valutabile in maniera istantanea e puntuale, non puoi fare la derivata della felicità sul tempo, valutandone l’incremento in un istante epsilon piccolo a piacere; la felicità si guarda nel tempo, traguardandola come i punti di mira di un fucile. Quella cosa istantanea per cui siamo contenti proprio adesso è la gioia, che è un’altra condizione molto bella e auspicabile, ma diversa, più effimera, più facile, sicuramente legata al “qui e ora”: la gioia per un vestito nuovo, un complimento ricevuto, una bistecca cotta bene, la moto che parte dopo mezza giornata passata a pulire il carburatore. La gioia è più una bella grigliata: ghisa rovente, trenta secondi per lato, birra in mano (o una bevanda gassata aromatizzata al chinotto, se piace) e al morso una breve e intensa scarica di gusto e endorfine. La felicità non è proprio così: non è mai veramente uno stato, non è mai il momento vissuto, è probabilmente più una ricerca, spesso una ricerca nevrotica verso qualcosa che si modifica in continuazione, e questo continuo inseguimento ci porta a non percepirla come una realtà, ma come un’ambizione; un “tendere a”, un comportamento asintotico. La fregatura di tutto questo rincorrere e sfuggire è l’accorgersi di non possederla, la felicità. E non sto parlando dell’infelicità, poiché 94 - BBQ4All MAGAZINE
Edvard Munch "Melancholy" (particolare)
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essa non è l’opposto della felicità. L’opposto della felicità è la La contrapposizione ovvia a questa idea è l’edonismo, la ricermancanza di felicità in un dato periodo. La differenza è tanto ca continua del piacere immediato: in pratica la differenza fra importante che la lascio alla vostra riflessione personale, sen- un’escursione in solitaria sull’Eyjafjallajökull in Islanda e una notte all’Ushuaïa a Ibiza. za spiegare niente di più di questo. Volendo ricorrere ad un paragone vagamente culinario (giustificando così la trattazione dell’argomento su queste pagine, In letteratura è inevitabile fare due esempi illustri: Pascoli e e adempiendo ad alcuni obblighi contrattuali), se la gioia sono D’Annunzio. Mi rendo conto di non essere troppo capace di i carboidrati, con un apporto energetico immediato, un senso parlarne in maniera molto imparziale e distaccata, avendo una di benessere rapidamente spendibile e una gratificazione mas- predilezione personale per la poetica del fanciullino, del nido e siccia quanto volatile, la felicità sono i lipidi della piramide nu- degli affetti più stretti del poeta romagnolo rispetto alle spactrizionale del nostro stato d’animo: gustosi, a volte stucchevo- conate da Belle époque del Principe di Montenevoso. Se Pascoli si chiude, si “accontenta”, fa introspezione e cerca li, e te li ritrovi addosso anche a distanza di anni. Il mondo anglosassone ha una parola più specifica per la feli- (non trovandola mai?) la felicità nella semplicità, D’annunzio cità nell’accezione di cui vi sto parlando adesso: bliss, non di- vive di duelli, di eccessi, di lusso, di disinibizione: edonismo, rettamente traducibile se non con un’espressione simile a bea- per l’appunto. Oh, intendiamoci, non giudico! Le mie pretitudine, inteso come “essere pervasi da ferenze sono strettamente legate alla appagamento”. “La Felicità” (G. Pascoli) produzione letteraria e ad un personale Per capirci meglio, diamo per noto che attaccamento emotivo in seguito ad una mi riferirò alla felicità come al “piacere mia visita al “nido” di Pascoli a CastelQuando, all’alba, dall’ombra s’affaccia, stabile”: una specie di gioia sorda dotata vecchio, esperienza (molto economica discende le lucide scale di robusti smorzatori e di un grande votra l’altro) che vi consiglio di fare se vi lano che reca inerzia. Una contentezza trovate a passare vicino Lucca. e vanisce; ecco, dietro la traccia stabilizzata da un supporto steadycam. d’un fievole sibilo d’ale, Vi tranquillizzo riconducendovi al conio la inseguo per monti, per piani, Non riesco a parlare di felicità contrapfortevole mondo delle grigliate, perché posta a gioia senza spendere due righe percepisco che vi sto perdendo per stranel mare, nel cielo: già in cuore sull’eudemonismo, la ricerca dello scoda: tornate con la mente all’ultima volta io la vedo, già tendo le mani, po della vita nella bellezza che alberga che, dopo aver studiato paginate e pagigià tengo la gloria e l’amore... nella felicità (da eudaimonia, εὐδαιμονία). nate di mail class, aver approfondito le
Ahi! ma solo al tramonto m’appare, su l’orlo dell’ombra, lontano, e mi sembra in silenzio accennare lontano, lontano, lontano. La via fatta, il trascorso dolore m’accenna col tacito dito: improvvisa, con lieve stridore, discende al silenzio infinito.
Capito l’antifona insomma?
Henri Matisse "Bonheur de Vivre"
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Gabriele D'Annunzio
Sono costretto ad ammetterlo, funziona anche su di me: fare qualcosa che piaccia a qualcuno è irresistibilmente gratificante nel lungo termine, con un’onda lunga di benessere e soddisfazione che può creare dipendenza; scrivere una Seguo un po’ interessante che spinga un pugno di lettori a informarsi autonomamente su un argomento trattato, ad approfondire, o a sfidare le maglie fitte della moderazione per far capire agli altri di aver letto, postando contenuti sibillini simili a sciarade oppure con più laconici “io parto dal fondo”, è una delle due o tre cose al mondo che riesce a far impennare il mio fatturato di felicità.
subito dopo e riceve un premio di consolazione di 200 euro in buoni spesa. Chi è più contento, A con 100 euro o B con 200 euro? Esattamente: B sentirà di aver “perso” una cosa che non aveva mai vinto. E’ il meccanismo di frustrazione ed empatia che tiene attaccati al televisore milioni di telespettatori, a guardare un concorrente di quiz televisivo che da un montepremi iniziale spropositatamente alto “affetta” via via metà del bottino ad ogni errore. Molto probabilmente, nelle cotture come in questioni più profonde, la chiave è non essere vittime inconsapevoli di modelli irraggiungibili.
“la mia vita è stata piena di terribili disgrazie, la maggior parte delle quali non si è mai verificata” Michel Eyquem de Montaigne
tecnica sulle pagine del Magazine e chiesto conferme online (temerari!), avete affrontato la vostra prima cottura non banale, con la volontà di un’esecuzione perfetta, indugiando nell’affinamento dei gesti e delle tempistiche, e avete portato in tavola una delle fantastiche preparazioni scientifiche, o un teppanaki to perfection, o un uovo fritto con l’albume perfettamente circolare e il tuorlo situato in maniera micrometricamente concentrica (guilty pleasure noto, mi rendo conto, solo ai Seguisti più incarogniti). Ecco, la felicità derivata dall’aver speso volontariamente tempo, risorse e fatica in quest’opera viene comunemente indicata come felicità generativa. E’ senza dubbio un trucchetto indefettibile per il conseguimento della beatitudine (intesa ovviamente in senso laico come il sopracitato bliss anglosassone); per quanto egoisti, egocentrici e sufficienti a voi stessi possiate essere - vi ho già parlato dell’OltreUomo? - non si scappa: produrre qualcosa per il benessere altrui porta felicità. Il volontariato, l’insegnamento, la professione medica sono tutte “rogne” che devono gran parte della loro diffusione alla felicità generativa derivante dal loro adempimento; di più, c’è un’altra felicità generativa palesemente verificabile, che forse potrà far capire il senso del discorso ad alcuni di voi: avere un figlio. Pensateci.
Un giorno forse, quando riuscirò a trovare un parallelismo minimamente accettabile con il mondo del grilling, vi scriverò anche due righe sull’ansia. Conosco uno che se ne intende, un grande esperto. Frederic Lord Leighton "Lachrymea" (particolare)
Emiliano Nencioni
E la felicità, esattamente come nel caso delle cotture preparate con tanto impegno per una tavolata, si scontra con l’ansia da prestazione e con le aspettative sproporzionate. Troppe volte capita di rovinarsi il gusto di una cottura (o di una qualsiasi altra esperienza generativa) per il timore di non arrivare ad un dato risultato prima di aver ottenuto qualsiasi risultato: l’ansia è aspettativa di perdita. Non dovete farvi fregare, o addio felicità; bisogna a tutti i costi evitare di cadere nel paradosso delle medaglie d’argento, per il quale il terzo classificato gioisce molto di più del secondo, che si dilania di frustrazione. Esempio: Un signore (A) entra in un negozio e riceve 100 euro in buoni spesa in quanto milionesimo cliente. Un signore (B) cede il passo ad uno sconosciuto, che entra in un negozio e riceve diecimila euro in buoni spesa; B entra
Giovanni Pascoli GIUGNO 2020
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NEW YORK
SLIDERS 200g (4x50g)
Un piccolo hamburger che andrà letteralmente a ruba nelle occasioni di festa. Particolarmente adatto ai bambini per le dimensioni ridotte, è perfetto per aperitivi, cene informali, serate in famiglia. Un vero e proprio boccone di puro sapore, che si presta ad essere declinato in mille versioni e abbinato a un’infinità di sapori, ma sorprendentemente gustoso e succulento anche da solo.
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ORIGINAL
BURGER 200g
Diventa il re della griglia durante le giornate in compagnia di amici e familiari grazie a questo hamburger da 200 grammi. Il perfetto bilanciamento del gusto, dato dall’equilibrio ideale di parte grassa e parte magra nella composizione del patty, lo rende un prodotto di cui non potrai più fare a meno. Dimentica gli hamburger sottili e insapori e preparati a un’esplosione di gusto, senza rinunciare alla praticità di un prodotto confezionato in skin.
BURGER
STEAK 300g
Trecento grammi di carne macinata, condita e ricompattata in una polpetta dallo spessore consistente. Questo Burger Steak unisce le due cose fondamentali che tutti cercano in cucina: qualità ottima e velocità di preparazione. In pochi minuti potrai servire un piatto ricco, bello da vedere, con un sapore esplosivo e una qualità indiscussa. Un hamburger alto, saporito, soddisfacente, che si presta a essere servito in mille modi diversi, mai asciutto e stoppaccioso. Scalda bene la griglia prima di mettere il Burger Steak in cottura, rigiralo spesso per creare la crosticina esterna senza rischiare di bruciarlo, cuocilo per pochi minuti e servilo come una tagliata, aggiungendo il tuo condimento preferito. Un sicuro successo. Un vero salva-cena di altissima qualità.
DOVE TROVARCI puoi trovare la mappa interattiva di tutti i punti vendita costantemente aggiornata all’indirizzo http://products.bbq4all.it/dove-trovarci/
CLUB
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