BBQ4All Magazine numero 28 - Aprile 2021

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N°28/ANNO 3 - APRILE 2021

L'EDITORIALE DI GIANFRANCO LO CASCIO

Assaggiare la carne: una guida completa

RICETTE

Il brivido dell'ibrido:

Rosticciana al pastor Sovracosce di pollo ai 5 pepi Panino con roast beef e agretti, Tagliatelle verdi di basilico al gambero rosso e burrata Pepper stout beef Aragoste gratinate Coscia di agnello marinata DA CUBA ALLA FLORIDA

El puerco asado con mojo criollo SEGNALI DI FUMO

Come nasce l'affumicatura ARTE BIANCA

La pizza in doppia cottura

LA RICETTA SCIENTIFICA

Guancia brasata


Direttore Editoriale Rossella Neiadin

Redattore Capo Michela Bongiorni

Redazione

Enio Berton Virgilio Brunetti Tommaso Buccafurri Nunzia Clemente Roberto Dal Bosco Salvatore Di Mento Luca Gallozza Marco Gerometta Mariangela Ibba Gianfranco Lo Cascio Riccardo Meniconi Giovanni Minelli Emiliano Nencioni Elena Ninotti Andrea Spaggiari Alessandro Trezzi Carlo Trono Paolo Tucci Alex Vasile Caterina Vianello Alberto Zonghetti

Realizzazione Grafica

Impaginazione Carlo Trono Illustrazioni di Eleonora Castagna e Ozzy Bellesi Fotografie di Rossella Neiadin, Luca Gallozza, Tommaso Buccafurri, Elisa Giuli, Emiliano Nencioni

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IN DI Rubriche

Editoriale - Assaggiare la carne: una guida completa

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Portfolio - Segnali di fumo: come nasce l'affumicatura

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Il taglio del mese - Chuck roll steak

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Ricette

Rosticciana "al pastor"

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Sovracosce ai cinque pepi

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Il panino con il roast beef

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Risotto ostriche, carciofi e Parmigiano Reggiano

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Timballini di riso con ragù di pesce

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Pepper stout beef

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Aragoste gratinate con mollica al basilico

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Involtini di cernia ripieni con contorno di cipollotti

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Tagliatella al basilico, gambero rosso e burrata

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Coscia di agnello marinata

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Potatoes of the gold digger

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Muffin al cioccolato

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Approfondimenti

Arte Bianca - La pizza in doppia cottura

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Across the pond - El puerco asado con mojo criollo

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L'Arte Casearia - Yogurt

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Alla fiamma #02 - 10 indispensabili piccoli elettromestici

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Alla fiamma #03 - La cucina dei coltelli volanti

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From Zero to Hero - Le cotture ibride

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La ricetta scientifica - La guancia brasata

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Seguo - Di rancore vive il mondo del grilling

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Editoriale di Gianfranco Lo Cascio

Assaggiare la carne: una guida completa Perché non devi acquistare carne di Wagyu se non hai mai mangiato carne di Wagyu

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itolo altisonante? Vi suona come una boutade senza senso? Credetemi, ne ha più di quanto crediate. Faccio un paio di parallelismi così mi spiego meglio. Siete degli esperti di sigari? La vostra esperienza, il vostro set di conoscenza attuale non è nemmeno lontanamente paragonabile a quello che avevate quando avete fumato il primo sigaro. Siete esperti di champagne? Stessa cosa. La vostra capacità di intuire, di cercare le sfumature nelle diverse annate di una stessa Maison è frutto di anni di degustazioni e decine di bottiglie scolate. Vogliamo prendere ad esempio il rum? Il whiskey? La birra? Il principio è esattamente lo stesso. È tutto partito da una scintilla, uno start, una costante ricerca e applicazione, un processo evolutivo all'interno della vostra passione. Ed è per questo che siete diventati esperti. Vi faccio un esempio spostando l’attenzione su di me. Mi sono da poco avvicinato alla "fumata lenta" e al rum. Non mi aveva mai "preso" e non la consideravo una prospettiva interessante. Nel frattempo sono cambiate le mie opinioni e percezioni su queste esperienze e ho deciso di provare ad avvicinarmi. La domanda che mi sono posto all'inizio è stata "come faccio a riconoscere un sapore complesso se prima non conosco il sapore banale, quello di base, quello facile?"

Questo è consolidato anche da un altro aspetto focale: io non sono abituato ai sigari complessi, maturati e fermentati a lungo. La mia bocca non è pronta a riceverli. Perché alla prima boccata mi si anestetizza tutto il cavo orale e sento solo pungere. Se quindi iniziassi, invece che col toscanello aromatizzato con un Ambasciator Italico Superiore, resterei deluso e avrei sprecato un gran sigaro che magari un cultore al posto mio si godrebbe beatamente. Esiste una sorta di cerimoniale nel fumo lento che io sto ancora imparando. E non ha alcun senso spingermi sui sigari complessi ignorando a piè pari tutto ciò che c'è in mezzo; compresi i sigarelli banali e dolciastri. Molti non riescono a comprendere questo passaggio fondamentale e quindi mi prendono in giro per sentirsi migliori. Io però non voglio fare lo stesso errore con voi e quindi vi metto in guardia. Le mie selezioni carni non sono solo un mucchio di nomi stampati su etichette e messi alla rinfusa. Dovete considerarle come una sorta di “quest”, di percorso da completare. E per farlo è necessario procedere con un tempo fisiologico che non si può accelerare in nessun modo. C'è poi un altro aspetto da tenere in considerazione: che ciò che vi propongo io non assomiglia a nulla di quello che trovate in giro e moltissimo di ciò che vedete nei banchi frigo non è mai stato incluso nelle mie selezioni. Ci sarà un motivo, no? Se avete comprato Wagyu fuori dal mio Megastore, con moltissima probabilità, non sapete ancora quale sia il vero sapore e la vera consistenza del Wagyu. Il Wagyu è un prodotto di nicchia, per intenditori. Va consumato con un certo criterio, va abbinato, esiste una sorta di cerimonia nel consumo. Soprattutto per quello che riguarda il mio, di Wagyu. E se non siete esperti, se non siete nella condizione di valo-

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Ho fatto anche un paio di post in Community. E al netto dei soliti so tutto io che sparavano sentenze a casaccio sulla banalità dei prodotti che avevo scelto, sapevo di dover cominciare con i sapori essenziali. Perché è esattamente quello il punto di partenza che mi avrebbe permesso di scavare, di andare a fondo, di evolvere, di conoscere, di ritrovare le esperienze più complesse. Sarebbe inutile spiegare a questi signori che potrei andare in qualsiasi negozio super fornito e sventagliare qualche colpo da mille euro per portarmi

a casa mezza bottega. A che servirebbe? Il mio è un palato da niubbo, da novellino, non si è ancora evoluto nella direzione dell'esperto.

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rizzarlo al meglio perché vi manca l’esperienza, sono io il primo a dirvi di non comprarlo. Perché sprechereste il denaro e attribuireste alla carne i difetti dovuti all’inesperienza. Se avete solo sentito nominare la carne "Dry Aged" e avete scelto di iniziare con una costata di Vacca Rossa Galiziana di 20 anni frollata 3 mesi ne resterete delusi. Perché c'è troppa complessità in quelle note di sapore. Se siete degli esperti sapete che quella carne resterà comunque tenace. Non si cerca la morbidezza in quella specifica razza. Si cercano altre note: di erba, di latte, a volte sì, anche di stallatico. È una carne complessa per palati complessi, allenati, a cui piace quel tipo di sapore. Se volete iniziare il vostro percorso per diventare un esperto di carne provate a seguire i miei consigli, e per due motivi. Primo motivo. Vi guiderò nel tuo percorso spiegandovi bene che cosa aspettarvi e che cosa cercare nel sapore di una bistecca.

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Secondo motivo. Vi garantirò la piena soddisfazione o il rimborso totale, di ogni centesimo che spenderai per fare i vostri test.

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So che state pensando: "Dov'è la fregatura?" Beh, non c'è. La fregatura è dove c'è qualcuno che vuole vendervi qualcosa e basta. Qui si inizia un percorso "Zero to Hero" con garanzia del risultato. Ma c'è dell'altro. Ciò che imparate qui è applicabile ovunque. E quando avrete consolidato il vostro mindset, strutturato le vostre competenze, guadagnato la capacità di scegliere e valutare, vi renderete anche conto che la differenza tra noi e il mondo delle carni pregiate è ancora più abissale di quanto pensavate all'inizio. Ok, siete neofiti e a questo punto vi state chiedendo da cosa dovresti iniziare. La risposta è: Irlanda o Argentina.


Qualità della carne: erogata, percepita e attesa Vale la pena fare un passo indietro e chiarire che la famigerata “qualità” è solo un aspetto di un triangolo aureo che ha tre vertici inscindibili: • la qualità erogata, cioè l’insieme delle risorse messe in atto per ottenere le caratteristiche del prodotto; • la qualità percepita, cioè il livello di qualità realmente percepito dal consumatore; • la qualità attesa, cioè il livello di qualità che il consumatore si attende di trovare nel prodotto.

Esiste poi una geolocalizzazione delle preferenze, gli italiani non sono mica tutti uguali. A Sud si prediligono cotture lunghe, che richiedono carni molto più grasse, dall’odore marcato, ricche di tessuto connettivo. A Nord, dove è tradizione mangiare carne cruda, è la carne magra e rosata a farla da padrone. C’è poi un dato anagrafico che fa ben sperare: i più giovani comprano volentieri carni marezzate, frollate e aromatiche, possibilmente da sbattere sulla griglia e mangiare “al sangue”.

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Uno degli obiettivi di questo piccolo appuntamento editoriale è fornire a tutti gli elementi per parlare con più chiarezza della qualità nella carne. E lo scopo principale, quello per cui si ricorre all’analisi sensoriale, è fornire un linguaggio comune per spiegarsi i bisogni di chi la carne la mangia e in che maniera ogni carne può venire incontro a quelle specifiche esigenze. È chiaro, infatti, che se vendo una carne che richiede molti sforzi produttivi dovrò farla pagare congruamente: e in questo settore troverò una fascia di fan disposti a pagare senza remore. Ma se questi estimatori comprano aspettandosi certe caratteristiche, e invece ne trovano altre, difficilmente torneranno a comprare, o quantomeno non vorranno più pagare così tanto.

Generalmente chi vende carne ha un’idea poco chiara di cosa vogliano veramente i clienti. Fino a poco tempo fa la voce del popolo acclamava la tenerezza e il colore rosso vivo della fettina sgrassata, ma dai dati di consumo in mio possesso, e anche grazie all’attività di divulgazione in cui mi spendo da anni, risulta invece che è il complesso aromatico a condizionare la scelta del consumatore. È vero, l’italiano medio si aggira ancora confuso tra i banconi in cerca di carni magre; ma quello che desidera sono carni grasse, più gustose e succose. Però senza grasso visibile, per sentirsi a posto con la coscienza.

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Gli attrezzi per l’assaggio: l’ambiente e il momento Assaggiare la carne è una faccenda complessa, ma potrete padroneggiarla facilmente se seguite questo procedimento passo per passo. L’analisi sensoriale ci aiuta proprio in questo senso: separare le fasi e adoperare i relativi accorgimenti. Il tutto inizia con la scelta del contesto adeguato per assaggiare: è di fondamentale importanza che il luogo sia tranquillo e silenzioso, illuminato da luce bianca di buona intensità, meglio se naturale, e pervaso da odori neutri. La temperatura dovrebbe essere compresa tra i 20°C e i 24°C, senza trascurare l’umidità relativa, meglio tra il 50% e il 70%. Non ci crederete ma i momenti ideali per assaggiare sono nella fascia oraria che va dalle dieci del mattino a mezzogiorno, mentre al pomeriggio si assaggia meglio dalle sedici alle diciotto. In ogni caso gli assaggiatori devono essere riposati, sereni e tranquilli.

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La preparazione dei campioni

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Preparare campioni della carne da assaggiare può farsi complesso per la grande quantità di variabili e la difficile standardizzazione. Infatti, non solo ogni taglio è diverso dall’altro: anche all’interno della stessa famiglia della bestiola o dello stesso animale non è inusuale riscontrare differenze nello stesso prodotto, a seconda della sezione da cui proviene il campione, di come viene tagliato o di come viene cotto. Per dirla tutta, le differenze all’interno dello stesso campione si riscontrano fondamentalmente a vista: difficilmente due ribeye avranno lo stesso aspetto. Di conseguenza le fasi di cottura, taglio, porzionamento e servizio sono molto delicate e


importanti: se non si servono pezzi di ciccia il più possibile identiche ai diversi assaggiatori, sarà difficile ottenere valutazioni attendibili. A parte quei casi in cui l’assaggio si basa sulla carne cruda, le modalità di cottura sono già riconosciute parte del processo di produzione che ci porta alla trasformazione finale. Per qualche motivo, però, si attribuisce meno importanza alle tecniche di taglio della carne cotta. Emblematico se si pensa che già nel Rinascimento esisteva un professionista specializzato nel taglio delle carni, l’equivalente del coppiere per il vino, denominato “trinciante”. Con il tempo questa figura si è evoluta nel maître di sala, mentre per “trinciante” oggi si intende il coltello a lama sottile e lunga (Il trinciante è anche un trattato sull'arte rinascimentale di trinciare i piatti di ogni genere, scritto da Vincenzo Cervio e pubblicato presso gli Eredi di Francesco Tramezzino a Venezia nel 1581).

L’affettatrice È diventata un oggetto talmente di culto che anche io ne ho comprata una: una Berkel rossa e lucente che in questo momento fa bella mostra di sé sul piano cottura di casa mia. L’invenzione dell’affettatrice si attribuisce proprio a Wilhelmus Van Berkel, padre dell’omonima azienda, che progettò la prima

macchina in quel di Rotterdam nel 1898. L’idea di questo macellaio appassionato di meccanica era proprio quella di creare uno strumento in grado di tagliare le carni e i salumi in modo preciso e veloce: la prima affettatrice era fornita di lama concava posta perpendicolarmente a un piatto mobile in grado di scorrere avanti e indietro, grazie alla spinta di una ruota movimentata a braccio. Le attrezzature presenti in commercio oggi funzionano in base allo stesso principio, con le proverbiali migliorie che la modernità si porta dietro: l’alimentazione a energia elettrica e la possibilità di cambiare lo spessore della fetta regolando la distanza della lama dal supporto metallico. Nell’assaggio, l’affettatrice è uno strumento indispensabile per la standardizzare i campioni. Tuttavia bisogna stare molto attenti quando si taglia, perché quando si affetta a macchina, la velocità eccessiva e lame piccole possono riscaldare la carne, in particolare la parte grassa, rovinandola sia a livello visivo, sia olfattivo. Ecco il motivo per cui non mancano nel settore dei degustatori i puristi del coltello.

Gianfranco Lo Cascio

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Ma di lame e mappe sensoriali ne parleremo la prossima volta. Ora rilassatevi e godetevi il numero di Aprile del BBQ4All Magazine.

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Segnali di fumo: come nasce l'affumicatura Portfolio gastronomico a cura di Emiliano Nencioni Illustrazioni di Eleonora Castagna

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ffumicare è un rito irrinunciabile per qualsiasi appassionato di griglia che tenti di staccarsi almeno un po’ dalla classica cottura fatta giusto per bruciacchiare un po’ di carne. Investire il cibo col fumo e impreziosirlo di note aromatiche palatabili, senza devastarne il sapore con retrogusti amari e pesantezze indigeribili è uno dei primi banchi di prova del grigliatore in corso di evoluzione. Essendo una manovra facilmente ripetibile su analoghi tagli di carne, la pratica diventa un vero e proprio benchmark, dove l’appassionato può verificare la propria crescita personale tramite sperimentazioni e assaggi ripetuti nel tempo. Pur avendo infatti origini pressappoco preistoriche, l’affumicatura può risultare difficile da padroneggiare, elusiva, ingannatrice e (a conti fatti) spesso frustrante: buttare ore di tempo, somme di denaro di tutto rispetto, carne, combustibile e legname per poi ritrovarsi l’aroma di carbon coke nel piatto non è mai una grossa soddisfazione. Il vostro Magazine preferito è qui per questo: anche questo mese potrete aggiungere un tassello alla vostra cultura culinaria leggendo queste paginette e prestando attenzione ai concetti in esse espressi. L’affumicatura è uno dei metodi di conservazione degli alimenti più antichi in assoluto, diventando giocoforza uno degli aspetti più importanti di molte tradizioni culinarie in moltissime parti del mondo. Oltre a scongiurare attacchi di batteri e muffe, infatti, si è capito ben presto che il sapore del cibo veniva arricchito e migliorato.

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Il fumo, ottenuto di solito dalla combustione di legna, ha un’azione essiccante sulla superficie del cibo, e i composti fenolici sospesi nelle nuvole profumate prevengono l’irrancidimento dei grassi, la formazione di muffe, aumentano la possibilità di conservazione della pietanza già cotta e ne virano il colore verso tinte più lucidi e appetibili, rosse e non grigiastre-verdognole.

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Possiamo dividere le tecniche di affumicatura in tre grandi macrogruppi:


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Affumicatura a freddo Usata normalmente per prolungare la vita utile della pietanza ma anche per migliorarne il sapore, questa tecnica prevede che il cibo venga investito dal fumo a temperature comprese tra 25°C e 45°C: in questo caso non si ha una cottura, e il processo può durare da diverse ore fino ad alcuni giorni. Il cibo viene prima essiccato per favorire il formarsi di uno strato superficiale proteico detto pellicola, che consente al fumo di aderire meglio e di comunicare gli aromi alla pietanza, ma che soprattutto funge da barriera protettiva contro aggressioni batteriche durante l’affumicatura stessa. I cibi tipicamente coinvolti in questo trattamento sono salmone, formaggio, manzo e petti di pollo: non prevedendo cottura, gli alimenti affumicati a freddo devono precedentemente essere doverosamente conciati e speziati.

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Affumicatura a caldo

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Il cibo in questo caso viene avvolto dal fumo e dal calore, in un ambiente chiuso e controllato, in temperature comprese tra i 60°C e gli 85°C, espediente che assicura la cottura delle proteine oltre a una corretta affumicatura. La precisione è

cruciale: a temperature troppo alte si perde troppa umidità, le proteine si “strizzano” troppo presto e il sapore non penetra. Tipicamente, oltre al summenzionato breve essiccamento preventivo, si è soliti cospargere la superficie della pietanza con sale, zucchero e altre spezie: il “rub” che ben conoscete.

Smoke-roasting Fumicarrostare? Arrosfumacchiare? Non è altro che la cottura barbecue vera e propria. Quella che andiamo con atteggiamento pedante a spiegare ai neofiti ogni volta che sproloquiano di barbecue riferendosi a qualche veloce grigliata raccattaticcia. Lo smoke-roasting, o barbecue, è una cottura a bassa temperatura, per tempi lunghi, con presenza di fumo. Nel barbecue la combinazione smoke-roasting è data dalla sommatoria dell’arrostitura, proveniente da una sorgente di calore (tipicamente carbone o legna) e della generazione di fumo derivante dalla combustione incompleta e priva di fiamma di frammenti di legname aromatico, in camere chiuse e controllate a temperature superiori a 85°C. Pur accompagnandoci sin dalle nostre prime scorribande da Homo Sapiens fuori dalle caverne, via


via fino ai nostri primi traguardi da Homo Faber (l’uomo artefice, capace di creare e trasformare l'ambiente e la realtà in cui vive, adattandoli ai suoi bisogni), l’affumicatura ha subìto un sensibile declino sin dalla prima metà del ventesimo secolo, quando i conservanti chimici e le norme sanitarie sempre più precise e stringenti ne hanno fatto decadere di molto l’utilità squisitamente pratica. Rimane comunque un eccellente metodo per insaporire carne, pesce e formaggi, e molte economie locali fioriscono proprio grazie al consumo su larga scala di specialità tipiche, come il pesce affumicato della Scandinavia o tutti i salumi e insaccati affumicati tipici dell’Europa degli Stati Uniti. Esiste una pietanza affumicata che ha il potere di stare bene ovunque: sulle uova, con il manzo, con la selvaggina, nelle patatine, nei biscotti, sui popcorn, anche nel dentifricio: il bacon. Antichissimo e diffuso (in varie declinazioni) in ogni popolazione mondiale che abbia un buon rapporto col maiale, già nel dodicesimo secolo si inizia a parlare di bakkon nella zona teutonica, di bakken spostandosi verso i Paesi Bassi, e di bako in francia, tutte parole dalla radice comune e atte a indicare il dorso del maiale; solo nel diciassettesimo secolo la parola bacon iniziò a riferirsi esclusivamente alla pancia del maiale salata, conciata e affumicata.

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Prima della rivoluzione industriale, nei paesi anglosassoni il bacon era prodotto esclusivamente su base familiare e casereccia, un po’ come le conserve di pomodoro delle nonne (ormai bisnonne?) italiane.

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Nel 1770 John Harris, ritenuto il precursore della commercializzazione su larga scala di bacon, fece diventare la contea di Wiltshire la capitale mondiale del bacon: situato in un provvidenziale “punto di smistamento” per i maiali importati dall’Irlanda e diretti in tutto il Regno Unito che garantiva una presenza costante e massiccia di capi di bestiame, Harris aprì il primo stabilimento di concia e affumicatura del bacon su stampo industriale, con un suo processo segreto e ben definito, diventato noto come la “Wiltshire Cure”.

nonché l’indubbio ottimo sapore, ha decretato nei secoli un successo pressoché totale della pietanza; la possibilità di personalizzare la composizione, la grana del macinato e le spezie ha contribuito anche ad una massiccia differenziazione dei sapori, per cui se con il termine “salame” andiamo a indicare un generico insaccato stagionato con macinato di carne e spezie, innumerevoli sono le varianti mondiali. Provate a pensare alle differenze macroscopiche, solo per l’Italia, fra finocchiona, cacciatorino, ciauscolo e ’nduja.

Altra inevitabile specialità di cui per una volta possiamo sentirci autarchicamente orgogliosi è il salame affumicato. Non v’è dubbio che l’inglese salami ma anche gli europei salam, szalami e salàma derivino tutti dal latino salumen, sostantivo collettivo per indicare “ciò che debba essere sottoposto a salagione”. La facilità di lunga conservazione di un alimento conciato, salato, speziato e affumicato,

Una verità scomoda Seguendo l’antico adagio “se una cosa è buona, fa male e fa ingrassare”, l’affumicatura può portare diverse problematiche non trascurabili, specie quando è realizzata male o quando se ne abusa in termini di quantità. E’ ovvio che affumicare porti a incorporare diverse sostanze tipiche del fumo nel cibo, con tutte le conseguenze negative

che certi allarmistici pacchetti di sigarette ci hanno portato a conoscere bene. La pietanza può essere contaminata da idrocarburi aromatici policiclici, benzopireni e N-nitrosammine, che sono prodotte da alcuni comuni composti per la concia pre-affumicatura, quali nitrati e nitriti. Non c’è solo la remota possibilità di danni all’apparato digerente in caso di continue e insensate abbuffate di pietanze affumicate: c’è anche il rischio, sempre remoto ma molto più terra terra, di infezioni gastriche dovute a contaminazioni batteriche causate da affumicature non perfette: l’Escherichia Coli e la Listeria monocytogenes possono portare listeriosi, mal di testa e indimenticabili diarree. Motivi in più per studiare a fondo ogni dettaglio riguardante l’affumicatura, per lasciar perdere ogni tentativo maldestro di conservazione “alla buona”, e per preferire informazioni serie e dettagliate a tutorial approssimativi trovati in giro per la rete.


Cibo affumicato (non tanto) famoso MONTREAL-STYLE SMOKED MEAT, QUEBEC Brisket di manzo conciato secondo le regole kosher, presente in ristoranti tradizionali ebrei presenti in tutto il Canada. La carne viene tagliata grossolanamente a mano, bagnata con mostarda e messa generosamente su pane di segale, assieme ai cetriolini, accompagnata da patatine fritte ricoperte di sugo e scaglie di formaggio. CHOURIÇO GRIGLIATO PORTOGHESE Simile al chorizo spagnolo, è una salsiccia di maiale affumicata, speziata con paprika e aglio; viene servita in maniera coreografica, a fette su un piatto contenente brandy che viene incendiato: le fiamme rendono immediatamente croccante il budello e fanno sfrigolare le parti di grasso. OSCYPEK DI ZAKOPANE, POLONIA Formaggio in forma cilindrica e finemente intagliato e decorato a mano, fatto con il 60% di latte di pecora, è considerato uno dei formaggi affumicati più buoni al mondo. Pare che sia una via di mezzo fra la mozzarella e la scamorza, ma con affumicatura al pino.

SALMONE AFFUMICATO, ALASKA A differenza del salmone atlantico, che è allevato, quello dell’Alaska è pescato in piena libertà. Il sapore, dicono gli appassionati, non è minimamente paragonabile. Viene affumicato a freddo per diversi giorni e servito a fette sottili su bagel (ciambelle salate) assieme a crema di formaggio. ANGUILLE AFFUMICATE, OLANDA La passione degli olandesi per le anguille è tale che negli ultimi 50 anni, a forza di affumicare, queste ultime sono entrate di diritto tra le specie in pericolo di estinzione. La conseguenza è che la quasi totalità delle anguille vendute proviene da un allevamento, con una particolarità: la sfuggente bestiola non si riproduce in cattività, per cui gli esemplari selvatici vengono prima catturati e poi allevati e nutriti in allevamento. A Volendam, nei Paesi Bassi, l’anguilla affumicata è considerata uno snack da street food, servita in un toast. La scarsità del pescato la rende una pietanza piuttosto costosa.

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PESCE OMUL, LAGO BAIKAL, SIBERIA Della famiglia dei salmoni, l’Omul è un pescetto bianco endemico del lago Baikal. La piccola città

di Listyvanka affumica tradizionalmente questo pesce, principalmente perché è quasi l’unica forma di sostentamento. Diventato per forza di cose lo street food russo, è perfetto per uno spuntino al volo.

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Il taglio del mese

CHUCK ROLL STEAK O ggi parliamo di chuck roll (o reale, per gli amanti della lingua italiana a tutti i costi): pur essendo considerato uno dei tagli di seconda categoria, consiste invece in una porzione di ciccia che consente di avere delle bistecche eccezionali, alcune tra le preferite dai veri amanti della marezzatura. Bisogna avere però le giuste competenze per poterla apprezzare: siamo qui per fornirvi tutto ciò di cui avete bisogno. Ammesso che la ribeye sia la regina del barbecue , il chuck roll è esattamente il pretendente al trono, discendente per linea diretta. Oppure, se ci piacciono gli intrighi, l’usurpatore. Sappiamo benissimo che solo alcune genetiche della specie Bos Taurus (Angus, Hereford, ecc.), affiancate a metodi di allevamento superiori possono dare una carne dal sapore esplosivo e una morbidezza senza pari: il nostro chuck roll non fa eccezione e conferma i nostri studi.

Noi di BBQ4All abbiamo selezionato razze che ci garantiscono bistecche di chuck roll (o pezzature importanti) dalla marezzatura sbalorditiva e sapore unico. Dal Black Angus al Wagyu, passando per gli incroci: vi sfidiamo a preparare uno spezzatino da capogiro, magari scientifico (lo trovate sul numero di Marzo), altro che polpette in umido.

Il chuck roll: anatomia Il chuck roll è il continuum della lombata verso il collo, a volte sgrassato e squadrato, trovato in commercio sia intero che porzionato, il quale insieme alla spalla (dove troviamo Flat iron, Top Blade, Vegas strip, Teres Major, ecc) forma quello che viene chiamato Chuck Primal. Come sempre, secondo le guide dei nostri amici americani troviamo una moltitudine di utilizzi per il nostro taglio: ad esempio, se disossato nelle sue componenti più piccole può magicamente cambiare forma e nome, regalandoci bistecche fantastiche come la Denver Steak. Per spiegarvi meglio la sua versatilità siamo costretti ad annoiarvi con i soliti tecnicismi. Vi giuriamo che poi ci facciamo perdonare a dovere. Come dicevamo poco più su,

il chuck roll è parente della ribeye, taglio da cui si separa solitamente alla quinta costa e con cui condivide una piccola parte di Ribeye filet o Longissimus dorsi (nelle prime 2/3 bistecche), insieme ad altri gruppi muscolari come Complexus, Multifidus dorsi, Spinalis dorsi, Serratus ventralis, Splenius, Rhomboideus e Subscapularis. Potete acquistare il vostro chuck già porzionato in fette dello spessore perfetto per un esperienza zerosbatti come direbbero i nostri Coach, ma se siete cosi nerd e proprio avete voglia di sezionarlo da soli il modo migliore di dividerlo è (inizialmente) in due, tagliando lungo la venatura naturale fino ad avere il Chuck eye roll (composto da Longissimus dorsi, Spinalis dorsi, Complexus e Multifidus dorsi ) e l'Under blade separati; qui è dove il nostro Serratus Ventralis (Chuck Flap) può diventare una Denver steak, se porzionato, non prima di aver tolto la cosidetta scoronatura o squadratura (Rhomboideus). Arrivati a questo punto, non è piu consigliabile continuare in ambito casalingo, perché dopo una divisione completa con trimming eccessivo potremmo ritrovarci con parecchio scarto. Tuttavia, se proprio siete curiosi di continuare a separare i muscoli, troverete lo Spinalis sotto il nome di Sierra steak, che può egregiamente sostituire una Flank steak (hanno la stessa forma, ma lo Spinalis è più

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In Italia questo taglio è davvero poco apprezzato. Il motivo? Il chuck roll ricavato dalle razze più commerciali di origine francese (Charolaise, Limousine) o incroci, ma anche in quelle autoctone ugualmente diffuse in Italia è scarsamente marezzato e non adeguatamente frollato: tradotto in termini gastronomici, non ha abbastanza sapore né morbidezza. E cosa fa con questo taglio, il macellaio che magari non ha voglia di educare

il cliente? Svende il reale come fettina, o ancora come carne trita.

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tenero); allo stesso modo il restante Chuck Eye puo essere porzionato come Delmonico steak, ricavando dei medaglioni simili al filetto. Nel registro linguistico italiano (ed anche regionale italiano), oltre al già citato reale troveremo i rispettivi cuore di reale, fracosta, collo, braciola.

Chuck roll: cosa ci facciamo? Possiamo dire con certezza che non esista preparazione che il nostro chuck possa temere: tecniche di cottura come smoking, braising o roasting calzano a pennello per il nostro pezzo di carne, grazie alla grane presenza di tessuto connettivo e all’elevata marezzatura.

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I tagli sopra elencati come Denver o Sierra ci dimostrano che è possibile, se non consigliabile alle volte, cucinarlo anche con tecnica pan fry (saltato in padella con piccole quantità di grasso) o sul grill, con o senza marinatura e/o rub . Dall’altra parte , il Chuck eye filet, oltre ad essere eccezionale in cotture dirette come nel caso delle Delmonico steak, è uno dei tagli preferiti degli asiatici per quello che è chiamato instant-boiled beef e si adatta benissimo anche ad un Baltimora Pit Beef, quasi meglio del originale Eye of Round, dal nostro punto di vista. Ma niente vieta di consumarla come gustosissima e nutriente tartare. Insomma, il chuck roll saprà accontentare tutti, ovviamente se trattato a dovere.

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Impossibile stabilire il taglio perfetto del chuck roll: come detto sopra, abbiamo la possibilità di usarlo sia intero che porzionato in svariati modi. Sta a noi trovare la modalità di taglio migliore per il pezzo che ci troviamo davanti, in base a come abbiamo intenzione di cucinarlo e di consumarlo.


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Toglieteci tutto ma non le costine!

ROSTICCIANA "AL brasata PASTOR" al sidro di mele Se c’è un taglio di carne che simboleggia più di tutti la grigliata, è sicuramente la rosticciana (o rostinciana a seconda della zona). Un gustoso costato di maiale, speziato in maniera semplice e cotto alla brace. Tipica della gastronomia toscana e dell’alto Lazio viene generalmente condita con un velo d’olio, sale, pepe, aglio ed erbe aromatiche come il rosmarino. In questa versione abbiamo fatto un salto gastronomico in Messico, mantendendo l’anatomia del taglio classica della rosticciana e traendo ispirazione dalla marinatura “al pastor”, solitamente usata per insaporire delle fette di spalla di maiale che finoscono dentro gustosi tacos. Sfruttando la nostra amata cottura ibrida riusciremo ad ottenere, in maniera veloce e poco impegnativa, dei tocchetti di maiale tenerissimi, gustosi e super saporiti, con cui riempiremo delle fantastiche tortillas fatte in casa. Nella prima parte della cottura sfrutteremo il calore per convenzione generato dal setup indiretto, affumicando il nostro costato con l’essenza che ci è più gradita: nel nostro caso un blend di quercia rossa e ciliegio. Quando la superficie sarà asciutta e di un bel colore mogano, sposteremo il tutto in una vaschetta di alluminio o in una pentola in ghisa. Per la seconda parte della cottura, infatti, sfrutteremo un liquido, nel nostro caso il sidro di mele, per brasare le costine. Il sugo di cottura che ne verrà fuori vi farà fare i salti mortali sul posto. Garantito. Come accompagnamento noi abbiamo utilizzato i classici elementi del tacos “al pastor”: cipolla di Tropea cruda e ananas fresco. Nulla però vi impedisce di sbizzarrirvi con i condimenti che più preferit, dal guacamole alla salsa roya, dal queso fresco ai fagioli: non mettete limiti alla vostra immaginazione. Le tortillas fatele in casa, fa tutta la differenza del mondo. Noi abbiamo utilizzato farina di grano, ma si possono realizzare anche con un’ottima farina di mais bianca (masa harina). BBQ4All Magazine

Per una versione più mediterranea condite la rosticciana nella maniera classica, con il Rub Ultimate Spog di Sal’s seasoning addizionato con rosmarino secco, e infine utilizzate del buon vino bianco per la seconda fase della cottura.

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PREPARAZIONE 1. Il giorno prima preparate la marinatura; dopo aver tostato le spezie unitele in un frullatore con il resto degli ingredienti e frullate fino ad ottenere un composto omogeneo e profumato con cui coprire interamente il costato di maiale, dopo averlo privato della pleura. La pleura è la membrana che ricopre le ossa, basta far leva con il manico di un cucchiaino ed entrare delicatamente con un dito, poi strapparla via aiutandosi con un foglio di carta assorbente. 2. Dopo almeno cinque ore in marinatura, settate il dispositivo per una cottura indiretta stabilizzando la temperatura sui 160°C/170°C.

INGREDIENTI

3. Affumicate con l’essenza scelta fino ad ottener un risultato visivo soddisfacente e una superficie color mogano.

2 slab di Ribs Duroc del Megastore

4. Trasferite il tutto in una teglia di alluminio o una pentola in ghisa, aggiungete il sidro e coprite con il coperchio o con un doppio strato di alluminio.

6 persone

300 ml di sidro di mele mezza cipolla di Tropea 4 fette di ananas 200 g di panna acida Coriandolo fresco q.b. Peperoncino fresco (facoltativo) Per la marinatura: 3 fette di ananas mezza tazza d’acqua 2 cucchiai di paprika affumicata 2 cucchiaini di sale 1 cucchiaino di pepe nero 1 cucchiaino di origano 1/2 cucchiaino di cumino 1/2 stecca di cannella 1/4 cucchiaino di chiodi garofano il succo di due arance un cucchiaio di olio extravergine d’oliva 2 spicchi d’aglio 1/4 di cipolla dorata Per le tortillas di farina (12 pezzi): 30 ml olio extravergine di oliva o di strutto 10 g sale 250 g farina 120 g acqua tiepida

5. Alzate la temperatura anche sui 180°C/200°C e cuocete per almeno 40 minuti. 6. Dopo 40 minuti fare un check della rosticciana, utilizzando il toothpick test: infilando uno stuzzicadenti tra due costine, dovrà affondare come entrasse nel burro. 7. Se con il toothpick test avete raggiunto il risultato indicato, togliete il coperchio e fate ridurre la salsa. 8. Eliminate le ossa con cura e tagliate la carne in tocchetti irregolari, che andrete poi a mescolare con il sugo di cottura ridotto. 9. Per le tortillas unite tutti gli ingredienti in una bowl fino ad ottenere un impasto liscio e omogeneo. 10. Porzionate in palline da 35 g circa e lasciate riposare almeno 15/20 minuti. 11. Se avete la classica tortillera è tempo di tirarla fuori e, aiutandovi con della carta forno, modellare le tortillas. Altrimenti, matterello e olio di gomito fino a stendere le palline dello spessore di circa 2 mm. Il trucco in questo caso è di usare la carta forno o poca farina, per non ritrovarsela in bocca dopo la cottura. 12. Cuocete le tortillas in padella di ghisa o antiaderente a fiamma medio-alta fino a che non saranno dorate da entrambi i lati. 13. Una volta cotte avvolgetele impilate in un tovagliolo di stoffa, così da mantenerle calde e umide. Consumatele in fretta perché tendono a seccarsi rapidamente. 14. Tritate la cipolla di Tropea finemente e lasciatela almeno 30 minuti a mollo in acqua fredda, poi scolatela e riducete l’ananas a cubetti. 15. Mescolate lo panna acida con un cucchiaio di latte così da allentarla un po’ e renderla squeezy. BBQ4All Magazine

16. Guarnite ogni tortilla con abbondante rosticciana brasata, l’ananas, la cipolla cruda, la panna acida e del coriandolo fresco tritato. Servite spruzzando sopra del lime e preparatevi agli applausi del pubblico famelico. Consiglio non richiesto ma gradito: preparate in abbondanza.

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Anche il pollo vuole la sua parte

SOVRACOSCE

AI CINQUE PEPI con glassa ai mirtilli

La cottura ibrida trova una delle sue più grandi applicazioni con il pollo, permettendoci di ottenere una carne tenerissima e succulenta e una pelle profumata e super croccante come un biscottino. Non c’è niente di peggio della pelle di un volatile pallida e molliccia. La carne di pollo è altamente versatile, nutrizionalmente validissima, ottima per chi non può eccedere in colesterolo o altro per diversi motivi. Tutto giusto, ma: dobbiamo saperla fare. E noi di BBQ4All siamo qui per voi con questo articolo dedicato, appunto, al pollo. Di più: vi daremo tutti gli strumenti per creare una ricettina niente male: sovracosce di pollo ai cinque pepi con glassa ai mirtilli. Vi assicuriamo che così convincerete anche i più scettici, quelli che “la coscetta sbiancata” manco morti. Per la cottura del pollo, dicevamo, la cottura ibrida è quella che si presta meglio: è importante che la temperatura di esercizio sia non troppo alta, perché questa condizione evita che ci sia una forte contrazione delle fibre della carne ma allo stesso tempo garantisce il necessario calore secco per disidratare al meglio la pelle delle sovracosce in poche ore, così da ridurre al minimo il tempo di permanenza in cottura diretta scongiurando spot bruciacchiati e fiammate fastidiose. La laccatura dolce e spessa si sposa benissimo con l’interno piccante e pepato. Il basilico con la sua nota balsamica si congiunge in maniera inconsueta ma gustosa con l’aceto presente nella glassa: questi sapori sono entrambi ricchi di percezioni retronasali interessanti. I mirtilli, volendo, possono essere sostituiti con altre varietà di frutti di bosco, così da creare sfumature infinite di gusti e profumi.

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Passiamo ai cinque pepi: vista la “numerosità” vale la pena spenderci qualche parola in più. La tostatura dei pepi è importantissima. Ne esalta i sentori, ravvivandoli e aumentandone notevolmente aroma e percezione. Fatelo separatamente, basterà tenerli su giusto il tempo di riempire la cucina di profumo. Per questo vi suggeriamo di pestarli al mortaio delicatamente lasciando una grana grossolana, così da distinguerli bene sotto i denti. Conta anche questo, in un’esperienza gastronomica seppur casalinga.

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Il Pepe Nero Tellycherry è il re del pepe. Il suo sapore caldo riporta sentori terrosi e di legno pregiato, risultato di una lunga maturazione. Si tratta forse del pepe nero più diffuso e utilizzato in Europa. Prende il nome dalla regione di Thalassery, nello stato del Kerala in India dove viene coltivato. La grandezza delle bacche determina la concentrazione di piperina nella polpa essiccata e quindi la qualità. La macinatura a grana grossa permette di mantenerne intatto l’aroma.

Il Pepe Lungo del Bengala proviene dal Sudest asiatico. I piccoli frutti sono contenuti in un'unica struttura che ha l'aspetto di una piccola pigna. Nonostante l'aspetto completamente differente dal pepe nero, esso fa parte della famiglia botanica delle Piperacee. La sua piccantezza leggera si accompagna ad un complesso bouquet di aromi che vanno dalla noce moscata, alla resina, ai sentori di agrumi con un finale di anice selvatico. Si tratta di grani di pepe molto duri, ottimi da grattugiare sulle pietanze. Si abbina bene alla carne ma anche ai dessert. La zona di Muntok si trova nell’isola isola di Bangka in Indonesia ed è il luogo d’origine di quello che è considerato il miglior Pepe Bianco in assoluto. Talmente pregiato che è il valore di riferimento nella borsa delle spezie di New York. Sebbene l’odore sia molto deciso, perché le bacche arrivano a fine maturazione, è meno piccante del pepe nero perché perde tutta la polpa. Il Pepe della Jamaica, più somigliante nell'aspetto alle bacche di ginepro piuttosto che al pepe nero con cui è stato confuso al momento della sua scoperta, è il frutto essiccato di un albero della famiglia delle Myrtacee originaria della Jamaica. Racchiude nel suo complesso bouquet il profumo della noce moscata, del chiodo di garofano e della cannella con un pizzico piccante che richiama il pepe nero. È una spezia versatile e interessante, molto usata nella cucina caraibica e centroamericana, ma anche in quella del Nord America. Le


bacche intere si conservano a lungo, tuttavia il Pepe della Jamaica dà il meglio del suo aroma se polverizzato, in questo caso però si conserva per un tempo più breve perché l'aroma si disperde più rapidamente. ll Pepe di Sichuan (o di Szechuan, dipende dalla traslitterazione dei caratteri cinesi in pinyin) è un falso pepe originario della provincia di Szechuan, nella zona sud-occidentale della Cina. Le bacche rosse, una volta giunte a maturazione e seccate. si aprono in due rivelando un piccolo seme nero al loro interno. L'aroma del pepe di Sichuan è pungente e rinfrescante, con note di agrumi e di canfora. Il sapore è forte con un retrogusto che lascia lievemente anestetizzata la lingua. Poiché si utilizza in cucina solo l'involucro esterno del frutto (il seme risulta lievemente amaro, con una consistenza "sabbiosa" se masticato), dopo la fase di disidratazione le bacche sono passate attraverso dei setacci in movimento per consentire al seme interno alla capsula di fuoriuscire. Ecco: una volta passati in rassegna per benino tutti gli ingredienti, c’è la ricetta vera e propria. Da gustare tutta, dalla glassa aromatica, ai chicchi di pepe macinati grossi, al così bistrattato pollo.

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INGREDIENTI 4/6 persone

6 sovracosce di pollo 2 cucchiai di sale 1/2 cucchiaino di pepe nero tellycherry 1/4 cucchiaino di pepe lungo del Bengala 1/4 cucchiaino di pepe del Sichuan 1/4 cucchiaino di pepe bianco Muntok 1/4 cucchiaino di pepe della Jamaica 1/4 cucchino di semi di coriandolo 4 foglie di basilico fresco 1 Peperoncino fresco (facoltativo) Per la laccatura: 100 g di mirtilli freschi 30 g di zucchero di canna 40 g di aceto balsamico 36 g sciroppo d’acero 40 g salsa barbecue un pizzico di sale un cucchiaino di salsa di soia un cucchiaino di salsa Worchestershire Per servire: basilico a piacere

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peperoncino a piacere

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PREPARAZIONE 1. Per la laccatura unite lo zucchero, i mirtilli e l’aceto balsamico in un pentolino e cuocete a fiamma bassa per almeno 25 minuti. 2. Aggiungete tutti gli altri ingredienti a fuoco spento e assaggiate per correggere eventualmente di sale o di aceto balsamico. Il sapore dovrà essere dolce con un finale acidulo ma gradevole. 3. Per una consistenza più liscia frullate la salsa e passatela al setaccio, oppure lasciate i pezzi di mirtillo per un risultato più rustico. 4. Stabilizzate il dispositivo sui 160°C/170°C e predisponetelo per una cottura indiretta. 5. Disossate le sovracosce; con un po’ di manualità è facile farlo anche in casa, scalzando la carne e seguendo l’unico osso presente con un coltello molto affilato e dalla punta sottile. Se non siete pratici fatele disossare dal vostro macellaio. 6. Condite l’interno delle sovracosce con il rub composto dal sale e dal mix di pepi tostati in padella e macinati grossolanamente con un mortaio. 7. Legate le sovracosce, stabilizzate il vostro dispositivo ad una temperatura di circa 130°C, mettete la carne in cottura indiretta e affumicate con legno di ciliegio fino ai 75°C al cuore. 8. Una volta raggiunta la temperatura target spostate le sovracosce in cottura diretta per far diventare croccantissima la pelle, basteranno davvero pochi minuti.

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9. Ottenuto un risultato soddisfacente laccatele con un leggero strato di glassa ai mirtilli. Lasciate asciugare in indiretta per qualche minuto e servite con abbondante basilico tritato, con il peperoncino e con il resto della salsa come dipping.

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IL PANINO CON IL

ROAST BEEF Che caratterino! Nonostante la voglia che ci prende talvolta di voler essere creativi in cucina, molto spesso finiamo per rifare esattamente gli stessi piatti e le medesime preparazioni. I weekend e le festività sono di solito le occasioni ideali per le nostre sperimentazioni, ma solitamente lasciano strascichi dati gli avanzi che abbondano a fine giornata. Nella cucina contemporanea, concetti come sostenibilità e eliminazione degli sprechi sono tenuti molto in considerazione. È così che prende vita un processo creativo atto al riutilizzo degli avanzi. A portare avanti questa filosofia sono stati i grandi chef stellati, come Massimo Bottura e Igles Corelli, Daniele Oldani e Claudio Sadler, che hanno fatto reinventato nuovi piatti partendo proprio da ciò che avanzava o addirittura dagli scarti di precedenti preparazioni: una buccia di pomodoro che diventa polvere per condire un impasto, foglie di sedano che insaporiscono un sale, croste di formaggio che realizzano un ottimo brodo. Ma non era già così una volta?

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Ciò che oggi viene chiamata sostenibilità prima era semplicemente esigenza di risparmiare e di dare un po’ di sapore ai piatti poveri. Nulla poteva essere buttato e tutto veniva riciclato. Ai giorni nostri, nella vita quotidiana che conduciamo, il più delle volte abbiamo la necessità di riciclare i nostri avanzi proprio per quell’idea - giusta - di non sperperare il cibo e il denaro spesso per acquistare le materie prime. Cosicché anche noi abbiamo voluto dare il nostro contributo sostenibile e creativo per reinventare, con gli avanzi giusti, qualcosa di goloso, senza eccedere nell’estro dei più celebri stellati, ma rimanendo nella semplicità di qualcosa di relativamente facile ed eseguibile da tutti.

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Vi sarà capitato sicuramente di realizzare a casa un buon roast beef. Magari con un Eye

Round ben marezzato e frollato del nostro Megastore. Voi, che conoscete le qualità di quella carne eccelsa, sapete benissimo quanto ne debba andarne sprecato anche un solo pezzo. Per questo abbiamo pensato ad un panino davvero appetitoso, dove il roast beef affettato finemente possa essere accompagnato da elementi che lo rinvigoriscano e lo esaltino nell’aspetto e nel sapore. Nel nostro panino pieno di fantastico roast beef, abbiamo abbinato verdure lessate, verdure grigliate e un formaggio dal gusto deciso e carico di umami. Ci siamo affidati a due verdure: gli agretti (o barba di frate) e i peperoni. Gli agretti, con quel sapore leggermente acre e la consistenza croccante, apportano note di terra. I peperoni, ormai son reperibili tutto l’anno, cotti in ember roasting apportano invece una nota affumicata che i nostri lettori ben conoscono e amano Il nostro roast beef invece sarà un avanzo di Eye Round, da cui abbiamo ricavato delle sottilissime fette che si sfaldano letteralmente in bocca. Il tutto accompagnato da tocchetti di ricotta forte, un prodotto dal gusto pungente e deciso che apporta la giusta nota di piccantezza. Sappiamo che non tutti possono apprezzarlo, per cui è giusto dirvi che potete sostituire questo ingrediente con un formaggio spalmabile più dolce e assicurante nel gusto. Ma fidatevi di noi, provatelo così come ve lo proponiamo, perché merita almeno un assaggio. Ovviamente, dato che siamo qui per spiegarvi la ricetta passo dopo passo, vi daremo anche la procedura per fare il roast beef, che potrete servire anche al piatto, con le medesime verdure o con le classiche patate arrosto. Questa è la versione comfort cena, che vi mettiamo sempre a disposizione.


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PREPARAZIONE 1. Accendete mezza ciminiera di bricchette e predisponete il vostro dispositivo per una cottura indiretta, stabilizzandolo ad una temperatura di circa 130°. 2. Togliete la carne dal frigorifero un paio d’ore prima della cottura, Trimmatela se sono presenti eventuali brandelli di carne che si bricerebbero in cottura, spennellatela con poco olio e spargete il rub composto dallo SPOG e dal Montreal che avrete prima rimacinato un pochino per renderlo più sottile.

INGREDIENTI 4 persone

2 kg di Eye Round Aus Black Market 5+ Rangers Valley Black Angus due cucchiai Ultimate SPOG della linea Sal’s Seasoning due cucchiai di Sal’s Seasoning Montreal Steak Rub olio q.b. per i panini 4 panini integrali 100 g di agretti 2 peperoni rossi e verdi ricotta forte q.b. olio extravergine di oliva q.b. limone q.b. sale e pepe q.b

3. Fate aderire bene il rub alla carne e quando il dispositivo avrà raggiunto la temperatura target mettetelo in cottura indiretta: ricordatevi di utilizzare un termometro a sonda per rilevare la temperatura interno del pezzo di ciccia. Potete, se volete, inserire al livello della griglia carboni una vaschetta con poca acqua per aumentare il livello di umidità all’interno della camera di cottura a per aiutarvi nella stabilizzazione del dispositivo, qualora siate alle prime armi. 4. Chiudete il coperchio (se volete, potete anche affumicare il vostro roast beef con un blend di legni che preferite) e attendete che la tamperatura interna raggiunga i 50°C/52°C. A quel punto chiudete il roast beef in cottura diretta (se c’è bisogno, accendete ancora carbone, la temperatura del essere alta) e terminate la cottura per qualche istante, in modo che si formi la crosticina. Cercate di non superare i 55°C/58°C al cuore o la carne sarà troppo cotta. Tenetela da parte e lasciatela raffeddare lentamente. 5. Pulite e lavate molto bene gli agretti, asportando le parti dure e legnose. Portate ad ebollizione una pentola d’acqua e cuocete gli agretti per 15 minuti. Scolateli, immergeteli in una ciotola con acqua e ghiaccio e abbatteteli. Scolateli bene di nuovo, poi conditeli con un filo d’olio, con sale e con qualche goccia di limone. 6. Lavate i peperoni, preparate mezza ciminiera di braci e spargetela sulla base del vostro dispositivo. Adagiate i vostri peperoni interi sulla griglia e lasciateli cuocere, finché non si sgonfieranno e tenderanno a cedere. Lasciateli raffreddare e poi spellateli, avendo cura di eliminare i semi all’interno. Divideteli in strisce. 7. Prendete il roast beef raffreddato e affettatelo in maniera molto sottile.

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8. Procedete ad assemblare il panino. Aprite il panino stesso, inserite alla base una dose generosa di agretti, sovrapponete il roast beef per tutta la lunghezza del panino riempiendolo abbondantemente. Stendete i filetti di peperoni arrostiti, su tutta la carne e finite il panino con delle quenelle di ricotta forte.

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UN RISO SPECIALE

OSTRICHE, CARCIOFI E PARMIGIANO REGGIANO

si-può-fare!

Tra le prime esperienze che facciamo quando ci approcciamo alle griglie sicuramente c’è l’ember roasting: la pratica di cuocere gli alimenti (tipicamente verdure) a contatto diretto con le braci. Questo perché non servono particolari attitudini o premi. Anche sbagliando il massimo che possiamo ottenere è proprio il risultato che stiamo cercando, ovvero bruciarne la parte esterna. L’ember roasting, traducibile in “cottura nella cenere”, è adatta a tutti i tipi di ortaggi duri e tenaci. Con questa tecnica si ricerca quel sentore dovuto alla carbonizzazione della parte esterna che rilascia verso l’interno una stratificazione di sapori e profumi complessi. La gestione è piuttosto facile: prevede il contatto con le braci dell’alimento che vogliamo cuocere. Tra gli ortaggi più indicati per questa tecnica troviamo i peperoni, le patate, le zucche e i carciofi. Proprio con questi ultimi abbiamo realizzato per voi un primo piatto intenso e raffinato, abbinando ai carciofi, un mollusco pregiato come l’ostrica e un tocco di umami dato dal Parmigiano Reggiano con stagionatura superiore ai 40 mesi. Tutti gli ingredienti li potete trovare facilmente sul nostro Megastore: un solo accesso, zerosbatti e avete tutto il necessario.

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Parliamo dunque di un riso e non di un risotto, per quelli che storcono il naso se non fa l’onda. Ovviamente tratteremo i vari elementi singolarmente, al fine di esaltare ogni loro aspetto.

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Vediamo nei dettagli come l’abbiamo eseguito.

Riso La cottura del cereale è stata fatta per assorbimento. Pertanto procediamo con questa tecnica che ci permette, grazie alla quantità corretta dell’acqua, di ottenere il giusto grado di cottura del chicco. La varietà utilizzata è il riso Roma, dal chicco lungo e affusolato che assorbe ottimamente i liquidi. Carciofi Di questo tipo di ortaggio ne esistono diverse varietà: il violetto di Sicilia, il tondo di Pasteum, e vari tipi di spinoso tra cui quello di Sardegna. Abbiamo optato per quest’ultimo che possiede una consistenza carnosa, tenera e croccante insieme. Il profumo è intenso e floreale. Sarà l’ideale per la nostra ricetta. Ostriche Sappiamo quanto sia importante la freschezza di questo prodotto, per ciò non potevamo affidarci alle prime ostriche trovate in un qualsiasi supermercato. Infatti la scelta è caduta su una selezione GLC Top Selection, la Maison d’Huîtres Amélie Spéciale de Claire: abbiamo ritenuto che fossero ideali per questo piatto, grazie alla sua consistenza carnosa, sapida e iodata. Parmigiano Potevamo semplicemente puntare ad un Parmigiano con 30 mesi, solitamente usato da grattugiare. Invece abbiamo voluto alzare l’asticella, e siamo andati su prodotto con stagionatura superiore a 40 mesi della Riserva Parmigiano Reggiano Dop GLC Top Selection, che presenta un saporericco e bilanciato, con note piene e burrose, ideali per la nostra preparazione. Non ci resta che svelarvi come eseguire questo piatto.


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PREPARAZIONE 1. Iniziate con la cottura dei carciofi. Accendete mezza ciminiera di carbone o di bricchette e rovesciatela nel vostro dispositivo. 2. Dopo aver eliminato solo un giro di foglie esterne di carciofi, tagliate loro la punta. Immergeteli in una ciotola d’acqua e limone per 15 minuti, dopodiché toglieteli e strizzateli per eliminare l’eccesso d’acqua. Cercate di aprirli leggermente dal centro verso l’esterno. 3. Irrorateli di olio extravergine di oliva e conditeli con sale e pepe. 4. Ora poneteli tra le braci ardenti e lasciateli cuocere per circa 30 minuti. 5. A cottura avvenuta, lasciateli raffreddare, poi asportate la parte più esterna ormai carbonizzata.

INGREDIENTI

per 4 persone 320 g di riso varietà Roma 2 carciofi 20 ostriche Amélie Spéciale de Claire un litro di brodo vegetale 100 g di Parmigiano Reggiano 40 mesi mezza cipolla olio extravergine di oliva q.b burro q.b. vino bianco q.b Sal’s Seasoning Smoke Chipotle Chili q.b

6. Tagliateli in 2 parti e metteteli in un mixer. Aggiungete, a filo, poco brodo vegetale e realizzate una crema non troppo densa. Lasciatela rustica. 7. Aprite le ostriche e conservatene l’acqua. 8. Mediante un dispositivo per sous vide (roner), inseritene ben 12, già sgusciate, in un sacchetto con la loro acqua precedentemente filtrata. 9. Cuocete a 68°C per 25 minuti. 10. Prendete le 8 ostriche rimaste e tritatele finemente. Rovesciatele all’interno di un guscio e tenetele in frigo sino all’utilizzo. 11. Sciacquate il riso in un colino sotto l’acqua fredda per eliminare l’eccesso di amido. 12. Versate in un pentolino 650 ml di brodo caldo, inserite il riso e alzate la fiamma. Attendete che raggiunga l’ebollizione, mettete il coperchio e lasciate cuocere a fiamma bassa per il tempo necessario, finché il brodo non sarà assorbito. 13. In una padella, con poco olio extravergine di oliva fate appassire mezza cipolla tritata finemente e sfumatela con vino bianco. 14. Fuori dal fuoco versate il riso già cotto all’interno della padella. Aggiungete le ostriche tritate. Inserite anche la crema di carciofi in ember. 15. Mantecate con una noce di burro e il Parmigiano Reggiano 40 mesi.

17. Finite spolverando con del Sal’s Seasoning Smoke Chipotle Chili.

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16. Adagiate il riso sul piatto e guarnitelo con qualche ostrica cotta in sous vide.

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Riso : t’imballo o meglio…

TIMBALLO! Timballini di riso con ragù di pesce e siam tutti felici Timballo, che bella parola!

Semicitando Totò, il Principe della risata, siamo sicuri di non fargli un’ingiustizia. Il timballo è una preparazione tipica di tutto il Mediterraneo: è lussuria pura in Italia ma anche in Spagna, in Grecia, sulle coste dell’Africa nostre dirimpettaie. Solitamente, si usa mettere gli ingredienti in uno stampo (di varia foggia, solitamente sono quadrati o circolari) o ancora in un guscio di pastasfoglia o pastafrolla, per poi cuocere in forno. Ovviamente, Paese che vai, timballo che trovi: se in Italia i timballi sono di pasta e riso con aggiunta di svariati ingredienti, all’estero è comune trovare timballi fatti di pastafrolla e pastasfoglia ripieni di carne e spezie varie. Antipasto, primo piatto, piatto unico? Un timballo può essere tutto, un timballo è per sempre. Come si dice al Sud, “quello che metti, quello trovi”: declinato in campo gastronomico, se metterete ingredienti “leggeri” in un timballo, sarà un simpatico spezzafame in attesa della portata principale; viceversa, se pieno-pieno, potrà praticamente prendere la scena e farvi dimenticare tutto il resto. Di timballi, ce ne sono per tutti i gusti: c’è da dire che il riso è un ingrediente molto versatile per preparare timballi. Ad esempio, a Napoli (noto posto di mangiafoglie e mangiamaccheroni, come dicono alcuni storici), uno dei piatti storici è appunto il sartù di riso, che sarebbe un maxi-timballo ripieno di qualunque cosa, tra le quali carne e pomodoro.

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Nella nostra sortita a Mazara del Vallo, non abbiamo potuto fare a meno di assaggiare dei deliziosi timballini di riso, ovviamente declinati secondo le usanze e gli ingredienti locali: in questo numero del Magazine vi proponiamo dei simpatici timballini di riso con ragù di gamberi, pesce spada e polpa di granchio. Perfetti per la bella stagione che si avvicina e, si spera, per le scampagnate. Da mangiare in accompagnamento ad un bel vino fresco ed aromatico, in attesa delle “portate sostanziose”. Vi diamo anche un piccolo suggerimento: dite per benino tutti gli ingredienti ai vostri amici, ci fate una gran bella figura.

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INGREDIENTI 8 timballini

300 g di riso varietà Roma 1 kg di pesce misto tra gamberi, pesce spada e polpa di granchio 350 ml di passata di pomodoro (potete andare a gusto: se preferite il ragù un po’ più “liquido”, fate di più; viceversa, più asciutto, questa è la dose indicata); 80 g /100 g di burro pepe nero q.b. cipolla, carota e sedano per soffritto olio extravergine d’oliva q.b. 8 formine per timballi, la foggia la scegliete voi. Possono essere anche di alluminio, usa e getta


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PREPARAZIONE 1. Il procedimento da seguire è molto simile se non identico a quello delle arancine siciliane dello Zio proposte sul numero del Magazine di Ottobre 2020. Si prepara il riso esattamente con le stesse modalità: sciacquatelo, cuocete con il burro, fate raffreddare e stendetelo su una teglia per poi livellarlo. Fate raffreddare ancora in frigo. 2. Nel frattempo, preparate il ragù di pesce: procedimento standard anche in questo caso. Soffritto leggero con cipolla, carota e sedano, olio extravergine d’oliva. Poco alla volta, inserire gamberi, pesce spada e polpa di granchio. 3. Inserire la passata di pomodoro a filo: lasciate cuocere lentamente, liberate il naso ed inspirate questa bellissima sensazione di Mediterraneo, di Sicilia, di Italia tutta. 4. Okay, momento romantico finito: quando deciderete di compattare i timballini, tirate fuori il riso dal frigo un’oretta prima. Lasciate raffreddare il ragù. 5. Ora prendete le formine per i timballi: le foderate ben bene con il riso, premendo accuratamente affinché non si stacchi; ponete un cucchiaio o due di ragù nel cuore del vostro timballino, dopodiché sigillate per bene e riponete in frigo. 6. METODO ALTERNATIVO: se non volete il “cuore” di ragù, potete miscelare le due preparazioni (riso+ragù) rigorosamente A FREDDO e lasciare riposare in frigo per compattare. Dopodiché, formare i timballini con apposita forma. 7. Sia che abbiate seguito il passaggio 5 che il passaggio 6, arriverete a questo. Dopo alcune ore, i timballini dovrebbero essere ben sigillati o compattati.

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8. Se avete seguito tutti i passaggi alla lettera, dovreste riuscirli a staccare facilmente dallo stampo. Nel caso siate dalla parte di quelli che non ci riescono in nessun caso a staccare qualcosa da uno stampo senza distruggere, nessun problema: vi abbiamo suggerito quelli usa e getta di alluminio. Mangiate direttamente da lì. Zerosbatti, tanto godimento.

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L'impavido, irlandese

PEPPER STOUT BEEF

a cura di Emiliano Nencioni

Se vi dico Pepper Stout Beef, a cosa pensate? Pepper, non c’è bisogno di tradurlo; stout, per chi è appassionato della terra dei Lepricani, saprà benissimo di cosa parlo; e beef… beh, siamo o no su BBQ4All? Le origini del Pepper Stout Beef sono – molto, ma davvero molto realisticamente - prevalentemente irlandesi. Per quanto oggi possa essere considerato un sontuoso comfort food, il piatto è una chiara deriva di un umile stufato: conseguentemente, una formulazione in grado di sfamare una tavola numerosa con una spesa moderata.

La presenza della iconica birra stout aggancia irrimediabilmente la pietanza all’Irlanda, ai suoi pub, al marchio Guinness, a sterminati tappeti di prati verdi e ai pascoli: il vero stufato irlandese primigenio infatti è l’Irish Mutton Stew, proprio per la maggiore reperibilità (e in parallelo sacrificabilità) di montoni e pecore rispetto al manzo.

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Lo stufato di carne è un piatto presente in molte regioni del mondo, impersonandosi in varianti rimaste più o meno note come il francese Boeuf Bourgignon, il goulash ungherese o altri ancora; su queste pagine cercheremo di codificare uno stufato di manzo in birra Stout, focalizzandoci solo su questa declinazione ben precisa e riproducibile anche con i comuni dispositivi di cottura outdoor su fiamma.

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Abbiamo citato già almeno tre volte la birra stout. Per dovere di cronaca vi spiegherò anche cosa si intende per questa tipologia di birra, fingendo per un attimo che nessuno dei lettori ne abbia mai sentito parlare ma rimanendo consapevole - in tutta onestà - di essere probabilmente letto da un pubblico molto esperto in materia. Ma è nostro compito informare anche chi, magari, non se ne è mai fregato prima, di ‘sta benedetta birra.

Una Stout Beer è una birra scura, più densa e più forte, ricavata dalla fermentazione di malto, orzo e luppolo; questo da “definizione da manuale”, ma come è lecito aspettarsi dalla iniziale birra Porter del diciottesimo secolo si sono generate una pletora di differenti interpretazioni, dalla chocolate stout a una improbabile e francamente sconcertante oyster stout, dove nel processo di fermentazione vengono adoperate nientemeno che… le ostriche. L’unica invariante attorno alla quale probabilmente gira tutto il concetto di birra stout è proprio il significato, ampiamente interpretabile, della parola stout: il termine inglese è traducibile con impavido, robusto, forte, solido, ma anche grasso, denso, viscoso, rotondo (al gusto), in una serie di sfumature che richiamano più l’aspetto di un guerriero barbuto e corazzato che un dinoccolato uomo d’affari. Ma vi assicuriamo che tra i vicoli del Temple Bar, zona iconica di Dublino, alla fine della giornata lavorativa donne ed uomini di ogni fascia sociale si affollano per consumare le loro Kilkenny e le loro Guinness: siamo nel posto dove davvero una birra mette d’accordo proprio tutti. Consapevoli di storia e tradizioni, pub affollati, montoni e birre scure, procediamo alla scelta del pezzo di carne più adatto per questa ennesima incarnazione del Pepper Stout Beef: il chuck roll. Le differenze tra i vari tagli tra collo e spalla del bovino li abbiamo già visti nell’articolo dedicato, mi limiterò soltanto a ricordarvi che in italiano è il taglio che viene chiamato reale. Per non incorrere in incomprensioni, errori fatali o macellai simpatici che fanno la battuta dei eeali di Spagna e Regno Unito (mi è successo), potete saggiamente ricorrere al Megastore BBQ4All, dove tutto ha il giusto nome.


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Preparazione:

INGREDIENTI 4 persone

2 fette di Chuck Roll AUS BlackOnyx 3+ Black Angus da mezzo kg l’una 4 peperoni 3 cipolle rosse una carota 2 lattine di birra Guinness (o altra Stout Beer di vostro gusto) due cucchiai di salsa Worcestershire tre cucchiai di olio extravergine d’oliva Tabasco q.b. Una quantità sufficiente a ricoprire la carne di Rub Ultimate SPOG della linea Sal’s Seasoning addizionato di un cucchiaino di paprika

1. Ispezionate la carne e rifilate via eventuale grasso in eccedenza nella parte esterna delle fette, senza voler togliere tutto e soprattutto conservando la presenza della vena di connettivo all’interno della fetta. 2. Bagnate il manzo con la salsa Worcestershire e fate aderire alla superficie umida il rub, con la solita accortezza di non esagerare: la carne deve essere cosparsa di spezie, non deve fare delle sabbiature. 3. Configurate il vostro dispositivo di cottura per una indiretta a 110°C ben stabili, affumicando gradevolmente con una miscela di legni a voi congeniale, ad esempio con mesquite e mogano. La carne dovrà raggiungere i 75°C misurati al cuore, e raggiungere la formazione del bark, la crosticina saporita di spezie, ben indurita e fragrante. 4. Affettate peperoni, cipolle e carota a listarelle e mettete tutto in una cocotte a soffriggere per una buona mezz’ora assieme al tabasco, alla Worcestershire sauce rimasta e all’olio. Aggiungete successivamente la birra. 5. A bark ben formato trasferite la carne nella cocotte, chiudete il coperchio e arrivate senza fretta fino allo sfilacciamento della carne, presumibilmente intorno ai 96°C-98°C al cuore. 6. Servite verdura, sfilacci di manzo e sughetto su sostanziose fette di pane tostato: non lesinate, fate fette belle spesse. Il “trucco”, in questo caso, sta tutto nella consistenza della carne (che si deve sfilacciare, non indurire) e nella viscosità dei succhi di cottura, che non devono mai seccarsi, ridursi troppo o, al contrario, risultare troppo acquosi, infradiciando inutilmente la carne. Aggiungere mezzo bicchiere d’acqua può essere d’aiuto se sospettate che la carne stia iniziando ad attaccarsi alla cocotte.

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E se non ho una cocotte? Con le sue spesse pareti in ghisa la cocotte è lo strumento ideale per questa preparazione, ma con qualche accortezza, molta attenzione in più e un occhio vigile potrete rimediare alla mancanza con una pentola molto capiente, dotata di un coperchio pesante che chiuda bene, e proseguire se necessario la cottura sul fornello di casa, una volta formatosi il bark sulla carne. Niente pentole? Assicuratevi di avere almeno una leccarda di alluminio, di saper fare un buon Texas Crutch (la “caramella” di foglio di alluminio attorno alla leccarda), di avere impostato una perfetta cottura indiretta e... accontentatevi del risultato.

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Lussureggianti e appaganti, anche al bbq.

ARAGOSTE

GRATINATE CON MOLLICA AL BASILICO

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Forse è il più pregiato tra i crostacei, associato all’idea di lusso e spesso consumato in occasioni speciali. L’aragosta è un alimento ricco di proteine e di sali minerali, le cui carni dalla consistenza tenera e dal gusto delicato sono apprezzate da milioni di consumatori in tutto il mondo. Talmente appagante che si porta dietro la nomea di cibo afrodisiaco. Oltreoceano sono famose quelle del Maine, che però anticamente erano così abbondanti da essere utilizzate addirittura come cibo per i maiali e solo agli inizi del novecento divenute cibo per ricchi.

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In Italia consumiamo l’aragosta mediterranea (Palinurus elephas) e per essere certi di trovarci di fronte a un prodotto di qualità dobbiamo assicurarci che il prezioso crostaceo venga pescato nella zona FAO 37. Essa delimita tutta l’area mediterranea nazionale, dalla Liguria alla Sicilia passando per tutta la costa adriatica sino a Trieste; è quindi sinonimo di freschezza. Ovviamente, come sapete, sul nostro Megastore potete trovare aragoste pescate nel mare siciliano, le cui acque presentano un eccellente equilibrio tra salinità e abbondanza di plancton, che rendono i crostacei qui pescati dei prodotti dalle caratteristiche organolettiche uniche. I pescherecci che operano in questo tratto di mare garantiscono sistemi innovativi di prelievo nel rispetto e nella salvaguardia degli stock ittici, e utilizzano a bordo sistemi di conservazione naturale dei crostacei, in

modo da escludere qualsiasi impiego di conservanti (ne abbiamo parlato in modo approfondito nel numero del BBQ4All Magazine di Dicembre 2019). Tornando alla ricetto che vogliamo presentarvi oggi, quando ci troviamo ad avere a che fare in cucina con l’aragosta dobbiamo sapere almeno due cose: la prima è che non dobbiamo confonderla con l’astice (altro crostaceo pregiato ma molto diverso); la seconda, e qui ahimé non tutti sono in grado di poter affrontare la questione, è che deve essere cucinata viva. Per quanto riguarda il primo punto, è molto facile riconoscere i due animali: l’astice ha infatti delle chele ben visibili, inesistenti invece nell’aragosta, che presenta delle specie di “lunghe antenne”. Sul secondo punto, è impossibile aiutarvi: o avete il coraggio di affrontare l’animale vivo oppure dovete necessariamente acquistare un prodotto surgelato. Fortunatamente noi possiamo aiutarvi: il Megastore vi garantisce un prodotto di altissima qualità e al contempo vi solleva dal problema, dato che vi arrivano a casa prodotti surgelati dal peso di 300 g o 500 g l’uno, già pronti per l’uso, con una spedizione garantita a – 22°C per 72 ore. Non vi resta quindi che procurarvi i deliziosi e pregiati crostacei e seguire questa ricetta facile e veloce ma di sicuro effetto.

INGREDIENTI 4 persone

2 aragoste da 500 g l’una olio extravergine di oliva q.b. per la mollica al basilico 500 g di pangrattato 50 g di basilico un pizzico di sale olio extravergine di oliva q.b.


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Preparazione:

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1. Preparate l’aragosta prima facendola scongelare e poi tagliandola in due nel senso della lunghezza, utilizzando un coltello ben affilato: siate decisi, senza paura, e praticate un taglio netto. Inserite la lama nel punto in cui lo stomaco e la coda si incontrano e poi premete con forza usando l'intera lunghezza del coltello per tagliare l'addome e la testa. 2. Tostate in una padella antiaderente il pangrattato e poi bagnatelo con uno o due cucchiai d’olio: Quando sarà raffreddato, tritate finemente il basilico e unitelo insieme al pangrattato con un pizzico di sale.

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3. Condite le aragoste cospargendo la mollica al basilico sui crostacei, e non aggiungete sale, poiché presentano già la giusta dose di sapidità. Aggiungete un filo di olio extravergine di oliva. 4. Predisponete il vostro dispositivo per una cottura indiretta a circa 160°C. Appoggiate i crostacei sulla griglia dalla parte opposta delle braci e fateli cuocere senza superare i 62°C al cuore, onde evitare che la carne si indurisca e si secchi. 5. Una volta cotte le aragoste, servitele ancora calde e gustate insieme ai vostri ospiti queste prelibatezze esaltate dal gusto della mollica al basilico.


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La cernia che invoglia!

INVOLTINI RIPIENI CON CONTORNO DI CIPOLLOTTI SALTATI

Ricco di acidi grassi Omega 3, i preziosi alleati della salute, di potassio, di selenio, di sali minerali, di amminoacidi, di vitamine, di proteine… no, non siamo stati improvvisamente impossessati dallo spirito della Lambertucci. Stiamo semplicemente elencando le cose che si sentono dire ogni volta che si nomina un pesce come la cernia. Ah, quanto è salutare! Ah, quanto fa bene! E’ perfetto nelle diete a basso contenuto calorico! Il consumo di cernia migliora il sistema immunitario e il metabolismo osseo grazie alla presenza di fosforo. È perfetta in e tutti i regimi alimentari, soprattutto in quelli dimagranti, che necessariamente devono essere normo-lipidici e ipocalorici.

INGREDIENTI per 4 persone

per gli involtini 8 filetti di cernia già puliti 100 g di gamberetti sgusciati e puliti 50 g di pinoli la scorza di un limone una mozzarella

Sono tutte affermazioni giustissime. Ma dite la verità: leggendo tutto questo preambolo la prima cosa che vi viene in mente è davvero ”mamma mia, avrei così voglia di un bel filetto di cernia salutare e ipocalorico”? Purtroppo è un grande classico: dici che un cibo è salutare e matematicamente colui che ti ascolta pensa con tristezza alla dieta che fa patire la fame, con quei piatti magri e insapori con poco olio e pochi condimenti, cucinati al vapore. E mi raccomando a metà mattinata una bella mela o lo yogurt magro! Non sentite l’eco della voce del vostro medico curante?

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E’ dunque impossibile parlare di cernia, pesce pregiato del panorama ittico del Mar Mediterraneo, e al contempo farsi venire l’acquolina in bocca e una voglia pazza di mangiarne a quintali? Con la ricetta che vi presentiamo oggi possiamo affermare senza ombra di dubbio che siamo riusciti nell’impresa. O meglio ci sono riusciti i cuochi del Ristorante Altavilla di Mazara del Vallo che gentilmente hanno regalato questi involtini speciali – dietetici ma non troppo - a tutti i lettori del BBQ4All Magazine. Ovviamente, prima di presentarveli ci siamo immolati per la causa e li abbiamo assaggiati per voi, giusto quei due o trecento involtini per essere sicuri che fossero proprio buoni-buoni. Fra l’altro, considerata l’alta digeribilità della cernia non abbiamo fatto nemmeno fatica e abbiamo aiutato la mente, il cuore e le ossa.

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Non ci resta che raccontarvi il piatto per filo e per segno.

due spicchi d’aglio un ciuffo di prezzemolo semi di girasole q.b. erba cipollina q.b. 200 g di pistacchi per la mollica al basilico 400 g di pangrattato 50 g di basilico un pizzico di sale olio extravergine di oliva q.b. per il timo in pasta 20 g di timo fresco due cucchiai di olio extravergine di oliva per i cipollotti 4 cipollotti interi olio extravergine di oliva q.b. sale e pepe q.b.


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Preparazione:

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1. Battete i filetti di cernia con un batticarne per renderli più sottili. 2. Tostate in una padella antiaderente il pangrattato e poi bagnatelo con uno o due cucchiai d’olio: quando sarà raffreddato, tritate finemente il basilico e unitelo insieme al pangrattato con un pizzico di sale. 3. Tenete il timo fresco a bagno nell’olio per qualche ora, poi frullatelo ad immersione: avrete ottenuto una pasta di timo fresco. 4. Tritate i gamberetti, l’aglio, 100 g di pistacchi, il prezzemolo, l’erba cipollina e la mozzarella poi una boule unite tutti gli ingredienti tritati, aggiungendo i pinoli interi, i semi di girasole, la scorza grattugiata del limone, due cucchiai di mollica al basilico e uno o due cucchiai d’olio. 5. Mescolate il tutto molto bene, salate e pepate (foto A). 6. Con un cucchiaio distribuite il ripieno su ogni filetto, senza esagerare (foto B): chiudete il filetto a fagottino (foto C) e poi passatelo bene nella mollica al basilico, facendola aderire su ogni involtino. 7. Tritate i restanti pistacchi e fate passare ogni involtino nella granella (foto D, E, F). 8. Tenete gli involtini in frigorifero per un’oretta in modo che la panatura aderisca bene. 9. Pulite i cipollotti tenendo anche la parte verde, poi tagliateli a listarelle per la lunghezza. 10. Accendete il vostro dispositivo stabilizzandolo ad una temperatura di circa 150°C: adagiate gli involtini sulla griglia su cui potete posizionare un po’ di carta forno, in cottura indiretta. Chiudete il coperchio e cuocete per circa 20-30 minuti, o comunque finché non saranno cotti. Potete mettere nel dispositivo anche una vaschetta con un po’ d’acqua al livello della griglia carboni, in modo da rendere la camera di cottura più umida e in modo da non rischiare di seccare troppo gli involtini. 11. Quando saranno pronti, toglieteli dal fuoco e teneteli in caldo. 12. Predisponete quindi il dispositivo per una cottura diretta e posizionate il wok nell’apposito spazio in griglia o comunque sopra la griglia in corrispondenza delle braci. 13. Fate scaldare bene la pentola, poi saltate i cipollotti velocemente con un po’ d’olio, di sale e di pepe, lasciandoli croccanti. 14. Servite gli involtini caldi col contorno di cipollotti saltati.

A

D


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F

E

C B

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Il triangolo no, non l'avevo considerato!

LA TAGLIATELLA AL BASILICO, GAMBERO ROSSO E LA BURRATA

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Probabilmente molti di voi non lo sanno, ma esiste un’associazione italiana che si chiama “Apostoli della Tagliatella”: è ovviamente bolognese e ha come fine quello di salvaguardare la regina indiscussa delle preparazioni emiliane. Tipo religione dei pastafariani, insomma. Tutti conoscono e pressoché amano questo formato di pasta all’uovo che nasce da una sfoglia sottile tagliata a listarelle. La nascita di questo tipo di pasta è molto difficile da collocare, non essendo giunta a noi nessuna testimonianza scritta che ne attesti l’origine certa. Sappiamo che già nel 35 a.C. il poeta Orazio parlava di lagane con i ceci: una pasta fatta da strisce larghe di sfoglia a base di grano, molto simili alle odierne lasagne. Tuttavia la sfoglia, intesa come la conosciamo oggi, è diventata una prerogativa della cucina italiana solo nel Medioevo.

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Nel 1931 il pittore e caricaturista italiano Augusto Majani racconta una storiella che cerca di nobilitare l’origine della tagliatella: secondo lui nel 1487, Giovanni II di Bentivoglio signore di Bologna chiese al cuoco di corte Mastro Zefirano di preparare una ricetta speciale, al fine di celebrare Lucrezia Borgia che era in viaggio verso Ferrara per sposare il Duca Alfonso d’Este. Il cuoco cucinò così una nuova pasta, tagliando le tradizionali lasagne bolognesi in lunghe strisce dorate, in onore ai biondi capelli della bella Lucrezia, dando così forma alle tagliatelle. Tuttavia, sappiamo che prima della fine dell’800 questa deliziosa pasta veniva declinata al maschile, tagliatelli, e solo l’Artusi ne consacrò definitivamente l’identità al femminile, scrivendo: Conti corti e tagliatelle lunghe, dicono i bolognesi, e dicono bene, perché i conti lunghi spaventano i poveri mariti e le tagliatelle corte attestano l’imperizia di chi le fece e, servite

in tal modo, sembrano un avanzo di cucina Devono essere lunghe, dunque, e fatte secondo la tradizione: la ricetta originale delle tagliatelle è stata depositata nel 1972 alla Camera di Commercio Industria Artigianato e Agricoltura di Bologna, dove si può trovare un campione in oro di questo delizioso formato di pasta all’uovo. Fin qui abbiamo parlato della tradizione e della storia; ma, come sempre accade, sia l’una che l’altra (specie in cucina) vengono spesso rivoluzionate. Esistono, infatti, infinite varianti di tagliatelle, sia nella preparazione dell’impasto che nel condimento: ogni regione, ogni famiglia e ogni cuoco hanno una loro versione. Ufficialmente la tagliatella deve avere una larghezza di cinque millimetri: se è meno alta si parla di tagliolino, se è più alta di pappardella. Tradizionalmente servite col ragù in Emilia Romagna, sono invece spesso condite con i frutti di mare nel Sud Italia, col tartufo in Piemonte, con un sugo di selvaggina in Toscana. All’impasto viene spesso aggiunto un altro ingrediente che le colora e dona loro tante sfumature diverse di sapori: spinaci, pomodoro, nero di seppia, zucca e così via. Regione che vai, tagliatella che trovi. E dunque veniamo alla nostra versione; o per meglio dire alla versione che Gianfranco Lo Cascio ha preparato in nostro onore in quel di Mazara del Vallo: tagliatelle al lime e basilico, condite con assoluto di gamberi (bisque), gambero rosso di Mazara, burrata, olio al basilico e pepe rosa. Una bomba: non sapremmo come descrivere questo piatto in un altro modo. Fresco, gustoso, appagante, godurioso, lussurioso: alla fine nessun aggettivo riesce a descriverlo davvero fino in fondo, va soltanto provato per capire di cosa stiamo parlando. Parafrasando una famosa pubblicità: silenzio, parla Lo Cascio. E, soprattutto, parlano le sue tagliatelle!


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Preparazione:

INGREDIENTI 4 persone

Per le tagliatelle 1/2 kg di pasta di semola di grano duro la buccia grattugiata di due lime 200 g di basilico fresco ghiaccio q.b. un uovo Per la bisque di gamberi: due cucchiai di trito di sedano, carote e cipolle due cucchiai di olio extravergine di oliva le teste e i carapaci dei gamberi rossi di Mazara mezzo bicchiere di cognac mezzo cucchiaio di concentrato di pomodoro mezzo lime abbondante ghiaccio Per l’olio al basilico: 50 g di basilico fresco 250 ml di olio extra vergine di oliva Per finire: 12 Gamberi Rossi Mazhara GLC Top Selection 400 g di burrata

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pepe rosa q.b.

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1. Pulite i gamberi e tenete da parte le teste e i carapaci; a questo punto potete cominciare a preparare la bisque che noi abbiamo chiamato Assoluto di gamberi (il procedimento dettagliato è riportato nel numero di Dicembre 2019 del BBQ4All Magazine); 2. In una padella, fate soffriggere il trito di verdure e poi spadellate tutte le rimanenze dei gamberi a fiamma alta. Sfumate col cognac. 3. Evaporato l’alcol, aggiungete il concentrato di pomodoro, la spremuta di mezzo lime e il ghiaccio, in modo che i carapaci e le teste non si brucino in cottura. 4. Fate ridurre il tutto, frullatelo con un mixer a immersione e filtratelo con un colino cinese, ottenendo un concentrato molto denso. 5. Sbollentate i 200 g di basilico in acqua per pochi istanti, poi raffreddatelo subito con acqua e ghiaccio. Strizzatelo bene e poi frullatelo con un po’ di ghiaccio in modo da ottenere un composto non troppo liquido e molto freddo. 6. Formate la fontana con la farina su una spianatoia e aggiungete le scorze grattugiate di lime e il basilico frullato col ghiaccio. Cominciate a lavorare l’impasto e dopo poco aggiungete un uovo, in modo da renderlo più legato e malleabile. Formate una pallina, copritela con pellicola trasparente e fatela riposare per mezz’ora in un luogo asciutto. 7. Tirate le sfoglie, a mano o con la sfogliatrice: dovranno avere circa 1,5 mm di spessore. A questo punto tagliatele per formare le tagliatelle, che dovranno essere alte circa 5 mm, mettendole poi ad asciugare su uno stendipasta. 8. Portate ad ebollizione circa mezzo litro d’acqua e fate bollire il restante basilico per cinque secondi, poi mettete immediatamente il basilico in una ciotola con acqua e ghiaccio. 9. Scolate le foglie di basilico, spremendole bene con le mani e mettetele nel frullatore con l’olio extravergine d’oliva. 10. Frullate fino ad eliminare completamente la presenza delle foglie di basilico. Con un panno, filtrate il composto dentro un altro contenitore. Tenete l’olio aromatizzato da parte. 11. Sbollentate appena i gamberi rossi in acqua leggermente salata oppure riduceteli a tartare e lasciateli crudi. 12. Cuocete la pasta in abbondante acqua salata e nel frattempo, in una padella, scaldate la bisque di gamberi, aggiungendo un po’ d’olio se necessario; scolate la pasta e fatela saltare nella bisque, poi impiattatela con la burrata e i gamberi. Terminate con olio al basilico e una generosa macinata di pepe rosa. Lo Cascio ha parlato. Godrete, siamo sicuri almeno la metà di quanto abbiamo goduto noi a Mazara, riscaldati dal sole primaverile che in Sicilia sa quasi d'estate.


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Fame da lupo? Fatti...

L'AGNELLO SUL BBQ

Sul Megastore, non poteva mancare una rappresentanza dell’agnello: probabilmente la carne più raccontata del mondo, dall’antichità sino ad oggi. Noi abbiamo deciso di proporvi delle bellissime cosce di agnello disossate direttamente dalla Nuova Zelanda e garantite da Silver Fern Farms. Cosa? Non le avete mai comprate? Forse la colpa è nostra: non vi abbiamo mai dato una ricetta come si deve. Ecco, siamo qui per rimediare. La carne da noi proposta per questa ricetta proviene da agnelli che vivono in spazi aperti e si cibano della miglior erba del pianeta Terra, garantendo struttura e sapori molto particolari.

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La ricetta che andiamo a proporvi prevede una marinata di parecchi giorni, quindi, onde evitare problemi, aggiungeremo alla preparazione il Curing Pink Salt, che ci garantirà una certa sicurezza. Utilizzeremo inoltre la tecnica del basting: senza scendere troppo nello specifico perché avremo modo di parlarne molto approfonditamente, nelle cotture barbecue esistono varie tecniche per creare quello strato profumato e croccante che ci piace tanto; per ottenere quella gustosa crosticina di solito utilizziamo il Rub, ma esistono anche il basting, il mopping e lo spritzing. Ognuna di queste tecniche serve ad applicare un liquido aromatizzato sulla carne che andremo a cucinare, sia per una grigliata veloce in cottura diretta ad alta temperatura, sia per una cottura indiretta e lenta a temperature inferiori.

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Il basting di solito viene fatto con il pennello e con una marinata molto molto densa, che chiaramente non sarà quella preparata per andare ad insaporire la carne, onde evitare il rischio di aggiungere i batteri della carne cruda al cibo. Lo sappiamo, abbiamo visto per anni i nostri padri ungere la carne con un improvvisato pennello creato con rametti di rosmarino e salvia; pennello che veniva intinto nello stesso liquido in cui precedentemente era stata lasciata la carne a riposare per un certo periodo. È pur vero che utilizzando una cottura diretta e di solito ad altissima temperatura la proliferazione batterica veniva in gran parte eliminata, ma se vogliamo fare le cose nel migliore dei modi la marinata da utilizzare

in cottura andrà assolutamente preparata appositamente per questa fase, gettando le salamoie e le marinature dove avremo fatto insaporire la ciccia nelle ore precedenti. Lo scopo, banale dirlo, è quello di aggiungere sapore, amplificarlo per toccare tutte le corde metaforiche del nostro palato. Per il mopping viene effettuato un accessorio che si chiama “mop” che serve a distribuire la marinata, di solito molto più liquida rispetto a quella utilizzata per il basting col pennello, sulle carni affumicate. Lo sprintzing è più o meno la stessa tecnica, ma per realizzarlo viene utilizzato un flacone spray che nebulizza il liquido sulla carne. Naturalmente in questo caso la miscela da utilizzare deve essere molto liquida e senza spezie, onde evitare che lo spray possa occludersi.

Tutte e tre queste tecniche, che in effetti sono molto simili tra loro, aiuteranno le nostre preparazioni a trattenere l'umidità e ad attirare il fumo sulla carne. Il nitrito di sodio si scioglierà sulla superficie dell’alimento che staremo affumicando e si legherà alla mioglobina, contribuendo a creare lo smoke ring, ovvero quell’anello colorato di un bel rosa intenso che si trova appena sotto la crosticina (bark). Tutte e tre le tecniche aiutano anche nella caramellizzazione, poiché di solito sono presenti nel liquido zuccheri che rispondono al calore e che favoriscono la nostra cara reazione di Maillard. Una cosa fondamentale da ricordare è quella di non esagerare con la quantità di marinata che andremo ad applicare fin da subito alla carne; inoltre, specie quando si fanno cotture lunghe come in questo caso, è bene optare per temperature di settaggio dei nostri dispositivi intorno ai 110°C, almeno per la prima fase di affumicatura, cioè fino ai 50°C più o meno. Come legno aromatico consigliamo di sceglierne uno fruttato, melo o ciliegio per esempio. Ma niente vieta che possiate utilizzare un blend che più vi aggrada. Andiamo dunque a vedere step by step la preparazione proposta da BBQ4All di questo cosciotto di agnello.


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Preparazione: INGREDIENTI 6 persone

2 kg di coscia di agnello Silver Fern Farms Per la marinata: 2 cucchiai di Rub Sal’seasoning Montreal 1 cucchiaino di Rub Sal’seasoning Coconut 100 g di Salt Microsphere Kosher, 100 g di zucchero di canna muscovado la scorza di un limone non trattato 3 bacche di ginepro 1/4 di cucchiaino di anice stellato un cucchiaino di coriandolo un cucchiaino di cumino selvatico montano 2 foglie di alloro un cucchiaino di foglie di timo 2 scalogni 4,4 g di Pink Curing Salt 5/6 fili di erba cipollina 5/6 foglie di menta piperita 5/6 foglie di salvia 3/4 rametti di rosmarino 5 spicchi di aglio 10/15 foglie di prezzemolo 2 gambi di sedano 2/3 cucchiai di olio extravergine di oliva un cucchiaino di senape di Digione 2 l di acqua 1/2 tazza di vino liquoroso Marsala Per il basting: una tazza di yogurt greco la scorza di un limone 2/3 spicchi di aglio uno scalogno un cucchiaio di olio extravergine di oliva un cucchiaino di cumino un cucchiaino di foglie di timo macinate un cucchiaino di senape in polvere 1/2 cucchiaino di pepe 1/2 cucchiaino di maggiorana un chiodo di garofano macinato

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un cucchiaino di curcuma un cucchiaio di Sal’Seasoning Mount Nimba

1. Mettete le spezie per la marinata: portate a bollore 1 litro di acqua (dei due che andrete a utilizzare, l’altro l’avrete messo in freezer) e aggiungete i rub, il sale e zucchero precedentemente preparati, mescolando per alcuni minuti. 2. Spegnete la fiamma e aggiungete tutti gli altri ingredienti, compreso il Pink Curing Salt, e mescolate ancora per bene; successivamente aggiungete l’altro litro di acqua molto fredda, in modo da raffreddare il più velocemente possibile la marinata. 3. Una volta raffreddato per bene il liquido, immergete completamente la carne nella marinata, copritela bene lasciatela in frigorifero per circa quattro giorni. 4. Trascorso il tempo necessario, preparate il basting, mescolando per bene tutti gli ingredienti ed eventualmente aggiungendo altro olio extravergine di oliva per ottenere un composto di una consistenza densa e spalmabile. 5. Settate il disp ositivo ad una temperatura intorno ai 110°C a tre zone, con una leccarda al centro. 6. Sarebbe bene utilizzare il girarrosto, ma se non lo possedete, potete tranquillamente appoggiare la carne sulla griglia in cottura indiretta, avendo cura di girarla voi ogni tanto durante la preparazione. È comunque importante infilare la sonda del termometro nella ciccia. In modo da monitorare la temperatura interna. Cominciate quindi ad affumicare l’agnello, spalmando il basting di tanto in tanto sulla carne. 7. Passate un paio d’ore dovreste essere arrivati intorno ai 50°C, al cuore; a questo punto accendete ancora carbone o bricchette e innalzate la temperatura sui 170°C/180°C. Continuate la cottura fino ai famigerati 60°C al cuore del vostro bellissimo e profumato cosciotto di agnello. 8. Qualche minuto di rest e potrete affettarlo e servirlo con delle buone patatine… suggerimento aggiuntivo: patatine piccantine, perché non ne abbiamo mai abbastanza

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POTATOES OF THE GOLD DIGGER

Oh, Susanna non piangere perché… ho nascosto le patate nel taschino del gilet! Probabilmente i più nostalgici di voi (e forse i più nerd) quando sentono nominare i cercatori d’oro pensano a Zio Paperone nel Klondike. In realtà, il fenomeno denominato come corsa all’oro (o febbre dell’oro) ha riguardato diverse aree del mondo (inclusa la nostra Italia), ma non si può negare che la faccenda si sia svolta perlopiù negli Stati Uniti d’America. Volendo scendere nel dettaglio, è nella regione del Klondike che molti tra film, fumetti ed altre opere d’arte visiva si sono svolti, ambientati e ci hanno fatto sognare.

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Oltre a quella nel Klondike, iniziata nell'agosto del 1896, ricordiamo anche la corsa all’oro della California, iniziata qualche anno prima, nel 1848, quando James W. Marshall, che lavorava per John Sutter, un immigrato svizzero che sperava di creare un impero agricolo in California, aveva scoperto un filone d’oro mentre stava ispezionando un canale presso la segheria di Sutter sul South Fork del fiume American. Quando Marshall raccontò a Sutter di aver trovato l’oro, Sutter gli fece giurare di mantenere il segreto. Se la massa fosse venuta a conoscenza del segreto, la gente sarebbe arrivata a fiumi da ogni dove e l’impero di Sutter sarebbe stato distrutto. Ma a poco a poco la notizia si diffuse e migliaia di avventurieri in cerca di fortuna accorsero in zona da tutto il mondo. In California sorsero in breve numerose città, con banche, officine, sceriffi e naturalmente i celebri saloon.

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Ma cosa mangiavano i febbricitanti cercatori d’oro? Per lo più fagioli, qualche stufato e le immancabili patate, che per poter durare di più venivano preparate in questo modo. Ne diventerete dipendenti e vi accorgerete che, in fin dei conti, le vere pepite d’oro sulle vostre tavole saranno questi deliziosi tuberi croccanti e piccanti. Molto piccanti. Magari, se volete servirle ai bambini o se siete nemici dei cibi hot, limitate un poco l’elemento spicy, questo è il nostro consiglio. Ma se siete dei veri temerari, buttatevi a capofitto in queste patate.

INGREDIENTI 4 persone

1 kg di patate 70 g di lardo 20 g di ‘nduja (in alternativa tabasco o pepe di Cayenna) 50 g di salsiccia fresca un cucchiaino di Sal’s Seasoning Montreal Steak Rub un cucchiaino di Sal’s Seasoning Ancho Habanero Chili qualche rametto di rosmarino sale q.b.

Preparazione:

1. Pelate le patate e tagliatele a dadini ci di circa 1 cm per lato. 2. Tagliate a listarelle il lardo, e sbriciolate la ‘nduja e la salsiccia. 3. Predisponete il vostro dispositivo per una cottura diretta e scaldare per bene una padella in ghisa (in alternativa potete scaldare una padella anti aderente sul gas) 4. Soffriggete il lardo, poi aggiungete le patate e iniziate a mescolare per bene 5. Aggiungete la ‘nduja e la salsiccia, mescolate il tutto e poi aggiungere il rosmarino. 6. Con un cucchiaio in legno girate e rigirate, alternando periodi di fermo in maniera che le 7. patatine a contatto con il calore formino una crosticina croccante. 8. Dopo circa 30/40 minuti testatene la consistenza ed a questo punto aggiungete i rub e il sale: mescolatele ancora una volta e servitele ben calde.


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MUFFIN AL CIOCCOLATO Quando le dimensioni (e il contenuto)... contano. Da svariati anni, accanto alla proposta di colazione tradizionale italiana, nei bar trovano spazio anche questi piccoli e graziosi tortini: i muffin. Spesso sono prodotti semi-lavorati e fatti rinvenire in fornetti di fortuna appoggiati in ogni dove, ma vi sfidiamo: almeno una volta vi sarete fatti tentare e avete preso un muffin, magari avendo anche la fortuna di affondare qualche volta i denti in una pasta “ben fatta” e calda. Il muffin è una piccola torta le cui caratteristiche distintive sono la morbida compattezza, l’umidità dell’impasto e la cupola crepata priva di qualsiasi ornamento.

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Ne esistono moltissime varianti: ai mirtilli, all’uvetta, alla frutta secca, allo yogurt, al cioccolato, al mais, alle mele, ecc. Senza dimenticarci delle versioni salate, i cornbread muffin: anche di questi esistono diverse ricette, ad esempio con il formaggio, con le zucchine, con i funghi… e così via. Insomma, esiste un muffin per tutti i gusti. Per questo piacciono a tutti.

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Annoverato tra le leccornie tipiche della colazione negli States, è talmente amato che tre Stati lo hanno eletto dolce ufficiale del proprio territorio: il Massachusetts, che ha il muffin al mais, il Minnesota, che ha quello ai mirtilli ed infine lo stato di New York, il quale non poteva

non scegliere quello alle mele. Tuttavia, questa preparazione così amata e conosciuta nel mondo non affonda le proprie radici negli USA, come molti possono pensare, bensì nella vecchia Inghilterra. Infatti esistono due tipi di muffin: il British muffin (meno noto al di fuori dell’isola britannica), e il famosissimo statunitense. Mettendo le due versioni a confronto, sembra quasi impossibile che una sia l’evoluzione dell’altra, perché quello inglese ricorda più una focaccina tonda e alta, dalla consistenza molto più panosa rispetto al suo corrispettivo americano, con delle crepe in superficie causate dalla cottura su piastra. Non a caso la parola muffin dovrebbe derivare dal francese moufflet (pane molto morbido). Inoltre, l’evidente differenza di altezza tra le due ricette è determinata dall’uso del lievito di birra nella versione inglese e del lievito chimico nella versione americana, che comporta due crescite della pasta notevolmente diverse. Il prototipo del muffin nacque nel Medioevo, ma non come dolce; infatti a quel tempo erano un elemento tipico dello scarno pasto dei contadini del Galles, una sorta di focaccina insomma. Fu nei secoli successivi che in Inghilterra, dove la ricetta si diffuse, divennero dolcetti. Nel ‘700 i cuochi delle famiglie nobili

anglosassoni le preparavano solo per il consumo della servitù con gli scarti delle torte, dei biscotti, del pane e delle patate schiacciate. Il goloso segreto fu scoperto ben presto dai padroni e, in età vittoriana (1837-1901), questa focaccina conobbe una tale popolarità da diventare un elemento immancabile del té delle cinque. Era talmente ricercata che nacque la figura del muffin man: si trattava di un venditore ambulante che vendeva i gustosi dolcetti in strada portandoli sulla testa o su dei vassoi attaccati al collo. Verso la metà del XVIII secolo, la specialità attraversò l’Oceano Atlantico ottenendo un grande consenso; e come accade in tutti i cibi famosi che fanno la storia viaggiando per il mondo, il nostro muffin subì una forte trasformazione che la allontanò dalle sue origini nell’aspetto e nel gusto, ma decretò al contempo il successo mondiale. Le sue dimensioni – grazie all’utilizzo del lievito chimico - quadruplicarono, il sapore fu notevolmente amplificato dall’aumento della percentuale di zucchero usata e dagli alimenti che arricchivano l’impasto (cioccolata, uvetta, mirtilli, frutta secca). La versione americana è sicuramente una gioia non


solo per la gola, ma anche per gli occhi: gli intensi sapori degli ingredienti utilizzati e le dimensioni generose del dolce sicuramente non possono lasciare insoddisfatti. La prima ricetta ufficiale appare, appunto, in terra americana: infatti compare nel 1796 sull’American Cookery di tale (benedetta donna) Amelia Simmons (forse di mestiere collaboratrice domestica di origini olandesi, residente nella valle dell’Hudson). Questo libro, il primo ricettario di cucina statunitense, conobbe un tale favore di pubblico da essere ristampato nei trent’anni successivi, perché a differenza delle altre raccolte era stato composto su suolo statunitense e non britannico. Nel volume per la prima volta si consigliava l’utilizzo del pearlash il precursore del lievito moderno, per la preparazione dei muffin. Lo stesso anno fu inventata anche la teglia per muffin: essendo il composto più liquido, rispetto a quello inglese, esso aveva bisogno di sostegno per non perdere la forma durante la cottura in forno.

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La ricetta che andiamo a proporvi è super collaudata e golosissima: muffin al cacao con scaglie di cioccolato fondente. La preparazione è molto rapida, bisogna solo rispettare due piccoli accorgimenti: gli elementi secchi e quelli liquidi vanno mescolati separatamente e poi miscelati insieme, ma solo per i pochi secondi necessari allo scioglimento delle polveri all’interno del composto: il segreto per ottenere degli ottimi muffin è lavorare poco l’impasto.

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Ingredienti per 12 muffin: 250 g di farina 00/ 20 g di cacao amaro/ 10 g di lievito per dolci/ 3 g di bicarbonato di sodio (1⁄2 cucchiaino raso)/ 150 g di cioccolato fondente/ 250 g di latte intero/ 175 g di zucchero/ 80 ml di olio di semi di arachide/ 1 uovo intero/ 1 cucchiaino di estratto di vaniglia/ 1 pizzico di sale Preparazione:

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1. Preriscaldate il forno a 200°C in modalità statica. 2. Tritate il cioccolato grossolanamente con l’aiuto di un coltello. 3. Prendete due ciotole, in una mettete gli ingredienti liquidi (latte, olio, uova, estratto di vaniglia) e nell’altra quelli secchi setacciati (farina, lievito, cacao, bicarbonato, zucchero, cioccolato a pezzi e sale). 4. Mescolate prima entrambi i composti separatamente (facendo particolare attenzione alle polveri), dopodiché miscelateli insieme con un cucchiaio per pochi secondi, il tempo necessario per dissolvere le polveri. 5. Riempite i pirottini per 2/3. Se usate quelli di carta dovete porli all’interno di una teglia per muffin, se invece usate quelli di alluminio ricordate di imburrarli. 6. Infornate a 200°C per 20 minuti.

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Per gustare pienamente il sapore del muffin. È buona norma mangiarlo dopo un paio d’ore, quando è completamente freddo. Il giorno dopo sarà ancora meglio. Se avete un bar, proponetene di vostri. Altrimenti, quando sarà possibile, invitate quanti più amici possibili per belle colazioni a base di muffin. E pensate a noi, ogni tanto.


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L'Arte Bianca a cura di Alessandro Trezzi illustrazioni di Ozzy Bellesi

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a doppia cottura, nel mondo dell’arte bianca, è un concetto ancora poco esplorato per questioni di praticità, e che tuttavia se ben realizzata può regalare enormi soddisfazioni.

Pensate alla bollitura più forno del bretzel teutonico, alla frittura più forno della montanara napoletana, fino a declinazioni innovative come il metodo vapore, fritto e forno di Francesco Martucci de I Masanielli a Caserta. Ci sono poi personalità che sulla doppia cottura hanno costruito un business, come Renato Bosco e le sue Arie di Pane e Mozzarella di Pane o Simone Padoan con il padellino, specialità radicate nel mondo professionale al punto da definire delle nuove tipologie di pizza vere e proprie, con caratteristiche predefinite e (nei primi due casi) addirittura brandizzate e registrate a marchio. Del resto in un laboratorio è tutto più semplice: si lavora in linea, con carrelli, teglie adatte, camere per la lievitazione a temperatura e umidità controllate, abbattitori per le basi e forni a convezione per lavorare su più prodotti. In casa il gioco si complica, ma nel mio modo di vedere è ancor più stimolante; si tratta di comprendere e adattare un metodo fino in fondo, in modo da ottenere un risultato più performante possibile con gli strumenti a disposizione, nel proprio contesto abituale e incastrando il tutto nei ritmi quotidiani. L’esempio della doppia cottura è calzante: inutile imbastire friggitrici, pentole e forni per fare una pizza sola, ha senso piuttosto lavorare di quantità minime e abbattere/congelare per un rigenero successivo. Ma anche con questo presupposto, le cose potrebbero farsi complicate e i limiti casalinghi farsi sentire: le dimensioni sono quello che sono, un forno a incasso domestico può faticare a raggiungere determinate temperature o a mantenerle, e per di più può ospitare solo per una teglia alla volta. Eppure, conoscendo il modo giusto di approcciare ad una doppia cottura i risultati non possono essere che lampanti e gratificanti a dismisura. Volete vedere come si fa? Perfetto, prendete acqua e farina e seguitemi.

La miglior doppia cottura in casa

Qualsiasi espediente simile, utilizzato in ogni preparazione gastronomica, ha la medesima funzione; la montanara napoletana viene fritta per ottenere un interno vaporoso e una crosta saporita, e poi passata in forno perché asciughi e l’esterno risulti ancor più friabile. Il problema è che la frittura, in casa, spesso e volentieri è una brutta gatta da pelare, specialmente per grandi numeri; lo è ancor di più se dopo aver fritto dovete passare in forno, sporcando più e più teglie e contenitori vari. Senza tralasciare l’inveire dei partner di vario genere che dovranno aiutarvi ad arieggiare e disincrostare superfici. C’è un altro modo ben più pratico di ottenere un ottimo risultato casalingo facendo per altro un’ottima economia domestica: la cottura vapore più forno. Con la prima fase, realizzata in forno impostato a 100°C in modalità vapore (o con un pentolino colmo d’acqua all’interno) otterremo un interno soffice e vaporoso, un incantevole effetto cuscino. Con la seconda fase, realizzata sempre in forno a massima temperatura (250°C-270°C) lavoreremo invece sulla crosta esterna, facendola esplodere fino a renderla estremamente croccante. E fidatevi di me, non c’è niente di meglio di un contrasto simile per un qualsiasi panificato moderno. La comodità è poi duplice: potete preparare tutte le basi prima a vapore, tenerle da parte e infornarle una dopo l’altra quando il vostro bolide avrà raggiunto la temperatura finale; inoltre, le basi ben si prestano per essere congelate o conservate sottovuoto, per essere poi rigenerate in pochi minuti a 180°C-200°C, con farcitura a caldo o a crudo. In poco tempo potete completare un arsenale incredibile e dalle caratteristiche spaventose, che farà letteralmente sbalordire i vostri ospiti, e può essere preparato in anticipo in totale sicurezza.

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Questa volta facciamo un ragionamento diverso, analizzando prima i bonus regalati da una doppia cottura, selezionando la migliore da replicare in casa e arrivando quindi a definire il risultato finale e il metodo più indicato per raggiungerlo.

Con una duplice (se non triplice) cottura il beneficio primario è quello di distinguere in modo marcato la consistenza interna da quella esterna, localizzata sulla crosta. Prendete ad esempio la tecnica più diffusa utilizzata per realizzare le patate fritte: si lava via l’amido in eccesso, si fanno sbollentare per ammorbidire il cuore, si pre-friggono a bassa temperatura per raggiungere un grado ottimale al centro, e infine si friggono a temperatura maggiore per enfatizzare la croccantezza esterna.

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Anzi, come per la maggior parte dei prodotti di arte bianca, il rinvenimento permetterà un’asciugatura ancor più evidente della parte superficiale, facendovi esplodere ancor di più la crosta.

Il riposo Sì, lo so: stiamo facendo tutto al contrario rispetto al solito, ma c’è un motivo ben preciso: anziché partire da un risultato certo, lo stiamo costruendo a cominciare dalla tecnica di cottura, agganciando pezzo dopo pezzo perché tutto risulti armonico ed esplosivo. La domanda a questo punto è: come accentuare l’aspetto soffice della nostra pizza, rendendo la base equilibrata e mantenendo la comodità come prima regola? Come raggiungiamo un’alveolatura uniforme ma aperta nel modo più semplice ed efficace possibile? Esatto, con una terza lievitazione in teglia. Struttureremo la base come se stessimo realizzando una focaccia, dando un primo riposo in massa, poi un secondo in forma ed infine un terzo in teglia, precedente alla cottura iniziale a vapore. Per rendere il tutto ancor più semplice, lavoreremo come fanno tanti professionisti, procurandoci delle tegliette tonda usa e getta in alluminio da 16 cm di diametro, in modo da poterne infornare due alla volta nel nostro abituale forno domestico; nulla vi vieta ovviamente di salire a 18-20 se le dimensioni della vostra camera di cottura ve lo permettono.

L'impasto

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Lo ripetiamo: l’obiettivo è ottenere una mollica scioglievole, vaporosa, morbida e soprattutto aperta; si tratta di una base perfetta per lavorare a crudo sulla farcitura, facendo sciogliere della mozzarella per creare un collante con ingredienti di rilievo, oppure dando una passata di una qualsiasi crema ottenuta con verdure di stagione. E a questo punto, perché non giocare con i sapori, creando un contrasto tra la base tostata e profumata e una farcitura fresca ed equilibrata? Il padellino gourmet è stato creato e portato in auge da Simone Padoan, e per omaggiarlo non potevo che scegliere uno dei cereali al quale sono più legato: un mais integrale, il migliore che riusciate a trovare. Per di più, sarà importante bilanciare il mix con una piccola parte di farina debole, in modo da enfatizzare l’altra importantissima caratteristica della base, la croccantezza ottenuta con l’ultima fase di cottura.

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Ci siamo? Forza allora, sotto con il metodo definitivo!

INGREDIENTI

per 14 padellini da 16 cm o 11 da 18cm 700 g di farina di grano tenero di tipo 1 da 300-320 W; 100 g di farina di grano tenero di tipo 00 o 0 da 160-180 W; 200 g di farina di mais integrale; 700 g di acqua; 25 g di sale; 10 g di lievito di birra fresco.


Bagel Pizza di Renato Bosco foto tratta dal sito lacucinaitaliana.it

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IMPASTAMENTO

Versate tutte le farine nella ciotola o nella vasca della vostra impastatrice e miscelatele fra di loro; aggiungete il lievito sbriciolato, circa i 3/4 dell’acqua e cominciate ad amalgamare il tutto. Una volta che il glutine si sarà formato, aggiungete tutto il sale e a filo l’acqua rimanente, solo quando la precedente sarà stata perfettamente assorbita. Chiudete l’impasto quando risulterà liscio, uniforme e a una temperatura di 24°C; formate una pagnotta e lasciatela riposare circa 15 minuti sul banco.

PUNTATA

Oliate un contenitore che possa contenere il triplo del volume dell’impasto, date una piega alla massa e posizionate all’interno. Chiudete ermeticamente e lasciate partire la lievitazione per 1 ora a temperatura ambiente, per poi posizionare in frigo per 18 ore a 6°C.

STAGLIO E FORMATURA

Trascorso il primo riposo, togliete l’impasto dal frigorifero e formate dei panetti da 120 grammi per padellini da 16 cm, 150 g per padellini da 18 cm.

APPRETTO

Oliate i padellini e posizionate un panetto per ogni teglia, sporcando d’olio anche la parte superiore; coprite con pellicola e lasciate lievitare per circa 2 ore.

TERZA LIEVITAZIONE IN TEGLIA

Muniti dei vostri inseparabili polpastrelli stendete l’impasto fino a coprire tutta la teglia, per poi coprire nuovamente con la pellicola.

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Lasciate lievitare per 1-2 ore a temperatura ambiente, dando modo all’impasto di svilupparsi in altezza di almeno il doppio rispetto al volume iniziale.

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PRIMA COTTURA: VAPORE

Preriscaldate il forno in modalità vapore

a 100°C, oppure in modalità statica alla medesima temperatura inserendo un pentolino con abbondante acqua bollente sul fondo. Praticate 4 impronte con le vostre dita in 4 punti opposti sull’impasto, per assicurarvi che sviluppi in maniera omogenea. Infornate due padellini per volta per 10-12 minuti l’uno, finalizzando la prima cottura e dando modo all’interno di risultare soffice e scioglievole. Sfornate e togliete l’impasto dal padellino, lasciandolo raffreddare per bene su griglie rialzate.

SECONDA COTTURA: FORNO

Una volta terminati tutti i padellini, togliete il vapore o il pentolino e pre-riscaldate a 250°C-270°C in modalità ventilata. In questa fase l’impasto dovrà tostare e divenire estremamente croccante, quindi sarà ancor più utile lavorare con una pietra refrattaria o, in sua mancanza, con una teglia rovesciata; in entrambi i casi posizionate il supporto scelto immediatamente nel forno, in modo che prenda calore insieme alla camera. Ci siamo, date un giro d’olio e infornate 2 basi per volta per circa 4-6 minuti, fino a quando la parte superficiale non risulterà estremamente dorata e friabile. Sfornate e portate su griglia rialzata per evitare il raffermamento a causa della condensa. Le basi così pronte possono essere utilizzate in un’infinità di modi: potete congelarle, oppure conservarle sottovuoto, o ancora finirle con uno strato di mozzarella fatta sciogliere per 2 minuti, divise in fette e condite con il vostro miglior salame tagliato a listarelle, qualche cima di rapa spadellata e della crema di pecorino adagiata con un biberon. Last but not least, l’alternativa a crudo: base bianca tagliata a spicchi, una crema di spinaci adagiata a quenelle, la bresaola migliore che possiate procurarvi e delle scaglie di ottimo Parmigiano Reggiano, magari quello stagionato oltre i 40 mesi dello Zio.


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DA CUBA ALLA FLORIDA

El puerco asado con mojo criollo Across the Pond a cura di Elena Ninotti

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no dei luoghi comuni più frequenti che si sentono dire sugli Stati Uniti riguarda il fatto che non esista la “cucina americana”, intesa nel senso più letterale di “gastronomia americana”, yankee, o come volete chiamarla voi. Se siete tra coloro che la pensano così, mi dispiace contraddirvi, ma non è per niente vero. La cucina “americana” esiste, anche se ha storia e caratteristiche differenti da quella europea.

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I territori americani sono stati "scoperti" solo 500 anni fa: è ovvio che, a meno di non considerare la cucina dei nativi o dei precolombiani come americana, non possiamo trovare origini antecedenti. Quello che è successo, invece, è che le popolazioni arrivate qui in seguito hanno portato con loro il proprio bagaglio culturale e alimentare. Prima dell’avvento di Internet, quanti di questi piatti conoscevate: pepperoni, salsa Alfredo o marinara, lasagna con la ricotta, spaghetti con le polpette? Probabilmente uno o due. Ebbene, qui tutte queste preparazioni vengono considerate “cucina italiana”. Ma, ne converrete con me, non sono certamente piatti che possiamo trovare in una qualsiasi trattoria casalinga nostrana. Lo stesso esempio può essere fatto con

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le cucina degli altri paesi. Per San Patrizio, patrono dell’Irlanda, è comune fare il Corned Beef, che si tratta di un brisket “cured”, bollito e servito con cavolo e patate. Ma se questi ultimi due ingredienti sicuramente erano parte della dieta degli irlandesi fuggiti dalla carestia alla metà dell’Ottocento, ben difficilmente poteva esserlo il succulento manzo. Come tutti gli altri immigrati, anche loro si trovarono di fronte alla disponibilità di alimenti a cui non avevano accesso nella loro precedente vita, e ne fecero le basi della loro rinascita.

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NUOVE TRADIZIONI AMERICANE Le aree dove sono nate le nuove tradizioni alimentari sono, ovviamente, quelle di confine. In primis New York e l’area circostante. Non è strano sentire un americano del Nord lamentarsi che non si riesce a mangiare un cinese decente/ un buon bagel/ una vera cucina italiana qui in South Florida! In modo analogo si sente spesso ripetere che se vuoi mangiare un buon cibo messicano, devi andare assolutamente in Texas. Non ho la presunzione di pensare che possano alterare solo la nostra cucina, quindi ho imparato a non considerare proprio come oro colato la tanto strombazzata fedeltà alla cucina originale. In realtà,

questo miscuglio di culture differenti è di fatto la cucina americana. Partendo da ricette di famiglia, adattandosi ai prodotti locali e modellandola sui gusti dei clienti, i ristoratori hanno creato piatti che si sono diffusi in tutto il territorio statunitense, acquisendo una propria identità. La Florida del Sud non poteva rimanere fuori da questa meccanica. Qui la popolazione più presente, in assoluto, è quella cubana. Cuba dista da Key West 170 km. Poco più della distanza che separa la Toscana dalla Corsica, per farvi un paragone. In seguito alle crisi politiche ed economiche di Cuba, moltissimi cubani sono fuggiti e sono stati accolti negli USA. La prima ondata arrivò nel 1956-59, in seguito all’ascesa al potere di Fidel Castro. I ricchi, seguaci di Batista, fuggirono dal governo castrista e vennero accolti a braccia aperte da quello americano, tanto da far avere loro trattamenti speciali, con vie preferenziali per la cittadinanza. Si trattava infatti di professionisti, politici, imprenditori. Ricchi ai quali erano stati espropriati gli averi e che a Miami trovarono una città in cui stabilirsi. Altre due migrazioni massicce avvennero nel 1980


e nel 1994, in seguito alle grosse crisi economiche causate dal crollo del governo sovietico che, di fatto, permetteva a Cuba la sopravvivenza in seguito all’embargo degli Stati Uniti del 1969. In questo caso si trattava, ovviamente, non più di persone della media e alta borghesia, ma di gente in cerca di un futuro migliore. Fu proprio in seguito alla fuga del 1994 che venne promulgata la legge “piede asciutto-piede bagnato”, tradotto: se il clandestino viene intercettato in acqua, viene riportato a Cuba; se riesce a raggiungere la spiaggia, può restare negli Stati Uniti. Attualmente, la popolazione di Miami è composta per circa il 70% da ispanici, principalmente cubani, con punte del 98% in quartieri come Little Havana. La maggior parte di queste persone vive tutta la sua vita senza parlare una parola di Inglese. Miami è una città assolutamente bilingue. I cartelli pubblicitari, le insegne delle principali catene americane, i menù dei ristoranti: sono tutti declinati in entrambe le lingue, se non esclusivamente in spagnolo. Anche in questo caso, tuttavia, la cucina cubana si è “americanizzata”. Miami e Tampa, infatti, si

contendono i natali del famoso “panino cubano” (di cui ha parlato Gianfranco Lo Cascio nel Magazine n.17 Maggio 2020). Sconosciuto a Cuba, qui è una istituzione: shredded pork, prosciutto cotto, cetriolini, mostarda e formaggio. Cinque strati di farcitura in un panino semidolce, friabile e morbido, molto diverso dal pan brioche dell’hamburger. Per farlo, spesso vengono utilizzati gli avanzi del Mojo Pork cubano, una succulenta spalla di maiale cotta in forno (ma nulla vi vieta di metterla in un kettle) con una marinatura a base di succo di arance amare. In mancanza di quello, potete usare un mix di agrumi (arancia, pompelmo, lime) che simula la freschezza del succo della naranja agria. El puerco asado con mojo criollo è il piatto tipico quando i cubani si ritrovano per una festa sulla spiaggia, per un party di compleanno oppure solo per una festa a bordo piscina. A un certo punto, appare lui: 3-4 kg di Boston butt, a grossi pezzi, da mangiare con moros y cristianos (riso bollito e fagioli neri), yucca o manioca bollita (potete trovarle facilmente nei negozi etnici), il tutto accompagnato da fiumi di birra ghiacciata.

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CUBAN PORK CON MOJO

Ingredienti per 8 persone: Per il Mojo: 4 spicchi di aglio / 2 cucchiaini (8 g) di cumino / 2 cucchiaini (8 g) di pepe / una tazzina da caffè di origano (meglio fresco) / 120 ml di succo di arancia / 60 ml di succo di lime (oppure 180 ml di succo di arance amare che si può sostituire 60 ml di succo di arancia con 60 ml di succo di ananas / 50 ml di olio di oliva / un cucchiaio di senape di Dijone

Per il Pork: una pezzo di spalla da circa 3-3,5 kg / una tazzina da caffè di foglie di menta tritate (facoltativo) / una tazzina da caffè di origano / un cucchiaino (4 g) di cumino /2 spicchi di aglio tritati o 2 cucchiaini secco / un cucchiaino di origano / la buccia degli agrumi privata del bianco e tritata / 3 cucchiai di zucchero di canna / 4 cucchiaini di Steak booster lime pepper della linea Sal’s seasoning, tritati in modo da farli diventare una polvere. Per servire: cipolle ad anelli a piacere / spicchi di lime a piacere / riso bianco e fagioli neri a piacere.

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Preparazione: 1. Trimmate la spalla lasciando circa mezzo cm abbondante di grasso. Incidetelo a losanghe e spolverate la carne col resto degli ingredienti previsti nella sezione “pork” . Mettetelo in una busta per alimenti o avvolgetelo nella pellicola, lasciandolo marinare per tutta la notte, senza superare le 24 h. 2. Per la salsa Mojo: scaldate olio e aglio fino alla formazioni di bollicine per 5 minuti a fuoco dolce. Fate raffreddare per altri 5 minuti. Aggiungete i restanti ingredienti e sbattete con una frusta 3. Accendete il forno in modalità statico a 160° o settate un dispositivo per una cottura indiretta a 150°C; mettete il maiale in un Dutch Oven o in una grossa teglia, con la parte del grasso verso l’alto. 4. Aggiungete un bicchiere di acqua e uno di mojo. Se usate una teglia, copritela con un foglio di carta da forno doppio e successivamente sigillatela con un foglio di alluminio. Non usate una teglia di alluminio, a causa dell’acidità della marinatura. 5. Cuocete da circa 3 ore, fino a che la carne non raggiungerà gli 80°C al cuore. 6. Scoprite la carne e cuocete ancora per altre due 2 ore, finché la carne non arriva a 90°C ed è cedevole. Lasciare in fase di rest per 45 minuti 7. Servire la ciccia a fette o pullata in grossi pezzi, coperta da croccanti anelli di cipolla crudi. Accompagnate con riso lesso mescolato con fagioli neri e spruzzate il tutto con succo di lime.

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L'Arte Casearia a cura di Giovanni Minelli

Yogurt

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come non l'avete mai mangiato

o fatto le scuole elementari negli anni ’90; sono cambiate molte cose nella pubblica istruzione, ma allora era abbastanza comune che in terza elementare, tra i vari quaderni e libri scolastici, facesse la sua comparsa il sussidiario. In questo volume erano trattate materie nuove rispetto ai due precedenti anni, e oltre alle scienze naturali e alla geografia si cominciava a trattare la storia. Durante la prima lezione l’arco temporale viene diviso in due dalla scrittura. Tutto ciò che è documentato fa parte della storia, tutto quello che precede è preistoria. Perdonate questo divagamento nostalgico, che ogni tanto serve ad ognuno di noi: in questo caso, mi serviva solo per dire che se vogliamo parlare dell’origine dello yogurt bisogna proprio proiettarci in quella dimensione, cioè la dimensione storica “da sussidiario”. Ad esempio, lo yogurt è citato nella Bibbia e poi descritto da Aristotele, Senofonte, Erodoto e Plinio ma fa la sua comparsa, come reperto archeologico, 8000 anni fa nei villaggi neolitici dell’Asia Centrale. Le popolazioni dell’attuale Turchia poi hanno provveduto ad esportarne la cultura nelle regioni balcaniche e nel bacino del mediterraneo. Cenni storici a parte, siamo qui per capire meglio di cosa si tratta e come produrlo in casa. Forse è il prodotto più semplice in assoluto da produrre a livello casalingo, tuttavia non dobbiamo dare nulla per scontato. Il latte sottoposto a fermentazione lattica da parte di Streptococcus thermophilus e Lactobacillus delbruekii subsp. bulgaricus è tecnicamente yogurt. Lo yogurt è un latte fermentato, non tutto il latte fermentato è yogurt, come ad esempio il kefir, prodotto tramite una fermentazione alcolica. Si tratta di un prodotto cremoso, più o meno compatto, dal gusto acidulo.

La tecnologia che abbiamo a disposizione ci permette di dividere lo yogurt in due categorie: a coagulo intero e a coagulo rotto. In

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I lettori più attenti si saranno già fatti un’idea, abbiamo già incontrato più volte questi batteri e già li abbiamo sfruttati per i nostri scopi. Sappiamo già che si tratta di termofili, quindi che l’intervallo di temperatura alla quale proliferano più facilmente e meglio lavorano per noi è tra i 38°C e i 45°C. Quindi mantenendo il latte inoculato in questo intervallo di temperatura per un certo numero di ore otterremo il nostro yogurt. Prima di entrare nel dettaglio della preparazione bisogna ancora ragionare su un paio di cose.

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entrambe le tecniche partiamo da un latte a 45°C nel quale vengono inoculati i fermenti, dopodiché per il coagulo intero, si procederà con l’invasettamento al quale seguirà incubazione, raffreddamento e maturazione, mentre per il coagulo rotto si procederà dapprima con l’incubazione, poi con la rottura del coagulo, raffreddamento, riempimento dei vasetti e maturazione. In commercio ci sono molte yogurtiere casalinghe che ci aiutano nel processo di incubazione, ma com’è avvenuto in precedenza, potremmo utilizzare una cassetta di polistirene espanso o il forno, l’importante sarà riuscire a mantenere il composto a temperatura costante per 5/12 ore (chiamatemi Mister Precisione, grazie). Il tempo dipende da diversi fattori, quali la concentrazione di batteri vivi e la velocità di proliferazione, quindi ci orientiamo come al solito con il l’acidità, obiettivo 4,5 ± 0,1 pH. Io in questo caso ho impiegato 5 ore e mezza, tuttavia se avessi lasciato in incubazione per più tempo non è che avrei ottenuto qualcosa di non buono, ma sicuramente più acido. Veniamo ai fermenti, possiamo utilizzare quelli liofilizzati oppure, in una vera ottica casalinga, utilizzeremo uno yogurt commerciale, ma che sia bianco al naturale, niente frutta e niente zuccheri aggiunti. Quando scegliamo uno yogurt commerciale da utilizzare come starter, facciamo attenzione ad acquistarne uno il più possibile lontano dalla data di scadenza. Più si avvicina alla scadenza meno batteri vivi troveremo all’interno.

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Per quanto riguarda il latte va bene praticamente qualsiasi tipo di latte, di qualunque specie animale e con qualunque contenuto di grassi, va da sé che più il latte è grasso più lo yogurt sarà cremoso. In questo caso l’unica accortezza è quella di non utilizzare latte crudo, o meglio, se si ha a disposizione del latte crudo sarà importante pastorizzarlo e durante il raffreddamento ci fermiamo ai 45° C che ci servono.

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Quindi, gli ingredienti: • Latte • Yogurt bianco al naturale (5% del latte)

Strumenti: • Pentola • Yogurtiera (o forno) • Frusta da cucina • Mestolo Ed ecco il mio yogurt a coagulo rotto: Ho cominciato col portare a 45°C ½ litro di latte, ho aggiunto 250 g di yogurt, ho mescolato e lo ho mantenuto a temperatura per 30 minuti. Così ho creato il mio starter. Aggiungo questo composto ad altri 4,5 litri di latte a 45°C, mescolo delicatamente e passo la pentola nel forno. Dopo 5 ore ho testato l’acidità per la prima volta e dopo un’altra mezz’ora ho raggiunto il pH 4,5. Con la frusta ho delicatamente rotto il coagulo per omogeneizzare la struttura e la cremosità del composto. Con il mestolo lo ho travasato in barattolini di vetro che ho posizionato in frigorifero a raffreddare. Dopo 8 ore è pronto da consumare e si presenterà con una leggera velatura superficiale di siero. Ricapitoliamo: 00:00 preparazione dello starter 00:30 inoculazione dello starter nel latte a 45°C e inizio incubazione 06:00 rottura del coagulo 06:05 invasettamento e raffreddamento 14:00 pronto al consumo Dopo questa preparazione lo yogurt conservato in frigorifero andrà consumato entro 3 settimane e se ne conservate un po’ lo potrete utilizzare nuovamente per produrre lo starter per le future preparazioni. Se il vostro obiettivo fosse uno yogurt più compatto, in stile greco per intenderci, dopo la rottura del coagulo potremmo travasare il composto all’interno di un colino foderato con una tela e lasciarlo sgrondare per una mezz’ora. Chiaramente possiamo fare delle variazioni in funzione del nostro gusto personale: potremmo aggiungere dello zucchero in fase di omogeneizzazione per un prodotto più dolce; del sale per un prodotto mortalmente buono sulle patate al bbq; della confettura per un prodotto alla frutta.


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Dieci indispensabili piccoli

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ELETTRODOMESTICI per tutte le vostre avventure di cucina casalinga

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n Futurama – altro capolavoro socioculturale di Matt Groening, accanto alla "famiglia gialla" che tutti conosciamo – c’è una puntata che si intitola “Il nonno di se stesso”. Groening – sfruttando la teoria del paradosso temporale di Albert Einstein – catapulta il protagonista Fry a Roswell, New Mexico, nel 1947. Obiettivo: salvare “suo nonno” e quindi… se stesso. Non vi spoilero troppo, perché è una puntata gustosissima e di acume raro. Recuperatela, se potete.

Alla Fiamma il nostro corso di cucina pratica

SECONDA LEZIONE

Ricordo una scena che mi colpì molto: mi riferisco a quella del professor Fansworth (pro-pro-pro… e ancora pronipote di Fry) che, insieme a Leela, entra in un negozio di elettrodomestici cercando un forno a microonde (per estrarne un circuito che gli avrebbe permesso di comunicare con Fry, disperso nel passato). Il venditore, dicendo “non conosco quella marca!”, cerca di vender loro una cucina con quattro fornelli e un asse da stiro incluso. Vi lascio immaginare – per chi conosce il personaggio – l’indignazione di Leela. Piccola parentesi videoludica terminata, che mi occorreva per portarvi a questo: quanto è cambiata la nostra vita grazie agli elettrodomestici? In modo non quantificabile. Rendono più piacevole la nostra giornata, ci aiutano in piccole azioni quotidiane che altrimenti avremmo rimandato a momenti più facili. Ancora, ci aiutano nell’autostima: quanti tra noi si sentono piccoli chef grazie ad una preparazione ben riuscita, utilizzando gli elettrodomestici giusti?

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Questo mese, sul Magazine, vi portiamo una panoramica dei dieci piccoli elettrodomestici indispensabili da avere in casa se si vogliono affrontare preparazioni leggermente più complesse della media. Vi riportiamo anche i prezzi “minimi” di mercato che trovate online nel mese di Aprile 2021, così da farvi un’idea, magari per un regalo a voi stessi oppure al partner.

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1. FRULLATORE AD IMMERSIONE Il frullatore ad immersione è un oggetto super utile e super interessante da avere in cucina. Generalmente, occupa poco spazio ed è facilmente smontabile; grazie ad esso infatti possiamo sminuzzare, frullare e compiere azioni diverse senza l’ausilio di mezzi più ingombranti; il materiale ideale per i frullatori ad immersione è l’acciaio, per la durabilità e facilità di pulizia delle varie componenti. I prezzi vanno dai 35,00 euro a salire. 2. MACCHINA MANUALE PER LA PASTA Lo sappiamo che in fondo ad ognuno di voi si nasconde una piccola sfoglina in attesa di nascere: ecco, non fatevi mancare la macchina manuale per la pasta. Chiamata anche sfogliatrice, vi permette – da un impasto adatto – di creare pasta per primi piatti ma anche sfoglie per le vostre creazioni di pasticceria. Anche in questo caso, l’acciaio è il materiale fondamentale. I prezzi sul web vanno dai 50,00 euro a salire. 3. IMPASTATRICE PLANETARIA Croce e delizia, chiamata volgarmente anche solo “planetaria”. Senza di essa, molti tra voi non riuscirebbero a riprodurre le nerdissime ricette del nostro Trezzi e dovrebbero affidarsi al vecchio, caro olio di gomito e sudore della fronte. Esistono tantissimi modelli di impastatrice planetaria, anche con potenze differenti: si consigliano planetarie con una potenza abbastanza elevata, versatili, con una capacità che va dai 3 ai 5 litri. Parliamo di un elettrodomestico che può costare anche una bella cifra; il prezzo più basso attualmente reperibile è sui 170,00 euro.

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4. CUTTER Con cutter intendiamo in lingua italiana il classico frullatore a bicchiere. Ne esistono di svariate tipologie, persino con il contenitore a vasca, con molteplici accessori per fare creme o altro. Di solito è di materiale combinato, plastica/acciaio. Si parte da un minimo di 29,00 euro a salire.

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5. THERMOMIX Quando diciamo Thermomix, ricordiamo il Bimby: è sicuramente il modello (o la serie di modelli) che più ha inciso nella storia di questo elettrodomestico. Si tratta di robot da cucina che aiutano sensibilmente i cuochi della situazione. In tantissime cucine stellate se ne vedono: semplifica il lavoro e, se ben utilizzato, può dare risultati niente male. L’impegno


economico per questo tipo di dispositivo è senza ombra di dubbio uno dei più grossi per la cucina casalinga: parliamo di svariate migliaia di euro, ma esiste anche un notevole mercato dell’usato (di modelli precedenti) che può essere agevole per molti. 6. COLTELLO ELETTRICO Il coltello elettronico è l’oggetto che sarà il migliore amico che non sapevi di avere: permette di mantenere la precisione nel taglio, magari di fette di pane molto morbide e di non rovinare lo stesso. Per un coltello elettrico, dovrete sborsare dai 20,00 euro a salire. 7. BILANCIA DIGITALE DI PRECISIONE Abbiamo già affrontato il tema bilancino di precisione nei nostri Fondamenti di Pasticceria: facile rendersi conto come sia praticamente irrinunciabile per tutto. Ci sono ricette dove c’è necessità di dosare al milligrammo gli ingredienti ed è impossibile fare ad occhio. Per una bilancia digitale di precisione, il prezzo base attuale è di 11,00 euro. 8. CENTRIFUGA Negli ultimi anni, abbiamo avuto la rivoluzione della centrifuga: pressoché ignorata per circa tre decadi, dal 2010 circa è stata utilizzata fortemente in svariati regimi alimentari per centrifughe, frullati, che siano essi di frutta che di verdura, alleati del fitness e del “mangiar sano”. Dal canto nostro, ogni tanto non disdegniamo un bell’estratto con apposito estrattore. I prezzi vanno dai 50 euro a salire. 9. TERMOMETRO Siete su BBQ4All Magazine, quindi lo saprete già: il termometro è il nostro grande alleato. Lo utilizziamo per misurare temperature di camera, ma anche al cuore. Ci risulterà sempre utile in cucina. Si parte dalla decina di euro dei termometri più “convenzionali” fino anche ai cento euro per quelli professionali, che daranno giuste soddisfazioni.

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10. GRATTUGIA ELETTRICA Il tempo è poco e non c’è tanta forza? La grattugia elettrica fa al caso vostro, per grattugiare formaggi o altri alimenti. Si va dai 40,00 euro per grattugie non molto resistenti, per finire a quelle in acciaio e con potenza maggiore che arrivano fino ai 200 euro.

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La cucina dei coltelli volanti

Non esiste buona cucina senza buoni coltelli, disse il saggio

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il nostro corso di cucina pratica TERZA LEZIONE

artiamo dalle basi: tra le primissime cose da acquistare per la vostra cucina perfetta, adatta quasi ad ogni preparazione (con un po’ di ingegno e qualche trucchetto, la renderemo una cucina adatta davvero a tutto-tutto), ci sono i coltelli. Dici coltelli, dici un mondo: è facile confondersi tra ceppi, lame, impugnature e quant’altro. Soffro ancora a vedere utilizzati coltelli totalmente inadatti al loro utilizzo. Il cibo stramazza sotto la lama che, a lungo andare, a sua volta si rovina. Anche il taglio del cibo è un rituale, così come la sua preparazione. Perché sminuire questo momento dandogli dozzinalità? BBQ4All è qui per questo, per aiutare a districarvi in questo ulteriore, complicato mondo e magari invogliarvi a studiarne di più.

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COLTELLO: BREVE STORIA DI UN OGGETTO ANTICHISSIMO I coltelli sono tra i primi utensili utilizzati nella storia dell’uomo di cui abbiamo testimonianza. Gli antropologi sostengono che, grazie alla nascita del coltello, l’essere umano abbia potuto affrontare i pericoli della natura e dei propri simili, moltiplicarsi e, quindi, evolversi fino allo stato attuale. Parliamo di coltelli apparsi almeno due milioni e mezzo di anni fa, con la comparsa dell’homo habilis e della sua capacità di interagire con l’ambiente che lo circondava.

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Inizialmente i coltelli erano composti da pietra, nella fattispecie selce oppure ossidiana; successivamente, con l’avvento dei metalli e delle


tecniche di fusione man mano sempre più avanzate, si passò a coltelli in rame, in bronzo, poi ai coltelli dalle lame in ferro ed al contemporaneo acciaio. Non esiste civiltà nel mondo che non abbia i suoi coltelli: questa diffusione praticamente a livello globale la dice lunga sull’evoluzione. Esistono veri e propri collezionisti che vanno a caccia dei coltelli di questa o quella civiltà. Il coltello è un simbolo di lavoro, un simbolo agreste, marittimo, di manovali. Eppure, allo stesso tempo, il coltello è un simbolo di potere: dipende da chi lo impugna, dal materiale, dalla foggia. COLTELLI: TIPOLOGIE ED IDENTIKIT DI QUELLI COMUNI In questo pezzo tratteremo di coltelli composti da lama in acciaio e – in un secondo momento – coltelli in ceramica. Parleremo solo di quelli che dovreste avere in casa: ovvio che esistano anche coltelli damascati, molto belli ed utili, nonché coltelli giapponesi per i più viziosi. Un buon coltello in acciaio dovrà avere queste caratteristiche: • Essere resistente quanto basta all’erosione e all’ossidazione a contatto con i cibi più acidi; • Mantenere il filo della lama quanto più a lungo possibile; • Avere una impugnatura agevole e soprattutto SICURA: la sicurezza della persona viene prima di ogni altra cosa in cucina; • Essere facilmente lavabile in ogni sua parte. BBQ4All Magazine

Dopo questo brevissimo excursus, affilate le lame: conosciamo i coltelli!

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DA PROSCIUTTO/SALMONE

DA CHEF

DA PANE

SFILETTO

MANNAIA

DISOSSO

UNIVERSALE

ARROSTO

PER SBUCCIARE

DA BISTECCA

SPELUCCHINO (di diverse forme)

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FORMAGGI MORBIDI

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FORMAGGI DURI


1. Coltelli da cucina per carne e pesce Dovremmo sul serio averne tutti in casa: i coltelli da cucina per carne e pesce ci impediscono di maltrattare la nostra materia prima, cosa fondamentale. Da appassionati di bbq, siete perfettamente a conoscenza di quanto sia importante il taglio fatto in un certo modo, per permettere l’adeguata cottura. Questi coltelli sono adatti per tagliare salumi, per sfilettare il pesce, spezzare ossa. Sono di varia foggia: alcuni sono piccoli e maneggevoli, piacevoli anche a guardarsi; altri, sono con lame lunghe e sottili adatte per affettare ed altri ancora sono adatti per i grossi pezzi. I principali coltelli da cucina per carne e pesce sono: il coltello per disossare (chiamato anche “scannino”); coltello per sfilettare; coltello da arrosto; coltello da prosciutto; coltello da cuoco; mannaia (sì, proprio quella); coltello alveolato. 2. Coltelli da cucina per frutta e verdura Frutta e verdura spesso hanno bisogno di un intervento “di coltello” per essere utilizzate come ingredienti; molti prodotti della terra possono tranquillamente essere affettati con un coltello comune/universale, mentre altri hanno bisogno del coltello chiamato spelucchino, che aiuta ad incidere, scolpire ma anche sbucciare. Ciò che abbiamo detto riguardo il “buon trattamento” della carne e pesce vale altrettanto per la frutta e la verdura, a maggior ragione che ci troviamo di fronte a materia con una capacità di decomposizione abbastanza rapida. 3. Coltelli per formaggio I coltelli per il formaggio non dovrebbero essere una sciccheria riservata soltanto al tagliere apposito o al carrellino da ristorante. Ogni appassionato dovrebbe averne: essi sono studiati sia per la conformazione e lunghezza della lama sia per l’impugnatura. L’obiettivo è tagliare in maniera precisa e pulita e porzionare il vostro formaggio; cosa che solitamente non accade, utilizzando coltelli inadatti. I coltelli per formaggio più comuni sono: coltello a due manici (per il taglio di tome e pezzi grossi); coltello per formaggio a gomito (per favorire una posizione migliore nel taglio); coltelli per formaggi da tavola, a loro volta divisi in taglio per formaggi teneri, a due punte per raccogliere porzioni, a lama forata per formaggi di media durezza, a picca per incidere le forme.

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4. Coltelli da cucina in ceramica I coltelli da cucina in ceramica costituiscono un plus non indifferente nella nostra pratica quotidiana o periodica. I coltelli in ceramica sono composti principalmente da ossido di zirconio, lo stesso materiale delle protesi dentali, per intenderci. Quali sono i vantaggi di questi coltelli? Innanzitutto, mantengono il filo di lama più a lungo; altro dettaglio non trascurabile, il loro utilizzo non implica l’ossidazione di ciò che stiamo tagliando. Oltre ciò, non contengono nichel: quindi, le persone che soffrono di allergia al nichel non devono preoccuparsi di come è stato tagliato il cibo che stanno mangiando.

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BBQ4All: FROM ZERO TO HERO

Capitolo IV

Le cotture ibride

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Let’s BBQ time!

orna la bella stagione, non ci sono scuse: dovrete conoscere tutte le tecniche di bbq. Per questo ci proponiamo, oggi, di darvi una panoramica generale delle principali cotture ibride che sono sicuramente quelle che andrete sicuramente ad utilizzare maggiormente. Per padroneggiare le cotture bbq e grill è fondamentale capire come il fuoco e, di conseguenza, il calore agiscono nei confronti del cibo. Il primo passo per districarsi tra carboni e fiamme è quello di fare una netta distinzione tra i vari tipi di cottura. Ne esistono di tre tipi: • Ember roasting • Cottura diretta • Cottura indiretta

L’Ember roasting è quella chiamata anche cottura su braci. Il cibo viene appoggiato direttamente sui carboni e il calore diffuso per conduzione cuoce il cibo. Questa tecnica è uno dei metodi più antichi di cottura su fiamma, e ha dei pregi notevoli. Ad esempio, permette di conferire ai cibi una complessità aromatica difficilmente ottenibile con altri metodi. Questo sistema si presta ottimamente per la cottura delle verdure quali ad esempio carciofi, patate, cipolle ed innumerevoli altri ortaggi e verdure. È una tecnica semplice che non richiede particolari accorgimenti: si accende il fuoco, si appoggia il cibo sulle braci e si aspetta che il cibo sia cotto. L’azione combinata di calore e fumo esalterà alcuni aspetti aromatici del cibo. La parte esterna, bruciata, andrà rimossa e all’interno otterremo un vegetale perfettamente cotto e gustoso. Il dover rimuovere la parte esterna bruciata per le verdure rappresenta un vantaggio, mentre per altri tipi di alimenti è un limite insormontabile.

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La cottura diretta, o direct grilling, è una tecnica che permette di cuocere il cibo per irraggiamento. L’alimento viene posto sopra la fonte di calore e, sfruttando il calore trasmesso appunto per irraggiamento, il cibo si cuoce. È la classica cottura su griglia, facile da organizzare, con una semplice reperibilità degli strumenti di cottura, spesso a basso costo. Ci siamo passati tutti: griglie raffazzonate, fiamme ingestibili, birra ghiacciata, cibo bruciacchiato. Questa tecnica di cottura, se vista come unica soluzione, è solo un impedimento e al massimo una scusa per bere in solitudine di fronte le fiamme. Per il griller del futuro la cottura diretta è uno step. È solo un passaggio per ottenere il risultato prefissato.

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Ultima, ma non meno importante, tecnica di cottura e l’Indirect grilling, o cottura indiretta. Questo sistema sfrutta il calore diffuso per convezione dalla fonte di calore. Prerequisito fondamentale per potere cuocere con questo sistema è quello di avere un dispositivo che si possa chiudere. La fonte di calore andrà posta da un lato e il cibo dall’altro. Attraverso i moti convettivi il calore cuocerà il cibo in maniera più lenta e uniforme evitando di bruciacchiarlo. I vantaggi offerti da questa tecnica sono innumerevoli: primo fra tutti, quello di potere controllare la temperatura della camera di cottura. Esattamente come accade con un forno sarà possibile settare il nostro dispositivo a una determinata temperatura.

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Per ottenere il miglior risultato possibile, bisogna anche confrontarsi con il dispositivo che utilizziamo per cuocere: ad esempio su un barbecue a gas dovremmo imparare a regolare i bruciatori, su uno elettrico andrà regolata la potenza delle resistenze, mentre su uno a carbone sarà fondamentale la gestione delle ventole di ingresso e di uscita dell’aria. Di recente, sul mercato si iniziano a vedere anche dei dispositivi a pellet che gestiscono il tutto attraverso dei controller digitali. In ogni caso, a prescindere dal dispositivo che voi utilizziate, la fisica della cottura rimane invariata. Solo la conoscenza dello strumento che utilizziamo ci permetterà di aumentare la nostra precisione e accuratezza nella gestione delle temperature.


L’affumicatura è una tecnica che si sposa perfettamente con le cotture indirette: tramiti appositi dispositivi, è possibile cuocere il cibo sfruttando esclusivamente il fumo scaturito dalla combustione e l’umidità da esso creata nella camera di cottura. Il vantaggio principale di questo tipo tecnica è legato ai lunghi tempi e alle basse temperature; gli anglofoni chiamano queste cotture L&S (Low and Slow). Questo sistema veniva sfruttato sin dall’antichità per impreziosire tagli di carne meno nobili. L’azione del fumo e del calore per lungo tempo permette infatti al tessuto connettivo di sciogliersi lentamente e insaporire la carne. Il risultato finale è quindi una carne tenera e succosa, arricchita dal fumo che ne ha esaltato i pregi. La “Holy trinity” del barbecue (brisket, pulled pork e ribs) fonda i propri principi base sul fumo e sulle lunghe cotture. Tutte e tre le pietanze vengono infatti cotte low&slow e impreziosite con spezie e fumi derivanti da legni pregiati. Una volta acquisita e fatta propria la necessaria conoscenza dei vari tipi di cottura ci si avvicina sempre di più all’obbiettivo finale. Bisogna però ancora fare un piccolo sforzo per ottenere dei veri e propri piatti gourmet. L’utilizzo di una sola tecnica di cottura spesso è insufficiente per ritenere il piatto completo e bisogna destreggiarsi e alternare le varie tecniche fin qui descritte. In base al tipo di carne da cuocere e al risultato atteso, utilizzare un mix delle tecniche appena viste permetterà anche ai neofiti di raggiungere la meta desiderata.

L’esempio didattico per eccellenza sulle cotture ibride è rappresentato dalle costolette di maiale. Ci siamo trovati tutti la domenica alle grigliate selvagge, quelle dove le costine arrivano nel piatto in due versioni: o troppo cotte, dure e secche più del Sahara oppure arrivano crude, rosa al centro che già alla vista si capisce che la salmonella è dietro l’angolo. Sfruttando la cottura ibrida è possibile ottenere, invece, il risultato perfetto. A titolo di esempio vi spieghiamo adesso una delle diverse tecniche ibride per cuocere delle costine di maiale. Senza addentrarci troppo nella ricetta vera e propria vi riassumiamo i principali step da seguire per ottenere delle ottime costine di maiale e soprattutto per permettere anche ai meno esperti di avvicinarsi alle cotture ibride. 1. Il primo passo da fare è quello di settare il vostro dispositivo per un’indiretta, cercando di tenere la camera di cottura in un range che va dai 110°C ai 130°C. 2. Una volta settato il dispositivo ponete le costine lontane dalla fonte di calore e lasciate cuocere lentamente la carne. Indicativamente ci vorranno quasi 5 ore. 3. Dopo circa 3 ore di cottura, aiutandovi con un nebulizzatore, spruzzate un po’ di acqua (o aceto di mele) sulla carne. Ripetete l’operazione dopo circa un’ora. Ciò farà aumentare l’umidità nella camera di cottura e renderà il maiale più succoso. 4. Dopo circa 5 ore aumentate la temperatura del kettle e passate le costine sopra i calore diretto per formare la crosta. Ci vorranno circa 5 minuti per lato. 5. Una volta che si è formata la crosta potete servire le costolette. Come abbiamo detto questa è solo una delle varie tecniche ibride che si possono utilizzare per cuocere non solo le costine ma anche molti altri alimenti, ricordandovi che, in fin dei conti, il nostro amato Revit è di fatto una cottura ibrida.

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Da questa necessità nasce quindi il concetto di cottura ibrida, in cui il connubio di due o più tecniche permette di avere un risultato eccezionale. Il principale motivo per cui si ricorre alla cottura ibrida è quello di ottenere una carne che sia tenera e succosa (tender&juicy) all’interno e che abbia una crosta croccante (crispy) all’esterno. Il modo più classico per gestire queste tecniche è quello di fare cuocere inizialmente un taglio di carne a cottura indiretta (o affumicandolo) e, successivamente una volta raggiunta la temperatura target, passare a una cottura diretta per ottenere una crosticina sapida e saporita. Se venisse utilizzata solo la cottura indiretta il risultato sarebbe sì succulento e tenero, ma il risultato finale potrebbe risultare incompleto poiché potrebbe venire a mancare la componente

croccante, fondamentale nella composizione di un piatto ben riuscito. Al contrario, utilizzando solo una cottura diretta, si otterrebbe una taglio fin troppo croccante, secco e tenace.

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La ricetta scientifica a cura di Gianfranco Lo Cascio

gburancia asata

Se è vero che per essere un buon cristiano bisogna porgere l'altra guancia, è anche vero che Gesù Cristo, con molta intelligenza, di guance ce ne ha date soltanto due. E così come l’essere umano, allo stesso modo il sacro bovide, l’animale disceso sulla terra per sollazzare il nostro palato, presenta ai lati del muso due masse cicciose che danno il meglio di sé quando sposate con un buon vino.

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Sin dai tempi in cui la cottura sottovuoto ha messo uno stinco tra gli stipiti delle cucine professionali, la guancia brasata cotta a bassa temperatura è diventata il lasciapassare per una cena essenziale e sofisticata. Quando cucinata a dovere ovviamente, seguendo gli step che sto per snocciolarvi di seguito

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IL TAGLIO

Partiamo principale.

dall’ingrediente

Le guance, note anche come muscolo massetere, si trovano in tutti gli animali e sono le dirette responsabili della masticazione. Generalmente presenziano fieramente nella lista dei tagli pregiati. Parliamo di muscoletti che lavorano duramente sul campo, triturando costantemente l’erba e, come tali, sono eccellenti se cotte lentamente, per permettere al tessuto connettivo, ai tendini e al grasso di disintegrarsi e rilasciare il loro sapore. Le guance di manzo hanno l'ulteriore vantaggio di essere di dimensioni maneggevoli, pesano generalmente 300g/350g (ciascuna), e possono essere facilmente cotte intere fino a quando non diventano morbide e succose. Potrebbe essere necessario rimuovere lo strato di silver skin (membrana esterna ed argentea) dalla parte superiore della guancia prima della cottura. Fate semplicemente scivolare il coltello tra la “pellicina” e la carne e, angolando la lama verso l'alto, fatela scorrere lungo la membrana per rimuoverla.

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Peso del taglio: 300-400 g Cottura consigliata: brasato

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CUCINARE CON L'ALCOL I cuochi usano vini, birre e distillati come ingredienti in un florilegio di piatti, da zuppe e salse salate e stufati a creme e torte dolci, soufflé e sorbetti. Contribuiscono a sviluppare sapori distintivi, spesso includendo acidità, dolcezza e sapidità (note che derivano dagli acidi glutammico e succinico) e la dimensione aromatica fornita dall'alcol e da altre sostanze volatili. Alcune peculiarità possono costituire una vera sfida per il cuoco, come l'astringenza dei vini rossi e l’anima amaricante della maggior parte delle birre. L'alcol stesso fornisce anche un terzo tipo di liquido - oltre all'acqua e all'olio - in cui le molecole di sapore e colore possono essere estratte e dissolte, così come le molecole reattive che possono combinarsi con altre sostanze nel cibo per generare nuovi aromi e maggiore profondità di sapore. Mentre grandi quantità di alcol tendono a intrappolare altre molecole volatili nel cibo, piccole tracce aumentano la loro volatilità e quindi intensificano l'aroma.

In sostanza, cucinare con l’alcol può essere un’opportunità, ma anche un rischio. Il vino, la birra, i distillati hanno le loro note pungenti, leggermente medicinali, e queste caratteristiche vengono accentuate fino a far emergere coloriture aspre nei cibi caldi. Sta a noi, quindi, far sobbollire le salse per un po' di tempo, per far evaporare quanto più alcol possibile. Nella pirotecnica preparazione chiamata flambé, dal francese “fiammeggiare", si incendiano i vapori riscaldati di liquori e vini ad alta gradazione e si trasformano in fiamme blu tremolanti e scenografiche, che conferiscono un sapore leggermente bruciato al piatto. Tuttavia, nessuna di queste tecniche elimina del tutto l’alcol dal cibo. Test clinici hanno dimostrato che i brasati trattengono circa il 5% dell'alcol aggiunto inizialmente, i piatti cotti brevemente dal 10% al 50% e i flambé fino al 75%.

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Focus #01 L'ASTRINGENZA

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Il gusto di un vino è in gran parte una questione di astringenza e di viscosità. L'astringenza - la parola deriva dal latino adstringere, "legare insieme" - è la sensazione che percepiamo quando i tannini nel vino “tanninizzano” (passatemi questo neologismo), conciano le proteine lubrificanti nella nostra saliva come fa con il cuoio: legano le proteine in modo incrociato e formano piccoli aggregati che rendono la saliva ruvida piuttosto che liscia. Questa sensazione di secchezza e allappamento, insieme alla morbidezza e alla viscosità causata dalla presenza di alcol e altri componenti (nei vini dolci lo zucchero) creano l'identità del corpo del vino, dell’aroma e della gradazione. Nei vini rossi giovani, i tannini possono essere abbastanza palpabili che alcuni li definiscono”masticabili”.


CUCINARE IN UN LIQUIDO

Come mezzo di cottura della carne, l'acqua ha diversi vantaggi. Trasmette il calore rapidamente e uniformemente, la sua temperatura è facilmente regolabile in base alle esigenze del cuoco di turno, e può trasportare e impartire sapori e diventare una salsa. A differenza dell'olio, non può scaldarsi abbastanza per generare sentori di rosolatura sulla superficie della carne; ma le carni possono essere pre-maillardizzate e poi rifinite in liquidi a base d'acqua. Ci sono diversi nomi che descrivono il semplice e versatile metodo di cottura della carne in un liquido, che può essere brodo di carne o di verdure, latte, vino o birra, purea di frutta o verdura. Le varie tecniche comportano differenze nel liquido di cottura usato, nella dimensione dei pezzi di carne, nelle proporzioni relative di carne e liquido, e nella precottura iniziale. Ad esempio, brasati e arrosti implicano tagli più grandi e meno liquido rispetto agli stufati. In tutte quante le metodologie, comunque, la variabile chiave è la temperatura, che dovrebbe essere mantenuta ben al di sotto dell'ebollizione, intorno agli 80°C. Molti brasati e stufati vengono cotti in forno a bassa temperatura, ma le temperature usuali specificate (intendiamo 165°C/175°C) sono abbastanza alte da portare il contenuto di una pentola coperta all'ebollizione. A meno che la pentola non venga lasciata scoperta, il che permette l’evaporazione da raffreddamento (e concentra e crea sapore sulla superficie del liquido), la temperatura del forno dovrebbe essere mantenuta sotto i 93°C. Il braisier originale in Francia era una pentola chiusa seduta e sormontata da alcuni carboni ardenti, da qui il termine “brasare”.

Focus #02 Le parole sono importanti: CUOCERE IN CAMICIA, BRASARE, STUFARE

Questi vari termini per lo stesso processo di base hanno origini molto diverse. L’espressione “in camicia” ha origine medievale; deriva dal francese e indica il "vestito" di albume che avviluppa il tuorlo quando immerso in acqua bollente. Brasare e stufare sono entrambi prestiti del XVIII° secolo, il primo termine viene da “braciere” e si riferisce alla pratica dell’epoca di mettere i carboni sotto e sopra le pentola di cottura, il secondo viene da étuve o stufa, poiché il cibo veniva cotto in stufe o recipienti speciali.

Le carni cotte in un liquido dovrebbero essere lasciate raffreddare in quel liquido, e migliorano se servite a temperature ben al di sotto della temperatura di cottura, a circa 50°C. BBQ4All Magazine

La capacità del tessuto della carne di trattenere l'acqua aumenta quando questa si raffredda, ne consegue che riassorbirà parte del liquido che ha perso durante la cottura

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CARNI TENERE:

cottura sorprendentemente rapida. L'acqua calda è un trasmettitore di calore così efficace che cuoce molto rapidamente i tagli di carne sottili e teneri. Braciole, petti di pollo, bistecche e filetti di pesce sono generalmente tutti pronti in pochi minuti. Se vengono rosolati prima in una padella per sviluppare la famosa crosticina brunita, potrebbero aver bisogno solo di un minuto o due per finire la cottura. La prassi suggerisce di portare il liquido di brasatura a ebollizione, aggiungere la carne per distruggere i batteri presenti in superficie, e dopo pochi secondi aggiungere del liquido freddo per riportare la padella a 80°C, in modo che le porzioni esterne della carne non si surriscaldino e ci sia una finestra di tempo più ampia durante la quale il cuore può arrivare alla temperatura target. Se il liquido deve essere bollito per concentrare il sapore o per rendere più densa la salsa, si toglie prima la carne.

TAGLI DURI E GRANDI: più lento significa anche più umido.

Le carni con una quantità significativa di tessuto connettivo duro devono essere cotte ad un minimo di 70°C/80°C per sciogliere il loro collagene in gelatina, ma questo intervallo di temperatura è ben al di sopra dei 60°C/65°C, range di temperatura in cui le fibre muscolari strizzano via i loro succhi. Quindi rendere succulente le carni dure diventa una sfida. La chiave è cucinare lentamente, quanto basta per innescare la dissoluzione del collagene o appena sopra, per minimizzare l’asciugatura delle fibre. La carne deve essere controllata regolarmente e tolta dal calore non appena risulta tenera: dovreste riuscire a tagliarla con una forchetta. Il tessuto connettivo stesso può aiutare, perché una volta sciolto, la sua gelatina trattiene una parte del dei succhi spremuti dalle fibre muscolari e quindi conferisce una sorta di succulenza alla carne. Gli stinchi, le spalle e le guance degli animali sono ricchi di collagene e con questi tagli si preparano dei brasati da applausi.

Cuocere i tagli duri oltre il ben cotto

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I tagli di carne “duri” non devono per forza risultare sgradevoli. Possono diventare teneri e fondenti, ma solo se cotti a puntino. Questo sembra, sulle prime se guardato da lontano, in contraddizione con la maggior parte delle cose che sentite dire sulla carne, in base alle quali più tempo questa trascorre in ambiente caldo, più diventa incartapecorita e immasticabile.

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linee guida per

BRASATI E STUFATI SUCCULENTI

Un brasato o uno stufato umido e tenero è il risultato dell'attenzione cumulativa del cuoco ai diversi dettagli della procedura. La regola più importante? Mai lessare la carne. Poi ce ne sono altre sette. 1. Mantenere la carne il più possibile intatta per minimizzare le superfici di taglio attraverso le quali i fluidi possono fuoriuscire. 2. Se la carne deve essere sezionata, tagliarla in pezzi relativamente grandi, almeno 2,5 cm per lato. 3. Rosolare la carne molto velocemente in una padella calda in modo che al cuore si scaldi solo leggermente. Questo abbatte la carica batterica superficiale della carne e crea il sapore. 4. Avviare la pentola o il tegame con la carne e il liquido di cottura in forno freddo, con il coperchio socchiuso per consentire un po' di evaporazione, e impostare il termostato sui 93°C, in modo che riscaldi lo stufato a circa 50°C lentamente, in circa due ore. 5. Alzare la temperatura del forno a 120°C in modo che lo stufato si riscaldi lentamente da 50°C a 80°C. 6. Dopo un'ora, controllare la carne ogni mezz'ora e fermare la cottura quando riuscite a trafiggerla agilmente con i rebbi di una forchetta. Lasciate raffreddare la carne nel tegame, dove riassorbirà un po' di liquido. 7. Il liquido dovrà probabilmente essere ridotto ad alta temperatura per migliorare il sapore e la consistenza. Rimuovere prima la carne, però.

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Uno degli ingredienti più importanti nei brasati e negli stufati è il tempo - un'ora o due - durante il quale il cuoco gestisce attentamente l'aumento della temperatura della carne fino ad accompagnarla in una cottura a fuoco lento. Il tempo che la carne passa sotto i 50°C equivale a un periodo di “invecchiamento” accelerato che indebolisce il tessuto connettivo e riduce il tempo necessario all’asciugatura delle fibre. Un segno che la carne brasata o stufata è stata riscaldata molto delicatamente e gradualmente è il colore rosato al cuore, anche se si presenta ben cotta: lo stesso riscaldamento lento che permette agli enzimi della carne di intenerire e insaporire la carne permette anche alla maggior parte del pigmento della mioglobina di rimanere intatta.

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COME FUNZIONA LA SCIENZA DEI BRASATI

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La carne consiste principalmente di quattro componenti: fibra muscolare, tessuto connettivo, grasso e molta acqua. Le fibre, che sono lunghe, sottili e raggruppate in fasci allungati, creano la "grana" della carne. Anche se piccole negli animali giovani, le fibre muscolari crescono sia con l'età che con l'esercizio. Sono generalmente tenere a causa del loro alto contenuto d'acqua, che si aggira intorno al 75%.

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In cottura, i filamenti delle fibre muscolari cominciano a ridursi a temperature differenti: prima in diametro tra i 40°C e i 63°C, e poi in lunghezza sopra i 63°C gradi, espellendo l'umidità mentre si contraggono, come quando si strizza un asciugamano bagnato. Il tasso di perdita di umidità diventa significativo intorno ai 60°C, tuttavia, quando il tessuto connettivo che circonda le fibre muscolari inizia a contrarsi, comprime i fasci ancora più saldamente. Questo è il motivo per cui i tagli teneri sono molto più buoni quando cucinati “al sangue” o a media cottura, prima che questo processo abbia inizio. Il tessuto connettivo che circonda i fasci di fibre è una membrana traslucida che consiste di cellule e filamenti proteici e fornisce struttura e supporto ai muscoli. Il collagene è la proteina predominante nel tessuto connettivo e si trova in tutto l’animale, dai tendini dei muscoli agli zoccoli. In contrasto con le fibre muscolari, il collagene è composto da tre catene proteiche strettamente avvolte in un'elica a triplo filamento e, quindi, risulta immangiabile quando è crudo. In cottura, questa robusta proteina rimane in gran parte inalterata quando viene

riscaldata a temperature inferiori ai 60°C. È solo quando la carne supera questa temperatura che il collagene comincia a rilassarsi, srotolandosi in singoli sfilacci. Se tenuto a questa temperatura - o, idealmente, a una un po' più alta (preferibilmente 71°C/82°C) per un lungo periodo di tempo, la tripla elica del collagene si srotola per formare gelatina, una proteina a singolo filamento in grado di trattenere fino a 10 volte il suo peso in umidità, intenerire la carne e conferire densità e ricchezza alla salsa del brasato. La conversione del collagene in gelatina dipende sia dalla temperatura che dal tempo; più a lungo il cibo viene tenuto nel range di temperatura ideale, più il collagene si scompone. La cottura prolungata distrugge i tagli magri con poco collagene (come il filetto di maiale) perché, man mano che le fibre muscolari si contraggono, cedono costantemente i loro succhi e diventano più secche e dure. Pertanto, i tagli con poco collagene dovrebbero essere cucinati tenendo conto del mantenimento dell'umidità, con una temperatura finale al cuore non più alta di 54°C per il manzo o 66°C per il maiale. Ma i tagli ricchi di collagene sono troppo duri da mangiare se cotti al sangue o medi. La cottura prolungata migliora effettivamente la consistenza dei tagli duri con molto collagene (come la punta di petto di manzo), perché permette a questa componendte, presente in maniera invadente, di trasformarsi in gelatina, trattenendo significativamente più umidità, e alle fibre muscolari tese di rilassarsi un po un po', richiamando l'umidità all'interno della ciccia.


Focus #03:

DAL COLLAGENE ALLA GELATINA: IL MELTING DOWN

A temperature superiori ai 60°C, la tripla elica del collagene si srotola per formare tre filamenti di gelatina. Ma date un’occhiata alla tabella che segue per capire cosa succede alla carne quando esposta a determinati range di temperatura. G L I E F F E T T I D E L C A L O R E S U L L E P R O T E I N E, S U L CO L O R E E S U L L A S T R U T T U R A D E L L A C A R N E Temp.

Livello di cottura

Aspetto della carne

Soffice al tocco, liscia, umida, traslucida, colore rosso brillante.

Attività degli enzimi proteolitici

Fibre muscolari

Attivi.

Iniziano a sbrogliarsi.

Rare

Inizia a rassodarsi e diviene opaca.

Molto attivi.

La miosina inizia a denaturare e coagulare.

Medium rare

Elastica al tocco, meno liscia, più fibrosa. Rilascia succhi quando tagliata. Colore rosso chiaro, opaca.

Denaturati, diventano inattivi e coagulano.

Miosina coagulata.

Medium

Inizia a restringersi e perdere elasticità. Trasudano i succhi. ll colore rosso sfuma a rosa.

Medium well

Continua a restringersi, poca elasticità. Pochi succhi liberi. Il rosa vira al grigliomarrone.

70°C

Well

Continua a restringere. Solido. Pochi succhi. Colore grigio-marrone.

75°C

Well

40°C

Raw

45°C

Bleu

50°C

55°C

60°C

65°C

80°C

Well

85°C

Well Well

Intatto.

Acqua legata alle proteine

Inizia a separarsi dalle proteine e accumularsi nelle cellule.

Mioglobina

Normale.

Separazione e l'accumulo accellerano.

La guaina di collagene inizia a contrarsi.

Le altre proteine Il collagene si delle fibre contrae, strizzando denaturano le cellule. e coagulano.

Inizia a dissolversi.

I succhi fuoriescono dalle cellule per la pressione del collagene.

Inizia a denaturare.

Il flusso cessa.

Denaturata e coagulata.

L'actina denatura e coagula. Il contenuto delle cellule diventa compatto. Le fibre si separano facilmente una dall'altra.

Si dissolve rapidamente.

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90°C

Connettivo e collagene

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LA GUANCIA BRASATA SCIENTIFICA Ingredienti per sei persone

Per la carne • 2 guance Crimson Crest 5+ Wagyu F1 Crossbreed (da circa 360 g) • Olio extravergine di oliva q.b. • 2 spicchi d’aglio • Bacche di ginepro • Sale q.b. • Pepe q.b. • Qualche cubetto di ghiaccio (almeno 4) Per il fondo • 800 g di stew Blue Ox Prime di Black Angus (potete usare ritagli, ossa, cartilagini) • 2 rametti di timo • 2 bacche di ginepro • 1 chiodo di garofano • 1 l di vino rosso (Amarone, Primitivo, Barolo) • 160 g di carote • 180 g di cipolle rosse • 100 g di sedano

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Per la finitura • Purè di patate o polenta • Peperoni cruschi • Riduzione di vino rosso

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01. LA PROCEDURA

C’è la carne e c’è il suo fondo di cottura a base di Amarone. Contrariamente alla preparazione tradizionale, che nessuno vi vieta di fare, questi due elementi verranno divisi e cotti separatamente. Prepareremo il fondo col vino in un tegame, insieme allo stew, e la guancia sottovuoto insieme ai suoi condimenti. Questo per assicurarci di cuocere le guancette a puntino, evitare di insacchettare il vino (la busta si gonfierebbe) e stratificare i sapori, unendo i cubetti di carne alla nappatura aromatica, ricca di gelatina e corroborante di vino.

02. LA CARNE

Cuoceremo la carne sottovuoto, prima condendola e poi aggiungendo poco ghiaccio. Ovviamente vi do i parametri da tenere in considerazione per le mie guancette, perché sono le mie e la conosco bene. Prendete le guance e rifilatele, eliminando il grasso esterno e la silverskin (la membrana argentea esterna). Ungete ben bene con olio, aggiungete sale, pepe, aglio, ginepro e qualche cubetto di ghiaccio. Mettete i pezzi di carne in un sacchetto e preriscaldate il sous vide a 82°C. Quando sarà arrivato a temperatura, immergete il sacchetto della carne e cuocete per 8 ore. Avete più tempo a disposizione? Cuocete a 70°C per 24 ore.

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03. IL FONDO

Prepareremo il fondo con carni ricche di connettivo, perché contiene un elemento importante che darà un gusto esplosivo alla preparazione. Recuperate lo step o riducete la carne in pezzi, ungete con olio extravergine di oliva e tostate a temperatura infernale, in padella o in forno a 230°C. Ormai sapete come funziona. La reazione di Maillard è quella reazione chimico-fisica che si manifesta quando proteine e zuccheri riducenti, in totale assenza di acqua, vengono esposti ad una fonte di calore. Queste molecole si riallineano e formano nuove molecole, non esistenti in natura, molto profumate, gustose e dal colore ambrato. E come otteniamo una crosta di cauterizzazione perfetta? 1. In totale assenza di umidità. 2. A temperatura della superficie di contatto di almeno 140°C 3. In presenza di zuccheri riducenti. Le avete tutte e tre.

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Una volta formata la crosta brunita, aggiungete una mirepoix di sedano, carota, cipolla, bagnate con il vino e lasciate ridurre (oppure versatelo nella teglia e trasferite tutto in un tegame con la dadolata di verdure). Dealcolate (il calore farà evaporare la parte alcolica) e fate ridurre della metà, a fuoco dolcissimo: in questo modo la carne avrà il tempo di scaricare tutta la gelatina. Raffreddate il più velocemente possibile e filtrate, rimuovendo tutta la carne. Raccogliete il liquido e le verdure che saranno rimaste intrappolate nel colino e frullate con il mixer ad immersione. Mettete da parte.

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04. ASSEMBLAGGIO

Una volta pronta la carne, rimettetela nel tegame con i succhi che vi ritroverete nel sacchetto e con il fondo di cottura. Fate ridurre a fuoco moderato finché non vela il cucchiaio. Dovrà essere molto viscoso. Fidatevi perché ci sarà dentro tutto il connettivo rilasciato dalla carne che tenderà a gelificare. Quando il fondo sarà pronto potrete assemblare gli elementi. Il sughino vi sembra troppo lento? Preparate una miscela di acqua e amido di mais, a saturazione. In parole povere prendete un bicchiere d’acqua fredda e aggiungete l’amido, agitate e continuate ad aggiungere la polvere fin quando non si deposita sul fondo. Aggiungete la miscela nel tegame, un cucchiaio alla volta, aspettate che raggiunga i 75°C: a quel punto comincerà a gelatinizzare e ad addensare la salsa. Spegnete quando il sughino avrà raggiunto la consistenza che vi piace. Tagliate le guance a cubetti, nappate col fondo e servite con quenelle di polenta o puré di patate, il tutto sormontato da peperoni cruschi sbriciolati e poche gocce di riduzione di vino. Per ottenerla vi basterà ridurre il vino in un pentolino, fino a quando non avrà ottenuto una consistenza sciropposa. Come disse il vate Guzzanti, se ti do uno schiaffo, porgi l'altra guancia, se no pure la stessa che cambio io la mano. Per mangiarla, mica per schiaffeggiarvi.

Gianfranco Lo Cascio BBQ4All Magazine 109


Di rancore vive il mondo del grilling.

Seguo a cura di Emiliano Nencioni

Frecciatine, ripicche, diffide, vendette, schieramenti, paranoie, complotti, infiltrati, odio sproporzionato. Al momento in cui scrivo la situazione del grilling italiano è questa, con un continuo, sotterraneo e strisciante botta e risposta fra appartenenti a “circoli” diversi, singole entità rancorose e macrogruppi ben definiti.

Aprile 2021

Sarebbe forse possibile metterci una pietra sopra, appianare, accettare le varie differenze di metodo e convinzioni, e semplicemente andare avanti con maggiore armonia, per una sorta di “bene del grilling”?

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BBQ4All Magazine

Forgive Thy Brother (particolare) Scott Erickson

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Probabilmente no. Non è così immediato come può sembrare ad un primo approccio, per complicazioni quasi antropologiche, radicate più di quanto si pensi nella cultura occidentale. Seppellire l’ascia di guerra, per quanto si possa parlare di guerra in un ambito che tratta di bistecche e pulled pork, comporta una serie massiccia di azioni, prese di consapevolezza e riflessioni non banali: riassumendo in maniera fin troppo veloce e ingrata, per chi se lo fosse perso, il mondo del grilling tricolore è flagellato da divisioni e tormenti interiori che, trascendendo la comune tifoseria, voglia di identificarsi con un gruppo e una forse pallidamente giustificabile goliardia, sono arrivati alla palese ingiuria, voglia di odiare, voglia di ridicolizzare, voglia di far perdere credibilità, nel nome di un’aderenza a questo o quel “partito” braciante. “Partiti”, va detto, che a parte piccole eccezioni ormai sono aziende, partite IVA, negozi, associazioni che di fatto non alimentano più questi scontri, ma si limitano a coltivare in maniera plausibile il proprio business. Tuttavia l’odio interpersonale e la voglia di scrivere cattiverie persistono, sia come iniziativa del singolo, sia come pratica velatamente “non troppo osteggiata” dai vari capi schieramento. Questa è la situazione, da anni. Sarei curioso di sapere se la stessa cosa succede fuori dallo Stivale, o fuori dall’Europa: prima o poi dovrò verificare con una piccola inchiesta.

Aprile 2021

Ogni linea di confine accettabile è stata oltrepassata talmente di lunga misura che per tornare ad una situazione decentemente pacifica sembra indispensabile uno degli atti più faticosi della struttura

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mentale umana: il perdono. Perdonarsi, resettare, ricominciare con strategie migliori. Ma chi perdona chi? Chi perdona per primo? Come posso accettare il tuo perdono se penso che TU debba accettare il mio, casomai? E qui son dolori. Nell’intero corpus freudiano non si parla delle meccaniche del perdono se non una manciata di volte, e mai in termini tecnici: in generale negli studi occidentali si presta più attenzione ai lati più oscuri e problematici dell’animo umano, scervellandosi maggiormente a cercare di capire i motivi dell’aggressività, delle azioni che rechino danno, male, svantaggio, e molto meno peso si è, storicamente, assegnato ai comportamenti che possano portare a uscire, di fatto, da violenze, sopraffazioni e traumi. L’enorme caratterizzazione spirituale dell’atto di perdonare tipica delle maggiori religioni monoteistiche ha poi reso tutto meno affrontabile dal lato strategico, comportamentale e “materiale”, ricoprendo tutto con una pesante coltre morale, con aspettative e obblighi tipici di ogni convinzione teologica. In maniera strettamente analitica, materiale e deterministica potremmo sforzarci ad affermare che il perdonare implichi il definire la situazione e il rapporto tra due o più persone in termini in cui i torti e le ragioni sono chiari e accettati da ambo le parti. Già qui, i più navigati avranno subito compreso, andiamo a gambe all’aria.

Keith Haring


“No, avete iniziato voi” “No, io l’ho detto solo perchè i tuoi sfottevano sempre” “No, siete voi che dite le cose fra le righe” “No, è sempre lui che va a commentare i post più in vista per denigrarci” “No, sono anni che non ci date pace, e allora reagiamo” “No, siete voi ad avere la denuncia facile per un po’ di sana goliardia” “No, avete iniziato voi a tirare in ballo famiglie, madri, stipendi” “No, in realtà è lui che scrive sempre quelle cose irritanti su quella rubrica lì” “Si, ma infatti lui non si sopporta” “Ok, allora su di lui siamo d’accordo” ...Mi sono lasciato un attimo trasportare dagli esempi, ma credo che ci siamo capiti. Insomma, siamo sempre fra noi sette o otto lettori, dai. In una situazione così caotica, indecisa e sorretta da innumerevoli ripicche, perdonarsi non è esattamente l’atto più intuitivo e spontaneo. Anzi, l’iniziativa di una sola delle parti che pensi di partire a spron battuto con una campagna di perdono potrebbe essere vista molto molto male, fraintesa e sicuramente stigmatizzata. Ora che ci penso, qualcosa del genere è stata già tentata, tempo addietro, con risultati scoraggianti.

La questione del perdono come dilemma morale è stata trattata - certamente con pesi, implicazioni e meriti ben diversi da queste due paginette di pseudo-gossip attorno alla brace - da Simon Wiesenthal nel libro “Il Girasole - le possibilità e i limiti del perdono”. Wiesenthal, superstite dell’olocausto, ebreo, scrittore, dedicò la seconda parte della sua vita all’investigazione, per portare a processo quanti più nazisti latitanti possibile: di fatto fu il primo, originale “Nazi Hunter”, prima di supereroi e serie TV. Ne “Il Girasole” tuttavia, pone al lettore, e all’umanità a lui contemporanea, un quesito profondissimo, che cercherò di illustrare senza fare troppi spoiler: un soldato nazista, ormai morente, chiede a Wiesenthal stesso, come rappresentante di un intero popolo, il perdono per le atrocità commesse in guerra; Wiesenthal non risponde, ritirandosi dalla battaglia introspettiva e morale, e porgendo il dilemma al lettore: è giusto perdonare? In una civiltà ormai abituata alla giustizia retributiva, dove ci si aspetta una sanzione proporzionale all’entità del crimine, il perdono è di fatto un’ingiustizia? É quindi solo una forma partecipata di giustizia l’unica veste tollerabile di perdono? Probabilmente il principale precursore di un perdono sensato è il pentimento. No, non parlerò di aspetti mistici o morali. Quando una parte annuncia un pentimento, l’altra parte può perdonare senza che si sospetti di perdono vendicativo; a questo punto l’atto può essere ripetuto anche a parti inverse, portando a una dissoluzione reale e (ottimisticamente par-

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Il rischio è che il perdono venga visto come un atto non dovuto. Di fatto, un’ulteriore violenza, finemente camuffata. Si incapperebbe molto probabilmente in una

presa di posizione percepita come un perdono vendicativo, un ossimoro abbagliante ottenuto quando il “perdonante” esprime i propri sentimenti negativi tramite un loro apparente, forzato, forse pianificato superamento. “Da oggi noi di questo gruppo facciamo pace con quelli dell’altro gruppo, che saranno i benvenuti qua, anche se hanno tanto sbagliato in passato” “Lo fai solo per avere più potenziali clienti!” “Basta con queste continue lotte, da oggi siamo aperti a qualsiasi idea sulla cottura della bistecca, anche a quelli lì” “Lo fai solo per vendere più padelle!” E via e via di questo passo. Irrealizzabile.

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lando) definitiva del torto e del sentimento di vendetta. Senza pentimento non c’è ammissione di colpa, e il perdono è in questo modo imposto, diventando di fatto l’ennesima soverchieria, l’ennesimo sopruso di cui lagnarsi in interminabili commenti ripetitivi, reiterati, pleonastici, mortalmente noiosi. É quasi inevitabile che l'unica reazione “digitalmente attuabile” e minimamente avvicinabile al perdono, in un contesto di social network, di continui copia incolla e screenshot che riportano a galla vecchie ferite, sia l’ignorarsi. Continuare così a scrivere, a leggere, a sperimentare tecniche e convinzioni, mantenendo la ferrea volontà di non rispondere, non immischiarsi, non continuare ad alimentare la fornace delle ripicche e dell’odio; passare oltre, rendersi impermeabili, ignifughi. Un isolamento che è l’antitesi perfetta di quello che dovrebbe essere un “social” network, mi rendo conto. Ma se avete soluzioni più facili o più immediate, dite pure, proponete.

Aprile 2021

Per Hannah Arendt, più volte citata in contesti variamente faceti qui nella Seguo, il perdono “può essere un antidoto prezioso contro l’angoscia dell’irreversibilità dell’esistenza”. Non è escluso che torni a parlare della faccenda, stavolta dal punto di vista della Arendt, approfondendo il concetto dell’illusione di poter essere individui autarchici. Appena trovo una maniera di fare parallelismi stiracchiati col mondo del grilling, ovviamente!

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Emiliano Nencioni Mattina a Cape Cod (particolare) Edward Hopper


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CLUB

Diretta m e n t e da lla co m m u n i ty di ma e s t ri d i ba rbecue pi ù grande d’I tali a, nasce i l prest i gi oso club c h e ti offre la possi bi li tà di avere: a ccesso p ri or i tar i o al meg astore, dove pot ra i fa re ra zzi e m ent re tutt i gli a lt ri “ sono i n coda ” ; u na p rogra m ma zi o n e i n telli g en te dei tu oi acq u i sti gra zi e a l c re di to m e nsi le prepa gato (scegli tu quanto); u n coa c h pr i vato c h e ti g u i derà n e l fa rt i vi ve re l’ e s p eri enza

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H T T PS : / / C LU B M E G ASTO R E . B BQ 4 A L L. I T e c h i e di i n formazi oni pi ù detta gli at e, pr i ma c h e i coac h fi ni sca no e le i scri zi oni chi uda no.


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