BBQ4All Magazine numero 23 - Novembre 2020

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N°23/ANNO 2 - NOVEMBRE 2020

e s e v o n gescientifica pasta con la

A Scuola di Tacos

l'editoriale di Gianfranco Lo Cascio

November Pork

i tagli del maiale nel mondo Ribs: Baby Back vs St. Louis cut

La Porchetta Perfetta

al BBQ e al forno come si fa

La Robiola Street Food

Il panino con la salsiccia


Direttore Editoriale Rossella Neiadin

Redattore Capo Michela Bongiorni

Redazione

Enio Berton Virgilio Brunetti Tommaso Buccafurri Nunzia Clemente Roberto Dal Bosco Tommaso Di Gregorio Salvatore Di Mento Luca Gallozza Mariangela Ibba Gianfranco Lo Cascio Riccardo Meniconi Giovanni Minelli Emiliano Nencioni Stefania Pompele Andrea Spaggiari Alessandro Trezzi Carlo Trono Alberto Zonghetti

Realizzazione Grafica

Impaginazione Carlo Trono Illustrazioni di Eleonora Castagna e Ozzy Bellesi Fotografie di Rossella Neiadin, Luca Gallozza, Tommaso Buccafurri, Elisa Giuli, Emiliano Nencioni

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IN DI Rubriche

Editoriale di Gianfranco Lo Cascio - A scuola di Tacos

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Portfolio Gastronomico - il Maiale dall'antichitĂ ad oggi 1 2

2 - Ribs al bbq vs al forno 2

Infografiche - I tagli del maiale e le ribs

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Tecnica

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Ricette

Caldarroste al rhum e speck

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Zuppa di cipolle grigliate

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Filetto di maiale con castagne 3 6 Filetto di maiale fichi e menta Porchetta al forno

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Approfondimento: la porchetta umbra 4 6

Mont Blanc 5 0

Approfondimenti

5 Arte casearia - La robiola 6 Ricetta a quattro mani - Panino salsiccia e robiola 6 Speciale - Guida ai rub 6 La ricetta scientifica - Pasta con la Genovese 7 Arte Bianca - Il panino da salsiccia

Seguo - Un bel tacere non fu mai postato

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Tacos

i d la o cu s A

Editoriale di Gianfranco Lo Cascio

come trasformare casa vostra in una taqueria

“I tacos hanno il sapore che le voci di un centinaio di angeli che cantano Bob Dylan seduti sugli arcobaleni e che suonano il banjo avrebbero se quel suono fosse commestibile.”

Alcuni di voi lo sanno già da un po’, ma molti altri no. Io ho un'autentica passione per i tacos. Ma direi che è molto di più di questo. È qualcosa che sta a metà tra l’amore sfrenato e l'ossessione tossica. Per farvi capire il livello, probabilmente sarebbe l'ultimo pasto che sceglierei se mi condannassero a morte. E probabilmente sarebbe l'unico tipo di locale che accetterei di aprire se non avessi altre priorità. Esatto: non una Steak House ma una Taqueria. Insomma, non è una cosa che tengo nascosta ma non ne faccio grande pubblicità perché ho dei progetti per i tacos in Italia. E prima o poi prenderanno vita. Questo però non mi impedisce di condividere con voi giovani Padawan questa cocente passione che mi porto dentro, no? Dovete capire che il taco è radicato nel DNA dei messicani come la pasta in quello degli italiani. Ma è molto più forte, ha radici molto più profonde. I messicani adorano tramandare le ricette a voce alle nuove generazioni. Le nuove generazioni amano impararle e continuare a custodirle nella memoria. La differenza con il nostro mondo è che sono ricette talmente semplici ed essenziali, fatte con ingredienti talmente freschi e cotti per forza di cose in modo espresso, che alla fine dal taco non si può più togliere nulla: è semplicemente perfetto.

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So che è strano pensare che un dischetto (in realtà per il tacos si usano quasi sempre due tortillas per evitare che si sfaldi mentre si mangia) di farina di mais (ma anche di grano) con un po' di roba dentro possa appassionare così tanto. Eppure, conoscendolo a poco a poco, sono certo che vi resterà nel cuore. È arrivato il momento di aprire i cancelli del regno dei tacos.

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Tacos Story: Salsa Roya. Partiamo con la costruzione delle salse. Anche perché, dirvi tutto in un solo articolo sarebbe impossibile, oltre che denigrante per la materia. C'è davvero tantissimo da dire e ne parleremo ancora. Fate pace con questa frase:

Tacos = Cibo dei messicani. Fate questo sforzo e provate ad immaginare il forte legame che il popolo messicano ha con questo piatto. Tutti i messicani mangiano tacos, realisticamente tutti i giorni o quasi. Capirete che, come per il barbecue, le variazioni sono moltissime a seconda delle regioni in cui vi trovate. I tacos non sono una ricetta, sono una filosofia alimentare. La stessa denominazione varia sempre, da città a città, da famiglia a famiglia, da taqueria a taqueria. A differenza dell'italiota medio che combatterebbe una guerra per difendere l'assenza di cipolla dalla carbonara, ogni messicano è invece orgoglioso di avere la propria versione del Taco del suadero o del Cabrito o della Cochinita pibil. Non ne proverete mai due uguali pur avendo lo stesso nome.

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Io penso che sia una cosa fantastica. Un modo perfetto di preservare appartenenza a un concetto accontentando anche il palato. Le uniche cose su cui i messicani sembrano essere tutti d'accordo sono salse e condimenti. Alcuni sono assolutamente obbligatori. Difficilmente troverete un taco senza cipolla e cilantro, a meno che non ne fate espressa richiesta. Anche le salse giocano un ruolo fondamentale nel taco. Non sono solo un complemento ma parte integrante. Salsa verde, salsa rossa e guacamole considerateli un must in tutto il paese; certo, anche queste in mille varianti. Di base c'è dentro peperoncino, pomodoro, spezie e aceto o succo di agrumi. Sia nella verde che nella rossa. Dire peperoncino in Messico non vuol dire nulla. Ne esistono davvero centinaia di varietà diverse, dai freschi, ai secchi, alle paste agli affumicati. Da quelli dolci a quelli così piccanti da trebbiare, arare e infine asfaltare la lingua anche in piccolissime quantità. La salsa rossa è sensibilmente più piccante di quella verde. Ma parleremo dopo della struttura della salsa. Adesso volevo focalizzare la vostra attenzione su un concetto preciso. Farne a meno vuol dire non sapere e non capire cos'è un taco.

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Ne sono consapevole, per molti italiani il cibo estremamente piccante non è tollerato. Non siamo abituati. Pensiamo che si perda il gusto del cibo. Questo è vero ma solo in parte. Si perde il gusto del cibo proprio perché noi non siamo abituati. E quasi non lo usiamo nella nostra dieta, figuriamoci anche solo immaginare di includere una salsa preparata con un’intera brocca di peperoncini. Follia.

Uno dei tanti peperoncini amati dai messicani è l'habanero. Non so se siete pratici. Molti sicuramente lo conoscono, la maggior parte credo di no. O se lo conoscono magari non l'hanno mai provato. Come si può descrivere? Immaginate di masticare un cavo attraversato dalla corrente e dovrebbe arrivarvi il senso di ciò che vi sto dicendo. L'habanero appartiene alla famiglia delle solanacee e alla specie Capsicum Chinense. Per capirci, il peperoncino di Caienna o quello lungo calabrese, sono capsicum annuum. I chinense hanno questa forma tondeggiante e arricciata. La differenza tra le specie è data anche dal contenuto di capsaicina, ovvero l'alcaloide responsabile del senso di piccantezza, che si misura in unità scoville. Per darvi un'idea, la classica salsa Tabasco ha un valore di piccantezza di circa 30.000 unità scoville. L'habanero rosso arriva alle 350.000 unità scoville. La versione Red Savina dell'habanero, leggermente più piccolo e meno arricciato, è più incazzato che mai e supera le 800.000 unità scoville. L'ibrido più piccante, che non esiste in natura ma è stato creato in laboratorio, è il Carolina Reaper che raggiunge una disumana quota di 2.200.000 unità scoville. Ti si ustionano gli occhi se lo tieni aperto anche solo a 1 cm di distanza. Questo per darvi un'idea di dove posizionare l'habanero. Il punto è che amare i tacos vuol dire prestarsi a delle cose che non conosciamo e cercare di capirle, sforzarsi di comprenderle.


Dire da noi nessuno vende cilantro e allora ci metto il prezzemolo, beh, va bene, ma non stai mangiando un taco, non lo stai capendo. Stessa cosa per la salsa rossa o per l’habanero. E allora che si fa? Si fa come fanno i messicani con i loro bambini. Mi spiego meglio. Non pensate che il messicano medio sia tanto masochista da ustionarsi la bocca senza motivo. Il punto è che lui ha una soglia di tolleranza al piccante molto più alta della nostra. Perché, notiziona della madonna, è possibile sviluppare l'abitudine al peperoncino, perché il peperoncino crea dipendenza. Occhio che questa è carina. Avete presente tutte quelle sostanze che finiscono per -ina e che creano dipendenza? No? • Coca-ina • Morf-ina • Ero-ina • Anfetam-ina • Efed-rina • Capsaic-ina Bravi. Sono tutti alcaloidi. Compreso l'ultimo che, come detto, è l'alcaloide responsabile della piccantezza. Ed è esattamente così: la capsaicina crea dipendenza alla stessa stregua del tabacco. È una dipendenza blanda, ovviamente. Questo perché quando la mangiamo, in bocca si attiva un particolare recettore del dolore che viene

attivato solo quando la temperatura del cibo è troppo alta. E suggerisce al cervello che ci stiamo scottando. Qui è la stessa cosa. Ma l'attivazione del recettore avviene per via chimica, tecnicamente chemestesica. Il punto è che il dolore genera adrenalina immediata e subito dopo endorfine. Ecco perché ci si sente benissimo dopo essersi "scottati" con i cibi piccanti. Ed ecco perché, sia ometti che femminucce, dopo una sbronza di capsaicina, migliorano le loro performance orizzontali. Quindi il segreto è tutto qui: 1. Non avere paura o timore di questi peperoncini super piccanti. 2. Iniziare ad includerli partendo da poche gocce. Dico sul serio. Il profumo dell'habanero è irresistibile. Non pensate che sia un comune peperoncino. Nient'affatto. Ha un gusto fruttato e agrumato allucinante. Potrei stare ore a sniffarlo. Anche le stesse polveri. Iniziare ad usarlo a piccole dosi vi permetterà di abituarvi a sentire tutte le sfumature di sapore oltre al piccante. Alzerà la vostra soglia di tolleranza permettendovi, piano piano, di aumentare la dose senza perdere in gusto. Insomma, ad ognuno il proprio "frizzichino" che piace e non invade. Ma che ci sia però. E vi garantisco che un po' alla volta, goccia dopo goccia, anche voi arriverete a mettere la salsa rossa di habanero, a cucchiaiate, sui vostri tacos. Il primo che commenta "ma a me non piace il piccante perché copre il gusto e sento solo il fuoco" vince un mese di vacanza su una crociera per vegani.

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LA RICETTA DELLA SALSA ROJA Ho scritta "la ricetta" ma vorrei che capiste che è una delle possibili ricette. A costo di dirvelo fino allo sfinimento, i messicani non funzionano come noi. Non esiste "la ricetta originale" per loro. Esiste "la mia ricetta che è migliore di qualunque altra". Spero che prima o poi possiate entrare in questa ottica. Anche per un messicano, fare una salsa di soli habanero è decisamente troppo. La salsa rossa contiene, in moltissime delle versioni che potrete incontrare, una buona quantità di pomodoro rosso maturo. I nostri San Marzano sarebbero l'ideale ma scegliete qualsiasi pomodoro carnoso e ben maturo. Ingredienti • • • • •

1 kg di pomodori S.Marzano 1 kg di peperoncini habanero 2 spicchi di aglio in camicia 1 cipolla 1 cucchiaino di aceto di vino rosso • Olio extravergine di oliva q.b. • Sale q.b. • Cilantro q.b.

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Si parte con il tostare sia gli habanero che i pomodori sulla plancha. Va bene anche una padella. L'importante è che li tostiate a secco perché dobbiamo bruciacchiarli.In parti uguali in peso. Tanto peperoncino quanto pomodoro. Se avete gli habanero secchi, tostateli lo stesso e poi rinveniteli in acqua bollente. Stessa cosa se avete la polvere. Tostare, lasciare in acqua bollente.

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Tostate anche i due spicchi d'aglio, in camicia, sempre per abbrustolire. A questo punto siete quasi pronti.

Prendete una cipolla e tagliatela a cubetti piccolissimi. Fatela ammalvire in una padella con un po' di olio. Non tantissimo, a fuoco basso, finché non diventa trasparente. Nel frattempo, aprite gli habanero e togliete i semi. Risparmierete un po' di piccantezza. Tritate tutto nel mixer: pomodori, habanero, aglio e un pizzico di sale. Se serve aggiungete un goccio d'acqua bollente fino ad ottenere una consistenza semi-liquida. Mettete il trito nella padella con la cipolla stufata, aggiungete un cucchiaino di aceto di vino rosso, fate amalgamare per un minuto e la salsa è pronta. Vi raccomando di non togliere la pelle ai pomodori, perché daranno quel gusto di affumicato tipico di molte salse messicane. Mettete in un barattolo, fate raffreddare e, se volete, aggiungete un po' di cilantro tritato per dare freschezza e poi mettete in frigo. Non temete, si conserverà a lungo perché il peperoncino non si lascia aggredire facilmente dai batteri. Usatela a gocce. Non a cucchiaiate. Sentirete quella tipica violenza dell'habanero ma anche tutto il suo gusto fruttato e agrumato, assolutamente delizioso. Usate gli habanero che avete. Occhio con i chocolate: quando li tostate, è difficile distinguere il momento in cui li avrete fulminati con il calore. Iniziate ad usare la salsa roja dappertutto. Ovunque ci sia carne, qualche goccina ci sta benissimo. Vedrete che con il tempo inizierete, piano piano, a usarne sempre di più.


Tacos Story: La Salsa Verde. Assieme alla rossa, è un’altra salsa irrinunciabile quando si parla di tacos. Quando leggete salsa verde dovete leggere acidità. E noi sappiamo bene quanto sia importante l’acidità nei piatti a base di carne grassa. È sensibilmente meno piccante della salsa rossa ma contiene comunque peperoncino. Mi tocca rimarcare l’ovvio ma è importante: Non esiste LA ricetta della salsa verde ma esistono un miliardo di variazioni che, di fatto, rende impossibile trovarne due uguali. Solitamente si usano peperoncini Serrano, ma anche lo jalapeño è molto comune. Rigorosamente raccolti verdi, non ancora al pieno della loro piccantezza ma con quella freschezza di peperone deliziosa. La base della salsa non è il pomodoro verde, anche se può essere un degnissimo sostituto qui in Italia, ma il tomatillo. Appartiene sempre alla famiglia delle solanacee ed è più simile all’alchechengi, il fruttino giallo esotico. È una sorta di pomodoro racchiuso in una foglia, acido a bestia.

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Non è raro trovare sia la versione cruda che cotta della salsa verde. Son due sapori diversi e due colori diversi. Quella cotta ha un tono un po’ più spento e un’acidità più mitigata. Quella cruda è di un verde brillante e molto più acida e piccante.

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Ingredienti • 600 g di tomatillo (o pomodoro verde) • 4 Peperoncini serrano (o jalapeño) • 1 cipolla bianca • 4 spicchi di aglio • Cilantro q.b. • Sale q.b.

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Gli ingredienti per la salsa sono pochissimi: Tomatillo (o pomodoro verde), peperoncino serrano (o jalapeño), cipolla, aglio, cilantro, sale. Nella versione cotta si mettono tomatillo e serrano a bollire in

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acqua oppure a tostare sulla plancia, come per la rossa. Poi si mette tutto nel frullatore e si crea la salsa aggiungendo un po’ d’acqua per aggiustare la consistenza. Nella versione cruda si trita tutto da crudo ed eventualmente si aggiunge acqua bollente per aggiustare la consistenza. Non so dirvi quale sia più buona, hanno consistenze diverse e sapori differenti. Visivamente è più bella quella cruda ma è, appunto, solo questione visiva.

Come vi avevo annunciato, lo scopo di questa salsa è dare freschezza. E un taco non è un taco se da qualche parte nei paraggi non c’è la salsa verde. Mangiata da sola può sembrare un po’ blanda, ma unita ad un pezzo di carne con un po’ di grasso crea una sinfonia bestiale di goduria gastronomica. Ne esiste una versione che prevede anche l’aggiunta di un avocado, parliamo della terza e ultima ricetta della santissima trinità delle salse per tacos.


TacoStory: Salsa taquera de aguacate. E no, non è il Guacamole. Un’altra immancabile salsa per i tacos è la salsa di avocado. C’è tanta controversia su questa salsa, anche fra i messicani. C’è chi si scommette la madre affermando che questa salsa è di fatto guacamole. C’è chi invece lotta per dimostrare che sono due cose diverse. C’è anche chi la fa, ma senza avocado. Insomma, un bel casino. La realtà dei fatti è che a seconda delle regioni in cui ti trovi salsa guacamole e salsa de aguacate non sono la stessa cosa. La verità è che le due varianti esistono e hanno una struttura e un sapore diverso. Il guacamole spesso contiene anche del pomodoro a cubetti, è più solida e si ottiene schiacciando gli avocado maturi nel mortaio. Accompagna quasi sempre le tortilla chips ed è più un dip che una salsa. Ovviamente è ottima anche per accompagnare i tacos. La salsa de aguacate è più liquida. È piccante, perché contiene spesso peperoncino jalapeno o serrano verde, ed è il tocco perfetto di acidità, pungenza e untuosità, ideale per accompagnare i tacos di carne che, notoriamente, contengono una grande quantità di grasso di cottura.

Ingredienti • 6 Tomatillo maturi • 4 peperoncini serrano • 12 mazzetti di cilantro • 1 cipolla bianca • 1 spicchio d’aglio • 1 Avocado maturo • Il succo di 1 lime • Acqua q.b. • Sale q.b. È molto diffusa nelle regioni centrali del Messico, quasi sempre la trovate nelle taquerie che servono i leggendario Tacos al Pastor, che ricorda un po’ il Kebab (ma poco). Personalmente adoro entrambe le versioni ma devo dire che per i tacos di carnitas, barbacoa e ovviamente al Pastor, questa salsa, più qualche goccia della rossa, è un must irrinunciabile. Provate a rifarla e cercate il vostro equilibrio sul piccante. È perfetta, tra l’altro, per il pulled pork o per un tacos di Pepper stout. Il mio consiglio personalissimo è di usarla con un taco di fegato e cipolle. Vi spacca davvero la faccia.

Gianfranco Lo Cascio

BBQ4All Magazine

Abbiamo già ampiamente discusso della ricetta del Guacamole. Ne abbiamo anche fatta una versione scientifica, il GianfraMole, che trovate nel BBQ4All Magazine di Agosto. La salsa de aguacate si fa con il tomatillo, il quasi pomodoro

verde che abbiamo visto per la salsa verde, peperoncino, un po’ di cipolla, aglio, sale, cilantro, lime e chiaramente avocado. Si frulla nel mixer ed eventualmente si aggiusta per renderla un po’ più liquida e vellutata, a differenza del guacamole che ha struttura disomogenea, solida e grossolana.

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a spasso nel tempo in compagnia del

MAIALE NELL'ANTICHITĂ€

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illustrazione tratta dalla locandina della Festa del Nino - Luna Pork - edizione 2019

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Portfolio Gastronomico a cura di Alberto Zonghetti


“L’argomento del tuo prossimo articolo per il magazine di Novembre è il maiale, la sua evoluzione nella storia e in cucina. So che l’argomento è vasto, ma scegli tu in che direzione muoverti” mi dice il caporedattore Michela Bongiorni. “Perfetto” - ho pensato tra me e me contento ma preoccupato: ci vorranno un paio di mesi di lavoro intensivo, come minimo; e quanto dovrà essere lungo? Serviranno una ventina di pagine come minimo, forse un dossier extra da allegare al magazine, con copertina in setole suine… Ecco, considerando quanto già scritto sull’argomento, ho visto il mio contributo quasi offensivo e poco utile, ma non avevo fatto i conti con l’imprevisto. Ho iniziato, come sempre, a documentarmi e ad approfondire l’argomento, raccogliendo diverse fonti interessanti. Fino al 21 ottobre, data fondamentale per i nostalgici cinefili: è il giorno in cui Marty Mc Fly, protagonista della saga “Ritorno al futuro”, approda nel 2015. Qualche giorno prima avevo visionato assiemi ai miei figli il lungometraggio animato “Mr Peabody e Sherman”, anch’esso legato all’idea del viaggio attraverso le ere precedenti alle nostre. Non iniziate a dirmi “che c’entra il maiale?”; seguitemi, arrivo al dunque. Nelle Marche, regione nella quale vivo, da quasi vent’anni si organizza uno straordinario evento chiamato “Festa del Nino”, incentrato appunto sulla figura del maiale, della quale vi parlerò più tardi nel dettaglio. Il taglio di questa festa è assolutamente originale, ironico, fuori dagli schemi: il filo conduttore di ogni edizione è legato ad un evento caratterizzante l’anno in corso. Se nel 2019 si ricordava lo sbarco sulla Luna avvenuto cinquant’anni prima, il tema non poteva essere che “Luna Pork”, come potete vedere dalla magnifica locandina. Ultimo passaggio per entrare finalmente dentro al pezzo: la notte del 21 ottobre, alle ore 03.15, il pargolo minore (il terzo per chi non lo sapesse) decide – come accade spesso, purtroppo – che per lui è giunta la mattina: inizia a gridare festante saltellando dentro al suo lettino. Apro faticosamente gli occhi per chiamare mia moglie, ma la visione di lei praticamente svenuta sul letto – la notte precedente era stata sveglia diverse ore – mi induce a prendere in mano la situazione. Afferro l’adorato erede e provo a riaddormentarlo. La faccio breve: il procedimento si protrae per circa un’ora, nella quale cerco di riordinare le idee per la stesura dell’articolo. Si susseguono nel dormiveglia immagini di ere passate, macchine del tempo, banchetti, sacrifici rituali, suini allo stato brado. Ad un certo punto, credo di essermi addormentato seduto sul letto col pargolo in braccio, vedo l’astronauta del manifesto che si anima, mi saluta, si presenta: è Capitan Porcello, viaggiatore e guardiano della Macchina del tempo: sarà lui a guidarmi nei secoli per rivivere qualche breve frammento di storia suina, avvertendomi però che, a causa di un’anomalia di funzionamento, il viaggio potrebbe essere frammentato e poco lineare. MI sveglio, confuso e stordito: ripongo l’erede nel suo lettino, fiero di averlo stecchito. Ripenso alle visioni oniriche appena esperite, mi stendo sotto le coperte pronto a godermi il meritato riposo ma… all’improvviso il pianto dell’infante mi riporta alla cruda realtà. “Ma porca di quella maiala tr**a!”. La moglie si sveglia, missione fallita. Continuo ad imprecare, il pupo viene allattato, alla fine mi assopisco. BBQ4All Magazine

Ma la mattina seguente, al risveglio, tutto è chiaro: Capitan Porcello ci guiderà in questo viaggio, un po’ come Virgilio seguì Dante nella “Divina Commedia”. E scopriremo che anche le mie volgari imprecazioni hanno un significato molto interessante. Pronti? Andiamo!

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FENOMENOLOGIA DEL PORCO “Prima di iniziare il nostro viaggio surreale - esordisce Capitan Porcello, dotato di notevole acume intellettuale ed invidiabile eloquio - condividiamo alcune riflessioni”. “Porco” è un’offesa, un attributo da affibbiare all’interno di un’ingiuria, sinonimo di ignoranza, ingordigia, sporcizia, lussuria, egoismo, godimento sfrenato, o addirittura parte di un’espressione blasfema. L’epiteto “maiale” non è da meno, anche se può acquisire un’accezione meno offensiva all’interno di un discorso più leggero e colloquiale. Maiala, scrofa, porca o, peggio, troia, alludono inequivocabilmente alla sfera sessuale femminile con riferimenti ad un riprovevole disordine morale. Potremmo continuare a lungo, dato che anche in altre lingue accade lo stesso fenomeno: pensiamo al “pig” che in terra anglosassone viene rivolto come insulto ai poliziotti; o alla “Fattoria degli animali” di George Orwell, capolavoro distopico nel quale gli animali si ribellano alla dominazione umana solo per ritrovarsi oppressi proprio dai suini.

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In ogni caso, l’immagine che gli uomini hanno del maiale è il suo rotolarsi nel fango in mezzo ai propri escrementi; l’odore che abbiamo inalato nelle vicinanze di una porcilaia non si dimentica facilmente. Eppure il nostro amico sarebbe un animale pulito, in presenza di acqua corrente; il problema è che, non potendo sudare, tenta di trovare refrigerio con quanto ha a disposizione, ovvero liquami di vario tipo.

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Non dimentichiamoci però che “del maiale non si butta via niente”: il suino è anche una dispensa vivente, una risorsa incredibile dal punto di vista gastronomico. Ciò che si ricava dal nostro animale è inoltre straordinariamente saporito, gustoso, opulento, nutriente: carni, salsicce, insaccati, lardo, fegatelli etc… una vera “maialata”, appunto. E allora? Perché questa duplicità? Forse perché l’uomo spesso nomina ciò che ama, che fa parte della sua esistenza, della sua storia; ma nomina anche ciò che teme. Infatti il maiale ci accompagna da millenni e la sua ambivalenza è sospesa in un simbolismo che lo fa oscillare tra significati positivi, addirittura salvifici e accezioni negative, peccaminose. Del resto, forse, accade che a volte ciò che è troppo gustoso, appetibile, inneschi un certo senso di colpa…


AGLI ARBORI DELLA CIVILTÀ La macchina del tempo di Capitan Porcello non assomiglia per nulla a quelle che vediamo nei film, caratterizzate da strutture futuristiche in metallo e leghe sconosciute, con schermi e visori interattivi. E’ un vecchio trattore da campagna con la cabina arancione opaco e i vetri oscurati. Punto. Entriamo, c’è posto a malapena per due: il comandante gira la chiave, il motore si accende ed arranca, sembra sempre in bilico tra lo spegnersi e l’esplodere. “Ci siamo!” grugnisce soddisfatto; “questa è la leva del tempo”, mi indica quello che sembra il cambio: “non è preciso e non sempre funziona ma…in ogni caso, si parte!

mesticazione: praticamente era presente in tutti continenti, o quasi.

E’ buio, non vedo nulla, è freddo, un forte odore di chiuso e di umidità mi fa rabbrividire. “Capitano, dove siamo?” grido mentre il suono rimbomba ed echeggia nelle tenebre. “In Spagna, nelle grotte di Altamira, guarda!”. Accende una torcia e rimango stupefatto: di fronte a me ammiro le famose e antichissime pitture rupestri risalenti a circa 40.000 anni fa. Le conosco, sono un emblema dell’arte preistorica che propongo sempre ai miei studenti, ma non sapevo che si trovassero anche rappresentazioni del suino.

Anche presso il popolo egizio troviamo alcune fonti che lo considerano un tabù alimentare; nonostante questo troviamo quantità di ossa suine in diversi villaggi, prova evidente che almeno fra i lavoratori questo animale costituiva una parte consistente della loro dieta. Tra l'altro si trova citato in diversi testi letterari ed è rappresentato nelle arti figurative lungo tutto il corso della civiltà egizia. La scrofa con i lattonzoli fu interpretata come un aspetto della dea del cielo Nut che ogni mattina generale stelle per poi ingoiarle la sera. Solo in tarda epoca il maiale venne percepito come un essere negativo e malevolo fino a venire considerato l'incarnazione di Seth il dio della confusione del caos e assassino di Osiride. Volete avere un’idea della cucina egizia? Le fonti ci dicono che erano poco diffusi gli stufati di carne, ma parlano spesso di braciole di maiale, fatte macerare per qualche ora con olio, sale, cipolla; cotte alla griglia o alla piastra (pietre rese roventi dall’esposizione al fuoco) e unti ripetutamente,

“Pensa – mi indirizza la mia guida –, si crede che la storia del maiale cominci addirittura 50 milioni di anni fa." Queste sono le immagini dei progenitori del maiale; si trovano ancora allo stato brado e devono essere cacciati. I maiali di tanto tempo fa assomigliavano molto al cinghiale: il loro corpo era coperto da setole più lunghe e folte, il loro muso era più lungo e a punta, le spalle erano più robuste ed il loro colore più scuro per confondersi nel sottobosco. Gli uomini iniziarono ad allevare il maiale circa 5.000 anni prima di Cristo, durante la “rivoluzione neolitica”, nella quale si passa dalla società nomade a quella stanziale, e fu una grande scoperta: meno fatica, poco impegno dato che il nostro amico mangia di tutto e aumenta velocemente di peso.

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In effetti, adesso che ci penso, mi ricordo di aver letto di alcune immagini rupestri di soggetti suini ritrovate in Indonesia e nello Zambia. Anche in Cina troviamo testimonianze di una prima do-

Il maiale raggiunse ben presto anche il Golfo persico, la Mesopotamia ed infine il Mediterraneo orientale. I vari popoli del medio oriente, ne avevano un rapporto alquanto contradditorio: gli arabi ne disprezzano la carne, gli ebrei lo ritenevano un animale immondo (troviamo indicazioni precise nella Bibbia, anche se il maiale era allevato per uso commerciale), mentre assiri e babilonesi lo tenevano in grande considerazione.

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durante la cottura, con la loro salamoia. Oppure sappiamo della grande diffusione della carne suina salata: tagli morbidi e senza osso, coperti abbondantemente di sale, aglio, coriandolo; poi fatti essiccare al sole. Spostiamoci dall’ Egitto verso il Mare Egeo; anche all’interno della cultura greca troviamo questa duplicità dell’immagine suina.

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Il celebre poeta Omero, nei suoi capolavori dell’Iliade e dell’Odissea, riporta numerosi riferimenti ai maiali, ne accenno solo un paio: la maga Cir-

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ce che trasforma i compagni di Ulisse in maiali, dopo averli sedotti con la sua bellezza. E il ritorno dell’eroe a Itaca dopo oltre venti anni: la prima persona che incontra è Eumeo, il guardiano dei porci, assieme al quale sacrifica un suino come ringraziamento. Maiale come casa dunque, rifugio caldo e sicuro, come nella mitologia cinese. Ma a tavola? Era sicuramente molto diffuso nell’allevamento e nell’alimentazione, dato che era il cibo meno costoso. Le preparazioni riguardavano la cottura alla brace e allo spiedo, anche se non mancavano

altre opzioni. Infatti gli Spartani consumavano essenzialmente stufato di maiale, il famoso "brodo nero", una sorta di spezzatino preparato con sale, aceto e sangue di maiale: era servito con maza (una sorta di gallette di farina d’orzo) fichi e formaggio, a volte aggiungendo selvaggina e pesce. Secondo Plutarco, era "talmente apprezzato che gli uomini anziani si nutrivano solo di quello, lasciando la carne ai più giovani". Qualsiasi persona proveniente da un’altra polis non apprezzava per nulla questo piatto, considerato troppo forte ed immangiabile.


ROMA CAPUT MUNDI Il trattore…cioè, la macchina del tempo, ha un improvviso sussulto, la cabina inizia a vibrare. “Che succede?” grido preoccupato. “E’ ora di cambiare era – annuncia il Capitano – avanti tutta verso la capitale del monto antico!”. Mi ritrovo davanti ad una statua in marmo bianco che raffigura una donna con una lunga veste, seduta, con un velo che le cinge il capo. “Iniziamo da qui” esclama il Capitano. “Chi è costei?” “La dea Maia, adorata dai Romani come un'antica dea della fecondità e del risveglio della natura in primavera. Il mese di Maggio era a lei dedicato, pertanto i sacerdoti le offrivano in sacrificio una scrofa (in latino “sus”) gravida, in modo che anche la terra fosse generosa di frutti. Quindi il nome “maiale” potrebbe derivare dal latino “sus maialis”, scrofa offerta a Maia. Lo sapevi? “Ehm, certamente – arranco verbalmente con malcelato imbarazzo – come non potrei?” Cambio discorso, colpito da questa chicca di cultura etimologica. “Come era la situazione nell’Urbe?” “Direi buona”, dice il Capitano iniziando la sua dissertazione.

Cosa simboleggiava, infine, il maiale presso il popolo romano? Nell’Eneide di Virgilio, i riferimenti ai suini indicano che sono animali graditi dagli dei ed ottimi per i sacrifici rituali. All’eroe fu suggerito in sogno dal dio Tiberino che sul suo cammino avrebbe trovato un scrofa bianca con trenta piccoli, segno che in quel luogo il figlio Ascanio avrebbe fondato trent'anni più tardi una città e l'avrebbe chiamata Albalonga. Nelle campagne romane, e più tardi anche durante la cerimonia finale del censimento, era spesso praticato la “suovetaurilia”, un sacrificio a scopo di purificazione e ringraziamento, di un suino (di solito una scrofa), un ovino ed un toro: i tre animali venivano condotti con una solenne processione al luogo che si doveva purificare e poi uccisi secondo le sacre prescrizioni. BBQ4All Magazine

Sappiamo da diverse fonti, come Plinio il vecchio e Giovenale, che ogni anno venivano inviati dall’Etruria a Roma almeno 20.000 suini, destinati primariamente alla produzione di prosciutti, base dell’alimentazione di facchini, gladiatori e soldati delle legioni. L’allevamento suino era quindi dunque molto diffuso e la sua carne molto apprezzata, anche dagli Etruschi. I romani utilizzavano la salagione e l’affumicamento per la conservazione delle carni come già praticato anche dai greci; i nostri progenitori, inoltre, sono stati i primi ad utilizzare gli insaccati, in quanto dopo aver conquistato la Lucania, trovarono un salume chiamato “lucanica”, l’antenato della nostra salsiccia; da allora lo utilizzarono con assidua frequenza, introducendolo soprattutto nella zona corrispondente all’odierno Veneto. Plinio il Vecchio racconta che si conoscevano ben cinquanta differenti modi per preparare le carni del maiale. Anche Petronio, nei racconti delle cene a casa di Trimalcione, si riporta che i romani impazzivano per il piatto prelibato di “Porcus trojanus”, che

consisteva in un maialetto ripieno di uccelletti, verdure, salse varie e cacio: una vera esplosione di gusto! Ma la “Bibbia” culinaria dell’antica Roma è il celeberrimo trattato di cucina “De Re Coquinaria” di Apicio, noto cuoco, gastronomo e scrittore. Leggendo il testo notiamo che le preparazioni a base di carne di maiale sono decisamente prevalenti rispetto a quelle di altri animali. Da citare il Pasticcio di Apicio, una sorta di complesso antenato della nostra lasagna che prevedeva strati di sfoglia alternati a polpa di maiale, pollo, pesce e altro, ricoperto infine di pinoli e pepe; le polpette di fegato di maiale; le braciole alla ostiense a alla apiciana, tuttora riadattate alla nostra cucina e cavallo di battaglia di diverse “cene archeologiche”; molto apprezzati e diffusi erano gli arrosti di suino, sempre lavorati con salse intense a base di “garum” e mosto. Terminiamo citando lo stesso Apicio: ““… per conservare le cotenne di maiale e gli zampetti cotti, immergili fino a coprirli, nella senape fatta con aceto, sale e miele e quando vorrai li potrai usare: rimarrai meravigliato ed estasiato dalla raffinata bontà!”

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IL MEDIOEVO

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Nel 476 dopo Cristo cade l’Impero romano d’Occidente. Le popolazioni barbariche invadono i territori romani e tutto cambia: da un assetto prevalentemente agricolo e molto organizzato, si passa ad una diffusione delle aree più boschive ed incolte, ottime per l’allevamento allo stato brado del maiale. I barbari d’oltralpe, inoltre, popoli seminomadi, consideravano la carne come il cibo migliore, soprattutto quella suina. Per farla breve, il maiale nell’”età di mezzo” diventa la risorsa alimentare più importante, il principe della tavola medievale, secondo solo rispetto a sua maestà la selvaggina. I maiali di questo periodo erano però ben diversi da quelli attuali: piccoli, magri, snelli, abituati alla vita dei boschi e incrociati con i cugini selvatici, i cinghiali. Al grande successo alimentare, non corrispose una positività dell’iconografia suina: simbolo benevolo della religione pagana, l’immagine del porco venne demonizzata ed associata al

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peccato: lussuria, sporcizia, invidia, avarizia… povero porco, che tanto aveva sfamato e saziato nell’antichità! Ci fu però un santo, Antonio abate, che contribuì al riscatto del povero suino. Grande eremita del cristianesimo ascetico, visse verso la metà del III secolo dopo Cristo: durante i suoi lunghi periodi di eremitaggio e isolamento nel deserto (tra il Mar Rosso e la Palestina) subì innumerevoli tentazioni, rappresentato dagli artisti attraverso l’immagine del maiale, incarnazione dei vizi. Fin qui tutto è in linea con quanto abbiamo già detto. Ma nell’XI secolo, durante una gravissima epidemia di ergotismo (il cosiddetto fuoco di sant’Antonio, che all’epoca era mortale e causava cancrena del corpo e allucinazioni sensoriali), nei pressi delle reliquie del santo (in Francia meridionale), venne utilizzato il lardo per curare la malattia: le guarigioni furono numerose e miracolose.

Da allora Sant’Antonio divenne il protettore invocato per ogni genere di infiammazione grave, il protettore degli animali, ed associato quindi al maiale; tanto che nelle immagini del santo ormai il binomio Antonio-suino è quasi indissolubile. Per avere un’idea di come era utilizzato il maiale in cucina dobbiamo dare un’occhiata ai frammentari ricettari medievali e anche a quelli del 1400, nei quali troviamo molte preparazioni dei secoli precedenti. Per iniziare, il predominio di lardo e strutto come condimenti è quasi incontrastato, decisamente primario rispetto al costoso olio di oliva. Permane la produzione di salumi ed insaccati, risorsa fondamentale per tutta la popolazione. Degne di interesse in quanto proponibili anche per i nostri palati erano la “Carbonata”, fette di pancetta fresca cotta in padella e aromatizzate con un intingolo a base di aceto, succo di arancia, prezzemolo, zucchero di canna e cannella; oppure il Cormary, una sorta di arrosto di lombata marinato e cotto con vino rosso, aromi, coriandolo e cumino (evidente in questo caso l’influenza araba); l’immancabile maialino ripieno, simile alla porchetta ma molto più speziato; e poi costolette marinate con mosto cotto, cotte alla griglia a calore moderato e spruzzate di succo d’arancia; scaloppine con pancetta, vino e tuorli d’uovo; e le immancabili salsicce, sempre molto speziate e aromatiche.


DALL'ETÀ MODERNA AI GIORNI NOSTRI “Bene – gongola Capitan Porcello – ci siamo quasi, sta terminando il tempo a nostra disposizione”. “Ma… veramente, mancherebbero ancora almeno sette secoli per arrivare ai giorni nostri”. “Si, certo – mi risponde beffardo – ma la parte più interessante è quella che abbiamo già conosciuto. Comunque ascoltami bene mentre ci prepariamo al gran finale… Nel Cinquecento, il maiale continua ad essere molto diffuso tra il popolo e perde importanza nei fastosi banchetti aristocratici. Nonostante questo, l’allevamento dei suini progredisce lentamente verso l’addomesticamento rurale, passando in maniera definitiva dai boschi alle stalle verso la seconda metà del ‘700, gra-

zie alla rivoluzione agricola. A seguito degli interventi di numerosi letterati, tra il ‘600 e l’800, l’immagine del porco si riscatta da pregiudizi e tabù negativi e viene nobilitata, anche se in questo periodo troviamo una flessione generale nel consumo di carne, inclusa quella suina. Nel’900, infine, si giunge infine da un punto cruciale: il passaggio dall’allevamento rurale e contadino a quello su larga scala, al servizio dell’industria di lavorazione delle carni suine e dell’approvvigionamento dei mercati urbani. In cucina, dalla fine dell’800, si codifica la tradizione rurale delle preparazioni suine che, unite poi al testo fondamentale di Pellegrino Artusi, costituisce la base dell’uso odierno del maiale nella cucina con-

temporanea, argomento però che esula dal nostro viaggio nel tempo. È interessante notare che la società moderna ha rimesso in discussione il nostro amato porcello, non più simbolo del male, ma nemico della salute, emblema di colesterolo e trigliceridi. Non c’è pace per il quadrupede prima selvatico, poi domestico: che sia religione o salute, è sempre additato come demonio. Fortunatamente in questi ultimi anni stiamo assistendo ad una netta e decisa inversione di tendenza anche grazie alla ricerca scientifica la quale ha dimostrato che la carne di maiale è sicuramente uno degli alimenti più digeribili e completi di cui l’uomo, sempre con buon senso e giusta misura, può cibarsi.

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LA FESTA DEL NINO Ultima tappa: siamo a Castelleone di Suasa, nelle Marche, è la fine di gennaio, di un anno non precisato compreso tra il 2001 e il 2020. Siamo alla Festa del Nino, l’evento dedicato al maiale.

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Chi è Nino? Sant’Antonio, Antonino, Nino: così era chiamato affettuosamente fino a qualche decennio fa, nelle campagne marchigiane, il maiale, la “dispensa vivente” per la famiglia del contadino. E cosa è la festa del Nino? Innanzitutto è un occasione per leggere, scrivere, riscrivere, consumare e riprodurre, , quanto di cultura e tradizione il Nino comprende e sottende nel territorio delle alte Marche ma anche altrove; è un catalizzatore dei “sapori”, ovvero dei “saperi”, che attraverso il gusto possono essere letti, scritti e trascritti nello sterminato e mai casuale mosaico di tradizioni alimentari che si distende vivo sul territorio; è’ l’alfabeto della “cultura che nutre” che la tradizione s’incarica di trasmettere, la vita di usare ed il gusto di leggere. Abbiamo finito il tempo, vi propongo solo alcuni manifesti per coglierne la forza ironica, dissacrante, geniale e allo stesso tempo strettamente legata alla tradizione in maniera arcaica, viscerale.

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Concludo con una citazione di Ivo Picchiarelli, fondatore ed ideologo della Festa del Nino, che fornisce lumi e spiegazioni alla mia volgare imprecazione che trovate all’inizio dell’articolo.

"La porca era la vittima per eccellenza dedicata alla dea Cerere altrimenti detta Maja o, in Grecia, Demetra ovvero la Dea Madre. Era, altresì, dedicata e offerta a Tellus, la Terra, affinché proteggesse e nutrisse le sementi. Così a Cerere-Maia nel mese a lei dedicato, Maggio, il mese del diventar Maggiore, veniva offerta la porca praecidanea (ovvero di prima del taglio delle messi) detta maiala, perché dedicata alla dea Maia. Inoltre, il modo per eccellenza dell’offerta in maggio della porca alla dea alla quale era dedicata era quella di cuocerla, appunto, “in porchetta” (non a caso, infatti, la porchetta è femminile essendo la porca, e non il porco, l’offerta alla dea) ovvero more troiano. Infatti, cotta tutta intera, così come il cavallo di Troia era riempito di Greci, similmente la porca maiala, cotta in porchetta, era piena di fegatelli ai quali i Romani aggiungevano anche tordi, uova sode ecc. Così, la porca maiala acquistava un altro attributo, quello di troiana che a sua volta si è sostantivato in troia. Pertanto la porca maiala troia è la sintesi dei sinonimi della scrofa dedicata alla dea della crescita che è nutrice e della quale con la sua fertilità la scrofa era immagine simbolica oltre che vittima”.


IL FUTURO “Capitano dove siamo finiti?” “Sorpresa! È il 2050” “Ah… spero di non incontrarmi, non voglio vedermi, avrò più di 70 anni…” “Osserva bene” mi dice mesto il mio setoloso Virgilio. Con timore apro gli occhi, rimasti socchiusi fino allora, e vedo distese di campi a dismisura. Verdure, cereali, frutti, poi serre; come fossero città. Nessuna traccia di allevamenti. “Che è successo?” chiedo con voce tremante “Vegani. Hanno vinto. E’ tutto loro. Gli animali allevati producevano inquinamento di ogni tipo. Eliminati dalla produzione, confinati in riserve selvagge, lontani dall’uomo“. “Ma questo è un incubo, dimmi che è uno scherzo”. “No, non lo è affatto” “Ma porca di quella maiala tr**a! “Ah no, adesso basta! Va bene, hai ragione, è solo un universo parallelo, una streamline alternativa…”

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i delTaglimaiale negli

in Italia

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illustrazioni di Eleonora Castagna

Infografiche a cura della redazione

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Stati Uniti

in Spagna


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illustrazioni di Eleonora Castagna


Ribs

Babye Back St.Louis

...tenere da mozzare il fiato.

Dire “costine di maiale” è facile, ma si apre un mondo che va dai classici nostrani fino ad arrivare ai tagli meno facili da reperire. Anche perché, parliamoci chiaro: mettici il nome che suona strano, mettici l’abitudine e la paura del nuovo, è davvero molto probabile che il nostro macellaio di fiducia faccia resistenza a fornirci quello che abbiamo in mente.

Quello di cui parliamo è sempre costato di maiale, ma dalla stessa regione del corpo possiamo ottenere tagli davvero diversi, non solo per la forma della quale potremmo francamente infischiarcene, ma per le caratteristiche sensoriali e gustative, date dai vari fasci muscolari e la presenza di collagene e tessuto connettivo.

Vi va se vi racconto qualcosa di Baby Back e St. Louis, due tra i tagli di pork ribs più interessanti dal punto di vista gastronomico? Ma sì, dai. Già le abbiamo imparate a conoscere, ma focalizzeremo l’attenzione su come ottenerle e cosa aspettarci se approcciamo alla cottura come i nostri Grill Master insegnano. Dimenticatevi di costine bruciacchiate e carne tenace, difficile da staccare dall’osso e cominciate ad immaginare qualcosa di diverso, di tenero e succoso. Dico, immaginate: perché purtroppo ora diventerò moderatamente noioso. Tanto per farvi passare la fame partiamo con un approccio anatomico, per contestualizzare un po’ la situazione. Ci troviamo nella regione toracica, e le coste sono delle ossa arcuate (curvatura molto pronunciata nei suini a differenza dei bovini) ed allungate che si articolano alle vertebre toraciche. Ogni vertebra ha una coppia di coste per un totale di 14/15 coppie. Ogni costa è composta da una porzione ossea ed una cartilaginea. La porzione ossea è quella che si articola dorsalmente con la colonna vertebrale e prosegue ventralmente, quella cartilaginea si articola con lo sterno per le prime 7 coppie (coste sternali), mentre per le altre 7-8 coppie (asternali) si articolano cranialmente con la costa precedente. Questa è la base ossea, ma noi mangiamo la ciccia, che poi sappiamo essere i muscoli, vi risparmio l’elenco di nomi ma un ragionamento facile bisogna farlo: nella parte interna del costato troveremo la pleura, un tessuto connettivo che, come abbiamo imparato frequentando il mondo BBQ4All, non è mai proprio gradevole da masticare. Parlo più di ossa che di carne, perché in realtà sono quelle che ci guidano nel taglio. Ora che abbiamo tutto un po’ più chiaro vediamo come sono posizionate le Baby Back e le St. Louis.

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La porzione delle coste che si va ad articolare con la colonna vertebrale, private della carne dell’arista, che troviamo esternamente sopra e a ridosso della colonna vertebrale, sono le Baby Back Ribs. Parliamo di circa 10/12 centimetri di osso, molto incurvato e con una dose generosa di carne posta sulla faccia esteriore dell’osso. Tendenzialmente, se ci si approccia alla cottura con tutte le dovute accortezze, saranno abbastanza tenere, adatte ad una cottura più breve rispetto alle Spareribs, che sarebbe tutta la restante parte del costato, dopo che abbiamo sezionato longitudinalmente e asportato tutta la parte delle Baby Back. Dunque le Spare ribs sono un grosso taglio che comprende sia le porzioni ossee sia quelle cartilaginee del costato. Da queste, andando ad asportare la parte cartilaginea, le Rib Tips, e il Flap, quella porzione distale di carne senz’osso e lo Skirt dalla parte interna, otteniamo una forma rettangolare, abbastanza piatta perché abbiamo eliminato le parti che conferiscono la curvatura al costato. Questo taglio è il St. Louis e si presta bene a cotture più lunghe e temperatura inferiore con lo scopo di gelatinizzare il collagene e restituire succulenza.

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DUE SLAB E UN ANIMA DA DUROC

Baby Backs vs St. Louis Al bbq o al forno? Facciamo entrambi.

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Approfondimento Tecnico a cura di Michela Bongiorni e Emiliano Nencioni

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Dite la verità: è vero o no che vi siete avvicinati al mondo delle cotture bbq dopo aver assaggiato - durante un viaggio all’estero, o in un locale a tema, o in una sagra, o in un evento scoperto per caso - le mitiche Ribs all’ammmeregana? Ok, forse qualcuno risponderà di no, che prima ha assaggiato il Brisket o il Pulled Pork, ma vi assicuriamo che per molti lettori è andata proprio così: un giorno si sono ritrovati fra le mani quell’ossetto con carne succosa e affumicata, ricoperta da una salsa barbecue dolce e piccante e, abituati a decenni di rosticciana dura e carbonizzata, hanno avuto un’epifania. Ma allora le costine possono essere buone! Ma allora hanno davvero della carne attaccata all’osso! Quindi fino ad ora non ho mai veramente vissuto! Probabilmente conoscerete il geniale scrittore americano Chuck Palhaniuk. Ebbene, in Soffocare scrive, a proposito di una pratica sessuale ben precisa, che anche la peggiore delle performance è comunque meglio della più profumata delle rose, del più fantastico dei tramonti e della risata dei bambini. Ecco, con le costine c’è un po’ lo stesso effetto: prendete un amico abituato alle grigliate all’italiana e dategli le ribs fatte nel peggior modo possibile e lui le troverà comunque più buone di qualsiasi rosticciana a prova di dentiere forti mai assaggiata fino a quel momento. E probabilmente anche lui preferirà quella ciccia alle rose, ai tramonti e ai pargoletti felici. Ma questa è un’altra storia. Ebbene immaginate adesso cosa succederà se, invece di servirgli ribs fatte allacà gli metterete tra le mani le costine migliori mai cucinate. Vi piace l’immagine? La state visualizzando? Ecco, noi siamo qua per renderla reale.


Si fa presto a dire Ribs. Sì, ok, facciamole: ma di cosa stiamo parlando? Qual è la differenza tra i due tagli che vi stiamo presentando oggi? Per semplificare molto la questione, partendo dall’osso spinale della bestia, dove le costole sono più piccole e incurvate, si ottiene il taglio Baby Back. Il taglio St. Louis si ottiene da quello Spare Ribs: quest’ultimo è ricavato partendo dal taglio finale delle Baby Backs fino ad arrivare allo sterno: pareggiando i bordi e togliendo l’eventuale pezzo di carne sporgente presente sul retro, che attraversa la slab diagonalmente, si ottiene dunque il famigerato St. Louis. Che differenza c’è tra i due tagli? Mentre nel primo (Baby Back) le costine presentano più carne sopra l’osso e sono sensibilmente più tenere e succose, nel secondo (St. Louis) le ribs hanno più carne tra un osso e un altro e sono più ricche di tessuto connettivo. Questa differenza, letta sulla carta, potrebbe farvi pensare che le Baby Backs siano la scelta migliore sempre e comunque. In realtà, quando si parla di costine, si entra in un regno in cui il gusto personale di ognuno di noi pesa moltissimo sulla scelta sia del taglio che del metodo di cottura, senza trascurare i sapori: c’è chi le preferisce più tenaci (nel significato migliore del termine, ovvero non dure o gommose, ma che presentino al morso una certa resistenza senza sfarsi del tutto, pur preservando morbidezza e succulenza), c’è chi invece vuole proprio che si stacchino dall’osso e si sciolgano in bocca come burro; c’è chi le ama caramellate e laccate, chi le preferisce con sapori più puliti, chi le ricopre di salsa come se non ci fosse un domani e chi sceglie solo sale, pepe e limone. Certamente, tutti quanti concordano su una cosa: quella rosticciana secca e stoppacciosa a cui ci hanno abituati fin da bambini è esattamente l’unico vero modo in cui NON debbano essere fatte. Indicativamente, quindi, se appartenete al popolo di quelli che preferiscono le ribs più compatte e resistenti al morso, scegliete le St. Louis; se al contrario avete aderito al team di coloro che amano le costine che sbrodolano e si sciolgono in bocca, scegliete le Baby Backs. Se siete golosi come noi, provatele entrambe e festa finita.

Forno o bbq? Ovviamente, se parliamo del tradizionale American Barbecue, le ribs degne di questo nome non possono non avere i seguenti parametri: una crosticina gustosa e croccante (chiamata bark in gergo tecnico), un aspetto molto pulito con un bel colore scuro senza bruciature e soprattutto uno spiccato sentore di fumo (smoky flavour). Va da sé che questo tipo di preparazione non può prescindere dalla cottura bbq. BBQ4All Magazine

Tuttavia, sarebbe profondamente ingiusto se la mancanza di un dispositivo bbq vi impedisse di poter mangiare, con qualche compromesso, delle ottime ribs: per questo motivo oggi le prepareremo in

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entrambe le versioni dimostrandovi che anche nel forno di casa il risultato sarà senza ombra di dubbio “wow”. Quindi, non vi resta che recuperare sul Megastore il taglio delle ribs che preferite di maiale Duroc, una confezione di Sal’s Seasoning Tennessee rub, una di Sal’s Seasoning Ultimate SPOG, due o tre cucchiai di paprika dolce, olio di semi quanto basta e la miglior salsa barbecue brillante e laccata che possiate trovare (per caso avete sentito parlare della Sal’s Seasoning KC Glossy? No? Ahiahiahi!)

Al Bbq.

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La prima cosa da fare, valida per entrambi i metodi di cottura, è quella di togliere la pleura polmonare, quella pellicola che trovate sul retro delle slab, che al morso è onestamente fastidiosa. Aiutandovi con il manico di un cucchiaino o con uno strumento simile non tagliente, sollevatela quel tanto che basta per poterla poi strappare via come se fosse un adesivo. Con un coltello molto affilato, poi, rimuovete eventuali brandelli

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di carne che si brucerebbero in cottura, facendo attenzione a non andare troppo a fondo e a non scoprire l’osso. Diciamo che le slab sottovuoto del nostro Megastore sono già rifilate e tagliate con cura, quindi questa operazione di pulitura (in gergo trimming) sarà veloce e quasi non necessaria. Finita questa operazione, ungete leggermente di olio di semi (ha un punto di fumo più alto e non altera il sapore delle ribs) le due slab e poi cospargetele di rub Tennessee in uno strato regolare, uniforme e non eccessivo. Come avrete letto più volte in Community, NON dovete esagerare col rub pensando che, mettendone di più, otterrete uno strato di bark più alto. Non è così. Mettendone troppo il rub si bagnerà, non diventerà affatto croccante e si attaccherà ai denti al primo morso. A questo punto, non vi resta che accendere il vostro dispositivo, predisponendolo per una cottura indiretta, stabilizzarlo a una temperatura di 110/120°C e poi appoggiare le vostre ribs sulla griglia di cottura, dalla parte opposta delle braci. Piccola digressione: noi, a questo giro, abbiamo detto sì al waterpan e no al foil. Niente panico, vi spieghiamo subito il significato di questi termini oscuri: abbiamo messo una vaschetta di alluminio riempita per tre quarti con acqua al livello


Chiudete il coperchio e armatevi di pazienza. Una cosa non dovete fare, almeno durante le prime due/tre ore: aprire il coperchio per vedere se è tutto a posto. State tranquilli, godetevi le birre e rilassatevi. Noi per arrivare a cottura ci abbiamo messo circa sei ore per entrambe le slab. Come capire se le ribs sono pronte? Uno dei metodo migliori è il bend test: con una pinza capovolgete la slab sopra la griglia e poi afferratele per le prime tre ossa. Sollevatela e guardate: se si piega bene e nel punto di flessione la carne comincia a lacerarsi, le ribs sono cotte.

della griglia carbone, accanto alle braci accese (water pan), ma abbiamo scelto di non avvolgere le ribs in doppio strato di alluminio (foil) durante la cottura. Questo è solo uno dei molti metodi con cui si possono cuocere le costine, ognuno ha il suo preferito. Usare il foil spesso facilita e velocizza la cottura: se optate per questa scelta, ricordatevi di farlo sempre dopo che la crosticina superficiale si è formata. Mai prima.

Se avete dosato bene il fumo, e siamo sicuri di sì, al morso sentirete un sapore bilanciato: lo smoky flavour che non sovrasta il sapore delle ciccia, la dolcezza della salsa bbq, la piccantezza del rub e la succulenza della carne di Duroc. Insomma, ci viene fame solo a descriverlo. Le ribs al bbq sono una delle cose per cui vale la pena vivere. Non per questo, come dicevamo prima, se non possedete un dispositivo bbq, dovete privarvi di questo immenso piacere. Vediamo come procedere col forno di casa.

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Ok, siamo pronti per partire: prima di chiudere il coperchio del vostro dispositivo, assicuratevi di aver introdotto il vostro legno aromatico preferito sotto forma di chunks (pezzi di legno) o di chips (petali di legno), appoggiati sulla griglia delle pietanze, accanto alle ribs, in corrispondenza delle braci. Il legno non deve bruciare, ma consumarsi lentamente. Se optate per le chips i pezzi più piccoli potrebbero cadere sui carboni, ma non vi preoccupate, si bruceranno praticamente subito e non succederà nulla. Noi abbiamo messo chips di ciliegio.

Toglietele dal dispositivo, laccatele con la salsa barbecue e tagliatele. Noterete che si sarà formato un anello di un color rosa intenso brillante appena sotto la crosticina: niente paura, si tratta dello smoke ring, un cambiamento di colore dovuto ad una reazione chimica che avviene durante la cottura, i cui principali responsabili sono il monossido di carbonio (CO) e monossido d’azoto (NO). Entrambe queste molecole gassose sono in grado di penetrare per qualche millimetro nella carne, diffondendosi attraverso i succhi e legandosi alla mioglobina.

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Al forno. La fase di trimming è identica a quella sopra descritta, per cui evitiamo di ripeterla. Per la cottura in forno, abbiamo scelto di procedere con un metodo più rapido, descritto tempo fa da Gianfranco Lo Cascio: più veloce, ma di sicuro effetto. Seguiteci con attenzione.

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Dopo aver unto con l’olio le slab, cospargetele con una dose di Ultimate SPOG a cui noi abbiamo deciso di aggiungere un paio di cucchiaini di paprika dolce, più per un discorso cromatico che di sapore. Accendete il forno alla temperatura di 130°C, in modalità statica, inserita le ribs a metà altezza appoggiandole sulle griglie, e posizionate una teglia di alluminio sul fondo del forno, per preservarlo dalla caduta di grassi. Tenete le ribs in forno a questa temperatura per circa due ore e mezzo. Alzate poi il forno alla massima temperatura per l’ultima mezz’ora. Terminato questo tempo, togliete le ribs dal forno, tagliatele e scegliete se mangiarle così, in purezza, laccarle o pucciarle dentro la salsa.

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Noterete due cose: la prima è che manca lo smoke ring, ma questo non incide minimamente sulla tenerezza e sulla succulenza della carne, la seconda è che (ovviamente) il sentore di fumo è assente. Tuttavia questa non è necessariamente una cosa da annoverare tra i punti a sfavore: in molti non amano il sapore affumicato e parecchi fanno fatica a digerirlo. La cottura in forno sarà sicuramente molto più apprezzato da queste persone. Il sapore intenso del maiale sarà il protagonista assoluto, ben esaltato dalla crosticina saporita e dalla salsa.


Ricette a cura della Redazione

CALDARROSTE AL RHUM AVVOLTE NELLO SPECK buone come il pane? di più!

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fotografia di Luca Gallozza

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Novembre, autunno inoltrato. Le foglie ormai hanno preso quel colore tipico, con sfumature che variano dal rosso al giallo, le strade ne sono sommerse. Tipo Autumn in New York, ricordate? Abbiamo messo i cappotti e gli ombrelli sono per lo più gli oggetti che ci tengono compagnia quotidianamente. In mezzo a tutto questo freddo, e a volte alla nebbia, il ristoro di un alimento caldo è il primo pensiero che ci passa per la mente. Cosa ci fa sognare in questo periodo più delle caldarroste? Uno dei comfort food da strada per eccellenza, di sicuro tra i più pratici.

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Anche se la castagna non possiede una delle caratteristiche principali della frutta, ovvero la succosità (la percentuale di acqua presente nel prodotto fresco è del 50%), è a tutti gli effetti un frutto di bosco. Nel corso dei secoli ha rivestito un ruolo importante nell’alimentazione umana, in special modo della parte più povera, per il suo grande apporto energetico e calorico, soprattutto perché fu un eccellente sostituito del grano nei momenti di carestia causati dalla peste, dalla guerra e dalla siccità. Infatti, grazie alla grande ricchezza di amido, le castagne essiccate sono facilmente trasformabili in farina, tanto che lo storico greco Senofonte nel IV sec. a.C. battezzò il castagno l’albero del pane.

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Diversi studi archeologici hanno dimostrato, sulla base del ritrovamento di alcuni reperti fossili, che questa pianta era presente sulla terra già nell’era Cenozoica e che scomparve a causa della Glaciazione, per ripresentarsi

in seguito nell’Asia Minore entrando a far parte nella dieta delle prime forme di civiltà. Furono i romani, con la loro opera di conquista, a diffondere questi frutti in Italia e in buona parte dell’Europa, dopo averne conosciuto i frutti sul territorio ellenico, dove erano soliti gustare le castagne abbrustolite sulle braci, bollite nell’acqua o sotto forma di focaccine dopo essere state trasformate in farina. I latini, oltre ad apprezzare questi gustosi frutti attribuirono loro anche un carattere afrodisiaco perché nella forma ricordano i testicoli. Sono molte le varietà di castagne presenti sul nostro territorio: alcune di esse hanno ricevuto il riconoscimento IGP (ad es. la castagna di Cuneo o la castagna di Montella) e DOP (come ad es.la castagna di Vallerano); tuttavia i Marroni rappresentano la qualità più pregiata, in passato destinati al solo consumo dei ricchi. Anche per loro esistono diverse qualità, come il Marrone del Mugello (IGP), il Marrone di san Zeno (DOP), il Marrone di Caprese Michelangelo (DOP) etc… I nobili apprezzavano molto il gusto delle castagne ma, quando nel Medioevo esse si trasformarono nel cibo dei poveri montanari, decisero di riservare i marroni al loro esclusivo consumo. A differenza di ciò che molti pensano, le castagne e i marroni non sono propriamente la stessa cosa: a sancirlo, fu un Decreto Regio del 1939, che distingue il frutto spontaneo da quello coltivato. La raccolta di entrambi i prodotti ha inizio a fine Settembre, per

terminare con gli ultimi giorni di novembre; mentre i marroni sono il prodotto dei castagneti coltivati, dove le piante sono il risultato di innesti ideati dall’uomo, le castagne nascono da quelli selvatici che popolano i nostri boschi. I primi sono più grandi e tondeggianti (un riccio ne contiene al massimo tre perciò il frutto cresce in libertà senza restrizioni di spazio), le seconde sono più piccole (il riccio del castagno selvatico può arrivare a contenere fino a 7 frutti). I marroni hanno una buccia color mogano con delle striature in verticale, e la loro pasta risulta più saporite e zuccherina rispetto a quella delle castagne che sono di un bel marrone scuro. Naturalmente anche il marrone come la castagna era considerato un cibo afrodisiaco, tanto che in passato regalare a una dama una scatola di Marron Glacé (marroni lessati e glassati con lo sciroppo di zucchero) celava un sicuro messaggio erotico. Da mettere in conto, poi, una certa similitudine con le gonadi maschili, aka i testicoli, sia del prodotto coltivato che del prodotto selvatico: ciò ha dato vita a espressioni gergali come “preso in castagna” e “ne ho pieni i maroni”. Sono principalmente tre i modi di cucinare le castagne. • Le caldarroste: cotte direttamente sulle braci, dopo aver inciso le castagne con un coltellino esse vengono poste in una superficie bucherellata posizionata sopra il fuoco, poi girate spesso perché si abbrustoliscano senza bruciare. • Le ballotte: le castagne vengono incise giro giro


lungo tutta la lunghezza della buccia, cotte nell’acqua, dopodiché ancora calde ve n g o n o s b u c c i a t e e mangiate o utilizzate per la creazione di dolci e ripieni di arrosti, pasta fresca ecc... • Essiccate e tramutate in farina, con la quale preparare pasta, pane e molti tipi di dolci come il castagnaccio e il neccio ripieno di ricotta. Noi siamo andati fin nel Trentino per tirar fuori una preparazione alla griglia che abbiamo adattato a nostro piacimento. Ecco, preparatevi, perché da qui in avanti vi presentiamo dei succulenti, irresistibili marroni al rhum e speck. Un semplice finger food, facile e sfizioso da presentare ai vostri ospiti prima delle portate principali. Andremo a lessare i deliziosi frutti in acqua salata bollente, successivamente li tufferemo in acqua fredda per bloccare la cottura e poi dopo averli ben asciugate, creeremo un seasoning con poco miele, un po di rhum e una spolverata di Mount Nimba che spennelleremo su ogni singola castagna. Infine andremo a bardare le castagne con mezza fetta di speck, bloccando il tutto con uno stecchino. Andremo a finire la cottura in griglia. Vediamo quindi cosa ci occorre.

INGREDIENTI 4 persone

PREPARAZIONE

1. Lavate bene i marroni, asciugateli e incidete orizzontalmente la buccia possibilmente senza intaccare la polpa. 2. Versateli in una pentola e riempitela d’acqua finché saranno interamente coperti. 3. Lasciateli cuocere per almeno 45 minuti, da quando inizia il bollore. 4. Scolateli in una ciotola di acqua e ghiaccio per 2 minuti, per bloccarne la cottura e iniziare il raffreddamento. Una volta raffreddati, asciugateli. 5. Sbucciateli con cura, tenendoli interi senza romperli. 6. In una ciotola, versate il miele, il rhum e il Mount Nimba. Mescolate bene e spennellate il composto leggermente su ogni Marrone. Tenete il tutto da parte su un foglio di carta forno. 7. Dividete ogni fetta di speck in due parti, per la lunghezza. Avvolgete ogni mezza fetta di speck intorno ad ogni singolo marrone. Fissate lo speck con uno stuzzicadenti. 8. Accendete mezza ciminiera di carbone o semplicemente uno dei bruciatori del vostro dispositivo a gas, sistemate ogni singolo marrone su un vassoio in acciaio per verdure e cuocete in griglia a 180°C in cottura diretta, per 10/15 minuti. Finita la cottura, sistematele sopra un bel piatto da portata. Il loro profumo darà il via all’atmosfera della serata. Semplice da realizzare, poco impegnativo nei tempi e di sicuro impatto. Riusciranno a riunire tutti intorno al tavolo, c’è solo da fidarsi.

500 g di marroni 15 fette di speck 50 g di miele 20 g di Sal’s Seasoning Mount Nimba

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20 cl rhum

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ZUPPA DI CIPOLLE GRIGLIATE ...buona fino alle lacrime

Alla fine di questo articolo, finiremo in un bagno di lacrime? No, dai. Tirate fuori la maschera. No, non si tratta di Covid-19, intendiamo la maschera da sub. Indossatela e preparatevi a tagliare un campo intero di cipolle, perché realizzeremo una zuppa cosiddetta povera, ma alquanto piacevole e rinvigorente, ovvero la famosa soupe à l’oignon. Ma che tipo di cipolle? Quelle tra le più comuni e conosciute, sono circa venti: le sarde, come la tipica di Banari nel sassarese, la calabrese Rossa di Tropea, la bianca Giarratana siciliana, quelle dorate di Parma, la bionda piemontese di Cureggio e Fontaneto, la borettana in Emilia Romagna, la cipolla ramata di Montoro in Campania e quelle di Certaldo in Toscana. Tutte valide, con caratteristiche e forme diverse tra loro, ma tutte con un unico comune denominatore per l’uomo: la lacrimazione.

Ci sono molte storie e leggende intorno alla nascita di questo piatto: quello che sappiamo è che una sorta di zuppa di cipolle era consumata sin dai tempi degli antichi romani, nonché amata da tutte le classi sociali, sia per l’economicità della preparazione, sia per il suo sapore indiscutibilmente gustoso. Infatti, se ne trova origine in un libro di ricette di Marco Gavio Apicio, il De re conquinaria (intorno al 230 d.C ) dove si fa cenno ad una ricetta di zuppa di cipollotti e pesce salato (!) Di sicuro sono stati francesi a migliorare e a rendere questo piatto un’istituzione nazionale. La sua fama iniziò tra i banchi del mercato parigino di Les Halles, definito dallo scrittore realista Émile Zola “il ventre di Parigi”, dove gli amanti della vita notturna parigina andavano a consumarne una ciotola, come rimedio contro la sbornia. Il commerciante serviva questa zuppa di cipolle in tazze nelle quali disponeva due fette di pane raffermo sul fondo. Era più simile a una brodaglia molto allungata che alla gustosa preparazione che possiamo immaginare oggi. A renderla poi col tempo più appetibile e saporita fu l’introduzione del formaggio e successivamente la gratinatura. Fu così che la zuppa di cipolle entrò di diritto nei menu dei ristoranti, tanto da avere ad oggi versioni molteplici della stessa ricetta, con versione e varianti di cuochi famosi. Oggi vi presentiamo la nostra versione, che sarà impreziosita da tocchi di brace e fumo, ça va sans dire. Vediamo un attimo come prepararla e quali saranno gli elementi caratterizzanti. Partiamo col dire che gli elementi di questa zuppa, sono principalmente quattro: le cipolle, il brodo, il formaggio e il pane. PARTIAMO CON LA CIPOLLA. Come dicevamo in apertura, le tipologie sono svariate. Nessuno ci impedisce di utilizzare una cipolla di Tropea oppure una di Certaldo. Noi vi consigliamo, se possibile, la cipolla rossa di Breme, per dolcezza, croccantezza e digeribilità. In alternativa anche una comunissima cipolla dorata non comprometterà la buona riuscita del piatto. Abbiamo visto in precedenza i fattori chimici scatenanti la lacrimazione, ma noi vorremmo sorridere davanti ad un piatto così, pertanto

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Difatti se proviamo a intaccare, o a tagliare o comunque a rompere uno dei mantelli della cipolla, viene rilasciato un enzima che trasforma alcune sostanze in acido sulfenico. Questa molecola si trasforma in un gas irritante per le terminazioni nervose dell'occhio, in particolare per la cornea Uno degli espedienti utilizzati per lenire questo problema sta nel cercare di bloccare o

rallentare le molecole volatili del fattore lacrimogeno. Questo è possibile sfruttando il freddo o l’utilizzo dell’acqua durante il taglio. Basterà porre in freezer per una decina di minuti la cipolla da tagliare e utilizzare tagliere e coltello ben bagnato, per limitare la volatilità delle molecole con conseguente riduzione della lacrimazione. Quindi fatelo, perché per questa ricetta useremo cipolle in notevole quantità.

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cercheremo di trattare la cipolla con rigore scientifico e soprattutto i nostri occhi con maggiore riguardo. IL BRODO: L’ideale è farne uno non troppo saporito, che arricchisca ma non sovrasti il sapore dell’ingrediente principale. Noi useremo un brodo di pollo, ma va benissimo anche un brodo vegetale ben fatto. Per quanto riguarda il formaggio, nelle più svariate ricette che si trovano nei libri o girando qua e là sul web, il consiglio è sempre quello di usare un grouviere, un camembert o comunque un formaggio francese. Noi però non vogliamo solo un formaggio che si sciolga, ma che fonda, che sia equilibrato nelle dosi, non copra il sapore delle cipolle, si allinei al gusto del brodo e che non rimanga stucchevole. La fontina valdostana è quella che fa al caso nostro. INFINE IL PANE: Quello di semola a crosta dura sarà perfetto; ideale da tostare e da immergere nella zuppa senza che si sfaldi.

INGREDIENTI 4 persone 1 kg di cipolle 2 l di brodo di pollo o vegetale 250 g di fontina valdostana 50 g di grasso di Wagyu mezzo bicchiere di vino bianco secco 1 cucchiaio di zucchero di canna Olio extravergine d’oliva q.b. Sale q.b.

PREPARAZIONE 1. Procedete impostando il vostro dispositivo per una cottura diretta. 2. Lavate dapprima le cipolle e, dopo averle divise in due parti ciascuna per la lunghezza, tuffatele in acqua fredda e lasciate in ammollo per mezz’ora. 3. Scolatele dall’acqua in eccesso, asciugatele e spennellate la base delle cipolle con un filo d’olio extravergine di oliva, quindi mettetele in griglia a cauterizzare. 4. Toglietele dalla griglia quando avranno assunto i segni visibili di cauterizzazione e si siano dorate alla base. 5. Affettate finemente le cipolle e iniziate a cuocerle in una padella col grasso di Wagyu, per circa 10 minuti a fuoco lento. 6. Aggiungete quindi il vino secco e lasciate dealcolizzare a fiamma alta per qualche minuto. 7. Abbassate nuovamente la fiamma e inserite lo zucchero per caramellizzare maggiormente le cipolle. Quindi versate il brodo pian piano in cottura e lasciate cuocere finché le cipolle saranno cedevoli e caramellate, ma senza che scuriscano eccessivamente. 8. Preparate una fetta di pane per commensale. Strofinate su un lato per ogni fetta, uno spicchio d’aglio, ungete con un filo d’olio e salate quanto basta, quindi tostate in griglia sino a doratura. 9. Poggiate sulla base di un tegame in terracotta la fetta di pane tostato, versateci sopra la zuppa di cipolle e attendere che il pane venga a galla. 10. Grattugiate grossolanamente circa 60 g di fontina per fetta di pane, quindi ponete in forno o in dispositivo ad una temperatura di 220°C circa per ottenere una magnifica gratinatura.

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11. Lasciate riposare 5 minuti prima di servire. Vi verranno le lacrime agli occhi, sì, ma per la bontà e non a causa delle cipolle

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FILETTO CON FUNGHI E CASTAGNE ...più autunnale di così non si può

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fotografie di Tommaso Buccafurri

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Per celebrare l’autunno e lo splendore dei suoi colori abbiamo penato a un’altra ricetta col filetto di maiale ricetta raffinata ma di sicuro effetto! Può sembrare a prima vista un secondo piatto, ma è proponibile anche come antipasto. Camminando per i boschi in questo periodo, accompagnati dai profumi della terra umidiccia e dallo scricchiolare delle foglie cadute, con un minimo di attenzione, ci si imbatte spesso nei nostri amici funghi. Porcini, ovuli, chiodini e finferli diventano i protagonisti di questa meravigliosa stagione, immancabilmente accompagnati dal pregiatissimo tartufo bianco. E le castagne? Ne vogliamo parlare? Tra quelle che vantano il marchio IGP ed il prestigioso riconoscimento DOP, c’è solo da leccarsi i baffi… ma noi siamo quelli che non disdegnano nemmeno le castagne senza riconoscimenti. Vero, eh? Vi sfidiamo a dire il contrario. Le castagne, un tempo, erano considerate il pane dei poveri: ne esistono varietà più dolci, più minerali e sapide, ognuna ottima per l’uso appropriato. Noi per questa ricetta abbiamo utilizzato la castagna Riggiola, la cultivar di castagno più precoce della Calabria, che matura già nelle prime decadi di Ottobre. Tondeggiante, di dimensioni medio grandi e facile da sbucciare, presenta una polpa dolce e leggermente sapida. Ad armonizzare il tutto ci aiuteranno i cachi, con la loro polpa gelatinosa e leggermente acidulata ci ripuliranno per bene il palato, boccone dopo boccone. Per quanto riguarda invece la componente proteica del piatto, abbiamo scelto il filetto di maiale, leggermente affumicato con quercia rossa. La salsa di accompagnamento sarà una versione della meat glaze molto più veloce, ma saporitissima e lucida al punto da potercisi specchiare, spessa e perfetta per accompagnare i piatti di carne.

MEAT GLAZE 1. Partire dalla meat glacé. Tostate le ossa di manzo e gli scarti in forno a 230/240 gradi per 20/25 minuti. Devono risultare ben rosolate. 2. Nel frattempo lavate accuratamente carote, cipolle e sedano, anche senza sbucciarli, e tagliateli in pezzi regolari. La testa d’aglio invece sarà sufficiente tagliarla a metà nel senso della larghezza. 3. In una pentola che possa contenere almeno 4 volte il volume delle ossa fate scaldare un filo d’olio d’oliva e tostate le verdure a fiamma vivace fino a che non risulteranno bruciacchiate. 4. Aggiungete il vino e raschiate con vigore il fondo della pentola, dove si sarà attaccato e caramellato tutto il vero gusto della salsa, staccandola e diluendola nel liquido. 5. Dealcolate bene e con cautela inserite le ossa tostate e gli scarti in pentola. Coprite di ghiaccio e a fiamma bassa fate cuocere fino a ridurre almeno del 70% il liquido che si formerà. Otterrete così un’estrazione di sapori perfetta. 6. A questo punto filtrate con un colino cinese, spremendo bene ad ogni step per ricavare ogni goccia di questo succo meraviglioso.

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7. Riponete in abbattitore o in frigo fino a quando le parti grasse non affioreranno in superficie, separandosi.

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8. Eliminate con cautela il grasso aiutandovi con un cucchiaio e continuate a ridurre la salsa (che da fredda avrà l’aspetto


di un budino gelatinoso) di almeno un altro 15%, per un totale di circa 85% rimanente. 9. Aggiustate la consistenza e il sapore con il glucosio o il miele che ne aumenteranno anche la naturale lucentezza oltre a bilanciarne la sapidità e la potenza. Si conserva in frigo per mesi. FILETTO DI MAIALE 1. Stabilizzate il dispositivo per una cottura indiretta sui 125/130°C; successivamente, condite il filetto di maiale abbondantemente con sale, pepe e olio d’oliva. 2. Ponete in cottura indiretta affumicando con legno di quercia rossa o alberi da frutto fino ai 63/64°C al cuore 3. Date un passaggio veloce in diretta per ottenere una crosta profumata e croccante. Lasciate riposare fino ai 68°C al cuore. FUNGHI 1. Pulite i porcini in maniera classica. Con un panno umido rimuovete terriccio e impurità o se eccessivamente sporchi sotto un getto di acqua corrente in maniera rapida e decisa. 2. Tagliate la cappella in bocconi da 1/1,5 cm di lato, molto regolari per una cottura omogenea. I gambi potete utilizzarli per un buonissimo risotto o una tagliatella memorabile.

CREMA DI CALDARROSTE E GEL DI CACHI 1. Incidete le castagne con un coltello e ponetele in acqua a mollo per almeno 20 minuti. 2. Preparare il dispositivo per la cottura diretta e grigliare le castagne a calore forte finché non saranno tenere e dolci. 3. Sbucciate le castagne da calde (non bollenti, mi raccomando, calde) e mettetele a bagno nel latte per un paio d’ore. Portate a cottura le castagne con il latte aggiungendo la panna. 4. In un blender frullate il composto, quando il latte si sarà ritirato di 2/3 montate aggiungendo il burro a fiocchetti. Aggiustare di sale e pepe. 5. Passate la purea al colino cinese. Dovrà risultare molto liscia e vellutata, sostenendosi anche in altezza. 6. Frullate la polpa del caco con il succo di limone.

INGREDIENTI 4 persone Per il filetto: 400 g di filetto di maiale Duroc Sale q.b. Pepe q.b. Olio extravergine di oliva q.b. Per la crema di caldarroste: 365 g castagne Riggiole (circa 25 castagne) Acqua q.b. 1 l di latte intero 100 g panna 100 g burro di montagna Sale q.b Per il gel di cachi: 1 caco ben maturo 1 cucchiaino di succo di limone Per i funghi: 1 spicchio d’aglio 200 g di funghi porcini 1 cucchiaio di meat glacé 20 g burro di montagna Sale q.b. Pepe nero q.b. Per la meat glacé: 3 kg ossa e ritagli di carne di manzo

Assemblate ogni piatto così: con un medaglione di filetto condito semplicemente con olio e sale maldon, una quenelle di purea di caldarroste dalla parte opposta e la meat glaze servita caldissima al centro tra i due elementi, così da essere ponte d’unione. I funghi sparsi nel piatto, così come degli spot di gel ai cachi, che andranno a solleticare il palato anche con le loro note tanniche. Un antipasto chic che celebra l’autunno in tutta la sua generosità.

2 cipolle dorate 4 carote 3 coste di sedano 1 testa d’aglio Un mazzetto aromatico 500 g Barolo o Nebbiolo Ghiaccio q.b. 20 g miele oppure glucosio

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3. Riscaldate in una padella il burro con l’aglio tritato finemente fino a sentirne un profumo intenso e tostato. Aggiungete le cappelle e spadellate velocemente per

circa 10 minuti. A cottura ultimata aggiungete un cucchiaino di meat glaze e regolare di sale e pepe.

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Ricetta a cura di Michela Bongiorni

Fate i fichi... con il

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FILETTO DI MAIALE IN SOUS VIDE

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fotografie di Emiliano Nencioni


È il mese del maiale. No tranquilli, non sto parlando di oroscopo cinese (o di qualsiasi altra baggianata che parli di astrologia). Novembre è davvero il mese in cui più o meno in tutta Italia si celebra il nostro porco amico. Se siete di Parma conoscerete sicuramente il November Porc, una kermesse itinerante da Sissa a Polesine Parmense, da Zibello a Roccabianca, che celebra il maiale (e la nebbia della bassa). Questa infatti è la stagione in cui tradizionalmente i norcini davano inizio alla macellazione per procurarsi i prodotti derivati. Ancora oggi viene celebrato questo evento molto importante, e quasi rituale della vita contadina di tanti anni fa, con feste e sagre dove gustare i vari prodotti locali: salsicce, salami, cotechini, prosciutti e carni da cucinare. Il November porc è probabilmente il più famoso in Italia, ma non mancano altri tipi di eventi sparsi perlopiù nel Nord Italia, che purtroppo quest’anno saranno annullati causa Covid-19. Ma confidiamo e speriamo tutti nel 2021.

Ok, fate scorta di filetti di maiale sul Megastore (sorrisino!) e non perdete altro tempo. La ricetta è servita.

INGREDIENTI 4 persone 2 filetti di maiale Duroc del Megastore un bicchiere di succo di pompelmo 8 fichi secchi 300 g di noci sgusciate Sal’s Seasoning Ultimate SPOG q.b. qualche fogliolina di menta aceto balsamico di ottima qualità timo q.b. olio extravergine di oliva q.b. un pizzico di sale

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Anche noi abbiamo voluto celebrare questo evento con un numero dedicato in gran parte al porco, come avete già potuto constatare. Da qualche mese, oltretutto, sul nostro Megastore abbiamo introdotto tagli suini di Duroc, una razza americana che più volte abbiamo definito “il Black Angus dei maiali”. È più leggero dei suini a cui siamo abituati, ha un colore tendente al mogano e un sapore più intenso grazie a una percentuale più elevata di marezzatura. Il suo PH è più elevato e quindi la sua carne è più tenera e più succosa. Il filetto di questo animale si trova nella lombata, nella parte posteriore. È composto da quattro muscoli: il grande psoas, il piccolo psoas, il quadrato dei lombi e l'iliaco laterale. Più piccolo di quello bovino, è un taglio molto tenero e abbastanza magro, che viene cotto di solito intero e poi scaloppato. Diciamolo subito, così tagliamo la testa al… Duroc: sì, ovviamente per le ricette presentiamo i nostri prodotti. Ogni tanto ci accusano di essere troppo autoreferenziali. Beh, nessuno vi costringe a utilizzare il miglior maiale che possiate trovare sul mercato, il nostro è un suggerimento. Non siamo comunque responsabili dei risultati, qualora scegliate di utilizzare altro, ma siete comunque liberi di farlo. Tornando al nostro filetto, a questo giro abbiamo voluto cuocerlo in sous vide, poi gli abbiamo fatto il searing finale in padella e infine lo abbiamo servito con un’insalata di fichi secchi, noci, aceto balsamico e menta. Insomma, in un solo boccone troverete tutto: il croccante delle noci, il balsamico dell’aceto, la freschezza della menta, il dolce dei fichi (con un tocco di acidità grazie al succo di pompelmo) e, ovviamente, la morbida succulenza del maiale che grazie alla cottura sous vide rimarrà leggermente rosato e tenerissimo. Ci è sembrata un’ottima occasione per celebrare a modo nostro il November porc, con sapori autunnali e direi quasi natalizi: fichi secchi e noci, in molte parti d’Italia. rappresentano la naturale congiunzione tra i luculliani pasti delle feste, quando i parenti non si alzano nemmeno da tavola e, mentre giocano a carte o a tombola, giusto per fermare lo stomaco, si dilettano mangiucchiando la frutta secca.

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PREPARAZIONE 1. Cospargete leggermente i filetti con lo SPOG su entrambi i lati. 2. Inserite il filetto in una busta adatta alla cottura e mettetelo sottovuoto. Immergete la busta nel bagno d'acqua a 62°C e impostare il timer su 2 ore. Coprire il contenitore di cottura con un coperchio. 3. Terminata la cottura, estraete la busta dal bagno d'acqua e immergetela in acqua fredda finché la carne non si sarà completamente raffreddata. Nel frattempo mettete a bagno i fichi secchi nel succo di pompelmo per almeno un’ora. 4. Estraete il filetto e asciugatelo completamente tamponandolo con carta assorbente. 5. Preparate il condimento: tagliate i fichi secchi a pezzetti, piccoli e mescolateli insieme al timo, a un poco d’olio extravergine di oliva, alle noci spezzettate e a un po’ di menta tritata. 6. Ungete il filetto con un filo d’olio, scaldate bene una padella in ghisa e fate il searing finale alla carne, senza bruciacchiarla.

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7. Scaloppate il filetto e servitelo con l’insalata di noci e fichi secchi, finendo il tutto con l’aceto balsamico.

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LA PORCHETTA PERFETTA AL FORNO Si. Può.Fare.

Non è la prima volta che sul Magazine parliamo della regina dello street food italiano. L’anno scorso l’abbiamo presentata anche con un ripieno morbido, in versione tronchetto. Come avrete letto sull’articolo in cui parliamo di quella umbra, c’è una differenza sostanziale tra il tronchetto e il maiale intero: sono parenti tra di loro, certamente, ma cambiano e non poco le procedure di cottura. Va da sé che, per farsela in casa e per mangiarla coi familiari e con gli amici (non più di sei, per carità, sennò rischiamo la denuncia!), sia molto più facile e gestibile cucinare un tronchetto piuttosto che una bestiolina intera. Sappiamo inoltre che molti dei nostri lettori, sia per esigenze familiari e/o condominiali, sia per scelta o mancanza di occasioni, non dispongono di un dispositivo per la cottura a carbone o a gas, e quindi spesso optano per la cottura in forno: il nostro motto da sempre è “se lo puoi cucinare, lo puoi grigliare”; beh, è vero anche il contrario. E anche qui permettetemi una piccola digressione: ci è capitato nel corso di questi – quasi- due anni di Magazine che qualche lettore si lamentasse del fatto che non parliamo solo di bbq e di ricette laide e corrotte, super formaggiose, super colanti di succhi e di salse. Ho già avuto modo di scrivere questa precisazione anche in community: il nostro Magazine non tratta solo di bbq per scelta editoriale, per il semplice motivo che questo tipo di cottura è solo una delle tante espressioni della cucina. Non puoi saper grigliare se non sai anche cucinare bene, non puoi saper cucinare bene se non sai farlo col metodo scientifico che da tanto tempo vi stiamo presentando attraverso le ricette di Gianfranco Lo Cascio. Questo non significa che abbiamo rinnegato il mondo bbq (e questo numero ne è un esempio): abbiamo solo ampliato gli orizzonti e abbiamo pensato alle esigenze di tutti i lettori. E i risultati si vedono: al netto di qualche, ormai rara, voce fuori dal coro che si lamenta a prescindere, tutti gli utenti ci ringraziano tutti i mesi dicendo che ogni numero è migliore di quello precedente. E questo ci dà la misura di quanto siamo sulla strada giusta. Tornando quindi al nostro “Tronchetto di Porchetta”, per tutti i motivi fin qui citati e anche per il fatto che, entrando ormai nella stagione delle piogge (e della neve, per chi abita in zone fredde) molte persone potrebbero non aver voglia di cimentarsi con le cotture all’aperto, abbiamo pensato di darvi una procedura sicura, semplice ed efficace per avere un bel risultato utilizzando il forno di casa. Quindi vediamola insieme.

per un tronchetto per 6 persone circa una pancia di maiale Duroc da circa 1,5 kg 2 filetti di maiale Duroc da circa 500 g l’uno un cucchiaino di sale pepe in abbondanza mezzo cucchiaino di semi di finocchio un cucchiaino e mezzo di aglio in polvere un cucchiaino e mezzo di rosmarino in polvere olio extravergine di oliva q.b. spago da cucina

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LA MATERIA PRIMA Lo dicono sempre sia Gianfranco Lo Cascio sia tutti i nostri redattori responsabili della stesura delle varie rubriche presenti sul Magazine, da quella sulla panificazione a quella sui formaggi: la materia prima è fondamentale per il risultato.

INGREDIENTI

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So che può sembrare banale dirlo e ribadirlo, ma vi assicuro che non è così: in tempi in cui tutto viene messo in discussione, anche consigliare una materia prima rispetto a un’altra viene visto con sospetto dal complottaro medio. Ah, per forza, la vendete! Il mio macellaio con trentamila lire me ne dà il triplo ed è buonissima. Non è mica vero che solo la vostra è la migliore, ci sarà qualcosa sotto. A nessuno viene mai il sospetto che, se abbiamo scelto di vendere questa carne, non sia per chissà quale complotto o accordo segreto con la lobby dei macellai dei ricchi, ma sia perché, semplicemente, è la migliore che abbiamo trovato? E dato che abbiamo come mission aziendale quella di darvi un’esperienza a tavola che vi faccia fare le capriole sulla sedia (cit.), è ovvio che siamo qui a dirvi: ehi, comprate la nostra, perché è la migliore. Ho avuto già modo di scrivere su un altro articolo che nessuno vi obbliga, ma noi certamente vi consigliamo per il meglio. E il meglio, che ci crediate o meno, è questo. D’altronde, non ho mai visto sul sito della popolare crema spalmabile alla nocciola un post che dicesse: comprate quella della concorrenza, tanto è uguale. Detto ciò, parliamo appunto della materia prima: abbiamo usato pancia e filetto del maiale Duroc, gentilmente fornitoci dal nostro Megastore. Il Black Angus dei maiali. Una marezzatura importante, una morbidezza estrema. La sicurezza di un risultato decisamente superiore a qualsiasi altro mai assaggiato fino ad ora, in termini di succulenza e tenerezza. Provate per credere.

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Nel nostro caso, abbiamo scelto di fare un tronchetto decisamente non grande, che potesse essere messo in forno e gestito in modo agevole. Ovviamente, ciò che fa la differenza tra una porchetta mediocre e quella perfetta è sempre lei: la cotenna croccante. In molti pensano che nel forno non sia possibile ottenerla con facilità, ma siamo qui apposta per dimostrarvi il contrario.

fotografie di Emiliano Nencioni


PREPARAZIONE 1. Togliete eventuali setole residue sulla cotenna servendovi di pinze o di un cannello e poi cospargete l’interno della pancetta con la miscela di spezie. 2. Adagiate i filetti al centro della pancetta e, sempre tenendo la parte con la cotenna all’esterno create un rotolo che li avvolga; fermate il tutto con dello spago e una serie di nodi ben piazzati procedendo in questo modo: si passa lo spago sotto e sopra la porchetta, legando le due estremità del filo. La stessa cosa si fa passando lateralmente. Dopo aver fatto i nodi non si deve tagliare il filo: è molto più comodo lasciarlo attaccato alla matassa, così non si rischia che a un certo punto manchi. Con il filo si forma un cappio e si infila la mano al suo interno, girandola su se stessa due volte per formare un attorcigliamento alla base del cappio. Con il cappio attorno alla mano, si afferra l’estremità del tronchetto e si fa scivolare lo spago sotto ad esso, in modo che entri nel cappio. A questo punto si sfila la mano dallo spago e si tira per stringerlo attorno alla carne. Si continua a procedere allo stesso modo per legare tutta la porchetta: ogni volta che si infila la carne nel cappio, bisogna spostarsi di un paio di cm rispetto al punto precedente. Completata la gabbia, ripetendo questa operazione su tutta la lunghezza del tronchetto, si ferma la legatura con un nodo all’estremità. Si taglia a questo punto lo spago et voilà: il tronchetto è pronto per essere cotto. 3. Accendete il forno statico ad una temperatura di circa 110-120°C, posizionate il vostro tronchettino sulla griglia a metà altezza e sul fondo mettete una leccarda per raccogliere l’inevitabile grasso che si scioglierà durante la cottura. Come posizionare la porchetta? Con la parte dei due lembi della pancia, che si incontrano dopo la legatura, sotto. Questo permetterà al grasso in eccesso di colare giù e vi permetterà di non bucherellare la cotenna. 4. Tenete la porchetta nel forno alla temperatura consigliata finché non raggiunge i 78/80°C al cuore, cercando di aprire il meno possibile il forno: fatelo solo se volete spennellare la cotenna con dell’olio, del burro o dello strutto. 5. Arrivati alla temperatura target (ci metterete qualche ora, ed è giusto così), alzate la temperatura del forno al massimo. L’acqua presente nella pelle, andando velocemente in ebollizione, farà gonfiare gli strati dell’epidermide facendoli diventare friabili. La chiave è tutta lì, nella velocità. Bisogna alzare la temperatura in maniera repentina. Vedrete che la cotenna comincerà a formare delle bollicine e a scoppiare come un pop corn. A quel punto, potreste notare che fa fatica a scoppiare anche nelle parti laterali: il rischio è quello di farla bruciacchiare sulla parte alta aspettando che esploda anche ai lati. Niente paura: aiutandovi con un supporto molto casalingo, quale può essere una pallina di fogli di alluminio, girate prima su in lato e poi sull’altro la vostra porchetta, fermandola appunto con l’alluminio affinché non rotoli su se stessa, e aspettate di vedere la cotenna che si “popocornizza” ovunque.

Immancabile la foto sui social con hashtag #seèpornotolgo, ma non ditelo al Community Manager.

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6. Non vi resta che toglierla dal forno, aspettare che si raffreddi leggermente (nel frattempo potete preparare salse di accompagnamento di vario genere, nei Magazine vecchi ne troverete in abbondanza) e poi servirla: al piatto, nei panini, con le mani unte e bisunte. Insomma, fate come più vi aggrada, solo una cosa è certa: sentirete per qualche minuto solo il silenzio interrotto da tanti crunch! e sospiri di ammirata soddisfazione.

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a t t e h rpo cumbra

a r e v la

...con un finale a sorpresa*

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Approfondimento a cura di Riccardo Meniconi

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Il maiale in Umbria fa parte della quotidianità: è un animale simbolo della regione, la colonna portante dell'alimentazione e della cultura di questo pezzo di Centro-Italia; nelle campagne umbre, ogni famiglia aveva (e molto spesso ha tutt'ora) un suino nella stalla. Il porco casalingo è servito e riverito, è un animale dall'aura sacra - non solo per le imprecazioni dei vecchi contadini - ma anche perché, di lui, non si butta via niente. Da ragazzini, in Umbria, almeno una volta abbiamo raccolto nella macchia mele o ghiande da portare al "Nino", che le reclamava ghiotto dal recinto e, sempre da ragazzini, almeno una volta abbiamo sbirciato di nascosto e con indomito coraggio il lavoro sporco che il norcino (cioè, la figura preposta alla macellazione del maiale) veniva a svolgere nel periodo tra Dicembre e Febbraio. Quello dei norcini è un antico mestiere nato nel cuore verde d'Italia. La loro minuziosa bravura nel macellare i suini, nel periodo dell'Impero romano e successivamente nel Medioevo, li vedeva spesso essere paragonati - per precisione - ai chirurghi.

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Ma parlando di campagna e di maiali, non può che venirci in mente il suo setting prediletto per la vendita, il mercato settimanale. Ogni frazione o piccolo comune che si rispetti, nella nostra Umbria, ne ha uno. Ed ogni mercato degno di questo nome deve rispettare dei precisi standard qualitativi: la bancarella dei fiori, quella della frutta/verdura, quella dei vestiti pe’ nonna, la bancarella con polli, anatre, pulcini da comprare per arricchire il pollaio, e soprattutto è FONDAMENTALE il porchettaro. Ogni mercato rionale ha il suo, proprio ed esclusivo. E' metà mattinata, il vociare degli anziani e degli ambulanti è quasi assordante, il ricordo della colazione è quasi svanito e lo stomaco reclama cibo. Siamo lì, con le borse piene dei nuovi acquisti di nonna, mentre l'oasi del suino si staglia all'orizzonte come meta, salvezza per i camminatori del deserto. Non nominerò porchettari specifici, perché dalle mie parti questo significherebbe dare il via ad una significativa guerra civile, ma posso parlarvi dei tipi di avventori che ho avuto il piacere di conoscere durante le mie lunghe ore accumulate in fila di fronte ai food truck della porchetta. C'è chi preferisce portarsi a casa la porchetta nella "scartata", così, al naturale, solo con una abbondante cascata di sale; chi vuole un panino con solo la parte magra così da sentirsi meno in colpa (solitamente, questi individui hanno qualcosa da nascondere, quindi diffidate); c’è chi predilige la parte grassa, più gustosa e saporita; ci sono poi i vecchietti, simili agli umarell, che accerchiano il camioncino modalità "squalo" per accaparrarsi la testa del maiale; e poi c’è chi, come me, preferisce il panino dei campioni: con abbondante crosta e fegatelli, da vero intenditore. Il panino, solitamente, è composto in tal guisa: pane croccante, fresco di giornata (rosetta o panino all'olio) che viene farcito con la porchetta appena tagliata, una fetta di parte magra e una di parte grassa, il fegatello, una spolverata di sale e a coprire un

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bel pezzo di cotenna croccante. Qui, mi raccomando: se non è abbastanza croccante, potrebbe rovinare tutto il panino.

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Ma il porchetto, come diventa porchetta?

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Iniziamo col dire che quando si parla di porchetta in Umbria si intende l'arte di arrostire un maiale intero – testa compresa - disossato (ma esistono anche versioni con l'osso come la porchetta di Costano, cotta rigorosamente nel forno a legna), svuotato dalle interiora, e farcito con finocchietto selvatico, aglio, sale e pepe. La differenza tra arrostire un maialino intero e cuocere un tronchetto potete immaginarvela. Ci vuole molto più spazio nel primo caso, poi ci vuole molta più esperienza, Tuttavia, se ne tempo prenderete dimesti-

chezza con questa pratica e se disponete di un dispositivo con girarrosto abbastanza grande, il mio consiglio è quello di provare la versione intera. La preparazione inizia scegliendo accuratamente il capo da macellare, con il giusto rapporto tra parte grassa e parte magra. Solitamente, si usa la femmina del maiale appositamente allevata. Una volta pulita e disossata si procede alla speziatura: una massiccia ma calibrata dose di sale (circa 30 g/kg) e pepe (a piacimento) viene strofinata sulle carni sulle quali poi viene fatta cadere una pioggia di aglio schiacciato e finocchietto selvatico. Questo, per me, è un momento commovente. Ogni volta che sento l'aroma del pepe e dell'aglio che si

mescolano alla carne fresca di maiale la mia mente vola a casa dei nonni, qualche giorno dopo l'8 dicembre, quando tutta l’abitazione, inondata da questi aromi, si riempiva di amici e familiari che, con l'aiuto di un norcino esperto, si dedicavano alla spezzatura del maiale, alla produzione di sanguinaccio e coppa di testa, per poi passare a salsicce, lonzini e capocolli (coppe); si lavoravano prosciutti e spallette da mettere a stagionare in cantina e si beveva (loro, io ancora ero troppo piccolo, ahimè, ma mi sono rifatto nel tempo) qualche bicchiere di vino. Lasciamo la valle dei ricordi e torniamo alla nostra porchetta: dopo aver tagliato e speziato il fegato, lo si dispone all'interno del maiale per poi procedere alla sapiente legatura, operazione


assai importante per la buona riuscita della porchetta. Si posiziona una grossa asta di metallo al centro (che servirà per agevolare lo spostamento del capo) e ci si avvolge la carne tutta intorno, per poi cucirne i lembi con uno speciale ago ricurvo (negli anni passati, questo era fabbricato partendo dal rebbio di un ombrellone) e uno spago molto spesso composto da fibre naturali. Una volta completata la prima cucitura si procede alla legatura esterna: si fa passare lo spago sotto la porchetta e si stringe saldamente con una serie di cappi che vanno dalla coda alla testa. Qui tappate le orecchie e gli occhi allo Zio, perché il metodo che vado a descrivervi non ha niente di scientifico o di perfetto, ma è quello usato dai porchettari: prima si praticano delle incisioni

con un coltello molto affilato per tutta la cotenna poi l’animale viene introdotto per almeno due/tre ore all'interno di un forno capiente (dipende dalla dimensione dell’animale, che non dovrebbe comunque superare i 90 kg) alla temperatura di 200°C, al fine di rendere croccante la cotenna; la temperatura viene poi abbassata molto (circa 120°C) e l’animale lasciato in rest (uso questo termine familiare a noi, non certo ai porchettari umbri) per altre sei/otto ore, a seconda della dimensione. Il maiale così cuoce nel suo stesso grasso che, grazie ai fori praticati in precedenza, colerà all'interno di una teglia (cosa combineremo poi con quella teglia è un'altra storia...*). Prassi comune è che la cottura avvenga in notturna, per avere così la porchetta pronta nelle

prime ore del mattino, pronta ai banchetti descritti poco più su. L'odore che pervade i vicoli nemmeno ve lo sto a raccontare: per me, probabilmente è quello che più si accosta al profumo del Paradiso. Non resta che aprire un panino e sentire il coro degli angeli. Vi lascio con questa massima in dialetto Umbro.

"Tuttu me pare meno che 'na partita a tressette, dicìa lu porcu su lu tavolacciu." "Tutto sembra fuorchè una partita a carte, disse il maiale steso sul tavolo"

* Bonus Track : Il Cicotto di Grutti Compagno fedele della Porchetta, nei chioschi ambulanti dei mercati cittadini fa capolino questa specialità, riconosciuta dal presidio Slow Food; è una pietanza strana, appiccicosa e unta: quindi, che ve lo dico a fare, super goduriosa. Sono tutti gli scarti del maiale (orecchie, zampetti, coda e altre parti coriacee) messi a cuocere sotto alla porchetta, in teglie (sesti, così vengono chiamati da noi) che raccolgono tutti gli umori e i sapori della carne. In questo modo si aggiunge sapore al prodotto.

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Grazie alla cottura molto lenta, che va di pari passo con quella della porchetta, il cicotto rimane morbido e ricco di aromi. Terminata la cottura, lo si lascia raffreddare, si scolano il grasso e i liquidi di cottura in apposite ceste e poi è pronto per il consumo. E’ ottimo anche conservato e riscaldato. Spesso si accompagna a ceci o a fagioli, ma viene messo da parte anche per la preparazione di sughi.

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Ricette a cura della Redazione

MONT BLANC

...è tutta questione di equilibrio Vi presentiamo un grande classico della pasticceria autunnale: il Mont Blanc, una preparazione tipica della Valle D’Aosta, del Piemonte e della Lombardia. E’ un dolce al cucchiaio, realizzato con purea di marroni aromatizzata al rhum e cacao, dal cuore di meringa e decorazioni di panna. Ci pensa Nanni Moretti a descrivere questo dolce, nel film Bianca:

“Lei non faccia il tunnel! Lei mi sta scavando sotto e mi toglie la panna, la castagna da sola sopra non ha senso. Il Mont Blanc non è come un cannolo alla siciliana che c’è tutto dentro, è come uno zaino: lei se porta appresso per un mese e sta sicuro. Il Mont Blanc si regge su un equilibrio delicato non è come la Sachertorte!” Bene, facile capire da dove deriva il nome di battesimo: fu battezzato Mont Blanc perché la sua forma conica e la guarnizione bianca ricordava il profilo del Monte Bianco innevato, situato al confine tra Italia e Francia. Va da sé che il nome stesso è un chiaro indizio delle sue origini. Infatti sembra proprio che il dolce sia nato nel Ducato dei Savoia, il cui territorio era a cavallo tra la Francia e l’Italia come la montagna stessa. Proviamo invece a collocarlo cronologicamente: pare che la sua nascita sia avvenuta nel XVII secolo, quando i pasticceri di corte idearono una preparazione dolciaria con le castagne, di cui il regno era ricco, aggiungendo però una new entry, cipoè la barbabietola da zucchero importata dai numerosi viaggi nelle Americhe. Il successo di questa golosa preparazione è dimostrato dalla sua presenza ne “La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene” di Pellegrino Artusi (1891), in cui viene presentata con il nome di “Dolce di marroni con panna montata”. Con il tempo, come tutti i dolci di gran successo, anche il Mont Blanc è stato oggetto di rivisitazioni: in alcune preparazioni il cacao in polvere è stato sostituito con quello fuso, rendendo il gusto del cioccolato più marcato; talvolta al cuore croccante di meringa si è preferita una stratificazione di pan di spagna e crema; a volte la purea di marroni è stata usata per farcire gli strati di una una torta classica con meringhe e cioccolato, che ricorda nei gusti il Mont Blanc perdendo tuttavia completamente l’aspetto caratteristico.

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La ricetta che noi vi proponiamo è quella classica, facile da realizzare anche se richiede i suoi tempi di preparazione.

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INGREDIENTI 6 persone 600 g di marroni 400 ml di latte intero 220 g di zucchero semolato bianco una bustina di vanillina 20 g di cacao in polvere amaro un pizzico di sale 250 ml di panna 30 g di zucchero a velo 100 g di albumi


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PREPARAZIONE 1. Partiamo dalle meringhe. Nella planetaria impostata alla massima velocità, lavorate gli albumi con 100 g di zucchero semolato. Lo zucchero va inserito poco per volta. Gli albumi sono pronti quando una volta sollevata la frusta rimane attaccato un bel ciuffo compatto. Solitamente i tempi di preparazione sono di cinque minuti. 2. Pre-riscaldate il forno statico a 90°C. 3. Inserite gli albumi montati in una sac à poche e, su una teglia rivestita con della carta forno, create le meringhe. 4. Infornate per due ore circa, senza chiudere totalmente lo sportello: per bloccare lo sportello, utilizzate il manico di un mestolo di legno. 5. Passiamo alla preparazione dei marroni. Incideteli lungo tutta la buccia, facendo il giro per poi lessarli in abbondante acqua. Una volta raggiunto il bollore, lasciateli andare per una quindicina di minuti. 6. Una volta pronti, tirateli fuori dall’acqua un po’ per volta e sbucciateli. Più sono caldi, più sarà veloce togliere la buccia. 7. Terminata questa operazione, in una pentola unite alla polpa il latte, lo zucchero semolato (120 g) e la vanillina. Cuocete il tutto a fuoco basso, avendo cura di mescolare ogni tanto. Il composto è pronto quando tutta la parte liquida è stata assorbita 8. Versate il composto in una ciotola e aggiungete il liquore e il cioccolato in polvere. Amalgamate il tutto. 9. Iniziate ad assemblare il dolce. Prendere il piatto da portata, al centro disponete le meringhe (non tutte quelle che avete preparato) in forma piramidale. 10. Prendete uno schiacciapatate, inserite la purea un po’ per volta e schiacciando iniziate a ricoprire le meringhe con un movimento circolare, fino ad ottenere la classica forma conica. Continuate fino a che non avete terminato il composto.

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11. Riponete la vostra montagna in frigo e montate la panna con lo zucchero.

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12. Una volta pronta guarnite il vostro Mont Blanc secondo i vostri gusti. Le meringhe avanzate potete usarle come guarnizione, occhio a non esagerare.


CHE MONDO SAREBBE SENZA...

fotografia di Emiliano Nencioni

Una preparazione a quattro mani a cura di Alessandro Trezzi e di Giovanni Minelli

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PARTE 1

IL PANE

da salsiccia perfetto L'Arte Bianca a cura di Alessandro Trezzi

Che mondo sarebbe senza salsiccia?

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No, seriamente: riuscite a darmi il nome di un altro cibo così versatile, godurioso e apprezzato da tutti?

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Le prime notizie storiche relative alla salsiccia risalgono all’Impero romano, precisamente ad un riferimento letterario di Cicerone che aveva assaggiato le salsicce portate fino nella capitale dalle schiave delle popolazioni lucane assoggettate a Roma. In quella che oggi è l’attuale Basilicata, già allora si producevano insaccati di qualità sopraffina (almeno per i tempi, s’intende) tanto da meritarsi un appellativo geografico tipico: “della Lucanica”, ossia la Lucania. Nel suo scritto Cicerone ne tesseva le lodi, definendo il sale come l’aroma perfetto per il maiale. Tra l’altro il sale era ingrediente assolutamente imprescindibile per permettere il trasporto e la conservazione nel tempo. Nello stesso periodo anche Marco Terenzio Varrone nel suo “De Re Rustica” raccontava i deliziosi salumi provenienti dalla Lucania e utilizzati dai soldati romani in guerra. Tuttavia, la salsiccia rimaneva semplicemente carne tritata e insaccata nel budello,

illustrazioni di Ozzy Bellesi


mentre sarà più avanti Marco Gavio Apicio a trattare una ricetta specifica nel suo “De Lingua Latina”. Diverso tempo dopo il milanese Ortensio Lando documenta nel suo tour gastronomico in Italia le diverse località e le relative zone di produzione degli insaccati: tra queste Bologna, Modena, Monza e Lucca. Provate a togliere il maiale a un modenese, lo difenderà al posto della sua stessa vita. La verità è che per quanto l’arte dell’insaccato (crudo o stagionato) sia diffusa in tutto il mondo, la salsiccia italiana è senza ombra di dubbio riconosciuta in tutto il globo, e come accade per la stragrande maggioranza delle famiglie gastronomiche, viaggiando da Nord a Sud per lo stivale è possibile trovare centinaia di tipologie diverse. Luganega, salamella, toscana e a punta di coltello sono solo alcune delle più celebri e diffuse nella nostra penisola, ma come spesso vi sarà capitato di sentire, una delle migliori soddisfazioni è quella di crearsela in casa, selezionando il corretto mix di tagli di carne, la percentuale e il tipo di grasso, la quantità di sale e di pepe, gli aromi e tutte le personalizzazioni del caso. Vostra nonna la fa con il peperoncino, vostro cugino con il finocchietto e parmigiano a cubetti, lo zio con la cotenna e Pino il salumiere con un mix di spezie super segreto. E indovinate un po’? La loro salsiccia sarà sempre la migliore del mondo. E questo, è un mondo bello perché vario. C’è un però: come in tutte le cose, il metodo scientifico non sbaglia mai. Vale per la cottura di una bistecca, per la carbonara, per il ragù, per il pesto e... sì, anche per le salsicce. Poteva quindi esimersi BBQ4All dal creare la propria versione di questo insaccato tanto italiano? E potevo forse esimermi io dal proporvi il pane perfetto per contenere e degustare una salsiccia di suino a dir poco spaventosa, leggermente speziata e con aggiunta di cheddar e jalapeno? Direi proprio di no. Scopriamo insieme come farlo, che ne dite?

L’obiettivo

Ripetiamo la solita regola, che vale anche in questi casi: il

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Quindi, pensiamoci bene: abbiamo un insaccato molto bilanciato nel grasso e nel magro, con una buona aggiunta di formaggio sapido e intenso, una piccola dose di paprika e un kick deciso grazie al peperoncino jalapeno. Una salsiccia certamente carica ma molto equilibrata, che risveglia doti ancora più incredibili con l’aggiunta di un ingrediente per nulla insolito: l’affumicatura di ciliegio.

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miglior panino possibile deve contenerla per intero, non deve sfaldarsi durante l’esperienza gustativa né sovrastare, ma non dovrà nemmeno risultare completamente nascosto e insignificante. Per sorreggere i giganti ci vogliono altri giganti, non credete? Ecco perché nel pensare a un pane perfetto per la salsiccia BBQ4All mi sono lasciato trasportare dai ricordi, da quel magnifico currywurst assaggiato in un food truck nel centro di Berlino; se l’Italia è la patria della salsiccia, la Germania è innegabilmente terra dei würstel, e questa particolare variante nient’altro è che una “salsiccia” grigliata, tagliata a rondelle e condita con una generosa dose di ketchup e curry in polvere, servita con pane bianco o patate fritte. Perché non riproporre quindi il concetto, affiancando agli aromi speziati dell’insaccato un’aggiunta di curry inserendolo questa volta nel pane come elemento aromatizzante? E non è finita: per sorreggere l’insieme caratterizzando il tutto inseriremo nella miscela la miglior farina multicereali che riuscirete a trovare in giro, conferendo rusticità e arrotondando il gusto complessivo. Il risultato dovrà essere un filoncino dalla forma di un pane per hot dog, con crosta assente, estremamente morbido ma profumato a dismisura, dal colore giallastro dato dall’aggiunta del curry con le note scure regalate dalla vostra farina multicereali.

Il Water Roux

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Anche questa volta ci affideremo al Water Roux per assicurarci il duplice vantaggio di una sofficità ancor più estrema oltre che di una shelf-life incredibile. Dicevamo, Water Roux: ricapitoliamo di cosa si tratta, che è meglio.

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Dicesi Water Roux (o Tang Zhong in lingua originale) è una semplicissima tecnica di derivazione cinese che consiste nell’utilizzare farina e acqua in proporzione di 1:5, dove la farina deve essere il 6% del peso totale utilizzato. La preparazione è molto simile a quella del roux preparato per la besciamella, un addensante naturale: il composto viene riscaldato in un pentolino fino al raggiungimento dei 65°C (stando attenti a non incorrere nella formazione di grumi) e poi

fatto raffreddare con pellicola a contatto prima di aggiungerlo al resto degli ingredienti. L’unione del Water Roux freddo all’impasto darà incredibili benefici: • L’impasto risulterà più morbido e idratato; • La sua particolare azione emulsionante consente di raggiungere risultati ottimi in termini di conservabilità e sofficità, eliminando l’uso di grassi soprattutto in caso di intolleranze alimentari; • La shelf-life guadagna punti, consentendo di mantenere intatte le caratteristiche del prodotto per 3-4 giorni in frigorifero.

L’esplosione di sapore Tutto molto bello, direte voi: ma che divertimento sarebbe se non potessimo giocare con gli ingredienti e i metodi, sfruttando questo particolare pre-fermento cinese, il calore e la gelatinizzazione degli amidi per far esplodere ancora di più il sapore? Basterà aggiungere il curry alla miscela ed utilizzare la farina multicereali per il roux per risvegliare l’incredibile aroma di grani e spezie e invadere la stanza di profumi mai sentiti fino ad ora.

I compagni di viaggio Perché il panino risulti leggero, ben sviluppato ed equilibrato nel gusto, è tuttavia fondamentale utilizzare la solita tipo 00 o 0 come base, in modo da sostenere l’insieme con una maglia glutinica salda e senza interruzioni, con un risultato più performante ed esente da difetti in fase di lievitazione; tenete inoltre presente che tra gli ingredienti figura una quantità consistente di grassi ed elementi di peso, quindi una maglia glutinica solida sarà in grado di sostenerne perfettamente il carico oltre a trattenere i gas della lievitazione e conferire struttura, solidità ma anche morbidezza. Latte e burro rendono l’impasto più estensibile, malleabile: avvolgendo le bolle di anidride carbonica che si formano durante la lievitazione le stabilizzano. L’alveolatura diventa così più omogenea e la struttura della mollica molto soffice; tali fattori aumentano notevolmente la shelf-life del prodotto finito. Le proteine dell’uovo, invece, possiamo dividerle in schiumogene e coagulanti nell’albume ed emulsionanti nel tuorlo.


INGREDIENTI Per il Water Roux: 60 g di farina multicereali; 300 g di acqua; 10 g di curry inglese in polvere;

Per l’impasto: 750 g di farina di grano tenero di tipo 00 (300 W); 190 g di farina multicereali; 250 g di acqua; 170 g di burro morbido; 1 uovo e un tuorlo (a temperatura ambiente); 18 g di sale fino o integrale; 10 g di lievito di birra fresco (4 g se lievito secco).

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Procedimento Le fasi previste sono: • Preparazione del Water Roux; • Impastamento; • Puntata o prima lievitazione; • Staglio e formatura dei panetti; • A p p r e t t o o s e c o n d a lievitazione; • Cottura.

Preparazione del Water Roux

Posizionate un pentolino sul fuoco e versate l’acqua, poi il curry e la farina a pioggia. Mescolate energicamente con la frusta per impedire la formazione di grumi, e attendete il raggiungimento dei 65°C. Il Water Roux sarà pronto quando la consistenza sarà simile a una gelatina e comincerà a vedersi il fondo del pentolino, ma non dovrà mai divenire troppo denso. Togliete dal fuoco, lasciate intiepidire leggermente, poi coprite con pellicola a contatto e lasciate raffreddare fino a 48 ore in frigorifero. Il composto non può essere aggiunto all’impasto da caldo, in quanto provocherebbe la morte dei lieviti.

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Impastamento

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Rovesciate in un recipiente ampio o nella vasca della vostra planetaria le farine, il Water Roux, metà dell’acqua e il lievito sbriciolato; dopo aver amalgamato bene aggiungete l’acqua rimanente poco alla volta. Aggiungete quindi burro e uova devono necessariamente essere a temperatura ambiente; potete agevolarvi unendoli in precedenza e creando un composto morbido da inserire

spatolata dopo spatolata, attendendo che la quantità precedente sia stata assorbita prima di mettere la successiva. Aggiungete infine il sale e terminate l’impastamento quando l’insieme risulterà liscio, asciutto e setoso e la maglia glutinica si sarà formata. La temperatura interna dovrà essere di almeno 24°C per permettere a tutti i processi fermentativi e alla maturazione di avere inizio senza particolari ritardi. Lasciate riposare nella ciotola per circa 15 minuti, poi ripiegate l’impasto in forma di pagnotta in modo che sia in grado di crescere verso l’alto.

Puntata

Trascorsa la prima parte del riposo, riponete l’impasto in un recipiente dai bordi alti ben oliato e chiuso ermeticamente, e lasciate a temperatura ambiente per almeno un’ora per dar modo alla lievitazione di partire. Posizionatelo infine in frigorifero per 18-24 ore a una temperatura di 6°C.

Staglio

Circa 4 ore prima della cottura togliete dal frigorifero e dividete l’impasto in panetti da 100 g l’uno. Schiacciate bene ogni panetto; poi arrotolate ogni panetto su se stesso fino a formare un salsicciotto di circa 15 cm di lunghezza, uniforme in tutta la superficie. Adagiate i panetti così allungati su una teglia con della carta forno; nelle vostre classiche pirofile da casa (con misura 30x40 si intende) ce ne staranno circa 6, distanziati circa 2 cm gli uni dagli altri.

Coprite con un panno umido e lasciate in appretto a una temperatura di 28-30°C.

Appretto

Altre tre ore e mezza a 28-30°C e i panini saranno pronti per essere infornati. Al termine di questa fase, i salsicciotti saranno arrivati a toccarsi; in cottura la parte di mezzo rimarrà bianca e morbida, e costituirà un ottimo ausilio per effettuare il taglio e farcire il vostro panino.

Cottura

Stabilizzate la temperatura del vostro forno a 230°C e cuocete per 10-11 minuti. I panini saranno pronti quando la temperatura interna, misurabile con un termometro a sonda, sarà di 90°C e la mollica completamente asciutta.

Raffreddamento, mantenimento e servizio

Una volta sfornati lasciateli raffreddare su una griglia rialzata, evitando in tal modo la formazione di condensa che rovinerebbe il duro lavoro svolto finora. Fateli prima raffreddare, conservandoli eventualmente in frigorifero per 2-3 giorni o in freezer se prevedete di superare il tempo limite. Ok, ci siete: praticate un taglio longitudinale senza arrivare fino in fondo, tostateli interamente in forno a 180-200°C per formare una crosticina croccante e saporita e farciteli con la vostra salsiccia BBQ4All cotta rigorosamente intera a 200°C nel vostro kettle, con una leggera affumicatura di ciliegio.


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PARTE 2

ROBIOLA ...formaggio di necessità e fantasia L'arte casearia a cura di Giovanni Minelli

Probabilmente il più comune tra i formaggi a coagulazione acido-lattica del nostro paese, talmente celebre da diventare la lattica per antonomasia. Sto parlando, ovviamente, della Robiola.

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Ci sono infinite vie per realizzare la robiola, davvero, ognuna valida e legata alle necessità, agli strumenti e alla fantasia di chi la trasforma. A differenza della stragrande maggioranza dei formaggi - dove per ottenere il risultato prefissato occorre seguire il processo con scrupolo certosino - per la robiola possiamo essere più flessibili, rimanendo negli intervalli che vedremo in seguito. Io vi darò il processo che faccio più frequentemente in casa ma ragioneremo sui possibili effetti delle piccole variazioni che il processo ci concede. Anche per questo prodotto, come è successo la volta scorsa per la ricotta, qualora decideste di seguire il mio processo andrete a colpo sicuro ma se ci vorrete mettere del vostro creerete un prodotto identitario, vi divertirete e sarete di sicuro e comunque soddisfatti.

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A me piace consumarla fresca e spalmabile, ma in condizioni idonee potreste farla asciugare per ottenere un prodotto da


fotografie di Elisa Giuli

taglio o addirittura farla ricoprire da muffe bianche, aiutandosi, a livello casalingo, con un contenitore ermetico per alimenti e con i ceppi selezionati di Geotrichum candidum e Penicillium camemberti. Prima di vedere come possiamo ottenere queste variazioni sul tema, concentriamoci su quella più evocativa che piace a me: quella spalmabile. L’obiettivo è ottenere un prodotto pronto da consumare in tre giorni, privo di crosta. La nostra robiola al gusto sarà acidula e dai delicati sentori lattici, sia al naso sia in bocca. Il segreto è nella fermentazione del lattosio in acido lattico ad opera di batteri lattici mesofili. Quindi, occorrerà tenere il latte con i mesofili ad una temperatura costante per diverse ore: per fare ciò, io utilizzo un contenitore in polistirene espanso, facile da reperire ed estremamente economico. La resa del latte in formaggio è molto elevata per questa tipologia di prodotto e se pensiamo anche alla facilità di realizzazione, la robiola potrebbe diventare uno dei formaggi che più volentieri andrete a preparare.

Partiamo: mettiamo il latte in pentola e raggiungiamo la temperatura obiettivo,

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Lo abbiamo già detto, si tratta di una coagulazione acido-lattica, quindi potremmo non usare affatto il caglio: io lo uso comunque, in quantità minima, per ottenere un coagulo un po’ più compatto e facile da lavorare a mano in fase di formatura. Certo: puoi anche pensare di realizzare una robiola senza, ti basterà seguire il processo tralasciando quel passaggio. Nel numero di Settembre 2020 del Magazine abbiamo già parlato del punto isoelettrico: per essere precisi, ne abbiamo parlato nell’articolo in cui vi ho raccontato come produrre il mascarpone e il concetto chiave è sempre quello. Tralasciando questo passaggio, invece sarà il caso di vedere che cosa di imprescindibile ci serve: neanche a dirlo occorre il latte e una pentola, fermenti mesofili, un contenitore in polistirene per mantenere la temperatura (se avete un mezzo più tecnologicamente avanzato, chiaramente è meglio), una tela per concentrare il prodotto e far spurgare il siero.

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che è quella alla quale i batteri mesofili saranno in condizione di crescere e di assolvere il compito che gli abbiamo appaltato, fermentare il lattosio in acido lattico, quindi abbassare il pH del substrato. Si tratta di un intervallo di temperatura compreso tra i 20°C e i 30°C: io preferisco portarlo proprio a 30C°, tra poco capirete perché adotto questa scelta. A temperatura raggiunta inserisco in pentola i mesofili e lascio sostare per 6 ore, all’interno della cassetta di polistirene. É importante che il latte non scenda sotto i 20°C in queste 6 ore, considerato il fatto che siamo a novembre e le temperature sono abbastanza rigide. La cassetta di polistirene è funzionale a mantenere la temperatura ma non è neppure il miglior strumento del mondo, per questo motivo partendo da un latte a 30°C posso stare abbastanza tranquillo.

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Dopo questa sosta tecnica aggiungo il caglio in quantità

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minima, diluisco in acqua circa due gocce per litro di un caglio liquido di vitello 1:10000 al 25% di pepsina. Mescolo delicatamente e lascio in sosta per 18 ore sempre nella cassa. Sono passate complessivamente 24 ore da quando abbiamo cominciato il processo e abbiamo ottenuto una massa cagliata a pH inferiore di 4,6: dunque è il momento di estrarla. Sarà una cagliata molto delicata quindi utilizzo una schiumarola per passarla

all’interno della tela. Una volta trasferita tutta la cagliata, chiudo il fagotto e la lascio appesa a drenare per circa 8 ore a temperatura ambiente. Passo la crema di formaggio in un recipiente dove la lavoro con un mestolo e aggiungo l’1,5% di sale fino. Io mi diverto a pasticciare, dunque formo le mie piccole robiole a mano, ma voi giocate pure di fantasia. Riassumo e poi vi do qualche


spunto per le variazioni sul tema: • Ora zero: latte in pentola a 30°C e aggiungo i fermenti mesofili; • Dopo 6 ore: aggiungo il caglio; • Dopo 24 ore: estraggo la cagliata e la posiziono nella tela; • Dopo 32 ore: aggiungo il sale e formo le robiole. Vi do anche un paio di spunti: potrei far sgrondare il siero direttamente all’interno di comuni fuscelle e se avessi

messo del sale nel latte dopo lo spurgo sarebbero già pronte da consumare senza ulteriori passaggi. Il sale, orientativamente 4/5 grammi per litro, lo andrei ad inserire, preventivamente disciolto in un po’ di latte, dopo la prima sosta e prima di inserire il caglio. Se avete letto gli altri numeri del Magazine avete già tutti gli elementi per capirne il motivo, per questo motivo vi sfido a spiegarmelo all’interno del gruppo Gastronomica-mente.

Vi accennavo alla possibilità di far asciugare le robiole e farle ricoprire da muffe bianche, come si fa? Penicillium camemberti e Geotrichum candidum, li trovate dove avete imparato a trovare i fermenti, li inserirete nel latte insieme ai mesofili, oppure successivamente alla formatura spruzzandoceli sopra, dopo averli diluiti in acqua. Per far sviluppare le muffe, saranno necessari alta umidità e ossigeno.

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PARTE 3

ASSEMBLIAMO IL PANINO INGREDIENTI per 4 persone: • • • • • •

Una confezione di pork sausage cheddar jalapeno skin packed 4 panini (secondo ricetta Trezzi) robiola q.b. (secondo metodo Minelli) un porro farina q.b. olio di semi di arachidi q.b.

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PROCEDIMENTO: 1. Accendete il vostro dispositivo e predisponetelo per una cottura indiretta, stabilizzandolo ad una temperatura di circa 130°C. 2. Appoggiate le salsicce in griglia dalla parte opposta delle braci e chiudete il coperchio del dispositivo. Attendete circa 45 minuti e poi verificate la cottura. Togliete le salsicce dal fuoco e tenetele in caldo fino al momento del servizio. 3. Scaldate i panini. 4. Affettate i porri molto sottilmente, poi infarinateli e friggeteli per pochi istanti (attenzione a non farli bruciare, è facilissimo!) fino a che non saranno croccanti. 5. Aprite i panini a metà e farciteli con la robiola, la salsiccia affettata e i porri fritti.

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fotografia di Emiliano Nencioni


Sal's Seasoning PICCOLA GUIDA AI RUB

cosa sono e come utilizzarli al meglio

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Approfondimento a cura di Virgilio Brunetti

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Direi che è giunto il momento: ogni bravo griller deve avere un po’ di animo da speziale, giocare con le erbette (quelle legali, s’intende!), i cosiddetti odori per arricchire e per, diciamola tutta, rivoluzionare la propria carne. Questa piccola guida ai rub, senza falsa modestia, vi ritroverete a stamparla ed incorniciarla nel vostro tempietto personale: è senza tempo e vi tornerà utile, per sempre. Bene, non ci resta che iniziare, senza troppi fronzoli.

esuberante ed invadente quali cannella, chiodi di garofano, cumino e peperoncino. La questione sale: come abbiamo già detto tantissime volte, nei seasoning il cloruro di sodio gioca un ruolo chiave nella somministrazione di sapidità e nella modificazione della struttura delle componenti proteiche degli alimenti come carne, pesce, crostacei, molluschi e formaggi. L’uso del sale ha la funzione primaria di conservante, ma ha anche un ruolo cruciale nella modulazione e nell’esaltazione delle proprietà organolettiche dell’alimento,

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Partiamo con il Dry Rub: per dirla in maniera sintetica, è una miscela di spezie ed erbe

secche con quantità variabili di sale. Personalmente, ritengo che sia uno dei metodi di seasoning più potenti, efficaci e versatili a disposizione del griller. Nella sua apparente semplicità, un Rub costituito da pochi ingredienti, come un SPG (salt, pepper, garlic), è in grado di rendere memorabile una preparazione ma anche di devastarla rendendola assolutamente immangiabile; un eccesso di pepe nero e aglio disidratato sono capaci di rendere immangiabile il più pregiato dei Brisket, asfaltandovi letteralmente la lingua; stessa cosa dicasi per gli ingredienti con un carattere

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soprattutto in termini di texture e ritenzione di moisture. È quasi una banalità, ma ci tengo sempre a ribadire che la ricerca dell’equilibrio nella formulazione dei Dry Rub sia un fattore cruciale; diventare agili nell’uso di questi metodi di seasoning è una capacità che si affina sia con l’esperienza sia con lo studio dei singoli ingredienti. Saggiare la qualità di un prodotto tal quale non è sufficiente per determinarne la qualità e le proprietà: probabilmente, assaggiando un prodotto di questo tipo in purezza, le vostre papille gustative saranno sferzate da un eccesso di sapidità, piccantezza e pungenza; tuttavia, il rub non è mai formulato per essere gustato in purezza, occorre avere un bel po’ di elasticità mentale per prevederne gli effetti in cottura e a contatto con alimenti caldi. Quando utilizzate il sale nelle tecniche di Dry brining, ad esempio, tenete sempre in mente che nelle fasi di cottura e di reverse searing (soprattutto nel Revit) continua la sua diffusione all’interno dell’alimento, perfezionando la sua distribuzione. Applicando il sale sulla superfice di uno spesso taglio di muscolo bovino, generiamo uno strato superficiale ipersalato che lentamente andrà a distribuirsi dall’esterno verso l’interno con una velocità approssimativa di 1 mm/ora (fate bene attenzione:

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fotografia di Rossella Neiadin

questa è un’approssimazione grossolana, che non tiene conto della struttura complessa di alcuni tagli ed è calcolata in maniera indiretta assimilando la penetrazione del cloruro di sodio ad un colorante, ovvero una molecola che non ha le stesse capacità di diffusione); ma questa distribuzione interna continua in cottura equilibrando in maniera definitiva il sale nello spessore della carne. Anche spezie ed erbe secche possono distribuirsi quando sono a contatto con alimenti umidi e grassi, tuttavia la loro capacità di penetrazione è bassissima, soprattutto se paragonate al sale. Le molecole aromatiche di alcuni ingredienti hanno comunque la capacità di impregnare le carni e di fissarsi alle superfici in maniera piuttosto efficace, oltre che di farsi sentire anche a bassa concentrazione; per farvi un esempio banale ma molto comune, se avete dimenticato una mezza cipolla nel frigorifero e non l’avete chiusa ermeticamente il suo aroma andrà ad attaccarsi un po’ ovunque in

maniera piuttosto casuale. Molte spezie ed erbe officinali possono trasferire il loro aroma anche senza contatto diretto con l’alimento; allo stesso modo, se infuse in un mezzo grasso o acquoso possono rilasciare un gran numero di molecole che impartiscono agli alimenti non solo l’odore caratteristico ma anche sapore e colore. “Meathead” Goldwyn nel suo Amazing Ribs, in un capitolo dedicato alla Scienza dei Rub mostra come alcune miscele di spezie rilascino le loro componenti aromatiche e cromogene se messe in infusione per alcuni minuti in acqua oppure olio vegetale. Il risultato, per mia opinione, va oltre il fatto che i Rub funzionino meglio se a contatto con acqua o grassi, e dimostra inequivocabilmente che gli ingredienti di un rub a contatto di substrati complessi come la carne rilasciano in maniera


differenziata una moltitudine di molecole che arricchiscono l’alimento di aroma, sapore e colore. Parliamo ora del bark: è l’obiettivo numero uno del Rub nel contesto barbecue è la formazione di uno strato semisolido e saporito, appunto il bark, che tutti i griller anelano di ottenere. Le caratteristiche fisiche del Dry Rub sono un altro fattore fondamentale che richiede attenzione. La granulometria degli ingredienti in una miscela di spezie è determinate nella formazione del bark. Spesso questo fattore tecnico viene ampiamente trascurato da tutti coloro che si dilettano a preparare in casa un Dry Rub; i griller più esperti invece sanno benissimo che, nella formulazione di un semplice SPOG (salt, pepper, garlic, onion) per la preparazione di un Brisket

Texas Style, è fondamentale che i quattro ingredienti abbiano granulometria controllata che consideri il peso specifico dei singoli granuli; il modo corretto per distribuire un Rub è utilizzare dei flaconi con coperchio dotato di fori che devono essere sufficientemente grandi da poter distribuire il prodotto senza escludere nessuno degli ingredienti; che si tratti di sale, pepe, aglio e cipolla in granuli, dovete distribuire il rub miscelandolo continuamente nel flacone e disperdendone la giusta quantità per unità di superfice. Notate bene che agitando un Rub formulato in maniera incoerente dal punto di vista della granulometria di sale e spezie, queste ultime tendono a stratificare andando poi a prevalere nell’atto della dispersione. Capirete che se avete un sale con un cristallo troppo grande o troppo pesante, o un pepe nero che è una miscela eterogenea in termini di granulometria, rischiate in qualche modo di avere sulla carne una distribuzione degli ingredienti molto diversa dalla composizione originale del Rub. Stesso dicasi se

utilizzate un flacone con un filtro a maglie troppo strette rispetto alla grana di alcuni ingredienti. È indubbio ora che per avere un Rub di qualità l’origine degli ingredienti deve essere frutto di un’accurata selezione che tenga conto delle provenienze, della freschezza e della corretta conservazione. Ormai dovreste capire che un “banale” pepe nero può avere un prezzo al kilogrammo piuttosto elevato e che una eventuale lavorazione di macinatura deve rendere una granulometria adeguata all’uso. Ma veniamo al dunque: sono sicuro che a questo punto molti di voi abbiano testato la nostra selezione di Rub Sal’Seasoning. Alcuni di voi ormai li utilizzano per condire anche la mozzarella e la macedonia, ma probabilmente ancora pochi di voi sanno che queste miscele non sono state create solo dalla mente malata (in senso buono!) di Salvatore Di Mento, ma sono anche frutto di un accurato processo di selezione degli ingredienti; questo ovviamente genera un prodotto che ha un prezzo al kilogrammo piuttosto alto, ma vi assicuro che ne vale la pena ed una volta provati, non tornerete da nessun altro Rub.

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THE ULTIMATE S.P.O.G.

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The Ultimate SPOG è un rub dallo straordinario equilibrio pari solo alla semplicità degli ingredienti base. Spicca il sale kosher dalla peculiare geometria in sfere, pepe nero pregiato a grana media, aglio e cipolla in granuli. I griller più esperti sanno bene bene come non sia banale trovare questi quattro ingredienti nella grana perfetta, ovvero media, che permetta una aspersione della miscela precisa, coerente e senza sprechi, che renda in cottura al massimo senza uccidere il vostro manzo e vi dia un bark da Brisket da “Grand Champion”. L’aglio e la cipolla in granuli che trovate nei supermercati o nel vostro negozio etnico di fiducia spesso sono prodotti di pessima qualità, capaci di devastare con le loro note sulfuree qualsiasi alimento. Il pepe a grana media setacciato e privo di polvere è un altro ingrediente quasi introvabile soprattutto se parliamo di un prodotto di qualità. Sal ha reso perfetto un rub che apparentemente non ha margini di miglioramento: lo ha chiamato “The ultimate” perché lo ha dopato con un paio di “ingredienti segreti” che ne migliorano profumo e gusto. Se cercate un uso alternativo a questo Rub ricordate che potete utilizzarlo come boost nella preparazione dei vostri hamburger e polpette a base di manzo e altre carni rosse.

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MONTREAL STEAK RUB Il Montreal Steak Rub è un capolavoro. Molti conoscono questo prodotto per la sua estrema versatilità. Nasce come Rub di finitura e si differenzia da tutti gli altri sul mercato per la sua particolarissima grana dovuta all’abbinamento di ingredienti grossolani e l’utilizzo di estratti che conferiscono una appearence davvero unica. La presenza di paprike pregiate lo rende sensibile a temperature estreme, il calore è tuttavia necessario affinché sprigioni tutta la schiera di olii essenziali presenti nella miscela. Il Montreal di Sal nasce dal classico Montreal Rub caro alla cultura barbecue canadese, che è costituito generalmente da una miscela variabile di sale kosher, pepe di grana media, coriandolo, paprika affumicata, aneto, peperoncino frantumato, aglio e cipolla granulare, semi di senape gialla, sale. Per la particolare struttura di questo Rub potere osare una lunga infusione in olio vegetale a temperatura controllata (4 ore in SV a 60°C) in modo che tutte le componenti aromatiche e cromogene vadano ad infondere nella base grassa. Potete utilizzare questo estratto come marinatura su base oleosa per pollo e maiale; in questo modo potrete apprezzare al massimo le note agrumate di questo Rub. Se nella stessa procedura utilizzate un olio extravergine d’oliva potrete utilizzare il prodotto aromatizzato come condimento su formaggi freschi e pane arrostito.

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DALLAS MILD RUB

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Dallas Mild Rub è il classico a base senape, che nasce principalmente pensato per il manzo. Se lo avete assaggiato avrete sentito spiccare tra le note sulfuree di aglio e cipolla e la pungenza della senape, un’accattivante acidità dovuta alla presenza dell’acido citrico che manderà in subbuglio le vostre papille gustative. Questa combinazione di ingredienti e di sapori lo rende decisamente adatto alle carni bianche tirandole fuori dall’anonimato senza peraltro sovrastarne il gusto base. Sebbene questo Rub abbia un’elevata attitudine per il pollame, la sua particolare composizione lo rende eccezionale per la preparazione di classiche salse stir fry, adatte anche a maiale e crostacei; la senape in questo caso espleterà a pieno il suo potere emulsionante andando ad ispessire la salsa che avvolgerà i succosi tocchi di carne bianca, pesce e verdure. Per bilanciare il tutto, non lesinate su peperoncino e salsa di soia.

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TENNESSEE MILD DRY RUB Tennessee Mild Dry Rub non è altro che la versione sotto steroidi del nostro Serial Rub #19, rivisitato nella grana delle spezie e arricchito di una potente componete umami. Insieme al Montreal è sicuramente uno dei Rub che si distingue per versatilità, ma con una spiccata attitudine non solo per la preparazione del manzo ma soprattutto per il pork: ribs e boston butt. In tutti i nostri Rub le componenti sapide, umami e piccanti sono accuratamente calibrate al fine di poter rimodulare in maniera efficace la sapidità e la potenza del kick. Sappiamo benissimo che uno stesso prodotto può risultare troppo/poco piccante o salato se utilizzato su tagli diversi come le ribs, che hanno poco volume e una grande superfice ed una spalla di maiale che invece ha un rapporto superfice/volume inverso. Proprio in visione di una tale eventualità potrete voi stessi modulare l’aggiunta di sale, elementi piccanti e umami per ottenere Tennesse Hot “Power Boost”. Senza commettere alcuna blasfemia culinaria potrete utilizzare questo rub per rendere inimitabile le vostre salse barbecue o il vostro ketchup home made. In fase di assemblaggio dovrete semplicemente aggiungere il Tennessee Mild Dry Rub nella ragione di 20 grammi per litro di salsa e scaldare lievemente perché le spezie e gli oli essenziali infondano bene nella base acquosa della salsa.

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MEMPHIS DRY RUB

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Memphis Dry Rub è un’altra miscela da finitura, dedicata ai tagli di maiale. L’utilizzo di elezione è la finitura dry delle Pork Ribs, perfetto quindi su carni e tagli con una ricca prevalenza di grassi che in cottura diventano fluidi e si arrichiscono di tutti gli aromi e i colori ceduti dalla infusione delle spezie di questo Rub. Non a caso molti adorano utilizzarlo su formaggi freschi e uova, tuttavia sprigiona le sue migliori doti se la miscela di spezie viene a contatto con alimenti caldi. Se avete la macchina per i pop corn aggiungete un cucchiaino di questo Rub quando il mais inizia a scoppiare oppure in fase di rosolatura sulle vostre patate al forno: estasi pura.

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MOUNT NIMBA RUB Mount Nimba Rub è una miscela di finitura con una spiccata propensione gourmet. Aroma di fumo, cacao e vaniglia sono gli elementi caratterizzanti. Una miscela di spezie audace che si presta ad accostamenti sia classici che insoliti. La sua naturale attitudine è il manzo (sia la bistecca, sia il classico Brisket). La dolcezza dell’aroma di vaniglia e del cacao sviluppata dal Mount Nimba possono suggerire accostamenti di una cucina fatta di carni più particolari: brasati di cervo, capriolo o cinghiale e, se non lo avete mai provato, su un raffinato spiedino di filetto di coda di canguro. Provatelo appena tostato su un carpaccio di carne equina o un ceviche di tonno rosso. Il suo carattere esotico complessato con spezie calde orientali piccanti come lo zenzero, la cannella, il chiodo di garofano, lo rendono strepitoso su preparazioni a base di frattaglie rosse come il fegato bovino appena scottato magari accompagnato da una mostarda di fichi. Provatelo ancora su una mini ricotta di latte ovino con un velo di polvere impalpabile di liquirizia. Probabilmente ai più questo Rub potrebbe sembrare difficile da collocare ma è più versatile di quello che si potrebbe pensare. Il Mount Nimba anche nel caffè? No, ma nel cioccolato fondente con nocciole anacardi e zenzero ad accompagnare un Rhum Solera e un buon sigaro ci sta alla grandissima.

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e s e v o n ge

La ricetta scientifica a cura di Gianfranco Lo Cascio

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a l n o pasta c

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fotografie di Rossella Neiadin

Per i pochi sventurati che non lo sapessero, il sugo alla genovese è una sorta di ragù bianco totalmente estraneo agli affari della capitale ligure. Nasce e mette radici a Napoli qualche centinaio di anni fa, è un piatto della cucina popolare che si ottiene dalla cottura lunga di bilici di cipolle e carne. Questa cottura infinita disfa sia le une che l’altra. Oltre a trasformare l’intera casa in una pompa di metano. Solitamente si condiva il sugo con la pasta e si lasciava la carne per secondo, oggi si mangiano assieme in tutta la loro complessità. Se avete provato la genovese partenopea saprete che è un piatto che respinge qualsiasi via di mezzo: è opulento, potente, unto, spiccatamente dolce e al contempo acido. Dopo averlo ingerito il vostro alito profumerà come quello di un Alpino ubriaco con la cirrosi epatica dopo che ha masticato tabacco e tartufo nero. Ma quanto è buono, maronna mi’. Smisuratamente godurioso. Un cibo confortante che placa la golosità e ti lascia immerso nelle endorfine. I rischi in cui si incorre cucinandolo sono molteplici: scegliere il taglio di carne sbagliato, cuocere troppo le cipolle, esagerare con le carote, ritrovarsi con un sugo che sa di bollito, coi condimenti praticamente devastati dal calore, per poi sporcare appena la pasta con una salsa slegata e unta. Il compitino ambizioso che mi ero assegnato era quello di eliminare gli elementi fastidiosi da questo piatto senza intaccarne aroma e godibilità. Concentrare ed esaltare i sapori di carne e cipolle e migliorare la ricetta dal punto di vista della digeribilità.

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E devo dire che dopo qualche tentativo ci sono riuscito. Il risultato è stato devastante. Per chi l’ha assaggiata, una genovese “scostumata” e ottantamila leghe superiore all’originale, più buona e più digeribile. Mai più fiato da sciacallo e manate di Vigorsol, giuro.

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LA STORIA.

C’è chi è pronto a spergiurare sull’esistenza di un cuoco inventore che di cognome faceva Genovese, chi invece si intestardisce con la storia del monzù (monsieur, Signore) di Ginevra (Genève, Genevois e quindi Genovese), chi straparla di osti genovesi e proprietari di numerose trattorie in zona Napoli porto (pare che questi stufassero la carne con le cipolle, nonostante non se ne faccia menzione in nessun libro sulla gastronomia ligure).

La genovese una ricetta famosa a tutte le latitudini, che dà la possibilità, una volta era la regola, di mangiare anche la carne come secondo piatto, servendo la pasta con il solo sugo delle cipolle ed alcuni pezzettini di carne sfaldatisi durante l’interminabile cottura. L’unica certezza che abbiamo su origine e usi, a parte il liquorino digestivo a fine pasto, è l’essenzialità e la semplicità degli ingredienti: carne e cipolle. Nella mia versione non giocheremo con i componenti ma con la tecnica: andremo a preparare una demi glace di carne esagerata, un “assoluto di cipolla” e condiremo la pasta aggiungendo del macinato ben rosolato e una julienne di cipolla arrosto.

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Intrigante, no?

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LA CARNE.

A stare appresso ai napoletani dovremmo utilizzare solo il “lacierto”, il girello, che dovrebbe essere rigorosamente di annecchia (cioè una manzetta macellata prima che compia un anno) o la “colarda” (in italiano scamone). Ma sono entrambi tagli troppo magri e poveri di collagene per essere cotti a lungo. Solo i più scafati tra i campani utilizzano il “gammunciello” (gamboncello, il geretto posteriore di manzo), un taglio che potrebbe anche prestarsi, ma che noi utilizzeremo in un altro modo.

IL BRODO. • • • • • • • • •

Ingredienti 1 stinco di manzo 1 cipolla ramata 2 carote 1 costa di sedano Pepe in grani Bacche di ginepro Rametti di timo fresco 2 foglie di alloro 3 l di acqua

Per preparare la genovese scientifica vi serve un buon brodo di carne. E per preparare un buon brodo di carne vi serve uno stinco di manzo, anteriore o posteriore non fa differenza. Fatevi disossare il geretto dal macellaio e chiedetegli di segare l’osso a rondelle o a baguette, in senso verticale. Raschiate via il midollo e mettetelo da parte, ci servirà per la demi glace.

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Tostate le ossa e la polpa dello stinco in forno a calore feroce (230°C) con poco olio, poi deglassate con acqua la crosticina brunita che si sarà formata sul fondo. Trasferite il tutto in una pentola alta e aggiungete acqua, sedano, carote, cipolla, alloro, bacche di ginepro e grani di pepe. Lasciate sobbollire e mettete da parte.

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LA DEMI-GLACE VELOCE. Senza perdere il sonno dietro alla ricetta francese, che già abbiamo tanto da fare. Ingredienti • 2 kg di Top Blade (cappello del prete) o di Chuck Roll (reale) GLC Top Selection Blue Ox Prime • 1 carota • 1 cipolla • 1 costa di sedano • 1/2 testa di aglio • 50 g di concentrato • 50 g di burro • 1 bicchiere di vino rosso • 2 l di brodo • Il midollo dello stinco utilizzato per il brodo (non è fondamentale) • 2 rametti di rosmarino • 1 chiodo di garofano • sale q.b. Seguendo la scia profumata del mio ragù, la genovese scientifica deve avere un sugo di carne bello intenso, e per ottenerlo ci servono due tipologie di tagli: • uno ricco di tessuto connettivo, che sarà la base della demi glace • uno più magro con il quale dare struttura e consistenza al sugo finale.

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La carne ricca di collagene andrà ad arricchire la salsa, mentre il macinato darà consistenza e sapore al piatto, senza essere inutilmente esposto alla cottura lunga.

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Per arricchire la demi glace con una buona quota di gustosa gelatina possiamo utilizzare: • Top Blade, Feather blade, Oyster Blade, oppure in italiano Copertina di spalla e Cappello del Prete. In base alla nomenclatura italiana è il muscolo della spalla, quindi proveniente dalla mezzena anteriore dell’animale. È il taglio perfetto

per le cotture prolungate grazie al quantitativo generoso di tessuto connettivo; • Chuck Roll, o Reale, comprende i muscoli del collo dell'animale fino alla quinta vertebra. È un taglio incredibilmente saporito, una parte del manzo ricchissima di tessuto connettivo e grasso. • Biancostato, situato nella parte bassa delle coste e particolarmente carico di collagene; • Punta di petto, il muscolo della parete addominale farcito di tessuto adiposo e del collagene delle costole; Scegliete tra uno di questi quattro tagli e nessuno si farà male, io ho usato i primi due. Ma come facciamo ad estrarre questa gelatina dalla ciccia e trasferirla direttamente nella demi glace? Semplicissimo, basterà portare la carne ad una temperatura superiore a 68°C. È proprio in quel momento che il collagene si scioglie e si trasforma in un gel saporito. Dobbiamo dunque fare una salsa, bella densa ma comunque fluida. E che sappia di manzo, ma di brutto. Quindi l'obiettivo fondamentale è quello di estrarre sapore dalla ciccia e infilarlo nella salsa. Per fare questo ci concentriamo su due processi: generiamo quanto più sapore possibile e poi lo estraiamo.


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PRIMO STEP: tostatura della carne in forno. Tagliate la carne a cubotti, mettete la placca nel forno, sotto al grill e tostatela come se fosse l'ultimo giorno prima del lockdown, senza nemmeno il pelo di un cane da portare giù. Ben brunita, Maillard a cannone.Vi resteranno dei liquidi e grassi disciolti nella teglia. Recuperate fino all'ultima goccia perché ci servirà dopo. Stessa identica cosa farete con i cubetti di verdura: sedano, carota, cipolla, più l’aglio a spicchi interi. Mescolate la verdura con dell'olio e poi tostate bene in forno. Abbiamo creato tantissima superficie aromatica sia grazie alla reazione di Maillard che alla caramellizzazione. Queste reazioni, come sappiamo, creano molecole profumate e gustose che non esistono in natura. Molecole che, in buona parte, passeranno alla fase liquida successiva. Abbiamo ottenuto ciò che avevamo in testa: generare sapore.

SECONDO STEP: estrazione. Adesso possiamo passare alla fase successiva che sarà quella dell'estrazione. Fiamma sostenuta, poco burro nel tegame, si buttano dentro le verdure rosolate, il midollo e la carne tostata con i suoi liquidi. Aggiungiamo del concentrato di pomodoro, sciogliamo bene e amalgamiamo al resto.

TERZO STEP: la fase liquida. Prima bagniamo con un bel bicchierone di vino rosso di buona struttura. Lasciamo che l'alcol evapori e poi allunghiamo con il brodo di manzo preparato in precedenza. Potete sostituirlo con del brodo vegetale, di pollo, come vi pare, l’importante è non salarlo. Se non ce l'avete usate l’acqua. Aggiungete il rosmarino e i chiodi di garofano, se volete potete utilizzare una garza e assemblare un bouquet garni (un mazzetto di erbe aromatiche che preferite).

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Fate prendere il bollore sempre a fuoco feroce, abbassate la fiamma e lasciate cuocere con il coperchio, fin quando la carne non si sarà disfatta. Fate ridurre della metà, date una schiumatina se occorre (potrebbero affiorare delle impurità) e poi filtrate il tutto. Vi serve solamente la parte fluida. Con la carne e le verdure ormai strizzatissime potete fare due polpette da friggere. Ci rompete un uovo dentro, pane ammollato, un po' di Parmigiano e via di stuzzichino. A questo punto abbiamo un fondo bruno super carico di sapore. Non resta altro da fare che trasformarlo in demi-glace, facendolo ridurre in un pentolino. Una volta ottenuta una salsa spessa, aggiungete il sale (non salatelo prima!), trasferite in un boccale e immergete il contenitore in acqua fredda. Emulsionate con un minipimer fin quando non avrete ottenuto una crema areata, simile ad una maionese. Trasferite in frigorifero, una volta freddo acquisirà la consistenza di un paté.

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LA CIPOLLA BIANCA Le cipolle bianche dividono: c'è chi dice che siano le più pungenti e chi sostiene che siano molto delicate. Questo perché di cipolle bianche ne esistono moltissime varietà. LA CIPOLLA ROSSA La dolcezza è sicuramente la forza della cipolla rossa. Il suo sapore è un po' più pungente e il suo profumo più potente di quello della cipolla bianca, ma il contenuto di zuccheri è maggiore. La sua naturale dolcezza le rende l’ingrediente ideale per i sottaceti o per le composte. L'altra caratteristica imprescindibile di questi bulbi è chiaramente il colore: questa sfumatura di rosso che regala ai piatti una nota cromatica molto particolare.

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LA CIPOLLA RAMATA La cipolla ramata ha un contenuto solforoso molto importante che le dona un sapore e un odore molto forti. Cucinarla è un dovere, non azzannatela mai cruda, poiché il calore permette alla dolcezza della cipolla ramata di esprimersi alla perfezione.

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LE CULTIVAR DA CONOSCERE

In Italia siamo maestri della diversificazione e della specializzazione. Le cipolle non sono tutte uguali, ma manco per sogno. Ogni cipolla ha le sue caratteristiche ben precise, uno scopo e un utilizzo.

CIPOLLA DI CERTALDO Dai versi del Decamerone allo stemma cittadino, la cipolla di Certaldo, comune della provincia di Firenze, è entrata nella storia. La Certaldo, dolce e viola nella varietà statina, rossa accesa e pungente nella vernina, è particolarmente indicata per preparare la zuppa di cipolle. CIPOLLA BELENDINA DI ANDORA Rossa, grossa, succosa e dolce. La cipolla belendina di Andora è un Presidio Slow Food coltivato sulla piana di Andora tra le provincie di Savona e Imperia: si è salvata grazie all’agricoltore Trentino Bellenda (da cui il nome) che da solo ha recuperato la specie. Ha una caratteristica forma a fiasco e può arrivare a pesare oltre un chilo. Si usa per preparare la farinata di ceci con cipolle. CIPOLLA ROSSA DI LAMEZIA TERME Varietà molto antica dal sapore dolce e dalla consistenza croccante, anch’essa Presidio Slow Food. Ottima per la panzanella. CIPOLLA ROSSA DI BREME La particolarità della rossa bremese, cipolla dolcissima pavese, consiste in un ciclo di produzione lunghissimo (quasi due anni) realizzato interamente a mano. Fondamentale per due piatti tipici della zona, l’insalata bremese con cipolla, tonno e fagioli e il baruat a base di cipolla, rane e polenta. CIPOLLA ROSSA GENOVESE Questa varietà sferica e molto dolce viene coltivata nell’entroterra di Chiavari, Lavagna e Sestri Levante. Conosciuta anche come “cipolla di Zerli”, è molto apprezzata a crudo, sulla focaccia o nelle torte salate della cucina tipica ligure.

APPROFONDIMENTO

LA CIPOLLA.

CIPOLLA ROSSA DI TROPEA IGP Orgoglio gastronomico di Calabria, IGP in provincia di Vibo Valentia e Cosenza, ha forma ovale, colore fucsia acceso e gusto dolcissimo. Ottima a crudo e in composta.

CIPOLLA ROSSA DI ACQUAVIVA Acquaviva delle Fonti, provincia di Bari, deve il suo nome alla falda sotterranea perenne, riserva di acqua dolce che nutre e arricchisce il suolo di sali minerali. Soprattutto, lo rende adatto alla coltivazione della cipolla rossa locale, dolcissima e dalla classica forma appiattita. Questo Presidio Slow Food, la cui produzione è limitata al solo territorio comunale, si mangia volentieri a crudo o caramellato.


CIPOLLA ROSSA DI BASSANO Di colore variabile tra il rosa e il rosso, la cipolla di Bassano del Grappa ha forma piatta, polpa bianca e gusto spiccatamente dolce. Si fa sott’olio, fritta oppure in saor, il tipico agrodolce veneto con uvetta, aceto, pinoli e le immancabili sarde. CIPOLLA VERNINA DI FIRENZE La formaè quella di una trottola. La vernina di Firenze ha colore rosso acceso e odore forte e pungente. Per domarla bisogna stufarla o arrostirla, come nelle salsicce con patate e cipolle al forno. CIPOLLA DI CANNARA Le prime testimonianze della cipolla di Cannara, provincia di Perugia, risalgono al Cinquecento. Dall’Ottocento la produzione di questa varietà dal sapore delicato e dall’ottima digeribilità si fa specifica e dedicata. Dà il meglio come topping sulla pizza tonno e cipolla. CIPOLLA DI BRUNATE Bianca, globosa, croccante e fragrante: la brunatese o scigulìtt in dialetto comasco è una cipollina mediopiccola, ideale per essere messa in conserva sott’olio o sott’aceto. Complice inseparabile della luganega, diventa protagonista assoluta nella zuppa di cipolle. CIPOLLA BIANCA DI MARGHERITA IGP Questa IGP pugliese coltivata nella zona di Barletta si distingue per forma piatta e precocità. Le sue caratteristiche principali sono croccantezza e succulenza. Il sapore dolce e pungente si apprezza particolarmente a crudo: ad esempio nell’insalata tonno, olive, pomodorini e cipolle. CIPOLLA BIANCA DI CHIOGGIA Con la cipolla bianca di Chioggia, perfettamente tonda e croccante, si preparano le sarde in saor, aromatiche e agrodolci, oppure il fegato alla veneziana

CIPOLLA PAGLINA DI CASTROFILIPPO Minuscolo Presidio Slow Food della provincia di

CIPOLLA BIONDA DI CUREGGIO E FONTANETO Bionda, piatta e dolce, va ad arricchire i piatti tipici del territorio come la frittata rognosa, a base di salame, e la rustìdä, un secondo a base di carne e frattaglie di maiale. CIPOLLA DI SERMIDE La Sermide è una varietà mantovana di colore giallo paglierino e dal gusto spiccatamente dolce. Il suo uso tradizionale è nel tiròt, una focaccia a base di cipolle il cui impasto viene “tirato” direttamente nella teglia prima della cottura. CIPOLLA DI BANARI Questa varietà del sassarese ha bulbo bianco e schiacciato che può raggiungere dimensioni (e peso) considerevoli. Ha un gusto particolarmente dolce ed è ottima al forno o fritta in pastella. CIPOLLA DORATA DI PARMA La cipolla dorata di Parma è una delle cultivar più diffuse in Italia, perfetta per soffritti, sughi e brodi. CIPOLLA DI SUASA Questa cipolla marchigiana, coltivata tra PesaroUrbino e Ancona, è rosa dentro e viola fuori. Recuperata in extremis una ventina di anni fa, è buonissima alla brace, al gratin o in composta. CIPOLLA DI ALIFE La cipolla di Alife (comune del casertano), documentata fin dall’epoca romana, prima di diventare una specialità gastronomica è stata medicina e talismano. Oggi purtroppo è a rischio estinzione, tenuta in vita dal Presidio Slow Food e dall’impegno di pochi produttori. Ha colore rosso ramato ed è buona anche cruda. CIPOLLA DI CAVASSO E DELLA VAL COSA Nella provincia friulana di Pordenone si nasconde la Val Cosa, tra i prodotti tipici spicca la cipolla, ora ramata, ora rosa acceso ma con un inconfondibile cuore croccante e dolce. Il Presidio Slow Food ne tutela la produzione, caratterizzata da una lunga conservazione in trecce.

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CIPOLLA BIANCA DI FARA FILIORUM PETRI Coltivata dal 1300 in Val di Foro, nel cuore dell’Abruzzo, questa varietà antichissima del comune di Fara Filiorum Petri, ovvero la “terra dei figli di Pietro”, è protetta da Presidio Slow Food. Dal sapore dolce e aromatico, si apprezza da sola, alla brace o nella cipollata, lo stufato di cipolle, olio e acqua.

Agrigento, si distingue per il colore giallo pallido, il sapore dolce e delicato e la versatilità in cucina. Ottimo da crudo, si utilizza nei piatti tradizionali come la cipuddata e la frittata di cipuddetti.

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CIPOLLA BORETTANA Piccola e piatta, la borettana è la varietà suprema da aperitivo, da infilzare senza pietà. Un modo originale per gustarla è arrosto con miele e spezie. CIPOLLA DI ISERNIA Da secoli a Isernia si coltiva questa varietà bianca dal bulbo molto schiacciato, raccolta tradizionalmente verso la fine di giugno e celebrata in occasione della festa di San Pietro e Paolo. Considerata una cipolla fresca, ha odore e sapore poco accentuati ed è ideale per essere consumata a crudo. CIPOLLA DI GIARRATANA Un Presidio Slow Food e un peso massimo delle cipolle: la Giarratana parte infatti dai 500 grammi e può superare i 2 chili di peso. Ingrediente della gastronomia tipica ragusana, questa varietà sapida e poco pungente viene utilizzata comunemente nelle scacce, panzarotti ripieni di pomodoro e cipolla. Perfetta anche per lo sfincione palermitano CIPOLLA DI PIGNONA Bionda tendente al ramato e leggermente schiacciata, la cipolla di Pignona è una varietà ligure della Val di Vara che può raggiungere il chilo di peso. Per dimensioni e gusto dolce, si presta alle cotture aggressive come frittura e griglia.

LE CULTIVAR DA CONOSCERE

CIPOLLA DI VATOLLA Piccola e a forma di trottola, dalle sfumature rosate, la cipolla di Vatolla (Perdifumo, provincia di Salerno) ha un gusto delicato e versatile in cucina. Dal Cilento, terra in cui è nata la dieta mediterranea.

CIPOLLA DI TRESCHIETTO Un esemplare più unico che raro, la cipolla di Treschietto è di forma piatta e di colore rosso rubino intenso. Coltivata sull’Appennino tosco-emiliano, è un prodotto cosiddetto a “edizione limitata”. Buonissima cruda in insalata. CIPOLLA PIATTA DI ANDEZENO Solo quattro produttori tengono in vita questa varietà piatta e dorata della provincia di Torino. Ha consistenza tenera, gusto dolce e si serve ripiena.

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CIPOLLA RAMATA DI MONTORO La cipolla perfetta per la pasta alla genovese? La ramata di Montoro, varietà dolce e aromatica della zona tra Avellino e Salerno. È lei la nostra cipolla.

APPROFONDIMENTO

CIPOLLA RAMATA DI MILANO La ramata di Milano è caratterizzata dalla forma allungata, le grosse dimensioni e sapore pungente. Goduriosa in pastella in stile onion rings.


La scienza del sapore della cipolla. Le cipolle possono essere dolci, saporite, aspre, morbide o croccanti, hanno così tante facce diverse, e tutte si palesano in contesti differenti. Tuttavia, le diverse espressioni hanno origine dalla stessa cipolla e dalle stesse molecole, tanto per cominciare. Tutto inizia con una cipolla cruda, le cipolle sono un ortaggio unico nel loro genere: crescono sottoterra e sono fatte a strati. Poiché si tratta di bulbi, sono destinate a immagazzinare molta energia per la crescita della pianta, che viene stoccata sotto forma di zuccheri. Le cipolle sono strettamente imparentate con l'aglio, un bulbo anch’esso, ed entrambi appartengono alla famiglia degli Allium.

L'importanza del suolo. Lo zolfo è un atomo essenziale per lo sviluppo dei sapori e degli odori tipici della cipolla, ma può essere assorbito solo attraverso il terreno. Di conseguenza, nei terreni con più zolfo cresceranno cipolle con sapori e odori più forti. Naturalmente, molto dipende anche dalla cultivar, alcune cipolle assorbono meno zolfo rispetto ad altre.

Come scegliere la cipolla giusta? A domanda rispondo. Le dimensioni contano? Ahh, una domanda che ritorna sempre. Le dimensioni di una cipolla hanno poca influenza sul sapore. Almeno su questo potete stare tranquilli. Come faccio a distinguere le cipolle mature da quelle andate a male? Non importa che tipo di cipolle scegliete, assicuratevi che siano sode al tatto quando le acquistate. Se le radici o l’estremità dello stelo vi sembrano un po’ moscette, è probabile che anche gli strati interni siano marcescenti. Qual è il posto migliore per conservarle? Conservate le cipolle in un luogo fresco, asciutto, buio, ma mai in un contenitore sigillato, che intrappolerebbe l’umidità e le farebbe marcire. Le cipolle già tagliate possono essere messe in un sacchetto di plastica e conservate in frigorifero.

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Ho notato che, come le scarpe e le sale cinematografiche, alcune cipolle “odorano” più di altre. C'è un modo per saperlo prima di comprarle? L'odore di una cipolla dipende in gran parte da quanto tempo è stata conservata. Più è stata in magazzino (in alcuni casi, fino a mesi), più sarà pungente. Generalmente le cipolle vengono vendute senza un’etichetta di produzione, ma per distinguere le “vecchie” dalle “nuove” dobbiamo guardare la “buccia”. Le prime hanno uno strato superficiale più spesso e duro, mentre le cipolle più fresche hanno tuniche esterne (così si chiamano gli strati che generalmente buttiamo via) più sottili e trasparenti.

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La chimica della cipolla - i tiosolfati. La chimica della cipolla (e degli Allium in generale) è determinata per lo più da molecole che contengono un atomo di zolfo (S), i cosiddetti composti solforici. Il gruppo che determina il sapore e l'odore delle cipolle sono i tiosolfati. Sono questi componenti che ci fanno piangere a fontanella, ma che conferiscono anche aroma e profumo (o puzza, decidete un po’ voi). Quello che è interessante, però, è che la cipolla cruda non contiene queste molecole. Al contrario, si formano solo quando viene danneggiata o tagliata a fette. L’azione della lama rompe le strutture cellulari, liberando tutte le diverse molecole all'interno. Di conseguenza, specifici enzimi (allinasi) entrano in contatto con le molecole della cipolla che sono precursori di quei tiosolfati. Gli enzimi catalizzano una reazione che porta alla formazione dei tiosolfati, come ad esempio l’ossido di S-propanetiale S., la molecola che stimola la lacrimazione e contribuisce anche al caratteristico sapore di cipolla, o l’isollinina, prodotto dall’azione dell’allinasi, che trasforma le molecole a base di zolfo in acido sulfenico, che conferisce l’odore caratteristico e la pungenza fastidiosa. Ma cosa si può fare per evitare che l’allinasi si trasformi in isoallinina?

Il controllo dei tiosolfati. Il taglio della cipolla è la prima misura di controllo dei tiosolfati. Poiché i componenti dell'odore e del sapore si formano solo dopo che la polpa è stata tagliata a pezzi, tagliando una cipolla più finemente questa sprigionerà più sapore. È vero anche il contrario però, se si fa bollire una cipolla, si disattivano gli enzimi prima ancora che catalizzino una reazione chimica. Di conseguenza, a questa cipolla mancherà una parte del suo sapore caratteristico. E quindi, che si fa?

Cuocere le cipolle.

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Un italiano lo impara prima di cominciare a parlare. Quando si saltano le cipolle a calore moderato, queste diventano di un marroncino chiaro, color caramello. Stiamo parlando della cara e vecchia reazione di Maillard, una reazione tra zuccheri riducenti e proteine.

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In un mondo ideale, mentre le cipolle cuociono, tre cose accadranno contemporaneamente: (1) il completo ammorbidimento delle strutture cellulari della cipolla (2) la massima caramellizzazione degli zuccheri (prima che le note amare comincino a svilupparsi), e (3) una buona Maillard.


L’assoluto di cipolla. Ve l’ho promesso all’inizio: la genovese scientifica sarà un concentrato di gusto e più digeribile di quella tradizionale. E per concentrare e alleggerire la quota cipolle, dobbiamo fare una cosa importante, che avete già imparato a fare con l’aglio e olio: disattivare gli enzimi cattivi. Mai più alito che sa di Apocalypse Now. Ingredienti 15 cipolle ramate (preferibilmente di Montoro) Lista degli ingredienti più che essenziale, vi serviranno solo delle buone cipolle ramate. Prendetele così come sono, senza nemmeno pelarle, sistematele su una teglia rivestita di carta forno e mettetele in forno a 230°C fino quando non arrivano a 65°C interni. Per misurare la temperatura, utilizzate una cipolla “spia”, che infilzerete con la sonda e scarterete una volta pronta. Una volta cotte, pelatele e tenete da parte mezza cipolla per commensale, ci servirà per finire il piatto. Il resto delle cipolle va infilato direttamente in un estrattore di succhi (o grattugiato/tritato) e poi spremuto e filtrato. Quel liquido, ricchissimo di glucosio, fruttosio e saccarosio, va versato in un pentolino dal fondo spesso e poi cotto, fin quando non si riduce ad un terzo e diventa color caramello mou.

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IL CONDIMENTO - 01:

IL MACINATO DI CARNE.

Adesso si passa alla preparazione del macinato, il riempimento del sugo, l’ingrediente che serve a dare corpo e soprattutto sapore di tostato. Dev'essere un mix bilanciato di magro, grasso cartilagine. Quindi avete l'opzione "vado dal macellaio e mi faccio tritare un po' di questo e un po' di quello" oppure prendete i nostri burger e avete risolto la pratica: sono già perfetti così. Ingredienti • 6 Burger Blue OX del Megastore. • Olio extravergine di oliva q.b. Distribuite il macinato su una teglia ricoperta di carta forno, asciugate con cura con della carta assorbente e ungete leggermente con poco olio. Scatenate una massiccia reazione di Maillard cuocendo in forno preriscaldato, con il grill sparato a 230°C e posizionando la teglia al centro del forno. Lasciate lo sportello leggermente aperto per permettere al vapore di fuoriuscire. Ormai sapete come funziona, ma ripetere fa sempre bene. La reazione di Maillard è quella reazione chimico-fisica che si manifesta quando proteine e zuccheri riducenti, in totale assenza di acqua, vengono esposti ad una fonte di calore. Queste molecole si riallineano e formano nuove molecole, non esistenti in natura, molto profumate, gustose e dal colore ambrato. E come si ottiene una crosta di cauterizzazione perfetta? 1 In totale assenza di umidità. 2 A temperatura della superficie di contatto di almeno 140°C 3 In presenza di zuccheri riducenti. A queste punto non vi resta che rigirare il foglio di carta forno e lasciar rosolare l’altro lato, sempre a 230°C, a grill andante.

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Ma perché in forno e non in pentola? Perché rosolando il macinato in pentola si sarebbe sviluppato un grande quantitativo di vapore, che avrebbe sicuramente lessato la carne. State attenti però: ci serve la reazione di Maillard ma anche succulenza e sapore. Fate uno strato di carne non troppo sottile, così le due superfici cauterizzate ci daranno sufficiente Maillard, ma la carne al centro sarà ancora succosa e morbida.

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IL CONDIMENTO - 02:

LA JULIENNE DI CIPOLLA.

Ricordate le cipolle infornate che vi ho fatto tenere da parte? Ricavatene una julienne, anche grossolana, vi servirà per condire la pasta.

L'ASSEMBLAGGIO DEL PIATTO. A questo punto avrete preparato la demi glace, ormai fredda ed emulsionata, l’assoluto di cipolla, il macinato tostato e la julienne di cipolla. È arrivato il momento di mettere su l’acqua: calate ziti spezzati, candele, paccheri, rigatoni o calamarata, l’importante è che sia pasta trafilata al bronzo ed essiccata lentamente, bella ruvida. Terrà la cottura senza fare una piega e tratterrà per benino il sugo. In una padella stemperate un cucchiaio abbondante di demi glace e due cucchiai rasi di assoluto di cipolla per commensale, aggiungete acqua di cottura, il macinato bello sgranato, la julienne di cipolla e terminate la cottura della pasta, agitando bene per tirare fuori tutto l’amido. Servite la genovese con una spolverata di Parmigiano, o del formaggio stagionato che preferite, andrà ad equalizzare le note dolci della cipolla. E poi dite a tutti che Gianfranco l’eretico l’ha fatto di nuovo. Il limonage è salvo, pure senza mentine.

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Un bel tacer non fu mai postato Seguo - Rubrica a cura di Emiliano Nencioni

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Conference call di redazione: -“L’impaginazione è fatta, il menabò ricontrollato, manca solo il testo della Seguo e andiamo in stampa” -“Si sarà impigliata una mail, fatti rimandare il testo immediatamente e procediamo.” -”No no, non l’ho proprio scritta questo mese.” -”Non scherzare che il tempo stringe, dai.” -”Sul serio, non avevo nulla da dire: ritengo che per i miei lettori la mancanza di un testo scritto sia un palese invito all’introspezione, un atto di meta-letteratura catartico e…” -”Hai tre ore di tempo per scrivere tre pagine dei tuoi vaneggiamenti. Interrompi tutto quello che stavi facendo e butta giù qualsiasi cosa adesso.” -”Guarda che è una presa di posizione coraggiosa e innovativa!” -”Riempi quelle paginette, prima che le destiniamo definitivamente ad una rubrica di abbinamenti fra wurstel e prodotti per la rasatura” -”Avete mai sentito parlare di 4’32”? Un brano musicale composto di sole battute di pausa, un…” -”Hai tre ore.” You’ve been logged out.

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rielaborazione grafica di un opera di Lucio Fontana - Concetto Spaziale, Attesa, 1967


Avete mai sentito parlare del Mercenariesimo? É la traduzione italiana di Mercerism, termine usato da Philip K. Dick all’interno di Do Androids dream of electric sheeps?, in Italia “Ma gli androidi sognano pecore elettriche?”, conosciuto ai più come il testo da cui ha preso forte ispirazione (pur se con trama molto diversa) il film Blade Runner di Ridley Scott: il Mercenariesimo è, a grandi linee, una pratica pseudo-mistica o meditativa in voga presso gli umani dell’universo narrativo di Dick. L’umanità del romanzo è costretta ad emigrare sulle colonie di Marte o a rimanere su una Terra devastata dalle radiazioni e dalla onnipresente polvere, coabitando con androidi dalle fattezze umane, a volte ribelli, criminali e fatalmente irriconoscibili dalle persone “biologiche”. L’unico tratto discriminante tra viventi e sintetici è l’empatia: gli androidi (replicanti, nell’adattamento di Scott) ne sono completamente privi e questo tratto viene evidenziato tramite un breve interrogatorio mirato, che manda immancabilmente in confusione gli esseri cibernetici. L’empatia che distingue nettamente umani dalle forme di quasi-vita ad imitazione dell’umano si trova a ricoprire un ruolo di importanza primaria nella morale comune, tanto che non prendersi cura di un animale e non esercitare giornalmente una palese empatia è considerato assolutamente disdicevole e condannabile. Entrano quindi nell’uso globale e rituale le “scatole di empatia”, piccoli monitor portatili dove, come pratica di miglioramento personale, ogni umano è tenuto ad osservare scene di un individuo, Mercer, alle prese con una difficile e ripida scalata (simboleggiante la realizzazione) e con malvagi avversari (impersonificanti il Male) intenti a bersagliarlo di pietre. Questo esercizio quotidiano, obbligatorio alla stregua di una funzione religiosa, dovrebbe contrapporsi alla disumanizzazione di una vita senza più flora e fauna e irrimediabilmente confusa con la vita sintetica, fredda e spietata degli androidi.

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Il parallelismo con la nostra permanenza sui social network è presto fatto: [...] É che non c’è, così su due piedi, un parallelismo. Oppure potrei fabbricarne uno, stiracchiato e deboluccio, pateticamente enfatico, con la mancanza di empatia presente negli hater di professione, un altro fra seguaci del Revit e spietati

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Edward Hopper - Morning Sun (particolare) - 1952


“Grigliatori solo col manico”, e terminare la rubrica con un telefonatissimo “come lacrime… nella pioggia.” Frase che alla fine fu solo un’improvvisazione estemporanea di Rutger Hauer, non presente né nel libro né nella sceneggiatura, e ormai inflazionata e logora come i jingle delle compagnie telefoniche.

“[...] sono tutti gli oggetti inutili, come una bustina di fiammiferi dopo aver usato l'ultimo fiammifero, o una fascetta gommata, o il giornale omeopatico del giorno prima. Quando non c'è nessuno in giro, il kipple si riproduce. Per esempio, se vai a letto lasciando in giro del kipple, la mattina dopo, quando ti svegli, ce n'è il doppio. E diventa sempre di più.” “«C'è la Prima Legge della Palta», disse Isidore. «'La palta scaccia la nonpalta.' Come la legge di Gresham sul denaro falso, ha presente? E in questi appartamenti non c'è nessuno a contrastare la palta.»” Dei commentatori per forza abbiamo già recentemente parlato. Questi qui invece sono peggiori: sono i sagaci per forza. Gli inopportuni. Gli allineati dell’umorismo standardizzato. Dietro alla giustificazione pietosa del “sacrosanto black humour” arrivano a scrivere cose improponibili, squalificanti, becere o semplicemente superflue e indesiderabili: riciclano all’infinito formule di sicuro (secondo loro) successo, dissacrano, si umettano di citazionismo del guru, perché piacere a molti è sicuramente un obiettivo, ma piacere proprio a lui è certamente un traguardo. Non fanno ridere, non scatenano una riflessione o un pensiero, ma sono convinti di aver calato l’asso in una conversazione ordinaria, tramutandola in un audacissimo scambio di lepidezze bukowskiane; nessuno li rimbrotta, nessuno li stigmatizza, e questo non me lo spiego. In un ecosistema sicuramente volto all’indignazione facile, mai che un volenteroso si prenda l’ardire -e di certo il gusto- di rimproverare aspramente un’uscita sconveniente e intempestiva. Non c’è nessuno a contrastare la palta. Se questi personaggi si nutrono di approvazione, compiacimento, like e

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No, il fatto è che alle volte bisognerebbe avere il coraggio di rimanere in silenzio: non sempre c’è una cosa ficcante da dire, non sempre arriva puntuale la punchline impeccabile degna di un film d’azione degli anni ‘90. Anzi, statisticamente è molto più probabile generare delle banalità o delle argomentazioni trite e inefficaci, proprio per la correlazione tra evento strettamente probabile e natura stessa della banalità. Il riferimento a 4’32” di John Cage presente nel nefasto cappello introduttivo non è un’invenzione, ma un brano realmente esistente, ed anche più volte eseguito all’interno di dottissimi concerti. In seguito ad una breve permanenza in una camera anecoica il compositore si rese conto del valore del silenzio e della sua irrealizzabile perfezione: anche in mancanza totale di qualsiasi suono proveniente dall’esterno, Cage notò che il completo silenzio era comunque interrotto dal rumore del proprio battito cardiaco e da altri impercettibili cigolii fisiologici del corpo, perennemente presenti anche se totalmente inudibili in condizioni normali. Probabilmente anche nei social network un maggiore silenzio delle masse favorirebbe l’udibilità di alcuni fenomeni precedentemente soverchiati: un complimento sincero e non costruito a tavolino, un’obiezione spontanea, una domanda impopolare, una precisazione geniale e innovativa. La grande massa, rumorosa e onnipresente, è invece quella che svilisce, obnubila e copre tutto; una massa di commentatori a casaccio, convinti della sagacità, della pertinenza e della

tempestività delle loro mirabolanti boutade: un po’ come il kipple, tradotto poco genialmente in palta nella versione italiana del già citato romanzo di Dick.

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successivi sub-commenti, credo che sia dovere morale dell’utente consapevole e integro far scoppiare la bolla dell’autocompiacimento con semplici, brevi, efficaci commenti dissuasivi. Alcuni brevi esempi: • Nonostante gli sforzi, non fa ridere • Sono certo delle buone intenzioni, ma ha prevalso la maleducazione • Ricordo che questo tormentone sembrava gradevole scritto da [Tizio], ma credo che tu l’abbia rovinato per sempre • Repertorio rivedibile • Basta • Smetti

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La ricetta credo sia chiara: nessuna offesa, uno sterile consiglio irreprensibile, e mai mettere il punto in fondo. Il punto in fondo vi tramuta in quegli organismi che vogliono avere sempre l’ultima parola, in pieno stile “e finiamola qua.” “buona serata.” o il terrificante e già citato “buona vita.”. Si arrabbieranno, sicuramente, non gradiranno e all’inizio la rivolta non sarà efficace: ma in un tempo sufficientemente lungo anche il più brutale dei

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sagaci per forza si stuferà di vedere il prezioso frutto delle sue scopiazzature dileggiato e mal recepito. Con un po’ di ottimismo, si spera che tutto il vario “scritto per forza” si tramuti in un po’ di silenzio. Esiste già la maniera di partecipare al gradimento di un post senza dover dire la propria, sotto forma di reaction. C’è bisogno di capire che la ricerca della frase ad effetto, stra-allineata, super conformata e sempre dannatamente uguale ad altre mille frasi abusate, non è più una cosa gradevole. É anche per questo motivo che invece di scrivere una conclusione intimistica o stimolante, ribadendo il mio pensiero di non aver nulla di veramente utile da dire, lascio ai miei lettori residui un piccolo spazio dove annotare una propria personale chiosa o un epilogo o pensiero che funga da scioglimento a quanto detto sopra. Potete poi fotografare la vostra mini produzione letteraria e postarla, con un laconico commento, dove più vi aggrada. Oppure potete non farlo assolutamente, e capirò che avete preferito un cauto e apprezzabilissimo silenzio.

Emiliano Nencioni


CLUB

Dire tta m e n t e da lla co m m u n i ty di ma e s t ri di ba rbecue pi ù grande d’I tali a, nasce i l prest i gi oso club c h e ti offre la possi bi li tà di avere: a ccesso pr i or i tar i o al meg astore, dove pot ra i fa re ra zzi e ment re tutt i gli a lt ri “ sono i n coda ” ; u na p rogra m ma zi on e i n telli g en te dei tu oi acq u i sti gra zi e a l c re di to mensi le prepa gato (scegli tu quanto); u n coa ch pr i vato c h e ti g u i derà n e l fa rt i vi ve re l’ esperi enza

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