BBQ4All Magazine numero 25 - Gennaio 2021

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N°25/ANNO 3 - GENNAIO 2021

L'EDITORIALE DI GIANFRANCO LO CASCIO

Lezioni di sous vide Siamo fritti, disse la polpetta al carciofo Mozzarella in carrozza, supplì, corn dog, carciofi fritti, cordon bleu, frico DALL'AMERICA

Across the pond: fried chicken DE GUSTIBUS

Parmigiano Reggiano tutto quello che c'è da sapere

La Ricetta Scientifica

Carbonara 2.0


Direttore Editoriale Rossella Neiadin

Redattore Capo Michela Bongiorni

Redazione

Enio Berton Virgilio Brunetti Tommaso Buccafurri Nunzia Clemente Roberto Dal Bosco Tommaso Di Gregorio Salvatore Di Mento Luca Gallozza Marco Gerometta Mariangela Ibba Gianfranco Lo Cascio Riccardo Meniconi Giovanni Minelli Emiliano Nencioni Elena Ninotti Stefania Pompele Andrea Spaggiari Alessandro Trezzi Carlo Trono Caterina Vianello Alberto Zonghetti

Realizzazione Grafica

Impaginazione Carlo Trono Illustrazioni di Eleonora Castagna e Ozzy Bellesi Fotografie di Rossella Neiadin, Luca Gallozza, Tommaso Buccafurri, Elisa Giuli, Emiliano Nencioni

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IN DI Rubriche

Editoriale - Da Zero a Sotto vuoto

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Portftolio - Friggendo verso Sud

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The Chemical Griller - Gli oli da frittura

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Ricette - speciale fritto Mozzarella in carrozza

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Supplì 25 Spaghetto con latte di aringa affumicata e peperone crusco

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Polpette fritte

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Corn Dog

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Il carciofo fritto in quattro modi diversi

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Cordon Bleu

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Non è fritto... è frico

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Il dolce: crema fritta e gelato fritto

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Approfondimenti

Arte Bianca - La pizza fritta

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Across the pond/01 - fried chicken

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Across the pond/02 - waffle americani

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In tutte le salse - Le salse per il fritto

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De Gustibus- Il Parmigiano Reggiano

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Alla Fiamma - corso di cucina - Fornelli e forni

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From Zero to Hero - Il set up del dispositivo

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La ricetta scientifica - Carbonara 2.0

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Seguo - Il bullo ti tormenta?

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Editoriale di Gianfranco Lo Cascio

Sotto vuoto Da Zero a

lezioni di cucina

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Le basi della cottura sous vide spiegate bene

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olleva gli occhi dalla pagina e guardati intorno. Dove ti trovi in questo momento? Che ora è? Sei da solo nel silenzio della cucina o in pausa dallo smart working, sognando cosa preparerai per cena?Fermati un attimo e scatta un’istantanea con la mente. Perché questo, mio caro lettore, è il momento esatto in cui inizierai un viaggio che ribalterà il tuo modo di cucinare. Questo è il momento in cui scoprirai il sous vide e le sue potenzialità Ne avrai sicuramente sentito parlare (anche da me): il sous vide è un metodo di cottura grazie al quale il cibo viene cucinato a temperatura costante in un bagno d'acqua, prima inserito in sacchetti di plastica speciali e soltanto dopo rapidamente rosolato in padella o sulla griglia. L’associazione mentale che si fa più spesso è con i ristoranti stellati, i cibi raffinati e le attrezzature costose, a prima vista progettate più per un laboratorio di chimica che per una cucina di casa. Ma da un po’ di tempo sempre più appassionati hanno scoperto questo arnese miracoloso - che assicura cibo perfettamente cotto, con un controllo assoluto della temperatura e zero stress - non più appannaggio esclusivo di chef audaci e milionari viziati. E mentre i cuochi che usano regolarmente il sous vide spesso scelgono di investire in attrezzature costose e macchine per il sottovuoto a campana, nell’ultimo decennio sono stati messi in commercio diversi modelli di “termocircolatori a immersione” a prezzi accessibili per l'uso domestico. Fatta la dovuta premessa, mettete da parte i gadget per un minuto.

Che cos'è il sous vide Immaginate di dover cucinare una bella Ribeye (costata). In testa avete chiara l’idea di come dovrebbe essere, croccante e profumata fuori e succosa e morbida dentro, giusto? Con il sous vide (pronunciatelo "su vid"), basta preparare una pentola d’acqua, impostare l’intervallo di tempo e la temperatura target e si può ottenere quella esatta, precisa sfumatura di cottura che si desidera, ogni santissima volta. Non a caso gli chef e i ristoranti di tutto il mondo si affidano a questo strumento da decenni, e chi più di loro ha bisogno di risultati sempre perfetti, certi e ripetibili. È un metodo relativamente semplice che può essere facilmente applicato per annientare lo stress inutile legato ad alcune particolari cotture (pensiamo ai tagli di carne più duri), o a sollevarvi dalla cura esclusiva di certi aspetti del piatto, come portare la vostra fiorentina alla temperatura interna corretta senza cuocerla troppo, permettendovi di focalizzarvi su un contorno diverso dalla solita insalata mista, su una salsa di accompagnamento o su un dolce. Una volta appresi i rudimenti potrete passare al livello successivo e scatenarvi con le ricette, dalla carbonara al carré di agnello, dal pollo fritto al salmone marinato. Allora, come funziona il sous vide? E perché è di gran lunga migliore dei metodi di cottura tradizionali per alcuni piatti? Permettetemi di spiegarvelo. Con i metodi di cottura tradizionali, il calore si trasmette dal bruciatore alla padella e poi all’uovo, le resistenze di un forno riscaldano l'aria intorno al pollo e lo cuociono. Poiché l'aria del forno e il metallo della padella sono molto più caldi di quanto noi vogliamo che siano il nostro uovo e il nostro pollo, dobbiamo toglierli dal fuoco al momento giusto. Farlo troppo presto o troppo tardi significa avere nel piatto un cibo crudo o stracotto. Ma quando si cucina con l'acqua, invece che con il forno o con la padella, possiamo alzare la temperatura quanto basta per portarlo alle temperature che preferiamo. Possiamo toglierlo non appena ha finito di cuocere, oppure lasciarlo riposare nell'acqua fino a quandoè

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Per questa prima lezione di sous vide avrete bisogno di una pentola, di un fornello, di un termometro digitale, di alcuni sacchetti di plastica e di una mente predisposta al cambiamento. Sì, con nient'altro che questi quattro strumenti di base cucinerete la migliore bistecca che abbiate mai mangiato, il trancio di pesce da tagliare con un grissino e una succosa braciola di maiale accompagnata da patate croccanti fuori e fondenti dentro. Una volta preparata la prima ricetta, rimarrete letteralmente stregati da un insieme di tecniche che rivoluzioneranno il vostro modo di cucinare. Vi spiegherò nel dettaglio le basi delle migliori pratiche per la sicurezza alimentare e vi insegnerò una serie di ricette da consultare per padroneggiare come si deve il sous vide.

Ricordati di questo giorno. È il giorno in cui hai fatto il primo passo per diventare il miglior cuoco che hai sempre saputo di poter essere.

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Perché cucinare sous vide?

TECNICHE DI COTTURA TRADIZIONALI il cibo rimane perfettamente cotto solo durante un piccolo intervallo di tempo

non appena siamo pronti per sederci a tavola: niente più turni di guardia davanti allo sportello del forno, niente più incatenamenti ai fornelli. Invece di fare la spola tra fornelli e tavola, potrete versarvi da bere e rilassarvi, chiacchierare con i vostri ospiti, o concentrarvi su una parte del pranzo o della cena che richiede più accorgimenti. Cibo perfetto, facile da preparare e pronto solo auqndo volete voi: è questo che rende il sous vide uno strumento rivoluzionario e salvifico. Provateci, e una volta entrati nel loop, cucinerete di più e vi divertirete di più a farlo. E le vostre bistecche saranno leggenda.

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Tecniche tradizionali vs sous vide

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Perché è facile, ci si può cucinare di tutto e meglio, perché si può fare ovunque e ci stimola ad osare. Una bistecca perfetta, un trancio di pesce che si sfalda con lo sguardo, costine di maiale tenere e scioglievoli. Tutto questo in cambio di pochissimi accorgimenti.

Cuocere sous vide stasera, cosa vi serve? La p ar te migliore della faccenda? non avrete bisogno di nessun marchingegno infernale per iniziare. Continuate a leggere e preparatevi ad aggiornare il software della vostra cucina, state per ricevere un importante aggiornamento.

STRUMENTI Per capire velocemente come il forno, la griglia o i fornelli cuociono il Ecco cosa vi serve per iniziare. cibo, date un'occhiata al grafico qui sotto. Con le tecniche tradizionali, c'è una strettissima finestra temporale in cui il vostro filetto di maiale 01. Un buon termometro è proprio come piace a voi. Uno sguardo allo smartphone, vi distraete Non mi stancherò mai di dirlo: per qualche minuto e ciao: avete già perso l'occasione di gustare il il termometro digitale è uno miglior filetto di sempre. Un peccato. strumento imprenscindibile Ora guardate questo grafico sul sous vide. Come potete vedere, il per cucinare qualsiasi cosa. Il vostro filetto può rimanere in un recipiente con d'acqua perfettamente controllo della temperatura riscaldata per più di un'ora, ed emergere da lì ancora perfettamente interna degli alimenti ci aiuta cotto. I figli vi chiamano per dirvi che arriveranno in ritardo? Niente paura, la vostra cena si svolgerà comunque senza intoppi. Avete le bistecche pronte per essere croccantizzate sulla piastra, ma CUOCERE SOUS VIDE ci è voluto più tempo di quanto il cibo non diventa mai più caldo dell'acqua vi aspettavate per trovare la così rimane alla temperatura target fino al momento del servizi ricetta della salsa gravy? Non vi preoccupate, potete lasciare tutto com’è. Il cibo cotto in sous vide è pronto quando lo siete voi, e quando sarete pronti, vi accorgerete di aver cucinato un capolavoro.


ad ottenere la sfumatura di cottura giusta e sicura anche dal punto di vista sanitario. Non serve spendere cifre folli, esistono termometri digitali per tutte le tasche. 02. Sacchetti di plastica di qualità Leggendo sul web ne sento di ogni, ci sono un sacco di falsi miti legati alla cottura sottovuoto. Il primo tra questi è che avete bisogno di una confezionatrice sottovuoto a campana per imbustare correttamente il cibo. La verità è che si può fare anche con normali sacchetti di plastica con chiusura zip. Di regola potete usarli sempre quando cucini tra i 40°C e i 70°C, ma per stare davvero tranquilli, procuratevi dei sacchetti di buona qualità e che siano fabbricati apposta per questo scopo. Quando lavorate con sacchetti con chiusura a cerniera, usate il metodo del “dislocamento dell’acqua" per togliere l’aria. Per farla semplice: agganciate il sacchetto al lato della vostra pentola e immergetelo nel bagno termostatico, usate l'acqua per spingere fuori l'aria che circonda i vostri pezzi di carne o pesce. Lasciate il bordo

della busta aperto e appoggiatelo sopra il bordo del contenitore d’acqua. Usate una molletta o un coperchio per tenere il sacchetto in posizione. TECNICHE Volete provare il sous vide ma non siete ancora pronti ad investire in nuove attrezzature? Lo capisco, magari avete ancora qualche riserva su questa storia del cibo imbustato. Niente paura, esistono tre tecniche che sfruttano oggetti di uso comune che avete sicuramente negli sportelli della vostra cucina. Quando usarli e quali? Generalmente, quando avrete bisogno di una cottura veloce, userete il metodo del piano cottura o il metodo dell'acqua corrente. Il primo di solito funziona meglio per la bistecca e il pollo, mentre il secondo può essere una buona opzione per il pesce fresco. Mentre una parte di voi ha a disposizione un rubinetto che spara acqua a temperature vulcaniche, perfetta per scaldare una New York Strip (bistecca di controfiletto) da cuocere a 52°C-54°C, per alcuni potrebbe risultare un pochino antipatico sprecarne diversi litri per un taglio di carne più duro. Per tempi di cottura più lunghi, fino a quattro ore, è meglio affidarsi al metodo con contenitore termico isolato. Dovrete controllare la temperatura di tanto in tanto, questo sì, ma in genere è una tecnica che funziona abbastanza bene.

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Metodo del piano cottura È abbastanza semplice. Una volta riempita una pentola con l'acqua e messa sul fuoco, la chiave è portare l'acqua alla temperatura desiderata e tenerla lì, in quel range di temperatura, cosa che potrebbe richiedere qualche accorgimento - probabilmente dovrete regolare il calore e potreste dover armeggiare con il posizionamento della pentola sul bruciatore. Tutto questo tuning può essere un po’ noioso, lo so,

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ma mantenete la calma e portate a termine l’obiettivo. E non spaventatevi se la temperatura oscilla di un paio di gradi mentre cucinate, otterrete comunque un buon risultato. Tenete presente una cosa importante: state perdendo costantemente calore attraverso i lati della pentola e tramite l’evaporazione dell'acqua, quindi non c'è modo di aggirare la fluttuazione di temperatura. Tuttavia non perdetevi d’animo e continuate a controllare la situazione: se mantenete l'acqua entro un grado o due, state andando alla grande. Cominciamo! BISTECCA IN SOUS VIDE PER PRINCIPIANTI Attrezzatura • Termometro digitale a lettura istantanea • Sacchetto di plastica • Clip per legare Ingredienti • Una ribeye Blue Ox Prime del Megastore (è importante • utilizzare una carne frollata e marezzata) • Olio extravergine di oliva • Sale • Pepe 01. Preparate un bagno d'acqua Riempite la vostra pentola con acqua. Lasciate abbastanza spazio per evitare che l'acqua trabocchi una volta aggiunto il sacchetto. 02. Fissate il termometro (opzionale) Potete usare uno spiedino o una pinza resistenze al calore per fissare il termometro digitale sul lato della pentola. Potete anche immergere il termometro nell'acqua di tanto in tanto per controllarne la temperatura.

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03. Riscaldate l'acqua Riscaldate l'acqua fino a raggiungere la temperatura desiderata (52°C-54°C), regolando il bruciatore secondo necessità per mantenerla costante. Un avvertimento: questo passaggio può richiedere un po' di tempo per essere fatto in maniera corretta. Pianificate di conseguenza. Mescolare l'acqua frequentemente può aiutare a velocizzare il processo.

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04. Confezionate Mettete la bistecca nel sacchetto. Togliete l'aria dal sacchetto usando la tecnica del dislocamento che vedete nell’immagine.


05. Cuocete Usate una clip per attaccare il sacchetto al lato della pentola. Questo dovrebbe evitare che il cibo galleggi sulla superficie dell'acqua, il che potrebbe portare a una cottura non uniforme. Una volta che la bistecca è stata aggiunta al bagno termostatico, dovrete riportare l'acqua alla temperatura desiderata. Questo può richiedere un po' di tempo, specialmente se l’acqua è tanta. Controllate col termometro la temperatura al cuore della carne: una volta arrivata a 52°C, toglietela. Tutti questo parlare di gradi e e temperature al cuore comincia a confondervi un po’? Rilassatevi, nel prossimo numero troverete una tabella con la temperatura target giusta per ogni alimento. 06. Finite il piatto Date una botta di calore alla carne per innescare la reazione di Maillard. Che cos’è? È quella reazione che inizia a manifestarsi a temperature superiori ai 160°C, in assenza di umidità e in presenza di proteine e zuccheri riducenti. È il fenomeno che dà ai cibi la crosta brunita e profumata che ci piace tanto, impossibile da ottenere con la sola cottura sottovuoto. Procuratevi una piastra o padella in ghisa o ferro e scaldatela in maniera feroce. Asciugate con cura la vostra Ribeye con della carta assorbente, ungetela con un sottile strato di olio (il grasso vi servirà per veicolare il calore) e fulminatela per pochi secondi per lato, facendo attenzione a non superare i 52°C interni. Attenzione! Fate molta attenzione quando togliete dal sacchetto gli ingredienti fragili come il pesce o la carne molto marezzata. Potreste rovinare il taglio sfaldandolo tutto. 07. Godete! È tempo di assaggiare il frutto del vostro lavoro. Servite la bistecca con sale e pepe, aggiungete un rub (mix di spezie) di finitura se vi piace. Ci vediamo a Febbraio per la prossima lezione, ora fatti sorprendere dalla tua nuova rivista preferita.

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Gianfranco Lo Cascio

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o d n iFr ggeverso L'importanza di essere "indorato e fritto" dal Molise alla Sardegna

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Costume a cura di Nunzia Clemente

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arlare di fritto nel Sud Italia senza tener conto delle intermittenze del cuore (se ne parlava qualche numero fa del Magazine), cioè quelle sinestesie tra presente e passato tanto a cuore a Marcel Proust, sarebbe davvero un’ingiustizia. Il fritto è una delle declinazioni del Sud Italia, senza remore potremmo dire anche la più rappresentativa: si frigge per festeggiare, per passare il tempo, per comfort food. Se tutto può essere grigliato, tutto può essere anche fritto. La mia “intermittenza” preferita, parlando di frittura, risiede in uno street food locale dell’Agro Sarnese Nocerino, la mia zona d’origine. Zeppole e panzarotti: mille lire divenute poi un euro di pepite bollenti di pasta cresciuta e “panzarotti” (cioè crocchette) di patate, fritti fritti. Un cibo di conforto disponibile praticamente per gran parte del giorno, dalle undici del mattino fino all’orario di cena, momento in cui il friggitore o smontava il baracchino oppure si dedicava alla frittura di zeppole grandi, ripiene anche con ingredienti presi dal macellaio di fiducia, come salsicce. Il “mio” zeppolaro di fiducia si chiamava ‘Ngiulillo: si calcava un berretto da marinaio in testa e friggeva come soltanto un dio friggitore sapeva fare, in un calderone, sotto l’antro di un palazzo ottocentesco, accanto alla mia vecchia scuola elementare. Non c’era grande attenzione al tempo riguardo il nutrizionalmente valido, ‘o criatur addà mangià, il bimbo deve mangiare. Via libera quindi al sacchettino bollente da portare in classe, nascosto nello zainetto che diventava una sorta di bomba atomica che al solo passaggio titillava le papille gustative. Tanto che alle nove e trenta, ben prima della ricreazione, si intrufolavano le dita nel sacchetto per strappare un pezzo di quello, un pezzo di questo. Bando ai ricordi, ripercorriamo le vie del fritto al Sud e relative ricette.

Di frictilia e cose varie

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Innegabile che il fritto sia una tecnica di cottura “avanzata”: come pratica al Sud è ben radicata dal tempo degli scambi culturali e commerciali nel bacino del Mediterraneo. Senza dilungarci troppo sulla storia del fritto (perché avremo tempi e modi di esplorarla per bene), ci limitiamo a segnalare le tappe fondamentali: ad esempio, vedremo come il fritto nell’antica Roma fosse ampiamente diffuso, ma anche come le loro “fritture” in realtà fossero più delle “brasature” con diversi liquidi (garum, vino, aceto). Come ogni tecnica la frittura ha avuto le sue evoluzioni. Nell’antica Roma i cibi fritti più diffusi erano, solitamente, delle frittate o frittelle a forma di ciambella oppure delle sfere; erano indifferentemente accompagnati da intingoli salati oppure dal dolce, in quest’ultimo caso si preferiva di gran lunga il miele oppure prodotti derivati dal mosto del vino, come ci dimostrano molti ritrovamenti del sito archeologico di Pompei. Un bel colpo all’avanzata della frittura come metodo di cottura – cioè, più vicina a come la conosciamo noi – ci viene dato dal contatto con gli arabi e le altre popolazioni del bacino del Mediterraneo. Un bel balzo in avanti e ci ritroviamo nel Sud del Medioevo, alla corte angioina: precisamente, sul finire del Duecento ad opera dell’Anonimo Meridionale. Vuoi la Quaresima, vuoi altro, ci ritroviamo praticamente il primo ricettario in tardolatino (ma facilmente comprensibile senza

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traduzione) dove ci viene presentata una bella platea di dolci fritti: se restrizione deve essere, che almeno sia gustosa. Secoli dopo, il “cuoco galante” Vincenzo Corrado nemmeno si esime dallo stilare tutta una serie corposa di fritte ricette nella sua opera più famosa, che a tutti gli effetti rappresenta il primo ricettario del Sud Italia: si va dalle costolette fritte, alle zucchine fritte, passando per la ricetta della nostra amatissima parmigiana di melanzane. Perché è davvero così tanta la fortuna del fritto nel Sud Italia? Una cucina sostanzialmente povera (nei tagli e nelle disponibilità degli alimenti) aveva bisogno di reinventare quotidianamente i propri piatti, aggiungendo gusto per rendere più leggere giornate di lavoro intenso. La frittura preferita, al Sud, è quella con olio; ciò non toglie che ancora ad oggi qualcuno usi la frittura aggiungendo una certa quota di strutto, spesso direttamente nella pietanza e non nel recipiente. La frittura è un atto che passa di generazione in generazione, attraverso pacche di melanzane, miscele di tuorli d’uova, pangrattato, profondità delle padelle, creazione delle “bolle”: una cosa indorata e fritta (dorata, cioè passata nell’uovo e poi fritta) è assai più buona di tutto il resto. Migliora anche ciò che magari non è più freschissimo: la frittura è un magnifico, calorico metodo per la nostra amata cucina di recupero. Per non parlare poi dello street food: il diffondersi dell’olio di semi, molto più economico, ha permesso ancor più la diffusione di questo metodo di cottura. Tenevi ben ancorati ai divani, mettete offline la app contacalorie, defenestrate le bilance: vi accompagno in un viaggio a tema fritto per tutto il Sud Italia e dopo niente – niente – sarà più come prima. Dovrete necessariamente friggerlo per renderlo appetibile (la fase-grigliata penso l’abbiamo interiorizzata abbastanza!).


MOLISE - CALCIONI

No, non vi sto proponendo un incontro di wrestling: forse ne farete uno per accaparrarvi l’ultimo calcione molisano rimasto, però. Sfoglie ripiene di prosciutto, tuorli d’uovo, formaggio, ricotta di pecora, ben chiuse ed ovviamente fritte. Da mangiare bollenti, ungendosi le mani e le labbra con il Labello fornito dal Dio olio.

LAZIO – CARCIOFO ALLA GIUDIA

Uno di quei casi dove non capiamo la versione light: ma quando mai ci siamo concessi la variante light di qualcosa di così gustoso come il carciofo alla giudia? Un piatto antichissimo, le cui tracce risalgono almeno al II secolo dopo Cristo e successivamente divenuto tradizionale del quartiere ebraico di Roma. Si tratta, essenzialmente, di una “frittura” di carciofi, ma di un particolare tipo: sono i carciofi cimaroli, detti mammole, coltivati tra Ladispoli e Civitavecchia. Un carciofo morbido e senza spine: una volta fritto a dovere, le foglie risulteranno croccantissime.

CAMPANIA - PIZZA FRITTA

‘a reggina, la regina. Sua Maestà Dorata la pizza fritta, portata agli onori internazionali da Sofia Loren, come ci racconta Alessandro Trezzi nella sua ricetta presente su questo numero del Magazine. Si tratta di una pizza ripiena di ciccioli, ricotta, pepe e poca provola (ma non mancano le varianti), adeguatamente chiusa e fritta per pochissimi minuti. Ci vuole un’estrema abilità ed esperienza per una pizza fritta perfetta: bisogna chiuderla bene, “scuoterla” affinché il ripieno si adagi in maniera omogenea nella tasca, moltissima attenzione al colore della frittura affinché non si bruci. Avete già l’acquolina in bocca: un piscitiello (pizza fritta modellata in lungo) o un battilocchio (impasto modellato come un occhio chiuso) placheranno la vostra fame di fritto.

PUGLIA – POPIZZE O PETTOLE

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(E PIÙ IN GENERALE IL FRITTO PUGLIESE) Le popizze, tipiche di Bari, sono delle semplici frittelle di pastacresciuta, di forma tondeggiante. Vengono preparate e vendute principalmente nella Bari vecchia, da esperte friggitrici. Le popizze possono essere semplici, ma anche ripiene di pomodori secchi o ancora olive. Solitamente, ci sono anche le sgagliozze, cioè triangolini di polenta fritta, ma molto frequente è anche il generico fritto di verdure, tra i quali spiccano i lampascioni fritti. I lampascioni sono dei deliziosi bulbi tipici della Puglia e della Basilicata, che fritti esprimono una bontà commovente.

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BASILICATA – OLIVE FRITTE CON PEPERONI CRUSCHI

La Basilicata è una delle mie terre preferite. Un antipasto o un contorno tipico lucano è quello composto da olive e peperoni cruschi… ovviamente, tutto fritto. La regione lucana è naturalmente votata alla coltivazione di molte tipologie di olive, con ben 125 comuni interessati. L’oliva destinata ad essere essiccata e fritta è l’Ogliarola del Vulture, insieme ai tipici peperoni cruschi, cioè i tipici peperoni di Senise essiccati. Servire con bruschette di pane di Matera.

CALABRIA – FRITTELLE DI FIORI DI ZUCCA

I fiori preferiti dai patiti di gastronomia del Sud? Senza dubbio, i fiori di zucca. In molte regioni c’è l’usanza di friggerli (in Campania, anche di imbottirli di ricotta!), ma è in Calabria che essi trovano una terra d’elezione unica. La pastella dei fiori di zucca – delicatissimi, che durano davvero poche settimane nell’arco dell’anno – viene arricchita con abbondante formaggio pecorino. Il tutto viene tuffato in padella. Da addentare bollenti.

SICILIA – ARANCINA

E che vuoi dirle? Sono perfette. Non bouquet, ma sacchetti di arancine e sarò una donna felice. Dell’arancina scientifica ne abbiamo fatto una missione nel numero del Magazine di Ottobre 2020. Ogni tanto, vorrei che il mondo fosse a forma di arancina: a forma vulcanica, ripiena di prelibatezza e soprattutto fritta. Ma anche per friggerle bene, ci vuole arte e maestria. Se vi hanno sempre spaventato con la difficoltà di fare e friggere un’arancina, recuperate la nostra ricetta e andate avanti senza paura… ma con molte macchie di fritto sulle maglie.

SARDEGNA – SEADA

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In Sardegna esiste una delle cose fritte più buone inventate dall’uomo: la seada, seadas al plurale. Tradizionalmente, è una pietanza legata ai pastori, facilmente trasportabile: si pensa sia stata portata nell’isola per la prima volta dagli spagnoli. Chiunque sia stato, gli daremo sempre tutti gli onori. Si tratta di una grossa ciambella di semola sottile, impastata con strutto e “casu furriau” (cioè un formaggio fresco acido), miele e successivamente fritta in abbondante olio, consumata quando è ancora croccante.

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Non si frigge con l'acqua GUIDA DEFINITIVA AGLI OLI The Chemical Griller a cura di Virgilio Brunetti

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n questo articolo vogliamo rispondere ad una domanda comune ma non banale: qual è il miglior olio per friggere? La risposta è ovvia: dipende. E non ci stiamo lavando le mani della faccenda, anzi: questa sarà la vostra guida definitiva agli oli per friggere, da stampare ed appendere a mo’ di poster dei famosi nelle camerette degli adolescenti (ma anche di noi adulti, eh…).

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Lo diciamo subito: se fate parte di quella schiera di consumatori convinti che utilizzare un extravergine d’oliva da 20 euro al litro per una banale frittura siano soldi buttati, allora potete tranquillamente passare oltre con la lettura; sì, perché la scelta di un olio da frittura e di uno da condimento deve essere ugualmente attenta e consapevole. Sappiate che un buon prodotto costa molto e trovarne uno adatto alla frittura che sia anche scevro da manipolazioni e mistificazioni è veramente difficile. Da pugliese e salentino è fin troppo semplice parlare di olio buono visto quello d’oliva non ci è mai mancato. Nelle generazioni passate, anche sulla mensa dei più umili non è mai venuto meno, almeno fino all’avvento della spietata Xylella fastidiosa che ha di fatto estinto molte interessanti cultivar e cambiato per sempre l’olivocoltura salentina. Proprio perché pugliese, la frittura in olio d’oliva è sempre stata la norma, ed ancora oggi, solo in casi eccezionali a casa mia si frigge in quello d’arachidi. Prodotti come l’olio di palma bifrazionato, quello di soia, l’olio di semi vari o il Friol non hanno mai varcato la soglia della cucina di mamma (tuttavia parleremo anche di quest’ultimo prodotto e del perché frigge bene).

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FOCUS: OLIO, LIPIDI, DIFFERENZE. Prima di tutto inquadriamo l’attore principale di questo pezzo, ovvero una categoria vastissima di alimenti che vengono definiti grassi, oli, a volte lipidi. Cosa sappiamo esattamente di queste sostanze? Iniziamo a fare chiarezza ponendoci delle semplici domande ossia: che cos’è un olio e che differenza c’è tra quest’ultimo e un grasso? Che differenza c’è tra grasso e lipide? Dal punto di vista fisico, riferendoci esclusivamente ai prodotti di interesse gastronomico, un olio è una sostanza liquida a temperatura ambiente, immiscibile con l’acqua, viscosa e con una densità bassa. Differisce da un grasso perché quest’ultimo perché si presenta allo stato solido o semisolido in condizioni ambiente di temperatura e pressione. Se grasso è considerato sinonimo di lipide, si può dire lo stesso dell’olio? Esso non è di fatto anche un lipide? In realtà se consideriamo queste sostanze dal punto di vista chimico sarà molto più facile comprendere la loro natura. Il nostro amichevole chimico di quartiere, il prof. Dario Bressanini, ci spiega infatti che nel linguaggio parlato distinguiamo spesso i grassi dagli oli (lo strutto è considerato un grasso, diversamente dell’olio d’oliva). Dal punto di vista chimico però non c’è differenza: semplicemente chiamiamo oli quei grassi che sono liquidi a temperatura ambiente. Quale sia la temperatura ambiente, però, dipende da dove vivete: ai tropici fa molto più caldo che a Trento e un grasso liquido in Nigeria può essere semisolido da noi. Useremo quindi i due termini indifferentemente. Ora, per quanto concerne la frittura ci concentreremo esclusivamente sui grassi di interesse gastronomico. Possiamo pertanto individuare due grandi categorie di prodotto, ovvero quelli di origine animale e quelli di origine vegetale. In natura i lipidi sono molecole fondamentali, basilari per la strutturazione delle singole cellule; inoltre costituiscono un’indispensabile riserva energetica nei tessuti sia animali che vegetali. Vorrei ricordare a tutti i salutisti in ascolto che potete assumere indifferentemente olio di pesce, olio d’oliva o una fettina di lardo di Colonnata: 1 grammo di grasso corrisponde a 9,46 kcal.

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Poiché le caratteristiche fisico-chimiche dell’olio da frittura sono strettamente correlate alla struttura molecolare della sostanza, i lipidi di interesse gastronomico sono per la maggior parte gliceridi, spesso sono trigliceridi ovvero sono esteri del glicerolo con vari acidi grassi (acidi carbossilici a media lunga catena); l’abbondanza di alcuni acidi grassi rispetto ad altri caratterizza a livello aromatico e gustativo lo specifico olio, mentre il loro livello di insaturazione determina le performance degli oli in condizioni di stress termico e ne determina inoltre lo stato solio, semisolido o liquido a temperatura standard. Moltissimi di voi avranno sentito parlare di oli con un alto punto di fumo vero? Il punto di fumo è un parametro essenziale: è la temperatura a cui un grasso alimentare riscaldato comincia a rilasciare sostanze volatili che divengono visibili sotto forma di un fumo formando anche molecole tossiche. Una cosa che mi fa molto arrabbiare è che tutti

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possiamo accedere ad una tabella che rapporta la qualità dell’olio da frittura al punto di fumo ma tutti ignorano il fatto che, andando a comprare un olio per friggere, esso deve essere di elevata qualità ed avere delle caratteristiche produttive adatte alla frittura. Facciamo un esempio alla portata di tutti noi, specie degli estimatori del made in Italy: l’olio extravergine d’oliva. Esso è considerato da tutti perfetto per friggere in quanto a stabilità, punto di fumo, qualità organolettiche e salutistiche. Si, bene, tutto ciò è bello ed è anche confortante perché, al di là delle demonizzazioni mediatica sulla frittura, se proprio devo farlo uso l’extravergine di oliva e sono in una botte di ferro, perché sicuramente è più salutare. Giusto? Forse.

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Sappiamo benissimo che l’olio d’oliva non è tutto uguale e proprio nel contesto della frittura è particolarmente importante capire che il grasso non è altro che un mezzo per trasferire calore ad un alimento in condizioni di temperatura piuttosto elevate. Tutto ciò che nell’elemento usato per friggere non è grasso è inutile ai fini della pratica: polifenoli, antiossidanti, vitamine, oli essenziali, cere, steroli ecc. non hanno rilevanza nelle performance di cottura, piuttosto l’abbondanza di alcune di queste molecole considerate nutraceutiche e caratterizzanti in alcuni extravergine di alta qualità abbassano di fatto il punto di fumo, che mediamente si aggira tra i 160°C e i 200°C: troppo variabile per dire che questo olio è il migliore per friggere. Tutta la schiera di

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molecole che vanno a caratterizzare gli oli extravergini d’oliva a bassa acidità impattano in maniera piuttosto complessa sugli attributi gustativi (fruttato, amaro, piccante) del prodotto e sulla sua stabilità all’ossidazione e all’irrancidimento. In generale oli vegetali e animali di scarsa qualità con acidità elevate, ossidati o addirittura rancidi sono da evitare per qualsiasi uso alimentare. Quindi capirete perché un grasso da frittura debba essere integro tanto quanto quello da condimento.

UN OLIO, VISTO DA VICINO Ora definiamo alcuni importanti parametri qualitativi come l’acidità degli oli vegetali. Per capire di cosa si tratta dobbiamo comprendere la struttura di un trigliceride. Esso è composto da tre acidi grassi uniti da una molecola di glicerolo mediante (legame estereo). A livello sintetico si tratta di una reazione di esterificazione tra un alcol, il glicerolo, e gli acidi grassi; la reazione inversa si chiama saponificazione. I grassi nelle piante vengono prodotti tramite una reazione enzimatica, una biosintesi. Essi si accumulano principalmente nel pericarpo delle drupe (le olive) oppure nell’endocarpo dei semi. Questi ultimi vengono definiti oleosi proprio per l’abbondante quantità di grassi. Il legame che unisce il glicerolo ai tre acidi grassi non è molto forte, per questo motivo, di fronte a qualsiasi ambiente ossidante o aggressivo, esso si rompe liberando i tre acidi grassi e causando la degradazione dell’olio.


L’acidità misura la quantità di acidi grassi liberi presenti nel prodotto, ed è uno degli indicatori generali per la determinazione della qualità degli extravergini: quando è minore, l’olio è migliore. Notate bene che essa non è percepibile livello gustativo e non deve essere confusa con i difetti del prodotto finale, tipo il sentore di acetico o vinoso, di muffa, di salamoia, di rancido, di morchia, di riscaldato. Ai fini della frittura è particolarmente importante che l’olio sia integro a livello molecolare ovvero che i trigliceridi non siano interessati da fenomeni ossidativi e di irrancidimento. Cos’è un olio rancido? È un prodotto che ha avuto una serie di reazioni di idrolisi e/o ossidazione che riguardano gli acidi grassi o altri lipidi presenti negli alimenti. Le modificazioni chimiche avvengono tramite meccanismo radicalico che implica l’azione prolungata dell’ossigeno. Abbiamo chiarito che gli oli alimentari sono costituiti da trigliceridi. A tal proposito avrete sentito parlare di lipidi con diversa abbondanza di acidi grassi saturi, insaturi e monoinsaturi, di Omega 3-6-9, di acidi grassi trans; tutte queste caratteristiche chimiche sono correlate alla struttura degli acidi grassi: sappiate che tutti gli oli contengono sempre una miscela di saturi, di monoinsaturi e di polinsaturi. Sempre. Sarebbe particolarmente complesso e noioso perdersi nella descrizione della geometria delle loro molecole; come ci insegna il professor Dario Bressanini è più facile farvi figurare l’acido grasso saturo come una catena lineare rigida a forma di bastoncello che può avere diverse lunghezze: mentre un monoinsaturo ha una singola piegatura, i polinsaturi invece ne hanno più di una. Questa caratteristica geometrica è alla base del fatto che se un grasso è liquido a temperatura ambiente allora ha una maggioranza di acidi grassi insaturi, (mono o poli). Quasi tutti i grassi vegetali (ma non proprio tutti) hanno questa caratteristica, mentre è più raro (ma ci sono) trovare dei grassi di origine animale con la medesima peculiarità, come per esempio l’olio di pesce o di crostacei.

Dunque ora sappiamo che i lipidi alimentari differiscono principalmente per la distribuzione di acidi grassi saturi,

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Se i lipidi alimentari hanno una prevalenza di acidi grassi saturi, allora sono solidi o semisolidi. Ciò significa che in gran parte i trigliceridi avranno attaccato dei bastoncini diritti i quali, come dei mattoncini del lego, si riescono a impilare più facilmente rispetto a quelli con una o più piegature. Questo è il motivo principale per cui i grassi saturi hanno un punto di fusione più alto: se non hanno piegature si impaccano molto meglio ed è più facile formare dei solidi. Grassi solidi sono per esempio il burro, il burro di cacao, l’olio di cocco e l’olio di palma, il sego, il lardo.

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monoinsaturi e polinsaturi. Queste differenze li rendono idonei a specifiche applicazioni nel campo delle tecnologie alimentari, della cosmetica, della nutrizione e ovviamente della medicina. Per quanto concerne la frittura sia livello casalingo, sia ristorativo che industriale, essa deve essere eseguita con oli di alta qualità in dispositivi idonei a controllare la temperatura, proprio perché quando il grasso comincia a sviluppare fumo, quest’ultimo può essere fonte di intossicazione acuta e cronica, perché oltre alla famigerata acroleina può contenere idrocarburi policiclici aromatici, ammine eterocicliche, formaldeide, acetaldeide, acrilamide.

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Le emissioni dal processo di frittura ad alta temperatura sono state classificate come “probabilmente cancerogene per l’uomo” (Gruppo 2a) dalla International Agency for Research on Cancer (IARC). Tra le altre cose sappiamo bene che anche gli oli esausti sono classificati come rifiuti speciali e devono essere smaltiti in maniera appropriata. Il punto di fumo, tra le altre cose, può essere variato da un uso eccessivo e ripetuto dello stesso olio consumato nelle fritture. Inoltre è una caratteristica del grasso che non dipende dalla distribuzione di acidi grassi contenuti in esso ma è determinata dalla quantità di acidi grassi liberi, ovvero dall’acidità del prodotto. Questo spiega come oli ricchi di acidi polinsaturi ma con una concentrazione di acidi liberi molto bassa, nonostante siano più suscettibili all’ossidazione, possano avere punti di fumo più alti di quelli composti prevalentemente da acidi monoinsaturi. Inoltre una miscela idonea di oli vegetali arricchita con opportuni additivi alimentari può dare origine a prodotti particolarmente performanti in termini di resa, come ad esempio il Friol che oltre ad essere arricchito con vitamina E (E306) presenta una percentuale di olio di silicone (E900).

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Quindi intervengono sul punto di fumo di un olio per frittura fattori quali: • agenti antipolimerizzanti (antiossidanti attivi sopra i 130 °C); • la presenza di dimetilpolisiloxani, additivo alimentare E900; • la presenza di acqua e micro componenti volatili: • la presenza di fosfolipidi (lecitine); • la presenza di eventuali residui di solventi di estrazione (esano utilizzato per estrazione di alcuni oli vegetali).

Olio vegetale

punto di fumo

Olio di palma

254°C

Olio di semi di girasole ad alto oleico

244°C

Olio di colza a basso erucico e alto oleico

240°C

Olio di semi di soia

240°C

Olio di semi di soia a basso linoleico

237°C

Olio di colza a basso erucico

236°C

Olio di mais

235°C

Olio di semi di cotone

232°C

Olio di palma alto oleico

230°C

Stearina dell'olio di palma

230°C

Olio di arachidi

230°C

Olio di soia idrogenato

230°C

Olio di riso

229°C

Olio di riso ad alzo orizanolo

222°C

Olio di semi di girasole a medio oleico

211°C

Olio di cocco

196°C

Grasso animale

punto di fumo

Burro chiarificato (Ghee)

252°C

Lardo

240°C

Sego

230°C


Molti oli posso essere raffinati con metodi chimici e fisici al fine di migliorarne le caratteristiche; i processi di raffinazione più comuni, consentiti anche su oli “bio”, sono la neutralizzazione (eliminazione degli acidi grassi liberi), la decolorazione, deodorizzazione e la winterizzazione (eliminazione delle cere). Un’altra modificazione piuttosto famosa applicata agli oli vegetali a livello industriale è l’idrogenazione, ovvero la produzione di margarine, una categoria eterogenea di prodotti che in qualche modo riproduce le caratteristiche del burro. Proprio come quest’ultimo esse sono spesso emulsioni di grassi saturi con acqua ed emulsionanti, e non sono destinate alla frittura. Tuttavia idrogenare un grasso vegetale ricco di acidi grassi polinsaturi per alzare la quota di quelli saturi è una via furba per ottenere ancora nuovi lipidi con caratteristiche idonee alla frittura. La mutagenesi indotta sulle piante oleaginose ha dato origine a tutta una nuova schiera di mutanti, i quali producono di fatto oli con caratteristiche tecnologiche differenti dalle piante originali. La colza, la soia e il girasole sono stati mutati geneticamente con vari metodi e selezionati per produrre oli con basso contenuto di acidi saturi e polinsaturi, e una preponderanza di acidi grassi monoinsaturi: possiamo trovare infatti in commercio olio di soia, di colza e girasole del tipo “alto oleico”.

Tirando le somme, possiamo dire che gli oli più adatti alla frittura devono essere: • resistenti alle alte temperature, quindi quelli ricchi di acidi grassi saturi o monoinsaturi (si preferisce generalmente utilizzare i grassi vegetali ricchi di monoinsaturi per questioni salutistiche); • a bassa acidità, ovvero oli integri dal punto di vista della struttura dei trigliceridi e con bassa percentuali di acidi grassi liberi; • estratti mediante pressatura piuttosto che mediante estrazione con solventi (esano). Spesso si legge di fritture senza olio, fritture non fritture e di friggitrici ad aria. Per me sono altri modi di definire una convettiva che non ha nulla a che fare con la frittura per immersione. L’unico modo che conosco per friggere senza grassi è la frittura in glucosio anidro, che utilizza un liquido altobollente che non è assolutamente un grasso ma una tipologia di glucosio in polvere ad elevata purezza: il destrosio. La frittura non frittura nel destrosio è un metodo di cottura che permette di ottenere un risultato per ovvie ragioni non unto e privo di grassi. Il glucosio in polvere è un ingrediente naturale, facilmente reperibile nei negozi specializzati di pasticceria o nelle farmacie. Esso fonde senza acqua a una temperatura di 160°C e non caramellizza fino ai 190°C quindi, nel range di tempo che il destrosio impiega a passare da una temperatura all’altra si innescano le reazioni di Maillard, le nostre care reazioni chimiche che avvengono a seguito dell’interazione tra zuccheri e proteine e che conferiscono ai cibi la classica crosticina croccante e profumata. Il glucosio, durante il processo di frittura, forma una sorta di “pellicola” trasparente, attraverso la quale penetra solo il calore, permettendo al cibo di restare assolutamente asciutto, croccante all’esterno e morbidissimo all’interno. Vi sembrerà assurdo ma è un tipo di frittura che si adatta bene sia alla cucina che alla pasticceria.

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La frittura è un metodo di cottura rapido. Sappiamo bene che l’acqua portata ad ebollizione in condizioni standard bolle a 100°C: non c’è verso di superare questo limite a meno che non si vadano a modificare parametri di pressione. I grassi invece hanno temperature di ebollizione molto alte, teniamo conto che il normale olio d’oliva ha una temperatura di ebollizione di 300°C. Quando friggiamo, ovviamente non abbiamo la necessità di portare ad ebollizione il nostro olio, ma ci dobbiamo attestare stabilmente ad una temperatura compresa tra dai 160°C ed i 200°C (condizione ideale per ottenere la reazione di Maillard in base alla tipologia di olio utilizzato) e ci manteniamo sempre sotto la temperatura del punto di fumo. Ora. volendo contestualizzare in Italia la scelta del miglior olio per friggere, mi sento di consigliarvi come prima scelta un olio vergine/ extravergine d’oliva di cui dovete conoscere precisamente il livello di acidità, quindi con uno standard qualitativo elevato ma con un carattere molto soft, un fruttato leggero. La preferenza potrebbe ricadere su un olio ligure o su un Garda DOP; con caratteristiche simili ma ormai introvabile si potrebbe utilizzare un olio monocultivar di Cellina di Nardò.

Per quanto riguarda gli oli di semi/frutti oleosi è preferibile scegliere quelli con un elevato contenuto di acidi grassi saturi o monoinsaturi estratti con metodi esclusivamente meccanici ed evitare oli estratti mediante l’uso di solventi, quindi il range ragionevolmente si restringe quello di arachide e a quello di girasole alto oleico. Proprio per quanto detto, anche i grassi di origine animale (il sego, il lardo e il burro chiarificato) pur avendo costi elevati hanno performance piuttosto interessanti.

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...in carrozza!

LE MOZZARELLE DI SPRINGFIELD

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“Provare è il primo passo verso il fallimento” Questa è una massima che Homer dice a Bart nel celebre film “I Simpson”, fatica cinematografica sull’iconica famiglia di Springfield che si inserisce in quasi 30 anni di serializzazione; periodo di tempo che ha reso Matt Groening il fumettista più famoso di sempre. Potranno piacere o meno, ma i Simpson sono sulle tv di mezzo mondo da una generazione a raccontare con ironia l’apatia e le contraddizioni del mondo moderno. Negli anni è successo di tutto a Homer e alla sua famiglia: ci hanno fatto ridere, piangere, riflettere, hanno pure predetto il futuro in molti casi. Personaggi famosi di ogni calibro si sono fatti in quattro per essere animati e per partecipare ai Simpson, e allo stesso modo i doppiatori nei vari paesi si sono contesi i ruoli chiave. Ricorderete ad esempio la puntata della diciassettesima stagione in cui Francesco Totti e Ilary Blasi doppiavano Buck Mitchell e Tabitha Vixx. I Simpson sono di fatto entranti nell’Olimpo del piccolo schermo, hanno fatto compagnia alle persone per tantissimo tempo e probabilmente - speriamo - la faranno ancora a lungo. Una delle caratteristiche più peculiari della serie è la caratterizzazione dei personaggi; tutti quelli che che interagiscono con la famiglia protagonista sono infatti delineati e disegnati con un’idea ben precisa. Tra i più iconici ricordiamo sicuramente Apu, immigrato indiano che gestisce un piccolo supermarket, oppure Willy il giardiniere con il suo accento sardo (scozzese, in lingua originale). Tra i personaggi più buffi è d’obbligo annoverare il commissario Clancy Winchester. Estremamente ignorante e pasticcione, anche se in diverse occasioni si è dimostrato coraggioso, Winchester ha rischiato più volte il licenziamento a causa della sua pigrizia e dei suoi insuccessi. Nonostante la totale mancanza di professionalità, tuttavia, odia che qualcuno – anche se è un superiore - gli metta i piedi in testa. Nella versione italiana il fantastico Angelo Maggi lo caratterizza con uno spiccato accento napoletano e con tutte le sfumature di questo dialetto. Con uno sforzo di fantasia sarebbe quindi possibile immaginare il commissario in panciolle sul golfo di Napoli mentre mangia delle ottime mozzarelle in carrozza, preparazione che abbiamo pensato di presentarvi in questo speciale fritti! Sarebbe proprio in linea col personaggio.

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Piatto tipico della tradizione culinaria partenopea, si pensa sia nato all’inizio dell’Ottocento come soluzione di recupero per non sprecare ingredienti non più freschi come il pane raffermo e le mozzarelle del giorno prima. Le origini del nome sono vaghe: l’ipotesi più accreditata vuole che derivi dalla particolare composizione del piatto. La mozzarella adagiata

su due fette di pane dorate ricorderebbe la forma di una carrozza, come a fare da cocchio al formaggio. Le altre ipotesi sull’origine del nome sono tutte molto simili e il concetto di carrozza e cocchio si ripropone frequentemente. Soprassedendo sull’origine poco chiara del nome una cosa è certa, è un piatto goloso e lussurioso. Per cui, come direbbe il commissario Winchester: “Uagliò appicciamm’ ‘stu fuoco!”

INGREDIENTI 6 persone

Pane bianco in cassetta (12 fette) 2 Mozzarelle di bufala campana DOP (preferibilmente preparate un paio di giorni prima, così da trovarle già “scariche” del siero in eccesso). 5 uova grandi 100 g di farina 00 300 g pangrattato Olio di semi di arachidi q.b. Sale q.b. Sal’s Seasoning - Mount Nimba Rub o in alternativa Sal’s Seasoning - Ancho Habanero Chili MEX


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PREPARAZIONE 1. Affettate la mozzarella in fette di circa mezzo centimetro. 2. Disponete su un tagliere la metà delle fette di pane e adagiate sopra le fettine di mozzarella. Cospargetele adesso con rub e sale e chiudete quindi il tutto con le fette di pane rimanenti. 3. Pressate delicatamente con le mani i bordi in modo da compattare il tutto.

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4. Rifilate adesso i bordi del pane in modo da eliminare la crosta in eccesso.

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5. Sbattete in un recipiente le uova e conditele con un po’ di sale e rub, preparate altri due recipienti,uno con la farina e uno con il pangrattato.

farina, poi nell’uovo e infine nel pangrattato. Terminata questa fase mettete il tutto in frigo per circa 30 minuti per rassodare 7. Trascorsi i 30 minuti panate nuovamente il tutto passandolo nuovamente in uovo e pangrattato. Riponete nuovamente il tutto in frigo per un’altra mezz’ora. 8. Nel frattempo mettete a scaldare l’olio per la frittura e portatelo a una temperatura compresa tra i 170°C e i 180°C. 9. Friggete quindi le mozzarelle per circa 1-2 minuti fino a quando non avranno raggiunto un bel grado di doratura. 10. Mettetele a scolare dall’olio in eccesso e servite.

6. Passate adesso i pezzi di pane farcito prima nella


IL SUPPLÌ ma che sorpresa se lo dividi a metà Supplì: già il nome induce una salivazione profonda, il ricordo scrocchiante della panatura sotto i denti, la polpetta che si sfalda in due parti ed il latticino filante a tenerla unita. Bollente, croccante, una pepita dorata e di inestimabile valore godereccio. Il supplì è una tradizionale preparazione rustica tipica della città di Roma, che prende il nome dal termine francese surprise: secondo la leggenda i soldati d’Oltralpe, durante l’occupazione napoleonica di fine ‘700, avrebbero chiamato in questo modo la polpetta deliziosa, lasciando intendere che una volta morsa all'interno si celasse proprio una bella sorpresa, cioè la mozzarella filante. Per questo motivo, il nome per esteso è anche “supplì al telefono”, grazie al filo (da mangiare…).

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Le prime tracce ufficiali di questa deliziosa polpetta risalgono al 1874, all’interno del menu della Trattoria della Lepre in via Condotti a Roma, locale peraltro frequentato dagli intellettuali e scrittori Nikolaj Gogol e Herman Melville. Il supplì fece il suo ufficiale “debutto in società” nel 1929, con l’apparizione sul libro della gastronoma e scrittrice Ada Boni “La cucina romana”. Originaria dell’alta borghesia della Capitale, Ada Boni non si sottrasse ad un lavoro certosino di trascrizione ed analisi delle ricette e della società di Roma. Un lavoro encomiabile, ad oggi ancora utilizzato. Quel boccone di riso, caldo, fritto e filante in origine nasceva come preparazione a buon mercato e quindi popolare, con tutta probabilità era anche un piatto di recupero. Com’era fatto il supplì prima di andare in Paradiso, tra interpretazioni e ri-edizioni? Tradizionalmente, il suo interno veniva inserito un sugo semplice realizzato con frattaglie di pollo e con funghi: materie prime povere e, al tempo, facilmente reperibili nei vari mercati. Al netto delle sopracitate interpretazioni storiche, ad oggi la versione del supplì classico comprende invece un ragù di carne di manzo ricco, elaborato, sostanzioso. Ciò che accomuna la versione classica con quella contemporanea è il cuore di mozzarella filante, che garantisce l’effetto sorpresa grazie al filo ottenuto “spaccando” la pepita in due. Questo fagottino va mangiato rigorosamente senza posate: non siate troppo schizzinosi, fa parte della goduria, del momento sacro dedicato al supplì. Non vi pentirete nemmeno per un secondo delle mani unte. Tenuto tra le mani, si addenta con un piccolo morso per svelare i piaceri interni: le cose belle e buone vanno morse ed assaporate con il dovuto rispetto. La mozzarella, inserita per tutta la lunghezza di questa piramide del piacere, farà il famoso “filo” nel momento in cui si andrà a staccare il morso, oppure dividendo in due il supplì per lasciar scappare via un po’ di vapori bollenti prima di addentarlo.

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SUPPLÌ VS ARANCINA: THE FINAL FIGHT (OPPURE NO?) In molti fanno l’errore di confondere questa deliziosa polpettina di riso con quella siciliana, l’arancina. In realtà le due preparazioni, pur essendo simili, presentano molte differenze: per esempio, il supplì è sempre formato da riso rosso ed è preparato con le uova, mentre l’arancina il più delle volte è preparata con l’aggiunta di zafferano, ha spesso un cuore di ragù e piselli ma esiste anche in versione “bianca”, con burro, formaggio e prosciutto. L’arancina manca di uova, quindi, ma anche della “sorpresa” della mozzarella che tanto caratterizza questo prodotto romano. Insomma: supplì ed arancina sono due cose molto differenti. Noi adoriamo entrambi: per non fare torto a nessuno dei due, avendo parlato dell’arancina qualche numero fa del Magazine, non possiamo esimerci dal fornirvi la ricetta del supplì. Ovviamente, una ricetta tutta nostra, che si poggia su basi classiche ma ha il carattere scientifico del Magazine Ci approcceremo alla preparazione utilizzando comunque le basi delle arancine scientifiche di Gianfranco Lo Cascio; useremo un riso cotto per assorbimento, un ragù scientifico , una panatura che preveda uno zabaione salato e un arricchimento di sapori dato dall’utilizzo dei Rub e degli Steak Booster. Procediamo. Attenzione a non salivare troppo.

INGREDIENTI circa 40 supplì

per il brodo vegetale 3 l di acqua 3 carote 2 coste di sedano 2 cipolle 2 foglie di alloro 2 bacche di ginepro 10 g di Sal’s Seasoning Montreal Steak Rub GLC Top Selection Grani di pepe nero a piacere per il riso 1 kg di Riso Roma 150 g di burro 2 l di brodo vegetale per il ragù scientifico (ma semplificato) 600 g di burger Blue Ox Usa Black Angus 1 l di brodo vegetale 300 g di salsa di pomodoro 370 g di triplo concentrato di pomodoro un bicchiere di vino rosso verdure del brodo vegetale (carota, sedano, cipolla) basilico q.b. olio extra vergine d’oliva q.b. sale e pepe nero q.b. Per lo zabaione salato 6 uova 100 g di Parmigiano Reggiano 150 g di pecorino romano Per il supplì il riso cotto 30 g di Rub Sal’s Seasoning Montreal Steak pan grattato q.b. olio di semi per friggere q,b 500 g di mozzarella a pasta compatta


PREPARAZIONE 1. Preparate il brodo lasciando sobbollire tutti gli ingredienti e inserendo il rub in un infusore per tisane. Salate alla fine e filtrate, tenendo da parte le verdure. 2. Rimandando all’articolo tecnico di Gianfranco Lo Cascio, sul BBQ4All Magazine di Ottobre 2020, ci soffermiamo solo sul procedimento per una corretta esecuzione. Utilizzate un rapporto 1:2 di riso sulla quantità di brodo. Portate a bollore il brodo, versate il riso, coprite con un coperchio e cuocete a fiamma bassa. 3. Quando il riso avrà assorbito tutto il liquido, toglietelo dalla fiamma e inglobate il burro, mantecando il tutto. 4. Abbattete il riso, per fermare la cottura, versandolo in una teglia precedentemente raffreddata in congelatore o nel frigorifero e rivestita di carta forno. Livellate e lasciate asciugare per bene i chicchi di riso. Trasferite in frigorifero, per 4 o più ore sino all’utilizzo (non superate le 12 ore). 5. Rispetto alla versione del ragù scientifico semplificato dedicato alle arancine, per il supplì avrete bisogno di un sugo più semplice. Tenendo comunque valide le basi scientifiche del ragù di

Lo Cascio, operate come segue: sgranate i burger in una teglia foderata di carta forno e lievemente unta. Impostate il forno sulla funzione grill a 230°C con teglia sul piano centrale e sportello leggermente aperto, per favorire la fuoriuscita dell’umidità. 6. Appena si formerà la reazione di Maillard, provvedete a girare e far rosolare l’altro lato della carne senza eccedere nell’essiccazione. 7. Mettete sul fuoco una pentola dal fondo spesso, sminuzzate le verdure precedentemente lessate nel brodo e fate rosolare con un filo d’olio a fiamma alta. Deglassate con il vino rosso e dealcolizzate sino ad evaporazione. 8. Unite il triplo concentrato, diluite con il brodo e inserite in ultimo la passata di pomodoro. Aggiungete i sapori, salate e pepate. Fate cuocere con coperchio a fiamma bassa, per circa 4 ore, controllando ogni tanto e spegnendo quando l’acqua sarà consumata. 9. A fine cottura, inserite la carne sgranata dei burger che avete prima cauterizzato in forno. 10. Nella ricetta tradizionale, l’utilizzo dell’uovo è inserito sia nell’amalgama del riso col sugo, sia

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in panatura. Quindi distaccandoci leggermente dal tradizionale, abbiamo pensato ad uno zabaione salato sia nel riso che nella panatura. Provvedete a creare uno zabaione salato, denaturando le proteine dell’uovo con una frusta. Create due zabaioni con porzioni diverse. Uno per il riso e uno per la panatura. Lo zabaione per il riso va così composto: 3 uova, 100 g di pecorino romano e 80 g di Parmigiano Reggiano. Con la frusta mescolate bene sino ad ottenere un composto omogeneo. Lo zabaione per la panatura, invece è fatto con: 3 uova, 50 g di pecorino romano e 20 g di Parmigiano, pangrattato quanto basta. 11. Assemblaggio del supplì: siamo giunti al dunque. Occupatevi fin da subito della mozzarella, che dovrà essere tagliata a tocchetti e fatta sgocciolare bene per essere il più asciutta possibile. Vi consigliamo una mozzarella a pasta compatta. Prendetene almeno 500 g del meglio che trovate. 12. Prendete il sugo, ormai raffreddato, e unitelo al riso, sino ad ottenere un composto cremoso, compatto, ma non liquido. Inserite la porzione dello zabaione salato preparato per il riso. Amalgamate il tutto per ottenere un composto malleabile e compatto. 13. Ora con l’aiuto di un cucchiaio prendete una porzione di riso, adagiatela sulle mani e allargandola, inserite al centro un pezzo di mozzarella. Chiudete e, arrotolando tra le mani, date una forma allungata e stondata agli estremi. Adagiate su una teglia rivestita di carta da forno e procedete alla formatura di tutti i supplì. 14. Lasciateli in frigo per mezz'ora, prima di procedere con la panatura, per dare nuova compattezza e ridurre la temperatura delle nostre polpettine che si sono riscaldate durante la manipolazione. 15. Prendete a questo punto due contenitori rettangolari e bassi. In uno versate lo zabaione salato e nell’altro il pangrattato. In quest’ultimo inserite il rub Sal’s Seasoning per aggiungere sapore alla panatura. 16. Tirate fuori dal frigo i supplì e passateli prima nello zabaione salato e successivamente nel pangrattato aromatizzato. Formate tutte le polpette e poi lasciatele raffreddare in frigo per qualche ora. 17. Scaldate l’olio sui 180°C e quando i supplì saranno ben freddi, immergeteli non più di un paio la volta per evitare sbalzi termici dell’olio che comprometterebbero la panatura e farebbero assorbire troppo olio alla nostra crocchetta di riso.

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18. Cuocete sino a doratura e scolate su carta assorbente.

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Un consiglio: essendo in numero così elevato, potete tenerli in frigo per tre giorni crudi (ma già impanati) o per due giorni da cotti. Altrimenti potete formarli e congelarli per averli pronti alla prima occasione. Per quanto riguarda la conservazione su lungo periodo, in congelatore durano fino a sei mesi.


CHE SPAGHETTO!

Con latte di aringa affumicata e peperoni cruschi.

Il peperone crusco è un derivato della coltivazione di un particolare frutto lucano, il peperone di Senise IGP, che è poi sottoposto a essiccazione. Il nome è dato dalla croccantezza inconfondibile che questi ortaggi assumono quando sono poi fritti dopo la fase di essiccatura. Come dicevamo, viene coltivato nell’area di Senise, un comune che si trova alle pendici del Parco Nazionale del Pollino in provincia di Potenza. E’un peperone piccolo e dalla forma allungata che potrebbe essere scambiato per un peperoncino piccante molto più grande, anche grazie al su colore rosso intenso. Ma non fatevi ingannare dal quel fuoco apparente, visto che in realtà questo frutto ha decisamente un sapore dolce. Dato che contiene poca acqua, è particolarmente adatto all’essiccazione. La semina del peperone di Senise comincia in primavera, mentre il raccolto avviene intorno al 10 agosto, per San Lorenzo. Dopo la raccolta i peperoni vengono conservati in reti o teli stoccati in luoghi bui e asciutti per garantire la corretta conservazione. Una volta trascorsi tre giorni si comincia con la produzione della serta, (la ‘nzerta) ovverosia una treccia treccia confezionata con ago e filo in cui i peperoni vengono insertati, poi cuciti con ago e spago, infine lasciati essiccare all' aria. Le trecce di solito vengono confezionate in formati da 250g/40cm e 500g/80cm. Esse sono poi appese per la fase di essiccazione che dura fino a quando la percentuale di acqua rimasta nel peperone di Senise arriva intorno al 10%. La lavorazione artigianale del peperone di Senise prevede che l’essiccazione venga fatta solo a opera di aria e sole, anche se il disciplinare dell’IGP permette un passaggio in forno durante la produzione. I peperoni cruschi sono conservati in barattoli di vetro o sacchetti di carta. Tradizionalmente, sono anche appesi in cucina. Una volta che vi siete aggiudicati la vostra scorta, o ve la siete fatta portare dal vostro amico che va in vacanza ogni anno in Basilicata, è il momento di aggiungere i peperoni cruschi nelle vostre ricette. La prima cosa da tenere a mente quando parliamo di peperone crusco è che non deve mai essere lavato. Per pulirlo basta un panno asciutto. Una volta che il delizioso frutto essiccato crusco sarà pronto, dovrà essere fritto nell’olio bollente, che lo farà gonfiare e che gli permetterà di mantenere tutta la sua croccantezza.

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Il peperone crusco fritto poi dovrà essere scolato su carta assorbente dall’eccesso di olio e poi spezzato a metà per sentire il suo suono inconfondibile. Ottimo da sbriciolare nelle farciture, è perfetto anche nel condimento per la pasta, per esempio in un buon piatto di orecchiette. Noi lo abbiamo utilizzato per questi deliziosi spaghettoni con latte di aringa: un risultato spettacolare che vi invitiamo a provare prima di subito, se riuscite a reperire o a rubare a qualche amico il peperone crusco, cosa non proprio facile in questo periodo.

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PREPARAZIONE 1. Per prima cosa preparate il latte di aringa affumicata. 12 ore prima di utilizzarla, deliscate l’aringa e mettetela a bagno nel latte per dissalarla. In una pentola capiente rosolate la cipolla tagliata à la julienne fino a che non avrà preso un bel colore ramato. Aggiungete la lisca tagliata in pezzi. I filetti andranno inseriti nella fase di mantecatura. 2. Coprite il tutto con il latte, aggiungete l’alloro e il ginepro e fate sobbollire fino alla riduzione di 3/4. Da un litro di latte iniziale si dovrà arrivare a circa 250 g di riduzione finita.

INGREDIENTI 4 persone

400 g spaghettoni di Gragnano un’aringa affumicata 1 litro di latte intero 4 bacche di ginepro una foglia di alloro 1/2 cipolla dorata un bergamotto succo di limone q.b. 20g burro 4 peperoni cruschi olio extravergine di oliva q.b. sale q.b. pepe nero q.b.

3. Pulite con un panno asciutto i peperoni cruschi da eventuali residui di polvere e terra accumulati durante l’asciugatura, privateli dei semi e friggerli in abbondante olio extravergine d’oliva per due tre secondi al massimo. Aiutatevi con una schiumarola. Dovranno prendere un colore lucido e vivo. Scolateli e teneteli da parte fino al momento del servizio. All’inizio sembreranno poco croccanti, col tempo e col raffreddamento lo saranno sempre di più. 4. Una volta pronta la riduzione, filtratela con un colino a maglie sottilissime in un saltapasta sufficientemente grande. 5. Cuocete la pasta in acqua poco salata, unitela gli ultimi due minuti di cottura alla riduzione in maniera tale da legare bene il sugo e farla insaporire. A fuoco spento, mantecate con burro, qualche goccia di limone, la scorza del bergamotto e i filetti di aringa tagliati in piccoli cubetti.

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6. Su ogni piatto sbriciolare un peperone crusco e servite subito gli spaghettoni.

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Toglietemi tutto, ma non le mie

POLPETTE FRITTE

Probabilmente nei prossimi mesi dedicheremo un intero numero a queste pepite di ciccia (e non solo) che possono essere cucinate in mille più uno modi diversi, ma in uno speciale tutto fritto, certo non potevano mancare. Sto parlando delle polpette… fritte of course, patrimonio dell’umanità.

Come sostiene il buon Artusi, nel suo ormai stracitato anche su queste pagine “La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene”, fare le polpette è una cosa talmente facile “... che tutti lo sanno fare cominciando dal ciuco”. Aggiunge Artusi che la polpetta, definita da Vincenzo Tanara, storico e appassionato di cucina, “la regina delle vivande” non è un’invenzione moderna. Il nome, dal latino pulpa, si rifà proprio alla polpa di ciccia di cui è composta. Ma c’è chi sostiene invece che la radice latina riconduca al verbo palpare: ovvero proprio il gesto che si fa quando si massaggia la carne, prima tritata e poi condita, per formare le pepite gustose; attenzione, non dovrebbero essere perfettamente sferiche, sostiene Pellegrino, ma leggermente schiacciate ai poli.

LE POLPETTE DI RENZO Nel settimo capitolo del romanzo I Promessi Sposi (prima edizione, 1827) Manzoni fa entrare Renzo in una taverna, con due amici, e gli fa chiedere un piatto di polpette. L'oste gli dice “E ora vi porterò un piatto di polpette, che le simili non le avete mai mangiate”, così buone “che farebbero resuscitare un morto”. La cosa, come molte volte accade nel mondo della

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Ma di fatto quando sarebbe nata la polpetta? La risposta è la stessa di tante altre volte: non lo sappiamo con certezza. Ne parla Apicio (I secolo d.C.) nel suo De re coquinaria, dove la nostra beneamata viene chiamata isicia. Nel 1400 Martino da Como nel suo De Arte Coquinaria spiega come crearla da un taglio di carne magra. Cristoforo di Messisbugo (1549) le propone, tra le altre versioni, fritte. Bartolomeo Scappi (1570), cuoco di Papa Pio VI, dedica un intero libro alla nostra pallina, Per far polpette e polpettoni alla carne, che finalmente

sposta questa preparazione da piatto prettamente popolare a ricetta più raffinata.

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letteratura, ha portato gli studiosi a interrogarsi su quale fosse la reale ricetta preparata dall’oste. Secondo La grande enciclopedia illustrata della gastronomia (2000) la polpetta è di uso antichissimo in Italia, ed è divisa in due tipi: quella preparata con ingredienti crudi e quella con gli ingredienti cotti. Il secondo tipo veniva detto "dei poveri" perché realizzato con gli avanzi. La tipica ricetta toscana delle polpette, ad esempio, raccomanda carne cotta e pane raffermo. Tuttavia, e qui torniamo alla questione del piatto consumato da Renzo, contrariamente al resto d'Italia nell'800 a Milano per polpette non si intendevano palline fatte con carne o verdura tritate, ma degli involtini. Di conseguenza, la domanda è lecita: cosa ha preparato l’oste? Delle vere polpette o degli involtini? Tutto farebbe pensare alla prima ipotesi, anche considerando quanto Manzoni andasse pazzo per le polpette milanesi, che venivano indentificate col nome di Mondeghili, fatte con carne cotta e l’aggiunta di mortadella e di salame. Pare che la madre Giulia Beccaria gli abbia domandato come mai avesse scelto quel piatto per il suo romanzo e che Alessandro abbia risposto: “me le avete fatte mangiate così spesso che ho pensato di farle assaggiare anche ai personaggi del mio romanzo”. D’altronde nel 1939 Giovanni Riaberti in L’arte di convitare afferma senza indugio: “Le polpette sono una vivanda affatto (del tutto n.d.r.) italiana, anzi direi esclusivamente lombarda. La vera metropoli delle polpette è Milano”

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PATRIMONIO NAZIONALE Piatto lombardo, dunque? Direi che ormai potremmo ritenerla ormai una preparazione rappresentativa della nostra intera ed amata Nazione, come sostengono Daniela Brancati e Daniela Carlà in Polpettology Storia, filosofia e ricette della polpetta. Teoria e pratica del cibo più amato al mondo (2018): “La polpetta è apparentemente disordinata, caotica, anarchica come noi italiani. È lasciata all’intuizione dell’ultimo momento, non chiede procedure, protocolli e pesate di precisione. Ma è anche cura del dettaglio, amore per l’estetica e manualità”. Certamente le pepite gustose si possono cucinare in molti modi, ma sempre secondo La grande enciclopedia illustrata della gastronomia noi italiani le preferiamo fritte. Ed infatti noi le abbiamo preparate proprio così, scegliendo come carne trita i nostri hamburger. Per il resto, la procedura è molto classica e il risultato è spettacolare. Proviamo subito a replicarle. Anche in questo caso è giusto avvisarvi: non fatene poche, perché appena portate in tavola spariranno in un batter d’occhio e voi potreste rimanere senza.

INGREDIENTI 4 persone

500 g di Burger Blue Ox USA Black Angus 2 uova 80 g di Grana Padano DOP da grattugiare prezzemolo q.b. uno spicchio d’aglio sale e pepe q.b. 150 g di mortadella 100 g di salsiccia noce moscata q.b. farina q.b. pangrattato q.b. olio di semi di arachide q.b.

PREPARAZIONE 1. In una ciotola capiente lavorate bene gli hamburger insieme al prezzemolo e allo spicchio d’aglio tritati finemente, la salsiccia, la mortadella anch’essa ben tritata, la noce moscata, meta del Grana Padano grattugiato, un uovo, il sale e il pepe. 2. Mescolate il composto amalgamando bene tutti gli ingredienti, poi formate delle palline non troppo grandi. 3. Una volta realizzate tutte le polpette, sbattete un uovo con un pizzico di sale, mescolate il pangrattato al rimanente Grana Padano, poi passate le palline prima nella farina, successivamente nell’uovo e infine nel pangrattato. 4. Mettete le polpette così preparate a riposare nel frigo per un’oretta, poi scaldate abbondante olio a una temperatura compresa tra i 165°C e i 185°C e friggete le polpette per qualche minuto finché non saranno ben dorate. 5. Scolatele bene su in foglio di carta assorbente e servitele subito, caldissime e croccanti, accompagnandole con una o più salse in cui pucciarle.


CORN DOG

a spasso con il cane...di mais! RIABILITIAMO I WÜRSTEL!

Bistrattato, maltrattato e insultato. Cosa mai vi avrà fatto il würstel per essere associato al male assoluto? Dopotutto si tratta pur sempre di ciccia: e, se fatto bene, vi regalerà godimento di certo livello. Lasciamo da parte le battute volgari e concentriamoci su ciò che è il nostro sporco e godurioso lavoro: solitamente si tende a riconoscere in questo prodotto un surrogato di carne, realizzato con rimanenze di tagli, all’interno del quale si vanno ad aggiungere le cose peggiori. Colpa dei prodotti industriali, della massificazione e di un certo tipo di GDO che ha contribuito ad immettere sul mercato prodotti di scarsa qualità, ottenuti da carni separate meccanicamente (quindi, non primi tagli ma spesso residui attaccati alle carcasse). In realtà in passato non era così. Questo prodotto veniva realizzato già nel lontano ‘400, solo con carni pure di elevata qualità. Le sue radici sono da ricercare in alcuni Stati della Germania, dove ad oggi vi è ancora un culto di questo salsicciotto, soprattutto in Baviera e a Monaco; più in generale, l’abitudine di conservare così alcune carni era molto diffusa non solo nel Sud della Germania ma anche in Austria e fino all’Italia del Tirolo. Perché nacque il würstel? Veniva creato per non sprecare niente del maiale e per affrontare i duri inverni bavaresi con qualcosa di altamente proteico e semplice da conservare. Guai a chi provasse a sbagliare l’esecuzione del würstel: infatti, l’ammenda per l’incauto lavoratore poteva essere un intero giorno di salario. Nel tempo questo salsicciotto prese diversi nomi a seconda del luogo di provenienza. Il suo nome originale però è Frankwürst, che deriva da würst (salsiccia, insaccato) e Frank come abbreviazione di Francoforte. Da qui, e poi nata un’infinità di tipologie, sino ai giorni nostri e ai prodotti commerciali che tutti noi conosciamo.

4 corn dog

100 g di farina 00 125 g di farina di mais 5 g di lievito istantaneo per salati 10 g Sal’s Seasoning Smoky Chipotle Chili 10 g Sal’s Seasoning Ancho Habanero Chili Mex 10 g Sal’s Seasoning Dallas Mild Rub 10 g Sal’s Seasoning Tennessee Mild Dry Rub 2 uova un tuorlo 200 ml latte 5 g sale 1 l olio di semi di arachide

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In passato, sul vecchio BBQ4All Magazine, abbiamo già parlato di questo prodotto e di come la lavorazione industriale lo abbia reso così malvisto dai consumatori (che hanno ragione, in effetti). Oggi invece vogliamo parlarvi dei nostri würstel, quelli che potete trovare sul Megastore: i Franks Würst Blue. Si tratta di prodotti manzosi (se ci è permesso creare un neologismo, questo è bellissimo!) e fatti con criterio, che sanno di carne vera e fanno venire voglia di far festa ad ogni occasione. Quelli che con sicurezza potete dare ai vostri figli. Sono realizzati all beef, con sola carne di manzo di Black Angus, a differenza dei classici Frankwürst formati invece da un misto di manzo e maiale. i Franks Blue Ox della linea GLC Top Selection vengono prodotti con una tecnica artigianale e riprendono il gusto tipico che tanto piace agli americani. Altra particolarità di questo prodotto è l’affumicatura ottenuta senza alcun ingrediente aggiunto e con un sistema tradizionale in forno affumicatore. Il tutto è racchiuso in un

INGREDIENTI

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budello naturale. Vi parliamo di questi salsicciotti eccezionali perché sono in assoluto i migliori che possiate trovare sul mercato e perché, avendoli provati per fare i corn dog (lett. cane di mais) volevamo condividere con voi il fantastico risultato. E poi sì, anche per farci pubblicità: ma non ci accuserete, perché sono F-A-N-T-A-S-T-I-C-I. E lo capirete da soli. I corn dog sono deliziosi wurstel da passeggio infilzati su uno stecchino di legno, avvolti da una croccante pastella e conditi con tutti i gusti di salse più uno! Furono gli emigrati tedeschi con base in Texas a ideare il concetto di corn dog, creando una versione del salsicciotto pastellato e fritto, più o meno negli anni ‘20 del Novecento. Stiamo dunque parlando di un classico esempio di street food, uno dei più famosi. Laido e corrotto quanto basta, è già supergoloso se si utilizza un würstel di scarsa qualità, visto che siamo discepoli del famoso famoso detto basta sia fritto, poi è tutto buono. Immaginate dunque cosa potrà succedere usando un prodotto di alta gamma.

Vediamo come procedere.

1. Realizzate la pastella base: mescolate la farina 00 e la farina di mais in un recipiente e unite le restanti polveri (sale, lievito), esclusi i rub che utilizzerete in seguito. Miscelate per bene. 2. Aggiungete l’uovo e il latte, e iniziate ad amalgamare il composto con una frusta sino ad ottenere una pastella non troppo densa e omogenea. Dividete e versate in 4 parti, la vostra pastella in contenitori cilindrici stretti e alti. 3. In ognuna di esse, aggiungete un rub per ottenere 4 pastelle di sapori differenti. 4. Scaldate l’olio ad una temperatura di 180° C, in una pentola dai bordi alti che contenga gli spiedi. L’ideale sarebbe l’asparagiera per la cottura degli asparagi al vapore. 5. Immergete gli spiedi nella pastella e tirate su velocemente, capovolgendoli. Una volta ricoperti i Franks con la pastella, friggete in abbondante olio. 6. Cuocete sino a doratura e tirate fuori quando saliranno a galla. 7. Lasciate asciugare qualche secondo su un foglio di carta assorbente e servite. I vostri bambini li ameranno. Per loro potete realizzare la versione con i rub classici, per voi che reggete meglio il piccante e i sapori più decisi, potete fare quelli con rub più hot. Sarà fantastico abbinare ad ogni tipologia di rub una salsa giusta. Noi vi consigliamo i seguenti abbinamenti: Sal’s Seasoning Tennessee Mild Dry Rub con la salsa Barbecue, Sal’s Seasoning Dallas Mild Rub con la Honey Ginger Mustard, Sal’s Seasoning Smoky Chipotle Chili con la Big Bob Gibson’s Sauce e Sal’s Seasoning Ancho Habanero Chili Mex con il Ketchup della ricetta scientifica di Gianfranco Lo Cascio. Ovviamente potete fare tutti gli abbinamenti che desiderate, oltre a queste. Alla fine quello che più vi rimarrà sarà il sapore manzoso e godurioso di un corn dog veramente buono!

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Vi occorrono dunque degli stecchini di legno lunghi, una consistente pastella fatta di farina di mais e qualche salsa di accompagnamento. Rispetto alla versione classica, arricchiremo la panatura con i fantastici Rub della linea Sal’s Seasoning GLC Top Selection, in versione classica e in versione Hot.

PREPARAZIONE

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L'isdeiola

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carciofi

er parlare del carciofo, benedettissimo fiore ancora in tubero, inizio da un racconto di storia recente in cui sicuramente vi ritroverete. Parliamo di streaming: benedetto sia lo streaming, ché ha sì seppellito Blockbuster, ma ci ha evitato fatiche inenarrabili come a) toglierci le ciabatte per andare al videonoleggio più vicino b) ci ha permesso di poter scegliere liberamente senza doverci accontentare degli obblighi imposti dal palinsesto tv, sempre più scarno, ripetitivo e di bassa qualità. Tra queste piattaforme di streaming, primeggia di sicuro Netflix: grazie al suo parco video, abbiamo praticamente sempre a disposizione serie tv e film per ogni genere e gusto.

sorta di discoteca in mezzo al mare. Le cose però non soddisfano il giovane ingegnere che vede la sua creazione trasformata in una semplice discoteca della riviera. Decide quindi di portare il suo caso di fronte la Nazioni Unite e farsi riconoscere ufficialmente come stato indipendente. Il resto della storia a questo punto preferiamo non raccontarvela qualora non aveste ancora visto il film. L’isola della Rose rappresenta un caso unico nel suo genere: aveva tutto, una sua lingua (l’esperanto, lingua nata per essere “universale” sul finire dell’Ottocento ma scarsamente adottata in seguito), una sua moneta, un governo e perfino un servizio postale! Arrivati qui, direte voi: e il carciofo? Lo ritroviamo sotto le spoglie del Cynar, l’unico alcolico ammesso sull’isola. Immaginate: se volete sbronzarvi, l’unica possibilità è data da un liquore al carciofo! L’amaro al carciofo celebre per la sua versatilità e il suo gusto! Ormai è difficile trovare il Cynar nei locali più trendy, ma magari se cercate bene nella cantinetta dei nonni forse c’è ancora una bottiglia a impolverarsi da qualche decennio. Ci sono anche quelli “paralleli” venduti al discount dall’altisonante nome di… Carciofo. Questo amaro spopolò nel dopoguerra, e fece la fortuna del suo creatore, Angelo Dalle Molle. Il successo, oltre che per il gusto, è sicuramente da attribuire alla scelta del principale ingrediente, il carciofo. Veniamo ora al dunque: cos’è veramente il carciofo? Si tratta di una pianta erbacea perenne alta fino a 1,5 metri, le cui foglie presentano uno spiccato polimorfismo, originaria del bacino del Mediterraneo; l’Italia ne è ancora oggi tra i più grandi produttori a livello mondiale.

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E ora arriviamo finalmente al carciofo, grazie ad un bel titolo presente proprio su Netflix che ce lo pone come co-protagonista: sto parlando del film L’isola delle rose. Diretto da Sydney Sibilia, traspone in versione cinematografica la vera storia della nascita di una micronazione al largo delle coste romagnole. Vi raccontiamo in breve la trama: sul finire degli anni ’60 il neo ingegnere Giorgio Rosa deve decidere cosa fare della sua vita e del suo futuro, ma si sente insoddisfatto per come la vita gli si sta delineando davanti. Il rifiuto della donna amata è l’incipit per rivoluzionare la sua esistenza: decide così insieme a un amico di creare uno Stato tutto suo dove potersi esprimere in libertà. Dotato di determinazione e forza d’animo e con il valido aiuto del suo amico, egli realizza una piattaforma al largo delle coste romagnole, in acque internazionali. Dopo avere accolto un naufrago, un apolide e una ragazza cacciata da casa, i protagonisti trasformano la piattaforma in uno spazio in cui vengono organizzati eventi e la rendono una

carciofi fritti in quattro modi

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La coltivazione del carciofo è largamente diffusa in Sicilia, in Sardegna, in Puglia, in Campania, in Lazio e in Toscana ed esistono decine di varietà che si differiscono per diversi aspetti. Possiamo infatti avere carciofi con spine o senza, viola o verdi, autunnali o primaverili. Districarsi tra tutte queste opzioni non è cosa semplice e fare un elenco sarebbe onestamente noioso, per cui ci limitiamo a ricordare quattro varietà, una DOP e tre IGP, molto importanti nell’economia del nostro Paese: 1. Carciofo spinoso di Sardegna (DOP): cima violetta, foglie carnose, consistenza croccante, cuore tenero, sapore lievemente amaro. 2. Carciofo romanesco del Lazio (IGP): chiamato anche cimarolo o mammola, senza spine, abbastanza grosso, compatto, tenero e versatile. 3. Carciofo tondo di Paestum (IGP): compatto, tondeggiante, senza spine e dal sapore delicato. 4. Carciofo brindisino (IGP): tenero, dolce, saporito e carnoso, dalle foglie verdi con sfumature violette. Oltre a queste, è bene menzionare anche il Carciofo spinoso di Menfi, siciliano, croccante e dal gusto delicato (anche se un po’ difficoltoso da pulire per via delle spine), il Carciofo di Montelupone, che invece non ha spine e non ha peli, ed è molto saporito, il veneziano Carciofo di Sant’Erasmo e lo Spinoso di Albenga entrambi particolarmente adatti ai fritti.

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Molto amati anche dalle popolazioni elleniche e anche nell’antica Roma, i carciofi si prestano a tante preparazioni: bolliti o al vapore, in umido, in padella, al forno e, soprattutto, fritti. Dato che questo numero è proprio dedicato alle fritture, vi vogliamo presentare tre ricette tradizionali in cui questo versatile ortaggio viene preparato esattamente così. Anche noi fondiamo la nostra Isola e, al posto del Cynar, serviamo solo carciofi fritti!


CARCIOFO ALLA GIUDIA Ingredienti per 4 persone: 4 carciofi romaneschi (mammola o cimarolo)/ un limone/ sale q.b/ pepe q.b/ olio extravergine di oliva q.b. Preparazione:

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1. In un’ampia ciotola mettete acqua a temperatura ambiente, il succo di limone e quel che resta dell’agrume una volta spremuto. 2. Con un coltellino pulite i carciofi. Eliminate le foglie esterne, successivamente rimuovete le cime eliminando la parte della punta. 3. Procedete poi pulendo il gambo e tagliatene la parte più dura in eccesso. Conservate almeno 5 cm di gambo. 4. Terminata la pulizia immergete i carciofi nella ciotola con acqua e limone per evitare che si ossidino. Lasciateli in acqua per circa 30 minuti. 5. Togliete i carciofi dall’acqua e asciugateli. Aiutandovi con un tagliere battete i carciofi su di esso in modo da aprire al meglio il fiore. 6. Scaldate nel frattempo l’olio in un capiente tegame, se usate un olio d’oliva la temperatura non deve superare i 150°C. Se invece avete optato per un altro tipo di olio potete salire un po’ di più (tra i 160°C e i 180°C), cercate però di non raggiungere temperature troppo alte. 7. Immergete quindi i carciofi (gambo compreso) nell’olio per circa 10-15 minuti. 8. Metteteli poi a scolare su un foglio di carta assorbente e lasciate che si raffreddino. 9. Una volta raffreddati, aiutandovi con una forchetta, aprite delicatamente i carciofi (come un fiore che sboccia). Salate e pepate. 10. Friggete nuovamente i carciofi, questa volta a una temperatura di circa 180°C. Ponete particolare attenzione perché in questa fase è più facile che si brucino. 11. Una volta cotti fate scolare l’olio in eccesso su carta assorbente. 12. Prima di servire conditeli nuovamente con sale e pepe a piacimento.

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CARCIOFO DI SANT'ERASMO FRITTO

Ingredienti per 4 persone: 12 carciofi di Sant’Erasmo/ 2 uova/ un limone/ farina q.b./ sale q.b./ pepe q.b./ olio di semi di arachide q.b. Preparazione:

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1. Anche in questo caso preparate un’ampia ciotola con acqua acidulata. 2. Pulite i carciofi dalle foglie esterne ed eliminate quasi completamente il gambo. Poi dividete i carciofi in 4 spicchi. 3. Infarinate ora i carciofi prestando attenzione a coprirli per bene. 4. Sbattete le uova con abbondante sale, e immergetevi gli spicchi di carciofo infarinati. 5. In una casseruola portate l’olio a una temperatura di circa 180°C. 6. Friggete i carciofi fino a una perfetta doratura. 7. Scolate l’olio in eccesso utilizzando un foglio carta assorbente e quindi condite con il sale e un po’ di pepe se lo gradite.

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IL CARCIOFO SPINOSO DI ALBENGA IMPANATO Ingredienti per 4 persone: 6 carciofi spinosi di Albenga/ 2 uova/ pangrattato q.b./ farina q.b./ un limone/ sale q.b./ pepe q.b./ olio di semi di arachide q.b. Preparazione:

1. Pulite i carciofi, assottigliando il gambo e togliendo le foglie esterne più dure. Tagliare la parte sommitale, dividete in due e con uno scavino pulire il cuore dalla peluria (barba). Infine tagliateli a fette di circa mezzo cm, lavateli e mettete in acqua acidulata per mezz’ora circa. 2. Trascorso questo tempo scolarli e asciugarli bene. 3. Sbattete le uova con un po’ di sale immergete quindi i carciofi nell’uovo dopo averli passati nella farina, e infine impanateli nel pangrattato. 4. Scaldare l’olio a circa 180°C/190°C e una volta raggiunta la temperatura immergete i carciofi poco alla volta per non fare raffreddare l’olio. 5. Una volta dorati scolateli dall’olio in eccesso utilizzando un foglio di carta assorbente. 6. Aggiustate di sale e pepe e servite.

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IL CARCIOFO SPINOSO DI MENFI IN PASTELLA Ingredienti per 4 persone: 6 carciofi spinosi di Menfi/ 2 uova/ 50 g di Parmigiano Reggiano grattugiato/ 40 g di farina/ un limone/ sale q.b./ pepe q.b./ olio extravergine di oliva q.b. Preparazione:

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1. In una ciotola unite le uova, il formaggio e la farina. Sbattete tutto insieme e aggiungete un pizzico di sale e di pepe. 2. Nel frattempo, pulite i carciofi eliminando la parte esterna e le punte spinose. Rimuovete i gambi e pelateli. Dividete quindi in 4 spicchi il carciofo e in 2 i gambi. 3. Immergete quindi il tutto in acqua acidulata per circa mezz’ora. 4. Sgocciolate quindi i carciofi e lessateli in acqua salata per 5 minuti. 5. Nel frattempo scaldate l’olio a una temperatura di circa 160°C/170°C. 6. Scolate i carciofi dopo averli lessati e asciugateli con cura. Passateli quindi nella pastella e infine friggeteli fino a perfetta doratura. 7. Una volta dorati scolateli dall’olio in eccesso utilizzando un foglio di carta assorbente. 8. Aggiustate di sale e pepe e servite.

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CORDON BLEU

Una preparazione leggendaria. Se negli anni ruggenti dei cibi prefritti e preconfezionati la sua fama era legata per di più all’alta presenza di sale, conservanti, di carni separate meccanicamente (cioè separate grazie all’ausilio di speciali macchinari direttamente dalle carcasse), il cordon bleu vanta una storia ben più lunga e gloriosa. Alzi la mano colui o colei che resiste nella salivazione impetuosa, pensando ad una succulenta cotoletta di carne impanata e ripiena di formaggio fuso e prosciutto cotto, sua composizione originale. Negli anni, poi, la ricetta si è trasformata fino a includere versioni dai ripieni più disparati. Ma da dove deriva l’idea di racchiudere uno scrigno cremoso in due fette di carne per poi panarle e friggerle?

Secondo un’altra ipotesi, invece, il piatto sarebbe stato creato nei primi decenni del Novecento, per celebrare il conferimento del Nastro Azzurro (cioè un riconoscimento non ufficiale che veniva assegnato alla nave passeggeri con velocità media di percorrenza dell’Oceano Atlantico) al transatlantico tedesco Bremen, e quindi avrebbe preso il nome dall’evento. Secondo questa versione,

Qualunque sia la vera origine del piatto, il cordon bleu rimane uno dei piatti più prelibati e gustosi della cucina internazionale. In questa versione abbiamo utlizzato delle fettine di eye round del nostro Megastore e un goloso ripieno di cipolle caramellate, nduja, cime di rapa saltate e salsa barbecue, oltre a una lacrima di formaggio Emmenthal. Per realizzare questa appetitosa e gustosa pietanza si può utilizzare anche carne di maiale, pollo o tacchino. La scelta dei formaggi ricade inevitabilmente tra quelli morbidi e filanti, in modo che poi fondano in maniera semplice, come scamorza, provola silana, Emmenthal o simili. Per rendere il piatto ancora più saporito vi consigliamo di aggiungere al ripieno delle verdure che daranno consistenza e sapore in più alle vostre creazioni. La cottura più soddisfacente è sicuramente la frittura che dona al piatto una sfiziosità unica, ma per ridurre le calorie e rendere la

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Come anticipato sopra, il cordon bleu vanta una storia gloriosa e ricca di misteri e leggende: come ogni cibo che ha attraversato i secoli fino a noi, insomma. Scopriamo insieme per quale motivo si chiama così e qual è la storia - vera o presunta - di questo piatto libidinoso. Il nome cordon bleu in francese significa letteralmente cordone azzurro. Strano per un alimento che di azzurro ha ben poco; le ipotesi etimologiche sono molte, così come i racconti popolari che riguardano questo piatto. Ci limiteremo a citare le due ipotesi più probabili. Secondo la storia della cucina

francese, l’ideatore del cordon bleu apparteneva all’Ordine dello Spirito Santo istituito dal Re Enrico III nel 1578, che come insegna ufficiale aveva proprio un nastro azzurro. La preparazione avrebbe quindi acquisito per associazione il nome della caratteristica che distingueva l’Ordine a cui apparteneva il suo inventore, il Duca Gonzaga di Nevers che, come sovrintendente delle cucine di corte, frequentava spesso il mercato per scegliere gli ingredienti migliori indossando l’insegna con il cordone azzurro, e che quindi si sarebbe guadagnato l’appellativo di Monsieur Cordon Bleu. La cotoletta ripiena da lui creata divenne tanto celebre da diventare un titolo ufficiale (chissà se un giorno tornerà a noi il titolo di Gran Maestro della Griglia!). Il Re Sole, infatti, istituì ufficialmente l’Ordine del Cordon Bleu per i sovrintendenti alle tavole reali alla morte del Duca.

che attribuisce al cordon bleu un’origine marinaresca, il suo nome sarebbe legato in particolare al record per la velocità di navigazione raggiunto dal Bremen nella tratta fra America ed Europa fra 1929 e 1933. Ricevuto il Nastro Azzurro, il capitano indisse una festa incaricando lo chef di bordo di creare un piatto originale per l’occasione. Vide così la luce una cotoletta di maiale ripiena di formaggio, dal nome di Bremen Cordon Bleu, che sarebbe poi stata declinata nel tempo nelle sue molte varianti.

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preparazione più digeribile, si può scegliere la cottura al forno disponendo i cordon bleu sopra una placca foderata con carta oleata e lasciando cuocere a 180°C per una ventina di minuti, girandoli a metà cottura. E per gli irriducibili del bbq: sappiate che si può fare la stessa cosa con un dispositivo.

INGREDIENTI 6 persone

12 fettine di eye round 150 g di nduja 150 g di Emmenthal 120 g di salsa barbecue 3 uova Farina 00 Pangrattato q.b. Sale q.b. Olio di semi di arachide q.b. Per le cipolle caramellate: 500 g di cipolle rosse 130 ml aceto di vino bianco 30 ml vino bianco 150 g zucchero semolato Sale q.b. Olio extravergine di oliva q.b. Per le cime di rapa: 200 g cime di rapa già pulite 1 peperoncino 1 spicchio d’aglio 1 acciuga sott’olio Olio extravergine di oliva q.b. Sale q.b.

PREPARAZIONE 1. Iniziate a caramellare le cipolle: in una padella ben calda rosolate le cipolle con un filo d’olio a fiamma alta. Aggiungete il vino, lo zucchero e un pizzico di sale. Quando il vino sarà ridotto di metà aggiungete anche l’aceto e dealcolizzate molto bene. Cuocete fino ad ottenere una consistenza sciropposa. Le cipolle dovranno risultare ancora leggermente croccanti. 2. Saltate le cime di rapa con l’olio, l’aglio in camicia, l’acciuga sminuzzata e il peperoncino tritato e aggiustatele di sale e di pepe. 3. Confezionate i cordon blue stendendo su ogni fettina di carne un cucchiaino di cipolle caramellate, la nduja a piacere a seconda della piccantezza desiderata, dei ciuffetti di cime di rapa e un goccio di salsa barbecue. Spezzettate l’emmental tagliato in fettine sottili e chiudere con l’altra fettina di eye round. 4. Infarinate con cura i cordon blue, passateli poi nell’uovo sbattuto e leggermente salato e infine nel pangrattato; fate una seconda panatura ripetendo questi ultimi due passaggi. 5. Friggete in olio di semi di arachide ad una temperatura compresa fra 180°C e i 190°C per pochi minuti, giusto il tempo di farli diventare dorati e croccanti.

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6. Serviteli caldissimi e ancora filanti.

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frico!

Non è fritto...

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a Carnia – zona d’Italia ove appartiene gran parte delle Alpi Carniche, in Friuli - si può definire la patria della polenta e frico; se mai dovesse capitarvi di passare qualche giorno che d’estate in uno dei paesini della provincia di Udine, vedreste, soprattutto dopo un temporale, il fumo generato dall’accensione degli spolèrt (cucine a legna) uscire dai camini e danzare tutt’uno con le nubi basse, e sentireste un persistente profumo di polenta invadere le viuzze del borghi. A quel punto potreste scommettere quel che volete che l’accompagnamento ideale sarebbe una bella porzione di frico. In molti non sanno cosa sia ed erroneamente pensano, vedendolo, che sia fritto. Definirlo non è semplice: è una specie di tortino di formaggio a cui vengono aggiunte spesso patate, cipolla, speck. Sempre morbido, caldo e filante all’interno, talvolta può presentare una crosta croccante, ed è qui che nasce l’erronea credenza che sia in qualche modo un cibo fritto. Le origini del frico risalgono verso la metà del Quattrocento, si dice ad opera del Maestro Martino, il cuoco del Patriarca di Aquileia Ludovico Trevisan. Questi ne ideò una versione molto speziata chiamandola caso in patellecte. Gli ingredienti erano semplici: formaggio grasso, né troppo vecchio né troppo salato, strutto per non farlo attaccare sulla padella, erbe e spezie a condire e poi subito

nel piatto, perché si vol magnare caldo caldo. Di fatto, parliamo di una ricetta povera della Carnia ed in generale dell’intera regione del Friuli, nata inizialmente per non sprecare i ritagli del formaggio (detti strisulis) che avanzavano durante il processo di realizzazione delle forme. La versione più croccante veniva spesso portata come delizioso spuntino quando si andava in malga (cioè, in quell’area adibita al pascolo estivo in montagna) a badare al bestiame, a far fieno in alti covoni o a far legna nei boschi; a mezzogiorno, tutti si sedevano all’ombra di un bell’albero per rifocillarsi con la cjacule (il rustico pranzo al sacco, racchiuso in un grande fazzoletto di tela a mo’ di sacchetto) che conteneva anche il nostro delizioso frico. Non esiste solo una ricetta, poiché ogni famiglia della regione ne conserva gelosamente la propria, ma possiamo definirne due tipologie, come dicevamo poco più sopra: il frico croccante ed il frico morbido. Nella prima versione viene cotto il formaggio nell’olio (quasi fritto, dunque), mentre per la seconda, si prevede l’aggiunta delle patate, delle cipolle e talvolta di pomodori o ancora erbe. Noi ora andremo a descrivere la nostra versione del frico. Vista l’untuosità del piatto e la tendenza al dolce, data dagli amidi delle patate e dalle cipolle uniti ai formaggi, l’abbinamento ideale è un vino rosso di media persistenza e struttura.

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VERSIONE CLASSICA

Ingredienti per 6 persone: 300 g di cipolla bianca/ 650 g di patate/ 650 g di un mix di formaggi di differenti stagionature/ 1/2 litro di acqua bollente/ olio extravergine di oliva q.b./ sale e pepe q.b./ concentrato di brodo (facoltativo)

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Preparazione:

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1. Tagliate finemente le cipolle e fatele imbiondire con l’olio in una padella antiaderente abbastanza capiente a fuoco dolce. 2. In un pentolino fate bollire l’acqua, aggiungendoci se volete un pizzico di concentrato di brodo. 3. Tagliate le patate a fettine dopo averle sbucciate e unitele alla cipolla, alzando il fuoco e girando e rigirando, facendo creare una leggera crosticina. 4. Aggiungete un poco alla volta l’acqua fino alla sua evaporazione per ottenere un composto abbastanza amalgamato, poi aggiustate di sale e di pepe nero. 5. A questo punto è venuto il momento di aggiungere i vari formaggi di latteria tagliati a dadini (potete usare striscioline di lavorazione, formaggio fresco e/o di varie stagionature, come 30/60/90 mesi), mischiare e rigirare fino ad amalgamare il tutto: l’obiettivo è quello di ottenere una crosticina dorata e di non far attaccare il nostro composto (i grassi del formaggio ci aiuteranno in questo). Appena appena ottenuto ciò bisogna girare il frico, aiutandoci con un’altra padella o un piatto, ottenendo la stessa cosa dall’altro lato. Se abbiamo lavorato per bene, serviremo il nostro gustoso frico con una crosticina deliziosa all’esterno, ma morbido all’interno.


E ora per far indignare un po’ i gastrotalebani… Visto che siamo in tema, ma se facessimo un frico fritto? Magari unito alla stessa sorte della polenta? Ebbene sì, una volta messo in frigorifero per far rapprendere il composto, lo si taglia a cubetti ( 3 cm x 3 cm) che andremo a friggere in olio di semi, con doppia panatura, la stessa cosa che faremo con la polenta ma senza andare ad impanare.

Ingredienti per 6 persone: un frico/ 400 g di polenta/ farina 00 q.b./ 2 uova/ pangrattato q.b./ olio di semi di arachide q.b./ sale e pepe q.b./ Sal’s Seasoning Montreal Steak sub e Mount Nimba Rub a piacere Preparazione:

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1. Preparate in un piatto della farina 00, sbattete un paio di uova con sale e pepe e mettete il composto nel secondo piatto, il pangrattato nell’ultimo piatto. 2. Iniziate facendo aderire la farina ai cubetti di frico, poi aiutandovi con due forchette o una pinza a punta da cucina passateli nell’uovo facendoli scolare per bene prima di metterli nel pangrattato. 3. Nel frattempo portate l’olio alla temperatura di 170°C/180°C e friggete i cubetti per 2 minuti. 4. A questo punto per 30 minuti a riponeteli nel frigorifero. Poi ripassateli nell’uovo e nel pangrattato e via per la seconda frittura. 5. Riducete anche la polenta a cubetti e friggetela direttamente nell’olio per circa 8 minuti. 6. Andrete a servire il vostro antipasto di cubetti di frico fritto e di polenta fritta con una bella spruzzata di mix di Sal’s seasoning rub: verranno spazzolati in men che si dica.

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Il dolce ha una sua naturale declinazione FRITTA

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ome dice il proverbio, fritta è buona anche una suola di scarpe. Come dargli torto? Sono pochi gli alimenti che, pastellati, impanati o buttati a nudo nell’olio bollente, non diventano delle piccole tentazioni calde, croccanti dal cuore morbido a cui è quasi impossibile dire no. Sicuramente avrete conosciuto persone che non mangiano pesce, verdure, formaggio, pollo semplicemente perché a loro non piacciono, divorarne invece grandi quantità se ricoperti dalla crosta dorata. Questo grande amore per il fritto, che ci accomuna un po’ tutti, è determinato da un antico retaggio ancestrale, secondo il quale la parte primitiva del nostro cervello ci fa apprezzare molto di più i cibi grassi, fritti e dolci rispetto a quelli salutari. Questo accade perché questi cibi, avendo un grande apporto calorico, ci garantiscono la sopravvivenza. In realtà, mangiare fritto non é molto in linea con lo stile di vita sedentario contemporaneo, ma potremmo considerare “sopravvivenza” anche il conforto dell’anima. Sicuramente una combo micidiale è l’unione fritto/dolce: infatti la frittura intensifica moltissimo il sapore e il profumo dello zucchero, rendendolo irresistibile. L’aroma del dolce impasto a contatto con l’olio bollente per alcuni di noi equivale al canto delle sirene, si insinua nelle nostre narici e ci ammalia. Ecco spiegato il perché molti di noi, passeggiando tra i banchetti delle fiere (che speriamo di tornare molto presto a visitare), ad un tratto si bloccano come incantati, alzano la testa, annusano l’aria e si precipitano al truck più vicino. BBQ4All Magazine

La maggior produzione di dolci fritti avviene nel periodo pre-quaresimale e quaresimale stesso, tanto che

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esiste il detto a Carnevale è buona anche l’aria. Le golosità carnevalesche sono per lo più preparazioni molto semplici, realizzate con farina, acqua, burro, uova e latte, fritte nell’olio bollente, spolverate con lo zucchero e a volte arricchite con il miele, la crema o il cioccolato. Ovviamente, ogni regione propone le sue specialità, spesso molto simili tra loro ma chiamate in modo diverso da zona a zona- L’esempio più eclatante sono i nastri di pasta fritta battezzati in Toscana cenci, a Roma frappe, nel Piemonte Bugie, in Emilia Romagna sfrappole e conosciute in tutta Italia come chiacchiere. Detto ciò, il Carnevale non detiene il monopolio dei dolci fritti, come ci dimostrano le zeppole di San Giuseppe e le frittelle di riso, preparazioni tipiche della festa del papà (che cade il 19 marzo), le cartellate e gli struffoli, tipici dolci del Natale in gran parte del Sud, o le ciambelle fritte e le bombe ripiene alla crema che sono preparate praticamente tutto l’anno. E vogliamo parlare del cannolo siciliano? Insomma, l’elenco dei dolciumi fritti sarebbe infinito. Dovendo scegliere le ricette da presentarvi in questo speciale, abbiamo optato per due preparazioni agli antipodi tra loro e con una storia molto diversa l’una dall’altra: la crema fritta, tipica preparazione di alcune regioni quali le Marche, l’Emilia Romagna e del Veneto, e lo psudo-cinese gelato flitto.

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La crema fritta, nelle Marche, ha un doppio carattere: dolce o salato, tutto dipende se la superficie viene spolverizzata con lo zucchero o con il sale. Spesso si serve insieme alle olive ascolane: la delicata dolcezza dei cremini fritti ha il compito di smorzare il carattere amaragnolo dell’oliva. In Emilia Romagna questo dolce boccone di crema è un elemento del gran fritto misto alla bolognese, che comprende carne (pollo, agnello, animelle, mortadella), formaggi (Emmenthal, gruviera e mozzarelline), verdure (zucchine, patate, cavolfiore, anelli di cipolla) e amaretti. La carne e i latticini vengono passati nella farina, nell’uovo e nel pangrattato, mentre le verdure e gli elementi dolci vengono passati nella pastella. Nel Veneto, invece, è una preparazione esclusivamente dolce tipica del periodo di Natale e di Carnevale.

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Più lungo ed articolato è il discorso da fare sulla seconda preparazione di cui vogliamo parlarvi, cioè una delle nostre pseudocineserie preferite. Il gelato

fritto si presenta come ovvero una piccola sfera di gelato avvolta in uno sottile strato di torta o pane bianco, cotta nell’olio bollente. Nonostante sia un dessert tipico dei ristoranti cinesi o fusion, essa non sembra affondare le sue radici in Cina, Paese in cui domina il pensiero, secondo la loro millenaria medicina, che i cibi dovrebbero essere consumati neutri (né troppo freddi, né troppo caldi) e che quelli ghiacciati siano deleteri alla salute dell’uomo, perché rallentano la digestione e possono provocare diarrea. Ma allora quando e dove è nato il gelato fritto? Purtroppo non ci è possibile fornirvi una risposta certa. C’è chi afferma che il gelato fritto fu servito per la prima volta durante la World’s Columbian Exposition, più conosciuta come Fiera Mondiale di Chicago nel 1893, organizzata per celebrare i 400 anni della scoperta dell’America. Successivamente, nel 1894, il merito dell’invenzione delle palline di gelato avvolte in uno strato sottile di torta da friggere nello strutto fu conferito alla città di Philadelphia definita la casa del gelato americano. Infatti, nonostante il gelato non fosse stato inventato né in quella città, né da un suo abitante, le aziende della zona si distinsero per la miglior produzione di questo alimento. Una seconda ipotesi è che il gelato fritto sia stato inventato intorno al 1960 dai ristoranti di tempura giapponese. La rubrica del New York Times “Dining Out”, recensendo alcuni ristoranti orientali, parlò dello straordinario dessert caldo fuori e freddo dentro. Quindi, come accade molte volte quando si parla di cibo cinese, tutto fa pensare che il gelato fritto sia una versione adattata e orientaleggiante di una preparazione tutta occidentale che poi i furbi ristoratori cinesi hanno adottato per calibrare il loro menu sul palato americano. Nonostante tutta questa incertezza sulle origini, una cosa è sicura; il gelato fritto riscuote sempre un gran successo perché, più che una ricetta sembra il risultato di una formula magica. La preparazione è molto semplice; inizialmente i tempi di attesa tra un passaggio e l’altro sono molto lunghi, per poi diventare quasi frenetici nel rush finale. Vediamo adesso entrambe le ricette, ma prima vorremmo sapere una cosa: voi siete tipi più da roba italiana o da diavoleria pseudocinese? Oppure, come noi, basta che sia fritto e poi mangiate tutto?


LA CREMA FRITTA

Ingredienti per 6 persone: 500 ml di latte intero/ 4 uova/ 90 g di zucchero a velo/ 30 g di amido di mais/ una bacca di vaniglia/ olio di semi di arachidi q.b. Preparazione:

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1. Con la punta di un coltello incidete la bacca di vaniglia per tutta la lunghezza, poi raschiatene l’interno per recuperane i semi. 2. In un pentolino versate il latte, aggiungete i tuorli, l’amido, lo zucchero ed infine la vaniglia. Ogni volta che inserite un ingrediente mescolate vigorosamente con la frusta per evitare la formazione di antipatici grumi nella crema. 3. Fate cuocere il composto su un fuoco medio basso, continuando a girarlo con un cucchiaio per tutta la durata della cottura. Quando raggiunge il bollore, mescolate più energicamente per pochi minuti. Ottenuto l’addensamento desiderato spegnete la fiamma. 4. Foderate una teglia con la carta forno e versateci sopra la crema. Per facilitarvi il compito di darle una forma rettangolare alta 3 cm, copritela con la pellicola alimentare e procedete. 5. Lasciate rapprendere la crema a temperatura ambiente per due ore circa. 6. Trascorso questo tempo, suddividetela in tanti cubetti più o meno di quattro cm. Passateli prima nell’albume sbattuto, poi nella farina ed infine nel pangrattato. 7. In una pentola profonda, portate l’olio a temperatura (fra i 165°C e 185°C) e iniziate a friggere. La cottura è molto veloce: appena la superficie dei cremini è dorata, sono pronti. Scolateli dall’olio, asciugateli con la carta assorbente e serviteli ben caldi.

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IL GELATO FRITTO Ingredienti per 6 persone: 500 g di gelato alla crema di ottima qualità/ 6 fette di pane bianco per tramezzini prive di crosta/ olio di semi arachidi q.b/ 150 g di farina 00/ 150 ml d’acqua frizzante fredda/ mezza bustina di lievito per dolci Preparazione:

1. Con il gelato lavorabile ma non troppo sciolto formate sei palline, non troppo grandi perché poi dovranno essere avvolte nel pane. Per formarle, avvolgete il gelato nella pellicola e lavoratelo con le mani fino ad ottenere una forma sferica. Ponete le sfere nel congelatore per almeno 8 ore. 2. Prendete il pane e assottigliate ogni fetta con il mattarello, devono risultare sottili come un foglio. 3. Tirate fuori dal congelatore il gelato (una pallina per volta), toglietegli la pellicola e avvolgetelo nella fetta tagliando la parte in eccesso. Importante è che il pane aderisca bene al gelato, per questo è necessario avvolgere nuovamente la sfera nella pellicola, prima di riporla nel congelatore per altre 8 ore. 4. Siamo giunti alla preparazione della pastella. In una ciotola capiente versate la farina e il lievito, poi iniziate a mescolare aggiungendo poco per volta l’acqua. Il risultato finale non dovrà essere troppo liquido e nemmeno troppo denso. 5. Se fino a questo momento i tempi di preparazione sono stati estremamente dilatati, adesso dovete essere molto veloci e radunare vicino a voi i commensali. 6. Portate a temperatura l’olio, prendete la pallina liberata dalla pellicola e immergetela prima nella pastella e poi nell’olio caldo. E’ questione di pochi secondi: appena la superficie sarà dorata togliete dal fuoco, asciugate con carta assorbente e servite.

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L'Arte Bianca a cura di Alessandro Trezzi fotografia di Rossella Neiadin

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e dici “pizza”, il più delle volte l’immagine che balena nella mente è quella di un caldo forno a legna e di una tonda napoletana, soffice, fragrante, con il cornicione morbido e scioglievole. Eppure, nei mendri della vivace Napoli, là dove la fama di questa specialità è esplosa, esiste un altro interessantissimo prodotto, meno diffuso nel resto d’Italia ma celeberrimo nei vicoli partenopei: la pizza fritta. Si, lo so: senz’altro, non è l’unica forma di pasta cresciuta e/o buttata nel grasso bollente di cui la nostra penisola può vantare, ma per una volta tralasciamo le battaglie territoriali, vi va? Senza andare a toccare mostri sacri come il panzerotto pugliese e la crescentina emiliana, facciamo due chiacchiere su uno dei capisaldi dello street food napoletano.

La storia

Nel dopoguerra la tradizionale pizza al forno

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Da che mondo è mondo, la frittura è sempre stato un metodo di cottura tipico dei Paesi caldi, in quanto più sicuro dal punto di vista della protezione dai batteri a fronte della scarsa qualità nella conservazione del cibo.

partenopea era divenuta quasi un prodotto di lusso; non solo gli ingredienti per condirla scarseggiavano, ma molti dei forni a legna erano andati distrutti nei combattimenti per liberare la città, che fu uno dei fulcri per la Liberazione del nostro Paese. Compatibilmente con l’arrivo dell’olio di semi, si pensò quindi di friggere nell’olio bollente l’impasto, che gonfiandosi conferiva una sensazione di maggior sazietà. I quartieri popolari cominciarono a colmarsi di pentoloni messi su un semplice banchetto fuori dalla porta, cucinando montanare (pasta cresciuta con una mestolata di salsa di pomodoro a fine cottura) o la pizza fritta vera e propria, farcita con gli ingredienti poveri a disposizione: la ricotta, che dalle campagne arrivava a buon mercato, e i ciccioli di maiale, ovvero gli scarti dei tagli pregiati. Il cibo fritto aveva il pregio di conservarsi tranquillamente per tutta la giornata, esposto al sole, per poi venire riscaldato all’occorrenza. Nell’olio finivano crocchè (crocchette di patate speziate), pall’e riso (arancini), frittatine di maccheroni, scagliozzi (pezzi di polenta, spesso a forma di triangoli), verdure, ortaggi, alghe e pezzi di pasta lievitata. La regina del banco, tuttavia, era sempre lei, la “a ogge a otto”, così chiamata perché veniva comprata a credito e pagata la settimana successiva; in quegli

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anni era un prodotto preparato dal pizzaiolo per arrotondare le entrate domenicali, spesso fritto dalla moglie direttamente all’ingresso dei “bassi”, i caratteristici locali dal soffitto basso in cui abitavano molti napoletani, sovente pizzaioli e relativa famiglia. Non passò molto tempo perché la pizza fritta cominciò a divenire una creazione tipicamente femminile. La più celebre venditrice è senz’altro Sophia Loren, che nel film “L’oro di Napoli” di Vittorio De Sica nel 1954 gridava “Mangi oggi e paghi tra otto giorni”. Oggi la pizza fritta sta vivendo una seconda giovinezza, grazie alla riscoperta da parte dei maestri e all’aggiornamento sulla qualità degli ingredienti utilizzati.

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Nel “battilocchio” moderno (così chiamato per la forma allungata e “spilungona”) si trovano salumi, polpette, provola, friarielli, farciture più ricche e gustose, anche se a dirla tutta un parente illustre si ritrova già negli archivi gastronomici napoletani, in quelle “zeppolelle” cosparse di miele menzionate dal poeta Giovanni Battista del Tufo, poi passate alla versione salata riportata nel 1837 dal duca Ippolito Cavalcanti, accompagnata da baccalà, pesce azzurro o alici. Insomma, la frittura è una cosa seria, specialmente al Sud.

Vediamo quindi insieme come affrontarla nel modo più corretto.

L’impasto L’obiettivo è chiaro e semplice: il prodotto finale deve essere il più leggero possibile, al fine di non trasformare la pizza fritta in un pasto unto, pesante e quindi in un’esperienza fortemente dimenticabile. Dobbiamo quindi realizzare un panetto estensibile ma di tenuta, in modo che sia possibile renderlo sottile senza bucarlo, ottimizzando i tempi di cottura e impedendo alla pasta di assorbire troppo olio. Quindi non si scappa: farine 00 o 0 di forza media, con un buon assorbimento minimo ed un’ottima stabilità. La maglia glutinica dovrà essere ben formata per le motivazioni già presentate, ed è fondamentale che l’idratazione non sia troppo elevata; in caso contrario ci troveremmo costretti a utilizzare troppo spolvero durante la stesura, che finendo nell’olio caldo tenderebbe a bruciare restituendo un gusto amaro e indigesto. Non lesiniamo nemmeno sul sale, che come abbiamo avuto modo di imparare rafforza i legami proteici rendendo più tenace la maglia, oltre a stabilizzare la lievitazione.


Avremo quindi una tendenza inferiore alla creazione di bolle enormi e fastidiose, ingestibili in fase di stesura e cottura. Fondamentali saranno come sempre i tempi di riposo, utili a completare la fermentazione e la maturazione dell’impasto, in modo da renderlo più asciutto, profumato e soprattutto maneggevole, pronto per le fasi finali di lavorazione.

La cottura Un tempo il grasso più utilizzato per la frittura era la sugna, ovvero lo strutto di maiale, in quanto economico e di facile reperibilità. Il pregio oggettivo di questo ingrediente è il suo altissimo punto di fumo, ovverosia la temperatura in cui un grasso inizia a decomporsi cambiando struttura molecolare e sviluppando acroleina, una tossina dannosa per il fegato e cancerogena. Cosa significa in soldoni? Che più un punto di fumo è alto, maggiore potrà essere la temperatura soglia per la cottura, minore sarà il tempo di cottura e quindi di permanenza del cibo nel grasso, che si impregnerà meno risultando più leggero. Tuttavia tale espediente si rivela utile per piccoli pezzi di pasta, come le crescentine o le verdure, o con ingredienti poco umidi, la cui temperatura al cuore sarà raggiunta rapidamente.

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Discorso diverso invece per la pizza fritta, che non solo contiene mozzarella e salumi, ma che gonfiandosi risulta anche più ampia, richiedendo quindi un tempo maggiore perché sia pronta. Ben venga quindi l’olio di semi

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di arachidi, con un ottimo punto di fumo e meno invasivo per quanto riguarda l’apporto di sapore nel prodotto finito. La temperatura ideale è 180°C, ed è fondamentale che sia rispettata in modo da avere un fritto più leggero possibile, che andrà immerso totalmente nel grasso per uniformare la cottura in tutta la superficie. Ciò significa prestare attenzione ad un’altra regola di base: mai friggere troppi alimenti insieme, in quanto la temperatura dell’olio potrebbe crollare vertiginosamente causando un aumento dei tempi di cottura. Più tempo, più possibilità per la pasta di impregnarsi di olio, meno leggerezza.

La farcitura Qui possiamo sbizzarrirci, lavorando di fantasia e per associazione territoriale, ricordando sempre però che stiamo parlando di un prodotto delicato e che non dovrà bucarsi durante la cottura. Limitiamo quindi ingredienti umidi o acuminati, come mozzarella di bufala, creme acquose, verdure a foglia dura e lunga, e così via. Lo stesso pomodoro, se troppo liquido, può compromettere la solidità della maglia glutinica; meglio aggiungerlo ristretto o su una base di mozzarella. Anche la disposizione della farcitura gioca un ruolo fondamentale per la riuscita del prodotto finito; l’approccio di base è molto simile a quella di una classica pizza, nella quale gli ingredienti devono essere distribuiti uniformemente e ancorati alla base. L’esempio più classico arriva direttamente dalla tradizione: una cucchiaiata abbondante di ricotta setacciata, fiordilatte o provola a dadini, pepe nero a fiumi, una foglia di basilico e salame, polpette o ancora mortadella o ciccioli di maiale.

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Un’alternativa contemporanea? Friarielli in crema, salsiccia a punta di coltello, pepe nero, provola affumicata e basilico.

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Un’ida più nerd? Dose generosa di baccalà mantecato, cipolle e peperoni in ember roasting, olio al peperoncino. A voi la scelta, l’importante è godere, sempre.

INGREDIENTI

per circa 14-16 pizze fritte

1 kg di farina 00 o 0 (270-280 W); 630 g di acqua; 25 g di sale fino; 3 g di lievito di birra fresco

per la farcitura Ricotta di bufala; Provola bianca; Salame dolce; Pepe nero; Basilico fresco.


IMPASTAMENTO

In una ciotola o nella vasca della vostra impastatrice versate tutta la farina, il lievito sbriciolato, circa i tre quarti dell’acqua e iniziate a miscelare. Non appena l’impasto comincerà a prendere forma ed elasticità versate tutto il sale e l’acqua rimanente a filo, solo quando la precedente è stata perfettamente assorbita. L’impasto sarà pronto quando risulterà liscio, asciutto, il glutine tenace e ben formato, e la temperatura interna dovrà essere di 23°C-24°C. Chiudetelo a pagnotta, mettetelo in un contenitore a chiusura ermetica ben unto e lasciatelo riposare 2 ore a 24°C.

PUNTATA

Trascorse le prime due ore di riposo ripiegate l’impasto nuovamente e riponetelo poi con il contenitore in frigorifero a 6°C per 18-24 ore, in modo da completare la fermentazione e rallentare la lievitazione. Durante questa fase l’impasto matura e la maglia glutinica si stabilizza.

STAGLIO, FORMATURA E APPRETTO

Terminata la puntata recuperate l’impasto, rovesciatelo sul piano da lavoro e dategli la forma di un salsicciotto. Spezzatelo con un tarocco e ricavate dei panetti dal peso di 100-120 grammi ciascuno, che andranno poi chiusi in modo da ottenere una pallina. Disponeteli quindi ben distanziati in una cassetta da lievitazione o su una teglia coperta da pellicola per altre 6-8 ore a 24°C.

STESURA E FARCITURA

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Infarinate leggermente il primo panetto, rimuovetelo con decisione con una spatola e appoggiatelo su un cumulo di semola rimacinata di grano duro; quindi giratelo, in modo da infarinare anche l’altro lato e portatelo poi sul piano. Dovrete cercare di lavorare con meno semola possibile in modo da evitare che l’eccesso finisca nell’olio bollente bruciando. La pizza fritta non ha cornicione, e dovrete quindi stenderla uniformemente con l’ultima falange, bordo compreso; cercate di lasciare

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uno spessore maggiore al centro, in modo da evitare che l’impasto si buchi con il peso della farcitura, e fermatevi quando il diametro sarà di circa 20-22 cm. Setacciate la ricotta per renderla cremosa, poi adagiatene un cucchiaio al centro, adagiate il salame dolce tagliato a listarelle e la provola a cubetti, date una grattata abbondante di pepe e mettete due foglie di basilico. Ripiegate quindi il lembo superiore su quello inferiore, e pigiate bene con i palmi delle mani per far aderire l’impasto, avendo cura di far uscire tutta l’aria dalla zona della farcitura. Considerando che state lavorando con poca farina stendete solo quando siete pronti per cuocere, in modo da evitare che l’impasto si attacchi al piano di lavoro.

COTTURA

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Versate abbondante olio di semi di arachidi in una pentola ampia almeno 28 cm, e portatelo a 180°C. Aiutatevi con un tarocco o la spatola per staccare l’impasto dal piano, e a questo punto prendetelo dalla lateralmente dalla parte chiusura (vicino alle punte per intenderci) e sollevatelo, in modo che la farcitura risulti verso il basso e la gravità vi aiuti ad estendere la maglia glutinica.

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Portatelo verso la pentola allargando le mani leggermente per dargli la classica forma allungata e adagiatelo nell’olio. Da questo momento mestolo e paletta saranno i vostri inseparabili aiutanti, oltre alla teglia con carta paglia o assorbente che vi siete preparati a fianco. Con il mestolo abbiate cura di versare continuamente l’olio sul lato superiore, che inevitabilmente emergerà dal grasso una volta che l’impasto comincerà a gonfiarsi. Dopo qualche minuto girate la pizza e continuate dal lato opposto, fino a completa doratura. A questo punto appoggiate la pizza fritta sulla teglia e asciugate l’olio in eccesso; prima di cuocere le restanti verificate sempre che l’olio sia tornato a 180 °C.

COME SI MANGIA?

Avvolgetela in un cartoccio, assaggiando prima il “cappello di Pulcinella” (ovvero la punta priva di condimento), poi premete la parte centrale per far uscire il vapore ustionante e spostare il ripieno verso la parte alta, addentate e godete come mai prima d’ora.


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DAGLI STATES

Il pollo fritto: una storia di

grande successo

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Across the Pond a cura di Elena Ninotti

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Il pollo fritto è uno dei piatti più iconici degli USA, assieme all’hamburger. Contrariamente a quello che si pensa di solito, esiste davvero una cucina degli Stati Uniti: non è tradizionale come la nostra, ma è costruita dalle esperienze e dalle storie degli immigrati che qui si sono trasferiti, portando cibo e memorie dalla propria terra madre. All'inizio era una cucina frammentata, arrivata assieme alle valigie dall'Irlanda, dall'Europa dell'est, dall'Italia e, soprattutto, attraverso le rotte delle navi degli schiavi che portarono nel nuovo continente la manodopera per coltivare – specie negli Stati del Sud cotone, canna da zucchero e riso. La cultura gastronomica di questo luogo d’America diventa quindi un connubio tra le richieste dei ricchi possidenti delle piantagioni, legati alla loro cucina ricca e benestante, generalmente anglosassoni o francesi, miste alle capacità dei cuochi che avevano una cultura e una capacità di utilizzo delle spezie proprie dei Paesi di origine. Questo connubio ha permesso lo sviluppo di una gastronomia saporita e profumata, basata soprattutto su pollo, gamberi, okra, riso e spezie, fritti o stufati. Con la fine della schiavitù, attorno al 1860-70, la possibilità di avere un’alimentazione più ricca e varia si diffuse a tutti i livelli sociali, diventando appannaggio di tutta la popolazione. Con la crisi economica dovuta alla Grande Depressione degli anni Trenta in America, i lavoratori di colore si trasferirono nei ricchi Stati del Nord, portando anche tutto il loro bagaglio culturale e gastronomico.


Il pollo fritto è probabilmente il piatto più rappresentativo del quadro fin qui descritto: economico, comodo, con ingredienti comuni, si può mangiare con le mani ed è indubbiamente molto gustoso. Insomma, è comfort food pratico, che teneva - e tiene ancora - le persone legate alle loro origini. Proprio per questo motivo, per molti anni questa ricetta fu associata alle popolazioni afroamericane; non è un caso che le principali catene di fast food che servono il gustoso pennuto croccante siano nate in stati del sud: Popeye Louisiana Kitchen, Kentucky Fried Chicken, Chick Fil-A (Georgia), PDQ (North Carolina).

La nascita delle catene fast food Harland Sanders nasce alla fine del 1800 a Henryville, nello stato dell’Indiana, da una famiglia anglo-irlandese. Dopo un’infanzia difficile e una gioventù passata a fare i lavori più disparati (assicuratore, venditore di lampadine, venditore di gomme, segretario della camera di commercio, ostetrico) riesce a studiare legge per corrispondenza e a diventare avvocato. Tuttavia non svolge mai la professione per la quale ha studiato e nel 1930 Harland si trasferisce a Corbin, nel Kentucky, per gestire un distributore di benzina Shell con annessa cucina. Lì, nel 1932, comincia a servire uno dei suoi piatti preferiti: il pollo fritto, buono e apprezzato al punto che la gente si ferma apposta per poterlo mangiare. Questo successo fa sì che nel 1935 egli venga insignito del titolo di “Colonnello del Kentucky”, il più alto titolo onorifico di quello Stato. Nel 1940, Sanders arriva a sviluppare un sistema di cottura con friggitrici ad alta pressione e inventa l’Original Recipe mescolando 11 spezie segrete per la panatura. Il suo ristorante, aperto sempre nel 1940, viene inserito dal critico culinario Duncan nella sua guida ai migliori ristoranti in America, Adventures in Good Eating. Da lì, nel 1952, intuendo le potenzialità del franchising, fonda la catena Kentucky Fried Chicken, KFC, seguendo uno sogno visionario: nel 1964 esistono già 600 ristoranti KFC negli Stati Uniti e in Canada. Recentemente, durante un’intervista, sembra che un pronipote del Colonnello si sia fatto sfuggire la ricetta segreta delle spezie; nel caso, ve la copio qui, sia mai che vi venisse voglia di provarla.

I cucchiai e i cucchiaini, ovviamente, sono i tbs (tablespoon, cucchiaio)

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Aggiungere a 2 tazze (circa 250 g di farina 0): • 2/3 di un cucchiaio di sale; • mezzo cucchiaio di timo; • mezzo cucchiaio di basilico; • 1/3 di un cucchiaio di origano; • un cucchiaio di sale con semi di sedano; • un cucchiaio di pepe nero; • un cucchiaio di senape essiccata; • 4 cucchiai di paprika; • 2 cucchiai di sale all’aglio; • un cucchiaio di zenzero in polvere; • 3 cucchiai di pepe bianco.

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e tsp (teaspoon, cucchiaino) americani, che si trovano in commercio praticamente ovunque e sono un’unità di misura volumetrica.

Il pollo fritto perfetto Come abbiamo visto è praticamente il cibo più emblematico degli Stati Uniti del Sud e difficilmente si può trovare una persona da queste parti che non abbia una propria opinione su quale versione dsia la migliore: pastellato, infarinato, saltato in padella o fritto in olio profondo, servito caldo con i waffle in una colazione o mangiato freddo con le mani durante un picnic. Vale tutto. In realtà, il fascino del pollo fritto risiede nella sua crosta croccante speziata e nel suo profumo richiama l’infanzia: una carne semplice, passata negli aromi e nella farina prima di essere fritta che non delude mai nessuno. La marinatura nel buttermilk - un prodotto dal sapore piuttosto acido, che deriva dal latte di scarto della lavorazione del burro e che viene utilizzato in numerose preparazioni della cucina statunitense - rende il pollo incredibilmente morbido. Quindi il passaggio importante da non saltare è quello di marinare il pennuto per almeno 12 ore, poi sgocciolarlo bene prima di passarlo nella farina, in modo da avere una crosta senza grumi. In realtà, questo è un passaggio controverso: per alcuni chef, i grumi che si sviluppano nella miscela di farina, contribuiscono a rendere il pollo ancora più crispy. Per capire chi possa aver ragione, basta provare entrambe le versioni.

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La ricetta

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Io vi propongo una ricetta facilmente replicabile a casa, più una versione 2.0 per ovviare a quello che è il problema più grande: la cottura interna. Ecco l’attrezzatura che vi servirà: • un termometro da cucina, meglio se a sonda. • una pentola profonda, un Dutch oven è perfetto per mantenere la temperatura costante e accomodare i pezzi di pollo nella giusta quantità di olio senza rischiare fuoriuscite. Se avete un fuoco a gas, un wok lavorerà altrettanto bene. • un ragno a maglie strette, per raccogliere i detriti dall’olio e evitare che brucino. • una griglia per biscotti, su cui far raffreddare il pollo fritto senza farlo diventare molliccio

Ingredienti per 4 persone: 1,5 kg di pollo in pezzi regolari con osso e con con pelle/ 250 g di buttermilk o kefir/ 5 cucchiai Sal’s Seasoning Montreal rub/ 180 g di Farina 0/ 60 g di maizena/ un uovo/ un cucchiaio di lievito per dolci/ 1 l di olio per friggere: semi di arachide, olio di girasole ad alto contenuto oleico o olio di canola/ sale macinato al mulinello Preparazione:

1. Mescolate in una ciotola il buttermilk, l’uovo, un cucchiaio di sale e due cucchiai di rub. Trasferite il tutto in un grosso sacchetto per surgelati e aggiungere il pollo a pezzi. Marinate in frigo, da 4 ore a tutta la notte, scuotendo ogni tanto la busta. 2. Al momento di friggere, mescolate in una ciotola farina, maizena, lievito, due cucchiaini di sale e il rub rimanente. Aggiungete tre cucchiai di marinata alle polveri e mescolate. Versate il pollo in uno scolapasta e lasciarlo sgocciolare dall’eccesso di marinata. 3. Passate i pezzi di pollo nelle polveri, premete bene la panatura sui pezzi e appoggiateli sulla griglia per biscotti. 4. Accendete il forno a 180°C statico o 150°C ventilato. 5. Scaldate l’olio a 215°C in un Dutch oven o un wok, con fiamma medio alta. Assicuratevi che la temperatura sia costante. La cosa migliore sarebbe avere una piastra a induzione in grado di mantenere la temperatura alla fonte, ma con un buon termometro a sonda sarà comunque semplice. 6. Sbattete leggermente i pezzi di pollo per eliminare gli eccessi non adesi, che potrebbero sporcare l’olio. 7. Metteteli nella pentola, col lato della pelle sotto, e abbassate la temperatura dell’olio a 150°C. Non riempite troppo, cercate di avere uno strato uniforme ma non sovrapposto. Lasciare il pollo indisturbato per 3-4 minuti, poi giratelo e lasciatelo cuocere per altri 4 minuti. Dovreste avere una bella crosticina croccante e dorata. 8. Scolate il pollo con il ragno, appoggiatelo sulla griglia per biscotti disposta su una teglia da forno e mettetelo in forno, fino a raggiungere la temperatura interna di 65°C per il petto e 73°C per la coscia. 9. Con il ragno, pulite bene l’olio nella pentola e proseguite la frittura degli altri pezzi 10. Posizionateli su carta assorbente e lasciateli riposare 5/10 minuti. Salate con sale al mulinello e servite in tavola. In caso di avanzi, potete scaldarlo ponendolo freddo di frigo, poi nuovamente in olio a 200°C per 5 minuti e sembrerà appena fatto.


Se usate pezzi piccoli di pollo, tipo petto o sovracosce disossate (cosa che vi consiglio le prime volte per facilitare la cottura) preparate il pollo come nei passaggi 1-2 e friggete direttamente a 190°C senza fare il passaggio in forno In ogni caso, se volete un risultato perfetto saltando comunque la cottura in forno, è possibile sfruttare la cottura sous vide, per un risultato 2.0: 1. Marinate il pollo come descritto al punto 1, scolate dalla marinata, che andrà conservata in frigo, e cuocete in sous vide per 2 ore a 68°C. 2. Fate raffreddare brevemente il pollo in acqua

e ghiaccio. Scolatelo dal sacchetto e ponetelo nuovamente nella miscela di buttermilk e uova. 3. Continuare come da ricetta base per il pollo a pezzi senza osso, quindi con olio a 190° senza il passaggio in forno, fino a doratura. Per una presentazione veramente southern style, vi consiglio il Chicken Waffle. Preparate i waffle (traaanquilli, vi do la ricetta), posizionate un bel filetto di pollo fritto su ogni waffle caldo, coprite con due fette di bacon croccante, incrociate, e fermate con uno stecchino. Irrorate di sciroppo d’acero e godetevi il brunch.

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WAFFLE AMERICANI

Questi waffle si differenziano dai cugini belga, perché non hanno lievito di birra, ma hanno quello per dolci (baking powder, in inglese)

Ingredienti per circa 12 waffle: 2 uova, tuorli e albumi separati/ 150 ml di olio di semi/ 150 g di zucchero bianco/ 125 ml di buttermilk, o kefir oppure 50% yogurt e 50% latte/ 300 g di farina/ 8 g di lievito per dolci/ aroma di vaniglia, dalla bacca, liquido o vanillina/ un pizzico di sale

Preparazione:

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1. Montate gli albumi e teneteli da parte. 2. Mescolate le polveri in una ciotola e i liquidi in un’altra. Incorporate le polveri ai liquidi, mescolando brevemente con una frusta. 3. Aggiungete gli albumi a neve e versate la pastella nell’apposita piastra elettrica con stampo spesso, a quadretti. Cuocere fino a doratura. Scolate l’olio in eccesso utilizzando un foglio carta assorbente e quindi condite con il sale e un po’ di pepe se lo gradite.

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In tutte le salse a cura di Riccardo Meniconi

In tutte le L’AIOLI PER I CARCIOFI

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Il carciofo è pianta spesso utilizzata con accezione negativa. Sei uno sciocco, sei un cretino, sei... un carciofo! Ma quanto c'è da dire su questo vegetale armato? Pablo Neruda ne canta la tenerezza, il gusto e la poetica bellezza nei suoi versi; la cultura culinaria lo declina in centinaia di ricette; la scienza ne esalta le proprietà disintossicanti. Ovviamente fritto è buono tutto, pure una scarpa, ma se nell'olio bollente tuffiamo una prelibatezza il risultato sarà certamente un successo.

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Croccante, dorato, salato, delizioso. Il carciofo fritto è praticamente un entry level, un cavallo di troia che da bambini ci propinavano per tentare di farci assumere i giusti nutrienti, camuffandolo e rendendolo appetibile (come se ce ne fosse il bisogno, pensandoci ora). Le facce che tanti di noi da fanciulli hanno fatto, costretti ad ingurgitarne almeno uno, adesso ci provocano un sorriso; il carciofo è il simbolo del passaggio dall'infanzia all'età adulta: cominci ad amarlo quando diventi grande. Ora siamo adulti ed anche affamati, quindi: prendiamo un bel

salse

Cimarolo della varietà Romanesco, puliamolo ben bene, lasciando il gambo lungo quanto basta per afferrarlo saldamente, e tuffiamolo in un bagno d'olio. Il procedimento potete leggerlo bene nell’articolo dedicato a questa preparazione. Sto parlando dei carciofi alla Giudìa. Quando saranno fritti alla perfezione, siamo pronti per salare questo meraviglioso dono della terra e già basterebbe per godere forte, ma a noi non basta. Solitamente si aggiungono una o due gocce di limone, e da questa consuetudine ho pensato che sarebbe perfetto lasciarsi cullare dall'avvolgente cremosità di una salsa che sembra creata apposta per i carciofi. L'aioli, diffusa quasi tutti i paesi dell'area mediterranea. è considerata un patrimonio della cucina catalano-provenzale. Nasce come salsa povera a base di aglio pestato, olio di oliva e sale, pensata per accompagnare principalmente patate lesse, verdure e pesce. Oggi è arricchita con il tuorlo d'uovo emulsionato come a creare una maionese molto più aromatica.

Ecco cosa ci servirà: • 4/5 spicchi d'aglio • 1 tuorlo d'uovo • 210 g di olio di semi di girasole (o altro olio neutro) • 90 g di olio extravergine di oliva • il succo di 1 limone filtrato • Sale e pepe Procediamo, quindi, pestando 4 o 5 spicchi d'aglio con il sale grosso, fino a creare una crema liscia e densa, a questo punto possiamo trasferirla in una bowl (o in un mixer se siete pigri come me) insieme al succo di un limone filtrato, un tuorlo d'uovo e poco pepe macinato fresco. Inizieremo a sbattere il tutto e ingloberemo l'olio (a me piace usare un mix di olio neutro e extravergine in rapporto 70/30) dapprima poche gocce per volta e successivamente a filo, lentamente. Vedremo la salsa addensarsi e diventare lucida, a questo punto è pronta da servire. Meglio prepararla qualche ora prima per farla riposare un po' in frigo e permettere a tutti gli aromi di svilupparsi.


QUEL SAPORE UN PO’ ORIENTALE PER LE POLPETTE FRITTE

L'arte del riutilizzare è il filo conduttore nelle cucine di tutto il mondo, dapprima per cercare di sfamare la famiglia con la minor spesa possibile, cercando di non sprecare, creando piatti di recupero, e che piano piano sono entrati a far parte della nostra tradizione. Ne esistono un'infinità, ma solitamente tutto finisce ad avere una determinata forma, iconica, la polpetta. Di bollito, di pesce, di maiale, di verdure, di pane, di formaggio, di manzo, di ceci... insomma, tutto si può trasformare in polpetta, e con molta probabilità sarà più buono della sua forma originale. Se poi la materia prima utilizzata è qualcosa di incredibile e pregiato come la carne dei nostri burger, questa pietanza assume il potere di sconvolgere ogni palato con la sua incredibile prepotenza. La nonna le fa al sugo, la zia con uvetta e pinoli, noi invece le abbiamo presentate in uno dei piatti più globalmente diffusi che il mondo moderno conosce: le polpette fritte. Ho pensato di accompagnarle con una salsa tipica del K(orean)BBQ. Particolarmente speziata, dolce e piccante, grazie all'uso del Gochujang, uno degli ingredienti principali della cucina coreana. Questa pasta è un condimento fermentato a base di peperoncino in polvere e riso glutinoso. Gli ingredienti sono i seguenti: • 150 g zucchero di canna grezzo • 120 g salsa *tamari (o in mancanza salsa di soia) • 15 g aceto di vino di riso • 10 g pasta di Gochujang • 5 g olio di sesamo • 5 g zenzero fresco macinato • 5 spicchi d'aglio macinato • 30 g miele • 5 g amido di mais • 15 g acqua • 0,5 g pepe macinato fresco Mescolate lo zucchero di canna, il tamari e tutti gli altri ingredienti, fatta eccezione per l'amido di mais e l'acqua, in una casseruola. Portate ad ebollizione mescolando continuamente, a parte stemperate l'amido nell'acqua e versatelo nella miscela di tamari bollente. Continua a mescolare la salsa. Abbassare la fiamma e cuocere finché la salsa non si sarà addensata, circa 3 - 4 minuti. Utilizzare immediatamente o conservare coperto in frigorifero per un massimo di 2 settimane. Potete decidere di saltarci le polpette e servirle come le famose alette di pollo coreane, magari con una spolverata abbondande di semi di sesamo tostato e cipollotto fresco sminuzzato o come deeping sauce.

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*Il tamari: più denso, complesso e più morbido della salsa di soia, è un sottoprodotto della produzione del miso, in particolare il liquido che viene estratto dalla pasta di miso fermentata. Interessante notare che, pur essendo così simili, la salsa di soia è un prodotto della Cina e il tamari è un prodotto del Giappone.

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IL CURRY KETCHUP PER I CORN DOG

Il corn dog è l'ennesimo, magnifico, risultato, dell'unione di due culture che si incontrano. Amo il cibo anche per questo, fusione, integrazione, nuovi gusti, nuovi orizzonti; secondo alcune voci, queste delizie dello street food, sono un alimento che avrebbe avuto origine dagli immigrati tedeschi che si trasferirono in Texas nel dopoguerra. Simbolo delle fiere di paese, dei circhi, delle sere d'estate in Minnesota, e dei marciapiedi delle Big Cities, come tutti gli alimenti più golosi è composto da pochi ingredienti: Un würstel, pastella di farina di mais, uova, latte, olio bollente, ed uno stecchino (quello meglio non mangiarlo). Il corn dog grida USA (un po’ come Homer Simpson in qualche scena), ma grida anche melting pot: voglio quindi rendergli onore unendo anche nella salsa culture differenti. Solitamente viene servito con della semplice senape, ma io vi consiglio di provarlo con una salsa che nasce per un altro piatto tipico a base di wurstel, il currywurst. A base di concentrato di pomodoro o ketchup, salsa Worcestershire e curry in polvere. Ma io dico, visto che il nostro Gianfranco Lo Cascio ci ha donato la ricetta per il ketchup scientifico perchè non partiamo da lì per realizzare la nostra salsa? (la trovate a pagina 92 del numero di settembre 2020 del BBQ4All Magazine).

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Ecco dunque gli ingredienti: • 600 g di Ketchup • 2 g di Curry Madras in polvere • Cipolline sott’aceto a piacere

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Una volta pronto il ketchup possiamo personalizzarlo unendo il miglior Curry Madras in polvere che riuscite a trovare. Dopo averlo fritto e asciugato a dovere, prendiamo il Corn Dog lo irroriamo di Curry Ketchup, aggiungiamo ancora una spolverata leggera di curry e per finire un trito fine di cipolline sott'aceto. Questa ricetta sarà pure semplice, ma il successo è assicurato. Non vi resta quindi che immergere il vostro Corn Dog nella salsa e teletrasportarvi (almeno con la mente) negli USA. Buon viaggio, sono sicuro vi sentirete parte dell’American dream, sfrecciando sulla Route 66.


Parmigiano Reggiano

tutto quello che c’è da sapere sul formaggio stagionato per eccellenza De Gustibus a cura di Caterina Vianello Ci sono cibi cui avvicinarsi assomiglia ad una ritualità consolidata nei secoli: tra questi, sicuramente è da inserire il Parmigiano Reggiano, quelli che moltissimi italiani considerano “il formaggio” stagionato per eccellenza. Nel ricchissimo panorama caseario italiano, il Parmigiano Reggiano è il prodotto che forse più di ogni altro racchiude, prima ancora che un valore gastronomico, anche un valore culturale. Siete davvero sicuri di conoscere tutto del Parmigiano Reggiano? Dopo questo articolo, vi ricrederete. Dicevamo: è una ritualità anche avvicinarsi al Parmigiano Reggiano. Nell’incisione della forma, il primo ad entrare in scena è il coltello a mandorla, per praticare una linea mediana. Segue quello a uncino, per incidere la crosta lungo la linea mediana e lo scalzo. Poi quello a pugnale, per aprirsi un varco e consentire ai due coltelli a mandorla, posti a 45° gradi tra la parte piana e lo scalzo, di superare la resistenza della

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crosta e arrivare finalmente alla pasta. Ciò che accade dopo è pari all’apertura di un volume antico, miniato, da collezione. Un’attesa non priva di tensione ed infine, ecco: il giallo paglierino intenso della crosta, sulla quale è incisa la storia stessa del formaggio (cioè mese e anno di produzione, numero di matricola che contraddistingue il caseificio e scritta a puntini su tutta la circonferenza), lascia spazio a quello più tenue della pasta, cui spetta il compito di continuare la narrazione anticipata dalla crosta. Pochi altri prodotti hanno saputo attraversare la storia italiana coniugando geografia, selezione di razze vaccine, tecniche di lavorazione e stagionatura.

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UNA STORIA… STAGIONATA. INDIETRO NEL TEMPO Non a caso ad accorgersi dell’eccezionalità del Parmigiano si comincia presto, già a metà del Quattrocento. Pantaleone da

Confienza, accademico e medico della corte sabauda (ma anche grande viaggiatore e giornalista gastronomico ante litteram) cui si deve quel capolavoro letterario-caseario che è il “Trattato dei latticini”, nel 1477 ne tesse le lodi parlando del suo “bellissimo aspetto”, dell’estrema cura con cui era stagionato, ma soprattutto decantandone la bontà, introducendo già un’indicazione circa l’influenza della stagionatura sul sapore della pasta: il miglior Parmigiano è quello “confezionato in Primavera e stagionato al punto giusto, vale a dire all’età di tre o quattro anni”. Nel corso dei secoli poco è cambiato se è vero che gli esperti di oggi affermano che il formaggio deve passare due estati: nel corso di due anni di invecchiamento infatti, le trasformazioni enzimatiche cambiano il sapore della pasta, rendendolo più intenso. E ben poco è cambiato anche in relazione alla zona di

produzione, che il disciplinare apposito fissa rigidamente nei territori delle province di Parma, Modena, Reggio Emilia, Bologna alla sinistra del fiume Reno e Mantova alla destra del fiume Po. Qui infatti, nel XII secolo, grazie al lavoro di bonifica dei terreni ad opera dei monaci benedettini e cistercensi per i quali venivano utilizzati i bovini, si comprende presto come il bestiame necessiti di ricoveri adeguati: ecco allora le grancie, una sorta di aziende agricole che affiancavano all’allevamento anche la produzione di latte e casearia. Si deve alle vicine saline di Salsomaggiore il contributo finale, quel sale così prezioso per conservare e stagionare il formaggio. Le forme sono sin da subito di dimensioni considerevoli (100 libbre, ci ricorda il sempre preciso Pantaleone: cioè dai 35 ai 45 kg, esattamente come oggi), e la bontà del prodotto è tale da fargli varcare ben presto i confini


regionali e raggiungere, dai porti di Pisa, Livorno e Genova, il Mediterraneo e attraverso il nord, la Germania, la Francia e le Fiandre. Il processo produttivo si affina, il successo è inarrestabile.

addirittura come un panorama. È una foto aerea dell’Emilia presa da un’altezza pari a quella del Padreterno”), è pur vero che tutto inizia molto prima, dal latte o meglio, dalle vacche.

Se di fronte ad una forma imponente e odorosa aperta a metà, siamo obiettivamente attratti dagli elementi finali del processo produttivo (cioè profumo, colore e gusto: il grande Guareschi ebbe a dire “a fissare con una fortissima lente d’ingrandimento la grana del Parmigiano, essa si rivela non soltanto come un’immutabile folla di granuli associati nell’essere formaggio, ma

PARMIGIANO REGGIANO: LE PROTAGONISTE Diverse sono le autrici che mettono la loro firma su un formaggio che, a seconda della materia prima, è buono, ottimo o memorabile. Prevalentemente si utilizza il latte delle vacche Frisone, quelle con il manto pezzato bianco e nero. Le più vocate tuttavia sono le vacche di razza Reggiana, le Vacche Rosse, il cui latte è particolar-

mente adatto alle stagionature lunghe: ecco perché il formaggio da Vacche Rosse non viene posto in commercio prima del 24° mese. Ci sono poi le vacche Brune Alpine Italiane, che donano un latte più ricco, usato soprattutto per la produzione del Parmigiano di montagna, dal sapore più intenso di quello di pianura. IL PROCESSO PRODUTTIVO Il processo produttivo è lungo: per arrivare alla forma regale con cui vi abbiamo accolto all’inizio (diametro di 35-45 cm, altezza dello scalzo 20-26 cm, peso medio 40 kg, per oltre 550 litri di latte) si parte dalla

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mungitura. Al latte scremato della mungitura serale si aggiunge il latte intero della mungitura del mattino: dopo la consegna al caseificio, il latte viene versato nelle tipiche caldaie di rame a forma di campana rovesciata, aggiungendo quindi il caglio di vitello e il siero innesto (coltura naturale di fermenti lattici ottenuta dall’acidificazione spontanea del siero residuo della lavorazione del giorno precedente). Prende avvio la coagulazione: utilizzando lo spino, la cagliata viene successivamente ridotta in piccoli granuli quindi cotta lentamente fino alla temperatura di 55°C. I granuli si lasciano sedimentare sul fondo della caldaia, ottenendo così una massa compatta che viene poi estratta, tagliata in due parti, avvolta nella tela, e immessa in una fascera dalla quale prenderà la forma inconfondibile. Dopo la fascia marchiante, tocca alla salatura: le forme vengono immerse in una soluzione salina per poco meno di un mese, quindi ha inizio la stagionatura. Allineati, silenti, in fila su lunghe tavole di legno, i futuri Parmigiani, riposano per almeno 12 mesi, età minima. A questo punto entrano in scena gli esperti del Consorzio: a loro spetta infatti il complesso compito di valutare le forme e la loro perfezione attraverso un esame che prevede l’utilizzo di martelletti,

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aghi a vite, tassello. Dal suono emesso dalla forma colpita dal martelletto e dall’estrazione di una piccola quantità di pasta si giunge alla definizione di tre categorie qualitative, prima (quella che risponde appieno al disciplinare e che prosegue la stagionatura), seconda (con leggeri difetti nella struttura della pasta o sulla crosta e che viene quindi destinata ad un consumo da tavola), terza (lo scarto: difetti evidenti che non consentono l’apposizione del marchio DOP). PARMIGIANO REGGIANO: COME LA STAGIONATURA CAMBIA IL PRODOTTO Se all’inizio abbiamo parlato di valore culturale del Parmigiano Reggiano, è perché sono le diverse stagionature a mettere alla prova il palato, la preparazione e la memoria gustativa del consumatore. Non è una questione di spocchia: il Parmigiano sa rendersi accessibile ai più a partire dai 12 e fino ai 24 mesi, con sapori armonici e delicati, realizzando un equilibrio misurato tra dolce e saporito, con note di latte, frutta fresca e frutta secca. La complessità tuttavia aumenta con il tempo di stagionatura ed è a partire dai 30 mesi che il Parmigiano seleziona i palati, manifestando aromi e profumi inesplorati, richiedendo una capacità di assaggio più articolata, che deve abbandonare l’immediatezza per guadagnare invece profondità e calma. Il colore si fa più intenso, al naso arrivano note in cui la sapidità svela pian piano l’erbaceo, memoria dell’alimentazione delle vacche. La pasta è un manifesto che


racconta di sé - attraverso la consistenza friabile e granulosa - ciò che accadrà in bocca, luogo in cui il calore del palato dischiuderà un carattere deciso, arricchito da note di spezie, frutta secca e brodo di carne. La dolcezza tuttavia, non è dimenticata né perduta. La consistenza non oppone resistenza al morso, che attraverso il gioco a due di masticazione e salivazione consente una lettura quasi senza segreti di tutte le componenti aromatiche. Con le stagionature prolungate del Parmigiano, il palato inizia a divertirsi: in particolare ad 80 mesi di stagionatura il Parmigiano abbandona il carattere rassicurante del formaggio-simbolo gastronomico, per raggiungere livelli di intensità accessibili solo ai palati più preparati. La pasta qui diventa un libro di antiquariato, che richiede un apparato olfattivo e gustativo attrezzato, per aprirsi e svelarsi. Le note paglierine della pasta si fanno decise, imperiose, il naso percepisce intuitivamente la piccantezza, che al palato è la nota che apre il sipario. Il morso trova una consistenza della pasta che è solubile, non adesiva e in cui a farla da padrone sono i cristalli di tirosina: se tra gli aromi lattici si percepiscono bene quelli cotti di burro fuso, e se nel vegetale si distinguono le note erbacee secche, a prendersi tutto il palcoscenico è l’umami, con il sapore del brodo di carne. La sapidità è complessa e non diventa mai banale carattere salato: semplicemente accentua ogni singola nota aromatica, innalzandola. Se l’umami concentra lodi e luci della ribalta, i palati più allenati non tarderanno a notare anche chi è rimasto ai lati del palco, con un ruolo secondario ma pur fondamentale: albicocche, frutta secca come nocciola e noce, miele, sottobosco ed infine, cuoio. Gli 80 mesi sono un privilegio, insomma. Il consiglio è quello di prendersi del tempo, per degustare: inspirare, socchiudere gli occhi e lasciare che in bocca, tra lingua a palato, quella maestosa forma aperta a metà davanti a voi, vi conceda regalmente una parte della propria, lunghissima, storia.

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Alla fiamma: il nostro corso di cucina pratica Qual è la differenza tra un coltello per sfilettare e uno per disossare? Cos’è il taglio mirepoix? Come si seziona un pollo intero?

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Queste e tante altre risposte nel nostro primo corso di cucina pratica passo passo.

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PRIMA LEZIONE

PIANO COTTURA E FORNO: CONOSCI GLI STRUMENTI A TUA DISPOSIZIONE.

Conoscere cosa ci si appresta a cucinare è per noi fondamentale per ottenere un risultato ottimale. Tutto ciò che possiamo conoscere su un ingrediente per noi è fondamentale. Lo stesso, vale per le tecniche di cottura: il nostro è un approccio scientifico alla cucina che si propone l’obiettivo di spiegare il perché delle cose e dei fenomeni e soltanto dopo la messa in pratica. In quest’approccio scientifico, non può mancare la conoscenza degli strumenti grazie ai quali cuciniamo. La cucina di casa è, spesso, il nostro primo campo di battaglia: prima ancora dei dispositivi di cottura outdoor, prima ancora delle sperimentazioni, prima di tutto, abbiamo sicuramente messo a soqquadro la cucina di casa, con grida di disperazione dei nostri partner destinati ad aiutarci a riparare i guai e… qualche volta a piantarci in asso nel bel mezzo della confusione. Ma quante volte non siamo stati a conoscenza delle potenzialità e delle criticità degli strumenti a nostra disposizione?

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In questa prima puntata della guida per scoprire com’è fatta in ogni sua parte la nostra cucina, ci concentreremo su due elementi che sicuramente sono presenti nelle nostre case: il piano cottura ed il forno. Di entrambi, ne sono disponibili sul mercato diversi tipi, più o meno utili a seconda dell’utilizzo che se ne deve fare. Cercheremo di illustrarvi brevemente e nel modo più chiaro possibile i pro ed i contro di ogni tipologia.

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PIANO COTTURA Per gli amanti della cucina, la scelta del piano cottura è fondamentale durante la fase di arredo di una casa: andiamo a vedere insieme un po’ di analogie e differenze, chissà che non si chiariscano le idee a chi è in procinto di fare un bel passo in avanti. Piano cottura a gas: il caro, vecchio piano cottura a gas che tutti conoscete. Piano cottura tradizionale in gran parte delle case del mondo che prevede la presenza di una cucina. A livello di costi, il gas è certamente più conveniente da utilizzare rispetto ad altre fonti di energia, ma bisogna tener conto del problema sicurezza. La resa però non è altrettanto valida: servono grandi quantità di gas per raggiungere e mantenere delle temperature, il che lo rende il sistema decisamente meno performante da usare, con tempi molto lunghi di utilizzo e quindi dispendio energetico. Inoltre, i piani cottura a gas non sono per nulla pratici: i fuochi si devono smontare, pulire ed asciugare dopo ogni cottura.

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Piano cottura con tecnologia ad induzione: tra i più moderni in circolazione e a dirla tutta, tra i più efficienti. Questi piani sono composti da speciali bobine poste sotto il piano di cottura. Le bobine generano un campo magnetico che si trasferisce al pentolame (che deve essere adatto a questo tipo di cottura), generando una resa energetica molto elevata: basta pensare che un litro d’acqua giunge al punto di ebollizione in appena 3 minuti. Un piano cottura ad induzione utilizza esattamente il calore di cui ha bisogno per cuocere il cibo: ciò si traduce in zero sprechi. Come dicevamo poco più su, c’è bisogno però di acquistare utensili e pentolame adeguato: infatti questi devono avere uno strato alla base magnetico e fondo spesso, per questo le normali pentole e padelle non funzionano. Altri vantaggi non di poco conto: il piano ad induzione, utilizzando soltanto il calore davvero necessario, non surriscalda l’ambiente circostante. E poi, volete mettere la facilità di pulizia di questo piano… completamente piatto?

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Piano cottura elettrico: certamente tra i più diffusi nelle cucine, ma probabilmente non tra i più performanti per tutta una serie di questioni. Sono composti da una resistenza di forma circolare concentrica, scaldata con l’ausilio della corrente e alloggiata sotto un piano di ceramica oppure ghisa. Comporta un notevole spreco di energia, perché il fondo della pentola si deve prima riscaldare e poi si passa a cuocere e mantenere la temperatura al suo interno.


UN FORNO PER OGNI OCCASIONE Il forno ha una storia antichissima: forno = calore = fuoco. Di certo, ne è passato di tempo dai primi esperimenti di forno che risalgono all’homo sapiens, ma di base la logica è quella: una camera riscaldata da una fonte di calore, ove si possono cuocere cibi per un tempo più o meno prolungato. Gli Egizi inventarono un forno con apertura sul lato superiore, ma presentava problemi di dispersione di calore molto gravi. I greci, circa nel 1700 a.C., scoprirono che il forno con apertura laterale comportava minori dispersioni di calore. Dobbiamo però al 1826, in Inghilterra, per avere il primo forno a gas “moderno”, che comunque rimase appannaggio dei ricchi a causa dell’elevato costo energetico. Il forno elettrico, finalmente, riuscì ad entrare nelle case di più persone. Ad oggi, i forni spesso sono parte integrante della cucina e spesso sono posizionati ad altezza uomo, per permetterci una agevole cottura e controllo di questa, oltre a mere (ma ovvie e necessarie) ragioni di sicurezza. Le due grandi distinzioni vengono fatte a seconda dell’alimentazione: forni elettrici oppure forni a gas. Inoltre, i forni possono essere statici (senza ventole) o ventilati (e quindi con ventole).

Forno stagno: il forno a camera stagna è un forno semiprofessionale. Si tratta di un forno con chiusura ermetica, sigillata, in modo tale da impedire la dispersione del calore al di fuori. Con un forno stagno, si impedisce quindi lo spreco di energia ed una resa molto più uniforme. Il forno stagno non è un forno facilissimo da usare, soprattutto per una questione di sicurezza: la camera di cottura raggiunge spesso pressioni altissime e durante l’apertura bisogna prestare attenzione massima per evitare ustioni anche importanti a causa della fuoriuscita improvvisa del vapore acqueo. Forno a vapore: molto interessante questo tipo di forno ed amato da chi predilige cotture miste (alcuni forni possono partire a vapore e poi innescare altri tipi di cottura) e per chi ama cuocere a bassa temperatura, oltre che per affumicare. Infatti, la camera del forno può contenere anche un legno non resinoso. Una lieve combustione dà vita ad una quantità di fumo adatta ad insaporire i cibi presenti sulla griglia.

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Forno elettrico: sono in linea di massima più sicuri dei forni a gas ed offrono un maggior controllo della situazione di cottura. Le resistenze sono poste ai lati del forno e ciò garantisce in linea di massima una temperatura omogenea in tutta la camera di cottura.

Solitamente, i forni elettrici hanno anche un sistema di ventilazione, che è decisamente importante: oltre a tenere la temperatura omogenea nella camera di cottura grazie alle sopracitate resistenze, la ventilazione fa in modo che tutta la teglia (o le teglie) presenti nel nostro forno abbiano la stessa quantità di calore.

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BBQ4All: FROM ZERO TO HERO Capitolo 1

Il set up

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di un dispositivo E

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bbene sì, abbiamo ascoltato il grido d’aiuto dei nostri lettori: sappiamo che in molti sono alle prime armi su tutto ciò che riguarda il vasto mondo del bbq e della griglia e che spesso, seppur preparati perfettamente a livello teorico, tantissimi neo-griller hanno grandi difficoltà a capire come tradurre in modo pratico tutto ciò che hanno imparato leggendo la Masterclass e i post sulla Community Facebook. Alcune tra le domande più significative e gettonatissime? Come si fa il foil su un Boston Butt enorme? Dove va infilato precisamente il termometro? Come accendo la ciminiera senza sporcare il cotto del terrazzo, che poi mia moglie sbraita? Come si fanno le injection? Sono cose fondamentali che ci vengono chieste di continuo. Giustamente. Questa nuova rubrica vi darà tutte le risposte: vi spiegheremo bene tutto, partendo da zero o quasi, ma ve lo faremo anche vedere nella pratica, attraverso fotografie e illustrazioni a prova di neofita. Inoltre questa rubrica nasce anche come risposta a qualche pacata protesta dei lettori che vorrebbero “Più bbq! Più bbq!”. Abbiamo spiegato spesso come questo Magazine sia rivolto al mondo della cucina e del food a tutto tondo, e che il bbq (che è stato invero sempre presente in qualche modo che sia nelle ricette, nei metodi, negli articoli di approfondimento) è solo una delle tante espressioni di questa meravigliosa arte. Tuttavia, vogliamo accontentare proprio tutti e inserire una rubrica fissa in cui si parli solo di carboni, griglie e fuoco anche su quei numeri del Magazine (tipo quello attuale) che si discosteranno un po’ di più dall’argomento che tanto amate. Ma allora significa che non parleremo di bbq nel resto del giornale? Assolutamente no! Dedicheremo articoli e numeri interi a questa materia affascinante, anche perché se è vero che molti dei lettori sono alle prime armi, è altrettanto vero che ce ne sono altri già esperti. Vogliamo solo prenderci un impegno con tutti voi promettendovi ciò che avete chiesto.


Set up per cotture dirette Di solito, per una cottura diretta la prima cosa che ci viene in mente di fare è prendere il carbone ben acceso e riversarlo nel braciere. Ma siamo sicuri che sia il metodo più efficiente e più sicuro? Esiste un metodo alternativo per non creare fiammate non appena posizioniamo un alimento piuttosto grasso sulla griglia? Parliamo del set up a due zone e di quello a tre zone. Nel primo caso si tratta di dividere virtualmente in due la griglia di cottura: una metà con sotto il carbone ed una metà da utilizzare come safe zone, la zona di sicurezza. L’obiettivo di questo metodo è quello di posizionare l’alimento nella zona di sicurezza al primo accenno di fiammata e poi, chiudendo il coperchio, spegnerla definitivamente. Il set up a tre zone è un metodo molto simile al precedente, con la differenza che la griglia viene virtualmente divisa in tre parti: una ad alta temperatura, una a media temperatura ed una come safe zone. La temperatura viene gestita con una maggiore o una minore quantità di carbone posizionato sotto alla griglia. Questo metodo è perfetto per non carbonizzare quegli alimenti che necessitano di una cottura prolungata: si posiziona il cibo prima sulla griglia molto calda e poi si sposta sulla griglia con temperatura più moderata. La safe zone si usa esattamente come per il precedente set up.

ZONA CALORE INTENSO

ZONADI SICUREZZA

ZONA CALORE MEDIO

ZONADI SICUREZZA

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Nei dispositivi a gas normalmente non si ha il rischio di fiammate perché i bruciatori sono schermati dalle flavorizer bar (barre aromatizzanti), e quindi i succhi in caduta non vengono a contatto con la fiamma. Tuttavia, in caso di alimenti molto grassi, le barre non riescono a vaporizzare tutti i succhi e quindi qualche fiammata potrebbe verificarsi. In questo caso è sufficiente lasciare spento, se possibile, un bruciatore, in modo da riservarsi una safe zone anche sul dispositivo a gas.

ZONA DI COTTURA DIRETTA

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Set up per cotture indirette Nella cottura indiretta l’alimento non viene irraggiato dal calore del combustibile ma si cuoce per convezione. È imprescindibile, quindi, l’utilizzo del coperchio. Ma dove dobbiamo disporre l’alimento in cottura? In questo caso il metodo più semplice è quello di utilizzare il set-up a zona di cottura laterale: per dirlo in modo molto semplificato e chiaro, carbone da una parte e ciccia (oppure altro alimento) dall’altra. Chiudendo il coperchio avviene la cottura. Questo è il set-up più versatile in quanto si adatta alla maggior parte delle cotture. Nei dispositivi a gas si ottiene accendendo uno o più bruciatori a seconda della temperatura da tenere e lasciandone spento almeno uno, sopra il quale posizionare l’alimento.

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Il set up a zona di cottura centrale è il metodo che andiamo a utilizzare, invece, quando vogliamo esser sicuri che il calore investa il nostro alimento omogeneamente oppure quando usiamo il girarrosto che, per sua caratteristica costruttiva, viene posizionato centralmente rispetto alla griglia. In questo caso è sufficiente posizionare il carbone nei due lati del braciere e mettere l’alimento in cottura nella zona centrale della griglia, che rimane libera dal calore diretto. Usualmente, in questo metodo, si usano i cesti porta carbone perché assicurano una disposizione ordinata dello stesso nel braciere. In un dispositivo a gas questo set up è applicabile a seconda di come sono posizionati i bruciatori e dal loro numero.

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Infine, il set up a zona di cottura circolare è un metodo che prevede la disposizione del carbone nella parte centrale della griglia, posizionato nei cesti, in modo da tenerlo raggruppato mentre gli alimenti saranno messi sulla parte esterna della griglia. In questo modo è possibile mettere in cottura una maggiore quantità di alimenti a patto che di piccola misura (alette o cosce di pollo, ad esempio, ma anche gamberoni). Questo set up è replicabile solamente in dispositivi a gas di tipologia kettle.


Set up per low&slow Nella cottura low&slow cambia solamente la disposizione del combustibile all’interno del braciere, poiché l’alimento dovrà essere posizionato come in una cottura indiretta. L’obiettivo di questi set-up è quello di eliminare o limitare al massimo la necessità di rabbocco di combustibile, specie durante le cotture molto lunghe. Per quanto ovvio, sottolineiamo che nei dispositivi a gas non c’è questa necessità. Il metodo principale per la predisposizione di un dispositivo a carbone in caso di cottura low&slow è il Minion Method: questo consiste nel disporre combustibile acceso accanto a quello spento il quale, per contatto, lentamente si accenderà garantendo il mantenimento della temperatura di cottura. La disposizione del combustibile cambia a seconda del tipo di strumento utilizzato: bullet smoker (affumicatore verticale), kettle o offset smoker (affumicatore orizzontale). Bullet smoker: si riempie l’anello del braciere (charcoal ring) con carbone spento, avendo cura di lasciare una piccola parte centrale libera dove andremo a versare il carbone acceso. Quest’ultimo innescherà lentamente per contatto quello spento. Kettle: in questi dispositivi il Minion Method è chiamato Snake Method. Occorre creare un serpente costituito da carbone spento disponendolo lungo il bordo del braciere; poi si versa il combustibile acceso solo ed esclusivamente ad una delle due estremità della mezzaluna, dando inizio al sistema di innesco continuo. Offset smoker: normalmente questi dispositivi non richiedono l’applicazione del Minion Method perché sono alimentati a legna. Tuttavia, se si volesse utilizzarlo in un offset smoker si dovrà disporre il carbone nella firebox, creando un serpentone, aiutandosi con del materiale refrattario o comunque in grado di inibire l’accensione immediata e totale del combustibile.

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Un’ultima cosa, proprio perché ci teniamo alla pavimentazione in cotto del vostro terrazzo e all’ugola di vostra moglie, che potrebbero entrambi essere molto sollecitati senza le nostre calde avvertenze: accendere il carbone senza sporcare è molto facile, basta utilizzare il kettle. Prendete il cesto accenditore, lo riempite del carbone che vi serve, togliete dal kettle la griglia per gli alimenti e lasciate quella per il carbone. Lì sopra posizionate gli accenditori, ci appoggiate poi il cesto e aspettate che il carbone sia pronto. A quel punto non vi resterà che riversarlo nel kettle, et voilà, il tutto sarà avvenuto senza sporcare assolutamente nulla. Siamo proprio partiti da zero, ma sapete bene che ogni grande viaggio inizia sempre con un primo passo: e voi, modestamente, oggi avete mosso un gran primo passo.

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La ricetta scientifica a cura di Gianfranco Lo Cascio fotografie di Rossella Neiadin

Carbonara D

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opo aver fatto sempre la stessa cosa nello stesso modo per due anni, inizia a guardarla con attenzione. Dopo cinque anni, guardala con sospetto. E dopo dieci anni, gettala via e ricomincia tutto daccapo. Di anni ne sono passati quasi quattro dalla pubblicazione del famigerato video sulla mia carbonara scientifica e più che guardarlo con circospezione è decisamente ora di affinare certe asperità. Dopo una serie di esperimenti fatti e centinaia di recensioni più o meno richieste (“Sa troppo di formaggioh11!!”) ho messo a punto una nuova carbonara scientifica, la sua versione migliore fino ad ora, e mi sono ripromesso di condividerla solo con voi, miei affezionatissimi e insaziabili lettori.

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Ma prima di snocciolare tutte le novità e rivelarvi gli inusitati barbatrucchi, facciamo un ripasso della teoria e di tutte le reazioni chimiche che ci sono alla base del piatto che ci fa litigare più della suocera: la carbonara.

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LE UOVA Partiamo dall’ingrediente caratterizzante: l’uovo. Da che cosa è composto? Albume e tuorlo, volgarmente chiamati bianco e rosso. L'albume è prevalentemente costituito da acqua e proteine, il tuorlo da proteine e grassi.

Che cosa succede quando somministriamo calore ad un uovo? Semplice: da liquido diventa solido. Il bianco, da liquido traslucido trasparente diventa solido e opaco. Il rosso, da liquido viscoso e brillante diventa un solido arancione dalla consistenza sabbiosa. Ma che cosa succede esattamente a livello delle strutture interne? Rinfreschiamo la memoria o familiarizziamo con due termini con cui avremo a che fare ogni volta che ci capiterà di cuocere proteine: denaturazione e coagulazione.

della denaturazione e si ha quando le proteine denaturate si separano dagli altri elementi e solidificano. Applicare calore per un tempo più o meno lungo fa in modo che le proteine creino una struttura che intrappola l'acqua e crea un gel, un solido morbido. Avete presente le uova strapazzate? La meringa? Quando due proteine denaturate si incontrano nel mare in cui sono sospese, si possono legare tra loro e poco alla volta formano un reticolo tridimensionale solido, che ha intrappolato l'acqua al suo interno: questa è la coagulazione. Se questo reticolo proteico diventa troppo fitto, finisce che l'acqua intrappolata viene “strizzata” fuori e ciò che rimane è un groviglio di proteine asciutte. Ecco spiegato l'uovo troppo sodo in cui l'albume sembra silicone e il tuorlo una biglia di gesso verde.

Per spiegare bene il concetto di denaturazione proviamo ad immaginare uno di quei cavi arrotolati a forma di elica. Avete presente le cornette del telefono degli anni '80? Immaginate che le proteine siano fatte a spirale.

Quattro punti fondamentali per capire la differenza fra coagulazione e denaturazione:

La denaturazione è quel momento in cui tagliamo i legami agli estremi che obbligano l'elica a rimanere arrotolata. Una volta denaturate, le proteine possono “srotolarsi” e combinarsi insieme ad altri elementi. La denaturazione può avvenire per via chimica, meccanica o termica. L'acidita del limone, per esempio “cuoce” le proteine. L'albume montato a neve è un esempio di denaturazione per azione meccanica e la cottura dell'uovo al tegamino è un esempio di denaturazione e coagulazione per via termica.

2. La coagulazione è un processo visibile, la denaturazione non lo è.

Immaginiamo le proteine dell’uovo come dei gomitoli di lana sospesi sul pelo dell'acqua. Inserendo sostanze acide, agitando l'acqua o aumentando la temperatura, alcune proteine cominciano a “srotolarsi” parzialmente: si “denaturano”.

Adesso focalizziamoci sulla coagulazione delle proteine dell'uovo per via termica. L'uovo e l'albume contengono diverse proteine. Non tutte si denaturano allo stesso modo e non tutte coagulano allo stesso modo. Coagulano a temperature diverse, alcune non coagulano affatto e alcune non si denaturano facilmente col calore.

3. La coagulazione è possibile SOLO su proteine denaturate. 4. La coagulazione può essere controllata, la denaturazione no. Un po' la differenza che c'è tra la manopola del volume e il tasto di accensione della radio. Posso stabilire quanto coagulare ma non posso stabilire quanto denaturare. Si può quindi sovracoagulare ma non si può sovradenaturare.

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La coagulazione invece è molto più evidente

1. La denaturazione avviene SEMPRE prima della coagulazione. Le proteine prima si “srotolano” e poi si solidificano.

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Partiamo dall'albume. Le proteine più importanti che ci interessa conoscere sono 3: Ovalbumina che rappresenta il 54% dell'albume, si denatura sia per azione meccanica che termica e coagula ad una temperatura minima di 84°C. Conalbumina che rappresenta il 12% dell'albume, si denatura per azione termica e coagula a 61,5°C. Ovomucina, non coagula ma stabilizza la schiuma. Il tuorlo ha una struttura più complessa perché non è costituita solo da proteine. Il rosso d'uovo è fatto dal 50% di acqua, dal 32% di grassi e dal 16% di proteine. Questi grassi e queste proteine, di solito, sono però associate e legate insieme in particelle, che prendono il nome di lipoproteine. Il tuorlo è una dispersione di granuli in una massa acquosa. È già di suo, per conformazione naturale, un'emulsione, cioè una soluzione di acqua, proteine e grasso stabilizzata, grazie anche all'elevato contenuto di lecitine. Fissate bene questo passaggio perché è importante in funzione della ricetta. Del perché e percome il tuorlo d'uovo si solidifichi ci importa fino a un certo punto. Ciò che è importante sapere è che le maggiori responsabili della capacità del tuorlo di diventare duro sono le lipoproteine LDL (Low Density Lipoproteins), che rappresentano all'incirca l'85% del totale delle proteine presenti nel tuorlo. Queste lipoproteine iniziano a coagulare a 65°C e finiscono di coagulare a 70°C. Per farla breve, alcune proteine dell'albume solidificano a 61 gradi e mezzo ma la maggior parte a 84 gradi. La maggior parte delle proteine del tuorlo inizia a coagulare a 65° e finisce di coagulare a 70°C. Questo ci dice che gli stadi intermedi aumentano, man mano che sale la temperatura, la viscosità del tuorlo.

Temperatura di coagulazione delle uova

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Contenuto su un uovo intero

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Temperatura di coagulazione

m.g.

Acqua

Albume

58-60%

Inizio ispessimento 62°C Coagulazione 65°C

Tuorlo

30-32%

Inizio inspessimento 65°C Coagulazione 70°C

29%

53,50%

Uovo intero

88-90%

Inizio inspessimento 65°C Coagulazione 68°C-70°C

8,70%

77,10%

Guscio

10-12%

87,70%

Note: le temperature di coagulazione possono essere differenti in base alla freschezza dell'uovo e all'ingrediente con cui si cuoce. L'albume fresco è più solido e meno trasparente di quello vecchio, difatti coagula tra 62°C e 64°C. Le temperature di coagulazione diminuiscono con l'aumento del pH e del passare del tempo; quando un uovo invecchia il pH aumenta, modificando la sua struttura e il suo comportamento a contatto con il calore. Ingredienti come sale e succo di limone, fanno abbassare le temperature di coagulazione, mentre lo zucchero le fa aumentare


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LA NUOVA

CARBONARA SCIENTIFICA

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Dose per 6 persone: 240 g di tuorli d'uovo/ 60 g di Parmigiano Reggiano 30 mesi GLC Top Selection/ 40 g di pecorino romano/ 600 grammi di spaghetti di Gragnano/ 160 g di guanciale/ Aceto di mele q.b./ Pepe q.b.

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Voglio una salsa cremosa, senza grumi, che non sappia di gallina padovana sotto la pioggia d’autunno e che non faccia il filo di bava quando sollevo la forchetta. Non voglio sentire il sapore sulfureo dell'uovo cotto ma non voglio nemmeno avere la sensazione di mangiare pasta e gel per i capelli. La soluzione si chiama zabaione salato, ma fatto con soli tuorli: consiste nello scaldare i tuorli sbattuti a bagnomaria insieme ad altri ingredienti. In questo caso, con Parmigiano Reggiano e pecorino romano. Ho scelto lo zabaione salato fatto con soli tuorli per 5 motivi fondamentali: 1. L'uovo come agente schiumogeno Le uova sbattute aumentano il loro volume poiché schiumano inglobando aria 2. L'uovo come agente legante Abbiamo visto che le uova sono viscose e coagulano in uno stato semisolido o solido. Questa loro caratteristica influisce sulla capacità di legare altri ingredienti; pensate alle crocchette di patate o alle polpette. I tuorli con le loro proteine possono addensare i liquidi, conferendo una struttura soffice e cremosa. Esattamente quello ci serve nella nostra salsa. 3. L'uovo come agente emulsionante I tuorli stessi sono una concentrata e complessa emulsione di grasso in acqua. Pertanto contengono al loro interno molecole emulsionanti come le lecitine. Queste hanno una parte idrofila che si lega all'acqua e una parte idrofoba che si lega ai grassi. In pratica fanno da collante fra tutti questi diversi elementi. Avete presente la maionese? Lo stesso principio. 4. L'uovo come agente coagulante e gelificante Le proteine del tuorlo, quando sono riscaldate, formano un reticolo in grado di inglobare i liquidi. Ad esempio nei budini, nella salsa inglese e nella crema pasticciera, l'aggiunta delle uova determina la gelatinizzazione del liquido.

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5. Solo tuorlo e niente albumi Lo potete leggere nella tabella sulle temperature di coagulazione delle uova. L’albume è composto quasi al 90% di acqua, ha un sapore blando e dona alle preparazioni un’elasticità che noi dobbiamo evitare come la peste. Immaginate una crema che torna su come la bava di un San Bernardo. Il tuorlo, invece, è composto per metà da grassi e proteine, elementi che ci assicurano sapore, cremosità e stabilità, tutte caratteristiche che noi pretendiamo da una carbonara perfetta. Due tuorli grandi a testa e il raggiungimento dei 62,5°C ci assicureranno gusto, consistenza e, fattore non meno importante, sicurezza alimentare.

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LO ZABAIONE SALATO

Prendiamo due tuorli grandi per commensale (40 grammi), mettiamoli in una bastardella (ciotola d’acciaio predisposta per la cottura a bagnomaria) e iniziamo a sbattere con una frusta. Questo movimento meccanico ci dà la certezza di denaturare buona parte delle proteine. È lo stesso principio che sta alla base del tuorlo montato per la crema pasticciera. Il movimento meccanico denatura le proteine, che una volta denaturate si srotolano, formano il reticolo e imprigionano l'acqua e l'aria in piccole bollicine, che rimangono legate fra loro.

A questo punto consideriamo circa 17 grammi di formaggio a persona. Nella vecchia versione erano 50 grammi, ma convengo con voi che potrebbe risultare una botta di umami e di sapidità troppo elevata per alcuni palati. Voi scegliete il mix e la proporzione che preferite (potete scendere anche a 8 grammi di formaggio a persona), io uso 10 grammi di Parmigiano Reggiano stagionato 30 mesi GLC top Selection e 7 grammi di pecorino romano. Aggiungo prima il pecorino e continuo a sbattere per amalgamare il tutto. Quando è ben amalgamato, aggiungo il Parmigiano. Prendo la mia bastardella e la metto in un tegame pieno d'acqua scaldata a 90 gradi. Deve sobbollire, non serve il bollore completo. Continuo a sbattere per emulsionare e intrappolare quanto più aria possibile, voglio che la mia salsa sia spumosa e vellutata. La scaldo fino a quando non raggiunge la temperatura di 62,5°C. È fondamentale raggiungere i 62,5°C e rimanere in quella finestra di temperatura per almeno 4 minuti e mezzo: solo in questo modo sarò sicuro di aver eliminato ogni traccia di Salmonella dalle uova.

La tabella a lato riporta le combinazioni di tempo e temperature sufficienti per eliminare il rischio di contaminazione da Salmonella nel pollame, manzo e maiale. Le temperature indicate sono riferite a quelle raggiunte nel nucleo del cibo, e il tempo viene calcolato a partire del raggiugimento di quella temperatura interna. È necessario un termometro accurato. In caso di dubbio, è sempre opportuno mantenere la temperatura scelta per un tempo superiore al tempo indicato. Le raccomandazioni di cottura della FDA per alimenti freschi si riferiscono ad una riduzione di 6,5 D (dove D sta per "decimale" o fattore 10), che corrisponde all'uccisione del 99,9997% dei patogeni presenti. Tabella tratta da "Modernist Cuisine: The Art and Science of Cooking"

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Ricordatevi di rimanere tra i 62°C e i 63°C (mai superare i 65°C), o rischiate di fare una frittata. Togliete dal fuoco e lasciate raffreddare continuando a mescolare e immergendo la bastardella in acqua e ghiaccio. Oppure liberatevi dello stress e praparate tutto in sous vide: sbattete i tuorli con il formaggio, mettete nel sacchetto e scaldate sottovuoto per un’ora a 62,5°C. Potete anche preparare lo zabaione in anticipo, raffreddare velocemente il sacchetto e conservarlo in frigorifero (o freezer, perché no). Il risultato sarà una crema liscia e della consistenza simile a quella del miele.

TABELLA FDA 6.5D: inattivazione salmonella negli alimenti

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IL GUANCIALE Sapete che differenza passa tra guanciale e pancetta? Innanzitutto parliamo di due tagli di carne diversi. Come suggerisce la nomenclatura, la pancetta si ricava dalla pancia del maiale, mentre il guanciale dalla guancia. Ciò che le differenzia, oltre alla derivazione anatomica, sono le lavorazioni con cui si arriva al prodotto finito e che ne determinano il gusto e la consistenza. La pancetta si ottiene dal tessuto adiposo sottocutaneo della pancia del maiale. In generale la pancetta viene salata e messa a stagionare in un luogo fresco e asciutto, insaporita con diverse spezie, che variano a seconda della regione in cui viene preparata. Conosciamo tre forme di pancetta: la pancetta tesa, che ha un periodo di stagionatura breve (circa 20 giorni), la pancetta arrotolata, che è un vero e proprio salume e si ottiene condendo la carne con spezie e lasciando stagionare per un lungo periodo, e la pancetta affumicata, senza dubbio quella più saporita del gruppo.

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Il guanciale invece si ottiene dalla guancia di un maiale di almeno 9 mesi. Strofinato con sale e pepe, nel Lazio viene insaporito ulteriormente con aglio, salvia e rosmarino. Il periodo di stagionatura è di almeno tre mesi, durante i quali il prodotto acquista un sapore molto intenso e sviluppa la la caratteristica “crosticina” esterna, che lo rende leggermente croccante.

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Da un punto di vista nutrizionale, pancetta e guanciale hanno un diverso apporto calorico. Cento grammi di pancetta contengono poco più di 450 calorie, con il 45% di grassi e il 40% di acqua. La stessa quantità di guanciale è decisamente più grassa, con un apporto di 655 calorie, 70% di grassi e 22% di acqua. Ed è per questo che si preferisce usare il guanciale a discapito della pancetta, perché è più “ciccione”. E non per dogmi mai messi in discussione o perché ce l’ha detto la Sora Lella in sogno.

Vi piace di più la pancetta? Mettetecela, io non mi offendo. Ma torniamo alla ricetta. Taglio il mio guanciale o la mia pancetta, lo butto in padella e lo faccio diventare croccante. Separo il grasso e lo metto in una ciotola, mi servirà in un secondo momento. Una volta “sgrassato” spruzzo o verso sui cubetti dell’aceto di mele. Perché? Perché gli zuccheri contenuti nell’aceto caramellizzeranno rendendo il guanciale più croccante e lucido, mentre l’acido acetico e l’acido malico doneranno una punta di acidità che andrà ad equalizzare la nota grassa dello zabaione. Cuocio 600 grammi di spaghetti di Gragnano (100 grammi a persona) e nel frattempo riscaldo una padella. Non serve che sia rovente, dev'essere ben calda per non rubare calore agli elementi che andremo a mescolare. Ricordatevi di spegnere il fuoco prima di mettere gli altri ingredienti però. Due cucchiai di zabaione salato sono sufficienti per una singola porzione di pasta. Vi ricordate del grasso fuso del guanciale? Potete aggiungerlo allo zabaione in piccole quantità, un cucchiaino a persona va più che bene, per renderlo ancora più cremoso e saporito. Scoliamo senza troppi fronzoli i nostri spaghetti nella padella, aggiungiamo un paio di cucchiai di acqua di cottura, lo zabaione e mantechiamo. Qui potete fare come più vi piace. La girate, la saltate, quello che conta è che la sbattiate come si deve per far uscire l'amido della pasta e creare la salsina cremosa. Non vi fermate, se la padella è ben calda l'acqua si asciuga e l'amido viene fuori. Quando ottenete la consistenza che vi piace, la impiattate. Mettete gli spaghetti, mettete ancora un po' di guanciale croccante e poi una macinata di pepe. Sì, ma quale?


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IL PEPE Questi tre sono i miei preferiti: Pepe Tellicherry Extra Bold. Intenso, robusto e facilmente reperibile. Pepe Nero Lungo del Bengala. Non è un vero pepe, ma profuma tantissimo ed è poco piccante.

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Pepe di Timut: è un pepe di Sichuan selvatico, con note agrumate importanti. È così pungente che intorpidisce leggermente la lingua.

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SURF&TURF

la carbonara scientifica con lupini e friarielli Lo zabaione salato, questa crema soave di tuorli e formaggio, si abbina con agio ad un sacco di ingredienti. Di carbonare eccentriche e spiazzanti ne proporrò parecchie qui sul BBQ4All Magazine, e voglio cominciare da una delle mie preferite, quella con lupini e friarielli.

Vongole o lupini Da una parte il lupino, la vongola povera, dall’altra la verace, quasi scomparsa, e in mezzo, a rompere le conchiglie la filippina, quella monovalve allevata nel fango. La Dosinia exoleta, il lupino appunto, ha uno scrigno di forma subtriangolare con rigature concentriche, per una pezzatura che si aggira intorno ai 3-4 cm. La sorella verace, più grande e carnosa, ha conchiglia ovale e arriva a misurare 5-6 cm. C’è chi preferisce l’una all’altra, io non discrimino e le mangio entrambe. Questa volta ho usato i lupini. Prima di cucinarli, assicuratevi che siano stati spurgati a dovere. Sennò metteteli a bagno per 1-2 ore in uno scolapasta immerso in acqua in cui avrete disciolto del sale, 36 grammi di sale per litro di acqua per essere precisi. Lo scolapasta vi serve per far cadere i residui di sabbia sul fondo del contenitore.

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I friarielli

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I broccoli di rapa o cime di rapa coltivati in Campania sono conosciuti come “friarielli" perché generalmente fritti in padella con aglio, olio e peperoncino. Grazie alla loro caratteristica nota erbacea e amarognola rappresentano il contorno più azzeccato per molti secondi opulenti, come le salsicce di maiale, la braciola o la provola. A Roma si chiamano broccoletti, broccoli di rapa in


Calabria, cime di rapa in Puglia, rapini (o rapi) in Toscana. Sono le infiorescenze appena sviluppate della cima di rapa, vengono coltivate tutto l'anno anche se danno il meglio di sé nel tardo autunno e ad inizi primavera; dei friarielli mangiamo solo le foglie più tenere e i fiori verdi, che diventano anche ripieno per pizze rustiche o sughi inusuali. Ma se c’è una cosa che detesto è quando vengono cotti a casaccio diventando marroni. Come si fa a preparare dei friarielli perfettamente “scoppettiàti”, verdi e brillanti? Bisogna prima di tutto inquadrare il fenomeno che c’è dietro l’imbruttimento di tutte le verdure. Mi riferisco all’ossidazione, un processo noto e causato da un complesso di enzimi che si chiamano polifenolossidasi e che vengono attivati dal calore. Per conservare colore e turgidità vi basterà immergere i friarielli per 10 secondi nell’acqua bollente, poiché l’enzima si disattiva tra gli 80°C e i 95°C, e poi immediatamente in acqua e ghiaccio. Per preservare la resa cromatica in maniera ancora più efficace potete aggiungere un pizzico di acido citrico (3,7 grammi) e il problema è risolto. E non c’è alcun bisogno di inalberarsi perché è garantito che l’acidità, a quelle grammature, non sarà minimamente percettibile.

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A quel punto potrete spadellarli in olio sfrigolante con aglio e peperoncino, rimarranno verdi come la speranza (e la certezza) di preparare un piatto fenomenale.

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LA RICETTA

carbonara scientifica con lupini e friarielli Dose per 6 persone 600 g di spaghetti di Gragnano 1,2 kg di lupini o vongole veraci 2 spicchi di aglio Peperoncino q.b. Pepe Olio extravergine di oliva 100 g di guanciale Aceto di mele q.b. Per i friarielli: 300 g di friarielli (broccoli di rapa) 1 spicchio di aglio Olio extravergine di oliva

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Per lo zabaione salato delicato: 120 g di tuorli (6 tuorli grandi) 15 g di Parmigiano Reggiano 10 g di Pecorino Romano

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Per prima cosa preparate lo zabaione salato come da indicazioni, in questo caso ingentilito da una quantità minore di formaggi (potete anche prepararlo il giorno prima). Il dosaggio è stato ricalibrato per non sovrastare il sapore dei lupini e per non alterare la sapidità complessiva del piatto. Tagliate il guanciale a cubetti o listarelle, rendetelo croccante e spruzzatelo con aceto di mele, come descritto sopra. Mettete da parte (potreste conservare il grasso del guanciale disciolto, filtrarlo e ripassarci dentro i friarielli, vedete voi). Capitolo friarielli: lavateli, eliminate le foglie più dure, sbianchiteli come vi ho spiegato nel paragrafo precedente, immergendoli prima in acqua bollente per dieci secondi e poi in acqua ghiaccio. Asciugateli, tagliateli e ripassateli in padella a fuoco vivace con olio, aglio, peperoncino e un pizzico di sale. Ora è il momento di cuocere i lupini: dopo averli lasciati in acqua salata per un po’, avete due strade. METODO N°1 Cuocete i lupini a secco a fiamma vivace, fateli aprire e toglieteli con una pinza man mano che si aprono. Filtrate il sughetto per eliminare anche l’ultimo residuo di sabbia possibile e unite un soffritto di aglio preparato a parte. METODO N°2 Mettete sul fuoco una padella, aggiungete olio e aglio e lasciate sfrigolare. Unite i lupini e toglieteli dalla padella man mano che si schiudono, tenendo da parte l’intingolo. Sgusciate i 2/3 delle vongole e unitele al sughetto di aglio nella padella. Scolate gli spaghetti al dente, aggiungete un mestolo di acqua di cottura e spadellate con i friarielli ed il guanciale. Fuori dal fuoco aggiungete lo zabaione salato e fate saltare, impiattate con solerzia e guarnite con qualche lupino ancora nella conchiglia e una spolverata di pepe macinato al mulinello. Lo spaghetto che ricade sensuale su se stesso, con quel sughetto paradisiaco che lo percorre tutto, fino a toccare il fondo del piatto. I lupini minerali e sapidi, i friarielli leggermente piccanti ed amarognoli, il guanciale croccante e profumato… Ma adesso basta sbavare sul Magazine o si bagna, correte in cucina e fatemi vedere quanto bravi siete diventati. BBQ4All Magazine

Gianfranco Lo Cascio

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Il bullo ti tormenta? Per sconfiggerlo serve una sorpresa Seguo - rubrica a cura di Emiliano Nencioni

Avrei voluto iniziare il primo numero della terza annata del Magazine con qualcosa di innovativo, positivo e benaugurante, ma ancora una volta l’estro compositivo deve piegarsi a una realtà ingrata e deludente: l’ultima moda, in fatto di social behaviour tra gli uomini di mezza età, è quella di incarnare lo stereotipo del bulletto disagiato da scuola media di provincia, e seminare scompiglio e malcostume online, al grido di “SMASH that Like button and follow me!”

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Vessazioni continue, attacchi seriali e strutturati a una o più persone, perlustrazioni dei profili e dei dettagli personali della vittima, sui social il bullismo non si configura più come una cattiveria uno a uno, alla pari, ma quasi come un’organizzazione ben strutturata, basata su ricerche, archivi, ripetizioni incessanti e trappole a base di falsi profili. Può succedere all’adolescente, ma anche all’attempato professionista; alla casalinga col vlog di cucina e al miliardario capitano d’industria: e quando dico “può succedere” intendo di essere vittima, ma anche di essere carnefice. Ho pensato, una volta tanto, di non proporre il mio pensiero che, arricchito o meno da qualche illustre pensatore del passato, lascia sicuramente il tempo che trova. Al contrario, ho ritenuto utile per i lettori, per la rivista ma anche per il brand intavolare un discorso più sensato e con basi concrete, con un protagonista dell’argomento in questione. No, non un bullo digitale (anche se sarebbe interessante,

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ora che ci penso), ma con uno psicologo psicoterapeuta nonché presidente dell’Associazione Nazionale Dipendenze Tecnologiche, GAP e Cyberbullismo “Di.Te”. Questa Seguo si pregia di ospitare, sotto forma di una breve intervista, il dott. Giuseppe Lavenia, che ha gentilmente accettato di aiutarci a fare chiarezza sull’argomento.

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Cosa è l’associazione Di.Te., e quale scopo si prefigge? L’Associazione Di.Te è un’organizzazione di volontariato che si occupa della sensibilizzazione, prevenzione, formazione, ricerca e trattamento delle dipendenze tecnologiche del gioco d’azzardo patologico e dei fenomeni correlati, come il cyberbullismo. L’obiettivo principale è quello di educare alla consapevolezza digitale sostenendo i genitori, gli insegnanti e gli adolescenti nel prevenire e contrastare in modo efficace le problematiche connesse alla tecnologia e il disagio che ne consegue. Queste finalità vengono perseguite tramite la formazione, i servizi di consulenza, i progetti nelle scuole e in collaborazione con gli enti locali. La formazione è uno dei maggiori ambiti di intervento dell’Associazione Di.Te. la quale sviluppa e struttura interventi specifici e percorsi formativi destinati a insegnanti, genitori, bambini e ragazzi, ed esperti del settore. Inoltre, organizza convegni e giornate di approfondimento, come ad esempio la Giornata Nazionale sulle dipendenze tecnologiche e sul cyberbullismo con l’obiettivo di sensibilizzare e divulgare le tematiche connesse ad Internet, al Gioco d’Azzardo e al Cyberbullismo e tutti i fenomeni internet correlati. Infine l’Associazione Di.Te. predispone iniziative, giornate e weekend di detox tecnologico per riscoprire il benessere derivante dalle attività e dalle relazioni non filtrate dai dispositivi digitali.

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Detox tecnologico: pensarci mi terrorizza, e questo dovrebbe far luce su quanto io stesso ne abbia un gran bisogno. Ma è possibile, oggigiorno, da adulti, un vero detox tecnologico per più di 24 ore? E le mail? E la moderazione dei contenuti? Chi, come me, è stato adolescente negli scialbi e pestiferi anni ‘90 si ricorderà che gli atti di bullismo potevi subirli e basta, zitto, o subirli e ribellarti, attendendo poi un supplemento, o subirli e lamentarti con genitori e insegnanti, diventando

istantaneamente un infame e un paria, additato come incapace di “pensarci da solo”. Il cyberbullismo però si propaga alla velocità di una moderna connessione a banda larga, e fortunatamente qualche mente illuminata ha ben pensato di creare un appiglio, una struttura di aiuto contro questa malaugurata metamorfosi telematica. Cosa distingue quindi il cyberbullismo dal più tradizionale bullismo “in real life”? A differenza del bullismo, il cyberbullismo presenta delle caratteristiche che lo rendono più invasivo e di difficile gestione. In primo luogo, può raggiungere un numero illimitato di spettatori in quanto non è ristretto ad un luogo fisico, ma virtuale. In secondo luogo, un’altra importante differenza è che nella Rete le comunicazioni aggressive possono continuare 24 ore su 24, non essendo delineato un limite temporale. Chiunque può diventare bullo, anche chi nella vita reale è vittima. Questo aspetto è legato all’anonimato: i cyberbulli spesso sono anonimi o si celano dietro a nickname e/o falsi profili. Chi compie atti di cyberbullismo, oltre a nascondersi dietro ad un’identità digitale, non si ritiene del tutto responsabile delle proprie azioni, in quanto può sollecitare la partecipazione alle offese da parte di altri profili sconosciuti. Il cyberbullismo si prospetta come più pericoloso in quanto la rete non dimentica, ma amplifica. Infatti, le azioni e il materiale prodotto e pubblicato online rimane nella rete e può essere diffuso in tutto il mondo, senza limiti di tempo. L’assenza di contatto con la vittima e con la sua sofferenza implica inevitabilmente un’assenza di ripercussioni a livello emotivo ed empatico in coloro che mettono in atto azioni di cyberbullismo. In aggiunta, commettere questi atti nel mondo virtuale comporta una perdita del senso delle conseguenze, in quanto apparentemente le azioni online sembrano non avere esiti reali. Anche in termini legali non vi è la percezione del danno e del reato perpetrato da parte di chi commette queste azioni nella Rete. Eh sì, danno. Perché si fanno danni, anche di discrete entità: nel cyberbullismo tra adulti si trascende quasi sempre il “tu fai schifo” e si passa ad un più mirato “il tuo prodotto fa schifo”, innescando una serie di ripercussioni non da poco. Qualcuno può farsi una risata se viene deriso per un naso troppo grande o per gli occhi troppo vi-


cini fra loro, ma quando il tuo prodotto viene sistematicamente dileggiato ed ostacolato entra in ballo il fatturato. É qui che il middle-aged bulletto si distingue dal ragazzino arrogante. Mi sono sempre chiesto cosa potesse spingere una persona adulta e (anagraficamente) matura a buttare via ore di tempo in pratiche poco produttive come l’odio e l’infamia online, notando anche come questo bisogno di sfogo malvagio livelli un po’ qualsiasi estrazione sociale, situazione familiare, provenienza geografica, età o reddito. Cambiano, logicamente, solo le capacità espressive, gli argomenti e i bersagli.

É quindi tecnicamente possibile stilare un profilo del tipico cyberbullo? In generale il profilo del bullo presenta caratteristiche quali impulsività e incapacità di controllare gli impulsi; bisogno di dominare sugli altri; incapacità di accettare limiti e/o regole; scarsa/mancanza empatia; esagerata opinione di sé. Dietro al comportamento aggressivo spesso nascondono ansia e insicurezza. Generalmente sono cresciuti in un ambiente familiare disfunzionale, inadeguato, contraddistinto da permissivismo o autoritarismo. Nonostante questi due ruoli (bullo/cyberbullo) condividano diversi aspetti, come il prendere di mira coloro che identificano quali “diversi”,

se nel bullismo siamo a conoscenza di chi è responsabile o comunque è facilmente individuabile, al contrario nel cyberbullismo, proprio per la sua natura virtuale, stilare un profilo tipico non è così immediato. Nel virtuale i ruoli non sono ben definiti, il bullo della vita reale può divenire vittima o viceversa in rete. Per contraltare, è definibile un profilo della vittima ideale? In linea generale, chi subisce attacchi di bullismo può diventare un bersaglio per la presenza di determinate caratteristiche quali: ansia e insicurezza, scarsa autostima e un’immagine negativa di sé, debolezza a livello fisico e/o sociale (appartenenza a determinati gruppi sociali, o minoranze), difficoltà ad affermarsi nel gruppo dei coetanei. Come per il profilo del cyberbullo, nel mondo virtuale, risulta difficile determinare delle peculiarità tipiche della vittima, in quanto i ruoli possono essere interscambiabili a seconda del contesto.

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Ma, di fatto, cosa fa scatenare la rabbia dell’aggressore? Un aspetto che può generare rabbia o frustrazione nel mondo online è l’affermazione dei propri diritti, che spesso si discosta dal pensiero dominante di una certa parte di popolazione (ad esempio sui Social). In questa occasione il cyberbullo si inserisce attaccando e sfogando la propria aggressività, facendo leva sulla presenza di una platea illimitata che rafforza la sua carica offensiva e “giustifica” i suoi atti.

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Questa è una cosa abbastanza riconoscibile e riscontrabile: sarà noto ormai a qualsiasi grigliatore di vecchia data che un buon 90% dei gruppi facebook di barbecue sono nati come reazione inconsulta a una frustrazione, un sentirsi esclusi o non rappresentati. Ultimamente la sfacciataggine è ancora più evidente osservando la descrizione di molti gruppi neonati, che portano nel nome l’intento ben preciso di denigrare brand e prodotti. Contando, presumibilmente, sulla tipica impunità dei discorsi fatti online, in seguito ad un’interpretazione un filo lasca del concetto di “free speech”.

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Sono anonimi, si spalleggiano, sono abbastanza cauti da non oltrepassare mai il limite della denuncia penale (più o meno): quanto conta l’effetto “branco”? L’effetto branco porta alla de-individualizzazione. Quando gli individui si trovano all’interno di un gruppo si percepiscono anonimi e il loro comportamento è guidato principalmente da regole che nascono e provengono da quel determinato gruppo piuttosto che dalle credenze e valori personali. Questa condizione porta agli individui ad agire in base all’identificazione di quel gruppo, transitoria, permanente, negativa o positiva che sia. Questa dinamica può promuovere quindi dei comportamenti virtuosi come ad esempio il senso di appartenenza ma può al contrario favorire e scatenare dei comportamenti devianti attivati da sentimenti quali aggressività, frustrazione, rabbia di alcuni componenti che vengono però condivisi dall’intero gruppo. Questa condivisione fa vivere anche la responsabilità stessa come condivisa, facendo diminuire sensibilmente la paura e il senso di colpa che il singolo componente potrebbe provare rispetto a un’azione negativa. Agisce anche l’effetto spettatore, per cui sapendo che si è in tantissimi a prendere visione di quel contenuto ci si sente deresponsabilizzati rispetto ad un’azione diretta, perciò non si agisce per limitarla o bloccarla, non si sente la responsabilità etica di agire “lo farà qualcun altro”.

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Il quadro è molto chiaro e riscontrabile in qualsiasi nicchia online di cyberbulletti. E’ tutto uno sfogo, tutto un gioco, “possiamo dire quello che vogliamo”, e il compassato manager si toglie la cravatta con nodo Windsor per chiamare a raccolta il caps lock e i famigerati punti esclamativi, la mamma affettuosa piena di foto

di pargoli e cuccioli tenerosi diventa una megera senza vergogna... per quei venti minuti al giorno. Tutti i giorni. Danneggiando qualcuno, qualcosa, un reddito, delle famiglie, un’autostima, senza minimamente avere percezione della portata del loro divertissement serale. Non sono persone cattive, spesso. Non sono delinquenti, non sono persone problematiche (salvo qualcuno, ovvio), sono persone che non hanno idea. E bisognerebbe far loro presente la cosa, anche solo con quello “Smetti.” che suggerii tempo fa di allegare come commento ai post più detestabili o ai commenti meno graditi. Bisogna, nel senso che è proprio necessario, organizzare una reazione sensata. Qual è il modo migliore per difendersi? Il bullismo/cyberbullismo è un fenomeno che non va assolutamente sottovalutato. In primo luogo quindi non va minimizzato l’accaduto e/o non va giustificato. È molto importante parlarne con qualcuno: genitori, un compagno, gli insegnanti. A volte la paura delle conseguenze o il senso di vergogna portano la vittima a tenersi tutto dentro, ma parlarne con qualcuno è il primo passo per affrontare la situazione. Inoltre è fondamentale ricordarsi che il bullismo/cyberbullismo è un reato penale, quindi bisogna denunciare. Buono a sapersi. Deve finire il tempo dell’impunità e delle spalle coperte da un’inerzia generale. “Per sconfiggere il bullo serve una sorpresa” è uno degli innumerevoli aforismi di Alejandro Jodorowsky, e per il cyberbullo evidentemente la sorpresa la recapita la Polizia Postale. Lascio ai lettori i recapiti di Di.Te., nel malaugurato caso avessero bisogno per un giovane familiare o conoscente nei guai. Segreteria Associazione Di.Te. 800.770.960 (lun-ven) www.dipendenze.com info@dipendenze.com Stampa: relazioni@dipendenze.com



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