N°26/ANNO 3 - FEBBRAIO 2021
In fondo al mar, se tutto fritto è molto meglio, credi a me Gamberi, baccalà, paranza, sogliola, fish&chips, ravioli di scampi
L'EDITORIALE DI GIANFRANCO LO CASCIO
Lezioni di Sous Vide la mappa delle cotture e le tabelle dei tempi e delle temperature
FROM ZERO TO HERO
Grigliare l'hambuger DE GUSTIBUS
Le ostriche
tutto quello che c'è da sapere
LA RICETTA SCIENTIFICA
il GLCheeseburger
Direttore Editoriale Rossella Neiadin
Redattore Capo Michela Bongiorni
Redazione
Enio Berton Virgilio Brunetti Tommaso Buccafurri Nunzia Clemente Roberto Dal Bosco Tommaso Di Gregorio Salvatore Di Mento Luca Gallozza Marco Gerometta Mariangela Ibba Gianfranco Lo Cascio Riccardo Meniconi Giovanni Minelli Emiliano Nencioni Elena Ninotti Stefania Pompele Andrea Spaggiari Alessandro Trezzi Carlo Trono Paolo Tucci Caterina Vianello Alberto Zonghetti
Realizzazione Grafica
Impaginazione Carlo Trono Illustrazioni di Eleonora Castagna e Ozzy Bellesi Fotografie di Rossella Neiadin, Luca Gallozza, Tommaso Buccafurri, Elisa Giuli, Emiliano Nencioni
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IN DI Rubriche
Editoriale - Da Zero a Sotto vuoto - parte II
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Portftolio #01 - Fritture e culture nel mondo antico
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The Chemical Griller - Pastella o panatura
22
Ricette - speciale fritto parte II Gamberi fritti
28
Baccalà in tempura
31
Raviolo fritto con scampo e crema al limone
35
Pasta fritta toscana
38
Sogliola fritta
40
Frittura di pesce
43
Melanzane fritte in due maniere
50
Fish&Chips 55 Sorbetto al limone
58
Approfondimenti
Arte Bianca - Il panzerotto barese
62
Across the pond - Gli americani e il pesce
68
In tutte le salse
73
L'Arte Casearia - La mozzarella
76
De Gustibus - Le ostriche
80
From Zero to Hero - Hamburger
84
La ricetta scientifica - il GLCheeseburger
88
Seguo - Le banalità del bullo
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BBQ4All Magazine
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Editoriale di Gianfranco Lo Cascio
Sotto vuoto Da Zero a
lezioni di cucina
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Le basi della cottura sous vide spiegate bene parte II
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È
facile trasformare un amico in nemico se non si mantengono le promesse. Io voglio che rimaniamo amici, cari i miei lettori, per cui rieccomi puntuale con la seconda lezione sulle basi della cottura sous vide spiegate bene (ma bene bene eh!). Nel numero di Gennaio del BBQ4All Magazine vi ho illustrato cos’è la cottura sous vide, qual è la differenza tra questa e altri sistemi di cottura tradizionali, quali sono le tre tecniche per eseguirla. Questo trittico di procedure sfrutta oggetti di uso comune che avrete sicuramente nella credenza nascosti dal 1998. Vi ho già snocciolato cos’è il metodo del piano cottura, ora vi dirò tutto quello che dovete sapere sul “metodo del contenitore termico” e su quello “dell’acqua corrente”. Seguitemi con attenzione.
Metodo della ghiacciaia (o contenitore termico isolato)
STRUMENTI • Contenitore termico con coperchio. • Termometro digitale a lettura istantanea. • Sacchetto con cerniera (1 litro). 01. Confezionate il cibo. Mettete il cibo in un sacchetto con cerniera. Potete inserire diverse porzioni in un solo sacchetto, ma fate attenzione a non esagerare con la quantità. SUGGERIMENTO: l'aggiunta di olio nel sacchetto aiuterà a evitare che i pezzi si attacchino tra loro durante la cottura. 02. Riscaldate l'acqua. Usate un termometro a lettura istantanea per regolare la temperatura dell'acqua calda del vostro rubinetto, che varierà naturalmente a seconda di ciò che state cucinando e del grado di cottura che desiderate - più sotto trovate ben due guide su tempi e temperatura per ogni alimento!NOTA: È meglio regolare la temperatura leggermente al di sopra della temperatura di cottura desiderata. A patto che la quantità d'acqua nel contenitore sia molto maggiore della quantità di cibo freddo, aumentate la temperatura dell'acqua di circa 3 °C sopra la temperatura di cottura desiderata. Il calore extra aiuterà a compensare la massa del cibo freddo. 03. Riempite il contenitore termico. Se l'acqua del vostro rubinetto non è abbastanza calda, riempite il contenitore di acqua calda per buona parte e usate dell'acqua bollente scaldata sul fuoco per aumentare la temperatura.
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Quella stessa scatola magica che mantiene le vostre birre ghiacciate quando andate a fare le scampagnate può trasformarsi in uno straordinario bagno termico, purché sia solida, robusta e ben isolata. Avete presente la ghiacciaia, quella in polipropilene anni ’80 con il manico bianco ed il tappo a chiusura ermetica? Proprio lei. Come per le altre tecniche “casalinghe”, è il termometro la chiave per assicurarsi che l'acqua rimanga entro i parametri di temperatura desiderati. I sofisticati termocircolatori a immersione che abbiamo imparato a conoscere (vedi Anova e simili) sono strumenti utilissimi da avere se si cucina spesso sous vide, ma una volta che questi attrezzi salvifici hanno fatto il lavoro di riscaldare l'acqua alla temperatura di cottura desiderata, quasi tutta l'energia che continuano ad erogare va ad arginare la dispersione di calore che avviene attraverso i lati del contenitore e, soprattutto, attraverso l'evaporazione. Potrebbe suonare bizzarro, ma finché la massa dell'acqua di cottura è molto più grande della massa del cibo in cottura, è necessaria solo una modesta quantità di energia extra per portare il cibo alla temperatura desiderata. Questo è una conseguenza del fatto che l'acqua ha un calore specifico molto alto, che in parole povere significa che c'è un'enorme quantità di energia termica immagazzinata nel bagnato termico. Uno strumento per la cottura sous vide può fornire
questa energia extra nel tempo, naturalmente, ma si può anche trasferire l'energia supplementare in anticipo semplicemente aumentando la temperatura dell'acqua di alcuni gradi. Quando il cibo raggiungerà la temperatura di cottura desiderata, l'acqua si sarà leggermente raffreddata a causa dell'energia termica addizionale che passa dall'acqua al cibo. La chiave di questa tecnica, tuttavia, è assicurarsi di usare un contenitore ben isolato che contenga l'acqua calda e il cibo in cottura. Una borsa frigo economica, una ghiacciaia completa di coperchio isolato, è perfetta per questo compito. Lo ripeto nel caso vi fosse sfuggito: avrete anche bisogno di un termometro a lettura istantanea per controllare le temperature. Non mi stancherò mai di dirvi quanto è importante.
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04. Aggiungete il cibo. Mettete il cibo nella ghiacciaia. Usate la tecnica del dislocamento dell'acqua per rimuovere l’aria (agganciate il sacchetto al lato della vostra pentola e immergetelo nel bagno termostatico, usate l'acqua per spingere fuori l'aria che circonda i vostri pezzi di carne o pesce). Lasciate il bordo della busta aperto e appoggiatelo sopra il bordo del contenitore, appendete il bordo sopra il lato della borsa frigo e chiudete il coperchio sopra la borsa. Questo renderà più facile estrarre il cibo in seguito, e potrete evitare di toccare l'acqua calda. 05. Coprite. È importante chiudere il coperchio della borsa termica per evitare che il calore si disperda per evaporazione. L'evaporazione dell'acqua calda è il principale veicolo di perdita di calore dal refrigeratore. La chiusura del coperchio farà la differenza tra un cibo perfettamente cotto e uno poco cotto. 06. Monitorate la temperatura. Controllate la temperatura dell'acqua dopo 30 minuti. Dovrebbe essere scesa appena sopra la temperatura di cottura desiderata. Per grandi quantità di cibo o tempi di cottura molto lunghi, controllate la temperatura ogni ora circa per assicurarvi che non sia scesa troppo. Se così fosse, svuotate un po' dell'acqua più fredda e mescolate un po' d'acqua bollente fino a raggiungere la giusta temperatura. 07. Togliete il sacchetto. Quando il cibo ha finito di cuocere, togliete il sacchetto dall'acqua calda. Se non siete sicuri che l’alimento abbia raggiunto la cottura desiderata, usate un termometro a lettura istantanea per controllare rapidamente la sua temperatura interna. È ancora crudo? Niente panico: potete semplicemente sigillarlo di nuovo e rimetterlo in acqua per continuare la cottura.
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08. Finite il piatto Quando è pronto, rimuovete delicatamente la carne, il pesce o quello che volete dalla confezione. La maggior parte delle carni e dei frutti di mare cotti con il metodo sous vide beneficia di una fase di finitura, quella che serve a fare la corsticina croccante. Diamo alla maggior parte delle proteine una rapida scottatura prima di servire.
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09. Servite! Condite e servite il vostro piatto perfetto, cotto nella ghiacciaia!
BONUS TRACK #01
LA MAPPA DELLE COTTURE SOUS-VIDE Nella pagina seguente troverete la cartina geografica delle cotture sous vide, la mappa del tesoro definitiva. Attenti però: bisogna saperla leggere, ci sono molte più informazioni di quelle che vi sembrano a prima lettura. Per fortuna c’è lo Zio che ve la spiega. È un semplice sistema a coordinate. Ricordate il gioco della battaglia navale? Stesso principio. Nell'asse delle ascisse (orizzontale) c'è il tempo. Nell'asse delle ordinate (verticale) ci sono le temperature. Individuate sulla mappa l'elemento da cuocere, tracciate le coordinate e avrete tempi e temperatura di cottura perfetti.
Ma a cosa serve una mappa per le cotture sous vide? La maggior parte di noi inizia inizia a cucinare con la tecnica del sous vide memorizzando una manciata di formulette di tempo e temperatura - una bistecca a 54°C o un salmone a 40°C. Ma quando si è pronti a salire di livello, può essere difficile accedere alle informazioni e alle combinazioni per tutti gli alimenti.
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Creare le proprie ricette da zero poi, ancora più difficile: il sous vide non è stato ancora sdoganato del tutto, le massaie sembrano ancora ostative e non esiste un ricettario completo e consultabile alla portata di tutti. Per non parlare della difficoltà nel servire due piatti cotti in sous vide in una sola volta. Siccome le bistecche cuociono a 52°C, mentre gli asparagi cuociono a 85°C, come si fa a mettere entrambe le cose in tavola alle 21 in punto?
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Queste sono domande che mi assillano ogni giorno. Come posso aiutare le persone ad adottare questo metodo di cottura quando partire da zero è così impegnativo? Per fortuna da Oltreoceano ci vengono in aiuto: una mappa della cucina sous vide che dà una panoramica di livello superiore della maggior parte degli alimenti e che mostra come i tempi e le temperature si relazionano tra loro. Sulla mappa, la vostra bistecca a 54°C e il salmone a 40°C sono coordinate specifiche, piccole città che esistono all'interno di paesi dove bistecche e salmone possono essere preparati come volete. Raggruppare gli alimenti per tipo ci permette di visualizzare le cotture, dove il pesce cuoce in acque più fredde giù a sud, mentre i brasati succulenti si preparano nel nord-est, dove i tempi di cottura sono più lunghi. Se è di verdura che avete voglia andate al nord, dove le temperature sono più alte. Come vedrete, non c'è un solo modo per cucinare una bistecca, o un salmone, o le patate, ma solo tempi e temperature di massima. E poiché la bistecca e le patate cuociono a temperature e tempi così diversi, non è possibile cucinarli contemporaneamente con successo. La soluzione? Cuocere la carne, poi alzare la temperatura e cuocere gli asparagi. Facile. Tenete a portata di mano questa mappa quando adattate le ricette tradizionali al il sous vide e quando sperimentate con nuovi ingredienti. TAGLI DURI Il tempo e la temperatura denaturano il collagene della carne e in questo modo trasformano i tagli duri in bocconcini tenerissimi. Cucinare un cappello del prete o una punta di petto in sous vide ad alte temperature farà perdere alla ciccia i succhi. Ciccia che poi si cucinerà in quegli stessi succhi diventando incredibilmente succulenta. I tagli duri cotti a temperature più basse, invece, manterranno i loro succhi, restituendo qualcosa di più simile a una bistecca.
UOVA Quando un uovo si riscalda, le proteine raggomitolate del tuorlo cominciano a sbrogliarsi e ad intrecciarsi. Queste proteine mescolate formano una specie di rete che intrappola l'acqua, facendo addensare il tuorlo. È lo stesso processo che permette alle torte salate di rapprendersi e allo zabaione salato della carbonara di addensarsi. Gli albumi hanno molto meno contenuto proteico dei tuorli e quindi si comportano diversamente. Con il sous vide, possiamo regolare le impostazioni di tempo e temperatura per personalizzare e plasmare le diverse consistenze di tuorlo e albume a nostro piacimento. PESCE E CROSTACEI I pesci sono esseri viventi a sangue freddo, quindi le loro proteine si denaturano a temperature più basse di quelle degli animali a sangue caldo. Pertanto, li cuciniamo per un tempo più breve a una temperatura più bassa. Generalmente diamo alla maggior parte dei crostacei una rapida cottura per rassodarli, ma alcuni molluschi e cefalopodi come il polpo, le lumache e i calamari hanno bisogno di temperature più alte e tempi più lunghi per ammorbidirsi (ecco perché il polpo ha una piccola isola tutta sua a nord). TAGLI TENERI E COSCE DI VOLATILI Il calore, si sa, elimina la gommosità della carne cruda. I tempi e le temperature che troviamo al centro del Terra dei Tagli Teneri rendono la carne più tenera; all'estremità meridionale ci sono carni gommosine; a nord, la ciccia strizza parte dei suoi succhi e diventa soda e pallida. Le bistecche e gli hamburger sono nella parte ovest perché si riscaldano più velocemente degli arrosti che si trovano nella parte est. I petti di pollame sono situati a nord-est perché la maggior parte delle persone li preferisce belli bianchi piuttosto che rosa. Le cosce di volatili hanno più tessuto connettivo dei petti di pollo ma meno dei tagli duri, quindi beneficiano di temperature più alte e tempi più lunghi per intenerirle. Cucinarle in questo modo gli darà una bella morbidezza finale.
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VERDURE Proprio come la denaturazione del collagene ammorbidisce la carne, la denaturazione della pectina ammorbidisce le verdure. Cucinarle in un sacchetto significa che possiamo preservare le sostanze nutritive, l’aroma e il colore che normalmente svanirebbero con i metodi di cottura tradizionali. Scoprirete che le verdure sode e amidacee come le patate e le rape cuociono a temperature più
basse e più a lungo, mentre le verdure tenere e a foglia come il cavolo richiedono un tuffo veloce in un bagnetto più caldo.
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LA TABELLA SOUS VIDE DEFINITIVA
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Guida ai tempi e alle temperature
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E anche la seconda lezione è terminata, ci vediamo il mese prossimo per la terza lezione sulle basi della cottura sous vide. Voi nell’attesa godetevi questo numero strepitoso del BBQ4All Magazine, fidatevi dello Zio.
Gianfranco Lo Cascio
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STORIA E STORIE.
Fritture e culture
nel mondo antico Portfolio gastronomico/01 a cura di Alberto Zorghetti Illustrazioni di Eleonora Castagna
Nominativi fritti e mappamondi e l’arca di Noè fra duo colonne cantavan tutti ‘Kyrieleisonne’ per la ’nfluenza de’ taglier mal tondi. Non vi inquieti l’incipit di questo straordinario sonetto quattrocentesco, tra i miei preferiti sin dai tempi del liceo; difatti non ve ne chiederò la parafrasi, anche perché sarebbe assai complicato ed anche inutile. Il componimento scritto da Domenico dè Giovanni detto il Burchiello è infatti un non-sense, tecnica per la quale era famoso e dalla quale trasse il suo soprannome: egli ammucchiava termini alla rinfusa – “alla burchia” – creando però sonetti altamente spettacolari, grotteschi, bizzarri. Ma i “nominativi fritti” sono rimasti i termini emblematici della produzione letteraria di questo singolare barbiere-poeta: ma perché proprio fritti e non lessi oppure arrosto? La risposta vi sarà suggerita un poco più avanti perché prima dobbiamo chiarire una cosa: se volete leggere una breve storia del fritto, dall’antichità ai giorni nostri, la Grande Rete Mondiale ha ciò che volete: digitate su un motore di ricerca e troverete su Wikiqualcosa ciò che fa al caso vostro: il fritto “for dummies” oppure “spiegato bene” o “raccontato veloce”, anche con diverse archeoricette. Tantissime fonti veloci, rapide ed indolori; alcune anche fatte bene, ci mancherebbe, molto utili nel mio caso, visto che ultimamente le biblioteche sono o chiuse o praticamente inaccessibili. Poi, non dimentichiamoci che io sono solo uno storico dell’arte prestato ad offrire dilettanteschi viaggi nella storia alimentare. Però qualche libro vero mi piace leggerlo ed amo raccontarvi anche le storie, gli aneddoti che ritengo più interessanti; e inizierò rispondendo a un paio di domande che, già lo sento, vi siete posti.
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COS’È IL FRITTO? E CHI LO HA INVENTATO?
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Per trovare risposta mi sono imbattuto in trattati accademici che parlavano di antropologia, semiotica e altre complicate discipline. Vi rassicuro, non voglio rovinarvi il vostro momento di relax, li tralasciamo: del resto neanche io mi sono addentrato all’interno di quegli ambiti. Per iniziare, partiamo piuttosto dalle basi stabilendo come partenza
una definizione: la frittura è una modalità per cuocere gli alimenti che consiste nell’immersione parziale o totale del cibo in grassi animali o vegetali di diverso tipo. Tale modalità di cottura è recente nella storia dell’alimentazione, dato che arriva molto tempo dopo l’arrosto ed il bollito; infatti necessita di strumenti e condizioni particolari, ovvero stoviglie ampie, preferibilmente di metallo, capaci di contenere generose quantità di olio o altri grassi. Sembrano almeno tre le popolazioni del mondo antico che potrebbero aver “inventato” come friggere il cibo. Qualcuno sostiene che i primi siano stati gli egiziani intorno al XIII secolo a.C., come possiamo vedere da diversi documenti e raffigurazioni, tra le quali spiccano i dolcetti a forma di spirale fritti nello strutto e conditi con miele (li troviamo nella tomba di Ramses III a Tebe). Secondo altre fonti sarebbero stati gli ebrei nel XIII secolo a.C. a ideare il fritto: il libro del Levitico ci racconta che il popolo ebraico, in fuga dall’Egitto, nel deserto del Sinai, avesse offerto a Dio su di una padella, un impasto di farina e grasso. Per la terza ipotesi ci spostiamo in Oriente, precisamente in Cina, nel XV secolo avanti Cristo: qui fu ideata una padella speciale con il fondo concavo stretto, l’antenata della celebre “wok”, che fu utilizzata per le prime
fritture utilizzando come grasso l’olio che già sapevano ricavare dal sesamo, dalla soia e dalla canapa. Quest’ultima sembra ad oggi la tesi più accreditata. La diffusione di questo tipo di cottura non è però uniforme in tutte le zone poiché dipende da fattori culturali, materiali, territoriali. Il tipo di grasso diventa un vero e proprio “marcatore culturale”: nell’area mediterranea troviamo ampia diffusione dell’olio di oliva, in Europa settentrionale il grasso di maiale e il burro; in medio Oriente il grasso di pecora, in Cina l’olio di soia (e anche di sesamo). Inoltre, mentre in Europa la storia del fritto vede una diffusione e una considerazione altalenante, legato soprattutto (ma non solo) alla disponibilità dei lipidi per la frittura, nella cultura orientale la costante reperibilità della soia e un pasto nel quale troviamo un immediato rapporto tra cucina e tavola, favorisce una gastronomia del fritto.
NOMINATIVI FRITTI… Dopo aver risposto alle prime, introduttive domande, torniamo di nuovo al sonetto del Burchiello. La parola fritto e i suoi derivati sono molto presenti nel linguaggio, nei modi di dire, nei proverbi della lingua italiana. Gli esempi sono numerosissimi e non possiamo elencarli tutti, basta prenderne qualcuno: ad esempio “aria fritta” o “discorsi fritti e rifritti” indicano tutti argomenti banali, scontati, risaputi. Oppure è comune esclamare, di fronte ad una situazione senza via d’uscita: “Siamo fritti!” Se fare riferimento alla frittura nel nostro parlare comune è molto diffuso,
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significa che tale preparazione è entrata nel tessuto sociale della nostra civiltà. Perché?
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Pensiamoci: un alimento infarinato o immerso nella pastella, tuffato in un grasso bollente e sapientemente cotto ci restituisce quasi sempre un qualcosa di caldo, croccante, invitante, gradevole. Friggere è rapido, rende accettabili o addirittura buono anche cibi di basso valore gastronomico: ”Fritta è buona anche una ciabatta” dicevano i nostri nonni. Il Burchiello ci dice semplicemente che la frittura era comune, popolare all’interno della cucina dei secoli scorsi; costituiva una tecnica semplice, apprezzata e molto diffusa tra i ceti medio-bassi, con le caratteristiche dello street-food odierno, ovvero popolare, veloce, gustoso, economico.
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In generale neanche oggi il fritto è sempre associato all’idea di “cucina”, bensì a quella di tavola calda, di cibo economico e senza pretese da consumare magari per strada: patatine, supplì, crocchette, frittelle. L’odore pesante del fritto è spesso considerato plebeo. Inoltre la frittura è un modo di cottura sbrigativo, che sovente per sua stessa natura non si rapporta all'alta cucina. Certo, è possibile friggere anche cibi pregiati, ma si tratta di eccezioni o sperimentazioni. Pensiamo alle frattaglie fritte – fegato, cervella, animelle - , emblema della cucina povera, poco appetibili nelle loro forme ma che diventano straordinarie a seguito della frittura. Ed è proprio per questo che alla mensa dei signori, opulenta, scenografica, con le pietanze poste in bella vista, la frittura – da mangiare rapidamente e così
“popolare” non era apprezzata. Del resto “chi non sa cucinare il pesce lo frigge” recita un noto proverbio.
L’EGITTO Appurato che i cinesi siano padri e inventori della frittura, torniamo nel Mediterraneo. In Egitto sembra proprio che si friggesse con buona frequenza: venivano utilizzate padelle basse e larghe dalla tipica forma a calotta. I documenti ci parlano del pane fritto, simile alle nostre crescentine ( o gnocco fritto); di pani dolci che possiamo associare alle odierne frappe; polpette che ricordano i falafel, preparate con fave chiare macinate, cipolla, aglio, spezie, tuttora consumati in grande quantità presso il Vicino Oriente. Molto comune anche la frittura di pesci, soprattutto di piccole dimensioni, che
venivano infarinati e poi cotti in olio bollente. Non pare fosse frequente, anche se non possiamo escluderlo, l’uso di friggere uova, tuberi, verdure. Molte testimonianze citano il cipero, tubero oggi a noi sconosciuto ma diffusissimo nell’antichità, con il quale si preparava un impasto con l’acqua, datteri e miele, dal quale si ricavavano dei triangoli da friggere in olio bollente. Il risultato era composto da biscotti dolci, destinati ad essere serviti freddi. Dimenticavo, tutte le preparazioni di questo tipo erano asciugate in panni di lino, che assolveva alla funzione della nostra moderna carta assorbente.
IL MONDO ELLENICO
ROMA: IL FRITTO TRA REPUBBLICA ED IMPERO Quando pensiamo alla cucina romana ci vengono in mente banchetti stupefacenti, fastosi, eccessivi, anche licenziosi: ad esempio la cena di Trimalcione descritta nel Satyricon di Petronio (da ammirare nell’omonimo film diretto da Federico Fellini nel 1969) oppure i pasti cosiddetti “luculliani”. Altro imprescindibile riferimento è il “De re coquinaria” (Sull’arte culinaria) di Apicio, personaggio vissuto durante il regno di Tiberio. Le ricette che vi leggiamo sono molto interessanti, diverse realizzabili ancora oggi, altre decisamente impraticabili per complessità e al di fuori della nostra concezione alimentare ( si parla di ghiri, murene, pappagalli, cammelli, fenicotteri ed altro ancora… ). Come abbiamo potuto vedere nello scorso numero del Magazine, la frittura era diffusa nel mondo romano. In particolare, negli scavi di Pompei molti ritrovamenti sembrano interessare proprio il mondo del fritto. Molti, infatti, gli utensili che sembrano evidenti servissero alla nobile arte della frittura; come ampiamente anticipato sempre nello scorso numero, la frittura per i latini era un po' diversa rispetto alla nostra. Il verbo “frigere” in latino ha un significato diverso rispetto all’italiano. Indica infatti qualsiasi alimento cotto ad alta temperatura che “saltava su”ed “emetteva suono”. È evidente che il fritto romano fosse molto distante dal nostro, qualcosa a metà tra il lesso e il fritto: si tendeva ad evitare le pietanze dure, leggere e croccanti, condizioni necessarie per un “buon fritto moderno”, ma non indispensabili per i romani. Tanto è vero che nel testo di Apicio alcuni fritti sono ricoperti e accompagnati da brodo o da liquidi vari, in modo da renderli più molli e ancora più umidi. Difatti il nostro autore, per conservare fresca una frittura, consiglia di cospargerla di aceto caldo subito dopo averla tolta dalla padella secondo una ricetta che successivamente sarà molto diffusa in Italia meridionale e che prende il nome di “scapece”. Ecco qualche esempio di pietanza che vediamo dai vari testi romani: come antipasto venivano preparate delle polpette di calamari o gamberi, prima bolliti, sminuzzati, ricomposti in palline che erano poi fritte. Come secondi piatti troviamo numerose vivande che prevedono il pesce fritto, abitudine importata dalla Grecia; ma anche la torta di acciughe fritte, cotte in uovo, olio, garum, vino. Moltissime ricette riguardano i dolci: i globuli, antenati degli struffoli campani; l’encyctum, spirale fritta di origini egizie; i datteri ripieni e
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Nel mondo greco, nei diversi secoli percorsi dalla sua storia, troviamo un tipo di cottura dei cibi che possiamo identificare con il fritto e la frittura. Era apprezzato? Sì e no… Nella letteratura troviamo per lo più giudizi negativi: Menandro definisce i cibi fritti mediocri e volgari; Ateneo, in riferimento ai molluschi, dice che si mangiano bolliti o fritti, ma che sono molto meglio quelli arrostiti sulla brace. Inoltre i medici, come ad esempio Ippocrate e Galeno, hanno sempre messo in guardia contro i cibi fritti, soprattutto per la loro pesantezza. A questa negativa considerazione gastronomica va però contrapposta la grande diffusione del fritto, soprattutto all’interno degli strati sociali più bassi. C h e c o s a s c o p p i e t t a va nelle padelle di metallo e terracotta dell'antica Grecia?
Primariamente pesci, molluschi e uova. Ma anche focacce: il tiganités artos è una pasta ripiena di formaggio e fritta in olio, antenata dell'odierna tiropita (sfoglia ripiena di formaggio, generalmente feta) ancor oggi venduta in tutta la Grecia da bancarelle od ambulanti. Si friggono anche dolci, come certi tipi di pémmata (focacce dolci) o plakountes (panzerotti dolci, in latino placentae) e il laganon (strisce di pasta sfoglia, da molti ritenute le antenate delle lasagne).
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fritti; ed altri simili alle nostre chiacchiere.
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IL MEDIOEVO E IL RINASCIMENTO
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Nell’età di mezzo inizia a configurarsi, seppur lentamente, il fritto come lo intendiamo oggi, grazie anche alle invasioni arabe della Spagna e della Sicilia. Tali popoli infatti pare cuocessero verdure, carni e pesci nel grasso bollente ricavato dalla coda delle pecore, chiarificato secondo tecniche già note nel VI sec. a.C. ai persiani che avevano appreso la tecnica della frittura dai cinesi. Intendiamoci, il protagonista delle tavole signorili era senza dubbio l’arrosto, presso i ceti meno abbienti il bollito. Però sfogliando diversi ricettari e documenti medievali emerge il fritto in primo piano nella preparazione dei pesci, di vivande di intermezzo tra le varie portate, dei dolci. Troviamo la “schibezia da tavernaio”, derivato dalla cultura romana, l’antenato del nostro scapece, di cui abbiamo anche la rielaborazione più raffinata nella versione cosiddetta “di Federico II”: pesce fritto, ricoperto di una salsa a base di cipolle, uva passa, prugne, spezie, mandorle, zafferano. Le frittelle, dolci o salate, erano veramente di ogni tipo, persino di fiori come ad esempio il sambuco; o i crostini fritti, cibo da taverna per eccellenza, costituito da pane raffermo grigliato, immerso nell’uovo, fritto e servito con miele.
Dimenticavo: quale grasso era usato? Non scordiamoci che il calendario dell’uomo medievale era scandito dai giorni “di grasso”, in cui erano consentiti la carne e i suoi derivati, e quindi si friggeva con lardo o strutto, che in linea di massima erano maggiormente utilizzati; e i giorni “di magro” dove si consumavano primariamente pesce e verdure (e poi anche uova e formaggi) e si friggeva con l’olio di oliva. Maestro Martino, il più famoso cuoco italiano del Quattrocento, riprende senza dubbio la tradizione medievale dedicando al fritto e alle frittelle un intero capitolo del suo ricettario (Libro de arte coquinaria). Possiamo trovare nel dettaglio le spiegazioni su come «far ogni
frictella»: di fiore di sambuco, di bianco d'uovo con fior di farina e cacio fresco, di latte quagliato ovvero giuncata, di riso, di salvia, di mele, di fronde d'alloro, di mandorle. Ancora troviamo presenti tutte le varianti di grasso e di magro.
A TAVOLA CON I MALATESTI Non esiste modo migliore di raccontare una storia se non attingere dal proprio territorio. Ormai l’avrete capito, le mie origini sono marchigiane, al confine con la Romagna; queste terre, tra il XIII e il XV secolo, diciamo erano dominate dalla famiglia Malatesta, o Malatesti, Signori di Rimini, Cesena, Pesaro, Fano, Senigallia. Leggendo le fonti relative ai banchetti tra il 1373 ed il 1475, troviamo che il fritto ha un ruolo secondario, ma non marginale,
riservato soprattutto ai dolci e al pesce. Venivano adoperati a tale scopo lo strutto e l’olio di oliva, raramente il burro. Se dovessimo ricreare oggi quelle pietanze, avremmo notevoli difficoltà legate alle modalità di cottura, al gusto speziato e dolce dei piatti, agli strumenti usati e ai materiali. Per il fritto, invece, possiamo immedesimarci più facilmente, i procedimenti erano molto simili. Partiamo da un grande classico della cucina italiana, i ravioli, simili a quelli che conosciamo oggi: ripieno di ricotta ed erbe dolci, formaggio, uova, spezie. Erano cotti in brodo, e qui nulla di strano, ma potevano essere anche fritti e poi zuccherati. Nella lista della spesa per le nozze di Gentile da Varano con Elisabetta di Guglielmo Bevilacqua (1373), troviamo una ingente quantità di pesce (546 libbre, circa 160 kg!) destinato in parte ad essere lessato e fritto, ovviamente in entrambi i casi accompagnato da salse per completare il sapore del piatto secondo i gusti dell’epoca. Un esempio? Sogliole fritte con succo d’arance, facili da preparare anche oggi. Nei documenti dei Malatesti non potevano mancare dolci fritti, questo caso tortelli ripieni di un composto a base di zucchero, mandorle e noci; ovviamente cosparso di zucchero.
FRAMMENTI DI STORIA MODERNA Accadono tanti, troppi cambiamenti in questi secoli per raccontarli tutti; basti dire che intorno al 1600 nascono le patatine fritte, e questa è veramente un’altra storia…
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Diciamo che l’accoppiata dolce e fritto è sempre presente, soprattutto - ma non solo nella cucina popolare. Già a partire dalla fine del Seicento si inizia a parlare di varie ricette di frittura che iniziano ad acquisire sempre più importanza; tanto che Antonio Latini di Fabriano nel 1692 descrivendo uno dei celebri pranzi preparato da lui, cita come seconda portata “Un gran piatto di fritto fatto con fegato di vitello, bocconi di animelle, fegatelli di diversi polli, cervelle di vitelle e fette di zinna con sparaci fritti sopra”. Dalle fine del Settecento, già a partire dal “Cuoco galante” di Vincenzo Cuoco ed altri ricettari, troviamo la progressiva inclusione del fritto all’interno della cucina di medio e alto livello, fino ad arrivare al completo sdoganamento nel XIX secolo con Pellegrino Artusi, autore del testo “La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene” del 1891. All’interno di questa vera e propria Bibbia della moderna alimentazione troviamo una trattazione ampia ed esaustiva in un capitolo dedicato interamente al fritto (preparazioni 162-225).
IL FRITTO E NOI
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Ognuno ha un rapporto personale con il fritto, dovuto ai ricordi, alle esperienze, al proprio gusto. Il fritto è un comfort food capace di evocare ricordi e sensazioni molto immediate, un’esperienza sensoriale breve, intensa, facilmente memorizzabile.
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Il mio rapporto con questa
amatissima tecnica è particolare: in casa mia si friggeva poco, mia madre non digeriva questa cottura, non ne amava l’odore che permaneva a lungo nell’abitazione e quindi era raro trovarlo in tavola. Si apprezzava molto però quando si mangiava fuori: il fritto era associato all’idea della festa, del nuovo, dell’extra ordinario. Mi capita spesso anche ora, di apprezzare questa preparazione quando mi trovo fuori casa: del resto uno dei massimi piaceri culinari è quello di mangiare fuori ciò che non è comune nel quotidiano. Non voglio annoiarvi elencando le straordinarie esperienze culinarie legate al fritto che ho vissuto girando l’Italia per lavoro (e per diletto), vi propongo solo alcuni ricordi, i più emozionali, diretti, vividi, suggestivi: Senza commenti, come delle cartoline. Fatelo anche voi, chiudete gli occhi… FORT AUGUSTUS - LAGO DI LOCH NESS, SCOZIA
Fish and Chips, spruzzate di sale e aceto. BRUXELLES - QUARTIERE DI SAINTE CATHERINE
Moules et frites (cozze e patate fritte) e birra blanche. PALERMO - CORSO CALATAFIMI
Pane e panelle; arancine al ragù. NAPOLI - CAPODIMONTE
Pizza fritta.
EPILOGO Alla fine di tutto resta una certezza: un buon fritto è meraviglioso perché stimola tutti i nostri sensi, ci invita a gustarlo con avidità. L’occhio si nutre del colore dorato, lo sfrigolare nel grasso appaga l’udito mentre il profumo inebria le narici e ci attrae inesorabilmente; poi si mangia con le mani, il piacere tattile è impagabile, le posate debbono essere bandite per godere appieno. E il gusto? Abbiamo già detto tanto, ma sappiamo tutti che la brama di afferrarne subito un altro è di fatto inarrestabile… Terminiamo con un altro riferimento letterario: se l’incipit del nostro percorso era stato segnato dallo scanzonato e divertente sonetto del Burchiello, la chiosa è soavemente lirica e suggestiva.
Oda a las papas fritas (Ode alle patate fritte)
di Pablo Neruda da “Navegaciones y regresos (1957-1959)”
Chisporrotea en el aceite hirviendo la alegría del mundo: las papas fritas entran en la sartén como nevadas plumas de cisne matutino y salen semidoradas por el crepitante ámbar de las olivas.
L’aglio aggiunge ad esse la sua terrena fragranza, il pepe, polline che attraversò le scogliere, e vestite a nuovo con abito d’avorio, riempiono il piatto ripetendo l’abbondanza e la saporita semplicità della terra.
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El ajo les añade su terrenal fragancia, la pimienta, polen que atravesó los arrecifes, y vestidas de nuevo con traje de marfil, llenan el plato con la repetición de su abundancia y su sabrosa sencillez de tierra.
Scoppietta nell’olio friggendo l’allegria del mondo: le patate fritte entrano nella padella come candide piume del cigno del mattino ed escono semidorate dalla crepitante ambra delle ulive.
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Pastella o panatura? UNA PICCOLA GUIDA PER NON SBAGLIARE MAI
The Chemical Griller a cura di Virgilio Brunetti
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uante volte vi è successo di vedere in TV quei fritti croccanti e dorati, preparati magari da un cuoco famoso, e di pensare: che voglia mi è venuta, me lo faccio pure io! In fondo che ci vuole? Pastella o panatura, olio bollente e via. Poi invece avete fatto i conti con la triste realtà e vi siete ritrovati nel piatto pietanze fritte “mosce”, impregnate d’olio, oppure bruciacchiate fuori e crude dentro, molto lontane dal quel dorato e friabile paradiso che avevate sognato.
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La dura verità è che friggere è molto ma molto più difficile di quanto si possa pensare. Scegliere l’elemento giusto nel quale friggere un alimento non è per niente una cosa da sottovalutare: come sempre, è la scienza a dettare le regole anche ai fornelli, non si scappa. Vale lo stesso discorso per le pastelle e le panatura. Non basta sbattere un uovo, prendere il pangrattato, aggiungere un po’ di parmigiano e friggere nell’olio per avere un risultato perfetto. Anche se l’Artusi, nel suo La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene (1895) scrive “(…) spegnete la farina col rosso d’uovo e cogli altri ingredienti, versando l’acqua a poco per volta per farne una pasta non troppo liquida. Lavoratela bene col mestolo, per intriderla, e lasciatela in riposo per diverse ore. Quando siete per adoperarla aggiungete la chiara montata. Questa pastella può servire per molti fritti”. Inutile dire che la cosa è un pochino più complicata di così. Ecco quindi una piccola guida per aiutarvi a districarvi nel dedalo di ricette che potrete trovare online o sui libri. Come sempre, non ci limitiamo a dirvi cosa fare, ma vi spieghiamo per bene anche il perché. Qualche lettore ha lamentato una certa difficoltà nell’assimilare bene tutte queste informazioni, che ci rendiamo conto essere spesso molto tecniche e non di immediata comprensione. Ma vi ricordiamo che avete a disposizione un’assistenza clienti eroica e l’altrettanto eroica disponibilità dei nostri coach, che sono pronti a spiegarvi tutto ciò che possa risultarvi ostico ad una prima lettura. Per cui non vi perdete d’animo e buttatevi a capofitto in questa mappa dettagliata per arrivare al tesoro più dorato, croccante e asciutto che ci sia.
IL CONCETTO DI FRITTURA Quello che accade ad un alimento portato in cottura in un olio caldo è quello che definisce la frittura stessa. Si potrebbe dire che l’olio bolle ma non è esattamente così, perché gli oli da frittura bollono ad una temperatura di circa 300°C; quello che accade realmente ha a che fare con l’acqua intrinseca all’alimento: più un alimento è umido più la reazione sarà intensa, ovvero ci sarà un quasi istantaneo sviluppo di vapore a partire dalla superficie. L’acqua di fatto sublima per effetto del calore intenso e in forma gassosa genera dei piccoli geyser di vapore sulla superficie del cibo, generando una colonna di bollicine che avvolgono l’alimento; questo fenomeno si va affievolendo finché la superficie non si disidrata completamente: insomma non si è sigillato un bel niente, se è quello che state pensando! La frittura crea il contesto ideale affinché proteine e carboidrati reagiscano in una fantastica combinazione di reazioni di Maillard: calore intenso e ambiente di reazione privo d’umidità. Attenzione: alimenti molto umidi friggono con particolare violenza perché le piccole gocce d’acqua in essi contenute esplodono letteralmente a contatto con l’olio caldo (ricordiamoci che si lavora in un range di temperature comprese tra 160°C e 190°C!). Ora, perché preferire una frittura utilizzando una panatura o una pastella piuttosto che friggere il prodotto tal quale? La risposta è ancora: dipende. È come dire: meglio il carciofo alla giudia o in tempura? Dipende. E poi friggereste delle patatine in pastella oppure un fiore di zucchina senza una pastella? Dovrebbe essere già chiaro nella vostra testa che un fritto ben fatto deve essere caldo, croccante e dorato; il suo colore e il suo aspetto probabilmente sono gli attributi organiolettici più impattanti seguiti dalla texture, mangereste una patatina pallida, unta e molle?
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Una buona frittura è dunque sicuramente collegata al concetto di croccante. Questo aspetto fondamentale merita un ulteriore approfondimento: in analisi sensoriale si preferisce distinguere tra crispy e crunchy. Crispy è un attributo riferito alla superficie dell’alimento, dura ma molto sottile, che si frantuma immediatamente alla masticazione come se fosse vetro, svelando sotto di essa una matrice leggera, alveolata e scioglievole; il classico esempio di alimento crispy è la patatina fritta. Crunchy è la sensazione uditiva provocata dalla rottura meccanica dell'alimento, che emette un suono durante la masticazione simile a quello che emettiamo quando addentiamo una mela.
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LE FARINE, LE PANATURE E LE PASTELLE Salvo alcune eccezioni, non molti alimenti presentano una appearance gradevole se fritti direttamente in olio per cui le panature e le pastelle diventano nella maggior parte dei casi indispensabili al fine di un risultato ottimale; capirete che, per quanto possiate sbattervi, alcuni cibi non svilupperanno mai una crosta croccante senza un involucro, mentre altri più ricchi di amidi lo fanno spontaneamente. Con molti degli alimenti umidi e idratati, che non si prestano bene alla frittura diretta (come frutti di mare, crostacei e molluschi, particolarmente ostici perché letteralmente esplodono a contatto con l’olio caldo), una pratica comune per tamponare questo effetto è asciugarli infarinandoli abbondantemente e scrollandoli dell’eccesso di polvere. L’umidità stessa dell’alimento andrà a fare da collante alla polvere. Questa è la base della classica frittura mista di pesce. L’infarinatura dell’alimento inoltre è il primo step nell’allestimento della panatura. Questo metodo di preparazione richiede tre step: 1. spolverare l’alimento con un primer: farina 00, amidi, amidi modificati, destrina (Trisol by Texturas); 2. formare uno strato adesivo (di idrocolliode) immergendo in un liquido: uovo intero, tuorlo, albume montato, soluzione di metilcellulosa (E461); 3. ricoprire l’alimento una panatura. Il primo e il secondo step andranno a determinare lo spessore della crosticina in base agli ingredienti utilizzati; l’ultimo step, la panatura propriamente detta andrà a determinare la texture: ingredienti secchi in granuli ed in polvere derivati da prodotti da forno (pane, taralli, friselle, biscotti, grissini, crackers ecc.) generano una panatura compatta con un o spiccato effetto crispy.
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Le panature posso essere utilizzate anche in combinazione con una pastella per amplificare l’effetto crusty e crunchy della frittura. Panature a base di farina precotta di mais, polvere o granuli di cereali in fiocchi, chips di patate o mais, vegetali disidratati in fiocchi (e.s cipolla), generano un risultato meno denso, crispy e crunchy. Pur un effetto spiccatamente extra crunchy andremo invece ad utilizzare cereali soffiati e snack tipo estrusi di mais o di patata. Nelle panature l’obiettivo è ottenere una crosta superficiale croccante sottile e contestualmente un prodotto che all’interno deve risultare perfettamente cotto. Nelle pastelle questo strato si presenta più spesso e complesso e si ottiene sempre mediante la combinazione di un liquido con un prodotto contenete amidi, che sia capace di intrappolare aria.
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Lo stesso Artusi in maniera empirica suggerisce di stemperare un amido in una componente liquida e in una seconda fase aggiunge una schiuma, ovvero l’albume d’uovo montato a neve. Questo metodo fa sì che la pastella solidifichi istantaneamente a contatto con il mezzo caldo generando una matrice solida, alveolata, leggera e croccante (crispy).
Gli attributi della texture della pastella sono strettamente correlati alla presenza di specifici ingredienti i che sono: un amido, un liquido ed un agente lievitante. 1. Componente amidacea: farina di frumento, riso o mais, amido di cereali (mais, frumento, riso), amido di tapioca, amido di patata, ed infine amidi modificati; 2. Componente liquida: acqua, acqua gassata fredda, birra fredda, latte, latticello, uovo intero, tuorlo, albume, alcol etilico (es.vodka), sidro, aceto; 3. Agente lievitante: lievito di birra, lievito chimico, bicarbonato di sodio, shock termico. La versione 1.0 della pastella quindi è una banale miscela costituita da farina 00/amido e il 30% d’acqua (slurry), potete utilizzare questa miscela anche come collante per le panature (acqua 50%). Lavorate sempre bene la sospensione di acqua e amidi in modo che questi inizino il processo di gelatinizzazione. Lo spessore dell’involucro in cottura sarà generalmente sottile mentre la consistenza sarà quella di una frittella appena croccante, dorata fuori e compatta, con pochissima alveolatura all’interno, ovviamente sempre che vi atteniate ad una tecnica di frittura corretta.
Nella versione appena più avanzata della stessa pastella utilizzeremo in sostituzione della normale acqua altri liquidi con un’elevata quantità di anidride carbonica disciolta: acqua frizzante, birra, champagne. I liquidi frizzanti devono essere rigorosamente freddi in modo da mantenere il più a lungo possibile la CO2 disciolta durante la miscelazione della slurry. A parità di spessore questa pastella risulterà sia crispy ma anche leggera e ricca di spazi vuoti (puffy) per via dell’ anidride carbonica che, dilatandosi per effetto del calore, farà lievitare istantaneamente la pastella in cottura. Questa variante apparentemente semplice è la base della frittura in tempura. Non mi dilungherò nelle dubbie e non giapponesi origini di questa tecnica. E’ comunque certo che grazie alla cultura gastronomica giapponese questo tipo di preparazione sfiori la perfezione. Croccante, leggera, asciutta. Una combinazione perfetta di una miscela di amido di riso e frumento e acqua gassata, che si fissa istantaneamente sugli alimenti in cottura che devono essere in alcuni casi preventivamente preparati, cotti e raffreddati. La miscela deve essere preparata estemporaneamente mantenendo anche i grumi di amidi non idratati, parte integrante della texture della tempura. Lo shock termico libererà istantaneamente l’anidride carbonica presente nella pastella dandole una struttura ancora più eterea.
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TEMPURA CLASSICA
Ingredienti: 100 g di acqua fredda gassata/ 100 g di farina di riso Preparazione:
1. Amalgamare farina e acqua velocemente senza preoccuparvi nel caso in cui resti qualche grumo, che contribuirà a rendere la frittura più croccante. 2. Scaldate l’olio portandolo alla giusta temperatura (170°C), immergete un ingrediente per volta nella pastella senza eccedere e adagiatelo nell’olio. 3. Friggete i vari ingredienti pastellati senza toccarli o girarli di continuo, fin quando non saranno dorati. 4. Raffreddate brevemente la tempura su una gratella quindi servitela.
variante ultra crispy
TEMPURA SOTTO STEOIDI
Sostituite la farina di riso con una miscela di farina di frumento, maizena e amido modificato di mais ceroso (E1442, es. Crystal mais)
Ingredienti: 100 g di acqua/ 10 g di vodka/ 30 g di farina di riso/ 10 g di amido di mais/ 10 g di E1442/ 3 g di sale/ lievito chimico 0,5 grammi
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Preparazione:
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1. Miscelare gli ingredienti liquidi e solidi, e caricate la miscela in un sifone ben freddo preparato con 2 cariche di protossido di azoto (N2O); non utilizzate anidride carbonica (CO2) perché acidifica la miscela e compromette la reazione di Maillard. 2. Sifonare la schiuma di pastella in un contenitore e utilizzatela rapidamente per pastellare le verdure sbianchite o piccole porzioni di pesci, di crostacei e di molluschi. Prima di pastellare gli alimenti, se ritenete siano troppo umidi, asciugateli con un sottile strato di farina di riso. 3. Friggete come sopra.
PASTELLE A BASE D'UOVA L’aggiunta di uova alla pastella di frittura è un altro grande classico, così come testimonia lo stesso Artusi. Questa pratica darà spessore alla pastella, ma soprattutto le donerà una texture più ricca e saporita. La combinazione di amidi, proteine e grassi dell’uovo genera un impasto molto adatto a trattenere aria, per cui va sfruttato per ottenere le componenti volatili (anidride carbonica, etanolo); l’aggiunta di un agente lievitante come un lievito di birra o chimico migliorerà terribilmente la texture di questa miscela. Così come ci insegna l’Artusi, l’aggiunta di albume d’uovo montato alleggerisce la densità della pastella e garantisce una incorporazione d’aria piuttosto efficace senza l’uso di agenti lievitanti. Nelle pastelle a base amidacea o amido-uova,
l’aggiunta di alcool etilico genera interessanti effetti sulla consistenza della pastella. Sia che venga aggiunto direttamente o generato dalla fermentazione naturale del lievito di birra, questo solvente evapora velocissimamente a contatto con l’olio caldo, molto più velocemente e vigorosamente dell’acqua, e genera un curioso effetto e sulla superficie della pastella cotta, che risulta sfrangiata in sottili filamenti croccanti. La combinazione di elementi acidi (latticello, aceto, birra, ecc.) e bicarbonato di sodio genera in poco tempo una reazione chimica, che sviluppa grandi quantità di anidride carbonica diffusa molto velocemente e genera una pastella molto spumosa. È necessario cogliere l’attimo e utilizzare la pastella al picco della reazione. Ovviamente tenete conto che il bilanciamento di componenti acide e basiche non deve devastare il gusto della pastella
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I GAMBERI FRITTI ...e le ciliegie mute!
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Si dice che siano appunto le ciliegie a essere talmente irresistibili da far nascere il detto una tira l’altra. Sarà anche vero, ma dite la verità: di fronte a un vassoio di gamberi fritti o di ciliegie su cosa vi buttereste? Dovete essere proprio sinceri sinceri, però: siamo tra amici di frittura. Tra i gamberi, quelli che amiamo noi di BBQ4All, sono quelli rossi di Mazara del Vallo; ne abbiamo parlato spesso (ed anche dedicato un intero speciale a Dicembre 2019). Del gambero rosso di Mazara, sappiamo molte cose: è il gambero emblematico della miglior parte del Mar Mediterraneo, di un deciso color rosso quasi corallo con macchie scure sulla testa che lo caratterizzano. Viene pescato sui fondali marini a circa 400 m di profondità dai pescherecci d’altura. Alla salpata, ovvero nel momento in cui le reti a strascico vengono tirate su; nel più breve tempo possibile viene fatta una cernita e il gambero viene suddiviso in base alla pezzatura. A quel punto, i gamberi vengono separati in vaschette da 1 kg e immediatamente abbattuti a bordo per evitare l’uso di solfiti. Oltre tutte queste cose, in questo ultimo anno abbiamo anche imparato a riconoscere il sapore burroso e pieno del gambero rosso. Queste qualità si avvertono soprattutto quando è mangiato crudo, così come abbiamo appreso dai cuochi di Mazara e da Gianfranco Lo Cascio tutti i segreti per presentarlo in tartare e per utilizzarlo al meglio in ogni occasione; abbiamo imparato anche a realizzare un’ottima bisque partendo dai suoi scarti, perché di un prodotto della natura così eccezionale non bisogna sprecare NULLA. Oggi torniamo alla semplicità: il nostro prelibato gambero lo friggiamo e lo tuffiamo nella salsa rosa. Sì, ma lo facciamo come sempre a modo nostro, con la cura per i dettagli e con un pizzico di inventiva.
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Partiamo dalla panatura: sicuramente moltissimi di voi conosceranno già il panko. Si tratta di un'impanatura tipica della cucina giapponese, che dona particolare leggerezza e croccantezza. Diversamente dalle panature classiche, il panko dona una panatura molto leggera, non frigge ma
ingloba aria e quindi tende a far scivolare via l'olio in eccesso sugli alimenti fritti. Dunque è perfetto per friggere i nostri amatissimi gamberi rossi Mazhara. Non serviranno grandi sapori per esaltare questi bocconcini deliziosi, ma certamente servirà una salsa. Qui andiamo sul classico (qualcuno direbbe banale, ma noi fischietteremo e non lo ascolteremo) e scegliamo la salsa rosa o salsa cocktail. I lettori più affezionati ricorderanno lo speciale anni ‘80 del Magazine nel numero di Settembre 2020. Lì, lo Zio ha rivisitato un classico degli antipasti di quegli anni: il cocktail di gamberi. Ecco, useremo proprio la maionese preparata in quell’occasione, che ricorda la salsa cocktail giusto per il colore e per l’aggiunta del brandy, per accompagnare il nostro oro rosso fritto. Ma a che temperatura dobbiamo far cuocere il gambero? Come già spiegato in Community, non esiste una temperatura perfetta: spiegato in maniera più dettagliata, non ne esiste una sola di servizio, perché può variare in base al vostro gusto. Facciamo un brevissimo recap a beneficio di tutti: a 45°C è ancora crudo, a 50°C è crudino ma compatto, con una consistenza soda anche se ancora molto umida, a 60°C è cotto ma molto molto tenero, a 70°C è ben cotto e con una succosità accettabile. Oltre questa temperatura, buttatelo via. Friggendolo, quindi avendo bisogno che all’esterno diventi croccante e che non sia troppo tenero tanto da rischiare di sfaldarsi, opteremo per una temperatura di servizio sui 70°C. Ovviamente, se dovessimo cucinarlo in altri modi, preferiremmo servirlo anche a temperature minori. Non ci resta quindi che preparare questo delizioso antipastino e mettere da parte le ciliegie di cui sopra, ché oltretutto non è neanche la stagione giusta.
INGREDIENTI 4 persone
per i gamberi: 1 kg di gamberi rosso Mazhara 280 g di pane panko 150 g di farina 00 300 g di acqua frizzante ghiacciata sale q.b. olio di semi di arachide q.b. per la maionese di gambero: le teste dei gamberi 60 g di tuorli 150 g di olio di semi di girasole 10 ml di succo di limone 10 ml di aceto di vino bianco 3 g di sale 1 g di pepe di Timut brandy q.b.
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PREPARAZIONE 1. Versate l’acqua in una ciotola e aggiungete a pioggia la farina, mescolando senza sosta con una frusta. Aggiustate di sale. La pastella dovrà risultare liscia e senza grumi. 2. Dopo aver pulito i gamberi e averli privati dell’intestino (tenete da parte le teste, visto che ci serviranno), tuffateli prima nella pastella e poi nel pane panko, facendolo aderire bene alla polpa. Ponete poi i gamberi così panati in frigorifero per circa mezz’ora.
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3. Mettete le teste dei gamberi in una casseruola con un po' d'acqua e schiacciatele bene. Fate uscire il liquido e fatelo ritirare, poi filtratelo. Otterrete un composto denso e rosso, da aggiungere alla maionese.
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4. Pastorizzate i tuorli delle uova, poi miscelate i due oli in un contenitore con beccuccio. Sbattete
i tuorli pastorizzati ancora tiepidi insieme al liquido molto ristretto ottenuto dalle teste di gambero (o a un paio di cucchiaini di assoluto), e versate a filo l'olio continuando a sbattere con le fruste. Aggiungete a questo punto il limone, l'aceto, il sale e il pepe. Aromatizzate la vostra maionese con un goccio di brandy e mettete tutto in frigo a far raffreddare. 5. Scaldate l'olio di semi di arachide a una temperatura di circa 180°C e poi friggete i gamberi: dovranno risultare croccanti all'esterno e ben cotti all'interno (temperatura di 70°C). 6. Scolate i gamberi su un foglio di carta assorbente e serviteli, caldi e fragranti, insieme alla loro maionese.
Facciamo fritto il
BACCALÀ ...in tempura!
“Sei proprio un baccalà!”. Chi si offende alzi la mano. Di sicuro, nessuno dei nostri: il baccalà è un prodotto squisito e potremmo soltanto essere fieri di essere accostati ad esso. Chiariamo per bene cosa è il baccalà: esso proviene dal merluzzo atlantico e subisce un lungo processo di salatura. Islanda, le isole Fær Øer, la Groenlandia, la Danimarca e la Norvegia, sono tutti grandi produttori di baccalà da merluzzo atlantico. Il merluzzo viene pulito e parzialmente diliscato: grazie a questi procedimenti, la polpa del merluzzo inizia a perdere acqua, disidratandosi, fino a raggiungere percentuali di acqua presenti nella polpa minori al 48%. Una volta raggiunto questo stadio di lavorazione, il nostro baccalà è pronto per essere messo in commercio. La diffusione del baccalà è, possiamo affermarlo tranquillamente, mondiale. Soltanto in Italia non si contano le innumerevoli versioni e lavorazioni del baccalà: si va dal Veneto alla Campania. Dobbiamo la sua ampissima diffusione alla grande capacità di viaggio e conservazione. Infatti, fino a non molti decenni fa, il baccalà era usato come merce di scambio tra i contadini (che mettevano a disposizione masserizie varie) e commercianti oppure cittadini di posti sul mare. Ecco spiegato perché, anche in posti lontanissimi dalla costa, vige ancora una forte tradizione fatta di baccalà e sagre dedicate. La differenza sostanziale tra baccalà e merluzzo consiste nel fatto che il merluzzo viene essiccato all’aria aperta dopo essere stato decapitato ed eviscerato. Così il merluzzo subisce tutti i fenomeni climatici, avendo una lavorazione minima da parte dell’uomo. BBQ4All Magazine
In questo numero del Magazine, abbiamo deciso di friggere il nostro baccalà, con la tecnica della tempura. La sua fragrante
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crosticina, che ad ogni assaggio rompendosi regalerà la morbidezza e tutto il sapore del pesce, conquisterà tutti i vostri ospiti. Sembra che le origini della tempura coinvolgano sia il popolo giapponese che quello portoghese. Durante il Cinquecento, infatti, i missionari gesuiti emigrati dal Portogallo in Giappone importarono anche la loro abitudine di friggere le verdure pastellate in uova e farina durante i periodi di digiuno della Quaresima o delle Quattro Tempora (i giorni in cui i cristiani devono evitare il consumo di carne, tipicamente il venerdì). Con la frittura, i portoghesi rendevano le verdure più appetitose. I giapponesi poi rivisitarono il piatto e lo arricchirono cominciando a friggere anche i frutti di mare.
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Questa tecnica di frittura è composta da una pastella leggera che avvolge gli ingredienti, i quali spesso hanno bisogno di una cottura molto veloce. Due gli accorgimenti necessari in questa preparazione: bisogna evitare di mescolare eccessivamente la pastella e scegliere una farina con un basso indice proteico. La pastella non deve risultare troppo collosa ed elastica, segno che si sta formando la maglia glutinica, altrimenti anche durante la frittura ritroveremo un composto pesante e gommoso che di sicuro risulterà sgradevole. L’olio dovrà essere sempre caldo e andranno fritti pochi pezzi alla volta. Un’altra garanzia di successo è lo shock termico che avviene quando gli ingredienti freddi entrano in contatto con l’olio caldo: per questo motivo è molto importante mantenere bassa la temperatura della pastella, tanto che alcuni mettono in frigorifero anche la farina (potete anche utilizzare la farina di riso se avete necessità di un prodotto senza glutine). Il dip che useremo per accompagnare la frittura è vagamente di ispirazione messicana con sentori mediterranei. La cottura in ember roasting (a contatto diretto con le braci) farà la differenza.
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INGREDIENTI Per il red pepper dip: un peperone rosso una cipolla dorata un peperoncino di cayenna 6 pomodorini Piccadilly un cucchiaino di paprika affumicata uno spicchio d’aglio 2 cucchiaini di Worcestershire sauce 10 foglie di basilico 10 foglie di prezzemolo un cucchiaino di origano secco 1/4 cucchiaino di cumino Sale q.b. Zucchero q.b. Aceto di vino bianco q.b. Olio extravergine d’oliva q.b. Per il baccalà in tempura: 600 g di baccalà 200 g di acqua frizzante fredda 70 g di farina 00 40 g di farina di riso un tuorlo d’uovo (facoltativo) 500 g di olio di semi di arachide la scorza di un limone
PREPARAZIONE 1. La prima cosa da fare è la dissalatura del baccalà. Riponetelo in una ciotola ampia, capace di contenere almeno due volte il volume del baccalà. Coprite d’acqua e abbiate cura di cambiarla almeno ogni 12 ore per un paio di giorni, o comunque fin quando assaggiando un pezzo di baccalà non risulterà della giusta sapidità. 2. Un giorno prima che il baccalà sia pronto occupatevi del dip; accendete un cesto di carbone e quando sarà pronto rovesciarlo nel braciere del dispositivo in modo tale da creare un letto di braci. Sistemare tra le braci il peperone, i pomodori e la cipolla e lasciateli bruciare esternamente, avendo cura di girarli di tanto in tanto. 3. Una volta cotti gli ortaggi, chiudete il peperone ancora caldo in un sacchetto di plastica per alimenti dove per effetto del vapore creatosi la buccia bruciata si staccherà automaticamente in 10 minuti. Spellate il peperone e il resto delle verdure e battetele al coltello più o meno finemente a seconda dei gusti. In una bowl unite il basilico, il prezzemolo e l’aglio tritato finemente,il peperoncino, la paprika, la salsa Worchestershire e le spezie. Salate a vostro gusto e fate macerare la salsa, aggiungendo l’aceto e l’olio, almeno una notte in frigo.
4. Porzionate il baccalà in piccoli tranci comodi da pastellare e da mangiare: questo passaggio è fondamentale, vista la rapidità con la quale avviene la cottura con la tecnica tempura. 5. Unite la farina, il tuorlo se si vuole dare un colore dorato alla pastella, e l’acqua fredda in una ciotola capiente. Mescolate delicatamente con una pinza o una frusta. Anche se si creano dei grumi, basta far riposare la pastella il tempo di riscaldare l’olio e quest’ultimi spariranno. 6. Infarinate leggermente i tranci di baccalà e con una pinza passateli leggermente nella tempura, così da creare un velo sottile di pastella che diventerà croccantissima. Friggete in abbondante olio di semi di arachide a 170°C/180°C. 7. Volendo, si può procedere con la fioritura, aggiungendo un cucchiaio di pastella intorno ad ogni pezzo già inserito all’interno. 8. Nei primi minuti meglio non toccare il pezzo di baccalà in frittura, per evitare che il velo ancora delicato di pastella attorno al pesce si stacchi. 9. La tempura resta tendenzialmente chiara. Quando risulterà ben croccante scolate su carta assorbente, vaporizzate un po’ di succo di limone e condite con la scorza e un pizzico di sale.
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Via di... scampo
INGREDIENTI 4 persone
per la sfoglia: 500 g di farina 5 uova sale q.b. per il ripieno: 200 g di scampi 200 g di ricotta 60 g di Parmigiano Reggiano grattugiato uno spicchio d’aglio mezza cipolla finocchietto selvatico a piacere. olio extravergine di oliva q.b. sale e pepe q.b. per la crema al limone: 500 g di stracciatella un bicchiere di panna un limone biologico per completare: olio di semi di arachidi q.b. sale e pepe q.b.
RAVIOLO FRITTO con la crema al limone Ormai, lavete capito: a noi del BBQA4All Magazine piace citare alcune delle cose che abbiamo già proposto in passato, specialmente in quei numeri che abbiamo amato di più. Uno di quelli sicuramente più apprezzati, sia dai lettori che dalla redazione, è lo speciale anni’80 sfornato a Settembre 2020. Se siete dei nuovi abbonati, cercate di recuperarlo in qualche modo, magari acquistando un arretrato o addirittura l’Almanacco 2020 (forse non dovremmo dirlo noi, ma crediamo che meriti davvero un posto nella vostra libreria). Bene, è proprio a una delle ricette presentate in quel numero che ci siamo ispirati per regalarvi oggi una variazione sul tema molto sfiziosa e delicata. Stiamo parlando del tortello fritto con panna e prosciutto, che oggi si trasforma e “magicamente” diventa un raviolo, sempre fritto viso il tema odierno, ma ripieno di scampi e condito con una crema di burrata al limone. Dello scampo di Mazara venduto sul nostro Megastore abbiamo già parlato: pescato nel Mediterraneo (zona FAO 37), congelato a bordo dei pescherecci insieme all’acqua affinché le chele, molto delicate, non si spezzino durante il trasporto, selezionato per voi affinché vi arrivino sulla tavola solo le migliori pezzature integre e perfettamente conservate. C’è chi lo preferisce addirittura al prestigioso gambero rosso, perché ha un sapore più delicato, meno invasivo, anche se altrettanto burroso e appagante. Ovviamente, anche lo scampo mostra tutto il suo esplosivo sapore quando consumato crudo, condito con appena un po’ di olio buono e di limone. Ma non mancano le ricette in cui poterlo inserire anche cotto. Usarlo per la farcitura di questi ravioli fritti è una bella idea, raffinata quel tanto che basta per fare una bella figura coi vostri ospiti ma non così impegnativo nella preparazione. Insomma, come dice spesso lo Zio: fa figo e non impegna. Facciamone un mantra personale.
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Beh, certo dovete avere un po’ di dimestichezza nel preparare e tirare la pasta fresca, ma a parte questo passaggio, tutto il resto è veloce e poco complicato. Abbiamo scelto di condire il tutto con una crema agrumata, ispirandoci a un piatto tradizionale di Amalfi, in Campania: i tagliolini al limone. Presentato spesso come un primo adatto alla primavera e all’estate, posso dirvi che l’ho servito per il pranzo di Capodanno (rigorosamente a due soli ospiti) ed è stato un successone. Avere in giardino uno splendido limone da cui cogliere i frutti può aiutare: più che km 0 si parla di metri 2. In alternativa, scegliete sempre dei limoni biologici di ottima qualità; come ormai avrete imparato, la materia prima è sempre fondamentale per garantire un ottimo risultato. Prepariamoci dunque a friggere questi spettacolari ravioli.
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PREPARAZIONE 1. Setacciate la farina e disponetela a fontana su una spianatoia. Aggiungete al centro le uova e un pizzico di sale. Sbattetele con una forchetta e incorporatele all'impasto, lavorandolo con le mani fino ad ottenere una palla compatta, liscia e omogenea. Fate riposare l'impasto per un'ora coperto da un canovaccio umido, poi dividetelo in due parti e stendetele con un matterello fino a formare due sfoglie sottili (oppure tirate la sfoglia con la macchina per la pasta). 2. Nel frattempo preparate il ripieno: tritate l’aglio, la cipolla e un po’ di finocchietto, e fate soffriggere il tutto in padella, insieme a un filo d’olio. Quando il trito si sarà rosolato, incorporate gli scampi sgusciati, puliti e tagliati a pezzetti, insaporendo con un po’ di sale e pepe e facendo cuocere per qualche minuto. Versate subito dopo il tutto in una ciotola e incorporate la ricotta insieme al Parmigiano grattugiato. 3. Prendete i fogli di pasta e ricavatene tanti quadrati non troppo piccoli: ponete al centro di ogni quadrato un po’ di ripieno e poi richiudetelo con un altro quadrato di pasta, avendo cura di chiudere bene ogni raviolo. Potete anche distribuite su una sfoglia il ripieno in mucchietti distanziati tra loro coprire poi con un’altra sfoglia facendo una leggera pressione attorno al ripieno. Ritagliate infine i ravioli in quadrati con una rotella tagliapasta.
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4. Scaldate bene l’olio (180°C) e friggete i vostri tortelli, che dovranno risultare dorati e bollosi, poi metteteli a scolare sulla carta assorbente.
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5. Nel frattempo, frullate la stracciatella con la panna e aggiustatela a vostro gusto con sale, pepe e una generosa grattugiata della scorza del limone. Servite i tortelli fritti e fragranti con la crema al limone e preparatevi ai sinceri complimenti di ogni commensale. Godetevi il sicuro successo, insomma.
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Che ficattola!
LA PASTA FRITTA TOSCANA
per l'antipasto perfetto! Se siete stati almeno una volta a cena (o a pranzo, visto il periodo) in Toscana e non avete assaggiato la pasta fritta con i salumi e il pecorino come antipasto, insieme agli immancabili crostini con paté di fegatini e alla polenta fritta col sugo di cinghiale o di funghi, non avete mai vissuto davvero. Ammetto di essere di parte ma, signori miei, che vi devo dire? Con questo tipo di antipasto si può prendere l’indigestione.
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Conosciuta in diversi luoghi della Toscana anche con altri nomi (al nord della Toscana si mangiano le ficattole -che però possono anche essere dolci- a Firenze i coccoli, verso Montalcino le donzelle) la pasta fritta non è altro che un impasto di farina, sale e lievito da cui si staccano dei bocconcini irregolari che vengono poi fritti in abbondante olio. Le ricette possono variare di poco localmente, ma la sostanza rimane più o meno sempre la stessa: in generale si fanno con la farina bianca 00, con il lievito di birra, sale, acqua (ma la ricetta originale fiorentina prevede il latte) e con molta pazienza nell’impastare. Bisogna prestare poi molta attenzione alla lievitazione e alla frittura, perché il rischio è quello di trovarsi dei bocconcini mappazzoni, mezzi bruciati fuori e crudi dentro. Una volta pronti vanno consumati caldi e fragranti (anche se resistono bene per un’oretta e sono ottimi anche mangiati tiepidi); spesso si trovano anche nelle rosticcerie, oppure come street food. Se mangiati in purezza sono eccezionali, danno il meglio con i salumi e i formaggi: con un buon salame garfagnino, con un pecorino di Pienza o con una crema di lardo aromatizzata.
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In molti noteranno la somiglianza con gli sgabei liguri, con IL gnocco fritto modenese, con le crescentine fritte bolognesi, e con tante altre preparazioni simili in tutto il resto d’Italia. Ognuna in realtà si differenzia dall’altra (ad esempio il gnocco è fritto nello strutto invece che nell’olio extravergine d’oliva, gli sgabei sono fatti anche con la farina di mais invece che con
la sola farina bianca) anche se in effetti hanno tutte la stessa finalità in cucina e probabilmente nascono dalla stessa tradizione. Non entrerò nell’Arena degli Hunger Games per stabilire cosa sia nato prima: già solo il fatto di dover lottare coi liguri per la paternità della Farinata, e al contempo lottare anche coi livornesi che la chiamano Torta, mentre a Pisa la chiamiamo Cecina, mi toglie dieci anni di vita. Mi limiterò a darvi la ricetta di ciò che si mangia nella Toscana profonda, senza star lì a stabilire se sia nata prima la pasta fritta o lo sgabeo. Tanto a noi che ce frega? L’importante è magnarsela a tonnellate. Dato che amiamo la contaminazione, lasciamo libero sfogo all’immaginazione e accompagniamo questi bocconcini deliziosi con qualsiasi cosa, non necessariamente di origine toscana, possa stuzzicarci la fantasia e la salivazione: penso alla ‘nduja, al Parmigiano Reggiano versione 80 mesi del nostro Megastore, penso alle salsicce affumicate, ai pomodorini Droga Rossa… penso, sogno e mi viene fame.
INGREDIENTI 4 persone
500 g di farina 00 25 g di lievito di birra 250 cl di acqua tiepida olio extravergine di oliva q.b. sale q.b.
PREPARAZIONE 1. Sciogliete il lievito in un po’ d’acqua tiepida, versatelo in una ciotola dove avrete disposto la farina e, a mano o con l’aiuto di una planetaria, impastate aggiungendo poco per volta il liquido rimasto, il sale e un cucchiaio di olio extravergine di oliva. 2. Abbiate la pazienza di impastare finché non ci saranno più grumi e il composto sarà morbido, liscio e omogeneo. 3. Trasferite l’impasto in una ciotola, copritelo con un canovaccio e lasciatelo riposare in un luogo tiepido (l’ideale sarebb e una temperatura di circa 30°C) fino al raddoppio. 4. Quando l’impasto avrà raddoppiato il suo volume, scaldate bene (circa 180°C) abb ondante olio extravergine d’oliva in una pentola piuttosto alta e staccate dei pezzetti di impasto in modo irregolare (potete aiutarvi ungendovi un po’ le mani).
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5. Friggete la pasta fino a che non sarà bella gonfia e dorata, poi trasferitela su un foglio di carta assorbente e servitela ancora calda.
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SOGLIOLA FRITTA
Questo non è un Magazine light! Cercate un pesciolino semplice, dal costo contenuto, che non vi porti troppo sbattimento nella pulizia? Ce l’abbiamo: è la sogliola! Questo è un nome comune per chiamare molti tipi di pesce appartenenti alla famiglia dei soleidi e dei Pleuronectidi. L’evoluzione ha portato questi pesci ad avere una posizione “sdraiata” su di un fianco, con gli occhi ravvicinati tra di loro. Anche la pigmentazione cambia: infatti, il lato della sogliola rivolto verso il fondale è bianco, quello rivolto verso l’alto è cangiante oppure camaleontico. Il suo habitat naturale è nei fondali sabbiosi del Mediterraneo, nell’Adriatico e intorno alla Sicilia ed alla Puglia. Le tipologie di sogliola presenti in questi mari sono di dimensioni ridotte, conosciute come solette di Giove. Una sogliola fresca ha le branchie color rosso vivo, la pelle brillante e luminosa, gli occhi vividi e profumo delicato. La sogliola è ben celebrata anche da Virginia Wolf nel suo romanzo Una stanza tutta per sé; ancora, viene festeggiata in Istria, dove gli chef le dedicano giornate intere ( di solito in ottobre e in novembre) preparando numerosi piatti a base di sogliola, dall'antipasto fino al dessert. Il revival della sogliola prende forma, attraverso ricette tradizionali e piatti originali che presentano talora abbinamenti insoliti.
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Da un punto di vista gastronomico, la sogliola rappresenta il pesce perfetto per chi vuole portare il sapore del mare in tavola, adattandosi grandemente alle varie cotture. Nutrizionalmente parlando, contiene pochi grassi, è ricca di Omega 3, perfetta per le diete ipocaloriche e a basso contenuto di colesterolo. Inoltre, è una fonte perfetta di potassio e fosforo. Vista così, la sogliola sembra il segreto per una vita buona e longeva. Ma noi la friggeremo, perché ci piace viverla con gusto, ‘sta vita. Le toglieremo la nomea di cibo triste, bolliticcio ed insapore.
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Passiamo al nostro compito. Noi la prepareremo con una pastella alla birra: l’utilizzo della bevanda fredda mescolata alla farina la renderà piacevolmente gustosa, leggera e croccantissima. Inoltre il Tennessee Mild Dry rub della linea Sal’s Seasoning si sposerà benissimo con questo tipo di pastella: le sue note speziate e non invadenti esalteranno in maniera fantastica questo pesce dalle carni delicate. Volendo, anche il Coconut cool rub si addice divinamente a questo tipo di preparazione. Per le salse avete ampia scelta. Il segreto è l’acidità che porterà equilibrio e golosità al boccone. Non abbiate paura di eccedere. Se amate lo yogurt anche un condimento a base di questo ingrediente, con aneto, limone e aglio si presterà molto bene a fare da spalla a questo piatto. Noi ve la proponiamo con una maionese pickled e un ketchup di pomodori arrosto
INGREDIENTI 4 persone
Per la sogliola: 700 g di filetti di sogliola una birra Pilsner 2 cucchiaini di Tennessee Mild Dry Rub Sal’s seasoning 200 g di farina 00 sale e pepe nero q.b. origano q.b. un lime 500 g di olio di semi di arachide Per la maionese pickled: 3 tuorli d’uovo 150 ml di olio di semi 40 g di senape 25 g concentrato di pomodoro 5 cetriolini sott’aceto un cucchiaino di aglio in polvere 1/4 cucchiaino di curry in polvere 10 g di aceto di mele 1 g di rafano (facoltativo) sale q.b. Per il ketchup di pomodori arrosto: 500 g pomodori datterini 50 ml di aceto di vino rosso 50 g zucchero 2 cucchiaini di paprika 0,5 g chiodi di garofano 0,5 g zenzero in polvere 0,5 g cipolla in fiocchi noce moscata q.b. sale q.b. gomma di xantano (facoltativo)
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PREPARAZIONE 1. Per la maionese pickled unite tutti gli ingredienti, eccetto l’olio. Frullate aggiungendo l’olio a filo, fino ad ottenere una crema soffice ed omogenea. Assaggiare e salare a piacere. 2. Per il ketchup di pomodori arrosto tagliate a metà i pomodorini, disponeteli in una padella in una padella antiaderente col lato tagliato in giù e cuocete a fuoco medio senza mai toccarli fino a che non risulteranno ben bruciacchiati e caramellati. 3. Passate i pomodori con un passaverdure. Recuperate la polpa e il liquido ottenuti ed unite il resto degli ingredienti. 4. Aggiungete circa l’1% di gomma xantano frullando con un mixer a immersione aggiustando la consistenza a piacere. 5. Sfilettate, spinate e togliete la pelle alla sogliola. Ricavate dei pezzi di circa 6/7 cm di lunghezza, facili da maneggiare e da mangiare. Asciugateli accuratamente con carta assorbente. 6. In una ciotola unite la farina, le spezie, il sale e l’origano e aggiungendo la birra a filo mescolate facendo attenzione a non creare spiacevoli grumi. 7. Intanto che la pastella riposa, portate l’olio di semi di arachide a 170°C. Immergete i filetti nella pastella in un unico movimento e tuffateli subito nell’olio caldo.
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8. Appena saranno dorati e croccanti sarà il momento di toglierli, asciugarli bene e vaporizzare pochissimo succo di lime.
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9. Serviteli caldissimi con un pizzico di sale.
La paranza è una danza ... non sempre, a volte è una
pesce
fridittura
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Mi sono innamorato di una stronza Ci vuole una pazienza Io però ne son rimasto senza Era molto meglio pure una credenza Un fritto di paranza, paranza, paranza
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Con buona pace dello stimato cantautore Daniele Silvestri, la paranza non è una danza che si balla nella latitanza, ma è una imbarcazione da pesca diffusa dall’adriatico centrale fino al basso tirreno, in uso fino alla metà del ‘900 e oggi sostituita dai più moderni motopescherecci. La caratteristica principale di questa barca, molto tozza e capiente, sviluppata nel corso dei secoli per poter navigare anche nelle condizioni meteo più avverse, è di essere utilizzata a coppie: le due paranze procedevano di pari passo, grazie all’abilità dei pescatori al comando dell’equipaggio, trascinando ciascuna un'ala di una rete (anche essa chiamata paranza, giusto per confondere le idee) portata a strascico. In questa tecnica di pesca la rete, smuovendo la sabbia, spaventa i pesci che, risalendo dal fondo, rimangono imprigionati nel sacco il quale, una volta riempito, viene issato a bordo, svuotato e schiarato nuovamente per un successivo passaggio.
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La pesca a strascico è una tecnica con un notevole impatto sull’ecosistema marino: le reti catturano tutto quello che incontrano sul loro cammino, asportando oltre ai pesci e agli invertebrati anche alghe, coralli e posidonie. Per questo motivo, in Italia è vietata la pesca a strascico entro le 3 miglia marine o a profondità inferiori ai 50 metri, esistono i periodi di fermo biologico e le reti devono avere maglie sufficientemente ampie da impedire la cattura di piccoli esemplari non ancora in età riproduttiva. Nonostante tutte queste indicazioni (a volte volontariamente ignorate da pescatori poco onesti e ancor meno lungimiranti) capita, oggi come in passato, che nelle reti finiscano intrappolati pesci di piccole dimensioni con uno scarso valore sul mercato ittico: merluzzetti, triglie, sogliolette, zanchette, alici, ghiozzi, sarde, vope, insieme a qualche totano, seppioline, calamari e - perché no? - gamberetti, costituivano quello “scarto”
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che alimentava le famiglie dei pescatori i quali, nei periodi di povertà ci facevano la “zuppa”, mentre quando c’era l’olio in abbondanza, festeggiavano con una gustosissima frittura di paranza. Oggi la frittura di paranza è un secondo piatto diffuso così tanto nei ristoranti ad ogni livello (dalla bettola sotto il porto fino al ristorante stellato, passando per l’immancabile street food) che si può trovare persino chi lo propone misurato non in porzioni o in “grammi”, ma “al metro” proprio come la pizza. Il fritto deve essere croccante fuori e umido all’interno, va servito caldo e non deve essere unto e pesante. La realizzazione di un buon fritto misto di paranza non richiede una tecnica particolarmente complessa o numerosi passaggi, ma è sufficiente rispettare una serie di accortezze che garantiranno un risultato eccellente. Vediamo quali. Il pesce deve essere freschissimo. Affidatevi al vostro pescivendolo di fiducia e acquistate solo prodotti di giornata; è il mare che comanda! Lasciate sul banco il decongelato di cui non conoscete il percorso. Se non riuscite a trovare il fresco, prendete un abbattuto a bordo ancora surgelato e da fornitori che vi assicurano la massima qualità del processo. Il pesce va portato a temperatura ambiente. Evitate di tirare fuori dal frigo il pesce all’ultimo secondo per non abbassare troppo la temperatura dell’olio durante la cottura. Il pesce va asciugato perfettamente. È fondamentale per la riuscita di un buon fritto croccante eliminare l’umidità superficiale. Tamponate il pesce con la carta assorbente prima di procedere con le fasi successive. I pescetti più piccoli vanno solo eviscerati e ripuliti dalle eventuali alghe, lasciando al suo posto testa e lische (vanno mangiati in un boccone, le spine sono troppo piccole per costituire un pericolo o un fastidio). Anche nel caso di esemplari di pezzatura medio-piccola va mantenuta la testa e la lisca, che andranno rimosse durante il consumo dell’alimento. Se siamo abili con il coltello e preferiamo portare nel piatto solo quello che viene mangiato senza far sporcare le mani ai nostri commensali, possiamo eliminare la testa e aprire il pesce tenendolo collegate le due parti per il dorso, rimuovendo facilmente la lisca.
Passiamo ai crostacei, ovvero ai gamberi e ai gamberetti. Qui ci sono due scuole di pensiero: classicamente, i crostacei vengono fritti interi con il loro carapace, che servirà a difendere la carne dall’aggressione dell’alta temperatura e che verrà rimosso durante il consumo del pasto; chi invece non ama sporcarsi le mani, preferisce rimuovere il carapace prima della cottura. In entrambi i casi, vi consiglio di adoperarvi di sana pazienza e rimuovere il budello, indicendo il dorso e aiutandovi con uno stuzzicadenti. Se scegliete di rimuovere il carapace dai gamberi, potete mantenere la parte terminale della coda attaccata. Se vogliamo proprio esagerare possiamo friggere anche qualche mitile, in particolare le cozze, che vanno estratte dal loro guscio crude aprendolo con
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Per quanto riguarda i molluschi, si procede come segue. Le seppioline vanno tenute intere: si incide il corpo con un coltello per la sua lunghezza e si estrae
l’osso, le interiora e l’eventuale sacca del nero; si tira via la pelle sfilandola e con la punta del coltello si eliminano gli occhi. I tentacoli possono essere tenuti insieme al corpo oppure separati; infine va sciacquato tutto sotto l’acqua corrente e messo ad asciugare sulla carta assorbente o su un canovaccio pulito. Totani e calamari vanno ripuliti separando il mantello dai tentacoli; dopo aver eliminato il gladio cartilagineo e la pelle, il mantello va tagliato per formare i classici anelli. È consigliabile eliminare il margine inferiore del corpo (per intenderci il lembo più vicino ai tentacoli caratterizzato da un margine irregolare e dal colore lievemente diverso) perché tende a diventare duro in cottura. I tentacoli, ripuliti dagli occhi e dal rostro, possono essere separati in due o tre parti. È fondamentale cercare di ottenere anelli e pezzi di tentacoli tutti della stessa misura, per non pregiudicare l’uniformità di cottura. Se siete fortunati e avete trovato dal vostro pescivendolo di fiducia anche un bel polpo (magari ben arricciato, o in mancanza va bene anche un decongelato), questo potrà diventare il pezzo forte della vostra frittura: è sufficiente, dopo averlo ben ripulito dall’acqua corrente, cuocerlo in un tegame a secco (sfruttando la sua stessa acqua) fino a che le carni non diventano tenere, dopo di che si lascia raffreddare sempre nel tegame e infine si taglia a tocchetti tutti della stessa dimensione. Altro pezzo forte di una frittura veramente golosa possono essere i moscardini: come per le seppie, meglio tenerli interi; vanno puliti sotto acqua corrente eliminando impurità, sabbia e rimuovendo occhi e rostro, dopo di che vanno scolati in un colino e messi ad asciugare su carta assorbente.
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l’apposito coltello, oppure in alternativa possiamo dargli una veloce botta di calore in pentola togliendole con una pinza appena si schiudono. Volendo, potremmo anche avere la malsana idea di friggere delle ostriche, ma in questa maniera il nostro, più che di paranza, diventerebbe un fritto di yacht.
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Prima di essere immerso nell’olio profondo, il pesce va “rivestito” da un elemento che proteggerà l’alimento e contemporaneamente contribuirà a dare sapore e croccantezza. A questo punto ci sono due scelte possibili: usare solo farina (o, meglio ancora, una miscela di farine) oppure preparare una pastella. Se scegliete di usare solo farina, potete utilizzare una miscela al 50% di semola rimacinata di grano duro e farina di grano tenero: la semola tosterà fornendo croccantezza al vostro fritto, mentre l’amido della farina di grano tenero assorbirà l’acqua residua sulla superficie del vostro pesce, gonfiandosi e creando il rivestimento intorno all’alimento. In alternativa, per i celiaci, si può utilizzare una miscela di farina di mais e farina di riso. Per rivestire in maniera uniforme gli alimenti, potete usare un sacchetto da congelatore: riempitelo della miscela di farine, inserite una parte del pesce e agitate il tutto (delicamente nel caso dei gamberi, per non romperli). Recuperate il prodotto e ponetelo in un setaccio scuotendo per rimuovere la farina in eccesso. Se optate per la pastella (scelta obbligata nel caso dei crostacei privati del carapace e dei mitili), potete utilizzare sempre il mix di farine 50% semola e 50% farina di grano tenero, diluendo il tutto con la birra ghiacciata. È consigliabile utilizzare una farina debole, e la pastella non va mischiata troppo energicamente, per evitare di formare glutine che darebbe al nostro fritto una consistenza elastica. Se si formano grumi nella pastella, lasciatela riposare per una decina di minuti in frigo e vedrete che si scioglieranno da soli. È consigliabile tenere separate le varie tipologie di pesce, che verranno inserite nell’olio bollente una alla volta per poi essere riunite solo da cotte. In questo modo si otterrà una cottura omogenea delle varie parti della nostra frittura. Il pesce il suo rivestimento non va assolutamente salato prima della cottura, e nemmeno appena uscito dall’olio. Il sale va messo solo un istante prima del servizio, altrimenti il fritto si ammoscerà. Si frigge a 175°C/180°C. Lasciate perdere tutti i metodi empirici tipo buttare una pallina di pane nell’olio e vedere “se fa la schiumetta”, oppure provare a percepire il calore dell’olio passandoci sopra la mano a pochi millimetri di distanza dalla superficie incandescente; affidatevi ad un buon termometro digitale e non fidatevi nemmeno del termostato della friggitrice. L’olio deve essere in quantità dieci volte superiore al pesce. Con questo non voglio dire che dovete consumare una betoniera di olio per fare il vostro piatto, ma dovete friggere poco pesce alla volta in modo da evitare un repentino abbassamento della temperatura che renderebbe la vostra frittura unta e molliccia. Per ogni litro di olio contenuto nella vostra pentola o nella vostra friggitrice, immergerete 100 g di prodotto alla volta. Proprio perché si frigge in piccole quantità alla volta e l’olio deve rimanere a temperatura per tutto il tempo necessario, bisogna usare un olio con un adeguato punto di fumo e con un'ottima resistenza alla degradazione. L’olio di palma raffinato ha un punto di fumo molto alto ma rilascia troppo colesterolo negli alimenti; l’olio extravergine d’oliva ha un buon punto di fumo e basso colesterolo, ma ha un costo elevato e soprattutto incide
notevolmente sul sapore finale della pietanza; quello che consigliamo per una frittura leggera, facilmente digeribile e croccante è l’olio di arachidi. Attenzione però ai commensali allergici alla frutta a guscio: in tal caso optate per un olio di girasoli alto oleico. E adesso, siamo fritti! Il pesce va tenuto nell’olio per due-tre minuti al massimo, i gamberi e i mitili per un minuto appena, e va girato se necessario solo una volta. Per arricciare i tentacoli dei moscardini, possiamo tenerli con una pinza e fargli fare due o tre tuffi, prima di lasciarli completamente a bagno. Il pesce avvolto dalla pastella richiede in media un minuto in più di cottura rispetto a quello avvolto solo dalla farina. Quando si immerge il pesce crudo nell’olio si sentirà lo sfrigolio dato dall’acqua della pastella che evapora violentemente; nel momento in cui il rumore cesserà, probabilmente il pesce sarà cotto. Verificate la doratura superficiale e recuperate il fritto con l’apposito colino. Posatelo sulla carta paglia stendendolo bene, senza creare montagnole che provocherebbero condensa di vapore acqueo e senza tamponare. Se vi manca molto da friggere, potete tenere il tutto in caldo in un forno impostato ad 80°C con lo sportello lievemente aperto. In nessun caso coprite il fritto con un telo o della carta, sempre per evitare l’accumulo di vapore acqueo che condenserebbe ammosciando il tutto.
1. Se avete un polpo, mettetelo in un tegame a cuocere sul fuoco con il fornello basso, senza aggiungere acqua. Per un polpo di medie dimensioni, il tempo di cottura è all’incirca di quaranta minuti. Testate la sua tenerezza con uno stuzzicadenti. Una volta cotto, lasciatelo raffreddare. 2. Eviscerate i pescetti e i molluschi, passandoli sotto l’acqua corrente per eliminare tutte le impurità. Eliminate con accuratezza dai molluschi gli ossi cartilaginei, gli occhi e il rostro, se riuscite sfilate via la pelle. Ripulite i crostacei dal loro intestino e, se volete, eliminate il carapace sulla coda. Ponete tutto il pesce ad asciugare su un canovaccio pulito o su più strati di carta assorbente, tenendolo separato per tipologia. 3. Separate il mantello dai tentacoli dei totani e dei calamari e tagliatelo in anelli di pari dimensione. Tagliate anche i tentacoli in pezzi di uguale dimensioni. Quando si sarà raffreddato, tagliate anche il polpo. Lasciate seppioline e moscardini interi. 4. Aprite le cozze con un coltello oppure sul fuoco, avendo l’accortezza di rimuovere dalla pentola il singolo mitile appena si schiude, senza aspettare che si aprano tutti. 5. Portate l’olio ad una temperatura di 180°C, misurandola con un termometro. 6. Tamponate ulteriormente il pesce con la carta assorbente, poi passatelo nel mix di farina. Scuotete la farina in eccesso e tuffate il pesce nell’olio, poco alla volta e mantenendo sempre separati le varie tipologie. 7. Crostacei sgusciati e mitili possono essere immersi nella pastella, che può essere preparata anche precedentemente e tenuta in frigo fino all’ultimo momento; rimuovete sempre l’eccesso di pastella prima di immergere l’alimento nell’olio. Per mantenere l’olio pulito, usate una schiumarola a maglie strette. È consigliabile friggere i pesci in pastella per ultimi. 8. Scolate accuratamente il fritto e ponetelo in una teglia rivestita da carta paglia senza creare montagnole. Mettete la teglia al caldo nel forno riscaldato ad 80°C e tenuto lievemente aperto con una pallina di stagnola per evitare la formazione di condensa al suo interno. 9. Finito di friggere tutto il pesce, ponetelo in un piatto di portata e servitelo accompagnato dal sale aromatizzato al limone e da altre salse a base acida, lasciando ad ogni commensale il compito di condire il proprio fritto un istante prima di consumarlo.
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Finito di friggere, mischiate tutto nel piatto da portata e solo un istante prima di andare a tavola, spargete il sale. E il limone? Spesso è una questione di gusti personali, ma sicuramente qualche goccio di un elemento acido può donare maggiore brillantezza al piatto. Potete utilizzare al posto del classico condimento, un sale aromatizzato al limone o al lime; optare per un'esotica salsa ponzu (soia+succo di agrumi); per una marcia in più, potete realizzare una salsa con soia, aceto di frutta, peperoncino secco e semi di sesamo tostati.
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Colei che sta bene in tutte le ricette!
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lettori più affezionati probabilmente già lo sapranno, ma a beneficio dei nuovi abbonati (e per quelli tra i vecchi che ancora non lo sapessero) chiariamo subito una cosa: questo Magazine parla – anche, per una buona parte - toscano! Risparmiateci battute sulla Coca Cola con la cannuccia corta corta con l’odiosa spirantizzazione forzata della c, perché possiate pensare alle polemiche sulle sfumature dialettali vi diciamo subito che una parte dello staff di questo Magazine è fieramente pisana, di nascita o di adozione. Pisa in effetti è una città varia in cui da secoli si mescolano culture e lingue. Per i turisti asiatici è principalmente la città di Piazza dei Miracoli e della Torre Pendente, e qualcun altro la ricorderà per avere dato i natali a Galileo.
Negli anni dell’impero napoleonico la parola norma si ripresenta almeno in altri due campi: nella musica e in cucina. La prima Norma che viene in mente è quella di Vincenzo Bellini. Un’opera composta pochi anni dopo la fondazione della scuola e che ha reso immortale il suo autore. La seconda Norma è il celebre piatto della cucina siciliana, che con la sua semplicità conquista i palati: pochi e semplici ingredienti come il basilico, il pomodoro, la ricotta salata e delle melanzane cotte a puntino. L’unica insidia nella preparazione del piatto è la frittura delle melanzane che necessitano di essere preparate a norma oppure il piatto perderà la sua eccezionalità (questa almeno è una delle spiegazioni che va per la maggiore sull’origine e il significato del nome della ricetta). Parliamo allora degli innumerevoli modi di friggere questo ortaggio. Una cosa che può apparire normale ma nasconde innumerevoli insidie e difficoltà, come la famosa scuola pisana che a dispetto del nome fa piangere sangue ai suoi pur brillanti studenti. Esistono però parecchi tipi di melanzane – ortaggio estivo che ormai si trova tutto l’anno al supermercato - che cambiano
forma e colore in base alla zona di coltivazione, alle temperature e al clima locale. L’Italia ospita moltissime tipicità locali che si differenziano tra loro anche per il sapore, per la consistenza della polpa e per il colore della buccia che può variare dal bianco, al violaceo, al rosso e al nero intenso. Cerchiamo di conoscerne meglio alcune varietà. Non sono proprio tutte quelle esistenti, ma abbiamo cercato di percorrere un po’lo stivale da Nord a Sud. La melanzana bianca: dal colore bianco latte, con frutti di discrete dimensioni e dal sapore più delicato. Quando la buccia comincia a presentare delle sfumature giallastre vuol dire che è troppo matura. Sapore delicato, pochi semi nella polpa, molto digeribile. Ottima grigliata ma anche fritta. La melanzana perlina: coltivata nel ragusano, ha una forma allungata e un colore violaceo. Sapore dolce, polpa carnosa, molto compatta e soprattutto poco acquosa: adattissima alle preparazioni più asciutte e delicate come la frittura. La melanzana lunga Nilo: di origini romagnole, tra le melanzane dalla forma allungata è una delle più pregiate del mercato grazie soprattutto alla sua consistenza soda e compatta. Il sapore è intenso, è anch’essa adatta alle fritture e alle preparazioni con altri ortaggi dal sapore altrettanto forte. La Violetta di Firenze: dal colore viola intenso, ha una forma rotonda ed è di grosse
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In realtà, contrariamente a quanto pensano in tanti, il fulcro della città è l’Università. Sin dal 1343 la Pisa ha attirato a sé le menti più brillanti dell’intero pianeta. Ancora oggi è uno dei poli universitari migliori al mondo e vanta ricerche e scoperte nei più svariati ambiti. Ma Pisa vanta anche un’altra caratteristica peculiare: la presenza della scuola Normale Superiore, un istituto di specializzazione che permette alle menti più brillanti di... splendere. Rubbia, Carducci, Fermi. Sono solo alcuni dei nomi delle eccellenze passate per questo istituto. Curioso è il fatto che una scuola che formi premi Nobel ed eccellenze si chiami Normale. In realtà la spiegazione di tale nome va ricercata nel periodo napoleonico. La scuola
nacque, infatti, per volontà dell’imperatore Bonaparte e il termine Normale si riferisce alla sua missione didattica primaria, formare insegnanti di scuola media superiore che educassero i cittadini secondo norme didattiche e metodologiche coerenti.
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dimensioni. La polpa è soda e compatta, il sapore è leggermente amarognolo però dopo la cottura tende a diventare molto più dolce e poco invasivo. La Zebrina viola: dal fondo violaceo con striature bianche (da qui il nome), si presenta allungata; ha una polpa tenera e un sapore molto dolce. È coltivata soprattutto nel Sud Italia, dove le temperature estive più calde ne agevolano la maturazione. La melanzana rossa di Rotonda: visivamente è simile a un pomodoro, ma la consistenza interna è quella spugnosa tipica delle melanzane. Viene coltivata in Basilicata, ma ha origini africane. Il sapore è piccante con finale amarognolo e si adatta perfettamente ad essere conservata sott’olio o sott’aceto. La Violetta lunga di Napoli: forma allungata e buccia molto lucida, presenta una polpa turgida e ha un sapore più deciso e piccante. È perfetta per essere preparata sott’olio, per la parmigiana, per essere aggiunta alla pasta e per le grigliate.
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La Durona nera di Palermo: una delle tante varietà siciliane, dalla forma ovale leggermente allungata, ha una polpa soda e con pochi semi; è molto apprezzata in cucina soprattutto per la frittura e per i ripieni. Corre l’obbligo però dire che, se si vuole preparare una pasta alla Norma perfetta, la scelta migliore è la Violetta palermitana (altra varietà tipica di questi luoghi) dalla polpa tenera e gustosa.
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La Tonda piccola genovese: la varietà ligure, rotonda e di piccole dimensioni, il cui colore varia dal
nero della base, per poi arrivare al color viola scuro in prossimità del calice. Dalla polpa soda e compatta, è l’ideale per preparare le melanzane ripiene. La tonda ovale nera: probabilmente è il prototipo di categoria quando si pensa alla melanzana; è una delle varietà più richieste sul mercato, avvolta da una buccia lucida e nera che racchiude una polpa consistente e con pochissimi semi. La quasi totale assenza di semi la rende perfetta per svariate preparazioni, soprattutto in griglia. Vediamo ora di rispondere a due domande fondamentali che tutti si fanno quando si parla di melanzane: vanno salate prima (o, per dirla come le nonne, spurgate)? Vanno sbucciate? La risposta ad entrambe le domande è non necessariamente. Per quanto riguarda la salatura per far perdere l’acqua (e il sentore amarognolo) al frutto, può essere utile quando si decide di friggerlo, ma bisogna ricordare, come abbiamo scritto poc’anzi, che ormai esistono sul mercato moltissime varietà selezionate appositamente per essere meno acquose e più delicate di sapore e che quindi non necessitano dello spurgo preventivo. Decidere se sbucciarle o meno, invece, è proprio un gusto personale: c’è chi non tollera affatto la buccia fra i denti, ma bisogna ricordare che essa è commestibile e anzi, proprio nella buccia si trovano molti antiossidanti e una buona parte di fibre. Ed ora veniamo alle ricette. Vi presentiamo due modi di friggere questo ortaggio tanto amato da noi italiani.
MELANZANE FRITTE IN PASTELLA
Ingredienti per 4 persone: 4 melanzane Perlina/ 200 g di farina / 350 g di acqua frizzante ghiacciata /sale e pepe q.b. / olio di semi di arachide q.b.
Preparazione: 1. Lavate le melanzane, successivamente tagliatele in modo da ottenere dei bastoncini e delle rondelle. 2. Una volta tagliate mettetele in uno scolapasta con un po’ di sale e lasciate per circa 30 minuti in modo che perdano l’acqua in eccesso. Questo procedimento può comunque essere saltato perché questo tipo di melanzana è comunque poco acquoso. 3. Nel frattempo in una ciotola capiente versate la farina e aiutandovi con una frusta aggiungete l’acqua (freddissima) a filo. Fermatevi quando avrete ottenuto una consistenza cremosa e leggera. 4. Una volta pronta la pastella, immergetevi le melanzane e successivamente friggetele in olio ben caldo (circa 180°C). 5. A cottura ultimata ponete le melanzane su un foglio di carta assorbente in modo da far scolare l’olio in eccesso. Salate e pepate a piacimento e servite ben calde.
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COTOLETTE DI MELANZANE IMPANATE
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Ingredienti per 4 persone: 2 melanzane tonde ovali/ 2 uova/ 100 g di pangrattato/ 50 g di Parmigiano Reggiano grattugiato/ Rub Sal’s Seasoning Smoky Chipotle Chili a piacere/ sale e pepe q.b./ olio di semi di arachide q.b.
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Preparazione: 1. Lavate la melanzana e tagliatela in fette di circa un cm per il lato della lunghezza Cercate di rifilarle in modo da ottenere una forma regolare e simile a una cotoletta. 2. Una volta tagliate mettetele in uno scolapasta con un po’ di sale e lasciatele per circa 30 minuti in 3. modo che perdano l’acqua in eccesso. 4. Passatele adesso prima nell’uovo sbattuto condito con sale e pepe e poi nel pangrattato miscelato con il parmigiano. Potete ripetere l’operazione due volte per ottenere una panatura più croccante. Se volete dare un gusto più forte alle vostre cotolette di melanzane, aggiungete un po’ di Rub della linea Sal’s Seasoning Smoky Chipotle Chili. 5. Friggetele in abbondante olio ben caldo (circa 180°C) 6. A cottura ultimata, ponete le melanzane su un foglio di carta assorbente in modo da far scolare l’olio in eccesso. 7. Salate e pepate a piacimento e servite ben calde, volendo con un po’ di limone e con un pizzico di prezzemolo tritato.
FISH&CHIPS Really good!
La superiorità del fish&chips è indiscussa: esistono ben pochi altri piatti con una fama così grande ed una diffusione così capillare, non soltanto nel mondo anglosassone, ma nel mondo intero. Sebbene le sue origini British, ha superato nel tempo la più dura concorrenza di piatti inglesi molto blasonati come il roast beef o la pork pie. A basso costo, ottimo per un pasto veloce e assolutamente gratificante, questa preparazione è nato dapprima come pranzo tipico delle classi lavoratrici e poi street food ricercato da tutti i turisti. Quali sono le sue origini? In verità, incerte. La tradizione nel Regno Unito del pesce pastellato e fritto nell'olio potrebbe provenire da immigrati ebrei arrivati dall'Olanda. Originari della Spagna e del Portogallo e stabilitisi in Inghilterra già nel XVI secolo, avrebbero preparato questo piatto in modo simile al pescado frito, che viene ricoperto di farina e poi fritto nell'olio. Sappiamo che Charles Dickens menziona "fried fish warehouses" in Oliver Twist nel 1838 e nel 1845 Alexis Soyer, famoso chef e autore francese la cui carriera in realtà si è svolta principalmente in Inghilterra, nella sua prima edizione di A Shilling Cookery for the People, fornisce una ricetta per "fried fish, jewish fashion" (pesce fritto, moda ebraica) che è intinto in una pastella di farina e acqua. Insomma: di fish&chips se ne parla parecchio, nella storia del popolo di Sua Maestà. I primi locali a vendere fish&chips conosciuti furono aperti a Londra nel 1860, da Joseph Malin e a Mossley, nel Lancashire, da John Lees. In ogni caso, il pesce e le patatine venivano fritti separatamente da almeno cinquant’anni, quindi esistevano già prima di essere “accoppiati” in una sola ricetta. Questo piatto così economico e pratico divenne il classico cibo per le classi lavoratrici in Inghilterra come conseguenza del rapido sviluppo della pesca a strascico nel Mare del Nord, e dello sviluppo delle ferrovie che collegavano i porti alle principali città industriali durante la seconda metà del XIX secolo, in modo che il pesce fresco potesse essere trasportato rapidamente nelle aree densamente popolate. Anche George Orwell, in The Road to Wigan Pier (1937) lo descrive come il comfort food delle classi lavoratrici, nel suo racconto delle frange operaie nel nord dell’Inghilterra. Durante la Seconda Guerra Mondiale, il fish&chips fu una delle poche preparazioni a non essere soggetta al razionamento.
Le patate sono tagliate tradizionalmente a spicchi e lasciate con la buccia. Entrambe i prodotti vengono fritti in olio bollente, ma il pesce viene precedentemente rivestito di pastella, che può essere realizzata in maniera più legger con acqua o con birra. Il piatto viene servito con una o più salse. Dalla tartara, all’aioli, dal ketchup alla più comune e richiesta Mushy peas, una purea di piselli arricchita con panna, burro sale e pepe. Immancabile qualche goccia di aceto sulle patate. Una pietanza street food di eccezione, che si ama mangiare anche durante le lunghe passeggiate in spiaggia, all’interno di un cartoccio. Vediamo come farla.
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I primi negozi di fish&chips erano pressappoco dei chioschi su strada con i servizi essenziali, con un grande calderone colmo di olio o altro tipo di grasso, come combustibile c’era il carbone. Successivamente, i negozi si sono evoluti aggiungendo un bancone e talvolta qualche seduta spartana.
C’è fish… e fish: quale pesce si utilizza? Il pesce utilizzato per questo tipo di abbinamento è solitamente il merluzzo, ma anche l’eglefino (Pesce atlantico dei Gadidi) un pesce di acqua salata, molto simile al merluzzo per le sue carni ma con un sapore meno sapido e più delicato.
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Preparazione:
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1. Iniziate lavando e tagliando le patate a spicchi. Non è il caso di sbucciarle. Lavatele in acqua corrente e lasciatele a bagno per mezz’ora circa, in modo permettere loro di perdere l’amido. Dopodiché, risciacquatele nuovamente e asciugatele bene con carta assorbente, prima di friggerle in abbondante olio, ad una temperatura tra i 180°C/190° C. 2. Scolatele e lasciate assorbire su apposita carta per fritti l’eccesso d’olio, quindi tenetele in caldo in forno ad una temperatura di servizio. 3. Importantissimo in questa ricetta è l’utilizzo di una pastella freddissima. Pertanto vi consigliamo di utilizzare acqua o birra da frigorifero. Fate la pastella in anticipo e ponetela qualche minuto in frigorifero nel mentre infarinate i filetti di merluzzo. In un contenitore e con l’utilizzo di una frusta a mano, mescolate, la farina, la birra o l’acqua, l’albume, l’olio e il sale. La pastella dovrà risultare liscia ma non liquida. 4. Dedicatevi quindi al merluzzo: se utilizzate prodotto congelato, decongelate, sciacquate e asciugate per bene con carta assorbente. Passatelo nella farina, poi nella pastella. Tirate su, lasciando colare la pastella in eccesso e immergete nell’olio di semi a 190°C. Scolate a doratura avvenuta e asciugate su carta assorbente. 5. Quando avrete finito di friggere il tutto, realizzate 4 porzioni, dividendo i filetti e le patate nei piatti di portata. Accompagnate con la vostra salsa preferita o con quella che vi suggeriamo su questo stesso numero. 6. Servite il vostro pesce a fine frittura. Gli Steak Booster di BBQ4All sono l’ideale anche in questo caso. Voto 10/10 al Lime Pepper.
INGREDIENTI 4 persone
4 filetti di merluzzo (600 g circa) 4 patate rosse 1 l di olio di semi 150 g di farina 170 ml di acqua o birra un albume un cucchiaino di sale fino un cucchiaio di olio extravergine di oliva un limone
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Ce l'abbiamo profumato... il
sorbetto al limone
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Perché, cosa avevate capito?
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Coach Nencioni consiglia: Relax, Frankie goes to Hollywood, 1984. Essenzialmente un invito “a durare di più”, esattamente come il sorbetto che è un pretesto a ritardare le fine del pasto. Qualcuno potrebbe dire che siamo dei pazzi ad inserire la ricetta del sorbetto a limone à la BBQ4All in un numero (il secondo, tra le altre cose!) interamente dedicato al fritto. Invece, non c’è cosa migliore che potremmo fare. Coccoliamo i nostri lettori, da inizio pasto fino alla fine. Il sorbetto a limone sarà il vostro rest time tra una serie e l’altra di golose fritture. Rinfresca il palato, crea un piacevole momento di break e convivialità, pulisce la bocca da sapori troppo forti. Ha un sapore un po’ retrò, da vacanza in costiera sorrentina negli anni ’80, o ancora da matrimonio infinito, con menu infinito, dove l’unica cosa davvero accettabile e di vero sollievo era lui: il sorbetto a limone. Scontato dire che il sorbetto a limone qui proposto sarà tutt’altro che banale e che niente avrà a che fare con ciò che avete gustato, anche un po’ controvoglia, fino ad ora. Daremo a questo umilissimo sorbetto, spesso scalzato dalla modernità di creazioni più fantasiose, un nuovo appeal. Pronti? IDENTIKIT DI UN SORBETTO Il sorbetto è un dessert al cucchiaio (o come spesso veniva chiamato all’epoca un intermezzo) semi-cremoso, ma al contempo dalla consistenza scrocchiarella (al palato dovrebbe ricordare la neve appena caduta), preparato con succo di limone, acqua, zucchero e albume montato. Esistono anche le varianti all’arancia, al pompelmo, al cocomero e all’uva, ma perlopiù è conosciuto nella variante con l’agrume dalla buccia giallo brillante che oggi abbiamo scelto. Pare che abbia origini antiche, essendo già nota ai tempi di Alessandro Magno (circa 300 a.C.). Durante le sue imprese belliche, il condottiero dava l’ordine di preparare le “neviere” lungo tutto il suo percorso di conquista, in modo da rinfrancarsi dalla fatica e dalle alte temperature con la squisitezza ghiacciata. L’accesso alla neve era concesso anche ai soldati.
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La tecnica di conservazione della neve e di conseguenza la gelata prelibatezza furono acquisite dai romani con la conquista della Grecia. Il nuovo dolce ebbe un tale successo nel territorio italico da creare in estate, come ci testimonia lo storico Plinio il Vecchio (23-79 d.C.) nei sui scritti, un grande commercio di ghiaccio nelle zone del Terminillo, del Vesuvio e dell’Etna. L’acquisto avveniva presso il thermopolium, antenato delle odierne rosticcerie e fast food. Erano dei banconi con all’interno dei serbatoi di terracotta, atto alla vendita di cibi caldi (thermo=caldo e polium=vendere), che si adattarono alla perfezione al nuovo business. Lo stesso imperatore Nerone (37-68 d.C) era un grande fruitore della bontà gelata, tanto da inviare assiduamente i corrieri più veloci a recuperare la neve del Vesuvio, per assaporare insieme ai suoi ospiti coppe ricolme di ghiaccio mischiato con succo, frutta a pezzi e miele. Sempre grazie alle informazioni tramandate ai posteri da Plinio, sappiamo che la versione latina era molto vicina al sorbetto moderno: ghiaccio finemente tritato mescolato con miele e succo di frutta, quasi a formare una crema. Ovviamente questo era un bene
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fruibile solo dal ceto ricco, lo stesso poeta latino Marziale (38-104 d.C.) affermò che l’acqua ghiacciata costava più del vino. Con la caduta dell’impero romano la preparazione finì nell’oblio fino all’arrivo dei Saraceni nel XII secolo in Sicilia, dove unirono il succo degli agrumi alla neve dell’Etna e dei Nebrodi, dando vita alla versione del sorbetto che noi tutti conosciamo. Alcuni studiosi sostengono che il termine “sorbetto” provenga dalla parola araba “sherbet” (dolce neve), mentre altri affermano che derivi dal verbo latino “sorbeo” (succhiare).
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Con lo sbarco dei mori sull’isola, fu ripresa a pieno regime l’attività dei nivaroli, il cui lavoro consisteva nel ripulire e foderare con delle foglie le neviere poco prima delle nevicate e coprirle con sterpaglie quando erano ricolme di neve. Per garantirne la conservazione fino all’estate, a febbraio con gli ultimi freddi, la neve raccolta veniva battuta per compattarla; questo passaggio era molto importante per preservarla fino all’estate perché oltre ad eliminare l’aria intrappolata all’interno, creava un film protettivo sulla superficie dovuto allo scongelamento al ricongelamento della parte superiore. Con l’arrivo del caldo, a seconda della richiesta, il ghiaccio veniva frantumato in blocchi, avvolto in tele o nella paglia e portato in pianura con i muli.
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Da quel momento il successo della squisitezza gelata fu solo in ascesa non esisteva corte italiana che non lo presentasse nei suoi banchetti per incantare gli ospiti. Nella metà del XVI secolo, questo dolce divenne la base di partenza di un'altra leccornia amata in tutto il mondo: il gelato.
Nell’incipit di questo articolo, vi avevamo promesso un sorbetto a limone nuovo ed indimenticabile: ci siamo. Per dare nuova vita a questa ricetta ormai dimenticata e per accostarla al mondo della cottura su fuoco (che a noi è tanto caro!) useremo il succo dei limoni grigliati. Il passaggio per qualche minuto sulla griglia degli agrumi non solo ci fornisce una quantità maggiore di liquido, rispetto ad una spremitura a freddo, ma soprattutto ci fa ottenere un succo dal sapore più intenso, poiché il calore fa evaporare l’umidità in eccesso e ne concentra il gusto. Tutto questo renderà il vostro sorbetto indimenticabile. Ovviamente, otterrete il nostro rispetto se lo consumerete come davvero va gustato: dopo averlo servito in eleganti coppe ai vostri ospiti in occasione della cena anni ‘80, berrete quello avanzato di notte, in piedi, a sorsate possenti davanti al frigorifero aperto. Nota tecnica per gli appassionati di pasticceria: la quantità di zucchero dipende molto dalla gelatiera a disposizione e dal luogo in cui il sorbetto viene conservato. Con quelle ad accumulo la percentuale si aggira intorno al 15/16%, in gelateria siamo sui 29/30% mentre per la gelatiera a compressore è preferibile rimanere sotto il 25%. Di questo 25% meglio utilizzare un 20% di destrosio, che ha un potere anticongelante maggiore del saccarosio comune, o in sostituzione un miele dall’aroma poco invasivo (acacia per esempio). C’è chi utilizza l’albume o la meringa italiana per dare un aiutino alla consistenza, ingrediente sostituibile però con un addensante come la farina di semi di carrube. Il destrosio lo trovate, oltre che on-line, in farmacia, mentre la farina di semi di carrube si trova facilmente nei negozi dedicati al bio e affini.
Ingredienti per 6 persone: 280 g di succo di limone/ 210 g di zucchero semolato/30 g di destrosio o miele di acacia/ 3 g di farina di semi di carrube o 30 g di albume pastorizzato/ acqua Preparazione:
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1. Preparate il dispositivo per una cottura diretta, accendendo mezza ciminiera di carbone, che sarà sufficiente. Una volta versato il combustibile lateralmente chiudete il coperchio perché la griglia si scaldi bene. 2. Dividete i limoni in due, dopodiché appoggiateli sulla griglia direttamente sul calore per qualche minuto; quando la parte a contattato con la griglia è leggermente brunita sono pronti. 3. Spremete i limoni, filtrate il succo con un colino per eliminare residui i di polpa e i semi, poi lasciateli raffreddare completamente. 4. Se utilizzate la farina di semi di carrube: versate il succo in un pentolino, aggiungete gli zuccheri (saccarosio e destrosio/miele) la farina di semi di carrube e l’acqua, fino a raggiungere il peso totale di 1 kg. Scaldate a fiamma dolce e cuocete fino al raggiungimento dell’ebollizione, allontanate dal fuoco e aggiungete le bucce del limone in infusione. Se avete la gelatiera, aspettate che si raffreddi e versate nella macchina. 5. Se utilizzate l’albume: versate il succo di limone in un pentolino, aggiungete 200 g di zucchero, 30 g di miele e l’acqua, fino a raggiungere il peso totale di 1 kg. Scaldate a fiamma dolce e cuocete fino al raggiungimento dell’ebollizione, allontanate dal fuoco e aggiungete le bucce del limone in infusione. Una volta freddato il liquido, aggiungete l’albume montato a neve con 10 g di zucchero. Mescolate dal basso verso l’alto. 6. Se non avete la gelatiera, trasferite il composto all’interno di una teglia bassa e riponetela nel congelatore per un’ora. Passato questo tempo prendete la teglia e mescolate il composto in modo da rompere i cristalli. Ripetete questa operazione ogni mezz’ora per sei volte o fino a quando non ottenere una crema bianca e uniforme. 7. Servite il sorbetto all’interno di coppette, o in un limone scavato, come certi ristoranti anni ’80.
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L'Arte Bianca a cura di Alessandro Trezzi
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... grazie, ignota massaia che lo hai inventato
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in foto: il panettone GLC Top Selection
“F
ritta è buona anche una ciabatta”, dicono. Pensate allora agli ingredienti più iconici e tradizionali d’Italia, come il pomodoro e la mozzarella, racchiusi all’intero di una palla di impasto fritto. Pensate all’esplosione di gusto, alla croccantezza della panatura, alla morbidezza del ripieno, al perfetto contrasto tra dolcezza e acidità. Il panzerotto barese è, senza ombra di dubbio, una delle specialità più celebri e conosciute, diffuse ormai in lungo e in largo nella penisola e diventata famosa persino nei pressi del Duomo di Milano, dall’ormai lo storico Luini.
La storia Bari, XVI secolo: in questo luogo ed in questa epoca è collocata la nascita ufficiale del panzerotto, all’incirca concomitante alla prima apparizione del pomodoro in Italia. Galeotto, pare, fu proprio il pomodoro: grazie alla sua predilezione di abbinarsi alla mozzarella, un’ignota massaia avrebbe preso del pane per poi mescolarlo ai due ingredienti, farcito la pallina schiacciata ed immerso il tutto nell’olio bollente. Come spesso accade nelle origini dei prodotti più famosi, il piatto sarebbe presto diventato economica e prelibata sulle tavole povere. Come tutte le nascite “incerte”, trovare la verità è la giusta arte di collocarsi nel mezzo. Il primato della paternità è conteso con Napoli, che vanta l’invenzione della pizza fritta come alternativa alla pizza al forno, ma lasciatemi dire che delle diatribe territoriali ci interessa relativamente poco, vista la commovente bontà che ci ritroviamo davanti.
Etimologia
L’impasto Nella sua città d’origine l’impasto viene realizzato con olio, latte o addirittura patata schiacciata, in modo da aggiungere gusto, fragranza e morbidezza. E come sempre, nella nostra versione nerd e in pieno stile BBQ4All, stravolgeremo tutto per arrivare ad un risultato atomico senza inutili aggiunte. Partiamo come sempre dall’obiettivo finale, definendolo in modo chiaro e semplice: il prodotto finito deve essere leggero, un concetto importantissimo specialmente quando si parla di fritto; una materia prima cotta nell’olio in modo sbagliato può infatti trasformarsi in un’esperienza pesante, indigesta e decisamente da dimenticare. Come per la pizza fritta vista lo scorso mese, dobbiamo realizzare un panetto estensibile ma di tenuta, in modo che sia possibile renderlo sottile senza bucarlo, ottimizzando i tempi di cottura e impedendo alla pasta di assorbire troppo olio. La scelta migliore ricade quindi su 00 o 0 di forza media, con un buon assorbimento minimo ed un’ottima stabilità. La maglia glutinica dovrà essere ben formata, ed è fondamentale che l’idratazione non sia troppo elevata per evitare di utilizzare troppo spolvero durante la stesura, che brucerebbe nell’olio bollente. Lasciamo stare olio, latte o patata schiacciata, con i quali non faremmo altro che rischiare di rovinare la maglia o di inumidire eccessivamente l’impasto. Non lesiniamo nemmeno sul sale, che rafforza i legami proteici e rende più tenace la maglia, oltre a stabilizzare la lievitazione.
La cottura Il grasso prediletto per questa tipologia di prodotto rimane senza ombra di dubbio l’olio di semi di arachidi, con un ottimo punto di fumo e meno invasivo per quanto riguarda l’apporto di sapore nel prodotto finito. La temperatura ideale è 180°C, da rispettare in modo certosino in modo da avere un fritto più leggero possibile. Un tempo il grasso più utilizzato per la frittura
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Pare che il nome derivi proprio dall’idea dell’ignota massaia di racchiudere la farcitura all’interno della pallina di impasto per pane, per evitare di far bruciare gli ingredienti nell’olio. All’interno del pentolone, notò che le palline stesse assumevano la forma di mezzelune tonde e decisamente panciute. Venne quindi coniato il nome “panzerotto” che deriva da “panza”, termine semi-dialettale meridionale per indicare la pancia gonfia. Arrivati a questo punto, potrete capire il dramma dei baresi: spesso (sia fuori provincia che addirittura fuori regione), quando si ordina un “panzerotto”, ci si trova davanti a pietanze completamente diverse da
quelle che ci si aspettava. Il nostro beneamato fritto può assumere forme e nomi diversi a seconda del territorio: in Salento si chiama “calzone”, in Lucania “calzoncello”, in Campania è sostituito dalla “pizza fritta" e il panzerotto è di fatto una grossa crocchetta di patate.
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era la sugna, ovvero lo strutto di maiale, in quanto economico e di facile reperibilità, ma soprattutto con un altissimo punto di fumo; vi ricordo infatti che più un punto di fumo è alto, maggiore potrà essere la temperatura soglia per la cottura, minore sarà il tempo di cottura e quindi di permanenza del cibo nel grasso, che si impregnerà meno risultando più leggero. Essendo il panzerotto ben più piccolo della pizza fritta, in caso di poca farcitura e di una dimensione ridotta potrebbe non essere così cattiva l’idea di sostituire l’olio di semi con dello strutto. Provare, come sempre, non costa nulla.
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La farcitura
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Il panzerotto classico vuole la mozzarella e il pomodoro, su questo non ci piove. La cosa importante, tuttavia, è quella di ottenere un ripieno morbido ma asciutto, in modo tale che l’umidità in eccesso non rischi di rompere l’impasto in cottura combinandovi disastri a dir poco epocali; per questo motivo i due ingredienti vengono miscelati e successivamente scolati lentamente. A discrezione, è possibile prevedere un pizzico abbondante di pepe e soprattutto una grattata di formaggio Pecorino, che aiuta a dare consistenza alla farcitura. Nel barese, la base della farcitura tradizionale si può modificare con prodotti tipici: cime di rapa bollite o stufate, ciccioli di maiale, mortadella e provola, e così via. Come sempre possiamo sbizzarrirci, lavorando di fantasia e per associazione territoriale, cercando però di rispettare la sacra regola del ripieno morbido ma asciutto. Lavorate quindi con pochi ingredienti, massimo due o tre, e che abbiano un ottimo equilibrio. Azzardate, sperimentate e fate lavorare l’ingegno. Last but not least, il panzerotto si presta perfettamente alle versioni dolci, grazie anche alla sua dimensione ristretta che lo rende sfizioso e difficilmente stucchevole. Ricotta lavorata con lo zucchero, marmellata di agrumi, nocciole tritate e foglie di menta fresca potrebbero essere ad esempio un’interessante idea per terminare i vostri cenoni al barbecue.
INGREDIENTI
per circa 30 panzerotti
per l'impasto 1 kg di farina 00 o 0 (W 300); 600 g di acqua; 25 g di sale fino; 3 g di lievito di birra fresco.
per la farcitura 800 g di fiordilatte; 400 g di pomodoro pelato; sale q.b.; pepe nero q.b.
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IMPASTAMENTO
In una ciotola o nella vasca della vostra impastatrice versate tutta la farina, il lievito sbriciolato, circa i 3/4 dell’acqua e iniziate a miscelare. Non appena l’impasto comincerà a prendere consistenza versate tutto il sale e l’acqua rimanente. L’impasto sarà pronto quando risulterà liscio, asciutto e setoso, con il glutine ben formato, e la temperatura interna dovrà essere di 23°C-24°C. Chiudetelo a pagnotta facendo qualche piega in modo da uniformarlo e dargli struttura, dopodiché mettetelo in un contenitore a chiusura ermetica ben unto, ungete anche la parte superiore e lasciatelo riposare 2 ore a 24°C. Questa operazione è molto importante in quanto l’impasto è asciutto, e il rischio è di formare della fastidiosa pellicina. Se capita non disperate: inumidite la zona intaccata e appoggiate un pezzo di carta forno inumidito in modo che l’aria non vi dia più problemi.
e recuperateli con una spatola o un tarocco, appoggiandoli sul piano leggermente sporco di semola; usatene il meno possibile, in modo da evitare che l’eccesso finisca nell’olio bollente bruciando. Stendete uniformemente i panetti con il mattarello ricavando un disco dal diametro di circa 12 cm, con lo stesso spessore in tutta la superficie. Tagliate la mozzarella a dadini e mescolatela con il pomodoro pelato schiacciato, aggiustate di sale e pepe e mettete il tutto a scolare, in modo che la farcitura risulti asciutta e non buchi il panzerotto in cottura. A questo punto allungate leggermente il disco di impasto con le mani dandogli una forma leggermente ovale, adagiate una cucchiaiata generosa di impasto al centro e chiudete poi i lembi a mezzaluna. Aiutatevi con una rotella per pasta fresca per tagliare una piccola zona della chiusura sigillando il bordo, oppure con la punta dei rebbi di una forchetta.
PUNTATA
COTTURA
Trascorse le prime due ore di riposo ripiegate l’impasto nuovamente e riponetelo sempre nel vostro amato contenitore in frigorifero a 6°C per 18 ore, in modo da completare la fermentazione e rallentare la lievitazione.
STAGLIO, FORMATURA E APPRETTO
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Terminata la puntata rovesciate l’impasto sul piano da lavoro e dategli la forma di un salsicciotto. Spezzatelo con un tarocco (mai con un coltello) e ricavate dei panetti dal peso di 50 g ciascuno, che andranno poi arrotolati sul banco in modo da ottenere una pallina. Disponeteli quindi ben distanziati in una cassetta da lievitazione o su una teglia coperta da pellicola per altre 6-8 ore a 24°C.
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STESURA E FARCITURA
Infarinate leggermente due panetti
Versate abbondante olio di semi di arachidi in una pentola ampia almeno 28 cm, e portatelo a 180°C. Aiutatevi con una spatola per staccare l’impasto dal piano, e adagiate i due panetti nella pentola. Cuocete fino a doratura completa, girando dopo qualche minuto i panzerotti dal lato opposto e avendo cura di bagnarli sempre con l’olio aiutandovi con schiumarola e mestolo, in modo da uniformare la cottura. Tolti dall’olio appoggiate i vostri scrigni fritti su una teglia coperta di carta assorbente o carta paglia e asciugate l’olio in eccesso. Abbiate sempre cura prima di cuocere i panzerotti rimanenti che l’olio sia tornato a 180°C, evitando così di allungare i tempi e avere il fritto unto e pesante. Non vi resta che avvolgere il vostro stupendo panzerotto fumante nella carta e scottarvi la lingua, godendo in quattro lingue diverse, soprattutto in barese.
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Gli americani e il pesce DAGLI STATES
Across the Pond a cura di Elena Ninotti
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irca 40 anni fa, mentre era ospite di una famiglia americana in New Jersey, mia cognata venne invitata ad una battuta di pesca. La compagnia tornò a casa con un bel pesce; alla sua domanda (ovvia, per le nostre orecchie!) se quel pesce sarebbe stata la loro cena, la risposta inorridita fu Ma scherzi? Non lo vedi che ha la testa e la coda? Come facciamo a mangiarlo? Al che lei, figlia di pescatori amatoriali, lo pulì e gli tolse la testa per renderlo quindi commestibile agli occhi degli amici americani. Questa storia è stata raccontata negli anni come una barzelletta sull’eccentricità di questi personaggi. In realtà, quando mi sono trasferita con la mia famiglia in South Florida, ho potuto constatare di persona come questa idea sia diffusa. Mio marito pesca e sono certa che uno dei motivi principali per cui ha accettato il lavoro a nord di Miami sia che qui c’è la più alta percentuale di pescatori sportivi degli Stati Uniti. Youtuber, influencer, campioni di pesca: tutti prima o poi passano le acque tra la Tri-County (Miami-Dade, Broward e Palm Beach), le isole Keys e le Bahamas. Il buon clima tutto l’anno, il mare decisamente calmo e la buona pescosità rendono questa zona un vero paradiso. Quello che mi sconvolge è quanto, però, molti americani peschino per pescare: perché, di fatto spesso non mangiano ciò che hanno catturato. Spesso lottano con la preda per tirarla su, ci si fanno una foto, e poi la ributtano in mare. La pesca sportiva è assimilabile a un safari: l’importante non è se la preda sia edibile, ma quanto è grossa e quanto è combattiva. E per mangiare il pesce? Per chi non è
pescatore e anche per una parte di quelli che lo sono, si compra rigorosamente al banco del supermercato: filetti bianchi di pesce, tutti uguali, senza testa, senza coda, senza spine, come quelli apprezzati dalla famiglia che ospitava mia cognata; oltre a essere completamente puliti, sono adagiati su letti di ghiaccio secco che li cuoce e li rende indistinguibili. Hai voglia a cercare su Google translate la traduzione del nome del pesce proposto: mai assomiglierà a quella roba bianca e informe che vedi esposta. La possibilità di trovare i pesci interi c’è solo in alcuni supermercati (ad esempio Whole Foods Market) e in qualche pescheria ma, al momento dell’acquisto, l’addetto alla vendita cercherà in tutti i modi di dartelo pulito e spinato. Non so da cosa derivi questa fobia, ma mi è successo anche di voler regalare del pesce appena pescato e sentirlo rifiutare perché ancora intero.
Per gli americani, l’astice con le chele è la Maine Lobster, o Aragosta del Maine (uno stato del New England). L’aragosta con le spine, invece, è la Florida Lobster o Spiny Lobster. E’ meno diffusa e, tra Luglio e Agosto, qui in South Florida è possibile pescarla direttamente dalla spiaggia, in prossimità della barriera corallina, armati di un retino ed un’astina per farla uscire dalla tana (è tuttavia necessario un permesso di pesca dedicato). Purtroppo, quello che non ho mai trovato sono gli scampi (langoustine). Sembra che nelle loro mille versioni di crostacei, questi non siano pervenuti. Ma non demordo, sono certa che prima o poi li troverò.
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Io sono cresciuta in Italia, in un paese di mare e il pesce è sempre stato presente sulla mia tavola. Per fortuna, come dicevo prima, noi abbiamo la possibilità di pescarlo e di averlo fresco, anche senza il supporto del mercato. Tuttavia, il pesce dell’Oceano non è simile a quello del Mediterraneo. L’Oceano è molto meno salato del Mare Nostrum e questo si ripercuote sul gusto del prodotto, molto più delicato, che può essere un difetto su pesci dalle carni bianche, ma è un valore aggiunto per il pesce azzurro oppure per quello che da noi in Italia è considerato di scarto o troppo forte, come sugarello, bonito, sgombro. Chiaramente, le ricette americane di pesce non prevedono mai una cottura al forno o una frittura di paranza. Si parla di tranci grossi da grigliare, friggere, affogare nelle svariate salse o con cui farcire sfiziosi tacos o enchilada. Non dico non siano buoni, ma non è certo quello con cui siamo cresciuti noi.
La vera passione degli americani, tuttavia, sono i crostacei e le capesante. Pur, anche in questo caso, con qualche loro peculiarità: scordatevi di trovare gamberi o aragoste compresi della testa, o capesante col corallo e/o il guscio. Mi dicono che i gamberi con la testa si possano trovare in Alabama e in alcuni Stati del Sud, ma ancora non ne ho le prove. Di sicuro, da tutte le altre parti potrete decidere la misura del vostro crostaceo o della capasanta col calibro, ma mai avrete il piacere di vederne uno intero. Anche in questo caso, sono sempre meno aromatici dei nostri, ma comunque davvero interessanti. Le code di aragosta, la polpa di granchio, le innumerevoli varianti di gamberi hanno prezzi per noi molto più accessibili. Una coda di aragosta può costare come un trancio piccolo da 150 g di salmone allevato; si può tranquillamente mangiare al ristorante un lobster roll (un soffice panino al burro, ripieno di insalata di aragosta, maionese leggera e - a volte - fettine di sedano per dare croccantezza.) con 12-15 dollari, e con 20 dollari avere un piatto di lobster linguine.
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Da novembre a marzo c’è la stagione delle chele di granchio. I banchi del pesce si riempiono di chele di ogni forma e dimensione e gli americani ne vanno letteralmente pazzi. Semplicemente bollite, spolverate di Old Bay Spice mix, in insalata oppure nelle Crab Cake, che ono una specie di hamburger fatti con granchio, pangrattato, spezie e un goccio di maionese nell’impasto: davvero molto buone. Accompagnate da un’insalata sono un’ottima soluzione per un light lunch al volo decisamente gustoso.
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Se acquistare pesce è deprimente, non va molto meglio con i molluschi. Le cozze sono quasi introvabili, le vongole sono vendute a numero. UNA vongola va da 50 centesimi a più di un dollaro. E non è detto che siano grosse. Potrebbero essere grandi come una piccola vongola verace, così come un grosso fasolare. Tempo fa ho trovato un sacchetto da 2,5 kg di vongole al supermercato. Le ho prese, pensando di aprirle e conservarne metà per una spaghettata futura. Invece, dopo averle pulite, mi sono ritrovata con un pugno di molluschi. Gusci pesantissimi, liquido all’interno: insomma, invece di fare scorta, sono riuscita giusto giusto a fare una spaghettata per 3 persone. In generale, non è impossibile mangiare buon pesce in USA. Bisogna però uscire dalla propria comfort zone e non pretendere la spaghettata in stile terrazza sul mare, o il branzino da far sfilettare al cameriere. Piuttosto, una volta abbandonati i pregiudizi, potrete apprezzare un trancio di Chilean Sea bass (una sorta di grosso branzino) blackened, cioè spolverizzato di spezie Cajun e poi passato su piastra o sotto il grill, oppure fare scorpacciata di cappesante seared (grigliate) o, ancora, di gamberi fritti, rigorosamente già sbucciati per il piacere del cliente. Se proprio volete esagerare, ordinate un Surf and Turf, traducibile come “mare e monti”. In pratica, vi arriverà una coda di aragosta al burro, accompagnata da un Filet mignon, oppure un trancio di pesce con una NY strip, nello stesso piatto.
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Questo mese vi do la ricetta delle Crab Cake e delle Fish and Lobster Cake. In attesa che si riaprano le frontiere e possiate assaggiarle nel Maryland, loro zona d’origine, potete provare a farle da soli.
MARYLAND CRAB CAKE Ingredienti per 4 persone: 450 g polpa di
granchio sgocciolata e pulita dalle cartilagini/ 60 g pangrattato o cracker salati tritati / 60 g di maionese / un uovo/ 2 cucchiaini di prezzemolo tritato/ un cucchiaino di senape di Digione/ un cucchiaino di Sal's Seasoning - Smoky Chipotle Chili/ sale e pepe q.b per aggiustare/ burro q.b. . Preparazione: 1. In una ampia ciotola, mescolate tutti gli ingredienti. Dividete in 8 parti il composto e fate 8 polpette schiacciate, tipo hamburger. Se avete un coppapasta con pressa, ungete l’anello e formatele aiutandovi con quello. 2. Fate riposare i patty qualche ora in frigo. 3. Sciogliete del burro in una padella e quando è spumeggiante, cuocete le polpette fino a doratura, voltandole con una spatola con cautela. Si possono mangiare nel bun con germogli e un velo di aioli o come piatto principale con una insalata di contorno, accompagnate da salsa remoulade (maionese con una punta di senape e cetriolini agrodolci tritati fini) o con una salsa cocktail all’italiana.
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LOBSTER-FISH CAKE
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Ingredienti per 4 persone: una cipolla media tritata non troppo finemente/ una costa di sedano tritata non troppo finemente/ un peperone medio piccolo o meta di un peperone normale tritato (circa 150 g)/ 600 g di pesce bianco sfilettato, come merluzzo o altro pesce a vostra scelta/ 250 g di polpa di astice (o scampi o gamberi) a pezzi leggermente sbollentati/ 125 ml di panna fresca da montare non zuccherata/ 125 g di pangrattato, panko o craker sbriciolati/ 2 uova/ 2 cucchiai di maionese/ un cucchiaio di senape/ olio d’oliva q.b./ 3 cucchiai di aneto tritato/ un cucchiaio di buccia di limone/ 2 cucchiai di olio/ sale e Pepe q.b./ 100 g di burro/ olio di semi di arachide q.b./ Panko q.b. per impanare
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Preparazione: 1. In una padella che possa contenere comodamente il pesce, scaldate due cucchiai di olio e saltate le verdure. Quando sono rosolate, ma ancora croccanti, aggiungete i filetti di pesce ben asciugati e cuocete a fuoco alto per 5 minuti. 2. Aggiungete la panna e portate a cottura per 10 minuti a fuoco medio, poi fate raffreddare bene. 3. Mettete il tutto in una ciotola, aggiungete tutti gli altri ingredienti e lasciate riposare in frigo almeno un paio d’ore. 4. Create 12 polpette medie o 24 piccole, passatele nel panko e friggetele in un mix di burro e olio, fino a doratura. Se non avete il panko, potete tostare del pancarrè e frullarlo leggermente o, ancora meglio, grattugiarlo con una grattugia a fori larghi e poi tostare le briciole ottenute.
In tutte le salse a cura di Marco Gerometta
SALSA AI PEPERONI GRIGLIATI E AVOCADO
Abbinata al Fish&Chips
I peperoni, originari del Sud America e appartenenti alla famiglia delle Solanacee, attualmente vengono coltivati in tutto il mondo. Questo ortaggio, che abbiamo conosciuto grazie allo scambio colombiano, non contiene la sostanza chimica che rende piccanti i peperoncini e al contrario del fratellino caliente non ebbe una rapida diffusione nella cucina italiana. Come tutte le cose ottime della nostra cucina contemporanea, ci abbiamo messo un po’ a capire come valorizzarlo ed usarlo al meglio. Siamo un po’ capoccioni. Lo troviamo in alcune ricette del 1600: abbinato alla cottura del tacchino o usato per insaporire le salse. Nel 1700 viene considerato “cibo rustico e volgare"; ma dato il suo successo, nell’800 i peperoni sott'aceto di un oste veronese finiscono sulla tavola di Napoleone Bonaparte. Da lì, la strada si fece più semplice. Vegetale fra i meglio conservabili, ormai il peperone è un simbolo della cucina mediterranea, poiché tutte le popolazioni che si affacciano sul Mare Nostrum conoscono innumerevoli modi di servirlo. Data la molteplicità delle specie, potrebbe succedere che una varietà dolce sulla carta risulti più piccante del dovuto, quindi è sempre bene assaggiarne un pezzettino. Il peperone è un prodotto ricco di vitamina C e D e di sali minerali come potassio, ferro, magnesio w calcio. Notoriamente, crea spesso qualche difficoltà di digestione; per questo motivo è consigliabile procedere all’eliminazione della pellicola che lo riveste.
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VIENE CHIAMATO “SUPERFOOD”: L’AVOCADO L’avocado, frutto coltivato nell’America centro-meridionale già dagli Aztechi, fu anch’esso importato in Europa da Cristoforo Colombo, descritto dai conquistadores come un frutto di ottimo sapore la cui polpa era simile al burro. Scegliere un avocado al giusto livello di maturazione non è così semplice, ma è molto importante per un risultato ottimale delle ricette. Di solito li si trova troppo duri e non sarebbero buoni e adatti a molte preparazioni, ma per farli maturare alla giusta consistenza, basta metterli in un sacchetto di carta assieme a una
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mela o una banana e dopo uno- due giorni al tatto risulteranno morbidi. Quando invece la polpa inizia a scurirsi significa che la maturazione è andata oltre. Con questi due prodotti faremo una salsa deliziosa per accompgnare in modo originale il nostro piatto di Fish&Chips.
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Ecco cosa ci servirà: • 2/3 peperoni misti • un Avocado medio • 4 cucchiaini di panna da cucina • 4 cucchiaini di maionese • 2 cucchiaini di aneto sminuzzato • un grosso spicchio d’aglio • mezzo cucchiaio di sale grosso • un pizzico di Sal’s seasoning Montreal Steak Rub
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Preparazione: 1. La prima fase di questa salsa consiste nell’andare a grigliate i nostri peperoni: si può optare per un mix di qualità differenti (i classici nostrani gialli, rossi o verdi, i corno, i friggitelli e addirittura qualche piccante lungo) A me piace molto il sapore dato da una cottura in ember roasting, cioè direttamente sulle braci, rigirandoli con dei guantoni termici, fino ad ottenere l’esterno bruciato. In alternativa potete mettere i peperoni sulla leccarda del forno per circa 15 minuti a 250°C fino a che saranno abbrustoliti. 2. Posizionateli in un sacchetto adatto al congelamento: in questo modo dopo 5 minuti si faciliterà l’operazione di spellatura. 3. Con un coltello eliminate poi i semi e la placenta interna, oltre al picciolo, e poi a tagliateli a listarelle. 4. Non vi resta che unire tutti gli altri ingredienti, compresa la polpa dell’avocado maturo, e frullare il tutto per ottenere la vostra salsa.
SALSA STRACCHINO, MORTADELLA E PISTACCHI
Abbinata alla pasta fritta
Nei miei ricordi dell’anno di naja trascorso in Toscana c’è indubbiamente quello delle libere uscite, quando si andava coi compagni nei locali per mangiare qualcosa e immancabilmente ci ritrovavamo a mangiare un bel piatto di pasta fritta con accompagnamento di salumi e formaggi. Partendo da ciò, ho pensato ad un abbinamento molto sfizioso. Conosciamo meglio gli ingredienti principali. Lo spalmabile, fresco e saporito stracchino è un formaggio di origine lombarda (a proposito, il nostro Giovanni Minelli sul BBQ4All Magazine vi ha anche insegnato come riuscire a farvelo da soli). Il nome deriva da stracc che in dialetto significa stanco: per realizzarlo, infatti, veniva utilizzato latte proveniente da mucche provate dalla transumanza al fondovalle dopo l'alpeggio estivo. Tornando da una lunga camminata, stracche appunto, queste vacche producevano poco latte, ma sufficiente affinché i pastori potessero produrre un ottimo formaggio che venne chiamato stracchino. Tecnicamente parliamo di un formaggio a pasta molle, di breve stagionatura (massimo 30 giorni) e prodotto con latte vaccino intero.
Il pistacchio – fra l’altro spesso abbinato alla mortadella- è una pianta originaria del bacino Mediterraneo, coltivata per i semi che vengono perlopiù utilizzati per il consumo diretto e in pasticceria, ma anche per aromatizzare gli insaccati di carne. Era noto e coltivato dagli antichi ebrei e già allora ritenuto un frutto prezioso. Furono gli arabi che - conquistando la Sicilia - si attrezzarono per incrementare la coltivazione del pistacchio nell’isola: questo, in particolare alle pendici dell’Etna, trovò l’habitat naturale per uno sviluppo rigoglioso ed eccezionale. Ma torniamo a noi: Abbiamo i nostri fumanti pezzi fritti di pasta toscana e con un cucchiaino andremo a spalmarci sopra un po’ di questa salsina: morso dopo morso sarà una mescolanza di tradizioni davvero sorprendente. Ingredienti: • 150 g di mortadella a fette • 50 g di ricotta di capra • un cucchiaio di Parmigiano Reggiano grattugiato • un cucchiaio di panna da cucina • 2 cucchiai di latte intero • granella di pistacchio q.b. • un pizzico si Sal’s Seasoning Mount Nimba Preparazione: 1. La preparazione è facilissima: vi basterà frullare il tutto ed eventualmente aggiungere altro latte fino alla cremosità desiderata. 2. Servite con la granella di pistacchio e con la pasta fritta fumante.
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La mortadella Bologna fino a un paio di secoli fa era un prodotto riservato a un’élite di buongustai, nobili e ricchi borghesi che potevano permettersi un salume che richiedeva la manodopera di Norcini altamente specializzati, e che quindi aveva un prezzo superiore persino a quello del prosciutto. Solo in seguito al graduale sviluppo dell’industria salumiera (parliamo dell’Ottocento) la mortadella diventò un prodotto accessibile a tutti, trasformandosi pian piano nella schiscetta preferita dagli operai, mangiata nel panino e innaffiata con una birretta buona. Nel Museo Archeologico di Bologna è conservata la prima testimonianza di quello che si ritiene essere stato un produttore di mortadelle: su una lastra in pietra risalente all’epoca della Roma imperiale, nella quale
sono raffigurati da una parte sette porcelli condotti al pascolo e dall’altra un mortaio con pestello. Dal momento che il mortaio era utilizzato dai romani per pestare e impastare le carni suine con sale e spezie, se ne potrebbe dedurre che il nome della gustosa specialità salumiera nasca da murtatum che significa appunto carne tritata nel mortaio.
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L'Arte Casearia a cura di Giovanni Minelli
Da mozza a... mozzarella
Come fare il nostro latticino a pasta filata preferito
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Sei proprio una mozzarella: se la Treccani riporta questo detto come da attribuire a persone prive di carattere, beh, non ci giurerei: parliamo di uno dei prodotti più rappresentativi della gastronomia italiana ed in generale mediterranea, sempre al centro di dibattiti talvolta accesi. Per mozzarella intendiamo il prodotto ottenuto da latte bufalino da latte vaccino, assumendo per legge diverse denominazioni: fino al 1996 era possibile chiamare “mozzarella” solo quella di “bufala
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campana”, che ha il marchio DOP. Ad oggi, oltre la “mozzarella di bufala campana DOP”, abbiamo anche la “mozzarella di latte di bufala” ma anche la “mozzarella di latte vaccino”. In caso di utilizzi di altri tipi di latte, i produttori sono tenuti a comunicarlo. La mozzarella è preparata principalmente nel Centro-Sud Italia: si hanno testimonianze di
produzione di mozzarella a Capua (in Campania), nel XII secolo; in Centro Italia, verso il XV secolo. Il minimo comune denominatore è la necessità di essere consumata freschissima, quindi in molte zone hanno automaticamente dato il via a proprie produzioni di questo latticino, acquisendo le tradizioni del posto. Questo è uno dei motivi per cui, dopotutto, ci avviamo a fare la nostra mozzarella homemade. Siete pronti? Dite “cheese”! DI
DI MOZZARELLA IN MOZZARELLA: NOTE TECNICHE E PROCEDIMENTO Parlando di mozzarella entriamo nel mondo delle paste filate, a questa categoria appartengono anche provoloni, caciocavalli e scamorze. I prodotti più celebri sono realizzati a partire da latte di vacca o bufala, ma esistono prodotti con latte ovino, come la Vastedda della Valle del Belice. La mozzarella sicuramente è il più celebre e venduto esempio di questa categoria, che a sua volta vanta diverse variazioni sul tema, dai prodotti a minor contenuto d’acqua, come i pizza-cheese, a quelle farcite. Rimanendo nella sua declinazione più classica è comunque molto facile imbattersi in prodotti con caratteristiche eterogenee, questo perché ogni stabilimento di produzione interpreta il processo calibrandolo al netto delle possibilità offerte dal proprio livello tecnologico, dall’economicità del processo e della sua ripetibilità nel tempo. Tutte le paste filate hanno in comune una fase del processo produttivo che è caratteristico della categoria: tra la fase di coagulazione e quella di formatura si passa per la filatura, resa possibile dalla preventiva acidificazione e demineralizzazione della massa cagliata. Ormai sapete bene che per ottenere un proficuo abbassamento del pH possiamo agire seguendo due vie distinte: l’acidificazione diretta, tramite ad esempio l’utilizzo di acido citrico, oppure l’acidificazione indiretta, tramite
Abbiamo un pH obiettivo da raggiungere, che per il latte vaccino è 5,1/5,0. Ad un pH superiore non riusciremmo a filare il prodotto e ad uno inferiore perderemmo elasticità per eccessiva demineralizzazione. Risulta quindi molto importante raggiungere questa soglia e successivamente bloccare la fermentazione per evitare che il valore continui a scendere. Hai a disposizione tutto il tempo che vuoi prima di continuare a leggere, immagina
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batteri che fermentano il lattosio. Se pensiamo alla mozzarella e al suo processo produttivo, sicuramente avremo in mente proprio qualche scena di filatura e mozzatura del prodotto, è la sua caratteristica, ma questa necessariamente deve passare per l’acidificazione, meno emozionante ma indispensabile affinché la massa possa essere lavorata. Questa parte di processo può essere approcciata in vari modi: si può lasciare la cagliata sul banco di lavoro, all’aria, oppure sotto siero (o acqua) ma comunque a temperatura costante. Personalmente non sono un amante delle mozzarelle citriche, benché il processo sia abbastanza facile e tendenzialmente più veloce, il prodotto finale risulta essere abbastanza banale, con note sensoriali poco intense tanto da farmi pensare che probabilmente ho sprecato del buon latte. Preferisco realizzare le mie mozzarelle casalinghe acidificando per via indiretta utilizzando fermenti selezionati commerciali. Nella fattispecie utilizziamo dei termofili omofermentanti: Streptococcus termophilus e Lactobacillus bulgaricus.
Si potrebbero utilizzare anche degli innesti partendo dal proprio latte, ma questa sarà un’altra storia.
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una soluzione, se hai letto tutti gli altri approfondimenti sul formaggio probabilmente hai già un’idea su come procedere. 3, 2, 1 e te lo dico io: stiamo utilizzando dei termofili, quindi stanno “lavorando” ad una temperatura relativamente alta, dunque basta raffreddare la massa e lo facciamo immergendola in acqua fredda.
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Potremmo parlare moltissimo delle caratteristiche che dovrebbe avere un buon latte per ottenere una mozzarella di prima categoria, tuttavia si tratta di elementi che a livello casalingo non possiamo monitorare dunque l’unica cosa da tenere a mente è che non possiamo utilizzare latte UHT. Ora, forti di queste considerazioni vediamo un processo casalingo valido per poi ragionarci su:
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00:00 latte in caldaia a 38°C e aggiungo i fermenti; 00:40 latte a 38°C e aggiungo il caglio; 01:05 primo taglio della cagliata in cubi 4x4x4; 01:15 s e c o n d o t a g l i o a dimensione di una nocciola; 01:20 sosta sotto siero; 04:50 blocco della fermentazione, filatura e formatura. Le tempistiche dalla sosta sotto siero in poi sono indicative, come al solito non sarà propriamente il tempo il nostro punto di riferimento ma il pH e l’elasticità della pasta. Per quanto riguarda il caglio utilizzo un liquido di vitello 1:10000 al 75% di chimosina in ragione di 2,5 ml per 10 litri di latte e l’obiettivo è quello di ottenere una cagliata dalla
consistenza asciutta, che al taglio risulti netta. I due tagli della cagliata dovranno essere approcciati senza fretta, delicatamente, per evitare una resa in prodotto finito limitata. L’acidificazione della massa è il vero fulcro della questione, io la approccio mantenendo la cagliata sotto acqua a 40°C, perché recupero il siero per fare ricotta. Tengo la caldaia all’interno di un contenitore per alimenti in polistirene per mantenere la temperatura costante, ormai sappiamo che i batteri termofili ci vengono incontro se li mettiamo in condizione idonea. A circa 3 ore dall’inizio di questa fase ho fatto la prima prova di filatura ma ho ottenuto la giusta consistenza alla terza prova, a 3 ore e mezza. Consiglio di fare una prova ogni 15 minuti circa.
Come approcciare alle prove di filatura? Prelevo un piccolo pezzo di cagliata della dimensione di una nocciola e lo immergo in acqua a 90°C, dopo alcuni istanti durante i quali lo lavoro con un cucchiaio, estraggo la piccola massa e provo a vedere se fila. Se l’obiettivo è raggiunto blocco la fermentazione immergendo tutto in acqua fredda.
A questo punto comincio ad aggiungere l’acqua di filatura, preventivamente salata al 2,5%, a 85°C. Utilizzo complessivamente una quantità d’acqua che è circa 3 volte il peso della pasta da filare. Con una spatola lavoro la pasta fino ad ottenere una massa lucida, omogenea e filante. A questo punto posso cominciare con la formatura a mano, quindi consiglio vivamente di tenere accanto una bacinella con acqua e ghiaccio dove immergere le mani spesso e volentieri. Via via che formo le mozzarelle le lascio cadere in acqua fredda dove si rassoderanno e si raffredderanno. Una buona alternativa alla mozzatura, che potrebbe non risultare facilissima, sono i
nodini: allungo una porzione di pasta e appunto creo un nodo. Avendo salato l’acqua di filatura non dobbiamo ulteriormente salare. Il liquido di governo nel quale terremo le nostre mozzarelle dovrà essere mantenuto a temperature abbastanza basse, dai 4°C ai 6°C, leggermente salato e, come avevamo visto per le salamoie, allo stesso pH del formaggio, dunque occorrerà correggere il liquido utilizzando il siero che è avanzato dalla lavorazione. Ora avete tutti gli elementi per fare una mozzarella degna di questo nome in casa vostra. Il processo non è dei più veloci, ma seguendolo dettagliatamente non commetterete errori. Come sempre, aspetto di vedere le vostre creazioni nella nostra community Facebook Gastronomicamente.
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Prelevo la cagliata, la taglio in grosse fette e a distanza di circa 15 minuti dal primo taglio procedo ulteriormente a tagliarla in strisce, ora è pronta per la filatura. Comincio col preriscaldare la pasta aggiungendo qualche mestolata di acqua a 55°C, è una fase da non sottovalutare, soprattutto se si fila a temperature alte, come faccio io (si potrebbe filare anche a temperature più modeste in funzione del contenuto in acqua e percentuale di grasso). Andare
direttamente con acqua a 85°C/90° C comporta una sorta di scottatura della pasta e il risultato sarà poco appetibile.
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e h c i r ost
De Gustibus a cura di Paolo Tucci
Tutto quello che c’è da sapere sulle
O
striche: l’argomento è gustoso, oltre che abbastanza costoso. Nel mondo contemporaneo, l’ostrica è considerata lo status symbol, aperitivo o antipasto per eccellenza di un certo tipo di gourmand, magari da accompagnare a costosi vini ed altri appetizer. Ma noi vi sfidiamo: quanti tra voi sanno riconoscere i diversi tipi di ostriche, quanti di voi sanno destreggiarsi tra le differenti (e mirabili) caratteristiche, quanti di voi saprebbero consigliarne? Di sicuro, qualcuno tra voi sì. Per tutti gli altri, ecco a voi un articolo vademecum con delle informazioni che vi ritroverete a sfoggiare alle prossime cene in compagnia, quando si potranno fare.
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OSTRICHE: CENNI DI STORIA Il rapporto dell’uomo con le ostriche si perde nella notte dei tempi. Il bacino del Mediterraneo è sempre stato molto pescoso e molto ricco, anche di ostriche. Nell’antica Grecia, ostrakon era riferito alle
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conchiglie (a sua volta da osteon, osso, in virtù del guscio), alle ostriche, ma per significato traslato anche ai cocci di vaso. Era pratica comune, nelle poleis come Atene, scrivere su questi cocci (o ostriche, o conchiglie) i nomi dei cittadini indesiderati per poi eventualmente epurarli dalla città: questa pratica è passata alla storia come “ostracizzazione”. Questo piccolo aneddoto vi sarà sufficiente a capire l’importanza del nostro bivalve. Ma prima, parliamo di un concetto che forse vi sarà nuovo, ma di fondamentale importanza per capire a pieno il valore di ciò che stiamo andando ad assaporare: parliamo un attimo del meroir. QUE-EST-CE QUE LE MEROIR ? Di terroir ne avrete sentito parlare: chissà del meroir. Ve lo spiego in pochissime parole: il meroir è l’insieme delle condizioni climatiche, ambientali, di nutrimento presente nelle acque e di qualunque altro fattore geografico possa in qualche modo influenzare il sapore del cibo marino, rendendolo unico ed inconfondibile. Potrete quindi ben capire quanto l’ambiente delle ostriche conti davvero parecchio. OSTRICHE: GEOGRAFIA Di ostriche ne è pieno (diciamo) il mondo: con questo intendiamo che l’allevamento ne è diffuso in gran parte dei continenti. Per quanto riguarda il Vecchio Continente, sua terra d’elezione è senza alcuna ombra di dubbio la Francia. In questo nostro piccolo excursus andremo ad analizzare in particolare le ostriche di una zona della Francia molto specifica: parlo di MarennesOléron, area geografica dedita all'affinamento, l'allevamento nelle radure e il condizionamento delle ostriche che si sviluppa su ventisette comuni e si estende su oltre 3.000 ha. Situtata nel dipartimento della Charante-Maritime, a nord di Bordeaux, a Sud de La Rochelle-Rochefort, sull’Oceano Atlantico, comprende la riva destra e sinistra del fiume Seudre e l’isola di Oléron, collocata di fronte al suo estuario.
IL CLAIRE Ecco la seconda parte di vita della nostra ostrica ed entra in gioco un altro aspetto geomorfologico molto importante di questa terra: parliamo del claire, claires al plurale. Ci spostiamo quindi lungo il corso del fiume Seudre, dove incontreremo qua e là delle specie di laghetti: i nostri claires, che sono in realtà resti di saline a cielo aperto, come ne troviamo a Trapani oppure a Cervia. Tecnicamente, come si forma una salina? Essa è una depressione del terreno che viene invasa dal mare. Già i romani capirono che, chiudendo questa “buca” al flusso marino, l’acqua sarebbe scesa, lasciando solo il prezioso sale, raccolto in cristalli (amanti del sale Maldon, sapete bene di cosa sto parlando!). Allo stesso tempo il claire presenta un fondo d’argilla, impermeabile, che permette l’evaporazione dell’acqua. Qui entra in gioco l’empirismo degli amici dell’Impero romano: si resero conto, infatti, che un’ostrica cambiava sapore, grandezza e consistenza a seconda della quantità di acqua salata ricevuta, della qualità dell’acqua e dal nutrimento contenuto in essa. La bassa profondità dell'acqua nel claire permette alla luce di penetrare facilmente e favorisce un rapido scambio termico favorevole allo sviluppo dell’alimento principale delle ostriche, il fitoplancton (alghe microscopiche), alla base del gusto complesso, quasi vegetale, dell’ostrica. La sua piccola superficie impedisce la rimessa in sospensione dovuta all’azione del vento e favorisce la sedimentazione dei materiali portati dalle acque costiere. Torniamo ai nostri claires: essi sono un complesso sistema di pozze dove vengono sistemate una certa quantità di ostriche per metro quadro; le ostriche sostano diverso tempo nei claires, a seconda della tipologia di ostrica desiderata. La zona in cui ci troviamo è stata la prima zona ad ottenere la certificazione IGP, che mira a tutelare questo complesso meccanismo di affinamento, unico al mondo. TIPI DI OSTRICHE Il nome tecnico della nostra ostrica è Crassostrea gigas: andiamo a vedere come si configurano in base alla permanenza o meno, alla densità di allevamento ed altri fattori.
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La piccola isola di fronte – l’Ile d’Oléron - contribuisce a creare una baia, dove l’oceano molto salato incontra l’estuario di un fiume, il Seudre, che sfocia nella città di Saint-Trojan-les-Bains. La baia qui creata tra l’isola e la cittadina viene utilizzata per allevare ostriche che vengono successivamente raccolte e portate lungo il corso del fiume per l’allevamento. Il tempo passato nell’oceano aiuta moltissimo la
nostra ostrica: essa si nutre così di fitoplancton ricco di sostanze importantissime affinché acquisisca sapore e consistenza a noi molto gradita.
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Ostrica Fine de Claire: cioè un’ostrica finita totalmente nel claire. Ci dobbiamo aspettare una salinità iodata, molto persistente, pulita e delicata. L’ostrica fin de claire è ottima per una persona che si approccia al mondo delle ostriche per la prima volta. Visivamente, l’ostrica ha la sua classica forma concava, dopo aver trascorso in claire 20/30 giorni. La densità delle ostriche nel claire in questo caso è di 20 ostriche/mq. Senza giri di parole: l’ostrica fin de claire sa di mare, è iodata. La disponibilità è tutto l’anno. Ostrica spéciale de Claire: questa selezione è un più particolare, con una forma diversa e si riduce leggermente la densità di allevamento. Disponibile tutto l’anno, la carnosità di quest’ostrica è maggiore, con salinità interessante e pronunciata. La permanenza nel claire nell’ostrica spéciale de claire è lunga: da ciò, abbiamo un’assunzione di fitoplancton più lunga, un contatto con acqua salata e dolce più lungo. In totale, la permanenza in claire è di circa due mesi. La densità di ostriche/ mq è la stessa delle fin de claires. Quest’ostrica è ideale per chi vuole andare oltre.
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Ostrica verde (Huitre vert): davvero scenografica quest’ostrica, dal colore verde/blu dato dalle alghe accumulatesi all’interno dei claires; queste alghe contengono marennina , un pigmento blu-verde prodotto dalla microalga Haslea ostrearia, presente nei bacini dedicati all'affinamento delle ostriche, in particolare i bacini Marennes-Oléron , da cui il nome di questa molecola che, a contatto prolungato con l’ostrica, conferisce un colore molto particolare. L’aroma è nocciolato, da frutta da guscio. L’affinamento in questo caso è di circa due mesi.
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La Pousse en Claire: un prodotto eccezionale e orgoglio degli ostricoltori, è stato a lungo distribuito in modo riservato, riservato agli addetti ai lavori. Oggi, questa ostrica di alta gamma e punta di diamante di Marennes-Oléron è prodotta da pochi professionisti esperti. Allevato a densità molto bassa, al massimo 5 per mq nella zona limpida dove rimane da quattro a otto mesi, cresce formando sul guscio caratteristici merletti, le linee di accrescimento dell’ostrica (pousse in francese). Durante la sua permanenza in claire, l'ostrica raggiungerà un alto contenuto di polpa e una consistenza croccante, oltre a un pronunciato gusto di terroir che dura al palato. Un’ostrica per momenti speciali ed importanti.
ENTRO QUANTO TEMPO SI DEVONO MANGIARE LE OSTRICHE FRESCHE? Sebbene alcune ostriche nel proprio guscio possano essere gustate da una a due settimane dalla raccolta, a patto che siano state conservate a bassa temperatura e controllando che una volta aperte abbiamo mantenuto l’acqua la risposta secca è: il prima possibile. Dubito possiate resisterne al richiamo, ma può capitare che fra un’incombenza e l’altra, non possiate dedicare il giusto tempo. In ogni caso consiglio di mangiarle dal primo giorno post “raccolta” fino all’ottavo/ decimo: lasciando trascorrere qualche giorno l’ostrica perde il liquido in eccesso e completa il processo gustativo. Ad esempio, delle ostriche raccolte il lunedì, possono essere tranquillamente mangiate durante il weekend successivo, ma mi raccomando: trattandosi di un prodotto vivo utilizzate sempre i vostri sensi e verificate la presenza di liquido residuo all’interno del guscio, un’ostrica secca è indice di cattiva conservazione e non va mangiata. OSTRICHE: NON SOLO CRUDE Nell’immaginario comune, le ostriche si mangiano crude. Vi fornisco qui una ricetta rapidissima e golosa che sfata tutti i miti. Ingredienti: 12 ostriche (se élite meglio) / aglio q.b./ scalogno q.b./ prezzemolo q.b/ briciole di pane grattugiato (meglio se pane panko)/ 1 limone/ 30 g di burro.
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…IN ABBINAMENTO ALLE OSTRICHE Capitolo spinoso, che può essere alquanto costoso: cosa ci si abbina alle ostriche? In generale, vini con buona acidità. Immaginate l’ostrica come burrosa, muscolosa, carnosa, ci vuole un vino che possa bilanciarne bene il gusto. Se è vero che bollicina fa rima con ostriche (almeno a tavola) in generale con ostriche saline e vegetali è da preferire l’abbinamento con un vino bianco secco o una bolla sapida, affilata e verticale. Nel caso contrario, in presenza di ostriche dolci e delicate, propenderei per un abbinamento con champagne invecchiati o dal residuo zuccherino più alto.
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Procedimento: 1. Aprire l’ostrica, staccare la carne dal guscio e mettere in
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forno preriscaldato a 180°C per 10 minuti. Prendere il burro, il più genuino possibile. Riscaldare il burro e farlo nocciolare in padella, aggiungendo un po’ di succo di limone, aglio e scalogno tritati finemente. Scegliere un buon scalogno, che ben si presta al burro nocciolato. Fate riposare qualche istante, poi aggiungete il pangrattato (o pane panko), prezzemolo tritato. Togliere le ostriche dal forno e scolarle, perché tenderanno a cuocere nella loro stessa acqua. Scolate le ostriche, ricopritele con aglio, scalogno e prezzemolo e servitele subito.
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BBQ4All: FROM ZERO TO HERO Capitolo II - a cura di Emiliano Nencioni
Hamburger
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er la seconda puntata del nostro mini-corso sotto forma di rubrica mensile, abbiamo deciso di approfondire la cottura degli hamburger: ci avete chiesto “più barbecue!” e noi rispondiamo, intanto, con “più grilling!”. Questo ci dà la possibilità di ribadire un concetto che solo qualche anno fa veniva ripetuto fino alla nausea in Community: il barbecue è una cottura a bassa temperatura, per tempi relativamente lunghi, e con presenza di affumicazione. Quando vi cuocete una New York Strip o una sovrabbondante T-bone state facendo grilling. Grigliate. E non c’è niente di male in questo, ma è sempre bello usare i termini esatti. Benissimo, quindi più barbecue sicuramente, ma intanto avanzando per gradi vediamo di fare di voi dei grigliatori più attenti, più precisi, più specializzati: probabilmente essendo abbonati sarete già bravissimi, ma un ripasso rigoroso è sempre utile a non far sopraggiungere certi vizi di forma. Procediamo subito con la cottura degli hamburger allora: la pietanza è stata scelta come secondo appuntamento della rubrica proprio perchè, col minimo sforzo, rende possibile un grande risultato in termini di soddisfazione degli invitati, con annesso sollazzamento dell’ego dell’addetto alla fiamma. Da non trascurare poi la carta dell’infanzia: se ci sono bambini e ragazzini vari servire hamburger buonissimi e altamente personalizzati è un gol a porta vuota, una succulenta occasione di successo capace di trasformare una serata da “interminabile guazzabuglio di sbuffi lamenti e capricci” a “prestigiosa occasione di serena convivialità”. Leviamoci subito il dente partendo con:
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ERRORI DA NON FARE
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Come la batteria è lo strumento più semplice da suonare male, anche cuocere un hamburger nasconde delle banalissime insidie che possono portare a micidiali delusioni. Banalmente, la prima accortezza da avere è la scelta della carne: non potete pensare di avere risultati prestigiosi in termini di gusto e succosità se partite da una carne non all’altezza. Il macinato deve provenire da una parte ricca di grasso saporito, e prima di tutto originarsi da un capo
di bestiame con le giuste qualità: impastare un etto di “macinato bello magro” preso al discount “tutto a un euro” vi procurerà magre soddisfazioni. Ora, non vorremmo citare proprio gli hamburger del Megastore, ma sicuramente questi sono un ottimo esempio: tra tutte le tipologie di hamburger presenti sullo store troverete sicuramente quello che più combacia con i vostri gusti e aspettative, togliendovi completamente il timore di aver fatto una scelta sbagliata. Potete in ogni caso, avendo un bel po’ di tempo a disposizione, divertirvi a fare da soli i patty degli hamburger, macinando dei bei pezzi di manzo molto infiltrati di grasso, come la punta di petto o il reale. La scelta di ripiegare su una polpetta 100% manzo non è casuale: togliendo la parte di maiale potrete permettervi di rimanere un filo più bassi con la temperatura finale di cottura, e avere l’hamburger leggermente più “indietro” e succoso, se questo è quello che gradite. Ricordatevi comunque che le norme sanitarie vorrebbero sempre, per motivi di carica batterica, una cottura “well done”. Altro errore imperdonabile è quello di sbagliare completamente i tempi (e pare sia l’errore più comune per il neofita ansioso), arrivare a ridosso dell’orario stabilito per il banchetto e ritrovarsi con la griglia ancora fredda: tenere gli hamburger ad asciugarsi impietosamente per interminabili mezz’ore su una brace appena tiepidina non è la sorte che un buon patty di manzo si merita. Griglia (o piastra) sempre calda, brace robusta; imprescindibile: la cottura deve essere ragionevolmente veloce. Arrivereste mai ad un torneo di golf in ciabatte e bermuda? Pensereste mai di presentarvi ad un concerto rock con la chitarra parlante della Chicco? Allo stesso modo, anche per grigliare un umile hamburger servono gli strumenti giusti. La forchetta del servizio buono non va bene, serve solo a abbrustolirsi i peli del braccio; nemmeno il forchettone da grigliata brutta, in vendita a euro zero virgola novantasette, può andar bene per una pietanza che si presenta come una fragile polpetta. Serve una spatola, col manico un po’ lungo se possibile, e di metallo: non fidatevi della spatolina in resina termoplastica “resiste alle alle alte temperature”: non manterrà la promessa del suo slogan.
SETTING DEL DISPOSITIVO BBQ4All Magazine
Sono necessarie giusto un paio di accortezze, anche per non complicare una cottura tutto sommato semplice e da eseguire in scioltezza, con gesto sicuro e atteggiamento impavido. Il vostro dispositivo deve avere una griglia pulita (le
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schifezze di sette cotture precedenti che si attaccano all’hamburger e che hanno il gusto del petrolio greggio non piacciono a nessuno), meglio se recentemente spazzolata con l’apposito utensile, o con una pallina di stagnola se proprio non avete altro; la brace deve essere molto calda e “tutta accesa”, senza pezzi di carbone o di bricchette ancora freddi che possano produrre fumo nero e pestilenziale; una buona pratica è quella di lasciarsi una “safe zone”, una parte di griglia non direttamente scaldata dalla brace, dove depositare tempestivamente la carne in caso di fiammate improvvise o di qualsiasi tipo di piccola emergenza. Per ottenere questo tipo di settaggio è banalmente sufficiente disporre il combustibile (ben scaldato precedentemente nel cesto accenditore) sotto una zona definita della griglia, lasciando almeno una metà dello spazio disponibile privo di irraggiamento diretto.
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PREPARAZIONE DELLA CARNE
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Supponendo che abbiate già un patty ben formato e compatto, cercate di asciugarne più accuratamente possibile la superficie con della car-
ta assorbente; spalmare un velo d’olio su tutta la polpetta vi aiuterà anche a veicolare meglio il calore e a ottenere una crosticina più evidente. Salvo caso particolari di hamburger clamorosamente grandi (che presentano quindi la problematica di diffondere il calore al loro interno prima che la parte esterna sia eccessivamente avanti con la cottura), non serve fare altro: prendetevi però pochi secondi di tempo per appiattire, usando il pollice e il palmo della mano, la parte centrale del patty, quella che in cottura tende a gonfiarsi. Rendendo l’hamburger leggermente più sottile nella parte centrale del disco potrete bilanciare i cambiamenti di volume.
IN GRIGLIA! Mettete in griglia tanti hamburger quanti vi sentite di poter gestire contemporaneamente: probabilmente due per volta, almeno per i primi tentativi. Sfruttate la brace ben calda per procurare una evidente reazione di Maillard al patty, cercando la formazione di una crosticina brunita di color mogano. Una buona strategia a tal proposito è quella di girare (rigorosamente con una spatola) gli hamburger ogni trenta secondi, per avere una
cottura uniforme anche all’interno. Con un termometro a lettura istantanea a spillo leggete la temperatura al cuore del patty, considerando come vostro target i 58 gradi centigradi: questo sarà il “medium rare”, probabilmente il miglior compromesso per tutti; se qualcuno preferisse proprio il “ben cotto”, potete arrivare fino a 62-65 gradi senza complicazioni.
...E LA PIASTRA? Una bella alternativa alla griglia è la piastra, più spesso sotto forma di una buona padella in ghisa o in ferro, che potete usare sia nella cucina indoor (ma attenzione al fumo!) sia nel vostro kettle o su una griglia tradizionale. L’uso di una padella in ghisa toglierà di mezzo la complicazione di dover stare attenti alle fiammate dovute allo sgocciolare del grasso sulle braci, oltre a facilitare di molto la comparsa di una reazione di Maillard “totale”, con una bella crosticina su tutta la superficie esposta del patty. L’unica rinuncia sarà verso il tipico odore di brace, non più presente vista la mancanza di irraggiamento diretto e di vaporizzazione del grasso che cola sul combustibile.
In misura leggermente maggiore rispetto alla cottura su griglia, all’inizio l’hamburger potrà tendere ad appiccicarsi al metallo, ma dopo pochi secondi di attesa, senza dover forzare con la spatola, si staccherà spontaneamente.
SÌ, MA PENSA ALLA SALUTE! L’hamburger non è una costata: è carne macinata. In una costata (o in un qualsiasi altro taglio) eventuali batteri possono posarsi solo sulla superficie, per essere poi uccisi durante la cottura dalla caldissima fonte di calore; nel macinato tuttavia diversi patogeni potrebbero rimanere “inclusi” nella polpetta e dare luogo a conseguenze molto molto antipatiche e spiacevoli. Per questo motivo, le normative sanitarie raccomandano di servire hamburger “ben cotti” senza nessuna traccia di carne rosata neanche all’interno. Ecco perché vi raccomandiamo di ricorrere ad hamburger confezionati professionalmente, in atmosfera controllata e con tutti i controlli possibili: in questo modo ci sarà margine per servire, a chi lo vorrà, un hamburger leggermente più rosato al cuore.
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La ricetta scientifica a cura di Gianfranco Lo Cascio
GLCheeseburger
“È impossibile”, disse l’orgoglio. “È rischioso”, disse l’esperienza. “Provaci”, sussurrò il cuore. Per me un Cheeseburger, disse lo Zio. Ascoltate lo stomaco, esso sì che conosce tutte le cose. Non so il vostro di pancino, ma il mio si rallegra sovente con un buon bacon cheeseburger, rigorosamente fatto in casa. Non è gnegnegnismo e neanche gastrofighettismo, atteggiamento che mi viene spesso rinfacciato da chi è più gastrofighetto del sottoscritto senza rendersene conto. Il fatto è che se proprio nessun locale, pub o hamburgeria è disposto ad accettare i miei soldi per prepararmi un hamburger come si deve, allora non mi resta che farmelo da solo. Fine della fiera. Sì, lo confesso, sono un fanatico dell’hamburger ma non di una qualsiasi polpetta rotonda stretta fra due strati di pan brioche, no. L’hamburger deve avere dei tratti caratteristici che i nostri fratelli americani hanno delineato per noi. Non sto parlando di ricette o di condimenti, mi riferisco alle migliori tecniche per ottenere i migliori risultati. E cosa c’è nella vita di un mangione compulsivo di più utile e salvifico della scienza? Com’è possibile preparare un hamburger impeccabile ed evitare che il figlio maggiore chiami Glovo di nascosto? Con poche e semplici regole che hanno l’unico scopo di assicurarci un risultato eccezionale, ogni volta.
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Bando alle ciance e partiamo subito.
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01: UTILIZZARE IL PANE GIUSTO Il panino usato per l’hamburger nel gergo si chiama bun. Il bun non deve essere un pane di tipo normale: dobbiamo utilizzarne uno che si integri perfettamente con la polpetta di carne. Un pane troppo duro, che richiede propulsione nella masticazione e per lo strappo, non è per niente adatto; ci costringe, inevitabilmente, a imprimere troppa forza che farebbe sgusciare fuori tutta la preziosa farcitura. Il bun dev’essere simile ad una brioche, molto morbido e abbastanza friabile. Questo non significa buttarsi sulla prima confezione di pagnottelle incartapecorite del supermercato. Premesso questo, vi propongo due panini per hamburger, entrambi con la stessa personalità, appartenenti ai lati opposti dello spettro. Il primo è un panino da slider, con una tessitura eccezionale, l’ideale per i vostri smashed burgers; Il secondo è una brioche molto ricca e morbida, che ricorda la scuola francese. Esistono tantissimi altri tipi di panini (in Italia ne abbiamo più di 250), queste due ricette rispondono ad alcuni dei quesiti più interessanti della panificazione: possiamo creare una brioche che non sia troppo stopposa e non troppo burrosa? Possiamo fare un panino soffice in stile fast-food che abbia un sapore complesso? Possiamo farlo senza ricorrere ad additivi difficili da reperire? Sì, sì e sì. E potete farlo anche voi.
Gli additivi
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I panini per hamburger veramente buoni richiedono un sacco di abilità nella cottura, ma anche un po' di know-how sugli ingredienti aiuta molto. La maggior parte dei bun industriali o artigianali sono estremamente morbidi rispetto ad altri tipi di pane. Questo perché i panettieri di professione fanno largo uso di additivi per la panificazione che aiutano a emulsionare gli ingredienti, a migliorare il processo di fermentazione, a rendere i prodotti uniformi e a rendere più soffice la mollica. A casa, possiamo cavarcela usando meno additivi ottenendo risultati che non sarebbero praticabili per le attività commerciali su larga scala.
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LISINA. Le grandi panetterie e i fast food spesso aggiungono all'impasto un aminoacido chiamato lisina, che interferisce con il glutine (complesso
proteico contenuto nei cereali) e lo fa rilassare. L'impasto trattato con lisina avrà una consistenza più fluida e si distenderà facilmente, permettendogli di espandersi rapidamente nello stampo. Questo è importante quando si fanno centinaia di panini, ma non così fondamentale per un panificatore amatoriale. Quindi, poiché la lisina può essere difficile da reperire, all’occorrenza possiamo appiattire i panini (usando le nostre mani o una superficie piatta come una padella, un piatto) per dare loro una forma. AMILASI. Trovata in quasi tutti i prodotti da forno commerciali, l'amilasi è un enzima che scompone gli amidi in zuccheri, ammorbidendo il panino durante la preparazione e rendendo più soffice il prodotto finale. L'amilasi è naturalmente presente nel germe di grano - e quindi naturalmente presente nella farina - ma solo in piccole quantità. Si aggiunge un po' di amilasi pura per migliorare il processo di fermentazione (ed esaltare il sapore allo stesso tempo), quando vogliamo un prodotto morbido con una mollica leggera. Un altro additivo chiamato malto diastasico in polvere contiene amilasi, ed è quello che utilizzeremo noi nelle nostre due ricette. ACIDO ASCORBICO (VITAMINA C). L'aggiunta di acido ascorbico all'impasto incrementa l'acidità, promuovendo un migliore processo di fermentazione. Al lievito piace l’ambiente acido: per rendere il lievito ancora più felice, aumentate un po' l'acidità dell'impasto. Potete farlo aggiungendo un pizzico di acido ascorbico (vitamina C) o sostituendo parte del liquido con un liquido acido (un cucchiaio di succo d'arancia, succo di limone o aceto). Questo è particolarmente utile quando state realizzando una ricetta di un pane dolce, una in cui il lievito sarà inibito da una maggiore quantità di zucchero.
Formare i bun Una delle cose più belle dei panini industriali per hamburger (o di qualsiasi panino, in realtà) è il loro aspetto perfettamente liscio e uniforme. Un metodo di formatura affidabile può fare la differenza tra panini sbilenchi e ruvidi e panini dall'aspetto impeccabile e professionale.
Per formare i panini, usate un movimento di arrotolamento-piegatura: spingete la pasta verso l'alto dal fondo della palla con l'indice e il medio, e usando il pollice, ripiegate i bordi esterni verso il centro, tirando più pasta verso l'alto e verso l'interno, ed esponendo una nuova superficie esterna. Ripetete fino ad avere un panino a forma di cupola con una superficie liscia. Pizzicate il fondo per chiudere il buco e mettete il panino con il lato pizzicato verso il basso su una superficie non infarinata. Senza toccare il panino, mettete la mano sopra la parte superiore a mo' di "gabbia", con il palmo della mano appoggiato sul piano di lavoro. Con un movimento circolare di arrotondamento formate il panino in una palla stretta.
L’effetto “Oven Spring” “Oven Spring” è un termine di panificazione che descrive la rapida azione lievitante degli impa-
sti di pane appena messi in forno (da “oven” che significa forno, e “spring,” che vuol dire molla). Quando l'impasto si riscalda, l'acqua al suo interno si trasforma in vapore, facendo espandere le bolle di gas all'interno dell'impasto. La quantità di Oven Spring dipende dalle condizioni all'interno del forno: in generale, una maggiore umidità e una temperatura più alta significano più Oven Spring. Il calore contribuisce alla spinta del forno stimolando l'acqua nell'impasto a convertirsi rapidamente in vapore, e l'umidità mantiene l'impasto abbastanza elastico da reggere una rapida lievitazione. Se l'ambiente è caldo e secco, la crosta si svilupperà rapidamente e impedirà al pane di lievitare, restituendo un pane secco con una struttura ad alveoli molto fitti. Ma se si mantiene l'ambiente troppo umido per troppo tempo, il pane non avrà la possibilità di sviluppare alcuna crosta, e crollerà miseramente quando si raffredderà, formando le rughette che vediamo spesso sulla superficie dei bun.
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LE RICETTE SCIENTIFICHE #01
PANINI DA SLIDER
Ingredienti per l'impasto: • 700 g di farina 00 di grano tenero 300W • 200 g di acqua • 4 uova intere + 1 tuorlo • 80 g di burro • 60 g di zucchero semolato • 15 gr di burro morbido • 14 g di sale • 10 g di di birra fresco • 10 g di olio extravergine di oliva • 1 cucchiaio + 1 cucchiaino di malto diastasico in polvere (5 g + 13 g) Per la finitura: • latte intero q.b. • 2 tuorli • 1 pizzico di sale
Impastamento: Iniziate preparando un pre-impasto con l’acqua appena tiepida, 200 grammi di farina, il cucchiaino di malto ed il lievito sbriciolato. Date una mescolata fino ad ottenere una pappetta piuttosto molle, coprite la ciotola con pellicola e lasciate gonfiare per circa 40 minuti in un ambiente caldo. Recuperate una planetaria e montate la frusta a foglia, in mancanza si va giù di olio di gomito. Niente scuse.
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Versate 120 g di farina, un uovo intero e 15 g di zucchero, lasciate lavorare la macchina a bassa velocità per qualche minuto e aggiungete i 15 g di burro morbido fino a completo assorbimento. Sostituite la frusta con il gancio e avviate la macchina per 10 minuti circa. Aggiungete un uovo alla volta, 1/3 dello zucchero e un po’ di farina fino ad esaurire gli ingredienti, unite per ultimo il tuorlo ed il cucchiaio di malto. Lavorate l’impasto per 10 minuti e aggiungete gli 80 g di burro, aspettate che venga assorbito in toto e versate l’olio a filo. Aumentate la velocità della macchina e lasciate impastare per 20/30 minuti circa, terminate l’operazione aggiungendo il sale e fate assorbire. Il risultato è un composto molto elastico che può essere tirato fino a formare un velo sottilissimo. Lasciate riposare comprendo la ciotola con un canovaccio per un quarto d’ora . Riprendete l’impasto e stendetelo in un rettangolo su un piano ben infarinato.
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Fate una “piega a tre”, portando un lembo di pasta al centro del rettangolo e sovrapponendo il lembo opposto, quindi arrotolate “a campana” come in fotografia.
Puntata Giunti a questo punto potete: A.Trasferire l’impasto in un contenitore sigillato e collocarlo per 12 ore nella parte bassa del frigorifero. B. Continuare la lavorazione. Schiacciate leggermente l’impasto con il matterello e date un secondo giro di pieghe come sopra. Coprite a campana e lasciate riposare per una mezz’oretta. Staglio Ricavate dei pezzetti di impasto aiutandovi con un tarocco, il peso ideale va dai 30 g ai 50 g. Richiudete tendendo la pasta nel pugno come se si trattasse di un piccolo babà e posizionatelo in una teglia circolare o rettangolare a bordi alti, leggermente unta con poco burro. Coprite con pellicola facendo attenzione a non toccare l’impasto. Appretto Lasciate raddoppiare in un ambiente a 28°C. Pennellate con poco tuorlo allungato con il latte e aggiungete una manciata di semi di sesamo, se vi piace. Un trucco per distribuire il cosiddetto “egg wash” senza rovinare la superficie dei panini? Versate il composto in un flacone munito di vaporizzatore e spruzzate la nebbiolina di tuorli e latte. Cottura Preriscaldate il forno a 170°C. Cuocete in modalità statica per 40 minuti circa.
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Una volta pronto e raffreddato, sformate e tagliate a metà tutti i panini senza staccarli, come se fosse una torta. Tostate i due dischi dalla parte della mollica e farcite tutto insieme. In questo modo i commensali potranno strappare con le mani il proprio panino.
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LE RICETTE SCIENTIFICHE #02
BRIOCHE BUN
Ingredienti per 18 panini - impasto: • 1 kg di farina 00 di grano tenero W 300 • 450 g di latte intero • 150 g di burro morbido • 2 uova (a temperatura ambiente) • 80 g di zucchero semolato • 20 g di malto diastasico • 20 g di sale fino • 20 g di lievito di birra fresco
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Per la finitura: • latte fresco intero q.b. • 2 tuorli d'uovo • 1 pizzico di sale • semi di sesamo q.b. • semi di zucca q.b. • semi di lino q.b. • semi di girasole q.b. • semi di papavero q.b. • fiocchi d'avena q.b. • grue di cacao q.b.
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Impastamento: Rovesciate in un recipiente ampio (o nella vasca della vostra impastatrice) tutta la farina, il 75% del latte, il lievito sbriciolato e il malto diastasico; dopo averli amalgamati bene aggiungete il latte rimanente poco alla volta, attendendo che sia ben assorbito prima di aggiungerne un ulteriore quantità. Burro e uova devono necessariamente essere a temperatura ambiente, il primo per agevolarne l’assorbimento, le altre perché l’emulsione possa avere luogo senza problemi di natura fisico-chimica; un’ottima idea è amalgamare i due ingredienti separatamente utilizzando una frusta, aggiungendo poi il composto a poco a poco nell’impasto. Aggiungete anche lo zucchero poco alla volta in quanto, contribuendo ad aumentare in modo sostanziale l’umidità dell’insieme, va amalgamato lentamente per non compromettere la formazione della maglia glutinica. Aggiungete infine il sale (necessariamente lontano dal lievito, o potrebbe inibirne l'azione) e terminate l’impastamento quando l’insieme risulterà liscio, asciutto e
setoso e la maglia glutinica si sarà formata. La temperatura interna dovrà essere di almeno 24°C per permettere a tutti i processi fermentativi e alla maturazione di avere inizio senza particolari ritardi. Lasciate riposare nella ciotola per circa 15 minuti, poi fate alcune pieghe di rinforzo per rafforzare e stabilizzare il glutine e di conseguenza la struttura dell’impasto. Puntata In questa fase l'impasto matura e la maglia glutinica si stabilizza. Posizionate il tutto in un recipiente dai bordi alti ben oliato (soprattutto nella parte superiore, per evitare la formazione della pelle) e lasciate a temperatura ambiente per almeno un’ora per dar modo alla lievitazione di partire, e infine mettete in frigorifero per 18-24 ore a una temperatura di 4°C. Staglio Circa 4 ore prima della cottura togliete dal frigorifero e dividete l’impasto in panetti da 80-100g l’uno. Operazione fondamentale, dopo aver pesato i singoli pezzi di impasto, è di schiacciare per bene facendo uscire l’aria formatasi durante la prima lievitazione, per poi arrotolare e formare una pallina ben chiusa; in tal modo, i gas sviluppatisi durante l’appretto risulteranno uniformemente distribuiti e la mollica avrà una struttura omogenea, senza bolle d’aria indesiderate e dislocate. Adagiate su una teglia con della carta forno, ben distanziati uno dall’altro, pennellate con il composto di latte, tuorli e un pizzico di sale sbattuto con una forchetta, coprite con pellicola o con un panno umido e lasciate in appretto a una temperatura di 28-30°C. I panini devono triplicare di volume. Il consiglio è di non posizionare più di 6 panetti per ogni teglia 30x40, per ottenere un prodotto finito che abbia circa 10-11 cm di diametro.
Una volta terminata la seconda lievitazione potete pennellare nuovamente i panini con il composto di latte e tuorli e aggiungere dei semi di sesamo, papavero, zucca, girasole, lino ecc… Io vado pazzo per il grue di cacao (granella di fave di cacao), provatelo. Altre tre ore e mezza a 28-30°C e i bun saranno pronti per essere infornati. Cottura Stabilizzate la temperatura del vostro forno a 230°C e cuocete per 10-11 minuti; per verificare l’avvenuta cottura dei bun è necessario un doppio controllo: la temperatura interna, misurabile con un termometro a sonda, deve essere di 90°C, e la mollica deve risultare completamente asciutta. Raffreddamento, mantenimento e servizio Una volta sfornati i bun, lasciateli raffreddare su una griglia rialzata, evitando in tal modo la formazione di condensa che rovinerebbe il duro lavoro svolto finora. Se riposti in frigorifero in un sacchetto o recipiente a chiusura ermetica, i brioche bun si conservano perfettamente per 2-3 giorni; in caso contrario, è sempre meglio congelarli. Prima di farcire il vostro meraviglioso hamburger, tostateli dalla parte della mollica. In generale, il pane va necessariamente passato sulla piastra per due ragioni: la prima è che la tostatura sviluppa profumo e sapore ulteriore; la seconda è che, rendendo l’interno croccante, i liquidi che fuoriescono dalla carne non rischieranno di ammollarlo.
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Appretto Durante lo staglio l'impasto viene manipolato e i lieviti ridistribuiti uniforme-
mente; l'appretto (o seconda lievitazione) consente al semilavorato di svilupparsi al fine di ottenere la sua forma finale. Se vi piacciono i panini più bassi, dopo circa 30 minuti, inumiditevi leggermente le mani e schiacciate leggermente i panetti lievitati per formare dei dischi; questo banale trucco vi consentirà di contenere la lievitazione. Saltate “l’appiattimento” se vi piacciono i bun alti e tondi.
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02: SCEGLIERE CON CURA IL PATTY E CUOCERLO ALLA PERFEZIONE
Il patty, la polpetta di carne insomma, è il centro focale di tutta la preparazione, il sapore dominante del nostro panino. L'hamburger non deve sapere di pane, di salsa e di sottaceti. Deve avere il gusto di carne. Il primo parametro di degustazione della carne è che il sapore specifico, tipico di una particolare razza, è contenuto principalmente nel grasso, non nella polpa. È importante quindi stabilire il giusto bilanciamento tra massa magra e grasso nell'impasto del nostro burger. Una polpetta fatta di solo muscolo, a fine cottura, risulterà asciutta e stoppacciosa. Quella con un minimo di grasso all'interno risulterà di gran lunga più saporita e succosa.
Per capire il vostro rapporto magro-grasso preferito, dividete il vostro taglio di manzo in due gruppi separati. Carne magra da una parte, grasso bianco pulito dall’altra. Per esempio, in un rapporto 60:40 di grasso, peserete 600 g di carne magra e 400 g di grasso. Tagliate a cubetti i vostri pezzi e mescolateli insieme prima di macinarli.
Il rapporto magro:grasso
State pensando di grigliare il vostro hamburger? 80:20 è il rapporto ideale per evitare le fiammate. Cuocete l'hamburger in padella o su piastra in ghisa? Buttatevi su un 60:40! Tutto quel grasso aiuta la rosolatura e crea un hamburger super umido.
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Pesate la carne magra a cubetti e il grasso a cubetti. Potete provare qualsiasi rapporto a partire da 50:50 (molto grasso, ma ha un senso) e fino a 100:0 (molto magro, anche questo ha il suo perché). Generalmente si propende per un rapporto tra il 60:40 e il 90:10 tra magro e grasso (a seconda del metodo di cottura finale) per ottenere l’equilibrio ideale di sapore, tenerezza e consistenza.
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Il rapporto magro-grasso si calcola in base alla tecnica di cottura. Volete cuocere il vostro burger in sous vide? Optate per una polpetta più magra nel range 90:10 o 100:0. Forse vi sembrerà eccessivamente magra, ma cuocendola in sous vide tratterete l'umidità che normalmente perdereste sulla griglia o su piastra.
Alla fine della fiera, potete macinare quello che volete e come volete, ma un burger composto all'80% di magro e al 20% di grasso è l’ideale. Esistono quattro macro categorie di burger:
HAMBURGER SOUS VIDE La cottura sous vide vi restituirà il più succoso (e magro) patty di carne che potete desiderare. Otterrete una polpetta soda ma tenera, succosa all’interna per via dell’umidità trattenuta, oltre a una perfetta cottura da parte a parte che solo il sous vide può garantire. Potete mantenere alto il rapporto tra magro e grasso perché la cottura uniforme e a bassa temperatura non lo asciugherà mai Rapporto magro-grasso: 80:20 fino a 100:0 Grana: 4,5 mm Tipo di lavorazione: Rapida Aggiunte: Un tuorlo d'uovo per mezzo chilo di carne Formatura: utilizzare uno stampo ad anello o una pressa Temperatura di cottura consigliata: 55°C/75°C per 30 minuti/1 ora SMASH BURGER AKA BURGER SPIACCICATO Lo smash burger è tutto un equilibrio perfetto di consistenza e sapore. La croccantezza della cottura perfetta, la succosità che deriva da una percentuale di grasso elevato e il suo sapore e quello dei liquidi che si caramellano sotto la polpetta. Mescoliamo leggermente la carne e poi aggiungiamo tuorlo d'uovo e gelatina in polvere (la colla di pesce per intenderci) per trattenere l'umidità. Si può scottare velocemente e a temperatura elevata, e ottenere comunque una polpetta perfetta.
SLIDER Sono polpettine che cuociono velocemente, delle piccole bombe di sapore, sviluppato grazie a una cottura intensa su piastra piatta. Aroma intenso, mini burger super teneri - il tutto tenuto insieme dalla speranza e da una bella fettona di formaggio - cosa si può chiedere di più? Rapporto magro-grasso: 80:20 Grana: 4,5 mm Tipo di lavorazione: Rapida Aggiunte: Un tuorlo d'uovo per mezzo chilo di carne Formatura: No patty, basta formare una palla Temperatura di cottura consigliata: Calda da paura! Utilizzare una piastra liscia in ghisa o padella antiaderente STEAK BURGER Spesso e succoso. Una macinatura fine e l'aggiunta di gelatina ti assicureranno un patty sodo, pronto per essere affettato come una bistecca. Rapporto magro-grasso: 70:30 Grana: 3 mm Tipo di lavorazione: la carne va mescolata rapidamente schiacciandola tra le dita Aggiunte: 1,5% di gelatina, 1% di sale Formatura: Modellare a mano una bistecca oblunga, spessa circa un 2,5 cm Temperatura di cottura consigliata: 70 minuti a 55°C con 30 minuti di riposo, poi griglia o piastra in ghisa
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Rapporto magro-grasso: 60:40 Grana: 4,5 mm Tipo di lavorazione: la carne va emulsionata spremendola tra le dita per cinque volte Aggiunte: Un tuorlo d'uovo per mezzo chilo di carne, 1,5% di gelatina, 1% di sale Formatura: No patty, basta forma-
re una palla Temperatura di cottura consigliata: Calda da paura! Utilizzare una piastra in ghisa o una padella antiaderente
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Macinare la carne: i tagli ideali Il macinato confezionato è realizzato con ritagli di carne provenienti da tutta la carcassa, schiacciati attraverso dispositivi di macinatura con fori uniformi che garantiscono una consistenza omogenea “all’impasto”. Si divide in fasce a seconda della composizione. Il macinato può essere magro (85% di carne e 15% di grasso), extra magro (90% carne e 10% di grasso), o grasso (80% di carne e 20 per cento di grasso). A casa puoi diventare un cliente ancora più pignolo e tarare le tue percentuali in base al taglio di carne.
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Prendi nota: Flank Steak con rapporto magro-grasso di 90:10 Chuck Eye Steak con rapporto magro-grasso di 80:20 Rib Roast senza osso, alias "Ribeye" con rapporto magro-grasso di 75:25 Boneless Chuck Short Rib con rapporto magrograsso di 70:30 Brisket Primal, alias "Packer Brisket" con rapporto magro-grasso di 65:35
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La punta di petto aka brisket: perché è il re degli hamburger Questo taglio è generalmente disponibile ovunque ed è anche relativamente economico per quello che si può ottenere da esso. Il costo sarà maggiore rispetto all'acquisto di carne per hamburger pre-macinata, ma non c’è paragone a livello gustativo. La maggior parte delle persone ha provato la punta di petto solo in alcuni modi. Il corned beef, il brisket affumicato e il pastrami sono le principali trasformazioni di questo meraviglioso taglio. E in tutte queste ricette, è necessario un prolungato tempo di cottura a bassa temperatura per sciogliere tutto il tessuto connettivo. Ma quando lo usate per la carne macinata, il tritacarne vi facilita il compito. Inoltre, ho scoperto attraverso le mie prove che in genere da un brisket raggiungo un rapporto magro-grasso di circa 62:38 - il rapporto perfetto di grasso per i nostri smash burger e steak burger.
Capire gli agenti leganti Una volta che il manzo è bello che macinato, che si fa? Frulliamo la carne e il grasso insieme o lo mescoliamo con le uova? Che funzione ha il tuorlo? E quando si sala la ciccia? Adesso ve lo spiego.
Preparazione e impasto Miscelazione o “Creaming”: varia a seconda di come cucinerete il vostro hamburger. Se vi apprestate a cucinare il burger in una padella, mantenete la carne sgranata e non la manipolate troppo, con la cottura sous vide bisogna stare nel mezzo, la cottura alla griglia invece richiede un impasto più cremoso. Porzionamento: gli smash burger e gli slider devono essere appallottolati e poi schiacciati, i burger in sous vide devono essere pressati in uno stampo ad anello dopo una leggera mantecata. Gli hamburger grigliati devono essere lavorati e poi pressati in una polpetta sottile e uniforme.
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Leganti - Questi agenti vengono utilizzati per tenere insieme il più possibile il grasso e il sapore esistenti, rispettando la carne di manzo. Tuorlo d’uovo - Conferisce morbidezza al burger e aiuta a trattenere più grasso e succhi nella polpetta. Sale - Okay, il sale può rovinare il vostro hamburger se lo fate troppo presto, va aggiunto poco prima della cottura. Il rapporto è dell’1% tra sale e carne. Se non potete aggiungerlo poco prima di andare in griglia, strofinate l'esterno della polpetta. Gelatina - Aiuta a intrappolare l'umidità e forma una crosta super vetrosa sull'hamburger. MA - c’è un grosso MA - la vostra ghisa deve essere ben
condizionata o si attaccherà tutto alla piastra. Il rapporto è l'1,5% di gelatina sul peso totale della nostra carne macinata, va aggiunta dopo che la carne è stata mescolata con il tuorlo d'uovo e il sale, proprio prima di finire sul fuoco.
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COME FUNZIONA IL TRITACARNE Il tritacarne è una semplice attrezzo con una trivella che spinge i pezzi di carne più grandi contro una lama e poi attraverso uno stampo che può variare di dimensione. La carne viene triturata mentre viene forzata attraverso la trafila dalla coclea. I componenti sono quattro: il corpo, la trivella, la lama e la trafila. Il tritacarne può essere elettrico o manuale e le sue parti funzionano così: Il corpo tiene insieme tutte le parti. La coclea spinge la carne verso la lama e la trafila. La lama taglia la carne contro la trafila. La trafila controlla la dimensione della grana. COMINCIAMO A MACINARE Suddividete la vostra carne e separatela in magra e grassa. Procuratevi un paio di ciotole o vassoi grandi e separateli per colore. Mettete la parte bianca (il grasso) in una ciotola e la parte rossa (la carne) in un'altra ciotola. Tenete la carne al freddo e lavorate su un pezzo alla volta se pensate di metterci parecchio tempo.
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IL TAGLIO Tagliate la carne in piccoli cubetti di circa due centimetri per facilitare la macinatura. Questo vi impedirà di finire con del tessuto connettivo più lungo di due dita.
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STABILITE LA VOSTRA PROPORZIONE Selezionate il vostro rapporto magro-grasso e mixate in modo che il grasso sia distribuito uniformemente. Per farla semplice, per ottenere un rapporto magrograsso di 60:40, pesate 600 g di carne magra per 400 g di grasso pulito. Per un rapporto 80:20 calcolate 800 g di carne magra e 200 g di grasso e così via. RAFFREDDATE GLI STRUMENTI Lavorate con gli strumenti ben freddi, vi basterà tenerli nel ghiaccio per una mezz’oretta. Ricordate che fino a quando non si è pronti per cuocere, il calore è il nemico mortale della carne macinata. Il grasso del manzo inizia a sciogliersi a circa 26°C e il calore della vostra mano è certamente al di sopra di questa soglia. Ricordate, tutto il grasso che rimane attaccato ai taglieri, alle mani e ai recipienti, mancherà alla carne. Inoltre, la temperatura ambiente, favorisce lo sviluppo della carica batterica e l’ossidazione della ciccia. Da evitare assolutamente. MACINATE LA CARNE Le dimensioni della trafila più comuni sono: 3 mm, 4,5 mm e 10 mm. Se la macinatura è troppo fine, la carne rischia di diventare gommosa poiché la miosina appiccica tutto. Quando la grana è troppo grossolana la carne in cottura si sgrana tutta e diventa e dura. La
dimensione perfetta per gli hamburger si assesta tra i 3 (in particolare per gli steak burger) e i 4,5 mm (per gli smash burger e gli hamburger grigliati). PREPARAZIONE E PORZIONATURA Una volta macinata, rimettete la carne di manzo in frigorifero per mantenerla bella fredda fino a quando non sarete pronti a mixarla e porzionarla. Poi aggiungete gli ingredienti e mescolate (o non mescolate) a secondo della vostra ricetta. E il peso? Io preferisco un patty da 200 g se mi accingo a preparare un panino, gli smash li faccio sempre da 115 g e gli slider da 50 g. Voi fate come più vi aggrada. ALLINEATE LA CARNE PER UN HAMBURGER TENERO Vi avverto: avrete bisogno di un partner per fare questa operazione. Introdotti nella cucina sperimentale del Ristorante Fat Duck dello Chef Heston Blumenthal, gli hamburger a grana allineata vengono realizzati semplicemente raccogliendo i filamenti di carne che escono dal tritacarne, che devono rimanere distesi. Funziona così: mentre voi girate la manovella, al vostro amico toccherà raccogliere la carne assicurandosi che i filamenti rimangano allineati. La ciccia va poi arrotolata nella pellicola a mo’ di caramella e messa in frigorifero, a solidificare. L'idea è che se tutti i grani rimangono allineati nella stessa direzione, l'hamburger finirà per essere più morbido, con una tessitura "aperta" che si sfalda con lo sguardo. Anche se questi hamburger restituiscono un'esperienza di degustazione davvero incredibile, sono molto difficili da manipolare, dato che non c’è agente legante che tenga i filamenti di carne insieme.
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Gli errori più comuni e come rimediare Problema: Il burger rilascia troppi succhi. Soluzione: Cuocere ad una temperatura più bassa. Cuocere a calore meno intenso. Aggiungere il tuorlo d’uovo. Problema: Polpette dure e compatte. Soluzione: Cuo cere a una temperatura di cottura più bassa. Aumentare la percentuale di grasso. Fare una polpetta con un impasto più allentato. Problema: Polpette sbriciolate e asciutte. Soluzione: Cuo cere a una temperatura più bassa. Macinare più finemente.
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Problema: Le polpette sono troppo morbide. Soluzione: Cuocere ad una temperatura più alta.
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RISOLUZIONE DEFINITIVA DEI PROBLEMI Non vi va di comprare un brisket, di trimmarlo (ripulirlo dal grasso), di porzionarlo, di pesarlo, di separarlo e tritarlo e di aggiungere una serie di ingredienti per tenere tutto insieme? Allora ho la soluzione più veloce al vostro problema: fiondatevi sul Megastore di BBQ4All e fate scorta dei miei burger Blue Ox di Black angus. Ogni patty pesa 200 g, la porzione ideale per ogni occasione. Volete un’esperienza diversa e fuori dalla grazia divina? Accaparratevi i nuovissimi burger Shimofuri Farms. Sono fatti con carne Wagyu Full Blood, Kuroge nera, 100%. Disciplinare di allevamento giapponese, nata, cresciuta e macellata in Giappone, con un grado di marezzatura più vicino al gusto occidentale.
Come cuocere il burger alla perfezione L'obiettivo è chiaro: crosticina croccante fuori, interno morbido e succoso. Per giungere a questo risultato è vietato ragionare per secondi e minuti. Il tempo di cottura è un'ipotesi. Non è possibile specificarlo con precisione, in nessuna preparazione. Quello che invece possiamo stabilire con accuratezza millimetrica è la temperatura finale della nostra polpetta. Gli effetti del calore sulla carne sono noti. La scienza ci dice esattamente a quale temperatura target dobbiamo arrivare per ottenere una data cottura: 55 gradi, patty poco cotto o “al sangue”, anche se sangue non è. A 65°C, cottura media. 75°C ben cotto ma anche cotto bene. La migliore temperatura per l'hamburger, cioè quella che permette di conservare umidità interna e succulenza, si aggira intorno ai 65°C. Meglio poco meno che poco più. A quel grado di cottura il grasso è fuso e i liquidi sono ancora “intrappolati” nella trama. Cuocerlo oltre significa strizzare via liquidi, quindi succosità, quindi sapore. Importante: la sonda o il termometro a penna vanno inseriti al centro del burger e sempre dai lati (mai pungerlo dalla parte superiore!). Per ottenere la crosticina esterna, invece, è buona norma rigiralo molto spesso. Questo permetterà alla crosta di formarsi, mentre il calore penetrerà con più difficoltà, aiutandoci a non stracuocere la carne. Due regole semplicissime da tenere a mente: rigiratelo spesso e fermate la cottura a 65°C interni.
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LA POLPETTA IN PADELLA O ALLA GRIGLIA Meglio cuocere la polpetta sulla piastra, in padella o in griglia? Dipende. La piastra o la padella, avendo una superficie più ampia a contatto con la polpetta, ci consentono di ottenere una crosticina più estesa. Visto che crosta = sapore, il risultato sarà maggiore croccantezza e gusto. Con la griglia possiamo ottenere un risultato diverso. Gli spazi tra una griglia e l'altra permettono ai liquidi di cadere sopra le braci o sopra i bruciatori. Questi liquidi, a contatto con le superfici roventi, si vaporizzano all'istante e risalgono in forma di fumo aromatico. Questi fumi di risalita investono la polpetta e conferiscono quel sapore di affumicato che ci piace tanto. Inoltre, la parte di griglia a contatto, contribuirà a formare le famose “grill marks” le righe di cauterizzazione, anche quelle portatrici sane di sapore. In definitiva, piastra=tanta crosticina, griglia=sentore di affumicato. È semplice scelta personale, non c'è un meglio o un peggio, c'è quello che ci piace.
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03. FONDERE IL FORMAGGIO La scienza delle fette di formaggio da fondere
Prima di dire "non mi piacciono le sottilette, sono piene di schifezze chimiche”, lasciate che vi racconti la storia del formaggio fuso. È iniziata centinaia di anni fa in Europa, con la fondue francese. La fonduta, come senz’altro saprete, è una miscela di formaggio e vino che viene sciolto in una pentola. E come sanno bene i grandi produttori di fonduta della ridente Svizzera, l'ingrediente segreto per far sciogliere il formaggio è sempre stato un vino molto secco, spesso troppo acido e leggermente fruttato. Un vino di questo tipo contiene naturalmente acidi di frutta concentrati come l'acido tartarico, l’acido malico e quello citrico. E i sali di questi acidi - specialmente il citrato di sodio - sono molto efficaci nel legare il calcio nel formaggio. Questo aiuta ad allentare i legami nella maglia delle proteine della caseina, che a sua volta aiuta a mantenere emulsionato l'intero mix di olio, acqua e proteine nel formaggio. Il risultato? Una fonduta vellutata e fluida.
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Nessuno sa con certezza a quando risalga la nascita della fonduta, ma nel 1912, due scienziati svizzeri stavano studiando una possibile soluzione al problema della pastorizzazione del formaggio, per poterlo conservare, non refrigerato, in climi caldi. Fino a quel momento, i risultati erano stati fallimenti untuosi, con i grassi che si separavano dalle proteine. Ad un certo punto, però, i due uomini si accorsero che aggiungendo il sale dell'acido citrico (citrato di sodio) al formaggio si poteva agilmente eliminare il fattore oleosità. In parole povere, avevano inventato il formaggio fuso. Qualche anno dopo, un americano fece più o meno la stessa cosa con un altro sale, l'esametafosfato di sodio. Questa scoperta divenne la pietra miliare del suo omonimo business: Kraft.
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Nell'industria del formaggio, questi sali sono conosciuti come sali di fusione, i moderni sosti-
tuti dell’antico vino troppo secco e aspro. Il loro scopo principale è quello di sostituire gli ioni di sodio con gli ioni di calcio legati alle proteine della caseina nel formaggio. Così facendo, allentano queste proteine e le rendono solubili in acqua. In combinazione con il riscaldamento e l'agitazione, i sali migliorano la capacità emulsionante delle proteine del formaggio. Tendono anche a portare il pH a livelli più alti, il che migliora la consistenza e la stabilità del formaggio fuso (un formaggio fuso troppo acido è instabile e ha una consistenza sgradevole). I produttori dell’industria casearia si attengono a un pH tra 5,2 e 6,3 per ottenere i migliori risultati. Oggi, gli chef smanettoni usano questi additivi per alterare la consistenza dei formaggi di alta qualità, ottenendo un ingrediente che si scioglie meravigliosamente pur mantenendo i sapori complessi dei migliori fromage. La tecnica che sto per illustrarvi spiega come fare una versione più fondente di tre tipi di formaggio. Un barbatrucco per farvi le sottilette in casa in pratica.
A proposito dei sali
Scegliere i formaggi giusti Prima di tutto: l'età conta. Con i formaggi più vecchi, è spesso difficile ottenere una fetta che si sciolga bene. Questo perché con il tempo, le proteine del formaggio diventano così frammentate che non hanno quasi più capacità emulsionanti. Gli chef spesso mischiano diversi tagli di carne per creare i loro hamburger perfetti; così come per la carne, mischiare diversi formaggi può migliorare il sapore e la consistenza del prodotto finale. Se volete lavorare con un formaggio stagionato, mescolatelo con uno più giovane dal sapore delicato. I formaggi giovani hanno una caseina relativamente intatta, ma abbondante. Quando un formaggio invecchia, la proteina della caseina (insieme ad altre proteine) si rompe. Alcuni dei frammenti proteici creano i sapori caratteristici di un formaggio maturo, e la proteina della caseina leggermente frammentata in realtà ha maggior potere emulsionante rispetto alle proteine intatte della caseina stessa. Ecco perché spesso mescoliamo un formaggio semistagionato, solido ma flessibile, con uno più giovane o più vecchio. L’aggiunta di caseinato di sodio alla miscela può spesso aiutare ad ottenere un effetto simile. Ottenere la formula giusta per realizzare le sottilette fatte in casa può essere difficile. Per fare pratica, lavorate con queste tecniche testate prima di modificare le proporzioni.
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Citrato di sodio - Un po' di citrato di sodio - il sale dell'acido citrico - aiuterà a emulsionare le proteine e i grassi del formaggio, impedendo loro di scindersi e di formare un pastrocchio secco e filamentoso. Il citrato di sodio è anche usato nella sferificazione, per regolare l'acidità e per ridurre il contenuto di calcio (per prevenire la gelificazione precoce). È un ingrediente comune anche nelle bevande commerciali. Esametafosfato di sodio - Quando si fa il formaggio con il solo citrato di sodio, questo fonde, cola, si raffredda e poi si sbriciola. Aggiungendo un po' di sale fosfato - come l'esametafosfato di sodio - insieme al citrato di sodio si ottengono spesso risultati migliori. Questo additivo si trova in molti prodotti: sciroppo d'acero artificiale, latte in scatola, albumi d'uovo confezionati, gelatina, dessert congelati, condimenti, cereali da colazione, gelato e birra. Come il citrato di sodio, è anche usato nella sferifi-
cazione per aumentare il pH di un liquido. Caseinato di sodio - Questo è il sale della caseina, una proteina che si trova nel latte dei mammiferi. È un composto iperproteico, l’industria alimentare e farmaceutica utilizza il caseinato di sodio per le sue incredibili proprietà emulsionanti, addensanti e per la sua eccezionale solubilità. Viene utilizzato anche dagli sportivi per aumentare l’introito proteico nella dieta ed è spesso presente come ingrediente nei cereali, nel pane, nei dessert montati, nei gelati e nei sorbetti e negli integratori.
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IL CHEDDAR FONDENTE
Ingredienti: 300 g di Cheddar a cubetti/ 120 g di latte intero/ 30 g di burro chiarificato/ 9 g di citrato di sodio/ 4 g di sale/ 0,75 g di esametafosfato di sodio (facoltativo) Preparazione: Unite e il formaggio a cubetti, il latte, il burro e i sali in un sacchetto per la cottura sous vide. Nota: Miscelare a secco i sali prima di unirli al resto degli ingredienti aiuterà la dispersione. Mettete il sacchetto nel bagno termostatico a 75°C e riscaldate fino a quando il formaggio risulterà completamente sciolto. Trasferite immediatamente il contenuto in un frullatore e frullate fino a quando è completamente liscio ed emulsionato. Colate nello stampo desiderato (una teglia rettangolare e bassa dalla quale ritagliare le “sottilette”) e raffreddate per otto ore. Volete realizzare delle sottilette di formaggio svizzero? Seguite lo stesso procedimento con 300 g di Emmentaler, 150 g di latte, 14,5 g di citrato di sodio e 12 g di sale (più 6 g di sodio esametafosfato)
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Preferite un formaggio nostrano? Mixate il groviera con il provolone, 150 g di groviera e 150 g di provolone, aggiungete 180 g di latte, 9 g di citrato di sodio, 8 g di sale (più 1,8 g di esametafosfato di sodio). Replicate il procedimento seguito per il cheddar.
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04: PREPARARE DA SOLI LE SALSE La salsa è un altro elemento spesso sottovalutato o sovrastimato. Nella stragrande maggioranza dei casi ci si affida alla triade ketchup, maionese e senape. Lo scopo della salsa è quello di aggiungere umidità oltre che sapore. Spesso si usa in accordo al topping come interscambio tra gli elementi. Se uso un topping acido, per esempio i sottaceti, la maionese mi aiuta a controbilanciare l'acidità. Se uso un formaggio filante, il ketchup bilancerà con la sua spalletta acida il grasso del formaggio. Topping e salse si supportano a vicenda. Il primo è solitamente un ingrediente solido, la salsa è invece un fluido. Il topping aggiunge sapore e consistenza, la salsa sapore e umidità. Insieme bilanciano i contrasti.
LA MAIONESE
Dose per 400 g circa: 1 uovo intero (56 g)/ 2 tuorli (36 g)/ 20 g di senape/ 125 g di olio di semi/ 125 g di olio extravergine d'oliva/ 10 g succo di limone/ 10 g di aceto distillato di alcol (o aceto bianco)/ 3 g di sale Preparazione: In un pentolino portate l'olio di semi a 121°C. Nel frattempo versate nel bicchiere del mixer i tuorli e l'uovo intero, il succo di limone, la senape e il sale. Iniziate ad emulsionare con il mixer ad immersione (se non si emulsiona subito il tuorlo tende a coagulare). Versate a filo, molto lentamente, l'olio bollente continuando sempre a frullare. Proseguite con l'olio extravergine d’oliva versato sempre a filo. Terminate con l'aceto bollente continuando ad emulsionare ancora un attimo. In questo fase la maionese sarà calda e un po' molle, ma sarà il freddo a conferirle la consistenza giusta. Si conserva in frigo per due settimane
IL KETCHUP
Dose per 600 ml circa:200 g di doppio concentrato di ottimo pomodoro tipo roma/ 200 g di sciroppo di glucosio (sostituibile con miele di acacia)/ 130/150 g di aceto distillato di alcol (o aceto bianco)/ 40 g di zucchero semolato / 15 g di sale/ 1.2 g di gomma xantana/ 0.4 g di chiodi di garofano in polvere. Per una variante aromatica: 0.4 g cipolla in polvere/ 0.2 g di noce moscata in polvere/ 0.2 g di cannella
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Preparazione: Il procedimento è semplicissimo, vi occorreranno soltanto un mixer (o un minipimer) e una bilancia di precisione. Mescolate a mano il doppio concentrato di pomodoro e l’aceto, aggiungete lo sciroppo di glucosio (o il miele di acacia), amalgamate con cura per evitare che lo sciroppo si depositi sul fondo e versate il tutto nel mixer. Provate prima con 130 g di aceto ed assaggiate, siete sempre in tempo per aggiungerne dell’altro. Azionate la macchina (o il minipimer) e versate lo zucchero miscelato con la xantana nel vortice. Unite quindi i chiodi di garofano in polvere, il sale, e se vi piacciono, cipolla in polvere, noce moscata e cannella. Non lavorate troppo la salsa, bastano pochi colpetti. Trasferite il tutto in un barattolo o uno squeezer munito di tappo e conservate in frigorifero per un massimo di due settimane.
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05: PREPARARE I TOPPING Il topping è proprio l'elemento che aggiungiamo al burger per potenziarne, arricchirne e variarne il sapore. Nelle ricette tradizionali possiamo trovare cetrioli sottaceto e fette di pomodoro. La funzione del topping è di aggiungere varietà e potenza al gusto.
3. Sistemate i cetrioli in un barattolo e ricoprite con la marinata. Fate riposare in frigo per almeno 2 ore. 4. Aggiungete aromi a piacere (semi di senape, aneto, cipolla tritata), i sottaceti così preparati si conservano in frigorifero per 1 settimana.
Volete una ricetta pratica e veloce per preparare dei cetrioli sottaceto bombastici? Eccola qui!
Questa procedura è più che collaudata, ma per i cetrioli del nostro cheeseburger ho pensato di fare una piccola modifica, riducendo il quantitativo di zucchero e aumentando quello dell’aceto. Sciogliete 800 g di zucchero in 1,5 litri d’acqua, poi aggiungete 600 ml di aceto. Affettate 500 grammi di cetrioli (non togliere la buccia!) e seguite le istruzioni come sopra.
CETRIOLI SOTTACETO 1-2-3
Dose per 1 kg di cetrioli: 1 l aceto di vino bianco/ 2 kg di zucchero / 3 l di acqua/ 1 kg di cetrioli/ 40 g sale fino
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Preparazione: Per prima cosa bisogna preparare la marinata. 1. Portate l’acqua a bollore e dissolvete lo zucchero, fino ad ottenere uno sciroppo. Aggiungete l’aceto e fate raffreddare. 2. Tagliate i cetrioli a fettine o a rondelle, ad uno spessore di 3mm; disponete in uno scolapiatti e cospargete con il sale. Lasciate agire per 30 minuti e poi strizzate.
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Riempite un barattolo in vetro con i vostri cetrioli affettati e coprite con il liquido, aggiungete qualche fettina di lime per aromatizzare, un po’ di aneto e dei semi di senape, se ce li avete. Lasciate riposare per qualche ora e fateli sparire entro pochi giorni. Mi raccomando, questa non è una tecnica per conservare i sottaceti a lungo.
06: AMPLIFICARE IL GUSTO IL RUOLO DEL GRASSO, DELL'ACIDITÀ E DELLA CROCCANTEZZA A questo punto abbiamo inquadrato gli elementi che caratterizzano l'hamburger perfetto. Pane, polpetta, topping e salsa. Adesso è necessario mettere gli elementi in equilibrio ricordando questa semplice regola: aggiungere sempre un po' di grasso, una punta di acidità e degli elementi croccanti. Un cheeseburger con il classico ripieno di formaggio cheddar accoglierà la freschezza dell'insalata iceberg e l'opulenza agrodolce di un buon ketchup, oltre alla croccantezza e alla sapidità di un buon bacon. Queste semplici regole non tradiscono mai: grasso, acidità e croccantezza come complementi al vostro hamburger perfetto.
Il bacon metodo GLC Come si fa: Prendete una teglia d’acciaio o vetro temperato, rivestitela di carta forno (o se preferite un tappetino di silicone) e sistemate le fette di bacon a 2 cm l’una dall’altra. Inserite la teglia nella parte centrale del forno (a freddo), impostate il termostato su 200°C in modalità statica e lasciate cuocere per circa 15 minuti. A cottura quasi ultimata spruzzate le fettine con aceto di mele, quindi cuocete per altri 5 minuti o fino al grado di doratura che preferite. Recuperate il grasso fuso, filtratelo e colatelo in un contenitore, potrete conservarlo in frigorifero per una settimana buona. Risultato: bacon perfettamente cotto, croccante perché “fritto” nel suo stesso grasso, brillante e caramellato dall’aceto vaporizzato.
I pomodori e l’insalata Dico, è complicato? Perché mettere un metro quadro di lattuga in un panino così com’è? L’insalata croccante, fresca, ci vuole e ci sta bene, ma non credo sia complicato lavarla, asciugarla benissimo, se vi piace tagliarla a striscioline, aggiungere un goccio di olio, un po’ di pepe, un niente di sale, qualche stilla di aceto e via. Potete utilizzare la varietà che preferite, io vi consiglio l’Iceberg perché particolarmente croccante e fresca.
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E i pomodori? Per evitare che rilascino troppi liquidi di vegetazione asciugateli bene con della carta da cucina. Le mie cultivar preferite per questa ricetta (e per i panini in generale) sono il San Marzano, il Cuore di bue, il Costoluto, il Tondo insalataro e il Camone.
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LA RICETTA SCIENTIFICA IL GLCHEESEBURGER Ingredienti per 6 persone: 6 bun preparati come da ricetta (scegliete una delle due dividendo l’impasto in panetti da 80-100 g)/ 6 burger Blue Ox di Black Angus da 200 g/ 12 fette di formaggio cheddar fondente/ insalata q.b. (iceberg o lattuga)/ 18 fette di bacon già tostato come da ricetta/ 2 pomodori insalatari o cuore di bue/ cetriolini sottaceto q.b./ maionese q.b./ ketchup q.b. Preparazione: Potete cuocere i burger come preferite. Volete prepararli con il sous vide? Metteteli a 55°C per 15-30 minuti (potete lasciarli nel bagno termostatico fino ad un’ora), lasciateli riposare a temperatura ambiente ed asciugateli bene prima di passarli su piastra o in griglia. Con i miei Blue OX potete saltare questo passaggio e buttarli su griglia o ghisa rovente, rigirandoli spesso, fino a raggiungere i 50°C al cuore. Aggiungete le due fette di formaggio su ogni patty e coprite il tutto per pochi secondi per farlo sciogliere. Ricordatevi di rimanere tra i 55°C e i 75°C, non superate mai questa temperatura interna. Ora potete passare alla parte divertente, ovvero la costruzione del panino. Rispettate questo ordine se volete evitare di inzuppare troppo il bun e scaldare eccessivamente la componente vegetale: base di pane tostato, maionese, patty con doppio formaggio fuso, bacon croccante, insalata lavata, asciugata e condita, pomodoro leggermente tamponato, cetriolini asciugati e tagliati a fettine sottili, ketchup e cupola di pane fragrante. Lo so, lo Zio vi dice sempre di non esagerare con gli strati e di conservare una certa sobrietà nello spessore del sandwich, per evitare di slogarvi la mascella. Stavolta voglio autorizzarvi ad esagerare, è un periodo un po’ cupo e pesante e uno strappo, all’hamburger e alla regola, ci sta tutto. Ora preparate tutto il necessario, costruite la vostra piccola opera di ingegneria gastronomica e cercate di fare del vostro meglio per domare a morsi quella bestia.
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Gianfranco Lo Cascio
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Le banalità del bullo La fauna umana che ti aspetteresti di trovare in un gruppo facebook completamente dedito alla derisione e all’insulto continuo e reiterato non è esattamente quella che, all’atto pratico, in realtà si rivela. Al posto di disagiati e incattiviti personaggi ai margini della società, complottisti, diseredati, non è raro trovare paciosi commercialisti, pasticcieri, fustacchioni pseudobellocci con le sopracciglia ad ala di gabbiano, serafici padri di famiglia col profilo di coppia e gigantografie di prole adorata, analisti informatici competenti e di chiaro successo personale e lavorativo. Nessun volto emaciato e spigoloso alla Nosferatu di Murnau, nessun reietto abbrutito autocostrettosi davanti allo schermo a cibarsi solo di patatine e Nutella, in un trionfo di acne e barba tempestata di briciole. Gente normale, che al riparo da occhi indiscreti - e voglio sperare anche dalla moglie/madre della prole - si prende una breve e incolpevole pausa dalla dignità personale.
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Sono in massima parte Joiner. Gente che si aggrega. Che va dove tira il vento, che asseconda il trend, il flow, la moda, chiamatela come volete. Inconsapevoli di quanto una cosa sia disdicevole, o di quanto possa configurarsi come reato, molto semplicemente si associano, imitano, si accodano, perché “ormai si fa così”, perché quello è il comportamento avallato dall’inGroup, perché porta un like e tutti ridono.
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Nel 1963 la filosofa e politologa Hannah Arendt (tedesca, poi apolide, successivamente statunitense, provate a indovinarne il motivo) fu inviata del New Yorker a Gerusalemme per assistere al processo a carico di Adolf Eichmann, funzionario nazista che ebbe una rilevante parte nell’attuazione pratica della Soluzione Finale, e per questo accusato di genocidio. Nel suo molto discusso saggio Eichmann in Jerusalem: A Report on the Banality of Evil, Arendt si chiese se una persona potesse fare del male senza essere intrinsecamente malvagia: la domanda scaturì dalla constatazione che l’imputato sembrasse poco più che un burocrate impegnato ad eseguire gli ordini senza discutere, senza pensiero critico, empatia o coscienza delle
Seguo - rubrica a cura di Emiliano Nencioni
azioni delittuose scaturite dal suo inappuntabile ed efficiente lavoro. “Era ragion di stato, se si vince si è eroi, se si è sconfitti si va alla forca”, sottolineò lo stesso Eichmann. La corrispondente, in gioventù allieva (e innamorata in maniera quantomeno turbolenta) di Heidegger (filosofo tedesco già discusso in una Seguo di inizio 2020) e di Jaspers, non proprio diplomata alla seppur gloriosa Scuola Radio Elettra quindi, rimase colpita e stupita dalla totale mancanza di malvagità nell’atteggiamento del gerarca nazista, reputato per lo più noioso, insignificante, ignaro, quasi inconsapevole. Eichmann non si era mai soffermato ad osservare le conseguenze del proprio operato, obbediva a testa bassa, era un superficiale, non un genio del crimine, non un supercattivo dei fumetti con il completino viola, la maschera e il mantello. Si faceva così, andava fatto così: un joiner.
all’uncinetto) o che siano i nostri personalissimi gruppi di odiatorelli frustratucci angustiati da BBQ4All, le dinamiche sono sempre le solite.
Su Facebook, dinosauro dei social, evitato come la peste dai più giovani, habitat d’elezione di politici rancorosi e borbottanti signori di mezza età, i gruppi “rogue” vanno per la maggiore: sono i gruppi “bastardi”, quelli dove di solito si entra non con il profilo vero ma con quello di riserva, quello fatto con la scusa di giocare a Candy Crush ma più astutamente riservato alle gare di insulti fra vaggari e alfiattari (sì, ci sono dei signori anziani che si offendono atrocemente prendendo come vulnus l’apprezzamento o la critica verso un’auto del gruppo Volkswagen Aktiengesellschaft o Fiat Auto, ormai recentemente Stellantis - sì, ho capito che sembra inverosimile ma fidatevi), alle conversazioni notturne con l’ex compagna delle medie, e dove per poche ore al giorno ci si sente liberi di abbandonare il contegno, i freni inibitori, l’abitudine dei cuoricini verso il compagno/a, dove lo sbandierato e inutilmente stucchevole “amore per i miei figli” (non dovrebbe essere scontato, vero indipendentemente dalle dichiarazioni sui social?) lascia il posto a un molto più liberatorio, primordiale e ferino “odio per i figli degli altri”. “Siamo un gruppo di liberi pensatori” “Abbiamo il nostro diritto di satira” “Fattela una risata” (questo sta sempre bene su tutto)
La faccenda del metterci la faccia invece mi ha talmente stupìto che tuttora penso di aver frainteso: per farla breve, mettere come avatar un’illustrazione o qualsiasi altro artifizio grafico che non sia la propria effige viene visto come una mancanza di fegato, e osteggiata dai membri più onorevoli dell’inGroup. La questione è buffa e articolata al punto da spingermi a dedicare una prossima rubrica Seguo interamente a questo argomento, probabilmente sotto il titolo evocativo di “La faccia e le palle”.
Scusa ma chi sono gli altri? Non ti preoccupare: tanto, mica sarai uno di loro, no?
Come avrete letto sul Magazine o in Community, BBQ4All si è vista costretta ad agire per vie legali verso alcune persone un po’ troppo entusiaste e prolifiche nel loro spargere odio verso aziende, prodotti e persone. Già, persone, perché alla quinta volta che il creativo di turno fa il post su quanto sia pessima e costosa la carne del megastore, probabilmente il brivido della trasgressione va un po’ a scemare (scemare è il verbo giusto), e per cercare emozioni più frizzanti gli intrepidi liberi pensatori sfociano presto nell’invettiva. Vi assicuro: potete aver vinto una medaglia Fields (o anche solo sapere cosa sia senza usare Google), aver contribuito alla scolarizzazione di un piccolo stato in via di sviluppo, scavato pozzi d’acqua potabile in Sierra Leone, ma se un tizio dal nome (finto) altisonante dichiara che siete stupidi e incapaci, beh, allora per quel gruppo
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Che siano gruppi di odio generico (automobili, videogiochi, squadre sportive, lavoro
Poche regole, ma chiare, al momento dell’iscrizione: • Rispetto per tutti i membri, non dobbiamo offenderci fra noi, ma solo insultare gli altri. • Mettici la faccia altrimenti non hai valore. Rispetto, ancora questa parola. In pratica, non offendere/contraddire me, e io vedrò di non contraddire te, così stiamo più sereni e possiamo offendere gli altri; come in un romanzo di fantascienza distopica, finché non fai parte degli altri non hai niente da temere.
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siete irrimediabilmente stupidi e incapaci. La serialità della comicità (perché far ridere è difficile, e se malauguratamente imbroccano una battuta che fa ridere tutto il gruppo la ripetono allo sfinimento) garantisce poi che ogni ingiuria e ogni accusa sia capillarmente recapitata ad ogni partecipante, in una reiterazione puntuale come una piattaforma di streaming. L’arrivo di nefaste letterine raccomandate dovrebbe aver placato gli animi, penserebbero i più savi. Invece no. Dopo un iniziale e sicuramente salubre fuggifuggi si è verificato un fenomeno non raro in ambito calcistico: lo sbeffeggiamento della diffida. Grande impiego del MAIUSCOLO, toni testosteronici, particolareggiati suggerimenti su dove avremmo teoricamente potuto riporre le lettere dei nostri legali, “ma tanto non mi troverete mai”.
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Credo di aver capito il motivo di tanta spavalderia: si è diffusa la notizia, dopo la pubblicazione di uno screenshot in community, che i provvedimenti fossero stati mossi a carico di ignoti. E una denuncia contro ignoti è come un rapporto di classe alle medie! A chi fa paura una denuncia contro ignoti, dai! Questo, più il proverbiale ritardo “molto italiano” (cit.) fra tribunali e poste, e i tristanzuoli si sono sentiti al sicuro.
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Parliamo un attimo del Bokuto, un’arma tradizionale giapponese, letteralmente “katana di legno”: complici molti film d’azione, probabilmente tutti abbiamo ben presente la letalità e la precisione di una katana ben affilata, la leggenda di Hattori Hanzo, il drappo di seta che cade sulla lama e si divide di netto: una versione in legno dell’arma, del tutto inadatta al taglio, può sicuramente risultare goffa e inutile. In realtà, se la katana può staccare con precisione chirurgica un arto, il bokuto, ben usato, può spappolare un osso, portando irrimediabilmente alla morte un guerriero giapponese del 1500-1600. Pubblicare la denuncia contro ignoti è stato come presentarsi a duello con un bokuto, un po’ come faceva Miyamoto Musashi (che è morto di vecchiaia, imbattuto): ha innervosito, destabilizzato, e in ultimo ha fatto pericolosamente abbassare la guardia.
Spero proprio, con la Seguo di Febbraio 2021, di aver concluso una volta per tutte il ciclo di rubriche sul bullismo online, una parentesi necessaria, ma un momento umanamente estenuante. Le ultime gesta del condannato Eichmann, secondo Hannah Arendt:
“Era completamente padrone di sé, anzi qualcosa di più: era completamente se stesso. Nulla lo dimostra meglio della grottesca insulsaggine delle sue ultime parole. Cominciò col dire di essere un Gottgläubiger, il termine nazista per indicare chi non segue la religione cristiana e non crede nella vita dopo la morte. Ma poi aggiunse: “Tra breve, signori, ci rivedremo. Questo è il destino di tutti gli uomini. Viva la Germania, viva l’Argentina, viva l’Austria. Non le dimenticherò.” Di fronte alla morte aveva trovato la bella frase da usare per l’orazione funebre. Sotto la forca la memoria gli giocò l’ultimo scherzo: egli si sentì “esaltato” dimenticando che quello era il suo funerale. Era come se in quegli ultimi minuti egli ricapitolasse la lezione che quel suo lungo viaggio nella malvagità umana ci aveva insegnato – la lezione della spaventosa, indicibile e inimmaginabile banalità del male.”
Emiliano Nencioni
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CLUB
Diretta m e n t e da lla co m m u n i ty di ma e s t ri d i ba rbecue pi ù grande d’I tali a, nasce i l prest i gi oso club c h e ti offre la possi bi li tà di avere: a ccesso p ri or i tar i o al meg astore, dove pot ra i fa re ra zzi e m ent re tutt i gli a lt ri “ sono i n coda ” ; u na p rogra m ma zi o n e i n telli g en te dei tu oi acq u i sti gra zi e a l c re di to m e nsi le prepa gato (scegli tu quanto); u n coa c h pr i vato c h e ti g u i derà n e l fa rt i vi ve re l’ e s p eri enza
pi ù ecci tant e di sem pre
co n la pre p arazi one dei tuoi pi att i ; e molto altro an cora. . . Av ra i tu tto qu es to s o lo s e ti i s c r i vi s u bito a l MEG ASTOR E CLUB, l’uni co luogo ri servato a u na c e rc hia r i s t re tta d i a s pi ra n t i gri ll ma s t e r c he desi dera no a pprendere pi ù velocement e e nel modo p iù accurato possi bi le, la s ubli m e a rt e del gri ll. Pu oi di si scri vert i quando vuoi e i l tu o c red i to sarà sempre di s pon i bi le.
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H T T PS : / / C LU B M E G ASTO R E . B BQ 4 A L L. I T e c h i e di i n formazi oni pi ù detta gli at e, pr i ma c h e i coac h fi ni sca no e le i scri zi oni chi uda no.