BBQ4All Magazine numero 21 - Settembre 2020

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N°21/ANNO 2 - SETTEMBRE 2020

Cosa resterà di questi anni '80?

Cocktail di gamberi, Riso Mare e Monti, Tortello fritto panna e prosciutto, Tonno vitellato, Tagliata rucola e Grana, Crespelle, Scaloppine al limone, il Non Filetto al Pepe Verde, Profiterol

A Beethoven e Sinatra preferisco l’insalata l'editoriale di Gianfranco Lo Cascio

Dressing fatti in casa la salsa barbecue #zerosbatti

La ricetta scientifica: il Ketchup


Direttore Editoriale Rossella Neiadin

Redattore Capo Michela Bongiorni

Redazione

Enio Berton Virgilio Brunetti Tommaso Buccafurri Roberto Dal Bosco Tommaso Di Gregorio Salvatore Di Mento Luca Gallozza Mariangela Ibba Gianfranco Lo Cascio Riccardo Meniconi Giovanni Minelli Emiliano Nencioni Stefania Pompele Andrea Spaggiari Alessandro Trezzi Carlo Trono Alberto Zonghetti

Realizzazione Grafica

Impaginazione Carlo Trono Illustrazioni di Eleonora Castagna e Ozzy Bellesi Fotografie di Rossella Neiadin, Luca Gallozza, Tommaso Buccafurri, Elisa Giuli

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IN DI Rubriche

04 Diventare degustatore - il senso del GUSTO 16 Speciale anni '80 - Portfolio Gastronomico 24 Speciale anni '80- Introduzione: cosa resterĂ di questi anni '80 30 Editoriale di Gianfranco Lo Cascio - L'insalata perfetta

Ricette di Settembre

Il nuovo cocktail di gamberi

33

Crostino al salmone in due versioni

36

Riso Pilaf con sugo di lepre e riccio di mare

40

Tortello fritto

44

Tonno Vitellato 48 Tagliata rucola e grana

51

Crespelle 56 Scaloppine al limone

60

Il non filetto al pepe verde

63

Profiterole 68 Abbinamenti vino/birra 72

Approfondimenti

Arte Bianca - Il panino da buffet

77

84 The Chemical Griller - Le gomme 88 La ricetta scientifica - Il Ketchup 92 Arte Casearia - Mascarpone

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Seguo - Panopticon


Editoriale di Gianfranco Lo Cascio

A Beethoven e Sinatra preferisco l'Insalata

COME SI PREPARA L'INSALATA PERFETTA


con la formula magica che sto per rivelarvi riuscirete a creare insalate adatte a ogni occasione.

Lo ha detto James Beard, chef americano autore di bestseller nonché protagonista del primo programma di cucina americano (1946), ma è una frase che avrei potuto pronunciare anche io.

4. Equilibrata

Insalata, idiosincrasia di molti, nemica giurata dei bambini e degli interstizi dentali, spesso la associamo ad un regime alimentare restrittivo e mortificante, ad un contorno banale a base di fogliame condito (male). Sbagliando. Esiste infatti una versione pimpata e persino gustosa del contorno più odiato di sempre, si chiama insalata gourmet.

Cos’è l’insalata gourmet? L’insalata gourmet è un’insalata:

1. Buona da morire.

Riuscite a crederci? Un’insalata buona può e deve esistere. Vi nutrirete con un piatto sfizioso, saporito e appagante perché costruito con i criteri delle percezioni sensoriali.

2. Sana.

Bilanciate la vostra alimentazione cestinando le cattive abitudini.

3. Sempre applicabile.

Che si tratti del pranzo da portare in ufficio, un barbecue estivo, un aperitivo con gli amici, una cena in grande stile o un pranzo della domenica,

Ricaricate il metabolismo usando a dovere olio extravergine, cereali, legumi e proteine. Spegnete le fiamme della fame con un piatto sano e buono.

5. Benefica.

Introducete nel corpo antiossidanti, minerali, vitamine e fitochimici, che sono nutrimento per il cervello, le ossa, la pelle, il sistema immunitario. Prendete tutto il buono di frutta e verdura crude.

6. Consigliata dagli esperti.

Sarete in linea con i consigli degli esperti che raccomandano l’apporto calorico bilanciato di tutti i nutrienti. Non si vive di sole mangiatoie di lusso o carnazza ignorante, eh.

7. Indicata per perdere peso. È una potente alleata in caso di dieta ipocalorica.

8. Appagante.

È un pasto colorato, croccante e sfizioso. Sazia senza appesantire, e non vi lascia con quel senso di incompiuto in bocca.

9. Rapida.

Cominciate a guardare il cibo quotidiano con occhi diversi, spostate l’attenzione dai pasti pronti (surgelati o non) a quelli buoni e che si preparano in dieci minuti. Per assemblare una vera insalata gourmet, e per formulare infinite ricette, basta seguire poche fondamentali regole.

Fate attenzione a queste quattro macro-categorie:

1. Sensoriale.

La nostra insalata può dare stimoli chimici, termici, meccanici, dolorosi, chemestesici ed emozionali. Gli stessi elementi che veicolano il senso dell’UMAMI.

2. Salutistico.

La nostra insalata fornisce fibre, vitamine, sali minerali, antiossidanti, tutti elementi che garantiscono la massima efficienza del nostro organismo.

3. Nutrizionale.

La nostra insalata è equilibrata nel rapporto tra carboidrati, proteine e grassi, tutti elementi che garantiscono un pasto bilanciato.

4. Gourmet.

La nostra insalata è prima organoletticamente buona, poi tutto ciò che vogliamo rappresentare.

Gli ingredienti dell’insalata gourmet Consiglio di partire da quelli fondamentali per poi aggiungerne altri una volta acquisita una certa dimestichezza. Alla fine vi svelerò dei piccoli trucchetti, apparentemente banali ma di grande impatto.

ORTAGGI

Sono tantissimi, hanno sapori decisi e consistenza perlopiù croccante. I diversi tagli permettono di variarne la percezione.

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“Troppe semplici insalate verdi soffrono di mancanza di immaginazione.”


A FOGLIA Cicorie propriamente dette, l’indivia belga e i tutti i tipi di radicchio. Un contributo di sapore importante per la nota amaricante più o meno intensa. Indivie .La riccia, la scarola e la belga per intenderci. La prima ha foglie frastagliate e sapore pungente. Si usa in abbinamento ad altre insalate, quasi mai da sola. La scarola si presta a essere cotta. Lattughe. Assumono la forma a cappuccio, come la trocadero e l’iceberg, o a coste, come la lattuga romana oltre a quelle da taglio. Molto croccanti ma dal sapore delicato. Erbe aromatiche. Inutile elencarle tutte, aggiunte all’insalata, basilico, prezzemolo, origano fresco e maggiorana danno aroma e sapore. DA FIORE. Cavolfiori, broccoli, cavoletti di Bruxelles, cavolo cappuccio, verza, carciofi e asparagi. Alcuni devono essere necessariamente cotti e raffreddati nel ghiaccio per mantenere un bel colore verde brillante. Personalmente adoro la julienne di cavolo cappuccio crudo.

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DA FRUTTO. Pomodori, melanzane, peperoni, zucchini, zucche, cetrioli e avocado. Crudi, alla piastra, al vapore o appena sbianchiti e poi raffreddati. Possiedono un sapore spiccato e distintivo. DA FUSTO. Sedano e finocchio. Gusto deciso e consistenza croccante, oltre a una componente aromatica molto forte.

DA RADICE. Carote, barbabietole, rape, ravanelli, daikon e sedano rapa. Vagamente dolci, aggiungono croccantezza, sapore e note pungenti (soprattutto ravanello e daikon). DA TUBERO. Patata, patata dolce, topinambur, zenzero. (che è un rizoma, più tubero che radice). Estremamente versatili.

FRUTTA. Aggiunta all’insalata la frutta dà un tocco di stile e sapore. Fresca, in piccoli pezzi da masticare, affettata o tagliata a fiammiferini. Aggiunge dolcezza e acidità a supporto delle percezioni sensoriali.

UMAMI. Alcuni ingredienti apportano una forte carica di sapore, potremmo dire che parlano ad un "volume" alto. Anche in piccole quantità fanno deflagrare le papille gustative, controparti utilissime per i vegetali meno gustosi. Ce ne sono tanti, ma possiamo provare a classificarli. Occhio alle dosi, ricordate che apportano carboidrati, proteine e grassi. Formaggi stagionati o erborinati. Gorgonzola, Roquefort, Feta, Caprini, Parmigiano Reggiano 30/60 mesi, pecorini, tome. Un patrimonio spesso italiano che dà un’identità unica al piatto. Stimolano la salivazione e non annullano gli altri sapori. Variate anche la forma: briciole, petali, scaglie o fiammiferi. Salumi. Selezionate il meglio:

speck, culatello, il migliore prosciutto crudo o cotto. Qualche etto non rovina il patrimonio ma concentra gusto e sapidità come poco altro. Legumi. Fagioli, ottimi i Borlotti e i bianchi di Spagna, Ceci, Fave, Lupini, Piselli. Cotti ma ancora un po’ tenaci. Scolati, asciutti e sgranati aggiungono sapore e consistenze diverse. Apportano carboidrati, proteine, acido folico e ferro. Sottoli e sottaceti. Funghi, olive, peperoni, melanzane, carciofini, ortaggi grigliati, tonno e pomodori secchi. Cercate il prodotto giusto, anche di nicchia se serve, ne basta poco per ricavare una potenza gustativa unica. Con il tono acido, i sottaceti contrastano il sapore delle insalate, provate e fatemi sapere. Prodotti conservati nel sale. Olive nere e verdi, capperi, acciughe, alici, uova di trota o simili, bottarga. Aroma e picco sapido. Da aggiungere tagliati a piccoli pezzi che saporiti come sono impennano la curva del gusto. Funghi. Se coltivati, si tagliano a lamelle sottili e si aggiungono crudi o appena scottati. I funghi selvatici, come i porcini, hanno una carica di sapore esplosiva, deliziosi da crudi.

ELEMENTO CROCCANTE. Serve a fornire percezioni meccaniche di contrasto. Vivacizzano l’insalata e la rendono golosa.


Fettine sottili di pane tostato. Interagiscono con il piatto, le portate alla bocca con le mani, le mordete, le usate come palette sulle quali poggiare gli ingredienti. Affettate il pane, lo mettete su una placca spennellato con un velo d’olio, aggiungete qualche erbetta e strofinate appena un pezzetto di aglio, poi via in forno per qualche minuto. Buonissimo! Verdura e frutta disidratata. Come prima, mettiamo in forno le fette così le asciughiamo. Si disidratano trasforman-

dosi in elementi croccanti di forte identità gustativa. Utili per dare consistenze diverse agli ingredienti, per esempio, possiamo tagliare dei cubetti di mela e aggiungere delle fette di mela disidratata, stesso tema, sapori diversi.

Tips & Tricks da mago

Frutta secca. Mandorle, nocciole, noci, pistacchi, anacardi, semi di sesamo, eccetera. Carica energetica, proteica ma grassa, quindi meglio non esagerare: bastano 4/5 anacardi tostati per aggiungere sapore e contrasto.

Tagliateli a fette sottili, zucchini, melanzane e peperoni ma anche asparagi, coste di bietola, zucca, cipolle, fagiolini, fave e piselli nel baccello, procuratevi una piastra in ghisa e scottateli a fuoco violento per un minuto, solo da un lato. Le sostanze termolabili saranno in parte conservate e le verdure quasi cotte ma ancora croccanti vi stupiranno.

DRESSING. Definirlo condimento sarebbe riduttivo, nemmeno vinaigrette o citronette è appropriato. Il dressing è un concentrato di tecnica e conoscenza che decreta il successo di un’insalata. Vedrete come cambia il risultato.

Vi svelo qualche trucchetto per aggiungere ulteriore magia al vostro piatto.

Per gli ortaggi:

Per la frutta:

Caramellata in padella per concentrare e intensificare il sapore. Ad esempio: affettate una mela, sporcate il polpastrello di succo di limone e strofinatelo

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Crostini. Cubetti di pane anche integrale, tostati in padella o al forno, insaporiti con una goccia di olio extravergine. Un bocconcino che scricchiola sotto i denti equilibra la consistenza morbida dei cubetti di mozzarella, anche di bufala. Attivazione di più recettori = Maggiore intensità sensoriale.


sulla superficie della fetta. Poi ripetete sporcandovi il dito di zucchero semolato. Fate passare qualche minuto. L’acidità del limone scinde lo zucchero in glucosio e fruttosio, due zuccheri riducenti che aiutano la Reazione di Maillard, inoltre l’acido citrico è un anti-ossidante naturale che non fa annerire la mela. Centrifugate la frutta e unite un pochino di succo di limone per mantenere il colore contrastando l’ossidazione. Aggiungete il centrifugato di frutta per intensificare il sapore.

Per i salumi:

Essiccate delle fette sottili in forno; vi dice niente il profumo dello speck affumicato e croccante da mangiare alla fine, magari con le mani? L’essiccatura concentra sì il sapore ma anche la sapidità, per cui regolate di conseguenza la quantità di sale. Usate i salumi anche in una mousse. Prosciutto e mortadella si prestano alla perfezione. Emulsionate dei cubettini di prosciutto di Praga, dall’aroma affumicato, in un mixer con dell’acqua bollente. Spalmatene un cucchiaino su una fetta di pane tostato e accompagnate l’insalata.

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Per i sottoli e sottaceti:

Vanno sgo cciolati b ene sulla carta assorbente prima di aggiungerli all’insalata. L’eccesso d’olio è superfluo. Non sbilanciamo la quantità di grassi del dressing caricando calorie inutili, no? Se preferite un gusto più delicato, mettete i sottaceti a bagno per 10 minuti in acqua fredda con un po’ di sale. Perderanno un po’ di carica acida nel liquido per effetto dell’osmosi e le verdure, specialmente le cipolline, risulteranno

più gradevoli. Personalmente amo l'acidità spiccata.

di temperatura aggiunge un altro elemento sensoriale.

Per i funghi secchi:

I quattro comandamenti della insalata gourmet

I funghi secchi hanno un intensissimo potere Umami perché l’essiccatura ne concentra la forza. Aggiungete al dressing l’acqua tiepida usata per farli rinvenire, così rinforzate il gusto.

Per la frutta secca:

Questo è un grande trucco e molti lo conoscono già; tostare la frutta secca in padella fa emergere in superficie gli olii essenziali. Il gusto cambia completamente e il contrasto

«Cogli l’attimo»

Cogliere l’attimo è fondamentale, la più entusiasmante espressione di tortellini in brodo perde ogni carisma se servita sotto l’ombrellone, in una spiaggia siciliana, ad agosto. Contestualizzare l’ambiente e l’occasione per la degustazione


«Cogli l’essenza dell’ingrediente»

Tutti gli alimenti hanno due gusti, uno è registrato nel nostro cervello, l’altro è quello specifico, che può essere diverso da quello che abbiamo memorizzato; spesso lo è. Se qualcuno ci chiedesse di descrivere il gusto di una banana, la nostra risposta immediata sarebbe “è dolce”. Questo perché il ricordo è stato registrato quando abbiamo mangiato la più buona banana di sempre, che da quel momento è diventato il nostro indice di comparazione. Ecco cos’è l’essenza dell’ingrediente. Per questo è importante mettere nella nostra insalata gli ingredienti migliori; trasformeremo un semplice pasto in un piacere cui è impossibile rinunciare.

«Rispetta la stagionalità degli ingredienti»

La natura sa cosa fare, lasciamola lavorare in pace. Impariamo a conoscere i prodotti e la loro ciclicità, diamo la preferenza ai prodotti di stagione, un pomodoro raccolto al momento giusto equivale a un picco di sapore.

«Impara la tecnica»

Ascoltate gli ingredienti, una mela con qualche macchia nera probabilmente è al punto più alto di maturazione. Non è bella da vedere ma può diventare una mousse lussuriosa. Cuocetela al microonde, diventerà morbida, profumata senza annerirsi. Ora passate la polpa al setaccio, emulsionatela con succo di limone, pochissimo fruttosio o zucchero di canna, un’idea di cannella e un microgrammo di sale. Mentre è ancora calda, riempite un piccolo bicchierino e sbriciolate mezzo frollino da colazione sulla sommità, guarnite con una foglia di menta ed ecco pronto il vostro piccolo dessert. Esistono molte tecniche per conservare, cuocere, presentare.

Il condimento perfetto per l’insalata si chiama dressing Noi italiani condiamo le insalate con olio extravergine d’oliva, aceto o

succo di limone, sale e pepe. Gli americani, invece, utilizzano un cabaret di condimenti sia liquidi che cremosi. Ne fanno di tutti i colori, dal rosso delle salsine al lampone al giallo del peperone arrosto. E le basi: maionese, yogurt, cetrioli e via folleggiando. Esiste perfino il famigerato “Italian dressing” del quale è meglio continuare a ignorare l’esistenza. Una volta, in una Steak House di Memphis, ho trovato anche la «Carta dei Dressing», un fantasioso elenco di salse per accompagnare le insalate. Anche troppo fantasioso, leggere le etichette di quelle cremine e pensare a provette e bilancini è stato automatico: antiossidanti, stabilizzanti, tensioattivi, conservanti, addensanti, esaltatori di sapidità. Alcuni marchi offrono prodotti dignitosi ma le salse economiche sono davvero pozioni da druido. Eppure quegli intrugli mi avevano incuriosito, per cui mi sono chiesto:

C’è qualcosa che non va nella nostra oliera? E nei loro dressing? Si può fare di meglio? E se sì, come? Mi sono messo a cercare le risposte, ed è venuto fuori che: 1. Il metodo italiano di condire l’insalata è completamente sbagliato. 2. L’uso del dressing che fanno gli americani è incontrollato, però l’idea c’è. 3. Chiamatelo pure cerchiobottismo, ma il condimento ideale è un cocktail delle due scuole di pensiero. Le foglie d’insalata bagnate

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di un piatto è fondamentale. Si parte sempre dal nostro desiderio: il primo pomodoro del nostro orto ci ricorda una gita in campagna? Sentiamo ancora il profumo di quel basilico tanto era intenso? Una caprese fatta in modo diverso è quello che ci vuole. Vengono gli amici a cena e voglio fare bella figura. Fuori fa freddo e ho bisogno di un cibo confortevole? Ci vuole un risotto caldo e corroborante piuttosto che una fredda insalata di riso, vero? Fuori fa caldo e voglio mangiare un pasto leggero senza appesantirmi. Pollo arrosto o petto di pollo marinato al lime e rosmarino, cotto sulla griglia con un’insalata estiva magari di lattuga Trocadero e indivia riccia, spicchi d’arancia pelati al vivo, due scagliette di pecorino sardo, cipollotto, crostini di pane di segale e dressing alla senape e miele. Che ne pensate?


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dall’olio diventano traslucide, non succede la stessa cosa con i liquidi non oleosi, come l’acqua, l’aceto o il succo di limone. Questo perché le foglie sono rivestite da un sottile strato di materiale ceroso, una sorta di impermeabile incorporato grazie al quale le foglie si proteggono dalle intemperie. L’acqua che raggiunge le foglie scivola sullo strato ceroso e si aggrega in piccole goccioline. L’olio, invece, che diversamente da quel che si pensa è meno denso dell’acqua, penetra all’interno rovinando l’aspetto delle foglie. Provate! Molti usano la vinaigrette mischiando una parte di olio e due (o tre) di aceto. Ma olio e aceto non sono amalgamabili tra loro. Se li mettiamo in un contenitore e mescoliamo energicamente, prima le due masse si uniscono, quindi si disperdono in gocce piccolissime fino a quando non si separano di nuovo. Guardate l’aspetto della vinaigrette sopra la foglia d’insalata, l’olio si aggrappa tenacemente alla foglia mentre la povera goccia di aceto, sospesa sull’olio, cade al minimo movimento. In pratica, l’olio si ancora saldamente alla foglia invece l’acqua scivola sulla parte cerosa. Ecco perché l’aceto, che dovrebbe star sotto, è invece in superficie, sopra l’olio. Per capire come mai l’aceto cade è stato fatto un altro esperimento: si è messa dell’insalata dentro un imbuto appoggiato sui bordi di un bicchiere. L’esperimento consiste nel capire se una vinaigrette stabilizzata, cui si è aggiunto un ingrediente in grado da fare da collante (come la senape ad esempio), offra una maggiore capacità di adesione rispetto a una

preparata in modo tradizionale. Stessa quantità d’insalata e vinaigrette, ma una è stabilizzata mentre l’altra no. La Vinaigrette stabilizzata rimane saldamente aggrappata all’insalata mentre l’altra dapprima si separa, la parte oleosa resta attaccata alle foglie mentre quella acquosa (aceto) cade sul fondo del bicchiere. Come dire che la maggior parte della dose di aceto che usiamo per condire l’insalata finisce in fiondo al piatto entro pochi secondi. Insomma, un condimento sbilanciato da tutti i punti di vista che dovrebbe convincerci a mandare in pensione l’oliera: il metodo italiano non è efficientissimo.

è quindi realizzare un’emulsione stabilizzata invece di condire con olio e aceto separatamente. Solo così vi assicurerete una maggiore presa del condimento, che riuscirete anche a distribuire in modo uniforme. Ovviamente, per creare la miscela adatta a ogni tipo d’insalata, oltre a olio e aceto possiamo includere numerosi altri ingredienti.

Cosa accomuna il condimento degli americani al nostro? Una filosofia assolutamente valida: unire grasso, acido, sale, spezie, aromi. Il problema è che negli States si perde facilmente il controllo della situazione, le insalate finiscono annegate da fiumi di condimento dominato dalla maionese. Saranno anche buone, io le salse le adoro, ma si tratta di sapori grossolani, chiassosi. Senza contare che per tenere uniti grasso, acido, sale, spezie, e aromi conservando a lungo il buon sapore è obbligatorio ricorrere all’uso massiccio di additivi alimentari. Il problema di molte salse americane è che la lista degli ingredienti riconoscibili dura una sola riga mentre quella degli additivi quattro.

In chimica fisica, è una miscela costituita dalla dispersione di goccioline di un liquido (fase dispersa o discontinua) in un altro (fase disperdente o continua) nel quale sono insolubili o quasi.

Ecco perché è il caso di preparare da soli i nostri dressing, scegliendo con cura gli ingredienti. Abbiamo visto che senza l’uso di stabilizzanti l’emulsione è comunque destinata a separarsi, ma a noi interessa che resti unita il tempo di mangiare l’insalata. Per far questo bastano gli stabilizzanti naturali. Quello che vi raccomando di fare

Per prima cosa chiariamo il concetto di emulsione. Sopra abbiamo parlato di “emulsione” e “stabilizzata”. Secondo l’enciclopedia Treccani il significato di emulsione è questo:

Sono emulsioni molti alimenti (latte, burro, maionese), cosmetici (creme, lozioni), medicamenti, detersivi, insetticidi, lubrificanti, vernici. Fare un’emulsione significa quindi disperdere delle gocce di un liquido in un altro non amalgamabile con il primo. Per ottenere queste gocce è necessario rompere la struttura delle molecole e riorganizzarla, in pratica dobbiamo mescolare le due sostanze, più energia mettiamo più piccole saranno le gocce. Così facendo otteniamo una soluzione composta da piccole gocce d’acqua e olio, affiancate in modo casuale. Per il principio della coalescenza (due particelle che si uniscono per formarne una più grande)


Detto questo, immaginate gli infiniti condimenti che possiamo realizzare? Adesso proviamo a stabilire con ragionevole certezza quali elementi deve contenere il dressing. UNTUOSITÀ. Un grasso, molto spesso un (grande) olio. ACIDITÀ. Aceti, succo di limone o lime ma anche succhi di frutta di spiccata acidità. SAPIDITÀ. Sale e non solo: salsa di soia, colatura di alici, Worcestershire Sauce. DOLCEZZA. Zuccheri, meglio se aromatici: miele, sciroppo d’acero, zucchero grezzo, zucchero di cocco. AROMATICITÀ. Erbe, spezie, ortaggi. Infinite possibilità. UMAMI. Il “volume” del sapore.

STABILIZZANTE. La famosa colla. Miele, lecitina di soia e senape sono stabilizzanti naturali, ma ce ne sono molti altri. La stessa maionese è al contempo emulsione ma anche stabilizzante. Di olio è pieno il mondo, di grandi oli meno, non risparmiamo su questo prezioso ingrediente, usiamo il migliore che possiamo permetterci. Senza dimenticare gli oli di semi pregiati: Olio di mandorla di Noto, Olio di Pinoli di S. Rossore, Olio di Pistacchio di Bronte, Olio di Nocciola. Pur non rappresentando un’alternativa all’olio extravergine, sono veramente piacevoli, una specie di elisir. Olio a parte, possiamo ricorrere a un altro ingrediente squisito anche se spesso sottovalutato: lo yogurt. Se intero apporta una maggiore quantità di grasso ma anche una splendida acidità. E ora l’aceto. Di vino bianco, di vino rosso, balsamico, tradizionale, di mele, di miele, di lamponi, di mirtilli, di more, di umeboshi, di riso, di ribes nero, di mais e tutti quelli che dimentico. L’acido è la base comune, ma le sfumature di sapore sono diverse e fanno la differenza. Altro ingrediente bistrattato: la salsa Tabasco. Qualche goccia e il dressing può trasformarsi in una bomba di sapore. Lo zucchero mitiga l’azione pungente dell’acido e del sale. Possiamo usarlo semolato ma nessuno ci impedisce di provare un buon miele o lo zucchero di palma/acero/cocco. Sono tutte note aromatiche distintive. Aromaticità non vuol dire soltanto origano o prezzemolo,

si può fare di più. Pensiamo alle foglie di shiso, al lemon grass, alla vaniglia, al cardamomo, al macis, allo zenzero, al wasabi. A elencarli tutti non finiamo più. Portiamo carattere, nuovi sapori, nuove inclusioni. La sperimentazione in cucina fa parte del gioco ed è anche divertente, scoprire abbinamenti che funzionano è appagante, perché non farlo? Molti gastrortodossi inorridiscono davanti al termine UMAMI, non si capisce perché. Esistono molti elementi umami liquidi, alcuni li abbiamo già indicati sopra, la salsa di soia, la salsa Worcestershire, anche Salsa di pesce fermentato (per gastroindulgenti) o la splendida colatura di alici di Cetara. Si possono utilizzare alghe, funghi e quanto già sappiamo. Volete un altro suggerimento? Rinforzate il condimento con uno degli ingredienti principali dell’insalata. Se ne preparate una con gli zucchini saltati, probabilmente avrete usato solo la parte verde esterna, più croccante e saporita. Recuperate l’interno, saltatelo in padella con del cipollotto e un goccio di vino bianco. Quando è stracotto aggiungetelo al dressing e frullate tutto, sarà una valida spalla per l’ingrediente principe del piatto. Fatelo con i peperoni, con la zucca, con i cavoli, con qualsiasi cosa. Ultimo ma non ultimo è il dispositivo che permetterà la creazione del dressing perfetto: Il blender o mixer. Oltre a frullare e sminuzzare perfettamente, l’alta velocità dello strumento regala all’emulsione una struttura vellutata, impossibile da ottenere sbattendo tutto a mano. In aggiunta, le particelle

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le goccioline tenderanno ad aggregarsi nuovamente; in altre parole si spostano e si uniscono per creare una goccia più grande. Se invece volessimo mantenere legate queste gocce, dovremmo utilizzare una sorta di colla che nel caso delle emulsioni si chiama “stabilizzante” o “surfattante”. Un agente che ha la particolarità di abbassare la tensione superficiale di un liquido. La tensione superficiale, per farla semplice, è la forza che permette alle zanzare di camminare sul pelo dell’acqua.


generate dalla turbolenza della rotazione sono molto piccole, in questo modo lo stabilizzante è più efficace e l’emulsione rimane stabile per giorni.

L'insalata del griller: la Steak Salad «La

bistecca con questo caldo? Ma sei fuori?» Sì, a grigliare. A parte che i veri Grill Master moriranno da eroi e accenderanno la griglia sempre e comunque, da un certo punto di vista, però, non me la sento di darvi torto del tutto. Ma c'è sempre un ma. E c'è sempre una soluzione, sempre. E la soluzione si chiama Steak Salad.

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Avete presente il prosciutto cotto? È un salume. A base di carne cotta. Che si mangia freddo. Avete presente invece il Prosciutto di Praga? È un salume. A base di carne cotta. Affumicata. Che si mangia freddo. Avete presente la mortadella? Bene. Come sopra. Avete presente invece il prosciutto crudo? È un salume di carne cruda. Stagionata. Che si mangia freddo. Avete presente il Salame Ungherese? È un salume a base di carne cruda. Affumicato. Stagionato e che si mangia freddo. Passiamo ad un altro sport. Avete presente lo Jamon Iberico? È un salume a base

di carne cruda. Stagionato. Che si mangia a temperatura ambiente. Avete presente la differenza abissale tra il sapore del miglior prosciutto crudo italiano e il più scarso Jamon Iberico de Bellota spagnolo? Esatto. Inarrivabile. La cosa che però forse non sapete è che la temperatura a cui viene servito fa una profonda differenza. Nessuno, in Spagna, vi darà dello Jamon Iberico freddo di frigo. Nessuno. Quando lo vedi nel piatto è sempre, come dire "sudato". Lucido. Brillante. Oltre al disciplinare di lavorazione, la differenza importantissima è data dalla temperatura di servizio. Andiamo alla nostra Steak Salad. La Steak Salad è un'insalata fatta con una bistecca cotta. Che si mangia a temperatura ambiente. Quindi scottare una bistecca (come si deve) anche molte ore prima, affettarla molto sottile e mangiarla a temperatura ambiente in mezzo all'insalata è un'esperienza meravigliosa. Che cosa dobbiamo tenere in considerazione quando prepariamo una steak salad? Croccantezza: Usate sempre degli elementi croccanti nell'insalata. Che siano le stesse verdure o dei crostini di pane o del pane carasau o qualsiasi cosa "crunchy" che vi viene in mente. Acidità: Usate sempre un dressing acido -oppure- della frutta acidula. Non abbiate alcun timore a mescolare carne fredda e frutta acidula perché ne resterete


estasiati. Serve ad equalizzare le note grasse della ciccia. Pungenza: Usate sempre qualcosa che punga. La nuova linea di Rub Sal’s Seasoning, per esempio, andrà a nozze con questo concetto. Cipollotto, capperi, un po' di senape di Digione nel dressing, un pezzo di peperoncino fresco o dello zenzero. Qualcosa che spinga. Conditela all'ultimo secondo e mi raccomando: c'è la ciccia quindi servirà un po' più di sale rispetto al solito. Usate una carne di media marezzature. Una PRIME o una 5/6+ sarà perfetta. A temperatura ambiente otterrete quel tipico aspetto "sudato" perché il grasso tenderà a fondere rendendo il boccone assolutamente strepitoso.

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Mangiare la bistecca fredda? Sì, se è ricercato e soprattutto se la temperatura esterna lo richiede, non solo si può fare ma si deve. Ah, stesso principio per un carpaccio marinato. La tostatura della cottura darà note aromatiche interessanti al tutto. Quindi non abbiate nessuna paura di tenere un paio di bistecche già cotte nella pellicola in frigo. Tanto adesso sapete benissimo come utilizzarle e come valorizzarle al massimo, no?


Burro Burro di Cacao Olio di Palma Olio di Oliva

Carboidrati

Saturi

Monoinsaturi

Olio di Mandorle

Semplici

Olio di Soia Olio di Mais

Poliinsaturi

Olio di Girasole

Grassi

Insaturi

Margarina

Grassi Idrogenati

Pesce Crostacei

Omega 3

Olio di nocciole Noci Cereali

Omega 6

Pane

Acidi Grassi Essenziali

Fosfolipidi

LDL

Composti

Trigliceridi

Lipoproteine

Macronutrienti

HDL

Selezione del fornitore

Materia Prima

Controllo qualità Conservazione Preservativa Cottura

Tecnica

Conservazione Styling Servizio

Aspetti Tecnologici

Tutti

Il cuoco

Chi sono Cosa Voglio

Forte Identità

Perchè

Insalata Gourmet

Come lo ottengo E se... Forma contenitore Ingredienti portanti

Struttura

Dressing Ingredienti di contrasto Ingredienti Dosi Ausili Tecnici

Formula Esecutiva

Costo Metodo di esecuzione

La ricetta

Tempi di realizzazione Cena di gala Cooking Show Cena in famiglia

Circostanza

Barbecue all’aperto Dieta Ipocalorica Tutte le altre

L’essenza del Momento

Freddo Pioggia

Condizioni Meteo

Caldo Vento

Il contesto

Settembre 2020 - 14

Altre Stagionalità Esempio. Banana Dolce o non troppo

Saporte “attuale” Intensità Contesto Culturale Affinità di sapore

Cogliere l’essenza dell’ingrediente


Acido Dolce

Bocca

Amaro Salato

Semplici

Zuccheri

Complessi

Amidi

Umami

Naso

Proteine

Aroma

Chimiche

Vegetali

Ghiacciato

Animali

Freddo Fresco Tiepido Caldo Bollente

Micronutrienti

Termiche

Fibre Vitamine Minerali Fitochimici

Sensoriale

Meccaniche

Aridità

Coesione

Umidità

Densità

Rugositòà

Viscosità

Granulosità

Durezza

Scivolosità

Fratturabilità

Lveviftezza

Assorbimento di Umidità

Omogeneità di masticazione

Gommosità

Omogeneità

Pesantezza

Omogeneità di morso

Rilascio di umidità Pungenza Bruciore Freddo Intorpidimento Astringenza

Chemestesiche

Visuale Emozionale Mentale Spirituale

X-Factor

Fibre

Salutistico

Vitamine

Per il cuore

Minerali Fitochimici

Per gli occhi

Vitamine

Per il cervello

Minerali

Per la pelle

Per la articolazioni

Vitamine

Fitochimici

Per le ossa

Per il sistema immunitario

Vitamine

Vitamine Minerali Vitamine Minerali

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Mindmap

Nutrizionale

Insalata Gourmet

Calore


Il senso del

GUSTO guida completa alla degustazione!

Illustrazioni di Eleonora Castagna

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a cura di Stefania Pompele


Nella gerarchizzazione dei sensi propria della filosofia antica, il senso del gusto rappresentava una sorta di porta degli inferi per gli istinti più bassi, carnali. Platone sosteneva che ciò che percepiva la lingua non producesse benefici sull’anima intellettiva ma al contrario, su di essa potesse sortire effetti dannosi: “l’appetito è una forza potente, inarrestabile, che deve essere tenuta in catene come un animale selvatico, affinché non sovrasti il vivente nella sua interezza”. Al contrario di vista e udito – percepiti come strumenti fondamentali nella conoscenza della realtà – quindi prerequisiti essenziali per l’attività intellettuale e filosofica, il gusto rappresentava il più basso recinto della dimensione umana. Con Aristotele l’analisi dei sensi diventa meno idealistica e più scientifico-pragmatica. Ma pur ammettendo che le anime avessero bisogno dei corpi e la carnalità non potesse semplicemente essere derubricata a gabbia e ostacolo per l’anima razionale, e pur rilevando come il piacere rappresentasse una dimensione importante delle virtù umane, la vista e l’udito sono considerati i sensi più elevati e importanti da un punto di vista conoscitivo. Insomma, relegati a sensi minori, o addirittura demonizzati, olfatto e gusto hanno subito storicamente una sorta di caccia alle streghe. Il presente ci consegna uno scenario direi capovolto, la sensorialità non è solo al centro di ennemila pubblicazioni scientifiche, ma spesso tema trattato nei salotti in cui si filosofeggia di estetica, arte, e appunto gusto (nel senso più ampio del termine). Non è ovviamente mia intenzione filosofeggiare di alcunché, ma guidarvi alla scoperta di questo tipo di sensorialità.

Insomma la faccenda è parecchio ingarbugliata e in questa area, ossia quando addentiamo un pezzo di succulenta ciccia, lavorano in sinergia parecchi telescopi sensoriali. Data la loro moltitudine e complessità, e la mia attitudine al caos, raccontarne un pezzetto per volta dovrebbe semplificarci le cose.

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Dunque spostiamo la prospettiva qualche centimetro più in basso e parliamo di percezioni gustative. In realtà la zona orofaringea è interessata da svariati stimoli, ascrivibili al altrettanti recettori (termici e gustativi ad esempio), terminazioni nervose libere (tipo quelle sensibili al piccante) e sistemi misti.


Cenni di fisiologia e meccanismo percettivo La parola gusto, in senso stretto, è riferita all’organo di senso preposto a percepire gli stimoli chimici che giungono in contatto con i recettori gustativi, gli stimoli che interagiscono con l’apparato gustativo sono definiti sapore. La zona maggiormente coinvolta nella percezione del sapori è la lingua, tuttavia si trovano recettori anche sul palato molle, labbra, faringe ed epiglottide, anche se queste ultime svolgono un ruolo meno rilevante. Lo stimolo sensoriale ha origine nei cosiddetti bottoni (o gemme) gustativi, strutture a forma di cipolla presenti in numero variabile all’interno delle papille gustative.

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Sulla parte anteriore della lingua troviamo le papille fungiformi, le circumvallate si trovano invece nella regione posteriore della lingua (formano una sorta di V capovolta), e le papille foliate, provviste anch’esse di gemme gustative, vanno a formare piccoli solchi ai lati della lingua nella regione posteriore. Abbiamo poi le papille filiformi, in questo caso si tratta di recettori privi di gemme gustative, non sono in grado di pecepire sapori ma sono coinvolte nelle percezioni tattili. All’apice dei bottoni gustativi sono presenti delle estroflessioni filiformi dette microvilli. Le molecole veicolate dalla saliva sono trattenute da queste estroflessioni e vengono quindi in contatto con le cellule

gustative. I recettori del gusto inviano quindi impulsi elettrici ai nervi gustativi che arrivano alla base dei bottoni dove si ramificano estensivamente, creando una connessione sinaptica con più recettori all’interno dello stesso bottone gustativo. I recettori rilasciano l’informazione ai nervi gustativi attraverso neurotrasmettitori, da qui il segnale viene trasdotto in impulso elettrico - l’unica lingua che il nostro cervello è in grado di comprendere- per raggiungere quindi specifiche aree del cervello (corteccia primaria e secondaria) responsabili della percezione vera e propria di sapori e di risposte comportamentali, come avversione, secrezione gastrica, comportamento alimentare.

La geografia dei sapori: la corazzata potemkin della percezione Le scienze sensoriali sono materia recente, lo sappiamo. Ma questa cosa della geografia dei sapori non è certo una faccenda attuale, tutt’altro. Eppure ci sono voluti tipo un centinaio d’anni per capire di aver male interpretato uno studio di fine ‘800. Fu D.P. Hänig lo scienziato che per primo misurò le soglie di percezione gustative basandosi a sua volta sugli studi di E. B. Tichener (allievo di W. Wundt, il padre della psicologia sperimentale). Hänig dimostrò l’esistenza di una preferenza specifica dei singoli recettori rispetto ai sapori primari, cosa peraltro confermata, limitandosi appunto ad indagare questo aspetto della percezione. Non affermò però che quegli stessi recettori non fossero in grado di percepire anche altri sapori. Ammesso si fosse posto il problema non avrebbe avuto i mezzi per approfondire la questione. E con questa errata convinzione abbiamo scritto quintalate di materiale e indottrinato eserciti di assaggiatori di ogni ordine e grado “geografizzando” la lingua. A smentirci ci ha pensato uno studio americano del 2001 che ha dimostrato come le singole cellule sensoriali, ovvero le papille gustative dotate di gemme gustative, non rispondano esclusivamente ad un unico sapore, ma solitamente a più stimoli gustativi, seppur in modo diverso. Esiste una preferenza specifica dei recettori rispetto ai sapori


La cosa più utile da fare quindi per discriminare i sapori è imparare a capire come si comporta un carboidrato rispetto ad uno zucchero semplice, il cloruro di sodio rispetto al potassio, l’amaro dato da tostatura rispetto a quello che potete trovare in una crucifera (solo per fare alcuni esempi), prestando attenzione a quello che accade nel vostro di palato, non solo in termini di intensità di percezione ma di zone maggiormente coinvolte in quel tipo di stimolo sensoriale.

Di sapori primari, soglie di percezione e supertaster Dolce, acido, salato, amaro, sapido e grasso (eh sì, ve ne parlo poi). Questi i cosiddetti sapori primari che le scienze sensoriali identificano in quanto rispondenti a specifici stimoli sensoriali, associati a loro volta a sostanze specificatamente alimentari, insomma macro e micronutrienti o, in alcuni casi, sostanze potenzialmente tossiche (il nostro rapporto conflittuale con l’amaro lo testimonia). Chiarito l’ovvio, cioè che il nostro corredo sensoriale è progettato per rispondere a bisogni primari, l’intensità con cui sperimentiamo uno stimolo è una faccenda squisitamente soggettiva. Genetica, età, sesso, cultura e contesto hanno un peso rilevante in tal senso. Non tutti percepiamo i sapori con la stessa intensità e le differenze di percezione in alcuni casi sono significative. Sono parecchi gli studi a tema, recente e tutto italiano quello orchestrato dalla SISS – Società Italiana di Scienze Sensoriali. “Italian Taste” ha testato in un triennio un campione rappresentativo di circa 3000 volontari, con lo scopo di indagare le tendenze alimentari dello Stivale. Proprio in relazione

alle variabili genetiche, lo studio si è concentrato su due parametri: la conta delle papille fungiformi e la risposta sensoriale ad alcune sostanze amare chiamata in gergo PROP status, ritenendo questi parametri indicativi in quanto capaci di condizionare le nostre scelte alimentari, quindi il nostro stato nutrizionale e di salute. Per quanto riguarda la conta delle papille, i test hanno evidenziato l’estrema variabilità di recettori per cm2, presenti nei soggetti testati in numero variabile da 1-2 fino a 100 papille. In particolare, nel campione preso in esame, si è evidenziata una maggiore presenza di papille fungiformi per cm2 nelle femmine (23) che nei maschi (21), presenza che tende a diminuire drasticamente con l’avanzare dell’età soprattutto nei maschi tra i 30 e i 40 anni, mentre nelle femmine segue un andamento più graduale. Evolutivamente parlando questa cosa ha parecchio senso, nella stessa direzione anche l’ipersensibilità all’amaro. Nel 1994 Linda Bartoshuk, allora nel team della Scuola di Medicina della Yale University, pubblicò uno studio fondamentale sull’influenza della genetica sul senso del gusto. Il lavoro della ricercatrice si basava sulla valutazione della capacità dei soggetti testati di riconoscere il sapore amaro di specifiche sostanze, la feniltiocarbammide (PTC) e il 6-n-propiltiouracile (PROP), già da tempo utilizzate in questo tipo di ricerche. Il PROP status (abbreviazione

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primari, ma non vi è una selettività assoluta. Potreste insomma percepire il dolce non solo sulla punta della lingua, piuttosto che il salato ai lati e via discorrendo, ma percepire anche altri sapori in queste stesse aree, magari con intensità diverse. La percezione dei sapori avviene a macchia di leopardo su quasi tutta la lingua, labbra e buona parte della cavità orale. La discriminazione dei sapori non è quindi tanto una faccenda geografica, ma piuttosto legata al tipo di recettore e all’attività di confronto con gli altri recettori gustativi.


di 6-n-propylthiouracil) testa appunto, attraverso l’assaggio in una soluzione opportunamente dosata con acqua demineralizzata, l’ipersensibilità ad alcune sostanze amare.

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Non è l’amaro della caffeina, nemmeno quello del luppolo, tantomeno quello legato ad una eccessiva caramellizzazione degli zuccheri in una salsa barbecue. È piuttosto imparentato con l’amaro delle crucifere, e del radicchio. Amari associati ad alcune sostanze potenzialmente tossiche presenti nel regno vegetale, per cui evidentemente abbiamo conservato una sorta di retaggio evolutivo e di risposta sensoriale avversa. La scala di intensità che misura questo tipo di amaro va da 0 a più infinito, si, avete letto bene. Questo per darvi un’idea dell’intensità con cui un Super Taster (così in gergo

vengono chiamati i soggetti che mostrano ipersensibilità a questa sostanza) percepisca alcuni amari. Anche in questo caso, secondo i dati forniti da Italian Taste, le femmine risultano avere maggiore sensibilità ad alcune sostanze amare rispetto ai maschi. Il 34,6% delle femmine e il 21% dei maschi è risultato super taster, mentre il 28% dei maschi e il 24% delle femmine è Non Taster, non percepisce affatto l’amaro del PROP insomma. La relazione tra i due parametri, numero di papille per cm2 e ipersensibilità all’amaro (a cui è legata una generale maggiore sensibilità ad altri sapori, salato e sapido ad esempio) ci rendono geneticamente molto diversi. Statisticamente circa il 50% della popolazione si colloca nella fascia centrale, Non Taster e Super Taster si suddividono più o meno equamente la restante

fetta della torta, con le variabili di sesso citate pocanzi.

UMAMI: servi del glutammato che ci esalta Mi rendo conto che parlare di sapidità in un gotha dei nerd della proteina possa espormi a sonore pernacchie, se non è chiaro a voi come si manifesta questo stimolo sensoriale a chi altri? Umami (o sapido, traduzione non letterale della parola saporito, umami appunto in giapponese) è il termine utilizzato per descrivere la risposta sensoriale dei recettori gustativi in presenza di alimenti contenenti il glutammato (e suoi Sali) e due nucleotici. Era il 1908 quando Kikunae Ikeda, professore di chimica all’Università Imperiale di Tokyo, teorizzò potessero esistere recettori


Dicevamo che la sapidità è dovuta alla presenza nel cibo di glutammato e di due nucleotidi, guanosina monofosfato (GMP) e inosina monofosfato (IMP). Il glutammato è un derivato dell’acido glutammico, uno degli aminoacidi che costituiscono le proteine, anche vegetali. Si tratta di un amminoacido non essenziale, una sostanza che il nostro corpo è in grado di produrre in maniera autonoma. La guanosina monofosfato è abbondante ad esempio nei funghi essiccati, mentre l’inosina monofosfato è abbondante in

alcuni tipi di tonno, sardine e acciughe. Inizia a formarsi alla morte dell’animale e raggiunge la massima concentrazione dopo circa dieci ore, momento in cui la carne del pesce ha maggior sapore. Carni, caseina del latte, glutine dei cereali, contengono glutammato. La miosina della carne ne contiene in quantità pari al 20-30% del peso della molecola. Lunghe bolliture, processi fermentativi, parziali disidratazioni portano a liberare parte del glutammato, ed proprio la frazione libera a stimolare i nostri recettori. Insomma, il brodo di carne diventa saporito non certo per quel pizzico di sale che aggiungete all’acqua, ma perché la lunga bollitura della proteina porta a liberare parte del glutammato, o la fermentazione di una salsa di soia spinge a vette altissime l’intensità di sapore. Carne, pesce, mais sono ricchi di acido glutammico legato, mentre Parmigiano,

piselli e pomodori sono alimenti in cui l’acido glutammico si presenta libero. Il glutammato monosodico, largamente utilizzato come insaporitore, è appunto il sale sodico dell’acido glutammico. Il sapore umami del glutammato è di per sé abbastanza debole e ancor più debole è quello dei due nucleotidi, ma quando queste sostanze sono presenti contemporaneamente aumenta l’intensità percepita della sapidità. Esiste insomma una sinergia importante tra questi composti, sinergia che già era stata intuita dai cuochi giapponesi quando aggiungevano l’alga kombu, ricca di glutammato, a una zuppa preparata con tonno essiccato per preparare il kombu dashi che tanto intrigava il professor Ikeda. Una bomba sapida insomma. Il glutammato è anche un importante neurotrasmettitore,

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specifici per individuare questa sostanza negli alimenti. Isolò del glutammato da un concentrato di alghe kombu identificandolo come responsabile del caratteristico sapore. Di lì a poco il suo sale, il glutammato monosodico, sarebbe stato largamente commercializzato come condimento in Giappone, e nelle cucine di mezzo mondo, sotto forma di sale cristallino.


il più abbondante nel sistema nervoso dei vertebrati, dove svolge funzione eccitatoria ed è coinvolto nei processi di apprendimento e memoria. È inoltre precursore dell’acido γ-aminobutirrico (GABA), il principale neurotrasmettitore con funzione inibitoria. Il glutammato non è in grado di attraversare liberamente la barriera emato-encefalica: esiste un trasporto attivo ad elevata affinità che permette un controllo della concentrazione di glutammato nei fluidi cerebrali, mantenuta su livelli costanti indipendentemente dalla quantità di cibi contenenti umami consumati. La risposta sensoriale al glutammato è un qualcosa che solitamente fatichiamo ad individuare con precisione (soprattutto noi occidentali) vuoi perché la sua presenza nel cibo è sempre legata ad altre sensazioni gustative, vuoi perché il suo manifestarsi genera uno stimolo di difficile interpretazione. Sembra stare a metà strada tra il dolce e il salato. Solitamente lo si descrive per lo più come “intenso” riferendosi genericamente alla pianezza e concentrazione del sapore percepito.

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Oleogustus: il sapore del grasso Che parole usate per descrivere la marezzatura di un taglio di carne? Sapreste raccontare nel dettaglio quel tipo di stimolo sensoriale? Probabilmente usereste descrittori ascrivibili a sensazioni tattili (morbidezza, avvolgenza tanto per fare un esempio) o più genericamente

parlereste di “ricchezza o intensità” riferendovi al sapore nel suo insieme. A quanto pare gli acidi grassi non sono responsabili solo di sensazioni tattili ma attivano specifici recettori del gusto. A suggerlo è stato uno studio della Washington University School of Medicine, che ha dimostrato come alcuni recettori gustativi si attivino o meno in presenza di lipidi. A regolare questo meccanismo acchiappa grassi è il gene CD36. Quando è attivo vengono sintetizzate grandi quantità di proteine che localizzano i lipidi e ci fanno essere più sensibili rispetto alla presenza di questi composti negli alimenti, mentre quando è poco presente o viene “impigrito” (assumendo cibi grassi), tendiamo ad ingerire maggiori quantità di lipidi e con sempre maggior frequenza. Nel 2015 il prof. Richard Mattes e il team di ricercatori della Purdue University hanno scelto il termine Oleogustus per definire la sensazione gustativa legata agli acidi grassi, al grasso insomma. Per dimostrarlo, Mattes e colleghi hanno chiesto a 102 volontari, selezionati per la loro abilità di percepire i grassi, di assaggiare campioni contenenti sostanze riconducibili ai cinque sapori primari e ovviamente il presunto sesto. Secondo quanto emerso, gli acidi grassi non esterificati, in particolare quelli a media e lunga catena (i trigliceridi per farla breve) generano sensazioni qualitativamente diverse, quindi distinte,

rispetto agli altri sapori primari. Lo stesso test ha dimostrato una sovrapposizione (quindi una confusione semantica) con l’umami, ma potrebbe dip endere dalla nostra scarsa familiarità con questa sensazione gustativa. Insomma, i volontari hanno identificato e discriminato la sensazione gustativa ascrivibile ai grassi, a quanto pare percepita come sgradevole nelle descrizioni generiche fornite dal panel. Abbiamo insomma un descrittore nuovo di zecca per una risposta sensoriale vecchia quanto l’uomo. Torniamo al vecchio adagio, il nostro equipaggiamento sensoriale è progettato per rispondere a specifici bisogni primari. Individuare le fonti di grassi negli alimenti attraverso specifici recettori del gusto, e provare disgusto se troppo presenti, rientra tra le intelligenze evolutive che abbiamo sviluppato, poco importa se non ne abbiamo consapevolezza. Per approfondire: Andrè Holley - il Cervello Goloso Ole G. Mouritsen, Klavs Styrbaek - Umami: Unlocking the Secrets of the Fifth Taste Receptor in humans can taste fat: https://medicine.wustl. edu/news/podcast/receptorin-humans-can-taste-fat


Illustrazioni di Eleonora Castagna

Nostalgia

canaglia

anni '80

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per gli


Speciale Anni '80 - Portfolio Gastronomico a cura di Alberto Zonghetti

Il celebre brano cantato da Al Bano e Romina Power, al tempo considerato imbarazzante, agghiacciante da chi avesse un minimo di cultura musicale ma oggi da molti sdoganato come exemplum dei tempi che furono, ci introduce ai magnifici anni’80. Perché li definiamo magnifici? E per quale motivo li ripercorriamo con tanta nostalgia?

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Solo chi li ha vissuti può dirlo: io ci sono stato immerso dall’infanzia all’adolescenza e li ricordo con straordinario piacere. Sono stati anni belli, spensierati, nonostante le contraddizioni e il dubbio gusto che si fece spazio in diversi ambiti della nostra società, dalla musica all’abbigliamento fino ad arrivare, ovviamente, alla cucina.

L’Italia usciva dagli anni ’70, dove tutto era politica, ed entrava in un periodo nel quale la cultura si smarcava dalle ideologie. Sono gli anni dell’edonismo reaganiano che in Italia si tramuta nello yuppismo, nella “Milano da bere”: siamo in un paese che insegue un nuovo benessere economico, mentre l’individuo cerca il piacere privato, personale, disimpegnato, ostentato. Nascono le emittenti private e la TV commerciale, programmi come il Drive-In dopo decenni di austere trasmissioni Rai in bianco e nero, il berlusconismo televisivo; è l’era della pubblicità, del consumismo, dei grandi ipermercati che aumentano a dismisura la vendita di surgelati, merendine, bibite coloratissime e iperzuccherate, sofficini e cibi industriali affini. Non possiamo tracciare ora tutti gli eventi storici, politici e sociali del decennio, né soffermarci sul prezzo pagato, come ad esempio il raddoppio del debito pubblico, la corruzione diffusa, lo scandalo Tangentopoli. Ci basta accennare solo ad alcuni simboli che sono diventati ormai mito: l’Italia campione del mondo nel 1982 in Spagna, il Walkman, le VHS, le spalline, i capelli cotonati, il gel, le foto da sviluppare su pellicola, i cartoni giapponesi; l’era dei videogiochi, dei paninari, del vestiario firmato, della new wave, delle magliette “Fruit of the loom”; Il decennio fu concluso simbolicamente nel 1989 con la caduta del Muro di Berlino, che chiuse un’epoca e ne aprì un’altra, quella della globalizzazione.

Una cucina "barocca" l termine barocco è spesso usato in maniera impropria, con accezione negativa a evidenziare aspetti come l’artificio, l’eccesso, l’esuberanza, la ridondanza, l’opulenza. Il 1600 a tavola è sinonimo di elaborazione ed ornamento: è anche il periodo dello zucchero in cucina, utilizzato in ogni pietanza, con intento dettato soprattutto dall’esigenza di ostentare uno status sociale. «Il zucchero non guasta mai menestra», frase ricordata da Costanzo Felici (medico e naturalista del XVI sec.), riflette bene l’atteggiamento dei cuochi del tempo. Negli anni ’80 dello scorso secolo, sull’onda del benessere, si accantona l’esperienza della Nouvelle Cuisine, ma il recupero della tradizione italiana non è abbastanza chic ed appagante, è “roba passata”; c’è l’esigenza di stupire, oltrepassare il limite, di forzare la mano, a costo di “travestire” alcuni piatti snaturando il senso degli ingredienti. Protagonista assoluto non è lo zucchero di barocca reminiscenza, ma sua maestà la panna, voluttuoso ingrediente che unifica e lega i sapori delle preparazioni che hanno un filo conduttore ben definito: l’opulenza, il soddisfacimento immediato del palato. Ancora oggi l’uso di questo ingrediente, di origine francese, divide la platea: la chef che per prima osò allontanare il tortellino dal sacro brodo fu Cesarina Masi, cuoca dell’omonimo ristorante di via Santo Stefano a Bologna. Ma la nostra cuoca, nel Dopoguerra, usava panna scremata di qualità, derivata dal latte appena munto, non certo la panna industriale, deplorata dalla “Dotta confraternita del tortellino”. Prima di passare ai piatti che resero celebre il nostro magnifico decennio,


cerchiamo di ricordare i nostri anni Ottanta a tavola, come li abbiamo vissuti e quali ricordi rimangono.

non bilanciato, eccessivo nei sapori, buono, grasso, abbondante oltre misura. Si finiva sempre con l’arrancare all’aperto, piegati per la pancia che scoppiava, ostentando soddisfazione e appagamento come fosse l’adempimento di un rito.

In quel periodo mio padre ottenne una posizione di prestigio all’interno di un’Associazione di commercianti, ristoratori, albergatori. Maggiore benessere, senza eccessi, e tanti inviti a pranzo e a cena: bettole, trattorie, ristoranti prestigiosi. Almeno un paio di volte al mese si andava a mangiar fuori, non sempre con il beneplacito di tutta la famiglia – mio fratello e mia sorella maggiori, compresi tra l’adolescenza e la maggiore età, ogni tanto avrebbero passato in altro modo il loro tempo -, ma io ero allora una mente semplice: gita fuori porta, ottimo cibo in abbondanza, offerto gentilmente da volenterosi ristoratori, risate assicurate dalle gaffe di qualcuno della famiglia. Cosa volere di meglio? E poi le tavolate: in quel decennio invitare gente a qualsiasi evento rappresentativo per la propria famiglia era quasi un obbligo. Non so a quanti banchetti partecipai: matrimoni, comunioni, cresime, nozze d’argento, d’oro, di diamante. Di parenti stretti e amici, certo, ma anche di persone mai viste: colleghi di lavoro di mio padre, parenti di secondo, terzo, quarto grado, o personaggi di cui mi sfugge tuttora il legame con la nostra famiglia. Raduni di decine, centinaia di persone, intente a “sgolfanarsi” (letteralmente ingozzarsi di cibo, in dialetto marchigiano settentrionale) tra fiammanti e fumanti fiamminghe che con eccitata celerità volenterosi camerieri portavano fieramente e senza sosta dalla cucina. Tanto cibo,

Ma finalmente rispondiamo alla domanda che tutti si aspettano: cosa mangiavamo in quegli anni? Sulla spinta di un’alta società rampante, ricca e un po’ cafona, da film dei fratelli Vanzina, troviamo sulla tavola primi come i tortellini alla boscaiola, paglia e fieno ai quattro formaggi o al doppio burro; le pennette alla vodka e al fumè, le farfalle al salmone; l’accostamento “mari e monti”, porcini e gamberi, vongole e funghi etc...spina nel fianco dei sostenitori delle eccellenze territoriali; l’improbabile risotto alle fragole, quello alla crema di scampi (mangiato un mese fa al confine tra Lazio e Abruzzo, considerato dal titolare il piatto forte da 40 anni!); o anche la versione allo champagne, perfetta per dare un tono chic, stravagante, esterofilo alla cena (e chi mai avrà utilizzato veramente il costoso vino per mortificarlo nella casseruola?); la pasta con sugo “pasticciato”, gioia dei bambini di allora e anche di adesso: ovvero ragu’ di vario tipo – rossi o bianchi – con l’aggiunta, indovinate un po’?, della panna… dagli immancabili tortellini (rigorosamente industriali), agli strozzapreti, alla gramigna, alla poveretta. Stanchi della solita pasta? Allora arrivano le crespelle, o crepes se vogliamo darci un tono, ripiene di verdure, prosciutto, tanto formaggio o mozzarella ma, soprattutto, affogate nella goduriosa besciamella; servite non calde né bollenti: ustionanti! L’ingrediente innovativo, d’avanguardia, era la rucola, l’evoluzione dell’insalata: la sua presenza era indice di cucina moderna, dal carpaccio alla tagliata, nella piadina con lo stracchino, nelle decorazioni. Ammetto che il suo uso era così inflazionato che iniziai a detestarla: ho ripreso a mangiarla con piacere, utilizzandola con maggiore rispetto e parsimonia, solo pochi anni fa, versi i quaranta.

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Arriviamo ai secondi: il classico filetto al pepe verde, ma anche tranci di carne affogati da improbabili salse pannose al gorgonzola, ai formaggi,


al whisky o brandy, magari con le noci a rendere croccante il tutto. Le immancabili scaloppine si preparavano con ogni variazione: limone, funghi, vino bianco, burro e salvia. Ma, per dare un tocco di teatralità, piacevano molto all’epoca le carni in crosta di pane: filetti, selle e quant’altro si prestasse ad essere seppellito nel sarcofago di carboidrati.

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E il p esce? Ovviamente al cartoccio, innovazione strabiliante e di sicuro effetto, buona anche per gli spaghetti allo scoglio. Oppure rombo o branzino al sale, prodigio culinario altamente scenografico. Per i dolci non c’era il menu: arrivava direttamente il carrello, portato orgogliosamente dal cameriere o, preferibilmente, dal maitre: non so con quali

risorse del nostro organismo riuscivamo a mangiare ancora dopo un pasto completo ultracalorico, il fatto è che di fronte a noi si ergeva un monumento alla curva glicemica: affiancati si trovavano Profiteroles, Saint-Honorè, panna cotta, Montebianco, zuccotto, millefoglie, crostata, bavarese, zuppa inglese, e tiramisù. Mancano dal carrello ma è impossibile ignorarli: la pesca melba, spesso realizzata con frutta sciroppata (?), e la banana split, vero esempio di “food porn”. E che dire del sorbetto al limone? Non era, come oggi, consumato in modalità “vorrei un dolce ma sto leggero e fresco”; no, lui era l’invito alla prosecuzione del pasto, serviva per pulire la bocca, magari tra le portate di carne e pesce alternate, tanto in voga nei banchetti matrimoniali.

Una curiosità: la mia formazione da autodidatta in cucina proviene, tra le diverse esperienze, dallo studio dei testi in uso presso la scuola alberghiera. Ebbene, moltissimi dei piatti che abbiamo appena ricordato sono ancora inseriti in questi testi, segno che ormai sono entrati nella nostra cultura, oltre ad essere ottimo banco di prova per i giovani chef. Adesso però è’ ora di digerire: preferite Cynar, Biancosarti, Braulio, Strega, Ramazzotti? (tralascio i classici che restano in voga ancora oggi). Oppure i reclamizzatissimi brandy italiani o i Whisky, eccellente strenna natalizia? (nella vetrina sei superalcolici ho un paio di bottiglie di Chivas Regal direttamente da quegli anni). Mi fermo, già capisco che non ho menzionato tanti piatti,


Il buffet a casa Estate del 1986, tranquilla cittadina di provincia nelle Marche. “Driinn”, squilla in casa il telefono a disco rotativo color grigio tortora. Rispondo, affrettandomi perché all’epoca oltre i tre squilli significa che non c’era nessuno. “Pronto?” rispondo ansimando dopo aver percorso di corso il lungo corridoio di casa, dalla zona notte a quella giorno. “Son ehm, io….” È mio padre, con voce impostata “da ufficio”, profonda, baritonale, serissima – segno inequivocabile che era in presenza di altri nel suo studio. “Vorrei parlare…con mia moglie”. Rimango interdetto, del resto ho appena dieci anni e certe stranezze non le capivo, all’epoca: una vocina mi suggerisce: “sua moglie, cioè tua madre”. Rinsavisco: “Ah, ciao papà! Vuoi la mamma?. Lo stimato e austero Direttore – mio padre - replica grave: “Eh si, d’accordo!”. Urlo a squarciagola con la cornetta del telefono vicina: “Maaammaaaa! Ti vuole papà con la voce da ufficio!”. Dall’altro capo del telefono il papà-Direttore tossisce per coprire l’eco del mio urlo che probabilmente stava arrivando anche ai severi colleghi che assistevano alla conversazione via cavo. Arriva dalla cucina mia madre, indaffaratissima come sempre, “Mmmh, sarà una cosa seria, speriamo di no”. Mi allontano e incuriosito cerco di capire cosa sta accadendo. Dopo i convenevoli I toni si fanno concitati “Come? Domani sera? I tuoi colleghi delle altre Regioni? Che c’entriamo noi? Ah…No, aspetta, cosa vuol dire l’aperitivo a casa nostra? E me lo dici adesso? Con tutto quello che ho da fare????? Immagino mio padre che risponde agli acuti di mia madre solamente con le formule: “Si…certo…d’accordo…sicuramente...” Poi la conversazione termina. E’ aria di tempesta, ma solo temporanea per fortuna. Situazioni già viste. Era d’uso allestire faraonici buffet e cene in casa propria per “far conoscere” la famiglia a illustri colleghi, una sorta di rito iniziatorio per i giovani direttori – mio padre non aveva neanche cinquant’anni e una posizione di prestigio al tempo si acquisiva solitamente in età più matura. Per sdrammatizzare accendo la televisione a colori: la sigla del Supertelegattone su Canale 5 lascia la parola a Maurizio Seymandi che introduce il video “Take on me” degli A-ah, gruppo norvegese famoso per ammaliare le adolescenti dell’epoca. Alle note cadenzate del celebre singolo accorre mio sorella quasi diciassettenne, fan sfegatata del trio scandinavo, che si siede ipnotizzata sul divano in pelle marrone e afferra il pesante telecomando per alzare il volume,

mentre osserva il rivoluzionario videoclip personaggi incarne e ossa interagiscono con altri “fumettati”. “Ragazzi, domani sera vostro padre ha invitato alcuni suoi colleghi a casa nostra per un aperitivo di lavoro”, ci convoca sorridendo forzatamente nostra madre. “Avrebbe piacere che ci fossimo tutti (sottinteso: siete obbligati a esserci pena la radiazione dalla famiglia, azzerate tutte i vostri impegni e rimandateli a data da destinarsi)“. “Ma è sabato sera…” osa dire mia sorella, ma lo sguardo infuocato della genitrice le tronca la protesta sul nascere. Sbuffa, alza le spalle – anzi, le spalline - , afferra il suo fedele walkman e si rinchiude in camera. “Eh no!” - scatta innervosito mio fratello – “Sabato gioca l’Italia! Sono i Mondiali, dopo aver vinto quelli nell’82 non possiamo perderci neanche un minuto!”. “Eh già” - ribatto io, neo campione provinciale con la mia squadra degli esordienti – “c’è la partita….” “Ragazzi, sentite, è una questione di lavoro molto importante non solo per vostro padre, ma per tutta la famiglia. Usate il videoregistratore VHS cha abbiamo appena comprato e registratela, ve la guarderete domattina. Lo sguardo rassegnato tra fratelli sottolineò l’inutilità di ogni opposizione. Ogni protesta fu vana. E fu sera, e si fece mattina. E buffet fu. Il

menu

era

un

classico,

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soprattutto quelli riferiti ai buffet e agli aperitivi: farò di più, ve li racconterò tratteggiando con un breve scritto una delle più temute usanze dell’epoca, il ricevimento a casa per i colleghi di lavoro: coraggio entrate a casa mia, quasi 40 anni fa.


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derivante dai numerosi compleanni, eventi, cene organizzate da mia madre e dalla mia numerosa famiglia. Se la panna era protagonista dei pasti comandati, regina indiscussa dei buffet era la maionese: in tubetto o barattolo, pubblicizzata in maniera incessante, tutti ne eravamo avidi consumatori. Mia madre escluse nell’ordine: l’insalata di riso, più adatta ad un pic-nic od un pranzo al mare; prosciutto e melone, troppo casalingo; i grissini avvolti nel prosciutto, degni di un ristorante campagnolo di seconda categoria; il pesce finto, troppo dozzinale (confesso che la scorsa vigilia

di Natale l’ho riproposto, con ottimo successo). L’inizio era riservato ad un grandioso classico, la mia specialità: gamberetti in salsa rosa o, meglio, cocktail di gamberi. Io ero addetto alla preparazione della salsa, della quale mi vantavo pubblicamente nonostante la giovane età: maionese ben mescolata con puntina di senape, ketchup, succo di limone. La lavoravo così bene che il risultato era cremosissimo. La ritenevo migliore di quella dei ristoranti; l’elegante presentazione in coppe di vetro smerigliato (e non nel bicchiere Martini) spettava ovviamente a mia madre.

A seguire il trionfo per gli occhi: le tartine! Le più gettonate erano quelle con salmone affumicato e burro (anzi con margarina vegetale, che all’epoca si credeva molto più salutare), ravvivate cromaticamente dall’oliva centrale. Poi il caviale, o meglio il più economico lompo, che comunque faceva molto chic nei suoi lucenti colori nero e rosso. Polpa di granchio no, in casa nostra non era presente, benché fosse molto diffusa in queste occasioni. Era il turno dei Vol au vent, ripieni di salsa tonnata, che circondavano una fastosa zuppiera colma di insalata


E si chiudeva con sua maestà, il salmone, protagonista indiscusso dei buffet prestigiosi: presentato in bellavista era una meraviglia di fasto e sapori. All’appuntamento con il buffet perfetto mancavano solo loro, gli aspic, futuristiche architetture gastronomiche di gelatina trasparente che celavano al loro interno misteriosi ingredienti dai colori brillanti e dall’aspetto non sempre invitante. Mia madre non li sapeva fare e, per quanto fosse eccellente cuoca, li aveva proprio cancellati dal suo repertorio. Come i dolci, del resto, ma questo è un altro capitolo. Il tutto era innaffiato da bevande per tutti i gusti: il classico analcolico - bitter e succo di arancia - servito in brocca trasparente con ghiaccio e miscelatore in plastica rossa, affiancato dal

suo fratello con alcol, simile ma preparato con il Rosso Antico; l’immancabile prosecco emblema dell’italianità in contrapposizione con il nemico champagne proveniente dalle migliori cantine del Trentino -, adagiato con voluttà nel secchiello con ghiaccio in acciaio satinato; il misterioso cocktail di colore blu intenso – lo stesso tono che campeggiava sullo sfondo del simbolo dell’Associazione- che mio padre sfoderava con i colleghi. No, no era il Blue Lagoon, antenato famigerato dell’Angelo Azzurro degli anni’90, era più leggero e bevibile, ma sempre a base di Curacao. Per l’occasione la sala e il tinello, di solito divisi solamente dal divano, posizionato a mo’ di separè, divenivano ambiente unico per ospitare i prestigiosi ospiti e le loro signore, e l’ampio tavolo rotondo – estendibile – in severo color noce, diventava il supporto per tutto quel ben di Dio. Il copione era sempre lo stesso in occasione di questi eventi: mia madre vestiva i panni della perfetta first lady, con ampia acconciatura cotonata, mio padre che ostentava equilibrio ma era agitatissimo, sempre impeccabile nei suoi abiti dalla classicità senza tempo. E poi le immancabili indicazioni a noi figli di vestirsi dignitosamente, di fare bella figura e di non creare situazioni sconvenienti, eventualità abbastanza frequente, in verità. Vi risparmio i dettagli: il buffet fu un successo, a parte qualche piccolo inconveniente di ordinaria amministrazione: una tartina che mi cadde per terra, e per poco non fece scivolare il Direttore di Trento, il vassoio dei salatini che mia sorella fece crollare senza che nessuno si accorgesse (e nascose furtivamente tutto sotto il tappeto finto persiano), mio fratello che, da buon maggiorenne, si arrischiò a bere il prosecco con nonchalance rischiando di strozzarsi con le bollicine e sputarlo addosso agli eccellenti ospiti. Io mangiai a volontà, come sempre, chiedendo a mia madre se dopo ci fosse stata la cena o meno. Ma l’effetto boomerang fu devastante per la padrona di casa: negli anni successivi alcuni colleghi di mio padre, in visita nelle nostre zone, non vollero più andare al ristorante ma chiesero di mangiare a casa nostra. La cucina di donna Beatrice era indiscutibilmente la migliore. Ed è così che introduciamo questo numero del Magazine: puntando sulla nostalgia di un tempo che per molti di noi non è stata solo un’epoca passata, con le sue mode, i suoi eventi storici, le sue contraddizioni e il suo stile eccessivo, ma è stato anche e soprattutto casa, famiglia, calore, amore. BBQ4All Magazine 29

russa con abbondante maionese di solito. Immancabile il pezzo pregiato di famiglia: la galantina, piatto straordinario che tradiva le origini basso marchigiane della nonna materna, accompagnata dalle salsiere in ceramica bianca con maionese e salsa rosa. Sempre per rimanere in tema di carne, non poteva mancare il vitel tonnè, che sebbene di origini piemontesi, era così chiamato per assonanze esterofile o per ravvivare il suo appeal. Circondavano la carne, adagiate su una magnifica teglia ovale, le iconiche uova sode ripiene di salsa tonnata e decorate con capperi.


80

Speciale Anni '80 - Introduzione a cura di Michela Bongiorni

' ANNI Cosa resterà di questi

Se lo chiedeva Raffaele Riefoli alias Raf, allo scadere di quel decennio che, per molti di noi, ha rappresentato quello dell’infanzia o della giovinezza, e che è comunque ricordato da tutti come un’epoca d’oro in cui si viveva con più spensieratezza e con una grande fiducia nel futuro. Erano i tempi della Milano da bere,“del grande Real, di Happy days e di Ralph Malph” (cit.)

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A distanza di, sigh!, 30 anni, forse possiamo rispondere a quella domanda: cosa è rimasto degli anni ‘80? E, per certi versi, cosa non se ne è mai andato? Il recente successo sul piccolo e sul grande schermo di titoli come Stranger Things e Ready Player One (e se siete ancora in tempo, fra un lockdown e l’altro, andate al cinema a vedervi Onward, oltre la magia- godibile, divertente- per scoprire quanti riferimenti anni’80 contenga) suggerisce senza ombra di dubbio che quella decade, definita da Steven Spielberg “un’epoca in cui non esisteva lo stress” incombe su di noi con tutto il suo nostalgico bagaglio di ricordi ancora intatto. Prendete un affermato uomo d’affari quarantenne e cominciate a cantare “o-oo-...”: lo vedrete in un attimo urlare “occhi di gaaaatto!”, con i cuoricini nello sguardo e la mano sul petto.

Quindi, abbiamo già una prima risposta: ciò che ci è rimasto degli anni’80 è sicuramente la capacità di tornare giovani e spensierati in un attimo. Basta una canzone, basta un film. Io compio gli anni il 21 Ottobre e a coloro che sono intenditori veri questa data dovrebbe dire qualcosa: è proprio il 21 Ottobre 2015 che Doc e Martin arrivano con la DeLorean nel futuro. Ebbene, quel giorno di cinque anni fa ho festeggiato il mio compleanno al cinema, perché in quell’occasione le sale avevano rispolverato il cult di Zemeckis. Non avete idea di quanti genitori coi figli fossero presenti, in uno strano gioco di inversione delle parti in cui i padri saltavano sulla sedia in estasi e i figli rimanevano sbigottiti e anche un po’ contrariati. Un’altra delle cose che ci è rimasta di quell’epoca, e che ogni tanto torna fuori con un dettaglio, un colore o uno stile, è la moda: mia

madre si è disintossicata dalla spalline sotto i vestiti solo da pochi anni, ma ancora la vedo che è pronta a ricascarci. Sfido uno qualunque di voi a non aver messo nella sua vita una polo bianca col colletto alzato o un paio di jeans a vita alta (tornati fra l’altro prepotentemente in auge); oppure un golfino sulle spalle o un paio di Converse Weapon. Mi rendo conto che potrei stare per ore a discutere su questo argomento, ma sarei leggermente fuori tema (dovrei fondare un Magazine che parli di moda, accidenti).


Potremmo continuare per ore e forse per giorni; se avessimo anche noi una macchina del tempo e tornassimo al 1979 tutte le cose che ho scritto (e molte altre), che per noi rappresentano modi di dire comuni, non sarebbero comprese. È evidente quindi come gli anni ‘80 siano rimasti nella nostra lingua senza mai andarsene. Certamente anche la musica internazionale (che a quel tempo era “straniera”) ha lasciato un’impronta indelebile nei nostri cuori: ma su questo sospendo l’approfondimento, perché noterete che in questo speciale dedicato al nostro decennio d’oro la musica sarà protagonista, dato che ad ogni ricetta il nostro Community Manager Emiliano Nencioni ha abbinato un brano ad hoc (oltre ad essere coach e CM è anche un liutaio moderno, per cui la musica è affar suo). Accanto alle cose da ricordare con nostalgia, però, ci sono anche quelle dimenticabilissime: i paraorecchi, per esempio. La permanente, il fard fotonico, i capelli a spazzola e/o cotonati, il mangianastri che mangiava realmente i nastri delle cassette, i VHS smagnetizzati, le gomme da masticare ricoperte di zucchero che ti spaccavano i denti, Sandy Marton. Per molto tempo, ad onor del vero, l’espressione “è anni ‘80” è stata

sinonimo di “che cosa orribilmente demodè!”. C’è stato un periodo, dagli anni ‘90 al primo decennio del 2000, in cui se provavi a tirar fuori una qualsiasi cosa fosse riconducibile a quell’epoca la gente ti guardava come se avesse visto l’anticristo e probabilmente si faceva il bagno nell’acqua santa. Ultimamente invece c’è stata una riscoperta e una successiva nostalgica rivalutazione di quegli anni: esistono siti dedicati esclusivamente a quel decennio (www.glianni80.com) e perfino libri (Roberto Nardo, Il mio primo dizionario degli anni ‘80). E in cucina? Qui si scende nel gorgo. Per lungo tempo è stata demonizzata, considerata poco chic, eccessiva, pesante, brutta da vedere e da mangiare, a tratti orrorifica, condita di troppa panna e di troppa gelatina. Insomma, vade retro. O no? Insieme al direttore del BBQ4All Magazine Rossella Neiadin e a

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Certamente troviamo molti pezzi di anni ‘80 nei nostri modi di dire. La pubblicità in quel periodo ha scolpito le nostre menti. Ma non solo: il cinema, la musica, le serie tv. Studiare in jeans c’est plus facile, Grande Giove!, boys boys boys!, no Vasco, io non ci casco, e poi ci troveremo come le star, sono sempre io: il paninaro, la forza sia con noi, bingo!, fare o non fare: non c’è provare, ne ho viste cose che voi umani…, io ce l’ho profumato!


una piccola delegazione di redattori, mi trovavo una sera a cena sul finire del Luglio scorso insieme a Gianfranco Lo Cascio e alla sua famiglia a Mazara del Vallo. Fra un gambero e un astice, una coppa di champagne e una di passito, ci è venuta la grande idea: e se proponessimo ai nostri lettori un menù anni ‘80, però rivisitato da te? A quel furbone dello Zio, che da sempre fonda la sua comunicazione sul buttare giù i giudizi e soprattutto i pregiudizi dei gastrotalebani, sono brillati gli occhi: facciamolo! E così il giorno dopo siamo andati a fare la spesa, ci siamo recati a casa sua con le macchine fotografiche e i registratori vocali, e lo abbiamo guardato e ascoltato mentre cucinava i piatti che più anni ‘80 di così non si può ma a modo suo: rimodernandoli, reinventandoli e riequilibrandoli.

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Accanto al suo menù completo, la redazione ha voluto inserire poi altre ricette tipiche di quell’epoca affinché il vostro viaggio nel tempo fosse completo. Sì, cari lettori, troverete in questa carrellata tutte le ricette che vi vengono in mente, e se state già arricciando il nasino snob accettate questo consiglio: prima di giudicarle, provatele. E scoprirete quanto sia vero che tornare agli anni ‘80 sia rientrare di colpo in un’epoca fiduciosa, senza pensieri e senza stress. E solo il cielo sa quanto ne abbiamo bisogno adesso. Vorrei dirvi: cominciamo, che la strada è lunga. Ma...

Strade? Dove andiamo noi non ci servono strade.


IL NUOVO COCKTAIL DI GAMBERI PIACE ALLA GENTE CHE PIACE

fotografie di Rossella Neiadin

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Speciale Anni '80 - Ricette a cura della Redazione


Come ha avuto modo di affermare lo scrittore, giornalista e gastronomo inglese Nigel Slater , il cocktail di gamberi ha trascorso gran parte della sua vita passando rapidamente da piatto glamour e alla moda a preparazione ridicolmente demodé. In effetti, se dovessimo scegliere un solo piatto che rappresenti appieno gli anni ‘80 in cucina probabilmente sarebbe questo: sospeso tra terra e cielo in quella linea sottile che separa il vintage dall’evergreen, è ancora onnipresente (spesso nella versione con gli scampi) in tutti i menù dei classici cenoni di fine anno, quelli con le signore con i capelli cotonati e vestite di lamé che trascinano i mariti alla ”serata danzante aspettando il brindisi di mezzanotte!”. Forse proprio per questo motivo, molti gastrofighetti in tv e sui social hanno coniato l’espressione “ma è anni ‘80!” per descrivere qualcosa di passato di moda, per niente sorprendente per il palato e troppo popolare. Il cocktail di gamberi, probabilmente anche a causa della salsa rosa (conosciuta in America anche con Mary Rose Sauce) con il suo inconfondibile aroma di Brandy, è sicuramente una di quelle preparazioni che racchiude tutte queste caratteristiche: abusato, scontato, banale, ovvio. Però buono, provate a dire di no. Nato, secondo alcuni, già negli anni ‘60, ha conosciuto il boom negli anni ‘80 del Novecento quando, emblema di eleganza e raffinatezza, veniva servito sulle tavole di tutto il mondo (vi ricorderete senz’altro della scena in cui i Blues Brothers ne ordinano ben cinque al ristorante insieme a dodici bottiglie di Champagne) nelle coppe da Martini o nelle conchiglie con l’immancabile foglia di lattuga croccante. La ricetta originale è semplicissima: si lessano i gamberi, si scolano e si lasciano raffreddare, poi si prepara la salsa mescolando maionese, ketchup, senape, Brandy e panna e la si lascia riposare in frigorifero almeno un’ora prima dell’utilizzo. Al momento del servizio, nelle coppe rivestite di lattuga si versa un cucchiaio di salsa e uno di gamberetti, si decora a piacere con una spolverata di pepe e del prezzemolo. Et voilà. Se si è particolarmente pigri la salsa cocktail è disponibile in vasetti al supermercato.

INGREDIENTI 4 persone 24 gamberi rossi Mazhara GLC Top Selection Per la maionese di gambero: le teste dei 24 gamberi 60 g di tuorli 150 g di olio di semi di girasole 10 ml di succo di limone 10 ml di aceto di vino bianco 3 g di sale 1 g di pepe di Timut Brandy q.b. Per la composta di peperoni: 500 g di peperoni rossi e maturi 200 g di zucchero 1 dl di aceto di vino bianco sale q.b. (senza esagerare) peperoncino a piacere (opzionale)

Coach Nencioni consiglia:

RIO di Duran Duran, 1982.

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Con i tipici arpeggi di

E qui entra in gioco la versione di Gianfranco Lo Cascio che, partendo dalla materia prima più buona del pianeta (il Gambero Rosso di Mazara, of course), ha rivisitato a suo modo questo grande classico della cucina italiana e internazionale, togliendogli un bel po’ di rughe ma senza snaturarlo. Il risultato è stato, nemmeno a dirlo, sorprendente: la scelta di presentare il cocktail alla vecchia maniera, nella coppa di vetro coi gamberi in piedi (abbiamo solo evitato di inserire la lattuga) è stata voluta. I vostri ospiti si aspetteranno il classico sapore di gamberetti in salsa rosa e al primo assaggio l’effetto sorpresa sarà una vera e propria detonazione. Non vi anticipiamo nulla, seguite passo passo la ricetta e godetevi lo spettacolo di fuochi d’artificio.

sintetizzatore e le sonorità energetiche, è un inno ad eccedere e a godersi positività e “la belle vie


PREPARAZIONE

1. Togliete la testa ai gamberi, poi privateli del carapace e dell'intestino aiutandovi con uno stuzzicadenti. Cuoceteli al vapore finchĂŠ non diventeranno opachi (oppure in un padellina a coperchio chiuso, con un filo d'acqua e a fuoco molto lento). Quando saranno pronti, asciugateli bene e poi lasciateli raffreddare. 2. Mettete le teste in una casseruola con un po' d'acqua e schiacciatele bene. Fate uscire il liquido e fatelo ritirare, poi filtratelo. Otterrete un composto denso e rosso, da aggiungere alla maionese. In alternativa potete preparare l'Assoluto di Gamberi cosĂŹ come descritto nel Magazine di Dicembre 2019 e di Luglio 2020 (nella ricetta del Gumbo). 3. Pastorizzate i tuorli delle uova, poi miscelate i due olii in un contenitore con beccuccio. Sbattete i tuorli pastorizzati ancora tiepidi insieme al liquido molto ristretto ottenuto dalle teste di gambero (o a un paio di cucchiaini di assoluto), e versate a filo l'olio continuando a sbattere con le fruste. Aggiungete a questo punto il limone, l'aceto, il sale e il pepe. Aromatizzate la vostra maionese con un goccino di Brandy e mettete tutto in frigo a far raffreddare. 4. Pulite i peperoni, privandoli del piccolo, dei semi e dei filamenti. Tagliateli a cubetti e poi metteteli sul fuoco insieme allo zucchero, all'aceto, al sale e al peperoncino (opzionale). Cuocete il tutto per una quarantina di minuti, poi passatelo al mixer e filtratelo.

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5. Servite il vostro cocktail di Gamberi di Mazara mettendo la salsa in un bicchiere, poi i preziosi crostacei cotti al vapore e sopra la maionese con mezzo cucchiaino di composta di peperoni.


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Speciale Anni '80 - Ricette a cura della Redazione

fotografie di Rossella Neiadin


CROSTINO IN DUE VERSIONI Mazara del Vallo, 31 Luglio 2020. Luogo: sala da pranzo di casa Lo Cascio, durante la pausa dello shooting per il Magazine. Ci stiamo mangiando i crostini al salmone di cui fra poco vi parleremo (è proprio duro il nostro lavoro...). Dopo il primo morso, lo Zio esclama: “Il salmone affumicato farà anni ‘80, ma è proprio buono!”. In effetti, possiamo affermare senza ombra di dubbio che il pesce nordico affettato sottilmente sia sempre stato uno dei protagonisti indiscussi sulle tavole di quel decennio. Anzi, diciamo pure che il suo successo non è stato scalfito neppure nel decennio successivo e solo negli anni 2000, complici gli innumerevoli programmi tv in cui i cuochi sono diventati star televisive e influencer, le preparazioni a base di salmone affumicato hanno conosciuto un lieve declino proprio perché bollate come demodé. Eppure, fra i tanti piatti anni ‘80 che non hanno retto allo scorrere del tempo, quelli col pescione rosa al sapore di fumo ancora resistono e, così come diremmo di una bella signora attempata ma ancora piacente, si portano bene gli anni che hanno. Il perché è presto detto: ha ragione Gianfranco Lo Cascio, il salmone affumicato è proprio buono ed è versatile, quindi in grado di stare al passo coi tempi. Questo pesce è parte della storia dell’umanità da millenni. Con l’arrivo della stagione fredda gli antichi essiccavano al fuoco i pesci per ottenere una maggiore durabilità delle carni. Anche secondo la medicina tradizionale cinese, esporre un alimento al fumo per lungo tempo ne aumenta la conservazione e gli conferisce un potere energetico molto utile per l’inverno. Quello affumicato a freddo come lo conosciamo oggi, sarebbe nato a Londra nei primi anni del ‘900, quando l’ebreo russo Harry Forman arrivó nella città inglese in fuga dai pogrom antisemiti e aprí un affumicatoio, importando salmone in salamoia

Da dove viene il salmone che mangiamo?

Il mercato Italiano è composto prevalentemente da tre provenienze: la Norvegia, la Scozia e l’Alaska, (esiste poi una quarta provenienza molto presente sul mercato, spesso omessa in etichetta, il Cile). La Norvegia è il primo allevatore al mondo di salmone, quindi il prodotto più comune che troviamo nei negozi è propio norvegese. La posizione geografica facilita lo sviluppo del pesce che necessita di acque fredde e pulite per raggiungere l’età adulta. Questa provenienza è tra le migliori se parliamo di salmone prodotto negli allevamenti: il paese nordico punta molto su quelli all’avanguardia dove viene salvaguardata la salute del pesce e dell’ambiente circostante. La Scozia non differisce molto dalla Norvegia, anche se la sua posizione geografica è un po’ meno favorevole, essendo più a sud e quindi con le temperature dell’acqua che in certi periodi dell’anno possono innalzarsi un po’ rispetto agli standard ideali per il nostro pesce, che ama l’acqua fredda. In ogni caso anche la Scozia è uno dei principali allevatori europei, che dal punto di vista qualitativo non differisce molto da quello norvegese, poiché le tipologie di accrescimento si basano su direttive standard. Tra Norvegia e Scozia quindi, le differenze non sono grandi in termini di gusto se si assaggia il prodotto fresco. Tuttavia la Norvegia è il paese più all’avanguardia se parliamo di tecniche di allevamento (per chi fosse interessato all’argomento, segnaliamo che nel 2016 un articolo pubblicato sul sito dell’Associazione SlowFood ha attaccato duramente le condizioni degli allevamenti del salmone norvegese, e in seguito a quell’episodio il Norwegian Seafood Council ha ribattuto punto per punto rassicurando i consumatori sulla qualità e sulla sicurezza del prodotto ittico da esso certificato); il

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uh-uh...fenomenale!

dal Baltico. Si rese conto subito, però, che quello atlantico pescato negli estuari scozzesi era di qualità migliore e poteva essere acquistato fresco. A quel punto perfezionò la London cure, un mix segreto di sale e fumo di quercia e in pochi anni l’azienda di famiglia diventò il primo fornitore di salmone affumicato dei migliori negozi, dei ristoranti stellati e della Regina.


salmone affumicato scozzese, però, presenta un gusto più raffinato grazie alle ricette tradizionali di affumicatura e alla tradizionale affettatura lunga. L’Alaska è il paese di provenienza del salmone selvaggio che si discosta fortemente da quello di allevamento sia in termini di gusto che di qualità organolettiche. La sua carne è molto magra e tende al rosso vivo, caratteristiche date rispettivamente dallo stile di vita del pesce in natura e dall’alimentazione fatta in gran parte di crostacei (a differenza di quelli di allevamento la cui carne è più grassa e nel cui mangime è contenuta l’astaxantina, un carotenoide che dona la colorazione rosa alla carne). Mangiando il salmone selvaggio si percepisce un sapore decisamente più intenso. Questa tipologia di materia prima deve essere sempre abbattuta a -18 C° prima di essere lavorata, così da eliminare il rischio Anisakis. Ultima sotto tutti gli aspetti è la provenienza cilena: il pesce di questa tipologia viene acquistato dagli affumicatori europei solo perché costa molto meno, purtroppo a discapito della qualità finale. Gli allevamenti cileni, purtroppo, detengono il primato mondiale per utilizzo di antibiotici nelle pratiche di acqua-cultura.

Le ricette

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Tornando ai nostri crostini, come avete letto nel titolo essi rappresentano la rilettura e l’evoluzione di uno degli antipasti più in voga negli anni ‘80: la tartina. La tradizione era questa: pane per tramezzini, burro, salmone, vari ed eventuali condimenti sopra (limone, pepe rosa, erba cipollina). Da qui poi prendevano forma le varianti: col Philadelphia, con il mascarpone, con la maionese, con la robiola, col cipollotto, con l’aneto, con i ribes ecc… La versione Locasciana lascia intatto solo l’ingrediente principale, il salmone affumicato appunto, e rivoluziona completamente gli altri elementi. Il pane, innanzitutto, non è più quello morbido per tramezzini ma è una baguette o una frusta tagliata a fettine che vengono tostate in padella, per dare croccantezza. Il burro viene sostituito da due diversi ingredienti: da un lato la stracciatella, dall’altro lo yogurt all’aglio. A seconda di quello che si sceglie, sarà diverso poi l’elemento da mettere sul salmone che chiuderà il crostino: se si opta per la burrosa e dolce stracciatella, una fettina sottile di limone sarà la scelta ideale, se al contrario si sceglie lo yogurt, già più acido, una fettina di fico andrà a completare e a bilanciare perfettamente il gusto. E se si è ribelli e si vuol provare la soluzione burrata+salmone+fico? Nessun problema: un goccio di salsa di soia aggiusterà il tutto.

PREPARAZIONE

1. Tagliate il pane a fette alte mezzo cm, poi tostatele. 2. Tritate finemente l’aglio e poi unitelo allo yogurt greco insieme a un pizzico di sale e di pepe. 3. Tagliate il salmone a striscioline e affettate i fichi. 4. Preparate i vostri crostini: yogurt greco, salmone e una fetta di fico, oppure stracciatella, salmone e una fettina di limone. Come scritto in precedenza, potete anche optare per stracciatella, burrata e fico, completando il boccone con un goccio di salsa di soia.


INGREDIENTI 4 persone 400 g di salmone affumicato una baguette o una frusta da mezzo kg 200 g di stracciatella 200 g di yogurt greco fettine sottilissime di limone aglio q.b. sale e pepe q.b. due fichi maturi salsa di soia (opzionale)

Coach Nencioni consiglia:

SHOULD I STAY OR SHOULD I GO di The Clash, 1982. Un brano ipnotico sull’indecisione tra l’abbandono e la continuità, proprio come il senso di colpa di chi si strafoga di crostini senza

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riuscire a darsi un limite


Speciale Anni '80 - Ricette a cura della Redazione

RISO PILAF

CON SUGO DI LEPRE E RICCIO DI MARE

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ANCHE L'UOMO DEL MARE & MONTI HA DETTO SI!

fotografie di Rossella Neiadin


INGREDIENTI 4 persone Per il fondo bruno 800 g di ossa e carcasse di lepre una carota una cipolla una costa di sedano 2 pomodori un bicchiere di vino rosso un mazzetto di erbe aromatiche (alloro, rosmarino, salvia) un cucchiaio di olio extra vergine di oliva sale e pepe q.b. 70 g di farina 70 g di burro Per il riso 400 g di riso a chicco lungo 800 g di acqua o brodo 60 g di burro sale q.b.

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la polpa dei ricci di mare q.b.


Ah, gli anni ’80. Quelli sì che erano bei tempi. I gettoni telefonici, la vespa arcobaleno, l’Italia che vince il mondiale in Spagna, Bim Bum Bam, la distruzione della morte nera, i Queen al Live Aid. In fondo il nostro cervello funziona così: seleziona i ricordi più belli e li edulcora per fissarli nella memoria. Fatta esclusione per gli eventi traumatici, si tende a ricordare solo le cose belle del passato e a dimenticare tutto il resto. Ma gli anni ’80 non sono stati solo Maradona e Paolo Rossi, ci sono anche quelle cose e quei momenti che sono stati dimenticati e che sono stati un incubo in alcuni casi: le cinture El Charro, il glam metal, i maglioni di lana con le stampe improponibili, la Fiat Ritmo, i mondiali di Messico ’86. D’altro canto è vero che i giudizi sono soggettivi e ciò che per una persona può essere stupendo per un’altra può essere atroce. Ad esempio la finale del mondiale di Spagna è stata sicuramente uno dei momenti più belli ed emozionanti per Dino Zoff, ma allo stesso tempo per Rummenigge è stata una delle serate più tristi della sua carriera. Allo stesso modo alcuni oggetti che negli anni ’80 erano considerati brutti con il tempo sono stati rivalutati e sono diventati oggetti, come ad esempio le scarpe futuristiche che indossava Marty McFly in Ritorno al futuro, o le Polaroid che hanno riaperto la strada al ritorno dell’analogico. Chissà forse un giorno anche la Fiat Ritmo diventerà un’auto classica da collezione. Speriamo di no. Ovviamente, anche la cucina ha seguito questo andazzo. Forse è stato uno dei settori che ha più patito quel decennio. Infatti in quel periodo spopolava l’utilizzo di prodotti in scatola e si preferiva usare materie prime estere invece che ricercare quelle nostrane.

Coach Nencioni consiglia:

TAKE ON ME

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di A-ha, 1985.

I primi accenni di globalizzazione e l’avvento delle grandi catene aveva aperto ai cuochi un serbatoio di ingredienti nuovi e tutti da scoprire. Ovviamente, far viaggiare il cibo era più complesso e lento, e gli alimenti venivano inscatolati per aumentarne la shelf life a discapito della freschezza. In quegli anni, andando a mangiare nei ristoranti, le preparazioni che andavano per la maggiore nei menù erano le pennette alla vodka, i tagliolini al salmone e le gelatine di pollo. Pietanze con cui molti di noi hanno convissuto e sono cresciuti e che se cucinate con tutti i criteri, restano (non tutte ma alcune sicuramente) ancora oggi piatti interessanti e gustosi.

Esempio di come la giustapposizione di due cose lontane e antitetiche possa diventare un grande successo: la strofa veloce, pop e spensierata stride con il rallentando esasperato del ritornello, dove il cantato indugia in un falsetto tecnicamente impervio.


Ma il momento gastronomico anni ’80 lo rese un piatto iconico. E ancora oggi quando si pensa a quel decennio è uno dei piatti che viene più facilmente menzionato. In realtà potremmo dire che le preparazioni Mare e Monti sono quelle ad aver provocato in maniera contenuta lo sdegno degli chef, che invece ha investito più o meno tutto il resto del menù anni ‘80: lo testimonia il fatto che molti ristoranti stellati propongano nei propri menù abbinamenti di pesce e carne (due esempi su tutti: Lele Usai con la sua coratella d’agnello e scampi e Matteo Baronetto, storico braccio destro di Carlo Cracco, con i testicoli di vitello, gamberi e rafano). Noi in realtà abbiamo in menù (lo vedrete fra poco) un altro abbinamento Mari e Monti fra i secondi piatti, per cui adesso siamo voluti rimanere sul più classico primo: vongole e funghi porcini? Naaaaa. Lo Zio ha tirato fuori dal cappello lepre e ricci di mare, abbinati al riso Pilaf. Siete curiosi? E allora non perdete tempo e leggetevi ‘sta ricetta.

PREPARAZIONE

1. Fate rosolare in forno a 200°C le ossa della lepre per circa 15-20 minuti. In una pentola capiente preparate un soffritto con sedano carota e cipolla e aggiungete le ossa rosolate insieme a eventuali scarti di lepre. 2. Sfumate con il vino rosso, quindi aggiungete 4 litri di acqua, le erbe aromatiche tenute insieme da uno spago da cucina e i due pomodori interi. Sistemate di sale e di pepe. 3. Lasciate cuocere per circa 4 ore, aiutandovi con una schiumarola per togliere le impurità che salgono in superficie . Lasciatelo restringere e una volta pronto, filtrate il brodo con l’aiuto di un colino cinese. 4. Prendete un litro di brodo e rimettetelo sul fuoco, aggiungete la farina setacciata e il burro, mescolando continuamente fino a che non si addensa (ci vorrà un po’). Preparate il riso Pilaf cuocendolo per assorbimento: in una pentola fate sciogliere il burro e poi tostate il riso per qualche istante, dopodiché aggiungete il brodo o l’acqua salate e portatelo a bollore senza mescolare; coprite la pentola e fate cuocere per circa 15/20 minuti. 5. Un volta cotto il riso, aiutandovi con un coppapasta servitelo sopra il fondo bruno di lepre e completate il tutto con la polpa dei ricci di mare. Pepate a piacere.

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Tra tutte queste pietanze, però, ce n’è una che merita un discorso a parte. Più che un piatto è opportuno definirlo un abbinamento, perché lo si usava con la pasta, nel panino, con i risotti. Stiamo parlando del Mari e Monti, ovvero l’accostamento contemporaneo di pesce e carne. In realtà esso è un abbinamento che nella gastronomia italiana esiste da secoli, tanto da essere citato spesso anche dall’Artusi.


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fotografie di Rossella Neiadin - realizzato da Gianfranco Lo Cascio


Speciale Anni '80 - Ricette a cura della Redazione

IL TORTELLO FRITTO

IL RIPIENO DI PROSCIUTTO ...Un cuore di panna e noi

Coloro i quali, invece, hanno intrapreso il percorso universitario hanno avuto sicuramente modo di provare sulla propria pelle esperienze uniche, a tratti trascendentali, a cui si sottoporrebbe solo uno studente universitario: la resistenza al cibo delle mense pubbliche, l’incredibile capacità di passare una notte insonne a studiare e l’indomani dare l’esame, il dono di prendere appunti e contemporaneamente invitare la ragazza seduta nel banco vicino a prendere un caffè dopo le lezioni. Queste sono le principali skill di cui è dotata la fauna universitaria fuori sede, un po’ come il personaggio di un videogioco che aumenta i suoi punti forza uccidendo i vari mob nel gioco, così uno studente, oltre ad aumentare la sua conoscenza di una determinata materia, forgia le sue caratteristiche durante gli anni di studio.

Per chi deve studiare c’è poco da fare, bisogna frequentare le lezioni, studiare a casa, e dare gli esami. Il tempo per la vita sociale, cibo e sonno sono risicatissimi, e ogni giorno il dilemma verte su quale rinuncia bisogna fare per riuscire a conseguire l’agognata carta pecora. Nell’escalation delle privazioni, tendenzialmente, la prima cosa a cui rinuncia il giovin virtuoso è la vita sociale. Spranga la porta di casa, spegne il telefono e dopo sufficiente tempo la scrivania diventa l’amico a cui confidare segreti e desideri. Una privazione in fin dei conti ragionevole considerato l’obbiettivo. Ma più la sessione d’esame s’avvicina più le privazioni sono toste da sopportare. Il secondo step è la privazione del sonno. Si arriva al momento in cui il tempo è poco e le pagine da studiare sono troppe, per cui bisogna ricorrere a soluzioni estreme. Si apre il barattolo di guaranà (sì proprio quella del tormentone estivo), si tirano fuori le scorte di barrette energetiche e nel caffè invece di mettere l’acqua ci si mette direttamente la redbull. E se state storcendo il naso leggendo queste cose, o se pensate che sia esagerato, ricordate che stiamo parlando di soluzioni estreme, adottate in momenti di emergenza. La terza fase è la semplificazione estrema del cibo.

Per risparmiare tempo e dedicarne di più allo studio lo studente disperato deve ricorrere a un rigido piano di ottimizzazione dei tempi e cucinare, mangiare, lavare le stoviglie sono operazioni che vanno svolte nel tempo massimo di 18’e42”. E quando ci si riesce in tempo minore è sempre cosa lieta (leggende narrano di studenti fantastici che siano riusciti a completare quest’operazione in meno di 6 minuti). Si escludono quindi le lunghe preparazioni e i cibi a breve conservazione. L’alimentazione in questa fase si basa principalmente su carboidrati e scatolette. Si va una sola volta al supermercato e gli acquisti devo essere conservabili nell’armadio, non sia mai il coinquilino di turno decida in preda alla fame notturna di consumare cibo non suo. Tra tutti i piatti annoverati nei ricettari degli studenti universitari però uno su tutti troneggia sugli altri: i tortellini panna e prosciutto. Una pietanza semplice, fatta con ingredienti a lunga conservazione e ricca di proteine. Il top per lo studente disperato. Una preparazione che tormenta gli emiliani dagli anni ’80 e che è arrivata ai

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Non tutti hanno avuto la possibilità di studiare all’università. Chi per scelta, chi per cause di forza maggiore, una volta finita la scuola dell’obbligo si è catapultato nel mondo del lavoro. Una scelta che merita rispetto e stima ma che purtroppo ha sicuramente precluso una serie di esperienze che, pur non essendo sempre piacevoli, meritano di essere raccontate.


giorni nostri tramandato da generazioni di studenti universitari disperati. Questo piatto ha ereditato dagli anni ’70 l’ usanza di mettere la panna su tutto e dagli anni ’80 quella di utilizzare cibi in scatola. Quaranta anni fa era su tutti i menù d’Italia (spesso nella variante coi piselli) e oggi è possibile ancora trovarlo in qualche mensa universitaria. Quel giorno a Mazara, quando abbiamo deciso di affrontare l’ennesima sfida, non potevamo certo eliminare un piatto del genere nella nostra rivisitazione e così lo Zio ci ha pensato un po’ su e poi ha tirato fuori questa imprevedibile versione. Ma nel farlo ha stuzzicato anche la fantasia di suo figlio Flavio, 12 anni: papà, ma il tortellino so farlo meglio io di te!

realizzato da Flavio Lo Cascio

E dunque è partita la sfida. È stato bello vederli cucinare insieme, e vi assicuriamo che Lo Cascio padre non ha fatto sconti a Lo Cascio figlio: ha preso la gara seriamente e si è battuto come un leone. Lo stesso possiamo dire di Flavio. Avete le foto di entrambe le preparazioni: non c’è niente da fare, al DNA non si sfugge. Dunque, correte a comprare tutti gli ingredienti e preparate insieme a noi questa particolare rivisitazione dei tortellini panna e prosciutto (ci scuseranno gli studenti universitari, ma la nostra versione supera i 15 minuti).


INGREDIENTI 4 persone Per la sfoglia 500 g di farina 00 5 uova sale q.b.mare q.b.

PREPARAZIONE

Per il ripieno 250 g di prosciutto cotto

1. Setacciate la farina e impastatela con le uova e il sale. Create un panetto che metterete a riposare in frigorifero per un’oretta. Poi stendetela in fogli sottili e ritagliate dei quadrati non troppo piccoli.

250 g di ricotta sale q.b. Per il ripieno 250 g di prosciutto cotto

2. Nel frattempo avrete preparato il ripieno frullando insieme la ricotta e il prosciutto cotto tagliato a striscioline, aggiustandolo se necessario di sale. 3. Ponete al centro di ogni quadrato un po’ di ripieno (senza mai esagerare) e formate a questo punto il tortello (Flavio Lo Cascio è stato un maestro!). 4. Chiudete bene il tortello e, se non siete sicuri che tenga bene, aiutatevi a farlo stare chiuso con uno stuzzicadenti; scaldate bene l’olio e friggete i vostri tortelli, poi metteteli a scolare sulla carta assorbente. 5. Nel frattempo, frullate la stracciatella con la panna e aggiustatela a vostro gusto con sale e pepe. Servite i tortelli fritti e fragranti con la stracciatella: pucciandoli, scoprirete il paradiso.

250 g di ricotta sale q.b. 500 g di stracciatella 200 ml di panna olio di semi di arachidi q.b. sale e pepe q.b.

Coach Nencioni consiglia:

CENTRO DI GRAVITÀ PERMANENTE di Franco Battiato, 1981. Un centro di massa, un punto

E ora diteci: quale dei due tortelli, a vedere le foto, vi ispira di più? Padre o figlio? Non siate timidi, qualunque sia la vostra risposta lo Zio sarà felice.

di riferimento inamovibile, granitico, intoccabile, nel nome della tradizione. Ma poi i furbi contrabbandieri macedoni sovvertono tutto.


Speciale Anni '80 - Ricette a cura della Redazione

IL TONNO VITELLATO

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INSUPERABILE!

fotografie di Rossella Neiadin


Il vitel tonnè è un po’ come Carla Bruni: sembra francese ma è italianissimo. Le prime nozioni di questo piatto sono infatti presenti già alla corte dei Savoia nel XVIII secolo. Nella versione originale però non erano presenti il tonno e la maionese: si componeva con scarti di vitello, acciughe e capperi. Si faceva cuocere a lungo il vitello per farlo ammorbidire, e poi in mancanza di sale gli si conferiva sapidità con le acciughe e i capperi che avevano una reperibilità e un costo molto inferiore rispetto al sale. Il nome deriva probabilmente dal dialetto piemontese, dove tonnè e una trasformazione dell’originale tannè (conciato in dialetto piemontese, appunto). La ricetta rimase pressoché immutata fino all’unità d’Italia. In quel periodo infatti si intensificarono gli scambi commerciali tra il Piemonte e le tonnare di Sicilia e Sardegna. Il tonno arrivava in enormi scatole da 5 kg e poi venduto al dettaglio. Il permanere a lungo in queste scatole aperte guastava il prodotto sia visivamente che dal punto di vista igienico sanitario. Quindi, per mascherare le imperfezioni del tonno, esso veniva usato come ingrediente per il vitel tonnè. A trasformare questo piatto da espediente per camuffare prodotti deteriorati a ricetta della tradizione ci pensò l’immancabile Pellegrino Artusi che nella sua “Scienza in cucina e arte del mangiar bene” codifica per la prima volta questo piatto. Nella ricetta vengono descritti ingredienti a preparazioni necessarie. Viene consigliato ad esempio di utilizzare vitella da latte, che deve essere fatta bollire insieme a prezzemolo, chiodi di garofano, sedano, carote e alloro. Una volta cotta la carne, va poi tagliata a sottil fette e messa in infusione nella salsa di acciughe per un giorno o due.

Il vitel tonnè (ma chiamatelo pure anche vitello tonnato), in quanto piatto della tradizione, è stato ovviamente suscettibile di modifiche e personalizzazioni, sia dai cuochi casalinghi che dai grandi chef stellati. Ha conosciuto enorme successo negli anni ‘80, tanto che in quegli anni non era Natale se non c’era il vitello tonnato sulle tavole. Quando abbiamo lanciato il primo numero del Magazine, a dicembre 2018, abbiamo volutamente provocato i lettori con una versione tutta nostra sapendo già che in molti ci avrebbero accusato di anniottantismo. Ma la verità è che, come molte delle preparazioni che vi stiamo presentando in questo speciale, questo è un piatto – che, fra l’altro, può essere annoverato fra le preparazioni Mari&Monti di cui vi parlavamo qualche pagina fa- gustoso, raffinato e affascinante. Parlvamo di chef famosi: Carlo Cracco sostiene che non debba essere preparato con la maionese, ma con la salsa tonnata. Una delle modifiche più famose di questo piatto è stata però quella di invertire i due ingredienti e farlo diventare un Tonno Vitellato. Sicuramente la versione più celebre è stata quella di Antonino Cannavacciuolo, ma anche Heinz Beck ne propone una interpretazione convincente. Gianfranco Lo Cascio oggi ve ne presenta una tutta sua, il Tonno Vitellato Insuperabile. Prima di iniziare vi diamo un consiglio: al prossimo Brisket raccogliete un po’ di fondo di cottura e tenetevelo da parte.

Coach Nencioni consiglia:

UPSIDE DOWN di Diana Ross, 1980. Sottosopra, a rovescio, tutto stravolto!

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Insomma, nella ricetta dell’Artusi nulla è lasciato al caso: viene pure consentito di servirla fredda e mangiarla nei mesi più caldi, al contrario di quanto ad esempio accade in Argentina, dove invece viene servito caldo per il cenone di Natale. L’ultima modifica della ricetta avvenne negli anni ’60 del Novecento, quando Guido e Lidia Alciati, famosi gestori di un ristorante piemontese delle Langhe, aggiunsero la maionese alla preparazione (In molti ricorderanno Lidia – scomparsa nel 210- per la preparazione che l’ha resa ambasciatrice della cucina tradizionale piemontese: gli agnolotti al plin) .


PREPARAZIONE

1. Tritate finemente le nocciole e poi sbattete le uova con un pizzico di sale. 2. Impanate il tonno passandolo prima nell’uovo e poi nella nocciola; ripetete l’operazione due volte formando una doppia panatura. 3. Mettete una padella sul fuoco e scaldate bene l’olio di semi, poi friggete il tonno dorandolo bene all’esterno ma facendo attenzione a non cuocerlo all’interno (vi ricordiamo che il tonno deve rimanere rosato). Basteranno pochi istanti.

INGREDIENTI 4 persone Due fette alte 3 cm di tonno fresco (circa 400 g di peso in tutto) 300 g di nocciole intere due uova sale e pepe q.b. olio di semi per friggere q.b.

4. Nel frattempo, preparate la maionese montando le uova aggiungendo a filo l’olio di semi, poi l’aceto e il fondo di cottura del brisket. Una volta ottenuta la maionese, frullatela insieme alla carne con un frullatore a immersione, rendendola il più vellutata possibile. 5. Preparate anche la panna acida: mescolate lo yogurt insieme alla panna, aggiungete il succo di limone filtrato e mescolate ancora. Lasciatela riposare in frigorifero.

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6. Servite il tonno tagliandolo a fette altre circa mezzo cm, condendolo con le salse e guarnendolo coi frutti dei capperi.

frutti dei capperi per decorare per la maionese vitellata 200 g di olio di semi due tuorli pastorizzati mezzo cucchiaio di aceto di mele fondo di cottura del brisket q.b. 50 g di brisket cotto per la panna acida 100 ml di panna fresca 100 g di yogurt 1 cucchiaino di succo di limone


Speciale Anni '80 - Ricette a cura della Redazione

LA TAGLIATA

LA BISTECCA È UN PIACERE, SE NON È "WOW" CHE PIACERE È?

fotografie di Rossella Neiadin

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RUCOLA E GRANA PERFETTA


Abbiamo fin qui parlato perlopiù delle cose da ricordare degli anni ‘80. Affrontiamo adesso un discorso più ostico: le cose da dimenticare, più in fretta possibile. Partiamo subito dicendo che a quell’epoca non tutti avevano in dotazione una nonna italiana votata al piacere culinario, esistevano quelle che odiavano spignattare e quando lo facevano imponevano ai nipotini un’esperienza che assomigliava più a un’espiazione che a un pranzo. Per cui, ogni fuga al ristorante poteva facilmente essere percepita come un’esplosione di sapori e una ricca “flavour experience” di cui poter raccontare con il piglio di un giovane ussaro sopravissuto alla battaglia di Baradinò. Ed è così che molti giovani virgulti e altrettante delicate signorinelle conobbero in quegli anni la tagliata rucola e Grana.

“Stasera si va a mangiare la tagliata!” “Perchè tagliata?” “É una bistecca” “Allora perché la chiamano tagliata?” “Perché te la portano tagliata a fette!” “E nel frattempo non fredda?” “Eh ma è buona...” “Non possiamo tagliarcela da soli?” “No, è una bisteccona grande, e serve per tutti, ognuno prende una fettina e se la mette nel piatto” “E se prendessimo una bistecca a testa?”

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“Nooo, sai quanto si spenderebbe?”

I prodromi per una sonora delusione erano già abbastanza palesi: una bistecca tagliata da uno sconosciuto, servita ormai fredda su un vassoio dal quale, per ottimizzare le spese pro capite, gli ospiti si sarebbero rubati l’un l’altro i pezzi migliori, facendo balenare rapide occhiate inquisitorie nei piatti degli altri per assicurarsi che nessuno avesse preso una razione maggiore.


In quegli anni la presentazione del piatto avveniva come segue: il cameriere mostrava in tavola una T- bone (ai tempi chiamata bistecca e basta, obbligatoriamente con costata, filetto e osso) appena cotta ad una non meglio specificata brace, assisa su di un grande vassoio di metallo che, a ripensarci adesso, doveva sicuramente fungere come dissipatore, contribuendo a raffreddare inesorabilmente la

portata; la tavolata era solita fare un cordiale “oooh” di approvazione, col capotavola tenuto a dispensare degli impercettibili cenni di assenso col capo, con gli occhi chiusi: il significato era all’incirca “hai fatto un buon lavoro nella cottura, ti consento di servirla alla mia famiglia”; ovviamente nessun rifiuto o contestazione sarebbe stato contemplato. Ricevuto l’assenso del pater familiae il cameriere spariva per altri dieci minuti buoni, per poi tornare con la gloriosa e intramontabile tagliata con rucola e Grana, esposta come segue: - vassoio metallico facente funzione di dissipatore di calore conosciuto poco sopra, pieno di brandelli di carne dalle dimensioni variabili; - laghetto, alto un centimetro buono, di succhi della carne, altresì noto e temuto come “sangue”; - scaglie di Grana, o Parmigiano o qualcosa che possa assomigliarvi, in numero poco inferiore a dieci; - tristemente esagerata quantità di foglie di rucola a coprire tutta la carne, fino a formare un tappeto verde uniforme e un pantano mucillaginoso nei succhi della carne; - osso della bistecca messo in piedi, a guisa di fallico obelisco ad interrompere il giardino zen formato dalla rucola; - olio e due limoni a parte. Usando la forchetta a mo’ di rastrello uno dei parenti era incaricato di arrangiare il manto erboso in modo da trovare le prime avvisaglie di carne, e subito il malcontento iniziava a essere generalizzato nella tavolata:

"Ma è completamente cruda!" "Io tutto quel sangue non lo voglio vedere!" "Ma ormai è fredda stecchita!" "Quell’osso... chi lo spolpa?" (Leggasi: con chi devo litigare per conquistarne il possesso?) Partivano poi immediatamente le prime concitate richieste al cameriere:

“Può prendere questi pezzi di tagliata e cuocerli in padella finchè sono cotti?” “Ma va mangiata al sangue!” “Ma a me piace bella cotta senza sangue, e l’ho pagata un sacco questa carne.” Da sola la carne sapeva di padella sporca, era secca e ingrata, resa irrimediabilmente amara dalla contaminazione con l’odiato Flagello Verde, la rucola; insieme alla scaglia di formaggio invece tutto sapeva di Grana Padano. Sapore completamente sovrastato. Il resto della serata trascorreva con dei furiosi “ammiccamenti” degni di un campionato regionale di Briscola, in cui fra coppie di coniugi venivano inventati gli espedienti più discreti e pudici per avvertire con elaborate gestualità di impietose foglioline rimaste tra i denti.

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C’erano poi regioni più sfigate di altre (e qui già cominciamo a buttar giù le convinzioni granitiche). In Toscana la bistecca veniva servita, invariabilmente, carbonizzata fuori e cruda dentro. Tollerare “l’amarognolo fuori”, in pratica trangugiare creosoto, era sintomo di grande virilità e di sicure origini etrusche. Non che le cose siano cambiate poi di molto, attualmente; “al sangue” voleva dire proprio sangue, nessuno aveva ancora parlato della miosina, e l’idea diffusa era che il liquido rosso e il colore della carne cruda fosse di provenienza ematica. A quel tempo, spesso succedeva che, tutti belli fomentati per l’arrivo della tagliata rucola e Grana, uno dei parenti, suppongo quello incaricato di saldare il conto, decidesse e sancisse che per ben gustare la carne tutti avrebbero dovuto saltare completamente il primo piatto, per non guastarsi l’appetito: si procedeva quindi all’arrivo del micidiale “misto di antipasto toscano” (generalmente fette di prosciutto salato tagliato al coltello, salame, pecorino di fossa, pane - sciapo ovviamente - e due cipolline proprio-due-dinumero), per poi passare alla portata tanto attesa.


INGREDIENTI 4 persone Chuck-Flap AUS Black Onyx 3+ Black Angus sale e pepe q.b. per la spuma di Parmigiano (dosi per un sifone da 500ml) 15 g di farina 15 g di burro 250 g di latte 100 g di Parmigiano Reggiano grattugiato 100 ml di panna un foglio di colla di pesce per la cialda di Parmigiano 150 g di Parmigiano Reggiano grattugiato per l'olio alla rucola 100 g di rucola

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olio extravergine di oliva q.b.

E così, in un tripudio di sorrisi a scacchi, di diastemi ricolmi di fogliame, di strane smorfie e, alla fine, di inguardabili stuzzicadenti pilotati con sapienza e rassegnazione negli spazi interdentali, la “tagliata experience” si risolveva con uno dei più classici “a casa nostra si fa meglio e si cuoce come pare a noi” che, tutto sommato, era una considerazione molto avanti con i tempi, visto che fra i lettori del magazine la convinzione “a casa mia la faccio meglio” è ormai la regola. La carne fredda, l’impossibilità di dosare la percezione del Grana, la terribile invadenza sia di gusto sia, molto prosaicamente, odonto-relativa della rucola e in generale una preparazione e una presentazione arruffata, approssimativa e dozzinale sono le cose che hanno rovinato questo piatto storico, probabilmente anche al cospetto di famiglie meno polemiche o incasinate di quella qui descritta. É proprio per mitigare questi aspetti che Gianfranco Lo Cascio propone questa rivisitazione; rucola e grana si può, ma con qualche accortezza l’accostamento può passare da traumatizzante a mai più senza: il formaggio diventa una spuma, la rucola è presente con la sua punta amara - ma senza il fogliame! - in un olio, la carne è cotta (e come potrebbe essere altrimenti) alla perfezione, e ognuno potrà miscelare i vari ingredienti a suo piacimento, senza sovrastare o impoverire il sapore della carne.


PREPARAZIONE

1. Asciugate la carne e poi mettetela in sous vide a 52 gradi per scaldarla all’interno, basteranno circa 30 minuti. Poi tiratela fuori dal sacchetto per il sottovuoto, asciugatela bene di nuovo e mettetela in forno a 52 gradi per un’ora. 2. Nel frattempo, in un frullatore a immersione frullate insieme rucola e olio, poi mettete tutto da parte. 3. Fate una semplice besciamella morbida, aggiungete il Parmigiano e la panna, infine un foglio di colla di pesce ammollato in acqua fredda. Filtrate il tutto con un passino molto fine ,versate il composto nel sifone ed inserite 2 capsule di azoto. Fate riposare per un’oretta. 4. Prendete una padella antiaderente del diametro di circa 10-12 cm, scaldatela bene sul fuoco e poi cospargete la superficie con uno strato uniforme di Parmigiano. Aspettate che si sciolga e con una pinza staccatela dal fondo della padella, poi lasciatela raffreddare. Ripetete per 4 volte. Poi filtrate con un colino a maglia finissima l’olio alla rucola: deve rimanere solo la parte grassa colorata di verde, senza fogliame. 5. Togliete la carne da forno, asciugatela ancora, ungetela con un po’ d’olio e buttatela su una piastra rovente in ghisa (deve raggiungere i 300 gradi). Solo pochi secondi per raggiungere la Maillard e poi la bistecca è pronta per essere tolta dalla piastra, fatta riposare per qualche istante e infine tagliata. Coach Nencioni consiglia:

SU DI NOI di Pupo, 1980. "Dicevano: no, vedrai, è tutto sbagliato”, ma proprio come Pupo questo piatto è rimasto per decenni l’immagine della toscanità all’estero

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6. Servitela sifonando nel piatto la spuma di Parmigiano, adagiandovi sopra con la cialda, poi conditela a piacere con sale, pepe e l’olietto alla rucola.


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CRESPELLE GRANDI O GRANDI CRESPELLE?

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COMUNQUE, È OBBLIGATORIO USARE FUNGHI E BESCIAMELLA.

fotografie di Tommaso Buccafurri


INGREDIENTI per 8 crespelle

1 uovo 140 g di farina 00 175 g di latte Sale q.b Pepe q.b 20g burro fuso + q.b per ungere la padella

Per il ripieno: 25 g di farina 00 25 g di burro 250 ml di latte Pepe nero q.b. Sale q.b. 25 g di Nduja di Spilinga 200 g di erbe di campo 1 spicchio d’aglio 1 filetto d’acciuga sott’olio La scorza di un limone 150 g provola silana dolce

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50 g funghi porcini freschi


Lo street food preferito dai bambini, uno dei simboli culinari della Francia, uno dei dessert più facili da preparare in casa: la popolarità delle crêpes è tutta meritata. Ma siamo in Italia, per di più negli anni ‘80: parliamo italiano e chiamiamole crespelle. Golosi scrigni di pastella che racchiudono meraviglie dolci e salate. Il nome deriva dal latino crispus (arricciato) per indicare delle frittatine leggerissime, sottili, quasi trasparenti e soprattutto increspate, perché cuocendo si raggrinziscono sui bordi. Questa preparazione secondo alcune fonti avrebbe un’origine molto antica. Sembra infatti che siano nate per sfamare dei pellegrini francesi giunti stremati a Roma nel quinto secolo, dopo il lungo viaggio intrapreso per partecipare alla festa della Candelora. Sarebbe stato Papa Gelasio ad ordinare a suoi cuochi di cucinare un cibo ricostituente d'emergenza, fatto con semplici ingredienti come farina e uova. Le frittatine diedero molto sollievo agli affamati e la ricetta venne riportata e diffusa in Francia come un alimento ristoratore per il corpo e per l'anima.

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Nel tempo questa povera preparazione medievale si è arricchita degli elementi più diversi. Tra le crespelle più celebri ricordiamo le Suzette, nate nel tentativo di soddisfare il palato del principe del Galles Edoardo VII, preparate con il beurre Suzette (una salsa di burro, zucchero caramellato, succo d'arancia e mandarino, con aggiunta di Curaçao o Grand Marnier, a volte flambata): sono rimaste per due decenni un simbolo di lusso e golosa decadenza. Avete presente il volo "canonico" della crêpe, che fluttua elegantemente in aria e poi ricade in padella? Ecco: il segreto è il movimento preciso del polso. È facile impararlo, ma attenzione, non si sgarra con le misure. La crêpe deve sollevarsi ad almeno 15 centimetri dalla padella. Se vi viene fuori molto bene usatela per la crepe complète, ovvero la versione salata classica "completa": formaggio grattugiato, uovo e prosciutto cotto. In Bretagna si preparano le krampouezh, dolci con farina di frumento o salate con grano saraceno, ma anche le gallette. - queste ultime vengono cotte nel galettoire (o galétière), una padella dai bordi molto bassi. Non "ortodossa" ma molto diffusa la variante flambé. Paese che vai, crespella che trovi. In Germania si prepara il Kaiserschmarrn, una crêpe

spessa tagliata a pezzi e accompagnata da zucchero a velo e marmellata; in alcune zone dell'Europa dell'Est è diffusa la Palacsinta, versione più spessa e morbida rispetto a quella tradizionale e talora servita arrotolata; in Ucraina e in Russia invece si mangiano i Blinis: piccoli, lievitati e strepitosi con il caviale. Secondo la tradizione la prima e l'ultima crêpe vanno date agli animali domestici, perché sono quelle che vengono peggio. La forma? A mezza luna sì, ma anche a triangolo, arrotolata o a fagottino. Negli anni ‘80 in Italia ci fu l’enorme successo delle crespelle ai funghi con la besciamella servite come primo piatto straniero, francese, diverso: noi italiani, abituati alla pastasciutta, alle lasagne, ai tortellini, osavamo sfidare la tradizione servendo come primo una frittellina ma ovviamente condendola con cose eccessive, opulente e ridondanti. Alzi la mano chi non ne vorrebbe un piatto adesso, qui, subito. Mamma che fame! Così, seguendo quello stesso languorino che sentite anche voi, è nata questa versione un po’ diversa (ma abbiamo lasciato besciamella e funghi), a nostro parere interessante e sicuramente da provare, se riuscite ad accaparrarvi gli ingredienti giusti. Abbiamo farcito le nostre crespelle salate con una besciamella alla ‘Nduja di Spilinga, delle erbe di campo amare (nel caso specifico abbiamo utilizzato della cicoria ma vanno bene anche bietoline o spinaci), dei funghi porcini della Sila e una provola dolce di latte.

Coach Nencioni consiglia:

CARELESS WHISPER di George Michael, 1984 Delicato, romantico ai limiti del piccante, con solo una punta di amarezza, con le note cremose dell’assolo di sax tenore più famoso della storia.


PREPARAZIONE

1. Per prima cosa occupatevi dell’impasto delle crespelle. In una bowl capiente unite l’uovo, il latte e il burro fuso e amalgamate con una frusta. Aggiungete la farina setacciata a pioggia fino ad ottenere un composto omogeneo e senza grumi. Aggiustate di sale e pepe e lasciate riposare in frigo il tempo necessario alla preparazione del ripieno. 2. Preparate una classica besciamella. In un pentolino fate fondere il burro, aggiungete la farina e cuocete il roux per circa un minuto. Aggiungete poi tutto il latte freddo e mescolate con una frusta. La vecchia credenza di utilizzare il latte caldo è solo un’inutile complicanza. Il latte freddo e la frusta vi danno il tempo di sciogliere bene il roux all’interno del liquido. Aggiungendo un liquido già caldo la gelificazione degli amidi sarebbe disomogenea e troppo rapida e quasi sicuramente ottereste dei fastidiosi grumi. 3. A cottura ultimata della besciamella, una volta inspessita, aggiustatela di sale e di pepe e aggiungete la ‘nduja così da scioglierla mescolando con il calore residuo. Mettete da parte. 4. Sbollentate in acqua leggermente salata le erbe di campo per 2-3 minuti, raffreddatele in acqua e ghiaccio e strizzatele bene. In una padella fate saltare a fuoco vivace le erbe di campo con aglio, olio extravergine d’oliva e il filetto di acciuga per 3-4 minuti. Terminate aggiustando di sale e con la scorza di limone grattugiata al momento. 5. Preriscaldate un’altra padella per i funghi, sciogliendo una noce di burro e aggiungendo uno spicchio d’aglio in camicia. Una volta ben calda inserite i funghi tagliati a listerelle e cuoceteli per pochi minuti aggiungendo il sale e il pepe solo alla fine della cottura. Dovranno risultare ben arrostiti ma ancora integri e fragranti. 6. Ora passate alle crespelle Trascorso il tempo mescolate l’impasto per farlo rinvenire e poi scaldate una crepiera (o in alternativa una padella antiaderente dal diametro tra i 18 ed i 22 cm) ed ungetela con una noce di burro. Una volta a temperatura versate un mestolo di impasto sufficiente a ricoprire la superficie della padella, ruotandola fino a distribuire il composto uniformemente molto in fretta, poiché la pastella cuocerà rapidamente. 7. Quando i bordi cominciano a staccarsi e dorarsi è il momento di girare la crêpe con una spatolina o con un movimento deciso del polso. 8. Una volta cotte tutte le crêpes potete farcirle con un paio di cucchiai di besciamella alla nduja, le erbe di campo saltate, i funghi porcini e qualche pezzetto di provola di latte. 9. Arrotolate le crespelle e disponetele ben stette in una teglia imburrata leggermente. 10. Cospargete la superficie con un altro cucchiaio di besciamella e qualche fiocchetto di burro. 11. Infornate sotto il grill per circa 15 minuti controllando la doratura delle crêpes fino alla creazione di una gustosa crosticina. 12. Sfornate, fate riposare 10 minuti e servite le vostre crespelle salate e piccanti.


Speciale Anni '80 - Ricette a cura della Redazione

dove c'è

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SCALOPPINA AL LIMONE c'è casa

fotografie di Tommaso Buccafurri


Tra i secondi piatti più classici della tradizione italiana, merita sicuramente un posto sul podio Sua Maestà la Scaloppina. Era la protagonista incontrastata dei pranzi della domenica da nonna, o per chi era fortunato la più ovvia soluzione della mamma al rientro da scuola (sicuramente anche la bambina col gattino della pubblicità della Barilla, dopo le penne, ha mangiato le scaloppine), declinata in varianti regionali e/o creative: ai funghi, al limone, alla pizzaiola, con la panna (poteva mancare?). Il nome deriverebbe dal francese escalope (cotoletta); chiamata in Italia sia Scaloppa che col diminutivo, sta ad indicare una fetta sottile di carne (di manzo, di pollo e più raramente anche di maiale) che tradizionalmente veniva battuta per essere sfibrata, successivamente infarinata, lasciata insaporire nel burro, sfumata col vino e poi insaporita con altri ingredienti.

INGREDIENTI per 4 persone 8 fettine di Eye Round Aus Black Market 5+ Rangers Valley Farina 00 q.b. 60 g di succo di limone 50g latte 1 spicchio d’aglio un rametto di rosmarino, salvia o altre erbe gradite 50 g burro Sale q.b. Pepe nero q.b.

Si credeva fosse una delle pietanze più gradite da Umberto II, l’ultimo re d’Italia: per rimangiare quel piatto che aveva assaggiato in un ristorante del centro di Milano offrì uno stipendio altissimo alla cuoca affinché andasse a Roma a cucinare per lui e per la sua famiglia. Una brezza nostalgica dei meravigliosi anni ‘80 (sì, meravigliosi, facciamo definitivamente outing!) che gastronomicamente parlando ha sancito dei ricordi indelebili in ognuno di noi.

I punti di forza di questa preparazione sono la velocità di esecuzione e la delicatezza dell’insieme. La scelta della carne è, ovviamente, di estrema importanza.

Coach Nencioni consiglia:

TIME AFTER TIME di Cindy Lauper, 1984 Un brano che parla di un punto fermo, di una figura salvifica che è sempre là per soccorrerti: come le scaloppine che da decenni salvano le nostre cene.

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Che sia la classica di manzo o quella di pollo, a caratterizzarla è sempre stata la salsa, che a seconda delle tradizioni gastronomiche regionali può variare di molto. Nelle zone del Sud Italia vengono spesso cucinate alla pizzaiola, ovvero con olio, pomodoro, origano, mentre nelle regioni settentrionali per la cottura viene tradizionalmente utilizzato il burro, e la salsa comprende spesso anche la panna. Che siano al vino bianco, al marsala, ai funghi porcini o, come in questo caso, al limone, c’è una sola regola: abbondare con le quantità. Sì, perché questo immancabile cavallo di battaglia degli anni ottanta crea dipendenza e non stanca mai (ma diciamolo: esiste un piatto di quel decennio che non crei dipendenza? Siate onesti).


Un bel girello (o megatello) di manzo è quello che fa al caso vostro per un successo assicurato. La tenerezza dell’Eye Round Australiano Black Market 5+ Rangers Valley è imbarazzante e la nostra scelta ricade su un pezzo di questa meraviglia, sottilmente tagliato all’affettatrice. È superfluo sottolineare, ma lo facciamo lo stesso, che non serve assolutamente battere un tipo di carne del genere per sfibrarla e renderla tenera, specie se non volete provare ad essere battuti voi dallo Zio.

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Si tratta di un piatto sostanzialmente semplice, bisogna solo seguire delle accortezze. Le fettine vanno passate nella farina poco prima di metterle in padella, altrimenti si creerà una pappetta indecente che trasformerà il risultato finale in una vera nefandezza. Il burro va portato a color nocciola: questo passaggio darà una profondità di gusto maggiore e la reazione di Maillard sarà molto più veloce, aspetto rilevante per evitare di cuocere troppo la carne. Tempismo e intuito saranno i vostri maggiori alleati nella preparazione di questo gustoso secondo, perché basta un nulla per trasformare delle splendide scaloppine in due pezzi di fastidiosa suola di scarpa. La zest di limone è importantissima: rinfresca il palato senza l’aggressività del succo, il quale viene smorzato dalla grassezza e dall’avvolgenza del latte. Se volete aggiungere una nota grigliata alla vostra preparazione potete, prima di spremerne il succo, grigliare il limone tagliato a metà fino a quando non risulterà ben cauterizzato per poi ricavarne il liquido profumato. Abbiamo scelto volutamente di non stravolgere questa ricetta, perché già la scelta della carne faceva tutta la differenza del mondo: provare per credere. E se, come è giusto che sia, siete legati alle scaloppine-cartone di nonna o di mamma, lasciate pure quelle nella valle dei ricordi dolci, dove ci sono bambine e gattini, e nessuno ve le toccherà; ma oggi preparatevi queste.

PREPARAZIONE

1.

Sciogliete il burro in una padella antiaderente, insaporendolo con aglio e con le erbe che più vi piacciono fino a portarlo a color nocciola. Rosmarino e timo vanno a nozze con il limone.

2. Tagliate con un affettatrice delle fettine di eye round di massimo mezzo cm, passatele nella farina rimuovendo l’eccesso e doratele in padella a fuoco medio-alto con il burro. Deve crearsi una bella crosticina, ci vorranno all’incirca 2 minuti. 3. Appena girate le fettine di eye round, aggiungete il succo di limone e il latte precedentemente mescolati in un bicchiere. 4. Aggiustate di sale e di pepe e protraetela cottura per qualche altro minuto fino a quando non si otterrà una deliziosa e profumata cremina. 5. Servitele immediatamente con una grattugiata di zest di limone e guarnitele con delle fettine di limone e le erbe che avete scelto per la preparazione.


Speciale Anni '80 - Ricette a cura della Redazione

IL NON FILETTO AL PEPE VERDE

fotografie di Luca Gallozza

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il gusto pieno della ciccia


Negli anni ‘80 era sinonimo di raffinatezza ed eleganza: un piatto fatto da un taglio, a quel tempo l’unico taglio considerato nobile e costoso, coperto da una disumana dose di salsa aromatizzata. Stiamo parlando dell’indimenticabile filetto al pepe verde. Di origine francese, con burro e panna e per di più con un ingrediente principale che “fa ricco”: aveva sulla carta tutte le caratteristiche per spopolare nel nostro decennio d’oro. E infatti così fu. Quella sua aurea ricercata lo rendeva il secondo piatto perfetto per le cene dei cumenda e delle loro mogli ingioiellate a cotonate. Inoltre, considerata la -poca- cultura che al tempo gli italiani avevano sulla carne (ci piace pensare che oggi le cose siano cambiate, grazie anche al nostro instancabile lavoro), mangiare filetto era spesso l’unico modo conosciuto per trovarsi nel piatto carne sufficientemente tenera. E non importava che fosse poco saporita, tanto era ricoperta da grasso e aromi in abnorme quantità. Oggi sappiamo bene che niente, assolutamente niente, deve coprire il gusto della ciccia, quando è buona. Ma scendiamo nel dettaglio e analizziamo gli elementi principali di questo piatto, partendo dal pepe verde. Esso non è nient’altro che la bacca acerba della pianta del Pepe Nigrum, originaria dell’Asia. Questa bacca è la base di diversi tipi di pepe che comunemente troviamo in commercio. Ciò che cambia è la sua lavorazione. Partendo dal frutto acerbo, a seconda di come viene lavorato si può ottenere pepe verde, pepe nero e pepe bianco.

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Infatti i processi che si possono effettuare possono essere quelli di fermentazione, essiccazione o salamoia. Se applichiamo una salamoia alla bacca acerba della pianta di Pepe Nigrum, otteniamo il cosiddetto pepe verde in salamoia. Con l’essiccazione dello stesso frutto otteniamo quello verde essiccato. Se invece lo andiamo a fermentare per qualche giorno e poi lo essicchiamo, otteniamo quello nero. Rimuovendo la polpa esterna dalla bacca acerba e lasciando il solo seme, dopo l’essiccazione otteniamo il pepe bianco. La bacca del pepe verde, proprio perché ancora acerba, ha in sé un profilo aromatico più intenso e un sapore più erbaceo, maggiormente marcato se si utilizza quello in salamoia. In fase di cottura, a contatto con i liquidi, questa caratteristica fa sì che vengano rilasciati maggiori composti aromatici. Ovviamente questo sapore incisivo sarebbe minore con l’utilizzo di pepe nero o bianco, perché essi subiscono ulteriori processi, come la fermentazione o la rimozione della polpa, che ne attenuano il sapore. Per quanto riguarda la carne, invece, il filetto è sempre stato considerato (e tutt’ora l’idea persiste) il taglio più pregiato e di conseguenza il più tenero e saporito che ci possa essere. Ma è davvero così? La domanda, per voi lettori del Magazine e frequentatori della Community Facebook, è ovviamente retorica. Da anni Gianfranco Lo Cascio vi dice e vi dimostra che esistono tagli di carne che se saputi trattare e cuocere in modo adeguato sono estremamente morbidi e molto più saporiti. Il filetto, conosciuto anche come chateaubriand o tournedos (quando tagliato dalla parte più piccola e conica) si ricava dalla zona lombare

Coach Nencioni consiglia:

AGAINST ALL ODDS di Phil Collins, 1981 Sonorità soft, eleganti e raffinate per ricevimenti esclusivi. Cambiano gli ingredienti ma non l’atmosfera di fondo.


INGREDIENTI per 2 persone 300 g di Teres Major GLC Top Selection 12 bacche di pepe verde in salamoia 15g olio di sesamo 10 g di semi di sesamo 50 g di pinoli 50g Olio di semi. Sale q.b.

per la salsa: 200 g salsa teriyaki 40g di miele

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sei grani di pepe verde


dell’animale, nella porzione centrale del grande psoas. Poiché questo è un muscolo che, durante la vita dell’animale, non viene mai allenato, va da sé che rimanga tenero. Di contro, però, è povero di grasso e quindi di sapore. Inoltre proprio perché magro, è molto più propenso ad asciugarsi in cottura. Abbiamo già capito, dunque, il motivo per cui a questo piatto è stata aggiunta una salsa così grassa e ricca di aromi: per dargli un sapore che preso da solo non avrebbe affatto e per tenerlo più morbido e succoso. A discapito però del gusto della ciccia: con quel tipo di salsa, potreste condire la gommapane e il sapore sarebbe esattamente lo stesso.

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Dopo gli anni ‘80 il filetto al pepe verde è stato via via sempre più demonizzato: non di rado si trovano esperti gastronomici che lo definiscono addirittura cibo spazzatura. Noi siamo convinti che la via giusta sia sempre quella in mezzo, senza demonizzare e senza esaltare immotivatamente, per cui prendiamo questo classico della cucina di quell’epoca e lo rivisitiamo.

Ricordiamo la ricetta originale: si prendeva il filetto, si legava con lo spago da cucina e lo si rivestiva di grani di pepe pestato al mortaio. Poi lo si metteva a rosolare in padella col burro, si sfumava col brandy e infine si aggiungevano senape e panna. Cottura “a sentimento”. La nostra rivisitazione saluterà la panna e lascerà solo i due attori principali di questo piatto: la ciccia di manzo e il pepe verde. Ma partiremo cambiando completamente il taglio. Useremo il Teres Major, che in Italia è conosciuto anche come filettino di spalla. Non ha niente da invidiare alla tenerezza del suo più blasonato collega, ma costa un quinto e soprattutto ha trame di marezzatura decisamente più intense. Lo cuoceremo in Flip&Brush, al fine di ottenere una Maillard perfetta, tenendolo al cuore alla temperatura ideale. Faremo poi una riduzione di teriyaki e pepe verde, fatta a parte e servita in finitura: lo ripetiamo, il sapore non deve sovrastare quello della carne, ma deve esaltarlo. Il tocco in più saranno i pinoli tostati che accentuano le note di pinene contenuto nel pepe verde.


PREPARAZIONE

1. Partite preparando la riduzione di salsa teriyaki. In un pentolino, ponete la salsa teriyaki e il miele, mescolate, aggiungete 6 grani di pepe verde in salamoia e fate scaldare a fuoco basso sino al ridursi della metà del volume. 2. Tostate i pinoli in forno preriscaldato a 190° C, disponendoli in un unico strato su una teglia e lasciateli cuocere per circa 10 minuti. Dopodiché mescolateli, lasciate andare per altri 5 minuti e infine metteteli da parte. 3. Tagliate la vostra Teres Major al fine di ottenere dei medaglioni. Legate i medaglioni con spago da cucina per dargli una forma cilindrica regolare e uniformare la superficie di cottura. 4. Scaldate a temperature superiori ai 180° C, una padella o una piastra in ghisa unta d’olio. 5. Massaggiate i medaglioni con olio di sesamo. 6. Raggiunta la temperatura ideale, poggiate i medaglioni sulla ghisa e applicate la tecnica del Flip &Brush, lasciando la carne qualche secondo per lato sulla padella e rivoltandola dall’altro lato, dopo aver spennellato con olio, fino al raggiungimento di una buona crosticina esterna e della temperatura di cottura ideale.

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7. Togliete la ciccia dalla padella e adagiatela sul piatto; appoggiate sopra la carne ancora calda il pepe verde rimanente. Fate riposare qualche minuto, salate, quindi versate sopra la riduzione di teriyaki al pepe verde e una manciata generosa di pinoli tostati.


Speciale Anni '80 - Ricette a cura della Redazione

Coach Nencioni consiglia:

I WANT TO BREAK FREE di Queen 1984 eccessivo, opulento, ridondante, ma è perfetto cosÏ, senza nulla

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togliere e senza nulla aggiungere.


PROFITEROLE

Morbidi bignè ripieni di panna, di crema chantilly o di zabaione, disposti uno sopra l’altro a mo’ di piramide, ricoperti di cioccolato fondente, il tutto guarnito con ciuffi di panna qua e là, formano il Profiterole, un classico della pasticceria anni ‘80. Partiamo subito col dire che la maggior parte degli italiani non sa pronunciare correttamente il nome: proffitteròl, profìterol, profitterolle, profitterolles. La pronuncia esatta è profitròl. Con la r più moscia (o r uvulare, per i linguisti) che riusciate a fare. Oggi è considerato un dolce un po’ passato di moda, perché in un’epoca in cui il pensiero della pasticceria contemporanea si basa su forme geometriche pulite prive di sbavature, sulla stratificazione precisa, su glassature ideate per sottolineare la perfezione sferica o squadrata di ogni creazione, la squisitezza bitorzoluta appare un’intrusa, una preparazione destinata all’estinzione; nonostante ciò, a differenza del sorbetto questa delizia (perché lo è) non è caduta nell’oblio, anzi non è raro trovarla nei menù dei ristoranti o nelle vetrine di pasticcerie e di gelaterie in versione mono-porzione, adattata alla moda del momento, senza perdere il suo carattere deciso ed intenso. Dopotutto, il classico abbinamento panna, cioccolato e crema, seppur scontato, è di sicuro successo, e potrebbe risultare sbagliato incasellare il profiterole in un decennio definito, poiché soddisfa il palato dei più golosi già da qualche secolo. Il primo profiterole, anche se ancora privo della copertura in cioccolato aggiunta successivamente, fu creato alla fine del XVIII secolo dal famoso chef della pasticceria Antoine Carême (rinomato per le sue altissime opere eleganti di marzapane e zucchero, utilizzate per decorare le tavole a Versailles); egli decise di farcire i bignè con la panna, rendendo il dolce più lussurioso all’assaggio, e di impilare le bernoccolute palline una sopra l’altra, creando così un effetto scenografico suggestivo. Secondo il suo pensiero, al quale si deve la nascita della raffinata pasticceria francese, i dolci non dovevano essere solo buoni ma anche qualcosa di meraviglioso alla vista. Infatti, l’aspetto esteriore doveva essere il preludio dell’esplosione del gusto al primo morso.

Il nome deriva dal francese profit (lett. Profitto): fu chiamato così perché nell’aspetto ricordava una già nota preparazione salata a base di carne di cervo e tartufo, le profiteroles des indulgences, donate di solito dai padroni ai servi che li accompagnavano durante le battute di caccia. Ovviamente, opulento, eccessivo, tutto panna e crema com’è, in più col nome e la provenienza francesi, negli anni ‘80 questo dolce ha rappresentato un punto fermo per ogni evento o tavolata importante; per le signore all’epoca, che non si azzardavano nemmeno a prepararselo in casa, era l’occasione per ordinarlo alla famosa pasticceria del centro e poter dire alle amiche “tesoro, non puoi capire quanto lo fanno buono! Costa un po’ eh, ma ne vale la pena. Sulla roba francese sono imbattibili!”. Servire il profiterole era un biglietto da visita, in quell’epoca in cui apparire, sfoggiare, eccedere erano sinonimi di vittoria. I bambini veramente fortunati se lo ritrovavano come torta di compleanno, quelli meno fortunati a volte dovevano accontentarsi delle versioni low-cost (surgelate e del supermercato) con la panna “fantasia” -chiamata così perché era un’illusione e appena la mettevi in bocca spariva-, il cioccolato riservato solo ai bignè posti nella parte alta -che ovviamente veniva servita agli ospiti, perché dovevano avere sempre il boccone migliore- e le palline che nascondevano una non-sorpresa, poiché in molte erano completamente vuote e pescarne una ripiena era un po’ come vincere la lotteria di Capodanno. Cosicché da torta bellissima e gonfia qual era prima del taglio, i malcapitati si ritrovavano nel piatto una frittella schiacciata di bignè vuoti bagnati dalla panna sciolta e con sopra un grammo di cioccolato. Abbiamo voluto proporvi la ricetta classica con ripieno alla crema Chantilly, priva di rivisitazioni, proprio per darvi modo di prepararlo in casa e finalmente riempire quelle palline quanto volete e far colare il cioccolato fino in fondo. Ci sono sassolini che dalle scarpe vanno tolti, prima o poi. La parte più ostica della ricetta per alcuni potrebbe essere la realizzazione dei bignè a causa della doppia cottura prima sul fuoco e poi in forno. Se dopo averli sfornati risultassero gommosi invece che morbidi

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...c’est bòn!


e friabili, non cresciuti e di conseguenza non cavi all’interno, armatevi di pazienza e riprovate: non sempre è buona la prima. Se siete invece tra i bambini anni ‘80 fortunati, potete cogliere questa occasione per rievocare un’intermittenza del cuore di proustiana memoria. In ogni caso, ne vale comunque la pena.

INGREDIENTI 4 Persone

per la pasta choux: 150g di farina 00 110g di burro 125 g di acqua 125 g di latte 4 uova intere un pizzico di sale

per la crema Chantilly: 50 g di zucchero a velo 15 g di farina o di fecola di patate 250 ml di latte intero 2 tuorli 150 ml di panna da montare una bacca di vaniglia

per la glassa al cioccolato fondente: 450 g di cioccolato fondente al 60% 200 g di acqua 80 g di panna liquida

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150 g di zucchero a velo


1. Pre-riscaldate il forno a 180°C. 2. Fate sciogliere il burro tagliato a dadini con l’acqua e il latte su un fuoco medio-basso avendo cura di girare con un cucchiaio. Quando raggiunge il bollore abbassate le fiamma e aggiungete in una sola volta la farina (precedentemente setacciata), e amalgamate vigorosamente con una spatola fino ad ottenere un composto compatto e morbido che si stacca dalle pareti. 3. A fuoco spento, unite all’impasto un uovo per volta. L’uovo va aggiunto solo quando quello precedente è stato assorbito totalmente. 4. Mettete la pasta all’interno di una sac à poche con bocchetta liscia (1 cm di diametro). 5. Su una teglia rivestita di carta forno distribuite i bignè. Per renderli tutti regolari con il dorso di un cucchiaio bagnato schiacciate lievemente la superficie di ognuno. 6. Infornate a 180°C per 12 minuti circa, non chiudendo completamente lo sportello, potete utilizzare il manico di un mestolo di legno. 7. Trascorso il tempo dovuto, sfornate e lasciate raffreddare. Avete ottenuto un buon risultato se i bignè sono dorati, ben cresciuti e cavi all’interno. 8. Incidete la bacca di vaniglia lungo tutta la lunghezza con la punta di un coltello e grattate i semi. 9. In una pentola versate il latte e scaldatelo. In una ciotola aggiungete i semi di vaniglia, i tuorli, lo zucchero e la farina, mescolate (ma non montate) con una frusta. Quando il latte arriva al bollore, versatelo sui tuorli, amalgamate il tutto e riportate sul fuoco, affinché si addensi. Versate la crema in un recipiente e lasciatela raffreddare. 10. Montate la panna ed unitela alla crema fredda, avendo cura di amalgamarle delicatamente. 11. Con un coltello, tritate il cioccolato grossolanamente. 12. In una pentola fate sciogliere lo zucchero nell’acqua, su un fuoco medio basso. 13. Quando inizia a bollire inserite il cioccolato e mescolate con una frusta per evitare la formazione di grumi. 14. Raggiunto nuovamente il bollore, lasciatelo andare ancora per qualche secondo continuando a girare, dopodiché versatelo in una ciotola, in modo da accelerare il processo di raffreddamento. 15. È giunto il momento dell’assemblaggio: bucate i bignè utilizzando solo la punta pulita della sac à poche, andando in profondità. 16. Trasferite la crema all’interno della sac à poche e riempite tutti i bignè; una volta terminata questa operazione riponeteli in frigo per almeno 15 minuti. 17. Immergeteli nella glassa al cioccolato e poi disponeteli su un piatto formando una piramide. 18. Mettete la torta in frigo e per renderla più golosa, al momento del servizio decoratela con ciuffi di panna.

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PREPARAZIONE


Vini abbinati a cura di Enio Berton

con il Cocktail di Gamberi Il cocktail di gamberi mi riporta alla mente un viaggio di un po' di anni fa nella zona dell’Algarve in Portogallo dove, in un ristorantino sulla costa, abbiamo mangiato un cocktail di gamberi e pere che mio figlio dopo 14 anni ancora se lo ricorda. La nostra rivisitazione, però, introduce alcune varianti da non sottovalutare per la scelta dei vini. Nel piatto rimane, comunque, una dolcezza di fondo che dobbiamo bilanciare con il vino scelto. Ci trasferiamo in Germania questo mese per parlare dei vini di una zona molto particolare ed interessante sia dal punto di vista paesaggistico che enogastronomico. La regione della Mosella o meglio ancora Mosel-Saar-Ruwer si estende lungo il corso del fiume Mosella dai confini con la Francia fino alla confluenza con il fiume Reno, ne fanno parte anche i bacini dei due fiumi affluenti della Mosella il Saar ed il Ruwer. La posizione geografica è tra il 49° e 51° parallelo come le regioni francesi dell’Alsazia e dello Champagne, i vigneti, per sfruttare appieno i raggi del sole sono, generalmente, posizionati in colline sui versanti esposti a sud su pendii anche scoscesi in prossimità dei corsi d’acqua in modo da sfruttare il microclima più temperato che si crea e la rifrazione dei raggi solari nell’acqua.

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Le origini della viticoltura germanica risalgono al periodo della dominazione romana (I secolo A.C.) che, proprio in questa regione, trovò le condizioni ideali per la coltivazione della vite. Con l’avvento delle organizzazioni monastiche, attorno all’anno 1000, ripresero le coltivazioni dei vigneti ed attorno al 1435 si hanno le prime informazioni sulla produzione di riesling concentrato sulle sponde del fiume Reno nella zona di Reihngau. Dopo periodi altalenanti e di abbandoni, le coltivazioni furono di nuovo rese floride attorno al 1700 ed agli inizi del 1800 si iniziò a dare importanza al grado di maturazione dell’uva ed al suo contenuto in zuccheri introducendo il sistema di classificazione ancora oggi in vigore che si basa sulla misurazione del grado Oechsle (Oe), che conteggia di quanti grammi un litro di mosto superi il peso di un litro di acqua, partendo dal principio che la differenza sia lo zucchero presente nel mosto. Kabinett: non inferiore a 73° Oe. Spatlese: non inferiore a 85° Oe (da vendemmia tardiva).

Auslese: non inferiore a 90° Oe da vendemmia manuale di grappoli molto maturi che possono anche essere stati colpiti da Botrytis Cinerea. Beerenauslese: non inferiore a 125° Oe da vendemmia mediante acinatura delle uve (surmature) colpite da Botrytis Cinerea. Trockenbeerenauslese: non inferiore a 150° Oe acini (botritizzati, passiti o surmaturi) selezionati a mano. Eiswein: non inferiore a 125° Oe da vendemmia effettuata con una temperatura non superiore a -7° di grappoli non colpiti da Botrytis Cinerea. Trocken vino secco con al massimo 9 grammi/litro di zuccheri residui Halbtrochen o Feinherb vino semi secco con al massimo18 grammi/litro di zuccheri residui. Colpita dalla filossera attorno al 1881 la coltivazione della vite riprese con un certo vigore solo dopo la fine della seconda guerra mondiale. I caratteristici filari che scendono dritti dalle cime delle colline fino al greto del fiume è l’immagine che rimane impressa in chi visita la Mosella o anche solo fa un viaggio virtuale. Quasi il 60% della produzione della regione, che si estende per 8.800 ettari, è dedicata al Riesling Renano che, in questo microclima, raggiunge un eccellente equilibrio ed una bilanciata acidità che contri­ bui­sce alla sua longevità.


Altra particolarità sono le bottiglie di forma allungata chiamate Renane che per la Mosella sono verdi mentre per il resto dei vini tedeschi è marroni. Non stupitevi se per aprirle non vi serve il cavatappi, ma molti produttori usano il tappo a vite che, comunque, consente al vino di respirare e di continuare la sua maturazione anche per decenni. Torniamo al nostro cocktail di gamberi e, come dicevamo, dobbiamo bilanciare la sua dolcezza accompagnandola con un vino che ne esalti le caratteristiche. Se non vogliamo andare in Germania possiamo fermarci anche nella zona di Soave in Veneto o nella zona di Arneis in Piemonte per dei bianchi secchi e delicati meglio se giovani e freschi.

• Vino: Riesling Alt Scheidt 2018 • Cantina: Weingut Peter Lauer • Da servire: 12/14 gradi in calici a tulipano • Uve: 100% Riesling • Zone produzione: Ayl (Germania) • Grado alcolico: 10,50%

Riesling Alt Scheidt

Prodotto da vigneti nella zona di Ayl questo riesling ha una bassa dose zuccherina ma una freschezza e varietà di profumi donati anche dai suoi lieviti naturali. Dal colore giallo paglierino con riflessi verdognoli al naso si presenta puro con profumi quasi balsamici. In bocca l’acidità è ben bilanciata dal livello zuccherino. Fin di bocca persistente.

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Dalla Mosella scegliamo questa cantina che inizia la sua storia nel 1830 dal vignaiolo Konen. Agli inizi del 1900 diede in sposa la figlia a Matthias Lauer che ne rilevò l’attività per poter ampliare i suoi vigneti. Nel 1938 le redini della cantina furono prese dal figlio Peter Lauer che riuscì a salvare l’azienda dalla catastrofe della guerra. Durante gli anni 50 Lauer decise di espandersi con l’acquisto di rinomate cantine con vigneti nelle zone più prestigiose della Mosella. Attualmente le redini dell’azienda sono in mano al figlio Florian che continua il processo di miglioramento ed il passaggio al biologico iniziato dal padre.


Vini abbinati a cura di Enio Berton

con il Riso mare e monti con riccio e coniglio La rivisitazione della leggendaria mare e monti proposta in questo numero racchiude, da un punto di vista dell’abbinamento, una doppia insidia data dalla presenza di una carne bianca, delicata tendenzialmente neutra come bilanciamento tra il dolce ed il salato ed il riccio di mare una potenza esplosiva di sensazioni marine con la sua sapidità. La consuetudine ci dice che con il pesce si abbina il vino bianco mentre con la carne si abbina il vino rosso, quindi in questo piatto dovremmo abbinare due vini? Partiamo, innanzitutto, a chiarire che abbinamento rossocarne, bianco-pesce è una consuetudine e come tutte le consuetudini possono essere infrante, un bianco di corpo regge la carne come un rosso morbido regge il pesce. L’importante è non esagerare magari abbinando un barolo ad un branzino. Ecco questo proprio no. Nel nostro caso dobbiamo bilanciare il sapore del riccio con un vino che ci sgrassi la bocca ma che non vanifichi la tenerezza ed il gusto della carne di coniglio. Rimaniamo in Italia e scendiamo al sud per scoprire una zona vitivinicola molto importante nel panorama mondiale del vino, la Puglia.

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Terza regione per ettari di vitigno in Italia (87.253 ettari nel 2017) la Puglia nel corso degli anni si è resa nota dapprima per la produzione di mosti concentrati utili a tagliare altri vini per aumentarne il grado alcolico, poi per la produzione di uva da tavola ed infine per la produzione di vino di qualità. Le origini della viticoltura in Puglia risalgono ad ancora prima della colonizzazione greca del VIII secolo a.C., anche se si deve ai greci l’introduzione della coltivazione ad alberello tipica della regione. Con l’arrivo dei Romani fu dato nuovo impulso alla produzione di vino e molti autori dell’epoca, tra cui Plinio il Vecchio, citano i vini pugliesi e ne elencano le varietà. Nel 244 a.C., con la costruzione del porto di Brindisi, fu dato ulteriore impulso al commercio di vino tanto che a Taranto furono scavate, nella roccia, apposite cantine per il suo stoccaggio. Dopo la caduta dell’Impero Romano si assistette

ad un abbandono della coltura viticola che fu ripresa, nel corso del Medioevo, dai monaci tanto che Dante, nei suoi versi descrive la Puglia come “terra sitibonda ove il sole si fa vino”. Federico II, durante il suo regno, seppur astemio, capì l’importanza della produzione vinicola tanto da aumentarne la coltivazione ed il commercio. Durante il Rinascimento i vini pugliesi iniziarono a raccogliere consensi anche nelle altre capitali europee ed in molte zone della Francia. Nel 1700-1800 la Puglia si fa notare per le grosse produzioni ma non per la qualità e con l’arrivo della filossera nel nord Europa il vino pugliese fu utilizzato per soddisfare il fabbisogno di vino non più coperto dalle produzioni locali. Con l’arrivo della filossera, in regione, il commercio si interruppe e per uscire dalla crisi furono introdotti vitigni internazionali che hanno sostituito le varietà autoctone. La comparsa delle cantine sociali favorì la produzione di grossi quantitativi di vino a scapito della qualità, dando importanza alla produzione dei vini da taglio utili, come detto, all’aumento del grado alcolico di vini di altre regioni e nazioni. Dopo la Seconda guerra mondiale alcuni produttori capirono l’importanza di produrre vini di qualità ma


solo dopo il 1990, con l’arrivo in regione di cantine da altre regioni, si iniziò ad esaltare i magnifici vini autoctoni che la Puglia ci dona. Il riso sarà quasi cotto per cui stappiamo la nostra bottiglia scegliendo un rosso leggero e spensierato ma se vogliamo possiamo abbinare un metodo classico, magari scegliendo la versione rosè, o un bianco non troppo vecchio, magari un pinot grigio con almeno un paio d’anni di invecchiamento.

• Vino: Primitivo “Bizona” 2019 • Cantina: Tenuta Macchiarola • Da servire: 110/12 gradi in calici a tulipano • Uve: 100% Primitivo • Zone produzione: Puglia • Grado alcolico: 11,00%

La cantina Tenuta Macchiarola è gestita dal 2007 da Domenico Mangione farmacista di professione con un amore immenso per tutto il mondo del vino, essendo figlio di vignaioli. In vigna ha portato la sua filosofia artigianale e biologica di quando, già dagli anni ’80, produceva vino nella masseria del suocero. L’attenzione per il biologico porta a non utilizzare componenti chimici, solo concimi naturali, con diserbi meccanici e un piccolo aiuto tecnologico per sconfiggere le calure estive. In cantina l’uso di lieviti indigeni ed il rimescolamento delle fecce con il bastone sono le uniche tecniche utilizzate. Il Primitivo “Bizona” è un vino che nasce dalla raccolta anticipata di uve Primitivo e deve il suo nome al celebre film di Lino Banfi “L’allenatore nel pallone” inventore della famosa bizona 5-5-5 Vino leggero spensierato e come tale gioca, al naso, sulla freschezza della frutta rossa con profumi di geranio ed aromi vegetali. Al palato diverte il leggero tannino. Fin di bocca piacevole e succoso.

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Primitivo Bizona


con le Scaloppine

TipoPils

Da sempre la cucina è uno dei metodi più efficaci per viaggiare indietro nel tempo. Un solo boccone di un determinato piatto può riportarci ad un esatto momento della nostra vita, rivivendo suoni, odori, situazioni, riempendo il nostro stomaco di cibo ed il nostro cuore di nostalgia. La nonna (torniamo a parlare di lei) è per eccellenza la figura che ci ricorda i momenti più belli della nostra infanzia, e non la si può nominare senza figurarsela in cucina, mentre è impegnata a preparare il pranzo, o la cena; per lei non significava cucinare del semplice cibo per placare la fame, ma fare una vera e propria dichiarazione d’amore. Le scaloppine al limone, profumate e dal gusto setoso, non possono che riportarci a quei momenti: l'odore del burro che si scalda, sentirsi grandi aiutando ai fornelli mentre infariniamo la carne (e anche tutti i vestiti), la bellezza di preparare un piatto semplice, ma che è quasi un rituale. In questo caso, onorando la veracità e le sensazioni donateci da questo piatto, ho scelto una birra il cui motto è “cogli l'attimo, cogli l'essenza”: la TipoPils del Birrificio Italiano, la capostipite delle Italian Pilsner, un vanto a livello nazionale e non; la qualità e l'attenzione durante la produzione sono ineccepibili, ma senza ricorrere a troppa tecnologia. Old school, insomma. La Tipopils è ispirata alle tradizionali Pils Tedesche, prevede però l'aggiunta di luppolo a freddo in cantina di fermentazione (dry hopping), tecnica che permette di valorizzarne al massimo tutte le componenti aromatiche. Infatti al naso ci arrivano di primo impatto – grazie ai malti e alle sovrastrutture di luppoli - cereali freschi, pane, erbe selvatiche e fiori bianchi; successivamente, in modo lieve, un sentore di resine sempreverdi, ed un'esile venatura di citrico. La schiuma ci si presenta imponente nonostante la bassa fermentazione, e fa da cappello ad un colore paglierino intenso e leggermente velato. Al gusto si ripresentano inizialmente la morbidezza dei panificati, e successivamente un amaro erboristico molto piacevole e avvolgente. Corpo leggero (5.2°) e dalla bevuta semplice, probabilmente una bottiglia non basterebbe per finire le nostre scaloppine!

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Vi consiglio di servirla a 6-8°, e di berla – possibilmente – a casa della nonna.


IL PANINO DA BUFFET

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L'Arte Bianca a cura di Alessandro Trezzi


Vou-au-vent, pesce finto, un trilione di tartine con uova di lompo, insalata russa, cocktail di gamberi in salsa rosa e grissini avvolti da prosciutto crudo: sono solo alcuni degli antipasti tipici di una festa degli iconici anni ’80, protagonisti di tavole addobbate, compleanni, ricevimenti, rinfreschi e chi più ne ha ne metta. Ve lo assicuro, ho un elenco infinito di feste di vecchi amici o parenti dipinte allo stesso identico modo; ai tempi il catering non aveva ancora preso piede in maniera preponderante, si trattava per lo più di ordinazioni fatte e ritirate presso gastronomie o pasticcerie limitrofe, create tutte con lo stampino dalla prima all’ultima. Niente di disastroso, credetemi; ad un adolescente interessava poco o nulla di ritrovare chissà che varietà nelle proposte, che in ogni caso veniva garantita dalle farciture della pasta sfoglia o dai topping delle tartine. Ci si andava per divertirsi, per ballare, per fare festa, e per rifocillarsi di tanto in tanto. L’unica vera eccezione, per me, era l’odiatissimo paninetto secco. Esatto, proprio lui, il panino all’olio, al latte, da buffet o come diavolo volete chiamarlo. Non è un segreto che ancora oggi ai figli della panificazione venga data un’attenzione praticamente nulla; negli anni ’80 poi la maggior parte delle scoperte odierne riguardanti la leggerezza e la conservabilità di un prodotto erano per lo più sconosciute, e i risultati parlavano da sé: vere e proprie pietre dure e asciutte, vendute come “in grado di resistere per giorni”, quando invece risultavano immasticabili dal primo all’ultimo morso. Venivano riempite con una fettina di salame Milano da busta o di spalla cotta e formaggio, nel modo più triste e abusato possibile. Non ve lo nascondo: l’estrema monotonia unita all’incapacità del pietraio di dedicare il benché minimo impegno nella realizzazione dei panini, snobbandoli in tutto e per tutto, ha contribuito ad accrescere il mio odio per questa tipologia di antipasto, che snobbavo ben volentieri. Eppure chiunque converrà con me, qualsiasi ingrediente acquista complessità e completezza se racchiuso in due fette di morbido pane, che ne costituiscono contenitore, posata e unificano l’esperienza al tempo stesso. Se ben realizzato, un panino da buffet può diventare a tutti gli effetti il vero protagonista della vostra tavola anni ’80; basta variare le farciture, lavorare d’ingegno e prestare la giusta attenzione alla base.

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Che ne dite, vogliamo porci come sano e ambizioso obiettivo quello di rivalutare le stramaledette pietre di 40 anni fa, ridando lustro al concetto e creando il nuovo panino nerd?


Anzitutto, come amiamo fare, focalizziamoci sul risultato che vogliamo ottenere. Ciò che ci serve è un paninetto piccolo, di circa 5-6 centimetri di diametro, estremamente soffice, con crosta assente e la cui particolarità deve essere necessariamente una shelf-life prolungata. Stiamo parlando di panini che dovrete produrre con parecchio anticipo insieme ad altre mille preparazioni, e che rimarranno in tavola esposti all’aria per alcune ore; la durabilità è una caratteristica che non potete in alcun modo tralasciare. Sapete che vi dico? Risolvere gli ovvi problemi legati alla secchezza e all’immasticabilità del prodotto non mi basta, per niente. Voglio dare un nuovo volto al panino nerd, qualcosa che ne attribuisca caratteristiche atomiche. Voglio che sia profumato in modo esaltante, ma soprattutto in perfetto accordo con lo stile di farcitura che abbiamo intenzione di abbinare. Vi serve un contenitore perfetto per le vostre creazioni di carne? Avete bisogno di soddisfare il vostro palato esotico con esperimenti legati al pesce crudo o ai crostacei? Dovete pensare anche agli invitati che non si nutrono di animali? Ho la soluzione perfetta a tutti i vostri problemi, seguitemi fino in fondo. Nel mentre ricapitoliamo i punti saldi del nostro panino nerd:

1. Sofficità estrema; 2. Shelf-life prolungata; 3. Profumi esaltanti; 4. Adattabilità alla farcitura, che essa sia di carne, pesce o veggie. elevata.

La sofficità Vi vedo che leggete ovunque che quei miseri 30 grammi di olio su chilo di farina sono sufficienti per mantenere morbido il vostro panino. Balle, sonanti. I grassi sono elementi necessari a rendere un impasto ben lavorabile, malleabile ma soprattutto a stabilizzare la lievitazione, in quanto avvolgono le bolle di anidride carbonica formatesi durante l’azione dei saccaromiceti. Eppure, una simile azione inizia a portare risultati rilevanti sopra un certo quantitativo, pari ad

almeno l’8% sul peso della farina; pensate ad esempio al caso dei grandi lievitati, dove addirittura è possibile trovare il 20% di burro. Ecco, cosa pretendete che possa fare quindi quello scandaloso quanto inutile 3% di olio EVO? Oltretutto i grassi, essendo elementi molto pesanti, vanno aggiunti solo a maglia glutinica completamente formata e con la dovuta calma attenzione, in quanto se inseriti con troppa foga potrebbero spaccare la struttura ottenuta con tanta fatica. Lasciamo quindi perdere i grassi e concentriamoci sulla vera discriminante per una sofficità senza eguali: una lievitazione in forma corretta e bilanciata, che possa diminuire il rapporto massa/volume incrementando la scioglievolezza a dismisura.

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Il panino da buffet perfetto


La shelf-life Vi vedo che leggete ovunque che quei miseri 30 grammi di olio su chilo di farina sono sufficienti per mantenere a lungo il vostro panino. Anche qui, siamo lontani anni luce dalla verità vera.

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Ciò che può darvi durabilità assicurata è il mix tra una corretta lievitazione, che mantenga il giusto quantitativo di aria all’interno della forma definitiva (pronta per andare in forno), e una cottura adeguata che cristallizzi gli amidi e lasci il panino asciutto ma ancora morbido e scioglievole. Esiste però un altro trucco per assicurarsi il duplice vantaggio di una sofficità ancor più estrema oltre che di una shelf-life incredibile: il Water Roux. Si tratta di una particolare e semplicissima tecnica di derivazione cinese, (Tang Zhong in lingua originale) che consiste nell’utilizzare farina e acqua in proporzione di 1:5 (1:10 nel caso del Milk Roux con latte come parte liquida) dove la farina deve essere il 6% del peso totale

utilizzato. La preparazione è molto simile a quella del roux preparato per la besciamella, un addensante naturale: il composto viene riscaldato in un pentolino fino al raggiungimento dei 65 °C (stando attenti a non incorrere nella formazione di grumi) e poi fatto raffreddare con pellicola a contatto prima di aggiungerlo al resto degli ingredienti. L’unione del Water Roux freddo all’impasto darà incredibili benefici: • L’impasto risulterà più morbido e idratato; • La sua particolare azione emulsionante consente di raggiungere risultati ottimi in termini di conservabilità e sofficità, eliminando l’uso di grassi soprattutto in caso di intolleranze alimentari; • La shelf-life guadagna punti, consentendo di mantenere intatte le caratteristiche del prodotto per 3-4 giorni in frigorifero.

Il profumo Ancora, vi vedo che leggete

ovunque che quei miseri 30 grammi di olio su chilo di farina sono sufficienti per rendere profumato il vostro panino. Facciamo due conti? Con un chilo di farina tirate fuori circa 55 paninetti, nei quali vengono distribuiti i vostri amati 30 grammi di olio. Significa in sostanza che ogni panino ha circa mezzo grammo di olio; e voi vorreste farmi credere che, in mezzo alle fette di salame o di prosciutto cotto, riuscite a distinguere quello sputo di grasso? Sciocchezze. Meglio concentrarci piuttosto su un’ottima materia prima di partenza; giocheremo con i cereali, dando ai nostri panini profumi tostati, incredibilmente complessi, aiutandoci solo con un’aggiunta di farine diverse dal grano tenero su una base bianca.

Le farciture Ormai tutti noi siamo rimasti stregati dall’evoluzione della


Perché quindi non pensare ad un contenitore che possa sposarsi perfettamente con le nostre creazioni di carne, pesce, formaggi e verdure? Abbiamo un Pastrami o del Pit Beef appena affettato? Le note fragranti e tostate del panino alla segale ci riporteranno dritti a New York, accompagnando il manzo con i profumi di caffè e cacao di questo cereale povero ma entusiasmante. Dal nostro wok sono usciti dei gamberi scottati in salsa al curry, o abbiamo del salmone affumicato su placca di cedro e della guacamole fresca? Allora vi potrebbe far comodo un bianco panino al riso cotto a vapore, sofficissimo, perfetto per un viaggio in oriente e per risaltare il gusto placido dei frutti del mare. Il vostro orto ha dato vita a verdure colorate e non vedete l’ora di farci una crema o di grigliarle, oppure avete voglia di caciocavallo impiccato spolverato con una dose generosa di origano? Vi serve sicuramente un panino più rustico di grano duro, il pane della terra, che ben si sposa ai prodotti dell’agricoltura e dell’allevamento. Ho la vostra attenzione? Bene, diamo vita al nostro nuovo metodo.

PANINI ALLA SEGALE Per il Water Roux • 60 gr di farina di grano tenero di tipo 00 (300 W);(320 W); • 300 gr di acqua; Per l'impasto • 690 gr di farina di grano tenero di tipo 00 (300 W); • 250 gr di farina di segale integrale; • 350 gr di acqua; • 18 gr di sale fino o integrale; • 10 gr di lievito di birra fresco. PANINI AL RISO Per il Water Roux • 60 gr di farina di grano tenero di tipo 00 (300 W);(320 W); • 300 gr di acqua; Per l'impasto • 640 gr di farina di grano tenero di tipo 00 (300 W); • 300 gr di farina di riso; • 350 gr di acqua; • 25 gr di sale fino o integrale; • 5 gr di malto diastasico in polvere; • 12 gr di lievito di birra fresco. PANINI AL GRANO DURO Per il Water Roux • 60 gr di farina di grano tenero di tipo 00 (300 W);(320 W); • 300 gr di acqua; Per l'impasto • 540 gr di farina di grano tenero di tipo 00 (300 W); • 400 gr di grano duro senatore cappelli integrale; • 350 gr di acqua; • 20 gr di sale fino o integrale; • 5 gr di malto diastasico in polvere; • 10 gr di lievito di birra fresco

Le dosi indicate sono per circa 55 panini per tipologia. Tra gli ingredienti noterete leggere differenze riguardo il mix, la percentuale di sale e di lievito, e la presenza o meno di malto diastasico in polvere. Questo perché è importante che il panino conservi le sue caratteristiche primarie di sofficità e shelf-life; la segale è un cereale che pesa sulla struttura (specie se integrale), ma fortemente nutriente, quindi è assolutamente sconsigliabile la presenza di malto per non esasperare l’attività amilasica degli enzimi. Di contro i panini se non impastati a dovere potrebbero non gonfiarsi come i gemelli e rimanere quindi meno soffici, motivo per cui la dose di sale risulta leggermente più bassa e quella di lievito più alta.

Preparazione del Water Roux Posizionate un pentolino sul fuoco e versate l’acqua, poi la farina a pioggia. Mescolate energicamente con la frusta per impedire la formazione di grumi, e attendete il raggiungimento dei 65 °C. Il Water Roux sarà pronto quando la consistenza sarà simile a una gelatina e comincerà a vedersi il fondo del pentolino, ma non dovrà mai divenire troppo denso. Togliete dal fuoco, lasciate intiepidire leggermente, poi coprite con pellicola a contatto e lasciate raffreddare fino a 48 ore in frigorifero. Il composto non può essere aggiunto all’impasto da caldo, in quanto provocherebbe la morte dei lieviti.

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cucina, tra abbinamenti classici e azzardati, esotici o nostrani; il buon vecchio dispositivo da barbecue ci consente di attingere ad una schiera infinita di preparazioni per i topping, abbiamo solo l’imbarazzo della scelta.


Impastamento Rovesciate in un recipiente ampio (o nella vasca della vostra impastatrice) le farine, il Water Roux, metà dell’acqua, il lievito sbriciolato e il malto diastasico (se presente); dopo averli amalgamati bene aggiungete l’acqua rimanente poco alla volta. Aggiungete infine il sale e terminate l’impastamento quando l’insieme risulterà liscio, asciutto e setoso e la maglia glutinica si sarà formata. La temperatura interna dovrà essere di almeno 24 °C per permettere a tutti i processi fermentativi e alla maturazione di avere inizio senza particolari ritardi. Lasciate riposare nella ciotola per circa 15 minuti, poi ripiegate l’impasto in forma di pagnotta in modo che sia in grado di crescere verso l’alto.

Puntata Trascorsa la prima parte del riposo, riponete l’impasto in un recipiente dai bordi alti ben oliato e chiuso ermeticamente, e lasciate a temperatura ambiente per almeno un’ora per dar modo alla lievitazione di partire. Posizionatelo infine in frigorifero per 18-24 ore a una temperatura di 6 °C.

Staglio Circa 4 ore prima della cottura togliete dal frigorifero e dividete l’impasto in panetti da 30 gr l’uno. Schiacciate poi per bene facendo uscire l’aria formatasi durante la prima lievitazione, per poi arrotolare e formare una pallina ben chiusa; in tal

modo, i gas sviluppatisi durante l’appretto risulteranno uniformemente distribuiti e la mollica avrà una struttura omogenea, senza bolle d’aria indesiderate ed eterogenee che creerebbero dei punti vuoti non necessari in questo prodotto. Adagiateli su una teglia con della carta forno, ben distanziati uno dall’altro, coprite con un panno umido e lasciate in appretto a una temperatura di 28-30 °C.

Appretto Dopo circa 30 minuti inumiditevi leggermente le mani e schiacciate i panetti lievitati per formare dei dischi di circa 2 cm di spessore; tale espediente impedisce di sfornare dei panini troppo alti e di mantenerli ben tondi. Aspettate ancora tre ore e mezza a 28-30 °C e i vostri figlioli saranno pronti per essere infornati; nel caso del pane di riso spennellate con acqua o latte.

Cottura In questa fase i panini al riso necessitano di un accorgimento in più; fate bollire abbondante acqua in un pentolino e riponetelo nel forno caldo, nebulizzando se necessario. Questo trucchetto rallenterà l’avvenimento della reazione di Maillard mantenendoli ben bianchi. Se il vostro forno spinge troppo dalla parte alta, può essere utile coprire la teglia sulla quale cuocete con una pirofila alta capovolta in modo da proteggerli dal calore diretto della resistenza; in alternativa, una volta che si saranno gonfiati

per bene, potete coprire con un po’ di carta alluminio per ottenere lo stesso effetto. Panini alla segale e al grano duro non devono rimanere bianchi, ma un po’ di acqua nebulizzata non fa certo male, impedirà la formazione della crosta indesiderata. Stabilizzate la temperatura del vostro forno a 215 °C e cuocete per 10 minuti; per verificare l’avvenuta cottura è necessario un doppio controllo: la temperatura interna deve essere di 90 °C, e la mollica deve risultare completamente asciutta.

Raffreddamento, mantenimento e servizio Una volta sfornati lasciateli raffreddare su una griglia rialzata, evitando in tal modo la formazione di condensa che rovinerebbe il duro lavoro svolto finora. Potete riporli tranquillamente in un sacchetto chiuso ermeticamente fino a 3-4 giorni in frigorifero, oppure congelarli.


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fotografie di Elisa Giuli

MASCARPONE

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L'Arte Casearia a cura di Giovanni Minelli

Solo i più curiosi lo hanno assaggiato in purezza, tutti almeno una volta lo hanno trovato in qualche preparazione, anche perché non conosco una persona che non abbia mai assaggiato un tiramisù. Sto parlando del Mascarpone, preparazione lattiero-casearia lombarda con caratteristiche talmente peculiari che possiamo considerarlo un prodotto senza simili. Abbastanza noto è il fatto che sia un preparato ad elevato tenore lipidico, ma è davvero così? Decisamente si, se confrontiamo le etichette dei prodotti in commercio la media ci indica un 47/48% di grassi sul totale. Parlo di preparazione lattiero-casearia e non di formaggio perché la questione è un po’ controversa, la legislazione che regola il mondo dei formaggi per la verità non si era posta il problema di come inquadrare questo prodotto, quindi volendo essere cavillosi abbiamo elementi per considerarlo un formaggio ed elementi per non considerarlo tale, ma ci interessa davvero? Noiosa questione, ma volendo ne possiamo parlare in Gastronomica-Mente.

Dico che è un prodotto senza simili per due motivi, il primo riguarda la materia prima di partenza e il secondo riguarda il processo di coagulazione. Tutti i formaggi che abbiamo incontrato fin’ora li abbiamo ottenuti utilizzando latte, caglio e sale, ma per il mascarpone la materia prima di partenza non è latte, ma la crema di latte, quella che normalmente chiamiamo panna, che rappresenta la frazione lipidica del latte. Sono comunque presenti proteine, caseine nella fattispecie, e come per i formaggi bisogna farle coagulare. Esistono due grandi categorie di formaggi se le dividiamo in base a come coaguliamo le proteine: formaggi


Come al solito, ragioniamo sul prodotto finito per avere in mente cosa vogliamo ottenere: il mascarpone si presenta informe, o meglio, prende la forma del suo contenitore. Privo di crosta, bianco crema e lucido, dalla consistenza cremosa, untuosa e adesiva. Aromi e profumi poco persistenti di latte fresco e burro, se si percepissero delle note tostate sarebbe da considerarsi un errore, oltre al fatto che non è un granché, ma poi ne parleremo meglio. In bocca spicca la sua dolcezza e talvolta si può percepire un po’ d’acidità dovuta al siero. Si tratta di un prodotto da consumare fresco, è facilmente deperibile, quindi lo possiamo conservare in frigorifero solo per pochi giorni. Sarà conveniente farne piccole quantità da usare di volta in volta, anche perché è davvero di facile realizzazione. Per produrre il mascarpone occorrerà scaldare la crema di latte fino a 90/95° Celsius. Se lo facciamo su fiamma diretta saremmo costretti a tenere in agitazione costante la materia prima, per evitare che attacchi o che si bruci, in questa

eventualità i sentori tostati saranno inevitabili, quindi la soluzione che consiglio è procedere a bagnomaria. Per capire cosa rende possibile la produzione del mascarpone non posso risparmiarvi lo spiegone riguardo proteine, temperature e acidità. Ragionando degli altri formaggi abbiamo già accennato al fatto che nel latte sono presenti prevalentemente due tipologie di proteine, le caseine e le sieroproteine. Queste hanno caratteristiche abbastanza differenti tra loro. Le caseine nel latte le troviamo legate al fosfato di calcio sottoforma di micelle, e sono quelle che dopo coagulazione, assieme al grasso, conferiscono struttura al formaggio. Le sieroproteine sono solubili in acqua e normalmente rimangono nel siero dopo aver prodotto il formaggio. Sono quelle che sfruttiamo per ottenere la ricotta. Nel Mascarpone abbiamo entrambe le tipologie di proteine. Siccome le sieroproteine le perderemmo nel siero occorre fare in modo che queste si leghino alle caseine, quindi occorre denaturarle per via termica, e questo avviene tra gli 80° e i 90° Celsius. Quando queste proteine cominciano a srotolarsi formano un gel che in seguito ad acidificazione tende ad associarsi alle micelle di caseina che contestualmente abbiamo denaturato e che coaguliamo sempre per via acida. Prima ho accennato ad un valore di pH e al punto isoelettrico, il perché lo dico ora: immaginiamo le proteine disperse in acqua, queste assumono una carica elettrica in base al pH della soluzione. Ogni proteina ha un proprio punto isoelettrico, quindi un valore di pH al quale la carica netta è pari a 0. Quindi a valori di pH più elevati di 4,7 (il latte mediamente è a 6,6) le micelle di caseina tendono a respingersi, mentre quando ci avviciniamo al punto isoelettrico tenderanno ad aggregarsi. Quando giochiamo

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presamici, quelli che otteniamo tramite l’utilizzo di caglio, dove ad agire sono degli enzimi, chimosina e pepsina e formaggi a coagulazione lattica, che otteniamo agendo sull’acidità del latte, quando arriviamo a pH 4,6 (punto isoelettrico). Se pensiamo alla crema di latte e ai prodotti che normalmente otteniamo da essa ci viene in mente la panna montata e il burro. Li otteniamo per azione meccanica, la prima con la frusta e il secondo con la zangola, ma non sono formaggi. Per ottenere il mascarpone? Parliamo di coagulazione termico-acida e quindi agiremo sia sulla temperatura sia sul pH della crema. Ve lo anticipo, è semplice in maniera disarmante, ma come al solito dovremo essere precisi per essere soddisfatti del prodotto finale.


col pH del latte lo strumento più consono a disposizione è l’acido citrico (E330). Con chi frequenta Gastronomica-Mente ne abbiamo già parlato quando ragionavamo sulla ricotta e sull’acidificazione diretta per le mozzarelle. Puoi utilizzare succo di limone o aceto? Si, ma perché essere approssimativi se si può essere precisi!? Facile da trovare anche in farmacia, costa una sciocchezza, si utilizza disciolto in acqua.

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Passiamo alla preparazione, abbiamo detto che occorre solo crema di latte e acido citrico. La panne deve essere fresca e ottenuta per centrifugazione, quella d’affioramento può portare sia a problemi di natura igienico-sanitaria sia a delle anomalie nella struttura

e consistenza del prodotto finale. Come strumentazione occorrerà come al solito il termometro, due pentole per la cottura a bagnomaria, una tela di lino a fibra stretta, una formina da formaggio ma in questo caso va bene anche uno scolapasta. Mettiamo sul fuoco una pentola con dell’acqua e all’interno di essa un’altra pentola nella quale verseremo la crema di latte, insomma ci prepariamo per una normale cottura a bagnomaria ed innalziamo la temperatura della panna fino a raggiungere i 90° Celsius. Io ho utilizzato 2 litri di panna, quindi aggiungo 2 grammi di acido citrico disciolto in 18 ml d’acqua, e mescolo delicatamente per 5/10 minuti. Si potrà sentire un cambio di consistenza nella crema di latte. A questo punto foderiamo una fuscella con una spessa tela

di lino e al suo interno versiamo il composto. Gocciolerà molto poco a differenza di come siamo abituati con altri prodotti, anche perché il contenuto d’acqua della crema di latte è molto più basso rispetto a quello del latte. Lo lasciamo raffreddare per poi piazzare il tutto in frigorifero per 12 ore. Passato questo periodo di tempo durante il quale la crema prenderà consistenza e drenerà il liquido in eccesso, lo possiamo prelevare per utilizzarlo o per inserirlo in un recipiente. Io lo utilizzo direttamente e ci preparo una versione mignon di una meraviglia semidimentica: la torta zola-mascarpone e noci. Tra gli anni 80 e 90 era protagonista dei banchi gastronomia di qualunque supermercato o negozio di generi alimentari, non


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solo in Lombardia dove è nata, ma davvero ovunque. In centro Italia, dove vivo io, è da anni che non se ne vede più una quindi rimedio facendomela da solo. Il procedimento è davvero semplice, basterà alternare strati di mascarpone a strati di Gorgonzola dolce per poi foderare la parte esterna con dei gherigli di noce. Mi sono divertito e sforzato ad essere preciso, la cucina è davvero un’arte e a me manca un po’ di sensibilità in questo senso, ma ce l’ho messa tutta. Con una saccapoche ho realizzato i riccioli di mascarpone esterni nel tentativo di trasmettere tutta l’opulenza delle preparazioni degli anni ’80. Lo so, il massimo sarebbe produrre da soli anche il formaggio erborinato dunque prometto, arriverà anche il processo per un blue cheese, qui nel Magazine, basta solo un po’ di pazienza.


The Chemical Griller a cura di Virgilio Brunetti

LE GOMME Col termine gomma si identifica una serie di molecole caratterizzate da struttura polimerica, ovvero costituite dalla ripetizione di singole unità molecolari che, legate tra di loro, formano lunghe strutture lineari, alcune delle quali hanno la spiccata tendenza a formare reticoli tridimensionali in opportune condizioni.

Probabilmente la gomma più famosa in assoluto è il caucciù, ottenuto dalla lavorazione del lattice di una pianta tropicale. Il mondo dei polimeri abbraccia non solo la scienza dei materiali ma, come abbiamo visto nei precedenti capitoli, anche l’industria alimentare. Per similitudine con il caucciù molte sostanze naturali estratte dalle piante vengono chiamate gomme e molte di queste, da secoli, hanno vasto utilizzo nelle preparazioni alimentari. Quando masticate un chewing gum (in alcune zone d’Italia la chiamano ancora “cìcles”) state assaporando un prodotto dolciario masticabile che ha come base una gomma naturale derivata dalla corteccia della Manilkara chicle. Molte caramelle gommose ne hanno un’altra, anch’essa naturale, estratta dall’Acacia Senegal famosa come Gomma Arabica. Con la sigla da E412 ad E418 vengono appunto identificati gli additivi alimentari conosciuti come gomme naturali facenti parte della macro area degli addensanti, degli stabilizzanti e degli emulsionanti.


Ecco una piccola guida: E412: la Gomma di Guar (o Farina di Guar) è una polvere idrosolubile ottenuta dalla macinazione dell’endosperma dei semi del Guar (Cyamopsis tetragonoloba), pianta erbacea delle leguminose tipica dell’India e del Pakistan, ma coltivata anche in Cina e Stati Uniti. Largamente impiegata nell’industria alimentare, la gomma di guar è principalmente utilizzata come agente stabilizzante, emulsionante ed addensante nella preparazione di prodotti come gelati, salse, carni conservate e bevande. E413: la Gomma Adragante (più raramente chiamata anche “Gomma da Tragacanto”) è un essudato secco ricavato dai fusti e dai rami di una ventina di specie di leguminose del genere Astragalus, originarie del sudest europeo e del sudovest asiatico. Il maggior produttore mondiale è l’Iran, ma è presente anche in Iraq, Siria, Kurdistan turco e Grecia. È viscosa, inodore, insapore e solubile in acqua. Per queste caratteristiche è usata soprattutto in ambito farmaceutico nella preparazione di emulsioni, ma anche nell’industria alimentare come additivo (addensante per salse, sciroppi, caramelle gommose, gelati, decorazioni dolciarie). E414: la Gomma d’Acacia o Gomma Arabica è ottenuta da un essudato prodotto dagli stami e dalle branche degli alberi di Acacia Senegal e Acacia Seyal del sud del Sahara (Sudan, Chad, Senegal e Nigeria). In forma di larghi noduli, viene prodotta dagli alberi a seguito di un processo naturale chiamato “gommosi”, finalizzato a rimarginare o a riempire incisioni che vengono appositamente provocate sulla corteccia degli alberi. Grazie alle sue numerose proprietà viene utilizzata con successo nell’industria alimentare, in quella farmaceutica, nella cosmetica e nelle vernici. Questo ingrediente ricopre infatti tre importanti funzioni: ritarda o previene la cristallizzazione degli zuccheri, fa da strutturante e agisce da emulsionante permettendo un’omogenea distribuzione delle componenti grasse. In campo alimentare viene utilizzata soprattutto come addensante, umettante, agente solidificante, testurizzante, adesivo, elasticizzante e come fonte di fibra solubile, inoltre è un ottimoemulsionante e stabilizzante che produce delle emulsioni stabili in un ampio spettro di pH, anche in presenza di elettroliti senza la necessità di un ulteriore agente stabilizzante. Grazie alla sua eccellente solubilità nelle soluzioni acquose, alla sua bassa viscosità, al sapore delicato, all’odore neutro,

al contenuto di fibre e al basso tenore calorico è un ottimo ingrediente per diverse applicazioni, infatti è anche eccellente per incapsulare gli aromi, impedendone l’ossidazione. E416: la Gomma di Karaya è un polisaccaride naturale ottenuto dalla scorza dell’albero Sterculia Urens, tipico dell’India. È un composto con funzione addensante, stabilizzante ed emulsionante. Può essere contenuto in diversi prodotti, come per esempio cibi a base di cereali e patate, liquori all’uovo, salse. E417: la Gomma di Tara è un additivo di origine naturale ricavato dai semi della Tara (Caesalpinia spinosa) originaria dell’America Latina e dell’Africa. È un composto con funzione prevalentemente addensante che si può comunemente ritrovare in ogni genere di alimenti. E418: la Gomma di Gellano è prodotta dal batterio Sphingomonas elodea, ed è ottenuta per via industriale attraverso la coltura del batterio in processi di fermentazione su larga scala. È un polimero non ramificato formato dalla ripetizione di un tetrasaccaride: glucosio-ramnosio-glucosio-acido glucuronico. Le unità monosaccaridiche possono essere ripetute fino a mezzo milione di volte. Le catene polimeriche formano una doppia elica l’una attorno all’altra e gelificano in seguito al raffredamento in presenza di cationi bivalenti, come il calcio, i quali si associano a gruppi carbonilici dei residui dell’acido glucuronico, legando fra loro diverse porzioni delle catene ed originando dei gel. Può essere addizionata dall’industria alimentare a diversi cibi, come per esempio confetture, gelatine, marmellate, prodotti a cottura ridotta. È inoltre un ingrediente tipico della cucina molecolare.


la Gomma di Xantano Per ultimo lascio spazio all’addensante, emulsionante e stabilizzante perfetto, il modificatore reologico universale: E415, la gomma di Xantano.

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È un ingrediente che ha aumentato la sua presenza nei prodotti sugli scaffali ma sempre più frequentemente è usata nelle cucine professionali. Quando compro un alimento controllo spesso le etichette, soprattutto nei prodotti base comuni nella cucina barbecue. Ebbene, lo Xantano è ormai sempre presente “in tutte le salse”. Ma cos’è nello specifico? Quali sono i suoi usi e perché è diventata popolare? Esso viene ottenuto mediante processo di fermentazione di glucosio o saccarosio da parte di ceppi naturali del batterio Xanthomonas campestris, purificato per estrazione in alcool etilico; il polimero purificato viene essiccato e poilverizzato. Lo Xantano è un polimero a base di D-glucosio e il D-mannosio, nonché degli acidi D-glucuronico e piruvico, e viene preparato sotto forma di sali di sodio, di potassio o di calcio. La sua elevata capacità di solubilità, la stabilità in presenza di sali e la sua resistenza agli enzimi hanno reso questa sostanza uno dei principali polimeri utilizzati nell’industria alimentare. La rigidità strutturale del polimero di questa gomma le conferisce proprietà insolite e vantaggiose difficilmente ottenibili in un singolo additivo alimentare, ovvero: viscosità stabile in ampi intervalli di temperatura e pH resistenza alla degradazione enzimatica. Non è solubile nei solventi organici compreso l’etanolo. Le soluzioni acquose di xantano sono altamente viscose. Questa viscosità non è influenzata dalla temperatura, né nel congelamento né nel punto di ebollizione. Motivo per il quale lo xantano viene scelto dall’industria alimentare affinché le proprietà dei prodotti finali in cui viene utilizzato

rimangano sempre e comunque inalterate. Le soluzioni di xantano hanno caratteristiche reologiche particolari: sono fluidi non newtoniani di tipo pseudo-plastico, caratteristica importante nella stabilizzazione di sospensioni ed emulsioni. Quest’ultima proprietà migliora le caratteristiche sensoriali del prodotto finale (sensazione al palato, e nel rilascio del sapore) garantendo anche un alto grado di miscelazione, di pompaggio e di versamento. Lo xantano non ha effetti gelificanti, viene quindi utilizzato per il controllo della viscosità a causa delle deboli associazioni che gli conferiscono proprietà di formazione di gel deboli. Tuttavia, quando aggiunto ad altri idrocolloidi, può produtte gel forti. Questa gomma può essere aggiunta ad Agar Agar e Carragenina Kappa per formare un gel più stabile. La buona capacità di ritenzione idrica può essere utilizzata per il controllo della sineresi e per ritardare la ricristallizzazione del ghiaccio (crescita dei cristalli di ghiaccio) nelle situazioni di congelamento-scongelamento. Può essere utilizzata anche nei ripieni di pasta frolla, per evitare la trasudazione e il rilascio dell’acqua nel ripieno, proteggendo la croccantezza della crosta. Aggiunto al gelato evita la formazione di cristalli di ghiaccio. È in grado di produrre un grande aumento della viscosità di un liquido anche se aggiunta in quantità molto piccola; nella maggior parte delle applicazioni è usata allo 0,5% o anche a 0,05%. Spesso è usata in condimenti per insalata e salse. Aiuta a prevenire la separazione dell’olio stabilizzando l’emulsione. La gomma di xantano aiuta anche a sospendere le particelle solide, come le spezie. Inoltre, utilizzata in cibi e bevande surgelati, aiuta a creare una piacevole consistenza dei prodotti finali. Non cambia il colore o il sapore degli alimenti e delle bibite.


LA SALSA BARBECUE #ZEROSBATTI

Capite ora che se volete progettare, costruire e produrre una salsa barbecue perfetta non potete fare a meno di questo additivo alimentare che vi permetterà di eseguire un controllo micrometrico delle texture del condimento senza impattare in alcun modo sul gusto finale, perché è totalmente insapore e ed agisce a microdosi. Potrete preparare la vostra salsa barbecue usando la minima quantità di calore possibile al fine di non modificare per effetto della cottura nessuno degli ingredienti base. Vediamo un esempio di una possibile struttura di una salsa barbecue che potremmo definire “zerosbatti”, dato che è un banale assemblaggio di ingredienti. La Base: il ketchup scientifico come da ricetta di Gianfranco Lo Cascio, che trovate dopo questo articolo. Oppure un ketchup commerciale di ottima qualità, io vi suggerisco l’inimitabile Heinz; le fibre di pomodoro presenti daranno struttura base alla salsa. Componente fruttata: Confettura di albicocche, pesche o amarene Sciroppo acido: 250 grammi di zucchero muscovado (melassa, malto, golden syrup, miele d’acacia) in 500 grammi di aceto di mele o lamponi. Componete umami: una miscela di salsa di soia tipo shoyu e di salsa worcester in parti uguali Componente speziata: vi consiglio i nostri Sal’s Seasoning Rub come il Montreal Steak, il Tennesee Mild Dry rub, il Memphis Dry o il Mount Nimba che daranno struttura e kick alla salsa barbecue. Ricordatevi, le spezie devono essere visibili ma perfettamente disperse nella texutre della salsa. Modificatore reologico: Xantano 0,5%

La salsa è stabile in frigo per almeno 5 giorni, e potrete pastorizzarla in contenitore sterile di vetro senza avere nessun effetto sulla texture.

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Assembliamo: uniamo 800 g di ketchup, 200 g di componente fruttata, 300 grammi di sciroppo acido, 200 grammi di componente umami, da 15 a 20 grammi di Sal’s Rub. Pesiamo la miscela e aggiungiamo gradualmente la gomma di Xantano per un massimo dello 0,5% frullando con un mixer ad immersione. Non aggiungo volontariamente la componete grassa in quanto produrrebbe una opacità dovuta all’emulsione della fase acquosa e quella grassa. La salsa dovrà risultale lucente e semitrasparente: la classica prova del cucchiaio sarà ottima per saggiarne la texture, in trasparenza si dovranno vedere le spezie.


La ricetta scientifica a cura di Gianfranco Lo Cascio

Il Ketchup Settembre 2020 - 92

“Three tomatoes are walkin' down the street. Papa Tomato, Mama Tomato and Baby Tomato. Baby Tomato starts lagging behind, and Papa Tomato gets really angry. Goes back and squishes him and says: “Ketch - up!” Mia Wallace, Pulp Fiction, 1994


Americanate, sulle patate ci si mette il rosmarino. Ma la verità è un'altra. Ed è che il ketchup fatto a regola d'arte è una salsa strepitosa che tutti adorano ma che in molti rinnegano. A me lo status quo non piace e sono un grande fanatico del ketchup. Per questo motivo ho deciso di darvi la mia ricetta personale. Non saprei dirvi se è migliore o peggiore di quella Heinz (la mia preferita tra i marchi da supermercato) in senso assoluto, ma per quanto mi riguarda non ha eguali. Perché? Perché prima di metterla a punto mi sono fatto delle domande e mi sono dato delle risposte: 1. Il ketchup non si consuma assoluto ma si degusta sempre in abbinamento a qualcosa. Quindi va equalizzato alla pietanza da accompagnare. Ne deriva che da solo potrà essere sbilanciato. 2. Essendo in accordo con la pietanza da accompagnare ne deriva che non può esistere UN ketchup ma esistono MOLTI ketchup a seconda del piatto che dovranno accompagnare. Sì, avete capito benissimo. Un ketchup per il cheeseburger

potrebbe non andar bene per le patatine fritte e viceversa. Per preparare il ketchup scientifico non accenderete un solo fornello e vi servirà qualche grammo di un particolare additivo alimentare reperibile agilmente online. Il risultato sarà una salsa densa e brillante, lucida e compatta, di grande viscosità e che avvolgerà con un pungente abbraccio le vostre patatine: chips, french fries classiche o country style con la buccia, come piacciono a me. Imparando il processo di costruzione sarete in grado, ovviamente, di produrre delle varianti che meglio si accosteranno ai diversi tipi di abbinamento. Se avete un locale potrete mostrare con vanagloria la vostra carta dei ketchup artigianali, fatti in casa, senza alcun conservante. Potrete scegliere il vostro pomodoro e il vostro aceto preferito oltre, che ve lo dico a fare, al miliardo di spezie e aromi esistenti sul globo terraqueo. La vostra salsa sarà più o meno acidula, più o meno pungente, più o meno piccante, più o meno floreale. Una giostra di sapori. Ammettetelo: quando mai vi ho deluso con una ricetta?

Il Ketjap È il nome di una salsa a base di pesce fermentato attualmente ancora in vendita; i primi ad assaggiarla furono gli inglesi, in una regione che corrisponde all’attuale Malesia. Gli albionici pensarono bene di esportarla nelle loro colonie del Nord America e fu lì che comincia-

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Qual è l’elemento che accomuna voi fan di Tarantino con voi altri che proprio lo detestate? Entrambi avete consumato ettolitri di ketchup nella vita. Il problema è che poi siete cresciuti, e quando i radical chic del desco hanno iniziato a demonizzarlo, vi siete uniformati ai diktat dei presìdi e delle eccellenze del territorio.


rono a replicarla aggiungendo nuovi ingredienti come funghi e noci. I pomodori non pervenuti fino al 1800, ma è all’inizio del ventesimo secolo che avvenne la svolta: la gente diventava sempre più ostile al consumo di cibi pompati coi conservanti. Per chetare gli animi, due uomini di nome Harvey Wiley e Henry Heinz (sì, quell’Heinz) tirarono fuori dalla manica sporca di ketchup una ricetta con soli conservanti naturali. Preparata esclusivamente con pomodori maturi (e non scarti di produzione del pomodoro), che contengono dosi generose di pectina, un conservante naturale, un po’ di sale e una percentuale di aceto bella importante. Il risultato? Una salsa stabile e da scaffale, che poteva essere serenamente stoccata a temperatura ambiente.

Come nasce un ketchup industriale L'ingrediente principale del ketchup moderno è il pomodoro. La quantità varia a seconda della marca e del tipo. I pomodori vengono lavati e triturati finemente per creare una massa dalla consistenza omogenea e lungo il percorso di produzione, una parte dell'acqua di vegetazione contenuta nel frutto viene fatta evaporare per addensare la salsa. Poiché i pomodori contengono per lo più acqua, circa il 95%, il peso dei pomodori iniziali potrebbe essere superiore al peso effettivo dei pomodori presenti nel ketchup finale. Per esempio, per fare 100 g di ketchup Heinz vengono utilizzati 148 g di pomodori. I più maliziosi tra voi potrebbero pensare che la produzione del ketchup sia un pretesto per consumare pummarole marcescenti e di bassa qualità. Tuttavia, spesso è vero il contrario. I pomodori per il ketchup possono essere raccolti in anticipo, poiché il tempo per passare dal raccolto alla produzione è di frequente molto breve. I grandi marchi di salse hanno solitamente un contratto con coltivatori che piantano e raccolgono frutti appositamente per il loro ketchup.

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Oltre ai pomodoro, gli altri due componenti principali sono solitamente l'aceto e lo zucchero. Entrambi sono essenziali per garantire che i pomodori non si rovinino e che il ketchup possa essere conservato abbastanza a lungo. Nella lista finale degli ingredienti appiccicata allo squeezer troviamo sempre anche sale e spezie. Ma come funziona la linea produttiva? Per prima cosa i pomodori vengono ordinati e lavati. Il processo da quel momento in poi varia leggermente a seconda del produttore, ma consiste in alcuni passaggi fondamentali. Per cominciare, come accennato prima, il pomodoro deve essere ridotto in pezzi più piccoli. Può essere macinato o trasformato in poltiglia utilizzando un omogeneizzatore. Talvolta può anche essere pelato, generalmente la pelatura viene effettuata con l'aiuto del vapore. Un breve trattamento a vapore caldo dei pomi ammorbidirà la pelle e ne faciliterà la rimozione. I pomodori devono essere sottoposti ad almeno una fase di trattamento termico, in gergo chiamato "hot break”, che serve a disattivarne gli enzimi. Queste particelle, che sono naturalmente presenti, potrebbero


altrimenti rompere la pectina, una grande molecola colloidale che aiuta ad addensare il ketchup. L’altro trattamento termico papabile può essere il processo di cottura. Durante questa fase il concentrato di pomodoro viene mescolato con l'aceto, lo zucchero e altri ingredienti e cotto insieme per ottenere la consistenza desiderata. Applicando calore l'acqua evapora, concentrando la salsa, ed eventuali microrganismi vengono annientati sul colpo. Il trattamento termico e il processo di cottura non devono necessariamente avvenire in un processo unico. Invece di iniziare con i pomodori freschi, alcuni produttori di ketchup acquistano concentrato di pomodoro già pronto (proprio come faremo noi!) e lo convertono in ketchup.

Il flusso del ketchup è speciale Ne abbiamo già parlato nel numero di Aprile 2020, ma farò un riassuntino per chi è entrato alla seconda ora. Se agitiamo una tazza di the, di latte o di caffè, oppure sciarbottiamo il vino con lesto movimento di polso, per quanto vorticosamente agitiamo questi liquidi essi non cambiano in termini di viscosità. Sono quei fluidi che hanno un comportamento “normale”o newtoniano, in cui gli sforzi sono direttamente proporzionali alla velocità di deformazione: la velocità di flusso aumenta proporzionalmente alla forza applicata. Molti fluidi invece hanno comportamenti diversi a seconda di come li mescoliamo. Questi cattivoni imprevedibili hanno la caratteristica di variare la loro viscosità a seconda delle forze che interagiscono con essi ovvero, se sottoposti alle forze di taglio, evidenziano un flusso di scorrimento che può essere: plastico, pseudoplastico, tixotropico o dilatante. Maionesi, grassi solidi, panna e bianchi d’uovo montati sono fluidi non newtoniani con comportamento plastico. Sono sostanze che iniziano a scorrere solo se lo sforzo applicato supera un valore limite, detto sforzo di snervamento. Che si tratti di emulsioni o schiume, questi fluidi si comportano in maniera ordinaria, come quelli newtoniani, solo dopo uno sforzo iniziale. Nella pratica sapete bene come smuovere l’albume montato a neve ferma o la margarina: per farli scorrere è necessario applicare una certa forza iniziale. E ora veniamo aI ketchup. La nostra salsa rossa è un fluido non-newtoniano con comportamento pseudoplastico. Non devo dirvelo io, dressarla dalla sua confezione non è semplice: finché e ferma nella sua bottiglia rimane lì allo stato semisolido ed è necessario qualche colpo per iniziare a farla cadere. La forza applicata modifica la viscosità del ketchup facendolo uscire dalla bottiglia spesso senza controllo. Questo accade perché le fibre della salsa si agganciano l’una all’altra finché non si somministra una forza, allorché si sganciano (di colpo) e il ketchup fluisce dal flacone; la viscosità si abbassa ma si ricompatta istantaneamente sul piatto. Lo yogurt è un fluido non newtoniano con comportamento tissotro-


Nome Fotografo - Mus Settembre 2020 - ereped 96 magnias itatem. Perunda cullupis sequat.

pico, ovvero, se lo maltrattate frullandolo e frustandolo, perde struttura e compattezza nel tempo. Gli impasti a base di acqua e maizena, comprese alcune creme, sono invece esempi di fluido non newtoniano con comportamento dilatante. Applicando forze più deboli, come il lento inserimento di un cucchiaio nel fluido, esso si manterrà nel suo stato liquido. Se invece riempite una piscina di acqua e maizena potete correre sul liquido a patto che lo facciate alla Forrest Gump.

Perché preparare il ketchup in casa

selezionato e quell’equilibrio, sfacciatamente soggettivo, tra acidità e dolcezza.

Beh, vi ribalto la domanda: perché no?

Come si fa una salsa perfetta

Quando si cucina qualcosa da zero, si sa esattamente cosa ci finisce dentro. Il ketchup industriale avrà sempre la sua quota di conservanti e non sarà mai plasmato sui vostri gusti. Non avrà mai il sapore del concentrato di pomodoro, magari fatto da voi col pomodoro buono, l’aceto

O meglio quali sono i parametri che ci permettono di crearla: Ingrediente portante. È ciò che compone in quantità maggiore la salsa. Che sia una verdura, un latticino, un legume, un pesce, un piccione in caduta, fate in modo sia di qualità.


Acido. Come la componente grassa, deve stare tra il 10 e il 30% della salsa e ha la funzione di

equilibrare i sapori della carne e del grasso disciolto senza sovrastarli, ma accentuandoli. Alcolici, agrumi, panna acida e acqua di pomodoro verde i più usati. Aroma. Siamo totalmente nel campo olfattivo, ma il loro valore è determinante. Parliamo di erbe, spezie, scorze di agrumi o germogli da usare con cautela ma senza timidezza. Diciamo tra il 5 e il 10% del totale. E infine:

- Sapidità - Dolce - Amaro - Percezioni sensoriali - UMAMI In dosi sufficienti (quanto bastano) per esaltare al massimo le qualità della salsa.

Gli ingredienti del ketchup: il pomodoro

Antico Pomodori di Napoli, Camone, Ciliegino, Corbarino, Cuore di bue, Fiaschetto, Marinda, Pera d’Abruzzo, Pizzutello, Pachino, Pomodoro Giallo, Regina, Riccio di Parma, Roma e San Marzano. Sono solo alcune delle cultivar di pomodoro da salsa italiane, e l’ultima è la mia preferita in assoluto. Ma quali caratteristiche deve avere un vero Pomodoro San Marzano? • la dimensione è medio-grossa, con una lunghezza compresa tra i 60 e gli 80 mm. • La forma è cilindrica e allungata • Non è presente il peduncolo. • Il colore è rosso brillante, uniforme e tipico. • La buccia, sottile e consistente, si stacca facilmente dalla polpa quando la maturazione è completa. • La polpa è soda ed

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Grasso. Spesso si parte da sua goduria, il laido grasso, ma non nel caso specifico del ketchup. Parlando di salse in maniera generalizzata, non ne abusate (al massimo deve essere un terzo degli ingredienti) e tenete in considerazione la sua valenza aromatica. Della serie l’olio e il burro non sono sullo stesso piano del foie gras.


elastica, poco acquosa e quasi priva di semi. • L’acidità è scarsa e il pH massimo è 4,50. • Infine, il sapore è tipicamente agrodolce, fresco e intenso. Perfetto per il nostro ketchup scientifico.

della sua percentuale di acido acetico. Vi faccio un piccolo elenco che potrebbe tornarvi utile:

L'aceto

Lo sciroppo di glucosio

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Per questa ricetta preferisco utilizzare un aceto bianco o di alcol che, attenzione, non è l’aceto di vino bianco. Queste due tipologie di aceto, infatti, differiscono in quanto a produzione. L’aceto di vino si ottiene dalla fermentazione acetica del vino (bianco o rosso) ad opera di alcuni batteri chiamati acetobacter che, in presenza di acqua e ossigeno, ossidano l’alcol etilico che è contenuto nel vino. Si ottiene così un liquido che può avere diverse sfumature di colore. L‘aceto di alcol, invece, detto anche aceto bianco, è semplicemente una soluzione di acqua e acido acetico. Si ottiene tramite doppia fermentazione, prima alcolica poi acetica (opera di batteri), di bevande alcoliche, malti, riso o frutta. Spesso si ricava dalle barbabietole da zucchero. Si presenta sotto forma di un liquido trasparente e per questo viene chiamato anche aceto di cristallo, vi garantisco che anche il supermercato sotto casa lo vende. Ormai mi conoscete come le vostre tasche di manzo, sono un grande fan della nota acida, ma vi incoraggio a sperimentare e provare anche un aceto meno aggressivo e più aromatico, tenendo conto

Aceto di mela 5% Aceto di riso 4% Aceto di vino bianco 6% Aceto bianco o di alcol 6%

Secondo la legge vigente, lo sciroppo di glucosio è una "soluzione acquosa depurata e concentrata di carboidrati alimentari, ottenuta da amido, fecola e/o da inulina, che deve rispondere alle seguenti caratteristiche: •

sostanza secca non inferiore al 70% in peso • equivalente destrosio non inferiore al 20% in peso sulla sostanza secca, espresso in D-glucosio • ceneri solfatate non superiori all'1% in peso sulla sostanza secca.” • Lo sciroppo di glucosio si produce tramite idrolisi acida dell'amido, oppure con la sua trasformazione enzimatica. Si adopera in genere l'amido di mais, ma può essere utilizzato anche quello derivante dalle patate, dal riso e dal frumento. L'amido è un polisaccaride costituito da lunghe catene di molecole di glucosio che vengono “spezzate", fondamentalmente in due modi: con l'aggiunta di acido cloridrico e tramite l'utilizzo di enzimi come l'alfa-amilasi (in grado di ottenere sciroppi col 10-20% di glucosio libero) e la gluco-amilasi (più potente,

consente di arrivare al 90% di glucosio libero). Tali enzimi vengono ricavati, industrialmente, da batteri o funghi che vengono coltivati per questo scopo. L'idrolisi acida è utilizzata per produrre sciroppo di glucosio a basso equivalente destrosio (DE), mentre per sciroppi ad alto DE si utilizza il secondo metodo. Lo sciroppo di glucosio viene preferito al normale zucchero, soprattutto nella formulazione del ketchup, per una delle sue proprietà funzionali. Alta fermentesci­ bi­ lità, igroscopia, dolcezza, potere anticongelante, capa­cità di favorire le reazioni di Maillard e, caratteristica che interessa a noi, la viscosità. Anche questo prodotto si trova facilmente nel reparto dolciumi e ingredienti per la pasticceria.

La gomma di xantano o xantana

Addensante, emulsionante e stabilizzante perfetto, il modificatore reologico universale: E415. Volete sapere tutto ma proprio tutto su questa polverina magica? Tornate indietro di qualche pagina e leggete tutto d’un fiato la lezione che Coach Brunetti ha scritto per voi. Ahimè non posso suggerire un ingrediente sostitutivo per questa gomma, ma vi assicuro che è facilmente reperibile sia in farmacia che online.


Prevenire è meglio che curare: per ogni problema una soluzione

Problema n°1

Grumi di polvere sospesi nel composto Causa La xantana non è stata dispersa in maniera omogenea Soluzione Miscelate la xantana con lo zucchero e spargetela

nel vortice formato movimento del mixer

Problema n°2

dal

Il composto non si addensa, anche se i granuli di polvere risultano correttamente dispersi Causa 1) Il peso della xantana non è quello giusto. 2) Avete aggiunto nel ketchup succhi di frutta con all’interno enzimi che ostacolano la gelificazione (kiwi, ananans, papaya). Anche l’alcool ostacola il processo.

3) Il ketchup è stato congelato, il congelamento rompe la gelificazione. Soluzione 1) Pesate con cura la xantana con una bilancia di precisione 2) Se volete personalizzare il ketchup con del succo di frutta, cuocetelo e usatelo freddo, oppure utilizzate frutta in scatola o congelata 3) Non tenete in freezer il ketchup, potete lasciarlo in congelatore per un massimo di 4 ore

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Prima di svelarvi la ricetta, voglio essere sicuro che non facciate errori maneggiando la xantana da aggiungere al ketchup. Sono due gli scenari nefasti che dovete rifuggire:


La ricetta scientifica

Dose per 600 ml circa di ketchup • 200 g di doppio concentrato di pomodoro S.Marzano DOP • 200 g di sciroppo di glucosio (sostituibile con miele di acacia) • 130/150 g di aceto distillato di alcol • 40 g di zucchero semolato • 15 g di sale • 1.2 g di xantana • 0.4 g di chiodi di garofano in polvere Per una variante aromatica, aggiungere: • 0.4 g cipolla in polvere • 0.2 g di noce moscata in polvere • 0.2 g di cannella Il procedimento è semplicissimo, vi occorreranno soltanto un mixer (o un minipimer) e una bilancia di precisione. Mescolate a mano il doppio concentrato di pomodoro e l’aceto, aggiungete lo sciroppo di glucosio (o il miele di acacia), amalgamate con cura per evitare che lo sciroppo si depositi sul fondo e versate il tutto nel mixer. Provate prima con 130 g di aceto ed assaggiate, siete sempre in tempo per aggiungerne dell’altro. Azionate la macchina (o il minipimer) e versate lo zucchero miscelato con la xantana nel vortice. Unite quindi i chiodi di garofano in polvere, il sale, e se vi piacciono, cipolla in polvere, noce moscata e cannella. Non lavorate troppo la salsa, bastano pochi colpetti. Trasferite il tutto in un barattolo o uno squeezer munito di tappo e conservate in frigorifero per un massimo di due settimane.

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E ricordate : Il cosa scegliete, la maniera in cui lo avete preparato, il modo in cui avete scelto di conservarlo. Questi sono gli elementi che vi diranno già oggi cosa troverete nel vasetto domani.

Gianfranco Lo Cascio


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SEG Panopticon

In un numero incentrato sugli anni ‘80, così focalizzato sulla cultura pop da proporre anche abbinamenti fra pietanze e storici brani musicali di quella decade, risulta inevitabile dedicare le ultime atipiche e dissonanti paginette del magazine a una rubrica Seguo carica di colori fluo, riccioli cotonati, spalline oversize, cinture El Charro, sintetizzatori Yamaha DX7 e chitarre elettriche con ponte Floyd Rose. O meglio, personalmente mi è risultato inevitabile non appena mi è stato fatto notare che il mio pezzo completamente fuori tema avrebbe rischiato di spiccare con dolorosa incoerenza tra le pagine del numero di settembre, come un papavero in un campo di girasoli. Quindi, niente colori fluo e Duran Duran. Andiamo più su un cupissimo bianco e nero. Seguo - Rubrica a cura di Emiliano Nencioni


Il soggetto che darà inizio alle riflessioni socio-psico-inutili di questo mese è 1984, Nineteen eighty-four, influente romanzo di George Orwell, citato ormai in qualsiasi espressione artistica: musica, cinema, videogiochi, altri romanzi e - superfluo sottolinearlo - reality show. Sorpresa sorpresa, Nineteen eighty-four non è un romanzo degli anni ‘80. Figuriamoci. È però ambientato nel 1984, o in una versione distopica di un possibile mondo di quegli anni, come potrebbe essere immaginato da uno scrittore nel 1948, poco dopo aver vissuto gli anni della prima e della seconda guerra mondiale, con annessi regimi totalitari, patti sociali disillusi, fiducia tradita, guerra fredda e immanente sensazione di poter ricascare nel conflitto da un momento all’altro.

non commettano uno psicoreato (vale a dire avere anche solo un’idea invisa al regime). Lo stesso linguaggio parlato in Oceania, la Neolingua, consta solo di termini basilari e privi di sfumature, proprio per disincentivare e ostacolare il pensiero critico: dopotutto i pensieri sono formati dalle parole, e se conosciamo poche e basilari parole diventa impossibile articolare un pensiero che si sollevi dalla banalità dei concetti quotidiani. La seconda e micidiale arma del partito è infatti il Bispensiero, l’unica forma di ideologia permessa dal regime, il quale riscrive puntualmente a suo favore ogni nozione e dato storico, ripetendolo come verità fin quando, nella testa dei cittadini, sarà diventata effettivamente un fatto vero e indiscutibile:

GUO Il (vero) anno 1984, con il suo carico di Wham, Magnum P.I., floppy da 3”½ e Beverly Hills Cop è stato uno di quegli anni che ha deluso ampiamente le aspettative, insieme ad alcuni suoi illustri colleghi: l’Anno Mille, il 1999, il 2001 senza nessuna Odissea o almeno un monolite, il 2015 senza auto volanti e la grande beffa del 2012 con quei Maya burloni.

L’opera di Orwell è ambientata in una Terra divisa in tre superpotenze dopo la terza guerra mondiale: Oceania, Estasia ed Eurasia; i fatti narrati interessano l’Oceania, un regime totalitario governato da un partito unico con a capo il Big Brother, descritto come una crasi fra i principali tiranni-spauracchio che si potessero ricordare nel secondo dopoguerra. Big Brother, letteralmente fratello maggiore, con tutte le connotazioni relative al termine, è stato tradotto brutalmente in italiano come Grande Fratello, e ohimè, così ce lo siamo dovuti sorbire per una settantina d’anni: non ha molto senso, eppure è quello che i traduttori del tempo hanno ben pensato di fare ed è quello che è sopravvissuto nell’uso comune, poi cementato anche nelle menti dei meno umanisticamente curiosi tramite l’omonimo non-tanto-reality-show. Non volendo assolutamente fare una sinossi del libro, né una critica che di certo non sta a me fare, vi rimando - se servisse - a un veloce e autonomo ripasso del romanzo e salto subito al punto della questione, al motivo per cui ho scelto di parlarvene. Come è noto, in 1984 il partito unico “Socing” trasmette su tutti i teleschermi l’immagine e la propaganda del dittatore supremo Big Brother, e tramite detti teleschermi spia, con telecamere e microfoni, la vita e le idee dei cittadini, affinché

“La menzogna diventa verità e passa alla storia”.

Occupandomi di moderazione di comunità social smisurate come quelle di BBQ4All, la percezione degli interventi e della (lieve, dai) imposizione di linee di condotta nelle attività dei moderatori sono un mio cruccio giornaliero:

“Siete una setta dove i non allineati vengono rimossi”

“Tutti seguaci del guru, che ogni volta decide quale tecnica sia giusta o sbagliata” “Certe carni, non del megastore, non vengono neanche mai pubblicate” “Non si può neanche fare una battuta simpaticissima attingendo al repertorio attuale e sempre fresco di Alvaro Vitali o dalla premiata collana di film “Vacanze di Natale a…”

Abbiamo abbondantemente parlato, su queste paginette finali, dei problemi nella percezione della moderazione presso l’utente comune; la confortante auto illusione del Portar Rispetto, la deflagrazione incontrollata dell’Amigdala, l’umiliazione di essere ripreso pubblicamente tra un’assemblea di pari, e via discorrendo.


É per questo che, lungi dal voler creare un regime di controllo e repressione distopico di stampo Orwelliano, i miei sforzi sono protesi verso una moderazione utopistica, gradevole, grata e ben accolta dagli utenti. Facile? Non direi, visto che nonostante l’impegno profuso da un volenteroso manipolo di moderatori ogni intervento volto a ristabilire l’ordine rischia spesso di essere clamorosamente frainteso o strumentalizzato. Musi lunghi, ripicche, vendettine, tentativi di postare un contenuto a mitraglia nella speranza di trovare l’amministratore di manica larga, foto ingannevoli: in una community di tali dimensioni certi utenti le provano tutte, e quando interrogati sul tentativo di infrazione diventano surrealisti:

Presidio Settembre 2020Modelo - 104- Cuba

“Ma in questo gruppo non c’è neanche un regolamento!” “Certo che c’è, l’ho scritto io, lo saprò?” “Eh ma io sono nel gruppo dal 2018, sai quante cose mi sono successe in questi anni?” “Cos… eh?” (Scambio realmente avvenuto) l gruppo continua a crescere, e aumentare il numero dei moderatori aiuta, ma la complessità dell’organismo sale in maniera non lineare; l’idea di una governabilità non ottimale mi spaventa: immaginatevi una community dove ogni meme stantìo venga puntualmente postato, dove abbondi la coprolalìa, dove lo standard dei moderatori si abbassi sempre di più, fino ad arruolare figure conniventi o corruttibili, “amici di”, o palesemente faziosi. Questo sì che sarebbe distopico, altro che la neolingua! Rimuginando senza sosta, mi sono imbattuto nella figura controversa e non universalmente gradita di Jeremy Bentham, filosofo e giurista inglese del 1700-800. Esponente dell’utilitarismo, corrente filosofica per la quale il bene è ciò che porta la felicità, apparentemente Beccariano, Bentham sosteneva


Più precisamente, il Panopticon avrebbe potuto essere un qualsiasi edificio istituzionale di controllo: perfetta per una prigione, riadattabile anche per scuole ed uffici, aveva come fondamento la scissione della coppia guardia - prigioniero, osservatore osservato, vedere - essere visto; si trattava di una struttura cilindrica, nella quale le celle occupavano su più piani soltanto la parete esterna, completamente libere alla vista verso l’interno, dove risiedeva, centralmente, una torre di controllo. Le guardie potevano vedere ogni cella attraverso delle paratie tipo veneziane, non potendo in questo modo essere mai visti dai detenuti, i quali erano completamente isolati tra loro in celle “monolocale” estremamente luminose e prive di zone di privacy: in questa maniera il reo, non riuscendo a stabilire con precisione quando fosse sotto osservazione o no, avrebbe finito per sentirsi sempre sorvegliato, finendo per “fare l’abitudine a comportarsi bene”. Idealmente, la sorveglianza, anche se inevitabilmente discontinua e affidata a pochissimi agenti, era nei suoi effetti costante, assicurando un rispetto “automatico” delle regole. Distacco fra sorveglianza e sorvegliato, impersonalità, filtro emozionale impenetrabile: forse è questo ciò che serve ad una moderazione moderna ed efficiente, per scongiurare la discesa verso un degrado visigoto. É proprio durante una torrida giornata siciliana, con quel sole che puoi quasi sentire premere sulla pelle, alla fine di una sessione di “pensieri in libertà” insieme al maître à penser Gianfranco Lo Cascio, che si è fatto vivo il germe dell’idea. Scindere il ruolo visibile del moderatore dalla figura umana, nascondendolo dietro le “persiane a veneziana” di un account impersonale: una sorta di Tipo di Dato Astratto inconoscibile dall’esterno. Faccio alcuni esempi pratici: • Utente1 scrive una smargiassata fastidiosissima e imperdonabile, Mod1 commenta bacchettando Utente1 e paventando sanzioni; Utente1 si sente disonorato e svergognato (per così poco? Eppure fate proprio così, lo sappiamo) presso la stessa comunità nella quale vorrebbe apparire “ganzo”,

e con un tipico fallo di reazione offende Mod1, peggiora vieppiù il tono degli interventi e se possibile contatta Mod2, che ha più in simpatia, lamentandosi dei modi autoritari e repressivi di Mod1. • Mod1 interviene come da regole sul post ingenuo di un nuovissimo Utente2, il quale, inesperto, si inalbera giocando la carta del “pensavo fosse un gruppo dove ognuno può dire la sua”, va a spulciarsi il profilo privato di Mod1 e lo sfotte in pubblico irridendo i suoi hobby, il suo aspetto, il suo schieramento politico o il numero di foto di gattini che condivide mensilmente. Mod1 se la lega al dito e inizierà a sanzionare con ferocia qualsiasi intervento di Utente2, incasinandone la crescita come griller e come potenziale cliente. • Utente3 è amicissimo di Mod2 e Mod3 e mal sopporta Mod1: ad ogni post taggherà con mille salamelecchi Mod2 e Mod3, e cercherà di pubblicare il post nell’orario in cui, lo sanno tutti, Mod1 non è in servizio perché ha la classe di Judo. Mod1 sembra essere socialmente problematico, una vera calamita di criticità sociali, una caricatura non collocabile nel mondo reale - ma non è così: ricordiamoci che nella corrispondenza uno-a-molti di un moderatore e sessantamila utenti, queste occorrenze hanno una probabilità non trascurabile. Tutt’altro! Ribaltiamo il tutto adesso pensando all’intervento di una generica “pagina di moderazione”, un account social gestito da una moltitudine di collaboratori fidati e rigorosamente addestrati: ad ogni tipologia di infrazioni corrisponde una serie di frasi predeterminate ben precise da scrivere, asettiche, studiate con rigore e senza la foga del nervosismo e l’agone del momento; l’utente si sente riprendere in maniera educata, asciutta, concisa ed efficiente da un account senza volto, non assimilabile ad un altro umano verso cui provare vergogna o risentimento, e accetta di buon grado l’indicazione; notando ventiquattro ore su ventiquattro la comparsa del solito account di vigilanza l’utente potenzialmente mariuolo non potrà mai sperare di postare quando il mod più lassista è di turno, o se non altro quando quell’amministratore che proprio non tollera è fuori a far sgambare il cane: sorveglianza continua percepita. Da un lato interventi amministrativi sempre ben scritti, mai gettati sull’impulso di rabbia o frustra-

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che il reato fosse espressione di malattia e non di depravazione o deviazione. Per questo, tra le sue opere spicca una particolarissima teorizzazione di una struttura carceraria rivoluzionaria, il Panopticon.


zione, senza ripercussioni personali (avete idea della cattiveria dei messaggi privati che arrivano ai mod?), dall’altro un’accettazione molto più serena da parte dell’utente e un aspetto più rigorosamente controllato dell’intero gruppo. Sembra, a tutti gli effetti, una situazione win-win, DISTANZIATO SOCIALMENTE BEN PRIMA CHE DIVENTASSE MAINSTREAM dove entrambe le parti hanno soltanto a giovarne: utilitarismo applicato ai social network.

Emiliano Nencioni

La massima felicità per il maggior numero. Ma, nella storia, il Panopticon ha avuto fortuna, di pari passo con l’interiorizzazione dell’aderenza totale alla disciplina? Insomma. Anzi, no. Un insuccesso totale: Bentham stesso continuava a proporsi come costruttore e amministratore di carceri, anche sfruttando la necessità di ostacolare la diffusione di febbre tifoide che imperversava tra gli istituti correttivi decimando detenuti, guardie e giudici, ma con scarsissimo successo. Tutti gli edifici ispirati o aderenti all’idea di Panopticon sono stati dismessi o demoliti, ad eccezione di tre penitenziari olandesi e delle carceri cubane della Isla De La Juventud, cinque blocchi circolari attualmente trasformati in museo, il “Presidio Modelo”. Rivolte, sovraffollamento, condizioni molto poco umane: non deve destare meraviglia che proprio in queste strutture George Orwell trasse ispirazione per il suo Big Brother. E un po’ il cerchio si chiude. 1984. Nel numero speciale anni ‘80.

"Sia che si tratti di punire i criminali incalliti, sorvegliare i pazzi, riformare i viziosi, isolare i sospetti, impiegare gli oziosi, mantenere gli indigenti, guarire i malati, addestrare quelli che vogliono entrare nell’industria, o fornire l’istruzione alle future generazioni […] è applicabile a tutti gli stabilimenti in cui, nei limiti di uno spazio che non sia troppo esteso, è necessario mantenere sotto sorveglianza un certo numero di persone. "

Jeremy Bentham

Verrà mai attuata questa rivoluzione nella moderazione del brand? Chissà. Le idee sono buone, gli scogli sono tanti, i malumori non tarderanno ad arrivare. Ho il sospetto che in questi tempi di vetrinizzazione sociale (argomento di una futura rubrica Seguo - stay tuned) agire in un anonimato impersonale tolga un po’ di brio ai sorveglianti, trasformati da baldi sceriffi a funzionari del controllo sociale

Emiliano Nencioni


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