BBQ4All Magazine numero 20 - Agosto 2020

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N°20/ANNO 2 - AGOSTO 2020

MAGAZINE l'editoriale di gianfranco lo cascio

SALSI CCIA ALLA BRAC E DEFIN ITIVA

LA

COME SI FA

SFINC IONE SPECIALE AGOSTO

META È PARTI RE

LA

Cheese&Bacon Roll, Pica Pollo, Kitoza, Chico Roll, Feijoada, Pata Asada

arte casearia PREPARA RE LO

SQUAC QUERONE

IN CASA

LA RICETTA SCIENTIFICA

GUACAMOLE


D I R E T TO R E E D I TO R I A LE

Rossella Neiadin

R E D AT T O R E C A P O

Michela Bongiorni REDAZIONE

Enio Berton, Virgilio Brunetti, Tommaso Buccafurri, Roberto Dal Bosco, Tommaso Di Gregorio, Salvatore Di Mento, Luca Gallozza, Mariangela Ibba, Gianfranco Lo Cascio, Riccardo Meniconi, Giovanni Minelli, Emiliano Nencioni, Stefania Pompele, Andrea Spaggiari, Alessandro Trezzi, Carlo Trono, Alberto Zonghetti. REALIZZAZIONE GRAFICA

Impaginazione a cura di Carlo Trono Illustrazioni di Eleonora Castagna e Ozzy Bellesi Fotografie di Rossella Neiadin, Luca Gallozza, Tommaso Buccafurri, Elisa Giuli S TA M P A

Graphic Master s.r.l. - Perugia magazine@bbq4all.it instagram.com/bbq4allmagazine/ ©2019 BBQ4All è un marchio BBQ4All Consulting s.r.l. BBQ4All Magazine è un prodotto in concessione a ©2019 NetAddiction s.r.l. Tutti i loghi e marchi riportati, gli elementi grafici, le immagini e i materiali presenti nella presente pubblicazione sono soggetti alle norme vigenti sul diritto d’autore; è quindi severamente vietato riprodurre anche parzialmente ogni elemento delle pagine in questione. Nomi, marchi registrati e loghi eventualmente presenti su questa pubblicazione non possono essere utilizzati per alcuna forma di pubblicità o diversamente per indicare sponsorizzazione, patrocinio o affiliazione a prodotti o servizi senza previa autorizzazione scritta da parte della società che ne detiene i diritti. Tutto il restante materiale fotografico pubblicato è stato realizzato da BBQ4All e/o acquistato e/o licenziato allo stesso, con trasferimento dei diritti di utilizzazione economica salvo le immagini utilizzabili con licenza Creative Commons o GNU Free Documents Attribution. BBQ4All ha osservato le più ampie tutele affinchè non venisse violato il diritto d’autore altrui.


EDITORIALE di GIANFRANCO LO CASCIO

Prima regola del GLC Club

mai bucare le

salsicce

L'amore e le salsicce sono uguali. Non se ne ha mai abbastanza di entrambi.

Tutti e due necessari, tutti e due maltrattati, ma le salsicce un pochino di più. Tagliate a metà, bucate coi forconi, ustionate nell’acqua bollente. Povere salamelle, pare la Guantanamo dei fornelli. Orde di grigliatori frettolosi e frotte di mamme col pallino delle calorie: scene degne di una pellicola splatter a budget limitato. La parola "salsiccia" deriva dal latino "sale" e indica una miscela di carne tritata e sale, appunto, insaccata in un involucro commestibile. Il sale svolge due ruoli importanti all’interno della salsiccia: tiene a bada la contaminazione microbica e scioglie una delle proteine dei filamenti delle fibre (miosina) dai muscoli e sulle superfici della carne, fungendo da collante. Tradizionalmente l'involucro commestibile era lo stomaco o l'intestino dell'animale, e il grasso rappresentava almeno un terzo della miscela. Oggi molte salsicce sono alloggiate in budelli artificiali e contengono molto meno grasso. Ci sono un'infinità di variazioni sul tema salsiccia, ma la maggior parte rientra in una manciata di famiglie. Le salsicce possono essere vendute crude e consumate appena cotte; possono essere fermentate; possono essere essiccate all'aria, cotte e/o affumicate per conservarsi per qualche giorno o per un tempo indefinito. La carne e il grasso possono essere tagliati in pezzi di varie dimensioni, oppure possono essere disintegrati, mescolati insieme e cotti in una massa omogenea. La salsiccia può essere per lo più carne e grasso, oppure può includere una parte sostanziale di altri ingredienti. SALSICCE FRESCHE E COTTE Le salsicce fresche sono quelle appena fatte, non fermentate e crude, quindi altamente deperibili. Devono essere cotte entro un giorno o due dalla produzione o dall’acquisto. Le salsicce cotte vengono riscaldate in alcune fasi della loro produzione e possono essere acquistate e mangiate senza ulteriore cottura per diversi giorni, o più a lungo se sono state parzialmente essiccate o affumicate. Vengono preparate con

la solita miscela di carne e grasso, o con una serie di altri ingredienti che si addensano durante la cottura. La salsiccia bianca francese, il boudin blanc, è fatta con varie carni bianche legate insieme con latte, uova, pangrattato o farina, mentre il boudin noir, il nostro sanguinaccio, non contiene alcuna carne: è circa uno terzo grasso di maiale, un terzo di cipolle, mele o castagne e un terzo di sangue di maiale. La salsiccia di fegato si ottiene invece cucinando una miscela di fegato e grasso finemente macinati. I produttori spesso usano proteine di soia e derivati del latte per addensare il composto e preservare l’umidità interna. SALSICCE EMULSIONATE Le salsicce emulsionate sono un tipo speciale di salsiccia cotta, meglio conosciuta come würstel e così chiamata per le sue presunte origini tedesche (Francoforte) o austriache (Vienna). La mortadella appartiene alla stessa categoria. Queste salsicce hanno un interno molto fine, omogeneo, tenero e dal sapore relativamente dolce. Sono fatte combinando carne di maiale, manzo o pollame con grasso, sale, nitrito, aromi e solitamente acqua aggiunta, e mixando gli ingredienti insieme in un grande frullatore fino a formare una "pastella" liscia, simile a una salsa emulsionata: il grasso è uniformemente disperso in piccole goccioline, che sono circondate e stabilizzate da frammenti delle cellule muscolari e da proteine disciolte dal sale. La temperatura durante la miscelazione è critica: se si superano i 16°C in una pastella di maiale o i 21°C nella carne di manzo, l'emulsione diventa instabile. La pastella AGOSTO 2020

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viene quindi estrusa in un budello e cotta a circa 70°C. Il calore coagula le proteine della carne e trasforma la pastella in una massa solida e coesa dalla quale si può rimuovere l'involucro. A causa del loro contenuto di acqua relativamente elevato, circa il 50-55%, le salsicce emulsionate sono altamente deperibili e devono essere refrigerate. INGREDIENTI DELLA SALSICCIA: GRASSO E BUDELLO Il grasso per la fabbricazione delle salsicce è generalmente di maiale e proviene dallo strato sotto la pelle della schiena. Il grasso di maiale ha il vantaggio di avere un sapore relativamente neutro, e quello dorsale in particolare ha la giusta consistenza: abbastanza duro da non sciogliersi e separarsi, nonostante la carne venga macinata o conservata a tem-

peratura ambiente calda, ma abbastanza morbido da non risultare granuloso e pastoso quando viene mangiato fresco. Il grasso della pancia è più morbido, il grasso di rognone e quello di manzo e agnello sono più duri; i grassi di pollame, per finire, sono troppo teneri. Nelle salsicce standard non emulsionate, il contenuto di grasso di oltre il 30% aiuta a separare i frammenti di carne e conferisce tenerezza e umidità. Più grossolani sono i frammenti di carne, più ridotta sarà la superficie che il grasso deve lubrificare. Quindi basterà un 15% per avere una buona consistenza.

to connettivo di intestino di maiale o di pecora, spogliati del loro rivestimento interno e degli strati muscolari esterni, parzialmente essiccati e confezionati sotto sale fino al loro riempimento. Esistono anche budelli a base di collagene animale, cellulosa vegetale e carta.

I budelli delle salsicce venivano tradizionalmente ricavati da varie parti del tubo digerente degli animali. Oggi, la maggior parte degli involucri "naturali" sono costituiti da sottili strati di tessu-

Ingrediente versatile, la salsiccia viene utilizzata un po’ dappertutto: nei sughi per condire la pasta, saltata con i leggendari friarielli napoletani, sulla pizza.

LA SALSICCIA FRESCA ITALIANA Si tratta di un grosso cilindro di carne di maiale macinata grossolanamente e insaccata in budello, spesso aromatizzata con semi di finocchio. Viene venduta rigorosamente cruda e può essere acquistata legata o sciolta.

Tra le varietà regionali più famose ricordiamo: Piemonte: la salsiccia di Bra, preparata fresca con carni magre di bovino e pancetta di suino. L’antica variante di carne esclusivamente bovina, nata per servire l’antica comunità ebraica braidese, può essere consumata anche cruda. Liguria: la celebre salsiccia di Ceriana è a base di puro suino, pancetta e grasso, conditi con sale, pepe o peperoncino e erbe aromatiche come il rosmarino. Lombardia: protagonisti della Cassoela, sono i salsicciotti da verzata o Salamit di verz, piccole salsicce fresche di suino speziate e a pasta fine, di solito cotte in umido e servite con contorno di verdura Veneto: la Luganega, detta così dall’origine lucanica, è una salsiccia caratterizzata dall’utilizzo di tagli di carne suina come il collo o il guanciale, particolarmente irrorati dai vasi sanguigni dell’animale. Ne esistono due varianti: una magra (detta da rosto) adatta ad essere cucinata alla brace, e una più grassa solitamente cotta in umido, bollita o cotta in tegame (detta da riso). Toscana: la salsiccia qui è preparata con maestria utilizzando rifilature di coscia, spalla di suino e ritagli grassi con aggiunta di sale, pepe, aglio e spezie. Spesso i produttori utilizzano i semi di finocchio, che la rendono particolarmente aromatica. Umbria: il centro di produzione e ma4 - BBQ4All MAGAZINE


COME RICONOSCERE UNA BUONA SALSICCIA Una buona materia prima è alla base di tutto. Ne esistono un’infinità di tipi, alcune già pronte in vaschetta, altre addirittura precotte. Un buon macellaio sarà sempre felice di prepararvi le salsicce con i tagli ed il grasso che preferite. Probabilmente le pagherete di più, ma avrete la certezza di avere sempre ingredienti di qualità eccellente e con il beneficio della personalizzazione del condimento. QUALI SONO I PARAMETRI DELLA SALSICCIA PERFETTA 1 – Spessore Un budello ritorto di maiale sarebbe sempre da preferire a quello più sottile di agnello (stile luganega per capirci): è più grande, più resistente e permette alla salsiccia di avere uno spessore maggiore, che ci aiuta a gestire il calore per ritenere i liquidi all’interno.

cellazione del maiale nelle marche è Norcia e celeberrima è la salsiccia che si produce qui. Realizzata solo con le migliori carni di suino o cinghiale dai leggendari maestri norcini. Campania: la Cervellata o Cervellatina trova la sua più grande interpretazione nella cucina campana. Un tempo prodotta con carni miste e cervello di bovino o suino, ora viene confezionata con sola carne suina tritata finemente al coltello (punt’ ‘e curtièll'). La morte sua è con i friarielli (i broccoli, non i peperoni verdi) soffritti in aglio e olio extravergine. Puglia: la zampina, che prende il suo nome dalle basi degli spiedi utilizzati per cuocerla, è caratterizzata dalla forma a spirale e composta da carni bovine

e ovine, macinate e impastate con sale, pepe, pomodoro, basilico fresco e formaggio locale. Le spezie utilizzate sono cambiate negli anni, in passato si preferiva il timo selvatico sostituito, nel tempo, con il basilico fresco e il prezzemolo. Sicilia: la Pasqualora prende il suo nome dall’usanza siciliana di consumarla specialmente nel periodo di Pasqua. Anche Virgilio nelle Georgiche la cita e la descrive così: “un insaccato dalla tipica forma a U, di carne mista di maiale e bovino, tritata a grana grossa o a punta di coltello”. Condito con sale, semi di finocchio e pepe, il macinato è poi inserito in budella di capretto e cucinato in padella con vino o arrostito sulla brace o fritto nel ragù.

2 – Rapporto grasso /magro Una buona salsiccia non è solo carne trita e sale. È molto di più. Per prima cosa, un buon rapporto grasso/magro è necessario per bilanciare succulenza e sapore. La percentuale grasso/magro ideale dovrebbe rimanere compreso tra il 15% e 20% di grasso rispetto al magro. Per una salsiccia più ricca si può arrivare al 25%, ma andare oltre significherebbe ottenere un morso decisamente troppo “unto” e poco gradevole. Quale grasso scegliere? L’ideale sarebbe prelevare il grasso da due tagli diversi, metà di pancia (si scioglie) e metà di schiena (tiene la cottura). Si tratta di un blend incredibilmente interessante dal punto di vista gastronomico. 3 – Parte magra Il taglio ideale è la spalla ma sarebbe anche preferibile includere parti ad elevato tenore di collagene come il collo o la guancia. Tagli magri come l’arista o la coscia sono decisamente poco adatti. 4 – Aromatizzazione Si può scegliere il classico sale e pepe ma esistono miliardi di possibili aromatizzazioni: paprika dolce e aglio, semi di finocchio e macis, pepe bianco e origano. È interessante anche l’utilizzo di ingredienti dalla forte carica umami come pomodori secchi, olive taggiasche, capperi, funghi porcini o formaggi stagionati. AGOSTO 2020

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Ma la salsiccia che mi sta dando grandissime soddisfazioni è la nostra, aromatizzata al formaggio Cheddar e Chipotle. Una bomba. 5 – Legatura Farsi legare le salsicce è un’operazione fondamentale. La legatura, oltre a conferire il classico aspetto a “banana”, garantisce anche omogeneità nella dimensione e conseguente uniformità del tempo di cottura. Ricordatevi solo di tagliare il budello in prossimità del nodo e rimuovere il filo prima di andare in griglia. I PARAMETRI DELLA SALSICCIA ALLA GRIGLIA PERFETTA Ecco le tre caratteristiche che deve avere una salsiccia grigliata alla perfezione, vi spiegherò poi come ottenerle. 1 – Colore Il budello non cauterizza come la carne ma è abbastanza sottile per garantire la cauterizzazione della carne sottostante; vogliamo ottenere un color mogano e brillante e una superficie perfettamente integra. 2 – Succulenza Mantenere succhi e parte del grasso disciolto. Una salsiccia da 100g conterrà solo 15g di grasso, la stessa quantità di olio con cui di solito andiamo a condire il nostro piatto d’insalata; dite alla mamma che può stare tranquilla. Il calore fa contrarre le fibre e scioglie parte del grasso. Le fibre sono corte e si strizzano espellendo liquidi, ma noi vogliamo che questi liquidi rimangano intrappolati all’interno. 3 – Smoky flavour È quel sentore di affumicato, delizioso e non invadente, che questa volta andremo a fornire utilizzando dei trucioli di legno aromatico, che faremo bruciare in combustione incompleta, cioè senza fiamma. COME OTTENERE IL COLORE Abbiamo già trattato tante volte la reazione di Maillard. In questo caso e diversamente dal solito, il setup del barbecue sarà effettuato per le cotture indirette. Dispositivo a 120-150°C, non importa che sia a gas o carbone. Braci da una parte, carne dall’altra, piccola manciata di chips di legno aromatico di ciliegio, di melo, di hickory (o un mix fra i tre), si chiude il coperchio e si lascia andare fino a cottura. Senza toccare le salsicce, sen-

za girarle, senza far nulla. Il fumo, unito al calore ed alcune reazioni chimiche che fissano l’emoglobina residua nei tessuti, renderà la superficie scura, di un colore bruno rossastro e sarà incredibilmente profumata. Provate ad alzare il coperchio nella fase iniziale: vedrete le salsicce “sudare”. Questo fenomeno è dovuto principalmente all’evaporazione dei liquidi del budello. Il calore secco provvederà nel giro di qualche decina di minuti a disidratare la pelle e da quel momento inizieranno le reazioni di imbrunimento.

leggera; un paio di piccole manciate di trucioli a 15-20 minuti di distanza l’una dall’altra sui braccetti sono più che sufficienti per i nostri scopi.

COME OTTENERE SUCCULENZA Nel caso della carne di maiale, salsiccia compresa, la temperatura da raggiungere è fissata ad un minimo di 75°C al cuore. L’unica accortezza da mantenere durante la rilevazione della temperatura è quella di inserire l’ago del termometro da una delle estremità per limitare la fuoriuscita di liquidi. Un valore compreso tra 75 e 83°C è l’ideale per le salsicce. In questo modo, saremo certi di cuocere la carne in ogni suo punto senza mai perdere succosità.

Il risultato sarà un boccone croccante e profumato fuori, con un ripieno goloso e fondente. Vi consiglio di abbinarle ad una salsa a base di peperone, cipolla cruda tritato con olio, sale, pepe e aceto.

COME OTTENERE LO SMOKY FLAVOUR IDEALE L’affumicato è dato dai liquidi e i grassi in fusione che colano sulle braci (in caso di barbecue a carbone) o sulle barre aromatizzanti (in caso di barbecue a gas o elettrico) che si vaporizzano all’istante e risalgono in forma di fumo aromatico, investendo la carne e profumandola. Per evitare che i sentori diventino invadenti, bisogna ridurre al minimo l’esposizione al fumo pur mantenendo costante la temperatura. In questo caso il fumo non verrà generato dai liquidi in caduta ma da trucioli di legno aromatico messi a bruciare (senza fiamma) direttamente sopra la fonte di calore. L’affumicatura, lo ripetiamo, dev’essere

CUCINARE LA SALSICCE AL CHEDDAR E CHIPOTLE DEL MEGASTORE Per le nuove arrivate in casa Megastore vale lo stesso discorso fatto in precedenza: setup per una cottura indiretta, dispositivo a 130°C-150°C e affumicatura con poche manciate di chips di ciliegio. Cottura target: 82°C.

CONSIGLI PER IL SERVIZIO È importantissimo che la salsiccia sia servita e mantenuta calda. Le salsicce risentono della mancanza di umidità molto più dei tagli serviti interi. Volete preparale in anticipo? Potete mantenerle calde semplicemente immergendole (completamente) in un liquido molto caldo, ad una temperatura verosimilmente di poco inferiore a quella del limite di cottura fissato, per un tempo variabile da mezz’ora a due ore. Questo impedisce alle salsicce di asciugarsi e diventare dure. Si può utilizzare birra, succo di mela, brodo di carne o vegetale. Il sapore non ne risentirà, perché il liquido non riesce a permeare il budello, ma la quantità ottimale di umidità interna verrà preservata. Adesso avete tutti gli elementi per cucinare le salsicce alla griglia più buone di sempre, ora tocca a voi. E guai se vi pesco di nuovo a bucarle. Gianfranco Lo Cascio AGOSTO 2020

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INDICE A G OSTO 2 0 2 0 - N U M E RO 2 0 A N N O 2

RUBRICHE

3 . L ' E D I TO R I A L E D I G I A N F RA N CO LO CASC I O

PRIMA REGOLA: MAI BUCARE LE SALSICCE 1 0 . D I V E N TA R E A S S A G G I AT O R E

L'olfatto 1 7 . PO RT FO L I O G AST RO N OM I CO VIAGGIO INTORNO ALLA CUCINA

R I C E T T E D I A G OSTO LA META È PARTIRE

26. CHEESE&Bacon ROLL 28. CHIKO ROLL 30. PICA POLLO 32. KITOZA con riso al cocco e salsa satay 34. boku-boku 36. TARNA’ARA’A 40. FEIJOADA 42. PATA ASADA 46. TATAKI DI TONNO 48. Gelo di mellone 50. Vini, birre e cocktail consigliati

APPROFONDIMENTI 58. ARTE BIANCA

LO SFINCIONE PALERMITANO 64. ARTE CASEARIA

LO squacquerone 72. LE RAZZE introduzione all'agnello 76. THE CHEMICAL GRILLER gli idrocolloidi delle alghe e la sferificazione 8 0 . C U LT U R A allevamenti e gas serra 8 4 . L A R I C E T TA S C I E N T I F I C A il guacamole 96. SEGUO tormentoni

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DIVENTARE ASSAGGIATORE a cura di STEFANIA POMPELE

l'

OLFATTO guida completa alla degustazione

Biologicamente singolare, dotato di straordinario potere evocativo e risonanza emotiva, dalla grande efficacia semiotica e tendenzialmente refrattario al linguaggio. È stato relegato a senso minore dalla filosofia classica e a lungo considerato il senso degli istinti più bassi. Spodestato dalla vista (soprattutto nella cultura occidentale) ha perso in parte il suo talento, ma vive oggi una sorta di rinascimento. Anche se molto resta da capire circa il suo funzionamento. Quel che è certo è che il suo legame con il mondo odoroso permea il nostro quotidiano, non solo quando si tratta di annusare una bistecca. Capirne i meccanismi è quindi utile non solo per approcciarsi all’assaggio più consapevolmente, ma soprattutto per comprendere cose di noi e di questo tipo di intelligenza tanto invisibile quanto potente. SSiore e ssiori, oggi vi parlo di olfatto, odori e cervello, mettetevi comodi.

CENNI DI FISIOLOGIA Se l’anatomia dell’olfatto è abbastanza chiara, fisiologia e genetica rimangono parecchio oscure. Ciò che definiamo odore è costituito da diverse molecole chimiche che entrano nelle nostre narici con l’aria che respiriamo e raggiungono le pareti più profonde del nostro naso, dove sono presenti cellule specializzate alla ricezione degli odori. Si tratta di veri e propri neuroni (si, come quelli che abbiamo nel cervello) dotati di terminazioni specializzate chiamate ciglia che sporgono sull’epitelio olfattivo – l’avamposto di ricezione degli odori, posizionato all’altezza delle tempie sulla sommità del nasosulle quali sono localizzati i recettori olfattivi. Sulla superficie delle ciglia si sono delle proteine, e proprio a queste si legano le molecole odorose. Un odore raggiunge l’epitelio viaggiando su due diversi binari: quello ortonasale, quando annusiamo qualcosa, e quello retronasale, quando quel qualcosa lo stiamo anche assaggiando e le molecole odorose risalgono la rinofaringe, il tubicino che collega la gola al naso. Le sensazioni percepite per via retronasale sono quelle che, un po’ impropriamente, vengono spesso definite retrogusto. Se si parla di gusto in senso stretto (cioè l’organo di senso preposto a percepire i sapori), l’unica sensazione a lasciare un ricordo di sé dopo le deglutizione è l’amaro. In buona parte si tratta di odori appunto, sarebbe quindi più corretto parlare di sensazioni retrolfattive -se ci si sta riferendo alla componente aromatica del cibo- oppure di sensazio10 - BBQ4All MAGAZINE

ni gusto-olfattive. Uno degli errori più comuni che facciamo quando descriviamo le proprietà sensoriali del cibo è proprio quello di confondere un odore con un sapore. Il fatto è che proprio in bocca tutte le sensazioni tendono a mescolarsi e diventa complicato stabilire cosa sia odore, sapore o sensazione tattile. Anche la scuola anglofona all’assaggio non ci aiuta granché, perché utilizza largamente il termine flavour riferendosi appunto all’insieme di odori e sapori percepiti durante l’assaggio. Secondo questa classificazione il flavour di chessò, “arrostito”, può riferirsi sia all’insieme di aromi di tostatura, grassi fusi e Maillard ma magari anche all’amaro, che è appunto una sensazione gustativa e non un odore. Il contesto fortemente sinestesico in cui avviene l’assaggio non ci aiuta a capire chi fa cosa e a scomporre le sensazioni che ci restituisce il cibo. Volete provare a fare un esperimento? Tappatevi il naso, prendete una caramella alla frutta e, sempre con il naso tappato, provate a descrivere la componente aromatica. Nulla? Ora stappate il naso, meglio vero? Non appena il flusso d’aria tornerà a fluire avvertirete anche l’aroma, quello che ha evidentemente un ruolo da protagonista quando si tratta di appetibilità e gradimento di un cibo, ma è così interconnesso al resto da sfuggire ad una semantica corretta.


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IL MECCANISMO PERCETTIVO: UNA MATASSA INGARBUGLIATA E IN BUONA PARTE SCONOSCIUTA Ciò che nel nostro cervello trasforma un segnale olfattivo in percetto è una faccenda parecchio ingarbugliata. Ciò che insomma definiamo percezione e codifica dell’informazione olfattiva è legato a enne variabili genetiche, ambientali, culturali e ascrivibili alla natura stessa dell’odore. La valigia genetica che riceviamo in eredità determina il numero di neuroni olfattivi, e non tutti nasciamo con la stessa dotazione. Gli studi ci suggeriscono che nell’uomo sono presenti tra i 6 e i 9 milioni di neuroni olfattivi (alcune fonti parlano di 10). Quindi nascere più o meno dotati è correlato ad una maggiore capacità di percezione degli odori. Non tutte le molecole si legano a tutti i recettori, e non allo stesso modo. Non è del tutto chiaro come avvenga esattamente l’interazione molecola-recettore, per ora la teoria più accreditata è quella di una sorta di meccanismo “chiave-serratura”. La chiave (molecola) apre la serratura (recettore) che ha una forma complementare. Si sa che ogni neurone olfattivo esprime un solo tipo di recettore, quindi è una specifica chiave, ma non si conoscono ancora i meccanismi genetici in base ai quali viene “scelto” 12 - BBQ4All MAGAZINE

quale recettore esprimere. Dobbiamo poi considerare che un odore è quasi sempre il risultato di più molecole insieme che attivano in modo diverso recettori diversi secondo una sorta di codice. Indovinate? Non si conosce nemmeno il codice. Sappiamo che talvolta sono le caratteristiche delle molecole –ad esempio la loro forma molecolare e concentrazione- a giocare un ruolo chiave in questo processo. La prima parte di decodifica di un odore segue una via definita anatomicamente dalle connessioni tra i neuroni olfattivi e i due bulbi olfattivi. Nel bulbo i prolungamenti dei neuroni olfattivi con lo stesso tipo di recettore convergono in strutture più complesse e organizzate chiamate glomeruli. La combinazione di glomeruli che si attiva con un odore riflette il tipo di recettori che sono stati attivati. L’informazione viene poi trasmessa direttamente alla corteccia olfattiva dove invece pare non ci sia una “mappa” che rifletta ciascun tipo di odore. Capire come la rete di neuroni nella corteccia decodifica questi messaggi è uno dei grandi grattacapi dei ricercatori, perché è proprio qui che le molecole si trasformano in puzze, profumi, ricordi… Se parliamo di relazione tra variabili genetiche e composti aromatici un esempio calzante è quello del coriandolo fresco. Vi piace o siete anche voi


come la sottoscritta che lo ha incasellato tra le cose disgustose alla voce “odore di cimice”? Pare che alla base dell’estrema variabilità di percezione, quindi all’apprezzamento o avversione per il prezzemolo cinese, vi siano non solo ragioni socio-culturali ma appunto genetiche. Uno studio del 2012 ha analizzato il DNA di circa 30.000 soggetti, riscontrando come una variazione su un cromosoma all’interno di un gruppo di geni olfattivi, fosse significativamente associata alla percezione dell’odore di “sapone” che molti utilizzano per descrivere il coriandolo. Alcune molecole aromatiche che lo caratterizzano appartengono alla famiglia delle aldeidi insature, in particolare l’E-(2)-decenale ha un odore particolarmente disgustoso, emesso come sostanza repellente da alcuni insetti, tra cui le cimici appunto. Un studio di nutrigenomica su soggetti caucasici ha mostrato che anche un’altra variante su un cromosoma dei geni dei recettori olfattivi è fortemente associata alla repulsione per il coriandolo. Un’ipotesi plausibile è insomma che chi odia il coriandolo sia più geneticamente sensibile all’odore di queste molecole. A queste variabili dobbiamo poi aggiungere altri inghippi, come iposmie e anosmie specifiche (ridotta e totale incapacità di percepire un odore), deviazioni del setto nasale, poliposi, allergie e più in generale tutti gli stati infiammatori che possono compromettere la percezione degli odori. Ci sono poi variabili di tipo ambientale, legate insomma al contesto. Annusare una bistecca in un luogo silenzioso, privo di odori (che non siano quelli della ciccia in questione) e più in generale dove non vi siano distrazioni di sorta, ci mette in una condizione di maggiore attenzione, va da sé che anche la percezione migliori. E per completare il puzzle dobbiamo aggiungere variabili di

tipo culturale. Le esperienze che abbiamo collezionato e il modo in cui abbiamo memorizzato quello specifico odore rendono il nostro percetto squisitamente soggettivo. A volte sono solita affermare, un po’ provocatoriamente, che non esistano puzze e profumi assoluti, ma sia più una faccenda legata a come noi abbiamo memorizzato quell’odore, alla situazione e all’eventuale emozione che ha accompagnato quel momento. E così, l’incenso in un Barolo può far inorridire l’assaggiatore al quale ricorda il funerale del nonno, e il sentore di puzzola dipingere un sorriso sul volto in chi ricorda la gita in campagna con i genitori. Questo si lega alla parte descrittiva, grande cruccio dei degustatori. Attribuire un’etichetta semantica ad un odore è parecchio complicato, di certo è impossibile dare un nome ad un odore se non si ha familiarità con quell’odore e molto spesso, anche di fronte a qualcosa di già sentito, abbiamo difficoltà a trasformare quella sensazione in parola. Una delle frasi più frequenti che mi sento ripetere da quando mi occupo di formazione all’assaggio è “mi ricorda qualcosa ma non so descrivere cosa”. Il fatto è che siamo tarati su un linguaggio principalmente visivo e tattile. Se io vi chiedessi di pensare all’odore di fragola molto probabilmente il vostro cervello inizierebbe a costruire un’immagine mentale della fragola. Per capire e identificare una cosa abbiamo bisogno di visualizzarne l’immagine, altrimenti quella cosa non solo resta invisibile, ma diventa in qualche modo inesistente. Un odore non ha forma, colore, consistenza. C’è, il più delle volte lo subiamo (non possiamo non respirare), ma sfugge al concetto stesso di tangibilità. È effimero per natura.

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LA VIA DEL SEGNALE OLFATTIVO: UNA CORSIA PREFERENZIALE DRITTA AL CENTRO DELLE EMOZIONI Come se non bastasse il segnale olfattivo viaggia su una corsia preferenziale rispetto agli altri sensi. È come se percorresse velocemente un’autostrada in corsia d’emergenza quando c’è coda, senza nemmeno fermarsi a pagare il pedaggio. Arriva prima, senza tappe intermedie e dritto al centro delle nostre emozioni. È ovviamente una faccenda Darwiniana, per gli animali captare un odore significa individuare chi lo ha prodotto, quindi fuggire se è un predatore, prepararsi a banchettare se è cibo o accoppiarsi. Non ci sono tappe intermedie, sono i neuroni olfattivi a recepi14 - BBQ4All MAGAZINE

re gli odori e mandare l’informazione come segnale nervoso al bulbo olfattivo, e da qui alla corteccia olfattiva e alle aree limbiche. Questa parte del cervello, chiamata anche rinoencefalo, è quella evolutivamente più conservata tra le specie animali e vi risiedono strutture cerebrali fondamentali per la regolazione dei ritmi vitali e la sopravvivenza. In quest’area del cervello troviamo la corteccia entorinale, l’amigdala, l’ipotalamo (semplificando le aree che regolano i cicli umorali e ormonali) anatomicamente molto vicine all’ippoccampo, responsabile di fondamentali meccanismi di apprendimento e memoria. Noi mammiferi visivi abbiamo in parte modificato questo schema, nel nostro caso il legame odore-naso-cervello agisce


le sovrapposizione tra i circuiti cerebrali che decodificano gli odori e quelli che processano le emozioni e la memoria, l’evento venga “fissato” nella nostra testa in associazione all’odore percepito, quindi annusando nuovamente quello stesso odore si ricordi l’evento e si rievochi lo stato d’animo ad esso associato. Di fatto accade più facilmente che quelle evocate siano sensazioni ed emozioni che poi, come dicevo poche righe fa, sia più difficile trasformare in parole. E QUINDI, COME SI DIVENTA UN “NASO”? Chiariamo subito una faccenda: non esistono i nasi assoluti. È vero che il DNA ci rende più o meno dotati ma per il resto si tratta per lo più di un fatto culturale, di attenzione e allenamento. Banalmente a volte si tratta di prestare attenzione a quello che annusiamo, cosa che difficilmente avviene nel quotidiano caotico in cui siamo immersi. Dovremmo poi smettere di dare così importanza all’aspetto, potrei raccontarvi dozzine di esperimenti che hanno dimostrato quanto sia infinocchiabile il nostro naso (o meglio il nostro cervello) proprio perché tarato su schemi di apprendimento tendenzialmente visivi. Impariamo a fidarci di quello che ci suggerisce l’olfatto, indipendentemente da quello che ci suggerisce la vista. Collezionate esperienze (non solo alimentari ovviamente) e cercate di memorizzarle, il gioco sarà più facile se quell’esperienza avviene in un contesto emotivamente significativo. Anche acquisire un vocabolario condiviso ovviamente aiuta, è ciò che di fatto avviene nel training di ogni assaggiatore, molto spesso aiutandosi con appositi supporti semantici. Insomma, se dobbiamo imparare a descrivere le caratteristiche aromatiche di un taglio di carne cruda, dovremo necessariamente annusare quella carne cruda (di ottima e pessima qualità), avere quindi modelli qualitativi di riferimento e un vocabolario condiviso con qui descrivere il percepito. Ci sono percorsi specifici a riguardo? Si, ma magari ve ne parlerò più avanti. non tanto guidando direttamente questi comportamenti sociali, ma coinvolgendo le nostre emozioni e il loro ricordo. Insomma, non ci basta annusare qualcuno per decidere di accoppiarci, seguiamo una serie di filtri socio-culturali (ma l’odore della persona amata ci fa subito emozionare, avoja). È facile intuire come il coinvolgimento degli odori nella nostra sfera emozionale abbia un ruolo fondamentale nella costruzione dei ricordi. Anche in questo caso però si tratta di processi poco conosciuti.

Per approfondire: - Il Senso Perfetto, Anna D’Errico - Codice Edizioni - The Scent Of Desire, Rachel Herz - HarperCollins Publishers Inc

Tornando agli odori, sembra il loro coinvolgimento aiuti a fissare meglio quei ricordi legati a esperienze molto emozionanti. L’ipotesi possibile è che visto lo stretto legame e parziaAGOSTO 2020

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PORTFOLIO GASTRONOMICO a cura di MICHELA BONGIORNI

viaggio intorno alla CUCINA Come raggiungere mete esotiche senza muoversi da casa

Durante i lunghi mesi del lockdown, mentre lavoravo da casa e per distrarmi dai pensieri brutti cucinavo tutto il cucinabile, ho riscoperto anche l’amore per la lettura – quello per il jogging è un’altra malattia da cui non sono stata contagiata -. Fra i vari libri che ho riletto in quel periodo, uno dal nome curioso ha ispirato il titolo di questo articolo: Viaggio intorno alla mia camera, di Xavier de Maistre (1794) scritto durante gli arresti domiciliari che lo scrittore doveva scontare come punizione per aver partecipato a un duello. Fra i tanti spunti di riflessione, questo libro mi ha insegnato a vivere l’ambiente, in cui ero costretta - come tutti- a vivere quotidianamente, con lo stesso spirito del viaggiatore. Ed è proprio quello il momento in cui mi sono resa conto che le tanto agognate e irraggiungibili mete paradisiache che popolavano i miei sogni sarebbero potute venire da me, attraverso le ricette tipiche dei luoghi. Un viaggio attorno alla cucina (e al kettle) dunque, per scoprire odori, sapori, tradizioni molto distanti, eppure così raggiungibili e a portata di palato. L’idea era così convincente che abbiamo pensato di condividerla con voi e di prendervi per mano per condurvi in un viaggio gastronomico senza farvi muovere di un cm dalle vostre griglie. Ogni viaggio, però, inizia conoscendo il paese in cui sta andando: quindi eccovi una breve guida per ripassare un po’ di storia e di geografia, che non fa mai male (ho volutamente escluso la Sicilia, presente come meta delle vacanze con ben due ricette di questo Magazine, perché do per scontato che sappiate dove si trovi e quale storia abbia). Mettetevi seduti comodi, che partiamo. AGOSTO 2020

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AUSTRALIA Provate a chiedere ai vostri conoscenti quale sia la capitale dell’Australia. Scommettiamo che la maggioranza risponderà Sidney o Melbourne? In effetti, sono in molti a sapere ben poco di questo enorme continente. Molti furono gli europei che tra la fine del 1500 e la prima metà del 1600 avvistarono il nuovissimo continente, senza però riuscire concretamente a “scoprirlo”. Tuttavia già i cartografi del XVI secolo si convinsero dell'esistenza di una terra australe la cui massa doveva necessariamente esistere quale naturale e ovvio contrappeso a quella emersa dell'emisfero boreale. Nel 1557 Abramo Ortelio costruì un mappamondo a proiezione ovale dove era presente una Terra Australis Nondum Cognita (Terra Meridionale non ancora scoperta). Qual era il problema? Che egli riportava, con estrema fantasia, nomi di fiumi, campagne e posti, facendone un luogo reale, incredibilmente grande e ricco di materie prime preziose. Allettate dalle ricchezze che la Terra Australis Incognita si diceva promettesse, le potenze europee effettuarono molte spedizioni esplorative, che si risolsero in altrettante clamorose sconfitte. Furono solo i viaggi dell’inglese James Cook alla fine del XVIII secolo a ridimensionare la realtà della terra australe, che scomparve dalla carte geografiche per lasciar posto all’Australia vera e propria, luogo molto distante dalle fantasiose e affascinanti ipotesi che per tanto tempo avevano occupato la mente di geografi e di naviganti. Colonizzata dalla Gran Bretagna, che portò avanti un sistematico sterminio degli aborigeni -popolazioni di cacciatori e raccoglitori con uno stile di vita nomade che abitavano il territorio- , il continente divenne una nazione nel 1901 quando le sei colonie britanniche costituirono la Federazione dell'Australia stabilendo la capitale a Canberra. Attualmente la sua popolazione è di venticinque milioni di abitanti, distribuiti perlopiù sulle coste. Tagliata quasi esattamente a metà dal Tropico del Capricorno, il continente australiano ricade nel dominio dei climi tropicali aridi. Grande esportatore di minerali, è uno dei maggiori produttori di lana, latticini e frumento. Per quanto riguarda le abitudini alimentari, ovviamente i colonizzatori importarono piatti, materie prime e cultura gastronomica. L’Australia è uno dei maggiori produttori di carne bovina al mondo (qualcosa mi dice, però, che questo lo sappiate già) e la cottura alla griglia è una tradizione ormai radicata sul territorio. Tuttavia la cucina australiana non è solo questo: dallo street food ai ristoranti di alto livello, dalla produzione vinicola di qualità alla fusione di stili diversi, sono molti gli appuntamenti enogastronomici durante l’anno nati nel nuovissimo continente. I prodotti di mare e di terra del Queensland sono protagonisti del Noosa International Food and Wine Festival a Maggio; ad Adelaide, ogni due anni, chef e produttori si danno appuntamento a Tasting Australia in Aprile. ll Melbourne Food & Wine Festival ospita ben 200 eventi gourmet ogni anno tra febbraio e marzo. Infine a Ottobre l’Orange Wine Festival celebra l’omonima regione nell’entroterra di Canberra. A proposito, ora ve lo ricordate che è proprio quest’ultima la capitale, vero? C’è da dire che in effetti questa scelta arrivò al termine di una lunga disputa tra Sydney (che rimane comunque la città più popolosa) e Melbourne (all’inizio captale provvisoria), quindi siamo tutti un po’ giustificati se ci confondiamo. Comunque, adesso siamo pronti per il Milionario. 18 - BBQ4All MAGAZINE

BRASILE Torniamo a parlare di capitali? Probabilmente quella del Brasile è più nota a un numero maggiore di persone rispetto a quella australiana, ma anche in questo caso se interrogherete qualche amico sull’argomento non difficilmente vi sentirete rispondere “Rio de Janeiro”; in ogni caso, diciamocelo, la geografia è uno di quegli argomenti su cui tutti facciamo più fatica (al netto di molti appassionati che si ricordano i nomi dei più piccoli corsi d’acqua della più piccola regione del mondo -e sono sicura che tra voi ci sarà qualcuno super esperto: ecco, per voi non vale, non sentitevi presi in causa-). Abitato fino al 1500 da popolazioni indigene autoctone, il Brasile fu raggiunto proprio in quell’anno da Pedro Alvares Cabral, navigatore che spalancò le porte alla colonizzazione da parte del Portogallo. Nel 1549 la corona portoghese assunse direttamente il governo dei territori brasiliani. Intorno alla metà del 1700, nonostante le molte riforme, il paese del Sud America cominciò a mostrare una certa ribellione verso la dominazione coloniale; l’insofferenza era mostrata sia dalle popolazioni meno abbienti che dalle elìte creole (creoli venivano chiamati tutti coloro che nascevano in America da genitori europei, specie se provenienti dalla Penisola iberica). Tuttavia, l’indipendenza venne proclamata nel 1822, senza particolari lotte nazionali. Il paese conobbe una fase di profondo sviluppo verso la metà del 1800; durante questo periodo, per effetto di una intensa importazione di schiavi africani destinati al lavoro nelle piantagioni, la società brasiliana acquisì il profilo multietnico. Un colpo di stato militare nel 1889, però, fece sì che alla monarchia subentrasse la repubblica: successivamente il Brasile si dette una costituzione federale sul modello di quella degli


Stati Uniti. Seguì un periodo di stabilità economica, cessata con la crisi del 1929 che provocò grande tensione sociale tra la classe operaia e i ceti medi, e che portò successivamente al potere Getulio Vargas e il suo regime di stampo fascista. Un altro colpo di stato nel 1964 instaurò nel paese una vera e propria dittatura militare che cessò di fatto solo nel 1985, quando al governo tornarono i civili. Oggi conosciamo il Brasile come un paese in via di sviluppo, con una sostanziale stabilità anche se con profonde difficoltà economiche. Non possiamo non pensare alle baraccopoli poste alle periferie delle città, conosciute come favelas, in cui miseria, criminalità e profonda mancanza di igiene testimoniano le inaccettabili condizioni di vita di oltre undici milioni di cittadini. Il Brasile però è molto altro. Cedendo un po’ agli stereotipi siamo costretti a ricordare gli straordinari paesaggi naturali, la varietà di piante e animali selvatici della Foresta Amazzonica, le spiagge, il carnevale e i fondoschiena più belli del mondo. A tal proposito, immagino che molti dei lettori potrebbero essere interessati al concorso che ogni anno si svolge a San Paolo per eleggere Miss BumBum (esiste anche una pagina Instagram, correte!) Torniamo a parlare però della cosa che – spero- vi interessi più di Miss BumBum (o almeno altrettanto): la cucina locale. Essendo nata dall’integrazione fra le tre culture, quella europea dei conquistatori, quella locale degli autoctoni e quella africana degli schiavi, è certamente ricca di sapori e di ingredienti. Alla base della gastronomia brasiliana c’è sicuramente l’immancabile arroz com feijão (riso con i fagioli). Molto forte è anche la tradizione della carne cotta sul fuoco: non si può non menzionare il churrasco (ne abbiamo parlato qualche numero fa) la cui preparazione regina, la Picanha, è anch’essa una vecchia amica di tutti i nostri lettori e degli affezionati clienti del Megastore. Ovviamente, ogni regione del Brasile ha i suoi piatti tipici: se a Rio è la feijoada (vedi più avanti) a fare la parte della protagonista, a Bahia sono sicuramente i frutti di mare e L'acarajé un impasto di fagioli fritto nell’olio di dendê (una palma tipica brasiliana) con cipolla, gamberi e peperoncino. Non dimentichiamo poi i finger food: empadinhas (tortine di pasta frolla che vengono riempite con verdure e gamberi/ pollo) coxinha de galinha (polpettine di carne di pollo), risoli (mini panzerotti ripieni di piselli, gamberi o pollo, e cuore di palma) pão de queijo (piccoli panini di tapioca al formaggio), bolinhos del bacalhau (frittelle di baccalà). E molti altri. Non vi resta che farvi un giro da quelle parti per scoprire quanti altri sapori può riservarvi quella variegata gastronomica. Mi sembra di dimenticare qualcosa… ah sì, la capitale è Brasilia, città nata appositamente per assumere questo ruolo nella parte centro-orientale dello Stato di Goiás, nel Planalto Central, tra il 1956 ed il 1960. Fino ad allora la capitale era stata Rio de Janeiro, quindi anche in questo caso siamo giustificati se ci confondiamo un po’. O no? CANARIE Lasciamo il Brasile e diamoci appuntamento nelle Isole Fortune (Insulae Fortunatorum) di Tolomeo, conosciute da noi come Canarie, un gruppo di isole situate nell’Oceano Atlantico poco distante dalla costa occidentale africana. Lanzarote, Fuerteventura, Gran Canaria, Tenerife, Gomera, Palma e

Ferro sono le maggiori; Alegranza, Graciosa, Montaña Clara, Roque del Este, El Roquete, Isleta del Rio, I. de Lobos sono le minori. In tutto quattordici. Quasi sicuramente conosciute fin dai tempi dei Fenici, descritte dai poeti latini Plinio e Plutarco come sede dei Campi Elisi, durante il Medioevo furono praticamente dimenticate, perfino dai navigatori arabi che pare non le raggiungessero mai durante le loro spedizioni. Solo nei primi del XIV le isole tornarono ad esser visitate ed esplorate. Il Petrarca nel De vita solitaria parla di un'armata genovese che avrebbe compiuto la conquista delle Canarie prima del 1304. Tuttavia non si hanno testimonianze tangibili di questa vicenda, né di altri leggendari racconti sorti intorno alla loro ri-scoperta. Nel 1341 partì una spedizione organizzata da Alfonso IV re di Portogallo, a scopo di ricognizione commerciale. Abbiamo un’eccezionale testimonianza di questa spedizione lasciataci dal Boccaccio nel De Canaria et insulis reliquis ultra Hispaniam in Oceano noviter repertis. Nel 1402 Bethencourt guidò una spedizione che valse ad accrescere le conoscenze sulle Canarie: egli sbarcò sulla costa settentrionale di Lanzarote e conquistò per la Castiglia Fuerteventura e Ferro (Hierro). Il successivo assoggettamento compiuto dagli Spagnoli, che sterminarono la popolazione locale e colonizzarono tutte le isole, portò a una sistematica ricognizione dal punto di vista topografico, naturalistico e archeologico. Sull’origine del nome Canarie non si hanno dati certi; si sa invece, grazie anche all’opera del Boccaccio e a quella dei molti cronisti, degli storici e degli esploratori, che prima della conquista spagnola le isole erano abitatee dai Guanci, una popolazione primitiva che alloggiava in capanne di pietra o in caverne scavate nel tufo. Erano allevatori, conoscevano la cerealicoltura e la ceramica ma non la metallurgia. Non praticavano la navigazione al punto di non saper nemmeno costruire una zattera, ma avevano re, principi e dinastie, una classe sacerdotale ben organizzata e una casta di guerrieri, come una vera e propria società urbana. Le donne godevano degli stessi diritti degli uomini (e su questo punto, permettetemi di dirlo, faccio fatica a definirli “primitivi”) e la trasmissione ereditaria della regalità avveniva per via matrilineare. Alcuni cronisti riportano anche che essi, molti dei quali alti, biondi, di carnagione chiara e con gli occhi azzurri, sostenevano di provenire originariamente da una grande isola scomparsa nell’Oceano, il che alimentò moltissimo il mito di Atlantide. Tutt’oggi c’è molto mistero attorno a questa popolazione, poiché a parte alcune incisioni simboliche e indecifrabili all’interno delle caverne, essa non ha lasciato nessuna testimonianza scritta della sua storia. Queste isole sono conosciute ai nostri giorni soprattutto come località turistica e come metà per i pensionati decidono di dare una svolta alla loro vita e di trasferirsi in questo arcipelago spagnolo. Il clima, tipicamente marittimo, è caratterizzato da una debolissima escursione annua specie sulle coste; l’unico inconveniente è dato dai venti che spirano dal Sahara e che spesso elevano bruscamente le temperature e portano le polveri del deserto. La flora locale è molto ricca e variegata, la fauna è di tipo mediterraneo. La cucina, punto di incontro tra numerose culture, risente sia della tradizione tipicamente spagnola, sia di quella africana. La maggior parte delle ricette locali è composta da un insieme di sapori che hanno trovato nel tempo una combinazione AGOSTO 2020

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molto particolare. Gli alimenti base della gastronomia canaria sono principalmente tre: il gofio, il mojo e le papas arrugadas. Il gofio è una particolare farina scura (spesso di mais) utilizzata nei più svariati casi: per il dolci o per il pane, nei brodi di pesce, nelle ricette a base di carne e verdure. Il mojo è una salsa a base di aglio, erbe aromatiche, sale e aceto. Può declinarsi in molte varianti, se si aggiungono ingredienti diversi come il cumino, il peperoncino, il coriandolo e così via. Le papas arrugadas sono patate novelle cotte con tutta la buccia in acqua di mare. Per quanto riguarda il consumo di carne ricordiamo il Pata asada (vedi più avanti), il Conejo en Salmorejo (coniglio marinato), la Morcilla (sanguinaccio con uva passa e frutta secca), il Puchero Canario (una zuppa molto saporita a base di carne e verdure), il Mojo cochino (uno spezzatino di maiale con salsa mojo); ovviamente non possiamo dimenticare che la ricchezza della pesca nell’arcipelago consente di assaggiare molti frutti di mare e altrettanti pesci. Cito due piatti in particolare: Embarrado de Atun Fresco (Tonno fresco marinato) e il Salpicon de pescado (insalata di frutti di mare). Non so voi, ma io avrei veramente tanta voglia di partire... ISOLE CAYMAN Con un balzo ci spostiamo (ma quanto sarebbe bello poterlo fare davvero!) nel mar dei Caraibi, a Sud di Cuba e a nord-ovest della Giamaica. Stiamo parlando di un gruppo insulare delle Piccole Antille composto da tre isole (Grand Cayman, Little Cayman e Cayman Brac) il cui capoluogo è George Town (dai questa era facile!). Costituiscono un Territorio britannico d'oltremare e sono contemplate nella lista delle Nazioni Unite dei territori non autonomi, cioè sono ancora soggette a colonialismo. Furono scoperte da Colombo in persona nel 1503 e passarono sotto la dominazione inglese nel 1670 con il Trattato di Madrid. Furono successivamente sottoposte alla colonia della Giamaica che cessò nel 1959 in seguito alla creazione della Federazione delle Indie Occidentali Britanniche. Nel 1962, le Cayman tornarono a dipendere direttamente dalla corona britannica. Nel 1972 fu redatta una nuova costituzione e fu introdotto il dollaro delle Cayman, in sostituzione di quello giamaicano. Sono probabilmente il paradiso fiscale più famoso al mondo; si dice che a Grand Cayman siano registrate più imprese che abitanti. Le attività bancarie e finanziarie contribuiscono per circa 1/3 alla formazione del PIL, favorite dalla stabilità politica e dall’assenza di tassazioni e restrizioni sugli scambi con l’estero. Oltre a non avere imposte sulle società, le Isole Cayman non impongono tasse dirette ai residenti. Le isole sono anche una meta turistica, certamente: ricordatevi che siamo pur sempre ai caraibi, anche se George Town è piena di avvocati e imprenditori che lavorano in grandi edifici di vetro parcheggiano le loro Ferrari a due passi dalle spiagge. Il clima è tropicale: la stagione delle piogge va da Maggio a Ottobre, quella secca da Novembre ad Aprile. La flora e la fauna sono ovviamente ricche e variegate: fra le altre cose, ricordiamo che le Cayman possiedono cinque sottospecie di farfalle, che possono essere ammirate al parco botanico dell’isola maggiore. Il fatto che Colombo avesse nominato questo luogo Las Tortugas, per la quantità di tartarughe marine che popolano le loro acque, è rivelatore di quanto esse non siano solo un paradiso fiscale, ma anche turistico: sono molto amate da chi pratica immersioni, grazie alla vicina barriera corallina e agli incantevoli fondali marini. Il bagno con le razze è una delle attività 20 - BBQ4All MAGAZINE

più consigliate ai visitatori. Dal punto di vista culinario, sono i caraibi a fare la voce grossa: si fa largo uso nelle ricette di noce di cocco, banana, mango, manioca e patate; ovviamente non può mancare il pesce, in prevalenza tonno, dentice e molluschi. L’ingrediente che merita un discorso a parte è la carne di tartaruga marina che viene servita in zuppe, stufati oppure in tranci brasati. Il Lime Pepper Seasoning è una miscela aromatica e piccante molto utilizzata da queste parti per insaporire carne e pesce prima della cottura alla griglia (vedi più avanti). Ricordiamo infine due grandi eventi gastronomici annuali che vengono organizzati nell’arcipelago e che offrono la possibilità di gustare la cucina caraibica, declinata anche in versione gourmet e stellata: il Cayman Cookout, un incontro fra chef di fama mondiale, e il festival Taste of Cayman, accompagnata da musica e fuochi d’artificio. Preparate il Ferrarino, che si parte.

MADAGASCAR Stavolta è davvero difficile: sapere il nome della capitale del Madagascar - soprattutto saperlo pronunciare correttamente - è una di quelle cose che potrebbero svoltarvi la serata con una donna o con un bel fanciullo. Quindi esercitatevi e ripetete con me: Antananarivo. No, non è una supercazzola. Siamo nell’Oceano Indiano, a Sud Est del continente africano, da cui ci separa il Canale di Mozambico. La popolazione malgascia è il prodotto di una mescolanza, durata a lungo, tra due popoli arrivati dall’Africa orientale e dall’Indonesia intorno al 2000 a. C. circa, che dette vita a due categorie distinte: i Vazimba, popolo di cacciatori e raccoglitori stabilitosi nelle foreste delle regioni centrali, e i Vezo, popolo del litorale dedito invece alla pesca. Da queste prime due popolazioni iniziali sono nate nel corso dei secoli diciotto etnie disseminate in tutto il territorio, ognuna con un dialetto e una cultura che le differenzia dalle altre. Molto probabilmente il primo europeo ad arrivare in Madagascar fu il portoghese Diego Dias nel 1500. Tra il 1600 e il 1619,


diversi missionari cattolici portoghesi tentarono nell’isola un’opera di evangelizzazione, senza successo. il Madagascar diventò in quel periodo il bersaglio di tentativi di insediamento di diversi Stati europei, ma furono i francesi che imposero il loro protettorato sull'isola nel 1885. Nel 1958 il paese, rinominato Repubblica Malgascia, divenne autonomo all’interno della Comunità Francese e nel 1960 ottenne l’indipendenza piena. Pur essendo in crescita dal 2011, il Madagascar rimane comunque un paese in cui il 70% della popolazione vive sotto la soglia della povertà. La corruzione dell'amministrazione pubblica, la mancanza di certezza del diritto, l’arretratezza della legislazione fondiaria certamente hanno contribuito nel corso degli anni a mantenere questa situazione di grave difficoltà. L'economia nazionale è basata essenzialmente sull'agricoltura (la coltura del riso occupa gran parte delle superfici coltivate), sull'allevamento del bestiame e sulla produzione di oggetti di artigianato. La pesca rappresenta un settore importante dell'economia malgascia mentre l’industria è poco sviluppata. Il turismo è in crescita, anche è esposto a fluttuazioni a seconda della stabilità politica del paese. Un discorso a parte va fatto per la vaniglia. Il Madagascar è responsabile della metà di tutta la produzione mondiale di questo aroma molto richiesto; negli ultimi anni, a causa della crescita della domanda, delle avversità climatiche che hanno ostacolato i raccolti e delle numerose attività illegali sorte attorno alla produzione, la coltivazione di vaniglia ha avuto numerose conseguenze negative sull’economia e sulla stabilità del paese, poiché ultimamente è al centro di riciclaggio, corruzione ed episodi di violenza (in un articolo uscito sul Guardian nel 2018, si racconta di diversi omicidi sommari avvenuti per tentate rapine ai danni degli agricoltori che si sono fatti giustizia da soli a colpi di machete.). Secondo un rapporto pubblicato nel 2017 da Cook’s Vanilla i prezzi di questo ingrediente così richiesto stanno diventando insostenibili e creeranno gravi conseguenze per l’economia malgascia, visto anche l’incremento dell’utilizzo da parte di molte aziende dell’aroma artificiale ai danni di quello naturale. Torniamo però al nostro viaggio fra i sapori e i piatti tipici di queste mete esotiche: per quello che riguarda la cucina, in molte abitazioni malgasce di oggi il pasto è costituito sempre da un Laoka, un piatto di carne o pesce accompagnato da verdure di contorno e da un’abbondante ciotola di riso bianco aromatizzato al cocco. Il piatto nazionale, un tempo considerato solo per ricchi, è la Romazava, una specie di stufato, il più delle volte preparato con la carne di zebù se possibile (in alternativa, col manzo) insaporito con pomodoro, cipolla, ginseng e brède mafana, una specie di pianta erbacea aromatica della famiglia delle Asteraceae. Il Ravitoto sy henakisoa è maiale fatto cuocere lentamente e poi saltato in padella insieme a aglio e foglie di manioca (griller, le vostre menti non stanno lavorando alacremente pensando a come adattare un piatto del genere alla nostra passione?). L’influenza della cucina francese in quella malgascia è sicuramente presente; la zuppa di verdura Iasopy ne è un esempio. Se avete previsto un viaggio in Madagascar, specie da novembre in poi, dovete assaggiare la frutta tropicale tipica del luogo. Fra gli altri, provate il mangostano, un frutto esotico che cresce soltanto vicino all’equatore ed è uno fra i più saporiti del pianeta. E non dimenticate di provare il litchi. E adesso salite a bordo che il viaggio continua.

POLINESIA Parliamo di un insieme di isole e arcipelaghi situato nell’Oceano Pacifico centromeridionale. I gruppi più occidentali formano invece la Melanesia e la Micronesia. Dite Polinesia e pensate a Thaiti e Bora Bora, giusto? In realtà sono molti gli arcipelaghi che la compongono: Hawaii, Samoa, Tonga, Tokelau, Tubuai solo per dirne alcuni. Dunque, il termine Polinesia ha un significato etnologico più che geografico, e se la consideriamo da questo punto di vista comprende anche la Nuova Zelanda, i cui abitanti Maori appartengono appunto al gruppo cosiddetto polinesiano. A parte qualche eccezione, molte di queste isole sono ancora oggi occupate perlopiù da popolazioni aborigene, discendenti di gruppi già presenti su queste terre all’epoca della scoperta e della colonizzazione europea. Il che non significa che non abbiano comunque subito influenze esterne: la cristianizzazione, la diffusione di merci e stili di vita occidentali hanno al contrario profondamente cambiato le società locali. Le prime scoperte europee cominciarono nel 1521, quando l’esploratore portoghese Ferdinando Magellano giunse a Pukapuka, nell’arcipelago Tuamotu. Durante il XVII secolo, furono molti gli esploratori che giunsero fino alle isole polinesiane, ma ricordiamo l’olandese Jacob Roggeveen che scoprì Bora Bora, il francese Louis Antoine de Boungaville e l’inglese James Cook che giunsero invece a Tahiti. Nel corso del XIX secolo la marina francese, per procurarsi degli scali, si insediò nelle isole che costituirono l’Éstablissements français AGOSTO 2020

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de l’Océanie, ovvero gli Stabilimenti francesi d’Oceania, detti Polinesia francese dal 1957. Dal 1959 la Polinesia francese è divenuta territorio d’Oltremare. Negli ultimi anni gli abitanti locali tentano di raggiungere una propria autonomia e l’indipendenza economica dalla Francia ma si tratta di un processo molto difficile e lento, che potrebbe richiedere diversi decenni per potersi realizzare. Popolo semplice ed estremamente ospitale, i polinesiani sono particolarmente rilassati e vivono in base alla filosofia dell’ aita pea pea, cioè del vivere senza alcuna preoccupazione (se provate coi traduttori automatici, vi uscirà “aiutare la testa” o “aiutare testa a testa”, direi abbastanza chiaro come significato). Meta ideale per le vacanze (direi che rappresenta il prototipo di categoria dei viaggi esotici, facilmente riconoscibile in tutti i post su Facebook del tipo “abbandonatemi qui!” e “domani vorrei svegliarmi su questa spiaggia”), la Polinesia gode di un clima tropicale estremamente piacevole. Grazie agli alisei che soffiano durante tutto l’anno, la temperatura si aggira sempre intorno ai 27°C., soprattutto nella stagione invernale (che va da maggio a ottobre, quando il clima è più fresco e asciutto). Per quanto riguarda la cucina, il pesce- soprattutto mahi mahi, pesce spada e salmone- è uno dei protagonisti assoluti nei menu sia dei ristoranti più quotati (nei quali è accompagnato da vino francese), sia nei locali più semplici. È servito spesso crudo come il fafaru, marinato intero in acqua di cocco e condito con latte di cocco o come il kokoda che aggiunge il limone al condimento. Sono numerosi i tuberi locali, fra cui ricordiamo il taro, che è una sorta di patata. Così come la frutta: mango, lime, papaya lime, ananas, panassa (frutto dell’albero del pane). La cottura tradizionale di carni e pesci avvolti spesso nelle foglie di taro o di banano avviene sulle pietre roventi dell'Ahima'a, il forno tahitiano dalle antichissime origini, scavato nella terra. Per quello che riguarda i dolci, è il cocco a farla da padrone: da provare il Poe: pezzetti di banana o di papaya ridotti in purea, mescolati con farina di taro e semi di vaniglia. Il composto ottenuto viene racchiuso in foglie di banano, cotto in forno e servito con del latte di cocco. Insomma, anche da queste parti non si muore di fame, possiamo stare tranquilli e partire. Cosa dimentico? Ah sì, la capitale: Papeete. Lo so che un numero considerevole di italiani associa questo nome a una famosa spiaggia del litorale romagnolo e alle famigerate gesta di un famoso politico che faceva comizi tra un mojito e un fondoschiena, ma vabbé… REPUBBLICA DOMINICANA Ci spostiamo in America Centrale, nell’isola di Hispaniola tra Cuba e Puerto Rico. I primi abitanti di questo luogo meraviglioso furono i Taini, un popolo di stampo agreste amichevole e pacifico. Ovviamente sterminato e poi sostituito con schiavi neri africani dopo la conquista e la colonizzazione. Nel dicembre del 1492 Cristoforo Colombo raggiunse le coste di una delle isole delle Antille; dato che gli ricordava alcune regioni della Spagna, la chiamò Hispaniola (diciamolo, a quel tempo non avevano grande fantasia coi nomi). Qui Colombo ed i suoi uomini fondarono la prima città del Nuovo Mondo, Santo Domingo, che inizialmente dette il nome a tutta la colonia e che oggi è la capitale della Repubblica, conosciuta come la più antica città d’America, nella quale gli europei costruirono i primi monumenti, la prima fortezza e la prima chiesa 22 - BBQ4All MAGAZINE

(quest’area conserva ancora oggi più di trecento edifici storici ed è stata proclamata dall’UNESCO patrimonio culturale dell’umanità). Dopo il rapido processo di colonizzazione, nel 1697 venne stabilita ufficialmente la partizione dell’isola fra francesi e spagnoli, che fu l’origine dell’attuale divisione in due stati indipendenti: Haiti, che copre la parte occidentale e la Repubblica Dominicana, di lingua spagnola, che copre la parte orientale. Nel 1822 Haiti riuscì ad occupare anche la parte orientale, ma nel 1844 gli abitanti, guidati da Juan Pablo Duarte, si ribellarono e proclamarono la propria indipendenza fondando, dunque, la Repubblica Dominicana. Con l’arrivo del XX secolo la nazione incontrò diverse difficoltà sia dal punto di vista economico che politico, culminate in una guerra civile che vide l’intervento degli Stati Uniti nel 1965, per l’instaurazione della democrazia. A partire dall’anno successivo il paese ha goduto di una sostanziale stabilità politica. È impossibile visitare questo posto senza rimanere contagiati dalla musica e dal Merengue. Covid -19 permettendo, ogni anno a Dicembre al Malecòn di Santo Domingo, conosciuta come la più grande discoteca del mondo, si festeggia il Natale ballando. Sarebbe ridondante parlare dettagliatamente della bellezza di flora e fauna dominicane - la zona è ricca di riserve naturali e di luoghi incontaminati che speriamo rimangano tali per molto a lungo; ah, se potete visitare questi posti incantevoli a novembre, non perdetevi lo spettacolo delle balene che giungono dalle regioni artiche sino alla Baia di Samanà e al Banco de La Plata per poter partorire- dunque, passiamo subito alla cucina locale. Nominata capitale della cultura gastronomica dei Caraibi dall’Accademia ispanoamericana della Gastronomia e dall’Accademia Reale spagnola, le Repubblica Dominicana è caratterizzata – a livello culinario- da una mescolanza di sapori che trova le sue radici in differenti culture: quella dei Taini, quella spagnola e quella africana. A questa ricca composizione, con il tempo ben amalgamata, si aggiungono le influenze della cucina asiatica e fusion. La cucina creola rimane comunque la base di questa realtà gastronomica. Il piatto, per così dire, nazionale è la bandera, composto da riso bianco, fagioli (neri o rossi) e carne; il sancocho è una zuppa di carne bovina a cui vengono aggiunti yucca, patate, platano fritto e vari aromi, mentre l’asopao è fatta con riso, pollo, pomodoro e un pizzico di coriandolo. Ricordiamo anche i contorni e i finger food: i tostones, fette di platano verde fritte, i bollitos, palline di yucca fritte in padella ripiene di formaggio o polpa di granchio e le empanaditas, fatte sempre con di yucca, formaggio o carne. Una cosa che non tutti sanno è che la Repubblica Dominicana è leader mondiali nella produzione di rum, zucchero di canna, caffè, riso, ma soprattutto cacao, che costituisce il 60% delle coltivazioni e che ha favorito la nascita delle rutas, ovvero dei percorsi guidati per far assistere i visitatori a tutte la fasi della produzione del cibo degli dei: dalla raccolta dei frutti al confezionamento del cacao e alla successiva vendita in sacchi. Vale la pena, se si è da quelle parti, fare un’esperienza del genere. Ma non state troppo a pensarci adesso, perché l’ultima tappa del nostro viaggio ci attende. Smettete di ballare ‘sto Merengue che ripartiamo.


ZANZIBAR Qui non potete sbagliare sulla capitale, perché porta lo stesso nome dell’isola maggiore dell’arcipelago (che però è chiamata anche Unguja, e questo sì è un po’ difficile); poi c’è Pemba, seconda per dimensioni, e svariati altri isolotti minori perlopiù incontaminati. Si trova nell’Oceano Indiano presso la costa dell’Africa centro-orientale ed è politicamente compresa nella Tanzania. Inizialmente influenzata da dominazione arabe provenienti dall’Egitto, dall’Arabia e dalla Persia (che dettero vita, tra il IX e il X secolo, alla cultura swahili) fu successivamente “scoperta”, nel 1499, da Vasco da Gama che dal Portogallo sbarcò a Zanzibar e si trovò di fronte a un centro per il commercio tra Medio Oriente, India e Africa già ben avviato. I portoghesi ne diventarono quasi subito i governatori ma furono allontanati dagli arabi nel 1698, momento in cui Zanzibar cominciò a far parte dei possedimenti dell’Oman. Nel 1861 poi, in conseguenza di uno scontro per la carica di sultano, Oman e Zanzibar si separarono formando due principati autonomi. Quest’ultima controllava anche una porzione della costa orientale dell’Africa, conosciuta con il nome di Zanj, ma tra il 1887 ed il 1892 il sultano di Zanzibar perse questi territori che passarono a Gran Bretagna, Germania e Italia. Fu proprio l’Impero britannico ad assumere progressivamente il controllo dell’arcipelago tanto che nel 1890 esso venne reso un protettorato della corona inglese con il nome di Sultanato di Zanzibar e Pemba. Solo nel 1963 esso raggiunse l’indipendenza dalla Gran Bretagna ma l’anno successivo a causa di una rivoluzione, sostenuta dalla maggioranza nera contro la minoranza araba dominante da secoli, il sultano fu deposto, l’isola proclamò la repubblica e si unì al Tanganica per formare la Tanzania. Oggi la popolazione è costituita in prevalenza da Bantu e Swahili, con minoranze indiane e arabe. Se il Madagascar è famoso per la vaniglia, Zanzibar lo è principalmente per le spezie: le piantagioni si trovano soprattutto nella parte interna dell’isola, dove le piogge più frequenti forniscono un clima ideale. Insieme alle piante di spezie cre-

sce una flora variegata (conoscete l’albero del rossetto?) che rende il paesaggio decisamente paradisiaco. Le coltivazioni sono visitabili dai turisti (si dice che anche il principe Carlo e la moglie Camilla abbiano voluto fare questa esperienza), ma è soprattutto nei mercati locali che si viene travolti dall’odore delle ceste ricolme di variopinte polveri: chiodi di garofano, cannella, zafferano, pepe, ginger, vaniglia, noce moscata, curcuma, coriandolo, citronella e molte altre. La dominazione araba è stata certamente la responsabile di questa tradizione che riveste anche un ruolo di primaria importanza non solo nella cucina del luogo, ma anche per l'economia zanzibarina. Lungo le strade di Stone Town, nel centro di Zanzibar city, un po’ ovunque sorgono piccoli bazar aromatici dove si può annusare tutto quel bendidio. L’assortimento più vasto si trova al mercato di Darajani, su Creek Road. Ovviamente tutti quei profumi si ritrovano poi nei piatti locali: una ricetta tipica dell'isola è la carne Pilau, un autentico trionfo di gusto e sentori esotici fatta con oca, agnello o manzo (non maiale per rispettare la tradizione musulmana) con l'aggiunta di cannella, pepe nero e di cumino macinati, zenzero, aglio, grani di pepe nero, chiodi di garofano e servita con l’immancabile riso bollito nel latte di cocco. Le onnipresenti spezie sono praticamente in ogni preparazione di carne o di pesce (quest’ultimo molto utilizzato sulle coste) e perfino nel the: da provare quello che di solito viene servito a fine pasto, con cannella e cardamomo. Fra le altre cose da assaggiare assolutamente ricordiamo: Ndizi Kaanga (platano fritto), Biryani ya Zanzibar (riso speziato con carne o pesce), Mchuzi wa pweza (polpo al curry) Ugali (una cosa a metà tra purè e polenta). Ora non dovete fare altro che accendere i fuochi e prepararvi a viaggiare anche attraverso le ricette che vi abbiamo proposto in questo numero, in attesa, speriamo molto presto, di poter ricominciare a visitare questi luoghi incantevoli anche dal vivo, liberi finalmente di goderci la vita senza mascherine e senza pensieri. Hakuna Matata! AGOSTO 2020

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AUSTRALIA

C H E E S E & BACO N ROLL il pasto del surfista

I N G REDIEN T I

P ER 8 /1 0 P ERSO N E PER I PANINI • 500g di farina forte (W>350) • 225 g di latte intero • 40 g di zucchero semolato • 75 g di burro morbido • 10 g di sale • 7 g di lievito di birra fresco • 10 g di malto diastasico (oppure miele di acacia) • 2 uova medie PER LA FINITURA • Latte fresco intero q.b. • 2 tuorli d’uovo PER LA FARCITURA • 500 g di pancetta • 500 g di cheddar di ottima qualità

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Some people stand in the darkness Afraid to step into the light Some people need to have somebody On the edge of surrenders inside Se non avete riconosciuto il testo della canzone, pensate a un costumino rosso, spiagge da favola, lo sciabordio delle onde. Ancora nulla? Allora vi diamo un altro suggerimento: Pamela Andreson, Jason Momoa, David Hasselhoff, Carmen Electra. Se non avete ancora capito che stiamo parlando di Baywatch le alternative sono due: o venite da Marte oppure non avevate una televisione negli anni ’90. La serie Tv infatti, in quegli anni, ebbe un successo planetario. Vuoi il nuovo format, vuoi le nude carni dei bagnini che appagavano la vista degli spettatori, vuoi l’ambientazione paradisiaca, in moltissimi si sintonizzavano per guardare lo show. Protagonista indiscussa della serie era sicuramente la baia di Santa Monica con le sue spiagge stupende e l’oceano che la faceva da padrone (sì, stiamo per parlarvi di un piatto australiano e partiamo dalla California: è voluto, non è un errore, abbiamo comprato l’Atlante, state tranquilli!). A questo splendido paesaggio facevano da contorno le persone che praticavano le più svariate attività sulla spiaggia, prendendo il sole e giocando a beach-volley. Tante erano, e sono, gli sport che si possono praticare sulla costa, ma quello che in particolare spopolava negli anni in cui la serie andava in onda, era il Surf. Cavalcare le onde a bordo della propria tavola, baciata dal sole e accarezzati dalla salsedine, a Santa Monica è sicuramente una delle attività più gettonate, e infatti nella vicina città di Leemore si svolge la Freshwater Pro, una delle tappe della World Surf League. La WSL è l’organizzazione internazionale che gestisce il campionato e gli eventi legati al mondo del surf. Ogni anno in giro per il globo, i migliori surfisti del pianeta si sfidano a cavalcare le onde più maestose e grandi. La manifestazione è itinerante e tocca le coste di tutti i continenti, la Freshwater Pro in America ad esempio, la Bali Pro nell’omonima isola, la Pro Jeffreys Bay in Sudafrica, o la Pro Portugal giusto per citarne alcune. Tra tutte le bellissime location scelte per

questo tour una sola però viene considerata la “mecca”: l’Australia (visto che ci siamo arrivati? In fin dei conti, parliamo di viaggi, ci possiamo permettere di fare il giro largo). La WSL organizza infatti ben tre tappe del tour in Australia: la Pro Gold Coast, la Pro Bells Beach e la Margaret rivers Pro. La presenza della barriera corallina, le correnti oceaniche e i venti che lambiscono le coste rendono questi posti i migliori in assoluto per fare surf, soprattutto a livello competitivo. Chi ha la possibilità, di solito segue il tour australiano, perché è là che i campioni si fanno vedere. Ma come sopravvivere alle lunghe giornate calde e ventose? Dopo la terza birra (la Mr. Canediguerra, come ci suggerisce il buon Meniconi) inizia ad aprirsi la classica voragine nello stomaco. Di quelle difficili da placare con un piccolo snack. Ecco quindi che protagonista diventa la cucina australiana con un piatto che si può definire in ogni modo, tranne che light: Cheese and Bacon Rolls Di fatto sono dei panini conditi e farciti di formaggio e pancetta, molto in voga in Australia. Ovviamente anche questa preparazione è declinata in tantissime varianti: c’è chi usa il pane bianco, chi il pane al latte, chi addiruttura dei bun per hamburger. Potevamo non darvi una nostra versione? Qui accanto trovate una stella di panini da panificio, ma vi consigliamo di seguire la ricetta che potete trovare anche sul nostro sito, perché secondo noi quella consistenza è perfetta per questa preparazione: un pane morbido che però possa contenere i succhi della pancetta e il grasso del formaggio, e che doni la giusta forza al morso senza disfarsi ma senza farvi fare troppa fatica. Una volta fatti i panini, cavateli e farciteli con pancetta e cheddar, per poi riscaldare tutto leggermente nel kettle (o in forno). Non è una ricetta difficile, eppure è tanto, tanto di effetto e tanto, tanto buona. I bambini ne andranno pazzi, i nonni (con la dentiera) anche. PROCEDIMENTO 1. Intiepidite leggermente una piccola parte di latte per poter scogliervi all’interno il lievito di birra, senza mai superare i 40-45° C. 2. Versate in una ciotola le farine se-

tacciate con il malto (o il miele), lo zucchero, il lievito sciolto nel latte, e le uova una alla volta , non fredde. A questo punto potete impastare a mano oppure aiutarvi con una planetaria. 3. Impastate per almeno 25 minuti aggiungendo a filo il latte; una volta formato l’impasto aggiungete il burro morbido, un pezzetto alla volta. Fate incordare per bene, aggiungete il sale e a questo punto fate la prova “del velo”, allargando una piccola quantità di impasto tra le dita. Se si straccia prolungate la fase di impasto. 4. Quando sarà pronto lasciatelo triplicare, coperto con pellicola, a 28° circa. 5. Conclusa la fase di lievitazione, riprendete l’impasto e attendete che arrivi a temperatura ambiente. Poi strappate delle porzioni di pasta da circa 75 g l’uno (o meno se volete panini meno grandi) dando loro una forma tondeggiante e regolare. 6. Disponeteli sopra una teglia coperta di carta forno e spennellateli con il tuorlo e il latte sbattuti con una forchetta, prima e dopo la lievitazione. Distanziate bene i panetti (3-4 cm) e lasciate che triplichino in volume, in un ambiente caldo basterà un’ora e mezza circa. Se invece volete fare una stella, avvicinateli e disponeteli in modo da formare il disegno. 7. Cuocete i bun in forno in modalità statica a circa 190°C: il pane è cotto quando raggiunge una temperatura interna di 93°. 8. Sfornate i panini e lasciateli raffreddare. 9. Al momento opportuno, tagliate la pancetta a cubetti e fatela rosolare bene su una padella in ghisa. Tenetela da parte. 10. Sbriciolate il cheddar e mettetelo in una ciotola. 11. A questo punto togliete la parte superiore dei panini, farciteli con un po’ di cheddar sbriciolato, inserite dentro la pancetta e infine di nuovo il cheddar. 12. Rimettete i panini in forno (o nel kettle, se lo avete ancora caldo) e lasciate che il cheddar si sciolga. Mangiateli ancora belli caldi e fragranti.

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AUSTRALIA

C H I KO R O L L

il p erfetto snack p er un'esp erienza fuoristrada

L’Australia è la casa del più grande essere vivente esistente sul nostro pianeta, la Grande Barriera Corallina, e del più famoso e stupefacente monolito, l’Ayers Rock (o Uluru per usare quello che è oggi il suo nome ufficiale, rispettoso della tradizione aborigena). Un posto dove si trovano più creature letali che in qualunque altra parte della terra. I dieci serpenti più velenosi del mondo sono tutti australiani. Cinque delle sue creature – ragno dei cunicoli, medusa a scatola, blue-ringed octcpus, zecca ixodet bolocydus, pesce pietra – sono le più micidiali fra tutte quelle dello stesso tipo. Questo è un paese dove anche il più tenero dei bruchi può stendervi con un pizzico tossico, dove le conchiglie non solo vi pungeranno ma talvolta vi punteranno. Come racconta Bill Bryson nel libro In un paese bruciato dal sole. L’Australia, il nuovissimo continente ha fra gli aspetti più affascinanti le vastissime, variegate e intriganti bellezze naturali. Chiunque sia appassionato di esperienze wild ha sognato almeno una volta di andare in questi posti. Girovagando su internet è possibile trovare migliaia di tour organizzati, trekking a piedi con spostamenti in aereo, viaggi in autobus con tappe, affascinanti carovane di camper. Uno dei più gettonati però è senza dubbio l’esperienza in off-road. Sarebbe sicuramente un viaggio incredibile quello che oggi vogliamo regalarvi attraverso il potere dell’immaginazione e dell’immedesimazione. Se Proust riusciva, attraverso i sapori, a viaggiare indietro nel tempo e nei ricordi (le famose intermittenze del cuore), noi possiamo 28 - BBQ4All MAGAZINE

certamente spostarci almeno con la fantasia (e di nuovo attraverso il gusto) nello spazio. Quindi chiudete gli occhi e iniziate a farvi un’immagine mentale. La prima cosa da fare e organizzare un bagaglio comodo, che occupi poco spazio e che contenga le cose veramente utili. Quindi dentifricio, crema solare, abbigliamento comodo, costume da bagno, scarpe da trekking, macchina fotografica, carica batterie, biglietti aerei. Insomma funzionale e pratico. Una volta fatta la valigia è il momento di partire e di affrontare gli innumerevoli controlli e le lunghissime ore di volo. Una delle tratte più frequenti è quella che vola da Milano a Monaco, poi arriva a Doha e infine come ultima tappa a Sydney. Una volta giunti in Australia è il momento di fare sul serio e quindi di noleggiare una potente Jeep. Un’attenzione particolare va riservata ad alcune caratteristiche del mezzo, come la trazione (rigorosamente 4WD con le ridotte per i percorsi più complessi) e la capienza che deve essere sufficiente a contenere taniche di acqua e carburante per i casi di emergenza. Noleggiato il mezzo si passa alla fase successiva, ovvero affittare e montare una tenda sul tetto, una di quelle pieghevoli. È sconsigliato fare bivacco al livello del terreno vista la grande varietà di animali pericolosi che ci sono in giro da queste parti. Non rimane altro adesso che fare gli acquisti dell’ultimo minuto come torce, acciarino per il fuoco e perché no un Kakadu traders hat (il tipico cappello da cowboy australiano) per sentirsi un po’ più autoctoni. Ultima tappa prima della partenza è

quella per fare rifornimento di acqua e carburante, e in questi viaggi è sempre meglio abbondare, e poi siamo pronti per partire per l’avventura. Non resta che dare gli ultimi ritocchi all’itinerario di viaggio e in base alle condizioni meteo scegliere se è più opportuno passare prima attraverso l’outback ,facendo il percorso dell’entroterra da Adelaide a Darwin per poi proseguire lungo la costa nord, oppure se è il caso di circumnavigare l’isola percorrendo la highway. È un lungo viaggio, ma essendo immaginario, non bisogna tornare al lavoro lunedì e le ferie possono durare anche all’infinito. L’atmosfera e il panorama sono magici ed entusiasmanti, è tutto perfetto se non fosse per il languorino che poco a poco diventa una voragine nello stomaco. Ci vorrebbe qualcosa di buono. Ed ecco la soluzione: uno degli snack più consumati dagli australiani, il Chiko Roll! È stato inventato da Frank McEncroe nei primi anni ‘50. All’inizio era chiamato chicken roll anche se non conteneva pollo. Lo snack fu progettato proprio per essere nutriente e pratico da mangiare. Dopo un primo periodo di rodaggio, diventò famoso; al culmine del suo successo in Australia venivano venduti 40 milioni di pezzi ogni anno. Come sempre abbiamo voluto dare la nostra personalissima interpretazione a questo delizioso e sfizioso involtino. Per cui parcheggiate il fuoristrada e accendete i fuochi. PROCEDIMENTO 1. Settate il vostro kettle per una cottura diretta. 2. Rompete il burger fino a ottenere la


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carne macinata grossolanamente e conditela con il Montreal steak rub. Tagliate finemente la verza, la cipolla, il sedano e le carote, meglio se a julienne. In una padella in ghisa, posta sopra la griglia in corrispondenza delle braci, fate sciogliere il burro e fate soffriggere la carne, aggiungete quindi le verdure. Quando il composto sarà ben rosolato aggiungete un cucchiaio di farina e quindi sfumate con labirra. Salate e pepate, Nel frattempo stendete due fogli di carta fillo e spalmate il rosso d’uovo su 3 lati; prendete adesso un po’ di condimento e ponetelo sul lato in cui

non avete spalmato l’uovo. Procedete con la chiusura del roll. Infine aiutandovi con l’uovo sigillate il lembo di chiusura. 8. Nel frattempo mettete a scaldare dell’olio per frittura in un wok (potete anche usare il kettel, ma se avete a disposizione un fornello vi è più comodo). 9. Quando l’olio sarà caldo friggete i roll fino a raggiungere la doratura. Serviteli caldi e fragranti, magari con qualche salsa di accompagnamento che non fa mai male: anche in questo caso potete spaziare con la fantasia.

I N G REDI EN TI

PER 4 PER SONE • 4 Burger Blue Ox GLC Top Selection • 2 Carote • 2 coste di Sedano • una cipolla • mezzo cavolo verza • 20 gr circa di farina (un cucchiaio) • 50 gr di burro • un rosso d’uovo • 8 fogli di pasta fillo • sale q.b. • pepe q.b. • olio per friggere a.b. • Sal’s Seasoning Montreal steak rub q.b. • Una birra dal sapore forte e deciso, una stout o una bock

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RICETTE a cura della REDAZIONE

SANTO DOMINGO

P I CA PO L LO farà crìk o farà cròk?

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Nell’arcipelago delle Antille, di fronte alle coste della Florida, del Messico e del Venezuela, bagnata in parte dall’Oceano Atlantico e in parte dal Mar dei Caraibi, si trova Santo Domingo. La capitale della Repubblica Dominicana è uno degli insediamenti più antichi dell’uomo europeo nel Nuovo Mondo; infatti grazie alla sua ubicazione strategica, vicino al fiume navigabile Ozama, fu scelta come punto di appoggio sia per le prime missioni esplorative degli spagnoli in cerca di ricchezza e di fortuna, sia per l’abbondanza di terra fertile e coltivabile da cui era circondata. Oggi, la Repubblica Dominicana occupa i due terzi dell’Isola Hispaniola sulla quale Cristoforo Colombo sbarcò nel 1492, mentre nel restante territorio si trova Haiti. La cultura di questa cittadina è definita creola poiché è un mix delle diverse civiltà che l’hanno attraversata nel corso dei secoli, a partire dall’incontro-scontro tra la popolazione autoctona e i conquistadores, per poi proseguire con l’importazione degli schiavi africani (utilizzati nelle miniere e successivamente nelle piantagioni di cacao, di zucchero e di caffè) e terminando con l’influenza dei vicini haitiani e statunitensi. Questa grande mescolanza di usi e tradizioni diversi ha contribuito a creare l’attuale realtà vivace, allegra e variopinta dominicana; naturalmente tutto ciò si è riflesso anche in ambito culinario. Nonostante la cucina creola sia considerata comunque povera è sempre molto apprezzata sia visivamente, per la sua varietà di colori, sia per il suo ricco sapore. Quella dominicana in particolare si basa sull’uso del pollo, del maiale, del riso, del mais e dei fagioli a volte uniti a ingredienti “ricchi” come la farina di grano, il manzo e il pesce, e spesso insaporita da condimenti molto speziati e piccanti. Tra tutte le pietanze presenti nel vario menù dominicano abbiamo deciso di presentarvi il Pica Pollo. È uno street-food da mangiare direttamente con le mani durante una pausa pranzo o come spuntino veloce durante una passeggiata. È composto da pezzi di pollo insaporiti con una miscela di farina e di spezie e poi fritti nell’olio bollente. Il motivo per cui è stato battezzato Pica Pollo rimane oscuro, c’è chi sostiene che la parola “pica” significhi tagliare, quindi il nome sottolinea il modo in cui viene servito (cioè tagliato a pezzi), mentre altri affermano che il nome stia ad indicare il termine “picar” che ne gergo domi-

nicano significa “mangiare con le mani”. Viene tenuto a bagno per una notte in una marinata a base di birra e di spezie (timo, origano, aglio in polvere). Questo è un passaggio fondamentale perché non solo garantisce una carne gustosa, ma anche morbida e succosa. Dopodiché il pollo viene asciugato, ricoperto con un mix di farina e aromi, tra i quali spicca l’origano dominicano, e alla fine fritto. Visto che la cultura dominicana è aperta al cambiamento, abbiamo deciso di presentarvi una nuova versione della ricetta per adattarla al mondo della cottura in griglia. Mantenendo il suo tipico aroma di fondo abbiamo deciso di arricchirlo con il nostro Rub Tennesse, che aggiungerà al pica pollo il gusto del barbecue americano, il tutto senza perdere la sua tipica croccantezza. Infatti, dopo aver marinato le cosce e averle spolverate con il mix di polveri, le cuoceremo in indiretta a 130 gradi; il lento procedimento di disidratazione della pelle a bassa temperatura ci permette di non perdere l’effetto crunch al morso. Quando la temperatura della carne al cuore sarà di 70 ° spennelleremo la superficie del pollo con l’olio di semi, per veicolare meglio il calore, e la passeremo in cottura diretta. Se il processo di disidratazione è avvenuto correttamente sentirete la pelle scoppiettare. Il tocco in più? Avete presente la cipolla fritta croccante che di solito vediamo utilizzare sugli uramaki negli all you can eat? Ecco, provatela sul pollo, dateci retta. PREPARAZIONE 1. Partite dalla marinata. In una ciotola capiente versate prima gli elementi liquidi e poi le polveri mescolando bene con una frusta. Dopo aver fatto ciò aggiungete al composto gli spicchi d’aglio schiacciato. 2. Bruciate con un cannello da cucina gli eventuali residui di piume sulla pelle del pollo e poi immergetelo nella marinata. Coprite la ciotola con la pellicola alimentare e riponetela in frigo per almeno 8 ore. 3. Trascorso questo tempo, togliete il pollo dalla marinata ed eliminate l’umidità in eccesso avvolgendolo nella carta da cucina, avendo cura di cambiarla più volte. 4. Preparate il vostro dispositivo per una cottura indiretta a 120° C. una mezza ciminiera di combustibile sarà più che sufficiente. Quando il carbone sarà accesso versatelo late-

ralmente e aggiungete del carbone spento per creare lo snake, in questo modo non sarete costretti ad inserire nuovo combustibile. Chiudete il dispositivo con il coperchio perché raggiunga la temperatura desiderata. 5. In un recipiente mescolate insieme le polveri, versatele all’interno di una busta di plastica per alimenti e mettete all’interno dell’involucro anche le cosce. Sbattete il sacchetto vigorosamente in aria fino a quando il pollo non sarà ricoperto in maniera omogenea. 6. Collocate il pollo in cottura dalla parte opposta delle braci e affumicatelo con due manciate di petali di legno fruttato. 7. Quando la temperatura della carne al cuore è di 70° C, spennellatela con un po’ di olio utilizzando un pennello alimentare e ponete le cosce sul calore diretto. Quando la pelle risulterà bella brunita e croccante e la temperatura al cuore sarà di 83-85° C toglietele dal fuoco e servitele ancora calde con una generosa manciata di cipolle croccanti sopra.

I N G REDI EN TI

PER 4 PER SONE • 8 cosce di pollo • 4 cucchiai di rub Sal’s Seasoning Tennessee • un cucchiaino di origano in polvere • 2 cucchiai di farina bianca • un cucchiaio di pangrattato • cipolla fritta croccante q.b. PER LA MARINATA • 200 ml di birra • 100 g di olio extravergine di oliva • sale q.b. • pepe q.b. • due spicchi d’aglio • due cucchiai di origano in polvere • un cucchiaio di paprika piccante • olio di semi q.b.

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RICETTE a cura della REDAZIONE

Madagascar

I like to move it move it

K I TOZA

con riso al cocco e salsa satay

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INGREDIENTI

P ER 4 P ERSO N E PER I KITOZA: • 500 g di flank steak o chuck roll GLC Top Selection del Megastore • 2-3 spicchi d’aglio • un cucchiaino di cumino in polvere • un cucchiaino di pepe nero • Sale q.b • Olio di semi di arachide q.b. PER IL RISO: • 2 tazze di riso basmati • 3 tazze di latte di cocco • Sale q.b. (o salsa di soia) PER LA SALSA SATAY: • 300g arachidi sgusciate • 3 cucchiai di olio di semi • un peperoncino fresco (facoltativo) • 5g zenzero fresco • un lime • Coriandolo q.b. • Sale q.b.

Il dolce suono del mare che vi culla, voi in vacanza con un bel cocco in mano, gli occhiali da sole e il tempo che sembra fermarsi. È ora di fare un salto nel continente nero, il cuore pulsante del mondo: l’Africa! Lo facciamo gustandoci uno dei piatti tipici della quarta isola più grande del mondo, il Madagascar. Spiagge paradisiache, una barriera corallina immensa, natura selvaggia e foreste tropicali fanno di quest’isola una meta da aggiungere alla vostra lista dei posti da visitare. Se poi ci mettete anche dell’ottima cucina tradizionale siete a cavallo! La ricetta in questione è quella dei Kitoza, sottili fettine di manzo che vengono arrostite sul carbone, affumicate o spesso seccate al sole a seconda delle zone. L’accompagnamento classico è il riso cotto nel latte di cocco. Il Madagascar, infatti, è il più grande consumatore di riso pro capite al mondo, con 135 kg l’anno, spesso sostituito da mais o tapioca perché più economici. L’isola, situata al largo della costa meridionale dell’Africa, vanta una moltitudine di influenze dal punto di vista gastronomico. I primi a raggiungere l’isola sono stati probabilmente due popoli arrivati dall’Africa orientale e dall’Indonesia. Il tutto ha avuto un forte impatto sulla cucina del Madagascar che mette insieme aspetti del sud-est asiatico e centroafricani, con sfaccettature indiane, europee e cinesi, frutto delle successive contaminazioni. Non ci sono ricette ufficiali e argomentate dei Kitoza, che spesso sono un gustoso streetfood accompagnato da una salsa conosciuta come salsa satay, principalmente a base di arachidi. Perciò prendete il procedimento come una linea guida sul quale fare i vostri opportuni aggiustamenti, aggiungendo ad esempio le spezie che più preferite o variando il metodo di cottura tra quelli elencati prima. Per la carne, preferite dei tagli ben infiltrati di grasso ma dalle fibre lunghe, così se optate per l’asciugatura al sole o in essiccatore (come dei Jerky in pratica), tagliando controfibra non vi ritroviate a masticare una roba simile al copertone di una ruota. Noi abbiamo scelto una flank steak ben marezzata del Megastore e la cottura in due step: una leggera affumicatura e una finitura in cottura diretta. Per quanto riguarda il riso dovete per forza di cose sceglierne uno dal chicco

lungo e povero di amido, come il profumatissimo jasmine o un ottimo basmati, perfetti per la cottura ad assorbimento. Per gustare il piatto in maniera più caratteristica, potete anche servirlo non sul tavolo ma su una stuoia dove apparecchierete anche tutto il resto delle pietanze, come degli autentici malgasci! Non abbiate paura di osare con le spezie, cumino e aglio faranno da padroni in questa preparazione semplice ma sfiziosa. PROCEDIMENTO 1. Ripulite la carne da eventuale tessuto connettivo presente e tagliatela a striscioline di circa mezzo centimetro. 2. Insaporitela e con le spezie e le erbe scelte per almeno due ore, poi affumicatela gentilmente a 80/100º con l’essenza che più preferite. In questo caso della quercia andrà benissimo. 3. Grigliate a calore diretto per una trentina di secondi le vostre strisce di carne affumicate per ottenere una gustosa reazione di maillard. 4. Intanto preparate il riso. Sciacquatelo in abbondante acqua fino a che non la vedrete limpida, segno che avrete eliminato parte dell’amido. Fate una cottura ad assorbimento, quindi con una volta e mezzo il volume del riso in liquido di cottura. Inserite il latte di cocco, il riso e il sale o la salsa di soia in una pentola e chiudete il coperchio. Portatelo a ebollizione e cuocete con il coperchio chiuso a fiamma bassa per 10-13 minuti senza mai aprire o girare. 5. Per la salsa satay vi basterà unire l’olio e le arachidi in un frullatore e azionare fino a consistenza desiderata: c’è chi lo preferisce più granuloso e rustico chi più cremoso e liscio. Ricordatevi di azionarlo a scatti per non surriscaldare troppo il composto. Correggete con il succo e la scorza di un lime, lo zenzero grattugiato, il peperoncino tritato al coltello e il coriandolo. 6. Servite caldo e gustatevi un pranzo o una cena in stile malgascio.

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ZANZIBAR

BOKU-BOKU è severamente vietato usare le posate!

I NGREDIEN TI

PER 4 P ERSO N E • 500g di Top Blade o Stew GLC Top Selection del Megastore • 1 cipolla dorata • 120g di farina di frumento integrale • 240ml di acqua (più q.b per la cottura della carne) • 40g zenzero fresco o 2 cucchiaini di zenzero in polvere • 1 cucchiaino di semi di cumino • 1 peperoncino mediamente piccante • 20 pomodorini ciliegino • Sale q.b. • Pepe nero a piacere

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Il continente africano, così misterioso e ricco di contaminazioni, nasconde dei gioiellini gastronomici che vale la pena assaggiare almeno una volta nella vita. Oggi vi prenderemo per mano e vi porteremo, con la mente e con il palato, in Tanzania, per assaporare uno dei piatti tipici più gustosi e semplici del continente nero. Se avete voglia di un piatto etnico capace di catapultarvi in vacanza, o almeno farvi sognare di esserci, dovete assolutamente provare il Boku-boku ,una sorta di spezzatino dalla consistenza cremosa tipico della Tanzania e in particolare dell’isola di Zanzibar. Nonostante la gastronomia del luogo sia l’apoteosi del pesce, con aragosta, gamberi, polpi, seppie, granchi, barracuda a farla da padroni sulle griglie e sulle tavole degli abitanti, le preparazioni tipiche a base di carne si difendono comunque bene, dimostrando una grande varietà di sapori e di tecniche di cottura. La carne di manzo o di montone è infatti ampiamente impiegata in stufati e cotture in umido, oppure nelle tradizionali grigliate africane, spesso accompagnate da una polentina di mais o di miglio. Tornando al boku-boku, si tratta di un piatto a base di carne di manzo cotto due volte: la prima in ambiente umido, in acqua, con delle spezie e degli insaporitori e la seconda in un intingolo composto dal fondo di cottura mescolato con del frumento integrale. Cumino, peperoncino, zenzero e cipolla dorata sono gli ingredienti utilizzati per insaporire questo piatto nella prima parte della cottura, il gusto risulta intenso ma piuttosto semplice, in grado di essere apprezzato da tutti. Zanzibar d’altronde è famosa per le sue spezie. Tradizionalmente il boku boku viene gustato con le mani, accompagnato spesso da cipolle fritte. In questo arido ma florido stato dell’Africa, le popolazioni che si possono incontrare durante le escursioni, come i Masai, offrono ai turisti una vasta selezione di piatti tipici, che nei piccoli villaggi sono consumati appunto senza posate. Questa preparazione tipica della cucina povera africana è molto saporita e povera di grassi, poiché per realizzarla non si utilizzano olio né burro. In Tanzania, ma in generale in tutto il continente nero, non è inusuale trovare dei piatti unici a base di farinacei e stu-

fati a base di carne, soprattutto manzo, montone o pollo. Non viene largamente consumato, invece, il maiale, vista la massiccia presenza e la diffusione capillare della religione musulmana.

nella realizzazione, ma siamo sicuri che diventerà un vostro must per delle cene con gli amici non convenzionali o, chissà, per viaggiare con la fantasia nei luoghi meravigliosi e affascinanti dell’Africa più autentica.

Per la carne utilizzate dei tagli che abbiano una buona dose di collagene e di marezzatura, così da ottenere dei bocconcini teneri e succulenti: cappello del prete, reale o punta di petto andranno benissimo. Il Megastore a questo proposito offre tagli perfetti per voi. Basta che chiediate al vostro Coach di riferimento e il gioco è fatto. Se amate il sapore fresco e intenso dello zenzero optate per la radice fresca, altrimenti per un tono più delicato usate quello in polvere.

PROCEDIMENTO 1. Tagliate la cipolla a julienne, il manzo a cubi di 2 cm per lato, i pomodorini in quarti e lo zenzero a lamelle. Unite il tutto in una casseruola. 2. Tostate i semi di cumino in una padella antiaderente fino a che non sprigioneranno una nota intensa e persistente. Pestateli leggermente e uniteli agli altri ingredienti in casseruola. 3. Coprite con il coperchio e cuocete a fuoco basso fino a che la carne non risulterà tenera e scioglievole. Aggiungete un po’ d’acqua se necessario. Il risultato finale dovrà avere l’aspetto e la consistenza di uno spezzatino molto lento. Aggiungete anche il peperoncino, è fondamentale che ci sia. 4. In un altro pentolino cuocete il frumento con un pizzico di sale e i 240 ml di acqua fino ad ottenere la consistenza di una besciamella. 5. Unite la carne con il suo fondo di cottura ed amalgamate bene, lasciando inspessire leggermente il boku boku che dovrà assumere la consistenza finale di un gulash. 6. Aggiustate di sale e di pepe e aggiungete eventualmente acqua calda in caso di densità eccessiva. 7. Servitelo come piatto unico, magari accompagnato da una dose generosa di cipolla fritta… e provate la liberazione di mangiarlo con le mani, però prendendolo dal vostro piatto personale (non esageriamo con le libertà, sono tempi difficili questi).

La gastronomia della Tanzania, ha subito l’influenza delle culture arabe, indiane e africane, che nel corso degli anni hanno lasciato un marchio indelebile nei piatti della tradizione di questo paese africano. I chiodi di garofano, la cannella, il cardamono,il cumino e lo zenzero sono le spezie che maggiormente si usano nei piatti tradizionali. Inoltre i popoli del centroafrica ne hanno caratterizzato sviluppi e tradizioni. Il cumino e il peperoncino sono fondamentali: per quanto riguarda il primo scegliete sempre quello in semi da tostare all’occorrenza e non la polvere già pronta. Fa tutta la differenza del mondo, perché vi restituisce un profumo più deciso, fresco e balsamico. Fate così anche con il pepe e tutte le altre spezie che si presentano in semi. Il frumento integrale è una colonna portante in questo piatto, sia in termini di sapore che di consistenza. Infatti tradizionalmente frumento, mais e miglio vengono combinati con l’acqua per addensare e arricchire gli stufati, così da renderli più nutrienti, gustosi e saporiti (e soprattutto per facilitarne la degustazione senza le posate). Anche dal punto di vista economico questa è la scelta migliore per preparare dei piatti abbondanti senza esagerare con materie prime costose come la carne. Non ci sono ricette ufficialmente riconosciute del Boku-boku, quindi sentitevi liberi di aggiungere altre spezie per dare complessità e identità al vostro piatto, come cannella, chiodi di garofano o semi di coriandolo. Si tratta di una preparazione semplice

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Amici...

POLINESIA

TA R N A ’ A R A ’ A !

Il titolo può trarre in inganno, ma non stiamo parlando di Bruno e Max. il duo comico i Fichi d’India. Siamo in Polinesia francese, nel bel mezzo del Pacifico, famosa soprattutto per le preparazioni a base di pesce. E invece noi parliamo di un piatto di carne, probabilmente uno fra i più identificativi del posto, con un nome decisamente difficile da pronunciare: il Tarna’ara’a, a base di carne di maiale e frutta. Ricordate la cottura del maialetto sardo “a carraxiu “? Questa preparazione gli somiglia molto almeno per quanto riguarda la tecnica di cottura, fatta tradizionalmente nell’ahi mā'a o ahimā'a (ahi, fuoco e mā'a, cibo), il tipico forno tahitiano ricavato da una buca scavata nel terreno, nella quale vengono riposte delle pietre incandescenti. Nello specifico, funziona così: si scava una buca di circa un metro, all’interno si stratifica la legna che poi viene coperta da circa 50cm di pietre laviche. Quando queste diventano incandescenti, le si copre di foglie di banano, sulle quali si appoggiavano i cibi da cuocere. Ormai in disuso come tecnica, riportata in auge al solo scopo di attrattiva turistica, è stata adattata ad una cottura più tradizionalmente al forno. Noi, ovviamente, la faremo nel nostro dispositivo, senza perdere niente di ciò che ci è stato tramandato, anzi cercando di esaltarne il sapore. Per questa preparazione, il taglio da utilizzare sarà la lonza di maiale. Non è previsto un peso specifico, per cui voi 36 - BBQ4All MAGAZINE

potrete replicare la ricetta in base alla grandezza della lonza che vorrete cuocere. Questo arrosto agrodolce prevede di creare una tasca da riempire di frutta per poi cuocerla in griglia. Viene solitamente accompagnato dal taro, un tubero molto simile alla patata, ricco di calcio, alimento basilare delle popolazioni oceaniche. La sua radice è tossica, perciò va bollito prima del consumo. Poi lo friggeremo e lo utilizzeremo come accompagnamento alla nostra preparazione . Apriremo la lonza di maiale a libro, al suo interno andremo a collocare tocchetti di banane e di mango, preventivamente marinati con sale e pepe, che poi spolverizzeremo con il pangrattato. Andremo a insaporire con Sal’s Seasoning BBQ4All Montreal, dal gusto più speziato e agrumato, poi griglieremo inizialmente l’intero pezzo, per favorire la reazione di Maillard, in diretta e successivamente andremo a realizzare una cottura agrodolce. In una cocotte, aggiungeremo l’olio con la cipolla tagliata a fettine, e sfumeremo man mano con brodo di carne. Lasceremo cuocere ad una temperatura in griglia sui 180° C sino al raggiungimento dei 78°C , su un punto della lonza dove infileremo la nostra sonda. Una volta ultimata la cottura, la ricetta originale prevede l’utilizzo di una salsa ricavata da acqua amidata con fecola di patate e succhi d’arrosto, che noi abbiamo provveduto a sostituire realizzando un roux coi succhi di un vecchio Pulled Pork che avevamo tenuto da parte.

Ora, ancor prima di infilarvi la ghirlanda di fiori al collo e sdraiarvi sotto una palma, con il cocco e la cannuccia in mano, vediamo come preparare questo piatto. PROCEDIMENTO 1. Lavate la frutta, sbucciatela e tagliatela a tocchetti. Marinatela in un contenitore, con sale e pepe, e lasciatela riposare per mezz’ora. 2. Prendete la lonza e apritela a libro, per realizzare una tasca. 3. Spolverate la frutta con il pangrattato e riempite la tasca. 4. Ricucite con spago da cucina in maniera accurata, affinché non fuoriesca il ripieno. 5. Spennellate con senape e aromatizzate con il Rub Sal’s Seasoning BBQ4ALL Montreal. 6. Accendete il vostro dispositivo e predisponetelo per una cottura diretta, coi carboni nella parte centrale, che poi vi serviranno anche per quando posizionerete la cocotte. Grigliate il vostro arrosto ripieno fino a che non si sarà formata una bella crosticina. 7. A questo punto continuate la cottura in una cocotte di ghisa. Aggiungete l’olio, la cipolla a fette sottili e lasciate cuocere l’arrosto sino ai 78°C, sfumando di tanto in tanto con il brodo di carne. 8. Mentre aspettate che la lonza raggiunga la temperatura target, pelate e sbollentate il taro per pochissimi minuti, poi toglietelo dall’acqua e lasciatelo ad asciugare in un panno assorbente. 9. A cottura ultimata, prelevate i succhi dell’arrosto, nella quantità richiesta,



oppure come utilizzate come abbiamo fatto noi i succhi di un vecchio pulled pork. 10. Sciogliete in un tegamino il burro fino a fargli prendere una colorazione nocciola. Spostate dalla fiamma e versate la farina, mescolando velocemente con una frusta sino a farla rapprendere bene, senza formare grumi. 11. Versate a filo i succhi caldi dell’arrosto, continuando a mescolare con la frusta. Quando avrete inserito tutti i succhi, riportate sul fornello il tutto e, mescolando, portate ad ebollizione. 12. Togliete da fuoco e continuate a mescolare energicamente con la frusta per abbassare la temperatura della salsa. 13. Tagliate a tocchetti grossolani il taro (o le patate) e friggetelo come fareste con le patatine fritte. 14. Servite il Tarna’ara’a ancora caldo con la salsa di accompagnamento e il taro fritto. Un Mai Tai, un’insalata polinesiana fatta di lattuga, pompelmo rosa, avocado, mango, gamberetti, semi di sesamo, olio e spezie e il gioco è fatto. Non servirà molto per catapultarvi direttamente negli atolli polinesiani. Basterà chiudere gli occhi mentre portate la forchetta alla bocca, e sarete voi a decidere se sarà Bora Bora, Moorea, Tahiti o Fakarava. Finché ad un certo punto, oltre a sentire le piccole onde che si infrangono sulla battigia, il brusio delle palme smosse dal vento e il profumo salino delle acque cristalline, udirete in lontananza una vocina che vi dice: “ Ehi la pacchia è finita. Alzati che c’è da sparecchiare!”. E di polinesiano vi rimarranno giusto le infradito con il cocco disegnato sopra. Ma vi siete goduti un bel viaggio lo stesso.

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ING RED I EN TI

PE R 6 PER SONE • 1 kg di lonza di maiale • 250 g di banane • 250 g di mango • 250 g di pangrattato • 250 ml di brodo di carne • 200 ml di Olio extra vergine di oliva • una cipolla • 400 ml di succhi di arrosto di maiale (o di pulled pork) • 40 g di burro • 35g di farina • senape q.b. • Rub Sal’s Seasoning BBQ4All Montreal q.b. • Sale e pepe q.b. • 500 g di taro (circa 6/7 tuberi) o patate • Olio per figgere q.b.


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I NGREDIEN TI

PER 4 P ERSO N E • 500 gr di fagioli neri • una slab di ribs St.Louis Duroc GLC Top Selection • due salsicce • 100 g di pancetta affumicata • 100 g di guanciale • una cipolla • 2 spicchi d’aglio • qualche foglia di alloro • mezzo bicchiere di passata di pomodoro • sale q.b. • pepe q.b. • Olio extra vergine di oliva q.b. • un velo di senape o di olio di semi • Sal’s Seasoning Tennessee mild dry rub q.b. • Birra/brodo per le salsicce q.b.

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brasile Anche gli angeli mangiano

F E I J OA DA

Finalmente l’estate: le giornate che si allungano, il bagno in mare, l’aperitivo sulla spiaggia, le foto da scattare e poi condividere a settembre con l’hashtag #memories. Ma anche i giri in vespa, i tormentoni estivi, i flirt. Questa è una tipica cornice dell’estate italiana, o comunque lo è nell’immaginario nazional popolare (sentite anche voi la musica del Cuore di Panna?) Parlando di questa stagione il primo paese a cui si pensa è il Brasile (anche se in questo periodo là è inverno, poiché essendo nell’emisfero australe l’estate va da dicembre a febbraio). Le sue spiagge paradisiache, la natura incontaminata, le danze e i colori. Sappiamo che vi vedete già per per le strade di Rio de Janeiro a ballare la samba (o il samba), una danza che nasce a Salvador di Bahia dall’incontro di varie tradizioni musicali africane quali l’yoruba e il nagò. L’origine di questa danza è molto legata al candomblé, la religione degli schiavi che si formò a Bahia. Essi, costretti a convertirsi al cristianesimo, nascosero le loro credenze nei simboli della religione egemone. Nei testi dei brani del samba è infatti possibile ritrovare le divinità della religione propria degli schiavi. Fautori di questa rivendicazione furono sicuramente il poeta Vinicius de Moraes e il chitarrista Baden Powell. Questo ballo iniziò a diffondersi all’inizio del ‘900 per le vie dei quartieri più poveri. Nei racconti dell’epoca è curioso il fatto che, quando la polizia arrestava qualcuno per vagabondaggio o aspetto poco raccomandabile, controllava se il malcapitato avesse callosità sui polpastrelli della mano sinistra: la prova schiacciante indicava che si era suonatori di violão e quindi certamente sambisti.

Negli anni poi venne sempre più accettata, nacquero le prime scuole di ballo e poco a poco si diffuse in tutto il paese perdendo anche quella connotazione di lotta che aveva assunto agli albori della sua storia. Oggi è considerata spesso la colonna sonora per fare festa, e qualunque brasiliano può concordare che gli elementi portanti per un party sono tre: samba, caipirinha e feijoada! Se le prime due sono note, la feijoada non gode forse della stessa fama fuori dal paese carioca. È uno stufato a base di fagioli neri e ritagli di maiale tipico delle cucina brasiliana. La tradizione popolare racconta che il piatto sia stato inventato dagli schiavi che lavoravano nelle piantagioni e nelle miniere. La loro versione base consisteva in riso e fagioli, ma per le occasioni speciali venivano utilizzati ritagli di maiale per arricchire la loro dieta. Seppure romantica, questa storia è falsa. Il piatto è di origini portoghesi, e fu esportato in Brasile con l’arrivo dei primi coloni. In molti scritti di cucina è infatti possibile individuare le origini di questo preparazione in Portogallo da ben prima che arrivasse nel Nuovo Continente. È così buono che tutti si concederebbero questo peccato di gola, anche i santi in Paradiso. Come siamo soliti fare vi proponiamo oggi la nostra versione, forse meno suadente e più rock’n’roll.

3. Settate il kettle per una cottura indiretta a 110°C e mettete ad affumicare le costine e le salsicce. Non bucate queste ultime e aspettate che raggiungano un bel colore rossastro e rosolato, poi spostatele nella birra o nel brodo caldi. Le costine devono invece raggiungere il grado di cottura desiderato (c’è chi le preferisce più consistenti e chi, invece, vuole che si stacchino del tutto dall’osso). 4. Nel frattempo, tritate mezza cipolla e fatela rosolare, aggiungete quindi i fagioli precedentemente scolati e copriteli con nuova acqua. Portate i fagioli a cottura 5. In un dutch oven fate adesso rosolare la restante mezza cipolla e l’aglio tritati. 6. Quando il fondo sarà ben rosolato aggiungete la pancetta e il guanciale e fateli rosolare per qualche minuto (volendo potete aggiungere anche gli scarti delle ribs, se ne avete) poi i fagioli e la passata di pomodoro. 7. Aggiungete adesso acqua a coprire e regolate di sale e pepe. 6. Chiudete il dutch oven e lasciate cuocere a fuoco lento per almeno 3 ore. A fine cottura, tagliate grossolanamente una delle salsicce e giratela insieme ai fagioli, le altre affettatele a rondelline. 7. A cottura ultimata, servite i fagioli insieme alle costine e alle salsicce affumicate

PROCEDIMENTO 1. Mettete i fagioli a mollo in acqua per una notte 2. Trimmate e rubbate le costine di maiale con il Tennessee mild dry rub, usando un velo di olio di semi o di senape. AGOSTO 2020

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canarie

PATA A S A D A sagrada y venerada

Questa è la volta buona per portarvi alle Canarie. Vorrete mica dirci che non ci andreste? Chiudete gli occhi e lasciatevi trasportare. Come ve la raccontiamo noi, vi sembrerà di stare con i piedi che vi penzolano da un’amaca. Vi stiamo catapultando virtualmente a Tenerife. Volevate andare in Sardegna? Vedrete che alla fine non la rimpiangerete affatto, fidatevi. Ma parliamo subito dei sapori che conosceremo oggi. Quello che vi stiamo proponendo è un piatto tipico delle Canarie, fatto con la coscia del maiale. Si chiama Pata Asada. Se siete già stati da queste parti, sapete sicuramente di cosa stiamo parlando. Si realizza arrostendo nel la coscia del suino per ricavarne una sorta di prosciutto. Il roasting si esegue facendo cuocere il taglio, lentamente, a temperature non superiori ai 160°C per favorire una reazione di Maillard esterna pronunciata e una disidratazione delle carni. Nel caso specifico del Pata Asada, il nostro cosciotto subirà un trattamento con sale ed erbe aromatiche prima della cottura. La pata del cerdo asada è un piatto straordinariamente versatile: delizia sia da solo che accompagnato da salse (molto spesso al coriandolo) oppure dentro ai sandwich. È anche uno dei piatti più tipici delle feste di Natale alle Canarie, ma noi lo serviremo in un panino accompagnandolo a sapori estivi e freschi. Si suppone che questa preparazione sia nata in un tempo in cui, non esistendo frigoriferi, i generi alimentare per essere conservati anche per più giorni venivano salati, marinati e arrostiti. 42 - BBQ4All MAGAZINE

Tradizionalmente, al grasso che rimane sui bordi delle fette tagliate dalla coscia si aggiunge il sale; l’arrosto di coscia non può essere servito senza las cortezas, ovvero la crosticina esterna che conosciamo bene noi griller. Di solito i suoi accompagnamenti ideali sono le papas arrugadas, ovvero le patate arrostite


nello stesso sugo di cottura della coscia, oppure le papas arrugadas con mojo, cioè arrostite e poi accompagnate con la salsa mojo (se avete letto l’articolo introduttivo, sapete cos’è). Per quanto riguarda il pane, a Tenerife è molto diffuso e persino protetto con certificazioni apposite dell’Unione Europea, il Gofio. È di fatto un mix di farina di miglio e cereali. Il dettaglio che rende così particolare il sapore di questa farina è la tostatura dei vari semi prima di essere triturati. La polvere che si ottiene viene utilizzata poi per svariati piatti canari.

Noi abbiamo sfiorato l’idea di utilizzare il Gofio per preparare una focaccia da riempire col Pata Asada, ma dato che Trezzi era super impegnato e non ha potuto studiare una ricetta in tempi utili (ma vi promettiamo che lo costringeremo a farlo nei prossimi mesi) abbiamo pensato di utilizzare un filone multicereali. A questo, abbiamo abbinato un ananas grigliato. Non fettone da 2 cm, ma una sorta di carpaccio che ben si sposa con il gusto del maiale e ne contrasta le note grasse.

Come base, un’insalata gentile, croccante e gustosa e un formaggio erborinato, lo Stilton, uno dei pochi formaggi inglesi a denominazione di origine controllata che aggiunge al nostro panino l’elemento piccante oltre a una buona dose di umami. Tutto questo viene poi accompagnato dal famoso mojo al coriandolo (ma se non gradite questa spezia, potete sostituirla con qualsiasi cosa vi aggradi). Vediamo subito tutti i passaggi perché la fame si fa sentire.

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I NGREDIEN T I

P ER 4 P ERSO NE • un cosciotto di maiale (1,5 kg circa) • 4 spicchi d’aglio • Erbe aromatiche a piacere (origano, rosmarino, timo) • Sal’s Seasoning BBQ4All Ultimate SPOG q.b. • Sal’s Seasoning BBQ4All Memphis q.b. • 1 ananas • 100 g di insalata gentile • 100 gr Formaggio erborinato Stilton • 10 grani di pepe nero • 100 ml Olio extra vergine di oliva • 300g di coriandolo • un cucchiaino di cumino in polvere • 20 g di aceto di mele • due filoncini di pane ai multicereali di circa 300 g l’uno

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PROCEDIMENTO 1. Togliete il cosciotto dal frigo almeno un’ora prima e lasciatelo a temperatura ambiente. 2. Impostate il vostro dispositivo per una cottura indiretta a circa 180°C in griglia. 3. Incidete la cotenna del cosciotto a losanghe e praticate, in alcuni punti, delle incisioni nella carne, dove inserirete gli spicchi d’aglio tagliati per metà. 4. Cospargetelo di Sal’s Seasoning BBQ4All Ultimate SPOG, senza eccedere. Aggiungete tra le incisioni qualche grano di pepe e spolverate il tutto con Sal’s Seasoning BBQ4All Memphis. 5. Tritate finemente alcuni rametti di erbe aromatiche e cospargete la coscia di maiale, strofinando delicatamente. 6. Mettete il cosciotto in cottura indiretta sino ai 78/82°C al cuore. 7. A cottura ultimata, fate alla coscia il rest sino a raffreddamento e poi conservatela eventualmente in frigorifero. 8. Tagliate l’ananas a fette spesse non più di mezzo centimetro e caramellatele sul dispositivo o su una piastra in ghisa. Mettetele da parte e lasciatele freddare. 9. Con un mixer, tritate le foglie di coriandolo e uno spicchio d’aglio, aggiungendo il cumino in polvere e l’olio a filo, sino ad ottenere una salsa cremosa e fluida. Ora avete tutto ciò che serve per assemblare il vostro panino. 10. Lavate e asciugate alcune foglie di insalata gentile. 11. Procedete al taglio del pata asada, a fette da circa mezzo centimetro di spessore. 12. Scaldate i panini e apriteli a libro. 13. Oliate e salate alcune foglie di insalata gentile in un contenitore e disponetele sulla base del panino. 14. Coprite le foglie di insalata, con le fette di ananas caramellata. 15. Sovrapponete all’ananas le fette di pata asada. 14. Insaporite la carne con qualche cucchiaino di mojo verde. 15. Infine sbriciolate alcuni pezzetti di formaggio Stilton sopra la carne e chiudete il panino. Anche questo viaggio si conclude con una bella scorpacciata fra amici. AGOSTO 2020

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RICETTA a cura di MICHELA BONGIORNI

Isole Cayman

TATAKI DI TONNO AL SESAMO CON LIME PEPPER SEASONING Anche a Jack Sparrow piace questo elemento.

Non è solo il paradiso fiscale per cui tutti maggiormente lo conoscono: il territorio d’oltremare del Regno Unito è anche un incantevole posto ricco di biodiversità. Tartarughe, pappagalli, orchidee, farfalle, fondali spettacolari e barriera corallina: sono tantissime le attrattive che offrono le Cayman. Il Queen Elizabeth II Botanic Park, ad esempio, ospita trecento specie native ed è uno spettacolo da maggio a giugno, quando fioriscono le orchidee. Il National Trust Parrot Reserve è il luogo in cui nidifica il pappagallo verde smeraldo: qui si possono fare escursioni guidate. La meta per le immersioni più famosa è un cacciatorpediniere russo, che si sta popolando come una scogliera artificiale, affondato apposta nel 1996 per dare l'opportunità a chi fa immersioni di fare un giro di ricognizione in un relitto. Già, perché non può mancare, nell’immaginario comune, l’idea che sui fondali del Mar dei Caraibi ci siano navi affondate cariche di tesori nascosti. D’altronde, nel XXII secolo queste isole erano un rifugio di pirati: la leggenda vuole che il pirata Barbarossa abbia nascosto sull’isola di Cayman Brec il suo tesoro, così bene, ma così bene, che da allora nessuno è più riuscito a trovarlo. Ogni anno a novembre viene organizzato il Pirates Week Festival una specie di carnevale a tema, che permette anche agli adulti il piacere di travestirsi da feroci banditi dei mari che si nascondevano in queste isole. Immaginate l’esercito di Jack Sparrow che si muove per le stra46 - BBQ4All MAGAZINE

de e sulle spiagge del luogo. Magari non altrettanto irriverenti, sconclusionati e irresistibili come l’originale, ma vabbè, ci accontentiamo. Tornando al motivo per cui siamo qui, cioè la ricetta, abbiamo scelto di presentarvi un tataki di tonno al sesamo aromatizzato con i sapori caratteristici proprio dei Caraibi e delle Cayman: lime pepper seasoning. Per quello che riguarda la materia prima, abbiamo usato dei cubi di tonno Pinna Gialla cotti con la tecnica tataki, ovvero solo premarinato e poi scottato velocemente all'esterno. Il famoso mouse ring che tanto odiate nelle bistecche qui è obbligatorio: dentro il tonno deve rimanere crudo e freddo, perché le diverse temperature al morso si devono sentire. Il lime pepper seasoning è qualcosa che vi creerà dipendenza. In fondo è un condimento molto semplice, a base di lime essiccato, sale e pepe: ma è un’esplosione vera e propria per il vostro palato. Non ne potrete fare a meno: vi basti sapere che durante lo shooting lo abbiamo messo ovunque, anche sui pomodori verdi fritti dello scorso numero. Jack Sparrow (ma lui mi direbbe “Capitan Jack Sparrow, se permettete!”) da buon pirata ucciderebbe per questo piatto che rispetta le molte anime delle Cayman: quella raffinata e ricercata della cucina per i ricchi imprenditori che bazzicano da queste parti, quella fusion che nasce come conseguenza (un posto così turistico e frequentato ormai da tutto il mondo deve per forza fondere

i diversi sapori e le tecniche di cottura, per accontentare un po’ tutti) e quella caraibica che torna con forza nei sapori brillanti, speziati e essenziali del condimento. Non ci resta che levare l’àncora e salpare per le acque cristalline del Mar dei Caraibi, in fretta e senza pensarci troppo, perché ricordate il Codice dei Pirati: ogni uomo che rimane indietro, indietro viene lasciato. PROCEDIMENTO 1. In un recipiente, mettete gli ingredienti della marinata e emulsionateli fino a ottenere un liquido omogeneo: immergete il tonno nella marinata e lasciatelo in frigo per un’oretta. 2. Nel frattempo pelate i lime con un pelapatate e mettete le bucce ad essiccare in forno a circa 60°C. Una volta essiccate tritatele finemente, poi unitele al sale e al pepe, amalgamando bene il tutto. 3. Una volta trascorso il tempo necessario, togliete il tonno dalla marinatura, spennellatelo con un velo di senape e passatelo nei semi di sesamo facendoli aderire bene. Cuocete il tonno su una piastra rovente per pochissimi minuti: dovrà essere dorato fuori e crudo dentro. 4. Servite il tonno tagliandolo a fettine di un cm, condendolo con un filo d’olio extravergine di oliva e il lime pepper seasoning.


I N G RED I EN TI

PER 4 PER SONE • 2 tranci da circa 200 g l’uno di Tonno Pinne Gialle • un velo di senape • semi di sesamo q.b. PER LA MARINATA: • il succo di un lime • 2 cucchiai di olio extra vergine di oliva • un cucchiaino di senape • un cucchiaino di salsa di soia PER IL CONDIMENTO: • 4 lime ben lavati • due cucchiaini di sale • due cucchiaini di pepe

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RICETTE a cura della REDAZIONE

sicilia Rotondo, supremo, celestiale

GELO DI MELLONE

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Il gelo di mellone (abbiamo rubato dei versi a Neruda per descriverlo nel titolo) è una specialità dell’antica pasticceria siciliana, in particolar modo di Palermo dove è stato incoronato dolce ufficiale del Festino di Santa Rosalia (15 luglio), la celebrazione in onore della patrona della città. Nel restante territorio siculo è legato alla festa dell’Assunta, ovvero a Ferragosto. Sull’isola è presente una ricca e florida produzione d’anguria, favorita dal clima caldo e temperato, quindi non è necessario programmare una vacanza intorno a questi due eventi per poter gustare questa leccornia. Infatti, non è una cosa insolita trovare ai bordi delle strade (da aprile fino ad ottobre) carretti o camioncini strabordanti di cocomeri pronti per essere venduti interi o a fette per una pausa dalla calura isolana. Contrariamente a quello che potete pensare, tratti in inganno dal nome il gelo di mellóne è realizzato generalmente con l’anguria, infatti nel dialetto siciliano il termine mellóne lett. significa cocomero (pare derivi dal francese melon d’eau, ovvero melone d’acqua). Questa cucurbitacea dai colori intensiil verde esterno, il rosso della polpa incorniciato dal bianco brillante della buccia e costellato da semi neri- dal sapore zuccherino , estremamente dissetante e nutriente è nota e apprezzata dall’uomo da quasi 5000 anni. Le prime testimonianze risalgono all’antico Egitto, dove era considerato una pianta sacra perché il popolo credeva fosse nata da un seme di Seth, il dio della malafede e della violenza che si manifestava sotto forma di tuoni e di burrasche. Perciò questo frutto, per la sua sacralità e per le sue proprietà nutritive e dissetanti, faceva parte del corredo alimentare con cui erano allestite le tombe dei faraoni (gli egiziani credevano che dopo la morte esistesse un’altra vita fatta degli stessi bisogni di quella terrena). Sembra che gli ebrei, durante il lungo peregrinare nel deserto del Sinai alla ricerca della “Terra promessa” rimpiangessero la dolce frescura del cocomero conosciuto durante la schiavitù in Egitto. A portare l’anguria in Europa ed in Italia furono nel XII secolo gli arabi durante la loro opera di conquista e di espansione. Certamente, in Sicilia la pianta ha trovato un clima favorevole per crescere e proliferare, tanto da diventare un ali-

mento fondamentale nella dieta sicula. Le origini del Gelo sono incerte: c’è chi ne attribuisce la paternità agli ottomani poiché portarono sull’isola non solo il frutto, ma anche tutti gli ingredienti per realizzare il dolce, mentre c’è chi la riconduce agli arbëreshë , gli albanesi, che tra il XV e il XVII secolo per sfuggire all’avanzata degli ottomani lasciarono la madre patria per cercare rifugio in Europa ed in Italia (Puglia, Campania e Sicilia). Il loro grande desiderio di integrazione avrebbe portato alla fusione di una tipica preparazione balcana a base di anguria (dove la pianta era già conosciuta ed apprezzata) con gli ingredienti presenti sul luogo. Ad avvalorare questa tesi è il fatto oggettivo che i nuovi abitanti si stabilirono nell’attuale Piana degli Albanesi nei pressi di Palermo e che il gelo sia originario proprio di quelle zone. Ma nello specifico che cosa è? A differenza di ciò che suggerisce il nome non è un alimento ghiacciato, è un dolce al cucchiaio che ricorda nella sua freschezza il gelato, però non ha una consistenza cremosa bensì gelatinosa e la sua preparazione è molto più rapida e semplice. Basta far sobbollire il succo dell’anguria con amido di mais e zucchero, come se stessimo preparando una crema; quando raggiunge il grado di densità desiderata il composto viene suddiviso in pirottini di acciaio, di alluminio o di silicone (in origine erano di coccio) e fatto freddare. Il sapore di questa preparazione può essere arricchito con diversi ingredienti, il cioccolato, la cannella, i chiodi di garofano, i pistacchi (rigorosamente di Bronte), il gelsomino (se parlerete con un amico siciiano, e ne abbiamo in redazione a cominciare dal boss, vi dirà che senza gelsomino non è omologabile) e i canditi; inoltre a volte possiamo trovarlo decorato con il tipico ornamento della cassata: la zuccata ( zucca candita). Ma tutto ciò dipende molto dalla tradizione familiare. Se siete pronti a cucinare, questa è la nostra ricetta. PROCEDIMENTO 1. Tagliate grossolanamente la polpa del cocomero, avendo cura di togliere tutti i semi, e frullatela con il mixer ad immersione.

2. Per eliminare la polpa in eccesso, versatela in un colino a maglie strette. In questo modo eliminerete anche i semi che vi sono sfuggiti nel passaggio precedente. 3. Versate il succo in un pentolino e aggiungete l’amido e lo zucchero. Ogni volta che unite un ingrediente mescolate bene con la frusta per evitare la formazione di grumi. 4. Ponete la pentola sul fuoco medio basso, continuando sempre a girare il composto prima con una frusta e poi con un cucchiaio. 5. Quando arriva al bollore, abbassate la fiamma al minimo e lasciatelo andare per due minuti circa, sempre continuando a mescolare. Controllate che abbia raggiunto almeno i 75°C. 6. Fatelo intiepidire leggermente e poi versate all’interno le gocce di cioccolato, l’essenza di gelsomino e la cannella, avendo cura di mescolare perché si distribuiscano in modo omogeneo. 7. Suddividete il liquido nei pirottini e lasciate riposare in frigo per almeno 8 ore. 8. Sformate il gelo direttamente sul piattino in cui verrà servito, dopodiché decoratelo a vostro gusto con le gocce di cioccolato e la granella di pistacchi.

I N G RED I EN TI

PER 6 PER SONE • 400 ml di succo di cocomero • 30 g di amido di mais • 40 g di zucchero di canna • 50 g di gocce di cioccolato fondente • 40 g di pistacchio tritato • una goccia di essenza di gelsomino • un cucchiaino raso di cannella

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VINI VINIABBINATI ABBINATIa acura curadidiENIO ENIOBERTON BERTON

C H A S S A G N E - M O N T R AC H E T L E S C H E N E VOT T E S PREMIER CRU

Un trancio di tonno leggermente scottato, ben rosato all’interno, con il sesamo ad esaltarne i profumi ed il lime a bilanciarne la succulenza rappresenta sempre un piatto da signori. Gli abbinamenti possono spaziare: in questo caso, non abbiamo limiti alla scelta anche se, dando per scontato i bianchi, non dobbiamo esagerare con i vini rossi di corpo. Come già ho avuto modo di raccontare, esiste una zona francese che merita attenzione ed approfondimento. La Borgogna è conosciuta in tutto il mondo per i suoi Pinot Neri e per il suo Chardonnay, vitigni autoctoni della regione che sono, molto spesso, considerati modelli di riferimento per le altre zone produttive. La latitudine dell’area geografica con un clima fresco favorisce la maturazione ottimale dei grappoli di questi due vitigni ma, al tempo stesso, le avversità climatiche possono incidere in maniera pesante sulla qualità del prodotto; per questo motivo ogni annata ha le sue caratteristiche difficilmente ripetibili. La classificazione dei vini in Borgogna segue un’indicazione non solo territoriale, con il riconoscimento dei vari villaggi, ma anche delle potenzialità del terreno e della sua esposizione. Il territorio si divide in cinque macro aree. Chablis è la zona più a nord distante solo 40 chilometri dalla zona dello Champagne e a 100 chilometri dalla zona più famosa della Côte d’Or. Zona di produzione di Chardonnay freschi con note di pietra focaia, lì viene privilegiata la vinificazione e maturazione in vasche d’acciaio. La classificazione dei vini, partendo dalla più bassa, sono Petit Chablis, Chablis; ci sono poi 40 vigneti che possono vantare l’appellation di Chablis Premier Cru e solo sette hanno la classificazione di Chablis Grand Cru. La Côte D’Or si estende da Digione fino a Santenay, più a sud; a sua volta è divi-

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sa in due sotto regioni, a nord si trova la Côte de Nuits famosa per i vini rossi da Pinot Nero ed una piccola produzione di vini bianchi da uve Chardonnay, Pinot Grigio e Pinot Bianco. A sud troviamo la Côte de Beaune celebre per i vini bianchi da uve Chardonnay. Tutti i vini Grand Cru e la maggior parte dei Premier Cru della Borgogna provengono da questa zona. La loro classificazione parte dalle Appellations régional, ossia il Bourgogne Rouge e il Bourgogne Blanc: sono prodotti con uve provenienti da diversi villaggi e spesso assemblano vini prodotti in diverse parti della regione. Al di sopra di essa vi sono le Appellations communal ossia i Villages, riservate a vini prodotti unicamente in uno specifico luogo stabilito dal disciplinare. I vini riportano sempre in etichetta il nome del villaggio. Le categorie superiori prevedono la differenziazione dei vini per singolo vigneto. La menzione Premier Cru è riservata attualmente a 562 vigneti (o climat) che rappresentano circa l’11% della produzione totale della Borgogna. Il nome del vigneto viene riportato nell’etichetta subito dopo quello del villaggio di appartenenza. La categoria più alta è il Grand Cru ad oggi riconosciuta ad appena 33 vigneti per il 2% della produzione totale. Per i Grand Cru in etichetta non viene riportato il nome del villaggio di appartenenza ma solamente quello del vigneto. La Côte Chalonnaise si trova a sud della Côte d’Or e produce vini sia rossi che bianchi (alcuni sono Premier Cru); la zona è famosa per la produzione di vini bianchi da uve Aligoté e per un metodo classico, il Crémant de Bourgogne . Il Mâconnais, ancora più a sud, produce vini bianchi meno eccelsi e non sono presenti né Premier Cru né Grand Cru. I migliori vini del Mâconnais sono tutti bianchi e tutti prodotti con Chardonnay.

dalle altre pur appartenendo geograficamente ad essa. Diverso è sia il clima che i vitigni: questa è la patria del Gamay e del suo vino Beaujolais Nouveau, il vino novello divenuto così famoso nel mondo da fare dimenticare gli altri e più importanti vini di questa zona. I vini possono avere tre menzioni di qualità crescente: Beaujolais, Beaujolais-Villages e Beaujolais Cru.

Vino: Chassagne-Montrachet Les Chenevottes Premier Cru 2014

Cantina: Au Pied du Mont Chauve

Abbinamento: Tataki di Tonno Lime Pepper

Uve: 100% Chardonnay

Zone produzione: ChassagneMontrachet Les Chenevottes

Grado alcolico: 13,00%

Da servire: 10/12 gradi in calici a tulipano

Una bella meta turistica ma, se programmate di visitare delle cantine, non osate presentarvi senza appuntamento. Ma torniamo al nostro tonno. Il domaine Au Pied du Mont Chauve ha sede nel castello di Chassagne-Montrachet con un totale di 35 ettari di vigneto dislocati nelle zone più rinomate della Côte D’Or. Al comando, dopo varie esperienze professionali, troviamo Francine Picard, erede di una delle più famose ed importanti dinastie del panorama vitivinicolo francese. Non possiede nessun certificato ma i vigneti vengono coltivati seguendo i dettami dell’agricoltura biologica. I climat sono dislocati nei rinomati villaggi di Chassagne-Montrachet, Puligny- Montrachet, Saint-Aubin e sulla collina di Corton. Il vigneto di questo Premier Cru si estende per circa 10 ettari su un terreno mediamente pianeggiante quasi a ridosso dei Grand Cru di Les Montrachet e Batard-Montrachet. Dal colore giallo paglierino con riflessi dorati sprigiona profumi di fiori bianchi, sentori agrumati e di mela verde. Al palato dopo una prima nota limonosa si espande con un corpo caldo, sapido ed avvolgente, con note di frutta a pasta bianca. Fin di bocca persistente e suadente.

Il Beaujolais è l’area vinicola più a sud della Borgogna, completamente distinta

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VINI VINIABBINATI ABBINATIa acura curadidiENIO ENIOBERTON BERTON

MA D E I RA 1 0 Y E A R S Il Gelo di anguria, dolce al cucchiaio tipico siciliano, rappresenta un fine pasto leggero e rinfrescante soprattutto in questo periodo dell’anno. Per questo dolce viaggiamo, con la fantasia, fino al largo del Marocco nell’isola di Madera possedimento portoghese noto per il suo vino liquoroso. Scoperta nel 1418, il nome gli fu dato per l’impenetrabile foresta di cui era ricoperta. Per aprirsi dei varchi gli scopritori iniziarono ad appiccare fuochi che ben presto rasero al suolo tutta la foresta lasciando un ottimo substrato di cenere, sopra la pietra lavica, utile per la coltivazione della vite e della canna da zucchero. Nel 1489 i Gesuiti iniziarono le vinificazioni nel convento di Santa Chiara al centro della capitale dell’isola Funchal. Furono proprio i Gesuiti ad impiantare, nell’isola, le barbatelle di Malvasia importate da Creta. Nel 1600 veniva prodotto un vino da pasto, che era esportato in Europa, attraverso l’utilizzo di uve di malvasia e verdelho che in alcune parti dell’isola non raggiungevano la piena maturazione a causa del clima. Per ovviare al problema si iniziò ad usare la canna da zucchero o alcol da canna da zucchero per diminuirne l’acidità. Questa aggiunta, si scoprì poi, permetteva un miglior affinamento del vino stivato nelle botti delle navi soggetto a temperature molto elevate. Il vino veniva chiamato “vinho da roda” ossia vino di ritorno proprio per la sua caratteristica di invecchiare nelle stive delle navi durante i lunghi tragitti verso l’Europa o le Americhe. Il metodo di vinificazione da allora consiste nel sottoporre il vino, dopo la fermentazione, per un periodo di alcuni mesi, a temperature attorno ai 50° C utilizzando dei contenitori in pietra suddivisi a scompartimenti e riscaldati da aria calda proveniente da stufe. Le “estufas”, come sono chiamate, simulano il viaggio in navi delle antiche botti e permettono, quindi, al vino di assumere il suo carat-

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teristico sapore e colore aiutato anche dalla costante aerazione della superficie delle vasche , he ne agevola il processo di ossidazione. Il termine “maderizzato” indica difatti, in enologia, un vino vecchio ossidato. I vitigni utilizzati per la sua produzione sono il Tinta Negra Mole un incrocio tra Pinot Nero e Grenache utilizzato per le produzioni dei vini generici o usato come taglio sui vini provenienti da vitigni a bacca bianca che producono i vini più importanti. I vitigni a bacca bianca sono il Sercial, vitigno aromatico impiantato nei terreni più elevati e soggetto a forni sbalzi termici dal quale si ottengono i vini più rinomati, il Verdelho leggermente più zuccherino e coltivato in zone più basse, la Malvasia coltivata in tutta l’isola ed il vitigno autoctono Boal dalle origini misteriose. Un vitigno molto particolare è il Terrantez, in via di estinzione a causa della sua bassa produttività ed alta attitudine alle malattie. La classificazione del Madera prevede sette tipologie distinte che indicano il passaggio in botti ed il tipo di vitigno usato. Il vino da Tinta Negra Mole con 3 anni di botte viene classificato Rainwater senza passaggio in estufas o Finest con passaggio in estufas. Con 5 anni di botte viene classificato Reserva. Con 10 anni di botte e prodotto con Tinta Negra Mole e con percentuali inferiori al 20% di altri vitigni nobili bianchi ha la classificazione Special Reserve. Con 15 anni di botte è Extra Reserve

I vini con invecchiamento da 5 a 15 anni devono indicare anche il loro grado zuccherino, quindi in etichetta troveremo Seco (secco), Meio seco (abboccato), Meio doce (amabile) e doce (dolce) La cantina Henriques & Henriques è stata fondata nel 1850 da un membro di una storica famiglia di Camara de Lobos, località a 10 chilometri dalla capitale Funchal. Francisco Eduardo e João Joaquim Henriques subentrarono al padre João Gonçalves dopo la sua morte nel 1912. Fecero crescere l’azienda di famiglia e nel 1925 decisero di spedire direttamente i vini per accorciare la filiera di produzione. Dopo la morte dell’ultimo Henriques, in mancanza di eredi, l’azienda è ora governata da tre soci amici dello scomparso, tra i quali Peter Cossart con alle spalle 53 anni di presenza in azienda. Di particolare interesse lo stock di vecchie annate disponibili che vanno dal Malmsey (Marsala) del 1900 e del 1934 al Sercial del 1964.

Vino: Madeira 10 years

Cantina: Henriques & Henriques

Abbinamento: Gelo di Anguria

Uve: 100% Malvasia

Zone produzione: Madeira (Portogallo)

Grado alcolico: 20,00%

Da servire: 16/18 gradi in bicchieri da liquore

Non cercate il sito internet della cantina, non ce l’hanno. Il Madeira 10 years è il più raro della sua categoria, prodotto solo con uve Malvasia (Malmsey) viene affinato in botte per almeno 10 anni. Dal colore rosso porpora intenso, sprigiona, al naso, sentori di frutta rossa matura che si abbinano perfettamente a note di spezie e vegetali. In bocca si esaltano i profumi fini e perfettamente bilanciati con la caratteristica nota dolce. Fin di bocca persistente.

Vini di un’unica annata e spesso di un unico vitigno, che viene dichiarato in etichetta, sono i Colheita. Il vino invecchia per un periodo variabile da 10 a 20 anni, senza utilizzo del calore. Il Frasqueira, detto anche Vintage, deve essere invecchiato almeno 20 anni senza uso del calore ,e deve provenire da un singolo vitigno. L’annata viene dichiarata in etichetta.

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BIRRE CONSIGLIATE a cura di RICCARDO MENICONI

M R . CA N E D I G U E R RA

Il cheese&bacon roll è un soffice panino ricoperto di cheddar fuso e bacon croccante. In Australia è consetudine comprarlo nelle "Bakery", e consumarlo principalmente durante i Picnic o come spuntino. È semplice da mangiare e semplice da fare, in piano stile australiano, dove la filosofia di vita si può riassumere con una frase: "No worries, mate!" (Niente preoccupazioni). Forse è per i luppoli coltivati in quelle zone che la Pacific Ipa di Alessandro Allo Gatti, Mr. Canediguerra, è così fresca e spensierata. Ti fa entrare esattamente nello spirito giusto. Il nuovo formato in lattina poi è l'apoteosi della comodità. Come direbbe qualche coach BBQ4All: zerosbatti. Appena versata nel bicchiere si veste di un colore dorato carico, limpido e con un cappello di schiuma bianca candida, dal perlage fine e abbastanza persistente. Al naso è molto fruttata, si possono distinguere svariati frutti tropicali, come ananas, frutto della passione e mango, accompagnati da sentori agrumati di pompelmo e di erba appena tagliata. In bocca è coerente: ritroviamo tutta la frutta con l'esercito di luppoli in bella vista, l'ingresso è delicato, leggermente maltato, con un corpo snello e veloce; il malto Maris Otter (al 100%) è in grado di valorizzare la frutta e aggiungere piacevolissime note di cocco, per poi spostarsi su sensazioni verdi e amaricanti con un finale asciutto e lievemente astringente. La carbonazione è leggere, e i 5,6° ve ne faranno sicuramente stappare un’altra... But, no Worries, Mate!

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RO B U ST PO RT E R

La Feijoada è un tipico piatto Brasiliano, si tratta di uno stufato di fagioli e carne, spesso accompagnato con riso bianco. Noi ve ne abbiamo dato una versione bbq, come potete leggere nelle ricette. Nato come piatto povero, oggi è divenuta una pietanza prelibata, un po' diversa dal passato, ed è spesso consumata durante le festività. Si può trovare in quasi tutti i ristoranti brasiliani, ma per via della lunga preparazione è disponibile solamente in determinati giorni della settimana, spesso nei weekend.

Come tutti i piatti delle feste è dunque abbondante, grasso e godurioso. Dobbiamo quindi abbinare una birra "spessa", dal carattere deciso e schietto, in grado di supportare questa opulenza. Se c'è una cucina che conosce bene le zuppe di fagioli e le frattaglie è sicuramente quella toscana, così oggi andiamo a Pienza, in provincia di Siena, a trovare i nostri amici di Brasseria della Fonte, che nasce come beerfim nel 2015 e nel 2016 diventa un vero e proprio birrificio, acquistando un proprio impianto e collocandolo all'interno di un bellissimo Agriturismo nel mezzo delle colline toscane. La loro line-up è varia; pur rimanendo nelle birre ad alta fermentazione (Ale) di ispirazione anglosassone, si spazia dalle Summer Ale alle Imperial Stout, e si attraversano vari stili come Scotch Ale e Porter. Ed è proprio la Robust Porter che andremo a bere oggi. Nel bicchiere si presenta di un color ebano, quasi nero, con leggeri riflessi mogano e sovrastato da un cappello di schiuma compatta e ferma di colore bianco crema. Al naso arrivano note torrefatte di cacao, orzo tostato, frutta secca e caffè, grazie a i 6 tipi di malto utilizzato (Pale, Monaco, CrystalT, Crystal DRC, Fiocchi d'avena, Roasted Barley), e un leggero sentore resinoso derivato dall'unico luppolo presente in questa birra (il Columbus). In bocca è come ce la si aspetta: le note di cacao e cioccolato, caffè e noci sono ben calibrate, notiamo una leggera torba e lievi sensazioni acidule da caffè. Se spillata a pompa, come tradizione vuole, il tutto viene ammorbidito e la carbonazione così leggera, aiuta la beva che è già di per sé abbastanza scorrevole, visti anche i suoi 6,6°abv. Il corpo è medio, con un finale amaro e snello. Vi consiglio di servirla in una pinta americana ad una temperatura di circa 8°C. AGOSTO 2020

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COCKTAIL a cura di RICCARDO MENICONI

PIÑA COLADA 56 - BBQ4All MAGAZINE


Il pollo fritto è diffuso in tutto il mondo, dalla Cina al sud America, oggi proviamo questa versione dominicana, rivisitata però in chiave BBQ4All. Il Pollo Pica prevede una marinatura di circa 12 ore, per poi essere panato in un mix di farina, pan grattato e spezie. Noi naturalmente abbiamo usato il nostro Rub Tennessee e un po' di paprika forte, per poi procedere ad una cottura non convenzionale nel kettle. Non so voi, ma io mi diverto molto cucinando questi piatti: ti fanno viaggiare e scoprire abbinamenti nuovi, sapori sorprendenti e culture incredibili.

“Se non potete arrivare al paradiso, lo porterò io da voi” Disse negli anni 30 Ernest Raymond Beaumont Gantt conosciuto come Donn The Beachcomber. Ernest Raymond nasce in Texas nel 1907 da una famiglia non molto benestante e, dopo qualche anno di lavoro, decide di spostarsi verso la California per poi viaggiare in tutto il mondo come Commissario di bordo. Partendo dalla Jamaica, dove si appassiona di Rum, approda nelle isole Caraibiche e del Sul del Pacifico. Arriva ad Hollywood durante l'era del proibizionismo e prende parte, per guadagnare qualche soldo extra, al contrabbando di Whisky Canadese. Qualche anno dopo, nel 1933, terminato il proibizionismo, decide di aprire un locale a tema polinesiano dove servire i suoi drink a base di succhi e distillati. Sfruttando le conoscenze sul Rum e i suoi agganci "secondari", può permettersi una materia prima di ottima qualità ad un prezzo accessibile così da improntare la sua cocktail list esotica su questo distillato, all'epoca ancora poco conosciuto negli Stati Uniti. Nasce così la moda dei TIKI: cocktail, dissetanti e golosi, adatti ad ogni momento della giornata da bere in relax a bordo piscina o sul bagnasciuga di una spiaggia bianca e incontaminata. Spesso questi drink vengono associati ad un sapore dolce e stucchevole, e spesso è così, ma non se sono fatti con materie prime di qualità ed equilibrati da mani esperte. Nell'Olimpo alcolico della categoria c'è sicuramente la Piña Colada, perfetta per accompagnare in modo sfizioso il nostro pollo e abbastanza semplice da fare a casa. Ci serviranno: • • • • • • •

4cl di Rum Bianco 9cl di succo di ananas fresco ben maturo 3cl di crema di cocco 1,5cl di succo di lime 1 fettina di ananas Ghiaccio tritato (circa 80 grammi) A guarnire, uno spicchio d'ananas e le sue foglie

Procediamo così: Versiamo in un frullatore il rum, il succo d'ananas, la crema di cocco, una fettina di ananas, il lime, (anche se solitamente non è utilizzato serve ad equilibrare meglio i sapori rendendo il tutto meno dolce) ed infine il ghiaccio tritato. Frulliamo per qualche secondo senza esagerare, non è un frozen. Versiamolo in un grande calice o in una di quelle bellissime Tiki Mug. Completiamo con lo spicchio d'ananas, le foglie ed una cannuccia. AGOSTO 2020

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L'ARTE BIANCA - RUBRICA a cura di ALESSANDRO TREZZI

sicilia L'irresistibile

SFINCIONE PALERMITANO In cosa si distingue un vero appassionato di cucina? Oltre ad essere ossessionato nella perfetta realizzazione dei piatti, il vero nerd tende a studiare e a conoscere i retroscena storici e culturali del prodotto di riferimento, una pratica importantissima e imprescindibile per questa grande arte: sapere come è nata e si è evoluta una qualsiasi preparazione è fondamentale per meglio comprendere come essa possa crescere e fin dove possa arrivare. Io sono di Milano, città non certo conosciuta per la sua pizza, e che tuttavia ha nella sua tradizione un golosissimo baluardo dei pranzi lavorativi e universitari: il trancio- un materassone alto, morbido, farcito con un’abbondante dose di pomodoro, mozzarella, origano e del buon olio- è colpevole di riportarmi alla mente le merende dal panettiere o le veloci pause pranzo sin dai tempi dell’Università. Ma come ha fatto un prodotto così distante dalla cultura meneghina a giungere in questa terra? Sebbene abbia chiare assonanze con la pizza da panificio, è innegabile che la diffusione del trancio nel milanese abbia origini ben precise, come spesso raccontato dalla famiglia Innocenti, fondatori di Spontini. Gli anni ‘50 e ‘60 sono per l’Italia quelli della ricostruzione e del boom economico, ed è Milano a prenderne le redini, causando una massiccia immigrazione da tutto il paese. Tra i tanti, arrivano nella grande città i progenitori degli Innocenti, toscani di origine e proprietari di osterie e trattorie. È proprio uno di loro ad aver portato (prima in Toscana negli anni a cavallo tra le due guerre e poi a Milano dopo la seconda) la pizza al taglio, una rivisitazione di una specialità scoperta durante uno dei suoi viaggi in Sicilia. Esatto, l’antenato del trancio milanese è proprio lo Sfincione, ricetta palermitana legata alle feste natalizie, quando per l’occasione si “vestiva a festa” il semplice impasto del pane. Dal latino spongia e dal greco spòngos, ossia spugna, è una pizza alta, morbida, farcita con una salsa a base di pomodoro e cipolla, acciughe, origano e caciocavallo ragusano. 58 - BBQ4All MAGAZINE

Il toscano lo scopre, se ne innamora, e di ritorno a casa lo ripropone senza i sapori forti inadatti per i gusti locali, ci aggiunge la mozzarella e la vende al taglio. Ed è proprio questo uno degli aspetti più belli della cultura panificatoria del nostro paese: ovunque si vada è possibile trovare somiglianze stupende tra pizze, focacce e forme di pane, che pur presentando nomi differenti riportano aspetti comuni evidenti nella forma e nel processo di realizzazione. Ma Milano non è certo l’unica ad aver subito l’influenza di questo classico della tradizione isolana. In America (specialmente negli stati nel Nord-Est del continente) esiste una celeberrima tipologia di pizza denominata Sycilian Style che ricalca gli stessi dogmi dello Sfincione: soffice, alta, croccante alla base, cotta in teglia e farcita con abbondante pomodoro.

LA STORIA

Il classico Sfincione nasce nel cuore di Palermo, con tutta probabilità nel Convento di San Vito, tra il mercato del Capo, la via Cappuccini e Piazza Indipendenza. L’esigenza primaria era quella propria di qualsiasi panificato condito della tradizione povera: preparare una sorta di pane saporito per le festività, poi sdoganato in epoca recente in tutti i mesi dell’anno. Esiste anche una variante bianca, specialità di Bagheria, tipicamente di forma tonda, e preparata con acciughe, tuma a fette (un formaggio siciliano a latte crudo di pecora), pangrattato, pecorino grattugiato, cipolla, sale e olio extravergine di oliva. La storia dei due gemelli è profondamente correlata.


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Nel 1650 il principe Giuseppe Branciforte di Butera, dopo il fallimento del complotto contro la Corona per ottenere il distacco della Sicilia dalla Spagna, decise di ritirarsi nei propri possedimenti vicino Palermo, facendosi costruire un imponente palazzo fortificato attorno al quale si sviluppò, negli anni successivi, l’odierna Bagheria. Nella corte di servitori del principe militavano i Monsù, i cuochi a servizio delle famiglie aristocratiche siciliane, i quali erano soliti riprodurre la ricetta dello sfincione creata dalle monache del monastero di San Vito per la famiglia Branciforte. Si trattava di una rivisitazione di una ricetta araba o forse greca, e prevedeva l’utilizzo di besciamella, frattaglie di pollo e piselli. A Bagheria i cuochi del Principe decisero di re-inventarlo utilizzando le materie prime del territorio, sostituendo la besciamella con la tuma prodotta dai caseari del posto. Dopo la seconda guerra mondiale il prezzo del pomodoro si abbassò notevolmente, diventando accessibile al popolo. È proprio in questo periodo che dallo sfincione vengono eliminati quasi tutti gli altri ingredienti: nasce così la celebre variante rossa dello sfincione palermitano, un cibo di strada acquistato tra i vicoli e nei mercati. Nella tradizione popolare bagherese, invece, le famiglie portavano nei forni del quartiere i propri ingredienti per creare la propria versione con l’aiuto del maestro sfincionaro.

LO SFINCIONE PERFETTO

Facciamo insieme un gioco, vi va? Creiamo nella nostra mente l’immagine chiara e nitida dello sfincione perfetto. Una pizza alta, morbida, spugnosa, farcita di tutto punto. Una bomba di sapori in rapida successione, dalla cremosità della salsa di pomodoro e cipolle, al gusto intenso dei formaggi e dell’olio, al balsamico dell’origano, fino ad arrivare al kick sapido finale dell’acciuga, il tutto racchiuso dalla doppia crosta croccante della base e del pangrattato che ben si contrappone all’estrema morbidezza della mollica. Voi non avete idea del carattere estremamente pornografico di 60 - BBQ4All MAGAZINE

questa teglia. E ora che avete ben chiaro il risultato da raggiungere, che ne dite di dare un occhio ai segreti del capolavoro siciliano? Prima di iniziare precisiamo come sempre: non si tratta della ricetta iscritta all’albo, né di quella di vostra nonna. Ciò che vedrete è un processo scientifico, atto a conferirvi le capacità per creare uno sfincione perfetto sotto ogni punto di vista, standardizzabile, ripetibile e che rispetti le caratteristiche tecniche che ne definiscono la tipologia. Tutto chiaro? Perfetto, cominciamo. IL MIX DI FARINE La Sicilia, come quasi tutto il Sud, è una terra dove l’utilizzo del grano duro trova ampio respiro, e lo sfincione non fa eccezione. Il colore del grano duro tende al giallo per la presenza di carotenoidi; il glutine, corto e stretto, consente una maglia glutinica fitta e resistente, con alveoli piccoli e uniformemente distribuiti. In genere è in grado di assorbire e di trattenere maggiori quantità d’acqua (60-68% contro i 50-60% del grano tenero) e ha una resa più elevata. Di contro, è meno stabile e più tenace, ragione per cui, con l’obiettivo di rendere le ore di riposo più equilibrate e soggette a minor rischio di collasso, oltre a spezzare la resistenza già citata, esso s’impiega spesso insieme a quello tenero. E guarda un po’, è proprio quello che faremo noi oggi. Al fine di ottenere una struttura quanto più possibile aperta, ma morbida e spugnosa, ci atterremo su una percentuale del 70% di grano tenero e del 30% di semola rimacinata di grano duro. IL MAGICO TOPPING Non ve lo nascondo: la farcitura dello sfincione è tra le cose più goliardiche e pornografiche che mi sia mai capitato di assaggiare in vita mia.


I NGREDIEN TI

P ER 2 TEG L I E 3 0 X 4 0 C M PER L'IMPASTO: • 700 g di farina 00 (300 W); • 300 g di semola o di sfarinato di grano duro; • 600 g acqua; • 50 g olio extra vergine di oliva; • 15 g lievito di birra fresco; • 25 g malto d’orzo in sciroppo o 5 g di malto diastasico in polvere; • 25 g sale fino. PER LA SALSA: • 800 g di pomodori pelati; • 1 cipolla bianca grande; • 4 acciughe; • Sale fino; • Pepe nero; • Origano; • Olio extra vergine di oliva q.b. PER LA FARCITURA: • 300 g di caciocavallo semistagionato; • 40 g di acciughe; • Origano a piacere; • Caciocavallo semi-stagionato grattugiato a piacere; • Pangrattato; • Olio extravergine di oliva.

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Il segreto sta nel preparare una salsa di pomodoro e nel calibrarne attentamente la cottura, al fine di ottenere un semilavorato che non sia né troppo liquido ma nemmeno troppo denso. Dovranno concentrarsi insieme tutti i sapori utilizzati, al fine di creare una verticale che esploderà in bocca rendendo l’esperienza appagante e dall’altissimo livello sensoriale. E lì, sotto a quella copertura di pomodoro, si nascondono le piccole gioie: cubetti di caciocavallo semi-stagionato che in alternanza con l’acciuga riempiono di sorpresa il morso dell’incurante assaggiatore, che non può non innamorarsi del cavallo di razza siciliano. Ve lo assicuro: se ben fatto, questo sfizioso prodotto è amato da chi generalmente non apprezza la cipolla, e ciò significa parecchio. L’impasto come sempre riveste un ruolo fondamentale: considerando il peso e la generosità della farcitura, è importantissimo che la struttura possa sostenere il grosso carico richiesto, motivo per cui non esageriamo con l’innesto di grano duro e preferiamo conservare una buona base di grano tenero che dia struttura ed espansione.

LA RICETTA

La preparazione dello sfincione palermitano si svolge in otto fasi distinte: 1. Impastamento; 2. Puntata o prima lievitazione; 3. Staglio o formatura dei panetti; 4. Appretto o seconda lievitazione; 5. Stesura 6. Terza lievitazione in teglia; 7. Preparazione della salsa e farcitura; 8. Cottura; IMPASTAMENTO Cominciate sciogliendo lievito e malto nell’acqua e aggiungete il tutto al mix di farine precedentemente mescolate tra loro. Verso la fine mettete il sale e solo all’ultimo l’olio, poco a poco e a filo, perché il peso potrebbe compromettere la formazione della maglia glutinica rovinando il lavoro svolto. PUNTATA Una volta ottenuta la massa liscia e asciutta, posizionatela in un contenitore stretto dai bordi alti chiuso ermeticamente e lasciatela puntare per circa mezz’ora a temperatura ambiente, coprendo con un panno umido per evitare la formazione della pelle. STAGLIO E APPRETTO Ricavate due pagnotte di egual peso da sistemare in altrettanti contenitori ben oliati, per poi riporre tutto in frigorifero a circa 6°C per 18 ore. STESURA Al termine di questa fase l’impasto sarà quasi triplicato; ungete due teglie di alluminio e rovesciateci i panetti. L’alluminio è in assoluto il materiale che più si presta allo scopo perché, a causa della conduzione uniforme del calore e dello spessore più elevato, evita che la base diventi croccante prima del tempo e consente alla lunga cottura di risultare il più equilibrata possibile.

Appiattite i panetti leggermente con il palmo della mano e poi stendeteli uniformemente con il mattarello, per ottenere uno strato omogeneo e privo di gas della prima lievitazione; così facendo il vostro magico sfincione sarà uniforme in tutta la sezione anche durante la crescita successiva. TERZA LIEVITAZIONE IN TEGLIA Completata la stesura, lasciate lievitare per circa 90 minuti in un ambiente caldo, preferibilmente a 28-30 °C. Se non possedete una cella non preoccupatevi, significa semplicemente che la vostra malattia da nerd non è ancora giunta al culmine; in questo caso andrà benissimo il vostro forno spento con la luce accesa. PREPARAZIONE DELLA SALSA E FARCITURA Tritate la cipolla e cuocetela a fuoco lento in un tegame insieme a un filo d’olio e alle acciughe ridotte a filetto; dovrà appassire quasi del tutto, risultando molto morbida e cremosa. A questo punto aggiungete i pomodori pelati frantumati a mano, aggiustate di sale e di pepe e lasciate cuocere per circa 30 minuti a fuoco minimo, evitando di far ridurre eccessivamente il tutto. Una volta raffreddata la salsa, aggiungete abbondante origano e preparatevi a usarla per la farcitura. Non appena lo sfincione sarà lievitato, alternate cubetti di caciocavallo e pezzettini di acciuga, spingendoli per bene nell’impasto per evitare di farli bruciare in cottura. Versate poi la salsa e uniformatela aiutandovi con le mani, bordi compresi. Un giro d’olio abbondante e siete pronti per infornare. COTTURA Nel caso utilizziate un classico forno casalingo, preriscaldate il forno a 250 °C e, per agevolare la cottura del fondo, posizionate la teglia sul pavimento nella prima fase per rendere la base croccante al pari della parte superiore. Se doveste invece avere a disposizione un forno elettrico professionale, ormai ampiamente diffusi anche in casa, preriscaldate sempre a 270 °C, utilizzando però il 100% della potenza della platea (il piano inferiore) e solo il 30% di potenza del cielo (la parte superiore), più che sufficiente per una doratura uniforme. Dopo circa 15-20 minuti tirate fuori lo sfincione quando il fondo sarà ben bruno e spolverate una generosa dose di caciocavallo grattugiato, pangrattato e origano. Prestate particolare attenzione che il vostro pangrattato sia ben tostato, in caso contrario fategli fare un passaggio in forno; senza tale accortezza, il pane si ammollerà con il calore dello sfincione facendovi perdere l’effetto croccante voluto. Una volta che il formaggio sarà sciolto, sfornate e lasciate raffreddare su una griglia rialzata per evitare che la condensa rovini la friabilità della base, e irrorate con un ultimo filo di olio extra vergine, in modo che il calore faccia sprigionare tutti i profumi. As usual, una piccola aggiunta di origano non fa male a nessuno, anzi. Tagliate, servite e godete, poi penserete a ringraziarmi.

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L'ARTE CASEARIA - RUBRICA a cura di GIOVANNI MINELLI

Crescenza, Stracchino

tu chiamalo, se vuoi,

squacquerone Fa talmente caldo che quasi quasi rinunceremmo anche alla griglia… vabbè, non esageriamo. Però ci va qualcosa di fresco, quindi stavolta vi insegno a preparare un formaggio da consumare al volo, senza lunga maturazione in cantina, facile da fare e gustosissimo. Dopo due giorni, passati in frigorifero, sarà pronto per essere gustato e soddisfare ogni fantasia

Facciamo uno stracchino, delicato e spalmabile. Sento già nell’aria il sibilo degli strali che starete lanciando. Ogni volta che si parla di stracchini, un casaro in Lombardia muore. Vi spiego perché, così ragioniamo un po’ sui riferimenti culturali da tenere presenti. Più o meno in tutta Italia, per stracchino intendiamo un formaggio freschissimo, spalmabile, senza nervo, dolce e leggermente acido, dal gusto decisamente lattico, non troppo complesso, comunque buonissimo. La sua cremosità, la sua delicatezza lo rendono “spendibile” in innumerevoli preparazioni: da solo per un semplice spuntino o come ingrediente di ricette complesse. Versatilità e fantasia di chi cucina lo rendono un elemento di tutto rispetto, anche quando si cerca di sfruttarlo solo per le sue qualità tecnologiche, cioè fondere e avvolgere il palato, conferire grassezza e cremosità. Se sei nato in Lombardia, invece, gli stracchini sono sempre paste molli, ma assumono tutta un’altra forma, un’altra complessità anche in base alla provincia. Per capirci, tra quelli tradizionali lombardi abbiamo il Taleggio, il Quartirolo, lo Strachitunt e il Gorgonzola, solo per citarne alcuni tra i più celebri e particolari o che comunque si discostano maggiormente dalla Crescenza, sempre lombarda ma più simile all’idea di stracchino che abbiamo nelle altre zone del paese. Non sto dicendo che uno è migliore dell’altro, ma che ci sono differenze sostanziali e che, in base alla zona d’origine, ci viene in mente qualcosa di diverso quando utilizziamo questo termine. Vi dico la verità, nell’immaginare per voi questo formaggio ho cercato ispirazione nel processo produttivo di un celebre stracchino romagnolo, lo Squacquerone. Ed ecco che altri connazionali staranno ordinando una bambolina vudù. Lo Squacquerone è una cosa seria e va trattata con tutto il riguardo del caso. Se pensiamo a tutti i prodotti tipici della zona, forse non ce n’è uno più evocativo dei questo, magari in una Piadina Ro-

magnola. Si tratta di una DOP, quindi ha un disciplinare di produzione e degli organi di tutela. Ho tenuto il processo produttivo di questo come linea guida che mi desse una base di partenza sulla quale ragionare, poi l’ho pasticciato un po’ per renderlo semplice e applicabile alla realtà domestica. Il risultato finale, sia per facilità, sia per tempi di realizzazione molto contenuti, oltre che per la versatilità in cucina e per il gusto, vi darà tanta di quella soddisfazione che non so, se poi, avrete voglia di fare altro. Come al solito, per capire come raggiungere un obiettivo bisogna averlo chiaro in testa: vogliamo ottenere un formaggio a pasta molle (vuol dire che il suo contenuto in acqua è maggiore del 45%), senza crosta e che si possa spalmare. Gusto dolce, lievemente acidulo, non amaro - in caso sarebbe da considerare un difetto- con profumi e aromi riconducibili al latte fresco, al burro e allo yogurt. Per raggiungere tutto ciò la parola d’ordine è proteolisi, che dopo approfondiremo nel dettaglio. Siccome ho anche promesso che sarà facile, come fermento starter utilizzeremo dello yogurt bianco, intero, al naturale. Questa volta sono costretto a fare nome e cognome di chi lavora col favore delle tenebre, mi riferisco allo Streptococcus thermophilus, batterio lattico omofermentante termofilo che troviamo proprio nello yogurt. Adotteremo anche una nuova tecnica di salatura; abbiamo già visto quella in pasta e quella in salamoia, ora aggiungeremo sale direttamente al latte in caldaia. Si tratta di una tecnica abbastanza moderna per il nostro paese, dove tradizionalmente si procede o con la salamoia o con la salatura a secco (cospargere di sale le facce del formaggio) ma ormai è largamente utilizzata proprio in questa tipologia di prodotti, perché è molto pratica e ci aiuta a limitare le fermentazioni in fase di stufatura. AGOSTO 2020

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Andiamo con gli ingredienti, ve li metto in ordine di comparizione: • 10 litri di latte intero, fresco pastorizzato o crudo da distributore automatico • yogurt, 200 grammi • sale, 80 grammi • caglio liquido di vitello, 5 ml, 1:10000 Gli strumenti: • solita pentola abbastanza capiente per i 10 litri • termometro • coltello (io utilizzo anche una spatola perché è comoda e ce l’ho, ma basta il coltello) • fuscelle in quantità sufficiente più una • schiumarola • pHmetro o delle cartine tornasole • siringa per dosare il caglio

Cosa vuol dire “fuscelle in quantità sufficiente più una”? Ve lo spiego al volo: da questa preparazione ho estratto tutta la cagliata per metterla nelle forme, e ne ho riempite 4 da 700 grammi. Col tempo il formaggio perderà acqua e volume, quindi la resa finale sarà comunque più bassa, ma inizialmente le forme dovranno essere colmate. “Più una” perché, soprattutto durante il primo rivoltamento, la consistenza della pasta sarà molto delicata, dunque sopra la fuscella col formaggio ne metto un’altra vuota, sottosopra, e le giro insieme. 66 - BBQ4All MAGAZINE

Latte in caldaia e cominciamo ad innalzare la temperatura, aggiungiamo lo yogurt, mescoliamo e continuiamo a scaldare fino a raggiungere i 38° C. Dopo una sosta di appena 10 minuti, aggiungiamo il sale e mescoliamo fin quando non sentiamo che si è disciolto completamente (ne sentiremo la presenza sul fondo della pentola). Controlliamo la temperatura, se eventualmente si fosse abbassata, ma ne dubito, la riportiamo a 38° C e aggiungiamo il caglio liquido disciolto nei soliti 50 ml d’acqua tiepida, mescoliamo per un minuto. Già dopo 10 minuti circa potremo vedere la cagliata che comincia a formarsi. Passati venti minuti sarà il momento di procedere col taglio: come al solito facciamo una scacchiera in verticale e procediamo con dei tagli orizzontali, l’obiettivo è creare dei cubi grandi come una noce. Ora, nel giro di un minuto la cagliata tenderà a scendere e a sedimentarsi sul fondo e noi la lasciamo così. Do delle tempistiche indicative, io ce l’ho lasciata per 40 minuti, ma è un tempo variabile in funzione anche della temperatura esterna, dunque il nostro obiettivo sarà raggiungere un pH di 6,2.

A questo punto cominciamo a mescolare, molto delicatamente per non spappolare la massa, per circa 10 minuti, fino al raggiungimento di pH 6. Ora con la schiumarola preleviamo la cagliata e la trasferiamo nelle fuscelle, le colmiamo oltre il limite. Una volta estratta e messa nelle fuscelle, piazziamo questa ultime a stufare in ambiente umido per 30 minuti, dentro al forno chiuso andrà bene. Dopo circa 20 minuti dall’inizio della stufatura dovrebbe essere possibile effettuare il primo rivoltamento: procediamo come raccontavo prima. Al termine della stufatura piazziamo tutto in frigo a 4°. Dopo mezz’ora rivoltiamo di nuovo e ancora dopo un’ora.


Lasciando il formaggio refrigerato e in forma per 24 ore prenderà una consistenza più robusta, che non ci darebbe la sensazione di un formaggio spalmabile; in effetti se lo andassimo a tagliare in questo momento rimarremmo delusi perché non sarebbe maturo e avremmo fatto una gran fatica per nulla. La magia deve ancora avvenire. Va bene, non è magia lo sappiamo, sono processi proteolitici che comportano delle modificazioni a livello chimico e fisico al formaggio, andando ad agire sia sugli aromi sia sulla struttura della pasta. Avvengono in tutti i formaggi. Ma adesso facciamo un piccolo approfondimento per capire meglio di cosa si tratti.

Il nome, proteolisi, già ci dice che riguarda proteine e lisi, intesa come dissoluzione: proprio di questo si tratta. Ora sicuramente ci sarà qualcuno più fresco di studi, che si ricorderà già bene tutto, per gli altri facciamo un ripasso veloce: vi dice nulla legame peptidico? Le proteine sono molecole molto grandi formate da una catena di amminoacidi uniti tra loro, appunto, da legami peptidici (tra il gruppo amminico di un amminoacido ed il gruppo carbossilico di un altro). La rottura di questi legami è quello che ci interessa e a farlo per noi ci sono altre proteine “lavoratrici”, le conosciamo come enzimi, che sono catalizzatori della reazione. Ora questi enzimi in parte derivano dalle colture starter che utilizziamo, in parte sono naturalmente presenti nel latte, in parte dal caglio. Ne avevamo già parlato nel gruppo Gastronomica-Mente: il caglio è un complesso di due enzimi, chimosina e pepsina, quest’ultima, se presente in maggior concentrazione, renderà più rapida la proteolisi (prometto che approfondirò la questione caglio in uno dei futuri numeri del Magazine). Ora tutti questi enzimi che chiamiamo proteasi tagliano il legame peptidico in alcuni tratti della proteina, quindi avremo dei peptidi che per effetto di altri enzimi (peptidasi) ci daranno gli amminoacidi liberi da ogni legame. Quindi a maturazione raggiunta, la degradazione delle proteine ci darà il cambio di struttura del formaggio, mentre la degradazione degli amminoacidi, ad opera dei batteri lattici, ci darà la complessità aromatica. Come sempre, umidità e temperature sono nostre alleate; per favorire la proteolisi in tempi brevi abbiamo bisogno di alta umidità e “alta” temperatura, quindi diciamo che in frigorifero può stare al massimo intorno ai 6° C.

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Torniamo a dove abbiamo lasciato il nostro stracchino. Era in frigorifero e in forma da 24 ore. A questo punto lo togliamo dalla fuscella e lo rimettiamo al fresco. In altre 24 ore la pasta avrà cominciato a cedere e a diventare cremosa: obiettivo raggiunto. Come si vede dalla foto, la forma di stracchino comincia a cedere e collassare su se stessa, quindi ci dà un’idea della cremosità che sentiremo in bocca: in questo caso “brutto” è buono. Ricapitoliamo tutto il processo, solito sistema: 00:00 il latte in caldaia, già addizionato dello yogurt viene portato a 38° C e viene lasciato riposare 00:10 aggiunta del sale, mescoliamo e aggiungiamo del caglio continuando a mescolare per 1 minuto 00:30 caglio della cagliata della grandezza di una noce 01:10 circa – abbiamo raggiunto pH 6,2 quindi cominciamo a mescolare delicatamente 01:20 circa – abbiamo raggiunto pH 6, mettiamo la cagliata nelle fuscelle 01:25 mettiamo in stufatura i formaggi nel forno spento 01:45 primo rivoltamento 01:55 fine della stufatura, mettiamo il formaggio in frigorifero 02:15 secondo rivoltamento 03:15 terzo rivoltamento 27:00 rimuoviamo il formaggio dalle fuscelle e lo teniamo in frigorifero 51:00 stracchini pronti per il consumo Avendo a disposizione quattro forme, mi sono divertito a tenerle in condizioni differenti così da mostrarvi le varie possibilità che abbiamo. Due stracchini li ho lasciati in forma oltre le prime 24 ore, e avendo le pareti delle fuscelle come contenitore sono collassati di meno su loro stessi, ma hanno continuato a perdere acqua, assumendo una consistenza più pastosa. Seguendo la ricetta con 10 litri di latte, nulla vi vieta di fare questa prova e capire quale delle due maturazioni è più interessante per voi. Io preferisco la prima, ma ad esempio la fotografa si è innamorata della seconda. Nel dubbio mettetevi all’opera, provate e paragonate, vorrei sapere la vostra e poi dai, è troppo facile per non tentare.

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LE RAZZE - RUBRICA a cura di ROBERTO DAL BOSCO

La Compagnia dell'

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AGNELLO

Ha un temperamento giocoso, e il suo fascino si guarda crescere lungo i millenni. Nella mente della Civiltà significa timidezza, mitezza, sacrificio, purezza, festa. Ha origine misteriose, perché il suo antenato, detto con la parola latina ovis, non si sa esattamente da dove salti fuori: i sapienti hanno formulato un’ipotesi, dicendo che deriva dalla linea di sangue dei mufloni europei ed asiatici. L’agnello non è solo un mistero per l’evoluzione, è una certezza per la religione. Agnus Dei è un espressione latina dei Vangeli: l’Agnello di Dio è Gesù Cristo, vittima sacrificale che redime i peccati dell’intera umanità. Sta scritto nel Nuovo Testamento: «Ecce Agnus Dei, ecce qui tollit peccata mundi». È il versetto ripetuto ad ogni messa cattolica. «Ecco l’agnello di Dio, ecco colui che prende su di sé il peccato del mondo» (Vangelo secondo Giovanni 12, 1). Nei secoli questo animale è stato quindi raffigurato come felice e vittorioso: sulle pareti e sulle vetrate di chiese e cattedrali si spreca la figura dell’agnello che porta una croce o un vessillo crociato, tenuto quasi sempre con la zampa destra. Anche nell’araldica, lo vediamo spesso con l’aureola, e quindi viene detto «agnello nimbato». Questo segno potente lo ritroviamo nello stemma del Canton Argovia (Svizzera del Nord) o del Comune di Bressanone. Oltre al Cristianesimo, anche l’ebraismo ha l’agnello nelle sue scritture: nell’Antico Testamento, in particolare nel libro dell’Esodo al capitolo 12 – si parla dell’Agnello Pasquale, sacrificato in memoria della liberazione del popolo di Israele dalla schiavitù d’Egitto. È Iddio stesso a spiegare come va celebrato il pasto sacro, e dettagliatamente.

«Il dieci di questo mese ciascuno si procuri un agnello per famiglia, un agnello per casa. Se la famiglia fosse troppo piccola per consumare un agnello, si assocerà al suo vicino, al più prossimo della casa, secondo il numero delle persone; calcolerete come dovrà essere l’agnello, secondo quanto ciascuno può mangiarne. Il vostro agnello sia senza difetto, maschio, nato nell’anno; potrete sceglierlo tra le pecore o tra le capre» (Esodo 12, 3-5) «In quella notte ne mangeranno la carne arrostita al fuoco; la mangeranno con azzimi e con erbe amare. Non lo mangerete crudo, né bollito nell’acqua, ma solo arrostito al fuoco con la testa, le gambe e le viscere» (Esodo 12, 8-9). Nell’Islam, viene tradizionalmente sacrificato durante le feste di Eid, in commemorazione del sacrificio di Abramo (Eid al-Adha), o per celebrare la fine del mese di digiuno, il Ramadan (Eid el-Fitr). Tuttavia, è vietato uccidere un animale che sta ancora venendo allattato da sua madre. L’agnello nel senso stretto di una giovane pecora non svezzata non può quindi essere mangiato nell’Islam. Anche le religioni antiche prevedevano il sacrificio degli agnelli. Quelli neri venivano sacrificati alle divinità greche dei venti per garantire una buona navigazione. Sacrifici di ovini vi sarebbero, sia pur non molto pubblicizzati, anche nell’Induismo, soprattutto nel culto della Dea della morte Kali. Gandhi ne parla nella sua autobiografia (Autobiography: The Story of My Experiments with Truth), nella pagina dove ricorda che «nella mia mente la vita di un agnello non è meno preziosa di quella di un essere umano». Insomma, una bestia mistica, per tutti. A qualsiasi latitudine, in qualsiasi era storica umana. AGOSTO 2020

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Gli storici sostengono che possiamo parlare di tracce dell’addomesticamento del montone in Mesopotamia 100.000 anni fa: l’agnello quindi è in nostra compagnia da tanto, tanto tempo. La sua diffusione ha toccato l’India, la Cina a Oriente; il Nord Africa e l’Europa ad occidente. Le testimonianze greche e romane abbondano, e sono legate ai sacrifici per placare gli dei irati o per festeggiare i cicli stagionali. Il cristianesimo lo rese un animale importante e popolare, un animale sacro, ma la cui carne non era proibito consumare. Nel Medioevo si ebbe un consistente consumo di carne di pecora e montone, tuttavia l’interesse degli uomini era quello di allevarli per il latte e per la lana. L’agnello divenne un piatto presente nei menu aristocratici; il volgo invece si cibava per lo più di montone. L’interesse per questo animale crebbe alla fine dell’Ottocento, quando gli allevatori cominciarono – come parimenti stava avvenendo per la carne bovina – a programmare gli allevamenti in termini razziali, così da soddisfare bisogni precisi (più lana, o più latte, o più carne). La razza della pecora, di conseguenza dell’agnello, prende spesse volte il nome dell’area del loro allevamento, come per le mucche e le galline. C’è nel tirreno la pecora corsa, sarda; c’è quella delle Prealpi del Sud. In Gran Bretagna ci sono quelle dello Shropshire, del Southdown, del Suffolk; c’è la Hampshire Sown Sheep. In Francia ci sono la Causses du Lot, la Blanc del Massiccio Centrale, la Limousin. Il Belgio ha l’Ardennais roux, la Pré Salé, poi quella che chiamano «Belgium Milk». In Grecia c’è la Chio. CHI È L’AGNELLO? È una pecora che non ha compiuto un anno. Sta in pancia di

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sua madre per circa cinque mesi. Mamma pecora in genere può farne due alla volta. Il parto va dall’una alle tre ore. Gli uomini scansionano la vita dell’ovino in varie fasi. Il cosiddetto agnello da latte (fino a 5 o 6 settimane) pesa 6-10 chilogrammi e mangia solo il latte dalla tetta della madre. La sua carne è chiara sino ad essere bianca, è molto tenera e dal sapore leggermente zuccherino. Quello che ha compiuto 3 o 4 mesi può arrivare a pesare dai 14 ai 18 chili. Gli si può dare il latte vaccino. La carne diviene più rosea e il sapore si fa più intenso. Quello di 5 mesi supera i 20 chili. Il nutrimento spazia dall’erba ai cereali. La sua carne è decisamente più rosa, il sapore si intensifica ancor di più. Il cosiddetto castrato, oltre i cinque mesi di età, può andare dai 30 ai 35 chili, e mangia erba e cereali quotidianamente. La carne è oramai divenuta rosso chiaro. Il sapore è marcato. Se allevato su prati salmastri, lo si mangia a questa età. Oltre a questo periodo, scatta la differenziazione dell’ovino adulto. Se l’agnello è femmina, diventa una pecora, che si suole tenere per la riproduzione (fino a 4 agnelli all’anno); il verso caratteristico della pecora è il belato. Il castrato adulto diviene montone: la carne ha un sapore intensissimo. L’agnello maschio lasciato crescere diviene invece ariete, e si usa nella riproduzione. È noto per la sua forza. Non bela, piuttosto blatera, come i cammelli. TAGLI D’AGNELLO Francesi, inglesi, italiani hanno modi diversi di tagliare il giovane ovino, che è un animale piccolo e quindi necessita di una divisione delle carni semplificata, in modo da avere pezzi abbastanza grandi per la condivisione tra più persone. Tra i pezzi scelti, ricordiamo:


Il Carré: le prime e seconde costolette, in genere dalla quarta all’undicesima dimodoché si ottenga un nodino commisurato per avere quindi una cottura uniforme dell’intero pezzo. Il Collo: con o senza l’osso, preparato per cotture lunghe, fornisce un sapore dolce ai fondi e alle salse di agnello. Le Costolette del Collo: considerabili come le costate per il manzo, sono le prime cinque costole dietro al collo. Il grasso ivi contenuto le insaporisce (il loro gusto è più forte) e fornisce loro tenerezza. La Sella: sono le cinque costolette successive a quelle del collo, ma non sono vere costole: sono vertebre lombari. Non c’è osso sporgente da utilizzare come manico. Le Seconde Costolette: sono quattro costole vere e proprie successive a quelle del collo. Il sapore è assicurato dal grasso lungo il manico. La carne è detta noce, e si presenta come un pezzo rotondo al centro molto consistente. Le Prime Costolette: sono le quattro costolette che seguono le seconde. La prima è detta «costoletta reale», conosciuta per il grande equilibrio tra polpa e grasso. La noce è grossa, il manico lungo ma percorso da minore quantità di grasso. La Spalla: si prepara intera o a pezzi. Spesso viene rosolata in padella, o arrostita con l’osso della scapola, o ancora disossata, arrotolata, farcita. È preferibile sceglierne una rotonda. L’Epigramma: «Questo è un pezzo assolutamente favoloso scrive Arthur Le Caisne «pieno di sapore e con un bel grasso!». Lo si ottiene dalla parte sotto alla spalla, e comprende una porzione del petto. In genere non si dovrebbe disossare, e si griglia al forno; con esso si fa il brasato o il bollito. Il Cosciotto: il taglio per la famiglia – è la zampa dietro tagliata assieme alla Sella. Intero, senza osso, arrotolato. Si vende anche a pezzi più piccoli che seguono la noce, tipo bistecca. Ne consigliano la cottura lunga e dolce, per esempio in cocotte. La Spuntatura di Costolette: soda sezione dell’osso delle coste, contiene il midollo. In genere viene brasata o messa in brodo. La Nocciola: la parte centrale delle Prime Costolette una volta tolto l’osso e il grasso. I Piedini: considerabili come frattaglie, sono utilizzati per la produzione di gelatine dal sapore delicato per terrine e paté o come complemento di certe carni fredde. Il Petto: la parte bassa dell’Agnello è composta da vari tagli quali le costolette alte e l’Epigramma. Vi sono ossa e cartilagini, e i muscoli dell’addome. Quando si cucina intero si fa bollito o brasato.

La Sella del Cosciotto: è la parte alta dei glutei, diciamo come la fesa per il vitello o la parte posteriore dello scamone per il manzo. È diffusa come pezzo unico per fare gli arrosti a fette. Lo Stinco: parte dell’arto posteriore, venduto anche separatamente al cosciotto, nell’Agnello è morbido e gelatinoso. La Culotte: pezzo meno conosciuto che comprende tutto il posteriore della bestia – due cosciotti e due selle. Il Baron: è la culotte a cui si somma la Sella inglese, e cioè: 2 cosciotti, due selle e una Sella inglese. Il Rosbif: è il Baron più i carré delle costolette coperte e scoperte. Cioè, tutto l’Agnello tranne il petto, le spalle e il collo. Il Papillon: la Spalla e il Collo. Cioè tutto ciò che resta togliendo il Rosbif. SUL PIATTO Sono pressoché infinite le ricette a base di Agnello che potete trovare ad ogni latitudine. Si va dalla lamb pie, la torta di agnello, allo shawarma, dal cassoulet marocchino (specialità di fagioli secchi e carni bianche), dalle costolette di agnello alla coreana (dolci e piccanti grazie alla pasta di peperoncino gochujang) al Lahmacun turco (focacce turche speziate ripiene di manciate di prezzemolo fresco a foglia piatta e una spremuta di succo di limone), dalle crocchette di Agnello e rapa al più conosciuto miracolo di tenerezza dell’Agnello al latte. Poi si va oltre: a me è capitato di mangiare ai Tigli – prestigiosissima e rarissima pizzeria gourmet di San Bonifacio (Verona) – anche una pizza all’Agnello, e l’ho trovata perfino gustosa, perché il piatto era pensato bene, e l’animale cotto a dovere. Questo può bastare come introduzione. In un prossimo episodio scriveremo delle razze di agnello e dei modi in cui si sceglie. Perché, come per il manzo, come per tutte le cose, la materia bisogna conoscerla sul serio. Affrontare duramente anche la tenerezza dell’agnello: dovrebbe essere il motto del griller ispirato.

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THE CHEMICAL GRILLER a cura di VIRGILIO BRUNETTI

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IDROCOLLOIDI parte II: gli idrocolloidi delle alghe e la sferificazione

Riprendiamo il discorso da dove lo avevamo lasciato un mese fa e cominciamo a parlare di carragenine, agar agar e alginati: ovvero gli idrocolloide delle alghe. Questi prodotti hanno uno spiccato potere addensante e gelificante e differiscono dalla gelatina animale soprattutto perché si possono utilizzare anche a freddo, superando il grosso limite che invece ad esempio la colla di pesce, la quale deve essere attivata e sciolta a caldo preventiva idratazione. Il nome deriva da Carraghen, ovvero la località dove si raccoglievano queste alghe marine rosse già più di sei secoli fa, quando venivano utilizzate per gelificare il latte. Le carragenine sono estratte da alghe che vivono nelle acque dell’Atlantico settentrionale: Chondrus crispus e Gigartina mamitiosa, dette anche carragheen, muschio d’Irlanda o lichene marino. Sulle etichette degli alimenti, nei quali vengono utilizzate anche come gelificante, sono indicate con la sigla E407. Anche i medicinali possono contenerle in quanto stabilizzanti e addensanti. Inoltre possono essere presenti all’interno dei dentifrici e, a volte, vengono applicate direttamente sulla pelle per alleviare particolari fastidi.

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La carragenina è un estratto naturale costituito da unità di galattosio (polisaccaride) con contenuto di gruppi solforici variabile; in base a questa caratteristica si distinguono in tre tipi, ovvero Lambda, Kappa e Jota. 1. La Lambda è molto ricca in gruppi solforici e quindi solubile in acqua e latte freddo. Essa è in grado di dare solo addensamento. 2. La Kappa è meno ricca di gruppi solforici ed è quindi solubile a caldo intorno ai 70°C. Essa è in grado di formare gel solidi reversibili a raffreddamento e tende a dare sineresi (espulsione dell’elemento liquido da parte di un colloide, ovvero tende a rilasciare acqua). Se si utilizza insieme alla farina di carruba si ha una diminuzione della perdita di acqua e si ottengono gel più elastici. La presenza di sali di potassio aumenta il suo potere gelificante, al contrario se utilizzata in presenza di sali di sodio il suo potere gelificante viene inibito. 3. La Jota ha una percentuale intermedia di solfati, questo la rende solubile a caldo e permette la formazione di gel più soffici, elastici e cremosi. Non presenta il fenomeno di sineresi.


Le carragenine sono stabilizzanti potenti e interagiscono con le caseine del latte e la gelatina animale, formando dei complessi stabili. La loro azione, tuttavia, viene annullata quando il pH della soluzione è al di sopra o al di sotto del punto isoelettrico delle proteine. Sono solitamente impiegate nei prodotti a base di latte, proprio perché agiscono con le proteine di quest’ultimo. Commercialmente si presentano sotto forma di polvere e quando si utilizzano, per evitare che si formino dei grumi, le si miscelano a secco con dello zucchero prima di versarle nel liquido (latte) bollente. In miscela con dell’amido è impiegata per preparazioni tipo budini. Le carragenine raggiungono il grado ideale di viscosità rapidamente, sono stabili alla pastorizzazione e alla sterilizzazione, sono però poco stabili a pH acido. Conoscete la modernist béchamel ovvero la besciamella perfetta senza burro? È possibile prepapararla? Sì, proprio grazie alla carragenina, e ora vi dico come fare. Ve lo avevo promesso. Ingredienti: 1 litro di latte intero, aromi a piacere (bouquet garni), 10 grammi di carragenina lambda, sale, pepe noce moscata. Procedimento: Si porta ad ebollizione un litro di latte con un bouquet garni, poi si eliminano gli aromi e a fuoco spento si disperdono 10 grammi di carragenina lambda, si emulsiona per pochi secondi con un frullatore ad immersione e poi si riporta il latte a bollore. Si filtra e si condisce con sale pepe e noce moscata. Ovviamente la stessa procedura è utilizzabile per creare fondi chiari a base di brodi per preparare vellutate fat free.

L’agar agar è un idrocolloide biosintetizzato nelle pareti cellulari delle alghe rosse (specie Gracilaria, Gelidium e Pterocladia), composto da una complessa miscela di polisaccaridi omogenei: agarosio e agaropectina. L’agarosio è un polisaccaride non ionico fortemente gelificante costituito da unità di β-D- galattopiranosio con legame 1,3 e unità 3,6-anidro-a-L-galattopiranosio con legame 1,4, mentre l’agaropectina è un polisaccaride meno definito e più complesso con gruppi solfati ad esso collegati, che influenza fortemente la solubilità, la cinetica di gelificazione e le caratteristiche del gel. L’agar agar è un additivo naturale ben accettato in etichetta, utilizzato come agente gelificante, addensante, strutturizzante, idratante ed emulsionante nell’industria alimentare e in un numero enorme di applicazioni cosmetiche, farmaceutiche e tecniche. Proprietà dell’agar agar:

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È versatile completamente solubile solo a caldo in acqua bollente. Fornisce gel inodori, incolori anche a concentrazioni molto basse. Il suo processo di gelificazione tollera pH acidi ed elevate concentrazioni di zuccheri e sali. È il più forte agente gelificante naturale e fornisce un gel termo reversibile. La soluzione di agar gelifica a temperature comprese tra 35 °C e 43 °C e fonde a temperature tra 85 °C e 95 °C. È l’unico idrocolloide che fornisce gel che resistono alle temperature di sterilizzazione e ha un’eccellente resistenza all’idrolisi enzimatica. Reagisce solo con l’acqua e questo consente la sua incorporazione nella maggior parte delle formulazioni alimentari È perfettamente compatibile con le proteine del latte.

Si utilizza per quelle lavorazioni in cui il sapore del prodotto non rischia di alterarsi se si raggiungono temperature molto elevate, proprio perché la sua funzione addensante si attiva col caldo.È ideale nella preparazione di spume al sifone o di creme per cui è richiesta una densità diversa da quella della gelatina animale. Il gel solido ottenuto dalla polimerizzazione dell’agarosio presente nell’agar agar può essere rotto meccaAGOSTO 2020

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nicamente frullando il gel e ottenendo salse dalla viscosità interessante ma soprattutto con livelli di acidità improponibili per altri agenti gelificanti e addensanti. Inoltre l’agar agar si presta bene a tecniche di sferificazione senza l’utilizzo di ulteriori eccipienti come il cloruro di calcio, indispensabile invece per la gelificazione dell’alginato. Dall’altra parte la gelificazione dell’agar agar richiede alte temperature che inevitabilmente modificano sapore e aromi di molti alimenti. Sapete cosa è la sferificazione? È una tecnica inventata dal cuoco spagnolo Ferran Adrià che consente di creare delle perle che racchiudono un liquido, dall’aspetto molto simile al caviale. E anche in questo caso vi do una ricettina: il caviale di aceto balsamico. Ingredienti: 170 grammi di condimento balsamico da mosto di uva o mela (mosto acetificato invecchiato), 2 grammi di agar agar, olio vegetale freddo. Procedimento: Si stempera l’agar agar nella base da sferificare e si porta ad ebollizione, si lascia raffreddare la base agarizzata fino ad 80°C e poi si fa gocciolare in un contenitore alto con all’interno dell’olio vegetale. Le gocce di composto agarizzato solidificano a contatto col l’olio vegetate, che le raffredda e permette la loro gelificazione quasi istantanea nella forma termodinamicamente più favorevole, ovvero piccole sfere col volume delle gocce che andiamo a far colare nell’olio. Generalmente si utilizzano dei flaconi dal tappo forato, creati appositamente per la sferificazione. Con un cucchiaio forato o con un colino potete separare il caviale balsamico dal bagno oleoso. Le sfere saranno lucide e brillanti e utilizzabili come condimento e complemento di tartare di carne, pesce e crostacei. Qualsiasi base acida e zuccherina si presta bene a questo processo di sferificazione, inoltre la gelificazione dell’agar è estremamente versatile e tollerante a condizioni saline e zuccherine molto concentrate e a pH anche molto bassi (aceti e succo di agrumi e pomodoro). Gli alginati sono sali dell’acido alginico, o più semplicemente 78 - BBQ4All MAGAZINE

algina, un polimero ricavato dalla parete cellulare di svariate alghe brune, principalmente laminaria (Laminaria spp.) e fucus (Fucus vesiculosus e Fucus serratus). L’acido alginico è un polimero anionico lineare dell’acido D-mannuronico e di quello L-glucoronico, tenuti insieme da legami Β1-4. La proporzione tra questi due acidi varia a seconda delle fonti algali da cui viene estratto, influenzandone direttamente le proprietà: gli alginati ricchi in acido D- mannuronico formano gel soffici e flessibili, mentre quelli ricchi di acido L-glucoronico formano gel più compatti e resistenti. Nel linguaggio comune, quindi, sotto il termine alginati rientrano l’acido alginico (E400) ed i relativi sali, come quello di sodio (E401), di calcio (E404), di potassio (E402) e di ammonio (E403).


di alginato di sodio rispetto al peso del liquido. Per scioglierlo, aggiungetelo mentre mescolate energicamente il liquido oppure miscelatelo con un altro ingrediente secco (come lo zucchero) prima di aggiungerlo al liquido. Poiché la polvere inizia a gelificarsi in presenza di calcio, non cercate di usare un liquido che ne abbia una quantità elevata, come il latte. Per semplificare il processo, utilizzate un’acqua a basso contenuto di calcio. Aggiungete la polvere al liquido o alla purea e usate una siringa per dosare le goccioline in un bagno di calcio, che si trasformeranno in perle di caviale. Invertire i due ingredienti per la sferificazione inversa (usando l’alginato di sodio per il bagno d’acqua). Sferificazione basica: in breve, si unisce l’alginato di sodio al composto che si vuole sferificare e successivamente lo si versa nel bagno a base di sali di calcio. Per versarlo si può fare ricorso a una siringa senza ago o a stampi semisferici. Il calcio penetra nella preparazione e forma un gel con l’alginato di sodio contenuto in quest’ultima. Cosa si ottiene? Una sfera con un cuore liquido, instabile nel tempo.

Le applicazioni degli alginati sono piuttosto varie, ma accomunate da precise caratteristiche funzionali, poiché essi assorbono una quantità d’acqua decine di volte superiori al proprio peso. Nell’industria alimentare questa proprietà assorbente li rende di largo impiego come “addensanti” per esaltare la consistenza di confetture, marmellate, gelati, dolciumi, formaggi fusi e creme spalmabili. In ambito culinario l’alginato viene ormai utilizzato da anni per le tecniche di sferificazione di alimenti liquidi. Di fatto, essa non è altro che un processo di gelificazione in cui le parti liquide vengono trasformate in perle ripiene di fluido o di gel, grazie alla miscelazione del liquido di base con alginato di sodio. Oltre alla miscela base che si vuole sferificare e alla quantità di alginato di sodio corretta serve anche il cloruro di calcio. Quando l’alginato entra in contatto con quest’ultimo, il sodio viene sostituito dal calcio il quale, avendo doppio peso molecolare, consente l’unione in doppia catena e incentiva la gelificazione e facendo in modo che si formi una pellicola intorno al liquido. Come usarlo in breve: per la sferificazione utilizzare l’1%

Sferificazione inversa: a differenza di quella basica, la sferificazione inversa si ottiene grazie alla presenza del calcio necessario alla gelificazione già nella preparazione che volete trasformare in sfere. È necessario mixare e far riposare a dovere l’alimento da sferificare per far sparire le bolle e poi immergerlo nel bagno di alginato di sodio, proprio come nella sferificazione basica. Nota bene: Se l’ingrediente scelto è troppo acido, il risultato non sarà soddisfacente ma si può comunque correggere il pH della soluzione utilizzando il sale citrato di sodio. Se è eccessivamente liquido, non si trasformerà in una sfera perfetta. Il tempo di stabilizzazione e gelificazione delle sfere è di circa 3-5 minuti. È importante fare ruotare le sfere nel bagno per ottenere un’omogenea gelificazione di alginato e soprattutto evitare che esse si tocchino tra loro per non farle attaccare. È necessario risciacquare bene le sfere per ottenere una superficie liscia e senza imperfezioni. Differenze tra sferificazione basica e inversa? In quest’ultima, lavando le sfere il processo di sferificazione si blocca immediatamente. La sferificazione basica produce risultati che devono essere consumati in breve tempo a causa della loro instabilità, mentre l’inversa è duratura e stabile nel tempo. Un ultima curiosità: il processo inverso è particolarmente indicato per prodotti ricchi di calcio e di alcool e permette di sferificare quasi tutti gli ingredienti, quindi se siete amanti del Negroni potete cimentarvi nella sua sferificazione. AGOSTO 2020

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APPROFONDIMENTO a cura di GIOVANNI MINELLI

ALLEVAMENTI e GAS SERRA La verità oltre Lo Squalo e Heidi

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Stiamo vivendo quelle che si spera siano le battute finali di una emergenza sanitaria globale. Per tutti è stata un’esperienza senza precedenti. Abbiamo vissuto attimi di sconcerto nel veder modificate le nostre più radicate abitudini. Le misure stabilite dai governi mondiali per contenere il contagio, fino a pochi mesi fa, sarebbero state immaginabili solo all’interno di romanzi fantascientifici e invece ci siamo davvero confrontati con esse. Abbiamo rinunciato ai nostri affetti, alla nostra routine, al nostro modo di vivere la vita. Persino le grandi aziende hanno dovuto interrompere il proprio esercizio, o comunque modificarne le abitudini facendo spazio a pratiche come lo smartworking. Solo il settore primario non ha subito rilevanti modifiche nel suo naturale svolgimento, mentre anche i cicli produttivi dell’industria sono cessati. Le immissioni in atmosfera di gas ad effetto serra sono crollate ai minimi storici. Questo periodo ci ha messo difronte ad una realtà nuova e destinata a suscitare dei dubbi riguardo ad una delle convinzioni ormai più radicate, ripetuta spesso come un mantra dai detrattori dell’allevamento: “i bovini sono produttori di gas serra, inquinano!”. Tutti lo abbiamo letto, abbiamo visto immagini satellitari e filmati da zone tristemente note per la bassa qualità dell’aria. Ma è impossibile, gli allevamenti sono rimasti attivi, si sa che le vacche producono più gas serra di automobili ed industrie. Si sa, è così, l’ho visto su internet. Ma sarà davvero così? In effetti in molti, più che affermare qualcosa, si sono posti delle domande: come mai, con industrie e trasporti fermi, e allevamenti che lavorano a pieno regime come sempre, le immissioni in atmosfera di gas ad effetto serra sono scese così tanto? Che le responsabilità del mondo zootecnico siano state sovrastimate? Ma poi, chi le ha stimate? Come e quando? Nessuna attività dell’uomo ha impatto 0, quindi anche l’allevamento bovino ha il suo. Non sono qui per convincere nessuno, vorrei solo ragionare insieme a voi sfruttando i dati che il mondo della ricerca ci mette a disposizione. Sia chiaro che questa tematica ha un ruolo centrale per gli addetti ai lavori ancor prima che per le associazioni ambientaliste. I maggiori portatori di interesse sono proprio coloro che si occupano di produzioni animali. Vedremo dei numeri, questi potrebbero essere percepiti come tanto o come poco, è indifferente, la cosa importante è avere un dato dal quale partire per poter ragionare e lavorare per poter migliorare, questo è l’approccio delle scienze animali. Prima di entrare nel vivo della questione me la prendo comoda, e faccio pure un po’ di polemica per contestualizzare la situazione odierna riAGOSTO 2020

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guardo al percepito dalla gente riguardo la zootecnia. Spesso il consumatore ha una visione distorta del mondo agricolo, frutto di una comunicazione poco puntuale soprattutto sul media principale degli ultimi 30 anni, la televisione. Mi riferisco sia alla pubblicità sia alle trasmissioni che parlano di allevamento e le divido brutalmente in due tipi. Metto da un lato quelle trasmissioni di approfondimento che, con un approccio in stile inchiesta giornalistica, portano le telecamere all’interno degli allevamenti intensivi, decontestualizzano le immagini senza alcuna spiegazione, magari con una musica di sottofondo in stile “Lo squalo” di Steven Spielberg, così da suscitare nello spettatore un senso di insoddisfazione ed ingiustizia che non fa altro che far percepire l’allevamento come il male assoluto. Dall’altro lato ci metto le trasmissioni della domenica mattina in cui si mostra una zootecnia in stile Heidi e le caprette che fanno ciao, in cui spesso si dà risalto al non professionista, magari “ex bancario che molla tutto” e alleva la razza di vacca in via d’estinzione, perché si sa che per fare l’allevatore non occorre preparazione, lo possono fare tutti. Poi c’è la pubblicità a rincarare la dose: produco formaggio dal latte delle vacche dei conferitori in pianura? Perché non mostrare l’alta montagna, magari qualche vacca sui prati degli alpeggi, pazienza se poi è una razza da carne quella che mostro (non faccio nomi ma è successo davvero). Oppure quelle pubblicità di prodotti da forno in cui mostrano la macinazione del grano con bellissime macine in pietra tanto evocative, peccato raffigurino un frantoio per olive. Insomma la tv ci mette del suo per far confusione e alimentare uno scontro che diventa ideologico e poco costruttivo. Dopo aver tolto i sassolini dalle scarpe, ragioniamo un po’ insieme riguardo i gas serra, cosa sono, come vengono prodotti, come vengono prodotti dalle bovine e vediamo anche un po’ di dati. Partiamo dalla base, cosa sono? Chiamiamo gas ad effetto serra quei gas, presenti nell’atmosfera, che sono in grado di trattenere una parte rilevante dello spettro infrarosso della radiazione solare, che dopo aver colpito il suolo terrestre, viene emesso da esso, dalle nuvole e dall’atmosfera. Mi spiego meglio ed utilizzo un esempio. Abbiamo presente le serre utilizzate in orticoltura? Il principio è lo stesso, il nome è mutuato da qui. Abbiamo il suolo, l’aria e una copertura esterna fatta di vetro che rappresenta l’atmosfera. La luce del sole penetra nella serra attraverso i vetri e arriva a terra, riscalda aria e suolo e “rimbalza” fuori, ma una parte di questa luce, lo spettro infrarosso, rimane catturato all’interno da vetri, rimanendo a scaldare ancora aria e suolo. Avendo uno strato più spesso di gas serra, maggiori radiazioni infrarosso rimangono all’interno con conseguente innalzamento della temperatura media. Cominciamo a capire di cosa si tratta quando parliamo di surriscaldamento globale. Quali sono? Ce ne sono molti, il più presente è il vapore acqueo, poi ce ne sono altri che in larga parte sono sempre di origine naturale ma le cui immissioni sono fortemente correlate alle attività antropiche, come anidride carbonica (CO2), metano (CH4) e protossido d’azoto (N2O), infine gas esclusivamente prodotti dalle attività umane, gli alocarburi tra cui i più conosciuti e impattanti sono i clorofluorocarburi (CFC), le cui emissioni sono regolamentate dal Protocollo di Montréal del 1987. Quando parliamo di bovini facciamo riferimento soprattutto al metano, frutto delle fermentazioni ruminali ed enteriche, e 82 - BBQ4All MAGAZINE

al protossido d’azoto prodotto dallo stoccaggio, spandimento e decomposizione dei reflui. L’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale (ISPRA) lo scorso aprile ha presentato i dati che descrivono lo stato emissivo del nostro paese. Il comparto agricolo, con tutte le sue sfaccettature, quindi parliamo di agricoltura fondiaria, allevamento e attività forestali ha un peso del 7% sul totale delle emissioni. Il dato è applicabile esclusivamente alla realtà italiana, forse risulterà superflua questa puntualizzazione ma la devo fare, e non perché in Italia siamo più o meno bravi di altri, ma perché stiamo parlando di una percentuale, quindi soggetta al “peso” anche delle altre emissioni. In un paese in cui le industrie hanno un’attività maggiore, aumenteranno le emissioni a carico di queste e diminuiranno quelle a carico dell’allevamento e viceversa. Questo 7% lo possiamo scomporre e vedremo che esso è formato per un 47% dal metano delle fermentazioni enteriche di tutti gli animali d’allevamento (quindi oltre ai bovini anche suini, avicoli ed equidi), per un 18,8% dalla gestione delle deiezioni e per un 27,6% dallo spandimento del letame. Non voglio annoiarvi oltre con i numeri anche perché se vi collegate al sito di ISPRA li trovate tutti in maniera molto dettagliata e accurata. Voglio invece continuare a sfruttare questo spazio per un altro ragionamento su bovini e gas serra che mi incuriosisce e affascina, ognuno subisce il fascino di qualcosa, povero me, m’è toccato questo, m’è toccato il ciclo del carbonio. I bovini, e il bestiame in genere, fanno parte di un ecosistema nel quale sono integrati, e fanno parte di un ciclo perfetto che proverò a spiegare ispirandomi al modello proposto da CLEAR Center dell’University of California. Che vi ricordate della fotosintesi clorofilliana? Forse un sacco di cose, forse poche, allora intanto la dico semplice, poi in caso una ricerchina su internet. Si tratta di quel processo biochimico grazie al quale le piante, in presenza di luce, convertono CO2 atmosferica e H2O metabolica, in carboidrati ed ossigeno molecolare. Dunque il carbonio proveniente dalla CO2 atmosferica viene “immagazzinato” dalle piante nei propri tessuti sottoforma di cellulosa. Lo fanno tutte le piante: gli alberi, il grano, l’erba del giardino e la scarola prima di finire su una pizza di Trezzi. Alcune piante sono alimento per il bestiame. I bovini, grazie al rumine e alla flora microbica presente al suo interno, riescono a fermentare la cellulosa e sfruttarne nuovamente il carbonio per il proprio metabolismo e una parte di questo carbonio viene convertito in metano ed emesso di nuovo in atmosfera. Sempre l’Università della California (vi invito a cercare Biogenic Cow Carbon Cycle) ha stimato che occorrono circa 10 anni affinché il metano venga di nuovo trasformato in vapore acqueo e CO2, pronta a rientrare nel ciclo. Quindi tanto carbonio all’inizio quanto carbonio alla fine. Questo è vero per animali che si nutrono in maniera indipendente quando si trovano al pascolo. Se avete qualche dubbio lo fughiamo subito, il pascolo è un sistema alimentare all’aperto dove gli animali si muovono alla ricerca di nutrimento, ben diverso dai paddock per il movimento e per beneficiare del sole. La moderna zootecnia è più improntata alla somministrazione di alimenti in stalla, quindi si fornisce agli animali una miscela di materie prime atta a soddisfarne i fabbisogni e grazie alle avanzate tecniche mangimistiche oggi è possibile anche regolare i batteri ruminali metanogeni, andando a limitare, in una certa quantità, il CH4 prodotto. Spero che queste righe abbiano chiarito qualche dubbio e ne sollevino di nuovi, oltre ad evidenziare quanto impegno e duro lavoro c’è dietro ad ogni boccone che ci godiamo.


Qual è il reale impatto

dell’allevamento bovino sulla produzione dei gas serra?

Attenzione

all’informazione distorta!

Cosa sono i

GAS SERRA 1. Strato più spesso di gas serra 2. Maggiori radiazioni infrarosso all’interno 3. Innalzamento della temperatura media

Quali sono i

GAS SERRA

Di origine vegetale

7%

H20

IN ITALIA

Vapore acqueo

CH4

Metano

Prodotte solo dall’uomo

1. Fermentazioni ruminali ed enteriche 2. Stoccaggio, spandimento e decomposizione dei reflui Dati sul sito ISPRA

CO2 H20

10 anni

CO2

Anidride carbonica

N2O

Protossido d’Azoto

CFC

Clorofluorocarburi

Come vengono prodotti dai bovini

Limitazione di

CH4

Metano

Carbonio

Alimentazione in stalla

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G

LA RICETTA SCIENTIFICA

uacamole Sapete cos’hanno in comune gli obelischi d’Egitto, le torri di Irlanda e Scozia, i sassi piantati a Cuzco e persino l’Empire State Building? Sono tutti simboli fallici.

Lo so lo so, questa è la ricetta scientifica e non si fanno discorsi del c…., ma il protagonista di questa rubrica agostana, il frutto dell’amor che soppianta e divelle la banana è lui: l’avocado. Un po’ per la forma inequivocabile, un po’ per le sue sedicenti proprietà afrodisiache, gli Aztechi chiamavano le piantagioni su cui cresce “āhuacacuahuitl”, che si traduce letteralmente in “albero dei testicoli”. E come se non bastasse, il lemma “guacamole” deriva dall’azteco “ahuacamolli”, che significa, indovinate un po’, “salsa di testicoli”. Invitante, no? “Passami il puré di cabbasisi che ci devo inzuppare i nachos!” Diventerà la vostra catchfrase estiva preferita.

che cosa è il GUACAMOLE In origine era solo avocado maturo schiacciato in un mortaio di basalto e pestato con del sale. È così che lo preparavano gli Aztechi 500 anni fa, facendo della deliziosa salsa il più antico cibo tradizionale ancora prodotto in America. La versione moderna viene arricchita con cipolla rossa, succo di lime, coriandolo fresco, pomodoro a cubetti e più raramente con aglio. Negli States lo amano così tanto che durante il Super Bowl, la finale del campionato della National Football League, ne ingurgitano quasi 23.000 tonnellate. Con chissà quante di nachos. Visto il consumo smodato di salsa, penserete voi, qualcuno di loro avrà senz’altro craccato il codice per evitare che i frutti, da verdi e burrosi, diventino marroni e flaccidi a distanza di poche ore dal taglio. Macché! Alcuni pensano ancora che conservare il nocciolo preservi l’avocado dall’ossidazione, per via di chissà quali poteri magici, tipo Sfera del Drago. Meno male che c’è lo Zio che si sacrifica per voi, per fare questo esperimento ho buttato talmente tanti avocado che i noccioli escono dalle fottute pareti.


LA RICETTA SCIENTIFICA - a cura di GIANFRANCO LO CASCIO

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LA RICETTA SCIENTIFICA - a cura di GIANFRANCO LO CASCIO

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scegliere il giusto AVOCADO Esistono tantissime cultivar di avocado. Possono essere succosi e semiduri, come i Fuerte (grandi, grossi e con la buccia liscia), oppure ricchi e cremosissimi, come la varietà Hass (tondeggianti, violacei e con la buccia rugosa). Questi ultimi sono quelli giusti per preparare un guacamole perfetto.

la maturazione

La finestra temporale in cui gli avocado sono assolutamente perfetti - morbidi e teneri, senza macchie o striature marroni - è notoriamente breve. Questa peculiarità può rendere la pianificazione di una ricetta a base di avocado un'esperienza logorante. I miei avocado matureranno in tempo per la cena Tex-Mex di sabato? E se poi diventano marroni? Fortunatamente ci sono alcuni trucchetti per accelerare o rallentare il processo di maturazione, a seconda del caso. Lo sviluppo nei frutti è regolato da un gas chiamato etilene, che viene prodotto naturalmente dalla frutta stessa. Maggiore è la concentrazione di questa sostanza, più veloce sarà la maturazione. Ecco perché è consigliabile lasciare gli avocado acerbi in sacchetti di carta insieme a delle banane: questo accorgimento concentra l'etilene e innesca una maturazione in tempi record (2-3 giorni). Ma come si fa ad individuare gli avocado maturi al banco della frutta?

regola n.1

Proprio come i gioielli di famiglia, mai tastare! Dovete tenere a bada quelle manacce. Piuttosto osservate il colore della buccia: è verde brillante? L’avocado non è ancora pronto. Dovete agguantare quelli di colore bruno-violaceo, quelli marroni sono troppo maturi.

regola n.2

Rimuovere il picciolo: se viene via facilmente e il forellino sottostante è di un colore verde-giallo, il frutto è pronto. Se fa resistenza è acerbo, se sotto è marrone, ahimé, è marcio. AGOSTO 2020

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LA RICETTA SCIENTIFICA - a cura di GIANFRANCO LO CASCIO

MORTAIO

DUE VOLTE:

i messicani sono peggio dei genovesi I frutti maturi ce li abbiamo, non ci resta che tagliarli a metà in senso verticale, “svitare” le due metà e rimuovere il nocciolo colpendolo con il calcagno della lama. Si estrae la biglia legnosa, si preleva la polpa con un cucchiaio e si procede con la fase più delicata: il pestaggio. Non dovete menargli eh, limitatevi a schiacciare il tutto con lo strumento che preferite: una forchetta, una frusta da pasticceria, cambierà la consistenza del prodotto finito ma non il sapore! Il pestello magico del molcajete (mortaio messicano) di basalto non vi serve, ve lo garantisco. E il mixer? Non mi piace utilizzarlo perché si rischia di rendere il composto troppo fine. Io preferisco il guacamole con ancora qualche pezzetto da masticare. Il resto è omogeneizzato verde.

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DEBUNKING

SULL'OSSIDAZIONE: il nocciolo non serve a niente

Gli avocado contengono una classe di composti chiamati fenoli, che possono essere convertiti in nuovi composti chiamati chinoni quando esposti all’aria. Questo processo è accelerato dallo stesso enzima che fa scurire il basilico: la polifenolossidasi. I chinoni sono tossici per i batteri (servono al frutto per difendersi dai loro attacchi) e possono anche reagire tra loro per formare lunghe catene polimeriche, causando il mutamento del colore da giallo-verde a marrone. Questo avviene anche in molti altri frutti, ma nell’avocado il processo è più rapido dato l’altissimo contenuto di polifenolossidasi. Schiacciare gli avocado espone all'aria l'interno delle cellule del frutto. Questo permette all'enzima, la polifenolossidasi (PPO) contenuta nelle cellule di reagire con l'ossigeno dell'aria. Questa reazione enzimatica porta alla formazione di pigmenti melanoidinici. Con il guacamole, il risultato è una poltiglia molto poco appetitoso, di colore verde brunastro. Sono stati sperimentati numerosi metodi per evitare che il guacamole diventi marrone. Forse il rimedio più antico (più stupido) e più comunemente suggerito è quello di mettere il nocciolo intero al centro del prodotto finito. Perché questo funzioni, il nocciolo dovrebbe in qualche modo interagire con la PPO per inibire l’ossidazione. Nonostante la ritenga da sempre una pratica sciamanica senza alcun senso, ho voluto provare lo stesso. Ho poggiato il nocciolo al centro di una piccola ciotola di guacamole e l’ho lasciato in frigorifero per tutta la notte. Il giorno dopo è finito nell’organico. Solo la parte direttamente sotto il nocciolo era ancora verde. Recentemente negli States si può acquistare guacamole confezionato in buste sigillate. Il confezionamento sottovuoto prolunga la durata di conservazione sottraendo l’aria, ma alcuni marchi sono riusciti ad andare oltre. In alcune catene, la PPO è stata inattivata dall'alta pressione, un processo che fa sì che l'enzima si dispieghi, neutralizzandolo. Anche se lasciato esposto all'aria durante la notte in una ciotola aperta nel frigorifero, il guacamole trattato ad alta pressione rimane verde come il giorno in cui è stato prodotto. La combinazione di inattivazione della PPO con l'alta pressione e la riduzione del contenuto di ossigeno tramite l'imballaggio sottovuoto permette di conservare il guacamole per diverse settimane senza tracce di deterioramento. AGOSTO 2020

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LA RICETTA SCIENTIFICA - a cura di GIANFRANCO LO CASCIO

A

B

C

D

E

F

G

H

campionature di avocado dopo 18 ore trascorse in frigorifero

L'ESPERIMENTO:

COME CONSERVARE L'AVOCADO Ho recuperato 4 avocado Hass maturi a puntino, li ho tagliati a metà, ho rimosso il nocciolo e ho predisposto le 8 campionature. Procediamo con ordine, da sinistra a destra, partendo dalla fila in alto: A Frutto coperto con pellicola alimentare a contatto B Frutto messo sottovuoto C Frutto messo in acqua bollente e poi raffreddate nel ghiaccio, quindi messo sottovuoto D Frutto ricoperto con cipolle E Frutto immerso in acqua F Frutto immerso nel succo di limone G Frutto immerso in olio extra vergine di oliva H Frutto non trattato Dopo 18 ore trascorse in frigorifero si presentavano come in foto: A La pellicola alimentare non riesce a proteggere la polpa del frutto, appare visibilmente deteriorata e marrone in alcuni punti. B Frutto praticamente intatto, solo leggermente ammaccato dalla pressione. Consistenza perfetta, colore impeccabile: ce l’ho fatta! 92 - BBQ4All MAGAZINE

C La cottura, seppure estemporanea, ha modificato il colore e la consistenza dello strato esterno. Vedete quell’anello marrancino sul lato destro? Se col basilico ci era andata bene, con l’avocado non funziona. D Questa sezione è stata ricoperta da cipolla affettata, poiché i suoi composti sulfurei riescono a proteggere le superfici dall’ossidazione. Nonostante l’abbia inserita in contenitore con coperchio ermetico, questo non ha impedito ad alcune parti di diventare color ruggine. E Mi sono fatto fregare da Kenji López Alt, il giornalista scientifico di Serious Eats e autore della premiatissima rubrica “The Food Lab”. Ebbene, Kenji consiglia di immergere i frutti in acqua fredda, e così ho fatto. Niente, un altro avocado buttato. F Qui non c’è nessuna traccia di ossidazione, ma il limone ha praticamente neutralizzato il colore verde, oltre ad avere donato un’acidità alla polpa inaffrontabile: era meglio leccare una pila. G L’avocado immerso in olio tiene botta, si è conservato perfettamente anche se in alcuni parti cominciano ad affiorare segni di imbrunimento. Troppo dispendioso come metodo di conservazione, continuo a preferire il sottovuoto. H Qui potete ammirare una natura morta, ma morta sul serio. Requiescat in pace.


addomesticare la

CIPOLLA Ho sempre adorato la cipolla cruda, la mangiavo impunemente a discapito della digestione e dei rapporti interpersonali. Ora ho scoperto come ammansirla, con un protocollo che somiglia molto a quello dell’aglio e olio scientifica (non sapete cos’è? Dovete assolutamente recuperare!)

La cipolla, così come l’aglio, contiene l’allinasi, un enzima, che favorisce la trasformazione di molecole a base di zolfo (alchil cisteina solfossidi) in acido sulfenico, piruvato e ammoniaca. Non contenta di questa prima reazione, la cipolla utilizza un altro enzima per trasformare l'acido sulfenico in sin-propanethial-S-ossido, una molecola voltatile e idrosolubile, che è appunto quella sostanza che ci fa piangere a fontanella quando facciamo la genovese. Come vi ho già spiegato nell’articolo sul pesto di basilico, quando le cellule dell’aglio o della cipolla vengono danneggiate, ad esempio dalla lama del coltello o dalla pressione del nostro palmo, liberiamo l’enzima allinasi, che converte queste molecole solforate in acidi sulfenici. Nell’aglio l’azione dell’enzima produce l’allicina. Nella cipolla, prende il nome di isoallinina, una sostanza che conferisce al bulbo l’odore caratteristico e la pungenza fastidiosa. Ma cosa si può fare per evitare che l’allinasi si trasformi in isoallinina? Fate così: prendete la cipolla intera, immergetela in una salamoia al 4% di sale (1 litro di acqua e 40 gr di sale) e fatela cuocere al microonde fin quando non ha raggiunto i 65°C. Se vi piace, potete acidulare l’acqua con dell’aceto di mela o vino, donerà un colore molto brillante alla cipolla. Non avete il microonde? Potete immergere la cipolla in acqua, oppure utilizzare il sous vide, riempiendo il sacchetto con acqua e sale e lasciando aperta un’estremità. Una volta raggiunta la temperatura, tuffate la cipolla in acqua e ghiaccio, per ridarle croccantezza, e tagliatela a cubetti.

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la ricetta scientifica il GIANFRAMOLE INGREDIENTI • 3 avocado hass • 1 peperoncino serrano • 1/2 cipolla rossa (40 gr.) o 1 scalogno • 5 gr di coriandolo fresco • Il succo di 1 o 2 lime • La buccia di 1 o 2 lime • 1 pomodoro San Marzano (Roma o Cuore di Bue) maturo tagliato a dadini di 6 mm • 3 gr. sale • Sal’s Seasoning Smoky Chipotle Chili Prendete gli avocado, tagliateli a metà, eliminate il nocciolo. Trasferite la polpa dei primi due in una ciotola o un mortaio e schiacciate con i 3 gr di sale in maniera grossolana. Una volta ottenuta una purea non troppo liscia, aggiungete la polpa del terzo avocado, incidendola a mo' di griglia ed estraendo i cubetti con il cucchiaio. Trattate la cipolla come vi ho suggerito nel paragrafo dedicato, tagliatela a cubetti di circa 3-4mm. Battete al coltello il coriandolo fresco e mettete da parte, eliminate la polpa e i semi del pomodoro e tagliatelo a cubetti di 6mm. Grattugiate la buccia del lime e spremetelo per ricavare il succo. Unite tutti gli ingredienti e il rub Sal’s Seasoning Smoky Chipotle Chili, senza rimestare troppo, quindi versate in un contenitore e mettete il Gianframole sottovuoto. Lasciate insaporire per un’ora e servitelo con i nachos

la conservazione Vi sono avanzati degli avocado o ne avete di maturi che rischiano di marcire? Tagliateli a metà, denocciolateli e sbucciateli. Metteteli in un sacchetto e fateli rassodare in congelatore. Quando saranno diventati belli duretti, inseriteli in un sacchetto dedicato e metteteli sottovuoto. Conservateli in frigorifero o in freezer, a seconda della vostra urgenza/esigenza. Ora sapete tutto, ma proprio tutto sul guacamole, quindi vi lascio come farebbe Tony Montana nel leggendario Scarface: “Amigo, l’unica cosa a questo mondo che conta davvero sono le palle, tu ce l’hai le palle?” Avoja! C’ho il frigo pieno di avocado. Gianfranco Lo Cascio 94 - BBQ4All MAGAZINE


LA RICETTA SCIENTIFICA - a cura di GIANFRANCO LO CASCIO

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SEGUO - RUBRICA a cura di EMILIANO NENCIONI

SEGUO

T OR MENTO NI “Basta una parola, una frase: una di quelle frasi antiche, sentite e ripetute infinite volte, nel tempo della nostra infanzia.” Questa sarà una Seguo di servizio. Di pubblica utilità. Niente nerdeggiamenti svolazzanti sopra flebili legami quantistici fra la Costante di Plank e la tenderness delle Ribs Kansas City Style, niente amare e devastanti introspezioni sulla solitudine del griller scientifico immerso in una poco ricettiva marmaglia di commensali ingrati, sbrigativi e promotori dell’antico adagio “è il manico che conta”.

Per inciso, lo sapete che esiste da qualche tempo una campagna d’odio contro il termine “commensale”? Non scherzo. Colpa nostra, di BBQ4All intendo. Mi sto sforzando per trovarvi un termine alternativo ma per adesso “convitato al desco” mi pare possa avere poca fortuna. Ci sto lavorando. Questo mese sento la necessità di affrontare un argomento antipatico (e ti pareva), molto spesso delicatamente accennato, anche con velate allusioni, proprio su queste pagine, ma mai affrontato di petto, con decisione e assertività. Sarà spiacevole, alzerà più di un sopracciglio, risulterà forse arrogante, supponente o inappropriato e intempestivo. Sicuramente, posso scommetterci, si parlerà di mancanza di Rispetto. Insomma:

Bisogna smettere quanto prima di cercare di fare cabaret sui social network usando sempre le solite cinque frasi. 96 - BBQ4All MAGAZINE


Bisogna. Pensiamo alla cosa come un imperativo morale. Non se ne può più. Mi dilungo con solo pochissimi esempi presi a caso: • [Domanda retorica, provocatoria o scontata, considerata irritante nel gruppo in questione], chiedo per un amico! • Mettereh le accah superflueh per dileggiare un tonoh troppo enfaticoh • I punti esclamativi che diventano uno e undici!!!!1!1unoeleven • Meddere le gonzonandi sbaggliade e le dopie a caso per simulare un intervento di un udende ingnorande e invedabilmende associato ad alcuni dialetti centromeridionali • Imitare per filo e per segno il guru / capogruppo / entità carismatica di turno, ripetendo allo sfinimento ogni sua espressione, particolarità o vezzo, costringendolo di fatto a trovare nuove espressioni “trademark”. Giusto per farsi un’idea dell’originalità e della freschezza delle cose, il primo uso ironico e stereotipato di “asking for a friend” risale al 2015. Cinque anni e rotti fa, ovviamente prima nei gruppi di lingua inglese, poi copiato e ricalcato anche in italiano. Come è successo? Molto probabilmente in molti si sono accorti che aggiungendo quello scarico di responsabilità (figlio forse dello storico “un mio amico sogna spesso che…” tipicamente sentito in ogni film ambientato a New York che presenti l’obbligatoria seduta dell’analista) una qualsiasi domanda banale, un motteggio zoppicante o una battuta fallimentare ha un riscontro in termini di “hahaha” molto molto maggiore. Da qui, complice quel maledetto desiderio di sentirsi apprezzati, il rinforzo positivo: lo uso, mi dicono bravo, ergo lo uso in continuazione. La genesi dei punti esclamativi “con gli uni!!!11” è invece molto più romantica. Avete mai sentito parlare del l33t? L33tspeak. Si legge come Leet (lìt), proveniente da Elìte. In un tempo ormai passato, più glorioso e dignitoso, pochi sparuti appassionati di telematica, per lo più studenti molto competenti, si ritrovavano in certe BBS, bullettin board system, private, spesso aggregate in macro reti dalla topologia stellare (dove non tutti i punti sono uguali, ma si radunano verso accentratori - nodi - che poi scambiano informazioni fra loro) come la mai dimenticata FidoNet. I membri Elite avevano accesso ad un livello più esclusivo di gruppi, file o informazioni, e come spesso succede in un gruppo ristretto si venne a sviluppare un gergo, un sottocodice. EliteSpeak. LeetSpeak. L33t. Questo gergo assorbì molto volentieri e molto velocemente

le consuetudini generate dall’esplodere della popolarità dei giochi MMORPG (Massive Multiplayer Online Role Playing Game), dove, in mezzo a frenetiche battaglie e tenzoni in tempo reale, diventava di fondamentale importanza comunicare con amici e alleati scrivendo velocemente insulti o ordini di battaglione direttamente dalla tastiera, senza la possibilità o il tempo necessario per tornare indietro a correggere eventuali typo. Nelle tastiere qwerty, lo sapete benissimo, il punto esclamativo è un uno sotto shift, per cui nella concitazione della pugna era praticamente inevitabile farsi scappare qualche undici superfluo. Parliamo, indicativamente, del 1997 al massimo. Ventitré anni dopo, questo “common typo” è lentamente diventato un modo omologato e inconfondibile per indicare un commento o un’opinione tipica di un complottista, un facilmente indignabile, una figura generalmente invisa all’opinione generale del gruppo in questione. Su UrbanDictionary possiamo trovare questo approfondimento, risalente al 2003:

One exclamation point is usually one too many. If you do plan to use more, please take care that you retain muscle control over the finger holding down the right-hand shift key. (Un punto esclamativo è solitamente uno di troppo. Se hai in mente di usarne di più, cerca di aver cura di mantenere il controllo muscolare sul dito che tiene premuto lo shift di destra) Per i restanti neoconii giocosi menzionati poco sopra (le H superflue, il dileggio del dialetto etc) invece la situazione è diversa. Si tratta di una sottospecie di Lessico Famigliare (da qui la citazione all’apertura della rubrica, se mai ve lo foste chiesto), una maniera come un’altra di sentirsi parte di una comunità e di omologarsi docilmente ai sentimenti della massa-alveare un po’ dispotica che solitamente forma la mega-coscienza distribuita di un grande gruppo su un social network. É fisiologico, e auspicabile, che queste novità, queste espressioni gergali e segni grafici considerati irrinunciabili e decisamente à la page in un dato momento, diventino inesorabilmente demodè e detestabili con grande velocità: è ricambio, ci si stufa, non è più l33t se tutti quanti ne abusano; questo succede praticamente ovunque, in qualsiasi comunità ristretta. Nei social network italiani pare di no. Siamo più refrattari al cambiamento. Nel microcosmo del social griller, poi, non ne parliamo: determinate espressioni, espedienti, gag e tormentoni si sono incistite ad un livello mai visto prima. AGOSTO 2020

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nel regolarizzare gli errori tipici degli utenti “sgraditi”, fino a creare un’identità ludica di gruppo. Risultato? Impestare di parodie dialettal-ortografiche ogni singolo post, rendendo sgradevole non tanto il richiamo all’utente odioso o al comportamento riprovevole che si vuol canzonare, ma l’intera discussione o, peggio, l’intera comunità online.

Certe cose non sono neanche più una gag, o un tentativo di utilizzare un linguaggio che rimanga opaco ai non iniziati, sono diventate tristemente repertorio obbligato. Avete presente la ginnastica artistica o il pattinaggio di figura a coppia? Interpreta quanto vuoi, ma se vuoi che ti dia un voto mi devi fare un doppio Salchow e un Triple Lutz.

Per scherzo una volta ho scritto “se volete posso crearvi dei tormentoni nuovi, a prezzi (quasi) modici.” La risposta, prontamente, è stata “ma diventeranno odiosi e ripetitivi e non originali pure quelli!” Verissimo! La soluzione c’è ma deve essere distribuita in un gran numero di volenterosi rivoluzionari.

E quindi via, per compiacere la massa, sempre i soliti discorsi, le solite gag alimentate anche dall’immancabile pioggia di Like e di consensi - perché se fai notare quanto la cosa sia venuta a noia, lo sapete, parte la tiritera del Rispetto. Il niubbo (da newbie, novellino) con le idee diverse dal gruppo verrà imitato con una parlata che ricorda una persona con un forte raffreddore, o forse Ciriaco De Mita (per i più stagionati), e ogni tipicità o espressione originale (qualora ne esistesse qualcuna) delle personalità più in vista o più seguite della cerchia verrà ripetuta e abusata fino allo sfinimento. In fondo, “se lo dice lui, che qui dentro è il top, posso provare a dirlo mille volte pure io, e così farmi notare come perfettamente allineato”. Per carità, è una cosa normale, sempre esistita: c’è stata la generazione che ripeteva a macchinetta le gag di Mai Dire Gol, quella che parlava immancabilmente come uno sketch di Drive In (contenitore serale umoristico anni ‘80), e quella, più vintage, ossessionata con il citazionismo sfrenato di Totò o Gino Bramieri. Noi però, ammettiamolo, stiamo esagerando. Senza dubbio ormai dobbiamo fare i conti con una oralità scritta, in cui gli utenti cercano di superare le barriere espressive del testo con segni grafici anticonvenzionali (ASCII art e faccine prima, emoji ed emoticon successivamente) e dove l’ortografia perde drammaticamente importanza in favore dell’immediatezza - tanto la colpa è sempre “del T9”, anche se il T9 era sui Nokia di vent’anni fa - ma il problema è proprio

Compiti per casa: • Non ridere più a espressioni iper-inflazionate, non mettere neanche like o nessuna reaction positiva • Smettere completamente (“droppare”) di utilizzare le espressioni più fastidiose • Permettersi, una volta ogni tanto, di far notare a qualcuno (meglio se non permaloso, meglio se non detentore di strumenti di moderazione coercitiva) che quel repertorio ha stancato • Coniare nuove boutade, proprie e inedite (e qui casca l’asino), almeno una volta ogni sei mesi. La speranza è quella di incoraggiare un nuovo moto di originalità e rendere le nostre spelonche aggregative telematiche dei posti un pochino più gradevoli per l’occhio e per lo spirito. Abbiamo debellato spontaneamente “Ciaone”, “ma anche no”, “breve storia triste” e l’insopportabile “grazie alle sue due lauree”, con un po’ di impegno metteremo a tacere anche gli imitatori di De Mita e i Fotocopiatori di Guru. Le taumaturgiche lacrime, raccoglietele ragazzi. (cit. fatt. appost.) Emiliano Nencioni

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MAIL CLASS LA SERIE DI EMAIL DIDATTICHE DI GIANFRANCO LO CASCIO

Cercare informazioni, metterle in fila, filtrarle e poi farne un compendio presume una grande voglia di mettersi in gioco, ma soprattutto una grande disponibilità di tempo.

TEMPO CHE SPESSO, PURTROPPO, NON HAI. La buona notizia è che possiamo aiutarti. Non solo a mettere ordine alle informazioni, ma soprattutto a rendere la conoscenza semplice ed immediata attraverso una serie di mini-lezioni che ti permetteranno, già dalla prima, di cambiare totalmente il tuo approccio alla scelta e alla preparazione della carne. L’obiettivo di BBQ4All è mettere nelle tue mani lo strumento che ti permetterà di scegliere, selezionare e cuocere al meglio qualunque pezzo di carne, e meglio di chiunque altro. Tutto questo potrai ottenerlo, a partire da subito, dedicandoti per 5 minuti alla lettura di una breve mail che ti invieremo ogni giorno, gratuitamente.

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CLUB

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H T T PS : / / C LU B M E G ASTO R E . B BQ 4 A L L. I T e c hi e di i nfo rmazio n i p iù d ettagliate, pr i ma c he i coac h fin is cano e le is crizio n i ch iu dano .


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