N°24/ANNO 2 - DICEMBRE 2020
A Scuola di Tacos parte seconda
l'editoriale di Gianfranco Lo Cascio
Pulled pork BBQ vs Forno
Speciale comfort food
Uova ripiene, pasta e fagioli, pasta e ceci, salsiccia e purè, polenta e funghi, cima alla genovese, insalata di rinforzo, cappone ripieno, doppia fonduta Come si fa
Il panettone
La Ricetta Scientifica
Cotechino lenticchie e purè
Direttore Editoriale Rossella Neiadin
Redattore Capo Michela Bongiorni
Redazione
Enio Berton Virgilio Brunetti Tommaso Buccafurri Nunzia Clemente Roberto Dal Bosco Tommaso Di Gregorio Salvatore Di Mento Luca Gallozza Mariangela Ibba Gianfranco Lo Cascio Riccardo Meniconi Giovanni Minelli Emiliano Nencioni Stefania Pompele Andrea Spaggiari Alessandro Trezzi Carlo Trono Alberto Zonghetti
Realizzazione Grafica
Impaginazione Carlo Trono Illustrazioni di Eleonora Castagna e Ozzy Bellesi Fotografie di Rossella Neiadin, Luca Gallozza, Tommaso Buccafurri, Elisa Giuli, Emiliano Nencioni
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IN DI Rubriche
Editoriale - A scuola di Tacos - parte II
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Porftolio - Il Comfort Food
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Il taglio: Pulled Pork
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Pulled Pork: bbq vs forno
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Ricette
Gyoza al pulled pork alla piastra
25
Pasta e ceci e pasta e fagioli
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Salsicce e purè
34
Polenta, funghi e salsicce
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La Cima a modo nostro
40
Insalata di rinforzo
42
Il cappone ripieno affumicato
45
Approfondimenti Tecniche - La fonduta
48
L'arte Bianca - Il panettone
52
L'arte casearia - La stagionatura
62
Dispositivi e accessori - Meater +
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La ricetta scientifica - Cotechino con lenticchie e purè
72
Seguo - Se una notte, d’inverno, un redattore
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Tacos
Editoriale di Gianfranco Lo Cascio
i d la o cu s A come trasformare casa vostra in una taqueria
parte II
Per fare il taco ci vuole la tortilla. Per fare la tortilla ci vuole il nixtamal nixtamal. Per fare il nixtamal ci vuole il mais.
Lingua affascinante il nahuatl, l’antichissimo idioma parlato dagli aztechi. Per qualche motivo un po’ lungo da spiegare, alcune parole azteche sono ancora oggi nei vocabolari di molte altre lingue. Pochi sanno, per esempio, che la parola “cioccolato” deriva proprio dal nuathl “xocolatl”. Esatto, in questa lingua la “x” si pronuncia come una “sh”. Nixtamal quindi si legge “nishtamàl”. La nixtamalizzazione è quel processo a cui viene sottoposto il mais. Una bollitura in una soluzione di calce che rende più facile la rimozione del pericarpo, l’involucro esterno, e rende il mais estremamente più digeribile, potenziandone le proprietà nutritive, producendo molti aminoacidi pregiati e proteine e riducendo i fitati. Nixtamal è quindi la pasta base per produrre una buona tortilla. La tortilla è un affare complicato, molto complicato da spiegare. Lasciatemo dire, alcune di quelle già pronte sono più che dignitose. Non è semplice farsi il nixtamal in casa, quindi molto spesso si usa la “masa harina” o “maseca”, la farina di mais già nixtamalizzata da impastare.
Considerate un concetto importante: la tortilla non è una cosa banale. Può fare una grande differenza nella preparazione del taco. Ad onor del vero, in molte regioni si usano anche quelle di grano, ma il mais resta alla base di tutto. In Mesoamerica il cereale più antico è il granturco, utilizzato già dai Maya per le masa, e proprio dal 700 a.C. si iniziarono a produrre tortillas, così battezzate dai coloni spagnoli del XVI secolo. Solo 400 anni dopo, questi frisbee dorati sarebbero diventati un elemento importantissimo della cucina di quel territorio. Nel Nuovo Mondo gli spagnoli piantarono campi enormi di frumento e cominciarono ad allevare il bestiame, una novità che avrebbe portato successivamente alla nascita di un sacco di piatti tipici. È quindi scontato affermare che le tortillas a base di farina nacquero nel XVI secolo, e furono per ovvie ragioni consumate esclusivamente dai coloni europei fino al XIX secolo, quando poi furono adottate anche dalle comunità del Messico settentrionale. Preparare una tortilla è semplice, ma non tutti gli ingredienti necessari sono facilmente reperibili.
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Farsele da soli è un altro sport ovviamente. Se riuscite a trovare del mais come si deve potete tentare la nixtamalizzazione con l’idrossido di calcio, ma è una
cosa che magari vi conviene imparare facendo un giretto didattico in Messico.
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L’originale messicana prevede, come vi ho detto prima, l’utilizzo della masa harina, la farina di mais bianco, che viene sottoposta ad un trattamento speciale: i chicchi vengono essiccati, cotti e messi in ammollo con acqua e ossido di calcio, in modo da far avvenire la decorticazione prima della macinazione e del successivo confezionamento. Questo processo rende disponibile all’assorbimento digestivo le vitamine PP e B, altrimenti non pronte per essere assimilate. Si tratta di una farina completamente diversa da quella classica di mais giallo, che non va per niente bene per essere impastata.
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In alternativa è possibile utilizzare della farina di grano tenero di tipo 00 o 0 e forza tra i 200 e i 220 W, con la quale si ottengono delle tortilla di grano. È ovviamente da precisare che gusto e consistenza cambiano terribilmente in base alla materia prima utilizzata. Non dimentichiamoci mai che la farina di mais regala un gusto più marcato, dalle tipiche note tostate, e una croccantezza
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leggermente superiore, mentre la farina bianca restituisce un sapore più leggero, neutro ed equilibrato. Il grano tenero, peraltro, non è in grado di assorbire la stessa percentuale di acqua: mentre con il mais bianco viene utilizzata 1.2 kg di acqua per kg di farina, con il frumento la dose scende a 500g su kg. Ingredienti Per le tortillas di mais: • 1 kg di masa harina; • 1,2 kg di acqua; • 30 g di sale. Per le tortillas di farina di grano • 1 kg di farina 0 o 00 200-220W • 500 g di acqua • 50 g di sale Il procedimento è sempre lo stesso: mescolate l’acqua e 50g di sale per ogni kg di farina, fino ad ottenere una consistenza liscia ed uniforme. Dividete l’impasto in parti uguali, dai 50 ai 100 g a panetto, secondo le esigenze, e lasciate riposare dai 20 minuti alle 2 ore coprendo con la pellicola; questo periodo di riposo renderà decisamente più facile l’opera-
zione di stesura delle palline. Importante: utilizzate meno farina possibile nella stesura, o vi ritroverete a masticare polvere bianca bruciacchiata. Un trucchetto, se non si dispone della pressa specifica per schiacciare le palline, consiste nello stendere ogni disco con il mattarello mettendolo tra due strati di carta da forno, fino ad ottenere uno spessore di 2-3 millimetri. Le tortilla vanno quindi cotte su una piastra rovente, 3-4 minuti per lato, e conservate in un panno da cucina perché non si secchino. Il consiglio è quello di consumarle in fretta, non si conservano per molto. Nella cultura messicana questo pane basso viene farcito o servito in un sacco di modi, ognuno con il suo nome specifico. La tortilla viene abbrustolita sul fuoco (in casa potete appoggiarla su un fornello da cucina) e poi chiusa a mezzaluna su un mattarello in modo che, una volta freddatosi, prenda la forma di una conca, un guscio, utile ad accogliere il godurioso condimento
Taco story: ad ogni regione la sua versione I tacos de asador vengono preparati con carne alla griglia, che può essere di manzo, pollo, chorizo o tripita (trippa o stomaco); la salsa abbinata è in genere la guacamole, tipica soprattutto con le interiora per smorzarne il sapore.
Nei tacos de cazo la carne viene cotta a fuoco molto basso e per un lungo tempo, fino a raggiungere una consistenza morbidissima, per poi compiere un passaggio sul comal (la piastra in ceramica) in modo da rendere l’esterno croccante e saporito; il ripieno più popolare è costituito dalla carnitas (spalla, trippa e gola), ma è possibile trovare una versione con la punta di petto di manzo. Interessantissima è la preparazione della carne di pecora o di capra per i tacos de cazuela, cotta secondo la tecnica del barbacoa (cottura di origine caraibica dalla quale deriva anche il moderno barbecue): la carne (un misto di testa e altre parti del muso, stufato di cervella o la guancia) viene avvolta in foglie d’agave e cotta in un forno aperto ricavato da una buca del terreno. I tacos al Pastor (anche detti tacos de adobada) sono tortillas ripiene di carne di maiale conservata attraverso l’adobo, una marinatura a base di aglio, origano, paprika e aceto, che viene cotta in maniera similare al gyros greco, ovvero sminuzzata e compattata in lunghi arrosti cotti verticalmente. Questi tacos vengono spesso accompagnati da ananas, cipolle e pomodori. I tacos al carbòn sono tipici dello stato di Sonora, vengono riempiti da carne di manzo grigliata, dal tipico aroma di brace dato dalla carbonella; sono accompagnati da cipolle verdi piastrate, cetrioli e ravanelli. I Tacos de canasta sono praticamente impossibili da trovare fuori dal territorio messicano; vengono farciti con chorizo, patate, cotenna di maiale e fagioli.
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Non mancano ovviamente i tacos di pesce, originari della penisola di Baja, diffusi ormai in tutta la bassa California; il pesce può essere fritto o alla griglia, accompagnato da julienne di cavolo verde e una salsa a base di panna acida, chipotle e lime. Una gustosissima variante è costituita dai tacos di gamberi, che possono essere fritti o alla griglia.
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Taco story: tacos de picadillo Picadillo vuol dire banalmente stufato di carne e patate. Ma neanche a dirlo ne esistono un miliardo di versioni e nessuna è quella giusta o quella originale. Ve ne lascio una di base con cui potete iniziare a giocare per capire quanta versatilità ci può essere in un taco. Ingredienti • 500 g di macinato di manzo (i nostri burger Blue Ox sono perfetti per lo scopo); • 1 cipolla; • 1 peperoncino habanero o serrano tritato (o peperone dolce); • 2 patate medie a pasta bianca; • 2 pomodori a cubetti; • sale q.b. • pepe q.b.
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Prendete il macinato di manzo, olio nella padella e via a tostare bene. Non mettete altro. Quando è ben tostato buttate dentro la cipolla
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e lasciate appassire per un minuto. Poi un po' di peperoncino fresco tritato (se non lo avete va bene il peperone dolce), patate a cubetti già cotte ma ancora turgide e qualche cubetto di pomodoro. Lasciate amalgamare per un paio di minuti, aggiustate di sale e pepe e il picadillo è pronto. Volutamente lo si lascia così, dal sapore più essenziale possibile. Farcite i tacos aggiungendo l'immancabile cipolla dolce cruda e tritata, il cilantro, e una delle salse che già conoscete. Questo tipo di taco rientra nella categoria dei "tacos de guisado" cioè tacos con lo stufato. Nella cucina messicana esistono centinaia se non migliaia di ricette diverse di stufati ed è molto popolare mangiarli farcendo una bella tortilla. È impossibile catalogarli tutti e farne un elenco esaustivo. Vi basti sapere, però, che quando mangiate un taco con uno stufato dentro state mangiando un taco de guisado. Il mio consiglio è di farvi 3 tacos di picadillo con 3 salse diverse. In uno provate solo qualche goccia di lime.
Taco story: taco de suadero La quintessenza del taco di Città del Messico, il suadero, consiste nel cuocere la carne di manzo nel proprio grasso su un comal (padella di ghisa) convessa-concava. La carne cuoce nella sezione concava e le tortillas vengono riscaldate sulla sezione convessa. La mia ricetta è una versione semplificata che utilizza la punta di petto invece che il matambre, la pancia di manzo messicana praticamente introvabile in Italia. Il taco dovrebbe essere ricco e nutriente, con la salsa che conferisce un sapore brillante e speziato. È uno dei miei tacos preferiti da cucinare e da mangiare. Con questa ricetta cucinerete abbastanza carne e salsa per un bel po' di tacos, ma gli avanzi di carne possono essere conservati in frigorifero o congelati. Ingredienti • 2 kg di brisket GLC Top Selection; • 2 kg di grasso bovino; • 1 testa d’aglio ; • SPOG Sal’s Seasonings q.b. • 30 tortillas di mais; • 1/2 mazzetto di coriandolo finemente tritato; • 1/2 cipolla a cubetti; • 1 lime a spicchi. Per la salsa roja • 3 peperoncini habanero; • 3 spicchi di aglio; • 2 pomodori; • 1/2 cipolla; • 250 ml di acqua calda; • 50 ml di aceto di mele; • 1 pizzico di sale; • 1 pizzico di cumino in polvere. Iniziate strofinando generosamente il brisket con lo SPOG Sal’s Seasonings, lasciate in frigorifero per una notte. Mentre la punta di petto riposa al fresco, preparate la salsa. Preriscaldare il forno a 250°C. Mettete una padella su fuoco vivo e tostate i peperoncini fino a quando non iniziano a fumare, poi trasferiteli in una ciotola e copriteli con l'acqua calda. Lasciate in ammollo per 20 minuti.
Prendete il brisket e tagliate la carne in pezzi di 8 cm. Mettete qualche cucchiaio di grasso di manzo (o di anatra se volete) in una teglia dai bordi alti e riscaldate fino a quando non si sarà sciolto. Aggiungete i pezzi di manzo e scottateli su tutti i lati fino a quando non saranno rosolati e croccanti, poi trasferiteli in una ciotola (potrebbe essere necessario farlo in più step). Aggiungete il resto del grasso nella teglia e riscaldate fino a quando non si sarà sciolto. Aggiungete la carne rosolata, mescolate per amalgamare, poi coprite e cuocete in forno fin quando non si sarà intenerita. Dovrete essere in grado di tagliarla con un cucchiaio. Utilizzate una schiumaiola per separare la carne dal grasso, battete al coltello la carne grossolanamente e mettetela in una padella a fuoco medio. Cuocere per 3-4 minuti per farla croccantizzare, poi trasferitela in una ciotola e tenetela in caldo. Nella stessa padella, scaldare le tortillas fino a renderle flessibili e morbide, ricoprendole poi con un canovaccio umido, per evitare che si induriscano. Passiamo al servizio: mettete un cucchiaio di carne in ogni tortilla, seguito da un cucchiaio di salsa. Finite con un po' di coriandolo, cipolla e una spruzzata di succo di lime. Dopo il primo morso esclamerete qualcosa di questo tipo: «Ma com'è possibile?» Che cosa vuol dire? Preparatevi un taco e scopritelo da soli.
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Nel frattempo, mettete i pomodori, l'aglio e la cipolla su una teglia e fate cuocere in forno per 30 minuti o fino a quando non si saranno leggermente
sbruciacchiati. Sbucciate l'aglio e mettetelo in un frullatore con i pomodori e la cipolla, quindi aggiungete i peperoncini ammollati e l’acqua. Tritate e poi aggiungere il cumino e il sale. Assaggiate e aggiustate il condimento secondo il vostro gusto - dovrebbe essere affumicato e un po' piccante. Abbassate la temperatura del forno a 150°C.
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SPECIALE
comfort food
…Un bicchiere di vino con un panino è la FELICITÀ
Portfolio Gastronomico a cura di Michela Bongiorni
Così cantavano Al Bano e Romina negli anni ‘80 e di fatto descrivevano ciò che oggi definiremmo Comfort Food. Sappiamo tutti cosa sia? Si legge sulla Treccani:
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“letteralmente “cibo in grado di dare conforto”, termine che di solito si riferisce a preparazioni tradizionali, capaci di suscitare richiami nostalgici o sentimentali (all'infanzia, alla famiglia). Il termine può indicare anche cibo facile da mangiare, perché morbido, o da digerire, o con alto contenuto di calorie e/o nutrienti.”
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Un altro dizionario, l’Oxford English Dictionary, sostiene che il primo uso del termine risalga al 1977, in un articolo del Washington Post in cui ci si riferiva a un piatto con gamberetti e porridge di mais, piatto tipico dell’America del Sud. Particolare, non credete? In realtà, chiunque abbia letto Marcel Proust e il suo Alla ricerca del tempo perduto, sa che si parla proprio di Comfort Food nell’episodio della petites madeleines riportato in uno dei sette libri che compongono l’opera, Dalla parte di Swan. Ovviamente lo scrittore francese non ha usato, nei primi anni del ‘900, il termine che conosciamo oggi, ma il più elegante e nostalgico intermittenze del cuore: quei soprassalti straordinari che nello scorrere della vita di tutti i giorni ci riportano a eventi, cose o persone del passato rimaste nell’ombra della nostra mente e che aprono una porta diretta sui ricordi di un tempo, appunto, perduto. Accadde così che il protagonista, assaggiando quei dolcetti, dice:
“[...] sentendomi triste per la giornata cupa e la prospettiva di un domani doloroso, portai macchinalmente alle labbra un cucchiaino del tè nel quale avevo lasciato inzuppare un pezzetto della madeleine. Ma appena la sorsata mescolata alle briciole del pasticcino toccò il mio palato, trasalii, attento al fenomeno straordinario che si svolgeva in me. Un delizioso piacere m’aveva invaso, isolato, senza nozione di causa. E subito, m’aveva reso indifferenti le vicissitudini, inoffensivi i rovesci, illusoria la brevità della vita… non mi sentivo più mediocre, contingente, mortale. Da dove m’era potuta venire quella gioia violenta? Sentivo che era connessa col gusto del tè e della madeleine [...] All’improvviso il ricordo è davanti a me. Il gusto era quello del pezzetto di madeleine che a Combray, la domenica mattina, quando andavo a darle il buongiorno in camera sua, zia Leonia mi offriva dopo averlo inzuppato nel suo infuso di tè o di tiglio.” Ecco qua: senza dubbio questa è la migliore definizione di comfort food, che fa impallidire quella della Treccani. Siamo sicuri che sarete d’accordo con noi.
Risvolti psicologici
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Che mangiare sia da sempre un evento associato all’idea di felicità è un dato di fatto e sembra quasi banale dirlo. Tuttavia, all’interno della grande categoria “cibo”, il comfort food, diventato solo negli anni ‘80 del Novecento un genere ben delineato, è più associato a particolari sensazioni di benessere, soddisfazione, conforto e gioia rispetto ad altri generi. Si tratta perlopiù di alimenti collegati alla nostra infanzia e all’ambiente nel quale siamo cresciuti, che ci ricordano tempi più felici. Il nostro cervello, capace di fare associazioni tra un evento piacevole e gli odori, i sapori e le consistenze del cibo, codifica questi piatti come precursori di felicità. Per capire quanto queste associazioni siano potenti, basti pensare che l’US Army prepara i cibi considerati confortevoli dagli americani per i soldati che sono impegnati in missioni all’estero: quindi, lontani da casa per lunghi periodi e di sicuro malinconici. Una delle principali caratteristiche del comfort food è di essere variabile: pur mantenendo caratteristiche comuni l’uno con l’altro, gli alimenti che possono cadere in questa specifica categoria sono molti e diversi, poiché dipendono principalmente dal vissuto di ogni singolo individuo. A livello psicologico, però, sono svariati i fattori che ci spingono a cercare conforto in un genere alimentare, oltre a quello di ricercare la felicità del tempo perduto. Secondo Charles Spence, docente presso la Oxford University e autore del libro Gastrofisica: la nuova scienza del cibo, la fame emotiva e la ricerca di comfort food esprimono spesso la necessità di fronteggiare emozioni negative come ansia, tristezza, senso di colpa, ma denota anche il bisogno di consolazione che abbiamo, ad esempio, quando siamo ammalati e costretti a casa a causa di un’influenza; e non a caso usciamo con uno speciale dedicato all’argomento in questo periodo, in cui tutto il mondo è costretto a fronteggiare un’emergenza sanitaria e ha bisogno di molto, molto conforto.
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Spence, inoltre, ci spinge ad allargare il concetto: non si parla solo di cibo che stiamo mangiando in un certo momento, ma anche di tutto l’ambiente che ci circonda e degli oggetti che stiamo utilizzando. Le patatine sono più buone se il sacchetto che le contiene “fruscia” (che certi suoni stimolino il benessere è ampiamente dimostrato anche dal successo dei video ASMR -Autonomous Sensory Meridian Response- che ormai spopolano un po’ ovunque); la musica classica è meglio del pop per gustare qualcosa, perché percepita più raffinata e rilassante; il cibo mangiato in riva al mare con le mani e senza posate, si pensi al fish&chips, ha un altro sapore rispetto a quando lo ordiniamo al ristorante vicino a casa. E ancora: preferiamo i piatti rotondi quando abbiamo bisogno di conforto perché associamo gli oggetti spigolosi al pericolo, mentre le forme circolari sono legate a qualcosa di piacevole e dolce. L’atto di mangiare in compagnia, poi, innesca il sistema endorfinico nel cervello. Prendersi il tempo di sedersi insieme alle persona cui vogliamo bene, durante un pasto, ha effetti profondi sulla nostra salute fisica e mentale, sulla nostra felicità e sul nostro benessere. Da non dimenticare poi il tatto: tendiamo a preferire cibi morbidi, caldi e cremosi quando abbiamo bisogno di coccole.
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Di sicuro vi ricorderete delle campagne marketing di questi ultimi anni, portate avanti da grandi brand come Nutella e Coca Cola, che spingevano molto sulla personalizzazione delle bottiglie e dei vasetti: cerca il tuo nome! Fallo fare apposta per te!. Anche M&M’s ha lanciato un servizio di personalizzazione dei famosi confettini al cioccolato: puoi scegliere il colore, l’immagine da stamparci sopra, il nome, il marchio. Sapete perché? Per il semplice motivo che tutti amiamo qualcosa di personalizzato, che ci dia l’idea che venga fatto apposta per noi, così come la mamma ci preparava latte e biscotti la mattina quando eravamo bambini o la merenda il pomeriggio. Non a caso, secondo alcune
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teorie, è proprio alla figura materna che spesso viene associato il comford food: la mamma è la persona più importante dei primi momenti della nostra vita poiché rappresenta gli aspetti vitali e basilari del cibo e dei bisogni affettivi. Il conforto che ricerchiamo non è altro che il ricordo del primo alimento ingerito, nel quale era insito un gesto di cura e di amore verso di noi. Come molte lettrici mamme sapranno, il famoso allattamento a richiesta - sul quale i pediatri spingono tanto negli ultimi anni - ha in sé anche una grossa componente consolatoria, poiché spesso il bambino non vuole attaccarsi al seno per fame ma proprio per trovare calore e coccole. Secondo diversi studi, infine, pare che il comfort food si differenzi tra uomini e donne: mentre queste ultime sembrano preferire cibi morbidi e zuccherosi come il gelato, i dolci al cucchiaio, le creme, le torte al cioccolato, gli uomini sono più attratti dagli alimenti salati o cotti alla griglia, come una bella bistecca ( …e ho scoperto in questo momento di essere un uomo).
Risvolti fisiologici La scienza da anni studia il rapporto esistente tra cibo ed emozioni, dimostrando una cosa fondamentale: certi squilibri nutrizionali possono incidere negativamente sull'umore, causando tristezza e depressione. Vi sono alimenti che per natura favoriscono il rilascio di endorfine, dopamina e serotonina, ad esempio le noci e il cioccolato fondente, che contribuiscono in maniera naturale a ridurre lo stress e a migliorare l'umore. Certamente, tutti conoscete il mito delle voglie in gravidanza: anche se la scienza continua a interrogarsi su questo fenomeno e dà la colpa per gran parte ai risvolti di tipo psicologico, in molti
sostengono c h e i colpevoli siano gli ormoni: l’aumento della produzione di estrogeni può infatti avere conseguenze sul senso del gusto e dell’olfatto e potrebbe essere un segnale che il corpo della futura mamma manda al cervello per avvisarlo dell’aumentato fabbisogno calorico. Insomma, il corpo ha bisogno di più calorie e il cervello fa in modo che vengano assunte attraverso i cibi di conforto. Anche nei giorni che precedono il ciclo mestruale possono manifestarsi delle voglie di cibo, una forte necessità di zuccheri e degli sbalzi d’umore; anche in questo caso sembra che siano gli ormoni i responsabili: l'estrogeno e il progesterone aumentano per poi diminuire poco prima del ciclo e questa oscillazione pare sia legata a un aumento della fame. Inoltre si impenna anche il cortisolo mentre cala la serotonina ed ecco che si spiegherebbe – il condizionale è sempre d’obbligo - come mai le donne siano in quei giorni particolarmente attirate dai dolci o comunque dai carboidrati.
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Dato però che stiamo affrontando l’argomento analizzando tutti i vari aspetti, sono costretta a riportare uno studio condotto dal Dipartimento di Psicologia dell’Università della California, che ha voluto verificare se il consumo di alimenti di conforto fosse davvero in grado di agire sulle modificazioni psicofisiche che si verificano per compensare un evento stressante. Ebbene, l’esperimento condotto su 150 donne sottoposte a un forte stress ha evidenziato che non c’erano differenze tra l’effetto ottenuto mangiando cibi come gelato, cioccolato, biscotti e quello ottenuto invece mangiando frutta o verdure. Non si sono infatti osservate variazioni significative sull’umore o su altri indicatori di stress, come l’attività cardiovascolare e i livelli di cortisolo. In pratica, secondo questi studiosi (pagati dai vegetariani, non c’è alcun dubbio!Ed è subito GOMBLODDOH!) sostengono che mangiare cibi ricchi di grassi, zuccheri e carboidrati non serva assolutamente a nulla e sia solo dannoso, e che a questo punto sarebbe meglio mangiare la più salutare frutta e verdura, abituando la nostra mente a consolarsi con una bella mela (spauracchio di chiunque abbia mai fatto una dieta e si sia sentito dire “quando hai fame, mangia un frutto!”). C’è da dire che in effetti esiste una correlazione molto forte
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fra il consumo di Comfort Food come una risposta allo stress emotivo e la dilagante obesità nel mondo occidentale, con tutte le conseguenze patologiche che essa si porta appresso. Quindi, come in tutte le cose, è giusto consolarsi e coccolarsi un po’, ma senza esagerare.
I quattro tipi di comfort food
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Secondo una recente classificazione, non esiterebbe solo un tipo di comford food, ma addirittrua quattro: fisico, nostalgico, pronto e peccaminoso. Per comfort food fisico si intende quello che apporta cambiamenti di tipo sensoriale nel consumatore: i cibi che riscaldano, quelli che percepiamo morbidi alla masticazione sono spesso associati a sensazioni d'intimità, di accoglienza, di comodità, ma anche di sazietà e di pienezza. Rientrano in questa categoria le creme, le vellutate, le zuppe, il purè. Sono spesso alimenti impegnativi dal punto di vista calorico, burrosi, con formaggio filante e profumi inebrianti.
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Quello nostalgico, invece, è esattamente ciò di cui parla Proust nella citazione riportata all’inizio: un cibo che ci ricorda un tempo felice, un periodo dell’infanzia, un amore mai dimenticato, una tradizione di famiglia, un particolare momento della giornata. E in questa categoria, come ben potete immaginare, può ricadere un’enorme varietà di alimenti: ognuno ha il suo. Sono spesso cibi legati alla tradizione, non solo familiare, ma anche del territorio. Sappiate che nessuna ricetta, perfetta o scientifica che possiate preparare seguendo le indicazioni del nostro Magazine, potrà mai competere con questo tipo di Comfort Food. Il ragù della nonna, la cotoletta della mamma, le arancine della bisnonna, il pesto della zia vi sembreranno sempre più buoni anche se oggettivamente siete in grado di comprendere quanto le loro versioni scientifiche siano migliori. E ciò è perfettamente normale. Non a caso anche Gianfranco Lo Cascio dice sempre che se deve pensare alla preparazione
che gli ricorda i momenti più piacevoli della sua vita, al primo posto, indiscusso e incontrastato, rimane il piatto di pasta e fagioli della sua mamma. Il comfort food pronto è forse il peggiore di tutti, spesso assimilato al cibo spazzatura: è quello rappresentato dagli snack, dalle barrette, dalle patatine o dai dolciumi comprati in qualunque negozio della GDO, e dal cibo precotto delle grandi catene. É scelto da chi non ha voglia di cucinare ma cerca gratificazioni veloci, immediate, senza sforzi. Ricadono in questa categoria, però, anche il cibo da asporto e il surgelato, e non necessariamente queste due realtà devono essere associate alla qualità mediocre e al junk food (ma ne parleremo ancora). Infine, il peccaminoso è quello associato al non dovrei, ma non resisto: quindi si porta dietro anche un leggero senso di colpa per aver consumato cibi dannosi per la salute poiché ricchi di grassi, burro e zuccheri. Girava anni fa un meme su Facebook in cui un gattone guardava con occhi languidi una fetta a tre strati di torta al cioccolato e la didascalia diceva “quando devi scegliere tra essere felice e essere magra”. Ecco, quello è il comfort food peccaminoso: la sua caratteristica fondante è il sentimento di appagamento attraverso il consumo di piatti eccessivamente calorici. La sachertorte, il mont blanc, il tiramisù, le lasagne, un hamburger super farcito... la lista è potenzialmente infinita.
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Quindi, dopo aver affrontato tutti i risvolti - positivi e negativi - di ciò che è ormai diventato un autentico fenomeno sociale, addentriamoci in quella che è la nostra idea di comfort food, in un mese, Dicembre, che da tradizione porta con sé la voglia di intimità e di appagamento, visto l’avvicinarsi delle festività; quest’anno poi – un nefasto 2020 - esaspera ancora di più la nostra voglia di conforto e di coccole. Consolatevi con noi, senza sensi di colpa.
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PULLED PORK: I TAGLI ITALIANI
Infografica a cura della Redazione Illustrazioni di Eleonora Castagna
I vecchi abbonati al Magazine e i più esperti di voi sapranno già ormai che i tagli per fare il pulled pork si possono dividere in due grandi “famiglie”. Quelli derivanti dalla macelleria Italiana, la coppa e la spalla, e quelli della macelleria americana, il Boston Butt e il Pic Nic. Ecco nello specifico tutte le differenze tra i vari tagli:
COPPA DI MAIALE
E’ la parte di muscolatura del collo compresa tra la prima vertebra cervicale e la terza vertebra toracica. Tra i muscoli in questione possiamo riconosce sia quelli del trapezio che quello omotrasversario. Il taglio di carne si ottiene dalla lavorazione della porzione superiore del collo e da una parte (superiore) della spalla. Il pezzo così ottenuto, tradizionalmente, si presta a un duplice utilizzo. Disossato e stagionato, diventa un salume, conosciuto sia come coppa che come capocollo in base alle diverse aree geografiche del nostro Stivale. Utilizzato fresca invece è un taglio ottimo da cucinare grazie anche alle numerose venature di grasso. In particolare è possibile ottenere delle succulente bistecche che, una volta marinate, sono ottime per una cottura diretta su griglia. Allo stesso modo, il pezzo intero può essere utilizzato in alternativa all’arista o alla lonza per dei lussuriosi arrosti della domenica. La coppa è un taglio ricco di grasso ma povero di collagene. Generalmente si trova in macelleria con o senza osso. A fette o a tranci. Tra le due varianti offerte dal panorama italiano è forse quella che meglio si presta per ottenere un maiale sfilacciato. L’elevata presenza di grasso porterà ad avere un pulled pork molto saporito che però resterà un po’ più asciutto.
SPALLA DI MAIALE
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Lungo la spalla passano muscoli come il deltoide e il muscolo sopraspinato. A differenza della coppa è un taglio in cui è presente un’elevata quantità di collagene e una limitata quantità di grasso. Solitamente è utilizzata per la realizzazione del prosciutto cotto di spalla, o in alternativa viene divisa in due parti. La parte più tenera è pregiata è la fesa e viene utilizzata per la preparazione del salame, la parte invece più dura, composta principalmente da muscolo, viene utilizzata per la realizzazione di prodotti come il cotechino, la mortadella e i würstel. È un taglio idoneo alla realizzazione del pulled pork: contrariamente a quello fatto con la coppa, otterremo un risultato finale meno saporito ma più idratato. Per cercare di compensare la mancanza di collagene si può utilizzare la spalla con osso per apportare uno sprint al sapore.
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PULLED PORK: I TAGLI AMERICANI
Infografica a cura della Redazione Illustrazioni di Eleonora Castagna
Al contrario della tradizione italiana, i tagli dell’anteriore in US si dividono diversamente. Invece di coppa e spalla avremo Boston Butt e Pic Nic.
BOSTON BUTT
Nel New England pre-rivoluzionario, i macellai tendevano a prendere tagli meno pregiati di prosciutto e spalla e li confezionavano in barili per lo stoccaggio e il trasporto, noti come butt. La parola deriva dal latino “buttis” che significa botte o barile. Questo particolare taglio della spalla divenne noto in tutto il Paese come una specialità di Boston, e da qui il nome. È il taglio per eccellenza per la preparazione del pulled pork. É composto da una parte della spalla e da una parte della coppa. A differenza di quanto avviene in Italia, l’articolazione è recisa di netto e si ottiene un taglio dalla forma più squadrata. Per ottenerlo è necessario sezionare l’articolazione all’altezza dell’osso scapolare, cosa mal vista dai macellai della tradizione italica visto l’elevato quantitativo di scarto che ne deriverebbe. L’unione di una porzione della coppa con una della spalla garantisce un connubio perfetto assicurando il corretto apporto di collagene in equilibrio con il giusto quantitativo di grasso.
PIC NIC
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Sotto la coppa si trova la spalla di maiale. Questo taglio include la maggior parte del quarto della gamba anteriore del maiale. Poiché i muscoli delle gambe lavorano molto di più rispetto alla schiena, la carne del Pic Nic è un po’ più dura rispetto a quella del Buston Butt.
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La spalla tagliata con il gambo - o attaccata al garretto- è chiamata dagli americani “Pic Nic Ham”. Questo taglio è più economico perché richiede meno lavoro durante la macellazione e ha più ossa. Esso viene solitamente venduto dal macello in confezione sottovuoto e pronto per l’uso. E’ la parte che viene utilizzata principalmente lungo l’East Coast. I ristoranti barbecue, dovendo preparare ingenti quantitativi di pulled pork, hanno optato per questa scelta più economica rispetto al Buston Butt. Lo stinco e la gamba, se cucinati correttamente, sono pieni di sapore grazie anche alla ricca presenza di ossa. La quantità di collagene è, forse, sovrabbondante. Si tratta di un taglio più dalla resa inferiore, ma è comunque in grado di dare un pulled pork con caratteristiche abbastanza simili a quelle del Boston Butt, che tuttavia rimane la scelta migliore tra tutti i tagli qui presentati.
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Quante volte ne abbiamo parlato ormai? Non si contano più gli articoli sul Magazine che ne parlano, così come i post in Community, le foto, le domande, i commenti. Senza dimenticare uno dei tre e-book scritti da Gianfranco Lo Cascio dedicato proprio a lui, il pulled pork.
AL FORNO O AL BBQ
Tutti pazzi per il pulled pork
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Approfondimento tecnico a cura di Michela Bongiorni
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Potremmo dire di aver ormai affrontato l’argomento analizzando ogni aspetto. Allora, perché un nuovo articolo, vi chiederete? Le ragioni in realtà sono molteplici: stiamo uscendo con un numero natalizio dedicato al comfort food, e non c’è ombra di dubbio che il nostro amato porco sfilacciato faccia parte del genere a pieno titolo, bello morbido, gratificante, succoso e appagante com’è. Inoltre, così come è accaduto per le Ribs di maiale nello scorso numero del Magazine, sappiamo che molti lettori sarebbero curiosi di assaggiarlo ma, non disponendo di un dispositivo a carbone, sono un po’ titubanti a farlo in forno. Certo, adesso possono comprarlo già cotto sul nostro Megastore (ah, non sapevate della grande novità? Ops, forse era un segreto...), ma ci sono anche quelli che non vogliono togliersi il gusto di cucinarlo per poter dire agli amici e ai parenti “visto come sono bravo?”. Ecco perché siamo di nuovo qui a fare un confronto fra la cottura bbq, per gli irriducibili, e quella al forno, per chi non ha modo o non ha voglia di accendere il carbone nella stagione fredda. Sappiate che non vi giudico in ogni caso: ho passato un Capodanno, cinque anni fa, durante quella che fu la notte più fredda della stagione, con la bufera e i fulmini, cucinando proprio il pulled pork e un Baltimora Bit beef. Quindi capisco entrambe le ragioni: pur divertendomi, mi ricordo di aver pensato spesso “ma perché non l’ho messo nel forno?!”. Potrei star qui a snocciolare altre ragioni per cui abbiamo deciso di parlare ancora di questa preparazione
tipica dell’American bbq, per esempio che è sempre bene fare un ripasso ogni tanto, oppure che è bello fare la prova con il nostro Duroc, il Black Angus dei maiali, che garantisce un ottimo risultato al 100%. Ma la verità è che il pulled pork ci piace così tanto che ogni occasione è buona per cucinarlo, mangiarlo e presentarlo. E poi si sa che siamo malefici, pensiamo solo al fatturato e vogliamo farvi venire la voglia di comprarlo!
Cos’è il Pulled Pork
Ingredienti per le due preparazioni: • 2 Boston Butt di Maiale Duroc del BBQ4All Megastore; • una confezione di Sal’s Seasoning Tennessee; • Olio di semi di girasole q.b. • (solo per la cottura al forno) Paprika affumicata spagnola (Pimenton de la Vera) q.b. • ceto di mele q.b.
Procedimento bbq: 1. Togliete il Boston Butt dalla confezione, dategli una lavata sotto l’acqua corrente e poi procedete alla fase di trimmatura togliendo eventuali accumuli di grasso. 2. Cospargete con un filo d’olio di semi il pezzo di ciccia e poi rubbatelo col Tennessee; anche in questo caso vale lo stesso discorso per le Ribs: non esagerate mai col Rub. 3. Accendete il vostro dispositivo e predisponetelo per una cottura indiretta che duri a lungo, quindi è indispensabile che conosciate lo Snake Method: dovete creare un serpente costituito da bricchette di carbone spente disponendole lungo il bordo del braciere, andando a creare una sorta di mezza luna.
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Potete leggere la scheda tecnica sui tagli adatti a questa preparazione in questo stesso numero, per cui non mi dilungherò sulla questione. Però credo che molti lettori gradiscano un recap, per mettere a fuoco bene la cosa di cui stiamo parlando. Per cui, che ripassino sia, come a scuola. Nato nel sud degli Stati Uniti, in Carolina del Nord, il pulled pork (maiale sfilacciato) da quelle parti è una sorta di religione che sarebbe ingiusto definire solo come un ammasso di straccetti di carne speziata e salsata da infilare nel panino. E’ molto di più, è un simbolo, è un mondo intero, è un rito con delle precise regole da rispettare, è una cosa seria che porta la gente a discussioni interminabili e a prese di posizione degne dei gastrofanatici più convinti. Dovremmo scrivere un libro di mille pagine per raccontare questa preparazione in ogni sua sfumatura, per cui qui ci limitiamo a ricordare velocemente quali sono i parametri di un pulled pork che sia degno di questo nome: deve avere una crosticina spessa e saporita (bark), deve avere una nota affumicata che non sovrasti il sapore della carne (smoky flavour), deve sfilacciarsi senza sforzi e non deve essere asciutto e stoppaccioso. Detto così, sembra facile. Nella realtà, ho visto e assaggiato pulled pork di tutti i tipi: bolliticci, insapori, secchi, con la consistenza della segatura, troppo affumicati, troppo saporiti, troppo speziati, coperti dalla salsa e dai condimenti per nascondere errori di cottura. Il percorso per arrivare a farlo alla perfezione è, parafrasando una famosa citazione, una strada infernale lastricata di buone intenzioni ( Hell is paved with good intentions, frase ricordata da Boswell nella Vita di Samuel Johnson, 1791). Non è semplice, non è comodo e non è immediato, per cui non spaventatevi se per le prime volte potreste avere dei problemi, anche seguendo pedissequamente le indicazioni. Noi siamo sempre qui per aiutarvi a capire gli eventuali errori. Certo, scegliendo il taglio giusto e la carne di qualità
il rischio di avere un risultato non soddisfacente si abbassa moltissimo. Noi a questo giro abbiamo optato per due Boston Butt di maiale Duroc. Come sapete, questo è IL taglio: la porzione di spalla assicura il corretto apporto di collagene, mentre la coppa apporta la giusta quantità di grasso, di gusto e di succosità. Uno dei due BB finirà in forno, l’altro nel kettle a carbone. Seguitemi con attenzione e fate esattamente ciò che vi dirò. Ve lo dico subito: abbiamo volutamente scelto di non iniettare la carne perché l’alta qualità del Duroc, con la sua marezzatura importante e il suo sapore brillante e deciso, ci ha permesso di saltare questo passaggio ottenendo comunque degli sfilacci goduriosi, succosi e saporiti. Per il resto, abbiamo scelto di usare il water pan (soprattutto se siete alle prime armi e optate per la cottura bbq vi aiuta a stabilizzare la temperatura del vostro dispositivo) e di andare in foil dopo la formazione del bark. In rete troverete miliardi di opinioni in merito: sì foil, no foil, sì water pan, no water pan. Come dico sempre, ognuno scelga il metodo che preferisce: per quello che mi riguarda, quello che andrò a descrivervi è il migliore, specie se si parla di una cottura casalinga. Low&Slow, ovviamente, manco a chiederlo.
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Poi procedete all’accensione dello Snake versando bricchette accese (meno di metà cesto accenditore) solo ed esclusivamente ad una delle due estremità, dando così inizio al sistema di innesco continuo. La lenta combustione va a generare quindi un ciclo virtuoso dove le bricchette accese prendono il posto di quelle esaurite, garantendo una temperatura costante. Lo Snake dovrà durare almeno 12 ore. 4. Stabilizzate dunque il vostro dispositivo a una temperatura di circa 110/120°C in griglia mettendo anche una vaschetta di alluminio riempita per circa un terzo d’acqua accanto allo snake, sulla griglia carboni. Quando la temperatura del vostro kettle sarà quella ideale, appoggiate la carne sulla griglia dalla parte opposta delle braci- sotto ci sarà la vaschetta con l’acqua- inserite il legno per affumicare (chips o chunks), inserite la sonda del termometro nella ciccia e chiudete il coperchio. A questo punto comincia la parte noiosa: dovete aspettare senza aprire il coperchio per controllare
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cosa stia succedendo dentro l’infernale aggeggio. Non fatelo. I vostri unici punti di riferimento sono le due temperature: quella in griglia, che deve rimanere costante per ore, e quella della ciccia che deve lentamente salire. 5. L’attesa potrebbe essere lunga ed estenuante: stiamo parlando come minimo di sei chili di carne. Tendenzialmente, quando il pork raggiungerà i 65/70°C (quindi diverse ore dopo) potete aprire il coperchio, controllare il bark e, se quest’ultimo sarà perfettamente formato, potrete andare in foil (facendovi aiutare da qualcuno). Noi abbiamo scelto il Texas Crutch: abbiamo inserito la carne in una vaschetta di alluminio nella quale abbiamo versato un poco di aceto di mele- ma va bene anche l’acqua - per poi avvolgerla con fogli di alluminio in modo che non ci fossero fori o buchi. Ovviamente, dopo dovete reinserire la sonda nella ciccia, chiudendo il piccolo foro che si formerà con altro alluminio. È fondamentale che questa
procedura avvenga velocemente e che la carne non subisca shock termici che comprometterebbero la riuscita della preparazione. 6. Una volta chiuso il pork nell’alluminio, rimettetelo in cottura, aprite tutte le vent del vostro kettle e lasciate che la tempertura salga, e di nuovo aspettate. La temperatura interna deve raggiungere i 98°C. Quando succederà, anche se saranno passate ore (circa 12 se avete fatto tutto alla perfezione) non fatevi prendere dall’entusiasmo: aprite il coperchio, aprite il foil, lasciate uscire il vapore interno, richiudete il foil, richiudete il coperchio, chiudete tutte le vent del dispositivo e lasciate che la temperatura del vostro pork scenda lentamente per almeno due ore. Ho appena descritto la fase di rest (mantenimento), fondamentale affinché gli sfilacci del vostro pulled pork rimangano succosi e teneri anche dopo il pullaggio. 7. Trascorse le due ore, potrete togliere il pork dal dispositivo e aprire bene il foil: se tutto è filato
liscio vi accorgete che il bark è ancora intatto e che nella vaschetta si è formata una discreta quantità di succhi di cottura. Anche qui, le scuole di pensiero si dividono: c’è chi preferisce pullare dentro la vaschetta e chi preferisce pullare fuori dai liquidi e aggiungerli dopo. In ogni caso noterete che la ciccia si sfalderà senza sforzi sotto i colpi delle forchette e che ogni sfilaccio avrà lo smokering: quell’anello rosa intenso appena sotto il bark, inutile ai fini del sapore ma tanto bello a vedersi. 8. Siete pronti a servire il pulled pork come più vi piace ( di solito, in un panino con l’immancabile coleslow): occhio ad avere amici o familiari intorno durante questa fase, perché ho visto chili di sfilacci sparire nel giro di due minuti, presi con le mani e mangiati con mugolii di soddisfazione da uomini e donne con mani e bazze unte.
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Procedimento al forno:
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1. La fase di trimming è esattamente uguale a quella descritta poc’anzi, mentre al momento di stendere il Rub aggiungete al Tennessee la paprika affumicata. Questo perché, per ovvi motivi, in forno non potrete affumicare con il legno e quindi darete una leggera nota di fumo attraverso la paprika: no, non la stessa cosa, ma è comunque un buon compromesso. 2. Anche in questo caso, vi consiglio di inserire sul fondo del forno una vaschetta di alluminio con un po’ d’acqua dentro (anche per salvaguardare il forno dalla colatura dei succhi). 3. Qui diventa facilissimo: accendete il forno in modalità ventilata a una temperatura di circa 110/120°C. Quando sarà pronto, inserite la ciccia appoggiandola direttamente sulla griglia posta a metà altezza. Ovviamente, anche in questo caso è necessario inserire la sonda del termometro per rilevare la temperatura della carne. 4. Anche in questo caso non resta che aspettare, ma qui sarete molto più rilassati: innanzitutto non dovrete preoccuparvi di oscillazioni impreviste di temperatura, non dovrete chiedervi se avete inserito la giusta quantità di bricchette, tale da garantire la durata per tutte le ore di cottura che servono, e soprattutto la porta trasparente del forno vi permetterà di vedere cosa succede minuto per minuto. 5. Sostanzialmente, la procedura rimane quella descritta poco sopra: al raggiungimento del bark, si va in foil esattamente nello stesso modo. Si rimette tutto in forno e si aspetta il raggiungimento dei 98°C. 6. Si spegne il forno, si apre il foil, si fa uscire il vapore in eccesso, si richiude tutto e si lascia tutto nel forno spento (o acceso al minimo della temperatura) per un paio d’ore. Poi si pulla. 7. La prima differenza che vedrete è quell’assoluta mancanza di smokering che però avevate gia messo in conto. Per il resto, lo smoky flavour sarà appena percettibile e comunque molto diverso rispetto all’affumicatura nel dispositivo. La consistenza e la morbidezza, così come la croccantezza del bark saranno le stesse. Forse, in questo caso una buona salsa bbq con note affumicate potrebbe andare a compensare ciò che manca. Avete comunque guadagnato in relax, calduccio, serenità e comodità. E il Duroc vi ha garantito un risultato comunque ottimo. A questo punto, non vi resta che scegliere: siete per l’adrenalina infernale o per la comodità casalinga?
Sono giapponese... ma parlo americano.
GYOZA AL PULLED PORK INGREDIENTI 4 persone Per la salsa: 60 g di acqua di peperoni in ember roasting 32 g di salsa di soia 30 g di succo di limone 40 g di sciroppo di zucchero 5 g di tabasco 20 g di semi di sesamo misti 4 g di olio di sesamo Per il ripieno: 40 g di cavolo cappuccio rosso 40 g di insalata iceberg 4 g di aglio fresco Olio extravergine di oliva q.b. 4 cucchini di Salsa di accompagnamento 4 cucchiaini di salsa Worchestershire 300 g di pulled pork già sfilacciato 80 g salsa barbecue 1 peperoncino (facoltativo) Per la pasta (circa 30 ravioli) : 320 g di farina 00 140 g di acqua calda un cucchiaino di sale
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Spesso però capita che il Pulled Pork avanzi, soprattutto quando si è in pochi e bisogna comunque cuocerne una quantità minima considerevole per ottenere un ottimo risultato. Per carità, la classica versione nel panino, con la salsa acidula e la coleslaw croccante è indiscutibilmente un must dal livello di salivazione assurdo, ma ogni tanto è bene anche provare qualcosa di nuovo. È con questa ricetta cercheremo di armonizzare più culture in un colpo solo creando un piatto fusion, saporito e di grande effetto. Prepareremo dei gustosissimi ravioli alla piastra tipici della cultura asiatica, i gyoza, ripieni di pulled pork in pieno stile americano da intingere in una salsa, che ha come base la mediterraneità del peperone arrosto, potente e leggermente affumicata. Questi deliziosi ravioli li troviamo spesso nei ristoranti asiatici, sia cinesi che giapponesi, ma la differenza sostanziale tra i gyoza in stile giapponese e i Jiaozi cinesi è la presenza notevolmente più elevata dell’aglio che è quasi assente nei secondi. Entrambi vengono spesso accompagnati con salsa tarè o piccante e si differenziano anche per tipologia di cottura e ripieno. Si possono infatti cuocere al vapore per una versione più leggera, alla piastra per un gusto più deciso (yaki gyoza) e infine friggere per la variante più golosa. La cosa divertente è reinterpretare il ripieno come si vuole, mentre la chiusura richiede un po’ di esercizio ma trasmette una serenità zen senza eguali.
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PREPARAZIONE DEI RAVIOLI 1. Impastate energicamente sul piano di lavoro per far prendere elasticità alla pasta. Lasciate riposare almeno 20 minuti. 2. Nel frattempo preparate il ripieno. In una padella scaldate un filo d’olio, aggiungete l’aglio tritato finemente, il cavolo e l’iceberg entrambi tagliati a julienne. Fate saltare per qualche minuto, poi condite con la salsa di accompagnamento e regolate il sapore con la salsa Worchestershire. 3. Unite in questa fase il pulled pork avanzato fatto rinvenire con salsa barbecue e un goccio d’acqua o brodo vegetale. Amalgamate bene gli ingredienti e lasciate raffreddare leggermente. 4. Stendete la sfoglia dei ravioli e coppate con un tagliapasta della misura desiderata. Inserite la quantità di ripieno adatta alla misura scelta per ottenere un raviolo cicciotto e sostanzioso. 5. Praticate una chiusura a mezzaluna e poi effettuare il classico ricamo dei ravioli alla piastra partendo da destra verso sinistra, avendo cura di schiacciarne leggermente la parte inferiore. 6. Scaldare il dispositivo al massimo della temperatura e predisponete la configurazione per inserire una piastra in ghisa o in ceramica. 7. Preriscaldate molto bene il supporto, poi aggiungere un filo di olio di semi e i ravioli fino a che non formeranno una deliziosa crosticina sul fondo. A questo punto versate mezzo bicchiere d’acqua e coprite con un coperchio per sviluppare vapore che aiuterà a cuocere la parte superiore della pasta. Quando risulterà cotta basterà togliere il coperchio e far evaporare tutta l’acqua in eccesso per far riprendere la giusta croccantezza al fondo dei ravioli.
PREPARAZIONE DELLA SALSA 1. Cuocete due peperoni in Ember roasting, ossia posizionandoli tra le braci roventi finché non sarà carbonizzata la parte esterna. Avvolgeteli in un sacchettino di plastica alimentare e chiudeteli per far sviluppare vapore e favorire la fuoriuscita dell’acqua di vegetazione che sarà la base della salsa. Dopo circa mezz’ora spellate i peperoni. Grazie al vapore sviluppatosi nel sacchetto quest’operazione sarà semplice e veloce da eseguire. Dividete i peperoni in falde e mettetele a scolare per almeno un’ora in un colino a maglie fini; recuperate tutta l’acqua di vegetazione possibile. La polpa di peperoni potrà essere utilizzata in svariate preparazioni: per una salsa dip da stuzzicare come aperitivo o come ripieno per dei tortelli o infine come gustoso contorno.
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2. Unite all’acqua di peperone arrosto gli altri ingredienti e fate maturare almeno un’ora. A piacere aggiungete delle rondelle di peperoncino.
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3. Servite i ravioli con la salsa di accompagnamento.
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Speciale Comfort Food - Ricette a cura della Redazione
LE UOVA RIPIENE
e quel "certo languorino" Nel mondo culinario, l’uovo (in particolare quello di gallina) è uno degli ingredienti più usati, anche perché, a causa del suo elevato contenuto di proteine, è considerato non a torto uno tra gli alimenti più nutrienti al mondo. Un uovo grande contiene circa nove grammi di proteine, otto di grassi, tracce di carboidrati e tutte le vitamine presenti nella maggior parte nel tuorlo (tranne la vitamina C) e i minerali essenziali (calcio, ferro, lecitina). Si stima che ogni anno in Italia vengano prodotte più di 13 miliardi di uova, e nonostante questo non bastano: per questo motivo vengono anche importate.
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Quando arrivava il Natale, si iniziava a sentire il profumo di uova sode già dal giorno dell’Immacolata, l’8 Dicembre. Le donne meno avvezze ai fornelli, quando si iniziava a dover decidere chi doveva preparare cosa durante le battaglie estenuanti dei pranzi delle feste, facevano a gara a chi alzava prima il braccio gridando: “Le uova ripiene le faccio io!”. Valeva come avere Parco della Vittoria a Monopoly. Questo perché la loro preparazione era molto semplice, ma essendo gustose e servite come antipasto spesso ricevevano
fotografie di Luca Gallozza
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Insomma, parliamo di un alimento che tutti conoscono e che tutti mangiano perché, viste le molteplici possibilità di cucinarlo (la tradizione vuole che le cento pieghe di un cappello da chef rappresentino gli altrettanto diversi metodi che un vero cuoco conosce nel preparare un uovo), è molto difficile che almeno una delle tante non incontri il nostro gusto. Sicuramente, le uova tonnate sono state uno dei punti fermi sulle nostre tavola di Natale degli anni '80. E dato che ci avviciniamo al periodo dei festeggiamenti, addentriamoci nella selva oscura. Le ricordate? Erano uova sode che venivano tagliate a metà per estrarre il tuorlo. Poi si creava una salsa tonnata, fatta principalmente di maionese, tonno, lo stesso tuorlo sodo, e alcune aggiunte a piacere: l’acciughina, il cappero, la paprika. Infine si rimetteva questa salsa molto densa all’interno degli albumi sodi, là dove una volta stava il tuorlo.
l’approvazione entusiasta dei commensali con un certo languorino, attratti dal quel sapore tonnato e cremoso. Poco importa se il pranzo prevedeva novecento portate successive: i vassoi con le uova ripiene sparivano a vista d’occhio. Volendo rivisitarle in chiave moderna, ma utilizzando comunque tutti quegli ingredienti che le hanno caratterizzate, per non snaturare la preparazione, abbiamo pensato a una versione vitel tonnè. Cuoceremo l’uovo come da ricetta originale, lasciandolo in acqua per dieci minuti, una volta raggiunta l’ebollizione. Poi lo sgusceremo e lo divideremo in due metà. Estrarremo il tuorlo che terremo da parte, e riempiremo le parti lasciate vuote dal tuorlo. “Si ma come ?” chiederete voi. Con una polpettina di tartare che poi condiremo con una salsa tonnata. Non parliamo di una tartare qualsiasi, ma quella esplosiva tagliata al coltello, ricavata da una Teres Major del nostro Megastore. Non importa che sia una Creekstone Farm Prime o una SRF 9+. La qualità è indubbia comunque e otterrete un risultato stratosferico. Stavolta teniamo il nostro dispositivo a riposo, risparmiando le bricchette.
INGREDIENTI 4 persone 6 uova medie 300 g Teres Major 6 fette di bacon 100 g di tonno sgocciolato Olio extravergine di oliva q.b. Sale q.b. Pepe q.b. 1 cucchiaino di Salsa di soia ½ Cipolla rossa 1 cucchiaino di senape 30g Capperi 2 Acciughe 1 cucchiaino di limone 2 cucchiai di maionese 1 ciuffo di erba cipollina fresca Sal’s Seasoning Montreal Rub q.b..
PREPARAZIONE 1. Riempite un pentolino d’acqua e mettete a cuocere le uova per otto minuti da che inizia l’ebollizione. 2. Ultimata la cottura, raffreddate in acqua e ghiaccio le uova e lasciatele riposare 5 minuti. 3. Procedete con lo sgusciare le uova, che dividerete in due parti eguali per la lunghezza. 4. Estraete i tuorli e tenete da parte gli albumi sodi. 5. Create la salsa tonnata, frullando in un mixer, i 4 tuorli sodi, il tonno, i capperi, le acciughe, il limone e l’olio. Aggiungete poi la maionese e mescolate per ottenere un composto omogeneo. 6. Tagliate e battete la Teres Major a coltello. Inserite la tartare in una ciotola. 7. Aggiungete alla tartare un filo d’olio, la salsa di soia, la senape, la cipolla tritata finemente, sale e pepe e una spolverata di Sal’s Seasoning Montreal della linea GLC Top Selection. Mescolate bene il tutto. 8. Create con la tartare delle mini polpettine da circa 50/60g l’una e adagiatele nella parte convessa dell’albume. 9. Fate rosolare per bene, le fette di bacon su una piastra. 10. Da ancora calde, utilizzate le fette di bacon per bardare l’uovo, ricoprendo la polpettina di tartare.
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11. Versate sul bacon un po’ di salsa tonnata e un pizzico di erba cipollina tritata finemente e gustatevele insieme ai vostri commensali.
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Speciale Comfort Food - Ricette a cura della Redazione
PASTA E CECI PASTA E FAGIOLI il comfort food delle nostre nonne
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La tradizione contadina non le chiamava certo Comfort Food, ma sicuramente la pasta e ceci e la pasta e fagioli sono due primi piatti che confortano tantissimo: va da sé, quindi, che non potevano certo mancare in questo numero di Dicembre così pieno di piatti appaganti, morbidi, vellutati e saporiti. Piatti consolatori, per dirla tutta. Quando abbiamo pensato al menu per questo ultimo numero del BBQ4All Magazine avevamo pensato di inserire solo una delle due, ma dato che scegliere ci è sembrato troppo difficile, ci siamo detti: ma sì dai, meglio abbondare, facciamole entrambe, che di sicuro non dispiace!
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Partiamo dalla pasta e ceci: è una ricetta conosciuta in tutta Italia, tanto che ogni regione ha di fatto la sua variante, ma la tradizione la vede nascere nel Centro-Sud Italia, dove è ancora parecchio radicata. Si tratta di un primo piatto veloce, preparato con ingredienti semplici ma gustosi: a guardar bene gli ingredienti primari sono due, la pasta ed i legumi. Di qualità potremmo dirne a decine, ci limitiamo a dire che una pasta e ceci fatta bene è cremosa, sostanziosa, profumata: è il piatto contadino per eccellenza. Un pieno di carboidrati e proteine, in passato mangiata anche a colazione, adatta a ricaricare le batterie prima di tornare a faticare nei campi. Il retaggio di questa squisitezza è arrivato fino a noi, con la sua semplicità, il gusto autentico, semplice, schietto, che riempie di calore lo stomaco ed il cuore durante le uggiose giornate della stagione fredda: c’è da dire che ne abbiamo parecchio bisogno, di ‘sti tempi. Esistono, come dicevamo, moltissime varianti di questo piatto nonostante i semplici e pochi ingredienti. Attenti eh, che vi vediamo: già siete lì, a sostenere fieramente che la vostra famiglia è l’unica degna di essere detentrice della vera ed unica ricetta. E con tutta probabilità, ognuno di voi ha ragione. Affascinante come, con così pochi passaggi, si possa ottenere un risultato simile, dalle
sfumature più sorprendenti. Passiamo a parlare dell’ingrediente principale: i ceci. Partiamo col dire che questi legumi rappresentano un viaggio meraviglioso nella storia dell'uomo; arrivati sino a noi grazie all'espansione dell'Impero romano (chiamati Cicer in onore di un antenato di Cicerone, che aveva una simpatica verruca sul naso a forma di legume), nascono e vengono utilizzati sin dall'inizio dei tempi nelle zone occupate oggi da Iraq, Turchia, Egitto e Grecia. La loro resistenza alla siccità e le loro proprietà nutritive sono state alla base dell'evoluzione umana, infatti è proprio questa pianta che l'essere umano riuscì a coltivare durante l'età del Bronzo. Soprannominati “la carne dei poveri”, i ceci sono estremamente ricchi di proteine e carboidrati, e risultano terzi in classifica nella lista dei legumi più consumati nel mondo. Grazie agli acidi grassi Omega3 contribuiscono a regolarizzare la pressione arteriosa, aumentando i valori del colesterolo buono e tenendo sotto controllo quello cattivo. Sono inoltre degli integratori naturali di magnesio, calcio, fosforo, potassio, vitamine C e B. Un vero toccasana. Per quanto riguarda il capitolo “curiosità piccanti”, anticamente ai ceci venivano attribuite addirittura proprietà afrodisiache, ma sfidiamo chiunque a dare il meglio di sé dopo aver ingurgitato un piatto abbondante di pasta e ceci! Sulla pasta si potrebbe aprire un dibattito infinito. C'è chi utilizza i maltagliati, c'è chi mischia vari rimasugli di pasta secca di diverso formato ed ancora chi usa la pastina da minestra, i capellini o gli spaghetti spezzati, così come i tagliolini all'uovo; non c'è una pasta che esca vittoriosa su altre: tutte sono ugualmente giuste. In questa ricetta abbiamo preferito la pasta secca che cuocendo man mano insieme a tutti gli altri ingredienti, rilascia il suo amido, aiutando a legare il tutto.
4 persone pasta e ceci
fotografie di Emiliano Nencioni
INGREDIENTI
160 g di pasta corta (casarecce, ruote, tubetti, mista) 250 g di ceci secchi 2 spicchi d’aglio olio extravergine di oliva q.b. rosmarino fresco q.b. mezzo cucchiaio di concentrato di pomodoro peperoncino q.b. sale&pepe q.b. 8 gamberi rossi di Mazara GLC Top Selection
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PREPARAZIONE PASTA E CECI 1. Prima di tutto scordiamoci dei ceci in scatola, fingiamo - per favore - che non esistano. Aggiungete quindi alla lista della spesa un sacchetto di ceci secchi, che lascerete in ammollo per circa 12 ore. 2. Dopo l'ammollo prendete una pentola capiente e piazzandola sul fuoco, annaffiate con dell'olio extra vergine di oliva (possibilmente novello, in questo periodo dell'anno) e lasciatelo scaldare. Nel frattempo sbucciate e schiacciate due spicchi d'aglio, aggiungendoli all'olio e lasciandoli soffriggere dolcemente. 3. È il momento di aggiungere i ceci, lasciate rosolare nel soffritto a fiamma vivace girando per circa un minuto, aggiungete il rosmarino fresco (a piacimento) e poi allungate il tutto con 3 bicchieri di acqua lasciando successivamente bollire il composto a fuoco lento per un’oretta circa, con coperchio (finché i ceci non risulteranno morbidi). 4. Arrivati a questo punto aggiungete un pizzico di concentrato di pomodoro e del peperoncino (a voi la scelta, in base al gusto). Prelevate dalla pentola un mestolo di ceci e teneteli da parte; ora aggiungete altra acqua alla zuppa (non troppa, il consiglio è quello di regolare la brodosità della minestra man mano); salate, fate prendere il bollore, e finalmente aggiungete la vostra pasta preferita (sui 160 grammi circa). 5. Ora, ricordate i ceci messi da parte? Bene. Frullateli con un mestolo della loro acqua di cottura, e riversate la crema ottenuta insieme al resto nella pentola.
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6. Portate la pasta a cottura, e attendente qualche minuto che il tutto si intiepidisca (la pasta continuerà ad assorbire liquidi e rilasciare amido, aumentando la cremosità del piatto).
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7. Impiattate con una tartare di gamberi rossi che avrete condito con sale, pepe, unite un filo d'olio a crudo e servite.
PASTA E FAGIOLI:
trait d’union di tutta Italia La pasta e fagioli, invece, è quella più consumata nelle regioni settentrionali del nostro Paese, anche se la Campania vanta una buona tradizione su questo piatto. Anche in questo caso si parla di numerosi varianti, che però possono essere raggruppate in quattro macro-gruppi: le paste e fagioli condite a base di lardo, quelle condite a base di olio, quelle con i fagioli interi, quelle con i fagioli passati (tutti o in parte). I fagioli sono presenti nella dieta dell’uomo da moltissimo tempo, ma bisogna fare una fondamentale distinzione tra i fagioli che si coltivavano in Italia prima della scoperta dell’America e quelli che sono stati introdotti dopo. I primi, i cosiddetti fagioli all’occhio, sono piccoli, di colore bianco crema e provvisti di un piccolo anello nero (l’occhio, appunto) che indica il punto di attacco del seme al legume. Sono originari delle regioni tropicali dell’Asia e dell’Africa e sono i fagioli conosciuti e abitualmente consumati da Greci e Romani prima che arrivassero dall’America i fagioli che coltiviamo oggi. Questi ultimi – i fagioli “importati” dalle Americhe, insomma - pare che siano stati coltivati per la prima volta in Italia nella zona di Belluno intorno ai primi anni del ‘500. Pian piano, poi, questo legume divenne protagonista della gastronomia di quasi tutte le regioni italiane. Esistono diverse varietà di fagioli, è giusto nominare le tre che hanno ottenuto il riconoscimento IGP sul nostro territorio: il fagiolo di Lamon della Vallata Bellunese, il fagiolo di Sarconi originario della provincia di Potenza, e il fagiolo di Sorana presente nella provincia di Pistoia. Dopo questa breve disamina sui legumi, passiamo anche qui alla pasta. La tipologia di pasta da utilizzare è quella corta, secca o all’uovo: l’importante è che sia di buona tenuta e di ottima qualità. Anche in questo caso vanno bene maltagliati, tagliatelle corte, ditalini rigati, spaghetti spezzati, e così via. Fra le molteplici varianti di questo piatto troviamo quella con le cotiche, quella con le patate, quella con le verze, quella con o senza il pomodoro. Impossibile trovare la ricetta originale, tante sono state le rivisitazioni nel corse dei secoli. Noi abbiamo optato per i fagioli cannellini (ci perdonerà il Maestro Gualtiero Marchesi se non abbiamo usato i borlotti), l’uso dell’olio e non del lardo, una parte di fagioli interi e una frullata per renderla molto più cremosa. E come sulla pasta e ceci abbiamo usato un ingrediente goloso come topping: seguiteci quindi nelle ricette per scoprire le nostre versioni.
PREPARAZIONE PASTA E FAGIOLI 1. Mettete a mollo i fagioli per circa 12 ore. 2. Tritate sedano, carota e cipolle e mettete il trito a soffriggere in una casseruola con abbondante olio extravergine di oliva. 3. A questo punto gettate nella pentola i fagioli tolti dall'ammollo, aggiungendo abbondante acqua salata e il rametto di rosmarino. Fate partire il bollore e cuocete a fuoco mooooolto lento. Ci vorranno due ore e mezza buone, mettetevi comodi. 4. Trascorso questo tempo, togliete il rosmarino, togliete una parte dei fagioli insieme a tre mestoli della loro acqua e frullateli. 5. Aggiungete il concentrato di pomodoro al brodo e ai fagioli interi, mettete la pasta a cuocere, aggiustate eventualmente di sale e aggiungete anche la purea di fagioli. Durante la cottura, se dovesse addensarsi troppo, aggiungete un po’ di acqua o brodo. 6. Tostate in padella la pancetta e a fine cottura servite la pasta e fagioli ancora calda, con pepe, olio extravergine di oliva e un topping di pancetta croccante.
fotografie di Emiliano Nencioni
INGREDIENTI 4 persone
pasta e fagioli 250 g di fagioli cannellini secchi 160 g di pasta secca corta una cipolla dorata grande mezza costa di sedano una carota un rametto di rosmarino mezzo cucchiaio di concentrato di pomodoro olio extravergine di oliva q.b. sale e pepe q.b. 200 g di pancetta affumicata
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È NATO PRIMA IL PURÈ O LA PATATA?
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Purè: il nome suona bene. Troppo spesso considerata una pietanza “da malati”, per colpa soprattutto di quei menù ospedalieri in cui servono una cosa chiamata arbitrariamente purè ma che ha il sapore e la consistenza del calcestruzzo (non che lo abbiamo mai assaggiato, il calcestruzzo intendiamo, ma è così che ce lo immaginiamo), in realtà quella morbida, vellutata, burrosa crema di patate è quanto di più consolatorio possa esserci. Caldo, morbido purè di patate: gioia per il palato e per l’umore. È talmente buono che viene quasi da chiedersi se sia nato prima lui o il tubero da cui proviene. Originaria del Perù, della Bolivia, e del Messico dove veniva coltivata fin dai tempi della civiltà azteca e inca, la patata venne scoperta dagli spagnoli di Pizarro, sulla Cordigliera Andina, solo a metà Cinquecento. All’inizio guardata con diffidenza dagli europei, anche perché alcuni si erano intossicati consumando le foglie ricche di solanina, fu a causa di una terribile carestia del 1663 che in Irlanda si cominciò a consumarla per l’alimentazione umana. Fu introdotta in Italia dall’ordine dei Carmelitani Scalzi che, nel XVI secolo, insegnarono alla popolazione come coltivarla, raccoglierla e mangiarla. In Francia fu l’agronomo e farmacista francese Antoine Augustin Parmentier a favorire la diffusione di questo tubero. Dopo un periodo di prigionia in Germania, dove poté gustare frequentemente le patate, egli tornò in Patria (era la seconda metà del 1700) e prese parte ad un concorso sulla ricerca dei possibili sostituti del pane presentando, dunque, la pomme de terre. Redasse un articolo esaltandone il sapore, la facilità con cui poteva essere coltivata e la sua versatilità. L’alimento suscitò il grande interesse del Re Luigi XVI, soprattutto a seguito della carestia del 1785, quando egli impartì l’ordine ai nobili di obbligare i propri contadini a coltivare la patata. Pare che Parmentier, per convincere Luigi XVI della bontà del prodotto abbia organizzato un pranzo con soli piatti a base di patate, tra cui quello che divenne il famoso Hachis Parmentier, una preparazione economico a base di purè di patate e carne macinata ripassata in padella, molto simile al britannico Shepherd’s Pie, preparato anch’esso con carne e patate.
Ok, si fa presto a dire “patata”, ma qual è la migliore per preparare il purè? La classificazione delle varietà è fatta in base alle caratteristiche della polpa: più soda in quelle a pasta gialla, più farinosa in quelle a pasta bianca. La nostra morbida purea ha bisogno di quelle asciutte, tenere e farinose, che contengano molto amido e poca acqua. Quindi sono consigliabili le varietà a pasta bianca la cui polpa farinosa tende a sfaldarsi durante la cottura. Per questa ricetta non abbiamo voluto apportare alcun cambiamento alla preparazione del classico purè, ma lo abbiamo abbinato a una tipica preparazione in griglia: le salsicce. Ovviamente abbiamo usato le nostre, grigliate alla perfezione, belle saporite e formaggiose, per rendere questo comfort food, come Mary Poppins, praticamente perfetto sotto ogni aspetto. Vabbè, abbiamo parlato anche troppo, tuffiamoci in questo purè alla svelta. Ah, ovviamente, anche se pare superfluo dirlo ma noi non ci stanchiamo mai di ripeterlo, è fondamentale scegliere tutti ingredienti di altissima qualità per un purè con un sapore pieno e intenso, che non necessiti dell’aggiunta di formaggi.
INGREDIENTI 4 persone
8 salsicce Pork Sausage Cheddar Jalapeno del BBQ4All Megastore 500 g di patate farinose a pasta bianca 150 g circa di latte fresco intero 70 g di burro di malga sale q.b. noce moscata a piacere
fotografie di Emiliano Nencioni
PREPARAZIONE 1. Lavate con cura le patate scegliendole in modo che abbiano dimensioni simili, poi lessatele con la buccia. Assicuratevi della cottura punzecchiandole con una forchetta o con la lama di un coltello che non deve riscontrare alcuna resistenza. 2. Pelate le patate ancora calde poi schacciatele usando un passaverdure o uno schiacciapatate. 3. Nel frattempo mettete a cuocere le salsicce nel vostro dispositivo, stabilizzandolo per una cottura indiretta a circa 130°C. Cuocetele per circa 40 minuti o comunque fino al grado di cottura desiderato, ovviamente senza bucarle e poi passatele velocemente in cottura diretta per pochi istanti. Tenetele in caldo. 4. Ponete le patate schiacciate in un tegame per la cottura a bagnomaria, aggiungete il sale e una generosa spolverata di noce moscata.
6. Servite le salsicce insieme al purè ancora caldo e dimenticatevi il calcestruzzo spacciato come tale da coloro che sono a dieta.
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5. Scaldate il latte fino a portarlo quasi ad ebollizione, poi aggiungetelo a piÚ riprese alle patate continuando a mescolare con una frusta facendo attenzione a non formare grumi e a rendere il composto omogeneo. Aggiungete il burro e mantecate il purè fino a farlo sciogliere completamente e a terminare tutto il latte.
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POLENTA
...altrimenti detta l'oro dei poveri
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In questo numero del Magazine parliamo di una preparazione molto diffusa ma spesso emarginata ingiustamente: la polenta di mais. Piatto povero della tradizione contadina italiana, fino ad epoche molto vicine a noi veniva realizzata cuocendo la farina di granoturco in acqua salata, dentro un paiolo di rame direttamente sul fuoco del camino (molti di noi ricordano i nonni che la preparavano così anche negli anni ‘80). Per tutta la durata della cottura, veniva rimestata con un cucchiaio di legno robusto, per evitare che formasse grumi e che bruciasse attaccandosi sul fondo; una volta pronta, la polenta veniva versata su una spianatoia di legno, dalla quale tutta la famiglia attingeva. Coloro che ancora scelgono di cuocerla come tradizione comanda sanno che è una preparazione molto lunga e faticosa, poiché bisogna mescolarla costantemente vicino a una fonte di calore, aumentando gradualmente la forza man mano che il prodotto si addensa. L’industria alimentare ha ridotto moltissimo i tempi di cottura, per adattarla alla frenetica vita moderna, creando delle miscele innovative che a contatto con l’acqua bollente in soli 10 minuti si trasformano in un bella amalgama gialla, morbida e fumante, pronta per essere condita con un sugo ai funghi, un formaggio o un ragù di carne.
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Contrariamente a ciò che si può pensare, la polenta non nasce alla fine del ‘500 con l’introduzione nel panorama agricolo italico del granoturco, importato in Europa dopo la scoperta dell’America nel 1492, ma ha origini antichissime risalenti alla nascita della civiltà. Possiamo quasi azzardarci ad affermare che è una delle prime preparazioni ideate dall’ingegno umano, perché con il termine polenta non si indica una ricetta, ma un tipo di cottura dei cereali macinati. I Sumeri la realizzavano con il miglio, i greci usavano l’orzo e i romani preferivano il farro. A questi ultimi dobbiamo il nome: “polenta” deriva dal latino “puls” (farina di farro). Durante la Repubblica, ne erano grandi consumatori, tanto da essere soprannominati “pultiferi” (mangiatori di polenta); la gustavano insieme al pesce sotto sale, ai formaggi, alla frutta, al miele, alle verdure cotte e alla carne, proprio perché il suo sapore neutro e delicato si sposava bene con
tutto. Il filosofo romano Seneca, rimpiangendo quel periodo basato su forti valori morali e sulla semplicità dei costumi, davanti al decadimento imperiale scriveva: ”Pulte, non pane, vixisse longo tempore Romanos manifestum” (di polenta e non di pane vissero per lungo tempo i romani). Torniamo alla polenta che noi tutti conosciamo: quella di mais. Perché questa versione ha surclassato tutte le altre varianti, relegandole nell’oblio? Inizialmente, quando il mais fu introdotto nel Vecchio Continente, non si intuirono le sue potenzialità; esso veniva utilizzato soprattutto come mangime per polli, colombi e maiali; fu in Italia, in special modo in Val Padana, che conobbe la sua fortuna andando a sostituire quasi totalmente i cereali vernini (farro, miglio e orzo), diventando l’alimento principale dei contadini e spesso, diciamolo, anche l’unico. Il boom dipese da due fattori: il primo riguardava il fatto che, essendo una nuova coltivazione, non veniva rubricata nei contratti tra il padrone e i suoi mezzadri, per cui non era sottoposta alle decime sui raccolti; inoltre, il granoturco manteneva i campi sempre produttivi. Solitamente, la terra che veniva coltivata a grano, cereali e legumi dopo il raccolto era messa a riposo perché riacquistasse i sali minerali e tornasse fertile; i contadini non solo scoprirono che il mais cresceva bene sul suolo demineralizzato, ma che esso al contempo, durante la sua crescita, fertilizzava la terra. Un’interessante testimonianza sull’importanza rivestita dalla polenta nel Settentrione si trova all’interno dei “Discorsi” dedicati a Giovanna Arciduchessa d’Austria di Pietri Andrea Mattioli: “i villani che abitano nei confini che determinano l’Italia dalla Germania, fanno della farina la polenta, la quale dopo che è cotta in una massa, la tagliano con un filo in larghe fette e sottili e acconcianla in un piattello con cascio o con butirro et assai ingordamente se la mangiano”. In realtà, a causa della loro estrema povertà, molto spesso le famiglie contadine finivano per mangiare tutti i giorni polenta senza alcun condimento; questo tipo di nutrizione, scarsa di acido nicotinico
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fotografie di Emiliano Nencioni
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o vitamina PP, favorì la diffusione di una malattia molto grave: la pellagra. Questa patologia attaccava il sistema intestinale, l’epidermide e il sistema nervoso, causando la morte nei soggetti più gravi. La malattia diminuì con il diffondersi di una dieta più varia, ma in Veneto continuò a fare vittime fino al secondo dopoguerra, specialmente fino a che non migliorarono le condizioni di vita degli agricoltori e di conseguenza la loro alimentazione.
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Considerato un piatto unico tipico del periodo invernale, grazie al suo sapore delicato si abbina alla perfezione con il gusto deciso dei legumi, dei formaggi, delle salsicce, dei funghi, del miele, delle verdure, dei sughi di pomodoro. Ogni regione da Nord al Sud ha la sua ricetta della polenta abbinata ai prodotti tipici del proprio territorio. In maniera molto approssimativa, perché potremmo scrivere un libro con tutte le ricette tipiche regionali, ricordiamo che in Val d’Aosta viene servita spesso con la toma e la fontina; in Piemonte è gustata con salse dolci, uova e latte; In Lombardia, con qualunque tipo di carne ma soprattutto in versione “pasticciata”; in Veneto è accompagnata da molteplici alimenti, dal fegato al baccalà, dal miele alla frutta secca; in Emilia è famosa quella piacentina con lo stracotto di cavallo, i peperoni e il pomodoro; in Toscana, la polenta rappresa viene fritta e poi condita con i funghi come un crostino; nel Lazio fa coppia con le spuntature del maiale, mentre in Basilicata, in Calabria e in Sicilia viene servita con la salsiccia e con il ragù.
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Come ben saprete la farina di mais è priva di glutine e ne esistono diverse qualità a seconda del tipo di macinatura: la bramata a macina grossa, perfetta per polente granulose e rustiche, condite con sughi e formaggi; la fioretto a macina fine, ideale per preparare biscotti e dolci, ma anche polente morbide; la fumetto a grana finissima, che viene spesso utilizzata nelle panature, nella preparazione delle frolle e dei dolci a impasto morbido come i plumcake; la farina di mais bianco, che per il suo sapore ancora più delicato si sposa alla perfezione con il pesce. Fra i vari tipi di mais meritano una menzione
il Marano Vicentino, il Nostrano di Storo, il Biancoperla e la varietà Ottofile. Il Marano Vicentino dà luogo a quella che viene chiamata la “Ferrari della polenta”. È una varietà di mais, selezionata oltre un secolo fa in Veneto, tuttora custodita nella banca del germoplasma dell’Istituto di Genetica e Sperimentazione Agraria Strampelli di Lonigo. Presenta pannocchie più piccole di quelle tradizionali e chicchi rosso rubino, tondi e lucidi. La farina che se ne ottiene è proteica e molto saporita. Il Nostrano di Storo viene coltivata in Trentino Alto Adige. La raccolta avviene a fine Ottobre e le pannocchie vengono lasciate essiccare al vento di montagna per poi essere macinate fino ad ottenere la nota farina gialla di Storo, prodotto Igp. Il Biancoperla è una varietà di mais bianco, coltivato in provincia di Padova e Treviso, con granella di grandi dimensioni e di colore perlaceo. Praticamente introvabile, è sotto la protezione di un’associazione che ne tutela la purezza e ne recupera la coltivazione. Anche questo germoplasma è conservato nell’Istituto Agrario di Lonigo. La polenta che ne deriva, delicata e di colore bianchissimo, è perfetta in abbinamento al pesce di fiume e di laguna e al baccalà. L’Ottofile, tipico delle Langhe, deve il suo nome alle otto file di chicchi arancioni che compongono l’unica pannocchia che cresce sulla pianta. Ancora oggi viene coltivato con metodi naturali e macinato a pietra. Se ne ricava una farina integrale ricca di sapore che rende la polenta di mais varietà Ottofile particolarmente genuina, dolce e amabile. Oltre alla polenta di mais (gialla) esiste anche la polenta nera, preparata con la farina di grano saraceno macinata a grana mediogrossa, dal sapore intenso e aromatico; e la polenta taragna, ottenuta miscelando la farina integrale di granturco a quella di grano saraceno a grana media; in questo modo si ottiene il mix perfetto per questa polenta tradizionale lombarda, che si prepara aggiungendo anche formaggi, burro e pangrattato. Non dimentichiamo poi la polenta con farina di castagne, tipica dell’appennino tosco-emiliano e quella sarda, con farina d’orzo, spesso arricchita con brodo di manzo e menta.
PREPARAZIONE 1. Cuocete le salsicce nel vostro dispositivo, predisponendolo per una cottura indiretta a 130/150 gradi, fino al grado di cottura desiderato, poi tenetele al caldo.
INGREDIENTI 4 persone
per la polenta: 500 g di farina di mais bramata 2 l di acqua salata
per il condimento: una confezione di Pork Sausage Cheddar Jalapeno 50 g di burro 500 g di funghi misti mezza carota un gambo di sedano mezza cipolla uno spicchio d’aglio mezzo bicchiere di vino bianco 100 g di passata di pomodoro
2. Preparate il sugo di funghi, pulendo questi ultimi dai residui di terra e poi affettandoli non troppo sottilmente; noi abbiamo messo anche dei funghi pioppini o piopparelli: funghi con carne compatta e dal sapore gradevole che non assorbono troppo i liquidi e vengono perlopiù lasciati interi, specie se molto giovani e piccoli. Sono piacevolmente scrocchiarelli e saporiti. Preparate un trito di sedano, carota, cipolla e aglio e poi soffriggetelo in padella con il burro. Insaporite di sale e di pepe, bagnate col vino bianco che lascerete sfumare e poi aggiungete il pomodoro, lasciando cuocere il sugo per circa quindici minuti.
sale e pepe q.b. fontina a piacere
3. Preparate la polenta con pazienza e in modo tradizionale, in una pentola di rame e con un cucchiaio di legno robusto, portando prima l’acqua salata a ebollizione e poi mescolando il prodotto lentamente a fuoco medio-basso. Ci vorranno circa 40/50 minuti.
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4. Una volta pronta, versatela su un tagliere di legno e servitela ancora calda e morbida con un cuore di fontina filante (basterà aggiungere il formaggio tagliato a dadini alla polenta), il sugo di funghi e la salsiccia grigliata tagliata a fettine.
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LA CIMA a modo nostro.
Il Natale è una delle ricorrenze che sembrano fatte apposta per sfoderare la tradizione culinaria, che sia una strettamente familiare oppure una locale, della propria zona. Qualsiasi sia la regione di provenienza, tutti sentiamo il bisogno di preparare piatti del territorio, tramandati negli anni di nonna in mamma, di mamma in figlia. Tra questi, in Liguria c’è un piatto tra i più gettonati per le feste natalizie dal quale abbiamo preso spunto per la ricetta che vi presenteremo. Stiamo parlando della Cima genovese, un piatto di recupero che vede come ingrediente principale una tasca ricavata dalla pancia del vitello. Quest’ultima viene prima riempita con diversi ingredienti, spesso di recupero, e poi viene cucita su tre lati, infine cotta mediante bollitura. È una procedura molto lenta e accurata che richiede parecchio tempo e parecchia esperienza per l’esecuzione, anche perché il rischio è che esploda in cottura. Il grande Fabrizio De Andrè, da buon genovese, ha celebrato questo piatto tradizionale, vero e proprio comfort food della domenica per gli abitanti del Capoluogo ligure, in una canzone in dialetto, a’ cimma, scritta insieme a Ivano Fossati, altro genovese DOC.
"Cè serèn tèra scùa carne tènia nu fàte nèigra nu turnà dùa e ‘nt'ou nùme de Maria tùtti diài da sta pùgnatta anène via. "
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(Cielo sereno terra scura carne tenera non diventare nera non ritornare dura e nel nome di Maria tutti i diavoli da questa pentola andate via)
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Ok, diciamolo subito: questa è una dichiarazione di pace e non di guerra, rivolta soprattutto agli amici genovesi. Noi abbiamo solo strizzato l’occhio a questa ricetta e ne abbiamo realizzato una tutta nostra, utilizzando solo alcuni ingredienti della
versione tipica. Sappiamo quanto gli abitanti del Capoluogo ligure prendano sul serio questa preparazione tradizionale; e dato che non sono esattamente famosi per essere accomodanti, non abbiamo nessuna pretesa di chiamarla Cima genovese. Però ne abbiamo tratto ispirazione, perché in uno speciale che parla di comfort food ci sembrava giusto sfiorare anche questa tipica pietanza di Genova che rappresenta sicuramente un cibo di conforto per tutti gli abitanti. Quindi eccola, la Cima a Modo Nostro. Ovvero grigliata. Potete ricominciare a respirare e a rilassarvi adesso. Per la ciccia, abbiamo evitato il vitello e abbiamo optato per una tasca ricavata da un Tri-Tip USA Star Ranch Choice del nostro Megastore: straordinario taglio, adattabile a diverse preparazioni. Anche la cottura, nella nostra versione, viene fatta su un dispositivo barbecue. All’interno utilizzeremo un macinato di carne che ricaveremo dai nostri burger BBQ4All. Prima lo andremo a soffriggere, con cipolla e carota, sfumandolo con vino bianco, poi lo lasceremo raffreddare. Quindi, realizzeremo una legatura per la carne fatta di aglio, uova, formaggio, maggiorana, sale e pepe. Uniremo il tutto al nostro macinato e andremo a riempire la tasca, che poi chiuderemo con ago e filo da cucina. Faremo un seasoning esterno con i nostri rub della linea Sal’s Seasoning, utilizzando un mix così suddiviso: 40% di Ultimate SPOG, 25% Dallas Mild, 25% Tennessee e 10% Smoke Chipotle Chili. É importante sapere che a causa del volume che creerà l’uovo in cottura, la tasca dovrà essere riempita solo per 2/3. Infine andremo in griglia. Oh, magari un giorno presenteremo anche quella originale, quando riusciremo a convincere lo Zio a bollire la carne. Ma non è questo il giorno. Cari amici genovesi: sappiamo bene che questa ricetta non potrà sostituire le intermittenze del cuore che vi dona la vostra della tradizione. Ma se siete illuminati come crediamo, sappiamo che darete anche a questa ricetta una chance e la proverete. Vero?
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fotografie di Luca Gallozza
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L'INSALATA DI RINFORZO che conforto!
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Opulenta, ricca di sapori e abbondante di ingredienti: l’insalata di rinforzo già dal nome è un programma. Nasce a Napoli questa ricetta ricca di verdure, senza la quale non si apparecchiano le tavole partenopee alla vigilia di Natale, ma anche durante l’ultimo dell’anno. L’insalata di rinforzo risale circa al 1800, quando il Cavalcanti la descrisse nel suo libro Cucina teorico -pratica (1837), denominandola caponata. Niente a che vedere con la preparazione che conosciamo oggi, ovviamente (ne abbiamo parlato molto nel numero di Ottobre 2020). Questo è un piatto tradizionale che spesso costituisce una delle portate principali del menù natalizio. L’ingrediente più importante è il cavolfiore, quelli complementari i sottaceti, insieme a papaccelle (peperoni napoletani), capperi, acciughe e olive.
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Inquadrata la faccenda, vi chiederete: perché è chiamata di rinforzo? Esistono almeno tre spiegazioni. Per alcuni è perché veniva preparata per la vigilia di Natale e rimaneva un piatto di accompagnamento per tutte le festività che portano sino al Capodanno. Da qui il rinforzo, dato dall’inserimento degli ingredienti mancanti, man mano che si consumavano. La seconda spiegazione è legata al cavolfiore. Questo elemento principale pare andasse rinforzato, dato i suo sapore delicato, con l’aggiunta di altri ingredienti di carattere come i capperi, le acciughe e l’aceto. La terza e ultima ipotesi è legata alle
pietanze che venivano servite durante la cena della viglia, durante la quale si mangiava di magro, solo pasta e pesce, e quindi l’insalata serviva per l’appunto al “rinforzo” della cena, proprio con lo scopo di renderla corposa. Riguardo l’ultima ipotesi, al giorno d’oggi possiamo garantirvi che, almeno a Napoli, la cena della Vigilia di Natale tutto è fuorché una cena di magro. Sostanzialmente, l’insalata di rinforzo viene utilizzata verso la metà della cena, per “pulire la bocca”, dicono alcuni, dai sostanziosi primi piatti e passare, dunque, a corpose fritture di pesce. Quindi, la versione di BBQ4All sarà una insalata ma non di rinforzo, dato che ormai sulle nostre tavole è presente ogni bendidio. Questa nostra variante si chiamerà insalata di conforto, perché ci aiuterà a superare con forza d’animo le lunghe abbuffate natalizie. Procederemo con un’affumicatura del cavolfiore, sostituiremo le papaccelle con dei comuni peperoni dolci, ai quali daremo una semicottura in ember roasting, per donare una nota bruciata ma tenendoli un pochino croccanti, e friggeremo delle belle olive nere di fresco raccolto. Voi in alternativa potrete ricorrere ad ottime olive nere di Gaeta. A questi ingredienti aggiungeremo delle belle sarde sotto sale e i cucunci, ovvero i frutti del cappero. Aggiungeremo carote, cipolline borettane, cetriolini sott’aceto e qualche verdura di stagione come il cardo.
fotografie di Emiliano Nencioni
INGREDIENTI 4 persone
un cavolfiore (circa 1 kg) 300 g di carote 100 g di Olive Termite di Bitetto oppure di Olive nere di Gaeta un cardo 100 g di cipolle borettane 100 g di acciughe sotto sale 200 g di peperoni 50 g di frutti dei capperi 80 g di cetrioli sott’aceto Aceto di mele q.b Olio extravergine di oliva q.b Sale q.b. Zucchero q.b il succo di un limone
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PREPARAZIONE 1. Lavate scrupolosamente le olive e scolatele. In un tegame versate una porzione generosa di olio. Fate scaldare e unite le olive. Salate e fate cuocere per circa 10/15 minuti a fuoco medio/basso mescolando delicatamente. Appena risulteranno morbide, saranno pronte. Lasciate raffreddare da parte. 2. Pesate le acciughe sotto sale, poi dissalatele a bagno in aceto. Pulitele bene e spinatele. Sgocciolatele e tenetele da parte. 3. Lavate bene i cucunci e teneteli da parte. 4. Lavate anche qualche costa interna di cardo. Pulitele, eliminando i filamenti esterni e la pellicina bianca interna. Poi tagliate a tocchetti di qualche cm e immergeteli immediatamente in acqua e succo di limone per prevenire l’annerimento dovuto ad ossidazione. Lasciate a bagno sino all’utilizzo. 5. Togliete il primo manto delle cipolline borettane, lavate bene e asciugate. Sbollentatele per dieci minuti in acqua salata, scolatele e raffreddatele. Mettetele in una ciotola, irroratele con un filo d’olio, un cucchiaio di aceto, un cucchiaino di zucchero e ½ cucchiaino di sale. Rimestate bene e poi scolate l’eccesso. Predisponete il vostro dispositivo per una cottura diretta e mettete le cipolline a cuocere all’interno di un vassoio bucato per verdure; lasciatele cuocere per 20 minuti circa e toglietele con una consistenza ancora al dente. 6. Lavate e pelate le carote. Tagliatele a rondelle spesse qualche cm e fatele sbollentare in un litro d’aceto e un cucchiaino di sale, per 6 minuti. Scolate e lasciate raffreddare. 7. Ora predisponete il vostro dispositivo per una cottura indiretta, alla temperatura di circa 180°C. Suddividete le cime del cavolfiore, lavatele e fatele cuocere su un vassoio per verdure, all’interno del vostro dispositivo, per 30 minuti, affumicando con chips di legno aromatico. Togliete il cavolfiore e lasciatelo raffreddare. 8. Lavate esternamente i peperoni e asciugateli bene. Dividete in due metà ciascun peperone. Eliminate picciolo, placenta e semi. Cuocete direttamente sulle braci nel vostro dispositivo, avendo premura di appoggiarlo con il lato buccia sui carboni, affinché si bruciacchi ma rimanga comunque croccante. Togliete dal fuoco, spellate e lasciate raffreddare. 9. Siete pronti ad assemblare l’insalata. In una ciotola capiente inserite per primo il cavolfiore. Condite con olio e aceto, aggiungete il sale e amalgamate delicatamente il tutto. 10. Prendete i peperoni, tagliateli prima a falde larghe 4/5 cm e poi a quadrettoni, infine aggiungeteli nella ciotola. 11. Ora inserite uno per volta i restanti ingredienti: carote, cardi, cipolline, olive, capperi, acciughe i cetriolini sott’aceto tagliati a tocchetti.
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12. Infine condite con altro olio extravergine di oliva, aceto e sale e mescolate con accuratezza al fine di non sfaldare i cavolfiori.
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Nella versione tradizionale è facile trovare il più delle volte l’insalata riccia. Essa rilascia la nota amara all’interno del piatto, ma solitamente tende ad appassirsi già dopo qualche giorno. Questo il motivo per cui l’abbiamo sostituita con un freschissimo cardo marinato. Ma se proprio volete mettercela, aggiungetela fresca di volta in volta, a seconda del consumo.
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CAPPONE
RIPIENO E AFFUMICATO ...opulenza irrinunciabile del Natale Cena di Natale: quale migliore occasione per ritrovare piatti e preparazioni che, solitamente, durante l’anno latitano? Vuoi per stagionalità, vuoi per “corposità”, vuoi per il tempo impiegato per le preparazioni… insomma: Natale significa ritrovare parenti e piatti. E a noi, questo non dispiace affatto, giusto? Forse a qualcuno dispiacerà per i parenti, ma… concentratevi sul resto. Vi aiutiamo noi.
Aneddoti a parte, conosciamo un po’ più da vicino cos’è, questo benedetto cappone; in pochissime parole, il cappone è un pollo maschio castrato. La castrazione è una tecnica antichissima e molto utile, innanzitutto perché consentiva di avere più galli in uno stesso pollaio, e poi perché rendeva la carne più tenera e grassa. Nell’antica Roma pare che l'allevamento dei capponi fosse nato anche per un'esigenza pratica: quella di aggirare una legge che proibiva l'allevamento delle galline dentro casa. La presenza del cappone segnò anche aspetti culturali e antropologici molto importanti. Il brodo ottenuto dalla sua cottura, infatti, era considerato un toccasana per i malati. Inoltre, si diceva che accrescesse e rinvigorisse l'eros (forse in virtù dei suoi nutrienti, perché a pensarci bene, essendo castrato… ). Ce lo conferma tra i tanti Ulisse Aldrovandi, naturalista e medico bolognese della seconda metà del XVI secolo che in un suo trattato ribadisce l'importanza del brodo di cappone come nutrimento. Il cappone è, quindi, non solo gustoso ma culturalmente incastonato nelle tradizioni gastronomiche e agricole di molti territori del Nord e del Centro Italia. Lo andremo a fare a modo nostro, come tutte le ricette che vi presentiamo, sicuri che vi piacerà da morire.
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Tra le tante portate della cena natalizia il cappone ripieno è un classico intramontabile che non può mai mancare. Le ricette sono svariate, quasi ogni famiglia ha la sua versione con i ripieni più golosi e disparati. Che sia arrostito oppure bollito, il cappone è contemporaneamente l'immagine dell'opulenza e della convivialità, della tradizione e del gusto: tutte caratteristiche che ci renderanno un po’ più speciale questo Natale 2020, di certo non facile. In occasione del solstizio d’inverno, nel mese di dicembre, questa preparazione faceva parte della tradizione gastronomica festiva fin dal Medioevo. Durante le fredde notti di veglia intorno al camino si raccontavano storie mangiando cibi particolarmente nutrienti e sostanziosi. Il nostro cappone viene citato anche nella letteratura: nell’opera I promessi Sposi, Renzo ne regala ben quattro all’avvocato Azzeccagarbugli, per l’epoca considerati un’autentica leccornia. Proprio in Lombardia, in special modo a Milano, tra le famiglie più abbienti era tradizione allevare quattro capponi da consumare durante le feste: uno per San’Ambrogio, uno a Natale, un
altro a Capodanno, e infine l’ultimo per l’Epifania. A quel tempo, l’animale veniva allevato in cortile, mentre oggi ovviamente la maggior parte di noi lo acquista: eppure, questa gustosa tradizione resiste e porta sulla tavola il profumo intenso dei giorni di festa.
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PREPARAZIONE 1. Per prima cosa procedete alla preparazione del ripieno, che è possibile fare anche il giorno precedente. In una padella non antiaderente fate scaldare 15 g di burro chiarificato, quando è rovente aggiungete i fegatini di pollo, salate, pepate e cuocete per un minuto, non di più. Deglassate il fondo con metà del marsala, avendo cura di staccare ogni parte raschiando molto bene. Flambate e mettere da parte. 2. Nella stessa padella ripetete la medesima operazione ma utilizzando la cipolla dorata e tritata finemente, più i 10 g di burro chiarificato restanti. Sfumate con il marsala ma questa volta portate a cottura aggiungendo un po’ d’acqua fino a che la cipolla non risulti ben appassita ma non acquosa. 3. In una bowl capiente unite i macinati, la mortadella, la frutta secca battuta al coltello, il Parmigiano, il pane ammollato nel latte per 10/15 minuti e ben strizzato, i fegatini battuti al coltello, la cipolla appassita al marsala, la maggiorana tritata al coltello e la scorza di un limone. Aggiustate di sale, di noce moscata e di pepe nero. Impastate bene con le mani e lasciate riposare almeno 30 minuti in frigorifero. 4. Un trick per testare a grandi linee la sapidità del ripieno e quello di fare un piccolo patty con un cucchiaino di impasto e cuocerlo in padella, così da poterlo assaggiare e valutare le eventuali correzioni da apportare. 5. Occupatevi ora del cappone. Eliminate le interiora e ogni residuo di piumaggio con un cannello da cucina o su un fornello. Staccate le punte delle ali e le zampe, se presenti, poi praticate delle injection nel petto con una salamoia al 4%. 6.
Cospargere la parte interna del cappone con un velo sottile di SPOG e anche la parte esterna della pelle. Lasciate riposare il vostro cappone in frigo per 12 ore, scoperto in maniera tale da favorire l’azione disidratante, così da ottenere più facilmente una pelle croccante come un biscottino.
7. Con le punte delle ali, una carota e gli scarti della cipolla utilizzata per il ripieno preparate un brodo leggero di cappone con circa mezzo litro d’acqua, da ridurre fino a 200 ml. 8. Trascorso il tempo indicato preparate il dispositivo per una cottura indiretta con i cestelli in dotazione ai lati e stabilizzandolo ad una temperatura di circa 125/130 gradi. Al centro, sotto la zona di cottura del cappone, inserite una leccarda per raccogliere il fondo di cottura e aggiungete il brodo leggero. 9. Nel frattempo, riempite la cavità inferiore del cappone con il ripieno e sigillatela cucendo le estremità con ago e filo. Legate poi le cosce insieme così da mantenere il cappone compatto durante la cottura. Affumicate dolcemente con un blend di melo e ciliegio fino a che il petto non segnerà una temperatura di 75 gradi°C. 10. A questo punto rovesciare una ciminiera di bricchette accesi e aprire le ventole in per far schizzare la temperatura il più in alto possibile. 11. Intanto, sciogliete il burro chiarificato in un pentolino fino alla temperatura di 240/245°C e spennellate accuratamente la pelle del cappone, così da friggerla e renderla croccante in pochi minuti. 12. Una volta raggiunto il risultato prefissato lasciate riposare il cappone 8/10 minuti, il tempo di preparazione della salsa di accompagnamento.
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13. Recuperate i liquidi e il fondo di cottura dalla vaschetta ed uniteli in un pentolino al vino bianco secco o al succo di limone.
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14. Riducete a fiamma alta e dealcolizzate. 15. Montate con il 10% di burro e servite con il cappone e il suo ripieno.
INGREDIENTI 4 persone
un cappone di circa 2 kg Salamoia al 4% 50 g di burro chiarificato Sal’s Seasoning Ultimate SPOG q.b.
Per il ripieno: 100 g di macinato di bovino 100 g di macinato di suino 150 g di macinato di pollo 50 g di mortadella bolognese macinata 100 di g Parmigiano Reggiano 25 g di albicocche secche 25 g di prugne secche 25 g di mirtilli secchi 25 g di pistacchi 25 g di uva passa 100 g di pane 200 g di latte 25 g di burro chiarificato 50 g di fegatini di pollo 1 cipolla dorata 40 g di Marsala la scorza di un limone maggiorana fresca q.b. noce moscata q.b sale q.b pepe q.b
Per la salsa: fondo di cottura del cappone 200 g di brodo di cappone leggero 10% in peso di burro
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10% del peso in succo di limone o vino bianco secco
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FONDUTA in due versioni
Cosa vi viene in mente di mangiare, dopo una bellissima giornata passata sulla neve? Qualcosa di buono, che valga da piatto unico e conviviale. A noi pare decisamente ovvio, stiamo parlando di lei: la cremosa, avvolgente fonduta valdostana, sicuramente uno dei piatti più goderecci del panorama gastronomico italiano. Per la sua preparazione viene usata la fontina, formaggio DOP valdostano, che viene fusa all'interno di una pentola apposita, detta caquelon, per poi essere mangiata calda e, appunto, fondente. A tavola deve essere servita nella stessa pentola dentro cui viene preparata (in ghisa, terracotta o porcellana) nella quale ogni commensale intinge il suo pezzo di pane tostato o, a volte, di patata lessa grazie all'ausilio di una forchetta apposita. Questo tegame di solito è posizionato al di sopra di un supporto metallico, alla base del quale troviamo una fonte di calore che mantiene la preparazione calda e cremosa, come un fornello ad alcool o una candela.
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Ma tra il dire fonduta e il farla, c’è di mezzo un (bel) po’ di accortezza. Già, perché l’attitudine del formaggio che andremo ad utilizzare ci dà una mano, ma basta un attimo di distrazione e la fonduta è bella che andata: si trasforma in un mix di grumi e tuorli rappresi. La parola chiave è, come spesso accade, temperatura. Ve la traduciamo così: abbiamo bisogno di comprendere il comportamento del formaggio in relazione alla somministrazione di calore.
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I formaggi sono formati da un reticolo proteico, composto principalmente da caseine; questo reticolo al suo interno intrappola grassi e acqua. La relativa percentuale di questi componenti determina l’attitudine di un formaggio a essere filante (come la mozzarella), a sciogliersi in modo uniforme (come nel nostro caso la fontina), oppure in altri casi a mantenere parzialmente la sua struttura. Somministrando calore gradualmente ad un formaggio, il grasso in esso contenuto comincia a
sciogliersi e il reticolo proteico si indebolisce sino a che le caseine non riescono a fluire liberamente nella miscela che la materia grassa forma con l’acqua. I prodotti con una percentuale di acqua più alta, come le sopra menzionate mozzarella e la fontina, si fondono meglio, mentre formaggi molto stagionati, come il Grana Padano o il Parmigiano Reggiano, hanno bisogno di temperature più alte per sciogliere i legami tra le proteine; fra l’altro, se le scaldiamo troppo, esse coagulano tra loro formando dei grumi. La cremosità della fonduta, dunque, è data anche dalle ottime proprietà emulsionanti delle caseine e dalle proteine contenute nel tuorlo dell’uovo. Secondo alcuni la fonduta sarebbe nata a Torino a opera dei Savoia, mentre secondo Anthelme Brillat-Savarin, famoso gastronomo francese, essa sarebbe di ispirazione svizzera. Pellegrino Artusi, nel suo celebre libro di cucina, la fa entrare di diritto nella classifica delle ricette più gustose d'Italia, definendola "cacimperio". Anche Giovanni Vialardi, cuoco dei re Carlo Alberto e di Vittorio Emanuele II, nel 1854 la inserì nel suo "Trattato di cucina”. Due sono le nostre versioni. Una tradizionale, con tanto di “vigilia” e una più leggera, senza aggiunta di uova, da preparare anche in poco tempo e con un indice di difficoltà notevolmente più basso. Ci sono altre versioni di questa preparazione, che si differenziano a seconda delle zone, come quelle svizzere e quelle savoiarde a base di mix di formaggi come il gruyère, lo sbrinz o l’emmentaler; o ancora, quelle a base di bocconcini di carne (solitamente filetto di manzo) che vengono cotti infilzati con la forchetta, introdotti nella pentola contenente olio vegetale bollente ed estratti dalla pentola immersi in una delle salse a disposizione, la cosiddetta fondue bourguignonne. Anziché salivare direttamente sul magazine, vediamo adesso le due versioni che abbiamo scelto per voi.
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PREPARAZIONE VERSIONE CLASSICA 1. Preparazione della “vigilia”: in una pirofila sistemate la fontina tagliata in cubetti regolari e copritela interamente con il latte. Fatela riposare in frigo almeno 12 ore così da ammorbidire il formaggio e facilitarne lo scioglimento 2. Trascorso il tempo, scolate il formaggio e tenete da parte il latte. Trasferite il formaggio nel caquelon (se disponibile), in un pentolino o in una ciotola a bagnomaria. 3. Mescolate continuamente finché il composto non comincia a sciogliersi. Dapprima si rapprenderà intorno al mestolo; a questo punto aggiungete il latte, il burro e i tuorli d’uovo e continuate a mescolare con cura fino alla consistenza di una crema liscia e senza grumi. 4. Servite con crostoni di pane tostato o delle patate lesse.
INGREDIENTI 4 persone
versione classica 350 g di Fontina DOP 6 mesi 250 g di latte intero 30 g di burro 4 tuorli d’uovo
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Pepe nero q.b.
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PREPARAZIONE VERSIONE LEGGERA 1. Sciogliete il burro a fuoco basso, aggiungete la farina e cuocete il roux per circa 1 minuto. 2. Inserite il latte freddo tutto insieme e sciogliete il roux con un frusta. Con il latte freddo, a differenza delle credenze popolari, si ha molto più tempo di dissolvere il roux, ottenendo una besciamella perfetta e senza grumi. 3. Nel frattempo tagliate a cubetti regolari la fontina e il pane e tostatelo in una padella antiaderente con un filo d’olio, l’aglio in camicia, sale e pepe. 4. Appena la besciamella avrà raggiunto una consistenza cremosa toglietela dal fuoco. 5. Quando avrà raggiunto i 65/70°C inserite il formaggio in due tranche avendo cura di mescolare bene fino al suo completo scioglimento. 6. Servite in una fondina precedentemente riscaldata, con i crostini di pane e una spolverata di paprika affumicata, o per i più golosi delle scaglie di tartufo bianco pregiato.
INGREDIENTI 4 persone
versione leggera 300 g di fontina 300 g di latte 25 g di burro 25 g di farina 00 Sale q.b. Pepe nero q.b. paprika affumicata q.b.
tartufo bianco a piacere
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una bella pagnottella a lievitazione naturale ai cereali
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fotografie di Rossella Neiadin
L'Arte Bianca a cura di Alessandro Trezzi
e n o t t e n a Il p i t a t i v e i l i d Gran
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Se pensiamo al Natale, una delle prime associazioni per noi malati di gastronomia è senza ombra di dubbio verso il panettone. A meno delle insane lotte territoriali, dei campanilismi e delle guerre con gli infedeli del pandoro, il legame indissolubile tra questo grande lievitato e le feste di fine anno è scritto nelle stelle. Un dolce stupendo, profumato, morbido e complesso, che negli ultimi anni sta avendo una meritata esplosione sul mercato nazionale e internazionale con fiere, gare e riconoscimenti piÚ disparati.
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in foto: il panettone GLC Top Selection
Oggi il panettone non è più preparato dai soli pasticcieri ma anche da panettieri, pizzaioli e chef, che approfittano del periodo per creare lievitati a marchio sia nella versione classica che con variazione sul tema. E come in ogni filone di moda e cultura, nell’ultimo decennio ad essere esplosa è anche la pratica domestica, compatibilmente con l’apparizione sul mercato di attrezzature su misura per i veri “scimmiati”. Oggi abbiamo abbattitori, essiccatori, macchine per il sottovuoto, forni avanzati a controllo digitale, camere di lievitazione e impastatrici professionali da banco, tutti strumenti progettati, pensati e creati specificatamente per il contesto quotidiano, ridotto ma allo stesso tempo versatile. Badate bene: per me è doveroso fare un’introduzione che non ha l’obiettivo di scoraggiarvi, bensì di prepararvi a ciò che state per affrontare: fare un panettone in casa è oggi possibile, ma si tratta del lievitato dalla gestione più complessa in assoluto. In questi mesi di Magazine abbiamo lavorato con i panificati più disparati, dal pane alla pizza, dalla genovese alla barese, ponendo particolare attenzione sul metodo e mai sulla ricetta; questo non solo perché la scienza è l’unica via oggettivamente certa per realizzare una qualsiasi preparazione, ma anche per predisporvi alla gestione degli errori, delle materie prime e delle temperature, la cui variabilità influenza in tutto e per tutto un semi-lavorato “vivo” come il lievitato. Banalmente, c’è differenza tra il far lievitare un pane a 20°C o a 30°C, nell’utilizzare una farina di tipo 1 o un’integrale, con forza bassa o alta, più o meno idratato, con lievito di birra o lievito madre. Il panettone è, in questo frangente, l’obiettivo finale di un appassionato di paste cresciute; è l’ultima fatica, un prodotto che richiede attenzione costante (soprattutto durante le prime prove) per circa tre giorni (esatto, tre giorni), e dove variabili come farina, pre-fermento e temperature di riposo si rivelano tanto fondamentali quanto critiche.
C’è chi narra le vicissitudini di Toni, lo sguattero della cucina di Ludovico Il Moro, che dopo aver visto bruciare il pandolce dal capocuoco degli Sforza nella vigilia di Natale, decise di sacrificare il suo panetto di lievito madre tenuto da parte e di lavorarlo con farina, uova, zucchero, uvetta e canditi. Il risultato venne presentato il giorno dopo e ottenne un successo strepitoso, al punto che Ludovico Il Moro lo intitolò “Pan de Toni” in omaggio al creatore. Il buon Toni tuttavia si contende il primato con altri creativi della pasticceria, come Ughetto degli Atellani e Suor Ughetta, che si contendono non la storia ma l’immaginario collettivo; si tratta di un calderone di leggende nate tra fine ‘800 e inizio ‘900 per nobilitare la gastronomia milanese. La vera origine del panettone va in realtà ricercata nel Medioevo, e in particolare nell’usanza di celebrare il Natale con un pane più ricco. La sera del 24 Dicembre si poneva nel camino un grosso ciocco di legno e venivano portati in tavola tre grandi pani di frumento, se ne consumava uno e se ne teneva un altro per l’anno successivo in segno di continuità. Del resto pensate che fino al 1395 tutti i forni di Milano avevano il permesso di cuocere pane di frumento solo a Natale, destinando il pane arricchito solo alla festa come in molte altre città europee. Per parlare di lievito dobbiamo aspettare il 1853, quando venne menzionato nel “Nuovo cuoco milanese economico”, il ricettario di Felice Luraschi. I canditi di cedro compaiono poi nel “Trattato di cucina, pasticceria moderna” di Giovanni Vialardi solo un anno più tardi. La presenza del panettone in un libro piemontese dell’Ottocento dovrebbe darvi prova della reale diffusione di questo dolce.
Le forme del panettone Oggi il panettone è disponibile in due formati principali, basso e alto; dal primo è nato il secondo, ma il secondo è sicuramente meritevole di aver fatto evolvere il primo. Come accenna il nome, il panettone un tempo nient’altro era che un grosso pane, che fino a inizio ‘900 veniva infornato senza stampo. Ciò era reso possibile dal ridotto contenuto di grassi. Fu Angelo Motta a cambiare tutto negli anni ’20 del Novecento, che decise di arricchire di grassi il suo grande lievitato forse influenzato dal lavoro per
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Come ogni preparazione complessa, il successo non può che portare all’immediata soddisfazione personale. Vediamo insieme come approcciare al metodo nel modo più corretto possibile.
Tra storia e leggenda
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una grossa comunità russa; decise quindi, dovendo fronteggiare un impasto molto più morbido, di fasciarlo con carta paglia per dargli slancio verticale. Da questa idea si sviluppò il “panettone-fungo”, forma che è diventata per decenni la foggia classica del prodotto industriale. Le pasticcerie di Milano continuarono però a produrre l’iconico panettone-pagnotta, introducendo un pirottino basso indispensabile per la quantità di grassi impiegati. Oggi, con l’esplosione non solo dei panettoni su scala industriale ma anche di quelli artigianali, i due formati convivono ed è impossibile dire quale sia il più tradizionale. E tuttavia è bene iniziare a dare dei consigli mirati, in ottica di riproduzione domestica. Il più delle volte è assolutamente preferibile lavorare con uno stampo per panettone basso, in quanto è molto più semplice trovarne di stabili e che rimangano solidi durante il raffreddamento; in genere i pirottini alti sono delicati e tendono a rovinarsi durante le operazioni manuali.
L’obiettivo Cerchiamo anzitutto di capire a cosa stiamo andando incontro e qual è l’obiettivo finale, d’accordo?
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Il panettone è un dolce lievitato di base cilindrica che termina con una forma a cupola, ottenuto da un impasto a base di acqua, farina, burro, tuorlo d’uovo, frutta candita (arancio e/o cedro) e uvetta, più eventuali aromi. Fa parte, insieme a pandoro, polomba e altri prodotti meno celebri, dei cosiddetti “grandi lievitati”: quindi, deve avere delle caratteristiche imprescindibili che ne determinino la qualità a livelli assoluti.
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Il miglior panettone del mondo deve avere una crosta bruna ma non bruciata, morbida, ben ancorata alla pasta, profumata e dal colore uniforme, senza collassi evidenti; l’interno deve essere omogeneo, non presentare punti con pasta troppo compressa ma nemmeno grossi alveoli, che nel panettone sono sintomo di una lievitazione non uniforme. La pasta deve essere di colore giallo acceso per il corretto dosaggio di uova; devono emergere in crescendo i profumi dovuti dalla base aromatica, la vaniglia, le scorze di agrumi e i canditi; la mollica deve essere morbida, né umida né asciutta, deve sfilacciarsi come cotone senza sbriciolarsi inesorabil-
mente, sintomo di una cottura troppo violenta e di un impasto secco, ma nemmeno deve appallottolarsi sotto le dita, un segnale diretto di umidità ancora troppo presente. I canditi devono essere distribuiti uniformemente, essere profumati, fortemente aromatici e dalla consistenza piacevole e mai gommosa. Last but not least, macchie di colore sono segni di un impastamento condotto in maniera scorretta, cottura sbilanciata o irrancidimento preventivo. Insomma, vogliamo un lievitato profumato, dolce, che brilli sia nei colori che negli aromi. Nondimeno, il corretto bilanciamento di prefermento, grassi, zuccheri, umidità e corretta cottura deve farmelo durare in busta non meno di 1 mese. Più facile a dirsi che a farsi? Lo vedremo.
Il lievito madre Inutile girarci intorno: un panettone, secondo il disciplinare, può essere definito tale solo se realizzato con lievito madre. L’acidità apportata all’impasto grazie a questo particolare prefermento è in grado di conferire al glutine le caratteristiche necessarie per sostenere la massa durante tutte le fasi, per sorreggere il peso di ingredienti “tosti” come i grassi e le cosiddette “sospensioni” (uvetta e canditi), per sviluppare una mollica filante, e per garantire infine una shelf-life adatta allo scopo per cui il panettone è stato pensato: essere prodotto in anticipo e consumato anche un mese dopo. Qual è il grosso problema di base? Che il lievito madre è una coltura complessa di lieviti e batteri con un delicatissimo ecosistema vivente, che cambia in continuazione ed è direttamente influenzato dalle operazioni fatte per il mantenimento. Di fatto, il lievito madre nient’altro è che un impasto di acqua e farina lasciato maturare per un tempo più o meno lungo; durante questo periodo i lieviti e i batteri presenti nell’aria e nella farina avviano il processo di fermentazione. La sua gestione richiede una pratica di rinfresco costante a intervalli regolari, ovvero il nutrimento di questo organismo con nuova acqua e farina e quindi nuovi zuccheri per i lieviti, oltre che un ambiente stabile per le reazioni enzimatiche. Ciò è fondamentale per mantenere il pH intorno al
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valore di soglia, ovvero 4.5, che tradotto significa avere un lievito madre dal profumo equilibrato simile a quello dello yogurt. Principalmente ne esistono due versioni, solida (con un’idratazione del 45-50%) e liquida (con un’idratazione del 100%). Abbiamo spesso visto la liquida per il pane, in quanto non solo è immediata nel rinfresco e nella gestione quotidiana ma soprattutto perché l’elevata presenza di acqua accelera l’attività enzimatica regalando una maglia glutinica più estensibile e un sapore più pungente a causa della presenza di acido acetico e alcol; l’acidità pronunciata aiuta a far legare le proteine di cereali deboli come la segale e aumenta la croccantezza della crosta. Avete mai assaggiato un panettone con acidità pronunciata, o con una crosta croccante? O ancora, avete mai sentito parlare delle “farine di forza” utilizzate per i grandi lievitati? Ecco, sono due ragioni ben precise che vi portano direttamente al motivo per cui, nel 99% dei casi, viene utilizzata la versione solida per lo scopo: una struttura salda, spinta verso l’alto e una maglia glutinica solida grazie alla prevalenza di acidi organici, mollica morbida e aromatica grazie all’acido lattico. Senza dilungarci troppo vi chiedo: se è vero che un panettone potrebbe essere prodotto anche con un buon lievito in coltura liquida (o Li.Co.Li. in gergo), perché dovremmo rischiare di rovinare tre giorni di lavoro complicandoci la vita? Detto questo, e scongiurato il problema della forma, arriviamo al discorso equilibrio: non basta che un lievito raddoppi in 3 ore per essere considerato pronto, è fondamentale che sia bilanciato nei profumi e senza punte di acidità evidenti.
in foto: il panettone GLC Top Selection
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Per questo motivo è importante una pratica di rinfresco serrato nel periodo precedente alla produzione. Il lievito solido viene spesso avvolto in un panno e legato per rallentare la fermentazione, o lavato in una soluzione di acqua e zucchero per disperdere i microorganismi indesiderati che ne rallentano l’azione, ma se avete
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rinfrescato correttamente circa 3 volte al giorno non dovreste mai averne bisogno. Un esempio pratico: il giorno del primo impasto alle 8.00, alle 12.00 e alle 16.00 fate rinfreschi consecutivi con 1 parte di lievito, 2 di farina di grano tenero forte (la stessa che userete per il panettone) e 1 parte di acqua, attendete che triplichi e replicate il processo. In questo caso la parte di lievito risulta molto bassa proprio per essere sicuri che l’acidità si mantenga su livelli di soglia; se doveste essere confidenti sulla salute del vostro lievito aggiungetene pure 2 parti nel rinfresco.
Tradizionalmente a Milano veniva usata la farina Manitoba, la celebre materia prima proveniente dall’omonima provincia canadese; inutile dirvi che ad oggi esistono centinaia di validissimi prodotti di grani nazionali tra cui usufruire per i vostri scopi. L’importante, come sempre, è il risultato, non il mezzo. In genere è più facile trovare ottime 00 o 0 di forza, ma sono presenti anche tipo 1 macinate a pietra di tutto rispetto e dalla resa pari alle gemelle.
Gli ingredienti
Per il resto degli ingredienti la parola d’ordine è una sola: qualità. Non badate a spese, soprattutto considerando che non farete quantità astronomiche in casa, anche perché la lavorazione sarà facilitata e gli aromi esploderanno dopo il taglio. La scelta migliore è più comoda per quanto riguarda le uova è quella di procurarsi dei tuorli pastorizzati in brick, con minore possibilità di contaminazione che potrebbero rovinare il lievito madre con i batteri patogeni.
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Partiamo dalla materia prima principale, la farina; stiamo parlando di un lievitato che deve sostenere compagni pesantissimi, del calibro di burro, uova e sospensioni, e la cui maglia glutinica deve essere in grado di intrappolare diamanti grossi un centimetro quadrato ed espandersi in altezza per parecchi pollici. Non possiamo lavorare nel modo più assoluto con farine prese a caso dallo scaffale, e nemmeno tentare la sorte con segale, farro o cereali di diverso tipo perché la nostra dietista ha detto che il glutine è il veleno del XX secolo.
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Ciò che ci servirà è una farina di grano tenero con un W tra i 360 e i 400 e un P/L (il rapporto tra tenacità ed estensibilità) di 0.5-0.6.
Signori, mettiamoci in testa che una corretta struttura è fondamentale per la realizzazione di un buon panettone, e ciò significa che la maglia glutinica deve essere la migliore mai realizzata finora. Non esistono mezzi segreti o scorciatoie di alcun tipo.
Preferite sempre un burro di panna centrifugata o di pasticceria e mai da affioramento, in quanto l’acidità e la scarsa stabilità di quest’ultimo, oltre alla presenza di grassi assolutamente poco qualitativi, sono caratteristiche da evitare per gli importanti obiettivi di realizzazione della mollica, profumi e shelf life. Ecco, magari evitiamo di cadere nelle logiche insulse di moda e inutile salutismo, dimezzando le dosi di
uova, burro e zucchero, sostituendo con margarina e altre diavolerie per sentirsi meno in colpa. Vi mangiate ‘sto dolce una volta l’anno, vogliamo avere la decenza di farlo come si deve? Inutile dirvi poi che la scelta delle sospensioni si rivela fondamentale; quante volte avete sentito persone che preferivano il pandoro perché non sopportavano la consistenza dei canditi? Questo accade perché si è abituati ai lievitati di sottomarche, che inseriscono per risparmiare dei gommini insapore e difficilmente masticabili. Tradizionalmente parliamo di uvetta, cedro e canditi; è importante sottolineare che sono tutti sostituibili, ma il contenuto zuccherino di questi tre must donano la giusta umidità alla mollica; elementi come il cioccolato invece tendono ad asciugare l’impasto che necessità quindi di un maggiore contenuto di zucchero o di un minor quantitativo sul peso riservato alle sospensioni, circa il 30% in meno. Se siete proprio intenzionati ad usare il cioccolato, evitate le gocce, tritate delle barrette fondenti e conservatele in freezer fino all’ultimo momento per evitare che amalgamandosi si sciolgano colorando l’impasto. Ah, premessa: non amo il cedro, quindi non lo troverete nel mio metodo, ma potete sostituire una parte di arancio senza problemi. Infine, è importante ricordare che l’uvetta va lasciata ammollare la sera prima, poi strizzata e ripesata prima dell’inserimento. Ultimo ma non ultimo ingrediente è il mix aromatico, la firma dell’artigiano; si tratta di una miscela che consente di conferire all’impasto un profumo caratteristico, e che è necessario preparare la sera prima, fatta riposare in frigorifero e poi aggiunta all’impasto. Normalmente si usano miele, vaniglia e scorze di agrumi.
La strumentazione Nella speranza di non scoraggiare nessuno devo darvi una brutta notizia: è fondamentalmente impossibile preparare un panettone a mano. Energia cinetica e costanza di una macchina da 1000-1500 W sono necessari per formare la corretta struttura di un lievitato che deve far assorbire in tempi relativamente corti grassi, uova, zucchero e infine elementi “di disturbo” alla farina e alla maglia glutinica. Un’impastatrice professionale (a spirale o braccia tuffanti) è logicamente preferibile, e oggi il mercato domestico è in fortissima espansione, ma una normale planetaria va assolutamente bene. In questo caso utilizzate il gancio a spirale e mai quello a uncino, in quanto dovete lavorare per tutta la lunghezza della ciotola; in mancanza, preferite sempre la foglia. Altri strumenti necessari sono: • Tarocco; • Pirottini di carta per panettone basso; • Ferri da calza; • Termometro a sonda; • Bilancia digitale; • Ciotola ampia o contenitore a chiusura ermetica; • Bicchiere graduato; • Busta di propilene per alimenti, necessaria per la conservazione. Tutto pronto? Bene, allora cominciamo!
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panettone GLC Top Selection - fotografia di Rossella Neiadin
INGREDIENTI
per 1 panettone da 1 kg o per 2 panettoni da 500 g
PREPARAZIONE
Il giorno prima grattugiate la scorza di limone e arancia, mescolate con miele e la polpa della vaniglia, coprite con pellicola e lasciate macerare in frigorifero per 24 ore.
Mix aromatico: 20 g di miele di acacia; 1 bacca di vaniglia; La scorza di mezzo limone non trattato; La scorza di mezza arancia non trattata;
Lievito madre (terzo rinfresco): 100 g di lievito madre solido pronto al secondo rinfresco (o 200 gr se siete certi del suo stato di salute);; 200 g di farina 360 W; 100 g di acqua;
Primo impasto: 60 g di lievito naturale solido al terzo rinfresco (la parte restante andrà rigenerata e conservata); 75 g di zucchero semolato; 80 g di acqua; 85 g di tuorlo d’uovo pastorizzato; 85 g di burro di panna centrifugata; 240 g di farina 360 W;
Secondo impasto: Il primo impasto; 60 g di farina 360 W; Il mix aromatico; 5 g di sale fino o integrale; 60 g di zucchero semolato; 80 g di tuorlo d’uovo pastorizzato; 90 g di burro di panna centrifugata;
120 g di arancio candito in cubetti.
Calcolate i tempi precisi per il rinfresco del lievito e per il primo impasto per non diventare matti e dover lavorare di notte; un’idea potrebbe essere quella di fare 3 rinfreschi alle 8.00, alle 12.00 e alle 16.00 a distanza di 4 ore, e realizzare il primo impasto alle 20.00 in modo da essere pronti alle 8.00 del giorno successivo con il secondo impasto. Qualche ora prima del primo impasto lasciate il burro a temperatura ambiente che dovrà essere morbido, oppure passatelo pochi secondi nel microonde; un’idea intelligente è quella di creare una crema con burro e uova in modo da agevolare l’unione con la massa.
PRIMO IMPASTO
Nella vasca della vostra impastatrice o nella ciotola della planetaria versate tutta la farina, lo zucchero e l’acqua e lasciate lavorare al minimo della velocità attendendo che l’impasto si formi; aggiungete poi metà della miscela di burro e uova e lasciate lavorare ancora finché non saranno assorbiti. A questo punto inserite il lievito naturale e poi il resto della miscela, attendendo l’assorbimento corretto in modo graduale. L’impasto deve presentarsi liscio, setoso, elastico e omogeneo, e tirandolo con le dita dovrà diventare sottile come un velo. La durata del primo impasto sarà di circa 20 minuti, e dovrete vare attenzione di non superare mai i 27°C per impedire ai lieviti di lavorare troppo velocemente intaccando la solidità della struttura. In caso fermatevi e mettete per qualche minuto il tutto in freezer o in frigorifero per far scendere la temperatura.
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120 g di uvetta sultanina già ammollata in acqua calda e strizzata;
Mettete in ammollo la sera prima l’uvetta in acqua calda per mezz’ora, sciacquate bene e rimettete a bagno in acqua tiepida per almeno 5 ore, poi scolatela, strizzatela e lasciatela asciugare in un canovaccio tutta notte.
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Ribaltate la massa sul piano da lavoro, staccatene un pezzo da usare come “spia di lievitazione” e pirlatelo con le mani o con il tarocco, ricavando una palla liscia, asciutta e sostenuta. Riponete l’impasto nel contenitore a chiusura ermetica e la spia nel bicchiere graduato, segnando il livello di partenza con un elastico e coprendo il bordo del bicchiere con della pellicola. L’impasto dovrà triplicare di volume, a 28°C (va benissimo il vostro forno spento con la luce accesa) per circa 12 ore; se l’impasto tuttavia non dovesse essere pronto piuttosto aspettate, in quanto potreste ritardare lo sviluppo successivo e soprattutto avere un prodotto finito con un’alveolatura più chiusa.
SECONDO IMPASTO
Inserite nella vasca dell’impastatrice o nella ciotola della planetaria il primo impasto, la farina e il mix aromatico e lavorate a velocità minima fino a completo assorbimento; aggiungete lo zucchero in più riprese avendo cura che la parte precedente sia amalgamata prima di aggiungete la successiva. A questo punto in tre volte inserite la miscela di tuorli e burro e lavorate fino ad ottenere un impasto elastico, liscio, omogeneo e dalla maglia sottile, per poi terminare con l’acqua prevista poco alla volta. A questo punto aggiungete tutte le sospensioni e fate girare finché la massa non avrà raccolto tutta la frutta.
PUNTATA
Riponete tutto in un contenitore e lasciate riposare 30 minuti, dopodiché ribaltate sul piano, lasciate asciugare all’aria 15 minuti e pesate; a causa della perdita dovuta all’evaporazione il peso deve essere sempre del 10% superiore all’obiettivo finale, quindi 1100 gr per le forme da 1 kg e 550 g per le forme da mezzo kg.
APPRETTO
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Pirlate il panetto con le mani o con il tarocco, e posizionate la massa all’interno del pirottino che avrete sistemato su una teglia; riponete a lievitare coprendo il bordo della carta con la pellicola, lasciando a 28°C per 6/8 ore, fino a quando l’impasto non sarà a circa 2 cm dal bordo.
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INCISIONE O SCARPATURA
Preriscaldate il forno a 165°C in modalità statica e lasciate nel mentre il panettone all’aria senza pellicola per formare una sottile pellicina in superficie. Prima di infornare incidete una croce con una lama e posate al centro dei piccoli pezzi di burro. L’alternativa è “scarpare”, ovvero incidere e staccare con la lama i 4 lembi, posizionare il burro e richiudere, un’operazione che vi sconsiglio se siete alle prime armi in quanto si rischia di rovinare la lievitazione tanto sudata.
COTTURA
Infornate posizionando la teglia nella parte più bassa in quanto sviluppando c’è il rischio che la cupola tocchi la resistenza o bruci. Il panettone sarà pronto quando avrà raggiunto al cuore una temperatura di 94°C, impiegando circa 50-55 minuti per le forme da kg e 35-40 minuti per quelle da mezzo kg.
RAFFREDDAMENTO
Sfornate, infilzatelo alla base con due ferri da calza, capovolgetelo delicatamente e lasciatelo in questa posizione sospeso per almeno 2 ore; in mancanza di un sostegno potete utilizzare una pentola ampia appoggiando i ferri sul bordo. Trascorso questo periodo rimuovete i ferri e attendete altre 10 ore.
MANTENIMENTO
Nebulizzate in una busta di propilene per alimenti dell’alcool puro a 95°, che sanificherà il tutto e ridurrà il rischio di formazione di muffe, inserite il panettone e chiudete con un nastro. Il panettone così conservato può durare anche 60 giorni, ma trascorso questo lungo periodo potrebbe non essere più soffice e fresco come un tempo. Per permettere a sapori e profumi di amalgamarsi e sprigionarsi al meglio è preferibile attendere almeno 5 giorni e non superare i 15, in modo da gustarlo senza compromessi valorizzando il lavoro fatto. Finito il poema, direi che è ora di mettersi al lavoro. Pronti ad un inverno pieno di prove e grandi lievitati autoprodotti? Sotto con la farina!
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L'Arte Casearia a cura di Giovanni Minelli
Questo formaggio è da rivoltare!
Piccola guida ad un processo fondamentale
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Ve lo avevo promesso in Gastronomica-mente un po’ di tempo fa e oggi sono qui a mantenere la promessa: faccio un po’ di chiarezza sul come e perché le forme in maturazione e stagionatura vadano rivoltate. Quando si produce un formaggio, che a farlo sia l’industria, un caseificio agricolo o artigiano, o ancora che siamo noi da bravi amatori nella nostra cantina, ci sono delle costanti imprescindibili: significa che alcune cose nella produzione di un formaggio non cambiano, tra queste la perdita d’umidità, quindi di peso.
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Pa r t i a m o d a l l ’ e l e m e n t o primigenio: l’acqua. L’acqua va tenuta in considerazione almeno per due aspetti fondamentali, la stabilità igienico-sanitaria del prodotto e la struttura del formaggio: che sia un substrato per la proliferazione batterica lo sappiamo dalle prime lezioni di scienze, per quanto riguarda la struttura del formaggio forse è meno immediato ma basti pensare che la caratterizzazione “pasta molle” si riferisce ad un contenuto in acqua maggiore del 45%, “pasta dura” al 35% e “pasta semidura” tra 35% e 45%:
ricordiamoci sempre, però, che siamo partiti dal latte. Quello di vacca, mediamente, ha circa l’87% di acqua. Abbiamo visto che nei presamici, dopo aver ottenuto la cagliata, si procede con il taglio, specifico per ogni tipologia di formaggio che si va a produrre. Minore sarà la dimensione alla quale portiamo la cagliata, maggiore sarà la superficie di scambio. Dai processi produttivi che abbiamo visto finora spero sia chiaro che tagliamo la cagliata, ed eventualmente la sottoponiamo a cottura o semicottura, per
accelerare il processo di sineresi, cioè proprio la fuoriuscita di parte della frazione liquida da quella solida. Mettiamo la cagliata così trattata nelle fuscelle, magari la pressiamo e vediamo che continua a “spurgare” siero nelle prime ore o primi giorni a seconda del prodotto che avevamo in mente, quindi del processo che abbiamo adottato. Prendiamo ad esempio un formaggio vaccino, taglio a chicco di mais, semicottura a 42°C, messo in forma e rivoltato all’interno di essa per poi essere estratto, messo su una tavola di legno in cantina, ambiente fresco e umido. Anche se non è evidente come nelle prime ore dopo l’estrazione della cagliata, la perdita di umidità continua: se pesassimo il formaggio appena fatto, dopo un giorno, dopo 3, 7, 15, 30 giorni e via dicendo, vedremmo che il peso
continua a calare, inizialmente in maniera più rapida e poi più lentamente. Il formaggio se ne sta poggiato su una delle due facce sopra ad una superfice piana, magari un asse di legno, ottimo per lo scambio d’umidità data la porosità, ma anche di più difficile gestione per quanto riguarda gli aspetti igienico-sanitari. Il giorno seguente, toccando la faccia esposta all’aria e lo scalzo (che se ancora non ve lo avessi detto è il termine che indica la parte laterale del formaggio, o lo
spessore della forma e può essere dritto, concavo o convesso), sentiremo che queste parti sono più asciutte rispetto alla faccia che poggia sul piano, e anche il piano sarà umido sotto la forma. Quindi, rivoltando sottosopra daremo tempo e modo alla faccia umida di asciugarsi.
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stagionatura vera e propria, ed è il tempo che diamo al formaggio per continuare a perdere umidità e per concentrare i sapori.”
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Il nostro obiettivo però non è quello di raggiungere una determinata percentuale di umidità, bensì di raggiungere la maturità del prodotto. Immaginiamo di asciugare il formaggio con un getto d’aria calda tipo asciugacapelli: otterremmo una crosta esterna asciutta ma il formaggio non sarebbe maturo, e per altro la forma dapprima si fessurerebbe per poi spaccarsi, non a caso li teniamo in locali molto umidi.
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Solo dopo aver raggiunto la maturazione, se il prodotto lo consente, possiamo passare alla stagionatura. Nel numero di giugno 2020 del Magazine, nell’articolo sul Cheddar abbiamo parlato un po’ della differenza tra maturazione e stagionatura, quindi per riprendere il discorso, vi ripropongo quel passaggio: “Se pensiamo alla frutta, una mela ad esempio, diciamo che è matura quando avviene una virazione del colore, la concentrazione degli zuccheri e il rammollimento della polpa. Se parliamo di formaggi non è un concetto così distante, un formaggio arriva a maturazione ottimale quando, messo nelle condizioni idonee, sviluppare tutte quelle caratteristiche che ci eravamo dati come obiettivo all’inizio del processo. Solito esempio del Parmigiano Reggiano DOP, appena estratto dalla fascera è di colore bianco, già abbastanza consistente ma con una percentuale d’acqua molto più elevata rispetto a quando normalmente viene consumato, odori e aromi sarebbero limitati e meno persistenti, infatti bisognerà attendere un anno affinché questo diventi Parmigiano Reggiano DOP, venga marcato a fuoco e commercializzato. Ma cosa è avvenuto in questi 12 mesi? Va bene, sicuramente abbiamo perso umidità e peso, ma sono anche giunti a compimento quei fenomeni lipolitici e proteolitici che conferiscono al formaggio il suo aroma caratteristico e la consistenza alla quale siamo abituati. Bisogna quindi attendere almeno 12 mesi perché questo sia definito maturo, oltre questo tempo comincia invece la
A distanza di poche pagine troverai il processo per produrre della robiola, il tempo di maturazione è di 3 giorni per il prodotto fresco e circa 20 quel quello muffettato. Se andassimo oltre non otterremmo maggior maturazione, un prodotto o è maturo o non lo è, se attendessimo più tempo e finissimo nel concetto di stagionatura, per un prodotto pensato per il consumo fresco, il risultato sarebbe deludente. Abbiamo capito che ogni azione che facciamo ha un motivo ed uno scopo, quindi abbiamo pensato e realizzato un prodotto da stagionare, per esempio il Cheddar di giugno, che avevamo immaginato di portare a 9 mesi. Una volta estratto dalla forma sotto la pressa, lo posizioneremo sull’asse di legno e benché si presentasse esternamente già abbastanza asciutto, l’indomani noteremmo che sotto ad esso, si sarà creato un alone di umidità. Nel giro di una settimana, massimo 10 giorni, girando il formaggio su se stesso una volta al giorno, dovremmo percepirne la superficie completamente asciutta, senza viscosità e con una leggera virazione del colore. Tuttavia l’alone di umidità sulla tavola ancora si andrà a creare ogni giorno e già questo ci suggerisce che c’è scambio tra formaggio ed asse di legno. Noi vogliamo uno scambio lento e graduale, quindi continuiamo con i rivoltamenti giornalieri almeno fin quando di giorno in giorno si rinnova la traccia di umidità sulla faccia inferiore. A quel punto potremmo
cominciare ad effettuare i rivoltamenti ogni due giorni. Dopo 4/6 mesi, dipende dalla pezzatura, potremmo effettuare un rivoltamento alla settimana. Occorre comunque controllare il formaggio con cadenza regolare per verificare lo stato di salute del prodotto, contenere lo sviluppo di muffe indesiderate e l’eventuale presenza di acari che ci porterebbero ad una perdita di prodotto edibile. Trattandosi di un’operazione abbastanza veloce da fare sui nostri formaggi casalinghi vi invito comunque a fare i rivoltamenti ogni giorno, proprio perché in questo modo potrete eventualmente “ripulire” i formaggi ed evitare l’insorgenza di muffe non desiderate che sono proprio
il substrato di proliferazione degli acari del formaggio, sui quali spendo due parole. Si tratta di Acarus siro, Thyrolychus casei e Tyrofagus longior e sono facilmente riconoscibili inquanto la loro presenza comporta delle erosioni a livello della crosta, che si presenta tendenzialmente marrone e polverulenta. Comportano inoltre una perdita di peso che si fa abbastanza evidente se il problema venisse trascurato. Per evitare l’insorgenza del problema dovremmo evitare che le muffe rimangano sul formaggio e sulle assi di sosta. Quindi ripulire il formaggio e le tavole, oltre che in generale mantenere un ottimo livello di igiene nel locale di stagio-
natura, sono di fondamentale importanza per preservare e valorizzare gli sforzi fatti in fase di caseificazione. Dunque, il rivoltamento è funzionale alla maturazione, elemento fondamentale per lo scambio graduale di umidità e checkpoint quotidiano per valutare la salute del formaggio ed eventualmente impostare le operazioni di tolettatura. Abbiamo impiegato qualche ora a produrre un formaggio che magari rimarrà in cantina per mesi, vogliamo davvero rischiare una delusione nel momento dell’apertura? Non credo, quindi controlliamo con frequenza i formaggi ed abbattiamo i fattori di rischio.
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R EC ENSI ONE
Meater+
by Appti on L abs Dispositivi e Accessori a cura di Emiliano Nencioni
L’idea di un termometro senza fili controllabile via Bluetooth apparse nei radar della community BBQ4All (il gruppo si chiamava ancora “Defenders”) attorno al 2015: si trattava di un ambizioso crowdfunding su Kickstarter, un progetto ricco di innovazioni tecniche e concettuali, con svariate caratteristiche perfette per farlo diventare l’oggetto più ambìto dagli appassionati di barbecue. Innanzitutto, il design: le sonde sembravano penne a sfera di pregio, con la loro finitura in alluminio spazzolato e la parte terminale in ceramica nera; la “base” con funzione di ricarica e di gateway verso le connessioni bluetooth e Wi-Fi era un elegantissimo blocco di bambù, fresato dal pieno in una forma di parallelepipedo molto minimalista ed estremamente accattivante. Dovete sapere che al tempo i più fissati di noi dovevano lottare con termometri che avevano l’aspetto dei telecomandi del condizionatore, con sonde fragilissime collegate tramite un filo di calza metallica che inevitabilmente si sporcava (senza più speranza di pulirlo nei più reconditi interstizi), rimaneva incastrato in coperchi e sportelli vari danneggiandosi, si surriscaldava e in ultima analisi finiva per rovinarsi irrimediabilmente e diventare inservibile entro pochissimo tempo; in piena adesione alle leggi di Murphy tutto questo poteva succedere in una importante sessione overnight, o in una gara. Aggravante non da poco: ogni sonda aveva un connettore e un protocollo proprietario, diverso per ogni marca di termometro, quindi potevi dimenticarti di poter comprare una sonda nuova di ricambio da usare con la tua “unità centrale” ancora funzionante. Nelle cotture barbecue poi, a differenza delle grigliate dirette dove interessa la temperatura al cuore della carne, è di grande importanza monitorare l’andamento del calore in camera di cottura, da qui la necessità almeno di due sonde: una conficcata nella pietanza e una…? Sulla Dicembre 2020
griglia non si poteva certo appoggiare: il calore del metallo
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avrebbe danneggiato la termocoppia. I più stagionati ricorderanno due scuole di pensiero: la patata e la pallina di stagnola. Con estrema e ohimè mal riposta fiducia ci
servivamo del provvidenziale tubero o di una pallina fatta con l’alluminio come supporto auspicabilmente stabile e termoisolante per la sonda dedicata alla camera di cottura. Il fallimento era dietro l’angolo. Gli amanti del brisket erano i più sventurati, nel caso volessero prendere le temperature separate di point, flat e dispositivo: il kettle si trasformava velocemente in un oggetto dalla stabilità precaria, con tre o quattro fili in calza metallica che uscivano da sotto il coperchio, connessi ad un termometro fissato con strumenti di fortuna, magneti e nastro adesivo, a una gamba o alla maniglia di trasporto. Poi una sera ti facevi stranamente convinto che la temperatura esterna del coperchio non fosse così elevata, decidevi di appoggiare il costoso termometro proprio lì, e la mattina dopo erano pianti e stridor di denti (la scena potrebbe avere dei fondamenti nel vissuto personale dell’autore). In questo panorama scomodo, precario e brutto a vedersi arrivò il progetto Meater, e come è intuibile gli appassionati si buttarono a capofitto nel crowdfunding, finanziando privatamente di tasca loro il progetto, che ebbe immediatamente un riscontro molto positivo e andò in porto. Da qui alla realizzazione fisica dell’oggetto però è passato un pochino di tempo. Tre annetti buoni per la precisione, nel corso dei quali sono usciti altri prodotti, altri termometri multi sonda anche piuttosto economici, interfacciabili allo smartphone, con un design funzionale seppur non proprio affascinante, con una buona durata delle batterie e, soprattutto, con ricambi di sonde a buon mercato. Meater, però, ha un suo punto di forza, attualmente ineguagliato: la mancanza del cavo di collegamento con le sonde, e la particolarità del doppio sensore. Le sonde del Meater hanno infatti una prevedibile termocoppia in punta, dove chiunque se l’aspetterebbe, ma riescono anche a misurare sulla “coda” della sonda, restituendo così un utilissimo valore di temperatura in camera di cottura. Anche se non è stato quel successo commerciale forse anche un prezzo non esattamente economico, gli sforzi di Apption Labs hanno dato luogo ad un prodotto indubbiamente innovativo, particolare,
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travolgente che i griller si aspettavano, complice
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molto bello, molto utile, molto “smart”. Attualmente il range di varianti in vendita comprende: •
Original Meater: una sonda con doppio sensore e un blocco di bambù con funzione di ricarica
•
Meater Block: quattro sonde con doppio sensore, un grande blocco di bambù con quattro dock di ricarica, display integrato,interfaccia Wi-Fi stand alone, range extender fino a 50m per la copertura Bluetooth-toWiFi. È stato l’oggetto del desiderio originale, ai tempi del crowdfunding: bello, ambìto, funzionale, con quattro sonde per un totale di otto termocoppie.
•
Meater + : l’oggetto di questa recensione, un decisivo e indispensabile miglioramento rispetto all’hardware di Original Meater.
Il punto è proprio che c’è stato immediatamente bisogno del Meater+, perché la prima release aveva una grossa magagna esattamente nella sua killer feature, nella particolarità che lo rendeva unico e desiderabile: il collegamento senza fili Bluetooth. Chiunque abbia usato un paio di auricolari Bluetooth si sarà reso conto che la portata di questo sistema di trasmissione è pesantemente influenzata dalla presenza di pareti o ostacoli metallici: adesso provate a pensare ad una sonda necessariamente imprigionata dentro un kettle chiuso da una superficie sferoidale e… beh il malcontento è dietro l’angolo. I dieci metri di “wireless freedom” proclamati dall’Original Meater potevano essere tali solo usando una griglia aperta, e senza frapporre mura, porte o parenti fra pietanza e telefono: una bella delusione per il grigliatore costretto a rimanere entro un paio di metri di distanza dal suo Boston Butt in cottura. Per fortuna alla Apption Labs hanno avuto il buon senso di ascoltare le critiche, ed hanno rilasciato il Meater +. Intelligentemente, infatti, similmente a quanto accade con Meater Block con il suo bridge verso il Wi-Fi, il dock di ricarica in bambù funge anche da ripetitore di segnale Bluetooth, e trovandosi necessariamente fuori da una camera di cottura chiusa, sia essa un forno o un kettle, riesce ad assicurare diversi metri in più (dichiarati: 50) di copertura. Una soluzione brillante a un problema piuttosto serio. Il Meater + si presenta in una confezione eco-friendly in Dicembre 2020
cartoncino marrone, decisamente minimale ma ben fatta,
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con un solo logo in vista; all’interno, oltre alle raccomandazioni di rito sull’uso dell’hashtag #meatermade per l’irrinunciabile condivisione sui social, troviamo un ulte-
riore astuccio in cartoncino marrone, paragonabile
Se gli steli dei termometri convenzionali erano delle
a quello di una buona penna a sfera, che servirà da
aste di 3mm acuminate in cima e potevano entrare
custodia per il dock in bambù.
facilmente nella carne cruda, questa pennetta da
Il dock è decisamente carino e ben fatto: è fresato
8mm, per quanto disponga di un cono all’estremità,
dal pieno, con un coperchio posteriore per le bat-
farà un po’ penare per entrare nelle fibre muscolari
terie coperto da un astuto sportellino tenuto in
più tenaci. Forse è meglio conservare una di quelle
posizione da due magneti, per non aver bisogno
vecchie sonde non più funzionanti per “pre-forare”
di cacciaviti o utensili in momenti poco propizi. La
la carne e far entrare meglio il nuovo ritrovato della
qualità è impeccabile, anche se avrei preferito degli
tecnica.
angoli un po’ smussati in luogo di quegli angoli perfettamente retti e spigoli vivi, spigoli che inevita-
La ricarica avviene semplicemente ricollocando la
bilmente tenderanno a sciuparsi con l’uso.
sonda nel dock, senza dover usare nessun connettore: una molla sulla parte posteriore e una piccola
La sonda, facilmente scambiabile per una penna
pinza sullo stelo mantengono tutto in posizione e
anche per le sue dimensioni, è bella e dà una buona
garantiscono il contatto elettrico. Un led frontale
sensazione di solidità; l’elettronica è tutta contenuta
comunica la ricarica in corso.
nella prima parte dello stelo, e un vistoso adesivo La perfetta costruzione dello stelo consente addirit-
infilare sempre l’oggetto dentro la pietanza fino ad
tura il lavaggio in lavastoviglie, per quanto credo che
oltre metà (un cerchietto inciso nel metallo seg-
nessuno ne avrà mai il coraggio.
nala la posizione precisa): questo perché in questa
L’applicazione è bella, ben disegnata, amichev-
maniera il cibo stesso fungerà da isolante termico
ole, e ha tutti i gadget che si possano desiderare,
per l’elettronica, che non dovrà mai, in nessun caso,
compresi preset, automatismi, temperature target
superare i 100°C. La seconda termocoppia, situata
preimpostate e variabili in base al tipo di pietanza in
in coda lontana dall’elettronica, può invece tollerare
cottura; i requisiti per la versione per iPhone e iPad
e misurare temperature fino a 275°C.
sono iOS 10.3 e successivi, mentre per i vari Android in circolazione servirà almeno la versione 5.0.
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da rimuovere al primo utilizzo ci avverte di dover
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Una feature curiosa e benvenuta è il calcolo del tempo di rest: impostando la temperatura target l’applicazione avvertirà di togliere dal calore il cibo leggermente in anticipo, calcolando la cottura per carry-over (il calore all’esterno si propaga lentamente verso l’interno della pietanza, arrivando potenzialmente ad una sovracottura) e segnalando il momento preciso per iniziare a tagliare e impiattare. Non indispensabile, ma sicuramente contribuisce a un discreto fattorewow. Passando per l’app poi si può far scatenare il nerd sopito (insomma… si fa per dire, ma tutto può essere) in tutti noi: tramite la Meater Cloud, incanalandosi per il Wi-Fi del telefono, possiamo visualizzare temperature e andamenti della cottura con qualsiasi altro telefono, teoricamente anche dall’altra parte del mondo, più presumibilmente per controllare dall’ufficio una cottura in sous vide. Un grande pregio della mancanza di filo fra sonda e display, infatti, è la possibilità di usare i sacchetti sigillati per il sous vide e di non creare orrendi grovigli dopo due giri di girarrosto. In estrema sintesi lo consideriamo un ottimo prodotto, al di là delle forzature di portata wireless o di gadget in-app che poi nessuno userà mai, di ottima qualità e bellissimo a vedersi. L’unica seccatura, come accennavo prima, è la dimensione dell’asta wireless: rischiate di trovarvi diverse fette di carne vistosamente bucate, cosa poco gradevole se dovete servire ad un pubblico pagante o, sia mai, ad una gara di bistecche o di
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barbecue.
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PRO:
+ Design + App ben fatta + Durata della carica + Comodità estrema
CONTRO
- Diametro della sonda - Necessità di usare uno smartphone
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La ricetta scientifica a cura di Gianfranco Lo Cascio
Cotechi n o con lenticchie e purè
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Massimo Bottura
Non posso fare il cotechino come cinquant'anni fa. Digerirei dopo due settimane. Lo stile di vita è cambiato. Spesso si sente dire "ah, una volta...". Una volta c'era la fame. Oggi molto meno. In compenso ci sono agricoltori e artigiani bravissimi e prodotti straordinari. Io parto da un dubbio: la tradizione è poi così rispettosa delle materie prime? L’ha detto lo Chef sul tetto del mondo, Massimo Bottura, a proposito di tradizione, di rispetto, di cotechini. E io sono più che d’accordo con lui. We stan, direbbero i giovani. Siamo proprio sicuri che il cotechino bucato e lessato (Argh!) con un contorno di bucce di lenticchie della mensa sia il massimo da offrire sulla tavola delle feste? Che ricchezza potrebbe mai portarci una vassoiata di legumi bolliti alla meno peggio? Ve lo dico io, manco i punti fragola del supermercato.
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Quanto sarebbe figo invece servire del succulento cotechino tagliato in fette, piastrato e croccantizzato, accompagnato da un purè di patate setoso e ricco, lenticchie in due consistenze e una spruzzata di salsa Teriyaki?
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Grasso, sapido, dolce e acido. Una seconda portata perfettamente equalizzata, che non si risparmia in termini di aroma e calorie. E siccome è Natale, pure un poco complicato, ci meritiamo porzione doppia. La dieta migliore, ora come non mai, è evitare i cibi che non ci piacciono.
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IL COTECHINO
È un salume tipico della tradizione modenese, ma che viene confezionato un po’ in ogni parte d'Italia. Tecnicamente un salume, è uno di quei prodotti della macellazione del maiale che viene mangiato per primo, insieme alla coppa (o torta) di testa e ai ciccioli. Anche per questo motivo viene tradizionalmente consumato a Natale: il maiale si macella abitualmente in Dicembre.
ll cotechino è un insaccato cosiddetto “povero”, viene ricavato dai tagli del maiale meno nobili, inadatti a lunghe stagionature e quindi non impiegati nella produzione di salami, prosciutti, salsicce e altri insaccati decisamente più snob. L'ingrediente principale del cotechino è (o meglio era) la cotenna, seguita dagli spolpi della testa e del collo, tutte carni ricche di tessuto connettivo che richiedono una cottura lunga e che assumono, una volta cotte, la consistenza gelatinosa tipica. E chi meglio di voi conosce l’idrolisi del collagene? Storicamente il cotechino veniva insaccato dalle sapienti manine dei "lardaroli e salsicciari" modenesi, che si riunirono in una Corporazione Autonoma nel 1547. La prima citazione ufficiale è datata 1745, in un documento che ne calmierava il prezzo. La prima ricetta compare invece l'anno successivo, nel 1746.
Composizione del cotechino Il cotechino è uno dei salumi più volubili per quanto riguarda la scelta degli ingredienti che lo compongono. La ricetta tradizionale prevede l'utilizzo di cotenna per almeno il 50%, come indicato nel 1841 da Vincenzo Agnoletti, cuoco romano al servizio di Maria Luigia, granduchessa di Parma, il quale afferma che "[...] l'impasto deve essere per metà di cotenna e per metà di nervetti e carne magra".
Oggi solo i produttori artigianali, ancora legati alle tradizioni contadine, continuano a produrre il cotechino seguendo i vecchi dettami. La produzione industriale si è infatti spostata su una ricetta meno ricca di cotenna e infarcita di carni grasse. Nel cotechino da scaffale troviamo infatti solo il 20% di cotenna, il resto 80% è composto da carne magra e grassa (spalla, pancetta, ecc). La cottura del cotechino artigianale può richiedere fino a 3-4 ore, soprattutto se la cotenna non ha subito una precottura prima di essere macinata e insaccata. Va consumato con il purè, oppure con mostarde di mele o di zucca, o ancora con il cren, la pasta di rafano, più o meno piccante, che si sposa molto bene con le carni opulente e gelatinose.
Il Cotechino di Modena I Cotechini Modena IGP sono tra i più antichi prodotti della salumeria italiana. La leggenda narra che hanno fatto la loro prima apparizione nel 1511 a Mirandola, durante l’assedio delle milizie di papa Giulio II della Rovere. In quell’occasione, per sottrarre cibo al nemico, i Mirandolesi si sarebbero ingegnati insaccando la carne di maiale macinata nella cotenna e nelle zampe. Nacquero così, per istinto di sopravvivenza e un poco di cazzimma, il cotechino e lo zampone. Le carni vengono macinate delicatamente e insaporite con spezie ed erbe aromatiche (chiodi di garofano, pepe, noce moscata, cannella e vino). L’impasto così ottenuto viene poi insaccato: lo Zampone Modena IGP in un involucro costituito dalla cotenna della zampa anteriore del maiale, il Cotechino Modena IGP in budelli. Protagonisti indiscussi delle tavolate natalizie, sono sempre più “destagionalizzati” e divorati tutto l’anno.
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Questo mix di tagli viene insaccato nel budello del maiale, messo ad asciugare per qualche giorno (1-2 settimane al
massimo) e poi consumato, previa lunga cottura necessaria alla trasformazione del collagene della cotenna e delle carni ricche di connettivo che contiene.
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IL COTECHINO SCIENTIFICO Il principio è molto semplice.
Abbiamo detto che il cotechino fresco al suo interno custodisce pezzi tritati di carne “povera” che fondamentalmente contengono moltissimo tessuto connettivo. Oltre a una buona quantità di grasso. Questo ci porta a fare un ragionamento ben preciso e cioè cuocerlo nella finestra di idrolisi del collagene in modo che risulti molto tenero e burroso. INGREDIENTI • 1 cotechino fresco da 1 kg La cottura non poteva che non essere in sous vide: mettete il salsicciotto in un sacchetto e immergetelo in un bagno termostatico a 85°C per 4 ore. In questo modo il connettivo avrà tempo di sciogliersi a dovere. Una volta cotto, abbattetelo con acqua e ghiaccio e mettetelo in frigorifero. Dobbiamo affettarlo ben freddo, quando il collagene si sarà nuovamente soldificato. Prima di farlo, però, ripulitelo della gelatina e dello strutto di cui sarà inevitabilmente coperto. Quando avrete anche i contorni pronti, taglierete dei medaglioni non troppo spessi, direi non più di un paio di centimetri. Li passerete sulla piastra a calore feroce (su tutti i lati) per cauterizzare il prima possibile e creare Maillard. C’è tanto collagene sciolto e tanto grasso quindi la crosta sarà molto evidente.
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Ciò che dovete fare è abbinare una salsa dal tono acido per sgrassare il boccone. Uno sciroppo di amarene ci starebbe da Dio. Ma anche una Teriyaki, la salsa giapponese, preparata con la ricetta che segue.
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LA SALSA TERIYAKI La Teriyaki tradizionale di base è composta da 3 ingredienti: salsa di soia, mirin (un sake leggermente dolce) e zucchero. Può essere utilizzata come condimento, come marinata o come salsa di glassatura. Visto che la abbineremo ad un salume particolarmente sapido, il mio consiglio è di partire da una salsa di soia leggera, in modo che restringendosi non diventi troppo salata. Potete sostituirla con una riduzione di vino rosso o con una salsa di amarene. Oppure utilizzarne una confezionata di buona qualità. INGREDIENTI • 120 ml di sake • 120 ml di mirin • 120 ml di salsa di soia leggera • 60 gr di zucchero
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Mescolate tutti gli ingredienti in un pentolino, portate ad ebollizione e lasciate ridurre a fuoco lento. Quando avrà raggiunto la consistenza di uno sciroppo denso, spegnete il fuoco e versate la salsa in un contenitore sterilizzato. Si conserva in frigorifero per 2-3 settimane.
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LE LENTICCHIE
Le lenticchie sono tra i primissimi legumi a essere stati coltivati dall’uomo. Le prime tracce si fanno risalire alla Mezzaluna fertile e se ne trovano testimonianze anche nella Genesi, nel famoso episodio di Esaù che – cito – proprio per un piatto di lenticchie cedette il diritto di primogenitura al fratello Giacobbe.
Pare, si dice, che dall’antico Egitto partissero regolarmente navi cariche di lenticchie verso i porti greci e italici. Certo è che venivano apprezzate sia ad Atene che a Roma, tanto che l’autore latino Plinio il Vecchio, nella sua opera Naturalis Historia, le cita come alimento dal grande valore nutritivo e capace di infondere tranquillità nell’animo. Sembra addirittura che l’obelisco del colonnato di Piazza San Pietro a Roma (portato nella città eterna per volere dell’imperatore Caligola) abbia attraversato il Mediterraneo protetto da un gigantesco carico di lenticchie. Sin dal Rinascimento sono simbolo di prosperità e denaro, tanto da attribuire loro il potere di portare soldi, soprattutto se mangiate a Capodanno. Il motivo? Perché a parità di peso con altri legumi, le lenticchie sono molte di più. Nella cultura ebraica, invece, simboleggiano il ciclo della vita per via della loro forma rotonda.
La pianta e la produzione
La pianta ha uno stelo tra i 20 e i 70 cm con foglie alterne e composte. Fa dei fiori a corolla, bianchi o blu, riuniti in grappoli, mentre i frutti sono costituiti da baccelli piatti che contengono uno o due semi di dimensione e colore vari, dall’arancione al giallo, dal verde chiaro a tonalità più scure fino al bruno. Sono proprio questi semi la parte che mangiamo. Lo sapevate?
Le lenticchie in cucina La cucina regionale le vuole cotte in umido, abbinate alla pasta o come ingrediente principale di zuppe o minestre (soprattutto al Sud). Ma si abbinano ad ingredienti autunnali come zucca o funghi, con carni grasse – il cotechino appunto – o frutti di mare. Si acquistano secche e si devono conservare al buio, in un luogo fresco e asciutto. Nel caso di varietà dalla pelle sottile, o delle lenticchie rosse decorticate, non necessitano di ammollo prima della cottura.
Proprietà nutrizionali Di elevato valore nutrizionale (circa 300 calorie per 100 grammi) e dal bassissimo contenuto di grassi (1 grammo per 100 grammi), le lenticchie sono una buona fonte di carboidrati complessi, proteine e fibre. Contengono anche potassio, ferro e fosforo. Importante citare anche l’apporto di vitamine B1 e B2. Le lenticchie inoltre non contengono glutine, cosa che le rende particolarmente adatte per chi è affetto da celiachia. BBQ4All Magazine
Quel che si mangia sono i semi della Lens culinaris, della famiglia delle Fabaceae. È una pianta annuale, coltivata in diversi paesi in tutto il mondo, ma che non si trova praticamente più allo stato selvatico. Oltre che in Europa, principalmente nei paesi meridionali e orientali come Italia, Grecia e Cipro, la lenticchia si produce in Asia Minore e Centrale, nel Vicino Oriente, Canada e Australia. In Italia viene coltivata praticamente in tutte le regioni, con particolare cura in Sicilia, Abruzzo e Umbria. Si adatta
bene anche a zone semi-aride, terreni poco fertili, zone montane, e ha una buona resistenza agli attacchi dei parassiti. Inoltre è preziosa nella rotazione delle colture.
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Otto varietà italiane di lenticchie Non lasciatevi ingannare dall’apparenza, le lenticchie sono molto diverse tra loro.
LENTICCHIA DI CASTELLUCCIO DI NORCIA Coltivata lungo tutto l’altopiano di Castelluccio all’interno del Parco Nazionale dei Monti Sibillini, la lenticchia di Castelluccio di Norcia è caratterizzata soprattutto dalla grande varietà dei suoi colori e dalla forma rotonda ed appiattita. Dalla buccia estremamente sottile, ha untempo di bollitura di venti minuti e un’alta digeribilità. È perfetta consumata con le carni grassi e, naturalmente, con i salumi umbri. La fioritura della lenticchia di Castelluccio dà vita a uno spettacolo magnifico, che nulla ha da invidiare a quello della fioritura della lavanda in Provenza. LENTICCHIA DI ALTAMURA Si coltiva tra le piante di lino e cotone nello scenario delle Murge, ad Altamura (dove fanno il famoso pane, proprio lì). Questa varietà si caratterizza per le sue grandi dimensioni e il colore verdastro. Viene servita – tradizionalmente – in minestra con aglio, cipolla, sedano ed olio extravergine d’oliva.
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LENTICCHIA DI MORMANNO Ci spostiamo nel cuore del Parco Nazionale del Pollino dove – nel paese di Mormanno – si coltiva da secoli una varietà di lenticchia dal seme molto piccolo e dal colore che varia dal rosa al verdone. Si tratta di una lenticchia molto leggera, dalla buccia sottile cucinata soprattutto nella zuppa con abbondante peperoncino locale.
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LENTICCHIA DI SANTO STEFANO DI SESSANIO Coltivata a circa 1200 metri di altitudine all’interno del Parco Nazionale del Gran Sasso, secondo alcuni documenti addirittura dall’anno mille, la lenticchia di Santo Stefano di Sessanio si caratterizza per le sue dimensioni estremamente piccole e per la sua naturale sapidità. È l’ingrediente principale di zuppe con erbe, aglio ed olio extravergine d’oliva.
LENTICCHIA DI USTICA Si tratta di una delle lenticchie più piccole d’Italia. Coltivata su terreno lavico e di colore marrone scuro, la lenticchia isolana di Ustica è usata soprattutto per zuppe con ortaggi della zona e finocchietto selvatico, oltre che con la pasta. Dal sapore delicato, ha tempi di cottura molto rapidi. LENTICCHIA DI VILLALBA Il comune di Villalba, in Sicilia, è stato tra i principali produttori di lenticchie in Italia fino alla prima metà del Novecento. La varietà autoctona è a seme grande e le sue qualità nutrizionali sono straordinarie. Questa lenticchia infatti può contenere anche più di 10mg di ferro per 100 grammi di prodotto e possiede un ottimo tasso di proteine. Viene utilizzata soprattutto per le minestre. LENTICCHIA DI RASCINO Piccola e marroncina, la lenticchia di Rascino viene coltivata nella zona del Cicolano tra orchidee selvatiche e farro, al confine tra Lazio ed Abruzzo. Seminata ad aprile ed irrigata con le acque sorgive del parco della Peschiera, questa lenticchia è stata da sempre consumata dai pastori della zona, che la cuocevano nel latte e la servivano agli ammalati. Si tratta di una lenticchia piccola che necessita di ammollo ed è ottima per preparare zuppe col farro locale o col grano biancòla tipico di questo territorio. LENTICCHIA DI SOLETO Nel cuore della Grecìa Salentina dove i discendenti della Magna Grecia parlano ancora oggi un dialetto dorico (il griko), viene coltivata un’antichissima varietà di legumi molto simile ad una lenticchia chiamata vicia (al quale appartengono anche le fave). Anche se il colore nero e la consistenza rugosa possono far immaginare il contrario, si tratta di una varietà estremamente digeribile che prevede una cottura breve. È impiegata di solito per preparare minestre con olio extravergine d’oliva ed erbe locali.
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LE LENTICCHIE SCIENTIFICHE Ingredienti: • 500 g di lenticchie (verdi o rosse); • 1 cipolla; • 2 carote; • 1 costa di sedano; • 2 rametti di rosmarino fresco; • Sale q.b. • Pepe q.b.
Dovete cuocere le lenticchie in due batch: il primo sacchetto da 250 grammi lo immergete in sous vide a 85°C per 1 ora. Nel sacchetto dovrete versare dell’acqua, in volume il doppio rispetto alle lenticchie. E dovete aggiungere 1g di sale ogni 100g d’acqua. Non avrete bisogno di metterle a mollo e si cuoceranno perfettamente, non si staccherà nemmeno una buccia. Il secondo sacchetto, sempre da 250 grammi, lo fate cuocere a 90°C per 2 ore. Una volta cotte le lenticchie le frullate e le filtrate: dovete ottenere una purea, che andrà condita con le lenticchie cotte nell’altro sacchetto. A parte preparate una brunoise di carote, cipolla e sedano. Come se fosse un soffritto. Lo fate andare in padella con un rametto di rosmarino e quando è pronto lo aggiungete alla crema di lenticchie.
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Se preferite una crema più fluida, aggiungete acqua di cottura delle lenticche e calibrate la consistenza.
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La scienza della cottura delle patate
IL PURÈ
Tutto sull'amido
Le patate sono uno degli alimenti più versatili in cucina. Potete servirle cotte al forno, fritte, bollite, schiacciate, sono sempre buone. Il loro amido viene utilizzato per un sacco di cose, basta dare un'occhiata a qualche etichetta sui cibi confezionati. Non ci sono molti altri alimenti che riescono a raggiungere questi livelli di trasformismo. Avete mai fatto uno spuntino con le patatine fritte di broccoli, broccoli gratinati o broccoli bolliti?
Di cosa è fatta una patata? Per prima cosa, non ridete. Ormai le patate vengono coltivate in tutto il mondo, migliaia di anni fa erano un’esclusiva del Sud America. Parliamo di uno dei principali alimenti di base del pianeta, un ingrediente capace di sfamare come pochi ed apportare tanta energia. Come qualsiasi alimento vegetale, la patata è composta da acqua, circa l'80%. Il resto è costituito da carboidrati (18%), di cui la maggior parte amido (più dell’85%), poi un ciccinino di grasso e poche proteine, oltre a varie vitamine e minerali. Tra le cellule della patata troviamo molte sostanze pectiche (pectine) così come la cellulosa e l’emicellulosa, l’elemento che tiene tutto insieme. Ciò che distingue la patata da molti altri prodotti della terra è un'enorme quantità di amido. È l'amido che le conferisce la maggior parte delle sue proprietà funzionali.
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Cos'è l'amido (di patate)?
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L'amido è un carboidrato di grandi dimensioni e una fonte di energia molto comune in natura. È costituito da due tipi di molecole: amilosio e amilopectina. L'amilosio è una lunga catena più o meno
lineare di zuccheri glucidici, una molecola relativamente piccola rispetto all'amilopectina. L'amilopectina è una molecola grande e fortemente ramificata, molto più ingombrante dell'amilosio. L'amido si trova lungo tutta la patata sotto forma di granuli. Questi granuli possono essere abbastanza grandi (rispetto ad altri tipi di amido), fino a un decimo di millimetro. La forma dei granelli, se vista al microscopio, è in realtà abbastanza simile a quella della patata stessa. L’amido non è ovviamente un’esclusiva della patata, lo ritroviamo in vari alimenti come la farina o il mais. Ognuno di essi ha un tipo diverso di granulo, ma anche un diverso rapporto e un diverso contenuto di catene di amilosio e amilopectina. La fecola di patate, ad esempio, contiene catene di amilosio piuttosto lunghe.
Cosa succede quando si cuoce una patata? Il processo principale che avviene durante la cottura di una patata, indipendentemente dalla tecnica, è di base un aumento di temperatura. La fase inizierà riscaldando l'esterno e poi lentamente tutta la patata. Come con qualsiasi processo di trasferimento del calore, ci vuole un po' di tempo prima che l’intero tubero si riscaldi del tutto. Più piccoli sono i pezzi, però, più velocemente si riscalderà. Quel calore causerà poi varie reazioni chimiche, le tre più importanti sono: 1. Ammorbidimento della patata, la struttura cellulare si disfa, proprio come succede per le altre verdure. 2. L'amido “cuoce". 3. In alcuni casi (ad esempio con la frittura) la patata può prendere quel bel colore dorato e sviluppare sapori extra.
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Per semplificare, il calore dissolverà la 'colla' che tiene insieme le cellule e romperà le pareti delle cellule stesse. Questo porterà la patata a perdere la sua consistenza. L’acqua evaporerà e il tubero perderà il suo turgore. CUOCERE GLI AMIDI Quando si scalda una patata, le grandi quantità di amido contenute in essa vengono cotte. Come vi ho già detto prima, l'amido si trova nelle patate sotto forma per lo più di granuli e di amilosio libero. A temperatura ambiente, questo amido non si scioglie in acqua. Quando l’acqua viene riscaldata, invece, l'amido è in grado di dissolversi, i granuli la assorbono e si gonfiano. Sono proprio questi processi che rendono difficile la miscelazione dell’amido con l'acqua calda. A contatto col liquido, la superficie esterna dell’amido si gonfierà immediatamente e contemporaneamente si formeranno dei grumi. L'interno di questi grumi conterrà amido che non ha ancora assorbito acqua, che però non potrà più penetrare perché il guscio gelatinizzato glielo impedisce. Se avete mai provato fare la cioccolata calda con il latte bollente e l’amido, avrete senz’altro capito di cosa sto parlando. Durante il rigonfiamento di questi granuli, un po’ dell’amido verrà rilasciato. È per questo che quando bolliamo le patate l’acqua diventa torbida. Questo processo di rigonfiamento, scioglimento e anche fuoriuscita di amido è chiamato gelatinizzazione, un processo irreversibile che può avvenire solo in presenza di acqua. PATATE FARINOSE VS PATATE CEROSE La maggior parte di voi avrà sentito parlare della distinzione tra patate farinose e patate cerose, le prime più secche mentre le altre lasciano una sensazione più morbida in bocca.
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È TUTTA UNA QUESTIONE DI AMIDO Se una patata è farinosa o cerosa, tutto dipende dal tipo di amido di cui è fatta. Cosa le rende diverse, quindi? È interessante, ma i ricercatori non sembrano mettersi d’accordo su questa faccenda. Tutto dipende, almeno sembra, da una combinazione di amidi e dalla struttura della patata, dalle dimensioni delle cellule e come le cellule sono attaccate l'una all'altra. In generale, sembra che un più alto contenuto di amido dia patate più farinose, che tendono ad avere anche cellule più grandi e più “resistenti”. Per quanto riguarda le patate cerose, invece, pare che rilascino più facilmente l’amido.
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IL PURÈ PERFETTO
TUTTI I TRUCCHI
1. Utilizzare un passaverdure o uno schiacciapatate Passando le patate cotte attraverso un passaverdure o uno schiacciapatate si ottiene una consistenza liscia e setosa. Per preparare un purè cremoso dovete limitare la quantità di stress meccanico per evitare danni alla struttura della patata. Perché le patate diventano appiccicose, dite? L'appiccicosità si sviluppa quando si usa il mixer, quando si scuotono troppo le patate e si tira fuori l’amido. 2. Asciugare le patate prima di aggiungere il burro Dopo aver passato le patate attraverso un passaverdura o uno schiacciapatate è meglio asciugarle per qualche minuto. Dovete eliminare quanta più umidità possibile. L'acqua non è amica delle patate, poiché farà gonfiare i granuli di amido, li scomporrà e questi rilasceranno una parte del loro contenuto in essa. 3. Aggiungere abbastanza burro Vi siete mai chiesti perché il purè del ristorante è più buono del vostro? Perché gli chef hanno la manina pesante con il burro, e fanno bene! Provate ad usare il burro in un rapporto da 4:1 a 2:1 rispetto alle patate. Servirà anche a formare un film lipidico attorno ai granuli di amido, contrastando la formazione dei grumi. 4. Condire bene le patate con la dose adeguata di sale Il sale è importantissimo per esaltare i sapori. NOTE SULL'AMIDO NELLE PATATE:
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Repetita iuvant. I granuli di amido contengono due tipi di molecole: l’amilosio, che è lineare, e l'amilopectina, che è ramificata. Queste molecole di amido hanno la capacità di formare altre molecole appiccicose, gel o emulsioni. In acqua fredda l’amido non si dissolve: l'amilopectina è altamente insolubile in acqua, e l'amilosio è solubile solo in acqua ad una temperatura di circa 55°C.
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Quando immerse in acqua calda, le molecole d'acqua dissolvono le molecole di amilosio e modificano la struttura del granulo dell’amido causandone il rigonfiamento e la rottura. Delle patate bollite lasciate in acqua cominceranno a gelificare e aumenteranno di volume, diventando gonfie e acquose. Se il purè di patate risulterà acquoso, diventerà appiccicoso. Ecco perché è importante asciugare le patate. Quando le patate incontrano il latte, invece, l'amido reagisce in modo diverso. Purè di patate con latte, panna o burro, tutti contengono diversi tipi proteine della caseina. La caseina riduce le quantità di amilosio che fuoriescono dai granuli di amido, e limita anche il rigonfiamento dell'amido, il che comporta una consistenza più liscia e piacevole al palato. La caseina è un potente emulsionante e legante.
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IL PURÈ SCIENTIFICO
Gli ingredienti sono quelli classici, ma la tecnica prevede delle accortezze: •
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Utilizzo di sole patate vecchie, più “secche” delle patate nuove. A me piacciono le patate ratte, che hanno un naturale sapore nocciolato e una consistenza burrosissima. C’è chi utilizza esclusivamente patate a pasta bianca, più farinose delle altre e ricche di amido, e chi preferisce le patate rosse che hanno una polpa più soda. A prescindere dalla tipologia di tubero è consigliabile scegliere patate vecchie per scongiurare il rischio mastice. Cottura delle patate a secco. Sottovuoto o nella pentola di coccio apposita, proprio per evitare un ristagno di acqua e la formazione della colla per manifesti. Setacciamento. Le patate vanno prima schiacciate (o passate al passaverdure) e poi setacciate spatolandole in un setaccio di quelli circolari a maglie fini che si usano per la farina. Rapporto patata/grassi da 4:1 a 2:1
INGREDIENTI • 1 kg di patate vecchie (qui ho usato patate di montagna della Sila) • 250 gr di panna fresca* (o latte fresco intero) • 175 gr di burro di centrifuga • Noce moscata q.b. • Sale q.b.
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A scelta Parmigiano Reggiano 30 mesi
*Se utilizzate il latte, aumentate il peso del burro (minimo 250 grammi) Prendete le patate, pelatele e pesatele: devono essere 1 kg preciso, senza buccia. Tagliatele a cubetti di 2 cm per lato e mettetele in un sacchetto predisposto per il sottovuoto. Immergete in acqua a 90°C e fate cuocere per 90 minuti. Schiacciate le patate con uno schiacciapatate facendole cadere in una boule di pyrex (o un contenitore qualsiasi resistente al calore) scaldata in forno a 70°C. Le patate non devono raffreddarsi. Una volta schiacciate passatele al setaccio aiutandovi con una spatola o con un tarocco (quelle palette che si usano nella panificazione).
Tenete al caldo prima del servizio.
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Aggiungete il burro a pezzetti e mescolate con cura, poi trasferite il tutto in un pentolino, aggiungete la panna calda ed amalgamate con una spatola. Non lavorate troppo il purè o diventerà appiccicoso. Togliete dal fuoco, aggiungete la noce moscata, se vi piace, e salate in base al vostro gusto.
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L'ASSEMBLAGGIO DEL PIATTO l vostro cotechino è ben freddo, potete agilmente tagliarlo in fette (non meno di un 1,5 cm) e piastrarlo in stile teppanyaki, cioè su piastra rovente. Lo rigirate più volte fin quando i grassi disciolti non avranno veicolato una Maillard da urlo. Servite con il purè tiepido, se vi piace arricchite con del Parmigiano, la salsa Teriyaki (o una riduzione di vino rosso se preferite), le lenticchie in due consistenze e una spolveratina d’oro alimentare. L’oro sì che porta soldi, mica le lenticchie da sole. Non hanno nemmeno le braccia, come fanno poverine.
e l a t a N Buoen o n n a buon tutti a Dicembre 2020
Lo Zio Gianfranco (Lo Cascio)
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Se una notte, d'inverno, un redattore, Seguo - rubrica a cura di Emiliano Nencioni
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E’ il numero di Dicembre del Magazine, sono le ultime pagine, è bene o male la chiusura di un ciclo, un “season finale”. L’ultima Seguo dell’anno, quella dove si tirano le somme, dove si promettono cose mirabolanti per i numeri futuri, si fanno buoni propositi come a Capodanno, la dieta, lo sport, studiare, fare i bimbi bravi. É l’appuntamento meta-letterario, quello in cui la rubrica parla di se stessa, di cosa potrebbe essere e di cosa non ha potuto proporre, quello letto solo dalla compagine più affezionata (se esiste!) di abbonati, interessati anche al dietro le quinte di tutto l’ambaradan. Sarebbe stato bello ripercorrere i titoli e gli argomenti delle Seguo precedenti, metterle in sequenza e vedere il comporsi e il dipanarsi di un percorso ben preciso, un cammino di crescita personale parallelo all’affrontare, insieme ai lettori, i vari argomenti da nefandezza social.
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Raimondo Lullo - Labirinto Ermetico
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Jan Van Eyck - Adorazione dell'agnello
Ma non sono Italo Calvino. In un romanzo - ma più un metaromanzo - del 1979, Se una notte, d’inverno, un viaggiatore, Calvino narra la storia di un lettore (chiamato, proprio, Lettore) alle prese con la lettura di vari romanzi che non riuscirà mai a terminare: il primo libro è incompleto per un errore tipografico, e tentando di farselo sostituire conosce una lettrice col suo stesso problema di impaginazione, Ludmilla. Da qui le vicende dei due si intrecciano in un continuo tentativo di sostituzione del libro difettoso, e il Lettore continuerà sempre a trovare tomi incompleti, dei quali leggerà sempre solo l’inizio, a partire proprio da Se una notte, d’inverno, un viaggiatore, per dieci volte di seguito.
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Dieci romanzi, dieci autori-dentro-al-romanzo diversi, dieci opportunità per il “vero” autore, Calvino, di flettere i muscoli e dimostrare il suo talento narrativo, impersonando autori diversi da lui, con stili e tematiche diverse.
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Un gioco fra scrittore e lettore che avevo immodestamente tentato pure io, scherzando e provocando in ogni iterazione della rubrica Seguo una categoria diversa di lettori, conscio che prima o poi qualcuno avrebbe pensato “ehi, ma parla di me!” e sperando in una reazione, in un’emozione, in qualche tipo di stravolgimento o di clamore. Il pieno di sé, l’iracondo, il permaloso, il superficiale, il lecchino, l’inopportuno, il superfluo: qui nelle
ultime pagine della Seguo abbiamo avuto modo di avvelenarci un po’ con tutti i prototipi di categoria social: la conclusione, inevitabile, è una. O i social-fastidiosi non leggono la Seguo, o non vogliono far sapere di leggere la Seguo, o non si riconoscono in nessuna delle categorie di cui invece fanno parte. Già questo mi sembra un risultato di tutto rispetto. Sarebbe stato bello creare un cammino preciso con le Seguo, dicevamo, quasi come Calvino era riuscito a fare con quello scherzetto dei dieci libri iniziati e mai conclusi dal suo Lettore: i dieci titoli infatti, letti in successione, formano una frase sibillina, di senso compiuto, che è l’incipit di un ipotetico undicesimo romanzo (non entro nel dettaglio per non rovinarvi la lettura). Alla fine del romanzo di Calvino, Lettore affermerà proprio di aver appena terminato “Se una notte, d’inverno, un viaggiatore”, che è proprio il racconto delle vicende di lui medesimo. Cervellotico eh? Il finale di stagione del Magazine è il momento ideale per un veloce ripasso ma, a differenza del Dicembre dell’anno scorso, quando ho radunato in una sorta di clip show gli argomenti trattati, gli argomenti rimasti fuori e gli argomenti censurati, stavolta lascio al lettore il fardello di riprendere in mano tutti i numeri passati e giocare a tro-
vare un filo rosso che faccia da tramite e che fonda in un pensiero organico e progressivo le dodici mensilità. Senza tralasciare - sarebbe imperdonabile e superficialotto - le imprudenti allegorie di Ossessioni in Griglia, la sitcom metaforica più censurata della storia dell’editoria. Vi toccherebbe fare, quindi, un po’ di riscrittura combinatoria: abbandonando il più semplice ordine cronologico, incrociare trasversalmente gli argomenti trattati, riplasmando tutto in un magma ben più profondo e poeticamente ispirato di quanto l’autore (nel senso: io) avesse potuto fare originalmente. Lettore, il protagonista di Calvino, è costretto a farlo, e a lui le cose vanno a finire benissimo: capisce il suo ruolo e sposa Ludmilla. Che male può farvi il rileggere le dodici puntate precedenti? Per una ragione prettamente statistica potreste essere proprio uno di quei birboni digitali contro i quali mi scagliavo dalle ultime pagine della rivista, abusivamente sottratte a qualche ricetta, e finalmente riconoscervi come fonte delle mie frustrazioni e come flagello inconsapevole di migliaia di altri utenti costretti a sopportare le vostre idiosincrasie, rabbie e permalosità.
Per una rubrica che ha sempre contato sulla speranza
che nessuno si riconoscesse troppo nei vari sproloqui, mimetizzando sempre ogni sfogo sotto strati di filosofia a buon mercato, riflessioni arzigogolate e terminologia respingente, questa rivelazione potrebbe essere una sconfitta di base: ma in realtà la Seguo avrebbe vinto, riuscendo ad attirare l’attenzione di persone che di solito non leggono oltre la quarta riga, che non si concentrano sulla comprensione del testo e che tutt’al più guardano le figure. Rimane il fatto, non da poco, che la rubrica Seguo, quella preferibilmente non menzionabile in pubblico, è riuscita ad avere l’ultima parola: l’ultima frase dell’ultima pagina dell’ultimo numero dell’anno duemilaventi, a parte qualche immancabile call to action nella penultima di copertina, farà inevitabilmente parte della rubrica più fuori posto e disallineata di tutto il Magazine. L’ultima cosa che leggerete di questa annata di Magazine è la dodicesima iterazione di un appuntamento mensile con l’insofferenza digitale, probabilmente la più astratta, simbolica e meno assertiva delle ventiquattro (più una) scritte ad oggi. La quale, se non v’è dispiaciuta affatto, vogliatene bene a chi l’ha scritta, e anche un pochino a chi l’ha raccomodata. Ma se in vece fossimo riusciti ad annoiarvi, credete che non s’è fatto apposta.
Emiliano Nencioni
BBQ4All Magazine
Potreste ricevere una colossale epifania e provare quel senso spiacevole di formicolìo alla colonna vertebrale, pensando: “In tutto questo tempo… ha sempre parlato di me!”
Magritte - L'embellie (1962)
103
Dicembre 2020
IN DI CE 2020 104
Carne sostenibile: l'hamburger vegetale non toglie i peccati del mondo
Gennaio
4
Perché ho smesso di trimmare il Brisket
Febbraio
5
La Santa Inquisizione del ragù
Marzo
5
Tapas, una cena sotto copertura
Aprile
5
Ho un attacco di pane: merende adolescenziali
Maggio
3
La bistecca scientifica: i falsi miti della cottura sottovuoto
Giugno
3
La bistecca scientifica: Revit e Sous Vide a confronto
Luglio
3
Prima regola del GLC Club: mai bucare le salsicce
Agosto
3
A Beethoven e Sinatra preferisco l’insalata
Settembre
4
Una ricetta perfetta per l’autunno: la Shepherd’s Pie migliore del mondo
Ottobre
5
A scuola di Tacos - parte 1
Novembre
4
A scuola di Tacos - parte 2
Dicembre
5
Tecniche Formaggi affumicati: dalla A alla... Provola
Gennaio
24
Tempura: l'arte di friggere
Febbraio
34
Sushi fatto in casa
Febbraio
38
Ramen
Febbraio 44
Jiaozi: i ravioli della fortuna
Marzo
40
Noodles
Marzo
44
Maialino sardo
Aprile
22
Asado de tira
Aprile
35
Beer Can Chicken (Il pollo sull'anfora di cervogia)
Aprile
47
Lo spiedo
Maggio
72
Fiorentina perfetta
Giugno
27
Tacchino ripieno nel barbecue
Luglio
17
Ribs: bbq vs. forno
Novembre
26
Porchetta perfetta al forno
Novembre
43
Pulled pork: bbq vs. forno
Dicembre
20
Ricette
Antipasti Olive “briskolane”
Gennaio
38
Wagyu e polenta
Gennaio
46
Polpettine di Wagyu
Febbraio
56
Involtini primavera
Marzo
38
Black Label Chicken Wings
Marzo
52
Crispy Fried Chicken Wings
Marzo
54
Nuggets di pollo (con pane panko)
Marzo
56
Gnocco fritto
Giugno
16
Cheese&Bacon roll
Agosto
26
Pica pollo
Agosto
30
BBQ4All Magazine
0
L’Editoriale di Gianfranco Lo Cascio
105
Cocktail di gamberi
Settembre
33
Crostino al salmone in due versioni
Settembre
36
Insalata di razza e finocchi
Ottobre
32
Insalata di polpo e patate
Ottobre
34
Caldarroste al rhum e speck
Novembre
31
Uova ripiene
Dicembre
28
Fonduta
Dicembre 48
Primi piatti Ravioli affumicati con ricotta e cheddar al whiskey
Gennaio
28
Ramen
Febbraio 50
Gyudon: beef bowl
Febbraio
52
Spaghetti saltati con verdure
Marzo
32
Ossobuco affumicato con risotto giallo
Giugno
21
Fregula con le vongole
Giugno
24
La genovese
Giugno
34
Gumbo
Luglio
29
Riso pilaf con sugo di lepre e riccio di mare
Settembre
40
Tortello fritto panna e prosciutto
Settembre
44
Crespelle ai funghi
Settembre
56
Sugo di moscardini
Ottobre
36
Cous-cous al pesto di basilico
Ottobre
38
Lasagne al pesce spada
Ottobre
40
Paella di Mazara
Ottobre
42
Zuppa di cipolle grigliate
Novembre
34
Gyoza al pulled pork alla piastra
Dicembre
25
Pasta e ceci
Dicembre
30
Pasta e fagioli
Dicembre
30
Dicembre 2020
Secondi Piatti
106
Gulash: la zuppa del griller
Gennaio
42
Falsomagro
Gennaio 44
Involtini di spada, melanzane e provola affumicata
Gennaio
48
Pollo marinato con verdure
Marzo
33
Pancia di maiale brasata
Marzo
44
Il galletto al bbq
Marzo
60
Churrasco di picanha (con arroz blanco)
Aprile
32
Flank in flip&brush
Aprile
40
Abbacchio a scottadito
Giugno
40
Cotoletta alla milanese
Giugno
44
Saltimbocca alla romana
Giugno
46
Fegato alla veneziana
Giugno
48
Burgoo
Luglio
33
Memphis style pork ribs
Luglio
35
Kitoza con riso al cocco e salsa satay
Agosto
32
Boku-boku
Agosto
40
Tarna’ara’a
Agosto
36
Feijoada
Agosto
34
Tataki di tonno
Agosto
46
Tonno vitellato
Settembre
48
Tagliata rucola e grana perfetta
Settembre
51
Scaloppine al limone
Settembre
60
Non filetto al pepe verde
Settembre
63
Parmigiana di spada
Ottobre
46
Polpette e involtini di cavallo catanesi
Ottobre
50
Cotoletta alla palermitana
Ottobre
60
Filetto di maiale con castagne
Novembre
37
Filetto di maiale con fichi e menta
Novembre
40
Salsicce e purè
Dicembre
34
Polenta, funghi e salsicce
Dicembre
36
Cima a modo nostro
Dicembre
40
Cappone ripieno affumicato
Dicembre
45
Verdure e contorni Carciofi arrostiti
Aprile
52
Patate arrosto
Aprile
54
Melanzane alla parmigiana
Giugno
18
Cobb salad
Luglio
24
Pomodori verdi fritti
Luglio
38
Caponata di pesce spada
Ottobre
48
Insalata di rinforzo
Dicembre
42
Panini Gennaio
36
Hamburger di Wagyu con cavolo cinese e maionese al rafano
Febbraio
54
Panino con il lampredotto e trippa alla fiorentina
Maggio
32
Pane e panelle
Maggio
36
Panino con la porchetta
Maggio
38
Philly Cheesesteak
Maggio
42
Lamb kebab
Maggio
44
Burrito
Maggio
48
Le Croque-Monsieur
Maggio
50
Po’Boy
Maggio
54
Pan di Ramerino
Giugno
73
Chimichanga
Luglio
41
Sloppy Joe
Luglio
44
Juicy Lucy
Luglio
49
French Dip
Luglio
52
Chiko roll
Agosto
38
Pata Asada
Agosto
42
BBQ4All Magazine
Denver Steak Club Sandwich
107
Pani ca meusa
Ottobre
56
Panino Salsiccia, robiola e porri fritti
Novembre
64
Salse Maionese al rafano
Febbraio
54
Bagnèt verd
Aprile
56
Chutney di mango
Aprile
57
Salsa verde
Maggio
34
Salsa agrodolce
Maggio
41
Maionese al lime
Maggio
48
Chimichurri
Maggio
55
Salsa piccante ai peperoni in ember
Maggio
55
Salsa mop
Luglio
37
Salsa satay
Agosto
33
La panna acida
Settembre
50
La salsa bbq #zerosbatti
Settembre
91
Dolci Salame al cioccolato
Gennaio
50
Chiacchiere
Febbraio 60
Castagnole
Febbraio 62
Sas origliettas
Febbraio
64
Frati e bomboloni
Febbraio
66
Cheesecake
Marzo
62
Torta senza i bischeri
Aprile
60
Crostatina alle nocciole e Grand Marnier
Maggio
58
TiramisĂš
Giugno
50
Pancake
Luglio
60
Gelo di mellone
Agosto
48
Profiterole
Settembre 68
Iris alla ricotta con scaglie di cioccolato
Ottobre
64
Mont Blanc
Novembre
50
Dicembre 2020
Lievitati
108
Il panino perfetto da sandwich
Gennaio
32
Pane al vapore
Marzo
34
Pizza in teglia alla romana
Aprile
10
Focaccia barese
Maggio
18
Piadina romagnola
Maggio
24
Focaccia genovese
Giugno
10
Deep Dish Chicago Pizza
Luglio
54
Baguette
Luglio
26
Sfincione palermitano
Agosto
58
Panino da buffet
Settembre
77
Mafalda siciliana
Ottobre
74
Panino da salsiccia
Novembre
53
Panettone
Dicembre 52
Formaggi Cheddar
Giugno
62
Monterey Jack
Luglio
69
Squacquerone
Agosto
64
Mascarpone
Settembre 74
Ricotta
Ottobre 82
Robiola
Novembre 60
La stagionatura
Dicembre
62
Portfolio Lesa maestà: Peter Luger criticato sul NYT
Gennaio
12
La cucina giapponese
Febbraio
12
Paese che vai buone maniere che trovi: 10 regole nel Paese del Sol Levante
Febbraio
26
Glossario dei piatti giapponesi
Febbraio
32
La cucina cinese
Marzo
10
A cena in Cina: il galateo a tavola
Marzo
26
Il giro del mondo in cinque grigliate
Aprile
16
La banalità del pane
Maggio
10
La globalizzazione ai tempi di Colombo
Luglio
11
Viaggio intorno alla cucina
Agosto
17
Nostalgia canaglia: i piatti anni '80
Settembre
24
Cosa resterà di questi anni ’80
Settembre
30
Introduzione alla gastronomia siciliana
Ottobre
24
l maiale nell’antichità
Novembre
12
Il comfort food
Dicembre
10
Le razze e i tagli Cerdo ibérico
Gennaio
16
Black Angus
Febbraio
80
Rubia Gallega
Maggio
69
L'agnello
Agosto
72
I tagli del maiale
Novembre
22
I tagli: ribs
Novembre
24
I tagli: pulled pork
Dicembre
16
Dispositivi e accessori Gennaio
20
La griglia giapponese: oltre il sushi c'è di più
Febbraio
24
Il wok
Marzo
28
Barbecue a pellet: Weber SmokeFire
Ottobre
18
Termometro Meater+
Dicembre
66
BBQ4All Magazine
Offset barbecue: tutto ciò che c'è da sapere
109
Approfondimenti e interviste PerchĂŠ non siamo vegetariani
Gennaio
58
Vegetariani e malvagi
Gennaio
60
Speciale dolci di Carnevale
Febbraio
58
La bistecca sintetica
Marzo
78
La grigliata per due
Aprile
42
Sono vegano!
Aprile
72
Morfologia della carne vegetale
Aprile
77
Il male vegetariano spiegato alle ragazze
Maggio
65
Allevamenti e gas serra
Agosto
80
Arancino o arancina?
Ottobre
69
Chef’s table bbq - Recensione
Ottobre
86
La porchetta umbra
Novembre
46
Intervista: Coach Sal di Mento
Luglio
74
Intervista: Chef Francesco Preite del Moi Omakase
Febbraio
16
Intervista: Le Zhang del Bon Wei di Milano
Marzo
18
Intervista: Chef Max Mariola
Maggio
28
Introduzione
Luglio
20
L'olfatto
Agosto
10
Il gusto
Settembre
16
Il tatto
Ottobre
12
Diventare assaggiatore
Erbe e spezie Il peperoncino
Le cinque spezie cinesi
Gennaio
84
Marzo
71
Il mirto
Aprile
28
Il rosmarino
Giugno
68
Novembre
66
Guida ai Sal's Seasonings
The Chemical Griller Salse cap.I
Gennaio
72
Salse cap.II
Febbraio
76
Marzo
74
Salse cinesi e anatra alla pechinese
Addensare una salsa-parte I
Aprile
66
Addensare una salsa-parte II
Maggio
76
Addensare una salsa-parte III
Giugno
76
Luglio
77
Agosto
76
Settembre
88
Gli idrocolloidi parte I
Gli idrocolloidi delle alghe e la sferificazione Dicembre 2020
Le gomme
110
La ricetta scientifica di Gianfranco Lo Cascio Il Club Sandwich
Il Katsu Sando
Il Ragù
Gennaio
76
Febbraio
82
Marzo
82
Croquetas de jamon
Aprile
80
Cuban sandwich
Maggio
80
Giugno
80
Luglio
80
Il Pesto di basilico
Braciole di maiale con patate arrosto
La Guacamole
Agosto
84
Il Ketchup
Settembre
92
Le Arancine
Ottobre
90
Novembre
76
Dicembre
72
Pasta con la genovese
Cotechino con lenticchie e purè
Seguo Ossessioni in griglia
Gennaio
92
L’utente è deiezione
Febbraio
94
Mauro esige rispetto
Marzo
94
Aprile
95
Maggio
96
Giugno
96
Luglio
92
Tormentoni
Agosto
96
Panopticon
Settembre 102
Seguo, ma ad un metro di distanza
Amigdala: la materia grigia che rende il tuo nome grigio
La felicità è una cottura a fuoco lento Non fare quella faccia
I pedanti vetrinizzati
Ottobre
102
Un bel piacere non fu mai postato
Novembre
94
Se una notte, d’inverno, un redattore
Dicembre
100
Abbinamenti
Gennaio 54 Febbraio 68 Marzo 66 Aprile 62 Maggio 60 Giugno 54 Luglio 64 Agosto 50 Settembre 72
BBQ4All Magazine 111
CLUB
Dire tta m e n t e da lla co m m u n i ty di ma e s t ri di ba rbecue pi ù grande d’I tali a, nasce i l prest i gi oso club c h e ti offre la possi bi li tà di avere: a ccesso pr i or i tar i o al meg astore, dove pot ra i fa re ra zzi e ment re tutt i gli a lt ri “ sono i n coda ” ; u na p rogra m ma zi on e i n telli g en te dei tu oi acq u i sti gra zi e a l c re di to mensi le prepa gato (scegli tu quanto); u n coa ch pr i vato c h e ti g u i derà n e l fa rt i vi ve re l’ esperi enza
pi ù ecci tant e di sem pre
co n la prepa ra zi one dei tuoi pi att i ; e molto altro an cora. . . Av ra i tu tto qu e s to s o lo s e ti i s c r i vi s ubi to al MEG ASTOR E CLUB, l’uni co luogo ri servato a una c e rch i a r i s t re tta di a s pi ra n t i gri ll ma s t e r che desi dera no a pprendere pi ù velocement e e nel modo p iù accurato possi bi le, la subli me a rt e del gri ll. Pu oi di si scri vert i qua ndo vuoi e i l tu o c redi to sarà sempre di s pon i bi le.
collegat i a
H T T PS : / / C LU B M E G ASTO R E . B BQ 4 A L L. I T e c h i e di informazi oni pi ù detta gli at e, pr i ma c h e i coac h fi ni sca no e le i scri zi oni chi uda no.