BBQ4All Magazine numero 29 - Maggio 2021

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N°29/ANNO 3 - MAGGIO 2021

L'EDITORIALE DI GIANFRANCO LO CASCIO

Assaggiare la carne: una guida completa PARTE II

Picnic

STORIA E COSTUME DI MANGIARE AL FRESCO

LA DISPENSA AMERICANA

Diffidate dalla farina FROM ZERO TO HERO

Il bello della diretta

LA RICETTA SCIENTIFICA

Pasta al pomodoro


Direttore Editoriale Rossella Neiadin

Redattore Capo Michela Bongiorni

Redazione

Enio Berton Virgilio Brunetti Tommaso Buccafurri Nunzia Clemente Roberto Dal Bosco Salvatore Di Mento Luca Gallozza Marco Gerometta Mariangela Ibba Gianfranco Lo Cascio Riccardo Meniconi Giovanni Minelli Emiliano Nencioni Elena Ninotti Andrea Spaggiari Alessandro Trezzi Carlo Trono Paolo Tucci Alex Vasile Caterina Vianello Alberto Zonghetti

Realizzazione Grafica

Impaginazione Carlo Trono Illustrazioni di Eleonora Castagna e Ozzy Bellesi Fotografie di Rossella Neiadin, Luca Gallozza, Tommaso Buccafurri, Elisa Giuli, Emiliano Nencioni

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IN DI Rubriche

Editoriale - Assaggiare la carne: una guida completa - parte II

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Portfolio - Picnic - storia e costume di mangiare "al fresco"

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Il taglio del mese - Lo stinco

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Ricette

Bruschetta al polpo, 'nduja, stracciatella e limone

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Smoked beef jerky

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Pomodori ripieni alla romana

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Tonno di manzo

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Pulled pork shank

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Panino con polpo grigliato, crema di patate e cialde di corallo

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Insalata di riso

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Catalana di granseola o granciporro

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Tartare di manzo e peperoni imbottiti

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Tagliata di manzo con Parmigiano Reggiano

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Cheesecake alle fragole

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Approfondimenti

Arte Bianca - Ravazzate - gastronomia siciliana

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Across the pond - Diffidate della farina

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L'Arte Casearia - L'assaggio di un formaggio

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Approfondimento - Consumi di carne bovina

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De gustibus- Gli chef della realtà instagrammata

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From Zero to Hero - Andiamo in diretta

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La ricetta scientifica - Pasta al pomodoro

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Seguo - Sono stanco e stufo di essere stanco e stufo

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Editoriale di Gianfranco Lo Cascio

Assaggiare la carne: una guida completa PARTE II

Buòno (pop. bòno) agg. [lat. bŏnus] (premesso al sostantivo, si tronca in buon davanti a vocale e davanti a consonante seguita da vocale o da l o da r). In particolare, gradito ai sensi del palato o dell’olfatto: buon sapore, buon odore; gli piacciono i b. bocconi; saper di b., mandare buon odore; lasciare la bocca b., di cibi o bevande che lasciano in bocca un sapore gradevole.

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e c’è una cosa che non sopporto è quando mi dicono che un cibo è buono. Buono riferito ad un piatto non significa nulla, non descrive nessuna dominante di sapore, non sottolinea nessuna sfumatura gustativa. Buono è l’aggettivo caro agli ignavi, a chi ha paura di esprimere un concetto, a chi teme di deludere l’artefice dell’oggetto protagonista della degustazione. Se mi dicessero che le bistecche GLC Top Selection sono soltanto “buone” un po’ mi incazzerei. Nessuno cerca, sceglie, cuoce bistecche che possono aspirare soltanto ad un laconico “buono”, magari pronunciato a fil di voce, con lo sguardo puntato verso il basso. Tutti vogliono e si meritano una bistecca eccezionale, scioglievole, goduriosa, sapida, succosa. Non buona. E come si fa a capire se quella che abbiamo nel piatto è una bistecca da strapparsi i vestiti di dosso? Io una risposta ce l’ho, è dispiegata proprio qui, tra le parole di questo articolo. Se volete iniziare il vostro percorso per diventare esperti di ciccia stellare, seguite attentamente i miei consigli, e per questi due motivi. PRIMO MOTIVO Vi guiderò in un serie di appuntamenti, spiegandovi bene che cosa aspettarvi e che cosa cercare nel sapore di una ribeye o di una fiorentina. SECONDO MOTIVO Vi garantirò la piena soddisfazione, o il rimborso totale di ogni centesimo che spenderete per fare i vostri esperimenti.

Nel numero del Magazine di Aprile 2021 abbiamo parlato di qualità della carne (erogata, percepita e attesa), di strumenti necessari per l’assaggio e nello specifico di affettatrici. In questo numero ci concentreremo su altri utensili coinvolti nella delicata fase della degustazione, a partire dal coltello. È lo strumento che ci accompagna da più lustri, rimane imbattuto per pulire, sezionare e servire la carne. C’è della poesia nascosta tra la lama e l’eleganza della mano che lo impugna: tagliare fettine regolari, più o meno sottili e senza difetti, è un’abilità che si acquisisce dopo anni di esercizio e pratica. Il taglio di carne deve risultare quanto più preciso possibile, chirurgico oserei dire. Ma i coltelli ideali per l’operazione si differenziano in base allo stile di taglio da realizzare. Un coltello è formato da più parti, tutte contribuiscono ad accrescerne l’efficacia: il filo è responsabile della capacità di taglio; punta, costola e tallone lo rendono pratico e tagliente; l’impugnatura è ciò che ne fa uno strumento facile da impugnare. La lama deve essere rigorosamente liscia, la dimensione può variare in base all’applicazione finale. Per quanto riguarda i materiali di fabbricazione, l’obsoleto ferro è stato sostituito dall’acciaio inox, poiché non trasferisce alcun aroma e si può sanificare in totale sicurezza. Le lame moderne, come quelle selezionate da me, vengono stampate in leghe con una finissima granulometria dei carburi, che le rende affilate e affidabili. Oltre al coltello destinato al pre-trattamento della carne, è fondamentale fornire al commensale la

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Siete pronti per la seconda parte della guida all’assaggio di una bistecca? Bene, iniziamo.

Attrezzi del mestiere: il coltello

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lama giusta, tagliente e comoda da impugnare. Non trovate che i coltelli da ristorante medio, quelli spessi, pesanti e con la punta arrotondata, siano chincaglie forgiate dal demonio? Il carnivoro gourmet sa che per gustare una bistecca nella sua interezza c’è bisogno di un coltello dedicato, piacevole da impugnare, guardare o soltanto possedere. Il coltello da bistecca è piccolo, tagliente come un bisturi e col manico in osso/corno.

Scegliere piatto e forchetta Vi sembrerà banale, ma colore e materiale di piatti e stoviglie influenzano sensibilmente la degustazione di un qualsiasi piatto o ingrediente. Per questo motivo vi consiglio di utilizzare piatti bianchi e in ceramica (o qualsiasi materiale inerte, che non assorba odori o sapori). La forchetta rigorosamente in acciaio e coi rebbi belli appuntiti, per fendere e infilzare la carne al primo colpo.

A tavola: il servizio Chi meglio di noi griller sa che la ciccia, cruda o cotta che sia, ha una temperatura oscillante e si ossida se esposta all’aria. Per quanto riguarda la tartare, è importante servirla immediatamente, mentre la bistecca ha bisogno di quel suo breve periodo di riposo (il rest), che scongiura la formazione dell’acquitrino da scena del crimine sul tagliere. La carne va sempre conservata sotto i 4°C, preferibilmente a 0°C o negli scomparti carne di cui sono dotati i frigoriferi moderni. Vi sconsiglio, in ogni caso, di tenerla stipata lì troppi giorni. Perché tutte le volte che i vostri figli aprono lo sportellone per prendere il Kinder Pinguì, la temperatura interna del refrigeratore si alza, compromettendo la qualità delle vostre preziosissime bistecche. In quel caso è sempre preferibile congelare o passare in abbattitore e poi in freezer. Avete appena aperto la confezione di una ribeye? Tenetela a temperatura ambiente o sciacquatela sotto l’acqua corrente (fredda), per eliminare l’eventuale miosina presente nella vaschetta.

L’analisi sensoriale

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Marco, Giuseppe e Francesco sono seduti allo stesso tavolo e stanno per addentare la stessa ribeye Blue Ox di Black Angus. Sebbene si tratti di fette dello stesso muscolo e della stessa mucca, quella bistecca racconterà tre versioni differenti della stessa storia. La carne è una materia prima complicata, che muta nei profumi e nelle consistenze in base all’esposizione all’aria e alla temperatura di servizio. Volubile e capriccioso è anche il palato di chi assapora, poiché le percezioni nasali e le emozioni cambiano in base agli eventi pregressi e circostanti.

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Valutare una bistecca in 5 mosse come un Pro STEP N.1: OSSERVATE LA CARNE CRUDA Premessa: questo è quello che fa un assaggiatore di carne professionista. Guardate con attenzione il lato del taglio della carne, che dovrà essere rigorosamente contro-fibra, possibilmente sotto una luce naturale di media intensità. Potrete osservare la disposizione dei fasci, il grasso e la quantità di tessuto connettivo, oltre al colore. La superficie può essere più o meno brillante, nel caso di carni poco frollate potreste notare delle piccole gocce d’acqua che affiorano. Ma quello che deve catturare la vostra attenzione è la marezzatura, ovvero il quantitativo di grasso intramuscolare, responsabile di consistenza e sapore. Un altro parametro da non trascurare è la plasticità del taglio: è denso o si piega con facilità? Ovviamente la compattezza conclamata determinerà una morbidezza minore.

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STEP N.2: ANNUSATE LA CARNE CRUDA Il naso è senza’altro l’organo che fa da filtro, che preannuncia attraverso la percezione olfattiva quella che potrebbe essere una degustazione memorabile o una disfatta gastronomica. Accostate la carne alle narici, aspirando per qualche secondo, per evitare che l’adattamento olfattivo appiattisca ogni sensazione. In questo modo potrete registrare la potenza dell’aroma, le sue peculiarità ed eventuali puzzette anomale. Vi torneranno alla mente odori e profumi che con la carne non hanno proprio nulla da spartire (fieno, miele, metallo ecc…)

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STEP N.3: OSSERVATE LA CARNE COTTA La bistecca cotta su griglia avrà delle grill marks evidenti, le righe brunite che compaiono in corrispondenza dei fili di metallo arroventati, testimonianza di una avvenuta reazione esotermica. La bistecca cotta su piastra di ghisa, meglio se liscia, presenterà una crosta di cauterizzazione più estesa e uniforme, di color caramello, più o meno brunito, frutto delle reazioni di Maillard. All’interno, la bistecca dovrà essere di colore rosato intenso, quasi magenta. La tecnica per realizzare una cottura uniforme la conoscete, munitevi di termometro e non superate i 52°C (al massimo 54°C) interni.

STEP N.4: ANNUSATE LA CARNE COTTA Il processo di decodificazione degli odori comincia con la cottura, quando i primi odorini iniziano a spargersi per la cucina. Il profumo di “arrostito” è uno stimolante potentissimo dell’appettito, così come quello della crosta di pane e del caffè tostato. In questa fase è importante avvicinare al naso la carne ancora calda, per evitare che l’intensità aromatica si riduca. Accostate un pezzetto di bistecca all’altezza delle labbra, come se voleste assaggiarla, e aspirate profondamente. Tramite questa olfazione iniziale, riuscirete a capire il mix di odori presenti ed eventuali difetti di struttura/cottura. La superficie e l’interno della carne avranno profumi differenti e dall’intensità variabile (profumo di tostato e di eventuale affumicatura). STEP N.5: ASSAGGIATE! Col taglio, tasterete anche consistenza e morbidezza della carne. Per una valutazione completa, però dovrete aspettare l’assaggio: ritagliate un boccone e mordetelo, solo affondando i denti potrete rilevare il livello di tenerezza. Durante questa fase, potrete registrare e valutare la succosità della bistecca, poiché col morso si libererà la parte acquosa. Continuando a macinare coi denti, noterete delle frazioni lievemente più tenaci, dovuta alla presenza del tessuto connettivo. Fate una stima della quantità e misurate anche la quantità e la fibrosità della parte muscolare. Vi assicuro che la carne dello Zio si scioglie in bocca come un sorbetto. Solo alla fine, stimate l’untuosità rilasciata dalla parte grassa, insieme agli aromi in essa contenuti. Perché sapete che il sapore è tutto racchiuso nel grasso, vero? Nei lipidi sono contenuti aromi percepibili anche dopo la deglutizione. Vi è piaciuto il panel test? Fatelo e poi raccontatemi come è andata in Community, su Facebook. Prima di salutarvi, vi lascio la mappa sensoriale della carne cruda e cotta, vi servirà.

Gianfranco Lo Cascio


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storia e costume di mangiare "al fresco"

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Portfolio gastronomico a cura di Nunzia Clemente Illustrazioni di Eleonora Castagna


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on fa ancora troppo caldo. Certo, le giornate soleggiate vivono qualche mezzogiorno di fuoco, ma verso le due del pomeriggio l’aria si fa fresca, concilia il sonno. Maggio e giugno sono “quei mesi là”: i mesi del mangiar fuori (e il nostro Governo ha deciso che dobbiamo ‘mangiare fuori’ in tutti i sensi), del picnic insomma. Nel nostro Paese, il picnic è sempre stato associato alla “scampagnata”, ovvero, il recarsi in un posto più o meno campestre e bivaccare. O ancora, il picnic è associato alle festività comandate. Oltre ad una discreta quantità di cibo e vino, nei picnic italiani non manca mai una cosa: il pallone. L’addetto al Super Santos ha quasi la stessa importanza dell’addetto alla griglia. Il picnic in realtà è molto di più: citato spesso nell’arte, utilizzato anche modo per socializzare e rilassare gli animi tra Paesi, è un atto sociale molto importante prima ancora che pure bivacco. Andiamo a scoprire insieme quali sono le origini e le usanze del picnic, un “rito” diffuso in maniera globale molto più di quanto possiamo immaginare. Vi lascerò, inoltre, un nutrito elenco di buone norme per il perfetto buongustaio amante dell’aria aperta.

“Al fresco”: il picnic è un atto sociale Sì, sì, lo so: molti di voi avranno dei ricordi traumatici di picnic aziendali imposti. È la forma di socialità più facile da applicare fuori dalle aziende. Perlopiù si tratta di tristi ritualità da adempiere una volta all’anno, con tavoloni ammassati di roba. Ma sono altrettanto sicura che – e no, non nascondete il sorrisino! – custodite gelosamente le foto del vostro capo ubriaco; oppure, avete avuto l’opportunità durante un picnic di fare la bella scoperta che il vostro collega dell’altro reparto è un bravissimo grill master seguace di BBQ4All. Al di fuori dell’Italia, il picnic è ritenuta un’occasione sociale al pari di feste, cerimonie e quant’altro. Basti pensare che Barack e Michelle Obama, la coppia presidenziale più fotogenica nella storia degli States, ha una vera e propria passione per i picnic.

Le origini del termine picnic sono da ricercare nelle parole francesi pique e nique, che unite (piquenique) davano vita appunto “fare qualcosa di poca importanza”, con prima registrazione nei dizionari di usi e costumi francesi sul finire del Seicento. Insomma, pique-nique era qualcosa tipo “prendersela con comodo”, rilassarsi e nel frattempo mangiare. Avete presente il famoso quadro Le déjeuner sur l’herbe di Édouard Monet? Ecco, l’idea che mi faccio io del picnic (e quella che presumibilmente doveva essere all’epoca!) è esattamente quella, magari non proprio svestita. Ma il caro Monet rende bene l’idea di mollezza e rilassatezza dei costumi dell’epoca. Il picnic – altrimenti chiamato al fresco dining dagli inglesi, proprio con le parole italiane – si diffuse a partire dal XVIII secolo. Facile intuire perché: l’urbanizzazione e l’industrializzazione andavano a mano a mano erodendo gli spazi verdi e si iniziava a ricercare la campagna. Le fêtes champêtres, feste campestri, iniziarono a diffondersi in Francia dopo la Rivoluzione, quando i parchi reali divennero pubblici. A questo, bisogna aggiungere che città come Parigi, durante l’Ottocento, ebbe una radicale e profonda trasformazione che l’hanno resa molto simile a ciò che è oggi. Charles Baudelaire descrive molto bene questo cambiamento nei suoi Tableaux Parisiens, sezione del capolavoro Les fleurs du mal: la città cambiava radicalmente, diventava “metropoli” del suo tempo e le persone ricercavano sempre più la natura. Non è un caso che durante l’Ottocento nacquero diverse correnti, tra arte e letteratura, ove la ricerca della natura regnava incontrastata: l’Impressionismo verso gli anni 1860-1870 ed il Decadentismo in letteratura, che durò per tutto il secolo attraversando varie fasi. E a tutti questi illustri personaggi, ci posso mettere la mano sulla griglia, piaceva tantissimo mangiare e fare picnic. Anzi, come si dice in lingua inglese, picknicking.

Galateo del picnic perfetto Non fate facce brutte: anche il picnic prevede un proprio personale “galateo”, un insieme di buone maniere e piccoli accorgimenti che, se rispettati, renderanno la nostra esperienza molto piacevole e rilassante.

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In cosa consiste, in pratica, un picnic? In buona sostanza, possiamo definire picnic l’atto di mangiare fuori dalle mura domestiche, nella natura, con pietanze spesso preparate appositamente per l’occasione e nell’immaginario comune trasportate nell’iconico cestino. Spesso si mangia direttamente sull’erba, poggiandosi su tovaglie colorate e, in generale, circondadosi di cose che danno un senso

di rilassatezza. Non di rado, protagonista del picnic è il barbecue.

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Cerchiamo di riassumere insieme le regole da galateo per un picnic, almeno quelle imprescindibili.

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1. Portare una tovaglia/telo molto grande: questo vi aiuterà ad avere molto più spazio “igienico” e pulito a disposizione. Scegliete un tessuto dai toni sgargianti: il picnic è un’occasione di festa e va valorizzata come si deve, anche con il colore. 2. Non lesinate sulle quantità, ma non esagerate nemmeno. Siete in sei? Cucinare per otto non sarà un problema, così come portare otto tramezzini. Il pic nic rilassa e la socialità stimola naturalmente la fame. 3. Porzioni piccole, ma di tutto: che tu sia la sola persona a cucinare oppure che siate in due o tre addetti alla cambusa, meglio fare porzioni piccole di molte pietanze. Il che non significa che tu debba stancarti inutilmente: via libera quindi a piccoli panini, piccoli timballi, piccole insalate di pasta. In modo tale che si possa assaggiare di tutto un po’, senza mettere in soggezione chi vuole assaggiare tutto oppure chi vuole restare più “sobrio”. Insomma, avete presente il finger food? È arrivato il suo momento. 4. Ricordatevi sempre di aggiungere una pietanza

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senza carne: non siamo a casa nostra, presumibilmente siamo tra amici e potrebbe essere presente qualcuno di cui non conosciamo i gusti. Vegetariano non significa con poco gusto, quindi via alle insalate di cereali (che vi impiegheranno poco tempo e vi faranno fare una splendida figura!) e verdure grigliate a dovere con le nostre tecniche. 5. Cercate di portare con voi stoviglie (piatti, bicchieri, posate) di materiale compostabile o almeno riciclabile in gran parte. 6. Attenzione al luogo che ci ospita: la natura va rispettata. Che sia esso un parco privato o pubblico, una spiaggia, un rifugio di montagna con spazi esterni dove godere di panorama. Non lasciare tracce del proprio bivaccare è una regola fondamentale di civiltà. Se ne avete la possibilità, differenziate tutto al momento (se avete bambini con voi, fatelo con loro: si divertiranno e vi daranno una mano!) e portate via con voi i sacchetti in auto. Se il bivacco è avvenuto dopo una bella scarpinata in montagna, differenziate e portate con voi i sacchetti fino al primo punto di raccolta rifiuti utile.


Partecipare ad un picnic: cosa si porta? Quelli “poco abituati” potrebbero ritrovarsi in pieno panico: cosa si porta ad un pic nic? Vi immaginiamo già, carichi di vettovaglie perlopiù inutili o difficili da mangiare e trasportare, per non dire di contenitori da smaltire e/o riportare a casa per sottoporre ad accurato lavaggio… Così come immaginiamo lo “scavato” del picnic, che però sottopone sempre lo stesso tramezzino ormai bagnato di umidità dei suoi stessi succhi; così come – di SICURO – c’è il personaggio grigliatore che puntualmente sta accanto al dispositivo ore ed ore, salvo poi propinarvi costine durissime e bistecche dalla consistenza di suole per le scarpe. Da ora in poi sarete animali da picnic perfetti: su questo numero del Magazine vi diamo tutte le informazioni per non essere banali, scontati e soprattutto per grigliare alla perfezione in mezzo a un prato verde, su una montagna o dove preferite.

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Adesso è il momento di fornirvi un po’ di regole generali, valide per tutti. Le ricette sul “cosa portare”, ve le daremo fra qualche pagina. Nel frattempo, alcuni consigli non guastano mai.

1. Calcolare bene gli spazi all’interno del vostro cestino/borsa. Se vi aspetta una bella scarpinata prima di raggiungere il luogo eletto, dovrete PER FORZA fare una selezione di alimenti e vettovaglie varie ed una borsa comoda, con i vari scomparti può solo aiutarvi. Attenzione a non caricarvi troppo, quindi. 2. La sera prima, organizzate ciò che potete: ad esempio le salse e gli oli (da mettere in apposite bottigline ben chiuse), oppure i dolci, o ancora le torte salate. Ricordate di portare con voi anche della pellicola da cucina, così da imballare gli eventuali avanzi. 3. Se siete appassionati o conoscete appassionati di picnic e in generale dell’aria aperta, non farebbe male chiedere se vi possono prestare sedie e tavolini da campeggio: sono pieghevoli e perfetti da mettere in auto. Vi torneranno utili quando dovrete appoggiarvi per porzionare cose. 4. Dispositivi antizanzare: non saranno mai troppi. In commercio esistono creme e spray da applicare direttamente sul corpo, oppure dei dispositivi a batteria che coprono una discreta

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area. Non dimenticate una piccola borsetta con qualche cerotto, disinfettante (visti i tempi che corrono, è una voce decisamente importante!) ed antistaminico d’emergenza. 5. Prima di lasciarvi alle ricette da picnic, è necessario mettere delle cose in chiaro: non tutte le preparazioni “portatili” oppure da preparare alla griglia al momento, sono adatte a tutti i picnic. Esistono anche i picnic tematici (quindi, se il tema è “cibo americano” magari non presentatevi con una moussaka, sì gustosa ma fuori ambito); quindi, drizzate le orecchie e non fate i tipi da ultimo minuto ed interventi in calcio d’angolo. Esistono poi pietanze più adatte a picnic in luoghi dal clima mite (tipo il mare) e pietanze che invece vi risveglieranno l’appetito e i sensi in zone collinari e montuose. 6. Capitolo beverage: tasto dolentissimo se non sapete come organizzarvi. Borse termiche e tavolette ghiaccio vi aiuteranno moltissimo, soprattutto se porterete con voi vino o birra che hanno necessità di fresco; non dimenticate anche una discreta dose d’acqua e succhi di frutta. Congelate qualche bottiglia d’acqua in modo tale che serva anche da ulteriore ghiacciolo. 7. Non sottovalutate il potere della frutta: portatene, fate dolci, macedonie e quant’altro. Spesso la natura circostante permette un risveglio interiore e voglia di cose naturalmente zuccherine.

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Il taglio del mese

LO STINCO O

ggi parliamo di un nostro insostituibile amico di brace, cioè il maiale. La carne di maiale è una tra le più consumate al mondo (laddove culti e società lo permettono) e, di conseguenza, lo stinco – taglio su cui ci soffermeremo oggi - ha trovato velocemente utilizzo nelle cucine di ogni Paese, poiché è considerato da sempre un taglio povero ed economico. Essendo uno dei pezzi migliori del maiale (in termini di consistenza e sapore), esso è un ingrediente essenziale per numerosissime ricette; i cuochi di tutto il mondo hanno saputo apprezzarne le caratteristiche creando piatti che sono diventati simbolici in diversi Paesi. Ad oggi lo si vede protagonista di numerose preparazioni culinarie, dallo street food all’alta cucina. Anche l'Italia ha adottato questo saporitissimo taglio e un po’ in tutta la penisola troviamo preparazioni tipiche che prevedono questo ingrediente.

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Cosa è, esattamente, uno stinco

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Per analizzare meglio questo taglio bisogna prima di tutto precisare che di stinchi ce ne sono due tipi: quello anteriore (in inglese, shin) e quello di posteriore (in inglese, shank); ciononostante, le caratteristiche dei pezzi non cambiano molto, se non il fatto che anteriore è piu piccolo e dalla forma irregolare rispetto alla sua controparte posteriore, che si presenta migliore alla vista e di solito è venduto senza cotenna. Parliamo dunque di quest’ultimo.


Come già il nome suggerisce, lo stinco si trova nella parte inferiore della coscia, tra l’articolazione omero ulnare (che alcuni siti chiamano impropriamente “ginocchio”) e il piedino, sia anteriore che posteriore (Hindquarter/Forequarter). Shank/HindShank: dal prosciutto, seguendo la linea di taglio dell’articolazione omero ulnare possiamo ricavare uno stinco dalla forma allungata e abbastanza omogenea che comprende ossa come tibia/ fibula e i gruppi muscolari flessori ed estensori ad essi attaccati (Deep Digital Flexor, Flexor Digitorum Superficialis, Soleus, Lateral Digital Extensor, Extensor Digiti Primi Longus, Tibialis Cranilis, Peroneus Tertius).

Inoltre, se troviamo il nostro stinco con la cotenna sopra e molto probabile che ci siano altri muscoli come Gastrocnemius e Flexor Superficialis (che insieme formano il cosiddetto Heel muscle ma anche Pike's Peak Roast, Horseshoe Roast, Gracilis, Semitendinosus, Biceps Femoris). Sulla spalla invece troviamo un altro stinco dalla forma un pochino piu irregolare, spesso venduto con la cotenna perché dalle dimensioni piu ridotte rispetto a quello di quello di prosciutto. Si divide sempre dal gomito mediante un taglio attraverso l'articolazione, separando cosi le ossa (Tibia/Tarsale) con i gruppi muscolari annessi.

Stinco: come si pulisce e si prepara Lo stinco, in genere, è uno di quei pezzi di carne che non richiede alcun pretrattamento di pulizia particolare, dato che si è soliti acquistarlo già pronto per essere cucinato, con o senza la cotenna. Si adatta perfettamente a numerose tecniche di cottura come il roasting e lo smoking. Sono migliaia le ricette preparate con questo pezzo in giro per il mondo e quasi tutte fanno leva sui suoi principali punti di forza: grasso e tessuto connettivo che, tradotti, significano sapore e morbidezza. Può essere cucinato con tecniche di cottura anche ibride, ricor-

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dandoci sempre che il nostro obiettivo principale e quello di scogliere il collagene all’interno dello stinco, per permettere alla carni di staccarsi dall’osso senza alcuno sforzo.

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Che abbiate scelto il vostro nuovo slow cooker, un forno, un pentolino o il barbecue, la cosa importante da ricordare è che solo raggiungendo 95°C/98°C internamente, impiegando un tempo molto lungo, lo stinco diventerà tenero e succulento in modo spropositato.

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Come abbiamo già detto prima, preparazioni che hanno lo stinco di maiale come ingrediente principale sono popolari in quasi tutti i Paesi del mondo. Se nella cucina asiatica lo troviamo spesso preparato in umido, accompagnato il più delle volte con riso al vapore o dalle verdure, gli americani e altri abitanti di Paesi anglofoni lo preferiscono low&slow, cotto nello smoker, per servirlo intero insieme ad un purè di patate o con lenticchie, o per infilarlo

nei panini dopo averlo pullato (sfilacciato). Anche i Paesi del Sud America rendono lo stinco protagonista di numerose ricette in cui si usano anche molte spezie e altrettanti aromi. In Europa, lo stinco si mangia abitualmente in quasi tutti i Paesi e tanti lo hanno inevitabilmente inserito tra le ricette locali tradizionali, preparate solitamente in autunno e in inverno; tuttavia possiamo dire con certezza che lo stinco è principalmente simbolo della cultura tedesca. Solitamente qui è accompagnato dai classici crauti, sia semplici che ripassati, oppure con altre verdure fermentate; l’accoppiata più semplice ma non meno goduriosa è fatta da stinco e patate arrosto.

Stinco: la ricetta perfetta In realtà è sempre una questione

di gusto personale, motivo per cui il nostro consiglio e di assaggiarlo in tutte le salse prima di decretare un vincitore assoluto. Senza tirarla troppo per le lunghe, dobbiamo ammettere che lo stinco è abbastanza facile da preparare. Spezie come il pepe, la cannella, peperoncino, anice stellato, alloro, cardamomo e finocchietto selvatico possono essere aggiunte al nostro stinco per avvicinarci ai sapori asiatici, ma basterebbe modificare le proporzioni e aggiungere più finocchietto e pepe per ritrovarci con sapori a noi piu conosciuti, come quelli siciliani. La cottura, in questo caso, è semplice grazie alla tecnica del braising che ci permette di non sbagliare (dato che vogliamo la nostra carne fall of the bone, cioè che si stacchi completamente dall’osso). In una casseruola fate rosolare il vostro stinco (meglio se con la cotenna) e aggiungete un soffritto classico oppure optare per sapori più asiatici con


zenzero, tanto aglio, cipollotto e peperoncino.

Po t e t e t r a n q u i l l a m e n t e affiancare allo stinco qualunque verdura, a patto che vi possa sgrassare il palato. Amara o acida che sia, essa deve far fronte a tutto quel grasso e a quel collagene sciolto, e a quel sapore esplosivo. Altrimenti optate per patate, riso o legumi e godrete comunque moltissimo.

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Non appena il soffritto è pronto aggiungete vino o aceto di riso, salsa di soia e acqua per continuare con i sapori orientali, oppure due semplici bicchieri di vino e un po’ di brodo per farlo con uno stile più italiano. Nel liquido che avete scelto (e

che dovrebbe ricoprire per 3/4 la carne) aggiungete anche le spezie, prima di coprire e far andare a fuoco lento per almeno un paio d’ore o fino a che raggiunge il punto di morbidezza desiderato. Quando è pronto, il pezzo di carne deve essere messo da parte per poter far restringere il fondo di cottura.

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È UN POLPO AL CUORE questa bruschetta con

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‘nduja, stracciatella e limone

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Regina indiscussa dei salumi calabresi, prodotto dalle origini povere e umili, ma che da qualche anno a questa parte protagonista incontrastato sulle tavole di tutti: la ‘nduja. Si tratta di un particolare tipo di insaccato: piccante, cremoso e spalmabile, dal colore rosso acceso dovuto all’altissima presenza del peperoncino piccante calabrese. Di origini presumibilmente contadine, anche considerata l’elevata presenza di grasso, esistono tanti racconti sulla sua nascita e sul processo di lavorazione. Come ben sappiamo nelle società rurali ai nobili, ai proprietari terrieri e, più in generale, alle persone benestanti spettavano le parti migliori e più pregiate della carne del maiale, ai contadini non rimanevano altro che gli scarti come le interiora e le parti più grasse. Tuttavia non preoccupatevi, la ‘nduja che mangiamo oggi non è prodotta con gli scarti dell’animale ma con le sue parti più grasse, come il guanciale e la pancetta. Per quanto riguarda il nome molto particolare, molte fonti concordano sul fatto che la parola ‘nduja derivi dal francese andouille, termine utilizzato in Francia sin dal Medioevo per indicare prodotti di salumeria ricavati dalla trippa e dalle interiora del maiale. È opinione diffusa che questa primissima versione della ‘nduja, ancora non perfezionata e soprattutto priva della sua incredibile piccantezza, sia stata portata in Calabria da Gioacchino Murat, re di Napoli ai tempi delle guerre napoleoniche, che la fece distribuire per ingraziarsi il popolo. I calabresi, ovviamente, se ne innamorarono e la reinventarono aggiungendo carne di maiale e abbondante peperoncino, facendola diventare parte integrante della propria identità gastronomica. La ‘nduja è così diventata un prodotto tipico dell’altopiano del Poro ed in particolare di Spilinga, piccolo borgo situato in provincia di Vibo Valentia.

Ma veniamo al dunque: in quanti modi può essere mangiato e apprezzato questo piccantissimo salume di Calabria? Il modo più comune (ma non per questo meno gustoso!) è quello di spalmare la ‘nduja su una fetta di pane casareccio, tostato o appena sfornato. Tuttavia è molto utilizzata anche come base per i primi piatti. La pasta con la ‘nduja, che si tratti di fileja (un formato di pasta calabrese, diffuso soprattutto in provincia di Vibo Valentia), scialatielli o spaghetti, è infatti un must della cucina calabrese che chiunque deve provare almeno una volta nella vita. Il salume piccante può essere poi usato come ingrediente per condire la pizza o come ripieno per polpette, arancini e panzerotti. Ottimo anche su fette di formaggi semi-stagionati o per delle squisite frittate. A chi preferisce un’esperienza più pratica e che possa coinvolgere direttamente i sensi, consigliamo tuttavia di fare un viaggio in Calabria, e più precisamente a Spilinga. Ogni anno l’8 agosto si svolge infatti la tradizionale "Sagra della ‘Nduja"speriamo che venga organizzata anche quest’anno! - una giornata interamente dedicata al salume calabrese più famoso al mondo, che ne consente la degustazione nei modi più svariati possibili. In molti sostengono che la ‘nduja stia bene un po’ su tutto. Questo mese, sul Magazine, ve la proponiamo anche sul polpo. Pensate sia un’eresia? Siamo qui per dimostrarvelo coi fatti. Beccatevi ‘ste bruschette, vah. Ne parliamo dopo.

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Naturalmente la zona di produzione è molto più estesa, soprattutto sul versante tirrenico calabrese, dove la produzione di questo semplice salume è diventato il vero e proprio motore dell’economia locale. Come da tradizione calabrese, la ‘nduja viene prodotta solitamente durante i mesi invernali con le parti più grasse della carne di maiale, quali il guanciale, la pancetta ed il lardello, che vengono tritate e poi impastate insieme ad un abbondante quantitativo di peperoncino piccante calabrese e del sale. Questi due ingredienti fondamentali,

oltre a dare alla carne un colore rosso ben definito, ne permettono una lunga conservazione. Al peperoncino si devono inoltre gran parte delle proprietà nutritive e benefiche della buonissima ‘nduja, che, in quantità moderate, fa molto bene sia all’apparato digerente che a quello cardiocircolatorio. Una volta che l’impasto assume una consistenza sufficientemente omogenea e cremosa, esso viene insaccato nel budello naturale del maiale per poi venir sottoposto ad una leggera affumicatura con erbe aromatiche. Infine viene lasciato stagionare in modo del tutto naturale per un tempo che non deve superare i sei mesi. Trascorso questo tempo, il prezioso prodotto piccante viene messo in commercio come un classico insaccato sottovuoto o in vasetti di vetro, molto pratici, utili a mantenere inalterati per lunghi periodi sapore e gusto.

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PREPARAZIONE 1. Per la pulizia del polpo: lavatelo abbondantemente ed eliminate le interiora dalla testa. Se avete difficoltà chiedete di farlo al vostro pescivendolo di fiducia. 2. Trasferite in una pentola senza aggiungere nulla, né acqua, né grassi. Settate il vostro dispositivo per una cottura indiretta e cuocete ad una temperatura che non superi i 150°C. A temperatura troppo elevata rischiereste di rovinare la pelle del polpo.

INGREDIENTI 4 persone

1 filone di pane casereccio olio extravergine di oliva coratina 300 g di stracciatella di bufala scorza di un limone non trattato Per il ragù di polpo alla ‘nduja un polpo da 1 kg 2 spicchi d’aglio 600 g di pomodori pelati 50 ml di vino bianco secco 60 g di ‘nduja di Spilinga basilico fresco a piacere timo fresco a piacere sale q.b. pepe q.b.

3. La cottura e il riscaldamento dolce del polpo farà rilasciare una quantità di umori sufficienti a mantenere umidità e morbidezza. 4. Una volta testata la cottura con uno spiedino lasciate raffreddare il polpo nella sua pentola mantenendo il coperchio chiuso. 5. Una volta freddo tagliatelo in tocchetti della dimensione che preferite e tenete da parte un mestolo della sua acqua. 6. In un tegame fate tostare bene due spicchi d’aglio tritati, devono essere uniformemente dorati. Aggiungete i tocchetti di polpo e sfumate con il vino bianco fino a dealcolizzarlo per bene. A questo punto inserite i pelati spezzati con le mani, un mezzo mestolino di acqua di cottura del polpo e regolate di sale e pepe. 7. Dopo circa 10/15 minuti di cottura spegnete il fuoco e lasciate intiepidire leggermente. Inserite solo adesso la ‘nduja e le erbe aromatiche, che in questo modo sprigioneranno molto di più il loro profumo e la ‘nduja avrà calore sufficiente per sciogliersi senza cuocere.

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8. Tostate le fette di pane alte circa 1 cm e condite con un filo d’olio extravergine d’oliva coratina, servite con un bel cucchiaio di ragù di polpo, la stracciatella fresca e la scorza abbondante del nostro limone non trattato.

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Ti va uno spuntino?

SMOKED

BEEF JERKY C’è uno snack, negli Stati Uniti, incredibilmente comune: stiamo parlando del beef jerky, che in buona sostanza è uno sfilaccio di carne secca, conservata con moltissimo sale. Viene utilizzata come spuntino da moltissime persone negli USA e, anche nel nostro Paese, si sta facendo pian piano strada, però con un fine differente: infatti, si stanno diffondendo sempre di più beef jerky per spuntini proteici, con pochissimi grassi e molte proteine. Le molte proteine sono qualcosa che in questo Magazine non mancano mai, quindi: non poteva mancare un “nostro” beef jerky!

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Forse vi sembrerà strano scegliere la carne secca invece delle patatine per un break a metà pomeriggio, eppure questo tipo di spuntino è molto apprezzato in tutto il mondo e non soltanto negli Stati Uniti. Parliamo di un settore con ricavi stimati per 2,5 miliardi di dollari negli Stati Uniti, con profitti che continuano a crescere insieme al numero degli sfegatati amanti di questo particolare tipo di snack.

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UN BEEF JERKY, DA VICINO Il jerky è un alimento costituito da carne (e qui daremo già un colpo al cuore ai nostri lettori abituali) tendenzialmente magra, tagliata a piccole fette spesse circa 2 millimetri che successivamente vengono fatte essiccare; ai bastoncini di ciccia viene poi aggiunto del sale, delle spezie o delle marinature per arricchirne il gusto e favorirne la conservazione. La parola jerky deriva dallo spagnolo charqui, che significa bruciare e che a sua volta deriva dalla parola quechua ch'arki. Proprio al popolo quetchua vanno attribuiti, infatti, i natali dell’ante-

signano beef jerky; fu inventato intorno alla metà del XVI secolo, in Sud America, luogo d’origine di questo popolo. Lo scopo era quello di realizzare un cibo ricco di proteine che si potesse portare nei lunghi viaggi senza correre il rischio che andasse a male. Preparata in questo modo, dunque, grazie all’essicazione e al sale la carne (principalmente degli animali diffusi in alta quota, cioè di alpaca e lama) resisteva per lunghi periodi, anche in condizioni climatiche difficili. L’origine pare sia legata ai tampu degli Inca: oggi li definiremmo dei veri e proprio magazzini dislocati lungo le vie commerciali dell’impero andino, utilissimi perché avevano lo scopo di fornire viveri e offrire un riparo ai viaggiatori. Il ch’akri era sempre abbondante nei tampu degli Inca, anche perché la carne di lama era un prezioso alimento proteico che cucinato in questo modo poteva conservarsi per mesi nel clima non proprio confortevole delle Ande. Tuttavia la carne secca non è solo tipica del Nuovo Continente. In Sud Africa, nello Zimbabwe e in Namibia, ad esempio, si produce il biltong, una versione del jerky che prevede l’utilizzo di carne di selvaggina tagliata in strisce sottili. In Nepal esiste il sukuti, che viene realizzato ricoprendo fette sottili di carne con una mistura di sale, cumino, pepe e polvere di peperoncino. I cavalieri mongoli di Gengis Khan si nutrivano per mesi interi di borts, strisce di carne essiccata all’ aria spesse 2-3 centimetri e molto tenaci. Non possiamo poi tralasciare una preparazione nostrana: le coppiette di


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maiale romane, prodotti tipici laziali fatte a base di carne di suino essiccata, che hanno un gusto leggermente piccante a causa del peperoncino o della paprika utilizzati nella loro preparazione, e allo stesso tempo fresco perché spesso aromatizzate con anice stellato. In passato, le coppiette erano prodotte con carne di cavallo; ad oggi, lo scarso consumo in Italia (scarso rispetto a prima, visto che il Belpaese è comunque ai primi posti per consumo di carne equina!) di questa tipologia di carne ha fatto sì che la tradizione si “evolvesse” verso il suino senza perdersi. Per fortuna della nostra golosità, ci viene da dire. IL BEEF JERKY OGGI Il jerky moderno viene normalmente marinato in una salsa piccante o nelle spezie, lasciato essiccare oppure affumicato a freddo o a caldo. Alcuni produttori usano ancora il metodo tradizionale di salatura ed essiccatura al sole; altri invece tritano finemente la carne, la mescolano ai condimenti e la pressano in piccole fettine prima dell'essiccatura, così da ottenere un prodotto esteticamente più simmetrico e invitante. Esistono innumerevoli varianti fatte con diversi tipi di carne: manzo e maiale, soprattutto, ma anche capra, montone, agnello, cervo, renna, bisonte, canguro; e non dimentichiamoci quelle di tacchino, struzzo, salmone, alligatore, tonno, cavallo e cammello.

Ma esiste un modo per prepararli a casa? Ovviamente sì e non siamo qui apposta per insegnarvelo

500 g di Flap Meat Steak Usa BlueOx Prime Black Angus / Due cucchiai abbondanti di Sal’s seasoning Ultimate SPOG

PREPARAZIONE: 1. Trimmate per bene il vostro pezzo di carne da tutto il grasso in eccesso che rischierebbe di irrancidire. Eliminate anche la silver-skin, se presente. 2. Tagliate la Flap Meat con un coltello affilato; il taglio va effettuato andando contro fibra e in fette spesse circa 2 mm, con un coltello affilato in modo che le fette restino più integre possibile. Un trucco, se non avete dimestichezza con questo tipo di taglio, se non possedete un coltello ben affilato, è quello di riporre il pezzo di carne in congelatore per circa 20/25 minuti. Se invece siete in possesso di una comoda affettatrice è il momento di tirarla fuori. 3. Passate un leggero strato di rub da entrambi i lati delle fettine di carne e stabilizzate il vostro dispositivo per una cottura indiretta a circa 80°C/90°C. 4. Affumicate i jerky con le essenze che preferite per circa 4/5 ore. Il jerky è pronto quando è rigido ma non così fragile da spezzarsi facilmente. Dovrebbe produrre crepe quando viene piegato, ma non sbriciolarsi come un cracker; se pressato, non deve fuoriuscire liquido. Per l’affumicatura, in questo caso abbiamo utilizzato un blend di ciliegio e quercia rossa. 5. Se volete una nota affumicata meno intensa potete affumicare per circa 30/40 minuti e poi trasferire in un essiccatore fino alla consistenza desiderata BBQ4All Magazine

La ciccia deve essere essiccata velocemente per limitare la proliferazione batterica durante questo momento critico. La carne fresca è infatti un terreno di coltura ideale per i batteri. Nelle fabbriche attuali, i forni per l'essiccazione del jerky sono fatti di pannelli isolanti al cui interno sono stati posti diversi radiatori e ventole; ci sono anche delle aperture per portare aria fresca dentro la camera di cottura. Grazie al calore basso e allo scambio d'aria si riesce ad essiccare la carne in poche ore. L’uso dei nitriti in ambito industriale favorisce sicuramente una conservazione migliore della sola salatura. L’affumicatura invece dà il gusto caratteristico ai jerky. Dopo essere stato essiccati i bastoncini di ciccia vengono raffreddati e impacchettati sotto vuoto o sotto atmosfera inerte. Spesso, per evitare l'ossidazione del grasso, la confezione contiene piccole quantità di elementi, come il ferro, capaci di reagire con l'ossigeno ed ossidarsi al posto delle parti grasse. La maggior parte del grasso viene comunque rimossa prima dell'essiccamento perché altrimenti irrancidirebbe con facilità. Tra le marinate più in voga utilizzate per i jerky sicuramente sono protagoniste la famosa teryaki e quelle a base di salse piccanti. Essendo un cibo ricco di proteine e povero di grassi è particolarmente apprezzato anche dagli sportivi, E dagli astronauti: la NASA infatti fornusce dagli anni ‘90 una bella dose di carne secca ai sui uomini nello spazio.

INGREDIENTI PER 4 PERSONE:

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Ho riso fino alle lacrime

TROPPO BUONI I

POMODORI RIPIENI ALLA ROMANA

Ufficialmente, la storia documentata del pomodoro in Italia inizia il 31 ottobre 1548 a Pisa, quando Cosimo de’ Medici ricevette dalla tenuta fiorentina di Torre del Gallo un cesto di pomodori nati da semi donati alla moglie Eleonora di Toledo, dal padre, Viceré del Regno di Napoli. Come tutti sappiamo, è stato l’incontro tra il Vecchio e il Nuovo Mondo a regalarci, grazie a quello che viene chiamato lo scambio colombiano, questo prezioso oro rosso insieme a tante altre specie vegetali e animali come il mais, il peperoncino piccante e altre varietà di peperoni, la manioca, il fagiolo, l’arachide, la patata, alcune varietà di zucca, il girasole, molti frutti tropicali, il cacao, la vaniglia, il tacchino (solo per citarne alcuni). LA LUNGA STORIA DEL POMODORO Il pomodoro apparve in Europa nella prima metà del’500 ma non trovò subito fortuna. Secondo alcune teorie, le prime varietà introdotte nel Vecchio Continente contenevano solanina (una sostanza tossica, prima molto più presente nei pomodori ed altra frutta/verdura) in quantità così elevata da risultare indigeste. Per questo inizialmente fu utilizzato come pianta ornamentale o medicinale e a scopo di studio negli orti botanici. Solo successive selezioni varietali portarono il pomodoro alla sua completa commestibilità Anche in Italia, il secondo Paese europeo dopo la Spagna a conoscere questo frutto, la diffusione del pomodoro fu assai lenta: la diffidenza iniziale verso il nuovo frutto, che non fu non associato a nessun cibo già conosciuto, ne mortificò a lungo le potenzialità gastronomiche. Solo nel ’700, iniziò il periodo della sperimentazione gastronomica che sfociò nell’ ‘800 nella diffusione più ampia che noi oggi conosciamo. E che ha reso il pomodoro uno degli ingredienti simbolo della nostra cucina in tutto il Mondo.

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Nella lingua azteca, pomodoro si chiamava tomatl (vi ricorda qualcosa?). Dovrebbe chiamarsi pomodoro proprio perché ci arrivo dorato, pomo d’oro per l’appunto.

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I NUMERI DEL POMODORO ITALIANO Attualmente, Italia ci sono circa sessantaquattromila ettari dedicati alla coltivazione del pomodoro per un totale di circa cinque milioni di tonnellate di pomodori trasformati. Oggi il nostro Paese è leader nella produzione di conserve e trasformati di pomodoro: il 13%

dell’intera produzione mondiale proviene dall’Italia, e all’interno dell’Europa la metà circa della produzione è fatta proprio qui. Sarebbe praticamente impossibile elencare tutte le ricette della nostra tradizione culinaria in cui compare il pomodoro, così come sarebbe inutilmente lungo e noioso elencare tutte la varietà di pomodori esistenti in Italia (fra le più famose, ricordiamo il Kiros 3 che poi diventa San Marzano DOP dopo la trasformazione, il pomodorino ciliegino, il Cuore di bue, il pomodoro del piennolo). In Italia, abbiamo numerosi pomodori con certificazioni DOP, IGP, DeCo (Denominazione Comunale), proprio a segnalare la vastità del comparto e delle filiere coinvolte. POMODORI RIPIENI La bella stagione è alle porte e sarebbe un vero peccato non sfruttare i suoi frutti rossi più belli per una ricetta carica di sostanza. Parliamo di polposi e per nulla parchi pomodori ripieni. Si tratta di una ricetta davvero molto semplice, ma saporita, una pietanza popolare composta da ingredienti poco costosi e quindi accessibili a tutti, perfetta per la stagione calda, quando si ha voglia di cibi freschi e sfiziosi, che non richiedano troppa fatica ai


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fornelli. I pomodori ripieni col riso sono una specialità della cucina del Lazio da gustare anche come piatto unico. Secondo un’affascinante ipotesi l’origine di questa ricetta sarebbe da ricercarsi nella cucina ebraico-romanesca: ancora oggi, compaiono sulle tavole della comunità giudaica nel periodo della Pesach, la Pasqua Ebraica, quando, in ricordo della fuga dall’Egitto, si osserva il divieto di mangiare cibi lievitati ed è ammesso soltanto il consumo di riso e pane azzimo. La preparazione è semplicissima: basta tagliare la calotta superiore dei pomodori grandi rossi e sodi (ottimi quelli a grappolo) poi svuotarli e unire la polpa con il riso e un trito di prezzemolo, basilico e origano, facendo macerare il ripieno per una mezz’oretta. I pomodori devono essere poi riempiti con il miscuglio di riso e polpa, richiusi con la loro calotta e cotti in forno (ma nel nostro caso useremo il kettle) ricoprendo il tutto con olio extravergine d’oliva. Possono essere consumati sia caldi che tiepidi, ma non si disdegnano freddi, per questo motivo potete anche prepararli il giorno precedente per un bel pranzo all’aperto o un classico picnic. Ovviamente, questo tipo di pietanza, negli anni, ha visto nascere numerose varianti cotte o crude, calde o fredde: col cous cous, con la quinoa, col tonno e la maionese, con il farro, con il pesto, con le acciughe, con la mozzarella, con vari tipi di formaggio e via dicendo.

INGREDIENTI 4 persone

8 pomodori tondi e molto sodi 200 g di riso Carnaroli uno spicchio d'aglio un ciuffo di menta un mazzetto di basilico un cucchiaio di origano 5/6 cucchiai di olio extra vergine di oliva

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sale e pepe q.b.

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PREPARAZIONE 1. Lavate bene i pomodori, tagliate la calotta superiore e svuotateli internamente; conservate polpa semi e acqua di vegetazione. Salate leggermente i pomodori al loro interno e posizionateli a testa in giù in modo che perdano l'acqua di vegetazione in eccesso. 2. Sbucciate l’aglio e aggiungetelo, insieme al sale, al pepe e a quattro cucchiai d’olio, alla polpa dei pomodori che avete tenuto da parte. Frullate il tutto con un mixer. 3. Tritate finemente basilico e menta e aggiungeteli alla crema ottenuta, insieme all’origano. 4. Aggiungete a questo punto il riso crudo alla crema, amalgamate bene il tutto e tenetelo in frigorifero per un paio d’ore. 5. Accendete il vostro dispositivo stabilizzandolo per una cottura indiretta ad una temperatura di circa 180°C. 6. Su una leccarda ricoperta di carta forno, disponete i pomodori in modo che siano ben distanziati tra loro e riempiteli con il riso che avete lasciato insaporire in frigo. Irrorate bene di olio extravergine di oliva e poi richiudete ogni pomodoro con la propria calotta. 7. Mettete a cuocere i pomodori in cottura indiretta chiudendo il coperchio del kettle. Ci vorrà circa un’oretta. Quando i pomodori saranno pronti, e il riso sarà cotto a puntino, lasciateli intiepidire e serviteli.


TONNO DI MANZO così tenero che

non serve nemmeno il grissino

L’idea di questa ricetta ci è venuta durante un’assolata mattina di marzo, in Sicilia, con la voglia di tuffarci nelle chiare, fresche et dolci acque di quel meraviglioso mare. Acque fresche, sì, in quel momento decisamente troppo per un bagnetto fuori stagione, tuttavia già evocative. Cosa proporre ai nostri lettori, ci siamo chiesti, che possa essere un piatto fresco, adatto alla bella stagione in arrivo, mai così agognata come quest’anno, ma che al tempo stesso coniughi la voglia di cuocere la carne al bbq e un certo divertimento, fatto di birre e cose-da-griller, durante la sua preparazione? Ecco quindi l’associazione mentale che si è palesata nei nostri cervelli al lavoro: ci vorrebbe qualcosa tipo il tonno! Ah, esiste il tonno di coniglio alla piemontese, ma lo ha gia scritto Gianfranco Lo Cascio nel suo libro... facciamolo col manzo! Ed eccoci qua.

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Sia il tonno di coniglio alla piemontese che quello del Chianti, ricetta toscana fatta col maiale, si chiamano così perché nell’aspetto, ma soprattutto nella consistenza, ricordano il tonno sott’olio; quello, per intenderci, che si spezza con un grissino. Entrambe le ricette nascono in ambito contadino, nei tempi passati in cui certo non esistevano celle frigorifere per conservare la carne. Era uno dei vari metodi per fare in modo che si potesse mangiare ciccia anche nei mesi estivi, grazie al potere conservante dell’olio. Le preparazioni originali, sia per il coniglio che per il maiale, prevedono una lenta e lunga, lunghissima bollitura della carne, che deve arrivare a sfaldarsi senza però diventare poltiglia per essere successivamente messa in contenitori di vetro, insieme a spezie e olio, e andare a insaporirsi fino al momento della consumazione. Lo Zio, nel suo libro Diventare Grill Master, ci ha già insegnato come evitare di bollire il coniglio preparandolo in griglia, con una cottura low&slow che favorisca lo sfaldamento della ciccia ma che le dia anche un boost di sapore grazie all’affumicatura. Noi, oggi, facciamo un ulteriore passo verso la ribellione

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alle regole della tradizione e, invece di una carne bianca, utilizziamo il manzo. Quale pezzo? Le Beef Ribs. Le conosciamo bene, no? Quante volte in questi anni vi abbiamo parlato di questo splendido taglio, che negli Stati Uniti ha un’importanza pari al Brisket, tanto difficile da reperire in Italia – ma c’è il Megastore per questo, non disperate - quanto buono oltre ogni aspettativa? Le costole del manzo sono fantastiche, lussureggianti, appaganti e molto più saporite delle Pork Ribs. Le avete sempre preparate in perfetto stile Texas, con il bark spesso e sapido, e la carne tenerissima. Vi è mai presa la voglia di portarvele in spiaggia o a un picnic? Allora usatele per preparare il vostro Tonno di Manzo, che stupirà tutti. Per la cottura delle Beef Ribs, useremo un wet mode, ovvero una costante idratazione della carne con una mop sauce e un passaggio in foil, il tutto a favore di una tenerezza estrema. Chiaramente, il bark sarà sacrificato un po’ con questo metodo, ma alla luce del fatto che la carne finirà sott’olio in un vasetto, la cosa non deve destare alcuna preoccupazione. Ok, possiamo anche cominciare, tanto vi avevamo già convinto al “Beef Ribs” (semicit.)

INGREDIENTI 4 persone

1,2 kg di Beef ribs wagyu f1 del Megastore 2 cucchiai di Sal’s Seasoning Ultimate SPOG un cucchiaio d’olio extravergine di oliva Per la salsa mop 2 cucchiai di paprika 2 cucchiai di peperoncino in polvere 3 cucchiai di zucchero di canna un cucchiaino di pepe nero un cucchiaio di origano in polvere un cucchiaino di sale mezzo cucchiaino di pepe di Caienna 4 cucchiai di aceto di mele 4 cucchiai di salsa di soia 4 cucchiai d'acqua due cucchiai di salsa Worcestershire per il Tonno di manzo olio extraverfine di oliva q.b.

sale q.b.

1. Prendete il costato e eliminate eventuali cartilagini in eccesso. 2. Tamponate la carne con della carta assorbente, spennellate un velo d’olio extravergine su tutta la superficie e applicate uniformemente lo SPOG, senza mai esagerare. 3. Preparate la salsa mop: in un pentolino mescolate gli elementi secchi a quelli liquidi e mescolate la salsa finché non si sarà disciolto lo zucchero, fatela ritirare un poco e toglietela dal fuoco. Deve rimanere molto liquida. 4. Preparate il dispositivo per una cottura indiretta e stabilizzate a 110°C. Posizionate le Ribs con il lato delle ossa in basso, e ammucchiate un po’ di chips di hickory, melo o ciliegio sulle braci accese. 5. Aspettate che le vostre ribs abbiano raggiunto la temperatura al cuore di circa 65°C e poi cominciate a bagnarle con la salsa mop, aiutandovi con l’apposito piccolo mocho, ogni dieci minuti. 6. Quando avranno raggiunto la temperatura di circa 75°C al cuore, mettete le ribs in un doppio strato di foil, con un po’ di liquido all’interno (va benissimo l’acqua) e rimettetele in cottura, assicurandovi che la sonda sia ben infilata nella ciccia. 7. Continuate la cottura finché la carne non raggiungerà i 95°C/96°C al cuore. A quel punto aprite il foil, lasciate uscire il vapore, poi richiudetelo e tenete le ribs in rest (mantenimento) per un’ora circa. 8. Tagliate le ribs e staccate la carne tenerissima dall’osso. Riducetela a pezzetti irregolari, anche stappandola con le mani, e poi infilatela nei vasetti di vetro sterilizzati, alternando la carne con il peperoncino e la salvia. Se assaggiando la carne trovate che sia poco sapida, aggiungete un po’ di sale nei vasetti. 9. Chiudete bene i vasetti e lasciateli maturare in frigo per almeno un paio di giorni; prima di servire il vostro Tonno di manzo, riscaldatelo un poco a bagnomaria direttamente nel barattolo aperto.

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un peperoncino habanero qualche foglia di salvia fresca

PREPARAZIONE

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Un panino per le domeniche a tutta griglia!

PULLED PORK SHANK

Lo stinco di maiale è una preparazione che gode di una lunga, gloriosa storia. Conosciuto come piatto povero, sostanzioso, caldo, facilmente reperibile, è diffuso in Trentino così come in Austria, così come in Baviera. Non dite le bugie: almeno una volta avete sognato di sedervi in una birreria di Monaco di Baviera ed ordinare un grosso stinco con crauti e patate, innaffiato da una delle birre locali. Per chi come noi è appassionato di ciccia cotta al bbq, lo stinco rappresenta spesso uno dei primi tagli con cui cimentarsi in griglia, perché ha tutte le caratteristiche necessarie a renderlo la preparazione perfetta per i neofiti: carne saporita, tempi di preparazione non eccessivamente lunghi ma abbastanza da poter passare dei pomeriggi in compagnia di amici e bibite alcoliche, risultato praticamente assicurato. Uno stinco ben fatto è saporito, succulento, tenero e saziante. Insomma, da solo riassume tutte le caratteristiche che nella mente del vero grigliatore sono associate alla parola bbq. Siamo quindi sicuri che questa ricetta vi piacerà molto.

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Smettendo un attimo di essere eurocentrici, vediamo che lo stinco è una preparazione tipica anche delle cucine orientali, in special modo quella thai, dove rappresenta un fast food molto richiesto. Quando viene servito con riso bollito prende il nome di khao kha mu (o anche khao kha moo nella versione diversamente translitterata). Si tratta di una goduria: prima viene fatto cuocere nel wok per lungo tempo (sappiamo che il taglio ricco di tessuto connettivo ha bisogno di tempi lunghi per ammorbidirsi e gelatinizzarsi), insaporite con molte spezie come d’uopo in quei posti e poi servito col riso, of course, insieme cavolo cinese, aglio e l’immancabile peperoncino.

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A questo giro, lo cucineremo nella maniera classica sul bbq, per rendere felici tutti voi ossessionati dalle domeniche a tutta griglia - con birra e rutto libero - e poi lo sfilacceremo (nel nostro gergo, lo pulleremo) per infilarlo dentro un appagante e lussureggiante panino. Poi non dite che non vi vogliamo bene!

INGREDIENTI 4 persone

Per la salamoia 1 l di acqua 20 g di sale kosher 10 g di miele millefiori 120 g di aceto di mele 3 foglie di alloro 2 bacche di ginepro 2 scorze di arance non trattate una bacca di anice stellato mezza stecca di cannella per i panini 2 stinchi di Maiale Pork Duroc del Megastore Sal’s Seasoning Tennessee Mild Dry Rub q.b. 8 fette di pane integrale per toast a lenta lievitazione per la Coleslaw tiger mezzo cavolo verza (o cappuccio) prezzemolo fresco q.b. mezzo cipollotto una mela varietà Granny Smith 2 carote un peperone 100 g di maionese 100 g di yogurt greco 100 g di panna liquida 2 cucchiai di zucchero di canna Muscovado mezzo bicchiere di aceto un cucchiaio di Kren un cucchiaino di senape di Digione mezzo cucchiaino di Cannella un cucchiaino di Sal’s Seasoning Tennessee Mild Dry Rub 1 cucchiaino di sale


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PREPARAZIONE 1. Eliminate il più possibile dagli stinchi il grasso in eccesso. 2. Preparate la salamoia, fondamentale quando si vuole impartire sapidità alla carne in profondità. Mettete tutti gli ingredienti in una pentola e portatela ad ebollizione; mantenete con il coperchio per alcuni minuti e poi lasciate raffreddare. 3. Immergete gli stinchi in un contenitore della misura adatta a mantenerli sommersi interamente nella salamoia, da mettere in frigorifero con un coperchio per 24/36 ore. Questo processo farà in modo di far assorbire alla carne una quantità di acqua supplementare, ma allo stesso tempo porterà all’interno anche sale e sapori aromatici. 4. Una volta tolti dalla salamoia, passate gli stinchi sotto acqua corrente fredda in modo da eliminare parti di spezie, poi asciugateli per bene, cospargeteli con un velo di senape e fate aggrappare alla carne il Rub (non in maniera eccessiva). Settate il dispositivo per una cottura indiretta sui 120°C e ponete gli stinchi in cottura indiretta, con una leccarda sotto alla griglia. In questa fase quello che dovrete ottenere è una bella reazione di Maillard con un aspetto scuro, quasi mogano, intenso e uniforme. Assenza di umidità, zuccheri riducenti e calore secco per lunghi tempi vi aiuteranno in questo passaggio che si protrarrà fino a circa 70°C al cuore o comunque fino a quando il vostro mix di spezie secche si sarà ben aggrappato alla carne. Chiaramente questo è il momento di posizionare le sonde del termometro sul piano di cottura e nella carne, facendo attenzione a non toccare l’osso o strati di grasso. 5. Potete in questa fase anche procedere all’affumicatura; I chunck di legno fruttato, melo o ciliegio, contribuiranno a darvi lo Smoky Flavor. Li dovrete porre fin dall’inizio sulle braci accese. Se avete un kettle girate il coperchio in modo che la presa di scarico sia posizionata dalla parte opposta. 6. Trascorse un paio di ore dall’inizio della cottura, lo stinco dovrebbe avere un bel colore rosso intenso, e la carne avrà cominciato a ritirarsi dall’osso. Rendere succoso uno stinco senza bollirlo non è facilissimo, specie se siete alle prime armi, ma voi invocherete l’aiuto del Texas Crutch (doppio involucro di alluminio) e vi armerete di tutta la pazienza necessaria (qualche ora) a far degradare tutto il tenace tessuto connettivo e a non innalzare troppo la temperatura per non strizzare via i liquidi della carne. All’interno dell’involucro non scordatevi di aggiungere del liquido (aceto di mele, birra, acqua) magari unito a spezie. Per questa preparazione dovrete spingervi verso i 98°C in modo da garantire il totale scioglimento del collagene. Quando l’allarme del vostro termometro inizierà a suonare, sarà il momento di testare con uno stecchino il risultato, aprirete l’involucro e il tutto dovrà risultare morbido e cedevole, se non fosse così, dovrete richiudere e proseguire con la cottura. Quando saranno pronti, dovrete togliere gli stinchi dal Texas crutch, tenere da parte i succhi, tamponare delicatamente la carne, spruzzarci sopra un velo di olio e porla in cottura indiretta, in modo da rigenerare la croccantezza. 7. É il momento di sfilacciare i nostri stinchi con l’aiuto di due forchette, vedrete che le ossa vi resteranno praticamente pulite dalla carne: unite tutto ai succhi filtrati e il gioco è fatto.

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8. Nel frattempo avrete preparato l’accompagnamento, mettendo in una ciotola tutte le verdure (cavolo verza, prezzemolo, carote, cipollotto, peperone) e la mela tagliate finemente. In un’altra ciotola avrete messo il condimento (yogurt greco, panna liquida, maionese, zucchero di canna, aceto, kren, senape, cannella, rub e sale) e mischiato il tutto unendolo alle verdure.

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9. Ponete le fette di pane sopra la griglia, in modo da ottenere una parte calda e croccante, poi mettete su una fetta lo stinco sfilacciato e la coleslowtiger, chiudete in panino e buon appetito.


Non un sogno, ma una golosa realtà

PANINO CON

POLPO GRIGLIATO

CREMA DI PATATE E CIALDE DI CORALLO Chiudete per un attimo gli occhi: siete in un posto caldo ma ventilato, durante l’ultimo fine settimana di Luglio, il mare è a due passi, si fa sera e le vie si riempiono di persone gioiose; oltre al profumo dei bracieri accesi, ad un tratto sentite iniziare un susseguirsi di classiche cantilene pugliesi da sagra: u paninu cu pulp arsteut! A questo punto, nel vostro sogno, siete già seduti a tavola a gustarvi il panino con il polpo accompagnato da una bella birra ghiacciata. Si siamo in Puglia, a Mola di Bari per la precisione, dove fin dal 1964 si tiene la Sagra del polpo e dove, grazie alla presenza di numerosi stand enogastronomici dei pescatori locali presso il lungomare del paese, possiamo gustare delle vere e proprie leccornie. Molte persone non si cimentano a cucinare il polpo pensando sia una cosa difficile, invece vi assicuriamo che ci vuole davvero poco: seguendo alcuni piccoli consigli che vi daremo sarà semplicissimo. Ovviamente stiamo parlando di un polpo verace, freschissimo, preso direttamente dai banchi dei pescatori e magari appena sbattuto sugli scogli per la tradizionale arricciatura, pratica che permette anche di spezzare le fibre ed intenerire le carni dei tentacoli. Tuttavia non sempre si ha la possibilità di reperire l’alimento fresco, e quindi la soluzione è quella di ricorrere ai polpi congelati. Il freddo infatti ammorbidisce le carni spezzando le fibre del mollusco, proprio come avviene in maniera meccanica con la battitura. Le dimensioni ideali per questa ricetta, sono rappresentate da polpi medio-piccoli, che rappresentano anche la porzione perfetta per farcire il panino. BBQ4All Magazine

Ai più snob potrebbe sembrare che il panino col polpo sia una cosa per palati meno esigenti, ma in realtà si tratta di un’esperienza superlativa. Un fast food che rivendica il suo carattere gourmet ed elegante, capace di conquistarvi al primo morso.

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Siccome anche l’occhio vuole la sua parte, così come le papille gustative, per un ottimo panino utilizzeremo del polpo prima cotto alla maniera di BBQ4All, poi marinato e infine grigliato. In questo modo risulterà ancora più gustoso. Aggiungeremo poi ma una crema di patate sul fondo del panino, unendo il tutto con un tocco croccantino da chef: delle cialde di corallo.

INGREDIENTI 4 persone

Per il panino un pane di segale da circa un kg un polpo da circa 2 kg 3/4 cucchiai di liquido di polpo olio extravergine di oliva q.b. 4/5 spicchi di aglio un pezzo di zenzero fresco Sal’s Seasoning Cool Coconut Rub a piacere qualche rametto di foglie di timo fresco o un cucchiaio di timo secco un cucchiaino di sale grosso dell’Himalaya per i pomodorini drogarossa una confezione di pomodorini di Pachino con i rametti mezzo cucchiano di tabasco un cucchiaino di Worcestershire un cucchiaino di aceto di mele un cucchiaino di aceto balsamico un cucchiaino di zucchero di canna per la crema di patate 5/6 patate Sal’s Seasoning Dallas Mild Rub a piacere 2 uova per la cialda di corallo 30 g di olio di semi di girasole

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13 g di farina 00

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un cucchiaino di curry Thai giallo hot, oppure curcuma sale e pepe q.b.


PREPARAZIONE 1. Per prima cosa pulite il polpo, aiutandovi con la punta di un coltello: eliminate gli occhi e facendo una leggera pressione con i pollici togliete il becco situato tra i tentacoli, rigirate sottosopra la testa del polpo ed espellete le interiora, lavatelo interamente in acqua fredda corrente e il gioco è fatto. 2. Mettete sul fuoco a temperatura media una casseruola adatta, ponete all’interno il polpo e mettete il coperchio, senza aggiungere altro. Lasciate tutto così com’è per circa 20 minuti e vedrete che pian piano il fondo della pentola si riempirà con del liquido abbastanza scuro che sobbollirà assieme al polpo stesso; andrete solo a testare con uno stecchino il momento giusto per spegnere la fiamma e questo sarà quando sentirete penetrare il bastoncino nei tentacoli senza impedimenti. 3. Lasciate raffreddare un pochino e togliete dalla pentola il polpo sgocciolandolo; o porzionatelo con un coltello in pezzetti di 2/3 centimetri, tenendo solo i tentacoli un pò più lunghi. Filtrate il liquido rimasto con un colino e, oltre a versarlo in appositi sacchetti per ghiaccioli, tenetene una parte che poi vi servirà (il resto andrà in freezer e alla prima pastasciutta con sugo di vongole vi tornerà utile). 4. Mettete i pezzi di polpo in una ciotola assieme ad abbondante olio extravergine di oliva, 4/5 spicchi di aglio leggermente schiacciati con la parte piatta del coltello, un bel pezzo di zenzero fresco sbucciato e tagliato a pezzetti, un cucchiaio di timo, un cucchiaino abbondante di sale grosso dell’Himalaya e un cucchiaino abbondante di Sal’s Seasoning Cool Coconut, lasciando il tutto anche 24 ore in frigorifero.

6. Prendete 5/6 patate, pulite per bene la buccia sotto acqua calda corrente, magari

7. Ora potete prendere le due leccarde e metterle nel vostro dispostivo in cottura indiretta sui 200°C per 25/30 minuti. 8. Nel frattempo rassodate un paio di uova, delle quali vi servirà solo il tuorlo. E’ ora di preparare la crema di patate: mettete in un contenitore per mixer ad immersione le patate, assieme ai tuorli, ad un pò di olio rimasto sul fondo della leccarda, ad un paio di cucchiai di gelatina di polpo, 3/4 di pomodorini confit (solo la polpa), un filo di aceto e una spruzzata di sale, mixate per bene eventualmente aggiustando l’acidità e la consistenza con altra gelatina e dei pomodorini, fino ad ottenere la cremina desiderata. 9. Adesso è il momento del tocco scenico: il corallo alla curcuma. Mettete in un bicchiere da mixer, 100 g di acqua, 30 g di olio di semi di girasole, 13 g di farina, un paio di cucchiaini di curry thai giallo hot (oppure di curcuma) e andate ad emulsionare molto bene. 10. Nel frattempo pre riscaldate a fiamma media una padellina antiaderente, dove andate a versare un pò dell’emulsione girando la padella in modo da coprirne il fondo con uno spessore di un paio di millimetri; dopo pochi minuti, inizieranno a crearsi tante piccole bollicine e, monitorando la temperatura, dopo 5/6 minuti potete staccare il corallo con l’aiuto di una paletta. 11. Tagliate il pane a fette alte un paio di centimetri, e tostate solo la parte esterna. 12. Togliete dalla marinatura i pezzi di polpo e i tentacoli e, utilizzando una piastra in ghisa oppure direttamente sulla griglia, croccantizzate il polpo con un veloce passaggio in cottura diretta a fiamma moderata. 13. Finalmente è arrivato il momento di assemblare i panini: una fetta di pane tostato, una base di corallo, una bella passata di crema di patate abbondante, il polpo (e volendo un po’ di insalata): chiudete e create una composizione con uno stecchino e il corallo. Morso dopo morso, sentirete il profumo del mare e della terra di Puglia baciata da un sole caldo.

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5. Prendete una confezione di pomodorini pachino, dopo averli lavati per bene (tenete i rametti) metteteli in una leccarda, assieme ad abbondante olio extravergine di oliva, qualche goccia abbondante di tabasco, altrettanta salsa Worcestershire, una stilla di aceto di mele e una passata di aceto balsamico, una bella spruzzata di zucchero di canna, sale e pepe: date una bella mescolata e ponete sopra questo intongolo i rami con i pomodorini.

aiutandovi con una spazzolina,tagliatele a pezzetti e mettetele in una leccarda assieme ad abbondante olio extravergine di oliva e un bel po' di Sal’s Seasoning Dallas Mild Rub.

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RISO...

E VAI CON L'INSALATA! Abbiamo passato almeno un decennio col jingle di Ivana Spagna di una nota marca di riso: in realtà, la nota marca di riso sponsorizzava una delle più famose ricette con questo ingrediente, cioè il riso all’insalata. C’è poco da fare: il riso all’insalata l’ha inventato una Divinità Gastronomica in persona. La ricetta estiva per eccellenza, declinabile praticamente in cento versioni e varianti a seconda delle necessità e dei gusti. Il riso all’insalata fa parte di quel grande bagaglio di insalate di stampo mediterraneo dove si uniscono cereali, varietà di riso ma anche la pasta. Almeno una volta vi sarete imbattuti nelle insalate di quinoa, di bulgur, di farro o orzo: ehi, non necessariamente devono essere dietetiche. Se fatte bene, possono essere molto gustose e fresche. RISO: QUALE VARIETÀ SCEGLIERE PER FARLO ALL’INSALATA? Ecco, la domanda più annosa probabilmente è questa: qual è la varietà migliore per fare il riso all’insalata? La caratteristica principale che dovrà avere la varietà di riso da noi scelta è la tenuta in cottura. Un riso che tende ad essere colloso non è molto indicato per fare il riso all’insalata. Il riso di varietà parboiled (che è quello che utilizzeremo anche noi) è la varietà più diffusa ed indicata per questa preparazione; esso tende a non scuocere, essendo trattato con un processo idrotermico che lo rende molto resistente. Inoltre, non contenendo molto amido, i chicchi di questa varietà restano ben separati tra di loro.

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Anche il riso Ribe tiene bene la cottura ed è un ottimo compromesso qualità/prezzo, soprattutto per chi deve badare alla quantità.

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I risi neri, rossi ed aromatici sono particolarmente indicati per la preparazione del riso all’insalata. Tengono bene la preparazione, la

cottura e soprattutto sono molto profumati anche a giorni di distanza. COME LO PREPARIAMO NOI Nel nostro modo di ragionare, esistono tre ricette per fare il riso all’insalata, tutte e tre gustose ed intercambiabili. Ve ne presenteremo solo una (cioè quella che tutti potrete applicare, ça va sans dire), ma per dovere di cronaca le cito tutte. RICETTA UNO: il riso all’insalata veloce, quello fatto con il barattolino del condimento già pronto, un po’ tristino e dall’odore forte di agrodolce ma confortante quando, dopo una giornata di lavoro d’estate, torni a casa e vuoi soltanto il condizionatore ed un piatto stracolmo e fresco. Non importa quale riso vai a calarci: andranno bene tutte le varietà del mondo. RICETTA DUE: il riso all’insalata sporco, godurioso, dove ci va tutto-tutto: dal prosciutto ai wurstel, passando per le uova sode e la maionese. Di insalata, canonicamente parlando, non ha nulla. Ma si tratta di un altro comfort food ideale. Anche qui, la varietà del riso non è importante. RICETTA TRE: il riso all’insalata quellolà-un-po’-fighetto, fatto tutto per benino, con gli ingredienti appositamente cucinati per esso (BANDITO il barattolino già pronto), perfetto per le cene d’estate che ci apprestiamo a tenere con tutte le norme anti-Covid del caso. Anche il chicco qui acquista – giustamente – la sua importanza: andremo a scegliere una varietà di riso che non “incolla”, che si mantiene integro e ben sgranato pur unendosi agli ingredienti. Ovviamente, stiamo per presentarvi ingredienti e procedimento della Ricetta Tre. Poi, in privato, possiamo anche scambiarci foto e ricette le nostre insalate di riso guilty pleasure.


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INGREDIENTI PER 6 PERSONE: 300 g di riso varietà parboiled (ma potete scegliere una delle varietà delle quali abbiamo parlato sopra) / 100 g di scamorza / 100 g di Emmenthaler (o altro formaggio a vostra scelta) / 3 oppure 4 uova sode / 200 g di filetti di tonno in olio extravergine d’oliva (da scolare secondo proprie esigenze) / 100 g di carciofini sott’olio di buona qualità (ne trovate di ogni prezzo allo scaffale del supermercato) / 500 g di olive taggiasche denocciolate / 100 g di mais / qualche pomodorino fresco / olio extravergine d’oliva / sale / a piacere, maionese veloce fatta in casa; senape di Digione.

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PREPARAZIONE: 1. Per prima cosa, preparate le uova soda; appena possibile, sgusciatele e mettetele da parte. 2. Mettete a bollire l’acqua per il riso, stando bene attenti a scolare appena sarà cotto. Mettete sotto l’acqua fredda corrente per evitare che la cottura vada ulteriormente avanti. Lasciate freddare il riso in frigo, altrimenti si "smollerà" tutto a contatto con gli altri ingredienti. 3. Prendete le olive taggiasche, controllate siano tutte denocciolate (ne va dei vostri denti!), tagliatele a pezzetti. 4. Prendete i filetti di tonno all’olio extravergine d’oliva; scolateli bene, tratterranno comunque una certa quantità di olio. Dopodiché, fateli a straccetti. 5. Cubettate Emmenthaler e scamorza. 6. Cubettate i carciofini sott’olio ed i pomodorini. 7. Cubettate anche le uova sode; scolate bene il mais dalla sua acqua. 8. Ora, il momento divertente: l’insalata si forma! Mettete tutto insieme e mescolate con moderata energia, aggiungendo sale ed olio quanto basta. Visto che abbiamo utilizzato già ingredienti contenenti una certa quantità di olio extravergine d’oliva, magari non vi servirà. 9. Mettete il tutto in una ciotola abbastanza capiente, copritela e mettete un’oretta in frigo prima di servire. 10. Al momento del servizio, ricordatevi della maionese o della senape di Digione, da aggiungere al momento.

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In frigo, potete conservare la vostra insalata di riso anche per due o tre giorni: dipende sempre dalla qualità del riso e dagli ingredienti utilizzati. Qualcuno ci ha anche raccontato di personaggi leggendari che l’hanno insaporita con uno dei Rub della linea Sal’s Seasoning. Vedete un po’ che riuscite a combinare, dando sfogo alla fantasia (non sentite quella vocina lontana che sussurra Ancho Habanero Chili Mex?)


Se hai preso un granchio... griglialo!

CATALANA DI GRANSEOLA “Sacre bleu, what is it? How on earth could I miss Such a sweet, little succulent crab?” Louis il cuoco - The Little Mermaid

I crostacei alla catalana sono un piatto tipico della Catalogna. FALSO! Probabilmente troverete molti siti e altrettanti ricettari che riportano questa affermazione, che però non corrisponde a verità. Cucinare un crostaceo alla catalana, molto spesso l’aragosta ma si possono cucinare così molte altre specialità, è una tradizione sarda, in particolar modo di Alghero. Perché allora si chiama in quel modo se è un cibo caratteristico della Sardegna? Nel 1323 una spedizione catalano-aragonese inizia l’operazione di conquista del territorio sardo: nel 1353 raggiunge Alghero e pochi anni dopo tutta la Sardegna è sotto il controllo della corona d’Aragona. Sarebbe lecito affermare che da quel momenti i sardi abbiano cominciato a mangiare alla catalana? In realtà sono molti i dubbi. Sicuramente la cucina contemporanea sarda ha ingredienti e nomi di ricette che provengono dalla lingua catalana, ma l’origine di quei nomi nella maggior parte dei casi è araba e le preparazioni erano esistenti ancor prima della conquista spagnola. Molte specialità della cucina di Alghero sono in lingua catalana, ma non si può assolutamente affermare che quelle preparazioni provengano dalla Catalogna. Tutto farebbe pensare, piuttosto, a un’influenza linguistica più che gastronomica: una cucina algherese fatta di numerose contaminazioni che però, grazie alla dominazione spagnola durata fino al 1700, ha dato i nomi alle sue ricette in catalano antico. Fra l’altro, la cucina catalana viveva sotto l’influenza gastronomica islamica presente in terra iberica fin dal 711 d.C. Prima ancora, nel periodo antecedente la conquista araba in Spagna, essa traeva le sue origini da quella latina sulla quale poi aveva sovrapposto usanze mediorientali. Capite quindi quanto è difficile stabilire chi abbia influenzato cosa? In ogni caso, questo modo di cucinare i crostacei è ormai una tradizione consolidata ad Alghero ed è assolutamente un errore dire che sia una specialità tipica della Catalogna.

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La ricetta originale prevede l’utilizzo dell’aragosta, che deve essere fatta bollire, poi lasciata raffreddare, infine tagliata a pezzetti e servita con un’insalata di cipolle rosse e pomodori condita da una vinaigrette fatta con olio, sale, pepe macinato e limone. Il tutto va mescolato insieme e lasciato raffreddare in frigo per 4-5 ore prima di essere servito. Come abbiamo detto, però, si può cambiare tipo di crostaceo. In questo caso abbiamo deciso di utilizzare il granchio, termine che viene usato per riferirsi a specie diverse che formano alcune famiglie appartenenti all’ordine dei decapodi. Attualmente, vengono classificate oltre 4.000 specie di granchi, divisi in due gruppi: quelli di fiume (Astacoideos) e quelli di mare

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PREPARAZIONE

(Brachyura). Questi crostacei non sono di solito nuotatori, ma si spostano sul fondo dei corpi d’acqua in cui vivono: hanno quindi zampe potenti con chele affilate che servono loro sia per difesa che per catturare le prede.

1. Scongelate le granseole e poi preparate il vostro dispositivo per una cottura diretta a medio-alta temperatura.

La granseola è un granchio diffuso in tutto il bacino del Mediterraneo, e vive sia su fondali sabbiosi fino a 100 m di profondità che sugli scogli, dove è molto spesso mimetizzata con le alghe e le rocce. E’ la qualità di granchio tra le più grosse per dimensioni ed una delle più prelibate, al pari dell’aragosta. Può raggiungere infatti i 25 cm di lunghezza, i 18 cm di larghezza e oltre un kg di peso. La sua forma assomiglia a quella di un ragno. Le sue carni hanno un gusto delicatissimo e vanno consumate solo dopo l’adeguata pulitura e generalmente la bollitura: prima va raschiato il carapace per eliminarne i peli e le alghe e poi il crostaceo va bollito per intero senza romperlo. Solo successivamente si può servire spolpato. Probabilmente solo alcuni fortunatissimi fra voi lettori sono riusciti ad accaparrarsi questa deliziosa prelibatezza all’interno del nostro Megastore: se dovesse capitarvi di trovare le granseole siate pronti a lottare per averle sulle vostre tavole. Fate come Louis, il cuoco de La Sirenetta: non fatevi sfuggire il succulento bijou!

4 persone

2 granseole di media grandezza (circa 800 g di peso in tutto) del nostro Megastore o granciporri 2 cipolle di Tropea fresche 3 pomodori maturi e sodi sale e pepe q.b. per la vinaigrette: 6 cucchiai di olio extra vergine di oliva il succo di un limone un cucchiaino scarso di senape 2 cucchiai di aceto di mele

3. L a s c i a t e r a f f r e d d a r e le granseole prima di maneggiarle e poi apritele, togliendo tutta la polpa, facendola a pezzetti e tenendola da parte. Non dimenticate le chele! 4. Affettate sottilmente la cipolla e affettate anche il pomodoro.

un pizzico di sale qualche fogliolina di basilico tritata finemente

5. Preparate la vinaigrette emulsionando velocemente tutti gli ingredienti. 6. Unite il granchio alle cipolle e i pomodori, aggiustate di sale e di pepe, poi condite il tutto con la vinaigrette. Mescolate bene e riponete e in frigo a riposare. Servite la catalana di king crab dopo un paio d’ore. Addio Sebastian, au revoir!

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Intanto, mettetevi comodi e cominciate a sognare con questa catalana. Ah, ovviamente noi il granchio lo griglieremo, perché siamo dei fissati. E anche voi, lo sappiamo benequesta ricetta facile e veloce ma di sicuro effetto.

INGREDIENTI

2. Disponete i granchi in cottura diretta e grigliateli per qualche minuto da ogni lato: saranno pronti quando avranno cambiato colore; non stracuoceteli. Prestate particolare attenzione alle chele, che probabilmente necessiteranno di qualche minuto in più di cottura. La temperatura interna non dovrà superare i 60°C-62°C.

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TARTARE DI MANZO CON PEPERONI IMBOTTITI ...sì, ma al bbq!

Per la serie piatti estivi e gustosi, non può mancare la tartare di carne: le origini di questo piatto sono ben identificabili già dal nome, ma andremo a dire due righe di approfondimento appena più giù. Certo che una tartare, per quanto buona possa essere, da sola può sembrare un po’ “triste” nel piatto. Attenzione: noi siamo cannibali, ma qualcosa accanto ci piace metterlo eh. Siccome la preparazione della tartare non prevede la cottura della carne, beh, perché non utilizzare il nostro amato dispositivo per cuocere qualcos’altro, che ne so, un bell’ortaggio di stagione?

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E perché proprio il peperone? Perché il peperone è laido. Grazie al fatto di essere cavo, può essere riempito. Riempito e cotto. E a noi le cose ripiene piacciono un casino. Se poi le possiamo imbottire e cuocere al bbq, impazziamo proprio. Di seguito, andiamo a presentarvi la preparazione di un piatto con cui andrete avanti tutta l’estate: tartare di manzo accompagnata da peperoni imbottiti con mollica di pane e spezie, cotti al bbq. Anzi, come dicono al Sudde: puparuoli ‘mbuttunati, così suona anche meglio, li mangi già soltanto a menzionarli. Però prima urge la presentazione della tartare di carne, perché porta con sé una bella storia ricca di aneddoti.

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TARTARE: COME NASCE? Ad oggi, la tartare è solitamente di carne bovino fresca e cruda insaporita con sale, olio extravergine d’oliva; a piacere, poi, è possibile inserire altri ingredienti come cipolla, sedano, salsa tartara o salsa Worcestershire o tuorlo d’uovo sulla sommità. Diciamo “solitamente” di carne bovina perché esistono anche tartare di carne equina, nei posti dove ne è diffusa l’usanza. Nel nome, l’origine: tartare (o ancora, bistecca alla tartara) viene dal popolo dei Tartari, che pare ne facessero un gran consumo. Questo popolo bellicoso e nomade aveva l’abitudine di mettere la carne da mangiare sotto le selle dei cavalli, prima di partire,

in modo da trovarla “ammorbidita” all’arrivo a destinazione. Un punto a favore di questa tesi – sicuramente poco igienica – lo dà lo storico Ammiano Marcellino che, nelle sue Storie (risalenti circa al IV secolo d.C.), attribuiva questa pratica anche ad altri popoli nomadi. Un’altra ipotesi molto probabile è che la tartare fosse tipica della città di Amburgo, dove la carne veniva tritata ed aromatizzata al fine di conservarne il gusto… da qui ad hamburger, è un attimo. Ad oggi, sappiamo bene che la tartare è molto diffusa in Piemonte, ma anche in molte altre regioni dell’Italia settentrionale. Ma non è una specialità soltanto italiana: infatti, anche i francesi rivendicano la tradizionalità della tartare nelle loro preparazioni, grazie all’influenza della cucina, degli usi e dei costumi sovietici tra Ottocento e Novecento. Quale taglio preferire per la tartare? Il taglio perfetto per la tartare di manzo è il filetto ricavato da un cuberoll (sostituibile con Teres Mayor, Tri Tip o Flank del Megastore). Di seguito, conosciamo già la domanda: va battuta al coltello o possiamo usare il tritacarne? Non abbiamo dubbi: la tartare va battuta al coltello. E deve essere quello giusto. Nel numero di Aprile 2021 del Magazine vi abbiamo consigliato una serie di coltelli che non può mancare nella cucina di un appassionato: per la tartare domestica, potete utilizzare tranquillamente la mannaia da macellaio piccola oppure il coltello multiuso da chef, che si presta bene a tagliare i tagli che vi abbiamo consigliato sopra. Perché non preferire il più rapido tritacarne? Le lame ed il calore prodotto dal macchinario possono rovinare la struttura della carne, aggiungendo poi il rischio dell’ossidazione che è dietro l’angolo. E poi, la carne al tritacarne è carne tritata per burger. Andiamo ora a preparare la nostra tartare di manzo con peperoni imbottiti al bbq. Andremo a condire in maniera non eccessiva la carne, ricordandoci che abbiamo anche i peperoni che reclamano il loro posto in prima fila!


INGREDIENTI per 4 persone

600 g di Cuberoll, Teres Mayor, Tri Tip o Flank del Megastore 4 cucchiaini di olio extravergine d’oliva 15 g di capperi 20 g di prezzemolo da tritare 10 g di senape 25 ml di succo di limone 1 cipolla non troppo grande pepe nero q.b. sale q.b. Per i peperoni imbottiti 4 peperoni rossi 500 g di mollica di pane 4 uova 500 ml di latte 250 g di formaggi misti grattugiati 200 g di Emmentaler 20 g prezzemolo tritato sale q.b. pepe q.b.

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PREPARAZIONE DELLA TARTARE DI MANZO:

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1. Prendete il vostro Sirloin. Posizionatevi in maniera comoda rispetto al piano di lavoro e, con la mannaia o il coltello comune da chef, iniziate a sminuzzare. Prima pezzi grossolani, poi sempre più piccoli. Ricordatevi sempre che è tartare, non carne trita e per questo non usate il tritacarne. Sotto i denti volete sentire la carne e non la pastosità che, invece, vi darebbe l’utilizzo del macchinario. 2. Trasferite l’embrione della vostra tartare in una ciotola più capiente. Iniziate a tritare finemente i capperi, il prezzemolo ed il cipollotto. 3. Nella ciotola contenente la carne, aggiungete il succo di limone e il trito di capperi, il prezzemolo e il cipollotto. 4. Aggiungete anche la senape. 5. In ultimo, aggiungete l’olio extravergine d’oliva. 6. Amalgamate per bene tutti gli ingredienti, in maniera tale che la carne assorba in maniera uniforme il tutto. Lasciate riposare fino a che non dovrete impiattare. La tartare si può facilmente impiattare grazie all’aiuto di un coppapasta.

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PREPARAZIONE DEI PEPERONI IMBOTTITI AL BBQ 1. Innanzitutto, svuotate i peperoni e puliteli per bene dai semini, i piccioli e le nervature varie. Le cavità vi servono ben pulite per essere riempite. 2. Preparate ora l’impasto per l’imbottitura: ammorbite il giusto la mollica di pane (quel tanto che vi permetta di poterla lavorare) ed immergetela in una ciotola molto capiente (ricordate: molto capiente), dove avrete già messo il latte. Lasciate che la mollica assorba il latte. 3. Aggiungete le uova ed i formaggi misti grattugiati. 4. Aggiungete il prezzemolo tritato, aggiustate di sale e pepe a vostro gradimento e quello dei commensali. 5. Ora si lavora di braccia. Amalgamate l’impasto fino ad ottenere una profumatissima palla. Lasciatela riposare in frigo per circa 15 minuti. 6. Tagliate i 200 g di Emmentaler in 4 listarelle, vi serviranno. 7. Dopodiché, prendete i vostri peperoni già puliti e farciteli con generose cucchiaiate di impasto, fino a che non saranno pieni. 8. Fatevi strada nell’impasto e ficcate una listarella di Emmentaler al centro di ogni peperone. 9. Ora sono pronti per la cottura nel kettle. Andrete ad utilizzare la vostra amata cottura indiretta, quindi predisponete il vostro attrezzo da lavoro per questo tipo di cottura, con mezza sacchetta di bricchette ed una temperatura media di 180°C.

11. I vostri peperoni saranno pronti quando col termometro misurerete una temperatura al cuore di circa 85°C.

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10. Disponete i peperoni ripieni in due vaschette di alluminio (andranno a perdere molta acqua e quindi le vaschette vi serviranno), due per parte, così avrete maggiormente il controllo della situazione.

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TAGLIATA DI MANZO CON PARMIGIANO REGGIANO

...non esistono cibi tristi. Esiste solo cucinarli in modo non appropiato. Si avvicina l’estate. Per qualcuno significa prova costume: ci sono quelli dell’anno scorso, quasi nuovi, ancora da sfoggiare. E vorremmo rientrarci, visto che quest’anno al netto delle chiusure le mascelle non hanno mai smesso di lavorare e lo stomaco di digerire… e sì, lo sappiamo: il Magazine in questo ha dato un grande aiuto, fornendovi ogni mese spunti nuovi per metter su un po’ di pancetta.

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E lo sappiamo: è lì, si nasconde tra noi. Tra i menu domenicali fatti di griglia veloce, tanti amici e qualcuno tra noi che – per il motivo di cui sopra, o per altri motivi di salute o scelta personale – sceglierà di sicuro la tagliata di manzo (o qualsivoglia dire, straccetti di manzo) con il sempiterno Parmigiano Reggiano, la rucola tristissima ed olio in quantità discutibili.

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Se servita male, è un vero mappazzone: la carne si incastra tra i denti perché è stracotta, il Parmigiano Reggiano lamellato troppo sottile diventa quasi grattugiato, la rucola… beh, la rucola diventa erbetta per capre al pascolo. L’unica cosa rinfrancante sarà fare la scarpetta nell’olio residuo, magari con i residui di bruciacchiati, rubacchiando una fetta di pane da qualche parte. Ci siete o siete svenuti causa

eccessiva bruttezza? Sveglia, che in questo numero del Magazine vi forniamo tutte le indicazioni necessarie per fare la tagliata di manzo definitiva. Mettiamo la mano sul grill che la mangeranno anche i detrattori delle preparazioni healthy. IL TAGLIO Il taglio prediletto è la Rump Steak. Abbastanza fibroso, va cotto adeguatamente. Noi utilizzeremo la cottura stir-fry, cioè una cottura velocissima che necessita di alcuni passaggi fondamentali da mandare bene a mente, onde evitare di rovinare irrimediabilmente la nostra Rump Steak: il fuoco dovrà essere altissimo, atto ad avere una padella rovente con zero umidità. Avremo bisogno di una percentuale di grasso per veicolare al meglio il calore rovente; noi utilizzeremo olio extravergine d’oliva. IL PARMIGIANO REGGIANO Qui non bisogna lesinare: c’è bisogno di una decisa nota di umami e sapidità; queste vi saranno date dal Parmigiano Reggiano con stagionature elevate, tipo quello oltre i 40 mesi GLC Selection del Megastore. Avete tutte le informazioni? Siete pronti? Iniziamo. E vi assicuriamo che la tagliata non vi sarà mai sembrata così gustosa.

INGREDIENTI per 4 persone

1 kg di Rump Steak del Megastore 250 g di Parmigiano Reggiano stagionatura 40 mesi GLC Top Selection 3 cucchiai di olio extravergine d’oliva un pomodoro insalataro non troppo maturo Sal’s Seasoning Steak booster lime pepper a piacere per l’olio alla rucola: 100 g di rucola olio extravergine di oliva q.b


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PREPARAZIONE:

La tagliata di manzo vi sembra ancora una cosa tristissima?

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1. Prendete la padella o il wok e mettetela sul fuoco, insieme ai 3 cucchiai di olio extravergine d’oliva. Ricordate il mantra appreso poco più su: cottura super veloce stir-fry, padella rovente, zero umidità, grasso per veicolare il calore. 2. Prendete la Rump Steak; eliminate (se lo ritenete necessario) il grasso in eccesso. 3. Tagliate in maniera perpendicolare, grazie all’ausilio di un coltello da chef adatto, la vostra Rump Steak a striscioline. È importante la posizione del taglio: il nostro obiettivo è non rompere le fibre della carne. 4. Quando la padella (o il wok) sarà rovente, mettete le striscioline di carne in padella. Ricordate: cottura veloce e ad altissima temperatura. Non importa se non sarà uniforme, andremo a condirla ed insaporirla ulteriormente dopo. 5. Sistemate la carne nei piatti. 6. Prendete il Parmigiano Reggiano GLC Top Selection e, con un coltello da formaggio, fate cascare abbondanti fiocchi di Parmigiano su ciascun piatto. Vi assicuriamo che a contatto con il calore della carne, l’odore sarà irresistibile anche per il più impenitente. 7. Nel frattempo, in un frullatore a immersione frullate insieme rucola e olio, poi prendete l’olio extravergine d’oliva ormai aromatizzato alla rucola e condite i vostri piatti. 8. Tagliate il pomodoro insalataro a fette sottili. Posizionate qualche fetta di pomodoro su di un lato di ogni piatto. 9. Aggiungete il rub. 10. Visto che ve lo chiederanno, anche se formalmente carbs-free: tostate qualche fettina di pane sul dispositivo e fornitela come “appoggio” per la scarpetta finale tra l’umami del formaggio, l’olio extravergine d’oliva ed i succhi della carne.

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Intramontabile, semplice, irresistibile

CHEESECAKE ALLE FRAGOLE

Torta al formaggio: la fate facile, voi. Come se ne esistesse una sola, di un solo tipo. Di torte al formaggio e di formaggio, ne esistono di tantissimi gusti e varietà: possono essere dolci o salate, cotte al forno e senza cottura, con basi di pastafrolla o di biscotto, ma anche di cracker sbriciolati, sempre ben amalgamati col burro. Tutto questo perché l’ingrediente principale per il suo carattere neutro si abbina facilmente a molti sapori ed è buono sia fresco che cotto. Esistono dunque molte ricette della torta cheesecake, quasi ogni Paese ha la propria, ma sicuramente quella più conosciuta e amata nel mondo è la versione fredda statunitense: una base di biscotto sormontata da un generoso strato di crema fresca al formaggio, resa ancor più soffice dall’uso della panna e ancor più gustosa dall’ingrediente usato per arricchirla, di solito frutta, cioccolato, caffè, frutta secca.

La cheesecake nell’ultimo ventennio ha conquistato anche noi italiani, grazie ai numerosi e malmostosi programmi di cucina anglo-americana, trasmessi h 24 sui vari canali del digitale terrestre. Ci siamo sentiti tutto molto più cool nel preparae i cup cake oppure quelle torte al burro ricoperte da sculture di pasta di zucchero, talmente elaborate e complicate che Michelangelo ce spiccia casa. La che ese cake, comunque, è sicuramente un dolce di facile preparazione che nasconde un’insidia: se la proporzione di burro e biscotto sbriciolato per la creazione della base è sbagliata o se la base è troppo alta (perché si è usata una tortiera più piccola rispetto alle indicazioni), quest’ultima acquista la consistenza di una lastra di granito, diventando praticamente impossibile da spezzare se non esercitando una forza che potrebbe non rispettare esattamente quanto dettato dal Galateo. Il che potrebbe diventare alquanto spiacevole, sia per l’incolumità delle stoviglie sia per la salvaguardia della dentiera della nonna.

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Questa versione si impone tra fine ’800 ed inizio ‘900 con la creazione del famoso cream cheese, il formaggio spalmabile. Nato nel 1872 dal tentativo fallito di un lattaio newyorkeese William Lawrence di riprodurre il Neufchâtel (formaggio francese a pasta molle, prodotto esclusivamente con latte di vacche della Normandia), nonostante il prodotto ottenuto fosse ben lontano dall’obbiettivo, il risultato fu ugualmente strabiliante tanto che la formula fu acquistata qualche anno dopo dalla Kraft. Il resto della storia lo conosciamo tutti, compresa Kaori (citazione che riconosceranno solo i più appassionati della pubblicità italiana anni ‘90). Piccolo inserto linguistico, per appas-

sionati. Stiamo parlando al femminile, LA cheesecake; va ricordato che inizialmente il termine è stato inserito nel Dizionario italiano Garzanti come IL cheesecake; attualmente, Zingarelli riporta sia la versione maschile che quella femminile. A tradurlo in italiano, verrebbe fuori “torta di formaggio”, quindi ci potrebbe sembrare più consono usare il femminile. Ad ogni modo, vi sono concesse entrambe le versioni. Insomma, un dolce adatto davvero a tutti, anche ai linguisti più fluidi.

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PICCOLE TRACCE DI TORTA AL FORMAGGIO Le prime tracce della torta al formaggio risalgono alle Olimpiadi svolte sull’isola di Delos nel 776 a.C., dove si usava rifocillare gli atleti con una sostanziosa torta di ricotta di pecora e miele. Come sempre, gli esportatori della delizia furono i romani che crearono la placenta, dolce tipico dei banchetti. Era un dolce ripieno di ricotta ovina e miele, fatto con diversi strati sottili di sfoglie di farro. Da lì in poi, l’usanza di servire dolci col formaggio non si è più arrestata e nei secoli sono nate molte declinazioni di quella prima idea. In Italia, possiamo dire di avere cheesecake sia dolci che salate praticamente in ogni regione dello Stivale. La ricetta che andiamo a proporvi è diventata ormai un grande classico: la cheesecake alle fragole. Infatti, il sapore del latte unito alla piacevolezza del frutto rosso è un connubio intramontabile. In questa preparazione la leggera acidità della frutta smorza il carattere burroso della crema esaltandone il gusto, mentre il morbido sapore neutro del formaggio, avvolgendo la fragola, ne amplifica la dolcezza. A rendere il tutto più delizioso e armonioso è la croccantezza della base e la leggerissima salinità tipica dei biscotti usati, che contribuisce ad esaltare e a intensificare il carattere dolce degli ingredienti, senza che uno surclassi l’altro. Per rendere la torta più sfiziosa alla vista, invece di presentarla nella sua forma classica tonda, prepariamo tante piccole monoporzioni in vasetto, facili da trasportare, quindi ottime per un picnic.

INGREDIENTI per 8 monoporzioni

200 g di biscotti (tipo Digestive, o comunque biscotti secchi) 120 g di burro 130 g di zucchero 50 g di zucchero a velo il succo di mezzo limone 400 g di formaggio spalmabile 200 g di panna liquida per dolci 400 g di fragole fresche qualche fogliolina di menta fresca

PREPARAZIONE 1. Lavate le fragole sotto l’acqua corrente, tagliatele in piccoli pezzi e aromatizzatele con lo zucchero a velo e il succo del limone. Lasciatele macerare in frigo per un’ora circa. 2. Passate alla preparazione della crema: in una ciotola capiente lavorate insieme il formaggio e lo zucchero con la frusta elettrica. 3. A parte montate la panna e poi unitela al formaggio mescolando dall’alto verso il basso con delicatezza per non smontare il composto. 4. Preparate la base: sbriciolate i biscotti nel mixer fino a ridurli in polvere. 5. In un pentolino sciogliete a fiamma bassa il burro - non deve friggere - dopodiché unitelo ai biscotti sbriciolati e mescolate bene. 6. Prendete i vasetti: prima inserite i biscotti sbriciolati, facendo una base non uniforme senza premere troppo, in modo da non renderla troppo compatta. Fate un primo strato di crema, mettete le fragole, ricoprite con la crema e guarnite con le fragole. 7. Riponete in frigo per almeno 4 ore.

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8. Prima di servire decorate con 2-3 foglioline di menta fresca.

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L'Arte Bianca a cura di Alessandro Trezzi illustrazioni di Ozzy Bellesi

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n una delle nostre isole più belle e calde c’è un mondo magico, fatto di profumi, colori e schiamazzi, e che porta l’intrepido nome di rosticceria siciliana. A piantare le radici di questo rituale furono i Greci, che sbarcati sul litorale ionico nel 735 a.C. portarono con loro ulivi, farro ma soprattutto conoscenze, come le prime tecniche di vendemmia. Il farro fu particolarmente importante per la creazione della cucina locale: veniva macinato e utilizzato per preparare pane, pasta e le prime basi dolci simili alla pasta frolla, oppure veniva usato intero in chicchi per arricchire le zuppe. A dare vita alla maestosa tradizione sembra sia stato Federico II di Svevia, grande amante della buona tavola e mecenate della cultura gastronomica, che era solito organizzare banchetti sontuosi, integrando molti elementi della cucina araba da cui l’isola ha ereditato l’arte della frittura, l’uso del sesamo, dello zucchero di canna e della cannella. Ovunque si vada, per le strade delle piccole e grandi città, è possibile trovare i fantomatici “pezzi”, uno dei tanti cibi da strada siculi al pari di arancini, sfincione, pane ca’ meusa, cannoli e panelle: i rollò con i würstel, le cartocciate (o calzoni) con mozzarella e prosciutto crudo, crocchè di patate, le pizzette e le meno diffuse ravazzate. Tipico street food palermitano, la forma di queste ultime potrebbe trarre in inganno: all’esterno sono molto simili alle classiche brioches da colazione, che i siciliani sbranano insieme a granita o gelato, ma il cuore è ben diverso, fatto da quel medesimo ragù di carne e piselli tipico dell’arancino. Un pan brioches golosissimo, il più delle volte cotto al forno ma che trova un avido posto sui banconi anche in forma fritta, con il nome di rizzuola. Il termine “ravazzata” in Sicilia non è utilizzato soltanto per la specialità palermitana: con la stessa parola, ad Alcamo (nel trapanese) si indica un dolcetto composto da un involucro di pastafrolla senza uova, ripieno di ricotta e gocce di cioccolato. Non a caso, nel Dizionario Siciliano-Italiano pubblicato a Palermo nel 1840, “ravazzata” è tradotto semplicemente con “specie di torta”, senza alcun riferimento alla farcitura di carne e piselli, mentre con il diminutivo “ravazzatina” si intende una “specie di pagnotta piena”.

Che dite, vogliamo vedere come si fa?

Il metodo e la scelta della farina Di fatto le ravazzate nient’altro sono che dei similbrioche bun ricolmi di saporitissimo ragù; lavoreremo quindi sul nostro metodo standard, sostituendo tuttavia il latte all’acqua per alleggerire leggermente l’insieme e godere di un’esperienza meno collassante ma ugualmente viva. Inutile ricordarvi che la farina è l'ingrediente più importante di ogni lievitato, e che ogni prodotto dell'arte bianca non può prescindere da una farina selezionata consapevolmente e in maniera specifica. Perché la vostra brioche risulti leggera, ben sviluppata ed equilibrato nel gusto, la scelta migliore ricade su una tipo 00 o 0 con una forza di 280W-300W ed un'ottima percentuale di assorbimento minimo. Tenete presente che tra gli ingredienti figura una quantità consistente di grassi ed elementi di peso; a tal scopo, una maglia glutinica salda sarà in grado di sostenerne perfettamente il carico, oltre a trattenere i gas della lievitazione e conferire struttura, solidità ma anche morbidezza.

Uova e grassi Il burro è molto importante per rendere l’impasto più estensibile, malleabile, e avvolgendo le bolle di anidride carbonica che si formano durante la lievitazione le stabilizza. L’alveolatura diventa così più omogenea e la struttura della mollica molto soffice; tali fattori aumentano notevolmente la shelf-life del prodotto finito. Le proteine dell’uovo hanno invece proprietà schiumogene e coagulanti nell’albume ed emulsionanti nel tuorlo. La combinazione di questi elementi è la via più semplice e utilizzata per realizzare una brioche eterea, di colore ambrato, sapore dolciastro e morbidezza irresistibile; non è certo l’unica strada per le nuvole, ma è sicuramente la più efficace.

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Oltre alla versione classica con il sugo e il macinato, nelle abitazioni palermitane è diffusa anche la ravazzata con gli spinaci e la ricotta di pecora, una ricetta delicatissima più adatta alla stagione estiva.

Tipicamente invernale, invece, è la variante con cimette di cavolfiore lesse, salsiccia, formaggio primo sale e olive nere, riportata dalla gastronoma Alba Allotta nel volume “La cucina siciliana in 1000 ricette tradizionali”.

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PREPARAZIONE DEL RAGÙ

INGREDIENTI per 15 ravazzate

1 kg di farina 00 di grano tenero (300 W); 500 g di acqua; 170 g di burro morbido; 1 uovo intero (a temperatura ambiente); 1 tuorlo (a temperatura ambiente); 50 g di zucchero semolato; 5 g di malto diastasico; 25 g di sale fino; 10 g di lievito di birra fresco (4 g se secco).

per il ripieno 250 g di manzo tritato; 250 g di maiale tritato; 150 g di piselli freschi; 300 ml di salsa di pomodoro; una cipolla bianca; una carota;

Il miglior consiglio è, come accade per gli arancini, di preparare il ripieno con un giorno di anticipo facendolo raffreddare in frigorifero, in modo tale da poterlo gestire meglio in fase di farcitura. In una pentola fate un soffritto con olio e un trito di sedano, carota e cipolla; dopo circa dieci minuti aggiungete la carne macinata e fatela rosolare, sfumate con il vino e unite i piselli. Aggiungete infine la salsa di pomodoro, diluendo con un po’ d’acqua calda e fate cuocere il ragù per un’ora circa, infine salate e pepate. Versate il ragù in una pirofila, e una volta freddo coprite con pellicola e mettete in frigorifero.

IMPASTAMENTO

Rovesciate in un recipiente ampio (o nella vasca della vostra impastatrice) tutta la farina, il 75% dell’acqua, il lievito sbriciolato e il malto; dopo averli amalgamati bene aggiungete l’acqua rimanente poco alla volta, attendendo che sia ben assorbito prima di aggiungerne un ulteriore quantità. Burro e uova devono necessariamente essere a temperatura ambiente, il primo per agevolarne l’assorbimento, le altre perché l’emulsione possa avere luogo senza problemi di natura fisico-chimica; un’ottima idea è amalgamare i due ingredienti separatamente utilizzando una frusta, aggiungendo poi il composto a poco a poco nell’impasto. Aggiungete anche lo zucchero poco alla volta in quanto, contribuendo ad aumentare in modo sostanziale l’umidità dell’insieme, va amalgamato lentamente per non compromettere la formazione della maglia glutinica.

una costa di sedano; mezzo bicchiere di vino bianco; olio extravergine d’oliva; sale e pepe q.b.

Aggiungete infine il sale (necessariamente lontano dal lievito, o potrebbe inibirne l'azione) e terminate l’impastamento quando l’insieme risulterà liscio, asciutto e setoso e la maglia glutinica si sarà formata. La temperatura interna dovrà essere di almeno 24°C per permettere a tutti i processi fermentativi e alla maturazione di avere inizio senza particolari ritardi.

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Lasciate riposare nella ciotola per circa 15 minuti, poi fate alcune pieghe di rinforzo per rafforzare e stabilizzare il glutine e di conseguenza la struttura dell’impasto.

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PUNTATA

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Posizionate il tutto in un recipiente dai bordi alti ben oliato (soprattutto nella parte superiore, per evitare la formazione della pelle) e lasciate a temperatura ambiente per almeno un’ora per dar modo alla lievitazione di partire, e infine mettete in frigorifero per 18-24 ore a una temperatura di 6°C.

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STAGLIO E FORMATURA

Circa 4 ore prima della cottura togliete dal frigorifero e dividete l’impasto in panetti da 120 g l’uno. Operazione fondamentale, dopo aver pesato i singoli pezzi di impasto, è di schiacciare per bene facendo uscire l’aria formatasi durante la prima lievitazione, in modo da ridistri-

buire i gas sviluppatisi durante l’appretto e rendere la mollica omogenea, senza bolle d’aria indesiderate e dislocate. A questo punto inumiditevi le mani con dell’acqua, prendete una porzione di ragù e posizionatela al centro del fazzoletto di pasta; dopodiché richiudete, avendo cura di sigillare i bordi. Adagiate su una teglia con della carta forno, con la chiusura


verso il basso e i panetti ben distanziati uno dall’altro, coprite con un panno umido e lasciate in appretto a una temperatura di 28°C-30°C. Il consiglio è di non posizionare più di 6 panetti per ogni teglia 30x40, per ottenere un prodotto finito che abbia circa 10-11 cm di diametro.

APPRETTO

In questo frangente potete dare un tocco di personalità con dei classici semi di sesamo, ma anche papavero, zucca, girasole, oppure delle erbe aromatiche, per rendere la vostra ravazzata ancora più accattivante. Dopo circa 4 ore a 28°C-30°C le vostre bombe a mano saranno pronte per essere infornate

COTTURA

Stabilizzate la temperatura del vostro forno a 215°C e cuocete per 15-18 minuti; per verificare l’avvenuta cottura del ripieno bucatele con uno stuzzicadenti e assicuratevi che l’interno sia ben caldo. Sfornate su griglia rialzata, lasciate intiepidire un paio di minuti e preparatevi ad azzannarle ferocemente.

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LA DISPENSA AMERICANA

Diffidate della farina! Across the Pond a cura di Elena Ninotti

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no dei primi traumi del trasferirsi all’estero è spesso rappresentato dal cibo e dagli ingredienti reperibili nel Paese che ci accoglie. A volte è proprio un limite per molte persone, così forte da indurre queste ultime a non volersi trasferire! Può capitare di trovare, nel Paese di arrivo, cibi ed ingredienti con un nome differente ma, molto spesso, succede il contrario. Un paio di esempi classici: l’arcinoto biscotto Oreo al primo assaggio estero sbriciola le nostre certezze, con un gusto completamente differente; oppure la Nutella, molto meno fluida e cremosa di quella che si trova nel Belpaese. Le normative americane in materia di additivi alimentari sono molto diverse e, non lo nego, fanno rimpiangere le stringenti regole europee.

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Giusto per raccontarvene una, qualche mese fa, una giornalista americana di nome Rachel Handler ha fatto scoppiare il Bucatini Gate. Sia lei che i suoi amici, tutti amanti dei bucatini di una precisa marca, si sono accorti un bel giorno che con l’inizio del lockdown questo formato di pasta era sparito dagli scaffali. Interpellata l’azienda responsabile, la prima risposta è stata che, a causa del fatto che quello specifico

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formato era meno richiesto, c’era stata una riduzione della produzione dei bucatini a favore di altri formati più utilizzati in USA. Tuttavia, di quel tipo di pasta non si vedeva nemmeno l’ombra. Alla fine è venuto fuori che, per un qualche motivo produttivo, i bucatini di questa marca non rispettavano lo standard richiesto di 13-16.5 mg di ferro per 500 g. Attualmente sembra che l’azienda italiana abbia provveduto a sistemare il problema e che i bucatini siano pronti a tornare sugli scaffali. Può sembrare una storia assurda, ma tanti prodotti basici sono arricchiti di vitamine o sali minerali. Il latte è arricchito di Vitamina D, le farine di niacina, di ferro, di acido folico, i cereali di tutte le vitamine dell’alfabeto. Insomma, a noi europei fa davvero uno strano effetto. Di sicuro ci sono scelte storiche e sociali del perché questo avvenga, non è solo fatto per incrementare il fatturato delle industrie farmaceutiche.

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Prima di trasferirmi negli Stati Uniti, mi dilettavo di cucina internazionale e quindi ero già abbastanza pratica di ingredienti oltreoceano. Ad esempio, sapevo che la farina americana ”media” veniva definita “all purpose”; tradotto, ” per tutti gli usi”. Mi bastava, tanto io potevo spaziare tra farina per dolci e “antigrumi”, farina con W certificati, semola di varie granulometrie, e altre meraviglie del genere. Le marche disponibili in Italia sono ampiamente sufficienti a panificare come il nostro Alessandro Trezzi vuole, o ancora per permettere anche ai meno avvezzi di avere dolci che siano una nuvola.

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Arrivata qui, sono caduta nello sconforto più totale.

Intanto, ho capito cosa significava davvero, nei libri di ricette americane, setacciare la farina (magari anche un paio di volte). Non so se sia stata l’umidità della Florida, se sia stata una scelta infelice del brand acquistato o altro, ma la mia prima farina si presentò tutta a grumi come il cemento del muratore. Mi veniva da piangere. Da questa prima esperienza infelice, ho capito che dovevo studiarci un po’ su. Chiedendo in giro, la risposta era unanime. Più o meno tutti usano lo stesso brand di farina, che garantisce risultati accettabili. E sottolineo accettabili, perché la farina “all purpose” non è altro che la farina 0, cioè un prodotto leggermente meno raffinato della 00 italiana. Per avere la 00, devi andare su marche italiane o comprare una tipologia espressamente “cake flour” e sperare che non sia solamente farina 0 addizionata di maizena. Questo permette alla pasticceria americana di essere quello che è: fatta di dolci pesanti, farciti di creme al burro o al formaggio Philadephia e similari, ricca di biscotti pieni di zucchero di canna e burro, o di frittelle. È difficile trovare pastafrolla e dolci soffici che richiederebbero, appunto, prodotti più raffinati. In realtà il problema della scelta delle farine è molto più complesso, perché non coinvolge solo la qualità dei prodotti finali, ma anche la salute del consumatore. Le farine americane, infatti, presentano delle diciture strane, agli occhi di noi europei. Bleached e unbleached, bromated flour, enriched… (sbiancata e non sbiancata, bromata, arricchita di... )


Sinceramente, in tanti anni, mai avevo letto queste diciture su un pacco di farina. Tanto per iniziare, vi spoilero che non le avete mai lette neanche voi, visto che in Italia tali trattamenti sono vietati, figuratevi pubblicizzarli sull’etichetta. Conosciamo insieme questo mondo di farine addizionate. La farina bromata, con aggiunta di bromato di potassio, è una farina che permette una maggior elasticità e una miglior lievitazione dell’impasto. E’ proibito in quasi tutto il mondo, ma non negli USA. In teoria, infatti, dovrebbe degradarsi completamente nella cottura ma, se questa avviene in modo imparziale, ne possono rimanere tracce ed è un additivo che figura nella categoria dei sospetti cancerogeni. La farina bleached, invece, si ottiene utilizzando il cloro come sbiancante. Di norma, una volta prodotta la farina, questa deve essere fatta maturare per diversi mesi, durante i quali diventa più ricca di glutine e più saporita, dando origine a impasti più elastici e profumati, ma mentre questa è la prassi europea, qui in USA viene “candeggiata” (bleach è la candeggina, appunto) per velocizzarne la messa in commercio e ridurre i tempi di stoccaggio (che

potrebbe portare a deperimento del materiale). Ricordiamoci che la “all purpose” è una farina 0, quindi si presenta più grigia delle 00. Sbiancandola, dà l’impressione di essere più raffinata, permettendo quindi di avere una farina dall’aspetto più pregiato a un prezzo popolare (d’altronde, è un prodotto che deve coprire ampi strati di popolazione, e la forbice sociale qui è ampissima). Queste lavorazioni chimiche portano, inevitabilmente, a impoverire la farina di nutrienti, soprattutto di ferro e di vitamine del gruppo B. Ecco che quindi si provvede a reintegrare tali sostanze mediante un’aggiunta successiva, che trovate come ”enriched flour”. Con questi trattamenti, in pratica, si tratta di aggiungere alcune sostanze che portano lo stesso risultato dell’invecchiamento naturale abbassando i prezzi e riducendo i tempi. Con buona pace della salute del consumatore. Sebbene alcuni autori di libri di cucina trovino un senso alla bleached, sfruttandone la maggior acidità e quindi la maggior reattività verso gli agenti lievitanti chimici (baking powder), vi consiglio di passare oltre. Meglio un po’ di latticello (buttermilk) o dello yogurt, secondo me. Considerate che farine “speciali” come quella autolievitante, sono quasi sempre bleached.

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Anche trovare farine particolari, come la Manitoba o la farina per dolci non è semplice. In commercio si trovano le Bread Flour, sulla carta buone per panificare ma, a mio avviso, non sono neanche simili a quelle che trovavo in Italia nella grande distribuzione (figuratevi nei canali specializzati). Durante la quarantena, visto che anche questa è diventata introvabile, ho imparato ad aggiungere 1 cucchiaio di glutine sfuso (che qui si trova comunemente) alla farina commerciale. Il risultato è buono e la pasta è bella elastica. Faccio la stessa procedura per ottenere farine buone per i dolci. Aggiungo un cucchiaio di fecola di mais a una farina povera di proteine. D’altra parte, leggendo gli ingredienti, ho scoperto che alcuni brand famosi vendono proprio questo mix, quasi al doppio della farina normale, sotto la dicitura Cake flour... e mi sono sentita un po’ presa in giro. L’avvertenza che mi sento di suggerirvi, in caso di un viaggio in USA, è di leggere gli ingredienti dei prodotti confezionati, perché spesso queste farine “sofisticate” non vengono commercializzate sui banchi del supermercato, ma utilizzate come materia prima per prodotti confezionati. Dopo un periodo di assestamento e prove, si impara quali siano le marche che danno più affidabilità dal punto di vista della qualità e diventa più semplice ma, all’inizio, si fa davvero tanta fatica, soprattutto perché sono cose a cui noi non abbiamo mai dovuto pensare. Non nego che, quando vedo farine appetibili nei negozi forniti di brand italiani, queste finiscono rapidamente nel carrello, nonostante il prezzo da gioielleria!

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Vi lascio la ricetta di un dolce tipico del picnic americani. Si tratta di un classico dessert per i festeggiamenti del 4 luglio ed è davvero adatto ai primi caldi. In questo caso, è di pesche. Ma nulla vi vieta di usare un mix di frutta, come albicocche e pesche, o aggiungere dei frutti di bosco freschi o surgelati al ripieno.

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PEACH COBBLER

Ingredienti Per il ripieno: 10 pesche a pezzi grossi, con o senza buccia / 2 cucchiai di zucchero / 2 cucchiai di Maizena o farina

Per il biscotto: 250 g farina / mezza bustina di lievito per dolci / 40 g di zucchero / 50 g burro / 1 uovo / 125 ml di latte / un pizzico di sale Preparazione: 1. Mescolate pesche, zucchero e maizena. Lasciate riposare il ripieno in una ciotola e preparate la crosta. 2. In una ciotola mescolate il burro freddo a pezzetti con la farina, sale, lievito e zucchero fino ad avere un impasto a grossi fiocchi. Potete lavorarlo anche in un mixer con funzione pulse. 3. Aggiungete il latte con l’uovo sbattuto e lavorate con una spatola, ottenendo un composto a grossi pezzi: non aggiungete tutto il liquido se vedere che non è necessario. 4. Versate il composto di pesche in una pirofila da 2 litri e coprite con l’impasto a grossi fiocchi. 5. Spolverate con zucchero e coprite con un foglio di alluminio. 6. Cuocete in forno caldo a 180°C per 30 minuti, poi levate l’alluminio e fate dorare per altri 15 minuti, o fino a che non è bello colorato. Si serve freddo o tiepido. Potete preparare le basi il giorno prima e assemblare e cuocere qualche ora prima di servire. Servite con gelato alla vaniglia in accompagnamento.


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L'Arte Casearia a cura di Giovanni Minelli

Dell'assaggio di un formaggio, cosa si dice? M angiare sazia la fame; assaggiare sazia la curiosità. L’assaggio ci predispone o meno al mangiare, o magari all’acquistare. Io sono sempre molto curioso quando si parla di formaggi e, oltre le spese dai miei produttori e dettaglianti di fiducia, mi capita spesso di acquistare online. Non posso sapere prima dell’acquisto se quel prodotto sarà di mio gradimento ma sono contento e con animo curioso. All’assaggio, alla degustazione, voglio dare il giusto tempo. Si perché in effetti non parlo dell’assaggio davanti al banco della gastronomia per capire se un prodotto fa al caso mio, parlo di una vera e propria degustazione per capire cosa mi piace di quel prodotto, cosa mi colpisce, e dove, nella mia personalissima classifica si andrà a posizionare. Chiaramente più formaggi assaggerò, più avrò un campione vasto in testa, aumenterà la variabilità. Non va considerato come un mero esercizio di stile, ma come uno strumento da adottare per entrare in intimità con il formaggio, capirlo e saperlo scegliere in base alle necessità.

Quando degustiamo un qualsiasi prodotto, di fatto lo stiamo sottoponendo ad una valutazione delle qualità organolettiche, una valutazione sensoriale che quindi terrà in considerazione tutte le percezioni che ci restituisce. Terremo in considerazione l’aspetto visivo, quello tattile, quelli olfattivi con gli odori e gli aromi, quello gustativo con i sapori e quello uditivo. Per parlare in maniera puntuale di questi argomenti si dovrebbe scrivere un libro anziché un articolo, quindi prendiamo queste righe come fossero un punto di partenza, una base per ulteriori approfondimenti.

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Quando ci troviamo difronte qualsiasi cosa, il primo senso coinvolto è la vista e partiamo da qui. Con cosa ho a che fare, come si presenta? Si tratta di un formaggio che già conosco e che ho già assaggiato? Ho una idea riguardo cosa aspettarmi? Si tratta di una forma intera o di una porzione? Da quanto tempo sarà aperto, come sarà stato conservato? Questa serie di domande attende risposte ma il bello viene quando mettiamo in ballo l’olfatto ed è proprio su questo senso che vorrei concentrami maggiormente. Faccio alcune considerazioni random a riguardo prima di entrare nel vivo della questione.

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L’olfatto agisce seguendo due vie distinte: quella ortonasale e quella retronasale. La prima via riguarda l’insieme dei sistemi cerebrali coinvolti quando annusiamo un alimento, mentre la seconda utilizza i sistemi coinvolti quando il cibo transita nella cavità orale e le molecole volatili dell’alimento sono portate all’epitelio olfattivo grazie ai movimenti di masticazione e deglutizione.


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Molte delle persone che hanno contratto il SARS-CoV-2 hanno riscontato la perdita temporanea dell’olfatto e del gusto. Questo ha reso per loro indistinguibile il cibo, se avessero mangiato ad occhi chiusi avrebbero potuto confondere una mela per una pera.

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Posso riconoscere solo ciò che conosco e questa ovvietà vale anche per odori ed aromi. Questo per dire che più elementi assaggiamo, più variabilità avremo nel nostro personale database, insomma, è un invito alla curiosità. Sul davanzale della finestra che ho in cucina tengo una piantina di menta che uso per il mojito. Se mi avvicino con il naso per sentirle il profumo delle foglie, non dico che sia impercettibile ma è molto flebile. Nel momento in cui scuoto le foglioline il profumo diventa molto più intenso: particelle volatili. Col formaggio faremo la stessa cosa, libereremo queste molecole, non scuotendo un pezzo di formaggio, bensì fratturandolo.

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Abbiamo osservato il campione ed abbiamo estrapolato da esso delle informazioni: forma, facce e scalzo; la tipologia di superficie esterna e il suo aspetto, il colore e la presenza di eventuali fioriture. Aprendo la forma ed osservando all’interno potremo valutare il colore della pasta, se è presente occhiatura e di che tipo. Avremo avuto modo di osservare se è presente erborinatura, di quale colore e com’è distribuita. Avremo avuto modo di valutare la struttura della pasta, sia alla vista che al tatto. Ora prendiamo in mano la fetta, o la scaglia che sia, ed otteniamo delle prime informazioni olfattive. Portando la porzione al naso procederemo a fratturarla per saggiarne gli odori, sia lontano dalla crosta sia sulla crosta, se presente ed edibile. Si può procedere con lo scomporre i vari odori percepiti e se necessario si ripete l’operazione dopo una decina


di secondi. Ripetere l’operazione troppe volte può essere controproducente poiché si va incontro a fenomeni di assuefazione. Gli odori, come gli aromi, possono essere distinti utilizzando dei descrittori principali, che potranno essere ulteriormente scomposti in descrittori sempre più specifici. Quelli principali sono: lattico, vegetale, floreale, fruttato, tostato, animale e speziato. A questo punto possiamo portare alla bocca il nostro campione, che dovrà essere piccolo, tra i 5 e gli 8 grammi, come un’unghia per intenderci. In bocca avremo modo di valutare sia gli aromi, i sapori e la consistenza oltre che le percezioni trigeminali come la piccantezza, l’astringenza o i sentori metallici, tanto per citarne alcuni. Scalderemo il campione tra lingua e palato per poi procedere con la masticazione lenta, facendo entrare aria in bocca che espelleremo dal naso per la restituzione degli aromi, che potrebbero essere in linea con gli odori riscontrati prima o restituirci sensazioni diverse o più dettagliate. I sapori di norma sono presenti tutti, quindi dolce, salato, acido ed amaro, ma con intensità e persistenze differenti. L’amaro specialmente, può essere un difetto, ma anche una caratteristica peculiare di alcuni formaggi o di alcuni processi caseari.

Il formaggio stesso dovrà essere a temperatura, quindi tolto dal frigorifero con un paio d’ore di anticipo, per poterlo saggiare tra i 15°C e i 18°C. La porzione da assaggiare dovrà essere rappresentativa, quindi con una quota di buccia o crosta, anch’essa è parte del formaggio. Altra piccola regola: non strafare. Assaggiare in una sola sessione tanti formaggi diversi non servirà a nulla, perderemo la capacità di comprendere le diversità e peculiarità dei formaggi. Ci possiamo orientare sui 3 o 4 formaggi e procederemo con l’assaggio dal più dolce

o delicato verso i più sapidi e persistenti, o dai più freschi ai più stagionati, come facciamo ad esempio in una verticale, nella quale assaggiamo la stessa tipologia di prodotto a diversi gradi di maturazione. Per convenzione si dispongono i formaggi nel piatto come fossero i numeri sull’orologio, così da procedere in senso orario dal primo fino all’ultimo. Se stiamo assaggiando dei formaggi dagli aromi decisi e persistenti, come degli erborinati, sarà necessario pulire la bocca tra un formaggio e l’altro. A tale scopo possiamo utilizzare la classica mela verde, acquosa ed acidula, sarà perfetta per sgrassare il palato e prepararci al campione successivo. Col tempo avremo modo di approfondire molti di questi aspetti, ma tengo a precisare che questo sistema di valutazione dei formaggi, i descrittori e il metodo, sono stati catalogati e d imp ostati da ONAF, Organizzazione Nazionale Assaggiatori Formaggi. ONAF promuove la cultura casearia e forma gli assaggiatori in tutta Italia.

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Vediamo però come predisporsi all’assaggio, o meglio, come metterci nella condizione di essere più oggettivo ed efficiente possibile. Non si assaggia solo con i sensi ma con la mente: occorre concentrazione, calma

e benessere. Tutte le fonti di stress sono da considerarsi antagoniste di un corretto assaggio. Occorre liberare la testa da eventuali pregiudizi ed essere in un ambiente neutro: temperatura ambientale confortevole, luce naturale ed aria pulita, quindi sono al bando anche i profumi per la persona. La bocca pulita e libera da essenze aromatiche è fondamentale, bisognerà quindi evitare il fumo, il caffè, la liquirizia ma anche le paste dentifricie, tutto ciò che è invasivo e persistente.

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Consumi di carne bovina: un mercato che non ha paura del Covid-19

Questo è un Magazine che parla e vive di carne. Alla luce di quanto siano cambiate le nostre abitudini durante l’annata 2020-2021, sarebbe il caso di fare “due conti” al rapporto tra gli italiani ed il consumo di carne, che ha subito una notevole oscillazione al rialzo. Il consumo di carne complessivo in Italia supera il 20% della spesa totale degli italiani (Inea, 2004) ma negli ultimi anni ha subito delle notevoli oscillazioni; spesso queste ultime non sono derivate da un reale riscontro di gradimento delle famiglie, quanto da cambiamenti legati agli scenari socio-economici. La carne è infatti uno degli alimenti più simbolici dal punto di vista sociale e molto spesso il suo consumo riflette l’andamento di un Paese, soprattutto di uno ricco come l’Italia. Il consumo di carne, soprattutto bovina, è infatti iniziato a crescere in corrispondenza del boom economico degli anni Ottanta e ha subito molte oscillazioni durante gli ultimi dieci anni, principalmente per motivi salutistici e culturali.

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Il consumo di carne bovina in Italia

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Durante i primi mesi del 2020, a dispetto della pandemia e dei profondi sconvolgimenti sociali che il mondo ha subito, in Italia si è registrato un aumento del 7,3% nei consumi di carne bovina (fonte Ismea - Istituto di Servizi per il Mercato Agricolo Alimentare 2020). La carne bovina rimane quindi, a dispetto delle ristrettezze economiche, tra i pasti preferiti degli italiani, e rappresenta il 33% del totale di carni scelte - superata solo da quella avicola (35%) ma avanti a carne suina (17%). La variazione è importante soprattutto se si considera che nel 2019 il consumo di carne bovina era in realtà sceso del 3,5% (variazione 2018/2019 - fonte: Commissione Europea) seguendo una tendenza


simile in tutta Europa, che nello stesso anno aveva registrato un calo di consumi del 2,3% totale. In Italia ha contribuito anche l’aumento in volumi (+4,9%) probabile conseguenza delle restrizioni che hanno costretto i consumatori a privilegiare i pasti in casa. A trainare gli acquisti domestici sono le carni di bovino adulto, che rappresentano circa il 60% dell’offerta, per cui gli acquisti in volume sono cresciuti del 5,7%. Molto richiesta la carne di scottona, nonostante rappresenti ancora un mercato di nicchia: i prezzi medi al dettaglio continuano a salire (+8,2%). Il prodotto che invece soffre di più è la carne di vitello, per la quale la domanda al consumo non ha mostrato grande interesse, solo +0,9% i volumi. I dati parlano di un’effettiva inversione di tendenza che, una volta ancora, si dimostra sociale: nonostante negli ultimi anni gli italiani abbiano sempre cercato un’alternativa al bovino, spinti da nuove tendenze più salutiste o da una ricerca sempre più impellente della novità, in una fase importante come quella del COVID ci si è rifugiati di nuovo sulla carne rossa, privilegiando un prodotto di qualità e conosciuto dalle nostre tavole.

La carne in Europa e nel mondo

Il consumo di carne di un paese segue principalmente due fattori: il benessere economico e la crescita della popolazione. Non stupisce quindi che i principali paesi consumatori di carne bovina siano USA, Brasile e Cina. Segue l’Argentina, il cui rapporto con la carne bovina è storicamente consolidato, e l’India, tra i paesi più popolati al mondo. Nel complesso il consumo di carne bovina è aumentato del 1,6% totale, con una variazione 2018/2019 diversa per ogni paese: negli Stati Uniti si è verificato un aumento dell’1,5%, in Brasile dello 0,2%, in Cina del 2,1%, in Argentina del 1,4% e in India del 1,9% (Fonte: Fao). Quando si tratta di mangiare carne però, l’Argentina vince su tutto il mondo: si stima infatti un consumo di circa 39.9 kg all’anno per ogni abitante.

E il futuro? Difficile prevedere cosa ci

riserverà il futuro; la situazione è molto incerta e gli equilibri mondiali sono stati sconvolti nell’ultimo anno, rendendo quasi impossibile fare delle previsioni. La stessa Fao stima per il decennio 2020/2030 un’ulteriore crescita soprattutto nel mercato asiatico, in corrispondenza con la crescita economica (la stima è di un consumo fino a cinque volte superiore), ma non si sbilancia con dati più precisi. Una cosa, però, possiamo facilmente prevederla: sempre di più nel mondo si avrà voglia di una buona bistecca.

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Nel resto del mondo la situazione non è dissimile, anche se il trend non è mai cambiato. Una volta ancora i consumi di carne continuano a salire, in una crescita che non ha ancora trovato un punto di frenata. Dagli anni ‘60 agli anni ‘90, il consumo di carne nelle diverse parti del mondo è

aumentato di 5 volte, passando dai 45 milioni di tonnellate nel 1950 agli attuali 300 milioni. Questi numeri sono destinati a raddoppiare entro il 2050 (fonte: Fao). Ancora una volta le ragioni di questo aumento sono da ricercarsi nella condizione economica e sociale dei diversi paesi, che crea degli squilibri mondiali piuttosto importanti.

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Arroganti e mediocri: gli chef della realtà instagrammata

“Ancora la descrizione miracolistica di uno chef? No basta, per favore, ne abbiamo i monitor pieni (…) Lo chef non è un Dio, non cammina sulle acque. No, lui cucina."

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ito il nostro Gianfranco Lo Cascio per iniziare questo articolo, estrapolando questo discorso da un pezzo che scrisse qualche anno fa e che aveva come argomento la tendenza ormai dilagante a considerare gli chef come gente “che dovrebbe salvare le sorti del pianeta” con descrizioni

De Gustibus a cura di Michela Bongiorni

entusiastiche e sensazionalistiche, che però poi si rivelavano “fuffa in pompa magna”. Quell’articolo, ovviamente, fece indignare chef e giornalisti, ma diceva una grande verità: negli ultimi quindici anni abbiamo assistito alla vera e propria santificazione, in tv e sui giornali, di una professione che da mestiere faticoso è diventato uno status symbol. Gli chef hanno smesso i panni da cuochi e sono diventati star. Opinionisti, nuovo filosofi, influencer, storici, politici, scrittori, artisti, musicisti: non c’è praticamente un solo argomento su cui non si ascolti la loro opinione e non la si prenda come oro colato. E, ad un certo punto, anche loro hanno cominciato a crederci.

La polemica Sia chiaro, non voglio fare una polemica contro quelli che ormai vanno in tv e che sono diventati famosi, ma che hanno raggiunto certi traguardi grazie a obiettive capacità dimostrate lavorando duramente in cucina negli anni. No, non è a loro che sto pensando. Il problema è che grazie a questa costante santificazione degli chef, e al loro assurgere all’Olimpo dei vip, anche molti di coloro che in realtà non hanno dimostrato nulla e non hanno raggiunto nessun traguardo, se non quello di lavorare in qualche ristorante più o meno fighetto, si prendono così sul serio da comportarsi come star capricciose immortalate sul red carpet della cerimonia degli Oscar. Andiamo al sodo, finalmente, perché questo articolo ha un motivo: nasce proprio per “tappare il buco” che ci ha lasciato l’ennesimo chef che si era proposto come redattore e che poi ci ha lasciati letteralmente a bocca asciutta. Non dico che siano tutti così, ci mancherebbe. Anzi, ne abbiamo conosciuti di quelli competenti e preparati, talora anche con un filo di arroganza che comunque era giustificata da un’oggettiva bravura. Ma ce ne sono tanti che, per il solo fatto di saper cucinare qualcosa di buono, se la tirano come se ce l’avessero solo loro. Il talento. E a volte, in realtà, non hanno neanche quello.

Spacciatori di fuffa Ed è così che ho pensato di alzare il velo, di raccontarvi alcune delle nostre esperienze con sedicenti chef altolocati che poi, alla fine dei conti, si sono rivelati spacciatori di fuffa aggravata. Vi dirò i peccati, non i peccatori; ma non preoccupatevi, nonostante ciò che queste persone credevano di essere, anche se scrivessi i loro nomi non li conoscereste, a dimostrazione di quanto tutta l’importanza di


cui si ammantavano fosse solo nella loro testa. Partiamo da quelli “esperti di carne”, quelli col menù del ristorante pieno di nomi esotici e termini tecnici; quelli che si presentano snocciolando tutti posti in giro per il mondo in cui hanno lavorato, dal Brasile all’Australia, dal Giappone al Guatemala. Poi chiedi una ricetta con la Picanha e ti rispondono: questa non l’ho mai cucinata, devo studiarci qualcosa. Ma come, non sei stato anni in Brasile? Sì, ma laggiù lavavo i piatti.

Non provate a chiamarli per chiedere qualche informazione sulla carne che loro stessi hanno messo in menù: uno, tempo fa, è riuscito a dirmi questa bistecca è di razza scottona. Non sanno cucinare, non hanno nemmeno mai assaggiato, e talvolta mai visto, una carne molto marezzata. Davanti alla foto di una Sirloin Steak Jap Kyoto Miyabi uno Chef Fuffo mi ha risposto: troppo grasso secondo me non fa bene al sapore. Eh, ma sui profili Instagram poi è tutto un fiorire di fotografie di piatti elaborati, con creme, cremine e cialde di abbellimento, con inutili sciccherie e ingredienti forzatamente ricercati per il solo gusto di potersi vantare nel regno

dove conta ciò che sembra e non ciò che è. Ci sono quelli che non sanno spiegare perché hanno usato un certo tipo di patata rispetto ad un’altra, perché proprio l’aceto di champagne e non quello di mele, perché hanno scelto di cuocere in sous vide per 35 minuti una bistecca dopo averla messa in marinatura per un’ora, e poi l’hanno lasciata sette minuti per lato in padella, servendo così una carne cruda dentro e fuori bolliticcia...ma ehi, accanto ci sono le chips di patate viola e le cialde di prosciutto crudo con crema allo zafferano acido e senape all’arancia! Ormai è assodato, più si danno arie e meno sono preparati: non è così per tutti (non è mai un discorso assolutistico) ma lo è per molti. Dicono di aver studiato moltissimo e di aver collaborato con chef stellati e

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poi sono ancora fermi alla sigillatura dei pori per non far uscire i succhi, alla cottura senza termometro (ma perché io mi baso sulla mia grande esperienza), al non avere nessuna idea di cosa siano le temperature di cottura (ah, ma davvero una bistecca al sangue va servita a 55°C al cuore? Non era 65°C?). Non sanno spiegarti una ricetta: è così perché è così, ma l’ho studiata IO per te! Pretendono di dettarti la lista degli ingredienti in un messaggio vocale su whatsapp e poi la ricetta la scrivi tu, mica posso perderci tempo io! Credono di poter dare consigli sull’impaginazione o sul contenuto editoriale del Magazine, perché hanno collaborato con una nota casa editrice e poi scopri che hanno stilato una lista della spesa per il libro di ricette di un comico di Zelig. Vedi i loro social pieni di hashtag #oggisperimentiamo #gourmet #michelinstar ma non sanno spiegarti quale sia il ragionamento dietro a certi accostamenti, ammesso e non concesso che il ragionamento ci sia. Ci sono quelli cui magari devi fare delle foto mentre sono al lavoro e si preoccupano più delle loro sopracciglia ad ali di gabbiano che degli abiti adatti. Ormai non sanno quasi più cosa significhi indossare un paio di scarpe da lavoro, sembrano tutti testimonial della Nike. E se casomai volessi fare un’intervista a uno di loro? Siori e siore: ci sono anche i complottisti! Non ti lascio messaggi, è meglio una chiamata su Telegram, potrebbero intercettarci: quando la differenza tra l’inventare (o copiare) un piatto e trattare di cooperazione internazionale non è forse molto chiara.

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Instagrammazione della realtà

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Potrei continuare all’infinito. La verità rimane dunque una e una soltanto: abbiamo imparato a nostre spese che questa voglia di stupire a tutti i costi, di scioccare con effetti speciali, di falsificare la verità pubblicando sui social l’infinita ombra di una realtà instagrammata e solo immaginata ha portato alcuni cuochi a sentirsi arrivati prima ancora di cominciare, li ha spinti a credersi divinità incontestabili, e a trasformare il loro mestiere (perché di questo dovrebbe trattarsi) in una religione fatta di dogmi. Ma, poi, tutti si scontrano prima o dopo con la dura verità - e anche con le dure donne a capo di questo Magazine che ha come mission proprio la lotta alla fuffa dilagante: tolti i post su Instagram, le collaborazioni sbandierate, i premi millantati e le medaglie lucidate, se non studi e non ti evolvi, partendo dalle basi, non sarai mai degno di entrare in redazione. Meglio un onesto e umile autodidatta, però bravo, di un arrogante, convinto, mediocre chef.


Capitolo V BBQ4All: FROM ZERO TO HERO

Andiamo in diretta! S

i fa presto a dire cottura diretta. Un tempo in realtà la questione era molto semplice: i vecchi griller, e per vecchi intendiamo i grigliatori della domenica nell’era pre-BBQ4All, non si facevano troppe domande. Accendevano il carbone, di solito in quantità abnormi, e riempivano completamente il loro dispositivo, buttando poi la ciccia insieme agli altri alimenti sulle griglie roventi, lasciando infine bruciacchiare e indurire il tutto. I nostri ricordi sono disturbati da salsicce secche, rosticciane dure, bistecche crude dentro e bruciate fuori. Poi è finalmente arrivata l’epoca in cui il griller illuminato ha sentito il bisogno di evolversi e ha cominciato a cercare informazioni, trovando noi pronti ad accoglierlo e a indicargli la via. Ed è così che sono entrati nella sua mente i concetti di cottura diretta e indiretta, di affumicatura, di set up del dispositivo; il griller sulla via della consapevolezza e della redenzione ha imparato a distinguere fra i dispositivi diversi, a usare quella strana boa col coperchio chiamata kettle, a gestire i flussi d’aria e a grigliare più felice. Bene, con questa rubrica, come già abbiamo specificato più volte, siamo tornati volutamente alle origini, in modo da risvegliare chi ancora dorme sonni tranquilli pensando di non dover imparare nulla su questo mondo, ma anche per aiutare tutti gli altri con un ripassino generale. Parliamo dunque di cotture dirette.

Che cosa sbagliano i griller inconsapevoli? BBQ4All Magazine

Quando si pensa a una griglia calda, spesso si fa l’errore di immaginare il dispositivo pieno di carbone, con le fiamme che lambiscono la griglia, oppure un dispositivo a gas con tutti i

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ZONA CALORE INTENSO

ZONA CALORE MEDIO

ZONADI SICUREZZA

bruciatori al massimo della potenza in modalità altoforno. Supponendo di avere a disposizione della carne marezzata, o comunque ricca di grasso esterno, con un set up del genere non appena ci si avvicina alla griglia e si fa il gesto di appoggiare la ciccia sul metallo, il grasso inizia a sciogliersi e a colare copiosamente. Le fiamme e il fumo divampano e il malcapitato griller è costretto a spostare le bistecche...sì ma dove? Sulla griglia infatti non è rimasta una sola zona fredda, ovvero una zona di sicurezza su cui spostare l’alimento senza che il grasso coli sulle braci accese. Non che la situazione migliori con i grill a gas. Il grasso che si incendia toccando la struttura in metallo caldissima scende bruciando fino alla vasca di raccolta. L’unica soluzione, dunque, rimane in entrambi i casi utilizzare un tavolino su cui spostare fuori dalla griglia le bistecche a rischio carbonizzazione. Dopodiché il danno è fatto, il pranzo è rovinato e il divertimento pure. Ma la soluzione c’è.

Il set up a tre zone Esatto, letteralmente tre zone differenti di calore che ci permettano di gestire gli alimenti sulla griglia senza difficoltà e senza doverli spostare su supporti esterni. Si deve dividere la griglia in tre parti e in ognuna di esse predisporre una quantità di brace differente.

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Come si fa coi dispositivi a carbone? Normalmente si inizia da una delle aree esterne, a sinistra o a destra, e si versano due terzi del carbone che si preparerebbe per una grigliata in cottura diretta, poi si procede a versare il restante terzo nella seconda zona, quella centrale, lasciando completamente libera la terza.

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Nel caso di dispositivo a gas, allo stesso modo, si posiziona l’erogatore del primo bruciatore alla massima potenza, il secondo a metà, mentre il terzo rimane spento. Con questo set up non si fa altro che creare delle aree a calore variabile che saranno indispensabili per gestire le cotture dirette senza rischiare disastri irreparabili.


Cottura diretta ad alta temperature Di solito è quella che serve per cuocere alimenti come una bella bistecca (ovviamente precedentemente precondizionata col Dry Brining e/o col Revit, come Zio comanda). Si utilizza quindi la parte del set up a tre zone con più calore, ricordando che in questo modo si accorciano molto i tempi di permanenza dell’alimento sulla griglia; inoltre si può fare affidamento alle zone più fredde qualora si dovessero alzare le fiamme durante la cottura. Capire quali tagli possano essere adatti a far parte della categoria bistecche ed essere dunque predisposti al grilling ad alte temperature non è sempre così semplice e non tutti i tagli possono essere trattati allo stesso modo.

Ma come si fa con quelli più sottili, tipo Inside e Outside skirt, Flank steak, Vegas strip? Si deve capovolgere molto repentinamente la bistecca, con una permanenza media in griglia che può essere compresa tra i 15 e 30 secondi: la bistecca viene girata più volte, la superficie cotta viene portata sopra in attesa che si cuocia l’altro lato e così si riduce il picco di temperatura accumulato in superficie evitando un’eccessiva conduzione e la conseguente disidratazione dell’interno. Risultato, una reazione di Maillard correttamente eseguita, senza carbonizzazioni, e cottura interna più uniforme tra gli strati esterni e il centro. Questa tecnica si chiama Flip&Brush. Ne parleremo ancora.

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Per troppo tempo abbiamo sentito parlare di T-Bone (le classiche Fiorentine) alte non meno di quattro dita da cuocere sette minuti per lato e poi da lasciare per quindici minuti in piedi sull’osso. Il risultato è spesso stato deludente, come abbiamo ripetuto ormai innumerevoli volte. Vi abbiamo dunque insegnato come usare carne frollata e marezzata sia fondamentale per rag-

giungere l’eccellenza, ma anche quanto sia importante asciugare e precondizionare la ciccia in modo adeguato. Solo così tagli abbastanza spessi sottoposti a calore diretto ad alta temperatura risulteranno cotti alla perfezione, con una crosticina gustosa all’esterno e una carne bella rosata all’interno e non fredda.

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Cottura diretta a media temperatura Quando abbiamo a che fare con tagli a fibra spessa e grossolana, che necessitano di raggiungere qualche grado in più internamente o, all’opposto, piccoli tagli molto delicati che devono rosolarsi esternamente evitando di cuocersi eccessivamente all’interno, non va più bene utilizzare la diretta ad alta temperatura.

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Il calore molto violento può infatti non essere la scelta vincente per ottenere il miglior risultato di crosta e succulenza specie quando siamo in presenza di spessi strati di grasso, utili a mantenere morbidezza e insaporire il taglio, ma che possono innescare rovinose fiammate a causa del continuo gocciolamento. L’esempio più classico è dato dalla Picanha cotta sulle spade.

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In questo caso è bene sfruttare la zona mediana del nostro set up dove il calore è ottimale per at-

tivare la reazione di Maillard in tempi abbastanza rapidi ma non è eccessivamente elevato per compromettere irreparabilmente la cottura. Con gli spiedi o le spade da churrasco, nello stile sudamericano, si riesce ad alternare la temperatura sulla carne infilzata, così da permettere al calore più basso di penetrare dolcemente, sciogliendo il grasso in modo da non scaturire fiammate ingestibili, e passando se necessario al calore più alto per velocizzare la cauterizzazione superficiale. Anche nel caso di tagli con presenza di osso, come le costolette di agnello, è un ottimo stratagemma alternare la carne tra il calore elevato per attivare una rapida reazione di Maillard e transitare poco dopo sul calore moderato per proseguire la cottura interna in attesa di una crosticina perfetta.


Cottura diretta a bassa temperatura Abbiamo dunque imparato come il set up a tre zone sia una scelta vincente per il griller consapevole: grazie a questo particolarissimo settaggio, possiamo sfruttare una fascia di calore intermedio davvero molto utile senza sprecare troppo carbone o troppa potenza di bruciatori a gas. Ma possiamo spingerci oltre e andare a utilizzare anche l’ultima zona, spostandoci sul limite in cui sono ancora presenti un minimo irraggiamento e una convezione, che arrivano dalla fonte di calore sottostante l’alimento. Questo ci agevola per rosolare alimenti delicati come piccoli molluschi, seppioline e calamaretti, cubetti di verdura mista o tagli, come le braciole di maiale, che necessitano di una rosolatura lenta per consentire una cottura più avanzata all’interno. In questi casi, se utilizzassimo calore ed irraggiamento ad alte o medie temperature sarebbe un disastro: si avrebbero troppe bruciature esterne e una cottura incompleta.

Dunque non ci resta che utilizzare una diretta a bassa temperatura, agevolando il trasferimento termico agli alimenti con l’utilizzo di accessori in acciaio come basket forati o graticole a doppia maglia. Questi supporti vanno prima riscaldati in modo da far accumulare loro un calore tale da consentire un’ immediata cauterizzazione nei punti di contatto con la materia prima; successivamente potranno essere mantenuti sufficientemente caldi con il protrarsi della cottura, e si potrà agevolare la rosolatura dei cibi mediante grassi aggiunti. Anche la griglia in ghisa è molto utile in questi casi. Non essendoci calore eccessivamente alto, il metallo non avrà una temperatura sufficiente per riscaldare in modo violento i punti di contatto ma, al contrario, darà la possibilità di gestire al meglio tutta la superficie agevolando una reazione di Maillard meno pronunciata ma più uniforme.

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La ricetta scientifica a cura di Gianfranco Lo Cascio

La

pomodoro

“È indispensabile che tutti gli esseri e tutti i popoli saggi della terra capiscano che pane e pomodoro è un paesaggio fondamentale dell'alimentazione umana. Piatto peccaminoso per eccellenza perché comprende e semplifica il peccato rendendolo accessibile a chiunque” Manuel Vázquez Montalbán, Ricette immorali, 1988

Quante versioni di pasta al pomodoro esistono? Centinaia, migliaia forse. Tutti i Paesi, i distretti, i condomíni hanno una loro versione. La guerra dei pianerottoli tra chi la fa meglio inizia di domenica con le zaffate arroganti di pomodoro e basilico che, affamate d’aria, scappano via dai balconi.

Questo apporto cromatico potrebbe infatti non bastare. Ho deciso quindi di inserire tra gli ingredienti della pasta il colorante in gel (o pasta), di quelli che si usano generalmente in pasticceria per colorare la pasta di zucchero o la ghiaccia reale.

La mia pasta al pomodoro scientifica non vuole scuotere la sequoia dei ricordi a cui vivete abbracciati, ma è un pretesto per concentrare il gusto del pomodoro che, oltre a conferire un’importante impronta aromatica, riesce a dipingere sfumature di rosso molto intense.

Il mio intento è quello di fondere i due elementi, la pasta e il pomodoro, non di destrutturare, fabbricando una vera e propria granata umami.

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A volte.

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Perché accontentarsi di una pasta al pomodoro quando si può preparare una pasta DI pomodoro?


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IL POMODORO NELLA STORIA Parliamo dell’emblema dell’italianità, del frutto (sembra strano, ma botanicamente è considerato tale) che trascende le distinzioni regionali e sociali, uno degli alimenti più diffusi in tutto il mondo: basti pensare alla pizza, alla pasta, ai sughi, alla caprese e così via.

Furono le classi popolari che cominciarono a degustarlo per prime, friggendolo nell’olio con sale e pepe, allo stesso modo delle melanzane e dei funghi. Sulle tavole dei ricchi, ancora alla metà del ‘600, il pomodoro compariva soltanto come elemento di decoro.

Il suo ingresso nella cucina italiana è stato tardivo e faticoso: giunse in Spagna dalle Americhe ad inizio del ‘500, ma non ebbe un gran successo, forse proprio perché era una pianta radicalmente nuova, che colpiva ma anche sconcertava per la forma e per il colore rosso acceso. Veniva considerata velenosa in quanto presentava affinità con specie tossiche come l’erba morella e la mandragola.

Solo alla fine del Seicento riemerge nell’alta cucina grazie al ricettario napoletano Lo scalco alla moderna di Antonio Latini (1692/4), nel quale troviamo la «salsa di pomadoro”.

I primi pomodori erano presumibilmente piuttosto piccoli, tanto è vero che venivano scambiati per grosse ciliegie; alcune specie erano gialle e per questo, sembra, gli italiani li battezzarono pomi d’oro (mela d’oro, pomodoro). “Al mio gusto è più presto bello che buono”, dichiarò un medico modenese dell’epoca.

Anche per questo il pomodoro trova piena accoglienza nella cucina italiana del Sette-Ottocento: il toscano Panunto, il romano Leonardi e il napoletano Vincenzo Corrado lo includono ormai senza remore nei loro ricettari. Troviamo le prime testimonianze di associazione con la pastasciutta e con la pizza nel Cuoco maceratese del 1779 di Antonio Nebbia e poi in Cucina casereccia pubblicato nel 1839 da Ippolito Cavalcanti. Il matrimonio con la pasta segna dunque nell’Ottocento, dopo tre secoli dal suo arrivo in Europa, il trionfo del pomodoro: la versione moderna della salsa e dei suoi usi ci è data da Pellegrino Artusi nel 1891.

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L’Italia fu il primo Paese europeo, dopo la Spagna, a conoscere questo frutto, grazie agli stretti rapporti esistenti tra i Borbone e le famiglie regnanti dell’epoca, e ai domini spagnoli su territorio italiano. Ma la sua diffusione nel nostro Paese fu tuttavia assai lenta: la diffidenza iniziale verso il nuovo frutto, non associabile a nessun cibo già conosciuto, ne mortificò a lungo le potenzialità gastronomiche.

Questa diffusione è facilitata dal fatto che il suo utilizzo come salsa di accompagnamento rientra nella modalità d’uso che in un certo senso favoriva l’accettazione del nuovo prodotto, riconducendolo ad una tradizione gastronomica consolidata, quella antica, medievale, rinascimentale.

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BIOLOGIA DEL POMODORO Lycopersicon esculentum I pomodori sono spuntati come piccole bacche amare che crescevano sui cespugli nei deserti della costa occidentale del Sud America. Oggi, dopo la loro domesticazione in Messico (il loro nome deriva dal termine azteco per "frutto carnoso", tomatl) e un periodo di sospetto europeo durato fino al XIX secolo, vengono divorati in tutto il mondo in una grande varietà di dimensioni, forme e colori screziati di carotenoidi.

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A cosa dobbiamo il loro grande fascino? E perché questi frutti agrodolci vengono trattati come una verdura? Le risposte risiedono senz’altro nel loro sapore unico. Oltre ad un contenuto di zuccheri relativamente basso per un frutto (3%), simile a quello di cavoli e cavoletti di Bruxelles, i pomodori maturi racchiudono una quantità insolitamente grande di acido glutammico salato (fino allo 0,3% del loro peso), così come composti aromatici di zolfo. L'acido glutammico e gli aromi di zolfo sono più comuni nelle carni che nella frutta, e questa caratteristica li predispone a completare il sapore delle proteine, o a sostituire quel sapore, e certamente ad aggiungere profondità e complessità a salse e altre preparazioni miste. Questo potrebbe anche essere il motivo per cui, a differenza di molti frutti che da marci hanno un piacevole odore di fermentazione, i pomodori deteriorati puzzano da morire.

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Ad ogni modo, i pomodori sono un alimento buono e giusto, un super cibo da assumere più volte alla settimana. Sono ricchi di vitamina C e le varietà rosse standard forniscono un'eccellente dose di licopene, un carotenoide antiossidante che è presente in dosi massicce nel concentrato che compriamo in tubetto.


I POMODORI COTTI Quando i pomodori freschi vengono cotti per preparare una bella salsa densa, guadagnano alcune sfaccettature di sapori - in particolare sfumature di rosa e viola dei carotenoidi - ma perdono le fresche note "verdi" fornite da frammenti instabili di acidi grassi e da un particolare composto di zolfo (tiazolo).

strettamente alle molecole di colesterolo nel nostro sistema digestivo, così che il corpo non assorbe né l’uno né l’altro. In parole povere, i pomodori abbassano l’apporto netto di colesterolo (anche i pomodori verdi contengono tomatina e hanno lo stesso effetto). Va bene, quindi, rinfrescare il sapore delle salse di pomodoro con le loro foglie.

Poiché il raspo ha un pronunciato aroma di pomodoro fresco grazie ai suoi enzimi fogliari e alle ghiandole oleifere aromatiche prominenti, alcuni cuochi aggiungono alcune foglie alla salsa, verso la fine della cottura, per ripristinare le note fresche.

I pomodori freschi si cuociono facilmente fino ad ottenere una purea liscia, ma questo non accade con molti pomodori in scatola. Le ditte conserviere spesso aggiungono sali di calcio per rassodare le pareti cellulari dei frutti (preservando l’integrità dei pezzi) e questo può interferire con il loro disfacimento durante la cottura. Se volete preparare un piatto dalla struttura fine con i pomodori in scatola, controllate le etichette e scegliete un marchio che non elenchi il calcio tra i suoi ingredienti.

Le foglie di pomodoro sono state a lungo considerate potenzialmente tossiche perché contengono un alcaloide difensivo, la tomatina. Studi recenti hanno scoperto, però, che la tomatina si lega

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LA CONSERVAZIONE DEI POMODORI I pomodori provengono da zone a clima caldo e dovrebbero essere conservati a temperatura ambiente. Il loro sapore fresco risente in maniera massiccia della refrigerazione. I pomodori allo stadio verde maturo sono particolarmente sensibili al raffreddamento a temperature inferiori a circa 13°C: subiscono danni alle loro membrane, che si traducono in uno sviluppo minimo del sapore, una colorazione a mac-

chie e una consistenza molle e farinosa quando riportati a temperatura ambiente. I pomodori completamente maturi sono meno sensibili, ma perdono sapore a causa dell’indebolimento dell'attività enzimatica che produce sapidità. Parte di questa attività enzimatica può essere stimolata nuovamente, in questo modo: lasciate recuperare i pomodori refrigerati a temperatura ambiente per un giorno o due prima di mangiarli.

SALSA DI POMODORO: ENZIMI E TEMPERATURE La passata di verdura più familiare in Italia, e forse nel mondo, è la conserva di pomodoro. I solidi nei pomodori sono per circa due terzi zuccheri saporiti e acidi organici, e il 20% carboidrati della parete cellulare che hanno un certo potere addensante (10% di cellulosa e 5% di pectina ed emicellulosa). Le passate di pomodoro commerciali possono includere tutta l'acqua presente nei pomodori originali, o solo un terzo. Il concentrato di pomodoro è la passata di pomodoro cotta in

modo da contenere meno di un quinto dell'acqua del vegetale crudo. Il concentrato di pomodoro è quindi una fonte concentrata di sapore, colore e potere addensante (è anche un efficace stabilizzatore di emulsioni). Ci sono diverse variabili nella preparazione delle puree che possono influenzare consistenza e sapore finali.

LA CONSISTENZA DEL POMODORO

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La consistenza finale di una passata di pomodoro dipende non solo da quanta acqua è stata rimossa, ma anche da quanto tempo la purea trascorre a temperature moderate o alte. I pomodori maturi hanno enzimi molto attivi il cui compito è rompere la pectina e le molecole di cellulosa nelle pareti cellulari del frutto, e quindi dare al pomodoro la sua consistenza morbida e fragile. Quando i pomodori vengono schiacciati per la prima volta, gli enzimi e le loro molecole bersaglio si mescolano a fondo e i primi enzimi iniziano a rompere le strutture delle pareti cellulari. Se la purea cruda viene tenuta a temperatura ambiente per un po’, o riscaldata ad una temperatura inferiore alla temperatura di denaturazione degli enzimi della pectina, circa 80°C, allora gli enzimi romperanno molti dei rinforzi della parete cellulare e queste molecole liberate daranno una consistenza notevolmente più spessa alla purea.

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Tuttavia, quando la purea viene poi riscaldata per rimuovere l'acqua e concentrarla, le alte temperature rompono le molecole già danneggiate dagli enzimi in pezzi più piccoli che sono addensanti meno efficienti, e la purea richiede una riduzione molto maggiore per ottenere lo spessore desiderato. Se invece la salsa cruda viene cotta rapidamente in prossimità dell'ebollizione, il risultato è una passata più densa, che richiede una minore riduzione successiva. Gli enzimi di pectina e cellulosa vengono denaturati e diventano inattivi, mentre allo stesso tempo le pareti cellulari vengono distrutte dal calore. Le pectine delle pareti cellulari che fuoriescono nella fase fluida durante la concentrazione (e relativo riscaldamento) sono molecole più lunghe e addensanti più efficienti.

parte solida, % su peso totale

pectina e emicellulosa, % su peso totale

pomodori crudi

5% - 10%

0,5% - 1,0%

passata di pomodo in scatola

8% -24%

0,8% - 2,4%

40%

4%

concentrato di pomodoro


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ENZIMI DEL POMODORO E SAPORE Oltre agli enzimi di pomodoro che influiscono sulla consistenza, ci sono enzimi che influenzano anche il sapore: nel caso del gusto, una certa attività enzimatica iniziale può essere desiderabile. Le molecole fresche dall'odore "verde" (esanale ed esanolo) che sono un elemento importante nel sapore del pomodoro maturo, sono generate dall'azione degli enzimi sugli acidi grassi quando il tessuto del frutto viene schiacciato, sia in bocca che nella pentola. La cottura rapida fino all'ebollizione riduce al minimo questo elemento di sapore fresco, mentre lasciare la purea cruda a temperatura ambiente (per una salsa messicana, per esempio) o riscaldare la salsa lentamente porterà ad un accumulo di queste molecole di sapore nella purea. Il metodo più efficace da seguire è quello di dimezzare o dividere in quarti i pomodori, poi cuocerli in un forno a bassa temperatura per rimuovere l'acqua e infine cuocerli velocemente in un tegame. Questa tecnica minimizza il mescolamento di enzimi e obiettivi, quindi le

cellule rimangono relativamente intatte e si sviluppa poco aroma erbaceo. Poi c'è la preparazione tradizionale italiana chiamata estratto: inizia con pomodori freschi cotti fino a un certo punto, che poi vengono mescolati con un po' di un po' di olio d'oliva fino ad ottenere una pasta, che viene stesa su tavole per farla asciugare ulteriormente al sole. Questo è spesso descritto come un processo relativamente "delicato" rispetto alla cottura, e probabilmente risparmia qualche danno alle molecole di pectina. In verità sottopone un certo numero di molecole sensibili, tra cui il licopene del pomodoro e gli acidi grassi insaturi nell'olio d’oliva, a una potente e dannosa luce ultravioletta, che conferisce all'estratto un caratteristico sapore forte e di “cotto”. POMODORO % in peso in zuccheri % in peso in acidi rapporto zuccheri/acidi

3% 0,5% 6

IL CONCENTRATO DI POMODORO

Doppio concentrato di pomodoro: per legge deve avere un residuo secco non inferiore al 28%, al netto del sale eventualmente aggiunto. Occorrono circa 6 kg di pomodori freschi per ottenere 1 kg di doppio concentrato. Triplo concentrato di pomodoro: per legge deve avere un residuo secco non inferiore al 36%, al netto del sale eventualmente aggiunto. Occorrono circa 7 kg di pomodori freschi per ottenere 1 kg di triplo concentrato. Esiste una varietà, detta elioconcentrato la cui concentrazione avviene tramite l’esposizione diretta ai raggi del sole. Processo di concentrazione del sugo di pomodoro totalmente naturale, l’Elioconcentrato è prodotto in minori quantità rispetto al concentrato “classico” di cui si serve l’industria alimentare.

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È una salsa ottenuta dalla concentrazione a diversi livelli del succo di pomodoro (residuo secco compreso tra il 12% ed il 36%) e si ottiene dal succo di pomodoro riscaldato a cui viene sottratta una quantità di acqua tale da determinare tre categorie di prodotti finiti: il concentrato, il doppio concentrato ed il triplo concentrato, che differiscono tra loro per il diverso livello di concentrazione degli zuccheri contenuti. In base al tipo di pomodoro il concentrato può essere ottenuto con due tipi di lavorazione, Cold Break o Hot Break. Il primo metodo è solitamente utilizzato per la produzione di triplo concentrato di pomodoro, tramite il quale il pomodoro fresco viene triturato e riscaldato a basse temperature, che vanno dai 65° ai 75°C. Il metodo Hot Break utilizza invece pomodori triturati e riscaldati a temperature che variano dagli 85°C ai 100°C, ottenendo salse più simili al ketchup.

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POMODORO: L'ESTRAZIONE IN OLIO

Grassi e oli stessi sono creati e immagazzinati da animali e piante come una forma concentrata e compatta di energia chimica, che contiene il doppio delle calorie rispetto allo stesso peso di zuccheri o di amido. Oltre a grassi, oli e fosfolipidi, la famiglia dei lipidi comprende betacarotene e pigmenti vegetali simili, vitamina E, colesterolo e cere. Sono tutte molecole prodotte da esseri viventi e consistono principalmente di catene di atomi di carbonio, con atomi di idrogeno che sporgono dalla catena. Ogni atomo di carbonio può formare quattro legami con altri atomi, quindi un dato atomo di carbonio nella catena è solitamente legato a due atomi di carbonio, uno per lato, e due idrogeni. Questa struttura a catena di carbonio ha una conseguenza fondamentale: i lipidi non possono sciogliersi in acqua. Sono sostanze "idrofobiche" o "che temono l'acqua". Il motivo è che gli atomi di carbonio e idrogeno esercitano una forza simile sui loro elettroni condivisi. Quindi, a differenza del legame ossigeno-idrogeno, il legame carbonio-idrogeno non è polare e la catena idrocarburica nel suo insieme è non polare. Quando acqua polare e lipidi non polari si mescolano, le molecole di acqua polari formano legami idrogeno l'una con l'altra, le lunghe catene lipidiche formano un tipo di legame più debole tra loro (legami di van der Waals), e le due sostanze si separano. Gli oli minimizzano la superficie di contatto con l’acqua coalescendo in grossi blob ed oppongono resistenza alla divisione in goccioline più piccole. Grazie alla loro parentela chimica, lipidi diversi possono dissolversi l'uno nell'altro. Ecco perché i pigmenti carotenoidi - il beta-carotene nelle carote, il licopene nei pomodori - e la clorofilla (intatta), la cui molecola ha una coda lipidica, colorano i grassi in cottura molto più intensamente dell'acqua di cottura. Ricordatevi di questo passaggio più tardi…

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I lipidi condividono altre due caratteristiche. Una è la loro consistenza appiccicosa, viscosa e oleosa, che deriva dai molti legami deboli formati tra le lunghe molecole di carbonio-idrogeno. Quelle stesse molecole sono così voluminose che tutti i grassi naturali, solidi o liquidi, galleggiano sull'acqua. L'acqua è una sostanza più densa grazie al suo intenso legame idrogeno, che impacchetta le sue piccole molecole più saldamente tra loro

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LE CULTIVAR IDEALI PER LA SALSA

Anche se il San Marzano fa la parte del leone nell’orto, l’Italia conta moltissime tipologie di pomodoro ideali alla cottura. Spesso si tratta di prodotti locali praticamente sconosciuti fuori dalle zone in cui vengono coltivati. Antico pomodoro di Napoli È l’ecotipo Smec 20, riconosciuto da Slow Food come il clone più vicino al San Marzano, coltivato nell’Agro Sarnese-Nocerino, dal 2000 Presidio Slow Food.

Cuore di bue Pomodoro da insalata costoluto, grosso e irregolare, con buccia liscia e sottile, polpa carnosa, povera di acqua e con pochi semi, sapore ricco, dolce e poco acido.

Camone Pomodoro insalataro liscio e tondeggiante, piuttosto piccolo, con “spalla” verde e sfumatura rosso-arancio nella parte inferiore, polpa carnosa, consistenza croccante. Non è una varietà antica ma un ibrido coltivato in serra, soprattutto in Sardegna; sul mercato da dicembre a giugno.

Datterino Deve il nome alla forma, piccola e allungata, e al sapore dolcissimo e intenso che ricorda il dattero. Ha polpa consistente, buccia sottile, pochi semi, capacità di conservarsi a lungo.

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Ciliegino Piccolo e tondo, noto anche come cherry, è uno dei pomodori più apprezzati per la dolcezza e la succosità. Coltivato soprattutto in Sicilia, sia in campo che in serra, è in vendita tutto l’anno.

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Corbarino Pomodorino appena allungato di colore rosso carico, carnoso e dal sapore intenso e agrodolce, coltivato in aridocoltura nei terreni vulcanici dei Monti Lattari, in particolare nella zona di Corbara, Salerno. A rischio d’estinzione, è stato recuperato negli ultimi anni e oggi rappresenta un’eccellenza campana. Da consumo fresco, da conserve e da serbo, si intrecciano i rametti dei grappoli di pomodorini, da usare durante l’inverno.

Fiaschetto Pomodorino dolce e succoso, di forma ovale con la tipica codina e buccia sottile. È una storica varietà pugliese con la quale da sempre a fine estate si faceva la passata. Il fiaschetto di Torre Guaceto, piccola enclave del Brindisino baciata da un ecosistema favorevole, è oggi tutelato da un Presidio Slow Food. Marinda Pomodoro costoluto di dimensioni medio-grandi e dalla forma appiattita, con “spalla” verde, ha profumo fresco, gusto intenso molto dolce, sapido e persistente, polpa soda e croccante. È un pomodoro invernale e si raccoglie tra il tardo autunno e la primavera. Viene coltivato soprattutto in Sicilia. Pera d’Abruzzo Pomodoro autoctono abruzzese, molto rustico, di forma grande e costoluta, con gu-

sto dolce e vellutato, polpa abbondante e pochi semi. Da poco è stato salvato dall’estinzione grazie un lavoro di recupero del seme “sanificato” realizzato dall’assessorato all’Agricoltura della Regione Abruzzo in collaborazione con il CRA. La nuova varietà è stata denominata Saab-Cra (Sapore Antico Abruzzo). Pizzutello Pomodorino dolce-acidulo, ovale e con la caratteristica puntina nella parte inferiore, da cui il nome. È coltivato nella zona del Vesuvio in aridocoltura e in Sicilia. Pomodoro di Pachino Non “Pachino”, ma di Pachino, paesone del Siracusano che ha legato il suo nome a questo pomodoro diffuso ormai ovunque. Ma solo quello proveniente dalla zona intorno al piccolo centro della Sicilia sud-orientale è Igp. Quattro le tipologie: costoluto, ciliegino, tondo liscio e a grappolo. Pomodoro di Villa Literno Varietà tonda convenzionale, da salsa, coltivata sulla creta in aridocoltura nella zona di Villa Literno, nel basso Casertano. È in corso la richiesta di Igp per la passata di questo pomodoro trasformato secondo le tradizioni delle famiglie liternesi. Pomodoro giallo Erano gialli i primi pomodori che gli europei videro nel XVI


secolo: il nome, “pomo d’oro”, lo conferma. Ne esistono di diverse forme e dimensioni, piccoli e medi, tondi e allungati, a lampadina tipo mini San Marzano, varietà bionde di ciliegino, di datterino, di pomodorino del piennolo. Vengono coltivati ovunque, in particolare in Campania. Hanno sapore delicato, dolce e poco acido. Pomodoro siccagno Non una sola varietà ma diverse. Prende il nome dal tipo di coltivazione: neanche una goccia d’acqua bagna le sue radici. È molto concentrato nella consistenza, nel sapore e nella dolcezza. Straordinario quello ottenuto da cultivar autoctone siciliane e in montagna. Prunill Antica varietà autoctona pugliese, un piccolo pomodoro leggermente oblungo simile alla susina selvatica (da cui il nome), dal gradevole sapore asprigno. Non ha bisogno d’acqua. Dà il meglio di sé trasformato in passata. Regina Pomodoro autoctono pugliese, da serbo e adatto a crescere in aridocoltura, coltivato nell’alto Salento in terreni salmastri lungo la costa adriatica tra Fasano e Ostuni. Di forma rotonda, ha sapore dolce-acidulo e buccia spessa. Deve il nome alla forma del picciolo, che crescendo diventa una sorta di coroncina verde. Il pomodoro Regina di Torre Canne è un Presidio Slow Food.

Roma Pomodoro lungo, corrispettivo ibrido del San Marzano, di cui condivide la destinazione. È la varietà preferita dall’industria grazie alla buccia dura, che lo rende più resistente a malattie e attacchi di parassiti, e al fatto di essere adatto alla conservazione, alla raccolta e alla lavorazione meccanizzate. Torpedino Pomodoro piccolo e allungato appartenente alla categoria dei mini San Marzano, figlio di un progetto legato alla piana di Fondi e prossimo a diventare il primo pomodoro a marchio del Lazio. È una tipologia a doppia attitudine, da insalata quando è verde, da sughi freschi e conserve quando viene raccolto rosso a piena maturazione. San Marzano Forma a lampadina allungata, pelle sottile, due fossette laterali, una codina appuntita alla base, polpa delicata, gusto rotondo con un’amabile nota aspra, è il re dei pomodori, sinonimo di pummarola. Il suo habitat è la Valle del Sarno, alle falde del Vesuvio, tra Napoli e Salerno. È tutelato da un Consorzio che riconosce solo le varietà San Marzano 2, ki-

ros e le linee migliorate, le uniche si possono fregiare della Dop “pomodoro San Marzano dell’Agro Sarnese-Nocerino” (ma solo per il pelato). Ma quali caratteristiche deve avere un vero Pomodoro San Marzano? •

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la dimensione è medio-grossa, con una lunghezza compresa tra i 60 e gli 80 mm. La forma è cilindrica e allungata Non è presente il peduncolo. Il colore è rosso brillante, uniforme e tipico. La buccia, sottile e consistente, si stacca facilmente dalla polpa quando la maturazione è completa. La polpa è soda ed elastica, poco acquosa e quasi priva di semi. L’acidità è scarsa e il pH massimo è 4,50. Infine, il sapore è tipicamente agrodolce, fresco e intenso.

Se potete, scegliete questo pomodoro per la vostra salsa.

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Riccio di Parma Antica varietà autoctona che ha fatto grande l’industria

conserviera parmigiana. La coltivazione, quasi abbandonata negli anni ’50-’60, è stata ripresa grazie a un progetto di recupero della biodiversità rurale emiliana. Ha forma grande, tondeggiante e leggermente depressa, costolature irregolari, buccia molto sottile color rosso scarlatto, polpa carnosa, sapore dolce e delicato.

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LA RICETTA SCIENTIFICA

PASTA AL POMODORO

INGREDIENTI per la pasta 500 g di semola rimacinata di grano duro 170 g di triplo concentrato di pomodoro 110 g di uova intere (circa 2) 15 g di colorante alimentare rosso in gel 35 g di acqua per il sugo di pomodoro 1,5 kg di pomodori maturi (io ho usato metà camone e metà Piccadilly) 350 ml di olio extravergine di oliva (io ho usato un 100% nocellara del Belice) sale per la finitura

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foglie di basilico fresco q.b.

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01. LA PASTA

Fate la classica fontana con la semola e metteteci dentro le uova intere, il concentrato di pomodoro e il colorante disciolto nell’acqua. Sbattete con una forchetta e pian piano incorporate la farina dai bordi, fino ad avere un impasto grezzo. Lavorate l’impasto sul piano di lavoro e modellatelo in una pallina. Coprite con pellicola e lasciatela riposare almeno 30 minuti, per permettere alle maglie di glutine di rilassarsi. Riprendete l’impasto, dividetelo in piccole porzioni e passatelo nella sfogliatrice. Una volta ottenuti dei lenzuoli spessi dai 3 ai 7 mm (lo spessore lo stabilite in base ai vostri gusti) ricavate delle tagliatelle, fettuccine, spaghetti o perché no, bucatini! Questo impasto si presta anche ad essere estruso dall’apposita macchinetta.

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Disponete i vostri spaghetti sullo stendi pasta o a nido in una teglia, previa infarinatura e vigoroso scuotimento. Lasciate asciugare per qualche ora.

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02. IL SUGO

Per preparare un sugo carico di sapore dovete concentrare gli aromi. Tagliate i pomodori a metà in senso verticale e disponeteli in una teglia da forno bassa, in modo da facilitare l’evaporazione dei liquidi di vegetazione. Impostate la temperatura del forno sui 70°C e lasciate asciugare per bene. La polpa dovrà risultare ben asciutta al tatto. Prendete i pomodori parzialmente essiccati e passateli nel passaverdure, manuale o elettrico non fa differenza. Ripetete il procedimento più volte per estrarre quanta più polpa e succo possibile, ma non buttate le bucce, vi serviranno più tardi. Trasferite la salsa cruda in un tegame e versate a filo l’olio extravergine di oliva. Lasciate restringere a fuoco basso, per preservare tutte quelle sostanze volatili che vengono annientate dalle temperature troppo violente. Man mano che la salsa cuoce, schiumatela con cura ma non buttate cioè che sarà affiorato: quella cremina densa ha un sapore incredibile ed è ricca di licopene. A cottura ultimata, lasciate decantare il sugo per qualche ora, a temperatura ambiente. Vi accorgerete che tutto l’olio sarà emerso in superficie e sarà facilissimo separarlo dalla polpa cotta.

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03. GLI SCARTI

Avete presente le pellicine accartocciate, i semini frantumati e i piccioli legnosi che sono avanzati? Scrostateli dal passaverdure, disponeteli su una teglia bassa foderata di carta forno e lasciateli asciugare a 70°C per 7/8 ore, oppure schiaffateli nell’essiccatore a 40°C per 12/24 ore. Scartate i semi, che potrebbero conferire note amarognole, e riducete il tutto in polvere finissima. Potrete usarla per aggiungere un tocco umami al piatto.

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04. IL SERVIZIO

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Lessate la pasta in abbondante acqua salata e non preoccupatevi se diventa rossa: è il colorante che sta cedendo del pigmento. La pasta, invece, non lascerà aloni di colore nel piatto. Non appena sale a galla, scolatela e conditela con l’olio al pomodoro, che avrete separato dalla salsa. Mettete una mestolata di sugo nel piatto, aggiungete ciò che sarà affiorato dalla salsa e formate un nido di pasta al pomodoro condita con l’olio. Ultimate con piccole foglie di basilico e, se vi piace, con il pulviscolo di pomodoro ricavato dalle bucce.

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Keith Haring


05. LA VARIANTE ALL'AMATRICIANA

La mia pasta al pomodoro sa di pomodoro a bestia. Ma se la carica glutammica del pomo infuocato risultasse poca roba per voi, potete proiettare il piatto nell’iperuranio dei sensi aggiungendo del guanciale caramellato, ovvero spadellato nel suo grasso e poi sfumato con aceto di mele, pecorino a scaglie e pepe nero macinato al momento, a grana grossa. Ora siete pronti a gustare la pasta al pomodoro più pomodorosa che abbiate mai assaggiato. E mentre masticate e godete, ricordate: conoscenza è sapere che il pomodoro è un frutto, saggezza è non metterlo in una macedonia.

Gianfranco Lo Cascio

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Sono stanco e stufo di essere stanco e stufo

(Ozzy Osbourne)

Seguo

a cura di Emiliano Nencioni

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Nella Seguo dello scorso mese di Aprile ci eravamo addentrati timidamente nel concetto di perdono, con immancabili e obbligatori parallelismi sulla vita online, sulle lottarelle fratricide fra griller, sull’opportunità di potersi fermare e deporre l’ascia di guerra. Il concetto poi è apparso talmente vasto che - non volendo rubare spazio ad un’infografica o a un lussurioso scatto ravvicinato di formaggio filante - ho pregustato la possibilità di dividere l’argomento in due puntate consecutive. Tuttavia pare che il mondo si evolva mio malgrado, ignorando i miei progetti editoriali, e dai comportamenti delle masse twittanti, postanti e commentanti, emerge prepotente una nuova reazione.

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Il venire a noia.


L’espressione è evocativa, dinamica, cinematica, è quasi un quadro: il fenomeno stesso di venire a noia è un moto, un’escalation, il raggiungimento di un (nefasto) traguardo, uno spannung circostanziale. Il venire a noia non è semplicemente una constatazione di fastidio, un immediato senso di sgradevolezza, no, è molto più subdolo, è un sentimento mutevole: è una precedente probabilmente innocua sazietà che, eccessivamente alimentata, si trasforma in disgusto. É “Ok, bravo, ma basta così” che si trasforma in “Sinceramente, hai rotto”. Era inevitabile, siete venuti a noia. Siamo venuti a noia, un po’ tutti. Non abbiamo saputo fermarci in tempo e i nostri tormentoni sono diventati stantii come una barzelletta di Gino Bramieri (sicuramente eccellente a suo tempo non lo metto in dubbio), le nostre uscite spassosissime si sono evolute in immancabili appuntamenti con l’imbarazzo. Una puntualizzazione: sto forse dicendo che è venuto a noia il commentatore di professione, col repertorio “frizzante” ormai gradevole come una lattina di chinotto lasciata aperta cinque giorni? Mi riferisco al trollone privo di argomenti, che copia-incolla frasine e frasette riconducibili al suo guru personale ad ogni piè sospinto, in un drammatico tentativo di contare qualcosa, avere peso e riconoscibilità, ingraziarsi il boss? Sì, certo, anche. Ricorderete (oppure no, lettori disattenti e caciaroni) su queste pagine l’iniziativa che vi incoraggiava a rispondere “Smetti.” a personaggi ripetitivi e petulanti. Ma c’è di più, ed è un fenomeno che sta diventando avvertibile proprio nelle ultime settimane: sono venute a noia pagine intere. Gruppi interi.

Giove rimproverato da Venere (particolare) olio su tela, 1618 - Abraham Janssens

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Probabilmente, per quanto sia rassicurante e appagante sentirsi parte di un movimento, schierarsi e agire da indomito soldatino, sulla lunga distanza combattere la guerra di altri stanca. Probabilmente dopo l’entusiasmo iniziale dell’affiliazione militante, al comune griller nostrano sarà tornata anche la voglia di mangiarsi il frutto delle proprie tribolazioni senza onorare una bandiera, o quella di scorrere il proprio feed di notizie senza dover spiegare perché l’utilizzo del reverse searing non renda automaticamente meno virili.

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Chi da sempre sfrutta questo tipo di antagonismo e di livore da qualche settimana batte la fiacca. I numeri sono impietosi e visibili ad un occhio un po’ attento.

ciclica), a basso costo e a basso impegno, in un espediente ormai praticamente inutile. Tutto viene a noia. Jennifer Lopez è stata mollata per la babysitter. Per esempio.

C’è chi fa contenuti, chi fa contenuti e “lardella” (per rendere tutto più succulento) con la polemica, chi fa polemica leggermente marezzata di contenuti, e chi, privo di contenuti, cita e ricalca le polemiche dei gruppi più seguiti, cercando di splendere maldestramente della luce riflessa altrui, baluginando erraticamente come un’insegna al neon con lo starter guasto. Il clickbait non seduce più, l’engagement disengaggia.

Figuratevi i toni sensazionalistici, le chiamate alle armi di qualche funambolo del congiuntivo.

"Guarda come un griller maldestro è diventato campione condominiale di bistecca usando questo vecchio trucco!" “Non ne possiamo più” “Vorrei scrivere qualcosa contro l’uso del forno ma ci sono tramonti da vedere, marciapiedi da calpestare...” “Anche basta però” “Sono già due lockdown consecutivi che passo a leggere i vostri tentativi di flame” “So’ Lillo” (sostituibile eventualmente con l’ultimo tormentone in auge)

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Pochi commenti, svogliati. Niente più muse invocate per meglio descrivere le ire funeste.

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L’abuso reiterato e la sovrabbondanza hanno trasformato la risorsa più comoda (sto parlando ancora della polemica

Chi aveva qualcosa da dire, prodotti da vendere, contenuti da offrire, sta andando avanti, auspicabilmente correggendo il tiro; a qualcun altro invece si sta rompendo il giochino in mano, e forse si starà meravigliando di come le sue infallibili frecciatine parassitarie non abbiano più il consueto riscontro in termini di numeri, di click, di ramificatissimi commenti. Il venire a noia è il potere autorigenerante e autopreservante degli strumenti sociali: quando una cosa prende troppo piede, si inflaziona, rischia di diventare preponderante e invasiva come una specie in un ecosistema non proprio, lentamente tutto attorno ad essa muta e si adatta, in maniera da rendere superfluo, esecrabile o disdicevole il fenomeno in questione. Dopo tutto, non si è più visto chiosare sagacemente con “trooooppo giuuuusto” o citare Gianfranco D’Angelo. Solo pochi amanti del vintage resistono alle dotte citazioni sull’epopea del sarchiapone. Ambrose Bierce, uno scrittore americano dell’inizio del secolo scorso, ben poco conosciuto nella vecchia Europa, era soprannominato “Bitter”, l’amaro, l’aspro, per il suo eccessivo

e incessante sarcasmo; l’ironia e la mancanza di riguardo, sottomissione e rèmore sociali lo avevano reso un giornalista molto prolifico ma, e ci sono poche delicate parafrasi per spiegarlo, stava proprio sulle scatole a tutti. Un ospite perfetto per la Seguo, la rubrica più di nicchia e divisiva del Magazine. L’affabile Ambrose, che se volete potete gustarvi nel suo famoso “Dizionario del diavolo”, si ritrovò a dire: “Volubilità: reiterata sazietà di un affetto incostante” Trovo che stia tutta qui la chiave: l’affetto flebile e scricchiolante dei fan. Dei fan, della base utenti, dei militanti, a seconda del caso specifico. Fan convinti, ma non convintissimi, proprio perché non direttamente votati alla causa, che periodicamente e ciclicamente si saziano; si saziano e si disgustano, un po’ come quando da piccoli abbiamo fatto indigestione di qualcosa che ci piaceva tanto e poi non l’abbiamo più voluta mangiare per mesi. Un annetto abbondante di lockdown quasi continuativo, con relativa impennata del tempo trascorso online nella sconsiderata lettura bulimica di qualsiasi contributo, ha certamente agito da catalizzatore e accelerato fortemente tutto il processo di saturazione e di disgusto: per il futuro, ricordarsi di centellinare tormentoni e pratiche acchiappacitrulli.

Emiliano Nencioni


BBQ4All Magazine

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